DOMENICA IV DI QUARESIMA (2020)

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Croce in Gerusalemme.

Semidoppio; Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei o rosacei.

In questa settimana la Chiesa, nell’Ufficio divino, legge la storia di Mosè (Le lezioni del 1° Notturno e i responsori della Domenica e della settimana sono presi dal libro dell’Esodo. È un riassunto di quanto si leggeva anticamente). La riassumono due idee. Da una parte Mosè libera il popolo di Dio (2a lezione della Domenica) dalla cattività dell’Egitto e gli fa passare il mar Rosso (Idem 4° e 5° Respons.). Dall’altra egli lo nutre con la manna nel deserto (2° respons. di martedì.); gli annunzia che Dio gli invierà « il Profeta » che è il Messia; gli dà la legge del Sinai (6° e 7° respons. della Domenica) e lo conduce verso la terra promessa ove scorrono latte e miele (2° e 3° respons. di lunedì. –  Nelle catacombe troviamo rappresentata l’Eucaristia per mezzo di un bicchiere di latte o di miele, intorno al quale volano delle api simbolizzanti le anime). Là un giorno sarà costruita Gerusalemme (Com.) e il suo Tempio, fatto ad immagine del Tabernacolo nel deserto, là le tribù di Israele saliranno per cantare ciò che Dio ha fatto per il suo popolo (Intr., Grad., Com.). « Lascia andare il mio popolo perché mi onori nel deserto », aveva detto Dio, per mezzo di Mose, a Faraone. La Messa di oggi mostra la realizzazione di queste figure. Il vero Mosè, difatti è Cristo, che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato (id.) e ci ha fatto passare attraverso le acque del Battesimo; che ci nutre della sua Eucaristia, della quale ne è figura la moltiplicazione dei pani (Vang.), e che ci fa entrare nella vera Gerusalemme, cioè nella Chiesa, figura dei Cielo ove noi canteremo per sempre « il cantico di Mosè e dell’Agnello » (Apocalisse), per ringraziare il Signore della sua bontà infinita a nostro riguardo. E dunque naturale che in questo giorno la Stazione si tenga in Roma a Santa Croce in Gerusalemme. Sant’Elena, madre di Costantino, che abitava sul Celio una casa conosciuta coi nome di casa Sessoriana, trasformò questa casa in un santuario per riporvi le insigni reliquie della S. Croce: e questo santuario rappresenta, in qualche modo, Gerusalemme a Roma. Così l’Introito, il Communio e il Tratto parlano di Gerusalemme che S. Paolo paragona nell’Epistola al Monte Sinai. Là il popolo cristiano canterà in mezzo alla gioia « Lætare » (Intr., Epist.) per la vittoria ottenuta da Gesù sulla Croce a Gerusalemme, e sarà evocato il ricordo della Gerusalemme celeste le cui porte ci sono state riaperte da Gesù con la sua morte. Questa è la ragione per cui in altri tempi si benediceva in questa chiesa e in questo giorno una rosa, la regina dei fiori, perché così la ricordano le formule della benedizione; — uso consacrato dall’iconografia cristiana — essendo il cielo rappresentato da un giardino fiorito. Per questa benedizione si usano paramenti rosacei e così tutti i sacerdoti possono oggi celebrare coi paramenti di questo colore. Questo uso da questa Domenica è passato alla 3a di Avvento, che è la Domenica Gaudete « Rallegratevi » e che nel mezzo dell’Avvento, viene ad eccitarci con una santa allegrezza a proseguire coraggiosamente la nostra laboriosa preparazione alla venuta di Gesù (Il diacono si riveste della dalmatica e il suddiacono della tunica, segni di gioia. L’organo fa sentire la sua voce armoniosa e l’altare è ornato di fiori.). A sua volta la Domenica Lætare (Rallegratevi) è una tappa in mezzo all’osservanza quaresimale. « Rallegriamoci, esultiamo di gioia », ci dice l’Introito, perché morti al peccato con Gesù durante la Quaresima, presto risusciteremo con Lui mediante la Confessione e la Comunione pasquale. Per questa ragione il Vangelo parla nello stesso tempo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, simbolo dell’Eucaristia, e del Battesimo, che si riceveva una volta proprio nel tempo di Pasqua, e l’Epistola fa allusione alla nostra liberazione per mezzo del sacramento del Battesimo (altre volte ricevuto dai catecumeni a Pasqua). E se noi abbiamo avuto la sventura di offendere Dio gravemente, la Confessione pasquale, ci darà la liberazione. Così l’Epistola ci ricorda, con l’allegoria di Sara e di Agar, che Gesù Cristo ci ha liberati dalla schiavitù del peccato.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Is LXVI: 10 et 11

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI: 1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Orémus.

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV: 22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”.

Omelia I

 [A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli, Sc. Tip. Arciv. Artigianelli – Pavia, 1929]

“Fratelli: Sta scritto che Àbramo ebbe due figli, uno dalla schiava, e uno dalla libera. Ma quello della schiava nacque secondo la carne, quello della libera, invece, in virtù della promessa. Le quali cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono le due alleanze. L’una del monte Sinai, che genera schiavi, e questa è Agar. Il Sinai, infatti, è un monte dell’Ambia, che corrisponde alla Gerusalemme presente, la quale è schiava coi suoi figli. Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera, ed è la nostra madre. In vero sta scritto: Rallegrati, o sterile, che non partorisci; prorompi in grida di gioia, tu che sei ignara di doglie, poiché i figli della derelitta son più numerosi che quelli di colei che ha marito. Quanto a noi, fratelli, siamo, come Isacco, figli della promessa. E come allora chi era nato secondo la carne, perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. Ma che dice la Scrittura? Scaccia la schiava e il suo figlio, perché il figlio della schiava non sarà erede col figlio della libera. Perciò, noi, o fratelli, non siamo figli della schiava, ma della libera, in virtù di quella libertà con cui Cristo ci ha affrancati”. (Gal. IV, 22-31) .

S. Paolo a dimostrare ai Galati come la legge di Mosè non possa continuare ad esistere daccanto al Cristianesimo, che l’ha sostituita, ricorre a un fatto del vecchio testamento, il quale oltre il valore storico, ha un significato allegorico. Abramo ha un figlio, Ismaele, da Agar, schiava, e ha un figlio, Isacco, da Sara, libera. Agar significa la legge che tiene schiavi i suoi figli; legge promulgata sul monte Sina in Arabia, terra abitata dagli schiavi, discendenti di Agar, e che ha per suo centro la Gerusalemme terrena. Sara significa la Gerusalemme celeste, la Chiesa, libera, sposa di Gesù Cristo. Ismaele nato secondo le leggi ordinarie significa la discendenza naturale di Abramo; Isacco, nato non secondo le leggi naturali ma in forza d’una promessa fatta da Dio ad Abramo, significa la discendenza spirituale, noi Cristiani, nati spiritualmente nel Battesimo, uniti con la grazia a Gesù Cristo, termine della promessa. E come allora Ismaele perseguitava Isacco così adesso i Giudei perseguitano i Cristiani, cercando di ridurli sotto il giogo della legge. Ma, come Agar fu cacciata dalla casa con suo figlio, senza diritto all’eredità; così, l’antica legge è stata bandita dalla Chiesa, che resta l’erede delle promesse divine. Parliamo un po’ della Chiesa, nostra madre. Essa:

1. È di origine divina;

2. È universale,

3. Trionfa dei suoi oppositori.

1.

Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera. La Gerusalemme di lassù, cioè la Gerusalemme celeste, è la Chiesa a cui noi apparteniamo, la Chiesa di Gesù Cristo. La sua condizione è ben differente dalla condizione della Sinagoga, centro del culto giudaici. La Sinagoga era schiava della legge: la Chiesa, invece, è libera. È chiamata giustamente Gerusalemme di lassù, Gerusalemme celeste, perché celeste è !a sua origine. Dio stesso l’ha istituita, per mezzo del suo Figlio, Gesù Cristo. Gesù espresse in termini chiarissimi la volontà di fondare la Chiesa. A Pietro, che lo confessa « Figlio del Dio vivente», egli dice: « Tu sei Pietro, e sopra questa pietra fonderò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei ». (Matth. XVI, 18). Non un uomo, non un Angelo, ma Egli stesso ne sarà il fondatore. E quanto aveva promesso si avvererà dopo la sua risurrezione gloriosa. Vicino al lago di Tiberiade Gesù dice a S. Pietro: « Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore ». (Giov. XXI, 16)). Il Redentore salirà al cielo, ma a pascere visibilmente il suo gregge è posto un altro, al quale è dato il potere e l’autorità necessaria. – Agli Apostoli, da Lui scelti, affida un ben determinato corpo di dottrina, che essi apprendono, o direttamente dalla sua bocca, o dall’ispirazione dello Spirito Santo, da Lui mandato. A loro dà la missione ben specificata di insegnare, di battezzare, di rimettere i peccati, di sciogliere e di legare: e questi poteri li dà come continuazione dei poteri suoi. La loro azione non avrà limiti né di luogo né di tempo; Egli, poi, sarà sempre tra loro con la sua assistenza. «E’ stato dato a me ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque a istruire tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto quanto v’ho comandato. Ed ecco Io sono con voi tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli». (Matth. XXVIII, 18-20) «Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati, saranno loro rimessi; e saranno ritenuti, a chi li riterrete». (Giov. XX, 22-23). « In verità vi dico: quanto legherete sulla terra, sarà legato nel cielo: e quanto scioglierete sulla terra, sarà sciolto nel cielo». (Matth. XVIII, 18). Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me» (Luc. X, 16). La Chiesa è veramente la Gerusalemme di lassù. Di lassù venne il suo fondatore; lassù guidano la sua dottrina e i suoi Sacramenti: lassù sta il suo Capo invisibile, la pietra angolare che la sostiene, Gesù Cristo, Nostro Signore.

2.

Questa Gerusalemme di lassù è la nostra madre. « Questa è la madre di tutti, la quale ci raduna da ogni stirpe e da ogni nazione, e ne forma poi un corpo solo » (S. Zenone Tract. 33). Gesù Cristo ha costituito la Chiesa come una famiglia. Chi entrerà a farvi parte? Tutti quelli che parlano una data lingua? che abitano una determinata regione? Chi è fornito di un certo grado di coltura o di un certo censo? chi vi trova un adattamento ai propri gusti? Gesù Cristo non fa distinzione di luoghi e di persone. Se la legge mosaica si estendeva al solo popolo eletto, la legge cristiana si estenderà a tutti i popoli della terra. «Andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo. a ogni creatura, dice agli Apostoli (Marc. XVI, 15). È dunque la Chiesa di tutti gli uomini e di tutte le nazioni. Nei primissimi anni l’attività della Chiesa si svolge in Gerusalemme e in Palestina. Poi, in adempimento alla missione ricevuta, gli Apostoli allargano il campo della loro azione. Ancor viventi essi, la buona novella è già conosciuta in buon numero delle province dell’impero romano. Roma, che si assoggetta il popolo ebreo, ne distrugge la capitale e ne conduce prigionieri gli abitanti, non ha la forza di soggiogare i dodici ebrei che Gesù Cristo ha mandato a dilatare la sua Chiesa, la quale stabilisce subito il suo centro in Roma stessa. Ben presto si estende a tutto l’impero romano, e a tutto il mondo conosciuto. Man mano che si scoprono nuove regioni, la Chiesa vi pone le sue tende. È una società unica in condizioni e in luoghi disparatissimi. Ovunque si ubbidisce allo stesso capo, si amministrano gli stessi sacramenti, si insegna la stessa dottrina, «che si conserva unica e identica a traverso il succedersi delle età » (S. Vincenzo Lirin. Comm., 24). Non può essere altrimenti, poiché «la Chiesa è la bocca di Cristo » (S. Ilario, Tract. Ps. XXXVIII, 29). A questa universalità della Chiesa non possono nuocere le defezioni, provocate nel corso dei secoli dalle eresie e dalle persecuzioni. Quando un albero è in pieno vigore non fa che una perdita temporanea, se la tempesta o il ciclone gli stroncano qualche ramo. Al posto di un ramo troncato, sorgono, pieni di rigoglio, parecchi altri rami. Se qualche popolo, o parte di qualche popolo, fa talora apostasia dalla Chiesa Cattolica, ben presto altri popoli ne prendono il posto. L’assistenza di Gesù Cristo le infonde un vigore continuo, che la porta a nuove e sempre più ampie conquiste. E come allora, chi era nato secondo la carne perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. E così avverrà sempre.. Ismaele, figlio della schiava perseguita Isacco; i Giudei, schiavi della legge. perseguitavano la Chiesa nascente; gli schiavi della passione e dell’errore perseguiteranno la Chiesa nel corso dei secoli, pur soccombendo sempre.Il giorno della Pentecoste è il giorno natalizio della Chiesa. In quel giorno parecchie migliaia formano la prima comunità, che il giorno seguente aumenta di altre. migliaia, I membri della Chiesa crescono sempre più di numero, e il fatto non può sfuggire ai suoi nemici. Il Sinedrio che aveva visto sigillata la pietra che chiudeva il sepolcro di Gesù, credeva di aver seppellito per sempre anche il suo nome. Si accorge di essersi ingannato. Il Nome di Gesù risuona più di prima, e in questo nome si compiono grandi miracoli. Ed ecco che fa in carcerare e battere gli Apostoli. Presto seguirà il martirio di chi professa la divinità di Gesù Cristo. Verrà S. Stefano, verrà S. Giacomo, verranno altri martiri, in Palestina e fuori; ma non per questo la Chiesa s’arresta nel suo cammino. Il Redentore, dopo l’omaggio e l’adorazione dei Magi, è portato in Egitto per essere sottratto alla persecuzione di Erode. Un bel giorno, l’Angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe, e gli dice: «Levati, prendi il fanciullo e la Madre di Lui, e va nella terra d’Israele; perché son già morti coloro che volevano la vita del bambino » (Matth. II, 20).

3.

Ecco la storia di tutti i persecutori della Chiesa. La Chiesa è ancor salda sul fondamento posto da Gesù Cristo e i suoi persecutori dove sono? Essi sono scomparsi, uno dopo l’altro, non lasciando di sé alcun nomea, o lasciando un nome esecrato. Quello che Dio guarda, è ben guardato. Eliodoro era stato mandato a Gerusalemme dal re Seleuco con l’ordine di spogliare il Tempio dei suoi tesori. Atterrato all’entrata del luogo santo dal cavallo d’un misterioso cavaliere, e flagellato con violenza da due giovani fulgenti di gloria, è salvato per l’intervento del Sommo Sacerdote Orda. Egli ritorna a Seleuco, a man vuote, ad annunciargli la potenza del Dio d’Israele. E quando il re gli chiede chi altro potrebbe essere mandato un’altra volta a Gerusalemme, risponde francamente: «Se tu hai qualche nemico o traditore del regno da punire, mandalo là, e ti ritornerà flagellato, se riuscirà a scampare la morte… Poiché colui che ha stanza nei cieli visita e protegge quel luogo, e percuote e stermina chi va a farvi del male» (2 Macc. III, 38-39).Brama di perdere, chi contro Dio combatte. Brama di fare una fine triste, dopo opera inutile, chi contrasta e combatte la Chiesa. Lo dimostra l’esperienza di 19 secoli. Abbiamo, dunque, la più grande fiducia nel continuo trionfo della Chiesa. Tutte le forze che si possono mobilitare contro di essa, non varranno a scuoterla. È sopra un fondamento troppo saldo. Lo scoglio avanzato o l’isolotto su cui s’innalza il faro ha ben poco da temere dall’insidia o dal furore delle acque. Il lavorio nascosto delle correnti non riesce a intaccare la salda roccia, e le onde impetuose non la possono abbattere. A ogni assalto c’è un po’ di rumore per l’urto: spruzzi d’acqua s’innalzano per un momento, poi tutto è quiete. Le onde si riversano infrante, lo scoglio sta, e il faro continua a brillare. La Chiesa continuerà la sua missione di illuminare il mondo, e intorno ad essa s’infrangerà qualunque forza.« Poiché è proprio della Chiesa il vincere quando è colpita, esser compresa quando è biasimata, riuscire quando è abbandonata » (S. Ilario, De Trin. L. 7, 4).Gesù Cristo rimprovera gli Apostoli di poca fede, quando temono di andar sommersi nelle onde del lago, nonostante la presenza del divin Maestro nella barca: non li rimprovera però, perché da parte loro fanno il possibile, lavorando di remi, per condurre la barca a riva. Saremmo certamente Cristiani di poca fede, se dubitassimo un momento del progresso continuo e del continuo trionfo della Chiesa; non saremmo certamente Cristiani modello, se non procurassimo, da parte nostra, aggiungere i fatti alla domanda che rivolgiamo tutti i giorni a Dio: «Venga il tuo regno ».

Graduale

Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. [V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus

Ps. CXXIV: 1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem. [Quelli che confídano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi àbita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum. [V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VI:1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilææ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.”

OMELIA II

 “In quel tempo Gesù se ne andò di là dal mare di Galilea, cioè di Tiberiade; e seguivalo una gran turba, perché vedeva i miracoli fatti da lui a pro dei malati. Salì pertanto Gesù sopra un monte, e ivi si pose a sedere co’ suoi discepoli. Ed era vicina la Pasqua, solennità de’ Giudei. Avendo adunque Gesù alzati gli occhi e veduto come una gran turba veniva da lui, disse a Filippo: dove compreremo pane per cibar questa gente? Lo che Egli diceva per far prova di lui; imperocché egli sapeva quello che era per fare. Risposegli Filippo: Duecento denari di pane non bastano per costoro, a darne un piccolo pezzo per uno. Dissegli uno de’ suoi discepoli, Andrea, fratello di Simone Pietro: Evvi un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che è questo per tanta gente? Ma Gesù disse: Fate che costoro si mettano a sedere. Era quivi molta l’erba. Si misero pertanto a sedere in numero di circa cinquemila. Prese adunque Gesù i pani, e rese lo grazie, li distribuì a coloro che sedevano; e il simile dei pesci, nuche ne vollero. E saziati che furono, disse ai suoi discepoli: Raccogliete gli avanzi, che non vadano a male. Ed essi li raccolsero, ed empirono dodici canestri di frammenti dei cinque pani di orzo, che erano avanzati a coloro che avevano mangiato. Coloro pertanto, veduto il miracolo fatto da Gesù, dissero: Questo è veramente quel profeta che doveva venire al mondo. Ma Gesù, conoscendo che erano per venire a prenderlo per forza per farlo loro re, si fuggì di bel nuovo da sé solo sul monte” (Io. VI, 1-15).

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra i vantaggi della Comunione.

“Accepìt Jesus panes, et quum gratias egìsset, distribuit discumbentibus”

(Joan. VI)

Era necessaria, Fratelli miei, una possanza così grande, ed una bontà così pietosa, come quella dell’Uomo-Dio, per satollare cinque mila persone con cinque pani. La moltiplicazione di questi pani fu senza dubbio un gran motivo di riconoscenza per quel popolo che seguito aveva Gesù Cristo nel deserto. Quindi lo stesso Vangelo, che ci riferisce questo miracolo, ci fa sapere, che quel popolo per denotare la sua gratitudine al Salvatore, volle farlo Re; il che Egli evitò ritirandosi sul monte. Benché grande fosse questo prodigio, era un nulla, Fratelli miei, in paragone del miracolo, che questo Dio Salvatore opera nella santa Eucaristia pel nutrimento delle nostre anime. Mentre non è già quivi un pan materiale, e corruttibile, moltiplicato per nutrire il corpo; né meno è un pane formato miracolosamente dalla mano degli Angeli, come fu la manna che nutrì il popolo di Dio nel deserto; ma è un pane celeste, che nutrisce l’anima, un pane composto della carne, e del sangue di un Dio che non è più dato ad un semplice popolo, né moltiplicato in un sol luogo, ma che è prodotto in un’infinità di luoghi, e dato a tutti i popoli che vogliono profittarne. Ammirabile invenzione dell’amor di Dio per gli uomini, il quale non contento di averli ricolmi di mille benefici, ha esaurita, per cosi dire, la sua magnificenza, dandosi Egli stesso per nutrimento ai deboli mortali, che non meritavano, che i suoi castighi! Non solamente loro permette di mangiare questo pane celeste, ma per un nuovo prodigio d’amore, loro ne fa un comando espresso; comando la cui trasgressione basta ad escluderli dalla vita eterna. Egli è questo quel divin comando, Fratelli miei, che la Chiesa ogni anno vi rinnova, ordinandovi di partecipare alla santa Tavola nel tempo Pasquale. Per indurre più efficacemente i suoi figliuoli ad adempiere il loro dovere, essa minaccia dei suoi anatemi coloro che ricusano di soddisfarvi. È forse d’uopo, Fratelli miei, che noi abbiamo ricorso a questo espediente per sottomettervi? Fa di mestieri dirvi, che essa rigetta dal suo seno i suoi figliuoli ribelli su questo punto, che essa loro ricusa la sepoltura ecclesiastica? No; io penso troppo bene di vostra pietà per credervi disubbidienti a questi santi comandamenti: io ho qualche cosa di più interessante a proporvi; sono i vantaggi annessi ad una santa Comunione, riserbandomi per un’altra volta di parlarvi delle disposizioni, che voi dovete apportarvi. Io trovo questi vantaggi nell’unione intima che Gesù Cristo contrae con l’anima fedele che lo riceve nella santa Eucaristia, e nelle grazie che Egli le comunica. L’anima unita a Gesù Cristo: primo vantaggio, e primo punto. L’anima ricolma di grazie da Gesù Cristo nella sua santa Comunione: secondo vantaggio, e secondo punto, Ecco tutto il mio disegno.

I. Punto. Per darvi, Fratelli miei, una giusta idea di questa unione ineffabile, che l’anima contrae con Gesù Cristo nell’augusto Sacramento dei nostri Altari, egli è importante di prima proporvi alcuni dei punti di Fede, che dobbiamo noi credere su questo mistero, la cui cognizione deve servire a sviluppare la verità che trattiamo. E primieramente convien sapere, che sotto i segni sensibili del pane e del vino, che noi chiamiamo le specie sacramentali, sono veramente rinchiusi il Corpo ed il Sangue di Gesù Cristo, che prendono le veci del pane e del vino: il che si fa in virtù delle parole sacramentali, che il Sacerdote pronuncia a nome di Gesù Cristo, per la potestà ch’egli ne ha ricevuto nella persona degli Apostoli; potestà ammirabile, che rende Dio ubbidiente alla voce di un uomo mortale, non per arrestare il Sole, come fece altra volta Giosuè, ma per far discender il Figliuolo di Dio sull’Altare, nel momento che egli pronuncia le parole della consacrazione. Obediente Domino voci hominis (Jos. XX). Egli non è men vero, che il Sangue di Gesù Cristo è dopo la sua risurrezione riunito al suo sacro Corpo per non esserne separato di modo che l’uno non può esser senza l’altro, perché il corpo di Gesù Cristo è un corpo vivente; quindi il fedele che sotto le specie del pane mangia la carne di Gesù Cristo, è realmente abbeverato del suo Sangue. Egli è ugualmente certo che questo Corpo, e questo Sangue sono uniti ipostaticamente alla Divinità: quindi il fedele che riceve l’una e l’altro nella, comunione, riceve veramente tutta la divinità, perché riceve Gesù Cristo, che è Dio e uomo tutto insieme. Si, Fratelli miei, noi crediamo, ed è questa una verità ben consolante, noi crediamo, e la fede ce lo insegna, che Gesù Cristo si moltiplica per un amore ingegnoso, e si trova in tutte le Ostie consacrate, e che così senza lasciare la destra di suo Padre, e senza dividersi, Egli è nel Cielo e sulla terra; con questa differenza, ch’Egli si mostra sviatamente ai Beati nel Cielo per essere l’oggetto della loro beatitudine; laddove si nasconde sotto il velo eucaristico per esercitare la nostra fede. Ma noi possiamo dire, che sotto i simboli del pane e del vino, in questo Sacramento di amore, noi possediamo lo stesso oggetto che fa la felicità dei Santi; noi vi possediamo non solamente il Figliuolo di Dio, la seconda Persona della Santissima Trinità, unita alla nostra natura; ma in certo modo ancora le due altre Persone, il Padre, e lo Spirito Santo, che essendo inseparabili l’uno e l’altro dal Figliuolo, non possono mancare di trovarsi e di comunicarsi tutti e tre, dove l’uno si trova e si comunica. Così Fratelli miei, quando vi comunicate, il vostro corpo diventa il tempio, il santuario della Divinità, la Santissima Trinità risiede in mezzo di voi medesimi; allora voi possedete ciò che il cielo e la terra hanno di più prezioso; e Dio, benché onnipotente e ricchissimo, nulla può darvi di più grande e di migliore, dice S. Agostino: Quam sit potentissimus, plus dare non potuit. Ma come mai Gesù Cristo si comunica a noi nella Santa Eucaristia, e come mai vi possediamo noi le tre Persone della Santissima Trinità? Gesù Cristo vi si comunica per l’unione, la più intima, per l’unione la più gloriosa per noi: unione la più intima, di cui Egli stesso ci ha data l’idea la più sensibile, e la più penetrante allorché la paragona a quella che si fa del cibo col corpo che lo riceve. La mia carne, dice Egli, è veramente un cibo, ed il mio sangue una bevanda: Caro mea vere est cibus, et sanguis meus vere est potus (Joan. VI) . Chi mangia la mia carne, e beve il mio sangue, dimora in me, ed Io in lui; Qui manducat meam carnem, et bibit meum sanguinem, in me manet, et ego in illo (Ibid.). Vale a dire, che siccome non si fa che una sostanza del cibo e di chi lo prende, così nella santa Comunione non si fa più, per così dire, che una sostanza di Gesù Cristo col fedele che lo riceve; con questa differenza ancora molto vantaggiosa per noi, che il cibo corporale che prendiamo, si cangia in nostra carne; ma nella santa Comunione Gesù Cristo ci cangia in Lui, noi diventiamo altri Egli stesso, dice S. Leone: non è solamente la sua carne, che si comunica alla nostra, ma ella ne prende, per così dire, le veci; è il suo sangue, che scorre nelle nostre vene, è la sua anima, è la sua divinità che risiedono in noi; sono le tre adorabili Persone della Santissima Trinità che vi fanno la loro dimora, non solo con la loro immensità, come fanno in tutti gli altri luoghi; non solo con la grazia e con la carità, come nell’anima dei giusti, con una presenza particolare annessa a questo Divin Sacramento; di modo che se per impossibile queste divine Persone non fossero in tutti i luoghi del mondo, esse si troverebbero in noi per la loro unione con questo, divin Sacramento. O prodigio dell’amore di un Dio che si comunica in una maniera sì intima ad una vile creatura, che si unisce ad essa non solo con legami d’amicizia, quale si trova tra fratelli, tra amici sinceri! questo sarebbe già molto; ma v’è qui qualche cosa di più, v’è una unione di sostanza, quale si trova, dice S. Cirillo d’Alessandria, tra due cere liquefatte, e sì ben mischiate insieme che non si può più distinguere l’una dall’altra. Che dirò di più, Fratelli miei? Gesù Cristo paragona ancora questa unione a quella ch’Egli ha con suo Padre nella Santissima Trinità: siccome Io vivo per mio Padre, dice Egli, e della medesima vita che mio Padre; così chi mangia la mia carne vivrà per me, e della medesima vita che vivo Io: Sicut ego. vivo propter Patrem, qui manducat me, vive propter me (Joan. VI). Vale a dire, che siccome Gesù Cristo è uno con suo Padre a cagione della natura divina che loro è comune, non è che uno in un senso con l’anima che lo riceve, nella santa Comunione, non facendo, per così dire, che una sostanza con essa; e siccome Gesù Cristo riceve da suo Padre una vita tutta divina, nello stesso modo a proporzione diventa Egli medesimo il principio di una vita spirituale e divina in coloro che si uniscono a Lui con la partecipazione del suo corpo e del suo sangue: non è più dunque il fedele che vive, è Gesù Cristo che vive in lui, come dice l’Apostolo: Vivo ego, jam. non ego, vivit vero in me Christus (Gal. II). Non è più il fedele che pensa, che parla, che agisce; è Gesù Cristo che pensa, che parla, che agisce in lui; o per lo meno è il fedele che deve pensare, parlare, agire come Gesù Cristo; mentre se egli non opera come Gesù Cristo, se la sua vita non è conforme a quella di Gesù Cristo, se egli non vive per Lui, deve dire che non ha partecipato, come conviene, a questo divin nutrimento. Eh! come poter accordare azioni affatto materiali e terrestri col principio di una vita celeste? Tremate a questo soggetto, voi in cui si osserva sì poco cangiamento dopo tante Comunioni, e che vivete una vita carnale e sensuale, come se non aveste giammai ricevuto questo pane degli Angeli. Tremate, voi che dopo esservi sì spesso nutriti della carne di un Dio pieno di amore e di bontà, siete ancora soggetti all’odio e all’ira; tremate voi che siete sì dominati dalla superbia, e sì portati alla vanità, malgrado le lezioni di umiltà che vi dà Gesù Cristo nel suo Sacramento di amore. Ma questo timore v’induca a fare tutti i vostri sforzi per prepararvi con più di attenzione che non avete fatto sinora, a ricevere questo cibo tutto celeste in cui Gesù Cristo si comunica all’anima in una maniera sì intima e sì gloriosa per essa. Per comprendere la gloria che ritorna all’anima fedele dall’unione ch’ella contrae con Gesù Cristo nel santo Sacramento dell’altare, converrebbe poter comprendere la distanza infinita che v’è tra Dio e la creatura, tra l’onnipotenza e la debolezza, tra la grandezza infinita e la bassezza, tra il tutto ed il nulla. Sarebbesi giammai creduto, che fosse un giorno per messo all’uomo peccatore di mangiare alla tavola del suo Dio, di nutrirsi della sua carne, e del suo sangue adorabile? Se Dio avesse promesso all’uomo di accordargli qualunque grazia gli domandasse, l’uomo avrebbe giammai osato portare sin là la sua speranza? E certamente chi può comprendere ciò che si opera nella santa Comunione? La creatura non solo si accosta a Dio suo Autore, ma ancora si nutrisce della sua sostanza; un vile schiavo s’impingua della carne del suo padrone. E non è questo ciò che deve far lo stupore del cielo e della terra? O res mirabilis! manducat Dominum pauper, servus, et humilis. Che cosa è l’uomo, o mio Dio, sicché vi degnate di ricordarvi di lui ed onorarlo della vostra visita? Era già molto che voi l’aveste ricevuto nella vostra amicizia; era forse necessario portare la prodigalità sino a farlo mangiare con Voi, sino a cibarlo di un pane che fa nel cielo la beatitudine degli Angeli? Non è questo, Fratelli miei, l’eccesso della tenerezza di un Dio per la sua creatura, ed il sommo dell’onore, cui possa questa creatura essere innalzata? Qual sarebbe la sorpresa e la gioia di un suddito, che un gran Re facesse mangiare alla sua tavola, che lo servisse di sua mano, principalmente se fosse un uomo da nulla, dispregevole per sua nascita e suo stato? Quanto questo suddito non si terrebbe onorato di un tal favore, poiché i grandi medesimi , cui è accordato, si fanno una gloria di pubblicarlo? Quando il Re Davide presentò la sua tavola a Miphiboseth, in considerazione di suo padre Gionata, che gli ordinò di non prenderne altre che la sua: *chi son io, ripigliò questo umile Israelita prostrandosi sino a terra, per mangiare alla tavola del mio Re? Sarebbe egli possibile, che un vile schiavo, un uomo come io, avesse quest’onore?. Quis ego sum servus tuus , quoniam respexisti super canem mortuum similem mei ( II Reg. VI)? Benchè grande fosse questo favore accordato da Davide al figliuolo di Gionata; benché onorato fosse l’ ultimo dei sudditi di mangiare alla tavola del suo Re; che è questo, Fratelli miei, in paragone dell’onore che riceve l’anima fedele di mangiare alla tavola del suo Dio? Vi è infinitamente maggior disproporzione tra Dio e la creatura, che tra il più gran Re del mondo ed un verme di terra. Di più, questo Re che onorerebbe in tal modo quel suddito, non gli servirebbe vivande della sua propria sostanza; sarebbero carni di animali, o altri cibi più squisiti veramente di quelli che sono comuni agli altri uomini; ma si darebbe egli medesimo in cibo, come lo fa Gesù Cristo nella santa Comunione all’anima che lo riceve, che s’impingua, per così dire, della sostanza di Dio medesimo, e che si arricchisce. de’ suoi doni? In quel momento quest’anima diviene la sposa del suo Dio, il tempio della divinità; ella partecipa del privilegio della Santa Vergine nel mistero dell’Incarnazione del Verbo. Qual gloria! qual onore! Sì, Fratelli miei, ogni volta che noi riceviamo Gesù Cristo alla santa Comunione, dir si può che rinnova in noi ciò che avvenne nel mistero della sua Incarnazione; il che ha fatto dire ai Santi Padri, che la Comunione è un’estensione di quel mistero. Nel mistero dell’Incarnazione la carne di Maria divenne la carne di Gesù Cristo, perché questa fu formata della sostanza di quella. Un Dio diventa uomo per l’unione della Divinità con l’umanità. Così nella santa Comunione la nostra carne diventa quella del Salvatore per l’unione ch’ella contrae con essa; noi siamo in qualche modo deificati, divinizzati, perché noi diventiamo i membri d’un Dio, il corpo di un Dio pel cambiamento ch’Egli fa di noi in Lui. Qual gloria, ancor una volta, qual onore per una creatura. – Non bastava che questo Dio d’amore avesse nobilitata la nostra natura, sposandola nel ministero della sua Incarnazione; è stato d’uopo ancora per contentare quest’amore, ch’Egli si comunicasse a ciascheduno di noi in particolare, dandoci per nutrimento non solo la natura umana ch’Egli ha presa, ma ancora la natura Divina. Che poteva fare di più per innalzar la creatura? Si può dunque dire del fedele che si comunica ciò che dicevasi della Santissima Vergine che aveva portato il Figliuolo di Dio per lo spazio di nove mesi nel suo seno verginale: beate, dicevasi indirizzandosi a Gesù Cristo, le viscere che ti han portato: Beatus venter, qui te portavit (Luc. X). Si può anche dire, beato il corpo del fedele che è santificato dalla presenza di Gesù Cristo, in cui Gesù Cristo risiede come nel suo Santuario: beate sono le labbra e la lingua che sono tinte ed innaffiate del suo Sangue prezioso: beato è il cuore di quel fedele che serve di trono alla maestà di un Dio: beata è l’anima che è, per così dire, divinizzata per l’alleanza ineffabile che contrae col suo Dio; essa può dire che possedendolo possiede tutti i beni. Sì, Fratelli miei, quando vi comunicate, Gesù Cristo vi tien luogo di tutto, Egli è vostro cibo, vostra gloria, vostro tesoro, vostro amico, vostro padre, vostro tutto, come dice S. Ambrogio: Omnia nobis est Christus! – Ma se la felicità di un’anima che riceve Gesù Cristo nella santa Comunione, si può paragonare a quella di Maria, qual purità, qual disposizione non esige da essa un dono così prezioso? Dio per l’adempimento del mistero dell’Incarnazione elesse una Vergine del tutto pura; in conseguenza di questa scelta Egli la riempi delle sue grazie le più singolari; Ella preparassi a quel gran favore con le più sublimi virtù: con tutto ciò, benché pura, benché perfetta fosse questa Vergine incomparabile, la Chiesa è nello stupore, che il Figliuolo di Dio abbia voluto scendere nel suo seno: Tu ad liberandum suscepturus hominem, non horuisti virginis uterum. Qual deve dunque essere all’accostarsi della santa tavola il timore di una creatura colpevole, che non sa se abbia essa ottenuto il perdono del suo peccato? Quali precauzioni non deve apportare per purificarsi, per tema di fare un’alleanza mostruosa di Belial con Gesù Cristo, e d’incorporare il Dio d’ogni santità in un corpo di peccato? Se questo corpo diventa per la Comunione il Tempio, il Santuario della Divinità, qual rispetto non deve aversi per questo corpo, e qual castighi non debbono aspettarsi coloro che lo profanano con piaceri brutali, con eccessi d’intemperanza o d’altre passioni cui si abbandonano? Non sia così di voi, Fratelli miei: giacché Gesù Cristo si unisce a voi in una maniera sì intima nella santa Comunione, unitevi a Lui, dimorate in Lui, come Egli dimora in voi, se volete profittare delle grazie singolari che comunica a coloro che lo ricevono con sante disposizioni.

II. Punto  Giacché Gesù Cristo sì comunica all’anima in una maniera sì intima nel Sacramento del suo amore, fa d’uopo confessare, Fratelli miei, ch’Egli ha dei gran disegni su di essa, e noi possiamo sperare ogni sorta di grazie da una santa Comunione. Gesù Cristo vi viene con le mani piene di doni propri ad arricchirci per l’eternità; giacché si dà Egli medesimo in persona, come non darebbe con sé le sue grazie, i suoi meriti, i suoi tesori? Simile ai Principi della terra, i quali facendo la loro entrata nelle città, si compiacciono di spargere le loro grazie sopra i loro popoli, Gesù Cristo si fa un piacere di spargere le sue nei nostri cuori. La manna celeste che ci dà per alimento, ha ogni sorta di virtù, e si estende a tutti i nostri bisogni. Essa ci serve ad uno stesso tempo di cibo e di rimedio; di cibo. per conservare ed accrescere in noi la vita della grazia; di rimedio per guarirci dalle nostre infermità, e preservarci dalla morte del peccato. Tali sono i vantaggi d’una santa Comungione. – Perché pensate voi, Fratelli miei, che Gesù Cristo ha istituito la Santa Eucaristia sotto i simboli del pane e del vino? Si è per farci conoscere gli effetti meravigliosi che essa produce nelle nostre anime. Infatti, siccome il pane ed il vino fanno vivere i nostri corpi, conservano in noi la vita, ed accrescono le nostre forze; così questa carne celeste conserva in noi la grazia che è la vita dell’anima, ci fa crescere in virtù, e c’innalza talmente al di sopra di noi medesimi, dice S. Cipriano, che di uomini terreni, essa ci rende uomini affatto celesti. Il pane ed il vino conservano in noi la vita del corpo, perché mantengono il calore naturale, che si consumerebbe per difetto di nutrimento. Tale è l’effetto che la santa Eucaristia produce nelle nostre anime; effetto tanto più sicuro, quanto che essa contiene l’Autore ed il principio della vita. Mentre v’è questa differenza tra il Sacramento dell’Altare e gli altri Sacramenti, che gli altri Sacramenti danno la grazia, ma questo contiene l’Autore stesso della grazia, che è Gesù Cristo. Quindi qual forza e qual vigore non riceviamo noi mangiando questo pane disceso dal Cielo? Quante volte l’avete voi medesimi sperimentato, Fratelli miei! vi abbiamo giammai veduti più fedeli ai vostri doveri che nei giorni, in cui vi siete cibati del pane dei forti? E certamente, siccome il ramo di un albero è sempre vivo, mentre che resta unito al tronco e alla radice, l’anima innestata, per così dire in Gesù Cristo per la santa Comunione, sarà sempre piena di vita, sin che sarà a lui attaccata! È vero che noi portiamo la gloria in vasi fragili, soggetti ad ogni momento a rompersi contro gli scogli delle tentazioni; ma l’anima nutrita di Gesù Cristo, e ripiena della sua virtù, non è forse in istato di vincere tutte le tentazioni? Giacché ella possiede quello che ha vinto ed incatenato il dragone, ne può forse temere i morsi? No, Fratelli miei, dimori sempre unita al suo Dio, e i suoi nemici non prevarranno giammai su di essa. Il Sacramento che ha ricevuto le dà un diritto particolare a certi aiuti che noi chiamiamo grazie attuali, per resistere a tutti gli sforzi dei nemici della salute. Or queste grazie potenti ci sono date a tempo e luogo, e nelle occasioni in cui bisogna combattere per conservar la vita della grazia. – Così, Fratelli miei, quantunque tutti i nemici di nostra salute si sollevassero contro di noi, quantunque il demonio, il mondo e la carne cospirassero a perderci, noi non abbiamo che ad accostarci alla santa tavola per mangiarvi il pane dei forti, e riporteremo su di essi un’intera vittoria. Per superare le ribellioni della carne, noi non abbiamo che a prendere nel calice del Signore il vino che fortifica le Vergini; ebri di questo prezioso liquore, noi diverremo insensibili a tutte le attrattive del piacere, una rugiada salutare, che accompagna questa manna divina, estinguerà i fuochi della concupiscenza, ne reprimerà tutti i movimenti. Che potremo noi anche temere delle potenze infernali, cui diventiamo terribili uscendo dalla santa tavola, come leoni animati da un fuoco divino, dice il Crisostomo: Tanquam leones ignem spìrantes? facti diabolo terribiles? Il demonio vedendo, le nostre labbra bagnate del sangue di Gesù Cristo, è costretto a prender la fuga pel terrore che gl’ispira il segno che l’ha vinto ed incatenato: in questo modo l’Angelo sterminatore risparmiò le case degli Israeliti, perché erano esse tinte del sangue dell’Agnello Pasquale, figura dell’Eucaristia. Finalmente che potremo noi temere del mondo, che con le sue carezze e con le sue minace vorrebbe indurci a seguire il suo partito? Ah! da che gustate abbiamo le dolcezze della santa Eucaristia, tutte quelle del mondo ci divengono insipide, e si cangiano in amarezza. Troviamo la nostra felicità nel sostenere le sue più crudeli persecuzioni: testimoni i generosi martiri, che andavano a munirsi alla santa tavola del pane degli eletti, prima di salire sui palchi, dove sostener dovevano la gloria della Religione con l’effusione del loro sangue. Si è pel soccorso di questo divin frumento, che la Chiesa nascente ha trionfato di mille mostri, che l’inferno vomitava per divorarla nel suo nascere. Allora i fedeli, come nuove piante intorno della tavola del Signore, si nutrivano, si fortificavano, e si moltiplicavano, malgrado il fuoco delle più sanguinose persecuzioni: A fructu frumenti multiplicati sunt (Psal. IV). Tali erano, Fratelli miei, gli effetti meravigliosi che la divina Eucaristia produceva nei primi Cristiani: essa li conservava nel fervore di una nuova vita, e li sosteneva contro gli assalti dei loro nemici. Noi non saremmo, ohimè! sì spesso vinti dai nostri, se come essi avessimo la precauzione di mangiar sovente, e con le disposizioni necessarie il pane celeste della divina Eucaristia. Questo cibo prezioso non solamente conserverebbe in noi la vita della grazia, fortificandoci contro i nemici che possono farcela perdere; ma ancora accrescerebbe in noi questa grazia, e ci farebbe crescere di virtù in virtù, secondo le disposizioni che porteremmo per riceverla. – Il carattere proprio dei Sacramenti dei vivi è di accrescere la grazia nei soggetti che li ricevono. Il Sacramento dei nostri Altari essendo di questo numero, deve produrre questo effetto in coloro che vi si accostano con sante disposizioni; ma con questa avventurata differenza, che gli altri Sacramenti, non essendo che canali che fanno scorrere su di noi l’acqua salutare della grazia, e l’Eucaristia essendone la sorgente, non solamente un soggetto ben disposto può prendere un qualche grado di grazia, ma un’abbondanza, una pienezza di grazie, di cui l’anima è ripiena: Mens impletur gratia. Grazia che è per quest’anima un pegno sicuro, che essa è di già, per cosi dire, sin da questa vita mortale, in possesso della felicità eterna, come Gesù Cristo ne la assicura: Habet vitam æternam. Il che ha fatto dire a S. Agostino, e a S. Tommaso, che in questo Sacramento Dio ha rinchiuso un mezzo sicuro di predestinazione. Da ciò, Fratelli miei, qual felice conseguenza a tirare in favore di coloro che vi si accostano sovente? Ma qual funesto presagio di riprovazione per coloro che se ne allontanano! O voi che accesi siete dagli ardori di una sete mortale, che in voi eccitano le passioni, venite ad attingere in queste fontane del Salvatore quell’acqua salutevole che temprerà i vostri ardori; voi ancora che ardete della sete della giustizia, che desiderate ardentemente la vostra salute, venite a dissetarvi e prendere forze in questa cisterna, le cui acque zampillano sino alla vita eterna. Non solo voi crescerete in grazie, ma vi avanzerete ancora in virtù, ed in merito, mentre questa carne celeste dà un nuovo accrescimento a tutte’ le virtù cristiane; essa anima la fede; fortifica la speranza, perfeziona la carità. La santa Eucaristia anima ed accresce la fede; e per questa ragione si chiama mistero di fede: Mysterium fidei. Noi ne abbiamo una prova nei due discepoli d’Emmaus; sentivano per verità il loro cuore infiammarsi dai discorsi che Gesù Cristo loro teneva in istrada; ma non conobbero questo divino Maestro, che nella frazione del pane: sino allora l’avevan preso per uno straniero, e le loro nebbie non furono dissipate se non quando Gesù Cristo avendo benedetto e rotto il pane, loro ne diede: Cognoverunt eum in fractione panis (Luc. XXVII). Lo stesso accade ad un’anima che si accosta al sole di giustizia rinchiuso sotto i veli dell’Eucaristia; Egli l’illumina nella sua ignoranza, la rassicura nei suoi dubbi, dissipa le sue perplessità, le scopre le insidie dei nemici, e dirige i suoi passi nelle vie di una santa pace. O voi, che siete tentati di dubbi contro la fede che il demonio, lo spirito delle tenebre, suscita in voi per turbare la serenità della vostr’anima, ricorrete a chi può dissipare le vostre nebbie, ed assodarvi in una perfetta credenza a tutte le verità che vi sono rivelate, pregatelo di accrescere la vostra fede: Domine, adauge nobis fidem (Luc. XVII); e ben tosto le tenebre faran luogo alla luce: con la fede sentirete ancora rianimarsi la vostra speranza. Infatti che non deve aspettare un’anima fedele da un Dio che si dà tutto ad essa, che le dice nel suo entrare in essa, che è la sua salute: Salus tua ego sum? Che i suoi nemici, per sconcertarla le richieggano, come altre fiate chiedevasi al Re Profeta, ove è il tuo Dio? Ubi est Deus tuus (Psal. XLII)? Esso loro risponderà, che lo tiene, che lo possiede, che è in sua disposizione, che il tutto da Lui attende, essendo egli l’Autore di sua salute: salutare vultus mei, et Deus meus; risponderà quest’anima a coloro che vorranno contristarla, spaventarla, che il suo Dio è la sua luce, che è la sua forza, il suo protettore, ch’ella è in sicurezza sotto l’ombra delle sue ali: Dominus illuminatio mea, quem timebo (Psal. XXVI)? – Finalmente la carità si perfeziona, e diventa tutta ardente ed infocata dalla virtù di questo Sacramento di amore. Mentre qual è quel cuore, fosse ben egli il più insensibile, fosse il più freddo che il ghiaccio, più duro che il diamante: quale è quel cuore, se pure non vuol resistere alle impressioni del divino amore, che non si ammollisca, che non s’infiammi, che non si consumi all’accostarti a questo roveto ardente? Siccome il fuoco che si comunica al ferro, lo rende sì ardente, che non sembra più ferro, ma fuoco; allo stesso modo, dicono i Santi Padri, Gesù Cristo nell’Eucaristia riscalda talmente il cuore di chi lo riceve, che lo cangia per così dire in se stesso; per seguire questo paragone, diciamo, fratelli miei, che siccome il fuoco fa perdere al ferro la sua ruggine, così il fuoco Divino che si comunica all’anima nella santa Eucaristia, la purifica dalle sue macchie, la rende pura, e netta dalle sozzure, ch’ella ha contratte pel peccato. Si è in questo senso, che dire si può, che questa carne celeste, la quale serve di cibo all’anima, le serve nello stesso tempo di rimedio per guarire le sue ferite e le sue infermità . Ed in vero, se gli ammalati, che si accostavano a Gesù Cristo, ricevevano la guarigione per la virtù che usciva da quest’uomo Dio, se il semplice tocco delle sue vesti fu capace di rendere la sanità ad una donna da lungo tempo assalita da una perdita di sangue, qual salutevoli effetti non deve produrre in un’anima la presenza reale di Gesù Cristo? Non ne dubitate, Fratelli miei; lo stesso Salvatore che ha guarito i leprosi, che ha renduta la vista ai ciechi, l’udito ai sordi, il moto ai paralitici, ha lo stesso potere, e la stessa bontà per voi, che aveva per coloro che a Lui si accostavano durante la sua vita mortale. – Vi resta forse ancora qualche pena temporale ad espiare? Questo Sacramento ve la rimetterà, e finirà di purificarvi. La vostr’anima si è ella renduta difforme agli occhi del suo casto sposo per li mancamenti quotidiani, in cui i più giusti stessi cadono talvolta? Questo celeste antidoto ve ne guarirà, e renderà alla vostr’anima la sua primiera bellezza in quella guisa che il carbone ardente purificò le labbra del Profeta, questo fuoco divino vi netterà di tutte le vostre sozzure, di tutti i vostri mancamenti i più leggieri. Si è in questo senso che la Chiesa ci assicura nel santo Concilio di Trento, che questo Sacramento opera la remissione dei peccati: antidotum quo liberamur a culpis quotidianis. – Siete voi involti nelle tenebre dell’ignoranza, che v’impediscono di conoscere il male che dovete fuggire, ed il bene che praticar dovete, i nemici che dovete combattere, e i doveri che dovete adempiere? Voi avete in questo Sacramento di luce lo stesso Gesù Cristo che rese la vista ai ciechi, e che v’illuminerà su tutto ciò che dovete fare. Siete voi oppressi da una languidezza mortale che vi da della ripugnanza per le cose di Dio, che vi rende il giogo del Signore più pesante, che non lo è in realtà? Mangiate questo pane che fa le delizie dei Re, voi vi troverete lo stesso Gesù Cristo che ha guarito i paralitici, e che vi darà dell’agilità, che diletterà il vostro cuore per correre nella via dei suoi comandamenti: le vostre nausee si cambieranno in soavità; voi porterete non solo senza fatica, ma con una santa allegrezza l’amabile giogo del Signore. Interrogate quelle anime sante, cui Gesù Cristo comunica l’unzione della sua grazia; esse vi diranno che, da poi che hanno avuta la bella sorte di partecipare ai santi misteri, la virtù dei Sacramenti raddolcisce tutte le loro amarezze, e le innalza al di sopra di esse medesime, per eseguire con piacere tutto ciò che sembra di più difficile nel servigio di Dio: Gustate, et videte, quoniam suavis est Dominus (Psal. XXXIII). Gustate, e sperimentate voi medesimi queste dolcezze, e facilmente ne sarete persuasi. Se un pane cotto sotto la cenere diede forza bastante al Profeta Elia per continuare il suo viaggio sino al monte Oreb, qual forza non riceverete voi da questo pane celeste per continuare il gran viaggio che vi resta a fare verso l’eternità? Mangiatelo dunque, mentre avete ancora molto di strada: Grandis tibi restat via (3 Reg. X). Voi troverete in questo divin pane di che terminare tutta la vostra carriera. – Perché dunque, Fratelli miei, siamo noi sì deboli, sì vacillanti nelle vie della salute con un sì potente soccorso? Perché tanta ripugnanza al servigio del nostro Dio? Perché ancora ve ne sono tanti tra voi, che son oppressi da infermità spirituali, che sono nel triste stato della morte del peccato? Inter vos multi infirmi, et imbecilles et dormiunt multi (1. Cor. XI). Queste disgrazie non provengono, che dalla negligenza ad accostarsi alla santa tavola, o dalle cattive disposizioni che si recano per mangiarvi il pane che ci viene in essa presentato. La manna, che gl’Israeliti mangiarono nel diserto, non gl’impedì di morire; ma chi mangia il pane dell’Eucaristia, vivrà eternamente, dice Gesù Cristo: non è dunque per colpa di questo pane, se moriamo, o se siamo infermi; è per colpa delle disposizioni che recar dobbiamo a riceverlo. Preparatevi dunque, Fratelli miei, preparatevi come si conviene, a profittare di un Sacramento sì augusto, e sì salutevole, in cui Gesù Cristo vi si dà in una maniera sì intima per essere vostro cibo, vostro rimedio, vostra vita, vostra salute eterna.

Pratiche: In che consiste il prepararsi ad una santa Comunione? ‘Eccovi alcune pratiche che vi propongo col finir del discorso riserbandomi di trattarle più a lungo in un altro. 1° – La principale e la più essenziale si è la purità di anima, che consiste nell’esser esente per lo meno da ogni peccato mortale, per non comunicarsi indegnamente, e da ogni peccato veniale per ricevere più di grazie dalla Comunione. Questa manna celeste non deve essere mangiata che dai figliuoli di promissione: non conviene di ammettervi quelli della schiava; mentre il figliuolo della schiava, dice S. Paolo, non deve aver parte all’eredità col figliuolo della libera: Non hæres filius ancillæ cum filio liberæ (Gal. IV). Così per partecipare al dono per eccellenza del testamento di Gesù Cristo, che è la santa Eucaristia, bisogna godere della libertà dei figliuoli di Dio, che Gesù Cristo ci ha meritata; e per questo bisogna avere scosso il giogo del peccato e delle sue passioni: Qua libertate Chrìstus nos liberavit (Ibid.) – Se voi non siete ancora liberati dalla schiavitù dei vostri cattivi abiti, come vi ho esortati sin dal principio della Quaresima, non differite di più a correggervene. Bisogna principalmente aver lasciata l’occasione del peccato, allontanando da voi quelle che sono in casa vostra, ejice ancillam, ed allontanandovi da quelle che sono al di fuori: giammai non sarete ammessi ai santi misteri con l’abito e l’occasione del peccato . 2°- Pieni di stima e di amore per la santa Comunione, non trascurate cosa alcuna per procurarvi i preziosi vantaggi che essa rinchiude; a quest’effetto non aspettate di confessarvi il giorno in cui dovete comunicarvi; egli è bene che siavi un intervallo tra la Confessione e la Comunione; e non conviene accostarsi alla santa tavola con un cuore ancora tutto fumante del fuoco che le passioni vi hanno acceso, come fanno certi peccatori, che uscendo dal tribunale vi si vanno a presentare. 3° – In questo intervallo dalla Confessione alla Comunione, leggete o fatevi leggere qualche libro di pietà che tratti di questa materia; fate qualche visita a Gesù Cristo, sopra tutto la vigilia della vostra Comunione, per pregarlo di preparare dentro di voi medesimi una dimora, degna di Lui: si può in queste visite fare gli atti avanti la Comunione. 4° – Il giorno della vostra Comunione non siate occupati che della grande azione che andate a fare; pregate il vostro buon Angelo di aiutarvi in un affare così importante, e di accompagnarvi alla santa tavola. Siate fedeli a queste pratiche, Fratelli miei, e la Comunione sarà per voi il germe della fortunata eternità; io ve la desidero. Così sia.

CREDO …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

 Offertorium

Orémus Ps CXXXIV: 3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra. [Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine. [Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

Orémus. Da nobis, quæsumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]

Ultimo Evangelio e preci leonine:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

LO SCUDO DELLA FEDE (104)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XIV.

Testimonianza che rendono i bruti a Dio colla loro stupenda propagazione.

I . Chi già negò negli animali ogni moto, non mentì sì bruttamente ai sensi, come bruttamente mentisce alla ragione chi neghi in detti animali il primo Motore immobile, qual è Dio. Voi avete già diveduto, quanto Egli vi operi negli strumenti e negli istinti che loro porge a conservazion de’ propri individui. Rimane ora a dire quello che vi operi a conservazion delle spezie. Conciossiachè, se un artefice sommo ha da compartire le cure sue con saviezza, non può dubitarsi, che dopo aver lui rimirato sì attentamente al ben di ciascuno, non rimiri più al ben di tutti.

I.

II. Primieramente non è meraviglia grande, che in sessanta secoli da che i bruti apparvero al mondo, non si sia di loro perduta pure una razza, massimamente se noi consideriamo, che alcune di queste sono perseguitate con tante insidie dagli uomini in aria e in acqua, ed altre con tanta forza nelle boscaglie? Come potea mantenersi in piedi sì lungamente quest’alta guerra che gli animali del continuo ricevono da chi può tanto più di loro, se quel gran fabbro, che dapprincipio lavorò ciascuna natura, non si fosse pigliato insieme l’assunto di conservarla, concedendo una virtù prodigiosa di propagarsi a quelle spezie più particolarmente , che più correvan pericolo di perire? Le lepri, chei forse le più innocenti fra tante bestie, hanno per loro mala ventura l’essere nondimeno le più ricercate a morte, son sì feconde, che generano in ogni mese felicemente; e congiungendo con unione mirabile frutti e fiori, stan preparando nell’utero nuovi parti, mentre allattano i parti usciti alla luce: tanto che non più che una piccola lepre gravida, la quale fu casualmente introdotta in una isoletta del mare icario, tra pochi anni vi dilatò in tanti rami la sua prosapia, che divorate tutte le biade, ridusse gli abitanti di quel paese a penuria somma. Andiamo a parte a parte considerando questa special provvidenza della natura, sì avanti che i bruti nascano, sì di poi.

II.

III. Fra tutti quegli, in cui non solo a generare la prole, ma ad educarla, fa di mestieri che si accordino insieme il maschio e la femmina, passa quasi una specie di matrimonio. Così avvien tra gli uccelli, i quali, essendo tutti privi di latte, hanno a sostentare le covate loro, per altro numerosissime, di rapina o di ruberia; e però ripartitasi la fatica, mentre uno restasi a custodirle nel nido ed a fomentarle, l’altro va alla busca di cibo. E quello che è più mirabile, mantengono con tanto di lealtà quella fede datasi, che non si scorge, che la rompano mai; rinfacciando in tal modo all’uomo i suoi gran disordini, sconosciuti ancora fra i bruti. Negli animali provveduti di latte, come sono tutti li quadrupedi, l’accoppiamento è vario e vagante, perché basta la femmina ad allevare la prole nata. Vero è, che in questi medesimi appaiono le passioni più regolate che tra noi stessi: non si accendendo nei più di loro la brama di propagarsi, se non in un tempo determinato dell’anno, oltre a cui tutti i maschi sogliono e sanno conversare poi tra le femmine con modestia. Chi girerà gli occhi sopra gli eccessi che la sfrenatezza degli uomini in questo genere fa vedere di tutte l’ore, e gli porrà al paragone dell’ordine inviolato con cui gli animali tengono in briglia la maggior parte dell’anno quella concupiscenza medesima che tra noi, rotto ogni freno, trascorre tanto; come non saprà ravvisare anche i n questo la bella scorta che a’ bruti fa la natura, sempre a sé somigliante nell’amar legge?

IV. Dopo la concezion della prole facea d’uopo pensare al suo nascimento. E perché  gli uccelli, come abitatori dell’aria, non doveano gravarsi di troppo peso, convenne, che per la loro gravidanza si fabbricassero un nido, ove riposasser con agio, ove depositassero l’uova, ove le scaldassero, ove le schiudessero, ed ove poscia allevassero ciò che nacque. In questa fabbrica sono meravigliose la struttura e la simmetria corrispondenti alla varietà del disegno. Scelgono il sito che pare loro più sicuro, o nelle siepi più intralciate, o negli scogli più inospiti, e non contenti della sicurezza natia che provien dal posto, si fortificano di vantaggio. Però, come la volpe difende il suo covile da’ lupi con l’erba squilla, da’ lupi abborrita in estremo; così la rondinella il difende da certi vermini con le foglie dell’apio, e così le cicogne il difendono da’ serpenti con la pietra detta lienite. Stupendo è poscia l’istesso nido a mirarsi nella sua fabbrica. La parte esteriore e quivi sempre più rozza, per darle forza, ed è fornita o di spine, o di sarmenti o di fango; e la parte interiore è più molle, o di fieno, o di muschio, o di lanugini, o di lane, o di piume, sì per fomento, e sì per quiete più agiata de’ figlioletti; ciò che dispongono i padri con tanta regola, e intessono con tant’arte che ben dimostrano di essere in tutto guidati da mano occulta, la quale non soggiace ad abbaglio. I nidi dell’alcione sono bastevoli a fare trasecolare di meraviglia; tanto egli, ponendoli giusta al mare, sa poi formarli impenetrabili all’onde.

III.

V. Nati che sieno i parti, chi può spiegare l’amore con cui gli allevano, e l’attenzione con cui gli ammaestrano, secondo i loro vari stati? Lo scimmie, domestiche per le case, sono tanto impazzate de’ lor figliuoli, che vanno incontro a chi entra, e glieli porgono a divedere, come la più bella cosa del mondo. La donnola, per gelosia che non le sieno rubati li trasporta più volte il giorno, or di qua or di là, tanto che sembra ch’ella abbiali sempre in bocca. Il Castore è della prole sì tenero, che essendo una volta chiuso lontan da essa, per ricercarla, rose co’ denti l’uscio del suo serraglio, e fattasi larga strada, si gettò da un luogo altissimo in precipizio dietro di lei. Né un tale affetto è proprio solamente di qualche specie: è comune a tutte; anzi le più fiere ne sono più dominate; sgorgandone quivi una vena più copiosa, dove sembra più duro il sasso. Il leone mai non combatte più intrepido, che quando abbia a difendere i suoi leoncelli. Allora sì che egli non fa caso nè di lance, ne di strali, nè di saette, nè delle ferite medesime che in sé miri, lasciando prima la vita, che la tutela di que’ teneri parti. La balena, ad ogni improvviso pericolo, li nasconde dentro di sé tenendoli nelle fauci, come nell’intimo di una rocca ben fortificata da orribile dentatura; e passato il rischio, li torna lieta a rivomitare nell’acque, quasi partorendoli nuovamente alla vita. La tigre, tanto efferata, che ha dato in presto il suo nome alla crudeltà, è nondimeno sì smaniante ancor ella de’ suoi tigretti, che una volta fu veduta in Bengala correre su le spiaggie ben trenta miglia dietro una nave, che costeggiando a vele piene per l’alto, glieli portava via senza remissione su gli occhi di lei medesima.

VI. Questo amore poi è ne’ bruti la ruota maestra di tanta macchina. Conciossiachè questo li fa arditi, benché non sieno. Il rosignuolo, per difendere il nido, non teme di azzuffarsi in fin colla vipera; e così imbelle com’egli è, col rostro, con l’ale, confida di lacerarla, se tanto gli riesca, o di porla in fuga. Questo li fa ingegnosi. I ladroni nell’indie, andando alla ruba, si vagliono più volentieri di quei cammelli cha tuttavia danno il latte. Imperocché questi, condotti ancora di notte in lontan paese, e mal segnato di vie, non solamente sanno poi rinvenire la strada da ritornare alla mandra, ma raddoppiano il passo per ritrovarvisi tanto più tostamente. Questo li fa prudenti. Il rinoceronte, per quanto sia provocato, sopporta pazientemente, insino a tanto ch’egli abbia posta in sicuro la prole amata: e dipoi si rivolge con tal furore, che getta a terra gli alberi, i quali incontra, e gli svelle fin dalle barbe. Questo gli fa giusti distributori dell’alimento (Jac. Bontius 1. 5. hist. nat. et med. c. 1). La rondinella comincia dall’imboccar quel figliuoletto che è nato il primo, e va in giro di mano in mano assegnando a ciascuno di loro con meravigliosa equità la porzion dovuta; grande esempio a que’ padri troppo parziali, che, per lasciare un figliuolo più benestante dell’altro, cambiano bene spesso l’eredità in un pomo venefico di discordia. Questo li fa costanti fino all’estremo. Il delfino, ove sia dato nelle reti uno de’ suoi parti, lo segue mesto, né sa staccarsene a forza di verun colpo, finché preso anch’egli non corra con esso lui la ventura stessa, o di liberazione o di morte. Così fin alla morte pur amali il pellicano, che giunge ad abbruciarsi per ismorzare le fiamme avventate al nido. E così fin alla morte pur amali la cicogna, che in caso d’incendio simile fu veduta volare al fiume e bagnarsi tutta, tornando poi per sopraffare con quell’acque le vampe; nè desisté dalla malagevole impresa finché non andò col nido ancor ella in cenere (Alber. Magn. v. Ciconia).

VII. E perché questo amore fu dato a’ bruti per educare la prole, non dura più che quanto dura il bisogno dell’educarla; che però poi non si riconoscono più (dirò così) per parenti ma si disgiungono: sicché quell’agnellino che sa ravvisare la madre in uno stuolo di tante pecorelle simili a lei, spoppato ch’egli si sia, la confonde in uno con l’altre quasi straniera. Parimente quelle cagnuole che prima disfacevano se medesime, essendo madri, per porgere l’alimento a’ lor catellini; cresciuti che questi sieno, giungono con essi a combattere per privarli fin di quell’osso che loro scorgono in bocca: tanto è rimasto estinto in esse un amore già sì cocente; mercecchè ora non è più questo necessario a quel fine per cui dianzi lo avevano ricevuto dalla natura, la quale diversificando, come è dovere, i bruti dagli uomini, ha pretesa in questi una educazione perpetua (tanto sono essi capaci di approfittarsi), in quegli una breve (Oltre al divario qui accennato dall’autore tra l’educazione dei bruti e quella dell’uomo, è a notarsi quest’altro, che l’uomo solo può altresì darsi a se medesimo l’educazione, perché dotato di intelligenza e di libera volontà, mentre un bruto, incalzato da cieco ed insuperabile istinto, non ha virtù di educare se stesso.).

IV.

VIII. Frattanto questa numerosa repubblica di animali, così ben governata in ciò che appartiene e al mantenimento di ciascuno individuo, e alla conservazione di ciascuna spezie, rende da tutti i lati dell’universo una testimonianza incessabile e incontrastabile alla esistenza divina. E la forza di tale testimonianza consiste in ciò che fu già notato più volte. Da un lato noi veggiam che tutte le bestie camminano al lor fine tanto ordinatamente, che, se usassero di ragione non potrebbero andarvi a passi più giusti. Dall’altro lato non conoscono il fine, ma operano in virtù puramente di quell’istinto che fu loro impresso nel cuore. (S. Th. contra gent. l. 3. c. 44). Adunque vi ha un Artefice superiore, il qual conoscendo questo fine per esse, imprime in esse parimente l’istinto da conseguirlo.

IX. Che poi le bestie di verità non conoscano questo fine, ma che vi vadano bensì, ma alla cieca, come va la palla scoccata da pratico balestriere a ferire il bianco, è manifestissimo. Conciossiachè, se operassero queste di ragion propria, non sarebbero tutte così uniformi nelle lor opere; ma come ogni pittore tra noi ha la sua maniera diversa di disegnar le figure, e di colorirle, perché quantunque vi adoperi gli stessi pennelli, le stesse tele, e l’istesse tinte degli altri, riguarda nondimeno l’idea diversa che egli ne concepì nella fantasìa; così le bestie in ciascuna razza sarebbono tra sé varie ne’ loro affetti, e ne’ loro affari, se non fosser guidate, ma si guidassero, come noi di capriccio. Oltre a ciò, men bene opererebbero le prime volte, che l’ultime mentre veggiamo, che sempre si perfezionano con l’esperienza quelle arti le quali sono apprese da noi per via di discorso. E pure la prima volta che la rondinella piglia a fabbricare il suo nido, lo fa sì bene, come la volta seguente. Non v’ha differenza tra quella tela che i ragni tessono appena nati, e quella che essi tessono già decrepiti: né i novelli sciami delle api sono meno esperti a riconoscere i fiori più delicati, a suggerne il miele, a fondere le cere, a formar le celle, a fare ogni lor lavoro nell’alveare, di quello che a ciò sieno gli sciami antichi.

X. Che più? Sappiamo che i bruti, ammaestrati dall’uomo, operano regolatamente molte azioni di cui al certo non intendono l’arte, perché non fu loro data per via di regole, ma per via di carezze e di bacchettate, alternate in tempo. I teatri moderni di Firenze, col ballo che introdussero dei cavalli, possono fare invidia ai teatri antichi di Roma. E pure quantunque si muovano quelle bestie in sì bell’ordine, e s’intreccino, e posino, e passeggino, e saltino tutte a un’ora, come se fossero tante ninfe danzanti, non è già, che intendano l’armonia di quel suono, o che capiscano la proporzion di que’ passi, o che conoscano il fine di quella festa (indirizzata al trattenimento di qualche ospite regio di una tal corte, manierosa al pari e magnifica in onorarli), mercecchè l’idea di quell’opera artificiale, non è nei cavalli stessi, è nel cavallerizzo, è negli scozzonatori, è ne’ sonatori, è negli uomini, i quali loro impressero nelle stalle con gran fatica la volontà di que’ moti che con tanto applauso da loro poi conseguiscono su la scena. E similmente l’idea di quelle opere naturali, assai più mirabili, che fan da sé tanti bruti senza maestro, non è ne’ bruti medesimi, è nel primo artefice Dio, il quale, avendo negata loro la ragione, si sta in vece di essa ne’ loro petti per governarli, disponendo lo spezie della loro fantasia di tal guisa, che secondo il bisogno apprendano come conveniente o come nocivo ciò che è amico o contrario alla loro conservazione. E questa disposizione di spezie è quella che da noi vien chiamata istinto (L’istinto dei bruti accoppia in sé  due caratteri, che sembrano contradditori : esso è cieco nelle sue movenze, infallibile nel suo scopo. Ma la contraddizione): ed in riguardo ai beni, in cui risiede, infallibile rispetto a Dio, da cui proviene come da sua ragion creativa. Negato Dio, e l’istinto rimane inesplicabile): ed in   quanto ella è mezzo ad operare con arte, è una piccola partecipazione dell’arte immensa, la quale risiede in Dio; ed in quanto è mezzo a conservarsi con prò, è una piccola partecipazione dell’infinita sua provvidenza. Sicché i bruti ancor essi, da qualunque banda li riguardate, manifestano la sapienza del loro artefice: a guisa di una statua condotta perfettamente, che da qualunque sito la rimiriate da alto o da basso, in prospettiva o in profilo, in faccia o alle spalle, sotto qualunque aspetto vi soddisfa pienamente, e rende autorevole testimonianza di lode intera al nome del suo maestro.

SALMI BIBLICI: “DILEXI, QUONIAM EXAUDIET DOMINUS” (CXIV)

SALMO 114: “DILEXI, QUONIAM EXAUDIET DOMINUS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 114

Alleluja. 

[1] Dilexi, quoniam exaudiet Dominus

vocem orationis meæ.

[2] Quia inclinavit aurem suam mihi, et in diebus meis invocabo.

[3] Circumdederunt me dolores mortis; et pericula inferni invenerunt me. Tribulationem et dolorem inveni,

[4] et nomen Domini invocavi: o Domine, libera animam meam.

[5] Misericors Dominus et justus, et Deus noster miseretur.

[6] Custodiens parvulos Dominus; humiliatus sum, et liberavit me.

[7] Convertere, anima mea, in requiem tuam, quia Dominus benefecit tibi;

[8] quia eripuit animam meam de morte, oculos meos a lacrimis, pedes meos a lapsu.

[9] Placebo Domino in regione vivorum.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXIV.

Preghiera dell’uomo, che geme sotto le tentazioni ed i pericoli, e sospira la vita eterna.

Alleluja: Lodate Dio.

1. Ho amato, perché esaudirà il Signore la voce della mia orazione.

2. Perocché egli le sue orecchie inchinò a udirmi; ed io nei miei giorni lo invocherò.

3. Mi circondarono dolori di morte: pericoli di inferno m’investirono.

4. Trovai tribolazione e affanno; e il nome del Signore invocai.

5. Libera, o Signore, l’anima mia; il Signore è misericordioso e giusto, e il nostro è benigno.

6. Il Signore custodisce i piccolini; fui umiliato, ed egli mi liberò.

7. Torna, o anima mia, nella tua requie perocché il Signore ti ha fatto del bene.

8. Imperocché egli ha sottratta l’anima alla morte, gli occhi miei alle lacrime, i piedi alle cadute.

9. Sarò accetto al Signore nella regione dei viventi.

Sommario analitico

Questo salmo è un cantico di azioni di grazie che sembra appartenere agli ultimi tempi della cattività, quando cominciava a delinearsi l’aurora della liberazione. Questa cantico è più ancora il cantico dell’anima fedele dell’umanità intera che esce interamente sia dai legami del peccato per il primo avvento del Salvatore, sia soprattutto dall’esilio di questa vita per il secondo avvento. [Questo salmo è in ebraico il CXVI; ma siccome nella Vulgata è diviso in due, i numeri non differiscono che per metà, a partire dal versetto che forma la divisione (10, “credidi…”)].

Il Salmista esprime:

I. – La costanza del suo amore per Dio:

1° perché spera che Dio esaudisca la sua preghiera (1),

2° Perché è certo che dio lo ha esaudito sovente per il passato (2);

3° Perché ha il desiderio e l’intenzione di pregare frequentemente per l’avvenire (2).

II. –La grandezza della sua afflizione:

  Intorno a sé vede i suoi nemici che gli fanno vedere la morte in faccia (3);

2° Dentro di sé a) vede degli abissi minacciosi (3); b) prova un profondo sentimento di tristezza e di dolore (4);

3° Sopra di sé mette la sua fiducia in Dio che egli invoca e che è a) misericordioso (3), b) giusto (5), c) guardiano e protettore dei piccoli (6), d) salvatore di coloro che sono umiliati.

III.- La sicurezza del riposo a venire:

1° L’anima si riposerà a) ricca di doni di Dio (7), b) affrancata dalla morte, dalle lacrime e da ogni caduta (8);

2° L’uomo tutto intero sarà gradito a Dio nella eterna regione dei viventi (9). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-2.

ff. 1, 2. – Nel salmo precedente, Davide ha trattato dell’esperienza dei figli di Israele e di tutti coloro che temono Dio (v. 17), speranza eccitata dai numerosi benefici di Dio. Nel salmo seguente ci sarà la questione della fede « … io ho creduto, etc. » Questo salmo ha come oggetto la carità, che egli pone al centro come una regina che tutta in una volta è nutrita e sostenuta dalla speranza della fede, e nello stesso tempo proietta su queste due virtù un nuovo splendore. Tuttavia S. Agostino ed altri interpreti trovano le tre virtù teologali in questo salmo. La carità, di cui è fatta espressa menzione: « io, ho amato »; la speranza, di cui i parla chiaramente: « Dio esaudirà la mia preghiera; » infine, la fede, alla quale vien fatta allusione in maniera più oscura; « perché Egli ha abbassato il suo orecchio verso di me. » Come potete voi sapere, o anima umana, chiede S. Agostino, che Dio ha abbassato l’orecchio verso di voi, se non dite dapprima « io ho creduto? » Queste tre virtù restano dunque: la fede, la speranza e la carità. « Perché voi avete creduto, avete sperato; poiché avete sperato, avete amato. » Il salmista non dice: io amerò, ma « io ho amato. » Egli non promette di obbedire a questo precetto dell’amore di Dio, ma dichiara, attesta che egli lo ha già compiuto (S. Gerolamo). Un’anima infervorata di un amore ardente per Dio, dice semplicemente che essa ha amato, senza esprimere che essa ama. – Io ho amato, dice il salmista; io non credo si possa fraintendere l’oggetto del suo amore: è Dio solo, , senza che sia necessario nominarlo. Quanta verità, forza e dolcezza in questo sentimento! (Berthier). – « L’amore di Dio non si insegna. » Non si apprende a godere della luce, a desiderare la vita, ad amare i genitori; a maggior ragione l’amore di Dio è radicato nell’anima nostra; non si tratta che di svilupparlo con lo studio dei divini comandamenti (S. Basil. Reg. fus. tract.). – Ma chi è colui, mi direte, il cui cuore non si apra all’affezione quando è esaudito? La maggior parte degli uomini del mondo. Essi non vogliono intendere parlare di ciò che è loro utile e vantaggioso, essi chiedono delle cose che non possono che essere loro nocive, e se i loro voti non sono subito esauditi, essi sono nella tristezza e nello sconforto. Non è da tutti quindi indifferentemente rallegrarsi quando Dio li esaudisce accordando ciò che debba essere utile. C’è un gran numero di uomini che desiderano dei beni inutili di cui si compiacciono. La condotta del Profeta, è invece opposta: egli ama, perché Dio lo aveva esaudito accordandogli dei beni di una utilità incontestabile. (S. Chrys.). –  La carità considera Dio in se stesso, essa ama per se stessa; tuttavia essa è aiutata, sostenuta dai suoi benefici come dalle tante vie che la conducono fino a Dio. Essa risale fino alla fonte dai ruscelli; è con i suoi raggi che il sole ci fa vedere che ci riscalda. – È per la ragione del nostro amore per il Signore che Egli ascolterà la voce della nostra preghiera? Non l’amiamo piuttosto perché Egli ci ha già ascoltato? Che significano dunque queste parole: « Io ho amato il Signore, perché mi ascolterà? Non sarebbe perché per la speranza che infiamma d’ordinario l’amore, che il Profeta avrebbe detto che egli ha amato il Signore, perché era pieno della speranza che il Signore ascoltasse la voce della sua preghiera? (S. Agost.). – Questi giorni, sono i giorni di quaggiù, brevi e malvagi (Gen. XLVII, 9), giorni pieni di dolori e di angosce, in cui l’uomo è lordato da parecchi peccati, impegnato da numerose passioni, agitato da mille timori, afflitto da mille cure, condotto qua e là dalla curiosità, sedotto da una folla di chimere, circondato da errori, oberato di lavori, travolto dalle tentazioni, indebolito dalle delizie, tormenta dalla povertà (Imit. De J.-C., 1, IV, c. XLVIII). – « Invocherò il Signore durante i miei giorni. » E non differisce nel tempo della morte, nei tempi della vecchiaia; egli non dice: quando avrò regolato questo o quell’affare, quando avrò provveduto a stabilizzare la mia famiglia, quando mi sarò liberato da tutti i nemici che mi perseguitano, allora io consacrerò ciò che resta dei miei giorni al servizio del Signore; egli dice: « Io lo invocherò durante i miei giorni » C’è un tempo nella vita che non sia del numero dei nostri giorni, o piuttosto che non componga i nostri giorni? (Berthier). – Invocare Dio in certi giorni e non tutti i giorni della vita, è il segno di un’anima dominata dalla tiepidezza e non dalla speranza. Ricevete ogni giorno, invocate tutti i giorni (S. Ambr.).

II. — 3-6.

ff. 3, 4. – Il salmista spiega ora quel che costituisce la materia della sua preghiera: le tentazioni ed i pericoli della salvezza eterna, sole tribolazioni sensibili per un’anima che ama veramente il Signore. – Maledetti che siamo, sorte deplorevole la nostra, il peccato non cessa di cercarci! Ora, se il peccato ci insegue sempre, cerchiamo di fuggirlo e di evitarlo. Ecco in cosa i dolori della morte differiscono dai pericoli dell’inferno: i dolori della morte circondano l’anima quando pensa al male e desidera commetterlo, questi sono i dolori del parto; quando essa partorisce il peccato, è vicina ai dolori della morte. (S. Girol.). – In questa vita, i dolori della morte ci circondano, ma i pericoli dell’inferno ci trovano solamente, senza circondarci, perché non abbiamo mezzi di sfuggirvi. Quando essi circondano realmente un peccatore, non è più possibile evitarli; è un labirinto inesplicabile, perché non c’è redenzione negli inferi. – « Io ho trovato la tribolazione ed il dolore. » Questo è qualcosa di nuovo. Il Profeta non dice: Io ho trovato il riposo, ho trovato la soddisfazione, l’appagamento dei miei desideri; egli non dice qui: « la tribolazione, il dolore mi hanno trovato, » ma « Io ho trovato la tribolazione ed il dolore. » Egli l’ha trovato come oggetto delle sue ricerche, perché si trova ordinariamente ciò che si cerca. I santi non cercano quaggiù il riposo, ma la tribolazione; perché essi sanno che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza la prova, la prova la speranza. E la speranza non confonde (S. Girol.) – « Io ho trovato la tribolazione ed il dolore. » Dopo aver fatto prova di coraggio e di fermezza perseverante contro gli attacchi del tentatore, volendo mostrare la grandezza del suo amore per Dio, io ho aggiunto afflizione all’afflizione, dolore a dolore, ma io ho potuto superare queste prove non con le mie forze, ma perché ho riposto la mia fiducia nel nome del Signore che ho invocato. È ciò che diceva l’Apostolo: « Tra tutti questi mali, trionfiamo per virtù di Colui che ci ha amati. » (Rom. VIII, 37). Colui che non è abbattuto dalle prove ordinarie della vita, resta vincitore di queste prove; ma egli è ben più vincitore se affronta volontariamente i dolori per mostrare fin dove si spinge la sua pazienza ed il suo coraggio: egli si leva al di sopra di essi, come glorioso trionfatore (S. Basil. In Psalm. CXIV). – « Io ho trovato il dolore e l’afflizione, ed ho invocato il nome di dio. » Badate a questo modo di parlare: « Io ho trovato l’afflizione ed il dolore, » infine io l’ho trovato questa afflizione fruttuosa, questo dolore medicinale della penitenza. Lo stesso salmista ha detto in un altro salmo che « le pene e le angosce, hanno saputo trovarlo. » In effetti, mille dolori, mille afflizioni ci perseguitano senza sosta e, come dice il salmista, le angosce ci trovano facilmente. Ma ora, dice questo santo profeta, ho trovato infine il dolore che ben meritava che io lo cercassi. È il dolore di un cuore contrito e di un’anima afflitta dai suoi peccati; io l’ho trovato questo dolore, ed ho invocato il nome di Dio. Io mi sono afflitto per i miei crimini, e mi sono convertito a Colui che li cancella; i miei segreti hanno fatto la mia felicità, ed i rimorsi della mia coscienza mi hanno dato la pace. (Bossuet, Sur l’amour des plais.). – Noi dobbiamo cercare  la tribolazione: 1° perché ci libera dai dolori della morte; 2° perché allontana da noi i pericoli dell’inferno; 3° perché dà alla nostra anima una forza della quale la prosperità la spoglia sovente; 4° perché essa è come uno scudo che ricaccia da tutti i colpi del nemico. Gesù-Cristo non ci dà la sua croce da portare se non per proteggerci; (S. BERN., Serm. I de S. Andr.) 5° perché essa spegne in noi i vizi, o almeno li comprime e li riduce all’impotenza; 6° perché essa dà alle virtù tutto il loro splendore: « La virtù è perfezionata nella infermità » (II Cor. XII, 9); 7° perché essa ci conduce ad andare verso Dio: « Io li attirerò con i lacci che catturano gli uomini » (Osea, XI, 4); cioè con i dolori e le afflizioni che sono i doni del mio amore per gli uomini (S. Chrys.., in Ps. IX); 8° perché la tribolazione ci merita e ci ottiene la corona di gloria: Egli ti circonderà di tribolazioni » (Isai. XXII, 18); cosa che faceva dire a San Paolo: « io mi glorificherò volentieri delle mie infermità » (II. Cor. XII, 9), « perché le tribolazioni sono il dono più prezioso che Dio possa fare ai suoi amici, sono pietre preziose che Egli dà a coloro che hanno lasciato tutto per amor suo: « potete voi bere il calice che Io berrò? » dice ai suoi discepoli diletti (Marc. X, 29). – « Signore, liberate la mia anima. » Vedete la saggezza del Re-Profeta come sacrifica tutti gli interessi di questa vita per non chiedere che una sola cosa, che la sua anima non commetta alcun peccato, alcun danno che possa divenire mortale. In effetti, se la nostra anima va bene, saremo necessariamente felici in tutte le nostra azioni; ma se essa soffre, non speriamo nulla dalla prosperità che può circondarci (S. Chrys.). – Preghiera poco familiare agli uomini di poca fede: essi chiedono di essere liberati dalle loro malattie, dalle loro disgrazie domestiche, dalla persecuzione dei loro nemici, ma le miserie della propria anima li interessano poco. « Essi vogliono, dice S. Agostino, che tutto ciò che appartiene loro, sia buono, e si inquietano poco che la loro anima sia cattiva. Cosa ha fatto dunque quest’anima per essere esentata dal desiderio generale che le porte a non legarsi che a ciò che è buono? Come non arrossire di essere la sola cattiva in mezzo a tante buone cose che essi possiedono? » (Berthier). 

ff. 5. – « Il Signore è misericordioso e giusto, » vedete come il Profeta ci insegna a tenerci ugualmente lontani dal disperare e dal rilassamento. Non disperate, ci dice, perché Dio è misericordioso; guardatevi da ogni negligenza, perché Egli è giusto (S. Chrys.). –  Aprite le orecchie, peccatori: « Il Signore è misericordioso, ma guardatevi da ogni negligenza, perché il salmista aggiunge: « ma Egli è giusto … » Ma direte voi, se vengo a soppesare i miei peccati, posso sperare tanti bene come quelli che fo  ha da tenere di male? I miei peccati sono per me un fardello pesante, ma la misericordia di Dio ne trionfa. Così il salmista non dice che una volta: il Signore è giusto, mentre dice per due volte: ed il Signore è portato a far grazia (S. Gerol.). – La compassione è un sentimento che proviamo per coloro che sono caduti in un infortunio estremo. Così noi abbiamo pietà per colui che, dopo aver posseduto grandi ricchezze, è ridotto ad una indigenza assoluta; tutti compassioniamo colui che, ad una salute florida e perfetta, si vede succedere uno stato costante di malattia e di infermità; noi abbiamo compassione per che era di una bellezza e di una eleganza rimarchevole, e che malattie devastanti hanno completamente sfigurato. Così, Dio ha pietà di noi, quando compara ciò che eravamo e ciò che siamo divenuti: noi eravamo nel paradiso, di una bellezza eclatante, e dopo la nostra caduta nel peccato, noi offriamo lo spettacolo di una triste e vergognosa deformazione. È questo sentimento di compassione che Dio esprimeva quando chiamava Adamo con queste parole: « Adamo, dove sei? » Egli non cercava di sapere ciò che gli era perfettamente noto, ma gli voleva far comprendere in quale stato fosse caduto. « Dove sei? » da quale altezza sublime sei caduto, in quel profondo abisso sei precipitato (S. Basil.). – Dio è stato dall’inizio misericordioso, perché ha inclinato il suo orecchio fino a me; poi è giusto, perché Egli castiga, e di nuovo concede misericordia perché accoglie; perché Egli castiga tutti i figli che accoglie, e deve essere per me l’amar meno essere castigato che non essere dolce nell’essere accolto.(S. Agost.). – I piccoli che Dio riguarda, sono coloro che lo sono ai suoi occhi; è l’ordine di Dio umiliare coloro che Egli destina a qualche cosa di grande e di straordinario, affinché la loro umiltà sia come un fondamento solido che esce senza scalfire il peso della dignità o della santità alla quale Egli ha come disegno di elevarli. (Duguet). – Il salmista non dice: Egli mi ha preservato dal pericolo, ma me ne ha liberato perché vi ero caduto … non cercate dunque una vita al riparo da ogni pericolo, non sarebbe un bene per voi. Una tale vita non era vantaggiosa per il Profeta, e lo sarebbe molto meno per voi. « È bene che mi abbiate umiliato, dice il salmista (Ps. CXVIII, 71), affinché io apprezzi i vostri ordini pieni di giustizia. » (S. Chrys.).  

III. — 7-9

ff. 7- 8. – « Rientra, o anima mia, nel tuo riposo. » La sua anima godeva quindi in precedenza di un riposo che ha perduto, perché nessuno rientra se non tornando nel luogo ove era in precedenza. Dio ci ha creati buoni, e ci ha lasciato tra le mani del nostro libero arbitrio, ci ha posto tutti con Adamo nel Paradiso. Ma noi caduti volontariamente da questa felicità, siamo stati esiliati in questa valle di lacrime, ecco perché il giusto esorta la sua anima a rientrare nel riposo che ha perduto. Questa terra è un luogo di tribolazione, terra di combattimento; è un soggiorno di lacrime ove non possiamo camminare con sicurezza. Ovunque andiamo, siamo in presenza di qualche pericolo. – E dove rientrerai, anima mia? … nel Paradiso, non perché tu ne sia degna, ma per effetto della bontà di Dio; « Perché il Signore ti ha fatto misericordia. » Tu sei uscito dal Paradiso per colpa tua, vi puoi rientrare solo per misericordia del Signore (S. Gerol.). – Il Profeta descrive la dolcezza del riposo del quale gode, comparandola con le amarezze della vita presente. Qui i dolori della morte mi hanno circondato, là Dio ha liberato la mia anima dalla morte; qui i miei occhi, versano lacrime che fanno fluire abbondantemente le afflizioni di questa vita, là le lacrime non oscurano i nostri occhi rapiti dalla contemplazione dell’ineffabile bellezza di Dio: « Il Signore asciugherà le lacrime di tutti coloro che piangono. » (Isai. XXV, 8). – Quaggiù noi siamo sempre nel gran pericolo di  cadere, cosa che faceva dire a San Paolo « Colui che crede di essere fermo, badi di non cadere. » (I Cor, X, 12). Là i nostri piedi saranno fermi, la nostra vita non sarà soggetta alla mutabilità; non ci sarà più il pericolo di cadere in peccato. (S. Basil.). Finché siamo trattenuti in questa dimora mortale, viviamo assoggettati ai cambiamenti, perché questa è la legge del paese che abitiamo, e non possediamo alcun bene, anche nell’ordine della grazia che non possiamo perdere nel momento successivo, per la mutevolezza naturale dei nostri desideri; ma non appena cessiamo di contare le ore e misurare la nostra vita con i giorni e con gli anni, usciti da figure che passano e da ombre che spariscono, arriviamo al regno della verità, ove siamo affrancati dalla legge dei cambiamenti. Così la nostra anima non è più in pericolo, le nostre risoluzioni non vacillano più; la morte, o piuttosto la grazia della perseveranza finale, ha la forza di fissarle (BOSSUET, Or. fun. de la Duch. d’Or.). – Tutti gli uomini cercano il riposo, non si ingannano che nei mezzi per giungervi. I corpi tendono al riposo con la diminuzione dei loro movimenti, e gli uomini vi tendono con l’agitazione. “Quando vi riposerete ?” si può dire al commerciante, al cortigiano, all’uomo di studio, e infine a tutti coloro che non cessano di tormentarsi in questo mondo con i diversi oggetti che condividono le condizioni della vita. A questa domanda, nessuno risponderà che non riposerà mai, e al contrario, tutti si riprometteranno il riposo, perché quando saranno giunti alla meta che si erano proposti, si imbarcheranno in nuovi imbarazzi, e dopo questi, altri si succederanno ancora, di modo che ci sarà un’agitazione senza fine ed un movimento che non cesserà che alla morte. Ma domandate al vero servo di Dio, a colui che non sospira se non il riposo dell’eternità, perché si dà a tutto il movimento che riempie i suoi giorni. Egli non dirà che tenderà al riposo in questa vita: egli sa che il riposo non è un frutto che si raccoglie in questa terra d’esilio, in questa regione di lacrime; egli dirà che tutti i suoi lavori tendono al godimento della vera pace, che è solo nel cielo. Tuttavia, siccome la sua speranza è indistruttibile e sa, come l’Apostolo, che Colui che gli ha promesso questo felice riposo è fedele alle sue promesse, egli già pregusta questo stato infinitamente desiderabile. La sua anima è nel riposo, per quanto possibile a chi non possiede ancora il sovrano Bene, cioè l’essere esente da turbamenti ed inquietudini. Dio lo ha ritirato dalla morte del peccato; gli lascia ancora le lacrime della compunzione, ma esse sono piene di dolcezza; egli veglia su se stesso per preservarsi dalle cadute, ma si appoggia sulle braccia dell’Onnipotente, che lo sostiene e lo solleva. Quest’uomo lavora molto, ma tutte le sue pene danno frutto per l’eternità.  (Berthier). – Una doppia ragione deve portarci a fare tutti i nostri sforzi per entrare nel nostro riposo. L’una è tratta dal punto di partenza di questa conversione, vale a dire dal mondo e dalle sue attrattive seduttrici, dalle quali dobbiamo separarci; l’altra, dal termine verso cui tende questa conversione, cioè il cielo. 

ff. 9. – Egli non dice: io sono gradito, ma: « io sarò gradito al Signore; perché nella vita presente, nessun uomo può arrivare alla perfezione della giustizia. Egli fa vedere da questo che non ancora sia gradito agli occhi del Signore, per questa parte di se stesso che è nella regione dei morti, cioè nella carne mortale. – Queste parole del Profeta: « Egli ha preservato i miei occhi dalle lacrime, ed i miei piedi da ogni caduta, » benché sembrino celebrare un fatto compiuto, non sono tuttavia ancora che parole di speranza … Noi attendiamo ancora la redenzione dei nostri corpi (Rom. VIII, 2-3), ma quando la morte sarà stata assorbita nella vittoria, quando ciò che è corruttibile in noi sarà rivestiti da incorruttibilità, e ciò che è mortale da immortalità (I Cor. XV, 53, 54) non ci saranno più lacrime, perché non ci saranno più cadute; non ci saranno più cadute perché non c’è più corruzione (S. Agost.). – In questa vita, che è la dimora, la terra dei morenti, quantunque possiamo essere santi, abbiamo sempre qualche imperfezione da combattere, la crudele guerra della concupiscenza da sostenere, è difficile che non riceviamo qualche ferita, perché non poche delle nostre opere sono miste a qualche difetto. Noi non saremo dunque veramente graditi al Signore che nel cielo, che è la vera terra dei viventi (Duguet). Si, questa regione è veramente la regione dei viventi, ove non ci sono notti, non più sonno, immagine della morte, non più bere e mangiare, non più alimenti, deboli sostentamenti della nostra infermità, non più malattie, dolore, non più arte del guarire, non più commercio e negozio, fonte di traffici ingiusti, non più cause di guerra, non più radici di inimicizia. È veramente la  regione dei viventi, di coloro che vivono della vera vita in Gesù-Cristo (S. Basil).

FESTA DI SAN GIUSEPPE (2020)

FESTA DI SAN GIUSEPPE (2020)

F476

Ad te, beate Ioseph, in tribulatione nostra confugimus, atque, implorato Sponsæ tuæ sanctissimæ auxilio, patrocinium quoque tuum fidenter exposcimus. Per eam, quæsumus, quæ te cum immaculata Virgine Dei Genitrice coniunxit, caritatem, perque paternum, quo Puerum Iesum amplexus es, amorem, supplices deprecamur, ut ad hereditatem, quam Iesus Christus acquisivit Sanguine suo, benignius respicias, ac necessitatibus nostris tua virtute et ope succurras. Tuere, o Custos providentissime divinæ Familiæ, Iesu Christi sobolem electam; prohibe a nobis, amantissime Pater, omnem errorum ac corruptelarum luem; propitius nobis, sospitator noster fortissime, in hoc cum potestate tenebrarum certamine e cœlo adesto; et sicut olim Puerum Iesum e summo eripuisti vitæ discrimine, ita nunc Ecclesiam sanctam Dei ab hostilibus insidiis atque ab omni adversitate defende: nosque singulos perpetuo tege patrocinio, ut ad tui exemplar et ope tua suffulti, sancte vivere, pie emori, sempìternamque in cœlis beatitudinem assequi possimus. Amen.

(Indulgentia trium (3) annorum. Indulgentia septem (7) annorum per mensem octobrem, post recitationem sacratissimi Rosarii, necnon qualibet anni feria quarta. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidiana orationis recitatio in integrum mensem producta fueri: (Leo XIII Epist. Encycl. 15 aug. 1889; S. C. Indulg., 21 sept. 1889; S. Paen. Ap., 17 maii 1927, 13 dee. 1935 et 10 mart. 1941).

Sancta Missa

San Giuseppe, Sposo della B. V. Maria, Conf.

Doppio di 1* classe. – Paramenti bianchi.

La Chiesa onora sempre, con Gesù e Maria, San Giuseppe, specialmente nelle feste di Natale; ecco perché il Vangelo di questo giorno è quello del 24 dicembre. La Chiesa diede a questo Santo fin dall’VIII sec, secondo un calendario copto, un culto liturgico nel giorno 20 luglio. Alla fine del XV sec. la sua festa fu fissata al 19 marzo e nel 1621 Gregorio XV l’estese a tutta la Chiesa. – 1870 Pio IX proclamò San Giuseppe protettore della Chiesa universale. Questo Santo, « della stirpe reale di Davide », era un uomo giusto (Vang.) e per il suo matrimonio con la Santa Vergine ha dei diritti sul frutto benedetto del seno verginale della Sposa. Una affinità di ordine legale esiste tra lui e Gesù, sul quale esercitò un diritto di paternità, che il Prefazio di San Giuseppe designa delicatamente con queste parole « paterna vice ». Senza aver generato Gesù, San Giuseppe, per i legami che l’uniscono a Maria, è, legalmente e moralmente, il padre del Figlio della Santa Vergine. Ne segue che bisogna con atti di culto riconoscere it questa dignità o eccellenza soprannaturale di San Giuseppe. Vi erano nella famiglia di Nazareth le tre persone più grandi ed eccellenti dell’universo; il Cristo Uomo-Dio, la Vergine Maria Madre di Dio, Giuseppe padre putativo del Cristo. Per questo al Cristo si deve il culto di latria, alla Vergine il culto di iperdulia, a San Giuseppe il culto di suprema dulia. Dio gli rivelò il mistero dell’incarnazione (ìd.) e « lo scelse tra tutti gli uomini » (Ep.) per affidargli la custodia del Verbo incarnato e della Verginità di Maria [Toccava al padre imporre un nome al proprio figlio. L’Angelo, incaricando da parte di Dio di questa missione, Giuseppe, gli mostra con ciò che, nei riguardi di Gesù, ha gli stessi diritti che se egli ne fosse veramente il padre.]. – L’inno delle Lodi dice che: « Cristo e la Vergine assistettero all’ultimo momento San Giuseppe il cui viso era improntato ad una dolce serenità ». San Giuseppe salì al cielo per godere per sempre faccia a faccia la visione del Verbo di cui aveva contemplato cosi lungamente e da vicino l’umanità sulla terra. Questo santo è dunque considerato giustamente come il patrono ed il modello delle anime contemplative. Nella patria celeste San Giuseppe conserva un grande potere sul cuore del Figlio e della sua Santissima Sposa (Or.). Imitiamo in questo santo tempo la purezza, l’umiltà, lo spirito di preghiera e di raccoglimento di Giuseppe a Nazaret, dove egli visse con Dio, come Mosè sulla nube.

Incipit

In nómine Patris,et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCI : 13-14.
Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.
Ps XCI: 2.
Bonum est confiteri Dómino: et psállere nómini tuo, Altíssime.

Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.

Oratio

Orémus.
Sanctíssimæ Genetrícis tuæ Sponsi, quǽsumus. Dómine, méritis adjuvémur: ut, quod possibílitas nostra non óbtinet, ejus nobis intercessióne donétur: [Ti preghiamo, o Signore, fa che, aiutati dai meriti dello Sposo della Tua Santissima Madre, ciò che da noi non possiamo ottenere ci sia concesso per la sua intercessione]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XLV: 1-6.

Diléctus Deo et homínibus, cujus memória in benedictióne est. Símilem illum fecit in glória sanctórum, et magnificávit eum in timóre inimicórum, et in verbis suis monstra placávit. Glorificávit illum in conspéctu regum, et jussit illi coram pópulo suo, et osténdit illi glóriam suam. In fide et lenitáte ipsíus sanctum fecit illum, et elégit eum ex omni carne. Audívit enim eum et vocem ipsíus, et indúxit illum in nubem. Et dedit illi coram præcépta, et legem vitæ et disciplínæ. [Fu caro a Dio e agli uomini, la sua memoria è in benedizione. Il Signore lo fece simile ai Santi nella gloria e lo rese grande e terribile ai nemici: e con la sua parola fece cessare le piaghe. Lo glorificò al cospetto del re e gli diede i comandamenti per il suo popolo, e gli fece vedere la sua gloria. Per la sua fede e la sua mansuetudine lo consacrò e lo elesse tra tutti i mortali. Dio infatti ascoltò la sua voce e lo fece entrare nella nuvola. Faccia a faccia gli diede i precetti e la legge della vita e della scienza].

Graduale

Ps XX :4-5.
Dómine, prævenísti eum in benedictiónibus dulcédinis: posuísti in cápite ejus corónam de lápide pretióso.
V. Vitam pétiit a te, et tribuísti ei longitúdinem diérum in sæculum sæculi.
Ps CXI: 1-3.
Beátus vir, qui timet Dóminum: in mandátis ejus cupit nimis.
V. Potens in terra erit semen ejus: generátio rectórum benedicétur.
V. Glória et divítiæ in domo ejus: et justítia ejus manet in sæculum sæculi.

Evangelium

Sequéntia + sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt 1: 18-21.

Cum esset desponsáta Mater Jesu María Joseph, ántequam convenírent, invénta est in útero habens de Spíritu Sancto. Joseph autem, vir ejus, cum esset justus et nollet eam tradúcere, vóluit occúlte dimíttere eam. Hæc autem eo cogitánte, ecce, Angelus Dómini appáruit in somnis ei, dicens: Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est. Páriet autem fílium, et vocábis nomen ejus Jesum: ipse enim salvum fáciet pópulum suum a peccátis eórum. [Essendo Maria, la Madre di Gesù, sposata a Giuseppe, prima di abitare con lui fu trovata incinta, per virtù dello Spirito Santo. Ora, Giuseppe, suo marito, essendo giusto e non volendo esporla all’infamia, pensò di rimandarla segretamente. Mentre pensava questo, ecco apparirgli in sogno un Angelo del Signore, che gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, cui porrai nome Gesù: perché egli libererà il suo popolo dai suoi peccati].

Sermone di san Bernardo Abbate
Omelia 2 su Missus, verso la fine


Chi e qual uomo sia stato il beato Giuseppe, argomentalo dal titolo onde, sebbene in senso di nutrizio, meritò d’essere onorato così da essere e detto e creduto padre di Dio; argomentalo ancora dal proprio nome, che, come si sa, s’interpreta aumento. Ricorda in pari tempo quel gran Patriarca venduto altra volta in Egitto; e sappi ch’egli non solo ha ereditato il nome di quello, ma ne ha imitato ancora la castità, ne ha meritato l’innocenza e la grazia. E se quel Giuseppe, venduto per invidia dai fratelli e condotto in Egitto, prefigurò la vendita di Cristo; il nostro Giuseppe, fuggendo l’invidia d’Erode, portò Cristo in Egitto. Quegli per rimaner fedele al suo padrone, non volle acconsentire alle voglie della sua padrona: questi, riconoscendo vergine la sua Signora madre del suo Signore, si mantenne continente e fu il suo fedele custode. A quello fu data l’intelligenza dei sogni misteriosi; a questo fu concesso d’essere il confidente e cooperatore dei celesti misteri. Il primo conservò il frumento non per sé, ma per tutto il popolo : il secondo ricevé la custodia del Pane vivo celeste e per sé e per tutto il mondo. Non v’ha dubbio che questo Giuseppe, cui fu sposata la Madre del Salvatore, sia stato un uomo buono e fedele. Voglio dire, «un servo fedele e prudente»

Omelia di san Girolamo Prete
Libr. 1 Commento al cap. 1 di Matteo


Perché fu concepito non da una semplice vergine, ma da una sposata? Primo, perché dalla genealogia di Giuseppe si mostrasse la stirpe di Maria ; secondo, perch’ella non fosse lapidata dai Giudei come adultera: terzo, perché fuggitiva in Egitto avesse un sostegno. Il martire Ignazio aggiunge ancora una quarta ragione perché egli fu concepito da una sposata : affinché, dice, il suo concepimento rimanesse celato al diavolo, che lo credé il frutto non di una vergine, ma di una maritata. Prima che stessero insieme si scoperse che stava per esser madre per opera dello Spirito Santo» Malth. 1, 18. Si scoperse non da altri se non da Giuseppe, al quale per la confidenza di marito non sfuggiva nulla di quanto riguardava la futura sposa. Dal dirsi poi: « Prima che stessero insieme », non ne segue che stessero insieme dopo: perché la Scrittura constata ciò che non era avvenuto.

Omelia di sant’Ambrogio Vescovo
Lib. 4 al capo 4 di Luca, verso la fine

Guarda la clemenza del Signore Salvatore: né mosso a sdegno, né offeso dalla grave ingratitudine, né ferito dalla loro ingiustizia abbandona la Giudea: anzi dimentico dell’ingiuria, memore solo della clemenza, cerca di guadagnare dolcemente i cuori di questo popolo infedele, ora istruendolo, ora liberandone (gl’indemoniati), ora guarendone (i malati). E con ragione san Luca parla prima di un uomo liberato dallo spirito malvagio, e poi racconta la guarigione d’una donna. Perché il Signore era venuto per guarire l’uno e l’altro sesso; ma prima doveva guarire quello che fu creato prima: e non bisognava omettere (di guarire) quella che aveva peccato più per leggerezza di animo che per malvagità.

OMELIA

SAN GIUSEPPE, PROTETTORE DELLA CHIESA E DEI CRISTIANI

[A. Carmagnola: S. GIUSEPPE, Ragionamenti per il mese a lui consacrato. RAGIONAMENTO XXXI. – Tipogr. e Libr. Salesiana. Torino, 1896]

Del Patrocinio di S. Giuseppe sulla Chiesa Cattolica.

Aiuto e protettor nostro è il Signore; in lui si rallegrerà il nostro cuore, e nel santo Nome di Lui porteremo la nostra speranza: Adiutor et protector noster est Dominus; in eo laetàbitur cor nostrum, et in nomine sancto eius speravimus (Salm. XXXII, 20, 21). È con queste bellissime parole, che il Santo re Davide ci ricorda la grande verità che è da Dio solo propriamente che ci viene ogni aiuto e protezione, e che perciò in Lui solo abbiamo da riporre tutte quante le nostre speranze. Così pure l’apostolo S. Paolo ci fa attentamente osservare che un solo è il nostro naturale patrono appresso Dio Padre, vale a dire Gesù Cristo; poiché è Egli solo, che, Uomo e Dio ad un tempo, valse a ritornare in grazia e riamicare col sommo Padre il genere umano: Unus est mediator Dei et hominum homo Christus Iesus (1 Tim. II, 5). Ma sebbene sia Iddio solo, che nella sua onnipotenza ci dia aiuto e protezione, non è tuttavia men vero, che ordinariamente ci da un tale aiuto ed una tal protezione non direttamente Egli stesso, ma per mezzo dei suoi Angeli e dei suoi Santi. Così pure, sebbene Gesù Cristo per sua natura ed ufficio sia l’unico e primario patrono degli uomini, ciò non toglie, come insegna l’Angelico, che vi possano essere e realmente vi siano altri patroni secondari e per intercessione tra Dio e gli uomini stessi, quali appunto sono ancora gli Angeli e i Santi. Or bene, come è verissimo che Iddio si serve massimamente del ministero di Maria SS. sua Madre per comunicare a noi il suo santo aiuto e la sua santa protezione, e che fra tutte le creature nessuna può esercitare ed esercita più efficacemente l’ufficio di patrona degli uomini, che la stessa Vergine, così dobbiamo pure ritenere che dopo di Lei per nessun altro più Iddio fa a noi pervenire l’aiuto e la protezione sua e che nessun altro più vale ad essere il nostro patrono che S. Giuseppe, Sposo di Maria e Custode di Gesù. – La Chiesa pertanto riconoscendo una tal verità che ha fatto ella? Dopo di essersi nel corso dei secoli affidata al patrocinio della Beatissima Vergine, e continuando tuttora ad affidarvisi, in questi ultimi tempi si è pure particolarmente affidata al patrocinio di S. Giuseppe, dichiarando questo gran Santo Patrono della Chiesa cattolica, cioè universale. Ora con quanta sapienza la Chiesa abbia proclamato S. Giuseppe Patrono universale di se medesima è quello che ci faremo a riconoscere oggi in questo ultimo ragionamento, chiudendo il bel mese, che abbiamo consacrato a questo gran Santo. Io credo che non potevamo riservarci un argomento più adatto e più gradito, epperò non sento alcun bisogno di raccomandarlo alla vostra attenzione.

PRIMA PARTE.

La Chiesa Cattolica, o miei cari Cristiani, voi ben lo sapete, è la congregazione di tutti i fedeli, che fanno professione della fede e legge di Gesù Cristo, nella ubbidienza ai legittimi Pastori e principalmente al Papa, che ne è il Capo visibile sulla terra. Questa Chiesa, la sola una, santa, cattolica ed apostolica, ha per suo immediato fondatore e capo invisibile nostro Signor Gesù Cristo, il quale nel fondarla le ha promesso e comunicata tale una forza, per cui non verrà meno giammai sino alla consumazione dei secoli. Tu sei Pietro, disse al Principe degli Apostoli, e sopra di questa pietra fabbricherò la mia Chiesa e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa giammai: et portæ inferi non prævalebunt adversus eam (Matt. XVI, 18). Io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede: rogavi prò te, ut non deficiat fides tua(Luc. XXII, 31). E a tutti gli Apostoli disse: Ecco che io sarò con voi sino alla consumazione dei secoli: Ecce ego vobiscum sum usque ad consummationem sæculi (Matt. XXVIII, 20). Così ha parlato Gesù Cristo alla Chiesa nella persona degli Apostoli, e Gesù Cristo ha fatto, fa e farà onore alla sua parola sino alla fine del mondo. Come la testa tiene il primo luogo nel corpo umano e da lei l’anima dà vita e forza a tutto il corpo, così Gesù Cristo capo invisibile di tutto il corpo mistico che è la Chiesa, risiedendone sempre in lui lo spirito e l’anima, a tutto il corpo mantiene la vita e la forza. – Ma sebbene per la promessa, che fedelmente Gesù Cristo mantiene, la Chiesa Cattolica non debba mai temere o tanto o poco di venir meno, è certo tuttavia che la Chiesa va soggetta alle persecuzioni, è destinata anzi alle persecuzioni, e le persecuzioni formano uno dei suoi essenziali e divini caratteri. Quelle parole profetiche che il Santo vecchio Simeone pronunciava sopra di nostro Signor Gesù Cristo: Ecco che questo Bambino è posto in segno alla contraddizione: ecce positus est hic … in signum cui contradicetur (S. Luc. II, 34) non erano pronunziate meno per la Chiesa, di cui Gesù Cristo è capo. Anzi lo stesso Gesù Cristo come predisse ed assicurò alla Chiesa la indefettibilità, così le predisse e assicurò le persecuzioni. Se hanno perseguitato me, disse Agli apostoli, perseguiteranno anche voi: Si me persecuti sunt, et vos persequentur (S. Gio. XV, 20). E difatti da diciannove secoli, quanti ne conta la Chiesa Cattolica, mentre nel suo cammino e nel suo stabilirsi attraverso il mondo da molti è stata felicemente accolta, amata obbedita, da molti altri invece è stata derisa, odiata, perseguitata a morte. E così sarà con momenti più o meno lunghi di tregua e di pace sino alla fine del mondo. E ciò perché mai? senza dubbio per moltissime ragioni, alcune delle quali non comprenderemo che in cielo. Ma tra quelle che anche qui in terra possiamo rilevare, questa tiene un principalissimo posto: volere cioè il Signor nostro Gesù Cristo che non dimentichiamo giammai essere Egli colui dal quale solo viene la vita e la forza della Chiesa e dovere noi perciò incessantemente ricorrere a Lui per aiuto e protezione, affinché esaudendo le nostre preghiere e concedendo alla Chiesa l’aiuto e la protezione invocata si renda ognor più manifesta la sua potenza e la sua gloria. È ciò che ci ha fatto chiaramente intendere Gesù Cristo stesso nel suo Santo Vangelo. Essendo Egli insieme cogli Apostoli montato sopra una nave sul lago di Genezareth, e a poppa di quella nave dormendo, si suscitò una gran tempesta, che sembrava da un momento all’altro dover capovolgere la nave istessa e farla colare a fondo, e che fece mandare agli Apostoli un grido di spavento e di invocazione: Signore, salvaci, periamo: Domine, salva nos, perimus (S. Matt. VIII, 25). Or bene, bellamente osserva Origene, quantunque Gesù Cristo allora dormisse col corpo, vegliava con la sua divinità, perché concitava il mare e conturbava gli Apostoli affine di manifestare la sua potenza: Dormiebat corpore, sed vigilabat Deitate, quia concitabat mare, contarbabat Apostolos, suam potentiam ostensurus. E poiché, come dice S. Agostino, quella nave, in cui Gesù Cristo si trovava con gli Apostoli, in tale circostanza raffigurava la Chiesa Cattolica, perciò ben possiamo dedurre che l’intendimento che ebbe allora nel permettere la tempesta, lo abbia tuttora nel permettere le persecuzioni.Egli è certo ad ogni modo che la Chiesa ha mai sempre riconosciuto il bisogno ed il dovere di ricorrere a Dio per aiuto e protezione in tutti quanti i tempi, ma allora massimamente che trovasi stretta dalla tribolazione, epperò sempre, benché con molteplici forme, ella ha fatto salire al cielo questo grido: Salva nos, perimus.Signore, vieni in nostro aiuto, in nostra protezione, affinché non abbiamo a perderci. E per essere più sicura di conseguire il fine di questo grido ha sempre in tutte le sue preghiere interpostala mediazione e il patrocinio del suo vero e naturale mediatore e patrono Gesù Cristo. Per Christum Domininum nostrum. E Iddio, o tosto o tardi, come stimò meglio nei disegni imperscrutabili della sua provvidenza, sempre ha esaudito le preghiere della Chiesa, a Lui offerte nel nome di Gesù Cristo, facendole toccar con mano che Egli veramente è il suo aiuto ed il suo protettore, e che realmente in Gesù Cristo abbiamo sempre un avvocato, un patrono onnipotente.Ma la Chiesa non si è contentata di questo. Sapendo bene, come già dicemmo, che Iddio per concederci i suoi favori ama servirsi del ministero dei suoi Angeli e dei suoi Santi, e che negli Angeli e nei Santi abbiamo dei patroni per grazia, oltre a quello che abbiamo in Gesù Cristo per natura, ebbe pur sempre in uso di ricorrere alla mediazione degli Angeli e Santi e di riguardarli almeno in generale quali suoi intercessori e patroni, ed eleggerli poi in particolare quali intercessori per un determinato genere di grazie o quali patroni particolari di un paese, di una città, di una provincia, di un regno. Or bene così facendo la Chiesa per essere eziandio aiutata e protetta in mezzo ai pericoli ed alle persecuzioni mercé l’intercessione e il patrocinio degli Angeli e dei Santi, non era conveniente che ella ne eleggesse e costituisse uno che di essa fosse il patrono universale? E ciò essendo, come è manifesto, convenientissimo, chi altri mai, dopo la SS. Vergine, doveva essere eletto e costituito Patrono della Chiesa universale, se non il nostro grande Patriarca San Giuseppe? Ed in vero, oltre che per la sua potenza, egli ne aveva il diritto per la sua stessa condizione di Custode della Divina Famiglia. Che egli sia stato il Custode della divina Famiglia non vi ha alcun dubbio. « Come Iddio, dice la Chiesa medesima, come Iddio aveva costituito l’antico Giuseppe, figliuolo del patriarca Giacobbe a presiedere in tutta la terra di Egitto per serbare ai popoli il frumento; così venuta la pienezza dei tempi, essendo per mandare in sulla terra l’Unigenito suo Figliuolo a redimere il mondo, prescelse un altro Giuseppe, del quale quel primo era stato figura, e lo costituì signore e principe della sua casa e della sua possessione, e lo elesse a custode de’ suoi divini tesori. Perocché ebbe questi in isposa la immacolata Vergine Maria, dalla quale per opera dello Spirito Santo nacque il nostro Signor Gesù Cristo, che presso agli uomini si degnò esser riputato figliuolo di Giuseppe ed a lui fu soggetto. E quel Salvatore che tanti re e profeti bramarono di vedere, questo Giuseppe non solo vide, ma con Lui conversò e con paterno affetto lo abbracciò e lo baciò; e con solertissima cura Lui nutricò, che il popolo fedele doveva ricevere come pane disceso dal cielo per conseguire la vita eterna ». Così parla la Chiesa, (Decr. 1870), e così parlandoci apprende che S. Giuseppe fu veramente il Custode della divina Famiglia. Ma che cosa era la divina Famiglia, se non la Chiesa, per così esprimermi, in embrione? non era dessa il primo principio di quella sterminata famiglia, alla quale appartengono oggi più che trecento milioni di figliuoli? È propriamente nella casa di Nazaret, dove S. Giuseppe era il capo, che la Chiesa ebbe i suoi natali. È lì che si cominciarono a compiere i sublimi disegni di Dio, ed i grandi misteri di nostra Religione; è lì che sorsero i primi modelli del culto cristiano, i primi seguaci del Vangelo ed i primi frutti della Redenzione. È lì in quella famiglia che Gesù Cristo fondatore della Chiesa, ed ora suo Capo invisibile, stette soggetto a Giuseppe e da Giuseppe volle essere scampato nel pericolo della persecuzione di Erode. È li che lo stesso Giuseppe aiutò e protesse Maria, il primo membro dellaChiesa, ed è lì ancora che per conseguenza come patrono di Gesù, Capo della Chiesa, e di Maria, suo primo membro, acquistò un certo diritto di essere il Patrono di tutte le membra del corpo mistico della Chiesa istessa. Ben a ragione pertanto il venerabile Bernardino da Busto dice a questo proposito: Che a questo santissimo uomo essendo del tutto appropriato quel che si legge in S. Luca ed in S. Matteo: « Ecco il servo fedele e prudente, che il Signore stabilì sopra la sua famiglia; doveva ancor essere costituito sulla universale famiglia di Dio; e poiché fu trovato così sufficiente all’opera tanto eccelsa del custodire la divina famiglia, così doveva essere più che mai sufficiente alla custodia e patrocinio di tutto il mondo; perciocché chi fu bastevole al più, molto meglio è da credersi bastevole al meno ». E non meno bellamente disse il devoto Isolano: « Il Signore ha suscitato per sé ed in onore del suo nome S. Giuseppe Capo e Patrono della Chiesa militante ». E non male si apponeva il grande Gersone quando nel Concilio di Costanza esortando i Prelati ivi raccolti a stabilir qualche cosa in lode ed onore di S. Giuseppe, li andava con tutte le sue forze persuadendo ad eleggerlo in Patrono della Chiesa, affine di estinguere il funestissimo scisma, che allora da tanto tempo lacerava la veste inconsutile di Gesù Cristo. E quando finalmente l’immortale Pio IX, il Pontefice dell’Immacolata e del Sacro Cuore di Gesù, il Papa dal cuore vasto come il mare, assecondando le suppliche ed i voti dei Vescovi e dei fedeli di pressoché tutto il mondo, per organo della S. Congregazione dei Riti proclamava di fatto S. Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica, altro non faceva che assegnare ed assicurare a S. Giuseppe la gloria di quel terzo titolo, che giustamente gli competeva insieme con gli altri due di Sposo purissimo di Maria e di Padre putativo di Gesù. Perciocché lo stesso grande Pontefice prima ancora di aver promulgato un tanto oracolo, già alcun tempo innanzi aveva detto con gioia: Mi consola, che i due sostegni della Chiesa nascente, Maria e Giuseppe, riprendano nei cuori cristiani quel posto, che non avrebbero dovuto perdere giammai ».Sapientissima adunque fu l’opera della Chiesa nel riconoscere e proclamare l’universale Patrocinio di San Giuseppe, essendoché una tal prerogativa ed un tale ufficio è perfettamente consentaneo alla sublime dignità di sì gran Patriarca. Ma la sapienza di tal opera rifulgerà anche di maggior luce se attentamente si osservi in quanta opportunità di tempo essa fu compiuta. Certamente se mai furono tempi calamitosi perla Chiesa di Gesù Cristo, se mai volsero giorni così infausti alla nostra santissima fede sono propriamente i giorni ed i tempi nostri. Oggi, più che mai, si muove guerra tremenda contro i santi altari; oggi, più che mai, si assaltano i dommi, i misteri, la dottrina e la morale di Gesù Cristo; oggi, più che mai, si vede l’empietà sfidare il cielo e far disperate prove onde sbandire dalle menti umane persin l’idea di Dio. È ritornato proprio oggidì il tempo in cui: Fremuerunt gentes…astiterunt reges terræ et principes convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Christum eius(Salm. II). Popoli e re, grandi e piccoli, tutti l’hanno con Cristo e con la sua Chiesa. I falsi dotti con la penna, la stampa irreligiosa coi fogli, il popolazzo con le urla e con le maledizioni, i re ed i governi con la forza brutale assalgono ad un tempo e da ogni parte questa rocca fondata da Dio e già quasi si applaudono d’averla atterrata. Si snaturano le intenzioni della Chiesa, le si attribuiscono umane passioni ed ingorde voglie, e sotto questi futili pretesti, i quali alle masse poco istruite, segnatamente in fatto di Religione, presentano sempre qualche cosa di specioso, le si rimprovera d’aver degenerato dalla primitiva perfezione, l’accagionano di idee retrograde, di ostinazione a non volersi associare al progresso dei tempi, si rovesciano le sue istituzioni, si rapiscono violentemente i suoi beni, si atterrano le sue opere pie, si assediano e si spiano i suoi ministri per coglierli in fallo, ed al caso si calunniano; si sparge il ridicolo sopra le sue più auguste cerimonie, si beffano i più devoti e fedeli suoi figli. E intanto, ahimè! l’incredulità e l’indifferenza religiosa si impadronisce dei cuori, il vizio passeggia a fronte alta da per tutto, i popoli, la gioventù si guastano e si corrompono spaventosamente e così i membri della Chiesa di Gesù Cristo corrono i più gravi pericoli della eterna perdizione. Or bene, quantunque la Chiesa, neppure ai dì nostri abbia a temere di se stessa, né con una lotta sì accanita abbia a cadere, a disfarsi, a perire, pur tuttavia ella ha bisogno di aiuto e di protezione celeste. Ed a chi altri mai, dopoché a Dio ed alla SS. Vergine, poteva essa ricorrere per aiuto e protezione che al gran Patriarca S. Giuseppe? « In questi difficilissimi tempi, dice il grande nostro Pontefice Leone XIII (Brev. 1891), nulla torna più efficace per conservare il patrimonio della fede e per menare cristianamente la vita, quanto il meritarsi il patrocinio di S. Giuseppe e conciliare il favore di Maria Madre di Dio ai clienti del suo castissimo sposo ». Ed in vero, come Custode della divina Famiglia avendo egli scampato la Chiesa nascente dalla persecuzione di Erode lascerà egli, da noi invocato, come Patrono della Chiesa Cattolica di scamparla dalla persecuzione degli Erodi moderni? Ah no! Senza dubbio questo è il suo uffizio, questo è il suo diritto: questo anzi, diciamolo pure, è il suo dovere, ed egli lo compirà a perfezione, come già lo ha compiuto per il passato, come massimamente lo compié in questo primo venticinquennio dacché fu solennemente come Patrono della Chiesa Cattolica proclamato. Sì lo compirà, e mercé il suo patrocinio torneranno per la Chiesa i giorni di libertà e di pace, somiglianti a quelli che egli godette quaggiù con Gesù e Maria nella casa di Nazaret, spenti che furono i persecutori della divina famiglia. Lo compirà, e come egli allora, non più ricercato a morte il suo caro Gesù, poté godere senza affanno la sua convivenza, così ancor noi senza oppressioni e senza timori potremo adempiere tutti i doveri e valerci di tutti i diritti di figliuoli di Dio e della Chiesa. – Sapientissima adunque, torniamolo a dire, sapientissima fu una tal proclamazione e sommamente opportuna pei tempi che corrono. Epperò santamente confidiamo, che avendo per tal modo S. Giuseppe ripreso quel posto che non avrebbe dovuto perdere giammai, siccome disse Pio IX e come col fatto asserisce il regnante Leone XIII: il mondo un’altra volta sarà salvo. Fiat! Fiat!

SECONDA PARTE.

Se la Chiesa, come abbiamo veduto, dimostrò una grande sapienza nel proclamare S. Giuseppe suo universale Patrono, tocca ora a noi, figliuoli della Chiesa, assecondare i suoi intendimenti in questa proclamazione, vale a dire tocca a noi implorare incessantemente il Patrocinio di San Giuseppe sopra della Chiesa istessa. Come gli Egiziani, colpiti dal terribile flagello della carestia, presentandosi all’antico Giuseppe, andavano esclamando: Salus nostra in manti tua est; la nostra salute, o Giuseppe, è nelle tue mani (Gen. XLVII, 25); così anche noi, in mezzo alle tribolazioni, da cui presentemente è stretta la Chiesa, facciamo salire al trono di S. Giuseppe con somma fiducia lo stesso grido. Imploriamo anzi tutto il patrocinio di S. Giuseppe sopra di noi, affinché mercé la sua potente intercessione e la sua valida protezione possiamo sempre vivere da figliuoli degni della Chiesa, e non mai questa nostra madre abbia a soffrire e piangere per noi. Sì, diciamogli, con tutto il cuore: Fac nos innocuam, Ioseph, decurrere vitam; sitque tuo semper tuta patrocinio; danne, o Giuseppe, di menar una vita lontana dalla colpa, e sempre protetta dal tuo patrocinio. – Imploriamolo in secondo luogo per tutta la Chiesa in generale, pei bisogni nei quali ora si trova, per i suoi Vescovi, per i suoi Sacerdoti, per i suoi religiosi, per i suoi missionari, per tutti quanti i suoi figliuoli, per i buoni e per i cattivi, per i giusti e per i peccatori, per coloro che ancora combattono sopra di questa terra ed eziandio per quelle sante anime, che ora soffrono nel carcere del Purgatorio. Che mercé il patrocinio di S. Giuseppe i Pastori della Chiesa si mantengano sempre in un solo spirito col Supremo Pastore, il Papa (oggi S. S. Gregorio XVIII – ndr. -) che vedano coronato di esito felice il loro apostolico zelo, che possano ricondurre molti traviati all’ovile. Che mercé il patrocinio di S. Giuseppe i Sacerdoti ed i religiosi si mantengano fedeli alla sublimità della loro vocazione e lavorino sempre con somme forze nella mistica vigna. Che sotto il patrocinio di S. Giuseppe i missionari non vengano meno giammai al loro coraggio, riescano a trionfare delle difficoltà e dei pericoli che ad ogni istante incontrano sul loro cammino, e facciano presto risplendere la luce del Santo Vangelo fra quei popoli, che giacciono ancor nelle tenebre e nell’ombra di morte. Che all’ombra del patrocinio di S. Giuseppe perseverino i giusti nella loro giustizia e vadano innanzi nella perfezione e nella santità; e i peccatori si convertano e vivano. Che sotto lo scudo di tanto patrocinio riescano sempre vincitori e trionfanti del mondo, della carne e del demonio tutti i Cristiani, che quaggiù ancora combattono; e per l’efficacia dello stesso patrocinio volino presto al cielo le sante anime del purgatorio: che tutta quanta la Chiesa sia da S. Giuseppe validamente protetta. Sì, diciamo ancora con tutto il cuore: Alme Joseph, dux noster, nos et sanctam Ecclesiam protege: almo Giuseppe, nostro patrono, proteggi noi e tutta quanta la Chiesa. Finalmente imploriamo il patrocinio di San Giuseppe in modo specialissimo per il Capo di tutta la Chiesa, pel Romano Pontefice. Nel 1814, il dì 10 di Marzo, in cui aveva principio la novena di S. Giuseppe, quell’irrequieto conquistatore, quello snaturato tiranno, quel sacrificatore di tante vittime, Napoleone I, che a Savona aveva chiuso in carcere il grande Pio VII, tentando invano di farlo zimbello di sua insana politica, vedendo volgere a male le sue sorti, decretava che fossero restituite al Papa le Provincie di Roma e del Trasimeno. E gli imperiali ordini arrivavano in Savona il 19 Marzo, giorno sacro a S. Giuseppe; per modo che immediatamente dopo il Pontefice, liberato dalla sua prigionia, poteva mettersi in viaggio per la sua diletta Roma, nella quale poi faceva trionfale ritorno il 24 Maggio di quel medesimo anno.Non fu quello un segno dei più manifesti del patrocinio specialissimo, che S. Giuseppe intende esercitare, ed esercita di fatto, sopra il Capo augustissimo della Chiesa? Preghiamo adunque per lui questo gran Santo, affinché si degni di far sentire un’altra volta per lui tutta la potenza della sua intercessione e protezione: che anche oggi S. Giuseppe voglia fiaccare l’orgoglio insensato dei nemici della Chiesa, che anche oggi spezzi le catene che tengono avvinto il venerando Vegliardo del Vaticano, che anche oggi gli ritorni la piena libertà nell’esercizio del suo sublime ministero, che anche oggi lo esalti, lo glorifichi e lo renda beato qui sulla terra, che assecondi i voti ardentissimi del suo cuore, lo zelo incessante del suo meraviglioso pontificato e riconduca al suo cuore paterno tanti figli dissidenti dalla sua dolcissima autorità, che insomma efficacemente conforti il suo animo affaticato dalle cure dell’apostolico ministero, che più vicino sente sovrastare il tempo di sua dipartita (Encicl.20 Sett. 1896). O Giuseppe, salus nostra in manu tua est, la nostra salute è nelle tue mani: col tuo patrocinio salvaci: salva la Chiesa! salva il Papa (Gregorio XVIII)! salva noi tutti! Amen!

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps LXXXVIII: 25.

Véritas mea et misericórdia mea cum ipso: et in nómine meo exaltábitur cornu ejus. [La mia fedeltà e la mia misericordia sono con lui: e nel mio nome sarà esaltata la sua potenza].

Secreta

Débitum tibi, Dómine, nostræ réddimus servitútis, supplíciter exorántes: ut, suffrágiis beáti Joseph, Sponsi Genetrícis Fílii tui Jesu Christi, Dómini nostri, in nobis tua múnera tueáris, ob cujus venerándam festivitátem laudis tibi hóstias immolámus. [Ti rendiamo, o Signore, il doveroso omaggio della nostra sudditanza, prengandoTi supplichevolmente, di custodire in noi i tuoi doni per intercessione del beato Giuseppe, Sposo della Madre del Figlio Tuo Gesù Cristo, nostro Signore, nella cui veneranda solennità Ti presentiamo appunto queste ostie di lode.]

Præfatio  de S. Joseph

… Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beáti Joseph débitis magnificáre præcóniis, benedícere et prædicáre. Qui et vir justus, a te Deíparæ Vírgini Sponsus est datus: et fidélis servus ac prudens, super Famíliam tuam est constitútus: ut Unigénitum tuum, Sancti Spíritus obumbratióne concéptum, paterna vice custodíret, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Coeli coelorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti júbeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes: [È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno: noi ti glorifichiamo, ti benediciamo e solennemente ti lodiamo di S. Giuseppe. Egli, uomo giusto, da te fu prescelto come Sposo della Vergine Madre di Dio, e servo saggio e fedele fu posto a capo della tua famiglia, per custodire, come padre, il tuo unico Figlio, concepito per opera dello Spirito Santo, Gesù Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode]

Comunione spirituale: https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Matt 1: 20.

Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est. [Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo].

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, quǽsumus, miséricors Deus: et, intercedénte pro nobis beáto Joseph Confessóre, tua circa nos propitiátus dona custódi.
[Assistici, Te ne preghiamo, O Dio misericordioso: e, intercedendo per noi il beato Giuseppe Confessore, propizio custodisci in noi i tuoi doni].

Ultimo Evangelio e Preghiere leonine: https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Ringraziamento:

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/03/19/nella-festa-di-san-giuseppe-2018/

L’APPARIZIONE A LA SALETTE 1846 (I)

Oggi Iniziamo la pubblicazione di un opuscolo che riguarda l’Apparizione della Vergine Maria a La Salette. Vogliamo però innanzitutto tranquillizzare i nostri lettori e smascherare le vergognose contestazioni di parte dei modernisti e pseudo tradizionalisti non-preti lefebvriani (è di questi giorni il raglio di una bestia-asino della fraternità non-sacerdotale di Sion, di uno degli eredi del cavaliere kadosh Lienart e del suo degno “compariello” LEFEBVRE, sul loro bestiario: la tradizione (anti) cattolica), circa il riconoscimento canonico della apparizione stessa. Questi ultimi faziosi [non possiamo infatti ritenerli semplicemente degli ignoranti non informati dei fatti, ma dobbiamo indicarli obbligatoriamente come servi di satana], citano un decreto del Santo Uffizio del 1923 – Pio XI  regnante – che renderebbe falsa l’apparizione stessa, approvata da numerosissimi Vescovi e dalla stessa Autorità massima, nella persona di Pio IX. Il decreto della Congregazione del Santo Uffizio, poneva all’indice un opuscolo edito in Francia che riportava un presunto segreto di Melania, senza imprimatur imposto a garanzia. Riportiamo il testo del decreto, che ognuno può leggere consultando gli Atti della Sede Apostolica, vol. 15 del 1923, p. 287 e seg.:

DAMNATUR OPUSCULUM: « L’APPARITION DE LA TRÈS SAINTE VIERGE DE LA SALETTE ».

DECRETUM

Feria IV, die 9 maii 1923

In generali consessu Supremæ Sacræ Congregationis S. Officii Emi. ac R.mi Domini Cardinales fidei et moribus tutandis præpositi proscripserunt atque damnaverunt opusculum: L’apparition de la très Sainte Vierge sur la sainte montagne de la Salette le samedi 19 septembre 1845. – Simple réimpression du texte intégral publié par Melanie, etc. Société Saint-Augustin, Paris-Rome-Bruges, 1922; mandantes ad quo spectat ut exemplaria damnati opusculi e manibus fidelium retrahere curent.

Et eadem feria ac die Sanctissimus D. ST. D. Pius divina providentia

Papa XI, in solita audientia R. P. D. Assessori S. Officii impertita, relatam sibi Emorum Patrum resolutionem approbavit.

Datum Romæ, ex ædibus S. Officii, die 10 maii 1923.

Aloisius Castellano,

Supremæ S. C. S. Officii Notarius.

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Da questa banale costatazione, si evince che ad essere condannato è semplicemente questo opuscolo francese del 1922, che riportava evidentemente notizie e commenti non autorizzati da un’Autorità competente, e non  – come amano ripetere gli adoratori modernisti del demonio – la veridicità dell’apparizione con relativo segreto direttamente consegnato peraltro nelle mani di S. S. PIO IX . Tanto, per smontare le assurde faziosità ed imbecillità riportate da satanisti che spargono la zizzania della condanna da parte della Chiesa dell’apparizione della Vergine a La Salette, apparizione che evidentemente vogliono contrastare perché da essa vergognosamente smascherati. Noi consigliamo loro di pentirsi sinceramente, lasciare i falsi culti da essi praticati [modernismo della chiesa dell’uomo, sedevacantismi vari, fraternità paramassoniche non autorizzate prive di giurisdizioni e missione, tesisti, etc. etc. ] e tornare alla vera Religione Cattolica, che solo può loro assicurare la salvezza. Chiediamo allo Spirito Santo il dono della Pietà per potere impetrare il perdono per essi per le falsità che seminano.  

Il libricino che ci accingiamo a pubblicare, dall’originale inglese del 1853, è fornito di tutte le autorizzazioni richieste con la testimonianza del Vescovo di Grenoble e la personale costatazione, all’epoca dei fatti, di Mgr. Dupanloup, notissimo prelato francese, poi Vescovo di Orleans.

LA SALETTE (I)

[Some account of the

APPARITION OF THE BLESSED VIRGIN Of LA SALETTE

London 1853]

Le pagine seguenti sono intese come una nuova edizione di un piccolo libro che è stato pubblicato qualche tempo fa, contenente un breve resoconto dell’Apparizione della Beata Vergine riportata da due pastorelli a La Salette in Francia. La precedente edizione è andata esaurite; e, in conseguenza della crescente importanza attribuita all’evento miracoloso in questione, è sembrato bene preparare per la stampa un’altra narrazione più completa. La sostanza della presente pubblicazione è stata tratta dai “Rapporti” sull’argomento di M. Rousselot, Canonico di Grenoble e Vicario generale onorario della diocesi, che fu redatto e presentato al Vescovo di Grenoble, a seguito delle indagini della Commissione ecclesiastica che era stata nominata per esaminare la questione dell’Apparizione. Coloro che sono interessati a notizie più esaurienti di quelle che si troveranno qui, sono pregati di consultare le due opere di M. Rousselot, in cui viene prodotto ogni tipo di documento che l’incredulità possa richiedere per cui tutte le ragionevoli obiezioni vengono respinte; mentre è esposta con chiarezza e semplicità l’unanime adesione che è stata data alla veridicità della storia da tutta la popolazione religiosa della Francia. Nel corso dello scorso anno, i bambini hanno confidato i loro segreti al Papa e il Santo Padre non ha esitato ad esprimere la sua convinzione privata sulla veridicità del loro racconto; e così è stata generale la devozione dei Fedeli a Nostra Signora di La Salette, al punto tale che il Vescovo della diocesi, dopo aver meditato a lungo sul suo dovere di scoraggiarlo, ha concesso poi la sua autorevole autorizzazione; e il 25 maggio di quest’anno, nonostante la sua veneranda età, si fece condurre sulle altezze alpine dove l’evento si era verificato, posando la prima pietra di una chiesa e di un grande edificio destinato all’accoglienza di una comunità di sacerdoti, colà stabiliti per servire l’altare e per fornire assistenza spirituale ai pellegrini che arrivando ogni giorno la richiedano. Di seguito verranno fornite alcune spiegazioni di queste circostanze, come anche una parte delle prove che sono state prodotte a sostegno della verità dell’Apparizione. – Prima di dare un resoconto dell’Apparizione stessa, sarà bene descrivere in poche parole la località in cui si dice sia avvenuta, e dire anche qualcosa sul carattere generale e le abitudini dei due bambini sulla cui autorità si basa il tutto.

Il villaggio di La Salette è situato tra le montagne, a circa quattro miglia dalla cittadina di Corps, che si trova in basso sulla strada alta tra Grenoble e Gap. La scena dell’Apparizione è ancora più in alto, e a circa quattro miglia dalla chiesa di La Salette. Situata in mezzo ad una cerchia di montagne, questa contrada non è praticabile dalle carrozze; la salita deve essere fatta a piedi o a cavallo attraverso un sentiero, che è facile fino a quando si estende il terreno coltivato, ma dopo questo punto diventa sempre più ripido e difficile, anche se non pericoloso, fino ad arrivare sull’ampio pianoro della montagna chiamata Sous les Baisses. Questo spazio pianeggiante, formato da tre montagne che si innalzano dalla stessa base, e che non si separano subito in eminenze separate, ma si elevano insieme, per così dire, per un lungo tratto in salita, si estende da nord a sud, ed è ricoperto di vegetazione; come lo sono anche le tre montagne stesse, che, dopo la loro separazione e fino alle loro cime, non offrono alla vista altro che un’estensione di rada erba verde. Non si vede un sasso, né il più piccolo albero o cespuglio, tutto intorno. In questa ampia pianura tra le colline c’è un piccolo dirupo, formato da due strisce di terreno in salita che passano da nord e da sud, in fondo al quale scorre il piccolo ruscello chiamato Sézia. È nella cavità di questo burrone, sulla riva destra del ruscello, e nel punto in cui ora sgorga la celebre fontana, che la “bella Signora” è stata vista, secondo il racconto. È a circa due o tre gradoni più in basso, sullo stesso lato, che Ella parlava ai bambini; ma è dopo aver attraversato il ruscello, e aver fatto venticinque o trenta gradini in salita all’opposto, che è scomparsa, a poco a poco, dagli occhi dei bambini che l’avevano seguita, e che erano a meno di tre passi da Lei quando si è levata in aria. Nel corso del tempo, quando l’evento aveva cominciato ad attrarre l’attenzione, attirando ogni giorno folle di visitatori sul luogo, sono state erette quattordici croci lungo il percorso che “la Signora” ha attraversato, come indicato dai bambini. Davanti a queste croci è sorta tra i visitatori l’usanza di fare “la via crucis”; e su alcune di esse sono stati di volta in volta sospesi diversi oggetti, come fiori, ghirlande, stampelle, catene d’oro, gioielli, anelli, orecchini, etc., “ex voto” doni di devozione o di gratitudine per i favori ricevuti. I due lati del piccolo burrone erano, prima dell’evento, ricoperti di erba verde come il resto del terreno circostante. Tutta quest’erba, però, è stata da tempo consumata, perché non solo il luogo è stato calpestato dai piedi di innumerevoli pellegrini, ma viene continuamente raschiato e l’erba strappata da coloro che sono ansiosi di portare via come reliquie i fili dell’erba stessa, una zolla di terreno, o qualche pezzo di pietra. Le croci stesse non sono state risparmiate, e vengono quotidianamente tagliuzzate e sgretolate da coloro che vogliono portarne via alcuni pezzi. La fontana, che prima era intermittente e, qualche tempo prima dell’Apparizione abbastanza asciutta, da quel giorno non ha più smesso di presentare continuamente il suo flusso. I pellegrini ritengono che la sua acqua gelida, anche se bevuta in grande quantità e da coloro che sudano più abbondantemente, non produca mai effetti negativi; ed è stata cercata con avidità, portata via e distribuita in quasi tutti i paesi d’Europa. Quanto al mucchio di pietre su cui i bambini hanno visto per la prima volta “la Signora” seduta, esso è letteralmente sparito. La gente della zona ed i pellegrini ne hanno portati via i sassi come monumenti commemorativi: quella pietra, però, sulla quale, secondo la testimonianza, “Ella” si è posata direttamente, è entrata in possesso del curato di La Salette, che la conserva con rispetto. Dagli stessi bambini, è stato pubblicato nell’anno 1848 il seguente resoconto, nel “Rapporto” di M. Rousselot. –

Peter Maximin Giraud è nato a Corps, il 27 agosto 1835, da genitori poveri, che si guadagnano da vivere col sudore della fronte. Suo padre è un carrettiere. Maximin è di piccola statura, con un viso paffuto e giocondo; la sua espressione è dolce, e guarda senza paura e senza arrossire i volti di chi lo interroga. Non può rimanere un istante senza muovere le braccia e le mani. Gesticola quando parla, e a volte è così animoso che colpisce con la mano qualsiasi oggetto si trovi vicino a lui, soprattutto quando il suo interlocutore non sembra essere d’accordo con ciò che dice. Non si arrabbia mai, anche quando viene considerato un bugiardo, come nei lunghi esami che ha dovuto subire. A volte però, esausto dalla stanchezza e stanco di vedere che ogni parola che dice è inutile, si mostra impaziente; … almeno alcuni dicono di averlo osservato così. – Ma, in verità, in queste occasioni i poveri bambini erano stati molestati da una moltitudine di minuscole e cavillose obiezioni, che avrebbero messo in imbarazzo e persino provocato le persone più ragionevoli. Inoltre, quando Maximin ha raccontato la sua storia, e ha risposto alle principali difficoltà che gli erano state contestate, naturalmente desiderava andarsene, e tornare ai suoi giochi.  Prima dell’evento non era mai andato a scuola; non sapeva né leggere né scrivere, e non aveva alcuna educazione. Quando veniva portato in chiesa, spesso se ne scappava per andare a giocare con i suoi piccoli compagni; così, privo di ogni insegnamento religioso, non poteva essere ammesso tra i bambini che il curato stava preparando per la prima Comunione. Suo padre dice di aver avuto grandi difficoltà ad insegnargli a dire il “Pater Noster” e l’ “Ave Maria”, e che ci sono voluti tre o quattro anni prima che li imparasse. Fu solo nell’anno 1848, il 7 maggio, più di un anno e mezzo dopo l’evento, che lui e Mélanie furono ammessi a fare la prima Comunione con gli altri bambini della parrocchia di Corps. Anche se Maximin ha i difetti propri della sua età, sembra essere sempre stato sincero e aperto. Peter Selme, il suo padrone di lavoro a La Salette, alla domanda di M. Rousselot e della commissione episcopale, quando gli chiesero cosa avesse notato nel ragazzo durante i pochi giorni in cui era stato al suo servizio, rispose: « Maximin era un bambino innocente, senza malizia e senza alcun pregiudizio. Prima che partisse per condurre le nostre mucche sulla montagna gli facemmo mangiare un po’ di zuppa; poi gli mettemmo nella sua camiciola e nel sacchetto una scorta di cibo per la giornata. Ebbene, lo abbiamo sorpreso quando ancora in viaggio, aveva già mangiato tutte le sue provviste, avendole condivise in gran parte con il cane; e quando gli abbiamo detto: « Ma cosa mangerai durante il giorno? », ha risposto: « Ma io non ho fame! » Il ragazzo sembra essere semplice e sincero. Riconosce con grande ingenuità la miseria della sua condizione precedente e la mancanza delle sue occupazioni. Quando gli è stato chiesto: « Dove vivevi e cosa facevi prima di andare a servizio da Peter Selme? », ha risposto: « Vivevo con i miei genitori, e andavo a raccogliere letame sulla strada principale ». Si spinge ancora più in là; dichiara i suoi difetti e le sue cattive inclinazioni; così quando M. Rousselot gli disse: « Maximin, mi è stato detto che prima dell’apparizione a La Salette eri un po’ un fanfarone », il ragazzo, con un sorriso e con aria di candore, rispose: « Quello che ti hanno detto è vero; ho detto delle bugie, ed imprecavo mentre lanciavo sassi alle mie mucche quando si allontanavano dal sentiero ». Dall’evento del 19 settembre, Maximin va a scuola nel convento delle Suore della Provvidenza. Passa la giornata qui e vi prende i suoi pasti. La Superiora delle Suore, persona di forte senso, si è fatta carico, con il consenso del Vescovo, della sua educazione. Alla domanda della Commissione su ciò che aveva osservato negli ultimi dieci mesi nel bambino, ha risposto: « Maximin sembra avere solo capacità ordinarie. Gli insegniamo a leggere e scrivere e ad imparare il Catechismo. È tollerante ed obbediente, ma instabile, ama il gioco, è sempre in movimento. Non ci parla mai della vicenda di La Salette; e noi abbiamo evitato di menzionarla per paura di dargli un’idea della sua importanza. Mai, dopo i frequenti e lunghi interrogatori a cui ha dovuto sottoporsi, non ha mai detto a nessuno, né a noi né ai suoi compagni di scuola, come fossero gli esaminatori e quali domande gli  avessero poste. Dopo le sue numerose passeggiate a La Salette con i visitatori, torna a casa in modo semplice e naturale, come se non avesse alcun interesse per la vicenda. Non ha voluto ricevere il denaro che alcuni pellegrini gli hanno offerto; ma quando, in alcune occasioni, è stato costretto ad accettarlo, me l’ha dato fedelmente e non ha chiesto se fosse stato speso per sé o per i suoi genitori. Quanto agli oggetti di pietà, come libri, croci, rosari, medaglie, quadri, che gli vengono regalati, non ne tiene conto: a volte li regala ai primi dei suoi piccoli compagni che incontra; spesso li perde o li smarrisce per la sua naturale incostanza caratteriale. Non è pio per natura; tuttavia va volentieri a Messa, e fa le sue preghiere con buon sentimento quando gli venga ricordato questo dovere. In una parola, il bambino non sembra per nulla impressionato dall’essere stato per dieci mesi oggetto della curiosità e dell’attenzione di una moltitudine così grande di persone; non lo colpisce il fatto che sia la causa primaria del prodigioso movimento di gente estranea a La Salette ». Qualche tempo dopo la Superiora ha detto, davanti alla Commissione nel palazzo vescovile di Grenoble: « Maximin, anche se nell’ultimo anno è stata impiegato quasi tutti i giorni per servir Messa, non ha ancora imparato a farlo bene; né Mélanie può dire perfettamente a memoria gli atti di fede, di speranza e di carità, anche se glieli ho fatti ripetere ad entrambi due volte al giorno ». –

Anche la ragazzina, Francoise Mélanie Matthieu, è nata a Corps, il 7 novembre 1831, da genitori molto poveri. Da giovanissima è stata messa a servizio per guadagnarsi da vivere occupandosi delle mucche. Raramente andava in chiesa, perché i suoi padroni la tenevano occupata nei giorni di domenica e nei giorni di festa come negli altri giorni della settimana. Non aveva quasi nessuna conoscenza della Religione, e la sua debole memoria non riusciva a farle ricordare due righe di Catechismo, tanto che non era stata ammessa alla prima Comunione. Al momento dell’apparizione aveva quasi quindici anni, ma non era ben nutrita, non era forte e non si era sviluppata in proporzione alla sua età. La sua espressione è dolce e gradevole. C’è una grande aria di modestia nel suo portamento e nell’aspetto. Anche se piuttosto timida, non è angosciata o imbarazzata in presenza di estranei. Nove mesi prima del 19 settembre, era al servizio di Baptiste Pra, proprietario di un piccolo terreno in una delle frazioni in cui è divisa La Salette. Questa persona, interrogata sul carattere di Mélanie, la descriveva come di una timidezza eccessiva, e così incurante, che quando dalla montagna tornava a casa di sera, bagnata dalla pioggia, non chiedeva nemmeno di cambiarsi i vestiti. A volte, per la disattenzione del suo carattere, dormiva nella stalla, altre volte, se non fosse stata vista, avrebbe passato la notte all’aria aperta. » Baptiste Pra ha anche deposto che prima del giorno dell’apparizione riportata, Mélanie fosse oziosa, disobbediente e imbronciata, per cui non sempre rispondeva a chi le parlava; ma che da quell’evento era poi diventata attiva e obbediente, e più attenta alle sue preghiere. Erano questi i due bambini che si ritiene che la Santa Vergine abbia scelto per essere portatori di un messaggio di avvertimento al “suo popolo”, ed essere depositari di alcuni misteriosi segreti. Mélanie era già residente, come abbiamo detto, da nove mesi nella parrocchia di La Salette, in qualità di custode delle mucche di Baptiste Pra. Maximin era lì solo da quattro giorni e mezzo prima del sabato 19 settembre. Era venuto per una settimana solo per sostituire il ragazzo che faceva l’allevatore di Peter Selme, e che in quel momento era malato. Peter Selme era stato a Corps per implorarne il padre perché facesse quel servizio, e il giorno di lunedì era andato lui stesso a prenderlo. Anche se nati nella stessa città di Corps, non sembra che i bambini si conoscessero tra loro; o perché i loro genitori vivevano a due estremità opposte di essa, o perché Mélanie, prima di andare al servizio di Baptiste Pra, aveva vissuto due anni come serva a Quet, e altri due a Saint-Luc. Durante i quattro giorni e mezzo che Maximin aveva trascorso a La Salette, sembra che non si sia incontrato con Mélanie fino al venerdì, il giorno precedente l’apparizione. Il suo datore di lavoro ne dà conto in questi giorni, in una dichiarazione redatta, su sua dettatura, da M. Dumanoir, dottore in giurisprudenza, e giudice del Tribunale di Montelimart, che ha fatto molti viaggi a La Salette, vi ha passato un po’ di tempo, e ha preso sul posto informazioni più precise su tutte le questioni relative all’argomento. Peter Selme dice: « Sono andato a prendere Maximin lunedì, e l’ho portato a casa con me; lui è venuto e nei giorni successivi si è preso cura delle mie quattro mucche nel campo che ho sul declivio meridionale del monte Aux Baisses. Questo declivio è suddiviso in proprietà private; il comune di La Salette ha il diritto di pascolo sull’ampio pianoro che si trova nel declivio nord, e sul quale si sono svolti gli eventi di cui parlano Mélanie e Maximin. Temendo che il ragazzino non fosse attento alle mucche, che potevano facilmente cadere in alcuni dei numerosi burroni della montagna, mi sono recato al lavoro in questo campo il lunedì, il martedì, mercoledì e venerdì della stessa settimana. Dichiaro che in questi giorni non l’ho perso d’occhio neanche per un istante, mi è stato facile vederlo in qualsiasi parte del campo si trovasse, perché non c’è un’elevazione che possa nasconderlo. Aggiungo solo che il lunedì l’ho portato al largo di cui ho parlato, per indicargli una piccola sorgente in un piccolo burrone a cui doveva portare le mucche a bere. Le portava lì ogni giorno a mezzogiorno, e tornava subito a mettersi sotto il mio sguardo. Il venerdì l’ho visto giocare con Mélanie, che guardava le mucche di Baptiste Pra, il cui campo è accanto al mio. Non li ho mai viste insieme al villaggio. Sabato 19 settembre sono andato come al solito nel mio campo con il piccolo Maximin. Verso le undici e mezza gli ho detto di portare le mucche alla fontana. Il bambino ha detto: « Vado a chiamare Melanie e ci andiamo insieme ». Quel giorno non è tornato come al solito dopo aver portato le mie mucche a bere: non l’ho visto fino a sera, quando è tornato a casa. – Gli ho detto allora, « Perché – Maximin – come mai non sei tornato nel mio campo questo pomeriggio ». « Oh – mi ha detto lui – ma non sai cosa è successo! ». « Che cosa è successo? » – dissi io – e lui rispose: « Abbiamo trovato vicino al ruscello una bella Signora, che ci ha intrattenuto a lungo, ed ha parlato con Melanie e me. All’inizio avevo paura e non osavo andare a prendere il mio pane, che era vicino a Lei; ma Lei mi ha detto: « Non abbiate paura, figli miei, avvicinatevi; sono qui per darvi una grande notizia », … e poi mi fu ripetuta la storia esattamente come la racconta attualmente ». La dichiarazione continua dicendo: « Durante i quattro giorni e mezzo in cui il ragazzino ha tenuto le mie mucche, non l’ho mai perso di vista, e non ho visto nessuno, prete o laico, avvicinarsi a lui. Mélanie è andata più volte a tenere le sue mucche nel campo del suo padrone mentre Maximin era con me. L’ho vista in piedi da sola; e se qualcuno fosse venuto a parlarle, io l’avrei visto, perché il mio campo e quello di Baptiste Pra sono uno accanto all’altro, sullo stesso versante della montagna, e presentano una superficie piana, in modo che chiunque sia in piedi possa vederli entrambi ». – La conoscenza, quindi, tra i due bambini, non essendo niente di più di quanto abbiamo descritto, è stato semplicemente dovuta al caso della loro similitudine di occupazione che, la mattina del 19 settembre 1846, li ha portati insieme sulla montagna, sul cui ampio crinale si trovava il pascolo del loro bestiame. Avevano sotto la loro responsabilità quattro mucche a testa, oltre ad una capra appartenente al padre di Massimino: la giornata era perfetta, il cielo era limpido e il sole autunnale, chiaro e limpido. Verso mezzogiorno, che i pastori conoscevano grazie al tintinnio dell’Angelus, presero la loro piccola scorta di cibarie e andarono a bere alla fontana che sgorga nella cavità del burrone. Terminato il pasto, scesero al ruscello che scorre lungo il fondo e, dopo averlo attraversato, depositarono i loro sacchetti di provviste vicino alla bocca di un’altra sorgente intermittente, che all’epoca era asciutta; e dopo aver fatto qualche passo, si sdraiarono, contrariamente alla loro usanza, a pochi passi l’uno dall’altro, e si addormentarono. – La storia continua con le parole di Mélanie. « Mi svegliai la prima volta e non riuscii a vedere le mucche. Svegliai Maximin, e gli dissi: “Vieni presto, Maximin, andiamo dietro alle nostre mucche”. Abbiamo attraversato il ruscello, percorso la piccola salita davanti a noi, e abbiamo visto le nostre mucche sdraiate sull’erba dall’altra parte: non erano lontane. Ci siamo girati e siamo scesi a prendere i sacchetti che avevamo lasciato vicino al ruscello. Io vi giunsi per prima; e quando ero a circa cinque o sei passi dal ruscello, ho visto una luce splendente, come il sole, e ancora più luminosa, ma non dello stesso colore; e dissi a Maximin: « Vieni presto, guarda quella luminosità laggiù »; e Maximin scese, dicendomi: « Dov’è? » Indicai con il mio dito la piccola fontana; e quando la vide, egli si fermò. Poi vedemmo una Signora nella luminosità: era seduta e aveva la testa tra le mani. Avevamo paura. Lasciai cadere il mio bastone. Allora Maximin mi disse: « Tieni il tuo bastone; se ci fa qualcosa, gli darò un bel colpo ». Allora questa Signora si alzò volgendosi a destra, incrociò le braccia e ci disse: « Venite, figli miei, non abbiate paura; sono qui per annunciarvi una grande notizia ». Poi abbiamo superato il ruscello, e Lei si è fatta avanti nel punto in cui avevamo dormito. Era in mezzo a noi. Piangeva per tutto il tempo in cui ha parlato: Ho visto chiaramente le lacrime scorrere sul suo viso. Diceva: « Se il mio popolo non si sottomette, sarò costretta a lasciare cadere la mano di mio Figlio. Essa è così forte e così pesante che non riesco più a trattenerla ». Quanto tempo sono stata in pena  per voi? Se desidero che mio Figlio non vi abbandoni, devo pregarlo incessantemente. E voi, voi non rendete conto di questo. « Potete pregare e fare tutto quello che volete, mai potrete ricompensarmi per quello che ho fatto per voi. Vi ho dato sei giorni per il lavoro; il settimo l’ho riservato a me stesso; e voi non lo osservate affatto. » [Fin dalla prima volta che è stata fatta ai bambini l’osservazione che questo cambiamento nella prima persona non era in accordo grammaticale con il resto delle parole della Signora, essi si accontentarono di rispondere che lo dicevano come lo avevano sentito. In verità, questo cambiamento nella prima persona è tanto più impressionante, e ricorda l’ « Io, il Signore » nella bocca di Mosè.] Questo è ciò che tanto pesa sulla mano di mio Figlio. Gli uomini bestemmiano mentre guidano i loro carri, e mettono il Nome di mio Figlio nei loro giuramenti. Queste sono le due cose che appesantiscono il braccio di mio Figlio. Se il raccolto fallisce, è a causa dei vostri peccati: ve l’ho fatto vedere l’anno scorso per le patate; non ci avete badato; al contrario, quando avete trovato le patate rovinate, avete bestemmiato e avete messo il Nome di mio Figlio nei vostri giuramenti: la malattia continuerà, e quest’anno a Natale non ci saranno più “patate”. Io non capivo cosa significasse “pommes de terre”; “Stavo per chiedere a Maximin cosa significasse appunto “pommes de terre”, e la Signora ha detto: “Ah, figli miei, non capite; parlerò in modo diverso”; e poi ha continuato nel “patois”, [dialetto locale]: « Se le patate sono viziate, è colpa vostra: ve l’ho fatto vedere l’anno scorso, e non avete voluto occuparvene; al contrario, quando avete trovato le “patate” … [A Corps, e in molte parti del Dauphiny, le patate sono chiamate “truffes”] viziate, avete bestemmiato, e avete messo il Nome di mio Figlio nei vostri giuramenti. La malattia durerà, cosicché quest’anno a Natale non ci saranno patate. Se avrete del mais, non è detto che lo vediate: tutto ciò che seminerete sarà divorato dagli animali, o, se crescerà, cadrà in polvere quando lo trebbierete. Ci sarà una grande carestia. Prima della carestia, i bambini sotto i sette anni avranno convulsioni e moriranno tra le braccia di chi li tiene; gli altri faranno penitenza con la fame. Le noci diventeranno cattive, l’uva marcirà. Se gli uomini si convertiranno, le pietre e i sassi saranno trasformati in cumuli di grano e le patate saranno seminate su tutto il terreno. Siete regolari nel dire le vostre preghiere, figli miei? » Rispondemmo, tutti e due: « Non molto, signora ». Dovete essere molto assidui, sia al mattino che alla sera: quando non potete fare di più, dite solo un Pater e un Ave; ma quando avete tempo, dite di più. Nessuno va a Messa se non qualche anziana signora: il resto lavora la domenica per tutta l’estate, e d’inverno, quando non sanno cos’altro fare, i ragazzi ci vanno, ma solo per prendere in giro la Religione. Durante la Quaresima vanno come i cani ai negozi dei macellai. Non hai visto il mais viziato, figlia mia? Maximin rispose: « Oh no, signora ». Non sapevo a chi di noi due avesse fatto questa domanda, e ho risposto molto gentilmente: « No, signora; non ne ho visto mai ». « Tu devi averne visto un po’, tu figlio mio – (e si è rivolta a Maximin), una volta al campo chiamato “l’angolo”, con tuo padre. Il proprietario del terreno ha detto a tuo padre di andare a vedere il suo mais guasto. Tu sei andato a vederlo. Hai preso in mano due o tre spighe, le hai strofinate e tutte sono cadute in polvere; poi sei tornato a casa. Quando eri a circa mezz’ora di distanza da Corps, tuo padre ti diede un pezzo di pane e ti disse: “Prendi questo, figlio mio, quest’anno hai ancora del pane da mangiare”. Non so chi ne avrà da mangiare l’anno prossimo, se il grano continua così”, rispose Maximin: « Oh sì, signora, ora mi ricordo, ma prima non me lo ricordavo ». Dopo di che la Signora ci disse in francese: « Bene, figli miei, lo farete sapere a tutto il mio popolo ». Attraversò il ruscello e ci disse una seconda volta: « Bene, figli miei, lo farete sapere a tutto il mio popolo! ». Poi è salita nel punto in cui eravamo andati a cercare le nostre mucche. I suoi piedi non toccavano terra: scivolò lungo le punte dei fili d’erba. L’abbiamo seguita. Io andavo davanti alla signora, e Maximin un po’ di lato, a due o tre passi distante da Lei. E poi questa bella Signora si alzò un po’ in aria (Mélanie qui indicava con la mano l’altezza da terra che voleva esprimere, – circa due o tre piedi) – Quando Maximin raccontò a casa, a Corps, quello che gli era successo sulla collina, la sua famiglia non gli credette; ma quando menzionò l’incidente raccontato sopra, suo padre scoppiò in lacrime, e si convinse che qualche essere soprannaturale aveva parlato a suo figlio. – Poi Ella guardò in alto verso il cielo, poi in basso verso la terra; poi non si vedeva più la sua testa, poi non si vedevano più le sue braccia e poi non si vedevano più i suoi piedi. Non vedevamo altro che una luminosità nell’aria; e presto anche la luminosità sparì. E io dissi a Maximin: « Forse è una grande Santa »; e Maximin mi disse: « Se avessimo saputo che era una grande Santa, le avremmo detto di portarci con lei »; e io gli dissi: « Oh, vorrei che fosse ancora qui! » Poi Maximin ha tirato fuori la mano per catturare un po’ di luminosità; ma non ne è rimasto nulla. E abbiamo guardato a lungo per vedere se potevamo vederla ancora; ed io ho detto: « Non si lascerà vedere, … così non vedremo dove va ». Dopo di che siamo andati ad occuparci delle nostre mucche. – D. C’è un segreto? R. Sì, signore. Ma ci ha detto di non dirlo. D. Di cosa ha parlato? R. Se vi dico di cosa si tratta, scoprirete di cosa si tratta. D. Quando vi ha detto questo segreto? R. Dopo aver parlato delle noci e dell’uva; ma prima che me lo dicesse, mi sembrava che avesse parlato con Maximin; e non ho sentito nulla di quello che gli ha detto. D. Ti ha detto il tuo segreto in francese? R. No, signore; in patois. D. Com’era vestita? R. Aveva delle scarpe bianche, con vicino delle rose ».  [Maximin nel suo racconto aggiunge, « … e per prendere i fiori che erano vicino ai suoi piedi » ]. Le rose erano di tutti i colori. I suoi calzini erano gialli; il suo grembiule giallo; e il suo vestito bianco, con perle dappertutto. Aveva un fazzoletto bianco con rose intorno; un cappello alto, un po’ piegato davanti; una corona intorno al cappello con delle rose. Aveva una catena molto piccola, alla quale era attaccato un crocifisso; a destra c’erano delle pinzette, a sinistra un martello; alle estremità della croce c’era un’altra grande catena, che cadeva come le rose intorno al suo fazzoletto. Il suo viso era bianco e lungo. Non potei guardarla per molto tempo, perché ci abbagliò ». Il resoconto che abbiamo dato sopra è più esatto di quello che è apparso finora, esso dà, parola per parola, ciò che i bambini hanno detto il primo giorno dopo l’evento, e ciò che hanno poi ripetuto tanto spesso. Lo dicono ora come una lezione a loro familiare; ma i padroni di lavoro dei due bambini, i loro genitori, il sindaco di La Salette, gli abitanti di Corps e di La Salette, così come un gran numero di ecclesiastici e di persone illustri, estranei al paese, che hanno visitato il luogo subito dopo l’evento, dopo che i bambini hanno dato fin dall’inizio esattamente la stessa versione dei fatti, se non con la stessa volubilità e facilità, almeno senza la minima variazione nella sostanza, o anche nelle espressioni, sia che siano stati interrogati separatamente o insieme. Nell’opuscolo di M. Rousselot la narrazione di Maximin è data anche così come è stata tratta da lui stesso al suo esame davanti alla Commissione episcopale. Ci sono alcune differenze verbali tra essa e quella di Mélanie; ma tutto il racconto è talmente simile nella sostanza, e anche nella fraseologia, che non è sembrato necessario aggiungerlo all’altro. Rispetto ai segreti che sono stati loro conferiti, essi hanno mantenuto dal primo giorno ad oggi un silenzio impenetrabile, tranne che nel caso del Papa, al quale hanno spontaneamente svelato il loro mistero. Quando “la Signora” ha dato il segreto all’uno, l’altro non ha sentito e ha visto solo le sue labbra muoversi. Il segreto fu dato prima a Maximin, poi a Mélanie; ma l’una non sapeva che l’altro avesse ricevuto un segreto. Solo dopo la fine della visione, Maximin aveva detto a Mélanie: « Si è fermata a lungo senza parlare; ho visto solo le sue labbra muoversi; cosa diceva? Mélanie risponde: « Mi ha detto una cosa, ma non posso dirtela, perché mi ha detto di non farlo ». Maximin rispose subito: « Oh, sono così contenta, Mélanie; anche a me ha detto qualcosa, ma non devo dirla neanche a te ». Fu così che compresero che ognuno di loro era in possesso di un segreto. Questo è forse il luogo per affermare ciò che si sa sulla trasmissione dei loro segreti al Papa. ~ Nell’ultimo anno 1851 i bambini, alla presenza di alcune persone nominate dal Vescovo di Grenoble, scrissero ciascuno su un foglio di carta, che fu piegato e sigillato dallo scrivente, i segreti loro affidati. Il Vescovo diede poi ordine a M. Rousselot e ad un altro sacerdote di portare questi pacchetti sigillati a Roma, e di consegnarli nelle mani del Santo Padre. Questo fu fatto. Sua Santità ruppe per primo il sigillo dell’uno e lo lesse senza fare commenti. Dopo averlo letto, disse: « Non è solo la Francia che ha peccato, ma anche la Germania, l’Italia, tutta l’Europa”. Quando M. Rousselot andò a congedarsi dal Cardinale Lambruschini, il Cardinale disse: « Conosco il segreto; il Santo Padre me lo ha confessato ». Per continuare la narrazione: i bambini rimasero sulla collina fino al momento di condurre le loro mucche a casa, cosa che fecero come al solito; e, dopo averle sistemate nelle loro stalle, cominciarono, secondo le istruzioni che avevano ricevuto dalla “Signora”, per annunciare nel villaggio gli eventi del giorno. « Sabato – dice Baptiste Pra, nella sua dichiarazione – sono venuti entrambi insieme per dirmi cosa avevano visto e sentito sulla collina. Durante questo e i primi giorni non ho dato credito alla storia, e spesso ho esortato Mélanie ad accettare il denaro che le era stato offerto a condizione che mantenesse il silenzio sull’argomento. Lei insisteva nel rifiutarsi di farlo, ed era altrettanto insensibile alle minacce e alle promesse di ricompensa. – Il sindaco di La Salette, tra gli altri, impiegò invano ogni sorta di mezzo per far contraddire la bambina. Non ci riuscì. Le offrì allora del denaro; lei lo rifiutò, e in risposta alle sue minacce disse che avrebbe sempre ripetuto ovunque ciò che la Vergine le aveva detto. Il sindaco l’ha interrogata per un’ora intera durante la domenica 20 settembre. La domenica i bambini sono stati portati al curato, al quale hanno raccontato la loro storia. Era un brav’uomo anziano, di grande semplicità, che sembra aver loro creduto subito, e aver pianto con tenerezza alla loro recita. Si spinse fino a menzionarlo dal pulpito lo stesso giorno, anche se dalla commozione dei suoi sentimenti fu con grande difficoltà che riuscì a parlare dell’argomento. Dieci giorni dopo fu trasferito dal Vescovo ad un’altra parrocchia, e al suo posto fu nominato un sacerdote più giovane. Durante la Domenica tutta la parrocchia era in movimento sul posto. Naturalmente non avevano modo di giudicare se la storia dei bambini fosse vera o falsa; ma una cosa colpì subito tutti coloro che conoscevano la località, cioè che la fontana, che il giorno prima e per qualche tempo era stata asciutta, ora mandava un getto pieno di acqua purissima, non avendo nulla del sapore salmastro del ruscello che ivi scorreva. Questa sorgente continua da allora a zampillare; ed è grazie all’uso dell’acqua che ne scorre, che tanti miracoli meravigliosi sono stati fatti per il miracolo dell’Apparizione. Fu nel corso di questo stesso giorno che il sindaco di La Salette, il cui compito era quello di reprimere un tale scandalo se la storia fosse stata un inganno, sottopose Mélanie ad un’ora di interrogatorio. Le offrì una grossa somma di denaro, la minacciò con il giudizio di Dio, e in definitiva con la prigione, a meno che non dicesse chi fosse stato a spingerla a questo, e non tenesse la lingua a freno. Qualche giorno dopo l’invio a Corps di Maximin, li fece passare entrambi attraverso lo stesso controinterrogatorio, utilizzando gli stessi mezzi, duri o persuasivi, per indurli a scoprire la frode. Egli stesso ha redatto una dichiarazione in tal senso, e dice che i bambini gli rispondevano sempre: « Non possiamo fare a meno di raccontare ciò che abbiamo visto e ciò che abbiamo sentito; ci è stato ordinato di raccontarlo ». Si aggiunga che il resoconto che hanno dato allora era lo stesso in ogni particolare di quello che danno attualmente ». Maximin era stato portato a casa da suo padre a Corps dal suo datore, Peter Selme, durante questa domenica mattina, poiché la settimana per la quale era stato ingaggiato era scaduta. Mélanie è rimasta al servizio del suo datore di lavoro fino a quasi Natale. Nel frattempo la fama di questo evento si stava estendendo in tutte le direzioni e veniva rafforzata dalla notizia che vari miracoli erano stati fatti sul posto, e anche a distanza, grazie all’uso dell’acqua della sorgente; si stava portando sulla scena dell’Apparizione un numero di visitatori, che ogni giorno aumentava. Infine, l’autorità civile, per conto del figlio del magistrato del distretto, ritenne necessario prendere conoscenza della vicenda; e il 22 maggio 1847, otto mesi dopo l’evento, i bambini furono convocati separatamente, e poi insieme, perché essendo ora davanti a un tribunale di giustizia, dicessero l’esatta verità. Furono poi interrogati a parte, uno dopo l’altro, e poi insieme, e minacciati seriamente di punizione in caso di contraddizioni nelle loro dichiarazioni. Il loro resoconto non variava in alcun modo da quello che avevano redatto la prima sera, e che hanno poi dato ad ogni interrogante. Un rapporto di questo esame è stato redatto sul posto, trasmesso all’avvocato del re a Grenoble, e presentato formalmente all’ufficio della corte d’appello di quella città. Il magistrato di Corps, nella sua lettera all’avvocato del re, dice: « Questo resoconto non differisce in alcun modo da quello che hanno dato ai loro padroni la sera del 19 settembre, dopo il loro ritorno dalla collina. Se c’è una differenza, è nelle parole; ma la sostanza è la stessa ».

[1 – Continua]

https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/24/lapparizione-a-la-salette-1846-ii/

SALMI BIBLICI: “IN EXITU ISRAEL DE ÆGYPTO” (CXIII)

SALMO 113: “IN EXITU ISRAEL DE ÆGYPTO”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 113

Alleluja.

[1] In exitu Israel de Ægypto,

domus Jacob de populo barbaro,

[2] facta est Judœa sanctificatio ejus, Israel potestas ejus.

[3] Mare vidit, et fugit; Jordanis conversus est retrorsum.

[4] Montes exsultaverunt ut arietes, et colles sicut agni ovium.

[5] Quid est tibi, mare, quod fugisti? et tu, Jordanis, quia conversus es retrorsum?

[6] montes, exsultastis sicut arietes? et colles sicut agni ovium?

[7] A facie Domini mota est terra, a facie Dei Jacob;

[8] qui convertit petram in stagna aquarum, et rupem in fontes aquarum.

[9]  Non nobis, Domine, non nobis; sed nomini tuo da gloriam,

[10] super misericordia tua et veritate tua; nequando dicant gentes: Ubi est Deus eorum?

[11] Deus autem noster in cœlo; omnia quaecumque voluit fecit.

[12] Simulacra gentium argentum et aurum, opera manuum hominum.

[13] Os habent, et non loquentur; oculos habent, et non videbunt.

[14] Aures habent, et non audient; nares habent, et non odorabunt.

[15] Manus habent, et non palpabunt; pedes habent, et non ambulabunt; non clamabunt in gutture suo.

[16] Similes illis fiant qui faciunt ea, et omnes qui confidunt in eis.

[17] Domus Israel speravit in Domino; adjutor eorum et protector eorum est.

[18] Domus Aaron speravit in Domino; adjutor eorum et protector eorum est.

[19] Qui timent Dominum speraverunt in Domino; adjutor eorum et protector eorum est.

[20] Dominus memor fuit nostri, et benedixit nobis. Benedixit domui Israel; benedixit domui Aaron.

[21] Benedixit omnibus qui timent Dominum, pusillis cum majoribus.

[22] Adjiciat Dominus super vos, super vos et super filios vestros.

[23] Benedicti vos a Domino, qui fecit caelum et terram.

[24] Cælum cæli Domino; terram autem dedit filiis hominum.

[25] Non mortui laudabunt te, Domine; neque omnes qui descendunt in infernum.

[26] Sed nos qui vivimus, benedicimus Domino, ex hoc nunc et usque in sæculum.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXIII.

Il profeta celebra le opere mirabili di Dio, quando trasse i figli di Israele dall’Egitto in Palestina; e questo col fine di muovere il popolo a rimanersi nel culto del vero Dio, ed a sperar sempre la sua protezione.

Alleluja: Lodate il Signore.

1. Allorché dall’Egitto usci Israele, e la casa di Giacobbe (si partì) da un popolo barbaro; (1)

2. La nazione Giudea venne consacrata a Dio; e dominio di lui venne ad essere Israele.

3. Il mare vide, e fuggi; il Giordano si rivolse indietro.

4. I monti saltellarono come aridi, e i colli come gli agnelli delle pecore.

5. Che hai tu, o mare, che se’ fuggito, e tu, o Giordano, che indietro ti se’ rivolto?

6. E voi, monti, che saltaste come gli arieti, e voi, colli, come gli agnelli delle pecore?

7. All’apparir del Signore si scosse la terra, all’apparir del Dio di Giacobbe,

8. Il quale in istagni di acque cangia la pietra, e la rupe in sorgenti di acque.

9. Non a noi, o Signore, non a noi; ma al nome tuo dà gloria. (2)

[Gli Ebrei cominciano qui un altro Salmo; ma i LXX e S. Gerolamo ne fanno uno solo.]

10. Per la tua misericordia e per la tua verità; affinché non dican giammai le nazioni: Il Dio loro dov’è?

11. Or il nostro Dio è nel cielo: egli ha fatto tutto quello che ha voluto.

12. I simulacri delle nazioni argento e oro, lavoro delle mani degli uomini.

13. Hanno bocca, né mai parleranno; hanno occhi e mai non vedranno.

14. Hanno orecchie, ma non udiranno; hanno narici, e son senza odorato.

15. Hanno mani, e non palperanno; hanno piedi e non si muoveranno, e non darà uno strido la loro gola.

16. Sien simili ad essi quei che li fanno, e chiunque in essi confida.

17. Nel Signore ha sperato la casa d’Israele egli è loro aiuto e lor protettore.

18. Nel Signore ha sperato la casa di Aronne: egli e loro aiuto e lor proiettore.

19. Nel Signore hanno sperato quelli che il temono: egli è loro aiuto e lor protettore.

20. Il Signore si e ricordato di noi, e ci ha benedetti. Ha benedetta la casa d’Israele, ha benedetta la casa di Aronne.

21. Ha benedetti tutti quelli che temono il Signore, i piccoli coi più grandi.

22. Aggiunga benedizione il Signore sopra di voi; sopra di voi e sopra de’ vostri figliuoli.

23. Siate benedetti voi dal Signore, che ha fatto il cielo e la terra.

24. L’altissimo cielo è pel Signore; la terra poi egli l’ha data a’ figliuoli degli uomini.

25. Non i morti daran lode a te, o Signore, né tutti quei che scendono nel sepolcro. (3)

26. Ma noi che viviamo, benediciamo il Signore da questo punto per fino a tutti i secoli.

(1) I Giudei davano il nome di barbaro a tutti coloro che parlavano una lingua a loro sconosciuta.

(2) Se non è questa, dice La Harpe, poesia lirica, e di primo ordine, vuol dire che di essa non ce ne fa mai; e se volessi dare un modello della maniera in cui l’ode debba procedere nei grandi soggetti, non ne sceglierei un altro: non ce n’è di più compiuti. – Qui comincia un atro salmo in ebraico così come è oggi diviso. È ciò che fa Rabbi Kimchi, sulla fede degli antichi e buoni esemplari. San Gerolamo non lo ammette.

(3) “Nell’inferno”, nello scheol, dimorano le anime dopo la morte; queste anime sono la escluse dal culto esteriore e pubblico; è soprattutto ciò che vuol dire il salmista; la cattiva fede vi vede la negazione dell’immortalità dell’anima. La traduzione letterale sarebbe: Omnes descendentes silentii coloro che vanno nello scheol, nel luogo del silenzio (La Hir.). 

Sommario analitico

Il salmista considera l’uscita trionfante degli Ebrei dall’Egitto e, in questo fatto miracoloso, i trionfi altrettanto straordinari operati in favore della Chiesa. (1)

(1) Questo salmo sembrerebbe essere della stessa epoca dei precedenti, e l’oggetto è quasi il medesimo, cioè il ricordare le meraviglie della potenza di Dio in favore del suo popolo, potenza che fa uscire dal contrasto della vanità degli idoli. –  È facile rimarcarlo, leggendo questo salmo, in forma di dialogo, ma non è facile assegnare il numero di interlocutori e la parte di ognuno di loro. Questo salmo sarebbe ben tradotto nella Vulgata, se molti verbi non fossero al passato, invece del futuro e dell’ottativo, cosa che svia notevolmente il senso di molti tratti (Le Hir.). – Il salmista considera uscita trionfante degli Ebrei dall’Egitto: 

I. – Egli proclama la potenza di Dio.

1° Nell’uscita vittoriosa di una sì grande moltitudine dal mezzo di un popolo barbaro. (1)

2° Nella riunione di questo popolo, del quale Dio si fa un popolo che gli è consacrato in modo speciale (2).

3° Nel passaggio miracoloso del mar Rosso e del Giordano (3);

4° Nel fremito delle montagne e delle colline (4-7);

5° Nell’acqua che scaturisce miracolosamente dalla roccia (8).

II. – Esalta la gloria di Dio:

1° essa non appartiene a Lui solo, – a) che ha liberato il popolo di Israele, come aveva promesso, imposto con il silenzio alle blasfemie dei gentili (10); – b) che fa brillare la sua maestà nei cieli e la sua potenza sulla terra (11);

2° L’esclusione dei falsi dèi della gentilità: a) mostra il loro niente e la loro impotenza (12-15); b) i loro adoratori diventeranno simili a loro (16).

III. – Ammira la bontà di Dio:

1° Che soccorre e protegge – a) tutti i Giudei che sperano in Lui (17); – b) la casa di Aronne in particolare (18); tutti coloro che lo temono (19);

2° Che si sovviene di loro e benedice: – a) tutti i Giudei (20); – b) la casa di Aronne in particolare (20); – c) tutti coloro che lo temono, piccoli e grandi (21); – d) tutta la loro posterità, perché è il Dio di tutti, e da loro in uso la terra, riservandosi il cielo (22-24)

IV. – Promette la riconoscenza del popolo:

1° Non sono coloro che sono morti, o che scendono negli inferi, come gli Egiziani inghiottiti nel mar Rosso, che rendono lodi a Dio (25);

2° Ma il popolo fedele, a cui Dio ha conservato la vita, benedirà Dio per tutta l’eternità (26).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-8.

ff. 1, 2. – Non crediate che lo Spirito Santo non abbia in vista di rammentarci il ricordo dei fatti passati, senza eccitarci a ricercarvi fatti simili ancora da venire … Questi fatti sono per noi delle figure, e queste parole ci costringono a riconoscerci in queste figure. Se in effetti noi guardiamo dentro di noi, con cuore fermo, la grazia di Dio che ci è stata data, noi siamo Israele secondo lo spirito; … i figli della promessa, … la posterità di Abramo; è a noi che l’Apostolo dice: « Voi siete dunque razza di Abramo. » (Gal. III, 29). – Ciò che è successo ai Giudei non era dunque che la figura e l’ombra di ciò che Dio ha fatto per noi. Davide raccontava non meno il passato come l’avvenire, e la storia era pure una profezia (S. Agost.) – Il Re-Profeta offre qui una prova della grande bontà e della dolcezza infinita di Dio. E qual è? Egli comincia con il manifestare la sua potenza; chiede in seguito agli uomini di adorarlo; tale è il senso di queste parole: « Quando Israele uscì dall’Egitto, il popolo giudeo fu consacrato al suo servizio …» Gli uomini non sognano di fare del bene se non dopo aver stabilito il loro dominio; ma Dio invece, comincia Egli ad espandere i suoi benefici. (S. Chrys.). – Il mondo figurato dall’Egitto e da questo popolo barbaro di cui parla il Profeta: 1° il suolo dell’Egitto, quasi per intero, composto da limo; il mondo con i suoi molteplici vizi, composto da fango e melma. – 2° Le acque del Nilo sempre torbide (Gerem. II, 18), simbolo delle acque fangose ove vanno ad abbeverarsi i partigiani del mondo. – 3° L’Egitto non è quasi mai irrorato dalle piogge del cielo: così ne è del mondo, esso è come le montagne maledette del Gelboë, e non è mai bagnato né dalla rugiada, né dalle piogge del cielo. – 4° Il popolo dell’Egitto si è dichiarato il persecutore del popolo di Dio: il mondo nemico di Dio è il persecutore irriducibile dei Cristiani. – 5° Il popolo dell’Egitto fu barbaro e crudele: il mondo non è da meno per la crudeltà, dominato com’è dalle tre furie di cui nulla ne sorpassa la crudeltà: l’orgoglio, l’avarizia, la voluttà. – È a partire da questa liberazione che il popolo giudeo diventa soprattutto il popolo di Dio. È il suo unico santuario, è là che viene glorificato, è là che benedice e rende i suoi oracoli. La Giudea era una volta una contrada impura ed abominevole, ma quando il popolo giudeo né prese possesso, divenne il santuario di Dio; esso fu santificato e consacrato al suo servizio dalle osservanze legali, dai sacrifici, dall’insieme del culto e delle cerimonie che prescriveva la legge. Questo fu anche il trono della sua potenza e come il suo carro di trionfo attraverso i popoli (S. Chrys.) – « Il popolo giudeo gli fu consacrato, ed Israele divenne il suo impero. » Due dono i caratteri della Chiesa: Essa è l’eredità di Dio, la sua porzione scelta; fuori di Essa, né perfezione, né salvezza … La Chiesa è anche come l’incarnazione della potenza di Dio, … e le porte dell’inferno non prevarranno mai contro di Essa; sempre attaccata, sarà sempre vittoriosa (Mgr. Pichenot. Ps du D.). – « Israele diventa il suo impero. » Coloro che sono liberati dalla tirannia del mondo, devono sottomettersi interamente alla potenza di Dio. La gloria perfetta di Dio, è che noi siamo sottomessi alla sua potenza, che vogliamo ciò che Egli vuole, e che tutte le facoltà, i nostri sensi, le nostre opere, siano sotto la sua dipendenza assoluta.

ff. 3-8. – « Il mare lo vide e fuggì, il Giordano risalì alla sua sorgente. » Questi due grandi prodigi, benché separati nella storia da un intervallo di oltre quaranta anni, sono riuniti nello stesso versetto. Senza dubbio perché sono operati sullo stesso elemento, e sono come l’alfa e l’omega del più grande dramma di sempre. Il primo ha introdotto i figli di Giacobbe nel deserto e completato la loro liberazione; il secondo terminò il loro esilio e li mise in possesso della terra promessa (Mgr. Pich.). – Il passaggio del mar Rosso, in cui gli Israeliti furono tutti battezzati sotto la guida di Mosè nella nube e nel mare, (I Cor. X, 1), è la figura del Battesimo dei Cristiani battezzati nella morte di Gesù-Cristo, che ha annegato i loro peccati nel suo sangue. Il passaggio del Giordano, attraverso il quale Giosuè mise il popolo di Dio in possesso della terra promessa: è un’altra figura di ciò che Gesù-Cristo ha fatto lavando il suo popolo dai suoi peccati, per metterli in possesso del cielo, che è la vera terra promessa. – Ciascuno di voi si sovvenga ora di ciò che ha provato quando ha voluto dare il suo cuore a Dio e sottomettere pietosamente il suo spirito a questo giogo pieno di dolcezza, affrancandosi dalle antiche cupidigie della sua ignoranza, quando ha voluto portare il fardello leggero del Cristo, abbandonando e rigettando lontano da sé le azioni carnali di questo mondo in mezzo alle quali soffriva senza frutto, fabbricando mattoni, per così dire, come in Egitto, sotto la rude dominazione del demonio,. Ognuno di voi si ricordi come tutti gli ostacoli di questo mondo si sono dissipati; come tutti coloro che avrebbero voluto dissuaderlo da questo cambiamento non abbiano osato alzare la voce e si sono tutti dileguati vedendo il nome del Cristo esaltato e glorificato su tutta la terra. « Il mare lo ha dunque visto ed è fuggito, » affinché la via che conduce alla libertà spirituale si aprisse davanti a voi senza ostacoli (S. Agost.). – Quando il Creatore comanda alle creature anche insensibili, esse ascoltano la sua voce per l’assoggettamento in cui sono sotto la potenza di Colui che le ha create dal nulla. – Il Profeta in una sublime ampollosità, indirizza la parola alla natura stessa: da dove viene che intorno a me tutto si cancella e si distrugge? Rispondete, fiumi e mare, e anche voi, terra, parlate. « La terra è stata scossa alla presenza del Signore, alla presenza del Dio di Giacobbe. » È Dio che ha fatto tutto, è la sua presenza spaventosa che ha gettato così agitazione e costernazione sulla terra e sulle acque; la verga di Mosè, l’arca santa, non sono che strumenti della potenza adorata. – E quando tutti questi prodigi si rinnovano nell’ordine della redenzione, quale ne è la causa? La grazia risponde: « La terra è stata scossa alla presenza del Signore, alla presenza del Dio di Giacobbe. » – Gettate gli occhi sulla terra, voi che sapete ammirare le sue meraviglie, gioirete nell’indirizzare dei cantici al Signore vostro Dio; vedete compiersi tra tutte le nazioni questi prodigi che sono stati operati in figura e predetti tanto tempo prima dell’avverarsi. Interrogate il mare ed il Giordano e dite loro: « O mare, perché siete fuggito, e voi, Giordano, perché siete tornato indietro? Monti, perché siete saltati come arieti? » O mondo come dunque sono spariti gli ostacoli che vi si opponevano? O milioni innumerevoli di fedeli, come dunque avete rinunciato a questo mondo per convertirvi al vostro Dio? Donde viene la vostra gioia a voi che, infine, intenderete questa parola: « Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno che vi è stato preparato fin dalle origini del mondo? » (Matth. XXV, 34). Tutte le cose vi risponderanno, e voi risponderete a voi stessi: « La terra è stata scossa davanti al volto del Signore, davanti al volto del Dio di Giacobbe. » In effetti la terra è stata scossa, ma perché era rimasta nell’inerzia, ed essa è stata scossa per essere più solidamente affermata davanti alla faccia del Signore. (S. Agost.). – Cambiare una pietra dura in un torrente, una roccia in una sorgente d’acqua viva per dar da bere al suo popolo che mancava dell’acqua nel deserto, è un miracolo della potenza di Dio che ci ha resi più credibili nel corso dei secoli, per più di un fatto analogo. – Ma fare uscire le acque della grazia, le lacrime di compunzione da cuori fin là più duri come la pietra della roccia, dissetare e consolare coloro che sospirano i beni celesti nel deserto di questa vita, è un miracolo non meno grande per la potenza, ma ancor più per la bontà di Dio (Duguet). – I sei prodigi che qui ricorda il Profeta si sono rinnovati in senso più elevato, durante la conversione del mondo alla fede di Gesù-Cristo, e si riproducono nel ritorno particolare di ogni peccatore a Dio.

II. – 9-16.

ff. 9-11. – Tutti questi prodigi non avevano avuto come causa i meriti di coloro che ne erano l’oggetto, ma la bontà di Dio e la gloria del suo Nome, come Egli dichiara espressamente: « …  perché il mio Nome non sia disonorato » (Ezech. XX, 9); anche il salmista lo dichiara espressamente: « Non a noi, Signore, non a noi, ma al vostro Nome bisogna dare gloria. » No, il nostro interesse non è quello di avere per noi più considerazione e celebrità, ma far brillare dappertutto gli effetti della vostra potenza (S. Chrys.). – L’Eterno ha fatto tutto per sé medesimo, dice il Saggio; così in tutto ciò che intraprende, è sempre la santificazione del suo Nome e lo stabilirsi del suo regno che Egli ha in vista. Il primo Principio vuole e deve essere anche l’ultimo fine del mondo intero; tutto viene da Lui, tutto deve ritornare a Lui; Egli acconsente a dividere con noi tutti gli altri beni; Egli ci comunica volentieri il suo Essere, la sua potenza, i suoi lumi, la sua libertà, il suo amore, ma non dà la sua gloria; è l’unica cosa che si riserva nelle nostre buone opere, e ce ne lascia tutto il profitto: « Io non darò ad altri la mia gloria. » (Isai. XLVIII, 11). Senza dubbio la vostra luce deve brillare davanti agli uomini, affinché essi vedano le nostre opere buone (Matth. VI, 16); ma ascoltiamo il seguito: « … che essi glorifichino il Padre vostro che è nei cieli. » (S, Chrys.). – « Al Re dei secoli, al Re immortale ed invisibile, a Dio solo, onore e gloria nei secoli dei secoli (I Tim. I, 17), « Non a noi, Signore, non a noi, ma al vostro Nome bisogna dar gloria. » Dateci il perdono, dateci la grazia, cose che abbisognano a dei miserabili; ma per Voi, fonte del perdono, della grazia e dei meriti, riservate la gloria (S. Bern. Serm. in Synod. N° 2 e 3). Tre sono le ragioni che obbligano Dio a procurare la gloria del suo Nome nel conservare il suo popolo: 1° la sua misericordia; è la ragione che Davide mette prima delle altre; Egli non fa appello alla giustizia, non parla di potenza, non invoca le grandezze, non si indirizza alla santità, si rifugia tra le braccia della misericordia. – 2° La sua verità, la fedeltà alla sua parola, alle sue promesse. Il Signore non deve niente a nessuno; ma Egli si è impegnato con noi liberamente, ci ha fatto delle promesse che deve necessariamente realizzare. – 3° Per non dare occasione agli empi di blasfemare il suo Nome, dicendo che Dio o non è potente per compiere le promesse che ha fatto, o che non ha tanta equità né tanta benevolenza per volerlo fare (Dug.). – Questa è la preghiera che noi dobbiamo indirizzare a Dio per la Francia nelle circostanze difficili che ci attraversano. La perpetuità non è assicurata che alla Chiesa in generale ed alla Santa Sede in particolare; ma noi possiamo ottenere che Dio salvi e conservi liberamente ciò che minaccia di perire, che Egli ripari almeno le nostre perdite, ed agitando il candeliere non lo spenga. Quante volte gli empi hanno gridato: « Dov’è il loro Dio? – Che il Dio in cui essi hanno creduto, venga a liberarli dalle loro prigioni, li sottragga alla spada ed ai denti delle bestie. » Questi erano i loro discorsi, ma essi non potevano distruggere coloro che erano appoggiati sulla pietra. Essi scatenavano contro di essi tutto il loro furore, ma i santi Martiri erano senza timore; essi sapevano dove lasciavano i loro carnefici e dove essi andavano. I martiri erano coronati per aver confessato Gesù-Cristo, ed i giudici restavano ciò che essi erano per averlo rinnegato (S. Agost. Serm. III, XXVI, n.° 2). – « Il nostro Dio è nel cielo. » I Santi dicono agli infedeli che adorano gli idoli: voi toccate i vostri dei con le vostre mani, li considerate con gli occhi del corpo, ma il nostro Dio è nel cielo ben al di sopra di noi. Egli ha fatto ciò che ha voluto nel cielo e sulla terra, e continua a compiere le sue volontà in coloro che, benché imprigionati in una carne terrestre, conducono tuttavia una vita celeste. (S. Gerol.). – Risposta alla domanda che precede: « Dov’è il vostro Dio? » Dio è dappertutto, riempie l’universo con la sua immensità, ma risiede e fa principalmente splendere nel cielo, la sua gloria, il suo splendore, le sue magnificenze. E da dove viene che Egli lascia talvolta per lungo tempo i suoi nell’oppressione? È per il fatto che Egli fa tutto ciò che vuole, e che la sua volontà è non solo misura della sua potenza, ma ancora santa come la regola della sua condotta (Dug.). – Gli uomini creati liberi, possono disobbedire momentaneamente alle sue leggi ed ergersi contro di Lui, ma ciò che resiste al suo amore, cadrà sotto il peso del suo braccio terribile; la sua Provvidenza non è meno infallibile, essa giunge sempre alla fine (Mgr, Pich.).

ff. 12-16. – Dopo aver risposto, il Profeta interroga a sua volta; dopo essersi difeso, attacca. Egli ci ha detto in due parole qual sia il suo Dio: Egli è in cielo ed onnipotente; ora, nazioni, ascoltate, ecco i vostri dei: è la bassezza e l’infermità; sono gli dei materiali, gli dei d’oro e d’argento, opere delle mani dell’uomo (Id.). – Perché lo Spirito-Santo prende tanta cura, in mille passaggi delle sante Scritture, nell’insinuarci queste verità, come se le ignorassimo, ed incolparci come se esse non fossero le più chiare del mondo e le più conosciute da tutti, se non perché queste forme corporee, delle quali abbiamo nozione, secondo le leggi della natura, di veder vivere negli animali e sentir vivere in noi stessi, benché plasmate come semplici emblemi, producono tuttavia in ciascuno, non appena la moltitudine comincia ad adorarle, questo grosso errore di credere che se il movimento vitale non è in questi simulacri, non si trova non di meno in una divinità nascosta (S. Agost.). – È facile far condannare l’errore degli idolatri, ma non è facile difendersene. Nessun Cristiano c’è che non condanni questa empietà, ma ben pochi sono i Cristiani che non la imitino, « gli idoli delle nazioni non erano che oro ed argento; » non sono ora le divinità dei Cristiani? (Dug.). –  Non è che le nazioni non abbiano egualmente scolpito degli idoli con il legno e la pietra; ma, nominando una materia preziosa e che è più cara agli uomini, ha voluto far più sicuramente arrossire del culto che essi vi rendono. (S. Agost.). – Ahinoi se, con questo metallo che è l’opera e la proprietà di Dio, noi ci forgiamo da soli una falsa divinità. L’oro è la più comune divinità degli uomini, esercita su di essi un formidabile impero, e l’autore dell’Ecclesiaste ci esorta a non metterci al suo seguito: « Felice, dice, l’uomo che non corre dietro all’oro (Eccl. XXXI, 8). – Camminare alla ricerca dell’oro, è divenirne schiavi. Non siate schiavi del vostro oro, riprende S. Agostino, ma i padroni; possedete l’oro, ma non vi possegga esso. È Dio che ha fatto l’oro per servire voi, e voi per servire Dio. – In vano la croce ha abbattuto gli idoli per tutta la terra, se noi facciamo tutti i giorni degli idoli nuovi con le nostre passioni sregolate; sacrificando non a Bacco, ma all’ubriachezza; non a Venere, ma all’impudicizia; non a Plutone, ma all’avarizia; non a Marte, ma alla vendetta; immolando loro non degli animali sgozzati, ma i nostri spiriti pieni dello Spirito di Dio, e « i nostri corpi che sono i templi del Dio vivente, e le nostre membra che sono divenute membra di Gesù-Cristo, (I Cor. VI, 19) – (BOSSUET, Vertu de la Croix) – « Coloro che li fanno, mettendo in loro la loro fiducia, divengano simili. » È una gloria il somigliare a Dio, ma qui è una maledizione. Pensate a cosa sono questi dei, poiché la più grande disgrazia che si possa subire, è assomigliare a loro. (S. Chrys.). – Questa terribile parola  si compie  di sovente. In generale, ci si assimila, per l’amore, all’oggetto amato, e S. Agostino ha potuto dire in tutta verità: « Amate la terra, allora siete terra. » Tali sono al presente molti Cristiani, dice Sacy, idolatri delle ricchezze, dei piaceri del mondo e di essi stessi, che illuminati ed attivi per tutto ciò che possa soddisfare le loro differenti passioni, sembrano essere senza luce e senza movimento per tutte le cose della Religione e della salvezza. La grazia di un Dio incarnato è stata da sola capace di ristabilire negli uomini l’uso della loro bocca, per render pubblica lode e confessare la loro miseria; dei loro occhi, per vedere la verità e la loro follia; delle loro orecchie, per ascoltare la voce di Dio; delle loro mani e dei loro piedi, per agire e camminare conformemente alla sua volontà; della loro gola, per innalzare grida salutari verso Colui che è sempre pronto ad esaudirli. »

III.— 17-26.

ff. 17-19. – « La casa di Israele ha riposto la sua speranza nel Signore. » La speranza che si vede, non è speranza; perché ciò che uno vede, come lo spera? E se speriamo ciò che non vediamo ancora, lo attendiamo con l’aiuto della pazienza (Rom. VIII, 24, 25); ma perché la pazienza perseveri fino alla fine, « … il Signore è il suo appoggio ed il suo protettore. » Quanto agli uomini spirituali che istruiscono gli uomini carnali in uno spirito di mansuetudine, perché essendo essi superiori, pregano per coloro che sono inferiori ad essi, e ciò che essi vedono già, possiedono già ciò che fa ancora l’oggetto della speranza dell’uomo carnale? Non è così, perché la casa di Aronne ha messo la sua speranza nel Signore. » Dunque, è affinché tendano anche con perseveranza verso ciò che è davanti a loro, perché corrano con perseveranza fino a conquistare Colui dal quale essi stessi sono conquistati (Filip. III, 12, 14), e conoscano Colui come essi stessi sono conosciuti (I Cor. XIII, 12),  « Dio è loro appoggio e loro protettore. » (S. Agost.). – I veri Cristiani, che sono la vera casa di Israele, l’Israele di Dio, mettono la loro speranza nel Signore che li sostiene e li circonda con la sua protezione. – I ministri degli altari, i Sacerdoti del Signore, che sono la vera casa di Aronne, sono ancor più obbligati dei comuni fedeli, a mettere la loro speranza in Dio. Essi cercano dappertutto degli appoggi, moltiplicano le forze del potere umano per non mancare mai di soccorso, di protezioni di difesa. Cosa succede prima o poi? Tutta questa macchina della potenza mondana si inceppa, si sgretola, e non resta a coloro che l’hanno impiegata, se non confusione, invidia, disperazione. Ma perché dunque la fiducia in Dio è così rara? È perché la fede, la vera fede è di estrema rarità sulla terra. Non si conosce né Dio, né Gesù-Cristo, né il Vangelo, né gli esempi dei Santi; ci si comporta da pagani, e senza rapporto alle verità in cui ci si lusinga di credere. Questa credenza è come una teoria pura o una reminiscenza vaga che non influisce sulla condotta come le speculazioni geometriche. Si cammina così fino all’ultimo giorno, ed allora tutto manca, la fede non dice nulla, o essa non dice nulla se non per allarmare, turbare, disperare, e si muore senza poter dire con il Profeta: « … Io spero nel Signore, Egli sarà mio appoggio e mio protettore. » (Berthier).    

ff. 20-24. – Dio si è ricordato di noi anche nel tempi in cui lo abbiamo obliato. Cosa vuo dire: « Egli li ha benedetti? » Egli li ha colmati di innumerevoli beni. L’uomo può anche benedire Dio, quando dice con il salmista: « La mia anima benedice il Signore (Ps. CII, 1). Ma le sue benedizioni non hanno utilità che per lui; egli aumenta la propria gloria, senza aggiungere nulla a quella di Dio; al contrario, quando Dio ci benedice, è la nostra gloria che se ne accresce, senza che Egli guadagni nulla per se stesso. Dio, in effetti, non ha bisogno di nulla, e in queste due ipotesi, tutto il vantaggio è per noi soli. (S. Chrys.). – Le benedizioni di Dio si sono diffuse dapprima sulla casa di Israele e di Aronne, che per primi ricevettero la grazia del Vangelo, ma non c’è stata nazione esclusa da queste benedizioni; esse si sono diffuse poi su tutti senza eccezione. (S. Chrys.). – Nessuna differenza davanti a Dio tra coloro che sono grandi e considerati nel mondo, e coloro che sono di nascita oscura o di modesta condizione, tra coloro che sono avanzati in età e coloro che sono ancora nell’infanzia; nessun’altra distinzione che quella che la sua grazia mette tra essi. Colui che lo serve con più amore e fedeltà, è il più grande davanti a Lui. (Duguet). –  « Che il Signore dia crescita a voi ed ai vostri figli. » E così fu, perché il numero dei figli di Abramo si è accresciuto, essendo le pietre stesse servite a suscitarne dei figli. (Matth. II, 9). L’ovile si è accresciuto di pecore che all’inizio erano estranee, affinché non ci sia che un solo Pastore. La fede si è sviluppata tra le nazioni, si è visto crescere il numero e di saggi Pontefici, e di popoli sottomessi, il Signore aveva moltiplicato i suoi doni, non solo sui Padri che si sono avanzati verso di Lui alla testa degli imitatori del Cristo, ma ancora sui loro figli che hanno piamente seguito le tracce paterne (S. Agost.). – Le benedizioni dell’antica legge erano temporali, ma le benedizioni della nuova legge sono tutte spirituali e molto più sante: le prime consistevano principalmente nella moltiplicazione dei figli e delle greggi, queste consistono soprattutto nell’accrescimento delle grazie e delle virtù (Dug.). – Benedizione efficace ed onnipotente è l’essere benedetto da Colui la cui parola ha creato i cieli. – Un errore grossolano è immaginare che il Profeta, dicendo : « il Cielo è al Signore, e la terra agli uomini, » divida in qualche modo l’impero dell’universo tra Dio, che ha per sé il cielo, e gli uomini che hanno per essi la terra, di modo tale che questi siano dispensati da tutti i doveri verso Dio. Poiché Dio ha fatto il cielo e la terra, queste due parti dell’universo sono entrambe sue, e tutto ciò che vi si trova, deve obbedirgli. Se ha dato la terra agli uomini, è per usarne, e non per gioirne come di un bene indipendente da Lui. (Berthier). 

ff. 25, 26. – « I morti non vi loderanno, né coloro che scendono nella tomba. » Si apra questa tomba, sostenuta da sì magnifiche colonne, si sgretoli questa pietra di marmo; si troverà un cadavere che fa orrore, delle ossa esalanti un odore fetido, delle ceneri, dei vermi! La tomba ha dell’apparenza, ma ricopre un morto il cui aspetto ispira orrore e spavento. Ora, voi pensate che questo morto possa dire: io benedirò il Signore? No, perché sulla testimonianza della Scrittura: « i morti non vi loderanno, Signore né tutti coloro che discendono nella tomba. Aprite il Vangelo, vedrete il Signore che indirizza queste severe parole al demonio: « Taci. » (Marc. I, 25). Perché? « Perché i morti non vi loderanno, né tutti coloro che scendono nella tomba » Nessuno può lodare colui che non ama, e se la lode esce dalla bocca di un nemico, essa ha per oggetto la virtù che ama fin nel suo nemico. Colui che pecca diviene il nemico di Dio, e non può dunque né lodare Dio, né lodare la virtù di Dio, perché la lode è un bene del quale il peccatore non può essere l’oggetto. La lode che è negata dai sentimenti del cuore, è un insulto, una derisione piuttosto che una lode; vorreste che la menzogna diventi l’apologista della verità, e che la lode di Dio esca dalla stessa fonte che la bestemmi e l’oltraggi? (S. Agost. Serm. III, LXV, n° 1). – I morti di cui parla qui il salmista non sono coloro che hanno lasciato questa vita, ma coloro che erano morti nelle loro empietà o che avevano guazzato nel crimine. Per colui che non ha in prospettiva che una morte immortale, già da questa vita cessa di essere vivente, egli è già morto. Anche il Profeta non dice in generale coloro che vivono, ma : « noi che viviamo. » Egli si esprime qui allo stesso modo di San Paolo in queste parole: « noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono nel sonno della morte (I Tess. IV, 16). L’Apostolo dicendo « noi che viviamo, » non permette di applicare queste parole a tutti i fedeli, ma li restringe a coloro la cui vita è simile alla sua; ed anche con queste parole: « … noi che viviamo », devono intendersi di coloro che, come Davide, passano la loro vita nella pratica della virtù. « Ora e nei secoli dei secoli. » Nuova prova che il Salmista vuole apportare di coloro la cui vita è stata una sequela di buone opere; perché nessuno quaggiù vive nei secoli dei secoli, ma è un privilegio esclusivo di coloro che meritano la vita gloriosa ed eterna. (S. Chrys.).

PREDICHE QUARESIMALI (III 2020)

[P. P. Segneri S. J.: QUARESIMALE – Ivrea, 1844, dalla stamp. Degli Eredi Franco – tipgr. Vescov.]

-XIX-

NEL MERCOLEDÌ DOPO LA TERZA DOMENICA.

« Quare Discipuli tui transgrediuntur tradiziones saniorum? non enim manus lavat” antequam panem manducent. ».

[Matth. XV, 2]

I. Se fa mai vero che da que’ medesimi fiori, da cui le pecchie trarrebbono un dolce nettare, traggano veleno i ragni, eveleno putrido, e veleno pestilenziale, ben apparve oggi chiarissimo nelle azioni dei santi Apostoli. S’erano dati i meschini a seguitar Cristo; e però vivendo in somma derelizione, in sommo dispregio, nessun pensiero prendevano di sé stessi, né della loro acconcezza, né de’ lor agi. Chi crederebbe però che ancor in ciò si trovasse di che accusarli? Fu in loro notato (mirate che gran delitto!), non dirò già che gustassero cibi immondi, non dirò già che toccasser cadaveri inverminiti, ma solo che talvolta lasciassero di lavarsi scrupolosamente le mani innanzi al cibarsi, quantunque, a tutto rigore, di solo pane: non manus lavant antequam panem manducent. E laddove ciò si sarebbe in poveri pescatori potuto ascrivere a santa semplicità, fu censurato qual vilipendio di riti, qual dispregio di tradizioni: tanto è ver che l’umana malignità sa d’ogn’erba salubre stillar veleno. – Eppur qual è, Cristiani miei, se non questa, quella malignità, eh? oggi tanto fra noi trionfa, e che qual peste appiccatasi ad ogni lato della città, va per le piazze serpendo, va per le case, va per le Corti, e piaccia a Dio che talor non entri ne’ chiostri anche più murati? Se uno è umile, e però tollera pazientemente ogni offesa, si dice ch’egli è un codardo; se astinente, si dice ch’egli è un avaro; se devoto, si dice ch’egli è un ipocrita; se pudico, si dice ch’egli è un melenso; e così da tutto si trae feconda materia di maldicenza, quasi che ciò ridondi a grande onor nostro, né più confidi verun di noi d’innalzarsi, se non con l’altrui depressione; né di risplendere, se non che dell’altrui discoloramento. E non è cotesta, uditori, una gran viltà? Dobbiamo mirare a divenir noi perfetti, non a far che gli altri appariscano difettosi. – E però contentatevi ch’io stamane tutto m’adoperi a mortificar queste lingue sì libere e sì loquaci, che tra noi sono, e ad impetrare qualche modesto silenzio da’ maldicenti, con esortarli a far quel degno proposito che stabilì dentro suo cuore il buon Davide quando disse: non loquatur os meum opera hominum(Ps. XVIII. 4). Le opere proprie degli uomini quali sono? Le virtù loro? Non già: sono i lor vizi, perché le virtù si han da Dio. Questi dunque, che amano di parlare continuamente de’ fatti altrui, procedano in simil forma: dicano ciò che gli uomini hanno da Dio: tacciano ciò che sol hanno da sé medesimi: e così avverrà che di maldicenti si cambino in lodatori. Temo bensì che in sentirsi costoro da me sferzare, si adireranno, e ne faranno a me misero facilmente portar le pene, con dire tutto il mal che sapranno d’una tal predica, loro odiosa. Contuttociò non voglio io mancare al mio debito; e purché questi non abbiano a mormorare più di alcun altro, io mi contento che a piacer loro si sfoghino contro me, che son degno d’ogni improperio.

II. E prima, bella gloria in vero è la vostra, o mormoratori, mentre così francamente ve la sapete voi prendere contro d’uno, il quale è lontano; né però udendo ciò che da voi viengli apposto, come non può giustificar la sua causa, così né anche può ribatter la vostra garrulità. Fece anticamente Dio nel Levitico un suo divieto, di cui voi forse non terrete gran conto; ma io per me, perché vi ho qualche interesse, lo stimo assai rilevante, assai riguardevole; e questo fu, che niun del popolo osasse dir male alcuno ad un uomo sordo : non maledices surdo (Lev. X. 14). Ma perché ciò? Han dunque i sordi per avventura a godere fra tutti i miseri un privilegio speciale, sicché si possa dir villanìa, quanto piace, ai loschi, ai monchi, ai malfatti, agli scilinguati, ed unicamente non possasi dire a’ sordi? No certamente, perché già per altro si sa la carità voler essere universale: universa delicta operit charitas (Prov. X. 12). Contuttociò, se noi diam fede agl’interpreti, mostrar Dio volle de’ sordi maggior la cura, perciocché sembra una crudeltà troppo strana voler pigliarsela contro a chi non udendo le accuse dategli, nè anche può per conseguente difendersi o discolparsi. Ma dite a me: non è fors’egli, o mormoratore, un medesimo il caso vostro? Surdo maledicere est (così moralizza il pontefice san Gregorio) absenti et non audienti derogare(3 p. Past. adm. 36) . – Voi vi ponete entro quel vostro ridotto a censurare liberamente le azioni di chi non v’ode; e non vi accorgete che ciò non solo è mostrare un’audacia somma, ma è commettere un’ingiustizia spietata? Credete voi che se colui, contra il quale arrotate i denti, vi fosse innanzi, osereste voi favellarne in sì ria maniera? Voi perdonatemi (s’io già comincio a valermi di formole un poco austere), voi dico, chiaramente la fate da’ traditori, perché assalite l’avversario alle spalle: cum ab eis recessissem, diceva Giob. (XIX. 18), cum ab eis recessissem, detrahebant mihi. S’egli ha difetti, che a voi dispiacciano tanto, andate dunque animosamente, investitelo a faccia a faccia, come fe’ Natano a Davide (2 Reg. XII. 1), Aia a Geroboamo (3 Reg. XIV. 7), Michea ad Acabbo (lbid. XXII. 17): rappresentategli la iniquità dei suoi fatti, ammonitelo, riprendetelo, rampognatelo; che in cotal guisa acquisterete gran merito presso Dio. Ma mentre solo il vituperate in assenza, qual segno è ciò, se non che voi, come codardi mastini, gridate al lupo quand’egli già con la pecorella partitosi infra le zanne, già rinselvato nel bosco, già ascososi nella buca, più non può udirvi? – Benché piacesse a Dio che imitaste quel ch’or dicea. Conciossiachè, se mirate a sì fatti cani, vedrete ch’eglino tacciono, è vero, quando il lupo è presente; canes muti, come li chiama Isaia (LVI. 10), canes muti, non valentes latrare; ma non però punto gli approvano que’ suoi furti, nol lisciano, nol lusingano, e molto meno gli tengono quasi mano a sbranar la greggia. Ma quante volte voi, che lontani mormorate con tanta animosità di quel personaggio, o privato o pubblico, perch’egli ha pratiche allato di mal affare, perché giuoca, perché getta, perché non si applica punto alle cure impostegli; quando poi gli siete presenti, voi lo adulate per questi eccessi medesimi di cui prima il mordeste tanto; gli commendate le sensualità, come sfogo di una spiritosa natura; il giuocare, come sollievo; il gettare, come splendidezza; né dubitate di esortarlo a distrarsi alquanto più spesso da quei negozi, a cui voi dite maledici che non bada! E non è questo usare al prossimo vostro un torto evidente? – lo so che veramente grand’anirno si richiede per ammonire uno in faccia de’ suoi difetti, massimamente quand’egli sia collocato in fortuna eccelsa. Converrebbe essere, com’era appunto un Elia, sprezzator di tutto; e che, contento di una ruvida pelle d’intorno a’ lombi (4 Reg. 1. 8), faceva lieto ad un torrente i suoi pasti con quel pan duro di cui lo regalavano i corvi (3 Reg. XVII. 5). Ma se non vi dà cuore a tanto, lasciate almeno di lacerare in assenza chi neppure ardite in presenza di stuzzicare. Conciossiachè, come san Girolamo disse (ep. 4ad Rust.), la verità non ama star ne’ cantoni; veritas non amat angulis; ed il far così non è altro che imitar le talpe, imitare i topi, i quali mordono sì, ma sol di nascosto; o è piuttosto fare, come l’Ecclesiaste affermò di alcune serpette, le quali maliziosamente appiattatesi in fra l’arene, quivi se ne stanno, senza sibilo e senza striscio, a spiar chi passi, per poter incauto addentarlo nelle calcagna. Si mordeat serpens m silentio, nihil eo minus habet, qui occulte detrahit(Eccl. X, 11). – E vi darà di poi l’animo di restituire ad altrui con facilità quella buona fama che a sorte gli avrete tolta? Voglioche v’impieghiate ogni vostro studio, ogni vostro sforzo: oh quanto tuttavia sarà duro che vi riesca! Mosè volea far conoscere a Faraone ch’egli era vero ministro del suo Signore. Però che fece? Aveva in mano una verga; la gettò in terra, e subito la fece trasformare in orribil serpe. Ma che? Non sì tosto poi la ritolse in mano, che la fece di serpe ritornar verga. Gl’incantatori di Faraone vollero far anch’essi una prova eguale; ma non poterono: perché giunsero bensì presto a cambiare le verghe in serpi ma quelle serpi si rimasero serpi, nè mai di serpi ritornarono verghe (Exod. VII. 10 et seq.). Or avete notato? dice qui tosto Origene acutamente (Hom. 13 in c. 22 Num.): ecco fin dove arrivò la virtù diabolica: poté fare del bene male; ma non poté poi rifare del male bene. Non petuit virtus dæmoniaca malum, quod ex bono fecerat, restituere in bonum: potuit ex virga serpentem facere, virgam autem reddere ex serpente non potuit. Or figuratevi che cosi debba succedere ancora a voi. Potrete voi di leggieri far apparire quell’uom dabbene qual orrido serpentaccio; ma come farete a rendergli di poi giusta l’antica forma sarà agevole a fare ch’uno di casto sembri un impuro; ma come a far dipoi che d’impuro si ritorni di nuovo ad apparir casto? Vi sarà agevole a fare ch’un di devoto sembri un ipocrita; ma come a far dipoi che da  ipocrita si ritorni di nuovo a parer devoto? I mali uditi dì altrui, son creduti subii; pronis auribus excipiuntur; ma le ritrattazioni, oh quanto sempre faticano a trovar fede, almeno perfetta! Calumniare dìcea quell’infame politico, calumniare che sarà finita per sempre. Semper aliquid remanet. La serpe resterà serpe. E poi chi non vede che non mai del tutto potrete al prossimo vostro rifare i danni? Restituzioni di fama! restituzioni di fama! Oh  quanto sono difficili a farsi giuste! Non può qui dirsi, come si fa quando trattasi di danaro: si quid aliquem defraudavi, reddo quadruplum(S. Luc. XIX. 8). Quale adunque, qual è la regola vera a fuggir gli scrupoli? Non è tacciare; è tacere: non loquatur os meum opera hominum.

III. – Ma io fin qui solo ho detto il minor de’ mali, ch’è l’aggravio fatto a colui di cui mormorate; aggravio finalmente non d’anima, ma soltanto di riputazione caduca, benché stimabile: maggior mal è, che a color, con cui mormorate, voi ponete fra’ pie’ così grave intoppo, che potrìa fargli agevolmente trascorrere in perdizione. Conciossiachè state a udire. O color, con cui mormorate, son uomini empj, o pur son uomini pii. Che mi rispondete ? Son uomini empj? Oh quanta festa verran pertanto a far essi in udir da voi che loro nel male non mancano de’ compagni! oh quanto conforto prenderanno! oh quanto animo! oh quanto ardire! e, quel ch’è forse anche peggio, oh quanto, per le cadute da voi narrate, oh quanto dico, faranno ad altrui d’insulto! Udito ch’ebbe il re Davide il fier successo dello sventurato Saule’, rimaso estinto su le montagne di Gelboe con tutti e tre i suoi figliuoli, guerrieri sì valorosi, pregò coloro, i quali ciò gli fér noto, che per pietà non ne lasciassero giungere le novelle agli abitatori di Geth ed a’ popoli di Ascalone, per non dar maggiore occasione agli incirconcisi d’imbaldanzire nelle calamità d’Israele. « Nolite annunciare in Geth, neque annuncietis in compitis Ascalonis, ne forte lætentur filiæ Philisthiim, ne exultent filiæ incircumcisorum » (2 Reg. I. 20). – Ma voi che fate, o mormoratori, che fate, quando in quella vostra combriccola vi ponete sì bellamente a raccontare le malvagità di quel personaggio ecclesiastico, le fragilità di quel cherico, il fasto di quel claustrale, se non che dare a gl’incirconcisi occasione di un giubilo più perverso? Gioito avrebbero gli abitatori di Geth, gioito avrebbero i popoli di Ascalone, questo è verissimo; ma di che? Di un mero infortunio; quei ch’odon voi, si rallegrano d’un peccato. Ed oh quante volte avvien però che per li mali portamenti di un solo, da voi descritti, si pongon subito a dire infamie di tutto un Órdine intero! e chi afferma ch’è necessario mortificarlo, o chi replica che dovrebbe scacciarsi, e chi ripiglia che si dovrebbe spiantare, e chi non teme di por sacrilego ancora la bocca in Cielo, e di riprovarne le leggi. Pur troppo avrete con l’esperienza osservato che non così un’importuna cicala, col garrir ch’ella faccia da un arboscello su l’ore estive, solleva ogni altra ad emulare lo strepito ed a moltiplicare lo stordimento, come un sol empio, che mormori, sveglia in tutti un egual talento insoffribile di mal dire. Cora’esser può che voi pertanto non dubitiate addossarvi un fascio così pesante d’iniquità, a cui somministrate occasione?

IV. – Che se pur coloro, co’ quali voi ragionate, sien tutti pii, e come tali abbondano le bruttezze da voi contate, non ne trionfino, vi date creder però che non poniate agevolmente ancor essi in un grave rischio di prevaricar quanto gli empj? V’ingannate assai, v’ingannate: perciocché non solo può avvenir ch’essi imparino molti mali, che loro fin allora non erano sorti in mente! ma oltre a ciò, è facilissimo che, sentendo biasimar altri per quei difetti, di cui sé conoscono esenti, comincino interiormente a vanagloriarsi; e che, ad imitazione del Fariseo, concepiscano anche eglino stolti sensi di compiacimento, di albagia, di alterezza, di presunzione, quasi che non sien uomini come gli altri: non sint sicut cæteri hominum (Luc. XVIII. 11). – È facile che dispregino le persone da voi riprese; è facile che se ne alienino, s’erano loro accette; è facile che se n’adombrino, se sieno lor confidenti; e, se non altro, è facile che, con danno sempre notabile della carità cristiana, diano precipitosa credenza alle accuse altrui, senza aver prima ascoltate ambedue le parti. – E questo è quello che volle intendere il santo profeta Davide, quando disse: sedens adversus fratrem tuum loquebaris, et adversus filium matris tuæ ponebas scandalum(Ps. XLIX. 20). Tu, dicevaegli, sedens; ch’è quanto dire, non alla sfuggita, non leggermente, non brevemente, ma molto posatamente ti ponevi a sparlare contro il tuo prossimo: sedens nell’anticamera di quel principe a cui servivi; sedens sopra de’ marini della tal piazza;  sedens dinanzi all’uscio di tal bottega, sedens sopra le panche di quella chiesa, mentre si aspettava la predica; sedens a quella mensa; sedens a quella veglia; sedens d’intorno a quel fuoco; sedens in somma, come in un’opera di singolar godimento e di sommo gaudio: sedens adversus fratrem tuum loquebaris. Ma che? Ti pensi che qui però terminasse tutto il tuo male? Non è così, sventurato, non è così; perché nello stesso tempo adversus filium matris tuæ ponebas seandalum. Non ti ricordi tu di quei che ti udivano? Quei, come uomini deboli ed imperfetti, filii matris (che così spiega appunto santo Agostino), quei, dico, per te inciamparono, per te caddero, per te vennero tutti, chi più, chi meno, a peccare anch’essi. Etenim cum detrahitur bonis ab his, qui videntur alicujus esse momenti, in scandalum caduta infirmi, qui adhuc nesciunt judicare (in hunc locum). – E tu non temi? e tu non tremi? e tu com’acqua ti bei le malvagità? Né solamente le proprie, ma ancor le altrui? Fa’ a mio modo, fa il proposito ch’io ti dissi: non loquatur os meum opera hominum.

V. – Eppur v’è di più. Perciocché dovete sapere ch’una lingua mormoratrice è lingua di vipera; ch’è quanto dire, triplicata, trisulca, mercecchè fa, come parlò san Bernardo (de consid.), tre ferite ad un colpo: tres lethaliter infìcit ictu uno. Inficit colui di cui mormora, mentre a lui fa, conforme abbiamo primieramente veduto, un solenne torto; inficit color con cui mormora, mentre lor pone, conforme abbiamo secondariamente provato, un sicuro scandalo; ed inficit finalmente colui che mormora, mentre ad esso reca que’ danni che or a me restano, ma alquanto più estesamente, da dimostrare. Benché chi mi darà mai facondia sì luttuosa, ch’io possa abbastanza esprimere questi danni, e così darvi, o maledici, a di vedere di quanto pregiudizio voi siate anche a voi medesimi con la libertà del dir vostro? – E prima è certo, benché ciò sia forse il meno, che laddove voi così credete di rendervi assai giocondi ed assai graditi (mercé quell’avidità con cui comunemente si ascoltano le altrui tacce), voi vi rendete odiosissimi non si potendo non avverare, quanto a voi pure, quel detto di Salomone, il quale affermò che il maledico è l’abominio del genere umano: abominatio hominum detractor( Prov. XXI. 9). Imperciocché un poco: tenete voi per sì semplici quei con cui ragionate, che tra sé stessi non giungano molto bene a considerai che come voi con esso loro venite a censurar altri, così con altri verrete a censurar loro? Lo veggon essi, lo veggono; e benché paja che col sembiante vi facciano grato applauso, contuttociò nell’interno: or andate (dicono) a capitar sotto il rostro a questo sparviere, e poi salvatevi, se potete le penne. Oh come trincia! oh come taglia! o come, dov’egli efferra, fa tosto piaga! Generatio, cruda formola de’ Proverbj (XXXIX, 14) generatio quæ prò dentibus gladius habet. – Né val che voi con simulato artifizio orpelliate la vostra mormorazione, mischiando que’ vituperj, che di altrui dite, con qualche encomio, che tanto più vi dia credito di sinceri, e biasimando in molti, lodando in poco. È questo già un artificio tritissimo, trivialissimo; e gran cosa vuol essere, se vi è alcuno, il quale non sappia che, quantunque il tirso sia cinto di verdi pampani, non però fa men nocevoli le ferite. Quegl’Israeliti che, ritornati dal riconoscer la Terra di promissione, la vollero porre a fondo presso quel popolò che colà gli aveva inviati, qual modo tennero? Cominciarono in prima dall’esaltarla; e però, tratto fuori un grappolo d’uva sì smisurato, che vi volevan due uomini per portarlo appeso al suo tralcio, e scoperte alcune bellissime melagrane, e dimostrati alcun fichi pinguissimi: ecco (pigliarono a dire) ecco qual sia la fertilità del paese, cui Dio ne mena. Per verità che a guisa d’acqua ivi scorrono il latte e ‘l mele: revera fluit lacte et Melle (Num. XIII. 28). Oh che verdura di pascoli! oh che amenità di colline! oh che chiarezza di fonti! Non si può al mondo vedere terren più lieto. Ma che? Su queste quasi stille di dolce, da lor premesso, versarono poco appresso tanto di assenzio, rappresentando gli abitatori di un tal paese come uomini giganteschi, le città come inespugnabili, il cielo come infettato, che amareggiato però tutto quel popolo, il quale udigli, si sollevò, si scompigliò, mosse tosto contro Mosè, contra Aronne, anzi contra Dio stesso il più fier tumulto che fino allor sorto fosse fra tende ebree. Sicché vedete che cotesto vostro artifizio di biasimare in molto, e lodare in poco, non è artifizio sì nuovo, come a voi sembra, ma rancidissimo; e però qual dubbio che nulla può concorrere a rendervi meno odiosi? Si sa, si sa che non è zelo ciò che vi muove a tacciare sì crudelmente le azioni altrui; ma ch’è acerbità, ch’è rabbia, ma ch’è rancore travestito alquanto da zelo: e però è forza che chi v’ode vi tema come molossi terribili di macello, che in ogni sangue godono ad egual modo lor darle labbra; e che temendovi, per conseguente vi abborra: abominatio hominum detractor.

VI. – Ma su figuriamo (ciò che non può mai succedere) che questo detto del Savio in voi sia fallace, sicché non solo non vi rendiate agli uomini punto odiosi col mormorare, ma che anzi siate loro ameni ed accetti: non sapete voi però bene che vi rendete, se non altro, odiosissimi innanzi a Dio? Detractores Deo odibiles (ad Rom. 1. 30); così l’Apostolo favellando ai Romani. Né è meraviglia, perché un tal vizio par totalmente opposto al genio di Dio. E qual è il genio di Dio? dice san Tommaso (in Gen. c. XVIII, n. 17). Civilissimo, cortesissimo. Oh quanto egli è ritroso a scoprire, finché viviamo, i difetti nostri! valde difficilis est ad publicanda occulta crimina nostra; non volendo egli che noi siam punto di peggior condizione di quel che sieno i pittori, a cui si fa grave incarico se loro vassi ad alzar di dietro la tela, infintantochè rimossa non hanno la man dall’opera, ed ancora vi possono, se lor piace, dar su di spugna liberamente, e mostrare che la disapprovano. – Si vide egli una volta venire innanzi quel figliuolo scialacquatore, che, tutto a un tempo intirizzito di freddo e smunto di fame, a gran fatica potea più regger lo spirito in su le labbra. Contuttociò qual fu il primo pensier che di lui si prese? Fu riscaldarlo? fu ristorarlo? Non già, uditori: fu ricoprirlo: cito offerte stolàm prima (Luc. XV. 22). E finché questa non venne, egli talmente sel tenne abbracciato a sé, che niun de’ servi, come notò Pier Grisologo (Serm. 2 de fil. prod.), che niun de’ servi veder ignudo il potesse, niuno deridere: ante vestiri voluit, quam videri. – Così coperse la nudità dell’adultera, a lui condotta nel tempio, quando non prima dir parola le volle di correzione, che dileguato si fosse ogni accusatore (Jo. VIII). Così coperse la nudità della Samaritana, a lui sopraggiunta presso una fonte, quando non prima rimproverare la volle di disonesta, che ritirato si fosse ciascun Apostolo (Jo. IV). Così coperse la nudità fin di quel Giuda medesimo, il qual tradillo; mentre, per quanto interrogato ne fosse importunamente anche da Giovanni, ch’è quanto dir dal diletto, dal favorito, dal segretario di tutti i suoi grandi arcani; contuttociò né anche il volle a Giovanni far manifesto, se non in gergo (Joan. XIII 26): tanto è vero sempre, che Dio valde diffìcilis est ad publicanda occulta crimina nostra. – Come dunque volete, o mormoratori, che Dio non vi odii, mentre a rovescio di lui non altro fate giammai che andar discoprendo le magagne più internate, più intime, più riposte del vostro prossimo, e, sfacciati ancor più dell’antico Cam (Gen. IX. 21), non dubitate per beffa nudar chi dorme, non che soltanto invitare di molti a mirarne la nudità? Sì che v’odia, sì; non è cosa da dubitarne. Conciossiachè vi addimando: credete forse voi che sia virtù vostra, se voi non siete sì peccatori, com’è quel vostro fratello? Tutt’è grazia di Dio, tutt’è sua mercede, tutt’è suo merito. E voi per ciò inalberarvi sopra degli altri? e voi per ciò morderli? e voi per ciò maltrattarli? Ch’altro potete da tal superbia aspettare, se non che Dio sottragga ad ora ad ora il suo braccio dal sostenervi, e che per giusto giudizio cader vi lasci in quegli eccessi medesimi, benché enormi, benché  brutali, per cui sì acerbamente venite a tacciare altrui? Sentite ciò ch’egli affermaci ne’ Proverbj (XIII. 5): impius confundit et confundetur; il peccatore confonde, e sarà confuso. Sì, miei signori, il peccatore confonde, e sarà confuso. – Ed oh così mi potess’io qui distendere a piacer mio, come io vi mostrerei ciò sempre avverato in ogni età, in ogni popolo, in ogni affare! Ma questa volta mi sia per tutti bastevole un Assalonne, il cui successo, se non fosse di fede, non potrìa credersi. Questi, udita che egli ebbe la brutta forza che un suo fratello maggiore, chiamato Aminone, usata avea verso Tamar, del cui amore era divenuto frenetico, se ne sdegnò, se ne stomacò, n’arse in modo, che non credette potersi cancellar tal obbrobrio dalla sorella, se non col sangue dell’empio violatore. E così che fece? Dissimulò tal notizia per lungo tempo; finche venutagli, come siam soliti dire, la palla al balzo, convitò Ammone con tutti i regi fratelli ad un lauto banchetto; e quivi fattolo a tradimento assaltare da’ suoi famigli, nol trucidò propriamente lo macellò (2 Reg. XIII). Or chi, presupposto ciò, non sarebbesi persuaso che un Assalonne star dovesse dipoi molto circospetto a non apparir egli lordo di quella macchia che in altri avea detestata con tanto orrore? Qui detrahit alicui rei, come dice il Savio, ipse se se in futurum obligate (Prov. XIII. 13). E però non direste voi certamente, che da indi innanzi un zelatore sì tremendo dell’onestà viver dovesse più casto d’ogni agnelletto, e più intatto d’ogni armellino? Eppure udite ciò che vi farà senza dubbio arricciar le chiome. Fece egli poi tanto peggio di quel medesimo che aveva abbominato in Ammone; chequando il re suo padre, fuggitosi di palazzo, glielo cede tutto libero, tutto aperto, egli fece ergersi in una pubblica loggia un gran padiglione, e quivi alla presenza di popolo innumerabile tutte francamente oltraggiò le mogli paterne, che pur non erano in numero men di dieci; e con isfacciatezza neppure usata fra’ barbari, neppure universale fra’ bruti, ìngressus est (debbo dirlo ?), ingressus est ad concubinas patris sui coram universo Israel (2 Reg. XVI, 22). E questi dunque èquell’Assalon sì zelante, il quale tanto di romor fatto avea per un solo incesto che d’altri avea risaputo? Che mutazione èquesta mai? che stranezza? che novità? Finalmente Ammone peccò (non si può negare), ma chetamente, ma occultamente, ma in un gabinetto di casa il più solitario, dov’egli avea simulato, per verecondia maggiore, di giacere infermo. Laddove Assalonne non temé peccare in pubblico, a suon di trombe, a voce di banditore, e , quel che sembra del tutto orribile, in faccia allo stesso sole, il quale non so veder come a mezzo corso non rivoltasse di subito il cocchio indietro, per non assistere a sì mostruosa laidezza. Eppur è certo, uditori, che così fu: un Assalon, un Assalon venne a tanto d’iniquità. E perché vi venne? dica pur ciascuno ciò che vuole; io per me tengo, ch’Egli per questo medesimo vi venisse, perché per una iniquità somigliante fatto avea già tante strepito contro Ammone: Impius confundetur. Egli non avea compatito il proprio fratello, ma con solenne vendetta lo avea voluto pubblicamente confondere, e svergognare; e Dio permise ch’egli venisse quindi a poco a far peggio di quel medesimo ch’avea fatto il fratello. – Applichiamo a nostro proposito. Voi lacerate con lingua così spietata il prossimo vostro per una fragilità, nella quale è incorso, per uno slogamento di senso, per uno accendimento di bile, per una intemperanza di vitto, per una tal debolezza di vanità; e non temete che Dio vi lasci per suo giudizio cadere in più gravi colpe? Mi rimetto a voi: ma sol voglio con riverenza umilissima supplicarvi a non vi fidar ornai tanto di voi medesimi: Corripe amicum, corripe proximum: ciò va bene, ma fate insieme quello che l’Ecclesiastico dice appresso: et da locum timori Altissimi (Eccli. XIX, 13, 14, 18). Perché par quanto di presente a voi paja d’esser perfetti, non però potete sapere ciò che dovrà di voi essere in altro tempo. Chi avrebbe  detto che Jeù, quel re d’Israele, il quale con zelo sì fervoroso distrusse l’altare di Baal, e ne sterminò i sacerdoti, dovesse anch’egli piegare un dì le ginocchia dinante agl’idoli? (4 Reg. X). Chi avrebbe detto che Gioas, quel re di Giuda, il quale con  pietà sì magnifica ristorò le mura del tempio, e riempinne gli erarj, dovesse anch’egli  stendere un dì le mani a rapirne i doni? (ib. XII). Chi avrebbe detto che Salomone medesimo, Salomone, quello che nei Proverbj parlò sì bene contro l’amor delle donne, e ne svelò le doppiezze, e ne scorse i danni, dovesse poi dare maculuam in gloria sua, e cadere anch’ei bruttamente in quell’alta fossa, che agli altri avea dimostrata con tanto lume? (ìbid. 11) Non vogliate dunque sì presto far gl’impeccabili, perché, a mio credere, voi non siete finor raffermati in grazia; siete ancora labili, siete ancora caduchi, e piaccia a Dio (giacché conviene finalmente ch’io parli con libertà), e piaccia a Dio, che già non siate peggiori di que’ medesimi, de’ quali voi mormorate. Ah, così va, così va. Quei che sepolti perpetuamente si giacciono dentro il fango, come le rane, questi son quei che più gridano, che più gracidano, quasi che vogliano rimproverare a chi passa le sue lordure. I buoni, dice il Savio, i buoni sono agevolissimi a credere ben di tutti: innocens credit omni verbo(Prov. XIV. 15), come il credé Giosuè pei Gabaoniti (Jos. IX), Giacobbe di Labano (Gen. XXXI), Gionata di Trifone (1 Mac. 12). I più dissoluti, i più discoli, non contenti di quei difetti che in altrui veggono, vi veggono spesso ancor quei che non vi sono: tutto notano, tutto sbeffano, tutto sprezzano, e non sanno mai d’altrui persuadersi se non il peggio. Sed et in via stultus ambulans, udite belle parole dell’Ecclesiaste (X. 3), cum ipse insipiens sit, omnes stultos æstimat. – E sarà questa dinanzi a Dio presunzione da tollerarsi? Ah che pur troppo conviene ch’ei la gastighi! Posciachè s’egli neppur volea nella sua legge (Lev. XIII) che i sani condannassero alcuno mai per lebbroso, se non premessa per mezzo del sacerdote una lunga pruova, come potrà sopportare or che i lebbrosi lìberamente condannino ancora i sani?’ Non loquatur os meum opera hominum, non loquatur; perché questo è un voler esporsi a pericoli troppo atroci. E qui voi riputerete aver io già detto a terrore de’ maldicenti il più che può dirsi; ma riposiamoci, e poi vedrete che forse ho fin qui scherzato.

SECONDA PARTE.

VII. – Io non vorrei presso voi guadagnarmi fama di predicatore funesto; perciocché a che vale che, quasi vago di spaventarvi, io vi stia tutto giorno, a fare o predizioni infelici, o presagi infausti’, se voi, per non udirli, n’andrete a mettervi in fuga? Contuttociò convien pure, se punto v’amo, ch’io non v’inganni. Badate bene, perché gravissimo è il rischio, o mormoratori, che vi sovrasta, d’incorrere quanto prima una morte orrenda. Ma che so io di ciò? Mi è per sorte calato un Angelo a confidare dal cielo sì gran segreto? n’ho qualche rivelazione? n’ho alcun ragguaglio? L’ho, e l’ho maggiore anche di quello che voi non dite. Conciossiachè non è stato un Angelo, no, ma il Signor degli Angeli, quel che, parlandomi ne’ Proverbj, mi ha detto che propria pena dei detrattori è morire improvvisamente. Time Dominum, fili mi, et cum detractoribus ne commiscearis, quoniam repente consurget perditio eorum (Prov. XXIV. 2 1 et 22). Repented! Sì, sì, repente, repente (avete sentito!), repente consurget perditio eorum. Ah noi malavveduti! che facciam dunque, mentre sì poco ci riscotiamo a pericolo sì tremendo? Può mentire Iddio per ventura? può amplificare? può far bravate a credenza? Io, quanto a ciò, mi rimetto; ma dite a me: mi sapreste voi riferire qual fine sortisse quel linguacciuto di Alcimo, il quale avea sì liberamente pigliato a sparlar di Giuda, nobilissimo Maccabeo? (1 Macchab. IX, 55). Perde ad un tratto la parola su labbri, e così insieme ammutolito ed attonito si morì di goccia improvvisa. Qual fine fece un Datano, qual fine un Core, qual fine un Abiron, quei dispregiatori maledici di Mosè? (Num. XVI, 24 a 33). Non furon tutti e tre dalla terra, che di repente si aperse, ingojati vivi? E quei tanti altri, che contra Mosè medesimo mormorarono nelle campagne di Edom (Ibid. XVI. 35 et seq.), qual fine anch’essi sortirono? Dite un poco: vi è tra voi niuno ch’or lo ritenga a memoria? Si vider tutti venire addosso improvvisamente un esercito di ceraste, di aspidi, di saettoni, e d’altre mille pestilentissime serpi che, quasi vomitassero fuoco e vibrasser fiamme, ne fecer entro brev’ora una strage immensa. Sicché non credo far Dio bravate a credenza, quando Egli afferma che repentina succederà la lor morte a’ mormoratori; repente consurget perditio eorum; mentre ciò non solo è famoso per la sperienza, ma pare ancor conformissimo alla ragione. Imperocché se i detrattori son uomini, i quali assaltano, come da principio dicemmo, l’avversario alle spalle, né contro d’esso procedono alla scoperta, ma insidiosamente, ma ingannevolmente, ma quasi da traditori; qual meraviglia sarà, che quasi a tradimento si trovino anch’essi colti da quella morte che sola al mondo è bastevole a far tacere una mala lingua?

VIII. – Ma io (guardate quanto voglio sempre essere liberale con esso voi) voglio concedervi che in voi non debba una tal minaccia eseguirsi con tanta severità, ma che vi sia conceduto innanzi al morire qualche comodo spazio di ravvedervi, di riconoscervi, di chiedere perdonanza del mal commesso: con qual ardir, con qual animo, con qual fronte potrete a Cristo ricorrere in su gli estremi per ottenerla? Non siete voi stati quei così dispietati, che niuna colpa avete mai perdonata cortesemente al prossimo vostro, ma l’avete ognora avvilito con alterigia, accusato con arroganza, e, senza mai punto usargli misericordia, n’avete fatto in ogni conversazione un solenne scempio? E come dunque esser può che gran misericordia dobbiate sperar da Dio? Ahimè! credetemi che questo sopra d’ogn’altro sarà il pericolo che incorrerete morendo, perdere affatto ogni special confidenza nella divina bontà. Né ciò senza fondamento: conciossiachè, non so come, par che Dio contro a’ mormoratori dimostrisi tutto sdegno, tutto rigore, e che propriamente abbia preso, conforme disse nel salmo, a perseguitarli; detrahentem secreto proximo suo, hunc persequebar (Ps. 100, 5). Non è tra voi chi non sappia quanta già fosse l’autorità di Mosè per rendere Dio pietoso co’ delinquenti. Avea il suo popolo fabbricato già, com’è noto, un vitello d’oro, incensatolo, idolatratolo; sicché Dio, tosto montato in furore altissimo, determinò di venire contr’uomini sì perversi a ferro ed a fuoco, e di sterminarne la razza. Contuttociò, credereste? non prima si frappone Mosè con alcune acconce parole d’intercessione a pregar per essi, che senza una minima replica ottien l’indulto, e fa che Dio ritranquillisi assai più tosto che non fan l’onde di turbata peschiera al posar de’ venti. Placatusque est Dominus, ne faceret malum, quod locutus fiierat, adversus populum suum (Exod. XXXII. 14). Qual però di voi non sarebbesi immaginato che chi per gente sì perfida avea potuto ottener perdono sì pronto, non mai dovesse in futuro temer ripulsa? Eppur che succede? Vuol egli quindi a qualche tempo intercedere per Maria, sua propria sorella, percossa in volto da schifosissima lebbra (Num. XII): e tuttavia, benché supplichi, benché gridi non ottien nulla; e a tutti i patti conviene a lui di vederla esclusa dal pubblico, ritirata, ristretta, pagar più giorni ai contumacia obbrobriosa Ma perché ciò? Era costei per avventura trascorsa in qualche delitto peggior dell’idolatria? Che aveva mai fatto la misera? ch’avea detto? ch’avea trattato? Già v’è notissimo. Ella, abusandosi di certa loquacità naturale data alle donne, affinchè incitino i lor figlioletti a parlar con facilità, avea, non so come, tacciato assai suo fratello a cagion di certa Etiopessa, non saprei direse di sembiante o di stirpe, da lui sposata. Ma perché appunto quest’era mormorazione, ch’è quanto a dire, poca pietà verso le altrui debolezze, Iddio non volle (come osservò san Basilio) accettar per essa discolpe di sorta alcuna, non raccomandazioni, non suppliche, non clamori; e laddove fu facilissimo in rilassare, ad intercession di Mosè, tanti gravi oltraggi fatti alla propria Persona, benché divina, non volle rilassarne un piccolo succeduto contro la persona medesima’ di Mosè. Vedete dunque s’è vero ciò ch’io vi dissi? – Questo, uditori, queste è  il terribile effetto che la mormorazione produce nel cuor di Dio, renderlo quasi duro, implacabile, inesorabile: e però chi può dubitare che quando voi vorrete ad esso moribondi ricorrere, per pregarlo a pietà, non saprete farlo, e vi parrà che troppa audacia sia chiedere compassione di quelle colpe che altro non furono in verità che mancanza di compassione? Così rispose un certo Religioso infelice, rammemoratoci da gravissimi autori, (Jo. Mayor. Spec. esempl. etc.). Si trovava già egli vicino a morte, quando sentendosi con grand’affetto esortare da’ circostanti ad aver fiducia nella misericordia divina: che misericordia? (gridò) che misericordia? Non è questa per me, che sì poca n’ebbi. Indi tratta fuori la lingua, accennò loro col dito che la mirassero; e poi: questa lingua (soggiunse) mi ha condannato; questa, con la quale mi avete sì frequentemente sentito condannar altri, questa ora fa che disperato io precipiti in perdizione. Disse; e perché più manifesto apparisse aver lui per giusto giudizio così parlato, se gli enfiò tutta di repente la lingua per modo orribile, sicché più non potendo ritrarla a sé, cominciò a metter muggiti ed a mandar urli, non altrimenti d’un toro ch’è sotto il maglio; e così dopo un’agonia penosissima uscì di vita. Un altro mormoratore tutta, morendo, si lacerò dispettosamente la lingua co’ suoi medesimi denti; ad un altro s’istupidì; ad un altro s’inveranno: tanto fu lungi che la sapessero su quegli estremi impiegare in chieder a Dio pietà de’ commessi errori. Ma voi che dite? – Pare a voi spediente di mettervi a sì gran rischio per una mera sfrenatezza di labbra mal custodite? Non loquatur os meum opera hominum; ditelo, ditelo; non loquatur os meum opera hominum; perché importa troppo risolvere questo punto, e fermarlo bene. Che in considerazione è mai la nostra? che abbaglio? che cecità? Sarà possibile adunque che non vogliamo determinarci oggimai di badare a noi, giacché finalmente nel tribunale divino non ci verrà domandata d’altri ragione, che di noi stessi? Gran cosa in vero che ci vogliam noi prendere tanto affanno, tanta ansietà delle altrui coscienze; mentre ciò sol dee servire a gravar le nostre! Che vale al fiume, che, uscendo gonfio dal letto con la sua piena, lavi le ripe, e via ne porti mormorando ogni feccia, ogni fracidume, s’egli vien con tal atto a lordar se stesso, e a rimaner tutto sozzo, tutto schifoso? Non è già la vita sì lunga, se noi vogliamo spenderla saviamente, come dovremmo, per nostro prò, che debba tanto tempo avanzarci da perdere oziosamente ne’ fatti altrui. Una cosa sol è di necessità, se crediamo a Cristo: porro unum est necessarium (S. Luc.X, 42), né altro è questo, che assicurare il negozio della nostra eterna salute, negozio ahi quanto spinoso! ahi quanto difficile! E noi ci stiamo, come se ciò fosse nulla, ad addossar tante cure affatto superflue, né solamente superflue, ma ancor dannose? Lasciamo pureche gli Esaù vagabondi (Ge, XXV, 27) con la faretra al fianco, e con l’arco in mano non altro facciano tuttodì ch’ire a caccia degli altrui falli, come di prede lautissime ai lor palati: noi, a similitudine di Giacob, conteniamoci in essa, e con santa semplicità reputiam ciascuno in cuor nostro miglior di noi. Questo è da buon Cristiano, questo è da considerato, questo è da cauto: fare altrimenti è da uomo nulla sollecito di salvarsi.

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (15)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (15)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA INABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO VII

Ultimi effetti dell’inabitazione di Dio  in noi: I FRUTTI DELLO SPIRITO SANTO E LE BEATITUDINI.

Conosciamo ora, se non in dettaglio, almeno con una veduta d’insieme, i principi di attività conferiti ai giusti dallo Spirito Santo, un magnifico e complesso organismo di santità che, secondo la bella espressione di un Padre della Chiesa, fa dell’uomo uno strumento musicale mirabilmente disposto a cantare la gloria e la potenza divina: Instrumentent musicum a Spiritu pulsatum, divinamque gloriam et potentiam canens (S. Greg. Naz., Orat. Ad Popul. XLIII, 67). E quando ha così preparato tutto, lo Spirito Santo, l’Artista incomparabile, si mette alla tastiera e, se non incontra resistenza, trae da questo strumento spirituale, meravigliosi accordi che deliziano il cuore di Dio e non tralasciano di piacere al mondo stesso, affascinato, malgrado tutto, da questa santa armonia. È la dolce e casta Agnese che canta sulla terra, per continuare in cielo, il canto delle vergini: « Io amo Cristo, di cui presto diventerò la sposa; il Cristo, di cui la Madre è vergine ed il Padre celeste genera senza corruzione….. Io sono fidanzata con Colui che è servito dagli Angeli e la cui bellezza è ammirata dal sole e dalla luna » (ex Offic. S. Agnetis). – È il martire Ignazio, esposto nell’anfiteatro e che, sentendo il ruggito dei leoni, grida nella sua impazienza di soffrire: « Io sono il frumento di Cristo; sarò macinato dai denti delle bestie per diventare un pane veramente puro. » È il grande Apostolo Paolo, che lancia questa fiera sfida a tutte le potenze nemiche: « Chi mi separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione? L’angoscia? La fame? La nudità? Il pericolo? La persecuzione? La spada?….. Sono sicuro che né la morte, né la vita, né gli angeli, né i principati, né le virtù, né qualsiasi altra creatura potrà mai separarmi dall’amore di Dio in Gesù Cristo, nostro Signore » (Rom. VIII, 35-39). – È l’innumerevole moltitudine dei Santi sparsi in tutto il mondo e che formano un immenso concerto, dove ognuno fa la sua parte e canta in modo speciale il trionfo della grazia sulla natura: una deliziosa sinfonia, dove tutte le voci si uniscono e si fondono in una meravigliosa armonia. Voci di bambini e di anziani, di vergini e di adolescenti, di uomini e di donne, che salgono dalla terra al cielo. Voci di innocenze preservate o faticosamente riconquistate. Voce di misericordiosa carità che richiama, per bocca di Vincenzo de’ Paoli, a tutte le miserie per alleviarle. Voce di fede trionfante nella persona di Pietro di Verona colpito a morte dall’eresia, e che ancora trova la forza di tracciare con la porpora del suo sangue questa parola sublime: Io credo. Voce di umiltà pronunciata dall’organo di Giovanni della Croce, una delle parole più belle ed eroiche mai pronunciate da una bocca umana, quando, alla domanda di Cristo di quale ricompensa chiedesse per tanto lavoro, rispondeva: « Signore, soffrire ed essere disprezzato per Voi. »  – Che mirabile fioritura di virtù il soffio dello Spirito Santo fiorisce in anime docili alla sua azione! O piuttosto che frutti deliziosi e variegati fa loro produrre! Questi sono quelli di cui Nostro Signore ha parlato quando ha detto ai suoi Apostoli: « Io vi ho scelto e vi ho costituito perché andiate avanti senza sosta, perché portiate frutti e questi frutti rimangano: Ego elegi vos, et posui vos ut eatis, et fructum afferatis, et fructus vester maneat. » (Giov. XV, 16). Il giusto, in effetti, è paragonato, nei nostri Libri sacri, ad un albero piantato sul bordo delle acque e che dà i suoi frutti nel suo tempo (Ps. I, 3). Cosa sono questi frutti? L’Apostolo san Paolo ce li fa conoscere in questa bella enumerazione che leggiamo nel capitolo V della Lettera ai Galati: « I frutti dello Spirito Santo, dice, sono la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la longanimità, la dolcezza, la fede, la modestia, la continenza e la castità . » (Gal. V, 22-23). – Cosa intendiamo con questi “frutti dello Spirito Santo”? Perché sono così chiamati? Come si differenziano dalle virtù e dai doni? Qual è il loro numero?

I.

E innanzitutto, cosa si intende per frutti dello Spirito Santo? Con questo intendiamo – dice san Tommaso – « tutti gli atti di virtù che hanno raggiunto una certa perfezione e in cui l’uomo si diletta: Sunt enim fructus quæcumque virtuosa opéra in quibus homo delectatur » (S. Th., Ia IIæ, q. LXX, a. 2). Si chiamano frutti – dice sant’Ambrogio – perché riempiono l’anima di pura e santa delizia. – In senso naturale, il frutto è il prodotto finale e gustoso di una pianta o di un albero che ha raggiunto la perfezione, adattato alla sua specie (Ibid. ad 1); è il termine regolare della vegetazione, il risultato definitivo di questo meraviglioso lavorio in cui è impegnata la vita della pianta. Diversi in quanto diversi sono gli alberi da cui sono stati raccolti, i frutti hanno in comune il fatto che sono l’ultimo prodotto della pianta e che, una volta giunti a maturazione, hanno tutti un certo sapore, diverso a seconda della specie. Fructus sensibilis est id quod ultimum ex arbore expectatur, et cum quadam suavitate percipitur (S. Th., Ia IIæ, q. XI, a. 1).  Quand’anche deliziassero la vista con la luminosità dei loro colori e deliziassero l’olfatto con la dolcezza e la finezza del loro profumo, né le foglie né i fiori meritano questo bel nome di frutto; perché non è da questi ciò che ci si aspetta definitivamente dall’albero: quod ultimum ex arbore expectatur.  – Il frutto non è solo l’ornamento e la perfezione dell’albero, è la sua ragion d’essere, il suo scopo, il suo fine; è il frutto che conferisce all’albero il suo pieno valore e compensa la cura dedicata alla sua coltivazione. Ecco perché, parlando nella parabola di un albero di fico che aveva smesso di dare frutti diversi anni prima, il Salvatore ha detto: « Tagliatelo; perché occupa inutilmente il posto? Succide ergo illam; ut quid etiam terram occupât ? » (S. Luc. XIII, 7). Una grande lezione per il Cristiano, che, sotto pena di essere tagliato come un ramo inutile e gettato nel fuoco, non deve lasciare inattive le energie divine che gli sono state conferite come germi destinati a fiorire sotto il soffio dello Spirito di Dio e a produrre quelle opere sante degne della vita eterna che la Scrittura chiama i frutti dello Spirito Santo. Infatti, per analogia, nell’ordine spirituale, questo nome di frutto è dato al prodotto finale della grazia nelle anime, cioè agli atti di virtù, se non a tutti indistintamente, almeno a quelli che possiedono un certo grado di perfezione e di sapore. I frutti dello Spirito Santo non sono dunque delle abitudini, delle qualità permanenti, ma degli atti; non possono quindi essere confusi con le virtù e con i doni, ma si distinguono da essi come l’effetto si distingue dalla sua causa, il torrente dalla sua sorgente. – E sebbene l’Apostolo san Paolo elenchi tra questi frutti la carità, la pazienza, la dolcezza, ecc., non è da intendere con queste espressioni le virtù stesse, ma le loro operazioni; poiché, per quanto perfette possano essere le virtù, esse non possono essere considerate come l’ultimo prodotto della grazia, essendo esse stesse ordinate, come principii, a dei prodotti successivi, cioè ai loro atti.  – Tuttavia per meritare il nome di frutto, gli atti di virtù devono essere accompagnati da una certa soavità. All’inizio, questi atti si compiono solo con difficoltà, richiedono fatica, alcuni sono addirittura amari per natura come un frutto non ancora maturo. « Ma – osserva un pio autore –  quando si è da tempo praticato con fervore nella pratica delle virtù, si acquisisce la possibilità di produrre i propri atti. Non proviamo più la ripugnanza che abbiamo provato all’inizio. Non dobbiamo più combattere o essere violenti. Siamo felici di fare quello che facevamo una volta con difficoltà. Poi succede alle virtù quello che succede agli alberi. Come questi frutti che, giunti a maturità, non hanno più l’acredine, ma sono dolci e di piacevole sapore; allo stesso modo, quando gli atti di virtù abbiano raggiunto una certa maturità, si fanno con piacere, e li si trova di un gusto delizioso » (Lallemant, Doctrine spirit.). Il mondo non capisce nulla di questo genere di delizie; perché – secondo l’osservazione di San Bernardo – vede la croce, ma non l’unzione: Crucem quidem vident, sed non etiam unctionem (Serm. 1 de Dedicat.); le afflizioni della carne, la mortificazione dei sensi, le fatiche della penitenza colpiscono il suo sguardo solo per il loro lato doloroso, e li ha in orrore, le consolazioni dello Spirito Santo sfuggono ad essa. Le anime sante, invece, dicono volentieri con la sposa del Cantico: « Mi sono seduto all’ombra di colui che avevo desiderato, e il suo frutto è dolce al mio palato » (Cant. II, 3). Sono numerosi i frutti dello Spirito Santo? San Paolo ne conta dodici, come abbiamo visto sopra. Perché questo numero di duodenario? Sembra che dovrebbero essere ammessi così tanti anche gli atti virtuosi. Questa è, infatti, la conclusione di san Tommaso: « I frutti – egli dice – sono tutti atti di virtù nei quali l’uomo trova piacere: Sunt fructus quæcumque virtuosa opera in quibus homo delectatur ». (S. Th., Ia IIæ, q. LXX, a. 2). – L’Apostolo avrebbe potuto includerne un numero maggiore o minore nella sua enumerazione, perché non pretendeva di elencarli tutti. Se si è fermato al numero di dodici, è stato prima perché questo numero, nello stile della Scrittura, si riferisce all’universalità; poi, perché tutti gli atti di virtù possono essere opportunamente ridotti a quelli nominati dall’Apostolo, poiché abbracciano l’intera vita cristiana. (Ibid. a 3, ad 4). – Noi parliamo di frutti; ma potremmo anche chiamarli fiori, se, invece di considerare le nostre buone opere come l’ultimo prodotto della grazia in questo mondo, le considerassimo in relazione alla vita eterna, di cui sono come l’annuncio e la promessa. Perché, così come si vede apparire il fiore, si concepisce la speranza di raccogliere un frutto, così  il darsi alla pratica delle opere sante e meritorie ci dà la speranza di raggiungere la vita e la beatitudine eterna.

II.

Al culmine della vita spirituale, quindi al di sopra degli atti di virtù ordinaria, al di sopra dei frutti dello Spirito Santo, vi sono le beatitudini, il coronamento dell’opera divina in noi, l’ultimo e più sublime effetto della presenza di Colui che il Padre si è degnato di inviarci per la nostra santificazione, l’anticipazione della felicità celeste.  Cosa intendiamo per beatitudini? Quante ce ne sono? Sono diversi da frutti, virtù e doni?  – Il nome “beatitudini” si riferisce ad alcuni atti della vita presente che, per la loro particolare perfezione, conducono direttamente e sicuramente alla beatitudine eterna. Sono chiamate così, beatitudini metonimiche, perché sono allo stesso tempo il pegno, la causa meritoria e, in una certa misura, i primi frutti della vera e perfetta beatitudine. La beatitudine propriamente detta, è essenzialmente una sola, e consiste nel possesso di Dio. È chiaro, infatti, che Dio, essendo il Bene sovrano, il Bene infinito, l’unico capace di soddisfare tutti i desideri, nessuno è felice se non nella misura in cui lo possiede. Da questo mondo, è vero, lo possediamo per grazia, ma imperfettamente; lo portiamo dentro di noi, ma nascosto alla vista; lo amiamo, lo godiamo, ma con il pericolo di perderlo. « Quindi, se parliamo di beatitudine qui sulla terra, possiamo solo intendere, naturalmente, una beatitudine imperfetta, una beatitudine desiderata e meritata, tutt’al più cominciata. » (Mgr. Gay: Sermons de l’Avent). – Le beatitudini menzionate nel Santo Vangelo e di cui ci stiamo occupando attualmente non significano, quindi, felicità assoluta, felicità vera e propria. Non è manifesto che la povertà, le lacrime, la fame e la sete, foss’anche di giustizia, le persecuzioni subite per la causa di Dio, non possono costituire una vera e perfetta beatitudine? Ma Nostro Signore afferma che questi sono mezzi, dei gradi, delle salite per raggiungere la beatitudine assoluta: mezzi così potenti, così efficaci, così sicuri, che chiunque li usi con perseveranza può ripetere seguendo l’Apostolo: « Sono salvato nella speranza » (Rom. VIII, 24). Non si dice di qualcuno che è giunto alla fine dei suoi voti, quando ha una fondata speranza di ottenerli? Ma come non concepire la speranza di ottenere un fine determinato, quando ci si muove verso di esso in modo costante e regolare, quando ci si avvicina, quando soprattutto si comincia già a gustare la dolcezza del bene atteso? (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 1.) Quando, dunque, un Cristiano, docile alle ispirazioni dello Spirito Santo, avanza quotidianamente nel cammino di bontà attraverso gli atti di virtù ed i doni, quando lo si vede realizzare gradualmente queste mirabili ascese di cui parla il Salmista (Ps LXXXIII, 6), ed avvicinarsi sempre di più al termine, come non sentire la fiducia che egli raggiungerà la perfezione del cammino e quella della patria, e non proclamarlo benedetto in anticipo? (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 2). Ma quali sono questi mezzi che conducono così sicuramente al termine della salvezza eterna, questi atti così pieni di soavità che possiamo considerarli come l’inizio della beatitudine? – Il Salvatore stesso ce li ha fatti conoscere in questo famoso sermone della montagna che apre il periodo della sua vita pubblica. « Beati – Egli dice – i poveri in spirito, perché il regno dei cieli è loro. Beati i miti, perché possederanno la terra. Beati coloro che piangono, perché saranno confortati….. Otto volte di fila ripete, con delle varianti, la stessa espressione « Beati », annunciando così al mondo stupito quelle che il linguaggio cristiano ha chiamato le otto beatitudini. Sono otto: la povertà di spirito, la mitezza, le lacrime, la fame e la sete di giustizia, la misericordia, la purezza di cuore, l’amore per la pace, le persecuzioni subite a causa di Dio; ma l’ottava è solo la conferma e la manifestazione delle altre (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 3 ad 5.). Infatti, dal momento in cui l’uomo è rafforzato nella povertà spirituale, dalla mitezza e dalle altre beatitudini, la persecuzione non è più in grado di staccarlo da questi beni. – Le beatitudini non sono né virtù né doni dello Spirito Santo, ma degli atti che queste abitudini ci portano a produrre (Ibid. a. 1). Tuttavia, per la loro eccellenza e perfezione, questi atti devono essere considerati più come un prodotto dei doni che come un’emanazione delle virtù. Infatti, la virtù della povertà può anche ispirare questo distacco che fa usare con moderazione dei beni terreni, ma è il dono del timore, che ne ispira il disprezzo. La virtù della mitezza dà all’uomo l’energia necessaria a superare l’impetuosità della rabbia e a stare entro i limiti della giusta ragione; ma è il dono della pietà che assicura la calma, la serenità dell’anima, il perfetto possesso di sé e la completa sottomissione alla volontà di Dio. La temperanza mette il freno alle passioni che tendono al piacere sensibile e le mantiene entro i limiti; il dono della scienza eleva l’anima più in alto, e illuminandola sulla fragilità, la vanità, la breve durata di questi piaceri, insegna a rifiutarli del tutto, se necessario, e ad abbracciare volontariamente il dolore e le lacrime. Le beatitudini si distinguono anche dai frutti dello Spirito Santo, perché, benché  dilettando come questi, abbiano anche il vantaggio di perfezionare chi le possiede: sono, se volete, dei frutti, ma i più eccellenti, i più belli, i più squisiti; frutti giunti, con gli ultimi tocchi del Sole divino, ad una perfetta maturità; anch’esse contengono una dolcezza e perfezione tale da farci sentire e gustare in anticipo qualcosa della felicità celeste. Così è coronata da opere perfette, segni precursori della beatitudine di Dio e del suo pieno possesso, questa serie di meraviglie che lo Spirito Santo compie nelle anime dove ha stabilito la sua dimora.

III.

Prima di concludere questo già lungo studio, diamo un ultimo, rapido sguardo alle verità che ne sono state oggetto, così come, prima di varcare la soglia di un edificio che è stato visitato ed esaminato nel dettaglio, diamo uno sguardo per comprenderne le linee principali e ammirarne la sapiente armonia. Dio è ovunque, in ogni essere e in ogni luogo, come causa immediata di tutto ciò che esiste fuori di Lui; ma abita solo nel giusto, al quale si unisce in modo singolare, come oggetto di conoscenza e di amore. E non è solo con la sua immagine, la sua memoria, o i suoi doni, che Egli è così presente in essi; Egli stesso viene personalmente, inaugurando fin da quaggiù questa vita di unione e di godimento che deve essere consumata in cielo. Non appena una creatura che, fino ad allora era stata peccaminosa, ritorna in grazia al suo Creatore, Colui che è in Dio l’Amore sussistente, lo Spirito Santo, gli viene inviato a suggellare in qualche modo con la sua presenza il patto di riconciliazione, a lavorare alla grande opera di santificazione e a diventare in lui il principio efficace di una nuova vita, incomparabilmente superiore a quella della natura. Non è dunque una visita temporanea, per quanto preziosa, che si degna di fare, ma Egli viene a stabilirsi nell’anima con il Padre e il Figlio e per fissarvi la sua dimora. Quando vi entra, si dà Egli stesso, e questo è il suo grande dono. Si tratta quindi di abbellire e decorare il tempio vivente dove gli piace risiedere. A tal fine, c’è questa Grazia, di un valore infinito, chiamata santificante, che ha l’effetto di purificare da ogni sozzura, di cancellare il peccato, di giustificare, trasformare, divinizzare chi la riceve, farne un figlio di Dio e l’oggetto dei suoi piaceri, con diritto all’eredità celeste. Ma non è tutto, perché la grazia non va mai da sola; essa è sempre accompagnata da una moltitudine di virtù e di qualità sovraeminenti, che sono sia un ornamento per le nostre potenze, sia una fonte di attività soprannaturale. Queste sono le virtù teologali, la fede, la speranza e la carità; le virtù morali infuse e i doni dello Spirito Santo: essi sono i semi fecondi dei frutti che Dio vuole raccogliere in noi; le energie divine, fonte di quegli atti eccellenti che portano il nome di beatitudini perché sono la causa meritoria ed una sorta di anticipazione della felicità che speriamo. – In questo modo possiamo andare avanti; e, per spostarci efficacemente e in sicurezza verso le sponde eterne, tutto ciò che dobbiamo fare è ricevere questo impulso dallo Spirito Santo che è la parte dei figli di Dio (Rom. VIII, 14). Essa non si farà attendere. Dal profondo dell’anima dove Esso risiede, questo Spirito divino illumina la nostra intelligenza, riscalda i nostri cuori, ci eccita e ci spinge al bene. Chi conterà tutti i santi pensieri che suscita, i buoni movimenti che provoca, le sane ispirazioni di cui è la fonte? Perché invece ci sono sventurate e troppo frequenti resistenze che vengono più o meno a paralizzare la sua azione benefica e ad ostacolarne gli effetti? Questo spiega perché tanti Cristiani, abitualmente in possesso della grazia e delle energie divine che la accompagnano, rimangono tuttavia così deboli e lassi al servizio di Dio, così poco zelanti per la loro perfezione, così inclini verso la terra, così dimentichi delle cose del cielo, così facili da portarsi al male. Pertanto, l’Apostolo ci esorta a « non contristare lo Spirito Santo » con la nostra infedeltà alla grazia: Nolite contristare Spiritum sanctum Dei (Ephes. IV, 30), e soprattutto “non spegnerlo nei nostri cuori: Spiritum nolite extinguere. » (1 Tessal. V, 19). C’è un’altra causa che cerca di spiegare perché una semenza di grazie così abbondante spesso produca solo un raccolto così scarso. Questo avviene perché, conoscendo solo molto imperfettamente il tesoro di cui sono custodi, molti hanno solo una bassa stima di Esso e si impegnano poco nel farlo fruttificare. Eppure, quale forza, quale generosità, rispetto di sé, quale vigilanza, ma anche quale consolazione e quale gioia non li ispirerebbero per questo pensiero costantemente nutrito e piamente meditato: lo Spirito Santo abita nel mio cuore. Esso è lì, potente protettore, sempre pronto a difendermi dai miei nemici, a sostenermi nelle mie battaglie, ad assicurarmene la vittoria. Amico fedele, è sempre pronto a darmi udienza, e, « lungi dall’essere fonte di amarezza e di noia, la sua conversazione porta allegria e gioia:  Non enim habet amaritudinem conversatio illius, nec tædium convictus illius, sed lætitiam et gaudium. » (Sap.. VIII, 16). – Egli è lì, veglia sempre sui miei sforzi e sacrifici, contando, per ricompensarli un giorno, ognuno dei miei passi, seguendo tutti i miei passi, senza dimenticare nulla di quello che faccio per il suo amore e la sua gloria. – Lo Spirito Santo abita nel mio cuore! Io sono il suo tempio, il tempio della santità per essenza; devo quindi diventare io stesso santo, perché il primo carattere della casa di Dio è la santità. Domum tuam, Domine, Domine, decet sanctitudo (Ps XCII, 5). Dirò dunque con il Salmista, con la mia condotta più che con le mie parole: « O Signore, ho amato la bellezza della tua casa e del luogo dove abita la tua gloria: Domine, dilexi decorem domus tuæ, et locum habitationis gloriæ tuæ. » Cosa c’è di più efficace di queste riflessioni per determinarci a vivere, secondo la parola di san Paolo, « in modo degno di Dio, sforzandoci di piacergli in ogni cosa e di portare ogni sorta di frutti di buone opere? Ut ambuletis digne Deo per omnia placentes, in omni opera bono fructificantes » (Col. X, 10). Lavoriamo dunque per crescere nella scienza di Dio, crescentes in scientia Dei, applicandoci ogni giorno per conoscere meglio, per apprezzarli di più, i doni divini. Amiamo, onoriamo, invochiamo spesso lo Spirito Santo, siamo docili alle sue ispirazioni; e se un giorno vogliamo occupare il trono di gloria che ci è stato preparato in cielo, iniziamo glorificando qui sulla terra e nella nostra anima e nel nostro corpo questa Santissima Trinità di cui siamo dimora e tempio. Glorificate et portate Deum in corpore vestro! (1 Cor. VI, 20).

SALMI BIBLICI: “LAUDATE, PUERI, DOMINUM” (CXII)

SALMO 112: “LAUDATE, PUERI, DOMINUM”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS -LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 112

Alleluja.

 [1]  Laudate, pueri, Dominum,

laudate nomen Domini.

[2] Sit nomen Domini benedictum ex hoc nunc et usque in sæculum.

[3] A solis ortu usque ad occasum laudabile nomen Domini.

[4] Excelsus super omnes gentes Dominus, et super cælos gloria ejus.

[5] Quis sicut Dominus Deus noster, qui in altis habitat,

[6] et humilia respicit in cœlo et in terra?

[7] Suscitans a terra inopem, et de stercore erigens pauperem:

[8] ut collocet eum cum principibus, cum principibus populi sui.

[9] Qui habitare facit sterilem in domo, matrem filiorum lœtantem.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXII.

Si lodi Dio, principalmente perché, essendo egli altissimo, non isdegna abbassare gli occhi fino a noi, ed arricchirci di beneficii.

Alleluja: Lodate Dio.

1. Fanciulli, lodale il Signore, lodate il nome del Signore.

2. Sia benedetto il nome del Signore, da questo punto fino nei secoli.

3. Dall’oriente fino all’occaso ha da lodarsi il nome del Signore.

4. Il Signore è eccelso presso tutte le genti; e la gloria di lui fin sopra de’ cieli.

5. Chi è come il Signore Dio nostro, che abita nell’alto,

6. e delle basse cose tien cura in cielo e in terra? (1)

7. Ei dalla terra solleva il mendico, e il povero alza dal fango,

8. Per metterlo a sedere tra’ principi, tra i principi del suo popolo.

9. Egli la donna sterile fa che abili nella casa, lieta madre di figli.

(1) « Nel cielo e sulla terra. » Queste due parole si riferiscono a parti della frase che precede e devono essere così intese: Chi è come il nostro Dio che si eleva per abitare nei cieli, e che abbassa gli occhi fino a riguardare la terra? (Le Hir.).

Sommario analitico

Questo salmo è un invito indirizzato a tutti i fedeli di lodare la grandezza, la potenza, la bontà di Dio Creatore e salvatore. (1).

I. – Questa lode deve essere resa pubblica:

1° Da tutti i fedeli (1); 2° in tutti i tempi (2); 3° In tutti i luoghi (3). 

II. – Motivo di questa lode – Essa è dovuta a Dio:

1° A causa della sua maestà, che infinitamente al di sopra dei cieli, degli Angeli e degli uomini (4);

2° A causa della sua bontà, che abbassa i suoi sguardi sui piccoli e li toglie dalla loro abiezione per farli sedere con i principi del suo popolo (5-8);

3° A causa della sua potenza, che dà la fecondità della fede e delle buone opere alla Chiesa delle nazioni, fino ad allora sterile (9).  

(1) Questo salmo si applica in un primo senso molto imperfetto, al ritorno da Babilonia, dopo il quale esso è stato composto, come lo prova lo stile, ed in un senso molto più perfetto, alla redenzione del genere umano, figurato da questo ritorno, e alla Chiesa divenuta madre di numerosi figli (Le Hir.).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-3

ff. 1-3. – Le Sacre Scritture, ed il Salmista in particolare, tornano sovente sul sacrificio di lode che si deve offrire a Dio … Questo non è la sola lezione che ci offre questo salmo, ma esso serve a condurci a formare un solo coro per non fare che un unico concerto. Così, esso non si indirizza ad una o due persone, ma al popolo intero … Così il Salvatore, che preghiamo da soli o con altri, ci ordina costantemente di entrare con i nostri fratelli in una vera comunione di preghiera (S. Chrys.) – Quando sentite cantare « Pueri, lodate il Signore, » non crediate che questa esortazione non vi riguardi, con il pretesto che avendo già oltrepassato fisicamente l’età dell’infanzia, siete nel verde vigore della giovinezza, o che la corona della vecchiaia imbianchi la vostra fronte; perché l’Apostolo dice a tutti: « non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi.» (I Cor. XIV, 20). Da quale malizia dobbiamo essere soprattutto esenti, se non dall’orgoglio? Perché l’orgoglio, per la presunzione che dà come vanagloria, impedisce all’uomo di camminare per la via stretta e di entrare. Ora, un bambino passa facilmente in una via stretta; ecco perché nessuno, se non è come un bambino piccolo, entrerà nel regno dei cieli. (S. Agost.). – Tutti gli uomini hanno dei motivi particolari per lodare Dio, ma nessuno deve, a più giusto titolo, celebrare le sue lodi e rendere pubbliche le sue grandezze, che la gioventù e la prima età: l’orizzonte della vita si svolge magnifico ai loro sguardi, il cuore deborda di sentimenti di speranza. – La lode dei bambini è gradita a Dio a causa della loro purezza, della loro semplicità. – Cerchiamo di essere noi stessi bambini per la semplicità, la docilità, l’umiltà e l’innocenza (I Cor. XIV, 20), e potremo, anche nel vigore dell’età matura, ed anche giunti al tempo della canizie, prendere per noi queste parole e metterle in pratica. (Mgr. Pichenot, Ps. du D.). – La semplicità cristiana ha la sua infanzia, molto superiore all’infanzia naturale. L’infanzia è l’emblema dell’umiltà, che contrasta con la vana e falsa grandezza dell’orgoglio; in questo senso la vostra vecchiaia sia un’infanzia e la vostra infanzia una vecchiaia, vale a dire: la vostra saggezza sia umile e la vostra umiltà saggia, affinché lodiate Dio nel presente e fino all’eternità.- Non bisogna stupirsi che il Profeta ci inviti così spesso a lodare il nome del Signore, la cui essenza adorabile sfugge ai nostri sensi ed al nostro spirito, mentre il suo Nome ci è manifestato dai suoi oracoli e dalle sue opere, ed è per questo che i libri santi gli danno tanti nomi. È dunque con il Nome, o se si vuole, con i nomi di Dio, che noi giungiamo fino a Lui, ed è questo il motivo per cui Gesù-Cristo ci indirizza al suo santo Nome ordinandoci di dire: « Sia santificato il tuo Nome. » (Berthier). – Per noi c’è l’obbligo tanto più grave di benedire, di lodare il Nome di Dio, che è bestemmiato e maledetto da un gran numero di persone che, nell’impero di Dio, tra le sue opere, tra i suoi benefici, proferiscono verso questo santo Nome delle esecrazioni che fanno fremere la natura. – « Dal sorgere del sole fino al suo tramonto, il Nome del Signore, sia degno di lode. » Ogni giorno, Dio ci accorda nuovi favori; in ogni ora del giorno ci colma di nuovi benefici. – Non c’è alcun giorno dell’anno che non fornisca all’uomo il soggetto di nuovi cantici. – Non c’è contrada nell’universo che non riceva i favori di Dio e le influenze del suo amore. – « Dal sorgere del sole fino al tramonto, il mio Nome è grande tra le nazioni, e si sacrifica e si offre in ogni luogo una oblazione pura al mio Nome, perché il mio Nome è grande tra le nazioni. » (Malach I, 11). – « Dal sorgere del sole fino al suo tramonto, » vale a dire dalla nostra nascita fino alla morte. (S. Girol.). La vita dei Santi è comparata giustamente al sole nel suo sorgere e nel suo tramonto, perché essi sono i bambini della luce e la luce del mondo. – « Che il nome del Signore sia benedetto da ora ed in tutti i secoli dei secoli. » Il Nome del Signore sia benedetto da voi « dal momento presente », cioè dal momento in cui lo fate. La vostra lode cominci in effetti, ma non finisca; lodate dunque il Signore dal presente fino all’eternità; « lodatelo senza mai fermarvi! » Guardatevi dal dire: oggi cominciamo a lodare Dio, perché noi siamo ancora piccoli bambini; ma quando avremo creduto e saremo diventati grandi, allora saremo noi a lodarci. Non fate nulla, bambini, non fate nulla; perché il Signore ha detto per bocca di Isaia: « Io sono, e quando voi vegliate, io sono, e mentre voi vegliate, Io sono. » (Isai. XLVI, 4) Colui che bisogna lodare ogni giorno, è Colui che è. Bambini, lodatelo fin dal presente; vegliardi, lodatelo per l’eternità. Perché allora la vostra vecchiaia si coronerà di bianchi capelli e di saggezza, ma non appassirà  con la caducità della carne (S. Agost.). – Io mi dedicherò a questo Oriente ed Occidente; dal mattino renderò a Dio i miei omaggi; terminando la giornata, lo adorerò e lo benedirò, si avrà nella mia vita un Oriente ed un Occidente, delle luci e delle tenebre, degli avvenimenti felici e delle avversità; io riceverò tutto dalla sua mano, e Gli renderò delle azioni di grazie. Dall’oriente dei miei giorni, dalla mia infanzia dovrò dedicarmi interamente al suo servizio; io sono stato infedele nell’adempiere a questo dovere; sono al termine della mia carriera, il termine si avvicina, almeno devo consacrargli questi pochi giorni che mi accorda affinché, quando la luce si spegnerà per noi, possiamo gioire in pieno giorno della gloria nell’eternità (Berthier). 

II. — 4 – 9

ff. 4. – « Il Signore è eccelso su tutte le genti. » La nazioni sono composte da uomini, cosa c’è di strano che Dio sia elevato sopra gli uomini? Questi adorano il sole, la luna e le stelle, che i loro occhi vedono brillare nel cielo sopra di essi, ed abbandonano il Creatore, al Quale obbediscono tutte le creature; ma il Signore non è eccelso solo sopra tutte le nazioni: la sua gloria è eccelsa anche sopra i cieli. « I cieli lo vedono al di sopra di essi, e gli umili, che la carne relega al di sotto del cielo, ma che non adorano il cielo al suo posto, lo possiedono in se stessi. » (S. Agost.). – Nell’ordine morale, come nell’ordine fisico, Dio è grande, Dio solo è grande, ed è questo nuovo motive per rendere pubbliche le sue lodi. Nell’ordine morale, il Re-Profeta dice tutto con una sola parola: « Il Signore è eccelso sopra le nazioni. » Egli tiene nelle sue mani le redini di tutti gli imperi, governa i popoli ed i re; Egli dirige, muta le volontà senza vincoli e dispiaceri al compimento delle sue volontà. Coloro che Gli resistono lo servono; coloro che hanno la pretesa di portare le armi contro di Lui, difendono la sua causa … nell’ordine fisico, qual gloria, qual magnificenza! … Nel cielo dei cieli, Egli vede ai suoi piedi milioni di spiriti puri, i nove cori degli Angeli formano la sua augusta milizia. (Mgr, Pichenot, Ibid.). 

ff. 5-8. – Quando I desideri dei beni o dei piaceri della terra ci pressano, il mezzo più sicuro per resistere e liberarcene, sarebbe chiedere a noi stessi: Quale oggetto può essere comparabile al Signore, mio Dio? Non possiede Egli tutte le perfezioni, tutti i beni, tutte le beltà? (Berthier). – Cosa di più sublime e nello stesso tempo, di più toccante del contrasto stabilito qui dal salmista tra la grandezza incomparabile di Dio, questo sovrano delle nazioni, il Dio che i cieli non possono contenere negli spazi incommensurabili, e questa bontà incomprensibile con la quale Egli si compiace di sollevare il povero dalla terra e l’indigente dal letame, per farlo sedere tra i principi, con la quale Egli si degna ancora di accondiscendere fino all’umile donna priva delle dolcezze della maternità, e di consolarne l’afflizione. – I re del mondo, i grandi della terra, crederebbero di disprezzare ed avvilirsi se si curvassero verso chi è al di sotto di loro … Così non è per il nostro Dio: Egli solo è grande e dalle profondità della sua eternità, contempla e benedice, perso nel tempo e nello spazio, ciò che ha di più umile e più povero. È sui piccoli ed i disgraziati che Egli di preferenza abbassa gli sguardi della sua misericordia. « Su chi getterò gli occhi se non sul povero che ha il cuore infranto, e che ascolta le mie parole con tremore? » (Isai., LXVI, 2). – « Chi è simile al Signore nostro Dio, che abita nei luoghi più elevati, » cioè nei Santi, Egli abita negli umili? Si, Egli li abita, perché abbassa i suoi sguardi verso gli umili, come è scritto: « Su chi abbasserò i miei sguardi, se non su colui che è umile, e che trema ascoltando le mie parole? » – Quando i Santi sono elevati? Quando contemplano le cose celesti. Essi sono umili sulla terra, quando si umiliano nelle opere della vita attiva, e si elevano nelle meditazioni della vita contemplativa. Essi sono umili sulla terra, ma sono elevati davanti a Dio. Perché il salmista non ha detto: Dio abita negli umili? Ma « Egli abbassa i suoi sguardi sugli umili. » Perché Dio getta i suoi sguardi là ove abita, ed Egli abita là dove getta i suoi sguardi (S. Gerolamo). – Nelle anime elevate ove abita, Egli guarda ciò che è umile. In effetti Egli eleva gli umili in modo da non renderli orgogliosi. Ecco perché Egli abita nelle altezze dei cieli che Egli stesso ha elevato; Egli fa di essi il suo cielo, cioè il suo trono; e tuttavia vedendoli sempre, non orgogliosi ma sottomessi, considera chi è umile come il cielo stesso, di cui abita la altezze. È ciò che ci insegna lo Spirito Santo per bocca di Isaia. «Ecco ciò che dice l’Altissimo, che abita il luoghi elevati ed il cui Nome è eterno, il Signore Altissimo che prende il suo riposo nei Santi. » (LVII, 15). Ma quali sono i Santi, se non gli umili che, facendosi bambini, glorificano il Signore? (S. Agost.). È il carattere di una potenza veramente grande ed ineffabile elevare ciò che è piccolo (S. Chrys.). – È una legge provvidenziale che Davide ha constatato da se medesimo, e che si può applicare agli uomini che Dio ha tratto dall’oscurità per elevarli al primo posto: Giuseppe, Mosè, Davide stesso e tanti altri. – Ma questa parola ha avuto il suo compimento in modo più sublime nella trasformazione della natura umana con l’Incarnazione del Verbo. Quale povertà più grande di quella della nostra natura? E tuttavia il Figlio di Dio è disceso dal cielo in terra per venire a cercare questa natura fin nella polvere ed il fango del vizio; Egli ti ha estratto da questo abisso di abiezione per elevarti fino a Lui; Egli ha trasportati nei cieli le primizie di questa natura e l’ha fatta sedere sul trono del Padre. Il letame figura qui l’abiezione della condizione, ed il cambiamento subìto, di cui è l’oggettiva prova che per Dio, tutte le cose sono semplici e facili (S. Chrys.). –  Il Profeta volendo insegnarci perché si trovano umili cose in cielo, quando il nome di cielo si applica a grandi Santi spirituali e degni di sedere come giudici sui dodici troni, il Profeta, aggiunge subito: « Egli eleva da terra ciò che è nell’indigenza, trae dal letame colui che è nella povertà, al fin di porlo con i principi del suo popolo. » Che le teste più elevate non disdegnino di essere umili sotto la mano del Signore, perché benché il fedele dispensatore delle ricchezze del Signore sia posto tra i principi del popolo di Dio, non di meno lo è l’indigente elevato da terra, e il povero estratto dal letame (S. Agost.). – Il Signore rinnova questo miracolo di potenza e di bontà per ogni peccatore in particolare nel Battesimo e nella Penitenza; egli tira via dal letame e dalla corruzione del suo peccato per porlo nel cielo e offrirgli un posto tra i principi del suo popolo, tra gli Angeli e gli altri abitanti della Gerusalemme celeste.

ff. 9. – Così come la più grande sventura degli uomini è lo stato di oscurità e di disprezzo, la sterilità è una delle pene più sensibili per le donne. (Bellarm.). – Ma non soltanto Dio può operare anche strabilianti cambiamenti, da far succedere la grandezza alla bassezza, ma Egli può dislocare i limiti della natura e dare la fecondità a colei che era sterile: cosa che è accaduta a Sara, Rebecca, Rachele e tante altre. In un senso più elevato, il salmo vuole qui parlare della Chiesa, formata da tutte le nazioni e che, dopo essere rimasta per lungo tempo sterile, ha prodotto nella sua vecchiaia una numerosa posterità, secondo queste parole di Isaia: « Rallegrati sterile, che non hai partorito; emettete grida di gioia, voi che non diventate madri, perché colei che era abbandonata ha più figli della maritata. » (Isai. LIV, Gal., V), – Chi ama la Chiesa come sua madre, non può vedere questa fecondità senza entrare nella gioia. – Questa donna sterile è pure la nostra anima che da se stessa non può concepire né il pensiero del bene, né germogliare la virtù; ma che diviene feconda o per una conversione totale, o per un rinnovo del fervore. Tutto fruttifica in quest’anima resa feconda dal divino Sposo, e la gioia spirituale è la prima ricompensa che Egli versa su questa sposa divenuta degna di Lui (Berthier).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI (ANCHE CON CAZZUOLA E GREMBIULINO) DI TORNO: S. S. PIO IX – “EXORTÆ IN ISTA”

Ancora e sempre il nemico infernale viene snidato dal Santo Padre, Pio IX, anche in questa parte del Nuovo Mondo, ove il serpente diabolico si era rifugiato ed annidato onde attaccare celato ai più, e portare colpi alla santa Chiesa di Cristo. In effetti la Massoneria ha trovato da subito ampi spazi nel continente americano, ove ha potuto sperimentare forme di azione lontano dalle società europee ove era già abbastanza nota, detestata ed in qualche modo combattuta. Non a caso è nelle Americhe che hanno potuto sferrare colpi mortali i personaggi più corrotti e malefici in assoluto della storia, mascherati da presidenti, reali, alti dignitari, ministri, “eroi nazionali”, etc. etc., aderenti alle logge di obbedienze varie, ma tutte guidate dai nemici del genere umano, i c. d. “superiori sconosciuti”, assoggettati a Lucifero, come – a mo’ di esempio – i nostri Garibaldi, Mazzini, e via discorrendo, fino agli attuali finti gesuiti dei Paesi caldi che hanno in tutta tranquillità potuto “generare” figure abominevoli, e così sferrare un colpo mortale alla già oltremodo saccheggiata Chiesa Cattolica. Il Santo Padre Pio IX ancora una volta ricorda le scomuniche riservate alla Sede Apostolica che sia i suoi predecessori, lui stessi ed i suoi successori hanno poi confermato e che tutta sono in vigore a dannazione di aderenti iscritti, sostenitori a qualunque titolo, in qualsiasi ambito, a qualunque livello, sia pure come votanti alle elezioni politiche ove si sostengono canditati di chiara estrazione massonica, ed oggi intrufolati pure nelle strutture ecclesiastiche di tutto l’orbe. Il loro vero obiettivo, nell’infiltrare tutta la società civile, politica, finanziaria ed ecclesiastica, è la distruzione della Chiesa Cattolica, in particolare nella persona del Vicario di Cristo, onde poggiare la “corona-lucifero” sul capo dell’anticristo e dei suoi adepti infernali, gli uomini che vogliono sottomettere le bestie-cristiane e portarle, per disposizione demoniaca, al fuoco dell’eterna perdizione. Ma come sempre, anche questa volta, benché il piano sia stato più scaltro ed articolato del solito, per la contraffazione della Chiesa di cui è rimasta una vuota conchiglia, e si è trasformata nell’apparenza in una vera e propria sinagoga satanica, guidata da mostri abominevoli e sacrileghi, il loro piano si incepperà e “Dio … irredebit eos” e la Vergine Immacolata … conteret capita eorum, .. aspettare per credere, oramai ci siamo!

S. S. PIO IX

EXORTÆ IN ISTA

– Epistola de massonica secta

Forte richiamo a vigilare contro le insidie delle sette e della massoneria inparticolare. Rinnova il divieto di aggregarsi a questa sotto pena di scomunica maggiore riservata al Romano Pontefice.

[Pii. IX, 29 aprilis 1876, P. M. Acta, I/7. Pp. 210-214; ASS 9(1876), PP. 338-342]

Venerabilibus fratribus Episcopis Brasilianæ regionibus

I disordini originati in questa giurisdizione negli anni scorsi da persone che, benché adepte della setta massonica, si introdussero nelle comunità dei pii cristiani, come condussero voi, venerabili fratelli, soprattutto nelle diocesi di Olinda e Belem do Para, a un grave tormento, così, come sapete, riuscirono molto moleste e dolorose al nostro animo. Infatti non potevamo considerare senza dolore il fatto che la peste letale, di quella setta si era diffusa fino a corrompere le predette comunità, e di conseguenza le istituzioni disposte per rinforzare lo spirito sincero della fede e della pietà, dopo che vi era stata sparsa sopra la funesta messe della zizzania, erano precipitate in una misera condizione. Noi perciò, richiamati dal Nostro dovere apostolico e sotto lo sprone della paterna carità, con la quale seguiamo questa parte del gregge di Dio, ritenemmo di dover affrontare senza esitazione questo male e con la lettera del 29 maggio 1873 facemmo giungere a te, venerabile fratello di Olinda, la nostra voce contro questo deplorevole pervertimento entrato dentro le comunità cristiane, osservando tuttavia un criterio di indulgenza e clemenza verso quanti erano diventati seguaci della setta massonica perché ingannati e illusi, quello cioè di sospendere per un tempo congruo la riserva delle censure nelle quali essi erano incorsi, volendo che essi approfittassero della nostra benignità per esecrare i loro errori e abbandonare, condannandole, le associazioni in cui erano entrati. Ti incaricammo inoltre, venerabile fratello di Olinda, di sopprimere e di dichiarare soppresse le predette comunità se, trascorso quel periodo di tempo, non si fossero ravvedute e di ricostituirle integralmente con le modalità che avevano all’origine, inserendo nuovi membri immuni da ogni contaminazione con la massoneria. Noi inoltre, desiderando mettere in guardia – come è nostro dovere – tutti i fedeli contro le astuzie e le insidie dei membri delle sette, nella lettera enciclica indirizzata ai vescovi di tutta la cattolicità il 21 novembre 1873, richiamammo con chiarezza in quella occasione alla memoria dei fedeli le disposizioni pontificie emanate contro le corrotte società degli aderenti alle sette e proclamammo che nelle costituzioni venivano colpite non solo le associazioni massoniche costituite in Europa, ma anche tutte quelle che si trovano in America e nelle altre regioni di tutto il mondo. Non potemmo quindi non stupirci vivamente del fatto che, essendo state tolte con la Nostra autorità e con decisioni miranti alla salvezza dei peccatori gli interdetti a cui in queste regioni erano state sottoposte alcune chiese e comunità composte in gran parte da seguaci della massoneria, fu tratta da ciò l’occasione per diffondere tra la gente la convinzione che la società massonica presente in queste regioni era esclusa dalle condanne delle regioni apostoliche e quindi che le stesse persone aderenti alla setta potevano tranquillamente fare parte delle comunità dei pii Cristiani. Ma quanto queste opinioni siano lontane dalla verità e dal nostro modo di sentire, è dimostrato con chiarezza sia dagli atti che abbiamo ricordato prima, sia dalla stessa lettera scritta al serenissimo imperatore di codeste regioni il 9 febbraio 1875 nella quale, mentre garantivamo che sarebbe stata revocata l’interdizione gravante su alcune chiese di codeste diocesi se voi, venerabili fratelli, tenuti ingiustamente in carcere a Para e a Olinda, foste stati rimessi in libertà, aggiungemmo tuttavia una riserva e una precisa condizione, cioè che i seguaci della massoneria fossero rimossi dagli incarichi che occupano nelle comunità. E questa condotta suggerita dalla Nostra prudenza non ebbe e non avrebbe potuto avere altro proposito se non che, esauditi da parte Nostra i desideri dell’imperatore e ripristinata la tranquillità degli animi, offrissimo al governo imperiale l’opportunità di restituire all’antica condizione le pie comunità togliendone l’inquinamento portato dalla massoneria e nello stesso tempo far sì che gli uomini della setta condannata, mossi dalla Nostra clemenza verso di loro, procurassero di sottrarsi alla via della perdizione. E affinché in una questione così grave non possa restare alcun dubbio né alcuna possibilità di inganno, non tralasciamo di dichiarare nuovamente in questa occasione che tutte le società massoniche, sia di queste regioni sia esistenti altrove, delle quali da parte di molti, o tratti in inganno o traenti essi in inganno, si dice che mirino soltanto all’utilità e al progresso sociale e alla pratica dell’aiuto reciproco, sono vietate e colpite dalle costituzioni e dalle condanne apostoliche, e che quanti malauguratamente si sono iscritti alle medesime sette incorrono per questo solo fatto nel più grave provvedimento della scomunica riservato al Romano Pontefice. Né con minore sollecitudine raccomandiamo al vostro zelo che in queste regioni la dottrina religiosa venga trasmessa diligentemente al popolo cristiano con la predicazione della parola di Dio e gli opportuni insegnamenti; sapete infatti quale utilità deriva al gregge di Cristo da questa parte del ministero se viene esercitata bene, quali danni gravissimi se viene trascurata. – Ma oltre agli argomenti trattati qui, siamo costretti a deplorare l’abuso di potere da parte di coloro che presiedono le già ricordate comunità, i quali, come appunto ci è stato riferito, revocando ogni cosa secondo il loro arbitrio, pretendono di attribuirsi una illegittima autorità sui beni e le persone sacre e sulle cose spirituali, in modo tale che gli ecclesiastici e gli stessi parroci sono completamente assoggettati al potere di quelli nel compimento dei doveri del loro ministero. Questo comportamento è affatto contrario non solo alle leggi ecclesiastiche, ma allo stesso ordine costituito da Cristo Signore nella sua Chiesa; infatti i laici non sono stati posti a capo del governo ecclesiastico, ma per loro utilità e per la loro salvezza devono essere sottoposti ai legittimi Pastori ed è loro compito offrirsi come aiutanti del clero per le singole situazioni, mentre non devono intromettersi in quelle cose che sono state affidate da Cristo ai sacri pastori. Perciò non conosciamo niente di più necessario del fatto che gli statuti delle predette comunità siano redatti secondo il retto ordine e quanto in essi è fuori dalla norma e incongruo per qualche aspetto venga reso perfettamente conforme alle regole della Chiesa e alla disciplina canonica. Per raggiungere questo fine, venerabili fratelli, Noi, considerate le relazioni che intercorrono tra le comunità stesse e il potere civile, in ciò che concerne la loro costituzione e il loro ordinamento nelle cose temporali abbiamo già dato al nostro Cardinale Segretario di Stato gli opportuni mandati per agire insieme col governo imperiale e concertare con lo stesso gli sforzi utili per ottenere i risultati desiderati. Confidiamo che l’autorità civile unirà al Nostro il suo sollecito interessamento per questo e preghiamo con ogni Nostra forza Dio, dal quale provengono tutte le cose buone, perché si degni di accompagnare e sostenere con la sua grazia quest’opera attinente alla tranquillità della Religione e della società civile. Anche voi, venerabili fratelli, unite le vostre preghiere alla Nostre, perché questi desideri si realizzino e in pegno del Nostro sincero amore ricevete l’apostolica benedizione, che a voi e al clero e ai fedeli affidati alla cura di ciascuno di voi, impartiamo di cuore nel Signore.

Roma, presso San Pietro, 29 aprile 1876, anno XXX del Nostro pontificato.

PIO PP. IX