DOMENICA XIX DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XIX DOPO PENTECOSTE (2020)

 (Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La liturgia fa leggere nell’Ufficio divino la storia di Ester verso quest’epoca (5a Domenica di Settembre). Reputiamo quindi cosa utile, al fine di rivedere ogni anno con la Chiesa tutte le figure dell’Antico Testamento e per Continuare a studiare le Domeniche dopo Pentecoste in corrispondenza del Breviario, di parlare in questo giorno di Ester. – L’lntroito della Domenica 21 – dopo Pentecoste è la preghiera di Mardocheo. Non potremo noi vedervi un indizio della preoccupazione della Chiesa di unire, a questo periodo liturgico, la stona di Ester ad una Messa di questo Tempo?

« Assuero, re di Susa in Persia, aveva scelto per prima regina Ester, nipote di Mardocheo. Aman, l’intendente del palazzo, avendo osservato che Mardocheo rifiutava di piegare le ginocchia davanti a lui, entrò in grande furore e, saputo che era ebreo, giurò dì sterminare insieme a lui tutti quelli che fossero della sua razza. Accusò quindi al re gli stranieri che si erano stabiliti in tutte le città dei suo regno e ottenne che venisse dato ordine di massacrarli tutti. Quando Mardocheo lo seppe, si lamentò e fu presso tutti gli Israeliti un gran duolo.- Mardocheo disse allora a Ester che essa doveva informare il re di quanto tramava Aman, fosse pure col pericolo della sua vita medesima. » Se Dio ti ha fatta regina, non fu forse in previsione di giorni simili? ». Ed Ester digiunò tre giorni con le sue ancelle; e il terzo giorno, adorna delle sue vesti regali, si presentò davanti al re e gli domandò di prender parte ad un banchetto con lui e Aman. Il re acconsentì. E durante questo banchetto Ester disse al re: « Noi siamo destinati, io e il mio popolo, ad essere oppressi e sterminati ». Assuero sentendo che Ester era giudea, e che Mardocheo era suo zio, le disse: « Chi è colui che osa far questo? ». Ester rispose: « Il nostro avversario e nostro nemico è questo crudele Aman ». Il re, irritato contro il suo ministro, si levò e comandò che Aman fosse impiccato sulla forca che egli stesso aveva fatto preparare per Mardocheo. E l’ordine fu eseguito immediatamente, mentre veniva revocato l’editto contro i Giudei. Ester aveva salvato il suo popolo e Mardocheo divenne quel giorno stesso ministro favorito del re e uscì dal palazzo portando la veste regale azzurra e bianca, una grande corona d’oro e il mantello di porpora, e al dito l’anello regale ». — Il racconto biblico ci mostra come Dio vegli sul suo popolo e lo preservi in vista del Messia promesso. « Io sono la salvezza del popolo, dice il Signore, in qualunque tribolazione mi invochino, li esaudirò e sarò il loro Signore » (Introito). « Quando cammino nella desolazione Tu mi rendi la vita, Signore. Al disopra dei miei nemici, accesi d’ira, tu mi stendi la mano e la tua destra mi assicura la salvezza » (Off.); il Salmo del Communio parla del giusto che è oppresso dall’afflizione e che Dio non abbandona; quello del Graduale, ci mostra come, rispondendo all’appello di coloro che in Lui sperano, Dio fa cadere i peccatori nelle loro proprie reti; il Salmo dell’Alleluia canta tutte le meraviglie che il Signore ha fatto per liberare il suo popolo. Tutto questo è una figura di quanto Dio non cessa di fare per la sua Chiesa e che farà in modo speciale alla fine del mondo. Aman che il re condannò durante il banchetto in casa di Ester, è come l’uomo che è entrato al banchetto di nozze di cui parla il Vangelo, e che il re fece gettar nelle tenebre esteriori, perché non aveva la veste di nozze, cioè « perché non era rivestito dell’uomo novello che è creato a somiglianza di Dio nella vera giustizia e nella santità, per non aver deposto la menzogna e i sentimenti di collera, che nutriva in cuore verso il prossimo» (Epistola). Cosi iddio tratterà tutti coloro che, pur appartenendo al corpo della Chiesa per la loro fede, sono entrati nella sala del banchetto senza essere rivestiti, dica S. Agostino, della veste della carità. Non essendo vivificati dalla grazia santificante, non appartengono all’anima del Corpo mistico di Cristo, e rinunziando alla menzogna, dice S. Paolo, ognuno di voi parli secondo la verità al suo prossimo, perché siamo membri gli uni degli altri. Possa il sole non tramontare sull’ira vostra » (Epistola). E quelli che non avranno adempiuto a questo precetto saranno dal Giudice supremo gettati nel supplizio a dell’inferno, come pure gli Ebrei che hanno rifiutato l’invito al pranzo di nozze del figlio del re, cioè di Gesù Cristo con la sua sposa che è la Chiesa (2° Notturno) e che hanno messo a morte profeti e gli Apostoli recanti loro questo invito. — Assuero in collera, fece impiccare Aman. Anche il Vangelo ci narra che il re montò in furore, inviò i suoi eserciti per sterminare quegli assassini e bruciò la loro città. Più di un milione di Giudei morirono nell’assedio di Gerusalemme per opera di Tito, generale dell’esercito romano, la città fu distrutta e il Tempio incendiato. Aman infedele, fu sostituito da Mardocheo; gli invitati alle nozze furono sostituiti da coloro che i servi trovarono ai crocicchi. I Gentili presero il posto degli Ebrei e verso di quelli si volsero gli Apostoli, riempiti di Spirito Santo, nel giorno di Pentecoste. E al Giudizio universale, che annunziano le ultime domeniche dell’anno, queste sanzioni saranno definitive. Gli eletti prenderanno parte alle nozze eterne e i dannati saranno precipitati nelle tenebre esteriori e nelle fiamme vendicatrici, ove sarà pianto e stridore di denti.

Bisogna spogliarsi dell’uomo vecchio, dice S. Paolo, come ci si toglie una veste vecchia e rivestirsi di Cristo come ci si mette una veste nuova. Bisogna dunque rinunziare alla concupiscenza traditrice delle passioni che, come figli di Adamo, abbiamo ereditato, e aderire a Cristo accettando la verità evangelica, che ci darà la santità nei nostri rapporti con Dio e la giustizia nei nostri rapporti col prossimo.

« Dio Padre, dice S. Gregorio, ha celebrate le nozze di Dio suo Figlio, allorché l’unì alla natura umana nel seno della Vergine. E le ha celebrate specialmente allorché, per mezzo dell’Incarnazione, lo unì alla santa Chiesa. Inviò due volte i servi per invitare i suoi amici alle nozze, perché i Profeti hanno annunziata l’Incarnazione del Figlio di Dio come cosa futura e gli Apostoli come un fatto compiuto. Colui che si scusa col dover andare in campagna, rappresenta chi è troppo attaccato alle cose della terra; l’altro che si sottrae col pretesto degli affari, rappresenta chi desidera smodatamente i guadagni materiali. E ciò che è più grave, è che la maggior parte non solo rifiutano la grazia data loro di pensare al mistero dell’Incarnazione e di vivere secondo i suoi insegnamenti, ma la combattono. La Chiesa presente è chiaramente indicata dalla qualità dei convitati, tra i quali si trovano coi buoni anche I cattivi. — Cosi il grano si trova mescolato con la paglia e la rosa profumata germoglia con le spine che pungono. — All’ultima ora Dio stesso farà la separazione dei buoni dai cattivi che ora la Chiesa contiene. Quegli che entra al festino nuziale senza l’abito di nozze appartiene alla Chiesa colla fede, ma non ha la carità. Giustamente la carità è chiamata abito nuziale perché essa era posseduta dal Creatore allorché si unì alla Chiesa. Chi per la carità è venuto in mezzo agli uomini ha voluto che questa carità fosse l’abito nuziale. Allorché uno è invitato alle nozze in questo mondo, cambia di abiti per mostrare che partecipa alla gioia della sposa e dello sposo e si vergognerebbe di presentarsi con abiti spregevoli in mezzo a tutti quelli che godono e celebrano questa festa. Noi che siamo presenti alle nozze del Verbo, che abbiamo fede nella Chiesa, che ci nutriamo delle Sante Scritture e che gioiamo dell’unione della Chiesa con Dio, rivestiamo dunque il nostro cuore dell’abito della carità, che deve comprendere un doppio amore: quello di Dio e quello per il prossimo. Scrutiamo bene i nostri cuori per vedere se la contemplazione di Dio non ci faccia dimenticare il prossimo e se le cure verso il prossimo non ci facciano dimenticare Dio. La carità è vera se si ama il prossimo in Dio e se si ama teneramente il nemico per amore di Dio » (Omelia del giorno).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum

[Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.]

Ps LXXVII: 1
Attendite, pópule meus, legem meam: inclináte aurem vestram in verba oris mei.
[Ascolta, o popolo mio, la mia legge: porgi orecchio alle parole della mia bocca.]

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum

[Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.].

Oratio

Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, univérsa nobis adversántia propitiátus exclúde: ut mente et córpore páriter expedíti, quæ tua sunt, líberis méntibus exsequámur.

[Onnipotente e misericordioso Iddio, allontana propizio da noi quanto ci avversa: affinché, ugualmente spediti d’anima e di corpo, compiamo con libero cuore i tuoi comandi.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 23-28
“Fratres: Renovámini spíritu mentis vestræ, et indúite novum hóminem, qui secúndum Deum creátus est in justítia et sanctitáte veritátis. Propter quod deponéntes mendácium, loquímini veritátem unusquísque cum próximo suo: quóniam sumus ínvicem membra. Irascímini, et nolíte peccáre: sol non occídat super iracúndiam vestram. Nolíte locum dare diábolo: qui furabátur, jam non furétur; magis autem labóret, operándo mánibus suis, quod bonum est, ut hábeat, unde tríbuat necessitátem patiénti.”

(“Fratelli: Rinnovatevi nello spirito della vostra mente, e rivestitevi dell’uomo nuovo, che è creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità. Perciò, deposta la menzogna, ciascuno parli al suo prossimo con verità: poiché siamo membri gli uni degli altri. Nell’ira siate senza peccato: il sole non tramonti sul vostro sdegno. Non lasciate adito al diavolo. Colui che rubava non rubi più: piuttosto s’affatichi attendendo con le proprie mani a qualche cosa di onesto, per aver da far parte a chi è nel bisogno.”)

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,

I CARATTERI DELL’UOMO NUOVO

L’epistola è tolta dalla lettera di San Paolo agli Efesini. Nei versetti precedenti l’Apostolo aveva scongiurato gli Efesini a non imitare la vita dei pagani, tra i quali essi vivevano; ma a conformare la loro condotta alla santità inculcata da Gesù Cristo. Perciò, come segue a dire nell’epistola riportata, bisogna deporre il vecchio uomo con tutte le sue inclinazioni, come si depone un vecchio vestito; e bisogna, invece, come si indossa un nuovo vestito, rivestirsi dell’uomo nuovo, rigenerato dalla grazia nella verità e nella giustizia, non più deturpato dagli errori e dalle brutture di prima. Accenna ad alcuni peccati che devono deporsi e ad alcune virtù di cui bisogna rivestirsi: devono rinunciare alla menzogna per praticare la verità; rinunciare alla collera per praticare la dolcezza; rinunciare al furto per praticare il lavoro e l’elemosina. Da quanto è detto nell’epistola possiamo dedurre chi i caratteri dell’uomo nuovo sono:

1. Il bando alle cattive abitudini,

2. La pratica del bene,

3. La riparazione.

1.

Rinnovatevi nello spirito della vostra mente, e rivestitevi dell’uomo nuovo.

Nessuno vorrà farsi la domanda che S. Agostino pone in bocca a coloro che vogliono esimersi dal praticare ciò che dall’Apostolo viene inculcato. « Come mi spoglierò dell’uomo vecchio, e mi rivestirò dell’uomo nuovo? Forse io, come terzo uomo, deporrò l’uomo vecchio che possedevo, e prenderò l’uomo nuovo che non possedevo, e così si debbano intendere tre uomini?…» (En. in Ps. XXV, 1). Io dico: Rivestitevi dell’uomo nuovo, è lo stesso che dire « Rivestitevi di Gesù Cristo » (Rom. XIII, 14), chiamato anche: « Il secondo uomo», in opposizione ad Adamo «primo uomo» (1 Cor. XV, 47). Ma per rivestirci di Gesù Cristo, cioè, delle sue virtù, del suo spirito, della sua grazia, è necessario spogliarci dell’uomo vecchio, dell’uomo terreno. – Dopo la caduta di Adamo l’uomo andò attaccandosi sempre più alla terra. Alla terra sono rivolti i suoi pensieri, il suo cuore, le sue inclinazioni. I suoi discorsi, le sue opere non si staccano mai, o si staccano ben poco, dalla terra. Nella sua mente c’è l’errore, nel suo cuore ci sono le passioni, nelle sue opere c’è il disordine. In una parola, egli è l’uomo del peccato, è l’uomo che serve al peccato. – Perché possa piacere a Dio, rivestendosi di virtù, è necessario togliere il peccato. Le piante delle virtù non nascono dai semi dei vizio. Per innalzare un edificio nuovo, si toglie dal terreno ogni ingombro, in modo che il costruttore abbia la più ampia libertà di movimenti nell’seguire i suoi lavori. Per innalzare l’edificio d’una vita virtuosa, bisogna innanzi tutto sgombrare l’anima nostra dal peccato e dalle sue radici. Le abitudini d’una volta devono cessare: il modo di vivere d’una volta va cambiato, i gusti devono essere nuovi; gli idoli delle nostre passioni vanno abbattuti, e abbattuti generosamente. – Il voler rimanere attaccati anche solamente a una sola delle vecchie abitudini cattive è come rimanere attaccati a tutte. Il cuore andrebbe diviso tra la virtù e il vizio; tra Dio e l’idolo della propria passione, e questo è assolutamente inammissibile. « Chi non è con me, contro di me » (Matt. XII, 30), dichiara il Signore. Se tu avessi il cuore attaccato a un solo peccato grave, saresti sempre rivestito dell’uomo vecchio, privo della grazia, nemico di Dio.

2.

Per rivestirsi dell’uomo nuovo non basta deporre l’uomo vecchio col dare il bando alle cattive abitudini! L’astenersi dalle opere cattive non merita gran lode se non si praticano opere buone. « Infatti — nota il Crisostomo — non si è soliti lodare, anzi neppur menzionare alcuno per questo che non commette delitti… Poiché noi usiamo mai attribuire a lode la semplice astensione dalle cattive azioni; in vero ciò sarebbe ridicolo » (In Epist. ad Philipp. Hom. VI, 1). L’odiare il male è cosa assolutamente necessaria per praticare bene, poiché, « se non odiamo il male non possiamo amare il bene » (S. Gerolamo Epist. 125, 14 ad Eust.); ma questo non è tutto. – Il campo non si dissoda e non si libera dalle male piante pel semplice gusto di lavorare; ma per farvi una nuova piantagione, che ripaghi coi suoi frutti abbondanti il valore del terreno e la fatica. “Dimmi un po’, che giova — osserva ancora il Crisostomo — che si siano tolte tutte le spine se non vi si è sparso il buon seme? Se il tuo lavoro sarà rimasto imperfetto si finirà nello stesso danno di prima”. Perciò, anche il nostro S. Paolo, prendendosi cura di noi, non limita i suoi precetti alla amputazione ed alla estirpazione dei mali, ma esorta a far tosto la piantagione del bene (in Epist. ad Eph. Hom. 16, 2). E fa l’enumerazione delle buone opere che dobbiam coltivare, cominciando dalla semplicità, dalla schiettezza. Perciò, deposta la menzogna, ciascun parli al suo prossimo con verità, e continua, insegnandoci come dobbiamo usare della nostra lingua, guidare i moti del nostro cuore, diportarci nelle azioni esteriori. Sono insegnamenti che possono comprendersi tutti in uno: fuggite ogni vizio, e praticate ogni virtù. – La vita nuova, insomma, si riassume in questa norma, fare tutto l’opposto di quel che si faceva prima. San Agostino così commenta l’esortazione dell’Apostolo: Rivestitevi dell’uomo nuovo. « Ha voluto dir questo: Cambiate costumi. Prima amavate il secolo, adesso amate Dio » (Serm. 9, 8). Di questo mutamento di costumi ci dà un mirabile esempio Zaccheo. Zaccheo, capo dei doganieri incaricati di riscuotere le imposte a Gerico, ha la fortuna di ricevere in casa Gesù. Quella visita cangia totalmente il cuore del capo gabelliere. Prima era attaccato alle ricchezze che accumulava con angherie: ora se ne spoglia per prodigarne la metà ai poveri. Prima non badava tanto pel sottile, in fatto di giustizia: ora decide di restituire il quadruplo a chi avesse potuto recare qualche danno. Chi vuol condurre una vita nuova deve precisamente imitare Zaccheo. Se prima era bestemmiatore, ora lodi Dio; se era avaro, ora sia generoso; se era superbo, ora sia umile; se vendicativo, ora sia largo nel perdonare; se impudico, ora coltivi la castità. Pensieri, desideri, inclinazioni, discorsi, opere siano ispirate agli esempi dell’uomo nuovo, Gesù Cristo.

3.

L’Apostolo, parlando della condotta che deve tenere, chi, prima della conversione, rubava, così si esprime: Colui che rubava non rubi più: piuttosto s’affatichi attendendo con le proprie mani a qualche cosa di onesto, per aver da far parte a chi è nel bisogno. È chiaro da queste parole che S. Paolo non solo richiede che l’uomo nuovo, invece di rubare lavori e renda quel che ha preso ingiustamente; ma accenna al dovere di mettersi in grado di espiare, con l’elemosina, il male che ha fatto, togliendo ai legittimi possessori ciò che a loro apparteneva. Il pensiero di riparare il mal fatto, di dare buono esempio là dove si era dato scandalo, di dare gloria a Dio in cambio delle offese a Lui recate, fu sempre il segreto dal grande progresso nella via della santità da parte dei convertiti. Una vera riforma di noi stessi comincia col riconoscere la nostra miseria, e confessare con tutta schiettezza al cospetto di Dio: « Eccoci dinanzi a te col nostro peccato » (1 Esd. 9, 15). Poi prosegue, distruggendo in noi il regno del peccato, per mezzo delle buone opere; ma non si ferma qui. Cerca, non fosse che per riconoscenza a Dio, che con la sua grazia l’ha tratto dalla via della perdizione, di distruggere il peccato anche negli altri. Così ha fatto Davide. Alla parola del profeta Natan si scuote: riconosce la propria colpa: «Io conosco la mia prevaricazione, e il mio peccato mi sta sempre dinanzi»; e la confessa sinceramente davanti a Dio: « Contro di te solo ho peccato e ho fatto il male al tuo cospetto »; poi, domanda al Signore la grazia di divenire un uomo completamente nuovo: « Crea in me, o Signore, un cuor puro, e rinnova dentro di me uno spirito retto »; inoltre protesta di voler insegnare ai peccatori a rimettersi, come lui, sulle vie del Signore: « Insegnerò ai peccatori le tue vie, e i peccatori si convertiranno a te » (Salm. L, 4… 5… 11… 14). Chi ha rubato beni materiali, procuri per spirito dì riparazione di mettersi in grado di far l’elemosina ai bisognosi. Chi con i suoi discorsi, con le sue azioni, con la propaganda ha tolto o indebolito la fede, ha prodotto il rilassamento dei costumi, deve fare il possibile per ricondurre a Dio quelli che se ne sono allontanati. E se non gli sarà possibile ricondurre a Dio quegli stessi che furono allontanati da lui, glie ne riconduca degli altri. E cerchi di ricondurgli specialmente quelli che se ne sono allontanati maggiormente. Davide si propone di ricondurre a Dio gli iniqui e gli empi. Quanto più uno è avvolto nelle tenebre, tanto più ha bisogno di chi lo indirizzi pel retto sentiero; quanto più uno è immerso nel pantano, tanto più ha bisogno dell’opera di chi l’aiuti a uscirne. – E se non potrà fare quanto il suo cuore brama per riparare la vita passata, procuri di fare quel che può; e  se non gli è possibile di riparare direttamente, ripari indirettamente con la preghiera, coi patimenti, con le mortificazioni accettati e offerti a Dio con l’intenzione di riparare le mancanze della vita passata.

Graduale

Ps CXV: 2
Dirigátur orátio mea, sicut incénsum in conspéctu tuo, Dómine.

[Si innalzi la mia preghiera come l’incenso al tuo cospetto, o Signore.]
V. Elevatio mánuum meárum sacrifícium vespertínum. Allelúja, allelúja

[L’elevazione delle mie mani sia come il sacrificio della sera. Allelúia, allelúia]
Ps CIV: 1

Alleluja

Alleluja, Alleluja

Confitémini Dómino, et invocáte nomen ejus: annuntiáte inter gentes ópera ejus. Allelúja.

[Date lode al Signore, e invocate il suo nome, fate conoscere tra le genti le sue opere.]

Evangelium

Sequéntia   sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt XXII: 1-14
“In illo témpore: Loquebátur Jesus princípibus sacerdótum et pharisaeis in parábolis, dicens: Símile factum est regnum cœlórum hómini regi, qui fecit núptias fílio suo.
Et misit servos suos vocáre invitátos ad nuptias, et nolébant veníre. Iterum misit álios servos, dicens: Dícite invitátis: Ecce, prándium meum parávi, tauri mei et altília occísa sunt, et ómnia paráta: veníte ad núptias. Illi autem neglexérunt: et abiérunt, álius in villam suam, álius vero ad negotiatiónem suam: réliqui vero tenuérunt servos ejus, et contuméliis afféctos occidérunt. Rex autem cum audísset, iratus est: et, missis exercítibus suis, pérdidit homicídas illos et civitátem illórum succéndit. Tunc ait servis suis: Núptiæ quidem parátæ sunt, sed, qui invitáti erant, non fuérunt digni. Ite ergo ad exitus viárum et, quoscúmque invenéritis, vocáte ad núptias. Et egréssi servi ejus in vias, congregavérunt omnes, quos invenérunt, malos et bonos: et implétæ sunt núptiæ discumbéntium. Intrávit autem rex, ut vidéret discumbéntes, et vidit ibi hóminem non vestítum veste nuptiáli. Et ait illi: Amíce, quómodo huc intrásti non habens vestem nuptiálem? At ille obmútuit. Tunc dixit rex minístris: Ligátis mánibus et pédibus ejus, míttite eum in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

(“In quel tempo Gesù ricominciò a parlare a’ principi dei Sacerdoti ed ai Farisei per via di parabole dicendo: Il regno dei cieli è simile a un re, il quale fece lo sposalizio del suo figliuolo. E mandò i suoi servi a chiamare gl’invitati alle nozze, e non volevano andare. Mandò di nuovo altri servi, dicendo: Dite agl’invitati: Il mio desinare è già in ordine, si sono ammazzati i buoi e gli animali di serbatoio, e tutto è pronto, venite alle nozze. Ma quelli misero ciò in non cale, e se ne andarono chi alla sua villa, chi al suo negozio: altri poi presero i servi di lui, e trattaronli ignominiosamente, e gli uccisero. Udito ciò il re si sdegnò; e mandate le sue milizie, sterminò quegli omicidi e diede alle fiamme le loro città. Allora disse a’ suoi servi: Le nozze erano all’ordine, ma quelli che erano stati invitati, non furono degni. Andate dunque ai capi delle strade e quanti riscontrerete chiamate tutti alle nozze. E andati i servitori di lui per le strade, radunarono quanti trovarono, e buoni e cattivi; e il banchetto fu pieno di convitati. Ma entrato il re per vedere i convitati, vi osservò un uomo che non era in abito da nozze. E dissegli: Amico, come sei tu entrato qua, non avendo la veste nuziale? Ma quegli ammutolì. Allora il re disse ai suoi ministri: Legatelo per le mani e pei piedi, e gettatelo nelle tenebre esteriori: ivi sarà pianto e stridor di denti. Imperocché molti sono i chiamati e pochi gli eletti”)

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sul piccolo numero degli eletti.

Multi sunt vocati, pauci vero electi. Matth.XXII.

Si è con questa terribile sentenza che Gesù Cristo finisce la parabola dell’odierno Vangelo, dove paragona il regno de’ cieli ad un re che fece un gran convito per le nozze di suo figliuolo, al quale invitò parecchi che ricusarono di venirvi, e tra quelli che vi assistettero se ne ritrovò uno che non aveva la veste nuziale; il che gli attirò il più rigoroso castigo, poiché fu gettato coi piedi e le mani legate nelle tenebre esteriori. Così è, conchiuse Gesù Cristo; molti sono chiamati, ma pochi sono eletti: Multi sunt vocati, pauci vero electi. Stupenda verità che ha sempre riempiuto di spavento i più gran santi, e che è molto atta a portar nei nostri cuori un salutevole timore per poco che ci resti di religione! Perciò, quando io considero che si è l’oracolo medesimo della verità, cui solo è noto il numero dei predestinati, il quale ci assicura in termini precisi e formali che vi saranno pochi eletti, ah! io tremo, e sull’esempio del re profeta sono penetrato da un timore, che le ossa tutte e l’anima mia conturba: Conturbata sunt omnia ossa mea. Infatti, che vi sia dopo la morte un giudizio terribile che deve decidere della nostra eternità; che coloro i quali in esso saranno condannati, soffriranno tutti i tormenti immaginabili, basta questo senza dubbio per far tremare i più intrepidi: ma vi sarebbe minor motivo di temere, se potessimo accertarci che il numero degl’infelici sarà il più piccolo; tuttavia la fede ci insegna il contrario: pauci electi. Questa è, fratelli miei, di tutte le verità evangeliche quella che io trovo la più sorprendente, e la più capace di mettere in costernazione i peccatori: procuriamo in quest’oggi di penetrarci del salutevole timore che essa deve naturalmente inspirarci: ma guardiamoci dal cadere nell’estremità ove ella potrebbe gettarci, se le si desse un altro senso che quello del Vangelo: mentre a Dio non piace, fratelli miei, che io cerchi di metter in disperazione il peccatore, né anche di scoraggiarlo. Bisogna intimorirlo, ma nello stesso tempo animarlo a lavorare con confidenza al grande affare della salute. Il che mi propongo di fare in quest’oggi sviluppandovi il senso della verità del piccolo numero degli eletti. Perché sì pochi eletti? Primo punto. Che dobbiamo noi fare per assicurare su ciascuno di noi i bisogni di misericordia del Signore? Secondo punto. Da un canto i peccatori troveranno di spaventarsi alla vista dei loro disordini, e dall’altro di che animarsi e convertirsi. Forse la conversione di qualcheduno di quelli che sono qui è annessa a questo soggetto.

I. Punto. Che siano pochi i predestinati e che i più siano riprovati, nulla di più certo, se consultiamo la sacra Scrittura ed i santi padri. Qui io vedo questo piccolo numero di eletti paragonato alla famiglia di Noè, che sola fu salva dal diluvio; là io lo vedo rappresentato dai pochi frutti che restano sopra di un albero dopo la raccolta, dalle poche spighe che restano dopo la messe. Io odo Gesù Cristo che ci assicura nel Vangelo che vi saranno pochi eletti; che la porta per dove si entra nel cielo è stretta, e che pochi vi ha che la trovino, che ce lo assicura, dico, non già semplicemente come un’altra verità; ma con una specie di esclamazione e di stupore. Oh quanto è stretta, dice Egli, la strada che conduce alla vita! Quanto pochi ve ne sono che la seguono! Oh quam arcta est via, quæ ducit ad vitam! quam pauci sunt qui inveniunt eam! Se mi contentassi di queste testimonianze, io n’avrei detto abbastanza per provarvi la verità da me proposta ed ispirarvi un santo spavento; ma non avrei fatto abbastanza per scoprirvi le ragioni di una verità sì terribile e giustificare la causa di Gesù Cristo. – Iddio chiama tutti gli uomini al suo regno, rappresentato dal convito di cui si parla nel Vangelo, ove molti furono invitati, ed ove i servi del re avevano ordine di far entrare tutti coloro che avrebbero ritrovati, niuno eccettuato: Quoscumque inveneritis, vocate ad nuptias. Niuno è di noi, fratelli miei, cui Gesù Cristo non abbia promesso un posto in questo eterno banchetto. Egli ne ha fatte tutte le spese, ce ne ha aperta la porta coi patimenti e con la morte; Egli ha inviati i suoi servi, gli Apostoli, ed invia ancora tutti i giorni i ministri del suo Vangelo per invitarvi gli uomini: Vocate ad nuptias. Egli dà a tutti loro gli aiuti necessari per meritarvi un posto, senza di che il suo invito sarebbe inutile; poiché, siccome altrove c’insegna la fede, niuno può con le sue proprie forze giungere a quella felicità. Niuno si attribuisce dunque in verun modo la cagione del piccolo numero degli eletti a difetto di volontà dalla parte di Dio per la salute degli uomini, né all’insufficienza dei meriti di Gesù Cristo, né alla sottrazione delle grazie necessarie alla salute. Non è questo il senso che convien dare alla verità che vi predico. Se vi sono sì pochi eletti, non è già, lo ripeto, perché Dio abbia cosi determinato; non è neppure perché questo piccolo numero ci è rappresentato sotto figure sensibili di cui la Scrittura e i padri si servono per istruirci; ciò non è finalmente perché Gesù Cristo l’ha detto nei suoi oracoli; queste figure e questi oracoli provano bensì la verità del piccol numero degli eletti, ma ne suppongono di già la cagione nella condotta degli uomini. Se vi sono dunque sì pochi eletti tra gli uomini, contro di essi soli debbono prendersela. Dio per un effetto della sua bontà li chiama tutti al suo regno: Multi vocati. – E la maggior parte per un effetto della sua indifferenza e della sua malizia non vuole arrendersi ai desideri di Dio. Ecco, fratelli miei, la vera cagione del piccolo numero degli eletti: Pauci electi. Gli uni, simili a quei convitati che ricusarono di andare a quel banchetto, non hanno che dell’avversione per quei beni eterni; gli altri, simili a quell’uomo che non aveva la veste nuziale, meritano per la loro condotta sregolata di essere, al par di lui, condannati a gemere in quel tenebroso soggiorno ove saranno pianti e stridori di denti: bisogna forse stupirsi che, sebbene tutti siano chiamati, vi sieno sì pochi eletti? Pauci electi. Ripigliamo le circostanze della parabola del corrente Vangelo. Il re, apparecchiato il banchetto delle nozze di suo figliuolo, manda i suoi servi ad invitare molti, i quali sotto vari pretesti ricusano di venirvi. Gli uni andarono alla loro villa, gli altri al loro negozio, e non fecero alcun conto dell’onore che voleva loro procurare. Figura molto naturale di un gran numero d’uomini che sono chiamati al convito eterno, alle nozze dell’Agnello immacolato, e che, poco tocchi di questa bella sorte, si abbandonano interamente agli interessi del secolo, non sono ripieni che d’idee materiali e terrene, che aggravano loro il cuore, e li strascinano verso la vanità e la menzogna. – Dio fa i primi passi per attirarli a sé, li invita, li sollecita, o colla voce interiore della sua grazia o per mezzo dei suoi deputati apostolici, a cercare una felicità più degna .della loro attenzione che quella di quaggiù; costoro sono insensibili alla voce che li chiama. Al vederli incessantemente occupati nei negozi o nel lavoro direbbesi che non sono fatti che per la terra. Si parli loro della salute, dell’orazione, della frequenza dei Sacramenti, delle pratiche di pietà; è questo un linguaggio sconosciuto per essi, non hanno il tempo di pensarvi. Simili a quei convitati che conveniva sforzare per entrare nella sala del banchetto, bisogna loro far violenza per farli entrare nella via della salute. Di mala voglia entrano essi nelle nostre chiese per assistervi ai divini uffizi, per udire la divina parola; e molto sopraffatti li vediamo dalla noia e dal fastidio. Raramente si veggono accostarsi ai Sacramenti, differiscono talvolta da un anno all’altro; appena ritenere si possono in compagnia dei fedeli nei giorni consacrati al servigio di Dio; i loro affari temporali ne assorbiscono la più gran parte, che essi impiegano or a fare viaggi, or a formare progetti. Non sono questi forse fatti, di cui l’esperienza non ci somministra che troppo prove. Ogni sollecitudine hanno essi per gli affari del tempo, e non pensano in verun modo a quello della eternità. Or io vi domando, questa indifferenza degli uomini per l’affare della salute lascia loro forse molta speranza di essere del numero degli eletti? Ma non è questa che una cagione della riprovazione degli uomini; il vangelo ce ne scopre un’altra in colui, che comparve al convito senza la veste nuziale. – Ed in vero, fratelli miei, che significava quella veste nuziale che bisognava avere per entrare nel convito delle nozze? Ella significava, secondo s. Gregorio Papa, la grazia e la carità, che sono l’ornamento di un’anima cristiana, e senza di cui non si può entrare nel cielo. Or quanti Cristiani possono lusingarsi di avere questa grazia santificante, questa carità che ci rende amici di Dio ed eredi del suo regno? Questa grazia non può trovarsi che nelle anime innocenti, o veramente penitenti. Niun’altra strada evvi per entrare nel cielo che l’innocenza o la penitenza; ma oimè! quanto pochi vi ha che abbiano conservata la loro innocenza, o che, dopo averla perduta per il peccato, l’abbiano per mezzo della penitenza ricuperata? L’innocenza! ma in qual età, in qual condizione troveremo noi questo tesoro? Ella è forse cosa rara il vedere che il primo uso di nostra ragione comincia dalla perdita di nostra innocenza? Che i fanciulli non sono sì tosto usciti dal seno delle loro madri che divengono prevaricatori degli ordini del celeste Padre? Erraverunt ab utero (Ps. XVII). Che la loro bocca è dedicata alla menzogna, il loro spirito alla dissipazione, il loro cuore ai momentanei divertimenti, e che, troppo suscettibili dei cattivi esempi dei loro genitori, divengono come essi ingiusti, bestemmiatori ed intemperanti? La gioventù sarà dunque la sede dell’innocenza? Ma chi non sa che le passioni si fanno sentire con più di vivacità, dove governano con più d’impero? Quanti si trovano dei giovani che non siano d’una vita sregolata, disubbidienti ai loro genitori, bestemmiatori, libertini, impudichi, dissoluti, pieni di vanità, impegnati in commerci peccaminosi? Quanti matrimoni o profanati da infedeltà o intorbidati dalle risse e dalle dissensioni, e che, ben lungi di mettere un freno alla libidine, non divengono forse che un nuovo stimolo che l’accresce, e fa vedere sino nell’età più avanzata dei disordini di cui non si ha più rossore. Passiamo alle diverse condizioni. Avvenne forse una sola che non possa e non debba rendere questa testimonianza, che non v’è più d’innocenza? I ricchi non hanno che durezza per i poveri, i poveri invidia contro i ricchi: i ricchi ti perdono nell’ozio e nella mollezza, poiché le ricchezze somministrano loro onde contentare le loro passioni: i poveri si dannano nella miseria, perché non la sopportano che con impazienza, e per uscirne passano spesso oltre i limiti della giustizia e della probità. Eh! che importa, fratelli miei, che la vostra dannazione non sia l’effetto di una vita molle e sensuale, se le vostre impazienze, le vostre inimicizie, le vostre ingiustizie ne sono la cagione? Di qualunque siasi stato conviene, per vivere nell’innocenza, seguire le massime del Vangelo e praticarne la morale. – Prendiamo dunque da una parte il Vangelo, osserviamo dall’altra la condotta degli uomini nei diversi stati, e vedrassi se ve ne sono molti che possano pretendere di essere del numero degli eletti. Che cosa insegna il Vangelo? Che bisogna amar Dio sopra ogni cosa ed il prossimo come sé stesso; amar Dio sopra ogni cosa, vale a dire esser pronto a sacrificar tutto, a sofferir tutto piuttosto che offenderlo. Ed è così che si ama allora quando un vile interesse, un sozzo piacere prevale all’ubbidienza che gli si deve? Bisogna amar il suo prossimo come se stesso, senza eccezione de’ suoi più crudeli nemici. E chi sono coloro che non abbiano qualche avversione per il prossimo o che gli facciano tutto quel bene che desidererebbero si facesse ad essi medesimi? Che cosa ci insegna ancora il Vangelo? Che bisogna essere staccato dai beni, dai piaceri del mondo, mortificare incessantemente le proprie passioni, portare di continuo la sua croce. E chi sono coloro che non cedano all’amor delle ricchezze, che resistano all’allettamento del piacere, che non seguano le loro passioni, e che trasportar non si lascino dal torrente del costume? Ah! quanto è mai raro, fratelli miei, trovare di quei perfetti Cristiani che stiano sempre in guardia contro se stessi, che facciansi le necessarie violenze per non soccombere alle tentazioni, per evitare le occasioni di perdersi; di quei perfetti Cristiani, che siano assidui all’orazione e al servigio di Dio, caritatevoli verso il prossimo, umili, pazienti, casti, modesti, riservati! Quanti al contrario vivono in una maniera affatto opposta allo spirito del Vangelo! Basta aprire gli occhi su ciò che accade nel mondo. Vi si vede regnare l’orgoglio, l’invidia, l’ingiustizia, l’odio, la maldicenza, la libidine, la mollezza , in vece della buona fede e della probità, vi si vede la menzogna, l’inganno, le vessazioni. Si esamini quel che accade nelle città e nelle campagne: quante dispute e contrasti! quante gare e liti che mettono in dissensione le famiglie! Si entri nelle case, non vi si odono che bestemmie, che maledizioni, che maldicenze, che parole oscene; non vi si vedono che scandali, che cattivi esempi: Totus mundus in maligno positus est (Jo. V). Tutto il mondo non è ripieno che di malizia e di corruzione; tutti hanno traviato, dice il profeta; non v’ha quasi alcuno che faccia il bene. Convien dunque stupirsi, se sienvi sì pochi eletti, poiché vi sono sì poche virtù e sì pochi Cristiani che compiano i loro doveri? Non è già che si ignorino questi doveri; mancan forse istruzioni? E se questo bastasse per esser salvo, se non si trattasse ancora che di dare alcune prove della sua religione, di pregare, di visitar chiese, di ascoltar messe e di esser associato a pii consorzi, si potrebbe dire che il numero dei santi è più grande che quello dei riprovati; poiché malgrado la generale corruzione del mondo, si vedono ancora molte vestigia di religione. – Ma quel che rende il numero degli eletti sì piccolo è che, coi segni esteriori di religione, regnano molti vizi tra gli uomini; si è che ve ne ha ben pochi che del Signore osservino esattamente tutti i punti della legge: or, basta di mancare ad un solo per essere riprovato. Ah! se i santi, che hanno fedelmente osservata la legge del Signore, che hanno fatto tanti sforzi, che si sono abbandonati a tanti rigori per entrare nel cielo, hanno ancora temuto di esserne esclusi; come mai Cristiani che niuna violenza si fanno per esser salvi, possono sperare di esserlo? Se almeno una vera penitenza riparasse l’innocenza perduta, vi sarebbero altrettanti eletti, quanti veri penitenti, perché la penitenza ha sempre aperto ai peccatori il seno della divina misericordia. Ma chi’l crederebbe? La vera penitenza è quasi così rara come l’innocenza. Infatti che cosa è la penitenza? È una virtù che c’induce a soddisfare alla giustizia di Dio per gli oltraggi fatti alla sua infinita maestà. Far penitenza si è detestare i peccati passati e concepirne un sì grande orrore che siamo risoluti di perder tutto, di sofferir tutto, piuttosto che di ricadervi: far penitenza si è espiare con la mortificazione delle passioni i piaceri che loro si sono permessi e far servire, come dice l’Apostolo, alla santità le membra che hanno servito all’iniquità; si è sopportar con piacere le afflizioni, i dispregi, le perdite dei beni, le malattie, i sinistri accidenti, in una parola tutto ciò che è capace di umiliare, di purificare l’uomo peccatore. Or è forse così, fratelli miei, che voi fate penitenza? Giudicatevi da voi medesimi sulla testimonianza di vostra coscienza; la vostra penitenza è ella conforme alle regole, che vi sono prescritte? Voi vi confessate, è vero, ma le vostre confessioni sono esse precedute da un sufficiente esame, accompagnate da un vivo dolore dei vostri peccati, seguite da un cambiamento di condotta? – Per essere penitente, bisogna ancora soddisfare al prossimo per i torti che gli si sono fatti nei beni, nella riputazione; lo fate voi? Si ode bensì parlare d’ingiustizie, ma quasi mai di restituzione; eppure senza di ciò non si dà vera penitenza. Da tutto quel che ho detto egli è forse difficile a comprendere che vi sono sì pochi eletti? La condotta degli uomini non ne somministra delle prove? La vostra può ella assicurarvi che sarete di questo numero? Rispondete ingenuamente, in quale stato vi trovate voi? Osereste al presente comparire con fiducia al tribunale del supremo Giudice? Possedete voi in un grado molto eminente le qualità che il padre di famiglia esigeva in coloro che faceva sedere alla sua mensa? Se questo non è, mettetevi in buono stato, seguendo le impressioni salutevoli che la verità del piccolo numero degli eletti deve produrre sopra le vostre menti e i vostri cuori.

II. Punto. Dopo quel che vi ho detto del piccolo numero degli eletti, mi sembra fratelli miei, udirvi tener il linguaggio, che tenevano altre volte gli Apostoli al Salvatore sul medesimo soggetto. Se è così difficile di salvarsi, se vi sono sì pochi eletti, chi potrà dunque sperare di esserlo ? Quis poterit salvus esse (Matth. XIX)? Tutti, fratelli miei, sì tutti; ma bisogna, aggiungerò con Gesù Cristo, fare tutti gli sforzi per entrare e camminare in questa via stretta, poiché Dio accorda a tutti le grazie necessarie: Contendite intrare per angustam portam (Luc. XIII). Da questa risposta del Redentore io cavo due conseguenze molto capaci di fare su di noi impressioni vantaggiose, che saranno il frutto della verità che annunzio. Se è possibile andar salvo, e se è per colpa sol degli uomini che vi saranno sì pochi eletti, non conviene dunque disperare di esser di questo piccol numero. Bisogna dunque portare tutte le nostre mire, dirigere tutti i nostri passi verso la celeste patria; tali sono i mezzi che dobbiamo porre in opera per assicurare la nostra predestinazione. Se il piccol numero degli eletti non venisse che dalla scelta che Dio ne avesse fatta; se non dovessero esservi sì pochi predestinati se non perché Dio ha voluto così, senz’alcun personale o imputato demerito dalla parte degli uomini, ah! vi confesso, fratelli miei, che il nostro stato sarebbe molto deplorabile. Incerti se Dio ci avesse distinti in questa scelta, noi non avremmo il coraggio d’intraprendere cosa alcuna per la salute; perché, diremmo, se Dio non vuole ch’io sia salvo, avrò bel fare, io nol sarò giammai. Quindi nascerebbe una orribil disperazione e tutti i più enormi delitti cui gli uomini s’abbandonerebbero. Tali sono le funeste, conseguenze di un errore che ricusa di riconoscere in Dio una volontà sincera di salvare tutti gli uomini. Ma lungi dalle nostre menti, fratelli miei, un pensiero sì ingiurioso alla divinità, e sì tormentoso per noi. – Io non saprei abbastanza ripeterlo; Dio vuole la salute di tutti gli uomini: Egli non ci ha creati per perderci, ma per salvarci. A questo fine ci ha Egli dato il suo Figliuolo, i suoi Sacramenti, le sue grazie e tutti gli altri aiuti necessari: di modo che si può dire che se la nostra salute non dipendesse che da Dio solo, il suo regno sarebbe sicuramente per noi, pensiero infinitamente consolante, fratelli miei, poiché niuno è di noi il quale non possa dire: Iddio mi ha apparecchiato un posto nel suo regno, Egli mi dà tutti i mezzi necessari per arrivarvi, soltanto che io sia fedele alle grazie e son sicuro di mia salute. Qualunque peccato abbia io commesso, posso ottenerne il perdono, perché Dio l’ha promesso ad ogni peccatore che sinceramente a Lui ritorna; io posso dunque sperare, finché sono sulla terra; Dio vuole ch’io abbia questa speranza, io non ho che a voler efficacemente giungere al fine che mi è proposto, ed infallibilmente l’otterrò; e se me ne allontano, non potrò dolermi che di me stesso, poiché il numero degli eletti non sarà piccolo che per sola colpa degli uomini. Tale è, fratelli miei, l’impressione salutevole e consolante che questa verità, sebbene in sé terribile, deve lasciare nelle nostre menti. – Senza fermarvi a fare vani ragionamenti sulla vostra predestinazione, sforzatevi, secondo l’avviso del principe degli Apostoli, di renderla certa con le vostre buone opere: Satagite ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis. Perciocché, in qualunque modo si consideri il mistero della predestinazione, e benché impenetrabile sia ai nostri occhi, noi dobbiamo tenere per certo, conforme ai principi della fede, che Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere, che nessuno sarà salvo se non per i suoi meriti, e che nessuno sarà riprovato fuorché per colpa sua. Or, per ciò meritare, due cose si richiedono, la grazia di Dio e la cooperazione dell’uomo. La grazia di Dio non ci manca, non manchiamo dunque noi medesimi alla grazia, e saremo predestinati; non abbiamo a temere che noi, e tutto a sperare dalla parte di Dio. Ecco un riflesso più che bastante a calmare le nostre inquietudini sulla eterna sorte. Se, malgrado queste certezze, voi siete ancora conturbati dal timore di un’eterna riprovazione; se, come il re profeta, qualche volta v’interrogate; non avrò io forse la disgrazia di essere rigettato per sempre dalla faccia del mio Dio? Le mie iniquità non mi chiuderanno esse il seno delle sue misericordie? Numquid in æternum projiciet Deus? Aut in finem misericordiam suam abscindet (Psal. LXXVI). I miei peccati, le mie continue resistenze alla grazia, non mi danno esse luogo di crederlo? E non sono io forse sicuro che se muoio nello stato in cui mi trovo, sarò del numero sgraziato di coloro che saranno sempre privi della vera luce? In tal caso che dovete voi fare per rassicurarvi? Bisogna, come lo stesso re profeta, determinarvi ad una seria conversione e prendere senz’indugio la strada che ad essa conduce: Dixi: nunc cœpi. Ah! dovete voi dire, la risoluzione è presa; io voglio, senza più aspettare, cangiar condotta, lasciar il peccato, rompere quelle illecite corrispondenze, correggermi dai miei cattivi abiti: Dixi: nunc cœpi. Non sarà già per un giorno, per un certo tempo che io osserverò il mio proponimento, ma sì per tutta la mia vita ch’io voglio unirmi a Dio in una maniera sì inviolabile che alcun oggetto creato non sarà capace di staccarmene: giacché dipende da me di essere del numero degli eletti, io vi sarò a qualunque costo, io mi farò tutta la violenza necessaria per venire a capo. Tale è l’altra salutevole conseguenza che tirar conviene dalla verità che abbiamo stabilita; ed è il secondo mezzo efficace di salute. – Ed in vero, fratelli miei, sebbene dipenda da ciascheduno di noi, con l’aiuto della grazia, l’essere del numero dei predestinati, si può sempre dire con verità che ve ne saranno pochi, perché la maggior parte degli uomini si perde di coraggio, alla vista degli ostacoli che s’incontrano nei sentieri della giustizia: non basta dunque, desiderare il cielo; è mestieri ancora fare grandi sforzi per arrivarvi. E a questo appunto i santi tutti sono determinati; testimonio ne sia il grande Apostolo, quel vaso di elezione, quell’uomo innalzato sino al terzo cielo: quantunque la sua coscienza nulla gli rimproverasse, pure non si credeva egli sicuro; e sul timore che, dopo avere predicato agli altri, non fosse riprovato egli stesso, castigava aspramente il suo corpo, portava incessantemente su di sé la mortificazione di Gesù Cristo: Castigo corpus meum, et in servitutem redigo; ne forte, quam aliis prædicaverim, ipse reprobus effìciar (I Cor. IX). Or se questo gran santo, che fu eletto da Gesù Cristo medesimo per annunziare la gloria del suo nome,se questo uomo incomparabile che aveva acquistati tanti meriti, temeva per la sua salute; e se questo sentimento onde era sempre occupato l’induceva a trattarsi aspramente, che non dobbiamo noi medesimi temere e che non dobbiamo fare, noi che siamo così lontani dalla virtù di quel grande apostolo?Gettate ancora gli occhi su quella moltitudine innumerabile di martiri che hanno amato sacrificare la vita al furore dei tiranni, piuttosto che cader nelle mani di un Dio vendicatore. Chi sostenerli poteva in sì aspre prove? Nient’altro che il timore di vedersi esclusi dal regno dei cieli. Qual altro motivo ha potuto indurre ad abitare nei deserti tanti confessori e vergini, che, per non essere esposti a perire con la folla, preferirono le austerità della penitenza a tutto ciò che il mondo può offrire di più lusinghiero nei suoi beni e piaceri? Tali sono gli effetti salutevoli che la verità del piccol numero degli eletti ha prodotto nei santi: sapevano essi che la strada che conduce al cielo è stretta e battuta da pochi; essi l’hanno costantemente seguita; hanno coraggiosamente sormontate le difficoltà che si opponevano all’eseguimento dei loro disegni. Così dovete fare voi pure, fratelli miei; voi sapete, come i santi, che per meritare la corona vi resta a percorrere una strada seminata di triboli e di spine; voi siete certi che la via che conduce alla perdizione è larga e spaziosa e battuta dal maggior numero, perché non presenta che rose e dolcezze. Da un canto vi vedete una felicità incomparabile, dall’altro una miseria senza fine: che fare? Bisogna, senza esitare, dir un eterno addio a coloro che corrono al precipizio, per camminare su quelle tracce che vanno a finire alla gloria: converrà per questo, lo confesso; sostenere molti combattimenti, domare le vostre passioni, portar incessantemente la vostra croce; ma è molto meglio salvarsi col piccol numero che perdersi con la moltitudine; e se le difficoltà vi spaventano, v’incoraggi la ricompensa. – Non apportate più dunque per scusa dei vostri disordini il gran numero di coloro che fanno come voi; mentre è questa una fatale illusione di cui servesi il demonio per perder le anime. La maggior parte lo fa, dicesi ordinariamente, posso dunque farlo ancor io. Ah! ben lungi di ragionare in tal modo, dite a voi medesimi: la maggior parte cerca i beni, gli onori, i piaceri della terra, dunque convien disprezzarli; la maggior parte fugge le croci, la povertà, le mortificazioni, la penitenza; dunque convien abbracciarle: i più sono bestemmiatori, ingiusti, maldicenti, vendicativi, voluttuosi; dunque non bisogna esser tale; se ne vedono pochi al contrario che siano umili, casti, mortificati, pazienti; bisogna dunque imitare quel piccol numero, perché egli è certo che il numero dei reprobi è il più grande. Fa d’uopo dunque; per esser salvo, conchiude s. Agostino, lasciar il gran numero per attaccarsi al piccolo: Esto de numero paucorum, si vis esse de numero salvandorum. A questo segno voi conoscerete se siete dei numero degli eletti. Volete voi ancora separarvi di più dalla folla che si perde ed assicurarvi di essere del piccolo numero che si salva? Mirate la condotta di coloro che vivono in una maniera più regolata che voi, che sono più assidui all’orazione, a frequentare i sacramenti che voi, che sono più mortificati che nol siete voi, mettetevi a confronto con tanti santi religiosi che passano i loro giorni nel ritiro, che vivono in un’intera rinuncia a tutto ciò che può lusingare le loro inclinazioni: quanti ne troverete nel medesimo vostro stato, i quali sorpassano in meriti ed in virtù? Concludete dunque così: come mai posso io sperare di essere del numero degli eletti, mentre vedo altri che hanno maggiori diritti di me, e nulladimeno temono di non esservi? Se temesi con una vita piena di buone opere, come sperare con una vita priva di virtù? Convien dunque, per assicurare la mia salute, ch’io imiti, che io superi anche in virtù coloro che menano una vita più regolata che non è la mia, poiché tra quelli che corrono nella lizza un solo è quegli che riporta il premio; bisogna ch’io raddoppi le forze per giungere al segno; giacché la porta del cielo è così stretta, convien ch’io faccia tutti i miei sforzi per entrarvi. – Se voi mettete in pratica queste utili conseguenze, il numero degli eletti, fosse ben egli ancora più piccolo che non è (ed ecco ciò che consola in questa verità), non vi dovesse essere che un solo predestinato nel mondo, sarete voi quello; il Vangelo e Gesù Cristo ci avrebbero ingannati, promettendoci la salute a queste condizioni, se noi non vi pervenissimo adempiendole; al contrario, se voi vivete nel disordine, se non fate penitenza, se morite nel peccato, benché non vi dovesse essere che un solo riprovato, voi sarete quello, e ciò per colpa vostra: Perditio tua ex te, Israel [Oseæ XIII). Ah! fratelli miei, se vi si dicesse solamente che deve esservene uno in quest’assemblea, non dovreste voi temere di esser quello? che sarebbe poi, se vi si annunciasse che ve ne sarà la metà e molto più ancora? Volete voi sapere se sarete di questo numero? Interrogate la vostra coscienza per sapere in quale stato voi siete, giudicatene da voi medesimi; se non siete in grazia di Dio, se comparite al suo giudizio senz’avere la veste nuziale, voi siete certi di essere precipitati nelle eterne tenebre. Qual cosa più capace d’indurvi; per poco che vi resti di fede, a lasciar il peccato con una sincera penitenza? Tale è il frutto che voi dovete ricavare dalle salutevoli riflessioni che abbiamo fatte sul piccolo numero degli eletti. Cominciate dunque, peccatori, sin dal giorno d’oggi, senza più tardare, la grand’opera della vostra conversione; rinnovatevi, come dice il grande Apostolo, in uno spirito di fervore, rivestendovi di Gesù Cristo, cioè, prendendolo per modello: Renovamini spiritu mentis vestræ. Sbandite dai vostri discorsi ogni parola ingiuriosa a Dio o al prossimo, per farvi regnare la verità. Se l’ira vi ha impegnati in qualche nimicizia col vostro prossimo, andate quanto prima a riconciliarvi con lui, affinché il sole non tramonti sull’ira vostra. Chi faceva ingiustizie, non ne faccia più e le ripari al più presto; anzi fatichi ancora a soccorrere l’indigente. Quanto a voi, giusti, se volete perseverare nella grazia di Dio, meditate sovente questa gran verità: Pauci electi, vi sono pochi eletti; voi troverete in essa una forte difesa contro gli assalti dei vostri nemici. Animatevi al fervore, alla pratica della virtù con queste belle parole che Gesù Cristo v’insegna: Contendite intrare per angustam portam; forzatevi di entrare nel cielo per la piccola porta. Così sia.

Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXXVII: 7
Si ambulávero in médio tribulatiónis, vivificábis me, Dómine: et super iram inimicórum meórum exténdes manum tuam, et salvum me fáciet déxtera tua. [Se cammino in mezzo alla tribolazione, Tu mi dai la vita, o Signore: contro l’ira dei miei nemici stendi la tua mano, e la tua destra mi salverà.]

Secreta

Hæc múnera, quǽsumus, Dómine, quæ óculis tuæ majestátis offérimus, salutária nobis esse concéde.

[Concedi, o Signore, Te ne preghiamo, che questi doni, da noi offerti in onore della tua maestà, ci siano salutari.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXVIII: 4-5
Tu mandásti mandáta tua custodíri nimis: útinam dirigántur viæ meæ, ad custodiéndas justificatiónes tuas.

[Tu hai ordinato che i tuoi comandamenti siano osservati con grande diligenza: fai che i miei passi siano diretti all’osservanza dei tuoi precetti.]

Postcommunio

Orémus.
Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et tuis semper fáciat inhærére mandátis.

[O Signore, l’opera medicinale del tuo sacramento ci liberi benignamente dalle nostre perversità, e ci faccia vivere sempre sinceramente fedeli ai tuoi precetti.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (130)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO IX.

Il miracolo de’ miracoli, la conversione del mondo alla fede di Cristo.

I. Ciò che si è divisato fin ora, fa manifesto che le opposizioni eccitate, sì dagli ebrei contra i miracoli di Cristo, e sì dagli eretici contra i miracoli de’ fedeli veri di Cristo, non hanno finalmente nulla di fermo, salvo l’ostinazione degli avversari, che è il solito fondamento de’ loro errori. Tuttavia diamo anche loro, che i prodigi nostri restassero alquanto dubbi; come faranno non pertanto a schermirsi dalla doppia punta con cui gli assale l’acuto s. Agostino ( De Civ. Dei 1. c. 5 ) in quel suo dilemma? O il mondo ha. Ricevuta la fede cristiana mosso dalle miracolose operazioni di quei che la propagarono; e già abbiamo i miracoli contrastati dagl’invidiosi: o l’ha ricevuta senza mirare veruna di tali operazioni; ed ecco un miracolo dunque maggiore di tutti: il mondo convertito senza miracoli. E a ciò che si può rispondere?

II. A voler pertanto penetrar bene la forza di questa argomentazione, tal è la via. La religione di Cristo propone cose sì arduo a credere, sì alte allo sperare, sì difficili all’operarsi, che veggendosi quelle con evidenza e credere e sperare e operar da tanti, non può negarsi, che se ciò è succeduto senza miracoli, convien che Dio abbia interiormente supplito per altro verso. Ma questo non poteva essere se non che sollevando in modo più alto gli uomini, da sé solo, ad aderirgli, con un prodigio maggiore de’ naturali, qual era vincere la resistenza delle materie e de’ corpi (S. Th. 3. p. q.). E chi non sa che niun corpo resiste all’angelo, si che egli di sua virtù non lo possa muovere come vuole? Eppure i cuori degli uomini gli resistono (S. Th. 1. p. q. 111. art. 2). Esset autem omnibus signis mirabilius, si ad credendum tam ardua, ad sperandum tam alta, ad operandum tam difficilia, mundus absque mirabilibus signis inductus fuisset a simplicibus et ignobilibus hominibus (S. Th. contra gentes 1. 2. C. 6). Che un peso minore vinca un maggiore, non sì può conseguire mai senza macchina, dice il filosofo (In Mech. c. 1. n. 2). E questo appunto interviene nel caso nostro, dove pochi e poveri pescatori voltarono sossopra il mondo colla forza di quella leva onnipotente che loro aveva il Redentore apprestata nella sua croce. Ma per concepire giustamente la forza di questa macchina, è di necessità figurarsi al vivo tre cose: l’abisso di quel profondo ove giaceva il mondo, prima di sì ammirabile elevazione di esso alla fede: l’altezza di quel posto a cui fu elevato: e la debolezza dei predicatori evangelici impiegatisi ad elevarlo.

I.

III. Giacea dunque il genere umano in un abisso di tutte le più malvage scelleratezze, e ogni uomo non era più un piccolo mondo, ma bene un piccolo caos di confusione, tanto disordinato in tutto se stesso. Toltone un angolo della Giudea (che pure anche ella rimase offuscata frequentemente dalle tenebre dei popoli circonvicini), tutto il rimanente degli uomini dimorava in un’alta notte. In luogo del vero Dio adorava le creature: né solo le più belle, come il fuoco, il sole, le stelle, o le più benefiche, come le piante fruttuose; ma le più vili, come topi e tafani; e le più nocive, come coccodrilli, scorpioni, serpi, dragoni. Tutti questi ebbero tra le nazioni più colte, non pure dell’Egitto, ma della Grecia, anzi in Roma medesima, i loro adoratori ed i loro altari. E quel che è più, ve gli ebbero uomini peggiori ancor de’ dragoni, cioè uomini pieni di tutti i vizi, o per dir meglio ve gli ebbero fino i vizi stessi degli uomini, convertiti in tanto deità: Ipso, vitia religiosa sunt, atque non modo non vitantur, sed, etiam coluntur (Lact. 1. 1. c. 13. de falsa Rel.). Così potevasi dire allor con Lattanzio: essendosi in fine giunto, non solamente a togliere la vergogna dal volto di tutte le scelleraggini più nefande, ma a coronarle fin di raggi celesti.

IV. Né appariva speranza più di rimedio, mentre i savi stessi del gentilesimo, i quali conoscevan la falsità della lor ingannevole religione, in vece di distoglierne il volgo, ve lo immergevano più altamente, insegnando, che conveniva accomodarsi all’usanza; credere come si volea, ma vivere secondo che si vivea; e praticare quelle cerimonie sacrileghe, se non come grate al cielo, almeno come ordinate dalla consuetudine della patria: che fu appunto ciò che la penna di un Agostino rimproverò sì giustamente a quel Seneca, renduto ahi quanto colpevole, più degli altri, dal suo sapore: Colebat quod reprehendebat , agebat quod arguebat, quod culpabat adorabat (S. Aug. 1. 6. de Civ. c. 50).

V. Che se il ben credere è la prima regola del ben vivere, agevolmente s’intende quanto perversi dovean essere que’ costumi che dipendevano da una fede sì storta! Chi poteva temer di peccare sotto l’imperio di tali dei, che o non conoscevan le colpe, o invece di punirle in altrui, le ammettevano in se medesimi; e dopo avere infamati i talami con gli adulteri insolenti, le torri con gli accessi insidiosi, e le spiagge marittime fin coi ratti non condonabili ai più licenziosi corsari, ostentavano al mondo con caratteri di stelle le loro infamie descritte in cielo? Troppo era naturale il discorso, quantunque pessimo, di colui: Quod, divos decuit, cur mihi turpe putem? Ed infatti tanto erano lontani dal vergognarsi delle loro lascivie questi adoratori di numi sì svergognati, che di esse adornavano le loro solennità, di esse arricchivano i loro sacrifizi, e ad esse davano il nome di riti sacri, benché nell’abbominazione vincessero i medesimi sacrilegi. Onde potè con amaro sdegno esclamare l’istesso s. Agostino: Qualia sunt usacrilegia, si ista sunt sacra? (Libro 2. de Civ.).

VI. Ma forse che il solo popolo vile lasciò lordarsi di questo fango? Arguitelo voi da ciò che il senato di Roma decretò teatri, tempi, onori divini a una tal Flora, laidissima meretrice, in ricompensa di avere questa, morendo, lasciata al pubblico l’eredità de’ suoi beni, cioè l’avanzo infamissimo di quel prezzo che ella aveva ritratto in tanti anni dal vituperoso mercato delle sue carni. Le comete di posto nobile, quali son quelle che appaiono in mezzo al cielo, dilatano più ampiamente i loro effetti malefici sulla terra. Giudicate però quale impressione poteva fare nel mondo soggetto a Roma un esempio si reo, che gli derivava dal senato, capo del mondo.

VII. E pure mi darei qualche pace, se si fossero gli nomini contentati di peccare da uomini, senza volere superare, peccando, nella crudeltà fin le fiere. E qual fiera si trova, che incrudelisca contro i suoi parti innocenti mentre a prò loro divengono anzi le più tenere per amore quelle che sono le più rabbiose per indole? E nondimeno contra i lor parti medesimi tanto già incrudelivano i genitori, che li sacrificavano allegramente, a suono di tamburi e di trombe, dinanzi agl’idoli. Ciò che fu poi costume sì ricevuto tra le nazioni, che anche Gerusalemme, la città eletta dal cielo, più d’una volta non si vergognò d’imitarle, fino ad inzuppare di sangue il più immacolato la terra santa. Così a Lucifero era riuscito il suo secondo disegno, tanto meglio del primo: mentre non avendo egli potuto sollevar se medesimo all’ambita divinità, se n’era da sé quasi formata un’altra, con precipitare tutto il genere umano a dovergli star sotto i piedi per tutta l’eternità, quale schiavo ignobile, in un profondo di mali. Ed egli, benché tiranno, già regnava frattanto per l’universo con pace somma, mentre, da venti secoli almeno, lo possedeva senza contraddizione e senza contrasto. E certamente chi mai poteva voltare indietro la furia di sì gran piena? Quando un rio non è lontano ancor dalla fonte, può divertirsi con qualche facilità; ma come può divertirsi, quando con lungo corso tanto è cresciuto, che allaghi i campi? Un male sì universale, sì vasto, sì inveterato, pareva cambiato in natura. Onde non altro poteva il mondo aspettarsi di quel che accade nelle gravi febbri maligne, quando le viscere infiammate raddoppiano al capo i deliri, e il capo vieppiù fumante per que’ deliri accresce vicendevolmente alle viscere la lor fiamma. Voglio dire che l’intelletto, sempre più ottenebrato dalla volontà perversa, pervertiva sempre più la volontà, e la volontà l’intelletto: e l’intelletto e la volontà aumentavano insieme all’uomo il suo male, affatto insanabile senza cura miracolosa.

II.

VIII. Questo era il baratro, donde aveva il mondo a levarsi. Veggiamo ora il termine dove egli aveva da arrivare; affine di capir bene quanto sia stata grande la resistenza che in tal atto incontrata fu dalla macchina della croce, e pure fu vinta. Questo termine era il sommo della verità e della santità praticabile in su la terra. Intese Cristo di riacquistare al Padre il mondo usurpatogli dal demonio. Intese di sbandirne via tutti i vizi, in un con l’idolatria che tra loro porta corona simile a quella che gode il basilisco tra gli altri draghi. Intese di piantare una legge si bella, che il peccare fosse un amare ciò che ella vieta, e il perfezionarsi non potess’essere se non un eseguire ciò che da lei vien commesso o vien consigliato.

IX. Ora, che Cristo abbia conseguito il suo fine, ne fa ampia fede la vita singolarmente di quei primi Cristiani, chiamati giusti fino dai loro stessi persecutori. Riferisce Eusebio (In vit. Const. 1. 2. c. 49. 50), che l’oracolo delfico, al tempo di Diocleziano, ammutolì sì profondamente, che sollecitato da’ sacerdoti in più modi, non rendé infine altra risposta che questa: Che i tanti giusti turavano a lui la bocca. E i tanti giusti erano i seguaci di Cristo, come i medesimi sacerdoti spiegarono all’imperatore alterato a tal novità. Filone, celebratissimo, non pure tra’ suoi giudei, ma tra gli esterni, i  quel libro che compilò de’ primi Cristiani dì Alessandria, da lui descritti, sotto nome di Esseni, ci fa vedere la loro vita più celestiale, che umana (Baron. an. 46), e Plinio (L. 2. cp. 100), dopo un’accurata ricerca de’ lor costumi, poté scrivere a Traiano, sì avverso alla nostra fede, che ne’ Cristiani non v’era altro di male, che un affetto eccessivo al loro Maestro, da loro amato qual Dio (De Christianis: l. X, lett. 97). Queste sono testimonianze di nemici, e però tanto più autorevoli a chi ci abborre. Onde Atenagora, prima illustre filosofo, e poi più illustre martire del Signore, scrisse già francamente su i primi fogli della sua nobilissima apologia, che niun cristiano cattivo si ritrovava, se pur era vero Cristiano, e non era finto: Nullus christianus malus est, nisi hanc religionem simulanti.

X. La loro fede era sì costante, che i proconsoli e i presidenti si dichiararono presso Cesare, che essi non ritrovavano né croci, né carnefici sufficienti al numero di que’ Cristiani che nelle loro provincie si offerivano generosi alla morte (Anton. Procons. Asiæ, et Tiberius Palæst. Præfect.). La loro carità fu sì accesa, che per essa si discernevano da’ gentili: i gentili attoniti alla nobiltà di spettacolo così nuovo, andavano ogni poco fra sé dicendo: Guardate amore! Volere infino l’uno morir per l’altro: Videte, ut se invicem diligant, ut prò alterutro mori sint parati(Tert. Ap. c. 39). E la loro pudicizia fu sì evidente che più crudo supplizio per qualunque donna cristiana si reputava condannarla a’ lupanari che condannarla ai leoni: Ad lenonem damnando christianam, potius quam ad leonem, confessi estis labem pudicitiæ apud nos atrociorem omni pœna et omni morte reputari (Tert. Ap. c. ult.).

XI. E pure quanto tempo si ricercò a fare questo ammirabile cambiamento di cuori e di costumi nell’universo? Ogni macchina quanto vince di controforza, tanto è necessario che perda di celerità nell’operazione. Ma la macchina della croce non va con sì fatte regole. Quindi è, che una legge, sì ripugnante al vivere di que’ tempi, prevalse sì prestamente, che in capo al secondo secolo poté francamente scrivere Tertulliano (Anno 201. asserit. Spondan. n. 8. scriptum Apol. Tert.), che non v’era più luogo non occupato da’ seguaci di Cristo, fuori di quelli, dov’essi non si degnavano di por piede: Vestra omnia, implevimus, insulas, castella, municipia, conciliabula, castra ipsa, tribus, decurias, palatium, senatum, forum; sola vobis reliquimus tempia.

XII. Pertanto il mondo, da sentina di laidezze cambiossi in un giardino amenissimo di virtù; e la verginità raminga già dalla terra, la poté popolare sì nobilmente, che come scrive Palladio, ne’ giorni suoi, cioè sul principio del quarto secolo, il territorio di una sola città di Egitto alimentava ventimila vergini religiose, viventi tra’ mortali una vita angelica.

XIII. Eccovi il cambiamento de’ costumi, pronosticato dalle sibille sotto nome di secoli d’oro: pronunziato da’ profeti sotto l’allegoria di deserto cambiato in terreno colto: e chiaramente predetto ancora da Cristo innanzi al morire, sotto immagine di trionfo, quando assicurò i suoi fedeli, che Egli, sollevato ormai sul patibolo della croce era per tirare a sé solo tutte le genti: Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum. Chi non iscorge però in questa mutazione di giudizii, di voleri, di vita, il dito di Dio, più potentemente impiegato, che non già ne’ portenti sì celebri dell’Egitto, dove pur gli stregoni più contumaci ve l’ebbero a veder chiaro ed a confessarvelo? Digitus Dei est Me.

III.

XIV. Senonchè ci rimane a considerare anche il meglio, cioè la debolezza de’ predicatori evangelici, eletti a fare un cambiamento sì alto. Quando Archimede con le sue leve spinse in mare una nave carica, di sterminata grandezza, restò Ierone si attonito, che esclamò, non doversi più ad un tal uomo negare di credere quanto mai promettesse di voler fare: Archimedi quidlibet affirmanti credendum est (Athen. 1. 5. c. 7. Proc. 1. 2. c. 3): quasi che nell’arte di lui riconoscesse quel principe compilata una piccola onnipotenza. Ora un’onnipotenza non sognata, ma vera, converrà riconoscere certamente nella conversione del mondo, se si rimiri, quanto da sé erano inabili ad ottenerla dodici Apostoli, noveri, semplici, sconosciuti, e privi affatto d’ogni talento che li potesse rendere riguardevoli ad occhi umani. I principi grandi ad ostentazione della loro potenza prendono a fabbricare talvolta in mare, con ergervi lunghi moli ove andarvi a spasso. Ma con ciò anzi vengono a far palese, che, benché principi, non sono da più degli altri, mentre nel mare conviene che anch’essi cerchino fondo sodo, come si fa sulla terra. Iddio per contrario, non solamente sa fondar le sue fabbriche sopra l’onde, ma sa fondarle sul nulla, cioè sopra spalle sì deboli, che, invece dì sostenere l’opera con lo loro forze, abbiano bisogno di essere sostenute.

XV. E perché questa allo spirito è una contemplazione molto gioconda, figuratevi un savio della terra il quale per via si abbatta in un pescatore, solo, scalzo, negletto, qual era Pietro, quando n’andava a Roma per introintrodurvi la fé di Cristo. E quivi fate ragione, che interrogato de’ suoi disegni l’apostolo gli risponda: Venir lui alla città reina del mondo, per renderla a sé ubbidiente: piantar su quell’inclito Campidoglio un labaro trionfale, non più là apparso, e per fondare in quella regia una nuova religione, da cui sia tosto l’antica mandata in bando: aver lui in cuore di farvi adorar qual Dio un uomo di trentatré anni crocifisso novellamente nella Giudea per consiglio degli scribi, per consenso de’ sacerdoti, e per sentenza di Ponzio, presidente romano, fra due ladroni; volervi persuadere, che questo crocifisso non è più morto, ma risorto già dalla tomba, per virtù propria, ad una vita gloriosa che gode in cielo: e che dal cielo è per tornare una volta a giudicare tutto il genere umano, richiamando dalle lor ceneri a nuova vita tutti mortali, per dare loro quella pena o quel premio, che si saran meritato con le lor opere. Non contento di far lui credere a Roma questo verità puramente speculative, voler che in pratica, per amor di quest’uomo, ella si risolva a sfuggire i piaceri come nemici, ad abbracciare la povertà qual tesoro il più fortunato, e ad anteporre le ignominie e le ingiurie a tutti gli onori che prima si comperavano a sì gran costo: voler che quivi si amino tatti insieme come fratelli, e che, se mai da veruno vengano offesi, contraccambino l’odio con benevolenza, gli oltraggi con benefìzi; e che in una parola ciascun sia pronto ad abbandonare e padroni e padri e figliuoli e sposo e sorelle e quanto si possiede di bene al mondo o può possedersi, per ubbidire a questo giustiziato, di cui si parla, e per mantenere inviolabile a lui la fede: né pretender già esso di persuadere, sì strane cose a semplici femminelle: pretender di persuaderle a senatori, a consoli, a capitani, infino a monarchi, sicché si glorino d’imbrandire un giorno la spada ad onore di questo medesimo crocifisso, e credano di nobilitarsi la fronte con la sua croce più che con tutte le loro gemme orientali: pretender di persuaderle alle più scienziate accademie, ad oratori, a favoleggiatori, a filosofi, a gran politici, e a ministri di stato, usi a librare il mondo sulle lor lance; e quel ch’è più, di persuaderle ad uomini tutti immersi nelle dissoluzioni, sicché, sfangandone, curvino a questo nuovo nume lo spirito riverente, e col timore di lui tengano in briglia da ora innanzi le lor passioni scorrette.

XVI. Or che direbbe mai quel savio all’udir tali stravaganze? Credo, che da principio dileggerebbe senza dubbio l’Apostolo come stolto. Ma quando pure, per le parole replicate di questo, inclinasse a credergli, passerebbe egli attonito a domandargli, con qual apparato di ricchezza, di dottrina, di doti, di nobiltà, di compagni, di fautori, intraprendesse un’impresa sì malagevole. E però quanto crescerebbe in lui lo stupore, quando si udisse a tale istanza soggiungere dal buon Pietro, che i suoi compagni son dodici, e che col seguito di pochi altri, da loro ammessi a tal opera, si sono ripartito tutto il mondo abitato, per soggettarlo a questa novella fede: che in arnese tutti vanno sì poveri, come lui: che non pregiano altra dottrina, altre doti, che l’amore a questo medesimo crocifisso: e che quantunque siano pescatori di mestiere, e Giudei di patria, e come Giudei sappiano d’essere l’odio delle nazioni, tuttavia vengono assicurati dal loro Maestro, che pianteranno di certo una tal credenza sulle rovine del culto già universale de’ falsi Dei, e la pianteranno sì salda che tutti i tormenti inventati dalla rabbia dei Cesari in trecento anni, e ne’ secoli susseguenti, invece di svellerla, concorreranno a farle gettar più valide le radici in qualunque lato: né si guardi, tutti al pari loro essere di una lingua, perché ben sapranno usare, dovunque vadano, tuttavia le lingue di tutti, benché mai da lor non apprese.

XVII. E di fatto così è avvenuto: e se noi stupiti non ammiriamo l’evento, è perché nati in questa fede. e nutritivi, non la consideriamo più qual prodigio, ma qual cosa giustissima ad avvenire. Frattanto, ipse modus, quo eredidit mundus, incredibilior invenitur, dice a ragione sant’Agostino (De Civit. Dei 1. 21. c. 5).Se udissimo raccontare che dodici soldati di Europa, sbarcati nell’America, han soggiogata tutta quella parte di mondo, ci sembrerebbe stranissimo a dover crederlo. Ma finalmente quegl’indiani, mal esperti alla guerra, han lance di canne: onde può essere che quei pochi europei, con andar ben guerniti di qualunque arma, e di ferro e di fuoco abbiano abbattuta col timor di sé quella moltitudine che non potevano vincere con la forza. Ma fingete, che dodici indiani, vestiti alla leggera, con le lor piume, sbarcassero al tempo stesso, quale in un porto di Europa, quale in un altro, e con le loro canne in mano per aste superassero in più fazioni eserciti innumerabili di soldati nostrali i più bellicosi; chi mai penerebbe a credere che tal vittoria avvenisse, non per virtù naturale, ma sovrumana, massimamente se quegl’indiani restassero superiori, non ammazzando gli emuli, ma ammazzati? Ora tale è il caso nostro: senonché tanto egli è ancora più stravagante, quanto è più difficile vincere i cervelli e i cuori, che non i corpi. E potrà uomo di senno non confessare la legge cristiana per un lavoro che vien dall’alto? Nullus his contradixerit, nisi qui valide insanus et totus stupidus sit: come ne parve, tanti secoli fa, alla lingua d’oro di Giovanni il Grisostomo (Homilia quod Christus sit Deus). Il vincere l’audacia con la sommessione, l’astuzia con la semplicità, i re coi poveri, i fastosi con gl’ignobili, i filosofanti con gl’idioti, è un’impresa che non poteva disegnarsi da altri che da Dio solo, e da Dio solo eseguirsi. Egli solo è il padron dell’uomo, e così Egli solo può esercitare nell’intimo di lui dominio totale, piegandolo con dolcezza, a ciò ch’Egli vuole, senza punto violargli la libertà. Il diamante, benché sì duro, pure anch’egli ha le vene proprie, per cui lo sanno fendere i gioiellieri ben intendenti. Sia duro quanto si voglia il cuore degli uomini sia restio, ha le sue vene ancor esso, per cui gentilmente vi opera quel Signore che lo formò.

IV.

XVIII. Ponete ora al confronto le mutazioni che le altre sette hanno fatto ne’ lor seguaci. Socrate, Platone, Aristotile, Tullio, Seneca, Plotino, Plutarco, sono i più riveriti maestri dell’antichità. Ora qual gente essi accolsero sotto le loro insegne? Non h inno potuto neppure fare universalmente accettare quelle verità che sono scritte nel cuore umano dal dito dellanatura. Tal è. non esservi più che un Dio solo al mondo. Così credevano in loro cuore ancor essi. E pure, con tutto il loro sapere, a qual città, a qual castello, a qual infimo villaggetto arrivarono a persuadere che, lasciate il culto degl’idoli, abbracciassero quello di un solo Dio? Similmente conoscevano essi il darsi al mondo un’altissima provvidenza de’ nostri affari:l’anima esser immortale: la virtù non dover andar senza premio; il vizio non dovere andar senza pena, né solo in questo mondo, ma ancora nell’altro E pure in quanti fermamente stamparono tali dogmi? Giudicate poi che avrebbero persuaso le loro parole di quelle verità più difficoltose che sormontano tanto ogni umana capacità.

XIX. Ma che dico io de’ filosofi, i quali avevano una sapienza morta nel cuore, e non un vivo spirito di pietà; onde è che potevano fare assai più di strepito, che di scossa. Abramo, Giuseppe, Giacobbe, Mosè, e gli altri amici più intimi del Signore, ancorché da Lui ricevessero tanti oracoli, e tanti altrui fedelmente ne riportassero, poterono forse persuadere ad una intera provincia là nell’Egitto, che ella aderisse con esso loro al gran Dio da loro adorato? Né anche forse lo persuasero ad un’intera famiglia. E quantunque la legge data a Mosè sul Sinai fosse sì giusta, quantunque fossegli bandita quivi da Dio in un apparato di tant’orrore, che pareva anzi indirizzato a punir prevaricazioni, che a pubblicare precetti: quantunque all’adempimento di essa fosse il popolo scorto con una guida scesa dal cielo, la quale precedevalo ad ogni passo: quantunque fosse alimentato a meraviglia da nuvole rugiadose, da rupi serve, da ruscelli seguaci: quantunque fosse condotto per un sentiero, in cui d’ambo i lati aveva per siepe, a tenerlo in via, folto numero di prodigi; contuttociò quanto ebbe Mosè a penare per farlo stare entro i termini del dovere, sicché, non traboccassero ancor egli nelle abbominevoli usanze degli idolatri, è invece di convertire gli abitatori della terra promessa, non si lasciasse pervertire in pochi anni dai loro costumi? Tanto inferiori sono il Sinai al Calvario, la sinagoga alla Chiesa.

XX. Mi vergogno qui poi di rammemorare il sozzo Maometto. Ma, a confusione di quegli stolti i quali lo fanno andare in cocchio coi sommi legislatori. mostri un poco ancor egli la mutazione che recò al mondo la legge da lui data contro ogni legge. Dov’ella entrò, parve entrarvi subito un fuoco divoratore; sicché quella varietà di scena che si scorge intorno al Vesuvio,prima che egli vomiti le sue fiamme infernali sulle campagne, e dappoiché ve la ha vomitate, quella si scorge parimenti nei luoghi soggetti al turco. Qual paese già fecondo d’ingegni, più culto per arti, più costumato per andamenti, più fiorito per lettere, e qual anche  più venerabile por pietà, che la Grecia, e che la stessa Africa quando obbediva a Cristo? E pure, quale più selvaggio, più stolido, più ignorante che l’Africa, o che la Grecia, poiché passarono sotto il giogo ottomano? E quello che ivi ancora è più da notarsi, ciascuno avria divisato che la legge turchesca, con la molteplicità delle mogli da lei permesse, avesse a popolare i paesi dov’ella arriva, sopra ogni credere; e per contrario ella v i arreca a poco a poco un’orrenda desolazione. L’Egitto fu già tanto popoloso, che Pomponio Mela vi annoverò le città a venti migliaia: ed ora è sì scarso, che Leone Africano non gliene dà più di venti. E laddove nell’Africa, l’anno quattrocento settantuno, furono, per testimonianza di Beda, funestate da Unnerico re ariano, quattrocento trentaquattro città, con l’esilio de’ loro vescovi; ora per dotto dì Leone medesimo suo natio, non ve se ne possono contare più di quaranta, quando anche per città si passino luoghi poco degni di tanto nome (Apud Bazium 1. 15. signo 73). E l’istesso proporzionalmente si può affermare della Grecia e dell’Asia, dove l’imperio ottomano si dilatò: tantoché i turchi medesimi, ammirando la strana sterilità che portano per retaggio con esso sé le loro conquiste, son usi dire, che dove il cavallo del gran signore pone il pie non nasce più erba (Boler in relat.).

XXI. Di questa foggia sono que’ cambiamenti che le sette cagionano ne’ lor popoli, e di peggiore sono quelli che cagionano ne’ costumi, mutandoli di buoni in cattivi, di cattivi in pessimi, fino a precipitarli nell’ateismo; come appunto succede fra’ novatori, i quali, non trovando dove alla fine posare il pie, si riducono ad affermare che ciascuno può salvarsi nella sua legge: non si accorgendo i meschini, che l’approvare tutte le religioni, e il negarle tutte, sembrano due contraddizioni formali, e son due sinonimi. Ma che? Questo è l’esito degli animali nati dal putridume terminare in una corruzione maggiore di quella da cui provennero.

XXII. Tornando all’intendimento: chi non vede frattanto, che la fede di Cristo è la vera dottrina uscita dal cielo, mentre per mezzo di essa ha Dio introdotto nel mondo tanto di sapienza e tanto di santità, e ne ha sgombrato tanto di sciocchezze nelle opinioni, e tanto di sozzure nell’opere? Però, o tutta questa mutazione è succeduta a forza di gran miracoli, ed ecco la sottoscrizione che Dio vi ha aggiunto di man propria, affino di accreditarla; o è succeduta senza miracoli; ed ecco divenire un miracolo ancor maggiore quella mutazione ora detta, che, essendo sì inaspettabile e sì inaudita, è da Dio stata operata senza miracoli, e in sì breve ora, che direi esser la fede scorsa immediatamente da un polo all’altro come la luce, se ciò non fosse dir poco, mentre la luce non ha contrario veruno che le resista; ma quanti n’ebbe la fede! Sicché quale scampo ormai resta a chi non confessi, che dal modo medesimo, con cui questa si è propagata nell’universo, dà chiaramente a vedersi, ch’ella è la vera? E se è la vera, che dunque osare di levarsele contro a guisa di vipera ritta al sole, col collo gonfio di livor velenoso, che spiri morte, e con la bocca piena di spume maligne? Meglio è l’umiliarsi, e concedere nuovamente, che ci vuol più a non volere scorgere dove regni la religione sincera, che a risaperlo.