OTTAVARIO DEI MORTI (2) Immortalità dell’anima

OTTAVARIO DEI MORTI (2)

TRATTENIMENTO II

Immortalità dell’anima

[L. Falletti: I nostri morti e il purgatorio; M. D’Auria Ed. Napoli, 1924 – impr. – ] 

Sommario — Che sarà del corpo? — E dell’anima? — Le perfezioni di Dio esigono l’immortalità dell’anima — La sua giustizia — La sua bontà — L’esige la natura dell’uomo — Consenso generale — Perché il rispetto alle spoglie mortali?  Pensiero consolante. Esempio.

È legge inesorabile che noi tutti dobbiamo morire: lo disse chiaramente S. Paolo: « Statutum est hominibus semel mori! » Qual sorte sia per toccare al nostro corpo, noi ben il sappiamo; non son punto necessari grandi ragionamenti per persuaderci che, formato dalla terra, alla terra dovrà ritornare. Non è questo un mistero per alcuno: « Ricordati, o uomo, che sei polvere, ed in povere ritornerai », ci ripete ogni anno la Chiesa nel deporci in sulla fronte le ceneri nel primo giorno di Quaresima. Ma non è già del corpo che noi dobbiamo eccessivamente preoccuparci, ma bensì dell’anima, che è la parte più nobile e preziosa di noi stessi; ora dell’anima che ne sarà? Subirà dessa pure la condizione del corpo e perirà con esso lui? Ah! lo so che così la pensano i libertini dei giorni nostri, non dissimili in ciò dai gaudenti del tempo di Salomone che, non contenti di contemplare con isguardo indifferente la morte, esclamavano con scandalosa indifferenza: « Coroniamoci di rose prima che appassiscano: la breve durata dei giorni nostri ci avverte di prevenire fra i godimenti le ingiurie del tempo… Dopo la morte vi ha il nulla; la loquela non è che una scintilla, spenta la scintilla, il corpo ritorna cenere e lo spirito si dissipa ». Ma fortunatamente così non è: e noi già l’abbiamo accennato nel trattenimento precedente. L’immortalità dell’anima però è argomento troppo importante perché noi ci limitiamo a brevi accenni. Non è desso il fondamento e la base di quanto noi andremo in seguito dicendo? poiché se l’anima muore col corpo, a qual prò la divozione verso quelle anime che, non ancora purificate, soffrono nel carcere del purgatorio? Prima adunque di procedere oltre, diremo alcunché di questo dogma necessario dell’ immortalità dell’anima, che Dio non ha già scritto sulla pietra o sulla pergamena, ma ha scolpito nell’intimo dell’esser nostro: Egli ha voluto che l’uomo non potesse rigettarlo, se non a patto di abdicare a se medesimo. Ed una prima prova ci viene fornita dalla natura stessa di Dio. Il grande Iddio infatti, che noi adoriamo, possiede in un grado infinito tutte le perfezioni: Egli è infinitamente potente, buono, giusto, sapiente; e tutte queste perfezioni gli sono talmente necessarie che non si potrebbe rifiutargliene una senza negare la sua stessa esistenza. Non é egli forse vero che se noi, per esempio, ammettessimo che Iddio, anche per un istante solo, non fosse giusto oppure rimanesse indifferente dinanzi al bene ed al male, pel fatto istesso Egli cesserebbe di essere Dio? Ciò ammesso, noi diciamo che Dio non sarebbe né giusto, né buono, se non avesse creato le anime nostre immortali. Ed anzitutto non sarebbe giusto, se Egli permettesse che l’anima nostra morisse in un col nostro corpo. La giustizia invero esige, non solo in terra ma anche in cielo, che si renda a ciascuno ciò che gli è dovuto: alla virtù la sua ricompensa, al delitto il suo castigo. Io sento nel più intimo della mia coscienza che colui che fa il bene è degno di stima e di premio, mentre colui che opera il male, non solo è biasimevole, ma è ancora meritevole di punizione. Tale è il sentimento universale, la voce della natura: e se Dio. che ha stampato nelle anime nostre questa invincibile nozione della giustizia, non vi conformasse la sua condotta, dovremmo dire che Egli non sarebbe giusto, e quindi cesserebbe di essere il vero Dio. Ora io mi dimando: È così che le cose si passano in sulla terra? possiamo noi dire di aver sempre veduto il vizio castigato, come si merita, e le buone azioni sempre coronate di una legittima ricompensa? o non è piuttosto il contrario che sovente addolora i nostri sguardi? Chi non ha visto la maggior parte degli uomini virtuosi trascorrere i loro giorni quaggiù nella povertà, nelle persecuzioni, nelle tribolazioni, ed accanto a loro uomini perversi e immersi in tutti i vizi vivere ricchi, felici, corteggiati, adulati, portati alle stelle? Ammessa e riconosciuta una tale verità, non esige forse la giustizia che vi sia un’altra vita, in cui tante virtù, che sono in sulla terra disconosciute, ricevano finalmente il premio che hanno meritato, e tanti delitti, che restano quaggiù impuniti, siano finalmente puniti? – Ora come sarebbe ciò possibile, se le anime non avessero una vita al di là della tomba? Egli è adunque necessario che le anime siano immortali altrimenti Iddio non sarebbe giusto. Tale è la voce del buon senso e della fede, e se talvolta qualche incredulo uscisse in quelle parole blasfeme: « Dove è adunque la giustizia del vostro Dio? a qual prò farci violenza, quando in sulla terra Egli rimane indifferente tanto al bene quanto al male? » rispondiamo loro con S. Agostino: « Pazienza, pazienza, l’anima tua è immortale, e Dio è eterno. Egli non vuole sempre colpire il delittuoso durante la vita presente, perché non vuol distruggere la sua libertà; ma saprà ben Egli raggiungerlo un giorno. Nulla dimentica la sua giustizia, e per aver indugiato qualche po’, non sarà che più terribile. Che importa qualche giorno di più, ed anche qualche anno, a Colui che possiede l’eternità: Patiens quia æternus? ». Dico dippiù che Iddio non solo non sarebbe giusto, ma non sarebbe neppure buono, se non avesse creato le anime nostre immortali. La bontà è la perfezione che è più conosciuta del nostro Creatore. Non v’ha creatura che altamente non la proclami, e non vi si raccomandi con fiducia, facendovi appello noi stessi quando invochiamo Iddio col nome di Padre nostro, dandogli così il nome che esprime tutto ciò che la bontà ha di più dolce e di più forte. Ora se l’anima nostra non fosse immortale, come potremmo noi credere alla bontà di Dio? È un fatto che, per la grande maggioranza dei mortali, i giorni avversi sono più numerosi di quelli prosperi e per quanto sia breve la nostra vita, infiniti sono i mali ed i dolori che ci tormentano. Mentre le malattie e le infermità abbattono i corpi, le anime nostre vivono in preda a continue inquietudini ed agitazioni, e non è che per una rarissima eccezione che qualche volta vediamo risplendere sul nostro capo il sole radioso della felicità. Se così è, che dobbiamo noi pensare d’un Dio che non ci avrebbe creati che per renderci vittime di tante miserie? Egli non era punto obbligato di trarci dal nulla, ma poiché gli piacque di chiamarci alla vita, la sua bontà gli imponeva di non far sì che la nostra esistenza fosse soltanto per noi un male. Sì, se l’anima nostra non fosse immortale, bisognerebbe dire che Dio ha creato l’uomo per un capriccio crudele, gli impone la vita come un peso schiacciante, e non ne lo libera che quando è stanco di tormentarlo. Ma chi non vede che questa sarebbe una conclusione orribile e nondimeno rigorosamente vera, se non si ammettesse l’immortalità dell’anima? – Ma, ammettendo questo dogma consolatore, tutto cangia immediatamente d’aspetto nella nostra vita. Comprendiamo subito che Iddio, che ci ha creati liberi, liberamente ci lascia quaggiù agire, riserbando per più tardi i suoi diritti. Le miserie presenti, le malattie, i dispiaceri, che il più delle volte sono originati dalle nostre stesse colpe, non hanno più nulla che possa spaventarci; essi, secondo l’espressione dei Libri santi, sono radice d’immortalità. Seminiamo la virtù nelle lagrime per raccogliere un dì una messe abbondante di felicità eterna. La vita presente non è che un viaggio brevissimo, la nostra patria è il cielo. Che importa se difficile è il cammino, quando in capo ad esso noi troveremo il riposo e la gioia d’una inalterabile beatitudine? Cessi adunque il nostro labbro di accusare la bontà divina, se noi, finché vivremo in questa terra d’esilio, incontreremo triboli e spine: noi sappiamo qual magnifica ricompensa non riservi Iddio ai nostri travagli in una vita futura. Egli è sempre buono, e le anime nostre sono immortali. Appoggiati ad una tale incrollabile speranza, cammineremo sempre calmi e fiduciosi, perché, in mezzo ai dolori che riempiono la nostra vita, sappiamo che, al termine della nostra mortale carriera, ci aspetta il tesoro dell’ immortalità.

II

Una seconda prova non meno luminosa e convincente, e nello stesso tempo più facile a capirsi, dell’immortalità dell’anima, ci viene fornita dalla stessa natura dell’uomo. Che altro mai infatti vuol significare quell’orrore istintivo e quasi insormontabile che noi tutti proviamo per la morte? Perché mai anche le volontà più energiche si sentono profondamente commosse, quando si avvicina questo momento terribile? Si ha buon conto di burlarsi della morte quando non si ha che vent’anni, si è pieni di forza e di salute, e si respira a pieni polmoni l’aria profumata della primavera della vita; ma non appena le ali della morte ci toccano leggermente ahi! come scompare a poco a poco tutta la nostra sicurezza! Giovani e vecchi, ricchi e poveri, ferventi Cristiani o increduli ostinati, tutti si sentono atterriti e sperduti all’avvicinarsi dell’istante supremo. Un orrore segreto ci agita, un sudore freddo inonda la nostra fronte, e fin nelle braccia della morte ci dimeniamo ancora per prolungare la nostra vita. Donde mai tanto terrore della morte? Dalla convinzione intima che non tutto il nostro essere è destinato a scomparire, non è tanto la cessazione della vita che ci spaventa, quanto quello che le terrà dietro; e se fossimo certi, che v’ha il nulla al di là del sepolcro, subiremmo l’estremo passaggio senza agitazione. Ma il pensiero di un’altra vita ci preoccupa nostro malgrado: l’idea di un non so quale soggiorno ignoto e misterioso in cui stiamo per entrare, senza sapere precisamente se abbiamo meritato di esservi felici o infelici, mette in subbuglio l’anima nostra e c’inspira quei sensi di terrore da cui non possono liberarsi neppure i più coraggiosi. Ed è così che la natura dell’uomo, nel suo orrore per la morte, rende una preziosa testimonianza all’immortalità dell’anima. – Un’altra testimonianza, non meno preziosa, ci viene fornita dal consenso unanime del genere umano nel credere a questo dogma consolatore. Qual credenza infatti più antica di questa? Non è già da ieri, da duecento, da due mila anni che l’umanità la possiede e se la trasmette d’età in età: questa convinzione rimonta alla sua origine stessa, sì bene che la storia non ha mai potuto citarci il nome di un solo uomo di genio che per primo, in un dato momento, abbia detto: L’anima mia è immortale! Ci fa d’uopo rimontare su, su, per tutti i secoli per arrivare fino ad Adamo e da lui fino a Dio, suo Creatore, il quale gli ha rivelato l’immortalità dell’anima sua, e ne ha conservato gelosamente il senso intimo nei suoi discendenti. Dessa è ancora una tradizione universale la quale costituisce talmente il fondo dell’umanità che invano si cercherebbe un popolo che non l’abbia professata. Hanno dessi i popoli un bel vivere separati gli uni dagli altri per immense distanze, o per profonde differenze di linguaggio, di costumi, di religione, tutti sono però unanimi nella credenza a questa verità. L’indiano invoca l’ombra di suo padre , come il Cinese rende un culto solenne ai suoi antenati, e quando i nostri Missionari si recano nelle vaste regioni dell’America del Sud, o nei torridi deserti dell’Africa, sempre trovano presso le miserabili tribù che colà abitano, la credenza a queste due verità: la fede nell’esistenza di un Dio, e la persuasione della sopravvivenza delle anime. Ora se gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi hanno sempre creduto e credono tuttora a questo dogma così importante, bisogna ben dire che sia vero. Non è possibile che tutto quanto il genere umano si sbagli sopra un punto così capitale, e sarebbe dar prova di poco criterio, per non dire peggio, il volersi mettere in opposizione contro una sì completa e costante unanimità.

III.

Finalmente un’ultima prova ci viene fornita dal culto, dalla pietà, dal rispetto che si ha sempre avuto e si ha tuttora per le misere spoglie mortali, anche allorquando furono separate dal principio vitale. « Noi vediamo infatti nella storia nell’antico Testamento, dice S. Agostino, gli uomini più raccomandabili pei loro meriti e per la loro pietà rendere onori insigni alla spoglia mortale delle loro spose, come Abramo fece per Sara; innalzare loro monumenti, come quello che Giacobbe fece innalzare sulla strada di Efrata per la sua diletta Rachele; noi li vediamo preoccuparsi, ancora viventi, della loro sepoltura, come Giuseppe che diede ordini per la traslazione delle sue ossa nella terra dei padri suoi ». E che non avvenne dopo che Gesù spirò l’anima sua sul Calvario ? Due dei suoi più cari discepoli, volendo in qualche modo consolarsi della perdita di sì buon Maestro, si affrettano di rendergli gli onori della sepoltura; e l’Evangelista si fa uno studio di mettercene sott’occhio il lusso veramente notevole. Si procurano con grandi spese dei profumi, circa cento libbre di mirra e di aloè, e inviluppano il corpo di Gesù in un bianco lenzuolo con aromi. E noi, che troviamo ovunque il buon Gesù, circondato d’indigenza e di povertà, nel sepolcro invece il vediamo ricevere dai suoi discepoli tutte le cure più delicate. E l’Evangelista, dopo averci ciò narrato, ci fa osservare che i discepoli, così diportandosi, non facevano altro che seguire l’usanza di quei tempi. Ora perché, ci domandiamo noi. tante cure, tanti riguardi, tante delicate attenzioni per quei miseri resti, fulminati dalla morte, destinati fra breve a ridursi a quel non so che, che non ha nome in nessun linguaggio del mondo? Forse unicamente per tributare un ultimo segno di stima e d’ amore per coloro dei quali deploriamo e piangiamo la perdita? Oh! Certamente no; ma bensì e soprattutto perché si vuole preservare per qualche tempo ancora dalla corruzione la dimora terrestre di una anima immortale, destinata a regnare eternamente con Dio in cielo. Lo dice chiaramente S. Agostino : « La cura data al corpo che è inanimato, ma che dovrà risuscitare un giorno ed esistere eternamente, è una testimonianza di questa fede nell’immortalità dell’anima Ecco perché non è possibile, che noi cessiamo d’amare ed onorare i corpi dei nostri parenti ed amici, quando la morte è venuta a strapparceli! Essi che ci furono così cari e venerandi durante la loro vita, e perché non dovranno più esserlo dopo la morte? Trattiamo quindi con grande rispetto i corpi dei defunti, specialmente quelli dei giusti e dei fedeli dei quali lo Spirito Santo si è servito, come di strumento, per ogni specie di buone opere. Se si conserva la veste di un padre, il suo anello, se tali oggetti sono tanto più cari ai discendenti, quanto più vivo è l’affetto verso i parenti, perché non dovremo noi rispettare i loro corpi, non solo perché ci furono più intimamente uniti, ma soprattutto perché furono il soggiorno di un’anima immortale, il tempio dello Spirito Santo, l’ara sacrosanta su cui riposò il Corpo ed il Sangue di Gesù? » – Ed ecco quindi perché noi, dominati da tali sentimenti, che la Chiesa approva e consacra, perché essa non è venuta ad abolire la legge, ma a perfezionarla ed a conservare quanto di sacro e di rispettabile v’ha negli antichi costumi e nella natura, non appena uno dei nostri simili, parente o amico, ha reso l’ultimo respiro, noi gli chiudiamo piamente gli occhi, collochiamo tra le sue mani ghiacciate un crocifisso, poi, gettando sulla fredda spoglia qualche goccia d’acqua benedetta, recitiamo per lui un De Profundis, un’Ave Maria. Il giorno dopo accompagniamo alla Chiesa colui che ieri era ancora un uomo ed oggi non è più che un cadavere. Il prete offre per lui il santo sacrificio, mentre noi tutti, con la fronte chinata, in ginocchio, a pie’ dell’altare ci percuotiamo il petto ripetendo l’inno della misericordia: O Signore, dà all’anima sua il riposo eterno! E quando finiti sono i funebri canti noi versiamo ancora una ultima lagrima con un’ultima preghiera sulle sacre zolle che ci nasconderanno per sempre un padre, una madre teneramente amati. Ci ritiriamo finalmente lasciandolo d’ora innanzi in custodia del crocifisso che stende le sue braccia protettrici sul campo dell’ultimo riposo. – Ecco quello che comunemente si fa alla morte dei nostri cari, e guai se qualcuno fosse così ardito da impedirci così commovente manifestazione, sapremmo ben noi protestare come si deve! Ora, come già dissi, se tutto morisse col corpo, perché mai queste cerimonie, queste preghiere, queste pompe funebri? Qual vantaggio per quel povero corpo, invaso dal freddo della morte e senza vita, che viene portato all’ultima dimora? Forsechè i vermi lo divoreranno meno prestamente? A qual prò pregare per un cadavere? Oh! sì, se non si crede all’ immortalità dell’anima, checché dire ne possano gli organizzatori dei funerali civili, di queste sacrileghe parodie il cui solo spettacolo rattrista qualche volta i nostri sguardi, tutto ciò non si risolverebbe che in una commedia, insultante per coloro che ne sono l’oggetto e disonorante per coloro che la rappresentano. Ma viva Dio! non è al corpo che tutte queste dimostrazioni sono rivolte, ma bensì all’anima, all’anima immortale che nell’uscire dalla sua prigione di carne, è comparsa davanti al suo Dio ed al suo giudice, a quest’anima che forse soffre nelle fiamme del Purgatorio e che noi perciò dobbiamo suffragare. Ed ecco perché ognuna delle nostre preghiere per i morti è un atto di fede nell’immortalità dell’anima, e che quindi è cosa buona e salutare pregare per coloro che non sono più. Incrollabile sia adunque la nostra credenza nell’immortalità dell’anima, poiché se questo dogma è per noi consolantissimo in tutte le circostanze della vita, lo è specialmente in quei momenti terribili, in cui la morte ci strappa qualcuno dei nostri cari. In mezzo a queste grandi catastrofi che desolano la nostra vita e ci riempiono di dolore, quanto non è dolce il pensare che l’oggetto del nostro affetto non è tutto intero rinchiuso sotto la pietra del sepolcro, ma che la miglior parte di esso sfuggì alla morte, e ci attende nell’ eternità, ove speriamo di rivederlo! Ed è appunto a questo consolante pensiero che ci invita a ricorrere la Chiesa, ogni qualvolta ci fa risuonare all’orecchio

i l magnifico Prefatìo che si legge nella Messa dei defunti. « In Cristo, ella esclama, rifulse per noi la speranza di una beata risurrezione, affinché coloro cui contrista una certa condizione di morire vengano consolati dalla promessa della futura immortalità. Imperocché ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non vien tolta, ma solo mutata, e sciolta la casa di questo soggiorno terrestre, viene preparata in cielo una eterna dimora ». « O immortalità benefica, esclamiamo adunque ancor noi con un illustre oratore, io credo alla tua esistenza, e vi crederò sempre. Il tuo pensiero è una forza soprannaturale che mi consola nei miei dolori, mi fortifica contro le tentazioni, mi sostiene nella pratica delle virtù per meritarti in cielo. Tu sei la mia migliore speranza, perché è in seno a te che io voglio possedere il mio Dio e gustare la felicità eterna che Egli promette a coloro che lo servono fedelmente, Credo vitam aeternam.

ESEMPIO: Un principe polacco.

Il celebre P. Lacordaire, al principio delle sue conferenze sulla immortalità dell’anima, raccontava agli allievi del collegio di Soreze il seguente esempio: « Un principe polacco, incredulo e noto materialista, aveva scritto un libro e stava per farlo stampare, quando un giorno, passeggiando nel suo giardino, incontra una donna tutta in lagrime, che gettandosi ai suoi piedi, gli dice: « Ah! mio buon padrone, mio marito è morto la sua anima sarà in Purgatorio, dove soffrirà tanto; ed io sono così misera da non potere dare la somma sufficiente per fare celebrare la Messa pei defunti. Abbiate la bontà di aiutarmi a favore del mio povero marito.» Il gentiluomo, sebbene pensasse che la donna era vittima della sua credulità, non ebbe il coraggio di respingerla. Trova una moneta d’oro nella tasca e gliela dà; la donna, felicissima, corre in chiesa e prega un sacerdote di celebrare delle Messe per l’anima del suo marito. Cinque giorni dopo, il principe rileggeva il detto manoscritto nel suo gabinetto; quando, alzando gli occhi, vede a due passi da lui, un uomo vestito come un contadino del paese: « Principe, sente dirsi dallo sconosciuto, vengo a ringraziarvi: sono il marito di quella povera donna che vi pregava, pochi giorni fa, di darle un’elemosina per fare celebrare la santa Messa in suffragio dell’anima mia. La vostra carità è stata gradita da Dio: ed è Egli che m’ha permesso di venire a ringraziarvi. » Ciò detto il contadino sparì come un’ombra. Dopo di ciò quel principe diede alle fiamme il suo lavoro e cedendo alla verità ed alla grazia di Dio si convertì e visse da buon cristiano sino alla morte.

LO SCUDO DELLA FEDE (XXXV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXXV.

LA PENITENZA E L’ESTREMA UNZIONE.

Il sacramento della penitenza non può essere stato inventato dai preti. — L’ha istituito Gesù Cristo. — Errore di Lutero nell’attribuirlo a Papa Innocenzo III. — La confessione non è dura, benché apporti una salutare umiliazione. — Il segreto della confessione. — La prudenza nella manifestazione del peccato commesso con altri. — L’estrema Unzione.

— Ed anzitutto la prego di dirmi francamente e magari in confidenza se non sono stati proprio i preti che abbiano inventato questo Sacramento della Penitenza.

Così asseriscono i protestanti e in seguito a loro molti increduli dei giorni nostri, senza neppur sapere che cosa si dicano. Difatti, si provino costoro a dire quali siano stati i preti di che luogo, di che tempo, i quali abbiano fatto questa invenzione? Possibile che la Storia, la quale, se si tratta di quella profana, ci narra per filo e per segno non solo tutte le vicende dei popoli, tutte le loro guerre, tutte glorie, tutte le loro ignominie, ma eziandio tutte le invenzioni, tutte le innovazioni, tutte le riforme che si fecero, e se si tratta di quella ecclesiastica, ci registra minutamente non solo tutte le opere compiute dai Pontefici, dai Vescovi, dai Concili generali e particolari, tutte le istituzioni, tutte le leggi, tutti i decreti, tutte le pratiche devote, ma eziandio tutte le eresie, tutti gli scismi, tutte le novità che si tentò d’introdurre nel seno della Chiesa, non dica assolutamente nulla del quando, del dove, del come i preti introdussero la pratica della confessione? E poi dimmi, se sono stati i preti ad inventare la confessione, non dovevano averci qualche fine! Ora quale interesse ci possono avere? che cosa ci guadagnano? che si paga loro per la confessione? che divertimento vi si pigliano, massime quando devono stare in confessionale delle ore intere, respirando talora certi aliti poco somiglianti all’odor di rosa, quando devono levarsi su di notte, di gelato inverno, per recarsi al letto dei moribondi, quando infine in tempo di colera, di peste, di altre malattie contagiose devono ben anche sfidare la morte? – Di più: se fossero stati essi ad inventare la Confessione non ti pare, che avrebbero dovuto avere la furbizia di esimere se stessi da quest’obbligo, di modo che non si vedesse e non si sapesse, che anch’essi, preti, vescovi, cardinali e Papi vanno a confessarsi? Ah! davvero che per buttare là di cosiffatte calunnie ci vuole fronte ben incallita, tanto più pei protestanti che han sempre il Vangelo in bocca e nelle mani! Perciocché il Vangelo non mostra forse nel modo più chiaro che questo sacramento fu istituito, come tutti gli altri da Gesù Cristo?

— Sarei contento di conoscere ciò con la massima precisione.

Ascolta adunque. Il Vangelo ci narra che Gesù Cristo dopo la sua risurrezione apparso agli Apostoli disse loro: « Come il Padre mio ha mandato me, così Io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo. I peccati saranno rimessi a coloro, ai quali li rimetterete, e saranno ritenuti a coloro, ai quali li riterrete » (Vedi Vangelo di S. Giovanni, capo XX, versetti 22, 25). Dalle quali parole non risulta chiaro che è Gesù Cristo l’istitutore del Sacramento della Penitenza?

— Scusi: da tali parole risulterà chiaro che Gesù Cristo ha dato agli Apostoli il potere di rimettere o no i peccati, ma non risulta chiaro che Egli abbia voluto la confessione ossia la manifestazione dei nostri peccati ai sacerdoti.

Lasciami proseguire, e vedrai che risulterà chiaro anche questo. Tu dunque hai già riconosciuto il potere dato da Gesù Cristo agli Apostoli. Ora dimmi, con quale criterio avrebbero dovuto essi esercitare un tale potere? Così a capriccio, a talento, ad impulsi momentanei per modo che possa avvenire che sia perdonato chi non ne è degno, e non sia perdonato chi lo merita?

— Oh ciò non può essere; sarebbe contrario alla ragione, indegno del volere di Dio. Essi avrebbero dovuto esercitare un tale potere secondo le leggi della giustizia e della equità.

Benissimo. Or dunque come giudicare le coscienze, e per quanto è possibile con giustizia ed equità, senza conoscerle? e come conoscerle senza che queste si rivelino, e con esattezza e precisione? In termini più chiari, come l’assoluzione o la negazione della medesima senza la confessione? Né starmi a dire che Gesù Cristo non ne parla espressamente: ciò non era affatto necessario. Se un principe costituisce dei giudici a far le parti sue nell’assolvere e condannare gli accusati, è necessario che dica loro: Badate bene che prima di assolvere o condannare, voi dovete pigliar buona conoscenza dei fatti, obbligando e gli accusati e i testimonii a manifestarveli? No, assolutamente no, perché dal momento che il principe costituisce dei giudici a far le sue veci, ciò intende che si faccia. Or dunque se Gesù Cristo ha dato agli Apostoli e ai loro successori la potestà di assolvere o di non assolvere, Gesù Cristo senza dubbio ha voluto e vuole eziandio che si faccia quanto è necessario al conveniente esercizio di questa potestà. Senza di ciò il potere dato agli Apostoli med ai loro successori non sarebbe che un potere ridicolo. No, non è possibile sfuggire a questo termine sacrilego per Gesù Cristo, se non si crede che Gesù Cristo nel conferire una tale potestà abbia pure implicitamente voluto la confessione auricolare, specifica e precisa, se non si crede insomma che la confessione è opera divina.

— Il suo ragionamento non fa la più piccola piega, e non capisco come i protestanti osino venir fuori a dire che la confessione è invenzione dei preti! Mi pare tuttavia d’aver inteso dire che Lutero l’attribuisse al Papa Innocenzo III, nel Concilio di Laterano IV.

Sì, è così propriamente, ma oggidì gli stessi scrittori protestanti riconoscono che egli volle deliberatamente prendere un solenne granchio, essendoché quel Papa in quel Concilio non ha fatto altro che stabilire con un decreto disciplinare, che i Cristiani giunti all’uso della ragione vadano a confessarsi almeno una volta all’anno. Del resto, se fosse così, non si dovrebbe trovare traccia della confessione prima dell’anno 1215, in cui quel Papa fece tale decreto. E invece fin dai primi secoli del Cristianesimo le prove di sua esistenza e pratica abbondano. Negli Atti degli Apostoli si riferisce che i Cristiani di Efeso convinti del male che avevano fatto nel ritenere dei cattivi libri, andarono ai piedi di S. Paolo a « confessare ed annunziare le opere loro ». S. Clemente, terzo Papa dopo S. Pietro, scrivendo ai Cristiani di Corinto, i quali avevano commessi gravi disordini, li esorta a confessarsi, mentre sono ancora in tempo, perché, egli dice, quando saremo partiti per l’altro mondo, colà non potremo più confessarci. Nel secolo II abbiamo tra le altre la testimonianza di S. Ireneo, vescovo di Lione, il quale parlando di certe donne, dice che prese dalla vergogna dei loro peccati, non avendo osato di confessarsi, caddero nella disperazione. S. Cipriano, vescovo di Cartagine, nella metà del III secolo parla dei Cristiani che si confessano ai Sacerdoti di Dio con dolore e con sincerità, e depongono il peso della loro coscienza, e cercano il rimedio alle loro ferite. Che poi nel IV secolo la Confessione dei peccati fatta ai sacerdoti fosse praticata siccome unico mezzo di ottenerne da Dio perdono, Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, lo insegna con le parole e col fatto. Parlando della Confessione, egli scrive: Dobbiamo assolutamente astenerci da ogni sorta di vizio, perché non sappiamo se avremo tempo di confessarci a Dio e al Sacerdote. Il medesimo santo era un abilissimo confessore, onde Paolino, scrittore di sua vita, scrisse: Ogni volta che alcuno andava a confessargli le proprie cadute per ottenerne la penitenza, il santo Vescovo piangeva così, che costringeva al pianto anche il penitente. Nei secoli susseguenti dal quinto al dodicesimo le testimonianze della pratica della confessione si moltiplicano a dismisura, ed io le lascio per non abusare della tua mente, che si stancherebbe nell’udire tante volte ripetuta la stessa cosa. – Vedi adunque se può essere Innocenzo III, nel Concilio Lateranense IV, colui che ha istituito la Confessione! No, caro mio, la confessione non è, non può essere invenzione degli uomini: essa è opera di un Dio.

— Non mi potrà però negare che la confessione sia dura ed umiliante assai.

Ed io non ti voglio negare del tutto che confessarci sia duro ed umiliante. Ma che cos’è tutto ciò di fronte alla grave offesa, che si reca a Dio col peccato? Non poteva Gesù Cristo imporci una condizione più dura e più umiliante ancora? Non sta bene che sia così anche per mettere un ritegno al nostro peccare? D’altronde alla fin fine è tutto ciò che meglio risponde alla natura dell’uomo, che sotto l’oppressione di gravi affanni sente il bisogno di manifestarli altrui per confortarsi e, che riconoscendosi colpevole capisce che non v’ha nulla di più efficace a meritarsi il perdono che manifestarsi spontaneamente tale.

— Non poteva però Gesù Cristo stabilire che noi ci confessassimo a Dio, come dicono appunto di far taluni?

Sì, ma dacché Gesù Cristo nella sua infinita sapienza ha stabilito diversamente, bisogna fare come Egli ha voluto senza inutili ricerche. Del resto in questo caso, che ci avessimo da confessare a Dio, vi sarebbe ancora un’umiliazione adeguata alla superbia del peccato? Che cosa ci costerebbe pentirci in segreto e in segreto confessarci a Dio? Ed in questa umiliazione, che è già da nulla per il nostro spirito, quale castigo subirebbero i nostri sensi che devono pur essere castigati? Sapremmo noi ingiungere loro la dovuta penitenza? Il nostro amor proprio ci lascerebbe agire con giustizia? Il confessarsi adunque a Dio, soltanto, come vorrebbero far taluni, come anzi taluni pretendono di fare (senza però che realmente lo facciano), potrà parere maggior misericordia, ma non sarebbe in realtà, anche solo perché non umiliandoci e castigandoci abbastanza, non ci farebbe abbastanza comprendere la malizia infinita della colpa, né ce la farebbe abbastanza detestare e fuggire per l’avvenire.

— Eppure quelli che si confessano, sento a dire che sono peggiori degli altri.

Eh! via lasciamo un po’ da parte queste false statistiche comparative. Senza dubbio, oltrecchè la confessione non rende impeccabili, non tutti si confessano bene: e quei che si confessano male certo fanno peggio di coloro che non si confessano. Ma se si tratta di coloro, che si confessano bene, com’è possibile che avendo nelle loro opere il freno e l’aiuto della Confessione siano peggiori di coloro, che senza tale freno ed aiuto si danno in piena balia delle loro passioni?

— Certamente lo cosa dev’essere come lei dice. Ora vorrei soddisfatte ancora, riguardo alla confessione, certe mie curiosità. Io so che il confessore è tenuto al segreto e so pure che del segreto della confessione vi sono dei martiri. Non di meno non potrebbe il confessore avvertire i genitori o i superiori del penitente a stare attenti sopra di lui?

Guai, se egli lo facesse! Non può, non deve assolutamente farlo e non lo farà mai.

— Non potrebbe almeno far cenno ai genitori o superiori, che stiano più attenti in quel tempo, in quel luogo, in quella circostanza, in quel dato caso, sopra qualcuno dei loro figli o alunni?

Nemmeno, assolutamente non lo può fare.

— E se il confessore fosse un superiore, per le cose udite in confessione potrebbe togliere al penitente qualche punto di condotta o suggerire che glielo tolgano, oppure tenergli dietro per vedere, se esso fa di nuovo quel male che ha confessato?

Neppure, neppur questo. E a togliere, non dirò questi pericoli, ma anche solo questi sospetti la Chiesa desidera, e direi, vuole di volontà precisa, come apparisce da alcuni suoi decreti, che i superiori non ascoltino le confessioni dei loro dipendenti, se non in casi affatto eccezionali. Insomma è tale e tanto il rispetto che la Chiesa giustamente esige pel segreto della confessione, che se il tuo confessore avesse intesa da te una colpa, che egli, prima ancora che tu la confessassi, già conosceva, perché o l’aveva veduta o gli era stata riferita, dopo che l’ha intesa da te in confessione, si diporterà come se ne sapesse nulla affatto.

— Mi dica ancora; qualora un cotale avesse commesso delle gravi colpe con qualche altro, deve dire al confessore il nome di costui?

No; egli deve accusare se stesso e non gli altri, e nel caso che non gli sia possibile accusare il peccato e le circostanze che ne mutano la specie, senza indicare la persona, con cui fu commesso, si deve manifestare non il nome (e nemmeno l’ufficio o la carica, che copre una tal persona, giacché in certi casi sarebbe lo stesso che dirne il nome), ma la qualità o il grado di parentela, che si ha con la medesima, per esempio fratello, sorella, cugino, un prossimo parente, una persona religiosa, eccetera.

— E se il confessore cercasse un tal nome, minacciando al penitente di negargli l’assoluzione, se non glielo dice?

Il confessore, giova sperarlo, non commetterà mai cosa simile, giacché egli sa che simil cosa darebbe scandalo, recherebbe ingiuria al Sacramento della Penitenza, tenderebbe alla violazione del Sigillo Sacramentale, secondochè ha dichiarato il Sommo Pontefice Benedetto XIV, il quale per di più ha sapientemente sentenziato che quei confessori, i quali avessero l’ardire di insegnarla come lecita o di difenderla, o di sostenerla, incorressero immediatamente nella scomunica riservata al Papa. Quindi il confessore potrà fare benissimo delle interrogazioni, alle quali si è obbligati di rispondere con tutta sincerità, ma salva sempre la regola che ti ho detta circa il nome del compagno della colpa o la designazione del medesimo; epperò qualora per una qualsiasi supposizione accadesse il caso che mi hai fatto, il penitente potrebbe umilmente ricordare al confessore che ciò non occorre, nella certezza che il medesimo, se non v’è altra ragione che questa, non gli negherà l’assoluzione.

— Queste cognizioni mi piacciono assai, perché da una parte mi mostrano con quanta rettitudine e delicatezza la Chiesa voglia sia amministrato questo Sacramento, e dall’altra mi persuadono che certe cose che si dicono e si stampano contro la pratica di questo sacramento sono falsità o calunnie. – Ed ora mi favorisca ancora una parola sul sacramento dell’Estrema Unzione, e mi dica se vi ha cenno di essa nella Santa Scrittura.

Dell’Estrema Unzione così parla San Giacomo (capo V, versetti 14, 15): « Alcuno tra di voi cade infermo? Chiami i sacerdoti della Chiesa, i quali preghino sopra di lui, ungendolo con olio nel nome del Signore; e la preghiera della fede salverà l’infermo, e Iddio gli darà conforto, e se si trova nei peccati gli saranno rimessi ». Dopo di che meritamente si deduce che anche questo Sacramento, senza che il Vangelo lo dica apertamente, sia stato istituito da Gesù Cristo.

— Ma l’amministrazione di questo Sacramento non pare a lei che sia un atto di crudeltà verso del povero infermo, che gli fa conoscere essere vicino a morire?

Pur troppo l’ignoranza e l’indifferenza religiosa dei nostri tempi fa credere a molti così, i quali perciò aspettano a chiamare il prete vicino al loro infermo, quando questi si trova già più nel mondo di là che ancora in quello di qua, con questo falso e sciocco pretesto di non spaventarlo. Ma dimmi un po’,  si ragiona forse così per indurre l’ammalato a fare il testamento? oppure anche solo per fare attorno al suo letto un consulto medico? Del resto quando pure non si potesse fare a meno di recare qualche po’ di commozione all’infermo col fargli venire dappresso il Sacerdote a dargli l’Olio Santo e gli altri Sacramenti,  che poi alla fin fine lo tranquillano e lo confortano ineffabilmente, non conviene di farlo per provvedere con maggior sicurezza alla sua eterna felicità? E il lasciare che l’infermo muoia, come si suol dire sìne luce e sine cruce, a guisa di un cane, ti pare carità, tenerezza, I pietà? Ah! caro mio: quanto importerebbe che certi pregiudizi a questo riguardo scomparissero e non fossimo più contristati da questo doloroso spettacolo di tante morti anticristiane, senza i conforti della fede! Fiat!

OTTAVARIO DEI MORTI (1) Il Cimitero

OTTAVARIO DEI MORTI (1)

TRATTENIMENTO VIII

Il Cimitero.

[L. Falletti: I nostri morti e il purgatorio; M. D’Auria Ed. Napoli, 1924 – impr. -]

Sommario — Anche dopo morte! — Dormitorio — Luogo del riposo — Campo Santo —Campo di Dio—Messe degli eletti —S. Agostino — Motivi di consolazione — Reliquiario prezioso — Sempre rispettato — Profanazione odierna — Inutili tentativi — Morieris tu! — Esempio.

Benedetta, sì, mille volte benedetta sia la nostra santa Religione! Essa che con assidua vigilanza e tenerezza materna segue ovunque i suoi figli nel cammino della vita, prendendo parte alle loro gioie ed ai loro piaceri, prodigando loro i suoi benefizi, i suoi incoraggiamenti e le sue consolazioni, non li abbandona neppure dopo la loro dipartita da questa terra; ed anche quando la morte li ha colpiti riducendoli ad un oggetto d’orrore agli occhi dei viventi, non cessa un momento di vegliare su di loro e di circondarli di sue cure premurose. Non permette perciò che i loro corpi vadano a marcire senza onore in una terra profana; ma vedendo sempre in essi dei vasi consacrati, che hanno racchiuso l’abbondanza dei doni celesti, e dei tabernacoli augusti, già dimora dello Spirito Santo, ha preparato loro un luogo di riposo che essa, dopo aver benedetto e santificato colle sue preghiere, ha collocato sotto l’autorità speciale dei suoi ministri. «I santi canoni, leggiamo nel Rituale romano, vogliono che il Vescovo benedica solennemente questi luoghi ove dormono i fedeli, morti nella Comunione della Chiesa, e proibiscono formalmente di seppellire i cristiani in un luogo profano ». E questi luoghi di riposo, ove dormono i fedeli si chiamano cimiteri. Oh! quanto adunque non dobbiamo essere riconoscenti alla Chiesa, la quale anche in ciò ha voluto tener conto di una aspirazione del cuore umano! « Non v’ ha persona, povera o ricca, esclama il domenicano Lacordaire, che non pensi alla sua tomba e non desideri riposare in una tomba amata sotto la custodia di santi ricordi. Gli antichi stessi, quantunque meno di noi istruiti sulla grandezza dei resti mortali, stimavano una disgrazia 1’essere privi di una sepoltura di loro scelta, e quando Scipione volle con un rimprovero eterno vendicarsi di Roma che, nonostante la sua provata onestà, aveva dato ascolto ai suoi accusatori inverecondi, legò le sue ceneri ad una terra d’esiglio e fece incidere sulla sua tomba questa amara ed eloquente iscrizione: « Ingrata patria, non avrai le mie ossa! » Ma non basta che noi ci mostriamo riconoscenti alla Chiesa, egli è ancor necessario che noi ci sentiamo penetrati di un santo rispetto verso questi luoghi venerandi, ed entrando nello spirito di questa buona Madre li consideriamo, non già soltanto come regno e dimora della morte, ma, ciò che è più consolante, come veri luoghi di dormizione, da cui i nostri corpi, ridestati un giorno dal sonno della morte, risorgeranno per partecipare gloriosi alla beata eternità. Non si poteva certamente dare al luogo di sepoltura dei nostri resti mortali un nome più appropriato e nello stesso tempo più consolante di quello di cimitero, parola di profondissimo significato, di filosofia tutta celestiale e di faustissimo augurio che, mentre mette la tomba sotto la protezione della speranza, toglie tutto il suo orrore alla morte. Che altro infatti vuol dire cimitero se non luogo di riposo, dormitorio? Ora non è forse vero che il dormitorio suppone il sonno, ed il sonno suppone il risveglio? Ed infatti, per parlare più propriamente, il cristiano non muore, ma dorme nell’attesa della risurrezione finale; per lui la morte non è che un sonno un po’ più lungo che quello della notte, che dovrà essere seguito da un risveglio eterno. Ed è appunto perciò che nell’antico Testamento, per esprimere la morte dei Patriarchi, si trova sovente adoperata questa frase: « Si addormentò coi padri suoi ». Noi sappiamo pure che Gesù Cristo ed i suoi Apostoli hanno sovente chiamato la morte dormizione o sonno, ed i morti dormienti. Lo stesso linguaggio noi troviamo in bocca a S. Paolo, il quale, in tutte le sue lettere, ma più chiaramente nella prima ai Tessalonicesi, chiama la morte un sonno ed i defunti degli addormentati: « Non vogliamo, dice egli, che siate nell’ignoranza per quanto concerne quelli che si addormentano, affinché non siate contristati, come avviene degli altri che non hanno speranza; poiché, se crediamo che Gesù è morto ed è risuscitato, dobbiamo anche credere che Dio ricondurrà per mezzo di Gesù e con Gesù quelli che si sono addormentati » (IV, 13). Ed è ancora per questo che gli antichi Cristiani parlando dei loro morti dicevano « che si erano addormentati nel sonno della morte, che si erano messi a riposare per qualche tempo, ma per risvegliarsi ben presto, » e dominati da questo pensiero avevano adottato l’abitudine di disporre i cadaveri nei loro funebri ripostigli, in modo che avessero la faccia rivolta verso l’Oriente, come per aspettare il ritorno della luce e salutare i primi raggi di questo novello giorno che non avrà crepuscolo. – La sola parola cimitero pertanto riassumendo in se stessa quelle belle parole dei Libri santi in cui è detto « che coloro che dormono nella polvere della terra si risveglieranno un giorno » ci ricordano quel dogma di nostra santa fede che, mentre è tanto consolante per l’anima fedele, è così terribile pel cattivo e per l’empio, la risurrezione cioè della carne. Ora se la morte è un sonno, i luoghi sacri ove riposano, dormono i corpi dei fedeli, nell’attesa della risurrezione finale, che altro sono se non dei dormitori? Ciò considerando i Padri dell’antica Chiesa non potevano far a meno di sentirsi ripieni di santa esultanza: « O dormitorio, esclama uno di essi, nome divino, nome rivelatore, nome degno di eterna benedizione! quanto non sei bello, giusto, pieno di consolazione e di filosofia! Egli è adunque vero che la morte non è la morte, ma un sonno, un assopimento passeggiero. In ricordo del giorno (il Venerdì santo) in cui Nostro Signore è disceso ai morti, noi siamo radunati in questo luogo, e questo luogo si chiama cimitero, affinché sappiate che i morti e coloro che qui riposano non sono già morti, ma solo addormentati. Prima della venuta del Redentore, la morte si chiamava morte; ma dopo la venuta del Figlio di Dio e dopo che Egli ha sofferto la morte per dare la vita al mondo, la morte non si chiama più morte, ma sonno, assopimento. È Lui stesso che le ha dato questo nome ed i suoi apostoli l’hanno imitato. Che non disse quando fu condotto presso la tomba dell’ amico Lazzaro ? « Il nostro amico Lazzaro dorme »; non disse già: è morto; benché realmente il fosse. E che questa denominazione di sonno, per designare la morte, fosse nuova, noi il possiamo dedurre dal turbamento degli Apostoli i quali, pur accettandone subito il significato, dicono a Gesù: « Signore, ma se dorme, egli è salvo! » – « Oh! sì, dappertutto la morte è chiamata un sonno! Ed è perciò che il luogo dove riposano i defunti è chiamato cimitero, che vuol dire dormitorio. Quando adunque qui portate un trapassato, non desolatevi; voi non lo portate alla morte, ma al sonno: questo nome basta per consolarvi. Abbiate sempre presente il luogo dove l’avete portato: al dormitorio: ed il tempo in cui l’avete portato: cioè dopo la morte del Cristo, quando tutti i vincoli della morte sono stati troncati ».

II.

Nel linguaggio della Chiesa il cimitero ha ancora due altri nomi, pei quali desso non merita meno il nostro rispetto e la nostra venerazione, perché ancor essi ci ricordano e ci predicano eloquentemente il dogma della risurrezione. Si chiama infatti Campo santo, e Campo di Dio — Campo santo! non è forse questo il nome che gli si dà generalmente da noi in Italia? Ed oh! quanto un tal nome non è preso in sul serio, tanto che noi sappiamo dalla storia che l’antica repubblica di Pisa, una delle grandi potenze marittime del Medio-Evo, organizzò una spedizione navale in Oriente per trasportare in patria la terra di Palestina, santificata dai passi del divin Redentore, onde comporne con quella il suo cimitero, il suo Camposanto. Oh! sì, egli è santo il luogo dove riposano le fredde spoglie dei nostri cari defunti; santo, perché solennemente consacrato con le auguste cerimonie della Chiesa per mano dei suoi Pontefici; santo, perché luogo di riposo di corpi che furono templi vivi dello Spirito Santo, membra di Gesù Cristo, rigenerati e santificati dalla grazia e dai Sacramenti; santo finalmente, perché dominato dalla Croce, simbolo sacro della nostra Redenzione, che s’innalza maestosa nel bel mezzo del sacro recinto e par che raccolga quei che non son più « sotto le grandi ali — del perdono di Dio ». Non meno eloquente è l’altro nome del Cimitero: Campo di Dio. Il Creatore, il Conservatore, il Restauratore di tutte le cose, Dio, è un seminatore; Egli stesso si chiama con questo nome: « Uscì quegli che semina a seminare; non seminasti forse del buon grano? » Ora come ogni seminatore ha un suo campo, così Iddio ha pure il suo, e questo è il cimitero. Ma a differenza del seminatore ordinario che semina differenti specie di semi nel suo campo, Dio invece non ne semina che di una specie, che del resto è sempre la stessa. Che fa il grano nella terra? comincia per alterarsi e marcire. Questo grano è nudo; uscito dalla spiga, ha più nulla che lo protegga, è appena coperto da una leggiera pellicola, di cui si sbarazzerà ben presto. Ridotto così alla sua più semplice espressione, il seminatore, con un atto di fede incrollabile nella risurrezione, lo affida risoluto alla terra, nel cui seno subirà rapidamente una gloriosa trasformazione. E la sua fede non lo ingannerà; passano pochi mesi, ed ecco che il campo si copre di meraviglia. Quel grano morto risuscita, e da un solo seme ne nascono parecchi. E questi nuovi grani non sono già nudi, come il loro padre, nascosti come esso nel seno della terra; no, ma si mostrano ai raggi del sole, s’innalzano verso il Cielo. Si appalesano riccamente vestiti, circondati di foglie, ornati di fiori, e graziosamente sostenuti da leggiadri steli che il vento fa lievemente ondeggiare, come la madre che in diversi sensi dondola la culla del suo bambino. Ora qual è il grano che Dio semina nel suo campo? Il più bello, il più prezioso, il più amato di tutti i grani; il corpo dell’uomo, formato a sua immagine, riscattato col sangue dell’Agnello immacolato, erede della sua gloria e felicità. E questo corpo, gettato nel seno del Campo di Dio, dopo aver subito, sotto l’occhio amoroso e la vigile e gelosa custodia del suo divin Seminatore, le stesse trasformazioni che il grano nel seno della terra, in virtù del germe divino in lui deposto dal Redentore, si alzerà pure a sua volta, come messe immensa, nel giorno della finale risurrezione, brillante e glorioso per tutta un’eternità. Oh! quanto non è consolante questo pensiero e di quale conforto, specialmente per quelle anime afflitte che piangono sulla tomba dei loro parenti e dei loro amici defunti: « Voi siete tristi e sconsolati, diceva il grande Vescovo d’Ippona inspirandosi ad esso, poiché avete veduto portato al sepolcro colui che amavate, e più non udite la sua voce. Egli viveva ed ora è morto; egli mangiava ed or non mangia più; più non prende parte alle gioie ed ai piaceri dei viventi. Ma forsechè voi piangete il seme, allorché l’affidate al solco? Se un uomo fosse in tutto talmente ignorante da piangere il grano che si semina nel campo, che si getta in terra, che si seppellisce nel terreno, lavorato dall’aratro, e dicesse in sé stesso: « Oh! Perché mai hanno sepolto questo grano, mietuto con tanta fatica, pulito, conservato nel granaio? noi l’abbiamo veduto, e la sua bellezza faceva la nostra gioia… ed ora è scomparso dai nostri occhi….! » Se vi fosse un uomo che così piangesse, forsechè non gli si direbbe: « Deh! non t’affliggere; certamente questo grano sepolto non è più nel granaio, non si trova più in nostre mani; ma quando più tardi noi verremo a visitare questo campo ci rallegreremo nel vedere la ricchezza della messe là ove tu piangevi l’aridità del solco ». Le messi le si vedono ogni anno, ma quella del genere umano non la si vedrà che una volta sola, alla fine dei secoli, quando cioè al suono delle angeliche trombe coloro qui dormiunt in sonno pacis, evigilabunt, si risveglieranno, e sorgendo dal seno della terra vivranno per non addormentarsi più ». – Così il santo dottore; ed a suo esempio, contemplando i nostri cimiteri, veri campi di Dio, diciamo ancor noi: è in questa terra, santificata dalle preghiere liturgiche, che germoglia la futura messe degli eletti. Essi non sono morti, no, che non è possibile che gli uomini fatti ad immagine e somiglianza di Dio muoiono per non rivivere mai più; ma riposano nella fede e nella speranza comune. Ma verrà un dì che secondo la parola del Creatore rivivranno a novella vita ed allora oh! gioia, oh! felicità, mors ultra non erit. Ecco che cosa è il cimitero; ecco quello che in suo muto linguaggio dice al cuore del cristiano. Non dobbiamo quindi meravigliarci che desso sia sempre stato e sia ancora tuttodì oggetto di universale rispetto e venerazione. « Presso ogni popolo del mondo, dice un moderno autore, abbia già desso fatti grandi passi nella via del progresso, o sia ancora agli inizi della civiltà, vi hanno due cose che sempre hanno tenuto un posto specialissimo nell’estimazione degli uomini, e davanti all’una o all’altra delle quali essi non possono far a meno di provare un sentimento, a cui non possono sottrarsi, sentimento che trionfa di tutti gli odi, e di tutte le passioni. E queste due cose sono la culla e la tomba. In un giorno di cieco furore il popolo potrà arrivare all’eccesso di atterrare il palazzo dei re e di portare una mano sacrilega sulle nostre chiese e sui nostri altari, ma è ben difficile che vengano profanate le tombe ombreggiate e difese dalla croce. Non è forse vero che sempre e dovunque il piccolo cantuccio di terra, che ricopre le spoglie mortali dell’uomo, venne trattato col più gran rispetto, ed in ogni tempo la violazione di una tomba venne considerata come una profanazione? » Parlando del cimitero così esclama uno scrittore cristiano: « O patria nostra, tu ci sei cara non solo per le aure che bevemmo fanciulli; pei nostri ridenti giardini; per la casa che ci albergò; ma anche per quel campo benedetto dove han trovato asilo parenti, congiunti ed amici. Quanti non sono coloro, che lungi morendo dal luogo natio, chiedono imperiosamente che i loro resti mortali sieno portati là, dove la voce della patria pare che reclami sempre, e vivi e morti, i suoi figli. Una legge di natura, e certamente una legge d’ amore, sospinge gli uomini a riunirsi in un solo asilo, affinché rimanga dopo morte quella comunione che mantennero in vita, e che punto non si rompe colla morte. Senza dubbio la prospettiva del cimitero ingenera un sentimento che vi obbliga di quando in quando a recarvi sul tumulo di chi avete amato; che vi costringe a scoprirvi il capo e a piegar le ginocchia; che dal vostro cuore sa strappare una prece e dagli occhi vostri una lagrima. Non è questo vero? La santità del luogo, unita a tante rimembranze, vi infonde una soavità di dolore, che si trasmuta in un indefinito conforto, è una mesta ma soave musica quella che si forma attorno alle croci di quell’asilo solitario». Quanti motivi pertanto non si riuniscono per renderci cari e sacri questi asili della morte collocati alle porte delle nostre città o all’entrata dei nostri templi per sollecitare da noi suffragi o per ricordarci che siamo polvere! Qui riposano in un sonno tranquillo, coricate le une sulle altre, migliaia e migliaia di generazioni, migliori che non la nostra: dormono sotto le zolle benedette coloro che furono i benefattori dei poveri e delle chiese, i fondatori dei nostri ospizi, delle nostre scuole, delle nostre istituzioni caritatevoli, di tutti quegli stabilimenti di pubblica utilità, di cui noi raccogliamo i frutti, senza pensare alla mano che ce li elargì, senza che la nostra memoria abbia conservato il nome di questi uomini generosi; qui aspettano il giorno del risveglio quella serie interminabile di pastori vigilanti e disinteressati che hanno istruito, consolato, diretto di età in età le generazioni estinte, e che hanno iniziato noi stessi alla scienza del dovere ed alla conoscenza della fede. Qui riposano, in una santa pace, dei fratelli, degli amici, un padre, una madre, dei figli ai quali avevamo promesso nelle strette angosciose dell’ultimo addio un ricordo eterno, qui soprattutto vi sono dei Cristiani, segnati del sigillo di una adozione divina, dei figli della Chiesa, dei membri di Gesù Cristo, dei quali Iddio custodisce le ossa, come parla il profeta, per risuscitarli nel giorno finale… In questi luoghi benedetti si trovano delle vere reliquie, poiché, chi può dubitare che fra i numerosi fedeli, il cui corpo vi venne deposto, molti non siano già in possesso della gloria? Reliquie preziose, spoglie venerande, alle quali non manca per avere diritto allo stesso culto con cui si onorano le reliquie esposte sui nostri altari, che la dichiarazione della Chiesa confermante la santità dei giusti ai quali esse appartengono. Ah! con quanta verità adunque, ogni qualvolta calpestiamo la terra di questi funebri asili, può essere a noi rivolta la parola che Iddio fece intendere a Mosè dal mezzo del roveto ardente: « La terra su cui tu cammini è santa, togli i tuoi calzari in segno di rispetto ». Sì, è la polvere dei Santi che i nostri piedi premono: è una polvere che per rianimarsi e per risorgere viva ed immortale non aspetta che il primo squillo dell’angelica tromba: sì, tutta questa terra che ci sta sotto gli occhi ha vissuto, tutta questa terra un giorno rivivrà!

III.

E dopo ciò ci domandiamo: Che cosa è mai adunque che dà alla tomba un carattere sacro? La credenza universale del genere umano che sempre ha ritenuto e ritiene che la tomba non è altro che la soglia dell’eternità. Che cosa è mai che spiega e giustifica il rispetto e la deferenza che accompagna e segue i freddi e tristi resti dell’esistenza umana? La sublime dottrina dell’immortalità dell’anima e della risurrezione della carne. Sì, se l’anima sopravvive al corpo, se 1′ uomo tutto intero è destinato a ridiventare un altro se stesso alla fine dei tempi, io comprendo le pie premure, la venerazione, il culto che si ha per le tombe. Se quel che giace sotto la fredda pietra sepolcrale è una spoglia che l’anima immortale ha bensì lasciato un giorno, ma riprenderà un altro giorno, è un tempio che la mano dell’Onnipotente riordinerà a suo tempo; è un santuario le cui sparse membra saranno più tardi riunite da Dio, come non meriterà quell’onore e quel rispetto che merita tutto ciò che è santo e sacro? Ma se invece tutto ha termine con la morte, se il nulla è l’ultima parola degli umani destini, se noi non ci troviamo più che alla presenza di qualche molecola di materia senza nome, senza dignità, senza avvenire, se non vi rimane più nulla di reale, di vivente a cui possano riferirsi i nostri pensieri, i nostri affetti, i nostri ricordi, se tutto ciò si è dissipato come un soffio nell’aria, che cosa vorrà allora significare il rispetto della tomba? A qual pro tanto apparato e tante pompe funebri per un mucchio di putridume, più o meno riccamente avviluppato, e che ormai non si tratta più che di fare scomparire al più presto possibile, come un oggetto di disgusto e di orrore, e di farlo scomparire il più lontano che si può dagli occhi umani? Ahimè! lo so purtroppo che così la pensano e così vorrebbero i moderni libertini e liberi pensatori. E non è forse perciò che sotto un falso pretesto di salubrità e di pubblica igiene vorrebbero tenere discoste dalle abitazioni dei vivi le tombe degli avi loro? È stato mille volte provato dalla scienza stessa, confermandolo del resto l’esperienza de’ secoli, che le pretese morbose emanazioni uscenti dalle tombe dei cimiteri non esistono che nell’immaginazione di certe persone che troppo paventano la morte. Ma che importa loro questa verità, pur che raggiungano i loro diabolici intenti? « Ma guai, guai a costoro, esclama il P. Monsabrè, che sacrificano all’igiene del corpo, l’igiene dell’anima! Impareranno a loro proprie spese ciò che diventa un popolo, il quale dimentica o trova troppo lunga la strada del Camposanto! » – « Col pretesto della pubblica salute, scrive un dotto medico, il Martini, già si impedirono le sepolture nelle chiese, ed ora si vogliono perfino distruggere i cimiteri. Ma forsechè oggidì si vive più lungamente di prima? si gode più prospera salute?.. Le popolazioni in generale non si videro mai tanto acciaccate, come dopo tanti trattati di pubblica igiene. E si può ripetere della pubblica sanità ciò che si dice della libertà e dell’economia politica: l’economia ci porta alla bancarotta, la libertà al dispotismo, e l’igiene ci fa morire tisici. Guardate quei buoni frati, che vivevano nei loro conventi, dove le Chiese annesse erano piene di sepolture e queste di cadaveri, menavano la vita più sana e vigorosa che mai, raggiungendo tale numero di anni che ci è difficile trovare in mezzo alla società odierna. È il mal costume che miete le popolazioni, e siccome il pensiero della morte eccita a vivere bene, così indirettamente il cimitero favorisce la pubblica sanità ». Ma non basta: a quale altro eccesso non li vediamo noi arrivare i moderni nemici dei cimiteri? « È orribile il dirsi: sempre con lo stesso scopo noi li vediamo opporre al Camposanto il forno crematorio… qualche cosa di orrendo e di insopportabile al cuore dell’uomo….! E la chiamano ara, tempio crematorio! Forno sì, altare e tempio no. E nomineremo altare questa scena d’orrore? Altare questo feretro senz’Angeli e senza Dio? Altare questo luogo né sacro, né  santificato, senza riti ed incensi, senza fiori e senza ghirlande, senza profumo di gentilezza e di umanità? Altare questo carbone, queste fiamme divampanti, avvivate da una scienza senza cuore, dall’idea del nulla, dall’odio della divinità, dal rito schernitore dell’ateo e del materialista? Meglio, mille volte meglio il rispetto delle pie ed universali tradizioni, meglio il cipresso della religione antica, che le ombre della novella acacia. Più dell’onda grassa del fumaiolo crematorio oh! meglio quell’atmosfera santa e severa che si spande dalle tombe, dove il corpo ridonato alla terra, naturalmente riposa fra le braccia della gran madre antica ». Ed ecco perché noi protestiamo contro tali crudeli e barbare innovazioni che non hanno altro di mira che di distruggere nell’anima del popolo la credenza dell’immortalità dell’anima, e con noi altamente protesta tutta quanta l’umanità che sempre ed ovunque ha avuto in onore il culto dei morti. « Io posso perdonare molte cose, diceva Napoleone, ma provo orrore per colui che non vede in noi che della materia. Come volete voi che io abbia qualche cosa di comune con un uomo che non crede all’ esistenza dell’anima, che crede che egli non è che un impasto di fango, e che vuole che io sia come lui un pugno di fango? » Ed ancora oggidì, nonostante le mene dei novatori non vediamo noi le stesse masse operaie delle nostre grandi città, a cui si è strappato con false ed empie teorie e bugiardi sofismi il rispetto di tutte le grandi cose, il rispetto del dovere, della famiglia, della stessa Religione, conservare in mezzo a tante rovine vivo e rigoglioso il culto dei morti? E non si è senza provare una viva e profonda commozione che nel giorno, consacrato alla solenne commemorazione dei fedeli defunti, noi le vediamo incamminarsi silenziose e raccolte verso il Camposanto, ed affollarsi commosse ed intenerite sulle tombe dei loro cari. Oh! sì, gli increduli ed i libertini avranno un bel predicare al nostro popolo che la questione dei novissimi non è più che una questione di chimica e di fisica; forse in certi momenti di odio e di passione troveranno ascolto; ma allorquando si presenterà il momento di manifestare la sua vera credenza con un atto solenne di fede, se ne andrà in folla a protestare contro di loro e contro se stesso sulle tombe dei morti, per quanto lontane le abbiano volute dal consorzio dei viventi; vi deporrà commosso gli emblemi dell’immortalità; attraverso il tempo e lo spazio darà la mano a coloro che non vivono più sulla terra, il suo cuore si slancerà verso di loro e col suo cuore la sua fede le sue speranze in un avvenire migliore. Spes illorum immortaliate piena est. Sii tu dunque benedetta, o Religione Cattolica, tu che eterna consolatrice innalzi la fiaccola della risurrezione e vegli intanto a difesa delle ossa inaridite. Tu sei pur qualche cosa di meglio di quel terribile nulla, martirio e spavento degli scettici, che mentre favorisce ogni delitto sulla terra, toglie persino quell’ultimo conforto che ci aspetta nel sepolcro. Anch’io voglio fare che una mesta viola sorga sul mio tumulo deserto; fecondata essa dall’alito sereno ed avvivatore della Croce, dalla luce del sole, e delle preghiere di tutti, dirà ai superstiti che sorge sul capo di un dormente, il quale attende il soffio della novella vita e lo squillo delle angeliche trombe.

* *

Certamente quanto in questo trattenimento si è detto sul cimitero è più che mai adatto per farlo apparire sotto un aspetto rassicurante e pieno di sante speranze. Non vorrei però che completamente ne venisse sbandito quel sacro terrore che pur necessariamente deve incutere, in quanto che desso è pure il regno della morte, in cui questa violenta livellatrice delle umane grandezze regna sovrana, e dal suo trono severo imparte lezioni che oltre a farci comprendere il nulla della vita c’insegneranno eziandio a ben vivere. Ah! lo so pur troppo che gli uomini di questa nostra età, che della morte hanno paura, e per molti dei quali i sepolcri stessi, che sono per noi Cristiani la culla dell’immortalità, non esistono che come cattedre d’immoralità e di corruzione, vorrebbero cancellarne dalle menti perfino il ricordo, e distruggere perciò quanto potrebbe farne sentire troppo vivamente la voce, onde non parli troppo altamente al cuore dei viventi. Ma viva Dio! essi avranno un bell’infiorare le tombe dei loro morti, avranno un bel cercare di ridurre i nostri cimiteri a luoghi di lusso, di vanità, di spasso, di curiosità, di presentarli come esposizioni permanenti di belle arti, non riusciranno mai a far sì che la morte non regni in essi come sovrana, e dai tumuli chiusi pur esca grave ed ammonitrice la voce : « Morieris tu! Anche tu morrai ! Tutti coloro che ti precedettero già hanno reso omaggio alla sua potenza e si sono schierati sotto il suo scettro così pure sarà di te! » E volesse il Cielo che una tal voce trovasse un’eco nel loro cuore! poiché mentre così imparerebbero a ben morire, prenderebbero coraggio per ben morire.

ESEMPIO: La predica sul Cimitero.

Davasi una sacra missione in una parrocchia della nostra Italia. Anche colà gli increduli tentarono ogni via per frastornare i devoti dall’accorrere ad ascoltare la parola di Dio. Fra questi si distinse un famoso fabbro ferraio, per nome Angelotto, il quale aveva la sua officina nei pressi della Chiesa. Tant’era l’odio che covava costui in cuore contro havvi di più sacro e santo, che ogni qualvolta il missionario saliva in pergamo, gli faceva tale uno strepito, cantando le più laide canzoni, e di sì formidabili colpi faceva risuonare l’incudine, che più volte il missionario dovette affaticarsi oltre modo perché la sua voce fosse intesa da tutti. Una sera all’ora della predica, Angelotto esce a diporto, quand’ecco la fitta nebbia, che aveva fino allora coperta la faccia del sole, anziché dissiparsi, s’era ad un tratto condensata in nubi, indi si è convertita in pioggia minuta che bagna e penetra fino alle midolla delle ossa. Angelotto sulle prime non ha fatto caso, ha continuato la sua passeggiata: ma che? non è ancora andato innanzi una ventina di passi, che egli è già tutto molle, ed il suo cappello goccia acqua da tutte le parti. « Maledetto tempo! esclama egli e proferendo cosi a mezza voce una bestemmia torna indietro per andarsene a casa; ma vedendo che la porta era chiusa, fa una imprecazione alla moglie che era in chiesa alla predica. Dopo che, così pieno d’ira, entra in chiesa per fermarsi e far passare un quarto d’ora di tempo. Il missionario già stava sul pulpito, e i buoni fedeli assistevano con compostezza e raccoglimento alla parola di Dio. Angelotto gittossi su d’un banco e diessi così per ingannare il tempo, a volgere in giro lo sguardo, lanciando qui e là bieche occhiate alle persone che stavano in chiesa raccolte. Egli non aveva né piegato il ginocchio, né fatto un segno di croce, né detto Ave a quel Gesù che stava là rinchiuso nel tabernacolo per suo amore. Parea avesse posto in oblio che era quella la casa di Dio, la casa della preghiera; eppure il Signore pietoso lo attendeva al varco per usargli misericordia e concedergli la maggiore delle grazie, quella del ravvedimento. Intanto il predicatore era giunto a buon punto della sua predica: « Fratelli miei, diceva con voce dolce e tenera, fratelli miei, il cimitero è una bella e salutare scuola per noi. Tutti in quel luogo andremo alla fine dei nostri giorni, e v’andremo fra breve : Hodie mihi, cras tibi; oggi tocca a me, domani a Voi. Figliuoli, conchiuse egli, se è così, non indugiate più oltre a darvi a Dio; pensate al Cimitero, è ora, fate presto che il Signore non vi trovi impreparati, pensate al cimitero, è ora! per molti di voi sarà questa l’ultima ora alla quale seguirà poi una felicità, o una miseria eterna ». Benché Angelotto avesse cercato di distrarsi, non aveva potuto fare a meno di ripiegare per un istante il guardo a sé stesso. « Il missionario avrebbe mai parlato di me? Oh! Dio! Che vita ho menato da dieci anni a questa parte? » Al pensare a quelle parole « Il cimitero, è ora » ei non regge più, si getta ginocchioni, chiude la testa fra le mani e piange. È finita la predica e la gente è uscita di Chiesa, ed Angelotto non si è mosso. Eppure non piove più; ma il cimitero suona ancora tremendamente al suo orecchio, ed egli stassene tuttora ginocchioni. Viene il sagrestano per chiudere la Chiesa, scuote le chiavi per dire ai pochi rimasti che se ne vadano. Angelotto allora si alza, piglia il suo cappello, ma invece di uscire, va difilato in sagrestia, trova il predicatore: « Ah! padre mio! Son dieci anni che non vi ho pensato!… voglio subito confessarmi, aiutatemi voi! » Il buon missionario l’accoglie, lo abbraccia. Angelotto si prostra, fa la sua confessione: grosse lagrime gli scendono dagli occhi, ma son lagrime di pentimento e di consolazione. Ricevuta l’assoluzione, si alza e, baciando la mano del buon missionario: « Era ora, gli dice; siate benedetto! » Si parte di là, ma Angelotto non pensa più all’osteria, agli amici, alle crapule, e ripetendo fra sé « cimitero, è ora! » rientra in casa… ! Da quel di fu tutt’altro uomo: ogni giorno prima di mette rsi al lavoro andò alla Messa, e nel giorno di festa la sua bottega vedevasi chiusa ed egli in Chiesa a fare le sue divozioni. Ma ecco la prima Domenica di quaresima, e la campana della Chiesa suona a morto. Chi è questo poveretto che non è più? È Angelotto, il fabbro ferraio, una malattia di quattro giorni lo ha portato al cimitero: beato lui che pensò in tempo al Cimitero!

 

 

IL GIORNO DEI MORTI (2018)

IL GIORNO DEI MORTI (2818)

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli, Vol. III, Soc. Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1939)

LE ANIME PURGANTI

Ora che la campagna è spoglia, che i cieli si fanno grigi per le nebbie, che le foglie cadono, la Santa Chiesa con un fine intuito educativo ci richiama al pensiero della morte, al pensiero dei nostri cari morti. La nostra vita sulla terra è rapida come una stagione, poi vengono le nebbie della vecchiezza, il vento autunnale e triste della fine e ci spoglia d’ogni terrestre illusione. Debemur morti nos nostraque; e noi e le nostre cose siamo destinati a morire. Quanti tra quelli stessi che conoscemmo ed amammo già sono morti. Compagni di scuola, compagni d’allegria, compagni d’armi, compagni di lavoro, sono già stati innanzi tempo presi dalla morte e condotti nell’eternità. Nella nostra stessa casa forse c’è più d’un vuoto: care persone sparite da anni, o solo da mesi, comunque sparite dalla nostra vista. – Oggi s’aprono i cancelli e noi pellegriniamo in folla su quella terra che nasconde la loro salma. Portiamo fiori e lumi, ed è questo un atto molto gentile. Ma quei fiori e quei lumi sono uno sterile simbolo se non vi aggiungiamo preghiere, elemosine, suffragi d’opere buone. Noi sappiamo, Cristiani, che se alcuno muore in grazia di Dio, ma con qualche peccato veniale non perdonato, o con qualche debito di pena temporanea non ancora scontato, non può entrare direttamente in Paradiso, ma è ritenuto in Purgatorio finché abbia pienamente soddisfatto alla divina Giustizia. Non solo, ma noi sappiamo anche un’altra verità che è molto consolante. Siccome noi, vivi e morti, formiamo tutti ancora nella Santa Chiesa una famiglia sola, possiamo noi che camminiamo sulla terra placare Dio anche per loro che più non sono qui. S. Giovanni Crisostomo rivolgeva queste esortazioni ai fedeli del suo tempo: « Perché piangete, se al defunto si può ottenere grande perdono? Non è questo un bel guadagno, un cospicuo vantaggio? Molti furono liberati con un’elemosina fatta per loro da altri; perché l’elemosina ha la virtù di togliere i peccati, se mai il morto è partito di qua con qualche venialità sulla coscienza. Vi assicuro che l’aiuto nostro per le anime non è mai vano: è Dio che vuole che ci soccorriamo l’un l’altro ». – Con questa confortante fede chiudeva gli occhi S. Monica, e morendo pregò il figlio Agostino di offrire per lei il sacrificio della Messa. E S. Agostino, come narra nelle sue Confessioni subito dopo la morte offerse per lei il sacrificio del nostro riscatto, e per lei pregò così; «Ascoltami, Dio Onnipotente: ascoltami, per Gesù Medico delle nostre ferite, che pendette dalla croce, e ora alla tua destra supplica per noi. So che ella ha usato soave misericordia ai poveri e ha rimesso i debiti ai suoi debitori. E tu rimetti ora anche a lei i debiti suoi! Condonale anche il peso di quelle miserie di cui s’è caricata nei molti anni che visse dopo il lavacro del Battesimo. Perdonala, o Signore, perdonala; te ne prego, non chiamarla al tuo giudizio ». Ecco il suffragio migliore che un figlio può mandar dietro alla madre diletta: la S. Messa, accompagnata dalla sincera e personale preghiera. È vero che i nostri cari nel Purgatorio non mancano di profonde dolcissime consolazioni, tra cui la più grande è quella d’esser certe che Dio le ama, e che andranno alla fine della loro purificazione a goderlo per sempre; ma è pur vero che fin tanto che dura la loro purificazione le anime soffrono gravissime pene. Soffrono i nostri cari morti! E noi possiamo e dobbiamo aiutarli.

I . I MORTI SOFFRONO

Un giovanetto di nome Giuseppe, un giorno, fu calato in una cisterna, e, sopra, i suoi undici fratelli vi gettarono una pietra con rimbombo, perché non potesse uscire più. Poi vi sedettero sopra mangiando, e bevendo il vino dei loro fiaschi. Comedentes et bibentes vinum in phialis. Giuseppe singhiozzava nel fondo della cisterna, ove non scendeva una boccata d’aria, ove non filtrava un filo di luce: in una cisterna stretta e profonda, umida e muffolente. Singhiozzava; ma i suoi fratelli, sopra, mangiavano e bevevano e non potevano udire il suo grido straziante. Lui moriva, essi se la godevano. Lui in prigione, essi nella libertà delle loro case e dei loro campi. Lui senza pane e senz’acqua, essi pieni di carne e di vino. Comedentes et bibentes vinum in phialis. Questa scena angosciosa si ripete ogni giorno, anche oggi. Nel carcere del Purgatorio c’è qualche nostro fratello, un amico, forse il babbo, forse la mamma nostra che soffre; e noi non ci ricordiamo mai di loro che sono morti. Noi ci divertiamo, bevendo e mangiando, mentr’essi soffrono tormenti più struggenti della fame e della sete. Ricordiamoli i morti perché soffrono. Che cosa soffrono? Soffrono misteriose pene, più o meno gravi, ma che sono sempre cagione d’acuto dolore. Ma la sofferenza più affliggente è il ritardo che li disgiunge da Dio. Qui sulla terra l’anima che si allontana da Dio, immersa com’è nei sensi, può non penare, può cercare conforto nelle creature. Ma nell’eternità non sarà più così: non solo l’uomo non potrà cercare un surrogato alle creature, ma si accenderà nella sua anima un bisogno, anzi una fame di felicità divina, di congiungimento nella visione col suo Signore. Pensate allora la dolorosa aspirazione delle anime purganti: sentirsi fatte per Dio, sentirsi ormai giunte al sicuro porto, e vedersi rattenute dall’entrare in patria, impedite dell’abbraccio divino! È la penosa speranza dell’ammalato a cui il medico assicurò la guarigione, ma che intanto deve stare immobile per mesi nel letto. È la tensione acerba dell’assetato che quando crede d’essere giunto alla fonte d’acqua viva, s’accorge ch’essa gli scorre ancora molto lontana. È l’attesa struggente del prigioniero di guerra, che giunto il giorno di rimpatriare e d’abbracciare la vecchia madre e la sposa e i figliuolini, si vede messo in quarantena per una certa sua infezione. « Miseri noi: credevamo d’essere giunti al termine, ed ecco il cammino ci si allunga davanti… ». Così sospirano con pacato dolore le anime sante del Purgatorio.

2. NOI LI POSSIAMO ALLEVIARE

Uno degli episodi più pietosi delle Sacre Scritture è quello del paralitico sotto i portici della piscina probatica. V’era a Gerusalemme una vasca con cinque portici in giro: ed ogni anno quell’acqua, scossa da un Angelo, acquistava una virtù miracolosa, che qualunque malato per primo vi si fosse immerso ne sarebbe riuscito sanato perfettamente. Ed eran già 38 anni che un povero paralitico era là ad aspettare la guarigione. Smorto per tanto soffrire, le carni incadaverite, le vesti luride, invocava con gemiti e con lacrime la pietà della gente. A guarirlo, non si richiedevano medici specialisti che venissero da lontano, non si richiedeva danaro, non medicina preziosa e rara. Bastava soltanto che qualcuno, appena l’Angelo commoveva l’acque, gli desse un tuffo. Eppure, dopo 38 anni ch’era là, non uno gli aveva saputo fare quel piacere. E quando Gesù passò sotto il portico, quel poverino ruppe in singhiozzi, dicendo: a Domine, hominem non habeo! ». O Signore, non ho proprio nessuno! – Anche molte anime del Purgatorio ripetono il grido del paralitico: « Signore, non ho proprio nessuno! nessuno che si ricordi di me, nessuno che preghi, che faccia pregare… ». E son anni e anni che gemono là; e per strapparle dal fuoco non occorre enorme fatica, e neppure grosse somme di danaro: ma basta una preghiera detta col cuore, basta una Comunione fervorosa, una santa Messa ascoltata o fatta celebrare… Ed è un dovere d’amore ricordarsi, è un dovere di giustizia. Chi sono quelle povere anime? forse i nostri fratelli, le sorelle, le spose, i padri, le mamme… Oh vi ricordate di quel giorno, di quella notte in cui morirono? Là, sul letto, disteso: già ne’ suoi occhi dilatati v’era l’immagine della morte. Ardeva accanto una candela benedetta, quella dell’agonia. Egli non poteva parlare più, già la morte gli sigillava le labbra per sempre: eppure qualche cosa voleva pur dirci, che tremava tutto: «Ricordati di me, quando sarò morto!». E noi scoppiammo in pianto, e tra i singhiozzi abbiamo giurato, in faccia alla morte, di non scordarlo più. Invece dopo qualche settimana noi ci demmo pace; e chi è morto, giace. « Ricordati di me, che tu mi puoi aiutare! ». Non la sentite questa voce alla sera, quando invece di fermarvi in casa a rispondere il Rosario voi uscite a chiacchierare, a giocare? Non la sentite questa voce alla mattina presto, quando suonano le campane della Messa, dell’Ufficio, e voi poltrite nelle piume del letto? Non la sentite questa voce che vi supplica di cambiar vita, di frequentare i Sacramenti, di lasciare quella relazione? – Non la sentite questa voce a scongiurarvi che facciate un po’ d’elemosina, che procuriate una S. Messa, un Ufficio di suffragio? Eppure dovreste sentirla: forse, quei campi che voi lavorate, quella che voi abitate, quel gruzzolo di danaro che avete alla banca, è il frutto del sudore dei vostri morti. Siete obbligati, per giustizia, a ricordarli!

CONCLUSIONE

Dall’esilio S. Giovanni poteva finalmente rientrare in Efeso. Entrando egli nella sua città incontrò un funerale: portavano a seppellire il corpo di Drusiana, la quale aveva sempre seguiti i suoi ammaestramenti. Come la gente s’accorse della presenza dell’apostolo, a gran voce diceva : « Benedetto tu che nel nome di Dio ritorni! ». Allora le vedove che Drusiana aveva in vita racconsolate, i poveri che aveva nutrito, gli orfani a cui aveva fatto da madre, circondarono l’Evangelista, e col pianto nella voce cominciarono a supplicarlo: « O santo Giovanni! vedi che portiamo Drusiana morta a seppellire: ella ci ha confortati, ci ha dato da mangiare, ci ha protetti, ed ora è morta, senza poterti rivedere, che pur lo desiderava tanto ». S. Giovanni fu commosso da quelle preghiere ardenti. Fermò il funerale, fece deporre in terra la bara, e con chiara voce disse davanti a tutti: « Drusiana! per l’amore che portasti agli orfani, per l’elemosina che facesti ai poveri, per l’aiuto che prodigasti alle vedove, il mio Signor Gesù Cristo ti risusciti ». E subito ella si levò dalla bara, sì che pareva non resuscitata da morte, ma destata da dormire (BATTELLI, Leggende cristiane). – Verrà un giorno, e per quanto sia tardi non è lontano, che noi pure porteranno a seppellire. Ma la nostra anima, nuda e sola, convien che vada al tribunale di Cristo. Oh, se durante questa vita ci saremo ricordati dei poveri morti, allora molte anime si faranno intorno a Gesù giudice e a gran voce diranno: « Signore! ricordati che costui mi ha alleviato il fuoco del Purgatorio, con le sue preghiere, con le mortificazioni, con l’elemosina. Signore! ricordati di quelle Messe e di quegli Uffici che m’ha fatto celebrare, ricordati delle Comunioni, delle elemosine che faceva in mio suffragio ». E Gesù non saprà resistere a queste suppliche e ci dirà: « Per la misericordia che hai avuto dei poveri morti, anch’io ti faccio misericordia: vieni presto in Paradiso ».

FESTA DI TUTTI I SANTI (2018)

FESTA DI TUTTI I SANTI (2018)

Beati pauperes spiritu: quoniam ipsorum est regnum caelorum.

Beati mites: quoniam ipsi possidebunt terram.

Beati qui lugent: quoniam ipsi consolabuntur.

Beati qui esuriunt et sitiunt justitiam: quoniam ipsi saturabuntur.

Beati misericordes: quoniam ipsi misericordiam consequentur.

Beati mundo corde: quoniam ipsi Deum videbunt.

Beati pacifici: quoniam filii Dei vocabuntur.

Beati qui persecutionem patiuntur propter justitiam : quoniam ipsorum est regnum caelorum.

Beati estis cum maledixerint vobis, et persecuti vos fuerint, et dixerint omne malum adversum vos mentientes, propter me: gaudete, et exsultate, quoniam merces vestra copiosa est in caelis. [Matth. V, 3-12]

CHI SONO I SANTI

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli, Vol. III, Soc. Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1939)

Prima ancora della venuta del Salvatore Gesù, un famoso architetto di nome Marco Agrippa, aveva innalzato in Roma un tempio magnifico detto Pantheon, cioè consacrato a tutti gli dei, a quelli noti e a quelli ignoti. Quando Roma fu convertita al Cristianesimo, quel tempio non fu distrutto: se i pagani avevano i loro dei bugiardi, non avevamo noi i nostri santi da onorare? Perciò dal Papa Bonifacio IV fu consacrato al culto dei Martiri che in ogni parte della terra avevano offerto il sangue e la vita a Dio. Dal culto di tutti i Martiri al culto di tutti i Santi fu breve il passo. E d è chiara la ragione. Di quanti Santi noi non conosciamo né la storia, né il nome! Dio solo ha visto e compreso la loro anima, le loro virtù, le preghiere, le sofferenze lunghe, le penitenze aspre… E poi, anche di quelli che conosciamo, non ci è possibile celebrare una festa particolare durante l’anno. Eppure non è giusto che molti di questi eroici Cristiani siano dimenticati, e non è bene perdere la protezione loro potente. Per tutte queste ragioni la santa Chiesa ha stabilito una festa per onorarli e invocarli insieme. – Permettetemi ancora due altre chiarificazioni:

. Quando veneriamo i Santi, noi non siamo idolatri, perché ogni onore dato a questi, termina sempre a Dio, a cui soltanto si deve l’onore, la gloria, l’adorazione. Se voi ammirate e lodate un quadro di valore, forse che il pittore si offenderà? Ebbene, i Santi sono le opere artistiche di Dio, il quale ha scolpito e dipinto il suo volto nella loro anima.. Se voi ammirate e lodate i figlioli, forse che il padre si offenderà? Ebbene i Santi sono i figli prediletti del Signore, quelli che più gli assomigliano.

. I Santi poi si devono onorare santamente, e non come il mondo festeggia i suoi amici. Ci sono di quelli che amano la festa del Santo, ma non il Santo. Amano la festa perché sono esercenti e sperano guadagno; amano la festa perché potranno darsi all’allegria, al piacere della gola, allo sfoggio d’un bel vestito. « Che maniera è questa? — esclama sdegnato S. Gerolamo. — Con la sovrabbondanza del bere e del mangiare volete onorare chi ha vissuto in digiuno e penitenza? Con le mollezze e le immodestie del vestito volete onorare chi ha vissuto nella solitudine e nella modestia angelica? Voi amate la festa del Santo, ma non il Santo » (S. HIER., Ad Eust.). – Ci sono poi degli altri che amano il Santo, ma non la sua santità. Ne troverete moltissimi in giro all’altare di S. Antonio, di S. Espedito, di S. Teresa; moltissimi che portano lumi e fiori agli altari; ma sono pochi quelli che si mettono dietro gli esempi che i Santi ci hanno lasciato. Eppure non v’è devozione più efficace dell’imitazione. « È falsa pietà onorare i Santi, e trascurare di seguirli nella santità » (S. EUSEB., In homilid). E allora? allora noi dobbiamo sforzarci di raggiungere la vera devozione dei Santi, quella che è fatta di umiliazione e di preghiera, poiché i Santi sono un grande esempio ed un grande aiuto per noi. Erano tristissimi giorni per il popolo israelitico. Gerusalemme posseduta dallo straniero; il tempio invaso, derubato, profanato; la gioventù uccisa o prigioniera; e per ogni villaggio s’udivano le feroci canzoni dei soldati d’Antioco, sempre bramosi di predare e di massacrare. Matatia, il vecchio genitore dei Maccabei, s’era nascosto nel deserto, ove, un po’ per l’età e molto per l’angoscia, s’ammalò da morire. Ma prima di chiudere la sua bocca nel silenzio eterno, si chiamò vicino i suoi cinque figli e disse : « Creature mie! vi tocca vivere in un mondo perverso, in un tempo di peccato e di scandalo: ricordate gli esempi dei vostri padri, e ne ricaverete forza e gloria. Ricordate la fede d’Abramo, che credette alle promesse di Dio anche quando gli fu imposto di uccidere il primogenito suo: abbiate anche voi fede in Dio ora che la nazione nostra è distrutta. Ricordate la rassegnazione di Giuseppe, venduto da’ suoi fratelli crudeli e pure tanto timoroso della legge di Dio che fuggì dall’impura donna di Putifarre, e fu premiato poi da Dio: anche voi dovete ora rassegnarvi ai voleri della Provvidenza, e mantenervi puri se volete un premio. – Ricordate Giosuè che con molte fatiche e prodezze riuscì a conquistare la terra promessa. Ricordate Davide, quanto fu pio, quanto fu saggio! e Dio gli diede un trono nei secoli. Ricordate Daniele che per la sua rettitudine fu messo nella fossa dei leoni, e quei tre giovanetti che preferirono farsi gettare nel forno acceso piuttosto che trasgredire la legge… ». – Così di generazione in generazione, il vegliardo morente rievocava ai figli le gesta dei santi dell’antico Testamento. E quand’ebbe finito alzò le mani a benedire: ma già le sue labbra non si agitavano più: era spirato (I Macc., II). – A me pare che, come il vecchio Matatia, anche la Chiesa raduni oggi i suoi figliuoli e additi gli esempi dei Santi. Noi viviamo in tempi di peccato e in un mondo maligno, ma prima di noi ci vissero i Santi che ora sono in Paradiso. Ricordiamo i loro esempi, per imitarli e farci ancora noi santi. « Ma io non ho tempo — si dice da alcuni — per pensare alla santificazione dell’anima, e a tante devozioni: sono troppo occupato negli affari ». E credete voi che S. Teresa di Gesù, S. Caterina da Genova, S. Filippo Neri non avessero occupazioni materiali? Ah, se deste all’anima vostra tutto il tempo che date al divertimento, alle vanità, alle conversazioni mondane e frivole, quanto grande sarebbe la vostra santificazione! Dite di non aver tempo: ma voi avete tutta la vita, perché Dio v i ha creati solo per questo. – « Ma io ho famiglia, io vivo in un ambiente corrotto, io mi trovo in mezzo a scandali ». Non crediate che solo i frati o lo suore possano diventare santi: ci fu S. Luigi, re di Francia; e una S. Pulcheria che viveva nella corruzione della corte di Costantinopoli; e un S. Isidoro contadino; e una S. Zita serva in famiglie private. In ogni ambiente si può salvare l’anima. – « Ma io ho un temperamento focoso, superbo, sensuale… non posso resistere alle tentazioni ». Anche i Santi ebbero una carne e un sangue come il vostro; anch’essi provarono tutte le vostre tentazioni; eppure riuscirono. Se quelli riuscirono, e perché non noi? Non crediate che a S. Agostino sia stato facile vivere in purità, non crediate che a S. Carlo sia costato poco vivere in umiltà, non crediate che a S. Francesco di Sales sia stato naturale vivere in soavità: studiate la loro vita, e conoscerete che furiose lotte sostennero contro le passioni! Eppure vinsero. Soltanto noi non vinceremo?

  1. I SANTI SONO UN GRANDE AIUTO

Quando la carestia affamò la terra di Canaan un vecchio e i suoi figli vennero in Egitto, e si presentarono al Faraone per avere da mangiare. Ma in Egitto, nello stesso palazzo del Faraone v’era Giuseppe.

« È mio padre! Sono i miei fratelli! » disse Giuseppe presentandoli al Sovrano. E quelli ebbero da mangiare, da vivere beatamente e terre da coltivare; ebbero quello che chiedevano e molto di più. Anche noi abbiamo nella regione d’ogni abbondanza, nella magione stessa del gran sovrano Iddio, i nostri ricchi fratelli: i Santi. Ogni volta che per carestia spirituale o materiale ci rivolgiamo al cielo, essi si volgono a Dio per dirgli: « Ascoltali! Esaudiscili, perché sono i nostri fratelli minori ». Potrà il Signore non ascoltare la preghiera de’ suoi intimi amici? – I Santi nel cielo non diventano egoisti che si godono la meritata felicità; essi si ricordano ancora di noi poveri mortali. Essi che soffrirono un tempo quello che oggi soffriamo noi, sanno capirci e ci seguono con ansietà per ogni peripezia del viaggio terreno e supplicano, con vive istanze Colui che comanda ai venti e al mare di proteggere la nostra barchetta dalla burrasca delle passioni. Essi che già esperimentano la infinita gioia del Paradiso, tremano che noi abbiamo a perderla e supplicano perché ci si conduca al beato porto. I Santi in cielo e i Cristiani in terra sono una famiglia unica; e come in una famiglia il fratello buono intercede presso il padre adirato per la disubbidienza dei figli discoli, così i Santi placano Iddio quando vuole castigarci per i peccati. Non avete letto nella storia sacra che il Signore aveva una volta deciso di sterminare la gente ebrea, perché s’era ribellata ai suoi comandamenti? Ma in mezzo al popolo maledetto stavano due anime sante: Mosè ed Aronne. «Allontanatevi voi! — diceva nel suo furore Iddio. — Perché io voglio sterminare tutti in un momento ». Quelli invece non si ritirarono, e Dio per la loro intercessione s’accontentò di punire soltanto i tre più colpevoli (Num., XVI, 20 ss.). – Come Mosè, come Aronne, i Santi si mettono tra l’ira di Dio e noi. Chi può dire quanti fulmini hanno sviato dal nostro capo? Perché non siamo morti dopo il primo peccato mortale? Perché il Signore ci lascia ancora tempo a penitenza? Oh se potessimo vedere quello che avviene in Paradiso!… Se i Santi sono così potenti per chiedere ed intercedere, è tutto nostro interesse pregarli frequentemente, fervorosamente. Però non facciamo come molti Cristiani i quali ricorrono ai Santi solo per gli interessi materiali: sarebbe un grave torto verso di loro che tanto disprezzo hanno avuto per le cose mondane. Tante preghiere per l a salute del corpo, e per quella dell’anima? Tanti lumi e tanti fiori per un affare di danaro o di roba, e per gli affari della gloria di Dio e della conversione dei peccatori? Chiediamo prima il regno di Dio, che il resto non ci mancherà. – Il Signore ha promesso che dove sono in due o più a pregare nel suo nome, egli è in mezzo a loro e li esaudisce: ebbene, in Paradiso, non uno o due appena, ma sono migliaia e migliaia, e santi, che pregano per noi. La loro preghiera quindi è il nostro più grande aiuto.

CONCLUSIONE

S. Giovanni l’Evangelista, rapito in visione, vide aperta innanzi a sé una gran porta, per la quale entrava in cielo una sterminata moltitudine; d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni tempo, d’ogni condizione di vita. Questa rivelazione è consolante. Se il numero degli eletti è interminabile così che neppure S. Giovanni è riuscito a contarli, vuol dire che non è poi tanto difficile salvarsi, vuol dire che anche noi possiamo riuscire a passare per quella porta, che è Cristo, ed entrare in compagnia dei Santi. V’è però una condizione essenziale. Quelli che giungono a salvamento, recano tutti in fronte un suggello che è come il carattere di somiglianza e di appartenenza all’Eterno Padre e al suo Figlio Unigenito. Questo suggello, — secondo il profeta Ezechiele, — ha la forma d’un T, cioè d’una croce, e vien impresso sulla fronte di coloro che piangono e gemono. Signa Tau super frontem vivorum gementium et flentium. Che vuol dir ciò? vuol dire che per essere partecipi della gloria e del gaudio dei Santi, bisogna prima aver partecipato alle loro penitenze e sofferenze.