DOMENICA XXIV DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XXIV DOPO PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ier XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.
[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob.
[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Oratio

Orémus.
Excita, quǽsumus, Dómine, tuórum fidélium voluntátes: ut, divíni óperis fructum propénsius exsequéntes; pietátis tuæ remédia maióra percípiant.
[Eccita, o Signore, Te ne preghiamo, la volontà dei tuoi fedeli: affinché dedicandosi con maggiore ardore a far fruttare l’opera divina, partécipino maggiormente dei rimedi della tua misericordia.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col 1: 9-14
“Fratres: Non cessámus pro vobis orántes et postulántes, ut impleámini agnitióne voluntátis Dei, in omni sapiéntia et intelléctu spiritáli: ut ambulétis digne Deo per ómnia placéntes: in omni ópere bono fructificántes, et crescéntes in scientia Dei: in omni virtúte confortáti secúndum poténtiam claritátis eius in omni patiéntia, et longanimitáte cum gáudio, grátias agentes Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem eius, remissiónem peccatórum”.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Omelie, vol. IV, Omelia XXV – Torino, 1899]

“Non cessiamo dal pregare per voi, e chiedere che siate ripieni del conoscimento della volontà di Dio, in ogni sapienza e intelligenza spirituale, affine di camminare in modo degno di Dio, in ogni beneplacito, fruttificando in ogni opera buona crescendo nel conoscimento di Lui, fortificati di grande vigoria, secondo la sua gloriosa potenza, ad ogni patimento e longanimità, rendendo grazie a Dio Padre, che ci mise a parte della sorte dei santi nella luce; il quale ci strappò dalla potestà delle tenebre e ci ha tramutati nel regno del Figliuolo suo dilettissimo, in cui abbiamo la redenzione per il sangue di Lui, la remissione dei peccati„ (Ai Colossesi, I, 9-13).

La lettera ai fedeli di Colossi, città dell’Asia minore, nella Frigia, dalla quale sono tolti questi cinque versetti, fu scritta da S. Paolo in Roma, nel 63 o 64 dell’era nostra, durante il tempo della sua prima prigionia. Quella Chiesa non era stata fondata da lui, ma dal suo discepolo Epafra, che fu anche il portatore della lettera stessa. Questa ha due parti distintissime, la prima è dogmatica, morale la seconda. S. Paolo in carcere, forse da Epafra stesso aveva inteso come i fedeli di quella Chiesa correvano grave pericolo d’essere ingannati da certi maestri d’errore, che dovevano essere gnostici o, al solito, ebraizzanti. Quelli, mescolando insieme gli insegnamenti della fede con le teorie filosofiche, ond’erano imbevuti, erravano intorno alla persona di Cristo e introducevano non so qual nuovo e strano culto degli angeli: questi poi si attenevano ancora ad alcune pratiche legali, che non potevano comporsi colla fede cristiana. La lettera è una delle più brevi, ma ripiena di altissimi sensi. – I pochi versetti che avete uditi, e che formano la prefazione della lettera, ve ne sarete accorti voi stessi, udendoli, si presentano involuti, oscuri e assai difficili a spiegarsi, perché le verità vi sono condensate a forza, le une serrate alle altre, in una forma di dire al tutto ebraica e che alle nostre orecchie torna assai dura. Ad ogni modo, invocando l’aiuto di Dio e chiedendo tutta la vostra attenzione, mi accingo a darvene il commentario. – S. Paolo comincia la lettera, scritta anche a nome di Timoteo, con i saluti, che sono presso a poco quelli delle altre lettere: poi ringrazia Dio per la fede e per la carità dei Colossesi, secondo il Vangelo ricevuto da Epafra, che gli portò novelle di loro; e, continuando, scrive: “Noi non cessiamo di pregare per voi — “Non cessamus prò vobis orantes. „ È cosa degna di considerazione questa, che parecchie volte S. Paolo, nelle sue lettere, assicura i fedeli che prega per loro. Non vi è cosa maggiormente inculcata nei Libri santi, quanto la preghiera: essa è voluta dalla fede, è richiesta dalla natura stessa, è un bisogno del nostro cuore, è il respiro, come fu ben detto, dell’anima nostra. Se siamo lieti, se siamo afflitti, se speriamo, se temiamo, la preghiera, per chi ammette Dio, è una necessità. Noi possiamo pregare per noi stessi e possiamo pregare anche per gli altri: la preghiera per noi stessi è sì naturale, che non può creare difficoltà di sorta; ma la preghiera per gli altri può sembrare strana e quasi temeraria. Come! dirà taluno, siamo sì poveri, sì miserabili, pieni di tante colpe, che a stento possiamo presentarci a Dio e pregarlo per noi stessi, e oseremo poi pregare per altri e farci intercessori dei nostri fratelli? Questa non è cosa che ripugna e che sa di superbia? Ci basti pregare per noi. No, o carissimi; preghiamo, sì, per noi; ma preghiamo anche per gli altri, che non vi è ombra di superbia, ed è cosa gratissima a Dio. La preghiera, se bene sì guarda, è un atto di umiltà per eccellenza, perché chi prega si riconosce bisognoso e si mette ai piedi di Dio; onde la preghiera, se è vera preghiera, sia fatta per sé, sia fatta per altri, è sempre un esercizio di umiltà. Sarebbe superbia se, chi prega per altri, si considerasse degno di pregare e mettesse innanzi a Dio i meriti propri, quasi titoli, per essere esaudito. La preghiera poi, fatta pei fratelli nostri, quali ch’essi siano, è gratissima a Dio, essa è figlia di quella carità che tanto ci è raccomandata nel Vangelo e che fa nostri i bisogni altrui, e ci muove a soccorrerli, ricorrendo a Lui, che tutto può. La preghiera è figlia dell’umiltà, e la preghiera per gli altri è figlia della carità. Ecco un padre, che ha parecchi figli, i quali tutti hanno bisogno di lui. Uno di questi figli, dopo aver implorato l’aiuto del padre per sé, l’implora anche per il fratello suo, che non fa, o fors’anche rifiuta di farlo. Non è egli vero che quel buon padre deve sentirsi commosso udendo un figlio che intercede per un altro figlio? Non è egli vero che quest’atto di amore fraterno deve tornare accettevole al padre e renderlo più inchinevole al perdono verso il figlio ingrato e dimentico dei suoi doveri? Ah! credetelo, o dilettissimi, la preghiera che noi innalziamo a Dio per i fratelli nostri, ha un’efficacia specialissima, perché si innalza a Lui quasi avvolta nel profumo della carità scambievole e ispirata a quella forma di preghiera ch’Egli stesso ci ha insegnata, dicendo: “Padre nostro, che siete nei cieli … Preghiamo adunque e sempre, e per noi e per tutti. S. Paolo pregava per i Colossesi, e a quale intento? Forse perché diventassero ricchi? Fossero potenti e salissero in grande onore e fama? Perché fossero ricolmi di prosperità materiali? Queste cose le domandano e le desiderano gli uomini del mondo, ma non potevano nemmeno passare per la mente dell’Apostolo delle genti. Uditelo: “Preghiamo per voi affinché siate ripieni del conoscimento della volontà di Dio. „ Ecco la prima cosa che S. Paolo prega da Dio per i suoi Colossesi. In che sta riposta, o cari, la virtù ed il sommo della virtù, che è la santità? Evidentemente nel fare ciò che vuole Iddio: chi in ogni cosa è conforme alla volontà di Dio, questi ha toccato la cima d’ogni santità. Ma per essere in ogni cosa conformi alla volontà di Dio, bisogna conoscerla questa volontà di Dio. E in qual modo, per qual via Dio ce la fa conoscere? Per doppia via: l’una è la via della ragione, via assai imperfetta, lunga, incerta, e per la quale a pochissimi è dato camminare; l’altra è la via della fede, perfetta, breve, sicura, a tutti facilissima ed eguale. Ed è senza dubbio di questo conoscimento della volontà di Dio che parla S. Paolo e prega che siano non solo forniti, ma ripieni i fedeli di Colossi, e ripieni per guisa che sappiano non solo le verità da Dio manifestate, ma anche il modo di adempirle: “In ogni sapienza e intelligenza spirituale (La sapienza riguarda la sola cognizione teorica, i principi, l’intelligenza, la pratica applicazione dei medesimi. La parola Spirituale indica la natura delle verità conosciute, o fors’anche l’origine, che viene dallo Spirito Santo.). „ – Carissimi! Dio non manca di farci conoscere queste verità: Dio è pronto a versarle con ogni pienezza nelle anime nostre; ma Egli vuole che pur noi facciamo dal canto nostro il necessario per riceverle; Egli le offre, ma bisogna pigliarle, e così vuole perché rispetta la nostra libertà e intende che rimanga a noi il merito di acquistarle. E come possiamo giungere al conoscimento della volontà di Dio? Ascoltando la sua parola, il suo insegnamento là dove si porge, nel tempio, leggendo i libri divini e udendo quelli che li spiegano. Scorre un ampio fiume e lambisce con le sue acque fertili campi, coperti di ricche messi: il sole con i suoi cocenti raggi dissecca quelle messi e minaccia di rendere vani i sudori del contadino. Di chi la colpa? L’acqua abbonda, le messi la domandano; perché, o contadino, sulla riva del fiume non apri un canale e non fai scorrere sul tuo campo l’acqua fecondatrice? Se le messi falliscono, ne sarà in colpa la tua inerzia. Le acque della verità scorrono copiose nella casa di Dio: qui si fa conoscere la volontà di Lui: perché qui non accorrete a bere di queste acque, e farle scorrere sui campi delle vostre anime? Perché qui non accorrete per conoscere la volontà di Dio e ad essa conformare la vostra vita? Oh! venite, venite, e qui sarete ripieni del conoscimento della volontà di Dio, in ogni sapienza e intelligenza spirituale. Ma che gioverebbe aver la mente inondata di luce e conoscere la volontà di Dio e poi non adempirla? Nulla: anzi, questo conoscimento, se non è accompagnato dalle opere, ci renderebbe inescusabili e più colpevoli. Perciò S. Paolo, dopo aver pregato ai Colossesi il conoscimento pieno della verità, prosegue e dice: “Affinché camminiate in modo degno di Dio, „ cioè pensiate, parliate e operiate come si conviene a chi serve a Dio. – Chi serve ad un gran personaggio, ad un monarca, se ha mente e cuore, è compreso degli obblighi  che gli impone il suo ufficio; sente la necessità di far onore alla grandezza del suo signore, e con ogni studio si guarda dal far cosa che lo mostri  immeritevole della fiducia onde l’onora. E noi serviamo non un grande, un personaggio insigne, un monarca, ma il Monarca dei monarchi; con quanta cura adunque dobbiamo onorare la dignità del nostro servizio, tener alto il glorioso ufficio che abbiamo! Servi di Dio, dirò di più, figli adottivi di Dio, camminiamo, ossia viviamo in modo che sia degno di Lui e di noi: Ut ambuletis digne Deo. Allorché un figlio di re si disonora con una condotta indegna, i popoli, segnandolo a dito, esclamano: Vergogna! Egli dimentica la sua dignità, getta nel fango l’onore del padre! — Che debbono dire di noi, Cristiani, allorché trasciniamo nella polvere la dignità di figli di Dio? Se camminerete come si conviene a chi serve a Dio, “camminerete in ogni beneplacito — per omnia bene placentes, „ farete cioè tutto ciò che piacerà a Dio, battendo la via della sua legge. E quale sarà il vostro guadagno? Eccolo: “fruttificherete in ogni cosa buona — In omni opere bono fructificantes. „ Non vi sfugga una osservazione, che è utile ricordare. L’Apostolo, nelle sue lettere, tratto tratto si eleva alla contemplazione di altissime verità teoriche, e assorto in quella luce sfolgorante, che lo rapisce e lo inebria, parrebbe quasi dover dimenticare le cose pratiche e comuni: non è vero. In un istante, da quelle altezze divine scende sempre alle cose pratiche della vita, e le inculca come conseguenze di quelle. E qui ne avete una prova: egli, dopo aver parlato di conoscimento della volontà di Dio, di sapienza, di intelligenza spirituale, ricorda che dobbiamo fruttificare in ogni buona opera, „ cioè mostrare nelle opere tutte quelle sì eccelse cose, che domanda a Dio per i fedeli di Colossi. Intendete, o cari? Tutta la scienza e sapienza delle cose celesti sarebbe un nulla, quando non ci conduce a fare le opere buone. Se queste ci fan difetto, tutto il resto non val nulla, è un po’ di frasche, un’apparenza di virtù, è una luce fosforica, che brilla un istante e poi tosto si dilegua, è un bronzo che tintinnisce. Badiamo adunque che la nostra fede, la nostra cognizione delle cose di Dio si traduca nelle opere, in tutte le opere buone: In omni opere bono fructificantes. Una vita cristiana, ricca di opere sante, accrescerà la vostra scienza delle cose divine, continua l’Apostolo: Crescentes in scientia Dei. – Sembra una ripetizione di ciò che ha detto poc’anzi, ma non lo è: questa sentenza racchiude una verità profonda, che è prezzo dell’opera toccare. Datemi un uomo, un Cristiano, che conosca i suoi doveri e li adempia: nell’adempimento costante e fedele de’ suoi doveri acquisterà non solo l’abito delle virtù cristiane, ma sentirà crescere in sé l’amore, la stima e il conoscimento pratico delle stesse: a mano a mano che in esse perdurerà, andrà pure crescendo nell’intima persuasione della loro bontà ed eccellenza. Accade al Cristiano virtuoso quel che avviene all’artista valente. Come questo col lungo esercizio dell’arte sua si va perfezionando in essa e sempre più amandola, per forma che non gli è possibile abbandonarla; così quello nella via della virtù: più la pratica e più la conosce bella e degna d’essere amata, e più amandola, più la conosce, e giunge a tal punto, che gli torna quasi impossibile cessare di praticarla. Questo ci spiega il fatto frequente, che ci incontra di vedere in alcuni buoni e semplici Cristiani, che senza studio alcuno della Religione, che nel loro stato e al loro ingegno non è possibile, hanno una certezza somma, incrollabile della sua bontà, e sarebbero pronti a dare per essa la vita. Dove attinsero tanta certezza della Religione? Non vi è che questa risposta: Nella pratica della stessa, nell’esercizio della virtù, ch’essa impone. — Se il difetto delle opere cristiane a poco a poco vela l’occhio della fede, e la spegne, la pratica delle medesime la rischiara e la rinsalda mirabilmente. E perché abbiamo visto uomini dottissimi nelle scienze sacre finire con l’apostasia, e poveri figli del popolo, povere fanciulle uscite dal volgo, entrare in Religione, valicare i mari, evangelizzare i pagani e morire per la fede. Le opere sante avvalorano la loro scienza delle cose celesti: Crescentes in scientia Dei. Segue il terzo oggetto della preghiera del nostro Apostolo, che è la perseveranza nel bene, la quale, più che dalle nostre sì deboli forze, dobbiamo aspettare dalla potenza divina. “Fortificati di grande vigoria, così san Paolo, secondo la gloriosa sua potenza, ad ogni patimento e longanimità con allegrezza. „ È sempre la preghiera che S. Paolo continua a fare per i Colossesi. Noi, io e Timoteo, così S. Paolo, non cessiamo dal pregare Dio, affinché, dopo aver dato il conoscimento pieno della verità, la pratica delle virtù ed opere degne di Cristiani, dia la forza di soffrire tutto ciò che è inevitabile nel camminare per la dritta via: In omni patientia, notate bene questa parola: “Ad ogni patimento”; dobbiamo essere disposti a vivere cristianamente, ad esercitare la virtù a costo, non di questo o di quel dolore o patimento, che a noi piace, ma ad “ogni patimento — in omni patientia, „ senza eccezione di luogo, di tempo e di circostanze. E come dobbiamo essere disposti a patire, o benedetto Apostolo? Longanimitate, cioè con una pazienza instancabile, dolce, mite, che ricusa di vendicarsi, anche quando facilmente lo potrebbe fare. E basta? Non ancora: “Con allegrezza — Cum gaudio. „ S. Paolo ci vuole pronti a patire con pazienza, con longanimità non solo, ma con allegrezza. Patire con gioia! Quale altezza di perfezione! Il mondo non aveva mai udito fino allora sì strano e divino insegnamento. Esso aveva udito alcuni filosofi insegnare che l’uomo virtuoso deve saper patire per la virtù con animo forte: che deve disprezzare il dolore e quelli che lo cagionano: aveva udito quella superba dottrina degli stoici, che la virtù è premio a se stessa, e aveva potuto comprendere che la forza di soffrire si deve attingere nell’orgoglio, nelle proprie forze; il mondo aveva visto Regolo, Socrate ed altri affrontare con animo generoso i dolori e la morte per non venir meno al dovere: ma a nessuno di quei grandi passò per la mente che si potesse patire e morire per la verità e per la virtù con allegrezza, con gaudio, come qui proclama il nostro Paolo. E pure a questo giunse l’insegnamento evangelico, e si videro a mille a mille, uomini e donne d’ogni classe e d’ogni età, patire acerbissimi dolori e morte crudelissima con la fronte serena, con l’inno del ringraziamento e della gioia sulla lingua e nel cuore. – Il periodo cominciato dall’Apostolo continua sempre, accumulando incisi sopra incisi, e in ciascuno racchiudendo sempre qualche nuovo e alto concetto: “Rendendo grazie a Dio Padre, che ci ha messi a parte della sorte dei santi nella luce. „ Oltre di pregare per voi, o Colossesi, ringraziamo anche Dio Padre, e in Lui e con Lui, Principio senza principio del Figlio e dello Spirito Santo, l’augusta Trinità, perché e voi e noi si è degnato chiamare a parte dell’eredità dei santi, cioè dei chiamati alla fede, e perciò anche alla santità, nella luce, che è il Vangelo; questo il senso delle parole dell’Apostolo. Qual è, o cari, il massimo dei benefizi fattoci da Dio? Senza dubbio quello di chiamarci al conoscimento della fede e alla dignità di figli ed eredi della vita eterna. Vedete quanti milioni di fratelli nostri giacciono ancora in mezzo alle tenebre degli errori! Che merito avevamo noi d’essere preferiti a loro? Nessuno. Eppure noi siamo chiamati nel regno della luce, che è la Chiesa: noi abbiamo la fede, e con la fede tutti i mezzi per camminare sulla dritta via del cielo. E di questo incomparabile beneficio della fede quante volte porgiamo a Dio i nostri ringraziamenti? Ditelo voi, o cari: forse appena  alcuna volta fra l’anno! Quale ingratitudine! “Il Quale (Dio Padre) ci ha strappati dalla podestà delle tenebre, e ci ha tramutati nel regno del Figliuolo suo dilettissimo. „ – S. Paolo attribuisce la nostra liberazione a Dio Padre, inquantoché egli ha dato il Figliuolo suo per noi; del resto voi non potete ignorare che se l’opera della nostra salvezza è attribuita egualmente alle tre divine Persone, che con un atto di eterno amore e di misericordia lo vollero, essa fu compiuta unicamente dalla seconda Persona nell’umanità assunta, nella quale pagò ogni nostro debito. Ci strappò dalla podestà delle tenebre: in quella parola “strappò„ “eripuit”, voi vedete lo sforzo fatto da Gesù per noi, sforzo che gli costò la vita sulla croce. Indubbiamente poteva toglierci di mano al nemico con un atto semplicissimo della sua volontà; ma allora ne sarebbe apparsa la potenza di Dio, non si sarebbero egualmente manifestate la bontà e la giustizia di Lui; doveché con la sua morte la sapienza, la bontà, la potenza e la giustizia di Dio confondono in un solo tutti i loro raggi. Nei Libri santi come la luce significa la verità, la fede, Dio stesso, così le tenebre indicano l’errore, l’infedeltà, il principio del male, il demonio. Dio Padre adunque ci strappò dalle mani del nemico suo e nostro, il demonio, e mercé della fede ci trasportò dalle tenebre nel regno della luce del dilettissimo suo Figliuolo, cioè nel regno della sua Chiesa. “Nel quale (Figliuolo suo) abbiamo la redenzione pel sangue suo, in remissione dai peccati. „ Si può dire che in questi due versetti S. Paolo ha compendiato tutto il mistero della nostra salvezza; parla del Padre divino e del Figliuolo, della liberazione dal potere tirannico del demonio, della Chiesa e della redenzione nostra ottenuta con la morte di Gesù Cristo. Noi, pel peccato, eravamo condannati alla morte eterna: Gesù, volendo salvare i diritti eterni della giustizia, si offre a ricevere sopra della sua stessa Persona la pena che doveva cadere sopra di noi: noi dovevamo essere soggetti alla morte eterna: Gesù mette se stesso al luogo nostro, muore per noi, e noi siamo sciolti da ogni debito, appropriandoci per la fede e per i sacramenti i meriti suoi: così si opera la redenzione nostra, così si compie la remissione dei nostri peccati. Carissimi! Seguendo l’Apostolo e facendo nostri i suoi sensi e le sue parole, leviamo gli occhi, la mente e il cuore al cielo, e ringraziamo Dio Padre d’averci dato il Figliuolo suo, d’averci strappati dalle mani del principe delle tenebre, d’averci collocati nel grembo della sua Chiesa, d’aver lavato i nostri peccati nel sangue suo, e preghiamolo che di tanto beneficio elargito misericordiosamente a noi, faccia partecipe tanti fratelli nostri sepolti ancora nelle tenebre dell’errore e nelle ombre della morte. A Lui sia onore e gloria ora e sempre e in tutti i secoli! Così sia.

 Graduale

Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti. [
Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]
V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula.
[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno.]

Alleluja
Allelúia, allelúia.
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúia.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia  sancti Evangélii secúndum S.  Matthǽum.

Matt XXIV: 15-35

“In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Cum vidéritis abominatiónem desolatiónis, quæ dicta est a Daniéle Prophéta, stantem in loco sancto: qui legit, intélligat: tunc qui in Iudǽa sunt, fúgiant ad montes: et qui in tecto, non descéndat tóllere áliquid de domo sua: et qui in agro, non revertátur tóllere túnicam suam. Væ autem prægnántibus et nutriéntibus in illis diébus. Oráte autem, ut non fiat fuga vestra in híeme vel sábbato. Erit enim tunc tribulátio magna, qualis non fuit ab inítio mundi usque modo, neque fiet. Et nisi breviáti fuíssent dies illi, non fíeret salva omnis caro: sed propter eléctos breviabúntur dies illi. Tunc si quis vobis díxerit: Ecce, hic est Christus, aut illic: nolíte crédere. Surgent enim pseudochrísti et pseudoprophétæ, et dabunt signa magna et prodígia, ita ut in errórem inducántur – si fíeri potest – étiam elécti. Ecce, prædíxi vobis. Si ergo díxerint vobis: Ecce, in desérto est, nolíte exíre: ecce, in penetrálibus, nolíte crédere. Sicut enim fulgur exit ab Oriénte et paret usque in Occidéntem: ita erit et advéntus Fílii hóminis. Ubicúmque fúerit corpus, illic congregabúntur et áquilæ. Statim autem post tribulatiónem diérum illórum sol obscurábitur, et luna non dabit lumen suum, et stellæ cadent de cælo, et virtútes cœlórum commovebúntur: et tunc parébit signum Fílii hóminis in cœlo: et tunc plangent omnes tribus terræ: et vidébunt Fílium hóminis veniéntem in núbibus cæli cum virtúte multa et maiestáte. Et mittet Angelos suos cum tuba et voce magna: et congregábunt eléctos eius a quátuor ventis, a summis cœlórum usque ad términos eórum. Ab árbore autem fici díscite parábolam: Cum iam ramus eius tener fúerit et fólia nata, scitis, quia prope est æstas: ita et vos cum vidéritis hæc ómnia, scitóte, quia prope est in iánuis. Amen, dico vobis, quia non præteríbit generátio hæc, donec ómnia hæc fiant. Cœlum et terra transíbunt, verba autem mea non præteríbunt.”

Omelia II

[Mons. Bonomelli: ut supra, Omelia XXVI – Torino, 1899]

“Quando vedrete l’abominazione della desolazione, annunziata da Daniele profeta, a posta nel luogo santo, chi legge, ponga mente. Allora chi trovasi nella Giudea fugga a ai monti. E chi è sul tetto, non scenda a togliere checchessia in casa sua: e chi è in  campagna, non ritorni a prendere la sua veste. Guai poi alle incinte e lattanti in quei giorni! Pregate perché la vostra fuga non accada in inverno o in sabato. Perché allora  sarà calamità grande, quale non fu mai da principio del mondo fino ad ora, e non sarà. Che se non fossero accorciati quei giorni, anima viva non scamperebbe, ma per gli  eletti quei giorni saranno abbreviati. Allora se alcuno vi dirà: Ecco qui, o là, è il Cristo, non lo credete. Perché si leveranno falsi Cristi e falsi profeti, e faranno prodigi grandi e meraviglie fino a pervertire, se fosse possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l’ho predetto. Se pertanto vi diranno: Ecco, egli è nel deserto, non andate: Ecco, egli è nei nascondigli, non vi credete. Perché come la folgore guizza in oriente e si mostra fino in ponente, così sarà pure la venuta del Figliuol dell’uomo. Ove che sia il cadavere, là converranno le aquile. Ora, subito dopo le angosce di quei giorni, il sole si abbuierà e la luna non darà più il suo chiarore e le potenze del cielo saranno scrollate. E allora comparirà in cielo il segno del Figliuol dell’uomo e tutte le tribù della terra si batteranno il petto e vedranno il Figliuol dell’uomo venire dal cielo con grande potere e gloria: e manderà i suoi Angeli con trombe e grida alte e raccoglieranno gli eletti suoi dai quattro venti, dall’uno all’altro estremo del cielo. Dalla ficaia imparate questa similitudine. Quando il suo ramo si rammorbidisce e spuntano le foglie, voi conoscete che l’estate è vicina. E così voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che è vicino sulle porte. In verità vi dico, che non passerà la presente generazione, che tutte queste cose non siano avvenute „ (San Matteo, XXIV, 15-34).

Si era il martedì dopo il trionfale ingresso di Gesù Cristo in Gerusalemme, e precedente la sua passione e morte. Egli aveva predicato tutto il giorno nel tempio e lottato con gli scribi e farisei, che lo premevano con difficoltà d’ogni guisa per coglierlo in fallo. In sul declinare del giorno lasciò la città per ridursi alla vicina Betania, in casa di Lazzaro e delle sorelle, pigliare il cibo e riposare. Nell’uscire dal tempio i discepoli gli mostravano la costruzione sì massiccia, e la ricchezza meravigliosa del tempio: noi ignoriamo perché di questa osservazione degli Apostoli, che sembra affatto superflua, massime pel divino Maestro. Gesù rispose nettamente: Guardate tutte queste cose; in verità vi dico: qui non rimarrà pietra sopra pietra che non sia diroccata. „ All’udire siffatta risposta, i discepoli, stupefatti e atterriti, tacquero, e seguirono il Maestro; con Lui scesero nella valle del Cedron, ad oriente, e poi salirono il colle degli Olivi, e qui si posero a sedere. Allora i discepoli, con la mente turbata dalla profezia terribile poc’anzi fatta da Gesù intorno alla rovina del tempio, lo presero in disparte e gli dissero: Dicci, quando avverranno queste cose? E quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo? — Tre cose adunque domandano a Gesù, ed Egli risponde partitamente. Ma prima manda innanzi (vers. 4-14) un cenno sulle calamità e seduzioni precedenti, e annunzia che il Vangelo sarà predicato da per tutto. Poi entra a parlare dei segni che precederanno lo sterminio di Gerusalemme, e suggerisce alcune precauzioni (vers. 15-26); poi passa a rispondere alla terza domanda riguardante la fine del mondo (vers. 26-34). Ed ora veniamo alla esposizione che dovrà essere succinta e storica più che altro, se non vogliamo valicare i confini della moderazione, che ci siamo fin qui imposta. – Quando avverrà la distruzione del tempio in guisa che non rimarrà pietra sopra pietra? Ecco la domanda, ed ecco la risposta: “Allorché vedrete l’abominazione della desolazione, predetta da Daniele profeta, posta nel luogo santo, chi legge, ponga mente . „ Daniele profeta, cinque secoli prima, aveva predetto, che dopo la morte di Cristo, nel tempio (che allora era distrutto) sarebbe stata la abominazione della desolazione. Dal tempo di Cristo, anzi qualche anno prima di Cristo fino ad oltre trent’anni dopo la sua morte, erano frequenti le contese tra Giudei e Gentili in Giudea e fuori, e spesso ruppero in feroci combattimenti e stragi spaventose. Sotto Nerone scoppiò con incredibile furore la rivolta giudaica: i Giudei, offesi nella religione e anelanti alla indipendenza, eccitati da falsi profeti, promettenti la vittoria e la venuta del Cristo, che li doveva liberare dal giogo straniero, insorsero in ogni dove e avvennero stragi inaudite, con la peggio ora dei Giudei ed ora dei Romani. Questi, condotti prima da Cestio Gallo, poi da Vespasiano, poi dal figlio Tito, con poderoso esercito strinsero Gerusalemme, e dopo lunghi e sanguinosissimi combattimenti la presero, la saccheggiarono, l’arsero e l’agguagliarono al suolo, meno le tre torri e un muro del tempio. Allorché i Romani si accamparono intorno alla città, spiegarono le loro bandiere con figure di idoli, oggetti di abominazione per i Giudei. Ecco l’abominazione nel luogo santo predetta da Daniele e da Cristo, abominazione foriera della imminente desolazione. E questo il segno dato agli Apostoli ed ai credenti: “Chi legge ponga mente. „ Queste parole sono dell’Evangelista, non di Cristo, che non scrisse nulla, ma messe in bocca a Cristo. E come un grido di S. Matteo, che scrisse circa trent’anni prima della catastrofe: Quando leggerete queste parole, state all’erta e provvedete a voi stessi. — Allorché adunque vedrete l’esercito cingere intorno intorno Gerusalemme, fuggite ai monti, che non c’è tempo da perdere. “Chi è sul tetto non scenda in casa per togliere alcuna cosa. „ Gli Ebrei, come dissi altrove, avevano le case costruite in modo che generalmente si saliva sul tetto o sulla terrazza per una scala esterna, e questa forma delle loro case ci fa capire questa espressione: “Chi trovasi nei campi, non ritorni a casa per pigliarvi la veste. „ Queste due espressioni vogliono significare la rapidità delle mosse operate dai duci romani, la prontezza straordinaria con cui la città fu investita e resa impossibile la fuga. Basti il sapere, che i Romani, in tre giorni soli, scavarono un fosso di otto chilometri, che chiudeva intorno la misera città, tantoché nessuno degli sciagurati chiusivi dentro poteva fuggire senza cadere nelle mani dei nemici, che senza pietà li uccidevano, ponendoli o in croce o scannandoli. La mente di Gesù, pensando a quell’eccidio senza confronto, corre ai deboli, a quelli che maggiormente avrebbero sofferto, e con accento di inesprimibile pietà esclama: “Guai poi alle incinte ad alle lattanti in quei giorni! „ La condizione di queste infelici madri, impotenti a fuggire e trepidanti per sé e per i loro nati, stringe il cuore di Gesù e lo fa gemere dolorosamente. – “Pregate, continua Gesù, che la vostra fuga non accada in inverno od in sabato. „ La stagione invernale, con i suoi rigori, accrescerebbe i disagi e i patimenti dei fuggiaschi; se avvenisse in sabato, in cui l’Ebreo non credeva lecito fare un cammino più lungo di un chilometro, alla difficoltà della fuga si aggiungerebbe l’angustia della coscienza. Notate una cosa, o dilettissimi. Gesù dice di pregare affinché la fuga non avvenisse in inverno o in sabato; è dunque cosa chiara che la preghiera avrebbe potuto scemare quegli orrori e far sì che si mutassero in parte le sorti della guerra. Come ciò se l’esito della guerra dipendeva dai condottieri romani? Vuol dire Gesù che Dio, per le preghiere degli uomini, avrebbe disposto gli avvenimenti politici e militari per modo, che quella fuga sì precipitosa non avvenisse nella stagione invernale o in giorno di sabato, scemando così i dolori di quella immane sventura. Ammirate pertanto potenza della preghiera sulle stesse vicende umane naturali, e nelle sventure sì private come pubbliche, ad essa fiduciosi e rassegnati ricorrete. I cuori degli uomini, anche dei cattivi e degli stessi miscredenti, sono nelle mani di Dio, ed Egli per vie e modi a noi interamente ignoti, li muove e li piega come gli piace. – Rammento d’aver udito un uomo dotto e rettissimo, che diceva: Per me la preghiera in quanto si domanda qualche cosa, come sarebbe la liberazione d’un contagio, una pioggia e via dicendo, non so concepirla: essa in sostanza domanda a Dio che operi un miracolo, mutando le leggi di natura. Ciò offende la ragione. Davvero se si domandasse a Dio il mutamento delle leggi naturali, la difficoltà avrebbe una certa forza. Ma Dio per esaudire le nostre preghiere non è obbligato a mutare le leggi naturali, che sarebbe uno sconvolgere tutto il mondo fisico ad ogni istante, cioè ad ogni preghiera che gli facessimo. Le leggi naturali restano quali sono e a Dio non mancano modi di derogare ad esse senza mutarle. Noi uomini non mutiamo noi con le forze della natura le leggi della natura? Noi, usando delle forze della natura, spingiamo le acque in alto, facciamo correre sui dorso dei mari cittadelle di acciaio, guidiamo dove ci piace il fulmine, imprigioniamo in una locomotiva forze terribili. Perché non potrebbe fare altrettanto Iddio, padrone assoluto di ogni cosa? Ah! no, allorché noi preghiamo Dio, non domandiamo un miracolo; domandiamo solo ch’Egli, onnipotente com’è, disponga le cose in guisa che ci accordi ciò che chiediamo in quei modi che alla sua sapienza non possono essere ignoti. – “Perché sarà allora calamità grande, soggiunge nostro Signore, quale non fu dal principio del mondo sino ad ora, né sarà. „ Taluno potrebbe essere tentato di credere che questa sentenza di nostro Signore sulla catastrofe di Gerusalemme e di tutta la Giudea sia alquanto esagerata. No, no, carissimi: è la espressione della più pura verità storica. Percorrete i fasti della storia, e non troverete in disastro, che, ragguagliata ogni cosa, possa sostenere il confronto della rovina di Gerusalemme e della nazione giudaica. I particolari di quella spaventosa lotta noi li abbiamo da un testimonio oculare, che ne fu parte, e nella sua qualità di ebreo merita piena fede; è Giuseppe Flavio. Da alcuni anni proseguiva feroce e disperata la lotta tra i Giudei e le legioni romane. Prese ad una ad una le città di Galilea, dove si contendeva a palmo a palmo il terreno, pressoché tutti i superstiti Ebrei furono ridotti in Gerusalemme. I Cristiani soli, memori del vaticinio di Cristo, si ritrassero sui monti della Giudea, che stanno sulla sinistra del Giordano, presso Pella, dove poterono sfuggire all’eccidio supremo. Sembra che in Gerusalemme e nei luoghi vicini si fossero radunati circa due milioni di Ebrei, decisi di vincere o perire sotto le rovine della patria. La peste e la fame infierivano in mezzo a quelle turbe per guisa che una madre uccise il proprio figlio per mangiarsene le carni. Alla guerra senza quartiere, che si combatteva ogni giorno coll’esercito romano, si aggiungeva la guerra civile fra le mura della città. Tre fazioni, capitanate da tre scelleratissimi uomini, Eleazaro, Giovanni e Simone, i quali si spacciavano ciascuno per Messia, e promettevano infallibile vittoria, ogni giorno venivano alle mani tra loro e riempievano le vie e il tempio stesso di sangue e di cadaveri; dentro la città il furore dei partiti, fuori, i Romani, che non davano quartiere e la serravano da ogni parte. Segni paurosi in cielo e grida misteriose nel Santo dei santi avevano riempito di terrore il popolo; un uomo di notte correva per le vie, gridando senza posa: Guai a Gerusalemme! guai al tempio! … finché cadde ucciso dai Romani. Invitati alla resa da Tito, fu un grido solo di quei miserabili: Giammai —Chi parlava di resa era da quei furibondi fatto in pezzi. La città, dopo lunghi e ripetuti assalti, fu presa: uccisi per le vie e per le case quanti si trovarono uomini, donne, fanciulli. Si ridusse la difesa al tempio, che sembrava una rocca inespugnabile: fu preso, e un soldato romano vi appiccò il fuoco: in un istante divampò l’incendio: a quella vista i pochi rimasti vivi cessarono il combattimento, lasciarono cadere le armi, gettarono un grido e si lanciarono tra le fiamme. In quella guerra di sterminio, senza tener conto dei trucidati nelle varie città e castelli della Palestina, nella sola Gerusalemme perirono un milione e cento mila Ebrei, novantasette mila menati schiavi e venduti a pochi soldi, il resto dispersi sulla terra e persino vietato loro per molti anni di recarsi a piangere sulle rovine del tempio. E noi li vediamo ancora questi sventurati figli di Abramo, raminghi su tutte le regioni del pianeta, senza tempio, senza altari, senza legge propria, senza patria, dispersi in mezzo ai popoli senza mai confondersi con loro, padroni di ricchezze colossali, pieni d’ingegno, e pur sempre guardati di mal occhio, con sospetto e quasi con ribrezzo, e vergognantisi del loro nome. Non avevo io ragione di dire che la sentenza di Cristo ” sarà allora calamità grande, quale non fu da principio del mondo, né sarà „ era la espressione più perfetta della verità storica? – “Che se non fossero abbreviati quei giorni, anima viva non scamperebbe: ma in grazia degli eletti saranno abbreviati. „ È una verità che merita d’essere seriamente ponderata. Apprendiamo dalla bocca stessa di Gesù Cristo, che quella immensa catastrofe di Gerusalemme e della intera nazione giudaica, fu più breve, e perciò meno ruinosa di quello che poteva essere. Lo storico Giuseppe Flavio fa le più alte meraviglie della rapidità con cui quell’assedio fu condotto a termine, e che il numero, il valore disperato degli assediati, la fortezza del luogo e i preparativi della difesa dovevano rendere lunghissimo. Quella rapidità abbreviò i patimenti e le agonie degli assediati e salvò la vita a circa quaranta mila Giudei, che si sottrassero  all’eccidio. Questo fatto particolare, predetto da Cristo, che scemò in qualche modo l’orrore di quel disastro senza nome, a chi si dovette? “Agli eletti, „ propter electos. Le loro preghiere, i loro meriti, i loro patimenti resero meno orrenda la sorte della sventurata città. – Ah, dilettissimi figliuoli! Quante volte, anche in mezzo a noi, le preghiere, le penitenze, le espiazioni, le virtù di tante anime pie, ignote al mondo, che vivono nella quiete dei campi, nella solitudine dei chiostri, placano la giusta ira del cielo e ci salvano dai flagelli che meritiamo! Se dieci soli giusti avrebbero salvato Sodoma e Gomorra dallo sterminio, le tante anime giuste, che vivono nella nostra società, la devono sottrarre ai castighi della divina giustizia. I giusti che vivono in mezzo a noi, mi danno l’immagine di quegli alberi altissimi, sparsi nelle campagne, che con le loro cime tacitamente traggono sopra di sé l’elettricità delle nubi e scaricano le folgori, allorché la procella imperversa. Benedette pertanto quelle nazioni, benedette quelle parrocchie, nelle quali abbondano le anime giuste, che senza rumore disarmano il cielo! E che farete voi, o discepoli, in quei giorni di ineffabili agonie e di pericoli supremi per la vostra fede? “Allora se alcuno vi dirà: Ecco qui e colà è il Cristo, non lo credete. Perché sorgeranno falsi Cristi e falsi profeti. „ Come sapete, era universale l’aspettazione del Messia allorché Cristo nacque, e naturalmente quel fermento dell’aspettazione durò circa un secolo. Di quella aspettazione parecchi scaltri e scellerati agitatori si prevalsero, spacciandosi per Messia, o per il Cristo promesso; alcuni affermarono che Erode stesso era il Messia, altri che era Giovanni Battista; più tardi Teuda, Giuda gaulonita, poi Simone, poi Barcocheba, o figliuolo della stella, ed altri si dissero il Cristo predetto, o profeti, eccitarono il popolo, lo spinsero alla rivolta, e furono causa precipua dell’eccidio giudaico; essi talvolta condussero il popolo nel deserto, talvolta si nascondevano e poi comparivano e operavano cose straordinarie a conferma della loro missione. Gesù Cristo dice che avrebbero fatto prodigi grandi e meraviglie, e tali da trarre in inganno, se fosse stato possibile, anche gli eletti. Erano veri miracoli? No, sicuramente. Dovevano essere inganni, ciarlatanerie, forse applicazioni di forze naturali da loro conosciute, fors’anche fenomeni meravigliosi per virtù diaboliche, come sembra facesse Simon Mago. E Dio lo poteva permettere, avendone messo in sull’avviso quelli che potevano essere sedotti, e non essendo difficile discernere quelle imposture dai veri miracoli, per poco che avessero esaminate le persone, la loro condotta, la loro dottrina ed il modo di operarli. Così avvenne per giusto giudizio di Dio, che quel popolo, il quale non aveva creduto ai miracoli sì numerosi e sì splendidi di Cristo, prestasse poi fede a quei tristissimi ciurmatori, che lo trassero all’estrema rovina. –  Carissimi! L’ammonimento solenne di Gesù Cristo è utile e necessario anche al giorno d’oggi in mezzo a tanti seminatori di novelle dottrine. Noi abbiamo l’insegnamento della fede e il Pastore supremo della Chiesa che ci guida; lui ascoltiamo, lui solo seguiamo e chiudiamo le orecchie a questi maestri, che ci assordano: “Non li ascoltate, non li seguite, che vi insegneremo la verità. „ La verità è con Gesù Cristo soltanto e col suo Vicario, che continua l’opera sua. – Fin qui Gesù Cristo ha parlato della distruzione del tempio e di Gerusalemme: ora passa a rispondere all’altra domanda fattagli dagli Apostoli: “Qual è il segno della tua venuta? „ — “Come la folgore guizza in oriente e si mostra fino in occidente, così sarà ancora la venuta del Figlio dell’uomo. „ Non vogliate credere che in quei giorni di dolore e di terrore, il Salvatore, o Messia, si nasconda qua e là, o nel deserto: quand’egli verrà la seconda volta, qual giudice dei vivi e dei morti, non verrà quasi occultamente: Egli apparirà a guisa di fulmine, gettando luce da ogni parte, quando meno gli uomini lo aspetteranno: sarà circondato di maestà e gloria, e alla sua infinita potenza si piegherà ogni creatura in cielo ed in terra. Non vogliate dunque, così Cristo, confondere la mia prima venuta con la seconda, perché differentissime. – E allorché il Figliuol dell’uomo apparirà nella sua luce sfolgorante, che avverrà? Gesù usa una metafora comune presso gli orientali, e che a noi torna alquanto strana; ma è da ricordar sempre ch’Egli parlava ad orientali, e si acconciava al loro modo di esprimersi. Dov’è un cadavere, eccovi tosto accorrere da ogni parte gli avvoltoi e le aquile per divorare le sue carni; così, dice Cristo, appena apparirà in cielo il Figliuolo dell’uomo, intorno a Lui accorreranno gli Angeli ed i giusti per fargli corona e saziarsi della sua vista: Rapìemur sìmul in nubibus obviam Christo in aera. – E in vero, “subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più il suo chiarore, e le stelle cadranno dal cielo, e le potenze del cielo saranno scrollate. „ Dunque subito dopo la catastrofe della nazione ebraica doveva succedere la fine del mondo? Voi comprendete che se così fosse, non solo il fatto sarebbe contrario all’annuncio, ma nelle parole stesse di Cristo vi sarebbe una contraddizione, perché predisse la predicazione del Vangelo in tutto il mondo prima della sua venuta (cosa impossibile in quel breve periodo di tempo) e perché dichiarò che di quel giorno ultimo nessuno ne sapeva nulla. Quelle parole adunque di Cristo, “subito dopo la tribolazione di quei giorni „ pare si possano intendere semplicemente come un passaggio, cioè dopo quella orrenda calamità, quasi da quella adombrata, verrà l’ultima e massima delle calamità, la fine del mondo. – Badate, o cari, che allorché i profeti annunziano qualche straordinario avvenimento, come la caduta di Babilonia, sogliono usare queste forme di dire grandiose ed enfatiche, di sole che si oscura, di luna che si abbuia, di cielo che si scuote, di terra che traballa, e via dicendo. Gesù, facendo suo il linguaggio dei profeti, poté benissimo annunziare la fine del mondo con le stesse espressioni poetiche e sublimi. Possiamo adunque credere che Gesù Cristo, con quelle locuzioni ed immagini sì terribili, intendesse di significare in genere i fenomeni meravigliosi e paurosissimi che precederanno l’ultimo giorno, senza determinarli in particolare. Certamente quel gran giorno deve essere preceduto e accompagnato da sconvolgimenti fisici inauditi, e dei quali noi non possiamo formarci nemmeno un’idea, e su questo punto i Libri sacri sono chiarissimi. Quel cadere poi delle stelle non si vuol pigliare alla lettera, perché essendo esse smisuratamente maggiori della terra, non si sa capire come possano cadere sopra di essa, ondechè tutto induce a credere che queste espressioni del sacro testo importino un generale disordine, che si manifesterà nel mondo terrestre e sidereo, preludio dello sfasciamento e del rinnovamento universale, che dovrà seguire. “E allora comparirà nel cielo il segno del Figliuolo dell’uomo. „ Qual segno? Si disse e si dice che questo segno del Figliuolo dell’uomo sarà la croce, il segno della sua suprema umiliazione, e, per conseguenza, della sua gloria, ed è conveniente il credere che sarà essa il vessillo del suo finale trionfo; ma nulla si oppone che quella parola segno indichi altra cosa a noi ignota, qualche stupenda manifestazione della gloria di Cristo. “E allora le tribù della terra si batteranno il petto, „ cioè tutti i malvagi ancora viventi conosceranno le loro colpe e dolorosamente esclameranno: Ergo erravìmus — Dunque abbiamo errato ed abbiamo corse le vie dell’errore e della perdizione!… E potranno ancora riparare i falli loro, ravvedersi e salvarsi? Il sacro testo non l’afferma e non lo nega. “E vedranno il Figliuol dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con podestà grande e gloria. „ Non crediate, o dilettissimi, che il Salvatore del mondo, venendo per rendere a tutti solenne ed irrevocabile giustizia, abbia bisogno di nubi, di luce o d’altra cosa qualsiasi per dare maestà alla propria Persona: tutto ciò è detto unicamente perché per noi uomini, che non possiamo pensare che cose sensibili, è sempre giocoforza usare un linguaggio sensibile persino allorché parliamo di Dio e delle sue azioni stesse interne, che sono eminentemente spirituali. “E manderà i suoi Angeli con trombe ed alto grido, e raccoglieranno i suoi eletti dai quattro venti, dall’uno estremo del cielo all’altro.„ Manifestamente qui Gesù Cristo parla della risurrezione, che avrà luogo alla fine dei secoli, e noi apprendiamo ch’essa sarà operata, sì, da Dio, che solo può dare e ridare la vita, ma non senza il ministero degli Angeli. Si può dire che tutto ciò che Iddio opera sulla terra, l’opera per mezzo degli Angeli, ministri ed esecutori dei suoi voleri: il perché, come Iddio si serve del loro ministero, comunicando con noi, uomini, così noi dovremmo ricorrere a Dio per mezzo loro, come per i nostri naturali mediatori. Nostro Signore parla di trombe e d’alto grido, con cui gli Angeli raccoglieranno innanzi a Lui gli eletti. E sono trombe materiali? E un grido che risuona come il grido dell’uomo? Non credo. Sono spiriti purissimi, e come possono usar trombe materiali o grido e voce come d’uomo? I Giudei solevano chiamare al tribunale quelli che dovevano essere giudicati a suono di tromba o con la voce gagliarda dei banditori. Parlando pertanto del giudizio estremo, Gesù accenna alle trombe, al grido dei celesti banditori, che lo intimano; ma queste cose vanno intese non materialmente, ma come vuole la natura dell’Angelo. Saranno dunque gli Angeli che in quei modi che sono voluti dalla loro natura e dalle loro forze, a nome e in virtù di Dio, richiameranno in vita gli uomini, e da qualunque punto della terra, da un estremo all’altro del cielo o dell’orizzonte li condurranno innanzi a Cristo giudice. Così si chiuderà per sempre la scena di questo mondo e sarà reso a ciascuno secondo le opere sue. Giorno formidabile, nel quale ciascuno di noi udirà quella sentenza, che per volgere di secoli mai non sia che si muti! Deh! Che possiamo tutti, tutti, senza eccezione, essere nel numero di quegli eletti, che gli Angeli raccoglieranno dai quattro venti, cioè dall’uno all’altro estremo del cielo! Così sia.

 Credo …

Offertorium
Orémus
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.
,[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta
Propítius esto, Dómine, supplicatiónibus nostris: et, pópuli tui oblatiónibus precibúsque suscéptis, ómnium nostrum ad te corda convérte; ut, a terrenis cupiditátibus liberáti, ad cœléstia desidéria transeámus. [Sii propizio, o Signore, alle nostre súppliche e, ricevute le offerte e le preghiere del tuo popolo, converti a Te i cuori di noi tutti, affinché, liberati dalle brame terrene, ci rivolgiamo ai desiderii celesti.]

Communio
Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.
[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato]

Postcommunio
Orémus.
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine: ut per hæc sacraménta quæ súmpsimus, quidquid in nostra mente vitiósum est, ipsorum medicatiónis dono curétur.
[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore: che quanto di vizioso è nell’ànima nostra sia curato dalla virtú medicinale di questi sacramenti che abbiamo assunto.]

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.