LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (1)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Tu puoi credere alla mia dottrina, perché non è mia

(alla mamma, giugno 1906)

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

DICHIARAZIONE

Autore ed editore dichiarano di sottomettersi pienamente ai decreti d’Urbano VIII del 13 marzo 1624 e 4 giugno 1631, e di non volere prevenire, in qualsiasi modo, il giudizio della Chiesa.

Nihil obstat: Sac. Tullus Goffi Can. Brixiæ, 22-XI-1956

Imprimatur: Angelus Bertelli, V. G. Brixiæ, 4-XII-1956

Tipografia Editrice « Morcelliana » – Brescia

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A JANUA CŒLI «PORTA DEL CIELO » PER LA QUALE CONTINUA L’ASCESA DELLE ANIME VERSO LA TRINITA’

OMAGGIO FILIALE

« Questo mistero dell’abitazione della SS. Trinità nel più intimo del suo essere, fu la grande realtà della sua vita interiore ».

R. GARRIGOU LAGRANGE

Le verità più elementari della fede, come quelle espresse nel Pater, ci appaiono le più profonde, quando si sono meditate a lungo, con amore, quando si sono vissute portando la croce, per lunghi anni, così che sono divenute oggetto di una contemplazione quasi ininterrotta. Basterebbe ad un’anima vivere profondamente una di queste verità della nostra fede, per essere condotta fino alle vette della santità. – Fra queste verità, bisogna mettere in prima linea quella della presenza particolare di Dio nell’anima dei giusti, secondo la parola di Gesù: « Se alcuno mi ama, osserverà i miei comandamenti; e il Padre mio l’amerà; e noi verremo in lui, e porremo in lui la nostra dimora » (Giov. XIV, 23). Con queste parole, e promettendo di inviarci lo Spirito Santo, nostro Signore ci ha insegnato che la vocazione più fondamentale di ogni anima battezzata, è di vivere in società con le Persone stesse della Trinità santa. Allora realmente si può dire, secondo la espressione sovente ripetuta da san Tommaso, che la vita cristiana è, fin dalla terra, in un certo senso, la vita eterna incominciata: « Quædam inchoatio vitæ aeternæ ». La grazia del battesimo ci dona una vera partecipazione alla natura divina, quale sussiste in seno alla Trinità. Dio ci ha amati nel Figlio suo, fino a volerci partecipi del principio stesso della sua vita intima, del principio della visione immediata che Egli ha di Se stesso, e che comunica al Verbo e allo Spirito Santo. In tal modo, i  giusti entrano nella famiglia di Dio e nel ciclo della vita trinitaria. – La fede viva, illuminata dal dono della sapienza, li assimila alla luce del Verbo; la carità infusa li assimila allo Spirito Santo. Il Padre genera in essi il suo Verbo, in essi il Padre e il Figlio spirano l’Amore sostanziale che li unisce. In ciascuno dei giusti, la Trinità abita come in un tempio vivente; in un tempio oscuro quaggiù; in una luce senz’ombre e in un amore senza fine in cielo. – La serva di Dio Elisabetta della Trinità fu una di queste anime luminose ed eroiche che sanno attaccarsi fortemente ad una delle grandi verità della fede, le più semplici e le più vitali e, sotto le apparenze di una vita ordinaria, sanno trovarvi il segreto di una profonda unione con Dio. – Questo mistero dell’abitazione della Trinità santa nel più intimo del suo essere, fu la grande realtà della sua vita interiore. Non diceva ella stessa: « La Trinità! Ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa nostra paterna donde non bisogna uscire mai… Ho trovato il mio cielo sulla terra, poiché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia. Il giorno in cui l’ho compreso, tutto si è illuminato in me… » ? – Il pernio di questa vita soprannaturale è chiaro che si trova nell’esercizio delle virtù teologali. La fede è la luce soprannaturale che ci rende atti a ricevere la rivelazione del mondo divino. La speranza, appoggiandosi sull’onnipotenza soccoritrice di Dio, ci fa tendere con intima certezza verso l’eterna beatitudine. La carità ci stabilisce immutabilmente nell’amicizia e nella società delle divine Persone, secondo la dottrina dell’apostolo san Giovanni: « Dio è amore. Chi rimane nell’amore, rimane in Dio, e Dio in lui ». In fondo, è la stessa vita soprannaturale che comincia sulla terra col battesimo, e fiorirà in cielo, nella visione beatifica. – La fede è alla base di tutta questa attività nuova; è la «sostanza », il principio, il germe « delle cose che speriamo » e che contempleremo un giorno svelatamente. Il minimo raggio di fede è dunque infinitamente superiore alle intuizioni naturali dei più grandi genî e degli stessi Angeli più sublimi; e del medesimo ordine della visione beatifica, ordine essenzialmente soprannaturale; perciò, la fede viva, illuminata dai doni dell’intelletto e della sapienza, è la sola luce proporzionata a questa vita d’intimità con le Persone divine. – Così, suor Elisabetta della Trinità ci si manifesta innanzi tutto come un’anima di fede, in comunione sempre più intima col mondo invisibile, a misura che, sotto la mano di Dio, le purificazioni dei sensi e dello spirito si susseguono, attraverso gli avvenimenti della sua esistenza. Da vera figlia di san Giovanni della Croce, si rendeva conto della parte importantissima che ha la fede nell’ordine soprannaturale. « Per avvicinarsi a Dio —. scriveva — bisogna credere ». « La fede è sostanza delle cose che dobbiamo sperare e convinzione di quelle che non ci è dato vedere ». San Giovanni della Croce dice che « la fede è per noi il piede che ci porta a Dio; anzi, è il possesso di Dio nell’oscurità. Soltanto la fede può darci lumi sicuri su Colui che amiamo; e l’anima nostra deve sceglierla come il mezzo per giungere all’unione beatifica ». Senza trascurare la pratica delle virtù morali, si applicò con sempre maggior diligenza all’attività interiore delle virtù teologali. « La mia sola occupazione è rientrare nell’intimo mio e perdermi in Coloro che vi abitano ». – Ma la fede, la speranza e la carità non possono raggiungere la loro pienezza senza una speciale assistenza di Dio; e la via mistica è caratterizzata appunto dall’azione sempre crescente e predominante dei doni dello Spirito Santo. Le virtù teologali, infatti, quantunque superiori ai doni che le accompagnano, ricevono da questi una perfezione nuova, come l’albero è più perfetto coi suoi frutti che privo di essi. San Tommaso insegna che colui il quale non possiede ancora se non imperfettamente un principio di azione, non può agire come sì conviene, senza essere aiutato da un agente superiore. Nella vita spirituale, il principiante ha bisogno di avere vicino a sé un maestro esperto, proprio come lo studente in medicina o in chirurgia ha bisogno di essere diretto dal maestro che lo forma. Ora l’anima del giusto, pur possedendo le virtù teologali e morali, non possiede però ancora se non imperfettamente quella vita divina della grazia che la introduce nella famiglia della Trinità. Bisogna dunque che le divine Persone stesse vengano ad aiutarla, secondo le parole di san Paolo ai Romani: « Tutti quelli che sono condotti dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio » (Rom. VIII, 14). Bisogna vivere nell’intimità delle divine Persone, non alla maniera di creatura umana, ma alla maniera di Dio, per essere « perfetti come il Padre celeste che è perfetto ». Come giudicare delle cose tutte, divine ed umane, nel modo in cui le giudica Dio stesso, senza una comunicazione speciale della scienza e della sapienza divina? Come, in mezzo alle situazioni spesso inestricabili della vita quotidiana, prendere una decisione rapida che coincida col piano della Provvidenza, senza una speciale mozione del dono del Consiglio? Come, infine, restare indissolubilmente uniti alla divina volontà, tra le difficoltà a volte tremende della vita, senza un’assistenza speciale della forza stessa di Dio, sola capace di trionfare di tutte le potenze del male? – Questi doni dello Spirito Santo, poi, si manifestano con infinita varietà nel mondo delle anime, secondo le circostanze in cui Dio le pone e secondo la loro missione. In alcune si notano maggiormente i doni intellettuali, in altre quelli del timore, della pietà, della forza; e la loro azione ha toni e sfumature infinite. Inoltre, uno stesso dono assume forme diverse secondo i santi. Negli uni, come in un sant’Agostino, la sapienza si manifesta prevalentemente in forma contemplativa; in altri, come in un san Vincenzo De Paoli, in forma pratica, tutta orientata verso le opere di misericordia. Ai primi lo Spirito concede di penetrare nelle profondità di Dio gustandole ineffabilmente, e di luminosamente esprimerle; agli altri fa vedere, quasi sotto una luce diffusa, le membra sofferenti di Cristo e ispira come dedicarsi efficacemente alla loro salvezza. Nella Serva di Dio di cui si parla in queste pagine, colpisce il grado elevato dei doni dell’intelletto e della sapienza che le danno una così grande penetrazione del mistero della Trinità e glielo fanno così profondamente gustare, in maniera quasi continua. – Anche prima della sua entrata al Carmelo, era tutta compresa della presenza delle divine Persone nel profondo dell’anima sua. Al termine della vita, nella festa dell’Ascensione, l’ultima che passò sulla terra, a tal punto sentì che la Trinità santa prendeva possesso dell’anima sua, che intravide le tre Persone divine tenere in lei il loro consiglio d’amore; e da quel giorno, quando le veniva raccomandata qualche particolare intenzione, rispondeva: « Ne parlo subito al mio onnipotente Consiglio ». La vigilia della sua morte, ella poteva scrivere in tutta verità: « Credere che un Essere che si chiama l’Amore, abita in noi tutti gl’istanti del giorno e della notte e ci chiede di vivere in società con Lui, è, ve lo confido, ciò che ha fatto della mia vita un Paradiso anticipato ». – Restiamo pure ammirati nel vedere a quale grado ella ricevette il dono della forza. Si può constatarlo ad ogni passo, nella fermezza con la quale la Serva di Dio accettava le più dure prove, particolarmente durante la sua malattia. Non potendo darsi alle mortificazioni straordinarie che l’obbedienza alla sua superiora le proibì sempre, ella passò coraggiosamente, senza piegare mai, durante tutto un lungo e penoso anno di noviziato, attraverso alle dolorose e inevitabili purificazioni passive di una sensibilità ancora troppo viva. Percorse valorosamente il cammino della notte oscura, sempre più rifugiandosi nella nuda fede, non cessando di elevarsi a Dio, al di sopra di tutte le sue grazie e di tutti i suoi doni. Ma soprattutto nel corso dell’ultima malattia, si rivelò stupendamente in lei il dono della fortezza. Mentre tutto il suo essere andava consumandosi, l’anima rimaneva immutabile, sotto le purificazioni divine più crocifiggenti, immobile al di sopra della stessa sofferenza, per non pensare, in ogni gioia ed in ogni dolore, che al suo ufficio di « lode di gloria della Trinità ». Ella ricorda con quale divina maestà Cristo Re coronato di spine ha salito il Calvario; e proprio un riflesso di tale maestà si ritrova in questa coraggiosa sposa del Salvatore che ha lavorato con Lui, in Lui, per Lui, con gli stessi mezzi usati da Lui, per la salvezza delle anime. Dio ha veramente esaudito il suo supremo desiderio: « Morire, non solo pura come un Angelo, ma trasformata in Gesù Crocifisso ». – Finalmente, una delle note più caratteristiche della fisionomia spirituale di suor Elisabetta della Trinità è certamente il suo senso dottrinale, alimentato alle migliori sorgenti del pensiero cristiano, nei suoi due Maestri preferiti: san Paolo, l’apostolo del mistero di Cristo, e san Giovanni della Croce, il dottore mistico del Carmelo. Senza essere teologo nel senso formale della parola, essa, la vera figlia di santa Teresa, aveva il gusto della soda dottrina; e sapeva farne l’alimento sostanziale della sua vita interiore, assaporando, nel silenzio e nell’orazione, le grandi verità della fede, sotto la luce di vita che cresce in noi con l’amore di Dio e delle anime. Occorreva dunque rilevare, alla luce dei principî direttivi della teologia mistica, i movimenti essenziali di questa anima contemplativa, e discernere le verità fondamentali di cui ha vissuto la serva di Dio, secondo la sua grazia personale, in una forma carmelitana. Dopo aver segnato le tappe principali della sua ascesa, era di sommo interesse mettere in risalto i punti della dottrina di cui la sua vita spirituale si era specialmente nutrita: l’ascesi del silenzio, l’inabitazione della Trinità, la lode di gloria, la conformità al Cristo; come pure la sua devozione tutta personale alla Vergine della Incarnazione, l’azione dei doni dello Spirito Santo in lei, il senso profondo della sua preghiera divenuta celebre, e della sua missione.

Il Padre Maria-Michele Philipon ha scritto queste pagine dopo avere a lungo meditato la vita e gli scritti di suor Elisabetta della Trinità. Se ne è veramente compenetrato per molti anni, e ha cercato di spiegarli alla luce dei principî della teologia, quali sono formulati da san Tommaso e applicati alla direzione delle anime contemplative da san Giovanni della Croce. Egli ha compiuto questo lavoro con una grande pietà e un senso dottrinale che gli hanno permesso di mantenere lo slancio soprannaturale e insieme la giusta misura, l’equilibrio, in questi problemi così delicati, specialmente dove la serva di Dio ha dovuto praticare simultaneamente virtù in apparenza contrarie: la forza e la dolcezza, la prudenza e la semplicità, la compassione per gli erranti e i peccatori e insieme lo zelo ardente per la gloria di Dio.

Sarà letto con grande profitto, questo studio illuminato e profondo, in cui la teologia « della grazia delle virtù e dei doni » si manifesta in maniera concreta e vivente, svelando le ricchezze in essa contenute. Possa la SS. Trinità ricevere da questo libro un nuovo raggio di gloria! E le anime che lo leggeranno vi attingano la vera umiltà così intimamente connessa con le virtù teologali che ci danno il senso delle alte cime. Quanti poveri esseri umani, fatti per la vita immortale e per la società con le divine Persone, si trascinano nella agitazione sterile di un mondo disorientato! Si degni, il Signore, far trovare a molti, in queste pagine, l’orientamento per dirigersi e riconquistare la via della verità che conduce all’intimità divina, alla « luce di vita » che mostrandoci «l’unico necessario » tutto illumina dall’alto.

Roma-Angelico, 12 luglio 1937.

Fr. Recinaldo Garrigou-Lagrange, O. P.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (2)

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (14)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (14)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO I

Gesù nostro sommo sacerdote!

ART. II- GESU SACRIFICATORE E VITTIMA

Negli antichi sacrifici il sacerdote era distinto dalla vittima. Nei sacrifici cruenti, considerati come i più perfetti, si sceglieva per vittima un essere vivente, specialmente un animale domestico, il quale, appartenendo all’uomo, gli si poteva più legittimamente sostituire. Veniva dapprima offerto a Dio col separarlo da ogni uso profano e consacrarlo al servizio e all’onore della divinità. Poi era immolato, per indicare che il peccatore, avendo offeso Dio, non ha più il diritto di vivere e merita la morte. Bruciata, in certi sacrifici, una parte della vittima, si mangiava l’altra, per mettersi, a questo modo, in comunione colla vittima e per lei colla divinità. L’unione con Dio, rotta dal peccato, era dunque, dopo la glorificazione della divinità, lo scopo a cui tendeva il sacrificio. – Il sacrificio era dunque costituito da tre atti principali: l’offerta, l’immolazione, la comunione, che era anche detta consumazione. Questi antichi sacrifici non erano che figure e simboli che preparavano il vero sacrificio, quello che doveva essere offerto dall’Uomo-Dio, dal sommo sacerdote della nuova Legge, per glorificare Dio e salvare i fratelli. Ora, avendo Dio diritto ad ossequi infiniti, a porgerglieli e a riparare l’offesa fattagli col peccato, occorreva un Sacrificio di valore morale infinito. Perché tale fosse il suo sacrificio, Gesù, nostro sommo Sacerdote, volle esserne non solo il sacrificatore ma anche la vittima; onde, sotto questo doppio aspetto, il sacrificio da lui offerto venne veramente ad avere un valore infinito. Infatti la dignità di un sacrificio dipende dalla dignità della persona che l’offre e della vittima che viene offerta: ora Gesù, sacerdote e vittima, è Uomo-Dio, cioè Persona infinita. Il che ci si farà anche più chiaro se considereremo a parte ognuno dei tre grandi atti che costituiscono questo sacrificio: l’offerta, l’immolazione e la consumazione o comunione.

1° L’offerta della vittima.

A) II Figlio di Dio, come già sopra dicemmo, fu costituito sommo Sacerdote in quello stesso istante in cui s’incarnava nel virgineo seno di Maria. Ben sapendo che i sacrifici dell’antica Legge non potevano glorificar suo Padre come si merita, gli si presenta dinanzi e si offre vittima, prendere il posto di tutti gli antichi olocausti: Non volesti né vittime né offerte, mi formasti invece un corpo… Allora dissi: ecco io vengo a fare, o Dio, la tua volontà » (Hebr. X, 5-9). E comincia così il primo sacrificio degno veramente di questo nome: sull’altare purissimo del seno di Maria il Verbo incarnato offre, come sacrificatore, una vittima: se stesso. Offre il suo corpo, che un giorno immolerà sulla croce e che intanto sacrificherà colla pratica della mortificazione. Offre la santa sua anima con tutti i suoi pensieri, i suoi desideri, i suoi affetti, i suoi voleri, che assiduamente immolerà colla spada dell’ubbidienza fino al dì che compirà sul Calvario il suo Sacrificio con un atto supremo di ubbidienza e di amore.

B) Tutta la sua vita è ormai rivolta a quell’immolazione finale che costituirà l’atto essenziale del suo Sacrificio; onde l’autore dell’Imitazione dice che fu un perpetuo martirio: « Tota vita Christi crux fuit et martyrium ». Gesù è già martire nella piccola prigione del seno di Maria ove se ne sta rinchiuso per nove mesi. Là il primo suo sguardo è per il Padre, cui assiduamente offre, in nome suo e nostro, i più perfetti atti di religione: l’adorazione, la lode, la riconoscenza, l’amore; e vi aggiunge l’espiazione in nome degli uomini suoi fratelli. Il secondo suo sguardo è per tutti i suoi fratelli: sguardo di commiserazione e di amore pei peccatori, che viene a salvare a costo dei suoi sudori e del suo sangue; sguardo di affettuosa tenerezza pei giusti, che già ama come membra del suo Corpo mistico e in cui vuol crescere e divenir adulto, onde comunicar loro i tesori della sua vita divina. Per gli uni e per gli altri offre ardenti suppliche che non possono non essere esaudite a causa della dignità della sua persona, « exauditus est pro sua reverentia » (Hebr. V, 7). Ecco le sue occupazioni per nove mesi. C’è forse bisogno di aggiungere che l’umile Vergine, che lo porta in seno, si associa alle sue adorazioni e alle sue Preghiere, e inizia così il suo ufficio di collaboratrice secondaria nell’opera della redenzione, il suo ufficio di mediatrice universale di grazia? – I nove mesi sono ormai trascorsi e il Verbo fatto carne compare finalmente agli occhi degli uomini. Si daranno essi premura di accoglierlo? San Giovanni fa questa mesta osservazione, che i suoi, quelli stessi che costituivano il popolo eletto, non l’accolsero: « In propria venit et sui eum receperunt? »; e san Luca fa dolorosamente rilevare che nasce in una Stalla, perché per sua Madre e per Lui non c’era posto nell’albergo: «Quia non erat eis locus in diversorio ». Nel suo ingresso nel mondo, deve dunque patire il freddo della stagione, le privazioni della povertà, e, che è più, l’ingratitudine degli uomini. – E continuerà ad esser vittima: nel giorno della circoncisione versa le prime gocce di sangue per affermare la sua volontà di versarlo un dì tutto per noi. Perseguitato da Erode, è costretto a prender la via dell’esilio; e quando, dopo la morte del tiranno, torna in Palestina, va a rinchiudersi in una casetta di Nazareth, ignoto paesello della Galilea, e vi passa trent’anni nell’oscurità, nell’ubbidienza, nel lavoro manuale, tanto che i suoi compatrioti lo considerano come un falegname ordinario. – La sua vita pubblica non sarà, salvo poche gioie  e qualche passeggero trionfo, che un lungo martirio. Subito, fin da principio gli Scribi e i Farisei lo inseguono coi loro sospetti, colla loro gelosia, e presto col loro odio; gli tendono continuamente insidie; e lavorano a screditarne l’autorità presso il popolo e ad ostacolarne l’apostolato. Riesce, è vero, a farsi alcuni discepoli e a convertire alcuni peccatori insigni, ma il grosso del popolo rimane indifferente ed ostile, perché, aspettandosi un Messia glorioso e potente, non può ravvisarlo in quel piovane Rabbi così umile, così modesto, che, in cambio di bazzicar coi grandi e preparare il trionfo temporale suo popolo, frequenta i piccoli, gli afflitti, i poveri, persino i pubblicani e i peccatori. Che strazio per il cuore di Gesù vedersi così frainteso e così misconosciuto, nonostante i miracoli che andava moltiplicando a provare la divinità della sua missione e della sua Persona! Eppure, questo non è che il preludio del suo sacrificio!

2° L’immolazione della vittima.

Quest’immolazione ha principio colla dolorosa passione del Salvatore nell’orto degli Olivi e finisce sul Calvario.

A) Ma, prima di lasciarsi immolare dai carnefici, Gesù vuole offrirsi di nuovo vittima, questa volta però in un vero sacrificio accompagnato da riti misteriosi, nel Sacrificio della Cena. Celebrata che ebbe cogli Apostoli la Pasqua antica, vuole celebrare la nuova e istituire un sacrificio che si perpetuerà sui nostri altari sino alla fine del mondo. Prende del pane, lo benedice, e lo dà agli Apostoli, dicendo « Mangiate: questo è il mio corpo, dato, rotto per voi ». E, prendendo la coppa del vino, aggiunge: « Bevetene tutti: è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza, che è versato per voi e per molti in remissione dei peccati ». Si notino le espressioni « corpo dato » e « sangue versato », perché dicono abbastanza chiaramente che Gesù si dà e si consegna come vittima, che versa già misticamente il suo sangue a remissione dei nostri peccati. Ei sa infatti, che dimani sarà immolato e offre anticipatamente al Padre quell’immolazione, quell’effusione di sangue, quella morte, per affermare pubblicamente dinanzi agli Apostoli che liberamente e volontariamente si consacra alla morte espiatrice e ai tormenti fisici e morali che l’accompagneranno. La Cena è quindi un vero sacrificio, perché Gesù v’immola incruentamente la vittima che cruentamente immolerà il giorno appresso. Come ben osserva il De la Taille (Squisse du mistère de la Foi, Paris, 1924, p. 10.), « C’è già nella Cena il sacrificio del Calvario: la Cena guarda la Croce e vi consacra il divino Agnello ». È anzi per questa ragione che Nostro Signore è chiamato sacerdote secondo l’ordine di Melchisedecco; questi, infatti, aveva offerto a Dio del pane e del vino, ora appunto sotto queste stesse specie del pane e del vino il Salvatore si offre al Padre e si dà agli Apostoli. La santa Messa, che oggi si celebra sui nostri altari, è la ripetizione del sacrificio della Cena, con questa differenza che il sacerdote ora offre la vittima che fu immolata sul Calvario tanti anni fa, mentre Nostro Signore nel Cenacolo offriva la vittima che doveva essere immolata sul Calvario il domani.

B) Gesù può dunque principiare la dolorosa sua Passione; anzi deve, perché colle parole della Cena si è votato alla morte.

a) Eccolo, infatti, che varca il torrente Cedron e si apparta nell’Orto degli Ulivi. Qui si scatena nell’anima sua quella lotta terribile che è detta l’agonia dell’Orti. Gesù permette alla sua immaginazione di vivissimamente rappresentargli tutti i tormenti e le umiliazioni che patirà il giorno appresso; la sua sensibilità ne è così fieramente scossa che è invaso dalla paura, dalla nausea, dalla noia, dalla più profonda tristezza (S. Marco, XIV, 33). Ma in modo più particolare, quale capo di un corpo mistico di cui noi siamo le membra, si vede carico del peso dei nostri peccati, si sente come travolto da quella crescente marea di tutte le umane iniquità, e ciò al cospetto di quel Dio la cui santità Egli profondamente conosce: una mortale tristezza si impadronisce dell’anima sua e un sudore di sangue gli scorre pel corpo e bagna la terra. Volentieri allontanerebbe da sé quell’amaro calice! Va per due volte a cercare un poco di consolazione presso i tre suoi più cari discepoli: ahimè! li trova addormentati. A confortarlo, gli è inviato un Angelo dal cielo, il quale certamente gli rappresentò le molte anime generose che avrebbero un giorno compatito i suoi dolori; e la dolce visione gli solleva il cuore addolorato dalla chiara visione delle ingratitudini degli uomini. Si rassegna quindi una seconda volta alla volontà di Dio e dice; « Padre mio, se non può questo calice passare senza ch’io lo beva, sia fatta la tua volontà » (S. Matt., XXVI, 42).

b) E il martirio incomincia. Tradito da Giuda, rinnegato da Pietro, capo dei dodici; abbandonato da quasi tutti i discepoli; Gesù è schernito, insultato, percosso dai servi del pontefice; sentenziato reo di morte dal Sinedrio per essersi detto Figlio di Dio; condannato alla croce da Pilato che pure ne aveva pochi istanti prima proclamato l’innocenza. Flagellato, coronato di spine come re da burla, carico di pesante croce, Gesù sale penosamente il Calvario, stende sulla croce le doloranti sue membra, si sente traforare da chiodi le mani e i piedi, ode gli insulti e i motteggi degli Scribi e dei Farisei che ironicamente lo invitano a scendere dal patibolo se è davvero il Messia e il Figlio di Dio; e, in cambio di vendicarsi, come avrebbe ben potuto fare, supplica il Padre di perdonarli, perché, dice, non sanno quello che fanno (S. Luc. XXIII, 34). E che fa sull’altare della Croce il sommo sacerdote Gesù mentre il suo corpo è tormentato dai carnefici e l’anima è oppressa al pensiero che molti non trarranno vantaggio dal suo sangue così generosamente versato? Gesù rinnova l’offerta della sua vita, fatta già tante volte: « Io sono il buon Pastore. Il buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle… Nessuno me la toglie, ma sono io che la dò da me stesso; sono padrone di darla e sono padrone ,di riprenderla: questo è l’ordine che io ebbi dal Padre mio » (S. Giov. X, 11, 18), E quest’ordine Gesù eseguì così bene che può ora dire con ogni verità: « Tutto è compiuto, consummatum est » (S. Giov. XIX, 30). Sì, tutto è compiuto: i sacrifici figurativi dell’Antica Legge sono ormai sostituiti dal solo vero ed unico Sacrificio; le profezie sono avverate; avverata è specialmente la profezia d’Isaia che prediceva i patimenti e la morte dell’uomo dei dolori. Gesù ha fatto bene l’opera sua: adempì ogni giustizia; soffrì senza lamentarsi i tormenti più orribili del corpo e dell’anima; li tollerò per amore, per amore del Padre che voleva glorificare, e per amore di noi che voleva salvare. Non resta più se non ch’Ei permetta alla morte di ghermire la volontaria sua preda; e lo fa offrendosi un’ultima volta come ostia a suo Padre: « Padre, nelle tue mani raccomando lo spirito mio: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum » (S. Luca XXIII, 46).E spira. Dio è glorificato come non fu mai,gli uomini sono salvati. Salvati almeno in diritto;non rimane se non che, colla fede, collacarità, colle opere buone, colla frequenza dei saramenti,si approprino i meriti e le soddisfazionidel divin Redentore: sarà questa per Gesù laconsumazione del suo sacrificio e per loro la comunionecon Gesù vittima.

3° La consumazione del sacrificio e la comunione.

A) Nei sacrifici antichi, immolata la vittima, si desiderava un segno che mostrasse che l’ostia era stata accettata da Dio e che gli era riuscita gradita. Il Signore si degnava di inviare talora fuoco dall’alto a consumar la vittima, che saliva allora al cielo come sacrificio di grato odore, in odorem suavitatis. Vi fu qualche cosa di simile dopo l’immolazione del Calvario. Ma, in cambio di inviare fuoco materiale dal cielo a consumar la vittima, Dio risuscitò suo Figlio e consumò col fuoco dell’amore le imperfezioni del suo corpo mortale conferendogli in sommo grado tutte le doti dei corpi gloriosi, cosicché questo corpo, divenuto in qualche modo spirito vivificante, potesse avere sulle anime un’efficacia santificatrice 1 Specialmente nell’Eucarestia si vede questa efficacia santificatrice: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno » (S. Giovanni, VI, 54). Ecco quindi che Gesù risorto appare in modo mirabile in mezzo agli Apostoli nel Cenacolo, a porte chiuse; poi rapidamente scompare; indi torna a riapparire, sempre in modo mirabile, in diversi tempi e in diversi luoghi, onde compiere la sua missione di confermare gli Apostoli nella fede e dare ad essi tutte le spiegazioni e tutte le istruzioni necessarie intorno a un quel regno di Dio che dovevano diffondere per tutta la terra, sotto la guida e coll’aiuto dello Spirito Santo. – Passati così quaranta giorni sulla terra, spicca il volo al cielo e si asside alla destra del Padre, dove perora continuamente la nostra causa e prega continuamente per noi. Tale è la dottrina di san Paolo, il quale, dopo aver osservato che i sacerdoti antichi avevano bisogno di successori perché erano mortali, aggiunge: « Ma Gesù, perché dura in eterno, ha un sacerdozio che non si trasmette; onde può anche perfettamente salvare quelli che si accostano per suo mezzo a Dio, sempre vivo ad intercedere per loro, semper vivens ad interpellandum pro nobis » (Hebr. VII, 24). Gesù adunque continua ad essere in cielo il nostro sommo Sacerdote; e continua pure ad esservi in istato di vittima. Non che vi offra Sacrificio in quel senso che già fece sul Calvario e fa ora sui nostri altari; ma sta dinanzi al Padre come immolato per l’addietro, vi sta con le gloriose cicatrici delle sue piaghe, e con quella tal qualità di vittima che non può perdere come non può perdere quella di Sacrificatore : « Vedete, dice Bossuet (Sermon pour l’Ascension, ed. Lebarcq., t. I, p. 529,), come si appressa al trono del Padre, mostrandogli le ancor fresche ferite, tutte colorite, tutte vermiglie di quel sangue divino, di quel sangue della nuova alleanza, versato per la remissione dei nostri delitti ». Il sacrificio di Cristo inaugurato sulla terra consegue dunque nel cielo la sua consumazione, in questo senso che Gesù non solo vi riceve la ricompensa dei suoi patimenti, ma vi continua il suo ufficio di mediatore e di sacerdote, offrendosi continuamente e continuamente intercedendo per noi (Ep. Hebr., VII, 25.). E fa pure dal cielo scendere su di noi una pioggia di celesti benedizioni che ci dà modo di entrare a parte dei frutti della redenzione.

B) In certi sacrifici antichi i sacerdoti e i fedeli che avevano presentato la vittima, mangiavano una parte di questa vittima, onde entrare in comunione con essa e colla divinità a cui fra stata consacrata. Era un puro simbolo, che non si trova perfettamente avverato se non nel sacrificio offerto da Nostro Signore. Se Gesù è risalito al cielo, lo fece, secondo la sua promessa, per prepararci un posto e comunicarci intanto le innumerevoli grazie che ci ha meritate. Queste grazie noi otteniamo coi sacramenti e specialmente coll’Eucaristia, che dandoci Gesù, nostro Sacerdote e nostra Vittima, ci fa entrare in comunione coi suoi pensieri, coi suoi sentimenti interiori, colle sue virtù. Ma le otteniamo pure con quella comunione spirituale che perenna gli effetti della Comunione sacramentale col farci, in tutto il corso della giornata, pensare, parlare, operare in unione con Gesù. Di questa comunione parla san Paolo quando scrive: « La mia vita è Cristo (Gal. II, 20). Vivo, ma non più io, vive in me Cristo » (Fil. I, 21). Beate le anime che vivono a questo modo in unione abituale con Gesù sacerdote e vittima! Si vedono ben presto trasformate: in cambio di lasciarsi guidare da pensieri egoisti, dal desiderio di piacere, dalla curiosità, dalla vanità e dalla sensualità, tengono lo sguardo abitualmente fisso sul divino Sacrificatore: a Lui, a lui solo vogliono piacere; è Lui il centro dei loro pensieri e dei loro affetti; con Lui e per Lui pregano, lavorano, si sacrificano; diventano così simili a Lui e adempiono i loro doveri verso il Sommo Sacerdote.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (15)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX “NEMO CERTE IGNORAT”

In questa lettera Enciclica, indirizzata ai Vescovi ed al clero irlandese, S. S. Pio IX, invitando alla massima coesione di fede i prelati ed i fedeli cattolici dell’Isola, li incita all’osservanza dei decreti del Concilio riunito in quella Nazione e sottoscritti dalla stessa Sede Apostolica per resistere al meglio all’azione nefasta dei nemici della Chiesa di Cristo che stavano montando in una infame marea di destabilizzazione morale e corruttela – dei giovani in particolare – e di disgregazione dell’unità dottrinale della fede cattolica. Questa muraglia, così pensata ed organizzata dal Santo Padre in ogni Nazione dell’orbe cattolico, ha però potuto resistere agli assalti esterni, e soprattutto interni, non per molto tempo, prima di essere infranta circa un secolo dopo, il 26 ottobre del 1958 con la cacciata del Pontefice canonicamente eletto (S. S. Gregorio XVII), e la successiva farsa dell’elezione di un antipapa, nella persona del massone 33° A., Roncalli, che inaugurava una linea di successione anticristica che ancora dura oggigiorno nella falsa sinagoga dell’uomo che oscura, in un’eclisse truffaldina, la vera Chiesa Cattolica Romana, l’unica Sposa senza ruga e senza macchia di Cristo, scaturita dalla ferita del suo costato.

Pio IX
Nemo certe ignorat

Nessuno certamente ignora, Venerabili Fratelli, con quale straordinaria e ferma fedeltà e venerazione verso questa Cattedra di Pietro, madre e maestra di fede di tutti i Cristiani, e con quale singolare concordia spirituale e con quale perseveranza i Presuli d’Irlanda si siano sempre preoccupati di distinguersi nel difendere il cattolicesimo e nell’adempiere all’ufficio episcopale. Da ciò consegue che essi, pur tra violente tempeste, con somma gloria del proprio nome e consolazione di questa Sede Apostolica, assolvendo coraggiosamente con sforzi congiunti il proprio ministero, hanno ben meritato della Chiesa poiché nulla hanno considerato più importante del distogliere con sollecitudine e con animo pienamente concorde i popoli della nobile Irlanda dal contagio dell’errore, e tra essi proteggere, difendere, custodire con estrema diligenza il deposito della nostra santissima fede e della verità cattolica. – Mentre Ci compiacciamo di ricordare tutto ciò con grande gioia dell’animo Nostro e con onore insigne per il Vostro Ordine, Venerabili Fratelli, non poco siamo addolorati e preoccupati per il fatto che abbiamo appreso con quali insidie il nemico antico cerchi al presente di minare e indebolire la concordia dei Vostri animi e di suscitare il dissenso. – Perciò sebbene sia radicata in Noi una tale opinione della Vostra pietà, in forza della quale non dubitiamo minimamente che Voi, opponendovi con energia alle insidie del nemico con zelo sempre crescente, combatterete con fermezza e prudenza nel campo del Signore per la causa di Dio e della Santa Chiesa, tuttavia per dovere del Nostro ministero apostolico e per il grande amore che nutriamo per Voi e per codesti fedeli non possiamo non inculcare in Voi insistentemente sentimenti di vicendevole concordia. – “Sappiamo infatti ed è evidente – Per usare le medesime parole del Nostro Antecessore S. Gregorio Magno – che la linea dell’accampamento appare terribile per i nemici quando sia raccolta e chiusa in modo che in nessun punto appaia interrotta. Infatti, se è disposta in modo che si lasci un varco attraverso il quale il nemico possa penetrare certamente, non è più terribile per i suoi avversari. Anche noi dunque, quando schieriamo l’esercito per la battaglia spirituale contro gli spiriti maligni, dobbiamo assolutamente farci trovare sempre uniti e avvinti dalla carità e non divisi mai dalla discordia, poiché, qualunque opera buona ci sia stata in noi, se manca la carità, attraverso il male della discordia si apre nel nostro schieramento un varco dal quale l’avversario potrà entrare per colpirci“. – Perciò, Venerabili Fratelli, la Nostra bocca si schiude davanti a Voi e con profondo affetto del Nostro cuore Vi confortiamo, ammoniamo, esortiamo e scongiuriamo perché uniti e vincolati sempre più da un saldissimo patto di reciproca carità nell’accrescere la gloria di Dio, nel difendere la dottrina della Chiesa Cattolica, nel propugnare i suoi diritti, nel proteggere l’integrità del gregge a Voi affidato, nello sconfiggere le insidie e gli errori degli avversari, nell’adempiere agli altri doveri del Vostro importantissimo ufficio episcopale siate sempre più unanimi, in perfetta identità di intenti e di opinioni e siate solleciti nel conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. – E poiché nella vostra sapienza sapete benissimo quanto questa sacerdotale e fedele concordia degli animi, delle volontà e dei pensieri sia necessaria e giovi al bene della Chiesa e all’utilità dei fedeli, Noi siamo assolutamente sicuri per la Vostra esimia pietà e virtù che Voi non stimerete mai nulla più importante non solo dell’alimentare sempre più tale concordia tra di Voi, ma anche del difenderla maggiormente ed accrescerla specialmente con gli altri Venerabili Fratelli di Inghilterra e con i Presuli di Scozia. – Sapete bene infatti che Voi ed Essi, con unico e identico zelo religioso e sotto il presidio della mutua carità, dovete con ogni sforzo dedicarvi al perfezionamento dei fedeli nell’opera del ministero, per l’edificazione del Corpo di Cristo, e che di nulla dovete maggiormente preoccuparvi quanto di compiere con energie congiunte, sotto la guida di questa Sede Apostolica, tutto ciò che serve a promuovere la gloria di Dio e la salvezza eterna degli uomini. Per parte Nostra, Venerabili Fratelli, tanto più confidiamo che sarete sempre solleciti di tale concordia perché ricordiamo certo con grande gioia dell’animo Nostro quale sia stata la Vostra unanimità nel sottoscrivere gli atti del Sinodo da Voi tutti celebrato a Thurles nel 1850 per la difesa degli interessi della Chiesa Cattolica in Irlanda. E volendo richiamare rapidamente un punto riguardante quel Sinodo, ricorderete, Venerabili Fratelli, la lettera a Noi inviata da dodici di Voi dopo la celebrazione del Sinodo l’11 settembre dello stesso anno 1850, e sottoscritta anche dal Venerabile Fratello Daniele Arcivescovo di Dublino, da poco scomparso con Nostro dolore: lettera nella quale si trattava specialmente di codesti cosiddetti Collegi della Regina, e non ignorate i Decreti da Noi emessi, dopo matura riflessione, attraverso la Nostra Congregazione preposta alla Propagazione della Fede. Peraltro, poiché riteniamo opportuno e ardentemente desideriamo che Voi tutti conosciate in quali termini abbiamo scritto al suddetto Arcivescovo di Dublino su questa importantissima questione nella Nostra lettera personale del 17 novembre dell’anno scorso, abbiamo ritenuto di rendervi note con questa Nostra lettera le stesse parole che abbiamo usato e che sono le seguenti: “Per quanto riguarda i Collegi della Regina, di cui parli nella tua ricordata lettera, sii certo che Ci è stato graditissimo sapere che Tu, Venerabile Fratello, dopo i decreti emessi da questa Sede Apostolica su una questione di tanta importanza, hai dichiarato con animo prontissimo di ubbidire a tali Decreti. E siamo convinti che non solo darai sollecita esecuzione ai Decreti stessi, ma provvederai anche con ogni azione, sollecitudine e zelo perché i medesimi Decreti siano onorati con l’ossequio dovuto e siano sollecitamente messi in pratica con ogni impegno da quei Presuli dai quali abbiamo ricevuto la lettera dell’11 settembre dell’anno scorso, da Te pure sottoscritta. Questi Decreti invero Ci sono stati sempre molto a cuore e ardentemente desideriamo e vogliamo che siano da tutti osservati con ogni diligenza e scrupolo poiché in essi si tratta della difesa della dottrina cattolica; cosa, questa, di cui nulla può e deve essere per Noi più importante“. – Da ciò facilmente intendete come quel Venerabile Fratello sia stato da Noi esortato ed incitato ad applicare tutte le sue forze perché quei Decreti fossero sia da lui sia dagli altri rispettati con ogni diligenza. Ma poiché Egli, impedito dalla morte, forse non ha potuto portare a compimento ciò che era nei Nostri voti, Noi stessi con la maggiore possibile insistenza, più e più volte ripetutamente raccomandiamo e ripetiamo insistentemente a Voi tutti che, per la Vostra devozione, i Decreti sopra ricordati siano con ogni diligenza osservati da tutti. – Certo a nessuno di Voi, Venerabili Fratelli, è ignoto che gli Atti e Statuti del Sinodo da Voi celebrato a Thurles, dopo maturo esame, sono stati da Noi approvati con alcuni emendamenti fin dal giorno 23 maggio dell’anno scorso, con un Decreto emesso dalla richiamata Nostra Congregazione preposta alla Propagazione della Fede e confermato dalla Nostra suprema Autorità. Poiché dunque abbiamo deciso di approvare, confermare e sancire nuovamente i medesimi Atti e Statuti con i menzionati emendamenti, in forma più solenne per mezzo di Nostra Lettera Apostolica con il sigillo dell’Anello del Pescatore in data 23 di questo mese, sarà compito della Vostra sollecitudine episcopale vegliare con ogni cura e zelo che essi siano considerati definiti e perfetti e da tutti osservati con la massima diligenza. Mentre dunque Vi tributiamo il meritato elogio per il fatto che nel ricordato Concilio di Thurles, solleciti, tra l’altro, per la sana educazione cattolica della gioventù, avete deciso con provvida saggezza di concordare i Vostri propositi e di istituire quanto prima una Università Cattolica irlandese nella quale i giovani, senza pericolo per la fede cattolica, vengano istruiti nelle umane lettere e nelle più severe discipline, Vi incitiamo, Venerabili Fratelli, a non volere risparmiare cure e zelo affinché questa opera utilissima sia condotta alla realizzazione desiderata con la maggiore rapidità possibile. Per questa ragione, assecondando molto volentieri le Vostre richieste, con la Nostra predetta Lettera Apostolica abbiamo approvato con grande gioia dell’animo Nostro l’istituzione della Università Cattolica di cui trattasi. E molto Ci siamo rallegrati quando abbiamo saputo che i fedeli d’Irlanda con tanta alacre pietà e liberalità sono venuti incontro a questi Vostri eccellenti progetti, in modo che già si sono procurati consistenti aiuti per questo fine. Perciò, mentre calorosamente Ci congratuliamo con Voi e con i fedeli stessi, concepiamo rinnovata speranza che questa Università Cattolica, con l’aiuto di Dio, sia quanto prima eretta con esito prospero e felice secondo i Nostri e Vostri desideri. – Ora dunque, siccome non vi è nulla, come Voi, Venerabili Fratelli, avete accertato e verificato, che maggiormente educhi gli altri alla pietà e al culto assiduo di Dio quanto la vita e l’esempio di coloro che si sono dedicati al ministero divino, non tralasciate mai di impegnare ogni Vostra iniziativa e attività perché tutti i chiamati al servizio del Signore, memori della loro vocazione e del loro ufficio rifuggano assolutamente da ciò che è vietato ai Chierici e che ad essi non si addice affatto, e siano di esempio ai fedeli nella parola, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella castità affinché dimostrino un decoroso atteggiamento sacerdotale coerente con il loro ordine e la loro dignità, e assolvano con pietà e convenienza i compiti del loro ministero, affinché amministrino ai fedeli con lo scrupolo, il decoro e la cura adeguata i Santissimi Sacramenti della Chiesa, per mezzo dei quali ogni vera giustizia ha inizio, e se iniziata viene accresciuta, e se perduta viene riacquistata; affinché attendano assiduamente alla preghiera e coltivino con diligenza lo studio, specialmente delle sacre discipline, e sotto la Vostra guida si dedichino con grande zelo alla salvezza delle anime. – Ognuno di Voi sa benissimo quanto sia importante per la Chiesa, soprattutto in tempi tanto avversi, avere Ministri idonei, che non possono derivare se non da Chierici ottimamente formati. Perciò, Venerabili Fratelli, non desistete mai dal dedicare tutte le vostre cure e i vostri pensieri con indefesso zelo a questo fine, che cioè i giovani Chierici fin dai primi anni siano tempestivamente educati ad ogni pietà, virtù e spirito ecclesiastico, e siano accuratamente istruiti sia nelle umane lettere, sia nelle più severe discipline, specialmente quelle sacre, lontano da ogni pericolo di novità profana e di errore, in modo che rifulgano dell’ornamento di tutte le virtù, e protetti dal presidio di salutare e solida dottrina siano in grado a tempo opportuno di ammaestrare con la parola e con l’esempio il popolo cristiano e confutare i contradditori. – Ecco, Venerabili Fratelli, ciò che per l’intenso affetto verso di Voi e codesti fedeli abbiamo ritenuto di dovere indicarvi con questa lettera, e certo non dubitiamo Vi onoriate di corrispondere pienamente ai Nostri desideri. La Vostra fedeltà, la Vostra pietà e la Vostra venerazione verso di Noi e questa Sede Apostolica e la Vostra virtù episcopale e sollecitudine sono tali che confidiamo senza riserve che Voi, uniti da un sempre più stretto vincolo di carità e con identico sentimento reciproco, non lascerete mai nulla di intentato perché, con l’aiuto della grazia divina, continuiate con zelo sempre crescente ed ogni costanza e prudenza a opporre un muro a difesa della casa di Israele e a tenere lontano da pascoli avvelenati il gregge affidato alla Vostra cura, e a indirizzarlo verso pascoli salutari, e a ricondurre su sentieri di verità e giustizia i miseri erranti, e a tentare ogni mezzo perché tutti crescano nella scienza di Dio e nella conoscenza del Nostro Signore Gesù Cristo. Noi, frattanto, in umiltà di cuore non tralasciamo in ogni preghiera e supplica, unite al ringraziamento, di implorare il Padre clementissimo delle misericordie perché sempre effonda propizio su di Voi i più fecondi doni della sua Bontà, nella preghiera che tali doni discendano copiosamente anche sulle dilette pecore a Voi affidate. – E come auspicio di questo celeste presidio e pegno del Nostro ardentissimo affetto verso di Voi, ricevete la Benedizione Apostolica che dall’intimo del cuore e unita al voto di ogni vera felicità impartiamo molto amorevolmente a Voi, Venerabili Fratelli, e a tutti i Chierici e Laici fedeli affidati alla Vostra fede.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 marzo 1852, anno sesto del Nostro Pontificato.

DOMENICA IV DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA IV DOPO PENTECOSTE (2021)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Il pensiero che domina tutta la liturgia di questo giorno è la fiducia in Dio in mezzo alle lotte e alle sofferenze di questa vita. Essa appare nella lettura della storia di David nel Breviario e da un episodio della vita di S. Pietro, di cui è prossima la festa. Quando Dio scacciò Saul per il suo orgoglio, disse a Samuele di ungere come re il più giovane dei figli di Jesse, che era ancora fanciullo. E Samuele l’unse, e da quel momento lo Spirito di Dio di ritirò da Saul e venne su David. Allora i Filistei che volevano ricominciare la guerra, riunirono le loro armate sul versante di una montagna; Saul collocò il suo esercito sul versante di un altra montagna in modo che essi erano separati da una valle ove scorreva un torrente. E usci dal campo dei Filistei un gigante, che si chiamava Golia. Esso portava un elmo di bronzo, una corazza a squame, gambiere di bronzo e uno scudo di bronzo che gli copriva le spalle; aveva un giavellotto nella bandoliera e brandiva una lancia il cui ferro pesava seicento sicli. E sfidando Israele: « Schiavi di Saul, gridò, scegliete un campione che venga a misurarsi con me! Se mi vince, saremo vostri schiavi, se lo vinco io, voi sarete nostri schiavi » – Saul e con lui tutti i figli d’Israele furono allora presi da spavento, Per un po’ di giorni il Filisteo si avanzò mattina e sera, rinnovando la sua sfida senza che nessuno osasse andargli incontro. Frattanto giunse al campo di Saul il giovane David, che veniva a trovare i suoi fratelli, e quando udì Golia e vide il terrore d’Israele, pieno di fede gridò: « Chi è dunque questo Filisteo, questo pagano che insulta l’esercito di Dio vivo? Nessuno d’Israele tema: io combatterò contro il gigante ». « Va, gli disse Saul, e che Dio sia con te! » David piese il suo bastone e la sua fionda, attraversa il letto del torrente, vi scelse cinque ciottoli rotondi e si avanzò arditamente verso il Filisteo. Golia vedendo quel fanciullo, lo disprezzò: « Sono forse un cane, che vieni contro di me col bastone? » E lo maledisse per tutti i suoi dèi. David gli rispose: « Io vengo contro di te in nome del Dio d’Israele, che tu hai insultato: oggi stesso tutto il mondo saprà che non è né per mezzo della spada, né per mezzo della lancia, che Dio si difende: Egli è il Signore e concede la vittoria a chi gli piace ». Allora il gigante si precipitò contro David: questi mise una pietra entro la sua fionda e dopo averla fatta girare la lanciò contro la fronte del gigante, che cadde di colpo a terra. David piombò su di lui e tratta dal fodero la spada di Golia, Io uccise tagliandogli la testa che innalzò per mostrarla ai Filistei. A questa vista i Filistei fuggirono e l’esercito di Israele, innalzato il grido di guerra li insegui e li massacrò. « I figli d’Israele, commenta S. Agostino, si trovavano da quaranta giorni di fronte al nemico. Questi quaranta giorni per le quattro stagioni e per le quattro parti del mondo, significano la vita presente durante la quale il popolo cristiano non cessa mai dal combattere Golia e il suo esercito, cioè satana e i suoi diavoli. Tuttavia questo popolo non avrebbe potuto vincere se non fosse venuto il vero David, Cristo col suo bastone, cioè col mistero della croce. David, infatti, che era la figura di Cristo, usci dalle file, prese in mano il bastone e marciò contro il gigante: si vide allora rappresentata nella sua persona ciò che più tardi si compi in N. S. Gesù Cristo. Cristo, infatti, il vero David, venuto per combattere il Golia spirituale, cioè il demonio, ha portato da sé la sua croce. Considerate, o fratelli, in qual luogo David ha colpito Golia: in fronte ove non c’era il segno della croce; cosicché mentre il bastone significava la croce, cosi pure quella pietra con la quale è colpito Golia rappresentava Cristo Signore. » (2° Notturno). Israele è la Chiesa, che soffre le umiliazioni che le impongono i nemici. Essa geme attendendo la sua liberazione (Ep.), invoca il Signore, che è la fortezza per i perseguitati (All.), « Il Signore che è un rifugio e un liberatore » (Com.), affinché le venga in aiuto « per paura che il nemico gridi: Io l’ho vinta » (Off.). E con fiducia essa dice: « Vieni in mio aiuto, o Signore, per la gloria del tuo nome, e liberami » (Grati.). « Il Signore è la mia salvezza, chi potrò temere? Il Signore è il baluardo della mia vita, chi mi farà tremare? Quando io vedrò schierato contro di me un esercito intero, il mio cuore sarà senza paura. Sono i miei persecutori e i miei nemici che vacillano e cadono » (Intr.). Cosi sotto la guida della divina Provvidenza, la Chiesa serve Dio con gioia in una santa pace (Or.); il che ci viene mostrato dal Vangelo scelto in ragione della prossimità della festa del 29 giugno. Un evangeliario di Wurzbourg chiama questa domenica, Dominica ante natalem Apostolorum. Infatti è la barca di Pietro che Gesù sceglie per predicare, è a Simone che Gesù ordina di andare al largo, ed è infine Simone, che, dietro l’ordine del Maestro, getta le reti, che si riempiono in modo da rompersi; infine è Pietro che, al colmo dello stupore e dello spavento, adora il Maestro ed è scelto da Lui come pescatore d’uomini. « Questa barca, commenta S. Ambrogio, ci viene rappresentata da S. Matteo battuta dai flutti, da S. Luca ripiena di pesci; il che significa il periodo di lotta che la Chiesa ebbe al suo sorgere e la prodigiosa fecondità successiva. La barca che porta la sapienza e voga al soffio della fede non corre alcun pericolo: e che cosa potrebbe temere avendo per pilota Quegli che è la sicurezza della Chiesa? Il pericolo s’incontra ove è poca fede; ma qui è sicurezza poiché l’amore è perfetto » (3° Nott.). Commentando il brano di Vangelo molto simile a questo (vedi mercoledì di Pasqua) ove S. Giovanni racconta una pesca miracolosa, che ebbe luogo dopo la Resurrezione del Salvatore, S. Gregorio scrive: « che cosa significa il mare se non l’età presente nella quale le lassitudini e le agitazioni della vita corruttibile assomigliano a flutti che senza tregua si urtano e si spezzano? Che cosa rappresenta la terra ferma della riva, se non la eternità del riposo d’oltre tomba? Ma poiché i discepoli si trovavano ancora in mezzo ai flutti della vita mortale, si affaticano sul mare, mentre il Signore, che si era spogliato della corruttibilità della carne, dopo la Risurrezione era sulla riva » (3° Notturno del mercoledì di Pasqua). In S. Matteo il Signore paragona « il regno dei cieli a una rete gettata in mare che raccoglie ogni sorta di pesci. E quando è piena, i pescatori la tirano a riva e prendono i buoni e rigettano i cattivi ». Orsù, coraggio: mettiamo tutta la nostra confidenza in Gesù. Egli ci salverà, mediante la Chiesa, dagli attacchi del demonio, come salvò per mezzo di David l’esercito d’Israele che temeva il gigante Golia.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVI: 1; 2 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timebo? Dóminus defensor vitæ meæ, a quo trepidábo? qui tríbulant me inimíci mei, ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt.

[Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò? Il Signore è baluardo della mia vita, cosa temerò? Questi miei nemici che mi perséguitano, essi stessi vacillano e stramazzano.] Ps XXVI:3

Si consístant advérsum me castra: non timébit cor meum.

[Se anche un esercito si schierasse contro di me: non temerà il mio cuore.]

Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timebo? Dóminus defensor vitæ meæ, a quo trepidábo? qui tríbulant me inimíci mei, ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt.

[Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò? Il Signore è baluardo della mia vita, cosa temerò? Questi miei nemici che mi perséguitano, essi stessi vacillano e stramazzano.]

Oratio

Orémus.

Da nobis, quæsumus, Dómine: ut et mundi cursus pacífice nobis tuo órdine dirigátur; et Ecclésia tua tranquílla devotióne lætétur.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore, che le vicende del mondo, per tua disposizione, si svolgano per noi pacificameìnte, e la tua Chiesa possa allietarsi d’una tranquilla devozione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII: 18-23.

“Fratres: Exístimo, quod non sunt condígnæ passiónes hujus témporis ad futúram glóriam, quæ revelábitur in nobis. Nam exspectátio creatúræ revelatiónem filiórum Dei exspéctat. Vanitáti enim creatúra subjécta est, non volens, sed propter eum, qui subjécit eam in spe: quia et ipsa creatúra liberábitur a servitúte corruptiónis, in libertátem glóriæ filiórum Dei. Scimus enim, quod omnis creatúra ingemíscit et párturit usque adhuc. Non solum autem illa, sed et nos ipsi primítias spíritus habéntes: et ipsi intra nos gémimus, adoptiónem filiórum Dei exspectántes, redemptiónem córporis nostri: in Christo Jesu, Dómino nostro”.

[“Fratelli: Ritengo che i patimenti del tempo presente non hanno proporzione con la gloria futura, che deve manifestarsi in noi. Infatti il creato attende con viva ansia la manifestazione dei figli di Dio. Poiché il creato è stato assoggettato alla vanità non di volontà sua; ma di colui che ve l’ha assoggettato con la speranza che anch’esso creato sarà liberato dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo, invero, che tutta quanta la creazione fino ad ora geme e soffre le doglie del parto. E non solo essa, ma anche noi stessi, che abbiamo le primizie dello Spirito, anche noi gemiamo in noi stessi attendendo l’adozione dei figliuoli di Dio, cioè la redenzione del nostro corpo”].

IL RE DELLA MUNIFICENZA.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

L’epistola d’oggi comincia con una frase celebre del grande Apostolo San Paolo. Già di queste frasi San Paolo ce ne ha lasciate molte. Era anche, umanamente parlando, uno scrittore così poderoso! « I dolori del tempo non sono proporzionati alle gioie dell’eternità » o più alla lettera « le sofferenze di questo mondo non sono coadeguate alla futura gloria che in noi dovrà manifestarsi ». – Se c’è un uomo che abbia molto faticato e sofferto a questo mondo, è proprio lui, San Paolo. Faticato più di tutti i suoi colleghi, lo dice lui con ispirato accento; e scusate se è poco! E pari alle fatiche i dolori ineffabili del suo apostolato, irto di difficoltà materiali, di morali contraddizioni; una vita così angosciosa da parere una morte, da poter egli chiamarla tale. « Quotidie morimur » E non crediamo, che Paolo non sentisse tutto questo peso e tutte queste punture: era un forte, non era un insensibile. Anzi la sua era una sensibilità squisita. Soffriva atrocemente. Soffriva quando esercitava l’apostolato con quella sua foga impetuosa, soffriva quando era costretto all’inazione — a starsene, anche lui, uomo di azione, di zelo, « le braccia al sen conserte ». In tutto questo martirio apostolico, apostolato martirizzatore, c’era un conforto per S. Paolo, il vero, il grande conforto. Guardava in su, “i0 guardava in là”. Tutto questo martirio doveva finire a trasformarsi: alla lotta doveva subentrare la vittoria, alla fatica il riposo, al patimento la gioia, alla umiliazione la gloria. L’Apostolo vi guarda con una fede inconcussa, che diviene speranza irremovibile. E trova che il premio sperato e promesso, promesso e sperato, è di gran lunga superiore alla posta che si richiede. « Non sunt condigno passiones huius temporis ad futuram gloriam que revelabitur în nobis; » parole auree che ciascun fedele può e deve ripetere per conto proprio, soggetto com’è ai dolori della prova, aperto come deve essere alla speranza del premio.Ma dunque, dirà qualcuno più saputello, ma dunque San Paolo è un calcolatore? che impiega il suo capitale al 100 per uno? anzi all’infinito per uno? e di questo buon affare egoisticamente si compiace? e lo predica perché buono a tutti? Adagio alle conseguenze stiracchiate… Ben diversa da quella del calcolatore avido ed egoista, la figura spirituale di San Paolo e di quanti ripetono fidenti il suo gesto e la sua parola! Paolo è un innamorato di Dio del quale sa due cose; che Egli chiede ai suoi figliuoli e ai suoi soldati parecchio, che Egli darà loro moltissimo. Questa ricompensa Paolo non può non accettarla; ma accettandola, accettandola come ricompensa divina alla fatica umana, poiché è ricompensa, e Dio vuol che lo sia, accettandola dunque così, San Paolo vuole sentirla ancora più come una misericordia che una giustizia; vuol sentire nel Dio rimuneratore il Dio generoso. E il mezzo logico per rimanere in quella forma di sentimento è presto trovato. Pur meritandolo, nel senso che bisogna porre noi le condizioni « sine qua non » del premio che i desiderî avanza, il premio rimane sempre più un dono che un premio; premio per un decimo, dono per novantanove centesimi. Dio va con la sua ricompensa ben al di là del punto dove arriverebbero i nostri meriti. Tra il nostro «facere et pati» e il suo rimunerare non c’è proporzione, questo supera a dismisura quello. E ciò perché Dio è Dio e lo sarà sempre, è il Re della munificenza, della magnificenza. Re e Padre ha benignamente mascherato e maschera (prendete la parola con un po’ di grano di sale) il suo dono finale con la giustizia di un premio « corona justitiæ, » ma ha pagato e paga il suo premio con la esattezza del matematico e la tirchieria del mercante, colla generosità del principe. A noi l’essergli, come Padre, di ciò doppiamente grati.

Graduale

Ps LXXVIII: 9; 10 Propítius esto, Dómine, peccátis nostris: ne quando dicant gentes: Ubi est Deus eórum?

V. Adjuva nos, Deus, salutáris noster: et propter honórem nóminis tui, Dómine, líbera nos.

[Sii indulgente, o Signore, con i nostri peccati, affinché i popoli non dicano: Dov’è il loro Dio?

V. Aiutaci, o Dio, nostra salvezza, e liberaci, o Signore, per la gloria del tuo nome.]

Allelúja

Alleluja, allelúja Ps IX: 5; 10 Deus, qui sedes super thronum, et júdicas æquitátem: esto refúgium páuperum in tribulatióne. Allelúja

[Dio, che siedi sul trono, e giudichi con equità: sii il rifugio dei miseri nelle tribolazioni. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam. Luc. V: 1-11

In illo témpore: Cum turbæ irrúerent in Jesum, ut audírent verbum Dei, et ipse stabat secus stagnum Genésareth. Et vidit duas naves stantes secus stagnum: piscatóres autem descénderant et lavábant rétia. Ascéndens autem in unam navim, quæ erat Simónis, rogávit eum a terra redúcere pusíllum. Et sedens docébat de navícula turbas. Ut cessávit autem loqui, dixit ad Simónem: Duc in altum, et laxáte rétia vestra in captúram. Et respóndens Simon, dixit illi: Præcéptor, per totam noctem laborántes, nihil cépimus: in verbo autem tuo laxábo rete. Et cum hoc fecíssent, conclusérunt píscium multitúdinem copiósam: rumpebátur autem rete eórum. Et annuérunt sóciis, qui erant in ália navi, ut venírent et adjuvárent eos. Et venérunt, et implevérunt ambas navículas, ita ut pæne mergeréntur. Quod cum vidéret Simon Petrus, prócidit ad génua Jesu, dicens: Exi a me, quia homo peccátor sum, Dómine. Stupor enim circumdéderat eum et omnes, qui cum illo erant, in captúra píscium, quam céperant: e simíliter autem Jacóbum et Joánnem, fílios Zebedaei, qui erant sócii Simónis. Et ait ad Simónem Jesus: Noli timére: ex hoc jam hómines eris cápiens. Et subdúctis ad terram návibus, relictis ómnibus, secuti sunt eum”.

(“In quel tempo mentre intorno a Gesù si affollavano le turbe per udire la parola di Dio, Egli se ne stava presso il lago di Genesaret. E vide due barche ferme a riva del lago; e ne erano usciti i pescatori, e lavavano le reti. Ed entrato in una barca, che era quella di Simone, richiese di allontanarsi alquanto da terra. E stando a sedere, insegnava dalla barca alle turbe. E finito che ebbe di parlare, disse a Simone: Avanzati in alto e gettate le vostre reti per la pesca. E Simone gli rispose, e disse: Maestro, essendoci noi affaticati per tutta la notte, non abbiamo preso nulla; nondimeno sulla tua parola getterò La rete. E fatto che ebbero questo, chiusero gran quantità di pesci: e si rompeva la loro rete. E fecero segno ai compagni, che erano in altra barca, che andassero ad aiutarli E andarono, ed empirono ambedue le barchette, di modo che quasi si affondavano. Veduto ciò Simon Pietro, si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: Partiti da me, Signore, perché io con uomo peccatore. Imperocché ed egli, e quanti si trovavano con Lui, erano restati stupefatti della pesca che avevano fatto di pesci. E lo stesso era di Giacomo e di Giovanni, figliuoli di Zebedeo: compagni di Simone. E Gesù disse a Simone: Non temere, da ora innanzi prenderai degli uomini. E tirate a riva le barche, abbandonata ogni cosa, lo seguitarono”).

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956).

IL CRISTIANO VERO

« Le volpi hanno la loro tana e gli uccelli il loro nido: soltanto il Figliuol dell’uomo non ha neppure un sasso dove posare la guancia ». Uno dei discepoli, ch’era appena venuto alla sequela di Gesù, attirato forse da chi sa quali miraggi di gloria e di ricchezza, si spaventò a questa rude professione di povertà che il Maestro faceva in faccia a tutti. Dunque, pensava, anch’io per essere suo seguace dovrò privarmi di tutto, rinunziare a tutto: dovrò essere più povero delle volpi, più povero degli uccelli ». Ed a questa considerazione il coraggio gli venne meno, ed escogitò un pretesto per fuggirsene via. « Maestro! a casa mia ho lasciato un padre vecchio, e forse ora è già infermo: permetti ch’io vada ad assisterlo fin tanto che chiuda gli occhi nel sonno della morte, poi ritornerò ». Ma Gesù, che vedeva la viltà della sua anima, gli rispose: « Lascia che i morti supelliscano i morti ». (Mt., VIII, 22). Nel Vangelo di questa domenica è narrato invece un episodio che magnificamente contrasta con quello che vi narrai. Gesù da una barca aveva parlato al popolo raccolto sulla riva pietrosa del lago, poi disse al padrone della navicella che era Simon Pietro: « Guadagna il largo e getta le reti per pescare ». Simone e gli altri ch’eran con lui risposero: — Maestro, tutta notte abbiam lavorando senza prendere nulla: ma, poiché tu lo comandi, noi getteremo ancora le reti. E fu un colpo così fortunato, che le maglie minacciavano di rompersi. Simon Pietro, cadendo in ginocchio, gridò: « Signore, ritirati da me che sono un miserabile ». Anche Andrea, Giacomo e Giovanni erano stupiti. Gesù allora disse: « Lasciate le reti e seguitemi che vi farò pescatori d’uomini » Fu un impeto di volontà e di entusiasmo che assalì i quattro pescatori in quel momento. Tirarono a secco le barche, e abbandonando sulla riva le reti, le vele e perfino i pesci del miracolo, andarono dietro a Lui. Relictis omnibus, secuti sunt eum. Quale vi par che sia il vero Cristiano? Quel giovane che ebbe paura della povertà di Cristo e cercò di fuggirsene via, o questi quattro uomini che hanno lasciato, senza rimpiangere, e la famiglia e i compagni e tutta la loro sostanza sulla riva del lago? Questi, soltanto questi sono i veri Cristiani. Cristiano è solo colui che s’è distaccato dalle cose terrene in mezzo a cui vive, e segue le orme di Gesù. Relictis omnibus, secuti sunt eum. Vediamo dunque se noi siamo dei veri Cristiani, o se invece siamo Cristiani soltanto perché ci han battezzati da piccoli, mentre tutta la nostra vita è contro Cristo e il suo Vangelo. – 1. DISTACCO DELLE COSE TERRENE. Giuseppe Flavio, lo storico dei Giudei, narra di Mosè fanciullo una mirabile cosa. La figlia del Faraone che si chiamava Termutis non aveva figliuoli e desiderando aver successori al trono, presentò a suo padre il piccolo Mosè, che ella aveva salvato dalle acque del Nilo e gli chiese che in mancanza d’ereditari diretti e riconosciuti dalla legge, volesse riguardare come erede della corona quel fanciullo ebreo. Faraone accolse con bontà il voto della figlia e subito, per gioco, pose la corona d’oro sulla fronte del piccolo Mosè. Questi corrugò la fronte, e quasi quella corona gli scottasse in giro alla tempia, se la strappò dal capo, la gettò per terra, e la calpestò coi suoi piedini. Iddio forse già gli faceva sentire nel cuore la sua voce, quella voce che lo avrebbe chiamato a salvare il popolo oppresso e a condurlo nella terra promessa. Guai se Mosè si fosse lasciato abbagliare dallo splendore di quell’oro e di quelle gemme! Guai se si fosse lasciato sedurre dalle seducenti mollezze della corte del re! Il popolo di Israele sarebbe rimasto nella brutale schiavitù, e Mosè stesso non sarebbe diventato il gran condottiero, ma avrebbe sciupato la sua vita come un ignavo cortigiano. Anche il mondo cerca di allettarci ponendo davanti a noi la corona de’ suoi beni: sono gli onori, sono le ricchezze, sono i piaceri. Non lasciamoci ingannare: il mondo è un traditore. Egli ci accarezza, ma per ingannarci, egli ci attrae, ma per ucciderci. Blanditur ut fallat, allicit ut occidat (San Cipriano). Il libro della Sapienza ha paragonato i beni del mondo alla spuma del mare: come la spuma del mare essi sono amari, come la spuma del mare essi sono fugaci. Sono amari: fingete un uomo affamato che volesse saziarsi di fieno. Arriverà egli a soddisfarsi di un tale alimento e quietar la sua fame? ma, anzi ne proverà acerbi dolori; perché il fieno è un cibo adatto allo stomaco di un giumento, ma non a quello di un uomo. Ora come lo stomaco non può saziarsi di fieno, perché non è pasto conforme alla sua natura, così l’anima nostra non potrà mai saziarsi dei beni meschini di questa terra. L’anima nostra non si quieta se non in Dio e nell’amor di Dio, tutto il resto le è amarezza e afflizione. Sono fugaci: ma supposto anche che le cose di quaggiù ci potessero rendere lieti, fino a quando noi le potremo godere? Come un’acqua che fugge, come un’ombra che passa, come un sogno che svanisce, così sono le gioie di questo mondo. E quelli che vi si attaccano rimarranno a mani vuote. Noi ci affanniamo notte e giorno per far danari, per ottenere quell’onore, per soddisfare quella passione; dite, che sarà di tutto questo fra venti, fra trent’anni o fors’anche domani, quando la morte ci strapperà via da queste miserie? O uomini, esclamava il Salmista, perché vi rodete il cuore per beni falsi? Perché correte dietro alla vanità? Filii hominum usquequo gravi corde? ut quid diligitis vanitatem et quæritis mendacium? (Ps., IV, 3). – 2. SEGUIRE GESÙ. Alessandro Magno era venuto a sapere che nel suo esercito v’era un soldato di nome Alessandro, che non voleva più avanzare con lui perché aveva paura della guerra. L’imperatore macedone lo fece chiamare e gli disse: « Tu disonori il mio nome. Se vuoi portare il nome del tuo re, come lui devi essere valoroso, come lui devi lanciarti nella battaglia, con lui, dovunque egli vada, tu devi correre. Altrimenti cambia quel nome glorioso che non ti si addice e prendine un altro ». Il medesimo rimprovero, e forse più acerbo, potrebbe ripetere Gesù a molti Cristiani: « Vi chiamate Cristiani e perché allora non seguite Cristo che è il vostro imperatore? Perché avete paura di patire quello che Egli innanzi a voi patì? Perché disprezzate quello che Egli ama, e amate quello che Egli disprezza? Se siete veri Cristiani, fate le opere di Cristo, seguitelo dovunque Egli vada ». Il Cristiano dunque è colui che pur vivendo nel mondo, si distacca dalle cose mondane per seguire Cristo. Seguire Cristo significa rendersi simili a Lui. Gesù nacque povero entro una stalla, visse povero in una bottega, morì povero e nudo su d’una croce. Se vuoi essere Cristiano, non devi porre nella ricchezza il fine di tua vita, non devi disprezzare la povertà, ma amarla. Gesù fu generoso: donava parole di conforto agli afflitti, donava carezze ai bambini, donava la salute agli infermi, donò il paradiso a un ladro, donò il suo sangue e la sua vita per noi. Se vuoi essere Cristiano vero, tu pure devi essere generoso col tuo prossimo: perdonare le offese, aiutarlo quando è affaticato, assisterlo quando è malato, soccorrerlo quando è nella miseria. Gesù fu paziente: patì il freddo, la fame, la sete, la stanchezza, la povertà. Fu calunniato, accusato, percosso, crocifisso, e non aperse la sua bocca divina neppure a un lamento. E come puoi pretendere d’essere un Cristiano se continuamente ti lamenti delle tue croci, se bestemmi la Provvidenza, se non ti vuoi rassegnare alla sua volontà? Chi mi vuol seguire — ha detto Gesù — rinneghi le sue passioni e porti in pace la sua croce ». – Essere Cristiano significa credere che l’unica cosa necessaria al mondo è salvare la propria anima. Per salvarci l’anima Cristo s’incarnò, patì sotto Ponzio Pilato, risuscitò. Per salvarci l’anima Cristo istituì la S. Chiesa, e i Sacramenti, e vive perennemente in mezzo a noi nel santo Tabernacolo. Dunque: essere ricchi, guadagnare molto, acquistare titoli e gloria non conta niente: esseri sani, amati, giovani, belli, non conta niente. L’anima è tutto. Dice un’espressiva leggenda che un ricchissimo e sapiente uomo aveva un giorno noleggiato una vecchia barca col suo più vecchio barcaiolo per godersi una gita sul lago. Lui vestito di nero, elegantissimo, con tirata attraverso il petto una grossa catena d’oro e di gemme, teneva in mano un libro di filosofia. Il barcaiolo, con nude le braccia e il collo di bronzo, con la camicia stracciata, puntava i remi nell’acqua con sicurezza e vigore, Durante la traversata, il ricco cominciò a parlare. Hai visto qualche volta il carnevale di Venezia, con la sua ricchezza, con la sua pazza allegria? Non hai mai avuto tu la fortuna di avere un palazzo in quella città stupenda? ». Il barcaiolo sgranò gli occhi, sognando dietro a quella visione di piacere, e poi scrollando il capo rispose: « No ». « Infelice! » aggiunse l’altro « tu hai perso un quarto della tua vita. Ma, senti: «Hai studiato tu le letterature straniere, hai provato tu l’intima gioia che l’anima gusta leggendo i capolavori del genio umano? ». Il barcaiolo non comprende e scrolla il capo: « No ». « Infelice! hai perso metà della tua vita ». Intanto s’era annuvolato, e la breva soffiava gagliarda. « Senti – disse ancora l’uomo ricco e dotto – tu non hai mai avuto l’onore di vedere il re, di parlare con lui, di mangiare alla sua mensa tra l’invidia di una folla intera? » « No ». « Allora tu hai perso tre quarti della tua vita ». Erano ancora in mezzo al lago e scoppiò secco, fragoroso, orribile, il primo tuono. La tempesta era sopra alla vecchia barcaccia e la squassava. I remi nello sforzo supremo si schiantarono. Il barcaiolo vecchio e povero si voltò all’uomo ricco e sapiente e afferrandolo per un braccio gli gridò: « Sai nuotare? ». « No ». « Infelicissimo! Hai perso tutta la vita ». E subito si slanciò nell’acqua e riuscì a toccare la sponda: l’altro calò in fondo al lago. – Quando la tempesta della morte incoglierà la nostra fragile barchetta che attraversa il lago della vita, che ci varranno allora i beni di quaggiù? Dite, o avari, che ne farete delle vostre ricchezze? Dite, o superbi, che ne farete dei vostri onori? Dite, o disonesti, che ne farete delle vostre passioni? A picco scenderete, affogando in fondo all’inferno. Ma il Cristiano vero che avrà seguito Cristo con fede e con abnegazione, che avrà vissuto per la sua anima immortale, spiccherà il nuoto e toccherà felicemente la sponda del paradiso. — SARAI PESCATORE D’UOMINI. Quella mattina la turba era così numerosa che Gesù, per far sentire a tutti la sua parola, dovette portarsi sul lago. Lungo la spiaggia sabbiosa due barchette, di ritorno dalla pesca notturna, erano là ferme mentre i pescatori stavano lavando le reti. Proprio la barca di Pietro ebbe la fortuna di accogliere il dolce Maestro, ed egli, il futuro Apostolo, lasciando da parte il lavoro che lo teneva occupato, salì col Nazareno, pronto ad eseguire i suoi cenni. Scostatosi un po’ dalla riva, cominciò a parlare del Regno di Dio: il tiepido sole illuminava quell’incanto di natura e di grazia. Quando ebbe finito, disse a Simone: « In alto! lontano dalla riva; e poi gettate le reti ad una gran pesca! ». A vigorosi colpi di remi, subito si trovarono in alto lago: non si sentiva più il rumore della folla, erano soli, con Gesù, sulle onde leggermente increspate, sotto il limpido cielo d’oriente. « Maestro, noi tutta la notte abbiamo faticato e non abbiamo preso neppure un pesciolino. Però sebbene il giorno sia già inoltrato, ho fiducia nella tua parola e lascio cadere la rete ». Così disse Pietro, ed eseguì come aveva detto. Prese tale una quantità di pesci che quasi rompevano le maglie della rete se non fossero venuti in aiuto quelli che stavano sull’altra barca. Entrambe le barche furono così riempite che solo a fatica si riuscì a condurle a riva. Il miracolo era troppo evidente e Pietro, stupito, esclamò: « Allontanati, o Signore, da me che sono un peccatore! ». Ma Gesù l’aveva compiuto apposta per annunciare agli Apostoli che un giorno avrebbero preso, nella rete del Vangelo, tutto il mondo. Lo fece capire a Pietro dicendogli: « Non aver paura! da questo momento tu devi essere un conquistatore non di pesci ma di uomini vivi! ». Arrivati che furono a riva, quei pescatori lasciarono ogni cosa e seguirono Gesù. Cristiani, dopo che ci ha fatto sentire la divina parola della fede, dopo che ci fatto conoscere i miracoli della sua vita e della sua Chiesa, anche a noi Gesù dice: « Sii forte, non aver paura. Tu pure sarai un pescatore, un conquistatore di anime ». Nessuno, proprio nessuno che voglia essere vero Cristiano può disinteressarsi del prossimo. Gesù non vuol salvare il mondo da solo: vuol farci l’onore grande di chiedere il nostro aiuto. Ebbene oggi l’esempio di Pietro nella pesca miracolosa, che è simbolo della conquista delle anime, ci fa vedere in che modo possiamo essere davvero pescatori di uomini. Osservate: sono due i comandi di Gesù. Duc in altum! Prendi il largo! lontano dalla folla, dagli uomini: vicini soltanto a Lui con la preghiera. Laxate retia vestra! Calate le vostre reti per la pesca. Faticate, date le vostre energie per conquistare le anime. L’ubbidienza di Pietro a questi comandi ci ha dato il miracolo della cattura dei pesci. L’ubbidienza nostra agli stessi comandi ci darà i miracoli della salvezza delle anime. – 1. DUC IN ALTUM. Chi lo racconta è proprio lei, la piccola Santa di Lisieux, nella sua autobiografia (Cap. V). Una domenica quando alla fine della Messa chiuse il suo libro di preghiere, una fotografia che rappresentava Gesù crocifisso, sporse un po’ fuori lasciandole vedere solamente una delle mani ferite e sanguinose del Redentore. Provò allora un senso nuovo ineffabile: il suo cuore parve spezzarsi dal dolore alla vista di quel Sangue prezioso che cadeva per terra senza che nessuno si desse premura di raccoglierlo. Fece il proposito di starsene continuamente a piè della croce per raccogliere quella divina rugiada di salute e spargerla poi sulle anime. Da quel giorno in poi il grido di Gesù morente: Ho sete! non fece che risonare al suo cuore, per accendervi un nuovo vivissimo fuoco. Voleva dissetare il suo Diletto con lo strappare ad ogni costo i peccatori dalle fiamme dell’inferno. Ed il suo buon Maestro le mostrò che i suoi desideri gli erano accetti. Aveva sentito parlare di un gran delinquente — di nome Panzini — condannato a morte per orrendi delitti. La sua impenitenza faceva temere della sua eterna salute e la piccola Santa volle impedire quest’ultima ed irreparabile sventura, impiegando, pure di giungervi, tutti i mezzi spirituali che le era dato d’immaginare. Per la salvezza di quel disgraziato offriva i meriti infiniti di Gesù Cristo e i tesori di Santa Chiesa, le suppliche e qualche mortificazione. La preghiera fu esaudita. L’indomani della esecuzione della sentenza, ella apre con premura il giornale e che vede?… Il Panzini era salito sul patibolo senza confessione e senza assoluzione; già i carnefici lo trascinavano verso il punto fatale, quando come riscosso da una improvvisa ispirazione, si volta, prende il Crocifisso presentatogli dal Sacerdote, e bacia tre volte quelle piaghe santissime. Ogni volta che assistiamo al divin Sacrificio della Messa, noi dovremmo saper scorgere con lo sguardo infallibile della fede la Passione di Cristo che si rinnova per la salvezza delle anime. Troppo spesso però quel sangue cade per terra perché mancano quelli che sappiano raccoglierlo e versarlo sopra le anime. Tocca a noi versarlo alle anime e poi a Gesù offrire quelle anime stesse rinfrescate dalla rugiada del Calvario. Questo lo possiamo fare con la preghiera, con qualche mortificazione, con le opere buone di cui potremmo riempire le nostre giornate. Quanti delinquenti, quanti poveri infelici potrebbero salvarsi in paradiso se ci fossero dei cuori ardenti che sanno, come la piccola Santa, tendere l’orecchio al « Sitio » di Gesù morente. Se pregassimo spesso pei nostri fratelli che vivono male, non sopra un giornale qualunque, ma sul libro della nostra vita, leggeremmo un giorno che siamo stati capaci… di far imprimere un bacio di eterna salvezza sulle piaghe insanguinate del Crocifisso. « Il mondo è pagano; il mondo va male ». Così si va dicendo. Non è colpa in parte dei Cristiani? Andrà meglio quando vorremo; e, poiché la preghiera è uno dei mezzi più efficaci di conversione, quando vorremo pregare. Così ci insegna anche il Vangelo della pesca miracolosa. Pietro ha ottenuto il miracolo quando ha preso il largo, si è staccato dalla riva rumorosa e distratta per essere solo, con Gesù! Questa compagnia si ha soltanto quando si prega. – 2. LAXATE RETIA VESTRA IN CAPTURAM. Dopo una notte intera di grande fatica, senza la soddisfazione di un esito buono, doveva pure essere stanco Pietro. Eppure, al comando del Maestro dimentica ogni stanchezza e si mette a cominciare da capo. Il miracolo diremmo quasi che lo meritava. Così per pescare le anime ci vuol fatica, il lavoro, l’azione esterna, che si congiunga con la preghiera fervente. S. Giovanni Evangelista, nelle sue visite alle chiese dell’Asia, si incontrò una volta con un giovane che gli pareva animato da ottime disposizioni e desideroso di farsi Cristiano. L’Apostolo doveva partire ed allora lo affidò al Vescovo con la raccomandazione più viva di istruirlo e di assisterlo come un deposito sacro. Il giovane dapprima corrispondeva benissimo allo zelo del suo protettore, ma poi… a poco a poco le compagnie cattive gli fecero perdere il suo primo fervore, il gusto delle cose sante. Finì per mettersi in una truppa di delinquenti che vivevano di rapine e disordini. Passarono parecchi anni e S. Giovanni ritorna e domanda al Vescovo cosa fosse avvenuto del suo giovane amico. « Ohimè! è morto, è morto alla grazia. Trascorre la vita su quelle montagne con una masnada di uomini perduti ». S. Giovanni non dubita un istante e vecchio com’è: « Datemi un cavallo ed una guida — egli dice — io lo voglio salvare ad ogni costo; devo ricondurlo qui ancora ». Dopo fatiche inaudite, su per scoscendimenti pericolosissimi il santo vegliardo giunge al covo dei ladri. Appena fu veduto arrivare, quel povero infelice, in preda ai rimorsi, si mise a fuggire disperatamente. E S. Giovanni a inseguirlo e a dirgli « O figliuolo, mio caro figliuolo, perché mi fuggi? Fermati, senti tuo padre. È Gesù Cristo che mi manda a te ». E non si fermò dall’inseguirlo finché il giovane fu vinto dal suo amore. L’Apostolo non ne poteva più dalla stanchezza, ma quella sera poteva dire che in cielo si faceva festa perché un’anima era salvata. Il lavoro, la sofferenza è la moneta con cui si compera il potere di fare del bene. Quanti nella loro giovinezza hanno avuto una buona educazione nella fama e nella scuola. Attorno alle loro anime si sono prodigate nell’abnegazione tante buone persone che han seminato nell’anima i germi della virtù. Per loro non è proprio del tutto scomparso il ricordo del giorno che han fatto la prima Comunione. Ma poi… le compagnie cattive, le passioni, il rispetto umano, le prime colpe han distrutto quanto avrebbe dovuto sempre durare e poiché la vicinanza dei buoni era un rimprovero duro sono fuggiti lontani col corpo, certo coll’anima imbrattata dal vizio.  Eppure, anche costoro bisogna salvare: lo vuole il sangue di Cristo sparso su di essi, nell’età innocente. Se aspettiamo che vengano essi per i primi non ricaveremo nulla. È necessario andare a loro per riconquistarli al Cristo della loro giovinezza. Col buon esempio, con la parola amorevole, con un buon libro, con un dolce invito, col sorriso sul volto. Certo costa fatica e la salvezza delle anime, che è costata il Sangue di Cristo, non si può ottenere se non sulla via del Calvario, con la fatica, con la Croce. Anche L’Apostolo si sentiva sfinito, gli sfuggiva davanti la preda, ma finalmente ottenne la vittoria. – Un sacerdote si lamentava col santo Curato d’Ars di aver tutto tentato per convertire la sua parrocchia ma senza risultato. « Tutto tentato? Avete fatto ferventi preghiere, avete digiunato qualche volta? Ricordate che finché non avrete sofferto per le vostre pecorelle, non potete dire di aver tutto tentato per ricondurle a Dio! Col buon esempio, con la parola amorevole, con un buon libro, con un dolce invito, col sorriso sul volto. Certo costa fatica e la salvezza delle anime, che è costata il Sangue di Cristo, non si può ottenere se non sulla via del Calvario, con la fatica, con la Croce. Anche l’Apostolo si sentiva sfinito, gli sfuggiva davanti la preda, ma finalmente ottenne la vittoria. — IL LAVORO SANTIFICATO.  È doloroso uscire per i campi dopo una tempesta. Qua e là per i sentieri fradici, ritorna il contadino: a passi lenti, curvo, muto. E con gli occhi dolenti guarda le piante sradicate e smozzicate, guarda le biade orribilmente trinciate a mezzo mentre i raccolti sotto ai cespi e nei solchi biancheggiano ancora i chicchi di gragnuola. Lontano, intanto, soffiano gli ultimi lampi dispersi e muore il brontolìo cupo del tuono, ma egli ha gli occhi pieni di lacrime. Tutto è perduto: invano ho rivoltato la terra, invano ho seminato, invano ho sudato per giorni e giorni nei solchi: tutto è perduto ». Quanto è mai rincrescevole, dopo aver molto lavorato, non ricavare alcun profitto dal proprio lavoro. Questo rincrescimento ci sarà tutto nel grido di straziante meraviglia che lanceranno non pochi Cristiani all’alba dell’eternità, quando dopo una vita di lavoro e di sudori, s’accorgeranno d’aver perduto tutto. Questo rincrescimento c’era pure nel compassionevole lamento di Pietro: « Maestro, tutta la notte ho lavorato, e non ho raccolto niente ». Gesù guardò il suo Apostolo nella barca, stanco e senza pesce e gli disse: « Prendi il largo, e getta la rete a pescare ». E Pietro ubbidì: « In verbo tuo laxabo rete ». Quella volta fu così fortunato che per il peso dei pesci si rompevano perfin le reti e fu necessario chiamar l’aiuto d’altri pescatori. Allora Simon Pietro si buttò ai piedi di Gesù gridando: « Signore! va via da me, che sono peccatore ». Nel mondo si lavora molto; non è certo l’ozio che condannerà la maggior parte degli uomini; eppure davanti alla morte non pochi si troveranno nella più squallida miseria: perché il lavoro non fu santificato secondo la parola di Dio. Chi non vuol lavorare invano tutta la notte della vita, chi non vuol trovarsi senza un pesce all’alba dell’altra vita, deve santificare il suo lavoro secondo la parola di Dio. E Dio vuole che il lavoro non leda il diritto altrui, rispetti la dignità della nostra natura, sia fatto con mente retta e con retto cuore. – 1. GIUSTIZIA NEL LAVORO. Viveva in una città un capomastro molto ingordo, che temeva sempre gli finisse il pane in bocca prima della fame. Per ciò, si prendeva molti impegni di costruzione che poi non arrivava a soddisfare. Ma una volta andarono da lui i clienti indispettiti a protestare di togliergli dalle mani i loro affari se avesse tirato ancora per le lunghe. E quel poverino si vide costretto a cominciare una grossa fabbrica, quantunque s’andasse incontro ad una stagione crudissima e troppo infausta per costruire solidamente. I suoi operai tentarono di ribellarsi: gelava l’acqua nel secchio e avevano le mani intorpidite che non potevano trasportare mattoni. Il capomastro inferociva e li costringeva al lavoro con la minaccia di licenziarli. E la fabbrica crebbe su, lenta ma solenne. Ma quando venne l’aprile e i raggi tiepidi batterono su quei muri ghiacciati, cominciarono a cedere: cadde la volta e tutta la casa s’accovacciò in un mucchio di rovine, fragorosamente. Come fu stolto quel capomastro! Ma S. Giovanni Crisostomo dice che sono più stolti quelli che cercano nel lavoro ingiusti guadagni. Qui ædificat domum suam, impendiis alienis, quasi qui colligit lapides suos in hyeme. Edifica d’inverno il venditore che tiene due pesi e due misure; il commerciante che falsifica la merce; il contadino che raccoglie dove non ha seminato; l’avvocato che difende una lite ingiusta e moltiplica le scritture per aggravare di spese al povero cliente; lo strozzino che presta il denaro con esagerato interesse. Contro costoro risuona la rovente parola di S. Giacomo: «Su, o ricchi, piangete, ululate per la miseria in cui verrete a trovarvi, nonostante le vostre ingiuste ricchezze. Il vostro danaro marcirà e le vostre vesti di seta saranno rose dalle tignole. La ruggine consumerà l’oro vostro e l’argento, e la ruggine sarà contro di voi e come fuoco divorerà le vostre carni. Avete raccolto tesori d’ira per l’ultimo giorno. Ecco: già la mercede che avete defraudato agli operai che hanno mietuto nei vostri campi, leva un grido al Signore degli eserciti. Come si ingrassano gli animali per il giorno dell’uccisione, così voi vi siete ingrassati nei banchetti e nell’ingiustizia per il dì della vendetta di Dio (V, 1-5). – 2. RISPETTO DELLA DIGNITÀ UMANA. Il primo infaticabile lavoratore è Dio: « Pater meus operatur — diceva Gesù — et ego operar » (Giov., V, 17). Ma Dio, ponendo mano a creare e cielo e terra, divise la sua opera in sei giorni. Il settimo riposò. Forse che non poteva fare tutto in un sol giorno? Forse che gli sopraggiunse stanchezza come un faticato pellegrino che sosta per via? No: era la legge del lavoro che Egli voleva promulgare fin dal principio del mondo. Non è l’uomo fatto per il lavoro, ma è il lavoro fatto per l’uomo. E se, scacciando Adamo dal paradiso, gli disse: « Maledetta la terra per quello che hai fatto: con grandi fatiche le strapperai il tuo pane a oncia a oncia » gli aggiunse poi: « Lavora sei giorni e fa in essi ogni opera tua: ma il settimo è il giorno del riposo sacro al Signore, tuo Dio. Non fare in esso lavoro alcuno: né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il bestiame e neppure l’ospite che ha varcato le tue soglie ». Ed è ragionevole che sia così. L’uomo non è un animale bruto: ma ha un’anima e un cuore; anima e cuore che hanno destini non solamente terreni e temporali, ma oltremondani ed eterni. Ma come potrà pensare a questi suoi destini se voi lo tenete, ogni giorno, condannato nel solco del campo, o tra il rullo delle motrici? Se non gli concedete mai di sostare in questa ridda di lavoro, per elevare i suoi pensieri a Dio e alla vita sua futura? « Ma sa, dicono alcuni, è il mestiere che vuole così: i calzolai, i sarti… ». — Il mestiere è forse superiore alla legge di Dio? « Se non lavoro, perdo gli avventori ». — Meglio perdere gli avventori che Dio. « Si mangia anche di festa ». — È vero: ma alla festa si beve anche, e si sciupa forse di più che il guadagno di due o tre giorni. « Ma quando i miei figliuoli hanno fame, non viene la religione a portar loro un pane ». — È forse morto di fame qualche figlio di un buon operaio? Oh, non è la religione che farà mancare il pane alla tua famiglia, ma altri motivi. « Ma io ho bisogno di mettere da parte qualche cosa per l’avvenire ». — Qui t’aspettavo. In manu Dei prosperitas hominis (Eccl., X, 5). Dio non fa mai fruttare il lavoro di festa. Ti parrà di guadagnare: verrà poi un cattivo figliuolo a sperperare, verrà la disoccupazione, la malattia, verrà la mano di Dio e tu angosciosamente dovrai ripetere: « Ho lavorato tutta la vita, e non ho avanzato niente! ». Per totam noctem laborantes, nihil cepimus. – 3. RETTITUDINE D’INTENZIONE NEL LAVORO. Talvolta nelle vie di qualche metropoli si osserva un doloroso contrasto. Un giovane spazzacamino sporco di fuliggine: ha nere le mani e le dita; ha nero il viso che si direbbe di bronzo se due occhi non brillassero di lagrime e due labbra rosse non tremassero di fame; ha nero il vestito lacero ai gomiti e consunto ai ginocchi. Accanto a lui che soffre passa la dama splendente: ha una collana di diamanti al collo, ha diamanti agli orecchi, diamanti sulle dita, diamanti sulla veste di seta. Il diamante e il carbone! l’uno adorna e splende, l’altro sporca e annerisce. Eppure, in sostanza, questi due corpi sono di un medesimo elemento: il carbonio. Solo che il carbone è carbonio impuro, e il diamante è carbonio puro e cristallizzato. Oh, se potessimo prendere il carbone e purificarlo, riempiremmo il mondo di diamanti! Quello che non possiamo fare sul carbone, possiamo però farlo sul lavoro e trasformarlo in un diamante d’infinito valore, con un processo assai facile che ci ha insegnato S. Paolo: « Sive manducatis, sive bibitis, sive aliquid facitis, omnia in gloriam Dei facite ». Poveri che lavorate molto! non è necessario per diventar santi che voi facciate cose straordinarie, che andiate come gli Apostoli a predicare il Vangelo, che diate come i martiri il vostro sangue, che maceriate come gli anacoreti il vostro corpo, basta lavorare con intenzione di piacere a Dio.  Si smetta, dunque, quella turpissima abitudine di profanare il santo lavoro con la bestemmia e con i discorsi impuri! Bestemmie e turpiloqui sono uccelli rapaci che rubano tutta la vostra sostanza; questi sono la ruggine che vi farà esclamare: « Per totam noctem laborantes nihil cepimus ». -. La natura è maestra dell’uomo. Ecco due insetti molto laboriosi: il ragno e l’ape. Il ragno lavora da mane a sera a stendere sui soffitti la tua trama bigia e sottile: e va, senza posa, da una trave all’altra, allunga, connette, incrocia i fili e vi disegna poligoni concentrici. L’ape, invece, passa di fiore in fiore e sugge quell’essenza che poi tramuterà, nel ronzio dell’arnia, in dolcissimo miele. E poi passerà la massaia: e mentre adirata distrugge con la scopa l’opera del ragno, sorriderà beata davanti al favo colmo. Così è nel mondo. Tutti lavorano: chi secondo la parola di Dio e chi secondo la parola del demonio. Ma quando passerà il Signore distruggerà adirato l’opera degli uni e premierà l’opera degli altri.

 IL CREDO

 Offertorium

Orémus Ps XII: 4-5 Illúmina óculos meos, ne umquam obdórmiam in morte: ne quando dicat inimícus meus: Præválui advérsus eum.

[Illumina i miei occhi, affinché non mi addormenti nella morte: e il mio nemico non dica: ho prevalso su di lui.]

Secreta

Oblatiónibus nostris, quæsumus, Dómine, placáre suscéptis: et ad te nostras étiam rebélles compélle propítius voluntátes.

[Dalle nostre oblazioni, o Signore, Te ne preghiamo, sii placato: e, propizio, attira a Te le nostre ribelli volontà.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XVII: 3 Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus: Deus meus, adjútor meus.

[Il Signore è la mia forza, il mio rifugio, il mio liberatore: mio Dio, mio aiuto.]

Postcommunio

Orémus. Mystéria nos, Dómine, quæsumus, sumpta puríficent: et suo múnere tueántur. Per …

[Ci purifichino, o Signore, Te ne preghiamo, i misteri che abbiamo ricevuti e ci difendano con la loro efficacia.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (209)

LO SCUDO DELLA FEDE (209)

LA VERITÀ CATTOLICA (VII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. E libr. Sales. 1878

ISTRUZIONE VII

Il Magnetismo e lo Spiritismo

Forse noi ci lasciammo nella passata Dottrina alquanto impauriti dal sapere come i demoni ci girano sempre d’intorno per cogliere l’occasione di perderci: ma dobbiamo pigliare coraggio dal sapere eziandio che Gesù Salvator nostro batté e vinse già il demonio, il satana che vuol dir l’avversario, e cacciatolo al suo regno, lo tien incatenato. Sicché egli è come un lupo, dice s. Agostino, che può digrignare i denti, ululare di rabbia; ma non può mordere, se non si tocca; stimola gli uomini al mal fare; ma se gli uomini non si avvicinano, se non fanno a confidenza con lui, non li può perdere. Gli è per questo che cercò d’avvicinarsi ad essi, studiando sempre i modi più lusinghieri con cui potesse loro piacere, e mettendosi al coperto sotto una o l’altra forma: perché, se si facesse conoscere nella sua orridezza, farebbe spavento a tutti. Egli già attirò gli uomini guasti ad adorarlo per Dio sotto il nome di Giove, marito infedele, imbestiato nei vizi; ai buon temponi si fece adorar per dio Bacco bevone; per Venere agli invischiati nelle più indegne corruttele; ai guerrieri per Marte demonio istigatore alle guerre; come poi affettava saviezza e moderazione coi filosofanti a Delfo. Insomma, è sempre il serpente che sa penetrare dovunque serpeggia, e fin in mezzo ai fiori, addattandosi ai gusti delle passioni di tutti. Non è qui da far meraviglia, che questi uomini dei poveri nostri tempi, che di Dio non vogliono neppur sentir a parlare; ma che son tutti nelle materiali cose, ai quali vapore, calorico, elettricità, magnete adoperati nelle loro macchine debbano valer per tutto, sieno dal diavolo pigliati pel loro verso. Così fingendo di esser egli un fluido, o mettendosi dentro davvero appunto in un fluido, o vapore sottilissimo, od elettricità, o magnete, o chi sa che cosa; e li invasare tavole mobili, e poi persone, scorrere dall’una all’altra come l’elettricità, attirare gli oggetti come la calamita. Poi per farsi cercare fa il buffone e matterello nelle brigate allegre, suggerisce rimedi a chi li cerca con ansietà, e talvolta sa fingersi anche di esser un’anima buona di parente, amico morto, venuta dall’altro mondo per dare buoni suggerimenti. A chi vi ama da padre, tocca avvisarvi: e perciò io intendo appunto quest’oggi di mettervi in guardia contro le gherminelle dei diavoli col mostrarvi, raccontandovi ciò che avviene, come in certi fatti, come in certo qual magnetismo in voga ora vi lavori dentro il diavolo; come tal magnetismo si confonda collo spiritismo. Quindi vi darò le regole per farvi conoscere, quando in certe operazioni che si dicono magnetiche vi deve lavorare dentro il diavolo; e come ve ne dovete guardare. Vi pregherei di ripetermi di che cosa vi voglio trattare: (si fan ripetere).« Che io piglio a dimostrarvi che in certo magnetismo, come è in voga, vi lavori dentro il diavolo, e che quindi tal magnetismo si confonde collo spiritismo: e vi ho da dar le regole per conoscere l’opera del diavolo per dovervene guardare. » – Oh Gesù nostro, in questi giorni, Voi lo vedete che satanasso da Voi scacciato dal suo regno, cerca di ritornarvi coi mali spiriti suoi compagni in questa società che ormai del tutto Vi abbandona: deh per la vostra misericordia, con cui avete cercato Voi gli uomini che non vi cercavano, salvate ancora questi, che vi abbandonano. Maria SS., da madre correte appresso ai figliuoli, che i cattivi spiriti tentano di menare a perdersi. – Qui sul principio debbo avvisarvi, che, quando racconto certi fatti avvenuti, ché non sono però da credersi come cose di fede; perciò io ve li racconto per quel che valgono, per mettervi in guardia dai demoni che vi posson ingannare; perché è poi proprio certo che ingannano pur troppo. Intanto per fervi conoscere come vanno le cose, vi spiegherò in prima che cosa s’intenda di dire colle parole magnetismo e spiritismo. Così dal sapere che cosa sieno, potrete conoscere che certo tal magnetismo, come per lo più si pratica, viene a terminare nello spiritismo, e si confonde con esso. – Intendono î moderni per magnetismo un certo fluido, più che vapore finissimo, e una forza simile alla forza del magnete che (dicono) si diffonde per tutti i nervi del nostro corpo, e che anche circonda le nostre persone e le involge dentro come una piccola atmosfera, Questo fluido, pretendono, che si possa profondere e far penetrare in un’altra persona con certi atti, e poì fino colla forza sola della volontà. Sicché con questo mezzo si possa, come fanno veramente, addormentare una persona che vi acconsenta. Fattala addormentare, con Lei parlano, trattano, si fanno intendere, anche colla sola volontà, senza né parola, né segno esterno. Quella persona allora legge nei secreti pensieri, conosce cose anche assai lontane; interrogata dà risposte di cose, che non sapeva prima. Poi anche con tal magnetismo certe persone si mettono in comunicazione con oggetti materiali, insensibili; di modo che fanno muovere tavole e mobili a volontà, e li interrogano; e questi danno segni di rispondere, sicché si mettono in certo qual modo a conversare con loro. Se si fa tutto questo, s’intende qui subito, come il magnetismo va a terminare e si confonde collo spiritismo, colla quale parola si intende l’arte di comunicare e trattar cogli spiriti, e farsi manifestare da loro le più occulte cose. Abbiamo detto che s’intende subito che un tal magnetismo si confonde collo spiritismo. Perché é impossibile che le tavole, e le altre cose materiali possano aver dentro di loro la forza di conoscere, possano avere la volontà, e manifestare cose segrete; se non vi fosse dentro uno spirito intelligente. Ora che sapete che cosa s’intende per magnetismo e spiritismo, vi racconterò come si è trovata la maniera di comunicare cogli spiriti per mezzo di un tal magnetismo. Così vi sarà dato da giudicare che quel magnetismo si va a confondere collo spiritismo. Un certo Mesmer medico fu il primo che cominciò a praticare questo magnetismo alla moderna, che appunto dal suo nome si chiama mesmerismo. Sulle prime egli cominciò a mettere degli ammalati in una tinozza, e li faceva comunicare tra loro con alcune spranghe di ferro: ed egli si metteva in comunicazione con essi toccandoli con una bacchetta. Fin qui, voi direte, non c’entrerebbe spirito dentro; perché anche coi fili del telegrafo si comunica con altre persone in luoghi lontani. Se si fosse fermata la cosa quì; via là….. Ma il suo discepolo Puységur abbandonò la tinozza, le spranghe e la bacchetta: e col girar solo colle mani sulle persone, le faceva a suo volere addormentare, Poi lì subito addormentate, parlavano da dottori, più sapienti dei medici stessi….. Ehm….. qui già vi deve essere qualche cosa di più che il fluido elettrico che scorre pei fili! Lo capite bene anche voi?….. Ma vi ho da dire di più. Subito dopo un certo Furia, lasciato anch’esso tinozza, spranghe e bacchetta, e senza neppur far ,più quei giri colle sue mani sopra le persone, sol colla voce comandava che si addormentassero le persone che acconsentivano di essere magnetizzate; ed esse si addormentavan davvero e diventavano sonnambule, vedevano senza aprir gli occhi, conoscevano le cose oscure; sicché si chiamarono chiaro-veggenti. – Ma voi mi direte « sono poi proprio veri questi fatti, che si raccontano? ?….. — SI, lo possiamo credere, o cari, lo dicon mille testimoni, ai quali non si può negare credenza; perché vi sono dei dotti e prudenti da non lasciarsi ingannare; e perché lo prova l’esperienza di milioni, è tutto dire, proprio milioni che ne fanno pur troppo la prova. Pensate qui adunque, che si cominciò a pretendere di trasfondere una specie di fluido, che dissero magnetismo, per mezzo di spranghe di ferro: poi sì fece addormentare e diventar sonnambule e chiaroveggenti le persone, solamente col girarvi d’intorno colle mani: poi colla sola volontà si comandò, che diventassero addormentate, sonnambule e chiaroveggenti; e le persone magnetizzate ecco che diventavano tali. Oh! voi mi direte che qui ci deve essere il diavolo entro. Aspettate che si trovarono altri modi da comunicar cogli spiriti. – L’anno 1848 in America le damigelle Fox di Rochester facendo scricciolare le dita, sentono in camera ripetersi quel rumore. Ripetono esse, e ne hanno nuovi rumori in risposta ancora. Accorrono i curiosi, si ripetono le prove e sì sentono sempre rispondere a colpi. « Vi è dunque qualcheduno che risponde, » si disse. Presto presto si misero in comunicazione con quegli esseri incogniti che si chiamarono Spiriti battitori. Questa pratica passò dall’America in Francia in Italia e gira l’Europa. Si trova poi che gli spiriti rispondono nelle tavole più presto che negli altri oggetti: e si adoprarono a tal uopo le tavole. Ma guardate un po’… fino ai tempi di Tertulliano si diceva che le tavole rispondevano a chi le interrogasse per mezzo dei demoni: Per quos dæmones mensæ divinare consueverunt!Noi vorremmo osservare due cose, la prima chele tavole sono di legno, la seconda che le tavole servonodi mensa. E chi sa il perché il diavolo comunichipiù volentieri cogli uomini per mezzo delle tavole dilegno, in forma di mense? che sia forse perché egli,che vinse col frutto del legno dovette esser vinto sullacroce di legno — in ligno vincebat in ligno quoque vinceretur? E perché sulla mensa del SS. Altaregli uomini comunicano con Dio Salvator benedetto?Il fatto è che le tavole si mossero col sol toccarle.S’ebbero giri giri di tavole in tutti i versi; battevancolpi coi loro piedi al comando: non si tardò a conoscereinsomma che dentro quelle tavole vi era untal che intendeva: perché le tavole volgeansi adestra ed a sinistra, si drizzavano, se comandavasi,su uno dei piedi, e si entrava in conversazione conquel tale là dentro. Il che facevasi mediante unnumero di colpi fissati; un colpo, per esempio, volevadir no, e due colpi, sì. Così si ebbero le tavoleparlanti.Si trovò poi che mettendo sulla tavola un lapis, illapis scriveva; e si conobbe di più ancora che certepersone comunicavano più presto e più decisamentecon quegli spiriti intelligenti. Così questi tali diventaronoi veri mediatori tra gli spiriti e chi volevacomunicar con loro. Furono quindi chiamati mediums;i quali possono eccitar movimenti, ed avere rispostea volontà. -Da tutto questo voi ben intendete come in talmodo magnetizzando si può dire che si tratta cogli spiriti: perché una tavola morta non può dar risposte precise a chi l’interroga, né scrivere colle matite, né far disegni, né dire cose da diavoli, e poi ancora rivelare i più nascosti segreti, predicare dottrine filosofiche, e mostrare cognizioni profonde di medicina! Ma poi via si lasciò più decisamente conoscere, che vi covava dentro di loro il diavolo; perché istigavano a far cose le più empie, le più oscene e le più malvagie! Noi crediamo dunque che nel magnetismo così esercitato vi sia il diavolo che lavori dentro e che siano i mali spiriti che invasano i mobili e fan riddone; piuttosto che credere che le tavole e gli altri mobili sian capaci, di scrivere, ragionare, fare da dottori e da filosofi: e che abbiano la volontà e la forza di tentare le persone a far del male. Si può adunque conchiudere, che con tal magnetismo si viene a trattar cogli spiriti: e siccome lo vieta la Chiesa, volerlo fare a dispetto del suo avviso, è un comunicare cogli spiriti cattivi, cioè coi demoni. – Qui io poi a quelli che ancora fossero increduli farò sentire come lo dicon chiaro uomini più increduli di loro. Potet era razionalista; e quindi tutt’altro che credere ai diavoli, negava tutti i misteri della Religione cattolica. Si mise a magnetizzare e poi restando istruito bene dall’esperienza, scrisse un libro per dimostrare che nel magnetismo vi interviene una forza occulta: perché egli si sentiva mettere in comunicazione « con una potenza ignota » e dice che finalmente il patto era consumato!» Oh oh, voi mi direte, ma proprio il patto col diavolo?….. Io per me ve lo lascio dire da lui che vi dice chiaro « che ha trovata la vera magia »…. Così dunque potete conchiudere voi che egli era come mago in comunicazione col diavolo. – Arago ride dell’Accademia di Francia che dubitava, e dice: che un medico adesso, un fisico, anzi un semplice curioso per mezzo del sonnambulismo magnetico, può entrare in un mondo interamente nuovo, il mondo degli spiriti che (dice egli), non aveva mai sospettato che vi fosse. Poverino era un incredulo! Ma i diavoli si hanno fatto capire che gli eran d’intorno! Dumas razionalista incredulo (che poi alla morte domandò perdono ai piedi del Crocifisso e volle morir Cattolico) anch’egli confessa che fin nei primi esperimenti, quando cominciò a magnetizzare si trovò investito da una potenza che non aveva in prima, dalla potenza di far meraviglie prodigiose; e (nel volume XIII, delle sue memorie) dice: che egli dominava una povera giovane; che la teneva incantata e come legata con una catena di ferro, l’obbligava fino a slanciarsi in furore. Combilot e Deleuze, che lasciarono libri di molto studio sul magnetismo, dicono che « in tanti fatti vi intervengono gli spiriti ». Tristan (sentite se non é da star in guardia dal magnetismo!) dice, che egli magnetizzò lo tavole in presenza di tanti testimoni, e che mentre le tavole trabalzavano, gli spiriti gli dicevano « impegnati con noi ». Sauley membro dell’Istituto di Francia insieme con suo figlio dotto egli pure, per conoscere bene il magnetismo su cui studiavano, tentarono lunghe esperienze e si impegnarono in conversazione cogli spiriti e confessa che gli spiriti lo istigavano a fare azioni cattive. Il signor Saulcy ne fu spaventato e si è convertito. Il dotto Merville racconta d’un barone che andato a far l’esperienza del magnetismo entrò in questo terribile conversazione col diavolo. Il barone gli domandò « soffri tu?» e lo spirito rispose « crudelmente sempre! » Eh: domanda tu perdono a Dio » e lo spirito « è impossibile che mi perdoni » « E perché? » « perché  io non voglio! » Desideri d’esser distrutto » « No; perché non potrei odiare Dio. » « Sei contento di vivere? « No; perché debbo a Dio la mia esistenza » « Odii tu dunque? » « Sì il mio nome è odio: odio, tutto fino me stesso! » Non è questo un parlar da demonio d’Inferno il quale fu chiamato da santa Teresa « l’infelice che mai non ama! » ? Swedemborg naturalista, l’anno 1748 si mise in comunicazione cogli spiriti, e fondò la sua chiesa cristiana spiritista, che si diffuse in Isvezia ed in America. Cahagnet grande magnetizzatore la introdusse in Francia. Egli diceva di essere inspirato dall’anima di Swedemborg a fondare una società magnetica, in cui gli ammessi comunicavano direttamente cogli spiriti e specialmente colle anime dei trapassati. Questo Cahagnet scrisse molte opere sul magnetismo: diceva che le anime dei trapassati insegnavano agli adepti le scienze, le arti, la religione e la morale; quando però fossero in istato di sonnambulismo magnetico. Furono poi tanti gli associati, che nell’anno 1844 vi erano in America 44 congreghe di svedemburghesi, e a ciascuna congrega erano scritti molti seguaci. Osserviamo qui che specialmente i paesi protestanti l’Inghilterra, per esempio, la Svezia, l’America del Nord abbondano assai più di spiritisti che i paesi cattolici. Forse è perché nel protestantesimo col razionalismo, poi collo spiritismo, finalmente col negare la creazione, l’anima e Dio si fa l’ultima terribil lotta tra il bene e il male, come l’Apostolo Paolo predisse a Timoteo. (1. 4, 1.). Dice chiaramente che negli ultimi tempi alcuni uomini abbandoneranno la fede attendendo agli spiriti di errore, alle dottrine dei demoni, i quali uomini parlano la menzogna sotto il velo dell’ipocrisia. Intanto osserviamo che in America nei soli Stati Uniti i soli Mediums oltrepassarono i quaranta mila. Questi Mediums chi sa con quante migliaia di persone comunicavano! Questi Mediums poi si dividono in quattro ordini: cioè gli audienti, che odono gli spiriti e parlano con loro: i veggenti, che li vedono, dicono, in forma aerea e vaporosa; gli scriventi, che scrivono sotto l’impulso irresistibile degli spiriti: gl’interpreti, che si sono formato un linguaggio: convenzionale da intendersi cogli spiriti a vari colpi come col loro alfabeto. Abbiamo migliaia di testimoni che anche in atti pubblici notarili dichiarano per vere le comunicazioni cogli spiriti: abbiamo medici, dotti uomini e celebri che per molti anni le negarono come favolose, come per esempio Kostan, Georget e molti altri, che erano increduli; e poi ne difesero la verità. dopo d’averla provata colla evidenza dei fatti. Abbiamo tanti giornali stampati in ogni lingua per raccontare i fatti e le reazioni degli spiriti; abbiamo tante disgrazie da piangere, e basta dire che nel solo ospedale di Lione si trovano duplicati i casi di pazzia per l’influenza, per la dottrina spiritistica; abbiamo divorzi, inimicizie, vendette, e colle pazzie, frequenti suicidi: tanto che in America il fior della cittadinanza fece un indirizzo alla camera supplicando i deputati della patria ad impoedire questi disordini troppo funesti, cagionati dal magnetismo-spiritismo, (Vedasi il già citato bel libretto del Magnetismo animale e dello Spiritismo per un dottore di medicina e chirurgia torinese. Torino, Tip. dell’Oratorio di S. Francesco 1871). Udite finalmente Beautain vicario generale già medico, avvocato e buon teologo; sicché par che abbia ben diritto di farsi ascoltare. Dice egli che nel magnetismo e nelle cose magnetizzate vide tali fenomeni, e fatti da non doverne dubitare più mai, che non vi entrino gli spiriti. « Vidi – egli dice – fenomeni di pensiero, d’intelligenza, di volontà. dì libertà. » Ora pensare, intendere, e aver volontà libera non possono farlo che gli spiriti: dunque degli oggetti magnetizzati come nel magnetismo quale si è studiato, vi intervengono gli spiriti. –  Mi pare così di avervi dimostrato, e se lo dimostrai chiaramente da esserne persuasi, fate in grazia di ripeterlo con me (si fan ripetere) « che il magnetismo messo in pratica in tal modo si confonde collo Spiritismo, il che vuol dire che in esso sì tratta coi demoni. »Vi ho promesso in secondo luogo di darvi le regole per conoscere, se in certe operazioni, se in certi fatti, che si dicono ottenuti col magnetismo, vi sia dentro l’operazione dei demoni. Ben però prima vorrei osservarvi: 1. che molte cose meravigliose e sorprendenti si fanno dagli ingannatori, ciarlatani che fingono magnetizzare, ma ingannano la buona gente colle lor furberie: 2. e che molte cose straordinarie si fanno poi per le forze naturali esaltate o esercitate fortemente; 3. però finalmente molte cose, lo si deve dire senza esitare, si fanno per operazioni del diavolo. – Vi ho detto in prima che molte cose si fanno dagli ingannatori e ciarlatani che cercano di togliervi denari. Però qui non intendo di parlare dei semplici bagatteglieri, operatori di prestigi che coi loro bussolotti e colle loro astuzie sorprendono e divertono il popoletto; ma ben vi debbo mettere in guardia da certi che si vendono per magnetizzatori e vi presentonocerte persone per lo più donne scaltre, che si chiamano sonnambule e che fanno mostra d’addormentarsi al lor comando. Queste fingono vedere cogli occhi bendati e chiusi; danno risposte agli allocchi che lor ne domandano. Questi finti magnetizzanticon lungo esercizio fecero le loro intelligenze con queste bugiarde, finte magnetizzate. Hanno i lor segni di convenzione. Questi gabba-mondi coi loro modi d’interrogare mettono in bocca a quelle scaltre, le risposte. Fino coi più piccoli rumori, collo stroppicciare dei piedi, pur anche col respiro fanno lor intendere ciò che debbono dire. Udite fatto che vi divertirà (quale lo racconta un Giornal di medicina a Torino). Un cotale di questi ingannatori colle sue dette sonnambule e chiaro-veggenti magnetizzate eccitava l’ammirazione dei curiosi e sapeva ingannare, anche i dotti così per benino, che ingannò fin l’Accademia di Francia. (Andate là fidatevi degli accademici, quasi fossero la sapienza incarnata; mentre ne bevono delle grosse!). Quando un medico (di paesetto, perché il buon senso non è privativa dei dotti dell’Università e delle Accademie) s’accorse che egli moveva sottilissimi fili, per comunicare con esse. Allora il medico gli prese la macchinetta, e diede tale una buona scossa alle sonnambule, che trabalzando misero uno strido, e scapparon via. Poi le spaventate, arrabiate anch’esse, scopersero le ciurmerie dell’ingannatore, che se la dovette svignare. Questi ciurmadori adunque magnetizzano veramente; ma magnetizzano ai grulloni le borse, da cui cavano i denari. Egli è così: questa gente del mondo vuol essere ingannata; ma paga poi sempre essa le spese agli ingannatori.In secondo luogo, per porvi in avvertenza a non credere subito che vi siano operazioni, diaboliche, vi ho da osservare che molti fatti sono operati dalle forze naturali, o vivamente esaltate, o fortemente esercitate in modo straordinario. Già qui non intendo parlarvi di certe persone che esercitano grand’influenza sopra le altre. Poiché,siccome si dice che la biscia s’attira l’usignuolo, il quale batte le aline, trema, pigola, ma le vola in bocca: così certe persone con certi sguardi affascinano, e fanno perder la testa fino ai sapienti, e laforza ai più forti. Ricordatevi che fino una fanciullaccia ebbe potuto legar mani e piedi al più robusto uomo del mondo, Sansone, tagliargli i capelli, in cui stava miracolosamente la sua gran forza, e darlo in mano ai Filistei da cavargli gli occhi e farne scherno. Avviso a voi, o figliuole, a pensarvi, che certi civettoni degli occhi grifagni, quando fan le moine dintorno alla lodolina che cinguetta all’aria libera, le dan poi la griffata! Ben la parola di Dio avvisa voi, genitori e superiori, voi che dovete fare la guardia: poiché, quando si lasciano i giovinastri le lunghe sere sedere al trespolino vicino alla ganza, dalla veste di lei esce la tignuola:ed io vi so ben dire che certe persone dall’avvicinarsi restano magnetizzate, ma come?! Voi m’intendete di qual magnetismo….Ora vi osserverò che molte cose si fanno per forze straordinarie di natura e forza d’immaginazione esaltata, o per forza di lungo esercizio o per vivacità di passione. Anche il dotto Rosmini accenna d’un tale, che morsicato dal suo cane, si scaldò tanto nell’immaginazione, da dover diventar idrofobo. Gli pareva di sentirsi già nelle vene il furore della rabbia canina; sicché si aspettava di dover presto morire arrabbiato, e già dava tutti i segnali propri della rabbia. Quando, alcuni dì dopo, tornato a casa il cane, che, morso il padrone, ne era fuggito, e saltellandogli intorno a fargli feste, egli trabalzò tutto allegro gridando: « io non mi sento più niente! » Anche il medico Descuret seppe trar profitto dalla passione che trasportava vivamente un suo ammalato. Era costui appassionatissimo amator delle antichità; tanto che vita e denari e tutto aveva speso a raccogliere medaglie antiche. L’accorto medico al letto dell’ammalato già sopra morte, studia di raccontargli come ora era in vendita un gran gabinetto ricchissimo di medaglie le più antiche, rare e preziosissime. L’ammalato trasalì, diventò roso rosso infiammato, fremente di desiderio…. e raccolto tutto il vigore che ancor gli restava di vita in fil di morte, « esclama: « dottore, mi sento bene » balzò di letto, gridando: « lasciatemi andare a far la compra. » L’esercizio poi a far cose difficili, rende i ciechi capaci di leggere passando solo col dito sui libri stampati apposta colle lettere profondamente impresse, e fino a distinguere col palpar colle dita, i colori delle sete, da poter così ricamare. Qui dopo d’avervi accennato come molti fatti sono eseguiti con astuzie e molte forze naturali in istato d’esaltazione e di lungo esercizio; debbo finalmente dirvi che molti fatti sono operati dal demonio in questo magnetismo dei nostri di, che va confuso collo spiritismo. – Ora state attenti che vi darò le regole per conoscere se in certe operazioni v’entrino gli spiriti, e se vi giuoca dentro il diavolo in questo magnetismo-spiritismo. Le regole sono quattro, poiché l’uomo appartiene a tre ordini di creature, e per la fede il Cristiano appartiene ad un quarto ordine. Difatti l’uomo ha il corpo materiale, ha il corpo animato, ed ha l’anima ragionevole. Quindi col suo corpo materiale è soggetto alle leggi della materia, e le principali leggi della materia sono la legge di gravità e di attrazione. Onde, ecco la prima regola. Se un uomo sta in aria senza sostegno non sentendo più il peso del proprio corpo, e se al suo comando si innalzano tavole e come avvenne e ne furono testimoni molti, tra i quali signor Gasparin e Thury, che non credevaro allo spiritismo magnetico, ma dovettero credervi vedendovi restar sollevato in aria un cembalo di quasi cinquanta miria di peso; e se un Mediums, come un Home, appena entrato in una stanza, fa ballar d’intorno e tavole e mobili, senza toccarli e li fa restar sospesi in aria colla sola volontà; allora bisogna conchiudere che vi è dentro uno spirito, il quale obbedisce alla volontà del Mediums. Quindi ecco la

REGOLA I. Questa regola è data dal Rituale Romano, il quale è il libro che la Chiesa nostra madre ci mette in mano per insegnarci a trattare le cose spirituali. Questo libro con una sapienza veramente cattolica avvisa che quando un corpo grave od una persona umana resta in aria per qualche tempo considerevole senza sostegno, allora si deve credere che vi è uno spirito che vi opera dentro.

REGOLA Il nostro corpo animato è soggetto alle leggi dell’animalità, che sono quelle che fan vivere il corpo animato. Ora le principali leggi dell’animalità sono queste due: Prima legge: che l’anima animale o ragionevole; che sia, per far vivere il corpo animato, deve restarvi con esso unita. Seconda legge è, che il vivente animato riceva la sensazione per mezzo dei sensi del corpo; sicché veda cogli occhi, senta il sapore col senso del gusto, e così abbia le altre sensazioni per mezzo degli organi delle sensazioni. Quindi è ragionevole questa seconda regola; che quando una persona è qui e vede e conosce davvero le cose lontane fin le tante miglia, non potendo l’anima volare là, è certo che vi è uno spirito, che conosce quelle cose lontane e le suggerisce qui alle persone magnetizzate. Anche se una persona, come si dice, magnetizzata, sonnambula, chiaro-veggente, sol che si ponga una carta scritta anche chiusa sul petto, pare che legga col petto e sa dire il contenuto, o sol che le si ponga una ciocca di capelli d’una persona malata anche sconosciuta e lontana, ella vi scopre la malattia, o anche obbedisce ai comandi dati solo colla mente dal magnetizzatore, senza lasciar travedere in alcun modo, ciò che egli pensa; è segno che vi lavora in mezzo uno spirito.

REGOLA II. Da questa seconda regola il Rituale Romano a tutta ragione, ed avvisa i fedeli che quando una persona conosce ciò che si fa in quell’istante in luoghi lontani: quando penetra nei pensieri altrui, senza che in nessun modo siano manifestati, allora è uno spirito che dà quelle notizie. Così nel magnetismo allora vi è opera del diavolo. – Noi uomini abbiam la ragione, e l’anima nostra col lume della ragione si serve dei sensi del corpo per sentire, e così piglia colla ragione cognizione di molte cose. L’anima nostra poi colla ragione riflette sopra a quel che conosce, medita, così acquista sempre nuove cognizioni E adunque a forza di riflettere, meditare con molto studio che s’imparano le scienze. Scienza nobilissima è poi la medicina; ma per impararla sanno i bravi medici quanti studi siano necessari. Se adunque una persona qualunque, fosse pure una sventata ragazzaccia, appena la si dice magnetizzata, eccoti li che conosce le malattie più interne e più difficili ad essere conosciute, più che buon medico che s’assottiglia l’ingegno e consuma la vita in profondissimi studi; e quella tale ancora conosce i rimedi più che un dotto chimico farmacista, e dà prescrizioni ad applicarli ai malati, il che prima ignorava affatto. Anzi, ascoltate, che parla la lingua francese, tedesca, greca, latina come un professore; mentre la sciocca non sapeva neppur parlar bene la propria lingua; allora bisogna aver perduta la ragione, per non dir che vi sia in lei il diavolo che fa da dottore. Onde ecco la

REGOLA III. Anche questa regola terza la dà il Rituale Romano, il quale avvisa che quando, senza studiare, si sanno scienze che s’ignoravano affatto, o si conoscono  cose create che erano al tutto nascoste, vi deve esservi dentro uno spirito che le suggerisce.

REGOLA IV. Poi finalmente ecco la quarta, la grande regola in pratica. Giova ripeterlo: Uno Dio, una la sua Chiesa, la quale Dio dà a noi per madre e maestra, per far conoscere come vuol essere servito ed adorato. Tra Dio e il demonio non v’è società, no no; ma eterna guerra. Se quindi alle persone e alle cose magnetizzate si presentano oggetti benedetti dalla Chiesa, affinché i suoi figliuoli se ne servano ad onorar Dio, come croci, corone, acqua santa; e presentandosi queste cose benedette o cessa il magnetismo nelle persone, o neppure sì può incominciare l’incantesimo detto magnetismo; o al tocco; di una goccia d’acqua santa (dirò come avvenne per esempio) le tavole ballanti, infuriate come demoni, si dibattono a scuoterla via; e un cestello di vimini si contorce come un serpente e si sversa, scorre giù, e fugge: allora si è da dire che vi è uno spirito che sente orrore delle cose sante, lo spirito nemico di Dio, il demonio. Ora, o miei figliuoli non mi rimane che di avvisarvi di stare in guardia da certe pratiche superstiziose e dall’usare certi mezzi, massime per guarire malattie, o per sapere cose ignote od anche per solo divertimento. Ho detto, massime per guarir malattie, perché il demonio è qui dove mostra la sua astuzia più che può…. Forse egli crede essere per noi venuto ora il tempo buono da rientrare nel regname del mondo, da cui fu scacciato da Gesù Cristo; par proprio che tenti a scimmiottare i divini miracoli fingendo di guarire malattie, come nelle guarigioni mostrò la sua bontà il Salvatore: sotto questa finzione entrando, come dimostrai in sul principio, nel magnetismo. Ho poi detto di non avvicinarvi nello spiritismo al demonio, né per soddisfare la curiosità, né per scherzare con leggerezza. Tenete per grande avviso che come chi non crede alle operazioni di satana, non crede alla Religione santissima; così chi si mette a scherzare con satanasso, deride, insulta, affligge la Santa Madre Chiesa, la quale cerca dire in tutti i modi, come una mamma porta via gridando il figliuol dalla serpe nascosta nell’erba di tenerci lontani dal traditor, tristo nemico di Dio. Voi forse mi vorreste osservare che nel magnetismo non si crede che di servirsi di un fluido materiale mentre nello spiritismo si tratterebbe cogli spiriti, e quindi mi potreste dire: « ecché ha da fare un fluido materiale coi demoni che sono spiriti ? ….. » Vel confesso che questo è un mistero, come è pur un mistero il modo con cui un’anima possa servirsi di un corpo; ma il fatto poi è che il demonio pare che senta maggior inclinazione a correr là dove vi trova questi oggetti, come dicono magnetizzati. Si le nazioni infedeli che credevano alla forza degli amuleti, erano certo superstiziose; ma la superstizione non si appoggia appunto a qualche punto di vero? Via via, figliuoli, fuggite voi lontano da chi vi invita a tali pratiche superstiziose. Il Signore minaccia di sterminare chi andrà appresso ai maghi, agli indovini, che facevano proprio come i mediums dei nostri giorni (Lev. 6). Fuggite, fuggite da questi che pretendono d’interrogare di far parlare le anime dei poveri morti. Nec inveniatur in te… qui quærat a mortuis veritatem. (Deut. 18, II. Exod. 22, VIII). (Io poi vorrei azzardare una mia osservazione. Ma però avvertendo che qui non ci entra la dottrina della Chiesa: puto ego non Dominus. Forse ché vi sia davvero questo fluido magnetico ?….. e che gli spiriti se ne possan servire per comunicare cogli uomini più facilmente?…. e che là dove si metta in moto, e che quindi nelle pratiche del magnetismo presentandosi l’occasione vi accorrano volentieri ?….. Ed essendo queste pratiche pericolose proibite dalla Chiesa sarebbe facile per castigo di Dio che alcun si trovasse col diavolo nel magnetismo impigliato …). Anzi pare proprio che il Signore coi suoi ammonimenti d’allora avvisi proprio a noi. Allora rinfacciava al Suo popolo per bocca del profeta Osea (IV. 12) che era un brutto segno d’infedeltà fare interrogazioni nel legno (nelle tavole) e farsi annunciare il vero dai bastoni. Oh poveri noi! e sarà forse uno spaventoso segnale che manchi la fede, e diventare superstiziosa nel magnetismo? Eh già S. Paolo ci avvisava che appunto pei figliuoli della diffidenza, opera di presente il principe del mondo satanasso (spiritus nunc operatum in filios diffidentiæ. Ephes. Il, V). Viva Dio! … e state fermi nella fede lontani dalle pratiche di tal magnetismo: par proprio che questi diavoli dello spiritato magnetismo corrano addosso a chi lì va a cercare non curandosi degli avvisi della madre Chiesa. Avvertite, o figliuoli che il Papa Sisto V ( Nella Bul. Cœli et terræ Creator an.) eccita i Vescovi a star bene attenti per impedire nelle loro diocesi i sortilegi , la magia, le evocazioni dei morti: son quelle pratiche che appunto si usano. nel magnetlsmo. Ora i Vescovi, che sono i pastori,  che hanno in guardia le pec prelle del Signor, per metterle in salvo dal lupo, in America, in Francia, in Italia, in altri regni con le più amorevoli pastorali scongìurano scongiurano i fedeli a star lontano dal magnetismo e dai magnetisti…. Anche la Congregazione del s. Officio di Roma avvisa ancora i Vescovi di far impedire nelle loro diocesi queste pratiche tenebrose e diaboliche di questi pagnetisti-spiritisti. (An. 1856. 4 Ag). Gon altro decreto, (1864, 2 Apr.) proibisce assolutamente queste pratiche; non è dunque permesso di magnetizzare, di farsi magnetizzare né di assistere a chi magnetizza; come si usa generalmente. Ora facciamo  un po di esame.

Esame.

I. Non vi venne mai voglia per guarir malattie, ed anche per conoscere cose occulte, anche per divertimento di ricorrere ai magnetisti?…

II. Ricordatevi che 1° per guarire malattie, Dio ci diede la medicina, e raccomanda di ricorrere ai medici. Honora medicum. 2. Per conoscere le verità da credere, Dio ci ha data la fede, e per ammaestrarci sicuramente nella religione, e per regolare in quel che dobbiamo e possiamo fare, ci dà la nostra madre Chiesa: per aver poi le cognizioni utili, ci diede la ragione da studiare nelle scienze coll’aiuto anche di buoni maestri sinceramente cattolici.

III. Adunque ricorrere per guarire e per curiosità a tal magnetismo è un non volere lasciarci regolare da Dio, dalla Chiesa: è dunque metterci dalla parte del diavolo. Non sarebbe da stupire che il diavolo pigliasse il destro, sotto la forma del magnetismo, per mezzo dei magnetizzatori di avvicinarsi a trattar cogli imprudenti…. Che Dio guardi voi dal comune nemico.

Pratica

Dunque starete in guardia da certe persone che danno molto da dubitare. Esse si presentano nei teatri, nei caffè. nelle case, pretendono dì curare i malati col magnetismo e fan certi segni sulle persone, e sopra le bestie, i quali segni e versi han niente da fare col curar malattie. Non ascoltatele. – Dunque attendete: tenete ben lontane da loro le persone delle vostre famiglie, massime giovani che attirano la simpatia; perché tali magnetizzatori, se la fanno troppo volentieri colle persone giovani e colle simpatiche; ci avvisava fin d’allora Sisto V. Già volendo andar a capriccio e contro il voler di Dio, per lo più si va a cadere nel fango!… Avviso a tutti! Vi voglio anche avvisare che sì ha la sfrontatezza di pubblicare a’ quattro venti e sui canti delle strade, e far girare inviti a consultar sonnambule, chiaro-veggenti, anzi a mandar anche solo (con un po’ di denaro s’intende) una ciocca di capelli delle persone ammalate, assicurandovi che vi si scoprirebbe le malattie si mostrerebbe il modo di curarle. Stiamo a vedere che una donnaccia deve curar meglio da lontano che i nostri buoni medici che studiano tanto e giran d’intorno con tanta carità ai nostri ammalati!…. Oh scoperte del secolo del razionalismo trionfante !… Se fosse vero, non vi sarebbe il diavolo in mezzo? (Girava un manifesto per Parigi (marzo 1864); Delle meraviglie del magnetismo, del sonnambulismo e delle loro applicazioni rigenerative. — La signora F……. esercitava questa meravigliosa scienza con soddisfazione delle persone da lei pienamente guarite … La sonnambula risponderà ad rem con lucidità sul risultato di cose lontane anche mille e ducento leghe!!!)

Catechismo.

D. È permesso adunque magnetizzare, farsi magnetizzare, ed assistere mentre si magnetizza?

R. Rispondiamo chiaramente, no: perché nella maniera in cui per lo più sì usa magnetizzare, vi sono tutti i segnali che danno ragione di credere, che sotto l’apparenza del magnetismo si pratichi lo spiritismo condannato dalla Chiesa, e per noi buoni fedeli basta solo la proibizione dei Vescovi che Dio pone a reggere la sua Chiesa.

IL SACRO CUORE DI GESÙ (56)

IL SACRO CUORE DI GESÙ (56)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE TERZA.

Sviluppo storico della divozione.

CAPITOLO SESTO

MARGHERITA MARIA E I SUOI PRIMI COLLABORATORI

Abbiamo visto, nella prima parte della presente opera, la divozione al sacro Cuore costituirsi nelle rivelazioni di Gesù a Margherita Maria e aprirsi dinnanzi ad essa grandiose prospettive di avvenire. Ci rimane da collocare questa devozione nello sviluppo storico; dire dell’attività apostolica della santa e dei suoi primi collaboratori, studiare il fiorire della divozione ch’ella aveva ricevuta dal cielo.

I. – STATO DELLA DIVOZIONE VERSO IL 1674

Margherita Maria non ha dovuto inventare la divozione al sacro Cuore; essa esisteva già. Prima di rivelarsi a lei, Gesù aveva scoperto il suo Cuore ad alcune anime privilegiate ed aveva mostrato loro le sue ricchezze. La pietà cristiana, meditando su la misteriosa piaga del costato, vi aveva visto il Cuore ferito, vi aveva visto il rifugio che esso offriva all’anima colpevole o tormentata e i tesori che racchiudeva; aveva visto la ferita d’amore nella piaga materiale; aveva visto infine il cuore divino amantissimo e amabilissimo, simbolo espressivo d’amore, immagine viva di tutte le virtù e della vita di Cristo. – L’oggetto del culto era già dato. Il culto stesso esisteva con la maggior parte delle pratiche. Dopo i mistici erano venuti gli asceti, che ne avevano, se non organizzata la divozione, almeno indicati i diversi elementi che dovevano formarne la base, segnalato diversi esercizi che le convenivano. Apostoli ardenti, come il Lallemant e il P. Huby, l’avevano predicata e propagata, l’uno con la sua azione intima e profonda su alcune anime elette, l’altro nei suoi ritiri e nelle sue missioni, con la sua direzione e i suoi scritti. G. Eudes infine aveva presentato il sacro Cuore alla folla; prima attraverso e nel cuor di Maria, poi in una festa speciale del Cuore adorabile, in maniera che qui, come negli altri casi, si andava naturalmente da Maria a Gesù. – Il culto dunque esisteva, ben chiaramente per alcune anime privilegiate che ne vivevano; ma un po’ confusamente come veniva presentato al popolo nei libri e nella predicazione di S. G. Eudes e dei suoi discepoli; mescolato anche, ad elementi caduchi, che non potevano entrare nella corrente generale della pietà cristiana; era, forse più preciso e più immediatamente pratico nel P. Huby, ma senza un aspetto dottrinale abbastanza largo, solido ed esposto in un manuale di questa divozione. Anche il movimento era relativamente poco esteso e profondo. Completamente dipendente dalle persone che l’avevano determinato, probabilmente non avrebbe continuato a diffondersi nella Chiesa, dopo la scomparsa di quelli che ne erano stati i promotori (Vedremo presto un esempio in prova di ciò: le Benedettine di Lione si ricordano vagamente che, in altri tempi, l’uffizio del sacro Cuore era stato concesso al loro Ordine. Probabilmente si tratta dell’Ufficio di S. G. Eudes. Anche le pratiche raccomandate da p. Huby non risulta che abbiano continuato a vivere e propagare). Allora Gesù è intervenuto per animarlo, orientarlo, costituirlo in divozione vitale, larga, ed insieme precisa; precisa nel suo oggetto, nel suo fine, nel suo spirito, in alcune delle sue pratiche destinate a dare il tono; larga nelle sue manifestazioni e nella scelta dei suoi mezzi; tutto ciò con una fusione mirabile d’ideale e di ambizioni più elevate, di esercizi più semplici e di attrattive più vive per le diverse anime. – Nello stesso tempo il soffio dello Spirito Santo e l’azione discreta di Gesù preparavano lo sbocciare del culto. I precursori si erano moltiplicati. Al momento stesso in cui Gesù sta per rivelarsi a Paray vivevano ancora molte anime a cui Egli si comunicava confidenzialmente; un po’ come un poeta legge prima a pochi amici l’opera che sta per dare al pubblico. Anche gli autori ne parlavano. Talvolta non sappiamo se si deve vedere, qua e là, un’aurora o uno splendore discreto del sole già alto: una influenza di S. G. Eudes o un’eco di Paray. Abbiamo già parlato del P. Huby, morto a Vannes nel 1693, apostolo infaticabile del sacro Cuore; ma senza poter dire con precisione se lo si deve far dipendere da S. G. Eudes, né se ebbe conoscenza delle. rivelazioni di Paray. Constatiamo soltanto che, da ogni parte, la divozione sembra fiorire spontaneamente nelle anime. – In Germania il P. Filippo Jeningen (1642-1704), l’apostolo della Svevia, riceveva favori insigni dal sacro Cuore e se ne faceva non solo il discepolo devoto, ma l’apostolo ardente. Seppe egli qualcosa di Paray o del movimento suscitato in Normandia da S. G. Eudes, in Bretagna dal P. Huby? Non si potrebbe dirlo. – Siamo meglio informati sul santo arcidiacono d’Évreux, M. Boudon (1624-1702). Discepolo del P. Eudes, come lui arriva per mezzo del cuor di Maria al cuor di Gesù. Di lui abbiamo una consacrazione ai due santi Cuori che è bella e pia (Eccone la parte che riguarda direttamente il sacro Cuore: « O Gesù mio, è nel vostro Cuore, abisso d’amore, che io abbandono il mio essere e tutto ciò che io sono, che consumo ed anniento il mio misero cuore e tutti i suoi movimenti. No, io protesto in presenza di tutte le belle intelligenze del Paradiso, di tutti i santi dell’Empireo, e specialmente del mio Angelo custode, di S. Giuseppe e di S. Giovanni Evangelista, mio amico fedele, che io non voglio far più nulla per mio proprio movimento; che preferirei morire piuttosto che pensare un sol momento ad altri interessi che quelli del vostro Cuore glorioso, che voglio essere puramente il suo strumento, lasciandomi condurre a tutto ciò che egli vorrà, non prendendo parte che ai suoi affari, Sì, o Cuore più che amabile, Cuor prezioso, Cuore inestimabile, quando dovessi esser privato del cielo e della tetra, io lo voglio, se deve andarne un solo atomo della vostra gloria. Voi sarete, per sempre, il mio caro tutto. Che io muoia, che viva, mi succeda ciò che può, non importa; io non penso, non voglio, non amo che Voi. Non chiedo niente, non voglio niente; tutto ciò che Voi volete è ciò che io desidero. Non voglio pensate che col Vostro pensiero, stimare che ciò che Voi stimate, vivere solo della Vostra vita. Mi unisco a tutti i Vostri disegni che la SS. Vergine, S. Giuseppe, gli angioli e i santi siano onorati; per questa unione io sono loro schiavo. O amore, o amore puro, o amore divino, annientatemi interamente nelle Vostre pure fiamme »). È datata dal giorno dell’Immacolata Concezione del 1651. Ma egli ebbe anche conoscenza delle rivelazioni di Paray e divenne l’ardente apostolo della nuova divozione. Ciò che egli ne dice è del più vivo interesse; è uno dei casi nei quali si vede chiaramente in contatto la divozione di S. G Eudes e quella di santa Margherita Maria. È curioso che non colleghi l’una all’altra lui stesso; si direbbe che ha dimenticato Giovanni Battista passando a Gesù (Di fatto egli non dimentica la divozione eudista. Ma non vi sono, per lui, due divozioni al sacro Cuore. A proposito di una grazia). – Ecco ciò che scrive al suo amico fedele, Bosguerard: « Da pochi anni il nostro buon Salvatore ha fatto conoscere ad una religiosa della Visitazione della piccola città di Paray in Borgogna, che voleva stabilire in questo tempo la divozione del suo sacro Cuore: e che; a questo scopo, si servirebbe dei Padri Gesuiti, che di fatto l’han già stabilita, non solo in Europa, ma nelle Indie e nel Canadà. Essi hanno scritto intorno a questa divozione un libro eccellente, pubblicato a Lione, dal quale sono stato commosso; e a Rouen è stato fatto un riassunto di questo libro che si vende da Kérault, al Palais (Il libro del P. Croiset era stato pubblicato senza il nome di autore. Il sunto di Rouen, opera, si dice, di una Visitandina, è del 1694, ciò che può aiutare a datare la lettera; l’Indulgenza è quella che Innocenzo XII accordò nel 1693, col breve del 19 maggio.). Io ho conosciuto per mezzo della mia stessa esperienza ciò che vi è notato: che nostro Signore farà grandi grazie a coloro che avranno divozione al suo sacro Cuore. Dobbiamo fare del nostro meglio, per cooperare allo stabilimento di questa divozione. Il Papa ha accordato l’indulgenza plenaria a tutte le case della Visitazione che ne celebreranno la festa e il nostro buon Salvatore ha rivelato a Santa Gertrude che riservava questa divozione per gli ultimi tempi ». – Egli mantenne la parola. Lo potremmo vedere anche solo dall’intestazione delle sue lettere. Fino da allora, egli scriveva: «Dio solo! Dio solo in tre persone, e sempre Dio solo nell’unione del nostro buon Salvatore Gesù Cristo. il Salvatore di tutti gli uomini ». Nei suoi ultimi anni scrive: « Dio solo… nella santa ‘unione del sacro Cuore del nostro buon Salvatore, ecc. ecc. ». Ne parla spesso, ad ogni proposito. Vuol ringraziare? Lo fa per mezzo del sacro Cuore: « Prego con grande umiltà questo Cuore divino, infinitamente amante ed infinitamente amabile, che troviate in Lui le riconoscenze che io devo alla vostra gentile carità ». Vuol predicare la pace? Egli esorta a cercarla nel sacro Cuore: « L’anima che riposa unicamente in questo Cuore divino possiede una pace che oltrepassa ogni sentimento e che tutti gli uomini e i demoni insieme non potrebbero turbare. Così dimorare nel Cuor di Gesù, senza uscirne né per alcuna creatura, né per se stessi, vuol dire essere sempre contenti; fuori di questo Cuore amabile si è sempre inquieti ». – In una parola, nella divozione al sacro Cuore egli ha trovato la base stessa del Cristianesimo: « Sì, mia cara sorella. scrive ad una religiosa della Visitazione, noi dobbiamo dimorare in questo divin Cuore, ma dimorare per sempre…. vivendo solo della sua vita, agendo solo per i suoi movimenti divini, soffrendo nell’unione delle sue sofferenze. ed in tal maniera che deve essere il Cuore del nostro cuore, l’anima della nostra anima e la vita della nostra vita… Per questo unitevi a Lui in tutte le vostre azioni e sofferenze e in tutti i vostri stati, senza nessuna riserva; ma, unendovi nella sua santa unione, voi agirete sempre per movimento della sua divina grazia, sempre soprannaturalmente, mai umanamente e per natura. Che l’amore del Cuore infinitamente amabile di Gesù domini senza riserva sopra tutti i movimenti dei cuori nostri. Che lo Spirito Santo, che l’ha animato, animi tutti i nostri; che Egli sia il principio di tutte le nostre azioni e la sola gloria d’Iddio solo ne sia la fine ». – Infine, egli scrive nell’ultimo lavoro da lui pubblicato: « Proviamo una santa compiacenza, una gioia divina che la SS. Trinità trovi nel cuore di Gesù un amore infinito… Ma che faremo noi per amare questo Cuore infinitamente amante? Rimontiamo fino alla creazione del mondo, andando di secolo in secolo, vediamo tutti gli amori dei patriarchi, dei profeti, degli Apostoli, dei martiri, dei confessori, delle vergini e di tutte le creature mortali. Risaliamo nei cieli, vediamo tutti gli amori degli spiriti celesti e della loro grande Regina; uniamoci a tutti questi amori, a tutti gli amori che si sono avuti e che si avranno per questo divin Cuore; offriamogli tutti questi amori, ma di più l’amore infinito del Padre Eterno. Formiamo l’intenzione che tante volte noi respireremo, altrettanto noi continueremo questa unione per amare, con tutti gli amori, il Cuore infinitamente amabile dell’adorabile Gesù ». Allora si rivolge direttamente al sacro Cuore: « O Cuore abisso d’amore, o mio Salvatore, vi chiediamo, per l’amore che vi ha fatto morir per noi, che noi moriamo per la dolce violenza del vostro puro amore. O morire o amare, e morire ed amare per non cessar mai di amare ». Che l’autore, in tutto questo, sia sotto l’influenza del movimento partito da Paray, ce lo dice lui stesso, rinviandoci al libro, « dotto, ma pieno di unzione » del P. Croiset. Del resto fa un’allusione evidente a Margherita Maria quando scrive: « Il nostro buon Salvatore ha fatto conoscere a santa Gertrude e ad altre anime sante, che farà grandi grazie a quelli che avranno una divozione speciale al suo divin Cuore ». Precorse santa Margherita Maria e fu tutta dedicata al sacro Cuore anche Suor Giovanna Benigna Gojoz (1615-1692), della Visitazione di Torino, di cui abbiamo già parlato; sembra che ella abbia predetto alla sua gloriosa sorella le cose meravigliose che Dio doveva compiere per mezzo suo. E, prima di morire, seppe anche che la sua predizione si era compiuta (Vedi più sopra). Mentre nostro Signore preparava così le vie a santa Margherita Maria, Egli stesso preparava la santa nel segreto, la preveniva fin dalla più tenera infanzia, la circondava con il suo amore, attento ai primi battiti del suo cuore perché fossero tutti per Lui solo. Il 20 giugno 1671 ella entrava alla Visitazione di Paray, e Gesù cominciò tosto a rivelarle i segreti del suo cuore. – Margherita Maria ebbe conoscenza del sacro Cuore, avanti le rivelazioni di Paray? Fu sotto l’influenza di alcuno di quelli che ora vengon chiamati i suoi precursori? Conobbe le rivelazioni fatte a S. Gertrude, lesse alcune pagine nelle quali si parlava del sacro Cuore? Niente lo indica, ma niente ci indica il contrario. Avanti di entrare in convento ella doveva aver inteso parlare del Cuore ammirabile di Maria che il P. Eudes aveva ottenuto di far onorare nella diocesi di Autun, fin dal 1648. « Un giorno, nella festa del Cuore della SS. Vergine », lo nota essa stessa, ella vide il suo cuore, piccolo, piccolo, « e quasi impercettibile » fra i cuori di Gesù e Maria, e, mentre udiva queste parole: Così il mio puro amore unisce questi tre cuori per sempre, « i tre cuori non ne formarono che uno solo ». Potrebbe darsi che vi fosse qui un’influenza delle idee del P. Eudes. È la sola traccia che possiamo ritrovarne. – Nelle pratiche di divozione verso il sacro Cuore scritte di sua mano, ve ne sono alcune prese in libri di divozione che essa leggeva in convento, del P. Saint-Jure, del Padre Nouet, del P. Guilloré. Ma questo è posteriore alle rivelazioni. Ha potuto leggere e sentir leggere, fin dalla sua entrata in convento, i passi di san Francesco di Sales sul sacro Cuore, ma niente ci dice che ne sia stata colpita. Verso la fine della sua vita ella seppe delle visioni e delle rivelazioni della Madre Anna Margherita Clement e ne parla in una lettera al P. Croiset. Ma ne parla come in una scoperta da lei fatta allora, senza dubbio, leggendo e sentendo leggere la vita della venerabile Madre, che era stata pubblicata nel 1686. – In breve, senza poter affermare nulla come certo, abbiamo motivo per credere che la santa non doveva ad influenze esterne la sua divozione al sacro Cuore di Gesù. Pare ch’ella non vi pensasse avanti la sua entrata in religione, l’apprese da nostro Signore.

FESTA DEL PREZIOSISSIMO SANGUE DI CRISTO (2022)

FESTA DEL PREZIOSISSIMO SANGUE DI N. S. GESÙ CRISTO (2022)

Doppio di 1^ classe. • Paramenti rossi.

La liturgia, ammirabile riassunto della storia della Chiesa, ci ricorda ogni anno che in questo giorno fu vinta, nel 1849, la Rivoluzione che aveva cacciato il Papa da  Roma. A perpetuare il ricordo di questo trionfo e mostrare che era dovuto ai meriti del Salvatore, Pio IX, allora rifugiato a Gaeta, istituì la festa del Preziosissimo Sangue. Essa ci ricorda tutte le circostanze in cui fu versato. Questo sangue adorabile il Cuore di Gesù lo ha fatto circolare nelle sue membra; perciò, come nella festa del Sacro Cuore, anche oggi Vangelo ci fa assistere al colpo di lancia che trafisse il costato del divino Crocifisso e ne fece colare sangue e acqua. Circondiamo di omaggi il Sangue prezioso del nostro Redentore, che il sacerdote offre a Dio sull’altare. – Il gran Sacerdote, attraversando il Tempio, entrava una volta all’anno nel Santo dei Santi col sangue delle incoscienti e forzate vittime, immolate sull’altare degli olocausti. Questo sangue dava soltanto una purezza legale ed esteriore. Il Cristo è salito fino al vero Santo dei Santi, che è il cielo ed ha presentato al Padre il suo sangue, spontaneamente e liberamente versato sulla croce. Gesù è dunque il mediatore del Nuovo Testamento, e il suo sangue espia i peccati dapprima degli Israeliti, e poi di tutti gli uomini.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Apoc V:9-10
Redemísti nos,Dómine, in sánguine tuo, ex omni tribu et lingua et pópulo et natióne: et fecísti nos Deo nostro regnum.

[Ci hai redento, Signore, col tuo sangue, da ogni tribù e lingua e popolo e nazione: hai fatto di noi il regno per il nostro Dio.]


Ps LXXXVIII :2
Misericórdias Dómini in ætérnum cantábo: in generatiónem et generatiónem annuntiábo veritátem tuam in ore meo.

[L’amore del Signore per sempre io canterò con la mia bocca: la tua fedeltà io voglio mostrare di generazione in generazione.]


Redemísti nos, Dómine, in sánguine tuo, ex omni tribu et lingua et pópulo et natióne: et fecísti nos Deo nostro regnum.

[Ci hai redento, Signore, col tuo sangue, da ogni tribù e lingua e popolo e nazione: hai fatto di noi il regno per il nostro Dio.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui unigénitum Fílium tuum mundi Redemptórem constituísti, ac ejus Sánguine placári voluísti: concéde, quǽsumus, salútis nostræ prétium sollémni cultu ita venerári, atque a præséntis vitæ malis ejus virtúte deféndi in terris; ut fructu perpétuo lætémur in cœlis.

[O Dio onnipotente ed eterno, che hai costituito redentore del mondo il tuo unico Figlio, e hai voluto essere placato dal suo sangue, concedi a noi che veneriamo con solenne culto il prezzo della nostra salvezza, di essere liberati per la sua potenza dai mali della vita presente, per godere in cielo del suo premio eterno.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebrǽos.
Hebr IX: 11-15
Fratres: Christus assístens Póntifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum et cinis vítulæ aspérsus inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ídeo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem earum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

(Fratelli, quando Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraversando una tenda più grande e più perfetta, che non è opera d’uomo – cioè non di questo mondo creato – è entrato una volta per sempre nel santuario: non con il sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue, avendoci acquistato una redenzione eterna. Se infatti il sangue di capri e tori, e le ceneri di una giovenca, sparse sopra coloro che sono immondi, li santifica, procurando loro una purificazione della carne; quanto più il sangue di Cristo, che per mezzo di Spirito Santo si offrì senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire al Dio vivente? Ed è per questo che egli è mediatore di una nuova alleanza: affinché, essendo intervenuta la sua morte a riscatto delle trasgressioni commesse sotto l’antica alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna, oggetto della promessa, in Cristo Gesù nostro Signore.]

Graduale

1 Joann 5:6; 5:7-8
Hic est, qui venit per aquam et sánguinem, Jesus Christus: non in aqua solum, sed in aqua et sánguine.

[Questo è colui che è venuto con acqua e con sangue: Cristo Gesù; non con acqua soltanto, ma con acqua e con sangue.]

1 Joann 5:9
V. Tres sunt, qui testimónium dant in cœlo: Pater, Verbum et Spíritus Sanctus; et hi tres unum sunt. Et tres sunt, qui testimónium dant in terra: Spíritus, aqua et sanguis: et hi tres unum sunt. Allelúja, allelúja.

[V. In cielo, tre sono i testimoni: il Padre, il Verbo, lo Spirito Santo; e i tre sono uno. In terra, tre sono i testimoni: lo Spirito, l’acqua, il sangue; e i tre sono uno. Alleluia, alleluia]

1 Joann V:9
V. Si testimónium hóminum accípimus, testimónium Dei majus est. Allelúja

[V. Se accettiamo i testimoni umani, Dio è testimonio più grande. Alleluia.]

Evangelium
Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann XIX: 30-35
In illo témpore: Cum accepísset Jesus acétum, dixit: Consummátum est. Et inclináto cápite trádidit spíritum. Judæi ergo – quóniam Parascéve erat -, ut non remanérent in cruce córpora sábbato – erat enim magnus dies ille sábbati -, rogavérunt Pilátum, ut frangeréntur eórum crura et tolleréntur. Venérunt ergo mílites: et primi quidem fregérunt crura et altérius, qui crucifíxus est cum eo. Ad Jesum autem cum venissent, ut vidérunt eum jam mórtuum, non fregérunt ejus crura, sed unus mílitum láncea latus ejus apéruit, et contínuo exívit sanguis et aqua. Et qui vidit, testimónium perhíbuit; et verum est testimónium ejus.

[In quel tempo, quand’ebbe preso l’aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». Poi, chinato il capo, rese lo spirito. Allora i Giudei, essendo la Parascève, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era, infatti, un gran giorno quel sabato – chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e portati via. Andarono, dunque, i soldati e spezzarono le gambe al primo, e anche all’altro che era stato crocifisso con lui. Quando vennero a Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe: ma uno dei soldati gli trafisse con la lancia il costato, e subito ne uscì sangue ed acqua. Colui che ha visto ne rende testimonianza, e la sua testimonianza è veritiera.]

OMELIA

[D. Massimiliano M. Mesini: Sermoni al Sangue Preziosissimo di Gesù Cristo per il mese di Giugno (poi Luglio) – Tip. Malvolti, RIMINI, 1884]

Christum Dei Filium, qui suo nos redemit Sanguine, venite adoremus!

Già terminato ha il suo corso il bellissimo fra mesi dell’anno, il Maggio. Esso passò tra lieta primavera, tra il profumo dei fiori, che olezzano soavissimi alla Regina del cielo e della terra, Maria. Ma un’altra primavera, altri fiori oh! Quanto tornarono a lei più graditi. I fiori, io voglio dire, delle virtù più elette, che la pietà dei Cristiani si studiò di cogliere nel giardino della devozione dì per dì in tutto il corso del mese. E voi pure, o carissimi ascoltanti, voi pure coglieste questi fiori con una diligenza tutta speciale ;, con un trasporto tutto proprio dell’amor vostro verso la Vergine benedetta. Ed intrecciata poi di tutti questi fiori di virtù come una vaghissima ghirlanda, la offriste fra lieti cantici, fra soavi armonie, fra i più teneri palpiti del cuor vostro. E Maria, io ne son sicuro, ve ne ripagò largamente, empiendovi l’anima dei più eletti favori, delle grazie più segnalate; ch’Ella non si lascia vincere in amore, e vuol più beneficarci di quello che noi desiderare sappiamo. Onorata Ella da voi in tutto il Maggio, ora lascia libero il campo alla pietà vostra, o Cristiani dilettissimi, perché nel Giugno (ora nel Luglio – ndr. -) si volga tutta a far omaggio al Preziosissimo Sangue del suo Divin Figliuolo Gesù Cristo. E ciò fa di buon grado, giacché fu Ella, che per opera dello Spirito Santo concependo l’Uomo-Dio nell’alvo purissimo, gli empì di questo Sangue le vene: Ella, che il vide piovere dall’aperte ferite, stando immobile appiè della croce, e che ogni titolo e merito ed ogni sua gloria bella da questo Divin Sangue riceve; giacché Ella è così grande, perché fu Madre dell’Uomo – Dio, il Redentore, e Redentore fu Uomo – Dio spargendo appunto dall’aperte vene il suo Sangue. Né sola Maria ha caro che voi in questo mese onoriate il Sangue Prezioso di Cristo, ma in ciò si associa all’Eterno Padre e al Verbo Divino. Però a destarne sempre più viva nei vostri animi la divozione io vengo in questa prima sera a mostravi:

1.° che l’onorare con pie considerazioni ed omaggi il Sangue sparso da Gesù è graditissimo a Dio Padre, e a Gesù stesso:

2.° vengo a dirvi, come dobbiate considerar questo Sangue, perché ne torni buon pro alle anime vostre.

Qual cosa, o ascoltanti dilettissimi, qual cosa mai potrà tanto tornar gradita a Dio, quanto il considerare lo spargimento del Sangue di Gesù Cristo? Ad esso Egli mirava fin dall’eternità vagheggiandolo  in mente qual causa istrumentale della Redenzione del genere umano, e fin dai secoli più remoti rappresentandolo con quella pompa di ombre, e figure, che precedettero il tempo della luce, e della realtà. Osservaste voi mai un pittore, allorché accingevasi a mettere in tela il suo disegno? Non fa egli che tirare rozzamente sulla tela le prime linee, ed i contorni del disegno medesimo per poi con più vivi colori abbellirlo, e perfezionarlo. Così Iddio veniva come dando un abbozzo del gran Redentore del mondo al suo popolo in uomini e fatti dell’antico testamento, che facevano intravedere quel molto di più, che avrebbe fatto, quando la figura resterebbe sorpassata dal figurato. Eccovi infatti Abele, l’innocente Abele, che pastore di pecore è immagine di Gesù, buon Pastore delle anime. Invidiato dal fratello perché le sue offerte sono gradite a Dio, è da lui invitato ad uscire a diporto nell’aperta campagna con melate parole che coprono il più orribile tradimento. L’innocente Abele è d’improvviso assalito, atterrato già versa il suo sangue ed ucciso sen muore, rappresentando il Redentore, che dovea pur Egli versare il Sangue, ucciso da quegl’ingrati che nella immensa sua carità fiacea suoi fratelli. La voce del sangue sparso da Abele, cel dicon le Sante Scritture, levasi intanto dalla terra al cielo domandando vendetta. Oh! come meglio parlerà il Sangue uscito dalle vene di Gesù: Sanguinis aspersiones melius loquentem, quam Abel (Hebr. XII, 24). Esso chiederà perdono, e perdono otterrà, rimanendo soddisfatta la Divina Giustizia, e lavata ogni macchia di peccato. Eccovi pure Isacco, che vassene al Moria per esservi sacrificato dall’istesso suo padre Abramo, immagine di Gesù Cristo, che dovrà andare sulle vette del Calvario a compiervi il sanguinoso sacrificio della croce, obbedendo alla volontà del suo Divin Genitore: Factus obediens ad mortem, mortem autem crucis (Phil. II). E quando Iddio ordinava agli Israeliti nell’Egitto di tingere del sangue dell’agnello svenato, le porte delle case dicendo: Vi sarà questo come segno, ed io vedrò quel sangue, e trapasserò oltre, né cadrà su voi la terribile piaga che metterà a morte i primogeniti Egiziani: Vèdebo sanguinem, et transibo vos, nec erit in vobis plaga disperdens (Esod. XII), non metteva forse innanzi agli occhi una figura della tanto maggior efficacia e virtù, che avrebbe il Sangue sparso dell’Agnello Divino? Videbo Sanguinem et transibo vos, diceva l’Eterno anche a noi, o ascoltanti dilettissimi, a noi, a cui doveva essere condonata la morte eterna, ai nostri peccati dovuta. Videbo Sanquinem, et transibo vos, nec erit in vobis plaga disperdens, ripetea pura noi, che pel Sangue di Gesù Cristo dovevamoandar franchi da tante miserie, e castighi temporali. Sì, non altro che ombre, figure, abbozzi eran quelli, con che Iddio rappresentava il Figliuol suo, qual già appariva fin d’allora alla sua mente tutto sanguinoso, Vestitus … veste aspersa sanguine (Apoc. XIX); ma ombre, figure, abbozzi, che ben danno a vedere le grandi cure che prendevasi l’Eterno Padre di questa grande effusione di Sangue fin dall’eternità, e come dai tempi più remoti la vagheggiasse in mente formandone sue delizie a compimento dei sublimi suoi disegni. E però che fate voi, o ascoltanti, quando venite a riandar nel vostro pensiero la gran cosa, ch’è questo Sangue, in questo mese ad esso consacrato, se non occuparvi di ciò, a cui era volta con tanto studio ed amore la mente del Divin Padre? Che fate voi, quando prestate ossequj a questo Sangue, se non onorare ciò ch’Egli apprezzava cotanto, e cotanto onorava ? E vi par egli, che a Dio non torni assai gradito un siffatto pio esercizio, sì tenera divozione? Quanto poi una sì tenera devozione è pur cara a Gesù Cristo stesso! Chi dubitar ne potrebbe? Il suo desiderio più ardente fu appunto di versare il Sangue per la salute dell’umano genere. A questo già anelava quando incarnandosi nel purissimo seno di Maria veniva di Sangue riempiendo le vene. Ed appena poi nato affrettavasi nella Circoncisione a spargerne le prime stille, che erano il preludio di quel molto, che un dì avrebbe versato e nell’Orto, e nel Pretorio e in sul Calvario. Ed in seguito? Egli non visse, e non respiro che per la croce; egli non fè che parlar di battesimo di Sangue: Baptismo habeo baptizari, et quomodo coarctor, usquedum perficiatur? (Luc XII)). ed avvicinandosi l’ora della sua passione, non può più contenerei suoi ardenti desiderj, e bisogna che li manifesti con quelle celebri parole: Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar (S. Luc. XXII). Ed allorché poi tutto appar sanguinoso sotto la fiera tempesta dei flagelli, e Sangue in gran copia glicavan le spine, che trafiggongli il capo, e rivi di Sangue mandano e mani e piedi trapassati da chiodi, si lamenta fors’Egli di sì barbara crudeltà? Ah! no, miei cari uditori. Qual agnello mansueto sotto le forbici di chi lo tosa non manda un lagno, perché Egli da sé volenteroso a tanto patir si assoggetta, Oblatus est, quia ipse voluit (Is. LIII); perché vede così finalmente compiute le sue brame, ed operata la redenzione. Onorate pur dunque con pie considerazioni ed ossequj il Sangue di Gesù Cristo, e siate sicuri, di dar gusto al suo cuore, tanto più ch’Egli stesso ve lo raccomanda. Hoc facite in meam commemorationem, (S. Luc. XXII) Ei disse, instituendo  lasciandovi la santa Eucaristia: voleva cioè, che voi aveste: memoria della sua acerba passione, della sua morte dolorosa e del Saugue sparso nella medesima. Questo ha caro, di questo vi fa anzi un precetto. Né a ciò voi potreste riuscir meglio, che considerando il suo Sangue Prezioso, di cui votate vi  furon le vene. Così mostrerete ancora la vostra tenera riconoscenza verso il così grande beneficio della redenzione, e verso un così amoroso benefattore. E siccome non vi ha cosa, che ributti tanto, quanto la sconoscenza; così non potrà non essere grandemente accetto a Gesù Cristo il vostro animo grato con queste significazioni di un intero mese. Ma perché vi tornino profittevoli i vostri ossequi, le vostre considerazioni intorno al Sangue di Gesù Cristo, fa d’uopo, che non sieno fatte in un modo qualunque, ma con uno sguardo della mente, che sia dapprima riflessivo. Più d’una volta facilmente vi venne fatto d’aver presente agli occhi qualche oggetto, e di vederlo direi quasi senza vedere, perché sopra pensiero, distratti di mente voi non vi ponevate alcuna riflessione. Che vi giovò allor quella vista? Nulla, affatto nulla, non essendo nessuna immagine chiara rimasta scolpita nella vostra mente a modo d’averne distinta conoscenza. Or applicate il medesimo al caso nostro. Che potrebbe giovarvi, o carissimi, il praticare il pio esercizio del mese di Luglio in onore del sangue di Gesù Cristo direi quasi per semplice usanza, e per tener dietro solamente agli altri, senza volgere attento lo sguardo della vostra mente ad esso nelle vostre considerazioni? Che potrebbe giovarvi venire ai sermoni, che si tengono in questa chiesa, e lasciar intanto passeggiar nella testa altri pensieri, e lasciarvi recare altrove dalla distrazione? Che vi gioverebbe lasciarvi tirar forse anche dalla passione a coltivar nella testa altri pensieri non del tutto innocenti, e forse anche peccaminosi? Ah! io vi dico adunque con le parole del profeta Geremia: Attendite, et videte. Non con occhio fugace tra pensieri vani che vi rubano la mente, ed a sé la legano, voi dovete contemplare Gesù tutto tinto del suo Sangue tenendo il modo di coloro che, vedendo non veggono: Videntes non vident. Ma dovete far tutto con guardo riflessivo. Allora succederà a voi ciò che avviene in contemplando una bellezza della natura, la quale se è suardata di proposito, rapisce: Attendite et videte. Ma non basta che nel vostro sguardo vi sia grande riflessione; bisogna che vi sia anche ripetizione di atti, senza di che non si otterrebbe un pieno effetto. Che fa uno che voglia conoscer bene una pittura, e rilevarne i pregi singolari che mano maestra vi sparse con arte sovrumana? Si contenta egli di mirarla una volta sola? O non piuttosto vi torna sopra con l’occhio più e più fiate, ben persuaso, che tutto il suo bello non gli si svela ad un tratto? Uno sguardo adunque ripetuto della vostra mente anche voi dovete, o ascoltanti, rivolgere al Crocefisso specialmente in questo mese; e quanto più sarà frequente la vostra contemplazione, più chiaro lume risplenderà alla vostra mente, e meglio sarà mosso a ben fare l’animo vostro: Recogitate, recogitate eum (Hebr. XII). Quali sono le api non solo più ricche di miele, ma del miele più scelto, e più squisito? Quelle senza fallo, che non vagabonde vanno qua e là aleggiano, ma che si posano più lungamente sui fiori, succhiandone i sapori più eletti. Volete voi lavorare nel vostro spirito atti di virtù gradevoli al cielo? Fermatevi con riflessionee più volte sul vostro Redentore grondante sangue … Recogitate, recogitate eum. Guardate: due sorte di spettatori trovavansi sulla cima del Calvario presenti al luttuoso dramma della crocifissione. Fuvvi chi con uno sguardo momentaneo mirava passando con un piglio indifferente; e fuvvi chi si diede a considerare a lungo gli strazi, e quel Sangue, che piovea a rivi da tante ferite, ad udire le voci, ad ammirare i prodigi, a contemplare i misteri del Redentore, che così dissanguato agonizzava. Qual fu il frutto, che ne colsero i primi? Nessun altro, che beffarlo, deriderlo, disprezzarlo aggiungendo ancora le più orribili bestemmie: Prætereuntes a blasphemabant cum, moventes capita sua (S. Matth. XXVII). Gli altri invece si sentivano tocchi nell’anima, e ritornarono ravveduti percuotendosi il petto. Omnis turba eorum, ecco le molto espressive parole dell’Evangelista, ommis turba corum, qui simul aderant ad spectaculum istud, et videbant quae fiebant, percutientes pectora sua revertabuntur (S. Luc. XXIII). Ah! Su adunque, che ciascuno di voi, o uditori, posandosi in questo mese sotto l’albero della Croce a considerare con molta frequenza Gesù grondante Sangue possa ripetere quelle parole della Cantica: Sub umbra illius, quem desideraveram, sedi, per poter poi cogliendone buon frutto soggiungere: Et fructus illius dulcis gutturi meo. Ma la vostra riflessione deve andare ancora più oltre, trasportandovi a discernere nel Sangue di Gesù Cristo il Sangue d’un Uomo – Dio, e penetrando fino al cuor suo per vederne gli affetti. Per l’unione ipostatica del Verbo, questo Sangue allora appare degno, che noi gli prestiamo culto di latria, che lo inchiniamo ed adoriamo con tutti gli onori, che si rendono alla Divinità: Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi, quia per sanctam Crucem tuam redimisti mundum. Chi poi mettendosi per quella via, che, trapassato il costato, aperse la lancia, e penetrando col guardo della mente insino al cuor del Crocifisso, non lo vedrà pieno d’immensa carità per noi? E qual cuore poi al vedere tanta carità d’un Uomo-Dio non si sentirà spinto anch’esso ad amare? Sia pur freddo e di ghiaccio ancora: ponendosi entro la ferita del costato accanto al cuor di Gesù, il così arde di amore, non potrà non fare a meno di accendersi, e d’infiammarsi tutto. In ultimo lo sguardo della vostra mente non deve andar disgiunto dallo sguardo del cuore, e del cuor ben disposto a trarne vero profitto, acciocché voi non siate nel numero di coloro di cui parla Ugone: Videntes oculo intellectus, non vident oculo affectus. Poco, o nulla gioverebbe infatti prestar un qualche ossequio al Sangue Prezioso di Gesù Cristo, e mettersi a considerarlo e meditarlo con la mente, quando il cuore è vizioso, e indifferente e avverso a Cristo. Come l’occhio della fronte viziato e debole non può vedere la luce del sole, così l’occhio dell’anima macchiato dai vizi non può ben vedere la luce bella, buona, e divina, che dalle ferite, donde sgorga il sangue di Cristo, si spande; Solem, nisi sanus, così S. Ambrogio, et vehemens oculus aspicîit, nec bonum potest videro. nisi anima bona (Ambr. de Iaac). Non può vedere con profitto nel Sangue di Gesù Cristo il bagno che monda le anime, un animo insozzato nel fango della terra, che di questo fango si delizia, e vi è ostinatamente attaccato con l’affetto. Non può conoscere ed imparare a suo pro nelle piaghe e nel Sangue di Gesù Cristo l’amore alla mortificazione ed alla tribolazione chi pensa solo a dilettare la carne con tante morbidezze, ed a secondarne le voglie scorrette. Non può, contemplando Cristo confitto ad una croce e tutto sanguinoso, apprendervi con giovamento il disprezzo del mondo chi da grande superbia lascia dominarsi, ed anela ognora a pompe e grandezze. Non può nel Sangue di Gesù Cristo sparso in sì gran copia trovare quell’ardentissima fiamma di carità, a cui scaldarsi, chi questo sangue rimira con disprezzo, chi lo bestemmia, chi lo calpesta con ogni sorta di peccato. Ah! tutti questi ben potranno vedere con l’occhio dell’intelletto, ma con l’occhio cuore, dell’affetto non veggono: Videntes oculo intellectus, non vident oculo affectus. Sia dunque ben disposto il vostro cuore; ed allora vi tornerà assai vantaggioso il dimorare col pensiero in sul Calvario ai piedi della croce. Come Pietro al vedere Gesù trasfigurato in tanta gloria sulle cime del Taborre non poté far a meno di esclamare: Bonum est nos hic esse; così vol, bonum est nos hic esse, esclamerete contemplando il Redentore grondante Sangue, edaggiungerete con Bernardo: Oh! quanto è buono,oh! quanto è giocondo, quanto è vantaggioso il dimorare noi qui col pensiero e con l’affetto: facciamqui tre tabernacoli, uno nelle piaghe dei piedi, unoentro le piaghe delle mani, un terzo nell’amoroso costato del Salvatore, dove ci sia dato riposare e vigilare: Faciamus hic tria tabernacula, unum in latere, ubi pedibus, unum in manibus, aliud.. in latere, ubi quiescere et vigilare. Ma parmi che sorga qui a dire una voce: dunque noi che siam peccatori, nessun profitto caveremo del Mese di Luglioin onore del Sangue Preziosissimo? E donde traete questa voi questa conseguenza? Ah! veniteci bendisposti, o peccatori, con Vero desiderio almeno di convertirvi, ed io vi so dire, che voi pure sperimenterete la virtù di questo Divin Sangue. Per voi anzi specialmente venne Gesù Cristo in terra a spargerlo. Pertanto io invito giusti, e peccatori, e così conchiudo il mio discorso di eccitamento a far ben questo Mese. Venite tutti, venite. Consideriamo tutti con guardo assai penetrante Gesù Cristo Figliuolo di Dio, prestiamogli il più riverente ossequio, adoriamo Lui, che col suo Sangue ci redense: Christum Dei filium, qui suo nos redemit Sanguine, venite, adoremus. Venite, o giusti, e fin da questa primasera esclamate contemplando Gesù Crocifisso: Salvete, o piaghe di Cristo, pegni d’immenso amore, da cui perenni rivi sgorgano di Sangue rosseggiante: salvete, Christi vulnera, immensi amoris pignora, quibus perennes rivuli manant rubentis sanguinis. Voi vincete in isplendore le stelle, le rose ed il balsamo nella fragranza. Voi avanzate in pregio le preziose pietre dell’Indie, e superate in dolcezza i favi di miele, Per voi è schiuso, alle nostre menti un gratissimo asilo. Qua entro non penetra giammai il furor dei nemici, che ne minacciano. Venite anche voi, o peccatori; o quanti da funeste macchie di delitti avete l’anima imbrattata: chi si lava in questo bagno di salute sarà mondato: Venite quotquot criminum funesta labes inficit: in hoc salutis balneo qui se lavat, mundabitur.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
1 Cor X:16
Calix benedictiónis, cui benedícimus, nonne communicátio sánguinis Christi est? et panis, quem frángimus, nonne participátio córporis Dómini est?

[Il calice dell’eucarestia che noi benediciamo non è forse comunione del sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo non è forse comunione col corpo di Cristo?]

Secreta

Per hæc divína mystéria, ad novi, quǽsumus, Testaménti mediatórem Jesum accedámus: et super altária tua, Dómine virtútum, aspersiónem sánguinis mélius loquéntem, quam Abel, innovémus.

[O Dio onnipotente, concedi a noi, per questi divini misteri, di accostarci a Gesù, mediatore della nuova alleanza, e di rinnovare sopra il tuo altare l’effusione del suo sangue, che ha voce più benigna del sangue di Abele.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Hebr IX: 28
Christus semel oblítus est ad multórum exhauriénda peccáta: secúndo sine peccáto apparébit exspectántibus se in salútem.

[Il Cristo è stato offerto una volta per sempre: fu quando ha tolto i peccati di lutti. Egli apparirà, senza peccato, per la seconda volta: e allora darà la salvezza ad ognuno che lo attende.]

Postcommunio

Orémus.
Ad sacram, Dómine, mensam admíssi, háusimus aquas in gáudio de fóntibus Salvatóris: sanguis ejus fiat nobis, quǽsumus, fons aquæ in vitam ætérnam saliéntis:

[Ammessi, Signore, alla santa mensa abbiamo attinto con gioia le acque dalle sorgenti del Salvatore: il suo sangue sia per noi sorgente di acqua viva per la vita eterna].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: LUGLIO 2022

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: LUGLIO 2022

…. Il suo desiderio più ardente fu appunto di versare il Sangue per la salute dell’umano genere. A questo già anelava quando incarnandosi nel purissimo seno di Maria veniva di Sangue riempiendo le vene. Ed appena poi nato affrettavasi nella Circoncisione a spargerne le prime stille, che erano il preludio di quel molto, che un dì avrebbe versato e nell’Orto, e nel Pretorio e in sul Calvario. Ed in seguito? Egli non visse, e non respiro che per la croce; egli non fè che parlar di battesimo di Sangue: Baptismo habeo baptizari, et quomodo coarctor, usquedum perficiatur? (Luc XII), ed avvicinandosi l’ora della sua passione, non può più contenerei suoi ardenti desiderj, e bisogna che li manifesti con quelle celebri parole: Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar (S. Luc. XXII). Ed allorché poi tutto appar sanguinoso sotto la fiera tempesta dei flagelli, e Sangue in gran copia gli cavan le spine, che trafiggongli il capo, e rivi di Sangue mandano e mani e piedi trapassati da chiodi, si lamenta fors’Egli di sì barbara crudeltà? Ah! no, miei cari uditori. Qual agnello mansueto sotto le forbici di chi lo tosa non manda un lagno, perché Egli da sé volenteroso a tanto patir si assoggetta, Oblatus est, quia ipse voluit (Is. LIII); perché vede così finalmente compiute le sue brame, ed operata la redenzione. Onorate pur dunque con pie considerazioni ed ossequj il Sangue di Gesù Cristo, e siate sicuri, di dar gusto al suo cuore, tanto più ch’Egli stesso ve lo raccomanda. Hoc facite in meam commemorationem, (S. Luc. XXII) Ei disse, instituendo  lasciandovi la santa Eucaristia: voleva cioè, che voi aveste memoria della sua acerba passione, della sua morte dolorosa e del Sangue sparso nella medesima.

[D. Massimiliano M. Mesini: Sermoni al Sangue Preziosissimo di Gesù Cristo per il mese di Giugno (poi Luglio) – Tip. Malvolti, RIMINI, 1884]

217

Fidelibus, qui mense iulio pio exercitio, in honorem pretiosissimi Sanguinis D. N. I. C. publice peracto, devote interfuerint, conceditur:

Indulgentia decem annorum quolibet mensis die;

Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione, sacra Communione et oratione ad mentem Summi Pontificis, si diebus saltem decem eidem exercitio adstiterint.

lis vero, qui præfato mense preces aliave pietatis obsequia in honorem eiusdem pretiosissimi Sanguinis privatim præstiterint, conceditur:

Indulgentia septem annorum semel singulis diebus;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem idem pietatis obsequium obtulerint; at ubi pium exercitium publice habetur, huiusmodi indulgentia ab iis tantum acquiri potest, qui legitimo detineantur impedimento, quominus exercitio publico intersint

(S. C. Indulg., 4 iun. 1850; S. Pæn. Ap., 12 maii 1931).

ORATIONES

218

0 Sangue prezioso di Gesù, prezzo infinito del riscatto dell’umanità peccatrice, bevanda e lavacro delle anime nostre, che proteggete continuamente la causa degli uomini presso il trono della suprema Misericordia, profondamente io vi adoro, e vorrei per quanto mi e possibile compensarvi delle ingiurie e degli strapazzi, che Voi ricevete di continuo dalle umane creature e specialmente da quelle, che ardiscono temerariamente di bestemmiarvi. E chi non benedirà questo Sangue di infinito valore? Chi non si sentirà infiammato d’affetto verso Gesù che lo sparse? Chi sarei io, se non fossi stato ricomprato da questo Sangue divino? Chi l’ha cavato dalle vene del mio Signore fino all’ultima stilla? Ah! questo è stato certamente l’amore. O amore immenso, che ci ha donato questo balsamo salutevolissimo! 0 balsamo inestimabile scaturito dalla sorgente di un amore immenso, deh! Fa’ che tutti i cuori, tutte le lingue ti possano lodare, encomiare e ringraziare adesso e per sempre. Amen.

Indulgentia quingentorum dierum (Pius VII, 18 oct. 1815; S. Pæn. Ap., 25 iun. 1932).

219

Eterno Padre, io vi offro il Sangue preziosissimo di Gesù Cristo in isconto dei miei peccati, in suffragio delle anime sante del purgatorio e per i bisogni di santa Chiesa.

Indulgentia quingentorum dierum.

Indulgentia trium annorum, si mense vertente iulio oratio recitata fuerit.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem oblationis actus elicitus fuerit (Pius VII, 22 sept. 1817; S. Pæn. Ap., 10 mart. 1933 et 3 apr. 1941).

220

I. Eterno Padre, io vi offro i meriti del Sangue preziosissimo di Gesù, vostro diletto Figlio e mio Redentore divino, per la propagazione ed esaltazione della mia cara Madre la santa Chiesa, per la conservazione e prosperità del suo Capo visibile il Sommo Pontefice Romano, per i Cardinali, Vescovi e Pastori di anime, e per tutti i Ministri del Santuario.

Gloria Patri. Sia sempre benedetto e ringraziato Gesù, che col suo Sangue ci ha salvato.

II. Eterno Padre, io vi offro i meriti del Sangue preziosissimo di Gesù, vostro diletto Figlio e mio Redentore divino, per la pace e concordia dei Re e dei Principi cattolici, per l’umiliazione dei nemici della santa Fede e per la felicità del popolo cristiano.

Gloria Patri. Sia sempre benedetto, ecc.

III. Eterno Padre, io vi offro i meriti del Sangue preziosissimo di Gesù, vostro diletto Figlio e mio Redentore divino, per il ravvedimento degli increduli, per l’estirpazione di tutte le eresie e per la conversione dei peccatori.

Gloria Patri. Sia sempre benedetto, ecc.

IV. Eterno Padre, io vi offro i meriti del Sangue preziosissimo di Gesù, vostro diletto Figlio e mio Redentore divino, per tutti i miei parenti, amici e nemici, per gl’indigenti, infermi e tribolati, e per tutti quelli, per cui sapete che io debbo pregare e volete che io preghi.

Gloria Patri. Sia sempre benedetto, ecc.

V. Eterno Padre, io vi offro, i meriti del Sangue preziosissimo di Gesù, vostro diletto Figlio e mio Redentore divino, per tutti quelli, che quest’oggi passeranno all’altra vita, affinché li liberiate dalle pene dell’inferno e li ammettiate con la maggior sollecitudine al possesso della vostra gloria.

Gloria Patri. Sia sempre benedetto, ecc.

VI. Eterno Padre, io vi offro i meriti del Sangue preziosissimo di Gesù Cristo, vostro diletto Figlio e mio Redentore divino, per tutti quelli che sono amanti di sì gran tesoro, per quelli che sono uniti con me nell’adorarlo ed onorarlo e per quelli in fine che si adoprano nel propagarne la devozione.

Gloria Patri. Sia sempre benedetto, eco.

VII. Eterno Padre, io vi offro i meriti del Sangue preziosissimo di Gesù, vostro diletto Figlio e mio Redentore divino, per tutti i miei bisogni spirituali e temporali, in suffragio delle sante anime del purgatorio, e specialmente di quelle che sono state più devote del prezzo della nostra redenzione e dei dolori e delle pene della nostra cara Madre Maria santissima.

Gloria Patri. Sia sempre benedetto, ecc.

Viva il Sangue di Gesù adesso e sempre e per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Indulgentia trium annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo oblationis actus per integrum mensem quotidie reiteratus fuerit (Pius VII, 22 sept. 1817; S. Pæn. Ap., 12 maii 1931).

221

Domine Iesu Christe, qui de caelis ad terram de sinu Patris descendisti et Sanguinem tuum pretiosum in remissionem peccatorum nostrorum fudisti: te humiliter deprecamur, ut in die iudicii ad dexteram tuam audire mereamur: Venite benedicti. Qui vivis et regnas in sæcula sæculorum. Amen (ex Missali Rom.).

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidiana orationis recitatio in integrum mensem producta fuerit (S. Pæn. Ap., 22 nov. 1934).

222

Omnipotens sempiterne Deus, qui unigenitum Filium tuum mundi Redemptorem constituisti, ac eius Sanguine placari voluisti: concede quæsumus, salutis nostræ pretium solemni cultu ita venerari, atque a præsentis vitae malis eius virtute defendi in terris, ut fructu perpetuo lætemur in cælis. Per eumdem Christum Dominum nostrum. Amen (ex Missali Rom.).

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, oratione quotidie per integrum mensem devote repetita (S. Pæn. Ap., 15 iul. 1935).

Queste sono le feste del mese di Luglio 2022:

1 Luglio Pretiosissimi Sanguinis Domini Nostri Jesu Christi    Duplex I. classis

PRIMO VENERDI’

2 Luglio In Visitatione B. Mariæ Virginis    Duplex II. classis *L1*

PRIMO SABATO

                    Commemoratio: Ss. Processi et Martiniani Martyrum

3 Luglio Dominica IV Post Pentecosten  – Semiduplex Dominica minor

5 Luglio S. Antonii Mariæ Zaccaria Confessoris    Duplex

7 Luglio Ss. Cyrilli et Methodii Pont. et Conf.    Duplex

8 Luglio S. Elisabeth Reg. Portugaliæ Viduæ    Semiduplex

9 Luglio Sanctae Mariae Sabbato    Simplex

10 Luglio Dominica V Post Pentecosten    Semiduplex Dominica minor *I*

               Ss. Septem Fratrum Martyrum, ac Rufinæ et Secundæ Virginum et Martyrum    Semiduplex

11 Luglio S. Pii I Papæ et Martyris    Feria

12 Luglio S. Joannis Gualberti Abbatis  –  Duplex

13 Luglio S. Anacleti Papæ et Martyris  –  Semiduplex

14 Luglio S. Bonaventuræ Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris  – Duplex

15 Luglio S. Henrici Imperatoris Confessoris  –  Semiduplex

16 Luglio Beatæ Mariæ Virginis de Monte Carmelo  – Feria

17 Luglio Dominica VI Post Pentecosten  –  Semiduplex Dominica minor

       S. Alexii Confessoris    Simplex

18 Luglio S. Camilli de Lellis Confessoris  – Duplex

19 Luglio S. Vincentii a Paulo Confessoris  –  Duplex

20 Luglio S. Hieronymi Æmiliani Confessoris  – Duplex

21 Luglio S. Praxedis Virginis    Feria

22 Luglio S. Mariæ Magdalenæ Pœnitentis –  Duplex *L1*

23 Luglio S. Apollinaris Episcopi et Martyris   – Duplex

24 Luglio Dominica VII Post Pentecosten –  Semiduplex Dominica minor *I*

              S. Christinæ Virginis et Martyris    Simplex

25 Luglio S. Jacobi Apostoli    Duplex II. classis

              Commemoratio: S. Christophori Martyris

26 Luglio S. Annæ Matris B.M.V.    Duplex II. classis

27 Luglio S. Pantaleonis Martyris    Feria

28 Luglio Ss. Nazarii et Celsi Martyrum, Victoris I Papæ et Martyris ac Innocentii  I Papæ et Confessoris    Duplex

29 Luglio S. Marthæ Virginis    Duplex

30 Luglio S. Abdon et Sennen Martyrum    Feria

31 Luglio Dominica VIII Post Pentec. I. Augusti –  Semiduplex Dom. minor *I*

        S. Ignatii Confessoris  – Duplex majus

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA SECONDO LA COSTITUZIONE PASTOR ÆTERNUS

P. Andrea Oddone s. j.

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA SECONDO LA COSTITUZIONE PASTOR ÆTERNUS

S. E. I. MILANO, – 1937

IMPRIMI POTEST

P. Josephus Peano, Præp Prov. Faur., Sol.

Die VII Aprilis MCMXXXVII

Nihil obstat quominus imprimatur

Sac. Carolus Figini, Cens. Eccles.

IMPRIMATUR

In Curia Arch. Medio]; die IV Maii MCMXXXVII

+. P. Castiglioni, Vic. Generalis

INTRODUZIONE

Pio IX apriva solennemente il Concilio Vaticano l’8 Dicembre del 1869, e per le dolorose circostanze della presa di Roma, lo sospendeva il 20 Ottobre con la Bolla Postquam Dei munere. (A.Oppone: Concili-ecumenici e vicende del Concilio Vaticano). Il Concilio promulgò due Costituzioni dogmatiche importantissime, che sono tra i più insigni documenti del Magistero straordinario della Chiesa: la Dei Filius e la Pastor Æternus. Za prima condanna le dottrine razionaliste intorno a Dio, alla creazione, alla rivelazione, alla fede e ai rapporti tra fede e ragione. – « Questa Costituzione, scriveva il Card. Manning, è l’affermazione più larga e più ardita del soprannaturale e spirituale, che si sia mai gettata sino al presente in faccia al mondo ». Fu votata all’unanimità il 24 Aprile del 1870 e approvata solennemente dal Papa. – La seconda determina e dichiara la dottrina rivelata riguardante la podestà pontificia. Fu animosamente discussa con la più ampia libertà, fu oppugnata e tenacemente contrastata sopra alcuni punti, sino all’ultimo, da una minoranza battagliera, e usciva infine vittoriosa il 18 Luglio con. 532 placet, e soli 2 non placet.

Il Concilio Vaticano verrà ricordato e apprezzato sopra tutto per la definizione dell’infallibilità pontificia, con la quale restaurò negli animi il principio di autorità scosso dal razionalismo, senza degenerare in oppressione delle legittime libertà. « L’autorità del Romano Pontefice, diceva Pio IX concludendo quel grande dibattito, non opprime, ma solleva; non rovina, ma edifica, e spesso conferma la dignità, riunisce nell’amore e difende i diritti dei fratelli ».

Presento agli studenti dell’Università Cattolica del S. Cuore una breve analisi della Costituzione Pastor Æternus. Spero in tal modo di colmare qualche lacuna delle mie lezioni e di invogliare, anche mediante riferimenti bibliografici, a studi più profondi intorno a questo argomento, che mira a promuovere sempre più l’attaccamento e la devozione della coscienza cristiana al Romano Pontefice.

P. ANDREA ODDONE S. J.

Professore nell’ Università Cattolica del S. Cuore

I.

RELAZIONE TRA CRISTO E LA Chiesa.

La Costituzione Pastor Æternus consta di un breve prologo e di quattro capitoli. Nel prologo si accenna in generale all’istituzione divina della Chiesa, alla sua natura e al suo scopo. I dottori cattolici, i Padri della Chiesa, i teologi, gli asceti, hanno scrutate le Scritture e la Tradizione per conoscere il posto che Gesù Cristo occupa nel piano divino. Essi hanno sopprattutto studiato S. Paolo, che nelle sue magnifiche Lettere parla così frequentemente e così entusiasticamente di Cristo, e ci dà la più alta idea della pienezza della sua perfezione e della eccellenza della sua missione. « Egli, dice l’Apostolo, è l’immagine di Dio invisibile, generato prima di ogni creatura, poiché in Lui tutte le cose furono create, e quelle che sono nel cielo e quelle che sono sulla terra, le cose visibili e le cose invisibili, e i Troni e le Dominazioni e i Principati e le Potestà. Tutto è stato creato da Lui e per Lui; ed Egli è prima di tutte le cose, e ogni cosa sussiste in Lui. Egli è il capo del corpo, che è la Chiesa, come è il principio, il primogenito di tra i morti, affinché tenga in ogni cosa il primato. Poiché a Dio piacque di fare abitare in Lui tutta la pienezza, e riconciliare per mezzo suo tutte le cose » (Coloss., cap. 1, 15-20). Queste sublimi parole di S. Paolo delineano magistralmente la trascendenza divina di Gesù Cristo, il suo dominio e il suo influsso sopra tutta la creazione. Tutto si riferisce a Lui come a modello, a salvatore, a capo. (Pratt.: Teologia di S. Paolo, Vol. 1, pag: 278: « Il primato di Cristo ») Egli è il perno, l’asse di rotazione, il centro di tutta la storia; attorno a Lui si aggira il mondo morale come il mondo fisico si aggira attorno al sole. Egli comprende tutte le epoche, dirige e modera tutti gli avvenimenti, che senza di Lui non si possono pienamente spiegare, perché, secondo il motto di Tertulliano, Gesù Cristo è la soluzione di ogni questione, la chiave di ogni mistero religioso e profano: Omnis quæstionis solutio est Christus. Gesù Cristo è il principio di ogni armonia nell’universo, è la pace tra il cielo e la terra, è il bacio di Dio con la creatura, dice eloquentemente Vito Fornari: a Lui tutto deve far capo, tutto deve servire a Lui, alla sua gloria. (Vita di Gesù Cristo, Proemio, pag. 27). L’attento e imparziale filosofo della storia scorge facilmente la conferma di questa verità nello svolgersi delle vicende puramente profane, che senza di Gesù Cristo sono per lui come un libro da cui si toglie il principio e il fine. Ma nella storia religiosa e nella storia della Chiesa il fatto è di una evidenza impressionante. Cristo è soprattutto il fondamento incrollabile, l’anima e il compendio di tutto l’edificio religioso. Tutta la teologia s’ impernia in Lui e in Lui si sintetizzano tutti i dogmi. Egli è il fonte unico di ogni grazia, il maestro unico degli uomini, l’unica via di salvezza per il genere umano. Gesù Cristo è come un faro, che attira gli sguardi dell’umanità tutta intera. Domina i secoli che hanno preceduto la sua venuta: l’Antico Testamento è ripieno di Lui, è tutto un’ombra, una figura, una profezia del Messia futuro; Il Nuovo Testamento è la luce vivida del sole atteso, è la realtà, è la storia della vita umana e mortale di Gesù Cristo in mezzo a noi. Dopo la sua morte sul Calvario, Gesù Cristo vive di una vita personale e trionfante in cielo, di una vita mistica, ma reale, nell’Eucaristia, di una vita provvidenziale nella società umana, di una vita soprannaturale nella Chiesa, che è l’opera sua più grande e meravigliosa. (Jesus Christus heri et hodie; ipse et in sæcula. – S. Paolo; Heb., XIII, 8).

* * *

Gesù Cristo è fondatore immediato della Chiesa, cioè di quella società di Cristiani uniti dalla professione della medesima fede e dalla comunione degli stessi Sacramenti, e governati dal Papa e dai Vescovi. E quando si dice che Cristo fondò immediatamente la Chiesa non si vuole significare che Egli con la sua dottrina e con la sua condotta abbia soltanto suscitato un movimento religioso, che poi per evoluzione naturale provocò la formazione della Chiesa, o che abbia semplicemente dato ad altri la potestà di fondarla, ma che di fatto. Egli stesso determinò la natura della Chiesa, cioè i suoi elementi essenziali e la sua forma specifica. – I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le Lettere di S. Paolo e degli altri discepoli, sono i documenti autentici e oggi incontestati; almeno per la vera scienza, dove si legge la storia dell’origine della Chiesa. Da questi documenti risulta chiaramente che la formazione della Chiesa è la prima e, quasi oserei dire, la principale preoccupazione di Gesù Cristo. Nella creazione soprannaturale della Chiesa possiamo distinguere due periodi, l’uno di preparazione, l’altro di organizzazione propriamente detta. Gesù esprime nettamente il pensiero e il proposito di volere fondare una società distinta e separata dalla Sinagoga giudaica. A Simone muta il nome in quello di Pietro, o meglio di Petra, e promette che sopra di lui innalzerà un nuovo edificio: « Tu sei Pietro, e sopra questa Pietra (sopra di te Pietra) edificherò la mia Chiesa ». (Matt. XVI, 18). La promessa fu solennemente fatta da Cristo nella sua qualità di Messia e di Figlio di Dio, ed ebbe una qualche relazione remunerativa per Pietro, che aveva pubblicamente affermato la divinità di Cristo; la promessa fu assoluta, non condizionata. Anche se mancassero altre prove, potremmo dunque legittimamente conchiudere che Cristo deve aver mantenuto la promessa. (Batiffol: La Chiesa nascente, pag. 94-113. — TANQUEREY: De Ecclesia, p. 613, nota). E l’idea sociale della nuova istituzione si ripete sotto altre forme non meno evidenti. Gesù vagheggia un ovile, una casa, una famiglia, una città, un regno. Specialmente l’idea di regno è quella che domina nella predicazione di Gesù. Egli è venuto a stabilire il regno di Dio, il regno dei cieli; attorno al tema di questo regno si aggira il suo insegnamento per un triennio; a questo regno ritorna ancora il suo pensiero negli ultimi colloqui che tiene con i discepoli. E in tutte queste figure e immagini è sempre l’idea sociale che si afferma in modo chiaro, sempre qualche cosa di visibile e di esterno, che deve attuarsi primieramente quaggiù in mezzo agli uomini. (Oddone: La Costituzione sociale della Chiesa, pag. 74). Per innalzare l’edifizio mistico della sua Chiesa, Gesù, come un abile architetto, incomincia a raccogliere i materiali, cioè a scegliere alcuni suoi discepoli, che dovranno essere il fondamento e le colonne dell’edifizio. « E chiamò a sé quelli che egli volle… e ne stabilì dodici che stessero con lui ». (Marco, III, 14. — Cf. Etudes, Anno 1916, Vol. 148-149: Jésus et son oeuvre éducatrice, pag. 51). I dodici non solo dimoravano con Gesù, ma lo accompagnavano dappertutto nelle sue missioni: « E Gesù percorreva le città e i villaggi annunziando la lieta novella del regno di Dio, e lo accompagnavano i Dodici ». (Luca; VIII, 1) Gesù li vuole vicini a sé, specialmente quando compie i suoi miracoli, perché i suoi miracoli insieme con le sue affermazioni, costituiscono la grande prova della divinità della sua missione. Avendoli abitualmente in sua compagnia, Gesù può compiere sopra i Dodici una speciale opera educatrice e impartire ad essi una cultura più intensa. A loro tiene particolari esortazioni, e per loro ha spiegazioni complementari e rivelazioni dei suoi più sublimi misteri. « Parlava alle folle in parabole, dice S. Marco; ma in disparte spiegava poi ogni cosa ai suoi discepoli ».(Marco, IV, 33) Li ammaestra intorno alle più importanti virtù; li adopera in particolari mansioni; promette loro l’ufficio di giudici; li informa separatamente della sua passione e morte e mangia con loro la Pasqua. (FONTAINE: L’Eglise ou le Christianisme vivant, pag. 35). – Al periodo di preparazione tiene dietro il periodo di attuazione. La società è « l’unione stabile di più individui che tendono di comune accordo ad uno stesso fine ». Non ogni moltitudine di uomini quindi costituisce la società, ma solo quella che cospira in modo stabile allo stesso fine. Questa costante cospirazione o tendenza di molti, risulta da alcuni vincoli, che uniscono le volontà e gli sforzi della moltitudine, tra i quali tiene il primo posto l’autorità. Perciò la materia della società è la moltitudine, la forza sono i vincoli e principalmente l’autorità, l’autore è colui che ponendo i vincoli unisce la moltitudine. Ora Gesù Cristo unì e associò i suoi seguaci con un triplice vincolo, cioè con la professione della stessa fede, con i medesimi riti e con lo stesso governo: un vincolo simbolico, un vincolo liturgico, un vincolo gerarchico. A tutti impose la professione della stessa fede: « Andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura: chi crederà e sarà battezzato sarà salvo; chi non crederà sarà condannato ». (Marco, XIV, 15) Per tutti stabilì la comunione degli stessi riti, specialmente del Battesimo e dell’Eucaristia: « Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo. Nessuno se non nasce per acqua e Spirito, può entrare nel regno dei Cieli. (Marco, XIV, 15) — Il pane che io darò, è la mia carne per la vita del mondo. Se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo e non berrete il suo sangue, non avrete in voi la vita ». (Giovanni, VI, 52.) Tutti sottopose allo stesso governo, perché ai soli Apostoli, ai quali aveva innanzi promessa la facoltà di legare e di sciogliere, affida la podestà di predicare, di battezzare, di governare e di assolvere. (Matteo, XVIII, 18. — Matt., XXVIII, 19) Inoltre al solo Pietro dà l’incarico di pascere le sue pecorelle. (Giov., XXI, 15). Se creare una società significa raccogliere un gruppo, un corpo di persone, ordinarle tra loro e destinarle ad uno scopo, dar loro una legge e un capo e determinati mezzi di che devono valersi per raggiungere l’intento; allora la Chiesa è evidentemente opera di Cristo. Egli attrasse a sé alcuni pescatori della Galilea, li formò alla sua scuola, trasfuse in essi il suo spirito e diede loro l’incarico di predicare, di presiedere, di dirigere, di condurre le anime al cielo con il soccorso della sua grazia, di continuare insomma la sua missione. Ecco la piccola società di Gesù, la Chiesa, con la sua forma gerarchica nella quale sono bene designate e messe in rilievo le parti dell’autorità. In essa vi sono maestri e vi sono discepoli; vi sono pastori e vi sono pecorelle; vi sono governanti e vi sono governati. Non alla moltitudine, ma a pochi fu detto: Andate, ammaestrate, insegnate le cose che Io ho insegnate a voi, battezzate. Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me. Queste testimonianze del Vangelo già così chiare di per sé, sono avvalorate e confermate dalla interpretazione autentica e non interrotta degli Apostoli e di tutti i secoli cristiani. Gli Atti e le Lettere degli Apostoli ci dicono che si costituì subito, sino dal principio del Cristianesimo, la Chiesa, cioè una moltitudine di chiamati, con un fine determinato, fornita di speciali mezzi, governata da un’autorità istituita da Cristo. I primitivi Cristiani, infatti, attendono alla santificazione delle anime per mezzo dell’esercizio della Religione cristiana. Ai Giudei che domandano a Pietro che cosa devono fare, egli risponde: « Fate penitenza e si battezzi ciascuno di voi nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; e riceverete il dono dello Spirito Santo ». (Atti, II, 37). Viene descritta nei più interessanti particolari la vita della nuova società. « Erano assidui alle istruzioni degli Apostoli e alla comune frazione del pane e all’orazione… E ogni giorno trattenendosi lungamente tutti d’accordo nel tempio, e spezzando il pane per le case, prendevano cibo con gaudio e semplicità di cuore, lodando Dio ed essendo ben veduti da tutto il popolo. Il Signore poi aggiungeva alla stessa Società ogni giorno gente, che si salvasse ». (Atti, VI, 43.). La società è retta dall’autorità degli Apostoli, che dicono espressamente di avere ricevuto da Dio autorità sui fedeli, di predicare la parola di Dio, per comando di Cristo e si chiamano ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio. ((I Cor., 4) « È Gesù Cristo stesso, dice S. Paolo, che alcuni costituì Apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri pastori e dottori… affinché non siamo più fanciulli, sbalzati e portati qua e là da ogni vento di dottrina per la malizia degli uomini e per la loro abilità nello spargere l’errore. » (Efes, IV, 11). Gli Apostoli attribuiscono esplicitamente a Cristo l’istituzione della Chiesa. Essi insegnano che i fedeli formano « una casa spirituale » edificata « sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, con Gesù Cristo stesso come pietra maestra angolare »; (I Pierro, II, 4. — Efes., Il, 20) che Cristo è « capo supremo della Chiesa, la quale è il suo corpo, il complemento di Lui »; (Efes.,.1, 22) che Cristo acquistò la Chiesa « con il suo sangue »; (Atti, XX, 28.) che la Chiesa è la sposa di Cristo, da lui amata, per la quale diede se stesso, « a fine di santificarla e farla comparire davanti a sé  rivestita di splendore ». (Efes., V, 25). Non sono dunque gli avvenimenti politici abilmente sfruttati che abbiano dato origine alla società della Chiesa, così fortemente organizzata sino dai primi giorni della sua esistenza. Essa è già nelle pagine divine del Nuovo Testamento, che rispecchiano esattamente le idee e i voleri di Cristo: essa è opera diretta di Cristo. – Il Concilio Vaticano asserisce solennemente che « il Pastore eterno e il Vescovo delle anime nostre, per rendere perpetua l’opera salutare della sua redenzione, decretò di edificare la Santa Chiesa, nella quale, come nella casa del Dio vivente, tutti i fedeli si mantenessero uniti con il vincolo di una sola fede e di un solo amore ». Lo stesso Concilio riprende coloro che « pervertono la forma di governo costituita da Cristo nella sua Chiesa ». E precedentemente, nella Costituzione De fide, aveva già detto che « affinché noi possiamo soddisfare al dovere di abbracciare la vera fede e di perseverare in essa costantemente, Dio mediante il suo Figlio Unigenito istituì la Chiesa ». (Anzi nel Concilio Vaticano si era già preparata una definizione a questo riguardo. Il che chiaramente significa quale fosse la mente dei Padri del Concilio.). Nel Decreto Lamentabili viene esplicitamente condannato l’errore del Loisy: « Fu alieno dalla mente di Cristo il costituire la Chiesa come società che dovesse durare sulla terra una lunga serie di anni ». (DENZINGER, n. 2052. — CAVALLERA, THESAURUS., N. 309. — Enciclica « Pascendi ». — DENZINGER, N. 2091) Nel Giuramento antimodernista si professa la stessa verità: « Credo fermamente che la Chiesa fu prossimamente e dirittamente istituita dallo stesso Cristo vero e storico ». L’affermazione quindi che Cristo sia autore immediato della Chiesa è storicamente certa e dogmaticamente di fede. Avvertiamo tuttavia che con questo non intendiamo dire che Cristo abbia formato con le sue mani tutte le ruote dell’organismo, che abbia istituiti tutti gli uffici, che la Chiesa avrebbe disimpegnato nel corso dei secoli per adattarsi ai diversi bisogni della società: ma diciamo che ha incaricato gli Apostoli di continuare la sua missione, di predicare la sua dottrina, di applicare alle anime per mezzo dei Sacramenti l’efficacia della sua Redenzione, e che per tutti i secoli li ha investiti di poteri sufficienti per bastare a tutte le esigenze. La Chiesa deriva da Gesù Cristo come l’albero dalla radice, come il fiume dalla sorgente viva e perenne: la Chiesa è l’espansione dello spirito di Gesù in una forma visibile, di cui Egli stesso in molti e vari modi ha dato lo schema e le linee essenziali. (Dieckmann: De Ecclesia, Vol. II, 223).

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Gesù Cristo ha con la Chiesa la relazione di autore e fondatore divino; ma ben diversa dalla relazione di un fondatore di una società umana. L’autore di una società puramente umana, scomparendo dalla scena del mondo, abbandona l’opera sua, e viene spezzato il vincolo giuridico con la società da lui fondata. Forse rimane in qualche modo nei suoi seguaci l’indirizzo che egli ha dato; ma alla sua morte cessa ogni relazione di fondazione. Nessuna società meramente umana sfugge a questa sorte; sono perciò scomparse le società politiche antiche, le false sette religiose e le scuole dei sapienti della Grecia. – La Chiesa cattolica per volontà assoluta ed efficace di Cristo deve invece essere universale e perenne. Questa volontà di Cristo importa una seconda relazione di Cristo con la sua Chiesa, cioè una relazione di assistenza e di presidio perenne, affinché la Chiesa in mezzo a gravissimi pericoli e a lotte continue non solo rimanga sino al termine dei secoli, ma adempia con ogni fedeltà i suoi uffici. « Poiché conveniva, dice Leone XIII, che la missione divina di Cristo fosse perenne, Egli si aggregò dei discepoli della sua dottrina e li fece partecipi del suo potere; e avendo sopra di essi chiamato lo Spirito Santo, comandò loro di percorrere tutta la terra, predicando fedelmente quanto Egli aveva insegnato e comandato, nell’intento che tutto il genere umano potesse conseguire la santità in terra e la felicità sempiterna nel cielo. » (Enciclica. « Satis cognitum ».). – La perennità della Chiesa significa che essa rimarrà sino al termine dei secoli; la indefettibilità indica inoltre che non muterà sostanzialmente in sé, che sarà sempre come Cristo l’ha stabilita, che non verrà mai meno alla missione che le fu affidata. Gesù Cristo ha detto ai suoi Apostoli che le porte dell’inferno non prevarranno contro la Chiesa e che Egli sarà con loro fino alla consumazione dei secoli. (Matt., XXVIII, 20.) Sono espressioni che nei Libri Santi rappresentano una protezione sicura e invariabile di Dio. Quindi nessuna violenza, nessuna seduzione, nessun vizio, nessun errore, potrà mai nuocere agli Apostoli e ai loro successori, nell’insegnare in virtù del loro magistero, nell’amministrare i Sacramenti in virtù del loro ministero. Gesù sarà sempre con il potere insegnante, sarà sempre con il potere santificante, e né l’uno e né l’altro potranno mai venir meno o variare, in mezzo ai pericoli, che vengono dalla violenza esteriore, che nascono dall’incomprensione o dal falso zelo dei discepoli, o che sono creati dall’orgoglio e dalle passioni. (Ollivier: L’Eglise: sa raison d’étre, pag. 106). Lo stesso Gesù Cristo promette ai suoi Apostoli l’assistenza dello Spirito Santo: « Io pregherò il Padre e vi darà un altro Avvocato, affinché rimanga per sempre con voi, lo Spirito di verità, che il mondo non può ricevere ». (Giovanni: XIV, 16) Se la Chiesa non fosse indefettibile, non sarebbe vero che lo Spirito Santo le fu dato sino alla fine dei tempi, per stabilirla incrollabilmente nella verità e nella santità. – Sono eloquentissime le testimonianze dei Padri a questo riguardo. « Non allontanarti dalla Chiesa, dice S. Giovanni Crisostomo, perché nulla vi è più forte della Chiesa. La tua speranza è la Chiesa: essa è più alta del cielo, più vasta della terra. Non invecchia mai, ma è sempre giovane ». (Hom. « De capto Entropio », n. 6.). E S. Agostino scrive: « Fino a tanto che durerà il volgere dei secoli, non verrà meno la Chiesa di Dio o il Corpo di Cristo sulla terra…. Verrà meno la Chiesa se verrà meno il fondamento: ma come può mai venir meno Gesù Cristo? Non declinando Cristo neppure la Chiesa declinerà in eterno ». (In Psalm. LXXI, n. 8. — Enarratio in Ps. CIII, Serno II, n. 5).

La Chiesa fu istituita per la salvezza degli uomini, per indicare loro la via del cielo e somministrare loro i mezzi. Se essa non fosse indefettibile, se essa potesse variare cambiando dottrine e istituzioni, non sarebbe più la vera arca di salvezza. I fedeli dei diversi tempi muterebbero l’oggetto della loro fede e più non aderirebbero alla Chiesa fondata da Cristo.

Questo è l’insegnamento del Concilio Vaticano:

« Cristo volle che nella Chiesa vi fossero pastori e dottori sino alla consumazione dei secoli… e istituì un perpetuo principio di unità e di comunione; affinché sopra di esso si costruisse un tempio eterno ». (DENZINGER, D. 1821). Sino alla fine del mondo rimarrà quindi la Chiesa, rimarranno le sue funzioni e le sue potestà. Non si esauriranno mai i tesori della Chiesa e le sorgenti delle sue grazie; la Chiesa sarà sempre la colonna e il fondamento della verità; non andrà mai soggetta a mutazione la sua forma di governo. (Dieckmann: De Ecclesia. Vol. 225; n. 924.). Per questa ragione la Chiesa è veramente, come dice il Vaticano, « un perpetuo motivo di credibilità e un testimonio irrefragabile della missione divina di Cristo… uno stendardo levato in alto tra le nazioni… un sigillo della sua origine soprannaturale e divina ». Gesù Cristo non solo è autore della Chiesa, non solo la protegge continuamente, ma rimane sempre, anche dopo la sua Ascensione, il suo Capo vivo e vivificante, al quale essa è soggetta. Pietro e i suoi successori, infatti, sono soltanto Vicari di Cristo, non nel senso che non godano di una potestà propria, ma nel senso che qui in terra fanno le veci di Cristo, il vero e proprio Re e Capo della Chiesa, e nel suo Nome e con la sua autorità governano i fedeli cristiani. – Tra Gesù Cristo e la Chiesa esiste non solo una relazione morale e giuridica, ma anche una relazione più intima e più corrispondente. ai disegni divini e all’indole della Chiesa, una relazione cioè di perenne flusso vitale nella Chiesa, considerata come società religiosa santificatrice delle anime. S. Paolo, volendo illustrare questo concetto, ci presenta spesso la Chiesa come « corpo di Cristo ». Nella I Lettera ai Corinti dice: « Voi siete il corpo di Cristo e ciascuno poi individualmente, sue membra…. Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?».(Lettera I Cor., cap. XII, 27; cap. VI, 15) Scrivendo agli Efesini dice nuovamente: « Ed egli alcuni costituì apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri dottori e pastori, per rendere atti i santi all’opera di ministero, per l’edificazione del corpo di Cristo ». (Efes., IV, 1 segg. — Cf. .V, 23) E ancora nella Lettera ai Colossesi: « Egli è il capo del corpo che è la Chiesa ». (Coloss., I, 18). Questo modo di considerare la Chiesa come « corpo di Cristo » dopo S. Paolo, divenne comune non solo presso i SS. Padri e i Dottori, ma presso il popolo cristiano e si può dire la definizione cristiana della Chiesa, come osserva il Franzelin. (De Ecclesia, pag. 308). L’Apostolo, parlando della Chiesa come corpo di Cristo, non intende certamente il corpo di Cristo fisico,  formato da Maria Vergine per opera dello Spirito Santo, offerto per noi nel sacrificio del Calvario, presente anche adesso in terra nell’Eucaristia; né intende un corpo morale, con il qual nome viene designata qualunque società; ma lo considera in un senso speciale, che non si verifica in nessun altro organismo. Gesù Cristo è Capo vivificante della Chiesa suo Corpo. La vita che Egli comunica alla Chiesa è la vita soprannaturale, la vita della grazia e della filiazione divina, (Rom. VI, 1 segg., VIII, 1. — Tit, IV, 5), una vita quaggiù nascosta sotto il velo del mistero, ma che sarà poi manifestata in cielo. (1 Cor., XIII, 10; 27 Cor., IV, 16). Questa vita viene comunicata, secondo la volontà di Cristo, ai singoli uomini, come a membri del Corpo di Cristo, cioè della Chiesa. Da Cristo, Capo e fonte unico, discende quindi questa vita nell’organismo e si diffonde in tutte le parti; dalla pienezza di lui noi tutti riceviamo. Il fine della Chiesa perciò consiste nel rendere gli uomini partecipi dei frutti della Redenzione di Cristo e insieme nel formare con essi un organismo soprannaturale, quasi la famiglia di Dio, (Efes., II, 19; II, 6; III, 6.) anzi un corpo vivo, congiunto con il capo vivo « dal quale tutto il corpo ben fornito e ben compaginato per mezzo di giunture e di legamenti, riceve l’aumento di Dio ». (Coloss., II, 19: — Cf Efes, II, 21; IV; 15) A questo corpo e alla sua vita servono tutti i carismi e i ministeri, che Cristo diede alla sua Chiesa, la quale è la pienezza di Cristo. (1 Cor., XII. — Rom; XII. — Efes., IV, 11). Nel suo Vangelo Gesù Cristo aveva paragonato se stesso alla vite e i suoi discepoli ai tralci inseriti nella vite, dalla quale traggono il succo vitale. (Giov. XV, 1). S. Agostino commentando questo passo del Vangelo di S. Giovanni osserva: « Quando il Signore dice di essere Egli la vite e i discepoli i tralci, lo dice secondo che Egli è capo della Chiesa e noi siamo suoi membri… La vite e i tralci sono della stessa natura. Perciò essendo Dio, la cui natura noi non siamo, si fece uomo, affinché in esso fosse vite, cioè natura umana, della quale anche noi uomini possiamo essere tralci ». (Tract. in Jo., 80,1. — S. Tomaso, seguendo le orme dei Padri, trattò spesso e profondamente di questo tema nelle sue opere, e specialmente nella Somma Theol. (III q. 8) e nella questione De Veritate (q. 29 a. 4). Giustamente, quindi, la Chiesa è chiamata Corpo mistico di Cristo, cioè non fisico, non soltanto morale, né del tutto maturale, ma soprannaturale, il mistero cioè della Chiesa, della sua vita e della sua unione con Cristo. Questo concetto non solo ci fa meglio comprendere la natura della Chiesa, ma diffonde anche splendidissima luce sulle altre  dottrine della nostra fede, specialmente su quelle che concernono i sacramenti. (Dorsch: De Ecclesia, pag: 355.— Cf. Enciclica « Satis cognitum » di Leone XIII).

II.

IL PRIMATO DI S. PIETRO

La Chiesa è una società gerarchica, cioè una società ineguale, il cui potere fu conferito da Cristo non già a tutti i fedeli, ma al Collegio degli Apostoli e ai loro successori. (La società nella quale tutti i soci godono per riguardo all’autorità degli stessi diritti, in modo che nessuno possa esercitare l’autorità se non per delegazione degli altri, si dice uguale o democratica. Se invece il governo della società per uno speciale diritto appartiene ad uno o a più soci; si ha la società ineguale, la quale, se è sacra, si dice società gerarchica. La parola gerarchia etimologicamente considerata significa principato sacro o sacro impero: se si prende in astratto significa la stessa potestà sacra; in concreto denota la persona o il ceto di persone che tengono ed esercitano l’autorità. La società gerarchica può avere la forma aristocratica o monarchica.). Nella Chiesa quindi vi sono i sudditi e vi sono i capi, ma questi capi governano non per delegazione dei sudditi, ma per istituzione divina. Solo ai Dodici e ai loro successori legittimi, Gesù Cristo conferì i poteri, che Egli aveva ricevuti dal Padre, cioè il potere di dirigere, di santificare, d’insegnare. – Sorge ora la questione intorno alla forma di questa gerarchia ecclesiastica, cioè se la Chiesa per volere divino sia una società aristocratica, nella quale l’autorità somma risieda presso il Collegio degli Apostoli uguali tra di loro, oppure sia una società monarchica, in cui Cristo abbia designato un capo al Collegio Apostolico. Il Concilio Vaticano afferma che Gesù Cristo ha istituito la Chiesa in forma monarchica: « Insegniamo e dichiariamo, secondo la testimonianza del Vangelo, che il primato di giurisdizione su tutta la Chiesa di Dio, fu promesso e dato da Cristo Signore immediatamente e direttamente al beato Apostolo Pietro ». (Costituzione « Pastor afernus », cap. I) – Già S. Leone IX aveva rivendicato, contro Michele Cerulario (1053), i privilegi di Pietro. (DENZINGER, n. 351) Giovanni XXII aveva condannato (1327) la concezione oligarchica sostenuta da Marsilio da Padova nel suo Defensor pacis. Più tardi Innocenzo X fece censurare-come eretica dal S. Officio (24 gennaio 1647), una proposizione gallicana che tendeva a stabilire un’eguaglianza assoluta tra S. Pietro e S. Paolo. (DENZINGER, n. 1901) Ma era riservato al Vaticano di formulare a questo riguardo una definizione. –

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La parola « primato » indica in generale una qualunque preminenza. Si suole distinguere in modo speciale un triplice primato: il primato di onore, il primato di direzione o di ispezione e il primato di giurisdizione. Il primato di onore non importa alcuna autorità né  alcuna direzione, ma soltanto una mera precellenza di onore fondata in una certa equità. Colui che gode di questo primato viene nominato per il primo nelle assemblee, siede al primo posto e per il primo dice il suo parere, ma non influisce in alcun modo. nel reggere o nel dirigere, se non forse con il suo esempio. Il primato di direzione o di ispezione è privo anch’esso di ogni potestà veramente precettiva, ma non è limitato da confini soltanto onorifici. Benché infatti non diriga gli altri propriamente come sudditi, possiede tuttavia il potere di procurare che ogni cosa proceda convenientemente in un determinato affare. Questo primato compete per esempio nei Parlamenti ai Presidenti delle due Camere, che concedono o tolgono o restringono la facoltà di parola, stabiliscono l’ordine delle cose che devono trattarsi, pongono termine all’assemblea, reggono con la parola e applicando gli statuti, lo svolgersi di ,una seduta parlamentare. – Il primato di giurisdizione include una vera e suprema potestà di giurisdizione, alla quale tutti i soci sono tenuti ad ubbidire. Non è tuttavia contro la ragione di questo primato che vi siano nella stessa società altri membri forniti di vera e propria potestà di comandare, anzi la ragione del primato non richiede che questi altri veri superiori ricevano il loro potere dal capo supremo. La ragione del primato esige soltanto questo che colui che ne è investito, non abbia nella società nessuno superiore e nessuno pari, ma che tutti i soci, sia singolarmente sia collettivamente presi, a lui ubbidiscano come veri sudditi. – Il primato di cui parla il Vaticano non è altro quindi che la potestà di giurisdizione, estensivamente universale ed intensivamente somma, concessa immediatamente da Cristo a Pietro, di reggere e ammaestrare tutta la Chiesa. Più brevemente si potrebbe dire che il primato è la giurisdizione gerarchica monarchica. Si tratta perciò di un primato di governo, di un’autorità reale, esigente da tutti i membri della Chiesa, senza alcuna eccezione, non solamente la deferenza e il rispetto, ma anche la sottomissione propriamente detta, l’ubbidienza esteriore ed interiore. – Questo potere tuttavia, se implica l’unità di comando, non trae seco né la soppressione né l’assorbimento delle giurisdizioni secondarie, e nemmeno la centralizzazione di tutta l’amministrazione ecclesiastica.

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Avversari del primato sono dapprima tutti coloro che sostengono la costituzione democratica della Chiesa. Marsilio da Padova afferma che Pietro non ebbe maggiore autorità degli altri Apostoli né fu in alcun modo loro capo e che Cristo non lasciò nella Chiesa alcun suo vicario. (DENZINGER, n. 496.). I Protestanti collocano ogni autorità sacra nella comunità cristiana, nel popolo: ogni fedele è sacerdote. Gli Anglicani e gli Orientali separati ammettono la forma gerarchica della Chiesa, ma non monarchica: il primato fu concesso da Cristo a tutto il Collegio Apostolico: Pietro ebbe un primato soltanto di onore. I Giansenisti e i Gallicani ammettono il primato di Pietro, ma vogliono che gli sia stato conferito non direttamente e immediatamente dallo stesso Cristo, ma dalla Chiesa, in nome della quale Pietro ricevette la potestà. Secondo i Modernisti infine « Pietro non sospettò nemmeno che a lui fosse affidato da Cristo il primato sopra tutta la Chiesa », (DENZINGER, n. 2055). – Contro questi errori lancia la condanna il Vaticano, dopo avere esposta la dottrina cattolica: « Se qualcuno dice che il beato Pietro apostolo non fu costituito da Cristo Signore principe di tutti gli Apostoli e capo visibile di tutta la Chiesa militante, oppure che il medesimo Pietro ha ricevuto direttamente e immediatamente dallo stesso Gesù Cristo Signor nostro solamente un primato d’onore, e non di vera e propria giurisdizione, sia anatema ». (Pastor Æternus; cap. I). Bisogna quindi riconoscere a Pietro un primato effettivo e di diritto divino.

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PRIMATO DI Pietro NEL VANGELO. — Il Vangelo contiene con indiscutibile chiarezza la dottrina del primato di Pietro. Nel Vangelo Pietro occupa un posto privilegiato, emerge sopra gli altri Apostoli ed è messo in evidenza in tutte le occasioni importanti. Da Gesù egli riceve un nome simbolico: «Tu sei Simone, figlio di Giuda. Ti chiamerai d’ora innanzi Cefa, che vuol dire Pietra ».(S. Giov. I, 42). Pietro appare spesso come interprete degli altri Apostoli e Gesù Cristo e i suoi compagni sembrano accettarlo come tale. Nella Trasfigurazione S. Pietro parla a Gesù ed è come in risposta a lui che la voce si fa udire attraverso alla nube: « Questi è il Figlio mio diletto: ascoltatelo ». (S. Mrco IX, 7). Nel racconto del giovane ricco è San Pietro che dice: « Ecco. che noi abbiamo lasciato tutto, e ti abbiamo seguito ». (S. Marco X, 8) Pietro richiama l’attenzione del Salvatore sul fico sterile e domanda: « Maestro, quante volte devo perdonare il fratello che mi offende? ». (S. Matt. XVIII, 21). Gesù espone, alla domanda di Pietro, la parabola delle cose che contaminano l’uomo; (S. Matt. XV, 5) lo stesso avviene per la parabola del fattore buono e di quello infedele. (S. Luc. XII, 41). Nella Sinagoga di Cafarnao Gesù tiene un discorso e parla in modo profondo e insinuante dell’Incarnazione e dell’Eucaristia, la quale sarà un prolungamento di essa. Alla fine del discorso, allontanandosi molti suoi discepoli da Gesù, egli chiede ai Dodici: « Anche voi ve ne volete andare? ». San Pietro allora, a nome anche degli altri Apostoli, fa una solenne professione di fede intorno a quelle due verità: « Signore, da. chi andremo noi? Tu hai parole di vita eterna. E noi abbiamo creduto e sappiamo che tu sei il Cristo Figliuolo di Dio ». (1S. Giov. VI, 68). E a Cesarea di Filippo, quando Gesù domanda ai suoi Apostoli che cosa pensino di lui, Pietro risponde: « Tu sei il Cristo Figlio del Dio vivente ». (S, Matt. XVI, 15) In tutte queste circostanze Pietro si fa sempre innanzi, ma in modo così naturale e normale, che non trova una ragione sufficiente nel suo carattere impetuoso, ma suppone una disposizione di Gesù e un tacito riconoscimento della sua superiorità da parte degli Apostoli. (Vernon Ionnson: Ur solo Dio, una sola fede). – Si aggiunga che Pietro appare frequentemente associato a Gesù nella manifestazione taumaturga della sua potenza, e suo compagno e confidente nelle più solenni occasioni. Pietro infatti presiede alle due pesche miracolose. Nella prima Gesù sale sulla barca di Pietro; a lui ordina di spingersi al largo e di gettare le reti; a lui dice: « Non temere, d’ora innanzi tu sarai pescatore d’uomini ». Nella seconda Pietro dirige la barca, si slancia alla riva, tira fuori della barca la rete piena di pesci (S. Luca, V; S. Giov., XXI, 6). Al comando di Gesù, Pietro cammina sulle acque per andare a Lui e viene sorretto dallo stesso  Salvatore, che stendendogli la mano, gli dice: « Uomo di poca fede, perché hai dubitato? ». (Matt., XIV, 28.) A Cafarnao Gesù opera il miracolo della moneta estratta dal pesce, con la quale paga il tributo a Cesare per sé e per Pietro. (S. Matt., XVII, 24). Tra gli Apostoli privilegiati scelti da Gesù per essere testimoni della risurrezione della figlia di Giario, (S. Marco, V, 37), della sua trasfigurazione, (S. Marco, IX, 1) della sua agonia (S. Marco, XIV, 33; S. Matt., XXVI, 37) e per preparare l’ultima cena, (S. Luca, XXII, 8) figura sempre Pietro e sempre in primo luogo. Dopo la sua risurrezione Gesù ha un pensiero speciale per S. Pietro e tra gli Apostoli gli concede il favore, nonostante la sua negazione, di essere il primo testimonio del grande avvenimento. (S. Luca, XXVI, 12-34; I Cor., XV, 5) Come dalla barca di Pietro Gesù tenne il suo primo discorso alle turbe, così nella casa di lui fece il primo miracolo sugli ammalati, risanando la « suocera di Pietro » dalla febbre, e spesso era ospite in questa casa. Per Pietro Gesù prega in modo speciale e a lui predice il genere di morte. (5(5) Ballerini: La Chiesa: Il primato di Pietro). Osserviamo infine che nelle quattro liste del collegio apostolico, che ci hanno tramandato gli Evangelisti, l’accordo non è uniforme per gli altri Apostoli, ma Pietro è sempre nominato il primo. (In qualche caso, in cui questo non si verifica, gli Evangelisti non intendono darci l’elenco, diciamo così, ufficiale dei Dodici, né parlare della loro dignità) Nulla autorizza a pensare che Pietro fosse il più anziano degli Apostoli o che fosse stato chiamato per il primo alla sequela di Gesù, ma questa qualificazione di « primo » non può avere altro senso che quello di una preminenza. Non si può semplicemente vedere in questo un numero di ordine, che sarebbe stato superfluo o avrebbe richiesto di poi un altro numero davanti a ciascun Apostolo. Questi fatti, benché siano indizi da non trascurarsi, non ci dànno tuttavia per sé una prova diretta ed evidente del primato di Pietro. Sono piuttosto qualche cosa di accessorio e preparano in certo qual modo la via all’argomento principale, che si deduce da tre importanti testi evangelici, cioè il « Tu es Petrus », il « Confirma fratres » e il « Pasce oves meas ».Pietro in questi telebri passi è revocato in dubbio da due sistemi interamente opposti. L’uno ammette come autentiche e storiche le parole indirizzate da Gesù a Pietro, ma sostiene che esse non significano affatto che Pietro sia costituito capo della Chiesa di Cristo. L’altro invece concede la forza probativa dei testi per riguardo al primato, ma nega la loro autenticità e storicità. Il punto di vista è comunemente quello degli scismatici e dei protestanti ortodossi; il secondo punto di vista è per lo più quello della critica liberale, cioè dei razionalisti, dei protestanti liberali e dei modernisti. L’esegeta cattolico deve quindi affrontare due quesstioni differenti; i testi sono autentici e storici, non apocrifi; i testi manifestano chiaramente il primato di Pietro. Noi supponiamo provata l’autenticità e storicità dei testi, e ci limitiamo ad una breve spiegazione teologica quale è richiesta da questo lavoro. (Per l’autenticità e storicità dei testi, oltre i lavori scritturali sì confronti il Dict. Théol.: « Primauté » e la rivista Etudes, anno  1909, Vol. 119).

LA PROMESSA DEI. PRIMATO. — Nei dintorni di Cesarea di Filippo, Gesù interroga i suoi discepoli che cosa si dica in mezzo al popolo del Figlio dell’uomo. Varie sono le congetture dei Giudei. Per gli uni Gesù è Giovanni Battista; per altri è Elia; per altri ancora è Geremia o qualche altro profeta risuscitato. « Ma voi, riprende Gesù, che pensate di me?» — « Tu sei il Cristo, il figlio di Dio vivente », risponde immediatamente S. Pietro. Gesù allora ricompensa la fede del suo apostolo con queste parole: « Te beato, o Simone, figlio di Giona, perché non è la carne né il sangue che te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. Ed io dico a te, che tu sei Pietro (Pietra), e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte. dell’inferno non prevarranno contro di essa; Ed Io darò a te le chiavi del regno dei cieli, e tutto quello che tu legherai sopra la terra, sarà legato nei cieli, e tutto quello che tu scioglierai sopra la terra, sarà sciolto nei cieli ». (Matt., XVI, 17). Le parole di Cristo vengono indirizzate al solo Pietro e non a tutti gli Apostoli. Ciò appare innanzi tutto dal testo e dal contesto del discorso. Infatti, alla duplice interrogazione di Cristo viene data una duplice risposta, la prima da tutti gli Apostoli, la seconda dal solo Pietro. Ora Cristo rispondendo alle parole di Pietro, si rivolge non a tutti gli Apostoli, ma a Pietro solo e lo chiama con il nome di Pietro, che Egli stesso gli aveva imposto, e vi aggiunge espressamente il nome del padre. Del resto tutto il tenore del discorso designa chiaramente la persona singolare di Pietro. Giustamente osserva il Caietano: « Con quali parole avrebbe dovuto l’Evangelista indicarci che il discorso era rivolto al solo Pietro? I notai non nominano le persone eredi o legatarie con maggiore precisione di quella usata dall’Evangelista per designare la persona di Pietro ». (De Rom. Pontif. institutione, c. 4). Nelle parole di Cristo è contenuta la promessa del primato di giurisdizione sopra tutta la Chiesa. Questo è evidente per gli stessi razionalisti; anzi l’affermazione perentoria di una vera supremazia gerarchica riconosciuta nel testo a S. Pietro, è il motivo principale e dichiarato che li induce a negarne l’autenticità e la storicità. Pietro è la rocca, il fondamento sopra cui sarà edificata la Chiesa, cioè tutta la comunità visibile dei discepoli di Gesù, e come il fondamento dà unità e coesione, fermezza e stabilità a tutto l’edificio, così Pietro deve essere il principio primo visibile dell’unità e della fermezza della Chiesa. Ma essendo la Chiesa una società, il principio efficiente della sua unità e stabilità non può essere altro che l’autorità piena e suprema. Come nell’edificio materiale ogni cosa si appoggia sopra il fondamento, così nella società ogni cosa dipende dall’autorità. (Zapelena: De Ecclesia, pag. 92). Gesù Cristo promette in secondo luogo di dare a Pietro le chiavi del regno dei cieli. Le chiavi nell’uso biblico e profano significano la potestà suprema nel suo genere: presso i popoli antichi specialmente orientali, dare le chiavi della casa o della città a qualcuno, significava consegnargli il potere sulla stessa casa o città. Il regno dei cieli, di cui si parla qui, è evidentemente la Chiesa militante. Certo a Pietro non si promette l’autorità nel regno della gloria, perché nello stadio finale della Chiesa trionfante, non vi sarà l’esercizio delle chiavi, non dovendosi più nulla aprire o chiudere. Perciò Cristo espressamente soggiunge: « ciò che legherai sulla terra ». Nella Chiesa cristiana quindi, che costituirà quaggiù il regno di Dio sotto il suo aspetto esteriore e sociale, che preparerà il regno di Dio sotto il suo aspetto escatologico e glorioso, l’Apostolo Pietro sarà colui che in nome di Cristo eserciterà la suprema autorità. In nessun altro luogo del Vangelo si legge che Cristo abbia consegnato le chiavi del regno dei cieli agli altri Apostoli. Il senso della metafora delle chiavi viene meglio spiegato dalle parole della terza metafora. Poiché Pietro avrà la suprema giurisdizione nella Chiesa, verrà ratificato in cielo, cioè presso Dio, tutto quello che Pietro legherà o scioglierà sulla terra. Si tratta di vincoli di ordine morale; perciò « legare » significa imporre una obbligazione, « sciogliere » vuol dire togliere l’obbligazione. – Questa potestà sarà universale: « ogni cosa », in ordine, s’intende, all’indole della Chiesa e al fine per il quale fu istituita. Potrà quindi Pietro stabilire tutte quelle cose che sono necessarie o utili al governo di tutta la Chiesa. « Fondamento della Chiesa; chiavi del regno dei cieli; potere di legare e slegare con sentenza efficace »; le tre metafore si completano e si rischiarano a vicenda. Nessun equivoco è possibile: Pietro sarà il capo supremo della Chiesa.

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CONFERMA DEL PRIMATO. — Il primato effettivo promesso a Cesarea viene solennemente confermato da Gesù Cristo, quando affida a Pietro l’incarico di stabilire i suoi fratelli nella fede. « Simone, Simone, ecco che satana ha richiesto che gli siate dati per vagliarvi come il grano. Ma Io ho pregato per te, affinché la fa fede non venga meno, e tu, quando sarai convertito conferma i tuoi fratelli ». (S. Luca, XXII, 31) In questo passo è assicurato a Pietro il privilegio di una fede indefettibile. Preservando Pietro, la cui rovina avrebbe trascinato tutti gli altri, Gesù ha preservati in certo modo tutti. Questo discorso di Gesù presuppone che Pietro fosse il primo degli Apostoli; la sua resistenza o caduta, avrebbe deciso più o meno della resistenza o caduta degli altri. Il testo di S. Luca, se si isolasse, potrebbe riferirsi solamente alla circostanza dello scandalo prossimo degli Apostoli. Ma il suo tenore è assoluto: il che ci autorizza a riallacciarlo alla promessa già fatta a Pietro, roccia incrollabile sulla quale sarà costruita la Chiesa. La nuova dichiarazione di Cristo determina che questa solidità della roccia è quella di una fede, che nulla può scuotere, perché appoggiata sulla preghiera di Cristo. (LAGRANGE: L’Evangile de Jésus Christ, pag. 512)-

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CONFERIMENTO DEFINITIVO DEL PRIMATO. — Il Vangelo di S. Giovanni ci narra il conferimento definitivo del primato a Pietro. Apparendo Gesù un po’ prima dell’Ascensione ai suoi discepoli, chiede a Simone Pietro: « Simone di Giovanni, mi ami più di costoro? — Sì, o Signore, gli risponde: tu sai che io ti amo. — Gli dice: Pasci i miei agnelli. — Gli chiede ancora per la seconda volta: Simone di Giovanni, mi ami tu? — Sì, o Signore, gli risponde: tu sai che io ti amo. — Gli dice: Pasci i miei agnelli. — Gli domanda per la terza volta: Simone di Giovanni, mi ami tu? Si rattristò Pietro, perché  per la terza volta gli avesse domandato: — Mi ami tu? — e gli rispose: Signore, tu sai tutto ; tu conosci che io ti amo. — E Gesù gli disse: Pasci le mie pecorelle ». (S.Giovanni, XXI, 15). Non v’è alcun dubbio che mediante queste parole venga conferito a Pietro il primato di giurisdizione sopra tutta la Chiesa. Gli agnelli e le pecorelle di Cristo non possono significare altro che la Chiesa universale: il verbo pascere, quando si adopera per esseri razionali, equivale al verbo reggere o dirigere: anche i re sono qualche volta chiamati pastori dei popoli. Se quindi al solo Pietro, in quanto è distinto dagli altri Apostoli, viene imposto l’ufficio di reggere tutta la Chiesa di Cristo, ne segue che egli è investito della vera giurisdizione sopra tutti coloro che appartengono alla Chiesa. Come potrebbe adempiere il suo ufficio senza di essa? Aggiungiamo infine che i testi sopra citati furono intesi in tal senso dalla tradizione costante della Chiesa; il che toglie ogni dubbio, che potesse ancora rimanere, dopo la discussione che ne abbiamo fatto. (De Journel: Enchiridion Patristicum. — Cf. Hervé: Théol. Dogm., pag. 331. — Zapelena: De Ecclesia, pag. 103).

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La storia della Chiesa primitiva ci dimostra Pietro nell’esercizio del primato di cui è investito. Dopo l’Ascensione di Cristo, S. Pietro effettivamente parla e opera come capo e dottore della Chiesa universale. Lo dicono chiaramente gli Affi degli Apostoli. Pietro invita i suoi compagni ad eleggere un altro al posto di Giuda e a completare il collegio apostolico, e presiede all’elezione di Mattia. (Atti Apostolici, I, 15). Il giorno di Pentecoste, presentandosi come capo della comunità evangelica, inaugura la predicazione apostolica ai Giudei. (Atti Apost., II, 14) È bensì circondato dagli altri Apostoli, ma è nominato per il primo, come loro capo. Per il primo esercita il dono dei miracoli nella guarigione dello storpio. (Atti Apost., III, 1). Davanti al Sinedrio Pietro rende testimonianza a Gesù Cristo, in nome degli Apostoli e della Chiesa, dichiara ufficialmente la divinità di Colui che il Sinedrio ha condannato a morte. Questa affermazione fatta dinanzi ad una tale assemblea, è la prima grande manifestazione dell’assoluta indipendenza della Chiesa cristiana dalla religione ufficiale dei Giudei. (Atti Apost., IV, 12). Quando si tratta di punire Anania e Safira, questa missione è riservata a San Pietro, come pure a lui tocca di condannare il primo simoniaco Simon Mago. (Atti Apost., V, 1) Egli per il primo con autorità apre le porte della Chiesa ai Gentili, ammettendo al battesimo il centurione Cornelio e i suoi dipendenti senza farli passare per il Giudaismo. (Atti Apost., XI, 1). Pietro ci appare come capo venerato e amato, quando prigioniero del re Erode Agrippa e poi miracolosamente liberato, è oggetto di pena e di preghiere di tutti i fedeli, e anche causa della loro gioia. (Atti Apost.,, XII) Infine nell’assemblea apostolica di Gerusalemme prende per il primo la parola nella questione delle osservanze legali ed esercita manifestamente un primato che nessuno gli contesta. (Atti Apost., XV, 6) Per chi ammette il valore storico degli Atti degli Apostoli, queste testimonianze sono decisive. S. Paolo nelle sue Lettere fa spesso allusione a San Pietro e alla sua autorità. Nella Lettera ai Galati egli dice: « Mi recai a Gerusalemme per visitare lo stesso Pietro e vi rimasi presso di lui quindici giorni. Ma non vidi nessun altro degli Apostoli, eccetto Giacomo, il fratello del Signore ». (Galat., 1, 18) Lo scopo quindi del viaggio di Paolo è quello di incontrarsi con Pietro e intrattenersi con lui. Questo modo di procedere, presentato ai lettori come la cosa più naturale, senza una sola parola di spiegazione, suppone che i fedeli riconoscessero a Pietro un’autorità a parte. Il conflitto di Antiochia tra Pietro e Paolo, che è stato così spesso sfruttato contro il primato di Pietro, è anzi una bella prova dello stesso primato. Perché l’intervento piuttosto rude di Paolo? Perché appunto Pietro non è un Apostolo come gli altri, e l’esempio venuto da lui, collocato in una speciale autorità, sarebbe stato quanto mai dannoso. La reazione di Paolo si spiega quindi per il prestigio unico di Pietro, per il suo grande ascendente sopra i fedeli. Se Paolo non fa maggiori dichiarazioni sul primato di Pietro, ciò si deve al carattere proprio delle sue Lettere, che erano composte per rispondere a qualche situazione particolare e supponevano una chatechesi già esistente. (Galat., II,11.— Cf. Oppone: Teoria degli Atti umani, pag.180. Il primato di Pietro è per così dire impresso anche sui monumenti dell’arte cristiana. (Cf. Ermoni: Ilo primato del Vescovo di Roma, pag. 13). Questo breve studio è sufficiente per fondare una adesione ragionevole, anche per un razionalista, al primato di Pietro. Ogni altra spiegazione o ipotesi opposta all’esegesi cattolica, si presenta fragile e priva di sana critica storica. E sarebbe poi irragionevole esigere nell’esercizio del primato di Pietro quell’estensione che oggi troviamo nel Pontefice di Roma. Questo non era necessario né opportuno al tempo degli Apostoli, tutti eletti da Gesù Cristo come colonne della sua Chiesa. Il dogma del primato di Pietro si andò, come gli altri dogmi del Cristianesimo, sviluppando e precisando nei suoi successori.

III.

PERPETUITÀ DEL PRIMATO DI PIETRO NEL ROMANO PONTEFICE

Gesù Cristo ha istituito la Chiesa sotto forma monarchica, dando a S. Pietro il primato di guirisdizione. L’abbiamo visto nelle pagine precedenti. Possiamo ora domandarci, se il primato fu stabilito da Gesù Cristo con la condizione che rimanesse perpetuamente nella Chiesa; e se tale fu la volontà di Cristo, possiamo ulteriormente insistere e chiedere chi sia colui che succede a Pietro nella dignità del primato. – Bisogna distinguere negli Apostoli e quindi anche in Pietro, l’ufficio di fondatori o iniziatori dell’opera di Cristo, e l’ufficio di pastori della Chiesa. Come fondatori godevano di certe prerogative straordinarie, di certi privilegi personali non trasmissibili: tutti erano ornati di santità eroica, avevano la scienza divinamente infusa delle cose soprannaturali, godevano dell’infallibilità personale nelle cose di fede e di costumi, della potestà di fare miracoli, della giurisdizione universale sui fedeli, almeno delle Chiese che ciascuno di essi fondava. – Queste prerogative non furono trasmesse ai Vescovi successori degli Apostoli. Come pastori gli Apostoli avevano la podestà di governo, di magistero, e di ordine o di santificazione. Questa triplice potestà appartenente all’essenza della Chiesa, essi trasmisero ai loro successori nel Collegio Apostolico. – Il primato di S. Pietro non era un privilegio suo personale, ma apparteneva all’essenza della Chiesa, e fu trasmesso nei Romani Pontefici. Due verità queste che sono definite nel capo II della Pastor Æternus, cioè il beato Pietro avrà per diritto divino perpetui successori nel primato sopra tutta la Chiesa, e i Romani Pontefici saranno per diritto divino successori del beato Pietro nel medesimo primato: « Se qualcuno dice che non è per istituzione dello stesso Cristo Signor Nostro, ossia di diritto divino, che il beato Pietro ha perpetui successori nel primato su tutta la Chiesa o che il Romano Pontefice non è il successore del beato Pietro nello stesso primato, sia anatema ».

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S. Pietro avrà perpetui successori nel primato. La perpetuità dei diritti primaziali di Pietro s’intende in una sola persona fisica, in modo che la Chiesa sarà sempre monarchica per l’istituzione di Cristo stesso. Quando diciamo che il primato durerà sempre, intendiamo parlare di continuità morale, che non s’interrompe nel tempo in cui si elegge un nuovo successore. Possiamo dire che il primato di Pietro fu in parte personale, perché concesso a lui solo e non al Collegio Apostolico, e in parte personale, in quanto non doveva finire con la morte di Pietro, ma doveva trasmettersi ai successori. La Chiesa di Cristo deve essere perpetua, perché  deve continuare sino alla fine dei tempi la missione di salvare le anime. Sarà dunque anche perpetuo il suo fondamento, la sua base, senza la quale non può esistere, cioè sarà perpetuo il primato di Pietro, che fu appunto istituito per dare unità alla Chiesa, come dice il Concilio Vaticano: « Affinché l’episcopato fosse uno e indiviso, e si conservasse nella unità della fede e della comunione tutta la moltitudine dei credenti per mezzo della coesione dei sacerdoti, pose il beato Pietro a capo degli altri Apostoli, e istituì in lui il principio perpetuo e il fondamento visibile di questa doppia unità, volendo che sopra la sua solidità si costruisse il tempio eterno e che sulla fermezza della sua fede si innalzasse la Chiesa sino all’altezza dei cieli ». (« Pastor Æternus »: Prologo) Questo è l’argomento che arreca anche S. Tomaso; (Contra Gentes, lib. 4, cap. 76) il primato deve durare finché dura la ragione per cui fu istituito, la quale ragione è la fermezza e stabilità dell’edificio ecclesiastico. La perpetuità del primato si deduce anche dai testi evangelici citati di sopra per dimostrare il primato di Pietro. A Pietro fu affidato l’ufficio di confermare i fratelli nella fede e di pascere gli agnelli e le pecorelle: ma i fedeli delle posteriori generazioni cristiane appartengono anch’essi all’ovile di Cristo, e Pietro deve confermare e pascere anche questi, non certo direttamente, ma per mezzo dei suoi successori. Anzi la necessità degli uffici del primato è molto più urgente dopo i tempi apostolici. Oggi, infatti, la Chiesa è molto più diffusa che al principio del Cristianesimo, quando i fedeli erano un corpo solo e un’anima sola; gli Apostoli forniti come erano dell’infallibilità e dell’autorità universale, potevano conservare più facilmente nell’unità le diverse Chiese sparse dappertutto; erano di grande aiuto allora i doni carismatici più frequenti che nei tempi posteriori. Tutto questo rendeva meno frequente nei primi tempi della Chiesa nascente l’esercizio del primato. Sono eloquentissime a questo riguardo le numerose testimonianze dei Padri della Chiesa e degli antichi scrittori cattolici, nelle quali si afferma che Pietro vive, governa, insegna nei suoi successori; che la Chiesa ha ricevuto in Pietro e per mezzo di Pietro le chiavi; Pietro dalla propria sede continua a dare la verità della fede a chi la cerca. Riporto le splendide parole che san Bernardo rivolgeva al Papa Eugenio III:« Tu sei il capo dei Vescovi, l’erede degli Apostoli… Vi sono anche  altri clavigeri del cielo e pastori di greggi: ma tu ereditasti l’uno e l’altro nome tanto più gloriosamente quanto più differentemente degli altri. Hanno anche gli altri singolarmente i loro particolari greggi; a te sono invece affidati tutti, e a te solo. Tu sei l’unico pastore non solo delle pecore, ma anche degli altri pastori. Tu mi chiedi come io provi questa mia asserzione? Dalle parole del Signore. A chi, non dico dei Vescovi, ma anche degli Apostoli, così assolutamente e senza eccezione, furono affidate tutte le pecore? Se mi ami, o Pietro, pasci le mie pecorelle. Quali? I popoli di questa o di quella città, di questa o di quella regione, di questo o di quel regno? Le mie pecore, disse Gesù. Evidentemente non designò alcune soltanto, ma le assegnò tutte. Nulla viene eccettuato e nulla viene distinto ». (De Consider. L. 2, cap. 8, n. 15).  La verità di questa dottrina verrà meglio illustrata dalle testimonianze che arrecheremo per la dimostrazione del secondo punto definito dal Concilio Vaticano.

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Il Pontefice Romano è per diritto divino successore di Pietro nel primato di giurisdizione sopra tutta la Chiesa. I razionalisti e i modernisti attribuiscono il primato romano esercitato e riconosciuto sino dai primi secoli nella Chiesa, a cause puramente naturali, come lo splendore della città di Roma e la sua dignità imperiale, l’ambizione dei Vescovi di Roma, la carità e la sollecitudine della Chiesa romana verso le altre Chiese, la necessità di qualche centro comune; che congiungesse tra loro tutti i fedeli e tutte le Chiese. La verità del primato romano si può dimostrare in generale con un argomento di esclusione. Cristo, come abbiamo detto, ha stabilito che Pietro avesse perpetui successori nel primato di giurisdizione, i quali fossero il fondamento perpetuo della sua Chiesa. In qualche luogo e presso qualcuno deve dunque trovarsi questo primato. Ora tra i diversi ceti cristiani oggi esistenti, la sola Chiesa romana si attribuisce ed esercita il primato sopra tutta la Chiesa, e questo essa fa da molti secoli: lo ammettono coloro stessi che le contestano il diritto di questo primato. Bisogna quindi logicamente conchiudere che il primato o non esiste, o se esiste, si trova soltanto nella Chiesa romana. – Si giunge direttamente alla stessa conclusione mediante una via storica di testimonianze e di fatti, che è un monumento apologetico veramente insigne. Affinché l’argomento storico si presenti in tutta la sua forza probativa è necessario premettere alcune osservazioni. – Nella storia ecclesiastica si narra la venuta di S. Pietro a Roma. Che S. Pietro sia venuto a Roma, che vi abbia esercitato l’ufficio di Vescovo della Chiesa romana, e che sia stato martirizzato nella città di Roma sotto l’imperatore Nerone, è ammesso dalla massima parte di storici imparziali, anche estranei al Cattolicismo. Qualche polemista soltanto si ostina a sostenere il contrario per fini che non hanno nulla di comune con la scienza. L’Harnack e il Duschesne considerano la cosa decisa in favore della tradizione. (HarnacK: La cronologia dell’antica letteratura cristiana sino ad Eusebio. — Duschesne: Storia antica della Chiesa. — Per potere affermare che San Pietro fu Vescovo di Roma, non si richiede che sia sempre rimasto nella città di Roma. (Cf. Van Nort: De Ecclesia Christi, pag. 62). La venuta di Pietro a Roma e la sua morte come Vescovo di Roma, apre per i Vescovi di Roma, la successione legittima nel primato universale. Il primato infatti doveva continuarsi, ed è norma generale che i diritti annessi ad una sede si trasmettano insieme con la sede, se non viene in modo positivo disposto diversamente. Bisogna quindi anche nel presente caso applicare questa norma, eccetto che si dimostri che Cristo o Pietro abbiano provveduto alla successione del primato in altro modo, del che non vi è il minimo indizio in nessun documento storico. (Dio poteva stabilire o immediatamente o per mezzo di Pietro, che dopo Pietro il primato continuasse nella sede romana, anche se Pietro non avesse mai occupata quella sede. Le due questioni quindi che Pietro è venuto a Roma e fu Vescovo di Roma e che ai successori di Pietro nella Sede romana compete il primato, non sono per sé strettamente e necessariamente connesse. (Cf. Tanquerey: De Vera Religione, pag. 444, n, 705). – Osservo in secondo luogo che nessuno può ragionevolmente esigere che subito dopo la morte di S. Pietro, il primato dei suoi successori si manifesti sulle altre comunità religiose, con quella attività e intensità, che verrà man mano accentuandosi nei secoli posteriori. Chi attentamente considera la condizione della Chiesa nascente e le difficoltà dei primi tempi del Cristianesimo, facilmente comprende che i successori di Pietro non hanno esercitato frequentemente e solennemente i loro diritti sulle Chiese lontane da Roma, dove spesso governavano personaggi insigni per santità e dottrina. Avveniva perciò che in dette Chiese non si sperimentasse molto l’influsso del primato di Roma, e che in qualche occasione ci fosse qualche tentativo di resistenza. La dottrina e le istituzioni cristiane sono come un seme che, affidato alla terra, non subito manifesta tutta la sua vitalità, né da tutti è convenientemente apprezzato; ma sotto l’influsso divino e delle circostanze del tempo e del luogo, cresce a poco a poco e giunge così lentamente al suo pieno rigoglio. Questo principio di ben inteso progresso dogmatico, si deve applicare al primato romano. Basta quindi far vedere che i germi del primato del Romano Pontefice già si trovano nelle opere dei Padri antichi, che vanno man mano sviluppandosi, in modo, tuttavia, che le numerose e chiare affermazioni dei secoli posteriori non sono altro che la legittima spiegazione di quello che era già insegnato con tutta verità, benché meno chiaramente, nei primi secoli. (Fontaine: La Teologia del Nuovo Testamento).

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Nella tradizione dei primi tre secoli della Chiesa non vi è nulla che veramente si opponga al primato del Pontefice di Roma; troviamo anzi non poche testimonianze, che gli sono favorevoli e che grandemente ci persuadono della sua esistenza. Verso la fine del primo secolo (93-97), il Pontefice S. Clemente, vescovo di Roma, che aveva conosciuto gli Apostoli Pietro e Paolo e che aveva conversato con essi, manda una lettera alla Chiesa di Corinto. Questa Chiesa, fondata da S. Paolo, era turbata da dissidi e controversie interne: i più giovani si erano ribellati ai prebisteri e li avevano cacciati di sede. La Chiesa di Roma intervenne per far cessare uno scandalo così dannoso, per estinguere « una sedizione empia e abbominevole, accesa da pochi-uomini temerari e audaci », per ristabilire la pace e l’unione. « Veniamo a conoscere, o fratelli, scrive il Pontefice, cose molto cattive e indegne della professione cristiana: la forte e antichissima Chiesa di Corinto suscita, per colpa di pochi, sedizione contro i presbiteri… Voi quindi, che avete gettati i principi della sedizione, siate soggetti nell’ubbidienza ai presbiteri e ricevete in penitenza la correzione… Se alcuni poi non ubbidiranno a quello che Cristo dice per mezzo nostro, sappiano che saranno rei di colpa e correranno pericolo grande…: noi saremo innocenti di questo peccato. Ci porgerete gaudio e letizia, se ubbidendo a ciò che vi abbiamo scritto per mezzo dello Spirito Santo, sopprimerete il desiderio di uno zelo intempestivo, seguendo la nostra esortazione di pace e di concordia, che vi esponiamo in questa lettera ». – Il Batiffol chiama giustamente questa Lettera « l’epifania del primato romano ». (La Chiesa nascente, pag. 153. — Cf. Freppel: Padri Apostoli: « Le Lettere Clementine »). La Lettera è caritatevole e dolce: ma non manca in essa il tono autoritativo. Senza mire formalmente teologiche, senza alcuna presentazione dei suoi titoli al primato, Clemente ha coscienza della sua posizione e del suo ufficio: non solo esorta, ma veramente comanda ed esige l’ubbidienza, in forza di una potestà divinamente ricevuta. Chi parla in tal modo si sente in possesso di un potere veramente considerevole. Si pensi che Clemente si accinge a comporre la lite tra i Corinti, mentre è ancora in vita S. Giovanni evangelista, il cui intervento nella faccenda sembrava con diritto richiesto e quasi dovuto dalla sua eccelsa dignità apostolica e dalla condizione e maggiore vicinanza delle chiese orientali, a cui egli presiedeva. Le relazioni tra Efeso e Corinto erano evidentemente più naturali di quelle fra Corinto e Roma. Eppure, da Roma viene l’ammonizione e il rimprovero e l’ordine di ristabilire l’unione. La Chiesa romana era stata sollecitata dai Corinti a intervenire o il suo intervento fu spontaneo? Dalla lettera non si può nulla dedurre con certezza. Se i presbiteri cacciati di sede ricorsero a Roma, il loro ricorso è grandemente degno di nota per la supremazia della Sede di Roma. Perché chiedere l’intervento di una Chiesa così lontana? Se tutte le Chiese erano al principio uguali, tornava certamente più comodo ai Cristiani di Corinto rivolgersi ad una delle floridissime comunità di Tessalonica, di Filippi, di Efeso. Questo appello a Roma non trova ragionevole spiegazione, se non nel fatto che Roma era già considerata come centro dell’unità cristiana: si ricorreva ad essa, perché in essa stava il supremo potere, il primato spirituale. (Bariffol: La Chiesa nascente, pag. 168.). Si aggiunga che il Papa S. Clemente mandò a Corinto i suoi legati, affinché fossero come testimoni e intermediari tra lui e i Cristiani di Corinto. La pace fu ristabilita e tornò l’unione tra i fedeli. Dionisio di Corinto, loro Vescovo, verso il 170, ci fa sapere che la Lettera di Clemente, la Prima Clementis, come si suole denominare, era ancora letta e conservata nella loro Chiesa accanto alle Scritture canoniche. (Freppel, l. c., pag. 184). S. Ireneo infine cita questa Lettera come esempio della particolare autorità, che compete alla Chiesa di Roma a preferenza delle altre Chiese.

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Al cominciare del secolo II, Ignazio di Antiochia ci offre un documento importante della supremazia di Roma. Egli scrive ai Romani una Lettera per supplicarli a non opporsi al suo martirio. (Eusebio: Hist. Eccl., 1. IV, cap. XXIII, n. 11). L’indirizzo di questa Lettera è solenne per i magnifici epiteti con cui designa la Chiesa romana: « Ignazio alla Chiesa che ha ottenuto misericordia per la magnanimità del Padre Altissimo e di Gesù Cristo suo Figliuolo unico; alla Chiesa amata e illuminata dalla volontà di Colui che ha voluto tutto ciò che esiste, secondo l’amore di Gesù Cristo, nostro Dio: alla Chiesa, la quale presiede nel luogo della regione dei Romani, degna di Dio, degna di onore, degna di benedizione, degna di lode, degna di essere esaudita, degna e casta, e prima di tutte nell’amore, in possesso della legge di Cristo, avente il nome del Padre e che io saluto in nome di Gesù Cristo ». – Questa magnificenza di espressioni è un primo indizio che Sant’Ignazio tributa più onore alla Chiesa di Roma che alle altre Chiese a cui scrive. Più sicuro indizio dànno alcune locuzioni, che sono oggetto di accanite discussioni tra i critici. Che cosa significano le frasi « la Chiesa che presiede nella regione dei Romani… che presiede alla carità »? Viene indicata, secondo alcuni celebri scrittori cattolici, la preminenza della Chiesa di Roma sulle altre Chiese. La Chiesa di Roma presiede: questo termine, di cui Ignazio si serve due volte nell’introduzione della Lettera, e che non adopera mai per le altre Chiese, non vuol dire « segnalarsi », ma implica una reale presidenza, un governo e un’autorità sopra altri. La Chiesa di Roma presiede alla carità, alla religione dell’amore: la parola greca « agape », che corrisponde alla parola « carità », significa in questo passo di S. Ignazio, la Chiesa universale. Infatti, questo termine agape più volte negli scritti di Ignazio è sinonimo di Chiesa. Dal momento che una Chiesa locale può essere chiamata « agape », perché questa stessa parola non indicherebbe la Chiesa universale nella Lettera ai Romani? Questo è l’argomento del Funk contro l’Harnack,, il quale sostiene che l’espressione « prima di tutte nell’amore » significa « la più caritatevole, la più generosa, la più soccorritrice di tutte le Chiese. » (Funk: Patres Apost., Vol. I, pag. 252. — Batiffol: La Chiesa nascente, pag. 177). – Qualcuno crede alquanto sforzata questa interpretazione del Funk, e tutt’al più riconosce all’argomento una semplice probabilità. Comunque sia, nessuno può negare che dal contesto dell’indirizzo della Lettera balzi abbastanza chiaro il pensiero di Ignazio sul primato della Chiesa di Roma. Egli loda la fedeltà dei Romani a tutti i precetti di Gesù Cristo, e perché essi sono ricolmi per sempre della grazia di Dio, e perché  sono « puri da ogni estraneo elemento ». Si congratula con loro di avere « istruito gli altri » e di non avere mai « ingannato nessuno », e soggiunge: « In quanto a me vorrei che i vostri precetti fossero praticamente confermati ». Se i Romani hanno istruito « gli altri », questi « altri» rappresentano altre Chiese all’infuori di quella di Roma, le quali Chiese vengono a domandare a Roma o ricevono da Roma, senza averla chiesta, la lezione dei precetti apostolici, dei quali Roma stessa è un più sicuro deposito. (Batiffol: La Chiesa nascente, pag. 178.)

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S. Ireneo, Vescovo di Lione (180) e discepolo di S. Policarpo, è il più esplicito assertore del primato romano verso la fine del II secolo. Per S. Ireneo la Chiesa romana è la « massima e più antica Chiesa, da tutti conosciuta, fondata dai due gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo ». (Haer., II,-2; 3) Nella Chiesa romana, secondo S. Ireneo, si trova la tradizione apostolica, la vera regola di fede: con essa devono concordare le altre Chiese per la sua autorità particolare. Trascriviamo il celebre passo: « Per riguardo alla tradizione degli Apostoli, manifestata in tutto l’universo, è facile ritrovarla nella Chiesa intera, per chiunque cerchi sinceramente la verità. Noi non abbiamo che a trascrivere la lista di quelli, che sono stati istituiti Vescovi e dei loro successori sino a noi… Ma poiché sarebbe troppo lungo in questo libro mostrare questa successione per tutte le Chiese, noi ci accontenteremo di segnalare la tradizione della più grande e della più antica di tutte, di quella che è conosciuta dal mondo intero, che è stata fondata e costituita a Roma dai gloriosi Apostoli Pietro e Paolo. Nel riferire questa tradizione, che essa ha ricevuto dagli Apostoli, questa fede, che ha annunziata agli uomini e trasmessa sino a noi mediante la successione dei suoi Vescovi. noi confondiamo tutti coloro che in qualsiasi modo formano delle assemblee illegittime. Con questa Chiesa è necessario che si accordino tutte le Chiese, cioè tutti i fedeli di qualunque luogo, a cagione della sua particolare autorità (suprema principalità). In questa Chiesa si è sempre conservata la tradizione degli Apostoli da coloro che sono di tutti i paesi ». – La Chiesa di Roma è chiamata da Ireneo massima e principale tra le altre Chiese, non già per maggiore antichità né per ragione dell’apostolicità, ma per motivo della dignità primaziale: Alla Chiesa di Roma devono le altre Chiese conformarsi e sottomettersi: essa è la regola di fede e lo è in forza della sua eminente autorità. (Batiffol: La Chiesa nascente, pag. 260.— Dict. Théol. Cath. « Infallibilité », pag. 1656. — Zappelena: De Ecclesia, pag. 140)) Il Duchesne, a proposito di questa testimonianza di Ireneo, dice che « è difficile trovare un’espressione più precisa dell’unità dottrinale nella Chiesa universale, dell’importanza suprema della Chiesa come testimonio, custode e organo della tradizione apostolica, della sua superiore preminenza nell’insieme della cristianità ». ( Eglises séparées, pag. 216). – Tertulliano, cattolico, riconosce il primato di Pietro, fondamento della Chiesa, depositario delle chiavi del regno dei cieli, investito di pieni poteri per legare e per sciogliere. Tra le Chiese apostoliche ai cui insegnamenti bisogna stare attaccati, quella di Roma, secondo Tertulliano, occupa un posto eminente. Divenuto montanista, combatte gli editti del Pontefice di Roma, ma con le sue parole implicitamente viene ad ammettere che per i Cattolici tali decreti sono perentori. (D’Alés: La théologie de Tertullien, pag. 119). – S. Cipriano, Vescovo di Cartagine, chiama la Chiesa romana: chiesa principale, principio e centro di unità: Petri cathedram atque ecclesiam principalem, unde unitas sacerdotalis exorta est; la dice « radicem et matricem » di tutta la Chiesa cattolica; le altre Chiese stanno alla Chiesa di Roma come raggi al sole, come rami all’albero; come ruscelli alla fonte; secondo San Cipriano la comunione con il Vescovo di Roma è la comunione con tutta la Chiesa. (De Unitate Ecclesiæ.). – Queste testimonianze dei primi tre secoli intorno al primato della Chiesa di Roma, pure essendo qualche volta alquanto indeterminate e incerte, si impongono per la loro importanza ad ogni storico imparziale. « Così tutte le Chiese, scrive il Duchesne, sentono in ogni cosa, nella fede, nel disciplina, nel governo, nel rito, nell’opera di carità, l’incessante azione della Chiesa di Roma. Essa è dappertutto conosciuta, come dice Ireneo, dappertutto presente, dappertutto rispettata, dappertutto seguita nella sua direzione. Davanti ad essa nessuna concorrenza, nessuna rivalità: nessun’altra Chiesa osa mettersi a confronto con essa ». (Eglises séparées, pag. 155). Le testimonianze riportate di sopra ricevono una maggiore luce dai fatti. I Romani Pontefici intervengono con autorità nelle discussioni che sorgono nelle altre Chiese, S. Clemente Romano, come abbiamo visto, calma le agitazioni della Chiesa di Corinto; S. Vittore (189-199) risolve la questione del giorno della celebrazione della Pasqua, e scomunica, o almeno minaccia di scomunicare, i riottosi; Zefirino (199-217) scaccia dalla Chiesa i Montanisti di Asia e di Africa, tra cui Tertulliano; Callisto (217-222) promulga un editto perentorio intorno alla disciplina penitenziale, per autorità di Pietro, di cui si stima successore, come dice Tertulliano ; De pudic., 1, 21) S. Stefano (254-257) ordina che non si devono ribattezzare gli eretici e impone ai Vescovi di Africa di abbandonare la sentenza opposta. Durante il secolo secondo illustri personaggi vennero a Roma per visitare il Vescovo di quella città e richiedere il suo consiglio intorno a questioni di fede e di disciplina. – S. Policarpo, Vescovo di Smirne, discepolo di S. Giovanni, si reca a Roma nel 155 per consultare il Papa Aniceto sulla celebrazione della Pasqua. Questa visita ha un significato speciale, perché S. Policarpo è un personaggio apostolico, che occupa in Oriente una sede importante ed è l’oracolo dell’Asia. A Roma, pure sotto Aniceto, va Egesippo, palestinese, con l’intenzione di « verificare la sicura tradizione della predicazione e della successione apostolica », e vi rimane sino al pontificato di Eleuterio. (Batiffol: La Chiesa nascente, p. 215). Come Policarpo e come Egesippo, fa il viaggio a Roma anche Abercio, Vescovo di Jerapoli, « per contemplare la sovrana e per vedere la regina dalle vesti d’oro e dalle calzature d’oro». I martiri di-Lione, al tempo di S. Ireneo, mandano una legazione al Papa Eleuterio, affinché voglia rendere la pace alla Chiesa di Asia turbata dagli errori di Montano. Inoltre, da varie province della cristianità molti Vescovi ricorrono a Roma per rendere ragione della loro fede o per comporre una qualche controversia o per chiedere consiglio o per avere l’approvazione dei Concili particolari. Spesso vi ricorre lo stesso S. Cipriano, che alcuni vogliono rappresentare come ribelle a Roma.

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Tutto questo avviene nei primi tre secoli. A partire dal secolo IV l’affermazione del primato della Cattedra Romana prende un tale sviluppo di chiarezza e di precisione negli scritti e nei fatti, che non crediamo necessario insistervi a lungo. Basteranno alcune principali citazioni, tanto più che gli avversari sono su questo punto d’accordo con noi. S. Ottato di Milevi, confutando i Donatisti, che sostenevano essere la Chiesa formata dai soli giusti e perciò la santità costituire la sua nota principale, dimostra che vi sono altre due note, cioè la cattolicità e l’unità. L’unità la fa derivare dalla « Cattedra di Pietro costituita a Roma », perché Pietro è capo di tutti gli Apostoli; egli insegna che tutte le altre cattedre derivano da quella di Roma e che è necessario, sotto pena di peccato e di scisma, conservare « la comunione con questa cattedra di Pietro », che perseverò sino a noi attraverso la serie dei Pontefici Romani. (De schismate Donatistarum, 1. II, cap. 23,9). Similmente S. Ambrogio di Milano afferma che Pietro è centro della Chiesa, che la Chiesa romana è capo di tutto l’orbe cattolico e che è segno di vera fede essere in comunione con la Chiesa di Roma. « Dove è Pietro, scrive egli, quivi è la Chiesa, e dove è la Chiesa, non vi è morte alcuna, ma vita eterna…. Dalla Chiesa romana, capo del mondo cattolico, provengono tutti i nostri diritti». (In Ps. 40, n. 30. — Epist. XI ad imperatorem, n. 4). Narra, inoltre, come suo fratello Satiro, sbattuto dalla tempesta sopra ignoti lidi, chiamasse a sé il Vescovo e chiedesse se la sua fede fosse d’accordo con i Vescovi cattolici, cioè con la Chiesa romana». (De excessu fratris sui, I, n. 47. — Cf. Tanquerey: De Vera Religione, pag. 465.). – Numerose ed esplicite sono le testimonianze di S. Agostino sul primato romano. Per lui « il principato della cattedra apostolica fu sempre in vigore nella Chiesa romana »; (Epist. 43, n. 7.) afferma che «la successione dei sacerdoti dalla sede dell’Apostolo Pietro sino al presente episcopato » è il motivo che lo tiene nella Chiesa cattolica. (Contra Epist. Manich., c. 4). Altrove riconosce che contro la sua sentenza si può appellare alla Sede Apostolica, anzi dice che i Concili provinciali desumono la loro autorità soprattutto dall’approvazione di Roma: « Intorno a questa causa (dei Pelagiani) furono già inviati alla Sede Apostolica gli atti di due Concili; di là vennero le risposte; la causa è finita ». (Sermo 132, n. 10. — Batiffol: Le catholicism de S. Augustin). –  Né meno esplicito è S. Girolamo. Egli scrive al Papa Damaso: « Io sono unito in comunione con la tua Beatitudine, cioè con la cattedra di Pietro. So che sopra questa cattedra è edificata la Chiesa. Chiunque mangerà l’agnello fuori di questa casa, è un profano ». (Epist. 15. — Cf. Hurter: Theol. Dogm., p. 393). Lo stesso S. Girolamo attesta che, essendo segretario del Papa Damaso, doveva rispondere « alle domande che pervenivano a Roma dall’Oriente e dall’Occidente ». Il che significa che ai suoi tempi si ricorreva a Roma da ogni parte. (I Vescovi espulsi dalla loro sede ricorrono a Roma, (Cf, Hurter: Theol. dogm., Vol. I, pag. 397. — Tanquerey: De vera Religione, pag. 467).

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La storia dei Concili ci porge una prova eloquentissima a favore del primato del Pontefice di Roma. Nel Concilio di Efeso (431) S. Cirillo, patriarca di Alessandria, invia per mezzo del diacono Possidonio una lettera al Papa Celestino, nella quale ricordando « la tradizione di sottoporre a Roma le difficoltà serie », espone gli avvenimenti intorno all’eresia di Nestorio, trasmette i documenti relativi e chiede l’intervento papale: « Degnatevi, scrive, dichiarare il vostro sentimento: se bisogna ancora comunicare con Nestorio o denunziargli chiaramente che verrà da tutti abbandonato, se persiste nella dottrina erronea, che predica e favorisce ». (Migne: Dict. de Patrol., p. 1227) Celestino nomina Cirillo suo vicario e manda ad Efeso i suoi legati, dei quali uno, il sacerdote Filippo, tiene ai Padri congregati del Concilio un discorso dove afferma che « è a tutti noto che il primato è passato da Pietro al Pontefice di Roma ». (Mansi: Concil; IV, 1295. — A. Oddone: Il vero concetto di unità religiosa nella tradizione, pag. 12. — Cf. TAnquerey, l. c., pagina 169. Dict. Théol. Cath.: « Primauté », pag. 282). I Padri accettano questa affermazione e dichiarano scomunicato Nestorio « indotti dai canoni e dalle lettere del Vescovo di Roma ». – Il Pontefice di Roma, Leone I, domina nel Concilio di Calcedonia (451), nel quale sono presenti circa seicento Vescovi, quasi tutti orientali. S. Leone scrive una celebre lettera, nella quale condanna gli errori di Eutiche, e manda legati che presiedano in suo nome al Concilio. Dopo la lettura del documento davanti ai Padri, essi esclamano: « Questa è la fede dei Padri, questa è la fede degli Apostoli. Tutti noi così crediamo: così credono gli ortodossi: anatema a chi non crede. Pietro ha parlato per mezzo di Leone ». (Mansi, I. c. — Oppone: Il vero concetto di unità religiosa nella tradizione, pag. 12). Ai Padri del III Concilio di Costantinopoli la professione di fede contro il Monotelismo, è inviata ancora da Roma, dal Pontefice S. Agatone. I Padri ricevono la professione di fede e rispondono ad Agatone con parole vibranti di devozione, di docilità e di esaltazione della Sede di Roma: « Per tutto ciò che si deve fare, noi ci riferiamo a Voi, Vescovo della prima Sede e capo delle Chiesa universale, a Voi che siete stabilito sulla roccia solida della fede. Noi abbiamo condannato gli eretici conformemente alla sentenza, che Voi avete fatto conoscere per mezzo della vostra sacra lettera ». (Patrol. Lat., Vol. LXXXVIII, col. 1243). La parola d’ordine partita da Roma sarà sempre la norma e la guida di ogni altro Concilio ecumenico. In ogni Concilio si riscontrerà sempre una consegna obbligatoria inviata dal Pontefice di Roma, una consegna eseguita dal corpo episcopale con sacrificio, qualche volta, eroico, di personali vedute. E se qualche Vescovo, sia pure Patriarca, si discosterà dal pensiero di Roma, la Chiesa non dubiterà di reciderlo dal suo albero e di considerarlo come eretico. – Conchiudiamo questa trattazione con un argomento di prescrizione, che compendia in certo modo ciò che abbiamo detto. Storicamente consta, dai documenti riferiti, che i Pontefici di Roma, almeno dal secolo quinto, furono riconosciuti come successori di Pietro dalla Chiesa universale, sia Occidentale che Orientale, e che essi esercitarono per diritto divino legittimamente il primato di giurisdizione sopra tutta la Chiesa. Ora questa persuasione non poté derivare se non dagli Apostoli. Infatti, se nei tempi apostolici si credeva universalmente che tutti i Vescovi fossero uguali per diritto divino, come vogliono gli avversari del primato romano, è necessario che sia avvenuta una grande mutazione nella fede e nella pratica di tutta la Chiesa. Il che è moralmente impossibile, perché dappertutto e da molti Vescovi sarebbe stata avvertita e sarebbero sorte delle proteste da parte loro, trattandosi di cosa riguardante l’essenza della Chiesa e i privilegi e i diritti degli stessi Vescovi. Di queste proteste non ci sono vestigi, e i pochi fatti sfruttati dagli avversari provano anzi che l’autorità del Pontefice di Roma era riconosciuta da quelli stessi che non ne eseguirono fedelmente i comandi. Perciò la dottrina del primato romano è storicamente certa, dogmaticamente una verità di fede. (Si suole fra i Teologi agitare la questione se il primato sia annesso alla Sede di Roma per diritto divino o per diritto ecclesiastico. Intorno a questo punto non vi è nulla di definito. (Mazzella: De Ecclesia, n. 912). La sentenza più comune tiene che il primato è congiunto con l’Episcopato Romano per diritto divino; diritto divino antecedente, se Cristo stesso designò Roma come la Chiesa a cui il primato doveva congiungersi in perpetuo: diritto divino conseguente se confermò la scelta fatta da Pietro. In ambedue i casi la congiunzione è immutabile. Non è tuttavia degna di nessuna censura l’opinione di alcuni vecchi Teologi che credettero che la congiunzione del primato con la Sede Romana sia soltanto di diritto ecclesiastico, cioè sia stata stabilita dalla sola autorità di Pietro: in tal caso il Papa potrebbe cambiare e disgiungere il primato dalla Sede Romana. – Cf. Hervé: Théol. Dogm., Vol. I, p. 400).

IV

NATURA ED EFFICACIA DEL PRIMATO ROMANO

Il Concilio Vaticano, dopo aver trattato dell’istituzione e della perpetuità del primato nel Romano Pontefice, giudicò necessario di proporre per essere creduta e tenuta da tutti i fedeli, la dottrina sulla natura del primato, secondo l’antica e costante fede della Chiesa universale, e di proscrivere e condannare gli errori contrari tanto dannosi al gregge di Cristo ». (Pastor Æternus: Prologo) Il Concilio quindi nel capo II della « Pastor Æternus » definisce che il Papa ha non solo l’ufficio di ispezione e di direzione, ma piena e suprema potestà di giurisdizione sopra tutta la Chiesa; che ha tale potestà di giurisdizione non solo nelle cose di fede e di costumi, ma anche in quelle di disciplina e di regime; che non ha soltanto le parti migliori, ma la pienezza di questa potestà; che questa potestà è ordinaria, episcopale, immediata in tutte e singole le Chiese, in tutti e singoli i pastori e i fedeli. Sviluppiamo alquanto queste importantissime decisioni. – Il Papato ebbe a sostenere grandi lotte, specialmente dopo il Grande Scisma d’Occidente. Abusi nel governo pontificio e ambizioni del potere civile, determinarono una profonda crisi e diedero origine ad errori funesti intorno ai diritti della Chiesa, alle sue prerogative, alla sua stessa costituzione. Accenniamo brevemente ai principali di questi errori, che il Vaticano colpì con la sua. definizione. – Una teoria sovversiva della potestà pontificia è il Cesarismo assoluto, di cui fu fautore principale Marsilio da Padova nel suo libro « Defensor Pacis ». La pienezza del potere religioso e civile risiede, come viene esposto in quest’opera, nel popolo, e dal popolo, come da propria fonte, immediatamente promana. Il popolo a sua volta la trasmette all’imperatore, il quale, come depositario della volontà legislatrice del popolo e rappresentante della comunità dei fedeli, è capo della società civile e della Chiesa stessa. La Chiesa quindi non è che un elemento dello Stato: essa ha, come organo di governo il Concilio ecumenico, formato da Vescovi, chierici e laici e presieduto dal Principe. Il Papa è un semplice mandatario del Concilio, dal quale può essere punito e deposto. (Oddone: Il Concilio Vaticano, pag. 46. — Cf. Dict. Téol. Catt. « Primauté », pag. 309). La formulazione quasi ufficiale di queste dottrine si ebbe nel Concilio di Pisa (1409) e in quello di Costanza (1414), specialmente mediante l’opera di Pietro d’Aillly e di Giovanni Gersone, nei quali Concili sidecretò con particolari canoni la supremazia del Concilio ecumenico sopra il Papa. A questi principi s’ informò poi il Gallicanismo portando in essi qualche moderazione. Per Gallicanismo i generale s’intende un complesso di dottrine, che mira a limitare l’autorità del Papa, attribuendo alla Chiesa d Francia e alle autorità politiche della nazione francesi un certo numero di diritti e di privilegi designati sotto il nome di libertà gallicane. Esso si presenta quindi sotto l’aspetto ecclesiastico e sotto l’aspetto politico. Il Gallicanismo ecclesiastico o episcopale attribuisce ai Vescovi privilegi e diritti in riguardo alla Sede di Roma e determina l’estensione del potere spirituale e il soggetto di questo potere. Nel sec. XVII-XVIII esso era comunemente insegnato nelle Scuole teologiche di Francia e specialmente alla Sorbona. Il potere spirituale del Papa non si estende in nessun modo sui re e su certi privilegi dei Vescovi francesi; il soggetto del potere spirituale non è il Papa solo, ma la Chiesa universale radunata in Concilio; il Papa dal punto di vista dottrinale non è infallibile se non con il Concilio ecumenico; dal punto di vista disciplinare è vincolato dai canoni della Chiesa intera e dagli usi delle Chiese particolari. – Il Gallicanismo politico o parlamentare o regale mirava a regolare le relazioni tra lo Stato e la Chiesa, e nelle sue pretese andava più oltre che il Gallicanismo ecclesiastico; estendendo i diritti del potere politico in modo da invadere addirittura il dominio spirituale della Chiesa. I re si arrogavano infatti il diritto di convocare i Concili nazionali; restringevano e sorvegliavano l’amministrazione del Papa e dei Vescovi; facevano dipendere dal loro beneplacito l’entrata in Francia dei legati pontifici, il viaggio dei Vescovi francesi a Roma, la pubblicazione delle bolle pontificie e delle ordinanze episcopali; nominavano i Vescovi; appoggiavano i loro diritti con mezzi di rigore, quali il placet, l’appello al Concilio generale, l’appello ab abusu ecc. Si voleva insomma costituire per la Chiesa di Francia come un corpo separato nel Cristianesimo. Luigi XIV fece votare dall’Assemblea del clero gallicano nella Dichiarazione del 1682, le quattro celebri proposizioni: 1° S. Pietro e i suoi successori non hanno ricevuto da Dio se non il potere sulle cose spirituali; sulle cose temporali non hanno alcuna giurisdizione né diretta né indiretta; 2° La pienezza di potere che la Sede Apostolica e i successori di Pietro, Vicari di Gesù Cristo, banno sulle cose spirituali, è limitata dai decreti del Concilio di Costanza, che proclamò la superiorità del Concilio sul Papa; 3° La Sede Apostolica deve rispettare le regole, le usanze e le costituzioni ricevute nel regno e nella Chiesa gallicana; 4° Benché il Papa abbia la parte principale nelle questioni di fede e i suoi decreti riguardino tutte le Chiese e ciascuna Chiesa in particolare, tuttavia il suo giudizio non diviene irreformabile se non dopo il consenso della Chiesa universale. – Simile al Gallicanismo è il Cesarismo mitigato, seguito dai politici della scuola liberale moderna. Essi non negano alla Chiesa il diritto di governare, di insegnare e di amministrare le cose sante in virtù di una missione divina. La Chiesa può fare leggi canoniche, approvare istituzioni religiose, scomunicare e assolvere: lo Stato, avendo un fine temporale, non può ingerirsi positivamente e direttamente nelle cose della Chiesa. Ma affinché la Chiesa non rechi nocumento al fine dello Stato, esso deve avere necessariamente un potere indiretto negativo nelle cose sacre, mediante il quale, benché non possa mutare la sostanza degli atti della giurisdizione spirituale, può in qualche modo irritarli. La fede religiosa, dal momento che cessa di essere cosa intima e individuale per divenire pubblica e comune, cade sotto il dominio della autorità civile. Viene quindi attribuito allo Stato il diritto di supremo dominio sui beni ecclesiastici, il diritto di suprema ispezione in tutta la vita esterna e sociale della Chiesa, il diritto di ricevere i ricorsi dei fedeli contro le autorità ecclesiastiche, il diritto di proibire la pubblicazione degli atti pontifici e vescovili senza il permesso del tribunale civile. Lo Stato non riconosce nel suo territorio alcun’altra autorità che non sia la sua, e per conseguenza non ammette alcuna società che non sia sotto la sua dipendenza.

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E il Concilio Vaticano definì contro ogni forma di Cesarismo, che la potestà del Papa è piena e suprema sopra tutta la Chiesa, veramente episcopale, ordinaria e immediata.

La giurisdizione del Papa è per sé piena e suprema; è piena perché egli ha non soltanto le parti principali della potestà, ma tutta la potestà che Cristo comunica alla sua Chiesa; è suprema, perché nessun’altra potestà è maggiore o eguale alla sua. Perciò il Papa può da solo compiere tutto ciò che appartiene al governo della Chiesa senza alcun concorso di Vescovi o consenso della Chiesa; egli non dipende da alcun altro, né la sua potestà è coartata da alcun limite o per riguardo alle persone o per riguardo ai luoghi o per riguardo agli oggetti: si estende assolutamente a tutte le cause, a tutte le particolari Chiese. Il Romano Pontefice infatti, in forza dei suoi uffici di clavigero del regno dei cieli, di Pastore supremo e di confermatore dei suoi fratelli nella fede, ha sopra tutti e singoli i fedeli e i Vescovi, anche presi collegialmente, la potestà di vera e propria giurisdizione estendentesi a tutto ciò che appartiene al fine della Chiesa; e questa potestà è affatto indipendente nel suo esercizio, non abbisogna della cooperazione di alcun altro, da essa anzi deriva e dipende qualunque altra potestà ecclesiastica. S. Leone Magno scrivendo al Vescovo di Tessalonica, da lui elevato alla sede vescovile di quella città, gli diceva: « Come usarono i miei predecessori con i predecessori vostri, io pure, seguendo l’esempio degli antichi, ho delegato alla vostra carità le veci del mio ufficio, affinché penetrato dai sentimenti stessi della vostra mansuetudine, ci veniate in aiuto nella cura, che per divina disposizione ci fu commessa di tutte le Chiese, e in certa guisa rappresentiate la nostra persona nelle province lontane dalla Sede Apostolica… Nel commettere alla carità vostra le nostre veci, vi abbiamo chiamato a parte della nostra sollecitudine, non dei nostri pieni poteri ». (Ferrè: La Costituzione dogmatica : « Pastor aeternus », Volume II, pag. 315). Conseguenza immediata ed evidente della pienezza e supremazia della potestà pontificia, è la sua superiorità sul Concilio ecumenico. Il Papa per disposizione di Cristo è il fondamento della Chiesa, ha la potestà delle chiavi su tutta la Chiesa, ha l’autorità di confermare i suoi fratelli. Ma questa triplice divina prerogativa del Papa sarebbe nulla, se egli non fosse superiore al Concilio. Osserviamo, per meglio precisare, che l’autorità del Concilio unito al Papa in confronto dell’autorità del Papa solo, è bensì maggiore estensivamente, perché anche i Vescovi come veri giudici concorrono insieme con il Papa a formare i decreti dogmatici e disciplinari; ma intensivamente, ossia per intrinseca efficacia, è al tutto uguale, perché il Papa ha in sé la piena potestà di compiere tutti gli atti richiesti dal governo della Chiesa. Se il Papa da solo, fuori del Concilio, pronunzia una definizione dogmatica, oppure emana una legge disciplinare per tutta la Chiesa, tutti i Vescovi e i semplici fedeli sono strettamente obbligati a credere e ubbidire. Se tale definizione venisse pronunziata in un Concilio, l’obbligo non sarebbe per questo più grave, perché quando si tratta di intrinseca obbligazione morale, non si dà né il più né il meno. (Oppone: I Concili ecumenici, pag. 49). – Il Concilio Vaticano affermando la piena e suprema autorità del Papa lasciò intatta la questione dell’origine della giurisdizione dei Vescovi. Si disputa e soprattutto si disputò durante il Concilio di Trento, se la giurisdizione episcopale derivi immediatamente da Dio o immediatamente dal Papa. La potestà di giurisdizione è nei Vescovi propria e ordinaria, e perciò alcuni sostengono che proviene immediatamente da Dio con la consacrazione. Altri teologi molto più numerosi dicono invece che tale potestà proviene immediatamente dal Pontefice e mediatamente da Dio. Qualunque sentenza si scelga, sempre bisogna tenere come vere le due seguenti osservazioni. La prima che i Vescovi non sono meri delegati del Papa, ma che la loro potestà è ordinaria e propria e che il grado episcopale non può essere abolito nella Chiesa, perché istituito da Gesù Cristo stesso. La seconda che la potestà dei Vescovi, anche se venga immediatamente conferita da Dio, dipende sempre dal Papa sia nel suo esercizio, perché il Papa la può limitare, amplificare o togliere del tutto in qualche caso particolare, sia per ragione del soggetto, che viene determinato dal Pontefice, sia per ragione del termine, cioè del popolo che viene affidato alla cura del Vescovo. (Tanquerey: De vera religione, pag. 574, n. 879. — De Guibert: De Ecclesia, pag. 243).

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La giurisdizione del Papa è veramente episcopale. Per autorità episcopale s’intende il diritto e il potere di fare quelle cose, che secondo l’istituzione di Gesù Cristo sono necessarie e vantaggiose per la santificazione degli uomini e per la loro salvezza spirituale. L’autorità episcopale consiste, in altre parole, nella potestà immediata e ordinaria di pascere, di reggere e di governare il gregge a sé commesso, e importa quindi il diritto e il dovere di ammaestrare i popoli nella verità della fede, di amministrare i Sacramenti, di regolare le funzioni del culto sacro, di fare leggi, di decidere le controversie e di punire i delinquenti: è insomma la potestas pascendi, regendi ac gubernandi gregem sibi commissum. Al PapaGesù Cristo conferì questa potestà episcopale quandogli affidò l’incarico di pascere i suoi agnelli e le sue pecorelle: senza di essa il Papa non sarebbe più Pastore universale del gregge di Cristo. Perciò il Papa non hasoltanto il diritto di ispezione e di vigilanza sopra altre Chiese, come voleva Pietro Tamburini, (Il Papa avrebbe soltanto il diritto di supplire alla negligenza altrui, di provvedere, con le esortazioni e con gli esempi, all’unità della Chiesa. La potestà del Papa sarebbe simile a quella dell’Arcivescovo nelle diocesi dei suoi suffraganei, nelle quali non ha potestà episcopale) il gran corifeo dei Giansenisti in Italia, ma il diritto di compiere gli uffici del Vescovo in qualunque Chiesa particolare, e può esercitare la sua giurisdizione sopra i diversi fedeli della cristianità non soltanto per mezzo dei Vescovi, ma direttamente per sé o per mezzo dei suoi legati. Il Papa può in tutto il mondo cattolico compiere l’ufficio di Vescovo. Che differenza passa dunque tra la potestà di un semplice Vescovo, avente la propria diocesi determinata, e quella del Papa? La differenza sta in questo che la potestà nel Sommo Pontefice si trova nella sua pienezza, nei Vescovi invece ristretta; nel Sommo Pontefice indipendente nei Vescovi dipendente; nei Vescovi limitata alle loro diocesi, nel Sommo Pontefice senza alcuna limitazione di luogo, estesa sino alle estremità della terra. ( Cf. Ferré, I. c., pag: 329: — Bernardi: Il Papa secondo il Concilio Vaticano, pag. 57). Se la potestà del Papa è veramente episcopale bisogna anche dire che questa potestà è pure ordinaria. La giurisdizione ordinaria, secondo i canonisti, è quella che compete a qualcuno per proprio suo diritto, per ragione della sua dignità e del suo ufficio, conformemente alla legge, ai canoni e alla consuetudine. La giurisdizione delegata invece è quella che non compete per ragione di ufficio, ma viene ricevuta da colui che possiede l’ordinaria, ed esercitata in suo nome. Carattere quindi della giurisdizione ordinaria è che colui che ne è rivestito può delegarla ad un altro, che faccia le sue veci. Evidentemente la giurisdizione del Papa deve essere ordinaria, perché il primato pontificio non può essere effetto di una delegazione, non essendovi alcuno al mondo che possegga tanta autorità e la possa delegare. D’altra parte il Papa agisce sempre in suo nome, per sua propria autorità, e a lui appartiene delegare la giurisdizione spirituale in tutta la Chiesa. Il Papa ricevette questa giurisdizione da Gesù Cristo, che gliela comunicò nell’atto stesso che lo elevava ad essere il capo visibile di tutta la Chiesa, il pastore supremo di tutto il suo mistico ovile. Perciò giustamente viene detto Ordinario degli Ordinari. Questa verità era già stata definita sotto Innocenzo II con il seguente decreto, quasi letteralmente ripetuto dal Vaticano: « La Chiesa di Roma per disposizione del Signore ha sopra tutte le altre, potestà ordinaria, come quella che è madre e maestra di tutti i fedeli di Cristo ». (Si confronti anche S. Bonaventura: In breviloguio, p. 6, cap. 12. — FERRÈ, l. c., pag . 335). Dalla dottrina esposta segue infine che la giurisdizione del Papa è mnediata; il che significa che può essere validamente e lecitamente esercitata in tutte le diocesi senza alcun controllo di intermediari, né dei Vescovi né dei governi. Il Papa può, come il Vescovo nella sua diocesi, esercitare la potestà legislativa, giudiziaria e coercitiva immediatamente sopra tutti i fedeli del mondo cattolico; può amministrare in qualunque diocesi i Sacramenti senza alcuna licenza dell’Ordinario del luogo. Conseguentemente ciascun fedele è tenuto a sottomettersi con piena docilità ai decreti del Papa riguardanti la fede e i costumi, a conformarsi alle regole della disciplina ecclesiastica da lui emanate, e a tutto ciò che egli decide e prescrive in ordine al governo della Chiesa cattolica. La ragione si è che ciascun fedele è immediatamente sottomesso per ordine di Cristo alla suprema giurisdizione del Papa.

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Questa autorità suprema, ordinaria e immediata del Papa sopra tutto il Cristianesimo, non nuoce alla giurisdizione ordinaria e immediata dei Vescovi. « Tanto è lungi, dice il Concilio Vaticano; che questa potestà del Sommo Pontefice sia di detrimento al potere ordinario e immediato di giurisdizione episcopale…. che anzi questo loro potere viene al contrario affermato, corroborato e rivendicato dal Pastore supremo e universale, secondo le parole di S. Gregorio Magno: Il mio onore è l’onore della Chiesa universale; il mio onore è la forza solida dei miei fratelli. Allora io sono veramente onorato se a ciascuno è dato l’onore, che gli compete. » (« Pastor Æternus », cap. III). La verità dell’asserzione del Concilio Vaticano è dimostrata con tutta evidenza dalla storia, la quale ci presenta il fatto costante delle diocesi cattoliche, che si moltiplicarono e prosperarono sotto il primato romano. La potestà pontificia è come il fonte, da cui scaturisce la giurisdizione episcopale: non può quindi essere che le riesca di incaglio e di nocumento. Il Papa in rapporto ai Vescovi ha ragione di capo, di fondamento e di maestro: ora quanto maggiormente il capo è glorioso e onorato, tanto più decoro e nobiltà ricevono le membra; quanto più il fondamento è sicuro e inconcusso, tanto maggiore solidità ne ritraggono tutte le parti dell’edifizio; è infine certamente vanto del discepolo l’eccellenza del maestro. – Durante le discussioni del Concilio Vaticano, coloro che temevano un danno per la giurisdizione episcopale dall’asserita potestà del Papa, obbiettavano l’inconveniente che la medesima Chiesa possa avere due Vescovi, il Papa e il Vescovo locale. Rispondeva Mons. Pie, citando S. Tommaso: « Non si dica che sorge l’inconveniente di due Vescovi della medesima Chiesa. Vi è inconveniente, dice S. Tomaso, se due con pari autorità vengano posti a reggere lo stesso popolo: ma se hanno autorità ineguale non sorge più l’inconveniente. E così si capisce come hanno potestà immediata sopra il medesimo popolo e il Parroco e il Vescovo e il Papa. La ragione si è che quando due cause, anche totali, non sono del medesimo ordine, ma una è subordinata all’altra e sono vicendevolmente connesse, non si escludono mutuamente né generano confusione; come il concorso di Dio non esclude né turba l’azione delle cause seconde. Il Papa dunque, come supremo e universale Pastore e Vescovo della Chiesa, non impedisce punto che l’Ordinario proprio di una Chiesa particolare, si denomini e sia vero Vescovo della medesima; come il titolo ordinario del parroco niente sottrae alla superiore e più universale autorità del Vescovo in tutta la sua diocesi; benché il buon ordine domandi che le rispettive attribuzioni dei singoli non vengano senza motivo e senza discrezione, turbate e interrotte, la qual cosa è ammessa da turbate e interrotte, la qual cosa è ammessa da tutti.» (GRANDERATH: Const. Dogm. Conc. Vatic. explicatæ, pag. 118). – Non nocumento quindi, ma anzi vantaggio arreca ai Vescovi, il primato pontificio. I Vescovi ricevono aiuto grande dalla sottomissione e ubbidienza al Papa. Essi insegnano le più sublimi verità della fede con intimo convincimento, poiché sanno di non errare aderendo al maestro universale della Chiesa; e se qualche dubbio sorge loro nell’animo, hanno aperta la via per dissiparlo ricorrendo con docilità al giudice supremo della fede. Nel regolare le molteplici pratiche di pietà procedono sicuramente, poiché sono certi che quando esse vengano approvate dal Papa, non possono essere infette di superstizione. Se avvengono difficili casi di diritto e di morale, è per i Vescovi di gran sollievo il poter deferire al tribunale del Papa la questione e attenderne la sentenza definitiva. Anche nelle dure lotte contro i nemici della fede, prendono vigore e conforto nel sapersi approvati, aiutati e difesi dal Papa. – Aggiungiamo che il primato del Papa è ordinato alla necessaria unità della Chiesa di Cristo, nella quale deve esserci un solo ovile e un solo Pastore. (Giov. X, 16) Se il Papa non fosse il Vescovo e il Pastore universale con giurisdizione piena, ordinaria e immediata, i Vescovi non avrebbero alcun pastore sopra di sé, e perciò la Chiesa non sarebbe un ovile solo sotto l’autorità di un solo visibile pastore; ma vi sarebbero tanti Pastori quanti Vescovi, i quali non sarebbero governati da alcun Pastore supremo. Conseguentemente contro l’istituzione di Cristo svanirebbe l’unità della fede e della disciplina, vi sarebbero tante membra che non costituirebbero un corpo vivo e unificato. È pertanto chiarissimo che, come l’unità delle Chiese particolari procede dall’unità del Vescovo, così dall’unità del Vescovo supremo è universale deriva l’unità della Chiesa universale. (Perrone: De locis theol., p. I, n. 606). Il Papa, dice il De Maistre, è il solo principio possibile, il principio divino d’unità nella Chiesa. Per mezzo di lui soltanto si può realizzare l’indispensabile unità di dottrina e di governo, e quindi la vera cattolicità; per mezzo di lui soltanto si può mantenere indefettibile la apostolicità, con il progresso e la fecondità dell’evangelizzazione. Il Papa soltanto, dominando dal suo principato spirituale, tutte le potenze terrestri, può assicurare alla Chiesa indipendenza e libertà. Del resto i fatti registrati nelle pagine della storia e più eloquenti di tutte le dimostrazioni, ci dicono che le Chiese separate soffrono di divisione e anche di sgretolamento e di anarchia, per mancanza di un’autorità superiore unificatrice. (Il Papa. — Cf. Vladimiro Soloviev:, La Russie et l’Église universelle, p. LXVI. — D’ Herbigny: Teol. de Ecclesia). Possiamo dire che la costituzione della Chiesa cattolica presenta un carattere particolare che non ci permette nessun confronto con le altre costituzioni. La Chiesa non è una federazione, nella quale dinastie più o meno autonome, si raggruppino intorno ad un presidente, come i diversi sovrani della Germania del 1871 si univano attorno all’imperatore. La Chiesa non è neppure uno Stato centralizzato secondo la formula napoleonica, dove opererebbero, nelle diverse parti del territorio nazionale, dei prefetti ad nutum, semplici delegati del potere centrale. Essa ha una costituzione tutta speciale, dove bisogna tener conto delle istituzioni di diritto divino e delle determinazioni, che gli avvenimenti hanno apportato a questo diritto. Al Papa, nel quale si trova la pienezza del potere sulla Chiesa, spetta conciliare il suo diritto e la sua missione con la missione e con il diritto dei Vescovi. Secondo una saggezza e una discrezione, che imitano il governo del Padre celeste, egli prenderà quelle misure che gli sembreranno più opportune per la salvezza delle anime, che è la legge suprema. Primato non significa assorbimento di tutte le giurisdizioni inferiori, soprattutto non significa centralizzazione amministrativa illimitata o dittatura intollerabile. Il Vicario di Cristo stringe o allarga con un senso superiore e divino di giusta comprensione, i legami che uniscono alla prima sede le altre sedi, secondo le opportunità dei tempi e dei luoghi. – Ai canonisti appartiene in modo speciale determinare l’oggetto della giurisdizione pontificia e il modo con cui si esercita. Per la nostra trattazione basta un semplice e breve cenno. Il Sommo Pontefice può emanare leggi per tutta la Chiesa, anche senza il consenso dei Vescovi. Questo potere gli fu dato da Cristo, quando disse a Pietro: Tutto quello che legherai sulla terra sarà legato in cielo. Al Papa fu pure concessa la potestà di « sciogliere », cioè non solo d’interpretare autenticamente, ma anche di mutare, di abrogare o di dispensare dalle sue leggi, da quelle dei suoi predecessori e anche dei Concili ecumenici. Anzi egli può dispensare dalle leggi fatte dai Vescovi o abrogarle, perché i Vescovi sono a lui soggetti e non possono validamente esercitare la loro autorità, se non dipendentemente dall’autorità pontificia. – Il Papa può avocare al suo tribunale le cause ecclesiastiche, riservare a sé le cause maggiori, ricevere gli appelli da qualunque giudizio dei Vescovi e pronunziare sentenze definitive, che non ammettono più alcun appello. La potestà giudiziaria infatti è una conseguenza della potestà legislativa, e colui che ha la potestà di fare leggi per tutta la Chiesa, con ciò stesso può pronunziare sentenze giudiziali per tutti i sudditi cristiani e in ogni affare ecclesiastico. Inoltre, essendo i Vescovi giudici soggetti al Papa, è sempre lecito appellare a lui dalle sentenze dei Vescovi. Non essendovi poi alcun tribunale maggiore di quello del Papa, dalle sue decisioni non è lecito appellare al Concilio ecumenico, come dice espressamente il Vaticano. (Durante il periodo del Giansenismo furono condannati gli Appellanti al futuro Concilio – Già era stato affermato da Pio II, nella Bolla Execrabilis – ndr.). Il Papa in forza del primato ha il diritto di assegnare ai singoli Vescovi il loro gregge particolare, di erigere Diocesi o di sopprimerle, di eleggere i Vescovi o almeno di confermarne l’elezione, di stabilire le norme dell’amministrazione ecclesiastica, di giudicare, trasferire o anche deporre i Vescovi, secondo che lo crederà conveniente per il bene della Chiesa. I Vescovi infatti non possono esercitare la loro potestà se non in dipendenza dal Capo della Chiesa: se qualcuno potesse ritenere ed esercitare una parte dell’autorità ecclesiastica fuori del consenso del Romano Pontefice, si spezzerebbe il vincolo dell’unità. – Appartiene al Romano Pontefice convocare, celebrare e confermare i Concili-ecumenici. (Oppone: I Concili ecumenici, pag. 29). Egli ha pure il potere di delegare ad altri la sua autorità e inviare Legati nei vari Stati, ai Concili ecumenici, per affari di grave importanza, affinché essi facciano le sue veci là dove il Papa non può recarsi, e lo informino dell’andamento delle cose religiose. Quest’uso fu in vigore sino dai primi secoli della Chiesa. Nell’esercizio della sua autorità il Papa è coadiuvato non solo dai Legati, che manda nelle diverse parti, e dai Nunzi, che risiedono presso le diverse nazioni, ma anche dalla Curia Romana, che attualmente comprende diciannove Dicasteri, cioè undici Congregazioni, tre Tribunali e cinque Uffici. (Cf. Codex J. C.). Alla piena e somma potestà del Romano Pontefice, qualunque sia il modo con cui egli la esercita, corrisponde il dovere strettissimo in tutti i figli della Chiesa della più intera e assoluta ubbidienza ai suoi decreti. I documenti della tradizione cattolica ci attestano, che quest’obbligo fu sempre riconosciuto e praticato dai veri fedeli e che dai Sommi Pontefici ne fu sempre rigorosamente richiesto l’adempimento. (FERRE, l. c., Vol. Il, p. 361. — Pio X: Il fermo proposito).

Il punto più importante definito dalla Costituzione Pastor Æternus è l’infallibilità del Papa, intorno alla quale si ebbero lunghe e forti discussioni durante il Concilio Vaticano. (Oddone: I Concili ecumenici, pag. 126.) Avversari di questa dottrina sono tutti coloro che negano il primato del Romano Pontefice. Giovanni Gersone e Pietro d’Ailly dell’Università di Parigi, insegnarono, come abbiamo già accennato; che solo la Chiesa o il Concilio ecumenico, rappresentante di essa, sono giudici infallibili nelle questioni di fede. (Il Gersone nell’opera: Quomodo et an liceat in causis fidei a Summo Pontifice appellare. — ll D’arivy nell’opera: Tractatus de Ecclesia.) All’infallibilità pontificia si opposero in modo speciale i Galliani, secondo i quali il giudizio del Papa non è irreformabile, se non vi si aggiunge il consenso della Chiesa. Essi furono seguiti nel sec. XVIII dai Febroniani e dai Giansenisti. Nello stesso Concilio Vaticano esisteva il partito degli antiinfallibilisti; ma per la verità bisognadire che la maggior parte di essi impugnarono piuttostola opportunità della definizione. Dopo il Concilio Vaticano continuarono ad opporsi al dogma dell’infallibilità, i così detti Vecchi Cattolici, guidati dal Déllinger. (De Guibert: De Ecclesia, pag. 247).

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Precisiamo innanzi tutto, per evitare equivoci ed ovviare a difficoltà, la natura dell’infallibilità. Infallibilità significa in generale immunità dell’errore o incapacità di errare in un soggetto intelligente. Se questa impossibilità di errare si prende nella sua maggiore ampiezza, e come attributo naturale e radicato nell’essenza stessa dell’essere intelligente, non appartiene che a Dio solo, perchè Egli solo è verità per essenza, nella quale per ragione della sua perfezione infinita, non può cadere ombra di errore. Questa infallibilità di Dio è assoluta, universale e imparticipata. Ma Dio può comunicare anche alle sue creature intelligenti una infallibilità condizionata e limitata ad un determinato ordine di verità: avremo in tal caso l’infallibilità anche nell’uomo, ma participata. (1(1) Così possiamo dire che le creature sono infallibili intorno ai primi principi del ragionamento e della legge morale, che non possono essere ignorati né fraintesi dall’ uomo. (Cf. FERRÉ, 1..c., Vol. III, pag. 196).  È chiaro che l’infallibilità della Chiesa e del Papa è una infallibilità partecipata. L’infallibilità ecclesiastica è una prerogativa soprannaturale secondo la quale:

la Chiesa, per una speciale assistenza divina, viene sempre e necessariamente custodita immune dall’errore nel proporre la dottrina rivelata, in modo che non solo non erra, ma non può errare. L’elemento formale della infallibilità è la immunità dall’errore; l’elemento materiale si trova nelle cose di fede e di costumi, che ci vengono comunicate dalla Rivelazione e che si devono custodire intatte; la causa efficiente è l’assistenza dello Spirito Santo. – L’infallibilità, quindi, come risulta dalla definizione; esclude nonsolo il fatto dell’errore (inerrantia facti) ma anche la possibilità dell’errore (inerrantia iuris). Si tratta non di infallibilità essenziale, che compete a Diosolo, ma di infallibilità participata; si tratta di infallibilita’ soprannaturale, che supera cioè le forze e le esigenze della natura, comunicata da Dio per una speciale causa, e che differisce quindi da quella infallibilità naturale di cui è fornito il nostro intelletto per riguardo ai primi principi speculativi e pratici. Dio potrebbe in moltimo di preservare la sua Chiesa dall’errore, ma di fatto sceglie l’assistenza, cioè quegli aiuti della sua divina provvidenza, mediante i quali non si permette che la Chiesa erri nell’esercizio del suo Magistero. Tali aiuti possono riferirsi alle stesse facoltà dell’uomo, la volontà e l’intelletto, che vengono applicate direttamente nella ricerca della verità, o possono trovarsi nelle cose esterne, che distolgano il Papa da una falsa definizione. L’infallibilità non importa per sé sempre un influsso divino positivo; quando le cose procedano bene, lo Spirito Santo può lasciare a se stessa l’attività e l’industria umana. Il dono dell’infallibilità non esclude l’opera e l’indagine propria di colui che definisce, anzi la presuppone, come si deduce chiaramente dalla parola assistenza: si suppongono gli sforzi del Magistero ecclesiastico; ai quali Dio possa assistere e cooperare. Sappiamo che per la prima definizione della Chiesa, gli Apostoli e i Seniori si radunarono in assemblea e molto discussero per trovare la verità e comporre la controversia (Act. XV, 6). La infallibilità differisce dalla rivelazione e dall’ispirazione:

la rivelazione è la stessa manifestazione di una qualche verità in quanto tale; l’ispirazione è l’impulso divino a scrivere la verità rivelata; l’infallibilità invece consiste nell’assistenza a trovare la verità rivelata: suppone quindi la rivelazione, ma non è rivelazione. Distinguiamo ancora l’infallibilità attiva e passiva: la infallibilità attiva è propria della Chiesa docente e consiste nell’immunità dall’errore nell’insegnare; la infallibilità passiva compete ai fedeli che sono ammaestrati, e consiste nell’immunità dall’errore nel credere. La prima fa sì che i dottori autentici della Chiesa non possano mai insegnare il falso quando definiscono: la seconda, quasi effetto della prima, non permette che tutta la Chiesa aderisca ad un errore di fede. – Da questa breve analisi del concetto di infallibilità, si comprende quanto stoltamente e ingiustamente. Si confonda da alcuni la infallibilità con l’impeccabilità o con la omniscienza o scienza universale e assoluta.

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L’infallibilità della Chiesa è innanzi tutto un corollario della sua indefettibilità. Se la Chiesa, infatti, potesse universalmente errare nella vera fede, non sarebbe più la vera Chiesa di Gesù Cristo, la quale deve essere apostolica di apostolicità di dottrina; le porte dell’inferno prevarrebbero allora contro di essa. La indefettibilità ecclesiastica importa immutabilità nelle cose sostanziali; ora il dogma e la morale appartengono alle cose sostanziali. In modo più esplicito e diretto la infallibilità della Chiesa si deduce dalle promesse che fa Cristo, di essere con gli Apostoli sino al termine dei secoli, e di mandare loro lo Spirito Santo, affinché con loro rimanga e continui ad ammaestrarli. Cristo inoltre ha imposto a tutti di credere agli Apostoli sotto pena di dannazione eterna: « Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo; chi non crederà, sarà condannato ». (Marc. XVI, 16) Dunque se non si vuol dire che Cristo abbia potuto obbligare gli uomini all’errore, bisogna ammettere il Magistero infallibile della Chiesa. Gli Apostoli nel loro insegnamento esigono un assenso irreformabile e chiamano la Chiesa « colonna e base della verità ». (Columna et firmamentum veritatis – 1 Tim. III, 15). L’infallibilità del Papa è una forma dell’infallibilità della Chiesa, è la stessa infallibilità della Chiesa considerata in un soggetto determinato, che è il Romano Pontefice. « Il Romano Pontefice, dice il Vaticano, quando parla ex cathedra, gode di quella infallibilità di cui il Redentore divino volle essere fornita la sua Chiesa nel definire una dottrina sulla fede e sui costumi, e perciò le definizioni del Romano Pontefice sono irreformabili per se stesse e non in virtù del consenso della Chiesa ». (« Pastor Æternus », Cap. IV).Si tratta d’infallibilità nell’insegnamento e non nell’azione,molto meno ancora nella condotta personale delPapa. Non è questione di un insegnamento qualunque,ma di un atto dottrinale proprio ad impegnare la Chiesa. L’infallibilità non appartiene dunque ai sentimenti privatidell’uomo, ma alle decisioni ufficiali del capo. Essanon si estende a tutto il dominio del sapere, ma unicamentealle materie di fede e di costumi, le sole sullequali ha competenza il Magistero ecclesiastico… Comequella della Chiesa, l’infallibilità del Papa deve la suaorigine ad un privilegio divino, che consiste in una graziadi assistenza e non di ispirazione. Per conseguenza nonesenta il Papa dalle leggi comuni della prudenza umana:essa garantisce soltanto dall’errore il risultato definitivodelle sue deliberazioni. Il suo scopo quindi non è quellodi accrescere di nuove verità il tesoro della rivelazionedivina; ma di assicurare la perfetta conoscenza e conservazione delle verità rivelate. L’infallibilità è un privilegioindividuale in questo senso che appartiene al Papasolo e non potrebbe egli delegarla ad un altro. Tuttavianon è un carisma destinato all’esaltazione della sua persona, ma un mezzo per lui di compiere la sua missione di Pastore supremo: tende così tutta intera al bene comunedelle anime cristiane. Quando si parla dell’infallibilità della Chiesa e dell’infallibilità del Papa, non si vogliono già designare due autorità separate e rivali, di cui si possa temere l’opposizione, ma di due organi differenti,l’uno collettivo, l’altro personale, per comunicare ai credenti la verità, di cui Gesù Cristo è la fonte e il custode. La medesima protezione e assistenza divina si estende al Corpo e al Capo. –  Così intesa, l’infallibilità del Papa è una verità che risulta chiaramente dalla Scrittura e dalla Tradizione. L’infallibilità è distinta dal primato, come appare dalla definizione. Ma se si segue lo sviluppo teorico e pratico di questi due dogmi, si constata che essi si affiancano e si implicano vicendevolmente. L’infallibilità è intimamente connessa con il primato: deriva dal primato come una conseguenza da un principio o piuttosto si identifica con il primato come una proprietà necessaria. L’infallibilità è, nel dominio della giurisdizione dottrinale, il coronamento logico del primato: poiché il Papa è il capo supremo della Chiesa, egli è pure il supremo dottore e possiede per questa ragione la infallibilità. Perciò lo studio intorno alla infallibilità pontificia utilizza gli stessi documenti e gli stessi fatti recati per il primato. (Hervé: Théol. Dogm., Vol. I, pag. 443.).

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Un argomento generale a favore della infallibilità pontificia si deduce dalle verità già dimostrate di sopra. AI Pontefice fu data la piena e suprema autorità sulla Chiesa, e d’altra parte la Chiesa è infallibile nell’insegnare. Ora se la potestà magisteriale del Romano Pontefice  fosse fallibile, non potrebbe più dirsi piena e suprema, perché dovrebbe completarsi con quella dei Vescovi e del Concilio: cioè sarebbe più piena la potestà di tutto l’episcopato che quella del Papa solo. Si cadrebbe in uno di questi due assurdi, o la Chiesa dovrebbe rinnegare il suo Capo supremo per rimanere fedele alla verità da lui falsificata, o perdere il possesso della verità per rimanergli fedele. Alla stessa conclusione ci conducono i testi del primato, che abbiamo a suo luogo esaminati.

Il Romano Pontefice è fondamento visibile di tutta la Chiesa, principio efficiente della sua unità e della sua fermezza, principio quindi efficace della fede, che è l’elemento essenziale e precipuo dell’edificio della Chiesa. (Matth. XVI, 18) Ma il Papa non potrebbe essere principio e causa della ferma fede della Chiesa, se egli non fosse di per sé fermissimo nella fede, se potesse insegnare a tutta la Chiesa un errore in questioni di fede. Similmente Cristo ha assicurato che gli assalti dell’inferno, tra i quali sono specialmente le eresie, non avranno mai ragione contro la Chiesa: dunque molto meno prevarranno contro la Pietra, sopra la quale si appoggia la Chiesa e la fermezza della fede. Ora prevarrebbero certamente, se il Pontefice nell’adempiere l’ufficio di supremo maestro, non fosse di per sé fermo nella fede. Ancora dallo stesso testo di S. Matteo sappiamo che Dio ha promesso di legare e ratificare in cielo tutto ciò che il Papa lega in terra: ma Dio non può ratificare in cielo ciò che il Papa lega in terra, se egli nell’emanare un decreto dottrinale obbligante tutta la Chiesa, erra nella fede. Più espliciti sono gli altri testi del Vangelo. « Io ho pregato per te, dice Cristo rivolto a Pietro, affinché la tua fede non venga meno… Conferma i tuoi fratelli ». (S. Luc. XXII, 31). Viene così scartato ogni indebolimento, ogni danno nella fede di Pietro: viene formalmente assicurata, nonostante i pericoli, la indefettibilità di Pietro nella fede, cioè l’infallibilità. E questo affinché egli possa consolidare e fortificare i suoi fratelli. Pietro dunque e i suoi successori sino al termine dei secoli, parlando o insegnando come capi della Chiesa, devono confermare nella fede tutti i fedeli considerati isolatamente o collettivamente, facendoli partecipare alla loro propria indefettibilità. Ma affinché la promessa di Gesù non sia vana e che i fedeli non siano trascinati nell’errore, bisogna che questo insegnamento di S. Pietro e dei suoi successori, quando parlano come capi della Chiesa, sia, in virtù della promessa divina, assolutamente e costantemente garantito contro ogni possibilità di defezione nella fede. Sappiamo pure dal Vangelo che Gesù Cristo diede a Pietro e ai suoi successori l’incarico di pascere gli agnelli e le pecorelle, cioè di dirigere e di nutrire con dottrina salutare, tutto ilo gregge di Cristo, Vescovi e fedeli, e d’allontanarli dai pascoli velenosi: ora quest’ufficio importa necessariamente la infallibilità nel senso che abbiamo esposto. (S. G. XXI, 15). Supponiamo infatti che il Papa errasse nel definire la dottrina cristiana: in tal caso o tutta la Chiesa accetterebbe la sua sentenza, e verrebbe allora a mancare la infallibilità e indefettibilità della Chiesa; o la Chiesa protesterebbe contro la decisione del Papa e la correggerebbe, e cesserebbe allora l’ordine gerarchico istituito da Cristo: il gregge pascerebbe il pastore. – La infallibilità del Papa, benché non sia così esplicitamente e categoricamente asserita dai Padri della Chiesa, tuttavia fu realmente riconosciuta e in pratica e in teoria fino dai tempi più antichi, come appare dalle testimonianze degli stessi Padri, dal modo di agire dei Romani Pontefici, dagli atti dei Concili. Si confronti tutto ciò che abbiamo detto parlando del primato del Romano Pontefice nella parte III. La tradizione anzi illumina sempre meglio gli stessi fondamenti evangelici. Nei primi tre secoli la dottrina dell’infallibilità è implicitamente contenuta nell’autorità sovrana, che si riconosce nei giudizi della Chiesa di Roma, nella credenza universale che la integrale dottrina apostolica sia presso i Romani. Per S. Ignazio d’Antiochia i Romani sono quelli che « ammaestrano gli altri »; per S. Ireneo « bisogna far decidere a Roma le questioni che sorgono tra i Cristiani »; secondo S. Cipriano di Cartagine, « a Roma non ha accesso la perfidia e l’errore ». L’infallibilità pontificia risplende maggiormente nelle controversie trinitarie e cristologiche dei secoli IV e V, mediante numerosi interventi dei Papi soprattutto nei Concili e attraverso alle eloquenti affermazioni dei Padri, specialmente di S. Agostino, di S. Ambrogio e di S. Gerolamo, che furono riportate ed esaminate altrove. Nel Medio evo questa autorità suprema dottrinale del Papa continua ad affermarsi e a precisarsi nello sviluppo dottrinale scolastico. S. Bernardo rimanda Abelardo a Roma « dove la fede non può mai provare alcun eclisse »: (Epist. CXC. P. L., Vol. 182, col. 1053). S. Tommaso sentenzia che appartiene al Papa stabilire dei Simboli, perché è « proprio della sua missione decidere in ultimo luogo le questioni della fede ». (Summ. Theol.,, II, II, q.1 a 15. — Cf. Bricout: Pape, p. 246). Gli assalti del Gallicanesimo non oscurano né scuotono questa magnifica tradizione, ma provocano i Cattolici ad uno studio più profondo di essa, che culmina nella definizione dogmatica del Vaticano.

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Il Concilio Vaticano definendo il dogma dell’infallibilità pontificia, ha precisato le condizioni che deve presentare un atto del Papa, per beneficiare di questo privilegio. Secondo un’espressione da lungo tempo in uso nelle scuole, « il Romano Pontefice è infallibile quando parla ex cathedra ». La cattedra è in generale simbolo di autorità soprattutto dottrinale: le formule « parlare ex cathedra », « definire ex cathedra », sono adoperate per designare il pieno esercizio del magistero pontificale. Affinché si abbia una definizione infallibile, si richiede dapprima che il Papa si pronunzi ufficialmente come tale, che eserciti cioè l’ufficio di Pastore e di Dottore pubblico di tutti i Cristiani. Se il Papa parla come persona privata, discorrendo con i suoi familiari, come dottore privato, stampando un libro di materia religiosa; se opera come re temporale; se parla come Vescovo della diocesi di Roma, tenendo un’istruzione pubblica per esempio in una chiesa della città, non deve dirsi infallibile. Anzi non basta un modo qualunque di proporre una dottrina anche quando il Papa esercita l’ufficio di dottore e pastore pubblico, ma si richiede che adoperi la sua autorità pienamente, in tutta la sua forza ed estensione, emanando una sentenza perentoria, irreformabile, che ponga fine ad ogni incertezza e turbamento di animo. – Si richiede che la sua sentenza riguardi tutta la Chiesa, sia imposta cioè a tutti i Cristiani. Non sembra tuttavia necessario che il documento contenente la definizione, sia immediatamente diretto alla Chiesa universale: basta che sia destinato a tutta la Chiesa, benché direttamente sia forse indirizzato al Vescovo di qualche regione, dove è più diffuso l’errore che il Papa vuole condannare. – È necessario che l’intenzione di definire sia manifesta. Si tratta infatti di imporre una legge a tutta la Chiesa; la quale legge, finché rimane dubbia, non può imporre obbligazione. Il Diritto Canonico decreta: « Nessuna cosa si intende dogmaticamente dichiarata o definita, se ciò non appare manifesto ». (Can. 1323). Non è per sé determinata alcuna formola speciale per rendere manifesta la intenzione del Papa: soltanto si richiede che venga fatta conoscere in modo chiaro o esplicitamente o con termini equivalenti. (Van Noort, l. c., pag. 183).

È necessario, infine, che si tratti di un insegnamento intorno alla fede e ai costumi: res fidei et morum. Oggetto primario o diretto del Magistero infallibile del Papa, sono tutte e singole le verità religiose contenute formalmente nelle fonti della rivelazione. (Una verità può essere rivelata formalmente o virtualmente. Si dice rivelata formalmente se è rivelata in se stessa, sia esplicitamente sia implicitamente, cioè nel suo concetto: si dice rivelata virtualmente, quando in se stessa non è rivelata né esplicitamente né implicitamente, ma si può dedurre da una verità formalmente rivelata mediante un raziocinio deduttivo. Sulle verità rivelate virtualmente i Teologi non hanno però tutti la stessa nozione. (Cf. I Problemi della fede). Oggetto secondario e indiretto dell’infallibilità sono tutte quelle verità, che sono talmente connesse con la rivelazione, che, se intorno ad esse non si potesse portare un giudizio assolutamente certo, la stessa rivelazione patirebbe detrimento. Alcune di queste verità sono presupposte alla rivelazione, come i preamboli della fede filosofici e storici; altre derivano come necessaria conseguenza dalle verità rivelate; altre sono necessarie o sommamente convenienti, affinché si possa ottenere il fine della rivelazione. L’infallibilità del Papa quindi si estende a verità filosofiche, alle conclusioni teologiche, ai fatti dogmatici, alla disciplina generale della Chiesa, all’approvazione degli Ordini religiosi e alla Canonizzazione dei Santi. L’ambito dell’infallibilità del Papa è quello stesso della Chiesa. (Per lo sviluppo di questa dottrina rimandiamo il lettore alla nostra opera: « I Problemi della fede ». — Cf. ZAPELENA: De Ecclesia, pag. 314. — VAN Noort, l. c., pag: 90).

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Precisiamo in ultimo il nostro atteggiamento davanti al Magistero del Papa. Dobbiamo aderire con consenso interno, assoluto e irreformabile a tutto ciò che il Papa insegna infallibilmente come rivelato da Dio o come connesso con le verità rivelate. Ogni opposizione a questo riguardo ci separa dalla Chiesa. Non possiamo quindi ammettere dottrine contrarie alle definizioni pontificie. Siamo pure obbligati a sottometterci in coscienza alle decisioni dottrinali dell’autorità ecclesiastica, benché non infallibili. Il magistero della Chiesa non è una pura e semplice esposizione della verità, ma ha inseparabilmente congiunto il potere di comandare ai suoi sudditi l’ubbidienza dell’assenso intellettuale a ciò che viene insegnato. Ogni insegnamento autentico della Chiesa, per l’autorità da cui promana, per la luce che proviene alla Chiesa dall’assistenza dello Spirito Santo, per la ponderatezza dei suoi processi dottrinali, per la prudenza dei suoi giudizi, è così ragionevole e grave, che ogni Cattolico gli deve docile soggezione. Questa soggezione non importa per sé un’adesione irreformabile, ma però domanda, oltre l’esteriore sottomissione, un interno virtuoso assenso. Dovesse questo atteggiamento in qualche caso rarissimo e « per accidens », costare un reale sacrifizio allo scienziato; questo è ben dovuto a beni di ordine immensamente superiore, quali sono l’unità e l’incolumità della fede e la pace della coscienza. Allo scienziato credente è lecito presentare nelle debite forme, alla competente autorità della Chiesa, le ragioni del suo interiore dissidio, attendendo sereno dalla Divina Provvidenza, che veglia sulla Chiesa, l’immancabile trionfo della verità. Sottomissione piena ed umile alla parola del Papa riconosciuta divina, è la grande semplificazione dello spirito cattolico, è la via breve che mena alla soluzione di tutti i grandi problemi che tormentano la nostra ragione. « Dove è il Papa, è la Chiesa; dove è il Papa, non vi è la morte, ma la vita eterna; non vi è l’errore, ma la verità ». (S. Ambrogio).

LA COSTITUZIONE « PASTOR ÆTERNUS »

PROLOGO. — Il Pastore eterno e il Vescovo delle anime nostre, per rendere perpetua l’opera salutare della sua redenzione, decretò di edificare la Santa Chiesa, nella quale, come nella Casa del Dio vivente, tutti i fedeli si mantenessero uniti. con il vincolo di una sola fede e di un solo amore. Perciò prima di essere glorificato, pregò il Padre suo non solo per gli Apostoli, ma anche per quelli che avrebbero creduto in Lui per la loro parola, affinché tutti fossero una cosa sola in quel modo che sono una cosa sola lo stesso Figlio e il Padre. Come dunque mandò gli Apostoli, che si era scelti dal mondo, nella maniera stessa con cui egli era stato mandato dal Padre, così volle che nella Chiesa sua vi fossero pastori e dottori fino alla consumazione dei secoli. Ed affinché lo stesso episcopato fosse uno ed indiviso, e si conservasse nella unità della fede e della comunione tutta la moltitudine dei credenti per mezzo della coesione di sacerdoti, pose il beato Pietro a capo degli altri Apostoli, e istituì in lui il principio perpetuo e il fondamento visibile di questa doppia unità, volendo che sopra la sua solidità si costruisse il tempio eterno e che sulla fermezza della sua fede si innalzasse la Chiesa sino all’altezza dei cieli. E poiché le porte dell’inferno insorgono da ogni parte con odio sempre crescente contro il fondamento divinamente istituito della Chiesa, per abbatterla, se fosse possibile, noi con la approvazione del santo Concilio giudichiamo necessario per la salvaguardia, la salvezza e l’accrescimento del popolo cattolico, di proporre per essere creduta e tenuta, conformemente all’antica e costante fede della Chiesa universale, la dottrina sull’istituzione, la perpetuità e la natura del sacro primato apostolico, sopra la quale riposa la forza e la solidità di tutta la Chiesa, e di proscrivere e condannare gli errori contrari, tanto dannosi al gregge del Signore.

Capo I. — Dell’istituzione del primato apostolico nel beato Pietro

Insegniamo quindi e dichiariamo, secondo la testimonianza del Vangelo, che il primato di giurisdizione su tutta la Chiesa di Dio fu promesso e dato da Cristo Signore immediatamente e direttamente al beato apostolo Pietro. Infatti, a Simone soltanto, al quale già aveva detto: « Tu ti chiamerai Cefa », a lui solo che gli aveva fatta questa confessione: « Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo », Gesù disse: « Beato sei tu, Simon Bar lona, perché non la carne e il sangue te lo ha rivelato, ma il Padre mio, che è nei cieli. E dico a te, che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non avranno forza contro di essa. E a te to darò le chiavi del regno dei cieli; e qualunque cosa avrai sciolta sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli ». Ed ancora al solo Simon Pietro diede Gesù, dopo la sua resurrezione, la giurisdizione di Sommo Pastore e Rettore su tutto il suo ovile, dicendo: « Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle ». A questa dottrina così chiara della Sacra Scrittura, come fu sempre intesa da tutta la Chiesa, sono apertamente contrarie le perverse opinioni di coloro che, pervertendo la forma di governo costituita da Cristo Signore nella sua Chiesa, negano che il solo Pietro sta stato investito da Cristo di un vero e proprio primato di giurisdizione su tutti gli altri Apostoli, sia separatamente uno dall’altro, sia collettivamente insieme; o affermano che questo stesso primato non è stato conferito immediatamente e direttamente al beato Pietro, ma alla Chiesa, e per questa a lui, come a ministro della stessa Chiesa. Se qualcuno, quindi, dice che il beato Pietro apostolo non fu costituito da Cristo Signore principe di tutti gli Apostoli, e capo visibile di tutta la Chiesa militante, oppure che il medesimo Pietro ha ricevuto direttamente ed immediatamente dallo stesso Gesù Cristo Signor nostro solamente un primato d’onore, e non di vera e propria giurisdizione, sia anatema.

Capo II. — Della perpetuità del primato di Pietro nei Romani Pontefici.

Quello poi che, a perpetua salute e bene perenne della Chiesa, il principe dei pastori ed il gran pastore delle pecorelle, il Signor Gesù Cristo, istituì nel beato apostolo Pietro, deve necessariamente, sotto l’azione dello stesso Cristo, durare nella Chiesa, la quale fondata sopra la pietra, starà ferma fino alla fine dei secoli. A nessuno, infatti, può cadere in dubbio, anzi è un fatto notorio in tutti i secoli, che il santo e beatissimo Pietro, principe e capo degli Apostoli, colonna della fede e fondamento della Chiesa Cattolica, ha ricevuto da Nostro Signore Gesù Cristo, Salvatore e Redentore del genere umano, le chiavi del regno; egli fino a questo tempo e sempre, vive e regna e giudica nei suoi successori, i Vescovi della Santa Romana Sede, da lui fondata e consacrata col suo sangue. Perciò chiunque succede in questa cattedra a Pietro, egli, secondo l’istituzione dello stesso Cristo, tiene il primato di Pietro su tutta la Chiesa. Rimane dunque ciò che la verità ha stabilito, e il beato Pietro, conservando sempre la fortezza della pietra, non abbandona mai, dopo averlo una volta preso, il governo della Chiesa. Per questa ragione fu sempre necessario che alla Chiesa Romana per la sua superiorità eminente si riferisse ogni Chiesa, ossia tutti i fedeli sparsi per ogni luogo, affinché, uniti come membri al loro capo, formassero un solo e medesimo corpo in questa Sede, donde provengono su tutti i diritti della venerata Comunione. Se qualcuno, quindi, dice che non è per istituzione dello stesso Cristo: Signor Nostro, ossia di diritto divino, che il beato Pietro ha perpetui successori nel primato su tutta la Chiesa; o che il Romano Pontefice non è il successore del beato Pietro nello stesso primato, sia anatema.

Capo III. Della forza e della ragione del primato del Romano Pontefice.

Per la qual cosa, appoggiati alle manifeste testimonianze delle sacre lettere, ed aderendo ai decreti formali e perpetuamente chiari, tanto dei Romani Pontefici, nostri predecessori, quanto dei Concili generali, rinnoviamo la definizione. del Concilio ecumenico di Firenze, in virtù della quale tutti î fedeli di Cristo sono tenuti a credere che la santa Sede Apostolica ed il Romano Pontefice tiene il primato in tutto il mondo, e che lo stesso Romano Pontefice è successore del beato Pietro, principe degli Apostoli, e vero Vicario di Cristo e capo di tutta la Chiesa, e padre e dottore di tutti i Cristiani; e che a lui nel beato Pietro fu affidata da Gesù Cristo, Signor nostro, piena potestà di pascere, reggere e governare la Chiesa universale, come pure questo è contenuto negli Atti dei Concili ecumenici e nei sacri canoni. Insegniamo pertanto e dichiariamo che la Chiesa di Roma ha, per una disposizione del Signore, il principato della potestà ordinaria sopra tutte le altre Chiese; e questa potestà di giurisdizione del Romano Pontefice, veramente episcopale, è immediata: che verso di essa i pastori ed i fedeli di qualunque rito e dignità, sia ciascuno separatamente che tutti insieme, sono astretti dal dovere di subordinazione gerarchica e di vera ubbidienza non solo in quelle cose che appartengono alla fede e ai costumi, ma anche in quelle che riguardano la disciplina ed il governo della Chiesa sparsa per il mondo intero; così che mantenendo l’unità sia di comunione sia di professione della stessa fede con il Romano Pontefice, la Chiesa di Cristo formi un solo gregge sotto un solo Sommo Pastore. Questa è la dottrina della verità cattolica, dalla quale nessuno può deviare senza perdere la fede e la salvezza. Tanto poi è lungi che questa potestà del Sommo Pontefice sia di detrimento al potere ordinario e immediato di giurisdizione episcopale, in forza della quale i Vescovi, posti dallo Spirito Santo e successori degli Apostoli, pascono e reggono come veri pastori ciascuno il gregge particolare affidato alla sua cura, che anzi questo loro potere viene al contrario affermato, corroborato e rivendicato dal Pastore supremo e universale, secondo le parole di S. Gregorio Magno: « Il mio onore è l’onore della Chiesa universale. Il mio onore è la forza solida dei miei fratelli. Allora io sono veramente onorato, quando a ciascuno è dato l’onore che gli compete ». Da questa suprema potestà del Romano Pontefice di governare la Chiesa universale, risulta per lui il diritto di comunicare liberamente, nell’esercizio della sua carica, con i pastori e i greggi di tutta la Chiesa, affinché questi possano essere istruiti e diretti da lui nella via della salute. Perciò condanniamo e riproviamo le sentenze di coloro che dicono che questa comunicazione del capo supremo con i pastori e i greggi può essere lecitamente impedita; oppure la fanno dipendere dalla potestà secolare e pretendono che le disposizioni prese dalla Sede Apostolica o in virtù della sua autorità per il governo della Chiesa, non hanno forza e valore, se prima non siano confermate dal placito della potestà secolare. E poiché il Romano Pontefice per diritto divino del primato apostolico presiede a tutta la Chiesa, insegniamo anche e dichiariamo che egli è giudice supremo dei fedeli, e che in tutte le cause che sono di competenza ecclesiastica, essi possono ricorrere al suo giudizio; e che il giudizio della Sede Apostolica, al disopra della quale non v’è autorità, non può essere riformato da nessuno e che a nessun è lecito giudicare un tale giudizio. Perciò sono lungi dal sentiero della verità coloro che affermano essere lecito appellarsi dai giudizi dei Romani Pontefici al Concilio ecumenico, come ad autorità superiore al Romano Pontefice. – Se pertanto qualcuno dice che il Romano Pontefice ha solamente l’incarico d’ispezione o di direzione, ma non piena e suprema potestà di giurisdizione in tutta la Chiesa, non solo in quelle cose che concernono la fede e i costumi, ma in quelle anche che riguardano la disciplina ed il governo della Chiesa diffusa per tutto il mondo; o che ha soltanto la parte principale, e non tutta la pienezza di questa suprema potestà; oppure che questa sua potestà non è ordinaria ed immediata sia su tutte e singole le Chiese come su tutti e singoli i pastori e î fedeli, sia anatema.

Capo IV. — Del magistero infallibile del Romano Pontefice

Nel primato apostolico che il Romano Pontefice possiede su tutta la Chiesa come successore di Pietro, principe degli Apostoli, è compresa anche la suprema potestà di magistero: ciò ha sempre tenuto questa santa Sede, è provato dall’uso perpetuo della Chiesa e fu dichiarato dagli stessi Concili ecumenici e da quelli stessi principalmente in cui l’Oriente e l’Occidente convenivano insieme nell’unione della fede e della carità. – I Padri, infatti, del Concilio Costantinopolitano IV, seguendo le orme dei maggiori, emisero questa solenne professione: « La salute sta prima di tutto nel custodire la regola della retta fede. E poiché non può essere vana la parola di Nostro Signor Gesù Cristo, che disse: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa ,, questa parola è verificata dai fatti; perché nella Sede Apostolica si è sempre conservata immacolata la religione cattolica e professata la santa dottrina. Pertanto, desiderosi di non essere separati in nulla dalla sua fede e dalla sua dottrina speriamo di meritarci d’essere in quell’unica comunione, che viene predicata dalla Sede Apostolica, ed in cui esiste l’’intiera e verace solidità della Religione cristiana » . Con l’approvazione del secondo Concilio di Lione, i Greci hanno fatto questa professione: « La Santa Romana Chiesa ha sopra tutta la Chiesa cattolica il sommo e pieno primato e principato, che essa veracemente e umilmente riconosce d’aver ricevuto, insieme con la pienezza della potestà, dallo stesso Signore nel beato Pietro, principe e capo degli Apostoli, di cui il Romano Pontefice è successore, e poiché è tenuta più delle altre Chiese a difendere la verità della fede, così se intorno alla fede sorgeranno questioni, si devono definire conil suo giudizio ». Finalmente il Concilio di Firenze ha definito: « Il Romano Pontefice è il vero Vicario di Cristo e capo di tutta la Chiesa e Padre e dottore di tutti i Cristiani; a lui è trasmessa nella persona del beato Pietro dal Signor nostro Gesù Cristo la piena potestà di pascere, di reggere e di governare la Chiesa universale ». Per adempiere ai doveri di questo ufficio pastorale i nostri predecessori si adoperarono sempre indefessamente a propagare presso tutti i popoli della terra la dottrina salutare di Cristo, e vigilarono con uguale sollecitudine a conservarla pura e senza mescolanza dovunque fosse stata ricevuta. Perciò î Vescovi di tutto il mondo, ora personalmente, ora congregati in Concili, seguendo l’antica consuetudine della Chiesa e la formula dell’antica regola, a questa santa Sede segnalarono quei pericoli che si presentavano soprattutto nelle cose di fede, affinché i danni portati alla fede, fossero riparati in modo più speciale colà dove la fede non può patire danno. Da parte loro i Romani Pontefici, secondo che la condizione dei tempi e delle cose lo consigliava, ora convocando Concili ecumenici, nei quali s’informavano del pensiero della Chiesa dispersa per il mondo, ora per mezzo di Sinodi particolari, ora adoperando altri aiuti, che venivano somministrati dalla Divina Provvidenza, hanno definito che si doveva ritenere ciò che avevano, con l’aiuto divino, conosciuto conforme alle Sacre Scritture e alle Tradizioni apostoliche. Lo Spirito Santo, infatti, fu promesso ai successori di Pietro non già per pubblicare, sotto la sua rivelazione, nuove dottrine, ma perché custodissero e fedelmente esponessero, con la sua assistenza, la rivelazione tramandata dagli Apostoli, ossia il deposito della fede. La loro dottrina apostolica fu da tutti i venerabili Padri e Dottori ortodossi abbracciata, venerata e seguita, sapendo perfettamente che questa Sede di San Pietro rimase sempre esente da ogni errore, secondo la divina promessa del Signor nostro Salvatore fatta al principe dei suoi discepoli: « lo ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede, e tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli ». Il dono della verità e della fede, che non viene mai meno, è stato dunque divinamente concesso a Pietro e ai suoi successori in questa Cattedra, affinché per la salute di tutti adempissero al proprio ufficio; e così tutto il gregge di Cristo allontanato con il loro aiuto dal pascolo velenoso dell’errore, si nutrisse con il cibo della dottrina celeste: e tolta ogni occasione di scisma, la Chiesa si conservasse tutta intera nell’unità e che, appoggiata sopra il suo fondamento, si mantenesse incrollabile contro le porte dell’inferno. E poiché in quest’età in cui si ha più bisogno della salutifera efficacia del Magistero apostolico, si trovano non pochi che denigrano la sua autorità, noi giudichiamo che sia assolutamente necessario di definire in modo solenne la prerogativa che il Figlio di Dio si è degnato congiungere con il supremo ufficio pastorale. Pertanto, aderendo fedelmente alla tradizione ricevuta fin dall’esordio della fede cristiana, a gloria di Dio nostro Salvatore, ad esaltazione della Religione cattolica, ed a salute dei popoli cristiani, coll’approvazione del Sacro Concilio, insegniamo e definiamo come dogma da Dio rivelato, che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, ossia quando esercitando l’ufficio di pastore e dottore di tutti i Cristiani, definisce, in virtù della sua suprema apostolica autorità, che una dottrina sulla fede o sui costumi si deve tenere da tutta la Chiesa, gode, per l’assistenza divina a lui promessa nel beato Pietro, di quella infallibilità di cui il Divin Redentore volle essere fornita la sua Chisa nel definire una dottrina sulla fede e sui costumi; e perciò che tali definizioni del Romano Pontefice sono irreformabili per se stesse e non in virtù del consenso della Chiesa. Se qualcuno poi, tolgalo Iddio, osasse contraddire a questa nostra definizione, sia anatema.

Dato a Roma nella Sessione pubblica tenuta solennemente nella Basilica Vaticana, l’anno dell’Incarnazione del Signore 1870, il18 luglio, del nostro Pontificato XXIV.

FESTA DI SAN PIETRO (2022)

FESTA DI SAN PIETRO

IL PAPA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956).

Pietro! quest’uomo dalle larghe spalle di pescatore, dalle mani rosse per l’acqua e per il sole, dalla barba rotonda rischiarata da un sorriso bonario, dagli occhi teneri e azzurri come il lago in cui pescava, oggi ci viene davanti all’animo così come noi lo conosciamo dai due episodi più salienti della sua vita: l’uomo della fede e dell’amore. Una volta Gesù si rivolge ai dodici e domanda loro improvvisamente: « Che dice di me la gente? », « Dicono che sei Elia », risposero alcuni. « Dicono che sei Geremia », risposero altri. « Che sei il Battista! che sei un profeta! » risposero altri e altri ancora. Gesù interruppe quelle discordanti testimonianze, dicendo: « Ma voi, voi che pensate di me? chi sono Io per voi? ». Ci fu un momento di silenzio. Allora Simone, quel Simone che aveva lasciato i suo lago, le reti, la barca, la casa, il suo padre, senza neppur voltarsi indietro, per seguire Gesù; quel Simone che all’invito di Gesù non aveva dubitato di balzar dalla varca e camminar sui flutti in mezzo al lago, quel medesimo Simone s’elevò al di sopra dei dodici, al di sopra di tutti gli uomini ed esclamò: « Tu sei il Cristo, Figlio di Dio ». In questa risposta voi vedete Pietro: l’uomo della fede. – Ma un’altra volta Gesù lo prende in disparte. Si era sulle rive del lago, uno degli ultimi quaranta giorni che il Redentore, passò sulla terra dopo la sua Risurrezione. Lo fissa negli occhi e gli domanda tre volte: « Pietro mi ami tu? mi vuoi bene più di tutti gli altri? ». Pietro a quella triplice domanda, si ricordò della sua triplice negazione. E cominciò a tremare di dolore e soprattutto d’amore: «Signore! — rispose quasi singhiozzando — Tu che sai tutto, vedi bene, quanto ti amo! ». E voleva dire, ma non osava: « Con tutta la vita, fino alla morte ». In quest’altra risposta voi vedete ancora Pietro: l’uomo dell’amore. Fede e amore: luce che illumina, fuoco che riscalda. Questa è l’anima di San Pietro. – Ma questa è pure l’anima del Papa! poiché il Papa non è che San Pietro che si rinnova con perpetua vicenda nei secoli.

Il Papa è la verità che guida tutto il mondo.

Il Papa è l’amore che ama tutto il mondo.

1. IL PAPA È LA VERITÀ CHE GUIDA TUTTO IL MONDO

Torbidi tempi per la giovane Chiesa di Cristo quelli del sec. V. In Alessandria, un uomo smanioso di dominio, Dioscoro, andava spargendo nel popolo dottrine false, A Costantinopoli un archimandrita di nome Eutiche con ardente parola sviluppava gli errori di Dioscoro. « Cristo – dicevano – non fu un uomo vero come noi: ma ebbe soltanto una unica natura, la divina ». Ma i Vescovi s’accorsero dell’abisso in cui si stava per cadere: negato Cristo uomo, troppo facilmente si sarebbe negato anche Cristo Dio; e tutta la nostra fede, per cui già milioni di martiri avevano dato il proprio sangue, sarebbe stata rovesciata nell’errore. Per ciò si proclamò un Concilio. E dall’Africa, e dall’Italia e dalla Siria convennero a Calcedonia 630 vescovi. Già da più giorni si discuteva, quando arrivò una lettera stupenda di papa Leone. Tutti l’ascoltarono in silenzio, poi uno si alzò, in mezzo a tutti, gridando:« Pietro ha parlato per bocca di Papa Leone ». Allora da tutti i petti eruppe un grido di vittoria: « Questa è la fede degli Apostoli; così tutti crediamo ». Quello che avvenne a Calcedonia ci esprime chiaramente che il Papa è l’infallibile guida di verità. Chi lo segue non cammina nelle tenebre del falso. Quando il Papa parla, ogni questione è finita, disse S. Agostino; perché il Papa ha la parola della verità. Ed è un dogma di fede che il Papa non sbaglia mai quando con tutta la forza della sua autorità definisce qualche dottrina di fede e di morale. La storia del pensiero umano è qualche cosa di commovente: è l’uomo spinto dal desiderio di sapere che ascende alla cognizione del mondo e alla scoperta dei misteri della natura. Ma quanti spropositi. Quelle dottrine che prima si ritenevano come verità, ora si rigettano come errori. Ai tempi di S. Tommaso tutti i fisici credevano che la terra fosse circondata da una zona d’aria, e la zona d’aria fosse circondata da una zona di fuoco. Oggi queste ingenuità ci fanno sorridere. Ci furono di quelli che insegnarono che il mondo si è fatto da solo, per un caso; altri non ebbero vergogna di proclamarsi discendenti dalle bestie, altri infine giunsero a negare la propria esistenza per dire che tutto il mondo è un sogno. In quali confusioni non è mai trascinata la superba scienza degli uomini! Ma sulla terra, dove tutto muta, e soprattutto mutano le parole e le teorie degli uomini, vi ha un miracolo d’una Cattedra che da venti secoli non ha mai cambiato una parola: è la Cattedra di Roma. Il Credo che imparammo sulle ginocchia materne e che insegnammo ai nostri figliuoli è il Credo che hanno recitato i nostri nonni, i nostri bisnonni, che hanno recitato i primi Cristiani: è il Credo degli Apostoli. E quello che ogni Papa insegna in solenne ammaestramento dei fedeli non si cancellerà più, ma starà in eterno. So bene che il demonio, più volte, ha cercato di addensare nella Chiesa di Dio le tenebre dell’errore: «Simone! Simone! — aveva detto Gesù al primo Papa — ecco satana che ti agiterà come nel cribio si agita il grano… ».  E satana suscitò Simon Mago che voleva comprare col danaro lo Spirito Santo. Suscitò Cerinto, Valentino, Marcione e tutti gli eretici dei primi secoli. Suscitò Eutiche e i Doceti a negarne la umanità. Suscitò Fozio a dividere in mezzo la Chiesa. Suscitò Lutero a dilaniarla in brani. Ed anche ai nostri giorni suscita i moderni increduli coi loro libri osceni ed atei. «… ma io ho pregato per te, o Pietro!» — La preghiera di Gesù ha reso infallibile il Papa. Passarono e passeranno tutti i nemici della verità come le onde del Tevere passano sotto i ponti di Roma; ma il Papa sta e non cambia. Chi non è col Papa, è nell’errore, perché solo il Papa è la verità. E di lui si potrebbero ripetere le parole di S. Paolo « Se anche un Angelo vi annunciasse qualcosa di diverso di quello che il Papa insegna, non credeteci perchè sbaglia ».

2. IL PAPA È L’AMORE CHE AMA TUTTO IL Mondo.

Un poeta latino scrisse questo verso tremendo: Te regere imperio populos, Romane, memento! Ricordati, o romano, che tu sei nato a comandare sui popoli con la forza. Noi, venuti dopo, sappiamo come ha fallito il verso di Virgilio. La Roma conquistatrice e usurpatrice, la Roma della forza brutale, che aggiogava al suo carro i popoli, si è sfasciata sotto le sue rovine. Ma un’altra Roma è sorta che trionfa e trionferà senza fine e senza rovine: la Roma cristiana. Non è più però con la forza che Roma cristiana vince, ma è con l’amore; non è più con la spada, ma è con il cuore. Te regere amore populos, Romane, memento! O Roma, tu sei nata a vincere i popoli con l’amore. – Quando l’Italia fu invasa dai barbari, quando Attila incendiario flagellava le nostre contrade, quando gli Eruli di Odoacre e i Goti di Teodorico e i Longobardi di Agilulfo uccidevano e devastavano senza pietà, fu l’amore del Papa che ci ha salvati; che ha respinto il barbaro con la maestà del suo volto, che ha raccolto gli orfani, gli ammalati, che ha sostenuto le vedove e i poveri. E quando nell’Africa e nell’America, persone infami rapivano e mercanteggiavano i poveri negri strappati dalle loro tribù e dai loro villaggi di paglia, chi si è levato a difenderli, a salvarli, se non l’amore del Papa? E quando la Polonia fu perseguitata dai Russi e le volevano imporre una lingua e una fede che non era la sua, ed i preti erano calunniati di tradimento e i fedeli feriti e carcerati, fu il Papa che chiamò a Roma lo Czar. L’imperatore delle Russie sale al Vaticano; sulla porta, solo inerme stanco dagli anni e dai travagli, lo attende un vecchio bianco, il papa Gregorio XVI. Con le lacrime agli occhi dice: « Sire, verrà un giorno in cui entrambi compariremo dinanzi al tribunale di Dio. Io vecchio, prima; ma anche voi, dopo. Sire, pensateci bene: Dio ha istituiti i re perché siano padri e non i carnefici dei loro popoli! » — Pallido, muto, smarrito, lo Czar discese e partì. Un’altra volta è Filippo Augusto re di Francia che, dopo aver sposata Ingelburga, figlia del re di Danimarca, la vuol ripudiare. Raduna a Compiègne un conciliabolo e respinge Ingelburga e sposa Agnese di Merania. L’infelice regina, lontana dai suoi, quando sentì l’amara sorte d’essere scacciata, scoppiò in un grido: « Roma! Roma! ». Oh, com’è bello questo grido di un’anima oppressa che invoca da Roma la sua giustizia! È una pecora del gregge, che assalita dal lupo, col suo belato chiama al pastore. E il Papa ascolta questo lamento di agnello, e lancia la maledizione sul lupo e sul suo regno. E Filippo Augusto dovette rendere giustizia alla sua sposa. O Roma, tu sei nata a vincere con l’amore! Quando però gli uomini non ascoltano la sua voce d’amore, ecco il Papa che soffre, non sa resistere e muore. Bonus pastor animam suam dat pro ovibus suis. Si era nella primavera del 1914. L’ultimatum dell’Austria alla Serbia non lasciava alcun dubbio sopra le intenzioni bellicose degli imperi centrali. Pio X aveva troppa intuizione per non comprendere ciò che soprastava al mondo. L’ambasciatore di Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, venne a Roma ed osò domandargli la benedizione sopra le armate austriache. Il Papa lo guardò come indignato, e disse: «Io benedico la pace, e non la guerra ». Ma vedendo che ormai ogni suo sforzo era disperato e che per i suoi figli non poteva far niente, fuor che piangere e bene dire, sentì la sua salute già scossa peggiorare nell’angoscia e nel dolore. Quando gli portarono le notizie del primo sangue sparso, il suo cuore paterno scoppiò e morì martire d’amore per il suo gregge dilaniato. Bonus pastor animam suam dat pro ovibus suis. Ed anche oggi chi leva la sua voce contro il sangue inutile, gli odi, le ingiustizie, le oppressioni? il Papa. Solo la sua voce risuona sempre pura e disinteressata fra tanti egoismi e prepotenze. La sua voce viene da un cuore pieno d’infinito amore: il Cuore di Gesù.

CONCLUSIONE

È bello ricordare anche qui l’ardente parola che S. Paolo scrisse a quei di Corinto: « Se qualcuno non ama Nostro Signor Gesù Cristo, sia anatema! ». Scomunicato, fuor della Chiesa, chi non ama Gesù Cristo? Ma il Papa non è il dolce Cristo in terra? Allora, con verità, possiamo applicare a lui il detto paolino: « Se qualcuno non ama il Papa (il vero Papa, cioè Gregorio XVIII -ndr. -), sia anatema! ». Non basta amarlo a parole, ma bisogna amarlo in opere e in verità. E il Papa lo si ama quando si prega per lui: egli è nostro padre e ogni figlio deve pregare per Suo padre. Il Papa lo si ama, quando lo si ascolta: la sua parola deve essere studiata con amore, creduta con fermezza, praticata con volontà. Il Papa lo si ama quando il nostro obolo è generoso per Lui. Le Missioni, le chiese povere, i seminari, gli orfanotrofi, tutte le miserie del mondo volgono al Papa la loro voce. E il Papa come le potrebbe soccorrere? Amiamo il Papa, quello vero… S. S. Gregorio XVIIl.