LO SCUDO DELLA FEDE (220)

LO SCUDO DELLA FEDE (220)

MEDITAZIONI AI POPOLI (VIII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE VIII.

L’inferno

« Signore, credete voi all’inferno?… » disse ad un missionario un cotale che, vantandosi incredulo, voleva mostrar lo intrepido col ridere delle più terribili verità della Religione. E l’uom pio e colto a lui: Si veramente, vi credo io; ma debbo aggiungervi che lo credete anche voi: poiché questa smania di combattere la credenza dell’inferno dimostra che voi l’avete fitta nel fondo dell’anima, e appunto vi sforzate di combattere il pensiero dell’inferno, perché nol potete cacciare di cuore. Ché, o signore, non si combatte contro ciò che non sì crede neppur per sogno; ma si combatte un pensiero che ci sta dinanzi come un nemico: l’inferno è là, vi par di sentirlo intronare anche da lontano; e voi vorreste cercar di ripararvene, almen col negarlo, Vani sforzi o Signore: l’inferno sta. – Siccome però ad ogni modo quello che più ci importa, non è tanto il crederlo, quanto il non aver da provarlo col precipitarvi disperatamente, fermiamoci qui a far bene il nostro conto. Poniamo qui quasi sulla bilancia noi due ciascuno dalla parte della nostra coscienza, a maniera di contrappeso, gli argomenti che fanno inclinare me a credere per evitarlo; voi, a non crederlo e a cimentarvi di trovarvi poi dentro dannato senza averlo creduto. Adunque io credo e metto da parte mia le mie ragioni sulla bilancia. Con me credono anche le nazioni di tutte le falsi religioni eziandio più contrarie alla Religione nostra Santissima. Giobbe in oriente, lontano dal popolo fedele degli ebrei ripete la parola primitiva di tutta la più remota antichità la credenza di una terra di miserie, di tenebre e di orrore eterno nella vita futura. Gl’Indiani credono il Naraka, l’inferno cioè dalle tre porte, in cui si pagano i delitti, la concupiscenza, la collera, l’avarizia. I Cinesi credono che le anime dei tristi diventino demoni. Gli Egiziani credono ai loro Mani dell’altra vita. 1 Greci ed i Romani ammettono il Tartaro sede di pianti e disperazione. E poi meraviglia! entra Colombo nel mondo nuovo, e sente un vecchio Cacico, il quale con sua meraviglia, gli dice in faccia nettamente che una via conduce i cattivi all’inferno. E noi sappiamo come i Peruviani, i Virginiani ed altri ammettono un luogo di supplizio per tutti i malvagi; e in fine come i Maomettani abbiano fede nella esistenza dell’inferno, come noi Cristiani (Codice Sacro o Parallelo di tutte le religioni, per Anot de Maiziéros. — Roselly, Cristo al cospetto del secolo). Tutti questi popoli, siccome credono con me all’inferno, così io li metto colle loro ragioni sulla bilancia dalla parte mia. Ora voi mettete con voi quelle poche teste degli scapati che non vorrebbero credere all’inferno. Da qual parte penderà la bilancia?… Aspettate…; ché io ho da mettere dalla parte mia tutte le ragioni che fecero credere l’inferno ai più grandi filosofi, agli uomini più dotti del mondo. Basti ricordarvi fra gli antichissimi il più saggio, Socrate, il quale muore asserendo l’immortalità e quindi confessando il premio e i castighi eterni. Dal maestro non si scosta Platone, che assevera come la morte fa vedere da qual parte stanno i prudenti e da qual parte gli stolti, e come muoiono i malvagi e restano precipitati all’inferno, luogo terribile! (Delle leggi, lib. xt). Cicerone il più dotto dei Romani scrive lui non avere paura di esser deriso nell’eternità da quelle teste piccine che non vi credono. Metto con me le due forse più belle teste di uomini che siano esistite: io dico s. Agostino, sempre in aspre penitenze con gemiti, per scampar dall’inferno; e s. Tommaso, che scrisse tanti libri, per mostrare a tutti di salvarsi da quella orrenda disperazione. Metto i moderni filosofi; e di loro i più dotti: Leibnizio, che disputò tanto sulla religione, ma ammise sempre come certissimo l’inferno: Malebranche e Bacone, Newton e Keplero. Vi aggiungo Bossuet il più grande genio del suo secolo, e Pascal il talento più bello; e infine Gioberti il più audace in altre opinioni, ma nelle sue maggiori opere, credente anch’esso nell’inferno; e Rosmini di Gioberti più potente pensatore, che scrisse esercizi e raccomandò tanto di meditare l’inferno. Signore, ho nominato grandi menti d’uomini, e per me vi confesso sulla mia coscienza che colla povera mia persona pesano quelle tante teste di dotti, molto più che non pesiate voi, e con voi i pochi che sbadatamente e senza ragione negan l’inferno; e sento che col peso del vostro no, non mi potete trascinare con voi a negarlo. Ma aspettate ancora, perché io metto con me quasi trecento milioni di Cattolici credenti l’inferno, con cinquanta milioni di scismatici che si staccarono dalla soggezione del Papa, ma stanno col Papa nella credenza dell’inferno: vi aggiungo il mille e mille milioni d’innumerabili Cattolici di tutti i secoli passati, che non sognarono mai di dubitare dell’inferno: e i troppi eretici di tutti i tempi, Ariani, Nestoriani, Macedoniani, Eutichiani, Pelagiani, e tutti i protestanti nelle loro sette divisi, che tutti tagliuzzarono, straziarono pur troppo la Fede cattolica; ma tutti conservarono intiera la credenza delle pene eterne nell’inferno. Signore mio, chi avrà più ragioni d’uomini che pesino dalla sua parte: io o voi ?… Oh ma aspettate: ancora! (Poiché siete voi che mi avete domandato, ed io debbo darvi intiera la mia risposta). Metto ancor con grande mia consolazione da parte mia e a credere con me i milioni di Martiri, che sfidarono le più orrende morti, per salvarsi dall’inferno: l’immenso popolo di penitenti che si castigarono terribilmente qui in terra. per non essere puniti in inferno; e l’immenso esercito de’ fervorosi Santi, che tormentarono la loro carne innocente per non aver a provar i tormenti dell’inferno: metto poi il gran numero di buona gente, che tutti si conservano onesti e buoni a fine di evitare l’inferno. E, mentre tutti questi fanno traboccar la bilancia da parte mia a farmelo credere, su su a voi, signore. Mettetevi voi colla vostra testa a contrappeso contro tutto questo immenso numero d’uomini che credono l’inferno. Perdonate; ma voi pesate un po’ poco! Cercatevi pure di porre con esso voi tutti coloro che ridono dell’inferno e in fin fine troverete chì?… Troverete i ladri che rubano a man larga, troverete i truffatori delle famiglie, troverete gl’imbestiati nei vizi, la feccia d’ogni ribalderia; e quando voi (che non credo) voleste gittar sulla bilancia dalla parte vostra tutta quella accozzaglia di malvagi, vorreste fare il torto a me di tirarmi con quel gentame, e di farmi affiatare con una bordaglia sprofondata in tutti i delitti?… No no, ché io starò sempre in compagnia di tutti i Cattolici fermo col mondo universo a credere l’inferno; santa credenza, la quale mantiene probi tanti in terra e manda tanti santi a popolare il paradiso. Allora l’incredulo collo scherzo dello stolto: eh via! esclama, che nessuno è mai venuto di là a dirci che ha provato l’inferno. E l’uom di Dio di rimando: appunto appunto io lo crederei più certamente eziandio per questo; perché, se anche un solo fosse di là venuto, potrei esser tentato a dubitare della verità di quella Parola, che ci assicura esservi l’inferno, e che ci assicura egualmente che chi va là dannato, non ne esce più mai. Ma, signor mio, ditemi per fede vostra: è poi egli vero che non venne mai nessuno dal mondo dell’eterna verità ad assicurarci che vi é l’inferno?… Viva Dio! e non venne Gesù Cristo, il quale diede tante prove di esser venuto dal cielo, e da diciotto secoli le continua a dare? Non ha egli milioni di testimoni che diedero la vita, a fine di assicurarci che Gesù dice sempre la verità? Non sono forse ormai due mila anni che tutti coloro, i quali negano la parola di Gesù, sono trovati essi bugiardi e vanno tutti perduti? Ma i suoi miracoli ma i miracoli di coloro che credettero a Gesù, ma le loro virtù, ma gli studii, le scienze, la storia, ma tutto che vi ha di buono e di ben fatto nel mondo per Gesù, non prova forse che Gesù non inganna nessuno? Ebbene Gesù con quella sua bocca di verità assicura, che i morti in peccato, maledetti discendono nel fuoco eterno! Ah! se Gesù Cristo mette Egli stesso sulla bilancia la sua Parola dalla parte mia, io non posso non gridare sdegnato Miserabile a voi : che non credete! Io vi cerco quanto pesate in contrappeso contro di Gesù Cristo… Eh che non vi trovo più!… Siete sfumato a nulla :… no, no, non pesate affatto più niente. Ond’io mi getto ululante in terrore in braccio a Gesù il quale rivelandoci l’inferno, vi sta, direi, crocifisso sulla bocca colle braccia larghe per salvarci in Paradiso, col grido — Adveniat regnum tuum… libera nos a malo! Salvator benedetto, dall’orlo dell’inferno portateci in Paradiso! Eppure, signor caro, io vorrei discendere al vostro cuore. Ora ditemi voi sulla. vostra coscienza sentite ancora: vi sono tante ragioni da poter provarci che certamente non vi sia l’inferno! No voi, no tutti gl’increduli con voi, no tutti insieme non lo potrete provare mai. Dunque, al tutto al tutto se non volete credere, dovete per forza, dovete almeno dubitare che vi sia! Orribil cosa il dubitare di ciò che affatto importa più di Sapere! Grazie a Dio! credendo noi, siam decisamente risolti di salvarci in paradiso; e intanto io, voi, tutti moriremo fra poco: ma se voi morite dubitando, e poi vi trovate nell’inferno… ohimé! ohimé!… fate… fate una troppo cattiva giornata!… Pensatevi bene!… tremenda giornata, che comincerà per voi l’eterna disperazione dell’inferno!… Guai! guai! a chi l’avrà da provare prima di crederlo. — Veh quibus prius experienda sunt, quam credenda (Eusebio, Emiss.). – Ora io lascerò gl’increduli, piangendo per loro. Mi consolo con voi, fratelli: noi spireremo (ho fiducia) nel Costato di Gesù nel Sacramento, intorno a cui stiamo tutti raccolti; e il giorno della beata nostra morte sarà il giorno senza tramonto della beatitudine eterna con Dio. Buon Gesù, Signor della giustizia e della misericordia, noi col cuore impaurito sul vostro amatissimo Cuore mediteremo in prima l’inferno, col fuoco dell’ira della giustizia divina: poi mediteremo nell’inferno la disperazione di aver perduto il paradiso e Dio per le miserie dei nostri peccati: infine vi mediteremo la disperazione dell’eternità. O Maria Santissima, Voi che vedete noi poveri vostri figliuoli qui sospesi sopra l’abisso d’inferno, teneteci voi tra le vostre braccia, fin tanto che… ah sì, sì, non ci abbiate messi salvi in paradiso! Eh, coraggio, o fratelli! Quando pur vi spaventassi, me lo dovete perdonare; anzi, mi dovete voler bene, come si vuol bene alla madre, allorché porta proprio sul focolare il bambino arditello colla faccetta fin sopra il fuoco; poi gli fa stendere la manina fino rasente alla fiamma, e quando il bambino mette lo strido: Ah, mamma, abbrucia!… la mamma sel porta via baciandogli la mano, e gli dice. coi baci: Bambolo delle mie viscere, sta lontano dal fuoco!… Per simil guisa l’inferno sarà per noi un castigo, che il Signore ci minaccia da padre, per non avere a darcelo da giudice; e stando noi stretti per terrore insieme sopra di esso, io vi bacerò sul cuore a tutti, gridandovi: figliuoli, figliuoli miei, al paradiso, al paradiso! Cader nell’inferno vuol dire cadere nelle mani della giustizia di Dio per la tremenda vendetta. Quanto è orrenda cosa cadere nelle mani della giustizia divina! Udite: Nei primi tempi gli uomini, quasi fosser giganti da sfidare lo sdegno di Dio, con atri delitti provocavano la sua vendetta. Dio guardò il mondo nell’atto del suo sdegno, e mandò il diluvio universale ad affogar quella carne di peccato infangata; tanto che il mondo fu ridotto ad un ammasso di cadaveri nel fango. Altra volta l’orrida puzza di carnalità in osceni delitti Sali fino al firmamento, e provocò ancora la giustizia di Dio. Lo sdegno di Dio fece piovere fuoco sugli impuri; sterminò le cinque città, e sprofondò la Pentapoli in un tetro lago, che tuona furente ancora tra le sue rive abbruciate sopra l’onde nere; quanto è tremenda la vendetta della giustizia di Dio! E si che sulla terra non cadono che alcune stille della vendetta di Dio: Stillabit furor Domini. Ora, che mai sarà nell’inferno, dove in ispirito di tempesta si rovescia, come rovinoso torrente di zolfo, il fuoco del furore di Dio? Ignis et sulphur et spiritus procellarum (Ps. XVI, 8 ); ignis furoris Dei? (Ez. XXII, 21). Questo fuoco del furore di Dio investe le anime sciagurate, le compenetra tutte, e, diremo, le sostiene come il corpo le sosteneva nella vita umana; e con esse s’identifica, quasi loro formasse proprio una persona di fuoco. È troppo terribile questo pensiero! Noi qui non possiamo fermarci una idea adeguata di quei tormenti che debbono essere infiniti; poiché i dolori della vita nostra qui non possono essere senza misura. I dolori che soffriamo nel nostro corpo sono limitati dalla stessa poca forza, che hanno le parti del corpo di resistere alle impressioni dolorose, quando queste siano, per esempio, da un colpo di pesante martello, da tagliente lama di coltello, o da un carbone ardente disorganizzate, guastate, disciolte affatto. Allora cessa il dolore. Spiegherò il pensiero con un fatto. Muzio Scevola, quando il re Porsena assediava Roma, penetrato nel campo di lui fin dentro nella sua tenda per isbarazzarsi di quel nemico, piantò uno stile nel petto al suo segretario, scambiandolo pel re al suo più splendido adornamento. Arrestato e tradotto davanti al re Porsena, lì per essere condannato, Muzio Scevola, a fine di spaventare il re con coraggio disperato, guata non lungi un braciere di carbone in vampa; con fremito di rabbia stringe il pugno levandolo contro di lui, e steso il braccio, lo mette dentro ai carboni imperterrito. Ahi! crepano i carboni, si disciolgono gemendo le carni, stridono le ossa, bollono le midolle, s’innalza negro fumo a coprir quell’orrore!… Il re stesso, sceso di trono, pieno di ribrezzo strappa via il suo assassino da quell’orrido patimento. Anche noi fremiamo a tale spettacolo di martirio!….. Per me vi direi: contemplatelo con tranquillità, perché quel sì crudo dolore finisce in poco. Di fatto, abbruciata la mano, il dolore non si sente più. Ma nell’inferno il fuoco tormentatore è sposato all’anima immediatamente, e compenetrato nella sua essenza così, che avvampa ella col fuoco istesso unificata. Come quando essendo una massa di ferro gittata dentro una fornace nel furor del suo incendio vediamo che il fuoco la investe e se l’assorbe, e con vibranti ignicoli la penetra tutta, sicché il ferro diventa rosso, concentra in se medesimo e condensa la forza del fuoco, e avvampa tanto da diventare più rovente che gli stessi carboni ardenti, quasi fosse il loro ardore da esso raccolto e condensato in potenza maggiore; non altrimenti nell’inferno il fuoco essendo coll’anima incorporato, e dall’anima come vivificato, fa provare all’anima dolore tanto grande, quanto è grande dell’anima la capacità. Ora l’anima ha una capacità quanto al nostro pensiero smisurata; e lo proviamo noi che si possono sentire tanti nuovi svariati dolori, quante da tutti i nervi scossi pegli urti sul corpo si posson nell’anima suscitare sensazioni dolorose. E se il corpo nostro resistesse contro ciò che gli s’infigge e gli fa male, né venisse mai consumato, il dolore crescerebbe senza limiti, durando sempre finché dura il corpo per tal maniera maltrattato. Ora fino l’antico Galeno osservava che nel solo cervello siamo capaci di sentire più di mille dolori a cagione dei nervi, che in lui si condensano. Povero quell’antichissimo dotto! Egli non conosceva come i nervi si distinguono a migliaia, ben più sottili di una sottilissima rete, i quali avviluppano il corpo nostro, s’intrecciano incarnati nei muscoli; anzi sono essi che formano insomma l’insieme del corpo nostro sensibile. Dunque a mille a mille può l’uomo sentire i dolori, come a mille a mille sono diversi i modi dei movimenti sconcertati di ciascun suo nervo; e debbe quindi sentire l’anima nostra acutissimi i dolori, finché il dolore stesso non consumi i nervi. Pensate ora voi, se vi dolesse un dente di quello spasimo di dolore atroce, che per poco fa impazzire nel furore il povero sofferente, e se nell’istesso istante tutti i denti vi dolessero di quell’atrocità, che si sente sotto la tenaglia; atrocità che cresce tanto, e crescerebbe sempre, finché non restasse estirpato; se poi, mentre il povero sofferente spasima forsennato così, un altro tormentatore crudelissimo nell’istesso momento gli piantasse i chiodetti sotto le unghie; e in quel punto un altro gli conficcasse punte di ferro roventi nelle pupille, e gli si lacerassero le viscere e tutte le carni in tutta la vita…. Ah! Dio buono! salvatelo voi da quel mare sconvolto di tanti tormenti atroci, da far disperare il pensiero….. Aiutiamoci noi in quest’orrore con un’immagine. A Roma, nella chiesa di S. Stefano, detta La rotonda, gira un colonnato di dentro; tra tutte quelle colonne in cerchio sotto gli archi, nello sfondato di altrettante cappelle, stanno dipinti a vivissimi tratti i più spaventosi martirii che si fecero soffrire ai Santi. Chi si pone nel centro, e in quegli orrori gira lo sguardo atterrito, sente un brivido di spavento alla vita! Difatti, se voi da quel punto da cui guardandovi intorno vedeste qui i martiri schiacciati sotto due macigni, in modo che loro escano gli occhi dalle orbite e le viscere dal ventre; là appresso vedeste strappare con tenaglie i denti e le unghie, mentre si versa loro in bocca il piombo liquefatto, che viene fuor giù per terra colle intestina in ceneri; e più là nei petti squarciati divorare le belve le carni dei palpitanti in agonia… Ah! non andiam più oltre; ci fa troppo ribrezzo, e rifugge il pensiero da quegli orrori!… Eppure fate ragione, dice s. Giovanni Grisostomo, che e ferro e fuoco e belve non sono neppure un’ombra che valga ad esprimere quel fuoco tormentatore: Pone ferrum, ignem et bestias; attamen umbra non sunt ad illa tormenta (Hom. 34, 28 Mat.); per poco dobbiamo pensare che, come fa intendere s. Tommaso, se si presentassero tutti questi tormenti da soffrire ai dannati, si getterebbero con furore in quegli spasmi, e sì parrebbe loro in essi di riposare. Eh,signori, sprofondatevi in quella disperazione, come se vi foste già precipitati, per non precipitarvi mai, mai! E chi di noi potrà abitare incatenato in quel fuoco divoratore, senza mai consumarsi? Quis poterit de nobis habitare cum igne devorante? (Is. XXXIII, 11). Noi!… che metteremmo un mondo sossopra per levarci un incomoduccio? Voi, a cui manca l’animo al sentimento di un dolore, che continui? Voi, o delicate, che se un pulcino in pigolio di duolo vi morisse sulla palma della mano, ah vi farebbe svenire del cuore? Noi doverla durare in quel fuoco, che abbrucia fino il pensiero, e fa cadere atterrita l’immaginazione? E riflettiamo, o fratelli, che quel fuoco scruta le anime, perché è fuoco della giustizia e del giudizio di Dio: Igne iudicii (Job., XX, 18), e fa scontare ad uno ad uno i nostri peccati; che quel fuoco sa distinguere chi più peccò da chi peccò meno, e che al senso che più peccò più atroce applica il tormento!… Oh vada nell’ebbrezza della passione, per continuare ad ingolfarsi sempre più nel peccato, vada a dire lo spensierato: un peccato più, peccato meno, posto che mi danno, è l’istesso. Tristo a te, sciagurato! Che dici tu mai?… Un peccato di più importa un inferno di tormenti di più. In quello scontare così atrocemente ad uno ad uno tutti i peccati, il dannato dovrà percuotersi il capo, mordersi le mani al tremendo rimorso di essersi dannato per ciascuna propria colpa: Luet, quæ fecit omnia. Poniamoci ora a meditare la disperazione di aver perduto Dio e il paradiso per le miserie dei nostri peccati; e, per comprenderla alquanto, immaginiamo un’anima sopra morte nell’ultimo anelito dell’agonia. Tremendo istante! tutte le cose del mondo le sono sfuggite d’intorno; in silenzio di morte, in pauroso tenebrore spira l’anima; e dal limite del tempo si trova balzata nel mondo della eternità, in peccato mortale!… Ahi!… piomba in inferno!… Al lampo del vero svelato l’anima conosce Dio in se stesso… Oh che paradiso è mai Dio! Ella si slancia a Lui che è il sommo Bene; ella non può stare senza di Lui; ma Dio la ributta. Chiama, e (S. Agost. Seom. ad arem.) nessun le risponde; grida, e nessuno l’ascolta; agogna furiosamente di sommergersi nella beatitudine di Dio, e viene sprofondata nell’abisso della disperazione tra tutti i mali; smania furente, vuol essere felice in cielo, e si trova inabissata in un mar di fuoco nell’inferno; s’allarga nella capacità di posseder tutto Dio, e si trova compenetrata da tutti gli spasimi dentro del fuoco. Orrenda posizione! L’anima misura allora tutta, per tutta l’eternità, la disperazione di aver perduto il paradiso e Dio. Perdere Iddio è così già una pena infinita, al tutto, quanto è infinito Iddio, dice sant’Agostino (De Civ. Dei, c. 28). Perdere Iddio ?!… vuol dire perdere il sommo Bene necessario; vuol dire essere decaduto dal possedimento di tutti i beni; e, perdutane ogni speranza, trovarsi nell’orrida certezza di non aver che tutti i mali. Almeno qui, anche quando viviamo in mezzo dei mali, che ci tormentano molto, la sola speranza di aver poi un po’ di bene, ci fa respirare alquanto; e questo pensiero lusinga la povera nostra immaginazione. Dall’altra parte il sommo Bene, restando qui per noi ancora. velato, come dice s. Paolo, non ci strascina colla foga della necessità a cercarcelo in Dio particolarmente. Eppure anche costaggiù sulla terra, quando Dio si svela in grazia ad alcun’anima privilegiata, rapisce quest’anima a sé sommo Bene; così, che il sol pensiero di poterlo perdere ancora, la fa fremere terribilmente. S. Giovanni Grisostomo con quel suo genio sublime, con quel suo cuor così grande, elevatosi insino a Dio, da Dio poi si abbassava col pensiero nell’inferno; e di là balzava via fremente, correndo come forsennato per la sua casa colle grida: Ohimé!… Alle sue grida accorrono atterriti i suoi famigliari: O padre, gridando, che è mai che vi fa spasimare crudelmente così?… Oh Dio, oh Dio, ei ripeteva in singhiozzi a loro, io posso perdermi ancora; posso dannarmi, lontano da Dio, perduto per sempre?! Ohiméè!… ohimé!… S. Francesco Borgia, che tutte le sere (proprio tutte le sere, o miei cari fratelli), faceva un’ora di meditazione sopra l’inferno, un dì, addentratosi profondamente col pensiero in quella terribile disperazione, sentì tal tremito in tutta la vita, e si dibatté sì fortemente che faceva muovere il solaio della celletta in cui meditava, gemendo acutamente: povero me! chi mi salva?… Accorrono i religiosi, per soccorrerlo: O padre, gli dimandano tutti solleciti, o padre, che mai vi sentite? come possiamo aiutarvi? E il Santo in tale fremito di convulsioni: M’avete da domandare che mal mi sento? io sento l’orrore di poter perdere Iddio! Oh Madre mia, Maria; io muoio, se penso che posso perdere Iddio!… Deh pensiamo là (quando, conosciuto che lo avremo, ci sforzerà la necessità di immergerci nella beatitudine divina), se ci dovessimo dibattere nella disperazione di avere perduto il paradiso di Dio, per restar dannati in inferno! L’anima dopo il giudizio anche col corpo dannata, con quegli occhi di fuoco su a cercar la luce del cielo, e non vedere che truce bagliore di inferno!….. Di là da quell’abisso a slanciarsi colle braccia allargate, come il cuore, nel mare della beatitudine celeste; e sprofondarsi nel fuoco eterno!… Essa entra in furore contro se stessa! Si strappa colle mani roventi gli occhi; ma gli occhi vedon tuttora! si rode con denti infocati le carni e le ossa; ma rinascono ognora! si tuffa furiosamente per cercare la morte; ma vive sempre ancora di quell’orrenda vita, che la terribile parola di Dio chiama la morte eterna!… Sciagurato! Te l’aveva pur detto il predicatore, che in quell’occasion di peccato!…. dal fianco di quell’orribile creatura saresti….. Ah, ripete il dannato: sono pur troppo precipitato nell’inferno! — Tristo! ti correva pure appresso il buon Parroco, e ti gemeva dietro, e ti richiamava piangendo a far la Pasqua; perché se tu morivi senza Sacramenti!… e il dannato risponde a quella voce in sé stesso: orrenda quella mia morte! così son caduto in inferno! — Infelicissimo! Ti stringeva nel petto il Confessore supplicandoti a calde lagrime di cessare per carità da quel mal abito di continuo peccato!… di troncare di un colpo quella catena!… — eh no, urla il dannato, non cessai il peccato, e la catena m’ha strascinato in inferno! — Te lo dicevano i Sacerdoti più illuminati e gli uomini di virtù più soda: che se morivi scomunicato!… ahi son morto, ripete mordendosi nel cuore di quell’orrida morte e son dannato in inferno! Maledetti quegli amici, quei giornali del partito del proprio interesse, gli empii per mestiere, che mi han fatto perder la fede! Ah… il maledetto son io; sì, son io, che ho voluto dannarmi! E che mi valse quella roba mal acquistata! Quei piaceri che passarono via più rapidi della folgore!… Per aver gustato quegli assaggi di dolcezze, che ora mi fan tanto schifo e ribrezzo, son dannato per l’eternità: Gustans gustavi paululum mellis, et ecce morior!.. Gemeva così nell’ansia sopra morte il buon Gionata. Udite il fatto: Questo guerriero ispirato attaccò di notte i Filistei, che gli fuggivan davanti alla rotta, e li batteva inseguendoli. Allora il re Saulle, suo padre, spinge tutto l’esercito a compiere quella vittoria. Era il momento di coglierla, se si battevano ancora in sul terminare della gloriosa giornata. Saulle fa suonare le trombe, a rinfocar la battaglia col grido « vittoria, vittoria a momenti!… Pena la morte a chi gustasse cibo prima che l’abbiam compiuta. » Gionata alla testa de’ suoi prodi nel furor del combattimento batte i Filistei inseguendoli dentro un bosco; e tutto bagnato di sudore, com’era, e di sangue, in quella foga vede dal cavo di un albero un favo stillare fresco e limpido miele. Si risente allora, che l’abbruciava la sete; vi stende la spada, e con una goccia di miele sulla punta bagnasi il labbro trafelante in quello ardore; e continua a battersi ancor più rinfocato. Compiuta la vittoria, si suonano le trombe a raccolta; e sono i capitani adunati innanzi alla tenda reale a render conto ciascuno della loro fazione eseguita. Ma oh! si trova che Gionata avea assaggiato quel po’ di miele contro il divieto! Al tutto al tutto fu forza al padre condannarlo alla morte!… Ebbene, la storia dice che, quando gli sgherri gli serravano le manette ai polsi, quel guerriero, terrore dei Filistei, tremava tutto, e, piangendo come una femminella, gemeva: o povero me! Deh fossi morto nel fervor della mischia al varco; dove i Filistei mi appuntavano le picche a petto; ed io mi slanciai sopra, e li ho schiacciati! fossi caduto quando, duellando nello scontro del duce nemico, mi vibrava quel bravo così ben misurati colpi, io sarei caduto col brando alla. mano e colla gloria in fronte di chi muore per la patria e la Religione; invece infelicissimo! gustai una goccia di miele vietato, e vado a morire per questo: Gustans gustavi paululum mellis, et ecce morior!… » Il pensiero di morire di morte disonorata per così poca cosa l’aveva così fattamente abbattuto, da non potersi più riavere! Buon per lui, che il popolo alza le grida in tuttol’esercito « grazia al duce nostro Gionata, a cui dobbiamo la grande vittoria! » e fu deliberato. Ma il dannato è là col rimorso di aver perduto il paradiso e Dio per le brutte miserie dei suoi peccati! « Maledetto a me, urla quel re o capitano famoso per le sue vittorie, io portai sulla fronte altéra un alloro bagnato di tanto sangue cristiano; ma la corona mi è caduta per terra appassita alla morte, e mi trovo col capo giù fitto nel fuoco! Maledetta a me, stride la signora della gran vanità, tra i sorrisi e le moine de’ galanti, gustai il dolce di quel ballar svergognato; passò in un istante quell’aura che mi accarezzava fuggendo, e mi trovo dannata coi demoni per sempre! Disgraziati noi, dicono tanti, gustammo brutti piaceri; no, che non li gustammo! passaron via nell’assaggiarli, come la folgore passa scoppiando; è una goccia di miele schifoso che svaporò sulla punta delle labbra; ecco. che per quei peccati ci siamo dannati: Gustans gustavi paululum mellis, et ecce morior!… A questo pensiero il dannato smania in rabbioso furore contro se stesso, morde nel proprio petto, squarcia le proprie viscere, cerca nella propria coscienza il verme che lo rode del rimorso di essersi voluto egli stesso dannare, e stringe tra lebranche roventi il cuore, per strozzare quel verme. Ma l’Evangelo grida tremendo: Vermis eorum non moritur; ma il verme del rimorso non muore, lo tormenta nella più disperata eternità! Ah via ancora, o fratelli, ripigliate con me coraggio in questa meditazione; e col sentimento vivo vivo di quell’immensità di dolori, col dolored’aver perduto il paradiso, col rimorso straziante d’aver comprato coi peccati l’inferno, immergiamoci col pensiero nella disperata eternità dell’inferno. Inferno di tormenti!… disperazione per tutta la eternità!… che paurosi pensieri!… sempre dannati in quella atrocità di spasimi?!… Il sempre opprime il nostro pensiero così, che, fin ancheun piacere che s’immaginasse durarci per sempre, ci soffocherebbe l’animo. Difatti, immaginatevi, dopo una lunga fatica, di riposarvi con piacere sopra un letticciuolo, come di rose in un gabinetto brillante d’oro e di splendidi specchi infiorati di gemme, in cui vi fosse dato godere d’ogni lautezza;tutto ridesse d’intorno a voi. In quella pace, mentrevoi godete col pensier vostro, se vi piombasse sul cuor la sentenza: siete condannati a restar lì per sempre!… Per sempre? Tutto il bello svanisce d’intorno, splendor d’oro, di specchi, di gemme efiori, tutto vi si impallidisce d’innanzi, vi angusti il letto, tutto s’annegra e vi mette in cupa malinconia; perché quel piacere ha da durare per sempre. Pensare poi che un acuto spasimo dovesse durar per sempre, ci fa tremare il cuore. Provate, quando siete nella smania per un atroce dolore di denti, a pensare: se durasse per sempre; andremo in terrore per troppa pressura d’affanno. – Per fermare qui il vostro pensiero che rifugge da tale immaginazione, sentite un fatto, di cui si hanno tanti testimoni e fino popoli intieri accorsi allo spettacolo che videro, a dispetto della difficoltà di credere miracolo tanto straordinario. S. Simeone Stilita, per fuggir dall’inferno, elevato sempre al pensiero del paradiso, si condannò a viver sempre sul capitello di un’alta colonna in mezzo al deserto, esposto al sole, ai venti, alle tempeste. Là sempre col cuore al cielo anelando, si vide comparire davanti un carro di fuoco, ed un, che angelo pareva, lo invitasse a montar sul carro, per portarlo al paradiso. Simeone in quell’ardore che vel rapiva, alza il piede facendosi il segno della santa croce… La visione disparve… E Simeone tutto sdegno contro se stesso: « Ah peccator disgraziato, esclama; pretendevi dunque di volar in paradiso sopra un carro di fuoco? Ben ti darò io la penitenza!…» Si condannò a restar sempre col piede a mezz’aria, in atto di montare sul carro per tanti giorni, che gli venne a marcire la coscia! Che patimento! Oh miei cari! pensiam piuttosto nell’inferno, disperazione di restare là ad abbruciare nel fuoco per sempre!… Il sempre dell’eternità non è possibile di potercelo immaginare…….. Deh pensate qui ad un infelicissimo che sia condannato a subire la morte fra pochi giorni. Egli là sul giaciglio in fondo della secreta, col capo sulle ginocchia, i capelli tirati su gli occhi tra le pugna che rode….. Conta i giorni… dimani l’ultimo dì… orribile quest’ultima notte!… Batte la mezzanotte; quel colpo dell’ora è un colpo di folgore che lo percuote… a sei ore, muggisce tra i denti, sono strozzato!… Gli si annegra il pensiero, in quella tetraggine gli balena sugli occhi la scure che gli è vibrata… sente il colpo… no… è il colpo del fatale martello che batte già un’ora… poi due ore… poi tre!… Balza in piedi, per fuggir dall’ultima ora, che gli rapisce la sua esistenza! di due passi concitati, si contorce, si serra tutto in se stesso coi denti sulle pugna serrate fino alla gola. Guata cogli occhi orribilmente sbarrati, quasi avesse la morte alla strozza!… batte i piedi in atto feroce e sta… origlia… Oh! rumor di gente?! Son gli sgherri già sotto al finestrino che preparano l’esecuzione!.., Oh! il cigolio di un carro? E il carro che viene per portarlo al patibolo!… No, no, non vuol morire!….. vaneggia, frenetico fugge col pensier dalla morte, che lo divora; ma col pensiero sale il patibolo!… ritira dalla scure il collo!… ahi gente il colpo!… Si salva ancora! ma trucemente guata, come se vedesse ai piedi la propria testa rotolar sul palco, fissa cogli occhi di fuoco negli occhi spalancati del capo tronco!… Là, respiriamo, fratelli, ché la sua morte fu un colpo, che appena sentito era passato! Dunque la sua morte fu un mal da niente. Oh, voi rispondete: ma restò morto per sempre… A noi, a noi, fratelli miei, sta già spalancato sotto i piedi l’inferno! ogni anno è un’ora veloce che ci rapisce la vita. Non corriamo, no; son i battiti del cuore che ci precipitano alla morte. E l’agonia, tutte le cose intorno a noi rovinan via confusamente, già c’ingoia l’eternità! Ah, se l’eternità sarà per noi l’inferno!… Che terribile momento al primo piombar nell’inferno!… in quella disperazione è impossibile che regga l’anima, e cerca buttarsi fuori… Oh è la notte d’inferno!… Qual notte?… La prima notte nell’eternità dell’inferno! Guata a destra ed a sinistra con uno sguardo, che è un fulmine, vuol misurar l’orbita della giustizia eterna; ma non l’arriva!… Si butta sopra i secoli, che immagina, si accavalcan davanti sconvolti; ma la travolge perdutamente il vortice dell’eternità. Come il povero naufrago, quando da un colpo di mare in tempesta spezzata la nave, si sprofonda nell’abisso dell’acqua; egli si slancia nel mare. Un’ondata gli irrompe nel petto; ei d’uno slancio la sorpassa; un’altr’onda lo sommerge alla gola; ed ei sbuffando la rompe. Altre onde lo investono ai fianchi; ei spezza l’una e getta l’altra in isbieco di dietro snervata. Quando ruggendo sopra esse un flutto più rabbioso gli si infrange sul capo e l’ingoia. É sommerso!… no, ancor appar là, che a fieri colpi battendosi si sostiene sopr’acqua, e sul dorso del flutto maggiore s’alza impettito e guata!… A un’onda vede appresso altre onde; dall’uno e dall’altro fianco sempre onde appresso ad altre onde, e guarda indietro, non vede che onde, e lontano lontano le onde che crestate di bianco si confondon coll’altro orizzonte sul negro cielo in bufera! Disperatamente si dibatte! Ma si sprofonda snervato; pur si batte ancor dentro l’abisso, mentre resta affogato! Così il dannato nel mar di fuoco si batte furente cogli anni che egli così immagina nel baratro dell’eternità. Ho da restar qui, dice urlando, un anno! Che disperazione, un anno d’inferno! Col pensiero furente lo passa. E poi ancor dieci anni! Ei li divora con tutta la rabbia. Poi cento anni, e trangugia tutta la disperazione di cento anni d’inferno! Poi mille anni e mille mille anni! ne prova tutta la disperazione dei mille anni! Adoperate adesso le solite immagini creando col pensiero tanti mila anni, quante sono le foglie di tutte le piante; tanti mila anni, quante le goccioline di tutti i mari; tanti mila anni, quanti i granelli di sabbia di tutta la terra. E il dannato travolto in quei milioni di anni del tremendo vortice dell’eternità, vi ripiomba in fondo, e in ogni momento sente tutto il peso della disperazione di tutta l’eternità. L’eternità pesa tutta su un solo momento: Æternitas tota in uno puncto, dice s. Agostino. L’inferno sta massimamente qui; con tutti i mali la disperazione sotto il pendolo dell’eternità che batte sempre!… non mai!… sempre dannato! né fine mai… Sempre in quel fuoco, né cessa mai! Miei fratelli, sempre in inferno! trasvoliamo veloci sopra mille e mille anni e sempre mille anni che non cessano mai. Sempre! non mai! mi si annegra l’immaginazione! cade il pensiero sprofondato in troppo terrore; e sopra l’abisso d’inferno, ahi ahi sudo freddo alla vita! Ah, che il mio pensiero si perde!… Corro furioso tra voi, miei figliuoli, urlando « correte in braccio a Gesù per salvarvi dall’inferno! » Racconterovvi un fatto qual lo raccontano alcuni storici. L’imperatore Zenone aveva una bellissima sposa, Adriana, che amava tanto; ma, dicono, l’imperatrice era bella come un angelo, cattiva, perversa come un demonio; la perfida tramava di perderlo. I principi di corte, scoperta la trama, avvisavano del tradimento l’imperatore. Zenone inorridì all’avviso; ma ritornando alla reggia si vede davanti l’imperatrice nello splendore della sua bellezza; e svanito lo spavento: è tanto bella, esclama, è impossibile che sia cattiva. Va, t’affida, perché è bella! Gli amici più fedeli, penetrati mel gabinetto, assalgono al cuore Zenone: Imperatore, vi giuriamo, l’imperatrice vi perde; in lega col generale vostro nemico ormai vi circonda Costantinopoli coll’esercito in rivolta!… Imperatore, forse fra pochi giorni voi perdete coll’impero la vita! — L’imperatore spaventato ritorna ad Adriana; e al guardarla nelle attrattive più lusinghiere: noiosi, esclama, quei troppo zelanti amici! L’è tanto bella, è impossibile che sia cattiva. Va là! va là!… Un giorno, mentre sì adorava dinanzi la tanto cara imperatrice; ecco oh! salta fuori dal cortinaggio del trono un sicario, che gli si slancia col pugnale alla vita! L’imperatore mano alla spada; ma due braccia di ferro gli serran le braccia di dietro! L’imperatore fa di gridare: all’armi! Ma una mano gli chiude la bocca e lo stringe alla strozza; e tutti intorno tanti assassini ad afferrarlo. E l’imperatrice? Eh, svolta via e dispare!… Stretto tra quei feroci vede guizzarsi sugli occhi uno stile, e glielo piantan dentro nella pupilla d’un occhio! E glielo cavano crudelmente a bell’agio. L’imperatore in orrido fremito guizza come un lampo guatando con l’altro occhio insanguinato… ah, si vede drizzar la punta dello stile nell’altr’occhio, che gli viene con crudo strazio cavato! Sente abbavagliare la bocca; stringersi di corde tutto d’intorno, al collo un capestro; e d’un urto è buttato per terra. Povero imperatore! con una corda al collo lo strascinan fuori dalla reggia giù per lo scalone battendo sui gradini la testa. Strascinato fino al pianerottolo, nello svolto aspetta il colpo di morte. Ma lo strascinano ancora giù dall’una all’altra scala fino (s’accorge anch’esso alla fredda atmosfera) nei sotterranei! Buttato là in fondo, sente smover coi ferri un gran sasso che copriva il sepolcro secreto. Ed egli in quell’angoscia tremenda si dice in cuore: preparan già il sepolcro da mettermi dentro… Quando sentesi sollevare da terra… egli aspetta il colpo… Ma, oh gli si taglian tutto d’intorno le corde! Egli mette un grido, allargando le braccia, ahi piomba dentro al sepolcro!… Sente la lapide che piomba a chiuder la tomba « son sepolto vivo!….. » esclama… E gira in quell’orrore le braccia! tocca cadaveri che s’infrangono sotto le mani! Fa un passo… si sprofonda dentro di essi! risalta contro il sasso sopra la testa; e ricade nel putridume! cerca le pareti tastando intorno intorno, vi si getta contro per arrampicarvisi, e ricade! S’arrampica su per l’altra parte e ripiomba! Si slancia ancor più furioso a salir su quei muri; si urta colle mani e col petto su, giù battendosi contro essi; ma ricade senza speranza! Affrante cerca ancora sforzarsi!… Deh, deh non mi domandate come fu trovato alcuni mesi dopo! Aveva alle mani le palme consunte fatte bianche ossicine, le vesti consumate sul petto e le costole spolpate dal tanto batter su contro il muro!… Oh Dio! quanti tormenti là!… Miei fratelli, vi spaventa troppo all’immaginarvelo?… Io pure son tutto atterrito!… Ma calmiamoci; sono tormenti da poco, perché ben presto dovette morire!… Però, intanto quanti spasimi in quella disperazione per quel poco tempo!… Ma deh deh, se morendo siam noi sepolti in inferno!… Deh, fate a voi dunque la carità di mettervi in salvo… Uditeci, uditeci; noi vi gridiam pure forte; noi atterriti vi spaventiamo… Oh quanto vi piangiamo appresso per avvertirvi che con quella persona, con quella vita, con quei furti coperti, con quella roba scomunicata… voi, ancor per poco, e siete traditi in inferno. Voi dite pur anche talvolta col yostro buon cuore « il povero padre che ci avvisa ha ragione! » Ma poi tornate in quell’osteria, in quella casa la sola vista della persona solita vi fa uscire di capo; e volendo fermarvi in mezzo a quel tradimento, per poco che non ci diciate:… tristi di preti! e perché ci gridate tanto appresso? — Perché?… perché non vogliamo lasciarvi dannare! Intanto vi sorprende come un assassino la morte; già vi strozza, tutte le cose più care vi vanno in dileguo, s’annegra la vista: siete nell’ansia dell’agonia… aspettate il colpo… la morte vi percuote… vi slanciate nell’eternità… in peccato mortale!… siete dannati in inferno per sempre… Salvatevi, salvatevi; siete ancora a tempo!… L’inferno! miei fratelli, ci è dunque spalancato l’inferno; e noi vi pendiamo sopra! Ora diceva san Tommaso: io non so comprendere come si possa credere l’inferno, ed essere in peccato mortale, e quindi sentirsi urtare a piombarvi dentro continuamente; e sì possa intanto dormire tranquillo una lunga notte sull’orlo dell’inferno, senza cercare subito per ispavento di rimettersi in grazia di Dio. Vi è l’inferno, è verità di Dio; e un peccato mortale può precipitar l’uom nell’inferno! Dunque dal primo peccato mortale, dite tutti in voi stessi, che io avessi da tanti anni commesso, potrei essere per tanti anni disperato nell’inferno! E se fossi da tanti anni in quella disperazione! e mi apparisse, ìl che non può essere mai, un Angelo nell’inferno; e mi invitasse ad uscire da quella dannazione, per ritornare nel mondo qui, e cercare di salvarmi in paradiso; con qual furore non mi slancerei fuori d’inferno, per incamminarmi a tutta possa sulla via del paradiso?!… con qual diligenza non vorrei frenare la lingua, mortificare gli occhi, castigare la carne, che mi volesse strascinar nell’inferno? Ricevere i sacramenti per santificarmi pel paradiso?… Al tutto al tutto, griderei sempre, voglio assicurarmi il paradiso. Se poi appena fuori dall’inferno, incontrassi sopra via quella maledetta persona, che mi fece cader nell’inferno, vorrei urlare infuocato: Va, va lontano da me, brutto demonio; che mi avevi tradito e traboccato in inferno!… io ho provato l’inferno! Se appena fuori d’inferno, passando lungo la strada vedessi la porta dell’osteria o di quella casa, in cui la cattiva occasione mi fece andare dannato: ecco, ecco, griderei con tutto furore, quell’orrenda bocca d’inferno! Eh, come fuggirei alla larga da essa lontano! Perché ho provato l’inferno!… Se mi venissero incontro gli amici da buon tempo, che mi hanno fatto perder l’innocenza, mi hanno fatto perder la fede, mi menarono in quella via di peccato, per cui sono già andato a dannarmi; per poco che io non mi slancerei per… « Là via via, o maledetti! io starò più volentieri nel fuoco che in compagnia di voi! Perché ho provato l’inferno! Tanto, se l’avessi provato per giustizia di Dio! Ed ora perché non lo trovai per sua grande misericordia, sto tranquillo; anzi, ballo allegramente e come cogli occhi bendati sull’orlo dell’inferno; lì per cadervi ad ogni piè sospinto! Anzi orribile tracotanza! provoco lo sdegno di Dio a cacciarmi dentro coi miei peccati sulla coscienza, qui sopra quel fuoco, che già mi assale per divorarmi vivo? – Vi è l’inferno, verità di Dio! un peccato può precipitar l’uom all’inferno. Dunque quando si ha un peccato mortale sull’anima, ad ogni momento si può di un colpo essere precipitato giù nell’inferno… Voi sapete come le vipere stanno d’inverno accovacciate sotto le radici di rovi, assiderate dal gelo. Fate di tirare fuori di sotto la ceppaia la vipera, e raccoglietevela in mano. Che bella bestiolina è mai la vipera! Contemplatela sulla vostra mano; arrotondata nella propria vita, si tien protetta sotto in mezzo la sua testina, si passa sopra la coda a legarsi; che bel gruppo grazioso!… Ma voi a me: padre, che dite mai? la vipera è così bella?… eh fa ribrezzo solo al pensarla. — Ma io vi rispondo: questo, miei cari, è un pregiudizio. Se voi la contemplate per bene vi debbe comparire amabile, più che io non vi dica. La vipera ha un bel grigiolino lungo la vita che gradatamente si sfuma sotto la gola cangiantesi in colore di rosa sanguigno… è una grazia a vederla; accarezzatela… Eh via, non perdete l’opera in queste belle parole; non farete mai che la vipera non ci faccia ribrezzo. Vi replico, è un pregiudizio. Fate di vincerlo, e nel coricarvi stanotte mettetevi sul petto la viperina… È vero che, se si ridestasse, vi darebbe col morso la morte; fidatevi pure, è fitto inverno, non si ridesta sì tosto; potete tenervela forse ancor un mese addormentata sul petto… — Ah perdonatemi! Se con questa viva immaginazione vi addormentate, voi trasognate stanotte; e vi parrà nel sonno sentirvela sul petto contrarsi e vermicolare in sussulto e lasciarvi cader giù al fianco la coda. Allunga il collo… serpeggia mollemente sul petto… scorre giù alla vita… ahi che mi morde!… stridete svegliandovi atterrito; e colla mano tastate sul letto ad assicurarvi tremando che un sogno sia sì veramente. Ah vi mette tanto orrore dormir colla vipera addormentata sul petto; e dormite poi col peccato e fino in sul dormire ve l’accarezzate e lo suscitate a ridestarsi, affinché quasi vi sorprenda tra il sonno e la veglia tranquilli, anche che possiate morir in quell’ora!… Ma, se vi si dà il colpo di morte?… Dio santissimo! nella morte piombate in inferno! Verità di Dio! grida qui s. Leonardo, si può essere in peccato mortale addormentato nel più stupido sonno; e sentir il colpo di morte improvvisa… ed aprire gli occhi e trovarsi all’improvviso sepolto coi demoni nell’inferno per tutta l’eternità! Pensatevi sopra… è un pensiero che vale una predica… Dunque, ogni movimento del cuore che pur batte sempre, coll’ultima sua battuta in peccato vi piomba in inferno!… Dunque, può un sospiro cominciare sul letto e finir nell’inferno!… Ma oh, se io tremo, come una madre, che qualche spensierato non mi si precipiti in perdizione!… Ecco Perché vi trattai come la madre. Quando la buona vede il bimbo suo spensieratello saltellare sul parapetto del pozzo e colla mano agitare sull’acqua la catenella! Essa forse grida per ispavento? no; lo farebbe scivolare dal sasso! ma va adagino alla larga al pozzo di dietro e sporge un occhio alla svolta del muro, allarga le braccia, e… fa un salto alla vita. Ahi che cado! stride il bimbo! Ma la madre l’ha stretto sul seno, e se lo porta via; e gli dice coi baci tremando: sta lontano sempre dal pozzo! Anch’io mi slancio tra le vostre braccia atterrito, vi grido: fuggite, fuggite dall’inferno… su via con me, vi voglio tutti in paradiso. Verità di Dio! Ma se vi è l’inferno che minaccia ingoiarvi; ci aspetta però anche il paradiso. Deh deh, vorrei gridarvi intenerito alle lagrime da non ne poter più; perché vorrà qualcuno andar sempre su quella strada sulla quale può sprofondarsi nell’abisso d’inferno? Sentite; se potessi vorrei fare con voi, come fece s. Ignazio. Un suo amico tutte notti, passando sopra un ponte attraverso alla Senna in Parigi, andava in casa d’occasion di peccato. Né per pregar che facesse il Santo, di non andar più là, di dove poteva precipitar tutte notti nell’inferno, non ne fu niente. Il Santo, che avrebbe per salvarlo data la vita, nell’ardenza del suo amore, va ed aspetta di notte sotto il ponte della Senna; e vedendo che passava il povero giovane, rompe egli il ghiaccio del fiume, e si getta nell’acqua stridendo coi denti ohiméè!… ohimé!… Ascolta il giovane e corre giù ad aiutare chi mai fosse caduto, e vede… una testa a fior di ghiaccio… Corre, guarda! Oh chi mai?!… Oh Ignazio mio, sei caduto così! e si voleva gettar nell’acqua a cavarlo… Ed Ignazio: Va va, troppo a me così caro, ma disgraziato amico! va a peccare; io starò qui per gridare a Dio nel mio dolore di non lasciarti cadere nell’inferno! — Il giovane esterrefatto: Ignazio mio!… ti giuro che fuggendo da quel pericolo, mi salverò! E fu salvo! Io vorrei farlo per voi; chiedetemi che volete, per farvi fermare sulla via all’inferno! Ma poi potete anche voi, fratelli… si, la potete fare da voi questa prova, che s. Alfonso chiama la prova del senso. Quando siete terribilmente tentati, immaginatevi di essere lì per precipitar nell’inferno… anzi di essere precipitati!… mettete la mano anche sulla fiamma della lucerna, ferma lì, ahi abbrucia… Ancor ferma li; quando la fiammella in isventolio vi lambe sotto… ahi che abbrucia troppo!… — In quel bruciore della fiamma che appena sfiora la mano, dite: Anima mia, anima mia, e tu ti vuoi precipitarmi nel fuoco d’inferno!… Oh se il pensiero è tutto nel fuoco d’inferno!… scappiam via! scappiamo via a salvarci. Ma se vi è l’inferno, verità di Dio! vi è pure per noi aperto il paradiso!… Questo pensiero fermò tanti che sulla strada dell’inferno andavano a perdersi strascinati dai loro peccati, e si salvarono ancora. Questo pensiero spinse tanti a lasciare il mondo e farsi religiosi, a non dar mai indietro innanzi a qualunque difficoltà. Essi fecero ragione alla propria coscienza così, e dissero nel loro cuore: in mezzo a questo nonnulla di cose di mondo, anima mia, dove corri?… Corro sopra una via in mezzo a continui agguati: dopo l’uno un altro pericolo; mi son scavati sotto tanti trabocchetti… posso precipitarvi, e, quando men lo penso, trovarmi nell’inferno… e voi, mio Dio, mi mostrate davanti una strada più sicura!… Convertirmi e anche farmi religioso (eh non è più il tempo! mi si grida…) -Alto là, vi darò io in sulla voce; finché vi è l’inferno e il paradiso, è sempre il tempo di metterci sulla via più diritta pel paradiso!….. Questo pensiero popolò il deserto di penitenti; questo pensiero fece correre tante anime timidette a ripararsi nei monasteri… questo pensiero riempì il paradiso di Santi… Questo pensiero mi trasporta qui qui sopra la bocca dell’inferno; ma trovo sull’abisso spalancato che vuole ingoiarci, Gesù Crocifisso che ce lo chiude colla propria vita, che allarga le braccia per portarci nel Sacramento in paradiso. Date indietro, salvatevi; ché per andare all’inferno avete da calpestar Gesù Cristo, avete da insultar la Madre Chiesa; avete da mandare a male il Sangue di Gesù, non ricevendo o ricevendo male i Sacramenti. Vi butto Gesù dinanzi: montategli sul petto, per andar all’inferno calpestatelo sotto de’ piedi col maltrattarlo, coll’odiarlo, coll’offenderlo nella vostra vita cristiana… No no, nol farete; dovete salvarvi tutti in paradiso.

LA GRAZIA E LA GLORIA (24)

LA GRAZIA E LA GLORIA (24)

Del R. P. J.-B. TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO V

LA FILIAZIONE ADOTTIVA CONSIDERATA NELLA SUA RELAZIONE CON CIASCUNA DELLE PERSONE DIVINE.

LA RELAZIONE CON IL PADRE E IL FIGLIO.

CAPITOLO II

La relazione dei figli adottivi con la seconda Persona. Il Figlio eterno, esemplare della nostra filiazione.

1. – Se siamo, per legittima appropriazione, figli adottivi del Padre, appartiene al Figlio essere l’esemplare e l’archetipo su cui siamo formati come figli di Dio. Non che non portiamo in noi l’immagine di tutta la Trinità, poiché è la Trinità che parla quando Dio dice in principio: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza. Immagine e somiglianza non solo nell’ordine della natura, ma anche nell’ordine della grazia. Degli dei divinizzati devono avere in loro il carattere della divinità, comune alle tre Persone. Ma, quando guardo questi dei deificati sotto il loro titolo e nella loro qualità di figli di Dio, la legge di appropriazione esige che la ragione del prototipo e del primo modello sia la singolare prerogativa di Colui che è il Figlio per natura. Così, niente è più frequente nei nostri Libri santi e nei Padri che l’idea dell’esemplarità particolarmente affermata di questo Unico. « Quelli – dice San Paolo – che Egli ha conosciuto con la sua prescienza, li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del suo Figlio, affinché egli stesso fosse il primogenito tra molti fratelli » (Rom., VIII, 29). So che i Padri greci intendevano con il nome di immagine lo Spirito Santo; ma, come vedremo più avanti, ciò era per giungere per una via diversa alla stessa idea dei loro fratelli occidentali. (Cfr. S, Thom. 3 p:, q. 23, a.2, ad 3.). – Quando siamo generati, quando cresciamo nella vita divina, è Cristo, il Figlio di Dio, che si riproduce e cresce nelle nostre anime. « Figlioli miei, che io genero di nuovo fino a che il Cristo sia formato in voi » (Gal. IV, 19), scrive San Paolo ai fedeli della Galazia. È per questo che tutta l’opera della nostra perfezione spirituale, che inizia nel Battesimo con la nascita e che non si completa fino alla maturità dell’uomo perfetto, tende a rivestirci di Cristo. Se vogliamo che il Padre ci riconosca come suoi figli, assumiamo i tratti, i modi e, nel nostro piccolo, l’essere stesso del Figlio amato. – Voglio far sentire qui la voce eloquente di San Giovanni Crisostomo. Nel suo commento all’epistola ai Galati, egli è giunto alle parole: « Voi siete tutti figli di Dio mediante la fede in Gesù Cristo » (Gal. III, 26). « Per la fede – riprende il grande oratore – e non per la legge ». E poiché questa è una cosa grande e veramente ammirevole, l’Apostolo spiega il modo in cui essi diventano figli di Dio. «Tutti voi – egli dice – che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo » (Ibid. 27). Perché non dire: « Tutti voi che siete stati battezzati in Cristo siete nati da Dio »? Ecco, sembra, ciò che conveniva per dimostrare la loro filiazione divina. Ma egli preferisce esporla in termini di un’altezza veramente vertiginosa… In effetti, se Cristo è il Figlio di Dio, e voi vi siete rivestiti di Cristo, avendo il Figlio in voi ed essendo trasformati in Lui per somiglianza, siete in un certo senso usciti dalla vostra specie, e la sua parentela con il Padre è diventata vostra. « Non c’è più giudeo o gentile, schiavo o libero, maschio o femmina; non siete voi tutti che uno in Cristo Gesù. » –  « Vedete l’anima insaziabile di questo Apostolo. Dopo aver detto: Voi tutti siete diventati figli di Dio per mezzo della fede, si fermerà lì? No. Egli cerca espressioni per affermare ancora più fortemente la nostra unione con Cristo. Quindi aggiunge: Vi siete rivestiti di Cristo; e questo non gli basta ancora: va ancora oltre l’unione. Voi siete tutti uno in Cristo, cioè avete tutti in voi una stessa forma, uno stesso tipo, la forma e il tipo di Cristo. Quali parole maggiormente capaci di incutere il rispetto e precipitare nello stupore? Colui che finora era un pagano, un giudeo, uno schiavo, questo stesso si avanza portando la forma e il tipo, non di un Angelo o di un Arcangelo, ma del Signore di tutte le cose: egli è la copia vivente di Cristo » (S. J. Chrysost. in ep. ad Gal, P. Gr., t. 61, p. 656). – Le stesse idee, con una sfumatura leggermente diversa, si trovano negli scritti di San Cirillo di Alessandria. Per la comprensione del santo Dottore è necessario sapere che dove il testo della Vulgata legge: « Io ti ho formato, tu sei il mio servo Israele » (Is, XLIV, 21), lui legge: « Io ti ho formato figlio mio ». Dopo aver descritto la formazione naturale dell’uomo e quella formazione superiore che dobbiamo alla scienza pratica delle leggi divine e allo splendore delle virtù, continua in questi termini: « Ognuno di noi è formato in Cristo, ad immagine di Cristo, per la partecipazione dello Spirito Santo. Infatti, il divino Paolo scrive ai Galati: Figlioli miei (e gli altri di cui abbiamo parlato prima). Ora è lo Spirito Santo che forma il Cristo in noi quando attraverso la santificazione e la giustizia ci conferisce una forma divina. Così il carattere della sostanza di Dio Padre risplende nelle nostre anime (Ebr. I, 3), attraverso lo Spirito la cui virtù santificante ci rifà su questo modello. Ecco perché il santissimo Paolo dice: Non conformatevi a questo mondo, ma riformatevi nella novità della vostra mente, per provare quanto sia buona, gradita e perfetta la volontà di Dio (Rom. XII, 2). I Giudei hanno un velo sul loro cuore, ma noi, guardando la gloria del Signore a viso scoperto, siamo trasformati nella stessa immagine, da chiarezza in chiarezza, come dallo Spirito del Signore (II Cor. III, 18). E così siamo formati in figli di Dio » (S. Gyril. Alex. In Is., L. IV. P. Gr., t. 70, p. 956). Ove si vede che se lo Spirito Santo è l’artigiano della nostra formazione, l’esemplare e l’archetipo su cui siamo formati, è il carattere della sostanza di Dio Padre, cioè suo Figlio. – Secondo questo testo e altri simili, mi rappresento il Figlio eterno di Dio che, volendo fare di noi la copia vivente della sua bellezza divina, trasmette la sua immagine allo Spirito Santo perché la riproduca nelle nostre anime. Per meglio dire, è lo Spirito Santo che mi appare come un artista onnipotente, che incide i suoi tratti nel mio cuore, e così mi rende simile al Figlio: poiché Egli è per sua essenza l’immagine naturale del Figlio. E Dio Padre, poiché vede allora risplendere sul volto della nostra anima i tratti divini del suo Figlio diletto, ci ama d’ora in poi come degli altri figli, e ci riempie di una gloria infinitamente superiore alla nostra condizione terrena (S. Cyril. d’Alex. Hom. Pasch. 10. P. Gr., t. 76, p 618.). Questo è un modo di concepire che è peculiare di molti dei Padri greci, e si fonda sull’interpretazione che essi hanno fatto delle parole dell’Apostolo: « Quelli che Egli ha conosciuto nella sua prescienza, li ha predestinati a diventare conformi all’immagine del Figlio suo (Rom. VIII, 29); poiché qui l’immagine è per loro lo Spirito Santo. Non che confondano le proprietà delle Persone. Come i latini, insegnano secondo l’Apostolo che appartiene solo alla seconda Persona di essere « lo splendore della gloria di Dio, la gloria della sua sostanza, lo specchio infinitamente puro della sua maestà » (Hebr., 1, 3; Sap., VII, 26,); ma, supposta questa dottrina, lo Spirito di verità non è meno l’immagine naturale del Figlio, cioè l’immagine del Figlio quanto alla natura, poiché la natura che ne riceve, è la natura propria del Figlio. Non avevo ragione di dire che questi medesimi Padri, anche se sembrano allontanarsi qui dai loro fratelli occidentali, arrivano con loro alla stessa conclusione?

2. – In accordo sulla conclusione dogmatica, essi lo sono anche sulle conseguenze morali. Siete stati costituititi figli a somiglianza del Figlio unigenito, e la sua filiazione naturale è la copia della vostra filiazione adottiva. Quindi il complemento atteso deve rispondere a queste origini. Pertanto, tutte le vostre azioni, il vostro pensiero, la vostra volontà deve essere modellata sul suo agire, sulla sua volontà e sul suo pensiero. Sbalorditi e come stupefatti al pensiero di una parentela così alta, e di un archetipo così sproporzionato alla nostra nullità, ci chiedevamo cosa fare per esserne degni, cosa fare per non esserne estromessi? E questo Figlio, primogenito del Padre, è venuto a noi; è diventato uomo come noi, uno di noi, con la nostra natura, la nostra carne, le nostre debolezze e i nostri mali; e ci ha detto: Io, il Figlio per natura, il Figlio infinitamente perfetto di un Padre infinitamente perfetto, sono diventato come uno di voi. Guardate e fate quello che vi ho dato nella mia umanità. Rivestiti di me come di una veste più adatta alla debolezza, più conforme alla tua misura (Rom. XIII, 14). Non ti chiedo di creare mondi, né di estendere i cieli, né di porre dei limiti al mare affinché non possa superarli nella sua massima furia (Prov. VIII, 27 e seguenti); queste sono opere di potenza che sono proprie di me come Dio. Ma io ho obbedito a mio Padre, ero povero, umile, mite di cuore, paziente fino all’eccesso; ma non rifuggivo da nessun sacrificio quando si trattava di amare gli uomini e il Padre mio del cielo. È così che l’esemplare divino parla al nostro cuore. È anche, in accordo con questi alti pensieri, che Gregorio di Nazianzo vuole che resistiamo al nemico delle nostre anime: « Se il diavolo vi attacca –  dice questo Padre – se vi mostra, come ha fatto con Gesù Cristo, il fasto delle ricchezze e della grandezza per ottenere la vostra adorazione, disprezzatelo come un miserabile. Armati del segno della croce, rispondetegli: Anch’io sono l’immagine di Dio e l’orgoglio non mi ha fatto cadere dall’alto della gloria come ha fatto cadere te. Sono rivestito di Cristo; attraverso il Battesimo Cristo è diventato mia proprietà. Sta a te adorarmi, Tu me ipse adora (S. Gregor. Naz., orat. 40, n. 10. P. Gr., t: 36, p. 370).

3. – È importante per la comprensione di queste alte verità esprimere, con tutta la precisione possibile, come la filiazione adottiva differisca da quella naturale, anche se quest’ultima è l’archetipo della prima. Se ne differenzia perché il Padre comunica al Figlio per natura la sua stessa sostanza, in una perfetta identità di essere e perfezione, e noi la riceviamo solo nella sua somiglianza accidentale e per partecipazione. Essa se ne differenzia, perché è dell’essenza stessa del Padre produrre un Figlio che sia con Lui della stessa natura (Gv. 1,18), uguale e co-eterno al Padre; tanto che entrambi non sarebbero né Persone né Dio, se uno non fosse Padre e l’altro Figlio. La condizione dei figli adottivi è ben diversa; così come l’atto che li rende figli. Se si toglie l’adozione, Dio non è meno Dio, non meno perfetto, non meno Padre, e io non sono meno creatura, non meno uomo. – Si differenzia perché è per via d’intelligenza che il Padre genera naturalmente il suo Verbo, mentre il figlio d’adozione procede da Lui per libera scelta del suo amore. Essa se ne differenzia, perché è la filiazione naturale che è il principio della filiazione di grazia. Perciò i Padri, quando vogliono provare che Gesù Cristo, Nostro Signore, è veramente il Figlio di Dio per natura, il Figlio Dio di un Dio Padre, ce lo mostrano nelle Sacre Scritture come autore e consumatore della nostra adozione. Se ne differenzia, perché il termine di generazione naturale, essendo Dio, rimane in Dio, nel seno misterioso del Padre (Gv. I, 1, 18), mentre il termine di adozione, come tutta la creazione, è in quanto all’essere distinto e separato da Dio. Infine, se ne differenzia, perché la nascita del Figlio eterno di Dio precede nell’ordine, non dico di durata, ma di natura, la processione dello Spirito Santo; mentre la filiazione adottiva, anche se fosse al di sopra delle leggi del tempo, presupporrebbe comunque lo Spirito Santo, poiché il suo principio è l’amore.

4. – Addentriamoci ulteriormente in questa materia per comprendere meglio la sua portata dottrinale. Ora, ecco la questione che si pone davanti a noi. Abbiamo il diritto di dire che Gesù Cristo, considerato nelle perfezioni e negli atti della sua natura umana, è il prototipo e l’esemplare della nostra filiazione adottiva, o, che equivale alla stessa cosa, della nostra somiglianza soprannaturale con Dio? Qui il sì e il no sono ugualmente veri, a seconda del punto di vista che si considera. No, in primo luogo: perché la grazia, questa natura soprannaturale che è la forma dei figli adottivi, non ha che nella natura divina la sua sede originale, il suo primo principio e il suo perfetto esempio. No: perché la nostra figliolanza della grazia non può trovare il suo modello che nella figliolanza della natura, poiché Cristo non è in nessun senso il figlio adottivo del Padre. E tuttavia possiamo rispondere, sì, in un senso che, anche se meno rigoroso, non è meno indiscutibile. Il Figlio di Dio, considerato come uomo, è l’esemplare della nostra filiazione adottiva, se guardiamo il modo in cui l’abbiamo ricevuta. Questa è la bella dottrina che Sant’Agostino sviluppa magnificamente nei suoi libri contro il pelagianesimo. Egli dimostra che la grazia è grazia, cioè, non proviene né dal merito né dalle esigenze della natura. « Uno splendido esempio di predestinazione e di grazia – dice il grande dottore – è il Salvatore stesso, il mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Cristo Gesù. Dove sono infatti le opere, dove sono i meriti con cui la natura umana che è in Lui, ha pagato il beneficio che ha fatto dell’uomo un Dio? Rispondete, ve ne prego: questa natura, innalzata dal Verbo all’unità della sua Persona e divenuta la natura dell’unico Figlio di Dio, come ha meritato questo incomparabile onore? Quali atti l’hanno preparata a questa unione? Cosa ha fatto, cosa ha creduto, cosa ha chiesto per ottenere una dignità così ineffabile? Che essa appaia nel nostro Capo e nostra testa come la fonte stessa da cui la grazia fluisce a ciascuna delle sue membra, secondo la misura propria di ciascuna di esse. La grazia che, all’inizio della sua fede, fa di ogni uomo un Cristiano, è la grazia che, nel primo momento della sua esistenza, ha fatto di quest’uomo il Cristo (S. Aug., de Prædest. ss, c. 14, n. 30-31). Allo stesso ordine di idee è legata un’osservazione che ricorre frequentemente nei Padri e nei Dottori. Se il Figlio, considerato come Dio, procede eternamente dal Padre e nient’altro che dal Padre, lo stesso non vale per il mistero di grazia che ce lo ha dato come uomo; poiché è dallo Spirito Santo che è stato concepito nel grembo della Vergine immacolata. Così noi, figli adottivi di Dio, siamo generati alla vita divina dallo stesso Spirito: perché non è la natura che ci consente di essere figli, ma la libera e graziosa volontà di Dio, il suo amore. Perciò, poiché la grazia che risplende in Cristo Gesù è una luce che manifesta la nostra, Egli è in questo senso l’esemplare della nostra adozione. Negare questo, con il pretesto che il Dio-Uomo non è come noi, che in virtù di questa grazia, è un figlio di adozione, sarebbe dimenticare che la copia, per essere tale, non deve essere in tutto conforme al suo originale: basta che gli assomigli in qualche aspetto (Thom, p. 3, q. 24, a 3, in. corp. et ad 3.). Consideriamo di nuovo questa vita divina di cui la grazia è il principio in noi. Da dove viene? Dal seno di Dio, senza dubbio, la fonte della luce divina, di cui è solo un riflesso. Ma questa fonte divina si è riversata prima di tutto sull’anima di Cristo, Nostro Signore, con una pienezza incomparabile, ed è da questa pienezza che è fluita sulle nostre anime (Joan. I, 16). Così ci hanno predicato gli Apostoli. « Egli ci ha predestinati – dice San Paolo – all’adozione di figli per mezzo di Gesù Cristo, secondo il proposito della sua volontà, a lode e gloria della sua grazia, che ci ha donato nel suo amato Figlio, redenti come siamo, perdonati e restaurati in Cristo » (Efesini I, 5, ss.). Concludiamo, dunque, che se Cristo nella sua umanità è solo una copia in rapporto all’Archetipo Sovrano, è una causa esemplare rispetto a noi, subordinata senza dubbio, ma molto verace. – Causa esemplare, ho detto, non solo perché ci offre nella sua Persona il modello perfetto delle virtù che dobbiamo imitare per vivere come figli di Dio, ma anche perché tutti i nostri doni soprannaturali hanno come principio prossimo la sua grazia principale e il suo merito. Da questo punto di vista, che differenza tra Gesù Cristo Nostro Signore e i santi che ci vengono proposti come modelli! Quando S. Paolo scriveva ai fedeli di Corinto: « Io vi ho generato in Cristo Gesù attraverso il Vangelo. Vi prego dunque di essere miei imitatori, come io lo sono di Cristo » (I Cor. IV, 16), non era tanto di imitatori che cercava per se stesso quanto di Cristo, che viveva in lui. Se i Santi hanno diritto alla nostra imitazione, è perché portano in sé l’immagine dell’Uomo celeste, il nuovo Adamo (I Cor. XV, 49), e si offrono a noi come delle apparizioni del Salvatore tra gli uomini. Ognuno di loro riflette a suo modo un aspetto della perfezione ideale che è solo in Gesù Cristo nella sua totalità; ma la sua gloria è confessare che ciò che possiede di essa, lo ha da Lui. Modello, dunque, ma perché è prima di tutto una copia del grande Modello; un modello e non una causa esemplare, perché appartiene solo a Gesù Cristo essere allo stesso tempo l’ideale e la causa della santità.

LA GRAZIA E LA GLORIA (25)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (22)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (22)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO NONO (2)

Elevazione alla Trinità

(Commento)

2 – Pacifica l’anima mia.

Un aspetto nuovo di questa preghiera ci fa penetrare nella sua maniera tutta propria e personale di concepire la vita interiore. Non già che essa abbia scoperto una dottrina inedita del Cristianesimo, ma perché ha saputo compenetrare il significato profondo della parola di Gesù: « Il regno di Dio è dentro di voi ». E suor Elisabetta ha proprio avuto da Dio la grazia di ricondurre le anime su questo punto, al puro Vangelo. Non si può forse dire di lei quello che essa scriveva della Vergine, modello della sua vita interiore: « In lei, tutto si svolge di dentro »? Fu proprio la sua grazia particolare, quella di vivere nel fondo dell’anima sua le ricchezze trinitarie del suo Battesimo e di invitare le anime a questo ritorno alle veraci sorgenti della vita divina. « Rendila tuo cielo ». L’anima stabilita nella pace e liberata dal suo « io » diviene il teatro delle meraviglie della grazia e, per il Signore, un vero cielo, una dimora cara, un luogo di riposo. Notiamo l’elevatezza di questa vita di intimità con le Persone divine. Qui, le mire ordinarie sono capovolte. La maggior parte delle anime aspirano all’unione con Dio per il desiderio, lodevole del resto, di divenire sante; ma pensano poi al perché supremo di ogni santità: la gioia di Dio e la sua maggior gloria? Esse tendono a Dio con tutte le loro brame, ma senza giungere però a dimenticarsi interamente. Quanti pericoli latenti sotto questo metodo di spiritualità che si potrebbe chiamare: dell’« io » santificato! Qui, al contrario, risplende il primato di Dio. L’anima è un tempio vivo in cui la Trinità santa riceve senza posa un culto di adorazione, di ringraziamento, di lode e di amore. Le Persone divine gioiscono una dell’Altra nell’intimo di quest’anima in cui insieme abitano, in cui il Padre genera il Figlio, il Padre e il Figlio spirano uno stesso Amore. L’anima diviene un cielo per il suo Dio. Più tardi, suor Elisabetta della Trinità, contemplando questa bontà divina che trova le sue delizie ad abitare tra i figli degli uomini, descriverà così l’ufficio di una lode di gloria: « Un’anima che permette all’Essere divino di saziare in lei il Suo bisogno di comunicare tutto ciò che Egli è, e tutto ciò che Egli ha ». « Che io non ti lasci mai solo ». Ecco la collaborazione personale, necessaria: « Essere lì, interamente presente. ben desta nella fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata all’azione creatrice ». Veramente, Dio non è mai solo: né in Se stesso, né nelle anime; e questa società trinitaria gli basta. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo vivono insieme « adesso come in principio e per i secoli dei secoli », trovando nel più intimo della loro Essenza, in un’amicizia perfetta, luce e amore e gioia, in grado infinito. Dio non è dunque mai solo, e la teologia trinitaria nota giustamente che, a rigor di termine, è proibito e pericoloso definire Dio: solitario. Questa vita di Dio « dentro di Sé » è talmente la gioia del nostro Dio, che se — supponendo l’impossibile. — questa pluralità delle Persone non esistesse in seno alla vita trinitaria, anche in mezzo ad una moltitudine infinita di uomini e di Angeli chiamati a partecipare, per grazia, alla sua vita intima, Egli rimarrebbe sempre l’Eterno Solitario, un po’ come una creatura dotata di intelligenza e di volontà, si aggirerebbe solitaria in un giardino, malgrado la presenza di innumerevoli piante e animali » (Cfr. il testo così profondo di san Tommaso; 1° q. 31, a. 3; ad 1). – Per sovrabbondanza di pura bontà e per « eccesso di amore », Dio ha voluto trovare le sue delizie tra i figli degli uomini. Lo abbiamo visto, proprio Lui, in mezzo alla sua creazione: Il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi. E noi siamo nel numero di quei privilegiati ai quali fu concesso di divenire i « figli di Dio », in comunione del « Verbo », predestinati a vivere « in intima unione con Lui ». « In società », in intima unione: questa parola di san Giovanni, così cara a suor Elisabetta della Trinità, ci spiega il senso profondo della sua preghiera: « Che io non ti lasci mai solo ». « Ma che tutta io vi sia…». La sua ascetica e la sua mistica consistevano appunto nel serbarsi libera e interamente distaccata da tutto, per vivere nel fondo dell’anima sua, « alla presenza del Dio vivo ». «Vigile e attiva nella mia fede ». « Una Carmelitana è un’anima di fede ». La serva di Dio ritornava spesso, nella sua vita intima, a questa prima virtù teologale: « Il programma del mio ritiro sarà di starmene, con fede e amore, sotto l’unzione di Dio». « Essere desta e attiva nella fede » significa andare più in là delle formule che racchiudono le verità da credere: significa abitare in Dio. « Tutta immersa nell’adorazione… ». È sempre lo stesso atteggiamento essenzialmente adorante di fronte a Dio. « Tutta abbandonata alla tua azione creatrice… ». Suor Elisabetta della Trinità fu una di quelle anime che si danno senza riserva all’azione dello Spirito, convinte che la vita spirituale consiste meno nel moltiplicare gli sforzi personali, che nel lasciarsi prendere da Dio. La sua cura costante e sempre più intensa, fu di « credere all’Amore », di lasciarsi trasformare dall’Amore. Ed è importantissimo, alla sua scuola, essere profondamente convinti che ogni iniziativa di santità viene prima di tutto da Dio e rivela in prima linea una realizzazione della sua grazia, cioè del suo gratuito amore. Il carattere proprio dell’amore di Dio verso di noi non è forse di essere Amore creatore? Lasciarsi amare, dunque, è lasciare che Dio agisca nel nostro intimo, lasciare che crei in noi tutte le meraviglie di grazia e di gloria. – Suor Elisabetta della Trinità aveva compreso la risposta da dare a questo Amore che non chiede che di potere agire in noi: « Abbandonarsi pienamente alla Sua azione creatrice ».

3 – O amato mio Cristo.

Ed ecco la via che conduce alla Trinità: il Cristo. Sembra apparire d’un tratto; in realtà, è al centro della preghiera di suor Elisabetta della Trinità come è al centro della sua vita. « O amato mio Cristo! ». Quando si tratta di Lui, non c’è più che da amare, « amare fino a morirne ». Aveva già scritto nel suo diario di fanciulla: « Vorrei farlo conoscere, farlo amare in tutto il mondo ». Da allora, sono passati cinque anni, anni di intimità quotidiana, di vita di sposa del Cristo. La sua devozione a Cristo va diritta all’essenziale: al « Crocifisso per amore », a Colui che, nella veglia della sua professione, le aveva detto di essersela scelta per tutta una vita di silenzio e di amore. Suor Elisabetta si era donata: « Vorrei essere una sposa per il tuo cuore » e, « in quella mattina, la più bella della sua vita », era divenuta sposa del Cristo, fino alla morte. Ormai, Cristo sarà l’unica sua vita. « Coprirti di gloria… ». « Mulier gloria viri » (I ai Corinti, XI-7.). Come una fedele sposa, si dedica, con sempre maggiore intensità, a « zelare il Suo onore ». Dio non le ha ancora rivelata la sua vocazione suprema di « Lode di gloria », ma già ve la incammina. Verrà poi un giorno in cui questo anelito accentrerà tutto, nell’anima sua, per la gloria della Trinità e per quella del suo Cristo. « Ma io sento la mia impotenza… ». È incoraggiante il pensiero che i Santi sentivano la loro debolezza, come noi. E Gesù stesso non ha voluto anch’Egli accettare il soccorso dell’Angelo dell’agonia, e l’aiuto di un Cireneo? Di fronte ad un ideale sovrumano, i Santi non indietreggiavano; sapevano chiamare in loro aiuto il Forte, Colui la cui virtù segreta è con noi sempre, pronta a purificarci, a salvarci, a divinizzarci, a trasformarci in Lui. « Egli è sempre attivo, sempre operante nell’anima nostra. Lasciamoci formare da Lui. Che Egli sia l’anima della nostra anima, la vita della nostra vita, sì che possiamo dire con san Paolo: « Per me, vivere è Cristo » (Lettera alla signora A… – 9 novembre 1902). Le loro miserie, le loro infermità, invece di sorprenderli o di arrestarli, li gettano in Dio e in Gesù Cristo. Ascoltate questo crescendo sublime della confidenza dei Santi: « Rivestimi di Te, unificami a tutti i movimenti dell’anima tua ». Poi le parole si accumulano, premono, incalzano, per esprimere un sentimento che trabocca, incontenibile: « Ti prego, sommergimi, pervadimi, sostituisciti a me…; la mia vita non sia che un riflesso della tua vita. Vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore!… ». La trasformazione in Cristo è completa, il motto scolpito sul « bel Crocifisso della sua professione » è realizzato: « Non sono più o che vivo; Cristo vive in me. Jam non ego, vivit vero in me Christus ».

4 – O Verbo eterno!

Il volto Cristo conduce agli splendori del Verbo. È uno dei temi familiari agli autori mistici; ogni vera devozione a Gesù Cristo si rivolge principalmente alla sua divinità: l’umanità non è che la via. Anche a questo punto, ci troviamo in piena linea tradizionale, perfettamente equilibrata. Dopo essersi soffermata nelle piaghe redentrici del « Crocifisso per amore », con un colpo d’ala, si slancia fino al Verbo: « O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la vita ad ascoltarti ». Che cosa importano all’anima che ha incontrato il Verbo, tutte le meraviglie della natura e della grazia? Queste creature non sono Lui ed « è Lui, Lui che noi cerchiamo ». I cieli che ci narrano la sua gloria, non lo celano però anch’essi ai nostri sguardi? « Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la vita ad ascoltarti »; Tu mi racconterai tutti i segreti racchiusi nel seno del Padre, il mistero dei Tre nell’Unità. «Voglio rendermi docilissima, per imparare tutto da Te ». La serva di Dio ci rivela ora quale sia la sorgente dei suoi lumi più sublimi: è la scuola di Dio. Raramente si trova un’anima che meno di lei sia stata desiderosa di libri: si è nutrita soltanto di qualche raro libro di spiritualità: il Cantico spirituale, la Viva fiamma del suo Padre san Giovanni della Croce « che penetrò così addentro nella divinità », e le Epistole di san Paolo. Lei stessa confidava sommessamente alla sua Priora: « Ciò che Egli mi insegna, è ineffabile ». E la Madre Germana, da parte sua, ne era perfettamente convinta: suor Elisabetta della Trinità fu soprattutto la discepola e l’ascoltatrice del Verbo. « Poi, nelle notti dello spirito, nella desolazione, nella impotenza… ». Si ritrova, qui, il sentiero del « nulla » che conduce al vertice del monte Carmelo. L’anima contemplativa, l’anima Carmelitana in particolare, è chiamata a conoscere le lunghe e dolorose purificazioni delle « notti » oscure, prima di raggiungere l’unione divina: dopo aver lasciato tutto per Cristo, sentirlo scomparire… non per un giorno o per qualche mese, ma per lunghi anni, per tutta una vita forse…, e nonostante, rimanere fedele, senza mai indietreggiare, senza lamentarsi mai. Una grande esperienza vissuta si cela in queste brevi parole: Le anime di orazione non cerchino Dio per il sentiero delle consolazioni, ma nella nudità della fede e nello spogliamento assoluto; e qui rimangono, fedeli « in tutte le notti, tutte le desolazioni, tutte le impotenze ». «Voglio fissarti sempre, e starmene sotto il tuo grande splendore ». Suor Elisabetta della Trinità aveva gustato anch’essa, nelle prime ore della sua ascesa per le vie mistiche, le gioie inebrianti della presenza di Dio. Ma ben presto, e a lungo, dovrà cercare il suo Dio nella pura fede. « Dopo queste estasi, questi sublimi rapimenti nei quali l’anima dimentica tutto il resto e non vede che il suo Dio, come par dura e penosa l’orazione ordinaria e quanta fatica ci vuole per raccogliere le proprie potenze! Come costa e come sembra difficile! ». Eppure, non è davvero il momento di lasciare la vita di orazione. È l’ora benedetta che conduce all’unione trasformante, nel silenzio della notte. Dunque, più che mai, « guardarlo fissamente, sempre », e « rimanere in pace sotto la grande luce » della notte oscura e transluminosa. Lasciarsi sempre più passivamente attirare dal Verbo: « O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione ». Come la farfalla, che io sia abbagliata e vinta dal fulgore della tua luce. « Spirito d’amore… ». Essere, nel seno della Trinità, l’Amore Personale del Padre e del Figlio: ecco tutto il mistero dello Spirito Santo, vero « Spirito d’Amore », nel quale Dio ama Sé ed ama tutto l’universo. La natura più intima di questa Persona divina, uguale al Padre e al Figlio da cui procede, è di essere il loro Amore sostanziale e coeterno in una stessa vita a Tre. – La serva di Dio, anche qui, non fa che appoggiarsi sopra un dato fondamentale del dogma Trinitario, il più profondo per l’anima contemplativa che vorrebbe vivere già sulla terra di questo mistero, il mistero di un Dio che è personalmente l’Amore. Ma ciò a cui essa mira è di un ordine più pratico. La sua preghiera non è una elevazione sulla vita trinitaria, ma il movimento di una anima contemplativa che trova, in questo mistero della Trinità, « il suo Tutto, la sua Beatitudine, la infinita Solitudine in cui si perde ». Lo Spirito d’Amore è invocato per la sua azione santificatrice nelle anime che cercano l’unione con Dio. « O Fuoco consumante, Spirito di Amore, discendi in me perché si faccia nell’anima mia quasi un’incarnazione del Verbo ». Ha già supplicato Cristo di immedesimarla con la Sua Anima, di sostituirsi a lei affinché la sua vita non sia che un’irradiazione della vita di Lui; poi, nella sua invocazione al Padre e in quella allo Spirito Santo, ritorna sullo stesso pensiero, perché il desiderio della sua trasformazione in Cristo è veramente il punto centrico di questa preghiera essenzialmente trinitaria. E nulla rivela con maggior evidenza a qual punto Gesù si era sostituito alla sua vita propria. « Si faccia nell’anima mia quasi un’incarnazione del Verbo ». Espressione audace, che bisogna comprendere bene; « quasi » un’incarnazione. Non si tratta di un desiderio da prender troppo alla lettera e che sarebbe un assurdo; ma è il linguaggio di un’anima innamorata di Cristo che vagheggia di divenire un altro Lui stesso. « Che io gli sia un prolungamento di umanità in cui Egli possa rinnovare il Suo mistero ». Formula luminosa che rischiara tutto. La spiega lei stessa tre giorni dopo, scrivendo ad un giovane sacerdote: « Che io sia per Lui un prolungamento di umanità, cioè che Egli possa perpetuare in me la sua vita di riparazione, di sacrificio, di lode e di adorazione… Gli ho chiesto di venire in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore ».

***

« E Tu, o Padre! ». Ed ora, si rivolge al Padre, Principio della divinità. È Padre: ed è questo tutto il suo mistero, il suo carattere proprio, in seno ai Tre. È il Principio senza principio, da cui deriva, come da propria sorgente infinitamente feconda, tutta la vita trinitaria « al di dentro ». E sarà la suprema luce del « faccia a faccia », scoprire in Lui, come nella sua origine eterna, tutto il mistero dei Tre nell’Unità. Ma non si tratta di questo direttamente, nell’ora di grazia in cui suor Elisabetta ha composta la sua preghiera. Alla presenza di questa divina Paternità, ella vede soprattutto il suo niente. « O Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura! ». E, ricordando il mistero della Vergine della Incarnazione, la Vergine sua prediletta, soggiunge: « Coprila della tua ombra », cioè: proteggila. E infine l’anima sua, ritornando sempre a Cristo, al suo centro, implora: « Non vedere in essa che il Diletto in cui hai poste tutte le tue compiacenze ».

5- O miei Tre.

La preghiera volge all’epilogo. Un ultimo slancio la solleva verso i « Tre » ai quali suor Elisabetta ha consacrata tutta la sua vita: « O miei Tre, mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità in cui mi perdo, o mi abbandono a Voi come una preda; seppellitevi in me perché io mi seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella Vostra luce, l’abisso delle vostre grandezze ».

La preghiera dell’inizio è esaudita: non ritrova più vestigio in sé.

L’anima è transumanata in Dio.

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (23)

SUL CALVARIO

SUL CALVARIO

(OTTO HOPHAN, MARIA; Marietti ed. Torino, 1953)

Ah! adesso dobbiamo riflettere sullo sconfinato dolore, che Maria, l’augusta Signora, soffrì nella raccapricciante tragedia del Calvario. E la Provvidenza ha disposto che proprio in queste settimane, nelle quali scrivevo della abissale passione della Benedetta, giungesse anche per me un Calvario: la morte della mia cara e buona madre. Qual intenso dolore quando muore una buona mamma! in queste lunghe, trepide settimane, quando la speranza che sprofonda lotta con la paura che sale! Poi la sentenza che atterra: finita! nulla da fare! E finalmente il giorno, la notte, quando la poveretta, la cara giacque morente. Quelle mani inoperose, che avevan compiuti miracoli di lavoro, e adesso s’alzavano stanche e pesanti per l’ultima benedizione; quella bocca silenziosa, che durante la vita era prodiga di parole d’amore e di sollecitudine, e adesso non poteva dir nient’altro che « sì, sì! », quando le si parlava della santa volontà di Dio, e « oh, oh » — questo lieto e stupito « oh! » — ai nostri ultimi saluti per l’aldi là, al padre defunto e al gran Signore e alla cara e augusta Signora. E poi quegli occhi, quegli occhi espressivi e caldi, che già vedevano lo splendore dell’eternità, ma, al nostro richiamo, si volgevano a noi ancora una volta sereni, tranquilli, e che poi si spensero come stelle d’oro al loro tramonto. Ah, com’era doloroso e com’era bello! E poi il vuoto, il vuoto stridente! La mamma non è più qua! Potremmo percorrere anche l’intero mondo, ella non è più in nessun luogo, non è proprio più. Siamo abbandonati soli al grande dolore e alla grande e lontana speranza. Sì, quest’è cosa dolorosa, che a un figlio muoia una mamma così buona. Cosa ancor più dura è quando un buon figlio deve precedere nella morte la mamma sua, quando la vita e l’amore d’una mamma, sbocciati al sole come fiore di maggio, avvizziscono anzi tempo, quando la mamma resta solitaria come un albero privato delle sue foglie. La morte d’un figlio colpisce il cuore d’una madre nel suo punto più sensibile, e il suo cuore è tanto delicato e tanto profondo. Il dolore di milioni di mamme accanto alla bara dei loro figli defunti è un dolore straziante, anto straziante che Nostro Signore stesso, scosso dalla compassione, si accostò un giorno a una mamma oppressa da tale dolore con la parola consolante: « Non piangere! » e con il vittorioso miracolo: « Giovanetto, io te lo dico, sorgi! » . Ma fra tutte le povere mamme, che han perduto i loro figli, nessuna ha sofferto così terribilmente come Maria presso la croce del Figlio suo. Non fu solamente l’atrocità dell’esecuzione e dell’odio, dell’odio d’un popolo intero, del proprio popolo, che rese a Maria la morte di Gesù più raccapricciante che la morte dei figli di tutte le altre mamme; ci possono essere state ed esserci ancora delle mamme, anche se non molte, degne d’ogni compassione, che in questo non sono seconde a Maria. Maria però, sola fra tutte le madri del mondo, scorse nella morte del Figlio suo il tetro abisso, gli ultimi motivi che menano alla morte, Ella vide sin giù nel mistero della più nera fra le morti; il mistero più profondo  della morte, « della morte il pungiglione è il peccato ». Gesù, il Figlio suo morente, era l’Agnello di Dio, che doveva togliere i peccati del mondo. La Chiesa applica alla Madre dolorosa la parola delle Lamentazioni: « O voi tutti che passate per la via, vedete e guardate se vi sia un dolore grande come il mio », una parola biblica che l’animo del popolo pio ha volto in versi: « Non v’è figlio sì caro, non v’è dolore sì forte: Gesù in grembo a Maria nel sonno della morte ». Voglia la più misera di tutte le madri, Maria, ritta accanto alla croce del Figlio suo, ottenerci con la sua materna preghiera di scrivere con ardore e profondità del suo stragrande dolore. « O preclara Vergine delle Vergini, non mi respingere: fammi piangere con Te. Fa ch’io senta la morte di Cristo, fammi partecipe della sua passione e memore delle sue piaghe come il tuo materno cuore ». Il pauroso Venerdì Santo non piombò su Maria come un lampo a ciel sereno. Ella era a conoscenza dell’imminente tragedia, che pendeva sopra il Figlio suo e sopra il cuore di Lei; l’aveva visto avanzarsi il Calvario. Già il vecchio Simeone aveva gettata nella sua gioia di giovane madre la terribile parola della spada, che avrebbe trapassata la sua anima. Spesso Ella indagava nelle Sacre Scritture del suo popolo che cosa significasse la sentenza di quel vecchio uomo; sedeva china sui venerandi rotoli della Scrittura e leggeva e trovava nella profezia di Isaia, mista al regale splendore del futuro Messia, la sbalorditiva predizione: Non v’è in lui figura né bellezza. Disprezzato è egli come l’ultimo degli uomini. Un uomo del dolore, avvezzo al patire. Egli ha portato i nostri dolori, le nostre sofferenze si è caricato. Fu colpito per i nostri peccati, per i nostri delitti piagato. Come un agnello, ch’è condotto al macello, come la pecora muta sotto i suoi tosatori, Egli ha chiusa la bocca » . Maria allora sospirava profondamente e il cuore Le si stringeva. Ma forse si aggrappava alla leggera speranza che il Profeta con queste gravi parole non pensasse al Messia, ché anche dopo la morte e la risurrezione di Gesù l’ufficiale etiopico, battezzato dal diacono Filippo, non conosceva chiaramente proprio questo testo, perché interrogò: « Di chi il Profeta dice questo, di se stesso o di un altro? » Allora Maria rifletteva e leggeva di nuovo, ma con suo terrore anche dai cantici del libro dei Salmi Le giungeva lo stesso grave suono e lo stesso lamento: « Mio Dio, perché mi hai abbandonato? Io sono un verme e non un uomo. Si sono disgiunte tutte le mie ossa. Il mio cuore è divenuto come cera, si strugge dentro il mio petto. È asciutto qual terracotta il mio palato, la lingua mi resta attaccata alle fauci. Mi hanno trafitto mani e piedi. Si dividono tra di loro i miei panni e sul mio vestito gettano le sorti ». Allora gli occhi dell’augusta Signora si riempivano di terrore e di lacrime; atterrita e rassegnata, piegava la sua fronte come una spiga tremante dinanzi alla tempesta che infuria. Lo stesso suo Figlio durante la vita pubblica, a cominciare da Cana, già anzi qual Dodicenne nel Tempio, Le aveva dette parole dure. Ella comprese sempre più chiaramente che Egli così voleva educarLa alle difficoltà, come un amante che si presenta duro perché l’amata non si trovi impreparata alla parte più dura. Negli ultimi mesi Egli aveva detto apertamente ai discepoli: « Noi adesso ascendiamo a Gerusalemme, e il Figliuolo dell’uomo sarà dato in mano dei gran sacerdoti e degli scribi, e lo condanneranno a morte, e lo daranno in mano ai gentili, perché lo scherniscano, flagellino e crocefiggano ». Queste parole erano giunte anche all’orecchio e al cuore di Maria. I discepoli allontanarono dal loro pensiero questa insostenibile predizione, certamente supponendo che un’ora di oppressione e di delusione del loro Maestro stesse dietro a quell’espressione; Maria invece era abbastanza credente e d’udito distinto per scoprire la paurosa realtà futura in essa contenuta. Qual madre, sa esattamente che il Figlio suo non inganna e non può Egli stesso essere ingannato; quello che Egli dice, come Egli lo dice, così avverrà, così terribilmente e così crudelmente. Nelle lunghe e fortunose settimane che precedettero il Venerdì Santo Ella fu tanto angustiata, oh quanto angustiata! Tutto, a cominciare da quella lontana e dura parola del vecchio Simeone, attraverso le profezie sulla Passione del Vecchio Testamento sino agli annunzi recentissimi di essa detti dal Figlio suo, tutto si raccoglieva nella sua anima come una grande e chiara sinfonia d’un inaudito patire. E tuttavia Ella andò incontro alle ore raccapriccianti con spirito sveglio, senza nulla rimuovere da sé e senza lusingarsi, seguendo l’esempio del Figlio suo, e si tenne interiormente preparata alla futura catastrofe. L’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme e il giubilo fremente dell’intera città non poterono quindi togliere alla sua anima il doloroso peso. I discepoli si immaginavano d’essere in quel giorno festoso al termine lungamente agognato dei loro desideri; Maria invece sentiva, nel suo intuito femminile e materno, che quel giubilante Osanna sarebbe terminato malamente; la selva delle palme non poté occultarLe la croce sempre più vicina. Solo un giorno prima dell’omaggio del popolo nella Domenica delle Palme, in occasione dell’unzione prodiga a Betania, non aveva detto suo Figlio stesso ad alcuni discepoli gretti che la disapprovavano l’oscura parola: « Lasciatela stare questa donna (Maria di Betania); ha dato al mio corpo anticipata unzione per… la sepoltura ». Per la sepoltura! La Madre del Signore aveva accolta in sé anche questa parola di Gesù, che Le annunciava la vicinanza dell’ora grave. Quale angoscia mortale dovette opprimere Maria in quei giorni precedenti il Venerdì Santo! E adesso il Venerdì Santo, questo giorno di tutti il più raccapricciante nella vita del Figlio e nella sua, era ormai giunto. Ella era a conoscenza già prima di questo giorno; di tanti dolori veniamo a conoscenza anche noi prima che giungano; ma quando il Venerdì Santo, qual monte altissimo e oscuro, si elevò dinanzi alla Benedetta, apparve che la sua realtà era più terribile di tutte le profezie e immagini. Poiché quali altezze e quali profondità non comprende l’unica e breve proposizione del racconto evangelico: « Presso la croce di Gesù stava sua Madre ». –

« Presso la croce di Gesù ».

Nella relazione evangelica della Passione noi vediamo Maria soltanto sul Calvario, sulla vetta più spaventosa della Passione di Gesù Cristo. Senza dubbio però la povera Madre aveva sofferto nel suo cuore anche i terribili precedenti di quell’ultima crudelissima atrocità. Una inquietudine sinistra colse la Benedetta già la sera del Giovedì Santo, quando il Figlio suo lottò nell’agonia mortale sul Monte degli Olivi. Noi stessi, di sentimenti e di animo così ottusi, abbiamo spesso sentore e tormento d’una grande tribolazione di gente lontana e cara, come fosse avvenuta una misteriosa trasmissione. Molto di più l’anima delicata della Benedetta, che stava in profonda comunanza d’amore e più ancora di grazia con il Figlio suo, dovette intercettare quel suo gemito straziante emesso quando fu sprofondato nell’affanno, dovette sentirlo, ascoltarlo: « Padre, passi da me questo calice! ». I discepoli sul Monte degli Olivi dormivano il loro sonno sano e profondo; Maria non dormì; le cento volte si levò dal giaciglio; tormentata dall’inquietudine, andava qua e là e tendeva l’orecchio nella tranquilla notte illuminata dalla luna piena. Ella forse aveva trovato alloggio presso le buone sorelle di Betania, Maria e Marta, o forse presso quell’altra Maria, madre di Marco, che aveva concessa la sua sala per l’ultima Cena. Le buone donne dicevan parole di consolazione alla Madre inconsolabile e sconcertata. Maria però sentiva chiaramente il gemere del Figlio suo e il sordo temporale dell’inferno, che s’abbatteva sopra il suo Gesù: non poteva dare aiuto a Lui, non poteva difender sé, Ella doveva soffrirlo in tutta la sua crudele gravità come lo soffrì anche il Figlio suo. Compresse le mani sul suo povero cuore è come una volta all’angelo Gabriele prima dell’incarnazione disse: « Fiat — sia fatto! ». Ed ecco, in quel momento un altro Angelo, l’Angelo della redenzione, raccolse quel “Fiat” e lo portò nel calice della consolazione al di là, sul Monte degli Olivi. Quivi il Figlio aveva già pronunciato il suo “Fiat” onnipotente, che tutta mutava la sua e la nostra situazione: « Non come voglio Io. ma come vuoi Tu! ». E allora rumoreggiarono tutti e due i “ Fiat”, quello infinito del Figlio e quello umano della Madre, in un unico torrente, e le onde della nostra salvezza, zampillanti dal “Fiat” del Figlio e dal “Fiat” della Madre, presero a fluire. Quando, nel primo mattino del Venerdì Santo, Giovanni cercò della Madre di Gesù, Maria sul volto sconcertato del discepolo dell’amore lesse tutto con un unico sguardo: la cattura, lo scherno e l’impossibilità d’ogni liberazione. Nessuna forza al mondo avrebbe potuto trattener oltre Maria perché non si spingesse sino al Figlio suo. Ella Lo vide per la prima volta durante la sua passione nel grande « luogo lastricato, detto in ebraico Gabbatha », dove Pilato soleva tenere il tribunale. Ci rallegriamo con la povera Madre che sino a questo momento non abbia visto il Figlio suo che da lontano; fu spaventoso abbastanza anche vederLo di lontano. « Gesù uscì portando la corona di spine e il manto di porpora », e avvolto, dal momento della flagellazione, nel rosso abito del suo sangue, immagine perfetta del dolore, tanto che Pilato stesso, commosso ed eccitato, lanciò contro ai Giudei: « Ecce homo — ecco l’uomo! ». In quel momento un tremito passò in Maria, le sue labbra tremarono e gemette derelitta. Quando poi Pilato propose la mostruosa opzione fra Gesù e Barabba: « Chi volete ch’io vi rilasci: Barabba, o Gesù, detto Cristo? », Maria e il discepolo fedele gridarono e scongiurarono nell’angoscia e nell’amore: « Gesù, Gesù! ». Ma le loro due voci furono come due uccelli isolati e svolazzanti, inghiottite dalle grida della braccheria: «Lasciaci libero Barabba! Gesù alla croce!». Gesù aveva sentito in quel tempestoso vociare le voci dell’amore; volse il suo capo coronato di spine in quella direzione, si piegò, e una lagrima sgorgò dai suoi occhi. La Madre dovette ascoltare la sentenza di morte a carico del Figlio e anche l’imprecazione del proprio popolo contro se stesso: « Ricada il suo sangue su di noi e sopra i nostri figliuoli! ». Ah, povera Donna! Nella stessa ora perdette il Figlio suo e a motivo del Figlio anche il suo popolo. Un’antica informazione dice di un incontro di Gesù con la Madre sua sulla via della Croce. – Una pianta della città di Gerusalemme dell’anno 1308 indica l’antica chiesa di Giovanni Battista col titolo: « Lo spasimo di Maria ». Nelle « Viæ Crucis », che furono erette dovunque in Europa dai Crociati rimpatriati sul tipo della « Via Crucis » originale di Gerusalemme, si trova sempre sin dal secolo XV anche una Stazione detta «lo spasimo di Maria ». Nelle usuali quattordici Stazioni della « Via Crucis » di oggi la quarta Stazione è consacrata a quel doloroso incontro fra Figlio e Madre sulla via della Croce. Quell’antica notizia non è certamente senza contenuto storico, anche se il Vangelo a proposito serba silenzio; del resto anch’esso riferisce di donne, che sulla via della Croce « piangevano e facevan lamenti » su di Gesù; fra tutte le donne dovevan soprattutto le mamme spingersi sino al figlio sofferente. Non pochi si scandalizzano a questa espressione: «Lo spasimo di Maria », e ci richiamano rigorosi alla parola dell’Evangelista nella sua notizia del Calvario: « Stava accanto alla croce di Gesù la Madre ». Ella stava! Sul Calvario Maria fu, di fronte a tutto il mondo, un soccorso affettuoso, una coofferente col Figlio suo sofferente; ed Ella precisamente in questa azione ufficiale e solenne stava. Questo però non esclude che all’incontro sulla via della Croce l’enormità del dolore non si impossessasse di Lei; Gesù stesso sul Monte degli Olivi « cadde bocconi ». Maria era donna e madre dal cuore e dal sentimento ricchissimi; povertà e rintuzzamento del cuore non sono virtù e tanto meno santità, come talvolta le leggende dei Santi fan capire, quando, per esempio, vien riferito a titolo di lode che un Santo stette accanto alla madre sua morente « siccis oculis — ad occhi asciutti ». Gesù e Maria il Venerdì Santo stettero di fronte l’uno all’altra non « siccis oculis »; « la Madre di Cristo stette presso la Croce addolorata e pianse di cuore quando l’amato suo Figlio pendette da essa ». E può essere ben accaduto che nella quarta Stazione, in quel primo e immediato incontro viso a viso, il cuore materno della Benedetta sospendesse alcuni battiti, sicché Ella vacillasse e cadesse. Lo spasimo di Maria! Fu una scena troppo raccapricciante: il Figlio s’avanzò verso la Madre con il corpo lacerato, l’anima martoriata, carico della croce, avvolto dall’urlo della plebaglia, e poi proseguì oltre, fisso l’occhio all’ultima sua meta, il Calvario, dove Lo chiamava la volontà del Padre; sarà loro concesso di stare insieme solamente sul Calvario. E adesso Figlio e Madre si sono incontrati accanto alla croce sul Calvario; se straziante quanto era preceduto, più straziante la scena imminente. La crocefissione era una pena capitale così raccapricciante che persino i Romani di solito la usavano solamente per gli schiavi rei dei delitti più gravi. Cicerone la chiama « la pena più crudele e più ignominiosa, la punizione estrema degli schiavi ». Il diritto ebraico non conosceva questo genere tanto crudele di esecuzione; e per il fatto che dal romano Pilato pretesero nei riguardi di Gesù non una morte qualsiasi, ma la morte di croce, i Giudei diedero prova dell’odio più nero contro di Lui. Gli Evangelisti sorvolano sulla scena raccapricciante con una notizia rapida e breve: « Lo crocefissero », quasi per non rivangare di nuovo il dolore e l’ignominia della esecuzione di Gesù. La lagrimevole Vittima prima della crocefissione fu spogliata: Maria sul Calvario, ancor più povera d’un giorno a Betlemme, non aveva nessun panno da offrire al Figlio suo. Poi il Condannato fu gettato all’indietro, sulla trave trasversale giacente dietro di Lui, e fu inchiodato alle due mani; ogni colpo di martello colpiva la Madre nell’intimo del cuore. Poi quel sanguinante peso umano mediante funi fu elevato sulla trave conficcata al suolo, la trave longitudinale — di qui le espressioni: « Ascendere sulla croce », « essere alzato in croce» ? —, sulla quale furono inchiodati i due piedi. Avremmo sostenuto noi d’essere spettatori della crocefissione del Signore? Ah, Maria sul Calvario, Lei, la Madre, precisamente la Madre, dovette vedere, vivere e patire con il Figlio questo raccapricciante spettacolo. O povera donna, o povera, povera donna! – Tommaso d’Aquino sostiene, nel suo capolavoro teologico, ove tratta della passione di Cristo, la sentenza che nostro Signore ha sofferto tutto. anche le pene più orribili, di modo che nessun uomo poté mai patir di più ?!. Un’affermazione ardita, se si confronti col mare dell’umano dolore, eppure è una terribile realtà. L’intero corpo di Gesù fu tutto un dolore: il capo regale fu traforato da un intreccio di spine quanto straziante altrettanto ridicolo; le sue mani e i suoi piedi furon traforati dai raccapriccianti chiodi; il volto, nel quale gli Angeli desiderano guardare, era gonfio e sfigurato per i pugni e il lordume sputatogli addosso; e tutto il corpo fu sanguinosamente arato dalla orrenda flagellazione. Ancor più insopportabile e indicibile fu la passione dell’anima del Signore. I condottieri L’avevano ripudiato; il popolo aveva defezionato; gli amici Lo avevan abbandonato; persino Giacomo, che s’era fatto bello di poter bere con Lui il calice amaro, persino Pietro, che ancor ieri Gli aveva giurato fedeltà sino alla morte. Il suo nome e il suo onore furono calpestati dalla denigrazione e dallo scherno; la sua attività appariva un fiasco lagrimevole e ridicolo. Fu derubato di quanto aveva sino alle vesti, sulle quali i soldati ai piedi della croce gettarono le sorti. Avesse dovuto dare solamente le vesti! Sulla croce Egli dovette rinunciare anche al suo amico, anzi anche alla propria Madre e persino al Padre suo celeste, che fu il fatto più doloroso e misterioso insieme. Il numero dei sofferenti come Giobbe ascende a legioni, a milioni; ma quale fra loro può misurarsi con quest’Uomo dei dolori? Gesù stette immerso nel pantano, nel più profondo pantano della tristezza, dell’angoscia e della nausea, di queste tre condizioni che sono alla base dell’umana esistenza dai giorni del peccato. E tutta questa esterna ed interna sofferenza del Figlio Maria la sentì e la patì con Lui sino nelle più delicate fibre del suo spirito. Che cosa non soffrì mai la povera Donna, la povera Madre! Si deve inoltre riflettere che il corpo e l’anima di Gesù erano d’una perfezione unica. L’uomo Gesù, infatti, era stato creato nel seno della Vergine con la propria sublime mano dallo stesso Spirito Santo; per questo il suo corpo e la sua anima sentirono ogni dolore in piena e ininterrotta acerbità, in nessun modo mitigata come per noi, che per le sofferenze che durano da millenni nell’umanità siam divenuti ottusi. Quest’Uomo delicatissimo e sensibilissimo fra tutti si trovò nel tormento più profondo della terra per togliere i peccati del mondo, soddisfacendo per noi tutti! Veramente una goccia del suo Sangue prezioso sarebbe bastata per l’espiazione dei peccati di mille mondi; però la sua espiazione dovette conservare anche una conveniente proporzione sensibile. Quale eccesso di tormenti dovette così il Redentore prender su di Sé, poiché i peccati dell’umanità sono pesanti come i monti e innumerevoli come l’arena del mare! Ora nessuno sa meglio d’una madre quanto un dolore penetri nel figlio, quanto un dolore gli faccia male; che cosa dunque non dovette sentire Maria, ch’era mamma, quando vide il suo caro e delicato Figlio scendere nelle profondità d’una passione talmente raccapricciante, sin giù nel sottosuolo, alle radici di tutto l’umano dolore, sin giù al peccato del mondo? O povera Donna, o povera Madre! Gli Evangelisti hanno notato di quelle tre ore, nelle quali il Signore pendette sulla croce, sette parole, le cosiddette « ultime sette parole di Gesù in croce ». Le ultime parole d’una persona cara restano nel cuore profondamente come un sacramentale, un incancellabile ricordo; quello che ha detto un figlio morente, una madre morente, è testamento indimenticabile, irrevocabile, santo, eterna obbligazione. Già la prima di quelle sette parole del Signore fu amore, un amore addirittura incomprensibile e inaudito. I suoi nemici, i sommi sacerdoti, gli scribi, i seniori circondavano la sua croce come già aveva predetto in una amara profezia il Salmista: « Mi hanno attorniato grossi tori, i gagliardi di Basan mi hanno accerchiato; hanno spalancato contro di me la loro bocca, come leone che sbrana e ruggisce ». Nell’ultima ora tuttavia possiamo attenderci dai nemici del Signore tanto di riguardo e di delicatezza, che il loro odio e il loro scherno adesso almeno facciano silenzio. La solennità della morte è vicina e la Madre del Crocefisso è là presente; sono circostanze che impongono silenzio anche ad animi inselvatichiti. E invece proprio in quell’ora dolorosamente solenne i brutali vuotarono le ultime bestemmie contro la loro povera Vittima: « Oh, tu che distruggi il tempio e in tre giorni lo riedifichi, salva te stesso scendendo giù dalla croce!… Ha salvato altri; non può salvare se stesso » . Anche Maria sentì tali malvagità, ed è difficile dire se esse colpirono più profondamente il Figlio o la Madre. Nella tragedia « Ecuba » del poeta greco Euripide, Ecuba la madre, umiliata e tormentata, alla quale erano stati uccisi il marito e i figli, si prese una inumana vendetta contro il suo nemico. Questo nemico, Polimnestore, il quale le aveva ucciso il figlio più giovane, l’unico che ancor restava, per vergognosa avidità e con ignominioso disprezzo dell’ospitalità, viene accecato dalla madre divenuta una furia; dopo di che ella uccide tutti e due i ragazzi di Polimnestore, poi schernisce l’accecato, rallegrandosi nel sentimento della vendetta soddisfatta: « Mai più rimetterai la chiara stella dinanzi agli occhi, mai più vedrai, sebben vivente, i tuoi figli. Ti duole! E mio figlio? Credi tu che a me non faccia male? Sì, mi rallegro d’essermi presa vendetta di te ». E Maria? Questi uomini uccidono il suo unico e caro Figlio e per di più Lo dileggiano: ha Ella almeno dato di mano alle maledizioni contenute nei Salmi del suo popolo: « Sfoga su di essi il tuo sdegno, o Dio, e li colga l’accesa tua collera… Siano cancellati dal registro dei vivi, e non siano iscritti insieme con i giusti » (Ps. LXVIII). Gesù, fra il silenzio e il tormento della crocefissione, in risposta a quelle maledizioni, aprì la sua bocca per la prima parola e disse… non una maledizione ma la preghiera: « Padre, perdona loro, perché non sanno quel che fanno! ». In quel momento anche Maria congiunse le sue mani tremanti e ripeté balbettando questa preghiera del Figlio, fra tutte la più difficile: « Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno! ». In quell’istante avvenne la consacrazione di Maria a Madre della misericordia; in quell’ora Ella pregò insieme con il Figlio per i peccatori, e veramente non soltanto per i peccatori che cadono per infermità, ma piuttosto per i peccatori dalla cosciente malizia e dalla voluta cecità. Quella prima parola del Signore sulla croce e la sua eco nel cuore della Madre è adesso una consolante promessa anche per il peggior peccatore; essa però è certamente anche un obbligo di cercare il perdono e persino di… accordarlo. La seconda parola del morente Signore fu quella rivolta al ladrone. Dapprima anch’egli aveva schernito il Signore; quanto più però guardava a questo singolare vicino, che non si comportava affatto come un malfattore, tanto più gli scemavano in cuore le proteste e le stizze, finché alla fine prese decisamente partito per Gesù e gridò al compagno dei suoi misfatti, che stava dall’altra parte: « Nemmeno tu temi Dio, che subisci la stessa condanna? Pure noi ci stiamo con ragione, perché riceviamo quel che meritavano le nostre azioni; ma questi nulla ha commesso di scorretto ». Maria allora alzò il suo capo oppresso dal dolore e con uno sguardo d’amore ringraziò il delinquente, che, unico fra tutti sul Calvario, aveva detto, aveva osato dire una parola buona per Gesù. E il ladrone guardò in basso alla buona Donna, e nel suo spirito passò qualche cosa di mai provato: pensò alla propria madre e all’innocenza della sua infanzia. Una significativa leggenda direbbe che Maria un dì, durante la fuga in Egitto, aveva incontrata quella madre e quel figlio e aveva guarito questi dalla cecità. Incoraggiato dalla preghiera del Signore persino a favore dei suoi peggiori nemici e confortato dallo sguardo della buona Signora, il ladrone ebbe l’animo di rivolgersi a Gesù stesso con la preghiera: « Gesù, ricordati di me, quando verrai nell’aureola del tuo regno! ». Una parola tutta eroismo di fede e di confidenza: un peccatore morente implora aiuto per l’al di là da un morente compagno di croce. Allora il Signore aprì la sua bocca per la seconda volta e rispose al ladrone: « Davvero tel dico: oggi sarai con me in Paradiso ». Presto il Signore parlerà anche alla Madre sua, sarà la terza parola; essa è così ricca che noi ne scriveremo più diffusamente in altro luogo; ma già le due prime parole di Gesù, quella per i peccatori cattivi, i farisei, e quella al buon peccatore, il ladrone, nascondono un’istruzione anche per Maria. Quant’è sollecito il Figlio suo per i peccatori! Egli se ne ricorda persino in croce, se ne ricorda ancor prima di sua Madre. E così anche Maria rinchiuse nel profondo del suo cuore i peccatori, così profondamente che d’or’innanzi Ella sarà « il rifugio dei peccatori »; sul Calvario Ella accolse il primo peccatore nella persona del ladrone. Potremmo qui ripensare alla parola di Luca dopo la risurrezione del defunto giovanetto di Naim: « E Gesù lo diede a sua madre ». Dopo la parola del tenero amore filiale verso la Madre: « Donna, ecco tuo figlio! Figlio, ecco tua madre! », il Signore fece sentire, gridò una parola, la quarta, anche al Padre suo: « Eloi, Eloi, lama sabachthani? », che tradotta significa: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? ». A questo grido tanto misterioso dell’unigenito Figlio di Dio persino i cieli si oscurarono. Le tenebre, che « dominarono su tutta la terra dall’ora sesta sino all’ora nona », riflettevano con il loro oscuramento la sinistra oscurità dell’anima di Gesù, ne erano l’immagine e il simbolo. Sino a questo momento l’anima di Gesù, anche in mezzo a ogni tormento, si spingeva in alto, sino a toccare la felicità divina, come le cime d’alto monte svettano nella luce, anche se il monte stesso se ne stia nel grigiore e nell’orrore d’un temporale. L’anima del Signore anche in quell’ora terribile era unita con Dio e con la sua beatitudine, poiché il suo vertice, l’Io del Signore, stava in persona nel cuore della Divinità; tuttavia il Figlio soffrì il tormento dell’abbandono divino, perché il Padre l’abbandonò alla passione e alla morte senza nessun aiuto; le fitte nubi, ch’avevan oscurate le forze inferiori dell’anima di Gesù, si spinsero, si rotolarono in su sino alle cime illuminate dalla luce. Il Redentore volle metter piede nella notte di questo supremo orrore per portare, pastore veramente buono, anche gli abbandonati da Dio, anche i prodighi di Lui dalle terre lontane nella regione della luce. Maria fu scossa da quel grido del Figlio sino nelle ultime fibre del suo essere. Sin dall’Annunciazione era stata ferma nella fede, aveva perseverato, sebbene le vicende del Figlio suo si fossero svolte ben diverse da quelle che le parole dell’angelo Gabriele apparentemente avevano annunziato. I principi, il popolo, persino gli amici avevano abbandonato il suo Gesù; Lei, la madre, perseverava presso di Lui; ma adesso, quasi sprofondando, Egli grida che persino Iddio Lo ha abbandonato; allora anche su Maria dovette crollare l’ultimo cielo. Se pure Iddio Lo abbandona, chi ancora Gli resta se non la sua povera Madre? Lei non Lo abbandonerà; ma che cosa può essere Lei, la Madre, per Lui, senza il Padre? L’anima di Lei era come schiacciata; non poteva dir niente, niente per consolare: non poteva nemmeno più piangere. Come il Figlio suo, anch’Ella se ne stette là e si lasciò inondare da quell’altissimo e selvaggio maroso, ferma nella fede. Quel grido del Signore sulla croce era il primo versetto del Salmo 21. È possibile che Gesù abbia continuato a pregare sommessamente con le parole del Salmo, ch’Egli aveva intonato con un grido così forte. Il Salmo delinea in visione la passione futura del Messia; alcuni passi sono stati già addotti in queste pagine: « Io sono un verme e non un uomo… Mi hanno attorniato grossi tori… si sono disgiunte tutte le mie ossa… la lingua mi resta attaccata alle fauci… sul mio vestito gettano le sorti ». Adducendo però proprio questo Salmo, il Signore alludeva alle profezie che ora si compivano in Lui: proprio ora, durante il suo abbandono da parte di Dio, in questa suprema desolazione, Egli avanza le pretese alla dignità messianica, poiché precisamente adesso si adempie quanto di Lui stava scritto da secoli. Quanto più Maria si inoltrava nel Salmo, che aveva cominciato così pauroso, tanto più si dileguavano dalla sua anima le fitte nubi, e la sua pura fede riceveva nuova forza anche dal grido dell’abbandono divino di suo Figlio. Meno paurosa, e però non meno dolorosa, fu per la Madre di Gesù la quinta parola del Signore sulla croce: « Dopo ciò, sapendo Gesù che tutto già si era compiuto, affinché si adempisse la Scrittura, disse: Ho sete. Soltanto con la quarta e con la quinta parola Nostro Signore sofferente pensò anche a Se stesso, con la quarta alla sua suprema sofferenza spirituale, con la quinta alla più insopportabile sofferenza corporale. E anche queste parole non furon dette soltanto per la realtà che riflettevano, ma anche come richiamo a profezie adempiute, come Giovanni testifica espressamente della quinta: « Questo disse, affinché si adempisse la Scrittura ». La sete! Per molti morenti è la pena più dura. Quale doloroso conforto fu per me poter porgere alla mamma mia morente ora un sorsettino di vino, ora un sorsettino d’acqua. Ah, era così poco, era così un niente, ma era però un tenue lenimento! Presso la croce di Gesù fu negato a Maria persino questo piccolo servizio. Il Figlio suo lamenta la sete: quanto dev’essere terribile questa sete, se Egli se ne lamenta! A Betlemme un dì Ella Gli aveva porto il petto, a Nazaret Gli aveva attinto mille volte dalla fonte, a Cana Lei stessa L’aveva pregato del vino; qui sul Calvario non ha latte né acqua né vaso per attingere. Che cosa può capitare di più duro a una mamma, dinanzi al proprio figlio sofferente, che l’impossibilità d’aiutarlo? Maria dovette guardarsi intorno desolata; un soldato, in cui non s’era spenta ogni sensibilità, capì quello sguardo, « corse, imbevette d’aceto una spugna e postala su una canna gliela appressò alla bocca ». Gesù succhiò dalla spugna questa mistura di acqua e di aceto, che i soldati romani s’eran preparata in mancanza di bevanda migliore, e la Madre, che non poteva soccorrere il Figlio neppure con la punta di un dito, osservò il gesto con dolorosa soddisfazione. – Le ultime due parole di Gesù sulla croce si spingono già oltre i confini della passione e annunciano la fine e la vittoria. « Quando Gesù ebbe assaporato l’aceto disse: “Tutto è compiuto” ed esclamando a gran voce disse: “ Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito” ». Anche Matteo e Marco e Paolo pure nella lettera agli Ebrei, rilevano con forza singolare che Gesù spirò con un « grande grido ». È il grido del vincitore dopo la vinta battaglia, è il grido dello scalatore dopo conquistata la cima. Ora ogni difficoltà è passata, ogni ripidezza è ora superata; dinanzi all’umanità di Gesù si stendono infinite le incantevoli regioni dell’eterna felicità. Come tutte le parole di Gesù, anche questo grido ebbe in Maria la sua risonanza. Ora tutto è passato, è passato! Ogni amante si rallegra immensamente quando la persona amata ha superato le ultime e tormentose ore. La morte infatti è amara; lo deve essere anche perché la separazione avvenga più facilmente. In quelle ultime durissime ore si supplica la temuta morte, perché venga e liberi; e finalmente essa viene e mette fine al rantolo, e in quel momento si ha la prima sensazione d’un potente alleggerimento. Passato! Dopo la morte di Gesù anche Maria emise un sospiro di profonda liberazione: ha compiuto tutto! L’opera difficile, che il Padre Gli ha affidata, è compiuta! Adesso l’anima sua va al Padre, cui Egli nell’ultimo grido s’era rivolto giubilante. Ora Egli è liberato. Ma ora Egli è anche… morto. Al sollievo, infatti, segue immediatamente il dolore lancinante: è morto, è morto, è morto! Quegli occhi restano chiusi, non si aprono più a nessuna chiamata; quella bocca saggia resta muta, tutti i baci non la fan più parlare; quelle fredde mani restano inerti, son come esaurite, non operano più nessun miracolo: è morto, è morto, è morto! Maria era così stanca, così paralizzata, che non poteva nemmeno più piangere, tanto meno lamentarsi. Discese su di Lei come una sorda disperazione, come un impietrimento. « La terra tremò, e le rocce si spaccarono » la Madre dolorosa se ne accorse appena. Poi sulla Benedetta passò come uno scuotimento, che manifestava come la morte del Figlio suo aveva colpito Maria alla radice dell’anima: l’enorme dolore non lasciò cadere che alcune prime grosse lagrime, come un temporale talmente aggrovigliato che non si scarica se non con fatica. Vennero dei soldati, e uno di loro trapassò con la lancia il Cuore del Signore, donde fluirono sangue e acqua. Maria osservò la scena quasi attraverso un fitto velo e poi gemette come persona ferita a morte. Non è abbastanza che abbiano ucciso il Figlio suo, perché debba essere trafitto anche il suo Cuore spezzato? « Dopo che il tuo Gesù aveva emesso lo spirito, la lancia crudele che aprì il suo fianco non trapassò in alcun modo la sua anima, ma bensì la tua trapassò; perché la sua anima non era più là, ma ben la tua non poteva in nessun modo essere di là strappata ». – Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo vennero e con tutte le cautele dell’amore liberarono il corpo di Gesù dai chiodi. Maria allora con l’istintivo atteggiamento materno aprì le braccia al Figlio che stava per venire; ma, ahimè, Egli non venne, bensì scivolò verso di Lei giù dalla croce. Adesso Gesù era di nuovo nel suo grembo: lungo tempo era passato da quando aveva potuto profondere le sue cure verso di Lui; Egli se n’era andato da Lei così presto, già dodicenne, e poi fu sempre in cammino sulle difficili vie del Padre suo. Adesso che è morto Egli è ritornato di nuovo in grembo della Madre, dove aveva vissuti i felici giorni della sua infanzia; ma dal grembo della Madre lo portan via, al di là, nel seno della madre terra, che un giorno accoglierà per l’ultimo riposo noi tutti. Poi quegli uomini rotolarono una grossa pietra dinanzi e se andarono. Quella pietra pesava immensamente sul cuore della Madre: ora non aveva più il Figlio. Sulla croce aveva un Figlio morente, nel suo grembo un Figlio morto; adesso Ella è del tutto senza Figlio, del tutto sola. Tutto questo e ancor più immensamente di quanto queste povere pagine han tentato di descrivere — per quanto diffusamente abbiano descritto — ha sofferto Maria sul Calvario: non doveva essere schiacciata da questa montagna di dolori?

« Presso la croce di Gesù stava ».

Possiamo chiederci se a Maria sul Calvario non sia stato domandato troppo. Non fu ivi posto sulle spalle d’una donna delicata, d’una povera Madre una tale enormità, ch’Ella sotto tanto peso doveva crollare, fisicamente e ancor più spiritualmente? Per Maria l’impotenza sarebbe stata benefica, perché avrebbe occultata al suo spirito l’ora della scena più straziante. Ma il suo spirito sul Calvario restò sveglio; era come un lago turchino, sul quale il sole cocente bruciava senza misericordia. Quali insopportabili strazi dovette Maria sostenere sul Calvario! Se persino il Figlio suo gridò nell’abisso del suo strazio le parole: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai tu abbandonato? », che cosa non dovette passare anche nel cuore della Madre sua? Tempeste di chiarezza infuriavano sull’anima di Lei; i flutti del suo cuore non La cacceranno sulle bianche spiagge, sicché spumeggino e s’impennino nella disperazione e nella ribellione? Qual minaccia non costituisce per la fede un grande patire, anzi già il semplice patire! Come si presenta pericolosa vicino al sofferente l’audace domanda: ma v’è Iddio? ma v’è proprio un Dio? Può esserci un Dio, se accade il fatto più raccapricciante, l’uccisione… dell’Uomo-Dio? E se L’hanno ucciso, Iddio dunque è morto! Questo fatto enorme, pazzesco, folle non si oppone anche al minimo d’intelligenza? Le orribili sofferenze e i delitti del nostro tempo hanno bruciata la fede in Dio in esseri innumerevoli precisamente con queste fiaccole infuocate. Ma se tuttavia Iddio è — ed Egli è! —, non è Egli un Dio totalmente diverso da quello che Gesù aveva annunziato, un essere oscuro, indifferente, sublimissimo, che troneggia nelle lontane e gelide altezze? Maria sul Calvario ricordò forse con dolore la predicazione del Figlio suo circa il Padre, il Padre che veste i gigli del campo, che nutre gli uccelli del cielo, e si prende cura d’ogni capello del nostro capo. Ov’è adesso Egli, questo Padre provvido, questo Padre amante? Ma v’è anzi quaggiù anche solamente il governo d’un Dio giusto? il Figlio suo lacerato non è una palpabile confutazione, un sanguinoso sprezzo della consolante predica intorno a un Dio paterno? Quanto dev’esser crudele quest’essere sublimissimo, che procura al più nobile, al più santo di tutti gli uomini e alla Madre sua innocente tanto tormento o anche permette che lo si procuri, mentre noi stessi non lo arrecheremmo al peggiore dei nostri nemici! La bestemmia contro Dio sta vicina al credente più di quello che non si possa sospettare. L’incredulo conclude presto: nega semplicemente Iddio, e con questa misera soluzione si « spiega » gli enigmi della vita; il credente invece sa troppo bene dell’esistenza di un Essere supremo; i problemi della vita e del mondo lo disorientano non quanto all’esistenza, ma quanto al modo d’essere di Dio, quanto alla provvidenza, alla bontà e alla giustizia di Dio. E ora il Vangelo dà netto risalto all’atteggiamento della Vergine: « Stava accanto alla croce di Gesù sua Madre ». Ella stava sommersa nell’uragano che su di Lei muggiva. La terra tremò e le rocce si spaccarono: Maria stava. Il velo del Tempio si stracciò dall’alto al basso, e il Figlio suo rese il suo spirito con un forte grido: Maria stava. Ritta, solitaria stava là, come un albero principesco, attorno al quale un’intera selva giace abbattuta. Nelle Litanie lauretane noi esaltiamo Maria quale « Torre eburnea »: « eburnea » fu accanto alla croce per il pallore; ma Ella fu anche « torre », che resistette agli assalti paurosi del dubbio e della disperazione intrepida e invitta. Maria non è solamente la Madre amabile, quale spesso ci viene mostrata; ancor meno Ella è la figurina graziosa, quasi leziosa d’una merce fuori d’uso; Maria è la donna forte, che, degna del Figlio suo, va innanzi con Lui all’esercito dei martiri di sangue asperso qual Regina, la Regina dei martiri. Maria sul Calvario non disse alcuna parola. Non si lamentò, non dubitò, non maledisse, nemmeno interrogò più. Al Dodicenne chiese in dolorosa sorpresa: « Fanciullo, perché ci hai fatto tu così? »; anche alle nozze di Cana Gli presentò la sommessa preghiera: « Non hanno più vino »; sul Calvario Ella non è altro che silenzio. C’è un silenzio anche per alterigia o per impietrimento, come secondo l’antica leggenda greca fu il silenzio di Niobe, cui la saetta di Apollo aveva ucciso tutti i figli; Maria sopravvanza in grandezza d’animo le povere madri sofferenti degli antichi pagani, Niobe ed Ecuba, per l’infinita perfezione cristiana. Il suo silenzio non è protesta, ma silenziosa adesione. A dir il vero, le sue labbra sono sigillate dal dolore, sicché non può più gridare, come nell’ora felice dell’Annunciazione laggiù a Nazaret, il suo “Fiat”. Anche nella nostra vita giungono momenti, nei quali non possiamo più parlare, non più pregare, nemmeno più gemere; in quei momenti. non resta che il linguaggio dell’atteggiamento. Maria sul Calvario disse il suo Sì nella lingua commovente dell’atteggiamento: « Ella stava presso la Croce ». Questo stare era più che un discorso; con questa resistenza e perseveranza Ella espresse tutto quello che quassù sul Calvario aveva da dire. – L’informazione evangelica dice certamente: « Stavano presso la croce di Gesù la madre sua e la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria Maddalena », e anche il discepolo che Gesù amava stava lì. Maria dunque stava presso la croce di Gesù non da sola; anche le altre stavano, e di questo dovrebbe tener conto anche l’arte, la quale preferisce rappresentare Maria Maddalena svenuta ai piedi della Croce, sopraffatta dal dolore. L’atteggiamento eretto della coraggiosa Madre di Gesù fu però più eroico che quello delle altre: le altre attinsero energia in quell’atteggiamento della Madre per non abbandonarsi senza ritegno al dolore; la fortezza d’animo della Madre tenne ritte presso la croce anche le altre: se accanto alla croce sta ritta persino la Mamma, neppure le altre devono ivi cadere, non devono di là fuggire. Il racconto evangelico sottolinea intelligente questa posizione eretta; non scrive cioè: « Quando Gesù vide sua Madre e il suo discepolo che Egli amava presso la croce », ma: « Quand’Egli vide ch’Ella stava ritta »; non la presenza di Maria sul Calvario fu il grande fatto, ma la sua posizione eretta. E qui sta nascosto qualche cosa di ancor più profondo. Lo stare di Maria accanto alla croce del Figlio manifestava non solamente la sua magnanimità, ma anche il suo consenso, che voleva dire ben di più. Maria non stava soltanto presso la croce, Ella stava per la croce, l’approvava. Ella sul Calvario era di nuovo posta, come un tempo laggiù a Nazaret, dinanzi a una decisione, stavolta dinanzi a una « decisione sanguinante » nel senso più terribile della parola: a Nazaret Ella dovette decidersi se accogliere il Figlio suo, sul Calvario dovette decidere se darLo. Sul Calvario avrebbe potuto richiamarsi a buon diritto alla splendida profezia di Gabriele in occasione dell’Annunciazione, la quale diceva che Iddio « avrebbe dato il trono di suo padre David al Figlio di Lei »; adesso ne eravamo così lontani, che Gesù pendeva dalla croce fra due delinquenti. La raccapricciante realtà del Calvario non era una stridente offesa di quella lontana promessa? non era Maria una povera donna ingannata, cui le promesse fatte non erano state mantenute? Molti sul Calvario si sarebbero querelati e stizziti con simili amarezze, sarebbero stati per il Figlio, non però per la sua croce. Maria invece non stette solamente per il Figlio, ma anche per la croce di suo Figlio. Col Sì di Nazaret Ella aveva data a Dio carta bianca per tutta la sua vita; quanto Iddio scriveva sulle bianche pagine della sua vita, è già in precedenza ratificato e sottoscritto dal “Fiat” di Lei; quando quella sublimissima mano cominciò a scrivere con scrittura di sangue, col sangue del Figlio suo, Maria non disdisse il suo Sì di Nazaret, ma lo completò col Sì del Calvario. Non si lamentò dicendo: « Oh, adesso basta! adesso è troppo! »; neppure come preghiera e supplica raccolse la parola risuonataLe vicina, che i nemici avevan scagliata contro la croce a dileggio di Gesù e quasi a tentazione per Lei: « Figlio mio, discendi dalla croce! hai aiutato gli altri, aiuta anche te stesso! »; Ella Lo lasciò sulla croce. Non mosse un dito, non mosse labbro per liberarLo dall’abbraccio della morte. Ella, come la magnanima madre dei Maccabei il figlio suo più giovane e ancor più eroica di quella, incoraggiava con la sua silenziosa presenza il Figlio morente: «Figlio mio, abbi pietà di me! sostieni la morte! ». Sul Calvario quindi Maria stette sulla cima del sacrificio che tutto comprende. Niente, niente affatto Ella ritenne per sé; donò, per compiere la volontà di Dio e per la nostra salvezza, persino il Figlio suo, persino il suo… Dio. La parola, che del Padre celeste Gesù aveva detta e che scrisse il discepolo allora presente con Maria presso la croce, valeva anche per Lei: « Tanto la Madre ha amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, affinché chiunque in Lui crede non perisca, ma abbia la vita eterna ». Maria sapeva della donazione generosa del Figlio voluta dal Padre per la salvezza del mondo, e, sostenuta dalla solida base di questa parola, scorse il segreto delle paurose vicende del Calvario: quivi si compiva la salvezza dell’umanità; la redenzione, la redenzione per amore; il Figlio suo, con le mani lacerate dai chiodi, portava di nuovo in alto, su, su, alla casa del Padre l’umanità allontanatasi da Dio. Quivi era in questione la misericordia, la misericordia sconfinata, non la crudeltà. E in realtà in nessun’opera la divina misericordia e la divina giustizia si son così strettamente abbracciate come… nell’inchiodamento del Figlio di Dio sulla croce, e in nessun luogo arde l’amore di Dio più caldo che nel suo Sangue, che fu « versato per molti in espiazione dei peccati ». L’umanità sofferente del Signore ricevette senza dubbio forza e conforto dalla coraggiosa presenza della Madre accanto alla croce. Durante la sua ineffabile tristezza sul Monte degli Olivi il Signore aveva cercato conforto nei discepoli; ma questi non stavano, essi dormivano; e allora Iddio benigno per incoraggiare il Figlio suo sofferente Gli inviò un Angelo dal Cielo; sulla vetta del Calvario non volò nessun Angelo, ma ivi stava la Madre; una madre è l’angelo più consolatore di tutti. Ella baciava quei piedi inchiodati, e le sue labbra pallide divennero rosse di sangue; a Lui pendente dalla croce sussurrava tutti i nomi dell’amore, nomi così soavi quali dall’infanzia non aveva più osato dirGli. Ella stava là, vicina alla croce, e intercettava gli sguardi dei suoi occhi, perché non dovessero andar vaganti nella notte e fra le bestemmie, ma trovassero difesa e riposo negli occhi della Madre sua. Il Padre suo L’aveva abbandonato, ma la Madre era là, e nella Madre era vicino anche il Padre, perché una madre è la garanzia più soave e più sensibile dell’invisibile ed eterno amore di Dio. Senza dubbio la presenza della Madre presso la sua croce fu per il Signore anche una indicibile sofferenza. Che cosa non doveva soffrire a causa sua la Poveretta, la buona Donna! Tommaso d’Aquino scrive commosso che anche gli occhi di Gesù, come gli altri suoi sensi, dovettero soffrire sulla croce una pena propria: essi scorsero la Madre e il discepolo dell’amore piangenti ai piedi della croce. A questo penoso dolore però andava unito un grande conforto, quello di possedere una Madre dall’amore talmente invincibile e d’una fortezza insuperabile. Pietro ieri sera Gli aveva giurato: « Anche se tutti pigliassero scandalo di te, io, io non lo piglierò giammai ». Dov’era Pietro? Sua Madre non si scandalizzò di Lui; Ella stava presso di Lui anche nella defezione di tutti, anche in mezzo al più compassionevole fallimento, anche sommersa in un inferno di tormenti. Proprio la Madre, la Madre sua buona e cara, la migliore e la più santa di tutti gli uomini, proprio Lei resse accanto a Lui, l’impalato, il crocefisso. E da questa Madre s’apriva dinanzi allo sguardo del Signore una via luminosa perdentesi nell’infinito. Questa Donna solitaria accanto alla sua croce è la prima redenta, la redenta perfettamente. Sin dal momento della sua concezione rumoreggia in Lei la grazia della redenzione talmente ricca e possente, che sarebbe valsa la pena di soffrire e di morire già solamente per Lei; era pure grazia di redenzione ch’Ella ora se ne stesse nella bufera del Calvario. Maria però non è sola, Ella accanto alla croce è la rappresentante di tutti i redenti; in Lei si inginocchia la Chiesa dell’avvenire; in Lei le schiere, che nessuno può contare, dicono grazie al l’Agnello, perché le loro vesti son divenute bianche nel suo Sangue. In Maria il Padre presenta al Figlio che muore l’umanità redenta; in Maria il Figlio scorge come in un modello e in un simbolo l’infinito valore della sua passione. Era come se dalla Madre accanto alla croce ascendesse verso l’infuriar dei tormenti e verso il fremito del Sangue del Figlio morente un canto lontano e bello: « Degno è l’Agnello, che fu ucciso, di ricevere potenza e regno e sapienza e fortezza e onore e gloria e lode ». In quel momento un sorriso sfiorò il volto sfigurato del Figlio e un raggio penetrò anche negli occhi della Madre. Da tutto questo appare chiaramente che alla Madre del Signore spetta una parte importante anche per la nostra redenzione. Maria sul Calvario non fu semplicemente la mamma amante e sofferente d’un figlio morente: milioni di povere madri hanno assistito i figli morenti; Maria stette sul Calvario quale « Madre del Redentore »: « Pro peccatis suæ gentis vidit Jesum in tormentis — ah! Ella vide Gesù sopportare martiriiper i peccati dei suoi fratelli, flagelli, spine. derisioni e scherni». A questa redenzione dell’umanità per mezzo del Sangue e della mortedel Figlio suo Maria disse il suo Sì stando accanto alla croce; per questo il suo amore e il suo dolore materno si elevavano immensamente più in alto che quelli di qualunque altra povera madre sofferente, si portarono su, nell’altipiano del mistero della redenzione, furono un contributo per la salvezza del mondo. Il Vangelo stesso allude a questo posto ufficiale di Maria accanto allacroce del Figlio: esso ha sempre taciuto di Lei durante tutto il lungoperiodo della vita nascosta di Gesù a Nazaret come della sua attivitàpubblica; accanto alla croce di Gesù invece Ella riappare nuovamentenella relazione evangelica grande, in una luce singolare; qui dunque civien segnalato che la presenza di Maria presso il Figlio morente non fusoltanto l’esigenza d’un commovente affetto materno; quivi si trattò d’unatto solenne e addirittura ufficiale.Questo spettacolo commovente della Madre presso la croce è comeuna solenne ed edificante Liturgia. Questa Donna regale sta ritta, nonassopita dal dolore, non sprofondata nella disperazione, ma, come osaaffermare con parola ardita San Bonaventura, « intenerita per la gioiache il suo Unigenito debba essere offerto in vittima per la salvezza delmondo ».Maria accanto alla croce prega col Sommo Sacerdote dell’umanità,offre con Lui, soffre con Lui. « Ella sul Calvario, quale nuova Eva, Lo offrì all’Eterno Padre per tutti i figli di Adamo con sacrificio totale dei suoi diritti materni e del suo materno amore ». Per questo già dal tempo di Alberto Magno, Maria è chiamata con senso profondo « aiutante » della redenzione, a somiglianza di Eva che era stata « aiutante di Adamo »; Ella è la « inserviente » della redenzione, la « diaconessa » della redenzione *. Il diacono porta all’altare le offerte del pane e del vino per la Messa solenne, egli le prepara; egli assiste il sacerdote offerente, è pure a lui unito con intima comunione e sentimento sacrificale. Maria sul Calvario fece così: Ella preparò l’Offerta santa, il Corpo del Figlio suo, nell’Incarnazione e lo fece grande a Nazaret; Ella presentò questa preziosissima Proprietà per il sacrificio, Ella entrò in perfettissima comunanza d’amore e di dolore col Sacerdote offerente, che era nello Stesso tempo la Vittima offerta.

[* Sarebbe ovvio adoperare qui il termine “ Corredemptrix — Corredentrice ”. Ci sia concesso di farne a meno in questo libro, perché questo titolo, che compare qua e là nella produzione teologica dal secolo XVI, può fornire occasione a fraintendimenti e d’altro canto anche teologicamente non è ancora univoco e ancor meno definitivamente acquisito. A questo proposito il grande mariologo tedesco Scheeben scrive saggiamente: « Questa espressione — Corredentrice —, sebbene ammetta un senso giusto e anzi molto bello, che non è possibile esprimere con eguale brevità e precisione con un altro termine, presa da sé sola, invece di sottolineare la subordinazione ministeriale e la dipendenza di Maria, ha l’apparenza di accentuare così forte una coordinazione con Cristo e rispettivamente un completamento della sua potenza, che non si potrebbe affatto usarla se non con l’esplicita restrizione: In certo senso meno capziosa e in sé più rispondente alla verità e anzi conforme alla Scrittura stessa è l’espressione che ricorre ripetutamente, la prima volta in Alberto Magno: “Adjutrix Redemptoris in redemptione — aiuto del Redentore nella redenzione ”, purché non si intenda qui “aiuto” un sostegno nel senso comune, quasi cioè un rinforzo d’una potenza in sé insufficiente per mezzo d’un’altra, ma nel senso più comune e solo accettabile, quando si tratta di creature di fronte a Dio, d’un servizio giovevole al raggiungimento d’uno scopo e d’una cooperazione che serve efficacemente a modo suo; adiutrice dunque Maria precisamente nel senso d’una compagna che coopera » (Dogmatik, 3, pagg. 594-595). Neppure i Pontefici degli ultimi cento anni han mai fatto uso del termine “Corredemptrix” in scritti dalla forma solenne di un’Enciclica (cfr. le Encicliche mariane dei Papi negli ultimi cento anni). A ragione sorprende che il Papa Pio XII attualmente regnante, anche in altri documenti pontifici ufficiali non approfitta di esso, neppure in quelle occasioni, nelle quali ce lo saremmo aspettato: nell’epilogo dell’Enciclica “Mystici Corporis Christi”, che pure tratta espressamente della Beatissima Vergine, e nella Bolla della definizione dogmatica dell’Assunzione corporea di Maria in Cielo del 1° novembre 1950. Il fatto stesso che Maria abbia cooperato alla nostra salvezza sta scritto nelle Sacre Scritture ed è patrimonio comune della Tradizione e della Teologia. Ireneo, Origene, Tertulliano, Agostino, Anselmo, Alberto, Tommaso, Bonaventura, tutti questi conoscono e insegnano questa cooperazione di Maria nell’opera della redenzione. Essi non limitano certamente questa collaborazione della Benedetta solamente al sacrificio della Croce, ma l’estendono oltre, dall’Incarnazione sino alla Redenzione (collaborazione oggettiva all’acquisto della nostra salvezza) e dalla Redenzione sino alla mediazione di Maria (applicazione salvifica soggettiva dei frutti della redenzione). San Bonaventura offre un prospetto completo della cooperazione di Maria alla salvezza umana con le geniali espressioni: « Pretium Redemptionis… est ex ea sumptum, per eam solutum et ab ea possessum — il prezzo dell’opera della redenzione fu da Lei formato, per mezzo di Lei pagato e per mezzo di Lei preso in proprietà. Da Lei fu fondato nell’incarnazione del Verbo; per mezzo di Lei fu pagato nella redenzione della stirpe umana (sul Calvario); da Lei fu preso in proprietà all’ingresso della gloria del paradiso (applicando Ella anoi, per mezzo della sua intercessione qual Regina del Cielo, la grazia della redenzione) » (Collationes de Donis Spiritus Sancti, Tom. 5, pag. 484). I Pontefici dell’ultimo secolo con crescente energia richiamano a questa cooperazione di Maria alla salvezza della stirpe umana. Non è ancor teologicamente chiarito il modo di questa cooperazione. Questo problema fu proposto in tempo recente. Stanno anzitutto di fronte due opinioni. L’una ammette soltanto una cooperazione di Maria nell’opera della redenzione impropria e mediata, l’altra invece una cooperazione propria e immediata. I sostenitori di una corredenzione propria di Maria nel senso stretto della parola (Bittremieux, Dillenschneider, Friethoff, Hitz, Seiler, ed altri) affermano « una partecipazione immediata della Madre di Dio all’opera oggettiva della redenzione, alla vera e propria acquisizione della salvezza » (Hitz, Schweizerische Kirchenzeitung, 1946, nr. 12 ss.). « Maria ha coofferto il sacrificio della Croce non solamente in funzione di ministra, come il diacono, ma veramente in funzione sacerdotale… Maria non è (quindi) soltanto la Madre del Sacerdote e la Madre dell’Agnello immolato; il suo sacerdozio rispetto al sacerdozio di Cristo è veramente un qualche cosa di analogo…; in conseguenza è soltanto partecipazione piena e completa al sommo sacerdozio di Cristo; è però un vero e proprio sacerdozio, cui conviene la definizione, d’essere cioè una mediazione stabilita da Dio fra il Signore e gli uomini peccatori con la facoltà di cooffrire col Redentore il sacrificio della riconciliazione. Nell’esercizio quindi il suo sacerdozio non è come strumento subordinato al sacerdozio di Cristo…, ma in un certo senso coordinato (coordinatio imperfecta) » (Seiler, Corredemptrix, Roma 1939, pagg. 34. 135. 136). Secondo quest’opinione Maria avrebbe meritato per conto proprio i frutti della redenzione, di modo che le sue azioni sarebbero state in se stesse salvifiche per gli uomini e Iddio ha voluto e accolto il sacrificio di Cristo per la salvezza del mondo soltanto in quanto esso era accompagnato dalla cooblazione di Maria. – Questo libro preferirebbe non far proprie conclusioni così spinte. Le espressioni dei Pontefici da Pio X sino a Pio XII mettono certamente in risalto la cooperazione tutta propria di Maria nell’opera della redenzione, però non sono in nessun modo così univocamente determinate, che da esse risulti una sentenza dottrinale chiaramente delimitata circa il modo di questa sua cooperazione. A ragione K. Rahner rileva: « Qui (nell’insegnamento d’una “corredenzione” di Maria in senso proprio) ci troviamo in un campo teologico, dove tutto ancor oggi è fluttuante e dove le opinioni stanno fra di loro in forte contrasto; ci troviamo quindi anche sul terreno di quella cristiana libertà di discussione, della quale noi tutti, compresi i laici, possiamo usare senza intralci, anche se con riverenza e per veri motivi » (“Noch ein neues Dogma? ”, in Orientierung, 1949, nr. 4, pagg. 4l ss.). Il P. Lennerz, professore nella Pontificia Università Gregoriana di Roma, alla lettera apostolica di Benedetto XV « Inter Sodalicia » del 22 marzo 1918, che viene specialmente citata dai difensori di una corredenzione propria di Maria, osserva: « Bisognerebbe dimostrare positivamente che Benedetto voleva che questa espressione (Corredemptrix) fosse intesa proprio nel senso dei difensori… Quanto dice Benedetto in realtà non va oltre a quello che insegnarono comunemente i Dottori della Chiesa; non siamo quindi costretti in alcun modo a farcene un’idea diversa » (De Beata Virgine, 1939, pag. 231). Si ha anzi l’impressione che nelle sfere ecclesiastiche ufficiali piuttosto ci si allontani dall’interpretazione spinta della cooperazione di Maria nell’opera della redenzione. In una conversazione del Maggio 1947 con P. Cordovani, Maestro dei Sacri Palazzi, poi defunto, questi chiamava l’opinione d’una corredenzione di Maria vera e immediata “saltatio verbi”. Del resto conduce a respingere una esposizione troppo spinta anche la proibizione ripetutamente rinnovata del Sant’Ufficio di onorare o rappresentare Maria come “Virgo Sacerdos — Vergine sacerdote ’’ (1913, 1916, 1927). L’aurea via di mezzo nella questione circa il modo della cooperazione di Maria nell’opera della redenzione è indicata dal Papa Pio XII nell’epilogo dell’Enciclica “Mystici Corporis Christi”: « Maria, sopportando con animo forte e fiducioso i suoi ineffabili dolori, più che tutti i fedeli cristiani insieme, da vera Regina dei martiri, compì quello che manca dei patimenti di Cristo… a vantaggio del Corpo di Lui, che è la Chiesa” ». Il Pontefice qui accenna alla profonda parola di Paolo nella lettera ai Colossesi 1,24: « Io (Paolo) godo nei patimenti in pro vostro, e in contraccambio compio le deficienze delle tribolazioni del Cristo nella mia carne in pro del Corpo di Lui, che è la Chiesa ». Nessuno alla pari di Paolo martellò negli animi dei credenti così profondamente che soltanto Cristo è il Redentore: « Un solo mediatore di Dio e di uomini, l’uomo Cristo Gesù » (1 Tim. 2, 5). Paolo tuttavia conosce anche una “corredenzione” degli uniti con Cristo: ogni sofferenza e azione delle singole membra e dei credenti uniti nel misterioso organismo del Corpo di Cristo può e deve, grazie all’unità in Cristo, il Capo, tornare di espiazione e di benedizione anche agli altri. In questa unione dev’esser messa anche la cooperazione di Maria all’opera della redenzione. Essa si distanzia dalla “corredenzione” delle altre membra non secondo il modo, bensì secondo la misura e il grado immensamente superiore, mentre oltrepassa ed eccelle in misura impensabile tutte le oblazioni degli altri credenti in Cristo e diviene quindi anche per tutti benedizione inesauribile.] *.

Questo confronto « sacerdote-diacono » ci richiama però anche alla differenza essenziale fra l’oblazione di Gesù e quella di sua Madre. Il diacono non raggiunge l’indipendenza del Sacerdote offerente; egli non pregiudica la sufficienza del sacrificio sacerdotale; egli piuttosto compie il suo ufficio in piena dipendenza dal Sacerdote, come conviene al suo posto di sott’ordine quale diacono. Maria ebbe parte in questo modo alla nostra redenzione: il sacrificio sulla croce del nostro Eterno e Sommo Sacerdote, che mediante il suo Sangue penetrò i Cieli e aprì a noi peccatori la via al trono della grazia, tanto che adesso ci è concesso di accostarci con fiducia dinanzi alla terribile maestà di Dio e ivi conseguire grazia per l’aiuto opportuno, è d’una sufficienza e d’una sovrabbondanza talmente infinita, che non ha bisogno d’alcun umano completamento e sostegno. La cooperazione di Maria non fu un contributo necessariamente richiesto per la redenzione operata dal nostro unico e solo Signore e mediatore Gesù Cristo; Ella non poté portare nessun completamento a quello che in sé era già perfetto; ora l’azione di Cristo fu sufficiente per la redenzione di mille mondi. Però « l’opera della salvezza doveva in questa cooblazione della nuova Eva ornarsi di bellezza in ogni parte ed essere del tutto completa anche in linea dell’essere e dell’operare semplicemente creato » (Feckes). E così l’augusta Signora sul Calvario, accanto alla croce del Figlio suo, presentò anche il dolore e la riconoscenza del suo cuore materno e la indigenza e la povera buona volontà della stirpe umana, che Ella fu chiamata a rappresentare. Ella ornò il calice traboccante del Sangue di Cristo con le pietre preziose delle sue lagrime e col ramo di mirra della sua pena amara, che sopportò per noi peccatori. E chi potrebbe dubitare che questo materno dolore, unito al sacrificio del Figlio suo, divenisse benedizione per il mondo intero, se già la preghiera e il sacrificio delle nostre povere madri torna a noi di salvezza? Persino Paolo, l’inesorabile predicatore dell’unico e solo redentore Gesù Cristo, scrive e per di più di se stesso le misteriose parole: « Io godo nei patimenti in pro vostro, e in contraccambio compio le deficienze delle tribolazioni del Cristo nella mia carne in pro del Corpo di Lui, che è la Chiesa ». Se così, il tremendo patire della Madre accanto alla Croce potrebbe essere rimasto privo d’una efficacia tutta particolare per la vita della Chiesa? La passione infinita di Cristo non abbisogna affatto in sé d’un « compimento », però a tutte le membra del mistico Corpo di Gesù Cristo spetta anche una determinata misura di sofferenza; se il Capo, Cristo, soffre, con Lui soffriamo noi tutti, suoi membri. In questo misterioso Corpo di Cristo ogni membro, soffrendo e offrendo, deve giovare alla salvezza anche degli altri, ciascuno in proporzione del suo posto e dell’importanza in questo « Corpo », questi solamente per pochi, quell’altro per molti, Maria, la Madre del Redentore, per tutti quanti furono redenti dal Sangue del Figlio suo. Non v’è « dunque affatto nessuno (fra tutti i membri dell’organismo mistico di Cristo) che abbia contribuito o che abbia potuto mai contribuire alla riconciliazione di Dio con gli uomini quanto vi contribuì Maria ».  –  Ti siano rese grazie, o augusta e amata e povera Signora, per le lacrime, che tu, ai piedi della Croce hai pianto e che si mescolarono col Sangue del Figlio tuo in salvezza per noi! E onore e gloria sia al Figlio tuo, unico nostro Salvatore e Redentore, Gesù Cristo!

« Presso la Croce di Gesù stava sua Madre ».

« Gesù, vedendo sua Madre e vicino ad essa il discepolo, che prediligeva, dice alla madre: “Donna, ecco il tuo figliuolo”. E poi dice al discepolo: “Ecco la Madre tua”. E da quel momento il discepolo se la prese con sé in casa sua ». Questa parola del Signore morente alla Madre sua derelitta è così commovente che vorremmo piangere su di essa. Molto tempo è passato dall’ultima parola che Gesù rivolse pubblicamente alla Madre sua; la disse a Cana, e quella parola fu apparentemente dura; anche adesso, sulla croce ancora, Egli dapprima si ricordò dei suoi nemici e poi del ladrone; la Madre, che accanto alla sua croce piangeva, La lasciò in disparte. Ha così poca importanza per Lui la Madre sua, è così un niente, che persino in quest’ultimo momento Egli parli ancora per gli altri, con gli altri, ma alla propria Madre non dica nemmeno una paroletta? oppure quegli altri hanno bisogno delle sue amorose parole più urgentemente dell’abbandonata Madre piena di grazia? Finalmente, a metà, nel cuore delle sette ultime parole di Gesù in croce, rifulse la parola anche per la Madre sua, ancor prima del grido al Padre. Si sente chiaramente che questa parola si sprigionò da un fortissimo ingorgo d’amore del Figlio per la Madre; essa dà sfogo all’amore di Gesù per la Madre rimasto legato durante la vita pubblica, ne svela la profondità e la delicatezza. Quest’unica ed ultima parola del Signore a sua Madre presso la croce lascia intravvedere quanto in realtà Maria stesse vicina al cuore del Figlio suo; Egli non può morire se non sa che sua Madre versa in migliori condizioni di protezione; Egli stesso in quel momento stava quasi per affogare in un mare di tormenti e la grigia notte dell’abbandono di Dio già Gli si avvicinava: per questo, prima d’entrare nella sua suprema tortura e morte; vuole mettere al sicuro sua Madre quasi da una bufera imminente. In quell’ora ogni parola era per il Signore una pena. Ah, i morenti, anche con lo sforzo dell’ultimo amore, possono appena dire « sì, sì » e « oh, oh »… Il Signore in quel momento raccolse le sue forze, strinse più fortemente le teste dei chiodi e dalle labbra del Figlio, come una stella d’oro nell’oscurità della notte, si librò sulla Madre l’ultima sua parola: « Donna, ecco tuo figlio! », e al discepolo: « Ecco tua Madre! ». « Donna », chiama Gesù in croce Maria, non « Madre ». Come già a Cana infatti e ancor più che a Cana, Maria sul Calvario tiene un posto ufficiale quale aiutante della redenzione del mondo. Ella non è soltanto colma di dolore, è anche adorna di sublimità e di solennità, più regale di Ester, più forte di Giuditta, la Donna del mondo, la rappresentante dell’umanità, l’assistente accanto alla Vittima sanguinante sulla croce. Questa parola è piena di rispetto e di onore, forse anche piena d’un intimo singhiozzar d’amore, come se Gesù in quell’ora non osasse più rivolgersi a Maria con il tenero nome di Madre per non provocare lo straripamento degli umani sentimenti di cui era colmo il loro cuore. La parola del Figlio morente mette la Madre sotto la protezione di Giovanni e Giovanni sotto la benedizione di Maria. Il Signore s’era preoccupato già il giorno precedente di tutti i suoi discepoli, poiché il dolore più acuto d’un nobile morente è l’abbandono e la mancanza di sicurezza di coloro che egli ama. Tutti i discepoli la sera del Giovedì Santo erano stati da Lui affidati allo Spirito Santo: « Non vi lascerò orfani: Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro confortatore ». Anche Giovanni stava in questa sicurezza dello Spirito Santo e ancor più Maria, a cominciare dall’Incarnazione, anzi già dal primo momento della sua esistenza; ma Maria era anche donna, la quale abbisognava d’una assistenza visibile; e Giovanni era il discepolo dell’amore; il Signore voleva dargli un pegno anche terreno dell’amore dello Spirito Santo in quella Donna, che di Spirito Santo era stata adombrata. Quest’ultimo legato del Signore fece di Giovanni il figlio di Maria, e di Maria la madre di Giovanni; l’uno ora era dato all’altra in dono e a carico. Maria ricevette dal Figlio morente un altro figlio, l’amico di Lui, Giovanni, la persona più cara che Gesù possedesse sulla terra accanto alla Madre sua, quel discepolo dell’amore, che la sera precedente aveva potuto ascoltare, riposando sul cuore di Gesù, il fluttuare del suo amore. Per Maria Giovanni era l’aureo scrigno, entro il quale l’amore di Gesù s’era nascosto prima della morte come in un Sacramento. Giovanni era per Lei il monumento vivente dell’amore di Gesù verso la Madre. Ancor più di Maria in Giovanni aveva ricevuto da Gesù Giovanni in Maria. Fu un onore senza uguali. Un giorno insieme con suo fratello Giacomo Maggiore egli aveva preteso un primo posto nel regno messianico; adesso gli tocca di più. Ieri ebbe per un’ora il suo posto sul cuore del Signore; da oggi in poi il suo posto è a fianco della Madre del Signore per tutta la vita. Il Signore anche nell’estrema povertà della croce poté arricchire di doni i due esseri a Lui più cari, Maria con Giovanni e Giovanni con Maria. Le sue due più care creature! Accanto alla croce v’eran certo anche altri, la sorella di sua Madre, la moglie di Cleofa, e Maria Maddalena; anch’esse avevan dato prova al Signore di tanta bontà, e il Signore era legato in amore anche a loro; esse ricevettero una preziosa benedizione per la fedeltà sino alla sua morte; ma solo a Maria e a Giovanni fece dono della preziosità d’un’ultima parola tutta propria per loro e della preziosità d’una cara persona. Quella parola fu certamente per i due anche un obbligo. Maria doveva adesso essere la madre di Giovanni. Giovanni aveva già una madre, quella nobile Salome, che secondo l’informazione di Matteo era presente anche sul Calvario e « osservava da lontano »; « da lontano », perché lei e le altre « molte donne di Galilea » non furono ammesse dai soldati presso la Croce; essi, ascoltando un sentimento d’umanità, avevan permesso l’accesso soltanto alla Madre e a un esiguo accompagnamento. La parola del Signore a Giovanni: « Ecco tua madre! » non voleva privare Salome dei suoi diritti materni: Maria deve essere per Giovanni madre spirituale. Ella adesso deve donare a Giovanni il suo amore materno privo di Gesù; Ella deve proteggere in questo discepolo dell’amore l’eredità, che Gesù in lui ha deposto; Ella lo deve formare come aveva formata l’anima umana di Gesù; in una parola Ella dev’esserGli « madre ». Giovanni dev’essere figlio di Maria. Egli deve offrirLe e casa e sostegno e patria; deve essere sollecito del sostentamento della Donna a lui affidata; deve rallegrare alla Solitaria le sere e l’età. Quale esempio non aveva dato a Giovanni, il secondo figlio della Vergine, Gesù stesso nella sollecitudine per la Madre! Sino al trentesimo anno di vita, per un tempo così lungo Egli aveva provveduto alla Mamma con la propria augusta mano; probabilmente, per il periodo della sua attività pubblica, aveva pregato d’interessarsi di Maria quanti Gli erano stretti per amicizia. Ed ora, morente, affida la Madre all’amico suo, indicandogli così insieme il motivo e la misura della sollecitudine per la Madre. Per mezzo di Gesù tutti e due, Giovanni e Maria, sono adesso legati l’uno all’Altra come figlio e madre, e per mezzo di Maria anche Gesù e Giovanni si son fatti ancor più vicini, come fratello rispetto a fratello. Giovanni nel Vangelo può tributarsi questa lode modesta: « Da quel momento il discepolo se La prese con sè ». L’espressione greca « eis tà idia — in proprietà » nell’uso corrente del discorso significa « in casa sua ». Può essere frattanto che Giovanni abbia usato questa espressione, che può avere vari sensi, di proposito; la parola si presta a una spiegazione ancor più profonda: «eis tà idia — in proprietà » significa nel suo senso pieno più che « casa » solamente; con essa può essere indicato tutto l’insieme della vita esterna ed intima d’un uomo; Giovanni non accolse Maria soltanto in casa, ma anche nel suo cuore, nel suo sentimento e sollecitudine, nel suo dolore e amore. – Con quale maternità dal canto suo Maria abbia accolto Giovanni « nella sua proprietà », più che non dalle pie descrizioni, risulta con evidenza dagli scritti di Giovanni. Gli scritti di Giovanni, e anzitutto il suo Vangelo, sono percorsi da un mirabile afflato mariano; esso si diffonde dalla possente affermazione del prologo del Vangelo giovanneo: « Il Verbo si fece carne » attraverso Cana sino al Calvario. Da Giovanni e solamente da lui noi veniamo a sapere che il Signore era stretto alla Madre sua anche durante il tempo della sua attività pubblica — Cana! — e nella passione — Calvario! —. Nei lunghi anni di convivenza Maria dischiuse al discepolo dell’amore visioni e connessioni sempre più profonde nel mistero di Gesù. Non solamente Giovanni accolse Maria, anche Maria accolse Giovanni nella « sua proprietà ». La parola di congedo, che il Signore morente rivolse a sua Madre e al suo amico, ha una profondità che la cristianità ha scoperta e scopre soltanto un po’ alla volta lungo il corso dei secoli; poiché anche oggi il mistero di questa parola non è ancora dischiuso in ogni sua parte, il mistero cioè della maternità di Maria rispetto all’intera cristianità. Il sentimento cristiano cominciò a sospettare e capì sempre più chiaramente che Gesù sulla croce aveva costituita Maria Madre non solamente di Giovanni bensì di tutti noi, e che non solamente Giovanni, ma noi tutti siamo figli e figlie di Maria. Giovanni non è che un nostro rappresentante; Maria è la Madre dell’intera umanità raccolta in Cristo; « Giovanni » è quindi… « ognuno di noi ». La parola evangelica, considerata in sé sola, non permette certamente una conclusione così spinta; ivi non si fa parola che di Giovanni, a lui, a lui solo viene trasmesso presso la croce l’onore e il dovere della cura di Maria; e a lui, a lui solo, non a un altro discepolo Maria viene indirizzata come a un figlio, cui da parte sua dev’esser, può essere madre. I Padri della Chiesa, quindi, intesero questo testo sempre e ovunque del rapporto di madre e figlio solamente, che sussistette fra Maria e Giovanni, mentre non hanno una parola per la maternità spirituale della Vergine rispetto a noi tutti. Soltanto presso Origene (f 254) si trova un testo, che estende quella parola del Signore anche ai credenti in Cristo, a quanti Cristo amano. Nondimeno passarono ancora secoli prima che in Occidente, per la prima volta l’abbate Ruperto di Deutz, all’inizio del secolo x, e poi con tutta chiarezza e direttamente Dionisio Cartusiano nel secolo xv mettessero quella parola del Signore in relazione con una maternità spirituale universale di Maria. Ma questa maternità spirituale della Vergine è una realtà; è dottrina sicura, cattolica; essa però non si erige su questa parola, bensì sui fatti che si svolsero sul suo medesimo suolo insanguinato, nelle sue immediate vicinanze, sul Calvario. – Due fatti han creata la maternità spirituale di Maria. L’uno fu il suo assenso all’Incarnazione. Sin d’allora, a quel primo Sì, Ella è divenuta anche Madre spirituale di noi tutti: « Mentre Maria portava in grembo suo il Redentore, portava anche tutti coloro la vita dei quali era rinchiusa nella vita del Redentore. Noi, che siamo incorporati a Cristo, siamo nati dal seno di Maria come Corpo Mistico legato col capo ». Nell’incarnazione Gesù è divenuto nostro fratello, Maria, la Madre di Gesù, è divenuta così anche la Madre di tutti i suoi fratelli. Presso la Croce Maria portò al suo compimento amaro e sanguinoso quel Sì del principio. Ella accanto alla croce patì col Figlio suo, e quanto dolore trova posto nel cuore d’una madre, specialmente nel cuore della Madre di Dio! Ella cooffrì con il Figlio suo, fu internamente d’accordo per la morte di Gesù a nostra salvezza, e quella morte ha dato a noi la vita. Poiché Ella ebbe parte nella morte, ebbe parte anche nella vita; Ella col suo dolore materno ha reso a noi possibile questa nuova vita, che si eleva al di sopra della natura. Quale aiutante di Cristo nell’opera della salvezza, Ella divenne la madre della cristianità. Per questo Pio XII, nella sua Enciclica sul « Corpo Mistico di Cristo », richiama con insistenza a questo vincolo di causalità fra la compassione e la cooblazione di Maria presso la Croce e la sua spirituale maternità: « Ella, che sul Golgota col sacrificio totale dei suoi diritti materni e del suo materno amore, ha offerto all’Eterno Padre il Figlio suo, a motivo di questo nuovo titolo di dolore, già Madre del nostro Capo quanto al Corpo, divenne anche la Madre di tutti i suoi membri quanto allo spirito ». La maternità spirituale di Maria quindi è più che una figura solamente, più che una bella espressione poetica soltanto, essa è una realtà misteriosa che si erige sui due misteri fondamentali della nostra fede, l’Incarnazione e il Sacrificio della croce. – Quest’invisibile realtà diventa visibile, come in un simbolo, in Maria e Giovanni presso la Croce; quivi Maria fu costituita Madre di Giovanni e Giovanni figlio di Maria. Proprio in quell’ora, nella quale essi si unirono dinanzi alla croce del Signore per contrarre un legame dolorosamente bello, proprio nell’ora della redenzione Maria divenne anche la Madre dei redenti, e i redenti divennero tutti figli di Maria. A motivo nostro Ella perdette Gesù, il Figlio suo, a motivo di Gesù noi fummo generati figli suoi. Quanto si svolse dinanzi alla Croce, quasi sul proscenio, ci sospinge a guardare in fondo, al di là di Giovanni: in Giovanni siamo presi in considerazione noi tutti, in Maria è data a tutti noi una Madre. – O Donna, ecco qui dunque il figlio tuo! È vero, noi siamo meno, molto meno degni di Te che non il gentile e nobile Giovanni, il quale Ti fu affidato in figlio dal Figlio sulla croce. Colpito da quello scambio con Giovanni, già S. Bernardo esclama: « Quale scambio! Giovanni Ti vien dato al posto di Gesù, il servo invece del Signore, il discepolo invece del Maestro. il figlio di Zebedeo invece del Figlio di Dio, un puro uomo invece del vero Dio ». E ora Tu devi accogliere addirittura noi invece del Figlio! Le nostre meschinità devono farTi nausea, o regale Signora! Di fronte al tuo nobil animo noi siamo d’una condizione tanto inferiore. o Santissima, o Purissima! Noi siamo piccini, poco buoni, impuri, cenciosi, talvolta anche diavoli camuffati, ripieni di reale malizia. E costoro devon essere i tuoi figli! A costoro Tu devi essere madre! Tu, che sei passata sulla terra come un giglio e in Cielo troneggi sopra gli Angeli. Tu però stesti anche sul Calvario, accanto alla croce del Figlio, sulla quale Egli morì per noi peccatori. Tu udisti com’Egli fece grazia al ladrone, e pregò persino per la malignità ostinata. Il Figlio tuo Ti impegna per noi peccatori. Ma perché scongiuriamo noi con parole retoriche il tuo cuore e spesso in tal modo che si potrebbe pensare che valga a persuaderTi, a costringerTi ad esser buona? Non sei Tu il vertice più tenero dell’eterno amore di Dio verso di noi? Egli ha scelto il tuo cuore materno a simbolo della sua propria bontà sconfinata e della sua immensa misericordia. Iddio cioè non è solamente Padre; in Te e per Te, o Maria, Egli vuol manifestare anche la sua infinita maternità. Se anche una madre qualunque consacra le cure più premurose al più povero dei suoi figli, quanto amore non vi sarà per il peccatore nel tuo cuore, ch’è il riflesso più soave dell’amore di Dio! Madre! Madre della misericordia! « Peccatores non abhorres, sine quibus numquam fores mater tanti Filii — Tu non aborri i peccatori, senza dei quali mai saresti Madre d’un tanto Figlio ». E così, o Signora, guarda a noi tuoi figli! Accogli anche noi « eis tà idia — in tua proprietà ». E questa proprietà tutta a Te propria è Gesù: riempici dei sentimenti di Gesù, che da Te si irradiano luminosissimi! E dopo questa miseria mostraci Gesù, il Frutto benedetto del tuo ventre.

Poi, « o Vergine, Madre di Dio, mentre stai dinanzi al Signore, ricordaTi di dire una buona parola per noi, perché Egli storni da noi il suo sdegno ».

Figlio, ecco pure tua Madre! È una grandissima gioia per un uomo possedere una madre, alla quale egli possa guardare, alla quale possa elevarsi. La sua figura resta viva anche al di là della morte; essa l’accompagna come un angelo. Lungo tutta la vita sino al giorno del lieto arrivederci sui portali dell’eternità. Le nostre ottime madri si son formate in Maria, ed esse, quasi preoccupate per il tempo nel quale non avrebbero più potuto precederci col loro esempio, richiamarono la nostra attenzione a Maria, la Madre eterna. Nessuna madre può come Maria elevare i nostri pensieri e i nostri desideri; Ella è il segno grande nel cielo, ammantata di sole e irradiata di dodici stelle; Ella tiene sveglia la nostra eterna nostalgia. E Maria è il grande segno anche sulla terra, aspersa del sangue del Figlio suo ed elevantesi presso la Croce sul Calvario. Figlio, dalla notte della tua tribolazione, guarda alla Madre tua sul Calvario! Neppure accanto alla croce del Figlio suo Ella si querelò, dubitò, vacillò; Ella stette, forte e ferma. E così « io attacco ogni tedio e il dolore di tutte le notti e ogni nostalgia dell’ultima meta al tuo abito d’argento, o Madre » (Hauser). Maria non ritornò dal Calvario col cuore spezzato; insieme con la tristezza era in Lei una grande ed intima gioia: il mondo adesso era redento; tanto aveva fatto il Figlio suo. E dopo tre giorni Egli risorgerà. Ella sapeva della prossima risurrezione come era stata al corrente della prossima passione. Se ne andò dal sepolcro del Figlio, mentre calava la notte, con la fiaccola della speranza. Questa eterna speranza è l’atteggiamento cristiano più profondo; essa oltrepassa e sopravvanza le tre disposizioni che sono alla radice della esistenza umana puramente naturale, la tristezza, l’angoscia e la nausea. Noi come Maria, al di sopra di tutte le notti, guardiamo a Cristo; Egli non è solamente morto, Egli è anche risorto dai morti, è asceso al Cielo e un giorno Egli ritornerà per giudicare i vivi e i morti. Vi son Calvari, tanti e tetri; ma io credo anche nella risurrezione dei morti e nella vita eterna.

I SETTE DOLORI DELLA B. V. MARIA 15 SETTEMBRE (2022) FESTA DELLA VERGINE ADDOLORATA

FESTA DELLA VERGINE ADDOLORATA 15 SETTEMBRE.

I sette Dolori della B. V. Maria (2022)

Doppio di 2° classe. – Paramenti bianchi.

Maria stava ai piedi della Croce, dalla quale pendeva Gesù (Intr., Grad,. Seq., All., Vangelo) e, come era stato predetto da Simeone (Or.) una spada di dolore trapassò la sua anima(Secr.). Impotente, Ella vede il suo dolce Figlio desolato nelle angosce della morte, e ne raccoglie l’ultimo sospiro » (Seq.). L’affanno che il suo cuore materno provò ai piedi della croce, le ha meritato, pur senza morire, la palma del martirio (Com.). – Queste festa era celebrata con grande solennità dai Serviti nel XVII secolo. Fu estesa da Pio VII, nel 1817, a tutta la Chiesa, per ricordare le sofferenze che la Chiesa stessa aveva appena finito di sopportare nella persona del suo capo esiliato e progioniero, e liberato, grazie alla protezione della Vergine. Come la prima festa dei dolori di Maria, al tempo della Passione, ci mostra la parte che Ella presa al Sacrificio di Gesù, così la seconda, dopo la Pentecoste, ci dice tutta la compassione che prova la Madre del Salvatore verso la Chiesa, sposa di Gesù, che è crocifissa a sua volta nei tempi calamitosi che essa attraversa. Sua Santità Pio X ha elevato nel 1908 questa festa alla dignità di seconda classe.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostrs, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.
V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Joann XIX:25
Stabant juxta Crucem Jesu Mater ejus, et soror Matris ejus, María Cléophæ, et Salóme et María Magdaléne.

[Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Salome, e Maria Maddalena.]

Joann XIX:26-27
Múlier, ecce fílius tuus: dixit Jesus; ad discípulum autem: Ecce Mater tua.

[Donna, ecco tuo figlio, disse Gesù; e al discepolo: Ecco tua madre]


Stabant juxta Crucem Jesu Mater ejus, et soror Matris ejus, María Cléophæ, et Salóme et María Magdaléne.

[Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Salome, e Maria Maddalena.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, in cujus passióne, secúndum Simeónis prophetíam, dulcíssimam ánimam gloriósæ Vírginis et Matris Maríæ dolóris gladius pertransívit: concéde propítius; ut, qui transfixiónem ejus et passiónem venerándo recólimus, gloriósis méritis et précibus ómnium Sanctórum Cruci fidéliter astántium intercedéntibus, passiónis tuæ efféctum felícem consequámur:

[O Dio, nella tua passione, una spada di dolore ha trafitto, secondo la profezia di Simeone, l’anima dolcissima della gloriosa vergine e madre Maria: concedi a noi, che celebriamo con venerazione i suoi dolori, di ottenere il frutto felice della tua passione:]

Lectio

Léctio libri Judith.
Judith XIII:22;23-25
Benedíxit te Dóminus in virtúte sua, quia per te ad níhilum redégit inimícos nostros. Benedícta es tu, fília, a Dómino, Deo excélso, præ ómnibus muliéribus super terram. Benedíctus Dóminus, qui creávit cœlum et terram: quia hódie nomen tuum ita magnificávit, ut non recédat laus tua de ore hóminum, qui mémores fúerint virtútis Dómini in ætérnum, pro quibus non pepercísti ánimæ tuæ propter angústias et tribulatiónem géneris tui, sed subvenísti ruínæ ante conspéctum Dei nostri.

[Il Signore nella sua potenza ti ha benedetta: per mezzo tuo ha annientato i nostri nemici. Benedetta sei tu, o figlia, dal Signore Dio altissimo più di ogni altra donna sulla terra. Benedetto il Signore, che ha creato il cielo e la terra, perché oggi egli ha tanto esaltato il tuo nome, che la tua lode non cesserà nella bocca degli uomini: essi ricorderanno in eterno la potenza del Signore. Perché tu non hai risparmiato per loro la tua vita davanti alle angustie e alla afflizione della tua gente: ci hai salvato dalla rovina, al cospetto del nostro Dio.]

Graduale

Dolorósa et lacrimábilis es, Virgo María, stans juxta Crucem Dómini Jesu, Fílii tui, Redemptóris.
V. Virgo Dei Génitrix, quem totus non capit orbis, hoc crucis fert supplícium, auctor vitæ factus homo. Allelúja, allelúja.

V. Stabat sancta María, cœli Regína et mundi Dómina, juxta Crucem Dómini nostri Jesu Christi dolorósa.
[Addolorata e piangente, Vergine Maria, ritta stai presso la croce del Signore Gesù Redentore, Figlio tuo.
V. O Vergine Madre di Dio, Colui che il mondo intero non può contenere, l’Autore della vita, fatto uomo, subisce questo supplizio della croce! Alleluia, alleluia.
V. Stava Maria, Regina del cielo e Signora del mondo, addolorata presso la croce del Signore.]

Sequentia

Stabat Mater dolorósa
Juxta Crucem lacrimósa,
Dum pendébat Fílius.

Cujus ánimam geméntem,
Contristátam et doléntem
Pertransívit gládius.

O quam tristis et afflícta
Fuit illa benedícta
Mater Unigéniti!

Quæ mærébat et dolébat,
Pia Mater, dum vidébat
Nati pœnas íncliti.

Quis est homo, qui non fleret,
Matrem Christi si vidéret
In tanto supplício?

Quis non posset contristári,
Christi Matrem contemplári
Doléntem cum Fílio?

Pro peccátis suæ gentis
Vidit Jesum in torméntis
Et flagéllis súbditum.

Vidit suum dulcem
Natum Moriéndo desolátum,
Dum emísit spíritum.

Eja, Mater, fons amóris,
Me sentíre vim dolóris
Fac, ut tecum lúgeam.

Fac, ut árdeat cor meum
In amándo Christum Deum,
Ut sibi compláceam.

Sancta Mater, istud agas,
Crucifixi fige plagas
Cordi meo válida.

Tui Nati vulneráti,
Tam dignáti pro me pati,
Pœnas mecum dívide.

Fac me tecum pie flere,
Crucifíxo condolére,
Donec ego víxero.

Juxta Crucem tecum stare
Et me tibi sociáre
In planctu desídero.

Virgo vírginum præclára.
Mihi jam non sis amára:
Fac me tecum plángere.

Fac, ut portem Christi mortem,
Passiónis fac consórtem
Et plagas recólere.

Fac me plagis vulnerári,
Fac me Cruce inebriári
Et cruóre Fílii.

Flammis ne urar succénsus,
Per te, Virgo, sim defénsus
In die judícii.

Christe, cum sit hinc exíre.
Da per Matrem me veníre
Ad palmam victóriæ.

Quando corpus moriétur,
Fac, ut ánimæ donétur
Paradísi glória.
Amen.


[Sequenza
Stava di dolore piena e di pianto
la Madre presso la croce,
da cui pendeva il Figlio.

L’anima di Lei gemente,
di tristezza e di dolore piena,
una spada trafiggeva.

Oh! quanto triste ed afflitta
fu la benedetta
Madre dell’Unigenito!

S’affliggeva, si doleva
la pia Madre contemplando
le pene del Figlio augusto.

E chi non piangerebbe
mirando la Madre di Cristo
in tanto supplizio?

E chi non s’attristerebbe
vedendo la Madre di Cristo
dolente insieme al Figlio?

Per i peccati del popolo suo
Ella vide Gesù nei tormenti
e ai flagelli sottoposto.

Ella vide il dolce Figlio,
morire desolato,
quando emise lo spirito.

Orsù, Madre fonte d’amore,
a me pure fa’ sentire l’impeto del dolore,
perché teco io pianga.

Fa’ che nell’amar Cristo, mio Dio,
così arda il mio cuore
che a Lui io piaccia.

Santa Madre, deh! tu fa’
che le piaghe del Signore
forte impresse siano nel mio cuore.

Del tuo Figlio straziato,
che tanto per me s’è degnato patire,
con me pure dividi le pene.

Con te fa’ che pio io pianga
e col Crocifisso soffra,
finché avrò vita.

Stare con te accanto alla Croce,
a te associarmi nel piangere
io desidero.

O Vergine, delle vergini la più nobile,
con me non esser dura,
con te fammi piangere.

Fammi della morte di Cristo partecipe,
e della sua passione consorte;
e delle sue piaghe devoto.

Fammi dalle piaghe colpire,
dalla Croce inebriare
e dal Sangue del tuo.

Perché non arda in fiamme
ma da te sia difeso, o Vergine,
nel dì del giudizio

O Cristo, quando dovrò di qui partire,
deh! fa’, per la tua Madre,
che al premio io giunga.

E quando il corpo perirà,
fa’ che all’anima
la gloria del cielo sia data.
Amen.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Glória tibi, Dómine.
Joann XIX: 25-27.
In illo témpore: Stabant juxta Crucem Jesu Mater ejus, et soror Matris ejus, María Cléophæ, et María Magdaléne. Cum vidísset ergo Jesus Matrem, et discípulum stantem, quem diligébat, dicit Matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus. Deinde dicit discípulo: Ecce Mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua.

[In quel tempo, stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Maria Maddalena. Gesù, dunque, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che amava, disse a sua madre: « Donna, ecco tuo figlio». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

OMELIA

(Otto Ophan: Maria; Marietti ed. Torino, 1953)

SUL CALVARIO

« Presso la croce di Gesù stava ».

Possiamo chiederci se a Maria sul Calvario non sia stato domandato troppo. Non fu ivi posto sulle spalle d’una donna delicata, d’una povera Madre una tale enormità, ch’Ella sotto tanto peso doveva crollare, fisicamente e ancor più spiritualmente? Per Maria l’impotenza sarebbe stata benefica, perché avrebbe occultata al suo spirito l’ora della scena più straziante. Ma il suo spirito sul Calvario restò sveglio; era come un lago turchino, sul quale il sole cocente bruciava senza misericordia. Quali insopportabili strazi dovette Maria sostenere sul Calvario! Se persino il Figlio suo gridò nell’abisso del suo strazio le parole: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai tu abbandonato? », che cosa non dovette passare anche nel cuore della Madre sua? Tempeste di chiarezza infuriavano sull’anima di Lei; i flutti del suo cuore non La cacceranno sulle bianche spiagge, sicché spumeggino e s’impennino nella disperazione e nella ribellione? Qual minaccia non costituisce per la fede un grande patire, anzi già il semplice patire! Come si presenta pericolosa vicino al sofferente l’audace domanda: ma v’è Iddio? ma v’è proprio un Dio? Può esserci un Dio, se accade il fatto più raccapricciante, l’uccisione… dell’Uomo-Dio? E se L’hanno ucciso, Iddio dunque è morto! Questo fatto enorme, pazzesco, folle non si oppone anche al minimo d’intelligenza? Le orribili sofferenze e i delitti del nostro tempo hanno bruciata la fede in Dio in esseri innumerevoli precisamente con queste fiaccole infuocate. Ma se tuttavia Iddio è — ed Egli è! —, non è Egli un Dio totalmente diverso da quello che Gesù aveva annunziato, un essere oscuro, indifferente, sublimissimo, che troneggia nelle lontane e gelide altezze? Maria sul Calvario ricordò forse con dolore la predicazione del Figlio suo circa il Padre, il Padre che veste i gigli del campo, che nutre gli uccelli del cielo, e si prende cura d’ogni capello del nostro capo. Ov’è adesso Egli, questo Padre provvido, questo Padre amante? Ma v’è anzi quaggiù anche solamente il governo d’un Dio giusto? il Figlio suo lacerato non è una palpabile confutazione, un sanguinoso sprezzo della consolante predica intorno a un Dio paterno? Quanto dev’esser crudele quest’Essere sublimissimo, che procura al più nobile, al più santo di tutti gli uomini e alla Madre sua innocente tanto tormento o anche permette che lo si procuri, mentre noi stessi non lo arrecheremmo al peggiore dei nostri nemici! La bestemmia contro Dio sta vicina al credente più di quello che non si possa sospettare. L’incredulo conclude presto: nega semplicemente Iddio, e con questa misera soluzione si « spiega » gli enigmi della vita; il credente invece sa troppo bene dell’esistenza di un Essere supremo; i problemi della vita e del mondo lo disorientano non quanto all’esistenza, ma quanto al modo d’essere di Dio, quanto alla provvidenza, alla bontà e alla giustizia di Dio. E ora il Vangelo dà netto risalto all’atteggiamento della Vergine: « Stava accanto alla croce di Gesù sua Madre ». Ella stava sommersa nell’uragano che su di Lei muggiva. La terra tremò e le rocce si spaccarono: Maria stava. Il velo del Tempio si stracciò dall’alto al basso, e il Figlio suo rese il suo spirito con un forte grido: Maria stava. Ritta, solitaria stava là, come un albero principesco, attorno al quale un’intera selva giace abbattuta. Nelle Litanie lauretane noi esaltiamo Maria quale « Torre eburnea »: « eburnea » fu accanto alla croce per il pallore; ma Ella fu anche « torre », che resistette agli assalti paurosi del dubbio e della disperazione intrepida e invitta. Maria non è solamente la Madre amabile, quale spesso ci viene mostrata; ancor meno Ella è la figurina graziosa, quasi leziosa d’una merce fuori d’uso; Maria è la donna forte, che, degna del Figlio suo, va innanzi con Lui all’esercito dei martiri di sangue asperso qual Regina, la Regina dei martiri. Maria sul Calvario non disse alcuna parola. Non si lamentò, non dubitò, non maledisse, nemmeno interrogò più. Al Dodicenne chiese in dolorosa sorpresa: « Fanciullo, perché ci hai fatto tu così? »; anche alle nozze di Cana Gli presentò la sommessa preghiera: « Non hanno più vino »; sul Calvario Ella non è altro che silenzio. C’è un silenzio anche per alterigia o per impietrimento, come secondo l’antica leggenda greca fu il silenzio di Niobe, cui la saetta di Apollo aveva ucciso tutti i figli; Maria sopravvanza in grandezza d’animo le povere madri sofferenti degli antichi pagani, Niobe ed Ecuba, per l’infinita perfezione cristiana. Il suo silenzio non è protesta, ma silenziosa adesione. A dir il vero, le sue labbra sono sigillate dal dolore, sicché non può più gridare, come nell’ora felice dell’Annunciazione laggiù a Nazaret, il suo “Fiat”. Anche nella nostra vita giungono momenti, nei quali non possiamo più parlare, non più pregare, nemmeno più gemere; in quei momenti. non resta che il linguaggio dell’atteggiamento. Maria sul Calvario disse il suo Sì nella lingua commovente dell’atteggiamento: « Ella stava presso la Croce ». Questo stare era più che un discorso; con questa resistenza e perseveranza Ella espresse tutto quello che quassù sul Calvario aveva da dire. – L’informazione evangelica dice certamente: « Stavano presso la croce di Gesù la madre sua e la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria Maddalena », e anche il discepolo che Gesù amava stava lì. Maria dunque stava presso la croce di Gesù non da sola; anche le altre stavano, e di questo dovrebbe tener conto anche l’arte, la quale preferisce rappresentare Maria Maddalena svenuta ai piedi della Croce, sopraffatta dal dolore. L’atteggiamento eretto della coraggiosa Madre di Gesù fu però più eroico che quello delle altre: le altre attinsero energia in quell’atteggiamento della Madre per non abbandonarsi senza ritegno al dolore; la fortezza d’animo della Madre tenne ritte presso la croce anche le altre: se accanto alla croce sta ritta persino la Mamma, neppure le altre devono ivi cadere, non devono di là fuggire. Il racconto evangelico sottolinea intelligente questa posizione eretta; non scrive cioè: « Quando Gesù vide sua Madre e il suo discepolo che Egli amava presso la croce », ma: « Quand’Egli vide ch’Ella stava ritta »; non la presenza di Maria sul Calvario fu il grande fatto, ma la sua posizione eretta. E qui sta nascosto qualche cosa di ancor più profondo. Lo stare di Maria accanto alla croce del Figlio manifestava non solamente la sua magnanimità, ma anche il suo consenso, che voleva dire ben di più. Maria non stava soltanto presso la croce, Ella stava per la croce, l’approvava. Ella sul Calvario era di nuovo posta, come un tempo laggiù a Nazaret, dinanzi a una decisione, stavolta dinanzi a una « decisione sanguinante » nel senso più terribile della parola: a Nazaret Ella dovette decidersi se accogliere il Figlio suo, sul Calvario dovette decidere se darLo. Sul Calvario avrebbe potuto richiamarsi a buon diritto alla splendida profezia di Gabriele in occasione dell’Annunciazione, la quale diceva che Iddio « avrebbe dato il trono di suo padre David al Figlio di Lei »; adesso ne eravamo così lontani, che Gesù pendeva dalla croce fra due delinquenti. La raccapricciante realtà del Calvario non era una stridente offesa di quella lontana promessa? non era Maria una povera donna ingannata, cui le promesse fatte non erano state mantenute? Molti sul Calvario si sarebbero querelati e stizziti con simili amarezze, sarebbero stati per il Figlio, non però per la sua croce. Maria invece non stette solamente per il Figlio, ma anche per la croce di suo Figlio. Col sì di Nazaret Ella aveva data a Dio carta bianca per tutta la sua vita; quanto Iddio scriveva sulle bianche pagine della sua vita, è già in precedenza ratificato e sottoscritto dal “Fiat” di Lei; quando quella sublimissima mano cominciò a scrivere con scrittura di sangue, col sangue del Figlio suo, Maria non disdisse il suo si di Nazaret, ma lo completò col Sì del Calvario. Non si lamentò dicendo: « Oh, adesso basta! adesso è troppo! »; neppure come preghiera e supplica raccolse la parola risuonataLe vicina, che i nemici avevan scagliata contro la croce a dileggio di Gesù e quasi a tentazione per Lei: « Figlio mio, discendi dalla croce! hai aiutato gli altri, aiuta anche te stesso! »; Ella Lo lasciò sulla croce. Non mosse un dito, non mosse labbro per liberarLo dall’abbraccio della morte. Ella, come la magnanima madre dei Maccabei il figlio suo più giovane e ancor più eroica di quella, incoraggiava con la sua silenziosa presenza il Figlio morente: «Figlio mio, abbi pietà di me! sostieni la morte! ». Sul Calvario quindi Maria stette sulla cima del sacrificio che tutto comprende. Niente, niente affatto Ella ritenne per sé; donò, per compiere la volontà di Dio e per la nostra salvezza, persino il Figlio suo, persino il suo… Dio. La parola, che del Padre celeste Gesù aveva detta e che scrisse il discepolo allora presente con Maria presso la croce, valeva anche per Lei: « Tanto la Madre ha amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, affinché chiunque in Lui crede non perisca, ma abbia la vita eterna ». Maria sapeva della donazione generosa del Figlio voluta dal Padre per la salvezza del mondo, e, sostenuta dalla solida base di questa parola, scorse il segreto delle paurose vicende del Calvario: quivi si compiva la salvezza dell’umanità; la redenzione, la redenzione per amore; il Figlio suo, con le mani lacerate dai chiodi, portava di nuovo in alto, su, su, alla casa del Padre l’umanità allontanatasi da Dio. Quivi era in questione la misericordia, la misericordia sconfinata, non la crudeltà. E in realtà in nessun’opera la divina misericordia e la divina giustizia si son così strettamente abbracciate come… nell’inchiodamento del Figlio di Dio sulla croce, e in nessun luogo arde l’amore di Dio più caldo che nel suo Sangue, che fu « versato per molti in espiazione dei peccati ». L’umanità sofferente del Signore ricevette senza dubbio forza e conforto dalla coraggiosa presenza della Madre accanto alla croce. Durante la sua ineffabile tristezza sul Monte degli Olivi il Signore aveva cercato conforto nei discepoli; ma questi non stavano, essi dormivano; e allora Iddio benigno per incoraggiare il Figlio suo sofferente Gli inviò un Angelo dal Cielo; sulla vetta del Calvario non volò nessun Angelo, ma ivi stava la Madre; una madre è l’Angelo più consolatore di tutti. Ella baciava quei piedi inchiodati, e le sue labbra pallide divennero rosse di sangue; a Lui pendente dalla croce sussurrava tutti i nomi dell’amore, nomi così soavi quali dall’infanzia non aveva più osato dirGli. Ella stava là, vicina alla croce, e intercettava gli sguardi dei suoi occhi, perché non dovessero andar vaganti nella notte e fra le bestemmie, ma trovassero difesa e riposo negli occhi della Madre sua. Il Padre suo L’aveva abbandonato, ma la Madre era là, e nella Madre era vicino anche il Padre, perché una madre è la garanzia più soave e più sensibile dell’invisibile ed eterno amore di Dio. Senza dubbio la presenza della Madre presso la sua croce fu per il Signore anche una indicibile sofferenza. Che cosa non doveva soffrire a causa sua la Poveretta, la buona Donna! Tommaso d’Aquino scrive commosso che anche gli occhi di Gesù, come gli altri suoi sensi, dovettero soffrire sulla croce una pena propria: essi scorsero la Madre e il discepolo dell’amore piangenti ai piedi della croce. A questo penoso dolore però andava unito un grande conforto, quello di possedere una Madre dall’amore talmente invincibile e d’una fortezza insuperabile. Pietro ieri sera Gli aveva giurato: « Anche se tutti pigliassero scandalo di te, io, io non lo piglierò giammai ». Dov’era Pietro? Sua Madre non si scandalizzò di Lui; Ella stava presso di Lui anche nella defezione di tutti, anche in mezzo al più compassionevole fallimento, anche sommersa in un inferno di tormenti. Proprio la Madre, la Madre sua buona e cara, la migliore e la più santa di tutti gli uomini, proprio Lei resse accanto a Lui, l’impalato, il crocefisso. E da questa Madre s’apriva dinanzi allo sguardo del Signore una via luminosa perdentesi nell’infinito. Questa Donna solitaria accanto alla sua croce è la prima redenta, la redenta perfettamente. Sin dal momento della sua concezione rumoreggia in Lei la grazia della redenzione talmente ricca e possente, che sarebbe valsa la pena di soffrire e di morire già solamente per Lei; era pure grazia di redenzione ch’Ella ora se ne stesse nella bufera del Calvario. Maria però non è sola, Ella accanto alla croce è la rappresentante di tutti i redenti; in Lei si inginocchia la Chiesa dell’avvenire; in Lei le schiere, che nessuno può contare, dicono grazie al l’Agnello, perché le loro vesti son divenute bianche nel suo Sangue. In Maria il Padre presenta al Figlio che muore l’umanità redenta; in Maria il Figlio scorge come in un modello e in un simbolo l’infinito valore della sua passione. Era come se dalla Madre accanto alla croce ascendesse verso l’infuriar dei tormenti e verso il fremito del Sangue del Figlio morente un canto lontano e bello: « Degno è l’Agnello, che fu ucciso, di ricevere potenza e regno e sapienza e fortezza e onore e gloria e lode ». In quel momento un sorriso sfiorò il volto sfigurato del Figlio e un raggio penetrò anche negli occhi della Madre. Da tutto questo appare chiaramente che alla Madre del Signore spetta una parte importante anche per la nostra redenzione. Maria sul Calvario non fu semplicemente la mamma amante e sofferente d’un figlio morente: milioni di povere madri hanno assistito i figli morenti; Maria stette sul Calvario quale « Madre del Redentore »: « Pro peccatis suæ gentis vidit Jesum in tormentis — ah! Ella vide Gesù sopportare martiriiper i peccati dei suoi fratelli, flagelli, spine. derisioni e scherni». A questa redenzione dell’umanità per mezzo del Sangue e della mortedel Figlio suo Maria disse il suo Sì stando accanto alla croce; per questo il suo amore e il suo dolore materno si elevavano immensamente più in alto che quelli di qualunque altra povera madre sofferente, si portarono su, nell’altipiano del mistero della redenzione, furono un contributo per la salvezza del mondo.Il Vangelo stesso allude a questo posto ufficiale di Maria accanto alla croce del Figlio: esso ha sempre taciuto di Lei durante tutto il lungoperiodo della vita nascosta di Gesù a Nazaret come della sua attività pubblica; accanto alla croce di Gesù invece Ella riappare nuovamentenella relazione evangelica grande, in una luce singolare; qui dunque ci vien segnalato che la presenza di Maria presso il Figlio morente non fu soltanto l’esigenza d’un commovente affetto materno; quivi si trattò d’un atto solenne e addirittura ufficiale. Questo spettacolo commovente della Madre presso la croce è come una solenne ed edificante Liturgia. Questa Donna regale sta ritta, non assopita dal dolore, non sprofondata nella disperazione, ma, come osaaffermare con parola ardita San Bonaventura, « intenerita per la gioia che il suo Unigenito debba essere offerto in vittima per la salvezza del mondo ».Maria accanto alla croce prega col Sommo Sacerdote dell’umanità, offre con Lui, soffre con Lui. « Ella sul Calvario, quale nuova Eva, Lo offrì all’Eterno Padre per tutti i figli di Adamo con sacrificio totale dei suoi diritti materni e del suo materno amore ». Per questo già dal tempo di Alberto Magno, Maria è chiamata con senso profondo « aiutante » della redenzione, a somiglianza di Eva che era stata « aiutante di Adamo »; Ella è la « inserviente » della redenzione, la « diaconessa » della redenzione. Il diacono porta all’altare le offerte del pane e del vino per la Messa solenne, egli le prepara; egli assiste il sacerdote offerente, è pure a lui unito con intima comunione e sentimento sacrificale. Maria sul Calvario fece così: Ella preparò l’Offerta santa, il Corpo del Figlio suo, nell’Incarnazione e lo fece grande a Nazaret; Ella presentò questa preziosissima Proprietà per il sacrificio, Ella entrò in perfettissima comunanza d’amore e di dolore col Sacerdote offerente, che era nello Stesso tempo la Vittima offerta. Questo confronto « sacerdote-diacono » ci richiama però anche alla differenza essenziale fra l’oblazione di Gesù e quella di sua Madre. Il diacono non raggiunge l’indipendenza del Sacerdote offerente; egli non pregiudica la sufficienza del sacrificio sacerdotale; egli piuttosto compie il suo ufficio in piena dipendenza dal Sacerdote, come conviene al suo posto di sott’ordine quale diacono. Maria ebbe parte in questo modo alla nostra redenzione: il sacrificio sulla croce del nostro Eterno e Sommo Sacerdote, che mediante il suo Sangue penetrò i Cieli e aprì a noi peccatori la via al trono della grazia, tanto che adesso ci è concesso di accostarci con fiducia dinanzi alla terribile maestà di Dio e ivi conseguire grazia per l’aiuto opportuno, è d’una sufficienza e d’una sovrabbondanza talmente infinita, che non ha bisogno d’alcun umano completamento e sostegno. La cooperazione di Maria non fu un contributo necessariamente richiesto per la redenzione operata dal nostro unico e solo Signore e mediatore Gesù Cristo; Ella non poté portare nessun completamento a quello che in sé era già perfetto; ora l’azione di Cristo fu sufficiente per la redenzione di mille mondi. Però « l’opera della salvezza doveva in questa cooblazione della nuova Eva ornarsi di bellezza in ogni parte ed essere del tutto completa anche in linea dell’essere e dell’operare semplicemente creato » (Feckes). E così l’augusta Signora sul Calvario, accanto alla croce del Figlio suo, presentò anche il dolore e la riconoscenza del suo cuore materno e la indigenza e la povera buona volontà della stirpe umana, che Ella fu chiamata a rappresentare. Ella ornò il calice traboccante del Sangue di Cristo con le pietre preziose delle sue lagrime e col ramo di mirra della sua pena amara, che sopportò per noi peccatori. E chi potrebbe dubitare che questo materno dolore, unito al sacrificio del Figlio suo, divenisse benedizione per il mondo intero, se già la preghiera e il sacrificio delle nostre povere madri torna a noi di salvezza? Persino Paolo, l’inesorabile predicatore dell’unico e solo redentore Gesù Cristo, scrive e per di più di se stesso le misteriose parole: « Io godo nei patimenti in pro vostro, e in contraccambio compio le deficienze delle tribolazioni del Cristo nella mia carne in pro del Corpo di Lui, che è la Chiesa ». Se così, il tremendo patire della Madre accanto alla Croce potrebbe essere rimasto privo d’una efficacia tutta particolare per la vita della Chiesa? La passione infinita di Cristo non abbisogna affatto in sé d’un « compimento », però a tutte le membra del mistico Corpo di Gesù Cristo spetta anche una determinata misura di sofferenza; se il Capo, Cristo, soffre, con Lui soffriamo noi tutti, suoi membri. In questo misterioso Corpo di Cristo ogni membro, soffrendo e offrendo, deve giovare alla salvezza anche degli altri, ciascuno in proporzione del suo posto e dell’importanza in questo « Corpo », questi solamente per pochi, quell’altro per molti, Maria, la Madre del Redentore, per tutti quanti furono redenti dal Sangue del Figlio suo. Non v’è « dunque affatto nessuno (fra tutti i membri dell’organismo mistico di Cristo) che abbia contribuito o che abbia potuto mai contribuire alla riconciliazione di Dio con gli uomini quanto vi contribuì Maria ».  –  Ti siano rese grazie, o augusta e amata e povera Signora, per le lacrime, che tu, ai piedi della Croce hai pianto e che si mescolarono col Sangue del Figlio tuo in salvezza per noi! E onore e gloria sia al Figlio tuo, unico nostro Salvatore e Redentore, Gesù Cristo!

« Presso la Croce di Gesù stava sua Madre ».

« Gesù, vedendo sua Madre e vicino ad essa il discepolo, che prediligeva, dice alla madre: “Donna, ecco il tuo figliuolo”. E poi dice al discepolo: “Ecco la Madre tua”. E da quel momento il discepolo se la prese con sé in casa sua ». Questa parola del Signore morente alla Madre sua derelitta è così commovente che vorremmo piangere su di essa. Molto tempo è passato dall’ultima parola che Gesù rivolse pubblicamente alla Madre sua; la disse a Cana, e quella parola fu apparentemente dura; anche adesso, sulla croce ancora, Egli dapprima si ricordò dei suoi nemici e poi del ladrone; la Madre, che accanto alla sua croce piangeva, La lasciò in disparte. Ha così poca importanza per Lui la Madre sua, è così un niente, che persino in quest’ultimo momento Egli parli ancora per gli altri, con gli altri, ma alla propria Madre non dica nemmeno una paroletta? oppure quegli altri hanno bisogno delle sue amorose parole più urgentemente dell’abbandonata Madre piena di grazia? Finalmente, a metà, nel cuore delle sette ultime parole di Gesù in croce, rifulse la parola anche per la Madre sua, ancor prima del grido al Padre. Si sente chiaramente che questa parola si sprigionò da un fortissimo ingorgo d’amore del Figlio per la Madre; essa dà sfogo all’amore di Gesù per la Madre rimasto legato durante la vita pubblica, ne svela la profondità e la delicatezza. Quest’unica ed ultima parola del Signore a sua Madre presso la croce lascia intravvedere quanto in realtà Maria stesse vicina al cuore del Figlio suo; Egli non può morire se non sa che sua Madre versa in migliori condizioni di protezione; Egli stesso in quel momento stava quasi per affogare in un mare di tormenti e la grigia notte dell’abbandono di Dio già Gli si avvicinava: per questo, prima d’entrare nella sua suprema tortura e morte; vuole mettere al sicuro sua Madre quasi da una bufera imminente. In quell’ora ogni parola era per il Signore una pena. Ah, i morenti, anche con lo sforzo dell’ultimo amore, possono appena dire « sì, sì » e « oh, oh »… Il Signore in quel momento raccolse le sue forze, strinse più fortemente le teste dei chiodi e dalle labbra del Figlio, come una stella d’oro nell’oscurità della notte, si librò sulla Madre l’ultima sua parola: « Donna, ecco tuo figlio! », e al discepolo: « Ecco tua Madre! ». « Donna », chiama Gesù in croce Maria, non « Madre ». Come già a Cana infatti e ancor più che a Cana, Maria sul Calvario tiene un posto ufficiale quale aiutante della redenzione del mondo. Ella non è soltanto colma di dolore, è anche adorna di sublimità e di solennità, più regale di Ester, più forte di Giuditta, la Donna del mondo, la rappresentante dell’umanità, l’assistente accanto alla Vittima sanguinante sulla croce. Questa parola è piena di rispetto e di onore, forse anche piena d’un intimo singhiozzar d’amore, come se Gesù in quell’ora non osasse più rivolgersi a Maria con il tenero nome di Madre per non provocare lo straripamento degli umani sentimenti di cui era colmo il loro cuore. La parola del Figlio morente mette la Madre sotto la protezione di Giovanni e Giovanni sotto la benedizione di Maria. Il Signore s’era preoccupato già il giorno precedente di tutti i suoi discepoli, poiché il dolore più acuto d’un nobile morente è l’abbandono e la mancanza di sicurezza di coloro che egli ama. Tutti i discepoli la sera del Giovedì Santo erano stati da Lui affidati allo Spirito Santo: « Non vi lascerò orfani: Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro confortatore ». Anche Giovanni stava in questa sicurezza dello Spirito Santo e ancor più Maria, a cominciare dall’Incarnazione, anzi già dal primo momento della sua esistenza; ma Maria era anche donna, la quale abbisognava d’una assistenza visibile; e Giovanni era il discepolo dell’amore; il Signore voleva dargli un pegno anche terreno dell’amore dello Spirito Santo in quella Donna, che di Spirito Santo era stata adombrata. Quest’ultimo legato del Signore fece di Giovanni il figlio di Maria, e di Maria la madre di Giovanni; l’uno ora era dato all’altra in dono e a carico. Maria ricevette dal Figlio morente un altro figlio, l’amico di Lui, Giovanni, la persona più cara che Gesù possedesse sulla terra accanto alla Madre sua, quel discepolo dell’amore, che la sera precedente aveva potuto ascoltare, riposando sul cuore di Gesù, il fluttuare del suo amore. Per Maria Giovanni era l’aureo scrigno, entro il quale l’amore di Gesù s’era nascosto prima della morte come in un Sacramento. Giovanni era per Lei il monumento vivente dell’amore di Gesù verso la Madre. Ancor più di Maria in Giovanni aveva ricevuto da Gesù Giovanni in Maria. Fu un onore senza uguali. Un giorno insieme con suo fratello Giacomo Maggiore egli aveva preteso un primo posto nel regno messianico; adesso gli tocca di più. Ieri ebbe per un’ora il suo posto sul cuore del Signore; da oggi in poi il suo posto è a fianco della Madre del Signore per tutta la vita. Il Signore anche nell’estrema povertà della croce poté arricchire di doni i due esseri a Lui più cari, Maria con Giovanni e Giovanni con Maria. Le sue due più care creature! Accanto alla croce v’eran certo anche altri, la sorella di sua Madre, la moglie di Cleofa, e Maria Maddalena; anch’esse avevan dato prova al Signore di tanta bontà, e il Signore era legato in amore anche a loro; esse ricevettero una preziosa benedizione per la fedeltà sino alla sua morte; ma solo a Maria e a Giovanni fece dono della preziosità d’un’ultima parola tutta propria per loro e della preziosità d’una cara persona. Quella parola fu certamente per i due anche un obbligo. Maria doveva adesso essere la madre di Giovanni. Giovanni aveva già una madre, quella nobile Salome, che secondo l’informazione di Matteo era presente anche sul Calvario e « osservava da lontano »; « da lontano », perché lei e le altre « molte donne di Galilea » non furono ammesse dai soldati presso la Croce; essi, ascoltando un sentimento d’umanità, avevan permesso l’accesso soltanto alla Madre e a un esiguo accompagnamento. La parola del Signore a Giovanni: « Ecco tua madre! » non voleva privare Salome dei suoi diritti materni: Maria deve essere per Giovanni madre spirituale. Ella adesso deve donare a Giovanni il suo amore materno privo di Gesù; Ella deve proteggere in questo discepolo dell’amore l’eredità, che Gesù in lui ha deposto; Ella lo deve formare come aveva formata l’anima umana di Gesù; in una parola Ella dev’esserGli « madre ». Giovanni dev’essere figlio di Maria. Egli deve offrirLe e casa e sostegno e patria; deve essere sollecito del sostentamento della Donna a lui affidata; deve rallegrare alla Solitaria le sere e l’età. Quale esempio non aveva dato a Giovanni, il secondo figlio della Vergine, Gesù stesso nella sollecitudine per la Madre! Sino al trentesimo anno di vita, per un tempo così lungo Egli aveva provveduto alla Mamma con la propria augusta mano; probabilmente, per il periodo della sua attività pubblica, aveva pregato d’interessarsi di Maria quanti Gli erano stretti per amicizia. Ed ora, morente, affida la Madre all’amico suo, indicandogli così insieme il motivo e la misura della sollecitudine per la Madre. Per mezzo di Gesù tutti e due, Giovanni e Maria, sono adesso legati l’uno all’Altra come figlio e madre, e per mezzo di Maria anche Gesù e Giovanni si son fatti ancor più vicini, come fratello rispetto a fratello. Giovanni nel Vangelo può tributarsi questa lode modesta: « Da quel momento il discepolo se La prese con sé ». L’espressione greca « eis tà idia — in proprietà » nell’uso corrente del discorso significa « in casa sua ». Può essere frattanto che Giovanni abbia usato questa espressione, che può avere vari sensi, di proposito; la parola si presta a una spiegazione ancor più profonda: «eis tà idia — in proprietà » significa nel suo senso pieno più che « casa » solamente; con essa può essere indicato tutto l’insieme della vita esterna ed intima d’un uomo; Giovanni non accolse Maria soltanto in casa, ma anche nel suo cuore, nel suo sentimento e sollecitudine, nel suo dolore e amore. – Con quale maternità dal canto suo Maria abbia accolto Giovanni « nella sua proprietà », più che non dalle pie descrizioni, risulta con evidenza dagli scritti di Giovanni. Gli scritti di Giovanni, e anzitutto il suo Vangelo, sono percorsi da un mirabile afflato mariano; esso si diffonde dalla possente affermazione del prologo del Vangelo giovanneo: « Il Verbo si fece carne » attraverso Cana sino al Calvario. Da Giovanni e solamente da lui noi veniamo a sapere che il Signore era stretto alla Madre sua anche durante il tempo della sua attività pubblica — Cana! — e nella passione — Calvario! —. Nei lunghi anni di convivenza Maria dischiuse al discepolo dell’amore visioni e connessioni sempre più profonde nel mistero di Gesù. Non solamente Giovanni accolse Maria, anche Maria accolse Giovanni nella « sua proprietà ». La parola di congedo, che il Signore morente rivolse a sua Madre e al suo amico, ha una profondità che la cristianità ha scoperta e scopre soltanto un po’ alla volta lungo il corso dei secoli; poiché anche oggi il mistero di questa parola non è ancora dischiuso in ogni sua parte, il mistero cioè della maternità di Maria rispetto all’intera cristianità. Il sentimento cristiano cominciò a sospettare e capì sempre più chiaramente che Gesù sulla croce aveva costituita Maria Madre non solamente di Giovanni bensì di tutti noi, e che non solamente Giovanni, ma noi tutti siamo figli e figlie di Maria. Giovanni non è che un nostro rappresentante; Maria è la Madre dell’intera umanità raccolta in Cristo; « Giovanni » è quindi… « ognuno di noi ». La parola evangelica, considerata in sé sola, non permette certamente una conclusione così spinta; ivi non si fa parola che di Giovanni, a lui, a lui solo viene trasmesso presso la croce l’onore e il dovere della cura di Maria; e a lui, a lui solo, non a un altro discepolo Maria viene indirizzata come a un figlio, cui da parte sua dev’esser, può essere madre. I Padri della Chiesa, quindi, intesero questo testo sempre e ovunque del rapporto di madre e figlio solamente, che sussistette fra Maria e Giovanni, mentre non hanno una parola per la maternità spirituale della Vergine rispetto a noi tutti. Soltanto presso Origene (f 254) si trova un testo, che estende quella parola del Signore anche ai credenti in Cristo, a quanti Cristo amano. Nondimeno passarono ancora secoli prima che in Occidente, per la prima volta l’abbate Ruperto di Deutz, all’inizio del secolo x, e poi con tutta chiarezza e direttamente Dionisio Cartusiano nel secolo xv mettessero quella parola del Signore in relazione con una maternità spirituale universale di Maria. Ma questa maternità spirituale della Vergine è una realtà; è dottrina sicura, cattolica; essa però non si erige su questa parola, bensì sui fatti che si svolsero sul suo medesimo suolo insanguinato, nelle sue immediate vicinanze, sul Calvario. – Due fatti han creata la maternità spirituale di Maria. L’uno fu il suo assenso all’Incarnazione. Sin d’allora, a quel primo Sì, Ella è divenuta anche Madre spirituale di noi tutti: « Mentre Maria portava in grembo suo il Redentore, portava anche tutti coloro la vita dei quali era rinchiusa nella vita del Redentore. Noi, che siamo incorporati a Cristo, siamo nati dal seno di Maria come Corpo Mistico legato col capo ». Nell’incarnazione Gesù è divenuto nostro fratello, Maria, la Madre di Gesù, è divenuta così anche la Madre di tutti i suoi fratelli. Presso la Croce Maria portò al suo compimento amaro e sanguinoso quel Sì del principio. Ella accanto alla croce patì col Figlio suo, e quanto dolore trova posto nel cuore d’una madre, specialmente nel cuore della Madre di Dio! Ella cooffrì con il Figlio suo, fu internamente d’accordo per la morte di Gesù a nostra salvezza, e quella morte ha dato a noi la vita. Poiché Ella ebbe parte nella morte, ebbe parte anche nella vita; Ella col suo dolore materno ha reso a noi possibile questa nuova vita, che si eleva al di sopra della natura. Quale aiutante di Cristo nell’opera della salvezza, Ella divenne la madre della cristianità. Per questo Pio XII, nella sua Enciclica sul « Corpo Mistico di Cristo », richiama con insistenza a questo vincolo di causalità fra la compassione e la cooblazione di Maria presso la Croce e la sua spirituale maternità: « Ella, che sul Golgota col sacrificio totale dei suoi diritti materni e del suo materno amore, ha offerto all’Eterno Padre il Figlio suo, a motivo di questo nuovo titolo di dolore, già Madre del nostro Capo quanto al Corpo, divenne anche la Madre di tutti i suoi membri quanto allo spirito ». La maternità spirituale di Maria quindi è più che una figura solamente, più che una bella espressione poetica soltanto, essa è una realtà misteriosa che si erige sui due misteri fondamentali della nostra fede, l’Incarnazione e il Sacrificio della croce. Quest’invisibile realtà diventa visibile, come in un simbolo, in Maria e Giovanni presso la Croce; quivi Maria fu costituita Madre di Giovanni e Giovanni figlio di Maria. Proprio in quell’ora, nella quale essi si unirono dinanzi alla croce del Signore per contrarre un legame dolorosamente bello, proprio nell’ora della redenzione Maria divenne anche la Madre dei redenti, e i redenti divennero tutti figli di Maria. A motivo nostro Ella perdette Gesù, il Figlio suo, a motivo di Gesù noi fummo generati figli suoi. Quanto si svolse dinanzi alla Croce, quasi sul proscenio, ci sospinge a guardare in fondo, al di là di Giovanni: in Giovanni siamo presi in considerazione noi tutti, in Maria è data a tutti noi una Madre. – O Donna, ecco qui dunque il figlio tuo! È vero, noi siamo meno, molto meno degni di Te che non il gentile e nobile Giovanni, il quale Ti fu affidato in figlio dal Figlio sulla croce. Colpito da quello scambio con Giovanni, già S. Bernardo esclama: « Quale scambio! Giovanni Ti vien dato al posto di Gesù, il servo invece del Signore, il discepolo invece del Maestro. il figlio di Zebedeo invece del Figlio di Dio, un puro uomo invece del vero Dio ». E ora Tu devi accogliere addirittura noi invece del Figlio! Le nostre meschinità devono farTi nausea, o regale Signora! Di fronte al tuo nobil animo noi siamo d’una condizione tanto inferiore. o Santissima, o Purissima! Noi siamo piccini, poco buoni, impuri, cenciosi, talvolta anche diavoli camuffati, ripieni di reale malizia. E costoro devon essere i tuoi figli! A costoro Tu devi essere madre! Tu, che sei passata sulla terra come un giglio e in Cielo troneggi sopra gli Angeli. Tu però stesti anche sul Calvario, accanto alla croce del Figlio, sulla quale Egli morì per noi peccatori. Tu udisti com’Egli fece grazia al ladrone, e pregò persino per la malignità ostinata. Il Figlio tuo Ti impegna per noi peccatori. Ma perché scongiuriamo noi con parole retoriche il tuo cuore e spesso in tal modo che si potrebbe pensare che valga a persuaderTi, a costringerTi ad esser buona? Non sei Tu il vertice più tenero dell’eterno amore di Dio verso di noi? Egli ha scelto il tuo cuore materno a simbolo della sua propria bontà sconfinata e della sua immensa misericordia. Iddio cioè non è solamente Padre; in Te e per Te, o Maria, Egli vuol manifestare anche la sua infinita maternità. Se anche una madre qualunque consacra le cure più premurose al più povero dei suoi figli, quanto amore non vi sarà per il peccatore nel tuo cuore, ch’è il riflesso più soave dell’amore di Dio! Madre! Madre della misericordia! « Peccatores non abhorres, sine quibus numquam fores mater tanti Filii — Tu non aborri i peccatori, senza dei quali mai saresti Madre d’un tanto Figlio ». E così, o Signora, guarda a noi tuoi figli! Accogli anche noi « eis tà idia — in tua proprietà ». E questa proprietà tutta a Te propria è Gesù: riempici dei sentimenti di Gesù, che da Te si irradiano luminosissimi! E dopo questa miseria mostraci Gesù, il Frutto benedetto del tuo ventre. Poi, « o Vergine, Madre di Dio, mentre stai dinanzi al Signore, ricordaTi di dire una buona parola per noi, perché Egli storni da noi il suo sdegno ». – Figlio, ecco pure tua Madre! È una grandissima gioia per un uomo possedere una madre, alla quale egli possa guardare, alla quale possa elevarsi. La sua figura resta viva anche al di là della morte; essa l’accompagna come un angelo. Lungo tutta la vita sino al giorno del lieto arrivederci sui portali dell’eternità. Le nostre ottime madri si son formate in Maria, ed esse, quasi preoccupate per il tempo nel quale non avrebbero più potuto precederci col loro esempio, richiamarono la nostra attenzione a Maria, la Madre eterna. Nessuna madre può come Maria elevare i nostri pensieri e i nostri desideri; Ella è il segno grande nel cielo, ammantata di sole e irradiata di dodici stelle; Ella tiene sveglia la nostra eterna nostalgia. E Maria è il grande segno anche sulla terra, aspersa del sangue del Figlio suo ed elevantesi presso la Croce sul Calvario. Figlio, dalla notte della tua tribolazione, guarda alla Madre tua sul Calvario! Neppure accanto alla croce del Figlio suo Ella si querelò, dubitò, vacillò; Ella stette, forte e ferma. E così « io attacco ogni tedio e il dolore di tutte le notti e ogni nostalgia dell’ultima meta al tuo abito d’argento, o Madre » (Hauser). Maria non ritornò dal Calvario col cuore spezzato; insieme con la tristezza era in Lei una grande ed intima gioia: il mondo adesso era redento; tanto aveva fatto il Figlio suo. E dopo tre giorni Egli risorgerà. Ella sapeva della prossima risurrezione come era stata al corrente della prossima passione. Se ne andò dal sepolcro del Figlio, mentre calava la notte, con la fiaccola della speranza. Questa eterna speranza è l’atteggiamento cristiano più profondo; essa oltrepassa e sopravvanza le tre disposizioni che sono alla radice della esistenza umana puramente naturale, la tristezza, l’angoscia e la nausea. Noi come Maria, al di sopra di tutte le notti, guardiamo a Cristo; Egli non è solamente morto, Egli è anche risorto dai morti, è asceso al Cielo e un giorno Egli ritornerà per giudicare i vivi e i morti. Vi son Calvari, tanti e tetri; ma io credo anche nella risurrezione dei morti e nella vita eterna.

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Jer XVIII:20
Recordáre, Virgo, Mater Dei, dum stéteris in conspéctu Dómini, ut loquáris pro nobis bona, et ut avértat indignatiónem suam a nobis.

[Ricordati, o Vergine Madre di Dio, quando sarai al cospetto del Signore, di intercedere per noi presso Dio, perché distolga da noi la giusta sua collera].

Secreta

Offérimus tibi preces et hóstias, Dómine Jesu Christe, humiliter supplicántes: ut, qui Transfixiónem dulcíssimi spíritus beátæ Maríæ, Matris tuæ, précibus recensémus; suo suorúmque sub Cruce Sanctórum consórtium multiplicáto piíssimo intervéntu, méritis mortis tuæ, méritum cum beátis habeámus:
[Ti offriamo le preghiere e il sacrificio, o Signore Gesù Cristo. supplicandoti umilmente: a noi che celebriamo. in preghiera i dolori che hanno trafitto lo spirito dolcissimo della santissima tua Madre Maria, per i meriti della tua morte e per l’amorosa e continua intercessione di lei e dei santi che le erano accanto ai piedi della croce, concedi a noi di partecipare al premio dei beati:]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Transfixióne beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Transfissione della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus,

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:
Pater noster
Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Felíces sensus beátæ Maríæ Vírginis, qui sine morte meruérunt martýrii palmam sub Cruce Dómini.

[Beata la Vergine Maria, che senza morire, ha meritato la palma del martirio presso la croce del Signore.]

Postcommunio

Orémus.
Sacrifícia, quæ súmpsimus, Dómine Jesu Christe, Transfixiónem Matris tuæ et Vírginis devóte celebrántes: nobis ímpetrent apud cleméntiam tuam omnis boni salutáris efféctum:
[O Signore Gesù Cristo, il sacrificio al quale abbiamo partecipato celebrando devotamente i dolori che hanno trafitto la vergine tua Madre, ci ottenga dalla tua clemenza il frutto di ogni bene per la salvezza:]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LA GRAZIA E LA GLORIA (23)

LA GRAZIA E LA GLORIA (23)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO V

LA FILIAZIONE ADOTTIVA CONSIDERATA NELLA SUA RELAZIONE CON CIASCUNA DELLE PERSONE DIVINE.

LA RELAZIONE CON IL PADRE E IL FIGLIO.

CAPITOLO PRIMO

Sulla relazione dei figli adottivi con Dio Padre; e come l’adozione divina sia adatta solo alle creature intelligenti, ad esclusione del Figlio per natura.

1. Abbiamo cercato di capire, per quanto possibile, come e perché tutta la Trinità abiti nei figli adottivi; con quali legami sia unita ad essi, facendo di ciascuno dei giusti un santuario vivente, un cielo più splendido e santo dei cieli materiali, e come il paradiso della Trinità. Entriamo ancora una volta in queste profondità misteriose per contemplare con più calma le relazioni singolari in cui la grazia ci pone con ciascuna delle Persone divine. – È una verità indiscutibile che l’adozione che fa passare gli uomini dallo stato di servi e schiavi alla dignità di figli di Dio, è beneficio comune di tutta la Trinità. Ed ecco la prova che ne dà il Dottore Angelico (S. Thom., 3 p., q. 23, a. 2.). « C’è questa differenza tra il figlio adottivo di Dio e il Figlio per natura: che quest’ultimo non è fatto ma generato, mentre il figlio adottivo è fatto, secondo le parole di San Giovanni: Ha dato loro il potere di diventare figli di Dio (Gv. I, 12). Se talvolta la Scrittura parla di generazione per il figlio adottivo, si tratta di una generazione puramente spirituale, di grazia, e non di natura, ed è in questo senso che è detto nell’Epistola cattolica di San Giacomo: Egli ci ha generati volontariamente, per mezzo della sua parola di verità (Jac., 1, 18.). Ora, sebbene l’atto di generare sia proprio della Persona del Padre, quello di produrre un effetto nella creatura è opera comune della Trinità tutta: perché dove la natura è una, ci deve essere una sola virtù, una sola anche nell’operazione. Per questo il Signore ha detto in San Giovanni: « Tutto quello che fa il Padre, lo fa anche il Figlio » (Gv. V, 19). Tuttavia, Dio stesso e la sua Chiesa ci insegnano a dare il Nome di Padre soprattutto alla prima Persona. « Andate a dire ai miei fratelli: Ecco, io salgo al Padre mio e Padre vostro » ( Giov., XX: 17,3). Ora, il Padre di Cristo, nostro Padre, è la prima Persona della Santa Trinità, fonte e principio delle altre due. Altrove ci viene detto: « Noi sappiamo che tutte le cose concorrono al bene di coloro che amano Dio; di coloro che, secondo il suo decreto, sono chiamati alla santità (cioè all’adozione). Poiché coloro che ha conosciuto, li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinché Egli sia il primogenito tra molti fratelli » (Rom., VIII, 28-30.). Qui vediamo di nuovo la doppia paternità della natura e della grazia affermata nella stessa Persona. Infine, questo è il significato della formula usata dagli Apostoli di Gesù Cristo all’inizio della maggior parte delle loro lettere: « Grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e da Gesù Cristo nostro Signore. Benedetto sia il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (Ef, I, 2.5; Gal, 1, 3-4, ecc. I Pet, 1, 3; II Joan, 1, 3). Infatti, il Padre di cui ci augurano la grazia e che dobbiamo benedire, il Padre nostro, si distingue dal Figlio Nostro Signore e dal Padre suo. Ed è per questo che la Chiesa, nelle preghiere liturgiche che rivolge direttamente alla prima Persona attraverso suo Figlio, Gesù Cristo Nostro Signore, mette così costantemente il nome di Padre sulle nostre labbra. E non è solo il Figlio che si distingue dal Padre, nostro Padre. Lo Spirito Santo, sebbene abbia, come vedremo, la sua parte necessaria nell’adozione dei figli di Dio, ed è eccellentemente lo Spirito di adozione, il pegno e la garanzia dell’eredità etera, preparata per i figli, tuttavia non riceve da noi il nome di Padre, per quanto sia considerato come una Persona distinta e come lo Spirito Santo. Lui stesso non l’ha mai preso nelle nostre Sacre Scritture, e la Chiesa, nelle sue invocazioni e nei suoi inni, non è solita mescolarlo con i titoli particolari che gli dà (il veni, Pater pauperum non è appena un’eccezione). – Tuttavia, come ha detto sopra San Tommaso, l’opera di adozione non è proprietà di nessuno ad esclusione degli altri. La natura a cui partecipo per diventare figlio adottivo è comune a tutte e tre le Persone; comune è l’azione che infonde la grazia e la conserva in me; comune è l’azione che mi rende figlio adottivo. La natura alla quale partecipo per diventare figlio adottivo è comune alle tre Persone; comune è l’azione che infonde la grazia e la conserva in me; e in questa somiglianza soprannaturale che distingue il figlio dal servo e dallo schiavo, il Figlio e lo Spirito Santo si riconoscono non meno del Padre. Il « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza » è tanto vero nell’ordine della grazia quanto in quello della natura. Come si può risolvere questo enigma? Con la dottrina dell’appropriazione, la teologia risponde! Poiché questa espressione può offrire solo un significato molto vago a coloro che non hanno familiarità con il linguaggio tecnico della scienza sacra, alcune spiegazioni saranno tanto più utili, in quanto dovremo fare appello a questa nozione più di una volta. Appropriarsi è attribuire specialmente ad una delle Persone della Trinità ciò che nella sua natura è comune a tutte e tre. Pertanto, l’appropriazione non riguarda mai caratteri esclusivamente personali. Se dico del Figlio che è generato dalla Sapienza, dello Spirito Santo che è il Dono del Padre e del Figlio, non mi approprio di questi nomi: sono loro propri, così come il titolo di Figlio e Spirito Santo. Né c’è appropriazione quando, parlando di questa o quella Persona divina, si afferma semplicemente di Essa un attributo, una funzione che si trova in altri luoghi della Scrittura affermata anche degli altri; tranne forse in certi casi di cui sarebbe inutile fare qui menzione. E questo è quello che volevo dire quando ho detto « attribuire specialmente ». Se dico della creazione che sia opera della potenza del Padre, della sapienza del Figlio e della bontà dello Spirito Santo, questa è l’appropriazione. Infatti, sebbene queste tre perfezioni siano comuni, non mi sarebbe permesso invertire l’ordine dei termini, attribuendo al Padre la sapienza, al Figlio la bontà, allo Spirito Santo la potenza. – Le appropriazioni, lungi dal nuocere alla vera comprensione della Trinità, la facilitano e la illuminano. Le vestigia o immagini delle Persone divine che le creature ci offrono, ci aiutano a concepire meglio i caratteri ipostatici che le distinguono; e, per non uscire da me, il mio pensiero mi rimanda al Verbo eterno, e il mio amore all’Amore personale, cioè allo Spirito Santo. Così, dalle perfezioni e operazioni comuni che la mia ragione può cogliere, mi innalzo a nozioni meno fluttuanti e più chiare del mistero che la fede mi ha fatto intravedere attraverso i suoi veli. Questo è lo scopo delle appropriazioni; ma è anche quello che deve esserne la Legge. – Affinché l’appropriazione ci sia utile, è necessario che ci sia un particolare rapporto di somiglianza, una speciale analogia tra le Operazioni appropriate all’una o all’altra Persona e la Proprietà distintiva della stessa Persona (S. Thom, 1 p. q. 39, a, 7 e 8; Leone XIII, Encycl., Divinum illud munus (1897). Percorrete tutte le appropriazioni contenute nella Scrittura o nei santi Dottori, e ovunque vedrete che poggiano su questo necessario fondamento: « Da ciò proviene – dice San Bonaventura – che dove nulla ricorda in alcun modo l’ordine e l’origine delle Persone, non è possibile alcuna appropriazione » (San Bonaventura, I, D. 34, q. 3.): perché invece di essere un aiuto per raggiungere il fine perseguito, diventerebbe un ostacolo. – Una volta poste queste premesse, si offre la soluzione che stavamo cercando. E questa soluzione l’ho ricevuta da San Tommaso. « L’atto di adottare – ci dice, – è universalmente appropriato a tutta la Trinità, poiché una è la sua operazione come una è la sua essenza. Tuttavia, può essere appropriato soprattutto al Padre, poiché questo atto è manifestamente in più stretto rapporto di similitudine con il carattere personale del Padre » (S. Thom., III, D. 10, q- 2, a. 1, sol. 2.). Quale analogia si può trovare tra la paternità dell’adozione e i titoli del Verbo di Dio, Figlio unico, dello Spirito Santo, l’Amore personale, che sono proprietà di altre Persone? Certamente nessuno. Questo è sufficiente, dunque, per avere il diritto di riservare, secondo la legge di appropriazione, il Nome di Padre dei figli adottivi a Colui che nell’augusta Trinità porta eternamente il dolce e glorioso nome di Padre. – Secondo la testimonianza dei Padri, una delle ragioni principali per cui piacque a Dio di operare il mistero dell’Incarnazione nella Persona del Figlio piuttosto che in quella del Padre, anche se quest’ultimo poteva ugualmente unirsi ipostaticamente alla nostra natura, risiede nella convenienza dei Nomi. Se il Padre si fosse fatto uomo nel grembo benedetto della Vergine, sarebbe stato padre e figlio; padre come Dio, figlio come uomo. Quindi non so quale confusione sia possibile nei nomi e nei titoli. È per una ragione simile che chiamiamo singolarmente nostro Padre proprio Colui che nella Trinità porta esclusivamente questo Nome divino. Quando mi considero come suo figlio, mi ricordo più facilmente di questa Paternità superiore che lo distingue dalla seconda Persona e, attraverso di Lui, dalla terza; e concepisco anche con meno difficoltà come abbia potuto essere adottato, poiché Colui che mi adotta come suo figlio si presenta a me in tutto lo splendore di una fecondità eterna ed infinita.

2. – Senza voler ritornare su ciò che abbiamo già scritto sulla nostra adozione, dobbiamo però risolvere una doppia questione che è molto strettamente legata ad essa per essere totalmente scartata. Si chiede quindi, in primo luogo, se la relazione di figlio adottivo con Dio Padre sia così propria degli esseri dotati di intelligenza, e che nessun’altra creatura al di sotto di loro possa condividerne la gloria. Per quanto la cosa possa sembrare incredibile, ci sono state alcune menti sottili all’eccesso che un tempo ammettevano la possibilità di una tale comunicazione. Tali opinioni meritano solo il silenzio; e non le avrei richiamato qui da un oblio fin troppo legittimo, se non mi fosse sembrato che fornissero materia per un utile chiarimento. Ecco, in sostanza, la ragione fondamentale su cui hanno costruito la loro strana ipotesi. Il principio interiore dell’adozione, dicevano, non è altro che la grazia, cioè una qualità puramente accidentale, con la sostanza come soggetto e supporto. Chi potrebbe dunque impedire a Dio Onnipotente di infondere una realtà simile in sostanze meno nobili della nostra, e renderle così partecipi della nostra figliolanza? Senza dubbio esse proverrebbero da un livello inferiore; ma non sappiamo che tutto risponde alla chiamata di Dio, la materia come lo spirito, il nulla come ciò che è? Questo può essere un argomento specioso, ma è un argomento che decade di fronte ad una semplice osservazione. Sì, senza dubbio, la grazia è un accidente; ma questa qualità, la cui funzione propria è di assimilarci al Figlio per natura, non può avere altro soggetto che una sostanza ragionevole, e Dio stesso, con la sua onnipotenza, non la produrrà mai in una natura dove non c’è né ragione né intelligenza, perché la sua potenza non arriva fino all’impossibile. Crederei più facilmente che Dio possa formare un essere intelligente e libero da una pietra che rimane una pietra, che ammettere che Dio abbia il potere di elevare una creatura puramente sensibile alla dignità di un figlio adottato. È perché dovrebbe dare all’uno la ragione, e all’altro, con la ragione, la grazia?  « Tu dici che la natura umana sia buona e meriti l’aiuto di una tale grazia; e io sarei volentieri d’accordo, se questo volesse semplicemente dire che è una natura ragionevole. Sappilo bene, la grazia di Dio non è data né alle pietre, né al legno, né alle bestie: ciò che rende l’anima capace di riceverla è che essa è l’immagine di Dio. » Così parlava S. Agostino, il grande difensore della grazia, a Giuliano di Eclano, discepolo e continuatore di Pelagio (S. Agostino, L. IV, c. Giuliano, c. 3). Cos’è la grazia? Una partecipazione della natura propria di Dio, e quindi un principio che, depositato da Dio nelle anime dei figli che adotta, li rende idonei a possedere l’eredità celeste. È dunque un principio di conoscenza e di amore, poiché Dio stesso si possiede con la conoscenza e con l’amore. Ma non dobbiamo immaginare questo principio soprannaturale come una facoltà completa. Esso trasforma l’anima ragionevole, eleva i suoi poteri ad altezze sconosciute, ma non sostituisce né l’una né gli altri. I nostri poteri naturali non contano nulla nella produzione di atti soprannaturali. Se la grazia santificante e le virtù, suo corteo regale, richiedono la sostanza e le sue potenze native a supporto, le richiedono anche per l’azione: perché il principio completo dell’operazione non è né la grazia né la natura da sola, ma la natura trasformata, vivificata dalla grazia, in una parola, la natura ragionevole divinizzata. Non ego, sed gratia Dei mecum (I Cor., XV, 10,). – Di conseguenza, la grazia che sarebbe in qualsiasi altra sostanza una sostanza spirituale, così come l’erede di Dio che non fosse un essere ragionevole, sono entrambi un non senso. Non importa che la grazia sia un accidente; perché ogni accidente non è adatto ad ogni sostanza, a ciascuno le forme e le qualità che gli sono proprie. Non si possono dare al puro spirito le qualità dei corpi, come l’estensione o la densità; come potrebbe un essere corporeo ricevere forme appartenenti per la loro essenza all’ordine degli spiriti? Concludiamo, dunque, che se tutte le creature ragionevoli non sono adottate dal Padre, poiché non tutte hanno accettato il beneficio della grazia, Egli non può adottare nessuno che non abbia prima dotato del carattere del suo Verbo, l’intellettualità.

3. – La relazione di figli di adozione, che è impossibile trovare al di sotto della creatura ragionevole, non si troverebbe forse al di sopra di essa, cioè nella Persona di Gesù Cristo Nostro Signore, il Verbo fatto carne? Questa è la seconda domanda che dobbiamo esaminare. Sembrerebbe, a prima vista, che essa debba essere risolta con la conferma. Infatti, questo Cristo, figlio di Maria, esiste, come noi, solo per libera volontà del Padre, e questa è la conseguenza naturale dell’unione ipostatica (S. Thom, 3 p., q. 2, a: 12). Egli ha nella sua anima umana quella grazia che ci rende figli: più perfetta, più abbondante, poiché la possiede in pienezza, allo stato di fonte, ma fondamentalmente creata come la nostra. Se dunque la grazia santificante è la forma della nostra adozione, perché il nostro Signore, considerato come uomo, non dovrebbe essere per questo un figlio adottivo del Padre, il primo nella famiglia dell’adozione, come è il primo nel possesso della grazia? – Io lo so, e ogni Cattolico mi risponderà: Gesù Cristo è un uomo, ma quest’uomo è Dio; di conseguenza, poiché l’uomo e Dio si identificano in Lui nell’unità di una stessa Persona, Dio non può essere figlio secondo natura se l’uomo non è come Lui. Così la beata Vergine, avendo generato l’uomo nel suo casto grembo, è diventata veramente e realmente la Madre di Dio; così il Padre, comunicando da tutta l’eternità la sua natura a Colui che porta nel suo seno, è anche il Padre dell’uomo, quando questi ha assunto la nostra natura. La ragione è sempre la stessa: l’unità della Persona, in virtù della quale Dio è uomo e l’uomo è Dio. Con questi principi i Padri, all’inizio del IX secolo, hanno confuso gli eretici che vedevano in Cristo Gesù solo un figlio adottivo come noi, più grande, è vero, perché è il primogenito, ma nella sua filiazione, della nostra stessa natura. Pur professando questo dogma essenziale della nostra fede, chi può vietarci di dire che il Figlio di Dio fatto uomo è al Padre in un doppio rapporto: Figlio secondo natura, poiché ha ricevuto per generazione la divinità del Padre; Figlio per adozione, poiché ha ricevuto per infusione, nella sua natura creata, la grazia, la forma dell’adottato? Certamente, non oserei dare l’infame marchio di eretico a chi pensasse e insegnasse questo. Oltre al fatto che la Santa Chiesa non ha mai condannato direttamente l’opinione che ho appena riportato, chi può vedere per quale profonda differenza differisce dall’errore così giustamente condannato negli Adozionisti, poiché ammette, accanto alla filiazione adottiva e nell’unità della stessa Persona, la filiazione naturale che essi rifiutarono a Cristo Gesù. – Ma, fatta questa riserva, sostengo, appoggiata sull’affermazione unanime dei più grandi maestri, che il titolo di adottivo è esclusivamente proprio delle creature pure, e che non può, in nessuna misura e per qualsiasi motivo, diventare l’attributo del Verbo considerato nella sua carne. Gesù Cristo è il Figlio per natura e può essere solo quello. I Padri, quindi, nella loro lotta contro gli eretici, hanno ripetutamente protestato contro qualsiasi idea di adozione quando si tratti del Figlio eterno di Dio. Ora, tra le ragioni che hanno dato, ce n’è una in particolare che, ripresa dai teologi della Scuola, è di per sé una dimostrazione irrefutabile. È che l’adozione, per sua natura ed essenza, è incompatibile con la filiazione naturale nell’adottato. Chi, poi, ha mai parlato di adottare, non una persona estranea per nascita, ma il proprio figlio, il figlio del proprio grembo, o di portare nella casa familiare per libera scelta uno che, per natura, è già lì? (c’era, è vero, nella legislazione romana un caso molto eccezionale in cui un uomo, privato del suo potere di padre, poteva adottare il proprio figlio: ma, per quanto riguarda Dio, il caso sarebbe una chimera assurda). Questa prova assolutamente invincibile si è tentato di attenuarla, ed ecco con quali sottigliezze. Perché, si chiede, il titolo di “adottivo” dovrebbe essere inconciliabile in Nostro Signore Gesù Cristo con la filiazione della natura, dato che vediamo tanti altri attributi, non meno incompatibili in apparenza, allearsi in Lui, nonostante l’unità della sua Persona? Impassibile, soffre; immortale, muore; immutabile per essenza, è come noi soggetto al cambiamento. La diversità delle nature è sufficiente a spiegare questi opposti. Così diremmo che è Figlio per natura e Figlio per adozione, ma da punti di vista diversi: Figlio per natura in virtù della sua generazione eterna, Figlio per adozione in virtù della grazia che lo santifica nella sua umanità. – Questo ragionamento non regge all’esame. Sì, Gesù Cristo può essere allo stesso tempo impassibile e passibile, immortale e mortale, immutabile e mutevole, perché queste attribuzioni sono appropriate prima di tutto alle nature e, solo attraverso esse, alla Persona che le contiene nella sua unità indivisibile. Questo non è più il caso della filiazione, perché è immediatamente e direttamente un attributo della sola Persona. Quando mi dite che Gesù Cristo è sia immortale che mortale, posso ascoltarvi senza difficoltà, perché capisco che avendo due nature, una che è la vita stessa, l’altra soggetta alla mortalità, Egli può allo stesso tempo morire nella prima e vivere nella seconda (“Mortificatus quidem carne, vivens autem Spiritu“, i. e. divinitate, – I Petr., III, 18). Ma, ancora una volta, la filiazione si afferma della Persona e non della natura. Si è mai detto di una natura umana o divina che è nata, che è un figlio o una figlia? Perciò, affermare della Persona di Gesù Cristo che Egli è il Figlio naturale di Dio è dire equivalentemente che non è un figlio estraneo per natura, e ricevuto per grazia; e viceversa, dire che è un Figlio adottivo è negare allo stesso tempo che Egli sia il Figlio di Dio per natura, e di conseguenza negare che Egli sia Dio. I pochi teologi che, come Durand o Scoto, non hanno visto questa conseguenza, possono essere scusati nel loro errore; ma dopo i chiarimenti che la questione ha ricevuto, sarebbe per lo meno avventato seguirli. – Inoltre, non dobbiamo credere che la grazia santificante e le virtù che la accompagnano, poiché non sono in Gesù Cristo il principio e il fondamento dell’adozione, siano qualità senza frutto e senza scopo. Dio non voglia! L’unione personale della natura umana con il Verbo ne conferisce la natura di un Dio; ma formalmente da sola non la divinizza nel suo essere naturale; non le dà quell’elevazione delle facoltà che le rende capaci di produrre connaturalmente atti al di sopra della natura, atti, in una parola, che sono il merito nella via, la gloria nella patria. Questa deiformità, l’anima di Gesù Cristo l’ha dalla grazia, e questa perfezione d’azione, dalle virtù infuse, compagne e seguaci inseparabili della stessa grazia (S. Thom., 3 p., q. 7, a. 1, cum parallel., c, g. de Verit., q. 29, a. 1, ad 1).

4. – Volete sapere ora quale incomparabile onore è per voi avere Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, come vostro padre, e con quale rendimento di grazie un tale beneficio debba essere ripagato? Ascoltate San Pietro Crisologo che commenta le prime parole dell’orazione domenicale. « La parola che sto per dire con incredibile timore, che voi stessi non ascolterete e non ripeterete con terrore, fa sì che gli Angeli siano terrorizzati e le Virtù in un santo spavento. Il cielo non può capirlo, né il sole penetrarlo, né la terra può sostenerlo; in una parola, è al di sopra di tutte le creature. Paolo, dopo aver contemplato invisibilmente questo mistero, ce lo rivela senza rivelarcelo, quando esclama: Ciò che occhio non ha visto, ciò che orecchio non ha udito, ciò che non è entrato nel cuore dell’uomo, ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano, Dio ce lo ha rivelato per mezzo dello Spirito Santo… (1 Cor. II, 9-10 ), « Padre nostro che siete nei cieli. » Questo è ciò che avevo paura di dire; questo è ciò che la condizione servile delle nature celesti, come quella delle nature terrene, ci proibirebbe persino di sospettare; che si stabilisca improvvisamente tra il cielo e la terra, tra la carne e Dio, un commercio così stretto che Dio diventi uomo, e l’uomo Dio; il Signore uno schiavo, e lo schiavo un figlio; in una parola, che la natura umana e la divinità siano unite in modo ineffabile dal legame di una parentela eterna. Una relazione così meravigliosa che la creatura non sa cosa dovrebbe ammirare di più: che Dio sia sceso fino alla nostra bassezza o che ci abbia innalzato all’eccellenza della sua divinità. « Padre nostro che siete nei cieli. Non siete stupiti? Dal seno di Dio Padre, Cristo chiama una creatura con il nome di madre; e l’uomo, dal seno della Chiesa sua madre, chiama Dio suo Padre. « Padre nostro che siete nei cieli. Vedi, o uomo, a quali altezze ti ha portato subitamente la grazia, a quali altezze ti ha portato la natura celeste; tu abiti nella carne e sulla terra, e dici, come se non fossi né dell’una né dell’altra: « Padre nostro che siete nei cieli. Spetta dunque a colui che si crede e si confessa figlio di un tale Padre, corrispondere a questa nascita con la sua vita, a questa paternità con i suoi costumi; che attesti con i suoi pensieri e le sue azioni ciò che ha ricevuto dalla natura divina » (S. Petr. Chrysol, serm. 72, in orat. dom. P. L., vol. 52, p. 404. – « Era – dice Bourdaloue a questo proposito – un errore dei pagani, un errore tanto grossolano quanto presuntuoso, immaginare di essere figli degli dei, perché mettevano i loro antenati tra gli dei. Ma questo errore, anche se grossolano, come osserva Agostino, non mancò di ispirar loro sentimenti elevati: perché fu da questo che, confidando nella grandezza e nella presunta divinità della loro origine, intrapresero cose difficili ed eroiche con maggiore audacia, le portarono a termine con maggiore risoluzione, e le portarono a termine con maggiore felicità: Et sic animus, divinæ stirpis fiduciam gerens, res magnas præsumebat audacius, agebat vehementius, el implebat ipsa felicitate securius. Non sembra che tra le tenebre del paganesimo ci fosse già qualche raggio o inizio di Cristianesimo; e non sembra che la Provvidenza, che sa trarre profitto dal male stesso, si stesse servendo degli errori degli uomini per preparare il mondo alla vera religione? » (2° Sermone sull’Annunciazione della Vergine, 3 punto).

LA GRAZIA E LA GLORIA (24)

LA FESTA DELL’ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE (2022)

14 Settembre.

La festa dell’Esaltazione della S. Croce.

— Corre oggi l’anniversario delle consacrazioni delle Basiliche Costantiniane — erette al Calvario e sul S. Sepolcro: — insieme si commemora il recupero della S. Croce — rapita quattordici anni innanzi da Cosroe redi Persia — e riconquistata dall’imperatore Eraclio.

Il castigo. — Non tutte le cristianità dell’Impero Bizantino erano esemplari nella pratica delle virtù evangeliche: — perciò non fa meraviglia che Iddio — sotto gli Imperatori Foca ed Eraclio — le abbia severamente flagellate colla guerra « È fu una guerra segnata da sconfitte sopra sconfitte — nella quale il pagano Cosroe potè rapire da Gerusalemme la vera Croce di Gesù Cristo. I peccati si pagano — e dai privati — e dalle Nazioni: quindi i peccatori dovrebbero reputarsi tra i più pericolosi nemici della patria – provocatori come sono dei  castighi divini sopra di essa!

Il perdono. — Ma la Chiesa — sempre buona madre dei popoli – levò supplici a Dio le sue mani, perché gli eserciti imperiali ritrovassero le vie della vittoria: ,e Dio si lasciò placare. — Improvvisamente la fortuna dell’armi si capovolse – ed Eraclio dettò la pace ai Persiani — rivendicando subito la restituzione della S. Croce.  Potenza della preghiera! – e specialmente della preghiera pubblica – collettiva — umile — assidua! — E la S. Croce tornò a Gerusalemme — venerata più che mai dai rinsaviti Cristiani. — Fu ricollocata al Calvario con solennissima pompa — intervenendovi lo stesso vincitore Eraclio. in tutta la sua pompa imperiale.

L’ammonimento significativo. — L’Imperatore — a significare — oltre la sua viva fede — e la sua fervida pietà – anche la sua riconoscenza a Dio per la riportata vittoria — volle egli stesso recare sulle sue spalle la Croce riconquistata — a ricollocarla nel suo Santuario. — Ma, giunto alla porta che mette al Golgotha, ecco che non può più dare neanche un passo avanti, con meraviglia di tutti: — né poté proseguire, sinché — secondo il monito del Patriarca Zaccaria non depose scettro e gemme e corona e manto imperiale – rivestendo il sacco dei penitenti — e ricaricandosi così la Croce. — Badiamo anche noi ad essere coerenti seguaci del Crocifisso: — cioè Cristiani mortificati!

Hymnus

Vexílla Regis

pródeunt;
Fulget Crucis mystérium,
Qua Vita mortem pértulit,
Et morte vitam prótulit.

Quæ, vulneráta lánceæ
Mucróne diro, críminum
Ut nos laváret sórdibus,
Manávit unda et sánguine.

Impléta sunt quæ cóncinit
David fidéli cármine,
Dicéndo natiónibus:
Regnávit a ligno Deus.

Arbor decóra et fúlgida,
Ornáta Régis púrpura,
Elécta digno stípite
Tam sancta membra tángere.

Beáta, cujus brácchiis
Prétium pepéndit sǽculi,
Statéra facta córporis,
Tulítque prædam tártari.

Sequens stropha dicitur flexis genibus.

O Crux, ave, spes única,
In hac triúmphi glória
Piis adáuge grátiam,
Reísque dele crímina.

Te, fons salútis, Trínitas,
Colláudet omnis spíritus:
Quibus Crucis victóriam
Largíris, adde prǽmium.
Amen.

V. Hoc signum Crucis erit in cælo.
R. Cum Dóminus ad judicándum vénerit.

Pange, lingua, gloriósi

Láuream certáminis,
Et super Crucis trophǽo
Dic triúmphum nóbilem,
Quáliter Redémptor orbis
Immolátus vícerit.

De paréntis protoplásti
Fraude Factor cóndolens,
Quando pomi noxiális
In necem morsu ruit,
Ipse lignum tunc notávit,
Damna ligni ut sólveret.

Hoc opus nostræ salútis
Ordo depopóscerat,
Multifórmis proditóris
Ars ut artem fálleret,
Et medélam ferret inde,
Hostis unde lǽserat.

Quando venit ergo sacri
Plenitúdo témporis,
Missus est ab arce Patris
Natus, orbis Cónditor,
Atque ventre virgináli
Carne amíctus pródiit.

Vagit infans inter arcta
Cónditus præsépia:
Membra pannis involúta
Virgo Mater álligat:
Et Dei manus pedésque
Stricta cingit fáscia.

Sempitérna sit beátæ
Trinitáti glória,
Æqua Patri, Filióque;
Par decus Paráclito:
Uníus Triníque nomen
Laudet univérsitas.
Amen.

S. Leone Papa:

Sermone 8 sulla Passione del Signore, dopo la metà

Dopo l’esaltazione di Cristo sulla Croce, o dilettissimi, il vostro spirito non si rappresenti soltanto l’immagine che colpì la vista degli empi, ai quali dice Mosè: «La tua vita sarà sospesa dinanzi ai tuoi occhi, e sarai in timore notte e giorno, e non crederai alla tua vita » (Deut. XXVIII, 66). Infatti essi davanti al Signore crocifisso non potevano scorgere in lui che il loro delitto, ed avevano non il timore che giustifica mediante la vera fede, ma quello che tortura una coscienza colpevole. Ma la nostra intelligenza, illuminata dallo spirito di verità, abbracci con cuore puro e libero la Croce, la cui gloria risplende in cielo e in terra; e coll’acume interno penetri il mistero che il Signore, parlando della sua prossima passione, annunziò così: «Adesso si fa il giudizio di questo mondo, adesso il principe di questo mondo sarà cacciato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutto a me » (Joann. XII,21). – O virtù ammirabile della Croce! o gloria ineffabile della Passione, in cui è e il tribunale del Signore, e il giudizio del mondo, e la potenza del Crocifisso! Sì, o Signore, attirasti tutto a te, allorché, «dopo aver steso tutto il giorno le tue mani a un popolo incredulo e ribelle » (Is. LXV,2), l’universo intero comprese che doveva rendere omaggio alla tua maestà. Attirasti, Signore. tutto a te, allorché tutti gli elementi non ebbero che una voce sola per esecrare il misfatto dei Giudei; allorché oscuratisi gli astri del cielo e il giorno cangiatosi in notte, anche la terra fu scossa da scosse insolite, e la creazione intera si rifiutò di servire agli empi. Attirasti, Signore, tutto a te, perché squarciatosi il velo del tempio, il Santo dei santi rigettò gl’indegni pontefici, per mostrare che la figura si trasformava in realtà, la profezia in dichiarazioni manifeste, la legge nel Vangelo. – Attirasti, Signore, tutto a te, affinché la pietà di tutte le nazioni che sono sulla terra celebrasse, come un mistero pieno di realtà e senza alcun velo, quanto era nascosto nel solo tempio della Giudea, sotto l’ombre delle figure. Difatti ora e l’ordine dei leviti è più splendido, e la dignità dei sacerdoti è più grande, e l’unzione che consacra i pontefici contiene maggior santità: perché la tua Croce è la sorgente d’ogni benedizione, il principio d’ogni grazia; essa fa passare i credenti dalla debolezza alla forza, dall’obbrobrio alla gloria, dalla morte alla vita. E adesso che i diversi sacrifici d’animali carnali sono cessati, la sola oblazione del corpo e sangue tuo rimpiazza tutte le diverse vittime che la rappresentavano: ché tu sei il vero «Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo » (Joann. 1,29); e così tutti i misteri si compiono talmente in te, che, come tutte le ostie che ti sono offerte non fanno che un solo sacrificio, così tutte le nazioni della terra non fanno che un solo regno.

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (21)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (21)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO NONO (1)

Elevazione alla Trinità

(Commento)

« O miei Tre, mio Tutto, mia Beatitudine,

Solitudine infinita, Immensità

in cui mi perdo… ».

O mio Dio, Trinità che adoro…

Guardare un’anima che prega, è sorprenderla nel momento della sua maggiore intimità con Dio, come il Sacerdote all’altare. L’orazione è la sintesi di un’anima: quale la preghiera, tale la vita. Tutto il genio dottrinale di un san Tommaso d’Aquino rifulge nel suo « Ufficio del santissimo Sacramento ». Lo stesso Verbo Incarnato non si sottrae a questa legge della nostra psicologia umana; e la sua « preghiera sacerdotale » è la suprema rivelazione del suo Cuore: Cuore di Cristo. Nulla manifesta meglio il suo amore per il Padre e la sua carità redentrice per i fratelli, quanto il movimento circolare di quest’Anima che parla al Padre della sua gloria e della consumazione di tutti nell’Unità: vi è tutto il suo mistero di « Cristo ». Così è della preghiera dei Santi. Suor Elisabetta della Trinità non ha scritto, come la santa Madre Teresa, un trattato sull’orazione; ma la sublime preghiera: « O mio Dio, Trinità che adoro… », ci dà la testimonianza più ricca sulla maniera tutta Carmelitana di concepire la vita di orazione: una comunione incessante con la Trinità. « La preghiera non consiste in una determinata quantità di orazioni vocali che ci si impone di recitare ogni giorno; ma in un’elevazione dell’anima a Dio, attraverso tutte le cose, la quale ci stabilisce in una specie di comunione continua con la Trinità Santa, semplicemente facendo tutto sotto il suo sguardo » (Lettera a G. de G… – Febbraio 1905.). Composta d’un sol getto, senza la minima correzione, in un giorno in cui tutto il Carmelo rinnovava i voti, questa preghiera è la sintesi della vita interiore di suor Elisabetta. I tratti essenziali della sua anima vi si ritrovano perfettamente delineati: la grande devozione della sua vita: la Trinità — la forma propria della sua vita di orazione: l’adorazione — la sua tenerezza appassionata per il Cristo « amato fino a morirne, amato sulla croce — infine lo slancio irresistibile verso i « Tre », « sua beatitudine, suo tutto, solitudine infinita in cui l’anima si smarrisce ». Non vi è nominata la Madonna, ma Essa c’è, lo si sente dalla stessa data autografa: novembre 1904, festa della Presentazione. Vi manca soltanto — e questo è da notare — l’eco dell’ascesa suprema: gli ampi orizzonti della sua vita di « lode di gloria » le sono ancora ignoti. Di fronte ad una tale preghiera, una delle più belle del Cristianesimo, abbiamo esitato a lungo, prima di arrischiarci ad un commento, provando qualche cosa di simile all’imbarazzo che deve provare l’esegeta o il teologo in presenza della preghiera sacerdotale di Cristo. Tutti gli umani commenti esegetici o teologici, per quanto sublimi siano, dispereranno per sempre di poter giungere ad esprimere la semplicità tutta divina dell’ultima preghiera di Gesù per l’unità: « Ut unum sint…» (S. Giov. XVII, 21). Ma abbiamo pensato alle tante anime contemplative per le quali questa elevazione alla Trinità è divenuta una delle preghiere più care, e costituisce tutto un programma di vita interiore in cui trovano il segreto dell’oblio di sé. Una Carmelitana ci scriveva: « Ognuna di queste parole mi introduce nell’orazione; è una preghiera che raccoglie la mia anima quanto i più sublimi trattati di mistica ». Avendo studiato molto da vicino, e per degli anni, quest’anima privilegiata, forse il commento che intraprendiamo sarà di qualche utilità per farne penetrare il senso vero e così profondo. Senza volere imporre al movimento di quest’anima essenzialmente contemplativa delle divisioni troppo rigide, mi sembra che si potrebbero distinguere in questa preghiera cinque aspetti principali:

1° – Un primo slancio spontaneo dell’anima verso quella Trinità che è divenuta il tutto della sua vita: « O mio Dio, Trinità che adoro… ».

2° – La descrizione del clima spirituale in cui si muove la sua vita contemplativa al centro dell’anima, in una atmosfera di pace immutabile: «Pacifica l’anima mia… ».

3° – Un movimento di tenerezza appassionata verso il suo Cristo « amato fino a morirne ». Le parole si incalzano, esprimendo, nel ritmo accelerato, l’impeto dei sentimenti un’anima il cui ideale ardentemente vagheggiato è di essere immedesimata con tutti i movimenti dell’anima di Cristo: « O mio Cristo adorato… ».

4° – Poi l’invocazione subitanea e successiva a ciascuna delle Tre Persone divine verso le quali è protesa la sua vita: « O Verbo eterno… O Fuoco divorante… E tu, o Padre… ». Si indugia soprattutto nel Verbo, più accessibile per la Sua Incarnazione ai nostri occhi di carne, con l’anima affascinata da questo « Verbo eterno, Parola del suo Dio ». Lo « Spirito d’amore» pure è invocato, ma perché compia in lei quasi una incarnazione del Verbo, ed essa sia per Lui un prolungamento di umanità nella quale il Padre possa ritrovare il volto di Cristo « in cui ha posto tutte le sue compiacenze ». Cristo è veramente al centro di questa sua preghiera, come tutta la sua vita.

5° – Un grido finale con cui si compie questa invocazione alla Trinità. Il tema dell’inizio: « O mio Dio, Trinità che adoro…» viene ripreso dalla sua anima di artista, ma ripreso con uno sviluppo ampio, con un largo movimento ritmico che trasporta definitivamente l’anima negli abissi della Trinità: « O miei Tre…, io mi abbandono a Voi come una preda!… ».

I.- O mio Dio, Trinità che adoro.

« O mio Dio! ». L’anima sua va dritta, non alle perfezioni divine, ma all’essenza, sorgente di tutti gli attributi; a Dio stesso. « Trinità! ». Non il Dio dei filosofi e dei sapienti, ma il Dio dei Cristiani e dei mistici: Padre, Verbo, Amore. Altre anime saranno più particolarmente attirate verso il Padre, come una santa Caterina da Siena, per esempio; o verso il Figlio quali una santa Geltrude, una santa Margherita Maria; oppure verso lo Spirito Santo; e la Chiesa le legittima tutte, queste forme di preghiera, poiché anch’Essa, nella sua liturgia, si rivolge ora al Padre, ora al Figlio, ora allo Spirito Santo. Il culto è indirizzato alle Persone che, nella Trinità, rimangono infinitamente distinte. Un san Tommaso d’Aquino poi, da vero teologo, rivolgerà particolarmente la sua devozione alla « Trinità nell’unità », raccogliendo in una formula sintetica tutta l’essenza del mistero. Suor Elisabetta della Trinità non è tanto colpita da questo aspetto intimo del mistero in se stesso, quanto invece occupata a scoprirvi il termine beato ed esplicito della sua vita di unione: « La Trinità: ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa paterna donde non dobbiamo uscire mai » («Il paradiso sulla terra » – 1° orazione.). Bisognava sentire con quale accento di tenerezza, premendo le mani sul cuore come su di una presenza amata, ella parlava dei suoi « Tre! »: « Amo tanto questo mistero! È un abisso nel quale mi perdo ». « Che adoro!…». L’adorazione è la forma propria di questa vita di adorazione. Essa ama l’atteggiamento dei beati nella Città eterna, descritto negli ultimi capitoli dell’Apocalisse: « Si prostrano e adorano, gettando palme dinanzi al trono dell’Agnello ». Con questa forma principalmente adoratrice della vita di orazione, quanto siamo lontani da quella moltitudine di anime mendicanti che sembrano non accostarsi a Dio che con la mano tesa per ricevere! Da vera contemplativa che possiede il senso di Dio, ella, prima di tutto, gli rende omaggio in ragione delle di Lui perfezioni senza limite o, secondo la sua formula prediletta, « a causa di Lui stesso ». La sua anima religiosa si esprime con tutta naturalezza nell’atteggiamento che è il più fondamentale dinanzi a Dio: l’adorazione. La preghiera di supplica considera l’indigenza bisognosa di aiuto, il ringraziamento serba uno sguardo sui benefici ricevuti, l’espiazione è unita al ricordo dei peccati commessi; soltanto l’adorazione contempla Dio in se stesso, nell’eccellenza increata della sua Essenza e delle sue Persone. Dinanzi alla gloria del suo Dio, l’anima dimentica tutto: « L’adorazione è l’estasi dell’amore annientato dalla bellezza, dalla forza, dalla grandezza immensa dell’oggetto amato » (Ultimo ritiro – VIII giorno.). « Aiutami a dimenticarmi interamente». Il grande ostacolo della Carmelitana e di ogni anima contemplativa in generale, è il proprio io. « L’amor proprio non muore che un quarto d’ora dopo di noi », diceva sorridendo san Francesco di Sales, e i Santi hanno sferrato le loro più tremende battaglie contro se stessi per la distruzione di questo « io » così tenace. Del resto, non deve meravigliarci che persista così ostinatamente anche nelle grandi anime, anche in quelle da Dio predilette, fino al giorno in cui piaccia al Maestro, per una grazia tutta gratuita, di liberarle per sempre. Suor Elisabetta della Trinità, che Dio aveva destinato per vocazione speciale ad essere modello e patrona delle anime interiori, doveva imparare con la propria esperienza quale sia il grande scoglio di queste anime che Dio vuole profondamente raccolte in se stesse, per vivervi di Lui solo. La sua vita spirituale, per lungo tempo, fu ingombrata dal suo povero « io ». Ne soffriva. Ma nulla riusciva a liberarla. Questa liberazione sovrana dell’anima non può essere che il trionfo della grazia e uno degli effetti supremi dei doni dello Spirito Santo. Non a caso, dunque, ma sotto l’impulso di un pensiero che sempre l’assilla nell’intimo, ella, fin dalla seconda frase di questa preghiera sublime, ricade sopra di sé, ultimo gemito di un « io » che non tarderà a morire; « Aiutami a dimenticarmi interamente ». Tre giorni dopo la composizione di questa preghiera, tornava sullo stesso pensiero: « I Santi, quelli sì, avevano capito la vera scienza; la scienza che ci fa uscir da tutto e principalmente da noi medesimi, per slanciarsi in Dio e non farci vivere che di Lui » (Lettera alla signora A… – 24 novembre 1904). « Interamente…» . Comprendiamolo bene: « dimenticarsi interamente ». Non essere arrestati più da niente nello slancio verso Dio, né dagli avvenimenti esteriori, né dalle vicissitudini interiori… Suor Elisabetta della Trinità mira alto: si tratta di giungere a quella trasformazione in Cristo, che san Paolo esprime con formula ardita: « Non vivo più io, ma Cristo vive in me ». Quale oblio di sé, richiede! Quale morte! Il grande santo scriveva ai Colossesi: «Voi siete morti, e la vostra vita è nascosta con Gesù Cristo in Dio ». Ecco la condizione: bisogna essere morti. Altrimenti, si può essere nascosti in Dio ogni tanto, ma non si vive abitualmente in questo Essere divino; perché la sensibilità e tutto il resto vengono a ricondurci fuori. L’anima non è tutta intera in Dio » (Ultimo ritiro – VI giorno). E ancora: « Mi sono isolata, separata, spogliata di tutto e di me stessa, tanto nell’ordine naturale che nell’ordine soprannaturale, anche riguardo ai doni di Dio; perché un’anima che non sia morta a se stessa, libera del proprio io, sarà per forza, in certi momenti, banale e umana; e ciò non è degno di una figlia di Dio, di una sposa di Cristo, di un tempio. dello Spirito Santo » (Ultimo ritiro – X giorno.).  – « Aiutami! ». Questa sovrana liberazione, nei Santi, è il trionfo supremo della grazia sulla natura. E suor Elisabetta della Trinità implora umilmente: « Aiutami! ». Noi sappiamo che Dio esaudì la preghiera della sua umile serva. Un anno dopo, poteva scrivere ad un’amica: « Vi pare che sia tanto difficile dimenticarsi? Se sapeste … invece, come è semplice! Ve ne confiderò il segreto, il mio segreto: pensate a quel Dio che abita in voi e di cui voi siete tempio. Ce lo dice san Paolo, possiamo dunque crederlo. A poco a poco, l’anima comprende che porta in sé un piccolo cielo dove il Dio d’amore ha stabilito il suo soggiorno, e si abitua a vivere nella sua dolce compagnia. Allora respira in un’atmosfera quasi divina; anzi, non è sulla terra che col corpo, e l’anima sua abita in Colui che è l’Immutabile. Ed eccone anche il metodo: non certo guardando e riguardando la nostra miseria, saremo purificate, ma guardando Colui che è la stessa purezza e santità » (Lettera alla signora A… – 24 novembre 1905.). « Per fissarmi in Te…». L’anima interamente sciolta da se stessa e giunta sulle purissime vette della montagna del Carmelo, entra definitivamente nel ciclo della vita Trinitaria: è stabilita in Dio. Questa intimità con Dio era divenuta così familiare a suor Elisabetta della Trinità, che le sembrava Egli stesse per comparire, da un momento all’altro, nel giro degli ampi chiostri: «Dio in me e io in Lui, oh! è la mia vita ». « Immobile e quieta, come se l’anima mia già fosse nell’eternità ». È uno dei frutti di questa spiritualità contemplativa; rapire l’anima alle sue preoccupazioni meschine ed a se stessa per fissarla in un’atmosfera di eternità. Ogni anima cristiana non dovrebbe considerarsi in esilio sulla terra? poiché la grazia del Battesimo ha deposto in lei il germe di quella esistenza immutabile, ed essa già vive per mezzo della fede, nella luce del Verbo. C’è una parola, nel Credo, ineffabilmente profonda, che esprime bene l’atteggiamento fondamentale di ogni anima di fede di fronte a questo mondo che passa: « Exspecto, attendo la vita eterna ». (Questo presentimento di eternità diveniva sempre più dominante, nell’anima della serva di Dio, a mano a mano che gli anni passavano. L’anima sua abitava già tutta quanta nell’al di là, invisibile, ma tanto vicino. Negli ultimi mesi, si udiva mormorare: « Egli non mi parla più che di eternità ». « Immobile e in pace… ». La pace occupa un posto di capitale importanza in questa dottrina spirituale; suor Elisabetta vi ritorna per tre volte nella sua breve preghiera: « Immobile e in pace come se la mia anima già fosse nell’eternità ». — « Che nulla possa turbare la mia pace ». — « Pacifica l’anima mia ». Questa pace che supera ogni senso non viene dalla terra, ma ha la sua origine in un attributo divino: « Nulla possa farmi uscire da Te, o mio Immutabile ». Sant’Agostino ce ne ha lasciato una definizione celebre: « Pax est tranquillitas ordinis: la tranquillità dell’ordine ». La pace spirituale è un’armonia delle potenze dell’unità, è la fusione dei loro sforzi verso un unico fine. Ha per principio Dio amato in tutto e al di sopra di tutto. I teologi lo sanno che la pace è uno degli effetti interiori della carità; sanno che in una anima tutta ordinata a Dio, regna la pace. Suor Elisabetta della Trinità ce ne ha dato delle spiegazioni conformi: « È fare l’unità in tutto il proprio essere per mezzo del silenzio interiore; è raccogliere tutte le proprie potenze per occuparle nel solo esercizio dell’amore » (Ultimo ritiro – II giorno.). « Se i miei desideri, i miei timori, le mie gioie o i miei dolori, se tutti i movimenti che derivano da queste quattro passioni non sono perfettamente ordinati a Dio, vi sarà del rumore in me e io non avrò la pace. Occorre dunque la quiete, il sonno delle potenze, l’unità dell’essere » (Ultimo ritiro – X giorno.). Allora, l’anima non ha più da temere i contatti esterni né le difficoltà interiori » (Ultimo ritiro – II giorno.), poiché « essendosi, la sua volontà, perduta nella volontà di Dio, le sue inclinazioni, le sue facoltà, non si muovon più che in questo amore e per questo amore» (« Il paradiso sulla terra » – 7° orazione.). « Le cose, lungi dall’esserle un ostacolo, non fanno che radicarla più profondamente nell’amore del suo Maestro » (Ultimo ritiro – VIII giorno). Nell’unità delle potenze tutte per Cristo vigilate e custodite, regna la pace immutabile. « Che ad ogni istante io mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero ». Si rivela, in questa invocazione, l’anima ardente della santa Carmelitana, il suo desiderio di realizzare ogni giorno di più il perché fondamentale di ogni vita religiosa: tendere alla perfezione. Questa preoccupazione amorosa del più perfetto, che santa Teresa aveva fatto oggetto di un voto speciale, si ritrova nella sua figliola ad un grado eminente. È — perché non confessarlo? — l’impressione dominante che risulta in noi dai molti anni di contatto con suor Elisabetta della Trinità, è la rapidità, continuamente accelerata, del suo slancio verso Dio. Una Carmelitana di Digione che era con lei in grande intimità e della quale la serva di Dio diceva: « Noi siamo come le due parti di un’unica dimora », ci ha dichiarato che soprattutto la fine della sua vita durante gli ultimi otto mesi di infermeria fu un’ascesa ammirabile: « Non riuscivamo più a seguirla ». Ed ecco, allora, farsi per noi più luminosa questa frase che esprime così bene la sua avidità di perfezione sovrana: « Che, ad ogni istante, io mi immerga sempre più nella profondità del tuo mistero ». Era fermamente convinta che « ogni minuto ci è dato perché ci radichiamo sempre meglio in Dio, perché più viva sia la somiglianza col nostro divino Modello, più intima l’unione ». E il suo pensiero non cambierà. Nel ritiro che, come un testamento, compose per la sua sorella, riprenderà lo stesso pensiero, e con più ricca concisione, definendo la vita spirituale « una vita eterna incominciata, e in continuo progresso ».

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (22)

LA GRAZIA E LA GLORIA (22)

LA GRAZIA E LA GLORIA (22)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO IV.

L’ABITAZIONE SINGOLARE DI DIO NELL’ANIMA DEI SUOI FIGLI ADOTTIVI. IL FATTO E LA NATURA DI QUESTA ABITAZIONE

CAPITOLO VI.

Due corollari da trarre dai capitoli precedenti; immanenza reciproca tra i figli adottivi e Dio loro Padre; realtà dell’adozione per i giusti vissuti prima di Gesù Cristo.

.I. – La fede ci insegna che il Padre e il suo Figlio unigenito, pur conservando la loro distinzione personale, siano tuttavia uno nell’altro. « Non credete che io sono nel Padre e il Padre in me? » (Joan. XIV, 10-11) Questa è l’immanenza misteriosa espressa tra i teologi con la parola Circuminsessione: il Figlio nel Padre, il Padre nel Figlio, l’uno e l’altro nello Spirito Santo, e lo Spirito Santo in entrambi. Lungi da noi l’interpretazione bassa e volgare che farebbe riposare il dogma di questa immanenza reciproca sull’immensità delle Persone divine. È nel doppio articolo della nostra fede, l’unità della natura divina e la distinzione delle ipostasi, che dobbiamo cercarne la ragione fondamentale. « Io e il Padre mio siamo uno », cioè una sola e medesima cosa (Gv. X, 30). Si veda la distinzione tra il Padre e il Figlio: “Io e il Padre mio“; ma vedi anche l’unità della natura: “noi siamo uno; unum sumus“. Da qui questa conclusione che il Salvatore ha tratto nella continuazione dello stesso discorso: « Il Padre è in me e Io sono nel Padre mio » (id. X, 38). Diciamo meglio: non è una conclusione, ma la stessa verità che Egli afferma in termini diversi: tanto è manifesto che l’unità di natura nel Padre e nel Figlio non si possa spiegare senza la loro reciproca immanenza, e che la stessa immanenza richieda questa stessa unità. – Ecco perché i Padri del IV secolo, nelle loro controversie con gli ariani, provarono la consustanzialità del Figlio con il Padre con queste parole del Maestro: Io sono nel Padre e il Padre è in me. « Dio – diceva il grande Vescovo di Poitiers, Sant’Ilario – Dio non è in una natura estranea alla sua; Egli abita nel suo Figlio, il Figlio generato dal suo seno: Dio in Dio, perché Dio è da Dio » (« Non enim Deus in diversæ atque alienæ a se naturæ habitaculo est, sed in suo atque a se genito manet: Deus in Deo, quia ex Deo Deus est ». – S. Hilar. de Trinit. L V n-40). Da tutta l’eternità, il Padre comunica la sua natura al Figlio, e la sua natura è nel Figlio; o piuttosto è il Figlio, come è inseparabilmente il Padre. La natura del Padre nel Figlio e la natura del Figlio nel Padre, cos’altro è se non il Figlio nel Padre e il Padre nel Figlio, poiché entrambi sono identici alla loro natura? – Dal mistero di immanenza che è in Dio, scendiamo al mistero di immanenza che dobbiamo considerare nella creatura divinizzata dalla grazia. « Chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui. » » (I Joan. IV, 16) (Anche qui, non ci appelleremo all’immensità dell’universo per avere l’intuizione di parole così divine e consolanti. Questo sarebbe, ancora una volta, sminuire il mistero; infatti, l’Apostolo S. Giovanni non affermerebbe del giusto ciò che è universalmente appropriato per ogni creatura. Ancor meno attribuiremo a non so quale ſusione di nature l’esistenza reciproca di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio: poiché immaginare solo una tale mescolanza, sarebbe follia, insegnarla sarebbe blasfemia. Cosa dovremmo fare allora? Ricordarci che Dio per grazia fa entrare i suoi figli adottivi nella partecipazione della sua stessa natura. Se l’Essere soprannaturale che Egli infonde nelle loro anime non è certo la sua stessa natura, è almeno però la più alta espressione creata di essa: tant’è che basta a costituire dei figli che portino l’immagine del Padre celeste, che vivano della Sua vita, dèi da Dio. Perciò, in quanto sono figli, la natura divina e Dio con la sua natura è in loro; e viceversa, essi stessi sono in Dio, poiché la natura di cui partecipano è la natura di Dio. « Filippo – disse Gesù – chi vede me vede il Padre. Come dici allora: mostraci il Padre? Non credete voi che Io sia nel Padre e il Padre in me?… Il Padre, che è in me, compie Egli stesso le opere ». (Joan. XIV, 9-19). Queste parole del Figlio unigenito, l’uomo giusto, figlio di adozione, soprattutto colui in cui le opere corrispondono alla nascita, può, in una certa proporzione, applicarle a se stesso, non certo per glorificare se stesso, ma per esaltare Colui che fa cose così grandi in lui. Chi mi vede conosce Dio, mio Padre, perché io sono uno specchio in cui brilla il volto divino, un ritratto di se stesso che Lui solo ha fatto in me, comunicandomi la sua grazia. Chi vede Dio vede me, se non nella mia individualità, almeno nell’ideale divino che ha contemplato e che si è degnato di riprodurre in me. E quando opero come figlio di Dio, quando non sono io che vivo, ma Gesù Cristo che vive in me, è Lui stesso dentro la mia anima che compie le opere per mezzo del Suo Spirito divino. – Mi si potrebbe forse obiettare che questo ragionamento cerchi di dimostrare che ogni padre è nel figlio e ogni figlio nel padre; la sostanza dell’uno non è più distinta dalla sostanza dell’altro di quanto la grazia, la natura partecipata, sia distinta dalla natura increata da cui deriva. Non voglio tanto meno contraddire questo fatto, poiché l’uso universale qui testimonia la voce del sangue. Quale padre c’è che non si senta ravvivato in suo figlio; e quale figlio c’è che non si senta onorato o ferito in suo padre? Confesso anche che, dal punto di vista della comunità di natura, l’unione di un padre mortale con suo figlio prevalga sull’unione dell’uomo giusto con il suo Dio. Ma, d’altra parte, quest’ultima unione si presenta con un privilegio incomparabile. Nell’ordine della natura, niente è più transitorio nel suo atto, che la comunicazione da parte di un padre a suo figlio della sua stessa sostanza. Ma quando si tratta del Padre che è Dio, l’azione generativa con la quale Egli procrea i figli adottivi, essendo sovranamente intima, è anche sovranamente permanente da parte di Dio, poiché solo il peccato può fermarne gli effetti. – I Padri, per darcene un’idea, la paragonano all’impressione di un sigillo su di una cera essenzialmente morbida. Se si vuole che la figura che si forma su questa cera a sua somiglianza rimanga lì, non si deve togliere il sigillo. È così – essi dicono – che Dio fa i figli che adotta a sua immagine, ma con la differenza che la cera e il sigillo si toccano solo in superficie, mentre Dio penetra e fa penetrare con sé nella cera la sua impronta viva e attiva, come il sigillo divino di cui è la copia. – « Mettimi come un sigillo sul tuo cuore », dice lo sposo alla sposa nel Cantico (Cant. VIII, 6). Cosa voleva egli? Perfezionare la somiglianza e l’unione con un’applicazione sempre più intima di sé. E questo, mi sembra, sia il significato profondo rivelatoci da San Paolo nei testi in cui ci presenta come sigillati (signati = segnati con un sigillo) da Dio nello Spirito Santo (II Cor. 1-22; Ef. I, 13; 1V, 30). – Non vedete Dio doppiamente immanente in noi? Immanente attraverso la grazia creata, l’immagine vivente della sua natura. Immanente per la sua stessa natura, cioè per la grazia increata, poiché l’una è inseparabile dall’altra, come l’impronta del sigillo che la forma e la conserva. Egli segue la partecipazione della sua natura con la sua essenza; la segue con il suo amore: infatti, secondo la bella parola di S. Dionigi l’Areopagita: « Amor divinus est extasim ſaciens, l’amore di Dio è estatico » (S. Dionigi. Ar. de div. Nom, 6. IV, § 13), come se Dio, in forza di questo amore, uscisse in qualche modo da se stesso verso l’oggetto delle sue compiacenze divine e si donasse a lui. – Abbiamo detto a lungo su quali basi e in che modo abbiamo Dio in noi. Anche se abbiamo avuto occasione di mostrare più di una volta come siamo in Lui, è ancora necessario mettere questa verità in una luce maggiore. Non c’è bisogno di lunghe considerazioni o di nuovi principi. Ripercorriamo semplicemente nella nostra mente ciò che Dio fa per i suoi figli e come li ami. « Dio non è lontano da ciascuno di noi, perché in Lui abbiamo vita, movimento ed essere » (Act. XVII, 28-28). – L’Apostolo, quando parlava così, si poneva soprattutto dal punto di vista dell’ordine naturale. Quanto più vere appariranno queste stesse parole se applicate all’ordine della grazia! – Sì, siamo in Dio: perché in quest’ordine Dio, Dio solo, non solo è la prima causa efficiente dei suoi doni, ma non c’è, né può esserci, nessun’altra causa principale con Lui. Se Egli si degna di impiegare le creature nell’opera della nostra santificazione, è come degli strumenti che da soli non hanno alcuna proporzione con l’effetto da produrre. Noi siamo in Dio: perché in quest’ordine Egli ci avvolge da ogni parte e nella nostra interezza, sostanza, facoltà spirituali, corpo medesimo; ci avvolge, io dico, e mille e mille altri con noi, nell’unità della stessa famiglia adottiva. Noi siamo in Dio, immersi e riscaldati nel suo cuore, perché Egli ci ama come suoi figli adottivi, come amici, come altri se stesso, fatti a sua immagine, generati dal suo seno paterno e vivi della sua vita. Noi siamo in Dio; perché se l’Apostolo San Paolo, nel suo amore per i fedeli di Corinto, poteva scrivere loro: « Vi porto nel mio cuore, in vita e in morte: o Corinzi il mio cuore si è dilatato per ricevervi » (II Cor., VIII, 3; VI, 11-12.), come potremmo essere allo stretto nel cuore del nostro grande Dio? Noi siamo in Dio: poiché Egli ci circonda con la sua potenza per proteggerci; con la sua infinita saggezza per dirigerci; con la sua misericordiosa bontà per inondarci di ineffabili benefici, mentre aspettiamo che ci porti nella sua eterna beatitudine che è Lui stesso, “intra in gaudium Domini tui“. (Matt. XXV. 23). Noi siamo in Dio: infatti, se lo amiamo come figli, questo amore ci condurrà naturalmente a Lui, poiché l’amore è estatico, cioè lega intimamente al suo oggetto sia i pensieri che i cuori di coloro che possiede (S. Thom. 1. 2, q. 28, a. 2 e. 3). – Questa mutua immanenza dei figli adottivi in Dio loro Padre, e del Padre nei figli, è il benedetto frutto millenario della preghiera del Figlio unigenito: « Come tu, Padre mio, sei in me e io in te, siano essi consumati in uno » (Gv. XVII. 21-23). E ancora: « Padre mio, voglio che là dove sono Io, siano con me anche quelli che Tu mi hai dato, perché vedano la gloria che Tu mi hai dato » (Ibib. 24). Ora, la dimora del Figlio è il seno del Padre (Gv. I, 18). – San Bernardo è ammirevole quando parla dell’immanenza reciproca che nasce dall’amore di Dio per la sua creatura e della creatura per il suo Dio. Dopo aver ricordato il famoso testo in cui Nostro Signore dice ai Giudei: « Io e il Padre mio siamo una cosa sola (unum) » (Gv. X, 30), continua in questi termini: « Poiché il Padre è nel Figlio e il Figlio nel Padre » nulla manca alla loro unità; essi sono veramente e perfettamente uno. L’anima, dunque, per la quale è bene aderire al Signore (Ps. LXXII, 28), non si lusinghi di essere perfettamente unita a Lui, finché non abbia sentito che inabiti in essa e che essa stessa abita in Lui. Non che essa sia allora una cosa sola con Dio, come il Padre e il Figlio sono una cosa sola, sebbene aderire a Dio sia essere un solo spirito con Lui (1 Cor. VI. 17). Questo l’ho letto, ma quello non l’ho mai letto. Io non parlo di me stesso, che non sono niente; ma nessuno in cielo o in terra, a meno che non sia un pazzo, oserebbe applicare a se stesso questa parola del Figlio unigenito: Io e il Padre siamo una cosa sola. – Eppure io, uomo fatto di polvere e di cenere, basandomi sull’autorità della Scrittura, non temo di dichiararmi un solo spirito con Dio; sì, lo dirò, se per segni certi so di aderire a Dio, come uno di quelli che, per la carità, dimorano in Dio e in cui Dio dimora… perché è di questa unione che sta scritto: « Chi aderisce a Dio è un solo spirito con Dio. » Che dunque? Il Figlio unigenito dice: « Io sono nel Padre e il Padre è in me » (Gv. XIV, 11), e noi siamo uno; e l’uomo a sua volta dice: « Io sono in Dio e Dio è in me, e noi siamo un solo spirito » (I Cor. VI, 17). – San Bernardo spiega poi magistralmente ciò che distingue la doppia immanenza: l’una fondata sull’unità della natura, l’altra sulla comunione delle volontà e dei cuori. Continua, parlando della seconda: « unione felice, se l’hai sperimentata, nulla, se la confronti con la prima. Lo sapeva per esperienza, colui che gridava: « È bene per me aderire a Dio » (Salmo, LXXII. 28). Sì, è buono, che si aderisca a Lui con tutto il cuore. Chi allora aderisce perfettamente a Dio? Colui che, dimorando in Dio, perché è amato da Dio, attira Dio in sé con un amore reciproco. Perciò, poiché l’uomo e Dio sono in ogni modo attaccati l’uno all’altro; poiché un amore reciproco e il più intimo, li fa passare, per così dire, l’uno nel grembo dell’altro, come si può dubitare che Dio sia nell’uomo e l’uomo in Dio?» (« Quis est qui perfecte adhæret Deo, nisi qui in Deo manens, tanquam dilectus à Deo, Deum nihilominus in se traxit vicissim diligendo. Ergo eum undique inhærent sibi homo et Deus, inhærent autem undique intima mutuaque dilectione, inviscerali alterutrum sibi, per hoc Deum in homine, et hominem in Deo esse haud dubie dixerim. » – S. Bernard. serm,. 71 in Cant. n. 6, 10.).

2. – Dalle considerazioni precedenti emerge una conclusione molto importante: non si può ammettere come assolutamente vera l’opinione che farebbe della missione dello Spirito Santo, o, il che equivale alla stessa cosa, della dimora della Trinità nelle anime, e di conseguenza dell’adozione, il privilegio esclusivo del Nuovo Testamento. Perché o dobbiamo negare la grazia santificante ai giusti che hanno preceduto la consacrazione della nuova legge con la morte del Salvatore, o questi giusti erano essi stessi i templi viventi dello Spirito Santo. È impossibile sfuggire a questo dilemma: perché questa dimora divina è essenzialmente legata al possesso della grazia. Come non c’è e non può esserci alcuna dimora soprannaturale della Trinità in un’anima, se non nella grazia e attraverso la grazia, così la stessa grazia presuppone assolutamente la presenza sostanziale di Dio, sia come suo principio efficiente, sia come termine a cui questa grazia unisce chi la possiede. Non c’è bisogno di ritornare su affermazioni pienamente dimostrate negli ultimi capitoli (L. IV, c. 3 in fine). Inoltre, non ci mancherebbero testimonianze esplicite, se avessimo bisogno di ricorrere ad esse, per rafforzare la nostra conclusione. Ecco, come esempio, un testo di Sant’Agostino che cito tanto più volentieri perché è esso stesso basato sull’autorità delle Scritture. Il grande Vescovo chiede quale significato si debba dare a queste parole dell’evangelista: « Lo Spirito Santo non era ancora stato dato, perché Gesù non era ancora entrato nella sua gloria ». – Cosa intendere con queste parole, se non che ci sarebbe stata, dopo la glorificazione di Cristo, una missione dello Spirito Santo, come quella che non aveva avuto luogo fino ad allora? Certo, lo Spirito Santo era già venuto, ma non in questo modo. Se non fosse stato dato fino a quel momento, che cos’è Colui che ha riempito i Profeti e li ha ispirati con oracoli divini? Non fu forse detto di Giovanni il Battista: « Egli sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre »? Non era forse Zaccaria, suo padre, anche lui pieno di Spirito Santo? Vogliamo negare questo Spirito divino a Maria, quando parla profeticamente del Figlio del suo grembo; a quei due santi vecchi, Anna e Simeone, quando riconoscono la grandezza del Cristo bambino? Non vedo cosa possa essere addotto per invalidare queste testimonianze della Scrittura. Il testo evangelico non ci permette di rispondere che si parli solo dell’operazione dello Spirito Santo per questi giusti, mentre poi a Pentecoste si fece presente con la sua propria sostanza. Come allora – egli continua – lo Spirito non è stato ancora dato, perché Gesù non era ancora glorificato? Perché questo dono o missione dello Spirito Santo doveva avere, nell’avvento promesso, una proprietà mai vista prima. Da nessuna parte, infatti, si legge che gli uomini, alla discesa dello Spirito Santo in loro, parlarono in lingue a loro sconosciute fino ad allora, come si vide nel giorno di Pentecoste » (S. Agostino de Trinit., L. 1, n°29; Cf. S. Leone M., Serm. de Pent. 3, a.1) Così, per S. Agostino la differenza non va cercata nella venuta dello Spirito Santo stesso, ma nella natura dei doni che lo accompagnano e lo manifestano. – Anche se l’opinione che ho riportato è inammissibile in sé, dobbiamo tuttavia riconoscere, dal punto di vista che ci occupa, una doppia prerogativa per la nuova Alleanza. È, prima di tutto, una verità del tutto indubbia che la inabitazione di Dio nelle anime e la missione dello Spirito Santo appartengano al Nuovo Testamento e non all’Antico, se consideriamo l’uno e l’altro in ciò che sono esclusivamente propri. L’antica Legge, da sola, era impotente a produrre la santità interiore che è la prerogativa e la norma dei figli di Dio. Essa generava per la servitù, in servitutem generans; e la sua missione pedagogica era di condurre gli uomini alla legge della grazia, a Cristo, (Galat., III, 24 – VI. 24 « Quamvis nec lex per Moysen data potuerit a quoquam homine regnum mortis auferre, erant amen et legis tempore homines Dei, non sub lege terrente, convincente, puniente, sed Sub gratia delectante, sanaute, tiberante. rant qui dicerent : côr mundum crea in me, Deus, et Spiritum rectum innova in visceribus meis, et Spiritu principali confirma me, et Spiritum sanctux tuum ne auferas à me… Neque enim qui nobis ista fideli dilectione prophetare potuerunt, eorum ipsi participes non fuerant.….. et illi per gratiam D. N. Jesu Christi Salvi facti Sunt, non per legem Moysi, per qua non sanatio sed cognitio facta est peccati. Nunc autem sine lege justitia Dei manifestata est. Si ergo nunc manifestata est, etiam tunc erat, sed occulta ». S. August., de Pecc. orig. cont. Pelag., n. 29). Se essi parteciparono, come noi, alla filiazione divina, è perché il Sangue della nuova alleanza che doveva scorrere un giorno, sul Calvario, si rifletteva in qualche modo sui credenti delle età precedenti per renderli, in anticipo, altrettanti Cristiani (August, Retract. I, c. 13). – Inoltre, per quanto abbondante possa essere stata l’effusione della grazia e dello Spirito Santo in alcuni dei giusti, poiché tuttavia, il prezzo della salvezza nostra non era ancora stato pagato; poiché Dio stava elargendo, come a credito, i benefici soprannaturali che dovevano essere acquistati dal sangue del Redentore; poiché  i nostri Sacramenti, queste fontane della grazia, non la versavano a fiotti; in una parola, poiché l’economia dei figli non aveva ancora sostituito quella degli schiavi della Legge, Dio versava comunemente la sua grazia con più parsimonia nei cuori. Ora, poiché l’inabitazione divina è commisurata alla grazia, ne consegue naturalmente anche che l’unione dello Spirito Santo con le anime dovesse essere, in generale, più rara e meno perfetta di quanto sia diventata sotto la nuova Legge. C’è ancora un’altra causa di inferiorità per i tempi che precedettero il Sacrificio cruento compiuto sul Calvario e la fondazione della Chiesa. È che la dimora di Dio nelle anime si presenta nel Cristianesimo con caratteristiche sconosciute ai tempi antichi. Da tempo immemorabile, l’uomo in stato di grazia è il tempio di Dio; ma chi può dire quanto più nobile e sacro sia diventato questo tempio da quando l’eterno Figlio di Dio ne abbia fatto la dedicazione con l’attuale aspersione del suo sangue divino? – Voi avete in voi la carità: siete per questo stesso fatto un tempio, e questo vi è comune con tutti i giusti; ma di quale maestà, di quali privilegi non si arricchisce questo tempio, incorporato com’è dal Battesimo nel tempio vivente che è l’umanità di Cristo; consacrato dall’olio santo nella Cresima; santificato nell’Eucaristia dalla carne stessa di Cristo, di cui diventa il tabernacolo; dedicato dall’Ordine a funzioni così sublimi che sarebbero l’invidia degli Angeli? – Ecco il tempio della nuova Alleanza, e la singolare dignità che ci autorizza a dire che la grazia dell’inabitazione divina è, in una maniera ed in una misura speciale, per i Santi e per il tempo della legge di Cristo, sebbene nella sostanza essa appartenga a tutti i Santi come a tutti i tempi (Cfr. Franzelin, de Deo trino, thes. 48; S, Thom. 1. p, q. 43, to. 6 ad 1; I D. 15, q. 5 a. 2.). Ora, quello che abbiamo detto sulla grazia e sul tempio deve essere inteso per adozione, poiché la qualità dei figli è proporzionata allo splendore dell’una e all’abbondanza dell’altra (Pur essendo in verità figli di Dio, aspettiamo l’adozione – Rom. VIII, 23 -, perché gemiamo in esilio, lontani dalla dimora e dall’eredità del Padre. Come noi non siamo ancora figli se paragonati ai beati abitanti del cielo, così i giusti vissuti prima di Cristo, per i quali il cielo era chiuso, possono essere chiamati servi e non figli, se paragonati a noi). – Tutta questa dottrina potrebbe essere confermata dall’autorità di mille testimonianze oltre a quelle già riportate (Cfr. ad esempio S. Leon. M., Serm. di Pent. 2, c. 3; 3, c. 1. S. Thom. 1 p. q. 95 a, 1, ad 2). Ma ne voglio aggiungere solo una, quella di Leone XIII, nella sua lettera Enciclica sullo Spirito Santo, dove è esposto con mirabile chiarezza. (« È verissimo che anche nei giusti vissuti prima di Cristo vi fu lo Spirito Santo con la grazia, come leggiamo dei profeti, di Zaccaria, del Battista, di Simeone e di Anna, giacché non fu nella pentecoste che lo Spirito Santo incominciò ad abitare nei Santi la prima volta, in quel dì accrebbe i suoi doni, mostrandosi più ricco, più effuso. (Leo M.. hom. 3 de Pentec.).Erano sì figli di Dio anch’essi, ma rimanevano ancora nella condizione di servi, perché anche il figlio « non differisce dal servo, finché è sotto tutela » (Gal. IV,1-2); e poi mentre quelli furono giustificati in previsione dei meriti di Cristo, dopo la sua venuta molto più abbondante è stata la diffusione dello Spirito Santo nelle anime, come avviene che la mercé vince in prezzo la caparra e la verità supera immensamente la figura. La qual cosa è espressa da san Giovanni là dove dice: « Non era ancora stato dato lo Spirito Santo, perché Gesù non era stato ancora glorificato » (Gv. VII, 39); ma non appena Cristo, “ascendendo al cielo”, ebbe preso possesso del suo regno, conquistato con tanti patimenti, subito ne « dischiuse con divina munificenza i tesori, spargendo sugli uomini i doni dello Spirito Santo » (Ef. IV, 8); non già che prima non fosse stato mandato lo Spirito Santo, ma certo non era stato donato come fu dopo la glorificazione di Cristo. La natura umana è essenzialmente serva di Dio: “La creatura è serva, noi per natura siamo servi di Dio“;anzi, infetta dall’antico peccato, la nostra natura cadde tanto in basso che noi divenimmo odiosi a Dio: « Eravamo per natura figli d’ira » (Ef. II, 3). E non vi era forza che bastasse a rialzarci da tanta caduta, a riscattarci dall’eterna rovina. Ma quel Dio, che ci aveva creati, si mosse a pietà, e per mezzo del suo Unigenito sollevava l’uomo ad un grado di nobiltà maggiore di quella donde era precipitato. (Aug. De. Trinit., L. IV, x. 20) » Encycl. Leonis XIII, Divinum illud munus 1897).

LA GRAZIA E LA GLORIA (23)

FESTA DEL SS. NOME DI MARIA (2022)

FESTA DEL SS. NOME DI MARIA (2022)

Doppio magg. – Paramenti bianco

Questa festa fu istituita da Innocenzo XI in ricordo della vittoria riportata contro i Turchi sotto le mura di Vienna il 13 settembre 1683. La Messa esalta la grandezza e la potenza el Nome di Maria, al quale anche i grandi della terra chiedono aiuto e protezione (Intr. – Oraz.). Perfino l’Arcangelo Gabriele pronunziò questio nome con sommo rispetto e venerazione (Vang. – Offert.). Tu pure saluta ed invoca Maria in ogni bisogno della tua vita; parla spesso di Ella che ha promesso la vita eterna a chi illustrerà il suo Nome (Epist.)

[A, Mastrorigo: Messale romano quotidiano. Vicenza – Casa editrice Favero, 1953]

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

 V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

… Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XLIV:13;15-16
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

Ps XLIV: 2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea Regi.

V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sǽcula sæculórum. Amen.

Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

[I ricchi del popolo implorano il tuo volto. Dal re sono introdotte le vergini con lei: le sue compagne ti sono portate con festevole esultanza.

Vibra nel mio cuore un ispirato pensiero, mentre al Sovrano canto il mio poema.

V. Gloria al Padre, e al Figlio, e allo Spirito Santo.
R. Come era nel principio e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.

I ricchi del popolo implorano il tuo volto. Dal re sono introdotte le vergini con lei: le sue compagne ti sono portate con festevole esultanza].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Orémus.

Concéde, quǽsumus, omnípotens Deus: ut fidéles tui, qui sub sanctíssimæ Vírginis Maríæ Nómine et protectióne lætántur; ejus pia intercessióne a cunctis malis liberéntur in terris, et ad gáudia ætérna perveníre mereántur in cœlis.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

[Concedi benigno, o Dio onnipotente, che i tuoi fedeli, che si rallegrano del Nome e della protezione della Vergine Maria, per la sua protezione, siano liberati da ogni male in terra e meritino di pervenire ai gaudi eterni in cielo.]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli 24:23-31
Ego quasi vitis fructificávi suavitátem odóris: et flores mei fructus honóris et honestátis. Ego mater pulchræ dilectiónis et timóris et agnitiónis et sanctæ spei. In me grátia omnis viæ et veritátis: in me omnis spes vitæ et virtútis. Transíte ad me, omnes qui concupíscitis me, et a generatiónibus meis implémini. Spíritus enim meus super mel dulcis, et heréditas mea super mel et favum. Memória mea in generatiónes sæculórum. Qui edunt me, adhuc esúrient: et qui bibunt me, adhuc sítient. Qui audit me, non confundétur: et qui operántur in me, non peccábunt. Qui elúcidant me, vitam ætérnam habébunt.
R. Deo grátias.

[Come una vite, io produssi pàmpini di odore soave, e i miei fiori diedero frutti di gloria e di ricchezza. Io sono la madre del bell’amore, del timore, della conoscenza e della santa speranza. In me si trova ogni grazia di dottrina e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù. Venite a me, voi tutti che mi desiderate, e dei miei frutti saziatevi. Poiché il mio spirito è più dolce del miele, e la mia eredità più dolce di un favo di miele. Il mio ricordo rimarrà per volger di secoli. Chi mangia di me, avrà ancor fame; chi beve di me, avrà ancor sete. Chi mi ascolta, non patirà vergogna; chi agisce con me, non peccherà; chi mi fa conoscere, avrà la vita eterna].

Graduale

Benedícta et venerábilis es, Virgo María: quæ sine tactu pudóris invénta es Mater Salvatóris.
V. Virgo, Dei Génitrix, quem totus non capit orbis, in tua se clausit víscera factus homo. Allelúja, allelúja.
V. Post partum, Virgo, invioláta permansísti: Dei Génitrix, intercéde pro nobis. Allelúja.

[Tu sei benedetta e venerabile, o Vergine Maria, che senza offesa del pudore sei diventata la Madre del Salvatore.
V. O Vergine Madre di Dio, nel tuo seno, fattosi uomo, si rinchiuse Colui che l’universo non può contenere. Allelúia, allelúia.
V. O Vergine, anche dopo il parto tu rimanesti inviolata; o Madre di Dio, prega per noi. Alleluia].

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam.
R. Glória tibi, Dómine.
Luc 1:26-38
In illo témpore: Missus est Angelus Gábriel a Deo in civitátem Galilææ, cui nomen Názareth, ad Vírginem desponsátam viro, cui nomen erat Joseph, de domo David, et nomen Vírginis María. Et ingréssus Angelus ad eam, dixit: Ave, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus. Quæ cum audísset, turbáta est in sermóne ejus: et cogitábat, qualis esset ista salutátio. Et ait Angelus ei: Ne tímeas, María, invenísti enim grátiam apud Deum: ecce, concípies in útero et páries fílium, et vocábis nomen ejus Jesum. Hic erit magnus, et Fílius Altíssimi vocábitur, et dabit illi Dóminus Deus sedem David, patris ejus: et regnábit in domo Jacob in ætérnum, et regni ejus non erit finis. Dixit autem María ad Angelum: Quómodo fiet istud, quóniam virum non cognósco? Et respóndens Angelus, dixit ei: Spíritus Sanctus supervéniet in te, et virtus Altíssimi obumbrábit tibi. Ideóque et quod nascétur ex te Sanctum, vocábitur Fílius Dei. Et ecce, Elisabeth, cognáta tua, et ipsa concépit fílium in senectúte sua: et hic mensis sextus est illi, quæ vocátur stérilis: quia non erit impossíbile apud Deum omne verbum. Dixit autem María: Ecce ancílla Dómini, fiat mihi secúndum verbum tuum.

[In quel tempo, l’angelo Gabriele fu inviato da Dio in una città della Galilea, di nome Nazareth, ad una vergine sposa di un uomo di nome Giuseppe, della stirpe di Davide; e il nome della vergine era Maria. L’angelo, entrando da lei, disse: «Ave, piena di grazia; il Signore è con te; tu sei benedetta fra le donne». Mentre l’udiva, fu turbata alle sue parole, e si domandava cosa significasse quel saluto. E l’angelo le disse: «Non temere, Maria, poiché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai nel tuo seno e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù. Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre: e regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». L ‘angelo le rispose, dicendo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’ Altissimo ti coprirà della sua ombra. Per questo il Santo, che nascerà da te, sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anch’essa un figlio nella sua vecchiaia ed è già al sesto mese, lei che era detta sterile: poiché niente è impossibile a Dio ». Allora Maria disse: « Ecco la serva del Signore: sia fatto a me secondo la tua parola ».

Omelia

(Otto Hophan: MARIA; Trad. G. Scattolon, Imprim.Treviso 1953. Marietti ed. Torino, 1955).

Maria

Una colomba candida dall’eternità di Dio spiccò il suo volo nell’angusta vastità dei terreni millenni, lungo il succedersi delle umane generazioni e sopra le profondità dei cuori umani, la colomba volò e volò e, come quella di Noè, cercò una terra risparmiata dai flutti ed un ramo di olivo verdeggiante; non riposò nel suo volo, finché non li ebbe trovati tutti e due. La candida colomba è lo Spirito Santo di Dio, il ramo di olivo verdeggiante su terra non tocca è Maria. Maria! Il suo nome ci è familiare come il nome di mamma nostra e come le campane della patria e come le candide vette dei nostri monti, che in maestà salutano le sottostanti vallate. Maria! Mille volte abbiam ripetuto questo nome nella preghiera, nel canto, nel pianto, nei giorni lieti e tristi. Mille donne prendono nome dalla Benedetta. Nessun nome fra il popolo cattolico torna più frequente e più amato; esso intesse fili d’oro anche intorno alla più semplice donnetta. Maria! Nell’oscurità della vita e della morte voglio appoggiarmi a questo nome; esso è la promettente aurora, che annunzia il sorgere del sole, Gesù, nel Vangelo e nell’anima. Ti saluto, o Maria! Una folta edera di interpretazioni — sino a settanta! — si è attorcigliata al nome di Maria; quasi tutte però hanno avuto origine più dalla devozione che dalla conoscenza delle lingue. Probabilmente il nome di Maria risale al patrimonio linguistico egiziano: la sorella di Mosè e di Aronne, nata come i due fratelli in Egitto, è l’unica fra tutte le donne ricordate nel Vecchio Testamento che porti il nome Maria. Lo possiamo far derivare dalla radice egiziana “mr = amare” e da “Jam = Jahu (Jahve) ”, così da significare “Mirjam” l’amante di Dio o l’amata da Dio. Quando visse la beatissima Vergine, questo senso originario non era forse più evidente per la cultura del popolo israelitico; in quel tempo era più comodo spiegare “ Maria” con “màròm” = l’augusta, la sublime, interpretazione che corrisponde alle nostre espressioni “Madonna” “Notre Dame”, “Unsere liebe Frau”. «Nomen est omen — ogni denominazione ha la sua importanza », sin dai tempi di Adamo”. Quando i genitori imposero il nome Maria alla piccola Bambina, non sapevano che così esprimevano in modo eccellente la natura e la missione di quella creaturina, poiché non v’è persona che come Maria sia “amata da Dio” e come Lei sia “Donna eccelsa, cara” e Signora dell’umanità. Nel Nuovo Testamento sono ricordate anche altre Marie, ma, a differenza della Madre di Dio, esse non son dette nella versione greca ‘“ Mariam ”, bensì “Maria”, certamente per esplicita intenzione degli Evangelisti, che vollero riservare solo alla Benedetta la forma del nome di Maria, veneranda per antichità, come lo aveva portato la sorella di Mosè. Prevista! Il nome della beatissima Vergine splende nel Vangelo per la primissima volta alla fine di quella lunga serie di generazioni del Vecchio Testamento, che Matteo adduce come “albero genealogico di Gesù Cristo” nel primo capitolo del suo Vangelo: « Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda », e così continua per tre gruppi di quattordici generazioni ciascuno, sino che alla fine rifulge mite il nome di Maria come una luce finale di quella serie di generazioni veterotestamentarie: «…. Giacobbe generò Giuseppe, lo Sposo di Maria, dalla quale nacque Gesù, che è detto il Cristo ». Non è un caso fortuito, ma superiore disposizione che ci si faccia incontro per la prima volta il nome di Maria proprio qui, all’estremo lembo dell’Antico Testamento; i vincoli fra quella storia e Maria sono intimi e vari: quelle generazioni elencate da Matteo, vigorose e principesche alle origini, gravi, stanche, oscurate ed incomprese verso il tramonto, quali vigili che nella notte attendono la prima leggera luce, hanno spiato questa sublime Signora, e questa amata Signora con molte parole e immagini han previsto e predetto. Sino dalle prime pagine della Scrittura risuona Maria quale una canzone da terra lontana. Dopo il primo fallo, quando il Signore Iddio dovette scagliare la prima maledizione contro la sua recente e bella creazione, la maledizione contro il serpente seduttore che aveva tratto in inganno riguardo al paradiso la prima coppia umana, allora, nella tragedia e nel lutto di quell’istante, risuonò pure una prima melodia confortatrice: « Allora il Signore Iddio apostrofò il serpente:… Porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua schiatta e la schiatta di Lei. Essa ti schiaccerà il capo, mentre tu non le ferirai che il calcagno ». La lotta fra l’umanità e il serpente, iniziatasi già nel paradiso, prenderà un giorno una piega favorevole all’umanità, verrà giorno in cui un discendente di quella prima misera donna, che soccombette al serpente, lo vincerà pienamente; non è rivelato ancora chi sarà questo trionfatore del serpente, alla luce però del compimento della profezia sappiamo che è Cristo; Egli stesso infatti disse immediatamente prima della sua passione: « Adesso il principe di questo mondo è cacciato fuori ». Nella passione Cristo ha vinto il demonio e in essa Egli è stato anche “ferito” da quel maligno, e proprio alla lettera, “al calcagno”, ché i suoi piedi sono stati trafitti. Accanto alla Croce sta una donna, Maria; l’inimicizia fra questa “Donna” e il serpente è dura come il diamante, assoluta, implacabile, inestinguibile e non affatto paragonabile con la opposizione compiacente di Eva di fronte al seduttore. Col Figlio suo e grazie al Figlio suo, può anch’Ella affermare: « Il principe di questo mondo non può nulla contro di me »; Lei è la Donna, che è nemica del serpente molto più decisamente che non ogni altra. Giustamente, quindi, i Dottori della Chiesa, sin dai primi tempi, hanno colto in quella antichissima espressione biblica l’intonazione del cantico a Maria. Persino l’antica traduzione latina della Bibbia, la Volgata, legge: « Ella ti schiaccerà la testa »; “Ella” invece di “Egli”, come propriamente si legge nel testo originale; la Chiesa quindi esprime la sua fede nella inesorabile e vittoriosa inimicizia anche di Maria contro il demonio. – Pio IX nella proclamazione della verità dell’Immacolata Concezione riferisce questo testo scritturistico, riguardante Cristo, anche a Maria, scrivendo: « Come Cristo, il mediatore fra Dio e gli uomini… cancellò il chirografo avverso a noi e lo inchiodò alla croce vittoriosamente, così in pari tempo la beatissima Vergine, con Lui e per mezzo di Lui, stritolò con immacolato piede il capo al velenoso serpente, cui La oppone eterna inimicizia, riportandone pieno trionfo ». La prima immagine di Maria delineataci dalla Sacra Scrittura è vigorosa, combattiva: è la Donna in veste di nemica trionfatrice del serpente! Come è consolante per noi questa minaccia contro il nostro più rabbioso nemico! –  Delicata e anche molto più chiara è la seconda immagine di Maria offertaci dal Vecchio Testamento, abbozzata già nell’ottavo secolo prima di Cristo da Isaia, il più grande dei Profeti del popolo eletto: Maria, la Vergine-Madre. « L’Onnipotente stesso vi darà un segno: ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio e gli imporrà il nome di Emmanuele ». Isaia disse queste parole profetiche al re Achaz, che in mentita pietà verso Iddio non voleva nessun “segno” per la sua imminente battaglia con i re nemici, sotto pretesto « di non tentare il Signore »; fu allora che Iddio stesso gli impose un “segno”, un segno inaspettato e singolare: una donna gravida e partoriente che è nello stesso tempo “almàh”, che significa “vergine”. Nel vangelo di Matteo l’Angelo dell’Incarnazione rinvia esplicitamente l’esitante Giuseppe a questo testo profetico di Isaia, che s’adempiva nella sua Sposa: « Giuseppe, figlio di David, non temere di accogliere presso di te Maria, la tua sposa, perché quello che ha concepito è dallo Spirito Santo…”. Tutto questo è avvenuto perché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del Profeta:  “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, e gli si imporrà il nome di Emmanuele, che significa Iddio con noi”».  Maria è la “ha almàh ”, la vergine. Che questo ebraico “ ‘almàh ” risuonasse all’orecchio dell’amabile poeta e monaco Germano lo Zoppo a Reichenau (7 1054), quando diede inizio a un bellissimo Inno in onore di Maria con le parole: « Alma Redemptoris Mater — augusta Madre del Redentore »? Con la profezia di Isaia l’Antico Testamento ha già presagito e predetto di Maria i doni più eccelsi, i suoi due privilegi essenziali, quello più soave e quello più augusto, la verginità e la divina maternità, poiché il Bambinello che Ella partorisce è “Emmanuele — Iddio con noi”. E qualche cos’altro ancora di giocondo si cela nell’aurea profondità di questo vaticinio: quale importanza non avrà Maria per l’umanità, se Iddio stesso, fra tutte le dimostrazioni possibili della sua onnipotenza « nelle profondità o nelle altezze », sceglie qual suo “segno” per l’umanità la Vergine-Madre! Nel Vecchio Testamento ricorre anche una terza parola profetica riferentesi a Maria, un passo del profeta Michea. È breve, eppure corona d’un’ultima aureola l’immagine di Maria delineataci nel Vecchio Testamento. Nella tribolazione del suo popolo Michea grida le profetiche parole: « Ma tu, Betlemme in Efrata, la minima fra i distretti di Giuda, da te Mi uscirà Colui, che sarà il dominatore in Israele. La sua origine è dal principio dei giorni dell’eternità. Per questo Egli li abbandonerà sino al tempo, nel quale la partoriente partorirà. Allora le reliquie de suoi fratelli ritorneranno ai figli di Israele. Egli si stabilirà e dominerà con la potenza del Signore… Abiteranno allora sicuri; Egli starà grande e sarà la salvezza » (Mi. V.,1 seg.). Questo misterioso vaticinio, cui d’intorno aleggia eternità, colloca Maria accanto al Dominatore e Salvatore del mondo; ivi abbiamo un primo sommesso accenno al posto regale di Maria, “la partoriente”, a fianco di Colui che « dominerà con la potenza del Signore ». Nemica del serpente, vergine-madre, genitrice del Dominatore del mondo: con queste poche parole il Vecchio Testamento ha espresso profondi presagi riguardo a Maria. Ma queste tre profezie così parche non dicon tutto quello che l’Antico Testamento annunzia di Lei; dalle venerande torri delle Scritture veterotestamentarie pendono silenti molte campane, che al nome di Maria emettono note soavi. Nel libro dei Proverbi, ad esempio — la Chiesa usa il brano come lettura nella festa della Concezione di Maria e della sua nascita —, leggiamo: « Il Signore mi ebbe con sé dall’inizio delle sue imprese, prima che facesse cosa alcuna, da principio. Ab æterno sono stata costituita, anteriormente alla formazione della terra. Io già era generata e gli oceani non esistevano e le fonti delle acque non scaturivano ancora, né i monti ancora si ergevano sulla loro grave mole; prima dei colli io fui generata… Quando gettava i fondamenti della terra, io Gli ero a fianco plasmatrice… Mi trastullavo dinanzi a Lui continuamente, mi trastullavo nel cerchio della terra, e le mie delizie eran starmene con i figli degli uomini » (VIII, 22-35). Queste parole direttamente convengono al Verbo, alla Sapienza personale di Dio, che fatto uomo pose la sua tenda fra gli uomini; ma frattanto lo Spirito Santo non avrà avuto dinanzi in questo testo, come in un gioco d’amore, anche Maria? – Nella festa della Visitazione di Maria, in questo giorno tutto fragranza e intimità, quando la Benedetta si affrettò a recarsi alla regione montana, il sole sul volto e i fiori e il vento sui capelli inanellati, la Chiesa chiede a prestito al Cantico dei Cantici le parole: « Sorgi, affrettati, amica mia, colomba mia, bella mia, e vieni! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia e se n’è andata; i fiori son riapparsi sulla nostra terra… I vigneti in fiore spandono il loro profumo. Sorgi dunque, amica mia, vieni, bella mia! Colomba nei crepacci della rupe, celata nei dirupi, fammi vedere il tuo viso, fammi sentire la tua voce! Perché soave è la tua voce, delizioso il tuo viso » (II, 8-14). Da capo, si pensa che lo Spirito Santo abbia qui eseguito, secoli prima, una melodia in onore della Beatissima Vergine, anzi tutto il Cantico dei Cantici, infuocata canzone di amore fra fidanzati e sposi, ha avuto il suo sublime compimento in Maria, la Madre e la Sposa dell’eterna Parola. Nella festa della Maternità di Maria la Chiesa coglie la sua lettura nel giardino del libro di Gesù, figlio di Sirach, e noi dobbiamo nuovamente ammirare come queste antiche espressioni adornano in modo tanto appropriato Maria, quasi siano state scelte per Lei già molto tempo prima: « Io uscii dalla bocca dell’Altissimo… Sulle altezze eressi la mia tenda… L’orbita del cielo percorsi io sola… Presso ogni popolo, in ogni tribù cercai una dimora… Allora mi comandò il Creatore di tutte le cose, e Quegli che mi creò mi diede una stabile dimora. Diss’Egli: “Drizza la tua tenda in Giacobbe, in Israele procurati un’eredità”… Come una vite feci sbocciare soavità di profumo e i miei fiori germogliarono vaghi e belli. Io son la madre del bell’amore, del timore e della scienza e della santa speranza. In me è la grazia di ogni via e di ogni verità, in me è tutta la speranza di vita e di virtù. Venite a me, o voi tutti che mi desiderate, e saziatevi de’ miei frutti» (Eccl. XXIV). Questi tratti del Vecchio Testamento e molti altri ancora — incontreremo i significativi versi del Salmo XLIV nell’ultimo capitolo — valgono direttamente per Gesù, che è il sublime termine di tutta la Sacra Scrittura, non per Maria; essi ebbero “ compimento ” in Gesù; non possono quindi queste frasi bibliche essere addotte come prove a se stanti per Maria; pure la loro applicazione alla Vergine non è un pio giochetto soltanto, è invece intimamente fondata. Per questo la Liturgia e i Dottori della Chiesa non hanno esitato ad interpretare molte parole del Vecchio Testamento anche di Maria, il che conferisce ad esse di nuovo un peso particolare. Maria, infatti, sta in stretta armonia col suo Figlio; quando dunque nelle Scritture Sante risuona il potente accordo Gesù, entra nel concerto anche l’arpa deliziosa, Maria. Il Vecchio Testamento quindi, possente preludio del futuro e sublime Redentore, è ricco di segrete armonie mariane, che un cuore amante può ascoltando cogliere facilmente. Possiamo completare la stessa considerazione con un’altra immagine. Vi sono nel Vecchio Testamento numerose pre-figure, tipi, che in santa televisione fan vedere in anticipo persone e avvenimenti. La Sacra Scrittura stessa riguardo a Cristo rinvia ripetutamente ai tipi dell’Antico Testamento; Adamo, Melchisedech, Isacco, il serpente di bronzo, David, Giona e molti altri ancora furono contemplazioni di Cristo da lontano, televisioni di Cristo. – Nel Vecchio Testamento vi son pure televisioni di Maria, che l’attento e pio senso della Chiesa ha percepite per tempo. Maria è il giardino del paradiso, nel quale fiorisce l’albero della vita; Maria è l’arca di Noè, che sta alta sui flutti del diluvio; Maria è la colomba col ramo di olivo, che annunzia al mondo la pace; Maria è la scala di Giacobbe, per la quale Iddio scese in terra; Maria è il roveto ardente, che circondato dal fuoco non brucia; Maria è l’arca dell’alleanza, sulla quale riposa la maestà di Dio; Maria è il santo tabernacolo, nel quale troneggia Iddio stesso; Maria è la suppellettile aurea, sacra unicamente al servizio di Dio; Maria è la città di Sion, fabbricata sul monte santo, Maria è il tempio del Signore, più prezioso di quello di Salomone. Maria è il vello di Gedeone, irrorato dalla grazia, preservato da macchia; Maria è la nuvoletta dal mare, che dissigillò il torrente della misericordia; Maria è il giardino chiuso, nel quale nessuno può metter piede se non il Signore solo; Maria è la torre robusta dalla quale risplendono mille scudi. Quanta parte occupa Maria già nella lontana visione del Vecchio Testamento! – Le Litanie Lauretane riflettono nelle loro invocazioni parecchie di queste figure: « Sede della Sapienza », « Vaso spirituale », «Vaso degno d’onore », « Vaso insigne di devozione », « Rosa mistica », «Torre di David», «Torre d’avorio », « Casa d’oro », « Arca dell’Alleanza », « Porta del Cielo ». – Maria, per seguire un raffronto che è vecchio quanto il Cristianesimo stesso, è la vera Eva, la Madre dei viventi; Maria è la coraggiosa Giuditta, che superò il nemico di Dio; Maria è l’avvenente Ester, che gode sempre dell’accesso al Re. Veramente nel Vecchio Testamento già si avvera quanto canta il pio poeta protestante Novalis: « Ti veggo in mille immagini, Maria, graziosamente espressa e dolce e pura, pur nessuna fra tutte Ti figura qual intender Ti può l’anima mia ». – Preparata! L’annoso albero, fra i cui rami v’è misterioso stormir di Maria, ha fornita alla Vergine anche l’origine. Ella sta alla fine di quelle lunghe generazioni, è il frutto più squisito e regale dell’umanità precristiana. Quelle generazioni giunsero a maturare in Maria, il loro ultimo significato e la loro più intensa aspirazione han trovato compimento in Lei, poiché « da Lei nacque Gesù, che è detto il Cristo ». Maria è emersa dal fiume di sangue, che scorse attraverso Abramo, Giacobbe, Giuda, David, sì che il popolo israelitico non Le ha intessuto soltanto una immagine spirituale, ma anche la veste corporea; sia pure la sua dignità al di sopra del creato, Lei stessa non è una creazione eterea, dal cielo per caso libratasi quaggiù; Ella è sangue da quel sangue, figlia di quel popolo e vincolata in venerazione e fedeltà a quelle generazioni, alle quali deve il suo essere. Maria, secondo l’accenno dell’Evangelista stesso, dev’esser vista insieme con quelle generazioni; Ella non appartiene solo al Nuovo Testamento; è vero, è la prima del Nuovo Testamento, la prima cristiana; però è anche — già nel primo capitolo del Vangelo Ella annunzia la sua comunanza col popolo di Dio prima e dopo Cristo — il frutto più delicato dell’Antico Testamento, la perfetta donna israelita, la figlia di David, di Abramo, di Adamo. Maria… la figlia di David. La genealogia di Matteo presenta direttamente gli antenati di Giuseppe, non quelli di Maria; all’Evangelista infatti stava a cuore di provare subito, sin dall’inizio del Vangelo, ai suoi lettori giudeo-cristiani l’origine davidica di Gesù: solo se Gesù aveva per antenato David i Giudei potevano discutere se in linea di massima Egli fosse il Messia; a David infatti era stata fatta la profezia che un frutto delle sue viscere avrebbe posseduto in eterno il trono di Israele; ora i Giudei potevano ritenere Gesù quale “figlio di David” soltanto se suo “padre” Giuseppe discendeva dalla stirpe di David. Per questo Matteo fu costretto a proporre l’albero genealogico di Giuseppe, padre legale di Gesù, quale prova dell’origine di Lui da David; presso gli Ebrei la parentela e persino la paternità non si fondavano solo sul sangue, ma anche sul titolo giuridico. Non si tessevano genealogie per le donne, almeno dalla Sacra Scrittura non se ne può dedurre nessun esempio; però anche Maria per conto suo era una figlia di David. Paolo infatti sottolinea che Gesù « secondo la carne » — non dunque solo secondo una discendenza legale! — « è figlio di David », ma « secondo la carne » Gesù poteva risalire a David solo per mezzo di Maria, sua Madre fisica, perché Giuseppe non era padre di Gesù « secondo la carne », ma solo secondo la legge; anche Maria quindi doveva essere figlia di David; del resto, almeno sino a David, gli antenati di Giuseppe son pure gli antenati di Maria. « Noi riteniamo che Maria « discenda dalla stirpe di David », scrive Agostino, « perché crediamo alle critture; or due cose dicono le Scritture: che Cristo secondo la carne è del seme di David, e che sua Madre Maria era una vergine, che non ebbe relazioni con nessun uomo ». I Vangeli stessi del resto alludono all’origine davidica di Maria in vari luoghi. Nel racconto, per esempio, dell’Annunciazione si dice: « Nel mese sesto l’Angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine fidanzata a un uomo di nome Giuseppe, della casa di David »; questo inciso « della casa di David » può riferirsi a Giuseppe, ma può ben, e più probabilmente, riferirsi anche a Maria, perché Lei è qui la protagonista del racconto. E questa impressione è confermata dal seguito del discorso angelico: « Il Signore Iddio Gli (a Gesù) darà il trono di David suo padre ». Anche l’altra circostanza notata dall’Evangelista: « Giuseppe ascese dalla Galilea, dalla città di Nazaret, in Giudea, alla città di David, chiamata Betlemme, perché era della casa e della famiglia di David, per farsi iscrivere insieme a Maria », fa pensare che Maria sia stata indotta ad ascendere a Betlemme per il censimento perché Lei pure « discendeva dalla casa e dalla famiglia di David ». A buon diritto quindi già nella prima epoca cristiana il martire Ignazio di Antiochia (f 107), il martire Giustino (f 165) sottolineavano che Maria era una figlia di David. Anzi l’antico profeta Isaia stesso richiamò l’attenzione sull’origine davidica della Vergine nel passo conosciuto: « Uscirà un pollone dalla radice di Jesse e un germoglio ascenderà dalla sua radice »; Jesse era padre di David. « Il Profeta », spiega Agostino, « dicendo “pollone”’ indica Maria la vergine, dicendo “germoglio dalla radice” indica il Figlio della Vergine, il Signore Gesù Cristo ». Perché questo lungo discorso per l’origine davidica di Maria? Perché aveva per Lei stessa una grande importanza. Ella manifesta sin dall’Annunciazione una regale riservatezza, prudenza, chiaroveggenza e magnanimità, e mai e poi mai si scopre traccia in Lei della minima scipitezza e affettazione. Donde in questa modesta fanciulla un portamento così elevato? Certamente dalla grazia; ma la grazia anche in Maria costruisce sopra la natura. Scorreva nelle sue vene sangue regale; per quanto la stirpe di David fosse divenuta nel corso dei secoli e povera e insignificante, in quella semplice fanciulla s’era conservata la regale nobiltà dei suoi lontani antenati. Quella fanciulla di stirpe regale fu scelta da Dio a Regina del Cielo e della terra: anche nel regno della grazia non si deve stimare da poco l’origine di una persona da una tribù e casa piuttosto che da un’altra. – Il nostro tempo crea e vuole e assiste il “proletario”, non l’aristocratico, e così il livello dello spirito e del cuore si è abbassato, in qualche luogo sino alla barbarie. Forse il compito sociale più importante consiste oggi nel risvegliare nuovamente nel così detto “proletario” l’elemento aristocratico, la sua nobiltà interiore, e dalle banalità o anche dalle volgarità elevarlo di nuovo alla regalità, alla coscienza cioè della sua dignità e del suo valore. Abramo fu scelto a capostipite del popolo di Dio, e per questo la Scrittura lo dice « principe di Dio», « amico di Dio », « prediletto di Dio », «servo di Dio ». A lui fu fatta la promessa: « Nel tuo seme saranno benedette tutte le genti della terra » . Maria è Colei, che partorì al mondo questa Benedizione. Ella, quindi, non è una qualunque fra le molte figlie di Abramo, ma di quell’eletto è la più eletta, il preziosissimo nocciolo di quel venerando guscio. Il Vangelo ci mette dinanzi quanto questa Figlia eletta sia stata degna di quell’eletto padre. Abramo fu l’uomo della fede eroica e di una tale dedizione a Dio, che fu pronto a offrire in sacrificio al Signore persino il suo unico figlio Isacco, sul quale riposava tutta la divina promessa. Ancor più grande di suo padre Abramo nella fede e nel sacrificio fu la sua figlia Maria: Lei pure, sostenuta dalla fede, accompagnò al luogo del sacrificio il suo Unigenito; ma a Lei non venne in aiuto nessun Angelo, che impedisse col suo comando l’uccisione: Ella dovette condurre a termine il sacrificio nella persona del suo unico e amato Figlio. Il quadro sarebbe degno d’un artista: Abramo e Maria, il canuto Patriarca con la sua benedetta Figlia; Abramo dovrebbe imporre le sue vecchie mani su questa Fanciulla per significare che le promesse a lui fatte si son adempiute in Lei; poi dovrebbe lentamente inginocchiarsi dinanzi a Maria e adorare in Lei, ostensorio vivente di Gesù, quel Sublime, che, come vero Melchisedech, offre a Dio pane santo e vino consacrato. Ancor più commovente, ancor più profondo è l’ultimo quadro: Maria… la figlia di Adamo. Le chiarissime parole del libro veterotestamentario della Sapienza riguardanti l’umana esistenza valgono anche per Maria: «Sono anch’io un uomo mortale al pari di tutti, e rampollo di colui che primo fu plasmato di terra. Nel seno di mia madre fui formato uomo, nello spazio di dieci mesi coagulato in sangue per virtù di uomo, secondo il piacere sensibile. Anch’io, nato che fui, respirai l’aria comune, e caddi sulla medesima terra di tutti gli altri, e la prima voce emessa, come quella di tutti, fu un vagito. Fui nutrito in fasce e con grandi cure. Nessun re ebbe altro principio del suo essere, ma tutti hanno lo stesso ingresso alla vita come anche uguale l’uscita ». Maria non fu una fanciulla favolosa, deposta su questa terra da un altro mondo; la sua origine umana è uguale alla nostra: non fu generata dai suoi genitori in modo miracoloso o addirittura senza uso del matrimonio, come van favoleggiando graziose leggende; il Mistero del suo immacolato concepimento e anche quello della virginale concezione di Gesù non han nulla da che vedere con questo fatto umano, come talora pensano delle anime pie. Maria, come ne fan cenno Matteo e Luca nelle genealogie, sta nella stessa fila con noi, anche Lei è un membro di quella lunga catena, che comincia col primo uomo; Adamo è suo padre e la povera Eva è sua madre. Maria è così perfettamente figlia di Adamo, che il Figlio di Dio per mezzo di Lei e solo per mezzo di Lei divenne pure Figlio dell’uomo; solo per mezzo di Lei la seconda Persona divina fece ingresso nella stirpe umana, per mezzo di Maria soltanto. Il Verbo eterno di Dio non ebbe nessun padre umano che Lo potesse congiungere con Adamo; anello di congiunzione col nostro progenitore fu per il Verbo Maria; Ella introdusse quell’augusto divino Germoglio nella nostra stirpe; senza Maria Gesù non sarebbe affatto in relazione con Adamo, non sarebbe uno di noi, sarebbe al di fuori della nostra schiatta. D’altra parte, questo collegamento con Adamo fu per la redenzione del genere umano estremamente significativo e prezioso: il Figlio di Dio assunse la natura umana per strapparla al peccato e ricondurla alla grazia; come il medico deve entrare dagli ammalati, così e ancor più volle il Redentore entrare, penetrare nella discendenza ammalata di Adamo per poterla risanare sin dalla sua radice. Nessuna minaccia per Lui stesso, nessuna infezione rendeva pericoloso questo suo ingresso; Gesù è il Santo, il Figlio di Dio per natura; Egli, qual nuova creazione, fu miracolosamente plasmato in Maria dallo Spirito Santo. Ma come van le cose per Lei? Ella infatti è una figlia di Adamo, sangue del suo sangue, e lo dovette essere proprio a motivo di Gesù stesso; ora il torrente di questo sangue, cui Lei deve la sua origine, è avvelenato nella Sua stessa sorgente, in Adamo ed Eva: potrà mai essere che non venga travolta in questo vortice intorbidato? Quanto il peccato abbia reso pesante il torrente del sangue umano da Adamo in poi lo prova, e non senza sconcertare, quella genealogia, che sfocia ansiosa nei sublimi nomi di Maria e di Gesù. Perché veramente in quei gruppi di generazioni non sfilano soltanto venerandi Patriarchi, nobili re e santi sacerdoti; non v’è anzi vizio, non v’è crimine, che non abbia insudiciato quel succedersi di generazioni. Persino i più eletti fra quei personaggi — Abramo, Giacobbe, Giuda, David — pagarono un grosso contributo al peccato; e questo vale in modo speciale per le donne che quell’albero genealogico ricorda; rimase sorpreso lo stesso Girolamo, così competente in campo biblico, che la tavola genealogica di Matteo non nomini nessuna delle nobili donne d’Israele — non Sara, non Rebecca, non Rachele —, e invece ricordi Tamar, che commise incesto col proprio suocero Giuda; Rahab, che era una nota meretrice; Ruth, che non apparteneva al popolo eletto; la moglie di Uria, come Matteo stesso scrive con pudica riservatezza a causa del delitto che perpetrò David commettendo adulterio con Betsabea, il cui sposo egli fece poi vilmente uccidere. Che vi è mai in Maria di comune con questa società, perché il suo nome quale astro errante risplenda su quelle torbide generazioni? Noi solleveremmo dei gravi dubbi per un uomo, che ereditariamente fosse gravato di così triste carico. Maria discende da questo sangue curvo sotto la maledizione; David, Giuda, Giacobbe sono i suoi progenitori; Tamar, Rahab, Ruth, Betsabea son le sue progenitrici. Eva, l’infelice madre, abbraccia piangente la più eletta delle sue creature e le confessa la propria colpa; e Adamo tace e piange, perché non può trasmettere alla più nobile delle sue figlie se non un’eredità macchiata. Maria è intrecciata alla generazione di Adamo; come potrà sfuggire al suo destino? La radice è malata: avvizziranno anche i rami; la sorgente è inquinata: tutte le acque saran contaminate… A questo punto però avvenne qualche cosa; proprio qui, alle origini di Maria, capitò qualche cosa: all’oscura ombra della sua genealogia sbocciò un giglio; a questo primo e importante capitolo del Vangelo si appoggia il suo primo soave Mistero, siccome un delicato fiore a una frana, che s’è arrestata improvvisamente dinanzi ad esso: un fiore tutto bianco, un fiore tutto miracolo, il fiore della sua Immacolata Concezione.

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Luc 1:28; 1:42
Ave, María, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

Secreta

Tua, Dómine, propitiatióne, et beátæ Maríæ semper Vírginis intercessióne, ad perpétuam atque præséntem hæc oblátio nobis profíciat prosperitátem et pacem.
[Per la tua clemenza, Signore, e per l’intercessione della beata vergine Maria, l’offerta di questo sacrificio giovi alla nostra prosperità e pace nella vita presente e nella futura].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine

…. Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:
[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus:

Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei,

 qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Beáta víscera Maríæ Vírginis, quæ portavérunt ætérni Patris Fílium.

[Beato il seno della Vergine Maria, che portò il Figlio dell’eterno Padre].

Postcommunio

Orémus.
Sumptis, Dómine, salútis nostræ subsídiis: da, quǽsumus, beátæ Maríæ semper Vírginis patrocíniis nos úbique protegi; in cujus veneratióne hæc tuæ obtúlimus majestáti.
[Ricevuti i misteri della nostra salvezza, ti preghiamo, o Signore, di essere ovunque protetti dalla beata sempre vergine Maria, ad onore della quale abbiamo presentato alla tua maestà questo sacrificio].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)