LA GRAZIA E LA GLORIA (35)

LA GRAZIA E LA GLORIA (35)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO III

Tutte le azioni del figlio di Dio, purché moralmente buone, meritano un aumento di grazia e di gloria.

1. – Sappiamo quali condizioni siano assolutamente necessarie per il merito della crescita spirituale: condizioni da parte dell’opera, condizioni da parte dell’agente, condizioni da parte di Dio, il remuneratore del merito. Ci resta da scoprire concretamente, nella vita dei figli adottivi di Dio, le opere in cui troveremo soddisfatte queste condizioni; in altre parole, e per dirla in modo più semplice, quali dei loro atti meritino un aumento di grazia e di gloria. – Ora, questa è la dottrina che mi propongo di dimostrare prima e di spiegare poi. L’ho ricevuta dal Dottore Angelico, che la formula in queste poche parole: « Nell’uomo in possesso della grazia e della carità, ogni atto libero è o merito o demerito »; e di  conseguenza, non c’è azione moralmente buona che, secondo lui, non sia meritoria agli occhi di Dio (Habentibus Charitatem omnis actus est meritorius vel demeritoriusde Malo, q. 2, a 5, ad 1 -. È impossibile dubitare che San Tommaso non intenda un qualsiasi tipo di merito, ma il merito in senso stretto, quello che Dio remunera con i suoi doni soprannaturali. In nessun punto, nei numerosi testi in cui afferma la sua dottrina, dice una sola parola che possa far sospettare un’altra idea. Per lui, l’actus meritorius è ogni atto buono dell’uomo giustificato. Non sarebbe un prendersi gioco del lettore se questa parola meritorius nascondesse un equivoco e significasse sia meriti naturali sia meriti soprannaturali? Inoltre, se il santo Dottore intenda solo un qualsiasi tipo di merito, qualcuno sa dirmi perché la grazia santificante e la carità siano assolutamente richieste? Non c’è dunque alcun tipo di merito per i peccatori?). – Come nell’ordine dei fatti non esiste e non può esistere un’azione deliberata che sia indifferente, cioè che non sia né buona né cattiva dal punto di vista morale, così quando si tratta dei giusti, figli di Dio, ogni opera libera è o merito o peccato. Non è possibile una via di mezzo. Percorrendo il variegato ciclo delle azioni umane: studiare, lavorare con le mani, pregare, ricrearsi, conversare, salutare un amico di passaggio, dire una parola educata … che ne so? Tutte queste azioni e cento altre dello stesso tipo, per quanto indifferenti possano sembrare e per quanto poco importanti si possano ritenere, o sono il prezzo di un aumento proporzionale della grazia o sono colpe che la giustizia punirà. Anche in questo caso, non ci sono vie di mezzo per i figli di adozione. Ho detto: per i figli di adozione; perché l’uomo che non porta la grazia nel suo cuore può fare, e spesso fa, opere che non hanno questo carattere di merito. Per questo San Tommaso dice: « Ogni atto di chi ha la carità è meritorio o peccaminoso, e per lui non c’è atto indifferente » (« Omnis actus habentis charitatem vel est meritorius, vel est peccatum, et nullus est indifferens » – S. Thom, ibidem, obj. 11 cum. resp.), non solo dal punto di vista morale, ma anche da quello del merito o del demerito. So che questa dottrina non è accettata da tutti i teologi (ci sono due modi per contraddirla: alcuni ammettono che non esistano atti indifferenti nella pratica; ma sostengono, allo stesso tempo, che gli atti moralmente buoni dei giusti possono mancare, e spesso mancano, di alcune condizioni necessarie per il merito soprannaturale. È questa l’opinione che teniamo particolarmente in considerazione in questo e nei capitoli seguenti, per opporci ad una dottrina che ci sembra più consolante e meglio sostenuta dalla ragione teologica. Altri sarebbero prontamente d’accordo con noi: ogni atto moralmente buono di una persona giusta è un merito; ma ci sono atti deliberati che non sono né buoni né cattivi; e, di conseguenza, il dilemma del Dottore Angelico non è ammissibile. È soprattutto nella famiglia francescana che troviamo questa teoria degli atti indifferenti. -S. Tommaso, che si batte contro di essa, seguito dalla maggioranza dei filosofi e dei teologi della Scuola, risolve la questione con la sua ordinaria profondità. Se consideriamo gli atti deliberati in sé e nella loro natura specifica, ce ne sono alcuni che non hanno carattere morale, come ad esempio il camminare, poiché la moralità di un atto si misura in base al suo rapporto con la regola dei nostri atti liberi, cioè con la ragione. Ora la ragione non approva né disapprova l’azione di fare una passeggiata. È quindi un atto indifferente, se lo consideriamo solo nella sua essenza specifica. Ma un atto individuale assume necessariamente delle circostanze che lo fanno uscire in qualche modo da questa indeterminatezza e gli conferiscono una moralità che non ha nella sua natura. Così, sebbene l’uomo non sia, in quanto tale, né bianco, né giallo, né nero, è necessario che ogni individuo abbia un colore determinato dalle cause accidentali del temperamento, della nascita o del clima. Ora, tra tutte le circostanze che influenzano le nostre azioni, la principale è quella del fine per cui agiamo. Infatti, la funzione propria della ragione è quella di ordinare la nostra libera attività. Se dunque non ordino la mia azione verso un fine conforme alla ragione, o se la dirigo verso un fine che la ragione disapprova, c’è disordine e di conseguenza un male morale; al contrario, se la ordino verso un fine adeguato, l’ordine razionale è preservato e l’azione, per quanto sia indifferente in sé, diventa buona da un punto di vista morale. Per quanto riguarda gli atti che impediscono ogni nostra deliberazione, come sarebbe un movimento istintivo della mano o del piede, non ci può essere alcun dubbio, poiché non sono nostri. Cfr. S. Thom, 1. 2, q. 18, a. e 9 : de malo, q. 2, a. 5. – (S. Gregorio Magno parla come S. Tommaso su questo argomento. Infatti, egli classifica tra le parole oziose, e di conseguenza riprovevoli, di cui si dovrà rendere conto nel giorno del giudizio, qualsiasi parola che « manchi o della ragione di una giusta necessità, o dell’intenzione di una pia utilità: Otiosum quippe verbum est quod aut ratione justæ necessitatis, aut intentione piæ utilitatis caret ». – Moralia, 1, VIII, c. 17, n. 58. P. L., t. 75. Se, per non essere difettosi, i nostri discorsi e le nostre parole debbano soddisfare questa condizione o qualche altra equivalente, è chiaro che non ce ne sono di indifferenti: perché, suscitati da questi motivi di utilità o di necessità, sono moralmente buoni. – Comunque sia, l’affermazione che si trova in testa a questo capitolo rimarrebbe assolutamente vera anche se si ammettessero gli atti indifferenti, perché attribuisce il merito solo agli atti moralmente buoni. Ciò che sarebbe falso, in questa ipotesi, è il dilemma posto da San Tommaso: in un uomo giusto non c’è atto deliberato che non sia meritorio o demeritorio. Inoltre, le autorità e le ragioni esposte nel presente capitolo sono sufficienti per riconoscere come meritoria qualsiasi azione fatta liberamente, purché non sia un peccato); ma spero di poter mostrare in questo capitolo che questo può essere sostenuto dal suffragio della Sacra Scrittura, dei Padri e degli Autori in cui sia la teologia dogmatica che quella ascetica salutano come i loro più illustri maestri. Cominciamo con i nostri libri Sacri. Non voglio insistere su un’argomentazione di Vasquez e altri, quando sottolineano che la Scrittura promette la ricompensa eterna per le opere più umili e meno esaltanti: dare un bicchiere d’acqua, per esempio. Questa discussione ci porterebbe troppo lontano. Ma come dimenticare l’osservazione così giustamente fatta da Sant’Agostino che, nel loro attuale stato di imperfezione, ci sono due uomini in ciascuno dei figli di adozione: l’uomo vecchio e l’uomo nuovo? Né il Vangelo né gli scritti apostolici ci parlano di un terzo (Si potrebbe dire: se in noi ci sono solo i due uomini di cui hai parlato, allora tutte le azioni sono cattive nel peccatore, poiché l’uomo nuovo non è ancora in lui. Risposta: l’uomo nuovo è in preparazione nella rettitudine della natura, quindi capace di atti buoni, capace anche di ricevere le grazie attuali e di arrivare, se vuole cooperare, alla giustificazione. Pertanto, non tutto in lui è vetustà. Ma non è nemmeno la novità che rende figli adottivi, e serve come base per il merito rigorosamente detto). Ora, l’agire corrisponde all’essere. Quindi, per restare alle azioni che ci competono, ogni opera proviene o dall’uno o dall’altro. Pretenderete che un’azione il cui principio sia la vetustà, possa essere buona, o direte che è possibile agire come figlio di Dio senza meriti davanti al Padre? E se nessuna delle due affermazioni è possibile, cosa vi resta da fare se non confessare con noi ciò che San Tommaso d’Aquino ha appena detto: « Ogni opera di un uomo giusto è o meritoria o demeritoria; oppure, il che equivale alla stessa cosa, non c’è azione moralmente buona dei figli adottivi che non abbia in sé il carattere del vero merito. ». Mi obietterete che gli atti, come quello di dire una parola amabile, di giocare per rilassarsi ed  altre cose simili, non siano di quelle che noi consideriamo come qualità di uomo nuovo; io vorrei chiedervi perché tali atti non dovrebbero essere degni della dignità di figli adottivi, o perché, se questa dignità li approva, l’uomo nuovo non dovrebbe esserne il principio e riconoscerli come propri? Inoltre, dovremo mostrare in seguito come queste opere realizzino in sé le condizioni del merito. Per il momento, si tratta solo di provare il fatto con testimonianze autorizzate.

2. – Ascoltiamo ora i Teologi. Torno innanzitutto a San Tommaso, se non altro per mostrare quanto questa dottrina gli stesse a cuore, visto che la ripropone costantemente nelle sue opere. Le questioni sul Male (de Malo), da cui ho preso in prestito i testi già citati, appartengono alla piena maturità del grande Dottore e sono più o meno contemporanee alla Summa Theologica. Ecco come egli si esprimeva nelle opere precedenti: « Nessun atto di virtù politica o civile (Virtus civilis dirigit in omnibus quæ sunt corporis et etiam propter corpus quæruntur. S. Thom, initio huj. art.) non è indifferente; di per sé ha la sua bontà morale, e se è informata dalla grazia, sarà meritoria. Pertanto, non esiste un’azione deliberata della volontà che non sia né buona né cattiva, non solo secondo il teologo, ma anche secondo il filosofo moralista. Inoltre, quando si ha la grazia, ogni opera buona, purché libera, è meritoria. Inoltre, nessuno degli atti che procedono con la deliberazione della volontà è indifferente; ma è necessariamente o buono o cattivo per una malizia o per una bontà civile. Tuttavia, l’atto di bontà naturale può avere la virtù del merito solo in coloro che sono in grazia di Dio. Pertanto, in colui che ne è privo, l’opera è indifferente dal punto di vista del merito e del demerito. Ma per coloro che possiedono la grazia in sé, è necessario che essa sia meritoria o demeritoria: perché se è moralmente buona, è meritoria; se, al contrario, è cattiva, è demerito (S. Thom. in II, D. 40, q. 1, a. 5. ) ». È impossibile, dopo queste affermazioni così categoriche ripetute fino a sazietà, fraintendere il pensiero del Dottore Angelico. Vediamolo in alcune applicazioni. Chiedetevi cosa pensi del piacere che traiamo dal mangiare o dal bere. San Tommaso risponderà che cercarlo senza la giusta moderazione è disordinato e peccaminoso, perché il godimento smodato esclude dalla sua natura il bene della sobrietà ed è quindi un male. Ma un piacere che non arrivi a questo eccesso può essere preso senza colpa, e persino con merito, se si è nell’amicizia di Dio (Id., ibid. – Ecco come, in un altro luogo delle sue opere, lo stesso Santo parli del gioco delle danze: « Il gioco in sé non è cattivo: altrimenti non sarebbe oggetto di quella virtù morale che si chiama Eutrapelia…  Può quindi essere un atto virtuoso o vizioso, a seconda del fine perseguito e delle circostanze in cui viene praticato. Perseverare, senza alcun rallentamento negli atti della vita, sia attiva che contemplativa, è una cosa impossibile; da qui la necessità di interrompere di tanto in tanto il lavoro con la ricreazione, affinché la mente non soccomba sotto il peso di una gravità troppo costante e possa dedicarsi con più slancio alle opere delle virtù. Giocare con questa intenzione, a patto che non comporti circostanze negative, è fare un atto di virtù; è anche meritare, se il divertimento è informato dalla grazia (santificante). – « Ora, quando si tratta di danze, queste sono le circostanze che sembrano essere richieste: che la persona non sia una persona per la quale tale svago sarebbe improprio, ad esempio un chierico o un religioso; che il momento sia di gioia, come quello di una vittoria, di un matrimonio o di una festa simile; e infine, che ci siano solo persone oneste, canti adatti, e nessun gesto o azione troppo libera. Perché l’atto sarebbe vizioso se favorisse le cattive passioni… ». S. Thom. in cap. III Isaiæ, ad fin. Stessa dottrina e stessi principi sull’ornamento delle donne, come si può vedere nello stesso commento al capitolo di Isaia). – Anche gli atti che per loro natura sembrerebbero i più ribelli al merito, come i rapporti più intimi tra coniugi, sono ricondotti dal Dottore angelico alla legge comune (S. Thom. IV, D. 24, q. 1, a. 4; Suppl. q. 41, a. 4). – Dopo questi testi così formali, ci si stupirebbe se non si trovassero gli stessi pensieri nei teologi che, nell’ordine del grande teologo o al di fuori di esso, sono più strettamente legati alla sua dottrina. Nulla è più frequente che trovarli nei loro scritti. E, per citare solo i principali: questo è il sentimento esplicito di Capréolus, Cajetan, Medina, Domenico Soto, Déza, dei Carmelitani di Salamanca, di Gabriel Vasquez, di Gregorio di Valencia e di Bécan, a cui si potrebbero aggiungere molti altri nomi, come quelli di Ripalda, Gonet, Gregorio Martinez, Zumel, ecc, (II, D. 40, q. 4, a. 4; Cajet. in 1, 2, q. 8, a. 8; Medina in 1.2, q. 18, a. 9: Dom. Solo, de nat. et grat, I. III, c. 4; Deza, II, D. 40; Salmant, Tract. XVI, D. 4, dub. 5; Greg. a Valent. in 1, 2. D. 8, q. 6, p. 3: Becan, 2′ p. Summaæ, Tr. V, c. 4, q. 1. n. 13; Vasquez tn 1, 2. D. 217, c. 2 e 3. È la tesi sostenuta da quest’ultimo teologo: « Omnia bona opera justorum meritoria esse vitæ æternæ, ex Scripturis et Patribus probatur. ». Ciò che impedisce che sia identico a quello di San Tommaso è che Vasquez, in questo concordando con San Bonaventura, ammette come più probabile che ci siano nell’uomo alcuni atti, anche deliberati, che di fatto siano indifferenti o possano esserlo, come mangiare, bere, camminare. Per il resto, egli ritiene che ogni atto moralmente buono sia meritorio per un uomo giusto. Vasq. In I, II, D. 52, c. 3; col. D. 217, c. 2. n. 9). Non basterebbero le pagine se si tentasse di riportare tutte le loro testimonianze. Eccone due, che vi illustrerò a titolo di esempio. Il primo è Domenico Soto che, come tutti gli altri, formula il grande principio di San Tommaso d’Aquino, e che aggiunge queste notevoli parole: « L’ipotesi immaginata da alcuni, secondo la quale un’opera potrebbe procedere da un uomo in uno stato emanante di grazia, è per me inverosimile, a meno che, tuttavia, non si parli di peccati veniali; perché se l’opera è moralmente buona, e procede da uno che abbia la grazia, per questo stesso fatto emana virtualmente dalla grazia » (Dom. Soto, l. c.). – Prendo in prestito l’altra testimonianza di Gregorio di Valencia. Dopo aver stabilito alcuni principi e confutato le opinioni contrarie, conclude in questi termini: « Ne consegue che nessuna opera di un Cristiano giustificato sia indifferente rispetto al merito o al demerito. Moralmente buono, è meritorio: per il fatto stesso di essere l’atto di un uomo giusto, esso è virtualmente legato a Dio. Se cattivo, è ovviamente demeritevole. Perciò i sostenitori del sentimento opposto si sbagliano quando insegnano, secondo i loro principi, che in un uomo giusto possano esserci azioni né meritorie né demeritorie; tanto più che non forniscono alcun argomento di un qualche valore » (Greg. De. Valent. L. c.).

3. – Tutti questi teologi si appellano all’autorità del Dottore Angelico; ma quelli della Compagnia di Gesù possono anche invocare quella del loro Santo fondatore. Si conosce questo libro immortale degli Esercizi Spirituali di un’ortodossia così pura, così meravigliosamente efficace per la santificazione delle anime, esaltato dai più grandi Santi e formalmente approvato dalla Chiesa. Ora questo libro contiene nel modo più chiaro e inequivocabile la dottrina che abbiamo appena esposto. Infatti, se lo apro alla pagina in cui il Santo patriarca tratta dell’esame generale di coscienza, ecco cosa leggo a proposito dei peccati di parola: « Non si deve pronunciare nessuna parola oziosa. Per parola oziosa intendo quella che non sia utile né a noi stessi né agli altri, o che non sia finalizzata a questo fine. Quando, quindi, tutte le volte che le nostre parole risultino, o almeno lo intendiamo, utili per la nostra anima o per quella del nostro prossimo, per il nostro corpo o per i nostri beni temporali, esse non sono parole oziose, anche se parliamo di cose estranee alla nostra professione, come se i religiosi parlassero di guerra o di commercio. Ma, in generale, ogni parola ben ordinata è meritoria; e ogni parola vana o mal diretta è peccato » (Exercitia spirit., S. P. Ignatii de Loyola, I hebdom. Exam. Consc. Gen.). Ascoltiamo e comprendiamo. Si entra in una conversazione: se il discorso tende ad un fine ragionevole, è merito; se, al contrario, non ha un fine riconoscibile dalla ragione o dalla fede, è peccato. Non esiste quindi una via di mezzo tra discorsi oziosi e non, tra discorsi meritori e discorsi più o meno peccaminosi. Sant’Ignazio presuppone evidentemente che l’uomo di cui regola il linguaggio sia un amico di Dio; così come è evidente che la sua dottrina, mirando esplicitamente alle parole, vada oltre e si riferisca in generale ad ogni azione deliberata. – Non avevo forse ragione nell’appellarmi agli autori ascetici? Il venerabile Luigi di Granada, che nel XVI secolo fu uno dei maestri più affidabili nella scienza dei santi e gloria dell’Ordine di San Domenico, sosteneva in modo assoluto la stessa dottrina. In uno dei suoi trattati spirituali enumera gli incomparabili vantaggi della grazia santificante: « Un altro effetto di questa grazia –  scrive – è quello di rendere l’uomo così caro a Dio e di così alta dignità ai suoi occhi, che ogni azione deliberata che compie, a meno che non sia peccaminosa, gli sia gradita e meriti la vita eterna. Perciò non solo le virtù, ma anche le opere naturali, come il mangiare, il bere, il dormire, ecc. sono gradite a Dio e sono meritorie del bene sovrano, perché il soggetto non sarebbe gradito a Dio, senza che tutto ciò egli che fa non sia oggetto di piacere e di merito davanti a Dio, purché non sia un male » (L. de Granada, La guida dei peccatori, L. I, c. 14; Obras, t. 1, p. 66 Barcelona, 1584). – Mi rimprovererei se dovessi omettere un’altra testimonianza molto preziosa, quella di un grande dottore e di un grande maestro di vita spirituale: San Francesco di Sales. Il suo trattato sull’Amore di Dio contiene intere pagine destinate a far luce su questa consolante dottrina. In attesa di trovare l’opportunità di entrare più a fondo nel suo pensiero, riporto almeno alcuni passaggi che ce lo rivelano in modo piuttosto evidente. « Tutto ciò che fate, qualsiasi cosa facciate in parole e opere, fatelo nel nome di Gesù Cristo. Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto a gloria di Dio » (Col. III, 17; 1 Cor. X, 31). Queste sono le parole del divino Apostolo che, come dice il grande San Tommaso spiegandole, sono sufficientemente praticate quando siamo abituati alla santissima carità, con cui, pur non avendo un’intenzione espressa ed attenta, è comunque contenuta nell’unione e nella comunione che abbiamo con Dio, per cui tutto ciò che possiamo fare di buono è dedicato con noi alla sua divina bontà. Non c’è bisogno che un figlio, che viva nella casa e nel potere del padre, dichiari che ciò che acquista sia di suo padre: poiché la sua persona appartenendo al padre, anche tutto ciò che dipende da essa gli appartiene. Basta così che noi siamo figli di Dio per dilezione, perché tutto ciò che facciamo sia interamente destinato alla sua gloria… ». (S. Franc. de Sales, Trattato dell’amore di Dio, L. XII, c. 8). Quindi, secondo la testimonianza del Santo, per il fatto stesso che la carità regni in un’anima, cioè che quest’anima possieda la grazia da cui scaturisce la carità, come un ramo dal tronco, le nostre buone opere, andando alla gloria di Dio, sono meritorie. Il Santo riconosce che nessuna azione virtuosa possa diventare un vero merito, se non è vivificata dalla carità. Ma, aggiunge, « le azioni virtuose (noi sappiamo cosa intenda San Francesco di Sales per azioni virtuose. Ce lo ha detto più in alto: è « tutto ciò che possiamo fare di buono », cioè ogni opera moralmente buona. Non ce n’è una sola, infatti, che non si riferisca a qualche virtù, per quanto piccola e insignificante possa sembrare), dei figli di Dio appartengono tutte alla dilezione sacra: le une, perché le produce per sua natura; le altre, in quanto le santifica con la sua presenza vitale; altre, infine, per l’autorità ed il comando che esercita sulle altre virtù, da cui essa le fa nascere. E queste, non essendo in verità così eminenti in dignità come le azioni propriamente e immediatamente derivate dalla dilezione, eccellono anche incomparabilmente al di sopra delle azioni che hanno tutta la loro santità dalla sola presenza e società della carità » . Poche righe più avanti, dopo un paragone che mette in ottima luce il suo pensiero, il Santo Dottore continua: « Se infine alcune virtù compiono le loro operazioni senza il suo comandamento (il comandamento della carità), purché servano alla sua intenzione, che è l’onore di Dio, essa non manca di riconoscerle come proprie » (S. Franc. De Sales, Trattato dell’Amore di Dio, L, XI, c. 4; col. C. 2).

4. – Ho detto che questo era anche il sentimento dei Padri. Non ne riporterò che una prova: questa è di S, Agostino. Egli spiegava familiarmente l’ultimo versetto del Salmo XXXIV al suo popolo: « Allora, Signore, la mia lingua mediterà la tua giustizia e tutto il giorno proclamerà la tua lode. » – « E quale lingua – egli si chiede – può dichiarare la lode di Dio tutto il giorno? Ora sto andando un po’ oltre i limiti ordinari del mio discorso, e vedo che siete già stanchi. Chi dunque, vi chiedo ancora, può meditare e celebrare la lode di Dio tutto il giorno? Ascoltatemi; io vi dirò come lodare Dio, tutto il giorno, se lo desiderate. Qualsiasi cosa facciate, fatela bene e avrete lodato Dio. Se cantate un inno, voi lodate Dio: perché, suppongo, c’è accordo tra il vostro cuore e la vostra lingua. Interrompete il canto per consumare il vostro pasto; evitate l’intemperanza (dice: non ubriacatevi) e voi avrete lodato Dio. Voi vi ritirate per godervi il riposo del sonno; guardatevi dal fare il male, e voi avrete lodato Dio. Se voi commerciate, sena frode e senza inganno, voi lodate Dio. Se siete un contadino, non litigate con i vostri vicini né con i vostri domestici, vivete in pace e avrete comunque lodato Dio. Ecco come, per tutto il giorno, l’innocenza delle vostre opere sarà la lode di Dio » (S. August. Enarr. 2, in Ps. XXXIV, v, 16). Nessuno negherà, credo, che la lode di Dio sia meritoria per un uomo giusto. Pertanto, poiché ogni azione moralmente buona è una lode a Dio, il Dottore della grazia la considera meritoria. – E così la teologia dogmatica, ascetica e morale, gli studiosi, i Dottori e i Santi, si riuniscono attraverso lo spazio ed il tempo in una dottrina comune, e affermano che laddove il figlio di Dio, nell’esercizio della sua libertà, non offende suo Padre, acquista da Lui nuovi meriti; in altri termini, egli crede per il presente nella grazia, e per il futuro, nella gloria.

LA GRAZIA E LA GLORIA (36)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (1)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (1)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

Brescia, 19 marzo 1935, Can. Ernesto Pasini, Cens. Eccl-

Brescia, 23 marzo 1935 IMPRIMATUR Aem. Bongiorni, Vic. Gen.

PREFAZIONE

 Se a questo libro è necessaria una giustificazione, l’unica plausibile è che l’autore fu invitato a scriverlo. Furono amici non cattolici a chiedergli di rivelar loro, per quanto possibile, lo spirito intimo, la vita interiore della Chiesa Cattolica. Essi conoscono, più o meno, la sua storia, e soprattutto da un determinato punto di vista; sono, inoltre, al corrente di tutte quelle manifestazioni di vita attiva della Chiesa medesima che, quasi ovunque, cadono sotto il loro controllo quotidiano. Conoscono pure buona parte del suo insegnamento che in alcuni punti coincide con quello accettato da loro stessi, mentre altri punti, quali essi li intendono, sono loro estranei o ripugnanti addirittura. Eppure essi sentono, anzi son persuasi, che l’idea della Chiesa Cattolica contiene qualche cosa di più, qualche cosa che va oltre la sua storia e il suo insegnamento, che a quella ha dato origine in passato e questo tuttora vivifica, e che è perciò superiore in importanza ad entrambi per una esatta valutazione della Chiesa stessa. Se riuscissero ad afferrare questo “quid” segreto, se potessero al pari dei Cattolici, rendersi conto del suo operare, solo allora forse si farebbe luce su tante divergenze di giudizio. Quanto appare alla superficie non può che essere manifestazione di ciò che arde dentro. Perché si diano questi segni esteriori di vita cattolica, è necessario vi sia uno spirito interiore ad animare e a permeare tutto il Cattolicesimo, a dargli quella unità, consistenza e solidarietà che innegabilmente possiede. E lo spirito che si manifesta non senza entusiasmo nella vita di ogni vero Cattolico praticante, lo spirito al qual  sono da attribuirsi i frutti prodotti dalla Chiesa Cattolica in ogni luogo e in ogni tempo. Ecco perché, secondo l’autore, spiriti avidi di conoscere questa vita interiore si sono rivolti precisamente a chi di essa già partecipa, in essa respira e di essa, come umilmente e sinceramente spera, già vive. È questo senza dubbio l’unico mezzo per poter afferrare anche un semplice barlume della verità. Nessuno che voglia veramente penetrare l’anima dell’Inghilterra si rivolgerà per ciò ad un Soviet russo; allo stesso modo, nessuno che sinceramente desideri di conoscere la Chiesa Cattolica nella sua realtà andrà ad informarsene presso uno la cui penna sia intinta nel fiele, le cui labbra stillin veleno, e che abbia in mente una gran confusione a questo riguardo. Uno scrittore siffatto non potrà mai dire la verità, di qualunque argomento si occupi. Poiché una comprensione giusta richiede la simpatia; e l’odio acceca sempre. E se pure manchi l’odio, nel significato peggiore della parola, il pregiudizio suo fratellastro riesce sempre ad alterare la verità e a farla servire al proprio scopo, finché il quadro finale che ne risulta si riduce ad una caricatura e nulla più. E ciò è particolarmente vero nel trattare di questioni religiose.  “Colui che conserva la carità nei costumi può comprendere tanto ciò ch’è evidente quanto ciò ch’è latente nelle questioni religiose — dice S. Agostino. — L’amore lo induce allo studio, l’amore lo guida nella ricerca, l’amore lo spinge a bussare alla porta; l’amore fa che in lui permanga quanto gli fu rivelato. » (Serm. 189, de Temp.). È dunque in risposta a una domanda di questo genere che l’autore ha compiuto il tentativo racchiuso nel presente volume, ed egli desidera che lo si legga nello spirito medesimo con cui fu scritto. Quella che noi chiamiamo teologia si affaccia talvolta inevitabilmente nelle sue pagine; eppure non è un’opera di teologia né di apologetica questa che l’autore offre. Egli non ha nessun mandato ufficiale e non ne accetta alcuno, né per difendere la sua Chiesa né per dimostrare la verità del suo insegnamento. Il suo compito è semplicemente quello di definire la posizione della Chiesa, di scoprire quasi l’anima propria o almeno di spiegare a chi desidera ascoltarlo le proprie convinzioni intime nei riguardi di Dio e dell’uomo. Egli perciò spera, anzi crede, che non sarà deluso e che i suoi lettori vorranno almeno riconoscergli il merito di una sincera fede in ciò che asserisce ed accettare poi quanto egli ha da dire, non solo come sua conclusione personale e come veduta propria particolare, ma come esponente di quella stessa fede ch’egli ha comune con i fratelli cattolici, sia esplicitamente nella forma o implicitamente nella pratica, fede basata su di una evidenza tale che, per lui almeno, è secondo ragione e quindi convincente. Se queste pagine non fossero tutto ciò, e si riducessero a una semplice esposizione del credo dello scrittore, non potrebbero essere espressione attendibile del pensiero cattolico. – Per lui che non è un convertito, la Chiesa in cui crede con fermezza e che ama di cuore, deriva direttamente dalla Chiesa del tempo in cui tutta l’Inghilterra era cattolica. Egli ringrazia Dio ogni giorno per il dono della fede goduto sin dall’infanzia, e nulla maggiormente lo addolora del fatto che tanti fra i suoi compatrioti han perduto l’eredità goduta dai loro antenati. Sa che molti, la maggior parte forse, dei suoi lettori non condividono la sua fede e il suo amore, né il suo rimpianto per la perduta eredità. Eppure, non per ciò li condanna, né si sente ad essi completamente estraneo. Ha vissuto abbastanza, e sotto le circostanze più varie, per sapere che differenze fondamentali di pensiero, specie in questioni di religione, sono dovute a cause molteplici, parecchie delle quali sfuggono al controllo dell’individuo. “Lo spirito soffia dove vuole”; “ il regno dei cieli è simile al lievito » l’azione del quale è segreta. Il metodo usato da Nostro Signore Gesù Cristo non fu mai un metodo di coercizione; ma allorché qualcuno a Lui si rivolgeva, Egli “lo guardava e lo amava” e ad uno, il quale non altro fece che mostrar di apprezzare la sua parola, Egli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio.” – Allo stesso modo e, l’autore lo spera, nello stesso spirito, egli ha avuto ed ha tuttora molti amici, protestanti e pagani, maomettani, indù e parsi, e ha potuto personalmente constatare fra loro tutti l’opera prodigiosa della grazia di Dio. Varie volte egli ha dovuto rammentare a se stesso, dinanzi all’evidenza dei fatti, che Nostro Signore venne sulla terra « non per giudicare il mondo, ma perché il mondo fosse da Lui salvato », e che morì, versando fino all’ultima goccia del suo sangue, non per i soli Cattolici, né per i soli Cristiani, ma per gli uomini tutti, indistintamente, come bene disse S. Agostino in tempi non troppo dissimili dai nostri e con una visione che, come sempre, abbraccia il. mondo intero, “Il Redentore venne e pagò il prezzo, diede il suo sangue e con esso riscattò il mondo. Chiedete che cosa acquistò? Guardate il prezzo versato e vedrete che cosa acquistò. Il prezzo è il sangue stesso di Cristo. Che cosa è adeguato a un tal prezzo? Che cosa, se non il mondo tutto? Che cosa, se non le nazioni tutte della terra? “In verità, o svalutano il prezzo che è stato versato o sono molto orgogliosi coloro che dicono essere quel prezzo tanto piccolo da aver riscattato solo gli abitanti dell’Africa, oppure avere essi soli tanta importanza che soltanto per loro sia stato versato un tal prezzo. Che costoro non si esaltino, non insuperbiscano. Quanto Egli diede lo diede per tutti.» (in Ps 95, n. 8). In considerazione di ciò, l’autore scrive non per controbattere alcuno, ma con la sola speranza che le sue pagine servano a riavvicinare gli uomini fra loro, “affinché possiamo conoscerli ed esser da loro conosciuti”, — ut cognoscamus et cognoscamur —, com’ebbe a dirgli or non è molto l’attuale Pontefice. Egli, dunque, di proposito si astiene da ogni parola che voglia essere di controversia o influire sulle convinzioni, le vere, le genuine convinzioni, altrui; e se una frase di questo genere gli sfugge non avrà altro scopo che quello di illustrare il suo pensiero per via di contrasto. Egli non scrive che la verità positiva, quale essa gli consta, per amici che lo hanno pregato di far ciò, e desidera che le sue parole vengano lette e interpretate come si leggono e s’ interpretano le parole di un amico. Alcuni non cattolici troveranno forse che l’interpretazione data dall’autore all’anima della Chiesa Cattolica non le appartiene esclusivamente ma è in gran parte comune a tutta la Cristianità, e condivisa anche dalla chiesa particolare della quale essi son membri. A questi l’autore non può che rispondere: “Dio sia ringraziato! Vuol dire che non siamo poi così fondamentalmente separati come credevamo.” Potessero davvero le affermazioni di questo volume riferirsi a tutti e a ciascuno di noi, a come un tempo si poteva riferirle ai nostri antenati senza distinzione! Allora la riunione della Cristianità non sarebbe più tanto lontana. Se la scoperta di un vasto campo comune sarà l’unico frutto di questo libro, esso non sarà stato scritto invano.

INTRODUZIONE

Nel rileggere quanto abbiamo esposto nei capitoli seguenti ci rendiamo conto della barriera che divide oggi gli uomini in due campi sempre più distinti. Da una parte, coloro che, senza distinzione di credo, accettano il soprannaturale come una realtà; dall’altra, tutti i negatori del soprannaturale. Per questi ultimi non esiste un aldilà o, se esiste, è cosa che non li riguarda, come non li preoccupa né minimamente li interessa il problema dell’esistenza di Dio. Ne viene di conseguenza che ogni principio fondamentale di vita deve, per loro, trovare la sua spiegazione e la sua definizione indipendentemente da Dio. La vita stessa e il suo fine, il dovere e le sue obbligazioni, la libertà e le responsabilità che ne derivano, l’amore dato e ricambiato, il sacrificio e il suo premio; il male, il suo significato, la sua responsabilità, il suo castigo e il suo rimedio; il bene, il suo valore, la sua nobiltà, la sua ricompensa, i suoi frutti; le relazioni dell’uomo con se stesso, coi fratelli, con la patria, con gli amici e coi nemici, infine con tutta l’umanità; il possesso, la potenza, il piacere, il diritto e la giustizia, la verità e il vizio, tutte queste cose esigono per coloro che non riconoscono al soprannaturale alcun diritto di cittadinanza definizioni affatto diverse da quelle che i credenti accettano. Anzi, definizioni vere e proprie non possono darsi: quando l’uomo si è fatto ideale e misura di se stesso, proprio giudice e proprio fine, tutte le realtà sopra elencate debbono servire a lui solo, e, per quanto si voglia dissimularlo, debbono ridursi a strumenti per la sua personale soddisfazione. Chi abbia questa mentalità troverà il nostro libro privo di ogni significato. Se ne sentirà anzi irritato e spinto forse a disprezzarlo. Lo giudicherà empirico (termine questo che non è proprio soltanto della generazione presente) e antiquato, un insieme di illusioni, un sogno vuoto di senso comune, non confermato dall’esperienza, forse addirittura una invenzione dei preti per adescare e asservire le anime libere. Chi non sapesse vedere altro in questo libro sarebbe pregato di metterlo da parte: esso non è fatto per lui. Ma noi vorremmo almeno dirgli che la vita e gli ideali ch’esso ha cercato di descrivere sono stati per ben quindici secoli ideali indiscussi, e che, per quanto antichi, hanno ancora la novità e la freschezza dei fanciulli e dei giovani che ogni anno, a milioni, continuano ad assorbirli e ad edificare, su quelli, la loro vita. E non basta: oltre ai trecentocinquanta milioni di credenti Cristiani ve ne sono altre centinaia di milioni, che noi talvolta chiamiamo pagani, pei quali il soprannaturale è una grande realtà e pei quali l’ideale descritto in queste pagine ha un significato pieno ed accettabile. La miscredenza moderna è un fenomeno molto isolato; tende a diffondersi, ma, in confronto della estensione della razza umana e dello stesso Cristianesimo nel cui seno sorge, è ancora poca cosa, ristretta in un alveo tutto suo. Le danno il nome di nuovo paganesimo; in realtà, per render giustizia ai veri pagani, dovremmo chiamarla in altro modo, ché i pagani autentici la condannano ancor più dei Cristiani. Ma nell’altro campo sono coloro pei quali Iddio e il soprannaturale sono una grande realtà, coloro che sanno in chi hanno riposto fede e che hanno la certezza di non essersi ingannati. Essi credono, e la loro non è una semplice opinione, di appartenere a Dio, e sanno ch’Egli si prende cura dei suoi. Credono che Dio ha parlato e ci ha detto cose che mai avremmo potuto scoprire da soli, e ch’Egli ci ha dato delle leggi e dei precetti per la regola della nostra vita. Per essi quindi, dal momento che Dio ha parlato, la vita e il dovere, l’amore e il sacrificio, il male e il bene, il diritto e la giustizia hanno significati e definizioni assai più chiari e sicuri di quelli che l’uomo avrebbe mai potuto da sé immaginare; hanno delle sanzioni che rendono quei principî, come la civiltà su di essi imperniata, molto più saldi di qualunque cosa l’uomo possa da sé solo costruire. È per costoro in primo luogo che fu scritto questo libro, possano essi, o no, convenire in tutto ciò che contiene; il loro consenso, per lo meno, riposerà sui principî primi intorno ai quali autore e lettori sono d’accordo. Senza questa intesa iniziale diverrebbe impossibile ogni ulteriore comprensione reciproca.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (2)

LA GRAZIA E LA GLORIA (34)

LA GRAZIA E LA GLORIA (34)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO II.

Il merito, sua natura e sue condizioni.

1. – Non è mia intenzione trattare a lungo della natura del merito. Diremo solo ciò che è necessario sapere al riguardo per l’intelligenza della nostra crescita spirituale, cioè l’aumento della grazia santificante e delle virtù dell’anima dei figli adottivi. Prima di tutto, rivolgiamoci al Santo Concilio di Trento su questo grave argomento. Ecco come ne parla nell’esposizione autentica della dottrina: i peccatori, « una volta giustificati e resi amici di Dio e membri della sua casa (domestici), si rinnovano, come dice l’Apostolo, di giorno in giorno, camminando di virtù in virtù…; essi crescono con l’osservanza dei comandamenti di Dio e della Chiesa, nella giustizia che hanno ricevuto per grazia di Gesù Cristo, con la fede cooperante nelle loro buone opere e sono sempre più giustificati. Perché sta scritto: Il giusto diventa sempre più giusto. E ancora: Non abbiate paura di avanzare nella giustizia fino alla morte… È questo aumento della giustizia che la Chiesa chiede a Dio, quando gli dice: Donaci, o Signore, un aumento della fede, della speranza e della carità » (Conc. Trid., sess. VI, cap. 14). – I canoni fulminati contro l’eresia non sono meno espliciti dell’esposizione dottrinale. Testimone è il canone 24° della stessa sessione: « Se qualcuno dirà che la giustizia non si conservi e nemmeno si accresca davanti a Dio con le opere buone, ma che queste opere siano solo i frutti e i segni della giustizia acquisita, e non una causa di incremento per essa, sia anatema ». Anatema anche a chi dirà « … che le opere buone dei giusti sono talmente un dono di Dio e che esse non sono, nello stesso tempo, meriti per il giustificato; o chi sosterrà che il giustificato dalle buone opere che compie per grazia di Dio e per i meriti di Gesù Cristo di cui è membro vivente, non meriti in verità l’aumento della grazia e l’aumento della gloria. » Notiamo queste ultime parole del 32° canone: esse ci mostrano che questi due termini, grazia e gloria, sono associati in un merito comune; così che meritare l’aumento dell’una è per questo stesso fatto acquisire il diritto all’aumento dell’altra. E non c’è niente di più naturale, perché la gloria corrisponde alla grazia e quest’ultima è il seme della prima. – Ho voluto citare a lungo questi vari passi del Santo Concilio, sia perché ci dispenseranno dal riportarne altri, sia perché contengono in sostanza tutto ciò che dovremo dire sulle condizioni del vero merito. Ora, su questa questione capitale, se ci sono punti di dottrina indiscutibili, ce ne sono però altri in cui regna una certa divergenza di opinioni tra i nostri Dottori. Diciamo innanzitutto ciò che non può essere messo in dubbio; poi affronteremo i punti controversi per far emergere, se piace a Dio, il più probabile e il più consolante.

2. Per iniziare con ciò che riguarda il merito delle opere, considerate in sé stesse, sono indispensabili tre cose. Per essere meritoria, l’opera deve essere moralmente buona, deve essere libera e deve essere compiuta sotto l’influenza della grazia. – Dell’opera meritoria, ho detto che deve essere moralmente buona. Il merito è il diritto a una ricompensa; è un atto per il quale la grazia è il premio. Come può un’azione malvagia, che, lungi dal procurare gloria a Dio, costituirebbe una disobbedienza e un’offesa alla Maestà divina, dare diritto a qualcos’altro da parte di Dio se non a una punizione giustamente meritata? – Non parlerò qui di azioni che si chiamano indifferenti e che non avrebbero per loro natura né malizia né bontà morale. Secondo il sentire comune dei più grandi teologi, tali azioni non si verificano nella realtà, almeno quando si tratta di atti liberi. Infatti, ci sono due possibilità: o l’agente da cui promanano si propone un fine secondo la regola della ragione, e, in questa ipotesi, il suo atto o agisce senza un fine ragionevole, e quindi l’azione diventa cattiva, è un disordine, poiché è in flagrante disaccordo con la dignità della natura. In ogni caso, nessuno vedrebbe alcun merito in un atto privo di moralità. – Moralmente buona, l’opera per diventare meritoria deve comunque essere gratuita. È l’universalità dei Padri e l’intera teologia cattolica a gridarci per bocca di San Bernardo: « Dove non c’è libertà, non c’è merito”. Ubi non est libertas, nec meritum » (S. Bern, Serm. 81 in Cant.). E questo è ciò che risulta chiaramente dalla natura stessa del merito. In effetti, « meritare è acquisire per se stessi un qualche bene a titolo di salario. Ma questo richiede che si dia qualcosa il cui valore sia proporzionale (aliquid condignum) a ciò che è oggetto del merito. Ma noi non diamo se non ciò che sia nostro, ciò che possediamo e controlliamo. Inoltre, abbiamo il dominio dei nostri atti solo grazie alla libera volontà » (S. Thom. de Verit. q. 26, a. 6.). Questo è ciò che lo Spirito Santo ci fa ascoltare nel libro dell’Ecclesiastico: « Dio, fin dal principio, creò l’uomo e lo lasciò nelle mani del proprio consiglio… Davanti all’uomo ci sono la morte e la vita, il bene e il male; ciò che sceglierà gli sarà dato » (Eccl. XV, 14-18). Osserviamo, tuttavia, che la libertà, presupposta per merito, non è necessariamente quella libertà imperfetta che può essere indifferente al male o al bene, al vizio o alla virtù. Dio, l’esemplare infinitamente perfetto della vera libertà, come di tutte le perfezioni, non ha questa scelta. In virtù della sua natura, Egli è essenzialmente fissato nell’amore del bene e nell’orrore del male. Per Lui cessare di volere l’uno o odiare l’altro è cessare di essere Dio, esse sarebbero la stessa cosa. La sua libertà è la scelta tra beni finiti, perché la volontà divina conosce assolutamente una sola necessità, quella di amare il bene sovranamente perfetto. Amare il bene sovranamente perfetto, cioè Dio stesso. Pertanto, il potere che è in noi di scegliere tra il bene morale e il suo contrario, lungi dall’essere l’essenza del nostro libero arbitrio, è solo una sua triste imperfezione. (S. Thom. 3 p., q. 62, a.8, ad 3). E la gloria dei figli di adozione sarà quella di essere un giorno, come il loro Padre, liberi e legati per sempre all’amore della vera bontà. – Ma non è meno vero che toglierci la libertà significa toglierci tutti i nostri meriti. Il Concilio di Trento e i Pontefici hanno quindi condannato con anatema la negazione del libero arbitrio predicata dagli innovatori del XVI secolo (Concilio di Trento, sess. VI, can. 4 e 5) e le proposizioni in cui Giansenio insegnava che, nello stato di natura decaduta, l’assenza di coazione, anche quando prevalga la necessità, è sufficiente per il merito e il demerito (3° delle proposizioni, tratte dall’Augustinus di Cornelio Giansenio e condannate da Innocenzo X, etc.). – Un’ultima condizione finale dell’atto meritorio è che esso proceda dalla grazia. Supponete che la natura con le sue facoltà proprie ne sia l’unico principio, forse ne risulterà un titolo a qualche bene dell’ordine naturale; ma non aspettatevi che Dio doni la grazia o la gloria come ricompensa, perché non ci sarebbe quella giusta proporzione tra servizio e ricompensa che è essenziale per il merito propriamente detto. È questa assoluta impotenza della natura a meritare, in qualsiasi misura, i doni soprannaturali, che la Chiesa ha così spesso affermato contro i Pelagiani del V secolo, e gli eretici che li hanno più o meno seguiti nel corso dei secoli. Da queste lotte non potremo che trarre una doppia sentenza. Una è del famoso Concilio di Orange: « Sì, la ricompensa è dovuta alle opere buone, quando se ne fanno; ma la grazia che non è dovuta, precede affinché esse si facciano » (« Debetur merces bonis operibus si fiant; sed gratia quæ non debetur, præcedit ut fiant » Con. Araus, II can. 18). L’altra è di Sant’Agostino, l’immortale campione della grazia di Cristo: « Dio, quando incorona i nostri meriti, incorona solo i suoi doni », perché questi meriti devono avere le loro radici nella grazia per essere meritori (« Cum Deus coronat merita nostra, nihil aliud eoronat quam munera sua ». S. Agostino, ep. 194, n. 19). Ecco, dunque, le tre condizioni assolutamente indispensabili nei nostri atti, perché ci sia un merito davanti a Dio.

3. – Oltre a queste condizioni richieste nell’opera stessa, per il merito propriamente detto, quello che non è più di pura convenienza ma di condegnazione, che non è più rivolto alla sola misericordia, ma alla giustizia, ce n’è un’altra che deve riguardare la persona stessa dell’agente. Una cosa ammirevole che ci mostra la grandezza della grazia santificante e dei doni che l’accompagnano, quando un uomo, secondo il pensiero del grande Apostolo, « benché abbia una fede capace di spostare le montagne; quand’anche abbia distribuito tutti i suoi beni ai poveri e abbia dato il suo corpo per essere consumato dal fuoco, se non ha la carità, tutto questo non gli servirà a nulla » (1 Cor. XIII, 2, 3). – Si tratterebbe, ne convengo, e la fede me lo insegna, di disposizioni che mi preparano a ricevere la grazia, di meriti in senso lato, se volete; ma Dio non deve loro né la grazia né la gloria, né l’aumento di entrambe. Perché? Perché la condizione assolutamente essenziale del merito propriamente detto è lo stato di grazia; diciamo meglio ancora: Perché la dignità di essere figli di Dio deve essere considerata come la ragione primaria delle nostre opere meritorie (« E l’aumento della grazia e la sua infusione sono da Dio. Ma, per quanto ci riguarda, altra è l’influenza dei nostri atti su questa prima infusione, altra è sull’accrescimento della grazia. Questo perché, finché l’uomo non ha la grazia santificante, non partecipa ancora all’essere divino e, di conseguenza, le opere che compie non hanno alcuna proporzione con il bene soprannaturale che dovrebbe meritare. Ma una volta che per grazia gli è stato dato questo essere divino, questi stessi atti acquistano una dignità sufficiente per meritare l’aumento o la perfezione della stessa grazia » S. Thom., II D. 27, q. 1, a. 5, ad 3). La Santa Chiesa lo insegna espressamente attraverso il Concilio di Trento: infatti, se Dio promette un aumento della giustizia e la vita eterna come ricompensa per le buone opere, è ai giustificati, agli amici di Dio, alle membra vive di Gesù Cristo, ai rami che aderiscono alla vigna e che ricevono pienamente la sua influenza, ai membri della Chiesa e al popolo. La promessa è fatta ai giustificati, agli amici di Dio, alle membra vive di Gesù Cristo, ai tralci che aderiscono alla vite e ne ricevono pienamente l’influenza, è a coloro che vivono per grazia e si muovono nella carità, che è fatta la promessa. – Per quanto questa dottrina sia evidente nell’insegnamento del grande Concilio, ha ricevuto, se possibile, una manifestazione ancora più eclatante nella condanna del Bäjanismo. Ascoltiamo piuttosto le proposizioni proscritte dai supremi giudici della fede, S. Pio V, Gregorio XIII e Urbano VII. « È essere del sentimento di Pelagio il quale sostiene che un atto buono, fatto senza la grazia d’adozione, non sia meritorio della vita eterna (Prop. 12). Pensa come Pelagio chi dice che per meritare sia necessario essere elevato dalla grazia di adozione, ad uno stato deiforme » (Prop. 17). Ma perché non si sospetti che queste condanne siano rivolte esclusivamente al paragone ingiurioso fatto tra la dottrina di Pelagio e quella che sostiene la grazia santificante come primo principio del merito, ci sono altre proposizioni altrettanto riprovevoli che non contengono nulla di simile; questa, ad esempio: « La ragione del merito non deriva dal fatto che chi compie opere buone abbia come ospite la grazia e lo Spirito Santo, ma solo dal fatto che obbedisce alla legge divina » (Prop. 15; col. prop. 15). Ancora, la Proposizione 17 così recita: « Le opere di giustizia e di temperanza, compiute da Gesù Cristo, non hanno ricevuto un valore maggiore dalla dignità della persona che le ha compiute, persona che le eseguiva ». – Queste condanne sono piuttosto notevoli, perché ci rappresentano la grazia dell’adozione, non solo come condizione necessaria, ma anche e soprattutto come fattore essenziale e principale del merito della condignità. E la natura stessa delle cose è lì a confermare ciò che l’autorità ci ha appena insegnato. Come può crescere nella grazia colui che non esiste ancora, e come può meritare un aumento di gloria colui che non è ancora figlio, quando l’eredità è solo per i figli? – Entriamo ancora più nel merito e consideriamo il rapporto tra le opere e il premio che è loro destinato. Se si tratta di una questione di stretto merito e di giustizia, non deve esistere una giustizia, che ci sia una vera proporzione tra questo e quelli? Se l’omaggio viene da un amico di Dio, da un figlio amato, da un cuore pieno di Spirito Santo, capisco che può essere così degno di stima agli occhi della giustizia divina. Perché Dio vede in essa non tanto il suo valore, che a volte è molto piccolo, ma la persona stessa che la offre. La più semplice carezza di un caro bambino non ha spesso più potere sul cuore di una madre di tutti i segni di deferenza di un estraneo o di un nemico? Da quando la dignità della persona deve essere trascurata quando si tratta di stimare il prezzo degli omaggi resi o ricevuti? – Il più piccolo degli atti d’amore o di obbedienza offerti a Dio dal Verbo fatto uomo aveva un valore incomparabile ed un peso infinito. Questi atti di bontà finita, se considerati in sé, appaiono come informati dall’incommensurabile grandezza della Persona che li ha prodotti. Da qui la dottrina certa che per pagare tutti i debiti del mondo e per meritare tutte le grazie che sono state o saranno mai distribuite in cielo e in terra, bastava che il cuore salisse dal Dio incarnato verso il Padre. Ora, non dimentichiamo che chiunque sia in stato di grazia non è più solo un uomo: è un dio deificato.

4. – Una condizione finale richiesta per il merito in senso stretto, cioè solo per quello di cui ci occupiamo qui, deve essere presa dal lato di Dio. Affinché abbiamo diritto alla ricompensa agli occhi della giustizia eterna, Dio deve essersi impegnato liberamente a darcela. Invano offrirei a questo artista un prezzo equivalente, o addirittura superiore, al valore della sua opera. La giustizia non lo obbligherebbe a consegnarmelo, se non fosse contento di accettare il mio denaro come pagamento per il suo lavoro. « Dio – dice Sant’Agostino – è diventato nostro debitore, non perché abbia ricevuto qualcosa da noi, ma perché ci ha fatto le sue promesse ». (Debitorem ipse fecit se, non accipiendo sed promittendo. Non ei dicitur: redde quod accepisti, sed, redde quod promisisti. S. Agosto. Ep. 194). Non esamineremo se questa promessa non sia sufficientemente contenuta nella capacità soprannaturale che Dio ci ha dato di compiere degli atti, il cui valore è proporzionale o all’aumento della grazia santificante o alla beatitudine finale. Molti l’hanno pensato e io considero la loro opinione molto probabile. In ogni caso, ci basta vedere le promesse divine registrate nelle Scritture e manifestamente promulgate dalla loro infallibile interprete, la santa Chiesa (Conc. Trident. Ss. VI, c. 16). – Non esaminerò nemmeno un’altra questione molto controversa, anche se la divergenza delle soluzioni è forse più nelle parole che nelle cose. I nostri meriti ci conferiscono davanti a Dio uno stretto diritto alla giustizia, tanto da diventare Egli in verità nostro debitore? Sì, dicono gli uni; no, dicono altri in modo più preciso. Qualunque sia la formula, poiché Dio è la regola suprema e la fonte di ogni obbligo e dovere, non può essere vincolato, come lo siamo noi. Il suo obbligo nei suoi confronti, non è altro che la necessità di non abdicare a se stesso; e questa stessa eminenza dell’obbligo divino a favore della creatura, lungi dal diminuire la certezza delle nostre speranze, le innalza infinitamente: è infatti manifestamente impossibile che Dio sia contrario a Dio. A chi parla del nostro diritto e del debito di Dio, come se fossero diritti e debiti tra creature, vorrei chiedere che cosa diamo a Dio che non sia innanzitutto un dono della sua liberale munificenza? L’assioma: “Do ut des“, io do a te affinché tu dia a me, quando si tratta di Dio, ha un significato così particolare che non si applica a nessun altro se non a Lui. Se gli diamo le nostre opere buone per riceverne il prezzo di un tesoro che sia esclusivamente nostro, lo otteniamo. Guardate e vedete come, prima di essere nostre, queste opere sono ancora più di Dio, poiché Egli ci ha dato la facoltà di farle, la dignità soprannaturale che le nobilita e l’operazione stessa che le costituisce; da Dio che si è liberamente impegnato a ricompensarle oltre ogni misura. – C’è bisogno di aggiungere che in questo ammirevole commercio, tutto il profitto sia per noi? Dio sarà meno felice, meno ricco, meno perfetto, se gli rifiutate la vostra benedizione, o il vostro amore sarà in grado di aggiungere la minima parte alle sue infinite perfezioni? È partendo da questo pensiero che il Dottore Angelico, seguendo Sant’Agostino, risolve una singolare difficoltà. La ricerca della propria gloria, si diceva, non può essere un peccato, poiché Dio, il modello che dobbiamo imitare come figli diletti (Efesini V, 1), ci ha creati per procurarci la sua. Sì, risponde il grande teologo, Dio cerca la sua propria gloria; ma, oltre al fatto che non si eleverà mai al di sopra di se stesso, per quanto lo si possa lodare, perché è al di sopra di tutte le cose; è a noi che conviene conoscere la sua grandezza e sapere che è al di sopra di tutte le cose. è opportuno conoscere la sua grandezza, e non Lui. E poiché non lo conosceremmo se non lodasse se stesso, è evidente che non cerca la sua gloria per sé, ma per noi. Da qui la conclusione che l’uomo possa anche desiderare la buona fama, ma a beneficio dei fratelli, secondo le parole del Maestro: « Che vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli » (Thom., 2. 2 q.132, a. 1). – Infine, è necessario aggiungere che l’infinita sovranità di Dio ripugna ad ogni dipendenza esterna? Chi è dunque al di sopra di Lui per imporgli leggi o per mantenerlo nella regola della giustizia, Lui che è la stessa regola e la giustizia per essenza? Affrettiamoci a concludere con San Tommaso: « Poiché tutte le nostre azioni hanno merito solo presupponendo l’ordinazione divina, da cui traggono tutto il loro essere e tutto il loro valore, ne consegue che Dio non è semplicemente debitore nei nostri confronti, ma lo è per il suo proprio » (Id. t. 2, q. 114, a. 1 ad 3), sia che ci conceda l’aumento di grazia per le nostre opere di figli, sia che ci prepari quello della gloria.

LA GRAZIA E LA GLORIA (35)

11 OTTOBRE: FESTA DELLA MATERNITÀ DELLA B. V. MARIA (2022)

11 OTTOBRE

MATERNITÀ DELLA B. V. MARIA

(Dom  Gueranger: l’Anno Liturgico-vol. II;S. Paolo ed. Alba, 1957)

Il titolo di Madre di Dio.

Il titolo di Madre di Dio, fra tutti quelli che vengono attribuiti alla Madonna, è il più glorioso. Essere la Madre di Dio è per Maria la sua ragion d’essere, il motivo di tutti i suoi privilegi e delle sue grazie. Per noi il titolo racchiude tutto il mistero della Incarnazione e non ne vediamo altro che più di questo sia sorgente per Maria di lodi e per noi di gioia. Sant’Efrem pensava giustamente che credere e affermare che la Santissima Vergine Maria è Madre di Dio è dare una prova sicura della nostra fede. La Chiesa quindi non celebra alcuna festa della Vergine Maria senza lodarla per questo privilegio. E così saluta la beata Madre di Dio nell’Immacolato Concepimento, nella Natività, nell’Assunzione e noi nella recita frequentissima dell’Ave Maria facciamo altrettanto.

L’eresia nestoriana.

« Theotókos », Madre di Dio, è il nome con cui nei secoli è stata designata Maria Santissima. Fare la storia del dogma della maternità divina sarebbe fare la storia di tutto il Cristianesimo, perché il nome era entrato così profondamente nel cuore dei fedeli che quando, davanti al Vescovo di Costantinopoli, Nestorio, un prete che era il suo portavoce, osò affermare che Maria era soltanto madre di un uomo, perché era impossibile che Dio nascesse da una donna, il popolo protestò scandalizzato. Era allora Vescovo di Alessandria san Cirillo, l’uomo suscitato da Dio per difendere l’onore della Madre del suo Figlio. Egli tosto manifestava il suo stupore: « Mi meraviglia che vi siano persone, che pensano che la Santa Vergine non debba essere chiamata Madre di Dio. Se nostro Signore è Dio, Maria, che lo mise al mondo, non è la Madre di Dio? Ma questa è la fede che ci hanno trasmessa gli Apostoli, anche se non si sono serviti di questo termine, ed è la dottrina che abbiamo appresa dai Santi Padri ».

Il Concilio di Efeso.

Nestorio non cambiò pensiero e l’imperatore convocò un Concilio, che si aprì ad Efeso il 22 giugno del 431 sotto la presidenza di san Cirillo, legato del Papa Celestino. Erano presenti 200 Vescovi i quali proclamarono che « la persona di Cristo è una e divina e che la Santissima Vergine deve essere riconosciuta e venerata da tutti quale vera Madre di Dio ». I Cristiani di Efeso intonarono canti di trionfo, illuminarono la città e ricondussero alle loro dimore con fiaccole accese i vescovi « venuti – gridavano essi – per restituirci la Madre di Dio e ratificare con la loro santa autorità ciò che era scritto in tutti i cuori ». Gli sforzi di satana avevano raggiunto, come sempre, un risultato solo, cioè quello di preparare un magnifico trionfo alla Madonna e, se vogliamo credere alla tradizione, i Padri del Concilio, per perpetuare il ricordo dell’avvenimento, aggiunsero all’Ave Maria le parole: « Santa Maria, Madre di Dio, pregate per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte ». Milioni di persone recitano ogni giorno quella preghiera e riconoscono a Maria la gloria di Madre di Dio, che un eretico aveva preteso negare.

La festa dell’undici ottobre.

Il 1931 ricorreva il xv centenario del Concilio di Efeso e Pio XI pensò che sarebbe stata « cosa utile e gradita per i fedeli meditare e riflettere sopra un dogma così importante » come quello della maternità divina e, per lasciare una testimonianza perpetua della sua divozione alla Madonna, scrisse l’Enciclica Lux veritatis, restaurò la basilica di Santa Maria Maggiore in Roma e istituì una festa liturgica, che « avrebbe contribuito a sviluppare nel clero e nei fedeli la divozione verso la grande Madre di Dio, presentando alle famiglie come modelli, Maria e la sacra Famiglia di Nazareth », affinché siano sempre più rispettati la santità del matrimonio e l’educazione della gioventù. Che cosa implichi per Maria la dignità di Madre di Dio lo abbiamo già notato nelle feste del primo gennaio e del 25 marzo, ma l’argomento è inesauribile e possiamo fermarci su di esso ancora un poco.

Maria sterminio delle eresie.

« Godi, o Vergine, perché da sola hai sterminato nel mondo intero le eresie ». L’antifona della Liturgia insegna che il dogma della maternità divina è sostegno e difesa di tutto il Cristianesimo. Confessare la maternità divina è confessare la natura divina e l’umana nel Verbo Incarnato in unità di persona ed è altresì affermare la distinzione delle Persone in Dio nell’unità di natura ed è ancora riconoscere tutto l’ordine soprannaturale della grazia e della gloria.

Maria vera Madre di Dio.

Riconoscere che Maria è vera Madre di Dio è cosa facile. « E7 il Figlio della Santa Vergine è Dio, scrive Pio XI nell’Enciclica Lux veritatis, Colei che l’ha generato merita di essere chiamata Madre di Dio; se la Persona di Gesù Cristo è una e divina, tutti, senza dubbio, devono chiamare Maria Madre di Dio e non solamente di Cristo uomo. Come le altre donne sono chiamate e sono realmente madri, perché hanno formato nel loro seno la nostra sostanza mortale, e non perché abbiano creata l’anima umana, così Maria ha acquistato la maternità divina per aver generato l’unica Persona del Figlio suo ».

Conseguenze della maternità divina.

« Derivano di qui, come da sorgente misteriosa e viva, la speciale grazia di Maria e la sua suprema dignità davanti a Dio. La beata Vergine ha una dignità quasi infinita, che proviene dal bene infinito, che è Dio, dice san Tommaso. E Cornelio a Lapide spiega le parole di san Tommaso così: Maria è la Madre di Dio, supera in eccellenza tutti gli Angeli, i Serafini, i Cherubini. È la Madre di Dio ed è dunque la più pura e più santa di tutte le creature e, dopo quella di Dio, non è possibile pensare purezza più grande. È Madre di Dio, sicché, se i Santi ottennero qualche privilegio (nell’ordine della grazia santificante) Maria ebbe il suo prima di tutti ».

Dignità di Maria.

Il privilegio della maternità divina pone Maria in una relazione troppo speciale ed intima con Dio, perché possano esserle paragonate dignità create di qualsiasi genere, la pone in un rapporto immediato con l’unione ipostatica e la introduce in relazioni intime e personali con le tre persone della Santissima Trinità.

Maria e Gesù.

La maternità divina unisce Maria con il Figlio con un legame più forte di quello delle altre madri con i loro figli. Queste non operano da sole la generazione e la Santa Vergine invece ha generato il Figlio, l’Uomo-Dio, con la sua stessa sostanza e Gesù è premio della sua verginità e appartiene a Maria per la generazione e per la nascita nel tempo, per l’allattamento col quale lo nutrì, per l’educazione che gli diede, per l’autorità materna esercitata su di lui.

Maria e il Padre.

La maternità divina unisce in modo ineffabile Maria al Padre. Maria infatti ha per Figlio il Figlio stesso di Dio, imita e riproduce nel tempo la generazione misteriosa con la quale il Padre generò il Figlio nell’eternità, restando così associata al Padre nella sua paternità. « Se il Padre ci manifestò un’affezione così sincera, dandoci suo Figlio come Maestro e Redentore, diceva Bossuet, l’amore che aveva per te, o Maria, gli fece concepire ben altri disegni a tuo riguardo e ha stabilito che Gesù fosse tuo come è suo e, per realizzare con te una società eterna, volle che tu fossi la Madre del suo unico Figlio e volle essere il Padre del tuo Figlio » (Discorso sopra la devozione alla Santa Vergine).

Maria e lo Spirito Santo.

La maternità divina unisce Maria allo Spirito Santo, perché per opera dello Spirito Santo ha concepito il Verbo nel suo seno. In questo senso Leone XIII chiama Maria Sposa dello Spirito Santo (Encicl. Divinum munus, 9 maggio 1897) e Maria è dello Spirito Santo il santuario privilegiato, per le inaudite meraviglie che ha operate in Lei.

« Se Dio è con tutti i Santi, afferma san Bernardo, è con 0Maria in modo tutto speciale, perché tra Dio e Maria l’accordo è così totale che Dio non solo si è unita la sua volontà, ma la sua carne e con la sua sostanza e quella della Vergine ha fatto un solo Cristo, e Cristo se non deriva come Egli è, né tutto intero da Dio, né tutto  intero da Maria, è tuttavia tutto intero di Dio e tutto intero di Maria, perché non ci sono due figli, ma c’è un solo Figlio, che è Figlio di Dio e della Vergine. L’Angelo dice: Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te. È con te non solo il Signore Figlio, che rivestisti della tua carne, ma il Signore Spirito Santo dal quale concepisti e il Signore Padre, che ha generato colui che tu concepisti. È con te il Padre che fa sì che suo Figlio sia tuo Figlio; è con te il Figlio, che, per realizzare l’adorabile mistero, apre il tuo seno miracolosamente e rispetta il sigillo della tua verginità; è con te lo Spirito Santo, che, con il Padre e con il Figlio santifica il tuo seno. Sì, il Signore è con te » (3.a Omelia super Missus est).

L’amore di Gesù per la Madre.

« Se fosse permesso spingere tanto innanzi l’analisi del suo sviluppo umano, si direbbe che in Gesù, come in altri, vi fu qualcosa dell’influenza della Madre sua. La grazia, la finezza squisita, la dolcezza indulgente appartengono solo a Lui, ma proprio per tali cose si distinguono coloro, che spesso hanno sentito il cuore come addolcito dalla tenerezza materna e lo spirito ingentilito, per la conversazione con la donna venerata e amata teneramente, che si compiaceva iniziarli alle sfumature più delicate della vita. Gesù fu davvero, come lo chiamavano i concittadini, il « figlio di Maria ». Egli tanto ha ricevuto da Maria, perché l’amò infinitamente. Come Dio, la scelse e le donò prerogative uniche di verginità, di purezza immacolata, e nello stesso tempo la grazia della maternità divina; come uomo, l’amò tanto fedelmente che sulla croce, in mezzo alle spaventevoli sofferenze, l’ultimo pensiero fu per lei: Donna, ecco tuo figlio. Ecco tua Madre. » Ma il doppio amore gli fece scegliere per la madre una parte degnissima di lei. Il profeta aveva preannunziato Lui come il Servo di Jahvè e la Madre fu la Serva del Signore nell’oblio di sè, nella devozione e nel perfetto distacco: « vi è più gioia nel dare che nel ricevere ». Cristo, che aveva presa per sé questa gioia, la diede alla Madre e Maria comprese così bene questo dono che nei ricordi d’infanzia segnò con attenzione particolare i rapporti che a un lettore superficiale sembrano duri: « Perché mi cercavate? Non sapevate che debbo occuparmi delle cose che riguardano il Padre mio? » E più tardi: « Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?… » Gesù vuole insegnarci il distacco che da noi esige e darcene l’esempio » (Lebreton. La Vie et Venseignement de J. C. N. S., p. 62).

Maria nostra Madre.

Salutandoti oggi col bel titolo di Madre di Dio, non dimentichiamo che « avendo dato la vita al Redentore del genere umano, sei per questo fatto stesso divenuta Madre nostra tenerissima e che Cristo ci ha voluti per fratelli. Scegliendoti per Madre del Figlio suo, Dio ti ha inculcato sentimenti del tutto materni, che respirano solo amore e perdono » (Pio XI Enc. Lux veritatis). – « O Vergine tutta santa, è per i tuoi figli cosa dolce dire di te tutto ciò che è glorioso, tutto ciò che è grande, ma ciò facendo dicono solo il vero e non riescono a dire tutto quello che tu meriti (Basilio di Seleucia, Omelia 39, n. 6. P. G. 85, c. 452). Tu sei infatti la meraviglia delle meraviglie e di quanto esiste o potrà esistere, Dio eccettuato, niente è più bello di te » (Isidoro da Tessalonica. Discorso per la Presentazione di Maria P. G. 189, c. 69). Dalla gloria del cielo ove sei, ricordati di noi, che ti preghiamo con tanta gioia e confidenza. « L’Onnipotente è con te e tu sei onnipotente con Lui, onnipotente per Lui, onnipotente dopo di Lui », come dice san Bonaventura. Tu puoi presentarti a Dio non tanto per pregare quanto per comandare, tu sai che Dio esaudisce infallibilmente i tuoi desideri. Noi siamo, senza dubbio, peccatori, ma tu sei divenuta Madre di Dio per causa nostra e « non si è mai inteso dire che alcuno di quelli che sono ricorsi a te sia stato abbandonato. Animati da questa confidenza, o Vergine delle vergini, o nostra Madre, veniamo a te gemendo sotto il peso dei nostri falli e ci prostriamo ai tuoi piedi. Madre del Verbo incarnato, non disprezzare le nostre preghiere, degnati esaudirle » (San Bernardo).

Doppio di II Classe – Paramenti bianchi

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Isa 7:14.
Ecce Virgo concípiet, et páriet fílium, et vocábitur nomen ejus Emmánuel.

Ecco, una Vergine concepirà e darà alla luce un Figlio: che sarà chiamato Emanuele.


Ps 97:1.
Cantáte Dómino cánticum novum: quia mirabília fecit.


[Canto nuovo cantate al Signore poiché fatti mirabili Egli ha operato.]

Ecce Virgo concípiet, et páriet fílium, et vocábitur nomen ejus Emmánuel.

[Ecco, una Vergine concepirà e darà alla luce un Figlio: che sarà chiamato Emanuele.]
Ps XCVII:1.

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, qui de beátæ Maríæ Vírginis útero Verbum tuum, Angelo nuntiánte, carnem suscípere voluísti: præsta supplícibus tuis; ut, qui vere eam Genitrícem Dei crédimus, ejus apud te intercessiónibus adjuvémur.

[O Dio, che hai voluto che all’annuncio dell’angelo il tuo Verbo s’incarnasse nel seno della beata Vergine Maria: concedi a noi di essere aiutati presso di te dall’intercessione di Colei che crediamo vera madre di Dio.]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XXIV: 23-31
Ego quasi vitis fructificávi suavitátem odóris: et flores mei, fructus honóris et honestátis. Ego mater pulchræ dilectiónis, et timóris, et agnitiónis, et sanctæ spei. In me grátia omnis viæ et veritátis: in me omnis spes vitæ et virtútis. Transíte ad me omnes qui concupíscitis me, et a generatiónibus meis implémini. Spíritus enim meus super mel dulcis, et heréditas mea super mel et favum. Memória mea in generatiónes sæculórum. Qui edunt me, adhuc esúrient: et qui bibunt me, adhuc sítient. Qui audit me, non confundétur: et qui operántur in me, non peccábunt. Qui elúcidant me, vitam ætérnam habébunt.
R. Deo grátias.

 [Come una vite, io produssi pàmpini di odore soave, e i miei fiori diedero frutti di gloria e di ricchezza. Io sono la madre del bell’amore, del timore, della conoscenza e della santa speranza. In me si trova ogni grazia di dottrina e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù. Venite a me, voi tutti che mi desiderate, e dei miei frutti saziatevi. Poiché il mio spirito è più dolce del miele, e la mia eredità più dolce di un favo di miele. Il mio ricordo rimarrà per volger di secoli. Chi mangia di me, avrà ancor fame; chi beve di me, avrà ancor sete. Chi mi ascolta, non patirà vergogna; chi agisce con me, non peccherà; chi mi fa conoscere, avrà la vita eterna.]

A buon diritto la Chiesa anche qui applica alla Madonna un testo che è stato scritto con riferimento al Messia. Non è Maria la vera vigna, che ci ha data l’uva generosa, che riceviamo tutti i giorni nell’Eucarestia? Vi è gloria paragonabile a quella di Maria, che, essendo Vergine, è divenuta Madre di Dio, senza perdere la verginità? La Chiesa la canta con gioia Madre del bell’amore e ci invita ad accostarci a Lei con confidenza, perché in Maria si incontra ogni speranza della vita e della virtù e chi l’ascolta non sarà mai confuso.

Graduale

Isa XI: 1-2.
Egrediétur virga de rádice Jesse, et flos de rádice ejus ascéndet.
V. Et requiéscet super eum Spíritus Dómini. Allelúja, allelúja.
V. Virgo Dei Génitrix, quem totus non capit orbis, in tua se clausit víscera factus homo. Allelúja.

[Un germoglio spunterà dalla radice di Iesse, un fiore crescerà dalla radice di lui.
V. E su di esso si poserà lo Spirito del Signore. Alleluia, alleluia.
V. O Vergine, Madre di Dio, nel tuo seno, fattosi uomo, si rinchiuse Colui che l’universo non può contenere. Alleluia].

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc II:43-51
In illo témpore: Cum redírent, remánsit puer Jesus in Jerúsalem, et non cognovérunt paréntes ejus. Existimántes autem illum esse in comitátu, venérunt iter diei, et requirébant eum inter cognátos, et notos. Et non inveniéntes, regréssi sunt in Jerúsalem, requiréntes eum. Et factum est, post tríduum invenérunt illum in templo sedéntem in médio doctórum, audiéntem illos, et interrogántem eos. Stupébant autem omnes, qui eum audiébant, super prudéntia et respónsis ejus. Et vidéntes admiráti sunt. Et dixit mater ejus ad illum: Fili, quid fecísti nobis sic? ecce pater tuus, et ego doléntes quærebámus te. Et ait ad illos: Quid est quod me quærebátis? nesciebátis quia in his, quæ Patris mei sunt, opórtet me esse. Et ipsi non intellexérunt verbum, quod locútus est ad eos. Et descéndit cum eis, et venit Názareth: et erat súbditus illis.

[In quel tempo, mentre essi se ne tornavano, il fanciullo Gesù rimase in Gerusalemme, senza che i suoi genitori se ne accorgessero. Credendo che egli si trovasse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, e lo cercavano fra parenti e conoscenti. Ma, non avendolo trovato, tornarono a Gerusalemme per farne ricerca. E avvenne che lo trovarono tre giorni dopo, nel tempio, seduto in mezzo ai dottori e intento ad ascoltarli e a interrogarli. E tutti quelli che lo udivano restavano meravigliati della sua intelligenza e delle sue risposte. Nel vederlo, essi furono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché facesti a noi così? Ecco, tuo padre ed io addolorati ti cercavamo». Ma egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che è necessario che io sia nelle cose del Padre mio?». Essi però non compresero ciò che aveva detto loro. Ed egli scese con essi e tornò a Nazareth; ed era loro sottomesso.

Omelia

[Emilio Campana: Maria nel dogma cattolico, VI, ed.  – Marietti ed. 1946]

Grandezza della divina maternità di Maria.

I. — Il celebre panegirista di Filippo il Macedone, volendo esaltare fino al sommo della gloria il suo eroe, dopo aver illustrato la nobiltà dei suoi natali, la vastità delle sue ricchezze, la rarità del suo coraggio, l’energia dei suoi propositi, l’estensione delle sue conquiste, la eccellenza dei suoi talenti, infine espone l’argomento che doveva essere come il suggello, la corona di tutto il suo discorso; ed esclamò : « Hoc unum tibi dixisse sufficiat, filium te habuisse Alexandrum. — Ma io lascio tutto il resto, e per mostrarti superiore agli altri uomini mi basti il dirti che tu hai per figlio Alessandro ». Retorica! Vero, ma che esprime bene una verità innegabile. Poiché gli è certo che gloria grande deriva ai genitori dalla grandezza dei figli loro. Genitori e figli formano, come a’ dire, una sola personalità morale; il vincolo di unione che passa fra loro è tale che non è possibile trovarne un altro più intimo e più forte. Perciò come l’onore dei genitori si riversa sui figli, ai quali si tramanda in sacra eredità, così lo splendore dei figli risale ad illuminare quelli da cui essi ricevettero la vita. – Ciò che si verifica per tutti gli altri, a più forte ragione ha luogo in riguardo di Maria. La grandezza del suo divin Figlio Gesù riverbera su di Lei un raggio così fulgido di nobiltà e di elevazione, che giustamente si può ripetere di Lei la frase dell’oratore ricordato da Sabellico, e dire: Hoc unum tibi dixisse sufficiat, Filium te habuisse Jesum.

II. — La divina maternità, in altri termini, è la perla più fulgida che brilli nel serto di gloria ond’è cinta la fronte della gran Vergine: e per il solo fatto che è Madre di Dio, si trova collocata ad una veramente vertiginosa altezza di dignità, possiede una elevazione assolutamente impareggiabile; sta al sommo gradino dell’immensa scala costituita dalla svariatissima gradazione e gerarchia degli esseri creati.

III. — La misura della perfezione delle cose è nota. Essa sta nella maggiore o minore vicinanza che le cose hanno con Dio, loro supremo principio. Come l’acqua è più pura. e più fresca man mano che si sale alla fonte donde scaturisce, come la luce è più radiante quanto più è vicina alla sorgente luminosa; così la creatura è tanto più grande, quanto è in più stretto rapporto con Dio. Dio è la maestà senza limiti, è l’essere non soggetto ad alcun difetto, è la pienezza della perfezione e della potenza, è il mare infinito di ogni entità. Quando crea le cose non fa altro che conceder loro, per sua somma liberalità, un riflesso, una partecipazione delle sue doti eminenti; e secondo l’accentuazione di questa partecipazione le cose sono più o meno vicine a Dio, sono più o meno elevate nella scala della nobiltà e della dignità. Alla stregua di questo principio è facile determinare quali siano le grandi basi della gerarchia che la divina sapienza ha costituito tra le sue opere. All’infimo posto stanno gli esseri privi di vita, i minerali, che non operano se non sotto l’impulso di un agente esteriore, che sono, si potrebbe dire, lo zimbello di forze estranee. Più su troviamo i viventi vegetali, che hanno in sé il principio di alcune loro operazioni, che hanno risorse proprie. Ma la loro non è che una vita molto imperfetta; non è che il più tenue barlume, riflesso di quella vita ond’è esuberante Iddio, e nella quale trova la sua felicità indefettibile. 1 sensitivi, gli animali cioè, si elevano già ad un gradino superiore perché hanno operazioni nuove, sono capaci di conoscere, sono già più indipendenti nella loro vita, hanno in sé un’energia più vasta, meno soggetta alle determinazioni dell’ambiente esterno; sono capaci di determinarsi spontaneamente nei loro rapporti collo spazio per mezzo del moto locale, e nei loro rapporti col tempo per mezzo della memoria. Tuttavia siamo ancora lontani dalla immagine di Dio, elevato immensamente al di sopra di tutto ciò che è materiale, ed assolutamente indipendente da qualunque altro essere. Quest’immagine comincia ad apparire sufficientemente delineata nell’uomo, che per mezzo dell’intelletto e della volontà trascende la ristretta cerchia della materia, arriva a scoprire l’essenza delle cose, spazia in un mondo superiore al mondo del luogo e del tempo; guarda alle cose dalle cime più elevate dell’astrazione, ed è padrone del proprio atto, essendo pienamente libero nelle sue aspirazioni razionali. Per questo la Scrittura giustamente dice dell’uomo, che fu fatto ad immagine e somiglianza di Dio. L’uomo, infatti, è la somiglianza di Dio, così S. Tommaso, p. I, q. It. ad 2, non secundum corpus, sed secundum id quo homo excellit alia animalia… excellit autem homo alia animalia quantum ad rationem et intellectum. Ma avremmo torto di illuderci, come appunto si illudono i razionalisti contemporanei, pensando che l’umana intelligenza non ammetta altre facoltà conoscitive a sé superiori, che l’uomo stia al supremo grado della perfezione. No; già Aristotile diceva che 8nell’ordine intellettuale noi occupiamo soltanto l’infimo posto: che il nostro acume è, di fronte alla verità, debole come l’occhio di certi animali notturni in presenza della luce del sole. Al di sopra dell’uomo c’è un mondo sterminato di altri esseri, di altre intelligenze che tutte ci superano di gran lunga, e che alla lor volta sono, ci si perdoni la frase, scaglionate su una vastissima scala di graduata perfezione. Sono gli angeli. Liberi dagli impacci della materia, sono dotati di un intelletto sommamente vigoroso, di una volontà piena di energia, e sottomettono ai loro cenni le forze fisiche. Di questi spiriti, più che di noi si può e si deve dire che sono l’immagine e la somiglianza di Dio. Ma la distanza fra gli Angeli e Dio è ancora infinita; tra queste sublimi creature e Dio vi è ancora un abisso insormontabile. Dio non volle che questo intervallo fosse totalmente vuoto; ma vi ha creato l’ordine soprannaturale. L’ordine soprannaturale consiste in ciò che Dio, con un atto della sua onnipotenza, ha dato aulla creatura ragionevole nuove qualità, nuove facoltà, nuove operazioni, di cui essa 8naturalmente sarebbe stata incapace. Queste nuove prerogative trasportano la creatura immensamente al di sopra dello stato in cui avrebbe dovuto trovarsi stando alle sole esigenze della sua natura, e la mettono in certa guisa al livello medesimo di Dio, la fanno vivere della vita di Dio, la rendono beata della beatitudine di Dio, la trasformano secondo un certo senso in Dio, perché diventa, giusta l’espressione di S. Pietro, consorte della natura divina. L’ordine soprannaturale fa sparire la distanza fra la creatura e Dio, e mette questi alla portata di quella, in maniera che la creatura può vedere immediatamente Iddio, e può amarlo con tutto lo slancio delle sue energie, amarlo in maniera perfetta, amarlo necessariamente e senza fine. A quest’ordine sono elevati gli Angeli e gli uomini, quali sotto questo rispetto diventano immensamente superiori a tutto il creato. Però gli Angeli e gli uomini non esauriscono tutta la nobiltà possibile del soprannaturale; a loro non è dato di toccare le più alte cime che la sapienza infinita di Dio ha elevato in quest’ordine. La creatura intelligente, nell’ordine soprannaturale si unisce con Dio per mezzo dell’operazione, ma resta sempre lontano da Lui quanto all’essere. Il suo essere è essenzialmente limitato, contingente, ben diverso dall’essere divino. Se qualche natura creata potesse sussistere in Dio medesimo, possedesse l’esistenza medesima di Dio, certo si lascerebbe indietro di gran lunga tutte le altre cose. Ebbene questa natura non manca. È la natura del Red and red are a entore. Gesù ha una personalità divina, epperò anche in quanto uomo, ha raggiunto il massimo dell’elevazione. Egli sta nel centro di tutta la creazione; tutto s’aggira attorno a Lui, tutto è inferiore a Lui, Ecco dunque come si evolve la scala degli esseri: il mondo materiale; il mondo dei viventi vegetativi; quello dei viventi sensitivi, il mondo ragionevole, gli uomini e gli Angeli; ed al di sopra di tutti Gesù Cristo, che siede alla destra di Dio Padre onnipotente.

IV. — Il posto di Maria qual è? Essa viene immediatamente dopo Gesù, suo figlio; essa è superiore al mondo sensibile, al mondo razionale, agli Angeli; inferiore solo a Gesù ed a Dio. Prima vien Dio, poi Gesù in quanto uomo; il terzo posto è della Madre sua Maria, la quale appunto perché Madre sua appartiene al piano medesimo, quantunque in subordine nel quale si svolge il mistero dell’’Uomo-Dio; tutto il restante del mondo creato fa sgabello ai suoi piedi.

V. — Considerata relativamente, la divina maternità pone Maria al di sopra di tutte le altre pure creature: che se poi la si vuol analizzare nel suo valore assoluto bisogna conchiudere che è qualche cosa di così nobile, che Dio medesimo non potrebbe creare, non ostante tutta la sua onnipotenza, una dignità più augusta di questa. Non solo Maria vien di fatto subito dopo Dio, nella scala della grandezza, ma la sua congiunzione con Lui è così stretta che non vi è più posto per un’altra creatura inferiore a Dio e superiore a Maria. Colla divina maternità, Dio ha dato alla creatura tutto ciò che ad essa si può concedere. Intendiamoci: noi non parliamo della natura di Maria; parliamo soltanto della sua dignità, dei suoi pregi gratuiti, della sua elevazione insomma nelle regioni dell’ordine soprannaturale. Cosicché nessuno potrebbe negare che per natura, molte altre creature sono superiori a Maria. Per natura essa si trova al nostro medesimo livello, di ente materiale corporeo, e quindi per natura è inferiore agli Angeli, come del resto per natura anche Gesù in quanto uomo stava al di sotto delle creature spirituali; Angelis inferior factus est. Ma altro è la natura di una cosa, altro la dignità e la nobiltà, a cui questa cosa viene elevata. Non succede ogni giorno anche nel mondo, che non sempre quelli che hanno le migliori doti naturali toccano in pari tempo anche il sommo della dignità? E Dio nell’ordine soprannaturale si è compiaciuto appunto di dare un posto privilegiato all’uomo di fronte all’Angelo. All’ordine soprannaturale nessuno aveva diritto; l’Angelo non ce ne aveva più che l’uomo. Fu per pura sua liberalità che Dio elevò entrambe queste sue creature a tanta altezza. Ma nella distribuzione di questi nuovi seggi di gloria s’è compiaciuto appunto di conferire i più grandi ai rappresentanti l’umanità, a Gesù, ed alla Madre sua. In questo senso diciamo che Dio non potrebbe fare una dignità, più grande di Maria, perché è impossibile per la creatura vuoi materiale, vuoi spirituale, avere con Dio una congiunzione più intima, una partecipazione più larga ai suoi doni, di quello che comporti la divina maternità.

VI. – Quest’asserzione potrà sembrare ardita; ma noi l’abbracciamo con tutto lo slancio di una convinzione incrollabile, anzitutto perché è l’idea che della dignità di Maria ebbe in ogni tempo la Chiesa, che è la colonna ed il fondamento di ogni verità. Certo fu questa l’idea che dominò incontrastata presso i teologi scolastici, dei quali ci basti citare qualche nome, essendo la cosa fuori di ogni controversia. Al sorgere della Riforma, quando incominciavano i primi attacchi da parte del protestantesimo contro la ineffabile elevazione di Maria, il Card. Caietano, uno dei più fulgidi astri della metafisica, ed in pari tempo uno dei più arditi antesignani della critica moderna, e che non ebbe mai difficoltà ad esprimere le proprie convinzioni anche quando le sapeva riprovate dai suoi contemporanei, parlando della Madre di Dio scriveva: « Ad fines divinitatis propria operatione attigit, dum Deum concepit, peperit, genuit et lacte proprio pavit. — Toccò le regioni della divinità, e divenne affine con Dio quando lo concepì, lo generò, e lo nutrì della propria sostanza » (Comm. alla S. Th.: II-II, q. CIII, a. 4). – Ed un altro insigne scrittore di quel tempo, uno dei più serii e dotti trattatisti di Maria, il S. Dott. P. Canisio, in cui la scienza fu pari alla santità, nel lib. II De excellentia B. V., c. XIII, scrive: « Spectet ac miretur qui velit pulcherrimi huius mundi fabricam atque gubernationem; quidquid autem in caelo vel in terra creatum est, quantum vis amplum, excellens, illustre videatur ab hoc opere uno divino quod in Maria tam electo Vase peractum est, multis sane modis superatur et obfuscatur. — Ammiri chi vuole il bellissimo edificio dell’universo ed il suo governo: ma tutto ciò che fu creato sia nel cielo come sulla terra, per quanto grande, elevato e nobile esso possa sembrare, è, sotto molti aspetti, superato ed oscurato da questo solo prodigio (che fu fatta Madre del Verbo) operatosi in Maria la quale divenne vaso di singolare elezione). – Un altro Santo di poco anteriore ai due citati teologi, san Tommaso da Villanova, che fu insigne teologo ed illustre predicatore, commentando quelle parole della Scrittura, che applica a Maria: Quæ est ista quæ ascendit, ecc., dice « Quis poterit istis respondere: Quæ est ista? Etiamsi stellæ vertantur in linguas et arenæ maris in verba commutentur, non poterit dignitas Mariæ pro merito explicari. — Anche se le stelle del cielo si mutassero in lingue, e se le arenedel mare si cambiassero in parole, non si arriverebbe mai ad esprimerecondegnamente la dignità di Maria » (Concio V in Fest. Assump.. B. V.).Né questa è rettorica da secentista. S. Tommaso, così esatto e misurato nelle sue espressioni, che non si lascia mai tradire dall’entusiasmo,, ma che procede sempre colla calma e colla lucidezza dichi tutto vuol provare a rigor di logica, aveva già molto tempo innanziscritte queste parole che non dovrebbero mai cadere dalla mente dinessun devoto di Maria: « Maria ex hoc quod est mater Dei, habet quamdam dignitatem infinitam ex bono infinito quod est Deus, et ex hac parte non potest aliquid fieri melius; sicut non potest aliquid esse melius Deo. — Maria per ciò che è Madre di Dio ha una dignità pressochéinfinita per i suoi rapporti con Dio bene infinito; e sotto questoriguardo non è possibile niente di meglio; come non è possibiletrovare cosa alcuna che sia migliore di Dio stesso » (Sum. Theol., I, q. XXV, a. 6 ad. 4.). Pressoché identico è il linguaggio dell’autore dello Specul. B. M. V., lib. X, già comunemente ritenuto di S. Bonaventura: « Esse mater Dei est gratia maxima puræ creaturæ conferibilis. Ipsa est qua maiorem facere Deus non potest. Maiorem mundum posset facere Deus; maius cælum: maiorem matrem, quam Matrem Dei non posset facere. Essere Madre di Dio è tale grazia, che Dio non puòfarne un’altra più grande. Egli potrebbe fare un mondo ed un cielopiù grande; fare una madre più grande della Madre di Dio, è ancheper Lui una cosa impossibile ».

VII. — Lo so che più d’uno si riderà di queste sentenze, credendo di averle inappellabilmente condannate alla gogna, dicendo che sono opinioni degli scolastici. Pare ormai che presso una certa classe di studiosi diventi di moda il classificare tutte le teorie degli scolastici nel numero delle opinioni inconsistenti colle solide dottrine dell’antica Chiesa, e spacciarle come ritrovate solo in grazia di un sottile e vano argomentare aprioristico. Il fatto innegabile però si è, che questo sublime concetto della sorprendente ed insuperabile dignità di Maria, lo troviamo espresso con ammirabile unità di consenso, nelle opere dei Padri di tutte le età. È appunto quello che ci accingiamo a dimostrare. Premettiamo innanzi tutto che qui ci accontenteremo soltanto di un numero ristretto di citazioni, le quali però, :ci affrettiamo a dirlo, sono più che sufficienti alla dimostrazione del nostro assunto. Altre testimonianze in favore della dignità di Maria, le porteremo altrove, quando ci occuperemo cioè dei doni soprannaturali di cui Ella fu ornata. Allora vedremo più dettagliatamente che cosa pensarono gli antichi scrittori ecclesiastici della grandezza della grazia posseduta da Maria. Orbene, come opportunamente fa osservare il Livius, tutto quello che serve a provare la grandezza della santità di Maria, dimostra in pari tempo la singolare dignità di Lei. « Queste due cose, così il citato autore, la dignità e la santità di Maria, sono così intimamente legate, secondo il modo di pensare dei Padri, che l’idea la quale appare forse meglio di ogni altra come fondamentale in tutta la loro dottrina circa l’Incarnazione, è appunto questa, che il Figlio di Dio volle per sé una madre degna di sé, vale a dire degna fino a quel punto di dignità al quale può essere trasportata una semplice creatura ». Ciò premesso, e limitandoci per ora al preciso concetto della dignità di Maria in quanto Madre di Dio, ecco che cosa ne pensarono gli scrittori anteriori all’epoca scolastica. Eadmero, il fedele discepolo di S. Anselmo (m. 1137), nel libro De excellentia B. V., cap. III dice: « Se mai è lecito paragonare le cose celesti alle terrene, osservisi come tra gli uomini corre tal costumanza, che quando un potente e ricco signore è per andare ad albergo in alcun luogo, vadano innanzi i suoi servi a guardare dalle insidie le vie, a nettar la casa da ogni bruttura, ad ornarla di preziosi arredi, sicché al venire del loro signore tutto sia decoroso e convenevole alla sua dignità. Ora, se tale Preparamento si suol fare per l’arrivo di un uomo di fango e di una podestà caduca, quale apparecchiamento di ogni più eletto bene pensiamo noi che si sarà fatto per l’arrivo del Re celeste ed eterno, nel cuore della beatissima Vergine, la quale non solo doveva in sé transitoriamente ospitarlo, ma di più doveva generarlo della propria sostanza? Qui si sollevi il pensiero della mente umana e per quanto può comprenda, se ha tanta lena, di qual pregio fossero presso l’onnipotente Iddio, i meriti di questa beatissima Vergine. Contempli ed ammiri, io dico, come l’eterno Padre generò della sua sostanza, senza cominciamento, un Figlio consostanziale è coeterno a se Stesso, e come per mezzo di Lui fece tutte le creature visibili ed invisibili. Orbene, il divin Genitore non volle che questo unico e dilettissimo Figlio rimanesse di Lui solo, ma volle diventasse in tutta verità il Figlio unico, dilettissimo e naturale della B. Vergine Maria. E non in questo senso che vi fossero due figli, uno quello di Dio, l’altro quello di Maria; no, ma un solo e medesimo Figlio, che nell’unità di una sola e medesima Persona, fosse Figlio di Dio e di Maria. Chi meditando questo mistero non sì sente sbalordito e non stima questo prodigio dell’Altissimo ammirevole oltre ogni credere? ». – Un secolo prima S. Pietro Damiani, che fu tanta parte del suo tempo, scriveva: « E come mai la transitoria parola dell’uomo mortale potrà lodare Colei che generò di sé il Verbo eterno? Qual lingua trovar potrassi che sia idonea alle lodi di Colei che diede in luce Quegli, cui tutti gli elementi danno lode e con tremore obbediscono? Quando noi vogliamo esaltare i generosi fatti di alcun martire e magnificarne le insigni virtù a gloria del nostro Redentore, benché la pochezza dell’ingegno non ci presenti molti concetti, e la infecondità del ragionare ci renda aridi, pure la materia stessa della cosa somministra copia al dire. Ma quando trattasi delle lodi della beatissima Madre di Dio, essendo argomento nuovo ed inaudito, non troviamo parole che siano sufficienti ad esprimerle degnamente, perché la singolarità della materia toglie ogni potere al discorrerne ». –  E nell’inno 48 In Assumpt., il medesimo santo scrittore così si esprime: « Il coro degli Angeli beati, i sacri Profeti e l’ordine degli Apostoli, vedono al di sopra di sé, te sola, dopo la Divinità ». Più indietro ancora, cioè nel secolo VII, S. Giovanni Damasceno, nella hom, I De Dormitione Virgo n. 10, parlando di Maria, dice nientemeno « che Ella si eleva ad un’altezza infinità al disopra degli altri servi di Dio. — At infinitum Dei servorum ac matris discrimen est ». Cfr. Summa aurea, vol. 6, col. 138,Nel medesimo secolo, S. Germano, patriarca di Costantinopoli,che visse qualche decennio prima di S. Giovanni Damasceno (morì nel 733, all’età di 90 anni), così scriveva in una lettera letta ed approvata nella sessione IV del Concilio generale VII:« Noi onoriamo eglorifichiamo nella Vergine Maria Colei che è propriamente e veramente la Madre di Dio, e come tale noi la riteniamo superiore alle creature visibili ed invisibili ».Identico fu il linguaggio tenuto da Teodoro di Gerusalemme in una lettera sinodale, approvata essa pure dal Concilio VII – Revera Dei mater est, et tam ante quam post partum Virgo permansit, atque omni creatura facta est gloria et splendore præstantior.S. Ildefonso Toletano (m. 667), nel discorso 1° sull’assunzione diMaria, dice: « Cristo collocò insieme con sè la Madre sua sul tronodell’eterno regno; la trasferì nella gloria dell’immortalità, e la innalzò al di sopra dei cori angelici con inaudita solennità ». Mezzo secolo prima, S. Gregorio Magno, nato nel 540, e morto nel 604, nel libro I dell’Esposizione del I° dei Re, interpreta allegoricamente di Maria il monte di Efraim e dice: « Col nome: di questo monte si può indicare la beatissima e sempre vergine Maria Madre di Dio. Essa infatti fu un monte, che colla dignità della sua elezione si elevò al di sopra dell’altezza di ogni eletta creatura. E come si potrà negare che sia un monte sublime Maria, che per arrivare alla concezione dell’eterno Verbo, elevò il vertice dei suoi meriti sopra tutti i cori degli Angeli e lo spinse sino alla soglia della divinità? Fu davvero un monte collocato sul vertice degli altri monti, perché l’elevazione di Maria rifulse sopra quella di tutti i Santi ». – E per saltar subito ad autori più antichi, S. Ambrogio nel lib. II De Virg., scrive: « Quid nobilius Dei Matre, quid splendidius ea quam splendor elegit? — Che cosa havvi più nobile di Maria, che cosa mai più splendido, dal momento che fu prescelta dallo stesso splendore? ». Il lettore l’ha dunque compreso: il linguaggio tenuto da Pio IX nella Bolla Ineffabilis, che diceva: « Dio ornò Maria dell’abbondanza dei celesti carismi, attinti nel tesoro della divinità, in una maniera di gran lunga superiore a quella che usò cogli Angeli », non è altro che la fedele ripetizione di quello che ha sempre detto la Chiesa universale, vuoi greca, vuoi latina, fin dai secoli più prossimi alla sua origine.

VIII. — Per essere esatti riconosciamo che la formola esplicita, che attesta la superiorità di Maria, in quanto Madre di Dio, a tutte le cose non appare nei Padri anteriori a quelli che citammo; ma nessuno potrebbe per questo dedurne la conseguenza, che dunque la dottrina sulla grandezza di Maria è di data assai recente; poiché ai primi scrittori ecclesiastici se manca la formola non fa però difetto l’idea. Essi pure sentirono di Maria come sentirono le generazioni posteriori: i primi discepoli di Gesù, non meno di noi hanno vagheggiato in una visione piena di conforto le cime sublimi, riflettenti i raggi più puri della divinità, a cui Maria fu innalzata per la divina maternità. In realtà, come lo dimostreremo altrove a tutto agio, fin dal primo sorgere della Chiesa, Maria fu sempre considerata come la compagna indivisibile di Gesù nell’opera della Redenzione, come la piena di grazia. La qual dottrina, come già osservammo, implica l’altra della ineffabile dignità di Maria, è la premessa da cui necessariamente scaturisce la conclusione che Maria fu costituita, dopo Gesù, il centro di tutto il creato. – Che più? a dissipare ogni dubbio, a togliere qualsivoglia ombra di perplessità, e convincere anche i più meticolosi, che davvero Maria fu innalzata fino all’estremo limite del possibile per una semplice creatura, abbiamo la grande attestazione di Maria medesima, che passa attraverso l’anima del credente come il più caro soffio confortato. Maria disse di sè: « Fecit mihi magna: qui potens est. — Colui che è potente mi ha fatto grandi cose ». Qui sta compendiato tutto ciò che si può dire di splendido e di sublime per la gran Vergine. Iddio fece a Maria cose grandi non solo in sé, ma grandi relativamente alla sua stessa potenza infinita; fece tali cose per cui Ella sarà esaltata sempre da tutte le generazioni non solo umane, ma celesti, non solo dagli uomini, ma anche dagli Angeli; i quali, mentre era ancor sulla terra, già s’inchinavano davanti a Lei, come a Regina, salutandola con ogni rispetto. Il colmo di queste elargizioni sovrane dell’onnipotente Iddio sta nell’averla scelta per sua Madre.

IX. — Ma se così è, se la divina maternità innalza tanto in alto Maria secondo il comune sentire della Chiesa, come si spiega poi quello che disse Gesù a riguardo della Madre sua, e che è riportato da S. Luca al c. XI? Gesù predicava alla folla da cui era assiepato: con intuizione sorprendente discopriva i segreti macchinamenti che contro di Lui ruminavano in cuore i farisei, e con argomentazione invincibile sfolgorava la loro iniquità. Tra quella moltitudine fuvvi una donna, che non potendo frenare il suo entusiasmo per Gesù, esclamò, in maniera che tutti la udirono: « Fortunato il seno che ti portò, ed il petto che ti allattò! ». Ma Gesù rispose: « Che anzi fortunati quelli che ascoltano la parola di Dio e la conservano ». Queste parole di Gesù hanno gettato nell’imbarazzo più d’un teologo, a riguardo del vero valore della divina maternità. Nessuno mai ha negato che Maria debba proclamarsi la prima delle creature, l’impareggiabile capolavoro dell’Onnipotente; ma alcuni hanno creduto di dover dire che la più grande dignità di Maria proviene dall’essere Ella non precisamente la Madre di Dio, ma la sua prima figlia adottiva. Hanno pensato che fosse più grande per la grazia abituale, che per la divina Maternità. Di questo parere furono i teologi Salmanticesi, seguiti da altri in numero però relativamente ristretto. Ma quel che è più, sembra che anche tra i Padri non siano mancati coloro che hanno interpretato le parole di Gesù, nel senso di una prevalenza della grazia sopra la Maternità. Così sembra aver pensato Agostino e lo pseudo Giustino. La maggior parte dei teologi però non dubiuta di affermare che il titolo primario della grandezza di Maria sii è l’essere stata Ella Madre del Creatore. Come pensare su di tale questione? Chi non ama l’indagine speculativa potrebbe tenersi perfettamente indifferente di fronte all’una ed all’altra sentenza, perché qualunque sia l’abbracciata, non modifica, come dicemmo, il giudizio che dobbiamo avere della grandezza di Maria. Tutti, nessuno eccettuato, ammettono che Maria è la più nobile delle creature. Ma, volendo entrare nel merito della questione di indole metafisicale, è tutt’altro che inutile ed indifferente, specialmente per ciò che riguarda l’assegnare il posto che ebbe Maria nel piano dell’eterna predestinazione, volendo dico entrare nel merito della questione, non v’ha dubbio che la divina maternità debba, tutto considerato, proclamarsi superiore di gran lunga alla filiazione adottiva di Dio, che è l’effetto formale della grazia santificante. Dico « tutto considerato » perché sarebbe un equivoco grossolano quello di pensare che Maternità divina e grazia santificante siano nel medesimo ordine e sì possano così disporre parallelamente, sì da trarne un confronto armonico per tutte le parti della loro estensione. No: esse sono di un ordine tutt’affatto differente, e come opportunamente fa notare il Suarez, ciascuna ha delle Prerogative e degli effetti superiori alle Prerogative ed agli effetti dell’altra. Præcisive sumpta vix possunt hæc: Dei maternitas et filiatio adoptiva comparari; sunt enim diversi ordinis, et mutuo sese quodammodo excedunt (Suarez, Comm. in q. 27, III, S, Th., Disp I, sect. 2, n. 5).Infatti, avviene nei rapporti tra la divina maternità e la grazia santificante, quello che accade nel confronto tra la potestà di ordine e di giurisdizione nel Romano Pontefice. Sono due poteri distinti nonsolo, per così esprimerci, individualmente, ma anche specificamente. Col potere di giurisdizione il Vicario di Cristo governa la Chiesa per mezzo di leggi e di conseguenti giudizi e sanzioni; ciò che non potrebbe fare in virtù del semplice carattere episcopale, Il qual carattere però gli dà facoltà di compiere atti santificatorii e consacratorii delle anime, che invano si domanderebbero al semplice Potere di giurisdizione. Ognuno lo vede: sono Prerogative aventi effetti differenti, dei quali non è sempre facile dire quale sia il più stimabile. Tuttavia iteologi, tenuto calcolo di tutto, non dubitano di dire che il potere digiurisdizione è superiore al potere di ordine. E chi non sa che il Romano Pontefice è il capo supremo e venerato della Chiesa; è, dopo Cristo, il membro più insigne di questo corpo vivo che è la Chiesa militante, appunto per la giurisdizione e non per l’ordine? E così è della grazia, e della divina Maternità. Entrambe congiungono a Dio, ma per vie diverse. La grazia congiunge a Dio per mezzo delle operazioni, dà cioè il diritto di vedere un giorno Dio a faccia a faccia, di saziare la nostra ardente brama di verità nella sua luce senza ombre, e di estinguere la nostra incoercibile ed indomabile sete di felicità nella sua bontà senza difetti. La grazia ci solleva a toccar Dio, a sprofondarci in Lui per mezzo dell’intelletto e della volontà. La Maternità divina invece congiunge con Dio per mezzo dell’essere,Il lettore si ricorderà, che abbiamo detto che è una relazione reale che lega Maria alla Divinità. Per la divina maternità tutta la persona di Maria entra in stretta parentela con Dio. Ognuno poi facilmente comprende che per certi riguardi è più amabile la felicità, frutto della grazia, e per certi altri deve darsi la preferenza alla congiunzione con Dio fondata nell’essere, la quale appartiene all’ordine dell’unione ipostatica. Perché colloca Maria nell’ordine dell’unione ipostatica, la sua Maternità divina la unisce a Dio con tale un legame, di cui non è possibile in pura creatura immaginarne un altro più forte. La lega non soltanto al Verbo che Ella ha generato secondo la carne, ma a tutta la SS. Trinità, come diremo più sotto di proposito. Con ciò la maternità divina è per Maria fonte di santificazione anche indipendentemente della grazia santificante. Non oseremo dire che la santifica in quella guisa che l’unione ipostatica santifica l’umanità di Gesù, tribuendole quella che i Teologi chiamano la santità sostanziale. Non ignoriamo che questa idea è cara ad autori anche di gran nome, ma riteniamo che manchi di solido fondamento. Poiché mentre nell’unione ipostatica la divinità, che è la santità per essenza, viene data e legata sostanzialmente all’umanità assunta, niente di tutto questo è importato nella divina Maternità, la quale ciò non ostante entra nell’ordine diquell’unione perché ha cooperato a prepararla, ed ha di conseguenza con essa dei rapporti indelebili. La divina maternità è tuttavia fonte di santificazione in quanto consacra Maria a Dio, la rende a Lui carissima, e di più la costituisce, con necessità morale, impeccabile. E quando c’è tutto questo, come si potrebbe ancor dire che manca la santità, la quale altro non è se non l’adesione a Dio, e la fuga di tutto ciò che potrebbe offenderlo, almeno gravemente? Ebbene la divina Maternità consacra Maria a Dio. E si noti, non come gli potrebbe essere consacrata un’altra persona od un oggetto qualsiasi; non per esempio come gli potrebbe essere consacrato un tempio, od un uomo mediante il carattere sia battesimale, sia sacerdotale; ma in una maniera incomparabilmente più cospicua. Poiché  le altre consacrazioni dicono solo un legame parziale tra le creature ed il Creatore, un legame che si limita alla capacità passiva od alla potenza attiva. La Maternità divina invece lega tutta la vita di Maria a Dio, tanto è vero che, come diremo a suo luogo, Maria non sarebbe mai stata creata, se non fosse stata destinata ad essere Madre di Dio. La divina Maternità è tutta la ragione della sua Stessa esistenza. Nemmeno Dio non l’ha mai pensata se non come la sua futura Madre. E sarebbe un non comprenderla in tutta la sua estensione, il ridurre la divina Maternità solo a quegli atti fisiologici coi quali Maria ha cooperato dispositivamente all’unione del Verbo coll’umanità assunta. Gli atti della concezione e della generazione sono semplicemente il fondamento della maternità. In sé questa appartiene ad un altro predicamento, alla relazione. Nel caso presente è tutta la realtà di Maria che resta così riferita, legata a Dio. – Legata in modo che si impone indeclinabilmente all’amore di Lui. Ripugna che Dio Possa non amare la sua Madre. Come anche il buon senso ci costringe a pensare che Egli in Lei prima ed al di sopra  della sua figlia adottiva debba amare la Madre che gli è legata coi vincoli del sangue. Perché gli è Madre (anche se Maria per ipotesi assurda non avesse altro) Dio la amerebbe più di quello che ama il complesso delle sue altre creature dalle infime alle più elevate. Ed anche Maria alla sua volta, perché sì sente Madre di Dio, facciamo consistere l’impeccabilità che le derivava dalla divina maternità. Non una impeccabilità fisica, sul tipo di quella che dobbiamo ammettere in Gesù per via dell’unione ipostatica: poiché la ripugnanza del peccato in Gesù era assoluta. Se avesse potuto peccare Gesù, codesta triste possibilità non sarebbe stata di una creatura, ma di Dio medesimo, poiché le azioni sono della Persona, come del soggetto adeguato di attribuzione. L’incompatibilità del peccato colla persona di Maria era invece solo di ordine morale, risolvendosi in una suprema indecenza, non spiegabile se non mediante delle anormalità in Lei, che Dio non avrebbe mai Permesso. Perché sua Madre, Dio dovette esentare Maria anche dal peccato di origine, che pure per malizia è il minimo dei peccati, non dipendendo dal nostro volere. Ed anche quelli che ancora tergiversano davanti a queste osservazioni, che a noi paiono solidissime, debbono però ammettere come indiscutibile una ragione sulla quale si può fondare un giudizio certo a riguardo della superiorità fra la divina Maternità e la grazia. Consiste nell’ordine col quale si succedono. Come l’essere precede sempre l’operazione, così la divina Maternità precede necessariamente la grazia santificante e tutti gli altri carismi in Maria. Non solo li precede, ma li esige. Immaginarsi la Madre di Dio spoglia della grazia, dei doni dello Spirito Santo, delle virtù naturali e soprannaturali, sarebbe come immaginare nella più augusta delle reggie, la madre venerata dal re aggirarsi vestita. con miseri panni da pezzente, e priva dei paludamenti convenienti alla sua elevazione sociale. Tutte le prerogative di cui va adorna Maria sono contenute, come in radice, nella sua divina Maternità. La divina Maternità è il centro attorno a cui s’aggirano tutte le effusioni della divina liberalità verso Maria: e di quella sono, come meglio apparirà in seguito, o disposizioni, o conseguenze. È questo, e ci preme di farlo notare, anche il pensiero di S. Agostino il quale nel libro De natura et gratia, c. 36, scrive: « Inde novimus tantam gratiam illi (Mariæ) esse collatam, quia Deum concipere meruit ac parere. — La ragione per cui fu concessa a Maria una grazia così grande, sta nell’aver concepito e generato Dio medesimo ». – Basta questo per farci comprendere come la divina Maternità sia senza alcun dubbio superiore ad ogni altra prerogativa di Maria, sia davvero il titolo più valido che la eleva al di sopra di tutto il creato, e la lascia seconda a Dio solo. – E le parole di Gesù? Per potervi cogliere il genuino pensiero del divin Maestro, è necessario non perdere di vista le circostanze in cui le pronunciò. La donna che presa da un fremito irrefrenabile di entusiasmo alzò la voce di mezzo alla folla, non conosceva la vera natura di Gesù; ella era ben lontana dal sospettare che fosse il Figlio di Dio, e che sotto le apparenze umane, si nascondesse in Lui la pienezza della divinità. Ella pensava di Gesù, quello che ne pensavano allora comunemente i suoi ammiratori. Lo credeva un gran santo, un gran sapiente, un gran profeta, un gran taumaturgo, ma non trascendente i limiti della semplice umanità. Nella madre di Gesù, ella supponeva quindi una madre fortunata, unicamente per questo, che avesse un figlio sovra-eccellente agli altri per semplici qualità accidentali. Forse anch’ella come la madre di Giovanni e di Giacomo, vagheggiava pei suoi figli un trionfo pari a quello di Gesù. Ed allora il suo pensiero con movimento rapido corse alla Madre dell’ammirato profeta, se ne rappresentò le gioie per i trionfi di un tanto figlio ed esclamò. Fortunato il seno che ti portò! Il pensiero di quella donna si sarebbe potuto tradurre così: Come sarei fortunata anch’io se avessi tali figli! Dati i sentimenti di questa donna che, in maniera più o meno consapevole, dovevano essere i sentimenti della maggior parte della folla che l’attorniava, Gesù se ne servì come di occasione opportuna per inculcare un insegnamento morale di una importanza capitale. L’insegnamento che volle dare Gesù era che: le buone opere, compiute in conformità colla parola di Dio, valgono molto più che non le semplici relazioni di parentela, con ascendenti o discendenti santi. In altri termini, Gesù. non pensava in quel momento a mettere a confronto la divina maternità colla grazia di Maria. I termini del paragone erano: la maternità in genere in quanto dice rapporto fisico col discendente, chiunque esso sia, e il merito emergente delle buone opere, alimentato dalla parola di Dio. La preferenza Gesù la diede a quest’ultimo. Chi mai dubiterebbe di fare altrettanto? Alla stessa stregua vanno intese le sentenze di S. Agostino e dello pseudo Giustino, che sembrano deprimere la divina maternità di fronte alla filiazione adottiva di Dio. Essi giudicano di questi due carismi della Vergine sotto un punto di vista particolare; li confrontano cioè in ordine al merito, che serve come di tessera per l’ingresso nell’eterna felicità del cielo. Ed allora è verissimo, che per la beatifica visione è preferibile la filiazione adottiva alla maternità. Ma S. Agostino, per il primo, riconosce nelle sue parole testé riportate, che ogni grazia di Maria è richiesta e misurata dalla divina Maternità, il che significa collocare il segreto dell’ineffabile dignità di Maria, appunto in questo che è Madre di Dio.

IL CREDO

Offertorium

Matt 1:18
Cum esset desponsáta mater ejus María Joseph, invénta est in útero habens de Spíritu Sancto.

[Essendo Maria, la madre di lui, sposata a Giuseppe, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo].

Secreta

Tua, Dómine, propitiatióne, et beátæ Maríæ semper Vírginis, Unigéniti tui matris intercessióne, ad perpétuam atque præséntem hæc oblátio nobis profíciat prosperitátem, et pacem.

[Per la tua clemenza, Signore, e per l’intercessione della beata Vergine Maria, madre del tuo unico Figlio, l’offerta di questo sacrificio giovi alla nostra prosperità e pace nella vita presente e nella futura].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitate beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus.

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea. 

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Beáta víscera Maríæ Vírginis, quæ portavérunt ætérni Patris Fílium.

[Beato il seno della Vergine Maria che portò il Figlio dell’eterno Padre].

Postcommunio

Orémus.
Hæc nos commúnio, Dómine, purget a crímine: et, intercedénte beáta Vírgine Dei Genitríce María, cœléstis remédii fáciat esse consórtes.

[Questa comunione ci mondi dalla colpa, o Signore, e per l’intercessione della beata sempre Vergine Maria, Madre di Dio, ci faccia perennemente partecipi del rimedio celeste].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LA GRAZIA E LA GLORIA (33)

  LA GRAZIA E LA GLORIA

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

Opera depositata conformemente alle leggi, nel maggio, 1901

LA GRAZIA E LA GLORIA

O

La filiazione adottiva dei figli di Dio studiata nella sua realtà, nei suoi principi, il suo perfezionamento e il suo finale coronamento.

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

Nuove edizione riveduta e corretta

TOMO SECONDO

PARIS – P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR; 10, RUE CASSETTE, 10

LA GRAZIA E LA GLORIA (33)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO PRIMO

Nozioni preliminari. La possibilità della crescita spirituale, sua misura e sua durata.

1. – Crescere è la legge dei figli di Dio, finché non abbiano raggiunto lo stato di uomo perfetto, fino alla misura dell’età della pienezza del Cristo (Ef. IV, 14). Nell’ordine spirituale siamo figli, cioè uomini in formazione nel Cristo. Generati nel Battesimo, dobbiamo continuare a nascere, per così dire, finché Cristo non sia completamente formato nella nostra anima (Galati IV, 19). – Per questo la Chiesa è sempre una Madre per noi: Madre perché ci ha dato la vita della grazia nel Battesimo; Madre anche perché è incaricata da Gesù Cristo, suo Sposo divino, di presiedere alla nostra crescita, di aiutarla e dirigerla. È ciò che avviene, fatta la debita proporzione, della nostra vita soprannaturale come della vita puramente naturale; nell’una come nell’altra i principii che compongono un essere vivente sono infusi fin dall’inizio, ma hanno bisogno di tempo per svilupparsi. Aristotele ha detto una bella parola in qualche luogo. Tra gli esseri ordinati verso la perfezione, alcuni la ottengono senza movimento; altri, mediante un movimento; altri infine, con una successione più o meno lunga di movimenti (Arist., de Cœlo, L. I, c. 2, n. 9; col, S, Thom, 1, 2., q. 5, a. 7). Possedere la perfezione senza movimento è proprio di Dio, poiché Egli è per natura la perfezione sussistente, sovrana, immutabile, infinita. Raggiungere la perfezione in un unico movimento è ciò che si addice agli Spiriti angelici, poiché Dio, loro Creatore e santificatore, ha richiesto solo un atto di amorevole e libera adorazione davanti alla sua suprema Maestà per ammetterli alla beatitudine eterna. E questo ordine della provvidenza si combinava armoniosamente con la loro natura. Perfetti fin dall’inizio nelle loro facoltà naturali, era giusto che potessero pervenire tutto d’un tratto anche al terminale. – Non esaminerò se gli Angeli avrebbero potuto tornare indietro sulla decisione presa, da questo primo uso della loro libertà, gli uni per sottomettersi alla volontà di Dio, gli altri per ribellarsi ai suoi ordini sovrani. È una questione dibattuta nella Scuola e tra i teologi. Se dovessi scegliere tra le opinioni opposte, propenderei, mi sembra, per il sentimento del Dottore Angelico, quando insegna la naturale e necessaria immobilità degli Spiriti nelle loro libere determinazioni. È con questo che attestano la perfezione suprema della loro natura. Comprendendo a colpo d’occhio tutte le ragioni e tutte le conseguenze dei loro atti, in pieno possesso della loro intelligenza e della loro volontà, liberati dal loro essere spirituale da tutte le influenze che impediscono in noi il regolare svolgimento delle nostre deliberazioni, perché dovrebbero tornare sulle decisioni prese? – Qualunque sia il caso di questa impossibilità, sia che la si ritenga assoluta o solo relativa, è certo che la condizione degli Spiriti puri è molto diversa dalla nostra. Ecco perché l’uomo raggiunge la sua suprema perfezione solo attraverso una successione di movimenti, cioè di operazioni. Infatti, ci vogliono anni perché la sua natura raggiunga la piena maturità fisica, intellettuale e morale. L’infermità della nostra ragione è tale che di solito non riesce a fare una scelta adeguata senza una più o meno lunga riflessione: si brancola, si esita, si avanza e si ritorna; perché ci sono delle oscurità, dei lumi e delle attrazioni in direzioni opposte, lotte tra l’elemento inferiore del nostro essere e la parte superiore che dovrebbe avere il controllo; in una parola, perché spesso non abbiamo piena luce e pieno possesso di noi stessi, spesso falliamo. – Io ho già mostrato nel terzo libro di quest’opera (L. III, c. 2) fino a che punto si estenda questa legge di perfezionamento successivo, nell’ordine della natura e in quello della rivelazione. È applicabile anche all’ordine della grazia? Chi può dubitarne, visto che tutto lo afferma e ci obbliga a crederlo? Innanzitutto la Scrittura: « Crescete sempre più nella grazia e nella conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo » (II Pt., III, 18). Queste sono le parole che San Pietro lascia ai fedeli come ultimo saluto, alla fine della sua seconda lettera. Nella prima aveva già scritto loro: « Come bambini appena nati, desiderate il latte spirituale e puro, perché vi faccia crescere per la salvezza » (I. S. Piet., II, 2). S. Paolo ci parla spesso di questa crescita: crescita nella scienza di Dio (Col. III, 10), crescita nella carità, crescita fino alla pienezza di Cristo (Efes. IV, 14, 15). Gesù Cristo ha voluto darcene il modello nella sua santa umanità: « E Gesù – leggiamo in San Luca – cresceva in sapienza, in età e in grazia davanti a Dio e agli uomini » (S. Luca II, 52). Non certo che si faccia interiormente in Lui lo stesso progresso che debba essere fatto in noi. Nostro Signore, fin dal primo momento della sua esistenza umana, era pieno di grazia e di verità. Pertanto, dal lato della grazia abituale e della sapienza divina che l’accompagna, non c’è stata alcuna crescita soprannaturale. Ma se i doni infusi non ammettono accrescimento in Lui, gli atti di cui essi sono il principio potrebbero essere di per sé di una perfezione più o meno sublime. Altra fu in Gesù Cristo la saggezza che manifestò nella sua infanzia, altra la saggezza che faceva dire alle folle: « Nessun uomo ha mai parlato come quest’uomo! ». È vero che Gesù ha mostrato obbedienza, pazienza e umiltà a Nazareth, ma quanto più eclatanti sono stati gli atti di queste virtù nel Cenacolo, nel Pretorio e sul Calvario! Così il sole, pur essendo sempre la stessa fonte di calore e di luce, non emette i suoi raggi e il suo calore allo stesso modo all’alba e a mezzodì. Una parola che Gesù disse una volta ai suoi discepoli ci farà capire meglio cosa sia questa crescita per i figli di adozione. « Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli » (Mt. V. 44-45). Erano essi già figli del Padre; e con l’amore per i loro nemici occorreva che lo diventassero. Cosa significa questo, se non che un figlio di Dio può sempre diventarlo ancor di più, e man mano che compie opere più degne del Padre, diventare più simile alla bontà divina? La Chiesa, impregnata di questi insegnamenti divini, non ha mai smesso di chiedere la crescita spirituale a cui sono chiamati i suoi figli. « O Dio eterno e onnipotente – dice in una delle sue preghiere – donaci un aumento della fede, della speranza e della carità » (Or. per la 13ª Domenica dopo Pentecoste).

2. – Vedremo presto in dettaglio come avviene la nostra crescita e dimostreremo che non possa essere negata senza una manifesta eresia. Ma la ragione stessa, illuminata dalla fede, ci mostra, una volta supposta l’ordine della grazia per gli uomini, non solo che nulla si opponga a questa crescita spirituale, ma anche che essa possa andare indefinitamente oltre ogni limite determinato. Infatti, se ci fosse un’impossibilità di crescita, o almeno un limite alla crescita possibile, dovremmo cercarlo o nella natura stessa della grazia, o nell’infermità del soggetto che potrebbe riceverla solo secondo una certa misura, o infine nella causa stessa della grazia, cioè in Dio, che non potrebbe o non vorrebbe darla oltre una quantità fissata dalla natura delle cose e da Lui stesso. Ora, nulla di tutto ciò ostacola l’aumento indefinito della grazia santificante e, di conseguenza, la dimora sempre più intima di Dio nelle anime, l’unione sempre più stretta del Padre con i suoi figli adottivi (cfr. S. Thom., 2. 2, q. 24, a. 7). Non è la natura della grazia a impedire questo sviluppo. Che cos’è, infatti, la grazia? Una partecipazione alla natura divina, l’immagine e la somiglianza di Dio nell’anima santificata. Aggiungete grado a grado, perfezioni a perfezioni; forgiate una somiglianza finita, completa quanto volete, l’immagine di Dio, cioè la grazia, forma e principio di questa immagine, sarà sempre infinitamente distante dall’Archetipo sovrano, e nulla impedirà quindi di supporne indefinitamente un’altra più perfetta. Un’unica immagine di suprema bellezza esclude ogni idea di incremento e ogni perfettibilità. È l’immagine adeguata del Padre, il Figlio unigenito, il carattere infinito della sostanza infinita. Ora, poiché la perfezione creata potrebbe avvicinarsi eternamente ad essa senza mai riuscire ad eguagliarla, ne consegue che la perfettibilità della nostra grazia è di per sé indefinita. Non cercate quindi il limite preciso in cui la perfezione, in virtù della natura stessa delle cose, dovrà un giorno fermarsi: questo limite non esiste. Dio stesso, che conosce chiaramente tutti i possibili gradi di accrescimento per le grazie, non può dire quale sia il punto supremo oltre il quale la grazia creata non possa più salire, perché Dio non conosce il chimerico e l’impossibile. Così, anche nell’ordine della natura, non ci sono limiti alla perfezione delle specie che l’onnipotenza può trarre dal nulla. Nessun essere creato, per quanto grande sia la sua intelligenza e di qualunque splendore possa brillare nel firmamento degli spiriti, non può, se Dio vuole, non vedere al di sopra di sé altri esseri creati più belli nella loro natura e più perfetti nelle loro facoltà, perché rimarrebbero sempre infinitamente al di sotto della perfezione del modello. Se l’impossibilità di crescere non ha fondamento nella natura della grazia, non lo ha forse nella condizione stessa del soggetto che la riceve? La risposta è negativa. In altre parole, bisogna notare che ci sono due stati ben distinti per il figlio di Dio: lo stato di via e quello di fine, status viæ e status termini. Questi sono coloro che, avendo raggiunto la visione di Dio, sono entrati nel pieno possesso del loro fine ultimo e nel godimento del Bene sovrano. È qui che li ha condotti il desiderio della felicità, motivo e ragione di tutti i nostri passi in questa vita mortale; è qui che, soprattutto, intendeva condurli quella provvidenza ugualmente potente e soave con cui Dio si compiace di dirigere e muovere i suoi figli adottivi. – È evidente che per coloro che hanno raggiunto questo stato beato non sia possibile un’ulteriore crescita, poiché la loro grazia è consumata nella gloria. So bene cosa si potrebbe obiettare. Per quanto perfetta possa essere questa grazia, essa non è infinita; la stessa disuguaglianza che regna tra i beati ne è una palese dimostrazione. Sì, certo, se guardiamo questa grazia in sé, materialmente, come dicono i teologi, possiamo, anzi dobbiamo considerarla capace di una crescita illimitata. Ma per coloro che la considerano come una grazia formale del termine, come grazia consumata nella visione, essa non può ricevere alcun nuovo grado di perfezione. San Tommaso (S, Thom. 1 p. , q. 62, a. 9) ne dà una ragione molto convincente, che riassumo in poche parole. Dio, che muove sovranamente l’uomo verso la beatitudine, deve necessariamente aver fissato il termine a cui piace alla sua provvidenza condurlo, come al suo fine ultimo: poiché è della saggezza di un motore intelligente e libero il non agire su un mobile per muoverlo all’infinito, ma per farlo arrivare ad una meta. Ora – aggiunge il nostro grande dottore – vedere Dio, godere di Dio, non è questo un termine definito, poiché questo godimento e questa visione comprendono gradi senza numero. Quindi, per concludere, l’intenzione di Dio non è solo che la creatura raggiunga la beatitudine, ma un determinato grado di questa beatitudine, come fine ultimo. Ed è per questo che lo stato del termine è incompatibile con qualsiasi aumento della grazia santificante: perché se la gloria è nel grado voluto da Dio, la grazia proporzionata alla gloria è anche per ciascuno nella misura che Egli ha stabilito. Se volessimo qui usare termini scolastici, diremmo che, una volta raggiunto questo termine, la grazia e la gloria potrebbero, per lo meno, ancora aumentare secondo la potenza assoluta, de potentia absoluta; ma che questo aumento sia impossibile secondo la potenza ordinata, de potentia ordinata: perché ciò è possibile solo da quest’ultima potenza che, infatti, rientra nell’ordine della sapienza e della volontà di Dio (S. Thom. III, d. 1, q. 2, ad 3; col. 1 p., q. 25, a. 5, ad 1; Alex. Halens, 1 p., q. 20, m. 5). – Ma finché siamo lungo la via, non c’è nulla da parte del soggetto che rappresenti un ostacolo invincibile al perfezionamento della grazia. Non ditemi che la capacità della mia natura sia finita! Questo dimostra, è vero, che una grazia infinita ripugna alla mia essenza, poiché non posso diventare Dio; ma il progresso nella grazia non toglie l’infinità di questa stessa grazia. Se la natura può ricevere la grazia in sé, può più propriamente riceverne nuovi gradi. Perché i favori che ha già ricevuto, lungi dall’ostacolare o restringere la capacità di ricezione, la dilatano ulteriormente e la aprono a nuove e più abbondanti effusioni. Di due uomini, uno di intelligenza incolta, l’altro di mente già molto coltivata, sarebbe il primo a sembrarvi più capace di fare ulteriori progressi nelle scienze: come se le conoscenze acquisite fossero un ostacolo e non un aiuto? Quindi, più si ama Dio, più si partecipa alle sue grazie, più si è in grado di ricevere gli effetti della bontà divina. Grazia e carità sono legate: l’aumento dell’una è la perfezione dell’altra. Non sappiamo che amando acquistiamo nuova forza per amare? Il cuore che ama si anima e si entusiasma e lo Spirito Santo, che lo possiede, lo ispira con nuova forza ad amare sempre di più. Dare dei limiti al proprio amore significa ignorare la natura e la legge dell’amore, perché più si ama e più si vuole amare. – Chi ha amato come San Paolo, che sfidava il cielo e la terra dal separarlo dall’amore di Cristo Gesù? S. Paolo che si reputava egli stesso nel numero classificato dei perfetti (Fil. III, 15). E questo grande Apostolo non si crede ancora giunto al termine del punto ove vuole andare. « Mi resta – dice – una cosa da fare: dimenticando ciò che è dietro di me, rivolgermi a ciò che è davanti a me ». (Ibid., 13). E perché questa corsa ed i tanti sforzi a cui invita i suoi fratelli? È perché la meta a cui tende è sempre infinitamente lontana da lui, poiché la vocazione divina ci spinge all’imitazione di Gesù Cristo (Ibid. 17). Così, la grazia chiama la grazia. A Dio non piace che l’anima umana voglia che l’anima umana sia come un piccolo vaso in cui si versa un liquido. Se volete un paragone materiale, guardate piuttosto il mare dove scorrono i fiumi e che non deborda mai. (Eccl. I, 7). – Per trovare qualche ostacolo a questa perfezione indefinita della grazia, dovrà risalirsi alla causa da cui essa deriva? Ma questa causa, nell’ordine fisico, è Dio, la cui potenza non è fermata da alcun limite. Ma questa causa, nell’ordine morale, sono i meriti di Gesù Cristo Nostro Signore; meriti di valore infinito, come la dignità della Persona stessa; capaci, quindi, di ripagare con sovrabbondanza tutti i doni della grazia, scorressero anche a torrenti, senza misura e senza tregua, dal cuore di Dio sulle anime. – Ma, si dirà, se questo è il caso della crescita spirituale, chi può impedirci di ammettere che una creatura pura, attraverso un meraviglioso progresso di santità, possa arrivare alla pienezza di grazia che ammiriamo in Nostro Signore? Nulla, se non la sovreminenza della grazia del Salvatore Gesù. Questa grazia, infatti, considerata in tutto ciò che comporta, è di ordine superiore alla nostra; essa è alla grazia di una creatura pura, nel rapporto di una causa universale con una causa particolare, poiché è dalla sua pienezza che tutti abbiamo ricevuto. Mai la luce di un focolare, di qualsiasi materia comunque attivata, ha eguagliato lo splendore del sole (S. Thom., 3 p., q. 7, a, 11 in corp. e ad 3,1). Non sarebbe né meno temerario, né meno insensato per una semplice creatura aspirare alla santità della Vergine che l’Angelo ha salutato piena di grazia. La dignità di Madre di Dio esigeva da Maria, fin dal primo momento della sua esistenza, una pienezza inferiore, senza dubbio, a quella del suo Figlio, Dio fatto uomo, ma incomparabilmente superiore alla grazia conferita dal Battesimo ai figli adottivi. E poiché la crescita nella Vergine divina ha risposto costantemente e perfettamente a questa pienezza iniziale, chi non vede che la distanza che separa la sua grazia dalla nostra, lungi dal diminuire col tempo, cresceva al contrario come all’infinito? Per questo la Chiesa ci insegna su Maria, osservata ogni proporzione, ciò che crediamo su suo Figlio. La sua grazia è come una sorgente molto abbondante da cui sgorga la nostra stessa sorgente in relazione a noi, anche se è solo un ruscello alimentato dalla grazia di Gesù Cristo, nostro e suo santificatore.

3. – Ho detto che l’aumento della grazia e delle virtù, la crescita spirituale quindi, appartiene allo stato della Via. Ma qual è il confine estremo per noi di questo stato della via? La morte. Non esiste uno iato tra il tempo e l’eternità, tra la durata della crescita e la perfetta maturità che respinge il cambiamento. Finché l’anima non è separata dal corpo, siamo lontani dal Signore, pellegrini in cammino verso la dimora del Padre nei cieli. È per questo che i Santi desiderano ardentemente lasciare questo corpo per arrivare al termine e godere della presenza del Signore (II Cor. V, 6-8). Pertanto, lo stato di fine, quando cesserà per noi la crescita nella grazia, ha come primo momento l’ultimo della nostra vita mortale. Che i Santi, per un favore infinitamente raro, abbiano intravisto il volto di Dio prima di morire, come di sfuggita, non lo affermo né lo nego; in ogni caso, non si trattava della visione permanente riservata alla fine. La tenda che ci vela la gloria di Dio può essere stata aperta per un momento, ma il sipario non era stato ancora alzato: è necessario per questo la mano della morte. – Potrebbe sembrare che quelle anime che lasciano la vita presente, sante davanti a Dio, ma incompletamente purificate, e di conseguenza allontanate per un tempo più o meno lungo dalla beata contemplazione di Dio, possano ancora crescere nella grazia, poiché non sono giunte alla fine. No, non è possibile alcuna crescita per loro, perché non sono più sulla strada. Se la morte non li porta in possesso di Dio, è in un certo senso per accidente. D’ora in poi sono immobilizzati nel bene e il loro diritto all’eredità è inamovibile. La sala banchetti è lì ad attenderli. Per entrare nella porta è necessaria una purificazione finale, ma nulla può impedirne irrevocabilmente l’ingresso. Sono figli arrivati alla casa del Padre, ai quali il Padre ordina di togliere le macchie della strada, prima di ammetterli al bacio del suo amore, e di questo bacio hanno l’assoluta certezza che ne godranno per l’eternità. Di principio queste anime sono al termine (« Dicendum quod, quamvis animæ (purgantes) post mortem non sint simpliciter in statu viæ, tamen quantum ad aliquid adhuc sunt in via, in quantum scilicet earum progressus adhuc retardatur ab ultima retributioné: et ideo simpliciter earum via est circumsepta, ut non possint ulterius per aliqua opera transmutari secundum statum felicitatis et miseriæ: sed quantum ad hoc non est circumsepta quin, quantum ad hoc quod detinentur ab ultima retributione, possint ab aliis juvari, quia secundum hoc adhuc sunt in via ». S. Thom., Supplem. Q. 71, a 2 ad 3; col.2-2, q. 13, a. 4 ad 2 ; q. 182, a. 2; ad 2, 3p., q. 19, a. 3, ad 1).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “FIN DAL PRINCIPIO”

“Il Sacerdozio cattolico, divino nella sua origine, soprannaturale nella sua essenza, immutabile nel suo carattere, non è tale istituzione che possa accomodarsi alla volubilità delle opinioni e dei sistemi umani (…) Il Sacerdote è sopra tutto costituito maestro, medico e pastore delle anime, e guida ad un fine che non si chiude nei termini della vita presente …. ” – Due espressioni lapidarie che in poche parole riassumono concetti fondamentali nel Cristianesimo come voluti da Cristo, citate dal Sommo Pontefice nel corso di questa lettera Enciclica scritta ai Vescovi italiani perché si adoperassero a formare Sacerdoti santi e guide per portare il popolo alla eterna felicità. Inutile dire, purtoppo che questi auspici forono quasi completamente disattesi da ecclesiastici in gran parte modernisti, tra cui molti erano aderenti in modo occulto, a logge massoniche. I risultati non si fecero attendere, come sappiamo, tanto da profilare l’apostasia massiccia di religiosi, chierici e fedeli, migrati senza battere ciglio, nell’antichiesa conciliabolare, e lo scisma dal Vicario di Cristo, S. S. Gregorio XVII estromesso nel corso del Conclave del 26 ottobre 1958 e sostituito dal designato usurpante massone 33 Roncalli. Se fossero state seguite le indicazioni di Leone XIII, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente, ed il Signore non avrebbe punito così duramente la sua Chiesa con l’eclissarla e farla apparire un baraccone circense (senza offesa per i circensi!) in balia di nocchieri apparentemente ubriachi o francamente impazziti. Ma godiamoci questa lettera scritta in italiano sperando che quanto prima possano tornare utile ad una Chiesa finalmente rinata dalle ceneri spirituali di pazzi dinamitardi che hanno ucciso ed uccidono anime infinite riscattate dal preziosissimo sangue di Cristo.

Leone XIII
Fin dal principio

Lettera Enciclica

La formazione del clero in Italia
8 dicembre 1902

Fin dal principio nostro pontificato ponendo Noi mente alle gravi condizioni della società, non tardammo a riconoscere, come uno dei più urgenti doveri dell’Apostolico ufficio fosse quello di rivolgere specialissime cure alla educazione del Clero. Vedevamo infatti che ogni nostro divisamento ad operare nel popolo una restaurazione di vita cristiana sarebbe tornato invano, ove nel ceto ecclesiastico non si serbasse integro e vigoroso lo spirito sacerdotale. Pertanto, mai non cessammo, quanto era da Noi, di provvedervi, sia con opportune istituzioni, sia con parecchi documenti diretti a tale intento. Ed ora una particolare sollecitudine verso il Clero d’Italia Ci muove, Venerabili Fratelli, a trattare ancora una volta un argomento di grande rilievo.
Belle invero e continue testimonianze esso ne porge di dottrina, di pietà, di zelo; tra le quali Ci piace di additar con lode l’alacrità onde, secondando l’impulso e la direzione dei Vescovi, coopera al movimento cattolico che Ci è sommamente a cuore. Non possiamo tuttavia dissimulare la preoccupazione dell’animo Nostro al vedere come da qualche tempo vada qua e là serpeggiando una cotal brama d’innovazioni inconsulte, così, rispetto alla formazione, come all’azione multiforme dei sacri ministri. Ora è facile avvisare le gravi conseguenze che sarebbero a deplorarsi, ove a siffatte tendenze innovatrici non si apportasse pronto rimedio. Ond’è che a preservare il clero italiano dalle influenze perniciose dei tempi, stimiamo cosa opportuna, Venerabili Fratelli, richiamare in questa Nostra lettera i veri e invariabili principi che debbono regolare l’educazione ecclesiastica e tutto il sacro ministero. Il Sacerdozio cattolico, divino nella sua origine, soprannaturale nella sua essenza, immutabile nel suo carattere, non è tale istituzione che possa accomodarsi alla volubilità delle opinioni e dei sistemi umani. Partecipazione del sacerdozio eterno di Gesù Cristo, esso deve perpetuare fino alla consumazione dei secoli la missione stessa dal divin Padre affidata al suo Verbo Incarnato: “Sicut misit me Pater, et ego mitto vos” (1Gv XX, 21). Operare la salute eterna delle anime sarà sempre il grande mandato, a cui esso non potrà mai venire meno; come, per fedelmente attuarlo, non dovrà mai cessare di ricorrere a quei soprannaturali presidi e a quelle norme divine di pensiero e di azione che gli diede Gesù Cristo, quando inviava i suoi Apostoli per tutto il mondo a convertire i popoli al Vangelo, Quindi S. Paolo nelle sue lettere vien ricordando, non essere altro il sacerdote che il “legato“, il “ministro di Cristo“, il “dispensatore dei suoi misteri” (2Cor. V, 20; VI, 4; 1Cor IV, 1), e ce lo rappresenta quasi collocato in luogo eccelso (cf. Hb. V,1), quale intermediario fra il ciclo e la terra per trattare con Dio gl’interessi sommi dell’uman genere, che sono quei della vita sempiterna. Tale il concetto che i Libri santi ne danno del Sacerdozio cristiano, cioè di un’istituzione soprannaturale, superiore a tutti gl’istituti terreni e affatto separata da essi come il divino dall’umano. – La stessa alta idea emerge chiara dalle opere dei Padri, dal Magistero dei Romani Pontefici e dei Vescovi, dai decreti dei Concili, dall’unanime insegnamento dei Dottori e delle Scuole cattoliche. Che anzi tutta la tradizione della Chiesa è una voce sola nel proclamare che il Sacerdote è un “altro Cristo”, e che il Sacerdozio “si esercita bensì in terra, ma va meritamente annoverato tra gli ordini del cielo” (S. Io. Chrysostomus, De Sacerdotio, lib. III, n. 4), “poiché gli sono date da amministrare cose del tutto celesti, e gli è conferito un potere che Dio non affidò neppure agli Angeli”; potere e ministero che riguardano il governo delle anime, ossia “l’arte delle arti”. Perciò educazione, studi, costumi, quanto insomma si attiene alla disciplina sacerdotale, venne sempre dalla Chiesa considerato come un tutto a sé, non pur distinto, ma separato altresì dalle ordinarie norme del vivere laicale. – Tal distinzione e separazione deve dunque rimanere inalterata anche ai tempi nostri, e qualunque tendenza ad accomunare o confondere l’educazione e la vita ecclesiastica con la educazione e la vita laicale, ha da giudicarsi riprovata nonché dalla tradizione dei secoli cristiani, ma dalla dottrina stessa apostolica e dagli ordinamenti di Gesù Cristo. – Certamente nella formazione del clero e nel ministero sacerdotale ragion vuole che si abbia riguardo alle varie condizioni dei tempi. Quindi è ben lungi da Noi il pensiero di rigettare quei mutamenti che rendano l’opera del Clero sempre più efficace nella società in mezzo a cui vive; che anzi appunto per tale considerazione Ci è sembrato conveniente di promuovere in esso una più solida e squisita coltura, e di aprire un campo più largo al suo ministero. Ma ogni altra innovazione che potesse recare qualche pregiudizio a ciò ch’è essenziale al Sacerdote, dovrebbe riguardarsi come affatto biasimevole. Il Sacerdote è sopra tutto costituito maestro, medico e pastore delle anime, e guida ad un fine che non si chiude nei termini della vita presente. Ora non potrà egli mai corrispondere appieno a così nobili uffici, se non sia, quant’è mestieri, versato nella scienza delle cose sacre e divine; se non sia fornito a dovizia di quella pietà che ne fa un uomo di Dio; se non ponga ogni cura in avvalorare i suoi insegnamenti colla efficacia dell’esempio, conforme all’ammonimento dato ai sacri pastori dal Principe degli Apostoli: “Forma facti gregis ex animo” (1Pt 5,3). Comunque volgano i tempi, e le condizioni sociali cangino e si tramutino, queste sono le proprie e massime doti che debbono rifulgere nel Sacerdote cattolico, giusta i principi della fede; ogni altro corredo naturale ed umano in certo commendevole, ma non avrà rispetto all’ufficio sacerdotale, che una secondaria e relativa importanza. – Se pertanto è ragionevole e giusto che il Clero si pieghi, fin dove è lecito, ai bisogni dell’età presente, è altresì doveroso e necessario che alla prava corrente del secolo, non che cedere, fortemente resista. E ciò, mentre risponde naturalmente all’alto fine del sacerdozio, vale altresì a renderne più fruttuoso il ministero, crescendogli decoro e procacciandogli rispetto. – Ora è noto pur troppo come lo spirito del naturalismo tenti inquinare ogni parte anche più sana del corpo sociale: spirito che inorgoglisce le menti e le ribella ad ogni autorità; che avvilisce i cuori e li volge alla ricerca dei beni caduchi, trascurati gli eterni. Di questo spirito, così malefico e già troppo diffuso, grandemente è a temere che qualche influsso non possa insinuarsi anche fra gli ecclesiastici, massime fra i meno esperti. Tristi effetti ne sarebbero, il venir meno a quella gravità di condotta, che tanto si addice al Sacerdote; il cedere con leggerezza al fascino di ogni novità; il diportarsi con indocilità pretenziosa verso i maggiori; il perdere quella ponderatezza e misura nel discutere che tanto è necessaria, particolarmente in materia di fede e di morale. Ma effetto ben più deplorevole, perché congiunto col danno del popolo cristiano, ne seguirebbe nel sacro ministero della parola, inducendovi un linguaggio non conforme al carattere di banditore del l’Evangelo. – Mossi da tali considerazioni, Noi sentiamo di dover nuovamente e con più vivo studio raccomandare, che innanzi tutto i Seminari siano con gelosa cura mantenuti nello spirito proprio, così rispetto all’educazione della mente come a quella del cuore. – Non si perda giammai di vista, ch’essi sono esclusivamente destinati a preparare i giovani non ad uffici umani, per quanto legittimi ed onorevoli, ma all’alta missione, poc’anzi accennata, di ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1). – Da tale riflesso, tutto soprannaturale, sarà sempre agevole, come notammo già nella Enciclica al Clero di Francia data l’8 settembre 1899, ritrarre norme preziose non pure per la retta formazione dei chierici, ma per allontanare altresì dagl’Istituti, nei quali si educano, ogni pericolo così interno come esterno, d’ordine morale o religioso. – Rispetto agli studi, poiché il clero non dev’essere estraneo agli avanzamenti d’ogni buona disciplina, si accetti pure quanto di veramente buono ed utile si riconosca negl’innovati metodi: ogni tempo suole contribuire al progresso del sapere umano, Però vogliamo che su tal proposito siano ben ricordate le prescrizioni Nostre intorno allo studio delle lettere classiche, e principalmente della Filosofia, della Teologia, e delle scienze affini: prescrizioni che demmo in più documenti, massime nella detta Enciclica, di cui Ci piace perciò trasmettere a voi un esemplare. unito alla presente. – Sarebbe al certo desiderabile che i giovani ecclesiastici potessero tutti com’è dovere, fornire il corso degli studi sempre all’ombra dei sacri Istituti. Ma poiché gravi ragioni talora consigliano che alcuni di essi frequentino le pubbliche Università, non si dimentichi con quali e quante cautele i Vescovi debbano ciò loro permettere. Vogliamo del pari che si insista sulla fedele osservanza delle norme contenute in altro più recente documento, in special modo per quanto concerne le letture od altro che potesse dare occasione ai giovani di prender parte comecchessia ad agitazioni esterne. Così gli alunni dei Seminari, facendo tesoro di un tempo prezioso è colla massima tranquillità degli animi, potranno raccogliersi tutti intorno a quegli studi che li rendono maturi ai grandi doveri del sacerdozio, singolarmente al ministero della predicazione e delle confessioni. Ben si rifletta, quanto grave sia la responsabilità di quei Sacerdoti che, in tanto bisogno del popolo cristiano, trascurano di prestar l’opera propria nell’esercizio di questi sacri ministeri; e di coloro altresì che non vi portano una illuminata operosità: sì gli uni come gli altri mal corrispondono alla propria vocazione in cosa che troppo importa alla salute delle anime. E qui dobbiamo richiamare l’attenzione vostra, Venerabili Fratelli, sulla speciale Istruzione che volemmo data in ordine al ministero della divina parola; e desideriamo che se ne traggano più copiosi frutti. Rispetto poi al ministero delle confessioni, si rammenti quanto severe suonino le parole del più insigne e mite dei moralisti verso coloro che non dubitano di sedere inetti nel tribunale dipendenza; e come non meno severo sia il lamento dell’insigne Pontefice Benedetto XIV, che poneva tra le maggiori calamità della Chiesa il difetto nei confessori di una scienza teologica morale qual s’addice alla gravità di così santo ufficio. – Ma al nobile scopo di preparare degni ministri del Signore è necessario, Venerabili Fratelli, che sia volto, e con sempre maggior vigore e vigilanza, oltre l’ordinamento scientifico, anche il disciplinare e l’educativo dei vostri Seminari. – Non vi si accolgano che giovani i quali offrano fondate speranze di voler consacrarsi in perpetuo al ministero ecclesiastico.Si tengano segregati dal contatto e più dalla convivenza con giovani non aspiranti al sacerdozio: tale comunanza potrà per giuste e gravi cause tollerarsi a tempo e con singolari cautele, finché non sia dato di pienamente provvedere, conforme allo spirito della disciplina ecclesiastica. Si rimandino quanti nel corso della loro educazione manifestassero tendenze meno convenevoli alla vocazione sacerdotale, e nell’ammettere i chierici agli Ordini sacri si usi somma ponderazione, giusta l’ammonimento gravissimo di San Paolo a Timoteo: “Manus cito nemini ìmposueris” (1 Tm V, 22). In tutto ciò conviene posporre qualsiasi altra considerazione, che sarebbe sempre da ritenersi inferiore a quella rilevantissima della dignità del sacro ministero. Importa poi grandemente, che a formare negli alunni del santuario un’immagine viva di Gesù Cristo, nel che si assomma tutta l’educazione ecclesiastica, i moderatori e gl’insegnanti alla diligenza e alla perizia propria del loro ufficio congiungano l’esempio di una vita al tutto sacerdotale. La condotta esemplare di chi presiede, massime ai giovani, è il linguaggio più eloquente e persuasivo per ispirare negli animi loro il convincimento dei propri doveri e l’amore al bene. Un’opera di tanto rilievo richiede principalmente dal direttore di spirito prudenza non ordinaria e cure indefesse; onde un tale ufficio, che desideriamo non manchi in verun Seminario, vuol essere affidato ad ecclesiastico molto esperto nelle vie della perfezione cristiana. – Ed a lui non sarà mai abbastanza raccomandato d’infondere e coltivare negli alunni colla maggiore sodezza quella pietà la quale è per tutti feconda, ma specialmente per il clero, di utilità inestimabili (cf. 1Tm IV, 7-8). Perciò sia egli sollecito di premunirli altresì da un pernicioso inganno, non infrequente tra i giovani, cioè di lasciarsi talmente prendere all’ardore degli studi, da non curar poi a dovere il proprio avanzamento nella scienza dei Santi, Quanto più la pietà avrà messo radici profonde nei chierici, tanto meglio saranno temprati a quel forte spirito di sacrificio, ch’è al tutto necessario per zelare la gloria divina e la salvezza delle anime. – Non mancano, la Dio mercé, nel clero italiano Sacerdoti che diano nobili prove di quanto possa un ministro del Signore, penetrato di siffatto spirito, mirabile la generosità di quei tanti che per dilatare il regno di Gesù Cristo, corrono volenterosi in lontane terre ad incontrare fatiche, privazioni e stenti d’ogni maniera, ed anche il martirio. – Di questa guisa, scorto da provvide ed amorevoli cure nella conveniente coltura dello spirito e dell’ingegno, verrà a grado a grado formandosi il giovane levita, quale lo richiedono la santità della sua vocazione ed i bisogni del popolo cristiano. Il tirocinio in verità non è breve; eppure vorrà essere protratto anche oltre il tempo del Seminario. Conviene infatti che i giovani Sacerdoti non siano lasciati senza guida nelle prime fatiche, ma vengano confortati dalla esperienza dei più provetti che ne maturino lo zelo, la prudenza, e la pietà; ed è spediente altresì che, ora con esercitazioni accademiche, ora con periodiche conferenze, si allarghi l’uso di tenerli continuamente esercitati negli studi sacri. È manifesto, Venerabili Fratelli, che quanto abbiamo sin qui raccomandato, lungi dal menomamente nuocere, giova anzi in singolare modo a quella operosità sociale del Clero, da Noi in più occasioni inculcata come necessaria al nostri giorni. Poiché coll’esigere la fedele osservanza delle norme da Noi richiamate, si viene a tutelare ciò che di siffatta operosità dev’essere l’anima e la vita. – Ripetiamo dunque anche qui, e più altamente, esser mestieri che il Clero vada al popolo cristiano, insidiato da ogni parte, e con ogni sorta di fallaci promesse adescato segnatamente dal socialismo ad apostatare dalla fede avita; subordinando però tutti la propria azione all’autorità di coloro, “cui lo Spirito Santo ha costituito Vescovi per reggere la Chiesa di Dio”; senza di che seguirebbe confusione e disordine gravissimo, a detrimento anche della causa che hanno a difendere e a promuovere. – Anzi a tal fine desideriamo che i candidati al sacerdozio, sul termine della loro educazione nei Seminari, vengano convenientemente ammaestrati nei documenti pontifici che riguardano la questione sociale e la democrazia cristiana, astenendosi peraltro, come più sopra abbiamo detto, dal prendere qualsiasi parte al movimento esterno. Fatti poi Sacerdoti si volgano con particolare studio al popolo, stato sempre l’oggetto delle più amorose cure della Chiesa, Togliere i figli del popolo alla ignoranza delle cose spirituali ed eterne, e con industriosa amorevolezza avviarli ad un vivere onesto e virtuoso; raffermare gli adulti nella Fede dissipandone i contrari pregiudizi, e confortarli alla pratica della vita cristiana; promuovere tra il laicato cattolico quelle istituzioni che si riconoscano veramente efficaci al miglioramento morale e materiale delle moltitudini; propugnare sopra tutto i principi di giustizia e carità evangelica, nei quali trovano equo temperamento tutti i diritti e i doveri della civile convivenza: tale è nelle precipue sue parti il nobile compito della loro azione sociale. Ma abbiano sempre presente, che anche in mezzo al popolo il Sacerdote deve serbare integro il suo augusto carattere di ministro di Dio, essendo esposto a capo dei fratelli, principalmente “animarum causa” ( S. Gregorio M., Regula Past.. parte II, e. VII.). Qualsivoglia maniera di occuparsi del popolo, a scapito della dignità sacerdotale, con danno dei doveri e della disciplina ecclesiastica, non potrebbe esser che altamente riprovata. – Ecco quanto, Venerabili Fratelli, la coscienza dell’Apostolico ufficio C’imponeva di far rilevare, considerate le condizioni odierne del Clero d’Italia. Non dubitiamo, che in cosa di tanta gravità ed importanza, alla sollecitudine Nostra voi saprete congiungere le più solerti ed amorose industrie del vostro zelo, ispirandovi specialmente ai luminosi esempi del grande Arcivescovo, San Carlo Borromeo. Pertanto a dare effetto a queste Nostre prescrizioni, avrete cura di farne argomento delle vostre regionali Conferenze, e di consigliarvi su quei provvedimenti pratici che secondo i particolari bisogni delle singole Diocesi vi sembreranno più opportuni. Ai divisamenti ed alle deliberazioni nostre non mancherà, ove sia d’uopo, il presidio della Nostra autorità. – Ed ora con parola che ne viene spontanea dall’intimo del Nostro cuore paterno, Ci volgiamo a voi, quanti siete sacerdoti d’Italia, raccomandando a tutti e a ciascuno, che mettiate ogni impegno nel corrispondere sempre più degnamente allo spirito proprio della vostra eccelsa vocazione. A voi ministri del Signore diciamo con più ragione che non disse S, Paolo ai semplici fedeli: “Obsecro itaque vos ego vinctus in Domino, ut digne ambuletis vocatione, qua vocati estis” (Eph IV,1). L’amore della comune Madre la Chiesa rinsaldi e rinvigorisca tra voi quella Concordia di pensiero e di azione, che raddoppia le forze e rende più feconde le opere. In tempi tanto infesti alla Religione e alla società, quando il Clero di ogni nazione è chiamato ad unirsi compatto per la difesa della fede e della morale cristiana, si appartiene a voi, figli dilettissimi, cui particolari vincoli congiungono a questa sede Apostolica, precedere a tutti gli altri con l’esempio, ed essere i primi nella illimitata obbedienza alla voce e ai comandi del Vicario di Gesù Cristo. – Così le benedizioni di Dio scenderanno copiose, quali Noi le invochiamo, a mantenere il Clero d’Italia sempre degno delle illustri sue tradizioni. – Auspice intanto dei divini favori sia l’apostolica benedizione, che a voi, Venerabili Fratelli, ed a tutto il Clero alle vostre cure affidato, con effusione di cuore impartiamo.

Dato a Roma, presso S. Pietro, nel dì sacro alla Immacolata Concezione di Maria, 8 Dicembre 1902, anno vigesimo quinto del Nostro Pontificato.

DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semìdoppio. – Paramenti verdi.

Questa Domenica, inserita nel Messale dopo il Sabato delle Quattro-Tempora, era anticamente libera. La liturgia della vigilia si prolungava, infatti, fino alla Domenica mattina, e quindi questo giorno non aveva Messa propria. La lezione del Breviario nella Domenica che segue le Quattro Tempora (4a Domenica di settembre) è quella del libro di Giuditta, che S. Ambrogio, nel 2° Notturno riporta a questo tempo di penitenza, attribuendo ai digiuni e all’astinenza di quest’eroina la sua miracolosa vittoria. Per continuare il riavvicinamento che abbiamo stabilito fra il Messale e il Breviario, possiamo anche studiare la Messa del Sabato delle Quattro Tempora, che era anticamente quella di questa Domenica in rapporto con la storia di Giuditta. – Nabuchodonosor, re degli Assiri, mandò Oloferne, generale del suo esercito, a conquistare la terra di Canaan. Quest’ufficiale assediò la fortezza di Betulia. Ridotti agli estremi, gli assediati decisero di arrendersi nello spazio di cinque giorni. Viveva allora in questa città una vedova chiamata Giuditta, che godeva grande riputazione. « Facciamo penitenza per i nostri peccati disse ella, e imploriamo il perdono da Dio con molte lacrime! Umiliamo le anime nostre davanti a Lui e preghiamolo di farci sperimentare la sua misericordia. Crediamo che questi flagelli, con i quali Dio ci castiga, ci sono mandati per correggerci e non per rovinarci ». E questa santa donna entrò allora nel suo oratorio rivestita di cilicio e con la testa cosparsa di cenere si prostrò a terra davanti al Signore. Compiuta la sua preghiera, mise le sue vesti più belle ed uscì dalla città con la sua ancella. Sul far del giorno giunse agli avamposti dei Caldei e dichiarò che era venuta per dare i suoi nelle mani di Oloferne. I soldati la condussero dal generale che fu colpito dalla sua grande bellezza « che Dio si compiacque di rendere ancor più abbagliante, poiché aveva per scopo non la passione, ma la virtù ». Oloferne credette alle parole di Giuditta e offrì in suo onore un gran banchetto. Nel trasporto della gioia bevve con intemperanza maggiore del solito e oppresso del vino si distese sul letto e si addormentò. Tutti si ritirarono allora e Giuditta restò sola presso di lui. Ella pregò il Signore di dar forza al suo braccio per la salvezza di Israele; poi, staccata la spada appesa al capo del letto, tagliò coraggiosamente la testa di Oloferne, la consegnò all’ancella ordinandole di nasconderla nella borsa da viaggio e ambedue rientrarono a Betulia quella notte medesima. Quando gli Anziani della città appresero quello che Giuditta aveva fatto, esclamarono: « Benedetto sia il Signore, che ha creato il cielo e la terra! ». L’indomani la testa sanguinante di Oloferne venne esposta sulle mura della fortezza. I Caldei gridarono al tradimento ma, inseguiti dagli Israeliti, furono massacrati o messi in fuga. Quando il Sommo Sacerdote venne da Gerusalemme con gli Anziani per festeggiare la vittoria, tutti acclamarono Giuditta, dicendo: « Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu la letizia di Israele, tu l’onore del nostro popolo ». S. Ambrogio, nel 2° Notturno della IV Domenica di Settembre commenta questa pagina della Bibbia dicendo: « Giuditta tagliò la testa ad Oloferne in forza della sua sobrietà ». Armata del digiuno, essa penetrò arditamente nel campo nemico. Il digiuno di una sola donna ha vinto le innumerevoli schiere degli Assiri ». La Messa del Sabato delle Quattro Tempora è piena di sentimenti analoghi. Le Orazioni implorano il soccorso della misericordia divina, appoggiandosi sul digiuno e sull’astinenza che ci rendono più forti dei nostri nemici. Perdonaci le nostre colpe, Signore, dice il l° Graduale. Vieni in nostro aiuto, o Dio nostro Salvatore; liberaci, per l’onore del nome tuo ». – « O Signore, Dio degli eserciti, continua il 2° Graduale, presta l’orecchio alle preghiere dei tuoi servi ». « Volgi il tuo sguardo, o Signore; sino a quando volti da noi la tua faccia? aggiunge il 3° Graduale, abbi pietà dei tuoi servi ». — Le Lezioni fanno tutte allusioni alla misericordia di Dio verso il popolo, che ha fatto penitenza. Così parla il Signore degli eserciti: « Come ebbi l’intenzione di far del male ai vostri padri quando essi provocarono la mia collera, cosi in questi giorni ho avuto l’intenzione di fare del bene alla casa di Gerusalemme ». – Il racconto della liberazione del popolo ebreo dalla servitù assira per mezzo di Giuditta (nome che è il femminile di Giuda) dopo che essa ebbe digiunato è un’immagine della liberazione del popolo di Dio alla Pasqua, per mezzo di Gesù (della stirpe di Giuda) dopo la Quaresima. – Più tardi, allorché non si attese più la sera per celebrare il santo Sacrificio il Sabato delle Quattro Tempora, si prese per la 18° Domenica dopo Pentecoste, la Messa che era stata composta al VI secolo per la Dedicazione della Chiesa di San Michele a Roma e che fu celebrata il 29 settembre; infatti tutto il canto si riferisce alla consacrazione di una Chiesa. « Mi rallegrai quando mi dissero Andremo nella casa del Signore (Versetto All’Introito e Graduale). Mosè consacrò un altare al Signore, dice l’Offertorio. « Entrate nell’atrio del Signore e adoratelo nel Tempio suo santo », aggiunge al Communio, e questa è una immagine del cielo ove affluiranno tutte le nazioni quando verrà la fine dei tempi indicata da questa Domenica e dalle seguenti che vengono alla fine del Ciclo. L’Alleluia è infatti quello delle Domeniche dopo l’Epifania, che annunziava l’ingresso dei Gentili nel regno dei cieli. L’Epistola parla di coloro che attendono la rivelazione di Nostro Signore al suo ultimo avvento; allora essi godranno eternamente, nella casa del Signore, la pace che, come dissero i Profeti, Egli accorderà a quelli che lo attendono (Intr., Graduale). Questa pace Gesù ce l’ha assicurata morendo sulla croce, che è il sacrificio vespertino. Questa pace e questo perdono noi lo godiamo già nella Chiesa, in grazia del potere accordato da Gesù ai suoi sacerdoti. Questa Messa, che segue il sabato delle Ordinazioni fa infatti allusione anche al sacerdozio. Come il Salvatore, che esercitò il suo ministero e guarì l’anima del paralitico guarendone il corpo, quelli che sono ora stati ordinati Sacerdoti predicano la parola di Cristo (Epistola), celebrano il santo Sacrifizio (Offert.) e rimettono i peccati (Vangelo). E cosi preparano gli uomini a ricevere irreprensibili il loro divin Giudice (Epistola). La predicazione evangelica è una testimonianza resa a Gesù Cristo. Quelli che l’accettano ricevono doni celesti in sovrabbondanza e possono attendere con fiducia l’avvento glorioso di Gesù alla fine dei tempi. – Giovanni Crisostomo così commenta la risposta data da Gesù agli Scribi che non gli riconoscevano la facoltà di perdonare i peccati: « Se non credete la potestà di rimettere le colpe, credete la facoltà di conoscere i pensieri, credete la virtù del sanare da malattie incurabili i corpi. Più facile sanare il corpo; ma giacché non credete alla maggiore meraviglia, ve ne mostrerò una minore ma aperta ai sensi.  »                                                                           

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Eccli XXXVI: 18
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël.

[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Ps CXXI: 1
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai per ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore].

Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël

[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Dírigat corda nostra, quǽsumus, Dómine, tuæ miseratiónis operátio: quia tibi sine te placére non póssumus.

[Te ne preghiamo, o Signore, l’azione della tua misericordia diriga i nostri cuori: poiché senza di Te non possiamo piacerti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor 1: 4-8
Fratres: Grátias ago Deo meo semper pro vobis in grátia Dei, quæ data est vobis in Christo Jesu: quod in ómnibus dívites facti estis in illo, in omni verbo et in omni sciéntia: sicut testimónium Christi confirmátum est in vobis: ita ut nihil vobis desit in ulla grátia, exspectántibus revelatiónem Dómini nostri Jesu Christi, qui et confirmábit vos usque in finem sine crímine, in die advéntus Dómini nostri Jesu Christi.

[“Fratelli: Io rendo continuamente grazie al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù; perché in lui siete stati arricchiti di ogni cosa, di ogni dono di parola e di scienza, essendosi stabilita solidamente in mezzo a voi la testimonianza di Cristo, in modo che nulla vi manca rispetto a qualsiasi grazia; mentre aspettate la manifestazione di nostro Signor Gesù Cristo, il quale vi manterrà pure saldi sino alla fine, così da essere irreprensibili nel giorno della venuta del nostro Signor Gesù Cristo”.]

LE RICCHEZZE DEL CRISTIANESIMO.

Fratelli: Io rendo continuamente grazie al mio Dio, riguardo a voi, per la grazia di Dio che vi è stata fatta in Gesù Cristo; perché in lui siete divenuti ricchi di ogni cosa, d’ogni dono di parole e di scienza, essendo la testimonianza di Cristo confermata in mezzo a voi in modo che non manchi dono alcuno a voi che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, il quale vi farà anche perseverare sino alla fine, perché siate senza colpa nel giorno della venuta del Signore nostro Gesù Cristo.

(S. Paolo, I ai Corinti: 1, 4-8).

Anche il lettore più zotico e disattento capisce subito che quando San Paolo afferma arricchiti in Gesù e per Gesù i Cristiani, arricchiti in tutti i modi, non parla di ricchezze materiali: il discorso dell’Apostolo si svolge su un piano diverso e superiore al piano della materia, che è il piano dello spirito. Però in quel piano la frase di San Paolo ha una verità, una esattezza matematica: N. S. Gesù col suo Vangelo ha, spiritualmente, arricchito l’umanità. C’è più vita al mondo e nella storia dopo di Lui, maggiore e migliore, più intensa e più alta. C’è più luce. La fede non è una barriera, un limite, è un progresso, uno slancio. Dove si ferma la ragione con la sua luce umana, comincia la fede con la sua luce divina, divina e umanizzata, messa per opera di Gesù, il Rivelatore, il Maestro, alla portata dell’umanità. Prima di Gesù c’è la filosofia, dopo Gesù accanto e oltre la filosofia c’è la Teologia. Prima c’è Dio — mistero — poi ci sono i Misteri di Dio. Il Cristiano sa tutto ciò che sapeva il pio pagano e sa molto di più. E anche il patrimonio di verità comuni, nella mente del Cristiano è più luminoso. Le stesse cose noi le sappiamo meglio. Meglio la sua grandezza, meglio la sua bontà, la giustizia così severa, la misericordia così grande. Il più umile Cristiano, sotto questo rispetto, è più avanti del più grande filosofo pagano. C’è una vita morale più ricca. Si vive nella sfera morale più intensamente, con maggiore severità e maggiore dolcezza. Nostro Signore ci ha tenuto ad affermare questa superiorità morale del Suo Vangelo sulla antica Legge, non discutendo neanche la superiorità della Legge mosaica sulla etica pagana. Sinteticamente ha detto che la giustizia, la bontà dei suoi seguaci, deve essere superiore a quella degli Scribi e dei Farisei. E ha specificato una serie di superiorità morali, spirituali. La parola nostra è più sincera, deve essere tersa come uno specchio. – Non bisogna solo non nascondere la verità delle parole, bisogna non velarla. La morale giudaica, salvo le apparenze, provvede ad evitare il male sociale, la morale cristiana va al fondo della realtà, mette l’anima nella luce e al contatto di Dio. Dove il Cristianesimo trionfa è nel regno della carità, dell’amore. Dopo N. S. Gesù c’è più amore al mondo, un amore più operoso. Chi li aveva mai neanche lontanamente sognati i miracoli della carità cristiana nell’inverno dell’età pagana? Cera a Roma la Vestale; non c’era la Suora di carità. L’ha creata Gesù. Tra il paganesimo e il Cristianesimo, c’è la differenza dal verno alla primavera. Il nostro amore è più intimo. Non si benefica solo nel Cristianesimo, non si fa solo del bene, si fa del bene, perché si vuole bene. C’è la fratellanza dell’anima, oltre le divisioni sociali. Rimangono materialmente i poveri e i ricchi, ma poveri e ricchi non conta nulla; si è fratelli. La carità cristiana va oltre la divisione nazionale; ci sono ancora i greci, i romani, i barbari, ma greci, romani e barbari si sentono fratelli, si chiamano con questo bel nome, si amano con questo bel titolo.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. – Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps CXXI: 1; 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore.]

Alleluja

V. Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. Allelúja, allelúja

[V. Regni la pace nelle tue mura e la sicurezza nelle tue torri. Allelúja, allelúja]

Ps CI: 16

Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. Allelúja.

 [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: e tutti i re della terra la tua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. IX: 1-8
“In illo témpore: Ascéndens Jesus in navículam, transfretávit et venit in civitátem suam. Et ecce, offerébant ei paralýticum jacéntem in lecto. Et videns Jesus fidem illórum, dixit paralýtico: Confíde, fili, remittúntur tibi peccáta tua. Et ecce, quidam de scribis dixérunt intra se: Hic blasphémat. Et cum vidísset Jesus cogitatiónes eórum, dixit: Ut quid cogitátis mala in córdibus vestris? Quid est facílius dícere: Dimittúntur tibi peccáta tua; an dícere: Surge et ámbula? Ut autem sciátis, quia Fílius hóminis habet potestátem in terra dimitténdi peccáta, tunc ait paralýtico: Surge, tolle lectum tuum, et vade in domum tuam. Et surréxit et ábiit in domum suam. Vidéntes autem turbæ timuérunt, et glorificavérunt Deum, qui dedit potestátem talem homínibus”.

[“In quel tempo Gesù montato in una piccola barca, ripassò il lago, e andò nella sua città. Quand’ecco gli presentarono un paralitico giacente nel letto. E veduta Gesù la loro fede, disse al paralitico; Figliuolo, confida: ti son perdonati i tuoi peccati. E subito alcuni Scribi dissero dentro di sé: Costui bestemmia. E avendo Gesù veduti i loro pensieri, disse: Perché pensate male in cuor vostro? Che è più facile, di dire: Ti sono perdonati i tuoi peccati; o di dire: Sorgi e cammina? Or affinché voi sappiate che il Figliuol dell’uomo ha la potestà sopra la terra di rimettere i peccati: Sorgi, disse Egli allora al paralitico, piglia il tuo letto e vattene a casa tua. Ed egli si rizzò, e andossene a casa sua. Ciò udendo le turbe s’intimorirono e glorificarono Dio che tanta potestà diede ad uomini].

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

IL POTERE DI PERDONARE I PECCATI

La casa dove si trovava Gesù era assiepata di gente, sicché non vi si poteva più entrare e nemmeno avvicinarsi alla porta. Ecco arrivare ancora quattro uomini, portando su di un lettuccio un paralitico. Venivano probabilmente da molto lontano, a prezzo di lunghe fatiche e non volevano ritornare senza aver visto Gesù. Non potendo per la ressa aprirsi un varco, salgono sul tetto. Doveva essere una casa bassa, con una scala esterna che metteva direttamente sulla terrazza che faceva da tetto. Smuovono alcune travi e calano giù il lettuccio del paralitico, il quale si trova davanti al Figlio di Dio. « Uomo, abbi fede: i tuoi peccati ti sono rimessi ». Parole più inaspettate, più strane di queste, Gesù non avrebbe potuto dire a quell’uomo ch’era venuto solo per la speranza d’essere guarito dalla paralisi. Eppure dovevano rispondere a qualche silenziosa implorazione che il Figlio di Dio ascoltava. Forse, giunto sotto lo sguardo purissimo e penetrante del Signore, quell’infelice, per un’improvvisa grazia di lucidità, vide che la sua sventura più compassionevole non era nella carne ma nell’anima. Vide le sue colpe, ne misurò per la prima volta l’estensione, la profondità, la bruttura; ne inorridì. Dal profondo del cuore gridò allora non già: « Guariscimi! », ma: « Perdonami! ». – Tutti allora udirono la risposta a quella domanda che nessuno aveva sentito: « Ti sono rimessi i tuoi peccati ». Cominciò lo scandalo. Gli Scribi e i Farisei, tacevano; ma nel loro interno si ribellavano: « Come può parlare così un uomo? Bestemmia. Chi può rimettere i peccati se non Dio solo? » E Gesù diede loro una duplice prova della sua divinità: leggendo nei loro cuori, sanando il paralitico. « Rispondetemi: è più facile secondo voi dire a costui: « Ti siano rimessi i tuoi peccati » o dirgli « levati su, e cammina? » Nessuno osava fiatare, perché si sentivano smascherati e senza ripari nella coscienza, davanti a Lui che li scrutava. « Ebbene, affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha sulla terra il potere di rimettere i peccati, — e si voltò al paralitico – ti dico, alzati, prendi il tuo lettuccio e va a casa tua ». E quegli s’alzò, prese il letto sulle spalle e andò via, tra lo sbigottimento e le grida della folla. Tutti glorificavano Dio che diede al Cristo tale potere, quello di rimettere i peccati. Anche noi dobbiamo ora per tale motivo glorificare Dio, considerando due cose intorno alla remissione dei peccati: la misericordia divina e la grettezza umana.  – 1. LA CONFESSIONE E LA MISERICORDIA DIVINA. L’uomo che commette peccato, in un momento di viltà e di ebbrezza e d’esaltazione, si slancia a colpire Dio e invece manda in rovina la propria anima. La quale dal peccato è paralizzata in ogni opera meritoria per il paradiso, è spogliata dalla vita della grazia, e come morta giace in un letto di miseria e di maledizione. Intanto il rimorso dilania il cuore. Quell’uomo lavora e picchia vigorosamente il suo martello, ma tra colpo e colpo ode una voce che gli s’infigge tra fibra e fibra, come una freccia: « Sei maledetto dal Signore! » Il martello gli diventa pesante, gli scivola di mano, si asciuga il sudore: è sudore di spavento. Quella donna canta sulla culla del suo bambino, e sembra beata nella sua gioia materna; ma una voce secreta l’amareggia: « Sei indegna di baciare l’innocenza di questo bambino ». Il canto le si spegne sulle labbra, e trema di spavento. Quella figliuola è inginocchiata davanti all’altare. Ha tanto bisogno di Dio ed è così sola al mondo! Però una voce la respinge dall’altare. « Hai offeso il Signore Dio tuo, hai meritato l’inferno!  » Si copre il volto per angoscia e per spavento. E se il Signore  non perdonasse più? È forse obbligato a perdonare? Se non perdonasse più, dopo il primo peccato sarebbe finita per sempre: la nostra vita diverrebbe come quella di Caino, la nostra morte quella di Giuda. Invece Dio perdona ancora. Ha istituito un sacramento in cui i suoi ministri hanno ricevuto il potere di perdonare i peccati: di perdonarli tutti, di perdonarli sempre. È necessario soltanto confessarli con grande sincerità, con profondo dolore. A intravvedere la misericordia infinita di Dio nella confessione, ci gioverà una parabola. Essa c’insegna che Dio ha dato al Sacerdote, il potere di perdonare tutto, anche i peccati enormi. « Un cavaliere aveva ucciso un uomo: la giustizia non lo sospettava, ma i rimorsi lo facevano andare triste ed errabondo. Un giorno, accadendogli di passare davanti ad una chiesa protestante, gli sembrò che il segreto sarebbe stato meno pesante, se avesse potuto confidarlo; entrò dunque e domandò al vicario di ascoltare la sua confessione. Questo vicario era un giovane molto perbene e molto istruito, ma, come tutti i protestanti, disconosceva il potere di perdonare i peccati nella confessione, sacramento istituito dal nostro divino Redentore crocifisso. « Apritemi il cuore, potete dirmi tutto come ad un padre ». L’altro incominciò: « Ho ucciso un uomo ». Il vicario scattò: « E venite a dirlo a me! miserabile assassino! Io non so se il mio dovere di cittadino non sarebbe quello di condurvi al più prossimo posto di polizia… ad ogni modo è mio dovere di persona rispettabile di non tenervi sotto il mio tetto un solo minuto di più ». E l’uomo se ne andò. Alcuni chilometri più lungi, vide sulla via che egli seguiva, una chiesa cattolica. Un’ultima moribonda speranza lo fece entrare, ed egli si inginocchiò dietro alcune vecchiette che attendevano vicino al confessionale. Venuta la sua volta, diede uno sguardo al prete che dentro nell’ombra pregava con la testa tra le mani e salì. « Padre mio », disse « non sono Cattolico, ma vorrei confessarmi da voi ». « Vi ascolto, figlio mio ». « Padre mio; ho ucciso ». Attese l’effetto della rivelazione spaventosa, Nell’augusto silenzio, la voce del sacerdote sussurrò dolce come fosse quella di una madre amorosa e dolente: « Quante volte, figlio mio! » (Cfr.: I silenzi del Colonnello Bramble, romanzo di ANDRÈ MAUROIS, Grasset, Parigi, 1921, pagg. 91-93). Nessun peccato può essere così enorme che il sangue del Figlio di Dio non basti a cancellarlo; basta che l’anima lo confessi sincera e pentita, che Dio non solo perdona tutto, ma sempre. A S. Pietro che gli domandava quante volte avrebbe dovuto perdonare al fratello pentito e se bastassero sette volte, Gesù in tono amorevole di rimprovero rispose dicendo: « Settanta volte sette! », cioè sempre. Finché nel cuore contrito gli resterà una goccia di fiducia nella misericordia divina, l’uomo potrà sempre ottenere il perdono dei suoi peccati. – 2. LA CONFESSIONE E LA GRETTEZZA UMANA. Di fronte alla misericordia di Dio, senza confini e senza misure, come è irritante la grettezza e la piccineria degli uomini, incapaci a comprendere le meraviglie del Cuore divino! a) Dicono certi uomini: « Se il peccato è un’offesa di Dio, solo Dio può perdonarlo; stando così le cose, io me la intenderò con Dio solo a solo, senza che il prete si metta di mezzo ». Questo ragionamento incomincia bene e conclude male. È vero: Dio solo può perdonare, e nessun’altro, neppur la Madonna, neppure gli Angeli e i Santi! Perché a Dio solo si deve chiedere perdono. Ma nel modo stabilito da Lui. Tocca all’offeso dettare le norme della riparazione. Ebbene Dio per concedere il perdono dei peccati ha stabilito come norma la confessione al suo ministro e rappresentante, il prete. b) Soggiungono ancora certi uomini: « Ma dove, ma quando Dio prescelse la Confessione per rimettere i peccati? ». Non avete sentito nel Vangelo d’oggi che Gesù prova d’essere Dio leggendo nei cuori, guarendo il paralitico, e dimostra di avere in proprio il potere di perdonare i peccati? Ebbene leggete qualche altra pagina del Vangelo, e troverete che il medesimo Gesù dirà agli Apostoli e nella persona degli Apostoli a tutti i loro successori parole come queste: « Come il Padre ha mandato me, così io mando voi… Ricevete lo Spirito Santo; quelli a cui rimetterete i peccati saranno rimessi, quelli a cui li riterrete saranno ritenuti » (Giov., XX, 21-23). c) Certi uomini dicono anche così: « La confessione è una viltà, è una degradazione, perché ci fa inginocchiare davanti a un uomo, ci obbliga a svelargli i segreti più personali della nostra coscienza ». Tutto ciò sarebbe vero, qualora veramente il confessore fosse un semplice uomo. Ma egli non è tale: egli è un uomo investito di divini poteri; è il rappresentante e il ministro di Cristo stesso. Prostrarci a lui, è come prostrarci a Cristo: è un umiliarsi, sì, ma non un degradarsi o un avvilirsi. – Merita d’essere riferito quel brano di Alessandro Manzoni della Morale cattolica (cap. XVIII): « Sì, noi ci inginocchiamo davanti al Sacerdote, gli raccontiamo le nostre colpe, ascoltiamo le sue correzioni e i suoi consigli. Ma quando il sacerdote, fremendo in ispirito della sua indegnità e dell’altezza delle sue funzioni, ha steso sul nostro capo le mani consacrate, stupito ad ogni volta di profferire le parole che danno la vita, noi, alzandoci da’ suoi piedi, sentiamo di non aver commesso una viltà. Noi siamo stati ai piedi di un uomo che rappresentava Gesù Cristo, per deporre, se fosse possibile, tutto ciò che inclina l’animo alla bassezza ». d) Ci sono infine certi altri uomini che dicono: « La confessione è un tormento e una debilitante angustia della coscienza ». A costoro risponderò con una bella pagina di Bossuet. « Si legge nella Storia Sacra (Esdra, III, 1, 3), che quando questo gran profeta, ebbe ricostruito il tempio di Gerusalemme, distrutto dall’esercito assiro, il popolo, confondendo insieme il triste ricordo della rovina e la gioia di una sì lieta ricostruzione, parte singhiozzava di dolore, parte cantava di giubilo, di modo che non si potevano distinguere i gemiti dalle grida di allegrezza. Ebbene, questa misteriosa confusione di dolore e di gioia è un immagine assai naturale di quanto avviene nel Sacramento della penitenza. L’anima, decaduta dalla grazia, vede in se stessa rovesciato il tempio di Dio; e quella spaventosa devastazione non l’hanno fatta già gli Assiri ma l’ha fatta lei stessa, distruggendo e profanando il santuario del suo cuore per farne tempio di idoli. Quell’anima piange, geme, rifiuta ogni consolazione: ma in mezzo ai dolori mentre fa scorrere le lacrime, vede che lo Spirito Santo, tocco dal suo tormento, dal suo pentimento, rialza quel santo edificio, ricostruisce l’altare abbattuto, e finalmente riconsacra quella coscienza nella quale ritorna a fare la propria dimora » (Dal Sermone sul figlio prodigo). – Un peccatore convertito s’incontrò, un giorno, nel complice di tanti peccati e misfatti. Questi lo chiamò: « Amico, non mi conosci più? sono io ». E il convertito francamente gli rispose: « Ah! siete voi; ebbene: io, non sono più io ». Le nostre confessioni siano sempre fatte con tale sincerità e con tale proposito che abbiano ad operare in noi una vera trasformazione, sicché ciascuno abbia a poter dire di non essere più quello di prima. Come il paralitico, dopo l’ordine di Gesù, si alzò dal suo lettuccio e se ne andò a casa, così noi pure dopo l’assoluzione dobbiamo alzarci dalle cattive abitudini, dalle occasioni di peccato, da ogni miseria terrena, e incamminarci veramente alla nostra casa che è il santo paradiso. — PARALISI SPIRITUALE. Salì una navicella, traversò il lago e sbarcò alla sua Cafarnao. Subito gli portarono incontro un povero paralitico, sopra un letto. Gesù gli dice: « Sorgi, prendi il tuo letto, torna a casa ». « Surge! Tolle! Vade! ». La folla attonita fu presa prima da uno sgomento di terrore, poi da un grande entusiasmo verso l’Uomo che comanda alle malattie e cominciò a glorificare Dio che tanta potestà aveva riposta in Lui. Più ancora di quella gente, noi dobbiamo glorificare Dio, perché i tre misteriosi comandi « surge, tolle, vade » furono rivolti al paralitico in vista del peccatore in esso rappresentato. Attraverso la guarigione di quell’infermo, Gesù intendeva insegnarci il modo di guarire da un’altra più terribile paralisi: quella dell’anima. I tre mali che la paralisi arreca al corpo, sono dal peccato recati all’anima. Infatti, quest’infermità ci proibisce di reggerci in piedi, di compiere qualsiasi fatica, di camminare. Così, nell’anima il peccato: ci proibisce di star ritti nella grazia e curva nella schiavitù del demonio; ci rende inermi nelle tribolazioni e nelle tentazioni; infine, non ci lascia camminare verso il paradiso sulla via della virtù e delle buone opere. Ma Dio contro questi tre mali ha comandato tre rimedi: « Surge! Tolle! Vade! » – 1. SURGE! Quando un’anima si macchia di peccato, avviene in lei una trasformazione orribile. Decade dalla sua nobiltà e giace in una vergognosa miseria. Oh, se gli uomini potessero comprendere bene come, peccando, si abbrutiscono davanti a Dio, non  abbandonerebbero così facilmente in balìa del demonio! Gesù ne prova un’immensa compassione, e passando vicino grida: « Sorgi! ». Saulo di Tarso perseguitava ferocemente i discepoli del Signore. Aveva negli occhi una torbida fiamma di odio, aveva nelle mani le lettere del capo sacerdote, che lo autorizzavano a prendere, quanti più poteva, Cristiani e tradurli a Gerusalemme. Mentre faceva la strada di Damasco, un’improvvisa folgore dal cielo lo circondò, e lo atterrò. Il superbo stordito dal colpo, rotolava nella polvere e non capiva nulla. Poi udì una voce potente che lo chiamava: « Surge! entra nella città e là ti verrà detto quello che devi fare » (Atti, IX, 6). Saulo tremando si levò da terra; sbarrò gli occhi ad accogliere la luce, ma era diventato cieco. In Damasco l’aspettava il sacerdote Anania che l’avrebbe risanato. Quella voce che risuonò all’orecchio di Saulo gettato nella polvere della strada, risuona pure all’orecchio di ogni uomo caduto in peccato: « Surge! ». Sorgi dalla colpa che uccide l’anima, sorgi dalla tua vita cattiva che ti abbassa al livello delle bestie, sorgi dalla schiavitù del demonio che ti costringe, non in un duro letto come il paralitico, ma nell’inferno. Quando Saulo udì la voce di Gesù che l’invitava a rialzarsi, rispose: « Signore che debbo fare? » E il Signore a lui: « Entra in città, e lo saprai ». Questa città è la Chiesa dove il peccatore che ritorna, conosce quello che il Signore vuole da lui. E il Signore vuole che si presenti ad Anania, al Sacerdote, che confessi e pianga davanti a lui il suo peccato; ed il sacerdote nella confessione, novello Anania, gli aprirà gli occhi sopra le sue miserie, gli darà una mano per rialzarsi. Surge! Non lo sentite voi questo divino comando che in mille modi risuona intorno a voi? Sono i buoni esempi, sono i rimorsi, sono le tribolazioni, le campane che vi chiamano alla chiesa: « Sorgi dal fango in cui ti sei buttato; sorgi dalle cattive abitudini; sorgi dalla tua ignoranza in fatto di religione; sorgi dal rancore che ti rode contro il prossimo… ». Non resistiamo a Gesù. Ma come il figliuol prodigo diciamo anche noi: « Surgam! »: « sorgerò e andrò da mio Padre ». – 2. TOLLE! Dopo averlo risanato, Gesù disse al paralitico: « Tolle grabatum tuum » – « Prendi su il tuo letticciuolo ». E che altro significa il letticciuolo se non la propria parte di dolori e di pene che ad ognuno è riservata sulla terra? Non basta dunque sorgere dal peccato, ma è necessario accettare e portare con rassegnazione e con spirito di penitenza le nostre croci, quaggiù. Mirabile è la Provvidenza nel comandare agli uomini di portar la propria croce. Osservate: ad ogni istante gli uomini si sprofondano nel male. Si pecca nelle vie, nelle case, nei teatri, nei ritrovi, in pubblico, in privato. Ma se non ci fossero i dispiaceri, le croci, le disgrazie, la morte a porre un freno, chi fermerebbe l’uomo sulla china del male? Ecco perché l’Ecclesiastico dice: « Il cuore dei santi sta dove c’è tristezza e il cuore degli stolti dove c’è allegria ». È necessario patire. Sul calvario si ergevano tre croci: quella di Gesù innocente, quella del ladro penitente, quella del ladro disperato. Chi non vuol patire con Gesù innocente, chi non vuol patire col ladro penitente, dovrà egualmente patire, col ladro disperato. Eppure, è tanto frequente l’udire bestemmie contro la Divina Provvidenza, non solo dalla bocca degli uomini, ma specialmente da quella delle donne, delle mamme di famiglia: « Che ho fatto io di male per castigarmi così? Ah, se Dio c’è, non è giusto! ci mette al mondo e poi ci tormenta… ». Povera gente! pretende d’essere cristiana, senza portare la croce di Cristo. Si sbaglia di grosso. Il Redentore apparve alla Beata Margherita di Savoia. Le recava sulle palme forate dalle stigmate, tre doni a scelta: o la calunnia, o la malattia, o la persecuzione. Ella pensò. La calunnia? essere creduta da parenti o da amici forse una ladra, forse una mondana, forse… ed essere innocente: oh mio Dio! La malattia?…: e si vedeva inchiodata in un letto duro, con la febbre alta, con un male ributtante che la consumava senza finirla mai, sola perché avrebbero avuto schifo di lei, per mesi, per anni… La persecuzione?… scacciata come una zingara mentr’era principessa, rincorsa, incarcerata, battuta, martirizzata terribilmente… Mentr’ella pensava, Gesù le stava davanti: e sorrideva protendendo sulle mani forate dalle stigmate, tre doni; a scelta. Tremò la beata in tutta la persona, un istante; ma poi protese ella pure le sue mani con gioia e disse: « Io li scelgo tutti e tre ». Gesù l’esaudì. Per tutta la vita tre acute spade la trafissero. – 3. VADE. Quando il paralitico si fu rizzato sulle gambe, quando si fu gettato sulle spalle il letticciuolo del suo dolore, Gesù aggiunse: « Va! ». Non basta quindi lasciare il peccato, accettare le tribolazioni in penitenza dei peccati, ma è necessario andare. « Vade in domum tuam ». La nostra casa è il paradiso; e al paradiso si va con le buone opere. Non chi avrà detto: « Signore, Signore » entrerà nel regno dei cieli, ma chi avrà fatto opere cristiane. Sventurate le vergini stolte! come rimasero male, quando, sopraggiunto lo sposo, furono escluse dal convito. Erano fuori nel buio e nel freddo della notte: udendo le grida di gioia, le risa festose, i canti nuziali, il profumo dei vini e dei cibi, trepidanti bussarono alla porta. Venne lo sposo; le guardò un istante e buttò loro in faccia quel tremendo: « Nescio vos ». Non so chi siete. Che avevano fatto di male? avevano mancato di fedeltà? no: solo avevano dormito senza procurarsi l’olio nelle lampade. L’olio delle buone opere. Anche l’albero di fico, piantato lungo la via dove passò Gesù non aveva prodotto frutti velenosi, ma solo una dovizia di ampie foglie; eppure fu maledetto e inaridì sul momento, perché non aveva fatto frutti… I frutti di buone opere. Non basta non dare scandalo, ma è necessario dare buon esempio. Non basta rifiutare libri e giornali cattivi, ma è necessario appoggiare con l’opera e con l’offerta la buona stampa. Non basta non maltrattare il prossimo, ma è necessario praticar la virtù. « Et vade! » e va. Va, dunque, con frequenza ai santi sacramenti della Confessione e della Comunione; va ad ascoltare la S. Messa, non solo alla domenica, ma appena lo puoi (e potrai se’ lo vorrai) anche nei giorni feriali. Va ad acquistarti i beni eterni col di stacco dai beni temporali. Va con la mortificazione e la preghiera a vincere le tentazioni del demonio. Va! e il Signore sarà sul tuo cammino e l’Angelo del Signore camminerà con te. — LA BESTEMMIA. « Figlio, confida: i tuoi peccati ti son perdonati ». Gli Scribi udirono queste parole e inorriditi dicevano tra loro: « Chi può rimettere i peccati se non Dio? E costui osa perdonarli…; bestemmia ». Hic blasphemat. Gesù che leggeva nei cuori domandò: « È più facile rimettere i peccati o guarire un paralitico? Perché sappiate che il Figlio dell’Uomo può rimettere i peccati, io dico a questo infelice: Alzati, prendi il tuo letto, torna a casa tua ». Quegli si levò e andò a casa. Tutti allora glorificarono Dio. Hic blasphemat! veramente i bestemmiatori erano gli scribi che osavano ingiuriare il Salvatore. Ma avete notato con quale senso di disprezzo quei maligni accusarono Gesù di bestemmia? Essi, la bestemmia, dovevano sentirla come un orribile delitto. Soltanto ai Cristiani, dopo venti secoli di Cristianesimo, la bestemmia deve sembrare una parola innocua? È vergognoso. Eppure è così: forse, nessun peccato è diffuso come la bestemmia. Bestemmiano i poveri, bestemmiano i ricchi, bestemmiano gli ignoranti e bestemmiano gli istruiti. Perfino le donne bestemmiano: nelle officine hanno imparato l’insulto atroce e credono di farsene un vanto ripetendolo. Talvolta s’odono anche fanciulli a bestemmiare: chi fu ad insegnare a quelle labbra innocenti l’orrenda parola? Da chi l’udirono la prima volta? In tutta Italia si conduce una lotta magnifica « contro l’orribili favelle », per purificare l’idioma gentile di nostra gente da questa turpitudine. È bello quando si viaggia, e nelle stazioni e negli uffici e sui treni accanto al cartello dell’igiene: « È proibito sputare per terra », leggere un altro avviso: « È proibito bestemmiare ». Hanno fatto bene a metterli insieme, perché colui che bestemmia sputa per terra la sua bava diabolica, infetta l’aria, ammorba il prossimo. Sorgete anche voi! purificate la parrocchia da questo disonore. Non si deve più tacere; non si può più tacere. È per entusiasmarvi a questa nobile crociata, ch’io voglio dirvi che cosa è la bestemmia, la sua gravità, le sue futili scuse. – 1. CHE COS’È LA BESTEMMIA. La bestemmia è un’ingiuria fatta a Dio. Può essere di pensiero: quando alcuno senza nulla esprimere all’esterno agita nel suo cuore sentimenti di odio o di scherno contro Dio. Può essere anche di opera: quando si levano i pugni, gli occhi in atto di minaccia contro il Cielo, quando si calpesta un crocifisso o si sfregia per disprezzo un’immagine santa. Ma la bestemmia più comune è quella di parola. Con le parole in due modi si può bestemmiare: a) Quando si attribuisce a Dio cosa che essenzialmente a Lui ripugna, come quando lo si chiama falso, ingiusto, crudele… Questa è la bestemmia ereticale, ed è frequente sulle labbra delle donne. « Dio non è giusto. -Dio preferisce quei che fan del male. Dio mi ha rigettata, è inutile far bene… ». — Povero me! — dirà qualcuno — ma tutti i giorni io ripeto queste frasi. « Ebbene, tutti i giorni voi bestemmiate ». — Ma chi lo sapeva? « Chi lo sapeva? ogni buon Cristiano. Ed anche voi l’avreste dovuto sapere, se foste stato alla dottrina cristiana tutte le domeniche ». b) Il secondo modo di bestemmiare con le parole si ha quando ai nomi di Dio, della Vergine, dei Santi si aggiunge un titolo ingiurioso, osceno… Quelli che dicono appena il nome di Dio, di Cristo, della Madonna, senza odio, senza unirvi parole cattive, non dicono bestemmie; però non dicono nemmeno giaculatorie, e fanno molto male. Eppure c’è della gente che non può tirare il fiato senza mandar fuori questi santissimi Nomi, che gli Angeli pronunciano adorando e tremando; e sono magari fanciulle, e sono magari mamme di famiglia dalla cui bocca i figli non dovrebbero raccogliere che parole edificanti. . 2. GRAVITÀ DELLA BESTEMMIA. È un lontano venerdì, così doloroso che la memoria durerà sempre. In mezzo al cortile del presidio, nella torre Antonia, c’è un divino prigioniero. In giro a lui scrosciano le grasse risate di parecchi soldatacci. Perché ridono? Hanno fatto sedere il Figlio di Dio sopra una scranna; gli han gettato sulle spalle piagate dalla flagellazione uno straccio rosso come la porpora dei re; sopra la testa gli hanno calcato una corona di spine. Ed ora se ne fanno zimbello. Alcuni gli danno bastonate sul capo… percutiebant caput eius. Altri gli passano di dietro e d’improvviso lo schiaffeggiano, urlando: « Profeta, indovina chi è stato! ». E tutti gli sputano sulle vesti, in faccia, negli occhi. Expuentes in eum. Chi sa come fremevano intorno le invisibili legioni di Angeli! Intanto dalla piazza veniva l’urlo della folla adunata sotto il litostrato di Pilato: « Lo vogliamo crocifisso. Crucifiggilo. dunque!… Dacci Barabba, ma lui no. Fallo morire! ». Povero Gesù! Perché ti bestemmiavano? che cosa avevi fatto di male a quei soldati, a quella gente? Da Dio ti eri fatto uomo, povero e umile, per salvarli: forse per questo ti bestemmiavano? Avevi dato vino miracoloso agli sposi nel banchetto nuziale, e avevi dato pane miracoloso a quattro mila persone affamate nel deserto: forse per questo ti bestemmiavano? Avevi voluto bene ai loro bambini e sulle tue braccia li accarezzavi; avevi guarito i loro malati; avevi mondato i loro lebbrosi; avevi risuscitato i loro morti: forse per questo ti bestemmiavano, forse per questo ti sputavano in faccia? L’infamia di quella gente ci fa rabbrividire. Ma pensate, Cristiani, che noi abbiamo fatto di ogni giorno un venerdì santo. Ogni giorno son milioni e milioni di bestemmie che i Cristiani lanciano sul volto al Creatore, al Salvatore, alla Madre dì Dio!.. S. Gerolamo spaventato diceva: Nihil orribilius blasphemia: niente è più orribile di una bestemmia. Più orribile della calunnia, più orribile del furto, più orribile dell’omicidio. Questi peccati recano ingiuria al prossimo, ma la bestemmia reca ingiuria a Dio, direttamente. Ditemi: fa maggior torto a suo padre il figlio che lo disubbidisce o il figlio che osasse alzare contro il suo volto un pugno minaccioso?… certo, il secondo. Ebbene: il Cristiano che ruba, calunnia, uccide, fa grande ingiuria a Dio trasgredendo i suoi comandi; ma chi bestemmia fa peggio, perché non solo trasgredisce agli ordini di Dio, ma se la prende contro la divina Persona, e attenta quasi alla sua vita. Nombrod,  un re crudele e bestiale, invaso da furore diabolico contro Dio che l’aveva umiliato, imbracciò l’arco e scoccava saette contro il Cielo, per colpire il Signore. Povero pazzo: quelle saette ricadevano sul suo capo. Così le vostre bestemmie o bestemmiatori: tutte ridiscendono sul vostro capo. O come terribili castighi in questa vita, o come eterna dannazione in fuoco nell’altra vita. – 3. LE FUTILI SCUSE. La bestemmia non ha nessuna scusa. Io capisco uno che ruba: le sofferenze della povertà, gli stimoli della fame, la lusinga dell’oro, l’onore compromesso, sono sempre delle attenuanti che rendono meno ignominioso il mestiere del ladro. Io capisco anche uno che prende l’ubriachezza: talvolta la sete è così bruciante e il piacere del vino vellica così terribilmente la gola, che a resistervi occorre una sforzo non comune. Ecco la riprova che la bestemmia è un peccato diabolico, e chi bestemmia è un posseduto dal demonio. Ma che vantaggio c’è a bestemmiare? che gusto si prova? Nessun VANTAGGIO! Nessun gusto. Eppure si bestemmia. — Possibile, — dicono alcuni — che quando bestemmio commetto un peccato così orrendo!? — Se quelle brutte parole che voi dite a Dio, un altro le dicesse a voi, non è vero che lo prendereste a schiaffi? E forse che Dio merita meno rispetto della vostra persona? — Ma io bestemmio perché il lavoro, gli affari van male, — Già: a forza di bestemmiare, l’esperienza insegna, che andranno poi bene. Voi somigliate a quel tale che per spegnere l’incendio in casa sua ci vuotava sopra secchi di benzina. — Ma io bestemmio per farmi ubbidire dai figliuoli — Tu che bestemmi tuo Padre che è ne cieli, come puoi illuderti che i tuoi figli avranno rispetto per il loro padre che sta in terra? Quando, scandalizzati dalla tua bocca d’inferno saran cresciuti bestemmiatori essi pure come te, ti malediranno. Oh, purifichiamo l’aria da questa sozzura! I padroni non tollerino più nelle loro botteghe l’operaio che bestemmia. Chi bestemmia Iddio non servirà bene a nessun padrone, mai. Oh, purifichiamo il paese nostro da questa inciviltà tate che alcuno bestemmi vicino a voi: Dio vi potrebbe castigare, perché non avete parlato. Oh, purifichiamo le famiglie dalla bestemmia! E tocca a voi, o mamme, o spose, o figlie, tocca a voi. È compito vostro. Anzitutto non dite voi le bestemmie. Non dite voi inutilmente e scioccamente i santi Nomi di Dio, di Cristo, di Maria. Poi mortificate la vostra lingua: perché non di rado è la lingua lunga delle donne che fa bestemmiare l’uomo. Ma quando al vostro marito, al vostro padre, al fratello vostro è passato il momento di furore, prendetelo a parte, e con angoscia mostrategli il suo torto immenso: supplicatelo ad aver pietà della sua casa. – Tutti sapete l’ultimo grido di quell’uomo che aveva un cancro alla lingua. Il dottore gli aveva detto: « Se volete tentare di salvarvi, è necessario che vi lasciate amputare la lingua ». L’infelice sudò di spavento, ma pur d’avere dinanzi ancora una speranza di vita, accettò. Al momento dell’operazione il dottore gli disse: « Se avete qualcosa da dire; ditelo subito perché è l’ultima volta che potete parlare ». Il malato, calmo, meditò un istante, poi con impeto gridò: « Sia lodato Gesù Cristo ». L’ultima parola fu quella. Sia lodato Gesù Cristo! si dica oggi da tutti noi come un solenne giuramento contro la bestemmia. Sia lodato Gesù Cristo! Ripetiamo ogni giorno, e più volte al giorno durante tutta la nostra vita. Meriteremo così che l’ultima parola nostra, sul letto di morte sia questa ancora: « Sia lodato Gesù Cristo ». E l’anima nostra, uscendo dal corpo, udrà allora gli Angeli del paradiso risponderci: « Sempre sia lodato ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Exod. XXIV: 4; 5
Sanctificávit Móyses altáre Dómino, ófferens super illud holocáusta et ímmolans víctimas: fecit sacrifícium vespertínum in odórem suavitátis Dómino Deo, in conspéctu filiórum Israël.

[Mosè edificò un altare al Signore, offrendo su di esso olocausti e immolando vittime: fece un sacrificio della sera, gradevole al Signore Iddio, alla presenza dei figli di Israele.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes éfficis: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.

[O Dio, che per mezzo dei venerandi scambii di questo sacrificio, ci rendi partecipi della tua sovrana e unica divinità, concedi, Te ne preghiamo, che, come conosciamo la verità, cosí la conseguiamo con degna condotta.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus.

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea. 

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XCV: 8-9
Tóllite hóstias, et introíte in átria ejus: adoráte Dóminum in aula sancta ejus.

 [Prendete le vittime ed entrate nel suo atrio: adorate il Signore nel suo santo tempio.]

Postcommunio

Orémus.
Grátias tibi reférimus, Dómine, sacro múnere vegetáti: tuam misericórdiam deprecántes; ut dignos nos ejus participatióne perfícias.

[Nutriti del tuo sacro dono, o Signore, Te ne rendiamo grazie, supplicando la Tua misericordia di renderci degni di raccoglierne il frutto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

TRIDUO IN ONORE DI MARIA SS. DEL PARTO – DALL’8 AL 10 OTTOBRE; FESTA 11 OTTOBRE (2022)

Triduo in onore di Maria SS. del Parto.

(Dall’8 al 10 ottobre; festa 11 ottobre)

PRIMO GIORNO. Actiones nostras, quæsúmus, Domine, aspirando præveni, et adjuvando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a te semper incipiat, et per te cœpta finiatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

O la più benedetta fra tutte le donne, e la più eccelsa sopra tutte le cose create, o Maria Ss. Voi che foste posseduta da Dio nel principio delle sue vie, de’ suoi misericordiosi disegni, e come prescelta dai giorni dell’eternità , e predestinata al compimento del gran mistero dell’umana riconciliazione, foste sola fatta degna di concepire nel vostro purissimo verginal seno lo stesso Dio, quello che già si deliziava Voi prima che fondasse i cardini della terra, e di tutte le sfere celesti, quello che con un fiat trasse dal nulla le visibili cose, il vostro medesimo Creatore, il gran Padre dei futuri secoli, il Principe della pace e l’aspettazione delle genti, quello stesso che vi spedì dal suo divin trono un Arcangelo quasi ad esplorare il vostro consenso, prima di discendere dai Cieli nelle vostre viscere immacolate, facendo in certo modo dipendere la redenzione del genere umano da un altro fiat, fiat mihi; deh! da quel sublimissimo trono ove ora sedete Regina presso il vostro Figlio divino, deh! implorate da Lui per noi infelici: figli di Eva e di Adamo la remissione delle nostre colpe non solo, ma benanche sollievo e conforto ne’ travagli di questa vita, e otteneteci ancora quella grazia, che tanto ora sospiriamo. Otteneteci queste grazie per la gloria del vostro divino concepimento, e per i meriti di quell’Angelica Verginità, che avanti il Parto, e nel concepire serbaste.

Tre Ave Maria e tre Gloria Patri. Quindi le Litanie; poi versetto e orazioni come segue:

V. Benedicta tu in mulieribus.

R. Et benedictus fructus ventris, tui.

OREMUS.

Deus, qui de Beatæ Mariæ Virginis utero Verbum tuum Angelo nuntiante, carnem suscipere voluisti, præsta supplicibus tuis, ut qui vere eam Genitricem Dei credimus, Ejus apud te intercessionibus adjuvemur. Per eundem Christum Dominum nostrum. Amen.

GIORNO SECONDO. Actiones nostras, quæsúmus, Domine, aspirando præveni, et adjuvando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a te semper incipiat, et per te cœpta finiatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

Gran Regina del Cielo Maria, deh! da quell’altissimo seggio ove splendete ed abbellite il paradiso, volgete verso di noi pietoso lo sguardo. Noi siamo i figli di quella donna che fu l’autrice del peccato, e d’ogni conseguente miseria: ma ricordatevi che Voi siete l’autrice del merito, e delle nostre speranze. Eva piagò mortalmente se stessa e noi, e fu condannata perciò a partorire con dolore; e Voi foste quella che nel beatissimo vostro parto divino ci sanaste le più acerbe piaghe del l’anima. Eva ci trasfuse il mortale veleno dell’antico serpente; ma Voi quella foste, che allo stesso serpente schiacciaste la testa. Ahi! la pena del peccato pur vive, la nostra malizia ridesta troppo sovente in noi i danni dell’antico veleno, e noi stessi siamo i disleali e recidivi al peccato, onde ci aggraviamo ancora le miserie del corpo. Ma buon per noi, che Voi siete il rifugio dei peccatori, e la consolatrice degli afflitti, come piena di quella diffusiva grazia, che vi rese degna di partorire l’Autore della grazia, e con ciò diventaste Madre ancora di tutti i fedeli. A Voi però, o Madre nostra, Madre di misericordia, e di grazia, cui nulla si piega, a Voi ricorriamo qual figli. Esaudite le nostre preghiere; otteneteci la grazia di perseverare nel servizio divino in tutta la nostra vita; soccorreteci anche nelle temporali afflizioni, e segnatamente concedeteci quella grazia che ora imploriamo, consolateci per virtù de’ vostri meriti ineffabili, e per quello più glorioso e stupendo a tutti secoli di essere stata fatta Madre di un Dio, e di avere tuttavia conservata illibata la vostra Verginità nel Parto. Tre Ave Maria e tre Gloria. Quindi le Litanie, poi versetto e orazioni come segue:

V. Benedicta tu in mulieribus.

R. Et benedictus fructus ventris, tui.

OREMUS.

Deus, qui de Beatæ Mariæ Virginis utero Verbum tuum Angelo nuntiante, carnem suscipere voluisti, præsta supplicibus tuis, ut qui vere eam Genitricem Dei credimus, Ejus apud te intercessionibus adjuvemur. Per eundem Christum Dominum nostrum. Amen.

GIORNO TERZO. Actiones nostras, quæsúmus, Domine, aspirando præveni, et adjuvando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a te semper incipiat, et per te cœpta finiatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

Eccelsa, augustissima Madre di Dio, Voi che a vostro talento stringeste tante volte tra fasce quel Figlio, che i cieli stessi non possono contenere, che Lo aveste suddito, e che suddito sempre a Voi si mantenne per suo abbassamento, per gloria vostra, e per nostro esempio Voi; che Lo portaste lungi dal crudele Erode in Egitto; Voi che disputante coi dottori Lo richiamaste da Gerusalemme a Nazareth; Voi che a Lui in Cana deste il cenno al primo operare de’ miracoli; Voi che tutto potete sopra il Cuore di Lui come Madre, e delle sue grazie foste costituita la tesoriera e la dispensatrice; deh ! Voi gli ridite che noi siamo figli benché ingrati di Lui e di Voi; ditegli con fiducia di Madre che Egli medesimo per nostra Madre vi costituì da quella croce, onde per noi pendeva, nella persona di S. Giovanni. Sì, ad onta de’ nostri peccati, che qui detestiamo, ci regge ancora il coraggio di chiamarci vostri figli, e come tali eleviamo le nostre supplichevoli mani a Voi verso il Cielo, affinché ci otteniate dal vostro divin Figlio, la remissione de’ peccati, la grazia di adempire la sua santa volontà in tutta la vita, e finalmente di potere dopo la morte contemplare Lui e Voi nel paradiso, e intanto di darcene un pegno nel favore che vi domandiamo. Esauditeci per tutti que’ meriti, che vi accumulaste, dacché diveniste Madre di Dio senza alcuna lesione di quella purissima Verginità conservata anche dopo il Parto. Tre Ave Maria e tre Gloria Patri. Quindi le Litanie; poi versetto e orazioni come segue.

V. Benedicta tu in mulieribus.

R. Et benedictus fructus ventris, tui.

OREMUS.

Deus, qui de Beatæ Mariæ Virginis utero Verbum tuum Angelo nuntiante, carnem suscipere voluisti, præsta supplicibus tuis, ut qui vere eam Genitricem Dei credimus, Ejus apud te intercessionibus adjuvemur. Per eundem Christum Dominum nostrum. Amen.

[G. Riva: Manuale di Filotea, XXX Ed. – Milano, 1888]

LO SCUDO DELLA FEDE (223)

LO SCUDO DELLA FEDE (223)

MEDITAZIONI AI POPOLI (IX)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE XI

Il Rosario meditato e recitato col popolo.

PARTE SECONDA

MANIERA DI RECITARE IL ROSARIO.

Siamo qui ora, o fratelli, come in famiglia raccolti nella santa unione di carità a recitare il Rosario. Riducetevi a mente che, come abbiamo detto, recitare il Rosario vuol dire mettersi col cuore in Gesù Cristo qui con noi in terra nel santissimo Sacramento, e contemplarlo in mezzo di noi, siccome è realmente presente, siccome viveva con Maria santissima qui in terra; e con Gesù alzare le nostre preghiere a Dio Padre in cielo; poi rivolgerci a Maria e dire tutto il nostro cuore alla nostra Madre santissima. Raccogliamoci sotto il manto a Maria intorno a Gesù nel Sacramento; segniamo colla sua Croce le nostre povere persone; e copertici colle sue piaghe col farci il segno della santa Croce, diciamo: Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Di sotto le piaghe di Gesù gridiamo: o Padre, non guardate in faccia a noi che siamo poveri peccatori, ma guardate in faccia al vostro divin Figliuolo, che col Cuore squarciato, nel Sacramento dice per noi tutti i nostri bisogni: mandateci il vostro Santo Spirito, mentre noi devotamente contempleremo i:

MISTERI GAUDIOSI

PRIMO MISTERO. – L’Annunciazione

Nel primo mistero gaudioso si contempla come la santissima Vergine fu annunziata dall’Arcangelo Gabriele che doveva diventare Madre del Figlio di Dio.

CONSIDERAZIONE.

Raccogliamoci in Gesù, e pensiamo a quell’ora, in cui il Figliuol di Dio santissimo volle nascere Uomo per salvarci… O Beati, dividete con noi le nostre consolazioni! Oh quanto è buono Iddio!… Il cielo si abbassa alla terra. Dio Padre manda il suo Figlio, che da quell’istante resta poi sempre qui con noi: Egli è il nostro Salvatore Gesù; e noi gridiamo con Lui al Padre in cielo:

Pater noster, etc. Padre nostro che siete nei cieli, ecc. —

Gran Dio dei cieli, avete un bello essere grande: ma ci siete Padre. Voi vi siete lasciato conoscere per tale, quando mandaste il vostro Figlio a farsi uomo con noi, e a farci diventare vostri figli. Noi vi domandiamo la vostra gloria in terra da buoni figli: voi regnate con noi come Padre nella vostra famiglia; pigliateci anzi come una madre piglia il suo bambino in braccio, e fateci fare sempre la vostra volontà. (St reciti la prima parte del Pater noster). (L’Oratore qui incominci pel Pater noster e poche Ave Maria ad avviare il popolo a rispondere: presto poi il popolo risponde da sé). Dateci oggi il nostro pane. Tutte volte che diciamo: panem nostrum quotidianum: dateci oggi il nostro pane quotidiano, procuriamo di fare la comunione spirituale; indi diciamo: dateci Gesù in cuore, e per Gesù dateci tutti i beni: perdonateci e fateci amare tutti come fratelli. Deh non lasciateci perdere. (Si reciti la seconda parte del Pater noster).

1. Ave Maria. Quando il Signore volle nascesse bambino in terra il suo Figliuolo, a fine di preparargli una ben degna Madre, vi fece nascere, o Maria, senza peccato, come un fibre di paradiso in terra per posarvi sopra il suo santo Spirito: Noi vi contempliamo tra le braccia di s. Gioachino e di sant’Anna genitori vostri che vi coltivano tutta per Dio. Deh, Santa Bambina! voi conservate buone le nostre famiglie, e fate che i nostri figli, senza perdere un minuzzolo di tempo, siano tutti di Dio. Dio vi salvi, o Maria. (Si reciti l’Ave Maria).

2. La colomba al tempo del diluvio universale, uscita fuori dell’arca per volare sulla terra, voleva fermarsi qui; ma eran cadaveri in corruzione: voleva fermarsi là; ma erano ributti dall’acque in marciume. Dappertutto non trovava che fango ed immondezze. Colomba immacolata, non sapendo dove posare il piede color di rosa, senza lordarlo, batteva l’ale irrequieta; volava, volava e da ultimo faceva ritorno all’arca, piangendo e pigolando. Noé apri la finestra e l’accolse in seno. Anche voi, Bambina immacolata Maria, nata su questa povera terra, senza perdere un minuzzol di tempo di così cara vita e preziosa, vi raccoglieste in Dio nel tempio. – Fiore di paradiso spuntato in terra, voi colse lo Spirito Santo e vi pose in serbo in seno a Dio. Deh, Maria, pigliate voi i nostri poveri cuori che hanno bisogno di ritornare a Dio. Ave Maria.

3. Erano ben tante le figliuole a quei di’ e chi sa quanto ricche d’ogni fortuna, in isplendore di bellezza, principesse e regine; ma lo Spirito del Signore va a discendere sopra questa verginella  ignota al mondo, raccolta ed umiliata innanzi a Dio. O Maria, raccoglieteci a vivere in umiltà nascosti al mondo e santi innanzi a Dio. Ave Maria.

4. O Maria piena di grazie, perché foste la più pura e la più umile, il Figlio di Dio volle nascere da Voi. O benedetta fra tutte le donne, conservateci puri ed umili innanzi a Dio, affinché possa il vostro Figlio venirci in cuore in Comunione. Ave Maria.

5. L’Angelo vi annunzia che il Signore vuol discendere in terra… Fatevi innanzi, o piena di grazie, voi siete la sola degna di festeggiarlo, di amarlo, di portarlo in seno Bambinello. Deh, aiutateci sì che ci prepariamo in tutta la vita ad unirci a Gesù Cristo.

Ave Maria.

6. Quando l’Angelo vi annunciava che Dio vi eleggeva ad essere Madre del Suo Figlio, voi rispondeste: sono l’ancella sua, pronta a fare la sua volontà; volesse pure che io l’accompagnassi fino alla morte. O Maria, conduceteci con confidenza nelle mani di Dio a fare sempre la sua santa volontà, che è per noi il maggior dei beni. Ave Maria.

7. O santissima delle creature! Dio è con Voi; e Voi siete un cuor solo col vostro Figlio. Tocca a Voi fargli sentire cuore a cuore tutti i bisogni e le miserie di noi che siamo pure vostri figli. Ave Maria.

8. Benedetto il Figliuol di Dio e vostro, cui vi adoriamo in seno. Egli pigliò la vita umana per morire per noi, e dalla sua venuta in terra non ci volle abbondonare mai più per tirarci in paradiso. Tocca a Voi, o Madre santa, di aiutarci a trattarlo bene nel Sacramento; ché qui vi avete tutto il vostro interesse di vedere trattar bene Gesù. Ave Maria.

9. Dal vostro Cuore immacolato scende il Sangue nel Salvatore; e quel Sangue Gesù trasfonde col suo Corpo in noi nel Sacramento. O Maria, siamo dunque figli vostri, perché in noi è il Sangue del vostro Figlio; e noi confidiamo tutto in Voi, o Madre. Ave Maria.

10. O Maria, noi vi baciamo e ribaciamo tante volte la mano; e dove siete voi, o Madre, vogliono venire con Gesù i vostri figli. Ave Maria.

Gloria Patri. Gloria a Voi, grande Iddio, che ci siete Padre: gloria a Voi, Figliuolo eterno del divin Padre, che vi siete fatto nostro fratello e salvatore, fatto uomo per morire a nostra salute: gloria a Voi, Spirito Santo, Amor di Dio, che faceste di Gesù un fratel nostro, con noi carne della nostra carne per tirarci con Lui beati in paradiso. (Si reciti il Gloria Patri).

Requiem æternam. Non dimentichiamo mai le Anime sante del purgatorio nella recita del Rosario. O Gesù, o Maria, le anime del purgatorio sono figliuole anch’esse del vostro Sangue. Deh, fate parte ad esse della redenzione abbondante che comincia in questo mistero. (Si reciti il Requiem æternam).

SECONDO MISTERO. — La Visitazione.

Nel secondo mistero gaudioso si contempla come la santissima Vergine Maria, avendo inteso che santa Elisabetta doveva diventare madre di san Giovanni Battista, si parti subito di Nazarette, e andata a visitarla nella montagna della Giudea, stette con essa tre mesi.

CONSIDERAZIONE:

Facciamoci dentro nella celletta del santo amor di Dio, vogliamo dire nel Tabernacolo, dove dimora Gesù, come già nella casa di santa Elisabetta, nella quale entrando Maria, entrava pure Gesù nel seno di Lei racchiuso. Allora Giovanni in grembo ad Elisabetta

esultava santificato in quell’istante. Allora su quei benedetti piovevano celesti consolazioni, perché erano del cuore uniti con Gesù in seno a Maria. Anche noi siamo fortunati – ogni casa di fedeli è come una chiesuola; ché Gesù promise di abitare con noi, se siamo adunati nel suo nome in carità; e con Gesù qui noi abbiamo un Padre in cielo. Ora via a Lui manifestiamo tutti i nostri bisogni col cuore del Figlio suo, che palpita nei nostri cuori.

Pater noster, etc. Gran Dio che siete nei cieli, Voi siete il Padre nostro, e noi vogliamo la gloria del Padre nostro. Deh regnate in mezzo di noi, e di tutti gli uomini fate una sola vostra famiglia nella Chiesa cattolica. Deh pigliateci tra le braccia come figli vostri. (Sé reciti la prima parte del Pater noster). Dateci oggi il nostro pane cotidiano. (Facciamo qui la Comuniune spirituale tutte le volte che diciamo il Panem nostrum). O Padre nostro, Gesù è  qui con noi; fermatelo nel nostro cuore; e per Gesù dateci tutti i beni. Dateci la carità verso tutti i nostri fratelli: liberate dai pericoli i vostri figli; e guardateci dal mal più grande, che è quello d’uscire dalle braccia del vostro Amore. (Si reciti la seconda parte).

1. Ave Maria. Ci par di vedervi, o Verginella divina, uscir della vostra casetta, e con tanto incomodo attraversare la montagna a fine di portare le sante consolazioni della vostra carità agli amati vostri congiunti; e noi tutti amanti delle nostre comodità non possiam soffrire niente per gli altri. Maria, tirateci appresso di Voi a consolare i poveri, gli ammalati, ed a volerci un po’ di bene nelle nostre famiglie. Dio vi salvi, o Maria.

2. Ah sì, vogliamo venire anche noi; vi piangiamo appresso, 0 Maria; deh! pigliateci per vostri servi. Noi vogliamo fare sotto i vostri comandi tutto il bene che possiamo, e farlo tutto passare per vostra mano a gloria di Dio. Dio vi salvi, o Maria.

3. Elisabetta nel vedervi entrare in casa esclama: Oh! quale grazia per me!….. E chi mi vedo? La madre che mi porta il Figliuol di Dio nella mia famiglia!… O Maria, o Maria, date anche a noi di vostra mano il divin Figliuolo in Comunione; ce lo terremo caro nelle nostre case. Dio vi salvi, o Maria.

4. Rapita in estasi Elisabetta non fa altro che esclamare: Benedetta Voi, benedetto il Figlio del vostro seno! O benedetta Maria, voi benedite il buon Signore Gesù, voi amatelo anche per noi; voi dateci mano a trattarlo in terra col vostro amore. Dio vi salvi, o Maria.

5. Cara e santa Famiglia! tutta la sua fortuna era di avere in mezzo a sé Gesù e Maria. O Maria, fate che noi siamo tutti d’accordo in amare e servire Gesù nelle nostre famiglie: Maria, le nostre case le mettiamo sotto la vostra custodia; guardatele come vostre. Dio vi salvi, o Maria.

6. Quando voi, o Maria, quando quei benedetti di quella buona famiglia erano tutti del cuore con Gesù, che importava mai loro della gente del mondo di fuori? O Maria, fateci desiderare di fare i nostri doveri ritirati nelle nostre famiglie; perché, quanto più ci dissipiamo nel mondo, tanto più ci lontaniamo da Dio, e perdiamo del bene delle anime nostre. Dio vi salvi, o Maria.

7. Vi contempliamo, o Maria! Voi fate da umile serva in quella casa, ma tutta gentilezza di carità; e noi pretendiamo di essere trattati con tanti riguardi e trattiamo gli altri senza carità? Maria, aiutateci a risparmiare agli altri i dispiaceri e ad essere buoni con ogni persona. Dio vi salvi, o Maria. Tutta in Gesù assorta Maria esclama: Magnificat anima mea Dominum etc. L’anima mia esalta il Signore, perché guardò l’umiltà della sua ancella: ecco che mi chiameranno beata tutte le generazioni. Oh quanto è consolante per noi vostri figli, dopo mille e mille anni vedervi dai Pontefici e dai Re, come dai popoli e da tutta umanità cristiana salutare beata! Avvenne appunto come avete predetto colla vostra cara parola. e terra Ah! passeranno e cieli, ma starà ferma la parola di Gesù Cristo. E voi teneteci costanti col vostro Gesù; ché saremo beati, se non ci distaccheremo da Lui. Dio vi salvi, o Maria.

9. Benedetto Giuseppe, e voi Santi della beata famiglia benedetti, eravate tutti del cuore con Gesù e Maria. Anche noi, anche noi vogliamo sempre Stare col cuore con Gesù insieme con voi, o Maria, e con voi, o Giuseppe protettore delle nostre famiglie. Dio vi salvi, o Maria.

10. Quei fortunati nella santa famiglia si santificarono intorno a Maria; e Giovanni s’era santificato prima ancora di nascere. Maria, portate nelle nostre case Gesù, sicché ci aiutiamo tutti a farci santi a lui intorno; e guardate la innocenza dei nostri figli. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri etc. Gloria a Voi, grande Iddio della bontà, che vi voleste far conoscere per Padre a noi meschinelli; gloria a Voi, Figliuol di Dio, che vi voleste fare capo della nostra famiglia; gloria a Voi, Santo Spirito di carità; tirate i figli del vostro amore al nostro Padre in paradiso. Requiem aeternam etc. O Maria, sentite, sentite i gemiti delle povere anime del purgatorio. È sono i gemiti dei vostri figli caduti in quei tormenti: ti- rateli su con esso voi al paradiso!

Requien Aeternam etc. O Maria, sentite, sentite, sentite i gemiti delle povere anime del purgatorio. E’ sono i gemiti dei vostri figli caduti in quei tormenti: tirateli su con esso voi al Paradiso!  

TERZO MISTERO. — La Natività di Gesù Cristo.

Nel terzo mistero gaudioso si contempla come, essendo venuto il tempo sospirato della nascita del Redentore, nacque da Maria Vergine il Bambino Gesù Figliuol di Dio nelle vicinanze di Betlemme in sulla mezza notte, e fu collocato fra due animali nel presepio.

CONSIDERAZIONE.

All’altare, all’altare veniamo con tutto il cuor nostro…! è qui sull’altare, proprio come là nel presepio, il Bambino Gesù…;. Ecco il Dio dei cieli ci ha dato per nostro il Figlio suo Unigenito… Angeli e giusti tutti, venite ad adorarlo! Figuriamoci di vedere qui, come in quella cara notte del Natale, in fondo a quella povera grotta nel presepio tra il bue e l’asinello su un po’ di paglia il Bambino Gesù. È una tenerezza il contemplarlo… Maria lo bacia, l’adora, lo mostra a noi; S. Giuseppe piange intenerito; e il Bambino con quella grazia, con quegli occhietti, con quelle braccioline, pare che ci ciegga una carezza per consolarlo. O Maria, ditegli voi, che l’amiamo. Sì, Bambinello divino, per mezzo delle vostre lagrimette, dei vostri vagiti noi vogliamo dire le più care cose al Padre nostro: gli vogliam dire, che gli vogliam bene anche noi, e che vogliam essere con lui in paradiso.

Pater noster etc. O Padre, o Padre, sentite il Bambino che vagisce qui in basso in questa povera terra. Con lui vogliamo benedirvi teneramente: apriteci il cielo; ché con Lui in braccio veniamo nel vostro regno. Siamo fratellini del vostro Bambino Gesù; pigliateci con lui in seno; noi staremo sempre buoni, e faremo il vostro volere. (Si reciti la prima parte del Pater noster). Metteteci nel cuore il Bambino (facciamo la Comunione spirituale): noi ci terremo stretti a lui sempre; e per esso lui concedeteci tutti i beni. Sentite ancora il Bambino che piange e dimanda per noi perdono; anche noi lo consoleremo col dare il perdono a tutti. Padre, tirateci con Gesù fuori dai pericoli, e dai mali presenti levatici su fino al paradiso. (Si reciti la seconda parte del Pater noster).

1. Ave Maria. O buon Dio, nostro Bambino, voi dunque siete qui con noi, come là nel presepio! O Maria, anche noi l’adoriamo coi pastori, l’adoriamo coi Magi. Ricchi e poveri, ignoranti e dotti, Gesù ci vuol al presepio; Egli è il Salvatore di tutti. Voi, Maria, parlate Voi per noi col vostro cuore al nostro al troppo caro Bambino Gesù. Dio vi salvi, o Maria.

2. Bambino nostro, e nostro Dio, siete così buono con noi… Quanto più vi contempliamo piccino, tanto più ci rapite il cuore! O Madre santa, aitateci, affinché cel teniamo sempre sul cuore, come Voi, il Bambino Gesù. Dio vi salvi, o Maria.

3. Madre benedetta, avete ben tutto il vostro interesse a preparare di vostra mano il cuor nostro, a fine di riporvi dentro il Bambino Gesù; e noi per riceverlo bene, lo vogliamo ricevere dalle vostre mani. Deh mettetecelo in cuore voi; ma levatevi prima ciò che gli possa mai dispiacere; S. Giuseppe, mostrateci a portarlo, come voi nel vergine petto. Dio vi salvi, o Maria.

4. Adorabile Bambino! Noi vi contempliamo nato lungo una strada, in una greppia, su quella paglia… Padre Santo, al vostro Figlio preparaste tanta povertà; e noi siamo tutta cura affannata a cercare ricchezze qui…? L’intendiamo! Gesù vuol dirci che non è luogo qui da posare domicilio, che siamo in cammino nella vita, e che la patria è il paradiso. O Maria, se ci vediamo così poverino Gesù, non dobbiamo menar lamento alcuno, ma guardare la povertà come la ricchezza del Figliuol di Dio. Dio vi salvi, o Maria.

5. Noi ci ricordiamo che nel giorno del furor di Dio scorreva il fuoco tra le tende del popolo di Israele, e spalancavasi una voragine ad ingoiarli. Mosè allora, a salvare quei miseri, presentava nel turibolo d’oro il fuoco sacro all’Eterno. Ah noi siamo ben più fortunati; e Se meritiamo lo sdegno di Dio, Maria, voi gli presentate sulle ginocchia il vostro Figlio, il quale con quel Cuoricino in fiamme per noi dice tutti i nostri bisogni. Dio vi salvi, o Maria.

6. Questo Bambino è nostro; è nato per noi, non è vero, o Maria? Ebbene, ve l’offriamo, o padre, ma vogliamo che ci salviate le anime nostre. O Maria, col Bambino in braccio, voi potete tutto ottenere. Dio vi salvi, o Maria.

7. Bambino Gesù, vi abbiamo qui nel Sacramento; siamo contenti come i pastori che vi trovarono là nel presepio; ma noi siamo più fortunati; ché vi mettiamo nel nostro cuore per non lasciarvi più mai. Vanità, onori, pazze gioie del mondo, siete troppo meschine cose per rubarci dal cuore il nostro bene amato Gesù. O Maria, teneteci sempre fra le braccia voi, perché non perdiamo siffatto tesoro. Dio vi salvi, o Maria.

8. Bambinello dolcissimo, lasciateci dire piangendo il nostro cuore. I tempi in voi sono come un solo momento. Voi meritavate sempre di essere amato sopra ogni cosa quando eravate in seno a Maria, e vi pigliavano in braccio i pastori. Ora poi come essi, vi abbracciamo del cuore; ma ahi che vediamo qui nelle vostre manine e nei vostri piccoli piedi le piaghe che vi fecero i chiodi, quando voleste morire per noi! Queste membroline portano i segni delle battiture, e in questa cara testina sono ancora i fori delle spine… Oh! oh! Bambino Santissimo, il vostro Cuoricino geme Sangue ancora ancora!….. Oh Padre nostro, sentite il Bambino che ci piange in braccio qui in mezzo alle miserie nostre, ed esauditeci. Maria, mostrateglielo Voi. Dio vi salvi, o Maria.

9. Bambino nostro, ah non piangete: noi staremo sempre sempre con voi. In tutte le tentazioni vi stringeremo al cuore nel Sacramento, e grideremo: Gesù! Grideremo a voi, o Maria, e voi non ci lascerete perdere, non è vero? Dio vi salvi, o Maria.

10. State sicura, o Maria, che lo tratteremo bene qui il nostro Bambino Gesù….. Oh sì, che l’amiamo, e ve lo vogliamo accontentare! Tratteremo bene per lui tutti, anche i più peccatori, a cui stende Egli le sue manine; e Voi ci aiuterete, o Madre nostra. Dio vi salvi, o Maria. Gloria Patri etc. Cantiamo cogli Angeli gloria a Dio nel più alto dei cieli, perché egli mostrò di esserci Padre quando ci diede il Bambino suo Figliuolo; gloria al Figlio, che nato Bambino resta qui nel Sacramento, e non ci abbandona più; gloria allo Spirito Santo, Amore del Padre e del Figliuolo, procedente dal Padre e dal Figlio ora Bambino nostro, e col Padre e col Figlio Salvator nostro intento a volerci beati in paradiso. Gloria Patri etc.

Requiem æternam. Bambino Gesù, tra le nostre braccia guardate le anime del purgatorio; guardate come abbruciano le poverine in quelle fiamme! Noi vi piangiamo sul cuore per loro. Requiem æternam etc.

QUARTO MISTERO. — La presentazione al tempio.

Nel quarto mistero gaudioso si contempla come la Santissima Vergine nel giorno della Purificazione presentò Gesù Bambino, quaranta giorni dopo la sua nascita, nel Tempio, dove l’accolse fra le sue braccia il santo vecchio Simeone.

CONSIDERAZIONE.

Bambino Gesù, noi vi contempliamo quale eravate in braccio alla Madre vostra Santissima quando vi offeriva nel tempio, e con voi sì offeriva Ella stessa mettendovi sul suo proprio cuore in mano del Padre vostro, siccome cosa da farne ogni volontà. – Da questa santa offerta ne venne la salvezza nostra. O Gesù, o Maria, metteteci sul santo altare con esso voi; ché vogliamo essere tutti di Dio per servirlo in tutta la vita. Noi grideremo con voi, nostro Salvatore benedetto, e colla vostra parola invocheremo il Padre nostro nei cieli.

Pater noster. O Padre Santo che siete nei cieli, abbassate lo sguardo sopra questa povera terra, dove noi siamo con Gesù a darvi gloria. Fate di noi tutti il regno dei vostri fedeli; pigliateci con Gesù vostro a lui uniti a fare la vostra volontà. (Si reciti la prima parte del Pater noster). Dateci oggi il nostro pane (si faccia la comunione spirituale). Buon Gesù, state sempre nel nostro povero cuore. Per vostro amore noi ci offriamo a far del bene ai prossimi nostri; salvateci dai pericoli del mondo, e dall’altare con voi tirateci a beatitudine in paradiso.

1. Ave Maria. Madre santissima, con qual cuore offeriste il vostro Bambino divino, e con Lui offeriste tutta Voi stessa alla volontà di Dio! Deh non lasciateci andare perduti nel servire questo miserabile mondo; e metteteci nelle mani di Dio a fare la sua volontà in tutta la vita. Dio vi salvi, o Maria.

2. O Maria, che diceva mai il Cuor vostro, quando sentiva il palpito del Cuore vicino del Bambino Gesù? noi vorremmo palpitare del palpito del vostro amore, quando ce lo stringiamo dentro del cuore nella sacra Comunione. Dio vi salvi, o Maria.

3. O Maria, Dio solo sa quanto vi costasse l’offerire il Figliuol di Dio e delle vostre viscere a morire per noi, pronta ad accompagnarlo fino alla morte ed a morire con Lui. O Madre, noi siamo così poveri di cuore: aiutateci ad offerirei pel prossimo, a farci pronti a patire per Dio e per salvare le anime. Dio vi salvi, o Maria.

4. Ecché? Voi, Maria, col vostro vergine sposo Giuseppe confusa colle povere donne quasi foste peccatrice come esse per purificarvi; e noi pretendiamo di essere distinti cogli onori dagli altri, come se fossimo qualche cosa di meglio? Aiutateci per la vostra umiltà a mortificare l’amor proprio che sentiamo dentro così vivo. Dio vi salvi, o Maria.

5. Voi vi deponeste sull’altare col vostro Gesù consacrandovi tutta in servizio della gloria di Dio. Anche noi siamo tutti di Dio; e se volessimo operare per nostra soddisfazione, sarebbe lo stesso che se rubassimo la gloria a Dio per darla a un idolo di fango quale siamo noi. Maria, non lasciateci portar via il cuore lontano da Dio. Dio vi salvi, o Maria.

6. Voi generosa vi offeriste col vostro Gesù; e da quella offerta ne venne la salute del mondo. Maria, mettete anche noi nelle mani di Dio; pigliate nel vostro seno i nostri poveri figli, che Egli ci diede; affinché si offrano a Dio, e lo servano in quello stato a cui li ha destinati. Dio vi salvi, o Maria.

7. Questo Bambino, esclamò il santo vecchio Simeone inspirato, quando vel vide tra le vostre braccia, sarà la luce del mondo, il Salvatore, delle genti. Una tal profezia si verifica tutti i dì. E Gesù solo nella Chiesa Cattolica che salva e fa il bene del mondo; e questi pretendenti, i quali vogliono fare il bene dell’umanità senza Gesù tirandola a voltare le spalle alla Chiesa, riducono i popoli alla disperazione. O Maria, teneteci Voi tra le braccia della Chiesa insieme col Papa a salvarci con Gesù Cristo. Dio vi salvi, o Maria.

8. Quando Simeone vi predisse la passione e la morte del vostro Figlio, la spada del dolore vi trafisse nel Cuore; e voi vi nascondeste nella vostra casetta, e vi preparaste stringendo sul cuore il Bambino ad accompagnarlo fino sotto la croce. Maria addolorata, anche noi, anche noi quando nei travagli e nelle ansietà della povera nostra vita non ne potremo più, aiutateci a fare la Comunione spirituale e a metterci dentro del Cuore di Gesù a pigliar conforto. Dio vi salvi, o Maria.

9. Madre addolorata, quante volte stringendovi sul Cuore il Bambino Gesù dicevate colle lagrime: Bimbo mio, questa cara testolina ve la incoroneranno di spine!… e queste manine e questi piccoli piedi sono da inchiodare là sulla trave… Cara la Vita mia, voi crescete per morire sulla croce… Oh, ma sapete? o mio Gesù, la vostra Madre verrà anch’essa lassù al Calvario con voi… Sì si, mi farò inchiodare per la prima… sì, vi riscalderò col mio cuore… Oh mi morirete sul petto! Deh, Madre nostra Maria, vogliamo anche noi baciarvi il santo Bambino che mori per noi! deh, non lasciateci staccare da Gesù e da Voi; grideremo sempre: Gesù: e Maria, salvate l’anima mia. Dio vi salvi, o Maria.

10. Maria Santissima, Voi col vostro sposo Giuseppe eravate cogli occhi e col cuore sempre sopra Gesù nel fare le cose vostre. Anche noi, come Voi, vogliamo con Gesù dividerci nostri dolori e le nostre consolazioni; tutto vogliamo fare insieme con Gesù divino compagno del nostro pellegrinaggio. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri. Gloria al Padre che ci ha dato il Figlio suo per Salvatore; gloria al Figlio che tra le braccia di Maria si offerì a morire per noi; gloria allo Spirito Santo, che cooperò al sacrificio dell’amor divino. Gloria Patri etc.

Requiem æternam. Bambino Gesù, Voi v’offriste anche per le anime del purgatorio: per la memoria di quell’offerta coglietevi in seno le poverine che tanto soffrono. Requiem æternam, etc.

QUINTO MISTERO. — Il ritrovamento nel tempio.

Nel quinto mistero si contempla come Maria Santissima, avendo smarrito il suo divin Figliuolo e cercatolo per tre di, lo ritrovò in fine nel Tempio che disputava coi dottori, essendo d’anni dodici.

CONSIDERAZIONE.

Noi crediamo perduta la vita nascosta; ma quanto sono diversi dai nostri i giudizi di Dio! Della santissima vita sua così preziosa, la quale fu di trentatré anni, Gesù Cristo trenta volle passarli nella vita nascosta a lavorare in quella povera casetta; e questo fece a fine di dare l’esempio alla più gran parte degli uomini che si hanno da salvare lavorando ignoti al mondo per la gloria di Dio. Ci dimostra dunque Gesù, che la vita comune tutta pesa a gloria del Signore negli umili doveri del nostro stato gli è tanto cara. Signore Gesù, noi ci uniamo a Voi nel Sacramento; e non vogliamo che piacere con Voi al Padre vostro. Daremo la mano a Maria in compagnia di S. Giuseppe; e col cuore tutto in Voi faremo di adempiere ai nostri doveri, sia pur umile e povero il nostro stato. Siamo pur fortunati che abbiamo Voi in compagnia, e in tutti i momenti, in tutte le più minute azioni possiamo farci tanti meriti pel paradiso. Ah col cuore in Voi vogliamo esclamare: Pater noster.

O Padre nostro, di cielo. ci guardate con amore nelle nostre case; ché noi vogliamo fare tutto, tutto per compiacervi in tutta la nostra vita. Fate di noi tutti il vostro regno in terra, e che vi serviamo qui, come gli angioli in cielo. O Padre, (facciamo la Comunione spirituale) dateci ogni bene con Gesù nel cui seno ci mettiamo: dateci la carità tra noi da perdonarci l’un l’altro, come Voi perdonate a noi poverini. Liberateci dalle tentazioni, liberateci da ogni male in cui l’amor proprio ci può precipitare.

1. Ave Maria. O Maria, quanto spavento quando smarriste il vostro Figlio!… Oh ma, beata Voi, che non l’avete perduto per vostra colpa! Miseri a noi che per ì nostri peccati abbiam perduto Dio e il paradiso! Vi corriamo appresso piangendo, o Maria, per ritrovarlo col vostro aiuto. Dio vi salvi, o Maria.

2. Vi contemplo, o Maria, col vostro Giuseppe in quelle ansie affannose cercare il giovinetto Gesù per tre giorni. O Maria, per quella vostra ansietà, fate che, se mai in questa povera vita meritassi di essere abbandonato da Dio, nelle mie desolazioni, nell’abbandono del cuore mi getti in braccio di Voi, e non mi distacchi più da Voi, finché non me lo abbiate fatto trovare tutto il mio Bene, il mio Dio. Maria, Giuseppe, mi aiuterete a cercarlo, non è vero? Dio vi salvi, o Maria.

3. Per tanta cura in cercarlo l’avete in fine trovato nel tempio. Dateci mano, o Maria, lo cercheremo anche noi nelle chiese, nelle preghiere; lo chiameremo nelle meditazioni… Oh sì, sì, noi vi troveremo, o Gesù, nel Sacramento; Voi ascolterete vostra Mamma, per mano della quale vi cerchiamo. Dio vi salvi, o Maria.

4. Trovatolo nel tempio, Voi vi fermaste ad ascoltare la sua parola e la conservaste nel vostro Cuore. O Maria, fate che ci raccogliamo in ispirito con Dio, e che conserviamo le sue parole nel nostro cuore. Dio vi salvi, o Maria.

5. Maria, quando Gesù vi disse che era andato nel tempio per obbedire al suo Padre celeste, Voi col vostro sposo Giuseppe adoraste in silenzio le disposizioni di Dio. O Maria, aiutateci a rassegnarci al volere divino, a staccarci fin dai parenti più cari, per fare ciò che Dio vorrà disporre di noi. Dio vi salvi, o Maria.

6. D’allora in pei non voleste mai più distaccarvi da Gesù: con Lui divideste le preghiere, le fatiche, le persecuzioni, e persino gli orrori della morte sua. O Maria, anche noi abbiamo qui nascosto il nostro Gesù, caro compagno del pellegrinaggio di questa nostra povera vita. Deh accompagnateci colla vostra assistenza; lavoreremo con Lui, con Lui porteremo la nostra croce col cuore in Lui nel Sacramento sino alla morte. Dio vi salvi, o Maria.

7. Contempliamo nella santa casa il Bambinello Gesù girare intorno a Maria. Essa non ha ancor parlato che il Bambinello obbedisce, e le presta con grazia di paradiso i suoi piccoli servigi, e lavora con S. Giuseppe. Eh! ci par di vedere Gesù garzoncino tirare la sega, far scorrere la pialla, portar sulle spalline i toppetti di legno a fine di risparmiare fatiche al vecchiotto; e passare trenta anni di vita così, quanti ne aveva voluto il Padre celeste. Oh la nostra fortuna grande! Noi lo possiamo imitare tutti contenti di servire il Signore nello stato in cui ci vuole, tutti occupati in far bene i doveri nostri, e tanto più simili a Gesù, quanto più siam poverini e disprezzati. Dio vi salvi, o Maria.

8. Maria e Giuseppe furono cogli occhi, coi pensieri e col cuore tutto in Gesù; né un minuzzolo solo di quelle vite così preziose andò perduto in questo nulla delle cose del mondo… Deh! che noi non perdiamo più il tempo che ci è dato a servir Dio e a salvar l’anima! Se nella vita ordinaria faremo tutte le più minute cose così, lavorando sempre con Gesù, come Voi, o Maria, in tutti i momenti della nostra esistenza, oh i meriti, oh i guadagni grossi che metteremo assieme pel paradiso! Dio vi salvi, o Maria.

9. 0 buon Gesù, mentre voleste vivere da uomo qui sulla terra solo trentatré anni, trenta di questi li passaste là sepolti in quel tugurio in umiltà, in patimenti; tanto che il mondo direbbeli perduti in cose da nulla! Ah voi voleste farci capire che tutte le cose del mondo e la vita sfumano in niente, quando si pensa a Dio, e che solo hanno un qualche valore, quando sono offerte a servirlo come Egli vuole. Ci pare, o Gesù, di vedervi come tutto contento di avere avuto il corpo e l’anima da gittare a nulla dinanzi al Padre e riconoscere che tutta la gloria si deve solo a Dio. O Maria, consacrate a Gesù tutta la vita nostra; che noi non vogliamo per poco cercare le nostre soddisfazioni, la nostra gloria, non di formarci una posizione nel mondo che val niente innanzi a Dio. Siamo contenti di aver una vita; ma per poterla sacrificare tutta per la sola gloria di Dio. Dio vi salvi, o Maria.

10. Uscite fuori da questo tugurio, o Gesù, gli dicevano quei che sapevano delle sue virtù; fatevi conoscere; ché Voi potete operar grandi cose. Andate a Gerusalemme; Vi tirerete appresso ì popoli meravigliati. Perché perdere il tempo sepolto in questa vita da niente? Ma Gesù faceva loro intendere non essere perduto quell’incenso che si brucia per l’onore di Dio; e tanto glorificarlo la brillante stella quanto l’umile lucciolina. No, tutto quel tempo non era perduto; era anzi il più bene speso, perché voleva il Padre suo lo spendesse così. O Gesù, a vostra imitazione farò tacere l’amor proprio, e non mi lusingherò di farmi conoscere per volere fare cosa di più grande importanza: quello è lo stato migliore, la più santa cosa e la più grande è quella che Dio vuole da noi: il più gran merito è fare la volontà divina. E meglio guadagnare il paradiso nella vita più comune, ignorata dal mondo che non andare all’inferno applaudito da tutti. Salviamoci in paradiso vivendo con Voi, o Maria, con Gesù qui nascosto. Dio vi salvi, o Maria. Gloria Patri. Gloria al Padre in quello stato in cui Egli ci vuole; gloria a Gesù che sta qui e sempre nascosto nel Sacramento pei secreti fini del suo amore per noi: gloria allo Spirito Santo che lavora in silenzio la nostra santificazione. Gloria Patri.

Requiem æternam. O Maria, per quel gaudio che provaste nel trovare e nel tenervi sempre con Voi il vostro Gesù, deh tirate con Lui in paradiso le anime sante che sospirano in purgatorio.

FESTA DEL S. ROSARIO DELLA B. V. MARIA (2022)

Festa del S. Rosario della B. V. M. (2022)

Doppio di 2° classe – Paramenti bianchi

La festa odierna fu istituita da S. Pio V per ricordare la strepitosa vittoria riportata dai Cristiani sui musulmani a Lepanto il 7 ottobre del 1571, giorno in cui le numerose e diffuse confraternite del Rosario onoravano in modo particolare Maria SS. Sotto l’invocazione di Madonna del Rosario. Forma popolare di devozione e risultato d’una lunga evoluzione attraverso gli ultimi secoli del basso Medio evo, il Rosario – ad imitazione dei 150 Salmi del Salterio – consta di 150 Ave Maria, ogni decina delle quali è intercalata con un Pater e accompagnata dalla meditazione di uno dei principali episodi della vita di Gesù e di Maria. Questa forma altrettanto semplice che facile di preghiera, adatta anche ai meno colti, è divenuta una delle più care alla pietà privata, favorita ed arricchita da indulgenze da parte dei Papi. La festa odierna, celebrando una grande vittoria, celebra pure l’umile ma potente arma cui è dovuta: la preghiera e particolarmente quella del Rosario.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.


Confíteor

Confiteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat te ad vitam ætérnam.
S. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre beátæ Maríæ Vírginis: de cujus sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei.

[Rallegriamoci tutti nel Signore celebrando questo giorno di festa in onore della beata Vergine Maria! Della sua festa gioiscono gli angeli, e insieme lodano il Figlio di Dio]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Deus, cujus Unigénitus per vitam, mortem et resurrectiónem suam nobis salútis ætérnæ præmia comparávit: concéde, quǽsumus; ut, hæc mystéria sacratíssimo beátæ Maríæ Vírginis Rosário recoléntes, et imitémur, quod cóntinent, et quod promíttunt, assequámur.

[O Dio, il tuo Unico Figlio ci ha acquistato con la sua vita, morte e risurrezione i beni della salvezza eterna: concedi a noi che, venerando questi misteri nel santo Rosario della Vergine Maria, imitiamo ciò che contengono e otteniamo ciò che promettono.]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Prov VIII:22-24; VIII:32-35

Dóminus possédit me in inítio viárum suárum, ántequam quidquam fáceret a princípio. Ab ætérno ordináta sum et ex antíquis, ántequam terra fíeret. Nondum erant abýssi, et ego jam concépta eram. Nunc ergo, fílii, audíte me: Beáti, qui custódiunt vias meas. Audíte disciplínam, et estóte sapiéntes, et nolíte abjícere eam. Beátus homo, qui audit me et qui vígilat ad fores meas quotídie. et obsérvat ad postes óstii mei. Qui me invénerit, invéniet vitam et háuriet salútem a Dómino.


[Dall’inizio delle sue vie Iddio mi ha posseduta, dal principio dei tempi, prima di ogni opera sua. Fin dall’eternità io sono stata formata; dai tempi remoti, prima che la terra fosse. Ancora non c’era l’abisso, ma io ero già stata concepita. Or dunque, figlioli, ascoltatemi: beati coloro che custodiscono le mie vie. Ascoltate l’ammonizione e diventate saggi, e non vogliate disprezzarla. Beato l’uomo che mi ascolta, che veglia ogni giorno alle mie porte e custodisce la soglia della mia casa. Chi trova me, trova la vita: e dal Signore attingerà la salvezza.]

Graduale

Ps XLIV:5;11;12
Propter veritátem et mansuetúdinem et justítiam, et dedúcet te mirabíliter déxtera tua.
V. Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam: quia concupívit Rex spéciem tuam. Allelúja, allelúja.
V. Sollémnitas gloriósæ Vírginis Maríæ ex sémine Abrahæ, ortæ de tribu Juda, clara ex stirpe David. Allelúja.

[Per la tua fedeltà e mitezza e giustizia la tua destra compirà prodigi.
V. Ascolta e guarda, tendi l’orecchio, o figlia: il Re si è invaghito della tua bellezza.
Alleluia, alleluia.
V. Celebriamo la gloriosa vergine Maria, della discendenza di Abramo, nata dalla tribù di Giuda, nella nobile famiglia di Davide.
Alleluia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc 1:26-38

In illo témpore: Missus est Angelus Gábriel a Deo in civitátem Galilææ, cui nomen Názareth, ad Vírginem desponsátam viro, cui nomen erat Joseph, de domo David, et nomen Vírginis María. Et ingréssus Angelus ad eam, dixit: Ave, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus. Quæ cum audísset, turbáta est in sermóne ejus: et cogitábat, qualis esset ista salutátio. Et ait Angelus ei: Ne tímeas, María, invenísti enim grátiam apud Deum: ecce, concípies in útero et páries fílium, et vocábis nomen ejus Jesum. Hic erit magnus, et Fílius Altíssimi vocábitur, et dabit illi Dóminus Deus sedem David, patris ejus: et regnábit in domo Jacob in ætérnum, et regni ejus non erit finis. Dixit autem María ad Angelum: Quómodo fiet istud, quóniam virum non cognósco? Et respóndens Angelus, dixit ei: Spíritus Sanctus supervéniet in te, et virtus Altíssimi obumbrábit tibi. Ideóque et quod nascétur ex te Sanctum, vocábitur Fílius Dei. Et ecce, Elisabeth, cognáta tua, et ipsa concépit fílium in senectúte sua: et hic mensis sextus est illi, quæ vocátur stérilis: quia non erit impossíbile apud Deum omne verbum. Dixit autem María: Ecce ancílla Dómini, fiat mihi secúndum verbum tuum.

[In quel tempo, l’angelo Gabriele fu inviato da Dio in una città della Galilea, di nome Nazareth, ad una vergine sposa di un uomo di nome Giuseppe, della stirpe di Davide; e il nome della vergine era Maria. L’angelo, entrando da lei, disse: «Ave, piena di grazia; il Signore è con te; tu sei benedetta fra le donne». Mentre l’udiva, fu turbata alle sue parole, e si domandava cosa significasse quel saluto. E l’angelo le disse: «Non temere, Maria, poiché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai nel tuo seno e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù. Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre: e regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». L’angelo le rispose, dicendo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’ Altissimo ti coprirà della sua ombra. Per questo il Santo, che nascerà da te, sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anch’essa un figlio nella sua vecchiaia ed è già al sesto mese, lei che era detta sterile: poiché niente è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: sia fatto a me secondo la tua parola».]

OMELIA

« SALVE, PIENA DI GRAZIA »

(O. Hopfan: Maria – Marietti ed. 1953)

« Al sesto mese l’Angelo Gabriele fu da Dio mandato in una città della Galilea, detta: Nazaret, ad una vergine sposata ad un uomo, chiamato Giuseppe, della casa di David; e la vergine si chiamava Maria. Ed entrato da lei, disse: “ Salve, o piena di grazia! Il Signore è con te ».

In una piccola cappella di montagna una campanella suona per tre volte: “Ave, Ave, Ave!”. Allora i monti eterni paiono ergere le candide vette e irrigidiscono di stupore. In un’ampia cattedrale piange e giubila un violino, e un fanciullo puro canta: « Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine »; in quell’istante il popolo credente tutto si leva, s’inginocchia, riflette e ringrazia, tocco nel più profondo del suo essere. In Cielo, dalle auree schiere si stacca un Angelo e vola giù sulla misera terra; la madre terra ha un brivido per la gioia che il Cielo s’abbassi nuovamente verso di essa, e Giovanni nel suo Vangelo scrive il Mistero: « Il Verbo si è fatto carne ». O Angelo Gabriele, messaggero di Dio, quale scompiglio non provochi tu quaggiù col tuo messaggio! Il miracolo, che tu vieni ad annunciare, trascende e incorona tutti gli altri miracoli di Dio: Iddio stesso vuole unirsi alla sua creazione in maniera nuova, inaudita, e ricondurre a Sè la sconvolta umanità per mezzo di Sé, in Se stesso. Il primo uomo un dì richiese temerariamente di divenire come Dio stesso; ora quell’ardito sogno del paradiso dev’essere realizzato in altro modo, in modo divino: Iddio si fa uomo. Con lieve batter d’ala va Gabriele a un’umana dimora per invitare la Creatura eletta dallo stesso Santo Spirito di Dio, la quale in questa sublimissima opera divina deve dare il suo contributo. Vi è nel tuo “Ave”, o degnissimo Angelo, tanta fragranza e armonia e profondità, che d’or’innanzi alletterà gli artisti alle creazioni più splendide; e nondimeno tutte le immagini e melodie e parole d’amore intorno al mistero dell’Annunciazione non raggiungeranno mai l’armonia del primo “Ave”. O Angelo sublime, permetti che anch’io aggiunga alla rosa d’oro del tuo saluto il semplice fiore del mio “Ave” alla Benedetta; possa qualche po’ della riverenza e bellezza del tuo saluto avere un’eco sommessa anche nel mio! – Il Messaggero. Gli Angeli son esseri sublimi, puri spiriti, principi dell’al di là, lampi di scienza, eroi di potenza, rivestiti della dignità di dominatori; secondo i nomi misteriosi ricordati dalla Bibbia stessa essi sono “Troni ”, “Principati”, “Dominazioni”, “Virtù”, “ Potestà”. Essi costituiscono la guardia palatina della divina Maestà: « Migliaia e migliaia Lo servono, e miriadi a centinaia di migliaia stanno ai suoi cenni ». Essi sono avvolti dall’abbagliante luce dei divini splendori e grazie a questa partecipazione alla magnificenza di Dio stesso son divenuti “gloria”. Gli antichi libri apocrifi giudaici distinguevano « Angeli della faccia », i quali stanno sempre dinanzi al trono di Dio, e « Angeli del servizio », i quali sono convocati per servire alla creazione e specialmente all’umanità. I Libri Santi riferiscono molti esempi di Angeli, che furono inviati con missioni divine agli uomini, ad Abramo, a Lot e Giacobbe, a David, Elia, Isaia, Tobia, a Ezechiele, Daniele, Zaccaria, ai pastori all’inizio del Vangelo e alle pie donne al suo concludersi, la prima volta col “Gloria”, l’altra con l’ “Alleluja”. La fede cristiana inoltre sa persino che un Angelo cammina a fianco di ciascun uomo; essi se ne stanno non solo dinanzi al volto di Dio, ma anche sui nostri sentieri e alle svolte della nostra vita, essi sono « posti a servizio di coloro, che conseguiranno la salvezza ». Gli Angeli son dunque i ponti di Dio, che formano l’arco fra il regno del puro spirito e il mondo dei corpi. Gli Angeli sono i messaggeri di Dio, i quali dalle celesti dimore portano nelle valli degli uomini i divini decreti. Gli Angeli sono i raggi di Dio, che scendono col dono dell’eterna luce all’umanità priva del fuoco divino. Non quasi alla divina Onnipotenza difetti il potere di tutto operare da sola, ma conviene invece alla divina Sublimità uno sterminato esercito di spiriti che la servano; e conviene al divino Amore chiamare a parte della magnificenza del creato anche altri esseri, affinché la simmetria e la sinfonia governino i mondi di Dio. Ogni volta che gli Angeli vengono nei mondi visibili, appaiono rivestiti di sublimità; il loro corpo è luce e il loro parlare è come un fragore possente; nonostante tutta la loro bontà, hanno però con gli uomini la sostenutezza degli eterni e i terreni mortali si spaventano dinanzi a loro e sono tentati di adorarli come il Signore stesso. Come va dunque che un Angelo s’inginocchia umilmente dinanzi a Maria? Annuncia il messaggio non come un principe in atteggiamento di comando, no! ma come un servo; poi attende modestamente sino a che quella Creatura umana si compiace di rispondere alla sua richiesta, quasi fosse quella Fanciulla una regina, la sua regina. Non era uno qualunque delle miriadi di Angeli quegli che in quel giorno si piegò così riverente dinanzi a Maria, non un piccolo o un giovanissimo, sebbene anche il minimo fra gli Angeli per sua natura superi enormemente in potenza e scienza anche i più celebri fra gli uomini; era il potente e sublime Angelo Gabriele, uno dei tre grandi Angeli, che solo con Michele e Raffaele è chiamato nella Sacra Scrittura col proprio nome. Gabriele — da “géber” = uomo forte, e “el” = Dio — significa etimologicamente “uomo forte di Dio”, ma può essere tradotto anche con ‘confidente di Dio’ o “forza di Dio”. Gabriele presenta se stesso al sacerdote Zaccaria, dicendogli con nobile orgoglio: « Io son Gabriele, che sta dinanzi a Dio, e sono mandato a te per portarti questo lieto messaggio » ; e così egli stesso allude a quello che gli è proprio: egli è il nunzio del lieto messaggio. Iddio fra i miliardi di Angeli ha messo a parte del suo più profondo e tenero Mistero, che è l’Incarnazione, lui, proprio lui. Quando noi nell’ “Angelus Domini” preghiamo: «L’Angelo del Signore portò a Maria il messaggio », circoscriviamo insieme l’intera missione propria a Gabriele e ben anche la sua attitudine, poiché anche negli Angeli essere e operare si corrispondono. Gabriele è l’Angelo lieto e che allieta; è fra gli Angeli, ma in modo molto più sublime, quello che è Luca fra gli Evangelisti, il nunzio non dei giudizi, ma dell’amore misericordioso di Dio. Già seicento anni prima del suo invio alla Vergine egli ebbe una missione di manifesto conforto per il profeta Daniele, che nell’esilio di Babilonia era sprofondato «in grande tribolazione »; e a lui che attendeva ansiosamente la salvezza diede con la celebre profezia delle « settanta settimane di anni » un primo preciso indizio dell’era messianica, quando sarebbe « sorto l’Unto, il Principe »!. – I fiumi di Babilonia continuarono a rumoreggiare a lungo e tempi gravi passarono su quelle parole prima che si adempissero; ma adesso, « sei mesi » prima — l’Evangelista con questa indicazione cronologica intende riannodare eventi che si richiamano —, Gabriele aveva messo piede nuovamente sul suolo di questa terra e lassù nel Tempio aveva annunziato al sacerdote Zaccaria il precursore e l’araldo del Signore. E presto intonerà, qual corifeo del celebre esercito, il canto del lieto messaggio sulle campagne di Betlemme, perché è di nuovo Gabriele, l’Angelo dell’Incarnazione, che annunzia ai pastori « il grande gaudio »!. – Gabriele invita al nuovo paradiso non con la spada sguainata fatta per respingere, come il severo Angelo alle porte del primo paradiso, no, ma col giglio in mano e in atteggiamento benigno e incoraggiante. Visse il suo giorno più radioso quando portò il lieto messaggio a Maria; quell’ora fu per tutti e due, per Maria e per l’Angelo, la più importante della loro esistenza; soli e insieme vissero la più grande delle opere di Dio, l’Incarnazione; e quell’incontro dovette legare quei due Santi, Maria e Gabriele, in eterna amicizia. È una delle tante trovate intelligenti della Liturgia fare precedere immediatamente alla festa dell’Annunciazione di Maria, il 25 marzo, quella dell’angelo Gabriele. Maria — Gabriele! Si stenta quasi a togliere lo sguardo da questo quadro così ricco di grazia e di splendore e di musica, di purezza candida, di nobiltà umile e di perfetta prontezza per le opere di Dio. All’epoca dell’Annunciazione, Maria non era più lassù a Gerusalemme; i suoi genitori forse eran già morti ed Ella era orfana; si potrebbe intendere come accenno a questo il fatto che Lei stessa si portò a Betlemme per il censimento. Non si trovava neppure in casa di Giuseppe ancora, perché la sua partenza per la casa dello sposo seguì l’Annunciazione. – Nazaret era una cittadina in Galilea di nessuna importanza, così insignificante e così disprezzata, che più tardi il giovane apostolo Natanaele-Bartolomeo chiese sprezzante: « Che può venir di buono da Nazaret? ». Ma precisamente dal suolo di quest’angolo dimenticato doveva zampillare la sorgente, la cui sovrabbondanza avrebbe regalato al mondo tutto grazia su grazia; le opere infatti di Dio non dipendono dalle norme dell’umana grandezza. La casetta, nella quale entrò Gabriele, non era un lembo di Cielo, non un appartamento principesco, non l’ampio portico simile a una chiesa e neppure l’intimo idillio, che gli artisti creano bellamente e con riverenza verso la Benedetta; il colloquio più decisivo della storia umana sì svolse in una povera casupola, costruita probabilmente sul pendio del monte. La Fanciulla pure, che contava tredici o quattordici anni, si presentava senza alcun fasto, non era figlia di principi, non di notabili e ricchi del paese; sconosciuta a se stessa, era come una violetta sperduta che non sa della sua bellezza. Se Iddio ha una missione per questa Creatura umana, basta un sacerdote o un uomo illuminato per comunicarGliela, non c’è bisogno di un Angelo, tanto meno di uno di quei sette eccelsi spiriti che, come Gabriele, stanno al cospetto di Dio. Ma Maria è una meraviglia più sublime di un Angelo, Ella è un angelo in carne umana, per natura meno grande di Gabriele, ma per grazia e per dignità superiore a lui e a tutti gli altri Angeli, non esclusi i Serafini stessi. Al momento del suo primo ingresso nel Vangelo Maria ha al suo fianco un Angelo, e in questo v’è un importante significato simbolico: fra Maria e gli Angeli esiste profonda affinità di spirito; gli Angeli accanto a Maria e Maria accanto agli Angeli sono nel proprio ambiente; « Maria degli Angeli » è forse per la nobile Signora il titolo più amabile, è certamente il più originario, fiorito dallo stesso Vangelo, profumato dal giglio di Gabriele e avvolto nelle misteriose armonie dei nove cori degli Spiriti beati. Il quadro di Maria e Gabriele risveglia ancor altri e più gravi pensieri. Un Angelo e una donna stettero di fronte già un’altra volta, nel paradiso; veramente quello era un angelo decaduto e con la sua astuzia aggirò una debole donna. Quel fatale colloquio fra il serpente ed Eva fu la nostra rovina; Gabriele e Maria pensano alla nostra salvezza; I’ “Ave” a Maria capovolgerà il malanno di Eva. Che forse Gabriele si sia inchinato così profondamente dinanzi a Maria anche per risarcire in nome di tutti i nobili Spiriti il femmineo sesso per il misfatto perpetrato da uno del loro mondo ai danni d’una donna? Maria vide l’Angelo con gli occhi del corpo, come risulta evidente dalle parole evangeliche: « L’Angelo entrò da Lei »; in quell’ora non Le stette dinanzi uno svanito fantasma, non una splendida creazione della fantasia, e neppure una visione bella, ma puramente spirituale; Ella vide una figura ben distinta, rivestita di luce; a Maria fu regalata con la conoscenza spirituale anche una manifesta visione. Questo farsi visibili dei mondi invisibili stava in strettissima connessione con la nota caratteristica di quell’ora densa di mistero: Iddio era sul punto di uscire dalla sua eterna invisibilità e di rivestirsi d’un corpo umano, affinché noi uomini, vedendolo sensibilmente, fossimo così accesi d’amore anche per le cose invisibili. In quell’ora del grande mistero dell’incarnazione di Dio, Gabriele, il rappresentante dei puri Spiriti, per rendere omaggio allo stesso Mistero, assunse con una specie di finissima incorporazione la figura eterea del corpo umano: tanto onore celeste, divino anzi, fu reso allora al corpo dell’uomo! Gabriele in forma umana s’inginocchia dinanzi a Maria, che presto concepirà Iddio non solamente secondo lo spirito, ma anche secondo il corpo; per questo non solo il suo spirito, ma per l’apparizione dell’Angelo anche i suoi sensi dovettero essere beatificati e assicurati dell’evento imminente. – Gli uomini furono sempre storditi all’irrompere visibile dei Celesti in questa terra. Quando l’angelo Gabriele vi comparve per la prima volta — « era in vesti di lino, cinto i fianchi d’una fascia d’oro finissimo. Il suo corpo splendeva come crisolito, il suo volto mandava lampi, e aveva gli occhi come faci accese; le sue braccia e i suoi piedi scintillavano come bronzo lisciato, e il suono della sua Voce era come il rumore d’una moltitudine » —, allora, come racconta il profeta Daniele stesso, « sentii mancarmi le forze, mentre ebbi questa grandiosa visione, cambiai d’aspetto e tutte le forze svanirono; quando poi udii il suono della sua Voce, caddi stordito dinanzi a me, col volto aderente al suolo ». Anche la seconda apparizione di Gabriele, quella a Zaccaria, causò uno scompiglio: « Zaccaria si turbò alla visione dell’Angelo e s’impossessò di lui il timore ». E persino un eroe così valoroso qual era Gedeone, quando gli si fece dinanzi un Angelo, gridò sgomento: « Ahimè, onnipotente Signore, io ho visto l’Angelo del Signore faccia a faccia! ». E invece quale serenità placida e lieta alita nell’annunciazione di Maria! È vero che il Vangelo riferisce che anche Maria fu turbata, e anzi usa un’espressione forte, ma Ella non fu turbata per l’apparizione, bensì per il saluto dell’Angelo; all’Angelo stesso Ella guarda col tranquillo stupore d’un bambino, che vede venire a sé una stella d’oro; anzi sembra quasi che l’Angelo rimanesse più confuso dinanzi a Maria che non Maria dinanzi all’Angelo. Sulla fine del quinto secolo un predicatore orientale, l’abate Abramo di Efeso, descrive questo felice turbamento così: « Appena Gabriele fu entrato dalla Vergine e Le ebbe detto: “ Chaîre — Salve! ”, cominciò a tremare, perché scorse (già) in Lei Colui che lo aveva inviato e lo aveva prevenuto sulla via che dal Cielo scende sulla terra; e, come si fosse trovato sul trono dei Cherubini, non ardiva elevare a Lei i suoi occhi a motivo di Colui, che in Lei s’era fatto presente ». « Ecco, questo atterrisce! Ed essi rimasero turbati tutti e due. Poi l’Angelo cantò la sua melodia ». Oh sì, grande Angelo, canta ora la tua melodia! E Gabriele allora prese la parola e parlò e cantò, e in quel momento rifulsero sommessi tutti i Cieli, e in quell’istante risuonarono lontane tutte le campane, e in quell’ora giubilarono in impeto tranquillo tutti gli Spiriti, «e l’Angelo disse: “Ave — Ti saluto!” ».  – Il Saluto. Vi è qualche cosa di bello nel saluto. Esso è il gettar dell’àncora da un’anima a un’altra; è il ponticello di sbarco dall’io al tu: è l’inchinarsi dinanzi al bene dell’altro. Ove gli uomini non vogliono avvicinarsi, ove vogliono persistere a vicendevole distanza, ivi non si scambia il saluto; ove poi stanno gli uni contro gli altri ostilmente, ove nell’altro scorgono non il bene, ma solamente il male, ivi il saluto è impedito dal gelo, ivi « non si concedono il mutuo saluto », poiché il saluto significa affermare e riconoscere del bene nell’altro. Ora in ogni uomo, anche nell’ultimo, si trova una scintilla di bene; ogni uomo dunque merita anche il saluto; ma quanto più il bene in un uomo è puro e grande, tanto più egli è meritevole d’esser salutato. Nell’Annunciazione fu l’Angelo che salutò Maria dicendoLe: “Ave!” e Già qui l’Angelo fa tacitamente capire la sua inferiorità rispetto alla Vergine, poiché è costume del Cielo e della terra, un costume veramente cosmico, che l’inferiore saluti il superiore. Altri Angeli avevano portato dei messaggi agli uomini prima che Gabriele venisse da Maria, ma mai avevan portato il saluto; Maria è la prima e anche l’unica, che sia degna persino del saluto degli Angeli, perché il bene ch’è in Lei oltrepassa persino quello d’un Angelo. E quell’ “Ave” dell’Angelo fu così timido, che egli non osò neppure chiamar la Benedetta col suo nome proprio “Maria”, quasi che questa immediata allocuzione fosse in qualche modo troppo confidenziale e ne restasse offesa la distanza conveniente all’augusta Signora. Gabriele dice soltanto: “Ave — Salve”; il nome “Maria” l’abbiamo aggiunto poi noi al suo “Ave”, perché per noi Lei è e resta anche nella sua ora più solenne una della nostra stirpe, la nostra eccelsa e buona Sorella; questa terrena parentela e le terrene necessità danno a noi il diritto di chiamarLa non con i suoi titoli, ma col suo nome, con quel nome, che Ella portò sulla terra e col quale L’avevan già chiamata i suoi genitori: Maria! Frattanto l’ “Ave” di Gabriele fu più che un semplice saluto, esso fu già un occulto augurio. La parola usata dai Greci per salutare, da Luca inserita nel suo Vangelo e corrispondente al latino “Ave”, era “chaîre”; “chaîre” alla lettera significa: « Rallégrati! »; e già i Padri greci interpretarono quel saluto, rivolto da Gabriele a Maria, quale invito alla gioia; in questo “chaîre” risuona il primo lieto accordo in maggiore del Magnificat. Nel saluto però in lingua aramaica vi è un senso anche più profondo; Gabriele infatti, rivolgendosi a Maria, ch’era una fanciulla ebrea ignara delle lingue straniere, dovette certamente parlare in lingua orientale e dirle: « Salòm »; “Salòm” significa pace, e veramente pace in ogni direzione della felicità, nella vita esterna e intima, felicità che si dispone intorno a una vera e profonda pace. « “Salòm”, “Chaîre”, “Ave”: quale ricca e lieta pienezza non si cela già nella primabe sola  paroletta dell’Angelo! un suono penetrante, che dà inizio al messaggio dell’Angelo. Pace a Te, letizia a Te, mezzo tuo pace e letizia a noi tutti, o Causa della nostra letizia! – «Tu sei piena di grazia ». Questa seconda parola è la radice dell’intero saluto angelico; se Maria infatti riceve dal Cielo un “Ave”, se Ella è benedetta, se diverrà la Madre del Signore, se è avvolta negli omaggi degli Angeli e degli uomini, tutto questo Le spetta solamente perché Ella è « piena di grazia ». Il testo originale, il testo greco cioè del Vangelo usa qui il termine “kecharitoméne”, che vuol dire la “graziosa”; la lingua greca non aveva un termine proprio per esprimere il nuovo concetto cristiano della “grazia”; nondimeno l’espressione greca scelta dall’evangelista Luca rende molto bene il senso cristiano: Colei che agli occhi di Dio è la “graziosa” per la leggiadria e la bellezza del corpo e dell’anima, è senz’altro “la donata di grazia”. Nel termine greco è già inclusa anche una “pienezza di graziosità”; giustamente quindi le versioni siriache e latine anche del secondo secolo tradussero quel kecharitoméne — donata di grazia” con “piena di grazia”. Maria è semplicemente “la donata di grazia”, “la graziosa”. Quell’esperto di Scrittura e di lingue che era Girolamo (m. 420) ammette: « Non ricordo di aver letto in altro luogo della Scrittura quello che dice l’Angelo ora; a nessun uomo mai è stato concesso di sentire simili parole: “Salve, o piena di grazia”; questo saluto è riservato a Maria ». Piena di grazia! Maria è un terso cristallo, rischiarato dal sole da parte a parte; Maria è un campo di fiori, sul quale posa una nube di profumo; Maria è una sala incantevole, che risuona di ogni melodia. La donata di grazia, la piena di grazia, questo è il nome essenziale di Maria. D’ora innanzi quando si fa parola della “piena di grazia”, ogni Angelo sa che con questo termine s’intende Maria, e lo sappiamo anche noi e non dobbiamo dimenticarlo. – Il profondo pensatore Tommaso d’Aquino propone una distinzione riguardo all’espressione « piena di grazia », e questa distinzione è necessaria per mettere in chiaro rilievo la pienezza della grazia di Cristo rispetto alla pienezza della grazia di Maria. In un determinato senso, infatti, è pieno di grazia Cristo, in tutt’altro Maria; un bicchiere può esser già pieno d’acqua, in altro modo è pieno un lago, e di nuovo in modo diverso, immensamente diverso è pieno d’acqua il mare. Tommaso insegna: « Quando si parla della pienezza della grazia, si deve badare alla grazia stessa e a chi riceve la grazia. La grazia si trova in pienezza dove essa raggiunge in chi la riceve la misura massima secondo l’essere e secondo l’operare; questa pienezza spetta unicamente a Cristo. Colui che riceve la grazia, la possiede in pienezza quand’essa corrisponde pienamente alle sue condizioni di vita, se lo rende capace di adempiere tutti i doveri del suo stato e i compiti della sua vita. « Ora la beatissima Vergine è chiamata “piena di grazia” non perché abbia posseduto la grazia nella misura massima e per tutte le opere; piuttosto la pienezza della grazia per Lei significa che la misura della sua grazia corrispondeva alla elezione alla dignità di Madre di Dio. Così anche Stefano è detto “pieno di grazia”, perché possedeva grazia bastante per essere martire di Dio e provarsi fedele diacono. Vista così, una “pienezza di grazia” può superare un’altra, secondo l’eccellenza dello stato a cui ciascuno è chiamato da Dio ». La pienezza di grazia di Maria è unica, infinitamente distante dalla pienezza di grazia di Cristo, e però essa oltrepassa immensamente la grazia partecipata a noi. Cristo è l’oceano della grazia; nelle Litanie del Sacro Cuore di Gesù professiamo che in Lui « abita tutta la pienezza della Divinità », che si trovano in Lui « tutti i tesori della sapienza e della scienza »; Cristo è così pieno di grazia, che non può più crescere in essa. Maria invece dovrà crescere nella grazia lungo tutto il corso della sua vita; anche se da Gabriele fu salutata come piena di grazia sin dal principio, Ella dovrà percorrere ancora dei tratti lunghissimi prima del suo rimpatrio. Ella pure è viatrice, giunge continuamente dinanzi ad altezze ancora più ardue, riceve sempre nuovi impulsi alla perfezione. Per tutto questo Maria è a noi così umanamente vicina; anche Lei è una creatura che si evolve, cresce e matura. Certamente Ella ricevette una grazia che è senza misura al di là della nostra, Ella è più di noi tutti “piena di grazia”; il suo posto e missione ne esigeva sin dal principio una sovrabbondanza, che nessuna creatura mai ricevette o potrà ricevere: « Maria è così bella e perfetta, Ella presenta una tale pienezza di purezza e di santità, quale, a prescindere da quella di Dio, non si può escogitare e comprendere da nessuno eccetto che da Dio ». Nonostante questi diecimila talenti, Maria, umile e grata alla grazia, si tiene aperta costantemente a nuovi incrementi, mai pensa d’essere abbastanza perfetta. Se dunque Lei, piena di grazia sin dal principio, mai pensa che sia finito, potremo noi supporre di esser perfetti con quei talenti, che ci sono concessi secondo la misura della nostra vocazione, e dimenticarci dell’ascesa a maggiore perfezione? – « Il Signore è con Te ». AI suo saluto « Piena di grazia » Gabriele si affrettò ad aggiungere sull’istante: « Il Signore è con Te ». Maria infatti non è “piena di grazia” da sé, anche Lei come noi tutti ha « ricevuto della sua pienezza grazia su grazia ». La pienezza della grazia di Maria è come la mite luce della luna, che deve al sole il suo splendore d’oro. Questi due tratti del saluto angelico: « Piena di grazia — il Signore è con Te » sono annodati insieme così saldamente, non solo nel seguito del saluto, ma anche nel loro contenuto, che non si potrebbe pensare l’uno senza l’altro: chi ha ricevuto grazia, ha il Signore con sé, e chi ha il Signore con sé, ha ricevuto grazia.  – Nella santa Messa le stesse parole dette a Maria vengono dette al popolo credente: « Dominus vobiscum! ». Eppure nel medesimo saluto si cela una sottile differenza; a Maria è detto: « Il Signore è con Te! », al popolo: « Il Signore sia con voi! »; la parola del sacerdote al popolo esprime un pio voto, quella dell’Angelo a Maria invece una sicura realtà. L’assicurazione « il Signore è con te » non la leggiamo unicamente e nella scena dell’Annunciazione, ma la ascoltiamo spesso nelle Scritture Sante. Questa parola incoraggiante è gridata talora dall’alto a uomini che Iddio ha scelti per un’opera grandiosa o difficile; così, ad esempio, con questa espressione: « Il Signore è con te, o prode valoroso! », è assicurato della soccorritrice presenza del Signore Gedeone, cui fu affidata la liberazione di Israele dalla oppressione dei Madianiti. Nessuna persona ebbe a compiere opera più sublime e più difficile di Maria; per questo subito, nella prima ora della sua comparsa, prima ancora che Ella possa sospettare il suo augusto compito, viene corredata della fortezza per camminare la sua via solitaria e sublime: « Il Signore è con Te ». Egli è con Maria in un modo nuovo, talmente inaudito ed ininterrotto, che d’or in poi non la si potrà pensare più senza il Signore. Il Padre è con Lei, perché la virtù di Dio L’adombrerà; il Figlio è con Lei, perché sarà il Frutto benedetto del ventre suo; lo Spirito Santo è con Lei, Egli con benignità e pazienza divina attende soltanto che Gabriele e Maria finiscano il loro santo dialogo per trasfigurarLa, dopo l’ultima parola, come un’Ostia dopo l’ultima parola della consacrazione. – In questa terza parola dell’Angelo quindi: « Il Signore è con Te » vibra già la prima nota e il silenzioso passaggio al Mistero stesso: il saluto dell’Angelo sta vicino al suo messaggio. Prima di ascoltare questo messaggio, concediamo alla Benedetta l’intervallo d’un minuto, perché possa riflettere su quel saluto che toglie il respiro; Gabriele stesso, dopo quelle prime battute sconvolgenti, fa un piccolo passo indietro, come il diacono all’altare nel supremo istante della solennità del Mistero. Il Vangelo stesso informa: « Maria si turbò a queste parole, e si domandava che potesse dire quel saluto »: così importante, così gravido è il saluto, che persino Maria deve sulle prime comporsi.  Queste prime parole di Gabriele son come i primi sonori accordi d’un preludio, che annunziano qualche cosa di ineffabilmente bello. Maria aveva certamente confidato l’ “Ave” di Gabriele al discepolo dell’amore Giovanni, che L’aveva pregata di aggiornarlo delle cose avvenute in principio; e Giovanni legò in eredità quell’ “Ave” come una preziosità delicata all’evangelista Luca, perché l’assicurasse nel suo Vangelo; ma può essere che Luca stesso l’abbia colto sulle labbra di Maria. Da quel giorno il saluto di Gabriele ha fatto suonare mille campane e mille cuori; milioni di uomini son divenuti Gabriele presentando alla Benedetta il saluto dell’Angelo giorno per giorno, al mattino, a mezzodì e alla sera nell’« Angelus Domini» e nella bella preghiera del Rosario, che non si può separare quasi dall’Ave: tanto spesso lo ripete in meditazione e amore. Tutta la terra è piena di “Ave — Ave Maria, Salve Regina, Ave Regina!”, e ciascuno di questi “Ave” saluta non solamente Maria, ma in Lei anche il Mistero, che sta all’inizio della nostra salvezza, l’Incarnazione del Verbo nel grembo verginale. Dovremmo quindi anche noi come Maria riflettere sul significato di questo saluto. Che forse l’ “Ave ” dell’Angelo sublime non esce spesso dalle nostre labbra troppo di volo? non si fa attenzione qualche volta più al numero che non al senso degli “Ave”? Quando ripetiamo il devoto e riverente saluto dell’Angelo, vediamo che esso non sia mai indegno dell’Angelo e della Piena di grazia! Molti fratelli Cristiani protestano contro ogni “Ave”. Strano che non s’accorgano della scortesia, che usano alla Donna del Vangelo rifiutandoLe il saluto. La maggior parte di essi agisce in questa materia in buona fede; pensano così di offrire un omaggio a Dio. Ma fu ben Iddio stesso che per mezzo di Gabriele fece rivolgere a Maria il saluto. Sarebbe un bel costume se noi fedeli cattolici offrissimo a Maria un duplice “Ave”: il primo in nome nostro, l’altro per supplire i nostri fratelli ancor muti dinanzi a Lei.

[Primo a introdurne l’uso e a diffondere la Salutazione Angelica e quello che chiamiamo il « Suono dell’Angelus » fu l’Ordine Francescano. Già S. Bonaventura nella sua qualità di Generale dell’Ordine e poi un Capitolo dell’Ordine tenuto nel 1295 ordinarono che le campanelle di tutte le chiesette francescane fossero suonate tre volte al giorno in onore della Beatissima Vergine e che in quel momento si recitassero tre Ave Maria. Per ricordare che la Porziuncola, la chiesa madre dell’intero Ordine, è dedicata a « Maria degli Angeli », i Francescani aggiunsero al saluto angelico anche la seconda parte: « Prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte ».]

Offertorium

Orémus.
Eccli XXIV:25; Eccli XXXIX:17
In me grátia omnis viæ et veritátis, in me omnis spes vitæ et virtútis: ego quasi rosa plantáta super rivos aquárum fructificávi

[In me ogni grazia di verità e dottrina in me ogni speranza di vita e di forza. Sono fiorita come una rosa, piantata lungo i corsi delle acque].

Secreta

Fac nos, quǽsumus, Dómine, his munéribus offeréndis conveniénter aptári: et per sacratíssimi Rosárii mystéria sic vitam, passiónem et glóriam Unigéniti tui recólere; ut ejus digni promissiónibus efficiámur:

[Rendici degni, Signore, di offrirti questo sacrificio: e concedi che, venerando nel santo rosario i misteri della vita, passione e gloria del tuo unico Figlio, diventiamo partecipi dei beni da lui promessi]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitate beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festivitate della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:


Pater noster

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

Communio

Floréte, flores, quasi lílium, et date odórem, et frondéte in grátiam, collaudáte cánticum, et benedícite Dóminum in opéribus suis.

[Fiorite, come gigli, o fiori, date profumo, spandetevi in bellezza: cantate in coro la lode divina e benedite Dio nelle sue opere.]

Postcommunio

Orémus.
Sacratíssimæ Genetrícis tuæ, cujus Rosárium celebrámus, quǽsumus, Dómine, précibus adjuvémur: ut et mysteriórum, quæ cólimus, virtus percipiátur; et sacramentórum, quæ súmpsimus, obtineátur efféctus:

[Ci aiutino, Signore, le preghiere della tua santissima Madre, nella festa del suo rosario: concedi a noi di sentire l’efficacia dei misteri che veneriamo, e di ottenere il frutto dei sacramenti che abbiamo ricevuto:]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA