LA GRAZIA E LA GLORIA (35)
Del R. P. J-B TERRIEN S.J.
II.
Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901
Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.
LIBRO VII
LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA
CAPITOLO III
Tutte le azioni del figlio di Dio, purché moralmente buone, meritano un aumento di grazia e di gloria.
1. – Sappiamo quali condizioni siano assolutamente necessarie per il merito della crescita spirituale: condizioni da parte dell’opera, condizioni da parte dell’agente, condizioni da parte di Dio, il remuneratore del merito. Ci resta da scoprire concretamente, nella vita dei figli adottivi di Dio, le opere in cui troveremo soddisfatte queste condizioni; in altre parole, e per dirla in modo più semplice, quali dei loro atti meritino un aumento di grazia e di gloria. – Ora, questa è la dottrina che mi propongo di dimostrare prima e di spiegare poi. L’ho ricevuta dal Dottore Angelico, che la formula in queste poche parole: « Nell’uomo in possesso della grazia e della carità, ogni atto libero è o merito o demerito »; e di conseguenza, non c’è azione moralmente buona che, secondo lui, non sia meritoria agli occhi di Dio (Habentibus Charitatem omnis actus est meritorius vel demeritorius – de Malo, q. 2, a 5, ad 1 -. È impossibile dubitare che San Tommaso non intenda un qualsiasi tipo di merito, ma il merito in senso stretto, quello che Dio remunera con i suoi doni soprannaturali. In nessun punto, nei numerosi testi in cui afferma la sua dottrina, dice una sola parola che possa far sospettare un’altra idea. Per lui, l’actus meritorius è ogni atto buono dell’uomo giustificato. Non sarebbe un prendersi gioco del lettore se questa parola meritorius nascondesse un equivoco e significasse sia meriti naturali sia meriti soprannaturali? Inoltre, se il santo Dottore intenda solo un qualsiasi tipo di merito, qualcuno sa dirmi perché la grazia santificante e la carità siano assolutamente richieste? Non c’è dunque alcun tipo di merito per i peccatori?). – Come nell’ordine dei fatti non esiste e non può esistere un’azione deliberata che sia indifferente, cioè che non sia né buona né cattiva dal punto di vista morale, così quando si tratta dei giusti, figli di Dio, ogni opera libera è o merito o peccato. Non è possibile una via di mezzo. Percorrendo il variegato ciclo delle azioni umane: studiare, lavorare con le mani, pregare, ricrearsi, conversare, salutare un amico di passaggio, dire una parola educata … che ne so? Tutte queste azioni e cento altre dello stesso tipo, per quanto indifferenti possano sembrare e per quanto poco importanti si possano ritenere, o sono il prezzo di un aumento proporzionale della grazia o sono colpe che la giustizia punirà. Anche in questo caso, non ci sono vie di mezzo per i figli di adozione. Ho detto: per i figli di adozione; perché l’uomo che non porta la grazia nel suo cuore può fare, e spesso fa, opere che non hanno questo carattere di merito. Per questo San Tommaso dice: « Ogni atto di chi ha la carità è meritorio o peccaminoso, e per lui non c’è atto indifferente » (« Omnis actus habentis charitatem vel est meritorius, vel est peccatum, et nullus est indifferens » – S. Thom, ibidem, obj. 11 cum. resp.), non solo dal punto di vista morale, ma anche da quello del merito o del demerito. So che questa dottrina non è accettata da tutti i teologi (ci sono due modi per contraddirla: alcuni ammettono che non esistano atti indifferenti nella pratica; ma sostengono, allo stesso tempo, che gli atti moralmente buoni dei giusti possono mancare, e spesso mancano, di alcune condizioni necessarie per il merito soprannaturale. È questa l’opinione che teniamo particolarmente in considerazione in questo e nei capitoli seguenti, per opporci ad una dottrina che ci sembra più consolante e meglio sostenuta dalla ragione teologica. Altri sarebbero prontamente d’accordo con noi: ogni atto moralmente buono di una persona giusta è un merito; ma ci sono atti deliberati che non sono né buoni né cattivi; e, di conseguenza, il dilemma del Dottore Angelico non è ammissibile. È soprattutto nella famiglia francescana che troviamo questa teoria degli atti indifferenti. -S. Tommaso, che si batte contro di essa, seguito dalla maggioranza dei filosofi e dei teologi della Scuola, risolve la questione con la sua ordinaria profondità. Se consideriamo gli atti deliberati in sé e nella loro natura specifica, ce ne sono alcuni che non hanno carattere morale, come ad esempio il camminare, poiché la moralità di un atto si misura in base al suo rapporto con la regola dei nostri atti liberi, cioè con la ragione. Ora la ragione non approva né disapprova l’azione di fare una passeggiata. È quindi un atto indifferente, se lo consideriamo solo nella sua essenza specifica. Ma un atto individuale assume necessariamente delle circostanze che lo fanno uscire in qualche modo da questa indeterminatezza e gli conferiscono una moralità che non ha nella sua natura. Così, sebbene l’uomo non sia, in quanto tale, né bianco, né giallo, né nero, è necessario che ogni individuo abbia un colore determinato dalle cause accidentali del temperamento, della nascita o del clima. Ora, tra tutte le circostanze che influenzano le nostre azioni, la principale è quella del fine per cui agiamo. Infatti, la funzione propria della ragione è quella di ordinare la nostra libera attività. Se dunque non ordino la mia azione verso un fine conforme alla ragione, o se la dirigo verso un fine che la ragione disapprova, c’è disordine e di conseguenza un male morale; al contrario, se la ordino verso un fine adeguato, l’ordine razionale è preservato e l’azione, per quanto sia indifferente in sé, diventa buona da un punto di vista morale. Per quanto riguarda gli atti che impediscono ogni nostra deliberazione, come sarebbe un movimento istintivo della mano o del piede, non ci può essere alcun dubbio, poiché non sono nostri. Cfr. S. Thom, 1. 2, q. 18, a. e 9 : de malo, q. 2, a. 5. – (S. Gregorio Magno parla come S. Tommaso su questo argomento. Infatti, egli classifica tra le parole oziose, e di conseguenza riprovevoli, di cui si dovrà rendere conto nel giorno del giudizio, qualsiasi parola che « manchi o della ragione di una giusta necessità, o dell’intenzione di una pia utilità: Otiosum quippe verbum est quod aut ratione justæ necessitatis, aut intentione piæ utilitatis caret ». – Moralia, 1, VIII, c. 17, n. 58. P. L., t. 75. Se, per non essere difettosi, i nostri discorsi e le nostre parole debbano soddisfare questa condizione o qualche altra equivalente, è chiaro che non ce ne sono di indifferenti: perché, suscitati da questi motivi di utilità o di necessità, sono moralmente buoni. – Comunque sia, l’affermazione che si trova in testa a questo capitolo rimarrebbe assolutamente vera anche se si ammettessero gli atti indifferenti, perché attribuisce il merito solo agli atti moralmente buoni. Ciò che sarebbe falso, in questa ipotesi, è il dilemma posto da San Tommaso: in un uomo giusto non c’è atto deliberato che non sia meritorio o demeritorio. Inoltre, le autorità e le ragioni esposte nel presente capitolo sono sufficienti per riconoscere come meritoria qualsiasi azione fatta liberamente, purché non sia un peccato); ma spero di poter mostrare in questo capitolo che questo può essere sostenuto dal suffragio della Sacra Scrittura, dei Padri e degli Autori in cui sia la teologia dogmatica che quella ascetica salutano come i loro più illustri maestri. Cominciamo con i nostri libri Sacri. Non voglio insistere su un’argomentazione di Vasquez e altri, quando sottolineano che la Scrittura promette la ricompensa eterna per le opere più umili e meno esaltanti: dare un bicchiere d’acqua, per esempio. Questa discussione ci porterebbe troppo lontano. Ma come dimenticare l’osservazione così giustamente fatta da Sant’Agostino che, nel loro attuale stato di imperfezione, ci sono due uomini in ciascuno dei figli di adozione: l’uomo vecchio e l’uomo nuovo? Né il Vangelo né gli scritti apostolici ci parlano di un terzo (Si potrebbe dire: se in noi ci sono solo i due uomini di cui hai parlato, allora tutte le azioni sono cattive nel peccatore, poiché l’uomo nuovo non è ancora in lui. Risposta: l’uomo nuovo è in preparazione nella rettitudine della natura, quindi capace di atti buoni, capace anche di ricevere le grazie attuali e di arrivare, se vuole cooperare, alla giustificazione. Pertanto, non tutto in lui è vetustà. Ma non è nemmeno la novità che rende figli adottivi, e serve come base per il merito rigorosamente detto). Ora, l’agire corrisponde all’essere. Quindi, per restare alle azioni che ci competono, ogni opera proviene o dall’uno o dall’altro. Pretenderete che un’azione il cui principio sia la vetustà, possa essere buona, o direte che è possibile agire come figlio di Dio senza meriti davanti al Padre? E se nessuna delle due affermazioni è possibile, cosa vi resta da fare se non confessare con noi ciò che San Tommaso d’Aquino ha appena detto: « Ogni opera di un uomo giusto è o meritoria o demeritoria; oppure, il che equivale alla stessa cosa, non c’è azione moralmente buona dei figli adottivi che non abbia in sé il carattere del vero merito. ». Mi obietterete che gli atti, come quello di dire una parola amabile, di giocare per rilassarsi ed altre cose simili, non siano di quelle che noi consideriamo come qualità di uomo nuovo; io vorrei chiedervi perché tali atti non dovrebbero essere degni della dignità di figli adottivi, o perché, se questa dignità li approva, l’uomo nuovo non dovrebbe esserne il principio e riconoscerli come propri? Inoltre, dovremo mostrare in seguito come queste opere realizzino in sé le condizioni del merito. Per il momento, si tratta solo di provare il fatto con testimonianze autorizzate.
2. – Ascoltiamo ora i Teologi. Torno innanzitutto a San Tommaso, se non altro per mostrare quanto questa dottrina gli stesse a cuore, visto che la ripropone costantemente nelle sue opere. Le questioni sul Male (de Malo), da cui ho preso in prestito i testi già citati, appartengono alla piena maturità del grande Dottore e sono più o meno contemporanee alla Summa Theologica. Ecco come egli si esprimeva nelle opere precedenti: « Nessun atto di virtù politica o civile (Virtus civilis dirigit in omnibus quæ sunt corporis et etiam propter corpus quæruntur. S. Thom, initio huj. art.) non è indifferente; di per sé ha la sua bontà morale, e se è informata dalla grazia, sarà meritoria. Pertanto, non esiste un’azione deliberata della volontà che non sia né buona né cattiva, non solo secondo il teologo, ma anche secondo il filosofo moralista. Inoltre, quando si ha la grazia, ogni opera buona, purché libera, è meritoria. Inoltre, nessuno degli atti che procedono con la deliberazione della volontà è indifferente; ma è necessariamente o buono o cattivo per una malizia o per una bontà civile. Tuttavia, l’atto di bontà naturale può avere la virtù del merito solo in coloro che sono in grazia di Dio. Pertanto, in colui che ne è privo, l’opera è indifferente dal punto di vista del merito e del demerito. Ma per coloro che possiedono la grazia in sé, è necessario che essa sia meritoria o demeritoria: perché se è moralmente buona, è meritoria; se, al contrario, è cattiva, è demerito (S. Thom. in II, D. 40, q. 1, a. 5. ) ». È impossibile, dopo queste affermazioni così categoriche ripetute fino a sazietà, fraintendere il pensiero del Dottore Angelico. Vediamolo in alcune applicazioni. Chiedetevi cosa pensi del piacere che traiamo dal mangiare o dal bere. San Tommaso risponderà che cercarlo senza la giusta moderazione è disordinato e peccaminoso, perché il godimento smodato esclude dalla sua natura il bene della sobrietà ed è quindi un male. Ma un piacere che non arrivi a questo eccesso può essere preso senza colpa, e persino con merito, se si è nell’amicizia di Dio (Id., ibid. – Ecco come, in un altro luogo delle sue opere, lo stesso Santo parli del gioco delle danze: « Il gioco in sé non è cattivo: altrimenti non sarebbe oggetto di quella virtù morale che si chiama Eutrapelia… Può quindi essere un atto virtuoso o vizioso, a seconda del fine perseguito e delle circostanze in cui viene praticato. Perseverare, senza alcun rallentamento negli atti della vita, sia attiva che contemplativa, è una cosa impossibile; da qui la necessità di interrompere di tanto in tanto il lavoro con la ricreazione, affinché la mente non soccomba sotto il peso di una gravità troppo costante e possa dedicarsi con più slancio alle opere delle virtù. Giocare con questa intenzione, a patto che non comporti circostanze negative, è fare un atto di virtù; è anche meritare, se il divertimento è informato dalla grazia (santificante). – « Ora, quando si tratta di danze, queste sono le circostanze che sembrano essere richieste: che la persona non sia una persona per la quale tale svago sarebbe improprio, ad esempio un chierico o un religioso; che il momento sia di gioia, come quello di una vittoria, di un matrimonio o di una festa simile; e infine, che ci siano solo persone oneste, canti adatti, e nessun gesto o azione troppo libera. Perché l’atto sarebbe vizioso se favorisse le cattive passioni… ». S. Thom. in cap. III Isaiæ, ad fin. Stessa dottrina e stessi principi sull’ornamento delle donne, come si può vedere nello stesso commento al capitolo di Isaia). – Anche gli atti che per loro natura sembrerebbero i più ribelli al merito, come i rapporti più intimi tra coniugi, sono ricondotti dal Dottore angelico alla legge comune (S. Thom. IV, D. 24, q. 1, a. 4; Suppl. q. 41, a. 4). – Dopo questi testi così formali, ci si stupirebbe se non si trovassero gli stessi pensieri nei teologi che, nell’ordine del grande teologo o al di fuori di esso, sono più strettamente legati alla sua dottrina. Nulla è più frequente che trovarli nei loro scritti. E, per citare solo i principali: questo è il sentimento esplicito di Capréolus, Cajetan, Medina, Domenico Soto, Déza, dei Carmelitani di Salamanca, di Gabriel Vasquez, di Gregorio di Valencia e di Bécan, a cui si potrebbero aggiungere molti altri nomi, come quelli di Ripalda, Gonet, Gregorio Martinez, Zumel, ecc, (II, D. 40, q. 4, a. 4; Cajet. in 1, 2, q. 8, a. 8; Medina in 1.2, q. 18, a. 9: Dom. Solo, de nat. et grat, I. III, c. 4; Deza, II, D. 40; Salmant, Tract. XVI, D. 4, dub. 5; Greg. a Valent. in 1, 2. D. 8, q. 6, p. 3: Becan, 2′ p. Summaæ, Tr. V, c. 4, q. 1. n. 13; Vasquez tn 1, 2. D. 217, c. 2 e 3. È la tesi sostenuta da quest’ultimo teologo: « Omnia bona opera justorum meritoria esse vitæ æternæ, ex Scripturis et Patribus probatur. ». Ciò che impedisce che sia identico a quello di San Tommaso è che Vasquez, in questo concordando con San Bonaventura, ammette come più probabile che ci siano nell’uomo alcuni atti, anche deliberati, che di fatto siano indifferenti o possano esserlo, come mangiare, bere, camminare. Per il resto, egli ritiene che ogni atto moralmente buono sia meritorio per un uomo giusto. Vasq. In I, II, D. 52, c. 3; col. D. 217, c. 2. n. 9). Non basterebbero le pagine se si tentasse di riportare tutte le loro testimonianze. Eccone due, che vi illustrerò a titolo di esempio. Il primo è Domenico Soto che, come tutti gli altri, formula il grande principio di San Tommaso d’Aquino, e che aggiunge queste notevoli parole: « L’ipotesi immaginata da alcuni, secondo la quale un’opera potrebbe procedere da un uomo in uno stato emanante di grazia, è per me inverosimile, a meno che, tuttavia, non si parli di peccati veniali; perché se l’opera è moralmente buona, e procede da uno che abbia la grazia, per questo stesso fatto emana virtualmente dalla grazia » (Dom. Soto, l. c.). – Prendo in prestito l’altra testimonianza di Gregorio di Valencia. Dopo aver stabilito alcuni principi e confutato le opinioni contrarie, conclude in questi termini: « Ne consegue che nessuna opera di un Cristiano giustificato sia indifferente rispetto al merito o al demerito. Moralmente buono, è meritorio: per il fatto stesso di essere l’atto di un uomo giusto, esso è virtualmente legato a Dio. Se cattivo, è ovviamente demeritevole. Perciò i sostenitori del sentimento opposto si sbagliano quando insegnano, secondo i loro principi, che in un uomo giusto possano esserci azioni né meritorie né demeritorie; tanto più che non forniscono alcun argomento di un qualche valore » (Greg. De. Valent. L. c.).
3. – Tutti questi teologi si appellano all’autorità del Dottore Angelico; ma quelli della Compagnia di Gesù possono anche invocare quella del loro Santo fondatore. Si conosce questo libro immortale degli Esercizi Spirituali di un’ortodossia così pura, così meravigliosamente efficace per la santificazione delle anime, esaltato dai più grandi Santi e formalmente approvato dalla Chiesa. Ora questo libro contiene nel modo più chiaro e inequivocabile la dottrina che abbiamo appena esposto. Infatti, se lo apro alla pagina in cui il Santo patriarca tratta dell’esame generale di coscienza, ecco cosa leggo a proposito dei peccati di parola: « Non si deve pronunciare nessuna parola oziosa. Per parola oziosa intendo quella che non sia utile né a noi stessi né agli altri, o che non sia finalizzata a questo fine. Quando, quindi, tutte le volte che le nostre parole risultino, o almeno lo intendiamo, utili per la nostra anima o per quella del nostro prossimo, per il nostro corpo o per i nostri beni temporali, esse non sono parole oziose, anche se parliamo di cose estranee alla nostra professione, come se i religiosi parlassero di guerra o di commercio. Ma, in generale, ogni parola ben ordinata è meritoria; e ogni parola vana o mal diretta è peccato » (Exercitia spirit., S. P. Ignatii de Loyola, I hebdom. Exam. Consc. Gen.). Ascoltiamo e comprendiamo. Si entra in una conversazione: se il discorso tende ad un fine ragionevole, è merito; se, al contrario, non ha un fine riconoscibile dalla ragione o dalla fede, è peccato. Non esiste quindi una via di mezzo tra discorsi oziosi e non, tra discorsi meritori e discorsi più o meno peccaminosi. Sant’Ignazio presuppone evidentemente che l’uomo di cui regola il linguaggio sia un amico di Dio; così come è evidente che la sua dottrina, mirando esplicitamente alle parole, vada oltre e si riferisca in generale ad ogni azione deliberata. – Non avevo forse ragione nell’appellarmi agli autori ascetici? Il venerabile Luigi di Granada, che nel XVI secolo fu uno dei maestri più affidabili nella scienza dei santi e gloria dell’Ordine di San Domenico, sosteneva in modo assoluto la stessa dottrina. In uno dei suoi trattati spirituali enumera gli incomparabili vantaggi della grazia santificante: « Un altro effetto di questa grazia – scrive – è quello di rendere l’uomo così caro a Dio e di così alta dignità ai suoi occhi, che ogni azione deliberata che compie, a meno che non sia peccaminosa, gli sia gradita e meriti la vita eterna. Perciò non solo le virtù, ma anche le opere naturali, come il mangiare, il bere, il dormire, ecc. sono gradite a Dio e sono meritorie del bene sovrano, perché il soggetto non sarebbe gradito a Dio, senza che tutto ciò egli che fa non sia oggetto di piacere e di merito davanti a Dio, purché non sia un male » (L. de Granada, La guida dei peccatori, L. I, c. 14; Obras, t. 1, p. 66 Barcelona, 1584). – Mi rimprovererei se dovessi omettere un’altra testimonianza molto preziosa, quella di un grande dottore e di un grande maestro di vita spirituale: San Francesco di Sales. Il suo trattato sull’Amore di Dio contiene intere pagine destinate a far luce su questa consolante dottrina. In attesa di trovare l’opportunità di entrare più a fondo nel suo pensiero, riporto almeno alcuni passaggi che ce lo rivelano in modo piuttosto evidente. « Tutto ciò che fate, qualsiasi cosa facciate in parole e opere, fatelo nel nome di Gesù Cristo. Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto a gloria di Dio » (Col. III, 17; 1 Cor. X, 31). Queste sono le parole del divino Apostolo che, come dice il grande San Tommaso spiegandole, sono sufficientemente praticate quando siamo abituati alla santissima carità, con cui, pur non avendo un’intenzione espressa ed attenta, è comunque contenuta nell’unione e nella comunione che abbiamo con Dio, per cui tutto ciò che possiamo fare di buono è dedicato con noi alla sua divina bontà. Non c’è bisogno che un figlio, che viva nella casa e nel potere del padre, dichiari che ciò che acquista sia di suo padre: poiché la sua persona appartenendo al padre, anche tutto ciò che dipende da essa gli appartiene. Basta così che noi siamo figli di Dio per dilezione, perché tutto ciò che facciamo sia interamente destinato alla sua gloria… ». (S. Franc. de Sales, Trattato dell’amore di Dio, L. XII, c. 8). Quindi, secondo la testimonianza del Santo, per il fatto stesso che la carità regni in un’anima, cioè che quest’anima possieda la grazia da cui scaturisce la carità, come un ramo dal tronco, le nostre buone opere, andando alla gloria di Dio, sono meritorie. Il Santo riconosce che nessuna azione virtuosa possa diventare un vero merito, se non è vivificata dalla carità. Ma, aggiunge, « le azioni virtuose (noi sappiamo cosa intenda San Francesco di Sales per azioni virtuose. Ce lo ha detto più in alto: è « tutto ciò che possiamo fare di buono », cioè ogni opera moralmente buona. Non ce n’è una sola, infatti, che non si riferisca a qualche virtù, per quanto piccola e insignificante possa sembrare), dei figli di Dio appartengono tutte alla dilezione sacra: le une, perché le produce per sua natura; le altre, in quanto le santifica con la sua presenza vitale; altre, infine, per l’autorità ed il comando che esercita sulle altre virtù, da cui essa le fa nascere. E queste, non essendo in verità così eminenti in dignità come le azioni propriamente e immediatamente derivate dalla dilezione, eccellono anche incomparabilmente al di sopra delle azioni che hanno tutta la loro santità dalla sola presenza e società della carità » . Poche righe più avanti, dopo un paragone che mette in ottima luce il suo pensiero, il Santo Dottore continua: « Se infine alcune virtù compiono le loro operazioni senza il suo comandamento (il comandamento della carità), purché servano alla sua intenzione, che è l’onore di Dio, essa non manca di riconoscerle come proprie » (S. Franc. De Sales, Trattato dell’Amore di Dio, L, XI, c. 4; col. C. 2).
4. – Ho detto che questo era anche il sentimento dei Padri. Non ne riporterò che una prova: questa è di S, Agostino. Egli spiegava familiarmente l’ultimo versetto del Salmo XXXIV al suo popolo: « Allora, Signore, la mia lingua mediterà la tua giustizia e tutto il giorno proclamerà la tua lode. » – « E quale lingua – egli si chiede – può dichiarare la lode di Dio tutto il giorno? Ora sto andando un po’ oltre i limiti ordinari del mio discorso, e vedo che siete già stanchi. Chi dunque, vi chiedo ancora, può meditare e celebrare la lode di Dio tutto il giorno? Ascoltatemi; io vi dirò come lodare Dio, tutto il giorno, se lo desiderate. Qualsiasi cosa facciate, fatela bene e avrete lodato Dio. Se cantate un inno, voi lodate Dio: perché, suppongo, c’è accordo tra il vostro cuore e la vostra lingua. Interrompete il canto per consumare il vostro pasto; evitate l’intemperanza (dice: non ubriacatevi) e voi avrete lodato Dio. Voi vi ritirate per godervi il riposo del sonno; guardatevi dal fare il male, e voi avrete lodato Dio. Se voi commerciate, sena frode e senza inganno, voi lodate Dio. Se siete un contadino, non litigate con i vostri vicini né con i vostri domestici, vivete in pace e avrete comunque lodato Dio. Ecco come, per tutto il giorno, l’innocenza delle vostre opere sarà la lode di Dio » (S. August. Enarr. 2, in Ps. XXXIV, v, 16). Nessuno negherà, credo, che la lode di Dio sia meritoria per un uomo giusto. Pertanto, poiché ogni azione moralmente buona è una lode a Dio, il Dottore della grazia la considera meritoria. – E così la teologia dogmatica, ascetica e morale, gli studiosi, i Dottori e i Santi, si riuniscono attraverso lo spazio ed il tempo in una dottrina comune, e affermano che laddove il figlio di Dio, nell’esercizio della sua libertà, non offende suo Padre, acquista da Lui nuovi meriti; in altri termini, egli crede per il presente nella grazia, e per il futuro, nella gloria.