IL SACRO CUORE DI GESÙ (59)

IL SACRO CUORE (59)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “V,ita e Pensiero, 1919]

PARTE TERZA.

Sviluppo storico della divozione.

CAPITOLO SESTO

MARGHERITA MARIA E I SUOI PRIMI COLLABORATORI

III. – STATO DELLA DIVOZIONE ALLA MORTE DI MARGHERITA MARIA

Le rivelazioni del 1688 e del 1689 (messaggio del re, missione affidata alla Visitazione e alla Compagnia di Gesù) aprirono un campo più vasto all’apostolato della santa e la spinsero ad estendere la cerchia delle sue relazioni. Ella si adoperava con un’attività incredibile per la sua cara divozione. Ella non era più in rapporto soltanto con le sue sorelle in religione. Da tutte le parti le scrivevano, andavano a vederla, e, malgrado la sua ripugnanza, ella andava al parlatorio, moltiplicava le sue lettere. Qual gioia, in compenso, quando ella sapeva qualche nuovo progresso della divozione! A Digione, l’autorità diocesana, alla quale Roma aveva rinviata la pratica, accorda alle Visitandine la festa desiderata, e il primo venerdì del febbraio del 1689, ottava di S. Francesco di Sales, vi si canta solennemente l’Ufficio e la Messa di suor Joly. Alcuni Gesuiti, per la maggior parte amici o figli spirituali del Padre de la Colombière, si accendevano di entusiasmo per la nuova divozione, l’ispiravano ai loro allievi, ne parlavano ad ogni occasione; a Lione, a Marsiglia soprattutto, era quasi un’esagerazione. Le ultime lettere della santa sono piene di particolari interessanti a questo proposito. La vediamo ella stessa tutta occupata a scrivere libri da divulgare. Il libretto di Moulins non basta più, né quello di suor Joly. Questo è riveduto dal P. Croiset, che lo pubblica a Lione, aumentandolo. Le edizioni andavano a ruba come le immagini. Sotto l’influenza della santa, il P. Froment, che era a Paray, incominciò un libro sul sacro Cuore: il P. Croiset pure si mise all’opera; emulazione inconscia che mise però la santa in qualche imbarazzo. Del P. Croiset e del suo libro essa si interessa di più. Si ha, almeno in buona parte, la sua corrispondenza con lui su questo soggetto. Ella suggeriva delle idee, dava, per quanto le costasse, i particolari necessari sulle origini della divozione; leggeva il manoscritto a misura che andava avanti. Ella aveva trovato nel P. Croiset come un secondo P. de la Colombière, non tanto per la divozione dell’anima sua, quanto per l’apostolato del sacro Cuore. Lei sola, così diceva, metteva ostacolo alla divozione; era meglio che morisse. Era vero, benché in un senso differente dal suo. Mentre ella era viva, non si poteva dire tutto. Il 17 ottobre, senza che si fossero decisi a crederla seriamente malata, ella, in un atto di amore, « si inabissò nel sacro Cuore ». Il libro del P. Croiset (seconda edizione) era quasi finito (Il P. Croiset dà il suo libro del 169: come una seconda edizione, perché egli lo riguarda come sostanzialmente identico a quello del 1689, col quale egli sviluppava e aumentava il libretto di suor Joly.). Egli aggiunse in fretta un Compendio della vita di una religiosa della Visitazione della quale Dio si è servito per stabilire la divozione al sacro Cuore di Gesù Cristo, morta in odore di santità il 17 ottobre dell’anno 1690; vi inserì, con i documenti forniti dalla Visitazione, lunghi estratti delle lettere che aveva ricevuto da lei e l’opera fu pubblicata a Lione nel 1691. – Si indovina quanto la divozione vi guadagnò. Prima di continuare la storia, vediamo rapidamente a che punto essa era quando la santa morì. Essa era costituita nella sua parte intima. Molto precisa e nello stesso tempo molto larga, riuniva tutti gli elementi esistenti, e li orientava verso una nuova meta ben chiara, l’amore reciproco e riparatore. Essa aveva le sue pratiche principali: tutte quelle del passato vi si incorporavano senza difficoltà, le nuove erano semplici e poco numerose. Esistevano dei libretti che aiutavano la fusione e aggruppavano, accanto agli esercizî antichi, le nuove preghiere. Ma più che un insieme di pratiche, più che una raccolta di esercizi antichi, o nuovi era uno spirito, tutta una spiritualità d’amore, tenera e forte insieme, per Gesù amante amabilissimo. Essa era accettata in diversi monasteri della Visitazione e risplendeva al di fuori in diverse città di Francia. Altrove era un po’ mescolata talvolta alla divozione del P. Eudes, che essa stava per assorbire; e, se Roma, sollecitata fin dal 1687, non aveva accordato né la Messa, né l’Ufficio, né la festa, aveva però rinviata la causa agli OrdinarI; e gli Ordinarî, a Langres per esempio, avevano fatto buona accoglienza. Alcune cappelle esistevano presso le Visitandine o altrove, le immagini e i quadri erano diffusi, i libretti in voga. Alcuni predicatori ne parlavano per raccomandarla. Il fuoco sacro era acceso in alcune anime ardenti; in due comunità il fiore delle religiose riguardava come un dovere del loro stato il propagarla. Si preparavano libri che l’avrebbero spiegata chiaramente e avrebbero detto delle sue origini celesti. Infine, la grazia di Dio era con i suoi apostoli e la trasformazione visibile che essa operava entrando; nelle anime o nelle comunità, aggiungeva una testimonianza viva alla parola e al libro. Morendo Margherita Maria lasciava la divozione viva, vitale, piena di avvenire. – Ma c’erano ostacoli formidabili. La Visione, come corpo, e la Compagnia di Gesù non erano conquistate alla nuova divozione. Le contraddizioni che dovettero subire Margherita Maria e il P. de la Colmbière non dovevano cedere tanto presto. Al di fuori i Giansenisti, che avevano già gridato tanto contro il P. Eudes, non erano pronti a disarmare davanti a Margherita Maria E ai Gesuiti. Roma in fine aspettava, secondo la sua abitudine, e osservava; essa non era ostile, ma non era neppure conquistata.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (5)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (5)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO II

LA VITA IN GESÙ CRISTO

1. Il Corpo Mistico

Si è già accennato a Gesù Cristo nostro Signore come a capo del genere umano, e al suo Corpo mistico al quale tutti i Cristiani sono incorporati. Ma questa espressione, del Corpo mistico, va studiata particolarmente per poter arrivare a meglio comprendere la vita spirituale e la Chiesa Madre secondo i Cattolici. Poiché per essi il Corpo mistico è assai più che una metafora, assai più che una felice espressione dei nostri rapporti con Gesù Cristo nostro Signore. Alcune parole di Lui, spesso ripetute, e altre di chi, come S. Paolo o S. Pietro, fu tra i suoi migliori interpreti non possono lasciarci alcun dubbio che questa incorporazione non sia in un certo senso una realtà. Il Corpo mistico del quale Cristo è il capo e i suoi seguaci sono le membra ha un’esistenza vera viva e vitale i cui frutti sono visibili sia nell’anima di ogni Cattolico che nel mondo circostante. – Possiamo innanzi tutto considerare l’insegnamento di Cristo stesso. E qui notiamo che nello studiare le parole di Lui, in questo caso come in altri, non cerchiamo tanto l’interpretazione letterale, quanto il pensiero che le dettò. A considerarle isolatamente è facile esagerarne o attenuarne la portata, ma raggruppandole e confrontandole possiamo sperare ch’esse ci diano il substrato del suo pensiero, vale a dire quanto maggiormente ci interessa. Incominciamo dall’ultimo episodio sul pendio del monte Oliveto, quando la predicazione di Gesù era ormai terminata ed Egli la concluse preannunciando ai dodici la fine del mondo e il giudizio universale. I giusti saranno separati dagli empi e riceveranno il premio: “Venite, benedetti dal Padre mio”, perché lo hanno servito. “Perchè ebbi fame e mi rifocillaste;. Ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e mi ricoveraste; ignudo, e mi copriste; infermo, e mi visitaste; carcerato, e veniste da me”. (Matt. XXV, 35, 36). – I giusti chiederanno quando mai fecero a Lui tali cose, quando mai lo videro in quelle condizioni, ed Egli risponderà: « In verità vi dico: quante volte avete fatto qualche cosa a uno di questi minimi tra i miei fratelli l’avete fatto a me ». (Matt. XXV, 40). Sono forti parole che aprono un nuovo orizzonte sulle relazioni fra uomo e uomo, fra il beneficato e il benefattore, e li pongono sopra un piano affatto nuovo. Anche se considerate isolatamente, esse significano, né più né meno, che Cristo ritiene fatto a se stesso ogni atto di bontà compiuto verso il povero e il sofferente, ed è già cosa meravigliosa che basta a dare un significato nuovo alla carità. Ma se riavviciniamo quelle parole ad altre pronunciate da Cristo in occasioni diverse, vi scorgiamo facilmente un’importanza ancor maggiore, un’intenzione che va più lontano. Disse un giorno Gesù ai dodici a parte: « Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me ». E non fu mai più esplicito che nel discorso dell’ultima cena, in cui diede ai suoi discepoli quello che chiamò “un comandamento nuovo”. “Vi dò un nuovo comandamento, d’amarvi scambievolmente; amatevi l’un l’altro così come Io v’ho amato ». (Giov. XIII, 34). È molto più di quanto finora fosse stato detto, molto più del precetto generale che ci impone di amare il nostro prossimo come noi stessi. ,Questo precetto ci offre a modello lo stesso amore disinteressato che ridusse Cristo ad annientarsi per amore di noi. Amare il mio prossimo come me stesso è una cosa, amarlo come mi ha amato Cristo è ben altro, poiché Egli mi ama assai più di quanto io non ami me stesso, ha fatto per me assai più di quanto io abbia mai fatto o mai possa fare. Mi domanda un amore per gli altri superiore a quello che da me posso dare: vuole ch’io li ami col suo stesso amore. Ma subito, per mostrarmi dove troverò il mezzo di fare l’impossibile e per metterlo alla mia portata, Cristo fa la nota similitudine. « Rimanete in me, e io in voi. Come il tralcio non può da sé dar frutto, se non rimane nella vite, così nemmeno voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Se uno rimane in me e Io in lui, questo porta molto frutto; perché senza me non potete far niente…. Come il Padre ha amato me, così ho amato voi. Perseverate nell’amor mio”. (Giov. XV: 1,9). Così ci rende possibile l’osservanza del suo “comandamento nuovo”. Dobbiamo amare il nostro prossimo non solo come noi stessi ma come ci ama Cristo, e, cosa ancor più sublime, come Cristo è amato dal Padre. “Come il Padre ha amato me, così Io vi ho amato. Come io vi ho amato, amatevi l’un l’altro”. Cosa impossibile alle nostre povere forze; possibile solo se “rimaniamo in Lui*, se “rimaniamo nell’amor suo”, se amiamo col suo amore, se viviamo della sua vita. – In una maniera mistica, ma non per questo meno reale, altrimenti le parole ora citate non significherebbero più nulla, noi siamo uniti a Gesù Cristo, al Verbo Incarnato, all’Uomo-Dio, così che la sua vita e il suo amore diventan nostri. Come il tralcio è unito alla vite e fatto con essa una cosa sola, come la vita di questa diventa la vita di quello, così noi siamo uniti a Lui, con questo risultato, che mentre da noi soli nulla potremmo, ora, uniti a Lui, possiamo fare ciò che fa Cristo stesso. “Il Verbo si fece carne e abitò noi…. pieno di grazia e di verità… e della pienezza di Lui tutti abbiamo ricevuto”, (Giov. I, 14, 16) non solo nella elargizione di un dono, come da amico ad amico, ma per una vera e propria comunicazione di vita. E non solo di vita, ma anche di ciò che la contiene, che è il corpo: se facciamo una sola vita con Cristo, faremo anche un corpo solo con Lui. Siamo incorporati a Cristo, siamo membri di quell’organismo di cui Egli è il capo; in un senso affatto nuovo, ma altrettanto reale, in Lui “viviamo e ci muoviamo e abbiamo il nostro essere”; viviamo, non più noi, ma Egli vive in noi; portiamo sul nostro corpo le stimmate di Cristo. – E sullo stesso concetto il Signore insiste nella solenne preghiera con cui termina l’ultima cena. Prima domanda che ai suoi venga concessa la vita eterna, e dicendo “i suoi” fa capire che non intende solo gli Apostoli ma anche i loro discepoli, tutti i Cristiani, tutti i credenti in Lui, sino alla fine del mondo; poi prega il Padre così: “Né soltanto prego per questi, ma anche per quelli i quali per la loro parola crederanno in me, che siano tutti uno, come tu sei in me, Padre, e Io in te: siano anch’essi uno in noi, sicché creda il mondo che tu m’hai mandato. E la gloria che tu mi desti io ho data ad essi, affinché siano uno come uno siamo noi. Io in essi, tu in me; affinché siano perfetti nell’unità, me affinché conosca il mondo che tu mi mandasti e amasti essi come amasti me”. (Giov. XVII, 20, 23). “Come Tu, Padre, in me ed Io in Te”. “Affinché siano uno in noi”. “ Affinché siano uno come uno siamo noi”. “Affinché siano perfetti nell’unità”. Affinché questa perfezione nell’unità convinca il mondo “che Tu mi mandasti, e che amasti essi come amasti me”. Non si tratta qui di una semplice metafora; non è il solito linguaggio iperbolico dell’amore, ma qualche cosa di più, assai di più; ha troppo l’accento della verità ed è concetto ripetuto con troppo calore e con troppa insistenza per poter essere l’invenzione di uno scrittore umano. – È un insegnamento positivo, ripetuto perché non venga frainteso, è come l’idea fissa nella mente e nel cuore di Cristo al momento cruciale della sua vita; e l’unione di cui parla è arditamente paragonata all’unità che esiste tra Dio Padre e Dio Figlio, “come Tu ed io siamo uno”. Due persone, eppure un Dio solo; due persone: Cristo e me, eppure una sola vita, un corpo solo che è il corpo stesso di Cristo. Tutti possiamo affermarlo, ogni vero credente e fedele seguace di Cristo può vantare questo privilegio; perciò in Lui, fatti membri del suo unico corpo, tralci eguali di una stessa vite, ricevendo ciascuno da Lui la medesima vita, noi siamo membri l’uno dell’altro. Siamo amati dal Padre precisamente come ne è amato Cristo, perché siamo il suo corpo, apparteniamo alla famiglia del Padre quali coeredi di Cristo, veniamo innalzati a una dignità che dà un significato nuovo alla vita e alla creazione tutta. Siamo nobilitati, e perciò invitati e impegnati a sforzarci di vivere all’altezza di tale onore, rendendoci migliori. Comprendiamo meglio ormai perché Cristo ci pose dinanzi fin dal principio della sua predicazione, con espressione ardita, un modello che sembrava irraggiungibile: “Siate dunque perfetti com’è perfetto il Padre vostro nei cieli”. (Matt. V, 48). Così la dottrina dell’unione mistica, ma non perciò meno reale, del fedele con Cristo è parte essenziale dell’insegnamento di Lui. San Paolo se la appropria e ne fa la base di tutto il suo sistema, la considera fulcro del Cristianesimo e della vera Chiesa. – Per lui, più che un’organizzazione, la Chiesa è un organismo; più che una istituzione, è una cosa viva; e quanto più esperto diviene delle vie di Dio e della vita umana, tanto più l’Apostolo insiste su questo concetto. È degno di nota ch’egli lo intuì fin dall’istante della conversione, come risulta — e sempre con maggior evidenza — da ciascuna delle tre narrazioni che ce ne rimangono. Saul fu gettato a terra tramortito e la voce che udì non diceva: “Perché perseguiti i miei fedeli?” ma: “Perché mi perseguiti?” E quando Saul chiese chi parlasse, la risposta fu: “Io sono Gesù che tu perseguiti”. (Atti, IX, 9). Saul non dimenticò più la lezione implicita in quelle parole; si direbbe anzi che ne facesse soggetto speciale di meditazione per tutta la vita, di modo che sempre meglio ne penetrò la portata e le conseguenze. Esser cristiano voleva dire essere una cosa sola con Cristo; esser membro della Chiesa significava esser membro di quel corpo vivo di cui Cristo era il capo. Con ciò è detto quasi tutto quel ch’è necessario per comprendere l’anima del grande Apostolo dei Gentili. Così scrive a quei di Corinto, tuttora incerti, che pare non abbiano ancora afferrato la necessità dell’unione fra loro: “Come il corpo è uno e ha molte membra e tutte le membra del corpo pur essendo molte il corpo è uno, così anche Cristo. Poiché noi tutti, sia Giudei sia Gentili, sia schiavi sia liberi, in unico Spirito siamo stati battezzati sì da formare un corpo solo e tutti siamo stati imbevuti di unico spirito. Anche il nostro corpo non è un membro solo, ma molte membra….. Orbene, voi siete corpo di Cristo e partitamente siete membra di esso ». (I Cor. XII, 12, 27). – E il suo pensiero si fa ancora più esplicito in seguito, nell’Epistola agli Efesini. Qui è bene rilevare la diversità fra le circostanze di queste due lettere. In quella ai Corinti trattava con dei Cristiani non completamente formati, ed egli stesso non aveva ancora trovato le parole atte ad esprimere perfettamente la verità che pur possedeva. Nell’Epistola agli Efesini, invece, si rivolge a dei fedeli conosciuti fin dall’inizio del suo apostolato. Non può dubitare della loro costanza ed è egli stesso ben certo ormai di poter dar loro il meglio della sua dottrina senza pericolo di venir frainteso: tutta l’Epistola vibra della commozione di un cuore profondamente affezionato, ansioso di far parte a chi tanto ama del più e del meglio di quanto possiede. E bisogna notare inoltre che, nel frattempo, Paolo ha vissuto parecchi anni di prigionia. Molte e lunghe ore di silenzio gli hanno permesso di meditare a suo agio sulla visione avuta, osservando lo sviluppo di quell’organismo vivo che si è diffuso tutt’intorno all’Impero romano non per effetto di organizzazione e di sistema, ma precisamente come un albero che cresce in virtù di una sua forza interna. E l’Apostolo ha finalmente trovato parole tali da poter esprimere con sufficiente efficacia i suoi pensieri. Perciò in questa Epistola non descrive più il Corpo mistico solo come un vincolo magnifico di unità, ma come una consumazione, una meta accessibile anche in questo mondo, un modello, un ideale che, raggiunto, costituisce la sua stessa ricompensa ed è l’uomo perfetto. Scrive così: “Io dunque vi esorto, io, il carcerato nel Signore, di condurvi in modo degno della chiamata che avete ricevuto, con tutta umiltà e mansuetudine e con longanimità, tollerandovi a vicenda con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace: un corpo solo, un solo spirito, come in unica speranza siete stati chiamati. Uno è il Signore, una la fede, uno il battesimo, uno Iddio e Padre di tutti, Colui che è sopra tutti e per tutti e in tutti”, (Efes. IV, 1, 6). – Questo è l’ideale; come raggiungerlo? Lo dice chiaramente il seguito dell’Epistola. Con “l’edificazione del corpo di Cristo, fino a tanto che ci riuniamo tutti nell’unità della fede e nel riconoscimento del Figlio di Dio, giungendo alla maturità d’uomo fatto, alla misura di età della pienezza di Cristo; affinché non siamo più dei bambini sballottati e portati via da ogni vento di dottrina…. Ma seguendo il vero con amore, progrediamo in tutto verso di Lui ch’è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo ben composto e connesso per l’utile concatenazione delle articolazioni, efficacemente, nella misura di ciascuna delle sue parti, compie il suo sviluppo per l’edificazione di se stesso nell’amore” (Efes. IV, 12, 16). – A questo modo San Paolo sviluppa il pensiero enunciato in un capitolo precedente, quando ha detto di Nostro Signore: “E tutta pose sotto i suoi piedi e Lui costituì capo supremo alla Chiesa che è il corpo di Lui, il complemento di Colui che tutto completa in tutti”. (Efes. I, 22, 23). Tutto ciò è abbastanza esplicito. Per San Paolo, e per la Chiesa tutta che gli era umita, oltre al Cristo storico che ha vissuto i suoi trentatrè anni su questa terra ed è morto, c’è anche un Cristo mistico, identico al primo eppure distinto, (come son deboli le parole e le idee umane quando si tratta di esprimere il soprannaturale!) che continua nel mondo, vivo fra gli uomini e negli uomini, un Cristo con un capo, un’anima, delle membra che formano tutte insieme un unico corpo vivente spirituale. “Benedetto Iddio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, il quale ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale, celeste, in Cristo, in quanto ci ha eletti in Lui, “prima della fondazione del mondo, a esser santi e irreprensibili nel suo cospetto, per amore avendoci predestinati a esser figli suoi adottivi per mezzo di Gesù Cristo, secondo la benignità del suo volere, sì che ciò torni a lode della gloriosa manifestazione della grazia sua, di cui ci fece dono nel suo diletto Figliolo”. (Efes. I, 3-6).

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (6)

2 NOVEMBRE (2022): MESSE PER I DEFUNTI

MESSA PER I DEFUNTI (2022)

Commemorazione di tutti i Fedeli Defunti.

Doppio. – Paramenti neri.

Alla festa di tutti i Santi è intimamente legato il ricordo delle anime sante che, pur confermate in grazia, sono trattenute temporaneamente in « Purgatorio » per purificarsi dalle colpe veniali ed « espiare » le pene temporali dovute per il peccato. Perciò, dopo aver celebrato nella gioia la gloria dei Santi, che costituiscono la Chiesa trionfante, la Chiesa militante estende le sua materna sollecitudine anche a quel luogo di indicibili tormenti, ove sono prigioniere le anime che costituiscono la Chiesa purgante. Dice il Martirologio Romano: « In questo giorno si fa la commemorazione di tutti i fedeli defunti; nella quale commemorazione la Chiesa, pia Madre comune, dopo essersi adoperata a celebrare con degne lodi tutti i suoi figli che già esultano in cielo, tosto si affretta a sollevare con validi suffragi, presso il Cristo, suo Signore e Sposo, tutti gli altri suoi figli che gemono ancora nel Purgatorio, affinché possano quanto prima pervenire al consorzio dei cittadini beati ». E questo il momento in cui la liturgia della Chiesa afferma vigorosamente la misteriosa unione esistente fra la Chiesa trionfante, militante e purgante, e mai come oggi si adempie in modo tangibile, il duplice dovere di carità e di giustizia che deriva, per ciascun cristiano, dalla sua incorporazione al corpo mistico di Cristo. Per il dogma della « Comunione dei Santi» i meriti e i suffragi acquistati dagli uni possono essere applicati agli altri. In questi modo, senza ledere gli imprescrittibili diritti della divina giustizia, che sono rigorosamente applicati a tutti nella vita futura, la Chiesa può unire la sua preghiera a quella del cielo e supplire a ciò che manca alle anime del Purgatorio, offrendo a Dio per loro, per mezzo della S. Messa, delle indulgenze, delle elemosine e dei sacrifizi dei fedeli, i meriti sovrabbondanti della Passione del Cristo e delle membra del suo mistico corpo. – Con la liturgia che ha il suo centro nel Sacrificio del Calvario, rinnovantesi continuamente sull’altare, è sempre stato il mezzo principale impiegato dalla Chiesa, per applicare ai defunti la grande legge della Carità, che comanda di soccorrere il prossimo nelle sue necessità, così come vorremmo esser soccorsi noi, se ci trovassimo negli stessi bisogni. – Forse la liturgia dei defunti è la più bella e consolante di tutte, ogni giorno, al termine d’ogni ora del Dìvin Ufficio sono raccomandate alla misericordia di Dio le anime dei fedeli defunti. Al Suscipe nella Messa, il sacerdote offre il Sacrificio per i vivi e per i morti; e a uno speciale Memento egli prega il Signore di ricordarsi dei suoi servi e delle sue serve che si sono addormentati nel Cristo e di accordar loro il luogo della consolazione, della luce e della pace. – Già fin dal V secolo si celebrano Messe per i defunti. Ma la Commemorazione generale di tutti i fedeli defunti si deve a S. Odilone, quarto Abate del celebre monastero benedettino di Cluny. Egli l’istituì nel 998 fissandola per il giorno dopo la festa di Ognissanti (In seguito a questa istituzione, la S. Sede accordò un’indulgenza plenaria toties quotìes alle medesime condizioni che per il 2 agosto, applicabile ai fedeli defunti il giorno della Commemorazione dei morti, a’ tutti quelli che visiteranno una Chiesa, dal mezzogiorno di Ognissanti alla mezzanotte del giorno dopo e pregheranno secondo le intenzioni del Sommo Pontefice. — ). L’influenza di questa illustre Congregazione fece sì che si adottasse presto quest’uso da tutta la Chiesa e che questo giorno stesso fosse talvolta considerato come festivo. Nella Spagna e nel Portogallo, come anche nell’America del Sud, che fu un tempo soggetta a questi Stati, per un privilegio accordato da Benedetto XIV in questo giorno i sacerdoti celebravano tre Messe. Un decreto di Benedetto XV del 10 agosto 1915 estese ai sacerdoti del mondo intero questa autorizzazione. Pio XI con decreto 31 ottobre 1934 concesse che durante l’Ottava tutte le Messe celebrate da qualunque Sacerdote siano ritenute come privilegiate per l’anima del defunto per il quale vengono applicate. La Chiesa, in un’Epistola, tratta da S. Paolo, ci ricorda che i morti risusciteranno, e ci invita a sperare, perché in quel giorno tutti ci ritroveremo nel Signore. La Sequenza descrive in modo avvincente il giudizio finale; nel quale i buoni saranno eternamente divisi dai malvagi. – L’Offertorio ci richiama al pensiero S. Michele, che introduce le anime nel Cielo, perché, dicono le preghiere per la raccomandazione dell’anima, egli è il « capo della milizia celeste », nella quale gli uomini sono chiamati ad occupare il posto degli angeli caduti. – « Le anime del purgatorio sono aiutate dai suffragi dei fedeli, e principalmente dal sacrificio della Messa » dice il Concilio di Trento! (Sessione| XXII, cap. II). Questo perché nella S. Messa il sacerdote offre ufficialmente a Dio, per il riscatto delle anime, il sangue del Salvatore. Gesù stesso, sotto le specie del pane e del vino, rinnova misticamente il sacrificio del Golgota e prega affinché Dio ne applichi, a queste anime, la virtù espiatrice. Assistiamo in questo giorno al Santo Sacrificio, nel quale la Chiesa implora da Dio, per i defunti, che non possono più meritare, la remissione dei peccati (Or.) e il riposo eterno (Intr., Grad.). Visitiamo i cimiteri, ove i loro corpi riposano, fino al giorno nel quale, alla chiamata di Dio, essi sorgeranno immediatamente per rivestirsi dell’immortalità e riportare, per i meriti di Gesù Cristo, la definitiva vittoria sulla morte (Ep.).

(La parola Cimitero, dal greco, significa dormitorio, nel quale ci si riposa. Chi visita il cimitero durante l’Ottava e prega anche solo mentalmente per i defunti, può acquistare nei singoli giorni, con le consuete condizioni, l’indulgenza Plenaria; negli altri giorni l’indulgenza parziale di sette anni; tanto l’una che l’altra sono applicabili soltanto ai defunti – S. Penit. Ap. 31- X – 1934)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

4 Esdr II: 34; 2:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps LXIV:2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.

[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente].
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Fidélium, Deus, ómnium Cónditor et Redémptor: animábus famulórum famularúmque tuárum remissiónem cunctórum tríbue peccatórum; ut indulgéntiam, quam semper optavérunt, piis supplicatiónibus consequántur:
[O Dio, creatore e redentore di tutti i fedeli: concedi alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la remissione di tutti i peccati; affinché, per queste nostre pie suppliche, ottengano l’indulgenza che hanno sempre desiderato:]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV: 51-57
Fratres: Ecce, mystérium vobis dico: Omnes quidem resurgámus, sed non omnes immutábimur. In moménto, in ictu óculi, in novíssima tuba: canet enim tuba, et mórtui resúrgent incorrúpti: et nos immutábimur. Opórtet enim corruptíbile hoc induere incorruptiónem: et mortále hoc indúere immortalitátem. Cum autem mortále hoc indúerit immortalitátem, tunc fiet sermo, qui scriptus est: Absórpta est mors in victória. Ubi est, mors, victória tua? Ubi est, mors, stímulus tuus? Stímulus autem mortis peccátum est: virtus vero peccáti lex. Deo autem grátias, qui dedit nobis victóriam per Dóminum nostrum Jesum Christum.

[Fratelli: Ecco, vi dico un mistero: risorgeremo tutti, ma non tutti saremo cambiati. In un momento, in un batter d’occhi, al suono dell’ultima tromba: essa suonerà e i morti risorgeranno incorrotti: e noi saremo trasformati. Bisogna infatti che questo corruttibile rivesta l’incorruttibilità: e questo mortale rivesta l’immortalità. E quando questo mortale rivestirà l’immortalità, allora sarà ciò che è scritto: La morte è stata assorbita dalla vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Ora, il pungiglione della morte è il peccato: e la forza del peccato è la legge. Ma sia ringraziato Iddio, che ci diede la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo].

Graduale

4 Esdr II: 34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps CXI: 7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.
[Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole].Tractus.
Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.

[Libera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna].

Sequentia

Dies iræ, dies illa
Solvet sæclum in favílla:
Teste David cum Sibýlla.

Quantus tremor est futúrus,
Quando judex est ventúrus,
Cuncta stricte discussúrus!

Tuba mirum spargens sonum
Per sepúlcra regiónum,
Coget omnes ante thronum.

Mors stupébit et natúra,
Cum resúrget creatúra,
Judicánti responsúra.

Liber scriptus proferétur,
In quo totum continétur,
Unde mundus judicétur.

Judex ergo cum sedébit,
Quidquid latet, apparébit:
Nil multum remanébit.

Quid sum miser tunc dictúrus?
Quem patrónum rogatúrus,
Cum vix justus sit secúrus?

Rex treméndæ majestátis,
Qui salvándos salvas gratis,
Salva me, fons pietátis.

Recordáre, Jesu pie,
Quod sum causa tuæ viæ:
Ne me perdas illa die.

Quærens me, sedísti lassus:
Redemísti Crucem passus:
Tantus labor non sit cassus.

Juste judex ultiónis,
Donum fac remissiónis
Ante diem ratiónis.

Ingemísco, tamquam reus:
Culpa rubet vultus meus:
Supplicánti parce, Deus.

Qui Maríam absolvísti,
Et latrónem exaudísti,
Mihi quoque spem dedísti.

Preces meæ non sunt dignæ:
Sed tu bonus fac benígne,
Ne perénni cremer igne.

Inter oves locum præsta,
Et ab hœdis me sequéstra,
Státuens in parte dextra.

Confutátis maledíctis,
Flammis ácribus addíctis:
Voca me cum benedíctis.

Oro supplex et acclínis,
Cor contrítum quasi cinis:
Gere curam mei finis.

Lacrimósa dies illa,
Qua resúrget ex favílla
Judicándus homo reus.

Huic ergo parce, Deus:
Pie Jesu Dómine,
Dona eis réquiem.
Amen.

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann V: 25-29
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Amen, amen, dico vobis, quia venit hora, et nunc est, quando mórtui áudient vocem Fílii Dei: et qui audíerint, vivent. Sicut enim Pater habet vitam in semetípso, sic dedit et Fílio habére vitam in semetípso: et potestátem dedit ei judícium fácere, quia Fílius hóminis est. Nolíte mirári hoc, quia venit hora, in qua omnes, qui in monuméntis sunt, áudient vocem Fílii Dei: et procédent, qui bona fecérunt, in resurrectiónem vitæ: qui vero mala egérunt, in resurrectiónem judícii.

[In quel tempo: Gesù disse alle turbe dei Giudei: In verità, in verità vi dico, viene l’ora, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio: e chi l’avrà udita, vivrà. Perché come il Padre ha la vita in sé stesso, così diede al Figlio di avere la vita in se stesso: e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. Non vi stupite di questo, perché viene l’ora in cui quanti sono nei sepolcri udranno la voce del Figlio di Dio: e ne usciranno, quelli che fecero il bene per una resurrezione di vita: quelli che fecero il male per una resurrezione di condanna].

Omelia

[Giov. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle Feste del Signore e dei Santi – Soc. Edit. Vita e Pensiero, Milano, VI ed. 1956]

LE ANIME PURGANTI

Ora che la campagna è spoglia, che i cieli si fanno grigi per le nebbie, che le foglie cadono, la Santa Chiesa con un fine intuito educativo ci richiama al pensiero della morte, al pensiero dei nostri cari morti. La nostra vita sulla terra è rapida come una stagione, poi vengono le nebbie della vecchiezza, il vento autunnale e triste della fine e ci spoglia di ogni terrestre illusione. Debemur morti nos nostraque; e noi e le nostre cose siamo destinati a morire. Quanti tra quelli stessi che conoscemmo ed amammo già sono morti; compagni di scuola, compagni d’allegria, compagni d’armi, compagni di lavoro, sono già stati innanzi tempo presi dalla morte e condotti nell’eternità. Nella nostra stessa casa forse c’è più d’un vuoto: care persone sparite da anni o solo da mesi, comunque sparite dalla nostra vista. Oggi s’aprono i cancelli e noi pellegriniamo in folla su quella terra che nasconde la loro salma. Portiamo fiori e lumi, ed è questo un atto molto gentile. Ma quei fiori e quei lumi sono uno sterile simbolo se non vi aggiungiamo preghiere, elemosine, suffragi d’opere buone. Noi sappiamo, Cristiani, che se alcuno muore in grazia di Dio, ma con qualche peccato veniale non perdonato, o con qualche debito di paradiso, è ritenuto in purgatorio finché abbia pienamente soddisfatto alla divina giustizia. Non solo, ma noi sappiamo anche un’altra verità che è molto consolante. Siccome noi, vivi o morti formiamo tutti ancora nella Santa Chiesa una famiglia sola, possiamo, noi che camminiamo sulla terra placare Dio anche per loro che più non sono qui.  S. Giovanni Crisostomo rivolgeva queste esortazioni ai fedeli del suo tempo: « Perché piangete, se al defunto si può ottenere grande perdono? Non è questo un bel guadagno, un cospicuo vantaggio? Molti furono: liberati» con un’elemosina. fatta per loro da altri; perché l’elemosina ha la virtù di togliere i peccati, se mai il morto è partito di qua con qualche venialità sulla coscienza. Vi assicuro che l’aiuto nostro per le anime non è mai vano: è Dio che vuole che ci soccorriamo l’un l’altro ». Con questa confortante fede chiudeva gli occhi S. Monica, e morendo pregò il figlio Agostino di offrire per lei il sacrificio della, Messa; E S. Agostino; come narra nelle sue Confessioni subito dopo la morte offerse per lei il sacrificio del nostro riscatto, e per lei pregò: così: «Ascoltami, Dio Onnipotente.; ascoltami, per Gesù Medico delle nostre ferite che pendette dalla croce; e ora alla tua destra supplica per noi. So che ella ha usato soave misericordia ai poveri e ha rimesso i debiti suoi debitori. E tu rimetti ora anche a lei i debiti suoi! Condonale anche il peso di quelle miserie di cui s’è caricata nei molti anni che visse dopo il lavacro del Battesimo. Perdonala, o Signore, perdonala; te ne prego, non chiamarla al tuo giudizio ». Ecco il suffragio migliore che un figlio può mandar dietro alla madre diletta: la S. Messa, accompagnata dalla sincera e personale preghiera. È vero che i nostri cari nel Purgatorio non mancano di profonde dolcissime consolazioni, tra cui la più grande è quella d’esser certi che Dio li ama, e che andranno alla fine della loro purificazione a goderlo per sempre; ma è pur vero che fin tanto che dura la loro purificazione le anime soffrono gravissime pene. Soffrono i nostri cari morti! E noi possiamo e dobbiamo aiutarli.- 1. I MORTI SOFFRONO. Un giovanetto di nome Giuseppe, un giorno, fu calato in una cisterna, e, sopra, i suoi undici fratelli vi gettarono una pietra con rimbombo, perché non potesse uscire più. Poi vi sedettero sopra mangiando, e bevendo il vino dei loro fiaschi. Comedentes et bibentes vinum in phialis. Giuseppe singhiozzava nel fondo della cisterna, ove non scendeva una boccata d’aria, ove non filtrava un filo di luce: in una cisterna stretta e profonda, umida e muffolente. Singhiozzava; ma i suoi fratelli, sopra, mangiavano e bevevano e non potevano udire il suo grido straziante. Lui moriva, essi se la godevano. Lui in prigione, essi nella libertà delle loro case e dei loro campi. Lui senza pane e senz’acqua, essi pieni di carne e di vino. Comedentes et bibentes vinum in phialis (Amos, VI, 6). Questa scena angosciosa si ripete ogni giorno, anche oggi. Nel carcere del Purgatorio c’è qualche nostro fratello, un amico, forse il babbo, forse la mamma nostra che soffre; e noi non ci ricordiamo mai di loro che sono morti. Noi ci divertiamo, bevendo e mangiando, mentr’essi soffrono tormenti più struggenti della fame e della sete. Ricordiamoli i morti perché soffrono. Che cosa soffrono? Soffrono misteriose pene, più o meno gravi, ma che sono sempre cagione d’acuto dolore. Ma la sofferenza più affliggente è il ritardo che li disgiunge da Dio. Qui sulla terra l’anima che si allontana da Dio, immersa com’è nei sensi, può non penare, può cercare conforto nelle creature. Ma nell’eternità non sarà più così: non solo l’uomo non potrà cercare un surrogato alle creature, ma si accenderà nella sua anima un bisogno, anzi una fame di felicità divina, di congiungimento nella visione col suo Signore. Pensate allora la dolorosa aspirazione nelle anime purganti: sentirsi fatte per Dio, sentirsi ormai giunte al sicuro porto, e vedersi rattenute dall’entrare in patria, impedite dell’abbraccio divino! È la penosa speranza dell’ammalato a cui il medico assicurò la guarigione, ma che intanto deve stare immobile per mesi nel letto. È la tensione acerba dell’assetato che quando crede d’essere giunto alla fonte d’acqua viva, s’accorge ch’essa gli scorre ancora molto lontana. È l’attesa struggente del prigioniero di guerra, che giunto il giorno di rimpatriare e d’abbracciare la vecchia madre e la sposa e i figliuolini, si vede messo in quarantena per una certa sua infezione. « Miseri noi: credevamo d’essere giunti al termine, ed ecco il cammino ci si allunga davanti… ». Così sospirano con pacato dolore le anime sante del Purgatorio. – 2. NOI LI POSSIAMO AIUTARE. Uno degli episodi più pietosi delle Sacre Scritture è quello del paralitico sotto i portici della piscina probatica. V’era a Gerusalemme una vasca con cinque portici in giro: ed ogni anno quell’acqua scossa da un Angelo, acquistava una virtù miracolosa, che qualunque malato per primo vi si fosse immerso ne sarebbe riuscito sanato perfettamente. Ed erano già 38 anni che un povero paralitico era là ad aspettare la smorto per tanto soffrire, le carni incadaverite, le vesti luride. Bastava soltanto che qualcuno, appena l’Angelo commoveva l’acqua, gli desse un tuffo. Eppure, dopo 38 anni ch’era là, non uno gli aveva saputo fare quel piacere. E quando Gesù Passò sotto il portico, quel poverino ruppe in singhiozzi « Domine, hominem non habeo! ». O Signore, non ho proprio nessuno! Anche molte anime del Purgatorio ripetono il grido del paralitico: non ho proprio nessuno! nessuno che si ricordi di me, nessuno che preghi, che faccia pregare… ». E son anni e anni che gemono là; e per strapparle dal fuoco non occorre enorme fatica, e neppure grosse somme di denaro: ma basta una preghiera detta col cuore, basta una Comunione fervorosa, una santa Messa ascoltata o fatta celebrare … Ed è un dovere d’amore ricordarsi, è un dovere di giustizia. Chi sono quelle povere anime? Forse i n otri fratelli, le sorelle, le spose, i padri, le mamme … Oh vi ricordate in quel giorno, di quella notte in cui morirono? Là, sul letto, disteso: già i suoi occhi dilatati v’era l’immagine della morte. Ardeva accanto una candela benedetta, quella dell’agonia. Egli non poteva parlare più, già la morte gli sigillava le labbra per sempre; eppure qualche cosa voleva pur dirci, ché tremava tutto: « Ricordati di me, quando sarò morto! » E noi scoppiammo in pianto, e tra i singhiozzi abbiamo giurato, in faccia alla morte, di non scordarlo più. Invece dopo qualche settimana noi ci demmo pace, e chi è morto, giace. « Ricordati di me, tu mi puoi aiutare! ». Non la sentite questa voce alla sera, quando invece di fermarvi in casa a rispondere il Rosario voi uscite a chiacchierare, a giocare? Non la sentite questa voce alla mattina presto, quando suonano le campane della Messa, dell’Ufficio, e voi poltrite nelle piume del letto? Non la sentite questa voce che vi supplica di cambiar vita, di frequentare i Sacramenti, di lasciare quella relazione? Non la sentite questa voce a scongiurarvi che facciate un po’ d’elemosina, che procuriate una S. Messa, un Ufficio di suffragio? Eppure dovreste sentirla: forse, quei campi che voi lavorate, quella casa che voi abitate, quel gruzzolo di danaro che avete alla banca, è il frutto del sudore dei vostri morti. Siete obbligati, per giustizia, a ricordarli! – Dall’esilio S. Giovanni poteva finalmente rientrare in Efeso. Entrando egli nella sua città incontrò un funerale: portavano a seppellire il corpo di Drusiana, la quale aveva sempre seguiti i suoi ammaestramenti. Come la gente s’accorse della presenza dell’Apostolo, a gran voce diceva: « Benedetto tu che nel nome di Dio ritorni! ». Allora le vedove che Drusiana aveva in vita consolate, i poveri che aveva nutrito, gli orfani a cui aveva fatto da madre, circondarono l’Evangelista, e col pianto nella voce cominciarono a supplicarlo: « O santo Giovanni! vedi che portiamo Drusiana morta a seppellire: ella ci ha confortati, ci ha dato da mangiare, ci ha protetti, ed ora è morta, senza poterti rivedere, che pur lo desiderava tanto ». S. Giovanni fu commosso da quelle preghiere ardenti. Fermò il funerale, fece deporre in terra la bara, e con chiara voce disse davanti a tutti: « Drusiana! Per l’amore che portasti agli orfani, per l’elemosina che facesti ai poveri, per l’aiuto che prodigasti alle vedove, il mio Signor Gesù Cristo ti risusciti ». E subito ella si levò dalla bara, sì che pareva non resuscitata da morte, ma destata da dormire (BATTELLI, Leggende cristiane). Verrà un giorno, e per quanto sia tardi non è lontano, che noi pure porteranno a seppellire. Ma la nostra anima, nuda e sola, convien che vada al tribunale di Cristo. Oh, se durante questa vita ci saremo ricordati dei poveri morti, allora molte anime si faranno intorno a Gesù giudice e a gran voce diranno: « Signore! Ricordati che costui mi ha alleviato il fuoco del Purgatorio con le sue preghiere, con le mortificazioni, con l’elemosina. Signore! Ricordati di quelle Messe e di quegli Uffici che m’ha fatto celebrare, ricordati delle Comunioni, delle elemosine che faceva in mio suffragio ». E Gesù non saprà resistere a queste suppliche e ci dirà: « Per la misericordia che hai avuto dei poveri morti, anch’io ti faccio misericordia: vieni presto in paradiso ».

IL CREDO

Offertorium

Oremus

Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza].

Secreta

Hóstias, quǽsumus, Dómine, quas tibi pro animábus famulórum famularúmque tuárum offérimus, propitiátus inténde: ut, quibus fídei christiánæ méritum contulísti, dones et præmium. [Guarda propizio, Te ne preghiamo, o Signore, queste ostie che Ti offriamo per le ànime dei tuoi servi e delle tue serve: affinché, a coloro cui concedesti il merito della fede cristiana, ne dia anche il premio].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

Defunctorum

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. In quo nobis spes beátæ resurrectiónis effúlsit, ut, quos contrístat certa moriéndi condício, eósdem consolétur futúræ immortalitátis promíssio. Tuis enim fidélibus, Dómine, vita mutátur, non tóllitur: et, dissolúta terréstris hujus incolátus domo, ætérna in cælis habitátio comparátur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia cœléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

[È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. In lui rifulse a noi la speranza della beata risurrezione: e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, cantiamo con voce incessante l’inno della tua gloria:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima me
a.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

4 Esdr II:35; II:34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono].

Postcommunio

Orémus.
Animábus, quǽsumus, Dómine, famulórum famularúmque tuárum orátio profíciat supplicántium: ut eas et a peccátis ómnibus éxuas, et tuæ redemptiónis fácias esse partícipes:

[Ti preghiamo, o Signore, le nostre supplici preghiere giovino alle ànime dei tuoi servi e delle tue serve: affinché Tu le purifichi da ogni colpa e le renda partecipi della tua redenzione:].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

SECONDA MESSA

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

4 Esdr II:34; II:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps LXIV: 2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.
[l’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
Ps LXIV: 2-3
[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente].
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis. [l’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, indulgentiárum Dómine: da animábus famulórum famularúmque tuárum refrigérii sedem, quiétis beatitúdinem et lúminis claritátem.
[ O Dio, Signore di misericordia, accorda alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la dimora della pace, il riposo delle beatitudine e lo splendore della luce].

Lectio

Léctio libri Machabæórum.
2 Mach XII: 43-46
In diébus illis: Vir fortíssimus Judas, facta collatióne, duódecim mília drachmas argénti misit Jerosólymam, offérri pro peccátis mortuórum sacrifícium, bene et religióse de resurrectióne cógitans, nisi enim eos, qui cecíderant, resurrectúros speráret, supérfluum viderétur et vanum oráre pro mórtuis: et quia considerábat, quod hi, qui cum pietáte dormitiónem accéperant, óptimam habérent repósitam grátiam.
Sancta ergo et salúbris est cogitátio pro defunctis exoráre, ut a peccátis solvántur.

[In quei giorni: il più valoroso uomo di Giuda, fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dramme d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, agendo così in modo molto buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato].

Graduale

4 Esdr 2:34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua].

Ps 111:7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.

[V. Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole].

Tractus.

Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.

[Libera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna].
Sequentia

Dies Iræ …. [V. sopra]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Gloria tibi, Domine!
Joann VI: 37-40
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Omne, quod dat mihi Pater, ad me véniet: et eum, qui venit ad me, non ejíciam foras: quia descéndi de cælo, non ut fáciam voluntátem meam, sed voluntátem ejus, qui misit me. Hæc est autem volúntas ejus, qui misit me, Patris: ut omne, quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resúscitem illud in novíssimo die. Hæc est autem volúntas Patris mei, qui misit me: ut omnis, qui videt Fílium et credit in eum, hábeat vitam ætérnam, et ego resuscitábo eum in novíssimo die.

[In quel tempo: Gesù disse alla moltitudine degli Ebrei: Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno].

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza].

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, pro animábus famulórum famularúmque tuárum, pro quibus tibi offérimus sacrifícium laudis; ut eas Sanctórum tuórum consórtio sociáre dignéris.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche in favore delle anime dei tuoi servi e delle tue serve, per le quali Ti offriamo questo sacrificio di lode, affinché Tu le accolga nella società dei tuoi Santi..]

Praefatio
Defunctorum

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. In quo nobis spes beátæ resurrectiónis effúlsit, ut, quos contrístat certa moriéndi condício, eósdem consolétur futúræ immortalitátis promíssio. Tuis enim fidélibus, Dómine, vita mutátur, non tóllitur: et, dissolúta terréstris hujus incolátus domo, ætérna in coelis habitátio comparátur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

 [È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. In lui rifulse a noi la speranza della beata risurrezione: e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, cantiamo con voce incessante l’inno della tua gloria:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

4 Esdr II:35-34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono].

Postcommunio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, Dómine: ut ánimæ famulórum famularúmque tuárum, his purgátæ sacrifíciis, indulgéntiam páriter et réquiem cápiant sempitérnam.
[Fa’, Te ne preghiamo, o Signore, che le anime dei tuoi servi e delle tue serve, purificate da questo sacrificio, ottengano insieme il perdono ed il riposo eterno].

TERZA MESSA

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

4 Esdr 2:34; 2:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
[L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.]
Ps LXIV:2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.

[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente.]


Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, véniæ largítor et humánæ salútis amátor: quǽsumus cleméntiam tuam; ut nostræ congregatiónis fratres, propínquos et benefactóres, qui ex hoc sǽculo transiérunt, beáta María semper Vírgine intercedénte cum ómnibus Sanctis tuis, ad perpétuæ beatitúdinis consórtium perveníre concédas.

[O Dio, che elargisci il perdono e vuoi la salvezza degli uomini, imploriamo la tua clemenza affinché, per l’intercessione della beata Maria sempre Vergine e di tutti i tuoi Santi, Tu conceda alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la grazia di partecipare alla beatitudine eterna..]

Lectio

Léctio libri Apocalýpsis beáti Joánnis Apóstoli
Apoc XIV:13
In diébus illis: Audívi vocem de cœlo, dicéntem mihi: Scribe: Beáti mórtui, qui in Dómino moriúntur. Amodo jam dicit Spíritus, ut requiéscant a labóribus suis: ópera enim illórum sequúntur illos.

[In quei giorni, io intesi una voce dal cielo che mi diceva: «Scrivi: “Beati i morti che muoiono nel Signore”. Sì, fin d’ora – dice lo Spirito – essi riposano dalle loro fatiche, perché le loro opere li accompagnano».]

Graduale

4 Esdr II:34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.]
Ps 111:7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.
[Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole.]

Tractus.

Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.
[L ibera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna.]
Sequentia [ut supra]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem
Joann VI: 51-55
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Ego sum panis vivus, qui de cœlo descéndi. Si quis manducáverit ex hoc pane, vivet in ætérnum: et panis, quem ego dabo, caro mea est pro mundi vita. Litigábant ergo Judæi ad ínvicem, dicéntes: Quómodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducándum? Dixit ergo eis Jesus: Amen, amen, dico vobis: nisi manducavéritis carnem Fílii hóminis et bibéritis ejus sánguinem, non habébitis vitam in vobis. Qui mánducat meam carnem et bibit meum sánguinem, habet vitam ætérnam: et ego resuscitábo eum in novíssimo die.

[In quel tempo: Gesù disse alla moltitudine degli Ebrei: «Io sono il pane vivente, che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò per la vita del mondo è la mia carne». I Giudei dunque discutevano tra di loro, dicendo: «Come può costui darci da mangiare la sua carne?» Perciò Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico che se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete vita in voi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».]

OMELIA

COMMEMORAZIONE DEI FEDELI DEFUNTI.

Venit nox, quando nemo potest operati.

Vien la notte, in cui niuno può lavorare.

(S. GIOVANNI IX, 4).

Tal’è, miei fratelli, la crudele e terribile condizione, in cui si trovano adesso i nostri padri e le nostre madri, i nostri parenti e i nostri amici, che sono usciti da questo mondo senza aver interamente soddisfatto alla giustizia di Dio. Li ha condannati a passare lunghi anni nel carcere tenebroso del purgatorio, ove la sua giustizia rigorosamente s’aggrava su loro, finché le abbiano interamente pagato il loro debito. «Oh! com’è terribile, dice San Paolo, cader nelle mani di Dio vivente! » (Hebr., X, 31) Ma perché, fratelli miei, sono oggi salito in pulpito? Che cosa vi dirò? Ah! vengo da parte di Dio medesimo; vengo da parte de’ vostri poveri parenti, per risvegliare in voi quell’amore di riconoscenza, di cui siete ad essi debitori: vengo a rimettervi sott’occhio tutti i tratti di bontà e tutto l’amore ch’ebbero per voi, quand’erano sulla terra: vengo a dirvi che bruciano tra le fiamme, che piangono, che chiedono ad alte grida il soccorso delle vostre preghiere e delle vostre opere buone. Mi par d’udirli gridare dal fondo di quel mare di fuoco che li tormenta: « Ah! dite ai nostri padri, alle nostre madri, ai nostri figliuoli e a tutti i nostri parenti, quanto sono atroci i mali che soffriamo. Noi ci gettiamo a’ loro piedi per implorare l’aiuto delle loro preghiere. Ah! dite ad essi che da quando ci separammo da loro, siamo qui a bruciar tra le fiamme! Oh ! chi potrà rimaner insensibile al pensiero di tante pene che soffriamo? » Vedete voi, miei fratelli, e udite quella tenera madre, quel buon padre, e tutti quei vostri congiunti che vi tendono le mani? « Amici miei, gridano gemendo, strappateci a questi tormenti, poiché lo potete ». Vediamo dunque, fratelli miei,

1° la grandezza de’ tormenti che soffrono le anime nel purgatorio;

2° quali mezzi abbiamo di sollevarli, cioè le nostre preghiere, le nostre opere buone, e soprattutto il santo Sacrificio della Messa.

I . — Non voglio trattenermi a dimostrarvi l’esistenza del Purgatorio: sarebbe tempo perduto. Niuno di voi ha su questo punto alcun dubbio. La Chiesa, a cui Gesù Cristo ha promesso l’assistenza del suo Santo Spirito, e che non può quindi né ingannarsi né ingannare, ce l’insegna in modo ben chiaro ed evidente. È certo e certissimo che v’è un luogo ove le anime dei giusti finiscono d’espiare i loro peccati prima d’essere ammesse alla gloria del paradiso per esse sicura. Sì, miei fratelli, ed è articolo di fede: se non abbiam fatto penitenza proporzionata alla gravezza e all’enormità de’ nostri peccati, sebben perdonati nel santo tribunale della penitenza, saremo condannati ad espiarli nelle fiamme del purgatorio. Se Dio, essenziale giustizia, non lascia senza premio un buon pensiero, un buon desiderio e la minima buona azione, neppur lascerà impunita una colpa, per quanto leggera; e noi dovremo andare a patire in Purgatorio, onde finir di purificarci, per tutto il tempo che esigerà la divina giustizia. Gran numero di passi della santa Scrittura ci mostrano che, quantunque i nostri peccati ci siano stati perdonati, pure Iddio c’impone anche l’obbligo di patire in questo mondo per mezzo di pene temporali, o nell’altro tra le fiamme del Purgatorio. Vedete che cosa accadde ad Adamo: essendosi pentito dopo il suo peccato. Dio l’assicurò che gli aveva perdonato, e tuttavia lo condannò a far penitenza per oltre 900 anni (Gen. III, 17-19); penitenza che sorpassa quanto può immaginarsi. Osservate ancora (II Re, XXIV): David, contro il beneplacito di Dio, ordina il novero de’ suoi sudditi; ma, spinto dai rimorsi della sua coscienza, riconosce il suo peccato, si getta con la faccia per terra e prega il Signore a perdonargli. E Dio, impietosito pel suo pentimento, gli perdona di fatto; ma tuttavia gli manda Gad che gli dica: « Principe, scegli uno de’ tre flagelli, che Dio ti ha apparecchiato in pena del tuo peccato: la peste, la guerra e la fame ». David risponde: «Meglio è cadere nelle mani del Signore, di cui tante volte ho sperimentato la misericordia, che in quelle degli uomini ». Scegli quindi la peste che durò tre giorni e gli tolse 70000 sudditi: e se il Signore non avesse fermato la mano dell’Angelo, già stesa sulla città, tutta Gerusalemme sarebbe rimasta Spopolata. David, vedendo tanti mali cagionati dal suo peccato, chiese in grazia a Dio che punisse lui solo, e risparmiasse il suo popolo ch’era innocente. Ohimè! miei fratelli, per quanti anni dovremo soffrire nel purgatorio noi che abbiam commesso tanti peccati: e che, col pretesto d’averli confessati non facciamo penitenza alcuna e non li piangiamo? Quanti anni di patimenti ci aspettano nell’altra vita! Ma come potrò io farvi il quadro straziante delle pene che soffrono quelle povere anime, poiché i SS. Padri ci dicono che i mali cui esse son condannate in quel carcere, sembrano pari ai dolori che Gesù Cristo ha sofferto nel tempo della sua passione? E tuttavia è certo che se il minimo dei dolori che ha patito Gesù Cristo fosse stato diviso tra tutti gli uomini, sarebbero tutti morti per la violenza del dolore. Il fuoco del Purgatorio è il fuoco medesimo dell’inferno, con la sola differenza che non è eterno. Oh! bisognerebbe che Dio. nella sua misericordia permettesse ad una di quelle povere anime, che ardono tra quelle fiamme, di comparir qui a luogo mio, circondata dal fuoco che la divora, e farvi essa il racconto delle pene che soffre. Bisognerebbe, fratelli miei, ch’essa facesse risuonar questa chiesa delle sue grida e de’ suoi singhiozzi; forse ciò riuscirebbe alfine ad intenerire i vostri cuori. « Oh! quanto soffriamo, ci gridano quelle anime; o nostri fratelli, liberateci da questi tormenti: voi lo potete! Ah! se sentiste il dolore d’essere separate da Dio! » Crudele separazione! Ardere in un fuoco acceso dalla giustizia d’un Dio! Soffrir dolori che uomo mortale non può comprendere! Esser divorato dal rammarico, sapendo che potevamo si agevolmente sfuggirli! «Oh! miei figliuoli, gridan quei padri e quelle madri, potete abbandonarci? Abbandonar noi che vi abbiam tanto amato? Potete coricarvi su un soffice letto e lasciar noi stesi sopra un letto di fuoco? Avrete il coraggio di darvi in braccio ai piaceri e alla gioia, mentre noi notte e giorno siam qui a patire ed a piangere? Possedete pure i nostri beni e le nostre case, godete il frutto delle nostre fatiche, e ci abbandonate in questo luogo di tormenti, ove da tanti anni soffriamo pene si atroci?… E non un’elemosina, non una Messa che ci aiuti a liberarci!… Potete alleviar le nostre pene, aprir la nostra prigione e ci abbandonate! Oh! son pur crudeli i nostri patimenti! » Si, miei fratelli, in mezzo alle fiamme si giudica ben altrimenti di tutte codeste colpe leggere, seppure si può chiamar leggero ciò che fa tollerare sì rigorosi dolori. « O mio Dio, esclamava il Re-profeta, guai all’uomo, anche più giusto, se lo giudicate senza misericordia! » (Ps. CXLII, 2). « Se avete trovato macchie nel sole e malizia negli Angeli, che sarà dell’uomo peccatore? » (I Piet. IV, 18). E per noi che abbiam commesso tanti peccati mortali, e non abbiamo ancor fatto quasi nulla per soddisfare alla giustizia divina, quanti anni di purgatorio!… – « Mio Dio, diceva S. Teresa, qual anima sarà tanto pura da entrare in cielo senza passare per le fiamme vendicatrici? » Nella sua ultima malattia essa ad un tratto esclamò: «O giustizia e potenza del mio Dio, siete pur terribile! » Durante la sua agonia Dio le fece vedere la sua santità, quale la vedono in cielo gli Angeli e i Santi, il che le cagionò sì vivo terrore, che le sue suore, vedendola tutta tremante e in preda ad una straordinaria agitazione, gridarono piangendo: « Ah! madre nostra, che cosa mai vi è accaduto? Temete; ancora la morte dopo tante penitenze, e lacrime sì copiose ed amare? » — « No, mie figliuole, rispose S. Teresa, non temo la morte; anzi la desidero per unirmi eternamente al mio Dio ». — « Vi spaventano dunque i vostri peccati dopo tante macerazioni? » — « Sì, mie figliuole, rispose, temo i miei peccati, ma temo più ancora qualche altra cosa ». — « Forse il giudizio? » — « Sì, rabbrividisco alla vista del conto che dovrò rendere a Dio, il quale in quel momento sarà senza misericordia; ma vi è oltre a questo una cosa il cui solo pensiero mi fa morire di spavento ». Quelle povere suore grandemente si angustiavano. « Ohimè! Sarebbe mai l’inferno? » — « No, disse la santa, l’inferno, per grazia di Dio, non è per me: Oh! sorelle mie, è la santità di Dio! Mio Dio. abbiate pietà di ine! La mia vita dev’essere confrontata con quella di Gesù Cristo medesimo! Guai a me, se ho la minima macchia, il minimo neo! Guai a me, se ho pur l’ombra del peccato! ». — « Ohimè! esclamarono quelle povere religiose, qual sarà dunque la nostra sorte?…  E di noi che sarà, fratelli miei, di noi che forse con tutte le nostre penitenze ed opere buone non abbiamo ancor soddisfatto per un solo peccato perdonatoci nel tribunale della penitenza? Ah! quanti anni e quanti secoli di tormenti per punirci!… Pagheremo pur cari tutti quei falli che riguardiamo come un nulla, come quelle bugie dette per divertimento, le piccole maldicenze, la non curanza delle grazie che Dio ci fa ad ogni momento, quelle piccole mormorazioni nelle tribolazioni ch’Egli ci manda! No, miei fratelli, non avremmo il coraggio di commettere il minimo peccato, se potessimo intendere quale offesa fa a Dio, e come merita d’esser punito rigorosamente anche in questo mondo. – Leggiamo nella santa Scrittura (III Re, XII) che il Signore disse un giorno ad uno de’ suoi profeti: « Va a mio nome da Geroboamo per rimproverargli l’orribilità della sua idolatria: ma ti proibisco di prendere alcun nutrimento né in casa sua, né per via ». Il profeta obbedì tosto, e s’espose anche a sicuro pericolo di morte. Si presentò dinanzi al re, e gli rimproverò il suo delitto, come gli aveva detto il Signore. Il re, montato in furore perché il profeta aveva avuto ardire di riprenderlo, stende la mano e comanda che sia arrestato. La mano del re rimase tosto disseccata. Geroboamo, vedendosi punito, rientrò in se stesso; e Dio, mosso dal suo pentimento, gli perdonò il suo peccato e gli restituì sana la mano. Questo benefizio mutò il cuore del re, che invitò il profeta a mangiare con lui. « No, rispose il profeta, il Signore me l’ha proibito: quando pure mi donaste metà del vostro regno, non lo farò ». Mentre tornava indietro, trovò un falso profeta, che si diceva mandato da Dio, il quale l’invitò a mangiar seco. Si lasciò ingannare da quel discorso, e prese un poco di nutrimento. Ma, uscendo dalla casa del falso profeta, incontrò un leone d’enorme grossezza, che si gettò su lui e lo sbranò. Or se chiedete allo Spirito Santo, quale sia stata la cagione di quella morte, vi risponderà che la disobbedienza del profeta gli meritò tal castigo. Vedete pure Mosè, che era sì caro a Dio: per aver dubitato un momento della sua potenza, battendo due volte una rupe per farne zampillar l’acqua, il Signore gli disse: « Aveva promesso di farti entrare nella terra promessa, ove latte e miele scorrono a rivi; ma per punirti d’aver battuto due volte la rupe, come se una sola non fosse stata bastante, andrai fino in vista di quella terra di benedizione, e morrai prima d’entrarvi » (Num. XX, 11, 12). Se Dio, miei fratelli, punì così rigorosamente peccati così leggeri, che cosa sarà d’una distrazione nella preghiera, del girare il capo in chiesa, ecc.?.. Oh! siam pur ciechi! Quanti anni e quanti secoli di Purgatorio ci prepariamo per tutte queste colpe che riguardiam come cose da nulla! … Come muteremo linguaggio, quando saremo tra quelle fiamme ove la giustizia di Dio si fa sentire così rigorosamente!… Dio è giusto, fratelli miei, giusto in tutto quello che fa. Quando ci ricompensa della minima buona azione, lo fa oltre i confini di ciò che possiamo desiderare; un buon pensiero, un buon desiderio, cioè il desiderar di fare qualche opera buona, quand’anche non si potesse fare, Ei non lascia senza ricompensa; ma anche quando si tratta di punirci, lo fa con rigore, e quando pur fossimo rei d’una sola colpa leggera, saremmo gettati nel Purgatorio. Quest’è verissimo, perché leggiamo nelle vite de’ Santi che parecchi sono giunti al cielo sol dopo esser passati per le fiamme del Purgatorio. S. Pier Damiani racconta che sua sorella stette parecchi anni nel purgatorio per avere ascoltato una canzone cattiva con qualche po’ di piacere. – Si narra che due religiosi si promisero l’un l’altro che, chi morisse pel primo, verrebbe a dire al superstite in quale stato si trovasse; infatti Dio permise al primo che morì di comparire all’amico, egli disse ch’era stato quindici giorni al purgatorio per aver amato troppo di far la propria volontà. E siccome l’amico si rallegrava con lui perché vi fosse stato sì poco : « Avrei voluto piuttosto, gli disse il defunto, esser scorticato vivo per diecimila anni continui; perché un simile tormento non avrebbe potuto ancora paragonarsi a ciò che ho patito tra quelle fiamme ». Un prete disse ad uno de’ suoi amici che Dio l’aveva condannato a più mesi di purgatorio per aver tardato ad eseguire un testamento in cui si disponeva per opere buone. Ohimè! miei fratelli, quanti tra quei che mi ascoltano debbono rimproverarsi un simile fatto! Quanti forse da otto o dieci anni ebbero da’ loro parenti od amici l’incarico di far celebrar Messe, distribuir limosine, e han trascurato tutto! Quanti, per timore di trovar l’incarico di far qualche opera buona, non si vogliono dar la briga neppur di guardare il testamento fatto a favor loro da parenti o da amici! Ohimè! quelle povere anime son prigioniere tra quelle fiamme, perché non si vogliono compiere le loro ultime volontà! Poveri padri e povere madri, vi siete sacrificati per mettere in miglior condizione i vostri figli o i vostri eredi; avete forse trascurato la vostra salute per accrescere la loro fortuna: vi siete fidati sulle opere buone, che avreste lasciate per testamento! Poveri parenti! Foste pur ciechi a dimenticare voi stessi! – Forse mi direte: « I nostri parenti son vissuti bene, erano molto buoni ». Ah! quanto poco ci vuole per cader tra quelle fiamme! Udite ciò che disse su questo proposito Alberto Magno, le cui virtù splendettero in modo straordinario: rivelò un giorno ad un amico che Dio l’aveva fatto andare al purgatorio, perché aveva avuto un lieve pensiero di compiacenza pel suo sapere. Aggiungete (cosa che desta anche maggior meraviglia) che vi son Santi canonizzati, i quali dovettero passare pel purgatorio. S. Severino, Arcivescovo di Colonia, apparve ad uno, de’ suoi amici molto tempo dopo la sua morte, e gli disse ch’era stato al Purgatorio per aver rimandato alla sera certe preghiere che doveva dire al mattino. Oh! quanti anni di purgatorio per quei Cristiani, che senza difficoltà differiscono ad altro tempo le loro preghiere, perché han lavoro pressante! Se desiderassimo sinceramente la felicità di possedere Iddio, eviteremmo le piccole colpe, come le grandi, poiché la separazione da Dio è tormento sì orribile a quelle povere anime! – I santi Padri ci dicono che il Purgatorio è un luogo vicino all’inferno; il che si capisce agevolmente, perché il peccato veniale è vicino al peccato mortale; ma credono che non tutte le anime per soddisfare alla giustizia divina sian chiuse in quel carcere, e che molte patiscano sul luogo stesso ove hanno peccato. Infatti S. Gregorio Papa ce ne dà una prova manifesta. Riferisce che un santo prete infermo andava ogni giorno, per ordine del medico, a prender bagni in un luogo appartato; e ogni giorno vi trovava un personaggio sconosciuto, che l’aiutava a scalzarsi e, fatto il bagno, gli presentava un panno per asciugarsi. Il santo prete mosso da riconoscenza, tornando un giorno da celebrare la santa Messa, presentò allo sconosciuto un pezzo di pane benedetto. « Padre mio, gli rispose egli, voi m’offrite cosa, di cui non posso far uso, quantunque mi vediate rivestito d’un corpo. Sono il Signore di questo luogo, che faccio qui il mio purgatorio». E scomparve dicendo: «Ministro del Signore, abbiate pietà di me! Oh! quanto soffro! Voi potete liberarmi; offrite, ve ne prego, per me il santo Sacrifizio della Messa, offrite le vostre preghiere e le vostre infermità. Il Signore mi libererà ». Se fossimo ben convinti di questo, potremmo sì facilmente dimenticare i nostri parenti, che ci stanno forse continuamente d’intorno? Se Dio permettesse loro di mostrarsi visibilmente, li vedremmo gettarsi a’ nostri piedi. « Ah! figli miei, direbbero quelle povere anime, abbiate pietà di noi! Deh! non ci abbandonate! ». Sì, miei fratelli, la sera andando al riposo, vedremmo i nostri padri e le madri nostre richiedere il soccorso delle nostre preghiere; li vedremmo nelle nostre case, nei nostri campi. Quelle povere anime ci seguono dappertutto; ma, ohimè! son poveri mendicanti dietro a cattivi ricchi. Han bell’esporre ad essi le loro necessità e i loro tormenti; quei cattivi ricchi sgraziatamente non se ne commuovono punto. « Amici miei, ci gridano, un Patere un Ave! una Messa! » Ecché? Saremo ingrati a segno da negare ad un padre, ad una madre una parte sì piccola dei beni che ci hanno acquistato o conservato con tanti stenti? Ditemi, se vostro padre, vostra madre o uno de’ vostri figliuoli fossero caduti nel fuoco, e vi tendessero le mani per pregarvi a liberarli, avreste coraggio di mostrarvi insensibili, e lasciarli ardere sotto i vostri occhi? Or la fede c’insegna che quelle povere anime soffrono tali pene cui nessun uomo mortale sarà mai capace di intendere Se vogliamo assicurarci il cielo, fratelli miei, abbiamo gran divozione a pregar per le anime del Purgatorio. Può ben dirsi che questa divozione è segno quasi certo di predestinazione, ed efficace motivo di salute. La santa Scrittura nella storia di Gionata ci mette sott’occhio un mirabile paragone (1 Re XIV). Saul, padre di Gionata, aveva proibito a tutti i soldati, sotto pena di morte, di prendere alcun nutrimento prima che i Filistei fossero stati interamente disfatti. Gionata, che non aveva udito quella proibizione, sfinito com’era dalla fatica, intinse in un favo di miele la punta del suo bastone e ne gustò. Saul consultò il Signore per sapere, se alcuno aveva violato la proibizione. Saputo che l’aveva violata suo figlio, comandò che mettessero le mani su Gionata, dicendo: « Mi punisca il Signore, se oggi non morrai ». Gionata. vedendosi dal padre condannato a morte, per aver violato una proibizione che non aveva udita, volse lo sguardo al popolo, e, piangendo, pareva rammentare tutti i servigi che gli aveva reso, tutta la benevolenza che aveva loro usata, il popolo si gettò subito ai piedi di Saul: « Ecché? Farai morir Gionata, che ha poc’anzi salvato Israele?Gionata che ci ha liberati dalle inani de’ nostri nemici? No, no: non cadrà dal suo capo un capello: troppo ci sta a cuore conservarlo: troppo bene ci ha fatto, e non è possibile dimenticarlo sì presto ». Ecco l’immagine sensibile di ciò che avviene all’ora della morte. Se, per nostra buona ventura, avremo pregato per le anime del purgatorio, quando compariremo d’innanzi al tribunale di Gesù Cristo per rendergli conto di tutte le nostre azioni, quelle anime si getteranno ai piedi del Salvatore dicendo: «Signore, grazia per questa anima! Grazia, misericordia per essa! Abbiate pietà, mio Dio, di quest’anima così caritatevole, che ci ha liberate dalle flamine, e h a soddisfatto per noi alla vostra giustizia! Mio Dio, mio Dio, dimenticate, ve ne preghiamo le sue colpe, com’essa vi ha fatto dimenticare le nostre! » Oh! quanto efficaci son questi motivi per ispirarvi una tenera compassione verso quelle povere anime sofferenti! Ohimè! esse ben presto sono dimenticate! Si ha pur ragione di dire che il ricordo de’ morti svanisce insieme col suono delle campane. Soffrite, povere anime, piangete in quel fuoco acceso dalla giustizia divina; ciò non giova a nulla; nessuno vi ascolta; nessuno vi porge sollievo!… Ecco dunque, fratelli miei, la ricompensa di tanta bontà e di tanta carità ch’ebbero per noi mentre ancora vivevano. No, non siamo nel numero di questi ingrati; poiché lavorando alla loro liberazione, lavoreremo alla nostra salute.

II. — Ma, direte forse, come possiamo sollevarle e condurle al cielo! Se desiderate prestar loro soccorso, fratelli miei, vi farò vedere che è cosa facile il farlo; 1° per mezzo della preghiera e dell’elemosina; 2° per mezzo delle indulgenze; 3° soprattutto col santo sacrificio della Messa.

Dico primieramente per mezzo della preghiera.

Quando facciamo una preghiera per le anime del purgatorio, cediamo loro ciò che Dio ci concederebbe se la facessimo per noi; ma ohimè! quanto poca cosa sono le nostre preghiere, poiché è pur sempre un peccatore che prega per un colpevole! Mio Dio. Deve esser pur grande la vostra misericordia! … Possiamo ogni mattina offrire tutte le azioni della nostra giornata e tutte le nostre preghiere pel sollievo di quelle povere anime sofferenti. È ben poca cosa, certamente; ma ecco: facciamo ad esse come ad una persona, che abbia le mani legate e sia carica d’ un pesante fardello, a cui si venga di tratto in tratto a togliere qualche po’ di quel peso; a poco a poco si troverà libera del tutto. L’istesso accade alle povere anime del purgatorio, quando facciamo per esse qualche cosa: una volta abbrevieremo le loro pene di un’ora, un’altra volta d’un quarto d’ora, sicché ogni giorno avviciniamo al cielo.

Diciamo in secondo luogo che possiamo liberare le anime del purgatorio con le indulgenze, le quali a gran passi le conducono verso il paradiso. Il bene che loro comunichiamo è di prezzo infinito perché applichiamo ad essi i meriti del Sangue adorabile di Gesù Cristo, delle virtù della SS. Vergine e dei Santi, i quali han fatto maggiori penitenze che non richiedessero i loro peccati. Ah! se volessimo, quanto presto avremmo vuotato il purgatorio, applicando a queste anime sofferenti tutte le indulgenze che possiamo guadagnare!… Vedete, fratelli miei, facendo la Via Crucis, si possono guadagnare quattordici indulgenze plenarie (C. d. Ind. 1742). E si fa in più modi … (Nota del Santo andata persa – nota degli edit. francesi) . Oh! siete pur colpevoli per aver lasciato tra quelle fiamme i vostri parenti, mentre potevate così bene e facilmente liberarli!

Il mezzo più efficace per affrettare la loro felicità è la santa Messa, poiché in essa non è più un peccatore che prega per un peccatore, ma un Dio eguale al Padre, che non saprà mai negargli nulla. Gesù Cristo ce ne assicura nel Vangelo; dicendo; « Padre, ti rendo grazie perché mi ascolti sempre ! » (Joan. XI, 41-42). Per meglio persuadercene, vi citerò un esempio dei più commoventi, da cui intenderete quanto grande efficacia abbia la santa Messa. È riferito nella storia ecclesiastica che, poco dopo l a morte dell’imperator Carlo (Carlo il Calvo), un sant’uomo della diocesi di Reims, per nome Bernold, essendo caduto infermo e avendo ricevuto gli ultimi Sacramenti stette quasi un giorno senza parlare, e appena appena si poteva riconoscere che ancor vivesse; finalmente aprì gli occhi, e comandò a chi lo assisteva di far venir al più presto il suo confessore. Il prete venne tosto, e trovò il malato tutto in lacrime, il quale gli disse: «Sono stato trasportato all’altro mondo, e mi son trovato in un luogo ove ho veduto il Vescovo Pardula di Laon, che pareva vestito di cenci sudici e neri, e pativa orribilmente tra le fiamme; ei m’ha parlato così: « Poiché avete la buona sorte di tornare in terra, vi prego d’aiutarmi e darmi sollievo; potete anzi liberarmi, e assicurarmi la grande felicità di vedere Iddio ». — « Ma, gli ho risposto, come potrò procurarvi tale felicità? ». — « Andate da quelli che nel corso della mia vita ho beneficato, e dite loro che in ricambio preghino per me, e Dio mi userà misericordia ». Dopo fatto ciò che mi aveva comandato l’ho riveduto bello come un sole: non pareva più che soffrisse, e, nella sua gioia mi ringraziò dicendo: « Vedete quanti beni e quante felicità mi han procurato le preghiere e la santa Messa » . Poco più in là ho veduto re Carlo, che mi parlò così: « Amico mio, quanto soffro! Va dal Vescovo Iucmaro, e digli che son nei tormenti per non aver seguito i suoi consigli; ma faccio assegnamento su lui perché m’aiuti ad uscire da questo luogo di patimenti; raccomanda pure a tutti quelli i quali ho beneficato nel corso della mia vita che preghino per me, ed offrano il santo Sacrificio della Messa, e sarò liberato » . Andai dal Vescovo che si apparecchiava a dir Messa, e che, con tutto il suo popolo, si mise a pregare con tale intenzione. Rividi poi il re, rivestito dei suoi abiti regali, e tutto splendente di gloria: « Vedi, mi disse, qual gloria m’hai procurata: ormai eccomi felice per sempre » . In quell’istante sentii la fragranza d’uno squisito profumo, che veniva dal soggiorno de’ beati. « Mi ci accostai, dice il P. Bernold, e vidi bellezze e delizie, che lingua umana non è capace di esprimere » (V. Fleury T. VII, anno 877). Ciò dimostra quanto siano efficaci le nostre preghiere e le nostre opere buone, e specialmente la S. Messa, per liberar dai loro tormenti quelle povere anime. Ma eccone un altro esempio tratto anche questo dalla storia della Chiesa: è anche più meraviglioso. Un prete, informato della morte d’un suo amico, che amava solo per Iddio, non trovò mezzo più potente per liberarlo che andar tosto ad offrire il santo Sacrificio della Messa. Lo cominciò con tutto il possibile fervore e col dolore più vivo. Dopo aver consacrato il Corpo adorabile di Gesù Cristo, lo prese tra mano, e levando al cielo le mani e gli occhi, disse: « Eterno Padre, io vi offro il Corpo e l’Anima del vostro carissimo Figliuolo. Eterno Padre! Rendetemi l’anima dell’amico mio, che soffre tra le fiamme del Purgatorio! Sì, mio Dio, io son libero d’offrirvi o no il vostro Figliuolo, voi potete accordarmi ciò che vi domando! Mio Dio facciamo il cambio; liberate l’amico mio e vi darò il vostro Figliuolo: ciò che vi offro val molto più di ciò che vi domando ». Questa preghiera fu fatta con fede sì viva, che nel punto stesso vide l’anima dell’amico uscir dal purgatorio e salire al cielo. Si narra pure che, mentre un prete diceva la S. Messa per un’anima del Purgatorio, si vide venire in forma di colomba e volare al cielo. S. Perpetua raccomanda assai vivamente di pregare le anime del purgatorio. Dio le fece vedere in visione suo fratello che ardeva tra le fiamme, e che pure era morto di soli sette anni, dopo aver sofferto per quasi tutta la vita d’un cancro che lo faceva gridar giorno e notte. Essa fece molte preghiere e molte penitenze per la sua liberazione e lo vide salire al cielo splendente come un angelo. Oh! son pur beati, fratelli miei, quelli che hanno di tali amici! A mano a mano che quelle povere anime s’avvicinano al cielo, par che soffrano anche di più. Sono come Assalonne: dopo essere stato qualche tempo in esilio torna a Gerusalemme, ma col divieto di veder suo padre che l’amava teneramente. Quando gli si annunziò che rimarrebbe vicino a suo padre, ma non potrebbe vederlo, esclamò: « Ah! vedrò dunque le finestre e i giardini di mio padre e non lui? Ditegli che voglio piuttosto morire, anziché rimaner qui, e non aver la consolazione di vederlo. Ditegli che non mi basta aver ottenuto il suo perdono. ma è ancor necessario che mi conceda la sorte felice di rivederlo » [II Re, XIV — Veramente le parole qui citate furon dette da Assalonne, non quando udì la sentenza del Re, ma due anni dopo. (Nota del Traduttore)]. Così quelle povere anime, vedendosi tanto vicine a uscire dal loro esilio, sentono accendersi così vivamente il loro amor verso Dio, e il desiderio di possederlo, che pare non possano più resistervi. « Signore, gridano esse, rimirateci con gli occhi della vostra misericordia: eccoci al fine delle nostre pene ». — « Oh! siete pur felici, gridano a noi di mezzo alle fiamme che le tormentano, voi che potete ancora sfuggire questi patimenti! … ». Mi pare anche d’udir quelle povere anime, che non han né parenti, né amici: Ah! se vi resta ancora un poco di carità, abbiate pietà di noi, che da tanti anni siamo abbandonate in queste fiamme accese dalla giustizia divina! Oh! se poteste comprendere la grandezza de’ nostri patimenti, non ci abbandonereste come fate! Mio Dio! nessuno dunque avrà pietà di noi? È certo, miei fratelli, che quelle povere anime non possono nulla per sé; possono però molto per noi. E prova di questa verità è che nessuno ha invocate le anime del purgatorio senza aver ottenuta la grazia che domandava. E ciò s’intende agevolmente: se i Santi, che sono in cielo e non han bisogno di noi, si danno pensiero della nostra salute, quanto più le anime del purgatorio che ricevono i nostri benefìci spirituali a proporzione della nostra santità. « Non ricusate, o Signore, (dicono) questa grazia a quei Cristiani che si adoperano con ogni cura a trarci da queste fiamme! » Una madre potrà forse far a meno di chiedere a Dio qualche grazia per figli, che ha tanto amato e che pregano per la sua liberazione? Un pastore, che in tutto il corso della sua vita ebbe tanto zelo per la salute de’ suoi parrocchiani, potrà non chieder per essi, anche dal purgatorio, le grazie, di cui hanno bisogno per salvarsi? Sì, miei fratelli, quando avremo da domandar qualche grazia, rivolgiamoci con fiducia a quelle anime sante e saremo sicuri d’ottenerla. Qual buona ventura per noi avere, nella divozione alle anime del purgatorio, un mezzo così eccellente per assicurarci il cielo! Vogliamo chiedere a Dio il perdono de’ nostri peccati? Rivolgiamoci a quelle anime che da tanti anni piangono tra le fiamme le colpe da loro commesse. Vogliamo domandare a Dio il dono della perseveranza? Invochiamole, fratelli miei, che esse ne sentono tutto il pregio; poiché solo quei che perseverano vedranno Iddio. Nelle nostre malattie, nei nostri dolori volgiamo le nostre preghiere verso il Purgatorio, ed otterranno il loro frutto. Che cosa concluder, miei fratelli, da tutto questo? Eccolo. È certo molto scarso il numero degli eletti, che sfuggono interamente le pene del purgatorio; e i patimenti a cui quelle anime sono condannate, son molto superiori a quanto potremo intenderne. È certo pure che sta in nostra mano quanto può dar sollievo alle anime del Purgatorio, cioè le nostre preghiere, le nostre penitenze, le nostre elemosine e soprattutto la santa Messa. Finalmente siam certi che quelle anime, così piene di carità, ci otterranno mille volte più di quello che loro daremo. Se un giorno saremo nel Purgatorio, quelle anime non lasceranno di chiedere a Dio l’istessa grazia che avremo ad esse ottenuto; poiché han pur sentito quanto si soffre in quel luogo di dolori e quanto è crudele la separazione da Dio. Nel corso di quest’ottava consacriamo qualche momento ad opera sì bene spesa. Quante anime andranno in paradiso pel merito della santa Messa e delle nostre preghiere!… Ognun di noi pensi a’ suoi parenti, e a tutte le povere anime da lunghi anni abbandonate! Sì, fratelli miei, offriamo in loro sollievo tutte le nostre azioni. Cosi piaceremo a Dio che ne desidera tanto la liberazione, e ad esse procureremo la felicità del godimento di Dio. Il che io vi desidero.

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.]

Secreta

Deus, cujus misericórdiæ non est númerus, súscipe propítius preces humilitátis nostræ: et animábus fratrum, propinquórum et benefactórum nostrórum, quibus tui nóminis dedísti confessiónem, per hæc sacraménta salútis nostræ, cunctórum remissiónem tríbue peccatórum.

[Dio, la cui misericordia è infinita, accogli propizio le nostre umili preghiere, e in grazia di questo sacramento della nostra salvezza, concedi la remissione di ogni peccato a tutti i fedeli defunti a cui hai accordato di dar testimonianza al tuo nome.]

Præfatio
Defunctorum

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. In quo nobis spes beátæ resurrectiónis effúlsit, ut, quos contrístat certa moriéndi condício, eósdem consolétur futúræ immortalitátis promíssio. Tuis enim fidélibus, Dómine, vita mutátur, non tóllitur: et, dissolúta terréstris hujus incolátus domo, ætérna in cælis habitátio comparátur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia cœléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

[È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. In lui rifulse a noi la speranza della beata risurrezione: e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, cantiamo con voce incessante l’inno della tua gloria:

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

4 Esdr II:35; 34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono.]

Postcommunio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens et miséricors Deus: ut ánimæ fratrum, propinquórum et benefactórum nostrórum, pro quibus hoc sacrifícium laudis tuæ obtúlimus majestáti; per hujus virtútem sacraménti a peccátis ómnibus expiátæ, lucis perpétuæ, te miseránte, recípiant beatitúdinem.

[Fa’, o Dio onnipotente e misericordioso, che le anime dei tuoi servi e delle tue serve, per le quali abbiamo offerto alla tua maestà questo sacrificio di lode, purificate da tutti i peccati per l’efficacia di questo sacramento, ricevano per tua misericordia la felicità dell’eterna luce.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

1° NOVEMBRE (2022) FESTA DI TUTTI I SANTI

FESTA DI TUTTI I SANTI (2022)

Doppio di 1a classe con Ottava comune. – Paramenti bianchi.

Il tempio romano di Agrippa fu dedicato, sotto Augusto, a tutti i dei pagani, perciò fu detto Pantheon. Al tempo dell’imperatore Foca, tra il 608 e il 610, Bonifacio IV Papa, vi trasportò molte ossa di martiri tolte dalle catacombe. Il 13 maggio 610 egli dedicò questa nuova basilica cristiana a « S . Maria e ai Martiri ». Più tardi la festa di questa dedicazione fu solennemente celebrata e si consacrò il tempio a « Santa Maria » e a “Tutti i Santi“. E siccome esisteva in precedenza una festa per la commemorazione di tutti i Santi, celebrata in tempi diversi dalle varie chiese e poi stabilita da Gregorio IV (827-844) il 1° novembre, papa Gregorio VII traportò in questo giorno l’anniversario della dedicazione del Panteon. La festa di Ognissanti ci ricorda il trionfo che Cristo riportò sulle antiche divinità pagane. Nel Pantheon si tiene la Stazione nel venerdì nell’Ottava di Pasqua. – Santi che la Chiesa onorò nei primi tre secoli erano tutti Martiri, e il Pantheon fu dapprima ad essi destinato: per questo la Messa di oggi è tolta dalla liturgia dei Martiri. l’Introito è quello della Messa di S. Agata, più tardi usato anche per altre feste; il Vang., l’Off., e il Com., sono tratti dal Comune dei Martiri. La Chiesa oggi ci presenta la mirabile visione del Cielo, nel quale con S. Giovanni ci mostra il trionfo dei dodicimila eletti (dodici è considerato come un numero perfetto) per ogni tribù di Israele e una grande, innumerevole folla di ogni nazione, di ogni tribù, di ogni popolo e di ogni lingua prostrata dinanzi al trono ed all’Agnello, rivestiti di bianche stole e con palme fra le mani (Ep.). Intorno al Cristo, la Vergine, gli Angeli divisi in nove cori, gli Apostoli e i Profeti, i Martiri, imporporati del loro sangue, i Confessori, rivestiti di bianchi abiti e il coro delle caste Vergini formano, canta l’Inno dei Vespri, questo maestoso corteo. Esso si compone di tutti coloro che, qui, hanno distaccato i loro cuori dai beni della terra, miti, afflitti, giusti, misericordiosi, puri, pacifici, di fronte alle persecuzioni, per il nome di Gesù. « Rallegratevi dunque perché la vostra ricompensa sarà grande nei Cieli » dice Gesù (Vang., Com.). Fra questi milioni di giusti, che sono stati discepoli fedeli di Gesù sulla terra, si trovano numerosi nostri parenti, amici, comparrocchiani, che adorano il Signore, Re dei re e corona dei santi (invit. del Matt.) e ci ottengono l’implorata abbondanza delle sue misericordie (Or.). Il sacerdozio che Gesù esercita invisibilmente sui nostri altari, dove Egli si offre a Dio, si identifica con quello che Egli esercita visibilmente in Cielo. – Gli altari della terra, sui quali si trova «l’Agnello di Dio», e quello del Cielo, ov’è l’ « Agnello immolato », sono un solo altare.: perciò la Messa ci richiama continuamente alla patria celeste. Il Prefazio unisce i nostri canti alle lodi degli Angeli, e il Communicantes ci unisce strettamente alla Vergine e ai Santi.

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei

[Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]

Ps XXXII:1.
Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.

[Esultate nel Signore, o giusti: ai retti si addice il lodarLo.]

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei

 [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui nos ómnium Sanctórum tuórum mérita sub una tribuísti celebritáte venerári: quǽsumus; ut desiderátam nobis tuæ propitiatiónis abundántiam, multiplicátis intercessóribus, largiáris.
 

[O Dio onnipotente ed eterno, che ci hai concesso di celebrare con unica solennità i meriti di tutti i tuoi Santi, Ti preghiamo di elargirci la bramata abbondanza della tua propiziazione, in grazia di tanti intercessori.]

Lectio

Léctio libri Apocalýpsis beáti Joánnis Apóstoli.
Apoc VII:2-12
In diébus illis: Ecce, ego Joánnes vidi álterum Angelum ascendéntem ab ortu solis, habéntem signum Dei vivi: et clamávit voce magna quátuor Angelis, quibus datum est nocére terræ et mari, dicens: Nolíte nocére terræ et mari neque arbóribus, quoadúsque signémus servos Dei nostri in fróntibus eórum. Et audívi númerum signatórum, centum quadragínta quátuor mília signáti, ex omni tribu filiórum Israël, Ex tribu Juda duódecim mília signáti. Ex tribu Ruben duódecim mília signáti. Ex tribu Gad duódecim mília signati. Ex tribu Aser duódecim mília signáti. Ex tribu Néphthali duódecim mília signáti. Ex tribu Manásse duódecim mília signáti. Ex tribu Símeon duódecim mília signáti. Ex tribu Levi duódecim mília signáti. Ex tribu Issachar duódecim mília signati. Ex tribu Zábulon duódecim mília signáti. Ex tribu Joseph duódecim mília signati. Ex tribu Bénjamin duódecim mília signáti. Post hæc vidi turbam magnam, quam dinumeráre nemo póterat, ex ómnibus géntibus et tríbubus et pópulis et linguis: stantes ante thronum et in conspéctu Agni, amícti stolis albis, et palmæ in mánibus eórum: et clamábant voce magna, dicéntes: Salus Deo nostro, qui sedet super thronum, et Agno. Et omnes Angeli stabant in circúitu throni et seniórum et quátuor animálium: et cecidérunt in conspéctu throni in fácies suas et adoravérunt Deum, dicéntes: Amen. Benedíctio et cláritas et sapiéntia et gratiárum áctio, honor et virtus et fortitúdo Deo nostro in sǽcula sæculórum. Amen. – 

[In quei giorni: Ecco che io, Giovanni, vidi un altro Angelo salire dall’Oriente, recante il sigillo del Dio vivente: egli gridò ad alta voce ai quattro Angeli, cui era affidato l’incarico di nuocere alla terra e al mare, dicendo: Non nuocete alla terra e al mare, e alle piante, sino a che abbiamo segnato sulla fronte i servi del nostro Dio. Ed intesi che il numero dei segnati era di centoquarantaquattromila, appartenenti a tutte le tribú di Israele: della tribú di Giuda dodicimila segnati, della tribú di Ruben dodicimila segnati, della tribú di Gad dodicimila segnati, della tribú di Aser dodicimila segnati, della tribú di Nèftali dodicimila segnati, della tribú di Manasse dodicimila segnati, della tribú di Simeone dodicimila segnati, della tribú di Levi dodicimila segnati, della tribú di Issacar dodicimila segnati, della tribú di Zàbulon dodicimila segnati, della tribú di Giuseppe dodicimila segnati, della tribú di Beniamino dodicimila segnati. Dopo di questo vidi una grande moltitudine, che nessuno poteva contare, uomini di tutte le genti e tribú e popoli e lingue, che stavano davanti al trono e al cospetto dell’Agnello, vestiti con abiti bianchi e con nelle mani delle palme, che gridavano al alta voce: Salute al nostro Dio, che siede sul trono, e all’Agnello. E tutti gli Angeli che stavano intorno al trono e agli anziani e ai quattro animali, si prostrarono bocconi innanzi al trono ed adorarono Dio, dicendo: Amen. Benedizione e gloria e sapienza e rendimento di grazie, e onore e potenza e fortezza al nostro Dio per tutti i secoli dei secoli.]

Graduale

Ps XXXIII:10; 11
Timéte Dóminum, omnes Sancti ejus: quóniam nihil deest timéntibus eum.
V. Inquiréntes autem Dóminum, non defícient omni bono.

[Temete il Signore, o voi tutti suoi santi: perché nulla manca a quelli che lo temono.
V. Quelli che cercano il Signore non saranno privi di alcun bene.]

Alleluja

(Matt. XI:28)
Allelúja, allelúja – Veníte ad me, omnes, qui laborátis et oneráti estis: et ego refíciam vos. Allelúja.

[Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi: e io vi ristorerò. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt V: 1-12
“In illo témpore: Videns Jesus turbas, ascéndit in montem, et cum sedísset, accessérunt ad eum discípuli ejus, et apériens os suum, docébat eos, dicens: Beáti páuperes spíritu: quóniam ipsórum est regnum cœlórum. Beáti mites: quóniam ipsi possidébunt terram. Beáti, qui lugent: quóniam ipsi consolabúntur. Beáti, qui esúriunt et sítiunt justítiam: quóniam ipsi saturabúntur. Beáti misericórdes: quóniam ipsi misericórdiam consequéntur. Beáti mundo corde: quóniam ipsi Deum vidébunt. Beáti pacífici: quóniam fílii Dei vocabúntur. Beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam: quóniam ipsórum est regnum cælórum. Beáti estis, cum maledíxerint vobis, et persecúti vos fúerint, et díxerint omne malum advérsum vos, mentiéntes, propter me: gaudéte et exsultáte, quóniam merces vestra copiósa est in cœlis.”

[In quel tempo: Gesù, vedendo le turbe, salì sul monte, e postosi a sedere, gli si accostarono i suoi discepoli, ed Egli, aperta la bocca, li ammaestrava dicendo: « Beati i poveri di spirito, perché loro è il regno de’ cieli. Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra. Beati coloro, che piangono, perché essi saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché  anch’essi troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati quelli che sono perseguitati per cagione della giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. Beati voi quando vi avranno vituperati e perseguitati e, mentendo, avranno detto ogni male di voi, per cagione mia. Rallegratevi e giubilate, perché grande è la mercede vostra in cielo ».]

Omelia

[Giov. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle Feste del Signore e dei Santi – Soc. Edit. Vita e Pensiero, Milano, VI ed. 1956]

CHI SONO I SANTI

Prima ancora della venuta del Salvatore Gesù, un famoso architetto di nome Marco Agrippa, aveva innalzato in Roma un tempio magnifico detto Pantheon, cioè consacrato a tutti gli dei, a quelli noti e a quelli ignoti. Quando Roma fu convertita al Cristianesimo, quel tempio non fu distrutto: se i pagani avevano i loro dei bugiardi, non avevamo noi i nostri santi da onorare? Perciò dal Papa Bonifacio IV fu consacrato al culto dei Martiri che in ogni parte della terra avevano offerto il sangue e la vita a Dio. Dal culto di tutti i Martiri al culto di tutti i Santi fu breve il passo. Ed è chiara la ragione. Di quanti Santi noi non conosciamo né la storia, né il nome! Dio solo ha visto e compreso la loro anima, le loro virtù, le preghiere, le sofferenze lunghe, le penitenze aspre… E poi, anche di tutti quelli che conosciamo, non ci è possibile celebrare una festa particolare durante l’anno. Eppure non è giusto che molti di questi eroici Cristiani siano dimenticati, e non è bene perdere la protezione loro potente. Per tutte queste ragioni la santa Chiesa ha stabilito una festa per onorarli e invocarli insieme. Permettetemi ancora due altre chiarificazioni: 1. Quando veneriamo i Santi, noi non siamo idolatri, perché ogni onore dato a questi, termina sempre a Dio, a cui soltanto si deve l’onore, la gloria, l’adorazione. Se voi ammirate e lodate un quadro di valore, forse che il pittore si offenderà? Ebbene, i Santi sono le opere artistiche di Dio, il quale ha scolpito e dipinto il suo volto nella loro anima. Se voi ammirate e lodate i figlioli, forse che il padre si offenderà? ebbene i Santi sono i figli prediletti del Signore, quelli che più gli assomigliano. 2. I Santi poi si devono onorare santamente, e non come il mondo festeggia i suoi amici. Ci sono di quelli che amano la festa perché sono esercenti e sperano guadagno; amano la festa perchè potranno darsi all’allegria, al piacere della gola, allo sfoggio d’un bel vestito. « Che maniera è questa? — esclama sdegnato S. Gerolamo. — Con la sovrabbondanza del bere e del mangiare volete onorare chi ha vissuto nella solitudine e nella modestia angelica? Voi amate la festa del Santo, ma non il Santo » (S. Hier., 44 Eust.). – Ci sono poi degli altri che amano il Santo, ma non la sua santità. Ne troverete moltissimi in giro all’altare di S. Antonio, di S. Espedito, di S. Teresa; moltissimi che portano lumi e fiori agli altari; ma sono pochi quelli che si mettono dietro gli esempi che i Santi ci hanno lasciato. Eppure non v’è devozione più efficace dell’imitazione. « È falsa pietà onorare i Santi, e trascurare di seguirli nella santità » (S. Eusebio, in homilia, in homilia). E allora? allora noi dobbiamo sforzarci di raggiungere la vera devozione dei Santi, quella che è fatta di umiliazione e di preghiera, poiché i Santi sono un grande esempio ed un grande aiuto per noi. – 1. I SANTI SONO UN GRANDE ESEMPIO. Erano tristissimi giorni per il popolo israelitico. Gerusalemme posseduta dallo straniero; il tempio invaso, derubato, profanato; la gioventù uccisa o prigioniera; e per ogni villaggio s’udivano le feroci canzoni dei soldati d’Antioco, sempre bramosi di predare e di massacrare. Matatia, il vecchio genitore dei Maccabei, s’era nascosto nel deserto, ove, un po’ per l’età e molto per l’angoscia, s’ammalò da morire. Ma prima di chiudere la sua bocca nel silenzio eterno, si chiamò vicino i suoi cinque figli e disse: « Creature mie! vi tocca vivere in un mondo perverso, in un tempo di peccato e di scandalo: la nazione nostra è distrutta. Ricordate la rassegnazione di Giuseppe, venduto da’ suoi fratelli crudeli e pure tanto timoroso della legge di Dio che fuggì dall’impura donna di Putifarre, e fu promessa. Ricordate Davide, quanto fu pio, quanto fu saggio! e Dio gli diede un trono nei secoli. Ricordate Daniele che per la sua rettitudine fu messo nella fossa dei leoni, e quei tre giovanetti che preferirono farsi gettare nel forno acceso piuttosto che trasgredire la legge… ». Così di generazione in generazione, il vegliardo morente rievocava ai figli le gesta dei santi dell’Antico Testamento. E quand’ebbe finito, alzò le mani a benedire: ma già le sue labbra non si agitavano più: era spirato (I Macc., II). A me pare che, come il vecchio Matatia, anche la Chiesa raduni oggi i suoi figliuoli e additi gli esempi dei Santi. Noi viviamo in tempi di peccato e in un mondo maligno, ma prima di noi ci vissero i Santi che ora sono in paradiso. Ricordiamo i loro esempi, per imitarli e farci ancora noi Santi. « Ma io non ho tempo — si dice da alcuni — per pensare alla santificazione dell’anima, e a tante devozioni: sono troppo occupato negli affari ». E credete voi che S. Teresa di Gesù, S. Caterina da Genova, S. Filippo Neri non avessero occupazioni materiali? Ah, se deste all’anima vostra tutto il tempo che date al divertimento, alle vanità, alle conversazioni mondane e frivole, quanto grande sarebbe la vostra santificazione! Dite di non aver tempo: ma voi avete tutta la vita, perché Dio vi ha creati solo per questo. « Ma io ho famiglia, io vivo in un ambiente corrotto, io mi trovo in mezzo a scandali ». Non crediate che solo i frati o le suore possano diventare santi: ci fu S. Luigi, re di Francia; e una S. Pulcheria che viveva nella corruzione della corte di Costantinopoli; e un S. Isidoro contadino; e una S. Zita serva in famiglie private. In ogni ambiente si può salvare l’anima. « Ma io ho un temperamento focoso, superbo, sensuale… non posso resistere alle tentazioni ». Anche i Santi ebbero una carne e un sangue come il vostro; anch’essi provarono tutte le vostre tentazioni; eppure riuscirono, se quelli riuscirono, e perché non noi? Non crediate che a S. Agostino sia stato facile vivere in purità, non crediate che a S. Carlo sia costato poco vivere in umiltà, non crediate che a S. Francesco di Sales sia stato naturale vivere in soavità: studiate la loro vita, e conoscerete che furiose lotte sostennero contro le passioni! Eppure vinsero. Soltanto noi non vinceremo? – 2. I SANTI SONO UN GRANDE AIUTO. Quando la carestia affamò la terra di Canaan un vecchio e i suoi figli vennero in Egitto, e si presentarono al Faraone per avere da mangiare. Ma in Egitto, nello stesso palazzo del Faraone v’era Giuseppe. « È mio padre! Sono i miei fratelli! » disse Giuseppe presentandoli al Sovrano. E quelli ebbero da mangiare, da vivere beatamente e terre da coltivare: ebbero quello che chiedevano e molto di più. Anche noi abbiamo nella regione d’ogni abbondanza, nella magione stessa del gran sovrano Iddio, i nostri ricchi fratelli: i Santi. Ogni volta che per carestia spirituale o materiale ci rivolgiamo al cielo, essi si volgono a Dio per dirgli: « Ascoltali! Esaudiscili, perché sono i nostri fratelli minori ». Potrà il Signore non ascoltare la preghiera de’ suoi intimi amici? I Santi nel cielo non diventano egoisti che si godono la meritata felicità, essi si ricordano ancora di noi poveri mortali. Essi che soffrirono un tempo quello che oggi soffriamo noi, sanno capirci e ci seguono con ansietà per ogni peripezia del viaggio terreno e supplicano, con vive istanze Colui che comanda ai venti e al mare di proteggere la nostra barchetta dalla burrasca delle passioni. Essi che già esperimentano la infinita gioia del paradiso, tremano che noi abbiamo a perderla e supplicano perché ci si conduca nel beato porto. I Santi in cielo e i Cristiani in terra sono una famiglia unica; e come in una famiglia il fratello buono intercede presso il padre adirato per la disubbidienza dei figli discoli, così i Santi placano Iddio quando vuole castigarci per i peccati. Non avete letto nella Storia Sacra che il Signore aveva una volta deciso di sterminare la gente di Israele, perché s’era ribellata a’ suoi comandamenti? Ma in mezzo al popolo maledetto stavano due anime sante: Mosè ed Aronne. « Allontanatevi voi! — diceva nel suo furore Iddio. — Perché io voglio sterminare tutti in un momento ». Quelli invece non si ritirarono, e Dio per la loro intercessione s’accontentò di punire soltanto i tre più colpevoli (Num., XVI, 20 ss.). Come Mosè, come Aronne, i Santi si mettono tra l’ira di Dio e noi. Chi può dire quanti fulmini hanno sviato dal nostro capo? Perché non siamo morti dopo il primo peccato mortale? Perché il Signore ci lascia ancora tempo a penitenza? Oh se potessimo vedere quello che avviene in paradiso!… Se i Santi sono così potenti per chiedere ed intercedere, è tutto nostro interesse pregarli frequentemente, fervorosamente. Però non facciamo come molti Cristiani i quali ricorrono ai Santi solo per gli interessi materiali: sarebbe un grave torto verso di loro che tanto disprezzo hanno avuto per le cose mondane. Tante preghiere per la salute del corpo, e per quella dell’anima? Tanti lumi e tanti fiori per un affare di danaro o di roba, e per gli affari della gloria di Dio e della conversione dei peccatori? Chiediamo prima il regno di Dio, che il resto non ci mancherà. Il Signore ha promesso che dove sono in due o più a pregare nel suo nome, Egli è in mezzo a loro e li esaudisce: ebbene, in paradiso, non uno o due appena, ma sono migliaia e migliaia, e santi, che pregano per noi. La loro preghiera quindi è il nostro più grande aiuto. – S. Giovanni l’Evangelista, rapito in visione, vide aperta innanzi a sé una gran porta, per la quale entrava in cielo una sterminata moltitudine; d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni tempo, d’ogni condizione di vita. Questa rivelazione è consolante. Se il numero degli eletti è interminabile così che neppure S. Giovanni è riuscito a contarli, vuol dire che non è poi tanto difficile salvarsi, vuol dire che anche noi possiamo riuscire a passare per quella porta che è Cristo, ed entrare in compagnia dei Santi. V’è però una condizione essenziale. Quelli che giungono a salvamento, recano tutti in fronte un suggello che è come il carattere di somiglianza e di appartenenza all’Eterno Padre e al suo Figlio Unigenito. Questo suggello, — secondo il profeta Ezechiele, — ha la forma d’un T. cioè d’una croce, e vien impresso sulla fronte di coloro che piangono e gemono. Signa Thau super frontem vivorum gementium et flentium (Ezech., IX, 4). Che vuol dir ciò? vuol dire che per essere partecipi della gloria e del gaudio dei Santi, bisogna prima aver partecipato alle loro penitenze e sofferenze.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Sap III:1; 2; 3
Justórum ánimæ in manu Dei sunt, et non tanget illos torméntum malítiæ: visi sunt óculis insipiéntium mori: illi autem sunt in pace, allelúja.

[I giusti sono nelle mani di Dio e nessuna pena li tocca: parvero morire agli occhi degli stolti, ma invece essi sono nella pace.]

Secreta

Múnera tibi, Dómine, nostræ devotiónis offérimus: quæ et pro cunctórum tibi grata sint honóre Justórum, et nobis salutária, te miseránte, reddántur.

[Ti offriamo, o Signore, i doni della nostra devozione: Ti siano graditi in onore di tutti i Santi e tornino a noi salutari per tua misericordia.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

Communis
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessione dicéntes:
[È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli:, lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt V: 8-10
Beáti mundo corde, quóniam ipsi Deum vidébunt; beáti pacífici, quóniam filii Dei vocabúntur: beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam, quóniam ipsórum est regnum cœlórum.

[Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio: beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio: beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.]

Postcommunio

Orémus.
Da, quǽsumus, Dómine, fidélibus pópulis ómnium Sanctórum semper veneratióne lætári: et eórum perpétua supplicatióne muníri.

[Concedi ai tuoi popoli, Te ne preghiamo, o Signore, di allietarsi sempre nel culto di tutti Santi: e di essere muniti della loro incessante intercessione.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: NOVEMBRE 2022

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: NOVEMBRE 2022

ATTO EROICO DI CARITÀ VERSO I MORTI

OSSIA OFFERTA A MODO DI VOTO

Il padre teatino Gaspare Oliden di Alcalà, infiammato da zelo straordinario pel suffragio Di tutto il merito delle proprie buone opere in suffragi delle anime del Purgatorio, insinuò colla voce e colla stampa una pratica antica in sostanza, ma nuova nella forma, quella cioè di fare una spontanea oblazione di tutte le opere soddisfattorie che si fanno in vita e dei suffragi che si possono avere in morte, affinché la Santissima Vergine ne disponga a pro di quelle Anime sante che vuole liberare dal Purgatorio. Benedetto XIII, con suo Breve 23 agosto 1728 pubblicato in Madrid per mezzo del Nunzio Apostolico Alessandro Aldobrandini il 14 gennajo 1729, approvo solennemente tal pratica, e la arricchì dei tre privilegi che qui sotto si riferiscono. Pio VI confermò tali concessioni il 12 dicembre 1788; e Pio IX, con decreto Urbis et Orbis, del 30 settembre (1852, dichiarò solennemente la utilità e la eccellenza di questa divozione, confermando tutti i favori perciò concessi dai surriferiti suoi Predecessori. – Questo atto di carità si è detto che non è nuovo nella sostanza. Difatti, prima che fosse tanto inculcato dal Padre Oliden, fu praticato e raccomandato da due celebri Gesuiti, il P. Moncado, ed il P. Ribadeneira, non che dal P. Maestro Fr. Giacomo Baron, da S.Geltrude,da S. Liduina, da S. Caterina da Siena, da S. Teresa, dal Venerabile Ximenes, e più specialmente da S. Brigida, la quale, in punto di morte, fu dal celeste suo Sposo assicurata ché per la carità da lei usata alle Anime Purganti le erano perdonate tutte le pene che avria dovuto soffrire nel Purgatorio, e le sarebbe di molto aumentata la corona di gloria nel Paradiso .

I tre summenzionati Privilegi sono:

1. I Sacerdoti che hanno emesso tal voto godono l’indulto dell’altare Privilegiato personale per tutti i giorni dell’anno; 2. Tutti i fedeli che avranno fatto questo voto possono lucrare Indulgenza Plenaria applicabile solamente ai defunti in qualunque giorno si accostino alla SS . Comunione, purché visitino una qualche chiesa o pubblico oratorio e vi preghino secondo la mente di Sua Santità; 3. Similmente possono lucrare la Plenaria Indulgenza in tutti i lunedì dell’anno ascoltando la Santa Messa in suffragio delle anime Purganti ed adempiendo le altre suaccennate condizioni.

Formola dell’offerta a modo di voto.

Per vostra maggior gloria, o mio Dio, uno nell’essenza e trino nelle Persone, per imitare più dappresso il dolcissimo Redentore mio G. C. , e per mostrare la sincera servitù mia verso la madre della misericordia Maria santissima, che è madre anche delle povere anime del Purgatorio, io mi propongo di cooperare alla redenzione e libertà di quelle anime prigioniere debitrici ancora verso la divina giustizia delle pene dovute ai loro peccati; e nel modo che posso lecitamente, senza però obbligarmi sotto peccato alcuno vi prometto di buon cuore, e vi offro il mio spontaneo voto di voler liberar dal Purgatorio tutte le anime che Maria Santissima vuol liberare; e però nelle mani di questa Madre piissima pongo tutte le mie opere soddisfattorie e quelle da altri a me applicate sì in vita che in morte, e dopo il mio passaggio alla eternità. – Vi prego, o mio Dio, a volere accettare e confermare questa mia offerta, siccome io ve la rinnovo e confermo ad onor vostro ed a salute dell’anima mia. Che se per avventura le mie opere soddisfattorie non bastassero a pagare tutti i debiti di quelle anime cui la Vergine Santissima vuol liberare, non che i miei propri per le mie colpe, che odio e detesto di vero cuore, mi offro, o Signore, a pagarvi, se a Voi così piacerà, nelle pene del Purgatorio quello che manca, abbandonandomi del resto fra le braccia della vostra misericordia e tra quelle della dolcissima mia madre Maria. Di questa mia offerta e protesta voglio testimonj tutti i Beati del Cielo e la Chiesa tutta cosi militante qui in terra, come penante nel Purgatorio. Cosi sia.

Osservazioni su detto voto.

Giova avvertire: 1.Che per fare questo voto non è necessario pronunziare la suindicata formola, sebbene basta averne la volontà ed emetterlo col cuore; 2. Che esso non obbliga sotto pena di peccato; 3. Che per esso alle Pur ganti non si cede se non il frutto speciale e personale di ciascuno, il che punto non impedisce che i Sacerdoti possano applicare la Santa Messa all’intenzione di quelli che loro diedero la elemosina; 4. Che per esso voto tutte le Indulgenze che sono concesse o si concederanno in avvenire possono applicarsi alle Purganti; 5. Finalmente, che per concessione di Pio IX, 20 novembre 1854, coloro che non possono ascoltare la S. Messa nel lunedì, possono far valere quella che ascoltano nella domenica, e che pei giovanetti che ancora non sono alla comunione, e per coloro che sono impediti di farla, è rimesso all’arbitrio dei rispettivi Ordinarj di autorizzare i Confessori per la commutazione.

(G. Riva: Manuale di Filotea, XXX Ed. Milano, 1888).

589

Fidelibus, qui mense novembri preces aliave pietatis exercitia in suffragium fidelium defunctorum præstiterint, conceditur:

Indulgentia trium annorum semel quolibet mensis die;

Indulgentia plenaria, suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem idem pietatis opus compleverint. Iis vero, qui præfato mense piis exercitiis in suffragium fidelium defunctorum in ecclesiis vel publicis oratoriis devote interfuerint, conceditur:

Indulgentia septem annorum quolibet mensis die;

Indulgentia plenaria, si memoratis exercitiis saltem per quindecim dies vacaverint, additis sacramentali confessione, sacra Communione et oratione ad mentem Summi Pontificis.

[Per i fedeli che nel mese di novembre compiranno esercizi di pietà in suffragio dei fedeli defunti, si concede: indulgenza di tre anni in qualunque giorno – sette anni se compiuto in chiesa o in pubblico oratorio – Indulgenza plenaria se praticato per l’intero mese. Se praticato per almeno 15 giorni con confessione sacramentale e sacra Comunione: Indulgenza plenaria.]

(S. C. Indulg., 17 ian. 1888; S. Pæn. Ap., 30 oct. 1932).

Queste sono le feste del mese di Novembre 2022

1 Novembre Omnium Sanctorum    Duplex I. classis *L1*

2 Novembre In Commemoratione Omnium Fidelium Defunctorum     Duplex I. classis *L1*

4 Novembre S. Caroli Episcopi et Confessoris    Duplex

                                      PRIMO VENERDI’

5 Novembre

PRIMO SABATO

6 Novembre Dominica XXII Post Pentecosten III. Novembris    Semiduplex Dominica minor *I*

8 Novembre Commemoratio: Ss. Mart. Quatuor Coronatorum

9 Novembre In Dedicatione Basilicæ Ss. Salvatoris    Duplex II. classis *L1*

                             Commemoratio: S. Theodori Martyris

10 Novembre S. Andreæ Avellini Confessoris    Duplex

                                          Commemoratio: Ss. Tryphonis et Sociorum Mártyrum

11 Novembre S. Martini Episcopi et Confessoris    Duplex *L1*

                        Commemoratio: S. Mennæ Martyris

12 Novembre S. Martini Papæ et Martyris    Semiduplex

13 Novembre Dominica XXIII Post Pentecosten IV. Novembris    Semiduplex Dominica minor *I*

                                             S. Didaci Confessoris    Semiduplex

14 Novembre  S. Josaphat Episcopi et Martyris    Duplex

15 Novembre S. Alberti Magni Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

16 Novembre S. Gertrudis Virginis    Duplex

17 Novembre S. Gregorii Thaumaturgi Episcopi et Confessoris    Semiduplex

18 Novembre In Dedicatione Basilicarum Ss. Apostolorum Petri et Pauli    Duplex majus *L1*

19 Novembre  S. Elisabeth Viduæ    Duplex

20 Novembre Dominica XXIV et Ultima Post Pentecosten V. Novembris    Semiduplex Dominica

                                            S. Felicis de Valois Confessoris    Duplex

21 Novembre In Præsentatione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex majus

22 Novembre S. Cæciliæ Virginis et Martyris    Duplex *L1*

23 Novembre S. Clementis I Papæ et Martyris    Duplex

24 Novembre S. Joannis a Cruce Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex m.t.v.

25 Novembre S. Catharinæ Virginis et Martyris    Duplex

26 Novembre S. Silvestri Abbatis    Duplex

27 Novembre Dominica I Adventus    Semiduplex I. classis *I*

29 Novembre In Vigilia S. Andreæ Apostoli    Simplex

30 Novembre S. Andreæ Apostoli    Duplex II. classis *L1*

LA GRAZIA E LA GLORIA (41)

LA GRAZIA E LA GLORIA (41)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VIII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. — I SACRAMENTI, E SPECIALMENTE L’EUCARISTIA, SECONDO MEZZO DI CRESCITA.

CAPITOLO III

Altre due caratteristiche del frutto proprio dell’Eucaristia sono: la trasformazione dell’uomo in Gesù Cristo e la carità divina. Come tutti questi effetti siano in realtà un solo e medesimo effetto, al quale partecipa anche il corpo.

1. – Un terzo carattere sotto il quale ci viene costantemente presentato l’effetto principale dell’Eucaristia è che si tratti di una trasformazione del comunicante in Cristo Gesù. Già le parole unione, incorporazione, ci preparano a concepirlo in questa forma: essere così intimamente uniti a Gesù Cristo da entrare come membro nel suo Corpo mistico, non è forse trasformarsi in Lui? Ma sarà dolce per noi sentirlo affermare in questi termini espliciti. Impariamo, allora, dal grande Papa San Leone: « La partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non ha altro effetto che quello di trasformarci in ciò che prendiamo. Nihil aliud agit participatio corporis et sanguinis Christi quam ut in id quod summus, transeamus » (S. Leone M., Serm. 63, de Passione, 12, c. 7). Dionigi l’Areopagita parla di questo mistero in modo ancora più incisivo. Egli aveva insegnato che l’Eucaristia, tra tutti i sacramenti, è la sinassi per eccellenza: infatti, gli altri senza di essa rimangono incompleti. Se essi preparano, tra l’Unità divina e noi, la santa ed intimissima unione che è la nostra gloria, è l’Eucaristia che la completa; e « di conseguenza, i Pontefici, chiamandola sinassi (comunione), l’hanno designata con un nome che le si addice mirabilmente, poiché è tratto dalla natura stessa delle cose » (Dionigi, Areop., de Hierar. eccl., c. 3, § 1. P. Gr., t. 3, pp. 423-424). Come se temesse di averne detto troppo poco: « Chiunque – aggiunge – si accosta al banchetto divino con purezza, ottiene partecipandovi di essere trasformato nella divinità » (Id. Ibid.). Sono espressioni molto audaci, ma nel contesto portano con sé il correttivo necessario per rimanere nei giusti limiti della verità. – La trasformazione dei fedeli in Gesù Cristo è stata promessa a Sant’Agostino da questa parola che ha ascoltato uscire dal tabernacolo poco dopo la sua conversione: « Io sono l’alimento per i forti. Credimi e mangiami. Ma non mi cambierai in te; sarai tu a trasformarti in me » (S. August, Confess, L., VII c. 10). Non vediamo qui una di quelle esagerazioni che possono sfuggire all’entusiasmo degli oratori o all’ardente pietà dei mistici.  I teologi scolastici, il cui linguaggio è il più esatto e il cui pensiero è il meno fluttuante, non hanno temuto di prendere in prestito espressioni simili dai Padri. Testimone San Tommaso d’Aquino: ecco come si esprime nel suo commento alle Sentenze. « La regola per arrivare ad una buona conoscenza dell’effetto proprio di un sacramento è quella di giudicarlo per analogia con la materia del sacramento stesso… Pertanto, poiché la materia del Sacramento eucaristico è il cibo, il suo effetto proprio deve essere analogo a quello del cibo. Ora, il cibo corporeo inizia ad essere trasformato nella persona che lo assume; ed è attraverso questa conversione che ripara le perdite dell’organismo e gli dà la giusta crescita. Ma il cibo spirituale, invece di essere convertito in colui che lo mangia, lo trasforma lui stesso in esso. Da ciò consegue che l’effetto proprio di questo sacramento è la conversione dell’uomo in Cristo, affinché egli possa veramente dire: « Io vivo; non sono io che vivo, ma Cristo che vive in me » (S. Thom. in IV, D 12, q. 2, a. 1. Sol. 1). – Siamo quindi avvertiti che, da una parte, l’analogia non è completa. Nella manducazione comune, è l’essere vivente che assimila il cibo e lo rende, da morto che era, partecipe di una vita superiore; qui, invece, è il cibo che trasforma in esso colui che lo ha mangiato. Ho detto che sotto un certo aspetto l’analogia non è completa. Ma da un punto di vista più elevato, la somiglianza è impressionante. Non è forse una legge delle assimilazioni che di due elementi che sono in presenza, spetta al più energico, al più vivace afferrare il più debole? Questa è l’osservazione fatta da S. Alberto Magno sul testo di Sant’Agostino. Quindi, conclude questo Dottore, « poiché questo cibo celeste è incomparabilmente più virtuoso per coloro che lo mangiano, è ad esso che tocca trasformarli in se stesso » (Albert. M., in 1V, D. 9, a. 4, ad 1). Così, nella mescolanza dei popoli, è il privilegio della razza più forte per vigore, numero e genio, di assorbire la più debole nella sua potente unità. Così, per usare un esempio volgare, il fuoco divora il legno e la paglia, e li trasforma in fuoco (Un opuscolo a lungo attribuito a San Tommaso sviluppa a lungo le stesse idee. « Quando il corpo del Signore viene mangiato degnamente dal fedele, non è lui che, come un cibo ordinario, si converte in chi lo mangia; al contrario, è lui che si trasforma spiritualmente in questo cibo divino. Il Signore, infatti, rende il fedele che lo riceve membro del suo corpo, se lo incorpora con l’unione della carità e lo assimila all’immagine della sua sovrana bontà. » –  « Ora, tre considerazioni ci aiutano a capire perché, quando mangiamo il corpo di Gesù Cristo, la conversione non avviene da Lui in noi, ma da noi in Lui. Il primo deriva dalla natura del nostro amore. In effetti, l’amore ha la virtù di trasformare il cuore di chi ama nell’oggetto amato. Poiché è necessario che diventiate simile a ciò che amate. La seconda ragione va ricercata nella virtù preponderante di uno degli elementi che si uniscono. Se si lascia cadere una goccia d’acqua in un grande vaso pieno di vino, essa pure diventerà vino. Così l’immensità della dolcezza e della virtù di Cristo, unendosi al cuore umile e piccolo dell’uomo, se ne impadronisce e lo trasforma in essa; così che nei nostri pensieri, nelle nostre parole e nelle nostre azioni non siamo più simili agli uomini del mondo o a noi stessi, ma a Cristo. – L’influenza dell’innesto ci fornisce la terza ragione. È proprietà del germoglio di un albero eccellente, quando viene innestato su un albero selvatico, convertire con la sua virtù naturale l’amarezza di quest’ultimo nella propria dolcezza e fargli produrre il proprio frutto. In questo modo Cristo, per così dire, innestato nella nostra natura, ne corregge i difetti e le comunica la sua bontà, cosicché noi portiamo attraverso di Lui le foglie, i fiori ed i frutti che Egli stesso produce. » – Opuscul. de sacr. alt., c. 20.). – Questo è ciò che Voi fate, o mio Salvatore, nella santa Comunione, quando nulla ferma la vostra operazione, che è allo stesso tempo così dolce e così forte. In questa misteriosa fusione, non siete Voi a rivestirvi delle mie infermità morali e delle mie debolezze; Dio non voglia! Sono io che divento partecipe delle vostre perfezioni, delle vostre virtù, della vostra vita e infine di tutto Voi stesso, nella misura in cui lo permetta la mia disponibilità a ricevervi. Quando guardo questa sorprendente conversione avvenuta sull’altare, dal pane alla sostanza del vostro corpo e dal vino alla sostanza del vostro sangue divino, vedo in essa un’immagine di ciò che vi degnate fare in me col tocco sacro di questa stessa carne e di questo stesso sangue. Da entrambe le parti, il cambiamento è ugualmente un’opera così alta e grande che solo la forza del vostro amore può bastare. Più felice della materia inerte, transustanziata dal ministero dei vostri Sacerdoti, mi è dato di conoscere il vostro beneficio e di goderne. – Tuttavia, so che se in me, come in essa, avviene una conversione che supera tutto ciò che la mia intelligenza potesse sospettare, la vostra parola mi avverte di non eguagliare ciò che è solo simile. Io conservo la mia sostanza e non cesso di essere me stesso nel diventare Voi; mentre la sostanza stessa degli elementi materiali si trasforma totalmente nella vostra sostanza. Ma se la conversione del pane è maggiore, sotto questo aspetto, di quella che avviene nei vostri fedeli, quest’ultima ha il privilegio di essere il fine a cui tende la prima, e di essere incomparabilmente più duratura grazie alla nostra fedeltà, sostenuta dalla vostra grazia. Essa ha questo ulteriore privilegio che nel Sacramento, sia prima che dopo la celebrazione dei misteri, c’è sempre lo stesso aspetto esteriore: la stessa forma, la stessa dimensione, lo stesso colore e lo stesso sapore; tanto che all’occhio umano non c’è nulla che distingua un’ostia consacrata da una non ancora consacrata. Ma, o Dio, se siamo veramente trasformati dalla partecipazione della vostra carne sacra, Voi producete, non solo nella parte più intima della nostra natura, ma persino nel nostro essere esteriore, “un non so che” che vi rivela e dice agli uomini che Voi siete l’unico che ha il potere di trasformarci, che vi rivela e dice agli uomini che siamo vostre membra e che d’ora in poi viviamo della vostra vita. –  Entriamo ancora di più nella contemplazione di un frutto sì mirabile. I Padri, illuminati dallo Spirito di Dio, ci invitano a farlo, quando ci mostrano, nella comunione del corpo e del sangue di Gesù Cristo, il complemento della sua divina incarnazione. « Mangiami, bevimi; per la tua natura divenuta la mia, ti ho portato nella mia Persona fino alle altezze del cielo; ed ecco, Ti unisco a me nell’umile dimora in cui tu abiti. Io ho le tue primizie lassù, ma non sono state sufficienti a soddisfare il tuo desiderio; ebbene! Eccomi quaggiù con te, unendo e mescolando la mia sostanza alla tua sostanza » (S. J. Crisostomo, hom. ad popul., 2. P. Gr., t, 49, p. 45). Così parla Gesù Cristo in San Giovanni Crisostomo; così parla anche il grande Vescovo di Poitiers, quella gloria della nostra Gallia, Sant’Ilario; e più tardi, San Cirillo  di Alessandria (S. Hilar., de Trinit,, L. VIH, n. 13-17; S. Cyrill. Al, Com. 1. Joan. XV, L. P. Gr., t. 74, p. 331 sqq. Cfr. Lessium, De perfect. di. L, XII, n. 75, 108, cfr. alibi passim). Non è certo che questi Dottori abbiano immaginato un’altra unione ipostatica che non sia quella del Verbo con la natura individuale che ha assunto nel grembo della Vergine immacolata. Ma a loro piace guardare a Gesù Cristo, nell’unione del capo con le membra, come ad una Persona di cui ciascuno di noi è parte, secondo la misura della sua grazia. Egli è ai loro occhi l’uomo Cattolico, che racchiude nella sua unità la varietà universale dei giusti; ed è soprattutto all’Eucaristia che attribuiscono questa trasfusione dei fedeli in Gesù Cristo, il Verbo incarnato.

2. Siamo giunti all’ultima carattere che riveste del Sacramento dell’altare, considerata in relazione al suo frutto. È il principio e l’alimento della carità divina. Partendo dall’amore infinito di Dio per l’uomo, dove potrebbe esso finire meglio che nell’amore dell’uomo per il suo Dio? Il Signore aveva detto nella sua vita mortale: « Sono venuto a portare il fuoco sulla terra. E cosa desidero se non che si infiammi? » (Luca, XII, 49). Questo è ciò che Egli fa in modo molto efficace nell’Eucaristia. Lui, il carbone ardente, entra con l’incendio di amore che lo consuma, nel profondo del nostro essere attraverso la Santa Comunione. Un serafino toccò una volta le labbra di Isaia con un carbone misterioso, e questo tocco consumò tutti i resti dell’iniquità nel cuore del Profeta (Is. VI, 6). Cosa non dobbiamo aspettarci da questa carne di Gesù Cristo, tutta ardente e bruciante, quando l’abbiamo nelle nostre stesse viscere? Il cuore di Gesù è così vicino al mio cuore che il battito dell’uno e dell’altro mi arriverebbero all’orecchio, se potessi sentirlo, e questo mio povero cuore rimarrebbe forse senza calore e senza amore? Non è il fuoco che devo biasimare, ma l’ostacolo che si frappone alla sua azione, la mia resistenza e le mie infedeltà. Se mi chiedo perché il mio divino Maestro abbia riservato all’ultima cena la predicazione più pressante del comandamento dell’amore, l’istituzione che Egli ne fa della santa Eucaristia si presenta come la risposta a questa domanda. Egli ha voluto darci in una sola volta queste due cose che sono l’anima della Legge evangelica: il precetto dell’amore, questo nuovo precetto, il suo precetto come lo chiama Lui, e il Sacramento che contiene e conferisce ogni virtù nell’osservarlo. – Noi abbiamo visto che il singolare privilegio dell’Eucaristia è quello di trasformarci in Colui che vi si dona. E non è questo se non l’effetto della carità? « In virtù di questo Sacramento – scrive il Dottore Angelico – avviene una certa trasformazione dell’uomo in Cristo per mezzo della carità…. E questo è il suo frutto proprio » (San Tommaso, IV, D. 12, q. 2, a. 2. Sol. 1). Chi non sa che l’amore ha questo potere di trasformazione? San Tommaso lo afferma e lo spiega proprio nel luogo da cui ho tratto la mia ultima citazione. « Il proprio della carità è che essa trasforma colui che ama nell’oggetto del suo amore, perché produce l’estasi, cioè come un’uscita da se stessi per passare in ciò che si ama. La sua vita diventa la nostra vita; i suoi gusti e le sue preferenze, i nostri gusti e le nostre preferenze; i suoi interessi, i nostri interessi; le sue volontà, la nostra. Ecco perché San Paolo non ha vissuto della propria vita, ma solo della vita di Gesù Cristo: è perché egli era posseduto dalla divina follia dell’amore. – Io ho letto nelle Vite dei Santi i favori concessi dal Maestro divino ad alcune anime privilegiate. Egli ritirava il cuore degli uni per immergerlo nel suo cuore, e lo restituiva loro bruciante come il ferro uscito dalla fornace; ad altri aprì il petto per sostituire il suo cuore al loro cuore con un misterioso scambio; a volte era questo stesso cuore che mostrava loro come se fosse incastonato nel suo, in modo che questi due cuori sembrassero formare un unico cuore. (Ho raccontato queste comunicazioni divine nel mio lavoro sulla “Devozione al Sacro Cuore di Gesù”, per spiegarne meglio la natura e il simbolismo. L. III, c, 2). Sono simboli toccanti e misteriosi, in cui possiamo leggere ciò che, in misura maggiore o minore, il Sacro Cuore di Gesù fa in ogni fedele che lo riceva con la giusta preparazione, il Sacramento della carità divina. – Ora, notiamolo con maggiore attenzione, perché questa proprietà dell’Eucaristia è meno evidenziata, « la cosa di questo Sacramento, cioè l’effetto da esso prodotto e da esso significato, è la carità, non solo in quanto all’abitudine, ma anche quanto all’atto » (S. Thom.., 3 p., q 79, a. 4). Quando il santo vecchio Simeone accolse tra le sue braccia il bambino che la Vergine Madre era venuta ad offrire nel tempio; quando Gesù e Giovanni Battista si incontrarono, entrambi ancora chiusi nel grembo delle loro madri, non ci fu forse un brivido nel cuore del vecchio e del precursore, causato dalla visita o dal contatto del Dio fatto uomo? Come allora, penetrando per amore con la sua carne nella nostra carne, questo non farebbe scaturire la fiamma luminosa dell’amore? Un carbone che brucia non porta con sé solo la virtù di riscaldare più tardi il materiale in cui è nascosto: entrando, lo infiamma. Così la Santa Eucaristia non solo produce la carità come principio d’amore, ma la attiva, la stimola e la mette in atto. E questa è la ragione più profonda per cui la negligenza e le distrazioni deliberate nella ricezione di questo Sacramento sono più colpevoli di quanto lo sarebbero altrove, perché esse si oppongono direttamente all’effetto attuale che deve naturalmente produrre (S. Thom, Ibid., a. 8 in corp. et ad 4). – E questo frutto della carità è così certo che i migliori teologi, seguendo il Dottore Angelico, lo indicano come loro causa prossima della maggior parte degli effetti secondari attribuiti all’Eucaristia. Se in certe circostanze rimette, in via eccezionale, anche il peccato mortale; se purifica l’anima dalle colpe leggere; se estingue o diminuisce il debito della pena temporale contratto per i peccati già perdonati; se è fonte di fervore, di gioia spirituale e di santi desideri; se inebria, per così dire, con la dolcezza della bontà divina, secondo le parole del Cantico: Mangiate, bevete, inebriatevi, miei diletti (Cant., V, 1. Cf. S. Thom., 3 p., q. 79. a. 1, ad 3 a. 6, ad 3); se purifica la nostra carne e modera gli ardori della concupiscenza, se, dico, produce tutti questi effetti, è principalmente perché, per sua natura, è il principio e lo stimolo della carità. – Tuttavia, le persone veramente pie non devono cogliere l’occasione in questa dottrina di rimproverarsi oltre misura, le divagazioni ostinate che possono, nonostante i loro sforzi, sfuggire alla loro debolezza. Indubbiamente, per il momento, esse ostacolano il frutto attuale della Carità. Quando l’attenzione è focalizzata su oggetti estranei, come possiamo produrre gli atti? Ma, dice S. Alberto Magno, a proposito di una difficoltà simile, il pane celeste è dotato di volontà. « Panis iste voluntarius est ». Esso può quindi riservare la pienezza della sua azione. Questi moti d’amore che Egli non suscita in voi, perché la vostra infermità non è pronta a riceverli ora, saprà produrli in un momento più opportuno, quando la vostra anima si sarà calmata e sarà in grado di volgersi più attentamente verso di Lui (È qui che bisogna ammirare la sicurezza della dottrina che si trova ovunque in San Tommaso d’Aquino. Ai suoi tempi, molti teologi ritenevano che qualsiasi peccato veniale, almeno se commesso nell’atto della Comunione, ne impedisse totalmente il frutto. S. Bonaventura sembra essere stato troppo influenzato da questa opinione. Si sono affidati ad una parola di Sant’Agostino che richiede che la manducazione dello spirito si accompagni e ravvivi la manducazione sacramentale. Al che S. Tommaso risponde: « Colui che si accosta al sacramento con un atto presente di peccato veniale, pur non mangiando attualmente il corpo del Signore per mezzo dello spirito, lo mangia abitualmente, poiché vive della vita della grazia: per questo riceve l’effetto abituale ma non l’effetto attuale. » – 3 P., q. 79, a. 8, ad 1; col, a. 1 ad 2). – Questi, dunque, sono i principali frutti che la Santa Eucaristia produce nelle anime. Diciamo meglio: il frutto principale, il frutto proprio. Perché, in fin dei conti, non si tratta che di uno stesso frutto, presentato in forme diverse e da punti di vista diversi per fare più luce su di esso. Infatti, non si può concepire la carità senza la trasformazione, di cui è in qualche modo l’operatrice, né la trasformazione senza l’unione, né queste tre cose senza vita soprannaturale e divina. E questo è ciò che nostro Signore ci fa capire molto chiaramente, nel sesto capitolo del Vangelo secondo San Giovanni, con queste ed altre formule simili: Io sono il pane della vita; chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me; chi ne mangia vivrà grazie a me e – secondo un’interpretazione molto comune – per me.

3. – Possiamo credere che a questi effetti sull’anima corrispondano analoghi effetti sul corpo? Sì, senza dubbio, e dobbiamo spiegarle brevemente, perché anch’esse confanno al nostro tema. La prima è un’unione molto intima di questo corpo con il sacro Corpo di Gesù Cristo. Non dimentico ciò che abbiamo mostrato in una delle pagine precedenti: l’unione sacramentale non ha altra durata che quella delle specie sacramentali. Ma oltre a questa unione fugace, ce n’è un’altra che, contratta nella Comunione, persiste dopo di essa. San Paolo, parlando del matrimonio cristiano, raccomanda agli sposi di « amare la propria moglie come il proprio corpo »: infatti, in virtù del sacramento che li unisce, « sono due in una sola carne » (Efesini V., 28, 31). Esiterei a fare questo paragone, o mio Salvatore, se dovessi basarmi sui miei pensieri. Ma tante volte ho sentito i Padri affermare che la comunione della tua sacra carne mi rende concorporeo (concorporeus), non solo con i fedeli, miei fratelli e sorelle, ma con Voi e che non posso fare a meno di riconoscere nelle loro espressioni un grande mistero. È scritto: « Il corpo della sposa non è in suo potere, ma in quello dello sposo » (I Corinzi VII, 4); e come ho già meditato, ogni anima che porti in sé la grazia è una sposa per Gesù Cristo. Quindi, il mio corpo, se ho la felicità di possedere la sua grazia nel mio cuore, appartiene a Gesù Cristo: gli appartiene attraverso il Battesimo, dove l’alleanza è stata stipulata con impegni reciproci; esso gli appartiene in modo più perfetto attraverso il dono reciproco che si fa nell’Eucaristia. La sposa, una volta che i giuramenti sono stati scambiati davanti agli altari, appartiene allo sposo; ma chi non sa quale forza dia alla loro unione la consumazione del loro patto? Così la Comunione stringe e perfeziona l’unione del nostro corpo con il Corpo del Signore. Questo è il mio corpo, prendetelo, dice Gesù. E i fedeli che la ricevono per goderne, rispondono a loro volta accettandola e con il dono di sé che l’accompagna. A voi anche il mio corpo con tutte le sue membra e tutto ciò che sono. « Il mio amato è mio e io sono del mio diletto » (Cantici II, 16.). L’unione principale avviene attraverso lo spirito; ma poiché l’unione dei corpi è il principio di questa unione spirituale, deve esserne anche la conseguenza. Sì, queste membra del Cristiano, santificate dal contatto più intimo con la carne di Gesù Cristo, diventano in modo più speciale le membra di questo stesso Salvatore: sono ossa delle sue ossa e carne della sua carne. Io non faccio che ripetere, in forma abbreviata, le forti espressioni dei Padri e dei Dottori. Leggiamo S. Efrem, S. Giovanni Crisostomo, S. Lorenzo Giustiniani, Teodoreto sul Cantico, S. Giovanni Damasceno e molti altri, e vedremo se stia esagerando! (S. Giovanni Crisostomo, hom. 10 in Efesini, n. 3; S. Giovan. Damas. de F. Orth, L. IV, c. 13; S. Efrem cujus hæc verba sunt: “Est anima nostra sponsa sancta facta immortalis sponsi, nuptiarum autem copulæ sunt divina mysteria” de Extr. Jud. et Compunct.; S. San Lorenzo. Justin, de Triumph. Christi agone; Teodoreto in Cant., L. II, ecc. Cfr. Franzel, de Euchar, tesi 19; Bossuet, Meditazione sull’Ultima Cena, 24° giorno.). – C’è da meravigliarsi se a questi corpi, che sono diventati suoi attraverso la comunione della sua carne, Gesù Cristo prometta la vita; non questa vita che deve presto passare sotto il soffio della morte, ma una vita senza fine, gloriosa come quella del suo stesso corpo? « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e Io lo risusciterò nell’ultimo giorno » (s. Joan, VI, 55). I Cristiani sono sempre stati profondamente penetrati di questa virtù vivificante dell’Eucaristia. Potrei chiamare a testimoniare gli Uffici liturgici di ogni rito e di ogni nazione: dappertutto si ritrovano, nella celebrazione dei funerali, le promesse di resurrezione attribuite dal Salvatore alla comunione del suo divin corpo e del suo sangue divino. Questa persuasione era talmente viva, che a volte portava ad abusi e persino ad errori. – Il terzo Concilio di Cartagine condannò una strana usanza che era stata introdotta in alcune parti dell’Africa. Si depositava sulla lingua dei morti un’ostia consacrata, la Vita, come veniva chiamata, per essere nel cadavere consegnato alla decomposizione, un seme vitale, un germe di resurrezione (S. August., de Peccat. mer. et rem., L I, c. 24; col. Conc. Carth. III, c. 6). Questo è stato l’abuso. Eccone l’errore: basandosi sulla parola di Gesù Cristo: Chi mangia la mia carne ha la vita eterna, alcuni interpreti fuorvianti pretendevano di assicurare la salvezza eterna ad ogni Cristiano che avesse ricevuto una volta la Comunione in modo degno; come se fosse impossibile perdere per colpa propria il diritto acquisito nel Sacramento, se lo si fosse santamente ricevuto. (S. Thom, Supplem., q. 99, a. 4, ad 2). – Affinché tutti gli effetti dell’Eucaristia sull’anima abbiano il loro analogo nel corpo del comunicante, dobbiamo ancora trovare un frutto che corrisponda alla carità. Se si trattasse solo di ciò che produce nei Santi, particolarmente privilegiati da Dio, non sarebbe difficile trovarlo. Chi non ha letto del tremore del cuore, delle fiamme che si accendono nel petto al contatto con la carne di Gesù, della deliziosa dolcezza che la stessa carne lascia alle labbra socchiuse per riceverla, delle estasi e dei rapimenti in cui il corpo, seguendo il movimento dell’anima, sale con essa verso il suo Dio? Ecco la carità tradotta, per così dire, nel corpo per virtù della divina Eucaristia. Ma stiamo cercando effetti meno straordinari e più comuni. Ora, una di quelle che troviamo più spesso riportate negli scritti dei Santi è la placazione della lussuria e la vittoria sulle sue tendenze disordinate. Come avverrebbe questo? Innanzitutto, con l’aumento della carità, perché è legge che quanto più l’amore di Dio si impadronisce del governo della nostra vita spirituale, tanto minore è la forza e l’influenza delle passioni malvagie in noi. Nate dalla ribellione dell’uomo contro Dio, si direbbe che esse siano morte dove la carità perfetta abbia ristabilito pienamente il regno di Dio. È a malapena possibile vedere che in rare occasioni respirino ancora. So che questo trionfo completo non sia frequente; ciò che è infinitamente più frequente è la vittoria della carità nella lotta ed il progressivo indebolimento della resistenza. – L’Eucaristia, questo vino che fa germogliare le vergini, non conduce forse più direttamente alla stessa meta? Questo è il segreto di Dio. Solo Lui può dirci se non ci sia una virtù che, uscendo dal suo corpo, agisca immediatamente sul nostro per moderare il suo pericoloso ardore. Senza dubbio, ha fatto questa meraviglia più di una volta. È secondo una legge costante che l’Eucaristia produca un tale effetto? È possibile almeno dubitarne (Suar. de Euchar., D. 64, S. 1). Tuttavia, non è improbabile che il Sacramento del corpo e del sangue del Signore eserciti questo influsso immediato sul corpo, nella misura in cui la bontà divina lo ritenga utile al fine principale, cioè alla santificazione dei fedeli. L’Estrema Unzione non ha effetti simili per il sollievo corporeo degli infermi? In ogni caso, la presa di possesso che Gesù Cristo fa di tutti noi attraverso la Comunione santificata ricevuta, ci dà un titolo speciale alla protezione che ci salvaguarda dagli attacchi del nostro grande nemico domestico. Ciò che non permise mai in quella carne di Maria che un giorno sarebbe stata la sua carne, non permetterà che prevalga nella nostra, dal momento che il Sacramento la unisce così strettamente alla sua. – Perciò non c’è arma migliore per vincere la lotta contro lo spirito impuro che la Comunione frequente e ricorrente. « Chi dunque – si chiede San Bernardo – sarà in grado di spezzare i furiosi assalti di questo mostro? Chi potrà guarire questa ulcera e questa cancrena della nostra povera natura? Abbiate fiducia: avete l’aiuto della grazia; e per darvi una certezza maggiore di successo, Dio mette a vostra disposizione il Sacramento del corpo e del sangue del Signore. E questo Sacramento ha due effetti ugualmente mirabili su di noi: diminuisce i nostri sentimenti negli attacchi più lievi, e toglie ogni consenso in quelli più gravi » (S. Bernardo, Serm. de Cœna Domini, n. 3). Questa carne di Gesù Cristo è una rugiada che scende dal cielo. « La rugiada non rinfresca forse il caldo torrido del giorno? » (Ecclesiastico, XVI, 16.2). « Il sacro Eulogio, che dovrebbe liberarci dalla morte, è ancora un rimedio efficace per le nostre malattie. Il Cristo, una volta che sia in noi, calma nelle nostre membra la legge della carne, vi mortifica le passioni moleste, vivifica il nostro amore per Dio e cura tutti i nostri mali » (S. Cyrill. Alex, L. IV in Joan., VI, 57. P. Gr., vol. 73, p. 585).

LA GRAZIA E LA GLORIA (42)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – “COMMUNI INTERPRETES DOLORUM”

«… Ma poiché sono i peccati, da noi commessi al cospetto di Dio (cf. Bar. VI, 1), che ci tengono lontani da Lui e ci gettano miseramente nella rovina, non basta, come del resto è noto a voi tutti, venerabili fratelli, elevare al Cielo assidue preghiere; non basta portarsi numerosi attorno agli altari della Vergine santissima per deporvi offerte, fiori e suppliche; ma è necessario altresì rinnovare i costumi in pubblico e in privato, in modo da porre così quelle solide basi, sulle quali soltanto poggia l’edificio della vita domestica e civile, edificio non discordante e caduco, ma omogeneo e duraturo … ». Questo monito, rivolto ai popoli tutti dal Santo Padre Pio XII in questa Enciclica scritta in tempi di guerra particolarmente duri e dolorosi, trova pure oggi la sua profonda validità, in tempi minacciati da orgogliose antiumane follie perpetrate da capi di popoli irresponsabili, corrotti ed asserviti a gruppi elitari di dominio mondiale animati da un odio satanico verso Dio, il suo Cristo e la sua Chiesa, ed in definitiva verso tutti gli uomini e specialmente i Cristiani osservanti la dottrina cattolica. Il Sommo Pontefice, con poche ed incisive espressioni, offre la ricetta più valida per poter efficacemente contrastare gli odi tra i popoli e portare ad essi la pace vera, la pace fondata sulla umana giustizia e sul rispetto della legge di Dio così come proclamata dalle sentenze evangeliche e dalla dottrina cattolica della vera Chiesa Cattolica romana, l’unica porta di accesso alla beatitudine eterna. Finché non si seguirà il percorso tracciato dal Santo Padre in questa lettera Enciclica e in analoghi documenti, non avremo purtroppo una vera e duratura pace, ma lotte, sventure, disastri e calamità di ogni tipo che potremmo evitare con alcuni banali accorgimenti in sintonia con la volontà divina. Ma oggi l’umanità sembra molto lontana dal considerare queste verità elementari, e corre dietro a false illusioni di uomini avidi e avvolti nella melma della lussuria e dell’inganno. Un giorno molti saranno gli uomini che si pentiranno di non aver fatto proprie queste parole per poter evitare i disastri delle guerre sulla terra, ed lo stagno di fuoco nella vita eterna.

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

COMMUNIUM INTERPRETES DOLORUM

PUBBLICHE PREGHIERE
PER LA PACE FRA I POPOLI

Interpreti dei dolori comuni, da cui quasi tutti i popoli già da lungo tempo sono così amaramente oppressi, nulla intendiamo tralasciare che miri a sollevare e in qualche modo lenire l’immensità delle miserie o ad affrettare la fine del terribile conflitto. Ma ben sappiamo che le risorse umane sono insufficienti a risanare queste sventure; ben sappiamo che gli umani accorgimenti, quando specialmente sono accecati dall’odio dalla vendetta, difficilmente giungono a una giusta ed equa composizione e a una fraterna concordia. È necessario pertanto innalzare frequenti preghiere al Padre dei lumi e delle misericordie (cf. Gc 1, 17; 2 Cor 1, 3), il quale solo può, in così grave smarrimento e agitazione di spirito, far sentire a tutti che troppe sono ormai le rovine e smisurato il cumulo delle stragi, troppe le lacrime, troppo il sangue sparso; di guisa che esigenze sia divine che umane assolutamente impongono che cessi al più presto questo spaventoso flagello. – Perciò, all’avvicinarsi del mese di maggio, consacrato in modo particolare alla vergine Madre di Dio, come già negli anni passati, così ora desideriamo esortare tutti di nuovo – i bambini specialmente e gli innocenti fanciulli – affinché implorino dal divino Redentore, per intercessione della sua Madre santissima, che i popoli in preda alle discordie, alle lotte e a ogni sorta di disgrazie possano alfine essere liberati dai lutti e dalle lunghe angosce. Ma poiché sono i peccati, da noi commessi al cospetto di Dio (cf. Bar 6, 1), che ci tengono lontani da lui e ci gettano miseramente nella rovina, non basta, come del resto è noto a voi tutti, venerabili fratelli, elevare al Cielo assidue preghiere; non basta portarsi numerosi attorno agli altari della Vergine santissima per deporvi offerte, fiori e suppliche; ma è necessario altresì rinnovare i costumi in pubblico e in privato, in modo da porre così quelle solide basi, sulle quali soltanto poggia l’edificio della vita domestica e civile, edificio non discordante e caduco, ma omogeneo e duraturo. Ricordino per conseguenza tutti e traducano nella vita pratica gli ammonimenti del profeta: «Tornate a me, dice il Signore degli eserciti, e io tornerò a voi:..» (Zc l, 3); e parimenti riflettano su quelle parole del grande vescovo d’Ippona: «Cambia il cuore, e si cambierà anche l’azione: estirpa la cupidigia e semina la carità».(2) « Desideri la pace? Opera giusto e avrai la pace: poiché la giustizia e la pace si sono baciate (Sal. LXXXIV, 11). Se non ami la giustizia, non avrai la pace: infatti la giustizia e la pace si amano e sono tra loro talmente unite, che se fai giusto, troverai la pace che bacia la giustizia… Se dunque vuoi venire alla pace, opera giusto: allontanati dal male e segui il bene, questo significa amare la giustizia; e quando avrai lasciato il male e avrai fatto il bene, cerca la pace e seguila ». Se tutti i fedeli saranno così animati e disposti, non vi è dubbio che le loro preghiere saliranno gradite al trono dell’Altissimo e otterranno dal Signore placato i conforti e i doni, di cui al presente tanto abbiamo bisogno.  – Ben conoscete di quali doni, di quali aiuti e di quali conforti abbiamo bisogno in questo travagliato momento. In primo luogo, però occorre domandare a Dio che le menti e i cuori degli uomini siano illuminati e rinnovati dagli insegnamenti della dottrina cristiana, dai quali solamente può venire la salvezza privata e pubblica, affinché questa devastatrice lotta di popoli e di continenti cessi di incrudelire, e i cittadini di ogni classe, ricongiunti dal vincolo dell’amicizia, dall’immenso cumulo delle rovine si accingano a ricostruire, sotto l’insegna della giustizia e della carità, l’edificio umano. Ma si deve inoltre chiedere al Redentore divino e alla sua santissima Madre in spirito di preghiera e di penitenza che sia vera e sincera la pace che porrà termine a questa guerra funesta e sanguinosa. – Non è purtroppo facile, fra tanto sconvolgimento di cose, mentre gli animi di molti sono ancora agitati da sentimenti di vendetta, venire a una pace, che sia ugualmente contemperata dall’equità e dalla giustizia, che soddisfi con fraterna carità le aspirazioni di tutti i popoli ed elimini i germi latenti delle discordie e delle rivalità. Per conseguenza quelli in modo speciale hanno bisogno dei lumi celesti, cui incombe il gravissimo compito di risolvere tale problema, dal cui giudizio dipende la sorte non pure della loro nazione, ma anche dell’umanità intera e delle future generazioni. Per questo motivo bramiamo che tutti rivolgano a Dio calde e intense preghiere e particolarmente i fanciulli durante il mese di maggio implorino dalla Madre della Divina Sapienza l’assistenza soprannaturale a coloro, la cui sentenza dovrà decidere la causa di tutti i popoli. E considerino questi e attentamente riflettano davanti a Dio che tutto ciò che sorpassasse i limiti della giustizia e dell’equità, certamente, presto o tardi, tornerebbe a enorme danno dei vinti e dei vincitori, perché ivi si nasconderebbe il seme di nuove guerre. – Desideriamo inoltre che quanti volentieri risponderanno a questa Nostra esortazione, non dimentichino la triste condizione di quelli che, o profughi ed esuli da lungo tempo attendono con ansia di rivedere il focolare domestico, o relegati nei campi di concentramento aspettano, dopo la guerra, la giusta libertà, o infine giacciono infermi negli ospedali. A questi infelici e a tutti gli altri, per i quali il presente conflitto è stato causa di angosce e dolori, voglia concedere la benignissima Madre di Dio le celesti consolazioni, e accordare la forza di quella cristiana pazienza, mercé la quale anche le sofferenze più acute diventano tollerabili e conducono a meritare la felicità eterna. – Sarà vostra premura, venerabili fratelli, di comunicare queste Nostre paterne esortazioni e voti ai fedeli alle vostre cure affidati; ai quali – e principalmente a voi tutti e singoli – impartiamo, auspicio dei doni celesti e pegno della Nostra benevolenza, l’apostolica benedizione.

Roma, presso San Pietro, il 15 aprile, domenica del Buon Pastore, dell’anno 1945, VII del Nostro pontificato.

PIO PP. XII

FESTA DI CRISTO RE (memoria della XXI Domenica dopo Pentecoste)

Messa della DOMENICA DI CRISTO RE (2022)

DÒMINE Iesu Christe, te confiteor Regem universàlem. Omnia, quæ facta sunt, prò te sunt creata. Omnia iura tua exérce in me. Rénovo vota Baptismi abrenùntians sàtanæ eiùsque pompis et opéribus et promitto me victùrum ut bonum christiànum. Ac, potissimum me óbligo operàri quantum in me est, ut triùmphent Dei iura tuæque Ecclèsiæ. Divinum Cor Iesu, óffero tibi actiones meas ténues ad obtinéndum, ut corda omnia agnóscant tuam sacram Regalitàtem et ita tuæ pacis regnum stabiliàtur in toto terràrum orbe. Amen.

DOMENICA In festo Domino nostro Jesu Christi Regis ~ I. classis

L’ULTIMA DOMENICA D’OTTOBRE

Festa del Cristo Re.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Doppio di prima classe. – Paramenti bianchi.

La festa del Cristo Re, per quanto d’istituzione recente, perché stabilita da Pio XI nel dicembre 1925, ha le sue più profonde radici nella Scrittura, nel dogma e nella liturgia. Merita, a questo riguardo d’esser riportato qui integralmente in versione italiana dall’ebraico, il famoso salmo messianico, che nel Salterio reca il n. 2. Il salmista comincia dal descrivere la congiura di popoli e governanti contro il Messia, cioè il Cristo:

A che prò si agitano le genti

e le nazioni brontolano vanamente?

Si sollevano i re della terra

e i principi congiurano insieme

contro Dio ed il suo Messia:

« Spezziamo i loro legami

e scotiamo da noi le loro catene ».

Popoli e governanti considerano come legami e catene intollerabili i precetti divini e cercano di ribellarvisi: tentativo ridicolo, conati di impotenti contro l’Onnipotente:

Chi siede nei cieli ne ride,

il Signore se ne fa beffe.

Poi loro parla con ira

e col suo sdegno ti sgomenta.

Dio stesso dichiara che il Re da Lui costituito su tutto il mondo è il Messia:

« Ho consacrato io il mio Re,

(l’ho consacrato) sul Sion, il sacro mio monte »..

Alla sua volta il Cristo Re dichiara:

« Promulgherò il divino decreto.

Dio m’ha detto: Tu sei il mio Figlio;

Io quest’oggi t’ho generato.

Chiedi a me e ti darò in possesso le genti

e in tuo dominio i confini della terra.

Li governerai con scettro di ferro,

quali vasi di creta li frantumerai ».

Il Salmista conchiude, rivolgendo un caldo appello ai governanti:

Or dunque, o re, fate senno:

ravvedetevi, o governanti della terra!

Soggettatevi a Dio con timore

e baciategli i piedi con tremore;

affinché non si adiri e voi siate perduti,

per poco che divampi l’ira sua.

Felici quelli che ricorrono a Lui!

(Trad. Vaccari)

Un altro salmo (CIX), il più celebre di tutto il salterio, insiste sugli stessi concetti: regalità del Cristo, il quale, nello stesso tempo cheRe dei secoli, è anche sacerdote in eterno; ribellione di re e popoli contro il Cristo; trionfo finale, schiacciante ed assoluto del Cristo sui propri nemici:

Responso del Signore (Dio) al mio Signore (il Cristo):

« Siedi alla mia destra,

finché io faccia dei tuoi nemici

lo sgabello dei tuoi piedi ».

Da Sionne stenderà il Signore

lo scettro di tua potenza;

impera sui tuoi nemici…

Il Signore ha giurato e non se ne pentirà;

« Tu sei sacerdote in eterno

alla guisa di Melchisedecco…».

(Ps. CIX).

Attraverso queste espressioni metaforiche ed orientali infravediamo delle grandi verità religiose e storiche: la dignità assolutamente regale e sacerdotale del Cristo; i suoi diritti, per generazione divina e per la redenzione del genere umano (vedi Merc. Santo, lez. di Isaia, c. LIII 1-12); la signoria di tutto il mondo (vedi Fil. II, 5-11); la feroce guerra mossa al Cristo dagli avversari in tutto ciò che sa di religioso e particolarmente di cristiano; la vittoria del Cristo Re. Venti secoli di storia cristiana dicono eloquentemente quanto siasi già avverata la Scrittura. Da Erode, così detto il Grande, che s’adombra del Cristo bambino, a Caifa, che paventa per la sua nazione, e Pilato, che teme per la sua sedia curule, ai Giudei, uccisori del Cristo e persecutori degli Apostoli, agli imperatori romani, che ad intervalli perseguitano la Chiesa per oltre due secoli, fino alle moderne rivoluzioni, che tutte si accaniscono anzitutto e soprattutto contro la Chiesa, è una lunga incessante storia di ribellioni di popoli e principi contro Dio ed il Cristo Re. Se guardiamo semplicemente al nostro secolo, alla persecuzione sanguinosa dei Boxer contro i Cattolici cinesi, alle persecuzioni del Messico, a quelle di quasi tutta l’Europa, dalla Russia alla Spagna, che guerra al Cristo Re! È fatale; ma altrettanto fatale la vittoria del Cristo. Ai suoi discepoli il Cristo Re dice: Confidate: io ho vinto il mondo (Giov., XVI, 33). Ai suoi nemici: Chiunque cadrà su questa pietra sarà spezzato; e colui sul quale la pietra cadrà sarà stritolato, Luc. XX, 18). Per impartirci tale dottrina « un’annua solennità è più efficace di tutti i documenti ecclesiastici, anche i più gravi» (Pio XI, Enciclica 11 dic. 1925). La festa di oggi è una grande lezione per tutti: lezione specialmente di illimitata fiducia pei veri fedeli: Felici quelli che ricorrono a Lui (al Cristo Re). Lezione anche di devoto, generoso servizio sotto il vessillo del Cristo Re. La Messa odierna ricorda soprattutto la gloria tributata al Cristo Re dai beati del Cielo (Introito); il regno del Figlio Unigenito, ed il suo primato assoluto in tutto e su tutto (Epistola); quel regno celeste che Gesù ha rivendicato davanti a Pilato, il quale non credeva che al proprio grado e stipendio (Vangelo). Il Prefazio canta le caratteristiche sublimi del regno del Cristo.  – Gesù-Cristo è il Verbo creatore, è l’Uomo-Dio seduto alla destra del Padre, è il nostro Salvatore. Sono questi i tre titoli di regalità.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confiteor

Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Dignus est Agnus, qui occísus est, accípere virtútem, et divinitátem, et sapiéntiam, et fortitúdinem, et honórem. Ipsi glória et impérium in sǽcula sæculórum.

[L’Agnello che fu sacrificato è degno di ricevere potenza, ricchezza, sapienza, forza, onore, gloria e lode; a Lui sia per sempre data gloria e impero, per …]

Ps LXXI: 1
Deus, iudícium tuum Regi da: et iustítiam tuam Fílio Regis.

[Dio, da al Re il tuo giudizio, ed al Figlio del Re la tua giustizia] –

Dignus est Agnus, qui occísus est, accípere virtútem, et divinitátem, et sapiéntiam, et fortitúdinem, et honórem. Ipsi glória et impérium in sǽcula sæculórum…

[L’Agnello che fu sacrificato è degno di ricevere potenza, ricchezza, sapienza. Forza, onore, gloria e lode; a Lui sia per sempre data gloria e impero, per …]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui in dilécto Fílio tuo, universórum Rege, ómnia instauráre voluísti: concéde propítius; ut cunctæ famíliæ géntium, peccáti vúlnere disgregátæ, eius suavissímo subdántur império: Qui tecum …

[Dio onnipotente ed eterno, che ponesti al vertice di tutte le cose il tuo diletto Figlio, Re dell’universo, concedi propizio che la grande famiglia delle nazioni, disgregata per la ferita del peccato, si sottometta al tuo soavissimo impero: Egli che …].

Commemoratio Dominica XXI Post Pentecoste n I. Novembris

Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut a cunctis adversitátibus, te protegénte, sit líbera, et in bonis áctibus tuo nómini sit devóta.

[Custodisci, Te ne preghiamo, o Signore, con incessante pietà, la tua famiglia: affinché, mediante la tua protezione, sia libera da ogni avversità, e nella pratica delle buone opere sia devota al tuo nome.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col 1: 12-20
Fratres: Grátias ágimus Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem ejus, remissiónem peccatórum: qui est imágo Dei invisíbilis, primogénitus omnis creatúra: quóniam in ipso cóndita sunt univérsa in cœlis et in terra, visibília et invisibília, sive Throni, sive Dominatiónes, sive Principátus, sive Potestátes: ómnia per ipsum, et in ipso creáta sunt: et ipse est ante omnes, et ómnia in ipso constant. Et ipse est caput córporis Ecclésiæ, qui est princípium, primogénitus ex mórtuis: ut sit in ómnibus ipse primátum tenens; quia in ipso complácuit omnem plenitúdinem inhabitáre; et per eum reconciliáre ómnia in ipsum, pacíficans per sánguinem crucis ejus, sive quæ in terris, sive quæ in cœlis sunt, in Christo Jesu Dómino nostro.

[Fratelli, ringraziamo con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in Lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in Lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di Lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.]

Graduale

Ps LXXI: 8; LXXVIII: 11
Dominábitur a mari usque ad mare, et a flúmine usque ad términos orbis terrárum.

[Egli dominerà da un mare all’altro, dal fiume fino all’estremità della terra]

V. Et adorábunt eum omnes reges terræ: omnes gentes sérvient ei.

[Tutti i re Gli si prostreranno dinanzi, tutte le genti Lo serviranno].

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Dan VII: 14.
Potéstas ejus, potéstas ætérna, quæ non auferétur: et regnum ejus, quod non corrumpétur. Allelúja.

[La potestà di Lui è potestà eterna che non Gli sarà tolta e il suo regno è incorruttibile]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem. – Joann XVIII: 33-37

  • In illo témpore: Dixit Pilátus ad Jesum: Tu es Rex Judæórum? Respóndit Jesus: A temetípso hoc dicis, an álii dixérunt tibi de me? Respóndit Pilátus: Numquid ego Judǽus sum? Gens tua et pontífices tradidérunt te mihi: quid fecísti? Respóndit Jesus: Regnum meum non est de hoc mundo. Si ex hoc mundo esset regnum meum, minístri mei útique decertárent, ut non tráderer Judǽis: nunc autem regnum meum non est hinc. Dixit ítaque ei Pilátus: Ergo Rex es tu? Respóndit Jesus: Tu dicis, quia Rex sum ego. Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimónium perhíbeam veritáti: omnis, qui est ex veritáte, audit vocem meam.

[In quel tempo, disse Pilato a Gesù: “Tu sei il re dei Giudei?”. Gesù rispose: “Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”. Pilato rispose: “Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?”. Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”.  Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”].

OMELIA

 [Giov. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle Feste del Signore e dei Santi – Soc. Edit. Vita e Pensiero, Milano, VI ed. 1956]

CRISTO RE DEI CUORI

Il vecchio Giacobbe, presagendo imminente la sua fine, chiama dattorno i suoi dodici figliuoli. Non era giusto che portasse con sé nel segreto della tomba la gran promessa che Dio gli aveva fatto. Per ciò, prima di morire sentì il bisogno di confidarla ai figli e parlò loro con accento profetico: « Venite e ascoltate, figliuoli di Giacobbe; ascoltate vostro padre ». E dopo aver predetto ad alcuni il proprio avvenire, si rivolse a Giuda: « Giuda, mio piccolo leone! tu regnerai sopra i tuoi fratelli, e la tua mano premerà la cervice dei tuoi nemici. Regnerai; ma fin quando verrà colui che deve venire. Tutte le genti lo aspetteranno, allora; sarà di una bellezza sovrumana; avrà gli occhi più fulvi del vino e i denti più bianchi del latte. Giuda, tu gli cederai il tuo scettro e il tuo impero » (Genesi, XLIX). – I dodici capi delle dodici tribù, con gli occhi aperti, sognavano il gran re, che sarebbe venuto, ed il loro cuore balzava, attraverso i secoli, incontro a Lui. Da Giacobbe, tutti i patriarchi prima di morire chiamavano i figli e i nipoti per richiamare in loro la speranza del re venturo, poi in pace chiudevano gli occhi nella morte. E Noè benedirà Sem perché nei suoi padiglioni nascerà il gran re. E Mosè dirà al popolo di non piangere per la sua morte, perché verrà un condottiero più grande di lui. – Quando i tempi furono maturi, quando tutte le generazioni erano in attesa, il gran re venne: Gesù Cristo. — Ma i Giudei lo rifiutarono e lo condussero davanti a Pilato, che gli disse: «Sei tu il re dei Giudei? » Risponde Gesù: « Lo dici da te, o perché altri te l’ha suggerito?» Risponde Pilato: « Forse ch’io son Giudeo? È la tua gente, sono i tuoi sacerdoti che ti hanno trascinato a me: che hai fatto? ». Risponde Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo. Se fosse di questo mondo, vedresti come i miei sudditi, con le armi, mi strapperebbero dalle mani dei Giudei. Ma il mio regno non è di quaggiù ». Allora Pilato gli domanda: « Dunque, tu sei Re? Risponde Gesù: «Tu lo dici: io lo sono ». – Fu un urlo brutale che salì dalla folla aizzata: « Non sappiamo che farne di questo re. Vogliamo Barabba ». – Gesù Cristo allora patì il più acerbo dei suoi dolori, e la più bassa delle sue ingiurie: il re era tra i suoi sudditi, e i sudditi non lo volevano. In propria venit et sui eum non receperunt (Giov., I, 11).Ma oggi i popoli hanno compreso lo sbaglio fatale di quel branco di Giudei. È passata la guerra che ci ha fatto piangere e sanguinare tanto, ed ognuno ha sentito il bisogno di un re, che non ha regno nelle ingiustizie e nelle iniquità di questo mondo, di un re che comprenda i nostri dolori e le nostre aspirazioni e ci voglia bene,di un re di pace. Princeps pacis (Isaia). E tutti i popoli nell’anno santo andarono a Roma dal Papa a contare i propri bisogni, e passando sotto al Vaticano, tutti gridavano la parola di S. Paolo: « Questo abbiam bisogno; che Egli regni ». Pio XI comprese; e nella sua enciclica, dell’11 dicembre 1925 impose che si facesse una festa a Cristo Re, ogni anno, all’ultima Domenica di Ottobre, e tutti consacrassero il proprio cuore a Lui. Cristo è Re, e Re dei cuori! « O popoli, battete le mani; tutti! Cantate un canto di gioia. Il Signore altissimo, il Signore terribile, il Re grande su tutta la terra finalmente regna ». (Salmi, XLVI, 1-3).1. CRISTO È RE. Davide vide il Messia seduto sopra un trono di maestà e di gloria nell’atto d’umiliare la baldanza sciocca dei suoi nemici; e l’udì pronunciare queste parole: « Io sono stato costituito re da Dio. Il Signore mi ha detto: tu sei il figlio mio: oggi ti ho generato. Domandalo, e ti darò in eredità le genti e in possesso i confini di tutta la terra » (Salmi, II). – Se Dio stesso l’ha creato re, chi oserà contestargli la dignità regia? Cristo è re perché ne ha tutti i diritti: di nascita e di conquista. È re perché lo hanno proclamato i profeti, e lo proclamano oggi tutti i popoli del mondo. Re per diritto di nascita. — Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo: due nature in una persona. Come Dio è Figlio di Dio e possiede tutto quello che Dio possiede. Per ciò è padrone di tutte le cose e regna dall’uno all’altro mare. Dominabitur a mari usque ad mare. (Ps., LXXI, 8). Anzi non solo è re, ma il re dei re, per il quale soltanto i re possono regnare; perché ogni potestà viene da Lui. Come uomo, Gesù è figlio di re e discende direttamente da Davide. Ecco perché  l’Arcangelo nell’Annunciazione dirà alla Vergine: « Il Signore lo porrà sul trono di Davide, padre suo » (Lc., I, 32). – Re per diritto di conquista. — Il peccato d’origine ci aveva resi schiavi e figli della maledizione: Gesù Cristo ci ha conquistati, tutti, non sborsando oro e argento come un vile mercenario, ma tutto il suo sangue, generosamente come non saprebbe il più coraggioso dei re (I Petr., I, 18). – Re per diritto di proclamazione. — I patriarchi, i profeti, i re lo proclamano. Isaia dice che nascerà bambino, che gli porranno sulle spalle l’imperio, e sarà un imperio di pace (IX, 6-7). E Davide canta che ai piedi di questo re si prostreranno gli Etiopi, e i suoi nemici davanti a lui lambiranno la polvere. I re di Tarso e gli abitanti dell’isola, gli offriranno doni; i monarchi degli Arabi e di Saba gli faranno offerte. Tutti i re della terra l’adoreranno; tutti i popoli della terra si metteranno sotto il suo impero (Salmi, LXXI). Oggi la magnifica profezia si è avverata: in quest’ultima domenica d’Ottobre, di qua e di là dei mari, un coro unisono s’eleva: « Viva Cristo re ».! – 2. RE DEI CUORI. I Dori, con arma e con incendio, invadevano l’Attica. In fretta s’arruolarono uomini per arrestare l’invasore: e già gli eserciti erano schierati a battaglia. Narra la leggenda che sia gli Atticesi che i Dori consultarono l’oracolo sul risultato dell’impresa e n’ebbero in risposta che la vittoria sarebbe toccata a quella parte il cui re fosse morto in guerra. Re d’Attica era Codro. Costui fu preso da tanto amore per i suoi che si travestì da contadino, si insinuò nel campo nemico e si fece uccidere. Quando i Dori seppero che il re d’Attica era morto, si spaventarono e fuggirono urlando. Codro è una favola; Gesù Cristo è una realtà. Egli ha dato la sua vita per noi. E perché potesse morire per la nostra salute, da Dio si è travestito da vero uomo, si è cacciato in mezzo ai suoi nemici, che l’hanno messo in croce. Ma la sua morte fu la vittoria: il demonio vinto ritornò nell’inferno. – Ma che re può essere quello che dà la vita per i suoi, se non un re d’amore? Cristo allora è re d’amore; re dei cuori. Osservate. Quando Gesù venne al mondo fu posto in una greppia vicino a due animali. Pure si capì che era un re. Una gran luce attraversò il cielo nel cuor della notte, gli Angeli cantarono, occorsero i pastori, accorsero tre re. Una bella occasione per cominciare il suo regno, se Gesù avesse voluto regnare con soldati e con oro. Ma re di questo mondo, Cristo non ha voluto esserlo: e lasciò tornare, per un’altra via i Re Magi. – Quando Gesù nel deserto moltiplicò i pani e sfamò migliaia di persone, tutto il popolo delirante d’entusiasmo per la sua persona lo proclamava re. Bella occasione se avesse voluto regnare come un re dei corpi, che sa nutrirli prodigiosamente. Ma re dei corpi, Cristo non ha voluto esserlo; e fuggì a nascondersi in mezzo alle montagne. – Quando Gesù fu mostrato al popolo dal litostrato di Pilato aveva in testa una corona, ma di spine; aveva sulle spalle e sul petto la porpora, di sangue suo; stringeva nelle mani lo scettro, ma di canna. Pilato gridò al popolo: « Ecco il vostro Re ». Ecce rex vester (Giov., XIX, 14). Il popolo ghignava. Bella occasione di far piovere fuoco e zolfo, di soffocare eternamente quegli uomini crudeli. Ma re di terrore di strage, Cristo non ha voluto esserlo, mai. Cristo è re, e re del cuore. Eccolo in trono: sulla croce. In alto in diverse lingue sta scritta la sua dignità, re dei Giudei. Porta la corona di spine, la porpora di sangue, decorazioni di piaghe atroci. Un soldato, con la lancia gli trapassa il petto, gli mostra il cuore. Ora veramente è re. Dominus regnavit a ligno. – Guardiamolo, Cristiani, il nostro re sopra quel legno! Dal suo lato perforato esce un grido regale: « Figlio, dammi il tuo cuore! » – So di un’anima, di una giovane anima che, durante la persecuzione messicana del 1927, gli ha risposto: « Sì, Cristo re, il mio cuore te lo do ». Il suo nome, che bisogna dire con venerazione come quello dei martiri è Juan Sanchez dello stato di Ialisco nel Messico. Ricco e nobile di famiglia, più ricco e più nobile per sentimenti cattolici, fu arrestato dai legionari di Calles. Pretendevano che apostatasse. Pubblicamente gli fu imposto di rinunciare alla Religione; egli rispose: « Viva Cristo Re ». Il martirio fu cruento e degno dei carnefici, i quali cominciarono a tagliargli un orecchio poi l’altro e quindi ad amputargli le gambe. Ma benché immerso nel suo sangue non cessava d’acclamare a Cristo Re. – Con un vero furore satanico i carnefici gli squarciarono la gola: ma dalla gola squarciata insieme al gorgoglio del sangue usciva un rantolo: « Viva Cristo Re! ». Non potevano farlo tacere, e gli strapparono la lingua. E fu finita (« Civiltà Catt. » 16 luglio 1927). Appena compiuto il truce misfatto la folla si precipitava sulla salma martoriata per intingere in quel sangue i pannolini; né minacce, né colpi, né scoppi valsero a rattenerla. – Poveri barbari che strappate le lingue! Se anche le lingue tacessero, lo gridedebbero le pietre. Anzi, e meglio, voi stessi lo griderete, in un giorno non lontano: « Galileo, hai vinto! ». E noi preghiamo perché Cristo re li vinca nella forza del suo amore e non in quella della sua vendetta.

VENTUNESIMA DOMENICA DOPO PENTECOSTE

(Mt., XVIII, 23-35)

IL RE E IL SERVO

« Signore, — domandò Pietro, — basterà perdonare fino a sette volte a una medesima persona?» E gli sembrava d’aver già fatto una concessione enorme. Gesù gli rispose: « Non dire fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette ». E raccontò questa parabola. « Dovete sapere, — diceva il Maestro divino, — che nella mia Chiesa accade ciò che una volta avvenne tra un re e il suo servo. Il re volle fare un rendiconto generale e chiamò i suoi dipendenti a uno a uno. Ma c’era un servo che gli doveva una cinquantina di milioni e non possedeva niente per pagare. Quando il disgraziato fu davanti alla maestà del sovrano, quando sentì che lui, la sua donna, i suoi figli, le sue robe dovevano essere venduti sul mercato, si buttò per terra singhiozzando: « Pazienza, e pagherò tutto ». Buon per lui che il re era dolce e umile di cuore, e si lasciò commuovere, e non solo ebbe pazienza, ma rimandò il servo condonandogli il debito fin all’ultimo centesimo. Ebbene, nell’uscire di là, s’incontrò in un suo camerata che gli doveva un centinaio di lire: una vera inezia a confronto coi milioni del suo debito. Subito lo prese per la gola, e strozzandolo gli gridava: « Pagami! ». Invano quel meschino supplicò un poco di pazienza, poiché, trascinato davanti alla giustizia, fu condannato al carcere. Per fortuna ci fu della gente coscienziosa che vide quella scena raccapricciante e deferì ogni cosa al re, il quale ne fu adiratissimo. Richiamò il servo e lo fulminò con queste parole: « Iniquo! Io ti ho perdonato dei milioni e tu non sei stato capace di perdonare qualche lira!… Sarai chiuso in un carcere tenebroso fin tanto che non mi avrai reso fin l’ultimo quattrino ». Qui la parabola era finita, ma Gesù conchiuse: « Allo stesso modo tratterà il mio celeste Padre chiunque tra voi non perdonerà di cuore al fratello da cui è stato offeso ». Qui la parabola è chiara: il Re è Dio, il servo è l’uomo. Consideriamo la condotta dell’uno e dell’altro, e ci apparirà la generosità divina e la grettezza umana. – 1. GENEROSITÀ DIVINA. Due verità possiamo dedurre dalla prima parte del racconto di Gesù: 1) ogni peccatore contrae un debito con la giustizia del Signore; 2) questo debito è così grosso che l’uomo non riuscirebbe mai a pagarlo se Dio non glielo condonasse. a) Ogni peccato è un debito. Lo diciamo nel « Pater noster »: rimetti a noi i nostri debiti. Attendete se non è vero. Come si contraggono i debiti? Anzitutto col non restituire quello che ad altri è dovuto. Ebbene noi dobbiamo dare gloria a Dio nostro Creatore: col peccato, invece, ci rifiutiamo di onorarlo e pretendiamo di glorificare noi stessi, le nostre passioni, i nostri piaceri. Noi dobbiamo dare a Dio l’ubbidienza perché è il nostro Re che ci governa con la santissima legge dei dieci comandamenti: col peccato, invece, ci rifiutiamo di pagargli questo ossequio, e ripetiamo il grido di ribellione che risonò la prima volta sulla bocca di Lucifero: « Non ti voglio servire ». Non ti voglio servire quando mi comandi di rispettare il tuo Nome tremendo; non ti voglio servire quando mi imponi di santificare la festa; quando mi dici di superare gli istinti disonesti; quando mi proibisci di toccare la roba degli altri: « L’ubbidienza che ti viene, io non te la rendo » così dice praticamente il peccatore. Inoltre si contraggono debiti anche con sciupare danaro o roba avuti in prestito. Ebbene Dio ci ha prestato la vita per salvare l’anima, e col peccato noi usiamo della vita in perdizione dell’anima; Dio ci ha prestato salute e tempo per compiere opere buone e noi sciupiamo questi doni nel fare il male; Dio ci ha dato la lingua per lodarlo e noi con la lingua esprimiamo discorsi osceni; Dio ci ha dato la mente per pensare a Lui, e noi lasciamo entrare nella mente ogni fantasia più laida; Dio ci ha dato il cuore per amarlo e noi tutto amiamo fuor che Dio. Quanti debiti! b) Osservate ancora che il peccato è un debito così grosso che non potremmo mai cancellarlo se Dio stesso non ce lo perdona. Il peccato è un male infinito, è un’offesa infinita di Dio. Ora quale uomo può dare a Dio una soddisfazione infinita? Per il peccato noi perdiamo tutti i nostri beni, e dovremmo essere rinchiusi nel carcere dell’inferno per tutta l’eternità. Ma Iddio è un Re buono, basta che il suo servo si getti ai piedi di un Crocifisso, nel Sacramento della Confessione, gli dica: « Pietà di me! » e subito condona tutto il debito fino all’ultimo centesimo. Quante volte noi stessi abbiamo sperimentata la misericordia del Signore! Quante volte gli abbiamo giurato: « È proprio l’ultima volta; Signore cambio vita » e poi siamo tornati da capo, abbiamo accumulato peccati su peccati e Dio ci ha sempre perdonati, ci ha riempiti ancora di grazia, e di benedizione come se fossimo stati sempre i suoi migliori amici. Perché Dio è così generoso? Perché vuole che anche noi lo abbiamo ad imitare. Invece quanto gretti sono gli uomini tra loro! – 2. GRETTEZZA UMANA. Una mattina, il vecchio Vescovo S. Gregorio fu destato improvvisamente da grida e da rumori insoliti nella sua stanza ove da giorni giaceva ammalato. Aprendo gli occhi credette di sognare ancora: i suoi familiari stringevano per le braccia un giovane losco con in mano un pugnale che si dimenava per svincolarsi. Era un eretico che aveva giurato di uccidere il Vescovo nel suo letto: con quel nero disegno in cuore era riuscito ad eludere ogni sorveglianza, e penetrare silenzioso nelle stanze di S. Gregorio che erano sempre aperte , stringendo sotto il mantello una lama micidiale. Ma alla vista di quella cella così povera, di quel letto ove un uomo santo tormentato già dalla morte dormiva con un sorriso celestiale, il giovane cominciò a tremare e fu sorpreso nel suo turbamento. « Che è? » domandò dolcemente Gregorio svegliandosi « che vuol dire quel pugnale? ». « E non vedete — gridavano i familiari — che stava per uccidervi? Noi lo arrestiamo e pagherà il « sacrilegio ». « Che nessuno me lo tocchi! » ingiunse il santo e poi volgendosi all’eretico: « Figliuolo, avanzati: io ti perdono. Uscirai libero dal mio palazzo come vi entrasti ». Il giovane diede in uno scoppio di lagrime: « Ah padre! da questo momento io sono cattolico ». S. Gregorio aveva compreso fino all’eroismo la parabola del Re e del servo, ma ci sono troppi Cristiani che non sanno metterla in pratica nemmeno nei casi più comuni. — Troppo sono stato offeso: è impossibile perdonare — dicono alcuni. Non può essere impossibile, perché Dio è ragionevole e non comanda le cose impossibili; difficile sì, anzi perdonare ai nemici e amarli è il precetto più duro della nostra religione, con la preghiera bisogna ottenere la grazia di saperlo compiere, poiché senza eseguirlo non si entra in paradiso. — Non posso perdonare, perché ne andrebbe il mio onore — dicono altri. E l’onore di Dio non è qualche cosa di più dell’onore di noi misere creature? Eppure Dio perdona sempre a tutti quelli che gli domandano sinceramente pietà. — Ma è un ingrato! se gli perdonassi ritornerebbe a far peggio! non lo merita proprio il perdono! — E noi non fummo ingrati col Signore? non ritornammo tante volte, nonostante le promesse e i giuramenti, a far peggio di prima? lo meritiamo noi il perdono che Dio è sempre pronto a concederci? — Che cosa dirà il mondo? io non voglio. che si dica che l’ho persa. — Il mondo dirà che siete un vero Cristiano; e chi perdona vince e non perde. Infine, ci sono dei mezzi Cristiani i quali credono di adempiere il precetto di Dio col dire: « Io me ne sto a casa mia, non faccio del male a nessuno: e lui se ne stia a casa sua. Ciascuno nella vita va per la sua strada ». Questo non basta ed è segno di un falso perdono. « Io lo lascio qual è » si dice; ma intanto se gli capitano disgrazie si è contenti, se gli van bene gli affari ci vien malinconia. Intanto si tengono inchiodate nel cuore le offese ricevute, si ruminano giorno e notte, non si finisce di raccontarle agli altri ingrandendo o inventando le accuse. Intanto si schiva di incontrare quella persona, si finge di non vederla quando la si incontra, le si nega il saluto. Questo non basta, perché Gesù concludendo la parabola ha imposto di perdonare non di apparenza ma di cuore. De cordibus nostris. È duro talvolta perdonare, ma è necessario. È scritto che con quella misura che usammo per gli altri, saremo anche noi misurati! Sta scritto che sarà perdonato solo a chi perdonerà. Noi fortunati se nel giorno del nostro giudizio gli Angeli potranno testimoniare di noi così: « Ha perdonato tanto ». Allora il Giudice divino esclamerà: « Gli sia perdonato tutto ». – Ricordate il gran martire S. Cristoforo. Un uomo abbietto lo assaltò un giorno sulla pubblica via e gli diede uno schiaffo in mezzo alla folla. Arse di sdegno subitamente il santo e rincorse l’offensore: atterra e sguaina la spada per trafiggerlo. Tutta la gente intorno gridava: « Uccidilo, Uccidilo! ». In quel momento si ricordò della parola del Signore: « Così il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore »; in uno sforzo supremo represse la collera, ripose la spada nel fodero, e al popolo che domandava vendetta rispose: « La farei, ma non posso perché son Cristiano ». Facerem, si non essem christianus. In certe ore in cui la vendetta ci tornerebbe facile e piena di gusto l’esempio di S. Cristoforo ci stia dinanzi e la sua parola ci sia di freno: « O perdonare o rinunziare di essere Cristiani ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps II: 8.
Póstula a me, et dabo tibi gentes hereditátem tuam, et possessiónem tuam términos terræ.

[Chiedi a me ed Io ti darò in eredità le nazioni e in dominio i confini della terra]

Secreta

Hóstiam tibi, Dómine, humánæ reconciliatiónis offérimus: præsta, quǽsumus; ut, quem sacrifíciis præséntibus immolámus, ipse cunctis géntibus unitátis et pacis dona concédat, Jesus Christus Fílius tuus, Dóminus noster:Qui tecum …

[Ti offriamo, o Signore, la vittima dell’umana riconciliazione; fa’, Te ne preghiamo, che Colui che immoliamo in questo Sacrificio, conceda a tutti i popoli i doni dell’unità e della pace: Gesù Cristo Figliuolo, nostro Signore, Egli …]

Præfatio
de D.N. Jesu Christi Rege

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui unigénitum Fílium tuum, Dóminum nostrum Jesum Christum, Sacerdótem ætérnum et universórum Regem, óleo exsultatiónis unxísti: ut, seípsum in ara crucis hóstiam immaculátam et pacíficam ófferens, redemptiónis humánæ sacraménta perágeret: et suo subjéctis império ómnibus creatúris, ætérnum et universále regnum, imménsæ tuæ tráderet Majestáti. Regnum veritátis et vitæ: regnum sanctitátis et grátiæ: regnum justítiæ, amóris et pacis. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che il tuo Figlio unigenito, Gesú Cristo nostro Signore, hai consacrato con l’olio dell’esultanza: Sacerdote eterno e Re dell’universo: affinché, offrendosi egli stesso sull’altare della croce, vittima immacolata e pacifica, compisse il mistero dell’umana redenzione; e, assoggettate al suo dominio tutte le creature, consegnasse all’immensa tua Maestà un Regno eterno e universale, regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt coeli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXVIII:10;11
Sedébit Dóminus Rex in ætérnum: Dóminus benedícet pópulo suo in pace.

[Sarà assiso il Signore, Re in eterno; il Signore benedirà il suo popolo con la pace]

Postcommunio

Orémus.
Immortalitátis alimóniam consecúti, quǽsumus, Dómine: ut, qui sub Christi Regis vexíllis militáre gloriámur, cum ipso, in cœlésti sede, júgiter regnáre póssimus: Qui

[Ricevuto questo cibo di immortalità, Ti preghiamo o Signore, che quanti ci gloriamo di militare sotto il vessillo di Cristo Re, possiamo in cielo regnare per sempre con Lui: Egli che …]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (226)

LO SCUDO DELLA FEDE (225)

MEDITAZIONI AI POPOLI (XIII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE XIV

Il Santissimo Sacramento (1)

Inveni quem diligit anima mea.

Io ho rinvenuto il mio Bene amato, dice la santa Sposa della Cantica, che significa l’anima in cerca di Gesù. Io, sì l’ho trovato il mio unico Bene. E qual è il mio e il vostro Bene amato, o fratelli? Il cuor ce lo dice: è Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento qui con noi, che non ci abbandona più mai. Per poco possiamo dire come la Sposa santa: girai pei campi, errai pei monti, ma in tutti i luoghi non trovò che solitudine e disinganno il mio povero cuore. Scontrai le scolte per la città e le pregai: Deh mi dite, io vi scongiuro, dove è mai Colui che io sento di amare tanto, e non mi è dato di ritrovare in questo povero mondo? Le guardie poste al santuario del suo amore m’introdussero nella tenda delle sue tenerezze; ed io riposai in seno al ben amato nostro Gesù! Ah, miei fratelli, finiamo di tradirci lusingando questa povera anima nostra! La mente, il genio, il cuore, l’umanità tutta sente bisogno di Dio. Il filosofo nelle speculazioni, allorquando sì slancia nell’indefinito e cerca quel Sommo Vero, quel Sommo Bene, quell’Ente fonte di tutti gli esseri, quella prima Cagione insomma che sostiene tutte le cose, e che vi deve pur essere, il filosofo, senza pur nominarlo, va in cerca di Dio. L’uomo di genio, che sull’ali dell’ispirazione errando, alla lontana vagheggia un bello ideale col suo pensiero; e ognun col cuore ansioso di un amore infinito, se nella foga del desiderio lo cerca coll’avido sguardo sulle bellezze in terra, se si slancia nelle creature per ritrovarlo in esse è costretto di ripetere presto a se stesso: Ei non è qui!… e cadere in lena affannata!… O uomini dalla potente parola, i quali dite ai popoli: venite con noi, e troverete i bene che sospirate, vedeteveli ora con voi come si trovano! Eglino s’arrovellano nella rabbia del disinganno, sorgono come i marosi in tempesta … si battono in rivoluzioni, e i fratelli i fratelli trafiggono senza forse sapere la ragione. Ah la somma delle ragioni e perché li avete traditi allontanandoli da Dio; è perché  supremo Bene dei popoli è Dio; e Dio vogliono compagno del loro peregrinaggio, amico nelle loro famiglie, alla testa dei loro eserciti: a lui la gloria delle loro vittorie; Dio costituire protettore dei loro diritti: da tutti i punti dell’universo essi lo sospirano e chieggono di averlo in mezzo di loro. Quindi tutti i popoli vogliono avere un sacrario, un tempio, e, se non fosse altro, una cella, un bosco, un antro per trattare con Dio e versargli nel seno tutti i loro bisogni. Da per tutto erigono altari per trovarlo sopra essi. Ma nel salirvi manca loro il coraggio; e si sentono troppo meschini: il proprio cuore li accusa tutti, tutti sentono di esser colpevoli. Per questo si affannano a portar vittime, a scannarle, ad arderle nei sacrifici, affinché, accoltele Iddio in odore di soavità, resti placato con essi. Ma che è mai?… Corrono tutte le genti sugli altari, e vogliono mangiare delle offerte istesse, che credono di aver posto in mano del loro Dio! E tutti i popoli fecero sempre così. Come ciò non potevano satollarsi nelle lor case? E perché  correre a cibarsi nei templi? E che ha mai da fare il mangiare coi riti delle religioni? Ah! Miei fratelli, è che gli uomini in fondo al loro cuore sentivansi dire da una primitiva parola, che avrebbero trovato sugli altari Iddio. L’umanità ha bisogno di unirsi con Dio, ha una santa fame della Divinità; e piglia quindi di quelle cose offerte, se le mangia per metterle nel proprio petto, riporle sul proprio cuore, e coll’inviscerarsi quella cosa diventata sull’altare santa con Dio, vedere così di stare al contatto e come cuore a cuore con Dio… Benedetto Gesù Cristo, il quale provvede a tutti i bisogni degli uomini, e a questo supremo bisogno provvede da Uomo Dio, sì veramente nel santissimo Sacramento! Egli, Dio col Padre in cielo, Uomo con noi in terra, ci chiama tutti: venite ad me omnes, e come una madre ci vorrebbe sempre attorno; onde ci viene ripetendo: Vi porterò con me al cielo: omnia traham ad me ipsum (Giov. XII, 32). Poi quando noi ci facciamo a Lui appresso, quando gli stendiamo le braccia, quando gli allarghiamo il cuore, Egli ci abbraccia divinamente; e questo amplesso, in cui si abbondona Dio e si unisce personalmente cogli uomini, è la santissima Comunione!… Miei figliuoli, aprirovvi il mio cuore. In tutto che io dissi, che io feci con voi io mirava sempre qui, ad unirvi con Gesù nel santissimo Sacramento!… Ora ci siamo giunti!… è qui Gesù, che sta in mezzo di noi. Di che io non posso fare altro che esclamare: eccovi, Egli è proprio qui con noi sull’altare! eccovi, eccovi che vuol venire con noi nella santissima Comunione! È questa la nostra più cara Meditazione che divideremo in due punti. I. punto: Gesù è qui con noi nel Santissimo Sacramento colla sua Presenza reale; e noi come lo trattiamo? e noi come lo dobbiamo trattare? II. punto: Gesù Cristo dà tutto se stesso nella santissima Comunione; e a noi non resta che di gettarci in seno a Gesù, e far quello che vuole il cuor Suo amantissimo, il che vuol dire salvarci. Gesù adunque colla sua Presenza Realr nel SS. Sacramento qui con noi, Gesù che si dà a noi nella santa Comunione, ecco tutto il nostro argomento. Io per me mi gitterei col volto sul pavimento appiè dell’altare, e nel silenzio del labbro sfogherei l’animo mio non con altro che col pianto. Ma dovendovi parlare, datemi il vostro cuore che io ne ho bisogno per dirgli con voi: Gesù, Gesù! col tremito della tenerezza noi vi baciamo col cuor tutti insieme nel vostro Cuore amantissimo. E giacché ci lasciate fare, io metto la mia bocca al vostro Costato!… Deh che io mi risenta dell’esservi così vicino! Deh che io palpiti dei vostri palpiti; e che dal vostro Cuore mi fluisca quella parola calda del vostro Sangue, la quale pur passando su questa mia lingua di terra, infonda nei nostri figliuoli la vita eterna. O Maria, benedetta Madre di Gesù e Madre nostra, io ho bisogno di tutto il vostro Cuore e della vostra materna parola, per trattare il vostro più caro interesse, che è quello, di fare amare, come già voi in terra, Gesù nostro nel SS. Sacramento. –  Intanto io respiro già in mezzo di voi, consolato più che una madre la quale ha intorno alla mensa i suoi figliuoli tutti pieni di vita, a cui ella dà proprio volentieri il cuore… Oh sì, che io vi amo tanto; e troppo più che io non vi dica!… Nel vedervi correre tutti per ricevere Gesù io tranquillizzo il mio cuore per voi (vel confesso, già sempre agitato) colla consolante confidenza che nessuno di voi, sì, proprio nessuno di voi, uniti essendo con Gesù, si abbia da perdere ancora. No, Gesù mio, ve l’assicuro: sempre uniti con voi nel Sacramento li avremo tutti salvi in paradiso! – Deh, che mai ci dice la fede del santissimo Sacramento? Che Gesù è proprio qui in Persona. Santa fede!… Noi, per goder meglio della nostra sorte, fermiamoci col cuore a Lui, e contemplandolo guardiamo in quel suo Costato aperto; poi, quasi non credessimo nemmeno a noi stessi tanta nostra fortuna, fissiamogli come gli occhi in volto, col cuor che credendo l’ama tanto, consoliamoci rassicurati, esclamando: Gesù nostro!… Voi siete proprio qui?… Rendiamocene come più consapevoli col sentirlo dalla sua bocca stessa che ci sicura. Parla Gesù; e noi ascoltiamo, adorando la sua parola. Sono mille ottocento anni i quali provano che Gesù dice sempre la verità. Difatti, sono ben mille ottocento e più anni dacché Gesù là dinanzi alla maestosa mole del tempio di Gerusalemme fissando di mezzo ai discepoli quella smisurata montagna di marmi sclamava: Tempio, sarai distrutto; e prima che passi questa generazione: né di te rimarrà pur una pietra sopra altra pietra. — Ora sono mille ottocento anni che il tempio restò distrutto là così, da non poter fissarsi esattamente il luogo, in cui s’innalzava quel superbo edifizio. Ciò prova che Gesù Cristo son mille ottocento anni che dice sempre la verità. Fan mille ottocento anni che Gesù così piangeva: Povera Gerusalemme! tu non mi ascoltasti! Resterai sepolta sotto le tue rovine, e i Giudei saranno dispersi per tutta la faccia della terra, senza tempio, senza sacerdozio, senza esser un popolo, in mezzo a tutte le nazioni a fine di render testimonianza alla mia parola. — E i Giudei restano dispersi da per tutto tra le genti, senza mai confondersi con esse, senza mai potersi raccogliere a formare un popolo; e qui, là provano in faccia a tutto il mondo che sono mille ottocento anni che Gesù dice sempre la verità. – Tristi ai Giudei cui l’imperator Giuliano, nemico feroce di Gesù Cristo, chiamava da tutto il mondo, ed aiutava di forza a far risorgere dalle spaventose rovine più bello il tempio in onta della parola di Gesù Cristo! Allora i Giudei a portar tesori per la sospirata impresa; le donne offrire i gioielli e gli ori, e fin le proprie braccia a rifabbricarlo. Si scavano le fondamenta, rimossa pietra di sopra pietra; ma sbucano fuori le fiamme che, consumandoli, danno tale lezione, che più non ritenteranno per tutti i secoli la sacra impresa contro la parola di Gesù, il quale da mille e ottocento anni dice sempre la verità. – Su su, io vorrei dire agli increduli, volete un bel miracolo, che provi vera la parola di Gesù? Ve lo avete davanti; e pensate che concorrete voi stessi a farlo risaltare in faccia all’universo. Voi,  i quali colla potenza delle vostre sette scoronate a voglia i monarchi che non vi servono, voi che annettete i popoli, cambiate la carta geografica, create i regni, voi, dico, potreste dar la mentita a Gesù Cristo. Raggranellate i vostri giudei, formate un piccolo regno, sia pur microscopico: comprate un palmo di terra in quella squallida Gerusalemme, da erigervi su il tempio… – Che vi pare? Il Gran Turco, che è il padrone, lasciossi già vender l’Egitto, ed ora va cedendo le provincie: egli vi venderebbe anche il serraglio, perché non ne può più pel bisogno di danaro. I vostri Giudei tengono in lor cassa i denari di mezzo il mondo. Dei governi d’Europa sono indifferenti per Gesù Cristo, altri malignamente desidererebbero che la sua parola fosse smentita. Ma non è questo un miracolo! si vorrebbe vendere, nessuno impedirebbe di vendere; si hanno danari da comperare, è il desiderio il più ardente di tanti secoli di far questa compera; eppur non si compera mai… Questo miracolo lo fa la parola di Gesù che disse, da mille ottocento anni or sono: Tempio, resterai distrutto. Giudei, non regnerete più fino alla fine dei secoli. — E son mille ottocento anni che Gesù Cristo dice sempre la verità. – Era Gesù Cristo sulle rive di un laghetto in mezzo a pescatori poverini, i quali rattoppavano le reti, e loro con amabil parola diceva: Ma io vi farò pescatori di anime per tutto il mondo; tu poi, o Pietro, sarai la Pietra sopra cui edificherò la mia Chiesa, e neppur le potenze d’inferno ti abbatteranno. — E fu veramente così. Quei villanelli della Giudea eccoli dispersi per tutto l’universo: hanno successori a raccogliere anime, e sopra la prima Pietra il successore di Pietro sta a dispetto di tutte le eresie, a dispetto di tutte le potenze, a dispetto di tutte le rivoluzioni, immobile in mezzo a regni che cadono, tra le rovine del tempo sopra la terra: a scorno dell’inferno il Papa sta da mille ottocento anni, per la parola di Gesù Cristo che dice sempre la verità. – Ma se Gesù Cristo disse fino prima di nascere, e continua per mille ottocento anni a dire sempre la verità, ascoltate, ché ne dovrete intenerire alle lagrime. Un dì una povera donnicciola, a vederla, sposa di un artigiano andava su per una montagna a fine di visitare una sua parente. Quella vecchiotta, che vide venire a sé la donnina, esclama in giubilo: Oh che fortuna!… La madre del mio Signore che viene a me? — Allora l’ospite come rapita esclama: Magnificat anima mea Dominum: L’anima mia esalta il Signore!… Quia respexit humilitatem ancillæ suæ, ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes. Ma, sentite che diceella? « Perché il Signore guardò l’umiltà dellasua servetta, ecco che mi diranno beata tutte le generazioni! » Avrebbero detto gl’increduli: Donninamia, che di’ tu mai?… Che tutte le generazionidel mondo si abbiano ad interessarsi per te,meschinella?… Che tutte le generazioni dell’universoti abbiano a chiamare beata: beatam me dicent?…Oh vaneggia la poverina!… — Profani… tacetelà: quell’umile vergine è l’Eletta dall’eterno CreatorePensiero di Dio; è la più grande di tutte lecreature nella sua umiltà… è Maria Santissima, laquale ha in seno Gesù che le spira sul vergine labbro l’eternasua verità!… Figliuoli, voi l’avetein mano nel vostro uffizio la Sua profezia, e lacantate sempre nei vesperi: beatam me dicent omnes generationes.Ora guardate voi se d’allora sino aquesti dì non dice sempre la verità! Increduli e credenti, dite: non è egli vero che dal sommo Pontefice nel più gran tempio dell’universo,dai re,  dalle regine, fino alla povera figlia appié della Madonnina di gesso, tutti acclamano alla benedetta:« Oh Maria, tu sei beata! » Mettete pure tutti i monarchi ed i conquistatori, tutti i grandi eroi delmondo insieme, sì che mostrino se banno tantimonumenti eretti alla lor propria gloria quantiMaria ha santuari e chiese; altari e tabernacoletti.Sino sopra il letticciuolo del tapinello sta laimmaginetta appesa; e dappertutto tutte le genti delmondo la acclamano: Beatam me dicent omnenerationes… Maria SS. era inspirata da Gesù cheaveva in seno: e noi lo ripeteremo sempre, e doponoi tutti i secoli ripeteranno che Gesù Cristo dicesempre la verità. -Che dice adunque Gesù del Santissimo Sacramentocolla sua parola? Sentite la verità di Dio! QUESTO È IL MIO CORPO!… QUESTO È IL MIO SANGUE! …splendor di chiarezza del Verbo Divino sfolgora la  mente umana; e Se voi, o increduli, potete non credere, come potete anche morire senza speranza,  pur crede il mondo cattolico con tutti i suoi piùgrandi uomini dell’universo. Noi tutti adunqueadoriamo nel Santissimo sacramento il Corpo e ilSangue di Gesù Cristo.Meditiamo qui in prima come è qui proprio Gesùpresente di una presenza vera, reale, sostanziale inAnima e in Corpo; come vi è Dio-Uomo nellasua Persona divina. Meditiamo poi che Egli è quicon quel suo Corpo che combatté per noi sino all’ultimo sangue; meditiamo eziandio consolati che Egli è qui con quelle piaghe, con quel Cuore apertoe che ci vuole seco d’intorno in comunione di vitaper condurci salvi in paradiso.Nessuno mai; e neppure i popoli di tutte le falsereligioni che si creavano i loro déi a fantasia, e seli facevano a seconda delle loro passioni, no, nongiunsero ad immaginarsi che un Dio si potesse abbassarea questo modo. I Giudei provocavano arditamentele nazioni a mostrare se mai avessero unDio, il quale si fosse avvicinato a loro come il Diode’ cieli a trattar col popolo d’Israele era disceso.E per vero una volta re Salomone e tutto il popoloinsieme, dedicatogli il più gran tempio dell’universo,videro una maestosa nube discendere dalcielo, ingombrar tutto il gran santuario, e teneresopra di esso adombrata la gloria di Dio. Allora ree popolo in ispavento caddero bocconi per terragridando: Eh si deve pur credere ergo ne putandum est… che Dio si degni di abbassarsi così? —Anche là nel deserto, quando scorsero altra voltauna gran nube avvolgere intorno la montagna del Sinaiin tenebrore, e guizzarne lampi, rombare tuoni,traballare il monte in sussulto, la vetta andare infaville, ed una tempesta di folgori e di saette tenerliin pauroso rispetto davanti alla Maestà di Dio chesi mostrava presente, caddero tutti come un soluomo colla faccia nella polvere alle radici di essomonte, mettendo costernati le strida: Tremendo Dio,cui non osiam nominare, non parlate a noi, chénoi cadremmo morti alla vostra parola: parlate alvostro servo Mosè; ed ei ci ridica li vostri comandamenti!…— Passata poi la visione, gridavanoin vanto di gloria: No, no, non vi è nazione cosìgrande che abbia come noi così avvicinato Iddio! —Anzi, benché poi Dio si fosse lasciato intendereper mezzo dei profeti, e detto avesse come preparandoagli uomini un grandissimo dono, farebbe delconversare cogli uomini la sua delizia: Deliciæ meæ esse cum filiis hominum. (Prov. VIII, 31): eglino al tuttoal tutto non potevano giungere ad immaginarsi ilgran miracolo, d’ogni aspettazione maggiore, dellabontà del Salvatore nostro Dio, di volere cioè rimanere per tal modo nel Santissimo Sacramento. –  Deh! noi spargiamo la terra di fiori, vestiamo diarazzi preziosi le auguste magioni di Dio. Mille e mille, sul candor di quelle candele, svavillino lefiammelle tremolanti come i cuori nostridel santo amore; si slancino al cielo le cupole sublimi come la fede che le inspira… giacchéDio, è qui Dio con noi. Su su, verginelle e figliuoledi Maria; su, giovinetti dal puro cuore,attorno in terra quei cantici che gli ricantano gliangioli in cielo…. È qui Dio? E in qual contegnosta Dio?!! Gran Signore, dov’è quella destragettò, come una manata di polvere, i mondi nelfirmamento e li sorregge nell’ordine e nell’armoniadei moti? Dove è quel piede che, se tocca, riduce incenere i monti? Dove quella voce che chiamò fuoridal nulla l’universo, che se intimerà all’universo diritornare al nulla, l’universo non sarà più? Onnipotenza d’amore! Egli scorona dei raggianti baleniil volto divino e stassene qui muto: annichila pelpensiero nostro l’immensità, e rimane sotto le apparenze del pane mutato, dove gli uomini lo vogliono, o meglio, dove vuole Egli trovarsi, cioèdappertutto dove sono i suoi cari. Sia pure raccolto in poche capanne e catapecchie un piccologruppo di povera gente; ed Egli là si contenta didimorare in un ripostiglio a mezzo di loro. In unachiesuola coperta di edera, tappezzata di muschio, eziandio grommata di muffe, dentro untabernacoletto meschino, sotto poveri cenci è sempre Gesù,il quale accarezza l’anima più meschinella del mondose viene a Lui; ed è il vero tesoro di tutti, anche dei più piccoli cuori. Qui egli è l’amico, qui loSposo delle anime nostre: qui il Padre che accoglie a qualunque ora i suoi figliuoli… Ma non basta,  Egli è come il capo, il quale raccoglie intorno intorno noi come le più care membra del suo Corpo.Ed oh per miracolo d’amore quanto sa farsi piccino!Nol direi io, mai no!… Ma lo dice la suaamabile bocca. Sentite: Io sono come la chiocciasull’aia che chiama i suoi pulcini sotto dell’ali. Perriscaldarli col proprio petto! Quemadmodum gallina congregat pullos suos sub. alas (Matt. XXVII, 37). Tenerissimospettacolo, dice s. Agostino, è il contemplarecome la gallina madre in mezzo dell’aia stende leali, crocchia, crocchia e chiama in crocchiando tuttii pulcini intorno. I pulcini a lei si fan sotto, e voglionostarvi proprio tutti; ed ella arruffa le piume,la si fa grossa grossa a far il posticino per tutti.Quando se li tien insieme in se stessa ripiega il collo,se li accarezza e pipila pipila con essi sul cuore!Buon Gesù! Voi fate proprio così: « Venite, venite ad me omnes, venite a me, venitemi tutti, ci andateripetendo, reficiam vos; vi scalderò io tutticoi miei palpiti, vi ristorerò col Sangue mio! — AGesù adunque il pensiero, il cuore, a Lui intornotutta la nostra vita.Del sicuro, per un fedele, il quale ha cuore, nonv’è nel mondo santuario più devoto, né più caro diuna chiesuola dove dimora in Persona il nostro benamato Gesù. Vanno i devoti ai santuari, massime ,a quelli di Maria Santissima. In essi nel dì dellavisita sentonsi come in casa propria di nostra santaMadre; e appendono con cura amorosa quei lorovoti d’argento, quasi vi attaccassero il cuore, dall’unae dall’altra parte dell’Immagine sacra alla divozionedei popoli. Bene sta: è una tenerezza versoalla nostra beata Madre in cielo. Ma per me e pervoi, il santuario più caro è il tabernacoletto in cuialberga il Santissimo Sacramento. Si, Gesù, buonDio nostro, quanto è dolce cosa abitare nella vostratenda! Chi ci concede che noi vi troviamo, etroviamo Voi solo? che godiamo di Voi, né creaturaalcuna da Voi ci allontani; né guardi pure anoi, ma che Voi ci parliate come amico ad amico? (Imit. Di G. C. lib. 4).Deh, vi preghiamo, trasformateci in Voi; poiché, sesiamo cuore a cuore con Voi, si ristora la nostra persona,e respira in seno a voi il profumo di unavita migliore; e un giorno, un’ora goduta insieme con Voi solo consola l’anima più che mille anniperduti per questo mondo che finisce di non accontentarenessuno: Quam dilecta tabernacula tua, Domine! (Ps. LXXXIII, 2). Cerchiamo, fratelli, di stare col cuorein Gesù, e cesseremo di essere infelici!Ai tempi di fede più viva si vedevano principi ere, lasciate le mollezze dei loro palazzi, a capo deiloro eserciti, cavalieri a capo di popolazioni intieree fino schiere folte di giovanetti, come in Ungheriaed in Polonia, muovere alla volta di Terra Santa.Pigliata che avevano la croce sul petto, sfidavanopericoli di viaggi più disastrosi; e con una fedeche comanda ai venti, cimentavansi attraverso ai mari, montavano sulla testa alle tempeste, e intimavanoai furenti marosi di gettarli sulle turchecoste marine. Là sbarcati, rizzavano alto il Crocifisso, sventolavangli sotto lo stendardo della Madonna;poi, serratisi intorno con una selva di lance,brandendo con una mano la spada, col Rosario nell’altra pregavano e combattevano. I Turchi in agguato dalle giogaie del Tauro irrompevano lor addosso; ed essi aprivansi il varco in mezzo ai feroci, seminavano di ossa il deserto, ma sempre col grido di guerra: avanti! ché chi muore per Gesù, trionfa sempre! Si sentivano contenti che pochi potessero giungere alla Terra Santa a compiere il voto del devoto peregrinaggio. Arrivati sotto le mura delle città liberate dai Turchi fuggiti dall’assedio al sopraggiungere dei prodi crociati, uscivano fuori respirando i Cristiani, e correvano in mezzo alle loro tende per medicare le piaghe ai loro liberatori. Quindi: venite, dicevano a quei bravi, qui giù in questa grotta di Betlemme. Questo è il Presepio, li la greppia, e in fondo su quel sasso la Madonnina santa depose il Bambino Gesù nella più bella notte del mondo. — Quei guerrieri cadevano per terra ginocchioni con quelle ispide facce riarse dalle battaglie; baciavan quel sasso in singhiozzi come le femminette, e pareva lor di baciare i piedi al Bambino Gesù! Poi conducendoli in giro: è questo il villaggio dove abitava sovente Gesù; questo il pozzo, e su quel davanzale lì Ei si sedette a convertire la Samaritana. — Quei guerrieri nelle loro estasi popolavano quei cari luoghi immaginandosi le turbe su per quei poggi correre appresso a Gesù coi cuori affamati del pane della vita. Entrati nell’orto di Getsemani indicavano: Qui sotto questi olivi, su quelle antiche ceppaie, che sono ancora le stesse, Gesù sudava Sangue pei nostri peccati!… — E quei prodi caduti per terra si battevano i petti coperti dell’usbergo di ferro, gridando misericordia! Pareva loro di fissare gli 0occhi a Gesù nello spasimo della sua agonia; e facevano atti di contrizione unendo il proprio al suo dolore divino. Poi in Gerusalemme loro si diceva: eccovi la via per cui passò Gesù Cristo portando la croce; e di li gli correva appresso Maria. Ancora adesso, vedete, fino i Turchi la chiamano la via di tutti i dolori… Ah la Madre addolorata vedeva su quei sassi le strisce di Sangue che perdeva il suo Gesù… Questo ceppo di colonna è quello che segna il luogo dove ella giunse ad abbracciarlo sotto la croce!… — Quei valorosi si protendevano colle braccia larghe sulla strada, e coi gemiti: Gesù e Maria! sospiravano, quasi baciassero a loro i santissimi piedi! — Levatevi su, dicevan loro, venite nella chiesa al santo Calvario. Qui pigliando per mano quei trepidanti: montate su, dicevano, sopra questo santo Monte. Vedete? questa è la rupe che si spezzò nell’ora dell’agonia e restò qui così. Proprio in questo buco era piantata la croce: Maria Santissima dovette star li; e il Sangue di Gesù pioveva su questi sassi!… e l’addoloratissima nostra Madre, pensate! … restava tutta bagnata di Sangue!… — A tutti scoppiava il cuore; tremavano le loro ginocchia; e buttatisi bocconi col fremito di compunzione e con acuto dolore baciavano quella roccia bagnata del Sangue di Gesù, la riscaldavano col proprio ardore, e parlavan coi palpiti del cuore sopra essa. Ma: eccovi il santo Sepolcro qui, il quale non ha più cadaveri da gettar fuori pel di del giudizio. Di li Gesù risorse glorioso: mettete dentro il capo ad osservarlo. — A quei buoni campioni pareva di metter proprio la testa sulla porta del paradiso: poi raccoglievano un po’ di polvere, staccavano un sassolino da quei luoghi consegrati dal Sangue di Gesù portandoli quali preziosa reliquia per le loro famiglie, le quali li riabbracciavano salutandoli: oh i fortunati! Fortunati, noi pure ripetiamo, fortunati i discoli e le turbe che poterono avvicinare Gesù, e toccargli fino le vesti. E Maddalena non fu fortunata? la benedetta sedevasi proprio ai piedi di Gesù, e beveva estatica le parole che piovevano celesti consolazioni da quel labbro divino. E gli Apostoli, che sempre d’intorno venivano pascolati di celeste dottrina da quell’amabilissima bocca? Ma più di tutti fortunata Maria. Ella è ben la cara divozione dei popoli quella di contemplare la Verginella Madre beata col divin Bimbo in grembo; né il genio dei pittori restò mai esaurito nel presentarla nelle più amabili e devotissime forme: ché la Madonnina col Bambino Gesù attrae sempre gli occhi e il cuore dell’uomo a contemplarli. Eppure io qui vorrei dirvi, e fatene pur le meraviglie, ché ne avete ragione, anche noi essere fortunati con Essa. Poiché abbiamo proprio Gesù medesimo qui con noi. Anzi, se si può parlare così di Dio, il quale merita di essere amato sempre sopra ogni tosa, pare che qui abbia maggiore merito, ove possibil fosse, di essere amato di più, essendo Egli qui con noi dopo di averci salvati a costo della propria vita. Ora meditiamogli sulle sue Piaghe. Ma giova innanzi osservare che, siccome Gesù è Dio eterno, così i tempi sono in Lui come un solo momento. Quindi noi possiamo adorarcelo, o come Bambino, o là come era nella casa di Nazaret, o in passione sulla croce, o col cuore squarciato e tutto una piaga sulle ginocchia di Maria, ovvero com’è nel cielo. In questo momento facciamo noi di contemplarcelo Bambino a guisa di quell’anima tenera di s. Bernardo, il quale gli diceva: Gesù mio, quando vi contemplo piccino di più, e più amabile mi siete. — Or via. datemi voi, o fratelli, qui tutti il vostro cuore, e facciamo di baciare tutti il Bambino Gesù, perché ce lo permette Maria Santissima, la quale lo lasciò baciare ai pastori. O Bambino nostro Gesù, deh lasciateci baciare la vostra Testina… Oh ve’… sotto questi ricciolini dorati vi sono ancora i fori che vi fecero le spine, quando siete venuto su grande a morire per noi… O Bambino Gesù, lasciateci baciare le vostre Manine!… Oh ve’… in queste vostre Manine vive vive ancora appaiono le Piaghe che vi fecero quei chiodi per noi!… Gesù nostro! vi vorremmo baciare nel Cuore… Ah questo Cuoricino geme ancor Sangue tra quelle vampe d’amore e palpita tutto per noi!… – Dite ora voi, o fratelli, se non si debba amare, troppo più che non si possa, nel Sacramento Gesù, solo che ridestiate la fede. Pensate infatti, quando un prode guerriero, dopo di aver combattuto per la patria; per le spose, pei figliuoli e per gli altari, ritornava in trionfo tra i suoi diletti, come era una festa per tutti. Tutto il popolo intiero muoveva ad incontrarlo in folla; e al vederlo comparire era un evviva unanime. Ristavansi poi tutti un istante… e lasciavano andare innanzi chi? il vecchio padre tremolante. Ei gettavaglisi tra le braccia, e pareva a lui di ringiovinire alla vita in gloria sul petto del figliuol glorioso. Poi la vecchierella madre, la buona madre lo mostrava ad ognuno trionfante, com’era, e felice di quel suo gran figliuolo: i suoi Tarchi a strincersi alle ginocchia di lui, e su a baciargli le mani; e la sposa in estasi di gioia stracciare i veli più fini per medicargli sul petto le piaghe onorate; e tutti a disputarsi una parolina da lui, un sorriso almeno, un’occhiata, un cenno di saluto. Era una consolazione ed un gaudio che mai lo maggior per tutti. Deh, deh! meglio noi colle lacrime della più viva gioia festeggiamo Gesù trionfante dalla battaglia, la quale dall’inferno ci liberò. Egli è qui risorto, e porta sulla divina Persona quelle Piaghe gloriose che ebbesi a toccare nel battersi per noi: egli è qui, e ci porge quelle membra che si son battute a nostro vantaggio fino all’ultimo Sangue. Egli è qui con quel Sangue, cui egli ha versato fino all’ultima goccia. Oh cara vita del nostro Gesù, e dove ho il mio cuore, quando non l’ho qui tutto con voi? Ah quando si pensa che lo lasciamo tanto tempo senza dargli un pensiero, per non sentirne disdegno bisogna proprio avere compassione delle povere anime nostre, cui tanti nonnulla del mondo portano lontano dal Sommo Bene nostro Gesù! Ridestiamo la fede, fermiamo un poco il pensiero; ed il nostro cuore allora dovrà troppo più teneramente che io non dica amare Gesù. Fate voi questa prova.

28 OTTOBRE: SANTI SIMONE E GIUDA

28 OTTOBRE: SANTI SIMONE E GIUDA

[Otto Hophan: Gli Apostoli – Ed. Marietti, Torino, 1951)

S. SIMONE

Questo buon Simone è il più sconosciuto di tutti gli Apostoli e dobbiamo quasi farci violenza per non dirlo il più insignificante dei Dodici. L’intera Sacra Scrittura non conserva di lui che il solo nome, e il nome stesso, « Simone », lui lo dovette condividere con un altro; giacché nel gruppo dei Dodici con lui sedeva anche un altro Simone — curiosa la duplicità dei nomi nel Collegio apostolico: due Simone, due Giacomo, due Giuda —, Simone Primo, Simone il Grande, Simone la Roccia; anzi questo Simone compariva ovunque sul proscenio e in prima fila in modo che Simone il Piccolo, Simone l’Ultimo non emergeva affatto; quando il Signore dovette trattare di « Simone » — « Beato te, Simone! », « Io ho pregato per te, Simone », « Simone, Mi ami tu? » —, intese sempre l’altro, il Primo e non lui, l’Ultimo; egli era solo come l’eco lontana, come l’umile ombra e come una fugace ripetizione di quel primo Simone, onusto di dignità; questi gli aveva sottratto tutto in precedenza, per così dire, come il patriarca Giacobbe a suo fratello Esaù! Valgano le poche pagine presenti ad accostare con particolare affetto all’anima cristiana questo dimenticato Simone, poiché anch’egli è uno dei Dodici Grandi nel regno dei Cieli. Come di Giuda Taddeo, anche di Simone abbiamo un chiaro abbozzo già nel Vecchio Testamento, in due uomini, che furono insigniti di questo nome. Il primo di essi, Simeone, il secondo figlio del patriarca Giacobbe, fu dal padre severamente biasimato e punito a causa del suo zelo indiscreto e crudele, con cui vendicò nei Sichemiti l’infamia perpetrata contro sua sorella Dina; nella spartizione della Terra Promessa egli non ricevette un proprio territorio per la sua tribù, ma solo un certo numero di località nella porzione della tribù di Giuda, assegnategli come abitazione. Giacobbe nel suo testamento disse espressamente il motivo della posizione insignificante e di dipendenza, ch’era riservata alle tribù di Simeone e di Levi: era il vile gesto compiuto dal loro zelo eccessivo. « Simeone e Levi: qual coppia di fratelli! Le loro spade sono strumenti della violenza. Uomini uccisero nell’ira. Maledizione al loro furore, che fu violento, alla loro collera, che fu così crudele! Così li spartirò in Giacobbe, li disperderò in Israele ». La tribù di Simeone di fatto emerse ben poco nella storia del popolo eletto in Canaan, non fu mai un valido sostegno del regno. Giuditta, la donna ed eroina della tribù di Simeone, non si fermò certo al lato oscuro dell’anima ultrice del suo capostipite, ma a quello favorevole, quando pregò: « Signore, Iddio di mio padre Simeone! Tu gli hai porta la spada per punizione degli stranieri, che nella loro depravazione deflorarono una vergine ». L’altro Simone, preannunzio del nostro Apostolo, fu Simone Maccabeo, condottiero del popolo eletto negli anni 142-135 prima di Cristo, soprannominato « Thasi », che vuol dire « Zelante ». Anche questi se ne stette a lungo ai secondi posti, perché, sebbene fosse per anzianità il secondo figlio di Matatia, servì nondimeno sotto la direzione dei suoi fratelli Giuda e Gionata; solo quando anche Gionata non poté più reggere la comunità giudaica perché caduto in prigionia, Simone passò avanti e, dopo la morte del fratello, assunse ia direzione del popolo. Questi due Simoni dunque dell’Antico Testamento ci appaiono come una profezia dell’apostolo Simone; anche in lui sono profondamente impressi i loro tratti essenziali, perché è l’Apostolo sconosciuto, quasi dimenticato. Non sappiamo nulla di sicuro intorno alla sua patria. Matteo e Marco veramente, nei loro cataloghi degli Apostoli, gli danno il soprannome: « Il Cananeo » per distinguerlo da altri Simone contemporanei e anzitutto da Simone Pietro; per questo molti e lo stesso Girolamo furono indotti all’ipotesi che Simone fosse originario di Cana; i Greci e i Copti anzi ravvisano in lui quel discepolo, che secondo la testimonianza del Vangelo viene certamente da Cana, e cioè Natanaele; ma Natanaele si deve identificare con l’apostolo Bartolomeo piuttosto che con Simone; altri in « Simone il Cananeo » vide lo sposo delle nozze di Cana, cui il Signore soccorse col vino miracoloso, ma anche questa opinione manca di ogni fondamento. Il termine « Cananeo », derivato dal vocabolo aramaico « quana », infervorarsi, non indica un luogo, ma un partito; Luca esprime esattamente la stessa cosa col termine greco « Zelotes », lo Zelante. Ora l’ambiente evangelico e specialmente il partito dei « Cananei » o Zeloti fanno piuttosto pensare che la patria di Simone fosse la Galilea; non è però possibile dir nulla di più preciso al riguardo. Non sappiamo nulla di certo neppure intorno alla famiglia di Simone; non mancano però dei motivi per avallare l’ipotesi che anch’egli fosse un « fratello del Signore ». Matteo e Marco infatti fra i fratelli di Gesù fanno menzione anche d’un Simone: « Gli uditori (a Nazareth) stupirono della sua (di Gesù) dottrina e chiedevano: “Donde può Egli aver tutto questo?… Non è il fratello di Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone?»; anche nei cataloghi degli Apostoli tutti e tre i Sinottici ricordano un Simone insieme con Giacomo e Giuda; Marco poi, tanto nel testo in cui enumera i fratelli del Signore, come in quello in cui cataloga gli Apostoli, segue persino il medesimo ordine esatto dei nomi: Giacomo, Giuda, Simone, legittimando così la supposizione che anche il fratello del Signore Simone, come gli altri due fratelli di Gesù, Giacomo e Giuda, appartenesse al Collegio apostolico. Questa interpretazione è appoggiata dall’opinione di Egesippo, il quale attesta che Simone, secondo Vescovo di Gerusalemme, era un figlio di Clopas, fratello di Giuseppe, padre nutrizio del Signore; ora Clopas o Cleofa si deve identificare con Alfeo, ch’era il padre di Giacomo; Giacomo quindi, Giuda e Simone, fatte le debite osservazioni e riserve, erano fratelli fra di loro e cugini corporali del Signore; un sola differenza, che cioè questa determinazione per Simone resta nell’oscurità; ma già nella sua famiglia prima di lui venivano i fratelli più anziani e più in vista, che si muovevano a piacere; a lui, l’ultimo, il più giovane non restava che tenersi piccolo e in silenzio. – Nemmeno della sua vocazione possiamo dire qualche cosa di più preciso. Quando il Signore scelse i Dodici, egli si trovava confuso fra la folla dei discepoli sul monte; i suoi due fratelli più anziani, Giacomo e Giuda, forse s’indignarono internamente quando « il piccolo » li seguì di soppiatto, poiché uno dei tre almeno doveva dare una mano a casa al padre Alfeo, che era agricoltore e come tale non mancava di lavoro in nessun giorno dell’anno. Può essere che anch’essi, irritati come Eliab, il fratello più anziano del giovanetto David, abbiano tuonato contro il giovane Simone: « A che scopo propriamente sei venuto qui? a chi hai lasciato le poche pecore nel deserto? Tu sei venuto solamente per stare a guardare »?. E Simone stette davvero a guardare con occhi spalancati e attoniti quando, alla chiamata del Signore, si staccarono successivamente dalla moltitudine degli uomini per presentarsi innanzi a Lui primo Simone, poi il gentile Andrea, poi l’ardente Giacomo e poi l’ardito Giovanni. E adesso sta in ascolto ed ecco! Il Signore chiama suo fratello Giacomo e, onore inaudito per la famiglia, anche Giuda. I due passarono dinanzi dignitosamente al loro piccolo fratello Simone, il quale risplendeva d’orgoglio e di gioia. Ora dieci uomini ornano Gesù come dieci diamanti una corona. Chiamerà anche degli altri? e chi? E Gesù chiamò: « Simone! ». Questi si guardò d’intorno perplesso, ché dei Simone ce n’erano molti. Gesù ripetè: « Simone! ». Una breve pausa; poi, quasi esitante: « Lo Zelante ». Lo Zelante? Quando il « Cananeo » entrò nel gruppo del Signore, percorse le folle un incredulo stupore. Nei cataloghi degli Apostoli di Matteo e di Marco Simone è l’undicesimo e il penultimo; solo Giuda viene dopo di lui e gli fa ombra; può essere anzi che il Signore chiamasse Giuda prima di Simone e che solamente il crimine commesso lo abbia ricacciato dietro a Simone. Ci fa compassione il semplice Simone, ricordato così d’un fiato insieme col Traditore; forse lui stesso qualche volta, senza sapere perché, si sentì malsicuro in vicinanza dell’oscuro suo compagno; e probabilmente toccò proprio a lui accompagnarsi al futuro Traditore, quando il Maestro inviò i suoi Apostoli per un primo viaggio missionario « a due a due ». Nell’ultima Cena di Leonardo da Vinci Simone siede all’estrema sinistra, e riportiamo l’impressione che sia stato necessario quasi uno sforzo per arrivare a trovargli un posto: nel Collegio apostolico egli è solamente tollerato. Della sua attività apostolica non sappiamo nulla, affatto nulla; tace il Vangelo, tacciono gli Atti degli Apostoli; suo fratello Giuda ha pure messo insieme alcuni pochi versi per una letterina, ma egli nemmeno questa; a lui non fu mai detta una parola né lui chiese mai una spiegazione, che agli occhi degli Evangelisti sembrasse degna d’essere resa in iscritto, mentre ci tramandarono pure, per esempio, le osservazioni incidentali, che Tommaso, Filippo e Giuda Taddeo fecero nel Cenacolo; nella cerchia degli Apostoli Simone è la comparsa autentica; sembra che non abbia nient’altro da fare che esser là. Quando gli Apostoli, dopo la loro prima missione ritornarono a Gesù e Gli riferirono tutto quello, che avevano fatto e insegnato, si conchiusero racconto e insegnamenti prima che venisse la volta di Simone. Non leggiamo che gli sia stata mai concessa una distinzione, mai affidato un incarico, mai una comparsa di lui in particolare; forse la domenica delle Palme poté sciogliere almeno l’asinello; se neppure questo, egli non ci si fa mai innanzi, non si distingue mai; è sempre nel gruppo, insieme con gli altri, quasi senza propria personalità, è solo Apostolo, solo uno dei Dodici. E questo essere ignorato persevera come suo particolare segno distintivo sino ad oggi: le sue reliquie riposano in Vaticano; ma chi mai, fra le centinaia di migliaia di persone, che a Roma visitano San Pietro, si ricorda ivi dello sconosciuto Simone? L’edificio è sacro al primo Simone, a Simone Pietro; la sua statua è baciata con riverenza e con gratitudine, tanto che il piede è consumato persino; invece Simone l’undecimo può rallegrarsi della sua quiete indisturbata. Simone, lo sconosciuto, è il patrono dei discepoli e delle discepole senza numero di Cristo, che, per così dire, passano la loro vita senza nome; è il patrono degli eserciti di operai dimenticati nella vigna del Signore, che per il regno di Cristo si affaticano nei terzi, quarti e ultimi posti; è il patrono degli ignorati soldati del Signore, che combattono su fronti ingrati e sconosciuti. Nessuno s’avvede, loda o premia questi apostoli nascosti, spesso male interpretati, nessuno, se non… il Padre, che vede nel segreto. Simone, l’ultimo, fu meno degno degli Apostoli primi, perché di lui non si fa mai parola? È uno dei Dodici anche lui, e lo è tanto quanto il potente Pietro e l’aquila dello spirito Giovanni; ebbero valore anche per lui le parole del Signore: « Non vi chiamo più servi, vi ho chiamati amici, perché  vi ho comunicato tutto quello, che ho udito dal Padre ». Può darsi che il Signore abbia onorato appunto questo Apostolo sconosciuto e apparentemente poco interessante col dirgli non poche parole in particolare, ma dovette farlo tanto sommessamente, che nessuno degli altri ne percepì qualche cosa né ne scrisse alcunché. E così precisamente quest’Apostolo sconosciuto ebbe con Lui, ch’è il Dio sconosciuto, una somiglianza tutta sua. Ma quale l’atteggiamento di Simone stesso? sdegnato per essere stato cacciato all’ultimo posto, ha forse lavorato meno degli altri? Anche lui invece percorse generosamente le vie del Vangelo, « senza pane, senza bisaccia, senza denaro e predicò: “Il regno dei Cieli è vicino”. Guarì ammalati, risuscitò morti, mondò lebbrosi e cacciò gli spiriti cattivi ». Nella sua opera apostolica non si lasciò paralizzare né dai moti della suscettibilità né dal fatto della sua inferiorità; ora anzi nei cataloghi degli Apostoli precisamente questo sconosciuto Simone porta un titolo, che in lui ci sorprende più che in ogni altro: egli è detto « Simone… lo Zelante ».

SIMONE LO ZELANTE

Il titolo « Zelotes », lo Zelante, direttamente ha un senso politico, non senso ascetico. Gli « Zeloti » erano una fazione giudaica, che con tutti i mezzi, anche i più violenti, aveva di mira la libertà e l’indipendenza dei Giudei dalla dominazione dei Romani. Loro fondatore può ritenersi un certo Giuda della Galilea, il quale aizzò i Galilei a una accanita ribellione, quando, nell’anno 7 dopo Cristo, il governatore romano della Siria, Quirino, introdusse in Palestina il testatico. La ribellione da lui promossa e il suo esito infelice sono ricordati anche negli Atti degli Apostoli: Gamaliele dissuase i sinedristi da una repressione violenta del Cristianesimo da poco spuntato colla motivazione che i movimenti messianici, se non vengono da Dio, finiscono da sé; bastava pensare a « Giuda di Galilea, che nei giorni del censimento si sollevò e istigò molto popolo a defezionare; egli perì e tutti i suoi aderenti furono dispersi ». Gli Zeloti erano vinti, non però le idee, che essi propugnavano; il fuoco della libertà, coperto, continuava ad ardere nascostamente e veniva continuamente attizzato dagli Zeloti, che in gruppi sciolti, costituiti di volontari, conducevano una guerra sorda e continua. Si distinguevano però fra di loro due indirizzi: il gruppo religioso del partito sosteneva che la condizione indispensabile e previa del rinnovamento e della esaltazione nazionali era il fervente ed esatto adempimento della legge mosaica; prima che si fosse soddisfatto a questa condizione, non sarebbe apparso il liberatore promesso da Dio, il Messia. Secondo questo indirizzo, anche Paolo forse apparteneva al partito degli Zeloti, perché confessa di se stesso: « Nello zelo per il Giudaismo oltrepassai molti dei miei coetanei nel mio popolo; ebbi anzi zelo eccessivo per le tradizioni dei miei padri ». L’altro indirizzo invece, il politico, guardava sbrigliato solo all’aspetto politico della situazione e del problema; non intendeva affatto di attendere, in tranquilla rassegnazione, finché albeggiasse, secondo il disegno di Dio, il giorno della libertà e s’adempisse la speranza di Israele; fra loro e gli empi nemici doveva decidere la spada. Siffatte teste calde furono condannate all’impotenza per decenni; il pugno di Roma represse i corpi di volontari, e i partiti ufficiali del paese, i Sadducei cioè e i Farisei, si diedero premura di distanziarsi da loro; alla fine però riuscì agli elementi rivoluzionari di far divampare il fuoco devastatore della guerra giudaica; essi divennero quanto più a lungo tanto più audaci e violenti, e sotto l’etichetta dello zelo religioso perpetrarono crimini politici. I Sadducei, aristocratici, e i Farisei, avveduti, erano contrari a una guerra con i Romani, perché la ritenevano senza speranza; questo timore delle sfere dirigenti appare anche nel Vangelo, in rapporto a Gesù: «Se noi Gli (a Gesù) lasciamo così ampia libertà, tutti crederanno in Lui; vengono allora i Romani e ci prendono (anche gli ultimi resti di diritto sul) paese e popolo… È meglio (quindi) che un uomo muoia per il popolo, piuttosto che tutto il popolo vada in rovina ». Ma gli Zeloti volevano ad ogni costo l’insurrezione e la guerra contro i Romani; s’impossessarono della fortezza Masada e ottennero che a Gerusalemme non si offrissero più i sacrifici consueti per l’autorità romana; e con questo il segnale della guerra giudaica era già dato; ma gli Zeloti dovettero pagarne duramente il fio. Fin da quando Vespasiano, nell’anno 67, assoggettò la Galilea, i Romani li raggiunsero su zattere, mentre essi tentavano di fuggire sul lago di Genezareth; fu ingaggiata la battaglia navale ed essi furono trucidati; così quel lago azzurro e tranquillo, che il Signore aveva tante volte tragittato, fu disseminato di cadaveri. In quella battaglia perdettero la vita 6500 Zeloti; altri 1200 furono fatti sgozzare da Vespasiano nello stadio di Tiberiade, 6000 furono mandati nell’istmo di Corinto e 30.000 furono venduti; nelle città di Galilea caddero complessivamente 80.700 uomini, mentre 36.400 furono venduti. L’eccidio fu ancora più terrificante a Gerusalemme, dove, sotto Giovanni di Ghiscala, gli Zeloti esercitarono durante l’assedio un dominio crudele; con l’aiuto degli Idumei, che s’erano uniti, uccisero 12.000 individui; ma la vendetta di tutto questo fu raccapricciante: secondo la testimonianza, forse un po’ esagerata, dello storico Giuseppe Flavio, durante l’assedio e l’espugnazione di Gerusalemme perirono un milione e centomila giudei; 97.000 furono condotti prigionieri e poi o venduti o destinati a sgozzarsi vicendevolmente nei giochi dei gladiatori. Ora soltanto siamo in grado di valutare la chiamata nel Collegio apostolico di Simone «lo Zelote ». Tutti gli Apostoli certamente, e non solo Simone, erano interessati ai movimenti politici del loro tempo; anch’essi amavano la libertà, anch’essi erano galilei dal sangue caldo, tutti quindi desideravano ardentemente il giorno della liberazione. Per loro l’atteso Messia era il grande figlio di David, che doveva spezzare in aspra lotta il giogo straniero dei Romani e instaurare il grande regno giudaico; lo stesso sacerdote Zaccaria del resto, padre del Battista, persona pur tanto avanti nello spirito, attende il Messia quale « salvezza dai nostri nemici e dalle mani di tutti coloro, che ci odiano ». A una domanda male interpretata di Gesù, gli Apostoli Gli portarono dinanzi, con l’animo concitato per l’allegrezza e gli occhi raggianti, le armi accuratamente custodite: « Signore, ecco due spade! ». È vero che i più di loro avevano compiuto il tirocinio con Giovanni Battista, il quale aveva predicato abbastanza energicamente la necessità di volgere il pensiero dalla politica alla religione: « Cambiate il vostro modo di vedere! Mutate pensiero! », e grazie a quell’educazione e alla ferma istruzione poi del Signore avevano intravvisto che il regno messianico era essenzialmente religioso; frattanto alla nota politico-nazionale non potevano rinunziare; molestarono il Signore persino mentre andavano con Lui nel luogo scelto per l’Ascensione, chiedendoGli: « Signore, restauri nuovamente Israele in questo tempo? »; essi seguirono Gesù con entusiasmo e con generosità e per Lui anzi abbandonarono casa e cortile, la moglie e i figli, speravano però in compenso per sé e per i loro congiunti i primi posti nel regno messianico. Tre evidenti tentativi della gente della libertà per indurre Gesù a farsi condottiero della loro impresa sono indicati anche nel Vangelo, e gli Apostoli vi avrebbero collaborato tanto volentieri ogni volta. Dopo la prima moltiplicazione miracolosa dei pani, le folle cercarono « di farLo re con la forza; ma Egli si ritirò tutto solo sul monte e obbligò i suoi Discepoli ad ascendere nella barca e a precederLo all’altra riva ». Prima della festa dei Tabernacolo. Lo sollecitarono di andare a Gerusalemme in testa a loro e di ivi « mostrarsi pubblicamente al mondo »; ma Gesù differì il viaggio e giunse nella capitale, carica d’alta tensione politica, in ritardo, solo verso la metà della settimana festiva. La terza volta sembrò che gli Zeloti fossero riusciti a guadagnare il Signore per i loro piani: fu il solenne ingresso in Gerusalemme fra le palme e gli osanna; ma anche quella volta Egli seppe prevenire un’interpretazione politica del suo trionfale ingresso, creando una piccola e gaia, quasi, circostanza: non entrò nella capitale, cavalcando su di un alto e superbo destriero, ma… su di un puledrino d’asino; e chi medita rovine, non avanza su d’un asinello! E chissà quanto quell’asinello dispiacque appunto al nostro Simone Zelote! E quale ironia sapiente e amabile insieme avremmo avuto, se avesse dovuto menarlo a Gesù proprio lui, che era febbricitante per la conquista del potere politico più di tutti gli altri Apostoli! – Il Vangelo veramente non ci offre nessuna prova per ritenere che Simone apparteneva alla corrente politica del partito degli Zeloti; forse s’era meritato il suo titolo di « Zelote » con la sua amorosa fedeltà alla legge del Vecchio Testamento, a somiglianza di quei giudeocristiani, che negli Atti degli Apostoli vengono lodati come « ferventi seguaci della Legge »; lo zelotismo religioso nondimeno stava molto vicino al politico; e di fatto furono proprio « i fratelli di Gesù », che in precedenza alla festa dei Tabernacoli Lo volevano spingere a una dimostrazione pubblica di carattere politico. Il posto undecimo di questo Apostolo e l’assoluto silenzio nella Sacra Scrittura a suo riguardo si devono spiegare forse con il suo atteggiamento personale, spiccatamente politico; e il Signore, che si rifiutò costantemente e risolutamente di permettere che il suo regno scivolasse verso il campo puramente terreno e politico — « Il mio regno non è di questo mondo! Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei ministri avrebbero certamente combattuto » —, non poteva permettere che fossero messe a repentaglio la sua persona e la sua opera per uno zelote; Simone quindi dovette essere tenuto piccolo nel Collegio apostolico, affinché, seguendo l’esempio del suo patrono onomastico dell’Antico Testamento, Simeone, capostipite della tribù omonima, non avesse con zelo indiscreto e violento a danneggiare piuttosto che giovare; egli doveva purificare il suo zelo e conservare, anzi rafforzare quanto in esso v’era di buono attraverso un rigido periodo di prova, che, negandogli ogni incarico e attenzione speciale, lo tenne nel nascondimento. Ma qui rifulgono anche gli alti pregi personali del nostro Apostolo. Richiama già la nostra attenzione su di un uomo di intrinseco valore il fatto che il Signore l’abbia chiamato a far parte del Collegio dei Dodici, nonostante il suo fardello o inclinazione politica. Con lui, infatti, Egli corse un rischio simile a quello corso con Matteo, sebbene in senso opposto, indubbiamente: Matteo era pubblicano; Simone, zelote; con la chiamata del pubblicano Gesù si compromise presso le folle, che anelavano alla libertà e alla indipendenza; con la chiamata dello Zelote si rese sospetto agli ambienti dirigenti ufficiali. Come potevano mettersi d’accordo i due, Matteo pubblicano e Simone zelote, nello stesso ristretto Collegio? Provenivano da un mondo spirituale totalmente diverso: il pubblicano prestava servizio al dominio straniero, lo zelote vi si scagliava contro; il pubblicano era esattore delle tasse, lo zelote si rifiutava di pagarle. E Cristo ottenne di unire insieme nel medesimo gruppo, come discepoli, Matteo e Simone; la potenza del suo amore è tanto grande e tanto vasta è la visione della sua sapienza, ch’Egli prende a suo servizio il Pubblicano e lo Zelote, perché ha compiti per tutti e due. Ancor più che nella chiamata, la grandezza morale dell’apostolo Simone appare evidente nella costanza, con la quale seppe tener fede al Signore. A eccezione di Giuda, nessun Apostolo fu da Gesù così amaramente disingannato quanto Simone nelle sue aspettative; di fronte a quella delusione Giuda s’infranse, Simone invece crebbe. Questo Zelote ardeva più degli altri del desiderio veemente che Gesù erigesse un regno terreno; possiamo pensare che le bande della libertà facessero spesso visita a lui, perché traesse finalmente Gesù agli scopi del loro partito; Gesù non accedette mai a simili intimazioni, non mise mai in prospettiva ch’Egli avrebbe sodisfatto anche uno solo di quei desideri; a bella posta Simone fu tenuto undecimo, cui nient’altro restava da fare che tacere. Eppure, nonostante questo inflessibile rifiuto, Simone perseverò accanto al Signore; sacrificò parte a parte il cuore con tutti i suoi desideri piuttosto che… Gesù, al contrario di Giuda, che ricercando se stesso tradì scelleratamente il Maestro. Chi è « zelote » in modo che nel suo zelo si lascia guidare solamente da Gesù, questi e certamente solo questi è un vero e bravo apostolo di Lui; il suo zelo è una forza potente, non dispersa per fini secondi, ma convogliata all’attuazione dei sublimi disegni di Cristo.

LO ZELANTE SCONOSCIUTO

Le notizie della leggenda intorno al nostro Apostolo sono contraddittorie, quanto quelle intorno al fratello suo e coapostolo Giuda Taddeo. La più probabile dice che, dopo la morte nell’anno 62 di suo fratello più anziano Giacomo, gli succedette sulla cattedra come Vescovo di Gerusalemme; lo storico ecclesiastico Eusebio infatti ci ha conservato una nota di Egesippo, della metà del secondo secolo, secondo la quale un Simone, figlio di Clopas, sarebbe stato secondo Vescovo di Gerusalemme; sia Eusebio poi che Niceforo, nelle loro liste dei vescovi, ricordano questo Simone come secondo Vescovo di Gerusalemme, che avrebbe retto la sua chiesa secondo l’uno per 23 anni, secondo l’altro per 26. Questa notizia è confermata da un’antica tradizione abissina, secondo la quale l’apostolo Simone, lo Zelote, dopo avere svolto un’intensa attività in Samaria, sarebbe divenuto Vescovo di Gerusalemme, ove sarebbe pure morto in croce. Il Breviario romano veramente celebra due feste distinte per l’apostolo Simone e per Simeone, Vescovo di Gerusalemme, la prima il 28 ottobre, l’altra il 18 febbraio. – L’attività episcopale dell’Apostolo in Gerusalemme coincise con gli anni spaventosi dell’assedio, dell’espugnazione e della distruzione della Città Santa; spesso forse sorsero nel suo spirito sentimenti di invidia per il fratello e predecessore Giacomo, ch’era passato alla Patria, cui era stato risparmiato di vedere l’orrore della desolazione nel luogo santo. Memore dell’avvertimento del Signore: « Quando vedrete Gerusalemme circondata dagli eserciti, allora sapete che la sua distruzione è vicina! Allora la gente in Giudea fugga ai monti, quella in città ne esca fuori, quella in campagna non entri in essa », egli se ne fuggì a tempo col suo gregge di fedeli nella città pagana di Pella in Perea, che non era esposta ai pericoli della guerra: sfollamento ed emigrazione dei primi nostri fratelli nella fede, che ordinò il Signore stesso nella sua grande sollecitudine per i suoi fedeli! Quali pensieri avranno occupato l’animo di Simone, lo Zelote, durante quella fuga? Un tempo era stato implicato anche lui nel partito degli Zeloti, che ora aveva procurato alla propria terra e al proprio popolo spettacolo tanto orrendo e raccapricciante; allora sacrificare al Signore i desideri del suo cuore gli era tornato difficile; adesso, mentre Gerusalemme era divorata dagli incendi del divino giudizio, comprendeva quanto fosse buona cosa offrire in sacrificio al Signore anche il proprio cuore; e un’onda di calda riconoscenza gli saliva dal fondo dell’anima, perché il Signore l’aveva strappato allo zelotismo tanto pericoloso per farlo ardere d’un più nobile zelo, dello zelo per la casa del Signore e per il suo gregge. – L’attività episcopale in Gerusalemme non impedisce che egli, prima di essa e forse anche dopo, abbia portato il lieto messaggio anche ad altre terre; un’idea di quanto potesse essere ampio il raggio dell’attività apostolica ce la forniscono le lettere dell’apostolo Paolo; ora non solamente a lui, ma anche agli altri Apostoli premeva di adempiere la parola del Signore: « Andate e istruite tutti i popoli! Sarete miei testimoni in Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e sino ai confini della terra ».  Le terre assegnate dalle leggende al nostro silenzioso Simone sono varie e distanti, né è possibile estrarre dal materiale favoloso quello, che forma il nocciolo storico. Secondo gli « Atti di Andrea » apocrifi, egli si portò, come compagno di Andrea, nelle contrade sul Mar Nero, nella città di Bosporos, nel Chersoneso taurico e a Nikopsis, paese dei Zekchen o Zyger, popolazione caucasica. Anche le tradizioni armene e georgiche ci rinviano alle terre del Caucaso; dopo un’attività di Simone con Matteo e Andrea, quest’ultimo lo avrebbe lasciato a Sebastopoli. Non è escluso però che questa leggenda sia sotto l’influsso della omonimia con Simone Pietro, poiché, secondo informazioni molto antiche, in quelle regioni lavorarono insieme i due fratelli Simone Pietro e Andrea, che poi si separarono per andare Andrea verso l’Oriente e Simone Pietro verso l’Occidente; la leggenda forse ha accreditato a Simone lo Zelote quello, che invece in quelle contrade fu opera apostolica di Simone Pietro. Gli « Atti di Simone e Giuda » trasferiscono l’attività apostolica di Simone in Babilonia e in Persia, come hanno messo in evidenza le trattazioni su Giuda Taddeo; egli in Babilonia aveva una sede, donde, insieme con Giuda, percorse le dodici provincie dell’impero persiano. Ma forse in questa leggenda fa capolino di nuovo Simone il Maggiore, Simone Pietro; questi infatti scrisse la sua prima lettera da Babilonia, sotto il qual nome è da intendersi Roma, la città « babilonica » per i vizi e gli errori; può darsi che la leggenda abbia attribuito a Simone lo Zelote, quale campo della sua missione, la Babilonia geografica, perché l’Apostolo dello stesso nome, Simone Pietro, faticò nella Babilonia simbolica. Secondo questa leggenda, Simone muore martire nella «città Suanir»; ma una città persiana di questo nome non è conosciuta; è da pensare piuttosto alla regione dei « Suanen » nella Colchide settentrionale, che ci ricondurrebbe ai paesi sul Mar Nero. Una terza opinione, che ricorre specialmente presso gli autori greci posteriori, menziona quale campo dell’attività apostolica di Simone l’Egitto, la Libia, la Mauritania e persino la Britannia; anche il Breviario romano ricorda un’attività apostolica in Egitto e dice che Simone s’incontrò con Giuda Taddeo in Persia soltanto più tardi. – Secondo una notizia di Egesippo, egli soffrì il martirio sotto l’imperatore Traiano nell’anno 107, nell’avanzata età di 120 anni; se questa attestazione, che per quanto riguarda l’età ci sembra un po’ improbabile, risponde a verità, il nostro Apostolo sarebbe vissuto tre anni anche dopo Giovanni, che dalla tradizione è ritenuto come l’ultimo degli Apostoli. La maggior parte delle relazioni dicono ch’egli morì crocifisso; una piccola ma impressionante immagine dei Monologhi dell’imperatore Basilio II lo rappresenta sulla croce in abiti pontificali, con le spalle verso la città di Gerusalemme e il viso rivolto al vasto mondo. Simone in croce! Simone lo Zelote un giorno non aveva elevate le sue proteste contro la croce, almeno in cuor suo, con minore veemenza dell’altro Simone: «Questo non sia mai! »; le sue propensioni non correvano certo alla croce, ma alla corona; anche lui però si lasciò educare dal Signore, docile e contento, finché Gli divenne conforme… sulla croce. Ma è così: non si possono prevedere i tratti di strada, che un uomo percorre, quando si sia affidato senza riserve a Cristo! Altre tradizioni direbbero che Simone fu segato; l’immagine di Luca Cranak, nella serie dei martiri degli Apostoli, illustra questo orrendo martirio con un realismo non sospetto; la sega fu quindi assegnata allo Zelote come simbolo e, quanto al culto del popolo, gli ha fruttato il patrocinio dei legnaiuoli, che è un po’ meno di quello degli architetti, conciliato all’apostolo Tommaso dalla sua squadra; il buon Simone è e rimane in ogni campo… l’undecimo! Tutte queste informazioni della tradizione sono poco sicure e appena conciliabili; una cosa però è insinuata da tutte, che cioè Simone fu uno zelante e un appassionato anche nella sua attività apostolica. Che abbia lavorato nella terra dei Suanen o in Babilonia, che sia stato crocefisso o segato, lo zelo, col quale questo Apostolo sconosciuto attese agli interessi del Signore e del suo gregge, fu ardente. Sconosciuto e zelante: un connubio strano e meraviglioso! Perché di solito lo zelante cessa di essere sconosciuto, mentre molti, che dovettero lavorare nell’oscurità, perdettero per questo il loro fervore; l’insegnamento quindi di questo semplicissimo fra tutti gli Apostoli è tanto profondo: conserviamo il fervore, anche se sconosciuti e dimenticati, e se ferventi, non lavoriamo per essere visti dagli uomini; « altrimenti non avete nessuna mercede presso il Padre vostro in Cielo »; « la vostra vita sia nascosta con Cristo in Dio ».

S. GIUDA TADDEO

L’Apostolo Giuda Taddeo porta un nome, che in passato fu tanto onorato quanto è ora esecrando. Si chiamarono Giuda molti e celebri uomini del Vecchio Testamento; i due più eminenti sono Giuda, il padre della tribù di Giuda, uno dei dodici figli di Giacobbe, e Giuda il Maccabeo. Parecchi tratti di questi due grandi del popolo eletto si riflettono anche nell’apostolo Giuda; perché v’è qualche cosa di misterioso nei nomi, si potrebbe quasi pensare ch’essi in qualche modo imprimano negli uomini un’idea preconcepita. Quando nacque Giuda, il figlio di Giacobbe, sua madre Lia esclamò pia e festante insieme: «”Jehfdah”, che vuol dire “loderò il Signore ”, per questo lo chiamò ” Juda ” »; sebbene egli non fosse il più anziano dei figli di Giacobbe, ebbe però un posto di direzione fra i suoi fratelli, grazie al suo carattere deciso e fermo. Nella vicenda di suo fratello, l’egiziano Giuseppe, egli appare una lodevole eccezione: si oppose alle brame degli altri e propose il male minore: invece del fratricidio, la vendita del fratello ai mercanti madianiti per venti denari. Combinazione curiosa! Un altro Giuda, con peggiori intenzioni, richiese trenta denari in una vendita più detestabile. Il patriarca Giacobbe, morendo, designò il suo figlio Giuda quale antenato del Messia con la seguente lode e benedizione: « A te, Giuda, dicono lode i tuoi fratelli. La tua mano pesa sulla cervice dei tuoi nemici. Innanzi a te si piegano i figli di tuo padre. Un leoncello è Giuda. Chi osa stuzzicarlo? Non recederà da Giuda lo scettro, dai suoi piedi il bastone del dominatore finché venga colui, cui esso appartiene e cui i popoli obbediscono ». L’accenno alla potenza e al valore sembra una profezia anche per l’apostolo Giuda Taddeo, perché colgono nel centro del suo essere. – Vigoroso, figura di primo piano è anche l’altro grande Giuda del Vecchio Testamento, il terzo figlio di Matatia; egli fu chiamato il « martellatore », da maqab, perché si distinse con le sue gesta eroiche, compiute nella guerra giudaica per la libertà nel secolo secondo prima di Cristo; di molto inferiore per truppe e armamento, egli riuscì a trionfare, con gloriose battaglie, sui grandi eserciti dell’empio re Antioco IV, ch’erano guidati dai generali Nicanore, Gorgia, Timoteo, Bacchide e Lisania; gli riuscì di espugnare la città santa di Gerusalemme, superando le forze d’occupazione nemiche e pagane, e nel Tempio purificato e riconsacrato furono offerti nuovamente al Dio di Israele i sacrifici prescritti dalla Legge. Gli eroismi di questo Giuda sopravvivevano nel ricordo di tutti; Giuda Taddeo ascoltava con occhi scintillanti il racconto, che gliene facevano in casa il padre e il nonno; molti sabbati si parlava con entusiasmo di quell’eroe della religione e della patria, che in una epoca dura aveva indicata la via col suo fulgido esempio. Il nostro Giuda, quindi, andava orgoglioso del suo nome, che uomini tanto valorosi avevano portato; egli li imiterà; anch’egli vuol divenire nel proprio tempo « leoncello » e « martellatore ». – Purtroppo questo nome ardito e nobile fu così infelicemente macchiato da un altro Giuda, dal Traditore, che non si riuscirà a purificarlo mai più; l’ignominioso gesto di costui è penetrato corrosivo in questo nome, è divenuto anzi con esso una unica cosa; per noi di fatto « Giuda » equivale a « traditore » e non più a « loderò il Signore », come aveva esclamato Lia, la mamma buona e cisposa. Non vi sarà individuo cristiano che porti il nome « Giuda », non si vuole anzi nemmeno ripeterlo; perché si danno nomi, che sono — anche oggi! — così esecrati, che non si possono affatto ripetere. Tutti e due i Giuda, il Taddeo e il Traditore, sedettero in qualità di Apostoli intorno al Signore, anzi nel catalogo degli Apostoli di Luca essi sono l’uno accanto all’altro. Quando il Signore chiamava « Giuda », tutti e due tendevano l’orecchio; forse era solo un leggero tono della voce che li distingueva; il Venerdì Santo, quando come un baleno s’era diffusa la notizia inaudita che Giuda aveva tradito il Maestro e poi s’era impiccato, parecchi pensarono che quel delinquente fosse Giuda Taddeo; il Traditore aveva gettato il disonore anche sul nome del buon Giuda. Quasi in riparazione di questo oltraggio, il popolo cattolico onora d’una singolare fiducia il Santo omonimo dell’infelice Traditore sin dal secolo decimottavo e con un tale sentimento umano e credente insieme, che commuove: Giuda Taddeo è divenuto per esso il protettore nelle « richieste gravi e disperate ».

GIUDA, IL FRATELLO.

L’imbarazzo di fronte al nome « Giuda », carico di colpa e di dolore, appare evidente anche nei Vangeli. Giovanni scrive in un unico testo di Giuda Taddeo, ma s’affretta ad aggiungere subito: « Giuda, non Iscariote! »; ci colpisce ancor di più che Matteo e Marco non designano mai il nostro Apostolo col nome « Giuda », ma solamente col soprannome « Taddeo »; possiamo a buon diritto ritenere che essi sostituirono il nome proprio con questo soprannome per allontanare dal loro buon compagno nel Collegio apostolico l’ombra, che vi proiettava il nome « Giuda ». Soltanto Luca osò chiamare quest’Apostolo col suo proprio nome, ma non senza elevare una luce sull’oscurità di esso; egli lo chiama « Judas Jacobi », Giuda, quello di Giacomo; l’espressione sulle prime fa pensare che Giuda fosse il figlio d’un Giacomo, e non mancano traduzioni cattoliche della Bibbia, che rendono il passo con questo senso; essa però può anche significare « Giuda, il fratello di Giacomo »; la Sacra Scrittura stessa accenna questo secondo senso di « fratello ». Nel Vangelo, infatti, un Giacomo è chiamato esplicitamente fratello d’un Giuda e un Giuda, nella sua lettera, si dice fratello di Giacomo. Questo Giacomo, che Luca nei suoi cataloghi degli Apostoli fa che risplenda su Giuda, doveva essere una personalità conosciuta e tenuta in alta stima dai Cristiani; ma non si può pensare che fosse Giacomo Maggiore, ch’era morto già da vent’anni ed è sempre ricordato come fratello di Giovanni solo e mai come fratello d’un Giuda; Giuda quindi è fratello di Giacomo Minore, del Vescovo di Gerusalemme; si comprende che gli Evangelisti Matteo e Marco, nei loro cataloghi degli Apostoli, collochino i due l’uno accanto all’altro immediatamente. Invece, nei riguardi di questa parentela, non è ancora risolta la questione se Giacomo fosse un fratello in senso stretto di Giuda o soltanto un fratello in senso di cugino. Ma comunque questo celebre Giacomo illumina il fosco nome di Giuda. – Sul nostro buon Giuda però, ch’ebbe l’infausta sorte di dover condividere il nome col Traditore, piove una luce ancor più abbondante: egli non è solo « fratello » dello stimatissimo Giacomo, ma è anche « fratello » del Signore. I Nazzareni domandano di Gesù: « Non è costui il falegname… il fratello di Giacomo… e di Giuda? ». Ci colpisce e ci piace ripensare che quest’Apostolo, nei giorni allegri della sua giovinezza, abbia giocato e pregato insieme col giovane Gesù, che con Lui abbia corso e girato sin lassù a Gerusalemme, in occasione delle grandi feste; è anche possibile che Maria, angosciata nella ricerca del suo Dodicenne, si sia rivolta anzitutto ai giovani cugini di Lui, Giuda e Giacomo, e abbia loro chiesto quando e dove essi erano stati insieme col suo amato Gesù per l’ultima volta. Come Giacomo, anche quest’Apostolo ebbe con Gesù rapporti umanamente molto intimi ed egli pure raggiunse un po’ alla volta la debita distanza; nella sua lettera di fatto egli si chiama « fratello di Giacomo », ma con religiosa riverenza non « fratello », bensì « servo di Gesù Cristo ».

GIUDA, IL CONTADINO

Giuda Taddeo, prima della sua vocazione, era sposato; anzi, secondo una notizia, che leggiamo in Niceforo Callisto e che Eusebio cita nella sua « Storia Ecclesiastica », sarebbe stato lo sposo delle nozze di Cana. Questa deposizione è certo discutibile; essa però spiegherebbe molto bene la presenza di Gesù e di sua Madre a quelle nozze; essi vollero rendere a un cugino l’alto onore della loro partecipazione. Dei due nipoti di Giuda, di nome Zoker e Giacomo, che l’imperatore Domiziano citò a Roma per sottoporli a interrogatorio, abbiamo scritto trattando di Giacomo; essi vivevano nella Palestina quali semplici coloni e quale reddito del loro esiguo podere denunciarono all’imperatore mille denari. Forse anche il loro nonno Giuda s’era affaticato sulle medesime zolle, che lavoravano essi; la sua lettera, come quella di suo fratello Giacomo, è lettera d’un contadino, forte, quasi rude, non delicata e profumata, con similitudini tolte dalla vita dei campi. Egli paragona i maestri di errore ai pastori, « che pascono se stessi », con « le nubi senz’acqua, che son trasportate qua e là dal vento », con « gli alberi nel tardo autunno, senza frutti, morti due volte, divelti ». Giuda contadino! Prima di spargere la semente della parola di Dio nel vasto mondo come apostolo, seminò come contadino orzo e grano nel fondo della sua terra, inciso dall’aratro. Come dovette quindi comprendere bene le parabole del Signore! Quella, per esempio, del seminatore, cui nel seminare il grano cadde parte sulla via, parte su fondo sassoso e parte fra le spine; quella della semente, che di giorno e di notte cresce da sé e l’agricoltore non sa come; e quella della zizzania, che germoglia col grano e al tempo della raccolta viene legata in fastelli per essere bruciata. Tutto questo il Signore l’aveva potuto osservare nei campi dei suoi cugini. In novembre, caduti i primi acquazzoni della pioggia temporanea, Giuda attaccava bue e asino per rivoltare il terreno, nel quale poi seminava orzo e grano; in febbraio badava alle viti, recideva i germogli selvatici e mondava i tralci buoni perché  portassero frutto ancor più abbondante; alla fine di marzo sospirava ardentemente la pioggia serotina, che consentiva al grano di spigare; nella primavera, bella come un paradiso ma breve, coltivava l’orto a cocomeri, cetrioli, fagioli, lenticchie, cipolle e aglio, anice, menta e comino; sin dalla fine di maggio cominciava a trebbiare il grano e lo ventilava con grandi pale al vento della sera; terminata la messe dei cereali, seguiva la tosatura delle pecore; sul finire d’agosto si portava nel vigneto a vendemmiare; in settembre maturavano i fichi e infine le olive, l’ultimo frutto, che venivano pigiate nei torchi come i grappoli d’uva. Così ogni giorno aveva la sua fatica e la sua pena. Giuda non se ne arricchì. I suoi nipoti Zoker e Giacomo, nell’interrogatorio subìto dinanzi a Domiziano, confessarono candidamente che i mille denari, che la loro domestica sostanza fruttava, erano esauriti per sostentare la vita e pagare le tasse. Le tasse infatti erano gravose; vi furono periodi, nei quali il contadino doveva consegnare un terzo della sua raccolta di cereali e persino metà dell’olio e del vino; Erode Antipa, al cui servizio era stato Matteo, il compagno d’apostolato di Giuda, dalla sua tetrarchia, che non era poi grande, ricavava ogni anno, come gettito delle tasse, due milioni di franchi, e cioè cinque volte tanto secondo il valore del denaro oggi. Ai Romani dovevano essere pagati la tassa fondiaria e il testatico; dieci anni prima che Gesù desse inizio alla sua vita pubblica, una legazione dei Giudei si portò a Roma per sollecitare un alleggerimento delle imposte, ché il buon popolo era oppresso ab immemorabili e solo perché alcuni pochi grandi potessero crapulare e millantarsi; le sontuose costruzioni dell’ambiziosa famiglia degli Erodi ingoiavano somme, che furono pagate col sangue dei poveri. Quando il Signore scagliò contro i ricchi i suoi « Guai a voi! », il semplice Giuda dovette farGli intendere, con un significativo cenno del capo, tutto il suo consenso. Nonostante però il lavoro e la povertà, Giuda visse contento e beato, chino sulle zolle della sua patria; pellegrinava, come d’obbligo, a Gerusalemme per le tre feste di Pasqua, di Pentecoste e dei Tabernacoli, ma poi se ne tornava di nuovo contento al suo villaggio in Galilea; forse era Cana, se non era la stessa Nazareth; lassù, nella Città Santa, si faceva così strepito e poi quel mercato profano… e il mondo si dilettava di teatri, di progetti per le corse, di piazze per lo sport e per tutta la sua concupiscenza degli occhi, per la concupiscenza della carne e la superbia della vita. Che Iddio non permetta mai ch’egli debba portarsi in mezzo a quel cattivo mondo! Egli vuol vivere e morire laggiù, nella sua terra e in seno alla sua famiglia; quivi fioriscono i suoi campi e la sua donna e giocano i suoi figli. E invece era ormai vicino il giorno, in cui avrebbe preso congedo dalla sua famiglia, avrebbe abbandonata la patria e avrebbe scelto in compenso l’essere senza patria, come chi vaga per le strade, e se ne sarebbe andato in tutto il mondo. Un sacrificio eroico per un contadino! E Giuda fu tanto generoso per sostenerlo; egli rispose il suo « Adsum! », quando il Signore, volendone fare un messaggero del suo regno, lo chiamò via dalla sposa e dai figli e dai campi.

GIUDA, IL CORAGGIOSO

Sulle prime si direbbe che la Sacra Scrittura non ci fornisca intorno al nostro Apostolo nessuna notizia; e infatti, se si eccettui una breve espressione nel Vangelo di Giovanni, né gli altri Evangelisti né gli Atti degli Apostoli ci ricordano di lui più del suo nome. Ma precisamente questo nome è significativo e ricco di luce; perché Matteo e Marco aggiungono a Giuda un soprannome, ch’egli non dovette ricevere, come ad esempio Pietro e i Boanerges, solo al momento della chiamata del Signore; l’opinione pubblica, è evidente, glielo aveva accordato in precedenza. Giuda è chiamato « Taddeo » o, secondo parecchi manoscritti antichi, « Lebbeo »; ma Taddeo e Lebbeo significano in realtà la stessa cosa; Taddeo, dall’aramaico «thad » = petto, e Lebbeo da «leb » = cuore, significano l’intrepido, l’impavido, l’ardito; in certi testi del Vangelo si leggono tutti e tre i nomi: Giuda Taddeo Lebbeo, tanto che già Girolamo chiamava quest’Apostolo « trinomico », quello dai tre nomi”. – Questo soprannome doveva distinguere anzitutto il buon Giuda dal Giuda traditore; esso però voleva pure esprimere la natura propria di questo Apostolo, perché non senza un motivo doveva toccargli d’essere designato col nome onorifico di « Taddeo », l’audace. L’audacia, che confina con la temerarietà, era certamente una caratteristica comune ai Galilei; un filosofo romano era ammirato del loro coraggio; per difendere la loro fede sfidavano persino i tiranni; un vecchio proverbio diceva che per i Giudei il denaro la vinceva sull’onore, ma per i Galilei l’onore andava sopra il denaro. E questo proverbio getta luce sui due Giuda del Collegio apostolico, sì che ne possiamo scorgere più chiaramente la profonda differenza: Giuda il traditore, che proveniva dalla Giudea, riservato e calcolatore già per la sua origine, metteva il denaro al di sopra degli ideali; Giuda invece l’audace stimava la fedeltà e l’onore più dei denari. Tutto questo è vero; nondimeno Taddeo dovette essere d’un’arditezza, che faceva stupire gli stessi Galilei, se lo chiamarono semplicemente « l’ardito »; e come tale egli è entrato anche nei cataloghi degli Apostoli. E ch’egli fosse quale il nome io diceva, un tipo cioè energico, coraggioso, robusto da fare onore ai suoi patroni, Giuda capostipite della tribù e Giuda Maccabeo, lo dimostra in tutti i secoli la sua lettera. Nel battistero di Ravenna si conserva un’immagine in mosaico del quinto secolo, che traduce felicemente quello, che la prima età cristiana pensava di quest’Apostolo: egli ha un volto allungato, teso, tendineo, che rivela energia e decisione. Chissà come avranno lampeggiato gli occhi di Taddeo, quando il Signore parlava a lui e ai compagni di coraggio e di forza! « Non abbiate paura di loro. Quello che Io dico nelle tenebre, voi annunziatelo nella luce! Quello ch’Io vi ho sussurrato nell’orecchio, predicatelo sui tetti! Non temete coloro, che possono ben uccidere il corpo, non però l’anima! Neppure crediate ch’Io sia venuto a portare pace sulla terra! Non sono venuto a portare la pace, ma la spada. Chi cerca di guadagnare la sua vita, la perderà; chi invece perde la sua vita per amor mio, la guadagnerà ». – Basta quest’unico Apostolo, Giuda Taddeo, per rovesciare dalla base tutte le denigrazioni contro il Cristianesimo, quasi sia un affare per indoli frolle e leziose o per individui inabili alla vita e indegni di essa. Cristo chiamò a far parte della sua ridottissima compagnia un uomo, ch’era senz’altro proverbiale per il suo ardire. E Taddeo non era l’unico di questa tempra; Gesù stesso designò Giacomo e Giovanni col titolo « Boanerges », figli del tuono, e d’un Simone fece la roccia; l’altro Simone era uno Zelote; tutti poi erano uomini completi e sicuri, che offrirono e compirono cose sovrumane. Cristo esige nature forti; si noti però quello ch’è ancor di più: Egli può educare alla fortezza anche le nature deboli; il forte è richiesto da Cristo, il debole ne è attratto; poiché la virtù di Cristo è tanto esimia, che in essa si perfeziona il forte e il debole. I Libri Sacri non ci forniscono nessuna spiegazione in ordine al come Taddeo abbia meritato il suo nome glorioso, quali fossero le gesta eroiche compiute, quali difficoltà sfidasse con cuore ardito, a quali tempeste e pericoli esponesse il petto e la fronte; si inclina a ritenere ch’egli si sia procurato il titolo « l’audace » nel « movimento di resistenza » della sua terra. Al tempo infatti di Gesù la Galilea era febbricitante per le agitazioni politiche; sopportava il giogo della brutale forza d’occupazione romana digrignando i denti; dei fanatici giudei, gli « Zeloti », i « Maquis » = partigiani di quel tempo, accaniti e santamente sdegnati, cercavano di aiutarsi nell’impresa con la violenza; molestavano i Romani dove potevano e facevano le loro vendette sui rinnegati e traditori in seno al popolo proprio; valendosi di corpi volontari, conducevano una guerriglia continuata; erano in ogni luogo e in nessun luogo, e quindi difficilmente potevano venire assaliti. Simone, ch’era probabilmente un fratello di Giuda Taddeo, uno dei dodici Apostoli, porta espressamente il soprannome «lo Zelote ». È permesso pensare che anche Giuda prendesse parte a quel movimento patriottico e si sia guadagnato l’appellativo « Taddeo », l’ardito, con non pochi colpi di mano audaci, che gli sarebbero costati la vita, qualora fosse stato acciuffato; anch’egli del resto porta spesso, specialmente negli autori latini, la designazione propria del partito: « lo Zelote »; è vero che può trattarsi d’uno scambio con Simone, sarebbe però uno scambio, che non manca di qualche motivo intrinseco. Non ci sfugge certo il grande rischio corso da Gesù, chiamando nella cerchia dei suoi Dodici simili individui, che, come un Giuda Taddeo e un Simone Zelote, erano carichi di dinamite; ma Egli per l’erezione del suo regno sulla terra abbisogna anche di caratteri tali, si direbbe anzi proprio di questi, eroi arditi, santi avventurieri, che sappiano maneggiare la spada per Iddio. Taddeo e Simone avevano certamente, riguardo al futuro regno messianico, delle concezioni false, come tutti gli Apostoli e anche più degli altri loro due; per loro il Messia era l’attesissimo liberatore del popolo oppresso, il glorioso trionfatore del dominio straniero dei Romani; ma il Signore non respinse i suoi discepoli perché avevano la testa piena di queste fantasie e speranze inesatte e contaminate, procurò invece di nobilitarli; e questa tattica del Signore ci è indicata chiaramente dall’unico passo, in cui nel Vangelo si fa parola di Giuda e a Giuda. Il testo ricorre nel discorso di congedo, tenuto da Gesù nel Cenacolo la sera del Giovedì Santo; nello strazio della separazione. Egli fece dono ai suoi Discepoli anche della consolazione d’una misteriosa e permanente unità con Lui: « Non vi lascio orfani; Io vengo a voi. Ancor poco tempo e il mondo non Mi vede più; voi però Mi vedete, perch’Io vivo e anche voi vivrete… ». Il mondo… voi! L’onda del dire del Signore mormorava ormai più avanti, ma Giuda Taddeo restò a pensare a quelle parole e dopo alcuni versetti troncò in bocca al Maestro le preziose sentenze, proponendogli la questione che non sapeva sciogliere: « Signore, che è avvenuto che Ti manifesterai a noi e non al mondo? ». È l’unica parola che ascoltiamo da Giuda Taddeo, il Vangelo non ce ne ha conservate altre; ma essa guizza dall’intimo del suo essere e illumina per un istante quest’Apostolo, quasi sconosciuto. Giuda è entusiasta di Cristo; egli desidera e vuole con passione le sue « manifestazioni »; per lui quindi è un enigma tormentoso, anzi un’amara delusione che il Signore voglia manifestarsi soltanto al ristretto gruppo dei Dodici — « solo a noi! » —, e non anche alle moltitudini — « al mondo » —. Così cinque giorni prima, la domenica delle Palme, egli aveva trovato incomprensibile e inaudito che Gesù avesse fatto sì il solenne ingresso, ma non avesse poi preso possesso della Città; precisamente lui, Giuda del Nuovo Testamento, si struggeva dal desiderio che « la sua mano pesasse sulla cervice dei nemici », come il patriarca Giacobbe aveva profetizzato di Giuda, padre della tribù, e potesse ripulire la Città Santa dal nemico pagano, come un tempo Giuda Maccabeo, per restituirla al Dio di Israele e al suo inviato. « Perché non Ti manifesti anche al mondo? ». Questa domanda, dettata dall’ardore impaziente, si connetteva, e sino a fondersi in una sola, con quella richiesta che i fratelli di Gesù, scontenti, Gli avevano presentata già prima della festa dei Tabernacoli; e il nostro Giuda Taddeo era appunto uno di quelli. « Va via di qui (da quest’angolo sperduto della Galilea) e portati in Giudea, affinché anche i tuoi discepoli veggano le opere, che Tu compi. Nessuno. infatti, che voglia essere riconosciuto pubblicamente, opera di nascosto. Se Tu puoi fare tali cose, mostraTi apertamente al mondo! ». Che quindi Gesù non voglia manifestare la sua dignità, annientare i suoi nemici ed erigere il suo regno con potenza e splendore cozza contro tutte le idee dell’audace Giuda. « Perché solo a noi? Perché non al mondo? ». Ecco la domanda, l’unica di Giuda Taddeo. Il seguito del discorso di Gesù non sembra riferirsi affatto alla sua meschina obiezione, perché « Gesù gli replicò: “Se uno Mi ama, osserva la mia parola, e mio Padre lo amerà, e verremo a lui e metteremo dimora presso di lui. Chi non Mi ama, non osserva neppure le mie parole ». E nondimeno nelle profondità di questa risposta c’era la soluzione del problema, che tormentava Taddeo: Giuda, l’intrepido, chiedeva le manifestazioni della potenza e della gloria di Gesù; Gesù promette le manifestazioni del Padre e del Figlio nelle profondità delle anime; ma l’intima esperienza di Dio e l’unità con Lui è riservata esclusivamente agli amanti; il mondo quindi, che non ama, non può neppure godere di queste manifestazioni. « V’è dunque una certa rivelazione interiore di Dio, che gli empi non conoscono affatto, perché non hanno parte alla rivelazione del Padre e dello Spirito Santo. Fu loro possibile avere la rivelazione del Figlio, ma solo quella nella carne, la quale né è della natura di quella, né può rimanere sempre con loro, qualunque sia in realtà, ma solo per breve tempo e a dir vero per il giudizio e non per la gioia, per il castigo e non per il premio ». Queste sublimi parole segnano la strada che lo stesso Taddeo dovrà seguire in avvenire, Egli è un apostolo intrepido; e il Signore non scorcia l’eroe, nessuno anzi meno del Signore lo mutila, invece lo eleva e nobilita; Taddeo deve restare audace e operare cose audaci; non però con colpi arditi per un regno del mondo, bensì impegnando il suo ardimento per il regno di Dio nel mondo; compito degno del suo cuore generoso non è la politica, ma l’avvento del Padre e del Figlio e della carità dello Spirito nelle anime degli uomini.

LA LETTERA DI GIUDA

Fra i Libri Sacri del Nuovo Testamento troviamo una lettera, che ha per autore un Giuda e che fin dai primi tempi fu attribuita all’apostolo Giuda. E per buone ragioni. La lettera infatti è audace e forte, come solo un « Taddeo », un ardito, poteva scrivere. È un breve brano di appena 25 versetti; già Origene, lodandola, scriveva: « Giuda scrisse una lettera breve, ma ricca di parole di celeste sapienza »; è indirizzata « ai chiamati, che sono diletti in Dio Padre e per Gesù Cristo conservati ». Da essa veniamo a conoscere anche i suoi destinatari, ch’erano i giudeocristiani della Palestina e della Siria, poiché le poche righe rigurgitano di prove e di allusioni dal Vecchio Testamento e adducono anche dei libri extrabiblici, scritti per edificazione dei lettori, che erano noti ai Giudei, quali « il libro di Henok » e « L’Assunzione di Mosè ». Nella lettera leggiamo pure il motivo, che indusse Giuda a scriverla: « Si sono intrusi degli individui, che da lungo tempo sono segnati per la condanna, empi, che cambiano la grazia del nostro Dio in lussuria e negano l’unico nostro dominatore e Signore Gesù Cristo ». Questi maestri d’errore, che erano certamente i così detti « Nicolaiti », travisando la cristiana libertà, che affrancava dalla legge dell’Antico ‘Testamento, richiesta da Paolo e da tutti gli Apostoli decisa, respingevano totalmente ogni legame di coscienza e predicavano che il nuovo e vero « vangelo » era il vivere sbrigliato degli istinti. Già Paolo s’era acremente avventato contro quella genia, « il dio della quale è il ventre e la gloria è l’obbrobrio »; anche Pietro, nella sua seconda lettera, scagliò il suo supremo anatema contro quella sfrenatezza morale, che voleva camuffare impudentemente i suoi vizi, valendosi ipocritamente del motto tanto efficace, proprio della « cristiana libertà »: « Per i puri tutto è puro! ». Nella sua lettera Pietro si servì molto dello scritto di Giuda; confrontando anche solo il secondo capitolo, ad esempio, con la lettera di quest’ultimo, si ha l’impressione quasi di una rielaborazione della lettera allo scopo di migliorarla e anche di mitigarla un po’. Il fatto che Pietro abbia quasi inserito semplicemente, così com’era, la lettera del collega nel proprio scritto attesta la stima che aveva di lui. Essa dovette essere scritta fra l’anno 62, primo anno dalla morte di Giacomo Minore, e l’anno 67, epoca di composizione della seconda lettera di Pietro. Possiamo di qui dedurre che per tutto il tempo, in cui Giacomo resse la Chiesa di Palestina, questa non fu tocca da false dottrine, come del resto sappiamo da una testimonianza di Egesippo. L’inizio della lettera di Giuda si può dire un nutrito squillo di tromba, che annuncia il tema: « Lottate per la fede, che una volta per tutte fu trasmessa ai Santi! ». L’intera lettera poi è un severissimo monito contro i maestri dell’eresia, cui vengono comminati i giudizi di Dio con riferimento a esempi dell’Antico Testamento. Impressiona la lingua usata; è realmente ardita, energica, cruda quasi, richiama il grido infuocato e irato dei Profeti dell’Antico Patto: « Questi sognatori (gli eretici) contaminano la carne, disprezzano l’autorità e bestemmiano gli insigniti della maestà… Bestemmiano tutto quello che non comprendono; ma trovano la loro rovina in tutto quello, che, come animali irragionevoli — Giuda, il contadino! —, intendono per naturale istinto. Guai a loro! Son macchie d’ignominia, che nelle vostre agapi gozzovigliano impudici e ingrassano se stessi; furiosi flutti marini, che spumano la loro turpitudine; stelle erranti, cui è riservata in eterno l’oscurità delle tenebre; mormoratori che lamentano la loro sorte e in aggiunta però soddisfano le loro passioni ». Questa lingua ci rivela il nostro « Taddeo », l’audace; non è un uomo servile, un tipo avveduto sette volte, un cappellano di corte; pesta anche sul gregge del Signore col suo pesante passo di contadino e mette le cose a posto. Non gli interessa di essere amato od onorato, ma « mi sta molto a cuore di scrivere a voi intorno alla comune nostra salvezza »; dove questa salvezza è in pericolo, egli mette la sua mano energica, taglia sul vivo imperterrito, predica senza paura e senza timidi riguardi quello che lo Spirito di Dio gli comanda, riesca opportuno o importuno. Ma appunto in questo procedere appare pure che l’arditezza dell’apostolo Giuda è un’altra, è spiritualizzata: l’insegnamento del Signore nel Cenacolo aveva fruttato. Egli non si accinse a scrivere la sua lettera, stimolato da un bisogno naturale di lottare e di; essa non è un’esplosione di temperamento violento; nell’introduzione vi leggiamo persino una scusa: « Mi vedo necessitato ad ammonirvi con uno scritto »; non gli sta a cuore la lotta, ma « la comune salvezza », per assicurare la quale non paventa certo neppure la lotta. Dopo aver respinto i maestri della falsità con espressioni pungenti e decisive, aggiunge i suoi mirabili avvisi sul modo di condursi praticamente con loro, perché anche la loro salvezza sta a cuore al nostro ardito. « Mettete sulla buona via quelli, che ancora vacillano! Altri salvate, strappandoli dal fuoco; dei terzi abbiate compassione con… timore! Guardatevi però persino dalla veste, che sia macchiata di carne! ». La lettera di Giuda, tanto vecchia per il nostro tempo, ha nondimeno una particolare importanza, perché il culto della carne è stato nuovamente eretto a sistema di falsa dottrina; essa potrebbe servire di spunto scritturistico per molte prediche contro gli abusi morali dell’epoca nostra. – La finale della lettera sembra volerci trasportare d’improvviso dalla severa predica, potremmo dire, « da spiaggia balneare » in un coro di monaci benedettini, ove si eleva solenne il canto del « Gloria Patri ». La meravigliosa dossologia finale è l’eco riconoscente delle parole, che il Signore un giorno aveva detto nel Cenacolo al suo audace apostolo Giuda circa la venuta del Padre e del Figlio nell’anima di chi è in grazia: «A Lui, che può preservarvi dalla caduta e presentarvi senza macchia e ripieni d’esultanza dinanzi alla sua gloria, a Lui, all’unico Iddio, nostro Salvatore, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, sia onore e gloria, dominio e potenza innanzi a tutti i tempi e adesso e per tutta l’eternità! Amen ».

GIUDA, L’APOSTOLO

L’attività apostolica di Giuda Taddeo è velata dall’oscurità, come quella della maggior parte degli Apostoli, le notizie anzi intorno alla sua sono tanto più confuse in quanto i suoi tre nomi hanno dato occasione a molti scambi; le più sicure sono ancora le conclusioni, che possiamo dedurre dalla sua stessa lettera. Così come a campo principale della sua missione siamo rinviati alla Palestina; quivi i due fratelli e contadini Giacomo Minore e Giuda Taddeo, con la fatica e nel sudore della fronte, riposero nei granai di Cristo la messe raccolta fra il loro popolo, prima che, come temporale ormai imminente, lo raggiungesse la minacciosa catastrofe della rovina. S’accorda con la nostra supposizione una notizia fornitaci da Niceforo, secondo la quale l’apostolo Giuda Taddeo sarebbe stato missionario della Giudea, Galilea, Samaria e Idumea. Anche della Galilea! Ivi viveva la sua buona sposa, ormai attempata, vivevano i suoi figli, intenti alla coltivazione dei campi, che un giorno appartenevano a lui, vivevano pure i suoi nipoti Zoker e il piccolo Giacomo, i quali, quando il nonno stanco e polveroso ritornava dai suoi giri apostolici per far loro qualche rara visita, si stringevano a lui dintorno e lo accarezzavano; il giorno seguente s’allontanava di nuovo da quella amata tranquillità della patria per portarsi in terre lontane, urgendolo l’amore di Cristo: il sacrificio dell’Apostolo! Secondo le informazioni, che ci forniscono degli autori siriaci, l’attività apostolica di Giuda Taddeo resterebbe trasferita a Edessa, l’odierna Urfa nella Turchia orientale; infatti in un Innario armeno — l’anno 90 prima di Cristo il grande regno degli Armeni si estendeva ancora giù fino a Edessa — del secolo decimoterzo gli Apostoli Giuda Taddeo e Bartolomeo sono chiamati « i nostri primi illuminatori ». Un documento ufficiale assai strano dell’archivio di Edessa, che Eusebio cita nella sua « Storia Ecclesiastica », presenta uno scambio di lettere fra Cristo e il principe Abgar V di Edessa: Abgar prega il Signore di recarsi da lui in Edessa per guarirlo dalla sua malattia; Cristo risponde che dal Padre non ha ricevuto la missione che per Israele; ma dopo la sua ascensione manderà a Edessa uno dei suoi discepoli; più tardi dunque, secondo quanto riferisce Eusebio, l’apostolo Tommaso avrebbe inviato ad Abgar uno dei 72 discepoli, di nome Taddeo, chiamato anche Addeo; a questo punto la « Dottrina di Addeo », uno sviluppo dell’antica leggenda risalente all’anno 400 circa, inserisce pure la notizia che il messo inviato ad Abgar dipinse l’immagine di Cristo. Evidente che la lettera non è autentica; anche Eusebio ha qui confuso l’apostolo Taddeo, uno dei Dodici, con Addeo, uno dei 72 discepoli, il fondatore della chiesa di Edessa. Maggiore probabilità ha un’altra leggenda, secondo la quale Giuda Taddeo, dopo l’attività svolta presso i suoi compatriotti, si sarebbe portato nelle regioni limitrofe della Palestina, nell’Arabia, Siria e Mesopotamia; avrebbe sofferto la morte del martire a Berytus (Beirut) o ad Aradus in Fenicia, mentre invece la maggior parte degli autori greci afferma che Taddeo morì di morte naturale. Uno scritto del principio forse del quarto secolo, attribuito a Craton, un preteso alunno degli Apostoli, risultante di dieci libri, fa che Taddeo s’incontri col fratello suo Simone in Persia, insieme al quale evangelizza quel regno potente; nonostante la continua ostilità dei due maghi Zaroes e Arfaxat, i successi dei due Apostoli furono incredibili; nel giro di quindici mesi battezzarono in Babilonia. 60.000 uomini, senza contare le donne e i fanciulli, e in tredici anni percorsero le dodici provincie dell’impero persiano. Giunti nella città di Suanir, i due Apostoli furono richiesti di sacrificare nel tempio del sole al sole e alla luna, ma essi risposero che il sole e la luna erano solamente creature di quel grande Iddio, che essi annunziavano; cacciarono dagli idoli i demoni, che vi soggiornavano, e fra ululati e orrende bestemmie se ne scapparono due figure nere e terrificanti; allora i sacerdoti e il popolo si precipitarono sui due Apostoli; Giuda disse a Simone: « Vedo il mio Signore Gesù Cristo, che ci chiama »; furono uccisi da una grandine di sassi e a colpi di mazza, e per questo l’arte mette in mano all’apostolo Giuda una pesante mazza. Il re Serse avrebbe fatto trasportare i corpi dei santi Apostoli nella sua città residenziale, dove avrebbe edificato una splendida chiesa marmorea in forma di ottagono e avrebbe composte le salme in una stanza rivestita di lamine d’oro, entro a un sarcofago d’argento; la costruzione sarebbe stata ultimata e consacrata dopo tre anni, il primo giorno di luglio, nel giorno cioè della morte degli Apostoli. Tutto questo lo troviamo nella leggenda latina, che si richiama all’antico scritto di Craton ed è penetrata, nelle sue linee essenziali, come lezione nel Breviario romano per il giorno della festa in onore dei due Apostoli. Nella Chiesa occidentale essi vengono festeggiati nel medesimo giorno, come Filippo e Giacomo, come Pietro e Paolo, da tempo antichissimo; il motivo vero, oggettivo della loro festa in comune può essere la parentela di Simone e Giuda, accennata dal Vangelo, e la loro attività e morte insieme, affermata dalla leggenda. Come giorno per la festa è stato scelto il 28 ottobre, giorno del tardo autunno, che ci richiama, e richiamandolo ci ammonisce, il grave testo della lettera di Giuda, che dice « degli alberi spogli nel tardo autunno » e « delle nubi, che il vento caccia qua e là ». – La conclusione della vita degli Apostoli lascia quasi sempre un po’ insoddisfatti, perché sul loro conto, come per un padre che se ne va, desidereremmo avere notizie più sicure e più precise. Iddio solo sa quant’altre e grandi cose avrà compiute anche Giuda Taddeo, l’audace avventuriero di Cristo! Ma le sue gesta pure stanno dinanzi al Signore e non sono manifeste al mondo. Si spiega forse così che il nascondimento apostolico sia tanto importante? Dopo la parola, che il Signore rivolse a Giuda Taddeo di « non manifestarsi al mondo », ma di scorgere l’essenziale nel fatto che il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo « prendono dimora presso di noi », quel nascondimento ci è di monito e conforto insieme.