GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (8): Un cancro nel seno della CHIESA II

LA GNOSI, UN CANCRO NEL SENO DELLA CHIESA -II-

LE DEFICIENZE E LE INCONGRUENZE DELLA GNOSI

1° Il Panteismo

Negli insegnamenti degli gnostici, c’è una cascata di incoerenze che conducono a conclusioni prive di ogni senso ed i primi apologisti cristiani, i Padri della Chiesa non hanno mancato di far risaltare con le loro argomentazioni le incongruenze della loro dottrina. Sant’Ireneo, ad esempio, nel suo « Adversus Hæreses », si ripropone di confutare tutto il loro sistema. Ecco come Mons. Freppel riassume il suo argomentare: « O voi separate Dio dal mondo, o confondete Dio ed il mondo, e nell’uno e nell’altro caso, distruggete la vera nozione di Dio. Se ponete la creazione al di fuori da Dio, nel senso che questa esiste indipendentemente da Lui, qualunque nome diate a questa materia eterna, che la chiamiate “vuoto”, “Caos”, “Tenebre”, poco importa: voi limitate l’Essere divino, ne circoscrivete l’ambito di attività praticamente in modo da negarlo! Dio non può esistere che a condizione di essere infinito, di racchiudere in sé l’universalità degli esseri e non ce n’è uno che possa esistere da se stesso o sfuggire alla sua potenza di Essere sovrano. Voi avete un bel dire che il mondo potrebbe essere stato formato da Angeli e da qualche altra potenza secondaria (qui il Demiurgo, Yahvé), delle due cose, l’una: o essi hanno agito contro la volontà del Dio supremo, o in obbedienza ad un suo comando. Nella prima ipotesi voi accusate Dio di impotenza; nel secondo caso, voi siete ricondotti, vostro malgrado, alla dottrina cristiana, che vede gli Angeli semplici strumenti della volontà divina. Dunque, o ammettete la creazione, o rinunciate per sempre a trovare il vero Dio. » In questa prima alternativa, gli gnostici sono condannati ad inventarsi, il loro “pleroma”, privo di ogni potere, il gran “Tutto” indicibile, inconoscibile, incosciente, impersonale. La creazione del mondo materiale sarebbe una catastrofe maldestra di una divinità inferiore, che ha voluto manifestare la sua indipendenza e la propria volontà agendo all’insaputa della Divinità-Pleroma. È il caso di Yahvé. « Ma se al contrario voi ponete la creazione in Dio, in modo tale che essa si riduca ad un puro sviluppo della sua sostanza (si tratta dunque di Emanazione), entrate in una via ancor più inestricabile. Allora tutto ciò che nella creazione è imperfetto e impuro ricade su Dio stesso, la cui sostanza diviene la loro. Voi dite che il mondo è il frutto dell’ignoranza e del peccato (il peccato di Yahvé), il risultato di una incoerenza o di una caduta del Pleroma, una degenerazione progressiva dell’Essere o, secondo la vostra metafora preferita, “una macchia sulla tunica di Dio”; ma non vedete che in questa confusione dell’infinito con il finito, è la natura stessa che decade, che degenera, che è intaccata dal vizio e dall’imperfezione? È possibile alterare più gravemente la nozione di Dio? Voi non potete sfuggire a questa conseguenza se non tornando al dogma cattolico della Creazione che, benché sia misterioso, racchiude l’unica soluzione ragionevole, perché distingue perfettamente ciò che non deve essere separato né confuso. » Tale fu l’insegnamento di Sant’Ireneo. Si vedrà più avanti come essa resti pertinente anche nei confronti del panteismo moderno professato ad esempio da Hegel ed dai Marxisti, o più recentemente dal modernista novus ordo come è evidente tra l’altro in una sedicente pseudo-enciclica gnostico-anticristica e demenziale anticattolica, che ingannevolmente richiama il cantico di San Francesco d’Assisi. In effetti se il mondo e Dio non fanno che un solo Essere, bisogna introdurre in questo mondo divino il movimento, gli accidenti, le imperfezioni, il male: il panteismo sarà necessariamente evoluzionista [l’evoluzionismo, non è una teoria scientifica, anche perché non ha ricevuto mai nessuna conferma da chicchessia, né da ricercatori, né da veri scienziati, anzi biologi e genetisti hanno dimostrato da tempo l’assoluta impossibilità che il materiale genetico possa modificarsi in organismi accoppiabili in tempi brevi e con mutazioni multiple contemporanee che, nel calcolo delle probabilità, non hanno praticamente alcuna possibilità di verificarsi; esso è bensì una “filosofia” di carattere gnostico panteistica, portata avanti dalle logge e dalle conventicole massoniche e dai suoi adepti che vengo opportunamente presentati dai mass media [anch’essi gestiti dalla quasi totalità dai “grembiulini” a scacchi], come grandi scienziati senza averne alcun titolo dimostrabile, e che vengono, per conferire loro lustro, insigniti da roboanti premi, fregi, medaglie e prebende che ingannano i poveri “allocchi” e “babbei” che credono ancora alle fandonie spacciate per libera scienza sperimentale o teorica che sia].

2° Il problema del male

Sant’Agostino ci racconta come egli fosse vissuto dieci anni tra i manichei, che furono gli gnostici del suo tempo: « Io credevo allora che non siamo noi che pecchiamo, ma è la nostra natura “estranea” che pecca in noi  (nescio quam aliam in nobis peccare naturam) … mi piaceva molto credere che io non fossi mai colpevole … ero ben contento di giustificarmi e di respingere la mia colpa su non so quale principio da me distinto, benché fosse in me (et accusare nescio quid aliud, quod mecum esset et ego non essem), ed il mio peccato era tanto più incurabile quanto più credevo non peccatore …  » . Ora io non sapevo quale principio fosse in me, per cui non ero io, ma Dio la fonte dei miei peccati: « C’è nel cielo una causa inevitabile che fa peccare (inevitabilis causa peccandi: è Venere, Saturno o Marte che vi hanno fatto fare tale azione, volendo così che l’uomo sia esente da ogni colpa e che questa sia anzi rigettata su Colui che ha creato i cieli e gli astri … Ora chi è Costui se non Voi, mio Dio! » (culpandus sit autem cæli et siderum creator et ordinator).  – Si vede da questo passaggio, estratto dalle “Confessioni”, quale uso avessero fatto gli gnostici dell’astrologia. Io non so chi sia che pecca in noi, è Dio, dunque un “altro”, il grande colpevole. Tuttavia gli gnostici affermano simultaneamente che il nostro “pneuma”, puro spirito, è una fiammella divina e che pertanto esso è perfetto, incapace di qualunque colpa. – C’è in questo una incoerenza fondamentale a proposito della essenza divina. Se la sorgente del male è nella divinità, non si comprende come l’uomo, pretendendo di raggiungere questa pienezza divina che gli gnostici chiamano il “pleroma”, sfuggirebbe al male che si sforza poi di rigettare su Dio! Poscia non si vede come un essere divino supposto buono per natura, ad esempio Yahvé, il Creatore, avrebbe potuto produrre un cattivo effetto, ad esempio la materia. Questo attribuire il male alla divinità non solo non risolve la difficoltà, ma non fa che rimandare il problema e renderlo insolubile. Da dove viene dunque che il Creatore abbia voluto questa caduta delle anime nella materia? Le spiegazioni date dagli gnostici sono esitanti, fantasiose: opera maldestra, accidente, catastrofe … e non possono certamente soddisfare uno spirito che persegua un minimo di coerenza. Sant’Agostino ha impiegato del tempo per sfuggire alle attrattive degli gnostici; ma egli ha finito con abbandonare le loro idee quando comprese, in seguito alle frequentazioni col vescovo manicheo Faustinus, che questa difficoltà restava presso di loro senza risposta. Tertulliano ha fornito una risposta molto interessante a questo problema nel formidabile: “Trattato contro Marcione”, celebre gnostico di Roma e discepolo poco fedele del manichei. Ecco come egli riassume l’obiezione degli gnostici, che è poi sempre la stessa, anche nei moderni increduli: « Se il vostro Dio è buono, poiché aveva la prescienza ed il potere di impedire il male, perché ha sofferto che l’uomo, sua immagine e somiglianza, o piuttosto sua stessa sostanza per l’origine divina della sua anima (qui si riconosce l’idea dell’anima “fiammella divina”, cara agli gnostici) si è lasciato sorprendere dal demonio ed infedele è caduto nella morte? Se la bontà consisteva nel non volerla come tale, la prescienza nel non ignorare l’avvenimento, la potenza nel tenerla lontana, mai si sarebbe giunti a quanto non poteva avvenire con queste tre condizioni della maestà divina. Poiché questo è invece successo, è certo dunque che la bontà, la prescienza, il potere del vostro Dio, sono delle vane chimere. La caduta sarebbe stata possibile se Dio era come voi lo fate? Essa è sopraggiunta, e dunque il vostro Dio non ha né bontà, né prescienza, né potere. ». Il problema è posto in tutta la sua acuità e l’argomentazione blasfema è rimasta invariata fino ai nostri giorni. Ecco la risposta di Tertulliano, essa è ammirevole: « Mai Dio è così grande se non quando sembra piccolo allo sguardo degli uomini. Mai più misericordioso che quando la sua bontà si cela; mai più indivisibile nella sua unità che quando l’uomo percepisce due o più principi (ad esempio i manichei)… se si chiede a qual titolo è Dio, bisognerà necessariamente iniziare dalle opere che precedono l’uomo (marchiamo bene il senso di questa necessità; è l’uomo che fa così un processo a Dio secondo il proprio giudizio; ma occorre invece innanzitutto cercare al di sopra di lui il criterio del suo giudizio) affinché la bontà di Dio rivelata da Lui stesso e poggiante da allora su una base indistruttibile, ci fornisca un mezzo per apprezzare l’ordine e la saggezza delle opere successive (noi diremmo oggi un “criterio di giudizio” distinto dal nostro giudizio, nel qual caso noi non saremmo giudici e parte in causa). Dapprima, questo vasto universo con il quale si è rivelato, il nostro Dio, lungi dall’aver mendicato ad altri, l’ha tratto dal suo fondo, l’ha creato da se stesso (è la risposta agli gnostici che presentano Dio come una divinità inferiore, utilizzante le anime “fiammelle divine” eterne, per racchiuderle nella materia). – La prima manifestazione della sua bontà fu dunque il non permettere che il vero Dio restasse eternamente senza testimoni! Cosa vuol dire? … se non chiamare in vita delle intelligenze capaci di conoscerlo. C’è in effetti un bene paragonabile alla conoscenza ed al possesso della Divinità? (e non è in effetti questa tutta la ragione di essere gnostici visto che propongono tale scopo all’esistenza?). Benché questo bene sublime fosse senza chi lo apprezzasse, in mancanza di elementi ai quali manifestarsi, la prescienza di Dio contemplava nell’avvenire il bene che doveva nascere e lo affidò alla sua infinita bontà che doveva disporre l’apparizione di questo bene, che non ebbe niente di precipitato, nulla che somigliasse ad una bontà fortuita, niente che si tingesse di una rivalità gelosa e che bisogna datare dal giorno in cui cominciò ad agire. (Tutto questo corrisponde agli gnostici che affermano che Yahvé creò la materia per accidente, senza riflettere alle conseguenze catastrofiche della sua fantasia, o ancora per vanità, per mostrare la sua potenza alle altre divinità. Si vede come Tertulliano conoscesse bene i suoi avversari e sapesse all’occorrenza, rendere loro la pariglia.). È essa [la divina bontà] che ha fatto l’inizio delle cose: essa esisteva dunque già prima del momento in cui si mise all’opera: da questo momento, nacque il tempo, del quale gli astri ed i corpi luminosi fanno la distinzione, la concatenazione e le diverse rivoluzioni. Vi serviranno dei segni, Ella disse, per supportare i tempi, i mesi, gli anni (tutto questo in risposta agli gnostici che, fedeli discepoli degli astrologi, pretendevano che i pianeti fossero delle divinità inferiori e talvolta malefiche). Così non c’era alcun tempo prima dei tempi per Colui che ha fatto i tempi. Nessun inizio per Colui che ha creato un inizio. Così non avendo avuto un inizio e non essendo sottomessa alla misura dei tempi, non si può non vedere nell’infinita bontà divina che una durata immensa ed infinita; non si può considerarla come improvvisa, accidentale, provocata ad agire (come la bontà di una divinità capricciosa, capace in altri momenti di volontà malefica), essa non ha niente che possa offrire una rassomiglianza con il tempo; essa è eterna, uscita dal seno di Dio e di conseguenza considerata come infinita e pertanto, degna di Dio. – Se è vero che la bontà e la saggezza divina caratterizzano il dono fatto all’uomo, perdendo di vista la prima regola della bontà e della saggezza, non andiamo a condannare una cosa dagli accadimenti, né decidere ciecamente che l’istituzione è indegna di Dio perché l’istituzione è stata viziata nel suo corso, ma piuttosto entriamo nella natura del Fondatore che ha dovuto procedere così: poi in ginocchio davanti alla sua opera, rivolgiamo i nostri sguardi più in basso. – Senza dubbio, quando si trova, fin dai primi passi la caduta dell’uomo, senza aver esaminato su quale piano egli sia stato concepito, non è che troppo facile imputare all’architetto divino ciò che ci è accaduto, perché i piani della saggezza ci sfuggono (Gli gnostici dicevano che Yahvé era un architetto maldestro, “demiurgo”). –  Ma dal momento che si riconosce la sua bontà fin dall’inizio delle sue opere, essa ci persuade che il male non è potuto emanare da Dio, ma la libertà dell’uomo, di cui si presenta a noi il ricordo, si offre come la vera cagione del male commesso (è per questo che gli gnostici ed i nostri moderni psicanalisti di sforzano di negare l’esistenza di questa libertà, perché questa implica una responsabilità). – Con questo, tutto si spiega. Tutto è salvato dal lato di Dio, vale a dire l’economia della sua saggezza, le ricchezze della sua potenza e del suo potere. Tuttavia ti sei sentito in diritto di esigere da Dio una grande costanza ed una inviolabile fedeltà alle sue istituzioni, affinché essendo ben stabilito il principio, tu possa cessare, o Marcione, di chiederci se questi avvenimenti possano padroneggiare sulla volontà divina. – Una volta convinto della costanza e della fedeltà di un Dio buono, costanza e fedeltà che si deve appoggiare su opere piene di saggezza, tu non ti stupirai che Dio, per arrestare nella loro immutabilità i piani che aveva arrestato, non abbia contrariato degli avvenimenti che non voleva affatto. In effetti se originariamente Egli aveva rimesso all’uomo la libertà di governarsi da se stesso, ed è stato degno della sua maestà suprema nell’investire la creatura di questa nobile indipendenza, punto che abbiamo dimostrato, di conseguenza aveva rimesso a lui anche il potere di usarne. Quando si accorda una facoltà si cerca di vincolarne o limitarne l’esercizio? – L’argomentazione di Tertulliano è rimarchevole in tutti i punti. Che l’uomo non si faccia dunque giudice e parte in causa: occorre invece un criterio di giudizio universale, anteriore al caso da risolvere: questo sarà la perfezione del mondo senza l’uomo. Dopo aver compreso bene la natura di un essere intelligente, se ne deduce che egli padroneggi i suoi atti. Questa maestria è nello stesso tempo libertà e responsabilità, le due facce di una stessa realtà con tutte le loro conseguenze. E soprattutto l’uomo non abbia da chiedere a Dio di modificare il suo piano della creazione solo perché egli non ne ha fatto un buon uso: questo sarebbe per lui imporre la volontà propria in seguito ai suoi errori; come se un colpevole, deferito ad un tribunale, volesse obbligare il giudice a modificare la legge per adattarla al nuovo stato di fatto creato dal suo reato (è quello che vediamo oggi: le leggi moderne non sono più l’espressione di un ordine oggettivo delle cose, ma della pratica corrente divenuta abitudine codificata). – Questa implicazione del libero arbitrio suppone, per essere pienamente probante, che non si faccia errore sulla libertà. In effetti, secondo la filosofia del senso comune, la volontà è sottomessa all’intelligenza, la quale è sottomessa alla conoscenza, la quale a sua volta è sotto la dipendenza totale della realtà. – Così, esiste un ordine oggettivo delle cose e la nostra volontà può trovarsi allora in opposizione con questo ordine: e questo è il male. Perché noi conosciamo, possiamo pensare un ordine diverso da quello che ci è stato dato; noi teniamo sotto un certo rapporto una distanza con il reale che ci offre un gioco, un margine di indeterminazione nella nostra volontà. – Per ottenere una piena libertà che sia una indipendenza totale dal creato reale, i filosofi moderni vanno a porre la volontà alla fonte dell’intelligenza. Così l’uomo diviene padrone del reale, e decide egli stesso del bene e del male. Ben presto, egli affermerà che il male non esiste. Di colpo l’uomo sarà libero ed irresponsabile. – Noi vedremo questo procedere del pensiero eretico, da parte degli gnostici, che rifiutano la libertà per rigettare la responsabilità, passando per gli psicoanalisti che negano l’esistenza del male, sopprimendo di colpo la responsabilità e così liberando le pulsioni, fino ai marxisti che deificano l’uomo e ne fanno il “creatore”, il motore della storia!

Il segreto iniziatico

Negli gnostici c’è ancora una incongruenza o una deficienza di gran peso: la pratica del segreto. « Noi deteniamo, essi affermano, la chiave della salvezza. È sufficiente “conoscere” per raggiungere la perfezione, per essere sbarazzati di ogni sentimento di colpevolezza. Noi possediamo il mezzo infallibile per discolpare gli uomini. » E tuttavia questo mezzo essi lo conservano segreto; essi lo riservano a dei privilegiati: i Perfetti, gli “eletti”, i “Catari”, vale a dire i “puri”, coloro che hanno realizzato l’unità perfetta,, che hanno ricevuto l’illuminazione, i “monoicoi”, i “monaci”, essi solo capaci e degni di una tale “scienza”. –  La difficoltà qui, resta senza risposta al riguardo del semplice buon senso. Quando si possiede un tale bene, lo si vuole naturalmente condividere con gli altri. La “Buona Novella” si urla sui tetti a meno che non si sia prigionieri di un orgoglio assurdo: comunicando ad altri la propria scienza in effetti, non la si perde; al contrario diffondendola intorno a sé, ci si ingrandisce, non fosse altro che per la riconoscenza e la stima che se ne ricave, oltre alla gioia che si prova nel condividere con gli altri le proprie convinzioni. – Per questa difficoltà, qualche apologista cristiano fa notare che gli gnostici rifiutavano di diffondere i propri scritti perché la lettura dei loro testi, sì oscuri ed indigesti, rischiava di nuocere alla loro reputazione ed allontanare così da questa setta molte anime. Certo! Tuttavia io penso che bisogna cercare altrove il vero motivo di questo segreto. « Larvateus prodeo »: questo è la divisa del serpente. « Io avanzo mascherato.  » Per essere adorato, satana deve coprirsi con la maschera della propria divinità. Egli è “scimmia di Dio”. È una posizione molto scomoda per un essere, seppur angelico, che desidera ricevere gli omaggi degli altri. Se il serpente gettasse la sua maschera e si presentasse ciò che realmente è, “omicida e menzognero”, egli vedrebbe allontanare da sé gli uomini con orrore e disprezzo. – Egli sa bene che le dimostrazioni di adorazione che riceve dai suoi fedeli si indirizzano realmente a Dio, ma egli le ha fraudolentemente deviate su di lui, come avviene oggi nella falsa messa della setta vaticana del “novus ordo”, rito blasfemo che è da molti considerato ancora un rito cattolico. Ora, il serpente vuole essere adorato per se stesso. Ecco la ragione di essere di una setta iniziatica. – La maggior parte degli uomini si allontanano progressivamente da questa setta man mano che ne vedono l’orientamento. – Coloro che vogliono raggiungere la perfezione, i veri “eletti del dragone”, avranno, non so per quale aberrazione del comprendonio, riconosciuto veramente il serpente ed a lui allora indirizzano, in tutta “cognizione”, i loro omaggi. Ma essi saranno, in senso proprio, posseduti, non liberati. Ecco perché gli gnostici si sforzano di inculcare ai loro neofiti l’odio verso Dio Creatore. È la condizione preliminare indispensabile ad ogni conoscenza demoniaca. I differenti stadi dell’iniziazione, i diversi gradi massonici ad esempio, sono destinati a selezionare per eliminazioni successive tutti coloro che non sono adatti a questa conversione all’inverso. satana è colui che conosce. Quando Adamo ed Eva ebbero mangiato del frutto dell’albero della conoscenza (della “gnosi”), i loro “occhi si aprirono”. Tertulliano aggiunge nel suo “trattato contro Marcione”: « Ma se Adamo disobbedisce, non intende però blasfemare contro il Creatore; egli non censura l’Autore del quale aveva provato fin dall’inizio tutta la bontà e che costrinse ad essere giudice severo per una sua volontaria prevaricazione. Questo fu un colpo! Adamo non era che un novizio in fatto di eresia ». Egli non ha voluto utilizzare la conoscenza acquisita ergendosi contro Dio; egli fuggì da Dio con gran vergogna. Fu una grande delusione per il serpente! … ecco perché poi egli ha sempre cercato di preparare delle anime capaci di « comportarsi da blasfemi contro il Creatore ». È questa tutta la ragion d’essere delle società segrete e principalmente delle società massoniche.

[… Continua]

SANTA MARGHERITA M. ALACOQUE

Santa Margherita Maria Alacoque.

La discepola del Sacro Cuore.

Si manseritis in sermone… discipuli mei eritis.

(Giov., VIII, 31).

[G. Lardone: “Fra gli astri della Santità Cattolica“; S.E.I. ediz. Torino 1928]

Il Maestro Divino, volendo che la fiamma di carità si diffondesse per tutta la terra e ardesse fino alla fine dei secoli si elesse dei cooperatori che inviò all’evangelizzazione del mondo. Ecco dapprima gli Apostoli che chiamò dal campo e dal lago, che istruì con particolari attenzioni, ed ai quali conferì i poteri di battezzare, di insegnare, di perdonare. Ed ecco ancora i discepoli che raccolse da ogni condizione sociale, che volle uditori dei suoi discorsi e testimoni dei suoi miracoli ed inviò ad evangelizzare ed operare prodigi nelle contrade cui diveniva insufficiente il ministero apostolico. Dal numero dei discepoli fu assunto il successore di Giuda… furono eletti i primi diaconi… e fu precisamente un nucleo di discepoli che ad Antiochia diede origine al nome “cristiano” (Atti, X I , 26). Attendevano al discepolato non solo uomini e giovani, ma ancora quelle sante donne, reclutate per la maggior parte in Galilea, che accorsero a Gesù, lo servirono nelle sue peregrinazioni ed ebbero la forza di salire con Lui al Calvario. Mirabile stuolo questo, che emerge con un’aureola luminosa, tra le figure della Redenzione, e ci prova fino a qual punto nel cuore muliebre può grandeggiare la fiamma dell’amore: mirabile stuolo che per fortuna non è scomparso più mai dalla Chiesa di Dio! Quante discepole hanno coadiuvato gli Apostoli! A quante San Paolo faceva pervenire le sue lodi ed i suoi saluti! Quante hanno assistito i martiri, i pontefici, i confessori, i santi! Di quante il Cuore adorabile di Gesù si servì per le più alte missioni in mezzo alla cristianità! Noi celebriamo oggi appunto la solennità di una di queste discepole… di S. Margherita Maria Alacoque, l’umile visitandina di Paray le Monial, la quale, assunta all’onore del discepolato di Cristo, ebbe una sua specifica missione, quella di dare impulso decisivo alla devozione verso il S. Cuore di Gesù. Guardiamo a questa discepola dell’amore: troveremo nella di lei vita tre fasi ben distinte che potremo definire: 1° la vocazione all’amore, 2° le rivelazioni dell’amore, 3° lo zelo per la diffusione per l’amore. Se la discepola del S. Cuore doveva svolgere nella Chiesa una missione provvidenziale era conveniente che Gesù la preparasse al grande compito come un giorno aveva preparato i discepoli del Vangelo. E la preparazione si svolse dapprima nel tepido nido d’una famiglia cristiana della media borghesia del secolo XVII. Quinta tra i figli di Claudio Alacoque, giudice ordinario di Terran e Verosvres, e di Filiberta Lamin, nacque a Lautecour in Borgogna, il 22 luglio 1647. Essendo una preordinata dalla grazia non è a stupire che i favori celesti venissero ben presto ad adornarne l’anima eletta: tanto che ella poteva esclamare più tardi: « Oh mio unico amore, quanto vi devo essere grata d’avermi prevenuta fin dalla mia infanzia, rendendovi padrone e signore del mio cuore, sebbene sapeste quanta resistenza vi avrebbe fatto. Appena seppi conoscere me stessa Voi mostraste all’anima mia la bruttezza del peccato, il che mi impresse tanto orrore da rendermi tormento insopportabile ogni minima macchia » (Vita e opere, tom. II, p. 29). – Per quanto di carattere vivace reprimeva di botto nell’infanzia ogni scatto appena le si diceva che avrebbe offeso il Signore: e, quasi divinando la bellezza della castità si sentiva continuamente spinta a dire, pur senza comprenderle appieno, queste parole: « Oh mio Dio, vi consacro la mia purità, vi fo voto di perpetua castità » (ivi, p. 30). Altra caratteristica della sua infanzia fu l’amore al patimento ed alla solitudine. Naturalmente portata al piacere trovava la forza di vincersi con l’esercizio della mortificazione, per esempio, stando nel freddo e con le ginocchia nude sul pavimento per tutta la Messa. Amava ritirarsi in un boschetto di querce posto a duecento metri dalla casa d’onde poteva scorgere la piccola chiesa di Verosvres, e subiva, senz’avvedersene, il fascino di quella placida natura che ritrovava pure al castello di Corcheval, quando vi dimorava con la madrina, Signora di Fautrières. Il dolore, questa voce provvidenziale con cui l’amante Divino scende alle predilette, venne ben presto ad abbattersi sopra di lei. Non aveva che otto anni e mezzo quando una malattia di petto le rapì, in pochi giorni, il padre integro e probo, uno di quei cristiani antichi che aveva voluto segnare con la croce tutti i suoi atti di notaio: e non potendo la madre provvedere all’educazione di tutta la famigliola, Margherita fu posta nell’istituto delle religiose Urbaniste di Charolles dove imparò ben presto a leggere e a scrivere e venne ammessa alla prima Comunione. « Questa Comunione, scrisse poi, (ivi, pag. 30) cosparse di tanta amarezza per me i piaceri ed i divertimenti, che non potevo più gustarne nessuno ». – Era già posseduta dallo Spirito divino, il quale però doveva ancora farla passare per molti crogiuoli. Appena undicenne fu colpita da una malattia non ben determinata, reuma o paralisi, che la tenne per circa quattro anni stesa su un letto di dolori: non poteva camminare né muovere le membra, ed il suo corpicciuolo smagrito pareva un scheletro. Ci volle una promessa alla Vergine per guarire da quel male: poiché appena fatto il voto di consacrarsi a Maria, Margherita ricuperò la salute. Ai dolori fisici successe in lei, quattordicenne, una crisi morale che la portò ad amare soverchiamente la libertà e la dissipazione, al punto che in tempo di carnevale, insieme con altre ragazze, si mascherò per vana compiacenza (ivi, 38): ma ritenne di poi questo fatto come una gran colpa e la pianse per tutta la vita. Anche le persecuzioni non le dovevano mancare, e tanto più dolorose in quanto le provenivano dai parenti, i Delaroches i quali avevano preso a governare i poderi ed a comandare in casa della vedova Alacoque, e contro di cui non potevano reagire, né sua madre sovente inferma, né ella stessa così giovane e di carattere così timido, né i suoi due fratelli, i quali, vivendo fuori di famiglia, non erano al corrente delle persecuzioni domestiche. Quanto penava la santa fanciulla nel non poter sollevare la madre inferma per causa dell’indifferenza e dell’avarizia dei suoi interessati tutori! Ma il buon Dio la sosteneva dandole una conformità perfetta con i suoi supremi voleri. Così questa fanciulla tra i sedici e i diciassette anni si sentiva sempre più attratta verso il suo Gesù: amava l’orazione, e nella preghiera trovava luce e conforto: domandava con incantevole semplicità al Signore di istruirla nelle sue vie, e, nei momenti di maggior dolore si rifugiava presso al Tabernacolo d’onde Gesù spargeva nel suo cuore le gioie più dolci e l’incanto più soave. Tre grandi desideri le agitavano oramai l’anima ardente: il desiderio di unirsi sempre più a Dio con l’orazione, il desiderio di soffrire, ed il desiderio di comunicarsi. Era Gesù che li aveva deposti nel cuore di lei, mentre stava per trasportare la tenera sposa nei tabernacoli santi. – Maturava difatti la vocazione religiosa, ma sempre attraverso spine dolorosissime. Per sottrarsi alla servitù dei Delaroches, sua madre, dopo la morte del fratello Giovanni (1663) rapitole a soli 23 anni, proponeva a Margherita diversi ottimi partiti di matrimonio, e la scongiurava di accettare o l’uno o l’altro. Memore della promessa fatta alla Vergine, la giovane è incerta se ascoltare la madre o seguire le chiamate dello Sposo, finché la grazia divina operava in lei e le dava il coraggio di eleggere la vita religiosa. A nulla valsero le presentazioni di nuovi pretendenti, a nulla le nuove persecuzioni dei Delaroches, a nulla le opposizioni del fratello Cristoforo divenuto per il matrimonio capo della famiglia, a nulla le incomprensioni del padrino Antonio Alacoque, curato di Verosvres. Con le moltiplicate penitenze, con l’accettare dalle mani del Signore una nuova malattia, ricevendo con fervore la S. Cresima a ventidue anni, ella sapeva sostenere la fiera lotta per la vocazione contrastata. – Finalmente un’occasione propizia spuntò: un religioso Francescano fu a Verosvres a predicare il Giubileo concesso nel 1670 da Papa Clemente X. A Lui Margherita aprì il suo cuore ed il religioso si interpose presso il fratello e le ottenne il permesso di abbracciare la vita religiosa. Elesse la Visitazione e fra i monasteri quello di Paray-le-Monial nel quale fece ingresso il 20 giugno 1671. Fu allora che una letizia soprannaturale la inondò di tale e tanta felicità, che ella appena posto piede nel chiostro esclamò: « È qui che Dio mi vuole » (ivi, pag. 54). – Nel monastero si sentì subito perfettamente a suo agio: ansiosa di possedere il segreto della scienza divina, esperimentò ben presto che lo Sposo celeste voleva riprodurre in lei l’immagine della sua vita in terra. Pertanto la purificò da ogni macchia, da ogni inclinazione per le creature e le infuse tale fervore che formava l’ammirazione delle altre religiose. – Vestita il 25 agosto 1671, non fu ammessa a pronunciare i voti che il 6 novembre 1672. Ma fin dal noviziato frequenti erano le comunicazioni dirette con cui Gesù se le manifestava, per guidarla ne le più ardue vie della perfezione. Fu anzi Gesù che le disse allo spirare dell’anno di noviziato: « Di’ alla tua Superiora che non vi è nulla a temere nell’ammetterti: che rispondo Io per te, e se lei mi reputa solvibile Io mi rendo tua cauzione (ivi, pag. 60). – Alla sera della professione, rientrata nella sua celletta e riandando le gioie della giornata, rilesse ancora una volta il foglio su cui aveva scritto le sue risoluzioni, parte delle quali vennero vergate col sangue; e che terminavano: « Io sono sempre del mio Diletto, sua schiava, sua serva, e sua creatura, poiché Egli è tutto mio: e sono la sua indegna sposa, Suor Margherita Maria, morta al mondo. – Tutto di Dio e niente mio: tutto a Dio e niente a me: tutto per Dio e niente per me » (ivi, p. 188). Come rispondeva bene alla chiamata divina e come era progredita già alla scuola del Maestro che le parlava all’anima e la predisponeva alle sublimi rivelazioni dell’amore.

— LE RIVELAZIONI DELL’AMORE.

Seguiamo la discepola nell’arca santa. Vi prova subito le pure gioie che le provengono dal contatto con lo Sposo: ma esse passano rapide per cedere anche qui il posto a dolori cocenti. Il Maestro prende possesso di tutto il suo essere, ma non lo fa che per distenderla sulla croce. Eccola deputata all’infermeria: ma posta a lato dell’infermiera ufficiale, Suor Caterina Agostina Marest, carattere impetuoso e faccendiero, Dio solo sa quanto Suor Margherita dovette soffrire. Eppure ella amò quelle sofferenze: specialmente quando Gesù sua guida perenne, le domandò se fosse contenta di soffrire tutte le pene meritate per i peccati suoi e per le consorelle. Gesù l’assicura che è ben padrone di darle i suoi doni in abbondanza ma, siccome le Superiore e le consorelle se ne allarmano, le impone di non far nulla di quanto le comanda senza il voluto consenso. Per unirsi sempre più a Lui, ella ha gran desiderio della comunione tanto che scrive: « Se pure dovessi camminare sopra il fuoco a piedi nudi, mi sembra che questa pena non mi costerebbe niente in confronto della privazione di questo bene (ivi, p. 149 e 134). – È così che va bene innanzi in quelle che i mistici chiamano “grazie di unione”. La vigilia di un giorno di comunione ella domandò a Nostro Signore di unire il proprio cuore al suo Cuore divino, senza però comprendere appieno in qual maniera quell’unione si potesse effettuare e come il niente potesse unirsi all’Essere. Allora « nella parte più sottile ed alta dell’intelletto » ella vide il Cuore di Dio fatto uomo più risplendente del sole e d’una grandezza infinita. Un piccolissimo punto nero pareva fare ogni sforzo per avvicinarsi a quella luce affascinante ed entrarvi, ma senza potervi giungere. Allora il Cuore divino lo attirava Egli stesso a sé, e, mentre quell’atomo oscuro tutto s’illuminava al contatto radioso, la Santa udiva queste parole: « Inabissati nella mia grandezza e bada a non uscirne mai, perché se ne uscirai non ne entrerai più » (ivi, pag. 129). Se questi ed altri favori, rinnovandosi ogni giorno, mettevano in apprensione le Superiore, specialmente la madre di Saumaise, disponevano la discepola del Sacro Cuore a rendersi sempre più idonea a ricevere le grandi rivelazioni che oramai stavano per incominciare. Esse non dovevano manifestarsi che a poco a poco. – Negli anni 1672 e 1673 si svolge per la santa un’alba lenta e calma: dapprima è un accenno ripetuto alla piaga del costato: « Ecco la piaga del mio costato, per farvi tua dimora attuale e perpetua » (Vita ed opere, tom. I, p. 70): poi sono alcune rappresentazioni allegoriche del Sacro Cuore di cui si accenna agli abissi, che è paragonato al libro della vita, che è detto ferito dai peccati degli uomini. – Nel 1674 e 1675 invece è il gran giorno, in cui Gesù rivela alla diletta l’amore del suo Cuore per gli uomini in generale e per lei in particolare, e gli atti determinati che richiede in riconoscenza di tanto amore. Fu nel coro delle religiose, in ginocchio dietro la grata, d’innanzi al SS. Sacramento esposto che Suor Margherita Maria vide per la prima volta (27 dicembre 1672 ovv. 1673?) N . Signore scoprire le meraviglie del suo Cuore adorabile. Lo racconta la nostra in una mirabile pagina autobiografica… « Essendo io d’innanzi al SS. Sacramento, perché avevo trovato un po’ di tempo libero… mi trovai tutta investita da quella divina presenza, ma tanto fortemente che dimenticai me stessa e il luogo ove stavo e mi abbandonai a quello spirito divino, lasciando il mio cuore in balìa alla forza del suo amore. Egli mi fece riposare a lungo sul suo petto ove mi svelò le meraviglie dell’amore e i segreti inesplicabili del cuore che mi aveva tenuti occulti fino a quel momento, in cui lo scoprii per la prima volta. Ma fu in modo così reale e sensibile da non lasciarvi luogo ad alcun dubbio per gli effetti che questa grazia produsse in me che pure temo sempre di ingannarmi circa le cose che dico avvenire in me. Ed ecco come mi sembra sia andata la cosa. Egli mi disse: Il mio cuore è così appassionato d’amore per gli uomini e per te in particolare che non potendo più contenere in sé le fiamme della sua ardente carità, è mestieri che le espanda per mezzo tuo, e si manifesti loro, per arricchirli dei preziosi tesori che Io ti scopro e che contengono le grazie santificanti e salutari necessarie per ritrarli dall’abisso di perdizione: e ti scelgo come un abisso di indegnità e di ignoranza per il compimento di così grande disegno, affinché tutto sia fatto da me ». Poi, dopo averle richiesto il cuore per deporlo nel suo Cuore adorabile, conchiuse: « E per prova che la grazia a te fatta or ora non è una immaginazione ed è fondamento di quelle che ancora devo farti, sebbene ti abbia rimarginata la piaga del costato, il dolore vi ti resterà per sempre; e, se finora tu hai preso soltanto il nome di mia schiava, ti dò ora quello di discepola diretta del mio Cuore » (ivi, tom. II, pag. 70). – Il Maestro dava in tal modo una prova autentica del proprio intervento e le forniva il mezzo per provarlo alle Superiore ed a coloro che in seguito avrebbero dovuto dare il loro giudizio autorevole. Ma non si fermò qui. – Ogni primo venerdì del mese le si mostrava a guisa di un sole splendente i cui raggi cadevano sul di lei cuore e tutto l’essere sembrava ridursele in cenere. Di due di quelle manifestazioni ella serbò particolare ricordo. « Un giorno, racconta, questo divin Cuore mi fu rappresentato in un trono di fiamme più raggiante di un sole e trasparente come il cristallo, con quella sua piaga adorabile, cinto di una corona di spine che significavan le punture fattegli dai nostri peccati; e al di sopra una croce che significava il dolore e il disprezzo che ebbe a sostenere in tutto il corso della vita e della sua santa passione. (Lett. al P. Croiset – Vita ed op., tom. II, pag. 587). – Altra volta: « Essendo esposto il SS. Sacramento dopo essermi sentita tutta concentrata nel mio interno mediante un raccoglimento straordinario dei miei sensi e delle mie potenze, Gesù Cristo, mio dolce Maestro, si presentò a me tutto folgorante di gloria, con le cinque piaghe splendenti come cinque soli, e dalla sacra umanità uscivano fiamme da ogni parte, ma sopratutto dal suo petto adorabile che pareva una fornace: e questo essendosi aperto, mi scoprì il suo tutto amante ed adorabile Cuore che era la sorgente viva di quelle fiamme (Vita ed opere, tom. II, pag. 71). La più celebre rivelazione si fissa ordinariamente al 21 giugno 1675 ( HAMON, Vita). Così la racconta la Santa nella lettera scritta per ordine del P. De la Colombière. « Trovandomi d’innanzi al SS. Sacramento in uno dei giorni dell’ottava di sua festa, ricevetti dal mio Dio straordinarie prove dell’amor suo e provai desiderio di corrispondergli in qualche modo e di rendergli amore per amore. Ed Egli mi disse: Tu non mi puoi rendere maggiore contraccambio che con fare ciò che tante volte ti ho chiesto. Poi, scoprendosi il divin Cuore: Ecco, proseguì, quel Cuore che ha amato tanto gli uomini e che nulla ha risparmiato (per convincerli del suo amore) fino a struggersi e consumarsi per loro amore: ma per ricompensa non riceve dalla maggior parte (degli uomini) che ingratitudini per le loro irriverenze e i loro sacrilegi e per le freddezze e i disprezzi che essi hanno per me in questo Sacramento d’amore. E ciò che mi è ancor più sensibile, si è che sono gli stessi cuori a me consacrati che così mi trattano… Perciò Io ti domando che il primo venerdì dopo l’ottava del SS. Sacramento sia dedicato ad una festa particolare ad onore del mio Cuore, facendo in quel giorno la Comunione ed offrendogli una riparazione d’onore con un’ammenda onorevole per riparare gli oltraggi ricevuti mentre è esposto sugli altari ». Ecco la luce piena: alla manifestazione diretta del suo Cuore carneo e al lamento delle sconoscenze degli uomini, Gesù unisce il mandato di diffondere la devozione al suo Cuore e di riparare con una festa liturgica apposita da istituirsi tra l’ottava del Corpus Domini. La discepola è perfettamente illustrata nello spirito ed ardente nel cuore per attendere alla nobile missione di far conoscere e far amare l’amore.

— ZELO PER LA DIFFUSIONE DELL’AMORE.

Di quali mezzi ella potrà disporre? È ancora il Cuore divino che li fornisce, prendendoli sempre dalla sua croce. Le rivelazioni dell’amore sono contrariate per ben quindici anni nel monastero di Paray-le-Monial, e per più di un secolo nella Chiesa di Dio: eppure Margherita Maria, può, prima di morire, avere il conforto di vedere la devozione al S. Cuore stabilita nella Visitazione e di saperla ben avviata nella cattolicità. Ma dovette passare di crogiuolo in crogiuolo. Il 16 giugno 1676 nel cuore ebbe uno schianto acerbo per la morte di sua madre che nei giorni solenni era accorsa alla Visitazione a vedervi la diletta e sempre rimpianta figliuola. Due mesi dopo il P. De la Colombière, che aveva compreso le relazioni soprannaturali tra la Visitandina e il S. Cuore, veniva inviato a Londra. Nella notte poi del 21 novembre 1677 Gesù doveva provarla col più grave sacrifìcio: ella doveva offrirsi vittima per le sue sorelle onde stornare i colpi della divina giustizia: non osa rispondere di no allo sposo, perché ben si ricorda di aver tutto accettato: indietreggia però e si trincera dietro il voto di ubbidienza… Venne la notte segnata dal 20 al 21 novembre: il domani, festa della Presentazione le monache dovevano rinnovare i voti: ma alla sera della vigilia Gesù le si manifestò con aspetto così terribile che ella ne rimase atterrita. Udì allora il divin Maestro dirle: Ti è duro ricalcitrare ai dardi della mia giustizia, ma dacché mi hai fatto tanta resistenza per evitare le umiliazioni che ti converrà sostenere per compiere quel sacrificio te le raddoppierò: prima non ti chiedevo che un sacrificio segreto, ora lo voglio pubblico e in un modo e tempo fuori d’ogni ragione umana: accompagnato da circostanze così umilianti che ti procurerà confusione per tutto il rimanente di tua vita, sia in te stessa sia d’innanzi alle creature, per farti comprendere che cosa sia resistere a Dio. (Vita, tom. II, pag. 84). – Frammischiata alle altre monache nella ricreazione della sera Margherita poté padroneggiare la sua emozione… Ma le parole udite risonavano tuttavia al suo orecchio in tutta la loro tremenda concisione: sentiva che doveva parlare proprio allora in presenza della comunità: solo la Superiora la poteva autorizzare: dunque bisognava chieder licenza: però la Madre era in camera ammalata: bisognava quindi uscir dalla sala e Suor Margherita, quasi costretta da forza superiore lasciò il luogo dell’adunanza… appena nel corridoio si fermò di botto come fuor di sé … conturbata nello spirito scoppiò in pianto… una consorella la dovette accompagnare dalla Superiora… e, finalmente, ottenuto il permesso, eccola di ritorno. Appena l’assistente chiese alle monache schierate lungo le pareti se avessero qualche osservazione da fare, Suor Margherita Maria, ancora tutta sconvolta e con gli occhi rossi di pianto, andò a inginocchiarsi in mezzo alla sala e vi compì il sacrificio lacerante. In quel silenzio solenne, terribile, ella lasciò uscire dalle sue labbra tremanti le divine minacce, soggiungendo che Dio onnipotente aveva scelto lei quale ostia pura ad espiare i falli commessi. Quale effetto produssero quelle parole? A molte suore apparirono almeno temerarie: altre le ricevettero come loro inviate dal buon Dio: ma quale dolore non causarono alla zelante Visitandina! « Non avevo mai tanto sofferto in vita mia ». D’allora fu in uno stato di annichilimento continuo: disprezzi ed umiliazioni le piovvero da ogni parte: anche la madre di Saumaise ella dovette perdere perché trasferita a Digione. La nuova superiora, madre Greyfìé udita la Santa determinò di prestare pochissima attenzione alle visioni e di non parlarne a chicchessia né in comunità né fuori: le proibì anzi l’ora di adorazione nella notte dal giovedì al venerdì. Vennero inoltre le tentazioni di spirito dolorose sopra tutte le altre; si aggiunsero quelle meno nobili ma pure angustianti di una fame e sete straordinarie. Fu allora (verso il termine del 1679) che prese la risoluzione, oltre che di attendere a grandi mortificazioni, di incidersi di nuovo sul cuore il nome di Gesù già da lei scritto un giorno a caratteri di sangue. – Quasi a compensarla di tante sofferenze, Gesù le volle offrire una prima occasione di diffondere il culto al Sacro Cuore. La madre di Saumaise era stata eletta Superiora delle Visitandine di Moulins ed appena giunta alla nuova sede, pensò di mettere alcuna delle sue figlie in relazione con Suor Margherita Maria. La Superiora antecedente, Luisa Enrichetta di Soudeilles, allora direttrice del noviziato, le scrisse poco tempo dopo: la nostra Santa rispose e la lettera fu senza dubbio il primo grido apostolico sfuggito dal suo cuore e dalla sua penna a favore della devozione al S. Cuore di Gesù. – Altre contrarietà dovevano sopraggiungere a provare ancora la grazia che era in lei: la morte del P . De la Colombière doveva nuovamente farle sanguinare il cuore: ma lo zelo attivo della discepola dell’amore non doveva più arrestarsi. Eletta nel 1684 dapprima assistente della nuova Superiora Maria Cristina Melin, e più tardi Maestra delle novizie, poté parlare liberamente al nuovo gregge della devozione al Cuore adorabile dello Sposo divino, e lo poté fare senza taccia di innovazioni, perché già gli scritti del Padre S. Francesco di Sales celebravano soavemente e magnificamente la misericordia e la tenerezza del Cuore Sacratissimo. La devozione attecchì tosto fra le novizie: per l’attitudine ostile delle anziane la Superiora proibì la Comunione del primo Venerdì: ma erano le ultime resistenze, poiché il 21 giugno 1685 poté segnare il primo trionfo del Sacro Cuore. Un altarino era eretto nel coro, proprio nel sito dove Suor Margherita Maria aveva avuto le grandi estasi del 1673 e 1674; e, circondata dai più bei fiori del giardino, una miniatura mandata da madre Greyfìé mostrava a tutti l’immagine del Cuore di Gesù chiusa in una piccola cornice dorata. Sull’altarino stesso un biglietto della Suora des Escures invitava tutte « le Spose del Signore a venire a rendere omaggio al Cuore adorabile ». Era la intronizzazione ufficiale del Cuore divino là dove Egli aveva amato svelarsi e dove tuttavia la discepola eletta aveva incontrato tante difficoltà nello svolgere la sua missione. Quale felicità per Suor Margherita Maria! Nella profonda gioia e nella sentita gratitudine pensò fosse giunto il momento di offrire allo Sposo un sacrificio che da tempo contava di fare: venne così il voto del 31 ottobre 1686 con cui si consacrò più strettamente e definitivamente al Cuore di N. S. Gesù Cristo. Tuttavia il convento di Paray era un campo troppo ristretto per lo zelo della visitandina eletta; doveva diventare il centro d’irradiazione dal quale, per le lettere della Santa la divozione doveva impiantarsi ben presto a Moulins, a Digione, a Semur, a Lione, a Parigi … Dal 1688-89 poi ella comprese appieno il mandato speciale affidato alla Visitazione per impiantare il culto del Sacro Cuore in tutta la Chiesa. È vero che una prima petizione fatta a Roma non ottenne l’esito desiderato: ma la devozione era in marcia. Il Vicario generale di Lione approva l’ufficio e la messa del S. Cuore: la discepola ha il coraggio di rivolgersi allo stesso re di Francia, il potente Luigi XIV, perché consacri al S. Cuore il suo popolo: la regina d’Inghilterra è da tempo guadagnata alla nuova devozione: e Suor Margherita Maria gioisce ad ogni passo che da il culto che le è caro e rende pubbliche le promesse che le vengono dal S. Cuore, celebre fra tutte quella che fu definita la Grande Promessa. – « È un giorno di venerdì: nella S. Comunione furono dette queste parole alla sua indegna schiava se essa non si inganna: Io ti prometto nella eccessiva misericordia del mio cuore, che il mio amore onnipotente accorderà a tutti quelli che si comunicheranno per nove primi venerdì del mese consecutivi la grazia della penitenza finale, non morendo essi in sua disgrazia, né senza ricevere i Sacramenti e rendendosi Egli sicuro asilo in quell’estremo momento (Vita ed opere, tom. II, pag. 397 e seg.). Quale consolante notizia per i devoti del S. Cuore! Ma nello stesso tempo quale gloria per la santa discepola! Decorata di tanti preziosi favori spirituali ella poteva bene al 17 ottobre 1690 chiudere la sua piena giornata. Preordinata dall’amore, guidata dall’amore, in perenne contatto con l’amore del Cuore misericordioso di Gesù, ella era divenuta il principale strumento delle divine misericordie presso la povera umanità. La massima e più dolce devozione dei tempi nostri che per oltre mille anni era stata ignota agli uomini, che dal secolo XI al secolo XVII non era stata sentita che da poche anime privilegiate, dopo le apparizioni alla discepola di Paray si è diffusa a grado a grado finché l’11 giugno 1899, allorché Leone XIII gli consacrava il genere umano, il Cuore Sacratissimo prese a regnare su tutto il mondo moderno. Gloria e adorazione a Lui nei secoli dei secoli: ma ancora venerazione all’umile Santa Visitandina che ne è stata la discepola zelante.

* * *

Perché non sappiamo anche noi entrare nell’orbita del discepolato del S. Cuore? È vero: la vita della figlia del notaio di Lautecour, della Visitandina di Paray non ha battuto un ritmo ordinario. La Santa dell’amore ha camminato nella zona delle eccezionali elevazioni della grazia ed ha rivelato ancora una volta che: Spiritus ubi vult, spirat. Ma come ha corrisposto ella alla grazia! Come ha abbracciato la sua croce e come è passata per amor dell’Amore di calvario in calvario! Se lo Sposo tanto le ha dato, ella nulla ha negato a Lui di sacrificio, di umiliazione, di rinunzia: e lo Sposo l’ha glorificata rendendola strumento idoneo per lo stabilimento della devozione del suo Cuore adorabile e cingendole la fronte dell’aureola della santità cristiana. Guardiamo dunque a lei, ricordando che se non tutti abbiamo nella Chiesa delle missioni ufficiali da compiere, tutti siamo chiamati nel numero dei discepoli dell’Amore, tutti possiamo partecipare alle rivelazioni dell’Amore, tutti dobbiamo zelare la devozione all’Amore. Varie, infinite, misteriose possono essere le vie per le quali la voce dell’alto si fa sentire al nostro cuore: innumerevoli ed insospettabili le rivelazioni che l’Amore ci riserva: ma se l’anima sarà pura, il cuore mondo, la volontà sottomessa alla volontà dello Sposo, anche noi o attraverso ad una fiorita di rose o attraverso ad una selva di spine potremo divenire, non solo candidati alla santità, ma ancora strumento delle divine misericordie e rivelatori della infinita bontà agli uomini. – Aspiriamo dunque all’onore del discepolato di Gesù. Ogni anno, il 17 ottobre, circa le ore venti, l’ora della morte della Santa, le monache del convento di Paray vanno processionalmente alla camera, ora convertita in cappella, ove Margherita Maria morì, e, dopo aver pregato, cantano una devota canzoncina che rievoca quella morte e la rende quasi attuale. Essa termina: Ah! in tal beato ostello Vanne pur, del Sacro Cuore Confidente, alma fedel! – Ogni anno, come le consorelle buone, anche noi veniamo ai piedi della discepola dell’Amore. Oh! Possiamo come lei entrare, quali colombe dal desio chiamate, nella piaga del Cuore Sacratissimo per non uscirne mai più.

 

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (7) : un cancro nel seno della CHIESA I

LA GNOSI, UN CANCRO NEL SENO DELLA CHIESA -I-

[Elaborato da: “De la gnose a l’Œcumenisme”, capitolo I: “di E. Couvert]

Dati storici

La scoperta in Egitto, nei pressi di Nag Hammadi, nel 1946, di una biblioteca gnostica in lingua copta ha rinnovato le conoscenze sulla gnosi. In precedenza si definiva correntemente la gnosi come una penetrazione del pensiero greco nel Cristianesimo primitivo o come il risultato di un sincretismo orientale, con le religioni dell’India, della Persia, dell’Egitto, che si sforzava di penetrare la giovane Chiesa e farvi germogliare le proprie credenze. – La scoperta dei manoscritti, ci ha fatto rivedere questi temi e ricondurre la gnosi ad una sua origine più vicina al Cristianesimo; essa è nata in ambito giudeo-cristiano e nutrita da un pensiero specificamente giudaico, è improntata ad un bagaglio letterario proveniente dall’Antico Testamento, anche se ha utilizzato un vocabolario greco e delle formule in apparenza filosofiche proprie dell’Egitto e dell’Iran. Occorre in effetti distinguere accuratamente un fondo culturale o religioso, sul quale si sviluppa un insegnamento nuovo, da ciò che costituisce il carattere specifico di quest’ultimo, che non è costituito da una similitudine di vocaboli o da formule prese qui e la, ma configura un nuovo ordine dell’insieme. L’insegnamento gnostico è originale, non lo si ritrova prima di allora né nelle religioni pagane, conosciute in quell’epoca, né nella filosofia greca, né nell’astrologia. La gnosi non è una “chiesa”: essa non ha provocato la comparsa di un clero con una gerarchia, né dei rituali liturgici, ed anche le cosiddette chiese gnostiche con gerarchia e liturgia, come i Manichei e i Mandei, non hanno potuto sviluppare una religione di carattere universale per deficit di natura: un insegnamento che si vuole segreto, riservato cioè a degli iniziati, non può portare a tale risultato [i Manichei infatti si sono dissolti in varie sette esoteriche, ed i Mandei conservano delle minuscole comunità testimoni di un passato di cui hanno perso il vero significato]. – La gnosi non è una “filosofia”: essa non pretende di dimostrare con l’aiuto della ragione delle verità universali, accessibili a tutti gli uomini di riflessione. Essa non dà dell’universo una visione razionale, rifiuta l’insegnamento comune diffuso da una determinata scuola. – La gnosi è essenzialmente una vegetazione religiosa parassitaria che si nutre di Cristianesimo per estrarne un certo numero di elementi che poi storna dal loro senso naturale per darne un significato nuovo totalmente opposto all’insegnamento della Chiesa [è in pratica la stessa definizione del modernismo anti-cattolico data da S. Pio X nella “Pascendi”, quel modernismo attualmente praticato della setta vaticana del novus ordo]. La gnosi è una setta di iniziati [gli eletti menichei, o i vescovi, gli “eletti”, del novus ordo, ordinati appunto dal 18 giugno del 1968 con una formula eretica e blasfema di contenuto gnostico-manicheo – v. in exsurgatdeus.org/18 giugno 1968 (7)] che pretendono di aver ricevuto una rivelazione più perfetta di quella di Gesù, riservata a spiriti d’élite sganciati dall’insegnamento ordinario della Chiesa, costituendo così un “cancro roditore” all’interno della comunità cristiana.

1° La rivelazione di Gesù-Cristo

I miracoli di Gesù in Palestina furono il punto di partenza di un immenso stupore: non li si poteva negare; anche i Farisei ed i Sadducei vi assistevano come inebetiti; si diceva: « Donde gli viene il suo potere? … Che anche i flutti del mare ed i venti gli obbediscono? Non abbiamo mai visto di tali prodigi! » Il primo gnostico, loro maestro in tutto, Simone il Mago, si presumeva capace di provocare miracoli con una sapiente messa in scena; ma davanti ai veri miracoli di San Pietro in Samaria, fu prontamente soffocato. Infatti egli domandò a San Pietro di vendergli il suo potere, di rivelargli i suoi “trucchi” di mago. Dopo lo stupore arriva l’indignazione: « È per mezzo di Beelzebul che caccia i demoni! » – I suoi insegnamenti egualmente provocavano uno stupore altrettanto giustificato: « Da dove gli viene la sua scienza e la sua saggezza? Non è egli il figlio del carpentiere? » Si può fare una distinzione in questo insegnamento: da una parte le parabole, semplici verità morali, accessibili agli spiriti più semplici, ma pur verità profonde accessibili alle intelligenze più elevate; e dall’altra parte, il suo insegnamento propriamente divino: i grandi misteri su Dio, oltrepassanti infinitamente le capacità della nostra intelligenza. Quando gli Apostoli diffondono questo insegnamento in tutto il mondo, esso prende un volo eccezionale. Esso raggiunge in un secolo tutto l’Impero Romano e tutte le classi della società. Ecco ancora la fonte di un profondo stupore: « Come dei semplici pescatori della Galilea hanno potuto essere ascoltati e seguiti da comunità sì numerose e da spiriti di ogni livello? Anche qui deve esserci una causa segreta, occulta, che bisogna scoprire! » – Gli gnostici non hanno mai compreso questo: le verità più semplici, uscite dagli spiriti più poveri a livello del senso comune, sono pure le verità più profonde che non possono essere comprese a livello più elevato che da una difficile elaborazione intellettuale, una riflessione sostenuta, una saggezza acquisita da lunga esperienza. Essi dunque vanno a cercare la causa di questa espansione in un insegnamento segreto, riservato da Gesù a qualche discepolo privilegiato: Giacomo, Giovanni, Matteo, Tommaso. Essi distinguono l’insegnamento exoterico, diffuso dagli Apostoli alle persone comuni, ed un insegnamento esoterico, riservato da Gesù e qualche Apostolo a degli iniziati superiori. Ecco l’origine della gnosi. Precisiamo ancor questo: l’insegnamento di Gesù e degli Apostoli fu pure all’origine di una grande delusione: il Cristianesimo non pretende di offrire immediatamente, con una semplice affermazione gratuita, la certezza immediata e definitiva della salvezza eterna: per raggiungerla occorre una vita di virtù, di rinunzie, di ascesi: e può essere sempre rimessa in causa dal peccato. Questa salvezza finale è conquistata mediante uno sforzo costante di tutto l’essere verso la perfezione, essa è particolarmente esigente, difficile, ardua, ma resa possibile dall’azione della grazia. – Gli gnostici vogliono invece cercare un mezzo di salvezza immediato, definitivo, che eviti certi obblighi di uno sforzo costante su di sé. Essi lo presentano come un segreto il cui possesso deve liberare da ogni inquietudine ed assicurare un riposo nella certezza … – Infine, per gli gnostici, il Cristo non ha dato una risposta pienamente soddisfacente sull’esistenza del male nel mondo. Occorre allora cercare l’origine del male non nell’uomo, ma nel mondo divino, non essendo l’uomo peccatore e dunque colpevole, ma vittima di un male che gli è stato imposto dall’alto. Bisognerà attendere i grandi pensatori cristiani e particolarmente San Tommaso d’Aquino, per trovare questa risposta adeguata alla difficoltà sollevata. – A partire da queste considerazioni sull’insegnamento di Gesù, si possono dedurre tutte le affermazioni degli gnostici. Ma prima di svilupparle, occorre esaminare i loro procedimenti:

I procedimenti gnostici

L’esame dei fatti mostra che gli gnostici hanno seguito nel suo sviluppo l’espansione del Cristianesimo, seguendo il cammino dei discepoli e sollevando le obiezioni di cui abbiamo parlato, sia direttamente allo scoperto, sia indirettamente sussurrandole ai primi Cristiani entusiasti. Dopo la morte di santo Stefano, san Pietro si rifugia in Samaria e si trova presto a confrontarsi con Simone il Mago, padre della gnosi. La Chiesa si sviluppa ad Antiochia in Siria; ben presto si vede comparire Nicolas, uno dei diaconi, che diede i suo nome agli gnostici nicolaiti; poi Menandro, Saturnile. Il Vangelo è predicato in Egitto, ad Alessandria. E proprio qui si impianta l’insegnamento di Basilide, le cui formule sono tanto simili al buddismo, e poi Valentino, il maggiore degli gnostici. A Roma si impianta l’insegnamento di Marcione, a Lione quello di Marcos, etc. – Gli gnostici si fondono in mezzo alle comunità cristiane; essi danno un insegnamento individuale, con gran discrezione. Tertulliano ci dice che essi iniziavano con « l’enunciare la fede comune in formule equivoche! … per indurre i fedeli in errore. » Sant’Ireneo ci racconta che « essi attirano la gente parlando loro come parliamo noi stessi. Essi si lamentano che noi li trattiamo come degli scomunicati, allorquando da una parte e dall’altra, le dottrine sono le stesse … ma poi man mano si allontanano dalla fede con le loro questioni. Di coloro che non resistono, ne fanno loro discepoli, li prendono da parte per svelare loro il mistero inenarrabile del loro “pleroma”. »  Ecco un bel testo estratto da l’«Adversus Hæreses » di sant’Ireneo. Si direbbe scritto oggi! Ancora oggi infatti assistiamo a queste manovre su ben più vasta scala. Gli gnostici praticano “l’anonimato” come sistema di insegnamento: essi non firmano i loro scritti. Noi non conosciamo i loro nome se non dagli eresiologi che ebbero molto a penare per scoprirli e procurarsene i manoscritti segreti. Sant’Epifanio ci racconta come egli stesso abbia frequentato un tempo gli gnostici d’Egitto, attirato nei loro antri da certe donne: « se sono sfuggito alle loro grinfie, egli dice, non è stato per virtù personale, ma all’aiuto divino che rispose allora alle mie preghiere ». Grazie a questo suo passaggio tra essi, noi possediamo molti degli insegnamenti sulle diverse sette ed i manuali utilizzati. Sant’Epifanio cataloga con notevole precisione i maestri, le loro scuole, i loro manoscritti. Gli gnostici non firmano i loro scritti, ma fabbricano degli scritti ai quali, dice S. Atanasio, attribuiscono degli ancestri dando loro il nome di “santi” (cioè di Apostoli. Questi sono allora degli « pseudoepigrafi » e non degli « apocrifi. » Noi conosciamo i veri autori di questi libri, ma gli autori designati nel testo sono menzogneri: questi ad esempio sono « il libro segreto di Giovanni » – « la Sofia di Gesù » – « L’Apocalisse di Giacomo » – « Il discorso di Zoroastro » – « l’Apocalisse di Adamo » – « il discorso di Hermes » – « Il Vangelo di Tommaso » – « Le parole segrete di Gesù », etc. – Essi raccontano in particolare che Gesù, dopo la Resurrezione, abbia preso da parte qualche discepolo, Giacomo, Giovanni, Tommaso e, seduto sotto un albero, abbia rivela loro degli insegnamenti che essi dovevano tenere segreti per se stessi e per coloro che essi avessero giudicato degni di comprenderli. La lettura del « Vangelo di Tommaso » è in particolare molto suggestivo: questo Vangelo era un’opera di base degli gnostici e soprattutto dei Manichei. Una prima lettura superficiale del testo lascia nello spirito l’impressione d’insieme che si tratti di un’opera perfettamente ortodossa: i tre quarti delle parole di Gesù erano sostanzialmente identiche a quelle dei Vangeli canonici; ma una rilettura più attenta fa apparire certe istanze che denotano un’intenzione sottogiacente: questi sono, ad esempio delle ripetizioni frequenti: « Chi ha orecchie per intendere, intenda » – « Così accederete ala contemplazione di ciò che nessun occhio ha mai visto » – « Conoscete voi stessi e ciò che è nascosto vi sarà rivelato » (sottinteso: riconoscete che avete in voi stessi la divinità) – delle formule panteiste: « Quando voi farete che i due siano uno, voi diventerete figli dell’Uomo » (vale a dire il vostro ritorno all’unità primordiale farà apparire la vostra essenza divina) – « Taglia il legno, io sono la, solleva la pietra e mi ci ritroverai! » – « Il regno è dentro di voi » – « Ogni donna che diventerà uomo, entrerà nel regno dei cieli! » … Così a partire da formule ortodosse, con istanze selettive, per aggiunta di formule in apparenza oscure o misteriose, si vedono già delineare le principali tesi gnostiche che sembrano essere uscite dalla stessa bocca del Cristo. Non ci sarà più che da sviluppare queste formule protestandosi fedeli discepoli di Gesù. Infine un processo rimarchevole, utilizzato con grande successo dagli gnostici, fu il “recupero”, per rinforzare il loro prestigio, dei grandi “Iniziati” del paganesimo: Orfeo, Pitagora, Hermes, Zoroastro, Omero stesso! Non si tratta qui di un sincretismo religioso, poiché gli gnostici non cercano di amalgamare diverse dottrine religiose sì varie o contraddittorie per trarne una dottrina a “denominatore comune”. Non si tratta di una super chiesa “ripostiglio”. Ben al contrario, si tratta di attribuire esattamente a questi personaggi celebri dell’antichità, il cui insegnamento era stato solamente orale, il medesimo linguaggio della dottrina gnostica. È il ricorso quindi ad un’autorità incontestata nel passato e alla redazione di testi fittizi, attribuiti a colpo sicuro e senza controllo a questi lontani ancestri. Così si vede Orfeo rappresentante il Cristo nelle antiche catacombe romane in epoca in cui era difficile separare i veri Cristiani dagli gnostici. Gli eresiologi rimproveravano loro di rappresentare il Cristo con visi pagani: Hermes, Orfeo, Omero, Pitagora. Sant’Ireneo racconta che una donna, Marcellina, aveva ritrovato a Roma un oratorio con le figure di Gesù, Omero e Pitagora. I settari avevano medaglie o statuette rappresentanti Platone, Pitagora. L’imperatore Alessandro Severo era egualmente uno gnostico, egli venerava nel suo larario Gesù-Cristo, Abramo, Orfeo e Apollinare di Tyane. Nella prima catacomba, quella di San Sebastiano, si leggono, in un ipogeo degli Innocentii, delle iscrizioni cristiani ove si ritrovano i soprannomi di Hermes: Hermesius, Hermesianus. Carcopino descrive così una tomba di Ravenna del III secolo: la piccola defunta, Giuliana, è interpellata al maschile: “Salve Euhamius”, ella è rappresentata seduta ed Hermes le tocca gli occhi, per svegliarla, con una bacchetta magica. Si tratta certamente di una tomba cristiana gnostica. Il Cristo è talvolta rappresentato sotto forma di una divinità pagane, armata di bacchetta con la quale non risuscita un morto, ma lo chiama al “risveglio”:  “Apri gli occhi! Guarda! Tu sei divino”. Carcopino descrive una basilica pitagorica di Roma  assai simile ad un ipogeo di un cimitero cristiano. Egli racconta una cerimonia liturgica che sembra calcata sulla Cena cristiana. – Omero era anche da essi interpretato così: Ulisse tenuto nell’isola di Calipso designava l’anima, la fiammella divina, prigioniera dei corpi ed ancora esitante nel liberarsi dal suo giogo. – Il testo di Hermete Trimegisto (= il tre volte grande) era stato ritrovato nella biblioteca copta gnostica. Ugualmente i “versi d’oro” attribuiti a Pitagora, sono ben posteriori all’inizio del Cristianesimo; essi datano almeno dalla fine del I secolo e contengono delle formule propriamente gnostiche. “ tu saprai che la natura è UNA e simile in tutto” (Panteismo) – “Colui che ha trasmesso alla nostra anima la TETRAKTYS, sorgente della natura infinita” (il nome divino è la natura della nostra anima) – “A coloro che sanno svegliare ciò che c’è di sacro nella loro anima, la natura mostra ogni cosa” – “Quando tu abbandonerai il tuo corpo, sarai immortale, un dio immortale e non più mortale” … etc. – Così la gnosi si è sviluppata come una setta parassitaria all’interno del Cristianesimo per sovvertirne tutto l’insegnamento. Si riconoscono già i processi dei “modernisti” nell’arte di sedurre ed allontanare le anime dalla Verità; si riconosce pure la Leggenda nascente dei “Grandi Iniziati” che si tramandano di generazione in generazione una dottrina segreta.

L’INSEGNAMENTO DELLA GNOSI

Per comprendere bene le “rivelazioni” degli gnostici, è necessario sbarazzarle da tutte le fandonie mitologiche e fabulistiche di cui sono ammantate, o meglio imbrigliate, nonché spogliarle ugualmente del vocabolario oscuro, misterioso, ieratico, che ha la pretesa di renderle venerabili. Non parleremo né di Eoni, né di Arcoonti, né di Pleroma, etc. Mons. Lagier, nella sua opera “L’Oriente cristiano” enumera diverse proposizioni nelle quali si può riassumere tutto l’insegnamento dei nostri eretici. Noi vedremo che a partire da queste strane affermazioni, si posso estrarre tutti i grandi errori del mondo moderno. Già nel primo numero della nostra serie “la Gnosi teologia di satana ne abbiamo fatto un elenco (v. exsurgatdeus.org/Gnosi teologia di satana 1), ma qui lo rifacciamo affinché possiamo ben fissarli in mente per poter scovare tutti gli errori in ambiti decisamente impensabili: nella filosofia, teologia, letteratura, pedagogia, musica, arti figurative, medicina, scienza … una totale invasione alla quale siamo pressoché assuefatti. Questi otto punti, che qui di seguito ricordiamo, sono la cartina di tornasole per scoprire l’infiltrazione gnostica ubiquitaria ed eventualmente adottare le necessarie, oramai ineludibili contromisure.

1° « Il Dio di cui ci parla l’Antico Testamento è una divinità inferiore, non è il vero Dio. Ben sopra di Lui si trova l’Essere supremo, principio unico di tutto ciò che è. »

Gli gnostici hanno sempre praticato un antibiblismo sistematico. Hanno ribaltato tutte le affermazioni della Genesi. La loro cosmologia è una “macchina da guerra” indirizzata contro Yahvé, il Dio creatore. Il mondo nella sua essenza è divino. l’Essere supremo è un “abisso” originale dal quale sono uscite tutte le potenze spirituali. È già questa una prima forma di Panteismo. Yahvé Sabaoth, il Dio Creatore della Genesi è secondo loro, una emanazione dell’Essere supremo … egli si è rivoltato contro di lui rinchiudendo in una materia degradata e cattiva gli esseri puri, spirituali, emanati dal “grande abisso”, questi fu un demiurgo (=architetto) maldestro, pasticcione. Egli è perciò la fonte di tutti i mali: ecco una spiegazione dell’origine del male e la designazione del gran colpevole: il Dio che adorano i Cristiani.

2° « La materia in sé si oppone a Dio ». –

Comprendiamo bene che questa materia non è una emanazione dell’Essere supremo, ma una creazione del demiurgo, opera maldestra che si oppone alla perfezione della potenza divina, ne ostacola l’espansione. C’è dunque in questo atto creatore un errore, una degradazione degli esseri spirituali, una “caduta originaria”, non quella del peccato di Adamo, ma quella del Peccato di Yahvé.

« Dio si dispiega e si rivela gradualmente con delle potenze celesti, con esseri divini nella loro origine. »

Questa è la dottrina della “Emanazione” (emanare= spandere fuori da sé). Il mondo è una divinità che si espande fuori da sé, mediante una estensione del proprio essere; il mondo è un Dio … Essere supremo in crescita perpetua. Dall’Abisso originale, questo Dio genera una moltitudine di esseri che non sono che “particelle di se stesso”. Il mondo è in perpetuo divenire. Esso è divino per natura, poiché generato e non creato. Ahimè! Yahvé ha formato la materia, ha degradato questo mondo, ne ha così frenato l’espansione, l’evoluzione verso questa pienezza divina che gli gnostici chiamano “Pleroma”. – Per di più Dio si è manifestato nel mondo con i suoi inviati, esseri divini, da lui inviati che, ad intervalli regolari, ricordano all’uomo decaduto e prigioniero della materia che anch’essi sono divini. Occorre dunque una rivelazione continua: si vedono così apparire i primi lineamenti della leggenda dei Grandi iniziati”. La gnosi è allora: “rivelazione” di una realtà occulta!

« La materia è mescolata a fiammelle divine; queste fiammelle divine fuoriescono dalla loro prigione materiale grazie al Cristo che agisce nei sacri riti della magia. » L’anima umana è dunque divina (fiammella o splendore di un Dio che si estende ad ogni essere). Il corpo è una ganga terrestre, una prigione della quale bisogna sbarazzarsi per vedersi apparire questa divinità che risiede in noi. Il Cristo è il più grande degli “iniziati” inviato dall’alto, Egli viene ad insegnare agli uomini che essi sono divini. “Guardate all’interno di voi stessi e vi troverete le vostra divinità” …, tale è la formula ripetuta nel vangelo di Tommaso. Per questo occorre sbarazzarsi di questa prigione materiale che occulta la vostra vera natura. Risvegliatevi! Comprendete infine! Riconoscete il vostro carattere divino! Non c’è alcun bisogno di conquistare con la forza della vostra ascesi una somiglianza con Dio, voi siete già divini, ma non lo sapete ancora, questa conoscenza vi libererà [anche in concetto di “misericordia bergogliana” della setta vatican-massonica, è una idea gnostica anticristiana “ … voi siete già divinità, non c’è bisogno di pentimenti, contrizione, penitenza, etc. … siete salvi in ogni caso perché la vostra anima è divina]. È la salvezza mediante la gnosi! (= conoscenza). – Si ritrovano qui pure le formule moderniste dell’immanenza vitale: Dio dimora nell’uomo (Manere in = soggiornare in), non si deve che ritornare all’interno di sé per ritrovarlo.

« L’azione di Cristo fu reale, ma la sua umanità carnale non è stata se non una ingannevole apparenza: la passione e la resurrezione non sono che simboli senza realtà. ».

Evidentemente un “inviato divino” non può aver subito la degradazione di un corpo materiale. Egli ha dovuto assumere una forma materiale per farsi conoscere e poter agire efficacemente presso uomini anch’essi prigionieri del loro corpo fisico. Ma il Cristo non aveva da riscattare con la sua Passione i peccati dell’uomo, poiché questi non esistono. Non c’è che un solo peccato, il “peccato del mondo”, il peccato di questo “sbadato” Yahvé che ha deteriorato, con la sua creazione, l’espansione della divinità. Il Cristo non è venuto a liberare gli uomini dai loro peccati: non ha loro insegnato una “via”, un cammino da percorrere per raggiungere una perfezione possibile da raggiungere. Egli ha rivelato loro, cioè disvelato, ciò che essi non sapevano, e cioè: che essi erano Dio, già, da sempre!

« Il “divino incatenato nella materia”, cioè l’anima umana, non è responsabile della carne che l’opprime. Lo spirito resta puro … non è solidale alle passioni nei peccati commessi. »

Ecco alfine a cosa si voleva arrivare! Lo gnostico rifiuta agli uomini la responsabilità dei loro atti. Poiché la materia è cattiva, il nostro corpo di carne non può produrre che atti cattivi. Ma questo corpo è la nostra prigione. La nostra anima “scintilla divina” non può avere il minimo rapporto con qualunque male sia. Come spiegare tutto ciò? Scomponendo l’uomo in tre parti: un corpo materiale, il “soma”, un’animazione propriamente psicologica, la “psiche”, ed un’anima spirituale di essenza divina, lo “pneuma”. Questa struttura ternaria dell’uomo è una invenzione geniale [o meglio, perversa]: la sede delle passioni, la “psiche”, è una potenza cattiva legata alla materia che sostiene nella sua esistenza; bisogna sbarazzarsene al più presto. Lo “pneuma” resta impassibile, spettatore indifferente delle vane agitazioni del corpo. – Queste divisione ternaria dell’uomo si ritrova nell’occultismo moderno che utilizza un altro vocabolario per designare le stesse realtà: gli occultisti infatti concepiscono un mondo spirituale, un mondo astrale, un mondo materiale. L’uomo è composto da un corpo, un “doppio”, e da un’anima! Vecchio processo per togliere all’uomo la sua vera responsabilità e rifiutargli la maestria dei suoi atti. – Si ritrova in quanto esposto, tutto il protestantesimo. Lutero non ha affermato che l’uomo è incapace di un atto buono, che le opere sono inutili e che si è salvati dalla sola fede? Si ritrovano ancora qui i primi lineamenti della psicoanalisi moderna la cui funzione essenziale è di ricercare la sede del subcosciente nella “psiche”, motrice delle passioni, e di “liberare l’uomo  svelandogli che egli non è colpevole, bensì sempre vittima innocente delle pulsioni istintive alle quali deve lasciare libero corso perché esse non alterano la sua natura: liberazione sessuale, etc. (ora è facile capire perché “illustri” chierici rappresentanti del modernista satanico novus ordo, compreso le finte “autorità” usurpanti, ci tengano a farci sapere che essi sono stati e sono psicanalizzati ricevendone benefici, e spingere il “prodotto” sul mercato degli (in)fedeli antiCristo-gnostici “malgrado se stessi”).

« Le leggi scritte e le leggi naturali sono state concepite dagli dei inferiori e non sempre sono omologate dal vero Dio, la cui essenza oltrepassa ogni pensiero e la cui natura è indicibile.»

Gli gnostici sono per definizione antinomisti, cioè essi rifiutano ogni legge. Un essere la cui essenza è divina non ha bisogno di legge; questa è un mezzo per raggiungere un fine. Ora, l’essere divino è fine a se stesso. In più, una legge è emanata da una autorità che vi sottomette. Un essere divino è totalmente maestro di se stesso e non ha alcun bisogno di sottomissione. Questa legge naturale di cui parlano gli gnosticiè una costruzione arbitraria di uno spirito malvagioche vuole sottomettere gli altri esseri ai suoi capricci, è una soggezione indegna di una “fiammella divina”. Yahvé ha voluto chiudere la nostra natura divina in un corpo materiale ed imporci i suoi capricci.  Ecco un gran soggetto di indignazione per i nostri settari. Il vero “Dio”, è la pienezza della divinità, il “Pleroma”. La sua essenza è contenere tutti gli esseri ed inglobarli tutti in un immenso “tutto”. Non lo si può definire perché trascende tutti i limiti; esso è il “Gran tutto”, “l’Abisso innominato”. La salvezza per l’anima divina è perdersi in lui. – Si trova in quest’ultima proposizione la rivolta di colui che ha pronunciato il “non serviam” e che ha detto ad Adamo ed Eva. “Eritis sicut Dei”, se mangiate dall’albero della conoscenza (=Gnosi).

Il culto del serpente.

Tra le sette gnostiche esisteva quella degli “Ofiti” o Naasani (“ophis” in greco, e “naas” in ebraico significa serpente): questo sono i grandi gnostici, coloro che penetrato maggiormente nei misteri della rivelazione: « Noi veneriamo il serpente, dicono, perché Dio lo ha fatto causa della gnosi per l’umanità, egli porta all’uomo ed alla donna la completa conoscenza dei misteri dell’alto. » Essi si raccolgono intorno ad un tavolo, dispongono i pani, poi essi chiamano con incantesimo il serpente che viene ad arrotolarsi tra le offerte. Allora soltanto essi dividono il pane …  secondo loro è questo il sacrificio perfetto, la vera eucaristia. Così il cerchio è chiuso. Tutte queste elucubrazioni pretese sapienti, sono destinate in realtà ad allontanare i Cristiani dall’adorazione del vero Dio e portarli all’adorazione del serpente, supremo scopo della setta: questa celebrazione satanica somiglia senza errori alla cena rosacrociana praticata nei rituali massonici del 18° grado rosa+croce.

[continua …]

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO … e pure il falso tradizionalista: CUM SUMMI APOSTOLATUS.

Clemente XIV
Cum summi apostolatus

In questa Enciclica, scritta all’inizio del suo Pontificato, Clemente XIV, Papa Ganganelli, ricorda a se stesso ed ai Vescovi tutti, i doveri dei Pastori della Chiesa di Cristo, richiamandoli in particolare ad essere imitatori del divino Maestro nella loro opera apostolica con ogni zelo, soprattutto per contrastare le perniciose dottrine che andavano diffondendosi fin da allora e che oggi trionfano nelle sette moderniste di apostasia introdotte indecorosamente nei sacri palazzi dal “novus ordo”, spalleggiate dalle altrettanto sette eretiche e scismatiche pseudo-tradizionaliste. Lo scritto è semplice ed efficace nei richiami pieni di amore paterno verso i ministri del culto ma di altrettanto vigore nell’esortazione alla cura delle anime loro affidate con ogni dottrina e senso di responsabilità. Il culmine il Pontefice lo raggiunge quando afferma, con l’autorità del Vicario di Cristo: … Quando i popoli sapranno che il pastore, dimentico di ogni personale vantaggio, serve agl’interessi degli altri, soccorre i bisognosi, istruisce gl’ignoranti, rincuora tutti con l’impegno, il consiglio e la pietà, e preferisce alla sua propria vita la salute della comunità, allora, dolcemente attirati dal suo amore, dal suo zelo e dalla sua assiduità ascolteranno volentieri la voce del pastore che insegna, esorta e ammonisce, anche se richiama …. “Dai frutti li giudicherete”, dice la massima evangelica, è un “dovere” oltre che un diritto, giudicare nell’ambito delle cose spirituali; mentre in generale non è mai opportuno giudicare i fratelli, qui il divin Maestro è categorico: “Aprite gli occhi, giudicate dai frutti la qualità dell’albero …” e qui Clemente XIV ci offre un criterio per la valutazione dei frutti dei Pastori della Chiesa. Quando noi vediamo intorno a noi, in “presunti” prelati soprusi, immoralità, cupidigia, superbia e via dicendo, siamo certi che questi non sono i Pastori che continuano l’opera degli Apostoli né tanto meno “vicari” che custodiscono il Deposito della fede ed operano per il bene delle anime affinché possano raggiungere l’eterna felicità … sono usurpatori di cariche, servi del “nemico”. Sappiamo dunque rettamente valutare e giudicare i frutti di certe iniziative e di certi atteggiamenti .. ce lo impone il Figlio di Dio, il Signore Nostro Gesù Cristo, per facilitarci l’ascesa al suo Regno ed evitare gli inciampi che infallibilmente ci sprofonderanno la dov’è pianto e stridore di denti.


Cum summi apostolatus

Lettera Enciclica

Roma, 12 dicembre 1769

Ai Vescovi, Arcivescovi, Patriarchi e Primati.

Il Papa Clemente XIV

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

1.– Allorché Noi riflettiamo sul carico del supremo Apostolato che Ci è stato imposto, e ne consideriamo la gravità ed il peso immenso, non Ci possiamo trattenere, Venerabili Fratelli, dal risentire un’emozione profonda in vista di una missione così sublime e della Nostra personale debolezza. Ci sembra di essere venuti in pieno mare e di essere stati ritirati dalla sicurezza di una vita pacifica, come da un porto sicuro, nel vederci chiamati così d’un tratto a dirigere la nave di Pietro, sbattuta dalle onde e pressoché sommersa dalla tempesta. – Ma questa è opera del Signore, ed è ammirabile ai Nostri occhi. I giudizi imperscrutabili di Dio e non le volontà umane Ci hanno incaricati delle più gravi funzioni dell’Apostolato quando Noi eravamo ben lontani dal pensarvi. Questa persuasione Ci dà piena fiducia che Colui che Ci ha chiamati alle gravose cure del supremo ministero dissiperà i Nostri timori, aiuterà la Nostra debolezza e Ci soccorrerà nella tempesta. Pietro, che deve essere il Nostro modello, fu rassicurato dal Signore che gli rimproverò la sua poca fede quando egli credeva di restare sommerso nel mare. – Colui che nella persona del Principe degli Apostoli Ci ha affidato la cura della Chiesa Universale e le chiavi del Regno dei cieli, Colui che Ci ha comandato di pascere le sue pecore e di confermare i nostri fratelli, vuole sicuramente che il Nostro spirito non concepisca nessun timore di non ottenere i suoi soccorsi. Egli volle che Noi fossimo mossi più dalla speranza della sua grazia che dall’apprensione della Nostra debolezza. – Noi ci sottoponiamo dunque alla volontà di Colui che è Nostra forza e Nostro sostegno, e confidiamo nella sua fedeltà e nella sua potenza: Egli compirà l’opera che ha cominciato in Noi. Dal Nostro nulla, la grandezza della sua forza e della sua bontà riceverà uno splendore più grande. Se Egli ha pensato, in questi tempi, di servirsi del Nostro ministero e di utilizzare Noi, che siamo un servo inutile, per operare qualche cosa per il bene della sua Chiesa, ciascuno riconoscerà che Egli solo ne è l’autore, e che a Lui solo debbono unicamente essere resi l’onore e la gloria. Noi ci prepariamo dunque senz’altri indugi a sostenere questo gran carico, disposti a porvi tanto maggior zelo in quanto siamo appoggiati sopra un forte sostegno, convinti che l’alta importanza delle funzioni alle quali siamo stati chiamati esige cure e prudenza tali che non possono mai essere troppo grandi. – Allorché continuamente preoccupati della vastità della Nostra amministrazione, gettiamo uno sguardo dall’alto della Sede Apostolica sopra tutto l’universo cristiano, vediamo voi, Venerabili Fratelli, innalzati a posti eminenti e illustri e la vostra vista Ci riempie di gioia. Riconosciamo in voi con la maggiore soddisfazione i Nostri collaboratori, i guardiani del gregge del Signore, gli operai della vigna evangelica. A voi dunque, che dividete le Nostre cure, desideriamo innanzi tutto rivolgere la parola all’inizio del Nostro Apostolato. Nel vostro petto vogliamo diffondere i sentimenti più intimi dell’anima Nostra; e se in nome del Signore vi indirizziamo alcune esortazioni, attribuitele alla diffidenza che abbiamo di Noi stessi e pensate pure che esse procedono dalla fiducia che Ci ispirano la vostra virtù e il vostro amore filiale verso di Noi.

2. In primo luogo, Venerabili Fratelli, Noi vi domandiamo e vi scongiuriamo di non stancarvi mai di pregare Dio che sostenga la Nostra debolezza col suo divino soccorso. Ricambiate così l’amore che abbiamo per voi. Unite alle Nostre preghiere il conforto delle vostre, affinché sostenendoci scambievolmente possiamo essere più costanti e vigili. Dimostreremo per mezzo dell’unione dei cuori quell’unità per la quale noi tutti formiamo un unico corpo, poiché tutta la Chiesa non è che un solo edificio, di cui il Principe degli Apostoli ha posto le fondamenta in questa Sede. Molte pietre unite concorrono a questa costruzione; ma tutte sono appoggiate e sostenute da una sola. Il corpo della Chiesa è uno; Gesù Cristo è il suo capo, ed è in Lui che noi tutti formiamo una sola cosa. Egli ha voluto che Noi, Vicario della sua potenza, fossimo elevati al di sopra degli altri, e che Voi, uniti a Noi come al capo visibile della Chiesa, foste le parti principali del suo corpo. – Che cosa può dunque accadere all’uno che non tocchi anche gli altri, e che non colpisca ciascuno di essi? Nello stesso modo, per conseguenza, non vi può essere nulla che reclami la vostra vigilanza e che non sia nel medesimo tempo materia delle Nostre cure e non debba esserci riferita. Nello stesso modo, ancora, Voi dovete pensare che tutto ciò che Ci concerne e tutto ciò che richiede la Nostra attenzione e il Nostro concorso deve interessare in sommo grado Voi medesimi. Noi dobbiamo dunque tutti, tenendo le nostre volontà strettamente unite, essere animati da questo solo e medesimo spirito che, procedendo da Gesù Cristo, nostro Capo mistico, si spande in tutti i suoi membri per dispensare loro la vita. Noi dobbiamo fare tutti i nostri sforzi ed applicare principalmente le nostre cure affinché il corpo della Chiesa rimanga senza lesione e senza ferita, e si sviluppi e si fortifichi, lucente di tutte le virtù cristiane, senza rughe e senza macchie. – Quest’opera diverrà possibile con l’aiuto di Dio, se ciascuno di voi si sentirà infiammato di grande zelo per il gregge che gli è stato affidato, e cercherà di allontanare dal suo popolo il contagio del male e le insinuazioni dell’errore, fortificandolo con tutti i soccorsi della santità e della dottrina.

3. Se è mai stato necessario che coloro che sono preposti alla guardia della vigna del Signore siano animati da questi desideri per la salute delle anime, è soprattutto in questi tempi assolutamente indispensabile che essi ne siano convinti e infervorati. Quando mai, infatti, si videro diffondersi ogni giorno, da tutte le parti, opinioni tanto perniciose, tendenti ad affievolire ed a distruggere la Religione? Quando mai si videro gli uomini, sedotti dal fascino della novità e trasportati da una specie di avidità verso una scienza straniera, lasciarsi più follemente attirare verso di essa e cercarla con tanto eccesso? Così Noi siamo ripieni di dolore alla vista di questa pestilenziale malattia delle anime, la quale si allarga e si propaga sventuratamente sempre più di giorno in giorno. – Più il male è grande, Venerabili Fratelli, più Voi dovete attivamente operare ed impiegare tutti i mezzi della vostra vigilanza e della vostra autorità per respingere questa temeraria follia che trabocca ancora nelle cose divine e nelle più sante. Ora, Voi raggiungerete questo risultato, credetelo, non con l’aiuto corruttibile e vano della sapienza umana, ma unicamente con la semplicità della dottrina e con la parola di Dio, più penetrante di una spada a due tagli; allorché in tutte le vostre parole mostrerete e predicherete Gesù Cristo crocifisso, vi sarà facile reprimere l’audacia dei vostri nemici e respingerne i dardi. – Egli ha fabbricato la sua Chiesa come una città santa e l’ha fortificata con le sue leggi e i suoi precetti. Le ha affidato la fede come un deposito che essa deve conservare religiosamente e con purezza. Egli ha voluto che essa fosse il bastione inespugnabile della sua dottrina e della sua verità, e che le porte dell’inferno non prevalessero mai contro di lei. Messi a capo del governo e della custodia di questa santa città, difendiamo dunque gelosamente, Venerabili Fratelli, il prezioso retaggio della fede del nostro fondatore, Signore e Maestro, che i nostri Padri ci hanno affidato in tutta la sua integrità perché lo trasmettiamo puro ed integro ai nostri posteri. – Se indirizziamo i Nostri atti e i Nostri sforzi secondo questa regola che ci tracciano le sante Scritture, e se Noi seguiamo le orme infallibili dei Nostri Predecessori, possiamo essere sicuri di essere muniti di tutti i soccorsi necessari per evitare ciò che potrebbe indebolire e ferire la fede del Popolo cristiano e infrangere o dissolvere in qualche parte l’unità della Chiesa. – Soltanto dalle fonti della divina sapienza, sia da quella scritta, sia da quella della tradizione, Noi vogliamo attingere quanto occorre alla fede e al Nostro operare.

4. Questa doppia e ricca fonte di ogni verità e di ogni virtù contiene pienamente ciò che ha rapporto al culto religioso, alla purità dei costumi ed alle condizioni di una santa vita. Da essa Noi abbiamo appreso i doveri della pietà, dell’onestà, della giustizia e dell’umanità; è per essa che noi comprendiamo ciò che dobbiamo a Dio, alla Chiesa, alla patria, ai nostri concittadini e agli altri uomini. – È per tal mezzo che noi riconosciamo che nulla ha più potentemente contribuito a determinare i diritti delle città e della società quanto queste leggi della vera religione. Ecco perché giammai nessuno ha dichiarato guerra alle divine prescrizioni di Cristo, senza turbare, in pari tempo, la tranquillità dei popoli, diminuire l’obbedienza dovuta ai Sovrani e spargere ovunque incertezze. Infatti vi è una grande connessione tra i diritti della potenza divina e quelli della potenza umana; coloro che sanno che il potere dei re è sanzionato dall’autorità della legge cristiana obbediscono loro con prontezza, rispettano la loro potenza e onorano la loro dignità.

5. Tenuto conto che questa parte delle divine prescrizioni è strettamente collegata alla tranquillità dei popoli non meno che alla salute delle anime, Vi esortiamo, Venerabili Fratelli, a porre tutta la Vostra cura nell’ispirare ai popoli – dopo tutto quello dovuto a Dio ed alle sante costituzioni della Chiesa – il legittimo rispetto e l’obbedienza che devono ai re. Questi infatti sono stati posti da Dio in un posto eminente per difendere l’ordine pubblico e contenere i sudditi nei limiti dei loro diritti. Essi sono i ministri di Dio a fin di bene, ed è per questo che portano la spada, vendicatori severi contro chi opera il male. Essi, inoltre, sono i figli amatissimi e i difensori della Chiesa, che debbono amare come loro madre, difendendone la causa e i diritti. – Abbiate dunque cura di far comprendere questo divino precetto a coloro che Voi dovete istruire nella legge di Cristo. Che essi apprendano sin dalla loro infanzia che il rispetto dovuto ai re deve essere fedelmente mantenuto; che essi debbono ubbidire all’autorità e sottomettersi alla legge non solo per timore, ma anche per senso del dovere. Ispirando nei cuori dei popoli non soltanto l’obbedienza ai loro re, ma anche il rispetto e l’amore verso di loro, Voi opererete a favore di due cose che non possono essere disgiunte: la pace dei cittadini ed il bene della Chiesa. – Voi svolgerete ancora più compiutamente la vostra missione se alle preghiere quotidiane per i popoli aggiungerete preghiere particolari per i re, affinché siano sani, dirigano i loro sudditi nell’equità, nella giustizia e nella pace; affinché riconoscano che Dio comanda al di sopra dei loro troni, e piamente e santamente difendano e propaghino la sua causa. Operando in siffatto modo, Voi soddisferete non soltanto alle Vostre funzioni episcopali, ma anche a vantaggio di tutti. Che cosa, infatti, c’è di più giusto e di più conveniente che da parte di coloro che sono preposti alla custodia delle cose sante, nella loro qualità d’interpreti e di ministri, siano offerti a Dio i voti di tutti, pregandolo di sostenere chi tutela la tranquillità di tutti i cittadini?

6. Noi crediamo sia superfluo descrivere qui le altre funzioni del ministero pastorale. A che giova, infatti, enumerare in dettaglio e raccomandarvi cose di cui sappiamo che Voi avete una conoscenza profonda, e nella pratica delle quali siete fortificati per l’uso di ogni giorno e per una certa inclinazione del vostro cuore conforme alle vostre funzioni? – Tuttavia non possiamo tralasciare di ripetervi e di porre davanti ai vostri occhi un consiglio che li riassume tutti: ed è che nell’esercizio della virtù prendiate a modello Gesù Cristo, nostro Capo, Principe dei pastori, e riproduciate in Voi medesimi l’immagine della sua santità, della sua carità e della sua umiltà. – Poiché se Egli, che era lo splendore della gloria del Padre e la figura della sua sostanza, ha consentito a prendere le debolezze della nostra carne, e dallo stato di servitù farci passare, con le sue umiliazioni e col suo amore, a quello di figli adottivi di Dio; se Egli ha voluto che noi fossimo suoi coeredi, potremo noi scegliere un oggetto più nobile e più glorioso nelle nostre meditazioni e nelle nostre fatiche di quello di renderci atti, Noi che siamo gli strumenti pei quali questa unione di uomini a Cristo si mantiene e si opera, ad illuminare col Nostro esempio la via per la quale essi camminano seguendo la bontà, la clemenza e la mansuetudine di questo divino modello? E per qual altra ragione avrebbe Egli salito le altezze della montagna, Egli che evangelizza Sionne? Voi non potete ardere dal desiderio di raggiungere questa somiglianza senza trasmettere ai cuori di tutto il vostro popolo la fiamma che brucia in voi. Certamente sono meravigliose la forza e la potenza del pastore che scuote le anime del suo gregge. Quando i popoli sapranno che tutti i pensieri del loro Pastore, tutte le sue azioni sono regolate sul modello della vera virtù, quando lo vedranno evitare tutto ciò che potrebbe sapere di durezza, di alterigia, di superbia e non occuparsi che dei doveri che ispirano la carità, la dolcezza, l’umiltà; allora si sentiranno vivamente animati ad emularlo per conseguire le stesse lodi. – Quando i popoli sapranno che il pastore, dimentico di ogni personale vantaggio, serve agl’interessi degli altri, soccorre i bisognosi, istruisce gl’ignoranti, rincuora tutti con l’impegno, il consiglio e la pietà, e preferisce alla sua propria vita la salute della comunità, allora, dolcemente attirati dal suo amore, dal suo zelo e dalla sua assiduità ascolteranno volentieri la voce del pastore che insegna, esorta e ammonisce, anche se richiama. – Ma come potrà insegnare ad altri l’amore di Dio e la benevolenza verso i suoi fratelli colui che, schiavo tra i lacci e la cupidigia dei suoi interessi privati, preferisce le cose della terra a quelle del cielo? Come mai quegli che aspira alle gioie ed agli onori del mondo potrebbe condurre gli altri al disprezzo delle cose umane? Come potrebbe dare lezioni d’umiltà e di dolcezza colui che si leva nel fasto dell’orgoglio? Voi dunque, che avete ricevuto la missione d’insegnare ai popoli la morale di Gesù Cristo, ricordatevi che dovete soprattutto mettervi ad imitare la sua santità, la sua innocenza, la sua dolcezza. Sappiate che la vostra potenza non apparirà giammai più brillante che quando porterete le insegne dell’umiltà e dell’amore, più ancora di quelle della vostra dignità. – Ricordatevi che è proprio del vostro incarico, e che non appartiene che a Voi di dirigere in questo modo il popolo che vi è stato affidato; è nel compimento di questo dovere che Voi dovete cercare ogni vantaggio ed ogni lode; trascurandolo, non troverete che malore ed ignominia. Non abbiate ambizione per altra ricchezza che per la salute delle anime riscattate col sangue di Gesù Cristo, e non cercate alcuna gloria vera e solida se non propagando il culto divino ed accrescendo la bellezza della casa del Signore, estirpando i vizi, ed applicando tutte le Vostre cure a praticare la virtù con una fedeltà perseverante. Ecco ciò che Voi dovete assiduamente pensare e fare; ecco quello che deve essere l’oggetto della Vostra ambizione e dei Vostri desideri.

7. E non pensate che, nella molteplicità di questo lungo e laborioso esercizio, vi manchi il tempo per esercitarvi alla virtù. Tale è la condizione della Vostra carica, tale è la ragione della vita episcopale, ch’esse non debbano mai veder giungere il riposo né la fine delle loro fatiche. Non possono venire circoscritte da alcun limite le azioni di coloro la cui immensa carità dev’essere senza limiti; ma l’attesa della ricompensa infinita ed immortale che Vi è destinata addolcirà ed allevierà facilmente tutte le Vostre pene. Qual cosa, infatti, può sembrare pesante e dura a colui il quale pensa a quella beata ricompensa che il Signore riserva, e che la ragione delle funzioni pastorali reclama per quelli che avranno conservato e moltiplicato il loro gregge? – Ma oltre questa magnifica speranza d’immortalità, Voi proverete ancora una grande gioia pur nel peso delle fatiche della vita pastorale, quando, venendovi Dio in aiuto, vedrete il Vostro popolo unito nei legami di una mutua carità, fiorente nella pietà e nella giustizia, e quando contemplerete tutti gli altri frutti ammirabili che le Vostre fatiche e le Vostre veglie avranno prodotto nella Chiesa. – Piaccia a Dio che Noi possiamo, durante il tempo del Nostro Apostolato, e per il concorso unanime di tutte le Nostre volontà e di tutte le Nostre cure, veder ritornare quella meravigliosa felicità religiosa che fu dell’antica età. – Piaccia a Dio che Noi possiamo, Venerabili Fratelli, rallegrarcene insieme, e goderne in Gesù Cristo nostro Signore! Che questo medesimo Gesù Cristo ci sostenga sempre con la sua grazia e accenda i nostri cuori dell’amore di tutto ciò che gli può piacere!

8. Nello stesso tempo in cui scriviamo questa Lettera a Voi, Venerabili Fratelli, con altra Lettera concediamo a tutti i Cristiani il Giubileo per implorare – secondo la tradizione, all’inizio del Nostro Pontificato – l’aiuto divino per il salutare governo della Santa Chiesa Cattolica. – Chiediamo pertanto a Voi, e Vi supplichiamo, di incitare i popoli affidati alle Vostre cure ad innalzare devote preghiere con fede, pietà e umiltà. Infiammateli con le Vostre esortazioni, con i Vostri consigli e con l’esempio affinché curino sia la propria salvezza, sia i motivi di pubblico vantaggio della Cristianità.

In pegno del Nostro amore, impartiamo a Voi, Venerabili Fratelli, e ai fedeli delle Vostre Chiese, la più affettuosa Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 12 dicembre 1769, nell’anno primo del Nostro Pontificato.

 

 

DOMENICA XIX dopo PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum [Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.]
Ps LXXVII:1
Attendite, pópule meus, legem meam: inclináte aurem vestram in verba oris mei.
[Ascolta, o popolo mio, la mia legge: porgi orecchio alle parole della mia bocca.]

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum [Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.].

Oratio
Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, univérsa nobis adversántia propitiátus exclúde: ut mente et córpore páriter expedíti, quæ tua sunt, líberis méntibus exsequámur.
[Onnipotente e misericordioso Iddio, allontana propizio da noi quanto ci avversa: affinché, ugualmente spediti d’anima e di corpo, compiamo con libero cuore i tuoi comandi.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV:23-28
“Fratres: Renovámini spíritu mentis vestræ, et indúite novum hóminem, qui secúndum Deum creátus est in justítia et sanctitáte veritátis. Propter quod deponéntes mendácium, loquímini veritátem unusquísque cum próximo suo: quóniam sumus ínvicem membra. Irascímini, et nolíte peccáre: sol non occídat super iracúndiam vestram. Nolíte locum dare diábolo: qui furabátur, jam non furétur; magis autem labóret, operándo mánibus suis, quod bonum est, ut hábeat, unde tríbuat necessitátem patiénti.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV – Omelia XIII.– Torino 1899]

 “Rinnovatevi nello spirito della vostra mente, e rivestite il nuovo uomo, quello che fu creato secondo Dio in giustizia e santità verace. Ondechè, lasciata ogni bugia, dite la verità ciascuno col suo prossimo, perché siamo membra l’uno dell’altro. Sdegnatevi, ma senza peccato; il sole non tramonti sulla vostra ira. Non date luogo al demonio. Chi rubava, non rubi più, piuttosto colle sue mani lavori alcunché di utile, affinché abbia con che soccorrere chi “si trova in bisogno „ (Agli Efesini, IV, 23-28).

Anche queste sentenze, sì belle e sì pratiche, sono tolte dalla Epistola di S. Paolo ai fedeli della Chiesa di Efeso, e da quella parte della Epistola che si riferisce pressoché tutta alla morale. E qui torna acconcio mandare innanzi una osservazione, che mi valga di scusa in questi ed in altri commenti, che vo facendo delle Epistole. S. Paolo, scrivendo le sue lettere, in generale aveva lo scopo di provvedere ad alcuni bisogni particolari delle Chiese o delle persone, alle quali scriveva, di dar loro ammonimenti opportuni, e talora di rimuovere alcuni disordini o pericoli. In queste lettere abbondano le raccomandazioni comuni, com’è naturale, e perciò tratto tratto tornano sotto la penna dell’Apostolo le stesse verità, le stesse esortazioni, le stesse massime morali, che sono d’ogni classe di persone, di ogni tempo e di ogni luogo. Incontrandomi nelle stesse verità, e nelle stesse esortazioni e massime morali dell’Apostolo, che debbo io fare? Ometterle? No; ometterei la spiegazione di quelle verità che la Chiesa vuole inculcate ai fedeli, ed io non ho diritto di passarmene. Ma sono ripetizioni, e spesso di cose notissime. Lo so; e che perciò? Devo io correggere 1’opera della Chiesa e passare sopra ciò ch’essa vuole ricordato ai suoi figliuoli? Mai no. Se l’Apostolo nelle sue lettere credette buona cosa ripetere le stesse verità, e la Chiesa ce le fa leggere, a me non resta che seguire l’uno e l’altra, sicuro di far cosa buona e santa. Se la ripetizione delle medesime verità giovavano al tempo dell’Apostolo, perché non gioverebbero eziandio al giorno d’oggi? E tutti i giorni non mangiamo lo tesso pane, e non ci viene giammai a nausea? Similmente diamo alle anime nostre lo stesso cibo, e non ne proveranno nausea, anzi vi troveranno sostanzioso nutrimento. Ed eccomi a voi, o carissimi. –  L’Apostolo, dopo avere eccitato caldamente i suoi figliuoli spirituali ad accostarsi alla virilità perfetta di Cristo, ossia a modellarsi sopra di Lui ed a ritrarsi dalla corruzione pagana, in cui erano vissuti ed in mezzo alla quale erano costretti a vivere con grandissimo loro pericolo, li esorta a spogliare l’uomo vecchio, ossia l’uomo corrotto, l’uomo delle passioni e del peccato, ed a vestire il nuovo, quale è rifatto da Gesù Cristo; e qui comincia il nostro commento. “Rinnovatevi nello spirito della vostra mente. „ L’anima nostra si attua e si svolge in quelle due facoltà nobilissime che sono tutto l’uomo e formano tutta la sua grandezza e nobiltà, e sono la mente e la volontà; la mente, che è fatta per il vero, la volontà, che è fatta per il bene. L’anima nostra è fatta prima pel vero, e per il vero raggiunge il bene. Perché l’uomo pervenga alla sua perfezione dee anzi tutto conoscere il vero, e conosciuto questo, la sua volontà, se è retta, vi si adagia, l’ama, lo mette in pratica e allora si trova in possesso del bene. Primo dovere pertanto dell’uomo è quello di conoscere la verità: il secondo quello di operare conformemente ad essa. Ecco perché Gesù, volendo condurre gli uomini al bene, alla virtù, alla perfezione, vuole che si cominci dal far loro conoscere la verità, e perciò dice agli Apostoli: “Docete omnes gentes. Prædicate omni creaturæ — Ammaestrate tutte le genti, predicate a tutti i popoli. „ E qui il nostro Apostolo grida alto agli Efesini: ” Rinnovatevi nello spirito della vostra mente: „ in altre parole: Rinnovate la vostra mente collo spirito di verità, che Gesù Cristo vi ha portato, cioè adornate la vostra mente col conoscimento delle verità divine, e così la rinnoverete, la farete bella agli occhi di Dio. Sta bene che il corpo sia adorno di belle vesti, che ne accrescono la grazia ed il decoro: veste dell’anima e suo ornamento bellissimo è la verità, che tutta la irradia e la informa. Questa frase dell’Apostolo è quasi la ripetizione d’un’altra ai Romani, dove dice: “Riformatevi nella novità del vostro senso (XII, 2), o rinnovatevi nell’anima vostra, ricevendo in voi la verità e la grazia divina che per voi sono cose nuove. Ma il versetto seguente spiegherà meglio la mente dell’Apostolo. Ascoltiamolo. “Rivestite il nuovo uomo, quello che fu creato secondo Dio, nella giustizia e santità verace. „ Lo dissi in qualche altro luogo, ma qui è forza ripeterlo. Qual è l’uomo nuovo? Indubbiamente il primo uomo, Adamo: come nuova è la fabbrica o la casa, quando è ap pena costruita, così nuovo era l’uomo, allorché uscì dalle mani di Dio. Qual è l’uomo vecchio? Quello che divenne tale più tardi, quello che si guastò, come è vecchia la casa che col volgere del tempo va disfacendosi. – Allorché pertanto S. Paolo vuole che ci rinnoviamo, vuole che diventiamo come il primo uomo, l’uomo uscito dalle mani del Creatore Adamo. Qual era il suo stato? Esso fu creato secondo Dio, cioè tale ch’era caro a Dio, portava sulla fronte l’immagine di Dio, era suo figlio per adozione, perché adorno della giustizia, cioè della grazia santificante, e perciò veramente santo. L’opera di Gesù Cristo, che è, secondo la frase sì bella di S. Paolo, il secondo Adamo o secondo padre dell’umanità: Secundus Adam de cœlo cadestis (I. Cor. XV), si riduce a rifare tutti gli uomini sul modello del primo, ridonando loro la grazia, la vita divina e la piena signoria sulle proprie passioni, il che si ottiene col Battesimo e con tutti gli altri mezzi di salute, che compiono il lavoro della nostra rigenerazione. Vestire dunque il nuovo uomo, o rinnovarci nello spirito, vuol dire far rivivere in noi, quanto lo consente la debolezza nostra, l’Adamo innocente, ricco dei doni celesti, avente in sé l’immagine e la somiglianza di Dio. Vuol dire avere nella mente la verità, nel cuore la vita della grazia e della carità, nelle parole, negli atti e nelle opere esprimere in noi stessi la vita di Adamo, che è poi quella di Gesù Cristo redentore. Quale dignità! quale è la nostra grandezza considerata al lume di queste sì sublimi verità! Riprodurre in noi il primo uomo innocente! Essere giusti e veramente santi dinanzi a Dio: In justitia et sanctitate veritatis! – Ma ascoltiamo ancora S. Paolo: “Il perché, lasciata ogni bugia, dite la verità, ciascuno col suo prossimo. „ L’uomo vecchio, l’uomo del peccato, l’uomo della concupiscenza e della carne, è affatto contrario all’uomo nuovo, all’uomo della virtù, all’uomo dello spirito e della grazia; noi, che portiamo l’uno e l’altro in noi stessi, dobbiamo adoperarci incessantemente a deporre il primo e vestire il secondo.Dopo avere stabilito in generale il dovere che ci stringe, S. Paolo in questo versetto e nei seguenti specifica le opere del vecchio uomo, che dobbiamo smettere, e quelle del nuovo che dobbiamo esercitare. La prima opera dell’uomo vecchio, che l’Apostolo vuole sbandita, e la bugia: Deponentes mendacium. Ve lo confesso, allorché era giovane e leggevo nel Salmo quella sentenza: ” Ogni uomo è menzognero, „ io era tentato di giudicarla esagerata e pigliarla in senso molto largo: il conoscimento pratico degli uomini mi ha mostrato, che purtroppo è vera nel senso rigoroso. Dio buono! Dov’è l’uomo che non abbia mai mentito in vita sua, con la lingua, con le parole ed anche col tacere, giacché si può mentire anche tacendo? Quante volte siamo stati ingannati ed abbiamo ingannato, a seconda dell’interesse e della passione, allargando o restringendo il valore delle parole, od anche affermando con la lingua ciò che il cuore negava! E per molti non è ornai ridotto ad arte il segreto di ingannare? Educati alla scuola di Gesù Cristo, che è la stessa verità e che disse: “il vostro linguaggio sia questo è, è; no, no; „ fuggiamo ed abbominiamo qualunque menzogna. All’opera dell’uomo vecchio, che è la menzogna, S. Paolo contrappone subito, secondo il suo stile, l’opera dell’uomo nuovo, e dice: “E dite la verità ciascuno col suo prossimo o fratello. „ È un dovere imposto a tutti senza eccezione, dal quale Dio stesso non potrebbe scioglierci, Egli che è il Signore assoluto. E S. Paolo tocca tosto una ragione speciale, che ci obbliga a dire la verità, ed è questa: “Perché siamo membra l’uno dell’altro. „ Siamo tutti fratelli, membri di quel corpo, del quale Gesù Cristo è capo supremo. Con che cuore, sembra dire l’Apostolo, ingannerai tu il fratello tuo? Dov’è l’occhio che danneggi l’altro occhio? dove la mano che ferisca l’altra mano? dove il piede che non aiuti l’altro piede? Le membra tutte del nostro corpo si soccorrono a vicenda: ora se tu non dici la verità, tradisci il fratello tuo, fai oltraggio alla legge di natura, che impone alle membra dello stesso corpo di aiutarsi scambievolmente. Ma direte: Se diciamo la verità, ne avremo danno. — Forse danno nel corpo, ma non mai nello spirito. E che perciò? Se per cessare un danno, anche grave materiale, si potesse mentire, non vi sarebbe peccato, per quanto enorme, che in certi casi non si potesse commettere. Se in faccia ad un gran pericolo, al sacrificio stesso della vita e dell’onore fosse lecito mentire, noi non avremmo un solo martire, perché essi con una sola bugia potevano sfuggire alla morte, e spesso ottenere sommi onori. – A nessuno di noi il dire la verità imporrà il sacrificio della vita; e, quand’anche lo imponesse, dovremmo imitare i martiri e non stare in forse un istante a compirlo a nostra gloria eterna. — Ma ornai tutti mentiscono, e chi dice la verità troppo spesso rimane vittima dell’altrui malizia; così dicono altri. — Sia pure che tutti mentiscano: forseché il male cessa d’essere male perché tutti lo commettono? Perché la maldicenza, l’incontinenza, il furto, la bestemmia e andate dicendo, sventuratamente sono peccati comuni, non saranno più peccati, e noi saremo scusati innanzi a Dio, commettendoli? No, per fermo. La legge di Dio è là, e non si muta un apice: chi l’osserva sarà salvo, chi la trasgredisce infallibilmente sarà punito. Meglio essere vittime degli altrui inganni, che meritevoli dei divini castighi. Ma è da passare al seguente versetto. “Adiratevi, ma senza peccato. „ Questa sentenza è tolta dal Salmo (IV, 5), ed ha bisogno di spiegazione. Questa espressione contiene forse un precetto, come sembrerebbe suonare la parola: Adiratevi? Forse può essere, in un certo senso. Quando noi vediamo l’ingiustizia manifesta, l’empietà sfacciata, l’insolente oppresso e tradito, non possiamo non sentire un fremito d’ira e di sdegno; è la stessa natura che si rivolta e che altamente riprova l’iniquità e il delitto. In questo senso leggiamo che Dio stesso si sdegna e s’adira a nostro modo di intendere, cioè odia ed abomina la colpa dovunque apparisca, ed in questo senso si può dire ad un uomo: Ti adira, cioè contro il male. Ma sembra interpretazione più naturale e più piana quest’altra: Vi accade di adirarvi? Attesa la debolezza della nostra natura, sì facile all’ira, ciò accadrà soventi volte. Che fare? Se l’ira talora vi assale, tosto rintuzzatela in guisa che non abbiate a peccare. Le passioni talvolta, e specialmente l’ira, ci assaltano all’improvviso, e le sentiamo fremere e tempestare in cuore prima d’esserci accorti delle loro mosse. Quel primo bollimento, che ci suscitano nell’animo, siccome non è avvertito dalla ragione, e perciò non assentito dalla volontà, non è, né può essere peccato, perché non si pecca mai senza saperlo e volerlo. Quando adunque la passione ci sorprende, e l’ira mette sossopra il nostro spirito, appena ce ne avvediamo, la ragione, e con essa la volontà, si levino prontamente alla riscossa, la riducano all’obbedienza, ne frenino i moti incomposti e ristabiliscano la pace. Ecco perché S. Paolo, dopo quelle parole: “Adiratevi, cioè se vi adirate, vedete di non peccare, „ continua e dice: ” E il sole non tramonti sulla vostra ira — Sol non occidat super iracundiam vestram. „ È una bella e graziosa immagine per farci conoscere che l’ira vuol essere tostamente repressa e cacciata dal cuore in guisa, che non vi passi sopra un giorno. — Carissimi! uno sguardo sulla vostra coscienza. Vedete se per avventura nelle pieghe più riposte del vostro cuore si appiattasse il risentimento, il rancore o l’odio contro del vostro fratello; vedete se mai l’ira del giorno vi accompagnò alla sera, alla notte, sotto le coltri, vagheggiando e quasi assaporando il dolce della vendetta e studiando le vie per averla piena ed intera. Ohimè! allora non vi ricordaste di certo del precetto dell’Apostolo: – Che il sole non tramonti sul vostro corruccio. „ Segue questa sentenza : “Non date luogo al demonio — Nolite locum dare diabolo. „ Essa può stare da sé, e vorrebbe dire, che dobbiamo fuggire ogni male, chiudendo la porta del nostro cuore all’autore del male, che è il demonio: ma io sono d’avviso che si debba considerare come una appendice della proposizione sopra spiegata e legare con essa così: Il sole non tramonti sulla vostra collera, e, così operando, avrete chiuso ogni accesso al nemico comune, che è il demonio. Se noi coviamo in cuore l’ira, ben presto ne sentiremo le conseguenze funeste. Fate che una scintilla, una sola scintilla cada in mezzo alla paglia mista a legna; se voi tosto non la spegnete, a poco a poco si allarga il fuoco, e ben presto vedrete andare in fiamme l’intera casa. Così dell’ira: è una scintilla in fondo al nostro cuore, e se non è prontamente soffocata, divamperà in grande incendio di dispetti, di astii, di maldicenze, di calunnie, di ingiurie, di contumelie, di risse, di percosse e peggio. Fuori adunque l’ira, e con essa avremo chiuso la porta al demonio, artefice di ogni male. – L’Apostolo procede nella sua enumerazione, sempre per via di antitesi, cioè alle opere della carne o dell’uomo vecchio opponendo quelle dello spirito o dell’uomo nuovo: ” Chi rubava più non rubi. „ È un richiamo semplicissimo ad uno dei principali comandi della legge divina. E vero, molti credono di non venir meno all’osservanza di questo precetto divino, e quasi si offendono se altri loro lo ricorda. Noi, essi dicono, non tocchiamo mai la roba d’altri, — e sarà verissimo, perché non è mai che per violenza o inganno manifesto rapiscano o sottraggano cosa alcuna al prossimo. Ma se pensassero che si può violare in molte altre maniere quel precetto divino, forse troverebbero di non essere sì innocenti come mostrano di credere. Si può recar danno altrui nella roba, e gravemente, senza che ne venga in mano nostra un sol filo. Si può rubare con la lingua, screditando il prossimo; si può rubare con le usure mascherate, col prestare il lavoro, che dobbiamo, inferiore al pattuito; col vendere la merce avariata; col non restituire la roba trovata; col promettere e non mantenere la promessa; col mentire; col calunniare; col non pagare i debiti contratti, o rendersi impotenti a pagarli; col disonorare il prossimo; coll’impedire ingiustamente l’esercizio dei suoi diritti; con l’esigere un prezzo eccessivo, ingannandolo e in cento altri modi, che senza aumentare d’un soldo il nostro avere, danneggia i fratelli nostri. E in ciò possono trasgredire il gran precetto del non rubare non solo i ricchi, ma anche i poveri, e perfino i miserabili. E non sono essi derubatori quei poveri, che potendo vivere col lavoro delle proprie mani, preferiscono vivere di limosine? E simili a costoro non sono quegli operai, che sprecando alla bettola parte del guadagno, costringono le mogli a ricorrere alla carità pubblica per sfamare e vestire i figli? Ah! se il precetto “Non rubare „ fosse inteso a dovere, molti che dicono: “io non ho mai tolto nulla dell’altrui”, dovrebbero chinare vergognosa la fronte e confessare d’avere ingiustamente danneggiato altri, e non poco, e questo è pur uno dei tanti modi, coi quali si trasgredisce il settimo comandamento. Io penso che come non è esagerazione il dire che ogni uomo è bugiardo (lo dice lo Spirito Santo), così non è esagerazione il dire che ogni uomo più o meno ruba, o col togliere l’altrui o col recargli danno. – E non basta per l’Apostolo il non rubare egli esige dai suoi figliuoli prima il fuggire il male, poi fare il bene, e soggiunge questa bellissima sentenza, che è rivolta a tutti, senza eccezione, e che vorrei scolpita negli animi vostri in guisa che non la dimenticaste giammai. Sentitela: “Ciascuno fatichi con le proprie mani, lavorando in qualche opera utile per avere di che soccorrere chi soffre bisogno.„ Oh! dottrina, oh! verità sublime, promulgata da quell’Apostolo, che lavorava con le proprie mani per mangiare il suo pane senza essere di peso a chicchessia e sovvenire ai poverelli! Il lavoro, o cari, è legge naturale e divina, imposta a tutti, poveri e ricchi, uomini e donne, deboli e robusti, istruiti e non istruiti. Nessuno è dispensato da questa gran legge, fosse il maggior ricco della terra, il più possente dei monarchi. Sono e debbono essere diversi i lavori, perché così esige la natura delle cose, ma non vi è un solo uomo che sia affrancato da questa legge universale. Sapete a quale pena il nostro Apostolo condanna l’ozioso? Uditela, e non dimenticatela mai: “Chi non lavora non mangi — Qui non laborat non manducet. „ Dilettissimi! Se noi volgiamo intorno gli occhi per le nostre città, per i ritrovi, per certe sale e per certe bettole, ed anche per le nostre borgate, quanti oziosi! Quanti ricchi e quanti poveri, quanti uomini e quante donne che consumano le ore e le giornate in turpe ozio, che si corrompono nei vizi, figli dell’ozio, che muoiono nell’inerzia e nella noia! Vergogna! O uomo, chiunque tu sia, ricorda che l’uccello è nato al volo e l’uomo al lavoro, come ti grida Giobbe. A che ti son date codeste braccia, codeste mani, se non per il lavoro? Adamo innocente doveva lavorare nel luogo di delizie, in cui Dio l’aveva collocato; e tu, colpevole, tu, condannato al lavoro, divenuto anche pena ed espiazione, vorresti sottrarti? — “Io non ho bisogno del lavoro per vivere” – mi risponde taluno ricco. — Tu dunque sei un essere parassita, che vivi a spese d’altri; tu mangi il pane d’altri, e l’altrui sudore ti nutre! Vergognati! Non credere di poter fuggire alla condanna dell’Apostolo, che è condanna di Dio. Il lavoro altrui accumulò le ricchezze che hai, e l’ozio tuo le disperderà e, se non tu, i tuoi figli, come dice la Scrittura, vedranno la povertà assisa sulla soglia della casa tua. –  Non hai bisogno di lavorare per vivere; sia. Ma guardati d’intorno, e vedrai moltissimi dei fratelli tuoi, ai quali il lavoro delle loro braccia non basta a fornire uno scarso pane e un povero vestito: lavora per essi. — Io credo che prima di S. Paolo nessuno mai sulla terra abbia pensato e molto meno esortato persona a lavorare per avere di che sovvenire alle angustie dei poverelli. È un’idea alta, nobilissima, che non poteva spuntare nella mente dell’uomo che sotto la luce del Vangelo. A questa scuola di Gesù Cristo si formarono le sante Elisabetta di Turingia, le Bianche di Castiglia, le Edvigi di Slesia ed altre moltissime, che, nate in mezzo agli agi e collocate sui gradini del trono, lavoravano con le proprie mani affine di vestire i poveri. Qual cosa più bella e più degna d’un ricco e d’una signora che, non avendo bisogno di lavorare per sé, lavorano per gli orfanelli, per gli abbandonati, per gli infermi, per queste moltitudini di sofferenti, che ci circondano? Ecco un’opera di vera fratellanza ed eguaglianza, ecco un socialismo cristiano e santo, che disarmerà il socialismo violento ed iniquo, e che tutti, a qualunque partito siano ascritti, di gran cuore benediranno. Vive ancora una gran dama inglese, vedova d’un uomo di Stato, passata dal protestantesimo alla Chiesa Cattolica, che dà a pigione il vastissimo suo palazzo per mantenere con quelle rendite un centinaio di orfanelle; ed essa si è ritirata in un angolo dei palazzo e lavora con le sue mani per calzare e vestire quelle infelici, che ama come se fossero sue figlie. — Sono miracoli di carità creati dalla parola di Gesù Cristo e del suo Apostolo, che scriveva: “Ognuno lavori con le sue mani in qualche opera profittevole per avere di che sovvenire chi soffre bisogno. „- Ricapitolando l’insegnamento dell’Apostolo, noi porremo ogni studio in spogliarci dell’uomo vecchio, cessando le opere sue, che sono la bugia, l’ira, il furto e l’ozio, e in vestirci dell’uomo nuovo, praticando le opere sue che sono l’amore alla verità e la sincerità, la pazienza e la mansuetudine, il rispetto per la roba d’altri, l’amore al lavoro e la liberalità verso quelli, che lottano coi bisogni e con la miseria.

Graduale
Ps CXV:2
Dirigátur orátio mea, sicut incénsum in conspéctu tuo, Dómine.
[Si innalzi la mia preghiera come l’incenso al tuo cospetto, o Signore.]
V. Elevatio mánuum meárum sacrifícium vespertínum. Allelúja, allelúja [L’’elevazione delle mie mani sia come il sacrificio della sera. Allelúia, allelúia]
Ps CIV:1

Alleluja
Alleluja, Alleluja

Confitémini Dómino, et invocáte nomen ejus: annuntiáte inter gentes ópera ejus. Allelúja. [Date lode al Signore, e invocate il suo nome, fate conoscere tra le genti le sue opere.]

Evangelium
Sequéntia   sancti Evangélii secúndum Matthæum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XXII:1-14
“In illo témpore: Loquebátur Jesus princípibus sacerdótum et pharisaeis in parábolis, dicens: Símile factum est regnum coelórum hómini regi, qui fecit núptias fílio suo. Et misit servos suos vocáre invitátos ad nuptias, et nolébant veníre. Iterum misit álios servos, dicens: Dícite invitátis: Ecce, prándium meum parávi, tauri mei et altília occísa sunt, et ómnia paráta: veníte ad núptias. Illi autem neglexérunt: et abiérunt, álius in villam suam, álius vero ad negotiatiónem suam: réliqui vero tenuérunt servos ejus, et contuméliis afféctos occidérunt. Rex autem cum audísset, iratus est: et, missis exercítibus suis, pérdidit homicídas illos et civitátem illórum succéndit. Tunc ait servis suis: Núptiæ quidem parátæ sunt, sed, qui invitáti erant, non fuérunt digni. Ite ergo ad exitus viárum et, quoscúmque invenéritis, vocáte ad núptias. Et egréssi servi ejus in vias, congregavérunt omnes, quos invenérunt, malos et bonos: et implétæ sunt núptiæ discumbéntium. Intrávit autem rex, ut vidéret discumbéntes, et vidit ibi hóminem non vestítum veste nuptiáli. Et ait illi: Amíce, quómodo huc intrásti non habens vestem nuptiálem? At ille obmútuit. Tunc dixit rex minístris: Ligátis mánibus et pédibus ejus, míttite eum in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium.
Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.” [In quel tempo: Gesú parlava ai príncipi dei sacerdoti e ai Farisei con parabole, dicendo: Il regno dei cieli è simile a un re, il quale celebrò le nozze del suo figlio: egli mandò i suoi servitori a chiamare gli invitati alle nozze; ma questi non volevano andare. Mandò di nuovo altri servitori a dire agli invitati: Il mio pranzo è già pronto: sono stati uccisi i miei tori e gli animali grassi, e tutto è pronto: venite alle nozze. Ma quelli non se ne curarono, e se ne andarono chi alla sua villa, chi al suo negozio. Altri poi, presi i servi di lui, li trattarono a contumelie e li uccisero. Udito ciò, il re si sdegnò: e mandate le sue milizie sterminò quegli omicidi e dette alle fiamme la loro città. Allora disse ai suoi servi: Le nozze sono pronte, ma quelli che erano stati invitati non furono degni. Andate, dunque agli angoli delle strade e quanti incontrerete chiamateli alle nozze. E andati i servi di lui per le strade, radunarono quanti trovarono, buoni e cattivi, sí che la sala del banchetto fu piena di convitati. Entrato il re per vedere i convitati, vide un uomo che non era in abito da nozze. E gli disse: Amico, come sei entrato qua, non avendo la veste nuziale? Ma quegli ammutolí. Allora il re disse ai suoi ministri: Legatelo mani e piedi, e gettatelo nelle tenebre esteriori: ivi sarà pianto e stridore di denti. Poiché molti sono i chiamati, e pochi gli eletti.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XXII, 1-14)

Piccolo numero degli eletti

“Molti sono i chiamati, pochi gli eletti”. È questo il grave, il sentenzioso, il tremendo epifonema con cui Gesù Cristo conchiude l’evangelica parabola: “Multi sunt vocati pauci vero electi”. Molli furono infatti i chiamati da un Re che volle solennizzare le nozze del proprio figlio. Alcuni francamente negarono d’intervenirvi, altri produssero scuse di affari di campagna, di negozi di città. Uccisero altri i servi mandati ad invitarli. Uno finalmente si presentò, ma senza veste nuziale, e tutti questi furono per sempre esclusi dal regale convito. Il Re che fa le nozze al proprio figlio è l’eterno Padre, il figlio è Gesù che ha sposato l’umana nostra natura unendola con unione ipostatica alla sua divinità. Negl’invitati a queste mistiche nozze, vale a dire alla fede e alla penitenza, sono espressi gl’increduli che con franca negativa si rifiutano: in quei che allegano scuse, i peccatori che da un tempo all’altro differiscono la loro conversione: negli uccisori dei servi, quei che soffocano le sante ispirazioni e i movimenti della grazia: finalmente in colui che s’introduce senza veste nuziale, quegli infelici privi della carità e della santificante grazia.Che meraviglia perciò che pochi siano quei che si salvano, se la moltitudine dei chiamati si oppone ai disegni, ai desideri di Dio che li vuol salvi? Questa formidabile verità, che pochi sono fra i cristiani adulti quei che si salvano, io prendo a dimostrarvi con la ragione e con l’autorità. Udite, o fedeli, il soggetto del mio e del vostro salutare spavento.

I. Il Regno dei cieli ci vien rappresentato nel S. Vangelo a guisa di alta rocca da vincersi a forza d’armi, da conquistarsi con violenza d’estremo valore. “Regnum cœlorum vim patitur, et violenti rapiunt illud(Matt. XI, 12). Ora una rocca è difficile a superarsi quando vi concorre l’arduità del sito, la moltitudine dei nemici, la debolezza degli assediatori. L’arduità del sito, primamente non può esser maggiore. Si tratta di salire al cielo nel regno di Dio e dei beati, ov’essi son giunti a stento per molte tabolazioni, per il disprezzo del mondo, per l’austerità della vita, per l’esercizio della penitenza, per le sofferte persecuzioni, per lo spargimento del sangue, pel sacrificio della vita. Senza violentar se stesso non può lo spirito sollevarsi da terra. Il corpo è un peso che tira al basso. “Una pietra dice S. Tommaso, perché dall’alto d’una torre discenda a terra, non ha bisogno di forza, basta aprir la mano; ma perché da terra arrivi alla cima, onde discese, è necessaria forza di braccio e destrezza di mano”. “Facilis discensus Averni” (Virgil.), l’intese anche un Gentile, ascender su per le vie del cielo, “hoc opus, hic labor”. L’acque del fiume Giordano secondo la natural pendenza andavano a seppellirsi nel mar morto; per far che con corso retrogrado tornassero addietro fu necessaria l’arca del Signore e l’opera dei sacerdoti. Per andar dopo morte a seppellirsi nell’inferno, basta lasciare operar la natura; e la natura corrotta, i sensi e le malnate passioni ci porteranno infallibilmente laggiù; ma per tornare alla nostra sorgente, al nostro principio, che è Dio, ci vuol la forza e l’efficacia della sua grazia e la nostra cooperazione, conviene vincere le ritrosie della guasta natura, superare gli ostacoli al bene, l’inclinazione al male, mortificare l’opere della carne, vivere secondo lo spirito e menar sulla terra una vita celeste. – Cresce la difficoltà per la moltitudine dei nemici. La vita dell’uomo, dice il Santo Giobbe è una vera milizia su questa terra. “Militia est vita hominis super terram” (Cap. VII, 1). Bisogna star sempre con l’armi alla mano, ed oh con quanti nemici abbiamo a combattere! Nemici interni, nemici esterni, nemici visibili, nemici invisibili: tutti i sentimenti del nostro corpo sono altrettanti nemici, tutte le nostre passioni, l’irascibile, la concupiscibile, la superbia, l’avarizia, la gola, l’invidia, sono fiere racchiuse nel serraglio del nostro cuore, che ci fa sentire i loro ruggiti, e ci minacciano dei loro morsi: nemico l’intelletto facile a deviare dal vero, soggetto a mille impressioni malvagie, nemica la memoria fomento di perverse rimembranze, nemica la volontà inclinata ad ogni specie di male. Si aggiunge all’esercito di tanti nemici il mondo, il demonio, la carne, i mali esempi, i cattivi consigli, le false massime, l’erronee dottrine, i libri seducenti, gli scandali passati in costume. Oh Dio, quanti inciampi, quanti pericoli, quanti lacci! Di questi lacci vide S. Antonio Abate tutta sparsa la faccia della terra, e S. Agostino forse alludendo a questa visione, “ecco, dice, il mondo ha teso innanzi ai nostri piedi infiniti lacci; e chi potrà scansarli?” “Ecce ante pedes tetendit laqueos infinitas, et quis effugiet? (Apud Rossig.). – Cresce vieppiù la difficoltà di conquistare il regno dei cieli per la debolezza dei combattenti. Chi più debole ed incostante dell’uomo? Una canna è di lui men fievole, un vetro è di lui men fragile. Mirate i nostri progenitori nel terrestre paradiso, creati nell’originale giustizia, senza stimolo di passioni; e pure la vista di un pomo, due parole del demonio nascosto nel corpo di un serpente, bastarono a sedurli ed a farli prevaricare. Mirate Saul prima da Dio eletto e a Dio fedele e poi disubbidiente e riprovato. Davide santo, Profeta, uomo secondo il cuor di Dio, per uno sguardo diviene adultero e omicida; Giuda, oggi Apostolo, domani apostata; Tertulliano prima padre della Chiesa, apologista della religione cristiana, indi eretico Montanista; Lucifero, famoso Vescovo di Cagliari già difensore della fede cattolica, e dopo morto scismatico. Io vidi, dice S. Agostino, cadere a terra cedri del Libano, colonne della Chiesa, condottieri del gregge di Cristo, della rovina dei quali non avrei mai ammesso minimo dubbio, siccome mai avrei dubitato di un Gregorio Nazianzeno e di un Ambrogio. Oh Dio! quanto è grande, quanto è deplorabile l’umana fragilità! Chi si terrà sicuro? Chi si fiderà delle proprie forze? Chi in vista dell’altrui rovina non temerà della propria?

II. Che pochi siano quei che van salvi, dopo la ragione ce ne convince l’autorità. Apriamo le divine Scritture e riscontriamo prima le immagini che al dir dell’Apostolo “in figura facto, sunt nostri, (ad Cor. X, 6), poi le sentenze che comprovano questa spaventosa verità. Dal diluvio universale, che affogò tutta l’umana generazione, quanti furono gli scampati? Solo otto persone, Noè, e la sua famiglia. Dall’incendio delle popolose città di Pentapoli quanti fuggirono? Quattro soltanto. Lot con la consorte e due sue figlie. Di seicento mila Israeliti abili all’armi, senza contar le donne e i fanciulli, usciti dall’Egitto per entrare nella terra promessa, quanti vi posero piede? Due soli, Giosuè e Caleb. Molte, dice Gesù Cristo nel Vangelo di S. Luca, furono le vedove in Israele ai tempi d’Elia angustiate per la gran fame, e ad una sola, la vedova di Sarepta, fu recato soccorso. Molti furono i lebbrosi nei giorni d’Eliseo, e uno solo fu risanato, cioè Naaman Siro. La terra è infetta dai suoi abitatori, soggiunge Isaia, e perciò sulla faccia della medesima si spargerà la maledizione a sterminarla. Pochi restarono ad abitarla “relinquentur homines pauci(XXIV, 6), e saranno tanto pochi che potranno rassomigliarsi a quelle rare e poche olive che restano sull’albero dopo essere stato bene scosso e perticato, e a quegli scarsi grappoli d’uva che in un’abbondante vendemmia sfuggono all’occhio dell’attento vignaiuolo. Tutti corrono al pallio, ricorda San Paolo, ma uno solo è quello che arriverà a conseguirlo, “omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium(1 Cor. IX, 24). E giacché di S. Paolo abbiamo fatto menzione, udite come parla di sé questo vaso di elezione, questo grande Apostolo già rapito fino al terzo cielo. “Miei cari, per grazia di Dio la mia coscienza di nulla mi rimorde”, “nihil mihi conscius sum(1 Cor. IV, 4), ma non per questo mi tengo per giusto, “sed non in hoc iustificatus sum”. Anzi castigo il mio corpo per tenérlo a guisa di schiavo insolente soggetto alla ragione ed alla fede, perché temo che procurando con la mia predicazione l’altrui salvezza, io non divenga un misero riprovato, “ne cum aliis prædìcaverim, ipse reprobus efficiar (1 Cor. IX, 27). – Ma che cercare esempi e figure quando in chiari termini precisi parla l’Incarnata Sapienza, la stessa Verità, Cristo Gesù? Interrogato Egli se pochi sono quei che si salvano, “si pauci sunt qui salvantur(Luc. XV, 24)? Rispose: “Angusta è la porta del cielo, fate ogni sforzo per entrarvi”, “contendite intrare per angustam portam”,così in S. Luca. Passate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa è la strada che mena alla perdizione, e molti son quelli che per questa si avviano, “et multi sunt qui intrant per eam. E di nuovo esclamando ripete: “oh quanto è stretta la porta e angusta la strada che conduce alla vita!” e pochi son quei che a questa si appigliano, “et pauci sunt qui inveniunt eam” (Cap. VII, 14).  Così in S. Matteo in somma conchiude, “molti sono i chiamati alla fede, alla penitenza, alla salute, ma pochi sono gli arrendevoli a queste chiamate, per conseguenza pochi sono gli eletti” “multi sunt vocati, pauci vero electi(Matt. XX, 10). A questa irrefragabile autorità appoggiati i santi Padri Agostino, Girolamo, Gregorio, Crisostomo, Anselmo, Efrem, Teodoro, Basilio, tutti concordano che dei cristiani adulti che possono con la libertà dell’arbitrio cooperare alla propria salute, il maggior numero sia dei reprobi, non degli eletti. Per non esser prolisso non vi reciterò le loro sentenze: basterà per tutti S. Giovanni Crisostomo. Predicando questi nella gran città di Costantinopoli, tutta allora cristiana, città la più numerosa di popolo dopo Roma, arrivò a dire che di una sì vasta popolazione, appena cento avrebbero nozione, e di questi cento aveva pure alcun dubbio: “Non possut in tot millibus inveniri centum qui salventur, quia et de his dubito”. Forse allora era meno corrotto il costume. E che avrebbe detto ai tempi nostri in vedere la religione derisa, la devozione schernita, la Chiesa perseguitata, la bestemmia in costume, la disonestà in trionfo, la sevizia dei mariti, l’infedeltà delle mogli, fuggita la frequenza nei divorzi, la scostumatezza dei figli, la licenza delle zitelle, la frode nei contratti, l’usura nei prestiti, la prepotenza nelle liti, la facilità negli spergiuri, la profanazione delle Chiese, lo scandalo delle mode, lo scandalo nelle pitture, lo scandalo nelle canzoni, nei libri osceni, nei libri eretici? Mio Dio, che torbido rovinoso torrente d’ogni iniquità inonda la terra! E dopo ciò; farà sorpresa il dire che pochi si salvano? Ah, miei dilettissimi, se per bene vostro io vi son cagione di spavento, perdonate per pietà, ad uno ch’è più di voi spaventato: “Territus, terreo(D. Aug.). – Misero me! mi salverò? mi perderò? Sarò nel numero dei pochi salvi? O in quello dei molti riprovati? Io son vicino alla tomba, i capelli son bianchi, le forze mancano, la vista è debole, poco mi resta di vita. Che sarà di me al tremendo giudizio di Dio? Che sentenza mi toccherà? Propizia o contraria? Se do uno sguardo alla mia coscienza aggravata di tante colpe, se rifletto alla difficoltà della salute, io mi do per perduto. La divina giustizia io l’ho irritata: la divina misericordia non me la rendo propizia. Fui peccatore, son peccatore, non rimedio al passato, non profitto del presente, non provvedo all’avvenire. Ah! che dovunque mi volgo non trovo che oggetti di spavento e di disperazione. In tanto orrore di me stesso mi resta una sola speranza: Maria, rifugio dei peccatori, mi getto aI vostri piedi, mi nascondo sotto del vostro manto, difendetemi dalla giusta collera di un Dio da me troppo indegnamente offeso! In questo giorno in cui tutto il popolo cristiano a voi ricorre e tanto vi onora, [cadeva in questa domenica la solennità di Nostra Signora del Rosario], non rigettate dal vostro cospetto un peccator ravveduto. Madre dolcissima, avvocata dei peccatori, difendete la mia causa, dite al vostro Figlio che son pentito delle mie colpe e delle sue offese, che più non peccherò, che voglio da qui innanzi vivere nel numero de1 pochi per salvarmi coi pochi. Pochi sono i cristiani timorati, casti, sobri, pii, giusti, umili, limosinieri, devoti, sarò di questo numero? Se il mondo è perverso e pervertitore, ne starò lontano; vivrò come Abramo in mezzo ai Caldei, vivrò come Tobia nella prevaricazione d’Israele, avrò sempre vivo alla mente il ricordo di S. Giovanni Climaco: “Vive cum paucis, si vii regnare cum paucis”.

Credo …

Offertorium
Orémus
Ps CXXXVII:7
Si ambulávero in médio tribulatiónis, vivificábis me, Dómine: et super iram inimicórum meórum exténdes manum tuam, et salvum me fáciet déxtera tua. [Se cammino in mezzo alla tribolazione, Tu mi dai la vita, o Signore: contro l’ira dei miei nemici stendi la tua mano, e la tua destra mi salverà.]

Secreta
Hæc múnera, quǽsumus, Dómine, quæ óculis tuæ majestátis offérimus, salutária nobis esse concéde. [Concedi, o Signore, Te ne preghiamo, che questi doni, da noi offerti in onore della tua maestà, ci siano salutari.]

Communio
Ps CXVIII:4-5
Tu mandásti mandáta tua custodíri nimis: útinam dirigántur viæ meæ, ad custodiéndas justificatiónes tuas. [Tu hai ordinato che i tuoi comandamenti siano osservati con grande diligenza: fai che i miei passi siano diretti all’osservanza dei tuoi precetti.]

Postcommunio
Orémus.
Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et tuis semper fáciat inhærére mandátis.
[O Signore, l’opera medicinale del tuo sacramento ci liberi benignamente dalle nostre perversità, e ci faccia vivere sempre sinceramente fedeli ai tuoi precetti.]

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO: UNITÀ DELLA CHIESA

Gregorio XVII: Il Magistero impedito

UNITÀ DELLA CHIESA

[«Renovatio», II (1967), fasc. 4, pp. 507-508]

Il discorso è opportuno, se non necessario, perché in qualche momento si fa insistente la menzione della «chiesa locale» o «particolare». Le chiese locali sono sempre esistite; pertanto se il discorso circa le medesime si fa più insistente, una ragione ci deve essere. E bisogna che la ragione sia buona. Perché sia tale, nulla c’è di meglio che richiamare la idea da Cristo lasciata circa la unità della Chiesa. Con questa idea ben chiara, diventa subito chiaro il concetto del «ruolo» nelle «chiese particolari». Anzitutto il Fondatore della Chiesa ha parlato sempre di un «solo» Regno. Pertanto la «unità» della Chiesa, ne vuole la «unicità». – Cristo non ammette moltiplicazioni del Suo Regno, nel senso vero e proprio. Ma ha voluto, non meno, la «unità» interna della Chiesa. Ciò in due modi essenziali. Il primo è la unità della «Fede». Si tratta del consenso nella stessa «idea», semplice e complessa ad un tempo, organica e ricchissima, quale Egli ha rivelato. Ha chiesto l’adesione della mente (tale è appunto l’atto di fede) ad un’unica verità, da Lui proposta, intangibile, immutabile, anche se indefinitamente sempre più intelligibile, garantita per di più dalla esistenza di un Magistero infallibile, perfettamente individuato. Il Magistero ha proprio la funzione di assicurare, nella variazione delle circostanze e nella ricchezza delle deduzioni od applicazioni, la perenne unità della fede, nel tempo e nello spazio. – Il secondo è la unità del regime. Infatti ha dato alla Sua Chiesa un Primate, un capo munito di impressionanti poteri: Pietro. Il Collegio stesso dei Vescovi trova la sua operante unità nell’essere con questo Capo. Tutto ciò significa appunto la unità del regime. E la unità interna della Chiesa, che si lega indissolubilmente con la unicità. – Messo ben chiaro il pensiero di Cristo, diventa chiaro il concetto della Chiesa locale. La Chiesa locale è «in sé», ma non è «a sé». Essa poggia sulla istituzione dell’episcopato monarchico, al punto che non esisterebbe, nella attuale costituzione della Chiesa, senza l’episcopato. La presenza del Vescovo – non di un qualunque presidente – dà alla Chiesa particolare una consistenza «in sé stessa», perché il Vescovo succede nell’apostolato e ne porta con sé, ben oltre una semplice delegazione, i poteri sufficienti a costituire una organica operante comunità, che insieme cammina verso la eterna salute. La Chiesa locale, tuttavia, non è «a sé». Ciò perché il Vescovo, ogni Vescovo, tanto come capo di una definita e limitata comunità particolare, quanto come membro del Collegio episcopale fa capo a Pietro. – Vediamo ora la Chiesa locale sotto il profilo della «unità interna» della Chiesa cattolica. La Chiesa locale, per quanto portatrice anch’essa della divina Tradizione, per quanto attrice anch’essa di un consenso esplicativo, deduttivo, applicativo delle verità della Fede, non fa da sola il Magistero infallibile. Questo, nella sua forma ordinaria, richiede un consenso e questo consenso fa capo ad un vertice necessario: Pietro. Nella forma solenne il Magistero sta in Pietro e, quando sta nel Collegio episcopale, ha bisogno di Pietro. Nell’aspetto più profondo e delicato del suo essere, in quello cioè della Fede, della idea, della concezione di tutte le cose relative alla salvezza eterna, la Chiesa locale non è valevole da sé, deve far capo a Pietro. La Chiesa locale, per quanto capace in se stessa di un regolamento disciplinare e questo a causa della nozione dell’episcopato come lo ha voluto Cristo (come stato storicamente attuato), deve far capo a Pietro. – Pietro è il centro della unità, ne è il vertice al disotto di Cristo Signore, ma è anche il limite divinamente posto alle competenze particolari, alle insofferenze particolari, quali talvolta per difetto d’uomini si possono rivelare. – La Chiesa locale non è solo elemento di «aggregazione», tanto meno è solo elemento soltanto «federativo»; essa è, per divina volontà, elemento di un organismo che si riduce alla unità in un punto solo. Esattamente come ha scritto al secolo secondo nel suo Adversus Hæreses, Ireneo, Martire e Vescovo di Lione.

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (11), capp. XX-XXI

CAPITOLO XX.

MARTIRIO DEL BUON LADRONE.

  1. Disma può egli veramente chiamarsi martire? Tre condizioni richieste per il martirio. — Sentenze di S. Cipriano, di S. Agostino, di S. Girolamo, di S. Bernardo. La rottura delle gambe e delle cosce ordinata in odio di Gesù Cristo. — Il Crurifragium o supplizio distinto dalla crocifissione. — Esempi di questo presso i pagani. — La legge dei giudei non lo comandava. — Testimonianza di Origene.—-La consuetudine non lo autorizzava.— Belle spiegazioni dei Padri. — Sapiente riservatezza della Chiesa Romana. — Essa autorizza l’ufficio del Buon Ladrone sotto il nome di confessore. — Decisione della S. Congregazione dei Riti.

Per fare di s. Disma un capolavoro compiuto della bellezza morale, sembra che manchi una perla alla sua corona. Questa perla è la più preziosa di tutte; poiché essa sola fa brillare di tutto il loro splendore le virtù eroiche del coronato atleta: noi vogliam dire il martirio. Tale e tanto ne è il valore, che esso basta a far glorioso il più umile cristiano, al di sopra di tutti i santi dottori, pontefici, anacoreti, missionari che non siano martiri. Ed una simile gloria manca forse al nostro beato? Ce lo dirà la risposta alle seguenti interrogazioni. Quali sono le condizioni richieste pel martirio? Sono esse concorse nella morte di Disma? – Secondo la Teologia Cattolica tre cose costituiscono il martirio. Soffrire la morte o i tormenti capaci di produrla; soffrirla volontariamente; soffrirla per difesa della vera fede, o di altra virtù cristiana. Data appena una tale definizione, tosto vi ha chi risponde: S. Disma non fu martire. I suoi patimenti non furono volontari, né egli li soffrì per la difesa della fede. Il gran martire di Cartagine, s. Cipriano, replica molto a proposito. « Nella passione di questo Ladrone bisogna distinguere due tempi, due uomini, ed il sangue Dell’uno da quello dell’altro. Il sangue ch’ ei versò prima della dichiarazione di sua fede fu il sangue del ladro; e dopo quella dichiarazione fu il sangue di un Cristiano. Il sangue del ladro fu la pena dei delitti; ma il sangue del ladro versato nella confessione della fede cristiana, per affermare la divinità del Figlio di Dio, fu il sangue di un confessore »  [De Cœn. Doni., apud Orilia, p. 223, et Cor. a Lapid., in Luc., XXIII, 42]. S. Agostino riporta la sentenza del suo illustre collega dicendo: « Il Ladrone, non discepolo di Nostro Signore prima della croce, ma confessore sulla croce, è posto da S. Cipriano nel numero dei martiri. In vero per aver confessato Gesù Crocifisso, egli si ebbe ugual merito che se fosse stato crocifisso per Gesù. La misura dei martire si ritrova in colui che confessa Cristo nel momento in cui lo abbandonarono coloro che un giorno sarebbero stati martiri » [De anim. et ejus orig., lib. I, n. 11, Opp., t. X, p. 700]. In altro luogo Io stesso dotto Vescovo si esprime cosi: « Il Ladrone eletto già prima di esser chiamato, non ancor servo e già amico, non ancor discepolo e già maestro, da ladro diviene confessore. Senza dubbio; da ladro incomincia il suo supplizio, ma per un prodigio ineffabile il consuma da martire » [Serm. cxx, De Tempor.] – Lo stesso pensiero troviamo in S. Girolamo « Il Ladrone, dice il gran Dottore, cangia la croce per il paradiso, e della pena dei suoi omicidi fa un martirio. » [Epist. XIII, Ad Paulin.]. – Ascoltiamo ora S. Bernardo. « O beatissimo ladro… che dissi mai? non ladro, ma martire e confessore! Egli fa liberamente della necessità virtù, e muta la pena in gloria, e la croce in trionfo. In voi fortunatissimo confessore e martire, raccoglie il Salvatore le reliquie della fede in mezzo al mondo intero, che non ne ha più. I discepoli fuggono, Pietro rinnega, e voi aveste la sorte di essere il compagno di sua passione. Sulla croce voi foste Pietro, e nella casa di Caifa Pietro fu il ladro. E Pietro fu ladro per tutto quel tempo che ascondendo interamente quel ch’egli era, esternamente rinnegava il suo divino Maestro. Or ecco perché voi avete preceduto Pietro nel Paradiso. Imperciocché Colui che abbracciandovi sulla croce, divenne vostro capo e vostra guida, il giorno stesso in cui rientrò nel suo regno, in quello seco v’introdusse suo fedele e glorioso soldato. » Eccovi delle autorità, certamente rispettabili, che non esitarono di dare al nostro Santo il titolo di martire. Glielo danno perché ha sofferto almeno in parte il supplizio della croce confessando la divinità di Nostro Signore. Per assicurare a Disma questo titolo glorioso, faremo parola di un altro supplizio che gli venne inflitto a punizione della sua professione di fede. Intendiamo parlare del crurifragium o rottura delle gambe e delle cosce. – La crocifissione e la rottura delle gambe, erano due supplizi distinti. Uno non traeva seco necessariamente l’altro. La storia profana ce ne fornisce moltissime prove. « Augusto, scrive Svetonio, avendo scoperto che Thallo, suo segretario, aveva dato una lettera e ricevuto per essa cinquecento denari, gli fece romper le gambe e le coscie l. » [In Aug., c. LXVIII] Il medesimo autore narra come Tiberio facesse romper le gambe a due giovani, perché avevano rinfacciato a quel vile tiranno un turpe delitto. In Seneca leggiamo che Silla trattò nella stessa guisa Marco Mario Gratidiano. [De ira, III, c. XVIII.] – Nè il Crurifragium era proprio dei soli romani. Questo genere di supplizio era in uso presso gli altri popoli dell’antichità. Polibio riferisce che in Africa una popolazione ribelle, essendosi impadronita dei cittadini più illustri di Cartagine, li mutilò rompendo loro le gambe, e gettandoli semivivi in un fosso. Inutile è l’aggiungere che la stessa tortura fu largamente adoperata a riguardo dei martiri. Fra gli altri molti, gli atti di s. Adriano ne offrono un esempio, che può dare un’idea della crudeltà dei tiranni imperiali e della costanza dei confessori della fede. Tutti questi fatti ci mostrano che la rottura delle gambe aveva luogo alcuna volta senza il supplizio della crocifissione; e quelli che abbiamo citati antecedentemente ci hanno mostrata la crocifissione senza la rottura delle gambe. I popoli antichi erano sì poco premurosi di affrettar la morte dei crocifissi, che li lasciavano spirar sulla croce il più lentamente possibile. Così volevasi dal legislatore che si aggravassero i loro patimenti, e si prolungasse la lezione di terrore data col loro supplizio. Per accelerare la loro morte, era necessario, dicono gli antichi giureconsulti Paolo ed Ulpiano, che ricorresse l’anniversario della nascita del principe, o la domanda dei parenti, o qualche altra grave ragione; altrimenti si lasciavano imputridire sulla croce. Come presso i pagani, così presso i Giudei, il Crurifragium non era la conseguenza necessaria della crocifissione. In alcun luogo si trova indizio del contrario, e il testo del Deuteronomio che regola il supplizio della croce, non ne fa motto. Eccolo: « Quando un uomo avrà fatto un peccato da punirsi colla morte, e condannato a morire, sarà stato appeso al patibolo, non rimarrà sul legno il suo cadavere, ma sarà sepolto lo stesso dì; perché è maledetto da Dio chiunque è appeso al legno: e tu non dei contaminar quella terra, di cui il Signore Dio tuo ti avrà dato il possesso. » [XXI, 22-23]. La legge ordinava di deporre il cadavere dei crocifissi prima della fine del giorno, ma essa punto non dice che a farli morire innanzi all’ora stabilita, si dovessero spezzar loro le gambe e le cosce. Ma almeno era forse consuetudine ricorrere a quel barbaro mezzo? Nulla ci autorizza a pensarlo; anzi sembra chiaramente risultare il contrario dal testo evangelico. Ascoltiamo Origene, così vicino al tempo di Nostro Signore, e tanto pratico degli usi dell’Oriente. Su queste parole di s. Giovanni: i Giudei pregarono Pilato che fossero ad essi rotte le gambe e fossero tolti via, egli dice: « Un tal fatto ebbe luogo il giorno della morte di Nostro Signore Gesù Cristo; ma per ordinare che ad esso fossero spezzate le gambe. Pilato non invoca la consuetudine. L’Apostolo lo fa ben rilevare, dicendo che coloro pregarono Pilato che fossero ad essi rotte le gambe e fossero tolti via. Era forse necessario di andare a chiedere una tal cosa come una grazia, se tale, fosse stata la consuetudine? » [Tract. XXXV, in Matth.]. Col domandare questo crudele supplizio, i Giudei operavano ancora contro la consuetudine. Questa consisteva nel dare al condannato, del quale si voleva accelerare la morte, un colpo di lancia sotto le ascelle verso la regione del cuore; e questa era una maniera meno barbara di togliergli la vita. Noi dobbiamo ad Origene questi dettagli, il quale vivendo al tempo delle persecuzioni, conosceva meglio degli altri i particolari dell’esecuzioni capitali. Da qui la sorpresa di Pilato venendo a conoscere la pronta morte di Nostro Signore. Dall’un canto per piacere forse ai Giudei, non aveva egli dato l’ordine dell’ordinario colpo di lancia al Salvatore; dall’altro, egli sapeva che i crocifissi vivevano sulla croce, non solo alcune ore, ma dei giorni e delle notti intere. Fu perciò grande la sua meraviglia, quando il centurione, inviato per rompere le gambe ai condannati, venne ad annunziargli che Gesù era morto prima di questo supplizio. Quanto al colpo di lancia dato al Salvatore, oltre le ragioni misteriose, con le quali il permise la provvidenza, esso si spiega per la consuetudine che abbiamo accennata. Per assicurarsi se Nostro Signore fosse veramente morto, e togliere ad esso lui l’ultimo soffio di vita che gli poteva ancor restare, il soldato fece a riguardo suo ciò che era in uso di farsi pei condannati alla croce. Sotto una forma diversa, la consuetudine di cui parla Origene erasi conservata nell’antica legislazione penale delle nazioni europee. Al reo condannato ad aver rotte le gambe, il carnefice cominciava dal dare un colpo alla parte del cuore per ammortire il dolore dello spezzamento delle gambe e delle braccia. Nel caso poi, in cui il condannato meritasse di soffrire più a lungo, il colpo al cuore non si dava che in ultimo luogo. Questo era quello che chiamasi colpo di grazia. Ora perché mai, in luogo del colpo di lancia, i capi della Sinagoga chiedono che siano spezzate le ossa? Senza dubbio per rodio che portavano a Nostro Signore, e particolarmente al Buon Ladrone. Non avevano dimenticato che se essi avevano voluto far cambiare lo scritto da soprapporsi alla croce, che dichiarava la regia condizione del Salvatore, Disma aveva dal canto suo giustificata la dichiarazione di Pilato, ed accusato perciò i Giudei del più enorme degli attentati. La rottura delle ossa doveva punire il di lui coraggio. – Che tale si fosse la intenzione degli Ebrei, i Padri della Chiesa mostrano di non dubitarne: « Andarono pertanto i soldati, dice il Vangelo, e ruppero le gambe al primo e all’altro che era stato crocifisso con lui. » Secondo Luca di Burgos il primo indica il Buon Ladrone, crocifisso alla destra di Nostro Signore, e che respirava ancora, « E perché, domanda s. Gregorio Magno, tutte queste minute particolarità? Può mai credersi ch’esse non nascondano un qualche mistero? Perché non dire semplicemente ruppero le gambe ai due ladroni, se ciò non è per indicare nelle parole del primo e dell’altro, un senso occulto? » [Omil. XXII, in Evang.]. E quale è mai questo senso? Eutimio, citato dal dotto P. Silveira, viene a dircelo: « Con questa parola di primo il Vangelo indica il Ladrone crocifisso alla destra di Nostro Signore e convertito. Siccome il giusto è sempre il primo a ricevere i colpi, i Giudei da esso lui incominciarono, irritati com’erano contro di lui per aver presa la difesa del Signore ». Da tutte queste circostanze, il celebre commentatore arditamente conclude, che Disma fu un vero martire, e che i Padri della Chiesa ben si apposero nel dargli un tal titolo. « Pieni di livore, i Giudei cominciarono da lui il crudele supplizio del crurifragium. Ed avendolo Disma sopportato senza lamenti, in continuazione della magnifica testimonianza che egli avea resa all’innocenza ed alla regia qualità di Nostro Signore, io non esito punto a chiamarlo martire coi padri della Chiesa » Non ostante tutte queste testimonianze, noi dobbiamo alla verità della storia dichiarare che, sul martirio di s. Disma, vi han due diversi pareri: l’uno che gli attribuisce la qualità di martire propriamente detto, e l’altro che gliela nega. Nel passato secolo la Congregazione dei Riti prese a discutere siffatta questione, e la sua decisione dà luogo ad ammirare sempre più la prudente riserva della Chiesa Romana. Senza biasimare la opinione dei Padri e dei Dottori che attribuiscono a Disma il titolo di vero martire, la Congregazione adottò per la liturgia la opinione contraria: ed autorizzò 1’ufficio del Buon Ladrone, sotto il titolo di confessore non pontefice. A scanso poi di ogni critica, essa pur’anche soppresse il nome tradizionale di Disma [Vedi Benedetto X I V , De Canon. SS.; lib . IV , part. II, c. XII, n. 10].

CAPITOLO XXI

IMITATORI DEL BUON LADRONE.

(Per imitatori del buon Ladrone intendiamo i grandi peccatori che lo imitarono nella prontezza e sincerità della loro conversione).

 La conversione del Buon Ladrone inspira la fiducia. — Condanna la presunzione. — Espressione di S. Agostino. — Eloquenti parole del vescovo Eusebio. — Incoraggiamenti dati da S. Ambrogio e da S. Agostino. — Esempi di grandi peccatori subitaneamente convertiti. — Il giovane ladro dell’Apostolo S. Giovanni. — Sua storia.

Dopo la riforma del Breviario Romano, l’officio del Buon Ladrone fu primamente richiesto dall’ordine Europeo, sì famoso nella storia della carità cattolica, di Nostra Signora della Mercede, pel riscatto degli schiavi. Qual migliore avvocato, qual più perfetto modello per tanti infelici incatenati nei bagni di Tunisi e di Algeri? La domanda fu appagata da Sisto V. Venne di poi nel passato secolo la Congregazione Italiana dei Pii Operai. In riconoscenza delle molte e strepitose conversioni ottenute nelle missioni, per la intercessione di s. Disma, quei zelanti apostoli domandarono nel 1724 l’autorizzazione di far l’ufficio di quel grande avvocato dei peccatori. Roma accolse la loro domanda, ed il Buon Ladrone divenne il protettore speciale del loro ordine. – Il medesimo favore venne accordato ai Padri Teatini degni figli di s. Gaetano Tiene, non che ai Servi di Maria ed agli Oblati di Marsiglia; eroici missionari dell’America Settentrionale. – Non è dunque l’ammirazione il solo sentimento che ispirar ci deve la conversione del Buon Ladrone: una dolce e salda fiducia nell’infinita misericordia di Dio deve esserne il frutto. Fondata sull’esempio di tante conversioni, questa fiducia ci sembra che sia nei voti della Chiesa. Se non fosse per ispirarla ai suoi figli, peccatori o non peccatori, perché canterebbe ella ai funerali: Qui latronem absolvisti mihi quoque spem dedisti? – Senza dubbio sarebbe sommamente imprudente il peccatore, che incoraggiato dall’esempio di Disma, rimettesse all’estremo della vita la sua conversione. Dall’un canto, chi gli dice, che in quel punto sarà in grado di conoscere il suo stato? « Quegli, dice s. Agostino, che ha promesso il perdono al peccatore, non gli ha promesso il domani. » Qui veniam promisit, crastim non promisit. Dall’altro canto la conversione del Buon Ladrone è un miracolo di prim’ordine. Ma il miracolo è sempre un fatto eccezionale, ed il governo della divina Provvidenza non si fonda sulle eccezioni. Iddio non promette né deve miracoli a chicchessia, e molto meno ancora a chi contasse su tal favore per continuare ad offenderlo. Quindi quell’altra osservazione di s. Agostino : « Dei due ladroni uno si converte, perché non abbiate a disperarvi; ma egli è solo perché non abbiate a presumere: » Unus est ne desperes, solus est ne confidas.Non è dunque, ce ne guardi Iddio, per addormentare in una funesta sicurezza gli innumerevoli peccatori dei nostri giorni, che noi citeremo la subitanea conversione di un certo numero di grandi colpevoli. Nostro fine si è di mostrare non esser mai troppo tardi per tornare a Dio; che la sua misericordia si estende a tutti i secoli, inesauribile, infinita; che non v’ha vita sì rea, la quale non possa finire con una morte santa; che nessun peccatore fosse egli al momento di render l’anima, non deve gettarsi in braccio alla disperazione; e finalmente che l’esempio del Ladrone convertito sulla croce venne lasciato come un’ancora di salute ai peccatori moribondi e prossimi a cadere nell’abisso dell’impenitenza finale. Tale si fu pure l’idea dei Padri della Chiesa. « Iddio, dice il gran vescovo Eusebio, era in Nostro Signor Gesù Cristo riconciliantesi il mondo; vale a dire la divinità operava in un corpo mortale. Appariva la umanità nella fragilità della sua natura; e la divinità si rivelava nella maestà della sua potenza. Uomo, egli muore, e scende all’inferno. Dio, ne ritorna trionfante. Per salvare i colpevoli Ei si lascia collocare in mezzo ai rei; l’uno è alla sua destra, l’altro alla sinistra. Con i patimenti della sua Croce, il Giusto merita la gloria ad uno dei ladri; ma se ci poniamo ben mente, noi vediamo che una tal grazia non fu ad esso concessa per lui solo. Perdonando ad un sì gran colpevole, condonando ad un simile debitore la immensa somma dei suoi debiti, il Dio Redentore ha decretato la salvezza del genere umano. – « Egli vuole che il perdono di un sol disperato sia la consolazione e la speranza di tutto il popolo, e che un dono personale diventi un pubblico beneficio: e perciò bisogna credere senza esitazione, che se la conversione del Buon Ladrone fu la gloria della sua fede, essa è pur anche per noi un pegno di speranza, ed una sorgente di vantaggi. L’immensa bontà del nostro Dio accorda liberalmente ciò che Egli sa dover esser utile a tutti. Se dunque pieno di fiducia in una tale misericordia, qualcuno tra noi condanna la sua vita passata, coll’intraprendere una vita migliore, e se tutta ripone la sua speranza in Gesù Crocifisso, diviene pur esso un Buon Ladrone, che apre a se stesso le porte del cielo » Scrivendo a Teodoro, sì famoso per la sua caduta, s. Gio. Crisostomo gli dice: « Tale è la clemenza di Dio per gli uomini, che non rigetta mai una sincera penitenza. Fosse pur caduto il peccatore nel profondo dell’abisso dell’iniquità, se egli vuol tornare alla virtù Dio lo riceve, lo abbraccia, e nulla tralascia per rimetterlo nel suo primiero stato. Altra prova ancora più grande della sua misericordiosa bontà: se il peccatore non ha fatta una intera penitenza, non ne disdegna Egli una incompleta e leggiera, e magnificamente la ricompensa. Osservate il ladrone. Impiega egli forse gran tempo per ottenere il paradiso? Non più che il momento da poter proferire due sole parole, e tutte le sozzure dell’intera sua vita son cancellate, e prima degli stessi Apostoli è ammesso al premio nel cielo. » – Similmente per mostrare le ricchezze della divina misericordia, confortare la nostra debolezza, e raffermare la nostra speranza, Iddio ha permesso e permette ancora le gravi cadute di molti gran santi. Questo salutare coraggio, s. Agostino ispirava ai peccatori di tutti i tempi, di tutti i paesi, di tutte la classi. « David, diceva quel gran vescovo, David profeta e re secondo il cuore di Dio, proavo del Messia, ha commesso due enormi delitti. Ecco quello che debbono gli uomini evitare. Se poi essi pur caddero, ascoltino quello che debbono imitare. Molti vogliono cadere con David, ma non vogliono rialzarsi con David. Il suo esempio non deve insegnare cadere, ma sebbene a risorgere se mai cadeste. Non sia di gioia ai deboli la caduta dei forti, ma la caduta dei forti sia di timore per i deboli. A questo fine fu scritto l’esempio di David; e solo a questo fine viene spesso ricordato e cantato dalla Chiesa. I peccatori adunque si guardino bene di cercare una scusa nell’esempio del santo re, per dire: se David poté farlo perché non lo potrò io? ».  Proporsi di fare il male perché David il fece, è un rendersi più reo di David. David peccando non si era proposto un modello. Egli cade vinto dalla passione, non già incoraggiato dall’esempio di un santo. Voi per peccare vi ponete un santo innanzi gli occhi, e non por imitarne la santità, ma la rovina. Voi amate in David ciò che David odiò tanto in se stesso. Voi leggete ed ascoltate la santa Scrittura per darvi animo a far ciò che dispiace a Dio. Non così fece David. Egli fu rimproverato dal Profeta, e non cadde per cagione del Profeta. « Se fra coloro che mi ascoltano, vi fosse alcuno che sia già caduto, ei deve sicuramente riflettere alla gravità della sua caduta, alla profondità della sua ferita, ma non disperare della potenza del medico: peccato e disperazione è morte certa. Non vi sia dunque alcuno che dica: Io ho peccato, dunque sarò dannato: Iddio non perdona sì gravi colpe. E perché mi asterrò dal peccare ancora? Mi abbandonerò a tutte le mie passioni. Non avendo più speranza di salvarmi, io voglio godere di quello che vedo, mentre non posso conseguire quello che credo. « L’esempio di David risponde ad un simile ragionamento. Coma ammonisce a stare in guardia quei che non son caduti, così ritrae dal disperarsi coloro che caddero. O voi che avete peccato, e disperando della vostra salute, non volete far penitenza della vostra prevaricazione, ascoltate David che piange. A voi non verrà mandato Nathan profeta, ma è David stesso che vien a farvi coraggio ed a servirvi di modello. Voi l’udite esclamare; esclamate con lui; gemere, gemete con lui; piangere, alle sue unite le vostre lacrime. Voi lo vedete convertito, prendete parte alla sua buona ventura. Se esso non poté impedirvi di peccare, or vi conforti colla speranza di risorgere dalla vostra caduta » [Enarrat. in ps. L, n. 3 et 5. Opp., t, IV , p. 658, 660]. – All’eloquenza delle parole è tempo di aggiungere l’eloquenza dei fatti. Noi li sceglieremo tra tutte le specie di peccatori, per dimostrare che la divina misericordia si estende a tutto ed a tutti, e forse di preferenza ai ladri, e agli assassini. Noi scriviamo la storia del più insigne fra loro, e l’abbiano dedicata ad un gran ladro; poi ci pare che in questa classe di sciagurati il Buon Ladrone debba ricercare i suoi prediletti clienti, perche è ben naturale che i santi provino un particolare interesse per coloro che vengono soggetti alle stesse malattie morali, delle quali furono essi le vittime, e che godano di una speciale virtù di soccorrerli. – Il primo che ci si presenta è il capobanda convertito da s. Giovanni. Come quella di s. Disma, la storia di esso dimostra con qual celerità operi la divina misericordia. – Tornato ad Efeso dopo la sua relegazione all’isola di Patmos, il prediletto discepolo, nonostante la sua grave età, visitava le diverse Chiese dell’Asia, delle quali egli era fondatore e padre. Venuto in una città per regolare alcuni punti di disciplina, e decidere alcune controversie, posò l’occhio su di un bel giovane pieno di vigore e di brio. E voltosi al vescovo gli disse; « Siavi a cuore quel giovane, e su di lui vegliate con la più grande sollecitudine, lo ve lo affido innanzi alla Chiesa ed a Gesù Cristo, » Il vescovo lo prende sotto la sua responsabilità, e promette di fare per lui tutto ciò che gli domanda l’apostolo. S. Giovanni ritorna ad Efeso. Il vescovo prende in sua casa il giovane, Io istruisce, lo sorveglia, lo ricolma di paterne amorevolezze; infine lo ammette al battesimo, più tardi lo conferma col sacro crisma, e credendolo ormai ben’assicurato, rimette alquanto dall’usata sorveglianza. Ne profitta il giovane per vivere con maggior libertà, e ben tosto si lega in amicizia con altri giovani dell’età sua, oziosi, infingardi e dati ad ogni maniera di vizi. Questi nuovi compagni lo invitano a conviti e stravizzi, e lo fanno suo malgrado uscir di casa la notte per renderlo complice dei loro furti, e fargli animo a commettere maggiori delitti. Egli man mano vi si abitua, e pieno di coraggio e di confidenza nelle sue forze, come il cavallo che ha rotto il morso, si getta nell’abisso di tutti i vizi. Disperando poi della sua salute, non fa più conto alcuno dei delitti ordinari, e di accordo coi suoi compagni si avvisa di diventare un eroe del delitto. Riunisce infatti intorno a se e forma una banda di ladri, dei quali per la sua audacia, abilità e crudeltà divenne il capo. In questo mezzo, s. Giovanni da diversi affari è richiamato alla città, nella quale aveva conosciuto quel giovane, e dirigendosi al vescovo; « Rendimi, gli disse, il deposito che ti affidai alla presenza di Gesù Cristo e della chiesa della quale hai il governo. » Il vescovo meravigliato Don comprese, e credé che l’Apostolo gli richiedesse qualche somma di danaro deposto nelle sue mani, del quale non aveva tenuto alcun conto. « Io ti ridomando, riprese allora a dir s. Giovanni, quel giovine che ti confidai, ti chiedo l’anima del tuo fratello. » A queste parole il vecchio pastore chinò il capo e si pose a piangere. « Egli è morto, disse. — Come e di qual genere di morte? — È morto a Dio. Coperto di delitti; immerso nei vizi, si è fatto pubblico ladro e assassino. In luogo della Chiesa, nella quale abitava, ora occupa una montagna, ov’è alla testa di una banda di briganti suoi pari. » A tale notizia l’Apostolo lacerò le sue vesti, e dato un gran sospiro battendosi il volto con ambe le mani esclamò : « Veramente ad un buon guardiano confidai l’anima di tuo fratello! Or subito, mi si prepari un cavallo ed una guida. » E frettolosamente uscì dalla Chiesa. Or vedete s. Giovanni, il ben amato discepolo, già più che nonagenario, correre dietro alla pecorella smarrita! Giunto sulla montagna, egli cade nelle mani dell’avamposto dei masnadieri che l’arrestano senza che ei pensi né a fuggire né a difendersi : « E per questo io son venuto, gridò con tutta forza, conducetemi al vostro capo. » Questi armato di tutto punto, lo attendeva, e accortosi che era s. Giovanni che veniva a lui, vinto dalla vergogna prese la fuga. Ma l’Apostolo dimentico dell’età sua si pose a correre dietro i suoi passi gridando: « Figlio mio, perché fuggi tuo padre ch’è senz’armi e rotto dagli anni? Abbi compassione del mio affanno e della mia stanchezza. Non temere, v’ha ancora per te speranza di salute. Io risponderò per te a Gesù Cristo, e se sarà d’uopo, darò di buon grado la mia vita per salvare la tua, come il Signore diede la sua per noi tutti. Fermati, abbi fiducia, perché Gesù Cristo è quegli che mi ha mandato a te. » Al sentire un tal linguaggio il brigante abbassa gli occhi e si arresta; poi getta via le armi: quindi penetrato di orrore, amaramente sospira, e cade nelle braccia del santo vecchio: poi per quanto può, con lacrime dirotte lava la sozzura delle sue colpe, e solo gelosamente nasconde la sua mano destra, ch’era stata il principale strumento dei suoi delitti. L’Apostolo di bel nuovo lo assicura ch’egli otterrà dal Signore il suo pieno e intero perdono, ed inginocchiato a lui davanti, gli bacia la mano destra, ormai lavata dalle lacrime del pentimento, e Io riconduce seco alla Chiesa. Ei prega molto, e digiuna e si mortifica per lui; nutre 1’anima sua con le salutari massime della Scrittura, vi fa discendere il balsamo della speranza, lo ristabilisce nella pace, e non se ne diparte che dopo di avergli dato un uffizio nella chiesa. – Questa solenne conversione è ad un tempo il trionfo della penitenza, la prova della risurrezione che essa opera, ed un esempio da proporsi all’imitazione dei più grandi peccatori. [Euseb., Hist. 1. III, c. XVII]. – Non ci sarà permesso di aggiungere che questo episodio della vita di s. Giovanni sarebbe per gli artisti un soggetto di un magnifico dipinto? L’importanza del fatto in se stesso, il contrasto delle figure, e come accessori, gli alberi e le rupi della montagna, e quella schiera di banditi attoniti alla scena che ha luogo tra il venerando vecchio ed il loro capo; qual ricco campo per la immaginazione, e qual ricchi elementi per la pittura! – Con la scelta di somigliami soggetti, l’arte ridiverrebbe quel che deve essere, un sacerdozio; mentre perdendosi, com’essa fa dal Risorgimento in poi, nell’impuro labirinto della pagana mitologia, essa non è che uno sterile mestiere e quasi sempre uno strumento di corruzione.

Padre Pio da Pietrelcina ai “fratelli in esilio”

“Dom.: Padre, nell’ultima vostra Messa a chi rivolgerete l’ultimo sguardo? Risposta: “Ai fratelli in esilio”. Era l’ultimo giorno della sua vita terrena e, terminata l’ultima Messa, prima di alzarsi dalla sedia ha sostato a lungo in quello sguardo persistente, così a lungo, da creare meraviglia nei sedili che si assiepavano come non mai quel mattino, la chiesa divenuta incapace di contenerli tutti. Il convegno internazionale dei gruppi di preghiera che si svolgeva in quel giorno aveva chiamato intorno al padre tutti i figli suoi, accorsi da tutto il mondo”. – [Didascalia dell’ultima foto del libro “Lettere di Pare Pio” presentate dal Card. Lercaro.]

E chi erano questi “fratelli in esilio” ai quali Padre Pio rivolse il suo ultimo sguardo dopo avere celebrato la sua ultima Messa, Messa “vera”, non la porcata satanico-massonica attuale, bensì la Messa cattolica di sempre, quella nella quale il Figlio di Dio, sotto le specie del pane e del vino, in Olocausto incruento si offre al Padre, Dio onnipotente degli Eserciti, il Creatore dei cieli e della terra, per redimerci dai nostri peccati e riconciliarci con il Giudice supremo? – “Fratelli” per Padre Pio, erano tutti i consacrati in Cristo Signore, i sacerdoti fedeli, i vescovi ed il Papa, il “vero” Santo Padre, come lui fedeli alla Chiesa Cattolica, l’unica vera Chiesa nella quale c’è grazia, redenzione e salvezza. E questi fratelli erano, e sono ancora, così come lo era lui, in esilio, allontanati dalle sedi che avrebbero dovuto legittimamente occupare. Anche Padre Pio era un perseguitato, esiliato e prigioniero dalla quinta colonna degli infiltrati “servi” della massoneria guidata dal baphomet-lucifero. Egli lo sapeva molto bene, ma per amor di Dio, e a beneficio delle anime dei fedeli, soffriva, accettava ed offriva. Era una condizione dunque che egli ben conosceva, ma nella sua generosa carità si rivolgeva con il pensiero, e noi pensiamo sicuramente anche con la preghiera e la penitenza, a quei fratelli, il piccolo resto cattolico, il “pusillus grex” perseguitato, esiliato, a cui tutto era stato usurpato, ma che pure incarnavano la promessa evangelica di N. S. Gesù-Cristo sull’indefettibilità ed sull’eternità della Chiesa, sulla quale le forze del male e l’anticristo non avrebbero mai prevalso, malgrado le apparenze di devastazione, distruzione, tabula rasa.

Qualcuno doveva tornare sul Calvario …

A proposito di Padre Pio si narra che S. S. Gregorio XVII aveva un giorno detto a chi gli chiedeva del cappuccino perseguitato, esiliato e “crocifisso”: “Un uomo che sta crocifisso per mezzo secolo? Che cosa vuol dire questo? Sapete perché Gesù Cristo è andato in croce? È andato in croce per i peccati degli uomini e quando, nella storia, compare qualche “crocifisso” … vuol dire che il peccato degli uomini è grande e che per salvarli occorre che qualcuno ritorni sul Calvario, rimonti la croce, e stia li a soffrire per i fratelli. Il nostro tempo ha bisogno di gente che soffra quello che l’Unigenito Figlio ha sofferto …. Qui c’è tutto il fatto di padre Pio”. – E qui c’è anche tutto il fatto di Gregorio XVII, il Papa “impedito”, cacciato, esiliato, tormentato, messo in croce, ed infine, quando i nemici di Dio si sono accorti che stava manovrando per dare continuità alla Chiesa di Cristo, ucciso e poi sepolto finanche nei ricordi dei fedeli, facendolo passare addirittura per uno di loro, … il Cardinale è traditore come gli altri, … il Papa è connivente … novello Liberio, accusato ingiustamente di eresie mai immaginate, mai proferite, mai appoggiate. Eccoli entrambi accomunati nella loro condizione di “Esiliati”. “Esiliati”, come il Sommo Pontefice attuale, Gregorio XVIII, deportati in terre straniere, come il popolo di Israele deportato in Egitto, e poi a Babilonia per il peccato di idolatria e per essersi allontanato dall’Alleanza ma che, una volta duramente provato, viene liberato dalla potente mano di Dio che in pochi attimi “affonda” i nemici suoi e del suo popolo. – Padre Pio tutto questo lo meditava e forse già vedeva il trionfo, dopo la prova, con quel suo sguardo penetrante le nubi per levarsi alla contemplazione delle cose divine. Dopo la Messa: la Messa che è il sacrificio di Cristo sulla croce rinnovato a riscatto del genere umano … ecco perché i “fratelli” [nella fede] sono cacciati in esilio, soffrono il Getsemani, vengo battuti e percossi, ma vivono tuttavia ancora nelle catacombe, negli anfratti, nei sotterranei, nel sepolcro di una morte apparente. Ma quando tutto sembrerà concluso e senza speranze, …  “le donne vanno al sepolcro e vedono un Angelo di bianco splendente che dice loro …”Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: è risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto” … e Gesù stesso dice loro: “Nolite timere: ite, nuntiare fratribus meis ut eant in Galilæam; ibi me videbunt.” Ci piace pensare che Padre Pio, dopo la Santa Messa, rapito meditabondo nei suoi santi pensieri, rivivesse la stessa scena di Gesù che ancora una volta dice ai pochi fedeli della “sua” Chiesa: “Nolite timere: ite, nuntiare fratribus meis ut eant in Galilæam; ibi me videbunt”. A tutti noi allora il dovere di annunziare con fede le parole riportate da S. Matteo: “Cristo Gesù non è morto nel suo Vicario, non temete, Egli ci aspetta in Galilea, nella terra di Gesù, cioè nella sua Chiesa Cattolica, sulla sua Cattedra usurpata, e “ibi me videbunt”, li lo rivedremo ancora e sempre glorioso e maestoso più che mai, guidare l’arca di coloro che desiderano entrare per la porta della salvezza eterna, perché solo Egli ne possiede le chiavi! Exsurgat Deus et dissipentur inimici ejus

MATERNITÀ DELLA B. V. MARIA

Il titolo di Madre di Dio.

Il titolo di Madre di Dio, fra tutti quelli che vengono attribuiti alla Madonna, è il più glorioso. Essere la Madre di Dio è per Maria la sua ragion d’essere, il motivo di tutti i suoi privilegi e delle sue grazie. Per noi il titolo racchiude tutto il mistero della Incarnazione e non ne vediamo altro che più di questo sia sorgente per Maria di lodi e per noi di gioia. Sant’Efrem pensava giustamente che credere e affermare che la Santissima Vergine Maria è Madre di Dio è dare una prova sicura della nostra fede. La Chiesa quindi non celebra alcuna festa della Vergine Maria senza lodarla per questo privilegio. E così saluta la beata Madre di Dio nell’Immacolato Concepimento, nella Natività, nell’Assunzione e noi nella recita frequentissima dell’Ave Maria facciamo altrettanto.

L’eresia nestoriana.

« Theotókos », Madre di Dio, è il nome con cui nei secoli è stata designata Maria Santissima. Fare la storia del dogma della maternità divina sarebbe fare la storia di tutto il cristianesimo, perché il nome era entrato così profondamente nel cuore dei fedeli che quando, davanti al Vescovo di Costantinopoli, Nestorio, un prete che era il suo portavoce, osò affermare che Maria era soltanto madre di un uomo, perché era impossibile che Dio nascesse da una donna, il popolo protestò scandalizzato. Era allora vescovo di Alessandria san Cirillo, l’uomo suscitato da Dio per difendere l’onore della Madre del suo Figlio. Egli tosto manifestava il suo stupore: « Mi meraviglia che vi siano persone, che pensano che la Santa Vergine non debba essere chiamata Madre di Dio. Se nostro Signore è Dio, Maria, che lo mise al mondo, non è la Madre di Dio? Ma questa è la fede che ci hanno trasmessa gli Apostoli, anche se non si sono serviti di questo termine, ed è la dottrina che abbiamo appresa dai Santi Padri ».

Il Concilio di Efeso.

Nestorio non cambiò pensiero e l’imperatore convocò un concilio, che si aprì ad Efeso il 22 giugno del 431 sotto la presidenza di san Cirillo, legato del Papa Celestino. Erano presenti 200 vescovi i quali proclamarono che « la persona di Cristo è una e divina e che la Santissima Vergine deve essere riconosciuta e venerata da tutti quale vera Madre di Dio ». I cristiani di Efeso intonarono canti di trionfo, illuminarono la città e ricondussero alle loro dimore con fiaccole accese i vescovi « venuti – gridavano essi – per restituirci la Madre di Dio e ratificare con la loro santa autorità ciò che era scritto in tutti i cuori ». – Gli sforzi di Satana avevano raggiunto, come sempre, un risultato solo, cioè quello di preparare un magnifico trionfo alla Madonna e, se vogliamo credere alla tradizione, i Padri del Concilio, per perpetuare il ricordo dell’avvenimento, aggiunsero all’Ave Maria le parole: « Santa Maria, Madre di Dio, pregate per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte ». Milioni di persone recitano ogni giorno quella preghiera e riconoscono a Maria la gloria di Madre di Dio, che un eretico aveva preteso negare.

La festa dell’undici ottobre.

Il 1931 ricorreva il XV centenario del Concilio di Efeso e Pio XI pensò che sarebbe stata « cosa utile e gradita per i fedeli meditare e riflettere sopra un dogma così importante » come quello della maternità divina e, per lasciare una testimonianza perpetua della sua devozione alla Madonna, scrisse l’Enciclica Lux veritatis, restaurò la basilica di Santa Maria Maggiore in Roma e istituì una festa liturgica, che « avrebbe contribuito a sviluppare nel clero e nei fedeli la devozione verso la grande Madre di Dio, presentando alle famiglie come modelli. Maria e la sacra Famiglia di Nazareth », affinché siano sempre più rispettati la santità del matrimonio e l’educazione della gioventù. – Che cosa implichi per Maria la dignità di Madre di Dio lo abbiamo già notato nelle feste del primo gennaio e del 25 marzo, ma l’argomento è inesauribile e possiamo fermarci su di esso ancora un poco.

Maria stermìnio delle eresie.

« Godi, o Vergine, perché da sola hai sterminato nel mondo intero le eresie ». L’antifona della Liturgia insegna che il dogma della maternità divina è sostegno e difesa di tutto il Cristianesimo. Confessare la maternità divina è confessare la natura divina e l’umana nel Verbo Incarnato in unità di persona ed è altresì affermare la distinzione delle Persone in Dio nell’unità di natura ed è ancora riconoscere tutto l’ordine soprannaturale della grazia e della gloria.

Maria vera Madre di Dio.

Riconoscere che Maria è vera Madre di Dio è cosa facile. « Se il Figlio della Santa Vergine è Dio, scrive Pio XI nell’Enciclica Lux veritatis, colei che l’ha generato merita di essere chiamata Madre di Dio; se la persona di Gesù Cristo è una e divina, tutti, senza dubbio, devono chiamare Maria Madre di Dio e non solamente di Cristo uomo. Come le altre donne sono chiamate e sono realmente madri, perché hanno formato nel loro seno la nostra sostanza mortale, e non perché abbiano creata l’anima umana, così Maria ha acquistato la maternità divina per aver generato l’unica persona del Figlio suo ».

Conseguenze della maternità divina.

« Derivano di qui, come da sorgente misteriosa e viva, la speciale grazia di Maria e la sua suprema dignità davanti a Dio. La beata Vergine ha una dignità quasi infinita, che proviene dal bene infinito, che è Dio, dice san Tommaso. E Cornelio a Lapide spiega le parole di san Tommaso così: Maria è la Madre di Dio, supera in eccellenza tutti gli Angeli, i Serafini, i Cherubini. È la Madre di Dio ed è dunque la più pura e più santa di tutte le creature e, dopo quella di Dio, non è possibile pensare purezza più grande. È Madre di Dio, sicché, se i santi ottennero qualche privilegio (nell’ordine della grazia santificante) Maria ebbe il suo prima di tutti ».

Dignità di Maria.

Il privilegio della maternità divina pone Maria in una relazione troppo speciale ed intima con Dio, perché possano esserle paragonate dignità create di qualsiasi genere, la pone in un rapporto immediato con l’unione ipostatica e la introduce in relazioni intime e personali con le tre persone della Santissima Trinità.

Maria e Gesù.

La maternità divina unisce Maria con il Figlio con un legame più forte di quello delle altre madri con i loro figli. Queste non operano da sole la generazione e la Santa Vergine invece ha generato il Figlio, l’Uomo-Dio, con la sua stessa sostanza e Gesù è premio della sua verginità e appartiene a Maria per la generazione e per la nascita nel tempo, per l’allattamento col quale lo nutrì, per l’educazione che gli diede, per l’autorità materna esercitata su di lui.

Maria e il Padre.

La maternità divina unisce in modo ineffabile Maria al Padre. Maria infatti ha per Figlio il Figlio stesso di Dio, imita e riproduce nel tempo la generazione misteriosa con la quale il Padre generò il Figlio nell’eternità, restando così associata al Padre nella sua paternità. – « Se il Padre ci manifestò un’affezione così sincera, dandoci suo Figlio come Maestro e Redentore, diceva Bossuet, l’amore che aveva per te, o Maria, gli fece concepire ben altri disegni a tuo riguardo e ha stabilito che Gesù fosse tuo come è suo e, per realizzare con te una società eterna, volle che tu fossi la Madre del suo unico Figlio e volle essere il Padre del tuo Figlio » (Discorso sopra la devozione alla Santa Vergine).

Maria e lo Spirito Santo.

La maternità divina unisce Maria allo Spirito Santo, perché per opera dello Spirito Santo ha concepito il Verbo nel suo seno. In questo senso Leone XIII chiama Maria Sposa dello Spirito Santo (Encicl. Divinum munus, 9 maggio 1897) e Maria è dello Spirito Santo il santuario privilegiato, per le inaudite meraviglie che ha operate in lei, « Se Dio è con tutti i Santi, afferma san Bernardo, è con Maria in modo tutto speciale, perché tra Dio e Maria l’accordo è così totale che Dio non solo si è unita la sua volontà, ma la sua carne e con la sua sostanza e quella della Vergine ha fatto un solo Cristo, e Cristo se non deriva come Egli è, né tutto intero da Dio, né tutto intero da Maria, è tuttavia tutto intero di Dio e tutto intero di Maria, perché non ci sono due figli, ma c’è un solo Figlio, che è Figlio di Dio e della Vergine. L’Angelo dice: Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te. È con te non solo il Signore Figlio, che rivestisti della tua carne, ma il Signore Spirito Santo dal quale concepisti e il Signore Padre, che ha generato colui che tu concepisti. È con te il Padre che fa si che suo Figlio sia tuo Figlio; è con te il Figlio, che, per realizzare l’adorabile mistero, apre il tuo seno miracolosamente e rispetta il sigillo della tua verginità; è con te lo Spirito Santo, che, con il Padre e con il Figlio santifica il tuo seno. Sì, il Signore è con te » (3.a Omelia super Missus est).

MESSA

Epistola (Eccli. 24, 23-31). – “Come vite diedi frutti di soave odore, e i mici fiori dànno frutti di gloria e di ricchezza. Io sono la madre del bell’amore e del timore, della scienza e della santa speranza. In me ogni grazia della via e della verità, in me ogni speranza di vita e di virtù. Venite a me, o voi tutti che mi bramate, e saziatevi dei miei frutti; perché il mio spirito è più dolce del miele, e il mio retaggio più del favo di miele. Il ricordo di me durerà nelle generazioni dei secoli. Chi mi mangia avrà ancora fame, e chi mi beve avrà ancora sete. Chi mi ascolta non sarà confuso, e chi lavora per me non peccherà; chi mi illustra avrà la vita eterna.” – A buon diritto la Chiesa anche qui applica alla Madonna un testo che è stato scritto con riferimento al Messia. Non è Maria la vera vigna, che ci ha data l’uva generosa, che riceviamo tutti i giorni nell’Eucarestia? Vi è gloria paragonabile a quella di Maria, che, essendo vergine, è divenuta Madre di Dio, senza perdere la verginità? La Chiesa la canta con gioia Madre del bell’amore e ci invita ad accostarci a Lei con confidenza, perché in Maria si incontra ogni speranza della vita e della virtù e chi l’ascolta non sarà mai confuso. Vangelo (Lc. II, 43-51). – “In quel tempo: Al ritorno il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, ma i suoi genitori non se ne accorsero. Supponendo che Egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, poi si misero a cercarlo fra i parenti e i conoscenti. Ma non avendolo trovato, tornarono a Gerusalemme in cerca di lui. E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto fra i dottori ad ascoltarli ed interrogarli, mentre gli uditori stupivano della sua sapienza e delle sue risposte. E, vedendolo, ne furono meravigliati. E sua madre gli disse: Figlio, perché ci hai fatto questo? Vedi, tuo padre ed io, addolorati, andavamo in cerca di te. Egli rispose loro: E perché cercarmi? non sapevate che mi devo occupare di quanto riguarda mio Padre? Ma essi non compresero quanto aveva loro detto. Poi se ne andò con loro e tornò a Nazaret, e stava loro sottomesso.”

L’amore di Gesù per la Madre.

« Se fosse permesso spingere tanto innanzi l’analisi del suo sviluppo umano, si direbbe che in Gesù, come in altri, vi fu qualcosa dell’influenza della Madre sua. La grazia, la finezza squisita, la dolcezza indulgente appartengono solo a Lui, ma proprio per tali cose si distinguono coloro, che spesso hanno sentito il cuore come addolcito dalla tenerezza materna e lo spirito ingentilito, per la conversazione con la donna venerata e amata teneramente, che si compiaceva iniziarli alle sfumature più delicate della vita. Gesù fu davvero, come lo chiamavano i concittadini, il “figlio di Maria”. » Egli tanto ha ricevuto da Maria, perché l’amò infinitamente. Come Dio, la scelse e le donò prerogative uniche di verginità, di purezza immacolata, e nello stesso tempo la grazia della maternità divina; come uomo, l’amò tanto fedelmente che sulla croce, in mezzo alle spaventevoli sofferenze, l’ultimo pensiero fu per lei: Donna, ecco tuo figlio. Ecco tua Madre. » Ma il doppio amore gli fece scegliere per la madre una parte degnissima di Lei. Il profeta aveva preannunziato lui come il Servo di Jahvè e la Madre fu la Serva del Signore nell’oblio di sé, nella devozione e nel perfetto distacco: « vi è più gioia nel dare che nel ricevere ». Cristo, che aveva presa per sé questa gioia, la diede alla Madre e Maria comprese così bene questo dono che nei ricordi d’infanzia segnò con attenzione particolare i rapporti che a un lettore superficiale sembrano duri: « Perché mi cercavate? Non sapevate che debbo occuparmi delle cose che riguardano il Padre mio? » E più tardi: « Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?… » Gesù vuole insegnarci il distacco che da noi esige e darcene l’esempio » (Lebreton. La Vie et Venseignement de J. C. N. S., p. 62).

Maria nostra Madre.

Salutandoti oggi col bel titolo di Madre di Dio, non dimentichiamo che « avendo dato la vita al Redentore del genere umano, sei per questo fatto stesso divenuta Madre nostra tenerissima e che Cristo ci ha voluti per fratelli. Scegliendoti per Madre del Figlio suo, Dio ti ha inculcato sentimenti del tutto materni, che respirano solo amore e perdono » (Pio XI Enc. Lux veritatis). « O Vergine tutta santa, è per i tuoi figli cosa dolce dire di te tutto ciò che è glorioso, tutto ciò che è grande, ma ciò facendo dicono solo il vero e non riescono a dire tutto quello che tu meriti (Basilio di Seleucia, Omelia 39, n. 6. P. G. 85, c. 452). Tu sei infatti la meraviglia delle meraviglie e di quanto esiste o potrà esistere, Dio eccettuato, niente è più bello di te » (Isidoro da Tessalonica. Discorso per la Presentazione di Maria P. G. 189, c. 69). Dalla gloria del cielo ove sei, ricordati di noi, che ti preghiamo con tanta gioia e confidenza. « L’Onnipotente è con te e tu sei onnipotente con Lui, onnipotente per Lui, onnipotente dopo di Lui », come dice san Bonaventura. Tu puoi presentarti a Dio non tanto per pregare quanto per comandare, tu sai che Dio esaudisce infallibilmente i tuoi desideri. Noi siamo, senza dubbio, peccatori, ma tu sei divenuta Madre di Dio per causa nostra e « non si è mai inteso dire che alcuno di quelli che sono ricorsi a te sia stato abbandonato. Animati da questa confidenza, o Vergine delle vergini, o nostra Madre, veniamo a te gemendo sotto il peso dei nostri falli e ci prostriamo ai tuoi piedi. Madre del Verbo incarnato, non disprezzare le nostre preghiere, degnati esaudirle » (San Bernardo) – (Dom Gueranger: “l’anno liturgico”, vol.  II, impr. 1957)

La Contrizione.

 La Contrizione.

[G. Bertetti: I Tesori di San TOMMASO d’Aquino”; S.E.I. Ed.Torino, 1918]

1- Che cosa è la contrizione. — 2. Di che cosa dobbiamo noi avere la contrizione. —3. Quanta dev’essere la contrizione. — 4. Quanto tempo deve durare. — 5. Quale effetto produce (Seni., 4, dist. 17, q. 2; Quól., 1, 9).

1- Che cos’è la contrizione. — È il dolore dei peccati congiunto col proponimento di confessarli e di soddisfarvi. — Principio d’ogni peccato è la superbia, per cui l’uomo attaccato alle sue voglie, si scosta dai divini comandamenti; distruggerà dunque il peccato ciò che farà allontanar l’uomo dalle sue voglie. Eigido e duro si dice colui che rimane ostinato nelle sue voglie: così si dice che s’infrange colui che finalmente si strappa dalla sua ostinazione. Ma tra l’infrangersi e lo sminuzzarsi o il contrirsi nelle cose materiali (da cui son tratti questi vocaboli a designar le cose spirituali) c’è differenza: infrangersi è spezzarsi in grandi parti, sminuzzarsi o contrirsi è spezzarsi in piccolissime parti. E poiché alla remissione del peccato si richiede che l’uomo interamente rinunci all’affetto del peccato che lorendeva duro e ostinato, per ragione di somiglianza si chiama contrizione l’atto per cui si perdona il peccato. – La contrizione deve aver con sé unito il proponimento di confessare i peccati e di soddisfarvi: sia perché non si può esser certi d’aver avuta una contrizione sufficiente per togliere tutto il peccato, sia perché la confessione e la soddisfazione son cose comandate da Dio, e sarebbe trasgressore della legge di Dio chi non confessasse i suoi peccati e non vi soddisfacesse.Nella contrizione c’è un doppio dolore dei peccati: uno nella parte sensitiva, e questo dolore non è essenzialmente contrizione in quanto è atto di virtù, ma piuttosto n’è l’effetto. Come la virtù della penitenza infligge al corpo una pena esteriore per ricompensar l’offesa fatta a Dio per mezzo delle membra, così infligge anche alla parte concupiscibile, che concorse nel peccato, la pena del dolore. Tuttavia può appartenere alla contrizione questo dolore sensibile, in quanto è parte del sacramento: perché i sacramenti son fatti per essere non solo in atti interni, ma anche in atti esterni. L’altra specie di dolore consiste nella volontà: e questo dolore non è altro che il dispiacere d’un male; e così la contrizione è un dolore per essenza e un atto della virtù della penitenza. Infatti, siccome il gonfiarsi della propria volontà per fare il male porta di per sé il male in genere, così l’annichilamento e il quasi stritolamento della volontà cattiva porta di per sé il bene in genere, perché è un detestare la propria volontà per cui s’è commesso il male. La contrizione adunque, che ciò appunto significa, porta una rettitudine di volontà; la contrizione dunque è un atto di penitenza, cioè di quella virtù che ci fa detestare e distruggere il peccato commesso.

2. Di che cosa dobbiamo noi avere la contrizione. — Dobbiamo aver la contrizione di tutti e singoli i peccati mortali da noi commessi. — Nessun peccato mortale si rimette, se il peccatore non è giustificato; ma per esser giustificati ci vuole la contrizione: dunque la contrizione è necessaria per ogni peccato mortale. — Tutti i peccati mortali convengono fra di loro nell’allontanamento da Dio. Diverse malattie richiedono medicine diverse; ed essendo la contrizione una medicina da applicarsi a ciascun peccato mortale, non basta una sola contrizione comune a tutti i peccati. Bisogna però distinguere fra il principio e il termine, della contrizione. Quanto al principio, cioè quanto al pensare ai peccati e dolersene almeno con dolore d’attrizione, è necessario che la contrizione sia di ciascun peccato mortale di cui ci si ricorda. Ma quanto al termine, cioè quanto al dolore già vivificato dalla grazia, basta che ci sia una sola contrizione comune a tutti i peccati, e ciò in virtù delle disposizioni precedenti. E se i peccati non si ricordano più?… Bisogna distinguere: — se il peccato ce lo ricordiamo soltanto in modo generale e non in modo particolare, dobbiamo farne la ricerca nella nostra memoria, essendo necessaria la contrizione speciale per ciascun peccato mortale; e posto che non ci riuscissimo nella nostra ricerca, basta che ce ne pentiamo secondo la conoscenza che ne abbiamo, e col peccato ci pentiamo pure della dimenticanza dovuta alla nostra negligenza: — se poi il peccato ci cadde interamente dalla memoria, allora l’impossibilità ci scusa dal debito, e basta una contrizione generale di tutto quello in cui abbiamo offeso Dio: ma se il peccato ci venisse poi alla memoria, allora saremmo tenuti ad averne una contrizione speciale, com’è scusato dal pagare il debito un povero che non può, ma è tenuto a pagarlo non appena lo possa.

3. Quanta dev’essere la contrizione. — Secondo S. Agostino (De civit. Dei, 21, 3) ogni dolore si fonda sull’amore. Ma l’amore di carità, su cui si fonda il dolor di contrizione, è il più grande degli amori: dunque il dolor di contrizione sarà il più grande dei dolori. – Nella contrizione c’è però un doppio dolore: uno nella volontà e l’altro nella parte sensitiva. — Il dolore della volontà, che è essenzialmente la stessa contrizione, ossia il dispiacere del peccato commesso, è tale da eccedere ogni altro dolore: perché quanto più ci piace una cosa, tanto più ci dispiace il suo contrario; ora, sovra tutte le cose piace a noi il fine per cui si desiderano tutte le cose; perciò il peccato, che ci allontana dall’ultimo fine, ci deve dispiacere sovra tutte le cose. — Il dolore della parte sensitiva, ch’è cagionato dal dolore della volontà, o per quella necessità di natura che costringe le forze inferiori a seguire il movimento delle superiori, o per elezione del penitente che spontaneamente eccita in se stesso il dolore sensibile, non è necessario che sia il più grande di tutti i dolori. Infatti le forze inferiori son mosse più fortemente dai propri oggetti che non dalla ridondanza delle forze superiori, e perciò quanto più l’opera delle forze superiori è vicina agli oggetti delle inferiori, tanto più queste ne seguono il movimento: quindi nella parte sensitiva il dolore per una lesione sensibile è più grande di quello che le possa derivare dalla ragione. Parimenti il dolore ridondante dalla ragione che delibera di cose corporali è più grande di quello che ridonda dalla medesima ragione allorché debberà intorno a cose spirituali. – Laonde il dolore che del peccato deriva nel senso dal dispiacere della ragione non è maggiore degli altri dolori sensibili. Così si dica del dolore sensibile volontariamente assunto: sia perché un affetto inferiore non ubbidisce talmente all’affetto superiore da determinarne l’impressione voluta da questo; sia perché le impressioni volute dalla ragione negli atti di virtù hanno una determinata misura, che talvolta un dolore scompagnato dalla virtù non osserva, ma oltrepassa. Anche la contrizione, essendo un atto di virtù morale può, al pari di tutti gli altri atti di virtù morale, guastarsi per sovrabbondanza o per difetto. Certo non potrà mai esser soverchia la contrizione da parte del dolore che si trova nella volontà, cioè da parte del dispiacere del peccato in quanto è offesa di Dio: come non può esser mai soverchio l’atto d’amor di Dio su cui questo dispiacere si fonda e s’espande con l’espandersi della carità. – Ma può esser soverchia la contrizione da parte del dolore sensibile, come può esser soverchia l’estenuazione del corpo nel digiuno. In ciò deve prendersi per misura il dovere di conservarci in condizioni tali che ci permettano di compiere le opere richieste dal nostro stato. Il contrito è tenuto in generale a voler patire qualsiasi pena piuttosto che peccare, perché non si può aver contrizione senza la carità per cui si rimettono tutti i peccati. Ora, la carità ci fa amare Dio più di noi stessi, mentre il peccato ci fa operare contro Dio; l’essere poi punito è soffrire qualcosa contro noi stessi; perciò la carità richiede che anteponiamo qualsiasi castigo alla colpa. Non siamo però tenuti a discendere con l’immaginazione a questa o a quell’altra pena in particolare; Anzi faremmo cosa stolta, se angustiassimo noi stessi o altri su queste pene particolari. È evidente che, siccome le cose dilettevoli più ci piacciono considerate in particolare che in generale, così le cose terribili più ci spaventano considerate in particolare. Chi è disposto a soffrir la morte per Gesù Cristo, si sentirebbe vacillare nella sua generosa risoluzione, se si facesse a considerare tutti i tormenti che potrebbero straziare il corpo. Discendere a particolarità in siffatte cose è un indurre l’uomo nella tentazione, è un offrir occasione di peccato. – Non è poi cosa difficile il voler piuttosto esser senza colpa nell’inferno, che esser con la colpa in paradiso: perché, come dice S. Anselmo (De similitud.), un innocente nell’inferno non sentirebbe alcuna pena, e l’inferno non sarebbe più per lui inferno; invece un peccatore in paradiso non sentirebbe alcun gaudio di gloria, e il paradiso per lui non sarebbe più paradiso.

4. Quanto tempo deve durare la contrizione. — Fin quando ci troviamo nella vita presente, noi detestiamo gl’incomodi che c’impediscono o ritardano il termine del nostro viaggio. Il peccato da noi commesso ci fece ritardare il corso nostro verso Dio: perché non più potremo ricuperare quel tempo ch’era designato per il nostro cammino e che abbiamo perduto per il peccato. Dunque bisogna che sempre per tutto il tempo di questa vita, detestiamo il peccato. Peccando, ci meritammo la pena eterna che Dio ha commutato per noi in pena temporale: rimanga dunque, come pena spontaneamente assunta, nell’eterno dell’uomo, e cioè nello stato di questa vita, il dolore dei nostri peccati. « Non essere senza timore circa il peccato perdonato » (Eccli., 5, 5); « dove finisce il dolore, manca la penitenza: dove manca la penitenza, nulla più rimane di perdono » (S. AGOSTINO, De vera et falsa poenit.); « Dio, mentre assolve l’uomo dalla colpa e dalla pena eterna, lo lega col vincolo d’una perpetua detestazione del peccato » (UGONE DI S. VITTORE). Benché il peccatore penitente ritorni alla grazia e all’immunità dal reato di pena, tuttavia non ritorna giammai alla primiera dignità dell’innocenza: perciò sempre rimane in lui qualche cosa del peccato commesso. Può avere un limite la soddisfazione, la quale è una pena principalmente proporzionata alla limitazione della colpa da parte della conversione verso le creature; ma il dolore di contrizione corrisponde alla quasi infinità della colpa da parte dell’allontanamento da Dio: e perciò la vera contrizione deve sempre rimanere, fino alla morte. – Fino alla morte deve rimanere in noi la contrizione: e come dolore, e come atto di virtù informata dalla grazia, e come atto meritorio, sacramentale e in certo qual modo satisfattorio. Dopo morte, le anime che sono in cielo non possono avere la contrizione, perché non può esserci dolore tra la pienezza del gaudio; quelle che son nell’inferno soffrono il dolore, ma un dolore non informato dalla grazia; quelle che sono nel purgatorio hanno bensì il dolore dei peccati, ma il loro dolore è senza merito, non trovandosi più esse nello stato di poter meritare.

5. Effetto della contrizione. — La contrizione si può considerare sotto duplice aspetto, o come parte del sacramento o come atto di virtù: nell’uno e nell’altro modo è causa della remissione del peccato, ma in modo diverso. La contrizione come parte del sacramento è causa strumentale del perdono; come atto di virtù è quasi causa materiale, essendo le dovute disposizioni una quasi necessità per la giustificazione del peccatore. Il peccato si commette per amor disordinato, e si distrugge per il dolore cagionato dall’amor ordinato di carità. – La carità può poi estendersi talmente nel suo atto, che il dispiacere derivatone d’aver offeso Dio meriti non solo la remissione della colpa, ma anche l’assoluzione da ogni pena. D’altra parte, l a volontà può eccitare tanto dolore sensibile, che questa pena possa bastare alla cancellazione d’ogni altra pena e di tutta la colpa. Se n’ha l’esempio nel ladrone, a cui, per un unico atto di penitenza, fu detto: « Oggi sarai con me in Paradiso » (Luc., XXIII, 43). – S’avverta finalmente che per quanto piccolo sia il dispiacere del peccato commesso, purché sia bastante per determinare una vera contrizione, cancella ogni colpa. La contrizione è informata dalla grazia che ci fa graditi e cari a Dio e che cancella ogni colpa mortale, non potendo stare insieme grazia e peccato.