26 OTTOBRE 1958: Habemus Papam atque [postea, A.D. MCMXCI] SUCCESSOREM ejus!

Habemus Papam atque [postea-1991] SUCCESSOREM ejus!… 

“… si quis ergo dixerit, non esse ex ipsius Christi Domini institutione seu iure divino, ut Beatus Petrus in primatu super universum Ecclesiam habeat PERPETUOS SUCCESSORES; aut Romanum Pontificem non esse beati Petri in eodem primatu successorem: ANATHEMA SIT“. [C. A. Pastor Æternus – Con. Vatic. 1871]

“Combattete, figli della luce, voi, piccolo numero che ci vedete, perché ecco il tempo dei tempi, la fine delle fini. La Chiesa sarà ECLISSATA , il mondo sarà nella costernazione.” …

“… Il Santo Padre soffrirà molto, Io sarò con lui fino alla fine, per ricevere il suo sacrificio. I malvagi attenteranno diverse volte alla sua vita senza poter nuocere ai suoi giorni; ma né lui né il suo SUCCESSORE … vedranno il trionfo della Chiesa di Dio”. [Messaggio della SS. Vergine a La Salette, 1846 – Impr. Mons. Zola, Vescovo di Lecce]

“Ahimè me! Sono in arrivo giorni tristi per la Santa Chiesa di Gesù Cristo. La Passione di Gesù sarà rinnovata nella maniera più dolorosa nella Chiesa e nel suo Capo Supremo. In tutte le parti del mondo ci saranno guerre e rivoluzioni, ed una grande quantità di sangue sarà versato. Angosce, disastri e povertà saranno grandi, dal momento che si susseguiranno malattie pestilenziali, carestie, ed altre disgrazie.Mani violente si poseranno sul Capo Supremo della Chiesa Cattolica; vescovi e sacerdoti saranno perseguitati, e saranno provocati scismi, e regnerà la confusione in mezzo a tutte le classi sociali. Arriveranno tempi così particolarmente cattivi, che sembrerà come se i nemici di Cristo e della sua santa Chiesa, fondata con il suo Sangue, stiano per trionfare su di essa. … Sarà operata una generale separazione: il grano vagliato, e l’aia spazzata. Le società segrete lavoreranno per produrre una grande rovina, ed eserciteranno uno straordinario potere monetario, attraverso il quale molti saranno accecati ed infettati dai più orribili errori; tuttavia, tutto ciò deve avvenire. Cristo dice, “chi non è con me è contro di me, e chi raccoglie lontano da me, disperde”. Gli scandali saranno diffusi dappertutto, ma guai a coloro per cui essi avvengono! Sebbene la tempesta sarà terribile, e molti si allontaneranno al suo passaggio, tuttavia, non potrà scuotere la ROCCIA su cui Cristo ha fondato la sua Chiesa … “Portæ inferi non prævalebunt”. – “Le pecore fedeli si riuniranno insieme, e in unione di preghiera opporranno una potente resistenza ai nemici della Chiesa Cattolica. Sì, sì, il gregge diventerà piccolo. Molti di voi vedranno quei tempi ed i giorni tristi che porteranno grandi mali …. una grande confusione regnerà tra i principi e le nazioni. L’incredulità di oggi sta preparando quei mali orribili.” [Prof. Del vescovo G. Wittman – “THE CHRISTIAN TRUMPET; PREVISIONS AND PREDICTIONS ABOUT IMPENDING GENERAL CALAMITIES, THE UNIVERSAL TRIUMPH OF THE CHURCH, THE COMING OF ANTICHRIST, THE LAST JUDGMENT, AND THE END OF THE WORLD.” COMPILED BY PELLEGRINO, PP. 57-58, 1873).

GREGORIO XVII IL “MAGISTERO IMPEDITO” – CHIESA, FEDELI, MONDO – III –

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO:

CHIESA – FEDELI – MONDO -III-

Ortodossia –III-

[Lettera pastorale del 5 agosto 1962; «Riv. Dioc. Genovese», 1962, pp. 208-248].

Lo scandalo della Incarnazione

Ecco di che si tratta. Il Verbo di Dio si è fatto uomo. L’umanità intera di Gesù Cristo è stata accolta e sostenuta in unione sostanziale (ipostatica) dalla divina Persona del Figlio eterno del Padre. In Cristo c’è Dio e l’uomo, c’è la divinità perfettissima e la umanità anche materiale coi suoi limiti e le sue imprescindibili caratteristiche. L’umanità è accolta. Questo ha scandalizzato molti eresiarchi antichi: hanno avuto torto, perché hanno messo a Dio limiti i quali sarebbero andati bene soltanto per loro. Ma questo in altra forma continua a scandalizzare molti moderni, per nulla ritenuti eresiarchi e per nulla coscienti di esserlo. Ecco come avviene lo scandalo che, in definitiva, abbiamo giustamente chiamato nel titolo «lo scandalo della Incarnazione». – Il binomio delle cose divine ed umane in Cristo, nella Incarnazione, costituisce norma suprema, tipo e legge per tutto il rimanente della Rivelazione e della costituzione della Chiesa. Dappertutto sono presenti i due elementi, umano e divino, nella Chiesa, nei Sacramenti, nel Sacrificio. Ossia dappertutto, come in Gesù c’è una umanità completa, c’è elemento materiale. Come Gesù Cristo uomo ebbe fame, sete, sonno, stanchezza, collasso di forze, morte, così il ritmo di questa umanità, perfetto e armonioso tra le luci e le ombre, si distende e si stempera nel rimanente. Come si deve accettare la umanità di Gesù Cristo, si deve accettare la umanità del rimanente. Respingerla nel rimanente è finire col respingere la divina logica della Incarnazione. Si può aver pena che Gesù si sia addormentato in barca e si può averla perché può sembrare a tutta prima una diminuzione di dignità. Ma è così; debbo accettarlo e debbo anche capire di riflesso, se non mi riesce direttamente, che non c’è alcuna diminuzione di dignità, ma solo rivelazione commovente di amore. Per lo stesso motivo debbo accettare che nella Chiesa, umana e divina insieme, ossia con lo stesso ritmo analogico, qualcuno dorma, qualcuno abbia collassi, qualcuno muoia, qualcuno riveli macerazioni e disfacimenti che si convengono alla morte. Debbo accettare che gli strumenti umani dei quali si serve l’opera evangelizzatrice in qualche momento abbiano tutti i segni caratteristici delle cose umane, soggette al caldo, al freddo, alla infezioni, alla paralisi. Non ho il diritto di esigere diversamente, anche se abbiamo il dovere di agire in senso contrario. – Si tratta infatti soltanto di accettare la logica della Incarnazione, la quale ci impone di accettare l’umanità in Cristo e in tutto il resto, con le conseguenze che ebbe in Cristo e con le conseguenze analogiche e diverse che ebbe nel rimanente. Se non si accetta questo, non si accetta la logica di Cristo Dio e uomo, si disdegna la umanità, si entra nella luciferiana vanità delle cose perfette, come se si fosse noi perfetti e come se le vicende di questo mondo potessero esserlo. Forse si manterrà l’ossequio di Cristo; ma che ossequio è mai questo che, se avesse intelligenza sufficiente, ipocritamente dovrebbe arrivare a rinnegarlo? Chi osserva bene la storia, si potrà accorgere che la gnosi si è scandalizzata della Incarnazione per la presenza della umanità e della materia in Gesù Cristo. La gnosi, questa gnosi, è risorta tante volte in modi diversi. Nel Medioevo ha tentato di sovvertire la filosofia instillandole lo scandalo dell’uso dei sensi e cioè della conoscenza sensibile e della evidenza immediata attraverso i sensi per spingerla a partire, nelle sue elucubrazioni, da una quota più alta della terra. Uno dei meriti maggiori di san Tomaso d’Aquino è di avere sbarrato, in certo senso per sempre, la via a questa infiltrazione gnostica. Egli comincia sempre press’a poco così: Apparet et sensu constai…. Lo stesso giansenismo tra le altre malefatte vanta anche quella di avere insinuato che malamente la umanità si avvicina alle cose divine. Oggi siamo ad una situazione analoga: lo sdegno che la Chiesa sia anche umana, che Dio abbia lasciato anche in essa il gioco della libertà e per conseguenza delle umane passioni… Si strappano le vesti, si sentono coperti di vergogna e, dacché i comunisti hanno reso di moda la autocritica, si rifugiano in essa, dando alla Chiesa, alle autorità, ai preti, ai cattolici la colpa di tutto; e credono di essere veritieri e generosi, mentre sono soltanto dei fuorviati nel giudizio. – Bisogna accettare che la Chiesa sia anche umana, come bisogna accettare che Gesù Cristo sia anche un uomo. Ma come non è ammesso scandalizzarsi della umanità di Cristo, non è ammesso scandalizzarsi della umanità della Chiesa, ed è ora di finirla con tutta la patologia masochista di taluni cattolici, i quali vanno a gara nel dir male della Chiesa, opera di Cristo, strumento necessario della salvezza. Non è né serio, né cattolico, né giusto l’impiegare di proposito tempo, risorse ed ingegno per illustrare tutte le pecche della umanità della Chiesa, quando ciò serve soltanto ad aumentare il coro vociferante degli increduli e dei laicisti, e a diminuire la capacità della stessa per la salute delle anime. – Un tale indirizzo non può spiegarsi se non con l’intenzione almeno subcosciente di spezzare una autorità, barriera di verità e di legge, allo scopo di conseguire, non diremmo una libertà, ma una licenza che Gesù non ammette. – È qui dove la nuova gnosi scopre le sue batterie ed è l’unico punto dove diventa sincera. Essa accoglie l’istinto fatiscente della mondana depravazione e vuole arrivare alla dissoluzione dell’autorità. La umanità della Chiesa, la scoria umana che consegue il suo umano aspetto sono un grande pretesto. Esse sono assunte anche come fondamento di una doppiezza, perché generalmente l’azione di scalzare l’autorità è accompagnata dalla ricerca, magari spasmodica, del «potere». Rivela il suo carattere tardo, perché non comprende che al concetto di autorità si sostituisce una cosa sola, la violenza. Ed è per questo che abbiamo usato in contrapposto il termine «potere». La nuova gnosi è entrata nella cultura e nella storia. Si diletta a disfare i Santi ed è felice quando può scrivere un libro in cui crede di dimostrare che un Santo è degno di stima minore di quella goduta prima, od in cui le riesce di far vedere che un grande Papa era più o meno un sovrano ambizioso di potere o che la pietà di certe popolazioni è superstizione e stupidità. Ha piacere di distruggere, e così si trova situata piuttosto tra i pedissequi di Sartre che tra i seguaci di Cristo. – Noi dobbiamo sempre proporre ai fedeli la via della santità, dobbiamo a quella richiamarli senza reticenze. Questo fa parte della nostra sincerità verso di loro, perché il mandato ricevuto da Cristo è questo e non altro. Se lo accantoniamo, noi non siamo più veramente fedeli verso il Salvatore, né sinceri verso le anime a noi commesse. E per questo motivo che nel 1958 vi abbiamo indirizzato una pastorale assai lunga dal titolo: “L’impegno ascetico della parrocchia”. Non c’è dubbio che per richiamare sempre i fedeli a salire verso la vita moralmente e soprannaturalmente più perfetta occorre essere in una situazione che non ci conduca al ridicolo, occorre cioè della coerenza. Ma si tratta di un dovere netto. È chiaro dobbiamo chiedere tutto, ed inculcare la disistima dei compromessi. Per compiere il dovere di inculcare sempre e coerentemente ai nostri fedeli il dovere della «ascesi verso Dio», noi dobbiamo fortemente escludere dalla nostra vita anche la più piccola ombra di mondanità. Se noi riveliamo i difetti comuni agli uomini spiritualmente incolori o deviati o depravati, non assolveremo mai il nostro compito. Questo è certamente fondamentale e non finiremo di ripeterlo. La partecipazione ai comuni appetiti, ai comuni intrallazzi, ai comuni, anche se non disonesti, piaceri, alle comuni mollezze, ci toglie il carattere virile della nostra missione. L’incontro sul piano dei difetti e del comportamento mondano è sempre e solo servito al male. Esistono degli uomini di fede, i quali per fortuna vanno a cercare oggi i «lontani» là dove generalmente sono spensierati e facili di costume. Ma questi uomini sanno che proprio per questo la loro vita deve essere singolarmente e rilevatamente austera. Vorremmo infine si considerasse che, ai punti ai quali siamo giunti nella lotta tra lo spirito e la materia, sarà solo una guerra totale dello spirito che potrà avere ragione. E la «guerra totale» è la stessa fatta dagli Apostoli; formare dei cristiani capaci anche del martirio e creare sempre più serrata la rete di anime che vivono a tutti gli effetti e in tutte le conseguenze la vita cristiana. A tutti diamo tutto, ma ai fermenti capaci di moltiplicare la vita diamo la prima e la suprema attenzione. Il dare tutto a tutti finirà col cambiare il volto anche esterno delle cose, il dare, soprattutto a singoli di speciale elezione ed a gruppi di maggiore consistenza e coraggio, faciliterà la fermentazione cristiana della massa. Non tutti ricevono allo stesso modo. – Dunque, né attraverso l’insegnamento, né col silenzio, né col compromesso noi possiamo ammettere che si abbiano due coscienze, una privata ed una pubblica; che si abbiano due morali, una per sé ed una per gli altri; che si ammetta il tipo di vita in cui non può assolutamente resistere l’ordinamento divino della famiglia, dell’amore che lo genera, della resistenza al peccato; che si accetti, come fosse cessata la umana debolezza, ogni forma di esperimento nel piacere; che si perda il tempo; che non si santifichi pienamente la festa e non si dia al Signore la prima parte di tutto. Chi vorrà seguirà e chi non vorrà non seguirà; ma a questo modo avremo fatto il nostro dovere ed avremo almeno salvato la patente e netta distinzione tra il bene ed il male, tra la virtù ed il peccato. – Questo volevamo dire e qui riassumiamo. Esistono delle negazioni che direttamente attaccano la ortodossia. Esistono dei comportamenti generali, dei quali in un processo sarebbe difficile provare il delitto di eresia o di ribellione alla legittima autorità della Chiesa, ma che in realtà sono identici a quelli che promanano formalmente dalla eresia. A modo loro, certo, ma senza dubbio sono lesivi della ortodossia. Abbiamo voluto attirare l’attenzione su alcuni comportamenti che riguardano il nostro dovere verso i fedeli «ut fidelis quis inveniatur» (l Cor. IV, 2). Ciò per dimostrare che tali comportamenti «in facto» non salvano l’ortodossia e a poco a poco finiscono coll’inoculare incoscientemente gli errori e le eresie formali. Il cammino del male può essere duplice: dall’intelletto agli atti, ma anche dagli atti all’intelletto. Non basta guardarsi soltanto dal primo.

La Chiesa e la vita pubblica

Entriamo in un campo delicato nel quale l’ortodossia «di fatto» – almeno quella – può facilmente cadere. Vogliamo soltanto che i nostri sacerdoti abbiano in proposito alcune idee molto chiare, affinché non accada di loro che diventino anche in buona fede avversari sia nell’ordine intellettuale, sia nell’ordine pratico della ortodossia cattolica. Di quanto verremo dicendo, abbiamo posto le premesse nel primo capitolo di questa nostra lettera. Neppure intendiamo qui avventurarci nella funzione storica della Chiesa, fatto ben rilevato ed evidente. Vogliamo soltanto richiamare i sani e solidi principi che regolano i rapporti tra la Chiesa e quei suoi figli i quali entrano nella vita pubblica, siano o non siano qualificati rappresentanti dei Cattolici. Per un cattolico l’ordine è uno, la coscienza è una come Dio è uno. Un cattolico non può ignorare che mai gli è concesso di fingere che Dio, che Gesù Cristo non esista. La ragione di questo è che i motivi obiettivi sono permanenti e valgono tanto per gli individui che per le comunità. E le ragioni della certezza di Dio sono obiettive. Pertanto il rispetto alla legge divina naturale o rivelata per un cattolico precede ogni altra considerazione, la orienta ed anche la limita. Per lui vale la parola di Pietro: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire piuttosto a voi anziché a Dio, giudicate voi» (At. IV, 19); su di lui incombe preciso e inderogabile l’avvertimento di Gesù Cristo: «Chi dunque mi avrà riconosciuto davanti agli uomini, lo riconoscerò anch’io davanti al Padre mio che è nei cieli; chi poi mi avrà rinnegato davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre» (Mt. X, 32)! – Ciò significa che in nessun caso per lui una questione può essere trattata indipendentemente dalla morale e dalla verità di Dio. E per restare su questa unica e non discutibile posizione egli deve affrontare ogni difficoltà ed accettare ogni evento. Naturalmente chi non è cattolico o chi, pur cattolico, non ha sentimenti e idee degni della fede nella quale è nato ed è stato battezzato, ripudierà talvolta queste affermazioni, accettando invece proposizioni laiciste che ne sono il contrario. Ma questo farà per una deformazione soggettiva. La obiettività delle cose resta sempre quella che si è detta: Dio esiste, ha creato, è Signore, è sommo legislatore, ogni cosa deve essere soggetta in cielo e in terra alla sua volontà. Resterà, per i singoli che contestano il dominio di Dio sulle cose pubbliche, la questione personale se e come siano essi responsabili del loro errore ed eventualmente della loro colpa obiettiva. “Singuli videant”. Resterà la questione delle collettività che accettano un tale modo di pensare offensivo alla divina Presenza ed alla divina Provvidenza; quando si tratta di collettività la questione delle responsabilità diventa difficile a decifrarsi per la molteplicità dei fattori anche inconsci che vi giocano. Non dobbiamo qui occuparci di questo. – Se non si può ammettere mai da un cattolico una idea agnostica nella vita civile e tanto meno un contegno agnostico, vuol dire che non sono accettabili:

a) il concetto di una coscienza civile perfettamente disgiunta e indipendente o parallela ad una coscienza morale. Pertanto non sarà ammissibile il caso di compiere in nome della coscienza civile quello che fosse condannato dalla coscienza morale. Questo non significa che si debba escludere il criterio della superiorità del bene comune, perché tale superiorità del bene comune rispetto al bene privato, nei suoi giusti limiti, è perfettamente ammessa dalla legge morale. Nessuno pertanto può accusare il cattolico che agisce sempre secondo la legge morale di diventare insensibile di fronte alle esigenze del bene comune;

b) il criterio machiavellico nel reggimento della pubblica cosa. Il criterio machiavellico consente al reggitore la menzogna, l’inganno ed anche la sopraffazione, strumenti ritenuti necessari per governare gli uomini e per ottenere pertanto un bene comune. Tale criterio viene anche impropriamente chiamato «ragione di Stato». Il criterio machiavellico è immorale; è ritenuto furbizia e si rivela sempre debolezza; ha per fondamento il pessimismo. Infatti parte dal presupposto che gli uomini siano talmente stupidi e talmente malfatti che non possano essere guidati se non impiegando con loro la falsità, l’inganno e la sopraffazione. – Nessuno può negare, a parte i meriti letterari, che Machiavelli abbia fatto la più raffinata interpretazione della capacità di impostura e di inganno e che questa porti a lui l’elogio della raffinatezza, ma non quello della grandezza. Il criterio machiavellico è il rimedio dei deboli. Esso diviene per taluni accettabile dopo che con maggiore o minore forzatura sono riusciti a trovare una certa tranquillità sull’errore prima denunciato e pertanto dopo che sono riusciti a credere nella esistenza di una coscienza civile, indipendente da quella morale. Con questo non occorre altro per essere perfettamente machiavellici. – Il Cattolico pertanto sa che nella vita pubblica deve avere uno stile, il quale lo differenzi, sia per il coraggio delle sue condizioni in privato ed in pubblico, sia per la moralità della sua condotta, in ogni affare individuale o d’interesse comune. Vi possono essere le situazioni difficili della vita pubblica. Non autorizzano, neppur esse, ad andare contro la coscienza morale. Esse sono: i casi in cui si deve subire, anche avendo usato di tutte le proprie possibilità, ed allora varrà ricordare che la vittima in quanto tale non può avere colpa; i casi in cui la scelta sta tra il male maggiore e il male minore, fermi restando, però, la osservanza delle leggi morali sulla cooperazione ed il principio del duplice effetto; i casi in cui si deve tener conto del diritto della libertà altrui, fermo rimanendo che il diritto e la libertà altrui non possono mai esigere azioni in compossibili con la legge di Dio. – La impossibilità per un cattolico (e per ogni uomo che sia anche solo nella verità naturale) di ammettere un concetto agnostico dello Stato e della vita pubblica indica anche i limiti nei quali può essere applicato il concetto democratico. La democrazia sta sotto e non sopra la legge di Dio, come tutte le forme possibili di umana convivenza. In essa può essere oggetto di decisione democratica solamente quello che Dio ha lasciato alla libera disponibilità degli individui e della collettività, non altro. È un errore (il quale ricade in quello sopra denunciato della coscienza civile al tutto indipendente) il credere che alla disponibilità democratica sia aperto qualunque oggetto. Oltre che errore è pericolo per la democrazia stessa, perché ad uccidere le umane esperienze non esistono malattie più mortali delle loro stesse esagerazioni. La falsità del principio agnostico e la affermazione del suo contrario hanno una importante conseguenza per il cattolico che entra nella vita pubblica. Egli deve accettare tutto il diritto pubblico della Chiesa e prima ancora il diritto divino sopreminente sul quale esso si fonda. – Altra cosa è che egli venga a trovarsi, come reggitore, in posizione tale da poter sempre ed in tutto corrispondere ai postulati di questo diritto. Infatti può darsi il caso in cui egli sia limitato da situazioni giuridiche e da situazioni di fatto contro le quali non può nulla; può darsi il caso che urgere oltre un certo limite il diritto della Chiesa finisca col diventare per circostanze accidentali più un danno che un vantaggio. Ma egli deve avere nell’animo il pieno rispetto di quel diritto che deriva dalla istituzione di Cristo e deve restare nella imposizione coraggiosamente operativa di rispettarlo quando ciò gli è possibile; riflettendo che in questo non gli sarebbero giovevoli davanti a Dio né le debolezze, né il calcolo del proprio interesse. Finalmente egli deve accettare l’azione magisteriale della Chiesa. E prevedendo tale conclusione che noi abbiamo dedicato una parte della nostra lettera a questo argomento. Determinare se qualcosa è morale o meno, se corrisponde o meno alla legge di Dio, per il cattolico che intende stare con Gesù Cristo appartiene al magistero ecclesiastico. La Chiesa non interviene a giudicare direttamente e per sé dell’aspetto politico nell’esercizio del potere, ma a giudicare della conformità o meno di quello alla verità e alla legge divina. – Secondo quel giudizio il cattolico deve regolare la sua coscienza e la sua azione. Egli sa benissimo che non esistono due leggi, una per lui ed un’altra per chi non ha come lui il dono integro ed operante della fede. Sa che la legge divina obiettivamente obbliga tutti allo stesso modo, che tuttavia Dio tollera la libertà anche abusata degli uomini, dalla quale oltre le colpe, e spesso prima delle colpe, nascono gli errori. Sa che questi, colpe ed errori, fanno velo all’intelletto e creano situazioni penose di dissidio e di difficoltà, tra le quali egli può e deve dar prova della sua fedeltà, della sua forza, della sua resistenza e della sua capacità di merito. Tutto questo è difficile e dimostra che la vita pubblica e soprattutto l’esercizio del potere esigono una preparazione spirituale, in cui vigoreggi la capacità di rinuncia. Tutto può decadere quando entrano nell’esercizio della vita pubblica e del potere l’ambizione e l’interesse personale.

Il vero cattolico di fronte agli «altri»

Per «altri» qui intendiamo coloro che, pur battezzati ed anche qualche volta praticanti, nella vita pubblica (e spesso non solo in quella) si comportano come chi aderisce a principi teorici e pratici discordanti in qualunque modo dalla dottrina cattolica. Va da sé che, per il momento, non ci occupiamo in alcun modo di situazioni particolari. Qui trattiamo unicamente di principi. Solo appresso dovremo formulare la ipotesi di situazioni contingenti. Ecco dunque i princìpi che devono guidare il vero cattolico. La fede non la si impone a nessuno. Pertanto non sono ammissibili coercizioni quanto all’atto di fede; esso è, deve rimanere sempre atto libero, per dare così vero onore a Dio. Il fatto solo che non si possa da noi uomini, imporre l’atto di fede implica che si debba accettare come fatto che esistano uomini privi di fede. Il che ha ovviamente delle conseguenze giuridiche e pratiche. – La fede la si può e la si deve predicare a tutti ed anche i laici hanno in questo un dovere di collaborazione con la Chiesa, della quale sono membri e nella cui famiglia vivono. Ciò lo si ottiene anzitutto con la professione aperta della propria fede. Non si esclude affatto che in talune situazioni gravi e penose come quelle persecutorie si possano dare ragioni valide per tacere e ritirarsi, come quando non è possibile fare di più, o quando il tentare «oltre» diventerebbe più un danno che un vantaggio ai fini della Chiesa e della salvezza delle anime. Ma le situazioni gravi e penose alle quali alludiamo sono, lo si ritenga bene, casi piuttosto estremi e non debbono vedersi realizzate quando invece è solo questione di interesse o di paura. I mezzi giuridici e non giuridici, ma onesti, che sono possibili per condurre la propria azione nella direzione indicata dalla propria informata coscienza cristiana, debbono essere usati coraggiosamente. – La fede obbliga ad avere principi ben chiari nei rapporti cogli altri e pertanto indica da quale angolo si debbano vedere i problemi umani e sociali. Essi vanno sempre inquadrati nella finalità che hanno le cose terrene e nella misura definita da Cristo con le parole: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt. XIX,19). La dottrina cristiana spinge a considerare l’autorità e conseguentemente il potere come un servizio e non come un personale godimento. – La fede, con la chiarezza della legge divina, obbliga ad accorgersi: che la politica è il punto di confluenza di tutte le maggiori ambizioni e passioni, dove tutto facilmente può venire dirottato ben lontano dalle esigenze del bene comune, non esclusi modi apparentemente leciti per chi superficialmente giudica. Essa, la fede, severa con le ambizioni e le passioni, indicatrice di un distacco del cuore dai beni terreni, mette in guardia chi sente cattolicamente, perché non cada nella tentazione, la quale ha rovinato molti e nei secoli ha dato alla Chiesa i guai peggiori. Questa considerazione conduce ovviamente a ponderare con chiara precisazione qualunque collaborazione, non per escluderla sempre, ma per restare a questo proposito nella norma morale e per evitare quel facile inganno, che sempre è latente ove le illusioni degli uomini superano la loro capacità e spingono le loro ambizioni.

Le formazioni che agiscono nel campo civile con ispirazione cattolica

L’argomento ha non pochi contatti teorici e pratici con la l’«ortodossia». Ha tuttavia bisogno di una importante premessa, che meriterebbe una trattazione a parte e che qui ora non affrontiamo, ma della quale neppure possiamo tacere. Una comunità politica, fatta di Cristiani Cattolici, dopo quello che si è detto sopra, dovrebbe essere, naturalmente e chiaramente, in privato e in pubblico, di impronta cattolica. Questo sarebbe il frutto della logica e della coerenza di ogni anima cristiana, di molte anime cristiane, nonché il frutto della necessità per lo Stato di non essere agnostico. Dunque la società tipicamente cristiana può esistere anche se per la comune legge, che non conosce cose perfette in questo mondo, potrà avere difetti marginali. Questa «società cristiana» sorge e nasce con perfetta spontaneità dalle anime sinceramente cristiane. La naturalezza di questo è tale che, se si volesse dire altrimenti, ci si incontrerebbe fatalmente in una contraddizione. Di ciò abbiamo voluto avvertire, non tanto per difendere la società naturalmente cristiana del Medio Evo, ma perché appaia in quale considerazione debba tenersi la asserzione – così spesso difesa da pubblicazioni italiane periodiche sedicenti di ispirazione cristiana, senza ombra di resistenza da parte di altre più pudiche pubblicazioni – secondo la quale non si può concepire in clima di libertà una «società cristiana». La asserzione è dunque falsa. Ma c’è di più: è ipocrita, perché si può ritenere venga espressa così per ottenere effetti interessanti. La questione sarà sempre, per una societas Christiana, che lo sviluppo del senso cristiano, dall’individuo alla somma degli individui, ossia alla loro comunità politica, avvenga naturalmente senza coartazioni indebite. La societas Christiana può esistere e sarebbe utile a tutti che esistesse. La vera ragione per cui la si vuol negare, rompendo la logica della propria fede, è la paura che la societas Christiana dipenda dalla Chiesa. – Quando la società è naturalmente cristiana non occorrono associazioni politiche che si distinguano per la ispirazione cristiana. A questo punto è doverosa un’altra affermazione. In una società che non fosse tipicamente cristiana, per la mescolanza delle vane religioni o per la parziale apostasia di molti credenti, si potrebbe ipotizzare uno stato di onestà nei supremi princìpi per i quali prevalessero i dettami del diritto naturale nella conformazione politica ed anche nella vita politica. Quando non c’è miseria questo di fatto accade, almeno qualche volta. In tal caso è possibile non sia necessaria, per difendere la libertà della Chiesa e della religione, una associazione politica di Cattolici come tali. In realtà quando in uno Stato esiste il vero rispetto delle libertà dei cittadini e della libertà di associazione, difese entrambe dagli aspiranti alle «signorie», esistono ragioni per una sufficiente anche se non perfetta libertà religiosa e possono mancare ragioni veramente cogenti per associazioni politiche cattoliche qualificate, siccome accade in qualche nazione. Le associazioni politiche di ispirazione cattolica sono sorte per difendere la libertà religiosa e, spesso, la libertà della Chiesa od almeno la dottrina sociale della Chiesa, in ambienti che erano guidati o da dottrine avverse alla religione o da principi laicisti. Se non ci fossero state esagerazioni persecutorie e schemi laicisti, probabilmente sarebbe mancata la ragione per cui sono sorti dei partiti cattolici. E vero che il bisogno di contrapporsi ad un concetto illuministico ed asociale dello Stato ha avuto la sua parte, e non disprezzabile, nel condurre ad inquadramenti politici; tuttavia non è poi certo se, con quella sola ragione, gli inquadramenti politici sarebbero sorti. Sono sempre le azioni che suscitano azioni in direzione contraria, quando non rimangono nel giusto equilibrio. Questo bisognava pur dire, perché all’inizio delle formazioni politiche cattoliche sta sempre una ispirazione profondamente religiosa e la netta volontà di difendere, in un ordine più cristiano, il diritto e la libertà delle anime e della Chiesa. – Quali allora i principi che regolano la linea morale di associazioni in campo civile che o sono di aperta ispirazione cristiana (cristiana in Italia vuol dire cattolica), o si presentano come polarizzatori e rappresentanti dei cattolici, soprattutto militanti? L’azione in campo civico (se si vuole: politico) in quanto tale, per sé, non è di competenza ecclesiastica. Da questo principio si possono trarre tutte le ovvie e legittime conseguenze, a patto che si contemperino coi principi egualmente veri che seguono.  L’azione in campo civico non può prevalere né sulla verità né sulla legge morale. – L’azione in campo civico ha sempre un aspetto che pone un collegamento chiaro col Magistero ecclesiastico. Si tratta dell’aspetto morale anzitutto: su questo aspetto, e cioè sulla conformità o meno di una azione politica rispetto alla legge divina, è competente a giudicare la Chiesa ed il suo giudizio vincola la coscienza dei fedeli se viene  dato in forma sufficiente e conveniente a creare il vincolo. Si tratta poi dell’aspetto ideologico, di quello cioè in cui una azione politica o diviene accettazione di una determinata dottrina o diviene appoggio diretto od indiretto alla medesima. In tal caso può accadere che non sta più salva la posizione mentale dei Cattolici rispetto alla sacra dottrina della Chiesa ed anche per questo caso il magistero della Chiesa può esprimere il suo giudizio nel campo dottrinale o di sua competenza. – C’è finalmente o può esserci nel fatto politico un terzo aspetto al tutto concreto e pratico ed è il collegamento tra il medesimo e certi o probabili danni della religione e della Chiesa. Questa ha il diritto di difendersi ed ha il diritto di indicare ai suoi figli quello che ritiene pericoloso. I suoi figli non possono negarle né il diritto né la capacità di giudicare delle azioni o delle conseguenze di azioni ai suoi danni. – Gli atti della Chiesa, nella sua competenza, hanno valore per la coscienza di tutti e singoli i fedeli e possono spingere tale valore fino a creare la obbligazione di coscienza. Una formazione rappresentativa di Cattolici in campo civile (e pertanto anche politico) proprio in forza della sua ispirazione cristiana e cattolica ha doveri maggiori. Questo non ha bisogno di essere dimostrato, perché è noto a tutti che la legge cristiana, fondata su una divina rivelazione, domanda qualcosa di più della semplice legge naturale e perché qualunque collegamento, fosse pur solo ideale, con realtà superiori impone una perfezione maggiore. Ciò significa che ogni orientamento deve essere volto al «meglio» e mai al «peggio». Questi doveri maggiori vanno ben considerati sia nell’aspetto negativo che nell’aspetto positivo. Per mantenere una esposizione «ascendente» cominciamo dall’aspetto negativo. Dal punto di vista negativo una formazione cattolica in campo civile deve sempre evitare qualunque azione disonesta, qualunque prevalenza di interesse personale su interesse pubblico, qualunque «personalizzazione» della propria attività; le ragioni sono tutte nella morale cristiana; deve evitare qualunque impiego di mezzi illeciti, compresi tutti gli espedienti machiavellici, e pertanto qualunque concorrenza con chi batte vie riprovevoli. La ragione di questo è non meno evidente di quella detta prima. La collaborazione al male sta tra i mezzi illeciti e per i particolari rimandiamo i nostri confratelli agli ordinari testi di teologia morale: là ce n’è abbastanza! Dal punto di vista positivo una formazione di Cattolici in campo civico: deve far prevalere i «motivi ideali» su quelli di interesse anche immediato; deve tendere a realizzare nella giustizia la coesistenza di tutte le categorie e pertanto non può svolgere una lotta di classe: deve realizzare la concordia con la virtù e non soltanto coll’interesse o la convenienza, educando uomini a servire e non ad essere serviti; deve avere nel massimo grado il senso di responsabilità del vero bene comune. Infine, deve avere sempre presente che, per quanto autonoma nel suo aspetto meramente politico, non può considerare tale autonomia in modo lesivo della verità e della legge di Cristo, né può dimenticare che il proprio comportamento (anche per malizia di interpretazione altrui) deve evitare che cadano sulla Chiesa responsabilità sconvenienti o ingiuste o addirittura lesive del supremo bene delle anime, per il quale è stata costituita la Chiesa stessa. Nei confronti della Chiesa, anche ove mancassero ragioni giuridiche di interferenza della medesima in materie estranee alla diretta competenza sua, resta sempre la dignità della «maestra» e della «madre»; i rapporti stabiliti dalla forza magisteriale e dalla vera autorità materna non stanno nei parametri di un discorso politico e non defraudano le libertà politiche, ma tutti capiscono che trascendono queste cose e su queste cose irradiano per ragioni soprannaturali. Ecco dunque la Chiesa e il mondo. Il mondo per agitarsi ha le sue ragioni culturali, politiche, economiche, sociali e tecniche. Le ultime tendono a prendere un primato. Esse sono vicinissime alla materia, della quale si avvalgono, e possono raggiungere la forza indiscutibile e straripante della materia stessa. Sulla cultura prevale certamente ormai la rete materiale dei mezzi diffusivi che pongono la suggestione dei popoli in poche mani, frettolose e spesso partigiane. L’imitazione del mondo e la tentazione di riuscirgli graditi porta ad esercitare una immorale pressione sulla verità, dato che il mondo tende, nella sua corsa affannosa, a sostituire la verità col «fatto». E pertanto la verità, la ortodossia possono contare poco quando l’orgoglio, il piacere, l’interesse e il vuoto portano a considerare piuttosto l’utile del «fatto» che il dovere della «verità».  Il mondo dà segni in cui si scorge la noia del suo asservimento alla materia ed alla luogotenente della medesima, la tecnica! La Chiesa non travierà mai. Noi possiamo traviare. E meglio rimanere cittadini della «città superna». Sant’Agostino al tramonto di una grande giornata del «mondo», scriveva i ventidue libri del De civitate Dei. È tempo di riprendere quel grande discorso.

[Fine]

 

 

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – CHIESA, FEDELI, MONDO (II)

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO:

CHIESA – FEDELI – MONDO – II –

Ortodossia III

[Lettera pastorale del 5 agosto 1962; «Riv. Dioc. Genovese», 1962, pp. 208-248].

Sincerità verso i fedeli

Si domanda: dobbiamo continuare a proporre ai fedeli tutto quello che è nel messaggio di Cristo, con tutto quello che in esso sotto la garanzia e la guida di un legittimo Magistero vivo può essere via via inteso o da esso dedotto o con esso connesso obiettivamente? Questo dobbiamo farlo mantenendo la stessa distinzione netta e fermissima che ha fatto Gesù Cristo tra verità ed errore, tra bene e male, tra Dio e mammona, qualunque possa essere la reazione a questa netta fermezza e a questa chiarezza? Dobbiamo accettare tutta la logica di immutabilità dinamica che è nella Rivelazione? Dobbiamo continuare ad esigere la stessa morale, con la stessa distinzione dal mondo, con la croce, la povertà di spirito, la umiltà, la obbedienza? Dobbiamo ancora affermare che «niente serve all’uomo, se guadagna anche tutto il mondo, ma reca danno all’anima sua» (Lc. IX, 25), stabilire così un principio di assoluto primato contro tutto e tutti, se occorresse, della parola di Dio, della opera di Dio, del Regno di Dio? – Oppure tutto questo dobbiamo aggiustare, decurtare, rammollire od anche solo dire sottovoce, pudicamente, per non guastare l’orgia delle intelligenze e dei costumi, per adattarsi al mondo, per poter dialogare con il blasfemo, per presentare un volto dolce ed accessibile al messaggio di Cristo? Questa la domanda. Essa riguarda l’ortodossia globalmente intesa. È evidente, e pertanto siamo nell’argomento di questa lettera. Tale domanda sembrerà a molti inutile, perché la questione messa nei suoi chiari e duri termini non ammette per un Cattolico che una risposta: «no». Ma basta diluirla, basta farla filtrare attraverso stati d’animo, con evocazioni emotive e con la perenne garanzia di una sorta di amore verso i fratelli, perché sembri diversa nella forma (e per questa sia palliata), sia invece identica nella sostanza (e in tale modo venga di fatto accettata). Fin dalla prima nostra lettera sull’Ortodossia, noi abbiamo messo i nostri sacerdoti in guardia contro questo modo sottile di comportare gli errori. Un’altra volta siamo a quello stesso punto. Del resto non c’è bisogno di giustificare: i fatti parlano. Gli elogi di molti vanno a coloro che sanno rendersi graditi ai «lontani», senza tener conto che spesso per rendersi graditi bisogna mentire. La questione della salvezza delle anime non è questione sentimentale che possa essere posta e risolta in termini emotivi, accomodanti e a tutti i costi concilianti. Qui sta l’errore: essa va posta nei termini di fede, di penitenza e di rinuncia nei quali l’ha posta Gesù Cristo. La sincerità verso i fedeli ci obbliga a predicare a loro con estrema chiarezza e continua ripetizione le verità dure che ha insegnato nostro Signore Gesù Cristo e che noi dobbiamo portare a tutti. Notate bene: anzitutto, sempre, chiaramente. Perché Gesù Cristo ha portato verità dure, per l’intelletto. Enumeriamo le più salienti.

Il mistero trinitario. Gesù, anche prima di darne la sintesi e la formula, siccome accade in Matteo XXVIII, ne ha parlato continuamente, perché è continuo il riferimento al Padre, a sé Figlio e – almeno da un certo punto nei discorsi – allo Spirito Santo. Non aveva importanza per Gesù che il continuo richiamo al Padre nei discorsi degli ultimi tempi suoi mandasse veramente in bestia i suoi oppositori. Più andavano in bestia e più ne parlava. E strano che taluni non sentano la significazione del dramma continuo che accompagna questi discorsi! Il mistero della Trinità lo si penetra attraverso un raffinamento della intelligenza e dei suoi strumenti, mai lo si esaurisce; ma tanto più lo si intende quanto più si arriva a vedere che tutto il rimanente della rivelazione cristiana non ha significato senza il mistero trinitario.

La incarnazione del Verbo. Essa, con quello che la contorna, è il fatto più interessante di tutta la storia umana. Lasciando le porte aperte per la buona volontà che intende sottrarsi al terrore delle contraddizioni, questa verità fa veramente curvare la schiena. Gesù Cristo ne ha fatto il motivo continuo, il punto di riferimento, la pietra di saggio per provare la fede di quelli che voleva beneficare, per provare la convinzione dei discepoli. Non aveva importanza che quella verità spezzasse qualcosa, soprattutto in un ambiente dove erano proibite tutte le rappresentazioni antropomorfiche della divinità e dove Egli si presenta invece «uomo». Gesù non ha posto il problema di rendere la verità «dolcificata» e «passabile»; ha pianto su Gerusalemme, ma non ha ritirato o ridotto i termini della Rivelazione ed ha annunciato come castigo l’eccidio del suo popolo e a distruzione della città e del tempio.

La redenzione attraverso la Croce. Gli apostoli e i discepoli (essi sono stati i soli a sentirne parlare) si torcevano ad udire le profezie della passione, che si incalzavano come a non lasciarli tranquilli e ad impedire che si costruissero i termini di un comodo avvenire. Il dramma della Croce si stende su tutto il pellegrinaggio terreno del Redentore, ne diviene il fatto caratteristico che ha, come bene illustra la lettera agli Ebrei, un tratto eterno, anche per la rinnovazione eucaristica.

La rigenerazione. Gesù ne parlò chiaro a Nicodemo (cfr. Gv. III, 5-7), il quale diede prova di capire poco. Su questo punto il discorso si fa sempre più esplicito e più grave, passando attraverso la trattazione di Cafarnao (cfr. Gv. VI, 27 sgg.) ed arrivando al grande discorso dell’ultima cena. Come Nicodemo ha dimostrato (lui, uomo piuttosto fine, intelligente, intuitivo e probabilmente più colto di altri discepoli), tutti debbono avere provato una certa vertigine ad udire parlare del mistero della rigenerazione e della grazia. Ma Cristo non ha avuto riguardi nel mettere una posta fondamentale e nell’invitare l’uomo a raccogliere tutte le sue forze per arrivare a porre un atto di fede. Quell’atto fa valicare il cosmo e tutte le cose che il cosmo può insegnare o mostrare, anzi tutto un ordine», che è ben più grande del cosmo stesso. Dietro al mistero della rigenerazione si vedono i Sacramenti, il Battesimo.

L’Eucarestia. Una attenta lettura del discorso eucaristico di Cafarnao, preparato intenzionalmente dal miracolo della moltiplicazione dei pani, dal discorso sulla fede e sulla azione della grazia da parte del Padre, rivela per le sue ripetizioni e i suoi rincalzi lo stato d’animo di coloro che lo ascoltarono: si torcevano veramente, dichiarano secco che è un discorso duro quello che intendevano; se ne vanno; c’è aria drammatica di sommossa, al punto che — evidentemente non erano del tutto immuni neppur essi dallo stato d’animo della folla – Gesù ai discepoli pone il problema di fiducia. In extremis la professione di Pietro, stupenda eppur rivelatrice, salva la posizione dei discepoli che si sono sentiti dire – questa volta – non «venite», ma «volete andarvene anche voi?» (Gv. VI, 67). Per capire qualcosa di più di questo mistero la teologia ha lavorato mille anni!

Il giudizio finale e la dannazione eterna. I capitoli del Vangelo dedicati a questa verità, in un certo senso conclusiva, sono tra i più difficili e pare portino con sé il travaglio ed il freddo del supremo contestato destino degli uomini liberi e peccatori. La immagine dell’inferno eterno resta ferma, irremovibile ed implacabile al punto stesso in cui possono cessare l’amore e la obbedienza perfetti e totali degli uomini verso chi li ha creati e redenti. Che l’inferno costituisca un mistero nessuno lo può negare, come tutto rimane mistero la vita di Dio e la incarnazione. Ma che esso sia un termine di grandezza, senza del quale si sminuirebbe tutta la rimanente grandezza di questa Rivelazione, nessuno vorrà negarlo, se capisce qualcosa.

La Chiesa. È una società immessa ab extrinseco nell’ordine terreno; è fatta condizione di ogni salvezza; dei diritti suoi non deve dir grazie a nessuno; lasciando a tutti la responsabilità terribile di non riconoscerglieli, è compaginata di cose divine, indefettibili e di uomini defettibili e tuttavia essa è la «sua», di Cristo. Se ci sono «chiavi divine» per aprire un arcano tesoro ed un altro ordine, esse sono date a questa Chiesa, e quello che la Chiesa legherà o scioglierà sarà legato o sciolto dal cielo. Dobbiamo dire che qui non è stata usata alcuna diplomazia umana, nessun attutimento, e neppure è stato tenuto conto del fatto che spesso gli uomini dormono e fraintendono. La verità qui è colpo diretto inderogabile. – Molti potranno trovare a ridire su questo o sul quel fatto di uomini accaduto nella Chiesa, anche nei suoi alti gradi, potranno comportarsi dinanzi ad essi come se fossero sconvolti. Stiamo tranquilli; lo sconvolgimento è assai più grande a sentirci dire quello che ha detto Gesù Cristo a proposito della Chiesa. Che, se il primo sconvolgimento non è incommensurabilmente più grande del secondo, ciò è segno che non leggono il Vangelo e non lo intendono anche leggendolo ed anatomizzandolo. Bella novità che gli uomini lasciati liberi da Cristo si servano della libertà medesima e facciano anche del male! Quello che sconvolge, se mai, è il fatto che a tali uomini nel volgere dei tempi, Dio abbia messo nelle mani cose divine! Le difficoltà non possono farle gli uomini col loro corto metro, le deve fare Iddio col suo metro infinito. Ma è Dio! Qualche eresiarca ha dimostrato spavento della curia romana, strumento pur necessario ad un uomo, che deve essere e fare il Vicario di Cristo restando uomo, come se la curia fosse la bestia dell’Apocalisse! Nessuno può negare che uno strumento umano possa anche in qualche momento sentire il caldo e il freddo, come accade persino ai metalli. Ma la cosa che sconvolge è che Gesù Cristo abbia dato a Pietro un potere tale e, munendolo di un carisma e di tutta la grazia, lo abbia lasciato libero di combinare quello che ha combinato nell’atrio del principe dei sacerdoti, lo abbia lasciato libero di avere in qualche momento paura e di sentire il peso di tutto, obbligandolo da uomo a servirsi di tutti gli strumenti dei quali si debbono servire gli uomini per fare qualcosa. Certo gli ha dato il dono dei miracoli, ma non per i suoi comodi. Sanno questo taluni letterati che si scandalizzano di Dio? Non è un buon gioco per loro. Qui le cose umane non possono vedersi altro che da una travatura divina. Certo, coloro che hanno servito i potenti piuttosto che Gesù Cristo non hanno avuto tempo, vivendo con una fede comoda e assopita, di vedere la travatura divina ed esserne sostenuti più che da ogni altra ragione umana. – Ora guardiamo il quadro di queste verità dure. Gesù sapeva che per aderire veramente alla fede, se era necessaria la grazia, era necessario si rispettasse l’ordine di natura, e cioè il modo col quale gli uomini arrivano raziocinando a delle convinzioni certe. Per questo il Salvatore ha trattato dei prerequisiti alla fede e li ha ampiamente forniti, anzitutto esterni (siccome domanda la natura umana) e non solo per allora, ma per tutti i tempi (cfr. Mt. XXVI,17 sgg.). Gesù ha voluto ci fossero delle dimostrazioni accessibili ed esaurienti, ma che imponevano pazienza, sforzo, lavoro, studio, umiltà e spesso purezza di cuore (cfr. Gv. III,19-21). Non ha elargito la evidenza immediata delle verità rivelate. Tra la evidenza immediata (che non è stata concessa) e lo sforzo razionale per arrivare alla fede ci sta in mezzo il «merito» della fede, quanto la possibilità di non raggiungere la fede ed anche di perderla. In questo breve tratto sta il vero dramma degli uomini, almeno il dramma fondamentale. Il percorso razionale verso la fede può essere tutto coperto, ma occorrono strumenti di precisione senza leghe dubbie e senza scorie infiltrate. La lega dubbia e la scoria infiltrata compromettono la prosecuzione del cammino e fermano generalmente il motore. – Il problema della fede è il problema di compiere un cammino, di usare uno strumento di precisione, di non pretendere che un’automobile di cartone divori una salita e, finalmente, di insistere sul motore. Molti non lo fanno e si lamentano a torto. È in questo modo che Dio ha conciliato, perché fossimo anche noi liberi e meritevoli nell’atto di fede, la crepuscolarità della nostra cognizione e la luce della verità, la stessa libertà nostra e la pienezza della convinzione. – In talune pubblicazioni si direbbe che si ha paura della apologetica. Ma è Gesù Cristo che l’ha voluta, come elemento di questo magnifico incontro, tra la luce e le tenebre, tra la libertà e la obbedienza intellettuale, tra la fede (pur sempre atto di intelletto) e la coscienza di un uomo che, credendo, sa di non essere irragionevole. La ragione per la quale si cerca di tacere dell’apologetica sta nel fatto che già si è slittati, almeno in qualche modo, nel soggettivismo filosofico, nel relativismo idealistico. Questo lascia la porta aperta a pensare e dire e fare quello che si vuole. Ma, premesso ciò, Gesù Cristo ha enunciato verità dure. Diciamo «dure» per significare che sono superiori alla portata della nostra intelligenza. Si tratta di verità che potremo in qualche modo intendere, ma non comprendere; penetrare, ma non esaurire. Lo sforzo di ridurle, a mezzo di un trattamento istintivo e sentimentale, ad essere extra razionali è lo sforzo autentico per rinnegarle. Guardiamo bene in faccia Cristo; con Lui non si gioca. Per dire queste cose, Gesù Cristo ha accettato: il ripudio del suo popolo, lo strazio del medesimo, il deicidio, la croce. – Questa croce ha dato alla sua Chiesa da portare come segno delle genti fino al giorno in cui la medesima non lo precederà per l’ultimo giudizio. – Noi dunque cercheremo di tarpare queste verità per instaurare un dialogo più umano con quelli che non obbediscono interamente a Dio? Noi, ai quali è stato dato l’ordine di «predicare sopra i tetti» (Mt. XX, 27), ci lasceremo cogliere da un falso pudore e, per questo, cercheremo di raccomandare tali verità alla cultura umana, affinché le protegga, o le affideremo ai giullari di una fantasiosa letteratura perché ne diventino i desiderati accomodatori? Gesù ha lasciato distruggere Gerusalemme… – Le verità dure per la debolezza umana sono quelle che riguardano i costumi e che domandano un comportamento totale, degno di figli adottivi di Dio. – La verità più dura è una verità generale. Nessuna norma, nessuna ragione, nessuna istanza terrena può prevalere sulla legge data da Cristo; nessuna ragione umana o di Stato o di famiglia o d’altro può limitare comunque la obbedienza dovuta a Dio. Non c’è posto per un’altra legge che non sia subordinata a quella di Cristo; non c’è posto per una coscienza morale civile, che sia parallela e indipendente da una coscienza morale cristiana. Vogliate meditare bene i seguenti testi: «Non sono venuto a mettere la pace, ma la spada. Perché sono venuto a dividere l’uomo dal padre e la figliola dalla madre e la nuora dalla suocera sua; e nemici dell’uomo (saranno) i suoi famigliari. Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me e chi ama il figliolo o la figliola più di me non è degno di me; e chi non prende la sua croce e non viene dietro di me non è degno di me. Chi avrà Trovato la sua vita la perderà e chi avrà perduta la sua vita per amor mio la ritroverà» (Mt. X, 34-39).

«Se dunque la tua mano o il tuo piede ti è causa di peccato, mozzalo o gettalo via da te; meglio è per te entrare alla vita monco o zoppo, che aver due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti è causa di peccato, cavatelo e gettalo via da te, meglio è per te entrare alla vita con un occhio solo, che averne due ed essere gettato nella Geenna del fuoco» (Mt. XVIII, 6-9).

Questi testi non sono che un saggio. Sono chiari e rivelano una fermezza che è costante. Altra verità dura è pure una verità generale. Gesù Cristo domanda una perfezione, la domanda interiore, la domanda estesa ai più piccoli atti dell’uomo ed alle loro sfumature, tanto che siamo invitati tutti ad essere «perfetti come il Padre che sta nei Cieli» (Mt. V, 48), tanto che « . . . ogni parola oziosa che gli uomini dicono, di questa parola renderanno conto nel giorno del giudizio» (Mt. XII,36). Si tratta di una verità che sta sotto tutto il discorso della montagna, per tacere di altri innumerevoli testi neotestamentari. – La legge dell’amore è sublime, ma è una verità dura, perché sostanzia l’amore a Dio con la osservanza della sua parola (cfr. Mt. VII, 21-23) e cioè lo vuole «concreto», perché lo collega all’amore del prossimo, dimostrando chiaramente che non ama Dio chi non ha amato i fratelli (cfr. Mt. XXV, 40); perché garantisce l’amore del prossimo con la misura stessa con la quale possiamo amare noi stessi e con la inderogabile ed assoluta legge del perdono. Prima di essere una poesia ed una infinita commozione, la carità è una cosa incredibilmente seria. Chi non perdona, non sarà perdonato. E facile dirlo, non è altrettanto facile farlo. Eppure è necessario. Si legga la stupenda sintesi che san Paolo fa della carità nella seconda Lettera ai Corinti al capitolo XIII e si avrà la testimonianza di tutto questo: la carità non è elemento ad uso puramente romantico o decorativo. – Il distacco del cuore dai beni terreni, dei quali il più vicino quaggiù siamo noi stessi, si realizza con l’umiltà e la semplicità, che ne sono inscindibili, alla base di tutta la vera e solida costruzione morale. Gesù ha detto: «Beati i poveri in spirito perché di questi è il regno dei cieli» (Mt. V, 3); «Non accumulate tesori sulla terra, dove tignola e ruggine corrodono e dove i ladri perforano e rubano; accumulate invece tesori in Cielo dove né tignola né ruggine corrodono e dove i ladri né perforano, né rubano… Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure all’uno si attaccherà e l’altro disprezzerà. Non potete servire a Dio e a Mammona… Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt. VI, 19-33). La penitenza, il sacrificio, la rinuncia e la croce, il tutto riassunto nella proposizione ed esaltazione continua della croce stessa, danno una qualificazione necessaria ed inconfondibile alla morale evangelica ed è per questo che «la porta è stretta ed angusta è la strada» (Mt. VII, 14). Su questo sfondo autentico e forte si vedono tutte le altre virtù morali, alle quali danno carattere, qualificazione e sostegno le virtù teologali della fede, della speranza e della carità. Nessuno può dubitare della preminenza che nella Rivelazione cristiana hanno queste virtù teologali. Abbiamo parlato solamente dei precetti e non abbiamo parlato dei consigli evangelici. Fatta anche questa precisazione, si capisce perché la morale cristiana non è una dilettazione cerebrale, non è una costruzione letteraria e soprattutto non è una cosa umanamente comoda. Con questa sua potenza, presentando agli uomini una ascesa ardua e faticosa, fa loro intendere che sono chiamati a cose grandi ed eterne. – Il pretendere di far passare come abbastanza comoda la morale cristiana è ingiuriosa deformazione. Al popolo dobbiamo dire quello che Cristo ci ha incaricato di dire e non dobbiamo né correggere, né attenuare nulla sulle labbra di Dio. Questa è la sincerità dovuta al popolo fedele. – Anche qui cerchiamo di guardare il quadro generale, per non essere fraintesi od accusati di una severità eccessiva. Questa legge divina è accompagnata da tre grandi cose: la speranza della felicità eterna, la azione della grazia, la sovrannaturale provvidenza. Dio chiede lo sforzo, ma resta Padre per accompagnare in modi anche mirabili, per sostenere e per donare le condizioni con le quali si alimenta la letizia. Anche qui si può verificare e si dovrebbe verificare sempre quello che accadde in Cristo sofferente, Salvatore nostro e nello stesso tempo «tipo supremo» della nostra vicenda terrena. In croce Egli sperimentò il dolore in una misura che nessuno ha mai lontanamente eguagliato. Nello stesso tempo ebbe la visione beatifica nella sua anima umana. Queste due operazioni simultanee sono state possibili perché Egli non ebbe solo la scienza sperimentale (legata al corpo e da questo coartata ad una sola operazione, siccome la esperienza nostra dimostra), ma ebbe anche la scienza infusa e la scienza beatifica, entrambe non coartate dalla presenza del corpo. Questa coesistenza della pace e della lotta, del dolore e del gaudio in Cristo sofferente sono uno degli aspetti più interessanti della passione in Lui. Ma sono anche la rivelazione di quello che, fatte le proporzioni ed in senso meramente analogico, può accadere nell’anima di coloro che lo servono. In essi l’azione della grazia, la illuminazione dello Spirito Santo può arrivare a rendere in qualche senso possibile la pace interiore e la letizia anche coi maggiori dolori, ed ordinariamente, nei veri servitori di Dio, stempera la vita affaticata e sofferente con una luce di conforto e di suprema presenza. Allora cambia sfondo e tono alla peregrinazione terrena. – La morale che abbiamo voluto chiamare «dura» non è dunque né tristezza, né una condanna, né una ossessione, né una esagerazione; è solo la prova dell’amore e la condizione del balzo verso l’Infinito, soprannaturalmente inteso. Come prima, parlando delle verità «dure» per l’intelletto, abbiamo fatto osservare che Cristo ha provveduto ad una documentazione capace di risolvere i problemi razionali di fronte alla fede, così ora dobbiamo una seconda volta invitare a vedere la compitezza divina. Infatti, accanto alla legge ferma e poderosa, Dio ha messo altre cose, ha donato un intero quadro. Per tal modo quello che, visto da solo, può essere chiamato «duro», visto nel quadro appare luminoso e grande. Ma nessuno ha diritto di stare a suo agio nel «quadro», se non accetta le verità dure. Lutero volle il quadro e non le verità dure: gli è accaduto quello che tutti sanno. Pertanto il «quadro» non autorizza nessuno a tacere delle verità «dure». Sarebbe insincerità verso dei fedeli, anzi sarebbe inganno perpetrato contro di essi. – A questo punto sorge un quesito che bisogna affrontare e risolvere con equilibrio e con chiara fermezza. Esso può formularsi così: i fedeli sono oggi sotto una continua azione frastornante quanto all’equilibrio, allettante quanto ai beni e ai piaceri sensibili, anzi materiali, debilitante quanto a tutte le loro riserve spirituali. – Per la prima azione, tende ad apparire loro strano quello che dovrebbe essere pacifico e normale; per la seconda azione, si attua la perenne tentazione della materia contro lo spirito con ogni mala ed ovvia conseguenza possibile; per la terza causa, si ha la vera usura quale consegue, nella capacità e nella azione, al peccato e al disordinato uso sia dei beni interni che dei beni esteriori. Ne viene una situazione di abituale difficoltà con riflessi sulla fede, sulla osservanza della legge di Dio, sulla ordinaria ascesi delle anime, sullo stato emotivo irrazionale che abbiamo voluto intenzionalmente chiamare nel titolo «situazione depressa». – È perfettamente inutile negare una tale situazione e sottrarsi con insinceri espedienti ai problemi che essa pone. Bisogna freddamente prenderne atto e meditare. Sarebbe perfettamente stolto impaurirsi di questa situazione depressa, che risponde ad un particolare tornante della storia, perché nel Vangelo Gesù Cristo su queste avventure, su quella finale, ha parlato crudamente, ma ha anche assicurato che sarebbe stato «ogni giorno con noi fino alla consumazione dei secoli» (Mt. XXVIII,20), e che «cielo e terra passeranno, ma le sue parole non passeranno» (Lc. XXI,33). – Le epoche di maggiore difficoltà diventano così con certezza le epoche di maggiore grazia e di maggiore gloria. Il che è accaduto, in forme diverse, altre volte. – Fin qui una constatazione. Essa però pone, come abbiamo detto, il quesito. Eccolo. Non dobbiamo, noi, indirizzarci a questa gente sbattuta e talvolta sbalordita dal parossismo, dalla fretta e dalla suggestione moderna, con una tattica nuova, la quale faccia sintesi della dottrina con termini preferibilmente nuovi e più generici, tali da permettere interpretazioni più elastiche e pertanto meno forti per la debolezza umana; sfumi talune parti più difficili e meno simpatiche a stati d’animo artificiali; ponga nel silenzio le verità che a qualche titolo possono sembrare più dure e meno digeribili; faccia una ripulitura del patrimonio dottrinale e storico, dando la colpa ai teologi di affermazioni che potrebbero sembrare troppo precise o troppo ingombranti e ciò per averle, essi, arbitrariamente introdotte nel patrimonio comune, giungendo quindi ad una maggiore semplificazione? Alla grave domanda bisogna dare una risposta seria. Per poterla dare abbiamo fatto delle premesse che il benigno lettore, a questo punto, farà probabilmente bene a rileggersi. Tuttavia bisogna pure, prima di rispondere, fare delle considerazioni, le quali restringano il campo della risposta e impediscano che essa appaia equivoca e superficiale. Nell’esibire qualsiasi proposizione e pertanto nel fare qualsiasi catechesi, niente vieta che ci si attenga a:  una gradualità nelle cose e nel tempo; a una esigenza di «traduzione», per cui le cose da dirsi, senza alterazione, vengono presentate nella forma più rispondente ad un ingegno letterario, ad un ciclo culturale, a specifiche situazioni psicologiche, via via mutanti; e infine a un «ordine» congegnato coll’intendimento di raggiungere un determinato onesto scopo. Su questo non si può ragionevolmente discutere, perché queste sono norme elementari di metodo, valevoli sempre ed ovunque, a seconda delle circostanze in cui si applicano. E per questo che resta buona regola sapere usare tempestivamente il linguaggio letterario, il linguaggio psicologicamente attivo, il contegno saggiamente rispondente alle esigenze del momento in cui si vive. – Veniamo alla risposta sui quesiti esposti. Essa è e deve essere pienamente negativa. Su questo punto non si può rimanere in alcun modo con delle esitazioni, le quali sarebbero colpevoli. Vediamo partitamente. –

a) – I termini volutamente nuovi (perché come tali possono essere intesi «altrimenti» dalle verità esposte), i termini intenzionalmente generici, le interpretazioni elastiche (per poter non differire da posizioni deformi) sono sempre altrettanto intenzionalmente e almeno potenzialmente degli oltraggi alla verità di Dio. C’è di più: costituiscono un aver vergogna di quello che ha detto e fatto Gesù Cristo, un irrazionale tentativo di correggere Dio stesso. Talune modulazioni generiche e sfuggenti possono essere certamente usate, quando non si intende «diluire» la verità, ma, si intende, usando una tattica, arrivare a presentarla intera e nuda come è in se stessa, prendendo le precauzioni occorrenti a che non si finisca col declassare la verità, prima di averla detta.

b) – Sfumare le parti più difficili e meno simpatiche a certi stati d’animo, o prima o poi diventa tradimento alla verità. Che se la sfumatura è solo tattica prudente e consiste nel dire solo in parte o dire successivamente, potrà essere usata come «metodo», per arrivare alla pienezza della proposizione.

c) Il silenzio su qualche verità ci metterebbe subito in contrasto coll’Evangelo: «Insegnate loro ad osservare tutto quello che vi ho comandato…» (Mt. XXVIII,20). Il silenzio momentaneo può essere tattica e gradualità. Il silenzio intenzionale è deformazione del messaggio evangelico.

d) Circa la ripulitura del patrimonio dottrinale e storico, si è già anticipata la risposta nel capitolo primo di questa lettera. Nulla c’è da ripulire. Infatti le opinioni personali dei teologi valgono quanto loro, ossia quanto gli argomenti che adducono, e nessuno mai è stato obbligato a seguire l’opinione personale di un teologo fino a che questa è rimasta personale. Credo Deo Revelanti et non theologo opinanti! Quindi per questo aspetto niente da ripulire, ma piuttosto sufficiente scienza per accorgersi che si tratta di opinioni personali discutibili e per nulla certe e definitive. Detto questo, è altrettanto giusto affermare che questo lavoro di opinioni costituisce il mezzo delle «ipotesi di lavoro» col quale si fa progredire la scienza teologica, perché sia sempre maggiore la intelligenza della verità divina, più feconda, più utile alle circostanze e più capace di generare maggiore ammirazione verso la eterna saggezza in essa manifestata. – Accade talvolta che una proposizione passa dal livello delle opinioni personali a quello del consenso comune, il quale porta in causa il Magistero infallibile della Chiesa, oppure al livello diretto dello stesso Magistero. Questo non è soltanto solenne, ma ordinario, anche di tutti i giorni. E per questo che ci siamo fatti premura di parlare della Chiesa e del Magistero «vivi». Dunque anche qui niente da ripulire. – Il concetto che qui si debba ripulire suppone l’idea erronea che il Magistero della Chiesa sia solamente solenne, che non esista un vero Magistero Ordinario, che si debba bruciare tutto il trattato de locis theologicis, che la Chiesa sia un museo di cose divine e non un organismo vivo a tutti i titoli ed a tutti gli effetti. Le quali idee erronee menano dritti dritti fuori della ortodossia. – La conclusione è chiara e deve venire, appoggiata come è ad un motivo di fedeltà all’Evangelo, prima di qualsivoglia altra considerazione contingente: noi dobbiamo dare ai fedeli la verità, tutta la verità, soltanto la verità, siccome è nel mandato divino, e dobbiamo darla con tutta la chiarezza e fermezza con la quale l’ha data Gesù Cristo, sacrificando noi per trovare le migliori procedure di merito, ma mai tacendo o riducendo e mettendo sotto diversa luce il contenuto della Rivelazione. Dobbiamo darla, finalmente con quella giusta e controllata ricchezza che da sé ha saputo trarre nel corso dei secoli. – Abbiamo sentito che taluno ha radiato dalle prediche degli esercizi quella relativa al peccato, perché ritiene la questione del peccato una questione patologica e psicoanalitica; quella relativa all’inferno eterno, perché è cosa incompossibile con la mentalità moderna. Questo non è accaduto, che noi sappiamo, nella nostra diocesi, ma è accaduto. Ci sono molte ragioni per dimostrare che tali motivi addotti non esistono; ma ne basta una sola: questo è sotto la condanna di Cristo. Del resto, nessuna età ha avuto tanta paura come la nostra, e la vera ragione per cui non si vuol parlare dell’inferno è che lo si sente piuttosto vicino. – Di fronte ad una «situazione depressa», quale era quella del suo stesso popolo, succube di passioni e di sette, irretito dalla posizione economica e politica, Gesù Cristo non ha attutito nulla ed ha scelto di fronte alla posizione negativa i criteri estremi: per sé la croce, per i1 popolo giudeo il rigore della giustizia. Non è dunque sulla linea della verità che si va incontro alle situazioni depresse transigendo o tacendo di essa. Incontro alle situazioni depresse si agisce in un altro modo, come Lui: si va in Croce! Nessuno si spaventi: non sarà questione del patibolo, sarà questione di maggiore sacrificio da parte nostra. Non da parte della verità. – Del resto: è poi vero che il popolo desidera che noi facciamo degli attutimenti o delle riduzioni, mettiamo il silenziatore su questa o quella verità, cerchiamo di limare i margini della legge di Dio? Neghiamo che il popolo voglia questo. Infatti, chi è il popolo? La risposta è difficile, perché le manifestazioni che lo rivelano sono eterogenee e per dire: «Questo vuole, questo dice il popolo», bisogna scegliere una linea mediana, ossia i momenti in cui di esso non parla la passione, l’indettamento, a sciocca imitazione, la leggera avventura, la infatuazione boriosa e presuntuosa; ma solo la umanità semplice, compresa della serietà ielle cose e della profondità del dolore. Per sapere, adunque, in una questione come questa, non ci si può rivolgere a cerchie ristrette e cerebrali, ad interessati, forse neppure a inchieste e statistiche. Il «momento» in cui il popolo è tale probabilmente viene reso dalla «casistica» paziente e continuata. Ecco perché la questione è difficile, impone pazienza e prudenza, accortezza e indipendenza da mode e da pose. – Questi «momenti» sono spesso su opposte chine. Osservate i ladri: quando sono in vena e in possibilità di rubare (stato attivo) dicono: «Non è vero settimo non rubare». Gli stessi quando sono in stato di debolezza (situazione passiva) e stanno per venire essi derubati affermano: «Settimo, non rubare». Sono i diversi «momenti»; nel primo non li posso ascoltare, nel secondo, sì. – Abbiamo dovuto più volte occuparci di questioni morali gravi ed abbiamo visto padri inferociti per la penosa e colpevole situazione di qualche figlia; abbiamo davanti alla mente i casi in cui avremmo potuto osservare a questi padri: «Avete dunque cambiato parere; prima dicevate che tutto questo era lecito, ora che siete voi i colpiti (situazione passiva) dite il contrario». In un momento parlavano male, in un altro momento parlavano bene. Se ci fosse un pericolo comune, grave, terribile, imminente, si chiuderebbero forse molti luoghi di incontrollato divertimento e si riempirebbero in domenica e fuori di domenica le chiese. E già successo tante volte. Sono diversi ì momenti… – Naturalmente, se io vado a scegliere i momenti in cui parla la piccola cerchia, la passione, la suggestione, la paura, non saprò probabilmente mai che cosa veramente vuole o pensa il popolo. Sappiamo tutti benissimo che, davanti ad uomini i quali nella umiltà e nella rinuncia servono veramente Dio ed i fratelli, il popolo non ha mai da obiettare. Sono i momenti diversi… In alcuni è esso, il popolo, in altri è una folla, una passione che urla, un piacere che seduce… – Il popolo lo trovo più facilmente ad un funerale che ad un matrimonio, più nell’umile casa guidata da un saggio ordine che al caffè. Perché popolo e opinione pubblica, nel senso moderno, non sempre coincidono. Forse raramente. – Attenti dunque a dire «Il popolo esige, il popolo vuole…». Mettetevi, al giovedì santo, davanti al pretorio di Pilato e poi vedete – a sentire quella folla che chiede crucifigatur — quale effetto vi fa questo modo di parlare: il popolo vuole… Attenti, qui si sbaglia facilmente. Una volta in sacra visita un parroco ci disse: «Qui il popolo non vuol sentir parlare di Azione Cattolica». Sul momento abbiamo taciuto. Siamo tornati anni dopo nello stesso posto ed osservavamo una costruzione che stava sorgendo sul terreno della Chiesa. Domando: «che è quella?». – Risposta: «La sede delle associazioni; il popolo se la fa da sé». Infatti non avevano chiesto un soldo alla curia. – Riprendiamo ora opportunamente il filo del discorso. Che vuole il popolo?

Vuole che ci mostriamo con la nostra faccia. E per nostra faccia, con una precisazione impressionante, testimone di quello che hanno filtrato secoli di catechismo, intende quella del Vangelo. Non vuole sapere di imbellettamenti e, peggio, di chirurgie plastiche. Mal diranno, contraddiranno, insulteranno talvolta; ma se vedranno che riduciamo i toni per paura delle loro paure, faranno di peggio: ci disprezzeranno. Il rachitismo è oggetto di pietà, mai stimolo d’avanguardia e trofeo di potenza. Questo lo capiscono tutti, meno i cerebrali insipienti.

Cerca i coraggiosi. E i coraggiosi li individua in quelli che sanno superare anzitutto i propri interessi ed affrontano, così, liberi, i loro rischi. Non ammira i soldati che vanno all’avanzata solo dopo che le artiglierie hanno ucciso tutto il nemico. Ha ancora tanta umanità per capire il valore di chi salta sull’argine e, dove un dovere chiama, offre il proprio petto all’avversario. Ricordiamo, subito dopo l’ultima guerra, qualche paese dalla situazione spirituale penosissima in cui tutto fu cambiato per qualche atto di coraggio di un sacerdote. – Questa è capitata a noi. In una libera conversazione religiosa con un gruppo di persone molto istruite e per nulla appartenenti ad associazioni cattoliche, qualcuno volle far dello spirito facendoci entrare sul tema dell’inferno e dei diavoli. Si accettò l’argomento. Quella notte nessuno di quella brava gente andò a dormire. Il fatto si ripeté diverse volte e ha per noi tolta ogni credibilità alla asserzione che ai nostri giorni sia difficile parlare dell’inferno. Ma più profonda restò la convinzione che in genere, per chi non ama sinceramente e concretamente Dio, manca il coraggio di guardare nell’abisso della sua verità; il coraggio, diciamo, non la voglia.

Vuole sentire la nostra convinzione. Tutti sanno che la convinzione è la dote essenziale, dal punto di vista apostolico, della predicazione. Generalmente essa, quando è viva, è capace di far perdonare anche altri difetti. La retorica è spregevole per la nostra gente, perché è il segno che denuncia nel modo più sicuro la mancanza di convinzione o la convinzione senza colore.

Vuole sentire la parola di Cristo e non pretende che quella parola sia fatta su misura. Preferisce sapersi peccatore che trattato come un debole al quale non si può dire la verità. – Quand’anche tutte queste ed altre ragioni non esistessero, non cambierebbe la entità del dovere di annunciare Cristo come è, di scandalizzare col mistero della Croce, di irritare con la verità dell’amore e della misericordia divina, di eccitare reazioni col mistero Trinitario e col mistero dell’inferno, di ottenere anche canzonature col dogma della santissima Eucaristia. – Da trent’anni noi ci occupiamo di catechizzare gente soprattutto lontana. Abbiamo avvicinato ed avviciniamo tutti i ceti di persone, soprattutto i più difficili; miscredenti assopiti, coltissimi. Riteniamo che un ministero di oltre trent’anni abbia il diritto di dare la sua testimonianza. Ebbene, essa è questa: l’aver sempre detto con assoluta chiarezza tutta la verità e la verità più dura senza molti fronzoli ci ha fatto toccare con mano che questo era quello che si attendeva e quello che ci ha permesso di ringraziare umilmente la divina bontà. Dietro le apparenze più scoraggianti, abbiamo prima o poi sempre trovato fame e sete della verità intera, del dogma, della sua profondità, dei suoi aspetti solenni ed assoluti; se abbiamo trovato difficoltà, non gravi peraltro, ciò è accaduto con gente di fede, ma intellettualmente male indirizzata. – Esiste una letteratura che insinua affermazioni contrarie a quelle qui espresse. Abbiamo preso la penna in mano per dir al nostro clero: guardatevene, credete a Cristo e non a gente la quale per non aver obbedito ai Papi, ai Vescovi, al genuino senso della Tradizione cristiana e dei Santi si è vista sfuggire le anime, ha constatato terribili vuoti e non ha avuto né la onestà, né la umiltà, né in definitiva la intelligenza di capire che lo scempio delle anime non è il frutto della verità assoluta. Hanno invece creduto che lo scempio delle anime fosse il frutto di uno sbaglio di Dio e tentano miseramente di correggere l’assurdo errore. E questa tremolante ed equivoca metodica ha generato i cristiani che contestano a Gesù Cristo il fatto di essere veramente il Re dei re ed il Signore dei signori, raccomandandogli di farsi sufficientemente moderno, popolare e democratico. La incerta fede – non d’altro si tratta – ha permesso a sedicenti cristiani di affermare che esistono due verità, due coscienze e due ordini, uno cristiano e l’altro anodino, perfettamente paralleli e compossibili anche se intrinsecamente contradditori. Poiché questo è dato di leggere anche in questi giorni, nei quali con l’animo amareggiato scriviamo, facendo appello al coraggio antico, alla integrità dei tempi migliori ed alla piena sudditanza verso il Romano Pontefice e la Chiesa. [Continua … ]

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – CHIESA, FEDELI, MONDO (I)

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO:

CHIESA – FEDELI – MONDO

-I-

Ortodossia -III-

[Lettera pastorale del 5 agosto 1962; «Riv. Dioc. Genovese», 1962, pp. 208-248].

 

Fedeli all’impegno preso e al sacro dovere di tutelare in tempi di diffusa follia la purezza della vostra fede e la rettitudine del vostro sentire, eccoci a indirizzarvi, cari confratelli, una terza lettera sulla ortodossia. Essa ha un tema assai unitario, perché verte su stati d’animo, equivoci, errori e problemi dai quali potrebbe venire ed è già venuto gran danno alla Chiesa. Non dimentichiamo mai che la Chiesa, pur fatta di uomini, è nostra madre e che noi dobbiamo essere in piena comunione con essa, se vogliamo essere in piena comunione con Cristo. Prima di venire a trattare i singoli e gravi argomenti sui quali ci pare doveroso attirare la vostra attenzione, stimiamo necessario svolgere alcuni concetti generali.

Rapporto Chiesa — mondo

I rapporti tra la Chiesa e i fedeli sono stati determinati dallo stesso divin Fondatore in modo chiaro e definitivo. La Chiesa è gerarchica e questo significa che la obbedienza a Dio esiste solo se c’è la obbedienza alla Chiesa nei limiti fissati da Gesù Cristo. Questo rapporto non può legittimamente cambiare: ogni sua sostanziale alterazione significa scisma od eresia o tutti e due. Il discorso dei rapporti tra la Chiesa e il «mondo» non è così semplice. Apparirà più avanti la ragione per cui il rapporto è assai più complesso. Cominciamo a chiarire il significato nel quale si prende la parola «mondo». Data la possibilità, per essa, nello stesso linguaggio religioso od ecclesiastico, di più significati, si impone una determinazione netta del senso in cui viene assunta. Noi prendiamo qui il termine «mondo» nel senso di «comunità umana». Non usiamo intenzionalmente il senso di «comunità civile», perché restringerebbe il significato «universale» nel quale dobbiamo prendere il termine «mondo». Infatti esistono ancora comunità che non possono dirsi civili o pienamente civili e queste andrebbero fuori del nostro discorso. Il che non deve accadere: la comunità che non fosse ancora civile o molto civile avrebbe tutti i suoi diritti, per il fatto che è umana. Infatti non ci sarebbero diritti sul nostro pianeta, se non ci fossero uomini. Ma dove ci sono uomini, siano essi incolti o colti, educati o meno, ci sono anche diritti. – Coi termini «mondo» o «comunità umana» si definiscono «gli uomini in vita associata». Tale vita associata ha o dovrebbe avere per fine il bene comune terreno; poggia su di una organizzazione, consta di rapporti quali sono possibili e convenienti tra esseri dotati di intelligenza e libertà. Conseguentemente a tale duplice capacità, si perfeziona quanto può e gradualmente col diritto, con l’autorità e con la legge. La «comunità umana» è una società perfetta, la quale può articolarsi in elementi distinti – ancora «società perfette» – che sono i singoli Stati (per usare il linguaggio moderno). È per questo che il termine «comunità umana» può essere adeguatamente, ma propriamente usato per i singoli Stati o addirittura e semplicemente per lo « Stato ». Così nel nostro argomento il termine «mondo» può significare tanto la comunità degli uomini come la comunità degli Stati, come semplicemente lo «Stato». Dipenderà dal contesto decidere delle sfumature di riferimento. Precisato tutto questo, cerchiamo ora di richiamare il rapporto che Gesù Cristo ha messo tra la sua Chiesa e il mondo. Ecco gli elementi che determinano il rapporto:

a) Gesù ha voluto che la sua Chiesa fosse una vera e propria società universale, visibile. In tal modo essa non resta soltanto in fondo alle coscienze, ma si configura «nel» mondo;

b) Gesù ha voluto che la sua Chiesa avesse un «diritto» ed ha voluto che sorgente di tale «diritto» fosse solamente Lui, non pertanto gli uomini o la comunità della loro vita associata;

c) Gesù ha voluto che lo scopo della sua Chiesa, società visibile, fosse al di sopra ed oltre la «comunità umana», fosse cioè soprannaturale ed eterno e risolvesse al livello di «grazia» il problema fondamentale e totale dell’uomo. – Per la prima determinazione fatta da Gesù esiste dunque in questo mondo un’altra associazione, un’altra organizzazione, un’altra autorità, di natura tuttavia diversa, e la stessa «comunità umana» viene a far parte di una «comunità maggiore» che è la “communio sanctorum”, e in più si dilata al di là dei limiti del tempo. Per la seconda determinazione, viene concretamente chiarito come la unica sorgente di qualunque vero diritto non possa essere altri che Dio (e ciò serve a rassicurare gli uomini); viene precisato come il diritto umano abbia dei limiti (il che costituisce rimedio contro tutte le tirannie); sicché, l’esistenza di un indipendente diritto nella Chiesa, relativamente al suo campo specifico, funziona come garanzia, confronto e risorsa per la stessa libertà degli uomini. – Per la terza determinazione è posto il principio della autonomia nel rispettivo campo: infatti la «comunità umana» è volta al bene complessivo terreno, la società ecclesiastica è volta al bene definitivo soprannaturale ed eterno. Rimane un margine, a proposito di questa reciproca autonomia, che potrebbe teoricamente creare qualche difficoltà, ciò che rende necessarie alcune considerazioni ulteriori. Infatti ad un certo punto è logico che le ragioni superiori ed eterne prevalgano. Il fine della società ecclesiastica è più largo, più definitivo e più alto di quello della comunità umana. Le conseguenze sono chiare. La «comunità umana», anche prescindendo dalla rivelazione divina e da quanto Cristo ha stabilito, ha una radicale incompletezza della quale bisogna tener conto. Si tratta di questo: essa accompagna i suoi membri fino alla morte. Dopo, non può più nulla. Tuttavia nel non potere «più nulla» ha una precisa indicazione del suo dovere. Essa ed i suoi membri hanno nel pellegrinaggio terreno sufficienti ragioni (storicamente è chiaro) per sapere di una immortalità dell’anima, ossia di una sopravvivenza, ben maggiore del limitato tratto di tempo in cui si svolge la vita terrena. Dalla percezione di questi motivi sufficienti nasce ed è nato di fatto il più grave problema della vita di ogni uomo: provvedere nel modo più sicuro, durante il limitato presente, all’interminabile «poi». La soluzione di questo problema condiziona e condizionerà sempre la esistenza, la quantità e il modo di quel bene comune terreno al quale è volta la comunità umana. Infatti nessuno vivrà con serenità se non potrà pensare che ha provveduto al «dopo», tuttavia così oscuro e misterioso. Di fronte a questo «dopo» che campeggia su ogni evento, in ogni coscienza e su ogni ideale veramente civile, la comunità umana, che pur può avere una religione e con essa può protendersi verso l’ai di là, rimane monca ed incompleta. La radicale incompletezza impone un preciso atteggiamento (fondato nella inevitabile serietà del maggiore problema) verso la rivelazione divina. – La «comunità umana» non può fare nulla che impedisca ai suoi membri di provvedere alla eternità; non può rendere difficile nessuna via tendente alla risoluzione del grande problema; deve contrarre se stessa su quei margini oltre i quali potrebbe diventare ostacolo e distrazione od ingombrante impegno, rispetto al diritto dei suoi membri di provvedere al “dopo”. Ne nasce obiettivamente una situazione, anche giuridica, della quale tutti possono vedere il peso nella determinazione del rapporto tra la Chiesa e il mondo. – Tuttavia intendiamoci bene: se parliamo di radicale incompletezza della «comunità umana», non affermiamo questo riferendoci alla sua capacità giuridica di provvedere al proprio fine particolare (benessere terreno complessivo); lo affermiamo invece rispetto ad un problema sempre affiorante per i singoli e per la collettività e che sconfina dalle cose terrene. Vogliano o non vogliano gli uomini, il problema della eternità se lo trovano davanti sempre; le loro esperienze del tempo sono tutte fugaci e generalmente amareggiate dalla presenza di quel problema. Il quale non è affatto risolto con la furbizia laicista di non pensarci o di considerarlo come non esistente per la comunità. Esso è invece l’ombra di tutto. La comunità umana ha le sue successive «simpatie» che, come accade di tutte le simpatie, almeno in un certo senso la limitano. La simpatia del momento è la tecnica, figlia di una scienza del mondo materiale che rende più comoda la esistenza, più facile ed imperioso l’esercizio del potere, più maneggevole la pubblica opinione. E piuttosto ovvio che la nostra età, nelle favorevoli condizioni di conquista del cosmo, si senta attratta a vivere soprattutto di tecnica. Ma questa tecnica riguarda il mondo materiale, mentre nell’uomo rimane dirimente il mondo spirituale. Qui sta la questione ed il facile errore. Qui è la ragione per cui anche certi cristiani per bene finiscono, senza volerlo, col trovarsi sul piano dei materialisti (marxisti o no). La stessa scuola ha cominciato a scivolare sulla china della preferenza tecnica a danno della fondamentale istruzione ed educazione umanistica. Il punto è questo: ad un popolo incivile si può insegnare a costruirsi delle automobili nel giro di dieci anni; ma per insegnargli a «sentire» in modo elevato, ad avere una cultura, a saperla produrre e volgarizzare, sì da colorarne le proprie istituzioni e i propri costumi, possono occorrere secoli. Noi siamo esattamente a questo punto: la comunità umana potrà tecnicizzare in breve delle aree rimaste fino ad oggi smorte o inattive; ma non potrà nello stesso tempo civilizzarle intimamente. Anzi, con la sola tecnica acuirà il problema del contrasto che sorge naturalmente tra il molto progresso esteriore ed il poco o nullo progresso interiore. – È affiorata una delle tante debolezze che toccano la comunità umana e che ne possono turbare lo sviluppo e la pace. Perché abbiamo cominciato a recensirle? Perché esse servono a porre in termini «di fatto» e non soltanto in termini di diritto i rapporti tra la Chiesa e la comunità umana. – Riprendiamo ora il nostro cammino. In taluni punti la Chiesa si incontra con la comunità umana. Ne abbiamo detto il perché. Come si risolvono i problemi emergenti? In linea di dottrina la superiorità e maggiore comprensività del fine della Chiesa (eterno e soprannaturale) rispetto a quello della comunità umana (terreno e limitato), oltre a stabilire una gerarchia di valori, stabilisce pure per le materie miste e per l’aspetto morale di tutte le materie quale considerazione debba avere la società umana per la Chiesa. E lo stabilisce nettamente, inequivocabilmente, se si accetta la divina rivelazione. Accade di fatto che taluni Stati, per la loro storia, per la religione o non religione professata da parte della popolazione, per le ragioni politiche della parte dominante, non abbiano alcuna intenzione di riconoscere la rivelazione divina, dalla quale trae essenza e valore giuridico la Chiesa. Pertanto non hanno alcuna intenzione di inchinarsi a ragioni superiori, che essi non riconoscono. È difficile in cali casi iniziare un dialogo in sede di diritto, a meno che non ci si appelli alla esistenza di fatto di una popolazione cattolica, di una maggioranza o minoranza cattolica, la quale, in democrazia soprattutto, trasforma un fatto in un diritto efficace e considerevole. – Per taluni non avrà purtroppo peso che Gesù Cristo sia Dio, ma avrà peso che un certo numero di cittadini lo riconosca Dio. Tuttavia, se si tengono le considerazioni che sono state premesse, si comprende come, anche là ove è difficile un discorso in linea di diritto per la considerazione supereminente dovuta alla Chiesa, diventa più facile un discorso in linea «di fatto». Nessuna organizzazione al mondo ha incidenza sulle anime, sul loro orientamento morale, sulla loro educazione, sul loro equilibrio in pericolo di essere rotto dalla straripante crescita tecnica, come la Chiesa. Nessuna organizzazione religiosa ha in mano una dottrina sociale, che sia radicata nei suoi stessi supremi principi (e pertanto non occasionale o raccogliticcia) e che difenda l’uomo salvando l’equilibrio tra singolo e società, come la Chiesa. Effettivamente la situazione moderna permette di vedere che cosa valga l’individualismo protestantico (connesso con le sorgenti del medesimo protestantesimo). Non parliamo del rimanente. – La conclusione è questa: quando si parla di rapporti tra Chiesa e mondo, bisogna sempre badare ai principi dottrinali indefettibili stabiliti da Cristo, anzitutto. Ma bisogna anche, per una ragione pratica di accessibilità a chi quei principi non riconosce sufficientemente, badare ad una permanente ragione «di fatto».

Rapporto Chiesa – storia

Non si tratta di un pleonasmo. È vero che la storia appartiene alla comunità umana, almeno nel suo nucleo sostanziale, ma appartiene al «passato». Quando noi parliamo di comunità umana, parliamo di quella del «presente». Ecco perché è giustificato il trattare a parte il rapporto tra Chiesa e storia. Anche alla comunità umana accade quello che accade ai singoli uomini: quando una azione l’hanno compiuta, sfugge loro di mano, non è più oggetto della loro libertà. Entra nel corso degli avvenimenti e nessuno l’afferra più, arrivando anche ad impensabili effetti. La storia, nella quale la comunità ha giocato, tra le cose visibili, il ruolo di protagonista, le sfugge di mano ogni momento. – Il rapporto della Chiesa alla storia va recensito sotto diversi profili, tutti interessanti lo scopo del nostro scritto.

a) La Chiesa entra nella storia e passa per la storia con una invulnerabilità. La Chiesa è stata costituita da Cristo indefettibile: ciò significa che durerà, nella sua sostanza, identica a se stessa fino alla fine. Gli avvenimenti, in quella sostanza, non la potranno mai superare; dovranno aprirle un varco e se, nella singolare tenzone, qualcuno deve cedere e finire, questo non sarà la Chiesa. Con la Chiesa è dunque entrato un condizionamento nella storia. Abbiamo parlato di una invulnerabilità, non della invulnerabilità. Infatti sul margine degli uomini, delle fortune passeggere, delle vicende caduche, dei maggiori o minori frutti – salva la sostanza della sua costituzione, della sua vita e del tesoro che porta con sé – la Chiesa può patire tutte le vicissitudini ed incontrare tutte le persecuzioni. La invulnerabilità della Chiesa è dovuta ad un divino intervento e questo può deviare il corso di molti fatti.

b) La Chiesa entra nella storia e passa per la storia con in mano il più grande destino della storia stessa. Infatti è il regno di Dio che, posta la elevazione soprannaturale e la preminenza della incarnazione del Verbo su tutti gli avvenimenti, raccoglie le fila di tutto verso il momento escatologico. Quello che gioca in un tale confluire sorge da profondità, dunque, per noi abissali ed eterne.

c) La invulnerabilità sostanziale e l’essere la Chiesa portatrice di un destino supremo stabilisce i termini di confronto tra la stessa Chiesa e tutti gli altri avvenimenti, mai invulnerabili e mai, da soli e come tali, portatori di un destino eterno.

Tutto questo è la semplice esposizione di quanto ha stabilito Gesù Cristo e di quanto appare chiaramente dal complesso della rivelazione divina. Ciò non altera affatto i limiti delle umane competenze e la autonomia di quello che nella comunità umana ha il diritto di svolgersi entro la sua onesta libertà. Però stabilisce un modo di considerare la Chiesa, un rispetto per quello che in essa conta, un sommo apprezzamento della Provvidenza che in essa agisce, una indicazione circa le vie della saggezza anche negli affari meramente umani, una coscienza della sicurezza e della risorsa che essa, la Chiesa, rappresenta per tutto. In essa infatti l’elemento umano, libero e vario, mai sopprime o coarta nella sostanza l’elemento divino. Sicché la efficacia non manca mai, anche in mezzo a quei difetti che non dovrebbero meravigliare nessuno, se si tratta di uomini. – Questo solco aperto da Dio nella terra, e che nessuno potrà mai definitivamente interrompere o ingorgare, deve rendere pensosi tutti circa la singolare componente che entra così nei fatti umani e che può sommergere i corti disegni degli effimeri cicli.

La Chiesa è organismo vivo

Riteniamo di somma importanza che si abbia ben chiara la dottrina in proposito e che la si abbia rilevata su ogni altra considerazione relativa alla Chiesa, perché questa verità porta gravi conseguenze ed ha la possibilità di valorizzare modi di pensare fatui e fluttuanti. Ricapitolando semplicemente quello che risulta «certo» nella dottrina cattolica a proposito della Chiesa, ci chiediamo: quali sono gli elementi che, per volontà di Cristo, la rendono un organismo «vivo»? Non dimentichiamo che la «vita» è un movimento “ab intrinseco” e che non può essere affatto confusa con qualsivoglia movimento od automazione o motorizzazione o azione artificiale dal di fuori. – Ecco gli elementi che fanno la Chiesa «organismo vivo».

– La Chiesa è il corpo mistico di Cristo, per usare la figura assunta dallo stesso divin Salvatore (cfr. Gv. 15,1 sgg.), la vite della quale Egli è il tronco, gli altri i tralci e nella quale la linfa viene dalla vite ai tralci. La affermazione è chiara e netta. La profondità del suo contenuto attinge il mistero e l’ordine divino. La esposizione di questa verità richiede un discorso lungo, che non incombe in questo momento a noi. Qui basta ricordare che si tratta di una vita concreta, non astratta; precisa e non vaga; che, soprattutto, essa rende continuamente operante negli uomini e nei fatti, al di là di entrambi, un elemento superiore all’ordine umano, capace per noi di tutte le sorprese in tutti i rischi e in tutte le umane disfatte, capace anche più di frutti non computabili al solito metro degli ordinari avvenimenti. Si tratta del “mysterium Ecclesiæ”. Volerlo far svanire, in modo da rallentare — nel largo — tutte le briglie contro la umiltà, la obbedienza ed il sacrificio, è azione falsa e nefasta; volerlo precisare troppo con i nostri corti mezzi, e pertanto opporgli dei limiti e delle conformazioni piacevoli alla moda, è azione illegittima ed empia. Volerlo confinare in una regione in cui si fa a meno degli strumenti di cui ha bisogno la Chiesa «visibile», per chissà quali scopi, è deformare tutta l’opera di Gesù Cristo. Questo mysterium Ecclesiæ ha una conseguenza molto evidente: allorché si ragiona della Chiesa, se manca il riferimento ad una costante componente soprannaturale, il ragionamento stesso resta sempre inadeguato e facilmente erroneo.

– La Chiesa ha una efficacia (santificazione e salvezza eterna degli uomini), la quale, soprannaturale e divina, (grazia santificante, grazia attuale e doni dello Spirito Santo) è pure legata ad atti liberi di uomini. Ogni sacramento almeno in chi lo conferisce (p.e. nel caso del Battesimo) richiede una intenzione, che è quanto dire un atto libero. La efficacia dunque vitale della Chiesa passa anche attraverso atti vitali e liberi degli uomini.

– La efficacia della Chiesa non si ha solamente attraverso gli atti sacramentali, legati almeno in un certo limite al Sacramento dell’ordine, ma anche attraverso una azione di regime e di Magistero, la quale si attua con atti liberi di uomini. Che questo regime e questo Magistero sia assistito in modo da non essere mai essenzialmente lesivo della indefettibilità ed infallibilità della Chiesa è cosa che riguarda Iddio, ma non diminuisce mai né la libertà, né la vitalità degli atti umani. Se mai servirà a ricordare che dietro ogni facciata, bella o brutta che possa parere, ad un certo punto si troveranno sempre una ragione ed una garanzia divine, più grandi degli uomini che agiscono sulla scena della vita.

– La Chiesa deve trasmettere un messaggio a tutte le genti: quello evangelico. Qui abbiamo uno degli aspetti più tipici del suo carattere vivente. Attenti: questo messaggio non è fatto di quattro formule da ricantare materialmente fino alla fine dei tempi, come farebbe una radio perennemente accesa. No. Esso è fatto di verità eterne, assorbe verità naturali, cela ricchezze che possono essere via via dipanate, senza tradire o contraddire il messaggio stesso, e che hanno aspetti, nella loro sostanziale immutabilità, adatti alle congiunture di tutti i tempi che furono e che saranno. Il messaggio stesso, chiuso con l’ultimo Apostolo, senza mutare od arricchirsi di qualcosa che non contenga già almeno virtualmente, appare cosa vivente.

– Anche il modo con cui il messaggio è custodito e trasmesso alle genti appare con lo stesso saliente e singolare carattere. Esso ha una parte scritta, ma ha una tradizione orale, il cui mantenimento è assicurato tanto dalla esistenza della infallibilità che dalla garanzia di indefettibilità. Infatti il Magistero, non di pura e fredda ripetizione, ma di insegnamento (che è cosa ben più ricca) è nella Chiesa, così garantito eppur affidato ad uomini. In tal modo i chiamati alla redenzione, camminando per la Storia, portano sulle stesse mani loro il divino deposito e, attraverso la loro stessa azione, lo Trasmettono.

– Tutto è redatto alla unità vera e funzionale perché Cristo ha costituito un capo, Pietro, il quale si prolunga nei secoli attraverso il Pontefice Romano, munito d’ogni potere, assistito nel solenne insegnamento da un personale carisma di infallibilità, eppure sempre libero nel cangiante respiro della storia. Dietro a tutto quello di visibile che la Chiesa espone al mondo in mezzo al quale cammina, si leva universale, profonda e dirimente l’azione dello Spirito Santo. – Questa verità balza in modo impressionante da tutta la letteratura neotestamentaria e rovescia tutte le interpretazioni storicistiche, troppo umanistiche, scettiche o quasi, della vita nella Chiesa. L’azione dello Spirito Santo può certo anche diventare carismatica come lo fu il giorno della Pentecoste, ma non ha alcun bisogno di diventare esterna e miracolosa; anzi è sempre ordinariamente contenuta in quel discreto modo che lascia agli uomini la loro piena libertà e, se proprio lo vogliono, anche le loro distrazioni ed evasioni. In questa azione dello Spirito Santo, punto veramente fondamentale della rivelazione di Cristo, la Chiesa è sempre singolarmente e potenzialmente un organismo vivo e di una vita ben superiore alle forme note e forse trite per la semplice natura. Che la Chiesa sia organismo realmente, intimamente e soprannaturalmente vivo ha conseguenze di grave portata, che bisogna subito mettere nel giusto rilievo.

– La Chiesa rende testimonianza certa e sicura della verità e della via della salute in qualunque tempo, come in qualunque tempo è viva. Essa dunque rende testimonianza oggi, con lo stesso valore dell’evo subapostolico. Per sapere di una verità non occorre io interroghi età lontane, anche se questo è utilissimo e può essere necessario sotto altri profili; basta ascolti quello che la Chiesa fa e dice oggi.

– Non è ammissibile accettare che la Chiesa debba essere riportata a questa o a quell’altra epoca. Dire questo è ammettere che essa sia non un organismo vivo, della cui vita si è reso responsabile e garante Dio stesso, ma solo una preziosa mummia, interessante documento, da restaurarsi secondo schemi che solo l’archeologia (né la Rivelazione, né la grazia) procurerebbe. La Chiesa ha sempre bisogno di misurarsi anche con sforzo eroico sull’unico vero modello, Gesù Cristo. Ma questo non significa che essa sia in qualcosa morta e debba essere ridipinta dalla dubbia saggezza di uomini fantastici.

– La Chiesa, per questa sua vita di tale potenza e carattere, potrà trarre contingente vantaggio da tutte le culture, perché «omnia cooperantur in bonum» (Rm. VIII, 28), ma la considerazione di questa vita non può mettersi al livello assai inferiore di contingenti e non necessari apporti. Tanto meno potrà essere subordinata alle fisionomie contingenti e meramente umane di quelli. Essa sta al di sopra, il che significa non esistere alcuna ragione per cui una nascente chiesa africana od asiatica si senta in grado inferiore; come non esiste alcuna ragione per cui una chiesa europea debba credersi di grado superiore anche solo emotivamente parlando. Di superiorità giuridica non ne esiste veramente che una, quella della Chiesa Romana, perché è piaciuto a Dio per il ministero di Pietro affidare a quella l’episcopato del mondo.

Il Magistero ecclesiastico oggi

È un punto sul quale si possono confondere le idee per il facile influsso di quello che accade nel «mondo». Questo è portato dall’aria che spira a non riconoscere la esistenza di un potere vero e proprio, umano, in campo dottrinale, e si picca di rispettare la libertà di pensiero, in tale modo, anche se esercita nel sottobosco qualcosa che non è un magistero, bensì una suggestione ed allucinazione persuasiva a seconda che gli comoda. Odio al magistero, ma via aperta alla imbottitura delle teste. – In secondo luogo il «mondo» considera l’azione magisteriale come la procedura «per far capire qualcosa e portare al grado di saper pensare da sé», non come una trasmissione autorevole di principi certi. – Queste due caratteristiche del «mondo» rispetto a qualsivoglia «magistero» provengono da talune tare storiche, delle quali non abbiamo qui a discorrere; tuttavia hanno un certo fondamento, in quanto difficilmente il «mondo» riuscirebbe a mettere insieme la serietà sufficiente per instaurare un magistero propriamente detto. – Esso sfoglia i documenti, li ricerca, li custodisce, li critica, ci si diverte; ma sa benissimo che i documenti in sé sono cose inerti e possono anche essere morte. – Abituato così, diffonde intorno un senso critico coerente a questa situazione. Il «mondo», che non ha studiato bene teologia, non ha l’idea di un Magistero che sia vivo. La sua opposizione ad un Magistero vivo è fatta più di ignoranza che di cattiveria; però riesce a mettere in complesso di inferiorità anche chi, non bene edotto di tutto, si trova a meditare su questo fatto eccezionalmente interessante tra i fatti umani e riesce a comunicargli delle perplessità e delle mosse del tutto sbagliate. Noi scriviamo perché non vorremmo che questo accadesse tra di voi. Ed è pertanto che abbiamo parlato prima della Chiesa organismo «vivo» con un Magistero» che è «vivo». – Vi ricapitoliamo pertanto i concetti giusti in proposito, con quelle osservazioni che saranno del caso.

– Il magistero della Chiesa propone tutto il messaggio di Cristo, ma lo spiega, lo interpreta autoritativamente, lo applica, ne trae le ricchezze più recondite deducendo e svolgendo, rassicura sui dubbi, delucida le questioni che via via si possono presentare, si estende alle verità connesse anche se di ordine naturale. Tutto questo serve a manifestare successivamente, e senza alterare il messaggio, la inesauribile ricchezza in esso contenuta e la indefinita capacità di rispondere via via alle necessità delle anime in cammino verso la vita eterna. – Si compongono così due fatti singolari: la inalterabilità del messaggio di Cristo, che né si deforma né si appesantisce di elementi estranei al momento della Rivelazione, e il progresso dottrinale, che trae sempre dallo stesso identico tesoro e con quello che ne trae risponde alle esigenze della salute delle anime. Queste esigenze sono nella sostanza le stesse, ma hanno variazioni marginali. I due fatti singolari si possono comporre perché la Chiesa è un organismo vivente in cui agiscono uomini liberi, ma la cui anima sta nella azione dello Spirito Santo e nella vitale connessione con Cristo, Capo invisibile della medesima Chiesa. La ragione insomma della coesistenza di due elementi apparentemente tanto diversi sta in una vita, la quale affonda le radici nella eternità. Il carattere del «magistero vivo» si rivela non solo dalla sua intima essenza e dai suoi fondamenti, ma ancora dalla sua procedura. – Eccone gli elementi. Può essere solenne e ciò tanto nel Romano Pontefice da solo, quanto nella intera Chiesa docente, composta di tutti i Vescovi uniti col Romano Pontefice ed in quanto uniti col Romano Pontefice, come accade in un Concilio. Ma non esiste solo un magistero solenne. Se così fosse il magistero sarebbe certamente un magistero vivo, ma opererebbe, per ovvie ragioni, così raramente da essere un magistero il più delle volte dormiente. La vita sì, ma la vita manifestata a tratti. Conseguentemente il cammino delle anime troverebbe la propria strada illuminata solo in qualche tornante e troverebbe poi molte pericolose zone d’ombra. Le zone d’ombra sarebbero le facili foreste dei lupi rapaci. No.

Esiste un Magistero Ordinario.

Questo magistero ordinario appartiene a chi può esercitare il magistero ed alle stesse condizioni. Gesù ha mandato a predicare sempre. Gli Apostoli hanno predicato sempre. Il messaggio di Cristo è stato orale e per qualche tempo non ce ne fu altro. Da questo messaggio orale gli agiografi neotestamentari hanno tratto i loro documenti. L’ufficio magisteriale è chiarissimo nella Chiesa dei primi secoli. Dio ha permesso le persecuzioni dei primi tre secoli anche per dimostrare che, in tempi in cui era assai difficile e raro esercitare il Magistero solenne, poteva (per la vita di ogni giorno) bastare il Magistero ordinario. – La nostra attenzione si deve allora portare con maggiore impegno proprio su questo Magistero ordinario, sì da chiarirne la estensione ed il modo. Quale, dunque, la condizione perché si realizzi il Magistero Ordinario? La risposta è semplice. Poiché questo Magistero è stato da Cristo affidato a Pietro e alla Chiesa gerarchica come tale, esso si ha quando si può dire che Pietro o la Chiesa parlano. Si può dire che la Chiesa «parla» quando è unita ed è col suo capo, ossia quando esiste il consenso: questo consenso, per via esplicita od implicita, diretta od indiretta, è nella unione col Pontefice. Il consenso nella unione al capo è il «segno» che la Chiesa parla. Non si tratta di una verità creata da uomini, ma di una verità che è garantita attraverso uomini i quali, in quelle condizioni, beneficiano secondo la promessa del Salvatore della assistenza dello Spirito Santo. Basta quello che si è detto per valutare cosa significhi, anche per il Magistero Ordinario, la presenza e l’ufficio del Romano Pontefice, nonché degli strumenti dottrinali dei quali egli per la sua pienezza di potestà si serve e che sono ordinariamente nella Curia romana. – Sarebbe pertanto ben erroneo credere che la tranquillità dottrinale venga ai fedeli soltanto da un Magistero solenne, tanto raro e talvolta ostacolato da circostanze storiche. La piena e perfetta tranquillità dottrinale, il criterio certissimo della verità, lo si ha pure attraverso il Magistero Ordinario, il quale, come si è dimostrato, se non ha i caratteri esterni del Magistero solenne, ne raggiunge la stessa efficacia in definitiva e manifesta – per essere sempre in atto, ogni giorno – il carattere di «vita» della Chiesa. E per questo che prima di iniziare questo discorso abbiamo a lungo trattato della Chiesa «organismo vivo». – Prima di passare ad aspetti particolari del Magistero Ordinario riteniamo doveroso ribadire che esso sta soltanto, per sé, nel Papa e nella Chiesa gerarchica, che non è tale se non in quanto è unita con il Papa. Non sta dunque per sé altrove. Il Magistero ordinario non è, dunque, per sé affidato ai teologi, ai ricercatori di cose antiche, alle università, alle scuole. Vedremo quale autorità abbiano i teologi e per che via. Ma qui un principio deve essere ben chiaro: essi non sono i maestri o, se lo sono, lo saranno soltanto di riflesso. Principio di verità che li deve rendere bene attenti ed umilmente docili, perché nessuna presunzione riesce a dare loro quello che Cristo non ha dato. – Il Magistero Ordinario si attua in molti modi e non in uno solo, sia attraverso l’insegnamento diretto, sia attraverso atti che implicano in qualche modo un insegnamento. Ecco perché sarebbe inesatto volerlo stabilire solamente in base a documenti scritti. Ciò va notato per taluni ricercatori del tempo andato, i quali (per dimenticare questo) giungono talvolta a conclusioni meno perfette. Il Magistero Ordinario di un qualunque periodo storico non è detto debba apparire solamente attraverso scritti qualificati più o meno, dato che con è solamente con quelli che si esplica. Questa ampiezza di mezzi da ulteriormente l’idea di quanto sia vivo il magistero stesso. – Sorprende assai il vedere taluni studi, certo egregi, che nel ricostruire l’insegnamento teologico di un qualche periodo conoscono tutte le «fonti» qualificate, anche minime, e non tengono conto di quello che scaturisce dai fatti, anche più ampiamente considerati, ben oltre i documenti scritti. I quali talvolta non possono essere «letti» bene, se non in una cornice storica obiettiva, che li supera e che sa rendere tutto utile a tale effetto. Dobbiamo osservare come in materia teologica l’entusiasmo di certe ricerche patisca il danno non lieve della sopraddetta unilateralità. Abbiamo detto che il Magistero Ordinario si attua a talune condizioni e le abbiamo indicate. Può darsi il caso che si abbia un periodo in cui quelle condizioni non si attuano ancora per la soluzione di un dubbio o per una esigenza di chiarificazione o per la esposta ad un problema posto in maniera nuova da nuove circostanze. In tale caso si ha un «periodo di preparazione» in cui si fanno tentativi, discussioni, ricerche, si elaborano opinioni diverse, in cui l’autorità della Chiesa può intervenire — a scopo assicurativo, tentativo o difensivo – non solo in quanto maestra, bensì anche in quanto capace di guidare, reggere e fare pertanto leggi o decreti. Ciò spiega perché in tale «periodo di preparazione» si possano avere norme orientative di carattere assolutamente temporaneo, e cioè valevoli fino a che la questione non sia definitivamente e completamente chiarita nei termini che impegnano veramente e per sempre il Magistero ecclesiastico. Non c’è dunque da meravigliarsi di decreti che hanno in tale situazione un valore prudenziale. Basta del resto scorrere le cosidette «censure teologiche» che nei documenti ecclesiastici sono state usate a proposito di talune proposizioni: periculosa, temeraria, damnosa, haeresim sapiens, errori proxima, etc. Non si dimentichi che il Magistero Ordinario è vivo anche perché affidato a uomini i quali, esercitandolo, non cessano di essere limitati e di avere bisogno del tempo e dello studio; e che il carisma della infallibilità nella Chiesa non è legato alla ispirazione divina, anche se non la esclude, ma impedisce l’errore nella materia che è oggetto di infallibilità. – Il Magistero della Chiesa, solenne ed ordinario, riflette qualcosa sui teologi, questo può avvenire senza che la Chiesa sappia ed approvi; devesi invece ritenere per certo che, quando un tale consenso avviene direttamente od indirettamente consenziente la Chiesa docente, sola depositaria del Magistero, il consenso dei teologi, pur non costituendo per sé un Magistero Ordinario (i teologi non ne sono il soggetto), data la connessione con il soggetto vero del medesimo, diventa criterio certissimo di verità. – La «connessione» di cui abbiamo fatto parola, per la facilità odierna di pubblicare, per il facile indirizzo idealista, molto disimpegnato dai canoni della verità obiettiva, e per quello positivista, altrettanto disimpegnato dalle ragioni interne delle cose, implica oggi forse una maggiore sorveglianza che nel passato da parte dei Vescovi. Se noi scriviamo questa lettera è proprio per assolvere questo maggiore impegno. –  Un Magistero così articolato, e che può seguire fino alle ultime applicazioni o conseguenze o connessioni il contenuto immutabile della parola di Dio, può fare una certa impressione. E naturale che questo accada e tanto maggiore sarà la impressione quanto più si perderà il senso della verità obiettiva dopo le infiltrazioni filosofiche nell’abito culturale degli uomini. I quali, a forza di sentir confondere oggetto e soggetto, nonché di sentir semplicemente inventare invece di ricercare, hanno qualche volta perduto di vista l’elementare principio che la realtà e la verità obiettiva si identificano e che pertanto non si può giocare contro la verità obiettiva. – Quando esiste il senso della verità obiettiva non ci si meraviglia che, per quanto concerne la rivelazione divina, Cristo l’abbia protetta in tal modo. La meraviglia dipende da una triste malattia del tempo. E le malattie non sono né doni né vanti né glorie. L’esser il Magistero della Chiesa di una tale natura e di una tale lavabilità indica chiaro che la interpretazione della parola di Dio non può lasciarsi mai all’arbitrio del singolo, alla fantasia della moda, alla paura di chi, nell’apprendere dalla scienza umana qualcosa di nuovo, crede subito che crolli il mondo, crollino le idee ed i principi primi. – La Chiesa ha soprattutto da custodire la verità, perché essa illumina la via e promuove gli atti necessari a raggiungere la salvezza eterna. Infatti la fede, atto di intelletto col quale si accettano le verità rivelate da Dio, è il primo insostituibile passo verso la vita eterna. L’oggetto della fede, allora, va tutelato. Perché tutto questo discorso? Perché gli sforzi spesso incoscienti e subcoscienti di molti sono diretti proprio contro la latitudine del Magistero ecclesiastico ed hanno di mira di restringere l’oggetto della fede o di quanto si collega con la fede. Nella folle speranza che l’uomo sia più libero. Hanno dimenticato quello che è stato scritto: «La verità vi farà liberi…!» (Gv. VIII,32). [Continua…]

 

SAN RAFFAELE

 

San RAFFAELE ARCANGELO

24 OTTOBRE.

[I santi per ogni giorno dell’anno – Pia soc. S. Paolo, Alba – 1933]

La storia di questo Principe della milizia celeste, che dalla Chiesa ci viene proposto a guida nel viaggio per l’eternità, va congiunta con quella di Tobia narrata dalla Sacra Scrittura. Iddio, che è sempre buono, mandò un consolatore ai poveri Israeliti schiavi sotto il re di Assiria. Questi fu il pietoso Tobia, uomo educato nel timor di Dio, ammirato per la sua pietà e pazienza. Condotto in schiavitù cogli altri suoi connazionali, alla vista dei suoi fratelli oppressi, attendeva a consigliare gli afflitti, a fornire di cibi e vestimenta i bisognosi ed a seppellire i morti. La virtù di Tobia fu provata da gravi tribolazioni; fu tormentato dalla cecità e da altre sventure. Il santo vecchio pregò il Signore che lo chiamasse all’altra vita. Ma Dio volle conservarlo per fargli godere dolci consolazioni a mezzo di Tobiolo suo figlio. « Figlio mio, gli disse un giorno il padre, ti avviso che ho imprestato dieci talenti d’argento a Gabelo, che abita in Rages, città della Media. Eccoti la ricevuta: presentagliela ed egli ti restituirà il denaro. Ma siccome tu ignori la strada cerca qualche fedele amico che ti guidi ». Il figlio uscito di casa, s’imbatté in un giovane pronto a far viaggio. Ignorando che quegli fosse un angelo di Dio, «buon giovane, gli disse cortesemente, chi sei? Conosci la via che conduce nella Media? » – « Io sono israelita, mi chiamo Azaria, rispose, e conosco il cammino cui accenni ed ho dimorato molto con Gabelo in Rages. – Tobiolo allora, tutto lieto, dopo aver ricevuto il consenso e la benedizione paterna, partì coll’Angelo Raffaele, che sotto umane sembianze si offrì ad accompagnarlo. – Giunti al fiume Tigri, un pesce mostruoso assalì il giovanetto, e minacciava di divorarlo. L’Arcangelo lo rassicurò ingiungendogli di afferrare quel pesce, sventrarlo e cavargli il fegato che doveva servire di medicina al padre. Un viaggio cominciato con sì buoni auspici, non poteva non riuscire prospero e felice. Infatti l’Angelo non solo fece ricuperare al giovane il denaro, che egli stesso era andato a riscuotere, ma di più procurò che sposasse una ricca e virtuosissima donzella, di nome Sara, figliuola unica di Raguele, suo parente. Quindi ripresero il viaggio di ritorno, ansiosamente attesi dai vecchi genitori. Accolti a braccia aperte, il figlio estrasse il fiele del pesce ed unse gli occhi del padre che torto si riaprirono alla luce. E non solamente il vegliardo rivide il dolce aspetto del figliuolo, ma poté contemplare la sposa, ammirarne i pregi singolari e le moltissime ricchezze che aveva portato con sé. – Sparsa la notizia di questo fatto, i parenti di Tobia si radunarono per ringraziare il Signore e fare festa. Alla loro presenza il figlio enumerò i solenni benefici ricevuti dal compagno di viaggio che ancora lo stimavano per un uomo. Volendo poi in qualche modo ricompensarlo lo pregarono di volere accettare la metà delle sostanze che aveva loro ottenuto. L’Angelo allora si diede a conoscere e voltosi al vecchio Tobia disse: « Ora è tempo che io manifesti la verità. Quando tu seppellivi i morti e ti occupavi in pie opere e in fervorose preghiere, io tutto offrivo al Signore; io sono l’Angelo Raffaele, uno dei sette spiriti che stiamo di continuo alla presenza di Dio. Lodate dunque il Signore e raccontate a tutti le sue meraviglie ». – Ciò detto disparve ed essi rimasero bocconi a terra benedicendo Iddio.

FRUTTO. — Imitiamo Tobia nell’elargire ai poveri il superfluo, e meriteremo ancor noi la protezione di San Raffaele e la liberazione da tante disgrazie.

PREGHIERA. — Dio che desti il beato Raffaele Arcangelo, come compagno di viaggio al tuo servo Tobia, concedi a noi tuoi servi d’essere sempre protetti dalla sua custodia, e difesi dal suo aiuto. Così sia.

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (12), capp. XXII-XXIII

CAPITOLO XXII.

IMITATORI DEL BUON LADRONE NELL’ORIENTE

E NELL’OCCIDENTE.

Storia di Moisè capo d i ladri. — Sua conversione. — Suo apostolato presso i ladri. — Ei ne arresta quattro. — Loro conversione. Loro santità. — Egli stesso gran santo e celebre solitario, — Storia del commediante Gelasino. — Convertito in Eliopoli, e subitamente, in presenza di tutto il popolo, e nell’atto che eseguiva una sacrilega parodia. — Storia simile di S. Genesio commediante. — Suo discorso a Diocleziano ed ai grandi dell’Impero. — La stessa prontezza ed efficacia della grazia sulle peccatrici. — Storia della famosa cortigiana di Antiochia.

Rapida come il lampo, efficace come l’acqua del Battesimo, la misericordia, venendo a un’anima indegna, la rende degna di Dio, e produce azioni meritevoli di premio là dove non aveva trovato che colpe da punire. In prova di questo consolante prodigio, poniamoci a considerare il ladro, del quale ci facciamo a narrare la storia.  Nella Cronaca di Alessandria, sotto la data 28 Agosto, circa l’epoca di s. Antonio, si legge: « Nei deserti dell’Etiopia viveva un famoso masnadiere, chiamato Moisè. La grazia avendo fatto di questo novello Disma un cenobita di gran nome, ed uno dei santi più amabili tra tutti i santi della Tebaide, egli divenne Apostolo dei masnadieri, che infestavano quella regione. Egli ne ridusse a buona vita un gran numero che divennero monaci esemplari. Un giorno, quattro di quei malfattori si riunirono per saccheggiare il romitaggio di Moisè, ignorando che questi era stato una volta capo assassino. Àvevano forzata appena la porta, che Moisè si fa loro innanzi, e robusto come Sansone, li afferra, e quasi fossero un fastello di paglia, se li mette sulle spalle, li porta al monastero, ove giunto li getta a terra in mezzo ai suoi religiosi adunati intorno a lui. « I monaci gli domandano: Che volete voi fare di questi uomini che osarono aggredirvi? Certamente per espiare le ingiurie da esso lui fatte agli altri, Moisè si era proposto di non mai contristare chicchessia, e di non esigere la punizione di alcuno; perciò non rispose; e ritiratosi, i suoi monaci ebbero pietà di quegli sciagurati, e li posero in libertà. – « Venuti ben tosto a sapere che Moisè era stato un capo di ladri, e che era poi divenuto un santo anacoreta, furono a tal punto tocchi dalla grazia, che chiesero di esser ricevuti nel Monastero. Un tal favore venne loro accordato, e divennero cenobiti esemplari. Per incoraggiarsi, dicevano a se stessi: Se Moisè, ch’era sì gagliardo, e teneva il primo luogo tra i masnadieri, teme così Iddio, continueremmo noi più a lungo la nostra sciagurata condizione di vita, a rischio, se indugiamo ancora un istante a convertirci, di compromettere il grande affare della nostra salute? » [Vedi Pellade, Hist. Laus. Vita di S. Arsenio.] Quei ladroni ripetevano alla loro maniera la parola di Nostro Signore: « Che giova all’uomo guadagnar tutto il mondo, se poi perda l’anima sua? » Questa parola fece in essi quella salutare impressione che produrrà sempre in ogni uomo ragionevole. E se il nostro secolo volesse pur dirla a se stesso francamente e seriamente, di qual pace verrebbe a godere, e di qual miracoli non saremmo noi testimoni? Abbandoniamo ora le foreste e le montagne, ricoveri di assassini, per ritornarvi più innanzi, e seguiamo per poco la divina misericordia nelle città; e vediamola anche qui operare le stesse mirabili conversioni che nelle solitudini. La rapidità della sua azione ci apparirà, se è possibile, anche più miracolosa e più consolante. Nei deserti essa spiega la sua azione su nature brute e crudelmente malefiche; ma desse non hanno quella specie di malignità, che è il prodotto di una civiltà bastarda e corrotta, e che troppo spesso ai più stupendi tratti della grazia oppone una lorica di bronzo impenetrabile. Nelle città e sull’animo dei peccatori civilizzati ben altrimenti si passan le cose. L’antropofago dell’Oceania è men difficile a convertirsi di quello che sia il libertino e 1’empio dell’Europa. Cionondimeno la misericordia spira ove essa vuole, e nulla ad essa resiste. – I due commedianti Gelasino e Genesio ce ne offrono due memorabili esempi. Era il tempo della persecuzione di Valeriano, nella città di Eliopoli. Si davano degli spettacoli al popolo, e tutti i gradini dell’anfiteatro erano coperti di spettatori. Dopo le pugne degli uomini e delle fiere, venivano le rappresentazioni dei mimi, e dei pantomimi, lascivi ballerini, commedianti buffoni, destinati ad eccitare le grasse risa della moltitudine a vilipendio dei Cristiani. Vi ha nell’arena un ampio bacino ripieno di acqua tepida. Giunge la schiera che fa corteggio a Gelasino, uno degli attori, che coperto di lunga e candida veste, a derisione del battesimo cristiano, vien gittato nell’acqua. Appena immerso in essa, egli ben presto si leva gridando non per ischerno, ma sul serio: « Io son Cristiano. Io vidi nel bagno uno spettacolo di terribile maestà, e son Cristiano. » Il popolo montato in furore discende dai sedili nell’arena, trascina fuori dell’anfiteatro Gelasino e lo lapida sul momento. La sua bianca veste è imporporata del suo sangue, e l’anima vola al cielo adorna dei gigli dell’innocenza e della porpora del martirio. I Cristiani cui nessun pericolo intimidisce, accorrono a raccogliere le di lui reliquie, e le recano nel suo natio villaggio, ove gli edificano una chiesa. [Chronic. Alexandr., an. 369]. – Una conversione non meno subitanea, e forse più celebre a motivo della città nella quale avvenne, e degli spettatori che ne furono i testimoni, ebbe luogo sotto Diocleziano. (Parigi ha in questo momento la compagnia imperiale Giapponese dei comici del Taicun. Diocleziano, quest’altro Taicun di Roma, aveva pure la sua propria: poiché quasi tutti gl’imperatori si rassomigliano). In questa compagnia trovasi un istrione chiamato Genesio, e la storia dice che era famoso nelle parti buffe. Essendo un giorno al teatro Diocleziano stesso, Genesio che ben conosceva l’odio di lui contro i Cristiani pensò fargli cosa grata rappresentando sulla scena i misteri della loro religione. Egli comparve pertanto coricato su di un letto, e con voce quasi estinta diceva: « Amici miei, quanto è grave la mia infermità! Io sto per morire. Sento un peso enorme sullo stomaco. Non vi sarebbe modo di liberarmene e rendermi più leggiero? » Gli attori suoi compagni ch’erano intorno al suo letto, rispondevano: « Che vuoi tu che facciamo per alleviarti? Siamo noi forse segatori, o fabbri per ripassarti colla lima o con l’ascia ? » E queste insipide buffonate facevan ridere il popolo sovrano. Ma replicava Genesio: « Voi non intendete niente, non è questo quel ch’io domando. Siccome sento di esser vicino a finire, voglio morir Cristiano. E perché? replicano gli altri attori. Perché Iddio mi accolga nel suo paradiso, come un disertore dei vostri Dei. » Si fanno allora le viste di andare in cerca di un prete e di un esorcista. E i due attori che si avanzano a rappresentare quei sacri ministri, si seggono al capezzale del finto malato, e gli dicono: « Che vuoi tu da noi o figliuolo? e perché ci hai tu cercato? » Mutato tutto ad un tratto, come il Buon Ladrone, per un effetto miracoloso della grazia, Genesio risponde, non più per scherzo o per finzione, ma veramente sul serio e di tutto cuore: « Io vi ho fatto chiamare per ricevere, col mezzo del vostro ministero, la grazia di Gesù Cristo, perché rinascendo pel santo battesimo, venga mondato di tutti i miei peccati. » – Si procede allora a compiere le cerimonie del battesimo, e di una bianca veste si ricopre il neofita. Poi, alcuni soldati che fingonsi mandati dal prefetto di Roma, lo arrestano e fingono di maltrattarlo e percuoterlo, e lo conducono ai piedi dell’imperatore, il quale rideva all’eccesso per aver veduto in un modo sì naturale raffigurato tutto ciò che ordinariamente avveniva nelle cerimonie dei Cristiani, e nell’arresto dei martiri. E per continuare il giuoco, Diocleziano, fingendo di esser montato in furore, domanda a Genesio: « È egli vero che tu sei cristiano? » E Genesio risponde con queste precise parole: Augusto signore, e voi grandi dell’impero, ufficiali della casa di Cesare, cortigiani e cittadini tutti, ponete attenzione a quello ch’io son per dire. Io aveva in tale e tanto orrore i Cristiani, che il loro incontro era sempre per me di funesto presagio. Il loro nome stesso mi era odioso tanto, che fremeva al solo sentirlo ripetere, ed era per me un vero gaudio il poter insultare, anche in mezzo ai loro tormenti, quei che davano la lor vita per difesa e confessione di quel nome. I misteri dei Cristiani non mi parevano men degni di riso, che non lo fossero di disprezzo le persone. Ed è perciò che io volli appieno conoscere i loro riti per farne un soggetto di scherno, e divertire voi sul loro conto. Ma, cosa incredibile per voi e provata per me fino all’evidenza! – Al momento che l’acqua ha toccato il mio corpo, e che, alla rituale domanda se io credessi, ho risposto io credo: ho veduto discender dal cielo una schiera di Angeli sfolgoranti di luce che m’han circondato. Leggevano essi in un libro tutte le colpe che io ho commesse dalla mia infanzia in poi, quindi hanno immersa quel libro nell’acqua, nella quale io mi trovava ancora e ritiratolo, me ne hanno mostrato i fogli tutti bianchi al par della neve. Cesare, e voi Romani che qui mi ascoltate, voi che le tante volte avete applaudito alle profanazioni ch’io feci di questi misteri, voi dovete fin da questo momento venerarli meco e credere che Gesù Cristo è il vero Dio, la luce, la verità, la bontà per essenza, e pronto ad accogliervi e perdonarvi. » Diocleziano, vedendo che Genesio parlava sul serio, si accende di furore veramente imperiale, gli fa rompere addosso molti bastoni, e consegnollo a Plauziano, capitano della guardia pretoriana, il quale gli comandò di sacrificare agli Dei: al che Genesio rispose: Io non sacrifico. — Che gli siano lacerati i fianchi cogli unghioni di ferro, e sia bruciato con carboni ardenti. — Durante la crudele tortura, Genesio non cessa di ripetere: « Non v’ha altro Dio che il Dio dei Cristiani. Quando mi facessero morir mille volte per lui, io morrei mille volte con gioia. » – Terminava appena questa generosa e nobile professione di fede che Plauziano gli fece troncare il capo. Era il 25 Agosto dell’anno 286, alla presenza di tutto il popolo della gran Roma [D. Ruinart, Àct. des martyrs, t. I, 384]. – Io credo volentieri, diceva Pascal, a testimoni che si lasciano uccidere. Prova luminosa della nostra fede, la conversione di Genesio è soprattutto un attestato autentico di quella misericordia che scende fino al fondo dell’abisso per cercare il peccatore, e della rapidità colla quale lo trae da quel fondo. E poiché noi siamo sul teatro, non ne usciamo prima di aver contemplata un’altra meraviglia. Assistere a questi colpi di stato, pei quali il Dio d’ogni bontà strappa in un subito al demonio le più elette sue vittime nel luogo stesso ove questo le immola, vi ha nulla di più dolce al cuore? Se alcuna cosa fosse difficile a Dio, la conversione di cui andiamo a parlare, parrebbe offrire, nel gran numero delle iniquità, un ostacolo eccezionale all’azione della misericordia. Ascoltiamo l’eloquente espositore di questo avvenimento ch’ebbe per testimoni i cento mila abitanti di Antiochia. (Che nessuno, dice s. Giovanni Crisostomo, fosse egli pur caduto nel più profondo abisso del vizio, disperi mai della sua conversione; perocché è facile uscire dal baratro dell’iniquità. Che forse non avete voi mai udito parlare di quella meretrice che sorpassò tutte le altre per la sregolatezza della sua condotta, e che poi sorpassò tutti con 1’ardore della sua pietà? Io non parlo già di quella di cui si fa menzione nell’Evangelio, ma di Fenicia che ai nostri giorni portò lo scandalo all’estremo grado. – « Questa cortigiana era qui, ed occupava il primo luogo sulla scena. Il suo nome era su tutte le bocche, non solo in Antiochia, ma fin nella Cilicia e nella Cappadocia. Ella assorbì la fortuna d’un gran numero di persone, e spogliò molti giovani figli di famiglia. Corse voce ch’essa non solo servivasi della sua beltà, ma altresì di sortilegi e di pratiche diaboliche per sedurre le sue vittime, e stringerle nei suoi lacci: sedusse perfino il fratello dell’imperatrice, conciosiachè la potenza della sua seduzione era una vera tirannia. « Ma ecco che ad un tratto, io non so come, o meglio il so benissimo, ella ritrovasi del tutto cangiata. La grazia di Dio la visita, ed ella disprezza tutto, non cura le sue diaboliche attrattive, rinunzia ad ogni cosa mondana, e prende la via che mena al cielo. Benché nulla vi fosse di più impuro di lei quando compariva sulla scena, ora è modello incomparabile di castità, rivestita sempre di un cilizio che non lascia mai né la notte né il giorno. Dietro le premure di taluni, il prefetto volle richiamarla sulla scena, ed i soldati che inviò a cercarla, non mai poterono indurverla, né strapparla alle pie vergini che l’avevano accolta tra loro. – « Ammessa che fu ai santi misteri, ella di proposito si diede alla pratica di tutte le virtù, e morì dopo di aver purificata l’anima sua da ogni macchia dando tutti i segni di una gran santità. Giammai essa non volle rivedere neppur uno di quelli che da essa furono criminalmente amati e che venivano per visitarla. Si era chiusa in una cella, ove passò molti anni, come in un carcere. Così avviene che gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi. Abbiasi pure da noi un sì generoso coraggio, e nulla ci sarà di ostacolo a divenire grandi ed ammirabili cristiani. 1[In Matth. Homil. LXVII, Opp., t. VII, p. 750, n 3] – Possa questo esempio, se viene a conoscersi da qualcuna delle moderne Fenicie, parlare al loro cuore e farne venir fuori questa parola operante prodigi: Voglio pur io convertirmi; e perché non potrò io fare quel che han fatto altre mie pari? A me, come ad esse, la divina misericordia apre le braccia. Gettarmi in quelle, è salvarmi.

CAPITOLO XXIII.

IMITATORI DEL BUON LADRONE NELL’ORIENTE

E NELL’OCCIDENTE.

(Continuazione.)

Il mandriano della Tracia. — Suoi atti di brigantaggio. — Vani sforzi per arrestarlo. — Condotta ammirabile dell’Imperatore Maurizio. — Il brigante convertito. — Sua malattia, sua penitenza, sua morte, suo giudizio . — Racconto del medico. — Il giovane ladro di Cluny. — Audace brigante. — Suo incontro Con S. Odone. — Sua conversione. — Sua santità. — Eroismo della sua penitenza. — Sua morte preziosa.

Ritorniamo sulle montagne per veder la misericordia proseguire ad operare le subitanee sue meraviglie tra i privilegiati clienti del Buon Ladrone. S. Anastasio del monte Sinai, dopo di aver riportato la conversione del Ladrone di s. Giovanni, si esprime così: «Questo fatto è tanto più degno di fede, in quanto che non è il solo. Noi lo vedemmo prodursi ai Calvario, ove, di un famoso masnadiere, una sola parola di fede bastò a fare un gran santo. Noi 1’abbiamo di poi riscontrato in un gran numero d’insigni peccatori, e particolarmente nel famoso brigante dell’età nostra, sotto il regno dell’imperator Maurizio; ed eccone la storia. « Un capo di masnadieri aveva fissata la sua dimora sulle frontiere della Tracia. Animoso e forte come un leone, crudele come una tigre, egli aveva rese impraticabili quelle strade. Un gran numero di soldati e di arcieri non avevano potuto con tutti i loro strattagemmi riuscire ad arrestarlo. Il pio Imperatore, essendone stato informato, chiamò a se uno dei suoi giovani ufficiali, e togliendosi dal collo le sante Reliquie che vi portava appese: Va’ gli disse, a recar questo dono al capo dei briganti. « Il messaggero adempì la sua commissione: e il masnadiere non appena si ebbe in mano quelle Reliquie, che colpito come da una potenza divina si sentì in un subito mutato. Di lupo crudele diviene un mansueto agnello, e va a gettarsi ai piedi dell’Imperatore, cui fa la confessione di tutti i suoi delitti. Pochi giorni dopo è colto da febbre violenta, e trasportato all’Ospedale di s. Sansone. Là sul letto dei suoi patimenti volgevasi egli ai suoi pietosi infermieri, e loro confessava i suoi falli, non cessando mai di ripetere questa preghiera: Mio benigno Signore, io non vi domando nulla di nuovo. Siccome voi faceste risplendere la vostra misericordia su di un ladro che mi precedette, spandetela pure su di me che sono un ladro come lui. Accogliete le lacrime ch’io verso su questo letto di dolori ove tra poco morirò. Fate che esse valgano a cancellare la sentenza della mia condanna, e passate la spugna della vostra misericordia sulle mie colpe, che sono al di là d’ogni immaginazione. – « Per lunghe ore questo ladrone penitente continuò a ripetere le stesse parole, asciugandosi le lacrime fino all’ultimo respiro. Al momento ch’ei morì, il valente medico di quell’ospedale dormiva profondamente nella propria casa; ed appunto nell’ora della morte di quel ladro, vide in sogno una folta schiera di Etiopi che accerchiavano il letto del moribondo. Nelle loro mani avevano molte carte, ove erano scritte le iniquità del ladro. Ma bentosto sopravvennero due personaggi coperti di bianca veste; gettarono gli Etiopi in una bilancia tutti quei documenti della reità del moribondo, ed il piatto di quella discese fino al basso, mentre l’altro montò in alto. I due angeli di luce si dissero allora: Non abbiamo noi dunque nulla da mettere per contrappeso ? — Che potremmo aver mai, rispose un d’essi, se dieci giorni non son passati ancora da che cessò egli di commettere omicidi e furti, ed abbandonò la sua caverna? Qual buona opera possiamo noi chiedergli? – « Avendo parlato così fra loro, parve che colle mani cercassero nel letto del moribondo per vedere di trovare alcuna cosa di buono; e venne loro trovato il fazzoletto, del quale il ladro si era servito per asciugarsi le lacrime. Ecco il suo fazzoletto, disse l’uno degli Angeli: mettiamolo nell’altro piatto con la misericordia di Dio: questo sarà pur qualche cosa. Ma non appena vi fu posato quel cencio che il piatto discese al fondo, e le carte ch’erano nell’altro bacino disparvero. Allora gli Angeli d’una sola voce gridarono: Viva la misericordia di Dio! E presero e seco loro portarono l’anima del fortunato ladrone; mentre gli Etiopi confusi si ritirarono fuggendo. – « Intanto il medico di buon mattino si recò a fare la sua visita, e trovato il ladro ancor caldo, prese il suo fazzoletto bagnato di lacrime; ed informato dai malati vicini al suo letto delle preghiere e delle lacrime del defunto, corse all’Imperatore, e gli narrò quanto era avvenuto. Ascoltato con emozione il racconto dal pio Monarca, il medico soggiunse: Sire, rendiamo grazie a Dio. Noi conoscevamo già un Ladrone salvato sulla croce dal confessar che ei fece la divinità del Salvatore: or sotto il vostro impero abbiamo visto un altro ladrone salvato per la confessione dei suoi falli, e per le lacrime del suo pentimento. Simili fatti sono ben consolanti, quanto innegabili: ciò nondimeno, la prudenza esige che, pensando all’ora terribile della morte, noi la preveniamo con una vita penitente! » [Orat. in ps. VI, vers. fin.]. – Così per il Ladrone del Calvario quattro parole, e per costui alcune lacrime bastarono ad espiare una vita d’iniquità. E perché no? La misericordia di Dio non è meno pronta della tentazione. Se un solo istante basta per cadere nel peccato mortale e perder l’anima la più santa, perché mai un istante non deve bastare a convertire il più gran peccatore? – Rassicurati da questa consolante certezza, passiamo dall’Oriente all’Occidente, dai secoli antichi a quelli più prossimi al nostro, e vedremo che la divina misericordia non invecchia, e che la sua azione non conosce ostacoli, e non si arresta a qualsiasi impedimento. Uno de’più gloriosi e più amabili nostri compatrioti, s. Odone, abate di Cluny, essendo un giorno in viaggio, s’incontrò in una banda di masnadieri. Alla vista del suo volto esprimente la bontà e serenità dell’animo suo, ed al suono della sua voce dolce al pari del miele, uno di quei ladri intenerito e compunto cade ai suoi piedi, e a bassa voce lo scongiura ad aver pietà di lui. – « Che vuoi, figlio mio? gii domanda l’uomo di Dio. — Voglio ritirarmi nel vostro Monastero, risponde il giovine masnadiere. —Conosci tu qualcuno in questo paese? Io son conosciuto da tutti i nobili e da tutti gli sfaccendati e libertini. » Da ciò appare che lo sciagurato appartenesse ad una distinta famiglia. « Va’ dunque, replicò il santo, e domani verrai a trovarmi accompagnato da uno dei notabili abitanti della contrada. » Egli fece quanto gli era stato comandato, e il domani si presenta al Monastero con uno dei più nobili abitanti. Rivoltosi a quel gentiluomo, Odone gli disse: « Conoscete voi questo giovine? Qual fu il tenore della sua vita, e quali sono i suoi costumi? — Io lo conosco, rispose quel signore, per un insigne brigante: Latronem imprimis insignem. — Figlio mio, disse allora il santo all’assassino, cambia condotta, e poi vieni, e sarai accolto nel monastero. — Padre mio, rispose il giovine, se tu oggi mi respingi, domani sarò perduto, e Dio ti domanderà conto dell’anima mia. » – Mosso a compassione il santo abate, consentì alla sua entrata nel monastero; ed egli, dopo le usate prove del noviziato, professò e fu dato a compagno del Cellerario con ordine di essergli subordinato ed obbediente in ogni cosa. E poiché non sapeva leggere gli fu forza di sostenere un doppio carico, imparare cioè a leggere e lavorare. Egli però si mostrò tanto animoso nel compiere l’uno e l’altro dovere, che con una mano aiutava il Cellerario e con l’altra teneva il Salterio. Ben tosto il Signore fu contento del suo fervore e lo chiamò a sé. – Vicino a morte, fece pregare il santo abate Odone di venire a visitarlo, volendo parlargli a solo. Venne il santo e gli disse: « Figlio mio, hai tu forse commesso qualche peccato dopo la tua professione religiosa? Sì, padre mio, rispose l’infermo, ho commesso un fallo. Senza la vostra permissione, ho dato la mia tonaca ad un povero che era nudo, e nel guardaroba ho presa una corda di crini. — E che ne hai fatto? Me ne cinsi i lombi per reprimere la voracità del mio appetito. » — Sorpreso e intenerito l’uomo di Dio, volle toglierli un sì duro legame; ma sciogliendolo e ritirandolo, con la putredine sen venne appresso la carne alla quale aderiva quel cinto. – Senza punto commuoversi, né lamentarsi, il moribondo si fece a dire: « Nella scorsa notte, Padre mio, mi vidi trasportato in sogno nel cielo. Incontro a me venne una Signora, sfolgorante di luce e di un’ammirabile maestà, ed appressatasi mi disse: Mi conosci tu? No, io risposi. Io sono, Ella soggiunse, la Madre della misericordia. Ed io le dissi: o Signora che mi comandate Voi? Ed Ella riprese a dire: Fra tre giorni, alla tal ora tu verrai qui. » Giunse infatti il giorno e l’ora indicata, ed il religioso morì, a contestare con certezza la verità della sua visione. E fu da quel momento che il beato Odone prese l’abitudine di chiamare la Beatissima Vergine, Madre della misericordia: Mater Misericordiæ. Una anche questa delle affettuose invocazioni a Maria, della quale dai più s’ignora l’origine prodigiosa. [Vit, S. Odon ap. Sur., t. VI.]

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: “QUANTA CURA”

“QUANTA CURA”

ENCICLICA

DI PIO IX PONTEFICE MASSIMO

DATA ADDÌ VIII DICEMBRE MDCCCLXIV
del suo pontificato l’anno XIX

Leggendo la “Quanta Cura”, e di seguito il “Syllabo” degli errori, che pubblicheremo, a Dio piacendo, la prossima domenica, si ha un effetto strano, è come guardare in uno specchio d’acqua, un placido laghetto, nel quale si riflette un paesaggio alpino. Si vedono le nuvole che attraversano il cielo, le cime alte dei monti, gli alberi e la rigogliosa natura con tante specie vegetali, ma … tutto al contrario, tutto capovolto, ciò che è in alto, lo si vede in basso, ciò che è più alto, lo si vede ancor più in profondità. È la sovversione totale della dottrina modernista, ribaltata in toto rispetto alla Dottrina Cattolica. È come ascoltare un disco che gira al contrario, i suoni e le parole capovolte, la prima nota diventa l’ultima, l’ultima sillaba diventa la prima … una contro-sinfonia, una partitura tonale che diventa un dodecafonismo delirante … l’inversione totale!  Nella setta vaticana attuale tutto è capovolto: si proclama tutto ciò che si legge nell’Enciclica e nel Syllabo degli errori, salvo la premessa: si condanna! Qui invece si proclama, si promulga! La setta modernista vaticana ha così confezionato e ci propina fin dalle sue sorgenti, scaturite dal conciliabolo di fine secolo XX, il c.d. Vaticano II [si, … quello scomunicato latæ sententiæ già mezzo millennio prima dalla bolla “Exsecrabilis” di Papa Piccolomini], un contro-syllabo, come giustamente diceva uno degli antipapi attuali, un “illuminato” teologo [illuminato dal fuoco sinistro di lucifero evidentemente”]. Tutto è simile, ma invertito, come nel bel paesaggio alpino riflesso nelle acque del placido lago! E a parlarne in giro, .. solo un bimbo ormai ha il coraggio di dire: “… ma il re è nudo”, … però nessuno lo vuole dire per non vedersi additato come retrogrado, fondamentalista, antiprogressista, antiquato avversario della modernità! È come la Chiesa ribaltata, invertita, … come molti dei suoi falsi funzionari, ma la Chiesa non può essere invertita, ribaltata, ma “eclissata” sì, e se quella che appare non è la Chiesa, “ipso facto” è la sinagoga di satana! Così come, se la salvezza è sulle vette dei monti, sulle nubi, nel cielo, l’inversione è la perdizione nelle acque del lago, lo strapiombo nello stagno della dannazione, … lo comprende bene anche il bimbo di cui sopra. Solo i sapienti e gli “illuminati” teologi non lo comprendono, a meno che … non siano essi pure parte di un piano che mira a sovvertire tutta l’umanità chiamata al banchetto celeste, sprofondandola così non nel fresco lago alpino, ma nello stagno, … di fuoco, la dove sarà pianto e stridore di denti. È così lampante: sovvertire la divina dottrina, ribaltare i dogmi della fede Cattolica di sempre, impugnare la verità conosciuta, quella della Tradizione apostolica, resa nota dalle Sacre Scritture, applicata mediante il Magistero infallibile di Pietro e dei suoi successori ininterrotti fino alla fine dei tempi, sovvertire la Divina Rivelazione, rompere l’unità temporo-spaziale della “Chiesa di Cristo”, cos’è se non l’opera del “nemico” di Dio e degli uomini, del “signore dell’universo”, insediatosi al posto di Dio Uno e Trino, come  “abominio della desolazione” sui sacri altari a farsi adorare, il falsario ed omicida baphomet-lucifero servito dai suoi adepti, che oggi vediamo pure tra i vestiti di porpora, con talare nera, rossa, e finanche di bianco imbiancati … come i sepolcri di evangelica memoria?!? Le cose saranno ancor più chiare nel leggere il “Syllabo” di quelli che nella Chiesa Cattolica di sempre sono considerati errori dottrinali, eresie manifeste, mentre oggi sono la “costituzione modernista”, in auge presso gli apostati della setta vaticana usurpante. – In questa lettera Papa Mastai colpisce diversi bersagli … le false e perverse opinioni, tra cui la peggiore: “il naturalismo” di stampo gnostico-massonico, madre di tutte le eresie; e poi l’indifferenza religiosa, per cui anche le  religioni false e le sette scismatiche pseudo-cristiane portano alla salvezza, odierno cavallo di battaglia della setta massonico-modernista del Vaticano; l’idea totalmente falsa del “sociale governo” [quello che oggi governa tutte le nazioni un tempo cristiane], la libertà di coscienza e di culto, “idolo” di tutti i mezzi di informazione attuali, compresi i falsi sedicenti cristiani], …”libertà della perdizione” la chiama il Santo Padre, con la conseguente corruzione dei giovani, la profanazione del giorno del Signore, [oggi non se ne parla neanche più, tanto è radicata la barbara abitudine nei bruti, anche nei bruti in talare variopinta che anticipano le loro false e sacrileghe funzioni alla sera prima per poter permettere l’affluenza ai teatri, agli spettacoli indecenti, e ai centri commerciali … servi sciocchi di un padrone che li schiaccerà, appena logori o minimamente dissidenti, come luridi vermi!]; il clero [quello “vero” cattolico], privato di diritti civili, la disconoscenza dei diritti di Dio e della Regalità di Cristo nella società civile, l’usurpazione dei diritti e delle possessioni della Chiesa, il dominio delle sette e delle conventicole, mattoni della “sinagoga di satana”, etc. L’Enciclica si completa poi con il “Syllabo” degli errori, con i principali 80 errori dell’epoca segnalati da Sua Santità, di cui discuteremo ancora, così come vedremo in futuro altri “Syllabi”, ad es. di S. Pio X e di Pio XII. Ma non precorriamo i tempi, godiamoci ora questa lettera, “pietra miliare” del Magistero infallibile di tutti i tempi, certi di navigare in un’arca sicura, come quella di Noè, in mezzo al diluvio modernista che copre già i monti e sta raggiungendo le nubi oramai … “Quanta cura ac pastorali vigilantia Romani Pontifices …”

A tutti i venerabili fratelli
patriarhi, primati, arcivescovi e vescovi
che hanno la grazia e la comunione
della Sede Apostolica

PIO PAPA IX.

VENERABILI FRATELLI,
salute ed apostolica benedizione.

Con quanta cura e pastorale vigilanza i Romani Pontefici Predecessori Nostri, eseguendo l’ufficio loro commesso dal medesimo Cristo Signore nella persona del Beatissimo Pietro Principe degli Apostoli e il carico di pascere gli agnelli e le pecore, non mai abbiano tralasciato di nutrire diligentemente l’universale gregge del Signore con le parole della fede, e di imbeverlo della salutare dottrina, e di rimuoverlo dai pascoli attossicati, a tutti ed a Voi in ispecialità, o Venerabili Fratelli, è chiaro e manifesto. Ed in vero i predetti Nostri predecessori, dell’augusta Religione cattolica, della verità e della giustizia difensori e vindici, della salute delle anime sommamente solleciti, niente mai ebbero più a cuore quanto con le loro sapientissime Lettere e Costituzioni scoprire e condannare tutte le eresie e gli errori, i quali contrariando la divina nostra fede, la dottrina della Cattolica Chiesa, la onestà dei costumi e la eterna salute degli uomini, spesso eccitarono gravi tempeste, e funestarono in miserabile modo la cristiana e la civile repubblica. Per lo che i suddetti Predecessori Nostri con apostolica fortezza continuamente resistettero alle nefande macchinazioni di uomini iniqui, che schizzando come i flutti di procelloso mare la spuma delle loro fallacie, e promettendo libertà mentre che sono schiavi della corruzione, con le loro opinioni ingannevoli e con i loro scritti perniciosissimi, si sono sforzati di sconquassare le fondamenta della Cattolica Religione e della civile società, di levare di mezzo ogni virtù e giustizia, di depravare gli animi e le menti di tutti, di sviare dalla retta disciplina dei costumi gl’incauti, e massimamente la imperita gioventù, e di guastarla miseramente, di arreticarla nei lacci degli errori e per ultimo di strapparla dal seno della Chiesa Cattolica. – Intanto, siccome a Voi, Venerabili Fratelli, è ben noto, subito che per un arcano consiglio della divina Provvidenza, non certo per verun Nostro merito, fummo innalzati a questa Cattedra di Pietro, vedendo Noi con estremo dolore del Nostro animo la orribile procella sollevata da tante prave opinioni, e i gravissimi e non mai abbastanza lacrimabili danni che da tanti errori ridondano nel popolo cristiano, per ufficio dell’apostolico Nostro Ministero, seguendo le vestigia illustri dei Nostri Predecessori, alzammo la voce Nostra, e con parecchie Lettere Encicliche divulgate per la stampa e con le Allocuzioni tenute nel Concistoro e con altre apostoliche Lettere condannammo i principali errori della tristissima età nostra, e stimolammo la esimia vostra episcopale vigilanza, ed ammonimmo con ogni nostro potere ed esortammo tutti i figliuoli della Cattolica Chiesa a Noi carissimi, che avessero in sommo abominio la infezione di una peste così crudele, e la fuggissero. Specialmente poi con la Nostra prima Lettera enciclica dei 9 novembre dell’anno 1846 a Voi scritta, e con le due Allocuzioni, delle quali l’una fu tenuta da Noi nel Concistoro del dì 9 dicembre l’anno 1854, e l’altra in quello del dì 9 giugno l’anno 1862, condannammo le mostruose enormità dell’opinioni che segnatamente in questa nostra età dominano, con grandissimo danno delle anime e con detrimento della stessa civile società, le quali non pure avversano soprammodo la Chiesa cattolica e la salutare sua dottrina e i venerandi suoi diritti, ma altresì la sempiterna natural legge da Dio scolpita nei cuori di tutti e la retta ragione, e dalle quali presso che tutti gli altri errori traggono origine. – Ma quantunque non abbiamo lasciato di proscrivere spesso e di riprovare i più capitali errori di questa fatta, nulla di meno la causa della cattolica Chiesa, e la salute delle anime a Noi divinamente commessa, e il bene della stessa umana società riecheggiano al tutto che di nuovo eccitiamo la vostra pastorale sollecitudine a sconfiggere altre prave opinioni, che dai predetti errori scaturiscono come da fonte. Le quali false e perverse opinioni tanto più sono a detestarsi, quanto che mirano in ispecial guisa a fare che sia impedita e rimossa quella salutare forza che la Cattolica Chiesa, per istituzione e mandato del suo divino Autore, deve liberamente esercitare fino alla consumazione dei tempi, non meno verso i singoli uomini, che verso le nazioni, i popoli e i supremi lor Principi; e che sia tolta di mezzo quella mutua società e concordia di consigli tra il Sacerdozio e l’Impero, che sempre riuscì fausta e salutare alle cose tanto sacre come civili. Imperocché molto bene sapete, Venerabili Fratelli, che in questo tempo non pochi si trovano, i quali, applicando al civile consorzio l’empio ed assurdo principio del naturalismo, secondochè lo chiamano, osano insegnare «l’ottima ragione della pubblica società e il civile progresso richiedere che la società umana si costituisca e si governi senza aver nessun riguardo alla Religione, come se ella non esistesse, o almeno senza fare alcun divario tra la vera e le false religioni». E contro la dottrina delle sacre Lettere, della Chiesa e dei santi Padri, non dubitano di asserire «ottima essere la condizione della società, nella quale non si riconosce nell’Impero il debito di reprimere con pene stabilite i violatori della Cattolica Religione, se non in quanto lo domanda la pubblica pace.» Con la quale idea di sociale Governo, assolutamente falsa, non temono di caldeggiare l’opinione sommamente ruinosa per la Cattolica Chiesa e per la salute delle anime, dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di venerata memoria chiamata delirio, cioè «la libertà di coscienza e dei culti essere un diritto proprio di ciascun uomo, che si ha da proclamare e stabilire per legge in ogni ben costituita società, ed i cittadini avere diritto ad una totale libertà che non deve essere ristretta da nessuna autorità o ecclesiastica o civile, in virtù della quale possano palesemente e pubblicamente manifestare e dichiarare i loro concetti quali che si sieno, ossia con la voce, ossia coi tipi, ossia in altra maniera.» E mentre ciò temerariamente affermano, non pensano e non considerano che essi predicano la libertà della perdizione, e che «se alla umana persuasione sempre sia libero il disputare, non mai potranno mancar quelli che ardiscono resistere alla verità, e confidare nella loquacità dell’umana sapienza, mentre quanto la cristiana fede e sapienza debba evitare questa nocevolissima vanità, lo conosce dalla stessa istituzione del Signor Nostro Gesù Cristo.» – E poiché dove dalla civile società sia stata rimossa la Religione, e ripudiata la dottrina e l’autorità della divina Rivelazione, anche lo stesso germano concetto della giustizia e dell’umano diritto si copre di tenebre e si perde, ed in luogo della giustizia vera e del diritto legittimo si sostituisce la forza materiale, quindi si fa chiaro il perché alcuni, spregiando affatto e nulla valutando i principii certissimi della sana ragione, ardiscano proclamare «la volontà del popolo, manifestata per l’opinione, pubblica come essi dicono, o per altra guisa, costituire una sovrana legge, sciolta da qualunque divino ed umano diritto, e nell’ordine politico i fatti consumati, per ciò stesso che sono consumati, avere vigor di diritto.» Ma e chi non vede e non sente pienamente, che una società d’uomini sciolta dai vincoli della religione e della vera giustizia, niun altro proposito può certamente avere, fuorché lo scopo di acquistare e di accumulare ricchezze, e niun’altra legge nelle sue operazioni seguire, fuorché una indomita cupidigia di servire alle proprie voluttà e comodità? Per questo codesti uomini, con odio veramente acerbo, perseguitano le Religiose Famiglie, comeché benemerite al sommo della cosa cristiana, civile e letteraria, e vanno dicendo che elleno non hanno alcuna ragione di esistere, e con ciò fanno plauso ai trovati degli eretici. Perocchè, come sapientissimamente insegnava Pio VI, nostro Predecessore di venerata memoria, «l’abolizione dei regolari lede lo stato di pubblica professione dei consigli evangelici, lede una maniera di vita commendata nella Chiesa siccome consentanea all’apostolica dottrina, lede gli stessi insigni fondatori che veneriamo sopra gli altari, i quali, non ispirati che da Dio, stabilirono queste società». Ed affermano altresì empiamente doversi togliere ai cittadini ed alla Chiesa la facoltà «di potere pubblicamente erogare limosine per motivo di cristiana carità», e doversi abolire la legge «che per ragione del culto divino proibisce le opere servili in certi determinati giorni», pretessendo con somma fallacia che quella facoltà e legge contrastano coi principii dell’ottima economia pubblica. Né contenti di allontanare la Religione dalla pubblica società, vogliono rimuoverla eziandio dalle private famiglie. Imperoché, insegnando e professando il funestissimo errore del Comunismo e Socialismo, dicono che «la società domestica o la famiglia riceve dal solo diritto civile ogni ragione di sua esistenza; e che però dalla sola legge civile procedono e dipendono tutti i diritti dei parenti sui figli, massimamente quello di procurare la loro istituzione ed educazione». Colle quali empie opinioni e macchinazioni cotesti fallacissimi uomini intendono principalmente di eliminare dalla istituzione ed educazione la dottrina salutifera e la forza della Cattolica Chiesa, acciocché i teneri e flessibili animi dei giovani vengano miseramente infetti e depravati da ogni fatta di errori perniciosi e di vizii. Conciossiachè tutti quelli, i quali si sono sforzati di perturbare le cose sacre e le civili, e sovvertire il retto ordine della società e cancellare tutti i diritti divini ed umani, rivolsero sempre i loro disegni, studii e conati ad ingannare specialmente e corrompere l’improvvida gioventù, come sopra accennammo, e nella corruttela della medesima riposero ogni loro speranza. Per la qual cosa non cessano mai con modi d’ogni guisa nefandi di vessare l’uno e l’altro Clero, da cui, come splendidamente viene attestato dai certissimi monumenti della storia, tanti gran vantaggi derivarono nella cristiana, civile e letteraria repubblica; e spargono che «esso Clero, come nemico del vero e utile progresso della scienza e della civiltà, deve esser rimosso da ogni ingerenza ed esercizio nella istituzione ed educazione dei giovani.» – Altri poi, rinnovando le prave e tante volte condannate invenzioni dei novatori, ardiscono con insigne impudenza di sottomettere all’arbitrio dell’autorità civile la suprema autorità della Chiesa e di questa Sede apostolica, a lei comunicata da Cristo Signore; e negare ad essa Chiesa e ad essa Sede tutti i diritti che ella ha intorno alle cose che appartengono all’ordine esteriore. Perciocchè costoro non si vergognano di affermare che «le leggi della Chiesa non obbligano in coscienza, se non quando vengono promulgate dalla potestà civile; che gli atti e decreti dei Romani Pontefici, spettanti alla Religione e alla Chiesa, hanno bisogno della sanzione e dell’approvazione, o almeno dell’assenso del potere civile; che le Costituzioni apostoliche, colle quali son condannate le clandestine associazioni, sia che in esse si esiga, sia che non si esiga il giuramento di mantenere il segreto, e con le quali son fulminati di anatema i loro seguaci e fautori, non hanno vigore in quelle contrade dove siffatte associazioni si tollerano dal civile governo; che la scomunica inflitta dal Concilio di Trento e dai Romani Pontefici a coloro i quali invadono ed usurpano i diritti e le possessioni della Chiesa, si appoggia alla confusione dell’ordine spirituale col civile e politico, per promuovere il solo bene mondano; che la Chiesa non deve niente decretare, che possa astringere le coscienze dei fedeli, in ordine all’uso delle cose temporali; che alla Chiesa non compete [p. 12]il diritto di raffrenare con pene temporali i violatori delle sue leggi; che sia conforme alla sacra teologia ed ai principii del diritto pubblico ascrivere e vendicare al governo civile la proprietà dei beni che si posseggono dalle Chiese, dalle Famiglie Religiose e dagli altri luoghi pii». Né arrossiscono di apertamente e pubblicamente professare il pronunciato ed il principio degli eretici, da cui nascono tante perverse sentenze ed errori, che cioè «la potestà ecclesiastica non sia per diritto divino distinta ed indipendente dallo potestà civile, e che questa distinzione ed indipendenza non possa mantenersi senza essere invasi ed usurpati dalla Chiesa i diritti essenziali di essa civil potestà». Né possiamo passare sotto silenzio l’audacia di quelli, i quali, intolleranti della sana dottrina, contendono che si possa, senza peccato e iattura della professione cattolica, negare l’assenso e l’obbedienza a quei decreti e giudizii della Sede apostolica, l’obbietto dei quali si dichiara che riguarda il bene generale della Chiesa e i suoi diritti e la sua disciplina; purché essi non tocchino i dommi della fede e dei costumi». Il che quanto grandemente si opponga al domma cattolico della piena potestà del Romano Pontefice, divinamente conferitagli dallo stesso Cristo Signore, in ordine a pascere e reggere e governare la Chiesa universale, non è chi apertamente e chiaramente non veda ed intenda. Noi dunque, in tanta perversità di depravate opinioni, ben ricordevoli del Nostro apostolico ufficio e massimamente solleciti della santissima nostra religione, della sana dottrina e della salute delle anime, a noi commesse da Dio, e del bene della stessa umana società, stimammo dover nuovamente elevare la Nostra apostolica voce. Pertanto, tutte e singole le prave opinioni e dottrine, nominatamente espresse in queste Lettere, colla Nostra [p. 13]autorità apostolica riproviamo, proscriviamo e condanniamo; e vogliamo e comandiamo che esse siano da tutti i figliuoli della cattolica Chiesa tenute per riprovate, proscritte e condannate. – Ma, oltre di queste, Voi ottimamente sapete, o Venerabili Fratelli, che nel presente tempo altre ancora di ogni genere empie dottrine vengono disseminate dagli odiatori di ogni verità e dottrina in pestiferi libri, libelli e giornali, sparsi per tutto il mondo, coi quali essi illudono i popoli e maliziosamente mentiscono. Né ignorate come anche in questa nostra età si trovino di quelli che, mossi ed incitati dallo spirito di Satana, pervennero a tanta empietà da non paventar di negare con scellerata procacia lo stesso Dominatore e Signor nostro Gesù Cristo ed impugnare la sua divinità. E qui non possiamo astenerci dal commendare con massime e meritate lodi Voi, o Venerabili Fratelli, i quali in nessun modo tralasciaste di elevare con tutto zelo la vostra voce episcopale contro tanta nequizia. – Pertanto, con queste Nostre Lettere ritorniamo a volgere con tutto amore il nostro discorso a Voi, che, chiamati a parte della nostra sollecitudine, ci siete di sommo conforto, allegrezza e consolazione, in mezzo alle massime Nostre angosce, per l’egregia religione e pietà onde siete segnalati, e per quel meraviglioso amore, fedeltà ed osservanza, onde, stretti a Noi ed a quest’apostolica Sede con cuori concordissimi, vi sforzate di adempiere strenuamente e diligentemente al vostro gravissimo ministero episcopale. Ed in verità dall’esimio vostro zelo pastorale Ci aspettiamo che, assumendo la spada dello spirito che è la parola di Dio, e confortati nella grazia del Signor Nostro Gesù Cristo, vogliate con rinforzate cure ogni giorno più provvedere che i fedeli commessi alla vostra sollecitudine «si astengano dalle erbe nocive che Gesù Cristo non coltiva perché non sono piantagione del Padre». Né mancate d’inculcar sempre agli stessi fedeli che ogni vera felicità ridonda negli uomini dall’augusta nostra Religione e dalla sua dottrina e pratica, e beato essere quel popolo il cui Signore è il suo Dio. Insegnate «che sul fondamento della fede cattolica sussistono i regni, e nulla è sì mortifero, sì vicino al precipizio, sì esposto a tutti i pericoli, come il credere che questo solo ci possa bastare, di avere cioè ricevuto, quando nascemmo, il libero arbitrio, e non domandare più altro al Signore; questo è dimenticare il nostro fattore, ed abiurare, per mostrarci liberi, la sua potenza». Né lasciate parimente d’insegnare «che la reale podestà non fu data solamente pel reggimento del mondo, bensì massimamente per il presidio della Chiesa; e nulla vi è che ai Principi e ai Re possa recare maggior profitto e gloria, quanto, siccome un altro sapientissimo e fortissimo Nostro Predecessore S. Felice inculcava a Zenone imperatore, il lasciare che la Chiesa Cattolica… si serva delle sue leggi, e il non permettere che alcuno si opponga alla sua libertà… Giacché è certo che sarà loro utile che, quando si tratta della causa di Dio, si studino, secondo la legge sua, non di anteporre ma di sottoporre la regia volontà ai sacerdoti di Cristo». – Ma se fu sempre necessario, o Venerabili Fratelli, ora specialmente, in mezzo di sì grandi calamità della Chiesa e della società civile, in tanta cospirazione di avversarii contro il Cattolicismo e questa Sede Apostolica, e fra sì gran cumulo di errori, è assolutamente indispensabile che ricorriamo con fiducia al Trono della grazia per ottenere misericordia e trovar grazia con aiuto opportuno. Perciò giudicammo di eccitare la devozione di tutti i fedeli, affinché insieme con Noi e con Voi, con ferventissime ed umilissime preci preghino e supplichino senza intermissione il clementissimo Padre dei lumi e delle misericordie; e nella pienezza della fede sempre ricorrano al Signor Nostro Gesù Cristo, che ci redense a Dio nel Sangue suo; e il suo dolcissimo Cuore, vittima della sua ardentissima carità verso di Noi, caldamente e continuamente implorino perché coi vincoli del suo amore tutto tiri a se stesso, e tutti gli uomini infiammati del suo santissimo amore camminino rettamente secondo il Cuor suo, in tutto piacendo a Dio, e fruttificando in ogni buona opera. Ed essendo, senza dubbio, più grate a Dio le preghiere degli uomini, se questi a lui ricorrano coll’animo mondo da ogni macchia, perciò credemmo di aprire con apostolica liberalità i celesti tesori della Chiesa commessi alla dispensazione Nostra, perché gli stessi fedeli più caldamente accesi alla vera pietà e lavati dalle macchie dei peccati nel Sacramento della Penitenza, con più fiducia volgano a Dio le loro preghiere e conseguano la sua grazia e misericordia. – Dunque con queste Lettere, coll’autorità Nostra apostolica, a tutti e singoli i fedeli del mondo cattolico di ambo i sessi concediamo l’Indulgenza plenaria in forma di Giubileo per lo spazio solamente di un mese, fino a tutto il futuro anno 1865, e non più oltre, da stabilirsi da Voi, Venerabili Fratelli, e dagli altri legittimi Ordinarii, nello stesso modo e forma in cui al principio del Sommo Nostro Pontificato lo concedemmo colle apostoliche Nostre Lettere in forma di Breve del giorno 20 di novembre dell’anno 1846, e mandate a tutto il vostro Ordine episcopale, le quali cominciano Arcano divinæ Providentiæ consilio, e con tutte le stesse facoltà, che colle dette Lettere da Noi furono concesse. Vogliamo però che si osservino tutte quelle cose che sono prescritte nelle dette Lettere, e quelle si eccettuino che dichiarammo essere eccettuate. E ciò concediamo, non ostanti le cose contrarie qualunque siano, ancorché degne di speciale ed individua menzione e derogazione. E perchè sia tolto ogni dubbio e difficoltà, abbiamo disposto che vi si mandi copia delle stesse Lettere. – «Preghiamo, Venerabili Fratelli, dall’intimo del cuore e con tutta l’anima, la misericordia di Dio, perché Egli stesso disse: La mia misericordia non disperderò da loro. Domandiamo e riceveremo; e se vi sarà dimora e tardanza nel ricevere, poiché gravemente peccammo, battiamo, perché a chi batte verrà aperto, purché alla porta si batta con le preghiere, coi gemiti e con le lacrime nostre, colle quali bisogna insistere e durare; e se sia unanime la nostra orazione… ciascuno preghi Dio non per sé solamente, ma per tutti i fratelli, siccome il Signore ci insegnò a pregare». E perché il Signore più facilmente si pieghi alle Nostre e Vostre preghiere e di tutti i fedeli, con ogni fiducia adoperiamo presso di Lui come interceditrice l’Immacolata e Santissima Vergine Maria, Madre di Dio, la quale uccise tutte le eresie nell’universo mondo, e Madre amantissima di tutti noi «è tutta soave… e piena di misericordia… a tutti si offre esorabile, a tutti clementissima; e con un certo ampissimo affetto ha compassione delle necessità di tutti», e come Regina stante alla destra dell’Unigenito Figliuolo suo il Signor Nostro Gesù Cristo in manto d’oro, e circonvestita di varietà, nulla è che da Lui non possa impetrare. Domandiamo ancora l’aiuto del Beatissimo Pietro Principe degli Apostoli e del suo Coapostolo Paolo e di tutti i Santi che fatti già amici di Dio pervennero al celeste regno, e coronati posseggono la palma, e sicuri della loro immortalità sono solleciti della nostra salute. [p. 17]. – Infine, pregando con tutto l’animo da Dio sopra di Voi l’abbondanza di tutti i doni celesti, come pegno della singolare Nostra benevolenza verso di Voi, con ogni amore impartiamo l’apostolica Benedizione, che viene dall’intimo del Nostro cuore, a Voi stessi, Venerabili Fratelli, ed a tutti i Chierici e Laici Fedeli commessi alle vostre cure.

Dato da Roma, presso S. Pietro, il giorno 8 di dicembre dell’anno MDCCCLXIV, decimo dopo la dommatica Definizione dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria Madre di Dio.

Del Pontificato Nostro l’anno decimonono.

PIO PAPA NONO.

DOMENICA XX dopo PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Dan III:31; 31:29; 31:35
Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non obœdívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ. [In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]
Ps CXVIII:1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.
[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non oboedívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ. [In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]

Oratio

Orémus.
Largíre, quǽsumus, Dómine, fidélibus tuis indulgéntiam placátus et pacem: ut páriter ab ómnibus mundéntur offénsis, et secúra tibi mente desérviant.
[Largisci placato, Te ne preghiamo, o Signore, il perdono e la pace ai tuoi fedeli: affinché siano mondati da tutti i peccati e Ti servano con tranquilla coscienza.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes V:15-21
Fratres: Vidéte, quómodo caute ambulétis: non quasi insipiéntes, sed ut sapiéntes, rediméntes tempus, quóniam dies mali sunt. Proptérea nolíte fíeri imprudéntes, sed intellegéntes, quae sit volúntas Dei. Et nolíte inebriári vino, in quo est luxúria: sed implémini Spíritu Sancto, loquéntes vobismetípsis in psalmis et hymnis et cánticis spirituálibus, cantántes et psalléntes in córdibus vestris Dómino: grátias agéntes semper pro ómnibus, in nómine Dómini nostri Jesu Christi, Deo et Patri. Subjecti ínvicem in timóre Christi.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV – Omelia XV.– Torino 1899]

 “Badate adunque, o fratelli, come procediate circospetti, non da stolti, ma come saggi, ricomperando il tempo, perché corrono giorni tristi. Il perché non siate imprudenti, ma studiatevi di conoscere qual sia la volontà del Signore. Non vi inebriate di vino, nel quale è dissolutezza, ma riempitevi di Spirito Santo, parlando a voi stessi con salmi ed inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando nei vostri cuori al Signore; rendendo grazie del continuo, per ogni cosa al Dio e Padre, nel nome del nostro Signore Gesù Cristo, sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo „ (Agli Efesini, V, 15-21).

La Chiesa in questa Domenica ci chiama nuovamente a meditare alcune sentenze della lettera di S. Paolo, scritta ai fedeli di Efeso. Io non so quante volte, lungo l’anno, ci si proponga a considerare qualche tratto di questa lettera, ma certo sono moltissime, benché la lettera sia tra le più brevi, e ciò a ragione. Nell’ultima parte di questa lettera l’Apostolo ha condensato tante e sì mirabili massime di morale evangelica, che nulla di meglio; è una miniera ricchissima di verità pratiche, che tornano acconce ad ogni stato e ad ogni classe di persone. Era dunque ben naturale che la Chiesa ci conducesse frequentemente in questa miniera, e ci invitasse a cavarne l’oro purissimo delle più sante verità. Io mi studierò di aprirvi questa miniera, di scavarvi l’oro delle verità che vi si nascondono, sceverarlo dalla terra e dalla scoria che lo copre, e voi studiatevi di riceverlo e custodirlo gelosamente. – Nei versetti precedenti, S. Paolo, sull’esempio di Cristo, ha caldamente esortato i fedeli a guardarsi da ogni cupidigia, a non lasciarsi sedurre, a separarsi, essi, figli della luce, dai figli delle tenebre e a rendere frutti a Cristo, ruggendo e riprendendo le male opere, ch’egli chiama opere di tenebre, e, continuando sempre il suo metodo, che è quello d’indicare il male da fuggire e poi suggerire il bene da praticare, per via di sentenze concise e chiarissime, dice: ” Badate, fratelli, come procediate circospetti. „ La nostra vita è un cammino, che comincia dalla culla e termina sull’orlo della tomba; è un cammino alcuna volta piano e netto, più spesso ripido, seminato di sterpi e di spine, infestato da ladroni e assassini, costeggiato da dirupi e precipizi; le insidie e i pericoli sono senza numero. Per correre questo cammino sì aspro e sì pieno di lacci, senza cadere, si richiede aver sempre l’occhio aperto, e badar bene dove mettiamo il piede, affine di non inciampare: “Videte quomodo caute ambuletis — Badate come procediate circospetti. „ Sicuramente i nemici interni ed esterni e la naturale nostra debolezza ci creano tante difficoltà e pericoli, che è assai difficile non cadere; ma che sarà poi se cammineremo senza cautela e quasi a caso? Se noi terremo sempre gli occhi sopra noi stessi, se veglieremo sui nostri pensieri e sui nostri affetti; se peseremo le nostre parole e porremo ben mente ad ogni nostro atto; se staremo in guardia quanto alle compagnie, alle amicizie, alle letture, insomma a tutto ciò che ne circonda, noi eviteremo moltissime colpe e acquisteremo la perfetta signoria sopra noi stessi, e opereremo non da stolti, ma sì da prudenti, come vuole l’Apostolo: Videte quomodo caute ambuletis, non quasi insipientes. – Allorché una cosa ci sta molto a cuore, noi la ripetiamo, e S. Paolo ripete qui la sua raccomandazione, cioè di camminare od operare circospetti, non da stolti, ma da saggi, sed ut sapiente», dove la parola saggi è il contrapposto di stolti, ed è la ripetizione di circospetti. Questa circospezione e saggezza, sì efficacemente inculcata dall’Apostolo, deve manifestarsi in particolar modo in una cosa, che tosto si accenna. Uditela: ” Redimentes tempus — Ricomperando il tempo. „ Il cielo è una mercede, che si dà soltanto a chi lavora: è la mietitura, che si fa soltanto da chi ha seminato. Ma dove si lavora? dove si semina? Qui sulla terra! Quando si lavora e quando si semina? In questa giornata della vita presente, nel tempo. Allorché cala la notte, e le tenebre coprono la faccia della terra, nessuno può lavorare, e allora comincia il riposo. Similmente allorché la morte stende sopra di noi il nero suo velo, si chiude lo stadio del tempo e comincia la eternità interminabile, non possiamo più lavorare, e cessa il periodo di vita, in cui possiamo meritare. Ora può accadere (e troppo frequentemente accade) che molti si trovino già presso alle porte della eternità, sul finire della vita, dopo avere malamente sciupato il loro tempo e con le mani quasi vuote di meriti. Costoro che devono fare se hanno senno? Ciò che fa il viaggiatore, il quale, avendo perduto gran parte del suo tempo in discorsi inutili e in sonno non necessario, studia il passo e procura di riguadagnare il tempo inutilmente speso. Gli Efesini, ai quali l’Apostolo scriveva, per la maggior parte dovevano essere stati Gentili, ed erano entrati nella Chiesa già molto innanzi negli anni. Il tempo per loro perduto nella idolatria e nelle brutture del paganesimo era molto: quello che rimaneva era breve. Qual cosa più naturale quanto l’esortarli ad affrettarsi, e con la frequenza e col fervore delle buone opere ricuperare il tempo perduto, e così in qualche modo mettersi a pari con quelli che avevano speso santamente tutta la loro vita? – Dilettissimi! Uno sguardo alla nostra vita. Ben è vero che noi abbiamo ricevuta la fede col santo Battesimo prima ancora che ne potessimo avere coscienza; ma (siamo sinceri) nella nostra vita qua e là non vi sono molti intervalli, e fors’anche lunghi, nei quali ci arrestammo sulla via e facemmo getto d’un tempo prezioso? Non è egli vero che vivemmo mesi e mesi (e a Dio non piaccia), anni e lustri in peccato? Quello, o cari, è tutto tempo miseramente perduto per il cielo, e Dio stesso nella sua onnipotenza non potrebbe fare che non sia perduto. Eppure possiamo ripararne la perdita, non già col far sì che ritorni il tempo perduto, ma col far uso migliore di quello che ci resta, simili all’operaio, che nelle due ultime ore del giorno può fornire il lavoro che altri fornisce appena in quattro. È questo il ricomperare il tempo, che S. Paolo predica agli Efesini. E perché avessero nuovo e più forte sprone a ricomprare ciò che per negligenza avevano perduto, l’Apostolo aggiunge una ragione speciale, dicendo: ” Perché ì tempi volgono tristi Quoniam dies mali sunt. „ I tempi tutti sono cattivi, perché brevi per ciascun uomo, incerti, pieni di lotte, di pericoli, di tentazioni, di dolori, di mali d’ogni guisa; è vero, essi hanno anche la loro porzione di beni, che si alternano; ma la misura dei mali quasi sempre soverchia quella dei beni. I tempi poi, nei quali l’Apostolo scriveva la sua lettera, erano miserrimi sopra tutti: persecuzioni sanguinose, tirannie, delle quali non abbiamo nemmeno l’idea; basti sapere che imperava Nerone; corruzione spaventosa, schiavitù, ignoranza dei primi principi della morale, guerre atrocissime e continue. Aveva ben dunque ragione S. Paolo di esclamare: ” I tempi corrono tristi! „ Quale la conseguenza? L’ha detto sopra: quella di usare a bene di tempi sì cattivi. Come? Soffrendo con pazienza, con costanza e con rassegnazione tanti mali, e così volgendo in guadagno pel cielo le calamità della terra. — ” In questo, continua l’Apostolo, voi mostrerete il vostro senno — Propterea nolite fieri imprudente» — se farete di conoscere qual sia la volontà del Signore — Intelligentes quæ voluntas Dei.  I mali che ci travagliano, così sembra ragionare il nostro Apostolo, sono grandi, e i tempi sono infelici; io vi dico di farne tesoro e con il soffrirli generosamente, riguadagnare quelli malamente perduti. Ma voi direte: Questi mali, che si aggravano sopra di noi, vengono dalla malizia degli uomini. No, risponde Paolo: se avrete la vera sapienza dei figli di Dio, comprenderete che è Dio quegli che così vuole. Come ciò? domanderete voi. Ve lo spiego. Tutto ciò che accade sulla terra è voluto da Dio o da Lui permesso: ciò che è bene è certamente voluto da Dio, che è la stessa bontà, e non è mestieri provarlo; ciò che non è bene, ma è male, e al male conduce, non è voluto da Dio, ma da Dio permesso e tollerato. E poiché è cosa manifesta che Dio potrebbe, nella sua onnipotenza, impedire il male, ne segue che se avviene, avviene perché lo permette, e lo permette perché anch’esso entra nei grandi disegni della sua sapienza e della sua misericordia. Lo permette per farci conoscere e sentire la nostra debolezza, per fiaccare il nostro orgoglio, per obbligarci a levare a Lui supplichevoli le nostre mani e invocare il suo aiuto, per staccarci dall’amore di questo mondo, per darci modo di esercitare la pazienza, la carità, la prudenza, la fortezza, per acquistare meriti, per renderci simili al Figliuol suo, fatto uomo, Gesù Cristo. Allorché dunque i mali della vita presente si addensano sopra di te, o fratel mio, e ti senti per poco schiacciato, non lagnarti, non far ingiuria a Dio e alla sua provvidenza, dicendo: Perché mi abbandonate, o Signore? Nei mali che ti opprimono, e in quelli che ne sono strumenti e ministri, vedi la mano paterna di Dio, che opera o che lascia fare, e sappi che tutto è volto a tuo bene. Non fermare l’occhio sulla mano del tristo che ti percuote, ma in Dio, che potendo arrestare questa mano, la lascia percuotere. L’infermo che geme e si dimena dolorosamente sotto il ferro del chirurgo, che recide il membro cancrenoso, non si sdegna col medico pietosamente crudele, ma lo ringrazia. Ecco ciò che voleva insegnare l’Apostolo allorché esclamava: “Sono giorni tristi, ma non vogliamo essere dissennati, anzi riconosciamo che anch’essi sono voluti da Dio, e volgiamoli a nostro vantaggio. „ – S. Paolo, continuando la sua esortazione morale, scrive: ” Non vi inebriate di vino, nel quale è dissolutezza — Nolite inebriavi vino, in quo est luxuria. „ Ubriachezza! Questa parola sì brutta e sì vergognosa per l’uomo ragionevole, e più brutta e più vergognosa assai per il Cristiano, come quella di lussuria, non si dovrebbe nemmeno pronunciare. Eppure più volte comparisce sotto la penna del grande Apostolo! “Non vi ubriacate. — Gli ubriachi non possederanno il regno dei cieli. — L’uno ha fame e l’altro è ubriaco. „ Sono sentenze dell’Apostolo, e provano come anche nei primi giorni della Chiesa, tra gli stessi discepoli degli Apostoli, il turpissimo vizio della ubriachezza non fosse ignoto. E ai nostri giorni, o carissimi? Che avviene sotto i nostri occhi? Qual vituperoso spettacolo vediamo noi quasi ogni giorno, e particolarmente nei giorni consacrati a Dio? Uomini, giovani, vecchi, e perfino talvolta donne, avvinazzati per le vie, barcollanti, schiamazzanti, presentare in se stessi il miserando spettacolo del più schifoso degradamento morale! Genitori ubriachi e i bambini senza pane, coperti di luridi cenci, piangenti per la fame e per il freddo! E sono uomini, e sono cristiani costoro? L’ubriachezza toglie all’uomo ciò che lo differenza dalla bestia: la ragione. Vedetelo, il miserabile, mal reggersi in piedi, barcollare e cadere! La lingua va articolando parole e accenti che nessuno intende; guarda e non vede; or ride stupidamente ed or minaccia; or prega ed ora insulta e bestemmia; attacca brighe con tutti, provoca risse e peggio, oggetto di compatimento e di orrore, di scherno e di disprezzo, disonore della famiglia, tormentatore di chi è costretto a vivere con lui, scialacquatore, distruggitore d’ogni cosa, finisce anzi tempo una vita di scandalo; eccovi l’ubriaco! – Ma l’Apostolo, in questo luogo, da conoscitore profondo della natura umana, col vizio detestabile dell’ubriachezza ne congiunge un altro come conseguenza naturale, ed è la dissolutezza: ” Non vi ubriacate di vino, nel quale è dissolutezza — In quo est luxuria. „ Dissolutezza e ubriachezza sono inseparabili; lo videro gli stessi pagani, e ne sono autorevolissimi testimoni Cicerone, Seneca ed altri. Ma noi non abbiamo bisogno dell’autorità di sapienti pagani; udite S. Girolamo: “Dove è intemperanza e ubriachezza, ivi signoreggia la libidine… Io non riputerò giammai casto l’ubriaco… Dica chiunque ciò che vuole, io parlo secondo la mia coscienza: io so che a me fece danno l’interrompere l’astinenza, e mi giovò il ripigliarla.” (Ep. Tit.) — L’ubriachezza è propria dei buffoni e dei mangiatori, ed un ventre pieno di vino ci lascia veder tosto la spuma della libidine. „ Bando adunque, o cari, all’intemperanza, bando all’ubriachezza che ci fa meno che uomini, che è il flagello della famiglia e della società: Nolite inebriari vino, in quo est luxuria. – Non è pago l’Apostolo di ciò che ha detto per tenere lontani i suoi cari dal vizio detestabile dell’ubriachezza: dopo il vizio da fuggire, suggerisce il bene da fare, come è suo costume: “Non inebriatevi di vino, ma siate ripieni di Spirito Santo — Sed implemini Spiritu Sancto. „ Cioè fate in modo che la grazia di Dio, che è il dono per eccellenza dello Spirito Santo, riempia le vostre menti e i vostri cuori e ridondi anche nei vostri corpi. Il vino riscalda i corpi, esalta gli spiriti, annebbia la ragione, porta l’uomo ai piaceri sensuali, lo fa simile ai bruti; la grazia divina riempie l’anima d’un fuoco puro e sacro, la eleva sopra se stessa, rischiara la sua mente, le fa gustare le caste delizie del cielo, la fa simile agli Angeli. Ecco il vino sacro, di cui potete inebriarvi: Implemini Spiritu Sancto. E quando sarete ripieni di questo vino sacro della grazia divina, le vostre anime gioiranno, i vostri cuori esulteranno, sarete inondati d’una santa letizia, e sentirete il bisogno di sfogarla tra voi stessi e nelle vostre radunanze, “cantando salmi ed inni e cantici spirituali, salmeggiando nei vostri cuori al Signore. „ – Allorché l’uomo è compreso da sublimi verità, da gagliardi sentimenti umani, e più ancora se divini, sente il bisogno irresistibile di sfogarli col canto e con la musica: il canto e la musica sono naturali all’uomo, come lo sono il pianto ed il riso (S. Girolamo distingue gli inni e i salmi e i cantici, e dice, che negli inni si celebrano la grandezza, la bontà e le perfezioni di Dio, e mette nel numero degli inni quei salmi, ai quali è premesso o aggiunto l’alleluja: i salmi, secondo lui, sono quelli che si riferiscono alla morale; i cantici poi celebrano le bellezze e le armonie dell’universo). Il canto è uno sfogo naturale degli affetti interni, e in pari tempo giova mirabilmente ad alimentarli ed a crescerli. S. Agostino narra, che allorquando, dopo la sua conversione, entrava in chiesa e udiva il popolo cantare a pieno coro i salmi, si sentiva tutto commuovere e versava copiose lacrime. E chi di noi non si sente fortemente commosso e intenerito allorché ode la gran voce del popolo, che canta le litanie della Vergine, il Miserere od il Pange lingua? S. Paolo esortava i suoi cari Efesini ad innalzare a Dio inni e salmi e cantici spirituali: e perché non faremo altrettanto noi pure? E qui un mesto pensiero, o carissimi, si affaccia alla mia mente. Alle nostre orecchie giungono, e spessissimo, i cantici degli operai nelle loro officine e lungo le vie, e dei contadini sparsi pei campi. Che canti son questi? Ah! certo non sono cantici spirituali, come li voleva S. Paolo: Canticis spiritualibus — ; non sono le lodi di Dio o della Vergine benedetta; sono cantici profani, forse liberi, fors’anche osceni che rivelano un cuore abbietto o corrotto, che accendono e dilatano una fiamma impura. Che le vostre labbra non si imbrattino mai di queste canzoni, che, come e forse più dei discorsi cattivi, corrompono i costumi: Corrumpunt bonos mores colloquia prava. Come starebbe bene che nelle nostre campagne ritornasse il costume, che S. Girolamo ricorda usato nella villetta, dov’egli viveva! “In questa villetta di Cristo, così il santo, tutto è semplicità, tutto è silenzio, fuorché il canto dei salmi. Dovunque ti volgi, il contadino che ara, tenendo l’aratro, canta alleluja (La parola Alleluia è composta di Allelu- e –ia, abbreviazione di Jehovah, e vuol dire Vìva Jehovah, viva Dio.); il mietitore che suda, si richiama coi salmi, e il vignaiuolo, che con la curva falce pota la vite, canta qualche strofa di Davide. Questi sono i canti nella campagna; queste, come suol dirsi, le canzoni d’amore, questo il fischio dei pastori, queste le armi dell’agricoltura (Epist. 17 ad Marcellam). „ Nè vi sfugga, o cari, quella espressione di S. Paolo riguardante il modo d’innalzare a Dio gli inni, i salmi ed i cantici: “Salmeggiando e cantando nei vostri cuori al Signore. „ Con queste parole egli ci ricorda che le nostre preghiere, le nostre lodi, i nostri ringraziamenti a Dio, non devono risuonare soltanto sulle nostre labbra, ma devono sgorgare dai nostri cuori, cosa che troppo facilmente per molti si dimentica. Gesù Cristo, ammaestrando la povera Samaritana, tra le altre cose, le disse: “I veri adoratori adoreranno in spirito e verità… Dio è spirito, e perciò conviene che quelli che l’adorano, l’adorino in spirito e verità, cioè spirito vero „ (S. Giov. IV, 23, 24). Come è l’anima tua, o cristiano, quella che fa vivere e muovere il tuo corpo, cosi dev’essere l’anima tua che fa cantare la lingua e lodare Iddio. Se la mente ed il cuore non accompagnano la tua lingua, che valore possono avere le tue preghiere e le tue lodi? Nessuno, perché manca ciò che le fa degne di Dio e di te, la mente e il cuore: sarebbero come le preghiere e le lodi di chi sogna o delira. Tu incontri un uomo che ti saluta ed inchina cortesemente, e ne va lieto. Se tu leggessi nel suo cuore e vedessi ch’egli ha ciò fatto senza saperlo, senza porvi mente, te ne terresti tu onorato? Non credo. Come vuoi tu dunque che torni accettevole a Dio la tua preghiera, la tua lode, se vede ch’essa si riduce ad un movimento di lingua, ad un suono materiale, e che il tuo cuore non vi ha parte alcuna? Il tuo canto non differisce da quello dell’augelletto che saluta il nuovo giorno. “Non è la voce, ti dice S. Agostino, quella che Iddio vuole, non è la corda della cetra, ma il tuo cuore. „ Allorché pertanto pregate e lodate Iddio, almeno a principio, con la voce levate a Lui il vostro cuore, secondoché vuole lo stesso Apostolo in altro luogo, scrivendo: ” Io salmeggerò con lo spirito, salmeggerò con la mente „ (I. Cor. XIV, vers. 15). “Rendendo grazie del continuo, per ogni cosa, a Dio e Padre, nel nome del Signor nostro Gesù Cristo. „ La nostra vita, ad ogni istante è un continuo beneficio di Dio: ogni respiro, ogni battito del nostro cuore è suo dono; suo dono il cibo che ci nutre; suo dono la bevanda che ci disseta; suo dono il sole che ci illumina e ci riscalda; suo dono l’aria che respiriamo, tutto il nostro essere, tutto ciò che è in noi e fuori di noi, è suo dono, puro suo dono. È dunque dover nostro essere grati a tanto donatore, ringraziarlo di tanti benefici. Ma come farlo debitamente noi che siamo creature sì miserabili? Abbiamo Gesù Cristo; come Dio Egli è uguale al Padre e al Santo Spirito; come uomo è fratello nostro; Egli è il nostro capo, il nostro mediatore: il nostro ringraziamento presentato per le sue mani è degno di Dio: ringraziamolo adunque per suo mezzo: In nomine Domini nostri Jesu Christi. – La nostra Epistola si chiude con questa raccomandazione bellissima, che esprime a meraviglia l’indole della legge evangelica: “Siate soggetti tra voi nel timore di Cristo. „ Ogni società, sia grande, sia piccola, intanto può conservarsi e prosperare, in quanto è bene ordinata, ed è bene ordinata in quanto ogni membro rimane al suo posto, e rimane al suo posto osservando l’ubbidienza. Togliete l’ubbidienza ed ogni cosa è turbata: le famiglie si dividono, la società va in rovina. Ed è questa ubbidienza che S. Paolo raccomanda, dicendo: “Siate soggetti tra voi — Subditi invicem. „ L’ubbidienza, perché sia secondo verità e giustizia, deve prestarsi dagli inferiori ai superiori, e così senza dubbio ha da intendersi la sentenza apostolica. Ma perché dire: “Siate soggetti tra voi, ad invicem, „ come se il dovere dell’ubbidienza fosse imposto a vicenda, cioè in guisa che ciascuno debba ubbidire a ciascun altro, senza badare a chi tiene l’autorità? Certamente il comando dell’Apostolo: “Siate soggetti, „ importa che si debba ubbidire dagli inferiori ai superiori, ed è questa la vera ubbidienza; ma io penso che l’Apostolo volesse insinuare in bel modo ciò che forma una cotale appendice dell’ubbidienza, e ch’egli in altro luogo espresse felicemente in questa frase: “Reputandovi gli uni agli altri superiori nella umiltà. „ Ai superiori noi dobbiamo l’ubbidienza; agli eguali ed agli inferiori dobbiamo rispetto, piacevolezza, cortesia e condiscendenza, che sono alcunché di simile alla ubbidienza. E perché dobbiamo ubbidire ad altri, che infine sono uomini come noi, e, può essere, anche inferiori a noi? Perché così vuole Iddio, perché così comanda Gesù Cristo, e ubbidendo a quelli che tengono il suo luogo, ubbidiamo a Lui stesso: a disubbidendo loro, a Lui disubbidiamo. E come non temere di rifiutare l’ubbidienza a Gesù Cristo? Ecco perché S. Paolo, dopo aver detto: “Siate soggetti, „ soggiunge: “nel timore di Cristo. „ Così si eleva l’autorità che comanda, e con l’autorità si eleva e si nobilita l’ubbidienza, e tutto si riporta a Gesù Cristo, a Dio, al quale sia onore e gloria per tutti i secoli.

Graduale
Ps CXLIV:15-16
Oculi ómnium in te sperant, Dómine: et tu das illis escam in témpore opportúno.

Aperis tu manum tuam: et imples omne ánimal benedictióne. [Tutti rivolgono gli sguardi a Te, o Signore: dà loro il cibo al momento opportuno. V. Apri la tua mano e colmi di ogni benedizione ogni vivente.]

Allelúja.

Ps CVII:2
Allelúja, allelúja
Parátum cor meum, Deus, parátum cor meum: cantábo, et psallam tibi, glória mea. Allelúja.
[Il mio cuore è pronto, o Dio, il mio cuore è pronto: canterò e inneggerò a Te, che sei la mia gloria. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia   sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Gloria tibi, Domine!
Joannes IV:46-53
In illo témpore: Erat quidam régulus, cujus fílius infirmabátur Caphárnaum. Hic cum audísset, quia Jesus adveníret a Judaea in Galilæam, ábiit ad eum, et rogábat eum, ut descénderet et sanáret fílium ejus: incipiébat enim mori.
Dixit ergo Jesus ad eum: Nisi signa et prodígia vidéritis, non créditis. Dicit ad eum régulus: Dómine, descénde, priúsquam moriátur fílius meus. Dicit ei Jesus: Vade, fílius tuus vivit. Crédidit homo sermóni, quem dixit ei Jesus, et ibat. Jam autem eo descendénte, servi occurrérunt ei et nuntiavérunt, dicéntes, quia fílius ejus víveret. Interrogábat ergo horam ab eis, in qua mélius habúerit. Et dixérunt ei: Quia heri hora séptima relíquit eum febris. Cognóvit ergo pater, quia illa hora erat, in qua dixit ei Jesus: Fílius tuus vivit: et crédidit ipse et domus ejus tota.
[In quel tempo: Vi era a Cafàrnao un certo regolo, il cui figlio era malato. Avendo udito che Gesú dalla Giudea veniva in Galilea, andò da lui e lo pregò perché andasse a sanare suo figlio, che stava per morire. Gesú gli disse: Se non vedete miracoli e prodigi non credete. Gli rispose il regolo: Vieni, Signore, prima che mio figlio muoia. Gesú gli disse: Va, tuo figlio vive. Quell’uomo prestò fede alle parole di Gesú e partí. E mentre era già per strada, gli corsero incontro i servi e gli annunziarono che suo figlio viveva. Allora domandò loro in che ora avesse incominciato a star meglio, e quelli risposero: Ieri, all’ora settima, lo lasciò la febbre. Il padre allora riconobbe che quella era l’ora stessa in cui Gesú gli aveva detto: Tuo figlio vive. E credette lui e tutta la sua casa.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]

(Vangelo sec. S. Giovanni IV, 46-53)

Mal esempio dei Genitori.

Quant’è mai grande la forza del buon esempio! Un padre, come ci narra l’odierna evangelica storia, col suo credere a Gesù Cristo, trae con l’ardore del suo esempio alla fede di Gesù Cristo medesimo tutta la sua famiglia. Era questo un piccolo Re, il cui figlio giaceva gravemente infermo a Cafarnao. Vedendo inutili tutti gli umani rimedi, ebbe ricorso al Consolator degli afflitti, partì da Cafarnao, e Lo raggiunse in Cana sui confini della Galilea, e prostèso a Lui dinanzi “Signore, disse, tengo un figliuolo in pericolosa infermità, compiacetevi venirlo a risanare, e a consolare il più addolorato di tutti i padri”.-  “Se non vedete miracoli, Gesù rispose, voi non credete”. – “Ah Signore, soggiunse il padre, venite per pietà che ogni momento d’indugio può esser fatale al figlio moribondo”. – “Andate, disse allora il Salvatore, che il figlio vostro è vivo e sano e salvo”. Credette alle sue parole il genitor consolato, e nel tornarsene a casa ecco alla metà del cammino i suoi servitori spediti ad apportargli la lieta notizia, che il figlio aveva ricuperata in un istante la sanità. Interrogati dell’ora in cui la febbre l’aveva lasciato, e in udir che ieri all’ora settima cessata la febbre era uscito di pericolo, comprese essere precisamente quell’ora stessa, in cui il divin Redentore detto gli aveva che il suo figliuolo era vivo e risanato. In vista di questo prodigio abbracciò la fede di Gesù Cristo, e trasse col suo esempio alla stessa fede tutti di sua famiglia, numerosa di alti e bassi ufficiali, d’ordini diversi di servitori, essendo egli un piccolo Re da Erode Tetrarca costituito Principe e Governatore di tutta la Galilea. “Credidit ipse, et domus eius tota”. – Tant’è la forza del buon esempio! Ma ancor più grande è la forza dell’esempio cattivo. “Un poco d’assenzio, dice S. Gregorio Nisseno, basta a rendere amara una notabile quantità di miele, ma una notabile quantità di miele non può far dolce l’assenzio”. E più facile distruggere che edificare. Quanta rovina adunque recherà ai propri figli l’esempio malvagio dei genitori! Per impedirlo io prendo a dimostrarvi le perdite inconsolabili, che fanno i genitori col mal esempio. Pérdono l’autorità sopra dei figli, perdono i figli e perdono sé stessi. Tre perdite che abbracciano il temporale e l’eterno interesse, tre punti che meritano la vostra più seria applicazione.

I. L’autorità è in tutto il suo vigore, quando ne hanno il dovuto concetto i subalterni; ma ohimè quando decade, se nei soggetti autorevoli trovano gli inferiori di che adontarsi, e scoprono che riprendere! Veniamo al pratico. Entro col mio pensiero in una casa di questo mondo, e v’entro nell’ora in cui marito e moglie sono tra loro in aspra contesa. Vomita il primo le più infami e contumeliose parole, aguzza l’altra la lingua come un serpente; crescono le ingiurie, crescono gli insulti a vicenda. La tempesta non finisce in tuoni. Alle imprecazioni, alle bestemmie succedono colpi, percosse, duri e villani maltrattamenti. Oh Dio! e tutto ciò in presenza dei figli che piangono, che alzano stridi e clamori. Che casa è questa, ove abita il demonio della più arrabbiata discordia? Che scuola è questa in cui dai figliuoli s’apprende l’immodesto parlare, lo scostumata procedere, l’ira, la contumelia, lo spirito d’odio e di vendetta? E qual concetto può avere la povera famiglia di un padre bestiale, d’una madre viperina? Perduta la stima si perde necessariamente l’autorità tanto necessaria per la buona educazione. Lo scandalo che date, o incauti genitori, vi chiude la bocca: non potete più correggere la vostra prole di quei misfatti, dei quali voi siete più rei. – Allorché Caino stese a terra impiagato e morto Abele suo innocente fratello, Iddio acremente rimproverandolo, “il sangue del tuo germano, gli disse, dalla terra, su cui è sparso, alza voci e clamori che giungono al cielo”. –  “Sanguis fratris tui clamat ad me de terra” (Ge. IV, 19). Così abbiamo dal sacro testo; ma il sacro testo non dice che Adamo aprisse bocca a correggere il crudel fratricida. E perché? Risponde Teodoreto, che Adamo, come uomo intelligente, ben prevedeva le amare risposte del figlio uccisore, se l’avesse rimproverato; e perciò il suo delitto, il mal esempio, l’obbligò a rigoroso silenzio. “Come! detto gli avrebbe probabilmente Caino, voi mi riprendete per l’uccisione d’un uomo, mentre voi avete uccisa tutta l’umana generazione! Mi rimproverate per la morte di mio fratello, voi che avete dati a morte più dannevole tutti i vostri figli che sono e che saranno sino alla fine del mondo? Io poi ho peccato per un movimento d’insidia, per un trasporto di collera, e voi solo per il gusto meschino di un vilissimo pomo”. Tutti questi acerbi rimbrotti si aspettava Adamo, perciò si tacque, vedendosi spogliato d’autorità per correggere. – Così avviene tutto dì. Quel padre ha un figliuol giocatore che nel giuoco perde il tempo, lo studio, il danaro, il buon nome. Vede la necessità di correggerlo, ma come può, s’egli giorno e notte ha le carte e i dadi alla mano? Con qual animo, dice S. Gregorio Magno, pretenderà medicar l’altrui piaga colui che porta in faccia la stessa medesima piaga? “Qua præsumptione mederi properat, qui in facie vulnus portat?” (Pur. 2 Past. C. 9). Quella madre sa ed osserva che la propria figlia è libera, nemica del ritiro, che tratta, che parla, che ride, che si trattiene con tutti; ma come impedire questi pericolosi disordini se essa tiene un’eguale condotta? Quell’altro padre vorrebbe i suoi figli dediti alla pietà, frequenti alla Chiesa, alla parola di Dio, ai santi Sacramenti; ma come avvisarli o punirli per la loro indevozione, se egli mai non si lascia vedere in Chiesa o in casa a piegar le ginocchia in qualche pubblica o privata preghiera? Ma diamo che dai genitori si correggono i viziosi figliuoli: che autorità  e forza potrà avere la riprensione, se quel che si pronunzia con la parola si distrugge con l’opera?

II. Se non che il perdere col mal esempio l’autorità di correggere è il meno: quello che monta incomparabilmente di più, è la lacrimevole perdizione degli scandalizzati figliuoli. La prima scuola, solete voi dire, è quella dì casa. Gli esempi domestici fanno più d’impressione che gli stranieri. La tenera età è più disposta a copiare l’immagine del vizio che della virtù. La gioventù non ha bisogno di sprone per gettarsi alla strada della dissolutezza, e la corrotta natura pendente al male trova nei mali costumi dei genitori come una specie di guarentigia a impunemente seguirli. Di Abia, figlio di Roboamo, dice la divina Scrittura che camminò in tutti i peccati di suo padre, “ambulavit in omnibus peccatis patris sui” (III Re, XIII, 3). Notate la frase: le scelleratezze del proprio padre furono per lui come tante pedate impresse sulla polvere o sull’arena, sulle quali camminò come l’empio suo genitore, “ambulavit in omnibus peccatis patris sui”. – Se poi al mal esempio tacito s’aggiungesse l’espresso, poveri figli! Così non fosse, come odono sovente di bocca del padre o della madre certe massime affatto opposte a quelle del santo Vangelo. “Non ti far pecora, o figlio, ma come cane mostra e adopera i denti contro chi t’offende”, ché tanti riguardi! è un codardo che non sa vendicarsi e farsi portar rispetto”. – “Bisogna farsi ricchi per essere rispettati e temuti. Chi ha danaro ha tutto, e può far di tutto”. – “La coscienza è per chi la teme, e chi la teme sarà sempre povero”. Oh Dio! oh Dio! che diabolica scuola! Non vi credo capaci, uditori miei cari, di questo linguaggio pestifero, scandaloso, anticristiano, contentatevi invece ch’io vi metta sott’occhi un altro scandalo indiretto, a cui non si bada gran fatto. – Per meglio spiegarmi premetto quel che di Gerosolima diceva piangendo il Profeta Geremia. Paragona egli quell’infelice città ad uno struzzo nel deserto, “Filia populi mei crudelis quasi struthio in deserto” (Theren. IV, 3)). Osserva Plinio, e con esso altri indagatori della natura (checché ne dica qualche viaggiatore) che lo struzzo nei deserti dell’Africa  e dell’America lascia cader le sue uova in sull’arena, e le abbandona. La provvidenza si cura delle medesime, e di giorno col calore del sole, e di notte col calor mantenuto nella sottoposta arena fa che le uova si schiudano e fuori  saltellino i piccoli struzzoli che sull’arena stessa trovano l’opportuno alimento. La divina provvidenza non vuol fare altrettanto a riguardo dei figli vostri: a voi, alla vostra cura li ha commessi, or che sarà se voi li abbandonate? E appunto da questo abbandono nascono quegli scandali indiretti non conosciuti, e perciò più pericolosi e dannevoli. Torme di fanciulli si vedono a trastullar tutto il dì in mezzo alle piazze e alle contrade, abbandonati a sé stessi, come tanti struzzoli, e vanno intanto imparando sconce parole e maliose azioni, e il padre trascurato e la madre indifferente non badano che a levarsi il fastidio d’averli intorno. Fatti più adulti si lasciano in maggior libertà, vanno, vengono di giorno, di notte, praticano compagni malvagi, contraggono amicizie sospette: l’ozio che insegna ogni malizia, il giuoco che dissipa lo spirito, il libero conversare che corrompe il costume, formano la giornaliera occupazione. Tanti disordini, gli scandali che danno, gli scandali che ricevono, vanno tutti a carico dei genitori, che per una insensata trascuratezza hanno ad essi lasciata la briglia sul collo. Che dirò delle figlie anch’esse abbandonate come struzzoli nel deserto? Col pretesto di divozione si lasciano andare liberamente a certe novene, che cominciano avanti l’aurora, a certe feste di chiese rurali, a campagne, a passeggi, a festini …. Adagio, è vero, ma sono accompagnate da quel nostro parente uomo onesto, da quel nostro parente uomo dabbene. Peggio, io vi rispondo, e vel ripeto, peggio! Se quel tal uomo avesse nome, fama ed apparènza di libertino, non gli affidereste la vostra figlia, e non fidandovi, voi e la figlia vostra non correreste alcun rischio. Per lo contrario, col fidarvi non siete sicuri, potete esser traditi. Si fidò Giacobbe, e concesse a Dina sua figlia un’innocente curiosità, e Dina fu rapita, fu disonorata, ed egli ferito dal più acèrbo dolore. Il mal esempio dato, il mal esempio non impedito rovina i figliuoli, ed è finalmente causa lacrimevole dell’eterna perdita dei genitori.

III. Il Faraone, per politica di stato fece gettare nell’acque del Nilo tutti appena nati i maschi degli Ebrei. Erode per gelosia di regno, fece trucidare in Betlemme e nei suoi contorni tutti i bambini dai tre anni in giù per assicurarsi nella strage di tutti la morte di uno solo, il nato Re d’Israele. Or questi uccisi bambini furono veduti da S. Giovanni nel divino suo Apocalisse, sotto l’altare di Dio, e uditi alzar al cielo voci e clamori, gridando vendetta: “Usquequo Domine, … non vindicas sanguinem nostrum?” (cap. VI, 10). Fino a quando, o Signore, tarderete a vendicare il sangue innocente?- Ora io dico così: tanto i primi fanciulli sommersi nel Nilo, quanti i secondi trucidati da Erode son salvi: i primi  come circoncisi e figli d’Abramo: i secondi non solo sono salvi, ma santi e martiri dalla Chiesa venerati sugli altari; e pure domandano a Dio vendetta. Or che sarà se i figliuoli scandalizzati dai genitori piomberanno all’inferno? Se invece di essere affogati in un fiume, saranno immersi in uno stagno di fuoco inestinguibile? Se invece di aver sofferto il taglio momentaneo della spada di Erode, si troveranno per sempre sotto la spada inesorabile della divina Giustizia? Vendetta, grideranno allora a più alta voce, vendetta contro i nostri padri, contro le nostre madri,  che dopo averci data la vita temporale ci hanno tolta con gli esempi malvagi la vita spirituale ed eterna: vendetta contro coloro che non ci hanno dato la vita … se non per darci una doppia morte. – Padri e madri, volete dire che la giustizia di Dio sarà sorda a queste lamentevoli voci? E se le ascolta, come fuor di dubbio le ascolterà, che sarà di voi, che sarà dell’anime vostre? Voi siete perduti. Se foste causa della perdita dell’anima d’uno a voi straniero, dovreste temere la perdita della vostra; quanto più dovrà crescere il vostro timore e se per vostra disavventura foste cagione della perdita dei figli vostri? Miei dilettissimi, se la coscienza vi rimprovera il mal esempio dato, e le omissioni apportatrici di scandalo alla vostra prole, altro rimedio non trovo per liberarvi da tanto pericolo, che pentimento sincero riguardo al passato, e riparo nell’avvenire ai dati scandali col buon esempio.

Credo …

Offertorium
Orémus
Ps CXXXVI:1
Super flúmina Babylónis illic sédimus et flévimus: dum recordarémur tui, Sion.
[Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti e abbiamo pianto: ricordandoci di te, o Sion.]

Secreta
Cœléstem nobis præbeant hæc mystéria, quǽsumus, Dómine, medicínam: et vítia nostri cordis expúrgent. [O Signore, Te ne preghiamo, fa che questi misteri ci siano come rimedio celeste e purífichino il nostro cuore dai suoi vizii.]

Communio
Ps CXVIII:49-50
Meménto verbi tui servo tuo, Dómine, in quo mihi spem dedísti: hæc me consoláta est in humilitáte mea.
[Ricordati della tua parola detta al servo tuo, o Signore, nella quale mi hai dato speranza: essa è stata il mio conforto nella umiliazione.]

Postcommunio

Orémus.
Ut sacris, Dómine, reddámur digni munéribus: fac nos, quǽsumus, tuis semper oboedíre mandátis.
[O Signore, onde siamo degni dei sacri doni, fa’, Te ne preghiamo, che obbediamo sempre ai tuoi precetti.]

IL MAGISTERO ORDINARIO INFALLIBILE

S. S. GREGORIO XVII:

“IL MAGISTERO IMPEDITO”

IL MAGISTERO ORDINARIO INFALLIBILE

[«Renovatio», III (1968), fasc. 2, pp. 151-152.]

Alcuni episcopati nazionali hanno fatto oggetto di loro lettere collettive il magistero della Chiesa nei suoi diversi aspetti e rapporti. Questi venerandi documenti mettono il dito sul punto più interessante e necessario della teologia moderna, che è anche il più insidiato. Infatti, col Magistero pienamente rispettato, la Chiesa nella sua missione ha consistenza ed efficacia; messo in dubbio o in qualche modo diminuito o taciuto il Magistero, tutto volge verso il relativismo, quindi verso il disordine e la dissoluzione della unità nella fede e nel resto. E la grande alternativa del nostro tempo. Noi sappiamo che la Chiesa non verrà mai meno e che, pertanto, la affermazione di quella alternativa non significa la possibilità d’un suo decadimento, ma solo la possibilità di un suo tormento. La saggezza degli uomini deve cercare di evitarglielo. – Riteniamo di dover «focalizzare» questo argomento. Il punto più importante, non in sé, ma in ordine alla vita della Chiesa è quello del magistero ordinario infallibile. Ed ecco perché. – La verità rivelata viene via via a confronto con affermazioni opposte e mutevoli, con atteggiamenti devianti, con interpretazioni alternative. – Deve essere pertanto difesa ed insegnata «tutti i giorni» ed in modo adatto ai fatti ed alle contraddizioni, che via via si succedono. Se questo insegnamento non fosse continuo, fedele ed opportuno, la vita religiosa oscurata dalle male interpretazioni non potrebbe reggere. La Chiesa ha il dovere di questo insegnamento continuo. Non lo può fare con le sole definizioni del magistero solenne. Queste si hanno qualche volta in un secolo e, per gli uomini effimeri, cento anni sono troppo lunghi. Il dovere più immediato e necessario la Chiesa lo compie adunque col magistero ordinario (CJC, 1323; D.S. 1792). Proviamoci a pensare ad una Chiesa che si trovi innanzi a interpretazioni esplosive del suo sacro deposito e che debba attendere mezzo secolo, un secolo per vedersi risolvere una questione da un atto ex cathedra o da un concilio. Nel frattempo tutto languirebbe e la unità sarebbe impossibile. Questa ipotesi non si verifica perché esiste il magistero ordinario. Questo è la necessaria dieta di tutti i giorni. Per vivere non basta la medicina della occasione straordinaria, occorre invece il pane quotidiano. Questo magistero ordinario, quando è “universale” – il che implica che sia con e sotto il Romano Pontefice – è definitivo e irreformabile, ossia è infallibile (CJC 1323). Infatti non ha importanza che i vescovi siano o no uniti sotto uno stesso tetto: l’unione morale, incredibilmente facilitata dai contatti moderni, rende fungibilissima a distanza la prerogativa del collegio episcopale, unito al Papa. Questo è il punto. – Non si comprende la compiacenza con cui questo tema essenziale della vita della Chiesa venga facilmente messo in sordina. La unione morale universale dei vescovi col Papa può farsi in tanti modi e questi modi sono destinati a crescere per la tecnica moderna, non a diminuire. – Il carisma della infallibilità è il carisma della vera pace di tutti i credenti. Proviamoci a pensare per un momento che questi avessero ragione di temere che una affermazione fatta oggi dal Magistero Universale Ordinario potesse essere smentita domani. A chi potrebbero credere? Quale diverrebbe la saldezza della loro fede? La fede ha bisogno della infallibilità e ne ha bisogno tutti i giorni. Oggetto del magistero ordinario infallibile è tutto il deposito della rivelazione divina. – Ma non ci si può fermare qui. Vi sono verità e fatti che sono talmente connessi con la verità rivelata da non potersi rettamente intendere questa, se non fossero dal divino carisma garantiti fermamente anche quelli. – La Chiesa si è servita di questo potere circa le verità «connesse» in modo solenne. La infallibilità goduta nel magistero solenne è la stessa di quella goduta nel magistero ordinario. – Se si cambiassero alcune verità non rivelate, ma necessariamente connesse, cambierebbe il contenuto della Rivelazione, si perderebbe in questa variazione perenne il senso stesso della verità, la Chiesa anziché essere indefettibile sarebbe mutevolissima e rinnegherebbe se stessa più volte in un secolo. – [I grassetti sono redazionali]

LA GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (9): UN CANCRO NEL SENO DELLA CHIESA -III-

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (9)

LA GNOSI: UN CANCRO NEL SENO DELLA CHIESA -III-

La franco-massoneria, maestra di gnosi

La franco-massoneria è la congregazione militante della gnosi. Tutti i maestri dell’ordine, sapienti nella scienza massonica lo hanno incessantemente detto e ridetto. Per convincersene è sufficiente esaminare i loro scritti, i loro manuali di base, i rituali ed istruzioni dei diversi gradi. Ma è necessario sbarazzare queste opere classiche della F:.M:. da tutti i “pasticci” e gli “impiastri” simbolici o allegorici che rendono la lettura così stancante, quasi irritante per una intelligenza ordinaria. Così infatti scopriremo la sostanza del loro insegnamento e saremo stupiti di ritrovarci in un “paese” di nostra conoscenza, largamente esplorato

1° LA DIVINITA’ MASSONICA

La F:. M:. è una super-religione: « La massoneria, dice Albert Pike (“morale e dogma”), insegna ed ha conservato in tutta la sua “purezza” i principi fondamentali della vecchia fede primitiva, che sono la base sulla quale poggia ogni religione. Tutte le religioni esistite finora hanno avuto un fondo di verità e tutte lo hanno ricoperto di errori. Le verità primitive insegnate dal Redentore furono più rapidamente corrotte, mescolate ed unite a delle leggende quando furono insegnate ai primi uomini ». – Così « la massoneria, afferma il Dr. Mackey, non ha alcuna pretesa di prender posto tra le religioni del mondo, intese come sette o sistemi particolari di fede o di culto, per cui distinguiamo, ad esempio, il Cristianesimo da giudaismo … ». –  Essa dunque è la religione universale (e dunque eminentemente cattolica, ma non romana, perché quest’ultima è la religione particolare dei Romani, dunque una setta infestata dal microbo e le corruzioni del paese e del clima romano). Essa non chiede ai suoi iniziati che l’adesione a due verità fondamentali: la credenza nell’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima; ma bisogna ben comprendere quello che la “scienza” massonica intende per questo. Albert Pike ci mostra « Dio come Padre infinito di tutti gli uomini … »; « La natura, egli aggiunge, intendendo con questo termine la totalità degli esseri, ecco ciò che è potente, attivo, saggio e buono. La Natura trae da se stessa la propria vita, è stata, è e sarà la causa della sua esistenza, lo spirito dell’universo e la sua stessa provvidenza. Certamente c’è un piano ed una volontà, dalle quali proviene l’ordine, la bellezza e l’armonia della natura … ». Ci si può domandare come un essere (la natura) potrebbe essere causa di se stessa e dunque agire prima di esistere? Ma ai massoni la logica poco importa! – « Dio, aggiunge Albert Pike, è l’anima vivente, pensante, intelligente dell’universo, il permanente, l’immutabile di Simon Mago, l’uno di Platone, etc. » (Si vede che il sapiente in “scienza” massonica conosceva i buoni autori e si riferisce ad essi come ai suoi maestri!). – Egli precisa ancora: « Mentre l’indiano ci dice che Parabrahma, Brahm e Paratma compongono la prima trinità, che l’egiziano adora Ramon-Ra, Neith e Phta (Toht o Hermes) ed i pii Cristiani credono che il Verbo abiti nel corpo mortale di Gesù il Nazareno, la massoneria inculca la sua antica dottrina e nulla più … Secondo la cabala, Dio e l’Universo non sono che un’unica cosa. Secondo Pitagora, Dio era uno, una sola sostanza, le cui parti continue si prolungavano attraverso l’universo senza separazione. Pitagora fa così dell’universo un Grande Essere, intelligente come l’uomo, una immensa divinità avente in sé ciò che l’uomo ha in se stesso, il movimento, la vita, l’intelligenza. Tale è, Fratello mio, il vero Segreto Reale ». Noi riconosciamo qui la dottrina dell’emanatismo, essenziale alla gnosi. Ma è necessario precisare che il riferimento a Pitagora si applica alla setta dei neo-pitagorici, quella che ha composto i “Versi d’oro” di cui abbiamo parlato. – Il vero nome di questa divinità massonica, è “Jehowah”, il tetragramma sacro, la “parola persa” base del dogma e dei misteri massonici. Jehowah, altra forma della parola Yhavé nella Bibbia, procede per emanazione, si estende, emette delle parti di se stesso in uno spazio vuoto preparato per riceverlo. – meglio ancora, dicono i nostri sapienti di massoneria, Jehowah è l’uomo stesso, l’Adam-Kadmon, l’Archetipo (oggi diremmo il prototipo) dell’umanità, la prima emanazione della divinità, il “Figlio di Dio”. Così è l’umanità che ha creato Dio, dice il F:. Pike, e gli uomini credono che Dio li faccia a sua immagine, perché essi lo fanno alla loro ». Noi comprendiamo bene con questa formula che la “divinità” massonica si crea essa stessa estendendosi sotto le forme umane che son le più perfette emanazioni del Grande Essere. – Ma non confondiamo! Il “Jehowah”, divinità massonica non ha niente a che vedere con il “Jehowah” della Bibbia, l’altro nome di Yahvé, quello del Dio Creatore. In effetti « la divinità dell’Antico Testamento, dice ancora Pike, sempre in “morale e dogma” è dappertutto rappresentato come l’autore diretto del male, dispensatore agli uomini degli spiriti cattivi ed ingannatori (tra parentesi, si tratta degli Angeli e dei Profeti) … il Dio dell’Antico Testamento e di Mosè è degradato al livello delle umane passioni … è una divinità violenta, gelosa, vendicativa, tanto quanto incerta e irresoluta; essa comanda degli atti odiosi e rivoltanti di crudeltà e di barbarie … ». L’odio per il Dio creatore è la pietra fondante, il carattere specifico di tutta la gnosi, ed è una blasfemia! La F:.M:. l’ha adottata e presa a prestito dalla gnosi.

2° L’ANIMA UMANA

« L’anima umana, dice sempre Albert Pike, è di natura divina, avendo tratto la sua origine in una sfera più vicina della divinità e ad essa ritornante quando è sbarazzata della spoglia del corpo, non potendovi tornare che purificata da tutte le sozzure del peccato che si sono, per così dire, incorporate alla sua sostanza in seguito alla sua unione con il corpo. Il massone che possiede il “segreto reale” può insegnare che l’anima, quando sarà spogliata dalla materia che la circonda e che l’ha soggiogata, quando si sarà sbarazzata della ganga che la deforma, ritroverà la sua vera natura e si eleverà per gradi, mediante la “scala mistica delle sfere” (sono gli eoni dei nostri gnostici) per riguadagnare il suo primitivo soggiorno, il suo luogo di origine. » Ogni commento indebolirebbe la forza di tali affermazioni [di una gratuità ed imbecillità disarmante!] che sono ricopiate direttamente sulle opere gnostiche.

3° IL GRANDE ARCHITETTO DELL’UNIVERSO

La massoneria si è proposta come fine la ricostruzione del tempio di Gerusalemme, cioè la ricostruzione dell’umanità. Perché ricostruire? Se non perché il primo demiurgo, Yahvé, aveva perso la sua creazione? Ricostruire l’umanità per il massone consapevole e profondamente iniziato, è realizzare il ritorno all’Unità delle anime disperse nei corpi, è un ricomporre la divinità primitiva, completarne la pienezza: questa è la “Grande opera”. Così l’iniziazione costituisce uno “shock illuminante”, con la sua iniziazione l’illuminato « apre gli occhi », vede infine nella sua religione le corruzioni che ne hanno deformato la rivelazione primitiva e « penetra nella verità dopo avere errato tra gli errori, tutto coperto dalle sozzure del mondo esterno e profano … ». – Occorre dunque purificare l’umanità e ricostruirla secondo il piano di un architetto divino. Che l’iniziato prenda il suo grembiule, si armi di compasso, di cazzuola, di squadra e triangolo e si metta al lavoro: « il nostro lavoro costituisce il nostro culto. – Ma per fare questo bisogna procedere con ordine; bisogna conoscere la scienza della geometria. Il fratello iniziato è un costruttore del Tempio dell’umanità, gli serve un architetto, un Grande costruttore, un Grande geometra: « il grande architetto dell’universo » … – « questi è un sovraintendente, agli ordini del quale noi dobbiamo lavorare come operai ». Certo, egli è divino, così come l’uomo dopo la sua illuminazione attraverso il rito dell’iniziazione; ma non è la divinità totale, lo “Jehowah”. – « Il F:.M:. dice Oswald Wirth, nel suo “libro del maestro” si guarda bene dal definire il grande architetto dell’universo e lascia a ciascuno dei suoi adepti piena libertà di farsene un’idea conforme alla sua fede o alla sua filosofia. Badiamo bene di non cedere a questa pigrizia dello spirito che confonde il grande architetto degli iniziati, con il Dio dei Credenti. » – Ecco dunque ciò che è chiaro: non bisogna soprattutto definire la natura di questo architetto e non dargli un nome che permetterebbe di identificarlo. – Ma i veri iniziati, i “Maestri del sublime segreto”, coloro che hanno penetrato più profondamente i misteri della grande arte reale, conoscono bene il suo nome. « Il “serpente” dice Oswald Wirth, nel suo “libro dei compagni”, ispiratore di disobbedienza, di insubordinazione e di rivolta, fu maledetto dagli antichi teocrati, mentre era in onore tra gli iniziati. Questi stimano in effetti che non si potrebbe avere niente di più sacro delle aspirazioni che ci portano ad avvicinarci progressivamente agli déi considerati come potenze coscienti, incaricate di difendersi dal caos e di governare il mondo, rendere simile alla divinità: tale era l’oggetto degli antichi misteri. Ai giorni nostri il programma di iniziazione non è mutato affatto. – Così dunque il serpente è chiamato dai grandi iniziati a sbrogliare il caos di un mondo fatto male da un demiurgo maldestro, per ricostruirlo secondo un piano perfetto, quello del grande tempio e dell’umanità e così … « noi giungeremo a realizzare l’ultima parla del progresso, l’uomo, sacerdote e re di se stesso, che non si risolleverà se non con la sua volontà e la sua coscienza ». (Ragon: “Corso filosofico”). – Come sia possibile che un uomo dotato di un minimo di intelligenza e razionalità possa prendere semplicemente in considerazioni tali imbecillità demenziali, deliri gratuiti e senza alcun fondamento né lontanamente dimostrabili o evidenti, è certamente il mistero più grande del nostro mondo “progredito”, chiara evidenza di un uomo superbo ed orgoglioso che, pur di ribellarsi a Dio, è disposto a bere veleno di ogni tipo, a prostituirsi nell’animo e sottostare a fandonie, favole, filosofie astruse ed indimostrabili propinate da psicopatici dediti a culti satanici, al contatto continuo con il “serpente ingannatore” di cui si compiacciono, onde trascinare adepti negli eterni abissi infernali.

LA PENETRAZIONE MASSONICA NELLA SOCIETA’ CRISTIANA

La domanda che si posero inizialmente i rivoluzionari per distruggere la società cristiana fu questa:  « Come penetrare in questa società e poco a poco distruggerne le strutture politiche e sociali, poi le convinzioni religiose? » Bisognava dunque dapprima sedurre l’opinione Cattolica facendo ad essa assorbire dei principi distruttori presentati come delle idee positive; occorreva in seguito allontanare la diffidenza o l’ostilità delle autorità politiche e religiose (Re e Papi), da qui la politica del segreto ed il rispetto almeno apparente delle convinzioni cristiane. Bisognava pazientemente sostituire senza mai manifestarlo un pensiero, deformato da falsificazioni successive, progressive ma insensibili, al pensiero cristiano. Era necessario pure ottenere una tolleranza ufficiale delle logge e delle conventicole, organizzando un reclutamento iniziale difettoso, perché impregnato ancora di mentalità cristiana, ma già adatto a ricevere qualche germe nuovo. – Così la “Costituzione massonica” di Anderson afferma i principi che essa vuol distruggere,  preparandone le deformazioni. Essa proclama l’esistenza di Dio, il rispetto della Religione, ma si dichiara filosofica e progressista! Essa afferma che il suo scopo è la « ricerca della verità e la libertà di coscienza »; è questa un’assurda contraddizione: come cercare la verità se si deve rispettare qualunque religione? Come conservare la libertà di coscienza se si deve professare l’esistenza di Dio? Si cominciano a preparare le onde di assalto alla Chiesa Cattolica! La tolleranza non può combinarsi con il rispetto di tutte le religioni, poiché ce ne sono alcune intolleranti. La ricerca della verità suppone la soppressione di tutti i dogmi religiosi, poiché essi sono immutabili e sono già delle verità acquisite. I Papi condannano la F:.M:.? Essi manifestano così la loro intolleranza e la loro attitudine provocatoria! La F:.M:. nel contempo prepara la cecità dei poteri politici [oggi dilagante in tutte le nazioni del mondo]. Bisognava quindi darsi una facciata piacevole, mondana per allontanare ogni diffidenza ed ottenere così l’autorizzazione ad esistere, condizione assolutamente necessaria per agire efficacemente su di una popolazione profondamente Cristiana, la cui educazione religiosa ne aveva, nel corso dei secoli, impregnato l’anima.    

1° – La F:.M:. è una società di educazione rivoluzionaria.

Non era possibile per i dirigenti dare direttamente degli ordini ed esigere l’obbedienza senza svelarsi e rendersi vulnerabili. Bisognava allora procedere altrimenti. Tra tutti coloro che aderivano alle logge, occorreva operare una selezione: gli uomini onesti e pacifici si autoeliminavano man mano: sia per il disgusto di riti bizzarri e stupidi, sia per indifferenza: la porta di uscita era aperta e spalancata: era sufficiente ascoltare un insegnamento un po’ più inquietante per ottenere la fuoriuscita degli iniziati rimasti relativamente onesti: era questa una prima forma di epurazione allorché la F:.M:. si preparava ad un’azione più incisiva e fortemente rivoluzionaria. Le fuoriuscite venivano poi compensate da nuove reclute, restando così in attività gli ambiziosi, gli insoddisfatti, gli arrampicatori; era allora possibile “rinforzare” e rincarare la dose con un insegnamento più “filosofico, progressista e illuminato”. Si inculcava soprattutto la convinzione che essi lavoravano in vista del progresso dell’umanità e che erano i campioni di un “ordine nuovo”, liberati alfine dalle vecchie virtù d’abitudine considerate. – I dirigenti massonici hanno sempre utilizzato ed utilizzano due metodi rimarchevoli per ottenere questa “educazione rivoluzionaria”:

a) La doppia gerarchia. 1° – Una gerarchia amministrativa ufficiale che sostiene un apparato istituzionale relativamente anodino, 2° – una gerarchia segreta: quella degli alti gradi nella quale gli iniziati non sono eletti dalla base, ma cooptati dai gradi superiori. I gradi amministrativi eletti sono rinnovati annualmente e democraticamente: essi sono l’immagine stessa dei nostri moderni governi che sono facciata per gli allocchi e i creduloni. Gli alti gradi sono ottenuti con la selezione vigorosa dei più convinti “ideologicamente”, e sono conferiti a vita.

b) I “cerchi interni” ove si pratica la dinamica di gruppo. In ogni loggia od “officina”, agisce un piccolo numero di aderenti, circa una ventina: circolazione libera e frequente degli alti gradi nel corso delle sedute di retrologgia, che si svolgono sempre secondo un carattere religioso per imporre, anche agli scettici, un certo sacro timore reverenziale. Ora, prima della seduta di un’officina o di una loggia, gli alti gradi si sono già riuniti tra loro; essi hanno messo a punto lo svolgimento dei dibattiti, le idee dominanti da far penetrare negli spiriti e poi da far adottare. Essi si ritrovano in due o tre tra la massa dei fratelli non iniziati, non hanno ordini precisi o consegne da impartire, ma “suggeriscono”, propongono delle formule e delle decisioni da adottare. Gli altri “fratelli”, non iniziati ai gradi superiori, credono di essere giunti essi stessi “spontaneamente” alle decisioni che poi adottano. È questa la “dinamica di gruppo”. – Ecco quali sono le idee essenziali che resteranno negli spiriti dei semplici fratelli: la F:.M:. è sacra, le sue origini si perdono nella notte dei tempi. Il suo simbolismo è oscuro, equivoco, ma la “leggenda di Hiram” permette di invertire, ribaltare il senso della Bibbia: Caino diventa un odiosamente calunniato, vittima della gelosia di Abele, un ancestre di tutti i grandi inventori della storia, addirittura il padre della “civilizzazione, del progresso, dei lumi”. – La tolleranza è la grande virtù del fratello iniziato: si è pure soppresso il G:. A:. D:. L:. U:. [grande architetto dell’universo] per non urtare la coscienza di coloro che non credono all’esistenza di Dio [come gli antipapi attuali che non benedicono – e meno male, perché in realtà maledico – in quanto tra gli astanti potrebbe esserci qualche non credente!] . Tra tutte le opinioni che si scontrano, il fratello può difendere le une, ma deve accettare la vicinanza delle altre e rispettarle. – Questa tolleranza è predicata fino al fanatismo, come vediamo tra l’altro anche nella “sinagoga di satana” attuale, la setta vatican-massonica del “novus ordo” che si è insidiata nei sacri palazzi della Chiesa Cattolica; i “fratelli” moderati sono denunciati per la loro mollezza nei confronti della tolleranza [evviva la libertà di coscienza unidirezionale ed intollerante, questa!]. Così gli uomini più dolci pian pianino diventano fanatici; questa idea della tolleranza deve essere un’arma incessantemente rivolta contro la Chiesa intollerante. Si rispetta il “Cristiano sincero”, il Cristiano “illuminato”, si fustiga al contrario il Cristiano chiuso sul suo dogma, il Cattolico di ferro”, incapace di aprire il suo spirito ai “lumi” della nuova società, insomma “l’integralista”, il “fondamentalista”, … dunque il nemico da abbattere. E così il “fratello”, il “figlio della vedova” è pronto a passare all’azione. La sua educazione rivoluzionaria è praticamente completata! –

2° – La F:.M:. è una scuola di preparazione all’azione.

Dopo cinquanta anni di questa educazione, bisogna passare finalmente all’azione. In effetti nel corso di una prima generazione di iniziati, si è operata una notevole selezione. Nella generazione successiva, la maggior parte degli iniziati si sono alfine preparati  all’«ODIO» della civiltà cristiana e della Fede Cattolica perché si possa sperare una rivoluzione con qualche chance di successo e senza troppe agitazioni, soprassalti ed opposizioni all’interno della società massonica. – Arriva il giorno “X”, quello della Rivoluzione: gli uomini sono pronti; la F:.M:. ha concluso la sua opera educativa. Essa si mette “in sonno”, sfuggendo così alle conseguenze di un eventuale fallimento. I “fratelli” costituiscono delle “società di azione rivoluzionaria”: i giacobini, i teofilantropi, la carboneria, la lega dell’insegnamento, l’Eteria greca, la Feniana irlandese, i “giovani turchi”. Restano dei circoli confidenziali, delle influenze individuali scrupolosamente coperte, per ricordare ai fratelli esitanti ciò che ci si aspetta da loro. Al momento del passaggio all’azione rivoluzionaria, una moltitudine di fratelli apre gli occhi: i principi inculcati conducono a ciò che non si voleva: sarà la fuga dei fratelli disillusi. Resteranno solo i violenti, gli ambiziosi. L’ultima epurazione è completata! La rivoluzione finirà nelle mani dei “puri”, degli spiriti completamente illuminati. Infine si deve abbattere l’ “infame”!

3° – La F:.M:. è una “contro-Chiesa” camuffata

Tra gli alti gradi massonici esiste quello dei “rosa+croce, il 18° grado. – L’iniziato che ha superato questo grado è necessariamente prigioniero del suo odio contro la Chiesa Cattolica [solo per inciso ricordiamo che tra gli illustri rosa+croce moderni si annoverano personaggi del calibro di A. Roncalli, G.B. Montini, A. Bugnini, A. Lienart, … l’elenco è lungo!]. Come provocare quest’odio antireligioso: con il far praticare all’iniziato dei gesti, pronunziare davanti a testimoni delle parole che possono disgustare ogni uomo onesto e di buona fede. Da questo momento l’iniziato è prigioniero di ciò che sta per compiere; egli è “ostaggio” degli altri iniziati, testimoni definitivi della sua profanazione [cfr. in exsurgatdeus.org//messa nuova: liturgia rosa+croce?; Il grado è descritto nei dettagli da mons. L. Meurin nel suo celeberrimo libro: “Franco-massoneria, sinagoga di satana”]. Il rito di iniziazione al grado rosa+croce è una odiosa profanazione della Santa Messa [profanazione oggi riprodotta nella falsa e blasfema messa della setta del novus ordo, introdotta dal massone A. Bugnini e dall’”illuminato patriarca” G. B. Montini, l’antipapa sedicente Paolo VI]. Questo grado comprende il segno d’ordine detto del “Buon Pastore”, una parola “de passe”, il motto sacro: “Emmanuel” [il dio-fuoco è con noi] al quale si risponde “pax vobis” [la pace di coscienza sia con voi]. Addirittura il “motto perduto e ritrovato” per i rosa+croce è INRI, interpretato però cabalisticamente in: igne natura renovatur integra, la natura intera è rinnovata col fuoco … di lucifero, ovvio …]. – Poi si svolge la “Cena” rosacrociana: pane e vino sulla tavola.  Il maestro delle cerimonie dichiara: « che questo pane ci mantenga in forza e salute », poi « che questo vino, simbolo dell’intelligenza elevi il vostro spirito ». Ancora: “prendete e mangiate, datene da mangiare a colui che ha fame”. “Prendete e bevete, datene da bere a colui che ha sete”. Poi c’è il “sacrificio dell’agnello” coronato di spine e con i chiodi alle zampe, decapitato e con zampe mozzate date al fuoco. Infine: “Tutto è consumato, ritiriamoci in pace …”. – Il testo massonico dice: « Il cavaliere rosa+croce è un apostolo. Il suo apostolato gli comanda di porre l’amore per l’umanità spinto all’estremo sacrificio, sul frontespizio dell’opera che persegue … una storia anche abbreviata della croce la cui origine si perde nella notte dei tempi … il punto cruciale così determinato dalla croce è l’asse della ruota universale delle cose, generata dalla rivoluzione della croce intorno al punto di intersezione delle sue branche, immagine dell’evoluzione del “gran tutto” … luogo di incontro di valori estremi o opposti, questo punto cruciale è anche il mediatore ed è assai curioso notare che il nome egiziano di questo mediatore è “Krist”, che significa “Il possessore del segreto”. – Dopo una tale iniziazione ed una tale profanazione della Santa Messa, si può ben comprendere lo stato dello spirito di un vescovo F:.M:. che celebra l’ufficio religioso, pensiamo ad esempio al F:.M:. Talleyrand, fino ai più recenti, A. Roncalli, G. B. Montini, A. Bugnini, A. Lienart, S. Baggio, e tantissimi altri, che a citarli tutti non basterebbero i volumi di un’intera enciclopedia!