DOMENICA III DI AVVENTO

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Phil IV:4-6
Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus enim prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne petitiónes vestræ innotéscant apud Deum. [Godete sempre nel Signore: ve lo ripeto: godete. La vostra modestia sia manifesta a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi per alcuna cosa, ma in ogni circostanza fate conoscere a Dio i vostri bisogni]

Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.
[Hai benedetto, o Signore, la tua terra: hai liberato Giacobbe dalla schiavitù.]

Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus enim prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne petitiónes vestræ innotéscant apud Deum. [Godete sempre nel Signore: ve lo ripeto: godete. La vostra modestia sia manifesta a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi per alcuna cosa, ma in ogni circostanza fate conoscere a Dio i vostri bisogni.]

Oratio

Orémus.
Aurem tuam, quǽsumus, Dómine, précibus nostris accómmoda: et mentis nostræ ténebras, grátia tuæ visitatiónis illústra: [O Signore, Te ne preghiamo, porgi benigno ascolto alle nostre preghiere e illumina le tenebre della nostra mente con la grazia della tua venuta.]

Lectio
Lectio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses
Philipp IV:4-7
Fratres: Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne et obsecratióne, cum gratiárum actióne, petitiónes vestræ innotéscant apud Deum. Et pax Dei, quæ exsúperat omnem sensum, custódiat corda vestra et intellegéntias vestras, in Christo Jesu, Dómino nostro.
R. Deo gratias.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli: Omelie, Vol. I; Torino 1899 – Omelia V.]

Rallegratevi sempre nel Signore: da capo ve lo dico, rallegratevi. La vostra benignità sia nota a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi di nulla: ma in ogni cosa le vostre domande siano manifestate a Dio nell’orazione, nella preghiera e nel rendimento di grazie. E la pace di Dio, che supera ogni mente, custodisca i vostri cuori e le vostre menti in Gesù Cristo „ (Ai Pilipp. IV, 4-7).

Con questi quattro versetti l’apostolo Paolo chiude la sua breve, ma bella ed affettuosissima lettera ai fedeli della Chiesa di Filippi, città principale della Macedonia. Nessuna difficoltà nella spiegazione di queste sentenze dell’Apostolo: ma i documenti, che vi si contengono, sono d’una importanza pratica grandissima e meritano tutta la vostra attenzione. – Rallegratevi sempre nel Signore: da capo vel dico, rallegratevi. „ S. Paolo scrisse questa lettera da Roma, come si fa manifesto dai saluti, che in fine della lettera manda a quei di Filippi. La scrisse certamente dalla carcere, in cui fu gettato la prima volta, circa l’anno sessantesimo dell’era nostra. Uomo veramente ammirabile questo Apostolo per eccellenza! Egli è oppresso da ogni maniera di tribolazioni e in molti luoghi delle sue lettere, e in questa stessa, ne fa una viva descrizione. Da Gerusalemme è condotto a Roma incatenato: è là in carcere, imperando Nerone; si vede innanzitutto il patibolo: molti lo hanno abbandonato ed alcuni dei suoi lo amareggiano perfino in carcere: eppure, ripieno d’un sacro entusiasmo, l’entusiasmo della fede e della carità, grida ai suoi cari: rallegratevi. „ Ciò non gli basta, ed aggiunge: “Rallegratevi sempre; „ non gli basta ancora: lo ripete di nuovo: “Da capo vel dico, rallegratevi. „ Ma come rallegrarsi in mezzo ai timori e ai terrori della persecuzione, con le catene alle mani, lì, a pochi passi di quel mostro di crudeltà, che si chiama Nerone? — L’Apostolo leva in alto gli occhi, li fissa con fede viva in Dio ed è in Lui, in Lui solo, che egli attinge ogni conforto e perfino l’allegrezza, che vorrebbe trasfondere nei suoi cari figliuoli. – Vi è una doppia allegrezza, 1’una celeste, l’altra terrena: l’una che viene dagli uomini, l’altra che viene da Dio; l’una che si fa sentire nel corpo, l’altra che riempie l’anima, la fa trasalire e si riflette eziandio nel corpo. Vi è la gioia dell’avaro, che guarda estatico lo scrigno riboccante d’oro; vi è la gioia del superbo, del vanitoso, che si delizia degli applausi e si inebria dell’incenso, che le turbe gli profondono: vi è la gioia dell’epulone, che si bea tra vini e vivande; vi è la gioia del voluttuoso che lussureggia per ogni fibra: son gioie basse turpi, indegne dell’uomo, inette a farlo felice, perché non sono durevoli, passano rapidamente e se pur saziano per alcuni istanti la parte inferiore, il corpo, che se ne va tutto con la morte, lasciano vuota, desolata, riarsa la povera anima, come se vi passasse sopra un soffio infuocato. Domandate a questi beati del mondo, che corsero tutte le vie del piacere, che colsero tutti i fiori trovati lungo la via; che ammassarono i milioni; che salirono alto e videro le turbe prostrate ai loro piedi; che alla loro bocca non negavano mai né un cibo, né una bevanda, fossero pure a peso d’oro; che ebbero tutto ciò che poterono desiderare; domandate loro: “Siete felici?,, Ad una voce vi risponderanno: “Siamo sazi della vita; la noia ci opprime; il nostro cuore è vuoto. „ – Ecco la gioia del mondo! Vi è poi la gioia dell’umile, che conosce se stesso, del poverello rassegnato e contento dei suo pane quotidiano, dell’uomo, che comanda alle passioni e le vede obbedienti; vi è la gioia del casto, del giusto, del caritatevole; gioia tranquilla, sempre eguale, che inonda l’anima, che ne ricerca tutte le fibre più riposte, che dura in mezzo alle pene ed alle amarezze della vita, che è come un effluvio del cielo, che ci fa sentire Dio presente e quasi ce lo fa toccare: ecco la gioia del Signore, di cui scrive S. Paolo. Non cercate, non amate mai la gioia del mondo, ma la gioia di Dio: Gaudete semper in Domino: iterum dico, gaudete. Questa gioia della virtù, gioia pura e santa, raddolcisce i dolori, che sulla terra sono nostri compagni inseparabili; infonde una forza meravigliosa nell’anima e ci fa correre speditamente le vie del cielo. S. Francesco d’Assisi sul miserabile giaciglio delle sue agonie, cantava. S. Luigi Gonzaga esclamava: Lætantes imus: ce ne andiamo pieni di gioia. S. Francesco di Sales, S. Vincenzo dei Paoli, S. Filippo erano sempre sorridenti e in mezzo alle fatiche, alle cure, alle pene della vita erano lieti e felici. E la gioia dei figli di Dio, quella di S. Paolo, che scrive: Rallegratevi sempre nel Signore. – “La vostra benignità sia nota a tutti gli uomini. „ La parola greca usata da S. Paolo e che io ho voltato nella parola benignità, ha un significato amplissimo e vuol dire modestia, temperanza di modi, affabilità, dolcezza. Qui l’Apostolo in sostanza vuole che nel nostro esterno, parole, opere e contegno c i mostriamo con tutti tali, da non recar loro molestia alcuna e da essere loro graditi. Tutto questo non è che il frutto e la manifestazione della carità, la quale vuole, che per quanto è possibile, non facciamo mai cosa che spiaccia ai nostri prossimi e facciamo loro ciò che onestamente piace. Il cristiano, secondo S. Paolo, deve essere l’uomo più caro, più amabile, più accettevole a tutti nella stessa società civile, perché in ogni cosa è informato alla carità di Gesù Cristo. E perché questa benignità con tutti? Perché, risponde S. Paolo, “Il Signore è vicino Dominus prope est. „ Il Signore è vicino: forseché è vicino il giorno del finale giudizio, come alcuni sognarono? No: perché Gesù Cristo non volle dire quando verrà, e lo stesso Apostolo, nella sua lettera seconda a quei di Tessalonica, vuole che nessuno si turbi, quasi che quel giorno sia vicino (Capo II, 2 ) . — Il Signore è vicino; — vicino, perché il giorno della nostra morte e per conseguenza del giudizio per ciascuno, sia quanto si voglia lontano, è sempre vicino, dacché la nostra vita passa come un’ombra. — Il Signore è vicino; — vicino, perché viviamo in Lui, in Lui ci muoviamo, in Lui siamo; perché in qualunque luogo e in qualunque istante Egli ci vede, scruta i nostri pensieri e i nostri affetti. Siamo in ogni cosa composti, grida S. Paolo, perché siamo sempre al suo cospetto. Qual motivo più efficace di questo per vivere santamente? Segue un altro versetto, nel quale S. Paolo» ci dà un ammaestramento pratico per regolare cristianamente la nostra condotta. Eccovelo: “Non siate ansiosi di nulla. „ In mezzo alle nostre occupazioni, tribolazioni, privazioni ed anche in mezzo alla abbondanza d’ogni bene,, noi siamo facilmente inquieti e inquietiamo quelli, coi quali abbiamo comune la vita. Temiamo, speriamo, affannosamente desideriamo,, ci agitiamo senza tregua e così la pace fugge dai nostri cuori. Quando S. Paolo ci dice: “Non siate ansiosi di nulla,„ non intende già che trascuriamo le cose nostre, che viviamo spensierati, dimentichi del domani, con la stolta pretensione che ogni nostra cura si abbandoni alla Provvidenza divina: se così fosse, S. Paolo avrebbe predicata la negligenza, inculcato 1’ozio, avrebbe condannata l’intera sua vita e ci avrebbe imposto di tentare la Provvidenza. Egli vuole che adempiamo ogni nostro dovere e poi ci rimettiamo alla provvidenza di Dio, perfettamente rassegnati a tutto ciò ch’essa disporrà, senza turbarci, sapendo ch’essa tutto va ordinando al nostro vero bene. E ciò che si fa? Sventuratamente nella nostra condotta cadiamo troppo spesso nei due estremi. Ora noi domandiamo tutto alle nostre forze, al nostro ingegno, alla nostra abilità, dimenticando che se Dio non è con noi, tutto fallisce: ed ora tutto pretendiamo da Dio, come se nulla si esigesse da noi e Dio dovesse premiare i pigri, gli oziosi. La verità è, carissimi, che si domanda sempre in ogni cosa l’aiuto di Dio ed il nostro concorso, e se l’uno o l’altro fa difetto, follia sperare il compimento dell’opera. Può esso il sole illuminare i vostri occhi, se voi non li aprite? Può essa il campo coprirsi di messi, se voi non lo seminate e coltivate? Possono i vostri polmoni respirare se l’aria vien meno? Non dimenticate mai, che se Dio ci ha creati senza di noi, senza di noi non ci salva. Lavoriamo, facciamo il nostro dovere, ma senza ansietà, sicuri che se noi dal canto nostro faremo ciò che è in poter nostro, Dio non mancherà mai dal lato suo, e le due forze unite, l’umana e la divina, ci daranno l’opera compiuta. – E per cessare questa ansietà, che sì spesso turba i nostri cuori, che faremo? Ce lo insegna l’Apostolo : “In ogni cosa le vostre domande siano manifestate a Dio nella orazione, nella preghiera e nel rendimento di grazie. „ Allorché ci assale il timore che le cose nostre volgano male e l’anima nostra è sopraffatta da sollecitudini moleste ed è in preda al turbamento, solleviamo gli occhi a Lui che tutto vede e può; a Lui, che ci è sempre vicino e ci ama teneramente, e come figli a padre amoroso, apriamogli l’anima nostra con l’orazione; e se la tempesta dell’anima non cessa, instiamo più fortemente nella orazione, che allora diventa preghiera. Qui è notata la differenza tra orazione e preghiera; la preghiera è l’orazione con insistenza, con ardore, e quando incalza il bisogno, deve pur crescere la nostra orazione e diventare preghiera. – Se Dio ci esaudisce, noi gli porgeremo rendimento di grazie per l’ottenuto beneficio: se per gli occulti consigli della sua sapienza, Egli ritarda l’esaudimento della nostra preghiera e ci lascia ancora in balia della tempesta, noi lo ringrazieremo egualmente, perché ci conforta col suo aiuto, perché ciò vuole a nostro maggior bene e perché la sua volontà benedetta è pur sempre la nostra legge inviolabile. Non dimentichiamo mai, o carissimi, questo sì prezioso insegnamento dell’Apostolo: in ogni cosa ricorriamo a Dio; la preghiera è il farmaco dell’anima afflitta, è l’ancora della nostra salvezza. – L’Apostolo chiude il tratto della epistola per noi citato con questo augurio, che non potrebb’essere più bello: “E la pace di Dio, che supera ogni mente, custodisca i vostri cuori e le vostre menti in Gesù Cristo. „ La pace! Non vi è cosa che suoni più dolce ai nostri orecchi, che maggiormente si desideri e che più studiosamente si conservi quanto la pace. Tutti cerchiamo, tutti vogliamo la pace: tutti la salutiamo come il sommo bene che si possa avere quaggiù. Che è dessa la pace? Fu definita da sant’Agostino: “Tranquillitas ordinis — Tranquillità dell’ordine! „ Quando serbiamo l’ordine, che è quanto dire, osserviamo la giustizia con tutti, allora abbiamo la pace. Noi tutti abbiamo dei doveri verso noi stessi, verso i nostri simili, verso Dio. Abbiamo doveri verso noi stessi, che ci impongono di vegliare sui pensieri e sugli affetti nostri, di reprimere le passioni scomposte, che ci travagliano, la superbia, l’amore sregolato dei beni della terra, la sensualità, l’intemperanza, l’invidia, l’ira e via dicendo. Vogliamo noi la pace con noi? Ebbene: ristabiliamo l’ordine nell’anima nostra, le passioni ribelli siano ridotte alla ubbidienza, vi regnino le virtù e legge nostra sia la fede, che regoli ogni nostro atto. — Abbiamo doveri coi nostri simili e quanti son padri, sono madri, sono figli, padroni, servi, ricchi, poveri; adempia ciascuno i suoi doveri, sempre e fedelmente: esercitando i nostri doveri, vediamo di non offendere quelli degli altri; pieni di compatimento e di amore vero ed operoso verso di tutti, cerchiamo il bene altrui come il nostro, ed avremo l’ordine, cioè la pace coi fratelli nostri. — Abbiamo doveri con Dio, e sono i primi e il fondamento degli altri; osserviamo la sua legge, temiamo il suo giudizio, amiamolo, come il Padre nostro, non facendo mai cosa che lo possa offendere, ed avremo 1’ordine e la pace con Dio. Oh la pace! come la può avere colui che vive in peccato, che sa d’avere per nemico Dio stesso? Un uomo che sa d’avere commesso un delitto e di meritare l’estremo supplizio; che sa d’avere sulle sue orme gli esecutori della giustizia, che lo cercano, non ha un’ora di pace. Ogni rumore, ogni stormire di foglie, la vista d’un uomo, che muove alla sua volta, tutto lo turba, lo agita, lo riempie di sospetto e di terrore. É l’uomo, che sa d’aver offeso Dio onnipotente, a cui non può sfuggire; Dio, che lo attende e lo coglierà all’estremo passo; questo uomo potrà mai aver pace? É impossibile. Quegli solo ha la pace, la pace di Dio, la pace cioè che viene da Dio, il quale signoreggia le sue passioni, ama i fratelli come se stesso, che fugge il peccato, che vive nella grazia di Dio. Uomo avventurato! Questa pace, tesoro di tutti preziosissimo, custodirà la sua mente ed il suo cuore, gli farà gustare anche sulla terra quanto dolce e soave è il Signore con quelli che lo amano!

Graduale
Ps 79:2; 79:3; 79:2
Qui sedes, Dómine, super Chérubim, éxcita poténtiam tuam, et veni.
[O Signore, Tu che hai per trono i Cherubini, súscita la tua potenza e vieni.]

V. Qui regis Israël, inténde: qui dedúcis, velut ovem, Joseph. [Ascolta, Tu che reggi Israele: che guidi Giuseppe come un gregge. Allelúia, allelúia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja,
V. Excita, Dómine, potentiam tuam, et veni, ut salvos fácias nos. Allelúja. [Suscita, o Signore, la tua potenza e vieni, affinché ci salvi. Allelúia.]

 

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem
R.
Gloria tibi, Domine!
Joann l:19-28

“In illo tempore: Misérunt Judaei ab Jerosólymis sacerdótes et levítas ad Joánnem, ut interrogárent eum: Tu quis es? Et conféssus est, et non negávit: et conféssus est: Quia non sum ego Christus. Et interrogavérunt eum: Quid ergo? Elías es tu? Et dixit: Non sum. Prophéta es tu? Et respondit: Non. Dixérunt ergo ei: Quis es, ut respónsum demus his, qui misérunt nos? Quid dicis de te ipso? Ait: Ego vox clamántis in desérto: Dirígite viam Dómini, sicut dixit Isaías Prophéta. Et qui missi fúerant, erant ex pharisaeis. Et interrogavérunt eum, et dixérunt ei: Quid ergo baptízas, si tu non es Christus, neque Elías, neque Prophéta? Respóndit eis Joánnes, dicens: Ego baptízo in aqua: médius autem vestrum stetit, quem vos nescítis. Ipse est, qui post me ventúrus est, qui ante me factus est: cujus ego non sum dignus ut solvam ejus corrígiam calceaménti. Hæc in Bethánia facta sunt trans Jordánem, ubi erat Joánnes baptízans.”
R. Laus tibi, Christe!

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Omelie: Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Giovanni I, 19-28)

Superbia.

Avevano i Giudei concepita una sì alta opinione di Giovanni il Battista per la sua vita irreprensibile, per l’austera penitenza, per la zelante predicazione, che credettero esser egli il Messia da Dio promesso, e da gran tempo da loro aspettato. Spedirono perciò da Gerosolima Sacerdoti e Leviti ad interrogarlo chi egli fosse, e s’era il Cristo tanto desiderato dalla loro nazione. Giovanni non si dimenticò di sé stesso.. Ben lungi dall’arrogarsi un nome sì glorioso, prese anzi motivo da un’interrogazione lusinghiera di vieppiù umiliarsi; “ … ed io, rispose, e ripeté la seconda e la terza volta, io non sono Cristo. Questi vive, ed è in mezzo a voi, e voi nol conoscete; dopo di me si farà manifesto, ed è tanto nella dignità e nella grandezza a me superiore, ch’io neppur son degno di sciogliere i legacci dei suoi calzari!”. “Chi dunque sei tu? Tornarono a chiedergli, forse Elia, o alcun dei Profeti?” Non sono Elia, rispose, non sono Profeta, ma sono una voce, che va gridando nel deserto: preparate la via del Signore, “ego vox clamantis in deserto; parate viam Domini”. – Fin qui l’odierno Vangelo. Che dite, ascoltatori, di questa umiltà del Precursore di Gesù Cristo, del maggiore fra i Santi? Gl’inviati a far tante interrogazioni erano Farisei, gente gonfia della più fina superbia, dovevan confondersi in sentire l’umile confessioni del Battista. Ma no! Di guarigione difficilissima è un tal vizio; ed oh quanto regna nel mondo, e la virtù a questo opposta oh quanto nel mondo è sconosciuta! Contro di questa superbia è diretta la presente spiegazione, e per ridurre me stesso e voi a sbandirla dal nostro cuore, io passo a dimostrarvi prima il castigo di questa passione detestabile, poscia il rimedio nella virtù della cristiana umiltà …

I. Il castigo della superbia secondo l’ordine stabilito dalla giustizia di Dio, che necessariamente odia i superbi, è comprovato dalla speranza e dalla storia di tutti i secoli, è una vergognosa caduta. Il superbo si può paragonare ad un epilettico. Porta seco quest’infelice una malattia, che o per improvviso sconcerto del Cerebro, o per istraordinaria alterazione de’ nervi, ovunque lo colga, lo getta a terra, senza che possa stendere un braccio a suo riparo, fossa pur egli sull’orlo d’un precipizio. Tal è un superbo. Con questa legge però, dice un gravissimo autore (Scupoli), che quanto egli s’innalza superbamente, tanto miseramente precipita, e l’altezza del suo esaltamento è la precisa misura della profondità della sua caduta. Infallibile è il detto evangelico: “Qui se exàltat, humiliabitur”,..’ .(Luc. XIV, 11). Né ciò deve far meraviglia, entra; qui il reale Profeta, conciossiachè la superbia un mostro, che ha un sol piede, e perciò non può a lungo contenersi in dritta positura. Immaginate un uomo, che si tenga sopra un piede solo. Con qualche sforzo si terrà diritto per poco d’ora, ma non potrà a lungo durare in quella situazione violenta. Se poi a quest’uomo si accosti una mano che l’urti, un nemico che lo spinga, sarà necessariamente stramazzato a terra. – E questa appunto la più viva. immagine della superbia, onde il citato re Profeta, a Dio rivolto, Signore, diceva, “non veniat mihi pes superibiæ, et manus pcccatorìs non moveat me” (Ps. XXV). E poi soggiunge. “Ibi cecidcrunt qui operantur iniquitatem .. èxpulsi sunt, nec potuerunt stare”. Un’esperienza funesta, prosegue lo stesso reale Salmista, mi mostrò quanto sia certa e inevitabile la caduta de’ superbi. Ben mi ricordo d’un Saul, che sebbene da Dio riprovato, pure, sulle armi fidando e sui suoi armati, fu sconfitto da’ Filistei vincitori, e per disperato rimedio a sottrarsi dai loro insulti, si lasciò cadere sulla punta della sua spada applicata al petto. “Non salvatur Rex per multam virtutem (Ps. XXII, 16). Ben mi rammento del superbissimo Filisteo gigante, dispregiatore delle falangi del popolo di Dio, che. sfidando a singolar tenzone i prodi d’Israele, fu a terra steso pel colpo di un semplice pastorello qual io già fui, “et gigas non salvabitur in multitudine virtutis suæ” (ibid.). Ben mi si sveglia l’acerba memoria del mio figlio Assalonne, che per sfrenata ambizione di regnare mi mosse guerra, e in questa abbattuto, mentre sperava salvarsi su veloce destriero, per quel mezzo stesso sospeso pei suoi capèlli ad un ramo perdé la vita, ferito da tre colpi di lancia. “Fallax equus ad salutem in abundantia virtutis suæ non salvabitur”: (ib. V. 17). – Un ritratto al naturale d’un gran superbo, e del suo straordinario e obbrobrioso castigo, ci presenta il Profeta Daniele nella persona di Nabucco re di Babilonia. Stava passeggiando costui nella sua reggia tutto gonfio; tutto in compiacenza di sé stesso, “in aula Babilonis deambalabat”; (Dan., IV, 26) e inebriato dalla propria stima si fa a rispondere a chi non l’interroga, a chi neppur è presente, “responditque” (Reg. XXVII). E come avesse intorno la turba de’suoi adulatori, “ … e non è questa, dice egli, quella gran città, quella Babilonia da me edificata? “Et ait: nonne hæc est Babilon magna, quam ædificavi?” (Ibid.). Falso; Babilonia fu edificata da Belo, e da lui soltanto ingrandita: bugia manifesta, vizio proprio de superbi millantatori, che alla propria gloria fanno anche servir la menzogna. Indi crescendo la sua pazza alterigia, attribuisce alla forza di sua virtù, e a lustro della sua gloria, quanto vi ha di splendido e di grandioso nella sua reggia e nel suo regno, “in domum regni, in robore fortitudinis meæ, et in gloria decoris mei” (Ibid.). Nello stesso, tempo in cui parlando il borioso si pascea di vento, ecco una voce improvvisa discende dal cielo: “a te Nabucco, a te si parla, tu sarai privo di regno, cacciato dalla reggia, e dalla comunanza degli uomini e da strana mania spinto al bosco e alla foresta, abiterai colle fiere, e ti pascerai come bestia irragionevole di fieno e d’erbe selvagge. “Regnum tuum transibit a te, et ab hominibus eiicient te, et cum bestiis et feris habitatio tua, foenum quasibos comedes (Idem). – Fin qui il castigo di questi superbi umiliati è piuttosto nell’ordine delle umane cose, ed è meno a temersi. Quel che deve incutere timore e tremore è lo spirituale castigo, per cui si chiude al superbo il fonte d’ogni grazia celeste. “Deus superbis resistit” (Jacob. IV, 6). Io, dice il Crisostomo, amerei meglio aver tutt’i peccati del mondo coll’umiltà del pubblicano, che le virtù di tutti i santi del cielo con la superbia del fariseo. Con la prima si dileguano tutte le colpe, come neve in faccia al sole: con la seconda si dissipano tutte le virtù, come polvere in faccia al vento. Iddio neppur un istante soffrì nel cielo empireo il superbo Lucifero: la sua superbia da angelo lo fece demonio. Le ruinose cadute degli Eresiarchi s’attribuiscono tutte da S. Girolamo alla superbia. “Hæreticorum mater superbia”. Oltre la perdita inestimabile della grazia e dell’eterna salute, permise Iddio a loro perpetua confusione che cadessero nel fango della disonestà, castigo proprio de’ superbi, che avvilisce lo spirito altero fino ad abbassarlo alla condizione de’ bruti. Così l’Anticristo, che sarà il più superbo degli uomini, sarà altresì’, dice il Profeta Daniele, il più immerso nelle carnali immondezze, “erit in concupiscentiis fæminarum” (Dan XI, 37).

II. A tanto male quale rimedio? Gesù Cristo, dice il Pontefice S. Gregorio, medico celeste, ha prescritto a tutt’i vizi l’opportuno rimedio; agli avari la liberalità, ai disonesti la continenza, agl’iracondi la mansuetudine, e l’umiltà ai superbi. Quest’ultima si distingue in umiltà d’intelletto e umiltà del cuore. L’umiltà d’intelletto è una cognizione del proprio essere, secondo i lumi della ragione e della fede. Per acquistarla basta uno sguardo al passato, al presente, e al futuro. “Semper in mente sabea”, avviso di S. Bernardo, “quid fuisti? quid es? quid eris?” (in for. Honest. vitae). Uno sguardo al passato. Quid fuisti? Che cosa era io venti, trenta, cinquanta, cento anni addietro: un nulla. Senza di me esisteva questo gran mondo. Se Dio s’eccettui, io né pur era nel numero delle cose possibili. Era dunque infinitamente più di me un filo d’erba, un atomo di polvere; dappoiché dall’essere al non essere passa un’infinita distanza. Era io dunque un nulla. Così è, così di sé stesso diceva il reale Profeta, “substantia mea tamquam nihilum ante te” (Ps. XXXVIII, 6); e il nulla di che può gloriarsi, di che può insuperbire? Uno sguardo al presente. Quid es? Che cosa è l’uomo se si separi il prezioso dal vile? Cioè quel che è dell’uomo, e quel ch’è di Dio? In quanto al corpo egli è un composto di quattro tra loro contrari elementi, che per la minima alterazione cagionano in noi tante infermità, tante doglie, tanti malori. Egli è, dice S. Bernardo, un vaso pieno di putredine, “vas stercorum”, un letamaio, di cui non può trovarsi il più vile, “vilius sterquilium numquam vidisti”. La putredine, soggiunge il S. Giobbe, è come il padre che lo genera, la madre che lo nutrisce, la sorella che l’accompagna col seguito di vilissimi vermi, Putredini dixi: Pater meus es: mater mea, et soror mea, vermibus”. (Giob. XVII, 14). Gran cose! Entra qui Papa Innocenzo parlando del disprezzo del mondo, gran cosa! gli alberi producono foglie verdeggianti, fiori odoriferi, gustosi, e l’uomo vili e molesti insetti, putridi umori, flemme stomachevoli, fecce puzzolenti. O vergognosa condizione dell’umana viltà! “O indigna vilitatis humanæ conditio!”(Lib. 8 c. 3). In quanto poi allo spirito, è vero essere egli uno spirito nobilissimo, una immagine viva del suo Creatore, ma questa eccellente prerogativa non è sua propria. Ed oh quanto fu deformata dal peccato originale immagine sì bella! Ferita l’anima nelle sue facoltà, leso restò l’intelletto e propenso all’errore, lesa la volontà ed inclinata al male. Immaginate un serraglio di fiere selvagge, che affamate digrignano, ed alzano ruggiti, e poi dite, tal’è il cuore dell’uomo prevaricato, le cui passioni ne fanno crudo governo. – Sente ora le spinte dell’iracondia, ora gl’impulsi della concupiscenza, quando l’odio l’infiamma, quando l’agghiaccia l’accidia, la superbia lo gonfia, l’invidia lo strugge, l’avarizia lo dissecca. In questo ammasso di tante disordinate pendenze, di tanti brutali appetiti, di che l’uomo potrà invanire, di che gloriarsi? – Uno sguardo finalmente al futuro. “Quid eris”? Che sarà un giorno di questo grande uomo? Già si sa, la morte lo spoglierà di tutto, lo toglierà per sempre dall’umana società, lo getterà a marcire in un sepolcro, ove divorato da schifosissimi vermi diverrà un nudo scheletro, che si ridurrà poi in tanta “polvere da poter capire nel concavo a una mano, e con un soffio di bocca disperdersi per l’aria. “Quid superbis”, si può qui giustamente insultare all’umana alterigia, “quid superbis, terra, et cinis?” (Eccles. X, 9). Ma questo non è il tutto. Verrà tempo in che non si saprà se quest’uomo sia mai stato al mondo, perirà la sua memoria, e cadrà il suo nome in dimenticanza totale e perpetua: “oblivione delebitur nomen eius(Eccli. VI,4). Queste serie riflessioni ben ponderate ci portano all’umiltà di cognizione e d’intelletto. Ma ciò non basta. Anche un Filosofo è capace di quest’umile cognizione di se stesso. All’umiltà dell’intelletto fa d’uopo accoppiare l’umiltà del cuore. Gesù Cristo, come riflette il mellifluo dottore, non ebbe né aver poteva l’umiltà di intelletto, poiché quantunque vero uomo e in sembianza di peccatore, come vero ed eterno Figliuol di Dio, conosceva la sua divina eccellenza e l’infinito suo merito; “sciebat se ipsum”. (Serm. 42 in Cant.) Non pertanto per farsi nostro esemplare si è voluto appigliare all’umiltà del cuore, e di questa s’è fatto e proposto nostro maestro, invitandoci ad imitarlo, “discite a me, quìa mitis sum, et humilis corde”. (Matth. XI, 29). In effetti, Egli volle nascere umile e povero in una capanna, visse umile ed abbietto in una bottega, morì umile ed umiliato sopra una croce; e con queste divine lezioni ed eroici esempi d’estrema umiliazione potrà fra i cristiani trovarsi un superbo? Oh Dio! Cristo umile soffre gl’insulti e i disprezzi, e il cristiano superbo disprezza i suoi simili; Cristo umile nasce, vive e muore da vero povero, il cristiano superbo, a costo dell’anima propria e della sua eterna salute, vuol vivere e morire da malvagio ricco; Cristo umile implora perdono per i suoi crocifissori, il cristiano superbo vuol vendicarsi dei suoi nemici. Che strano diabolico contrapposto è mai questo? Un seguace di Gesù Cristo che fa tutto il rovescio di quanto insegnò e praticò Gesù Cristo, come merita il nome di cristiano, come può sperare di regnare un giorno con Cristo chi col fatto è nemico di Cristo? – Non ci lusinghiamo, miei cari. Quanto è necessario il battesimo per tutti i figli d’Adamo; quanto è necessaria la penitenza per i caduti in colpa mortale, tanto è necessaria 1’umiltà per entrare nel regno de’ Cieli, “nisi effìciamini sicut parvuli, non intrabitis in regnum cælorum” (Matth. XVIII, 3). Colle stesse formule sta espressa nelle divine Scritture questa triplice necessità. A finirla. Tutt’i Beati del Cielo furono tutti umili, cominciando da Gesù Cristo, e dalla sua santissima Madre: tutti gli abitatori dell’inferno tutti i superbi, cominciando da Lucifero, e da’ suoi seguaci. La superbia è quella che danna, l’umiltà è quella che salva. Vedeste il castigo, udiste il rimedio, la scelta sta in vostra mano.

CREDO …

 

 

Offertorium
Orémus
Ps LXXXIV:2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob: remisísti iniquitatem plebis tuæ. [Hai benedetto, o Signore, la tua terra: liberasti Giacobbe dalla schiavitù: perdonasti l’iniquità del tuo popolo.]

Secreta
Devotiónis nostræ tibi, quǽsumus, Dómine, hóstia iúgiter immolétur: quæ et sacri péragat institúta mystérii, et salutáre tuum in nobis mirabíliter operétur. [Ti sia sempre immolata, o Signore, quest’ostia offerta dalla nostra devozione, e serva sia al compimento del sacro mistero, sia ad operare in noi mirabilmente la tua salvezza.]

Communio
Is XXXV:4.
Dícite: pusillánimes, confortámini et nolíte timére: ecce, Deus noster véniet et salvábit nos. [Dite: Pusillànimi, confortatevi e non temete: ecco che viene il nostro Dio e ci salverà.]

Postcommunio

Orémus.
Implorámus, Dómine, cleméntiam tuam: ut hæc divína subsídia, a vítiis expiátos, ad festa ventúra nos præparent. [Imploriamo, o Signore, la tua clemenza, affinché questi divini soccorsi, liberandoci dai nostri vizii, ci preparino alla prossima festa.]

V. Ite, Missa est.
R. Deo gratias.

DIVINITA’ DI GESU’ CRISTO

Divinità di Gesù Cristo.

[G. Bertetti: Il sacerdote predicatore; S.E.I. Ed. Torino, 1919 – impr.]

– 1° Gesù Cristo si rivela Dio nella sua nascita. — 2. Dalle sue parole. — 3. Dalle sue opere. — 4. Nella sua morte. — 5. Nella sua risurrezione.

1°- GESÙ CRISTO SI RIVELA DIO NELLA SUA NASCITA. — Nessun uomo riesce a far parlare di sé, prima della sua nascita … e chi a questo fosse riuscito, non sarebbe più un uomo soltanto, ma un Dio … Gesù Cristo solo fra tutti gli uomini ebbe il privilegio d’aver vissuto prima di nascere nella memoria dell’umanità per lo spazio ininterrotto di quattromila anni:… si fece conoscere, amare, adorare:… non solo presso il popolo giudaico, i cui profeti con tanta profusione ne parlarono, che si direbbe ne abbiano scritta la biografia come di persona già vissuta, … ma anche presso tutt’i popoli della terra, che aspettavano un redentore

– GESÙ CRISTO SI RIVELA DIO DALLE SUE PAROLE. — Gli uomini parlano in nome della giustizia, della scienza, del progresso, dell’umanità … nessuno parla in nome di se stesso;… nessuno si vanta d’essere il perfetto esemplare, degno d’ogni imitazione. Nessun uomo s’è sentito il coraggio di parlare a tutta l’umanità … si parla a una famiglia a una scuola, a un popolo … si parla per un limitato periodo di tempo e non per sempre. Gesù solo ha parlato a tutta l’umanità, senza limitazione di spazio e di tempo;… egli solo ha potuto dire: « Son venuto a portare la verità a ogni uomo; chiunque riceve la mia parola, sarà salvo, chiunque la respinge, sarà condannato… Andate e predicate l’Evangelo a ogni creatura ….. », Solo un Dio può parlare così… Gesù parla e dice: « Io sono il Cristo, il Figlio di Dio: … io e il Padre mio siamo una cosa sola … mio è tutto quello che ha il Padre mio; prima che Abramo ci fosse, io sono … ho posseduto la gloria nel seno del Padre mio, prima che il mondo ci fosse … come il Padre risveglia i morti e li rende alla vita, così il Figlio vivifica quel ch’Egli vuole:….» Gesù non avrebbe potuto proclamarsi in modo più chiaro e in modo più solenne Dio vero e immortale … l’intesero i discepoli che per bocca di Pietro dissero: « Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo »;   l’intesero i Giudei che vollero lapidarlo perché si faceva Dio, » com’essi dicevano, l’intese il gran consiglio della nazione giudaica, che lo condannò a morte come bestemmiatore perché si proclamava Dio. Solo fra tutti gli uomini Gesù Cristo si proclamò Dio apertamente e costantemente: dunque Gesù Cristo è vero Dio. Se ciò non fosse, bisognerebbe ammettere ch’egli fu il più dissennato fra gli uomini nel credersi Dio senza esserlo, … il più scellerato nel proferire la più orribile bestemmia.

3° – GESÙ CRISTO SI RIVELA DIO DALLE SUE OPERE. —

– Gesù Cristo esercitò nell’ordine fisico un’azione veramente divina e illimitata, dimostrandosi padrone assoluto della natura: … cambia l’acqua in vino, … moltiplica i pani, … cammina sui flutti, … calma le tempeste, … guarisce malattie insanabili, . . . risuscita i morti … E tutto ciò con una parola, … con un gesto,… con un segno della sua volontà… E ciò fa al cospetto di tutto un popolo,… al cospetto dei suoi nemici, di cui nessuno osa contestargli la potenza sovrumana e ch’Egli sfida apertamente: « Se non volete, credere alla mia parola, credete almeno alle mie opere, perché le opere ch’io faccio rendono testimonianza di me » Anche i santi fecero dei miracoli, ma operavano come servi di Dio, e semplici servi di Dio si proclamavano;… Gesù invece opera da padrone, opera da Dio, comanda da Dio: « Lo voglio, sii guarito!… Giovanotto, ti dico: sorgi! … Lazzaro, e vieni fuori» Questa potestà sovrannaturale gli è talmente propria da comunicarla ai suoi discepoli: « Nel mio nome cacceranno i demoni, parleranno in lingue sconosciute, leveranno via i serpenti, non sentiranno bracci il mortifero effetto dei veleni, con l’imposizione delle mani guariranno gl’infermi Anzi, chi crederà in me, non solo farà le opere ch’io faccio, ma ne farà ancora delle più grandi » …

– Gesù Cristo operò da vero Dio nell’ordine intellettuale.:… Dio ha dato all’uomo la facoltà di conoscere in modo limitato il presente e il passato; ma s’è riservata a sé la conoscenza del futuro, affinché se qualcuno venisse a noi col dono della profezia potessimo conchiudere che non è l’uomo ma Dio che parla con la sua bocca, e ch’egli è un inviato da Dio o Dio stesso. Molti profeti sorsero prima di Gesù Cristo, ma tutti si professarono soltanto inviati da Dio per annunziare la verità; nessuno si proclamò Dio; … lo stesso Battista, l’ultimo grande profeta, protestò d’essere soltanto la « voce di chi grida nel deserto: preparate la strada del Signore; »… protestò di non essere lui il Messia, ma invece quello Sconosciuto di cui non era degno di sciogliere i calzari Gesù che predisse in modo così preciso e particolareggiato la sua passione e morte, la sua risurrezione, la diffusione dell’Evangelo, la distruzione di Gerusalemme, si proclamò nello stesso tempo Figlio di Dio, Dio come il Padre … dunque Gesù Cristo è Dio Se non fosse Dio, bisognerebbe supporre che Dio stesso avesse posto la profezia in servigio dell’impostura e della bestemmia e che si fosse reso complice nel trascinare il mondo in un errore irrimediabile …..

– Gesù Cristo operò da Dio nell’ordine morale — È umanamente grande quell’uomo, che col suo ingegno s’innalza dal poco o dal nulla alle vette del sapere e delle dignità; … ma farsi piccolo quando si potrebbe essere grande, condannarsi spontaneamente alla povertà, all’oscurità, alla sofferenza suppone una forza morale superiore a quella del cuore umano; … la forza ch’ebbe soltanto Gesù Cristo e ch’Egli seppe comunicare, contrariamente a tutte le idee del mondo, ai suoi discepoli … Lui che sazia miracolosamente migliaia di persone, vive col pane della carità, non ha un giaciglio su cui posare il capo … passa trent’anni di vita nascosta, e nella sua vita apostolica proibisce ai discepoli e agl’infelici da lui beneficati di pubblicare le opere sue stupende, fugge quando vogliono farlo re … va invece esultando verso la passione e la morte …  Gesù Cristo praticò questa povertà, oscurità e sofferenza volontaria, con un entusiasmo superiore a quello onde i mondani vanno in cerca della ricchezza, della fama, dei piaceri … – Solo un cuore divino poteva sacrificarsi tutto a Dio e agli uomini, come fece Gesù …  Si sacrificò alla gloria di Dio, consacrandosi tutto al trionfo della giustizia e della verità, nonostante i disprezzi, gli oltraggi, le fatiche le persecuzioni … dalla Giudea in Samaria, dalla Samaria in Galilea, nelle città e nei villaggi, notte e giorno annunziando il regno di Dio … Si sacrificò alla salute delle anime, insegnando la celeste dottrina, sanando le miserie corporali e spirituali, consolando gli afflitti, sollevando i peccatori, regalandoci il suo sangue e la sua vita … E mentre che noi, solo a costo di grandi lotte con noi stessi, arriviamo ad acquistar la forza necessaria per compiere un sacrificio, Gesù lo fa con tanta calma e semplicità da far chiaramente apparire che in lui la forza del sacrificio è un’emanazione naturale di se stesso e della sua divinità — E solo un uomo Dio poteva estendere a tutta l’umanità il suo sacrificio, abbracciando in un solo amplesso tutti gli uomini, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, Greci e Barbari, Giudei e Gentili. … Il cuor dell’uomo è naturalmente ristretto fra l’amore di se stesso, della famiglia, della patria: e quando cerca di allargarsi oltre questi limiti, se non è attratto da qualche utile, sente la necessità d’un soccorso sovrumano per sorpassare le barriere dell’egoismo … Il cuore di Gesù si dilata all’infinito, senza alcuno sforzo, con un’espansione illimitata e in lui connaturale …

– GESÙ SI RIVELA DIO NELLA SUA MORTE. — Nessun uomo può prevedere come e quando morrà:.., Gesù predice in modo chiarissimo e particolareggiato la sua morte di croce;… e la predice con calma come se si trattasse della cosa più ordinaria… senza lamenti e senza ostentazione — Nessun uomo ha libera la scelta della sua morte:… ma se avesse tale scelta, preferirebbe certo una morte gloriosa a una morte ignominiosa … Gesù fa questa scelta … Gesù solo può dire: «Nessuno può togliermi la vita, ma Io la depongo da me stesso, e son padrone di deporla, e son padrone di riprenderla» (IOAN., 20, 18) … e fin quando non è venuta la sua ora, l’ora da lui voluta, invano i suoi nemici tentano d’ucciderlo … Gesù, supremo dominatore della vita e della morte, non si sceglie una morte placida e soave, non una morte gloriosa, ma la più dolorosa, e la più ignominiosa delle morti … Soltanto un uomo Dio poteva trovare in se stesso la forza di discendere fino a quest’ultimo grado d’umiliazione …

– Solo un uomo Dio poteva conservare nella sua lunga dolorosa passione una pazienza inalterabile, una calma sovrumana; … solo un uomo Dio poteva esclamare sulla croce per i carnefici che l’avevano confìtto: « Padre, perdona loro, perché non sanno ciò che si fanno ».

– GESÙ SI RIVELA DIO NELLA SUA RISURREZIONE (V. Risurrezione).

PERSEVERANZA

PERSEVERANZA

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide ; S.E.I. Ed. Torino, 3a ed. 1930]

1.-Necessità della perseveranza. — 2. Per perseverare ci vuole coraggio. — 3. Motivi di attendere alla perseveranza. — 4. Esempi di perseveranza. — 5. Eccellenza e vantaggi della perseveranza. — 6. Facilità della perseveranza. — 7. Disgraziati quelli che non perseverano! — 8. Mezzi di perseverare.

1. Necessità della perseveranza. — Dopo che Gesù Cristo aveva già detto in particolare della preghiera che « è necessario pregare sempre, cioè perseverare nella preghiera, e non stancarsi mai di pregare » (Luc. XVIII, 1); venne ad una sentenza più generale e disse perentoriamente che « quegli solo andrà salvo, il quale persevererà fino in fin di vita, nella fede, nella pietà, nella religione, nell’adempimento insomma di tutto ciò che costituisce la vita del cristiano » (Matth. XXIV, 13). Perché «chi mette mano all’aratro e si rivolge indietro, non è fatto per il regno dei cieli » (Luc. IX, 62). E con ragione: infatti non è forse l’uomo tenuto a progredire sempre in perfezione? Sì certo: e come potrà egli pervenirvi senza perseveranza? Ricordatevi, dice S. Bernardo, che il cristiano non si obbliga a servire Dio per un anno o per un determinato tempo, come un mercenario; ma per tutta la vita come un figlio; e quindi per quanto corra, non avrà mai il premio, se non corre fino alla morte : e ne ha esempio in Gesù Cristo che fu obbediente fino alla morte.
Ascoltiamo i salutari ammaestramenti che ci forniscono su questo punto gli Apostoli. S. Paolo, per animare i Romani a non più ricadere nel peccato dopo esserne siati mondati col battesimo e con la penitenza, ma a perseverare nel bene, propone loro l’esempio di Gesù Cristo il quale risuscitato una volta da morte, più non muore (Rom. VI, 9); e incoraggiava i Corinzi a mantenersi fermi e saldi, a proseguire anzi più alacri nelle opere del Signore, col ricordare loro che di quanto facessero, Dio nulla avrebbe lasciato senza mercede (I Cor. XV, 58). I Galati ammoniva che stessero nella libertà ricevuta da Cristo, e non si lasciassero più piegare al giogo della servitù del demonio; che non facessero solamente il bene in sua presenza, nè si stancassero qualche volta di farlo, ma fossero sempre zelanti per tutto ciò che vi è di buono (Gal. V, 1) (Gal. VI, 9) (id. IV, 18). – Scongiurava gli Efesini, per le sue catene, che si regolassero in maniera degna della loro vocazione, cioè come figli di luce, perché se altre volte erano stati tenebre, fatti cristiani erano divenuti luce del Signore (Eph. IV, 1) (Id. V, 8). Sì, la vocazione del cristiano è la perseveranza nel bene che egli cominciò a praticare dal punto in cui pose piede nelle vie spirituali. Ma chi cammina, moltiplica i suoi passi, avanza per arrivare alla mèta; voi dunque che avete ricevuto Gesù Cristo, vi dirò col medesimo Apostolo, camminate sui suoi passi, stretti a lui, edificati sopra di lui, e fermi nella fede che vi fu insegnata, ma fermi così ch’ella cresca ogni giorno nella vostra gratitudine (Coloss. II, 6-7). Guardate che nessuno di voi manchi alla grazia di Dio; non lasciate che la stanchezza vi accasci, o la tristezza vi abbatta (Hebr. XII, 15-3). – Crediamo rivolto ad ognuno di noi in particolare quel comando di San Paolo a Timoteo: « Ti ordino innanzi a Dio che tutto vivifica, e innanzi a Gesù Cristo, di osservare questo precetto immacolato e irreprensibile, fino alla venuta del Signore; perchè chi combatte nell’arringo, non è coronato se non ha combattuto come deve » (I Tim. VI, 13-14) (Il Tim. II, 5). – « Voi dunque, o fratelli miei, vi dirò con S. Pietro, che avete conosciuto il bene, custoditelo gelosamente, perchè non vi accada di scadere dalla vostra fermezza; ma crescete nella grazia e nella conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo » (II Petr. III, 17-18). « Conservatevi nell’amor di Dio », vi dirò con S. Giuda. « Mantenetevi fedeli fino alla morte », vi ripeterò con S. Giovanni (Apoc. II, 10). « Ricordatevi di quello che avete udito e ricevuto, e osservatelo per modo che chi è giusto lo divenga di più; chi è santo, diventi più santo » (Id. III, 3) (Id. XXII, 11). – « Tenetevi fermi dinanzi al Signore », inculcava Samuele al popolo ebreo (I Reg: X, 19). « Sta saldo a tuo luogo, dice a ciascun uomo il Savio, e persevera nell’invocazione dell’altissimo Iddio » (Eccli. XVII, 24). Ben comprendeva questa necessità della perseveranza il Salmista il quale diceva a Dio: « Assodate i miei passi per la strada che conduce a voi, affinché non mi avvenga di barcollare » (Psalm. XVI, 5).

2. Per perseverare ci vuole coraggio. — Tutte le frasi che adopera nella Santa Scrittura lo Spirito Santo, quando parla di perseveranza nel bene, accennano a fortezza, a coraggio, a lotta, a combattimento, a sforzi, a fatiche : « Noi ci sforziamo di piacere a Cristo », confessava di sé l’Apostolo delle genti (II Cor. V, 9); e scrivendo a Timoteo lo confortava che combattesse il buon combattimento della fede, e s’impadronisse della vita eterna alla quale era chiamato (I, VI, 12); altra volta lo esortava a fortificarsi nella grazia della perseveranza che è in Cristo Gesù (II, II, 1).
« Una pietra quadrata, scrive S. Agostino, da qualunque parte si volti, si ferma e sta; così dev’essere del cristiano; egli deve temprarsi ed acconciarsi ad ogni tentazione in modo che per nessun urto cada, per nessun assalto crolli, ma si trovi saldo in ogni circostanza ». Il levriere che scorge la lepre, la insegue tra selve e spine e burroni, né cessa di correre finché non l’abbia presa. Ecco l’immagine del cristiano che aspira alla vita eterna… – Fratelli miei, scriveva S. Paolo ai Filippesi, io cammino verso la mèta che mi fu assegnata dal Signore Gesù Cristo. Non penso affatto di averla raggiunta, ma solamente, obliando quello che mi sta dietro e spingendomi a quello che mi sta dinanzi, tendo al termine, alla ricompensa celeste che Dio mi destina in Cristo Gesù. Noi tutti dunque che vogliamo essere perfetti, siamo di questo sentimento (Philipp. IlI, 12-15). L’Apostolo esamina, non dove è giunto, ma quello che gli resta di via da percorrere, per giungere al cielo. E si sforza e suda per tendere alla vita eterna, dimenticando tutto il resto… « Beati quelli, dice a questo proposito S. Gerolamo, i quali non riposando su le opere di giustizia per lo innanzi fatte, ogni giorno, a imitazione dell’Apostolo, si rinnovano e progrediscono in virtù: poiché la giustizia non giova al giusto dal giorno in cui egli cessa di essere tale. Santità è, non cominciare ma finire ». Quindi S. Cipriano, scrivendo ai martiri, così li esortava: «Se il combattimento vi chiama, se il giorno della battaglia è giunto, combattete da valorosi, lottate con perseveranza: ben sapendo che vi battete sotto gli occhi del Signore, che i generosi vostri sforzi sta considerando ».
La moglie di Lot fu cambiata in una statua di sale, non appena fermò il piede e si voltò indietro : per significarvi che vera sapienza è progredire, dannosa follia è arrestarsi o indietreggiare… Serva questo esempio a incuterci un salutare spavento, mentre ci dà un utile ammaestramento. Il cristiano è raffigurato in quel cavaliere che fu veduto da S. Giovanni nell’Apocalisse, montare un bianco cavallo e partire vincitore con nella destra un arco e in capo una corona, per vincere ancora (Apoc. VI, 1-2). Egli deve, come la Sposa dei Cantici, levarsi la notte, percorrere la città, cercare colui che è l’amore dell’anima sua; cercarlo per le contrade e per le piazze; e trovatolo afferrarlo, stringerlo, abbracciarlo così stretto che non l’abbandoni mai più (Cant. III, 2-4). – « Sta nel luogo, nell’uffizio che ti è toccato e continua nella preghiera », ci dice lo Spirito Santo (Eccli. XVII, 24). Questa parola sta, dimora, sii fermo, significa: 1° la lotta che si deve sostenere contro i nemici per perseverare… ; 2° il coraggio, l’energia con cui si deve combattere per ottenere la perseveranza … Sta, tienti saldo; resisti generosamente; non cedere, non indietreggiare; solo in questo modo tu persevererai… – I soldati, sul campo di battaglia, resistono, combattono con eroico valore; tuttavia qualche volta sono vinti dai nemici. Ma i soldati di Gesù Cristo, se si tengono fermi, sono sempre vittoriosi; poiché nessuno può rapire loro la virtù e la perseveranza nella virtù; nessuno, eccetto la loro propria volontà… Essi si mostrano quali li dipinge S. Cipriano, irremovibili in mezzo alle torture, più forti dei carnefici; e le loro membra scerpate, slogate, peste, resistono alle verghe, ai graffi, alle lame ardenti. Il più lungo e atroce supplizio non può vincere la loro fede; e quando non possono più servire Dio con i loro corpi, perché esanimi, non cessano di servirlo con le loro ferite (De Martyr.)… Sta, invincibile e perseverante contro il demonio, le tentazioni, il mondo, la carne. – Entrate a parte della felicità dei Santi, vi dirò con l’Ecclesiastico, per mezzo delle buone opere; studiatevi di progredire ogni giorno in virtù, perchè entriate nel numero di quelli che vivono e danno gloria a Dio; andate al cielo, vivete per l’eternità (Eccli. XVII, 25). Fruttificate come rosai piantati presso un ruscello (Eccl. XXXIX, 17). Crescete, moltiplicate le vostre virtù, spiegatele; siate fecondi in foglie, in fiori, in frutti di carità, di pazienza, di umiltà, di soggezione, di modestia, di purità, e di ogni virtù… « Studiate a divenire migliori di giorno in giorno, dice S. Basilio; progredite nelle virtù, affinché vi accostiate sempre più agli angeli e diveniate simili a loro ».

3. Motivi di attendere alla perseveranza. — « Io proseguo, dice l’Apostolo, per arrivare allo scopo » (Philipp. Ili, 12). Queste parole cosi spiega il Crisostomo: Io ho tuttavia una vita piena di combattimenti; mi trovo ancora lontano dalla mèta, sono poco avanzato nella corsa. Il grande Apostolo usa il verbo perseguito anziché corro; perchè colui il quale anela dietro un oggetto, se lo fa con ardore, non bada a persona, supera coraggioso ogni ostacolo, v’intende gli occhi, il cuore, il corpo, le forze, l’anima tutta; non pensa ad altro, ma tutto si volge ad ottenere il suo fine (In Verb. Apost.). – « Ecco che io vengo presto, dice il Signore nell’Apocalisse; e porto con me la mercede, per ricompensare ciascuno a ragione delle opere sue » (Apoc. XXII, 12). « Mantenetevi dunque fedeli fino alla morte, ed io vi cingerò la corona di vita» (Apoc. II, 10). « Badate a tenervi ben custodito ciò che avete, affinché non sia data ad altri la vostra corona » (Id. IlI, 11). – Regoliamoci in modo, secondo l’avviso di S. Paolo, che guadagniamo sempre meglio (I Thess. IV, 1). Perché parola certa e degna di fede è questa, che se noi moriamo con Gesù Cristo, vivremo con lui.; se con lui duriamo nei patimenti, con lui regneremo (II Tim. II, 11-12). Noi conserveremo mirabilmente l’acquisto fatto, se studieremo del continuo ad acquistare; invece vedremo diminuire e andare in fumo quello che possediamo, se cessiamo dall’aggiungervene. Come stanno bene su le labbra del cristiano quei detti della Sposa dei Cantici: «Mi sono spogliata della tunica, forse che la vestirò di nuovo? Ho lavato i miei piedi, come mai li imbratterò ancora? » (Cant. V, 3). « Perseveriamo adunque, se vogliamo essere coronati, conchiuderò col Crisostomo; perché nobile ricompensa non può mancare a chi segue il Signore » (In Verb. Apost.) (Homil. VIII); e con Fausto, vescovo di Reims: siamo perseveranti nel servizio di Dio, avendo di mira l’eterna mercede e adoperiamoci a sempre fare meglio ogni giorno. Il desiderio di raggiungere la corona e l’abitudine del bene ci portino a sempre crescere in meriti (In Vita).

4. Esempi di perseveranza. — Gesù Cristo durava le notti intere nella preghiera (Luc. VI, 12). S. Paolo non cessava notte e giorno dall’ammonire con lacrime ciascuno in particolare dei fedeli (Act. XX, 31); e già allora vedeva tanti esempi di Cristiani fermi e costanti nella pratica del bene, che poteva dire agli Ebrei : « Accerchiati da un nuvolo tale di testimoni, deponiamo ogni peso ed ogni peccato, e corriamo con pazienza di carriera per l’arena che ci è aperta » (Hebr. XII, 1). Di S. Barnaba nota il sacro testo, che « esortava tutti i fedeli a perseverare con animo saldo nel Signore » (Act. XI, 23). E tanto valevano presso quei fervidi cristiani le apostoliche esortazioni, che di loro in generale può attestare S. Luca, che « erano perseveranti nella dottrina degli Apostoli, nella partecipazione del pane che loro veniva distribuito, e nella preghiera » (Act. II, 42). – Bisogna fare per la conservazione e l’acquisto della grazia e della virtù, quello che fa l’avaro per l’oro, e imitarne la perseveranza. Oh felici noi! felice il mondo! se si potesse rendere di ogni cristiano quella testimonianza che di S. Agata rendeva Afrodisio, al tiranno Quinziano: « Sarebbe più facile ammollire i macigni e il diaspro, cambiare il ferro in piombo, anziché cambiare l’animo di Agata, e sviarla dall’amore di Gesù Cristo e dal proposito della castità» (In Vita); se su la tomba di ciascun fedele si potesse incidere l’elogio che fece di Tobia lo Spirito Santo : « Stette immobile nel timor di Dio, rendendogli grazie tutti i giorni del viver suo » (Tob. II, 14). – Così era Davide il quale poteva dire: « Signore, io non ho abbandonato la vostra legge; ma perseverava tra i miei, nella innocenza del mio cuore » (Psalm. CXIII, 87) (c. 2). Tale era Giobbe che esclamava: Finché avrò un filo di vita, le mie labbra non proferiranno parola men che retta, la mia lingua non pronunzierà menzogna, praticherò l’innocenza, non devierò mai di un passo dalla giustizia (Iob. XXVII, 3-6).

5. Eccellenza e vantaggi della perseveranza. — S. Bernardo fa questo elogio della perseveranza: «La perseveranza è il vigore delle forze, la consumazione della virtù, la nutrice dei meriti, la mediatrice delle ricompense, la sorella della pazienza, la figlia della costanza, l’amica della pace, il nodo della carità, il legame dell’unanimità, la cittadella della santità. Togliete la perseveranza, e l’obbedienza non ritrae più premio, il benefizio perde la sua grazia, il coraggio non merita più lode. Solo alla perseveranza si concede l’eternità, meglio, è essa che restituisce l’uomo all’eternità, dicendo il Signore: Chi persevera fino alla fine, sarà salvo ». « La perseveranza, scrive il medesimo Dottore, è la figlia prediletta del gran re, il frutto e il compimento delle virtù, l’arca che contiene ogni bene. E tale virtù, senza la quale nessuno vedrà Dio, nè sarà veduto da Dio, è il termine della giustizia per ogni credente: infatti che cosa giova il correre, e poi stancarsi ed arrestarsi prima di toccare la mèta? Corriamo in modo che arriviamo al premio! ». – Le più munite fortezze cedono agli sforzi di un assedio perseverante… La perseveranza è più potente che la forza; anzi è essa una forza ed una potenza irresistibile… Senza la perseveranza, dice S. Lorenzo Giustiniani, né chi combatte, vince; né chi vince, ottiene la palma. Solo la perseveranza merita la corona della felicità eterna; che più? questa corona le appartiene… – Basti ricordare a questo proposito il fatto della donna cananea e la parabola di colui che va la notte a chiedere tre pani ad un amico. Quella supplica a calde lacrime il Redentore che abbia pietà di lei, e Gesù non la degna di una parola: si prostra per terra e grida: Signore, soccorretemi, e Gesù la rimprovera dicendole che non bisogna gettare ai cani il pane dei figli. La donna non si perde di coraggio, ma con perseveranza nella preghiera volge a suo vantaggio il paragone, facendo osservare al Redentore che se ai cani non si dà il pane, ben si gettano le briciole e gli avanzi della mensa. E questa perseveranza le vale, oltre una perfetta guarigione, un magnifico elogio dalla bocca del divin Maestro: Grande è la tua fede, o donna! (Matth. XV, 22-28). E colui che si vede arrivare nel cuore della notte, mentr’egli è in letto coi chiavistelli alle porte, un amico che gli chiede del pane, non è vero che se, dopo di averlo mandato due o tre volte con Dio, l’altro non si parte, ma continua a chiedere e bussare, egli finisce col levarsi su e, se non in riguardo dell’amicizia, per togliersi almeno la seccatura, dà all’importuno quello che gli bisogna? (Luc. XI, 5-8). Poteva la Sapienza incarnata metterci più vivamente sott’occhio l’eccellenza e l’umiltà della perseveranza? – Perché, osserva qui S. Agostino, colui che è coricato, si alza per dare a chi picchia alla sua porta? Perché questi non cessa dal bussare, perché non ottenendo nulla in su le prime, persiste a domandare. Colui che non voleva dare, vi si risolve alfine, perché il suo amico continua e non si offende del rifiuto. Ora come vorrete che Dio il quale è così buono, Dio che ci esorta a domandare, e si offende se non domandiamo, come vorrete, dico, che non ci dia tutto e più ancora di quello che domandiamo, se perseveriamo! (In Verb. Domini). Questa violenza piace a Dio, ce ne assicura Tertulliano (De Orat.). – Gesù, salito su la nave di Pietro, gli ordina di spingersi in alto mare e di gettare le reti per la pesca. Simone gli fa osservare che già per tutta la notte si erano affaticati indarno, ma che tuttavia fidente nella sua parola non ricusava di rimettersi all’ingrato lavoro : e gettate infatti le reti, le ritirarono tanto piene di pesci, che dovettero chiamare aiuto e poco mancò non si squarciassero (Luc. V, 3-6). Perché questa pesca miracolosa? Per due ragioni : 1° perché avevano continuato tutta la notte a pescare, ancorché loro non venisse fatto di prendere nulla; 2° per la pronta obbedienza di Pietro a ripigliare il lavoro… Qui si adatta la sentenza di Seneca: « Non vi è cosa né cosi ardua, né così sublime che una perseveranza solerte, forte, irremovibile non giunga a conquistare. Molto in alto sta la vita beata, ma la perseveranza la raggiunge. È vergogna soccombere vilmente sotto il peso, e contrastare col proprio dovere. L’uomo forte e animoso non scansa la fatica; la difficoltà dell’impresa gli infonde coraggio anziché togliergliene ». – L’apostolo S. Giacomo ci assicura che colui il quale tiene fisso lo sguardo nella legge perfetta di libertà e vi persevererà, senza dimenticare quello che ha inteso, ma operando secondo la legge, questi sarà beato ne’ suoi fatti (Iacob. I, 25). Anche Gesù aveva detto : « Se dimorate in me, e le mie parole dimorano in voi, voi domanderete tutto quello che vi gradirà, e l’avrete » (Ioann. XV, 7). Chi poi dimora, cioè sta fermo, persevera in Gesù Cristo, costui non pecca, dice il medesimo Apostolo. Ora chi è che si tiene saldo in Gesù, e in cui Gesù dimora? è colui che ne osserva i comandamenti (I Ioann. IlI, 6, 24). Queste parole suggerirono al Venerabile Beda la seguente esortazione: « Sia Iddio la casa vostra, e siate voi la casa di Dio. Dimorate in Dio, e Dio dimori in voi. Dio abita in voi per contenervi nella perseveranza; voi abitate in Dio per non cadere ». – Molti altri preziosi e nobili vantaggi della perseveranza accenna Iddio nell’Apocalisse: « Chi vincerà, mediante la perseveranza, non vedrà la seconda morte » (Apoc. II, 11); cioè egli sarà esente dal peccato che separa l’anima dalla sua vita, che è la grazia di Dio. La prima morte è quella che percuote il corpo nella vita presente; la seconda morte è quella che percuote l’anima nel tempo, e quindi il corpo e l’anima nell’eternità. In altro luogo fa annunziare che al vincitore egli darà una manna sconosciuta ed una pietruzza candida nella quale sta scolpito un nome nuovo, che nessuno conosce, eccetto colui che lo riceve (Id. II, 17). Ora assicura che chi avrà vinto sarà vestito di bianchi lini, non vedrà mai il suo nome cancellato dal libro dei viventi, ed egli, Gesù, lo confesserà per suo innanzi al Padre ed agli Angeli suoi : anzi lo farà sedere accanto a sè sul suo medesimo trono; come egli stesso, avendo vinto, si è assiso sul trono con suo Padre (Id. III, 5-21). Altrove dice che del vincitore ne farà una colonna che starà in eterno nel tempio del suo Dio, che scriverà sopra di lui il nome del suo Dio e il nome della città di Dio, della nuova Gerusalemme che discese dal cielo da Dio e finalmente il nome suo (Id. III, 12). Quanti vantaggi, quante ricchezze, quanta felicità, quanta gloria per quelli che trionfano per mezzo della perseveranza! Essa racchiude adunque tesori infiniti… – Quando Dio vede una generosa perseveranza, immantinente colma l’anima di favori celesti; e più vede fedeltà e fervore, più egli abbonda in grazia ed in gloria, secondo quelle sue parole : « Sarà dato a colui che già ha, ed abbonderà » (Matth. XIII, 12). Poiché la grazia nasce dalla grazia, i progressi aiutano i progressi, i meriti fanno scala ai meriti, i trionfi procurano trionfi; di modo che più uno si adopera ad acquistare ed a perseverare, e più si arricchisce di virtù; più attinge di sapienza alla sorgente della sapienza, e più desidera attingerne. Affrettiamo il passo, cerchiamo, domandiamo, desideriamo, picchiamo fino alla fine, acciocché ci sia dato rallegrarci e godere senza misura e senza fine. Diciamo a Dio col Salmista: « Noi non ci allontaniamo più da te; tu ci renderai la vita e noi invocheremo il tuo nome: e l’anima nostra vivrà sempre per te » (Psalm,. LXXIX, 19) (Psalm. XXI, 30). « Felice l’uomo che a te si appoggia, che da te aspetta il suo soccorso! Egli traversa le sabbiose valli della morte; vi trova sorgenti di acqua viva; le piogge le fecondano; accresce del continuo la sua forza, finché giunge in presenza del Signore su la montagna di Sionne » (Psalm. LXXXIII, 6-8). Diciamogli anche con Salomone: «O Signore, Dio d’Israele, voi conservate l’alleanza e la misericordia ai vostri servi che camminano con perseveranza e con amore innanzi a voi » (III Reg. VIII, 23).87.

6. Facilità della perseveranza. — Certamente, se soltanto dagli sforzi dell’uomo dipendesse il perseverare nel bene, sarebbe cosa non solo difficile, ma superiore alle sue forze; ma quando al buon volere dell’uomo si unisca l’aiuto di Dio, diventa impresa facile e leggera. Ora non vi è pagina nella Scrittura santa che non ci prometta e ci assicuri questo soccorso : « Fedele è quel Dio che vi ha chiamati, scriveva S. Paolo, ai Tessalonicesi, ed egli medesimo verrà in vostro aiuto, vi conforterà e stabilirà e custodirà dal male, purché voi non cessiate per parte vostra di esercitarvi nel bene. Ah sì! noi confidiamo nel Signore, che quanto vi comandiamo, voi lo adempite e l’adempirete » (I Thess. V, 24) (II Thess. IlI, 2) (Id. 13) (Id. 4). – Rammentiamo sempre che Dio è fedele e che non permette che siamo tentati oltre le nostre forze; ma quando la tentazione ci assale, egli la tiene in tali confini, che torna facile, a chi vuole, il superarla (I Cor. X, 13). Prendiamo dunque vigore nella grazia che è in Cristo Gesù; lavoriamo, sopportiamo le fatiche della perseveranza, come valorosi soldati di Gesù Cristo (II Tim. II, 1) (Id. 3). – Di coloro che perseverano, leggiamo nella Sapienza che riceveranno il regno di gloria e il diadema di onore dalla mano del Signore; il quale li coprirà con la sua destra e li difenderà col suo braccio onnipotente: li guarderà dai nemici, li difenderà dai seduttori; li prova con dure battaglie per renderli trionfanti, e loro mostra qual è il valore della sapienza : non li abbandona neppure tra le catene, finché loro non abbia rimesso lo scettro e la potenza reale; paga ad essi il prezzo dei loro lavori, li guida per una via meravigliosa; fa a loro ombra di giorno, e luce di notte (Sap. V, 17; X, 12, 14, 17). – Affinché perseverino nelle vie della giustizia, Dio veglia su quelli che lo amano, dicono i Proverbi (II, 8), e il Signore medesimo ci esorta per bocca del Savio, a combattere per la giustizia, a cagione dell’anima nostra; ma combattere fino alla morte; e Dio sbaraglierà per noi i nostri nemici (Eccli. IV, 33). Alla perseveranza può applicarsi quello che di sè afferma la Sapienza: « Chi si ciba di me, avrà ancora fame; chi beve al mio fonte, avrà ancora sete » (Eccli. XXIV, 29); perché la pena che prova in sul principio chi si dà al bene, gli si cambia, se persevera, in facilità, gioia, felicità, allegrezza… Quando un cristiano comincia a vivere bene e a consacrarsi con fervore alle buone opere, a calpestare il secolo, i cristiani tiepidi e rilassati si burlano di lui, dice S. Agostino; ma se egli persevera, se si mostra superiore a loro con la pazienza, finisce col vedere coloro medesimi che lo canzonavano, mettersi a poco a poco dietro di lui e seguirlo (In Psalm.). . Ben conosceva questa consolante verità il profeta Abacuc, il quale esclamava : « Dio è la mia forza; egli darà a’ miei piedi la velocità del cervo; e mi condurrà, trionfando in vece mia, nelle altezze, mentre inneggerò alla sua gloria » (Habac. IlI, 19). « Siano grazie a Dio, dice S. Paolo, il quale ci fa sempre trionfanti in Gesù Cristo » (II Cor. II, 14).

7. Disgraziati quelli che non perseverano! — A quanti cristiani si può applicare la parola di Gesù: « Quest’uomo ha cominciato a fabbricare, ma non ha potuto terminare » (Luc. XIV, 30). Chi comincia a servire Dio e non persevera, chi volge indietro lo sguardo, è come un edilizio cominciato e non terminato, sul quale non fu posto il tetto; si sfascia a poco a poco, si sgretola, e finisce per cadere affatto in rovina. Perciò quando Gesù guariva qualche malattia, o corporale, o spirituale, sempre diceva ai guariti : Andate, non peccate più, ma perseverate nella sanità dell’anima, affinché non v’incolga di peggio (Ioann. V, 14). Assolse la donna adultera quando seppe che nessuno dei suoi accusatori l’aveva condannata, ma le raccomandò di non più peccare (Ioann. VIII, 10-11). – Quando uno spirito immondo esce cacciato via da un uomo, va errando per luoghi aridi in cerca di riposo, e non trovandone, dice tra sé: Ritornerò là di dove sono uscito e venendo trova la casa scopata, pulita, sgombra e ornata. Allora se ne va a prendere sette altri spiriti peggiori di lui e con questi entra nella casa; e l’ultimo stato di quest’uomo è molto peggiore del primo (Matth. XII, 43-45). – Vi è forse disgrazia più terribile e più grave di quella di essere dichiarato inetto al regno dei cieli? Ora questo appunto affermò il Verbo divino in termini formali, di chi non persevera nel bene, non continua nella retta via : « Nessuno che mette mano all’aratro, disse Gesù, e si volge a guardare indietro è fatto per il regno dei cieli » (Luc. IX, 62). Considerate quello che avvenne alla moglie di Lot, affinché non abbiate da provare l’effetto di quella terribile sentenza del Signore: « Maledetto colui che non sta saldo nei precetti della mia legge e che non ne adempie le opere! » (Deuter. XXVI, 26). – Saullo aveva cominciato bene, ma non la durò e si perdette… Salo-mone aveva cominciato con ottimi principi, non si tenne fermo, e terribile dubbio lascia la Scrittura su la sua salvezza… Aveva cominciato bene Sansone, ma non perseverò, e i Filistei lo accecano, lo costringono a girare, come giumento, una macina; ne fanno il loro ludibrio, l’oggetto dei loro scherni… La Scrittura dice che il giusto è immutabile come il sole, mentre l’insensato è come la luna (Eccli. XXVII, 12). – S. Bernardo deplora la misera condizione di un giovane che aveva egregiamente cominciato, ma poi si era intiepidito, aveva guardato indietro ed era caduto in gravi eccessi. « Amaramente di te mi dolgo, o figlio mio, indicibile è il dolore che per causa tua io provo, o Goffredo. E chi infatti non si rattristerà vedendo il fiore della tua giovinezza, già da te offerto a Dio in odore di soavità, alla presenza degli Angeli che tripudiarono di gioia, ora calpestato dai demoni, lordato delle immondezze del secolo corrotto? Come mai, tu che eri chiamato da Dio, ora segui il demonio che a sé ti richiama? Come mai hai potuto, dalla sequela di Cristo, al quale or ora ti eri dato, rivolgere il passo addietro, e ritrarre il tuo piede dalla soglia della vera gloria? ». – Dal fonte battesimale parte la strada la quale mette capo al cielo; e per perseverare in questa via divina si rinunzia anticipatamente agli ostacoli che s’incontrano nel viaggio; si rinunzia solennemente al demonio, al mondo, alle sue pompe e alle sue opere; là il cristiano si obbliga, in faccia al cielo e alla terra, a vivere e morire per Gesù Cristo; cioè prende formale impegno di perseverare nel bene e allontanarsi dal male. Perciò colui il quale ha la disgrazia di non continuare per il retto cammino, dimentica, trascura, calpesta tutte queste risoluzioni. Allora succede uno sconcerto generale, una deplorabile confusione. Ecco colui che aveva rinunziato al demonio e al mondo, al vizio, alle cattive inclinazioni, al peccato, colui che aveva fatto giuramento di non seguire mai altri, né di servire ad altri che a Gesù Cristo, divenirgli infedele, volgergli le spalle, disprezzarlo e aborrirlo. Rinnega Gesù, abbraccia Barabba.  E furfanti più insigni di Barabba, il demonio e il mondo, gli tolgono tutto ciò che ha di prezioso, grazia, virtù, merito e gloria. Allora si grida come gli Ebrei deicidi al tempo della passione: « Non vogliamo che Gesù regni sopra di noi » (Luc. XIX, 14). Allora si ripete l’infame azione di Giuda che diceva ai principi dei sacerdoti : « Che prezzo mi offrite? ed io ve lo darò nelle mani » Matth. XXVI, 15). Satana, mondo, passioni, concupiscenza, che volete voi darmi? ed io vi consegno l’innocenza del mio battesimo, le mie promesse, i miei voti, la mia anima, la mia salute, la mia corona, la mia gloria, il mio Dio, la mia eternità! Ah! grande purtroppo è il numero di coloro che non perseverano! e piccola è la squadra di coloro che hanno la fortuna di toccare al termine della perfezione! « È di molti l’incamminarsi bene, ma di pochi l’arrivare alla vetta » (Sup. Matth.). Questa sentenza di S. Gerolamo serve di commento a quell’altra del Vangelo : « Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti » (Matth. XX, 16).

8. Mezzi di perseverare. — 1° Chi vuol durarla fino al fine, bisogna che abbia sempre sotto gli occhi il fine. 2° Stare vigilante : « Veglia su di te affinché non cada», dice il Savio (Eccli. XXIX, 27). « E chi si crede di stare saldo; badi di non cadere », dice S. Paolo (1 Cor. X, 12). Chi si è già avanzato per la via del cielo, cammina carico d’oro, deve perciò guardarsi attentamente dai ladri (Hyeron. Epist.). 3° Applicarsi alle cose di Dio. Di Maria Vergine, nota il Vangelo, che raccoglieva attenta, conservava e meditava tutto ciò che sentiva dirsi dai pastori e dagli altri testimoni della nascita di Gesù Bambino (Luc. II, 19). 4° Vivere tutti i giorni come se ogni giorno cominciasse l’opera della salute, o come se fosse l’ultimo della vita, e come vorremmo essere vissuti al punto di morte. 5° Lavorare alla presenza di Gesù Cristo e in sua compagnia. 6° Osservare fedelmente la legge di Dio : « Se la vostra legge, o Signore, confessava il Salmista, non fosse stata la mia continua occupazione, io già sarei perito » (Psalm. CXVIII, 92). 7° Camminare alla presenza di Dio e dei suoi Angeli: « Sia felice il vostro viaggio, disse Tobia; Dio sia con voi nel cammino, e l’angelo suo vi accompagni »  (Tob. V, 31). 8° Rammentarsi che Dio non muta e imitarlo (Malach. IlI, 6). 9° Tenersi strettamente aggrappati alla roccia incrollabile della Chiesa cattolica, apostolica, romana… [la “vera” Chiesa attualmente in esilio -ndr.-] Chi vuole davvero perseverare, deve : 1° riposare l’anima sua in Dio; 2° amare Dio con tutto l’affetto; 3° bramare ardentemente di progredire nella virtù; 4° considerare quanto grandi opere si possono fare da chi ha la volontà ferma e perseverante; 5° non dimenticare mai che brevi sono tutte le pene ed eterna la ricompensa; 6° invocare l’arcangelo Gabriele, che è l’Angelo della costanza e che è chiamato : Fortezza di Dio. 5° non dimenticare mai che brevi sono tutte le pene ed eterna la ricompensa; 6° invocare l’arcangelo Gabriele, che è l’Angelo della costanza e che è chiamato: Fortezza di Dio.

DUPLEX

DUPLEX

Posto dell’ufficio dei Santi a fianco dell’ufficio feriale o domenicale. –

[R. Aigrain: “Enciclopedia liturgica” – Ed Paoline, Alba; 1957 – pp.537-538]

Per lungo tempo la differenza di origine dei due uffici, ufficio del tempo ed ufficio dei santi, si manifestò nella maniera di recitarli.

1) Dapprima, l’ufficio dei santi, nato sulle tombe dei martiri, per conseguenza fuori delle grandi basiliche, fu per lungo tempo fedele alla sua tradizione di ufficio cimiteriale; esso si sovrapponeva all’ufficio feriale o domenicale; invece di sostituirsi o di incorporarsi ad esso, come avvenne in seguito, si limitò ad aggiungersi al primo. – Ancora nel IX secolo, queste doppie vigilie esistevano in certe feste maggiori come quella di S. Pietro e Paolo, di S. Andrea, di S. Lorenzo, della Assunzione, di S. Giovanni Battista; erano totalmente scomparse a Roma nel secolo XIII: non resterà che l’espressione liturgica, altrimenti inesplicabile, di festa doppia o ufficio doppio, duplex.

2) Verso il 754, questo secondo ufficio cominciò a fondersi nel grande ufficio quotidiano. Amalario, analizzando l’antifonario di Corbia, inviato da Papa Adriano, segnala ancora due uffici alla vigilia delle grandi feste, l’uno al cadere della notte, senza invitatorio, senza Alleluja, al quale il popolo non assisteva; l’altro a mezzanotte, con invitatorio, al quale i fedeli sono invitati: « io penso, scrive il Batiffol, che l’ufficio celebrato senza invitatorio al cadere della notte, fosse l’ufficio proprio del santo, la vigilia; e l’ufficio con l’invitatorio, celebrato a mezzanotte, fosse l’ufficio feriale trasformato poi in ufficio del Santo »

3) Esisteva quindi una specie di compromesso fra i due uffici senza che si possa dire con esattezza in che cosa consistesse; è probabile che nelle feste semplici, come si pratica tuttora, i salmi fossero della feria, le lezioni invece fossero del Santo; nelle feste più solenni l’ufficio del santo era di nove salmi e nove lezioni, come nelle feste di Nostro Signore a Natale,- all’Epifania, alle Ascensione; i salmi che dovevano formare il comune si riferivano al Santo; le lezioni erano prese, almeno in parte, dalla sua vita; così pure il testo delle antifone, dei responsori, dei versetti. Infine, l’ufficio dei santi prese completamente il posto dell’ufficio feriale, il quale veniva così soppiantato man mano che le feste dei santi si moltiplicavano e queste aumentarono soprattutto quando, all’ufficio delle ferie o delle feste semplici, si aggiunse l’obbligo di recitare il Piccolo ufficio della B. Vergine e l’ufficio dei morti. – Era lasciata grande libertà nell’accettare o meno una festa e nella scelta dell’ufficio; ogni chiesa, ogni monastero seguiva la propria devozione e non tutti i santi iscritti nel calendario venivano necessariamente celebrati. – Alla fine del IX secolo, tuttavia, « l’ufficio romano nel suo insieme, che abbiamo descritto, era giunto ad uno stato di perfezione tale, che non essere né superato né conservato… Opera anonima formatasi lentamente, opera singolare in cui viveva l’anima di Roma! Roma infatti vi aveva messo il meglio della sua letteratura e della sua storia: il suo salterio, la sua Bibbia, i suoi martiri. Vi aveva impresso il suggello della sua pietà lineare e semplice, più storica che sottile; della sua estetica, rimasta sensibile alle composizioni sobrie, vaste ed armoniose; della sua lingua concisa, chiara, concreta, fatta di termini biblici e ben ritmata. Essa vi aveva infine e soprattutto messo il suo canto » (Batiffol). I cambiamenti successivi non faranno che appesantirlo, e tutte le riforme, in ciò che avranno di saggio, consisteranno nel ricondurlo alla forma che ebbe in questa epoca.

DIVORZIO CRISTIANO – IL MAGISTERO IMPEDITO DI GREGORIO XVII

GREGORIO XVII –

IL MAGISTERO IMPEDITO:

DIVORZIO CRISTIANO?

[«Renovatio», V (1970), fasc. 2, pp. 165-166.]

Si è udita qualche voce che parla di un «secondo» matrimonio cristiano. Che sarebbe mai un secondo matrimonio cristiano? Niente altro che la dissoluzione del primo. Affermare un secondo matrimonio cristiano è affermare la legittimità del divorzio, cioè lo scioglimento non solo del matrimonio basato sul semplice diritto di natura, ma anche di quello che è Sacramento. – Ma il matrimonio cristiano non è dissolubile per sé: lo scioglimento dei matrimoni rati non consumati e quello operato dal privilegio paolino non costituiscono, come è noto, eccezione a questo principio. Non c’è posto per un «divorzio cristiano». – Naturalmente i fautori del divorzio cristiano si appellano, almeno per il caso di adulterio, al testo di Matteo XIX, 9. Ma a torto, perché esiste l’interpretazione autentica di questo testo, la quale esclude il divorzio. Infatti il Concilio di Trento ha sancito: «Se qualcuno dicesse che la Chiesa erra quando ha insegnato e insegna, secondo la evangelica ed apostolica dottrina, che il vincolo non può essere sciolto a causa dell’adulterio di uno dei due coniugi… sia anatema». Il punto della discussione trova la sua ragione nella celebre clausola di Matteo «excepta fornicationis causa». Secondo il significato letterale questo testo può non essere interpretato in senso divorzista e pertanto deve, dal punto di vista teologico, essere interpretato nel senso non divorzista: esiste una interpretazione autentica data, sia pure in maniera indiretta, sotto forma di «anatema» dal Concilio di Trento. Dunque non si dà né secondo matrimonio cristiano, né divorzio. Non che non siano mancate nei secoli talune rare voci discordi o dubitanti; ma quello che interessa è la prassi comune della Chiesa, che attesta una comune convinzione ed una comune dottrina. Quello che impressiona è il fatto che dei cattolici possano gettare il piccone demolitore su verità saldamente e universalmente acquisite. Tale fatto rivela qualcosa di grave. Anzitutto va in crisi in talune intelligenze la concezione della verità assoluta. La verità non va in crisi più di quanto non ci vada l’essere: sono troppo intimamente legati. La verità relativa, verso la quale vanno dubbie compiacenze, ha il suo incentivo nello spasmo divorzista che stiamo vivendo, quasi che, tra tante realtà umane ormai in decomposizione, non possa sopravvivere neppure un matrimonio per sempre sigillato da Dio. Probabilmente il grande principio al quale ci si deve attenere è il seguente, secondo taluni: dobbiamo enunciare verità deformandole sino a che non compiacciano il mondo moderno. Quasi che questo non sia meno morituro del mondo antico. In secondo luogo va in crisi tutta la logica della teologia. Infatti la teologia ha i suoi metodi di prova, che non possono sostituirsi ad arbitrio. Magistero e quanto è riflesso dal Magistero, anche solo ordinario, sui Padri, sui Dottori e sui teologi pare sia svanito dalle non ammirevoli considerazioni qua e là affioranti. – In terzo luogo va in crisi la dignità dell’uomo, al quale si vorrebbe manifestare indulgenza, prima negando a torto un diritto naturale che postula «fin dall’inizio» (Mt. XIX,8) l’indissolubilità del matrimonio, poi ritenendo l’uomo incapace di mantener un impegno. Il divorzio infatti vorrebbe dissuadere tutti e per sempre dal credere che tra gli uomini possa esistere un impegno durevole. Il che è indegno e triste. – Ma non si deforma la verità per compiacere chi intende togliere agli uomini la nobiltà di fare ancora fede alla propria parola.

[Cosa bisogna spettare per capire che il “divorzio breve cattolico”, oltre che un’idiozia teologica, è “anatema” – Conc. Trento, Sess. XXIV, Can. VII-, cioè scomunica irreformabile, esclusione dalla Chiesa Cattolica, dalla comunione dei santi, morte certa dell’anima, … farina velenosa e mortifera di satana, sparsa a piene mani dal suo “vicario” e dai suoi lacchè? Bisogna forse aspettarne di riparlarne nell’inferno, anch’esso cancellato con un colpo di mano dagli gnostici della setta vaticana del “novus ordo”, che osa contraddire tutte le leggi naturali, divine, i dettami evangelici, oltre che ripudiare il Magistero di sempre … certo che ci vuole un bel coraggio! … il coraggio di Giuda, l’Iscariota! E allora non possiamo che augurare agli adepti del loro maestro, se non si pentono: buona impiccagione! … Scegliete almeno un albero buono, magari non OGM! – ndr.-]

IGNORANZA

IGNORANZA

[G. Bertetti: “I Tesori di San Tommaso d’Aquino”; S.E.I. Ed. – Torino, 1918]

– 1. Ignoranza causa di peccato. — 2. Se l’ignoranza scusi o diminuisca il peccato. — 3. Ignoranza colpevole (De Malo, q. 3, art. 6, 7, 8).

1. Ignoranza causa di peccato. — La scienza pratica che dirige le azioni umane, non solo ci conduce al bene, ma ci allontana dal male: l’ignoranza dunque, togliendoci l’ostacolo che la scienza pratica ci opporrebbe a commettere il male, è causa di peccato, com’è causa d’errori di lingua l’ignoranza delle regole grammaticali. Ma doppia è la scienza direttiva negli atti morali, la scienza che ci può impedire il peccato. C’è una scienza universale, per cui noi giudichiamo che un atto è retto o deforme: e in tale scienza l’uomo trova talvolta ostacolo al peccato, come quando al considerar che la fornicazione è peccato se ne astiene: che se invece di tale scienza ci fosse l’ignoranza, questa sarebbe allora causa d’un peccato di fornicazione. — C’è poi una scienza particolare, ossia la scienza delle circostanze dell’atto stesso. Per questa scienza può accadere che l’uomo s’allontani senz’altro dal peccato oppure da una determinata specie di peccato. Così se un sagittario sapesse che ci passa un uomo, per niun conto scoccherebbe il dardo; ma non sapendo che quello è un uomo e credendolo un cervo, lancia la saetta e uccide l’uomo: in tal caso l’ignorar la circostanza della persona è stato causa d’un omicidio. Se invece un sagittario volesse uccidere un uomo, ma non suo padre, non lancerebbe certamente il dardo, se sapesse che chi passa è suo padre: ma poiché non lo sa, tira e uccide suo padre; l’ignorar questa circostanza è stato causa manifesta di peccato d’omicidio: perché in ogni caso questo sagittario è reo d’omicidio, quantunque in ogni caso non sia reo di parricidio. In diversi modi adunque l’ignoranza è causa di peccato.

2. Se l’ignoranza scusi o diminuisca il peccato. — Essendo il peccato una cosa essenzialmente volontaria, l’ignoranza scuserà in tutto o in parte il peccato, secondo che in tutto o in parte toglie il volontario: il volontario, s’intende, che venne dopo l’ignoranza, non quello che l’avesse preceduta. Tolta la cognizione dell’intelletto, è tolto l’atto della volontà: e così è tolto il volontario quanto a quello che s’ignora. Laonde, se nel medesimo atto c’è qualcosa d’ignorato e qualcosa di conosciuto, può esserci il volontario quanto a ciò che si sa, ma sempre c’è l’involontario quanto a ciò che non si sa: sia che non si sappia l’immoralità dell’atto, sia che se n’ignori qualche circostanza. – Benché l’ignoranza sia sempre causa d’un atto non volontario, non sempre tuttavia è causa d’un atto involontario. Non volontario si dice, solo perché manca l’atto della volontà; si dice invece involontario, perché la volontà è contraria a ciò che si fa: perciò all’involontario tien dietro la tristezza, che non sempre segue il non volontario, come quando, conosciuto uno sbaglio, non ci si rattristasse, anzi ci si provasse piacere. Ma anche l’atto della volontà può precedere l’atto dell’intelletto, come quando noi vogliamo comprendere noi stessi: e per la medesima ragione l’ignoranza cade sotto la volontà, e diviene volontaria. Questo può accadere in tre modi: — 1° quando uno direttamente vuol ignorare la scienza della salute, per non allontanarsi dall’amore del peccato (JOB, 21, 14); — 2° quando si trascura di conoscere ciò che si dovrebbe sapere: e quest’è ignoranza indirettamente volontaria o ignoranza di negligenza; — 3° quando direttamente o indirettamente si vuole ciò ch’è cagione d’ignoranza: direttamente, come appare in chi volesse ubriacarsi per privarsi dell’uso di ragione; indirettamente, come chi trascurasse di reprimere i moti che insorgono nella passione e che crescendo legano l’uso della ragione nel caso pratico di scegliere fra il bene e il male. Considerandosi negli atti morali come volontario ciò ch’è causato dal volontario, l’ignoranza volontaria, appunto perché volontaria, non può causare un atto non volontario, e perciò non iscusa dal peccato. – Quando dunque direttamente si vuol ignorare per non essere dalla scienza distolti dal peccato, l’ignoranza non iscusa il peccato né in tutto né in parte, anzi l’aumenta: poiché è segno di grande amore verso il peccato il voler soffrire un danno nella scienza per poter peccare liberamente. – Quando poi indirettamente si vuol ignorare, trascurando d’imparare, o anche quando per caso si vuole l’ignoranza, volendo direttamente o indirettamente quello che porta con sé l’ignoranza, questa non iscusa interamente l’involontario nell’atto che ne deriva: perché l’atto, procedendo da ignoranza volontaria, è, in certo qual modo, volontario. Tuttavia ne diminuisce il volontario: poiché l’atto derivato da tale ignoranza è meno volontario di quello che si commetterebbe, se scientemente e senza alcuna ignoranza si eleggesse un tal atto; perciò siffatta ignoranza scusa l’atto seguente, non in tutto, ma in parte. È però da avvertire che talvolta e lo stesso atto seguente e l’ignoranza precedente sono un solo peccato, come sono un solo peccato il piacere e l’atto esterno del peccato: onde può accadere che il peccato sia reso più grave dal volontario dell’ignoranza, non meno di quanto sia scusato dall’atto diminuito del peccato. Se infine l’ignoranza non è volontaria secondo alcuno dei modi predetti e non è accompagnata da alcun disordine della volontà, allora fa involontario del tutto l’atto che ne deriva.

3. Ignoranza colpevole. – Non sempre l’ignoranza è colpevole. Non è colpevole ignorare ciò che non siamo obbligati a sapere: ma è colpevole l’ignorare ciò che dobbiamo sapere. — Ognuno deve sapere le cose che lo dirigano nei suoi atti: quindi ognuno deve sapere le cose di fede, perché la fede dirige l’intenzione; ognuno deve sapere i precetti del decalogo, per mezzo dei quali noi possiamo evitare il male e fare il bene: perciò furono promulgati da Dio alla presenza di tutto il popolo (Exod., 20). — Le cose più recondite della legge Mose soltanto e Aronne le udirono dal Signore: e intorno a queste ognuno è tenuto a sapere ciò che s’appartiene al suo ufficio; così il Vescovo deve sapere ciò che s’appartiene all’officio episcopale, e così degli altri; né senza colpa sarebbe per essi l’ignoranza di siffatte cose. Può dunque l’ignoranza considerarsi sotto un triplice aspetto: -— 1° in se stessa, e così considerata non ha ragione di colpa, ma di pena; — 2° in confronto alla sua causa: come causa di scienza è l’applicazione dell’animo al sapere, così è causa d’ignoranza il non applicar l’animo alla scienza, e il fatto stesso di non applicar l’animo a sapere ciò che si deve sapere è peccato d’omissione; — 3° in confronto a quel che ne segue: e così talvolta è causa di peccato, come sopra si disse. – Può ancora considerarsi l’ignoranza come conseguenza del peccato originale. — Nel peccato d’origine c’è la parte formale, appartenente alla volontà, cioè la mancanza della giustizia originale. Siccome poi dalla giustizia originale, per cui la volontà s’univa con Dio, derivava nelle altre forze una certa ridondanza di perfezione, di modo che, illustrata la ragione dalla conoscenza della verità, l’irascibile e il concupiscibile conservavano la lor rettitudine: così, tolta la giustizia originale della volontà, viene a mancare la conoscenza della verità nell’intelletto, la rettitudine nell’irascibile e nel concupiscibile. E così l’ignoranza e il fomite son la parte materiale nel peccato d’origine; come nel peccato attuale è parte materiale il rivolgersi a un bene commutabile.

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (19), cap. XXXII e Conclusione

CAPITOLO XXXII.

DEVOZIONE PARTICOLARE AL BUON LADRONE .

Motivi di questa devozione nei tempi presenti. — Pratica di questa devozione.— Introduzione.— Primo privilegio del Buon Ladrone: meditazione e preghiera. — Secondo, terzo, quarto, e quinto privilegio. — Meditazione, e preghiera. — Orazione a S. Disma, gran protettore dei peccatori moribondi.— Epitaffio del Buon Ladrone.— Conclusione della storia del Buon Ladrone. — Avviso ai peccatori ed al secolo XIX. — Motivi di confidenza.— Necessità del pentimento. — Felicità del secolo XIX pentito.

Dalla vita del Buon Ladrone nascono naturalmente, come il profumo dal fiore, l’ammirazione, la confidenza, e l’amore. A fin di renderli efficaci, un antico e pio Autore ha tradotto questi nobili sentimenti in tanti esercizi di devozione ad uso di tutti i cristiani, e particolarmente dei grandi peccatori, che avessero la disgrazia di trovarsi non convertiti in punto di morte. Non ve ne è alcun altro, a parer nostro, il quale dovrebbe essere tanto popolare quanto questo, specialmente al giorno d’oggi. Non siamo noi forse, qualunque sia la nostro condizione, di fronte a quel gran peccatore che si chiama il secolo XIX, che a gran passi cammina verso l’abisso coperto di iniquità e colla bestemmia sul labbro? [… non parliamo poi del secolo XX e XXI – ndr. -] Oltre la carità, il timore di essere trascinati con lui, e la necessità di preservarci dallo spirito da cui è animato, non ci impongono forse il dovere di sollecitarne instantemente la conversione? E chi potrebbe ormai contar le anime che pel suo contatto si sono perdute? Quante pie persone nel mondo, quante religiose nelle case particolari o negli ospedali, quanti ecclesiastici nell’esercizio del loro ministero pastorale, quanti figli, spose, madri, o sorelle non si trovano nel caso di implorare la salvezza di qualche disperato? Or potremo noi trovare, dopo Maria Santissima rifugio dei peccatori, un avvocato più potente del Buon Ladrone, gran peccatore e gran Santo, convertito e canonizzato tre ore sole prima della sua morte? A queste osservazioni risponde il seguente esercizio fondato sui gloriosi privilegi del beato Disma.

INTRODUZIONE

Noi dobbiamo tutti morire. È decretato, dice s. Paolo, che tutti gli uomini debbano morire; e dopo la morte subire il giudizio. [Hebr., IX, 27.] Il male non sta nel morire, ma nel morire male. Quindi quel detto del Real Profeta: La morte del peccatore è ciò che vi ha di maggior male. [Psalm . XXXIII, 22.]. Per aiutarci a fare non solo una buona morte, ma una morte eccellente, dopo lunghe ricerche io ho trovato il grande s. Disma. Negli ultimi momenti di sua vita mortale egli divenne, grazie all’infinita misericordia, da ladro orribilmente famoso uno dei più gran santi del paradiso. Così lo insegna il santo Cardinale Pietro Damiani: «Paglia da bruciarsi, egli è divenuto un cedro del paradiso; tizzone d’inferno, egli è ora un astro brillante del firmamento.3 » [« Stipula inferni cedrus est Paradisi; turris inferni factas est splendidum sidus cœli. » [Senn. de S. Bonif.]. – Che ciascuno adunque ricorra a questo potentissimo avvocato degli agonizzanti, affinché gli ottenga in quel terribile momento un vero dolore dei suoi peccati. A questo fine, faccia spesso in di lui onore l’esercizio seguente.

Primo privilegio.

Il primo privilegio di s. Disma è la sua rassomiglianza con Gesù Cristo crocifisso. Essa consiste in ciò, che per la grazia onnipotente di Gesù, egli si convertì all’istante, divenne il prediletto del Salvatore, e fra tutti gli eletti desso è il solo che abbia sofferto il supplizio della croce insieme con Lui. Ascoltiamo il serafico s. Bernardino da Siena: « Poco importa che egli sia stato crocifisso per i suoi delitti. Dopo la sua conversione egli fu un vero membro di Gesù Cristo, e da quel momento le sue sofferenze furono simili alle mortali sofferenze del Figliuol di Dio. » Serm. in fer. v. post Dom. oliv.]

PREGHIERA .

O gran Santo! noi vi preghiamo dì ottenerci dal vostro amato Redentore la grazia di portar con allegrezza la sua croce, affinché siamo in tutto conformi a Colui che ha voluto essere crocifisso per amor nostro. « Imperciocché, dice l’Apostolo, i predestinati alla gloria devono esser sulla terra l’immagine del Figliuol di Dio. » [Rom. VII, 29]. Pater, Ave, e Gloria etc.

Secondo privilegio.

Il secondo privilegio di s. Disma è di essere stato l’avvocato del Figliuol di Dio. Questo privilegio è incomparabile. Per comprenderne la sublime grandezza, convien considerare chi era questo Gesù, che abbandonato da tutti ed inchiodato su di una croce, spargeva il suo sangue e dava la sua vita per la salvezza dell’uomo. Qual nobile cliente! Qual insigne privilegio l’essere scelto per suo difensore! Qual coraggio non ci voleva per dire innanzi a tutta la Sinagoga: Gesù è innocente! « Hic vero nihil mali gessit. » Luc., XXIII, 41.

PREGHIERA .

Gran Santo! degnatevi di ottenerci la forza di difendere in ogni occasione l’onore di Dio, la causa della Chiesa, e di confessare Gesù Cristo Uomo-Dio Redentore del mondo, fuggendo il peccato, e non trascurando cosa alcuna per farlo evitare e detestare dagli altri, affinché nel giorno del giudizio Gesù Cristo ci confessi innanzi all’eterno suo Padre ed innanzi a tutte le nazioni insieme radunate, secondo la sua promessa: « Colui che mi confesserà innanzi agli uomini, anch’Io lo confesserò innanzi al Padre mio. » [Matt. X, 32]. Pater, Ave, e Gloria etc.

Terzo privilegio.

Il terzo privilegio di s. Disma è di essere stato l’unico predicatore della divinità di Gesù Crocifisso. Se richiedevasi un coraggio eroico per proclamare 1’innocenza di Gesù in faccia ai suoi accusatori e dei suoi carnefici, si richiedeva altresì una fede d’una forza e di una vivacità incomprensibile per proclamarne la divinità. Questa fede è il privilegio esclusivo del nostro Santo. In quel Gesù moribondo in mezzo agli obbrobri, egli riconosce il Dio dell’universo, il Re immortale dei secoli, e lo proclama dicendo: « Ricordati di me quando sarai nel tuo regno. » [« Memento mei, cum veneris in regnum tuum . » Luc., XXIII, 42.]

PREGHIERA.

Gran Santo! noi vi preghiamo di ottenerci dal vostro tanto amato Gesù la grazia di ricercare avidamente non i beni perituri di questa miserabile vita, non le gioie di questo secolo corrotto, ma unicamente il regno di Dio e la sua giustizia come Egli stesso ce lo ha detto; [« Quærite primum regnum Dei et justitiam ejus. » Matth,, V, 33]; affinché « fra le vicissitudini di questo mondo i nostri cuori siano rivolti colà, ove sono i veri gaudi. » [«Ut inter mundanas varietates ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gaudia. » Orat. in Dom. iv, post. Pasch.]. – Pater, Ave, e Gloria etc.

Quarto privilegio.

Il quarto privilegio di s. Disma è di essere stato il compagno dei dolori della Santissima Vergine. Fra tutte le creature della terra al solo Buon Ladrone fu riserbata l’insigne prerogativa di essere il compagno delle sofferenze di Maria. Solo insieme con Ella, nel momento della morte del Redentore, egli conservò intatta la sua fede in Gesù. Solo con Maria egli compatì alla sua morte come alla morte del Figlio di Dio, veramente Dio e veramente uomo. È questa la dottrina del serafico s. Bernardino: « I gemiti del solo Buon Ladrone con quelli di Maria furono pienamente graditi a Dio, perché, grazie alla fede infusa nella sua anima, solo egli riguardò come veramente Dio quell’uomo, che vedeva morire sotto gli occhi suoi in mezzo ad incredibili dolori. »

PREGHIERA.

Gran santo! degnatevi di ottenerci dal nostro Signore Gesù Cristo la grazia di accompagnare la ss. Vergine nel doloroso martirio che essa soffrì a piè della croce. Questo è il desiderio di questa santa Madre, come essa stessa lo rivelò a s. Brigida: « Figlia mia, non mi dimenticare; vedi il mio dolore, e cerca di risentirlo per quanto puoi. Considera le mie sofferenze e le mie lagrime, ed affliggiti insieme con me » [ « Filia mea, non obliviscaris mei; vide dulurem meum, el imitare quantum potes. Considera dolures meos et lacrymas, et dole. » Revel. lib. II, c. XXIV]. Pater, Ave, e Gloria etc.

Quinto privilegio.

Il quinto privilegio del Buon Ladrone è di essere stato la figura di tutti gli eletti. In lui si vedono come riunite tutte le anime beate destinate a godere l’eterna gloria in paradiso; imperocché egli solo udì dalla bocca medesima di Gesù queste parole: « Oggi sarai meco in paradiso » [« Hodie mecum eris in Paradiso. » Luc., XXIII, 42.]. Egli le udì il primo, le udì per sé e per tutta l’umanità rigenerata di cui era la figura. « Il quinto privilegio del Beato Ladrone fu di essere la figura e come il rappresentante di tutti gli eletti; il che a nessun altro fu concesso. »

PREGHIERA.

Gran santo! figura di tutti gli eletti, noi vi domandiamo umilmente di ottenerci da Gesù Crocifisso con voi, la grazia di portare pazientemente il peso della vita, le tribolazioni, la fatica, la povertà, le malattie, in una parola la croce, che in questa valle di lacrime pesa sugl’infelici figli di Adamo, affinché meritiamo di essere annoverati fra gli eletti, e di partecipare alla gloria eterna; essendo questa la condizione della salvezza secondo l’oracolo divino : « Entreranno nella casa del Padre celeste coloro i quali avranno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello Crocifìsso. » [Ap. VII, 41].  Pater, Ave, e Gloria etc.

Ad sanctum DISMAM,

agonizantium Patronum.

Antiphona.

Beati mortui qui in Domino moriuntur.

Amodo jam dicit Spirìtus

ut requiescant a laboribus –

 [Beati i morti che muoiono nel Signore.

D’ora in poi già dice lo Spirito

che riposano dalle loro fatiche.] [Ap. VII, 41]

 

Sancte Disma, qui mira Dei

Providentia ex nefario latrone

in eximium pœnitentiæ speculum

evasisti, et paucas intra

horas æterna tibi gaudia comparasti:

aspice sublimi gloriæ

tuæ throno in hanc vallem miseriæ.

Recordare o Sanctæ mirabilis,

mentis humanæ fragilitatis,

ad malum semper, magis

quam od bonum proclivis. Recordare,

et prò nobis ad Deum

appella, ut sicut per gratium

suam efficacem ad pœnitentiam

et Paradisi cœlestis gloriam te

perduxit: ita nos famulos suos

et famulas, eadem efficaci gratia,

ad dignus pœnitentiæ fructus

impellat, ut peccata tecum

abolentes pie tibi commoriamur,

ac una tandem in Dei

salutari nostro perenniter exultemus.

Amen.

[O santo Disma, che per ammirabile provvidenza di Dio da insigne Ladrone diveniste un perfetto modello di penitenza, e in poche ore acquistaste l’eterna felicità, dal trono di gloria ove siete assiso, abbassate i vostri sguardi su questa valle di lacrime. Ricordatevi, o ammirabile santo, della fragilità della natura umana sempre più inclinata al male che al bene. Ricordatevene, e domandate per noi a Dio, il quale con la sua grazia efficace vi condusse alla penitenza ed alla gloria del paradiso, di far produrre con la medesima grazia a noi suoi servi e sue serve degni frutti di penitenza, affinché cancellando i nostri peccati come li cancellaste voi, possiamo morire parimente insieme con voi, per rallegrarcene eternamente insieme in Dio nostro Salvatore. Cosi sia.]

 

Preghiera di S. Brigida.

 

Benedictio æterna sit tibi,

Domine mi Jesu Christe, qui

existens in mortis, agonia, omnibus

peccatoribus spem de venia

tribuisti, quando Latroni ad

te converso, Paradisi gloriam

misericorditer promisisti. Amen

[Benedizione eterna a Voi, o mio Signore Gesù Cristo, che essendo in agonia deste a tutti i peccatori la speranza del perdono, allorché misericordiosamente prometteste al Buon Ladrone la gloria del paradiso. Così sia].

 .- Per non tralasciare nulla di ciò che può contribuire alla gloria del Buon Ladrone, trascriviamo qui l’epitaffio che una mano pia gli compose. Nel leggerlo vi si troveranno nuovi motivi di fiducia nel gran santo, il di cui culto sarebbe desiderevole che divenisse più popolare che mai ai giorni nostri.

Boni Latronis tumulus.

Incidisti in Latrunem, viator, sistendus es.

Vitam ejus non aliunde, quam ex morte cognoscas.

Ubique vagus, ubique profugus.

Ut inveniri semel a Deo posset, fìgendus fuit.

Ne tum quidem immemor artis suæ, cum propter illam periret,

Mutavit forti materiam, furacitate retenta.

Viatori Deo non prufuit dissimulasse mutilate thesaurus.

Exeuntem de mundu in aerem usque secutus adhæsit lateri.

Et festiata noctis opportunitate usus,

Quando non poterat manu, furatus est halitu.

Clavis David cui primum esset usui quam latroni?

Agnita illa est a seminare.

Nec eam aut nox aut rubigo celavit,

oculis intentis semper ad

claves.

Turbatum cœlum est, cum jam violenti raperent illud:

Gazis suis timuit trepidum,

Cum eas cerneret furibus patuisse.

Fractis mox cruribus iter salutis ingressus,

Eo se sedibus suis se non venisse convicit,

Hausto, de Christi vicinia, amore crucis, ita eidem adhæsit,

Ut ab ea fuerit fuste pellendus.

Bonum Latronem, viator, malo conjunge ne noceat.

lnter utrumque inveniendus est Christus.

Hæc gemina pharos portum salutis quærentibus attendenda.

 

 

Epitaffio del Buon Ladrone.

[« Ecco un ladro: viandante, arrestati.

« La sua vita non è conosciuta che per la sua morte.

« Dappertutto vagabondo, dappertutto fuggitivo;

« Affinché Dio potesse finalmente trovarlo, bisognò

inchiodarlo su di una croce.

« Nemmeno allora dimenticò il suo mestiere, condannato

a morte per cagione di quello.

« Egli cangiò la materia del furto, ma fu sempre

ladro.

« Al Dio viaggiatore non servì a nulla nascondere

i suoi tesori sotto la nudità.

« Com’egli parte dal mondo, il ladro lo segue sin

nell’aria e si attiene al suo fianco:

« Profitta delle tenebre di una notte improvvisamente

sopraggiunta,

« E non potendo rubar colla mano, ruba colla parola.

« Della chiave di David chi il primo doveva far uso,

se non un ladro?

« Semivivo, egli la riconosce:

« Né la notte, né la ruggine possono nasconderla,

   essendo i suoi occhi sempre intenti alle chiavi.

« Il cielo si turba mentre i violenti lo rapiscono;

« Esso teme pei suoi tesori

« Vedendoli aperti ai ladri.

« Ma questi, rotte le gambe, entrato nella via della salute,

« Prova che non vi viene come un ladro ordinario.

« Nella vicinanza di Cristo egli attinse un tale amore per la Croce,

« Che per distaccarnelo bisognò colpirlo con un grande bastone.

« Al Buon Ladrone, o viandante, unisci il cattivo perché non ti noccia.

« Fra loro due tu troverai il Cristo.

« Guarda questo doppio faro, se vuoi tenere la via del cielo »]

Apud Raynald., c. XIII, p. 554.

CONCLUSIONE

O pentirsi, o perire: è questa l’alternativa che rimane al colpevole, qualunque sia il suo nome. La storia del Buon Ladrone, assai meglio di qualunque ragionamento, la mette in piena evidenza. Se passavano alcune ore di più senza pentirsi, Disma si sarebbe perduto. Pei popoli, non meno che per gl’individui, quest’alternativa è inevitabile; e la ragione è chiara. Non pentirsi quando si sa di esser colpevole, è un pretendere di esser colpevole impunemente. – Pretendere di esser colpevole impunemente è un negare a Dio la giustizia, e all’uomo la responsabilità delle proprie azioni; è un voler vivere violando la legge fondamentale della vita, poiché la vita sta nell’ordine. – L’ordine esiste allorché ogni cosa sta al suo posto; in alto cioè quello che secondo le leggi eterne deve stare in alto; e in basso ciò che deve stare in basso. Mettere in alto quello che secondo le leggi eterne deve stare in basso, e in basso ciò che deve stare in alto; Dio al posto dell’uomo, e l’uomo al posto di Dio, costituisce il disordine. Pretendere di vivervi, e di vivervi impunemente, è lo stesso che voler mantenere in alto ciò che dev’essere in basso, e in basso ciò che deve stare in alto, cioè Dio al posto dell’uomo, e 1’uomo al posto di Dio. Di tutte le impossibilità questa è la più grande. Per l’individuo, perire è perdere la pace di questo mondo, e la vita eterna dell’altro. – Per le nazioni, che non vanno in corpo nell’altro mondo, perire è andare di rivoluzioni in rivoluzioni, sino a che lacerandosi con le proprie mani, o cadendo sotto i colpi di qualche potente vicino, esse subiscano l’inesorabile decreto di morte pronunziato contro la ribellione ostinata. – Così finirono tutte le nazioni del mondo antico. Al contrario, pentirsi è vivere, poiché è un rientrare nell’ordine, vale a dire è un rimettere ogni cosa al suo posto, Dio in alto e l’uomo in basso. Di questo nobile pentimento, guarentigia necessaria di vita e di felicità, il Ladro del Calvario è il modello compiuto e perfetto. Ultimo capolavoro del Redentore moribondo, egli fu lasciato al mondo come un tipo immortale. Il Dio Salvatore, la cui misericordia è immutabile, può e vuole effettuarlo in tutti i peccatori per quanto disperati. Egli stesso ce ne dà la sua infallibile parola: Il Figliuol dell’uomo è venuto per salvare tutto quello che era perito. Sì, tutto senza eccezione, popoli ed individui; tutto quello che vorrà esser salvato, anche i ladri e gli assassini. – Che rimane dunque a dire ai peccatori, e soprattutto al gran Ladrone cbe si appella secolo XIX? Una sola parola: pentimento! – Rivolgendosi ai primi, la fede loro dice: ‘Eccetto l’innocenza che più non avete, in tutto il resto voi siete tanti grandi bambini che vi lasciate affascinare dal vostro implacabile nemico. Vedete quei figli di un re; nelle loro mani si trova qualche volta una pietra preziosa. Presentasi loro un mariuolo, il quale in scambio di quel tesoro offre ad essi talune ghiottonerie di cui la loro età è avida, e la perla sfugge dalle loro mani. – Così fa il demonio con voi. « L’astuto nemico delle anime, dice s. Agostino, vi presenta un frutto ingannatore, e vi ruba il paradiso: Porrigit pomum et surripit paradisum. » Figli di re, eredi d’un trono, da molto tempo avete fatto il mestiere del balordo; è tempo ormai di metter senno. Imitate il Buon Ladrone: colpevoli come lui, sappiate pentirvi com’egli sì penti. Al vedere che un veterano del delitto, già sul patibolo, ottiene in pochi istanti e la grazia di Gesù Cristo e l’eterna felicità, chi è che possa disperar di sua salvezza: Quis hic desperet Latrone sperante? – In quanto al secolo XIX, a cui abbiamo dedicato questa storia, sembrano scritte espressamente per esso le parole seguenti, venuteci da un’età molto lontana. – « Rientra finalmente in te stesso, o vecchio Adamo. Considerando il Ladro del Calvario, vedi ove ti ha cercato il novello Adamo, ed in quale stato ti ha trovato. Nelle piaghe del suo corpo egli ti ha mostrato le ignominie dell’ anima tua. Tu lo fuggivi, ed a Lui non è stato sufficiente il correrti appresso, chiamandoti e piangendo in mezzo agli schiaffi, alla flagellazione, e ad ogni sorta di strazi più atroci. Egli ti ha inseguito sin sulla croce, ove i tuoi delitti ti avevan condotto, ed ivi Egli ti ha trovato già semivivo, e ti ha salvato. Chi fu infatti questo ladro, se non Adamo? Dal giorno, in cui il padre del genere umano nel paradiso terrestre divenne omicida di se stesso e della sua discendenza, sen fuggì carico del suo delitto lontano da Dio, e si nascose, fino a che inchiodato ad una croce non gli fu più possibile di fuggire e di nascondersi. Colà afferrato da voi, o buon Gesù, e convertito, egli confessò il suo fallo, e ne accettò volentieri il castigo. Affin di incoraggiarlo a soffrire, voi vi degnaste di collocar voi stesso ai suoi fianchi per soffrire con lui. » – Ecco precisamente il secolo XIX [ma pure il XX ed ancor peggio il XXI –ndr.-]. In piena insurrezione contro il Cristianesimo e contro la Chiesa, egli pretende di vivere senza di essi, lontano da essi, e loro malgrado. Vani sforzi! Simile al cavallo che gira la mola, a cui si sono bendati gli occhi, esso consuma le sue forze nel girare perpetuamente in un cerchio, di cui non si possono oltrepassare i limiti. A tutti i pontefici del’umana sapienza esso domanda l’ordine e la pace; ma non ne riporta che errori ed inganni. Frattanto la fermentazione rivoluzionaria si estende dappertutto; i sintomi di rovesciamento dell’ordine si vanno facendo più pronunziati; gli errori si moltiplicano, la colpabilità si aggrava; la potenza delle tenebre va crescendo visibilmente; ed il secolo XIX non ancora si converte [ed il XX ha pure cacciato dal suo trono il Vicario di Cristo, costringendolo ad un doloroso esilio! –ndr.-]. Che se ne deve conchiudere? Siccome è riservato a Dio il dir l’ultima parola, così bisogna conchiuderne che l’ora della crocifissione si avvicina. Già, se il secolo XIX vuol prestare orecchio, può ascoltare il rumore della scure e del martello dei numerosi operai, che nei loro antri sotterranei gli fabbricano la croce. Su di questa, sul patibolo cioè del socialismo e della barbarie, [ed oggi, XXI secolo: della massoneria e del modernismo gnostico –ndr.- ], resi più forti come lo dicono i loro apostoli, dall’ateismo e dal materialismo, esso sta per trovarsi faccia a faccia con Dio. – Ora nelle sue mortali angoscio si ricordi egli del Calvario. Colà vi ebbero due ladroni in croce; e se non vuol perire come il cattivo ladro, dica come il Buon Ladrone: Io soffro giustamente; ma il Cristianesimo che ho tanto bestemmiato; ma la Chiesa che ho tanto perseguitata, non hanno fatto alcun male. Gesù, Redentore del mondo, divino Fondatore del Cristianesimo e della Chiesa, ricordati di me quando avrai ristabilito il tuo regno sulle rovine di tutto quello che deve perire: io mi pento. – Da alcuni anni in qua soprattutto, la Provvidenza sempre lenta nel punire, sembra raddoppiare i suoi sforzi, col moltiplicar l’uno dopo l’altro i motivi di timore e di speranza, affin di indurre il secolo XIX a pronunziar questa parola di salvezza. Appena pronunziata, questa miracolosa parola fa rientrar tutto nell’ordine, chiude l’èra delle rivoluzioni e prepara al mondo un più lieto avvenire. Le nazioni di Occidente, tornando ad essere le docili figlie della Chiesa loro madre, e mettendo al di lei servigio gli immensi tesori di genio, di forza, e di attività di cui esse dispongono, senza sforzo alcuno rovesceranno le barriere secolari che arrestano la civiltà cristiana alle frontiere dell’Oriente. Allora riprendendo il principe della pace il suo impero, si verificherà quel trionfo universale della Chiesa presentito dagli uni, annunziato dagli altri, desiderato da tutti, e a quanto sembra visibilmente preparato mediante lo svolgimento senza esempio e senza ragione apparente di tutte le opere cattoliche nel mondo intero. – Giorno benedetto in cui il Dio Redentore diverrà secondo i suoi voti, l’unico Pastore di un solo ovile, e lasciando che i farisei odierni come quelli di una volta lo accusino di esser amico dei peccatori, si mostrerà per il Secolo XIX quello che fu per Disma, per la giovane penitente di Magdalo, per il figliuol prodigo, per la pecorella smarrita e ritrovata, cioè l’incomprensibile misericordia e l’incomprensibile tenerezza. Giorno benedetto! in cui il secolo XIX gran peccatore e gran ladro [e peggio il XXI –ndr.-], ma come il Ladrone del Calvario

gran penitente e grande apostolo, ascolterà la parola che dissiperà tutti i suoi timori, placherà tutti i suoi odii, guarirà tutte le sue piaghe: Oggi tu sarai meco in paradiso: Hodie mecum eris in paradiso. Così realmente avverrà. Il pentimento è la pace; la pace è la tranquillità dell’ordine; l’ordine è il paradiso in terra.

FINE

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLI IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: “SACRORUM ANTISTITUM”

In questo nuovo documento, “Sacrorum Antistitum“, il Santo Padre S. Pio X, constatato che, nonostante le disposizioni con gli obblighi ed i divieti imposti nell’Enciclica Pascendi e nel decreto Lamentabili, per molti le sue raccomandazioni sono rimaste lettera morta, continuando la loro “semina” blasfema di sapore gnostico-luciferino, ribadisce con la maggior fermezza possibile, quanto già in essi riportato, aggiungendo la formula di un giuramento, reso obbligatorio per tutti gli operatori ecclesiastici, in primo luogo per coloro che, nei seminari, si accingono a diventare ministri della Chiesa, e per coloro che devono ammaestrarli ed educarli nelle “cose sacre”. Tale formula del “Giuramento antimodernista” è una vera professione di fede cattolica che, rimossa ovviamente dai supermodernisti, manducatori del frutto bacato e marcio del conciliabolo roncalli-montiniano, appare oggi quanto mai opportuno recitare quotidianamente, insieme allo studio del Santo Catechismo Cattolico dello stesso S. Pio X, per recuperare un minimo di senso e credo cattolico da parte di coloro che sono impregnati, loro malgrado, e senza averne consapevolezza, di modernismo ed indifferentismo religioso, sparso a larghe mani dagli apostati fautori ed operatori sacrileghi del “novus ordo”. Facciamo allora entrare tra le nostre meditazioni e preghiere quotidiane, questo santo “giuramento”, così da poter immediatamente comprendere, decodificare, smascherare e fuggire gli inganni del “nemico” che utilizza oggi apertamente, otre agli gnostici delle conventicole massoniche di ogni risma, i suoi “schiavi”, i falsi prelati in talare nera, rossa o bianca, per poterci alfine portare con sé nel fuoco eterno, ma … Ipsa conteret caput suum! Leggiamo il documento ed impariamo a memoria o mettiamo sul comodino, a portata di mano e di occhi, la formula del Giuramento Antimodernista:

Sacrorum antistitum

Motu proprio che stabilisce alcune leggi per respingere il pericolo del modernismo

Acta Apostolicæ Sedis, AAS 02 [1910], pp. 655-669.

Riteniamo che non sia sfuggito a nessuno dei santi Vescovi, che i modernisti, la maliziosissima categoria d’uomini che avevamo smascherato per loro nella Lettera enciclica Pascendi Dominici Gregis, non si sono astenuti dai propositi di turbare la pace della Chiesa. – Infatti hanno continuato ad adescare nuovi seguaci e a farli associare mediante un’alleanza segreta, e con essi ad inoculare nelle vene del Cristianesimo il virus delle loro opinioni, pubblicando, anonimamente o sotto pseudonimi, libri ed articoli. – Se, riletta la summenzionata Nostra Lettera, si considera con più attenzione lo sviluppo di quest’audacia, per mezzo della quale Ci è arrecato tanto dolore, apparirà chiaramente che uomini di tale condotta non sono altro che quelli che abbiamo già descritto là, nemici tanto più temibili quanto più sono vicini; i quali abusano del loro ministero per porre sull’amo un’esca avvelenata con cui corrompere gli sprovveduti, divulgando un’apparenza di dottrina, in cui è contenuta la somma di tutti gli errori. – Dato che questa peste si sparge attraverso quella parte del campo del Signore da cui ci si aspetterebbero i frutti più lieti, se da un lato è proprio di tutti i Vescovi spendersi in difesa della fede cattolica, e vigilare con somma diligenza affinché l’integrità del deposito divino non riceva alcun danno, dall’altro lato a Noi è di massima pertinenza fare ciò che ha comandato Cristo Salvatore, il quale a Pietro (il cui principato, seppur indegnamente, Noi abbiamo ricevuto,) disse: Conferma i tuoi fratelli. Appunto per questa causa, cioè, affinché gli animi dei buoni siano confermati nell’affrontare la presente battaglia, abbiamo ritenuto opportuno riportare delle frasi e delle prescrizioni del Nostro suddetto documento, espresse con queste parole: «Perciò vi preghiamo e scongiuriamo che, in una questione di tanto rilievo, non Ci lasciate minimamente desiderare la vostra vigilanza e diligenza e fortezza. E quel che chiediamo ed aspettiamo da voi, lo chiediamo e lo aspettiamo anche dagli altri pastori d’anime, dagli educatori e maestri del giovane clero, e specialmente dai Superiori generali degli Ordini religiosi.

I. Per ciò che riguarda gli studi, vogliamo e decisamente ordiniamo che a fondamento degli studi sacri si ponga la filosofia scolastica. Bene inteso che, “se dai Dottori scolastici qualcosa fu ricercato troppo sottilmente o trattato con poca avvedutezza; se fu detta cosa poco coerente con dottrine accertate dei secoli seguenti, o in qualsiasi modo non ammissibile; non è nostra intenzione che tutto ciò sia proposto come esempio da imitare anche ai nostri giorni” (Leone XIII, Enc. “Æterni Patris”). – Ciò che conta anzitutto è che come filosofia scolastica, che Noi ordiniamo di seguire, si deve precipuamente intendere quella di San Tommaso d’Aquino: intorno alla quale tutto ciò che il Nostro Predecessore stabilì, intendiamo che rimanga in pieno vigore e, se necessario, lo rinnoviamo e confermiamo, e ordiniamo severamente che sia da tutti osservato. Se nei Seminari ciò si è trascurato, toccherà ai Vescovi insistere ed esigere che in futuro si osservi. Lo stesso comandiamo ai Superiori degli Ordini religiosi. Ammoniamo poi quelli che insegnano, di ben persuadersi che il discostarsi dall’Aquinate, specialmente in cose metafisiche, non avviene senza grave danno. Un errore piccolo in principio, così si possono utilizzare proprio le parole dell’Aquinate stesso, è grande alla fine. (De Ente et Essentia, proem.) – Posto così il fondamento della filosofia, si innalzi con somma diligenza l’edificio teologico. Venerabili Fratelli, promuovete con ogni sforzo possibile lo studio della teologia, affinché i chierici, uscendo dai Seminari, ne portino con sé un’alta stima ed un grande amore e l’abbiano sempre carissimo. Infatti “nella grande e molteplice abbondanza di discipline che si porgono alla mente assetata di verità, a tutti è noto che alla sacra Teologia appartiene il primo posto, tanto che fu antico detto dei sapienti, che è dovere delle altre scienze ed arti di servirla ed aiutarla come ancelle” (Leone XIII, Lett. Ap. “In magna”, 10 dicembre 1889). Aggiungiamo qui, che Ci sembrano degni di lode anche coloro che, mantenendo intatto il rispetto alla Tradizione, ai Padri e al Magistero ecclesiastico, con saggio criterio e utilizzando le norme cattoliche (cosa che non è da tutti) cercano di illustrare la teologia positiva, attingendo lume dalla storia. Alla teologia positiva deve ora darsi più larga parte che in passato: ciò nondimeno deve farsi in modo tale che la teologia scolastica non ne venga a perdere nulla, e si disapprovino quali fautori del modernismo coloro che innalzano tanto la teologia positiva da sembrar quasi spregiare la Scolastica. – In quanto alle discipline profane basti richiamare quel che il Nostro Predecessore disse con molta sapienza (Allocuz. “Pergratus Nobis” 7 marzo 1880): “Adoperatevi strenuamente nello studio delle scienze naturali, nel cui campo gli ingegnosi ritrovati e gli utili ardimenti dei nostri tempi sono, a ragione, ammirati dai contemporanei, cosi come avranno perpetua lode ed encomio dai posteri”. Questo però senza danno degli studi sacri: cosa di cui ammoniva lo stesso Nostro Predecessore con queste altre gravissime parole (Loc. cit.): “Ad una ricerca più attenta, si comprenderà come la causa di simili errori stia principalmente nel fatto che in questi nostri tempi, quanto più fervono gli studi delle scienze naturali, tanto più vengono meno le discipline più severe e più alte: alcune di queste, infatti, sono quasi cadute in dimenticanza; alcune sono trattate stancamente e con leggerezza, e, ciò che è indegno, perduto lo splendore della primitiva dignità, sono inficiate da opinioni sbagliate e da enormi errori”. Con questa legge ordiniamo che si regolino nei Seminari gli studi delle scienze naturali.

II. A questi ordinamenti tanto Nostri che del Nostro Predecessore occorre volgere l’attenzione ogni qual volta si tratti di scegliere i rettori e gli insegnanti dei Seminari e delle Università cattoliche. Chiunque in alcun modo sia contaminato da modernismo, sia tenuto lontano senza riguardi di sorta sia dall’incarico di reggere sia da quello d’insegnare: se già si trova con tale incarico, ne sia rimosso: si faccia lo stesso con coloro che in segreto o apertamente favoriscono il modernismo, o lodando modernisti e giustificando la loro colpa, o criticando la Scolastica, i Padri e il Magistero ecclesiastico, o ricusando obbedienza alla potestà ecclesiastica, da chiunque essa sia rappresentata; lo stesso con chi in materia storica, archeologica e biblica si mostri amante di novità; e infine, con quelli che non si curano degli studi sacri o paiono anteporre a questi i profani. In questa parte, o Venerabili Fratelli, e specialmente nella scelta dei maestri, non sarà mai eccessiva la vostra attenzione e fermezza; dato che sull’esempio dei maestri si formano per lo più i discepoli. Poggiati dunque sul dovere di coscienza, procedete in questa materia con prudenza sì, ma con fortezza. – Con pari vigilanza e severità dovrete esaminare e scegliere chi debba essere ammesso al sacerdozio. Lungi, lungi dal clero l’amore di novità: Dio non vede di buon occhio gli animi superbi e arroganti! A nessuno in futuro si conceda la laurea in teologia o in diritto canonico, se non ha prima completato per intero il corso stabilito di filosofia scolastica. Se tale laurea ciò nonostante venisse concessa, sia nulla. Le disposizioni che la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari emanò, nell’anno 1896, per i chierici d’Italia secolari e regolari, circa il frequentare le Università, stabiliamo che d’ora innanzi siano estese a tutte le nazioni. I chierici e sacerdoti iscritti ad un Istituto o ad una Università cattolica non potranno seguire nelle Università civili quei corsi, di cui vi siano cattedre negli Istituti cattolici ai quali essi appartengono. Se in alcun luogo ciò si è permesso per il passato, ordiniamo che non si conceda più nell’avvenire. I Vescovi che formano il Consiglio direttivo di tali cattolici Istituti o Università veglino con ogni cura perché questi Nostri comandi vi si osservino costantemente.

III. È parimenti compito dei Vescovi impedire che vengano letti gli scritti modernisti, o che sanno di modernismo, se già pubblicati, o, se non lo sono ancora, proibire che si pubblichino. Non si dovrà mai permettere alcun libro o giornale o periodico di tal genere né agli alunni dei Seminari né agli uditori delle Università cattoliche: il danno che ne proverrebbe non sarebbe minore di quello delle letture immorali; sarebbe anzi peggiore, perché ne verrebbe viziata la radice stessa del vivere cristiano. Lo stesso si dovrà giudicare degli scritti di taluni cattolici, uomini del resto di non malvagie intenzioni, ma che, digiuni di studi teologici e imbevuti di filosofia moderna, cercano di accordare questa con la fede e di farla servire, come essi dicono, ai vantaggi della fede stessa. Il nome e la buona fama degli autori fanno sì che tali libri siano letti senza alcun timore e risultino quindi più pericolosi, attraendo al modernismo a poco a poco. – Per dar poi, o Venerabili Fratelli, disposizioni più generali in materia tanto grave, se nelle vostre diocesi sono in vendita libri dannosi, adoperatevi con forza a bandirli, facendo anche uso di solenni condanne. Benché questa Sede Apostolica si adoperi in ogni modo per togliere di mezzo simili scritti, ormai ne è tanto cresciuto il numero, che a condannarli tutti non bastano le forze. Quindi accade che la medicina giunga talora troppo tardi, quando cioè, per il troppo attendere, il male ha già preso piede. Vogliamo dunque che i Vescovi, deposto ogni timore, messa da parte la prudenza della carne, trascurando lo strepito dei malvagi, soavemente, sì, ma con costanza, facciano ciascuno la sua parte; memori di quanto prescriveva Leone XIII nella Costituzione Apostolica “Officiorum”: “Gli Ordinari, anche come Delegati della Sede Apostolica, si adoperino di proscrivere e di togliere dalle mani dei fedeli i libri o altri scritti nocivi stampati o diffusi nelle proprie diocesi”. Con queste parole si concede, è vero, un diritto: ma s’impone al contempo un dovere. E nessuno reputi di aver adempiuto a tale dovere se ha deferito a Noi l’uno o l’altro libro, mentre moltissimi altri si lasciano divulgare e diffondere. Né in ciò vi deve trattenere, Venerabili Fratelli, il sapere che l’autore di qualche libro abbia ottenuto altrove la facoltà comunemente detta Imprimatur; sia perché tale concessione può essere simulata, sia perché può essere stata fatta per trascuratezza o per troppa benignità e troppa fiducia nell’autore, caso questo che può talora avverarsi negli Ordini religiosi. Si aggiunga che, come non ogni cibo si confà a tutti egualmente, così un libro che in un luogo sarà indifferente, in un altro, per le circostanze, può risultare nocivo. Se pertanto il Vescovo, udito il parere di persone prudenti, stimerà di dover condannare nella sua diocesi anche qualcuno di tali libri, gliene diamo ampia facoltà, anzi gliene facciamo un dovere. La cosa sia fatta convenientemente, restringendo la proibizione soltanto al clero, se questo basta; ma in tal caso sarà obbligo dei librai cattolici non porre in vendita i libri condannati dal Vescovo. E dal momento che Siamo in argomento, i Vescovi vigilino che i librai, per bramosia di lucro, non spaccino merce malsana: è certo che nei cataloghi di alcuni di essi vengono proposti di frequente, e con non poca lode, i libri dei modernisti. Se essi rifiutano di obbedire, i Vescovi non esitino a privarli del titolo di librai cattolici; tanto più, se avranno quello di vescovili; e se avessero titolo di pontifici, siano deferiti alla Sede Apostolica. A tutti infine ricordiamo l’articolo XXVI della menzionata Costituzione Apostolica “Officiorum”: “Tutti coloro che abbiano ottenuto facoltà apostolica di leggere e ritenere libri proibiti, non sono per questo autorizzati a leggere libri o giornali proscritti dagli Ordinari locali, se nell’indulto apostolico non sia data espressa facoltà di leggere e ritenere libri condannati da chiunque”.

IV. Ma non basta impedire la lettura o la vendita dei libri cattivi; occorre anche impedirne la stampa. Quindi i Vescovi non concedano la facoltà di stampa se non con la massima severità. E poiché è grande il numero delle pubblicazioni, che, secondo la Costituzione “Officiorum“, esigono l’autorizzazione dell’Ordinario, e il Vescovo non le può revisionare tutte da solo, in talune diocesi si sogliono determinare in numero adeguato censori d’ufficio per l’esame degli scritti. Somma lode noi diamo a tale istituzione di censura; e non solo esortiamo, ma ordiniamo che si estenda a tutte le diocesi. Dunque in tutte le Curie episcopali si stabiliscano Censori per la revisione degli scritti da pubblicarsi; si scelgano questi dall’uno e dall’altro clero, uomini di età, di scienza e di prudenza e che nel giudicare sappiano tenere il giusto mezzo. Spetterà ad essi l’esame di tutto quello che, secondo gli articoli XLI e XLII della detta Costituzione, ha bisogno di permesso per essere pubblicato. Il Censore darà per iscritto la sua sentenza. Se sarà favorevole, il Vescovo concederà la facoltà di stampa con la parola Imprimatur, la quale però sarà preceduta dalla formula Nihil obstat e dal nome del Censore. Anche nella Curia romana non diversamente che nelle altre, si stabiliranno censori di ufficio. L’elezione dei medesimi, una volta interpellato il Cardinale Vicario e coll’assenso ed approvazione dello stesso Sommo Pontefice, spetterà al Maestro del sacro Palazzo Apostolico. A questo pure toccherà determinare per ogni singolo scritto il Censore che lo esamini. La facoltà di stampa sarà concessa dallo stesso Maestro ed insieme dal Cardinale Vicario o dal suo Vicegerente, premesso però, come sopra si disse, il Nulla osta col nome del Censore. Solo in circostanze straordinarie e molto di rado si potrà, a prudente arbitrio del Vescovo, omettere la menzione del Censore. Agli autori non si farà mai conoscere il nome del Censore, prima che questi abbia dato giudizio favorevole: affinché il Censore stesso non abbia a patir molestia mentre esamina lo scritto o in caso che ne disapprovi la stampa. Non si sceglieranno mai Censori dagli Ordini religiosi, senza prima aver sentito segretamente il parere del Superiore provinciale: questo dovrà secondo coscienza attestare dei costumi, della scienza e della integrità della dottrina del candidato. Ammoniamo i Superiori religiosi del gravissimo dovere che essi hanno di non permettere mai che alcunché sia pubblicato dai loro sottoposti senza la previa facoltà loro e dell’Ordinario diocesano. Per ultimo affermiamo e dichiariamo che il titolo di Censore, di cui taluno sia insignito, non ha alcun valore né mai si potrà arrecare come argomento per dar credito alle private opinioni del medesimo. – Detto ciò in generale, ordiniamo espressamente un’osservanza più diligente di quanto si prescrive nell’articolo XLII della citata Costituzione “Officiorum”, cioè: “È vietato ai sacerdoti secolari, senza previo permesso dell’Ordinario, assumere la direzione di giornali o di periodici”. Del quale permesso, dopo ammonizione, sarà privato chiunque ne facesse cattivo uso. Circa quei sacerdoti, che hanno titoli di corrispondenti o collaboratori, poiché avviene non raramente che pubblichino, nei giornali o periodici, scritti infetti da modernismo, vedano i Vescovi che ciò non avvenga; e se avvenisse, ammoniscano e diano proibizione di scrivere. Lo stesso ammoniamo con ogni autorità che facciano i Superiori degli Ordini religiosi: e se questi si mostrassero in ciò trascurati, provvedano i Vescovi, con autorità delegata dal Sommo Pontefice. I giornali e periodici pubblicati dai cattolici abbiano, per quanto sia possibile, un Censore determinato. Sarà obbligo di questo leggere integralmente e con attenzione i singoli fogli o fascicoli, dopo che sono stati pubblicati: se troverà qualcosa di pericoloso, ordinerà che sia corretto nel foglio o fascicolo successivo. Lo stesso diritto avrà il Vescovo, anche nel caso in cui il Censore non abbia reclamato.

V. Ricordammo già sopra i congressi e i pubblici convegni, in cui i modernisti si adoprano di propalare e propagare le loro opinioni. I Vescovi non permetteranno più in avvenire, se non in casi rarissimi, i congressi di sacerdoti. Se avverrà che li permettano, lo faranno solo a questa condizione: che non vi si trattino cose di pertinenza dei Vescovi o della Sede Apostolica, non vi si facciano proposte o postulati che implichino usurpazione della sacra potestà, non vi si faccia affatto menzione di quanto sa di modernismo, di presbiterianismo, di laicismo. A tali convegni, che dovranno permettersi solo di volta in volta e per iscritto e al momento adatto, non potrà intervenire alcun sacerdote di altra diocesi, se non porta una lettera di raccomandazione del proprio Vescovo. A tutti i sacerdoti poi non passi mai di mente ciò che Leone XIII raccomandava con parole gravissime (Lett. Enc. “Nobilissima Gallorum”, 10 febbraio 1884): “Sia intangibile presso i sacerdoti l’autorità dei propri Vescovi; si persuadano che il ministero sacerdotale, se non si esercita sotto la direzione del Vescovo, non sarà né santo, né molto utile, né rispettabile”.

VI. Ma che gioveranno, o Venerabili Fratelli, i Nostri comandi e le Nostre prescrizioni, se non si osserveranno a dovere e con fermezza? Perché questo si ottenga, Ci è parso espediente estendere a tutte le diocesi ciò che i Vescovi dell’Umbria (Atti del Congr. dei Vescovi dell’Umbria, nov. 1849, tit. II, art. 6), molti anni or sono, con savissimo consiglio stabilirono per le loro: “Per estirpare – così essi dicono – gli errori già diffusi e per impedire che si diffondano ulteriormente, o che rimangano ancora maestri di empietà, attraverso i quali si perpetuano i perniciosi effetti originati da quella diffusione, il sacro Congresso, seguendo gli esempi di San Carlo Borromeo, stabilisce che in ogni diocesi si istituisca un Consiglio di uomini commendevoli dei due cleri, a cui spetti controllare se e con quali arti i nuovi errori si dilatino o si propaghino, e informarne il Vescovo, così che questi, raccolti i suggerimenti, possa prendere rimedi estinguendo il male già sul nascere, senza lasciare che si diffonda sempre più a rovina delle anime, e, ciò che è peggio, si rafforzi e cresca col passar del tempo”. Stabiliamo dunque che un siffatto Consiglio, che si chiamerà di vigilanza, si istituisca quanto prima in tutte le diocesi. I membri di esso si sceglieranno con le stesse norme già prescritte per i Censori dei libri. Ogni due mesi, in un giorno determinato, si radunerà in presenza del Vescovo: le cose trattate o stabilite saranno sottoposte a legge di segreto. I doveri degli appartenenti al Consiglio saranno i seguenti: Scrutino con attenzione gli indizi di modernismo tanto nei libri che nell’insegnamento; con prudenza, prontezza ed efficacia stabiliscano quanto è necessario per l’incolumità del clero e della gioventù. Combattano le novità di parole, e rammentino gli ammonimenti di Leone XIII (S. C. AA. EE. SS., 27 gennaio 1901): “Non si potrebbe approvare nelle pubblicazioni cattoliche un linguaggio che, ispirandosi a malsana novità, sembrasse deridere la pietà dei fedeli ed accennasse a un nuovo ordinamento della vita cristiana, a nuove prescrizioni della Chiesa, a nuove necessità dell’anima moderna, a nuova vocazione sociale del clero, a nuova civiltà cristiana, e molte altre cose di questo genere”. Non sopportino tutto questo, né nei libri né dalle cattedre. Non trascurino i libri nei quali si tratti o delle pie tradizioni di ciascun luogo o delle sacre Reliquie. Non permettano che tali questioni si agitino nei giornali o in periodici destinati a fomentare la pietà, né con espressioni che sappiano di ludibrio o di disprezzo né con affermazioni definitive specialmente, come il più delle volte accade, quando ciò che si afferma o non passa i termini della probabilità o si basa su pregiudicate opinioni. Circa le sacre Reliquie si abbiano queste norme. Se i Vescovi, i quali sono i soli giudici in questa materia, sanno con certezza che una reliquia è falsa, la toglieranno senz’altro dal culto dei fedeli. Se le autentiche di una Reliquia qualsiasi sono andate smarrite o per i disordini civili o in altro modo, essa non si esponga alla pubblica venerazione, se prima il Vescovo non ne abbia fatta ricognizione. L’argomento di prescrizione o di fondata presunzione avrà valore solo quando il culto sia commendevole per antichità: il che risponde al decreto emanato nel 1896 dalla Congregazione delle Indulgenze e sacre Reliquie, in questi termini: “Le Reliquie antiche sono da conservarsi nella venerazione che finora ebbero, salvo nel caso particolare in cui si abbiano argomenti certi che sono false o supposte”. Nel portar poi giudizio delle pie tradizioni si tenga sempre presente, che la Chiesa in questa materia fa uso di tanta prudenza, da non permettere che tali tradizioni si raccontino nei libri, se non con grandi cautele e premessa la dichiarazione prescritta da Urbano VIII: il che pure adempiuto, non per questo ammette la verità del fatto, ma solo non proibisce che si creda, ove a farlo non manchino argomenti umani. Così appunto la sacra Congregazione dei Riti dichiarava fin da trent’anni addietro (Decreto 2 maggio 1877): “Siffatte apparizioni o rivelazioni non furono né approvate né condannate dalla Sede Apostolica, ma solo passate come da piamente credersi con sola fede umana, conforme alla tradizione di cui godono, confermata pure da idonei testimoni e documenti”. Nessun timore può ammettere chi a questa regola si tenga. Infatti il culto di qualsiasi apparizione, quando riguarda il fatto stesso ed è detto relativo, ha sempre implicita la condizione della verità del fatto: quando invece è assoluto, si fonda sempre nella verità, giacché si dirige alle persone stesse dei santi che si onorano. Lo stesso vale delle Reliquie. Diamo mandato infine al Consiglio di vigilanza, di tener d’occhio assiduamente e diligentemente gl’istituti sociali come pure gli scritti di questioni sociali affinché non vi si celi nulla di modernista, ma ottemperino alle prescrizioni dei Romani Pontefici.

VII. Affinché le cose fin qui stabilite non vadano in dimenticanza, vogliamo ed ordiniamo che i Vescovi di ciascuna diocesi, trascorso un anno dalla pubblicazione delle presenti Lettere, e poi ogni triennio, con diligente e giurata esposizione riferiscano alla Sede Apostolica intorno a quanto si prescrive in esse, e sulle dottrine che corrono in mezzo al clero e soprattutto nei Seminari ed altri istituti cattolici, non eccettuati quelli che pur sono esenti dall’autorità dell’Ordinario. Lo stesso imponiamo ai Superiori generali degli Ordini religiosi a riguardo dei loro sottoposti».

A queste cose, che chiaramente confermiamo tutte, pena un peso sulla coscienza per coloro che avranno rifiutato di ascoltare quanto detto, ne aggiungiamo altre, che sono specificamente riferite agli aspiranti sacerdoti che vivono nei Seminari e ai novizi degli istituti religiosi.

– Nei Seminari certamente occorre che tutte le parti dell’istituzione tendano al medesimo fine di formare un sacerdote degno di tale nome. Ed infatti non si può ritenere che simili tirocini si estendano solamente o agli studi o alla pietà. L’ammaestramento fonde in un tutto unico entrambi gli aspetti, ed essi sono simili a palestre finalizzate a formare la sacra milizia di Cristo con una preparazione duratura. Dunque affinché da essi esca un esercito ottimamente istruito, sono assolutamente necessarie due cose, la cultura per l’istruzione della mente, la virtù per la perfezione dell’anima. L’una richiede che la gioventù che si prepara al sacerdozio sia massimamente istruita in quelle scienze che hanno un legame più stretto con gli studi delle cose divine; l’altra esige una straordinaria eccellenza di virtù e di costanza. Vedano dunque i rettori quale aspettativa di disciplina e di pietà si possa nutrire riguardo agli allievi, e scrutino quale sia l’indole dei singoli; se seguono il loro istinto più giusto o se sembrano abbracciare delle disposizioni di spirito profane; se sono docili nell’obbedire, inclini alla pietà, umili, osservanti della disciplina; se aspirano alla dignità di sacerdote perché si sono prefissati il giusto obiettivo, o perché spinti da ragioni umane; se, infine, sono adeguatamente ricchi di santità di vita e di cultura; o se, mancando loro qualcosa di queste, si sforzano almeno di acquisirla con animo sincero e pronto. Né l’indagine presenta troppa difficoltà; giacché i doveri religiosi compiuti lamentandosi, e la disciplina osservata a causa del timore e non della voce della coscienza, rivelano immediatamente la mancanza delle virtù che ho elencato. Colui che tiene come principio il timore servile, o si infiacchisce per debolezza di carattere o disprezzo, è quanto mai lontano dalla speranza di poter esercitare santamente il sacerdozio. Infatti difficilmente si può credere che uno che disprezza le discipline domestiche non verrà poi meno alle leggi pubbliche della Chiesa. Se il rettore della scuola avrà individuato qualcuno con questa disposizione d’animo, e se, dopo averlo ammonito più volte, fatta una prova di un anno, avrà capito che quello non desiste dalla sua consuetudine, lo espella, in modo tale che in futuro non possa più essere accettato né da lui né da alcun Vescovo. – Dunque per promuovere i chierici si richiedano assolutamente queste due: l’onestà di vita unita alla sana dottrina. E non sfugga che quei precetti e moniti coi quali i Vescovi si rivolgono a coloro che stanno per ricevere gli ordini sacri, sono rivolti a questi non meno che a coloro che vi aspirano, allorché viene detto: “Si deve fare in modo che quelli scelti per tale compito siano illustri per saggezza spirituale, onestà di costumi e costante rispetto della giustizia … Siano onesti e assennati tanto nella scienza quanto nelle opere … splenda in essi la bellezza della santità nella sua interezza“. – E certamente dell’onestà di vita si sarebbe detto abbastanza, se questa potesse con poco sforzo essere separata dalla cultura e dalle opinioni, che ciascuno si sarà riservato di sostenere. Ma, come è nel Libro dei Proverbi: L’uomo è stimato secondo la sua cultura (Prov. XII, 8) e come insegna l’Apostolo: Chi… non rimane nella dottrina di Cristo, non possiede Dio (II Giov., 9). Quanto impegno sia da dedicare alle molte e varie cose da imparare bene, lo insegna persino la stessa pretesa dell’epoca attuale, la quale proclama che niente è più glorioso della luce dell’umanità che progredisce. Dunque quanti sono nelle file del clero, se vogliono dedicarsi al loro compito conformemente ai tempi; con frutto esortare gli altri nella sana dottrina e convincere quelli che la contraddicono (Tito, I,9); applicare le risorse dell’ingegno a vantaggio della Chiesa, devono necessariamente raggiungere una conoscenza delle cose tutt’altro che di basso livello, e avvicinarsi all’eccellenza nella cultura. Infatti c’è da lottare con nemici tutt’altro che inesperti, i quali aggiungono ai buoni studi un sapere spesso intessuto di trabocchetti, e le cui sentenze belle e vibranti sono proposte con grande abbondanza e rimbombo di parole, affinché in esse sembri risuonare quasi un qualcosa di esotico. Perciò bisogna predisporre opportunamente le armi, cioè, preparare abbondante foraggio di cultura per tutti coloro che, nella vita ritirata della scuola, si stanno accingendo ad assumere incarichi santissimi e difficilissimi. – E’ vero che, poiché la vita dell’uomo è circoscritta da limiti tali per cui da un fonte ricchissimo di conoscenze a stento è dato di assaggiare qualcosa a fior di labbra, bisogna anche temperare la sete di apprendimento e rammentare l’affermazione di Paolo: non è pio sapere tutto quanto necessita sapere, ma sapere in giusta misura (Rom. XII,3). Per cui, dato che ai chierici già sono imposti molti e pesanti studi, sia per quanto riguarda le sacre scritture, i fondamenti della Fede, le consuetudini, la conoscenza delle devozioni e delle celebrazioni, che vanno sotto il nome di ascetica, sia per quanto riguarda la storia della Chiesa, il diritto canonico, la sacra eloquenza; affinché i giovani non perdano tempo nel seguire altre questioni e non vengano distratti dallo studio principale, vietiamo del tutto a costoro la lettura di qualsiasi quotidiano e periodico, anche se ottimo, pena un onere sulla coscienza di quei rettori che non avranno vigilato scrupolosamente per impedirlo.

Inoltre per allontanare il sospetto che qualsiasi modernismo si introduca di nascosto, non solo vogliamo che siano assolutamente rispettate le cose prescritte sopra al n° II, ma comandiamo inoltre che ogni singolo insegnante, prima di cominciare le lezioni all’inizio dell’anno, mostri al suo Vescovo il testo che si propone di insegnare, o le questioni che tratterà, oppure le tesi; quindi che per quell’anno stesso sia tenuto sotto osservazione il metodo d’insegnamento di ciascuno; e se questo sembrerà allontanarsi dalla sana dottrina, sarà causa sufficiente per rimuovere quell’insegnante. Ed infine, che, oltre alla professione di fede, presti giuramento al suo Vescovo, secondo la formula sotto riportata, e firmi.

Questo giuramento, preceduto da una professione di fede nella formula prescritta dal Nostro Predecessore Pio IV, con allegate le definizioni del Concilio Vaticano, lo presteranno dunque davanti al loro Vescovo:

I. –  I chierici che stanno per ricevere gli ordini maggiori; ad essi singolarmente sia previamente consegnato un esemplare sia della professione di fede, sia della formula del giuramento da emettere, in modo che le conoscano in anticipo accuratamente, essendovi una sanzione, come si vedrà sotto, in caso di violazione del giuramento.

II.– I sacerdoti destinati a raccogliere le confessioni, e i sacri predicatori, prima che sia loro concessa facoltà di svolgere tali compiti.

III. I Parroci, i Canonici, i Beneficiari prima di entrare in possesso del beneficio.

Gli ufficiali nelle curie episcopali e nei tribunali ecclesiastici, inclusi il Vicario generale e i giudici.

Gli addetti ai sermoni che si tengono nei tempi quaresimali.

Tutti gli ufficiali nelle Congregazioni Romane o nei tribunali, in presenza del Cardinale Prefetto o del Segretario di quella Congregazione o di quel tribunale.

VII. I Superiori e i Docenti delle Famiglie e Congregazioni religiose, prima di assumere l’incarico. – I documenti della professione di fede, di cui abbiamo detto, e dell’avvenuto giuramento siano conservati in appositi registri presso le Curie episcopali, e parimenti presso gli uffici di ciascuna Congregazione Romana. Se poi qualcuno osasse, Dio non voglia, violare qualche giuramento, costui sia deferito al tribunale del Sant’Uffizio.

FORMULA DEL GIURAMENTO

Io … fermamente accetto e credo in tutte e in ciascuna delle verità definite, affermate e dichiarate dal Magistero infallibile della Chiesa, soprattutto quei principi dottrinali che contraddicono direttamente gli errori del tempo presente.

 Primo: credo che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza e può anche essere dimostrato con i lumi della ragione naturale nelle opere da lui compiute (cf Rm 1,20), cioè nelle creature visibili, come causa dai suoi effetti.

 Secondo: ammetto e riconosco le prove esteriori della rivelazione, cioè gli interventi divini, e soprattutto i miracoli e le profezie, come segni certissimi dell’origine soprannaturale della religione cristiana, e li ritengo perfettamente adatti a tutti gli uomini di tutti i tempi, compreso quello in cui viviamo.

 Terzo: con la stessa fede incrollabile credo che la Chiesa, custode e maestra del verbo rivelato, è stata istituita immediatamente e direttamente da Cristo stesso vero e storico mentre viveva fra noi, e che è stata edificata su Pietro, capo della gerarchia ecclesiastica, e sui suoi successori attraverso i secoli.

 Quarto: accolgo sinceramente la dottrina della fede trasmessa a noi dagli apostoli tramite i padri ortodossi, sempre con lo stesso senso e uguale contenuto, e respingo del tutto la fantasiosa eresia dell’evoluzione dei dogmi da un significato all’altro, diverso da quello che prima la Chiesa professava; condanno similmente ogni errore che pretende sostituire il deposito divino, affidato da Cristo alla Chiesa perché lo custodisse fedelmente, con una ipotesi filosofica o una creazione della coscienza che si è andata lentamente formando mediante sforzi umani e continua a perfezionarsi con un progresso indefinito.

 Quinto: sono assolutamente convinto e sinceramente dichiaro che la fede non è un cieco sentimento religioso che emerge dall’oscurità del subcosciente per impulso del cuore e inclinazione della volontà moralmente educata, ma un vero assenso dell’intelletto a una verità ricevuta dal di fuori con la predicazione, per il quale, fiduciosi nella sua autorità supremamente verace, noi crediamo tutto quello che il Dio personale, creatore e signore nostro, ha detto, attestato e rivelato.

 Mi sottometto anche con il dovuto rispetto e di tutto cuore aderisco a tutte le condanne, dichiarazioni e prescrizioni dell’enciclica Pascendi e del decreto Lamentabili, particolarmente circa la cosiddetta storia dei dogmi.

 Riprovo altresì l’errore di chi sostiene che la fede proposta dalla Chiesa può essere contraria alla storia, e che i dogmi cattolici, nel senso che oggi viene loro attribuito, sono inconciliabili con le reali origini della religione cristiana.

 Disapprovo pure e respingo l’opinione di chi pensa che l’uomo cristiano più istruito si riveste della doppia personalità del credente e dello storico, come se allo storico fosse lecito difendere tesi che contraddicono alla fede del credente o fissare delle premesse dalle quali si conclude che i dogmi sono falsi o dubbi, purché non siano positivamente negati.

 Condanno parimenti quel sistema di giudicare e di interpretare la sacra Scrittura che, disdegnando la tradizione della Chiesa, l’analogia della fede e le norme della Sede apostolica, ricorre al metodo dei razionalisti e con non minore disinvoltura che audacia applica la critica testuale come regola unica e suprema.

 Rifiuto inoltre la sentenza di chi ritiene che l’insegnamento di discipline storico-teologiche o chi ne tratta per iscritto deve inizialmente prescindere da ogni idea preconcetta sia sull’origine soprannaturale della tradizione cattolica sia dell’aiuto promesso da Dio per la perenne salvaguardia delle singole verità rivelate, e poi interpretare i testi patristici solo su basi scientifiche, estromettendo ogni autorità religiosa e con la stessa autonomia critica ammessa per l’esame di qualsiasi altro documento profano.

 Mi dichiaro infine del tutto estraneo ad ogni errore dei modernisti, secondo cui nella sacra tradizione non c’è niente di divino o peggio ancora lo ammettono ma in senso panteistico, riducendolo ad un evento puro e semplice analogo a quelli ricorrenti nella storia, per cui gli uomini con il proprio impegno, l’abilità e l’ingegno prolungano nelle età posteriori la scuola inaugurata da Cristo e dagli apostoli.

 Mantengo pertanto e fino all’ultimo respiro manterrò la fede dei padri nel carisma certo della verità, che è stato, è e sempre sarà nella successione dell’episcopato agli Apostoli (S. Ireneo, Adversus hæreses, 4, 26, 2: PG 7, 1053), non perché si assuma quel che sembra migliore e più consono alla cultura propria e particolare di ogni epoca, ma perché la verità assoluta e immutabile predicata in principio dagli apostoli non sia mai creduta in modo diverso né in altro modo intesa (Tertulliano, De præscriptione hæreticorum, 28: PL 2, 40).

 Mi impegno ad osservare tutto questo fedelmente, integralmente e sinceramente e di custodirlo inviolabilmente senza mai discostarmene né nell’insegnamento né in nessun genere di discorsi o di scritti. Così prometto, così giuro, così mi aiutino Dio e questi santi Vangeli di Dio.

DOMENICA II di AVVENTO

DOMENICA II di AVVENTO

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

 Introitus
Is XXX:30.
Pópulus Sion, ecce, Dóminus véniet ad salvándas gentes: et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia cordis vestri. [Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori.]
Ps LXXIX:2
Qui regis Israël, inténde: qui dedúcis, velut ovem, Joseph.
[Ascolta, tu che reggi Israele, tu che guidi Giuseppe come un gregge.]

Pópulus Sion, ecce, Dóminus véniet ad salvándas gentes: et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia cordis vestri. [Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori.]

 Oratio
Orémus.
Excita, Dómine, corda nostra ad præparándas Unigéniti tui vias: ut, per ejus advéntum, purificátis tibi méntibus servíre mereámur:
[Eccita, o Signore, i nostri cuori a preparare le vie del tuo Unigenito, affinché, mediante la sua venuta, possiamo servirti con anime purificate:]

Lectio
Lectio Epístolæ beáti Pauli Apostoli ad Romános.
Rom XV:4-13.
Fatres: Quæcúmque scripta sunt, ad nostram doctrínam scripta sunt: ut per patiéntiam et consolatiónem Scripturárum spem habeámus. Deus autem patiéntiæ et solácii det vobis idípsum sápere in altérutrum secúndum Jesum Christum: ut unánimes, uno ore honorificétis Deum et Patrem Dómini nostri Jesu Christi. Propter quod suscípite ínvicem, sicut et Christus suscépit vos in honórem Dei. Dico enim Christum Jesum minístrum fuísse circumcisiónis propter veritátem Dei, ad confirmándas promissiónes patrum: gentes autem super misericórdia honoráre Deum, sicut scriptum est: Proptérea confitébor tibi in géntibus, Dómine, et nómini tuo cantábo. Et íterum dicit: Lætámini, gentes, cum plebe ejus. Et iterum: Laudáte, omnes gentes, Dóminum: et magnificáte eum, omnes pópuli. Et rursus Isaías ait: Erit radix Jesse, et qui exsúrget régere gentes, in eum gentes sperábunt. Deus autem spei répleat vos omni gáudio et pace in credéndo: ut abundétis in spe et virtúte Spíritus Sancti.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Omelie – Vol. I, Omelia III – Torino 1899]

“Tutte le cose che furono già scritte, furono scritte per nostro ammaestramento, affinché per la pazienza e per la consolazione delle Scritture noi manteniamo la  speranza. Il Dio poi della pazienza e della consolazione vi conceda di avere un medesimo sentimento fra voi, secondo Gesù Cristo. Affinché di pari consentimento, con un sol labbro, diate gloria a Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo. Il perché accoglietevi gli uni gli altri come Gesù Cristo ha accolto voi a gloria di Dio. E veramente io affermo, Gesù Cristo essere stato ministro della circoncisione per la veracità di Dio, per mantenere le promesse fatte ai patriarchi: i gentili poi glorificare Iddio per la misericordia, siccome sta scritto: Per questo io ti celebrerò fra le nazioni e inneggerò a] tuo nome. E altrove: Rallegratevi, o genti, col suo popolo. E ancora: “Quante siete nazioni, lodate il Signore, e voi, o popoli tutti, celebratelo. E Isaia dice ancora: Vi sarà il rampollo di Jesse e colui che sorgerà a reggere le nazioni, e le nazioni spereranno in lui. Intanto il Dio della speranza vi ricolmi di ogni allegrezza e pace nel credere, affinché abbondiate nella speranza per la forza dello Spirito santo. ,, (Ai Rom, XV, 4-13). –

Queste parole l’apostolo Paolo scriveva ai fedeli a Chiesa di Roma verso la fine della sua lettera, e queste parole la Chiesa oggi ci fa leggere nella santa Messa, e su queste parole io richiamerò per pochi minuti la vostra attenzione, che vi prego di accordarmi intera. – ” Tutte le cose che furono già scritte, furono scritte per nostro ammaestramento, affinché per la pazienza e per la consolazione delle Scritture noi manteniamo la speranza. „ Per comprendere il significato di questa sentenza fa d’uopo rilevare il nesso con le parole che la precedono. Nel versetto antecedente l’Apostolo parla di Gesù Cristo, che non secondò le sue inclinazioni naturali per salvare gli uomini, ma tutto sostenne; onde tutte le offese fatte a Dio ricaddero sopra di Lui, che n’era mallevadore, e a conferma cita un luogo del Salmo LXVIII: ” I vituperi dei tuoi vituperatori caddero sopra di me: „ parole queste messe in bocca a Gesù Cristo stesso. Messo innanzi ai fedeli questo oracolo delle Scritture, adempiutosi in Cristo, l’Apostolo prosegue, affermando in genere, che tutto ciò che i Libri divini insegnano, lo insegnano a nostro vantaggio spirituale. Che cosa sono i Libri santi? Sono il Codice divino, al quale dobbiamo conformare tutta la nostra vita: sono la lettera, scrive S. Atanasio, che Dio manda agli uomini; lettera che contiene la sua santa volontà, legge sovrana per noi tutti. “La Scrittura tutta, dice san Paolo in un altro luogo, è divinamente inspirata, ed è utile ad insegnare, ad arguire, a correggere, ad ammaestrare nella giustizia, affinché l’uomo di Dio sia perfetto ed adorno d’ogni opera buona „ (II Timot. III, 16 e 17). Senza il conoscimento di ciò che dobbiamo credere e fare è impossibile salvarci. E questo conoscimento donde deriva? Da Dio solo, fonte d’ogni verità. E per quali modi, per quali vie Dio ci comunica il conoscimento di queste verità? Per mezzo della parola; e questa può essere annunziata a noi a voce per mezzo degli Apostoli e della Chiesa e può giungere a noi scritta, per mezzo dei Libri divinamente ispirati. La prima via è la più facile e spedita e basta per tutti indistintamente gli uomini: la seconda via è meno facile e meno spedita, né a tutti possibile: ma è pur sempre buona e santa. Qual cosa più buona e santa dell’apprendere le verità della fede su quei libri, che Dio volle si scrivessero a nostra istruzione e conforto? Quelle verità, che un dì risuonarono sulle labbra di Cristo e degli Apostoli, sono lì scritte sui Libri santi: tra noi e gli ascoltatori di Cristo e degli Apostoli non vi è differenza alcuna; quelli ricevevano la verità per gli orecchi, noi per gli occhi, ma è sempre la stessa verità. – Un tempo, o carissimi, la Scrittura santa si leggeva e si meditava anche dai semplici fedeli; era un libro in mano di tutti che sapevano leggere: oggi dov’è il laico, anche istruito, che legga e mediti alcuna volta questo Libro divino? Si leggeranno libri d’ogni  maniera; ma il libro per eccellenza, il libro in cui tutto è verità e che ci ammaestra nelle cose del cielo, che ci insegna la via della virtù, pur troppo è dimenticato. Se non lo si legge, né si medita, se ne ascolti almeno la spiegazione, che la Chiesa comanda sia fatta al popolo ogni domenica! E che cosa ci insegnano i Libri santi e nominatamente le parole del Profeta sopra riportate dall’Apostolo? Esse ci insegnano (scolpitevelo bene nell’animo), ci insegnano la pazienza nei mali e il conforto nelle tribolazioni. Chi di noi, o dilettissimi, non ha da soffrire nell’esercizio della virtù, e nel durarvi saldamente? Bisogna patire, bisogna portare ogni giorno la nostra croce, e sovente assai pesante. Ebbene! Nei Libri sacri, nell’esempio dei santi e sopratutto nell’esempio di Gesù Cristo troveremo lume, forza e conforto e perfino consolazione in mezzo alle amarezze della vita, ponendoci innanzi agli occhi la mercede che ci è promessa e che teniamo sicura per la speranza: Spem habeamus. Un’anima, che si inginocchia dinanzi a Gesù Cristo crocifisso e, scorrendo il Vangelo, ne medita la vita piena di dolori, di umiliazioni senza nome e pensa ch’Egli è Dio, il Santo per eccellenza: un’anima, che creda oltre la tomba cominciare un’altra vita interminabile, in cui si riparano le ingiustizie della presente e i dolori passeggeri di questa sono ripagati con gioie ineffabili ed eterne: come volete che quest’anima non si conforti e non si rallegri? Ah! essa deve esclamare con l’Apostolo: “Sovrabbondo di gioia in mezzo alle mie tribolazioni e la morte stessa per me è un guadagno. „ – Pregustando nella speranza le gioie promesse a chi soffre per Gesù Cristo, S. Paolo, in uno di quegli impeti di carità sì frequenti nelle sue lettere, esclama: “Il Dio della pazienza e della consolazione vi conceda di avere un medesimo sentimento fra voi, secondo Gesù Cristo. „ Le parole “il Dio della pazienza e della consolazione „ sono un modo di dire ebraico, che significa, Dio autore e Largitore della pazienza e della consolazione: Dio, che è pazientissimo, o la stessa pazienza e consolazione, vi conceda ciò che è frutto prezioso della pazienza e causa di consolazione purissima, cioè la pace, la concordia fra voi, secondo Gesù Cristo, cioè quale è da Lui voluta. Carissimi! l’Apostolo desiderava ai suoi cari figliuoli, come il massimo dei beni, la concordia e la pace tra loro. L’abbiamo noi nella nostra parrocchia, nelle nostre famiglie questa pace benedetta, questo sentimento stesso tra noi, come si esprime l’Apostolo? Oimè! Quanti mali umori! quanti rancori! quante maldicenze, che seminano la discordia e mettono sossopra le famiglie! Se la carità fraterna non regna nei nostri cuori, come potremo, di pari sentimento e d’un sol labbro glorificare Iddio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, secondo che comanda l’Apostolo? Può egli un padre amoroso gradire l’ossequio e le testimonianze di riverenza e di affetto dei figli, quando sa che essi si guardano di mal occhio tra loro e forse anche si odiano? Oh! no certamente; così Iddio, il padre nostro, non può gradire i nostri omaggi e le nostre preghiere, se i nostri cuori non sono avvivati dall’alito divino della carità fraterna. Dobbiamo aver tutti un solo cuore e un’anima sola, come i cristiani della primitiva Chiesa, e allora la preghiera e la lode uscirà dalle nostre labbra come un soave profumo, che rallegra il cuore di Dio. Gesù Cristo è il sovrano ed eterno modello, sul quale dobbiamo tener fissi gli occhi, e l’Apostolo in modo specialissimo ad ogni pagina, quasi ad ogni linea delle inarrivabili sue lettere, ce lo rammenta. Se il vincolo della carità di Gesù Cristo congiunge tutti i cuori e ne caccia le contese ed i sospetti, quale ne sarà la naturale conseguenza? “Allora voi – dice S. Paolo – vi accoglierete gli uni gli altri, come anche Gesù Cristo accolse voi a gloria di Dio. „ E come Gesù Cristo accolse voi? sembra domandare l’Apostolo. Fra voi non pochi sono figli di Abramo e portano il segno dell’alleanza e della promessa divina, fatta ai patriarchi, e molti sono gentili, nati e cresciuti in mezzo alle tenebre del paganesimo; ma Gesù Cristo, continua l’Apostolo, non ha fatto differenza alcuna, e ha chiamati egualmente alla fede voi, Ebrei, e voi, gentili, e tutti egualmente vi ha stretti al suo seno paterno. Se Gesù Cristo pertanto vi ha accolti tutti nella sua Chiesa, vi ama tutti come figli e tutti vi ricolma dei suoi doni, come non dovete voi pure accogliervi gli uni gli altri quasi fratelli? L’argomento non poteva essere più chiaro ed efficace. E qui vedete differenza che corre tra le società umane e la società divina, che è la Chiesa. Fate che in una società umana entrino ricchi e poveri, sapienti ed ignoranti; fate che vi siano Francesi ed Inglesi, Tedeschi ed Italiani e andate dicendo: essi sono tutti uomini e lo riconoscono: ma qual differenza di accoglienze tra loro! Quali diffidenze! quali sospetti! Si dicono fratelli, ma troppo spesso si trattano come stranieri, anzi come nemici. Non così nella grande famiglia di Gesù Cristo, che è la Chiesa! Sono tutti figli dello stesso Padre celeste, tutti fratelli e se si usa qualche differenza, questa è per i poverelli, per gli ignoranti, perché Gesù Cristo disse: “Son venuto per annunziare il Vangelo ai poveri e per consolare gli afflitti. „ Nella Chiesa di Gesù Cristo non vi è né greco, né scita, né barbaro: son tutti egualmente redenti da Lui e tutti fratelli. S. Paolo per provare la chiamata dei gentili alla fede non altrimenti degli Ebrei cita quattro oracoli profetici, che a principio avete udito e che non occorre ripetere. Piuttosto è da notare una differenza, che l’Apostolo mette in rilievo tra la chiamata degli Ebrei e quella dei gentili, ed è questa, che Gesù Cristo chiama gli Ebrei per la veracità, doveché chiama i gentili per la misericordia. Che differenza è questa, o dilettissimi? Forse che anche la chiamata degli Ebrei non è opera di misericordia come quella dei gentili? Sì, e chi ne potrebbe dubitare? Come dunque S. Paolo attribuisce la prima alla veracità di Dio e la seconda alla sua misericordia? La risposta è facilissima. La conversione degli Ebrei, come quella  dei gentili, è tutta e sola opera della bontà e misericordia di Dio, come insegna la fede. Che merito o diritto potevamo noi avere a tanta grazia, noi che abbiamo ricevuto tutto da Lui; noi che non avevamo di nostro che il peccato; noi che siamo miserabili creature? Indegni d’essere suoi servi, come potevamo aspirare all’altissimo onore di diventare suoi figli per adozione? Iddio, unicamente per sua bontà, ripetutamente per i profeti e pei patriarchi promise ai figli d’Israele la salute per mezzo di Gesù Cristo, mentre che ai gentili non fece direttamente promessa alcuna: ai gentili non diede la legge di Mose, non i profeti, non i patriarchi: a loro diede la sola ragione e con essa la legge naturale. Coll’offrire la fede agli Ebrei Dio mantenne le sue promesse fatte loro nei Libri santi, ed ecco perché S. Paolo l’attribuisce alla veracità di Dio: coll’offrire la fede ai gentili Dio non mostrò di mantenere promesse di sorta, perché ai gentili non ne aveva fatte, e perciò S. Paolo ripete la loro conversione dalla sola misericordia. In una parola: Dio accolse gli Ebrei per la sua misericordia e per mantenere le promesse loro fatte, e accolse i gentili per la sola sua misericordia, perché con essi non aveva promesse da osservare. Noi, o dilettissimi, siamo figli di questi gentili, che Dio accolse insieme coi figli d’Israele; noi siamo gli eredi della loro fede e in noi si continua la divina misericordia. Permettete che ve lo domandi: La vostra fede è viva ed operosa come quella dei Romani, ai quali scriveva l’Apostolo e che era rinomata in tutto il mondo? In mezzo ai tanti pericoli che ne circondano, alle tante insidie che ci son tese, la conserviamo noi pura ed intatta, come il più prezioso beneficio della misericordia divina? La onoriamo noi questa fede con le opere, che la mostrano viva ed efficace? Ascoltiamo la risposta che a ciascuno darà la coscienza. – Siamo all’ultimo versetto della epistola citata: “Intanto il Dio della speranza vi riempia d’ogni allegrezza e pace nel credere, con l’arricchirvi di speranza nella potenza dello Spirito santo. „ E un caro e santo augurio,, che con la tenerezza di padre l’Apostolo indirizza ai suoi figliuoli in spirito. Il Dio della speranza, che è quanto dire, Dio autore, fonte e termine della speranza, allontani da voi qualunque contesa e discordia, vi riempia di quella pace, che è figlia della fede e vi avvalori nella forza dello Spirito santo; e in termini più chiari ancora: Dio vi conceda di star saldi nella fede, che avete ricevuta e nella speranza, che deriva dalla fede, e frutti di questa fede e di questa speranza saranno l’allegrezza e la pace, e tutti questi beni conservi ed accresca in noi la grazia e la forza dello Spirito santo. S. Paolo in questa sentenza ci presenta l’allegrezza e la pace, che augura ai fedeli, come frutti della fede e della speranza, e bene a ragione. – La fede, o cari, ci dice chiaramente la nostra origine, ci segna la strada che dobbiamo tenere, ci addita il fine, a cui dobbiamo tendere; essa ci insegna con sicurezza donde veniamo e dove andiamo. La speranza, che si fonda nella fede, ci insegna i mezzi, con lo aiuto dei quali possiamo e dobbiamo raggiungere il fine, pel quale siamo creati. Ponete che un uomo ignori chi l’abbia creato e messo su questa terra: che ignori al tutto ciò che sarà di lui di là della tomba, in quella regione, dove tutti entrano e d’onde nessuno torna mai: ponete per conseguenza che quest’uomo non abbia, né possa mai avere un solo filo di speranza per la vita avvenire: ditemi, quest’uomo non sarebbe egli come un essere perduto sulla terra? Immaginate che voi, ad un tratto, bendati gli occhi, foste trasportati li da una forza prepotente lungi molte migliaia di miglia e deposti in mezzo ad un deserto: aprite gli occhi, vi rivolgete da ogni lato, non vedete traccia di via, non un colle, non un albero, non il sole, velato da fitte nubi, non una stella: non vedete che arida sabbia, e deserto in tutta la maestà opprimente del suo silenzio. Potreste voi dire, donde siete venuto! dove vi convenga volgere il passo per uscire da quel deserto, in cui vi sentite morire? Impossibile. Ecco l’immagine d’un uomo senza fede e senza speranza. Egli si trova balzato qui sulla terra, come in mezzo ad uno sconfinato deserto. Chi mi ha dato la vita? domanda affannosamente a se stesso. Chi mi h a collocato quaggiù? Dove mi debbo incamminare? Che debbo fare? Là è la tomba: presto vi sarò calato: oltre la tomba, che c’è? Finirò tutto nel cimitero? Vi sarà un’altra vita, e quale? Domande inevitabili e paurose, alle quali nessuno risponde: il grido del misero si perde nel deserto: non v’è un’eco lontana, che risponda: tutto è silenzio e morte. Ecco l’uomo senza fede e senza speranza: è ciò che si può immaginare di più desolato, di più sconsolato: è il nulla, il nulla nella sua forma più spaventevole. — Ma brilli in alto un raggio di luce, un raggio della fede e della speranza, e l’orrido deserto si copre di erbe verdeggianti; di vaghi fiori: da lungi si scorge la patria, sospirata e si vede la via sicura che ad essa conduce. Ah! la pace, la gioia della fede e della speranza cristiana. Vedete questi poveri operai, che sudano nella loro officina : quei poveri contadini, che indurano sotto la sferza del sole di luglio e sotto i geli del gennaio: vedete quelle povere madri, quelle vedove, che a stento possono sfamare e coprire di abiti sdrusciti i loro figli: essi soffrono, e Dio solo conosce appieno i loro dolori: ma essi sanno che Dio li ha creati; che Gesù Cristo li ha redenti, che ha patito come loro e più di loro: sanno che l’occhio di Dio veglia sempre sopra di loro, che conta le loro lacrime, che li sostiene con la sua grazia, che alla morte comincia una seconda vita interminabile, e che allora sarà fatta a tutti piena giustizia: essi sanno in fine che Gesù Cristo disse: Beati i poveri: beati quelli che piangono: beati quelli che soffrono per la giustizia: beati quelli che sono perseguitati perché grande è la loro mercede: questo pensiero del premio eterno, che li attende è quello che li conforta, che muta in gioia il dolore e sulla terra dell’esilio fa gustare le dolcezze della patria. — “Che il buon Dio pertanto, chiuderò ancora con san Paolo, vi riempia. Di ogni allegrezza e pace nella fede e vi arricchisca di speranza nella potenza dello Spirito Santo!. ,,

Graduale
Ps XLIX:2-3; 5
Ex Sion species decóris ejus: Deus maniféste véniet,
V. Congregáta illi sanctos ejus, qui ordinavérunt testaméntum ejus super sacrifícia. [Da Sion, ideale bellezza: appare Iddio raggiante.
V. Radunategli i suoi santi, che sanciscono il suo patto col sacrificio. Alleluia, alleluia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja,
Ps CXXI:1
V. Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. Allelúja. [V. Mi sono rallegrato in ciò che mi è stato detto: andremo nella casa del Signore. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt. XI:2-10
In illo tempore: Cum audísset Joánnes in vínculis ópera Christi, mittens duos de discípulis suis, ait illi: Tu es, qui ventúrus es, an alium exspectámus ? Et respóndens Jesus, ait illis: Eúntes renuntiáte Joánni, quæ audístis et vidístis. Cæci vident, claudi ámbulant, leprósi mundántur, surdi áudiunt, mórtui resúrgunt, páuperes evangelizántur: et beátus est, qui non fúerit scandalizátus in me. Illis autem abeúntibus, coepit Jesus dícere ad turbas de Joánne: Quid exístis in desértum vidére ? arúndinem vento agitátam ? Sed quid exístis videre ? hóminem móllibus vestitum ? Ecce, qui móllibus vestiúntur, in dómibus regum sunt. Sed quid exístis vidére ? Prophétam ? Etiam dico vobis, et plus quam Prophétam. Hic est enim, de quo scriptum est: Ecce, ego mitto Angelum meum ante fáciem tuam, qui præparábit viam tuam ante te. [In quel tempo: Non appena Giovanni, nel carcere, sentí delle opere del Cristo, mandò due suoi discepoli a chiedergli: Sei tu quello che deve venire o attenderemo un altro? E Gesú rispose loro: Andate e riferite a Giovanni ciò che avete udito e visto. I ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti resuscitano, i poveri sono evangelizzati: ed è beato chi non si scandalizzerà di me. Andati via quelli, Gesú incominciò a parlare di Giovanni alla folla: Cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna agitata dal vento? Ma cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito mollemente? Ecco, quelli che vestono mollemente abitano nelle case dei re. Ma cosa siete andati a vedere? Un profeta? Vi dico anzi: piú che un profeta. Questi in vero è colui del quale è scritto: Ecco mando il mio angelo avanti a te, affinché ti prepari la via.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XI, 2-8)

Miracoli di Gesù Cristo.

E perché il Battista stretto in catene nel castello di Macheronte manda due dei suoi discepoli à interrogar Gesù Cristo, s’Egli era o no il Messia aspettato da tutte le genti? Ben Lo conobbe con lume profético fin dal ventre materno, e in riva al Giordano, e nella carcere stessa ove gli arrivò la fama dei suoi prodigi. Or perché spedisce ambasciata a chiedere quel che non ignorava? Ecco il perché: voleva che i suoi discepoli conoscessero Gesù per il promesso Salvatore del mondo, come egli il conosceva. E per qual mezzo? Per mezzo de’ miracoli che avrebbe operato in loro presenza. Infatti giunti al suo cospetto i due inviati, “andate, disse loro, e riferite a Giovanni ciò che udiste e vedeste con gii occhi vostri: ai ciechi s’è data la vista, ai zoppi libero e retto il passo, ai lebbrosi la mondezza, ai sordi l’udito”. Ammirate, uditori, l’eccellente maniera di rispondere più coll’opere, che colle parole. I miracoli adunque da Cristo operati son quelli che danno a conoscere la sua Persona, la sua divinità; e ciechi son quelli, e ciechi di pura malizia, che di tali prodigi o negano l’evidenza, o non ne ravvisano l’autore. Contro di questi ciechi è diretta la presente spiegazione, per illuminarli, se sia possibile, o piuttosto per aggiungere lume a voi, miei fedeli carissimi, che siete figli della luce per ferma cristiana credenza. Di grazia non perdete una parola di quanto son per dirvi colla solita discreta brevità. – V’è sempre stata nel mondo, e volesse Iddio che non vi fosse tutt’ora, una certa razza di gente perversa, che non vuol vedere, che non vuol intendere, per non esser astretta a lasciar il male ed ad operare il bene. Lo disse sin dai suoi tempi il reale Profeta, “noluit intellìgere, ut bene ageret” (Ps. XXXV, 3). Tali erano né più né meno i Farisei, questi uomini superbi, che il divin Redentore chiamava ciechi, e guide di ciechi, “cæci et duces cæcorum” (Matth. XV, 14), vedevano i miracoli di Gesù Cristo, e pur non volevano vederli;  li vedevano operati alla vista del pubblico, alla loro presenza, sotto degli occhi propri in modo da non poterli per alcun verso negare, (e qui è da notarsi, uditori, tratto mirabile d’altissima provvidenza, che nessun dei nemici di Cristo abbia mai negato infatti, l’opere sue prodigiose, non gli Ebrei, non i Gentili, non i profani scrittori), li vedevano, dissi, i caparbi Farisei, e non volendo vederli, a tutt’altra cagione ne attribuivano la virtù, che alla sua Persona, molto meno alla sua Divinità. Dicevano pertanto: “Come può costui per divina virtù far miracoli, se non osserva la legge di Mosè, se non santifica il sabato, se opera contro il precetto di Dio?” –  “E voi, Gesù rispondeva, che vi vantate osservatori della legge Mosaica, non portate nel giorno festivo del sabato ad abbeverare i vostri giumenti? e se il vostro somaro cade per via, non vi affaticate a sollevarlo da terra? S’io poi senz’uso di braccia, senz’altra fatica raddrizzo gli storpi, illumino i ciechi, do l’udito ai sordi, la favella ai muti, la sanità agl’infermi, sono da voi incolpato violatore del giorno santo, e del precetto di Dio e di Mosè?” – Queste divine risposte chiudevano la bocca agli accusatori maligni per poi aprirla a nuove imposture. Tu, dicevano, fra l’altre opere meravigliose discacci i demoni dai corpi ossessi, è vero, ma li discacci in nome di Beelzebù principe dei demoni. Ma come? rispondeva il mansueto Signore, se i maligni spiriti, da me sforzati ad uscire dai corpi invasati, si lagnano ch’io son venuto a tormentarli, che su di loro esercito un troppo rigoroso potere, e confessano ch’ Io son il Cristo promesso? E poi, un regno diviso in contrari partiti sarà desolato e distrutto. Come dunque potrà sussistere il regno di satana principe dei demoni, se egli e i suoi satelliti sono tra loro in di visione ed in contrasto? Quest’ opere mie sono finalmente a vantaggio dell’uomo, tanto pel corpo quanto per lo spirito, e glorificano il mio Padre celeste, ripugna dunque ch’Io mi valga d’un nome nemico dell’uomo, e nemico di Dio. – Seguite ad ascoltarmi, soggiungeva il Divino Maestro, o abitatori di Gerusalemme, o popoli della Palestina. L’opere che in nome del Padre mio io vo facendo a benefizio di tutti voi vi danno di me la più autentica testimonianza, e provano la verità delle mie parole, ch’io sono il Figliuolo di Dio, ch’Io e il mio Padre siamo due quanto alle Persone, ed un solo Dio riguardo all’essenza, “Ego et Pater unum sumus” (Io. X, 30). Non credete alle mie parole? credete ai fatti, credete all’opere, e se opere non fo degne di Dio mio Padre, non mi prestate fede: “Si non facio opera Patris mei, nolite credere” (ib. 37). Se poi da me son fatte, “si autem facio”, e non potete ignorarle, credetemi, “operibus credite”. Son pur opere mie i ciechi illuminati, i zoppi raddrizzati: e per me i muti hanno acquistato la favella e i sordi l’udito: dalla forza di mie parole son mondati i lebbrosi, sono prosciolti gli energumeni, son risanati d’ogni genere infermi: al mio volere obbediscono il mare e i venti: le febbri, i malori, i demoni e la morte, che ha restituiti i cadaveri d’una stesa sul letto, d’un altro condotto alla tomba, d’altro già fracido e fetente, da quattro giorni sepolto. Di questi miracoli son testimoni i vostri occhi, sugli occhi vostri son tuttavia i risanati, i prosciolti, i risuscitati. Voi non osate, né potete negarli. Sentite or dunque; i miracoli sono i caratteri, sono i sigilli della divina onnipotenza. Iddio non lascia, né può lasciare in mano a veruno i suoi sigilli per testificare la menzogna, per autorizzare l’impostura; dunque quanto insegna, quanto di sé asserisce l’Operatore di tali miracoli, è una incontrastabile verità, verità da Dio confermata, da Dio suggellata, verità che quel che vi parla sotto l’umana forma è il Figlio di Dio, il Verbo eterno, un Dio fatto uomo, un Uomo-Dio. – A queste prove convincentissime che risolvono i Farisei, gli Scribi, i capi del Sinedrio? Credono i prodigi, non credono alle parole; credono i miracoli, non ne ammettono le conseguenze. – “Che facciamo noi, s’interrogano intanto a vicenda, radunati a concilio presso il Pontefice Caifa, che facciamo noi? Quest’uomo, questo Nazareno fa molti e grandi prodigi,” … “Quid facimus, quia hic homo multa sìgna facit” (Io. XI, 47)?  Ecco chiara e manifesta la confessione della verità de’ miracoli di Gesù Cristo. “Homo hic multa signa fæcit”, e di questa confessione quale si fu il risultato? Eccolo: “cogitaverunt ut interficerent eum”. Decisero a voti concordi di toglierlo dal mondo. Possibile tanta nequizia, e tanto accecamento? Così fu. La loro malizia li rese ciechi, e indurì i loro cuori, “excæcavit oculos eorum, et indurexit cor eorum” (Io. XI, 40). – E forse che a’ giorni nostri non succede altrettanto? Noi abbiamo innanzi agli occhi molti e stupendi miracoli, e pure … i miracoli, voi m’interrompete, dopo quei di Gesù Cristo eran frequenti nella Chiesa nascente, perché necessari, dice il Magno Gregorio (Hom. 29 in Ev.), come ad una tenera pianta è necessario un frequente inaffiamento; ora però che la Chiesa è come un albero alto, cresciuto, che stende i suoi rami dall’uno all’altro confine dell’universo, non v’è più necessità di miracoli, sono al presente assai rari, e non mai ne abbiamo veduto. E pure, io ripeto, molti e stupendi miracoli vi stanno dinanzi, se volete distinguerli. Mirate quel santo Crocifisso, quell’altare, queste sacre immagini, questa Chiesa, son questi autentici monumenti, testimoni parlanti dei miracoli operati da Gesù Cristo, dagli Apostoli e da’ loro successori nella propagazione della cattolica fede. I nostri maggiori, i nostri antichi padri erano ciechi adoratori d’idoli falsi e insensati: regnava in queste nostre contrade la pagana superstizione. Chi alle statue di Giove, di Saturno, di Venere, di Mercurio, e di tanti altri creduti, adorati qual Dei, ha sostituita la Croce, il Crocefisso, le immagini di Maria e dei Santi? Non la forza dell’armi, non l’allettamento dei sensi, non qualunque altra passione o violenza, ma l’intima persuasione della verità: e questa verità con qual mezzi è penetrata nella mente e nel cuore di gente idolatra? Coi miracoli, miei cari, coi miracoli; imperciocché al dilemma del grand’Agostino conviene ridursi: o il mondo dalla cieca superstiziosa idolatria si è convertito alla fede di Cristo per via di miracoli, o senza miracoli. Se per via di miracoli, dunque è fuor di questione la loro realtà. Se senza miracoli ha il mondo abbandonato il paganesimo, una setta, un culto tutto a seconda dell’umane passioni, ed ha infranto i simulacri di quei numi protettori dei vizi, e dei viziosi, Giove degli adulteri, Venere degl’impudichi, Mercurio dei ladri, Bacco degli ubriachi, ed ha invece abbracciato una legge, legge evangelica, che umilia lo spirito, che impone al cuore, che proibisce non solo ogni opera malvagia, ma d’esse il desiderio, l’affetto e la volontaria compiacenza; egli è questo il maggiore di tutti i miracoli. Miracolo che tutt’ora sussiste, e questa Chiesa, e quel fonte battesimale, e questi altari, e quella croce ne sono gli effetti e le prove, anzi il miracolo stesso, ed altrettanti miracoli.Ed in vero, quando il divino Redentore risuscitò Lazzaro quatriduano fu un miracolo stupendissimo, e ne restarono sorprese e tocche sensibilmente le molte astanti qualificate persone, venute da Gerusalemme a far visita di condoglianza alle sue sorelle Marta e Maddalena; e se tale fu nel primo istante, nel primo giorno che questo avvenne, fu sempre tale il secondo, il terzo giorno, e tutti quegli anni che durò là vita di Lazzaro; laonde si poteva dir Lazzaro un miracolo vivente, un continuo miracolo. Per simile modo quel santo Crocifisso, che adoriamo, è un miracolo permanente che ci rammemora il massimo de’ prodigi, un mondo convertito, un mondo fatto adoratore d’un Uomo-Dio confitto in Croce; ed una Croce, conchiude sant’Agostino, pria patibolo infame di empì malfattori, passata dal luogo de’ supplizi all’onor degli altari e degli incensi, e collocata in fronte ai re, agl’imperatori, “a locis suppliciorum ad frontes ìmperatorum” (Enar. in ps. XXXVIII, 2). – Prodigi son questi che durano pur tuttavia, e dureranno sino alla consumazione dei secoli; e i secoli che sono decorsi dalla loro origine non scemano punto la loro realtà, la provano anzi e più la confermano. Chi dunque non vorrà riconoscerli? I simili ai Farisei, i ciechi di malizia, che gli hanno per abitudine sotto lo sguardo materiale, ma applicar non vogliono l’intelletto a comprenderne l’evidenza e la forza; e nella volontaria loro cecità si fanno un vanto di sparger dubbi, ed affettar talento e bello spirito, con tacciarli di pregiudizi superstiziosi. Non vi sorprenda, o fedeli, la loro arditezza. Hanno i meschini in ciò il loro interesse. Gli Ebrei avevano risoluto d’uccidere Gesù Cristo operatore di miracoli, per timore di perdere il grado e l’autorità che avevano sul popolo, “tollent nostrum locum et gentem” (Jo. XI, 48). I miscredenti temono perdere la quiete dell’animo, la pace del cuore, che si lusingano trovare ne’ piaceri del senso. E siccome fede e peccato non si comportano, ed altronde non vogliono desistere dal peccare, perciò la fede diventa loro nemica; nemica che turba le loro coscienze, che amareggia i loro piaceri colle terribili verità che presenta dopo una morte certa. Oh Dio! un giudizio a rigor di pura giustizia, un giudice inesorabile, un Dio punitore degli empì, un supplizio eterno sono oggetti fastidiosi e funesti, sono nubi oscure minaccianti fulmini e tempeste, che gli empì pensano dissipare con una negativa, la quale sebbene non li assicuri, almeno li palpa, e li anima a lusingarsi che non esista quel che ricusano vedere, ed hanno interesse a non credere. Poveri ciechi! preghiamo per essi, e se per nostra sventura fossimo colpiti ancor noi da una eguale cecità, deh portiamoci ai piedi di Gesù luce del mondo, e col cieco di Gerico, e col penitente Profeta preghiamolo di cuore, che dissipi le nostre tenebre, e ci conceda la vista dell’anima, “Domine ut videam. Deus meus, illumine tenebras meas” (Luc. XVIII, 41; Ps. XVII, 29), Signore, le nostre passioni ci han tolto ogni lume di ragione e di fede, confessiamo la nostra cecità, ed il conoscerla e il contestarla è già un principio di luce che viene da Voi. Deh! dunque compite le vostre misericordie, comandate che in noi sia fatta la luce, “fiat lux”, luce che ci faccia conoscere l’eterne verità, che indirizzi i nostri passi nella via dei vostri precetti, nella strada della salute. Sarà questo forse il maggiore dei vostri miracoli, quanto più di quella della corporale cecità, è eccellente e preziosa la guarigione della cecità dello spirito.

CREDO …

Offertorium
Orémus
Ps LXXXIV:7-8
Deus, tu convérsus vivificábis nos, et plebs tua lætábitur in te: osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam, et salutáre tuum da nobis.
[O Dio, rivongendoti a noi ci darai la vita, e il tuo popolo si rallegrerà in Te: mostraci, o Signore, la tua misericordia, e concedici la tua salvezza.]

Secreta
Placáre, quǽsumus, Dómine, humilitátis nostræ précibus et hóstiis: et, ubi nulla suppétunt suffrágia meritórum, tuis nobis succúrre præsídiis. [O Signore, Te ne preghiamo, sii placato dalle preghiere e dalle offerte della nostra umiltà: e dove non soccorre merito alcuno, soccorra la tua grazia.]

Communio
Bar V:5; IV:36
Jerúsalem, surge et sta in excélso, ei vide jucunditátem, quæ véniet tibi a Deo tuo.
[Sorgi, o Gerusalemme, e sta in alto: osserva la felicità che ti viene dal tuo Dio.]

Postcommunio
Orémus.
Repléti cibo spirituális alimóniæ, súpplices te, Dómine, deprecámur: ut, hujus participatióne mystérii, dóceas nos terréna despícere et amáre cœléstia.
[Saziàti dal cibo che ci nutre spiritualmente, súpplici Ti preghiamo, o Signore, affinché, mediante la partecipazione a questo mistero, ci insegni a disprezzare le cose terrene e ad amare le cose celesti.]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL CATECHISMO

IL CATECHISMO

[Renovatio, IV (1969), fasc. 3 pp. 365-366]

Si stanno preparando catechismi, alcuni sono già comparsi. Quelli comparsi non hanno vita pacifica, ciò che fa pensare il loro sorgere non esser stato eccessivamente sereno. E per questo fatto e per questo motivo che pare opportuno richiamare dei punti fondamentali in merito. – Il catechismo è quello che forma il popolo di Dio. Questo nella sua grande maggioranza vive del suo catechismo. Spesso lo dimentica, anche per lungo tempo, ma, a tutte le età, il vecchio catechismo ha delle meravigliose risorgive, che rendono più recettivi alle divine grazie illuminanti. La più gran parte di quelli che ritrovano il loro Signore dinanzi alla morte lo ritrovano perché il primo catechismo in loro non è morto. La massa dei fedeli non entra nelle discussioni teologiche (e questo è provvidenziale), ma vive la sua fede come un nutrimento che è, in sostanza, semplice catechesi. La conclusione è che la redazione di qualunque nuovo catechismo costituisce la più grande impresa della vera pastorale nel popolo di Dio. – Alle deformazioni della verità, e cioè alle eresie, la più grande resistenza la fa il popolo, fedele in forza del suo catechismo. Il modernismo — che non è poi l’ultima esperienza in merito – non fu conosciuto dal popolo e quando qualche predicatore impudente cercava di ammannirglielo, neppure lo capiva. Fu così che il modernismo rimase una eresia da intellettuali e riuscì ad un solo santo Pontefice di vincerlo in tempo non lungo. La catechesi non consentirebbe più al popolo di difendere la sua fede e la Chiesa, qualora si servisse di un testo popolare, che avesse lacune imperdonabili, che aprisse verso interpretazioni eterodosse, che accettasse – con pericolo del contenuto – un linguaggio vago, impreciso e dettato dalla moda corrente. Non dimentichiamo che le prime grandi scuole cristiane, celebri (citiamo solo Alessandria ed Antiochia) e non celebri, furono quelle che prepararono un popolo cristiano capace di resistere per tre secoli alla pressione persecutoria ed ereticale. Nel quarto secolo la vera barriera di resistenza compatta all’arianesimo, protetto da qualche imperatore in Oriente e in Occidente, fu il popolo istruito nell’umile ed ordinaria catechesi. Questo senza nulla detrarre all’enorme merito di taluni santi dottori. Atanasio fu formidabile vincitore perché dietro aveva l’umile popolo. Fu la catechesi che liberò in sostanza – finché potè – l’Oriente dal pesante controllo dello Stato bizantino e tutto il mondo cristiano dalle querimonie di certi addottrinati. Un catechismo, che non rispondesse in tutto alla sua apostolica e secolare tradizione, preparerebbe crisi di debolezza troppo lunghe e troppo difficilmente sanabili. – Un catechismo, se deve parlare nel senso più largo della verità immutabile di Dio con il linguaggio meglio acconcio alla comprensione del suo tempo, non può accoglierne le mode effimere, le esitazioni ingiustificate, le paure vergognose della verità, le metodologie di compromesso, le manie creative fantastiche, i complessi deformanti, tanto meno le questioni a buon diritto disputate. Non c’è dubbio che oggi i clamori di chi non è autorizzato ad essere maestro nella Chiesa (lo sono soltanto il Papa [il “vero” Papa, naturalmente, non le patetiche controfigure anticattoliche succedutesi dal 1958 ad oggi!] e nel loro ordine i Vescovi), sono altissimi e conturbanti. Un catechismo non può essere lasciato alla insufflazione e alla manipolazione di chi non ha autorità da Cristo. [l’attuale contro-catechismo della Chiesa Cattolica, fu infatti redatto a bella posta dall’antipapa senza autorità di Cristo, per confondere ed ingannare il popolo reso “ignorante” ed affabulato dAlle eresie del “falso” conciliabolo roncallo-montiniano – ndr. -]. – L’umile didaskalos del primo tempo resta sempre con la stessa responsabilità una figura fondamentale nella santa Chiesa di Dio. Le questioni che lo riguardano sono più importanti delle questioni delle grandi scuole. Il buon catechismo è capace di frenare e distruggere gli errori di chiunque. [Ad es. il Catechismo di Trento, o quello di San Pio X, nella loro forma originaria non manipolata, si possono ritrovare ancora nelle librerie antiquarie … diffondiamolo con ogni mezzo! –ndr. -].