UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: ETSI MINIME

La lettera enciclica Etsi Minime, è uno dei tanti documenti della Chiesa Cattolica che sottolineano l’importanza fondamentale della istruzione dottrinale che i religiosi devono impartire al popolo, ai piccoli come agli adulti, al gregge loro affidato. Questo è un compito primario a cui devono assolvere parroci e Vescovi in particolare, ed è un aspetto al quale il Santo Padre Benedetto XIV, teneva in modo particolare, come è giusto che sia, e come era stato già sottolineato varie volte per il passato; basti ricordare il solo San Tommaso per il quale “ … i cattolici sono obbligati ad imparare e conoscere la loro fede, … il peccato contro la fede (spesso causato dall’ignoranza volontaria) è il più grave di tutti i peccati. – Ed oggi, purtroppo, è proprio questa ignoranza che non ci fa conoscere l’essenza del Cattolicesimo e molti aderiscono al modernismo del Novus Ordo, pestilenza immonda, con il proprio catechismo taroccato, senza comprendere veramente quel che fanno, quanti peccati contro la fede commettono, e a quante eresie aderiscono senza ravvedersi né pentirsi, mettendo in tal modo in serio dubbio la salvezza eterna della propria anima destinata così alla perdizione, secondo il desiderio e gli auspici di “coloro che odiano Dio e tutti gli uomini”, i cabalisti servi del baphomet-lucifero, che hanno infiltrato e reso cloache verminose i sacri palazzi e le istituzioni un tempo cattoliche, rendendole schiave di una vergognosa apostasia.

ENCICLICA

ETSI MINIME

DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XIV

Ai Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi.

Il Papa Benedetto XIV.

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Seppure non nutriamo alcun dubbio che tutti coloro a cui è stata affidata la cura delle anime e Voi soprattutto, Venerabili Fratelli, elevati all’ufficio dell’Apostolato e costituiti da Dio nella dignità prelatizia, rivolgiate la vostra prima preoccupazione a che il popolo cristiano, nutrito in modo salutare con i rudimenti della Fede al pascolo della celeste dottrina, sia felicemente indirizzato sulla via dei precetti del Signore, dietro voi che portate alta la fiaccola, non possiamo tuttavia esimerci dall’incitarvi, con le esortazioni della Nostra autorità e del Nostro paterno amore, a promuovere con più forte sollecitudine l’opera così sacrosanta e salutare della Dottrina Cristiana, eliminando gli ostacoli che avversano la salute delle anime.

1. Ma poiché ci rivolgiamo a persone che conoscono la legge ed esortiamo gli accorti Vescovi delle Chiese, a cui non fanno difetto né la pietà né le risorse dei Sacri Scritti, riteniamo superfluo ribadire con molteplici argomenti che non è sufficiente, per raggiungere la celeste felicità, credere in modo confuso ed indistinto i Misteri rivelati da Dio e insegnati dalla Chiesa Cattolica. – Questa celeste dottrina trasmessa da Dio, e che viene accolta con l’ascolto, deve essere ricevuta dalla voce di un maestro legittimo e fedele, in modo tale che ne vengano spiegate singolarmente le verità basilari e siano proposte ai fedeli come verità da credere, alcune per necessità di mezzo e altre per necessità di precetto. – Anche se affermiamo che si viene giustificati per mezzo della Fede, essendo questa principio e fondamento della salvezza per poter giungere alfine alla bramata futura Città, è parimenti chiaro che la sola Fede non è sufficiente. Occorre conoscere la strada e mantenersi costantemente su di essa, cioè i precetti di Dio e della Chiesa, le virtù da coltivare e i vizi da evitare con cura.

2. Essendo tutto ciò racchiuso nei primi rudimenti della Fede Cattolica o, come si suol dire, nella Dottrina Cristiana, è compito specifico dei Vescovi che questa venga illustrata in tutte le Diocesi e in ogni luogo in modo chiaro e metodico, né possono, senza tacito biasimo della coscienza, trascurarla; debbono anzi consacrare a questo lavoro, sommamente necessario, tutta la cura e la diligenza. – Non pensiamo che questo incarico sia assegnato al Vescovo in modo a tal punto esclusivo da pretendere la sua continua presenza all’insegnamento della Dottrina Cristiana, per interrogare di persona i bambini e illustrare i Misteri della Fede che professiamo. Sappiamo bene che l’onere del servizio apostolico incide pesantemente sull’impegno della cura pastorale. Abbiamo capito a fondo, quando reggevamo prima la Chiesa di Ancona e poi quella di Bologna, come il Presule, che vuole adempiere compiutamente il proprio lavoro, sia agitato da infinite e difformi preoccupazioni, come flutti. – Assolverà questo incarico il Vescovo che, anche in tempo diverso da quello della Visita Pastorale, sarà qualche volta presente dove viene trasmessa la sana dottrina al cristiano, interrogherà ragazzi e fanciulle sulle cose ascoltate e illustrerà con le sue parole i Misteri della nostra Religione. Un impegno del Pastore che risulterà grandemente utile al gregge a lui affidato, e il suo esempio stimolerà gli altri a coltivare con tutte le forze la vigna del Signore degli eserciti.

3. Questo modo di occuparsi della Chiesa fu definito quasi una legge, non solo dagli antichi ma anche dai più recenti Presuli iscritti nell’albo dei Beati, come Carlo Borromeo, Francesco di Sales, Turibio e Alessandro Sauli. Alcuni di essi (come attestano gli scritti), trovandosi impegnati e ostacolati da compiti più gravi, non potendo assolverlo di persona, destinavano a questo loro grave dovere un Vicario scelto fra i Canonici o tra i Sacerdoti perché, fattosi carico di questo ministero pastorale, educasse gli adolescenti, con le verità basilari della Fede, ai doveri della Religione.

4. Importantissimo dunque e sommamente utile alla crescita spirituale delle anime sarà l’esempio del Vescovo, se, come abbiamo detto sopra, lo assolverà in tutte le parrocchie, in ogni tempo e specialmente mentre percorrerà la Diocesi. Ma come ognuno può immaginare, non possono soccorrerlo forze bastanti. Pertanto, per raggiungere l’intento, è necessario che con la massima diligenza procuri che, in coloro che ha scelto come suoi Vicari in una fatica così lodevole e così meritoria, non venga meno lo zelo e la sollecitudine.

5. Due anzitutto sono gli obblighi che dal Concilio Tridentino sono imposti a chi ha cura delle anime. Il primo comporta che nei giorni festivi tengano il sermone sulle cose divine; il secondo che istruiscano, con i rudimenti della Fede, i bambini e chiunque ignori la Legge Divina. – Se nei giorni stabiliti i parroci svolgeranno la doverosa omelia, che non assordi le orecchie con suasive parole di umana sapienza, ma con parole adatte alla capacità degli ascoltatori infonda lo Spirito nel loro cuore; se annunzieranno un Mistero, specie nel tempo in cui la Chiesa lo ricorda, seminando ciò che è di incitamento alla virtù e di ricusazione dei vizi, soprattutto dei più gravi che con più disdoro infieriscono nel popolo; se in questi stessi giorni nutriranno, come bambini appena nati, i fanciulli con il latte della Dottrina, interrogando or l’uno or l’altro, sciogliendo i dubbi e le incertezze; se infine, con l’Apostolo, si dedicheranno alla lettura, all’esortazione e alla dottrina, perché il credente diventi perfetto e istruito in ogni buona opera, è lecito credere che il risultato risponda alle attese e possa sorgere agevolmente un popolo gradito a Dio e operatore di bene.

6. È pure ampiamente dimostrato dall’esperienza che la fatica del solo parroco non è sufficiente, non potendo uno solo insegnare a tutti, dove il numero la vince sulla disponibilità dell’insegnante. Tuttavia non sarà mai privo degli opportuni rimedi il Vescovo che si dedicherà con tutto il cuore e tutto lo zelo al bene della Chiesa che gli è stata affidata. Potrà infatti fare ricorso a chi si accosta alla Tonsura, a chi si avvia alla dignità del Sacerdozio salendo i gradini degli Ordini Minori e Maggiori, a chi, infine, si dà da fare per trovare il modo di accaparrarsi i benefici ecclesiastici. Il Vescovo ricorderà loro, con autorevoli e dure parole (e alle parole rispondano i fatti), che non acconsentirà mai alla Tonsura, raggiunta la debita età, o al conferimento degli Ordini Minori, ma soprattutto di quelli Maggiori, di chi abbia trascurato di assicurare la propria disponibilità ai parroci per insegnare la Dottrina Cristiana. – Distribuisca dunque tutti questi chierici nelle singole parrocchie della sua Città e della Diocesi, assegnandone pure alcuni a determinate Chiese. Faccia inoltre sapere, garantendone la promessa, che nel conferimento delle parrocchie e degli altri benefici a norma di diritto, avranno peso ed importanza lo zelo e la diligenza impegnati dai chierici in questo lavoro; in questo modo sarà per sé evidente che il compito di insegnare non è stato assegnato al solo responsabile della Diocesi, ma che molti devono esservi disponibili, perché tutti insieme concorrano a dar compimento al suo incarico.

7. A tutto questo è da aggiungere che, con le Sacre Costituzioni Apostoliche, e soprattutto con la settima di Leone X Nostro predecessore di felice memoria, sono state date opportune disposizioni perché, sia i maestri di scuola insegnando ai propri alunni, sia le pie donne alle ragazze (sotto il pressante incalzare del Vescovo), li nutrano e li rafforzino con la sana e pura dottrina, quasi cibo vitale. – È anche assodato come lo stesso Vescovo possa e debba raccomandare con grande fermezza ai sacri oratori perché, durante il sermone, immettano negli orecchi e negli animi dei genitori l’importanza di ammaestrare con le verità della nostra Religione i propri figli; se non saranno all’altezza del compito, sarà necessario che i figli vengano portati in Chiesa dove sono illustrati i Precetti della Legge Divina. In molti luoghi (e dove non esistevi sia introdotta) ha preso pure piede la pia e lodevole consuetudine di dare una mano al parroco, teso a realizzare questo compito, ad opera di laici, sia uomini che donne, che, premurandosi di offrire il loro servizio per l’insegnamento cristiano, ascoltano i fanciulli e le ragazze che recitano a memoria il Padre Nostro, la Salutazione Angelica, il Simbolo degli Apostoli e tutte le altre preghiere. – In altre località sono state costituite Congregazioni con lo scopo di insegnare la Dottrina Cristiana, la cui istituzione è colmata, a buon diritto, di meritate lodi da Pio V di santa memoria nella sua Costituzione che inizia: “Ex debito”, ed esorta a propagarle con ogni premura in tutte le Diocesi. – Tutte queste realtà indirizzate allo stesso scopo, se saranno attentamente valorizzate, daranno a tutti la consapevole certezza che, pur essendo esiguo il numero degli operai dove abbondante è la messe, non mancherà chi spezzerà il pane ai bambini che lo implorano.

8. È anche risaputo che non solo i fanciulli e coloro che si trovano in età più matura giacciono nell’ignoranza delle cose divine, ma anche gli uomini e gli stessi anziani risultano assai ignari della salutare dottrina, perché mai l’appresero, o avendola imparata in tempi lontani la smemoratezza la cancellò gradatamente. Pure a questo male potrà riparare la provvida diligenza dei Vescovi, se i loro cooperatori si imporranno di impiegare con cura i rimedi approntati.

9. Si riporti il discorso a quelli che si trovano nella prima infanzia: molti chiedono di essere ammessi alla Sacra Eucaristia e alla Confermazione. Pochi, per la verità, non ostentano questa decisa volontà, quasi fosse un irresistibile desiderio. Ammonisca dunque il Vescovo i parroci ed ordini loro con vigore che non ammettano al Sacramento dell’Eucaristia e non consegnino la cosiddetta Scheda della Confermazione a chi non conosce i fondamenti della Fede e della Dottrina e il valore e la forza del Sacramento. In questo modo sembra si possa ben provvedere alla prima infanzia.

10. Se invece parliamo degli adolescenti, poiché ciascuno riceve da Dio il proprio dono, è ben noto dall’esperienza che alcuni si avviano sulla strada della vita ecclesiastica, altri su quella della vita secolare. Dei primi già ci siamo occupati quando abbiamo parlato di coloro che desiderano essere ammessi agli Ordini Sacri. Sembra possa essere aggiunta una sola cosa: sarebbe opportuno e di grande utilità che, a quanti si presentano per l’esame, il Presule chiedesse in primo luogo l’essenza racchiusa nella scienza del cristiano. Infatti l’esperienza, maestra di verità, ha reso evidente che alcuni di essi, pur adorni di un elegante e puro linguaggio latino e abbondantemente istruiti nella molteplicità delle scienze e buoni conoscitori di tutto ciò che riguarda gli Ordini, interrogati sulla Dottrina Cristiana, risposero in maniera insoddisfacente e per nulla pertinente.

11. Se poi rivolgiamo la Nostra attenzione a chi passa la vita nel mondo, risulta evidente che la maggior parte di essi si indirizza al matrimonio. Veramente non potranno essere congiunti con il matrimonio se il parroco, com’è suo dovere, avrà scoperto, ponendo precise domande, che l’uomo e la donna ignorano ciò che è necessario alla salvezza. – Difficilmente il Vescovo potrà lasciare spazio a così grande e funesta ignoranza; richiami i pastori di anime al loro compito e, nel caso non vi ottemperassero, punisca la loro negligenza.

12. Tutti gli uomini, di ogni età e condizione sociale, sono soliti nettare le sozzure dell’anima con il Sacramento della Penitenza. Il Vescovo farà dunque in modo che il Sacerdote, che accoglie le Confessioni, tenga come certo e immutabile che non è valida l’assoluzione sacramentale impartita a chi non conosce ciò che è indispensabile per necessità di mezzo e che gli uomini non possono essere riconciliati con Dio con questo Sacramento se prima, scossa la caligine dell’ignoranza, non saranno condotti alla conoscenza della Fede. Sappia anche il Confessore che deve essere rimandata ad altro tempo l’assoluzione di chi, per sua colpa, non conosce ciò che è indispensabile per necessità di precetto. In questo caso il penitente può anche essere assolto, qualora si riconosca colpevole di questa sua non insuperabile ignoranza, ne chieda perdono a Dio e prometta sinceramente al Confessore di darsi da fare per apprendere, con l’aiuto di Dio, anche ciò che è necessario per necessità di precetto.

13. Se dunque i Pastori si proporranno questo metodo di formazione del popolo cristiano, se penseranno che i loro consigli, le fatiche e gli intenti dovranno essere ricondotti al metodo proposto, è lecito sperare che il gregge, con la Fede e con le opere, potrà progredire nel tempo a tal punto da essere trasformato in abitazione di Dio nello Spirito Santo. – Ma poiché si tratta di una cosa di somma importanza e nessun’altra è stata istituita più utile alla gloria di Dio e alla salvezza delle anime, nessuno deve meravigliarsi se vengono continuamente interposti numerosissimi ostacoli.

14. A volte si trovano dislocate nella campagna piccole ed umili Chiese, alcune vicine, altre assai lontane dalla Parrocchiale, dove, nei giorni festivi, si dirigono i padri di famiglia con i loro figli per ascoltare il Sacerdote mentre celebra i Sacri Misteri. Questo comporta che non siano quasi mai presenti nella loro Parrocchia e non possano ascoltare alcuna parola sui Misteri della Fede, sui Precetti e sui Sacramenti. A questo male deve provvedere il Vescovo con tutto il peso della sua autorità. Per prima cosa, in ordine alle piccole Chiese vicine alla Parrocchiale, con una precisa legge deve impedire che vi sia celebrata Messa prima che il Parroco abbia a sua volta celebrato, abbia tenuto il sermone e abbia provveduto ai rimanenti impegni del suo ufficio. In questo modo la Chiesa parrocchiale sarà frequentata da una moltitudine di fedeli che vi accorrerà. Per quanto riguarda invece le piccole Chiese situate lontano dalla Parrocchiale, risultando assai difficile, per la distanza dei luoghi, che i parrocchiani, scartata la Chiesa più vicina, possano affrontare un lungo ed aspro cammino, specie durante l’inverno quando i fiumi straripano, per raggiungere la Parrocchiale e qui assistere agli Uffici divini, il Vescovo decreti, con l’aggiunta di gravi pene, che i Sacerdoti addetti a quelle Chiese trasmettano al popolo i punti fondamentali della Dottrina Cristiana e illustrino la Legge Divina. Tuttavia il parroco deve essere ammonito perché non si fidi troppo dell’operato altrui, ma si renda conto di persona di come stiano le cose quando si richiederà che ai bambini siano amministrati i Sacramenti dell’Eucaristia e della Confermazione e altri chiederanno il Sacramento del Matrimonio.

15. Anche le città presentano specifici inconvenienti. Accade spesso infatti che in certe Chiese, specialmente di Regolari, vengano celebrate festività con rito solenne e grande concorso di popolo. Per questo, se nella Chiesa parrocchiale si tiene il catechismo al mattino presto o subito dopo il pranzo, nessuno o ben pochi saranno i presenti e accamperanno come scusa l’orario fissato. Se non verranno scelte ore più comode alla popolazione, è confermato dall’esperienza che il popolo accorrerà alla Chiesa dove viene solennizzato il giorno festivo e, attratto dall’apparato liturgico, diserterà la Dottrina Cristiana non senza grave danno dell’anima. Poiché non è possibile fissare al riguardo una norma sicura e generale, vogliamo che questo compito sia lasciato al solerte Antistite della Chiesa, il quale, tenendo conto della natura del luogo, delle circostanze e delle persone, e soppesata la portata dell’insieme dei fatti, trovi il modo di comporre la celebrazione del giorno festivo con la Dottrina Cristiana, perché una non sia di inciampo all’altra. Se i Regolari e gli Ordini esenti si opporranno e, sebbene ammoniti dai Vescovi, si sentiranno autorizzati a compromettere lo svolgimento della Dottrina Cristiana, offriamo agli Ordinari dei luoghi la Nostra autorità che abbraccia gli Esenti, e non mancheranno alla sollecitudine Apostolica altri mezzi per evitare che le Chiese parrocchiali siano defraudate della dovuta considerazione.

16. Potrebbe risultare sommamente vantaggioso per l’educazione del popolo cristiano scegliere dei visitatori, alcuni dei quali girando per la città e altri percorrendo la Diocesi, facciano accurate indagini su ogni cosa per permettere che il Vescovo, informato sui meriti di ciascun Pastore, possa decretare premi o punizioni.

17. Seguendo le orme di Papa Clemente VIII e degli altri nostri predecessori, esortiamo nel Signore e raccomandiamo con forza che, nel trasmettere la Dottrina Cristiana, sia impiegato il libretto scritto dal Cardinal Bellarmino per mandato dello stesso Clemente. Esaminato attentamente nell’apposita Congregazione a ciò deputata ed approvato, dallo stesso Papa Clemente fu ordinato che venisse pubblicato, con il validissimo intento che tutti in seguito si attenessero allo stesso e unico metodo di insegnare e di apprendere la Dottrina Cristiana. – Niente vi è di più auspicabile di questa uniformità, niente di più opportuno e di più utile per impedire che nella molteplice varietà dei catechismi possano furtivamente introdursi degli errori. Se in qualche luogo si rendesse necessario, per specifiche esigenze del posto, di servirsi di un altro opuscolo, occorrerà prestare grande attenzione che non contenga e non vi si insinui niente di discordante dalla Verità cattolica. Occorre anche prestare attenzione che i dogmi della Fede vi siano spiegati in modo semplice e chiaro, con l’aggiunta di parti necessarie eventualmente omesse e l’eliminazione del superfluo. – Un conciso e univoco metodo di insegnamento risulta solitamente di grande utilità per una più semplice interrogazione, quando si esaminano i progressi dei bambini.

18. Questo libretto deve anche contenere gli Atti di Fede, di Speranza e di Carità, sicuramente composti in modo retto e competente. Se ciò non corrispondesse al vero, una volta perfezionati, siano stampati in forma corretta. Questi Atti trovano più conveniente essere divulgati piuttosto con contenute che con abbondanti parole, purché per mezzo loro si riveli tutta la forza e la natura della virtù. – Poiché per chi professa la Religione cristiana sono sommamente necessarie l’abitudine e la pratica di proferire spesso questi Atti, affinché il loro uso non sia contenuto in limiti angusti e non sia ristretto da qualcuno ad un modesto numero per ogni anno, il Vescovo, preoccupato della propria non meno che dell’altrui salvezza, emani provvide disposizioni perché nelle parrocchie della città e della diocesi i rettori di anime, subito dopo la celebrazione della Messa festiva, inginocchiati davanti all’altare, recitino con voce chiara ed intelligibile i ricordati Atti delle virtù, cercando di precedere il popolo che dovrà ripetere le parole da loro pronunziate. In questo modo i fedeli, senza quasi accorgersene, li impareranno a memoria e prenderanno l’abitudine di attendere a questa pia pratica non solo in quelli festivi, ma anche nei giorni rimanenti.

19. Queste salutari indicazioni di ammaestrare il gregge che abbiamo voluto farvi conoscere, Venerabili Fratelli, per mezzo di questa Nostra Lettera Apostolica, possono essere riconosciute da ciascuno di voi come conformi ai Nostri moniti pastorali, già dati alle stampe quando, con paterno amore, circondavamo di cure la Chiesa bolognese, nostra sposa. – Indicazioni desunte peraltro dalle Costituzioni Pontificie, riconosciute valide dalla testimonianza e dall’esempio di rinomati Vescovi. Poiché sappiamo per esperienza che ne deriverà una grandissima utilità, Vi esortiamo e Vi incitiamo con tutto l’ardore possibile e Vi scongiuriamo, per le Viscere di misericordia del Nostro Dio, di attendere con deciso e fermo animo, in forza del compito affidato al vostro Ministero pastorale, all’attuazione di quanto premesso, considerando attentamente che tutta la fatica, l’impegno e l’attenzione profusi a questo scopo, saranno ricompensati da Dio, datore di ogni bene. – Vi impartiamo di cuore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 7 febbraio 1742, nel secondo anno del nostro Pontificato.

FESTA DELLA SS. TRINITA’ (2018)

FESTA DELLA SANTISSIMA TRINITA’ (2018)

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O Dio, uno nella natura e trino nelle persone, Padre, Figlio e Spirito Santo, causa prima e fine ultimo di tutte le creature, Bene infinito, incomprensibile e ineffabile, mio Creatore, mio Redentore e mio Santifìcatore, io credo in Voi, spero in Voi e vi amo con tutto il cuore.

Voi nella vostra felicità infinita, preferendo, senza alcun mio merito, ad innumerevoli altre creature, che meglio di me avrebbero corrisposto ai vostri benefìci, aveste per me un palpito d’amore fin dall’eternità e, suonata la mia ora nel tempo, mi traeste dal nulla all’esistenza terrena e mi donaste la grazia, pegno della vita eterna.

Dall’abisso della mia miseria vi adoro e vi ringrazio. Sulla mia culla fu invocato il vostro Nome come professione di fede, come programma di azione, come meta unica del mio pellegrinaggio quaggiù; fate, o Trinità Santissima, che io mi ispiri sempre a questa fede e attui costantemente questo programma, affinché, giunto al termine del mio cammino, possa fissare le mie pupille nei fulgori beati della vostra gloria.

[Fidelibus, qui festo Ss.mæ Trinitatis supra relatam

orationem pie recitaverint, conceditur:

Indulgentia trium annorum;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus (S. Pæn. Ap.,

10 maii 1941).

[Nel giorno della festa della Ss. TRINITA’, si concede indulgenza plenaria con le solite condizioni: Confessione [se impediti Atti di contrizione perfetta], Comunione sacramentale [se impediti, Comunione Spirituale], Preghiera secondo le intenzioni del S. Padre, S. S. GREGORIO XVIII]

Incipit 
In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus 
Tob XII:6.
Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam. [Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.]
Ps VIII:2
Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in univérsa terra!
[O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!]

 Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam. [Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.]

Oratio

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui dedísti fámulis tuis in confessióne veræ fídei, ætérnæ Trinitátis glóriam agnóscere, et in poténtia majestátis adoráre Unitátem: quaesumus; ut, ejúsdem fídei firmitáte, ab ómnibus semper muniámur advérsis. [O Dio onnipotente e sempiterno, che concedesti ai tuoi servi, mediante la vera fede, di conoscere la gloria dell’eterna Trinità e di adorarne l’Unità nella sovrana potenza, Ti preghiamo, affinché rimanendo fermi nella stessa fede, siamo tetragoni contro ogni avversità.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom XI:33-36.

“O altitúdo divitiárum sapiéntiæ et sciéntiæ Dei: quam incomprehensibília sunt judícia ejus, et investigábiles viæ ejus! Quis enim cognovit sensum Dómini? Aut quis consiliárius ejus fuit? Aut quis prior dedit illi, et retribuétur ei? Quóniam ex ipso et per ipsum et in ipso sunt ómnia: ipsi glória in sæcula. Amen”. [O incommensurabile ricchezza della sapienza e della scienza di Dio: come imperscrutabili sono i suoi giudizii e come nascoste le sue vie! Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi gli fu mai consigliere? O chi per primo dette a lui, sí da meritarne ricompensa? Poiché da Lui, per mezzo di Lui e in Lui sono tutte le cose: a Lui gloria nei secoli. Amen.]

 Graduale 

Dan III:55-56. Benedíctus es, Dómine, qui intuéris abýssos, et sedes super Chérubim, [Tu, o Signore, che scruti gli abissi e hai per trono i Cherubini.]

Alleluja

Benedíctus es, Dómine, in firmaménto cæli, et laudábilis in sæcula. Allelúja, [V.Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, alleluia.]

Dan III:52 V. Benedíctus es, Dómine, Deus patrum nostrórum, et laudábilis in sæcula. Allelúja. . [ Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, allelúia]

Evangelium

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum Matthæum. 

Matt XXVIII:18-20

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Data est mihi omnis potéstas in coelo et in terra. Eúntes ergo docéte omnes gentes, baptizántes eos in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti: docéntes eos serváre ómnia, quæcúmque mandávi vobis. Et ecce, ego vobíscum sum ómnibus diébus usque ad consummatiónem sæculi”. 

OMELIA

 [Mons. G. Bonomelli, Misteri Cristiani: vol. IV, Queriniana ed. Brescia, 1896]

« Gesù disse a’ suoi discepoli: Ogni potere mi fu dato in cielo ed in terra: andate adunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, insegnando loro di osservare tutte le cose, che io vi ho comandate: ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino al termine del secolo » (S. Matteo, XXVIII, 18-20).

Dio, uno nella sua essenza o natura, si svolge nella Trinità delle Persone: ecco il mistero primo e massimo della Religione, l’oggetto e il termine supremo della nostra fede. Tutti i simboli o compendi della nostra fede cominciano col professare che un solo è Dio, il Principio sovrano d’ogni cosa: « Credo in unum Deum »; poi considerano l’una dopo l’altra le tre Persone, che nell’unica natura sussistono, distinte ed eguali tra loro, e l’una dall’altra procedente con atto semplicissimo ed eterno: poi di ciascuna Persona toccano le opere compiute fuori della essenza divina, opere che sono come il pallido riflesso e l’aureola caratteristica di ciascuna. – La liturgia della Chiesa, che rispecchia nel corso dell’anno la serie ordinata delle opere singolarmente del Figlio e dello Spirito Santo, il primo Redentore, il secondo Santificatore delle anime, si chiude con la Pentecoste, cioè con lo stabilimento del regno di Cristo e dello Spirito da Lui mandato sulla terra e che deve continuare l’opera sua fino alla consumazione dei tempi. Qual cosa più naturale per la Chiesa quanto il riassumere in una festa la storia tutta della divina rivelazione e invitare tutti i suoi figli a fissare gli occhi illuminati dalla fede nel Principio Uno e Trino, da cui tutto si deriva e si squaderna ciò che esiste in cielo, in terra e nell’inferno? Dopo di aver loro additato Dio, principio senza principio, uno, eterno: dopo aver loro mostrato in quel pelago immensurabile della essenza divina la Persona del Padre, che non emana da altri, che è da sé: dopo aver loro mostrato, che questo Padre genera di sé un Figlio unico, a sé eguale e ricordate le opere sue dopo fatto uomo: dopo aver loro mostrato lo Spirito Santo, che procede come Amore eterno dal Padre e dal Figlio e che spande nella Chiesa l’onda della vita divina, dopo tutto questo la Chiesa grida a tutti i credenti: – Figli miei! ora dalle cose tutte create, dalle cose tutte compiute dal Figlio fatto uomo e dallo Spirito Santificatore, sollevate gli occhi, risalite il fiume che dal cielo si versa sulla terra; ficcate lo sguardo nella fonte, nell’origine prima di tutte le cose e riconoscete Dio, che è uno nella essenza e trino nelle Persone, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Ecco la radice, il punto, da cui tutto si irradia, ecco la sintesi suprema della vostra fede. – La festa della Santa Trinità non si poteva meglio collocare che in questa Domenica che segue la Pentecoste, la manifestazione prodigiosa della terza divina Persona. La Festa odierna, o dilettissimi, è la degna corona dei misteri tutti della fede celebrati lungo l’anno e ci riconduce là donde siamo partiti, a Dio Uno e Trino. In questo primo Ragionamento io mi restringerò a commentare il Vangelo, che la Chiesa oggi ci propone a meditare e che esprime in tutta la sua chiarezza e concisione il mistero dell’Unità e Trinità di Dio. I tre versetti, che dobbiamo chiosare, sono gli ultimi dell’ultimo capo del Vangelo di S. Matteo e per intenderli a dovere è forza vedere il nesso con gli antecedenti. In quest’ultimo capo del suo Vangelo, S. Matteo narra la risurrezione di Gesù Cristo e lo fa in modo sì succinto, che più non avrebbe potuto fare. Narra la sua apparizione alle donne e il comando loro fatto di annunziarla agli Apostoli e che si recassero in Galilea, sopra un monte, sul quale die loro la posta, e dove essi lo videro e lo adorarono. E fu là in Galilea, su quel monte, che Gesù rivolse agli undici Apostoli le parole che ho riportate, che sono come l’ultimo suo ricordo, il compendio delle sue raccomandazioni e che ora dobbiamo spiegare. – « Ogni potere mi è dato in cielo ed in terra ». È Gesù che parla. Vi prego di ponderare questa sentenza semplicissima e chiarissima e pronunciata con una sicurezza, che ci deve riempire di stupore. Chi la pronuncia è un uomo, pochi giorni prima confìtto alla croce come un malfattore e mortovi sopra tra due ladroni, oggetto di pietà profonda per alcuni pochi, di abbominio per la nazione intera. È vero: Egli è uscito dal sepolcro poc’anzi con un miracolo, che non ha, ne avrà mai l’eguale. Ma contemplatelo bene: in Lui non vedete che un uomo: un uomo che non ha un solo soldato, che non cinge corona, né la vuole: che non ha un palmo di terra dove posare il capo. Eppure quest’uomo osa dire con una asseveranza, che non ammette dubbio: « Ogni potere mi è dato in cielo ed in terra ». O quest’uomo è pazzo, o questo uomo è Dio: non c’è via di mezzo, giacché sulla terra non vi ebbe mai un solo uomo anche nella ebbrezza d’una potenza sconfinata, nel delirio dell’orgoglio, a cui bastasse l’animo di dire: « Io ho ogni potere in cielo ed in terra ». Qualcuno potè dire: – Io posso tutto sulla terra: chi potrà sottrarsi al mio braccio? – ma aggiungere: – Io ho ogni potere in cielo -, questo non si udì mai. Ora chi potrà dire: Cristo è pazzo? La sua vita, la sua dottrina lo mostrano il sapientissimo degli uomini e per tale lo salutano e riconoscono gli Apostoli stessi del libero pensiero; e se non foss’altro la sua creazione, che dopo quasi 2000 anni ci sta sotto gli occhi e ogni dì grandeggia, la Chiesa, ci prova che pari alla sapienza è la sua potenza. Dunque in questa frase d’una audacia inaudita, e che la storia ha suggellato con i fatti, Gesù Cristo si mostra Dio. « Ogni potere mi è dato in cielo e in terra ». Qual potere? Nelle parole di Cristo non si esclude potere alcuno e dove Cristo tutto afferma chi vorrebbe anche solo sospettare una eccezione? A Lui dunque spetta qualunque potere nell’ordine della natura e della grazia, il potere sacerdotale e regale, il potere di ammaestrare e di reggere, il potere di giudicare, di premiare e punire, sempre, dovunque, in cielo ed in terra : « Omnis, omnis potestas data est mihi in cœlo et in terra ». E ponete mente a questa parola: « Mihi » a me! A me solo, quale mi vedete qui, né può avervi parte alcuna qualsiasi uomo, o creatura celeste, a cui Io non la comunichi in quella misura che mi piace. – Ma come, o divin Salvatore? Voi dite che avete ogni potere senza limiti di tempo e di spazio e che questo potere vi è dato ? Ma se siete Dio, e noi lo crediamo fermamente, come potete ricevere questo potere da altri? E chi ve lo può dare? Gesù Cristo è Dio e insieme è uomo. Come Dio da chi riceve Egli con la generazione la natura ed ogni cosa? Da Dio Padre. In quanto uomo da chi riceve Egli, come da principio attivo, la natura umana e tutto ciò che con essa è congiunto? Tutto riceve da Dio Padre, da Dio Figlio, da Dio Spirito Santo, unico Dio, Creatore, Conservatore e Santificatore, da Dio-Trinità, che fuori di sé opera con un solo e semplicissimo atto. A ragione adunque Gesù Cristo poteva dire, e come Dio e come uomo, che ogni potere in cielo ed in terra gli era dato e a Lui veniva da Dio. Nondimeno è da credere che Gesù Cristo ciò affermasse di sé specialmente in quanto uomo, perché in quanto uomo con la sua passione e con la sua morte redense l’umana natura e qui parla del potere, che conferisce agli Apostoli e ai loro successori di ammaestrare e governare la Chiesa, che è il suo regno, il suo corpo, la sua sposa secondo il linguaggio dei Libri Santi. Proseguiamo il commento. Io tengo ogni potere in cielo e in terra, dice Cristo: Io lo posso comunicare a chi voglio e in quella forma che voglio: ora lo comunico a voi, miei Apostoli, e a quelli che continueranno l’opera vostra; dacché questo e non altro importa la parola di Cristo, che segue: «Dunque andate, ammaestrate tutte le genti ». Poiché (così e non altrimenti suona il linguaggio di Cristo) poiché ora siete investiti del mio potere istesso, andate ed esercitatelo come Io l’ho esercitato. E qui è prezzo dell’opera fermare la nostra attenzione sopra una verità gravissima e non mai abbastanza inculcata. Il potere stesso di Cristo passa e si travasa da Lui negli Apostoli, ossia nei reggitori della Chiesa. Si muta il soggetto, ma non il potere [Non fa d’uopo avvertire che il potere di Cristo non ha limite, perché è Dio-Uomo e gli è proprio: il potere degli Apostoli e di Pietro, ha quei limiti, che a Cristo è piaciuto porre: essi non sono che suoi Vicari e debbono esercitare il potere ricevuto secondo le norme stabilite da Cristo stesso, come è chiaro per la natura stessa delle cose.]; si mutano le mani, che ricevono il tesoro, ma non il tesoro istesso: è sempre la stessa acqua quella che sgorga dalla fonte e quella che scorre nel letto del fiume, fosse pure a mille miglia dalla fonte. Per noi ascoltare e ubbidire l’Episcopato presente e Gregorio XVIII è ascoltare e ubbidire agli Apostoli ed a Pietro, ai quali Cristo disse: « Andate e ammaestrate ». Noi, illuminati dalla fede, nei Vescovi e nei successori di Pietro, quali che siano le loro doti e i loro difetti, non vediamo che gli Apostoli e Pietro, dirò meglio, non vediamo che Cristo, che ammaestra e regge la sua Chiesa e attraverso ai secoli continua l’opera sua riparatrice. Due cose Gesù Cristo impone agli Apostoli nelle parole che seguono: « Andate e ammaestrate – Euntes docete ». Scopo immediato della venuta di Cristo sulla terra fu la fondazione di della Chiesa e per essa la salvezza di tutti gli uomini. Questa Chiesa doveva essere universale secondo la condizione dei tempi e perciò gli Apostoli, destinati a fondare la Chiesa, dovevano spargersi dovunque per far udire dovunque la parola del Maestro: ecco perché dice loro: « Andate e ammaestrate tutte le genti ». Io, così Cristo, ho posto nelle vostre mani il seme della verità: spargetelo sulla terra: ho accesa la face del Vangelo: voi portatela dovunque e illuminate tutto il mondo: Io non vi mando a questa o a quella provincia: a questo o quel regno: a questo o quel continente: io vi mando per tutto il mondo, a tutte indistintamente le nazioni. Docete omnes gentes. Tutti gli uomini sono creature di Dio: Dio di tutti gli uomini è Padre e Maestro: dunque a tutti annunziate la verità e la salute, a tutti comunicate i suoi doni senza distinzione – Docete omnes gentes -. Dio, che vi manda, è Creatore di tutti gli uomini e di tutti vuol essere Salvatore -. E qui non è da lasciare un’altra osservazione della più alta importanza. Uditela e ponderatela. Il popolo ebraico in fatto specialmente di religione era d’uno spirito esclusivo senza esempio. Esso rinchiudevasi in sé medesimo e respingeva fieramente tutto ciò che veniva dagli stranieri e considerava come un sacrilegio comunicare ad essi le sue cose sacre, fuorché nel caso che abbracciassero la sua religione, ed anche allora quali difficoltà! Quante precauzioni – La legge mosaica l’aveva informato a questo spirito per isolarlo dagli altri popoli e così impedire il suo pervertimento. Questo rigidissimo esclusivismo religioso era penetrato nelle fibre del popolo, era la sua forza, la sua vita e dopo tanti secoli è quello che lo conserva separato benché disperso. Dio era Dio degli Ebrei: le promesse di Dio ai soli Ebrei: essi il popolo eletto: dagli Ebrei il Messia, che avrebbe soggiogato l’universo per metterlo a loro piedi. Da qui l’odio feroce, il furore degli Ebrei contro S. Paolo, che francamente predica la salute annunziata agli Ebrei dover essere comune a tutte le genti. È questo un fatto storico, che non ha bisogno d’essere dimostrato. – Ebbene: Gesù Cristo è nato in mezzo a questo popolo; è cresciuto ed educato nell’ultimo angolo della terra d’Israele, dove era ancora più tenace che altrove questo spirito di isolamento e di egoismo religioso nazionale: Gesù Cristo non era mai uscito dagli angusti confini di Israele anche per non offendere questo sentimento estremamente geloso de’ suoi connazionali. Eppure, eccolo comandare ai suoi discepoli, tutti profondamente imbevuti dello spirito giudaico, di annunziare a tutti i popoli le promesse di Abramo e di Giacobbe, le promesse fatte a Davide e ai Profeti. Gesù Cristo con questo comando formale « Andate, ammaestrate tutte le genti » atterra il muro di bronzo, che separa Israele da tutti gli altri popoli, sfata il pregiudizio comune e antichissimo, che della verità e della vita divina faceva il patrimonio d’una piccola nazione e inizia un’era novella, che nessun uomo mai aveva neppure immaginato. Perché dovete sapere che se l’egoismo religioso nazionale aveva radici sì profonde in Israele, ch’era quasi impossibile divellere, un altro egoismo non meno tenace appariva nei popoli gentili stessi più colti: Le più alte intelligenze, il fiore dei filosofi di Grecia e di Roma (basta ricordare Marco Tullio), erano persuasi, essere stoltezza credere di poter ridurre tutti gli uomini a professare le stesse dottrine e la scienza del retto vivere, il conoscimento delle verità più elevate essere riservato alle menti superiori, spettare alla sola aristocrazia dei maggiori ingegni. E non è difficile comprendere come questo errore dovesse naturalmente entrare e radicarsi nelle menti stesse dei più dotti tra gentili. Il perché se gli Ebrei nel loro orgoglio nazionale delle verità divine fecero un monopolio a proprio vantaggio, i gentili lo facevano a profitto d’un numero ancor più scarso di uomini, la classe privilegiata dei dotti e dei filosofi. E Gesù Cristo, questo povero operaio di Nazaret, quest’umile Maestro di umili pescatori, questo crocifisso risorto, sopra un colle di Galilea, ad undici uomini, rozzi, ignari del mondo, impigliati ancora in tutti i pregiudizi giudaici, senza protezioni, sforniti d’ogni scienza umana, che vivono di pesca e di elemosina, senza mostrare la più lieve esitanza, dice: « Andate, ammaestrate tutte le genti! ». Egli, il primo e l’unico, che sulla terra abbia concepito il disegno di raccogliere tutti i popoli in una sola religione, di imporre loro le stesse identiche dottrine dogmatiche e morali, sotto il governo d’un solo capo, e di imporre tutto questo, non con la forza, ma con la sola persuasione, usando della sola parola di uomini i più inetti, che fosse possibile immaginare. L’assurda impresa, lo stoltissimo disegno in gran parte è compiuto e va compiendosi sotto i nostri occhi. Permettete che ora vi domandi: Considerato attentamente e senza pregiudizi tutto questo, che dobbiamo dire di quest’uomo? È Egli un pazzo? I pazzi non sanno concepire e attuare senza mezzi il più audace e il più impossibile disegno che sia caduto in mente umana: i pazzi non possono insegnare la più santa e la più sublime dottrina teorica e pratica che siasi udita sulla terra: i pazzi non possono offrire al mondo lo spettacolo della virtù più perfetta possibile, quale veneriamo in Gesù Cristo. Dunque chi è desso Gesù Cristo, che con quelle quattro parole « Andate e ammaestrate tutte le genti » rovescia tutti i pregiudizi giudaici e gentili e fonda la Chiesa universale e signoreggia il tempo e lo spazio e prosegue oggi ancora l’opera immane cominciata duemila anni or sono? Chi è desso? S’Egli non è un pazzo fortunato, non è un uomo. Chi è dunque? Lo dissero gli Apostoli, che vissero con Lui é lo conobbero: – il Figlio di Dio, il Verbo fatto uomo -. Lo disse Egli stesso: « Io e il Padre siamo una cosa sola. Io sono uscito dal Padre, son venuto sulla terra e ritorno al Padre ». Adoriamolo. – Ma è da ritornare al testo evangelico, che stiamo chiosando. Allorché un uomo qualunque dà il suo nome ad una società, accetta un ufficio, riceve una dignità, fa parte d’un corpo sociale, accorre sotto le bandiere d’un esercito, ha bisogno d’un segno esterno, che mostri a lui e agli altri tutti il nuovo stato per esso abbracciato, i nuovi doveri assunti e i nuovi diritti od onori acquistati. È ciò che si è sempre fatto e si fa e si farà costantemente, perché l’uomo non può far conoscere i suoi pensieri e i suoi voleri e conoscere gli altrui che per mezzo dei sensi e per conseguenza per mezzo della parola e dei segni. Con parole e segni adunque si dovevano conoscere e distinguere tutti quegli uomini che avrebbero dato il loro nome a Cristo, che sarebbero entrati nel suo esercito, che sarebbero diventati cittadini del suo regno. A chi spettava determinare queste parole, questa formola sacra, questo segno, al quale riconoscere i suoi discepoli, i membri della novella Società? Non v’è dubbio alcuno: il diritto di determinare questo segno e questa formola sacra non poteva spettare ad altri fuorché al Capo e al Fondatore della Società stessa, Gesù Cristo. E l’una e l’altra cosa Egli determinò e prescrisse con una chiarezza e precisione, che mai la maggiore. Udite: « Andate e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. [Dire battezzare e lavare è la stessa cosa: ora lavare necessariamente richiama l’idea dell’acqua, che è l’elemento necessario del Battesimo, onde la parola Battesimo indica per se stessa la materia del Sacramento, come la parola ungere indica l’olio]. Ecco, o carissimi, il segno, ecco le parole, con le quali l’uomo è accolto nel regno di Cristo; ecco quel Sacramento, che è la porta della Chiesa e che si compie nel nome augusto di quella Trinità, che oggi adoriamo.L’acqua tra le terrene cose è la più comune e copre ben due terzi della superficie mondiale. Essa stilla dagli eterni ghiacciai, che coronano tutte le più superbe vette dei monti; zampilla perenne dai loro fianchi, scorre pei ruscelli, per i torrenti, per i fiumi, si raccoglie negli ampi bacini dei laghi, si raduna e si agita nella immensità degli oceani, penetra nelle viscere della terra, dilatata in nubi passa sui nostri capi e riempie gli sterminati campi dell’ atmosfera e irriga e feconda i colli e le pianure e porta dovunque la vita agli alberi e agli animali tutti. Fate che nel deserto o sulle rocce scorra un filo d’acqua e voi vedete sopra di esse verdeggiare l’erba, crescere i fiori e gli alberi e gli uccelli e gli animali accorrervi per dissetarsi. E Gesù Cristo volle che quest’acqua sì comune, sì facile ad aversi, fosse il segno materiale dei suoi seguaci, lo strumento per comunicare loro la vita divina nel Sacramento più necessario. L’acqua! Essa deterge i corpi, li monda, li fa belli e non avendo colore alcuno tutti li cancella e tutti li suscita, scrive S. Cirillo di Gerusalemme, perché spandendosi sui campi e sui prati, li copre di fiori variopinti. Ciò che 1’acqua fa nei corpi, mondandoli d’ogni macchia, e sulla terra coprendola di verzura e di fiori, per virtù divina fa nelle anime, nettandole dalla macchia originale e deponendovi i germi della fede, della speranza e della carità, d’onde più tardi germoglieranno tutte le virtù. Ecco perché Gesù Cristo nell’immenso campo della materia diede la preferenza all’acqua, e con essa e per essa volle rigenerare gli uomini e ad essi dischiudere le porte della Chiesa e quelle del cielo. Se non che la materia per se stessa è muta e come è indifferente a ricevere qualunque forma, così è indifferente a significare qualunque cosa: spetta all’uomo determinarne il significato e il valore e ciò esso suol fare con la parola. Perciò, additandovi un agnello, vi dice: Ecco Gesù Cristo; additandovi una colomba, vi dice: Ecco lo Spirito Santo; additandovi una bilancia, vi dice: Ecco la giustizia. La parola circoscrive e determina il senso delle cose e ciò fece Gesù Cristo. Voi, così Egli, laverete l’uomo e per esprimere come quella lavanda produce nell’anima sua, aggiungerete queste parole: « Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito ». Quell’acqua congiunta con le parole sante, quasi corpo congiunto all’anima, cancellerà il peccato, rimetterà ogni pena per esso dovuta, infonderà la grazia santificatrice e stamperà nello spirito un carattere, un segno indistruttibile, attestante il pieno dominio di Lui. E poiché questo rito sì semplice e sì augusto è a tutti necessario, come è necessaria la vita della grazia, a tutti è dato di amministrarlo. Tanta è la bontà e la larghezza del divino Istitutore! Ed ora, o dilettissimi, studiamoci di penetrare il senso profondissimo di questa formula caduta dalle labbra di Gesù Cristo: « Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo ».E primieramente giova comprendere la forza di quella parola: Nel nome. Presso gli antichi come presso i moderni, nell’uso sacro come profano, dire: – Nel nome – è dire nel potere, nella autorità, nel diritto di chi si nomina poi: su ciò non è mestieri insistere. Ora dopo la parola: – Nel nome – nel testo sacro vengono nominate distintamente le tre divine Persone. Ponete che quelle tre Persone non fossero eguali, ma diverse per potere e per natura; poteva Egli Gesù Cristo collocarle sulla stessa linea e pareggiarle, dicendo: – Nel nome – cioè nella autorità o nella potestà? Come attribuire a tutte e a ciascuna la stessa dignità, la stessa potenza e quindi la stessa natura? Quando mai un Monarca intima una legge a’ suoi sudditi, dicendo: – Nel nome nostro e del nostro ministro? – Come poteva Gesù agguagliare a Dio altre Persone, che se non sono Dio, sono necessariamente creature e perciò per infinito intervallo a Dio inferiori? Come confondere insieme Dio e le creature, il Padrone d’ogni cosa e i suoi servi? Sarebbe stata una empietà enorme anche per un’altra ragione. Per il rito sacro del Battesimo l’uomo è consacrato a Dio, diviene suo figlio per adozione, ne riceve in sé l’immagine ed il carattere. E volete voi che l’uomo si consacri a creature e creature sarebbero almeno la seconda e la terza Persona nominate quando non fossero Dio? E non sarebbe empietà consacrarsi egualmente a Dio e alle creature, pareggiando queste a quello? Dunque quelle tre Persone, Padre, Figliuolo e Spirito Santo,, poste nello stesso ordine, con la stessa autorità o podestà in forza della parola: – Nel nome – e non nei nomi, sono eguali: se eguali nella autorità e podestà, debbono essere eguali nella natura o nella essenza, perché autorità e podestà, natura e essenza sono inseparabili. È questa l’argomentazione comune dei Padri affermanti la Santa Trinità contro l’eresia Ariana. [La parola Trinità, se bene mi ricordo, fu introdotta per la prima volta da Tertulliano, quasi ter unitas vel trium unitas, tre volte unità od unità dei tre. Essa esprime sì felicemente il dogma, che la Chiesa la fece sua e ne consacrò l’uso.]. Il dogma della Santa Trinità consta di due termini distintissimi, l’unità della essenza o natura. e la Trinità delle Persone: nella parola: nome – abbiamo visto il primo termine: nelle voci distinte di Padre, Piglio e Spirito Santo, brilla chiaramente la Trinità delle Persone. E come dubitarne? Ogni parola racchiude in sé il proprio significato, che non può essere quello di un’altra parola se non vogliamo ingannare o giuocare. Ora la parola Padre che significa essa? Certamente significa una persona, che dà principio per via di generazione ad un’altra e che necessariamente non può essere quella che è generata, se non vogliamo dire che generante e generato sono una sola persona. E la parola Figlio che significa essa? Certamente significa una persona, che riceve la vita e tutto l’essere suo per via di generazione dal padre e che per conseguenza necessaria non è il Padre stesso, ma un’altra persona da esso distinta. Chi mai potrebbe confondere in una sola persona il padre e il figlio? Che significa essa la parola Spirito Santo? Certamente significa alcun che di emanante dalla natura stessa di Colui che lo spira od alita verso un altro, che lo riceve e che perciò è distinto dall’uno e dall’altro e poiché in Dio trattasi di un soffio, od alito o spirito infinito, debb’esser’Egli pure infinito e perciò Persona, tanto più che posto in ordine perfetto ed eguale dopo le Persone del Padre e del Figlio, non può essere che Persona. In questi tre nomi pertanto di Padre, di Figlio e di Spirito Santo non possiamo riconoscere tre attributi o tre perfezioni divine ma sì tre divine Persone, aventi la stessa natura e perfettamente eguali, ma distinte per le proprietà singolari di ciascuna, che non permettono di confonderle tra loro. – Ma forse a taluno di voi si affacceranno alcune difficoltà, che derivano naturalmente dalle voci di Padre, di Piglio e di Spirito Santo usate dal Vangelo, che per se stesse sembrano stabilire una disuguaglianza tra le Persone e quindi sembrano rovesciare il dogma cattolico. Il Padre deve precedere il Figlio e il Padre e il Figlio devono precedere lo Spirito Santo e per ragione della precedenza di origine debbono avere eziandio una precedenza di dignità e di potere. Non è egli così? No, dilettissimi: seguitemi e ve ne persuaderete facilmente. Noi non possiamo né ragionare, né parlare di Dio, della sua essenza, delle Persone divine, dei loro rapporti e delle loro perfezioni se non movendo da noi stessi e dalle cose tutte finite, che ci circondano: da ciò conseguita che qualunque nostro concetto, qualunque nostra idea e parola non possono mai adeguare ciò che pensiamo e diciamo di Dio: tutte le nostre idee e le nostre parole sono e saranno sempre imperfettissime e al tutto inette ad esprimere la verità. Che fare? Non pensare, non parlare mai di Dio e delle cose divine? Tanto varrebbe negare Dio stesso e fare alla ragione e al sentimento umano il massimo degli oltraggi. Pensiamo e parliamo di Dio e delle cose suo meglio che possiamo, correggendo secondo le forze nostre l’imperfezione dei nostri concetti e la povertà del nostro linguaggio. Dalla parola e dall’ idea del padre comune e terreno, che conosciamo, assorgiamo alla parola e all’idea del Padre divino, che genera il Figliuol suo unigenito e rimuoviamone tutte quelle imperfezioni, che alla maestà e perfezione infinita di Dio ripugnano. L’uomo è un composto di anima e di corpo e nessuno dei suoi atti è sciolto perfettamente dall’impaccio corporeo: allorché dunque diciamo che in Dio vi è una Persona, che si chiama ed è, vero Padre, via ogni immagine o concetto corporeo, perché in Dio non v’ha ombra o mistura qualsiasi di corpo. Per noi sulla terra, soggetti alla legge inesorabile del tempo, il padre esiste necessariamente prima del figlio: via questa precedenza di tempo in Dio, in cui tutto è eterno: il Padre fu sempre Padre e perciò ebbe sempre il Figlio, da Lui generato, ma eternamente generato. Vedeste mai il sole senza la luce, che è sua figlia, sua emanazione? No per fermo: così il Padre per ragione della origine è prima del Figlio, non mai in ordine di tempo, che non esiste: eterno il Padre, eterno il Figlio, cantiamo nel simbolo atanasiano. – Per noi uomini sulla terra la persona del padre è separata dalla persona del figlio: hanno la stessa natura, ma diversamente posseduta: in Dio via questa separazione delle Persone del Padre e del Figlio, perché la loro natura essendo unica e indivisibile e sovranamente spirituale, non può scindersi: essa è tutta ed identica nel Padre e tutta ed identica egualmente nel Figlio, come, o uomo, la tua anima è tutta nella tua mente, nella tua memoria e nella tua volontà. – L’uomo può essere padre di molti figli: via questa idea da Dio Padre, che ha un solo Figlio e non può averne altri. L’uomo, limitato nel tempo e nello spazio e nella natura, svolge gradatamente e con atti successivi e perciò molteplici la sua forza generatrice: Dio Padre, infinito nella sua essenza ed eterno, con un solo, eterno e semplicissimo atto esaurisce la infinita sua fecondità e perciò non può generare che un solo Figlio. L’uomo è libero d’essere e di non essere padre: la sua paternità dipende dalla sua libera volontà: via questo concetto da Dio Padre, che genera il Figliuol suo per natura e perciò necessariamente, ancorché poi lo voglia e vi trovi tutte le infinite compiacenze. – Rimosse tutte queste imperfezioni dalla divina paternità, voi vedete che Dio Padre è vero Padre e più Padre che non lo siano i padri terreni. Sì, il Padre è più Padre che non lo siano i padri terreni; è il Padre de’ padri, il Padre per eccellenza, dal quale, come da fonte prima e da archetipo sovrano, deriva ogni paternità. Egli è Padre per sola sua virtù e per attuare l’infinita sua fecondità non chiede l’aiuto di qualsiasi altro essere, né con altri divide la gloria della sua paternità, come avviene in tutte le creature che sole non possono generare. Egli è Padre da solo, vero e perfettissimo Padre, Padre senza esse figlio, sempre Padre, non altro che Padre, eternamente Padre. O mistero, nel quale chi ficca gli occhi della mente, si perde in un mare di luce! – Lo stesso si dica dello Spirito Santo, la terza Persona della augusta Trinità. Essa è una emanazione semplicissima, sempiterna dal Padre nel Figlio e dal Figlio nel Padre, un alito amoroso dell’uno nell’altro, che non divide l’uno dall’altro, che non cessa mai e nell’unica essenza compie e consuma l’ineffabile loro amplesso. Ma come ciò avvenga e come l’una Persona dall’altra si distingua, una e medesima rimanendo la natura, come in Dio non possono essere che tre Persone e come la mente umana, non può comprendere ma può concepire questo sommo dei misteri e trovarvi tanta luce da vederlo non pure ripugnante, ma conforme alla stessa ragione, lo vedremo nei due Ragionamenti che seguono. Ed ora ritorniamo al nostro commento, giacché ci rimangono ancora da spiegare due magnifiche sentenze. « Voi, diceva Cristo agli Apostoli, colla vostra predicazione e col Battesimo nel nome della Santa Trinità formerete i miei discepoli: ma perché giungano a salvezza basterà egli credere ed essere battezzati? No: la fede e il Battesimo sono necessari, sono il fondamento della giustizia: ma su questo fondamento bisogna innalzare l’edificio delle opere conformi alla fede e perciò Gesù Cristo continua e dice: Voi loro insegnerete ancora che bisogna osservare tutto ciò ch’Io vi ho prescritto ». Intendeste, dilettissimi? La fede e il Battesimo sono il seme della vita eterna; l’osservanza dei precetti, le opere sono i frutti e senza i frutti l’albero è tagliato e gettato ad ardere nel fuoco eterno. Purtroppo certi Cristiani dicono: – Noi siamo Cristiani: abbiamola fede: la teniamo salda come il più prezioso dei tesori -. Ottimamente! Ma e l’opere della fede dove sono? Dove 1’osservanza della legge? Chi non ama Dio non si salva, e non ama Dio chi non adempie la sua legge, lo disse Gesù Cristo medesimo. Non ingannatevi: la sola fede non salva, anzi, scompagnata dalle opere, essa è la vostra condanna. Gesù Cristo chiude il suo discorso con una sentenza, che è il suggello di tutte le altre, che è come il suo testamento, che è il sostegno e il conforto della Chiesa in tutte le sue prove. Eccola: « Ed ecco ch’Io sono con voi fino al termine del secolo » . O promessa consolante! O supremo conforto della Chiesa e di ogni anima cristiana! – Voi andrete, ecco il senso delle parole di Cristo, voi andrete per tutto il mondo: voi predicherete, voi battezzerete, voi continuerete l’opera mia ed altri dopo di voi la continueranno. L’opera, vel dissi, è grande, ardua, affatto superiore alle vostre forze: ma non temete: con voi quando predicherete, quando battezzerete. quando adempirete il vostro ufficio in mezzo alle più terribili lotte, Io, vostro Maestro, vostra guida, Io, Dio-Uomo, Signore d’ogni cosa, sarò con voi. Fin quando? Fino all’ultimo giorno, fino al termine dei tempi. E dove sono Io, vincitore della morte e dell’inferno, ivi è la vittoria -. E come Gesù Cristo sarà Egli sempre con la sua Chiesa? Nella Santa Eucaristia, in cui vive realmente e sostanzialmente presente, qual cibo delle anime, qual vittima espiatrice? Sì: Egli resterà sempre nella sua Chiesa per il Sacramento eucaristico, centro della sua vita. Ma rimarrà solo nella Santa Eucaristia? No: Egli per la sua grazia rimarrà nelle anime giuste, che crederanno in Lui, che spereranno in Lui, che lo ameranno. E non basta. Egli rimarrà sempre nella sua Chiesa, come uno sposo vive con la sua sposa: Egli la reggerà, la difenderà, la illustrerà col lume indefettibile della verità: Egli non permetterà giammai ch’Essa nel suo insegnamento esca dalla dritta via e si faccia banditrice dell’errore. Un giorno Gesù Cristo disse agli Apostoli: « Chi ascolta voi ascolta me ». E questa la sentenza che in altri termini ripete loro prima di lasciare la terra, allorché dice loro: « Ecco Io sono con voi fino al termine del secolo ». Carissimi! Vogliamo essere con Gesù Cristo per i secoli eterni? Siamo con la sua Chiesa nel tempo, con la Chiesa che ammaestra, che governa, che dispensa i Sacramenti e saremo con Gesù per tutta la eternità!

Credo …

Offertorium

Orémus

 Tob XII:6. Benedíctus sit Deus Pater, unigenitúsque Dei Fílius, Sanctus quoque Spíritus: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. [Benedetto sia Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Secreta

Sanctífica, quæsumus, Dómine, Deus noster, per tui sancti nóminis invocatiónem, hujus oblatiónis hóstiam: et per eam nosmetípsos tibi pérfice munus ætérnum. [Santífica, Te ne preghiamo, o Signore Dio nostro, per l’invocazione del tuo santo nome, l’ostia che Ti offriamo: e per mezzo di essa fai che noi stessi Ti siamo eterna oblazione.]

Communio

Tob XII:6. Benedícimus Deum coeli et coram ómnibus vivéntibus confitébimur ei: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. [Benediciamo il Dio dei cieli e confessiamolo davanti a tutti i viventi: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Postcommunio 

Orémus.

Profíciat nobis ad salútem córporis et ánimæ, Dómine, Deus noster, hujus sacraménti suscéptio: et sempitérnæ sanctæ Trinitátis ejusdémque indivíduæ Unitátis conféssio.
[O Signore Dio nostro, giòvino alla salute del corpo e dell’ànima il sacramento ricevuto e la professione
della tua Santa Trinità e Unità.]

INFEDELI

INFEDELI

[G. Bertetti: Il Sacerdote predicatore; S.E.I. Ed. Torino, 1919]
1. Varie specie d’infedeli. — 2. Una grave questione. –
3. Relazioni nostre con gl’infedeli.

1. VARIE SPECIE D’INFEDELI. — Sono infedeli coloro che non hanno la fede di Gesù Cristo;… sia che non l’abbiamo mai avuta (pagani);… sia che, dopo averla avuta, l’abbiano respinta (ebrei ed eretici). Di costoro, i pagani son quelli che errano maggiormente dalla fede, ma sono meno colpevoli, perché « pecca più gravemente contro la fede chi s’oppone alla fede già ricevuta, che chi s’oppone alla fede non mai ricevuta; come pecca più gravemente chi non adempie ciò che ha promesso, che chi non adempie quello che non ha mai promesso » (S. TH., 2a 2a e, q. 10, a. 6)… I pagani non conobbero la via della giustizia; la conobbero i giudei e gli eretici, e l’abbandonarono: « Meglio era per essi il non conoscere la via della giustizia, che, conosciutala, rivolgersi indietro dal comandamento santo che ad essi è stato dato » (2a PETR., 2, 21) . A loro volta gli ebrei, benché in confronto degli eretici professino un maggior numero d’errori contro la fede, tuttavia sono meno colpevoli degli eretici;… perché gli ebrei respingono la fede cristiana ch’essi ricevettero soltanto in figura, gli eretici la respingono dopo averla ricevuta in tutta la manifestazione della realtà;… gli ebrei non ricevettero mai la fede dell’Evangelo, gli eretici l’hanno ricevuta e la respingono guastandola… [Tanto è ancor certo per i modernisti del “Novus Ordo”, per i fallibilisti gallicani lefebvriani, i tesisti materialiter, tutte le sette sedevacantiste attuali (tutti quelli che si dicono cattolici, ma … non lo sono) – ndr.-]
2. UNA GRAVE QUESTIONE si fa intorno a quegl’infedeli che nacquero e furono allevati senza lor colpa nell’infedeltà. – Se costoro, sapendo di poter istruirsi nella fede di Gesù Cristo, trascurano di farlo, sono colpevoli d’infedeltà e non possono sperare di salvarsi. Se invece non hanno alcuna possibilità d’istruirsi nella fede, ma profitteranno di quelle grazie medicinali che Dio lor concede per osservar la legge naturale, e così non opporranno l’ostacolo del peccato, otterranno da Dio la grazia della fede o con mezzi ordinari, o anche, in mancanza di questi, con mezzi straordinari che Dio solo conosce: quel Dio che ci vuol tutti salvi e che a ciascuno dà la grazia necessaria e sufficiente per salvarsi… Ma se non osserveranno la legge naturale, «si danneranno non già per causa del peccato d’infedeltà da loro non commesso, ma per causa degli altri peccati, che non si possono rimettere senza la fede » (S. Th., ib., a. 1)
3. LE RELAZIONI NOSTRE CON GL’INFEDELI s’hanno a fondare su quel principio: che dobbiamo salvare anzitutto l’anima nostra e poi quella degli altri, perciò, evitare per noi ogni pericolo di perversione o di perdita della fede,… e procurare nello stesso tempo la conversione degli infedeli. A evitare ogni pericolo di perversione e di perdita della fede, asteniamoci
assolutamente da ogni partecipazione ai riti religiosi degli eretici,… asteniamoci da ogni disputa con loro circa la fede… Limitiamo al puro necessario le nostre relazioni con loro… trattiamoli caritatevolmente, ma senza soverchia familiarità… Non leggiamo i loro libri… non frequentiamo le loro adunanze [Attenti soprattutto ad evitare qualsiasi contaminazione con il “Novus Ordo”, da evitare come peste velenosa mortalissima –ndr. -]. – A procurare la conversione degl’infedeli, aiutiamo l’opera dei missionari cattolici, con l’obolo della nostra carità e con la preghiera… concorriamo secondo le nostre forze alla redenzione delle anime, pensando qual immenso beneficio sia la fede e in qual pericolo d’eterna dannazione si trovino quei che vivono nelle tenebre e nell’ombra della morte…
— Quanto agl’infedeli che vivono vicino a noi, badiamo anzitutto a non renderli più ostinati nel loro errore, per causa del nostro modo di vivere non sempre conforme all’Evangelo… « Gl’infedeli disprezzano la fede, quando vengono a scoprire le mancanze dei fedeli » (S. TH., ib., a. 10);… addossano alla fede ciò che è colpa nostra,… non si curano dei nostri santi, tengono conto solamente dei cattivi, e mettendoci tutti in un fascio conchiudono che nella loro setta c’è più virtù che nella nostra… La predica più efficace per la conversione delle anime sia quella del buon esempio: « Risplenda la vostra luce innanzi agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone, e glorifichino il vostro Padre ch’è nei cieli » (MATTH., V, 16);… «in tutte le cose fa vedere te stesso modello del ben fare, nella dottrina, nella purità, nei costumi, nella gravità: il discorrere sano, irreprensibile, talmente che chi ci sta di contro abbia rossore, non avendo nulla da dir male di noi» (Tit., 2, 7, 8)…..

LO SCUDO DELLA FEDE (XII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

PRATICA DELLA RELIGIONE.

Dovere della, religione. — Non basta essere galantuomini. — La vera onestà. — Il culto esterno. — La religione è buona solo per il popolo, per le donne e pei bambini?

— È proprio indispensabile il praticare la religione?

Indispensabilissimo. La religione è un dovere assoluto che l’uomo ha verso di Dio quale primo principio di tutte le cose. Poiché Dio esiste, e ha dato l’esistenza a noi, e noi, sue creature ragionevoli, siamo in dovere di onorarlo con quel culto, che Egli si merita.

— Ma che cosa può importare a Dio che noi l’onoriamo o no?

Gli importa moltissimo. Essendo Egli infinitamente giusto, deve volere come tale ciò che è conforme alla ragione e all’ordine, e l’ordine e la ragione esigono che l’uomo, creatura ragionevole, onori il suo Creatore con la pratica degli omaggi della Religione.

— Ma Iddio non è forse infinitamente beato in se stesso? Dunque che bisogno ha egli dei nostri omaggi!

Certamente Dio si trova in una beatitudine perfetta, ed Egli non ha bisogno alcuno della nostra Religione. Tutti quanti gli omaggi, non solo degli Angeli e degli uomini esistiti, esistenti, e che esisteranno, ma di miliardi e miliardi di altri Angeli e di altri uomini, che Dio potrebbe far esistere, non accrescerebbero di un etto solo la beatitudine interiore, che Dio gode da tutta l’eternità, perché Egli è l’Essere pienamente perfetto, in cui non v’è, a nostro modo di dire, un atomo solo né da togliere né da aggiungere. Ma siamo noi che abbiamo bisogno di Dio; noi, che abbisogniamo di essere da Lui conservati, benedetti, protetti, difesi, perdonati, aiutati. E pretenderemmo noi che Egli ci usasse tutti questi riguardi senza che noi ci curassimo di Lui, senza che lo onorassimo e gli rendessimo gli omaggi della religione?

— Pure ho inteso dire le tante volte che basta essere galantuomini, gente onesta, e che ciò costituisce la miglior religione del mondo.

Ed è questo propriamente uno dei più grossi strafalcioni che si dicano. E primieramente, che s’intende dai più per galantuomo? per gente onesta? Credilo? amico mio, qui ci troviamo di fronte a termini di significato molto elastico nella realtà dei fatti. Ed invero anche i libertini, gli scialacquatori, i truffatori, gli usurai, gli avari, i poltroni, ed altra simile genia, tutti si vantano di essere galantuomini, tutti pretendono di essere gente onesta. Forse ci saranno appena i galeotti, che non avranno tale pretesa. E dico forse, perché non ci sarebbe poi troppo da meravigliare, se vi fossero dei galeotti che dicessero : « I ladri e gli assassini sono i carabinieri che ci hanno arrestati, e i giudici che ci hanno condannati, ma noi siamo galantuomini ». Lo sai bene il fatto di quel re, che visitando le prigioni, s’intese a dire da tutti i carcerati, che tutti erano innocenti? Ci fu un solo che si confessò colpevole, sicché il re, voltosi a lui disse: Or se è così, tu stai male fra tutti questi innocenti: esci fuori di qui; e diede ordine che fosse rimesso in libertà. Pare dunque a te che sia questa l’onestà, questo il galantomismo da sostituire alla religione?

— Ma no. Per galantuomo si intende chi compie i suoi doveri, fa il bene ed evita il male.

E allora se un uomo riesce ad essere tale senza l’aiuto della Religione è l’ottava meraviglia del mondo. Anche quelli, che praticano la Religione, trovano difficoltà ad essere buoni ed onesti, tanto sono terribili gli assalti del demonio, del mondo e delle nostre passioni, e vuoi che un uomo riesca di per sé, senza l’aiuto della Religione a vincerli sempre?

— Ma quando un uomo sia ben compenetrato dall’idea del dovere, e da quella dell’onore, quando un uomo si imponga di non la sciarsi guidare che dalla sua ragione, perché non potrà riuscire ad essere un vero galantuomo?

L’idea del dovere, caro mio, si fonda sopra la Religione. Togli il pensiero di Dio, nostro padrone, di Dio che vede anche i nostri più reconditi pensieri, che premia i buoni e castiga i cattivi, e l’idea del dovere svanisce, e questa parola dovere diventa una parola vuota, o talmente vaga da non avere la forza di indurti a compiere il bene ed evitare il male. – In quanto all’idea dell’onore, devi comprendere che molto facilmente si può apparire nel mondo come uomini d’onore anche allora che si commettono dei gravissimi delitti. Tutto sta nel farla franca, nel coprire con destrezza e fina ipocrisia il male che si fa. E in quanto poi all’impero della ragione, devi pure ammettere che è un impero assai poco efficace, perciocché quante volte la passione piglia alla ragione il sopravvento! No, no, mantenersi buoni, onesti, galantuomini senza l’aiuto della Religione è impossibile. Chi pensasse di riuscirvi, e peggio ancora di esserlo, o è un povero illuso, o è un solenne bugiardo, che mentisce contro la voce della sua coscienza.

— Eppure, a me pare che si diano nel mondo uomini, che anche senza la Religione, abbiano un’onestà naturale a tutta prova.

Ebbene dato pure che vi siano gli uomini che tu dici, non perciò meritano di essere chiamati onesti. Ti reco qua in proposito una bella pagina del Bougaud: « L’uomo onesto onora il proprio padre e la propria madre. E Dio non ci tien luogo di padre e di madre? – L’uomo onesto è riconoscente dei beni, che ha ricevuti. E Dio non glie ne ha elargiti a piene mani? – L’uomo onesto obbedisce alle leggi del proprio paese, anche alle più onerose. E Dio non gli ha data alcuna legge da osservare? – L’uomo onesto è fedele alla propria parola. Non l’ha mai impegnata con Dio? Non si è mai legato con Lui con alcuna promessa? – L’uomo onesto rende a ciascuno ciò che gli si deve. E a Dio non è dovuta l’adorazione, la preghiera, l’azione di grazia, il culto, essendo Egli il nostro sovrano, il nostro benefattore, il nostro tutto? Dunque non corriamo dietro a chimere. Finché non si prega, non si adora, non si rende a Dio l’omaggio della Religione, diciamo pure che non si è uomo onesto nel vero senso della parola ».

— Questa pagina è d’una chiarezza ed evidenza incantevole. Sì, lo ammetto il praticare la Religione è un dovere assoluto.

E tanto più che Dio lo comanda. È sì, o no, in diritto Iddio di imporci dei precetti? Chi mai lo potrebbe negare? Or bene fra gli altri, anzi in capo agli altri, ci ha imposto anche questo in quelle parole: Io sono il Signore Iddio tuo: vale a dire: « Uomo, riconoscimi per quello che sono e rendimi l’onore, il culto, che mi è dovuto ».

— Benissimo. Ma in confidenza, coloro i quali praticano la Religione non sono alla fin fine come tutti gli altri? non commettono anch’essi le loro marachelle?

Ammetto che anche tra gli uomini di Religione ve ne siano di quelli, che non fan bene, perché anch’essi come tutti gli altri uomini hanno di quel d’Adamo. Ma anche in questo caso non avranno sempre costoro un aiuto per reagire contro se stessi? Eppoi se anche costoro, uomini di Religione, fan male, è forse per colpa della Religione, oppure di quel mondo miscredente e irreligioso, tra cui vivono, e di cui subiscono una perniciosa influenza? Del resto considera un po’ bene le cose: confronta un po’ a fondo gli uomini di Religione con quelli che non ne vogliono sapere, e poi vedrai se i primi possono stare alla pari coi secondi nel fare d’ogni erba fascio! Riconoscerai che sì ancor essi, gli uomini religiosi, cadranno in qualche disordine, ma che i delitti più neri, più esecrandi, più orribili sono la privativa pressoché esclusiva di coloro, che non credono e non hanno Religione.

— Non ho difficoltà ad ammettere che la cosa stia così. Ma dacché bisogna proprio praticar la Religione non basta forse praticarla col cuore? Che bisogno c’è di manifestarla esteriormente in pubblico con riti, con preghiere, con cerimonie esteriori?

Che bisogno? Per Iddio nessuno certo, per noi moltissimo. Prima di tutto perché  Dio ce lo comanda; poi perché, anche non ce lo comandasse, dovremmo renderglielo egualmente, essendoché noi siamo anima e corpo, e dobbiamo perciò con l’anima e col corpo manifestare a Dio la nostra sudditanza; e da ultimo perché il culto esteriore serve efficacemente a farci rendere a Dio anche quello interiore.

— Come? questo non lo capisco.

Hai mai provato qualche effetto nel tuo cuore prendendo parte a qualche pubblica manifestazione di fede? I cantici della Chiesa, il suono degli organi, i riti compiuti con solenne maestà dai sacerdoti non ti hanno mai interiormente colpito?

— Oh! sì. Debbo dire la verità. Molte volte mi hanno commosso, ed anche senza che io ci avessi pensato prima, mi sono sentito attratto da una forza per me inesplicabile a stare raccolto, a pregare, e persino a piangere.

Vedi adunque di qual maniera il culto esteriore ci giova per rendere a Dio anche quello interiore. Aggiungi poi che il culto esteriore torna sommamente utile alla società. La sola esperienza del passato è sufficiente a provarlo; la stessa ragione poi ce lo assicura, giacché per mezzo del culto esterno è predicato del continuo e all’individuo e alla società l’esistenza di un Dio sommamente giusto, che premia i buoni e castiga i cattivi, verità questa fondamentale del dovere e dell’ordine; per mezzo del culto esterno è mantenuto più vivo il sentimento dell’universale fratellanza; per mezzo del culto esterno viene esercitata la più forte influenza sopra le arti e sopra la civiltà, per mezzo del culto esterno infine, per tacere di altro, il sentimento della patria si fa grande e gagliardo.

— A dir il vero non aveva mai riflettuto a tutto ciò, e sono contentissimo di averlo appreso. – Nondimeno lo spendere tanti denari come si fa alle volte per certe feste religiose non è troppo? Non sarebbe meglio farne delle elemosine?

Questa osservazione non è tua certamente, ma di coloro che vogliono rivaleggiare con Giuda, il quale vedendo la Maddalena versare unguento sui piedi di Gesù diceva: « Non era meglio venderlo, e il denaro ricavato darlo ai poveri? » Ma per rispondere a questa osservazione potrei domandare a te: E non sarebbe meglio che in occasione di visite reali, imperiali, di feste civili e carnevalesche, anziché spendere tanti denari negli apparati esteriori si facessero delle elemosine? Del resto forsechè non si possa far l’una cosa e l’altra? E alla fin fine a questi apparati esteriori non ci tengono gli stessi poveri, i quali alle volte anche con maggior sacrificio dei ricchi ci concorrono con le loro spontanee oblazioni? E poi quegli apparati esteriori in certe speciali solennità non ci parlano con maggior efficacia della grandezza di nostra Religione e non ci spronano più efficacemente a praticarla?

— Sì, è verissimo. Ma ora vorrei un po’ sapere perché vi sono molti che dicono la Religione essere buona per il popolo, per le donne…

È facile a spiegarsi. In questi motti escono coloro che son dominati dalla superbia, che credono di abbassarsi a praticare quella Religione, che specialmente praticano il popolo e le donne. Ma appunto perciò devi capire come costoro non dicano la verità. La Religione o è vera, o è falsa. Se è vera, e per conseguenza buona, lo è tanto per gli uomini elevati come per il popolo e per le donne, e se è falsa, lo è parimenti per tutti. Certamente la religione è di un conforto e vantaggio inestimabile al povero popolo ed alle donne, che sembrano specialmente destinati a soffrire. Ma qui si tratta non solo di vantaggio e conforto, ma anche, e specialmente, di dovere. Ora l’uomo, e particolarmente l’uomo di classe elevata o per natali, o per censo, o per scienza, o per qualsiasi altra condizione, non si trova ad essere anch’egli suddito di Dio? Del resto se si guarda bene che gli uomini, e specialmente i giovani, corrono più gravi i pericoli, sentono più vive le passioni e sono più proclivi ai cattivi costumi, ben si conosce che la Religione si manifesta anche più indispensabile nell’uomo. No, la Religione non è buona soltanto pel popolo e per le donne, ma è buona per tutti.

— E che devo pensare di coloro che dicono che è vero che un po’ di Religione ci vuole, ma non troppa per non cadere nel fanatismo?

Devi pensare che costoro la sbagliano Il fanatismo, ossia l’immaginazione riscaldata che induce a fare pratiche religiose o che sembrano tali in modo eccessivo, disordinato, inopportuno, è certamente un male, dal quale dobbiamo sperare di essere da Dio liberati. Ma se questo è un male per eccesso, il « po’ di religione », di cui costoro vorrebbero accontentarsi, è un male per difetto. – La Religione non è già una specie di pepe, di cui si debba solo metterne un po’ nelle vivande per farle più saporite, ma è la vivanda, il cibo istesso dell’anima nostra, che perciò deve essere sostanzioso, tale quale ce lo ha preparato Iddio medesimo. Un po’ di Religione anziché la Religione nella sua integrità, è una contraddizione manifesta. È lo stesso che dire che Dio sì, bisogna ma onorarlo, non troppo, ma non sempre, ma non a quel modo che Egli vuole esser onorato.

— Ciò è chiaro. E che dire di quelli che, capi di famiglia, si vantano magari di non praticare essi la Religione, ma asseriscono di volerla per i loro bimbi, perché è utile?

Costoro fanno male per due riguardi. Prima di tutto perché, se sono convinti che la Religione è utile, dovrebbero praticarla anch’essi dandone l’esempio ai propri figliuoli; in secondo luogo perché essi considerano la Religione come uno spediente e non già come un dovere. Essi vanno precisamente d’accordo con quei politici, che riguardando nel prete un alleato del carabiniere, un gendarme in sottana, e nella Religione da lui predicata un aiuto a tenere a freno la società, la vorrebbero unicamente per questo motivo, disposti però a farne a meno, se dalla Religione non ridondasse tale utilità. La Religione, caro mio, si deve volere per noi, per tutti, siccome sacrosanto obbligo, che ci incombe verso di Dio.

I PAPI DELLE CATACOMBE (10)

I Papi delle Catacombe [10]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]


San Ponziano (230-235), successore di Urbano, esiliato dapprima nell’isola di Buccina, una delle più selvagge della costa meridionale della Sardegna, ebbe in seguito la testa tagliata nel primo anno della persecuzione di Massimiano.

San Antero (235-236), eletto in dicembre, fu martirizzato il 3 gennaio seguente, dopo un mese di Pontificato, consacrato a raccogliere gli atti dei martiri, comprovati da notai o scrivani deputati a questo scopo dopo il pontificato di San Clemente. –

Un avvenimento meraviglioso decise l’elezione di San Fabiano (236-250). I confratelli erano riuniti per l’elezione, e si proposero diversi personaggi considerevoli, senza pensare a Fabiano, che era presente, ma che non ancora apparteneva al clero. Tutto ad un tratto una colomba, volando sopra l’assemblea, venne a posarsi sul capo di Fabiano. Si considerò questo fatto straordinario come un’indicazione del cielo, e Fabiano fu acclamato ad una voce. Fu durante questo Pontificato che San Gregorio, soprannominato Taumaturgo, o fautore di miracoli, per i numerosi prodigi che operò, cominciò ad essere conosciuto in tutta la Chiesa. Questo Santo nacque a Cesarea, nel Ponto. I suoi genitori erano pagani; ancora giovane si recò a Cesarea in Palestina, e vi incontrò Origene, al tempo nel pieno fulgore della sua rinomanza. Le lezioni di questo grande maestro lo attrassero talmente, che non volle più lasciarlo. Egli abbracciò il Cristianesimo e fu battezzato. Essendo Origene obbligato a nascondersi a causa della persecuzione, Gregorio si recò ad Alessandria dove un prodigio venne ad attestare la castità dei suoi costumi, che aveva eccitato la gelosia di qualcuno dei suoi compagni di studi. Egli tornò a Cesarea, quando Origene poté ricominciare le sue lezioni, e dopo essersi rafforzato nella fede, tornò nella sua patria. Ci si aspettava di vedere un oratore abile ed un eminente giureconsulto; egli si mostrò ai suoi concittadini come un fervente neofito. Ben presto Fedimo, Vescovo di Amasea, lo giudicò degno dell’episcopato, e lo mise a capo della Chiesa di Neocesarea, che all’epoca non contava che diciassette cristiani. Neocesarea era una città ricca, grande e popolosa, ma i costumi erano corrotti e l’idolatria vi regnava senza ostacoli. La fede di Gregorio si infiammò e gli fece operare dei miracoli. La sua vita, a partire da questo momento, non fu che una serie di prodigi che attestavano alla lettera queste parole del Signore Gesù-Cristo. « La fede trasporta le montagne … voi farete miracoli più grandi dei miei. » Un sacerdote pagano gli disse un giorno: « comandate a questa roccia di andare in quel posto, ed io crederò a Gesù. » Gregorio comandò alla roccia che si spostò fino al punto designato. Le sue prime predicazioni ed i suoi miracoli operarono numerose conversioni a Neocesarea. Il Lycus, fiume che scorre vicino a questa città, straripava spesso devastando le campagne circostanti; il Santo piantò il suo bastone in un punto vietando al fiume di oltrepassarlo. San Gregorio di Nissa scriveva, più di cento anni dopo, che da allora non si erano più avuti straripamenti. Durante un viaggio che il Santo fece, due giudei, che conoscevano la sua carità, fecero ricorso ad uno stratagemma per ingannarlo. Uno dei due si stese a terra fingendosi morto; l’altro si lamentava pregando il Vescovo di dargli qualcosa per sotterrare il compagno. Il santo prese il suo mantello e lo pose sul preteso morto. Quando fu ben distante, l’impostore corse dal compagno dicendogli di alzarsi, ma costui era realmente morto. I miracoli, la saggezza, la carità e lo zelo di Gregorio furono ampiamente ricompensati. Sentendo approssimarsi la sua ultima ora (verso il 270) si informò se ci fossero ancora molti pagani nella sua città episcopale; non se ne trovarono che diciassette. Egli allora alzò le mani al cielo, sospirando del fatto che la vera religione non era la sola della sua diocesi; ma nello stesso tempo ringraziò il Signore che, come quando era arrivato, non si erano trovati che diciassette cristiani, nel lasciarla alla sua morte, non si erano trovati che diciassette infedeli. Il Pontificato di Fabiano fu illustrato dalla pietà e dallo zelo profuso contro l’eresia dal Santo Pontefice. Egli raccomandò il culto dei martiri, fece distribuire in maniera regolare le risorse che la carità dei fedeli metteva tra le sue mani, e morì gloriosamente per Gesù-Cristo nel primo anno della persecuzione di Decio. Qualche storico gli attribuisce la conversione dell’imperatore Filippo. La sede di Roma restò vacante per diciotto mesi, dopodiché fu eletto San Cornelio, che governò la Chiesa solo per quindici mesi (251-252). « È stato necessario, dice S. Cipriano, costringere il nuovo Pontefice per fargli accettare questa dignità. In lui non si vide che la tranquillità, la modestia connaturale a coloro che Dio sceglie come Vescovi. È così che egli giunse al supremo grado del sacerdozio, dopo essere passato attraverso tutti i ministeri della gerarchia, ed essersi mostrato in ciascuno di essi lo strumento della grazia divina. » Tuttavia questa elezione fu contestata, ed è all’epoca che si vide il primo Antipapa: Novaziano, che accusò Cornelio di essere un “libellatico”, cioè di avere comprato la propria vita con il denaro durante la persecuzione. Cinque sacerdoti di Roma seguirono Novaziano. L’antipapa si fece ordinare da tre vescovi italiani, dei quali carpì grossolanamente la buona fede facendoli piombare in uno stato quasi di ebrezza. Allo scisma, Novaziano aggiunse ben presto l’eresia; egli pretendeva che la Chiesa non avesse il potere di assolvere coloro che erano caduti nella persecuzione, qualunque penitenza venisse fissata; egli condannò assolutamente le secondo nozze, e sedusse un gran numero di persone con le sue apparenze di austerità e severità. San Dionigi di Alessandria combatté vigorosamente lo scisma; egli rispose in questi termini alla notifica dell’antipapa: « Se vi si è ordinato vostro malgrado, come pretendete, datene una prova abdicando dal vostro pieno grado, perché bisogna soffrire tutto, piuttosto che dividere la Chiesa di Dio. Il martirio che avreste da sopportare per evitare uno scisma, non sarebbe meno grave dell’altro. » San Cipriano radunò a Cartagine un Concilio di settanta vescovi, che anatemizzarono Novaziano e riconobbero il Papa legittimo. San Cornelio radunò da parte sua a Roma un Concilio si sessanta vescovi: Novaziano fu condannato; i cinque sacerdoti che lo avevano seguito, si sottomisero, come uno dei Vescovi che avevano consacrato Novaziano, e lo scisma finì per risolversi con la riprovazione di tutte le Chiese. San Cornelio fu messo in prigione per ordine dell’imperatore Gallo, che era succeduto a Decio, e fu in seguito esiliato a Civitavecchia, ove la gloriosa morte giunse il 14 settembre 252. Egli meritava, ha detto San Cipriano, la palma dei Confessori, perché aveva sfidato il furore dei tiranni, osando accettare un titolo che in questi tempi era una sentenza di morte. » Si è lodata in lui una purezza veramente verginale, una moderazione ed una fermezza singolare. Gli si attribuisce il decreto che vietava di ammettere alcun fedele a prestare un giuramento o a pronunciare dei voti, prima dei quattordici anni. [L’abbé Darras, Histoire de l’Église,].

San Luce, o Lucio, successore di San Cornelio, e che era stato esiliato con lui, non governò la Chiesa che per cinque mesi (25 settembre-4 marzo 253). La sua elevazione al Pontificato supremo, lo espose alla collera di Gallo, che lo esiliò quasi subito. Egli potette tornare a Roma dove lavorò febbrilmente a distruggere i resti dello scisma; ma catturato nuovamente, fu decapitato.

Santo Stefano I 253-257) ebbe fin dall’inizio a segnalarsi per la sua carità durante una orribile peste che devastò tuto l’impero e che fece a Roma in un solo giorno quasi cinquemila vittime. Egli si dimostrò degno Pastore di questo gregge desolato, ed inviò soccorsi fin nelle città più sperdute dell’impero. Una grave questione venne ad affliggere il suo cuore e minacciò di dividere la Chiesa. Si trattava di decidere se il Battesimo, conferito dagli eretici, fosse valido o meno. La dottrina della Chiesa, fuor di contestazione oggi, è che ogni Battesimo conferito nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito-Santo, è valido, fosse anche amministrato da un eretico o un pagano, ma che invece è nullo, fosse anche conferito da un Cattolico o un sacerdote, se mancano le condizioni che ne costituiscono l’essenza: l’acqua ed il Nome delle tre Persone della Santissima Trinità. La sede di Pietro non ha mai variato su questo punto, ed è la dottrina che sostenne il Papa Stefano. Ma San Cipriano fu di opposto parere; egli sostenne che bisognava battezzare di nuovo gli eretici e gli scismatici che si convertivano, e lo sostenne con tenacia tale che stava per condurre ad uno scisma. Santo Stefano si mostrò pieno di longanimità; contento di aver proclamato la legge, lasciò che il tempo portasse alla riflessione per ricondurre gli uomini che si ostinavano per un eccesso di zelo perché credevano essere quella la verità. San Cipriano espiò ben presto con un glorioso martirio ciò che gli si poteva rimproverare in questa diatriba; Santo Stefano avrebbe poi conquistato la medesima corona  qualche tempo prima di lui. Si è scritto di Santo Stefano che avrebbe contraddetto San Cornelio facendo reintegrare nella loro sede due vescovi di Spagna che Cornelio avrebbe destituito, e che avesse errato nella questione del Battesimo degli eretici. Ciò che è stato già detto, confuta la seconda accusa. Quanto ai Vescovi spagnoli di cui si tratta, è stato dimostrato che Cornelio né il suo successore Lucio, avessero mai avuto a che fare con loro, e che solo Santo Stefano ebbe a riformare un primo giudizio che aveva espresso sulla base di false informazioni. Ma si trattava in ogni caso di una questione disciplinare, che non tocca l’infallibilità della sede di Roma [Vedi in: l’abbé Constant, l’Histoire et l’infaillibilité des Papes.].

San Sisto II (257-258) successe a Santo Stefano; si è già parlato in precedenza del suo martirio e di quello del suo diacono San Lorenzo. Il suo Pontificato fu seguito dalla vacanza di un anno.

San Dioniso, che infine fu eletto, governò la Chiesa per dieci anni, (259-269). La persecuzione di Valeriano e le eresie di Sabellio e Paolo di Samosata turbarono il suo Pontificato. Il Martirologio dice di lui: « Egli si rese celebre per i grandi lavori che intraprese per la difesa della Chiesa, e per le istruzioni salutari che ha lasciato alla posterità. » San Basilio lo chiama un Papa illustre per l’integrità della sua fede e lo splendore delle sue virtù. Questi elogi mostrano che il santo Papa fosse degno dei suoi predecessori.

San Felice I fu eletto all’indomani della morte di San Dioniso. In capo a cinque anni (269-274), conquistò tra i tormenti la corona del martirio, durante la persecuzione di Aureliano.

San Eutichiano governò la Chiesa per quasi nove anni (275-283). I Cristiani godevano allora di grande libertà. Eutichiano si dimostrò pieno di sollecitudine per la conservazione delle reliquie dei martiri, e dichiarò che i fedeli che avevano sposato una donna non battezzata, godevano del diritto di ripudiarla o tenerla, a loro piacere. Qui ancora entra in gioco la disciplina della Chiesa, che non è contraria all’indissolubilità del matrimonio, poiché il Sacramento non può esistere che tra Cristiani.

Il Papa San Caio (283-296) vide ricominciare le persecuzioni. Cosa rimarchevole, egli era della Dalmazia, come l’imperatore Diocleziano, ed anche parente dell’imperatore, e fu dapprima schiavo di un senatore romano. La Provvidenza, dice uno storico della Chiesa (l’abbé Darras), destinava a due membri della stessa famiglia due sovranità ben diverse: l’uno assumeva con l’omicidio una corona che doveva ancora tingere con il sangue di migliaia di Cristiani; l’altro otteneva con le sue virtù una regalità spirituale che tanti dei suoi predecessori avevano pagato con il loro sangue. Era la differenza tre l’impero pagano e l’impero cristiano; essa indica tutto ciò che l’umanità aveva da guadagnare nella sostituzione del secondo al primo. Caio fu all’altezza delle terribili prove che si abbattevano sulla Chiesa: egli fu, dicono gli storici, un Pontefice di rara prudenza e di una virtù coraggiosa. Le sue sofferenze per la fede gli meritarono il titolo di martire.

San Marcellino, che gli successe (296-304), si dimostrò, dice Teodoreto, tanto forte per la persecuzione venuta ai suoi tempi. Non si poteva fare un elogio più bello ad un Papa che vide aprirsi l’era dei martiri. I donatisti, scismatici dell’Africa, osarono tuttavia, più di un secolo dopo, offuscare la memoria di questo coraggioso Pontefice, producendo gli atti supposti di un falso concilio di Sinuessa, che accusavano Marcellino di aver consegnato le Scritture sante ai persecutori e di avere, in un momento di debolezza, offerto incenso agli idoli. I lavori della moderna erudizione, in accordo con le testimonianze contemporanee più autentiche, hanno vendicato il Santo Papa di una calunnia che si appoggiava falsamente su di una leggenda inserita nel breviario romano. Sant’Agostino aveva già risolto la questione, rispondendo a Petiliano, capo e difensore dei donatisti: « Ed ora c’è dunque bisogno di rifiutare le accuse portate da Petiliano contro i Vescovi di Roma, che egli perseguitava con le sue imposture e calunnie con un accanimento incredibile? Egli accusa Marcellino, Melchiade, Marcello, Silvestro di aver consegnato i libri santi e presentato dell’incenso agli idoli;  ma un rimprovero che non è fondato su niente, può dunque da se stesso solo, stabilire la loro colpevolezza? Petiliano assicura che essi sono stati dei sacrileghi, ma io rispondo che essi sono innocenti: perché mettermi in pena di sviluppare mezzi di difesa, quando l’accusa non è sostenuta da alcuna prova? » Dopo il martirio di San Marcellino, la Santa Sede restò vacante per quasi quattro anni (304-308), tanto la persecuzione infuriava con violenza. Infine poté essere eletto San Marcello.

San Marcello. Il nuovo Papa doveva attendersi il martirio. Massenzio, figlio di Massimiano Ercole, essendo divenuto padrone di Roma, lo fece imprigionare, e gli ordinò di rinunciare al titolo di Vescovo e di sacrificare agli idoli. Marcello resistette: fu condannato a servire tra gli schiavi che prestavano cura alle scuderie imperiali. « Stravolto dalle fatiche e dalle umiliazioni di questa miserevole condizione, morì tra i rifiuti e le deiezioni. » È così che una pretesa Storia dei Papi, racconta la fine di San Marcello!  Quel che è vero però, è che dopo nove mesi dall’odioso supplizio che gli si inflisse, Marcello fu liberato nella notte dal suo clero, accolto nella casa ospitale di una dama romana, di nome Lucilla, che lo nascose con estrema cura. La polizia di Massenzio finì per scoprire il suo rifugio, ed il tiranno condannò il Santo Papa all’ultimo supplizio. San Marcello, eletto nel 308, morì nel 310.

San Eusebio,  che gli successe, governò la Chiesa solo per pochi mesi, durante i quali mostrò un grande zelo per la disciplina e la fede. Massenzio, che l’autorità del Sovrano-Pontefice, metteva in grande imbarazzo per la sua tirannia, volle mescolarsi agli affari della Chiesa, come d’altra parte fecero tanti imperatori e re dopo di lui. Eusebio conservò l’indipendenza del potere spirituale, ma fu esiliato in Sicilia, ove morì il 26 settembre del 310. La Santa Sede restò vacante quasi per un anno: i persecutori dovettero credere che avevano soffocato nel sangue questa Religione che perseguitavano così violentemente da sette interi anni. Si sono trovate delle iscrizioni nelle quali Diocleziano ed i suoi colleghi si vantavano di questa vittoria: « Diocleziano Giove, Massimiano Ercole, cesari augusti, dopo aver esteso l’impero romano in Oriente ed Occidente, ed aver abolito il nome di Cristiani che destabilizzavano lo Stato. » Triste trionfo! Diocleziano moriva a Salone, Massimiano Ercole moriva qualche mese dopo San Eusebio, la punizione di Massenzio era in preparazione, e dall’anno seguente, Galero doveva firmare, nel suo letto di dolore, l’editto che rendeva la pace alla maggior parte dell’impero. Questi sono i trionfi che si riportano sulla Chiesa. Lo stesso successore di San Eusebio,  San Melchiade, vide Costantino entrare a Roma; con questo grande imperatore, il Cristianesimo prendeva possesso del mondo.

San Melchiade, era il trentunesimo successore di San Pietro. Quale magnifica serie di santi e di martiri! Hanno tutti brillato per magnificenza di santità, di fede e di dottrina; tutti i Vescovi hanno reso loro omaggio, ed essi hanno dimostrato di condividere la sollecitudine di tutte le Chiese. L’eresia ha trovato in essi i più intrepidi avversari, la disciplina i suoi più decisi sostenitori; essi erano veramente i Vescovi dei Vescovi; era certamente la Chiesa Romana la madre e maestra di tutte le altre; era certamente là la sede di Pietro e queste porte contro le quali l’inferno non può prevalere. I fatti sono là; la storia, seriamente studiata, dissipa tutte le nubi che potrebbero restare negli spiriti: la falsa scienza, la blasfemia ed il sarcasmo non possono nulla contro la travolgente testimonianza di tutti i secoli.

FINE

 

 

I PAPI DELLE CATACOMBE (9)

I Papi delle Catacombe [9]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

V

Successione dei Papi.

I Papi meritavano di essere i generali di queste armate di martiri, di queste legioni di dottori, di santi, di vergini? Quasi tutti coloro che si succedettero sulla cattedra di San Pietro, nei due secoli che vennero ad attraversare la storia, morirono martiri, e tutti furono modello di ogni virtù, tutti si mostrarono intrepidi difensori della fede e della dottrina; nelle difficoltà gli occhi erano voltati a loro, ad essi venivano indirizzati. Tutte le Chiese li riconoscevano come i Vescovi dei Vescovi: il loro primato brilla, da questi primi secoli, di un bagliore sul quale la sola empietà può tentare di ammassare nubi. Non li si vede indubbiamente produrre delle opere così magnifiche come quelle conosciute di diversi dottori; ma essi, quasi continuamente nascosti nelle catacombe, regnano spesso solo qualche anno o qualche mese, sostenendo le fatiche delle persecuzioni, affaticati dalle sollecitudini di una Chiesa tormentata più vivamente di tutte le altre, e dalla sollecitudine di tutte le Chiese del mondo, avrebbero mai potuto avere il tempo di scrivere magnifiche opere come quelle dei dottori che tutti i secoli hanno studiato ed ammirato? L’autorità ha generalmente un’azione meno eclatante, ma non meno utile e spesso più efficace della discussione, e questo lo si vede precisamente nell’oscurità relativa che circonda i primi Papi, una prova in più dell’universalità della loro azione e dell’autorità generale di cui essi godevano. Un rapido colpo d’occhio sulla loro successione fa vedere quale posto importante occupino nella Chiesa. Il Primato di san Pietro nel collegio apostolico non può essere contestato. Avendo Gesù-Cristo promesso alla Chiesa di essere con essa fino alla fine dei secoli, è ai successori di San Pietro che doveva passare questo Primato, con tutti i privilegi del Principe degli Apostoli, il potere supremo delle chiavi, e l’infallibilità che gli permetteva di confermare i suoi fratelli, secondo le stesse parole del Salvatore. Avendo San Pietro occupato successivamente due sedi, quella di Antiochia e quella di Roma, non potevano aversi dubbi che su queste due sedi. Ora non è ad Antiochia che Pietro è morto; il suo successore ad Antiochia, non potendo essere il capo della Chiesa quando S. Pietro viveva, non poteva trasmettere al suo successore se non i suoi privilegi, cioè quelli di un semplice Vescovo. Infatti mai Antiochia ha reclamato il primato; e si è visto sant’Ignazio, scrivendo ai romani, distinguere la loro Chiesa tra tutte le altre. Tutto si riduce dunque nel constatare che San Pietro è morto Vescovo di Roma e, fatto stabilito nel modo più incontestabile, a constatare la successione legittima degli altri Vescovi di Roma. Ora se c’è qualche difficoltà nell’ordine della successione dei due o tre Pontefici e sulla data precisa della loro nomina e della loro morte, queste difficoltà si spiegano perfettamente con lo stato di violenta persecuzione in cui essi si trovavano, e per le differenze di cronologia che esistono anche per i fatti più universalmente ammessi nella storia di tutti i tempi. Così, nel primo secolo, esistono delle difficoltà per i primi tre o quattro primi successori di San Pietro: alcuni dànno i nomi di Lino, Cleto, Clemente e Anacleto, altri non ammettono che tre Pontefici: Lino, Cleto e Clemente. Questo proverebbe solo che ci sono stati recenti dubbi su questa successione, e non certo che ai tempi dei Papi i Cristiani ignorassero in quale ordine questi si fossero succeduti. L’erudizione moderna è venuta poi a risolvere la difficoltà: si riconosce oggi generalmente che Cleto ed Anacleto non formano che un solo Papa. Cleto, eletto come successore a San Lino, l’anno 78, fu compreso in un ordine di esilio contro i Cristiani reso, sotto Vespasiano, dal prefetto di Roma; al suo ritorno, sotto il regno di Tito, egli prese il nome di Anacleto, che in greco significa “richiamato”.

San Lino successe dunque a San Pietro, nell’anno 65 dopo Gesù-Cristo.

San Cleto o Anacleto successe a San Lino nel 76.

San Clemente successe a San Anacleto nel 91.

San Evaristo successe a San Clemente, nell’anno 100.

Il Pontificato di San Evaristo (dal 100 al 109), vide la terza persecuzione, quella di Traiano. Si attribuisce a questo Papa, che fu una delle vittime della persecuzione, l’istituzione dei Cardinali-Preti, poiché fu il primo che divise Roma in titoli o parrocchie, assegnandovi a ciascuna un sacerdote; egli ordinò pure che sette diaconi accompagnassero il Vescovo quando predicava.

Sant’Alessandro I (109-119), morto pure martire, ordinò ai preti di richiamare nella Messa il ricordo della Passione; egli ordinò la mescolanza dell’acqua e del vino nel calice, ed introdusse tra i Cristiani l’avere acqua benedetta nelle loro case. Gli si attribuisce pure l’uso del pane senza lievito per il santo sacrificio. « Così, sottolinea in questa occasione il cardinale Baronio, le pie tradizioni venute dagli Apostoli venivano confermate e ricevevano una sanzione regolare dai loro immediati successori. »

San Sisto I (119-128), che fu martirizzato sotto Adriano, emanò un decreto per riservare ai soli ministri il potere di toccare le cose sante, e completò la liturgia della Messa con il canto del Sanctus. Egli ordinò pure che i Vescovi che erano stati inviati alla Cattedra apostolica, non potessero essere ricevuti nel luogo della loro giurisdizione, se non con lettera della Santa-Sede, indirizzata in forma di saluto al loro popolo. La gerarchia si costituiva dunque nell’unità di governo, nell’autorità dei successori di San Pietro, e nessuno vi resisteva perché si riconosceva che il Vescovo di Roma non faceva che uso di un legittimo diritto.

San Telesforo, che governò la Chiesa dal 128 al 139, confermò l’istituzione apostolica della quaresima, ordinando un digiuno di sette settimane prima di Pasqua, mantenendo così l’uso di non celebrar Messa prima dell’ora terza (le nove del mattino), eccetto per la Messa di mezzanotte di Natale, ed introdusse nella liturgia il canto del Gloria in excelsis. Un glorioso martirio pose fine alla sua vita come a quella dei suoi predecessori.

San Igino (139-142), era nato ad Atene, e si era convertito dalla filosofia pagana alla fede. Egli scomunicò l’eresiarca Cerdone, che era venuto a predicare i suoi errori a Roma; tentò di ricondurre all’ovile con la dolcezza un altro eresiarca, Valentino; ma costui continuò a propagare le sue dottrine gnostiche, ed il successore di Igino dovette allontanarlo dalla comunione con la Chiesa. Igino morì martire, gli si attribuisce il costume di prendere un padrino ed una madrina per il Battesimo dei bambini.

San Pio I (142-157) morì martire. Uno dei suoi decreti mostra che il Battesimo dato dagli eretici è stato in ogni tempo considerato valido, quando le condizioni richieste per la somministrazione di questo Sacramento, fossero state adempiute.

Sotto il pontificato di Sant’Aniceto (157-158), cominciò ad agitarsi una questione che preoccupò per lungo tempo la Chiesa: quella della celebrazione della Pasqua. Siccome si era trasferita la celebrazione del sabato alla domenica, San Pietro aveva trasferito ugualmente in questo giorno la celebrazione della festa di Pasqua, ma non ne aveva fatto un obbligo, ed i Pontefici romani tollerarono in Oriente la celebrazione del sabato. Ben presto si ebbero delle discussioni tra i Cristiani sul soggetto di questa differenza. San Policarpo venne a Roma per conferire con Sant’Aniceto: il venerabile discepolo di San Giovanni aveva lavorato con successo a sradicare diversi usi introdotti nella Chiesa dai giudei convertiti; egli non credeva di dover sradicare questo uso, al quale egli stesso teneva perché lo aveva sempre visto seguito dall’Apostolo suo maestro. Aniceto pensò che non fosse ancora venuto il momento di cambiare su questo punto la disciplina della Chiesa orientale; egli permise anche agli asiatici che si trovavano a Roma di seguire l’usanza dei loro paesi. Policarpo fu trattato con grandi onori;  Aniceto gli fece celebrare i santi misteri in sua presenza; molti eretici si convertirono alla predicazione del Vescovi di Smirne, e l’insolenza di Marcione fu confusa da queste parole, che sono state già riportate: « Io ti conoscono come il figlio primogenito di satana. » I due santi Pontefici si diedero il bacio di pace prima di separarsi; essi non dovevano più rivedersi che nel cielo, ove il martirio li condusse entrambi. Il viaggio di San Policarpo a Roma è una preziosa testimonianza del primato della Cattedra apostolica e romana. Sant’Aniceto proibì ai chierici di lasciarsi crescere i capelli, secondo il precetto dell’Apostolo, ciò che si deve senza dubbio intendere della tonsura.

San Sotero gli successe (168-177); egli ebbe a sostenere la persecuzione di Marco Aurelio: i gloriosi martîri di Santa Felicita, di San Policarpo, dell’apologista San Giustino e di migliaia altri, precedettero il suo. Egli mostrò un grande zelo contro l’eresia, principalmente contro quella dei montanisti che allora si moltiplicavano, ed una grande carità per le chiese che soffrivano della persecuzione. Una lettera di San Dionigi di Corinto richiama l’antica e toccante carità di questi Pontefici romani, la cui sollecitudine paterna si estendeva ai bisogni di tutte le chiese dell’universo, e sovveniva all’indigenza ed alle necessità dei fedeli esiliati per la fede, o condannati dai persecutori alle cave ed alle miniere: « il vostro beato Vescovo Sotero, diceva San Dionigi ai romani, non soltanto ha conservato questo costume, ma ha fatto ancor più, distribuendo delle elemosine più abbondanti agli indigenti delle provincie, accogliendo con affettuosa carità i fratelli che si recano a Roma, prodigando loro le consolazioni della fede, con la tenerezza di un padre che riceve dei figli nelle proprie braccia. »

Il Pontificato di San Eleuterio (177-186) è celebre per il martirio di San Potino, di Santa Blandina, si San Sinforiano e altri migliaia in Gallia. La persecuzione non impediva che la fede si estendesse. Mentre essa infuriava, un piccolo re della Bretagna (Inghilterra), chiamato Lucio, inviò al Papa Eleuterio una lettera in cui lo pregava di procurargli la conoscenza della Religione cristiana. Eleuterio inviò in Bretagna dei sacerdoti che battezzarono Lucio con un grande numero dei suoi sottoposti. La luce della fede era penetrata nelle isole britanniche fin dal primo secolo; una tradizione vuole  che San Paolo sia stato a predicare il Vangelo fino a queste isole lontane; la conversione di Lucio rianimò la fede e ne estese l’impero. Era senza dubbio un re tributario dei Romani, forse anche di origine romana; checché ne sia, si può considerarlo come il primo re cristiano dell’Europa. Qualche storico moderno, fondandosi su dei testi non compresi degli antichi Padri, ha accusato San Eleuterio di avere ad un certo punto tollerato e condivisa l’eresia dei montanisti. [tra gli altri, M. Amédée Thierry, nella sua Histoire de la Gauli sous l’administration romaine.]. Alcuni di questi testi, come ha dimostrato il sapiente abbate Gorini, [Défense de l’Église contre les erreurs historiques.], non prova ciò che si sostiene; ce n’è uno di Tertulliano che si cita, che non prova niente, mentre ce n’è un altro che prova il contrario. Tertulliano dice: « Prassea denunciava i montanisti e le loro assemblee e, per farli condannare, si appoggiava sull’autorità dei predecessori del Papa a cui parlava. » Ora questo Papa, a cui parlava Prassea, era San Vittore, i cui predecessori sono San Sotero e san Eleuterio »; questi ultimi non si erano però mai mostrati favorevoli a Montano. San Ireneo, del quale si invoca l’autorità contro Eleuterio, dice, dopo aver dato la lista dei Pontefici che si sono succeduti sulla sede di Roma, da San Pietro fino ad S. Eleuterio, dice inclusivamente: «  È da essi che la tradizione e la predicazione apostolica è stata conservata nella Chiesa, ed è arrivata fino a ni. È di tutta evidenza che la fede vivificante di questi Vescovi è la medesima di quella degli Apostoli conservata e trasmessa in tutta purezza fino a questo momento ». [S. Ireneo: Contra Hæres.]. –  Una terza testimonianza si legge nel libro dei Pontefici [L’abbé Constant, l’Histoire et l’infaillibilité des Papes.]: « San Eleuterio, vi si dice, rinnovò e confermò con decreto la proibizione, fatta ai Cristiani, di respingere, adducendo motivi superstiziosi, alcun genere di nutrimento di cui gli uomini hanno costume di servirsi. » Questa privazione di certi alimenti era evidentemente una pratica della nuova setta. A San Eleuterio, morto martire per questa fede che lo si accusa falsamente di aver abbandonato, successe San Vittore I (186-200), sotto il cui Pontificato cominciò la persecuzione di Settimo Severo. La questione della Pasqua si ripropose: gli orientali celebravano sempre questa festa il quattordicesimo giorno della luna, come i Giudei; gli Occidentali la rinviavano alla Domenica seguente. I Papi avevano tollerato questa divergenza disciplinare, ma gli orientali, e soprattutto il metropolita di Efeso e le Chiese che erano sotto la sua dipendenza, se ne prevalsero per dire che la Chiesa latina aveva torto, e portarono una tal vivacità nei loro attacchi, che divenne urgente adottare una decisione definitiva. Il Papa decise che l’uso della Chiesa romana dovesse essere seguito dappertutto. Un Concilio dei Vescovi italiani, riuniti a Roma, era di questo avviso. I concili provinciali, riuniti in Oriente, accettarono la decisione venuta da Roma; solo il Concilio di Efeso rifiutò di accettarle: Vittore minacciò di scomunicare gli Asiatici che vi resistessero. Sant’Ireneo intervenne per consigliare misure di conciliazione; il Papa giudicò che si potesse attendere ancora qualche tempo prima di imporre la sua decisione e la diatriba si quietò. Quasi tutte le Chiese d’Oriente adottarono l’uso di Roma, che alcuni del resto già seguivano; gli altri si videro sempre più isolati nel loro sentimento, ed il Concilio di Nicea poté chiudere interamente questo affare che aveva fatto brillare l’autorità della Sede di Roma. A coloro che continuarono nella pratica dei Giudei, si diede il nome di Quartodecimani, o uomini del quattordicesimo giorno. Alcuni autori moderni hanno accusato San Vittore di durezza e di ira eccessiva in questa questione della Pasqua; lo studio serio dei fatti però ridimensiona questa accusa, come quella di montanismo che pure si è intentata nei suoi riguardi, appoggiandosi senza ragione su di un testo di Tertulliano già caduto in questa eresia. [Si veda in: l’abbé Constant, l’Histoire et l’infaillibilité des Papes.]. San Vittore aveva, in effetti, inviato in un primo tempo delle lettere di comunione a Montano, Ma questo avvenne su di un esposto che non mostrava alcun errore nella dottrina dell’eresiarca; quando il Papa si informò meglio circa questa dottrina, revocò le sue lettere. San Vittore confessò la fede nei tormenti; egli ha ricevuto il titolo di martire, ma si ignorano i particolari della sua morte. Egli emise un decreto con il quale dichiarava che l’acqua comune della fontana, di stagno, di fiume o di mare, potesse servire, in caso di necessità, per l’amministrazione del Battesimo. Questo decreto mostra che fino ad allora ci si serviva di acqua benedetta per amministrare questo Sacramento. San Zefirino (200-217), successore di San Vittore, ebbe a sopportare tutto il peso della persecuzione di Settimo Severo; ebbe il dolore di vedere la caduta di Tertulliano; vide elevarsi, al posto del dottore caduto, il sapiente Origene, la cui dottrina non fu sempre irreprensibile, ma i cui immensi lavori hanno reso onore alla Chiesa. Origene aveva per padre San Leonida, che morì martire. San Zefirino mostrò un grande zelo contro le eresie che andavano allora moltiplicandosi, ed ebbe la gloria di soffrire per la fede; ma non si sa se egli morisse tra i tormenti; qualche storico nota che fosse il primo Papa che non terminasse la sua vita da martire. Gli si deve qualche decreto importante, come quello che ordina di consacrare d’ora innanzi, il prezioso Sangue di Gesù-Cristo in coppe di vetro o di cristallo, e non in vasi di legno. San Callisto, o Callisto I (217-222), morì martire sotto Eliogabalo dopo aver fatto ingrandire considerevolmente il cimitero che porta il suo nome. Regolò l’istituzione del digiuno delle quatempora. La scoperta fatta, in questi ultimi tempi, di un libro intitolato “Philosophumena”, attribuito falsamente a San Ippolito, vescovo di Porto, e che è l’opera di un eretico del terzo secolo, ha fatto nascere delle gravi controversie sull’ortodossia e sulle legittimità di questo Papa, indegnamente calunniato dallo scrittore sconosciuto. Ecco come questo scrittore racconta la storia di Callisto: « Callisto era schiavo di un cristiano di nome Carpoforo, che faceva parte della casa dell’imperatore. Poiché professava la medesima fede del suo padrone, questi gli affidò una somma considerevole per fargli fare delle operazioni di banca. Callisto stabilì il suo “banco” in un luogo che si chiamava la “piscina publica”, e in qualità di incaricato degli affari di Carpoforo, ricevette da un certo numero di vedove e di fedeli, dei depositi importanti. Egli perse tutto e cadde nel più grande imbarazzo. Si ebbero delle persone che avvertirono il padrone dei disordini nei suoi affari, e Carpoforo annunciò l’intenzione di chiederne conto. A questa nuova, Callisto tentò di nuocere chi lo minacciava, e prese la fuga verso il mare. Trovò ad Ostia un vascello pronto a partire e vi si imbarcò; ma quanto avvenuto venne risaputo da Carpoforo che, sulla base delle indicazioni ricevute, si diresse verso il porto e si dispose a salire su di un naviglio che stazionava in mezzo alla rada. La lentezza del pilota fece sì che Callisto, che era nel bastimento, scorgesse da lontano il suo padrone; vedendo che stava per essere preso, e non badando alla sua vita in questa triste estremità, si gettò in mare; ma i marinai, gettandosi a loro volta dalla barca, lo salvarono, malgrado lui e, tra i clamori che spingevano coloro che erano sulla riva, lo consegnarono al suo padrone, che lo riportò e lo mise a girare la macina. Dopo qualche tempo, come di solito succede, alcuni Cristiani vennero a trovare Carpoforo per pregarlo di perdonare al suo schiavo, assicurando che dichiarava di aver affidato a certe persone una somma considerevole. Carpoforo, che era un uomo pio, rispose che egli faceva poco caso a ciò che gli apparteneva, ma attribuiva importanza ai depositi, perché molte persone venivano a lamentarsi da lui lamentandosi del fatto che si erano affidati a Callisto sulla sua raccomandazione. [Il sapiente abbate Doellinger, in Germania, e Mgr. Cruice, vescovo di Marsiglia, hanno fatto giustizia di tutte le calunnie lanciate dall’autore delle Philosophumena contro San Callisto. – L’Histoire della Chiesa di Roma, dall’anno 192 all’anno 224, di Mgr. Cruice, allora direttore della scuola ecclesiastica degli studi superiori. Parigi, 1856]. Tuttavia Carpoforo si lasciò persuadere ed ordinò di liberare lo schiavo; ma costui che non aveva nulla da rendere, e che si trovava nell’impossibilità di fuggire di nuovo, perché sorvegliato, immaginò un mezzo per esporsi alla morte. Un sabato, fingendo di andare a trovare dei creditori, si recò alla sinagoga, ove i Giudei erano radunati, e cercò di eccitare una turba durante la loro riunione. Essendosi i Giudei sollevati contro di lui, lo insultarono e lo caricarono di colpi; poi lo trascinarono davanti a Fusciano, prefetto della città, e deposero contro di lui in questi termini: “i Romani ci hanno permesso di esercitare pubblicamente il culto dei nostri padri, ed ecco, quest’uomo viene ad impedirlo e disturba le nostre cerimonie, dicendo che egli è Cristiano”.  Fusciano si indignò della condotta che i giudei rimproveravano a Callisto, e riferì a Carpoforo ciò che succedeva. Costui si affrettò ad andare dal prefetto e gli disse: “vi prego, signor Fusciano, non crediate che questo uomo sia Cristiano, perché egli cerca un’occasione per morire avendo dissipato grosse somme di denaro, come vi proverò”. I giudei credendo di vedere in ciò un sotterfugio usato da Carpoforo per liberare il suo servo, e ne reclamarono immediatamente le sentenza dal pretore. Egli cedette alle loro sollecitazioni, fece frustare Callisto e l’inviò alle miniere in Sardegna. Qualche tempo dopo, siccome altri martiri erano esiliato in quest’isola, la concubina di Commodo, Marcia, che aveva qualche sentimento religioso, volle fare una buona azione; fece venire il beato Vittore, Vescovo della Chiesa in questa epoca, e gli domandò chi fossero i martiri di Sardegna. Vittore le diede i nomi di tutti, eccetto quello di Callisto, di cui conosceva la condotta colpevole. Marcia, che godeva di grande favore presso Commodo, ne ottenne le lettere di liberazione che affidò ad un vecchio eunuco chiamato Giacinto. Costui si recò in Sardegna, ed avendo portato l’ordine al governatore di questo paese, liberò i martiri ad eccezione di Callisto. Ma Callisto, gettandosi alle ginocchia e versando lacrime, lo pregò di non escluderlo. Giacinto si lasciò commuovere e consentì a chiedere al governatore la libertà del prigioniero, dicendo che aveva egli stesso allevato Marcia, che si assumeva la responsabilità della decisione favorevole che sollecitava. Il governatore, cedendo a questa preghiera, liberò Callisto con gli altri. Essendo questi tornato a Roma, Vittore fu vivamente afflitto da ciò che era successo; ma poiché aveva buon cuore, mantenne il silenzio. Tuttavia, per evitare i rimproveri di un gran numero di persone (perché i crimini di Callisto erano recenti, e per soddisfare Carpoforo, che non cessava dal reclamare), ordinò a Callisto di ritirarsi ad Antium [Anzio] assegnandogli una pensione per il suo sostentamento. Dopo la morte di Vittore, Zefirino, suo successore, avendo scelto Callisto come amministratore degli affari ecclesiastici, gli fece un onore che divenne funesto a se stesso; lo richiamò da Antium e gli conferì la sorveglianza dei cimiteri dei Cristiani. Callisto, trovandosi sempre con Zefirino, gli rendeva delle cure ipocrite, giungendo ad affossarlo completamente. Il Vescovo divenne incapace di discernere ciò che si diceva e di sorprendere il disegno segreto di Callisto, che si accomodava a tutto ciò che facesse piacere al suo protettore. Dopo la morte di Zefirino, Callisto, credendo di essere pervenuto allo scopo che si era prefisso da tempo, cacciò Sabellio come eretico. » – Questa recita, disseminata da inverosimiglianze e contraddizioni, è come il modello di tutti coloro che si sono dati da fare per calunniare altri Papi. Non è difficile infatti dare giustificazioni a Callisto. Innanzitutto nulla prova che Callisto abbia commesso delle frodi: da ciò che si vede, egli fece delle speculazioni maldestre, che si lasciò ingannare, che mancò di abilità; ma quando si vedono i Cristiani intercedere per lui presso Carpoforo che lo aveva condannato a girar la mola, non si può essere impediti dal pensare che Callisto non demeritasse la stima dei suoi confratelli. Carpoforo stesso non mostra egli stesso la stima e l’affetto che ha conservato per Callisto tentando di sottrarlo alla sentenza provocata dai giudei? Quanto al dolore che provò il Papa San Vittore al suo ritorno, il calunniatore ha cura di dire che il Pontefice non testimoniò nulla; aggiungendo poi che San Vittore gli assegnò una pensione per farlo vivere ad Antium, egli dimostra che il Papa non lo considerasse con tanta pena e gli affidasse poi un impiego importante. Infine quest’uomo che si pretende essere così disprezzato e spregevole, diventa sacerdote, cosa che prova, essendo egli schiavo, che Carpoforo lo stimasse sempre e lo considerasse veramente come un martire che aveva sofferto per la fede. La fiducia che gli assegnò poi San Zefirino nel corso di un Pontificato di diciannove anni, ci completa la giustifica che rende sovrabbondante l’ultimo tratto della recita: San Callisto scaccia da Roma l’eretico Sabellius; il suo odio per l’eresia, le misure che aveva indubbiamente suggerito a San Zefirino contro gli eretici: ecco la spiegazione delle calunnie che lo perseguitano. L’autore dei “Philosophumena” fa tre rimproveri principali a San Callisto dopo l’elevazione all’Episcopato: secondo lui il Papa errava sul dogma della Trinità, nella disciplina relativa alla penitenza, e nella disciplina relativa al matrimonio ed al celibato imposto agli ecclesiastici. Sul primo punto c’è la testimonianza anche dall’autore dei Philosophumena stessi, che la dottrina di Callisto era perfettamente ortodossa, e quando dice che la parte di Callisto, componente la maggioranza, conservò anche dopo la morte la sua dottrina, egli confessa implicitamente che la fede del Papa era quella di tutta la Chiesa. I rimproveri relativi alla disciplina della penitenza provano semplicemente che Callisto mostra grade dolcezza nei riguardi dei settari che tornano alla Chiesa Cattolica, e che rendendo facile il ritorno degli apostati pentiti, agisse con una carità ed una saggezza che trovano imitatori tra i suoi più illustri successori. San Callisto pretendeva di rendere la legislazione ecclesiastica relativa al matrimonio affatto indipendente dalla legislazione romana. Egli dichiarava validi, contrariamente alla legge romana, i matrimoni contratti dalle giovani libere o nobili con gli schiavi o con gli uomini liberi, ma poveri. Così la Chiesa migliorava sempre più la condizione della schiavitù, ed elevava la dignità dell’uomo; non è certo ai nostri giorni che si possono rimproverare al santi Papa le misure adottate a questo riguardo. – Quanto alla legge del celibato ecclesiastico, l’autore del “Philosophumena” dice solamente che S. Callisto aveva ammesso nel clero degli uomini sposati; ma non fa intendere se non che fossero membri del basso clero, che allora erano molto numerosi. – Così nessuna delle calunnie lanciate contro Callisto sussiste, anzi molte tornano a sua gloria, ed il libro, recentemente ripubblicato, serve come tanti altri, scritti per ben altro scopo, alla glorificazione della Chiesa romana e del Papato. Noi lo constateremo più di una volta nel corso della storia della Chiesa.

Sant’Urbano I (222-230), trascorse quasi tutto il suo Pontificato nelle catacombe; abbiamo già visto come il suo martirio seguì di poco quello di Santa Cecilia. Questo grande Papa si distinse per un grande zelo per la fede, ed operò numerose conversioni tra i pagani. Nello stesso tempo provvide alla dignità ed allo splendore del culto. Rinnovò i vasi dell’altare in argento, e fece fare venticinque patene per le diverse parrocchie della città.

G. FRASSINETTI: CATECHISMO DOGMATICO (IX)

Catechismo dogmatico (IX) 

[Giuseppe Frassinetti, priore di S. Sabina di Genova:

[Ed. Quinta, P. Piccadori, Parma, 1860]

CAP. VII
DEI SACRAMENTI.

§ II

Del Battesimo.

— Come si definisce il Sacramento del Battesimo?

«Un Sacramento della nuova legge Istituito da Cristo per la spirituale rigenerazione dell’Uomo. »

— Che cosa significano queste parole: per la spirituale rigenerazione dell’uomo?

L’uomo è morto alla grazia di Dio per il peccato, mediante il Battesimo rinasce a questa grazia, che è la vita soprannaturale dell’anima. In questa spirituale rigenerazione, entra a fare parte dei fedeli di Cristo, diviene cioè membro della sua Chiesa, e acquista il diritto di essere ammesso agli altri Sacramenti.

— Quale è la materia di questo Sacramento?

L’acqua naturale, sia del pozzo, sia della fontana, sia del mare. Però nel Battesimo solenne, cioè nel Battesimo che si conferisce con le solite cerimonie, si deve adoprare l’acqua santa benedetta nel fonte del Sabato Santo.

— Altro liquido come vino, olio, ecc. non basterebbe per amministrare il Battesimo in caso di necessità?

É di Fede che solo l’acqua vera e naturale sia necessaria per dare validamente il Battesimo (Conc. Trìd. sess. VII c. 2 ), e perciò se si adoprasse qualunque altro liquido il Battesimo sarebbe invalido.

— Se si adoprasse acqua vera e naturale, ma vi si mischiasse altro liquido o materia, sarebbe parimente invalido il Battesimo?

Se si mischiasse in poca quantità, non sarebbe invalido; vediamo infatti che nell’acqua benedetta del fonte del Sabbato Santo si mischia alquanto di Olio e di Crisma, e non solo si può, ma si deve battezzare con quell’acqua, tolto il caso di necessità. Se poi il liquido, o altra materia mischiata con l’acqua, fosse in tale quantità che essa non si potesse dire più acqua, come se ci si mischiasse tanta terra che quell’acqua divenisse fango, in questo caso il Battesimo resterebbe invalido, cioè non avrebbe alcun effetto.

— Quale è la forma del Sacramento del Battesimo.

« Io ti battezzo in nome del Padre, e del Figliuolo, e dello Spirito Santo. »

— Chi cangiasse o tralasciasse di esprimere qualcuna di queste parole, il Battesimo resterebbe invalido?

Se la mutazione non fosse essenziale, e l’omissione nè meno, il Battesimo sarebbe valido, altrimenti non avrebbe più alcun valore. A cagione di esempio se si tralasciasse la parola io, il Battesimo avrebbe il suo valore, se si tralasciasse la parola battezzo non avrebbe più valore alcuno (vedi la prop. condann. da Aless. VIII n. 27).

— Quale attenzione si deve avere nel battezzare?

Di versare l’acqua sopra la testa del fanciullo in quantità che scorra sopra la medesima, e frattanto di proferire le parole della forma con tutta precisione.

— Perché si deve avvertire a versare l’acqua sopra la testa?

Perché versandola sopra altra parte del corpo, quantunque probabilmente il Battesimo sia valido, specialmente se si versasse sopra una parte delle primarie, come sopra il petto e sopra le spalle, non è però certissimo il suo valore come allorché si versa sopra la testa. È per questo che se un fanciullo fosse stato battezzato sopra altra parte del corpo, si dovrebbe ribattezzare sotto condizione, come prescrive il Rituale Romano. Versando l’acqua sopra la testa, si deve anche avere l’avvertenza di non farla scorrere soltanto sopra i capelli quando il battezzando li avesse folti, perché alcuni dubitano che l’acqua, non toccando la pelle, resti il Battesimo senza valore. Questo dubbio ha pochissimo fondamento, ma trattandosi di un Sacramento di tanta necessità, bisogna usare di tutta la sicurezza; perciò in quel caso si dovrebbe avvertire che l’acqua scorresse alquanto sopra la fronte, o le tempia.

— Perché richiedesi che l’acqua si versi in quantità che scorra?

Perché il Battesimo dovendo essere una lavanda, non si potrebbe dir tale qualora l’acqua non scorresse, e certo non si dice che una cosa si lavi se gli si lasciano cader sopra alcune gocce di acqua che si fermano dove cadono.

— É necessario che l’acqua si versi in tre volte sopra il capo del battezzando?

La Chiesa comanda così, e perciò si deve osservare questo rito; per altro il Battesimo sarebbe certamente valido anche versandola in una volta sola.

— Perché si vuole che tutto in un tratto, chi versa l’acqua proferisca insieme la forma?

Perché si deve sempre applicare la forma alla materia in tutti i Sacramenti, e quando vi fosse notabile interruzione tra il profferire la forma e l’applicare la materia, il Sacramento sarebbe invalido.

— Chi è il ministro del Sacramento del Battesimo?

Il ministro ordinario è il Sacerdote, lo straordinario è il Diacono, il quale può essere delegato ad amministrare questo Sacramento con le debite cerimonie, quando vi sia giusta causa. Avvenendo però qualche caso in cui non si possa avere né Sacerdote, né Diacono, qualunque persona, anche un fanciullo, purché abbia l’uso della ragione, e anche un infedele, può amministrare il Battesimo: questo è definito dal concilio IV Lateranese (Antoin. de Rap. c. 3 a. 1).

— Se un Chierico non ancora ordinato Diacono, o pure un laico battezzasse un fanciullo fuori del caso di necessità, tale Battesimo sarebbe valido?

Sarebbe valido certamente; per altro chi si arrogasse di battezzare fuori del caso di necessità peccherebbe gravemente (Antoine ibid.).

— Il Battesimo è necessario per tutti?

Il Battesimo è necessario a tutti perché conseguiscano l’eterna salute, ed è articolo di Fede definito dal Sacrosanto Concilio di Trento (Sess. VII, c. 5), però i Teologi distinguono tre sorta di Battesimo: il Battesimo di sangue, il Battesimo di desiderio e il Battesimo di acqua, il quale solo è propriamente Sacramento; gli altri due fanno le sue veci, ma non sono Sacramenti.

— Che cosa è il Battesimo di sangue?

Il Battesimo di sangue è il martirio. Se un bambino fosse ucciso in odio della fede prima di essere battezzato si salverebbe. Quando però nelle persecuzioni uccidevano i Cristiani adulti, e anche i loro bambini, se alcuno di tali bambini non era ancor battezzato, andava salvo.

— Che cosa è il Battesimo di desiderio?

Il desiderio di ricevere il Battesimo: se un turco trovandosi in punto di morte e non avendo chi volesse battezzarlo, desiderasse il Battesimo, si salverebbe.

— Che cosa si richiede per il martirio?

Nei fanciulli si richiede che siano uccisi in odio di Cristo o della sua Fede, né altro si richiede di più. In tal modo furono veramente martiri i ss. Innocenti fatti uccidere da Erode. – Negli adulti poi si richiede: 1. Che accettino la morte per un motivo onesto e soprannaturale; se uno accettasse il martirio per fine della vanagloria di essere onorato qual martire, la sua morte non avrebbe il merito del martirio; se un altro l’accettasse per levarsi dal condurre una vita angustiata nell’indigenza, né meno egli sarebbe martire. 2. Che non abbiamo volontà di difendersi; perché il morire in guerra per la Fede non è propriamente martirio. 3. In chi fosse reo di peccato mortale, si richiederebbe il pentimento del peccato almeno di attrizione. Si noti poi che il martirio deve essere volontario, essendo un atto della virtù della fortezza; per altro non è necessaria la volontà attuale e nemmeno virtuale d’incontrare la morte per attestare la Fede; basta la volontà abituale. Per esempio, in tempo di persecuzione un Cristiano è già risoluto di piuttosto morire che rinunziare alla Fede, un giorno mentre dorme è sorpreso dal persecutore ed è ucciso: egli è vero martire per la sua disposizione abituale in cui si trova. Si noti di più che il martirio non libera da tutte le altre obbligazioni che può aver l’uomo in punto di morte, se però può aver tempo a soddisfarvi. Se non avesse ancora preso il Battesimo, potendo sarebbe obbligato a prenderlo, se avesse qualche peccato mortale non ancor confessato, sarebbe obbligato a confessarlo, qualora avesse pronto il Sacerdote che lo potesse assolvere (Antoine ut sup. art. 5).

— Chi soffrisse la morte per non offendere un’altra virtù p. es. la castità, sarebbe martire?

Certamente; e le vergini che vollero morire piuttosto che cedere alle lusinghe dei tentatori della loro pudicizia, sono venerate per martiri (Antoine ut sup. art. 4).

— Chi soffre la morte per motivo di carità, servendo agli appestati, si può dire vero martire?

Egli non è martire in tutto il rigore del termine, perché il martirio è un atto della virtù della fortezza in difesa della Fede, o di qualche altra virtù cristiana; nell’esporsi al pericolo di morte servendo agli appestati, v’interviene un atto di fortezza non in difesa, ma soltanto in esercizio della virtù della carità; egli per altro potrebbe avere innanzi a Dio un merito uguale a quello del reale martirio: la Chiesa nel suo martirologio al 28 di febbraio venera come martiri quelli che morirono in servigio degli appestati (« Quos velat martyres religiosa fides venerare consuevit.») – (Antoine ibid.).

— Il martirio supplisce per tutti gli effetti del Battesimo?

Supplisce soltanto per l’infusione della grazia e per la remissione dei peccati, né può supplire per gli altri effetti, dei quali si dirà dopo, e per cui si richiede il Battesimo di acqua, cioè il Sacramento. È però da notare, circa la remissione dei peccati, che nel martirio restano rimessi in quella pienezza che si rimettono nel Battesimo, sicché al martire nulla resta a scontare di pena temporale nell’altra vita, e appena consumato il martirio è ammesso nella beatitudine eterna (Antoin. ibid. art. 4).

— In caso di necessità il semplice desiderio del Battesimo vale per conseguire l’eterna salute?

Il semplice desiderio non vale se non è accompagnato dall’atto di contrizione o di carità; perché i peccati non si rimettono fuori del Sacramento, e fuori del caso del martirio, senza la contrizione dei medesimi, cioè senza che l’uomo li detesti per motivo di perfetto amor di Dio (Antoin. ibid. art. 3).

— È poi certo che si possano battezzare validamente i fanciulli?

É articolo di Fede definito dal Sacrosanto Concilio di Trento (sess. VII, C. 13), e chi dicesse che non sono veri fedeli i fanciulli così battezzati o che si devono ribattezzare arrivati all’uso della ragione, o che è meglio aspettare per battezzarli che arrivino al suddetto uso, sarebbe eretico, e dallo stesso Concilio scomunicato.

— Se arrivati all’uso della ragione fossero malcontenti di essere stati battezzati, si potrebbero obbligare a vivere da Cristiani?

Il Battesimo li costituisce sudditi della Chiesa; si dovrebbero obbligare a vivere da Cristiani, e in nulla si dovrebbe attendere al loro malcontento, come irragionevole, ed ingiustissimo.

— Non sarebbe questo un violentar la coscienza.

Non si può dire che si violenti la coscienza ad alcuno quando si obbliga a fare ciò che è di suo preciso dovere. Se gli uomini costituiti sudditi della Chiesa mediante il Battesimo, potessero ricusare di restarle soggetti arrivati all’uso della ragione, tanto più potrebbero, arrivati a quest’uso, ricusare di sottomettersi all’autorità del legittimo governo di quello stato in cui nascono. Dico tanto più, perché è più sacra ed inviolabile l’autorità che ha la Chiesa sopra i battezzati, di quella che hanno i Sovrani sopra i loro popoli. Infatti non siamo fatti sudditi da alcun Sacramento, e non abbiamo alcun carattere indelebile che in perpetuo ci costituisca tali a riguardo del legittimo Sovrano nel cui stato nasciamo; se mutiamo stato non siamo più sudditi di lui; non vi ha frattanto alcuna parte di mondo in cui andando ci possiamo sottrarre dalla sudditanza della Chiesa dopo di essere stati battezzati (Con questo non si vuol dire che non sia anche sacra ed inviolabile l’autorità che ha il Sovrano sopra i suoi sudditi. È sacra perché i principi hanno la loro autorità da Dio; è inviolabile, perché tolto il caso in cui il principe comandasse il delitto, caso che non formerebbe uso di autorità, ma abuso di prepotenza, non può mai accadere che il suddito abbia il diritto di disubbidire al Sovrano).

— Quali sono gli effetti del Battesimo?

Si assegnano sei effetti del Sacramento del Battesimo:

1) Rimette il peccato originale ed ogni peccato attuale, tanto circa la colpa quanto circa la pena anche temporale dovuta al peccato attuale: cosicché se un adulto subito dopo ricevuto il Battesimo passasse all’altra vita, nulla avrebbe da scontare in Purgatorio; e perciò, se si battezzasse un adulto moribondo, non se gli potrebbe dare alcuna indulgenza.

2. Conferisce la grazia santificante, le virtù infuse e gli altri doni soprannaturali con cui l’uomo resta santificato e rinnovato interiormente.

3. Da un certo diritto ad ottenere le grazie attuali necessarie al conseguimento del suo fine, cioè necessarie all’uomo, affinché possa vivere cristianamente e santamente. Qui consiste la grazia sacramentale di cui si parlò nel § antecedente D. 15.

4. Imprime nell’anima un carattere indelebile per cui non si può ricevere che una volta sola.

5. Ci costituisce membri della Chiesa, e ci sottomette alla sua giurisdizione.

6. Ci dà la capacità e il diritto a ricevere gli altri Sacramenti, e ci fa partecipi dei beni comuni della Chiesa, come sono le Indulgenze, i frutti del Sacrificio della Messa ecc. (Antoine de Bapt. cap. 4, art. 1).

— Gli adulti che ricevono il Battesimo, devono avere il dolore dei peccati?

Del peccato originale non ne devono aver dolore, perchè non ci possiamo pentire se non dei peccati commessi con la propria individua personale malizia. È certo poi che devono essere pentiti dei peccati mortali attuali, almeno con dolore di attrizione, giacché questi non si perdonano mai senza che la persona ne abbia sincero dolore (Antoin. loc. cit. art. 2).

III.

Della Confermazione.

— Come si definisce il Sacramento della Confermazione?

« Un Sacramento della nuova Legge col quale si dà ai battezzati la fortezza dello Spirito Santo perché restino fermi nella Fede e la professino intrepidamente » (Habert).

— Chi è il ministro di questo Sacramento?

É articolo di Fede, dichiarato dal sacrosanto Concilio di Trento (sess. VII, can. 3) che il solo Vescovo è il ministro ordinario di questo Sacramento. Per altro il Sommo Pontefice può delegare anche un semplice Sacerdote a conferire la Confermazione; in tal caso il semplice Sacerdote, ne è ministro straordinario.

— Quale è la materia della Confermazione?

L’imposizione delle mani e l’unzione del Sacro Crisma.

— Quale ne è la forma?

Sono quelle parole « Io ti segno col segno della Croce, ti confermo col Crisma della salute. »

— Chi è il soggetto di questo Sacramento?

Ogni uomo battezzato; e per ciò, sebbene fuori il caso di necessità, secondo l’odierna disciplina non si debba dare se non dopo il settennio, anticamente si dava anche ai bambini immediatamente dopo il Battesimo (Hubert, cap. 2).

— Quali disposizioni si richiedono in quelli che ricevono questo Sacramento?

Quando il Vescovo crede di avere bastanti motivi per conferire questo Sacramento ai fanciulli prima dell’uso di ragione, si richiede soltanto che siano battezzati; conferendosi questo Sacramento agli adulti e ai fanciulli che hanno già l’uso della ragione, si richiede lo stato di grazia, e una conveniente istruzione circa le cose della Fede e la natura e gli effetti di questo Sacramento.

— Questo Sacramento è necessario per conseguire la salute eterna?

Non è necessario assolutamente parlando; e diversamente ne sarebbero ministri i semplici Sacerdoti affinché a tutti fosse cosa facile il riceverlo; per altro ciascuno potendo, è obbligato a ricevere questo Sacramento sotto pena di peccato mortale; come Benedetto XIV comanda ai Vescovi d’insegnare a quelli che non lo hanno ancora ricevuto .(Bulla Etsi pastoralis de rit. et dogm. Græcor. 1742, § 3, n. 4).

— Quali sono gli effetti di questo Sacramento?

Sono due: 1. Il carattere indelebile, come si disse nel § 1 alla D. 17. 2. È la pienezza dello Spirito Santo che dà all’anima una particolare fortezza onde si vincano facilmente le tentazioni contro la Fede, e si sopportino con invitta costanza le persecuzioni che si dovessero incontrare per causa della medesima. Questa pienezza dello Spirito Santo include anche l’aumento della grazia santificante (Hubert cap. 3).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI ERETICI DI TORNO: REGNANS IN EXCELSIS

La bolla papale di Papa San Pio V, Regnans in Excelsis, depone la pretesa regina Elisabetta I e pone l’Inghilterra sotto interdetto. Pio V dichiara Elisabetta “serva di malvagità” ed eretica, e libera tutti i suoi sudditi dall’obbligo si esserle fedele. L’intramontabile condanna papale [irreformabile ed eterna davanti a Dio senza pubblica abjura] contro il mostruoso usurpante governo elisabettiano [l’attuale “monarchia britannica” è FALSA al 100% ] è pubblicata sia in latino che in italiano.

“L’ estrema corruzione e la malvagità della nazione inglese ha provocato la giusta ira di Dio. Quando la malizia raggiungerà la pienezza della sua misura, Dio, nella sua ira, invierà al popolo inglese (1) gli spiriti malvagi che lo puniranno e affliggeranno con severità (2) separando l’albero verde dal suo tronco originale [Roma] …. ” Profezia del re S. Edoardo d’Inghilterra (XI sec.)

(1) È un fatto storico che l’Eresiarca Enrico VIII (come Lutero) usasse la Cabala occulta nella formulazione della sua setta pervertita.

(2) Lo scisma anglicano venne predetto vari secoli prima del suo effettivo verificarsi.

(Immagine del (falso) “Principe” Carlo, che indossa una yarmulka ebraica il 29/04/08)

SDN PII PAPÆ V SENTENTIA DECLARATORIA
CONTRA ELIZABETHAM PRÆTENSAM ANGLIÆ REGEM,
ET EI ADHARENTES HÆRETICOS

Qua etiam dichiarantur absoluti omnis subditi a iuramento fidelitatis,
et quocunque alio debito.

ET DIENCEPS OBEDIENTES
Anathemate illaqueantur.

PIUS EPISCOPUS SERVUS SERVORUM DEI,
AD FUTURAM REI MEMORIAM

Regnans in excelsis, omnis in cœlo et in terra potestas, Unam Sanctam Catholicam et Apostolicam Ecclesiam, extra quam nulla est salus, uni soli in terris, videlicet apostolorum principi Petro, Petrique successori Romano Pontifici, in potestatis plenitudine tradidit gubernandam. Hunc unum super omnes gentes, et omnia regna principem constituit, qui evellat, destruat, dissipet, disperdat, plantet, et aedificet, ut fidelem populum mutuae charitatis nexu constrictum in unitate spiritus contineat, salvumque et incolumem suo exhibeat salvatori. Quo quidem in munere obeundo, nos ad praedictae ecclesiae gubernacula Dei benignitate vocati, nullum laborem intermittimus, omni opera contendentes, ut ipsa unitas, et Catholica religio (quam illius autore ad probandum suorum fidem, et correctionem nostram, tantis procellis conflictari permisit) integra conservetur . – Sed imporum numerus tantum potentia invaluit, ut nullus iam in orbe locus sit relictus, quem illi pessimis doctrinis corrumpere non tentarint; adnitente inter cæteros, flagitiorum serva Elizabetha prætensa Angliæ regina, ad quam veluti ad asilo omnium infestissimi profugium invenerunt. Hæc eadem, regno occupato, supremi ecclesiæ capitis locum in omni Anglia, eiusque præcipuam autoritatem atque iurisdictionem mostri sibi usurpanti, regnum ipsum iamtum ad fidem Catholicam, et bonam frugem reductum, rursus in miserum exitium revocavit. Usu namque verae religionis, quam ab illius desertore Henrico VIII olim eversam, claræ memoriæ Maria regina legittima huius sedis præsidio reparaverat, potenti manu inibito, secutisque et amplexis hæreticorum erroribus, regium consilium ex Anglica nobilitate confectum diremit; illudico oscuro hominibus hæreticis complevit, Catholicæ fidei cultores oppressit, improbos concionatores atque impietatum administros reposuit. Missæ sacrificium, preces, ieiunia, ciborum delectum, cœlibatum, ritualque Catholicos abolevit. – Libros manifest hæresim continentes toto regno proponi, impia mysteria, et instituta e Calvini præscriptum a se suscepta et observata, etiam a subditis servari mandavit. Episcopos ecclesiarum, rectores, et alios sacerdotes Catholicos suis ecclesiis et beneficiis eiicere, ac de illis, et aliis rebus ecclesiasticis in hæreticos disponere, de ecclesiæ causis decerenere ausa. Prælatis, clero, et populo, ne Romanam ecclesiam agnoscerent, neve eius præceptis sanctionibusque canonicis obtemperarent, interdixit; plerosque in nefarias leges suas venire, et romani pontificis auctoritatem atque obedientiam abiurare, seque solum in temporalibus et spiritualibus dominam agnoscere, iureiurando coegit; pœnas et supplicia in eos qui dicto non essent audientes imposuit, easdemque abis, qui in unitate fidei et prædicta obedientia perservarunt, exegit; Catholicos antistes et ecclesiarum rectores in vincula coniecit, ubi multi diuturno languore et tristitia confecti, extremum vitæ diem misere finierunt. – Qua omnia cum apud omnes nationes perspicua et notiora sint, et gravissimo quamplurimorum testimonio ita comprobata, ut nullus omnino locus excusationis, defensionis, aut tergiversationis relinquatur, nos multiplicantibus aliis atque aliis super alias impietatibus et facinoribus, et præterea fidelium persecutione, religionisque afflictione, impulsu et opera dictæ Elizabethæ quotidie magis ingraviscente; quoriam illius animum ita obfirmatum atque induratum intelligimus, ut non modo pias Catholicorum principum de sanitate et conversione preces monitionesque contempserit, sed ne huius quidem sedis ad ipsam hac de causas nuncios in Angliam traiicere permiserit, ad arma iustitiæ contra eam de necessitate conversi, dolorem lenire non possumus, quod adducamur in unam animadvertere, cuius maiores de republica Christiana tantopere meruere. Illius itaque autoritate suffulti, qui nos in hoc supremo iustitiæ throno, licet tanto impegnamente, voluit collocare, de apostolicæ potestatis plenitudine dichiaramus prædictam Elizabetham hæreticam, et hæreticorum fautricem, eque adhærentes in prædictis, anathematis sententiam incurrisse, esseque a Christi Corporis unitate præcisos. – Quin etiam ipsam prætenso regni prædicti iure, necnon omni et quocunque dominio, dignitate, privilegioque privatam; et item proceres, subditos, et populos dicti regni, ac cæteros omnes, qui illi quomodunque iuraverunt, un iuramento huiusmodi, ac omni prorsus dominii, fidelitatis, et obsequii debito, perpetuo absolutos, prout nos illos præsentium auctoritate absolvimus; et privamus eandem Elizabetham prætenso iure regni, omnibus supradictis aliisque. Præcipimusque et interdicimus universis et singulis proceribus, subditis, populis, et aliis prædictis, ne illi eiusve monitis, mandatis et legibus auded obedire. Qui secus egerint, eos simili anathematis sententia innodamus. Quia vero difficile nimis esset, præsentes quocunque illis opus erit perferre, volumus ut earum exempla, notaii publici manu, et prælati ecclesiastici, eiusve curiæ sigillo obsignata, eandem prorsus fidem in iudicio, et extra illud ubique gentium faciant, quam ipsae præsentes facerent, si essent exhibitæ vel ostensæ.

Dato Romæ apud Sanctum Petrum, anno incarnationis dominae millesimo quingentisimo sexagesimo nono, quinto kalendis Martii, pontificatus nostri anno quinto.

SDN. PAPA PIUS V

5 marzo 1570

UNA DICHIARAZIONE DI NOSTRO SIGNORE PAPA PIO QUINTO,  CONTRO ELISABETTA, LA PRETESA REGINA D’INGHILTERRA,  E GLI ERETICI A LEI ADERENTI.

… e di come tutti i suoi sudditi siano dichiarati sciolti dal Giuramento di Fedeltà e da ogni altra cosa a lei dovuta; e coloro che  d’ora in poi obbediscono a lei, sono accomunati  nell’Anatema

PIO VESCOVO, SERVO DEI SERVI DI DIO,

AD FUTURAM REI MEMORIAM

Colui che regna in alto, a cui è dato ogni potere in cielo e in terra, e che affidò il governo della Chiesa, Una, Santa, Cattolica ed Apostolica, fuori dalla quale non c’è salvezza, ad uno solo sulla terra, cioè a Pietro, Principe degli Apostoli, e al successore di Pietro, il Romano Pontefice, per essere governata in pienezza di potere. Egli solo ha costituito Principe su tutto i popoli e su tutti i regni, per strappare, distruggere, disperdere, consumare, piantare e costruire, per poter tenere il popolo fedele strettamente unito al vincolo della carità, nell’unità dello spirito, e presentarlo immacolato ed incolume al suo Salvatore. – Obbedienti a tale ufficio, Noi, chiamati per bontà di Dio  al governo della predetta Chiesa, non risparmiamo dolori e fatiche, lavorando senza omissioni, onde conservare integra nella medesima unità la Religione Cattolica (il cui Autore, onde provare la fede dei suoi figli e, per nostro emendamento, ha sofferto di essere punito con così grandi afflizioni). Ma il numero degli empi ha ottenuto un tale potere che non c’è più un posto in tutto il mondo che non abbiano provato a corrompere con le loro più malvagie dottrine ; la più perniciosa di tutte ha trovato rifugio, tra gli altri, presso in Elisabetta, la pretesa regina d’Inghilterra, la serva di malvagità. Questa stessa donna, pervenuta al regno usurpando mostruosamente il posto di capo supremo della Chiesa in tutta l’Inghilterra, la sua autorità e la giurisdizione, ha portato indietro il suo reame, già cattolico e che aveva dato buoni frutti, in uno stato di miserabile distruzione . Poiché aveva con mano forte inibito l’esercizio della vera Religione che Maria, la leggendaria legittima Regina, di illustre  memoria, dopo il suo rovesciamento da parte di Enrico VIII, aveva restaurato con l’aiuto di questa Sede, ha seguito ed abbracciato gli errori degli eretici; ha rimosso dal Regio consiglio la Nobiltà inglese, e lo ha riempito di oscuri uomini eretici, ha oppresso i seguaci della Fede Cattolica, ha istituito Predicatori disonesti ed empi ministri, ha abolito il sacrificio della Messa, le preghiere, i digiuni, l’astenersi dalle carni, il celibato, le cerimonie e i riti Cattolici. Ha ordinato che fossero letti in tutto il Reame libri contenenti Eresie manifeste, intrattenendo ed osservando i misteri e le empie istituzioni secondo il Prescritto di Calvino, osservati ugualmente da ella stessa; ha osato gettare vescovi, parroci di chiese e altri sacerdoti cattolici, fuori dalle loro Chiese e dai loro benefici, e conferire questi ed altre cose ecclesiastiche agli eretici; ha vietato ai prelati, al clero e al popolo di riconoscere la Chiesa di Roma o di obbedire ai suoi precetti e alle sue sanzioni canoniche; ha costretto la maggior parte di loro a render conto  alle sue leggi malvagie, ad abiurare l’autorità e l’obbedienza del Papa di Roma, e ad accettarla, sotto giuramento, come la loro unica signoria in questioni temporali e spirituali; ha imposto sanzioni e punizioni a coloro che non erano obbedienti ed ha preteso di esigere la predetta obbedienza da coloro che perseverano nell’unità della fede; ha gettato i prelati e i parroci cattolici in prigione, dove molti, logorati da lunghi languori e sofferenze, hanno miseramente concluso le loro vite. Tutto questo è manifesto e noto tra tutte le nazioni, talmente ben dimostrato dalla grave testimonianza di molti uomini, che non c’è posto per scuse, difese o tergiversazioni, Noi, vedendo le impunità e i crimini moltiplicarsi uno dopo l’altro, che la persecuzione dei fedeli e le afflizioni della religione diventavano quotidiane sempre più gravi sotto la guida e l’attività di detta Elisabetta, e riconoscendo che la sua mente è così ostinata e determinata, che ha non solo disprezzato le pie preghiere e gli ammonimenti con cui i principi cattolici hanno cercato di dissuaderla e convertirla, ma non ha nemmeno permesso che i nunzi inviati a lei in questa materia da questa Sede attraversassero l’Inghilterra, siamo obbligati dalla necessità a prendere contro di lei le armi della giustizia, anche se non possiamo astenerci dal rimpiangere di essere costretti a rivolgerci contro una delle maggiori comunità cristiana i cui antenati hanno così tanto meritato. Quindi, appoggiandoci all’autorità di Colui si è compiaciuto di porci, sebbene indegnamente, su questo supremo seggio di giustizia, facendo uso dalla pienezza del nostro potere apostolico, dichiariamo la predetta Elisabetta, eretica e fautrice di eretici, ed i suoi seguaci nelle questioni suddette, di essere incorsi nella sentenza di anatema, e di essersi posti fuori dall’unità del Corpo di Cristo. – E inoltre (la dichiariamo) essere privata del suo preteso titolo alla corona summenzionata e di ogni signoria, dignità e privilegio di sorta. – E anche (dichiariamo) che i nobili, i sudditi e le persone del suddetto Regno e tutti gli altri che in qualche modo avessero prestato giuramento a lei, siano assolti per sempre da tale giuramento e da qualsiasi dovere di fedeltà e obbedienza, derivante dalla signoria; e noi, per l’autorità dei nostri poteri, li assolviamo e priviamo inoltre la stessa Elisabetta del suo preteso titolo alla corona e di tutte le altre cose dette sopra. Diffidiamo e comandiamo a tutti e singolarmente i nobili, i sudditi, il popolo e tutti gli altri: che non osino obbedire ai suoi ordini, mandati e leggi. Coloro che agiranno in senso contrario, saranno coinvolti nella stessa sentenza di scomunica. – Perché in verità potrebbe essere troppo difficile trasmettere queste diposizioni ovunque fosse necessario, noi faremo in modo che siano riprodotti altri esemplari, per mano di un notaio e sigillate con il sigillo di un prelato della Chiesa o del suo tribunale, che abbiano simile forza ed efficacia, dentro e fuori dai procedimenti giudiziari, in tutti i luoghi tra le nazioni, ove questi stessi fossero esibiti o mostrati.

Dato a Roma, a San Pietro, nell’incarnazione di nostro Signore  millenovecentosessantanove, il quinto delle calende di marzo e anno quinto del nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO – S. S. LEONE XIII: “DIVINUM ILLUD MUNUS”

Questa enciclica è una vera e propria catechesi illuminante sullo Spirito Santo del Santo Padre Leone XIII, oggi ancor più necessaria che nell’epoca in cui essa fu scritta. Si tratta di un documento, pieno di riferimenti scritturali, che un “vero” Cattolico dovrebbe stampare nella mente e nel cuore, e tutti dovrebbero sempre tenere in mente in particolare almeno le parole di S. S.: “… dobbiamo pregare lo Spirito Santo, del quale abbiamo tutti grandissimo bisogno. Siamo poveri, fiacchi, tribolati, inclinati al male, ricorriamo dunque a Lui, che è fonte inesausta di luce, di fortezza, di consolazione, di grazia”. Questo allora, immaginiamo oggi, in tempi di apostasia generalizzata dei popoli un tempo Cristiani, oggi indefferentisti, per non dire atei o al più “deisti” secondo i dettami delle società a guida massonica, non ultima quel Novus Ordo forgiato dai marrani ecumenisti-cabalisti, dagli antipapi-clown. Ma la risorsa straordinaria che è lo Spirito Santo, può far ribaltare ogni situazione umanamente impossibile, situazione che oggi vede dominante la sinagoga di satana occupare i sacri palazzi e le sacre istituzioni. Ma, fiduciosi ad oltranza nel “Non prævalebunt”, ci immergiamo nel mare salvifico dello Spirito Santo, che sarà in grado di ricreare e rinnovare tutte le cose, ristabilendo la magnificenza e la purezza della Sposa di Cristo, la Chiesa Cattolica, Una, Santa, Apostolica, Romana, sotto la guida del Vicario di Cristo, trionfante sui servi dell’anticristo, i “dei gentium, dœmonia”. – “… basti sapere che se Cristo è il capo della Chiesa, lo Spirito Santo ne è come l’anima: “… Ciò che è l’anima nel nostro corpo, lo Spirito Santo lo è nella Chiesa, corpo di Cristo”.


Leone XIII
Divinum illud munus

Lettera Enciclica

Lo Spirito Santo
9 maggio 1897

La divina missione, che Gesù Cristo ricevette dal Padre per la salvezza del genere umano, e che egli ha perfettamente compiuto, come fu rivolta quasi ad ultimo fine, a dare agli uomini la vita di gloria nella beata eternità, così nel corso del tempo fu intesa a partecipare e coltivare in essi la vita della divina grazia, perché poi fiorisse nella vita celeste. Perciò il Redentore medesimo pieno di benignità non cessa mai di invitare tutti gli uomini di ogni nazione e di ogni lingua al seno dell’unica sua chiesa: “Venite a me tutti; Io sono la vita; Io sono il buon pastore”. Tuttavia secondo i suoi altissimi progetti non volle compiere da sé solo nel mondo questa missione, ma come egli l’aveva ricevuta dal Padre, così lasciò che lo Spirito Santo la conducesse a termine, Ed è sempre dolce ricordare quelle parole, che Cristo poco prima di lasciare la terra disse ai suoi discepoli: “È bene per voi che io vada, perché se non andrò, non verrà sopra di voi il Paraclito; ma se andrò, ve lo manderò” (Gv 16,7). In queste parole egli diede come principale ragione della sua partenza e del suo ritorno al Padre, soprattutto l’utilità per i suoi cari che deriverà dalla venuta dello Spirito Santo, ed essendo egli che lo manda, dimostra in tal modo anche da sé procede come dal Padre e che lo stesso Spirito, come avvocato, come consolatore e come maestro, avrebbe compiuto nel mondo l’opera da sé cominciata. Vale a dire il compimento della redenzione era giustamente riservato alla virtù molteplice e ammirabile di questo Spirito, che nella creazione aveva “ornato i cieli” (Gb XXVI,13) e “riempita la terra” (Sap 1,7),

Orbene, sulle tracce del Salvatore, principe dei pastori e vescovo delle anime nostre, Ci siamo studiati di camminare sempre anche Noi, aiutati dalla divina grazia, continuando la sua missione, affidata dapprima agli apostoli e in particolare a Pietro, “la cui dignità non vien meno neppure in un erede indegno”. Da tal fine mossi in tutti gli atti del Nostro ormai lungo pontificato a due cose abbiamo mirato e miriamo principalmente: alla restaurazione cioè della vita cristiana nella famiglia e nella società, nei prìncipi e nei popoli, perché solo Cristo è la vera vita di tutti, e al ritorno dei dissidenti alla Chiesa Cattolica, perché è questa la volontà di Cristo, che si abbia un solo ovile sotto un solo pastore. Ora pertanto che Ci sentiamo vicini al termine della Nostra vita mortale, Ci piace affidare in particolar modo l’opera Nostra, qualunque sia stata, allo Spirito Santo, che è vita e amore, perché egli la maturi e la fecondi. E per un più felice risultato nel desiderato fine, avvicinandosi la solennità della Pentecoste, vogliamo parlarvi dello Spirito Santo, dell’azione cioè che egli esercita nella Chiesa e nelle anime col dono dei suoi superni carismi. In tal maniera sarà ravvivata e rinvigorita, come Noi ardentemente desideriamo, la tede nel mistero augustissimo della Trinità e m particolare accresciuta e alimentata la pietà verso questo divino Spirito, al quale vanno tanto debitori tutti coloro che seguono la via della verità e della giustizia, mentre, come notò san Basilio, “tutta l’economia ordita dalla divina bontà intorno all’uomo, se fu eseguita dal nostro Salvatore e Dio Gesù Cristo, fu però portata a compimento per grazia dello Spirito Santo”.

E prima di entrare nel tema proposto, Ci piace ed è utile soffermarci un po’ sul mistero della Triade sacrosanta. Questo mistero è chiamato dai sacri dottori “sostanza del nuovo testamento”, cioè il mistero dei misteri, principio e fine di tutti gli altri, per conoscere e contemplare il quale furono creati in cielo gli angeli, in terra gli uomini, mistero adombrato già nell’antico testamento e più tardi più chiaramente insegnato da Dio stesso, venuto a bella posta dagli angeli fra noi: “Nessuno ha mai veduto Dio, l’unigenito Figlio che è nel seno del Padre l’ha rivelato” (Gv 1,18). Chiunque pertanto si metta a scrivere o parlare di sì grande mistero abbia sempre davanti agli occhi l’ammonimento dell’Angelico; “Quando si parla della Trinità, conviene farlo con prudenza e umiltà insieme, perché, come dice Agostino, in nessun’altra ricerca intellettuale è maggiore o la fatica o il pericolo di sbagliare, o il frutto se si coglie nel vero”. E il pericolo sta in ciò che nella fede e nella pietà non si confondano le divine Persone, e non si moltiplichi l’unica natura mentre “la fede cattolica ci insegna a venerare un solo Dio nella Trinità e la Trinità in un solo Dio” [Simbolo “Quicumque”; Denz 75]. Perciò il Nostro predecessore Innocenzo XII respinse le istanze di coloro, che domandavano una festa propria in onore del Padre, e se vi sono dei giorni consacrati ai vari misteri compiuti dal Verbo incarnato, non c’è però una festa speciale per il Verbo, solo in quanto Persona divina; e la Stessa antichissima solennità di Pentecoste non riguarda lo Spirito Santo, come spirato dal Padre e dal Figlio, ma piuttosto ricorda il suo avvento, o esterna missione.

E tutto ciò fu sapientemente ordinato per non dare occasione a moltiplicare la divina essenza col distinguere le Persone. Anzi la chiesa, per mantenere nei suoi figli la purezza della fede, volle istituita la festa della Trinità, resa poi universale dal pontefice Giovanni XXII; alla santissima Trinità ha lasciato innalzare altari e templi e, dopo una celeste visione, ha anche approvato per la redenzione degli schiavi un ordine religioso ad onore e col titolo della santissima Trinità. S’aggiunga a ciò come il culto tributato ai santi, agli angeli, alla vergine Madre di Dio, a Cristo, ridonda tutto e s’incentra nella Trinità; non v’è preghiera rivolta a una delle tre divine Persone, dove non si faccia menzione anche delle altre; nelle litanie, invocate distintamente le tre Persone, si conclude con un’invocazione comune; i salmi, gli inni hanno tutti la stessa dossologia al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo; le benedizioni, i riti, i sacramenti s’accompagnano e s’amministrano implorando la Trinità. Ma a tutto questo alludeva già l’Apostolo in quella sentenza: “Poiché da Dio, per Dio, in Dio sono tutte le cose, a Dio sia gloria per tutti i secoli” (Rm XI, 36), esprimendo così la trinità delle Persone e l’unità dell’essenza, la quale essendo in tutte la medesima fa sì che si debba a ciascuna, come al solo e medesimo Dio, la stessa gloria eterna. S. Agostino commentando le citate parole scrive: “Non si deve prendere indistintamente ciò che l’Apostolo distingue dicendo: da Dio, per Dio, in Dio; con la prima frase significa il Padre, con l’altra il Figlio, con l’ultima lo Spirito Santo”.

Di qui l’uso nella chiesa di attribuire al Padre le opere della potenza, al Figlio quelle della sapienza, allo Spirito Santo quelle dell’amore. Non già perché non siano comuni alle divine Persone tutte le perfezioni e tutte le opere esterne; infatti “sono indivise le opere della Trinità come ne è indivisa l’essenza”, poiché, come le tre divine Persone “sono inseparabili, così anche operano insieme”,7 ma per una certa relazione e quasi affinità che passa fra le opere esterne e il carattere proprio di ciascuna Persona, più all’una che alle altre si attribuiscono o, come dicono, si appropriano: “Come noi – sono parole dell’Angelico – ci serviamo delle creature quasi di segni e di immagini per manifestare le divine Persone, così facciamo degli attributi divini, e tale manifestazione tolta dai divini attributi si dice appropriazione” (Summa theol. I, q. 39, a. 7). In tal modo il Padre, che è “il principio della Trinità”, (S. Agostino, De Trinitate, I. IV, c. 20; PL 42, 906) è anche causa efficiente di tutte le cose, dell’incarnazione del Verbo, della santificazione delle anime, “da Dio sono tutte le cose”; da lui, a causa del Padre. Il Figlio poi, Verbo e Immagine di Dio, è causa esemplare per cui tutte le cose hanno forma e bellezza, ordine e armonia, egli, come via, verità e vita, ha riconciliato l’uomo con Dio, “per lui sono tutte le cose”; per lui, a causa del Figlio. E lo Spirito Santo è di tutto la causa finale, perché come nel suo fine la volontà e ogni cosa trova quiete, così egli che è la bontà e l’amore del Padre e del Piglio, da impulso forte e soave e quasi l’ultima mano all’altissimo lavoro dell’eterna nostra predestinazione, “in lui sono tutte le cose”; in lui, a causa dello Spirito Santo.

Osservati dunque rigorosamente gli atti di fede e di culto dovuti all’augustissima Trinità, cosa non mai abbastanza inculcata al popolo cristiano, volgiamo il Nostro discorso all’efficacia propria dello Spirito Santo.

E dapprima giova dare uno sguardo a Cristo fondatore della Chiesa e redentore del genere umano, L’incarnazione del Verbo è l’opera più grande che Dio abbia mai compiuto fuori di sé, alla quale concorsero tutti i divini attributi, in modo tale che non è possibile anche solo immaginarne una maggiore, ed è in pari tempo l’opera per noi più salutare. Ora un sì grande prodigio, benché compiuto da tutta la Trinità, tuttavia si ascrive come proprio dello Spirito Santo, onde dice il Vangelo che la concezione di Cristo nel grembo della Vergine fu opera dello Spirito Santo: “Si trovò incinta per opera dello Spirito Santo”, e “Quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo” (Mt 1,18.20): e a buon diritto, perché lo Spirito Santo è la carità del Padre e del Figlio, e il “grande mistero della divina bontà” (1Tm 3,16), che è l’incarnazione, fu causato dal suo immenso amore per l’uomo, come accenna san Giovanni: “Dio ci ha amati a tal segno da darci l’unigenito suo Figlio” (Gv 3,16). Si aggiunga che per tal fatto la natura umana fu sollevata alla dignità d’essere unita personalmente al Verbo, non per meriti che avesse, ma per pura grazia, che è dono proprio dello Spirito Santo: “Questa maniera – dice sant’Agostino – con cui Cristo fu concepito per opera dello Spirito Santo ci fa vedere la bontà di Dio, giacché la natura umana senza meriti precedenti nel primissimo istante fu unita alla persona del Verbo così intimamente che il medesimo fosse e figlio di Dio e figlio dell’uomo”. Né solo il concepimento di Cristo, ma anche la santificazione dell’anima sua, o “unzione”, com’è detta nei libri santi (At 10,38), fu compiuta dallo Spirito Santo, come pure ogni sua azione “era come sotto l’influsso dello stesso Spirito” che in particolar maniera cooperò al suo sacrificio: “Cristo per mezzo dello Spirito Santo si offrì vittima innocente a Dio” (Eb 9,14).

Dopo ciò qual meraviglia che tutti i carismi dello Spirito Santo inondassero l’anima di Cristo? In Lui una pienezza di grazia propria di Lui solo, cioè nella massima misura ed efficacia a tutti gli effetti, in lui tutti i tesori della sapienza e della scienza, le grazie date gratuitamente, le virtù, i doni tutti, preannunciati da Isaia (Is IV,1; XI,2-3) e simboleggiati in quella colomba miracolosa, apparsa sul Giordano, quando Cristo col suo battesimo ne consacrava le acque per il nuovo sacramento. E qui ben nota sant’Agostino che “Cristo non ricevette lo Spirito Santo all’età di trent’anni, ma quando fu battezzato, era senza peccato e aveva già lo Spirito Santo; solo nell’atto del battesimo prefigurò il suo corpo mistico, che è la Chiesa, in cui i battezzati ricevono in special modo lo Spirito Santo”. Dunque l’apparizione sensibile dello Spirito Santo su Cristo e la sua azione invisibile nell’anima di Lui figurano la duplice missione dello Spirito Santo, visibile nella Chiesa e invisibile nell’anima dei giusti.

La Chiesa concepita e uscita già dal cuore del secondo Adamo come addormentato sulla croce, apparve al mondo la prima volta in modo solenne il giorno della pentecoste con quell’ammirabile effusione che era stata vaticinata dal profeta Gioele (cf. II,28-29), e in quel dì medesimo si iniziava l’azione del divino Paraclito nel mistico corpo di Cristo, “posandosi sugli Apostoli, quasi nuove corone spirituali, formate con lingue di fuoco, sulle loro teste”. E allora gli Apostoli “discesero dal monte – come scrive il Crisostomo – non già portando a somiglianza di Mosè le tavole di pietra nelle mani, ma lo Spirito Santo nell’anima spargendo tesori e rivi di verità e di carismi”.

Così si avverava l’ultima promessa fatta da Cristo poco prima di salire al cielo, di mandare cioè di lassù lo Spinto Santo, che negli Apostoli avrebbe compiuto e quasi suggellato il deposito della rivelazione: “Io ho ancora molte cose da dirvi, ma adesso non le intendereste; lo Spirito di verità, che vi manderò Io, vi insegnerà tutto” (Gv XVI,12-13). Lo Spirito Santo infatti, che è spirito di verità, in quanto procede dal Padre, eterno Vero, e dal Figlio, che è verità sostanziale, riceve dall’uno e dall’altro insieme con l’essenza tutta la verità, che poi a vantaggio nostro comunica alla chiesa, assistendola perché non erri mai, e fecondando i germi rivelati, finché, secondo l’opportunità dei tempi, giungano a maturazione. E poiché la chiesa, che è mezzo di salvezza, deve durare sino al tramonto dei secoli, è appunto questo divino Spirito che ne alimenta e accresce la vita; “Io pregherò il Padre ed egli vi manderà lo Spirito di verità, che resterà per sempre con voi” (Gv XIV,16-17). Da Lui infatti sono costituiti i Vescovi, che generano non solo i figli, ma anche i padri, cioè i sacerdoti, a guidarla e nutrirla con quel sangue con cui Cristo la acquistò: “Lo Spirito Santo pose i Vescovi al governo della Chiesa di Dio, redenta col sangue di Lui” (At XX, 28); gli uni e gli altri poi, Vescovi e sacerdoti, per singolare dono dello Spirito Santo hanno la potestà di rimettere i peccati, come disse Cristo agli Apostoli: “Ricevete lo Spirito Santo: saranno perdonati i peccati a quelli, ai quali voi li avrete perdonati e ritenuti a quelli, ai quali voi li avrete ritenuti” (Gv XX, 22-23). E poi l’origine divina della Chiesa appare in tutto il suo splendore nella gloria dei carismi, dei quali si circonda; ma questo serto ella riceve dallo Spirito santo. Per ultimo basti sapere che se Cristo è il capo della Chiesa, lo Spirito Santo ne è come l’anima: “Ciò che è l’anima nel nostro corpo, lo Spirito Santo lo è nella Chiesa, corpo di Cristo”.

E stando così le cose, non si può immaginare e attendere un’altra più larga e abbondante “effusione e manifestazione dello Spirito Santo”, giacché ora nella Chiesa se ne ha la massima e durerà sino a quel giorno in cui la stessa Chiesa dallo stadio della milizia verrà assunta al glorioso consorzio nella letizia dei trionfanti.

Ma non meno ammirabile, sebbene più difficile a intendersi, anche perché del tutto invisibile, è l’azione dello Spirito Santo nelle anime. Anche questa effusione è copiosissima, tanto che Cristo medesimo, che ne è il donatore, l’assomigliò a un fiume abbondantissimo, come è registrato in san Giovanni: “Dal seno di colui che crede in me, come dice la Scrittura, sgorgheranno le sorgenti d’acqua viva”; e poi lo stesso evangelista, commentando queste parole, soggiunge: “Ciò disse dello Spirito Santo, che avrebbero ricevuto i credenti in Lui” (Gv VII, 38-39). È verissimo che anche nei giusti vissuti prima di Cristo vi fu lo Spirito Santo con la grazia, come leggiamo dei profeti, di Zaccaria, del Battista, di Simeone e di Anna, giacché non fu nella pentecoste che lo Spirito Santo “incominciò ad abitare nei santi la prima volta, in quel dì accrebbe i suoi doni, mostrandosi più ricco, più effuso”. Erano sì figli di Dio anch’essi, ma rimanevano ancora nella condizione di servi, perché anche il figlio “non differisce dal servo”, finché “è sotto tutela” (Gal IV,1-2); e poi mentre quelli furono giustificati in previsione dei meriti di Cristo, dopo la sua venuta molto più abbondante è stata la diffusione dello Spirito Santo nelle anime, come avviene che la mercé vince in prezzo la caparra e la verità supera immensamente la figura. La qual cosa è espressa da san Giovanni là dove dice: “Non era ancora stato dato lo Spirito Santo, perché Gesù non era stato ancora glorificato” (Gv VII, 39); ma non appena Cristo, “ascendendo al cielo”, ebbe preso possesso del suo regno, conquistato con tanti patimenti, subito ne dischiuse con divina munificenza i tesori, “spargendo sugli uomini i doni” dello Spirito Santo (Ef IV, 8); “non già che prima non fosse stato mandato lo Spirito Santo, ma certo non era stato donato come fu dopo la glorificazione di Cristo”. La natura umana è essenzialmente serva di Dio: “La creatura è serva, noi per natura siamo servi di Dio”; anzi, infetta dall’antico peccato, la nostra natura cadde tanto in basso che noi divenimmo odiosi a Dio: “Eravamo per natura figli d’ira” (Ef II,3), E non vi era forza che bastasse a rialzarci da tanta caduta, a riscattarci dall’eterna rovina. Ma quel Dio, che ci aveva creati, si mosse a pietà, e per mezzo del suo Unigenito sollevava l’uomo ad un grado di nobiltà maggiore di quella donde era precipitato. Non c’è lingua che valga a narrare questo lavoro della grazia divina nelle anime degli uomini; essi perciò nelle sacre Scritture e dai santi dottori sono detti rigenerati, creature novelle, consorti della divina natura, figli di Dio, deificati, e così via.

Ora così ampi benefici dobbiamo riconoscerli propriamente dallo Spirito Santo. Egli è lo “Spirito di adozione di figli, per cui a Dio diciamo: Abbà, Padre”; egli ci fa sentire tutta la dolcezza di tale invocazione, “testimoniando all’anima che noi siamo figli di Dio” (Rm VIII, 15-16). E per spiegare ciò viene opportuna l’osservazione dell’Angelico che vi è una somiglianza tra la duplice opera dello Spirito Santo, poiché è per virtù dello stesso Spirito che “Cristo fu concepito nella santità perché fosse figlio naturale di Dio, e gli uomini sono santificati perché siano figli di Dio adottivi”. E così in maniera più nobile, che non sia nell’ordine naturale, la rigenerazione spirituale è frutto dell’Amore increato.

La quale rigenerazione o rinnovazione, per ciascuno, s’inizia nel battesimo, nel qual sacramento, cacciato dall’anima lo spirito immondo, vi discende per la prima volta lo Spirito Santo, rendendola somigliante a sé, perché “è spirito ciò che nasce dallo Spirito” (Gv III, 7). Con più abbondanza nella cresima ci viene donato lo stesso Spirito, infondendoci costanza e fortezza per vivere da Cristiani, quello Spirito cioè che vinse nei martiri, trionfò nei vergini sulle illecite passioni. E abbiamo detto che lo Spirito Santo dona se stesso, “diffondendo Dio nei nostri cuori la carità per lo Spirito Santo che ci è dato” (Rm V,5); infatti non solo dà a noi doni divini, essendo Egli degli stessi doni l’Autore, ma per giunta Egli stesso è il primo dono, procedendo dal mutuo amore del Padre e del Figlio, “il dono di Dio altissimo”.

E per capire meglio la natura e gli effetti di questo dono, conviene richiamare ciò che insegnano sulla scorta delle divine Scritture i sacri dottori, e cioè che Dio si trova in tutte le cose “per la sua potenza, con la sua presenza e con la sua essenza, in quanto egli tiene tutto a sé soggetto, tutto vede, di tutto è la causa prima”.  Ma nella creatura ragionevole Dio si trova in un’altra maniera; cioè in quanto è conosciuto e amato, giacché è anche secondo natura amare il bene, desiderarlo, cercarlo. Da ultimo Dio per mezzo della sua grazia sta nell’anima del giusto, in un modo più intimo e ineffabile, come in un suo tempio, donde deriva quell’amore vicendevole, per cui l’anima è intimamente a Dio presente, è in lui più che non soglia farsi fra dilettissimi amici e gode di Lui con una piena soavità.

Ora questa unione, che propriamente si chiama “inabitazione”, la quale non nell’essenza, ma solo nel grado differisce da quella che fa i beati in cielo, sebbene si compia per opera di tutta la Trinità, “con la venuta e dimora delle tre Persone nell’anima amante di Dio” (Gv XIV, 23), tuttavia allo Spirito Santo si attribuisce. Giacché anche negli empi il Padre e il Figlio dimostrano la loro potenza e sapienza, ma lo Spirito Santo, il cui carattere personale è la carità, non può dimorare che nel giusto. Si aggiunga che a questo Spirito si dà l’appellativo di Santo, anche perché, essendo il primo ed eterno Amore, ci muove e spinge alla santità, che in fine consiste nell’amore di Dio. Perciò i buoni, che pure dall’Apostolo sono detti templi di Dio, non sono mai chiamati espressamente templi o del Padre, o del Figlio, ma dello Spirito Santo: “Non sapete voi che le vostre membra sono tempio dello Spirito Santo, che abita in voi, avendolo ricevuto da Dio?” (1Cor VI, 19).

Inoltre lo Spirito Santo, abitando nelle anime pie, reca con sé molti altri doni celesti. Infatti “lo Spirito Santo – è dottrina dell’Aquinate – procedendo con Amore, è anche il primo dono; perciò dice Agostino, che per mezzo di questo che è lo Spirito Santo, molti altri doni sono distribuiti alle membra di Cristo”. Sono fra questi doni quelle arcane ispirazioni e inviti che si fanno sentire nella mente e nel cuore per impulso dello Spirito Santo, dai quali dipende l’inizio della buona strada, l’avanzamento in essa, la salvezza eterna. E poiché queste voci e ispirazioni ci arrivano per vie occulte, nelle sacre pagine sono alcune volte assimilate alle vie del vento; e l’angelico maestro le paragona bellamente ai movimenti del cuore la cui virtù è tutta nascosta: “II cuore ha una tal quale influenza occulta, onde al cuore è assomigliato lo Spirito Santo, che in maniera invisibile vivifica la Chiesa”.

Inoltre il giusto che già vive la vita di grazia e opera con l’aiuto delle virtù, come l’anima con le sue potenze, ha bisogno di quei sette doni che si dicono propri dello Spirito Santo. Per mezzo di questi l’uomo si rende più pieghevole e forte insieme a seguire con maggiore facilità e prontezza il divino impulso; sono di tanta efficacia da spingerlo alle più alte cime della santità, sono di tanta eccellenza, da rimanere intatti, benché più perfetti nel modo, anche nel regno celeste. Con questi doni poi lo Spirito Santo ci eccita e ci solleva all’acquisto delle beatitudini evangeliche, che sono quasi fiori sbocciati in primavera, preannuncianti la beatitudine eterna. Infine sono soavissimi quei frutti elencati dall’apostolo (cf. Gal V, 22), che lo Spirito Santo produce e dona ai giusti anche in questa vita mortale, frutti pieni di dolcezza e di gusto, quali s’addicono allo Spirito Santo “che nella Trinità è la soavità del Padre e del Figlio e riempie d’infinita dolcezza tutte le creature”.

E così questo divinissimo Spirito, procedente dal Padre e dal Figlio nell’eterno lume della santità come amore e come dono, dopo essere apparso in figura nell’antica alleanza, effondeva la pienezza dei suoi doni in Cristo e nel suo mistico corpo, la Chiesa, e con la presenza e con la sua grazia richiamava gli uomini dalla via dell’iniquità, tramutandoli da carnali e peccatori in nuove creature spirituali e quasi celesti.

Ed ora, essendo così grandi i benefici ricevuti dall’infinita bontà dello Spirito Santo, dobbiamo per gratitudine rivolgerci a Lui, pieni d’ossequio e di devozione: e ciò si otterrà se gli uomini cercheranno di conoscerlo, amarlo, pregarlo ogni giorno più, al che Noi li esortiamo paternamente.

Forse non mancano ai nostri giorni di quelli, che se fossero interrogati, come una volta certuni dall’apostolo Paolo, se avessero ricevuto lo Spirito Santo, risponderebbero anch’essi: “Noi non sappiamo neppure se lo Spirito Santo esiste” (At XIX, 2); oppure, se l’ignoranza non giunge tant’oltre, certo in una gran parte è scarsa la cognizione che se ne ha; ne hanno sì sempre sulle labbra il nome, ma la loro fede è molto caliginosa. – Perciò si ricordino i predicatori e i parroci che è loro dovere spiegare diligentemente al popolo la dottrina cattolica sullo Spirito Santo, schivando le questioni ardue e sottili ed evitando quella stolta curiosità, che presume d’indagare su tutti i segreti di Dio. Si dilunghino piuttosto a spiegare chiaramente i molti e grandi benefici che ci sono venuti e continuamente ci vengono da questo divin Donatore, dissipando così ogni errore o ignoranza, che tanto sconviene ai “figli della luce”. E ciò Noi inculchiamo non solo perché si tratta di un mistero che direttamente ci ordina alla vita eterna, e perciò dev’essere creduto fermamente ed espressamente, ma anche perché un bene, quanto più intimamente e chiaramente è conosciuto, tanto più fortemente si ama. – Noi dobbiamo amare lo Spirito Santo, ed è questa l’altra cosa che vi raccomandiamo, perché lo Spirito Santo è Dio, e noi dobbiamo “amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze nostre” (Dt VI, 5), E poi Egli è il sostanziale, eterno e primo Amore, e non vi è cosa più amabile dell’amore; tanto più poi dobbiamo amarlo, per gli immensi benefici ricevuti, i quali se sono da una parte testimonianza dell’affetto di chi li fa, sono dall’altra richieste di gratitudine da chi li riceve. E questo amore reca due non piccoli vantaggi. Anzitutto ci spinge ad acquistare una conoscenza sempre più chiara dello Spirito Santo, perché “chi ama – come dice l’Angelico – non è contento di una qualunque notizia dell’amato, ma si sforza di penetrare nelle cose sue più intime, come è scritto dello Spirito Santo che, essendo l’Amore di Dio, scruta le cose divine anche più profonde”. L’altro vantaggio è di aprire sempre più largamente l’abbondanza dei suoi doni, perché come la freddezza chiude la mano del donatore, così al contrario la riconoscenza l’allarga. Perciò soprattutto è necessario che tale amore non consista solo in aride speculazioni e in ossequi esteriori, ma dev’essere operoso, fuggendo il peccato, con cui si fa allo Spirito Santo un torto speciale, Giacché quanto noi siamo e abbiamo, tutto è dono della divina bontà, che viene attribuita soprattutto allo Spirito Santo; orbene il peccatore l’offende mentre è beneficato, abusa per offenderlo dei doni ricevuti, e perché Egli è buono, prende ardire a moltiplicare le colpe. – Di più, essendo lo Spirito Santo Spirito di verità, se qualcuno manca o per debolezza o per ignoranza, troverà forse scusa davanti al tribunale di Dio, ma chi per malizia impugna la verità, fa un affronto gravissimo allo Spirito Santo. E tal peccato è adesso sì frequente, che sembrano giunti quei tempi infelicissimi, descritti da Paolo, nei quali gli uomini per giustissimo giudizio di Dio accecati, avrebbero tenuta la falsità per verità e avrebbero creduto al “principe di questo mondo”, al demonio bugiardo e padre di menzogna, come a maestro di verità: “Insinuerà Dio fra essi lo spirito dell’errore perché credano alla menzogna” (2Ts II,10), e “molti negli ultimi tempi abbandoneranno la fede per credere agli spiriti dell’errore e alle dottrine dei demoni” (1Tm IV,1),

Ma poiché lo Spirito Santo abita in noi, quasi in suo tempio, come sopra abbiamo detto, ripetiamo con l’apostolo: “Non vogliate contristare lo Spirito Santo di Dio, che vi ha consacrati” (Ef IV,30). E per questo non basta fuggire tutto ciò che è immondo, ma di più il cristiano deve risplendere per ogni virtù, soprattutto della purezza e della santità, per non disgustare un Ospite sì grande, giacché la mondezza e la santità si convengono al tempio. Quindi lo stesso apostolo grida; “Non sapete che voi siete tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in voi? Se alcuno oserà profanare il tempio di Dio, sarà maledetto da Dio; infatti santo dev’essere il tempio e voi siete questo tempio” (1Cor III,16-17): minaccia tremenda, ma giustissima.

Infine dobbiamo pregare lo Spirito Santo, del quale abbiamo tutti grandissimo bisogno. Siamo poveri, fiacchi, tribolati, inclinati al male, ricorriamo dunque a Lui, che è fonte inesausta di luce, di fortezza, di consolazione, di grazia. E soprattutto dobbiamo chiedergli la remissione dei peccati, che ci è tanto necessaria, giacché “lo Spirito Santo è dono del Padre e del Figlio e i peccati vengono rimessi per mezzo dello Spirito Santo come per dono di Dio”, e la liturgia più chiaramente chiama lo Spirito Santo “remissione di tutti i peccati”.- Sulla maniera poi d’invocarlo, impariamo dalla Chiesa, che supplice si volge allo Spirito Santo e lo chiama coi titoli più cari: “Vieni, padre dei poveri, datore dei doni, luce dei cuori, consolatore perfetto, ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo“: e lo scongiura che lavi, che sani, che irrori le nostre menti e i nostri cuori e conceda a quanti in lui confidano il “virtù e premio“, “morte santa“, “gioia eterna“. Né si può dubitare che tali orazioni non siano ascoltate, mentre ci assicura che “Egli stesso prega per noi con gemiti inenarrabili” (Rm 8,26). Inoltre dobbiamo supplicarlo con fiducia e con costanza perché ogni giorno più ci illumini con la sua luce e ci infiammi della sua carità, disponendoci così per via di fede e di amore all’acquisto del premio eterno, perché egli è “il pegno dell’eredità che ci è preparata” (Ef 1,14).

Ecco, venerabili fratelli, gli ammonimenti e le esortazioni Nostre intorno alla devozione verso lo Spirito Santo, e non dubitiamo affatto che apporteranno al popolo cristiano buoni frutti in considerazione principalmente della vostra sollecitudine e diligenza. Certo non verrà mai meno l’opera Nostra in cosa di sì grave importanza, anzi intendiamo incoraggiare questo slancio di pietà nei modi che giudicheremo più adatti al bisogno. Intanto, avendo Noi, due anni or sono, col breve Provida matris raccomandato ai cattolici per la solennità di pentecoste alcune particolari preghiere per implorare il compimento della cristiana unità, Ci piace sulla stessa cosa adesso aggiungere qualche cosa di più. Decretiamo dunque e comandiamo che in tutto il mondo cattolico quest’anno e sempre in avvenire si premetta alla pentecoste la novena in tutte le chiese parrocchiali e anche in altri templi e oratori, a giudizio degli ordinari. Concediamo l’indulgenza di sette anni e sette quarantene per ogni giorno a quelli che assisteranno alla novena e pregheranno secondo la Nostra intenzione, l’indulgenza plenaria poi o in un giorno della novena, o nella festa di Pentecoste o anche fra l’ottava, purché confessati e comunicati preghino secondo la Nostra intenzione. Vogliamo parimenti che di tali benefìci godano anche quelli che, legittimamente impediti, non possono assistere alle dette pubbliche preghiere, anche in quei luoghi nei quali queste a giudizio dell’ordinario non possano farsi comodamente nel tempio, purché in privato facciano la novena e adempiano alle altre opere e condizioni prescritte. E Ci piace aggiungere dal tesoro della Chiesa che possano lucrare di nuovo l’una e l’altra indulgenza tutti coloro che in pubblico o in privato rinnovano secondo la propria devozione alcune preghiere allo Spirito Santo ogni giorno durante l’ottava di pentecoste sino alla festa della santissima Trinità inclusa, purché soddisfino alle altre condizioni sopra ingiunte. Tutte queste indulgenze sono applicabili anche alle anime sante del purgatorio.

E ora il Nostro pensiero ritorna a ciò che dicemmo in principio per affrettarne dal divino Spirito con incessanti preghiere l’adempimento. Unite, dunque, venerabili fratelli, alle Nostre preghiere anche le vostre, anche quelle di tutti i fedeli, interponendo la mediazione potente e accettissima della beatissima Vergine. Voi ben sapete quali relazioni intime e ineffabili corrano tra lei e lo Spirito Santo, essendone la Sposa Immacolata.
La Vergine con la sua preghiera molto cooperò sia al mistero dell’incarnazione sia all’avvento dello Spirito Santo sopra gli apostoli. Continui ella dunque ad avvalorare col suo patrocinio le Nostre comuni preghiere, affinché si rinnovino in mezzo alle afflitte nazioni i divini prodigi dello Spirito Santo, celebrati già da Davide: “Manderai il tuo Spirito e saranno create e rinnovellerai la faccia della terra” (Sal CIII,30).

Intanto come auspicio dei doni celesti e pegno del Nostro affetto, impartiamo di gran cuore a voi, venerabili fratelli, al clero e al vostro popolo, nel Signore l’apostolica benedizione.

Roma, presso San Pietro, 9 maggio 1897, anno XX del Nostro pontificato.

 

 

 

DOMENICA DI PENTECOSTE (2018)

DOMENICA DI PENTECOSTE (2018)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Sap 1:7. Spíritus Dómini replévit orbem terrárum, allelúja: et hoc quod cóntinet ómnia, sciéntiam habet vocis, allelúja, allelúja, allelúja [Lo Spirito del Signore riempie l’universo, allelúia: e abbraccia tutto, e ha conoscenza di ogni voce, allelúia, allelúia, allelúia].

Ps LXVII:2 Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus. [Sorga il Signore, e siano dispersi i suoi nemici: e coloro che lo òdiano fuggano dal suo cospetto].

Spíritus Dómini replévit orbem terrárum, allelúja: et hoc quod cóntinet ómnia, sciéntiam habet vocis, allelúja, allelúja, allelúja [Lo Spirito del Signore riempie l’universo, allelúia: e abbraccia tutto, e ha conoscenza di ogni voce, allelúia, allelúia, allelúia].

Oratio

Orémus.

Deus, qui hodiérna die corda fidélium Sancti Spíritus illustratióne docuísti: da nobis in eódem Spíritu recta sápere; et de ejus semper consolatióne gaudére.[O Dio, che in questo giorno hai ammaestrato i tuoi fedeli con la luce dello Spirito Santo, concedici di sentire correttamente nello stesso Spirito, e di godere sempre della sua consolazione.]

Lectio

Léctio  Actuum Apostolórum. Act. II:1-11

“Cum compleréntur dies Pentecóstes, erant omnes discípuli pariter in eódem loco: et factus est repéente de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis: et replévit totam domum, ubi erant sedentes. Et apparuérunt illis dispertítæ linguæ tamquam ignis, sedítque supra síngulos eórum: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, et coepérunt loqui váriis linguis, prout Spíritus Sanctus dabat éloqui illis. Erant autem in Jerúsalem habitántes Judaei, viri religiósi ex omni natióne, quæ sub coelo est. Facta autem hac voce, convénit multitúdo, et mente confúsa est, quóniam audiébat unusquísque lingua sua illos loquéntes. Stupébant autem omnes et mirabántur, dicéntes: Nonne ecce omnes isti, qui loquúntur, Galilæi sunt? Et quómodo nos audívimus unusquísque linguam nostram, in qua nati sumus? Parthi et Medi et Ælamítæ et qui hábitant Mesopotámiam, Judaeam et Cappadóciam, Pontum et Asiam, Phrýgiam et Pamphýliam, Ægýptum et partes Líbyæ, quæ est circa Cyrénen, et ádvenæ Románi, Judaei quoque et Prosélyti, Cretes et Arabes: audívimus eos loquéntes nostris linguis magnália Dei.” [Giunto il giorno di Pentecoste, tutti i discepoli stavano insieme nello stesso luogo: e improvvisamente si sentí un suono, come di un violento colpo di vento: che riempí tutta la casa ove erano seduti. Ed apparvero loro delle lingue come di fuoco, che, divise, si posarono su ciascuno di essi, cosicché furono tutti ripieni di Spirito Santo e incominciarono a parlare in altre lingue, secondo che lo Spirito concedeva loro. Soggiornavano allora in Gerusalemme molti Giudei, uomini religiosi di tutte le nazioni della terra. A tale suono si radunò molta gente, e rimase attònita, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. E si stupivano tutti, e si meravigliavano, dicendo: Costoro che parlano, non sono tutti Galilei? E come mai ciascuno di noi ha udito il suo linguaggio natio? Parti, Medi ed Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia, della Panfilia, dell’Egitto e della Libia, che è intorno a Cirene, e pellegrini Romani, tanto Giudei come proseliti, Cretesi ed Arabi: come mai abbiamo udito costoro discorrere nelle nostre lingue delle grandezze di Dio?]

 Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CIII:30 Emítte Spíritum tuum, et creabúntur, et renovábis fáciem terræ. Allelúja. Hic genuflectitur:

Veni, Sancte Spíritus, reple tuórum corda fidélium: et tui amóris in eis ignem accénde.

Sequentia

Veni, Sancte Spíritus, et emítte cælitus lucis tuæ rádium.

Veni, pater páuperum; veni, dator múnerum; veni, lumen córdium.

 Consolátor óptime, dulcis hospes ánimæ, dulce refrigérium.

 In labóre réquies, in æstu tempéries, in fletu solácium.

O lux beatíssima, reple cordis íntima tuórum fidélium.

Sine tuo númine nihil est in hómine, nihil est innóxium.

Lava quod est sórdidum, riga quod est áridum, sana quod est sáucium.

 Flecte quod est rígidum, fove quod est frígidum, rege quod est dévium.

 Da tuis fidélibus, in te confidéntibus, sacrum septenárium.

Da virtútis méritum, da salútis éxitum, da perénne gáudium. Amen. Allelúja.

Evangelium

 Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XIV:23-31

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Si quis díligit me, sermónem meum servábit, et Pater meus díliget eum, et ad eum veniémus et mansiónem apud eum faciémus: qui non díligit me, sermónes meos non servat. Et sermónem quem audístis, non est meus: sed ejus, qui misit me, Patris. Hæc locútus sum vobis, apud vos manens. Paráclitus autem Spíritus Sanctus, quem mittet Pater in nómine meo, ille vos docébit ómnia et súggeret vobis ómnia, quæcúmque díxero vobis. Pacem relínquo vobis, pacem meam do vobis: non quómodo mundus dat, ego do vobis. Non turbátur cor vestrum neque formídet. Audístis, quia ego dixi vobis: Vado et vénio ad vos. Si diligere tis me, gaudere tis utique, quia vado ad Patrem: quia Pater major me est. Et nunc dixi vobis, priúsquam fiat: ut, cum factum fúerit, credátis. Jam non multa loquar vobíscum. Venit enim princeps mundi hujus, et in me non habet quidquam. Sed ut cognóscat mundus, quia díligo Patrem, et sicut mandátum dedit mihi Pater, sic fácio.”

OMELIA

[Mons. G. Bonomelli: “I Misteri Cristiani” vol. III, Queriniana Ed., Brescia, 1894; impr.]

« Gesù disse ai suoi discepoli: se alcuno mi ama, osserverà la mia parola: e il Padre mio lo amerà e verremo a Lui e faremo dimora presso di Lui. Chi non mi ama, non osserva la mia parola: pure la parola, che avete udita, non è mia, ma di Colui che mi ha mandato. Queste cose vi ho ragionato, conversando con voi. Ma l’Avvocato, lo Spirito Santo, che il Padre vi manderà nel nome mio, quegli vi insegnerà ogni cosa e vi rammenterà quanto io vi ho detto. Vi lascio la pace; la pace do a voi, non come la dà il mondo, io la dò a voi: non si turbi il vostro cuore, né si sgomenti. Avete udito, come io vi ho detto: Vado e vengo a voi; se mi amaste, certamente godreste, che Io vado al Padre, perché il Padre è maggiore di me. Ed ora ve l’ho detto prima che avvenga, acciocché quando sia avvenuto, crediate. Già non parlerò guari con voi, perché il principe di questo mondo viene; ma in me non ha nulla. Ma perché il mondo conosca, che Io amo il Padre, e che come il Padre mi ha ingiunto, così fo Io ». (Giov. XIV, 24-31).

Dettare o recitare parecchi Ragionamenti sul mistero della Pentecoste senza spiegare l’Epistola e il Vangelo proprio della festa, mi sembra cosa ripugnante alla natura stessa della festa e del mistero. La Chiesa, interprete fedele dei misteri che ricorda, nella Epistola e nel Vangelo della Messa di ciascuno d’essi, riporta costantemente quelle parti dei Libri santi che ai misteri stessi più direttamente si riferiscono. Il perché se noi vogliamo con la maggior esattezza possibile studiare e conoscere ciascun mistero che si celebra, non v’è via più spedita e più sicura che quella di studiare e penetrare a fondo il senso della Epistola e del Vangelo, che si leggono nella Messa propria del mistero istesso. – Nel Ragionamento precedente mi ingegnai di spiegare quel tratto degli Atti Apostolici che si legge nell’Epistola e feci del mio meglio per ribattere e sfatare la spiegazione razionalistica, che distrugge il fatto e il mistero che oggi si ricorda e si onora. In questo verrò commentando i pochi versetti tolti dal Vangelo di S. Giovanni, che pochi minuti or sono avete udito solennemente cantare. In questi versetti Gesù parla della venuta dello Spirito Santo e degli effetti ammirabili, che avrebbe prodotto negli Apostoli e per conseguenza in tutti quelli che l’avrebbero ricevuto. L’argomento pertanto è strettamente connesso col mistero che festeggiamo, e per la sua stessa natura è interessante per tutti e perciò degnissimo della vostra attenzione. – I versetti, che noi togliamo a chiosare, si leggono in quell’incomparabile discorso dell’ultima cena, in cui Gesù Cristo versò tutte le ricchezze della sua carità e che sarà il monumento eterno della tenerezza ineffabile del suo cuore; prima di imprenderne il commento è necessario pigliare il filo del discorso alquanto in alto a fine d’averne luce. Gesù conforta gli Apostoli della imminente sua dipartita, assicurandoli che se ne va a preparare loro il luogo. A Tommaso, Che domanda della via, risponde che la sanno e a Filippo che vuol vedere il Padre, dice, che vedendo sé, vedono anche il Padre. Promette loro che faranno opere anche maggiori delle sue, e esaudirà le loro preghiere e che verrà lo Spirito Santo, nel quale conosceranno Lui e in Lui vivranno. All’Apostolo Taddeo spiega perché non può farsi conoscere al mondo, e qui comincia il nostro commento. « Chi ama me, osserverà la mia parola ». L’Apostolo Taddeo aveva detto a Gesù Cristo: « … e perché dopo la tua risurrezione ti manifesterai a noi Apostoli e non al mondo? » e Gesù gli risponde: « Sappi, che se visibilmente Io non mi manifesterò che a voi soli per opera vostra, la mia dottrina e per la fede Io mi manifesterò a quanti crederanno e osserveranno la mia legge e mi ameranno ». – Vi è una doppia manifestazione di Cristo, l’una visibile agli occhi della carne, l’altra solo alla mente, per la fede. La prima, ancorché cosa buona e santa, non giova nulla se non è congiunta alla seconda. Che valse la vista materiale di Gesù Cristo a tante migliaia di uomini, che lo videro, l’udirono e gli parlarono, ma non credettero in Lui? Nulla! Per contrario quante migliaia e milioni di uomini che non lo videro nella sua natura umana, né l’udirono, ma credettero in Lui, lo amarono e osservarono la sua legge, furono salvi ed ora con Lui e di Lui sono beati in Cielo! Non diciamo adunque: O se vedessi Gesù Cristo! Se lo udissi! Crediamo in Lui, a Lui uniamoci per amore vivo ed operoso ed a Lui piaceremo come ed anche meglio che se lo vedessimo con gli occhi ed udissimo con le nostre orecchie. La carne, disse Cristo, per sé non giova a nulla; è lo spirito che dà vita, cioè è l’anima, che con la mente e con il cuore, aderendo a Dio per fede e per carità, partecipa della sua vita istessa. – Gesù rincalza la sua dottrina e dice : « E il Padre mio amerà costui e verremo a lui e faremo dimora presso di lui ». Alto e stupendissimo insegnamento! « Visibilmente a voi soli mi mostrerò: invisibilmente per fede e per amore mi mostrerò a chiunque vorrà: anzi ti dico, o Taddeo, che non solo Io mostrerò per fede me stesso a chiunque lo vorrà, ma con me verrà il Padre e porremo dimora in Lui ». Ma come, o divin Maestro, Voi ed il Padre dimorerete in chi crederà alla vostra parola e la osserverà? E lo Spirito Santo è forse separato da Voi e dal Padre? Forse il Padre e il Figlio con lo Spirito Santo si muovono e discendono nell’anime dei giusti? Dio non è Egli immenso e perciò dovunque? Come può esso entrare ed uscire, avvicinarsi o allontanarsi da un’anima? Dio è immenso e immutabile e perciò è dovunque con la sua presenza, con la sua azione e con la sua stessa essenza. Immaginare che Dio vada e venga, entri ed esca da un’anima, è cosa indegna di Dio, che ripugna alla sua infinita perfezione e se noi usiamo questo linguaggio, e l’usano i Libri santi, è per la debolezza e povertà estrema del nostro linguaggio istesso e dei nostri concetti, che non possono sollevarsi sino a conoscere Dio nella sua natura: ma ciò che la lingua dice in modo tanto imperfetto, corregga tosto la mente sorretta dalla fede. O Cristiano! Dio è dovunque con la sua essenza: lo sai, lo credi; ma è pur vero che non è dovunque con la sua fede e con la sua grazia. Tu mi dici: “Come ciò?” Ascolta e intenderai. Tu conosci per fermo un gran numero di persone, altre vicine, altre lontane: come le conosci tu? Tu le conosci in quantochè la loro immagine, la loro fisionomia, la memoria dei loro atti sono come dipinte nella tua mente e in qualche modo essi stanno dentro di te, come possono stare le cose conosciute nella mente di chi le conosce. Ma vi è un altro modo molto più nobile, con cui le persone e le cose tutte stanno in te. Tu nel tuo pensiero tieni dentro di te le cose e le persone che conosci: ma tu puoi essere esse indifferente e puoi anche odiarle e respingerle. Allora rimangono soltanto nella mente. Ma se tu, contemplandole nella mente le ami, che accade? Dalla mente esse discendono nel tuo cuore, dalle vette del pensiero calano nel santuario della tua volontà e con le funi dell’amore tu stringi a te quelle cose e quelle persone delle quali possiedi il conoscimento e con esse, secondo l’intensità dell’affetto, formi una cosa sola. Allora quelle cose e quelle persone fanno dimora in te, sono in te per forma che tu stesso dici: – Io le tengo qui dentro del mio cuore, le ho nell’anima mia -. Vi stanno per via di cognizione (che è poca cosa) e per forza d’amore, che è tutto. È questa la dottrina di San Tommaso, fondata sulla natura delle cose stesse ed è in questo senso, o dilettissimi, che Gesù Cristo col Padre e con lo Spirito Santo fanno dimora nell’anima del giusto. Voi, o figli, per l’amore portate nei vostri cuori i vostri genitori: e voi, o giusti, per l’amore portate nei vostri cuori Dio stesso, la S. Trinità, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. E per quanto tempo Dio abita nei vostri cuori? Fino a che lo amate e serbate in voi la sua grazia. E quando Dio si parte dalle anime vostre? – Quando cessate di amarlo, quando gli preferite una creatura e donate ad altri il vostro cuore, allora Dio rimane nella vostra mente come conosciuto per ragione o per fede, ma non è più nel vostro cuore, perché più non l’amate e il dolce vincolo che lo stringeva a voi, con il peccato è rotto. Ma di ciò basti e proseguiamo il commento del nostro Vangelo. « Chi me non ama, non osserva la mia parola ». A quelli poi che non credono in me, né mi amano, come potrei far conoscere la mia risurrezione e manifestare me stesso? Essi sono impotenti a ricevere il beneficio della mia manifestazione e la colpa è tutta loro, perché non amano la verità e nulla fanno per averla detta, così Cristo, la mia parola, o mia dottrina, che è la stessa cosa: ma, ponete ben mente, essa più propriamente non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Gesù Cristo riferisce la dottrina sua al Padre come uomo non solo, ma eziandio come Dio. Come uomo, tutto ciò che Gesù Cristo è, fa e dice, tutto appartiene a Dio-Trinità, perché come uomo anch’Egli al pari di noi è creato e tutto riceve dalla divina larghezza: ma anche come Dio, Gesù Cristo deve dire: la mia dottrina ed ogni mia cosa è del Padre, da cui tengo tutto. E perché? Perché da Lui con la generazione eterna ricevo la stessa sua sostanza e tutta la scienza che vi comunico. Perciò la mia parola, o la mia dottrina, è mia ed è del Padre mio: Egli la fonte prima, io il rivo; Egli il sole, io la luce che dal sole emana: tutto ciò che è mio è suo, perché Io e Lui siamo una cosa sola. È questo il significato di quelle parole di Gesù Cristo: « La parola, che avete udita, non è mia, ma di chi mi ha mandato ». E ciò disse Gesù Cristo per sollevare la mente degli Apostoli dalla sua natura umana alla divina e per confortarli in quei momenti di tanta e sì crudele angoscia. E poi, seguitando il discorso, disse: – « Queste cose vi ho ragionate, conversando con voi ». Queste verità, che vi ho annunziate in tutto il tempo, che ho vissuto con voi, le avete udite, ma non sempre, né tutte, né chiaramente le avete comprese: molte sono per voi oscure ed anche al tutto inintelligibili: non vi turbate: fra non molto le comprenderete chiaramente. E chi ve le farà conoscere? « Il Paraclito, od Avvocato, lo Spirito Santo, che il Padre vi manderà nel nome mio, quegli vi insegnerà ogni cosa e vi rammenterà quanto Io vi ho detto ». – Questo Paraclito, che significa Consolatore ed Avvocato, di cui parla Gesù Cristo e che promette ai suoi cari, indubbiamente è Persona, perché è pareggiata a Cristo stesso, ne tiene il luogo, continua l’opera di Lui e dicesi mandato dal Padre, cioè avente origine dal Padre non altrimenti dal Piglio. Onde in questo versetto chiaramente ci si presenta l’augusta Trinità, il Padre, che vi è nominato, il Figlio, Gesù Cristo che parla e lo Spirito Santo, che è mandato dal Padre nel nome di Cristo e che insegnerà ogni verità. Si chiama Paraclito od Avvocato in questo luogo, perché grande era la tristezza degli Apostoli in quei momenti di angosciosa aspettazione e avevano bisogno sommo di conforto e di difesa. Ma come Cristo può dire che il Padre manderà lo Spirito Santo nel suo nome – Quem mittit Pater in nomine meo? – Perché il Padre manda e spira lo Spirito Santo col Figlio, con unico atto a quel modo ch’io col mio intelletto fo col mio conoscimento accendo la fiamma del mio amore: perché la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli avvenne per i meriti di Cristo. Si dice che lo Spirito Santo insegnerà ogni cosa agli Apostoli : – Docebit vos omnia. – Forseché lo Spirito Santo, allorché riempì della sua luce e della sua forza gli Apostoli, insegnò loro tutte le scienze umane e divine? Forseché in quell’istante che ricevettero lo Spirito Santo gli Apostoli conobbero la matematica, la geometria, la fisica, la storia profana, la filosofia, l’astronomia, la geologia e tutte l’altre scienze naturali, di cui l’uman genere ora va meritamente altero? Certamente, no. Cristo venne sulla terra non per insegnarci queste scienze, che entro i loro confini lascia in balìa delle nostre libere discussioni, ma per insegnarci la scienza del Cielo, la scienza di Dio, dell’anima nostra, della salvezza eterna, la scienza che ci rende virtuosi e santi e figli suoi per adozione. Mirabil cosa, o carissimi! Gesù Cristo, Uomo-Dio, conosceva perfettissimamente tutte le scienze naturali, delle quali il mondo ora fa tanto strepito: conosceva quelle senza numero maggiori, che il progresso andrà mano mano scoprendo: eppure nei suoi discorsi che il Vangelo ci ha conservati nel suo insegnamento, che la tradizione ci trasmette, non vi è un solo cenno, una sola parola, che si riferisca a queste scienze naturali che formano l’orgoglio del nostro secolo. Gesù Cristo avrebbe potuto insegnare agli Apostoli almeno alcuni di quei misteri della natura, svelar loro alcune di quelle grandi scoperte, che più tardi scossero il mondo e mutarono la faccia della società. Ricchi di queste scienze e di queste scoperte gli Apostoli avrebbero ricolmato il mondo di stupore, avrebbero tirato a sé gli uomini tutti e compiuto in breve tempo la conquista delle più alte intelligenze. Eppure Gesù Cristo non fece nulla di tutto questo e restrinse tutto il suo insegnamento alle verità di ordine religioso e morale e queste sole volle che gli Apostoli predicassero. È questo, o dilettissimi, tal fatto che non deve passare inosservato e che segna a noi sacerdoti, continuatori dell’opera di Cristo e degli Apostoli, la via che dobbiamo tenere nell’esercizio del nostro ministero. È utile e necessario, che noi sacerdoti conosciamo tutte queste scienze profane e naturali per onore della Chiesa, per la difesa della fede, perché anch’esse ci sollevano a Dio e ne mettono in maggior luce la grandezza; ma non sono queste le scienze che noi dobbiamo portare nel tempio, sulla cattedra di verità, e annunziare ai popoli e né a queste scienze direttamente si estende il magistero della Chiesa e l’assistenza dello Spirito Santo promesso da Cristo. – Docebit vos Omnia -. Queste scienze della natura formano il patrimonio della ragione umana, sono il campo ch’essa può correre liberamente e cogliervi sempre e più belle palme. – Ma è da ritornare al testo evangelico che stiamo interpretando. Non senza ragioni profonde, Cristo disse che lo Spirito Santo avrebbe rammentato agli Apostoli quanto aveva loro detto: Suggeret vobis omnia quæcumque dixero vobis – . Perché disse che avrebbe loro rammentato? Gesù Cristo, nei tre anni della sua vita pubblica, aveva insegnato agli Apostoli tutte o pressoché tutte le verità necessarie alla salvezza delle anime e al governo della Chiesa: ma le avevano essi comprese a dovere? Alcune, sì: ma la maggior parte  erano rimaste nella loro memoria confusamente, ed altre le dovevano avere dimenticate o fraintese. Era dunque necessario rinfrescarne la memoria e chiarirle affinché gli Apostoli se ne facessero i banditori e questa fu l’opera dello Spirito Santo: Egli fu la luce che fece loro leggere, nel fondo dell’anima, ciò che Gesù Cristo vi aveva scritto e ch’essi non discernevano: fu la forza che li rese atti ad annunziarlo intrepidamente al mondo intero. Chi legge il discorso dell’ultima cena di leggieri comprende che non corre tutto legato, come suole essere un discorso formale, se posso usare questa parola. – Gesù Cristo si trattenne in quella sera memoranda parecchie ore con i suoi discepoli: era imminente la sua passione e la sua separazione ed Egli, a così dire, sciolse il freno alla piena dei suoi affetti e versò tutto il suo cuore. Perciò il suo discorso talvolta sembra rotto, muta argomento: ora incoraggia, ora dà consigli, ora promette, ora conforta ed ora prega. È un padre amoroso, che all’atto di separarsi per lungo tempo dai suoi figliuoli moltiplica le raccomandazioni e ripete i saluti. – Qui, quasi interrompendo il discorso, con una espansione dell’anima, che ne lascia vedere il fondo, Gesù Cristo esclama: « Vi lascio la pace; la pace mia do a voi: non come la dà il mondo, Io la do a voi ». Quali espressioni! Quale effusione di cuore! Quale tenerezza in queste parole ripetute! È vero, era questo il saluto ordinario, che si davano gli Ebrei: « La pace sia con te, sia con voi ». Ma qui e per l’occasione solenne, e per la ripetizione e per quelle parole aggiunte – la pace mia -. Non come il mondo la dà, Io la dò a voi – e perché in quel momento non si dipartiva, e soprattutto per l’accento di inesprimibile dolcezza e affocato affetto con cui pronunciò quel saluto, esso ha un significato e una forza tutta propria. Par di vedere Gesù con le palme tese verso i suoi cari, con la fronte velata da una soave e tranquilla mestizia, con gli occhi scintillanti, pieni d’amore e umidi di pianto, versare tutta l’anima sua. – Vi lascio la pace! È l’unica eredità, che vi lascio: essa è l’estremo augurio che vi fo, pegno d’ogni benedizione: pace vera, solida, eterna: pace con Dio, del quale siete figli; pace tra voi che dovete considerarvi ed amarvi come fratelli; pace con tutti, anche con i vostri nemici e persecutori; pace nei vostri cuori. Non è la pace ingannevole e bugiarda del mondo, ma la mia pace, che porta la serenità della mente, la semplicità del cuore, il vincolo dell’amore, il consorzio della carità: pace che custodisce i vostri sensi e le vostre intelligenze e trascende ogni umano concetto. – Deh, carissimi! che questa pace che Cristo porse ai suoi diletti Apostoli, che è figlia della giustizia, compagna della virtù, che allieta i giorni del nostro esilio, che in mezzo ai dolori ci consola e ci rende felici, abiti sempre nelle vostre anime. – Prosegue Gesù svolgendo l’idea della pace e confortando gli Apostoli che, afflitti, scorati e muti, gli facevano corona e dice loro: « Non si turbi il vostro cuore, né si sgomenti ». Queste parole noi pure siamo soliti indirizzare a quelli che soffrono, che sono minacciati di qualche grave sventura: è un conforto, un aiuto che vorremmo dare ai fratelli nostri, che sono posti a qualche dura prova. Esse mostrano il nostro buon cuore ed il desiderio di soccorrerli. Ma, ohimè! Queste parole sulla nostra lingua non sono che un augurio, la espressione d’un desiderio, impotenti come siamo ad infondere in altri la forza e la energia della volontà per vincere la lotta della vita. Ma Gesù, che è Dio, Egli solo fa ciò che dice, e nell’anima di chi confida in Lui e a Lui ricorre, infonde la forza di vincere se stesso, di superare ciò che sul cammino della vita vi si attraversa dinanzi e di comporre in pace le tempeste, che si agitano nel fondo dell’anima nostra. – Egli solo pertanto, con tutta verità, può dire: « Non si turbi il vostro cuore, né si sgomenti ». Voi vi trovate in mezzo a uomini che, odiando me, odiano pur voi, così Cristo; siete come agnelli in mezzo ai lupi e ciò che rende più dolorosa la vostra condizione presente è ch’Io, vostro maestro e vostra guida, me ne vado, cioè vado incontro alla morte e qual morte! Ma nemmeno per questo dovete turbarvi e sgomentarvi e abbandonarvi alla tristezza; perché se vado non rimango; se vado alla morte e morte di croce, risorgerò e ritornerò a voi. – Audistis quia ego dixi vohis: Vado et venio ad vos -. Anzi vi dico che se mi amaste davvero, godreste certamente, perché Io vado al Padre. – Si diligeretìs me, gauderetis utique, quia vado ad Patrem -. Se l’andare e il venire – Vado et venio ad vos di Cristo indicano la sua morte e la sua risurrezione e il suo mostrarsi agli Apostoli, il suo andare al Padre, senza dubbio significa non solo la sua risurrezione ed il suo apparire agli Apostoli, ma l’ascensione sua al cielo. Ancora poche ore, dice Cristo, ed Io morrò e poi risorgerò e me ne andrò al Padre: ancora poche ore e avranno fine i miei dolori, le mie angosce e comincerà una vita di gioie pure, una vita perfettamente beata, che non avrà fine più mai. So che mi amate: ma se mi amate davvero e volete il mio vero bene, lungi dal dolervi della mia andata, della mia morte, dovete rallegrarvi. L’amico che vede partire l’amico per lontano paese, dove sa che sarà felice, ne gode: i figli, che vedono il padre recarsi in remota contrada per riceverne il dominio e cingervi la corona di re, fanno gran festa. E questo dovete fare voi pure con me se mi amate, come veramente mi amate. – Lascio la terra pel Cielo, il luogo d’esilio per la patria vera, il luogo delle umiliazioni e dei dolori per il luogo della gloria e delle delizie: perché non godreste ? Vo al Padre mio, che è nei cieli; Egli è maggiore di me e perciò presso di Lui sarà compiuta la mia felicità. – Ma come il Padre vostro, o Gesù, è maggiore di Voi? Voi e il Padre non siete una sola cosa? Voi non siete nel Padre e il Padre non è in Voi? Non siete consostanziale al Padre e a Lui in ogni cosa perfettamente eguale, come crediamo per fede e Voi stesso tante volte avete insegnato? Come dunque ora ci dite che il Padre è maggiore di Voi? – Gesù Cristo è Dio ed uomo, vero Dio e vero uomo: come Dio Egli è eguale al Padre e perciò il Padre non è maggiore di Lui: ma come uomo Egli non è eguale, ma inferiore al Padre e in questo senso è verissimo il dire che il Padre è maggiore di Lui. E che Gesù abbia chiamato il Padre maggiore di sé in quanto uomo si fa manifesto dalle parole « Vado al Padre » perché l’andare di Gesù al Padre non può riferirsi che alla natura sua umana. Del resto, o dilettissimi, in un senso il Padre si può dire maggiore di Gesù Cristo, anche come Dio, senza che ne riceva offesa la sua divina natura. Come ciò? Il Padre è il Principio senza principio: Egli è la fonte del Figlio e col Figlio è la fonte eziandio dello Spirito Santo: il Padre è il sole e il Figlio è la luce che ne emana: il Padre è la radice, il Figlio è il fiore: per ragione adunque dell’origine il Padre precede il Figlio e in questo senso il Padre si può dire e si dice maggiore del Figlio. Questa dignità di principio che compete al Padre rispetto al Figlio e per la quale il Padre è maggiore del Figlio non toglie che la natura dell’uno e dell’altro sia una sola e comune e perciò vi sia tra loro perfetta ed assoluta eguaglianza. – Il sole e la luce hanno una sola natura, sono una cosa sola, ma il sole nella nostra mente è principio e causa della luce e non questa di quello: la natura e la vita della radice e del fiore è una sola, comune all’uno e all’altra; ma noi pensiamo prima alla radice e poi al fiore, perché questo germoglia da quella e perciò una cotal dignità maggiore, non per diversità di natura, ma di ordine e di origine, spetta alla radice sul fiore, al sole sulla luce. Così il Padre si può dire maggiore del Figlio, rimanendo perfetta la loro eguaglianza secondo natura. – Gesù Cristo, sempre inteso a rassodare la fede degli Apostoli nella sua Persona divina, perché è questa la base incrollabile del suo insegnamento e il motivo supremo del loro conforto, accenna alla nuova prova che ne avranno tra breve nell’adempimento fedele delle sue parole e soggiunge: « Ve l’ho detto prima che avvenga, acciocché, quando sia avvenuto, crediate ». Egli ha predetto la sua morte, la sua risurrezione ed altre cose particolari, che gli Apostoli avrebbero veduto con i loro occhi e toccato con le loro mani e che nessuno umanamente poteva prevedere con certezza: vedendo il tutto perfettamente adempito, che cosa dovevano necessariamente conchiuderne? Ch’Egli vedeva il futuro come il presente: che alle sue parole si doveva credere, perché non erano le parole d’un uomo, ma sì del Figliuol di Dio, come chiaramente affermava d’essere. Era qui il fondamento sicuro della fede degli Apostoli ed è qui pure il fondamento della fede nostra, che si appoggia a quella degli Apostoli, come in un edificio una pietra poggia sull’altra e tutte sulla prima, che ne è il fondamento. La certezza nostra, che abbiamo tanti secoli dopo gli Apostoli, è la certezza stessa degli Apostoli, perché legati con essi mercé una successione non mai interrotta, con essi formiamo una cosa sola, come le pietre d’un edificio tra loro congiunte formano un solo tutto. « Già non parlerò quasi più con voi », soggiunse Cristo, girando gli occhi sugli Apostoli e queste parole le dovette pronunciare con un accento di tenerezza insolita e forse con voce commossa e accrebbero sul volto dei suoi cari quella nube di mestizia, che vedevasi dipinta. Era un dir loro in altra forma: Ho finito l’opera mia: me ne vado: l’ora della separazione, della mia morte è vicina, è giunta. « Perché il principe di questo mondo viene ». Ma chi è, o amabile Gesù, il principe di questo mondo? Non siete Voi il Figlio di Dio, quel Verbo stesso, per il quale furono create tutte le cose? Non avete Voi detto che ogni potere vi è dato in Cielo ed in terra? Non siete il padrone assoluto d’ogni cosa? Come dunque dite che vi è un altro, che è principe di questo mondo, che viene contro di Voi? Chi è desso? – Gesù Cristo, perché Dio, è solo e vero Signore del Cielo e della terra. Ma vi è un altro, il quale, permettendolo Lui per gli altissimi fini della sua sapienza e bontà, ha invaso il suo regno, tenta usurpargli il suo dominio e muove contro di Lui stesso. È quello che chiamasi principe delle tenebre, seduttore e tentatore, che si designa col nome di maligno o demonio. Egli aperse la rivolta contro l’Uomo Dio in Cielo e l’ha portata sulla terra; egli lo odia ferocemente, perché fu la pietra, in cui urtò la sua superbia e n’ebbe rotte le tempia: perché a Lui uomo, e perciò inferiore per natura, dovette piegare il ginocchio, essendo anche suo Dio e suo Creatore. Lo odia e perciò muove contro di Lui la Sinagoga, i capi del popolo, Giuda e quanti sono satelliti suoi, per levarlo dalla terra e spegnere sul nascere il regno di Lui. La espressione, – Principe di questo mondo – cioè dei malvagi, indica la potenza del maligno, che pur troppo è grande: ma per quanto sia grande è pur sempre limitata entro quei confini, che Dio ha posto e che gli consente per il trionfo dei buoni e per la gloria loro e sua. Questa potenza del maligno deve pur sempre arrestarsi sulle soglie della libertà umana, la quale sorretta com’è sempre dal soccorso della grazia per chi debitamente la vuole, può resistere a qualsiasi più furioso assalto. Finalmente la scienza e la ragione istessa ci mostrano che in questo immenso e tremendo duello tra Cristo e il Principe di questo mondo la vittoria piena e definitiva sarà per Cristo e per quelli che lo seguono. Fidenti pertanto in Cristo, seguiamolo animosamente e con Lui e per Lui avremo parte alla finale vittoria. – Il Principe di questo mondo venga pure contro di me con tutti i suoi satelliti, mi uccida puranco: ma egli non troverà in me ombra di colpa e perciò, lungi dallo stendere sopra di me il tirannico suo dominio, perderà quello pure che tiene sugli uomini, perché Io soddisferò per essi e glieli strapperò di mano a prezzo del mio sangue, e così il mondo conoscerà qual sia l’amor mio verso del Padre: amore, che mi conduce a fare il suo volere fino alla morte. – Carissimi! Su questo gran campo di battaglia, che è la terra, un solo vinse e atterrò per sempre il Principe del mondo, l’autore del male, ed è Gesù Cristo; Egli solo lo vinse e lo atterrò per virtù propria. Vogliamo che la vittoria di Lui sia comunicata a noi, a ciascuno di noi? Non vi è che un mezzo: per fede e per carità operosa uniamoci a Gesù Cristo, facciamo con Lui una sola cosa, e la sua vittoria diventerà nostra.

Credo

Offertorium

Orémus – Ps LXVII:29-30

Confírma hoc, Deus, quod operátus es in nobis: a templo tuo, quod est in Jerúsalem, tibi ófferent reges múnera, allelúja. [Conferma, o Dio, quanto hai operato in noi: i re Ti offriranno doni per il tuo tempio che è in Gerusalemme, allelúia].

Secreta

Múnera, quæsumus, Dómine, obláta sanctífica: et corda nostra Sancti Spíritus illustratióne emúnda. [Santifica, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che Ti vengono offerti, e monda i nostri cuori con la luce dello Spirito Santo]. Communio Acts II:2; II:4 Factus est repénte de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis, ubi erant sedéntes, allelúja: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, loquéntes magnália Dei, allelúja, allelúja. [Improvvisamente, nel luogo ove si trovavano, venne dal cielo un suono come di un vento impetuoso, allelúia: e furono ripieni di Spirito Santo, e decantavano le meraviglie del Signore, alleluja, alleluja.]

Communio Acts II:2; II:4

Factus est repénte de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis, ubi erant sedéntes, allelúja: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, loquéntes magnália Dei, allelúja, allelúja. [Improvvisamente, nel luogo ove si trovavano, venne dal cielo un suono come di un vento impetuoso, allelúia: e furono ripieni di Spirito Santo, e decantavano le meraviglie del Signore, alleluja, alleluja.]

Postcommunio

Orémus.

Sancti Spíritus, Dómine, corda nostra mundet infúsio: et sui roris íntima aspersióne fecúndet. [Fa, o Signore, che l’infusione dello Spirito Santo purifichi i nostri cuori, e li fecondi con l’intima aspersione della sua grazia] .