IL CATECHISMO DI BALTIMORA 3 (I) – Lez. 1-4

IL CATECHIAMO DI BALTIMORA (I)

[Dal terzo Concilio generale di Baltimora

Versione 1891]

Lezioni 1-4

LEZIONE 1

SUL FINE DELL’UOMO

 (Nota: la domanda n. 126 è l’inizio corretto del Catechismo di Baltimora n. 3)

D. 126. Che cosa intendiamo per “fine dell’uomo”?

R. Per “fine dell’uomo” intendiamo lo scopo per cui l’uomo è stato creato, cioè: conoscere, amare e servire Dio.

D. 127. Come si sa che l’uomo è stato creato solo per Dio?

R. Si sa che l’uomo è stato creato per Dio solo, perché tutto nel mondo è stato creato per qualcosa di più perfetto di sé: ma non c’è nulla al mondo più perfetto dell’uomo; perciò, egli fu creato per qualcosa che è al di fuori di questo mondo, e dal momento che non fu creato per gli Angeli, doveva essere stato creato solo per Dio.

D. 128. In che senso tutti gli uomini sono uguali?

R. Tutti gli uomini sono uguali in tutto ciò che riguarda la loro natura ed il loro fine. Sono tutti composti infatti da un corpo e da un’anima; sono tutti creati ad immagine e somiglianza di Dio; sono tutti dotati di comprensione e di libero arbitrio; e tutti sono stati creati per il medesimo fine: Dio.

D. 129. Gli uomini non differiscono tra loro in molte cose?

R. Gli uomini differiscono tra loro n molte cose, come l’apprendimento, la ricchezza, il potere, ecc.; ma tutte queste cose appartengono al mondo e non alla natura dell’uomo. Egli è venuto in questo mondo senza di esse e lo lascerà pure senza di esse. Solo le opere fatte in questo mondo nel bene o nel male, accompagneranno gli uomini nel mondo futuro.

D. 130. Chi ha creato il mondo?

R. È Dio che ha creato il mondo!

D. 131. Che cosa si intende per “mondo” in questa domanda?

R. In questa domanda “mondo” significa l’universo, cioè l’intera creazione: tutto ciò che vediamo ora o che si potrà vedere in futuro.

D. 132. Chi è Dio?

R. Dio è il Creatore del cielo, della terra e di tutte le cose.

D. 133. Chi è l’uomo?

R. L’uomo è una creatura composta da un corpo e da un’anima e creata ad immagine e somiglianza di Dio.

D. 134. “L’uomo” nel Catechismo significa tutti gli esseri umani?

R. “Uomo” nel Catechismo significa effettivamente tutti gli esseri umani, uomini o donne, giovani, vecchi o bambini.

D. 135. Che cos’è una creatura?

R.  Una creatura è qualsiasi cosa creata, che abbia o meno vita, un corpo o nessun corpo. Ogni essere, persona o cosa, eccetto Dio stesso, può essere chiamato “creatura”.

D. 136. Questa somiglianza [dell’uomo a Dio] è nel corpo o nell’anima?

R. Questa somiglianza dell’uomo a Dio, è principalmente nell’anima.

D. 137. In che modo l’anima è simile a Dio?

R. L’anima è simile a Dio perché è uno spirito che non morirà mai, e ha comprensione e libero arbitrio.

D. 138. Ogni cosa invisibile è uno spirito?

R. Ogni spirito è invisibile. il che significa che non può essere visto; ma ogni cosa invisibile non è uno spirito. Il vento è invisibile e non è uno spirito.

D. 139. Uno spirito possiede altre qualità?

R. Uno spirito è anche indivisibile; cioè non può essere diviso in parti, così come dividiamo le cose materiali.

D. 140. Che cosa significano le parole “non morirà mai”?

R. Con le parole “non morirà mai” intendiamo che l’anima, una volta creata, non cesserà mai di esistere, qualunque sia la sua condizione nel prossimo mondo. Quindi diciamo che l’anima è immortale o dotata dell’immortalità.

D. 141. Perché allora diciamo che un’anima è morta mentre si trova in uno stato di peccato mortale?

R. Diciamo che un’anima è morta mentre si trova in uno stato di peccato mortale, perché in quello stato è impotente come un corpo morto, e non può meritare nulla per se stessa.

D. 142. Che cosa significa la nostra “comprensione”?

R. La nostra “comprensione” significa il “dono della ragione”, mediante il quale l’uomo si distingue da tutti gli altri animali e per mezzo del quale ha la possibilità di pensare e quindi di acquisire la conoscenza onde regolare le sue azioni.

D. 143. Possiamo imparare tutte le verità solo mediante la nostra ragione?

R. Noi non possiamo imparare tutte le verità solo con la nostra ragione, poiché alcune verità sono al di là del potere di comprensione della nostra ragione e ci devono essere pertanto insegnate da Dio.

D. 144. Come chiamiamo le verità che Dio ci insegna?

R. Presa nel loro insieme, chiamiamo le verità che Dio ci insegna: rivelazione, e chiamiamo rivelazione anche il modo in cui Egli le insegna.

D. 145. Che cos’è il “libero arbitrio”?

R. “Il libero arbitrio” è quel dono di Dio mediante il quale abbiamo la possibilità di scegliere tra una cosa e l’altra, di fare il bene o il male nonostante la ricompensa o la punizione.

D. 146. Gli animali bruti hanno la “comprensione” e il “libero arbitrio”?

R. Gli animali bruti non hanno “comprensione” né “libero arbitrio”. Non hanno “comprensione” perché non cambiano mai le loro abitudini né migliorano le loro condizioni. Non hanno “libero arbitrio” perché non lo dimostrano mai nelle loro azioni.

D. 147. Quale dono negli animali supplisce in luogo della ragione?

R. Il dono dell’ “istinto” supplisce negli animali a guidare le loro azioni in luogo della ragione.

D. 148. Che cos’è l’istinto?

R. “L’istinto” è un dono mediante il quale tutti gli animali sono spinti a seguire le leggi e le abitudini che Dio ha dato alla loro natura.

D. 149. Gli uomini bruti hanno un’ “istinto”?

R. Gli uomini hanno anch’essi un “istinto” e lo mostrano quando si trovano improvvisamente nel pericolo, e non hanno quindi il tempo di usare la loro ragione. Un uomo che cade improvvisamente, ad esempio, afferra qualcosa per sostenersi.

D. 150. Perché Dio ti ha creato?

R. Dio ha fatto in modo che lo conoscessi, per poterlo così amare e servire in questo mondo ed essere felice con Lui per sempre nel mondo prossimo.

D. 151. Perché è necessario conoscere Dio?

R. È necessario conoscere Dio perché senza conoscerlo non possiamo amarlo; e senza amarlo non possiamo essere salvati. Dovremmo conoscerlo perché è infinitamente vero; amarlo perché è infinitamente bello; e servirlo perché è infinitamente buono.

D. 152. Di cosa dobbiamo prenderci maggiormente cura, della nostra anima o del nostro corpo?

R. Dobbiamo prenderci cura della nostra anima più che del nostro corpo.

D. 153. Perché dobbiamo prenderci cura della nostra anima più che del nostro corpo?

R. Dobbiamo prenderci cura della nostra anima più che del nostro corpo, perché perdendo la nostra anima, perdiamo Dio e la felicità eterna.

D. 154. Che cosa dobbiamo fare per salvare le nostre anime?

R. Per salvare le nostre anime, dobbiamo adorare Dio mediante la fede, la speranza e la carità; cioè, dobbiamo credere in Lui, sperare in Lui e amarlo con tutto il cuore.

D. 155. Che cosa significa “culto”?

R. “Culto” significa dare onore divino con azioni quali l’offerta di preghiere o di sacrifici.

D. 156. Come possiamo conoscere le cose a cui dobbiamo credere?

R. Conosciamo le cose alle quali dobbiamo credere, dalla Chiesa Cattolica, attraverso la quale Dio ci parla.

D. 157. Che cosa intendiamo per “Chiesa, attraverso la quale Dio ci parla”?

R. Con “Chiesa, attraverso la quale Dio ci parla”, intendiamo la “Chiesa docente”, che insegna, e cioè: il Papa, i Vescovi e i sacerdoti, il cui compito è quello di istruirci nelle verità e nelle pratiche della nostra religione.

D. 158. Dove troveremo le principali verità che la Chiesa insegna?

R. Troveremo le principali verità che la Chiesa insegna nel Credo degli Apostoli.

D. 159. Se troveremo solo le “principali verità” nel Credo degli Apostoli, dove troveremo le restanti verità?

R. Troveremo le restanti verità della nostra fede negli scritti religiosi e nei discorsi approvati dall’autorità della Chiesa.

D. 160. Nomina alcune verità sacre non menzionate nel Credo degli Apostoli.

R. Nel Credo degli Apostoli non si fa menzione della presenza reale di Nostro Signore nella Santa Eucaristia, né dell’infallibilità del Papa, né dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, né di alcune altre verità che siamo obbligati a credere

D. 161. Recita il Credo degli Apostoli.

R. Io credo in Dio, Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra; e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore; che fu concepito dallo Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, soffrì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso; morì e fu sepolto. Discese agl’inferi: il terzo giorno risuscitò dai morti: salì al cielo, si è seduto alla destra di Dio, Padre onnipotente: da lì verrà per giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito Santo, nella Santa Chiesa cattolica, nella comunione dei santi, nella remissione dei peccati, nella risurrezione dei corpi e nella vita eterna. Amen.

LEZIONE 2 –

DIO E LE SUE PERFEZIONI

D. 162. Che cos’è una perfezione?

R. Una perfezione è la somma delle buone qualità che una cosa dovrebbe avere. Una cosa è perfetta quando ha tutte le buone qualità che dovrebbe avere.

D. 163. Che cos’è Dio?

R. Dio è uno spirito infinitamente perfetto.

D. 164. Che cosa intendiamo quando diciamo che Dio è “infinitamente perfetto”?

R. Quando diciamo che Dio è “infinitamente perfetto” intendiamo che non vi sono misure o limiti alla sua perfezione; poiché Egli possiede tutte le buone qualità nel più alto grado possibile e Lui solo è “infinitamente perfetto”.

D. 165. Dio ha avuto un inizio?

R. Dio non ha avuto inizio; Egli è sempre stato e lo sarà sempre.

D. 166. Dov’è Dio?

R. Dio è ovunque

D. 167. E come Dio è ovunque?

R. Dio è dappertutto completo ed intero in qualsiasi posto. Questo è vero e dobbiamo crederci, anche se non possiamo capirlo.

D. 168. Se Dio è ovunque, perché non lo vediamo?

R. Non vediamo Dio, perché è un puro spirito e non può essere visto con gli occhi del corpo.

D. 169. Perché chiamiamo Dio “spirito puro”?

R. Chiamiamo Dio puro spirito perché non ha un corpo. La nostra anima è uno spirito, ma non uno spirito “puro”, perché è stato creato per essere unito al nostro corpo.

D. 170. Perché non possiamo vedere Dio con gli occhi del nostro corpo?

R. Non possiamo vedere Dio con gli occhi del nostro corpo perché essi sono creati per vedere solo le cose materiali, e Dio non è materiale. bensì spirituale.

D. 171. Dio ci vede?

R. Dio ci vede e veglia su di noi

D. 172. È necessario che Dio vegli su di noi?

R. È necessario che Dio vegli su di noi, poiché senza la sua costante cura noi non potremmo esistere.

D. 173. Dio conosce tutto?

R. Dio conosce tutte le cose, anche i nostri pensieri, le parole e le azioni più segrete.

D. 174. Dio può fare tutto?

R. Dio può fare tutte le cose, e nulla è difficile o impossibile per Lui.

D. 175. Quando una cosa è detta “impossibile”?

R. Una cosa è detta “impossibile” quando non può essere eseguita. Molte cose che sono impossibili per le creature, sono invece possibili per Dio.

D. 176. Dio è giusto, santo e misericordioso?

R. Dio è tutto giusto, tutto santo, tutto misericordioso, così come è infinitamente perfetto.

D. 177. Perché Dio deve essere “giusto” e “misericordioso”?

R. Dio deve essere altrettanto misericordioso perché deve adempiere la Sua promessa di punire coloro che meritano la punizione, e perché Egli non può essere infinito in una perfezione senza essere infinito in tutto.

D. 178. In quali peccati ci condurrà l’oblio della giustizia di Dio?

R. L’oblio della giustizia di Dio ci poterà al peccato di presunzione.

D. 179. In quale peccato ci porterà l’oblio della misericordia di Dio?

R. L’oblio della misericordia di Dio ci condurrà nel peccato di disperazione.

LEZIONE 3 –

L’UNITÀ E LA TRINITÀ DI DIO

180. Che cosa significa “unità” e cosa significa “trinità”?

R. “Unità” significa essere uno; “trinità” significa essere triplice o tre in uno.

D. 181. Possiamo trovare un esempio per illustrare pienamente il mistero della Beata Trinità?

R. Non possiamo trovare un esempio per illustrare pienamente il mistero della Trinità Santissima, perché i misteri della nostra santa Religione sono al di là di qualsiasi raffronto.

D. 182. Esiste un solo Dio?

R. Sì; c’è un solo Dio.

D. 183. Perché può esserci un solo Dio?

R. Può esserci un solo Dio perché Dio, essendo supremo e infinito, non può avere un uguale. 

D. 184. Che cosa significa “supremo”?

R. “Supremo” significa il massimo grado di autorità; ed anche il più eccellente o il più grande possibile in qualsiasi cosa. Quindi in tutte le cose Dio è supremo, e nella Chiesa supremo è il Papa.

D. 185. Quando due persone sono considerate uguali?

R. Si dice che due persone sono uguali quando l’una non è in alcun modo più grande o inferiore all’altra.

D. 186. Quante persone ci sono in Dio?

R. In Dio ci sono tre Persone divine, veramente distinte ed uguali in tutte le cose: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

D. 187. Che cosa significano “divino” e “distinto”?

R. “Divino” significa pertinente a Dio e “distinto” significa separato; cioè, non è confuso o mescolato con qualsiasi altra cosa.

D. 188. Il Padre è Dio?

R. Il Padre è Dio e la prima Persona della Santissima Trinità. 

D. 189. Il Figlio è Dio?

R. Il Figlio è Dio ed è la seconda Persona della Santissima Trinità.

D. 190. Lo Spirito Santo è Dio?

R. Lo Spirito Santo è Dio ed è la terza Persona della Santissima Trinità.

D. 191. “Primo”, “secondo” e “terzo” riguardo alle Persone della Santissima Trinità significa che una Persona esisteva prima dell’altro o che l’una era superiore dell’altra?

R. “Primo”, “secondo” e “terzo” riguardo alle Persone della Santissima Trinità non significa che una Persona sia precedente all’altra o che una sia più grande dell’altra; poiché tutte le Persone della Trinità sono eterne e uguali sotto ogni aspetto. Questi numeri sono usati per marcare la distinzione tra le Persone e mostrano l’ordine in cui l’una procede dall’altra.

D. 192. Cosa intendi con la Santissima Trinità?

R. Per Santissima Trinità intendo un Dio in tre Divine Persone. 

D. 193. Le tre Persone divine sono uguali in tutte le cose?

R. Le tre Persone divine sono uguali in tutte le cose.

D. 194. Le tre Persone Divine sono lo stesso Dio?

R. Le tre Persone divine sono un unico e medesimo Dio, hanno la stessa natura divina e la stessa sostanza.

D. 195. Che cosa intendiamo per “natura” e “sostanza” di una cosa?

R. Per “natura” di una cosa, intendiamo la combinazione di tutte le qualità che rendono quella cosa ciò che essa è. Per “sostanza” di una cosa, intendiamo la parte che non cambia mai e che non può essere cambiata senza distruggere la natura della cosa stessa.

D. 196. Possiamo comprendere appieno come le tre Divine Persone siano un unico e unico Dio?

R. Noi non possiamo comprendere appieno come le tre Divine Persone siano un unico e medesimo Dio, perché questo è un mistero.

D. 197. Che cos’è un mistero?

R. Un mistero è una verità che non riusciamo a comprendere pienamente.

D. 198. Ogni verità che non possiamo comprendere è dunque un mistero?

R. Ogni verità che non possiamo capire non è un mistero; ma ogni verità rivelata che nessuno può capire è un mistero.

D. 199. Dovremmo credere a verità che non possiamo capire?

R. Dovremmo e spesso crediamo a verità che non possiamo capire, quando abbiamo la prova della loro esistenza.

D. 200. Fai un esempio di verità che tutti credono, anche se molti non le capiscono.

R. Tutti credono che la terra sia rotonda e in movimento, sebbene molti non lo capiscano. Tutti credono che un seme piantato nel terreno produrrà un fiore o un albero spesso con più di un migliaio di altri semi uguali a se stesso, sebbene molti non possano capire come questo avvenga.

D. 201. Perché una religione divina ha dei misteri?

R. Una religione divina deve avere dei misteri perché deve avere verità soprannaturali che Dio stesso deve insegnare loro. Una religione che ha solo verità naturali, che l’uomo cioè con la sola sua ragione può conoscere, comprendere e insegnare pienamente, è soltanto una religione umana.

D. 202. Perché Dio ci chiede di credere ai misteri?

R. Dio ci chiede di credere ai misteri perché possiamo sottomettere a Lui la nostra comprensione.

D. 203. Con quale forma di preghiera lodiamo la Santa Trinità?

R. Lodiamo la Santissima Trinità con una preghiera chiamata Dossologia, che è giunta fino a noi fin quasi dal tempo degli Apostoli.

D. 204. Dì la dossologia.

R. La dossologia è: “Gloria al Padre, e al Figlio e allo Spirito Santo, come era in principio, è ora e sempre lo sarà, nei secoli dei secoli. Amen”.

D. 205. Esiste qualche altra forma di dossologia?

R. Esiste pure un’altra forma della dossologia, che si dice durante la celebrazione della Messa. Essa si chiama “Gloria in excelsis” o “Gloria a Dio nell’alto”, ecc., e queste sono le parole cantate dagli Angeli alla nascita di Nostro Signore.

LEZIONE 4 –

SULLA CREAZIONE

D. 206. Qual è la differenza tra fare e creare?

R. “Fare” significa produrre o formarsi da un materiale già esistente, come fanno gli operai. “Creare” significa tirar fuori dal nulla, come Dio solo può fare.

D. 207. È stato creato tutto ciò che esiste?

R. Tutto ciò che esiste, tranne Dio stesso, è stato creato.

D. 208. Chi ha creato il cielo e la terra e tutte le cose?

R. Dio ha creato il cielo e la terra e tutte le cose.

D. 209. Da cosa apprendiamo che Dio ha creato il cielo e la terra e tutte le cose?

R. Impariamo che Dio ha creato il cielo e la terra ed ogni cosa, dalla Bibbia o dalla Sacra Scrittura, in cui è dato il resoconto della Creazione.

D. 210. Perché Dio ha creato tutte le cose?

R. Dio ha creato tutte le cose per la sua stessa gloria e per il loro o nostro bene.

D. 211. Dio ha lasciato tutto a se stesso dopo averli creati?

R. Dio non ha lasciato tutte le cose a se stesse dopo averle create; Continua a preservarle e governarle.

D. 212. Come chiamiamo la cura con cui Dio preserva e governa il mondo e tutto ciò che contiene?

R. Chiamiamo la cura con cui Dio preserva e governa il mondo e tutto ciò che contiene: sua Provvidenza.

D. 213. In che modo Dio creò il cielo e la terra?

R. Dio ha creato il cielo e la terra dal nulla solo con la sua parola; cioè, con un singolo atto della sua onnipotente volontà.

D. 214. Quali sono le principali creature di Dio?

R. Le principali creature di Dio sono gli Angeli e gli uomini.

D. 215. Come possono essere divise le creature di Dio sulla terra?

R. Le creature di Dio sulla terra possono essere divise in quattro classi:
1. Cose che esistono, come l’aria;

2. Cose che esistono, crescono e vivono, come piante e alberi;

3. Cose che esistono, crescono, vivono e sentono, come animali;

4. Cose che esistono, crescono, vivono, sentono e capiscono, come l’uomo.

D. 216. Cosa sono gli Angeli?

R. Gli Angeli sono puri spiriti senza corpo, creati per adorare e godere Dio in cielo.

D. 217. Se gli angeli non hanno corpi, come potrebbero apparire?

R. Gli Angeli potrebbero apparire prendendo i corpi per rendersi visibili per qualche tempo; proprio come lo Spirito Santo prese la forma di una colomba e il diavolo prese la forma di un serpente.

D. 218. Ricordami alcune persone a cui sono apparsi gli Angeli.

R. Angeli apparvero alla Beata Vergine e a San Giuseppe; anche ad Abramo, Lot, Giacobbe, Tobia e altri.

D. 219. Gli Angeli furono creati per altri scopi?

R. Gli Angeli furono anche creati per assistere e servire Dio davanti al suo trono; essi sono stati spesso inviati come messaggeri da Dio all’uomo; e sono anche nominati nostri guardiani.

D. 220. Tutti gli Angeli sono uguali in dignità?

R. Tutti gli Angeli non sono uguali in dignità. Ci sono nove cori o classi menzionate nella Sacra Scrittura. I più alti sono chiamati Serafini mentre i più bassi semplicemente Angeli. Gli Arcangeli sono una classe superiore agli Angeli ordinari.

D. 221. Menziona alcuni Arcangeli e racconta quello che hanno fatto.

R. L’Arcangelo Michele cacciò satana dal cielo; l’Arcangelo Gabriele annunciò alla Beata Vergine che sarebbe diventata la Madre di Dio. L’Arcangelo Raffaele guidò e protesse Tobia.

D. 222. Gli Angeli furono mai mandati a punire gli uomini?

R. A volte gli Angeli venivano inviati per punire gli uomini. Un Angelo uccise 185.000 uomini dell’esercito di un re malvagio che aveva bestemmiato Dio; un Angelo uccise anche il primogenito nelle famiglie degli egiziani che avevano perseguitato il popolo di Dio.

D. 223. Che cosa fanno per noi i nostri Angeli custodi?

R. I nostri Angeli custodi pregano per noi, ci proteggono, ci guidano, e offrono le nostre preghiere, le buone opere e i desideri a Dio.

D. 224. Come sappiamo che gli Angeli offrono le nostre preghiere e le buone opere a Dio?

R. Sappiamo che gli Angeli offrono le nostre preghiere e le buone opere a Dio perché è così affermato nella Sacra Scrittura e la Sacra Scrittura è la Parola di Dio.

D. 225. Perché Dio dispose che gli Angeli custodi ci proteggessero?

R. Dio ha nominato gli Angeli custodi per assicurarci il loro aiuto e le nostre preghiere, e anche per mostrare il Suo grande amore per noi nel darci questi servitori speciali e amici fedeli.

D. 226. Gli Angeli, come Dio li ha creati, erano buoni e felici?

R. Gli Angeli, come Dio li ha creati, erano buoni e felici.

D. 227. Tutti gli Angeli sono rimasti buoni e felici?

R. Non tutti gli Angeli sono rimasti buoni e felici; molti di loro peccarono e furono gettati nell’inferno, e questi sono chiamati diavoli o angeli cattivi.

D. 228. Conosciamo il numero di Angeli buoni e cattivi?

R. Non conosciamo il numero degli Angeli buoni o cattivi, ma sappiamo che è molto grande.

D. 229. Qual era il nome del diavolo prima che cadesse, e perché fu cacciato dal cielo?

R. Prima di cadere, satana, o il diavolo, era chiamato Lucifero, o portatore di luce, un nome che indica una grande bellezza. Fu cacciato dal cielo perché per orgoglio si ribellò a Dio.

D. 230. Come agiscono i Cattivi Angeli nei nostri confronti?

R. I cattivi Angeli cercano con ogni mezzo di condurci al peccato. Gli sforzi che compiono sono chiamati “tentazioni del diavolo”.

D. 231. Perché il diavolo ci tenta?

R. Il diavolo ci tenta perché odia la bontà e non desidera che godiamo la felicità che lui stesso ha perso.

D. 232. Possiamo noi con il nostro potere superare le tentazioni del diavolo?

R. Noi non possiamo, con il nostro potere, vincere le tentazioni del diavolo, perché il diavolo è più scaltro di noi; poiché, essendo un Angelo, è più intelligente e non ha perso la sua intelligenza cadendo nel peccato più di quanto faccia ora. Pertanto, per superare le sue tentazioni abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio.

IL CATECHISMO DI BALTIMORA 3 (II) – Lez. 5-7

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: UNAM SANCTAM

A chi legge questa bolla, senza conoscerne l’anno di promulgazione, sembra che essa sia stata scritta per i giorni nostri, giorni di totale apostasia religiosa sia civile che ecclesiastica [… o meglio finto-ecclesiastca]. Si ribadiscono, con poche parole, dei princîpi essenziali della fede cristiana, diremmo elementari: la Chiesa, come l’arca di Noè, unica possibilità di salvezza nel diluvio di fuoco del giorno del Giudizio, la Chiesa UNA, non certo ecumenica, come si blatera nelle sette eretiche del novus ordo, dei protestanti e degli acattolici orientali, tutti prostrati agli ordini della kazaro-massoneria mondialista; Chiesa “UNA” è la Chiesa di Cristo affidata a Pietro ed ai suoi successori, quelli veri, non certo ai pupazzi-pulcinella, ai marrano-burattini succedutisi dal 1958 in poi; e questo appare fondamentale proprio da questa straordinaria bolla, quando appunto afferma che: “Porro subesse Romano Pontifici omni humanæ creaturæ declaramus, dicimus, definimus et pronuntiamus omnino de necessitate salutis” – “… noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo ed affermiamo che è assolutamente necessario per la salvezza di ogni creatura umana che essa sia sottomessa al Pontefice di Roma“. Per salvarsi dunque, non basta praticare uno pseudomisticismo sentimentaloide, un neo-montanismo che si richiami ad un personale “spirito” (???) ispiratore, o un falso devozionismo non accompagnato dalla sottomissione alle leggi della Chiesa, che è Cristo stesso, suo Capo, sua volontà dichiarata, “… non chi dice Signore, Signore, si salverà, etc. …” (Matt. VII), ma bisogna assolutamente essere sottomessi al Sommo Pontefice, quello vero, come ad es. al Pontefice eletto il 26 ottobre del 1958 ed al suo successore, seppur prigioniero o relegato in una catacomba. Aderire o sottomettersi a chiunque altro, anche alle controfigure o a figuranti lupi-mascherati, non salva, tutt’altro, [diceva già ai suoi tempi San Cipriano che: “… chi aderisce ad un falso vescovo di Roma, è fuori dalla Chiesa … cioè fuori dalla salvezza! – … figuriamoci i fallibilisti scismatici, i sedevacantisti autonomi …) e quindi … si naufragherà miseramente, irrimediabilmente ed eternamente, pensando di essere oltretutto in una botte di ferro [che diventerà presto incandescente!]. Inoltre c’è da meditare circa il primato del potere spirituale su quello civile e politico come riportato in bolla da Bonifacio VIII, il Papa odiato dal marrano “fraticello”, l’omo-sex Dante Alighieri, il “divin copione” che riproduceva testi arabi, rivestendoli dell’idioma toscano e tramutandoli in “versi strani” per chi non avesse compreso il loro substrato gnostico ed anticattolico … e questo spiega anche perché parteggiasse per l’imperatore … Tornando alla bolla del Papa tanto vituperato, e ingiustamente, in vita e dopo la sua morte dai servi del “nemico di Dio e di tutti gli uomini”, riteniamo che essa sia oggi, 2018, un documento  più che mai attuale, ultimo richiamo del tipo “ … signori si parte, salite in carrozza, presto … non ne passerà un’altra …”. Affrettiamoci allora a conformarci ad essa e, con la grazia di Dio, potremmo viaggiare con una certa sicurezza verso la meta finale: la eterna felicità promessa a chi … farà la volontà del Padre mio [… e del suo Vicario, … il che è lo stesso!] (Matth. VII).

Unam sanctam

Bolla sul Primato del Papa –

Bonifacio VIII

Unam sanctam Ecclesiam catholicam et ipsam …

Che ci sia una ed una sola Santa Chiesa Cattolica ed Apostolica noi siamo costretti a credere ed a professare, spingendoci a ciò la nostra fede, e noi questo crediamo fermamente e con semplicità professiamo, ed anche che non ci sia salvezza e remissione dei nostri peccati fuori di lei, come lo sposo proclama nel Cantico: “Unica è la mia colomba, la mia perfetta; unica alla madre sua, senza pari per la sua genitrice” [Cant. VI, 8], che rappresenta un corpo mistico, il cui capo è Cristo, e il capo di Cristo è Dio, e in esso c’è “un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” [Efes. IV, 5]. Al tempo del diluvio invero una sola fu l’arca di Noè, raffigurante l’unica Chiesa; era stata costruita da un sola braccio, aveva un solo timoniere e un solo comandante, ossia Noè, e noi leggiamo che fuori di essa ogni cosa sulla terra era distrutta. Questa Chiesa noi veneriamo, e questa sola, come dice il Signore per mezzo del Profeta: “Libera, o Signore, la mia anima dalla lancia e dal furore del cane, l’unica mia” [Ps. XXI, 21]. Egli pregava per l’anima, cioè per Se stesso (per la testa e il corpo nello stesso tempo) il quale corpo precisamente Egli chiamava la sua sola e unica Chiesa, a causa della unità di promessa di fede, sacramenti e carità della Chiesa, ossia “la veste senza cuciture” [Joan. XIX, 23] del Signore, che non fu tagliata, ma data in sorte. Perciò in questa unica e sola Chiesa ci sono un solo corpo ed una sola testa, non due, come se fosse un mostro, cioè Cristo e Pietro, vicario di Cristo e il successore di Pietro; perché il Signore disse a Pietro: “Pasci il mio gregge” [Joan. XXI, 17]. “Il mio gregge” Egli disse, parlando in generale e non in particolare di questo o quel gregge; così è ben chiaro, che Egli gli affidò tutto il suo gregge. Se perciò i Greci od altri affermano di non essere stati affidati a Pietro e ai suoi successori, essi confessano di conseguenza di non essere del gregge di Cristo, perché il Signore dice in Giovanni che c’è un solo ovile, un solo e unico pastore – unum ovile et unicum esse pastorem [Joan. X, 16].

Noi sappiamo dalle parole del Vangelo che in questa Chiesa e nel suo potere ci sono due spade, una spirituale, cioè, ed una temporale, perché, quando gli Apostoli dissero: “Ecco qui due spade” (che significa nella Chiesa, dato che erano gli Apostoli a parlare (il Signore non rispose che erano troppe, ma che erano sufficienti). E chi nega che la spada temporale appartenga a Pietro, ha malamente interpretato le parole del Signore, quando dice: “Rimetti la tua spada nel fodero”. Quindi ambedue sono in potere della Chiesa, la spada spirituale e quella materiale; una invero deve essere impugnata per la Chiesa, l’altra dalla Chiesa; la seconda dal clero, la prima dalla mano di re o cavalieri, ma secondo il comando e la condiscendenza del clero, perché è necessario che una spada dipenda dall’altra e che l’autorità temporale sia soggetta a quella spirituale. Perché quando l’Apostolo dice: “Non c’è potere che non venga da Dio e quelli (poteri) che sono, sono disposti da Dio”, essi non sarebbero disposti se una spada non fosse sottoposta all’altra, e, come inferiore, non fosse dall’altra ricondotta a nobilissime imprese. Poiché secondo san Dionigi è legge divina che l’inferiore sia ricondotto per l’intermedio al superiore. Dunque le cose non sono ricondotte al loro ordine alla pari immediatamente, secondo la legge dell’universo, ma le infime attraverso le intermedie e le inferiori attraverso le superiori. Ma è necessario che chiaramente affermiamo che il potere spirituale è superiore ad ogni potere terreno in dignità e nobiltà, come le cose spirituali sono superiori a quelle temporali. Il che, invero, noi possiamo chiaramente constatare con i nostri occhi dal versamento delle decime, dalla benedizione e santificazione, dal riconoscimento di tale potere e dall’esercitare il governo sopra le medesime, poiché, e la verità ne è testimonianza, il potere spirituale ha il compito di istituire il potere terreno e, se non si dimostrasse buono, di giudicarlo. Così si avvera la profezia di Geremia riguardo la Chiesa e il potere della Chiesa: “Ecco, oggi Io ti ho posto sopra le nazioni e sopra i regni” ecc.

Perciò se il potere terreno erra, sarà giudicato da quello spirituale; se il potere spirituale inferiore sbaglia, sarà giudicato dal superiore; ma se erra il supremo potere spirituale, questo potrà essere giudicato solamente da Dio e non dagli uomini; del che fa testimonianza l’Apostolo: “L’uomo spirituale giudica tutte le cose; ma egli stesso non è giudicato da alcun uomo” [1 Cor. II, 16], perché questa autorità, benché data agli uomini ed esercitata dagli uomini, non è umana, ma senz’altra divina, essendo stata data a Pietro per bocca di Dio e resa inconcussa come roccia per lui ed i suoi successori, in Colui che egli confessò, poiché il Signore disse allo stesso Pietro: “Qualunque cosa tu legherai…” [Mat. XVI, 19]. Perciò chiunque si oppone a questo potere istituito da Dio, si oppone ai comandi di Dio [Rom. XIII, 2], a meno che non pretenda, come i Manichei, che ci siano due princîpi; il che noi affermiamo falso ed eretico, poiché (come dice Mosè non nei princîpi, ma “nel princìpio” Dio creò il cielo e la terra [Gn. I, 1]. Quindi noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo ed affermiamo che è assolutamente necessario per la salvezza di ogni creatura umana che essa sia sottomessa al Pontefice di Roma.

Data in Laterano, nell’ottavo anno del nostro Pontificato, il 18 novembre 1302

 

DOMENICA IV dopo PENTECOSTE (2018)

DOMENICA IV dopo PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVI:1; XXVI:2 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timebo? Dóminus defensor vitæ meæ, a quo trepidábo? qui tríbulant me inimíci mei, ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt. [Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò? Il Signore è baluardo della mia vita, cosa temerò? Questi miei nemici che mi perséguitano, essi stessi vacillano e stramazzano.] Ps XXVI:3

Si consístant advérsum me castra: non timébit cor meum. [Se anche un esercito si schierasse contro di me: non temerà il mio cuore.]

Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timebo? Dóminus defensor vitæ meæ, a quo trepidábo? qui tríbulant me inimíci mei, ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt. [Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò? Il Signore è baluardo della mia vita, cosa temerò? Questi miei nemici che mi perséguitano, essi stessi vacillano e stramazzano.]

Oratio

Orémus.

Da nobis, quæsumus, Dómine: ut et mundi cursus pacífice nobis tuo órdine dirigátur; et Ecclésia tua tranquílla devotióne lætétur. [Concedici, Te ne preghiamo, o Signore, che le vicende del mondo, per tua disposizione, si svolgano per noi pacificamente, e la tua Chiesa possa allietarsi d’una tranquilla devozione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII:18-23. Fratres: Exístimo, quod non sunt condígnæ passiónes hujus témporis ad futúram glóriam, quæ revelábitur in nobis. Nam exspectátio creatúræ revelatiónem filiórum Dei exspéctat. Vanitáti enim creatúra subjécta est, non volens, sed propter eum, qui subjécit eam in spe: quia et ipsa creatúra liberábitur a servitúte corruptiónis, in libertátem glóriæ filiórum Dei. Scimus enim, quod omnis creatúra ingemíscit et párturit usque adhuc. Non solum autem illa, sed et nos ipsi primítias spíritus habéntes: et ipsi intra nos gémimus, adoptiónem filiórum Dei exspectántes, redemptiónem córporis nostri: in Christo Jesu, Dómino nostro.

Omelia I

[Mons. G. Bonomelli, “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, Marietti ed. Torino 1899 –imprim.]- Om. IX.

“Tengo per certo, che le sofferenze del tempo presente non hanno punto proporzione con la gloria che sarà manifestata in noi. Perché la stessa creatura irragionevole aspetta ansiosamente la manifestazione dei figliuoli di Dio: perché la stessa creatura suo malgrado fu sottomessa alla vanità da colui che ad essa l’ha sottoposta nella speranza. Perché anch’essa creatura sarà affrancata dalla servitù della corruzione e messa nella libertà gloriosa dei figliuoli di Dio. Sappiamo difatti, che fino ad ora ogni creatura geme ed è in travaglio quasi di parto. Né solamente essa, ma noi ancora, che abbiamo le primizie dello spirito e gemiamo in noi stessi, anelando all’adozione a figliuoli di Dio, alla redenzione del nostro corpo „ (Ad Rom. VIII, 18) – Paolo ci lasciò quattordici lettere e prima di tutte nella Scrittura è posta quella ai Romani, dalla quale sono tolti i pochi versetti, che avete uditi e che si leggono nella Messa odierna. Questa tiene meritamente il primo posto tra le lettere di S. Paolo, non già perché sia stata scritta prima delle altre, ma perché è indirizzata alla Chiesa di Roma, madre di tutte le altre Chiese, sede del Primato, ed anche perché è la più lunga e per ragione della dottrina dogmatica in essa sviluppata sopra le altre importantissima. Questa lettera fu scritta da S. Paolo in Corinto, allorché era sulle mosse per Gerusalemme, l’anno 58, al più tardi, il 59 dell’era nostra. – Il tratto che devo chiosare si legge nel capo ottavo della lettera, ed è una miniera d’altissime verità teoriche e pratiche. L’Apostolo comincia il capo, toccando la felice condizione dei rigenerati in Cristo, e afferma ch’essi sono sciolti dalla legge del peccato; poi accenna alla misera condizione di coloro che vivono secondando la carne. Insegna che nei rigenerati in Cristo abita lo Spirito Santo, come devono seguirne la legge e come nell’intimo della coscienza abbiano la testimonianza d’esser figli di Dio. A quali condizioni potranno riceverne la mercede? A condizione di patire con Cristo; soffrendo con Lui, con Lui saranno anche glorificati. E qui comincia la lezione che devo spiegare. – « Tengo per certo, che le sofferenze del tempo presente non hanno proporzione con la gloria, che sarà manifestata in noi. „ È questa una verità, che troviamo, starei per dire, ad ogni pagina nelle lettere dell’Apostolo, ma che pure non è mai abbastanza ripetuta, perché di questa abbiamo bisogno continuo. La nostra vita quaggiù è una serie di afflizioni interne ed esterne raramente interrotte: il fardello del dolore ci sta sempre sulle spalle e l’ombra della croce ci segue dovunque. Ora in mezzo a tante tribolazioni, a tanti e sì crudeli affanni, che ci accompagnano nel cammino della vita, la verità più consolante, che possiamo avere, è questa: “Siamo certi, che le sofferenze del tempo presente non hanno proporzione colla gloria, che sarà manifestata in noi” —. Quali sofferenze? Forse quelle soltanto che ci vengono direttamente dal professare la fede di Gesù Cristo e dalla osservanza fedele dei suoi precetti? Indubbiamente queste ci meritano la gloria divina; ma l’Apostolo non parla di queste solamente, ma di tutte le sofferenze della presente vita: Hujus temporis —, come sono quelle del lavoro, delle infermità, dell’inclemenza delle stagioni, dei timori, delle contraddizioni, della povertà e andate discorrendo; anche queste, quantunque comuni a tutti gli uomini, patite con spirito di fede, per amore di Gesù Cristo, ci fruttano per il cielo. Quale conforto il cristiano può attingere in questo insegnamento di S. Paolo! Egli può e deve dire a se stesso: io soffro, ma il mio soffrire è seme che frutterà il godere e godere eterno; tra il soffrire presente e il godere futuro non vi è proporzione alcuna; il soffrire lieve, immenso il godere; il soffrire è breve, pochi giorni, pochi anni; il godere interminabile; la ricompensa, Dio stesso. Io affido alla terra un granellino, che l’occhio appena discerne; questo, dopo alcuni giorni, qualche mese o qualche anno, mi dà un fiore bello a vedersi, soave a odorarsi, un albero che curva i rami sotto il peso dei suoi frutti moltiplicati. Ecco l’immagine del mio soffrire quaggiù sulla terra e del mio godere su in cielo. Questo pensiero deve essere un balsamo versato sulle ferite del mio povero cuore e deve mitigarne e raddolcirne il dolore, come la speranza della messe copiosa rallegra il contadino, che suda sull’aratro e sparge la semente nel solco aperto. – S. Paolo dice: “Tengo per certo „ existimo che le sofferenze presenti mi daranno una gloria senza confronto maggiore del merito. „ Quale certezza abbiamo noi di ricevere il premio del nostro patire? La nostra certezza non è, né può essere di fede, perché la Chiesa ha definito contro gli eretici, che nessun cristiano, senza una speciale rivelazione, può essere certo di fede d’aver ottenuto la grazia, senza la quale non si può ottenere la vita eterna (Conc. di Trento, sess. VI, can. XIII, XLI); ma la nostra certezza può essere una certezza umana, che viene dalla coscienza di adempiere i propri doveri, di fare ciò che possiamo per pacere a Dio, per fuggire il peccato, simile a quella certezza che abbiamo d’essere amati dall’amico, dal padre, dalla madre, ai quali ci studiamo di mostrarci fedeli e ubbidienti. Questa gloria, che deve essere il frutto delle presenti sofferenze, sarà manifestata in noi, dice l’Apostolo, e a ragione. La gloria e la gioia, che avremo in cielo, non è altra cosa che la esplicazione e la fioritura della grazia, che possediamo sulla terra, come i fiori ed i frutti dell’albero non sono che la esplicazione e la fioritura di quel piccolo seme che avete affidato alla terra; ondeché, possedendo la grazia, possediamo in potenza o in germe la gloria, e soffrendo in pace i dolori della vita, portiamo in noi stessi la gioia, che un dì sgorgherà dal fondo dell’anima nostra: Revelabitur in nobis. – Poiché noi tutti siamo fatti per la felicità e ad essa tendiamo necessariamente, come la pietra tende al suo centro, ne conseguita che i nostri cuori con ardente brama sospirano questa ricompensa delle nostre sofferenze e la gloria onde saremo vestiti. – Ma vi è di più, continua l’Apostolo: non pure noi, noi esseri deboli di ragione, sollevati e mossi dalla grazia aspettiamo col desiderio più acceso questa futura trasformazione, “ma la stessa natura irrazionale aspetta con ansia che siano manifestati i figliuoli di Dio, „ ossia che apparisca il giorno della loro manifestazione o gloria celeste. – Che è dessa quella creatura, che dicesi aspettare con ansia la rivelazione? Alcuni vi ravvisarono indicati gli Angeli, ma a torto: perché questa creatura la si dice tosto nel versetto seguente soggetta alla vanità, e per fermo gli Angeli non possono essere soggetti alla vanità. D’altra parte non possono essere gli uomini giusti, perché si dice, che questa creatura aspetta la rivelazione dei figli di Dio, cioè dei giusti, onde è manifesto che la creatura che aspetta non si può confondere coi giusti: non possono essere nemmeno i tristi o peccatori, perché questi né aspettano, né possono aspettare questa rivelazione, che non conoscono, disprezzano od odiano. Resta dunque che quella parola creatura significhi la natura tutta irragionevole, ossia l’universo. S. Paolo, uomo orientale e nutrito nello studio dei Profeti, con un volo arditissimo di fantasia, ci rappresenta non solo le anime cristiane, ma le creature tutte anche irragionevoli, che si uniscono a quelle in desiderare ardentemente il compimento della speranza mercé la manifestazione della gloria eterna. Ma come mai e perché la natura irragionevole può unirsi alle anime credenti in questo affocato desiderio della futura trasformazione? Questo modo di parlare è veramente poetico, attribuendo l’aspettazione ansiosa a esseri destituiti di ragione e di volontà e perciò incapaci di desiderio; ma vi si nasconde un senso profondo, che mi studierò di spiegare alla meglio. Tutte le cose materiali sono create per l’uomo e debbono servire a lui in tutti i modi, e in gran parte per via di evoluzioni meravigliose e perenni debbono entrare nell’organismo dell’uomo stesso, diventare successivamente parte del suo corpo ed essere assunte all’altissimo onore di strumento del suo pensiero e della sua volontà. Il perché tutte le creature materiali, a nostro modo di dire, aspirano alla loro unione con l’uomo, perché in esso e con esso si nobilitano, partecipano alla sua vita fisica e spirituale e sentono che la loro sorte è legata indissolubilmente alla sorte dell’uomo. Ecco perché tutte queste creature irragionevoli, a loro modo anch’esse, come formanti il corteggio, l’appendice dell’uomo, formanti anzi qualche parte dell’uomo insieme con lui sospirano che venga il giorno dell’umana trasformazione e risplenda agli occhi di tutti la gloria degli eletti e dei figli di Dio. E qui S. Paolo sviluppa più ampiamente il suo pensiero. Seguitiamolo. “La stessa creatura è soggetta alla vanità. „ Tutte le creature, che esistono sulla terra che direttamente o indirettamente servono l’uomo, giusta il volere del Creatore, nell’ordine presente, subiscono incessanti trasformazioni ed alterazioni: ora passano dalla natura in organica all’organica vegetale od animale e fino all’umana e poi ritornano all’inorganica. Osservate ciò che avviene intorno a noi e nel nostro corpo e troverete un movimento incessante, un farsi e disfarsi perpetuo delle creature, or lento, or rapido, tantoché la morte è la condizione della vita e la vita la condizione della morte: non vi è una sola creatura visibile che sfugga alla legge che tutto fa vivere e morire e dalla morte trae gli elementi di una, vita novella e getta nella vita i germi della morte. Tutte queste creature non solo sono sottoposte a questa trasformazione che non cessa un solo istante, ma devono servire (ahi quante volte!) di strumento al disordine, all’offesa del Creatore, contro il loro fine. L’aria, la luce, l’acqua, la terra, le sue produzioni più belle e più preziose, tutto il regno vegetale, animale ed universale, per opera dell’uomo sono forzati a deviare dal loro fine e a diventare strumento di peccato. Inquantoché sono sottomesse al lavoro della trasformazione senza tregua ed alla necessità di essere soventi volte costrette ad un uso contrario al loro fine naturale, queste creature sono dette da S. Paolo ” sottoposte alla vanità: „ Vanitati creatura subjecta est. Espressione sublime, che rappresenta il mondo tutto in uno stato di prova e di violenza, come l’uomo, del quale segue necessariamente la sorte, perché ad esso è ordinato, come mezzo al fine. Questo mondo visibile, continua S. Paolo, non vorrebbe questa legge di continue mutazioni, di alternative di morte e di lotta e rivolta contro il Creatore, alla quale è costretto dall’uomo: Non volens; ma vi si acconcia, perché così vuole il Creatore; vi si acconcia, ma con la speranza che verrà pure quel giorno, nel quale cesserà questa lotta che lo affatica, nel quale saranno cieli nuovi e terra nuova e tutto sarà composto in una pace inalterabile e perfetta. “La stessa creatura è sommessa alla vanità, non volente, ma da Colui che a questa l’ha sottoposta nella speranza. „ Sì, la natura tutta irrazionale, nel suo linguaggio domanda al pari di noi, uomini e cristiani, il cessare del suo stato presente, al quale istintivamente rilutta: il suo grido, eco lontana del nostro, è questo: Quando, Signore, porrete fine al mio travaglio? Quando mi darete la pace ? Quando, anch’io, come l’uomo e per l’uomo, sarò rinnovata e secondo la mia natura non servirò che a Lui solo? E giusto, risponde l’Apostolo: “anch’essa, questa natura irrazionale sarà affrancata dal servaggio della corruzione, nella libertà della gloria dei figliuoli di Dio. „ Non è facile intendere questo luogo del sacro testo, ma sembra fuor di dubbio essere, non altrimenti del seguente, una spiegazione dell’antecedente. La natura tutta irrazionale, quasi culla, reggia e nutrice dell’uomo, suo re, al termine dei secoli, quando egli ripiglierà, rifiorente di vita immortale, il suo corpo, anch’essa si rinnovellerà, quasi per fare più bella la gloria dell’uomo, e ad imitazione dell’uomo stesso: Et ipsa creatura liberabitur a servitute corruptionis, in libertatem gloria filiorum Dei. Quale sarà questo rinnovellamento della natura irrazionale, riflesso del rinnovellamento dell’uomo? Come finirà il suo servaggio e quale sarà la libertà sua, di cui qui favella l’Apostolo? Sappiamo che avverrà, ma quale sarà lo ignoriamo, e solo per una cotale induzione possiamo formarcene un’idea. Saranno cieli nuovi e terra nuova, l’uno e l’altra abitazione degna dell’uomo glorificato, sottratta interamente all’impero e all’influenza di ogni male morale e fisico, e saper questo ci basti. – Da questa dottrina sì alta e sì bella dell’Apostolo si fa manifesto che il fine delle creature tutte irragionevoli è legato al fine proprio dell’uomo e da questo dipende tantoché, se così posso esprimermi, anch’esse saranno felici o infelici della sua felicità od infelicità: ed è giusto perché le creature irragionevoli sono create per l’uomo e a lui debbono servire e per conseguenza la sorte del principale tira seco la sorte del secondario. Gli elementi, onde risulta il nostro corpo, accompagneranno e per sempre l’anima o beata in cielo, o straziata nell’inferno, perché l’unione sarà sempiterna, e perciò siamo noi che determiniamo la sorte eterna del mondo materiale. Il linguaggio dunque dell’Apostolo in questo luogo è poetico e ad un tempo altamente filosofico e vero. Questa idea dell’aspettazione ansiosa della natura irrazionale è ribadita e con più forte tinta rilevata in questo altro versetto: “Sappiamo di fatto che ogni creatura finora geme ed è come nel travaglio del parto. „ Questo gemere e quasi soffrire i dolori del parto di tutte le creature irragionevoli, aspettanti la loro liberazione e trasformazione finale, ci fa sentire la loro solidarietà con l’uomo e com’esse fremono nello stato di disordine e di violenza, in cui al presente troppo spesso si trovano. Questa frase dell’Apostolo ci riduce alla memoria quell’altra frase non meno energica del libro della Sapienza, in cui si dice, che Dio armerà tutte le creature contro gli stolti, cioè i peccatori. Ah! ricordiamola sempre, o dilettissimi, questa verità. Ogni volta che noi abusiamo delle creature, peccando, rivolgendole contro il Creatore, esse, per così dire, si sdegnano contro di noi, soffrono, gemono e sospirano il momento nel quale spezzeranno il giogo della corruzione che loro imponiamo: strumento nostro quaggiù al peccato, al piacere colpevole, diventeranno allora strumento di Dio a nostra punizione. S. Paolo, dopo questa breve e brillante digressione sulle creature tutte irrazionali, che con sì affocato desiderio aspettano e invocano la propria libertà e rinnovazione, ritorna a sé, ai credenti, e prosegue: “E non solo essa, cioè la creatura irrazionale, ma noi ancora, che abbiamo le primizie dello spirito, gemiamo in noi stessi, anelando alla adozione dei figliuoli di Dio, alla redenzione del nostro corpo. „ Sì, l’universo sospira e geme, ma con esso e ben più di esso, noi, Cristiani, primizie del giardino di Cristo, la Chiesa, o meglio, noi Cristiani, che abbiamo ricevuto i primi e più copiosi doni dello Spirito, sospiriamo e gemiamo nel fondo delle anime nostre. Travagliati da sollecitudini ed affanni interni, fatti segno di calunnie e di persecuzioni, sbandeggiati, flagellati, gettati in carcere, trascinati dinanzi ai tribunali, divenuti il rifiuto del mondo, ci viene a noia la vita, ita ut tæderet nos etiam vivere, volgiamo lacrimosi gli occhi al giorno, in cui la grazia, o l’adozione di figli di Dio ci schiuderà le porte del cielo e saremo liberati da questo corpo mortale e rivestiti del corpo impassibile e glorioso: Adoptionem filiorum Dei, expectantes redemptionem corporis nostri. Questo grido affannoso dell’Apostolo che guarda, aspetta ed invoca la gloria della risurrezione del corpo, risponde al grido di Giobbe, che, straziato e disfatto dalla lebbra esclama: “So che il mio redentore vive, e ch’io alla fine dei tempi risorgerò dalla polvere e rivestirò questa carne, e in essa vedrò il mio Dio e mio Salvatore. „ È questo il grido, che erompe dal cuore d’ogni credente, che attraversa questa terra d’esilio, che sente la miseria della vita presente, che cammina verso la vera patria, al possesso di Dio. Sia pur questo il grido che esce dai nostri cuori, disillusi della terra e anelanti al cielo!

Graduale  

Ps LXXVIII:9; LXXVIII:10 Propítius esto, Dómine, peccátis nostris: ne quando dicant gentes: Ubi est Deus eórum? V. Adjuva nos, Deus, salutáris noster: et propter honórem nóminis tui, Dómine, líbera nos. [Sii indulgente, o Signore, con i nostri peccati, affinché i popoli non dicano: Dov’è il loro Dio? V. Aiutaci, o Dio, nostra salvezza, e liberaci, o Signore, per la gloria del tuo nome.]

Allelúja

Alleluja, allelúja Ps IX:5; IX:10 Deus, qui sedes super thronum, et júdicas æquitátem: esto refúgium páuperum in tribulatióne. Allelúja [Dio, che siedi sul trono, e giudichi con equità: sii il rifugio dei miseri nelle tribolazioni. Allelúia.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. Luc. V:1-11

In illo témpore: Cum turbæ irrúerent in Jesum, ut audírent verbum Dei, et ipse stabat secus stagnum Genésareth. Et vidit duas naves stantes secus stagnum: piscatóres autem descénderant et lavábant rétia. Ascéndens autem in unam navim, quæ erat Simónis, rogávit eum a terra redúcere pusíllum. Et sedens docébat de navícula turbas. Ut cessávit autem loqui, dixit ad Simónem: Duc in altum, et laxáte rétia vestra in captúram. Et respóndens Simon, dixit illi: Præcéptor, per totam noctem laborántes, nihil cépimus: in verbo autem tuo laxábo rete. Et cum hoc fecíssent, conclusérunt píscium multitúdinem copiósam: rumpebátur autem rete eórum. Et annuérunt sóciis, qui erant in ália navi, ut venírent et adjuvárent eos. Et venérunt, et implevérunt ambas navículas, ita ut pæne mergeréntur. Quod cum vidéret Simon Petrus, prócidit ad génua Jesu, dicens: Exi a me, quia homo peccátor sum, Dómine. Stupor enim circumdéderat eum et omnes, qui cum illo erant, in captúra píscium, quam céperant: simíliter autem Jacóbum et Joánnem, fílios Zebedaei, qui erant sócii Simónis. Et ait ad Simónem Jesus: Noli timére: ex hoc jam hómines eris cápiens. Et subdúctis ad terram návibus, relictis ómnibus, secuti sunt eum”.

OMELIA II

[Mons. Bonomelli, ut supra, Omelia X]

“Avvenne che la moltitudine, stringendosi addosso a Gesù per ascoltare la parola di Dio, e stando Egli in piedi presso il lago di Genesaret, vide due barchette presso la riva del lago e i pescatori, smontati, lavavano le reti. Ed Egli, essendo montato sopra una di quelle, che era di Simone, lo pregò di allargarsi un poco da terra e seduto, ammaestrava le turbe dalla navicella. E com’ebbe finito di parlare, disse a Simone: Piglia il largo e calate le vostre reti per pescare. Ma Simone, rispondendo gli disse: Maestro, ci siamo affaticati tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma pure, alla tua parola, getterò la rete. E fatto questo, rinchiusero grande quantità di pesce, tantoché la rete si rompeva. E accennarono ai loro compagni, ch’erano nell’altra navicella, affinché venissero per aiutarli. Ed essi vennero, e riempirono ambe le barche a talché affondavano. Ciò visto, Simon Pietro, si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: Partiti da me, o Signore, perché io sono un uomo peccatore. Perché egli e quelli che erano con Lui erano compresi di spavento per la presa dei pesci che avevano fatto. Lo stesso fu ancora di Giacomo e Giovanni, figliuoli di Zebedeo, ch’erano compagni di Simone. E Gesù disse a Simone: Non temere: d’ora innanzi attenderai a pescare uomini. Ed essi, tirate a terra le navicelle, lasciata ogni cosa, lo seguitarono „ (S. Luca, V, 1-11).

Gesù cominciò la sua predicazione in Galilea, e chiamò alla sua sequela alcuni discepoli, come narra S. Giovanni nel primo capo, tra gli altri Simon Pietro, Andrea, Filippo, Natanaele ed i fratelli Giacomo e Giovanni, tutti Galilei. Con essi salì a Gerusalemme per celebrare la Pasqua, poi ritornò in Galilea, a Nazaret. In quel frattempo i discepoli ritornarono alle loro reti (erano quasi tutti pescatori), per campare la vita, ma per pochi giorni. Gesù da Nazaret recossi a Cafarnao e ripigliò la sua vita pubblica, e qui comincia il fatto evangelico, che forma l’argomento della nostra omelia, e che determinò i primi e principali discepoli a seguirlo stabilmente, come vedremo. Due volte essi furono chiamati da Gesù: la prima volta sulle rive del Giordano, dov’essi erano per udire Giovanni, e dove Gesù stesso ricevette il battesimo; la seconda e definitivamente, sulle sponde del lago di Genesaret, riferita da S. Luca nel capo V. Ora, a noi, o carissimi. “Avvenne che la moltitudine, stringendosi addosso a Gesù, per ascoltare la parola di Dio, e stando Egli in piedi presso il lago di Genesaret, vide due barchette in sulla riva, ed i pescatori, smontati, lavavano le reti. „ Nessun bisogno di illustrare queste parole, che non potrebbero essere più chiare: ma non sarà superfluo cavarne qualche pratica riflessione. – Considerate Gesù, le turbe e gli Apostoli pescatori. Gesù sta sulla riva di quel lago allora sì ridente, solo, senza corteggio, corre l’ultimo dei figli d’Israele, in mezzo alla folla, ch’era accorsa dalle vicine città e castella. E che fa Egli? Ammaestra quella moltitudine. Che cosa insegnasse, il Vangelo non lo dice, ma è agevole immaginare che parlasse, come soleva, del regno dei cieli e di quelle verità sì semplici e sì alte che rapivano il buon popolo, il quale pendeva estatico dalle sue labbra. – Considerate le turbe: esse si accalcavano intorno a Gesù, lo premevano, Gli si serravano addosso: Cum turbæ irruerent in eum, avide di udire la parola di Dio. Quale spettacolo, o cari! Gesù Cristo, il Figlio di Dio che parla al popolo, e questo popolo che lo ascolta tacito e riverente: era il mattino e di sopra rideva il cielo sereno, tranquillo: intorno, da una parte il lago con le sue rive incantevoli, seminate di villaggi popolosi; dall’altra i colli, coperti d’ulivi e di vigne, che si sollevano a mano a mano, ad occidente verso il Tabor, a tramontana, da lungi, verso l’Hermon ed il Libano. È sulle sponde di questo lago, in mezzo a questi pescatori, a questi figli dei campi, che Gesù Cristo sparge i semi di quella Dottrina che sarà portata ai quattro lati della terra e trasformerà il mondo pagano. – Considerate gli Apostoli: essi erano smontati dalle loro navicelle, e dopo aver ripulite e racconciate le reti, si erano mescolati con le turbe per udire il divino Maestro. In mezzo a quella moltitudine, credo io, non vi erano né ricchi, né dotti: essi avrebbero sdegnato di trovarsi in mezzo a quella povera gente, ma non si sdegnava Gesù, anzi le sue gioie più dolci erano quelle di annunziare a quei poverelli il regno di Dio: Misit me evangelìzare pauperibus. E vedete questi Apostoli, che già chiamati a seguire Gesù Cristo seguitano a pescare, non certo per sollazzo, ma per necessità della vita. Essi, destinati alla conquista del mondo, non si lagnano della loro povertà e della vita travagliosa che menano e che non muteranno nemmeno più tardi, perché santamente si glorieranno di provvedere ai propri bisogni col lavoro delle mani: Manus istæ ministraverunt. – Gesù, viste quelle due barchette, “salì sopra una, che era quella di Simon Pietro. „ Posto fine al suo discorso alle turbe, Gesù per scansarsi da queste e fare il miracolo che gli vedremo operare, salì sopra una navicella e, nota il Vangelista, che era quella di Pietro. Voi troppo bene comprendete che Gesù Cristo non faceva, nè poteva far nulla a caso; nessun uomo assennato fa mai cosa alcuna a caso; e l’avrebbe fatta Colui che è la stessa sapienza? Sarebbe bestemmia pure il sospettarlo. Perché  Gesù Cristo tra le due barchette preferì quella di Pietro e sopra di questa s’allargò nel lago e poi operò il miracolo? E perché  l’evangelista S. Luca volle notare questo fatto? I Padri ravvisarono in questo fatto un indizio della podestà suprema, che Gesù avrebbe più tardi conferita a S. Pietro. Noi non possiamo avere salute che col ricevere la dottrina di Gesù Cristo: ora dove Gesù annunzia la sua dottrina? Da qual nave la predica agli uomini? Dalla nave di Pietro: dobbiamo adunque essere nella nave di Pietro se vogliamo avere la dottrina di Gesù Cristo. La nave è simbolo della Chiesa; su ciò non vi è dubbio alcuno: i Padri, gli interpreti ed il simbolismo antico lo mostrano; ma sono molte navi o le chiese che si dicono navi e Chiese di Cristo. C’è la nave della Chiesa Greca, quella della Chiesa Nestoriana, della Chiesa Eutichiana, della Russa , della Anglicana via e via (1). Tutte a gran voce protestano di essere ciascuna la nave, l’unica vera Chiesa di Cristo, ed invitano gli uomini a salirvi se vogliono salute. Io domando: Dov’è Cristo? Su qual  nave siede Egli ed ammaestra? Sulla nave di Pietro, non sulle altre! Dunque teniamoci sempre fermi su questa nave di Pietro,  sicuri di avere con noi Gesù Cristo e con Gesù Cristo la verità. – Che cosa insegnò Gesù Cristo alle turbe, stando sulla navicella di Pietro? Il Vangelo non lo dice, ed è facile e natural cosa il credere che parlasse loro delle verità del regno dei cieli, giacché solo di queste cose Egli intratteneva la moltitudine che lo seguiva. “Poiché ebbe finito di parlare, disse a Simone: Piglia il largo e calate le vostre reti alla pesca.„  Il mare o lago di Genesaret è figura del mondo; i pesci sono figura degli uomini: la nave di Pietro, che con Gesù solca le onde, come dissi, è figura della Chiesa. Gesù comanda a Pietro ed ai suoi compagni di calare le reti per la pesca. Ma quando? Non prima, ma dopo di aver parlato al popolo. E perché? Perché vuole insegnarci che prima si devono ammaestrare gli uomini e poi accoglierli nella Chiesa: prima si deve seminare e poi mietere: prima far conoscere la verità; poi raccoglierne i frutti. Gli Apostoli ed i loro successori, come dirà più innanzi Gesù Cristo, devono pigliare gli uomini. Ma come si pigliano gli uomini? Essi sono spiriti nella parte loro più nobile, e non si pigliano come i pesci e gli uccelli nelle reti: pigliati i loro corpi, avete pigliato ogni cosa. Pigliati i corpi degli uomini, voi non avete preso nulla; per pigliare gli uomini conviene pigliare quello in cui sta veramente l’uomo, cioè l’anima sua. E questa che non si vede, che non si tocca, in qual modo si piglia? I pesci e gli uccelli li pigliate con l’offrir loro il cibo, che loro si confà: l’anima dell’uomo la si piglia col mostrarle quel cibo di cui solo essa è ghiotta, il cibo della verità. La verità signoreggia la sua mente e la mente tira a sé la volontà; e guadagnata la mente e la volontà dell’uomo, voi avete pigliato tutto l’uomo. E con qual mezzo presentare all’uomo il cibo della verità? Il pescatore presenta al pesce il cibo legato al filo della sua canna, o lo sparge presso le reti: noi lo porgiamo alla mente dell’uomo mediante la parola o l’istruzione, e perciò Gesù Cristo disse agli Apostoli: Andate, ammaestrate. Ammaestrate! cioè porgete alle menti il cibo della verità con la parola: questa scuoterà la volontà e trarrà a voi gli uomini retti. Ecco perché Gesù Cristo, dopo avere ammaestrate le turbe, comanda di gettare le reti. Proseguiamo. “Pietro rispondendo, disse a Gesù: Maestro, ci siamo affaticati tutta la notte e non abbiamo preso nulla. „ La pesca allora (come in parte anche in oggi da noi) si faceva la notte. Gli Apostoli l’avevano fatta da soli, senza la compagnia di Gesù, ed era stata senza frutto. Così aveva disposto il divino Maestro, per mettere in maggior luce il miracolo che aveva operato, e per dare una lezione importantissima a’ suoi cari Apostoli e determinarli a seguirlo definitivamente. – Il buon Pietro, sempre eguale a se stesso, risoluto, ardente e schietto, dopo d’aver pubblicamente dichiarato ch’era stato vano ogni lavoro della notte, e che non aveva speranza alcuna di miglior fortuna, mostrando la docilità e prontezza dell’animo suo, soggiunse: “Pure sulla tua parola getterò la rete. „ La parola del Maestro è tutto per il discepolo: questi fa tacere ogni suo giudizio, non bada alla nuova fatica, non muove ombra di difficoltà o di dubbio: il Maestro l’ha detto e gli basta: “Sulla tua parola getterò la rete. „ – Carissimi! quando la voce del dovere, la voce dell’autorità ha parlato, ancorché torni duro e sembri anche poco conforme alla nostra ragione, imitiamo la generosa prontezza di S. Pietro, e diciamo: Signore, ubbidisco. Gli Apostoli calarono adunque la rete, e appena ebbero cominciato a tirarla a sé, si accorsero “che avevano chiuso in essa grande quantità di pesci, tanto che la loro rete si rompeva. „ Vedendosi impotenti a tirare nella nave sì gran quantità di pesce, “accennarono ai compagni dell’altra nave, affinché venissero ad aiutarli, e vennero ed empirono ambe le barche; sicché quasi affondavano. „ – Tutti questi particolari del fatto, notati con somma concisione e semplicità, non abbisognano di schiarimento, e ci mettono sotto gli occhi la scena avvenuta sulle rive del lago, a talché ne siamo per poco noi stessi spettatori. È noto dalla storia che quel piccolo lago era abbondantissimo di pesci: d’altra parte si sa, che in certe stagioni e in certe con giunture, è possibile una pesca straordinaria, e nessuno lo sapeva meglio di Pietro e dei suoi compagni, praticissimi del loro mestiere e di quel lago; ma quella pesca, considerata nelle condizioni particolari in cui avvenne, presentava sì chiari i caratteri del miracolo da non poterne avere dubbio alcuno. E invero: gli Apostoli avevano gettate le reti tutta la notte e sempre inutilmente: non v’era indizio di sorta da far credere probabile un mutamento e una pescagione sì copiosa; se vi fosse stato, gli Apostoli l’avrebbero conosciuto od almeno sospettato. Più, dalla narrazione appariscente che fu quasi la stessa cosa gettare le reti nel lago e vederle ripiene di pesce. Finalmente, la quantità del pesce era al tutto meravigliosa, perché si dice che la rete si sdrusciva per il peso, e che ne ebbero ripiene le due barchette e ripiene per modo che quasi affondavano: Et impleverunt ambas naviculas, ita ut pene mergerentur. Tutte le circostanze del fatto, mostravano ad evidenza che non era naturale, ma sovrannaturale e miracoloso e che non potevasi attribuire ad altri, fuorché a Colui che con tanta sicurezza, non ostante la difficoltà mossa da Pietro, aveva detto: “Gettate le vostre reti alla pesca. „ – L’effetto del miracolo fu istantaneo e grandissimo su tutti gli Apostoli presenti, ma singolarmente sopra Pietro. Uditelo: “Veduto ciò, Simon Pietro, cadde alle ginocchia di Gesù, dicendo: Partiti da me, o Signore, perché io sono un uomo peccatore. „ In questa occasione, come sempre, si rivela l’anima tutta di Pietro. Egli ha visto il miracolo di Gesù Cristo, non ne può dubitare, lo tocca con mano, è lì, in quel cumulo di pesci che gli sta dinanzi. Dimentica tutto: e due sole cose egli vede, il Maestro e se stesso: nel Maestro, egli, scosso dal fatto della pesca ed illuminato internamente, riconosce l’operatore del miracolo, il profeta, il Messia; in sé vede un povero peccatore, e conscio della propria indegnità, nell’ardore della sua fede, si getta ai piedi di Gesù, Procidit ad genita Jesu, ed esclama: “Partiti da me, che sono un uomo peccatore. „ – S. Agostino domandava instantemente due cose a Dio: Domine, noverim te, noverim me.”Signore, ch’io conosca te e conosca me stesso! „ Questo doppio conoscimento si può considerare come il supremo grado della sapienza cristiana: conoscere Dio, per amarlo e servirlo; conoscere se stesso, per correggere ed emendare i propri falli: conoscere Dio per disprezzare se stesso; conoscere se stesso, per apprezzare Dio solo. Questi due conoscimenti sono inseparabili tra loro, tantoché l’uno non si può concepire senza l’altro, come l’effetto non si può disgiungere dalla sua causa, e quegli conosce bene l’effetto che conosce bene la causa. L’uomo che si mette innanzi a Dio e con l’occhio della mente discorre e contempla la sua grandezza, la sua potenza, la sua bontà, la sua sapienza, la sua immensità; che, inabissandosi in quell’oceano dell’essere di Dio, ne considera l’eternità e la immutabilità e tutte le altre perfezioni, sentesi sopraffatto e compreso di stupore al cospetto di tanta maestà. Che se allora torce lo sguardo da Dio e lo rivolge sopra di sé, comprende e sente d’essere piccolo, debole, soggetto a continue mutazioni, pieno di miserie: comprende e sente che da sé ha nulla, e che tutto ciò che ha o può avere, lo riceve da Dio, dal quale dipende più che la lampana dal filo che la sostiene: allora egli è costretto ad erompere in quel grido sì famigliare ai santi: Signore, Voi siete tutto, ed io nulla e meno che nulla, perché peccatore. Se non che il buon Pietro, nella foga del suo dire, non si limitò a riconoscere la grandezza del Maestro e la debolezza e il nulla proprio, ma, spingendosi più oltre e non rendendosi conto di ciò che diceva, aggiunse: “Partiti da me, o Signore, perché io sono un uomo peccatore. „ Voleva che Gesù si allontanasse da sé, reputandosi indegnissimo di stare presso di Lui sì santo, egli gran peccatore! Nessun dubbio, che se alcuno in quel momento avesse detto a Pietro: Vuoi tu davvero, che Gesù si parta da te? — Pietro avrebbe risposto: No, no; io credo in Lui, io l’amo, io voglio seguirlo sempre e dovunque: ho bisogno di star sempre con Lui —. Come dunque lo pregava di allontanarsi da Lui? Era questo il linguaggio del timor santo, ond’era compreso alla presenza di Gesù e dell’amore vivissimo, che sentiva per Lui e lo portava fuori di sé, onde mentre diceva a Gesù: Partiti da me, gli si serrava come un fanciullo alle ginocchia e non sapeva staccarsene. Carissimi! quando stiamo alla presenza di Gesù nel Sacramento dell’altare, e più ancora, quando lo riceviamo in noi stessi, facciamo nostri i sentimenti di fede, di riverenza, di timore, di amore, di profonda umiltà, ond’era ripieno il principe degli Apostoli là sulla sua barchetta di Genesaret. L’anima, che riconosce la propria indegnità e si confessa peccatrice dinanzi a Gesù, diviene oggetto delle sue più care compiacenze! L’Evangelista quasi per dare una spiegazione dell’atto e delle parole sì belle di san Pietro, dice, continuando: “Perché erano compresi di spavento egli, Pietro, e quanti stavano con Lui per la presa de’ pesci, che avevano fatto. „ Come mai ciò, o dilettissimi? Pietro e i suoi compagni erano atterriti? Essi dovevano essere meravigliati sì, e lietissimi, ma non mai atterriti, come dice il sacro testo. Sì, erano meravigliati, lietissimi, ma anche atterriti. Allorché noi ci troviamo dinanzi a fatti straordinari e sovraumani, dietro i quali vediamo levarsi, a così dire, l’ombra e la maestà di Dio stesso, che ne è l’autore, ci sentiamo gagliardamente scossi, compresi d’un sacro terrore. E chi noi deve essere dinanzi a quella infinita grandezza e potenza, dinanzi alla quale sentiamo tutto il nostro nulla? Scorrete tutte le sacre Scritture dell’antico e del nuovo Testamento e troverete sempre, che ogni qual volta Iddio si manifesta, sia sul Tabor, sia sull’Oreb, sia sul Sinai, sia nei grandi miracoli, il timore ed anche il terrore è la conseguenza comune e naturale, in quelli che ne sono testimoni. – S. Luca parla del terrore di Pietro e di tutti quelli che erano con lui; ma poi, quasi corregendosi, stima necessario nominare due, che erano presenti nell’altra navicella, perché dopo Pietro tenevano il primo posto presso il Maestro, e perché insieme con Pietro, dopo questo miracolo, furono chiamati a seguirlo stabilmente. ” Lo stesso fu ancora di Giacomo e Giovanni, figliuoli di Zebedeo, che erano compagni di Simone. „ Gesù, per confortare Simon Pietro, che era a’ suoi piedi, come fuori di sé, con voce amorevole gli disse: ” Non temere: quinci innanzi attenderai a pescare uomini. „ Con queste parole Gesù volle confortare il suo Pietro e nello stesso tempo fargli conoscere chiaramente la sua vocazione all’apostolato. Ben altro che pesci, così volle dire in sentenza il Salvatore, ben altro che pesci tu devi pigliare: la tua missione in avvenire sarà quella di pigliare uomini. La metafora graziosa è sì bella e naturale che non occorre spiegarla. Più volte Gesù Cristo adombra il sacro ministero sotto la figura della pesca, e veramente la figura risponde assai bene alla realtà che si vuole significare. E qui non voglio tacere una osservazione, che mi pare scaturisca naturalmente dal sacro testo. Pietro, visto il miracolo, conobbe se stesso e schiettamente, alla presenza dei compagni, confessò d’essere peccatore e indegno di stare presso Gesù. A quest’atto di umiltà Gesù rispose con la splendida promessa dell’apostolato. “Tu attenderai a pescare uomini. „ Sempre così! all’abbassamento volontario Dio risponde sempre con l’innalzamento, e a Pietro, che si protesta peccatore, velatamente promette la più alta prerogativa  dell’apostolica dignità. Il fatto della pesca prodigiosa, qui narrato da S. Luca, è toccato appena da S. Matteo (cap. IV, 18 seg.) con qualche particolare, che dà luce al tutto insieme. S. Matteo ai tre Apostoli sopra nominati, presenti al miracolo, aggiunge Andrea, fratello di Pietro, che dovevasi trovare nella barca con esso. Inoltre san Matteo scrive, che Gesù disse a tutti quelle parole da S. Luca riferite al solo Pietro: “Io vi farò pescatori di uomini, „ e che a tutti disse: “Venite dietro a me, „ e che tutti lo seguitarono. S. Luca in questo luogo, lascia sottintese le parole di Cristo: “Venite dietro a me, „ ma narra l’effetto, dicendo: “Tirate a terra le navicelle, lasciata ogni cosa, lo seguitarono. „ Quale esempio di prontezza, di fede, di ubbidienza, di generosità ci danno questi Apostoli! E vero, erano poveri, vivevano delle proprie fatiche: non avevano che quelle sdrucite barchette, quelle poche reti, forse la casetta nella vicina Betsaida: ma Pietro aveva la suocera, Giacomo e Giovanni avevano il padre e la madre; avevano congiunti ed amici; amavano le rive del loro lago; chi dice loro: “Seguitemi, „ era ancor più povero di loro; non aveva né casa, né barca, né reti, né dove posare il suo capo; eppure incontanente, ad una sua parola lo seguono: Relictis omnibus, secuti sunt eum. Che sarà di loro? Quale la sorte che li attende? Quale la ricompensa? Fin quando e fin dove lo seguiranno? Quali i patti? Di tutto questo non si danno pensiero: hanno udite quelle misteriose parole: ” Venite dietro a me; vi farò pescatori di uomini, „ senza comprenderne perfettamente il significato; non istanno in forse un solo istante: lo seguitano per non abbandonarlo più mai, e primo senza dubbio quel Pietro, che gli aveva detto: ” Partiti da me, o Signore, che sono uomo peccatore. „ Riconosciamo ancora una volta la certezza del miracolo della pesca, ammiriamo la potenza della parola di Cristo, che li chiama, e la generosa docilità con cui rispondono gli Apostoli.

(1) [La Chiesa greca Foziana, com’è noto non ammette l’istituzione divina del Primato di Pietro. Il suo governo è affidato ai Patriarchi e al Sinodo ecumenico, che risiede a Costantinopoli: ma è un edificio che sta per forza di inerzia, se cosi posso esprimermi. La creazione d’ogni nuovo Stato nell’Impero ottomano porta seco per conseguenza una nuova Chiesa nazionale. Questo secolo ha visto sorgere la Chiesa ellenica, la montenegrina, la serba, la rumena, la bulgara: è naturale, perché non vi è un centro comune. – Della Chiesa nestoriana ed eutichiana non val la ragionare perché piccole e sepolte nella più crassa ignoranza; di cristiano conservano poco più che il nome. – La Chiesa russa si trova in condizioni ben diverse e perché internamente unita alla potestà imperiale dello Czar e da lui dipendente, e perché organizzata fortemente, abbraccia popoli rozzi, sì, ma giovani e forti, e poiché ad essa si apre un campo vastissimo in Oriente. E vi è qualche probabilità, che la chiesa russa rientri nel seno della Chiesa Cattolica? Alcuni lo speravano e forse lo sperano ancora: così fosse!! Ma, ragionando umanamente, essa, la Chiesa russa è ben lontana dal ritornare alla Chiesa Romana. L’anno passato, il gran Procuratore del Sinodo russo, Pobedonoskeff che ora è l’anima del Sinodo stesso, ad un alto personaggio, che gli mostrava la necessità dell’unione con la Chiesa romana, rispose: “La Chiesa ortodossa russa e la Chiesa Romana sono due sorelle eguali, che si devono rispettare a vicenda —. La Russia ha toppo interesse a star salda nello scisma e nell’eresia e l’ignoranza del popolo, congiunta allo scetticismo delle classi alte e alla autocrazia imperiale e la diffidenza e l’odio contro la Polonia, innalzano una barriera insormontabile tra la chiesa russa e la Romana. „ – Della chiesa anglicana non occorre parlare. La dichiarazione solenne della S. Sede rispetto alla nullità delle sacre Ordinazioni della chiesa anglicana, dichiarazione necessaria per le circostanze speciali, ha forse aggiunto un nuovo ostacolo a quelli che vi erano e reso più difficile il ritorno all’Unità Cattolica.]

 Credo…

 Offertorium

Orémus Ps XII:4-5 Illúmina óculos meos, ne umquam obdórmiam in morte: ne quando dicat inimícus meus: Præválui advérsus eum. [Illumina i miei occhi, affinché non mi addormenti nella morte: e il mio nemico non dica: ho prevalso su di lui.]

Secreta

Oblatiónibus nostris, quæsumus, Dómine, placáre suscéptis: et ad te nostras étiam rebélles compélle propítius voluntátes. [Dalle nostre oblazioni, o Signore, Te ne preghiamo, sii placato: e, propizio, attira a Te le nostre ribelli volontà.]

Communio

Ps XVII:3 Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus: Deus meus, adjútor meus. [Il Signore è la mia forza, il mio rifugio, il mio liberatore: mio Dio, mio aiuto.]

Postcommunio

Orémus. Mystéria nos, Dómine, quæsumus, sumpta puríficent: et suo múnere tueántur. Per … [Ci purifichino, o Signore, Te ne preghiamo, i misteri che abbiamo ricevuti e ci difendano con loro efficacia.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

 XV.

IL GOVERNO DI DIO.

Come mai Iddio permette il male? — Iddio sa se mi salverò o mi dannerò; a che serve adunque che io mi travagli a salvarmi? — La predestinazione e la libertà umana.— Se Dio è infinitamente buono, perché crea coloro che andranno dannati?

— Avrei ora da esporre delle gravi difficoltà per riguardo ad alcuni attributi di Dio.

Già m’immagino quali siano. Tuttavia esponi pure liberamente tutto ciò che lambicca il tuo cervello, e vedrò di darti le spiegazioni più chiare che siano possibili.

— Ecco adunque: Iddio è onnipotente, cioè può fare tutto ciò che vuole, è santo, cioè vuole il bene ed abborrisce il male, è sapientissimo e sa tutto. Or come mai lascia che nel mondo si faccia tanto male? … si commettano tanti delitti? Li permette Egli forse perché non li può impedire! E allora dove sta la sua onnipotenza ? Li permette perché non li vuole impedire! E allora dove sta la sua santità? Li permette perché non sa che abbia ad accadere? E allora dove sta la sua sapienza?

Perdincolina! Mi fai veramente una scarica a mitraglia, ed entri per tal guisa in dei più tremendi misteri! Ma precisameli; perciò bisogna che ti ricordi anzitutto che misteri sono sempre misteri, che cioè noi non arriveremo mai a comprenderli. In secondo luogo devo dirti che il poter fare delle difficoltà anche gravi contro le verità della dottrina cristiana, difficoltà che per ora non si possono sciogliere, non dà il diritto di inferire che sia falsa la stessa dottrina, ma deve in quella vece farci riconoscere e confessare la nostra impotenza a comprendere tali verità. In terzo luogo ti aggiungerò che qualora avessi da adoperarmi a scioglierti le difficoltà, che mi hai proposte, con l’ampiezza dovuta, dovrei andare molto per le lunghe e tu non reggeresti al mio ragionamento. – Ciò premesso ti risponderò in breve che Dio, sì, è sapientissimo e perciò prevede anche il male che dagli uomini si fa, che Egli è santissimo e come tale non vuole il male e lo abborrisce, che Egli è onnipotente e che perciò assolutamente lo potrebbe impedire: e non di meno non lo impedisce perché, avendo dato all’uomo la libertà, Egli vuole assolutamente che l’uomo resti libero, padrone de’ suoi atti in modo da poter fare di sua piena volontà il bene o il male, e a seconda di quel che farà meritarsi coi propri sforzi la felicità eterna o con la propria malizia la eterna dannazione. E se l’uomo abusando della sua libertà commette il male e si abbandona persino a gravi delitti, Iddio perciò non lascia di essere e sapientissimo, e santissimo, e onnipotente.

— Va bene. Ma Iddio non poteva dare all’uomo la libertà perché faccia il bene e si meriti la felicità eterna, e a un tempo stesso impedire che l’uomo faccia il male non lasciandolo abusare della sua libertà? A me pare insomma che se Iddio non volesse davvero il male, non lo lascerebbe commettere, e che lasciandolo ommettere ne sia Egli stesso la causa.

Mio caro, senza saperlo tu metti innanzi i mostruosi errori di Calvino. Ascolta bene adunque. Che Iddio potesse, qualora lo avesse voluto, dare all’uomo la libertà per fare il bene e meritar la felicità eterna e a un tempo stesso impedire l’abuso dell’umana libertà nel fare il male è cosa certissima. Ma Egli non l’ha voluto, e in ciò appunto sta il mistero. Con tutto ciò non potendo noi capire il perché Iddio non abbia voluto affrancare l’uomo da quella naturale debolezza che lo rende peccabile, non porremo mai dire che Iddio voglia il male e ne sia Egli la causa. Il male Iddio lo permette, ma assolutamente non lo vuole, non può volerlo: se potesse voler il male, non sarebbe più Dio. Epperò non mai e poi mai si potrà ascrivere a Lui il più piccolo dei peccati, come appunto diceva S. Agostino. – E come mai sarebbe ciò possibile? Dio ha creato gli uomini, perché un giorno abbiano da possedere e godere Lui, e vorresti che Egli sia l’autore dei peccati, che allontanano l’uomo dal conseguimento del suo fine? Dio è l’infinita bontà e l’infinita giustizia, e vorresti che fosse l’autore della malizia e dell’ingiustizia? Dio è il punitore del peccato, e vorresti che punisse negli altri il peccato, di cui fosse Egli la causa? Dunque sia pure che noi non comprendiamo perché Iddio permette il peccato, ma non sia mai che sopra di Lui gettiamo la colpa dei peccati che commettiamo noi, abusando della libertà  che ci ha dato.

— Ho inteso e passo perciò ad esporle un’altra difficoltà.

Di su adunque.

— Se Iddio è, come non si può dubitare, sapientissimo, saprà certamente se noi ci salveremo o se ci danneremo, non è vero?

Verissimo!

— Dunque io dico: se Egli sa che mi salverò, sarò salvo; se Egli invece sa che mi dannerò, andrò dannato. Epperò che bisogno c’è ch’io mi travagli per salvarmi? Non mi resta così tolta ogni libertà di provvedere al mio eterno destino?

Anche questa è una difficoltà assai grave, ma se tu stai ben attento, spero che non riuscirà del tutto insolubile. – Tu dici adunque: « Iddio sa se mi salverò o se mi dannerò; » e da  questo sapere Iddio se ti salverai o ti dannerai, trai la conseguenza « che torna inutile che ti travagli per salvarti, perché non resti più libero di provvedere per parte tua al tuo eterno destino ». Ora io comincio a risponderti col fare a te una domanda. Che diresti tu a tua madre, se essa oggi ti dicesse: Figliuol mio, Iddio sa se quest’oggi devi pranzare o no; quindi è inutile che io ti prepari o non ti prepari il pranzo: se Dio sa se quest’oggi devi pranzare, pranzerai; se sa che non devi pranzare, non pranzerai?

— Oh! per certo le direi: Mia buona madre, per intanto fate il piacere di preparare il pranzo, e poi sarà come a Dio piacerà.

Così dico io a te: Pertanto tu fa da parte tua quello che importa per salvarti, e allora ti salverai; perché se al contrario non farai di tua volontà quello che devi e puoi fare per la tua eterna salvezza, certamente ti dannerai..

— Ma dunque la scienza che ha Iddio intorno alla nostra eterna destinazione non fa sì, che essa accada come Dio l’ha prevista?

La nostra eterna destinazione sarà senza dubbio infallantemente quale Iddio l’ha prevista, ma questa previsione, o a meglio dire visione (non essendovi innanzi a Dio futuro, ma tutto presente) non fa che la nostra eterna destinazione non sia ancor pienamente dipendente dalla nostra libera volontà. Supponi che tu ti trovassi sopra un terrazzo prospiciente un ampio cortile, dove molti govani tuoi compagni stanno divertendosi. Che vedresti tu?

— Eh! vedrei di quelli che corrono, di quelli che saltano, di quelli che fanno circolo, di quelli che si bisticciano, di quelli che si regalano  magari qualche pugno.

E vedendo tu tutte queste cose, ne saresti tu la cagione?

— Niente affatto!

E i tuoi compagni benché tu li veda, non restano ancor sempre liberi di proseguire i loro giuochi, le loro occupazioni, di fare quel che vogliono fare?

— Liberissimi. Il mio vedere nulla influisce sulla loro libertà.

Va bene. Ora stammi attento: Iddio da tutta l’eternità con la sua scienza infinita ha tutto presente dinanzi a sé, epperò tutto il bene e tutto il male che faranno gli uomini con tutte le circostanze più minute e particolari, e la loro conseguente salvezza o dannazione. Ma perciò che Egli tutto vede, si potrà dire la causa di quello che noi facciamo di bene o di male per salvarci o per dannarci? No assolutamente. Egli ci lascia fare il bene o il male, epperò operare la nostra salvezza o la nostra dannazione, a seconda della libertà che ci ha dato. Quindi non è già che noi facciamo il bene o il male perché Egli lo vede; ma Egli lo vede perché noi lo facciamo. Insomma Iddio vede che tu ti salverai, se tu liberamente vivrai da buon Cristiano per salvarti; e vede che ti dannerai, se tu di tua volontà vai alla dannazione vivendo male.

.— Mi sembra di aver inteso, e voglio dargliene una prova. Ecco dunque: Bisogna che io mi adoperi quanto posso per salvarmi, benché Iddio sappia se mi salverò o se mi dannerò dal vedere quello che io farò per salvarmi o per dannarmi; e la scienza, che egli ha intorno alla mia futura destinazione, non forza minimamente la libertà, che io ho di fare, il bene per salvarmi, o non farlo e fare il male èer dannarmi.

Benissimo; tu hai inteso egregiamente.

.— Resta però sempre verissimo che io infallibilmente mi salverò o mi dannerò, come Iddio ha previsto e come Egli ha predestinato.

Sì, senza dubbio, ma resta pure sempre verissimo che tu ti salverai o ti dannnerai liberamente. E questa verità, cioè l’infallibile prescienza divina e la conseguente predestinazione degli uomini ad essere salvi o dannati non contraddicono affatto a quest’altro della libertà dell’operazione umana. Ciascuna di queste verità è certa, e se torna alquanti difficile a combinarle insieme, ciò è in causa della nostra ignoranza, ma non già della impossibilità di farlo. Tutto sta che noi riflettiamo bene che Iddio non determina egli con la sua prescienza le nostre azioni buone o cattive e la nostra conseguente salvezza o dannazione, ma che invece Iddio infinitamente sapiente, vede da tutta l’eternità quelli che faranno bene e quelli che faranno male. E siccome da tutta l’eternità, in conformità alla sua giustizia, Egli ha decretato di premiare eternamente i buoni e castigare eternamente i cattivi, perciò da tutta l’eternità Egli vede altresì a chi darà il premio e a chi il castigo eterno, destinando in tal guisa gli uni a salvarsi, gli altri a dannarsi.  – Ma in tal guisa la predestinazione dell’uomo, sia alla gloria del cielo, sia alla dannazione dell’inferno, dipende interamente dalla libera volontà dell’uomo stesso, dal fare egli cioè liberamente il bene o il male. Così che siamo noi, che da noi stessi ci predestiniamo, essendo ché siamo noi, che ci vagliamo della nostra libertà o a meritare il premio dei buoni o il castigo dei cattivi.

— Ma stando così le cose, che non ostante la prescienza e la predestinazione divina noi restiamo interamente liberi nel fare il bene e salvarci o nel fare il male e dannarci, non sarebbe stato meglio che Iddio non ci avesse data la libertà?

No, caro mio. Se Iddio non avesse dato all’uomo la libertà, non ne avrebbe fatto, come volle, il capolavoro delle sue mani. La libertà è la dote, che ci pone a capo del mondo, è il perno della nostra grandezza e della nostra nobiltà, è il colmo delle nostre rassomiglianze con Dio. Tu sai quello che in proposito dice Dante:

Lo maggior don che Dio per sua larghezza

Fesse creando ed alla sua bontate

Più conformato, e quel ch’ei più apprezza,

Fu della volontà la libertate,

Di che le creature intelligenti,

E tutte e sole, furo e son dotate.

La libertà adunque è cosa per sé eccellente, così alta, così divina, di tale gloria a Dio e a noi, che Egli nella sua infinita sapienza e bontà ha preferito che vi fossero di quelli che ne abusassero, facendo il male e conseguentemente dannandosi, anziché non donarcela. Del resto per la stessa ragione che tu dici il Signore non avrebbe neppure dovuto darci gli occhi, le mani, la lingua, eccetera, perché non possiamo noi servirci, e non vi hanno molti purtroppo, che si servono anche di tali sensi per fare il male e dannarsi? In conclusione: o togliere la libertà all’uomo, o ammettere il male morale e la conseguente dannazione di taluni.

— Qualche cosa ho inteso. Iddio però, se lo volesse, potrebbe impedire in noi l’abuso della libertà, e trascinarci per forza sulla via del bene.

Sì, lo potrebbe benissimo. Ma sarebbe un far violenza alla nostra libertà. Dio vuol trattarci bene e non venir meno alla natura che ci ha dato, né fare con noi come si farebbe con un automa. Questo inoltre sarebbe un diminuire la nostra felicità futura. Quanto ci sarà più dolce il paradiso, pensando che abbiamo dovuto sostener delle lotte contro del male affine di conseguirlo!

— Ciò è verissimo. Ma intanto come conciliare tutto ciò con la bontà divina? Se Iddio è infinitamente buono, perché, sapendo che taluni andranno dannati, nulladimeno li crea?

Questa, amico mio, si può veramente riguardare come la più grave e più spaventosa difficoltà della dottrina cattolica. Cercherò di districarla alquanto ma brevemente, perché nello scandagliare questo mistero, si corre troppo rischio di sbagliare. – Vedi: Iddio è libero di fare quel che vuole e la libertà di Dio è sì gran bene, che non può venire al confronto con nessun bene o nessun male delle creature. Perciò sebbene Iddio preveda che taluno sarà malvagio, non perciò Egli deve rinunziare alla libertà di crearlo. Ma creandolo, lo fa Egli forse a questo fine che sia malvagio? Mai no: Egli lo crea, ancorché preveda che sarà malvagio, ma lo crea col fine che sia buono e si salvi, perciocché è certissimo che Dio vuole di volontà sincerissima che tutti gli uomini, che vengono al mondo, si salvino, e senza eccezione di sorta, perché da tutti senza eccezione vuole praticato il bene ed evitato il male e la conseguente salute eterna di tutti. Inoltre a tutti gli uomini, anche a quelli che andranno dannati, Iddio dà gli aiuti necessari per salvarsi. Dunque se taluni, ricevendo da Dio il benefizio dell’esistenza e gli aiuti necessari a conseguire il loro fine, nulla di meno si dannano, perché abusano di tale benefizio e di tali aiuti, si dovrà dire che Iddio non sia buono, non sia benefico?

— No, certamente.

Aggiungi poi, che dal male morale, che Iddio permette in taluni, male per cui costoro si dannano, Egli sa cavare facilmente sì gran bene, da far risplendere anche in ciò di vivissima luce la sua bontà.

— E come mai?

Ci sono ad esempio degli uomini che fanno molto male e determinano così la loro dannazione? E Iddio di fronte a questi malvagi fa vedere la sua bontà a stimolarli in mille maniere alla penitenza, ad attendere pazientemente che si convertano, a dar loro spazio di tempo perché lo facciano. Vi sono dei malvagi, che non contenti di fare essi il male e andare essi incontro alla dannazione, vorrebbero ancora indurre altri a fare lo stesso, e si valgono a tal fine della loro prepotenza per tentarli o perseguitarli, se non si arrendono alle loro inique voglie? E Iddio manifesta la sua bontà nel sostenere i buoni, nell’aiutarli ad essere vincitori in tale lotta, nel fare sì che in tal guisa si presenti al mondo lo spettacolo delle virtù eroiche praticate dalle sante vergini, dai santi martiri, dai santi d’ogni maniera, che a costo di qualsiasi sacrificio restano fedeli alla sua tede ed alla sua legge. Insomma in un modo o in un altro Iddio cava sempre del bene dal male, e così fa sempre palese, nello stesso male che permette, la sua bontà. – Ma a questo riguardo se trovi ancora delle oscurità, ripensa all’osservazione che già ti feci, che il mistero è sempre mistero, e che se possiamo vederlo chiaro da qualche lato, vederlo chiaro del tutto ci è assolutamente impossibile.

Oggetto adorabile della divozione al SACRO CUORE di GESU’.

Oggetto adorabile della divozione al Sacro Cuore di Gesù.

[Sac. A. Carmignola: IL SACRO CUORE DI GESÙ; S.E.I. Ed. Torino, 1920 – III disc. ]

Iddìo è il primo principio di tutte le cose create e di tutte il conservatore. E poiché ad ogni persona dotata di qualche dote eccellente devesi onore, perciò devesi onore a Dio, perché vi ha in Lui un’eccellenza infinita, che a noi si manifesta specialmente con quella somma onnipotenza ed immensa bontà, con cui dà l’essere a tutte le cose e a tutte le mantiene. Ora l’onore a Dio dovuto gli si offre per mezzo della religione. – Ma l’uomo rispetto alla Religione, come dimostra purtroppo la storia dei passati secoli, non è altro che un povero bambino. Quando il bambino ha fame e la madre non gli è là per dargli il seno, egli allora approssima alla bocca qualsiasi cosa che gli cada sotto la mano, e la divora e la inghiottisce come fosse un alimento di vita, ancorché al contrario fosse veleno e gli recasse la morte. Così rispetto alla religione avviene per l’uomo, allorché si trova fuori della vera Chiesa. Lungi da questa madre divina, la sola che gli offra il vero mezzo di porsi in intima comunicazione con Dio, sospinto dalla fame che di ciò naturalmente ha in cuore, egli converte stupidamente qualsiasi cosa in Dio, si fa de’ falsi dei, si abbandona ad onorarli come fossero il vero Dio, e per dirlo in breve, cade nell’idolatria, cioè nell’aberrazione più abusata dello spirito e del cuore umano. Or bene, o miei cari, lo credereste? Questo delitto così orribile venne pure attribuito da taluni ai devoti del Sacro Cuore di Gesù. Sì, nello stabilirsi del culto al Sacratissimo Cuore non mancarono certi spiriti beffardi, i quali facendosi a schernire i sapientissimi seguaci di questo culto istesso, chiamaronli col nome di cardiolatri, di cordicoli, di adoratori di un viscere. Certamente non vi sarebbe bisogno di far conoscere a voi la falsità di questa accusa. Tuttavia, per rassodarvi sempre più nel culto che rendete al Sacratissimo Cuore, io voglio mostrarvi oggi come l’oggetto di questo culto, sotto qualsivoglia aspetto può considerarsi, vuol essere adorato, e come perciò non è se non con infallibile sapienza che la Chiesa ci invita a rendere tale omaggio al Cuore di Gesù, dicendo: Cor Jesu, charitatis victimam, venite adoremus.

I. — Dio è amore, dice S. Giovanni: Deus charitas est. (I Joan. IV, 8) L’amore è la sua essenza, la sua vita, la sua legge. Contemplando se stesso Egli si vede infinitamente bello, infinitamente buono, opperò infinitamente degno di essere amato; e con uno slancio, che dura da tutta l’eternità, Egli si volge a se stesso ad amarsi d’amore infinito. Ma questo Dio, tutto amore, non solo ama se stesso, ma ama ancora tutte le sue creature. O Dio, esclama il Savio, tu ami tutte le cose che esistono, ed avendole tu fatte non ne odii alcuna: Diligis omnia quæ sunt, et nihil odisti, eorum, quæ fecisti (Sap. XI, 25). Come ciò avvenga non è facile spiegarcelo, perché se si segue la sentenza di S. Dionisio, che ciò che ama Dio nelle sue creature è quella parte di sua bellezza e di sua bontà che in esse ha posto, come non seguire altresì quella dell’Angelico S. Tommaso, il quale asserisce che questa parte di bellezza e di bontà sono già effetto dell’amore di Dio? Ma comunque sia la cosa, ciò che è indubitabile si è, che Dio ama le sue creature. E poiché tra le sue creature tengono un posto principalissimo gli uomini, che Egli ha fatti a sua immagine e somiglianza, è certissimo altresì, che agli uomini porta un amore specialissimo. E chi può dubitarne? – Ascolta bene, o uomo. Tu non esistevi ancora, non esistevano ancora i padri tuoi, anzi non eranvi ancora il cielo, la terra, gli Angeli, e Dio già ti amava, e ti amava da tutta l’eternità. Sì, da tutta l’eternità ti aveva concepito nella sua mente, ti teneva innanzi a sé, pensava a te, a crearti, a farti del bene, ad annoverarti tra i suoi fratelli, tra i figli di Dio, tra gli eredi del cielo, a illuminarti con l’insegnamento delle verità celesti, a confortarti con le sue grazie, ad aiutarti in ogni guisa, perché un giorno avessi poi ad essere con Lui unito per sempre. Così ti amava Iddio. Ma vi era forse in te alcun merito a tanto amore, oppure aveva Iddio alcun obbligo di così amarti? Mai no. Tuttavia Egli ti amò gratuitamente e di amore eterno: In charitate perpetua dilexi te. (IER. XXXI, 3). – Ma ecco che questo Dio che nel suo pensiero ti amava da atta l’eternità si pone per te ad attuare i suoi disegni d’amore. Per te crea il mondo con tutte le sue meraviglie e per te lo conserva. Per te incessantemente somministra alle creature la forza che le sostiene e la costanza che le fa resistere; per te fa spuntare il sole sull’orizzonte, fa brillare le stelle, fa discendere le piogge, fa vivere gli animali, fa germogliare le piante e produrre i frutti, per te insomma apre la sua mano divina a spargere su tutti gli esseri la sua benedizione e a diffondere nei medesimi la vita. E poi con le sue stesse mani prende la creta e forma il tuo corpo, e dalla sua bocca spira in te l’alito di vita. E con quest’alito ti dà l’intelletto, la volontà, la libertà, la memoria, l’immaginazione, i1 cuore, il pensiero, la parola e tanti altri doni che formano di te il re della creazione. Più ancora, Egli ti innalza ad uno stato meraviglioso e soprannaturale, sicché gli Angeli fuori di sé per lo stupore, vanno chiedendo a Dio: E chi è mai l’uomo che tu hai fatto sì grande, ed al quale hai rivolte tutto le tenerezze del tuo cuore? Quid est homo quia magnificas eum? aut quid apponis erga eum cor tuum? (IOB. VII, 17) Ma ciò non è tutto. Poiché sgraziatamente per la colpa sei caduto dalla tua grandezza, e sei precipitato in un abisso di miserie, per rialzartene impone al suo Figlio Divino di lasciare il cielo, venire in terra, di farsi uomo e di sacrificarsi per te. Ed eccolo, questo Divin Figlio, obbediente alla voce del suo divin Padre, nascere in una povera stalla e fra gli orrori di una cruda stagione, eccolo sottostare alle persecuzioni di un re geloso e pigliar la via dell’esilio, eccolo menare la vita prima tra gli stenti e tra le fatiche nell’umile bottega di un fabbro falegname, e poi tra l’ingratitudine, il disprezzo, e le minacce di uomini protervi ed invidiosi; eccolo oppresso dal timore, dal tedio, dalla tristezza mortale agonizzare e sudar sangue in un orto; eccolo dopo aver passato tra un popolo facendo del bene e dando a tutti gli infermi la sanità, lasciarsi catturare come vile malfattore, trascinare carico di catene dall’uno all’altro tribunale, flagellare orrendamente a sangue, incoronare di spine e condannare iniquamente a morte; eccolo al fine, portata Egli medesimo la croce sulla cima di un monte, lasciarsi affiggere ed inalberare su di essa, e su di essa dopo aver agonizzato per tre ore in un mar di tormenti, spirar l’ultimo fiato. Oh amore! oh amore! Ben ha ragione l’Apostolo S. Giovanni di esclamare: Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenitum daret. (III, 16) Ma pure ciò non basta ancora. Perciocché questo Figlio Divino, che dopo essersi sacrificato per noi sulla croce, deve risorgere e salire al cielo per preparare lassù un luogo anche a noi, prima di salirvi Egli trova il modo di rimanere in mezzo a noi con la sua reale presenza sino alla fine del mondo, di perpetuare tra di noi il sacrificio di se stesso al suo Divin Padre per la nostra salute, di diventare il cibo spirituale e celeste delle anime nostre. O Santissima Eucarestia, non ci parli tu in modo sopra ogni altro eccellente dell’amore immenso di Dio per noi? Sì, senza dubbio, per te tutti gli amori sono vinti; per te, Iddio ha esaurite le ricchezze della sua bontà; per te ci ha dato tutto ciò che poteva darci: Sic Deus dilexit! – Or bene, o miei cari, di questo immenso amore di Dio per noi è simbolo per l’appunto il Sacratissimo Cuore di Gesù. Epperò questo Cuore Sacratissimo, quando pure non fosse altro che il segno simbolico di quest’amore, giustissimamente sarà da noi adorato, perché in sostanza l’adorazione nostra avrà per oggetto supremo alcunché di divino. Forse che gli uomini, e coloro medesimi che insultano le pratiche del culto cattolico, non tributano ancor essi un qualche culto a quei segni che ci ricordano qualche cara persona o simboleggiano qualche sua bella dote? Perché talvolta sì grande venerazione ed amore ad una spada, ad un abito, ad uno strumento, ad un piccolo ritratto, ad una ciocca di capelli, ad un fiore appassito? Quegli eretici e quegli increduli che con tanta facilità si fanno a qualificare di superstizioso ed idolatrico il culto che noi, veri Cattolici, rendiamo ai simboli ed alle memorie delle perfezioni di Dio, di Gesù Cristo, della Vergine e dei Santi, si mettono in aperta contradizione con se stessi. Perciocché tra cotesti eretici ed increduli v’hanno sin di coloro, che conservano religiosamente il cuore di Zwinglio, uno dei laro maestri, di coloro che mostrano ed onorano i calzoni di Lutero, di quelli che tengono in devota venerazione il bastone e la tabacchiera di Voltaire! Tanto è vero anzi tutto che chi cessa di essere religioso e credente e si fa a beffare la religione e la fede, diventa egli credulo e superstizioso, e tanto è vero altresì che tale è l’istinto naturale del nostro cuore, che ne spinge a legare ad un oggetto qualsiasi il ricordo delle altrui virtù e i più cari sentimenti dell’altrui stima e dell’altrui amore. Ora se tributasi un culto ad un segno che ricordi una persona umana, ad un simbolo di una qualche sua rara qualità, non si dovrà tributare un culto, ed il culto supremo, il culto di adorazione, a quel Cuore che ci ricorda e ci simboleggia la carità di un Dio per noi? Sì, certamente, anche per sola ragione il Cuore Sacratissimo di Gesù è Cuore adorabile.

II. — Ma ciò non basta. Il Cuore di Gesù vuol essere adorato, perché fu in realtà il principale strumento dell’amor divino per noi, l’organo che risentì maggiormente tutti gli affetti e tutti gli strazi, a cui Gesù Cristo fu assoggettato nel compiere l’opera della nostra redenzione. Ponete ben mente. Come nei corpi vi ha un centro di gravitazione, così ve ne ha uno nella nostra vita fisica e morale, e questo centro di azione della nostra doppia vita è il cuore. Io non ignoro che vi sono degli scienziati che contrastano al cuore la sovranità che i popoli gli attribuiscono, volendo far cadere ciò che essi chiamano il prestigio e la poesia del cuore. Ma checché essi dicano e scrivano, non riusciranno tuttavia giammai ad impedire che il cuore sia in realtà l’organo che principalmente si risente delle affezioni dell’anima. Esso è per così dire il termometro di quella interna atmosfera, che a seconda dei casi, or lieti, or tristi, or piacevoli, ora dolorosi, invade l’anima. Di fatti a seconda di tali casi ora balza nel petto, ora accelera i suoi battiti., ora si dilata, ora si restringe, ora si infiamma, ora si raffredda, ora si consuma ed ora vien meno. Ma fra tutte le passioni dell’anima tiene il primo posto l’amore; anzi, come insegna l’Angelico dottore S. Tommaso, non vi ha alcuna passione, che non presupponga l’amore e della quale l’amore non sia fonte. Perocché in tutta la vita dell’uomo è propriamente l’amore, che con il suo movimento le dà impulso. L’intelligenza guarda, la volontà comanda, ma l’amore è quello che va ed eseguisce; l’amore spira, l’amore chiama, l’amore si slancia, l’amore si precipita, l’amore gravita traendo seco tutto ciò che gravita intorno a lui: essendo che dove tende il nostro amore, là tendono i nostri desiderii ed aspirazioni, le nostre parole, le nostre opere, le nostre virtù, e pur troppo anche i nostri vizi, secondo che il nostro amore è ordinato o disordinato. Quæcumque feror, amore feror, ha detto assai egregiamente S. Agostino, perché pondus meum, amor meus; il peso della mia vita è il mio amore. Se adunque fra tutte le passioni dell’anima tiene il primo posto l’amore, e se il cuore è nel corpo umano l’organo che più si risente delle passioni dell’anima, è chiaro perciò che il cuore è l’organo che per eccellenza sente e misura la passione dell’amore. Non basta. Il cuore situato, quasi sovrano degli altri organi, pressoché in mezzo del corpo, è desso che mette in moto senza alcuna posa il sangue e lo manda a nutrire tutte le altre parti del corpo, e ad infondere in esse la vita. Cosicché quando taluno arriva a questa prova suprema di amore per alcun altro, da versare per lui il suo sangue, in quest’uomo generoso è il cuore propriamente che si esaurisce e che col sangue spinge fuori di sé la vita. – Ciò riconosciuto, torna facilissimo il vedere come il Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo non sia soltanto il simbolo dell’amore divino per noi, ma ancora lo strumento di tale amore, quell’organo, che nel corpo di Gesù Cristo per cagione di tale amore provò le più vive sensazioni, l’organo anzi, da cui l’amore divino mandò fuori il sangue preziosissimo col quale si operò la nostra redenzione. Difatti era nel Cuore di Gesù Cristo intenerito, che Iddio si inteneriva alla vista dei fanciulli e provava un’insolita gioia nell’accarezzarli e nel benedirli. Era in questo Cuore infiammato, che Dio si infiammava di santo sdegno al pensiero di chi avrebbe scandalizzate queste animucce da Lui predilette. Era in questo Cuore commosso dei sordi, dei muti, degli storpi, dei lebbrosi, degli ossessi, dei peccatori, e si sentiva spinto a manifestare in loro prò, la sua potenza e la sua bontà. Era in questo Cuore dilatato che Dio dilatava la sua bontà nell’intrattenersi con gli Apostoli, con i discepoli, con gli amici e confidenti, facendo loro intendere parole di vita eterna. Era in questo Cuore balzante nel petto di Gesù, che Iddio in quell’istante da Lui tanto sospirato giubilava di allegrezza instituendo il Sacramento dell’amore. Era in questo Cuore insomma, che Iddio sentiva tutte quante le espressioni molteplici della sua passione d’amore per gli uomini. Ma fu da questo Cuore soprattutto, che nell’agonia del Getsemani, oppresso dalla paura, dal tedio e dalla tristezza, alla vista degli acerbissimi patimenti cui andava incontro, dei peccati degli uomini che gli gravitavano sopra, e delle nere ingratitudini, fu da questo Cuore, dico, che Iddio risospinse il sangue che trasudava per tutte le membra del corpo di Gesù Cristo, e gocciolava a terra. Fu per questo Cuore che sulla croce, esausto ormai per il sangue versato nella flagellazione, nella coronazione di spine e nella crocifissine, manifestò la sete divina di tutte le anime del mondo. Fu infine da questo Cuore, che ferito dalla lancia di un soldato, fece uscire le ultime gocce di sangue e di acqua che ancor vi restavano, per figurare quei fiumi di grazia che avrebbe versato mai sempre sopra di noi, per mezzo de’ suoi Sacramenti. – Or dunque se il Cuore di Gesù Cristo è desso propriamente il centro di tutti i movimenti amorosi di Dio per noi, e lo strumento precipuo di cui Iddio si valse in tutte le prove che Egli ci ha dato della sua carità divina, e specialmente nelle supreme, se insomma il Cuore di Gesù è la sede dell’amore di Dio per gli uomini, non merita esso il nostro culto, ed il culto supremo di adorazione? Sì, senza dubbio, perché adorando questo Cuore, noi adoriamo, come siamo in dovere, la carità divina. Epperò ben a ragione la Chiesa, nostra sapientissima ed infallibile maestra, nell’atto stesso che chiama con tanta proprietà il Cuore di Gesù Vittima di carità, ci invita ripetutamente ad adorarlo: Cor Jesu, charitatis victimam, venite adoremm. Sì, il Cuore di Gesù Cristo fu la parte principale di quella Vittima umana-divina che si sacrificò per la salute del mondo, epperò « è ben degno di ricevere la virtù, e la divinità, e la sapienza, e la fortezza, e l’onore, e la gloria, e la benedizione, » (Ap. V, 12) è ben degno insomma di essere adorato.

III. — Ma ecco un’ultima e suprema ragione, per cui al Sacratissimo Cuore è dovuto il culto di adorazione. La verità che forma la base, il centro ed il fine di nostra santa Religione, è la Divinità di Gesù Cristo. Se Gesù Cristo non fosse Dio, come spiegare l’esistenza del Cristianesimo? Ogni effetto suppone una causa; e come il mondo con la sua esistenza, con i suoi movimenti, con le sue bellezze ed armonie ci fa credere al supremo Creatore e Governatore, così il mondo cristiano, che si trova sparso da per tutto e che, sebbene in apparenza più piccolo dell’universo, è in realtà di una grandezza immensamente superiore, ci deve far credere a Gesù Cristo Dio, che lo ha fondato ed ordinato. Senza la divinità di Gesù Cristo, il Cristianesimo sarebbe un cumulo di effetti i più mirabili senza causa, di opere le più sorprendenti senza fattore. Anzi, se Gesù Cristo non fosse Dio, non solo non si potrebbe spiegare l’esistenza del Cristianesimo, ma questo, come immenso edificio campato in aria senza fondamento ed esposto alla furia di tutti i venti, dovrebbe tosto sfasciarsi e andare in rovina. Ma quale verità vi ha mai, che sia meglio comprovata della divinità di Gesù Cristo? Venuto Egli al inondo per salvarlo, si è fatto perciò vero uomo, prendendo la nostra umana natura. Ma prendendo nella sua Persona la nostra umana natura, non lasciò di conservare la natura divina e di restare vero Dio, quale già esisteva ab aeterno, Figliuolo di Dio eguale al Padre ed allo Spirito Santo, con essi Creatore del Cielo e della terra, e Padrone assoluto di tutte le cose. E vero Dio lo dissero i profeti, che tanti secoli innanzi la sua venuta, illuminati da Lui, ne annunziarono la nascita, la vita, la passione, la morte, la risurrezione e l’ascensione al Cielo con tutte le loro circostanze più minute e particolari. Vero Dio lo credettero gli uomini dell’antico testamento, sospirando che Ei rompesse i cieli e ne scendesse a rallegrarli con il suo divino aspetto. Vero Dio si proclamò Egli stesso in faccia ai suoi discepoli e confidenti, in faccia al popolo ed ai magistrati, nel corso della sua vita e al punto stesso della morte. Vero Dio lo manifestarono il suo spirito il più sublime ed il più semplice ad un tempo, il suo Cuore il più amante e il più puro, la sua volontà la più ferma e la più retta. Vero Dio lo chiarirono i miracoli d’ogni sorta da Lui operati sugli infermi risanandoli da ogni languore, sui morti risuscitandoli in vita, sul mare e sui venti burrascosi acquietandoli all’istante, su pochi pani e pochi pesci moltiplicandoli per saziare migliaia di persone. Vero Dio lo dimostrarono le profezie fatte da Lui medesimo sulla sua morte, sulle circostanze che la accompagnarono, sulla gloriosa sua risurrezione, sull’eccidio di Gerusalemme, sulle tribolazioni e morte de’ suoi discepoli, sulla conversione del mondo, sulla diffusione del Vangelo, sullo stabilimento della sua Chiesa e sull’immortale sua vita. Vero Dio lo proclamarono i Giudei medesimi, amici e nemici, quelli con l’abbracciarne la religione, questi con il dannarlo a morte, sotto il mendicato pretesto che Ei facevasi Dio. Dio lo gridarono gli stessi soldati romani che, per ordine di Pilato, messolo in croce, avevano assistito al suo estremo supplizio. Dio lo dimostrarono l’oscurarsi del sole, il tremar della terra, il piangere di tutta la natura, come sulla tomba del suo divino Autore; Dio lo palesò la sua gloriosa risurrezione che atterrì le guardie, e pose in scompiglio e tolse persino il senno ai capi della Sinagoga; Dio lo predicarono da un capo all’altro della terra gli Apostoli, operando col nome suo non mai visti né uditi prodigi, dando tutti la vita in conferma di questa verità essenziale; Dio lo riconobbe il mondo pagano, che a Lui rapidamente si diede, abbandonando gli adorati idoli, rovesciandone gli altari, distruggendone i templi, e sulle loro rovine piantando e adorando la croce; Dio lo confessarono in ogni tempo sulle grate infuocate, tra le fauci delle fiere, sulla punta delle spade milioni di martiri di ogni età, sesso e condizione, morendo con giubilo e gridando: « Gesù Cristo è Dio, Lui adoriamo: con Lui regneremo in eterno. » Dio lo ossequiarono le menti più colte, i guerrieri più prodi, i Signori ed i Monarchi più potenti. Dio lo mostra ancora la sua Religione, la sua Chiesa, combattuta sempre, e vinta non mai. Dio lo manifesta l’amore invincibile che dopo tanti secoli di sua mortale carriera, a malgrado di tante persecuzioni, a costo di tanti sacrifici gli serbano i popoli, come figli ad un padre morto pur ora. Dio finalmente lo attesta quell’odio medesimo, così costante e così implacabile, che ebbero contro di Lui i suoi nemici, ed i bestemmiatori del suo santo Nome. Perciocché l’odio feroce contro Gesù Cristo si trova forse negli adoratori e amanti di Dio? Ah! l’odio che costoro professano contro Gesù Cristo è figlio della fede che hanno in Lui, e dall’accento con cui dicono: « Gesù Cristo non è Dio » è facile conchiudere « Gesù Cristo è Dio. » Sì, Gesù Cristo è Dio, ecco l’affermazione universale e perpetua dell’umanità. E contro di questa affermazione potrà levarsi per poco l’orgoglio degli anni giovanili, gettati in preda alle passioni, l’orgoglio più altero di una scienza vana e falsa, l’orgoglio anche più sfrenato di un esito apparentemente felice nella guerra ingaggiata contro l’opera di Gesù Cristo stesso: ma quando le passioni sono calmate, quando l’ebbrezza della scienza mondana è passata, quando la sventura ha colpito e fiaccato d’un tratto l’umana alterigia, allora, salvo rarissime eccezioni, si ritorna a quell’affermazione, che nostra madre tenendoci stretti alle sue ginocchia ci faceva ripetere negli anni dell’infanzia: « Figlio mio, chi è Gesù Cristo? » — « O mamma, Gesù Cristo è Dio. » In Gesù Cristo adunque, Verbo divino fatto carne per la nostra salute, vi sono due nature, la natura divina e la natura umana, ma non vi ha che una sola Persona, la Persona divina. Ora poiché tanto la natura divina, quanto la natura umana sussistono nella sola Persona divina di Gesù Cristo, sia che si riguardi Gesù Cristo secondo la natura divina, sia che si riguardi secondo la natura umana, sia che si consideri in Lui lo spirito purissimo che è come Dio, sia che si consideri la carne di cui Egli, seconda Persona della SS. Trinità, si rivestì nel venire sulla terra ad operare la nostra redenzione, sempre vuol essere onorato col supremo culto di adorazione, con cui si onora la Divinità. E la ragione di ciò, del tutto conforme alla dottrina della Chiesa, è assai chiaramente espressa da S. Giovanni Damasceno. Egli dice: « Uno è Gesù Cristo, perfetto Iddio e perfetto uomo, che noi col Padre e con lo Spirito Santo adoriamo di una sola adorazione insieme con la Carne Immacolata. Né ricusiamo di adorare la Carne, poiché l’adoriamo nella Persona del Verbo, che in sé l’ha assunta; né per questo adoriamo una creatura, poiché non adoriamo la Carne presa da sé sola, ma come congiunta alla divinità, e perché le due Nature di Lui sono unite nella Persona del divin Verbo. » Così adunque, come ci spiega questo Santo, anche la Carne assunta da una Persona divina, vuol essere da noi adorata. Epperò ben a ragione la Chiesa, fin dal V° Concilio Ecumenico, contro di coloro che avrebbero voluto sottrarre al culto di adorazione la Carne di Gesù Cristo, pronunziò questa condanna: « Se alcuno ricusa di adorare con una sola e medesima adorazione il Verbo divino e la Carne ond’è rivestito … sia scomunicato. » – Or bene, o miei cari, quello che la dottrina Cattolica stabilisce relativamente a tutta l’Umanità di Gesù Cristo, si ha da dire anche in particolare del suo Cuore. Esso è una parte nobilissirna della stessa Umanità di Gesù Cristo, e per conseguenza con tutto il restante di essa è veramente e realmente unito alla Persona del Divin Verbo, anzi come tutta la restante Umanità non altrimenti sussiste ed esiste se non per questa stessa vera e reale unione. Quindi è, che questo cuore non è solamente il cuore di un uomo per quanto nobile, eccellente e santo, ma è il cuore di un Uomo-Dio, è il cuore della seconda Persona divina, incarnatasi e fattasi uomo, in una parola è, a tutto rigore, il cuore di un Dio. Se adunque il Cuore di Gesù Cristo, il suo Cuore reale, appartiene all’integrità personale di Gesù Cristo e devesi sempre considerare unito alla Divina Persona di Lui, deve essere adorato, e adorandolo altro non si fa che adorare tutto intero Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo. E se vi ha chi stoltamente ci deride e ci compassiona, quasi idolatri, perché nella divozione al Sacro Cuore gli rendiamo il culto supremo di adorazione, riconosciamo che egli piuttosto meriterebbe di essere deriso e compassionato per la sua ignoranza. – Ma più ancora prendiamo di lì eccitamento ad onorare sempre più profondamente quel Cuore che tanto merita di essere onorato. Il santo Re David nel condurre l’Arca del Signore  in luogo più degno, deposta la reale maestà, camminando innanzi all’arca, faceva atti di santa gioia e di profonda umiliazione. Lo vide dalla finestra sua moglie Michol, ed oltre all’averlo disprezzato nel suo cuore, si fece ancora in seguito a schernirlo con amare parole. Ma il santo re tosto le rispose: « Al cospetto del Signore io mi abbasserò e mi renderò ancor più abbietto di quel che ho già fatto, perché si tratta del mio Dio. » Così, o carissimi, al disprezzo, con cui taluno ricoprisse la vostra pietà, il vostro culto al Sacro Cuore di Gesù, rispondete sinceramente in cuor vostro: Al cospetto del Cuore adorabile di Gesù Cristo mi abbasserò e mi umilierò anche di più, perché il Cuore di Gesù Cristo è Cuore di Dio. Sì, o Cuore Sacratissimo di Gesù, Cuore simbolo per eccellenza dell’amore di Dio per noi, Cuore sede e strumento di tale amore, Cuore realmente divino, noi vi presteremo mai sempre l’omaggio delle nostre adorazioni. Come vi hanno adorato gli Angeli al primo vostro comparire sulla terra e come oggi vi adorano i beati tutti del Cielo, così vi adoriamo anche noi. Vi adoriamo con la mente ed inchiniamo dinnanzi a Voi tutte le sue facoltà; vi adoriamo col cuore e vi offriamo i suoi affetti; vi adoriamo col corpo e vi pieghiamo riverenti le nostre ginocchia. E Voi nella bontà vostra infinita, degnatevi di gradire gli omaggi della nostra totale adorazione e di compensarli per modo che, un giorno, possiamo venire a perpetuarli lassù nel regno dei cieli, con gli Angeli e coi Santi. Così sia.

PASSIONE, RESURREZIONE E TRIONFO FINALE DI GESU’ CRISTO NELLA SUA CHIESA

PASSIONE, RESURREZIONE E TRIONFO FINALE DI GESU’ CRISTO NELLA SUA CHIESA.

[Mons. G. De Segur. “Œvres” tom. X, 3a Ed.: “Je crois” PARIS LIBRAIRIE SAINT – JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR; 112, RUE DE RENNES, Ed. 1887]–

Cap. III,
GESÙ-CRISTO REDENTORE E CAPO DELLA CHIESA

Gesù-Cristo e la Chiesa formano un tutt’uno indivisibile; la sorte dell’Uno, è la sorte dell’altra; e così come dove si trova la testa, là deve ugualmente trovarsi il corpo, allo stesso modo i misteri che si sono compiuti in Gesù-Cristo, durante la sua vita terrena e mortale, devono compiersi nella sua Chiesa durante la sua vita militante quaggiù. Gesù-Cristo ha avuto la sua Passione e la sua Crocifissione. La Chiesa deve anch’essa avere la sua Passione e la sua crocifissione finale. Gesù-Cristo è resuscitato ed ha trionfato miracolosamente sulla morte. La Chiesa resusciterà, e trionferà su satana ed il mondo, con il più grande e prodigioso dei miracoli: quella della resurrezione istantanea di tutti gli eletti, nel momento in cui Nostro-Signore Gesù-Cristo, attraversando i cieli, ne discenderà pieno di gloria con la sua Madre santa e tutti i suoi Angeli. Infine Gesù-Cristo, Capo della Chiesa, è salito corporalmente in cielo nel giorno dell’Ascensione: a sua volta la Chiesa, resuscitata e trionfante, salirà in cieli con Gesù per gioire con Lui, nel seno di Dio, della beatitudine eterna. Noi non conosciamo in maniera certa « né il giorno né l’ora » (Vigilate et orate, quia nescitis diem neque horam. – Ev. S. Matth., c. XV, 13.), in cui avverranno tali cose. Ciò che sappiamo, in modo generico ma infallibile, perché rivelato da Dio, è che « la fine verrà quando il Vangelo sarà predicato nel mondo intero, al cospetto di tutti i popoli. » (Et prædicabitur hoc Evangelium regni in universo orbe, in testimonium omnibus gentibus: et tunc veniet consummatio. – Ibid., XXIV. 14.). Ciò che noi sappiamo, è che prima che queste cose supreme e spaventose si avverino, e che costituiscono la Passione della Chiesa ed il regno dell’antiCristo, si avrà, dice San Paolo, l’apostasia (Nisi venerit discessio primum. – II ad Thess., II, 3.): l’apostasia ufficiale delle nazioni cristiane, l’apostasia generale o quasi generale dalla fede della santa Chiesa e dal Pontefice Romano (Defectio et rebellio illa insignis, plena et generalis qua scilicet pleræque et passim omnes gentes discedent et déficient tum a Romano Pontifice et Ecclesia, tum a fide et Christo. – Corn. a Lap., in loc. cit.). Infine, ciò che noi sappiamo, è che in questa epoca spaventosa, il carattere generale della malattia delle anime, sarà il rilassamento universale della fede ed il raffreddamento dell’amore divino, in seguito al sovrabbondare dell’iniquità. Agli Apostoli, che avevano domandato a nostro Signore, da quali segni i fedeli avessero potuto riconoscere l’avvicinarsi degli ultimi tempi, Egli rispose loro: dapprima ci saranno grandi seduzioni, e molti falsi dottori, molti seminatori di false dottrine riempiranno il mondo di errori seducendone un gran numero (Tunc scandalizabuntur multi. Et multi, pseudoprophetæ surgent, et seducent multos. – Ibid., 10, 11.); poi ci sarebbero state grandi guerre e si sarebbe sentito parlare solo di grandi combattimenti, e che regno si sarebbe levato contro regno (Auditum enim estis prœlia et opiniones prœliorum… Consurgent enim gens in gentem, et regnum in regnum. – Ibid., 6, 7.); – che da ogni luogo poi si avranno flagelli straordinari, malattie contagiose, eidemie, carestie e grandi tremori di terra (Et erunt pestilentiæ, et famés, et terræ motus per loca. – Ibid., 7.) . « E tutto questo, aggiunse il Salvatore, non sarà che l’inizio “dei dolori” (Hæc autem initia sunt dolorum. – Ibid., 8.). satana e tutti i demoni ne saranno la causa e, sapendo che non resta loro molto tempo, raddoppieranno il furore contro la santa Chiesa: faranno un ultimo sforzo per annientare, distruggere la fede e tutta l’opera di Dio. La rabbia della loro caduta distruggerà la natura, (Projectus est (satanas) in terram, et angeli ejus cum illo missi sunt…Væ terræ, et mari, quia descendit diabolus ad vos, habens iram magnam, sciens quod modicum tempus habet. – Apoc, XII, 9, 12.), i cui elementi, come detto, resteranno fino alla fine sotto le influenze malefiche degli spiriti cattivi. Allora comincerà la più terribile persecuzione che la Chiesa abbia mai conosciuto, degna delle atroci sofferenze che il suo divin Capo ebbe a soffrire nel suo corpo sacratissimo, a partire dal tradimento di Giuda. Nella Chiesa pure ci saranno scandalosi tradimenti, immense e lamentevoli defezioni; davanti all’astuzia dei persecutori e l’orrore dei supplizi, molti cadranno, anche tra i sacerdoti, anche tra i Vescovi: « le stelle dei cieli cadranno », dice il Vangelo. E i Cattolici fedeli saranno odiati da tutti, a causa di questa stessa fedeltà (Multi venient in nomine meo, … et multos seducent… Tunc tradent vos in tribulationem, et occident vos: et eritis odio omnibus gentibus propter nomen meum. – Ev. S. Matth., XXIV, 5, 9.) . Allora, colui che S. Paolo chiama « l’uomo del peccato ed il figlio della perdizione » (Homo peccati, filius perditionis. – II ad Thess., II, 3.) l’antiCristo, comincerà il suo regno satanico e dominerà tutto l’universo. Egli sarà investito dalla potenza a dalla malizia di satana (Et dedit illi draco virtutem suam et potestatem magnam. – Apoc. XIII 2.). egli si farà passare per il Cristo, per il Figlio di Dio; si farà adorare come Dio, e la sua religione, che non sarà altra cosa se non il culto di satana e dei sensi, si ergerà sulle rovine della Chiesa e sui detriti di tutte le false religioni che copriranno allora la terra (Adversatur et extollitur supra omne quod dicitur DEUS, aut quod colitur, ita ut in templo DEI sedeat ostendens se tamquam sit DEUS. – II ad Thess. II, 4.). L’antiCristo sarà una sorta di Cesare universale, che estenderà il suo impero su tutti i re, su tutti i popoli della terra; questo sarà un’infame parodia del Regno universale di Gesù-Cristo. satana gli susciterà un “sommo sacerdote”, parodia sacrilega del Papa; e questo sommo sacerdote farà predicare ed adorare l’antiCristo su tutta la terra. Per virtù di satana farà grandi prodigi, fino a far scendere fuoco dal cielo in presenza degli uomini; e per mezzo di questi prestigi, sedurrà l’universo. Egli farà adorare, sotto pena di morte, l’immagine dell’antiCristo; e questa immagine sembrerà vivere e parlare; ugualmente, sotto pena di morte, comanderà che tutti, senza eccezione, portino in fronte e sulla mano destra il segno della bestia, cioè il segno dell’antiCristo. Chiunque non porterà questo segno, non potrà né vendere né comprare, chiunque esso sia (Et vidi aliam Bestiam… Et potestatem prioris Bestiæ omnem faciebat in conspectu ejus: et fecit terram, et habitantes in ca, adorare Bestiam primam… Et fecit signa magna ut etiam ignem faceret de cœlo descendere in terram in conspectu hominum. Et seduxit habitantes in terra propter signa, quæ data sunt illi facere in conspectu Bestiæ, dicens habitantibus in terra, ut faciant imaginem Bestiæ… Et datum est illi ut daret spiritum imagini Bestiæ, et ut loquatur imago Bestiæ: et faciet ut quicunque non adoraverint imaginem Bestiæ, occidantur. Et faciet omnes… habere characterem in dextera manu sua, aut in frontibus suis. Et ne quis possit emere aut vendere, nisi qui habet characterem aut nomen Bestiæ. – Apoc. XIII, 11-17). Intorno all’immagine dell’antiCristo, i prestigi di satana saranno tali, che quasi tutto il mondo li scambierà per veri miracoli; e gli eletti stessi alla lunga potranno essere sedotti ; ma a causa degli stessi eletti, il Signore abbrevierà questi giorni (Dabunt signa magna et prodigia, ita ut in errorem inducantur (si fieri potest) etiam electi… Sed propter electos breviabuntur dies illi. – Ev. Matth., XXIV, 22, 24). « L’abominio della desolazione regnerà nel luogo santo (Cum videritis abominationem desolationis,… stantem in loco sancto. (Ibid., 15.) », per tre anni e mezzo, durante « quaranta due mesi (Et data est ei potestas facere menses quadraginta duos. – Apoc, XIII, 5.) », corrispondenti alle quarantadue ore che sono trascorse, come abbiamo già detto, dall’inizio delle tenebre della crocifissione di Gesù, il Venerdì Santo, fino all’ora della resurrezione, la Domenica di Pasqua, al sorgere del sole. Benché sempre visibile e composta dai suoi elementi essenziali, la Chiesa sarà, in tutto questo tempo, crocifissa, come morta e sepolta. Sarà dato all’antiCristo di vincere i servi di Dio e di far piegare, sotto il suo giogo, tutti i popoli e tutte le nazioni della terra; e, salvo un piccolo numero di eletti, tutti gli abitanti della terra lo adoreranno, nel tempo stesso in cui adoreranno satana, autore della sua potenza (Et datum est illi (Bestiæ) bellum facère cum sanctis, et vincere eos. Et data est illi potestas in omnem tribum, et populum, et linguam, et gentem: et adoraverunt eam omnés qui inhabitant terram, quorum non sunt scripta nomina in Libre vitæ Agni… Et adoraverunt draconem, qui dedit potestatem Bestiæ; et adoraverunt Bestiam. (Ibid., VII, 8,4.). Se in precedenza il feroce Diocleziano ha potuto credere per un istante che egli avesse definitivamente distrutto il nome di Cristiano, che sarà in quei tempi dei quali quelli di Diocleziano e di Nerone non saranno che un pallido simbolo? L’antiCristo proclamerà orgogliosamente la decadenza del Cristianesimo, e satana, padrone del mondo, si crederà per un istate essere il vincitore. Ma nello stesso tempo, come ci insegnano le Scritture e la Tradizione, si leveranno contro l’antiCristo « i due grandi testimoni (Et dabo duobus testibus meis. (Ibid., XI, 3) » di Gesù-Cristo, riservati per questi ultimi giorni, vale a dire il Patriarca Henoch ed il Profeta Elia, che non sono morti, come espressamente insegna la Scrittura. Essi verranno a predicare le vie del Signore,  predicheranno Gesù-Cristo ed il regno di Dio per mille e duecentosessanta giorni, cioè per la quasi intera durata del regno dell’antiCristo. La virtù di Dio li proteggerà e li conserverà. Essi avranno il potere di chiudere il cielo ed arrestare la pioggia per tutto il tempo della loro missione … avranno il potere di cambiare le acque in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di piaghe. (Et prophetabunt diebus mille ducentis sexaginta… Et si quis voluerit eis nocere, ignis exiet de ore eorum, et dévorabit inimicos eorum: et si quis voluerit eos lædere, sic oportet eum occidi. Hi habent potestatem claudendi cœlum, ne pluat diebus prophetiæ ipsorum; et potestatem habent super aquas convertendi eas in sanguinem, et percutere terram omni plaga quotiescumque voluerint. – Ibid., 3, 4, 5, 6.). Essi faranno miracoli senza numero, simili a quelli di Mosè ed Aronne (se ne può vedere la recita profetica in diversi passaggi dell’Apocalisse, la quale, come ognuno sa, è la grande profezia degli ultimi tempi della Chiesa), quando combatterono in Egitto l’empio faraone e prepararono la liberazione del popolo di Dio. Come Mosè ed Aronne, i due testimoni di Gesù-Cristo scuoteranno l’impero ed il prestigio del “maledetto”. Non di meno, questi perverrà ad impossessarsi di loro, ed essi subiranno il martirio … « là dove è stato crocifisso il Signore (In plateis civitatis magnæ, ubi et Dominus eorum crucifixus est. (Apoc, XI, 8), » vale a dire a Gerusalemme; o forse a Roma, ove l’ultimo Papa sarà stato crocifisso dall’antiCristo, secondo una tradizione immemorabile … Dopo tre giorni e mezzo, i due grandi precursori del Re di gloria, resusciteranno davanti a tutti i popoli, saliranno in cielo su di una nube, nel corso di un tremendo terremoto che seminerà il terrore dappertutto. (Et post dies très, et dimidium, spiritus vitæ a Deo intravit in eos. Et steterunt super pedes suos, et timor magnus cecidit super eos, qui viderunt eos … Et ascenderunt in cœlum in nube… Et in illa hora factus est terræ motus magnus. – Ibid,, 11, 12, 13.). Per mostrare la sua potenza, l’antiCristo, scimmiottando la trionfale Ascensione del Figlio di Dio e dei grandi Profeti, tenterà anch’egli di salire in cielo, in presenza dell’élite dei suoi adepti. Ed allora Nostro Signore Gesù-Cristo, simile al fulmine che squarcia il cielo dall’Oriente all’Occidente, apparirà improvvisamente sulle nubi, in tutta la maestà della sua potenza (Sicut enim fulgur exit ab oriente, et paret usque in occidentem; ita erit et adventus Filii hominis… Et videbunt Filium hominis venientem in nubibus cœli cum virtute multa et majestate. (Ev. S. Matth., XXlV, 27, 30.), colpendo con il suo soffio sia l’antiCristo, sia satana ed i peccatori. Tutto questo è predetto in termini formali (Ipse Dominus in jussu, et in voce Archangeli, et in tuba Dei, descendet de cœlo. – I ad Thess., IV, 15.). Come abbiamo detto, l’Arcangelo Michele, il principe della milizia celeste, farà udire in tutta la terra il grido di trionfo che resusciterà tutti gli eletti (Et mittet Angelos suos cum tuba et voce magna; et congregabunt electos ejus. – Ev. S. Malth., XXIV. 31). Questo sarà il “Consummatum est” della Chiesa militante, che entra per sempre nella gioia del Signore. Questa « voce dell’Arcangelo » sarà accompagnata da una combustione universale, che purificherà e rinnoverà tutte le creature profanate da satana, dal mondo e dai peccatori. La Fede ci insegna, in effetti, che nell’ultimo giorno, Gesù-Cristo deve venire a giudicare il mondo con il fuoco (Cum veneris judicare sæculum per ignem. – Rit. Rom.). Questo fuoco vendicatore rinnoverà la faccia della terra in « … una nuova terra e nuovi cieli (Emittes Spiritum tuum … et venovabis faciem terrae. – Psal, CIII, 30. – Et vidi cœlum novum et terram novam. – Apoc. XXI, 1). Come sul Sinai, come nel Cenacolo, lo Spirito-Santo si manifesterà così con il fuoco, in questo giorno fra tutti spaventoso. – Tale sarà la fine terribile e gloriosa della Chiesa militante; tale sarà, almeno per quanto la luce sempre un po’ velata delle profezie ci permette di intravedere, la Passione della Chiesa; tale sarà la sua resurrezione seguita dal suo trionfo: Corpo mistico del Figlio di Dio, essa avrà seguito il suo divin Maestro fino al Calvario, fino al sepolcro, e per questa fedeltà avrà meritato di condividere la sua gloria per sempre.

Gesù-Cristo,  Maestro e Signore del mondo,
porrà fine alla serie dei secoli
con il Giudizio universale.

Nel suo glorioso avvento che porrà fine ai combattimenti della Chiesa, Gesù-Cristo resusciterà dapprima tutti gli eletti (Et mortui qui in Christo sunt résurgent primi. – I ad Thess., IV. 15,) Hæc est resurrectio prima. Beatus et sanctus qui habet partem in resurectione prima! – Apoc., XX, 5, 6), così come noi lo apprendiamo dalle Sante Scritture; e questa terra che non ha visto, per così dire, la Santa Chiesa di Dio, se non umiliata, combattuta, bagnata da lacrime e spesso bagnata dal sangue, la vedrà infine gloriosa e risplendente. «Ora, come dice San Paolo, tutte le creature sono nell’attesa ed aspirano al giorno in cui la gloria dei figli di Dio sarà rivelata, perché subiscono, loro malgrado, il giogo della menzogna. Allora esse saranno liberate dalla schiavitù della corruzione, e parteciperanno alla gloriosa libertà dei figli di Dio (Nam exspectatio creaturæ, revelationem filiorum Dei exspectat. Vanitati enim creatura subjecta est non volens… Quia et ipsa creatura liberabitur a servitute corruptionis, in libertatem gloriæ filiorum DEI. – Ad Rom., VIII, 19-21). » – Il secondo avvenimento cominciato con l’espulsione di satana, la distruzione dell’antiCristo e di tutti i suoi, e con la resurrezione trionfale degli eletti, sembra dover essere, secondo le Scritture, non soltanto un momento, un atto, ma bensì un’epoca, un’epoca di gloria ed un regno tutto spirituale di Dio e della sua Chiesa sulla terra rinnovata; un’epoca corrispondente ai quaranta giorni che hanno separato la Resurrezione e l’Ascensione del Signore (benché ortodosso ed appoggiato sulle Sacre Scritture e da diversi santi Padri venerabili, questo sentimento è stato gravemente compromesso dai grossolani ed assurdi errori dei millenaristi. In seguito non se n’è più occupato e di conseguenza è meno tradizionale. Il dotto Cornelio A Lapide tuttavia ne parla e vi ritorna in più riprese nei celebri commentari sulle Scritture. Forse, nei disegni della Provvidenza, questa questione è specialmente riservata ai dottori cattolici degli ultimi tempi, come il dogma dell’Immacolata Concezione, oppure il mistero del Sacro Cuore. (Si concepisce in effetti, come nella sua misericordiosa provvidenza, Nostro-Signore dia alla sua Chiesa dei lumi più possenti sui grandi misteri dell’antiCristo, del secondo avvento, e del giudizio finale, a mano a mano che i suoi fedeli si avvicineranno a questi giorni solenni e terribili). Quel che è certo, è che essa terminerà con la resurrezione dei riprovati, e con questa grande e terribile assise che si chiama: il Giudizio Finale. Nostro Signore, che nel capitolo XXIV di S. Matteo si è degnato di farci conoscere con tanti dettagli i segni premonitori del suo avvento e della redenzione finale della Chiesa, ci racconta con dettagli non meno sconvolgenti, nel venticinquesimo capitolo delle stesso Vangelo, questa chiusura solenne dei secoli, a cui presiederà di Persona. « Quando il Figlio dell’uomo sarà venuto nella sua maestà, con tutti i suoi Angeli, Egli siederà, ci dice, sul trono della sua gloria; e tutti i popoli saranno radunati davanti a Lui. Egli separerà gli uomini gli uni dagli altri; come il pastore che separa le pecore dai capri … porrà le pecore alla sua destra, ed i capri alla sua sinistra. Allora il Re dirà a coloro che saranno alla sua destra: « Venite, benedetti del Padre mio e prendete possesso del suo regno preparato per voi fin dalle origini del mondo! » E a coloro che saranno alla sua sinistra, Egli dirà: « Allontanatevi da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per i demonio e per i suoi angeli, … ed essi andranno al supplizio eterno, mentre i giusti entreranno nella vita eterna (Cum autem venerit Filius hominis in majestate sua, et omnes Angeli cum eo, tunc sedebit super sedem majestatis suæ: et congregabuntur ante eum omnes gentes, et separabit eos ab invicem, sicut pastor segregat oves ab hædis: et constituet oves quidem a dextris suis, hædos autem a sinistris. Tunc dicet Rex his qui a dextris ejus erunt: Venite, henedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi… Tunc dicet et his qui a sinistris erunt: Discedite a me, maledicti, in ignem æternum, qui paratus est diabolo, et angelis ejus… Et ibunt hi in supplicium æternum: justi autem in vitam æternam. (Ev. S. Matth.. XXV. 31, et seq.). « Ed allora non ci sarà più tempo: la terra ed i cieli spariranno dal volto dell’Agnello e non occuperanno più alcun luogo (Tempus non erit amplius… Et vidi Thronum magnum candidum, et sedentem super eum, a cujus conspectu fugit terra, et cœlum, et locus non est inventus eis. (Apoc., X, (5; XX, 11.) ». Questo sarà l’inizio dell’eternità propriamente detta, che per gli eletti ed i santi Angeli, sarà « il possesso perfetto e tutto intero della vita che non ha fine  –Vitæ interminabilis tota simul perfectaque possessio », e per i demoni ed i riprovati, la perdita assoluta, perfetta, irrecuperabile, intera della vita e della eterna felicità. Sottolineiamo, … io non dico solo l’autorità, ma la divinità di questi oracoli di Gesù-Cristo. Chi altri, se non Dio solo, può tenere un simile linguaggio? Lo dice Egli stesso, è come Figlio di Maria, è come uomo e non solo come Dio, che Gesù-Cristo giudicherà il mondo. È il “Figlio dell’uomo” che presiederà il giudizio universale, in tutto lo splendore della divina maestà e circondato da « tutti i suoi Angeli » (Finius enim hominis venturus est in gloria Patris sui cum Angelis suis. – Ev. S. Matt., XVI. 27.) » Gli Angeli sono con Lui; questi sono i “suoi Angeli”. Meglio, non è solo come Figlio dell’uomo che giudicherà così il cielo e la terra, ma « perché Egli è il Figlio dell’uomo (Et potestatem dédit ei judicium facerc, quia Filius hominis es – Ev. Joan., V, 27.) ». Queste sono le parole proprie nel Vangelo. La regalità universale, il sovrano giudizio, l’onnipotenza sono svelate all’umanità di Gesù-Cristo, inseparabile dalla sua Persona divina; ed in Gesù-Cristo noi non sapremo ripeterlo abbastanza, non è solamente il Dio che bisogna adorare, amare e servire, ma è anche l’Uomo. È ai piedi dell’Uomo che la saggezza umana deve annientarsi, che l’orgoglio umano deve prostrarsi. Là, in effetti, è il mistero della fede, il mistero dell’amore. Chi non crede in Dio? Chi non riconosce Dio come Dio? Ma « il Figlio dell’Uomo, » il piccolo Bimbo di Bethleem, l’umile e povero Gesù del Vangelo, il mondo non lo vuole! Esso lo respinge, non vuole credere in Lui. Nel Giudizio finale, essi lo vedranno, questo Figlio dell’Uomo, più risplendente del sole, nella gloria della eterna maestà. Ma allora sarà troppo tardi: il tempo del merito e della grazia sarà passato; il giorno della retribuzione eterna comincerà immutabile, indivisibile, senza possibili cambiamenti, senza fine. In questo mondo, noi possiamo cambiare, perché abbiamo tempo; da buoni possiamo diventar cattivi, e da cattivi diventare buoni, perché la natura stessa del tempo, che è successivo, ce lo permette; ma nell’eternità, non ci sarà più tempo: la Rivelazione ce lo insegna; la durata dell’eternità è assolutamente una ed indivisibile, tutta intera insieme, “tota simul”; ma è soprattutto perché i dannati non potranno cambiare il loro destino col pentirsi. « La vita eterna » che Gesù-Cristo annuncia ai suoi fedeli, è dunque lo stato immutabile di beatitudine, ove, interamente nella luce, nella gioia, nella felicità assoluta, uniti a Gesù glorificato, così come nel corpo vivente le membra sono unite alla testa, gli eletti e gli Angeli vedranno Dio faccia a faccia e vivranno con Gesù in Dio, della stessa vita di Dio, nella beatitudine dell’eterno amore. Ed il « supplizio eterno » di cui Gesù-Cristo minaccia nel Vangelo i riprovati, è lo stato immutabile di maledizione, di disperazione e di sofferenza, in cui interamente nelle tenebre, nei rimorsi, nel fuoco, nel dolore assoluto, separati per sempre da Dio, dal suo Cristo e dalla sua Chiesa, i dannati ed i demoni, che avranno scelto liberamente e follemente la morte del peccato, invece della vita e della grazia, saranno sprofondati con satana negli abissi dell’inferno, per bruciarvi eternamente, nell’odio e nella rabbia di una disperazione senza fine. Tale è l’onnipotenza divina di Nostro-Signore Gesù-Cristo, e così incommensurabile che la mano destra della sua misericordia salva i buoni, la mano sinistra della sua giustizia tiene e castiga i malvagi. Egli è il Maestro, Egli è il Signore, il Signore di cui ci si beffa impunemente (Nolite errare: DEUS non irridetur. – Ad. Gal., VI, 7.); Egli è il Dio dei viventi e dei morti, il solo vero Dio vivente, con lo Spirito-Santo nella gloria di Dio Padre.

ATTI DI VIRTU’ TEOLOGALI

ATTI DI VIRTÙ TEOLOGALI

secondo la formula in uso nella Diocesi Milanese.

[G. Riva: Manuale di Filotea; XXX ed. Milano, 1888 –impr.-]

Atto di Fede.

Mio Dio, io credo tutto ciò che vi siete compiaciuto di rivelarmi, e lo credo di tutto cuore, e con somma fermezza, pronto a morire piuttosto che dubitare, perché l’avete rivelato voi, prima, infallibile Verità, che non potete ingannarvi né ingannare. Credo che Voi sempre siete stato, siete e sarete, e che siete un Dio solo in tre Persone distinte ed uguali, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Credo pure che Voi siete rimuneratore, e date il Paradiso ai buoni e l’inferno ai cattivi. Credo che il divin Figliuolo si è incarnato e fatto uomo nel ventre purissimo di Maria Vergine per opera dello Spirito Santo, ha patito ed è morto in croce per la nostra redenzione e salute, e che il terzo dì risuscitò da morte. Finalmente credo tutte le altre verità che si credono nella santa Chiesa cattolica romana, in cui protesto di voler vivere e morire.

Atto di Speranza.

Mio Dio, sospiro a voi mio sommo bene ed eterna felicità, ed animato dalla vostra infinita misericordia, ed appoggiato alle vostre infallibili promesse, spero fermamente che, per i meriti del nostro Signor Gesù-Cristo, mi darete il perdono dei miei peccati e la grazia di non offendervi mai più, e di perseverare nel bene sino alla morte, e di salvar l’anima mia, cooperando io fedelmente ai vostri santi aiuti, come propongo di fare.

Atto di Amor di Dio e del Prossimo.

Mio Dio, Verso di me sì amorevole e benefico, io vi amo sopra ogni cosa, e vi amo, non solamente per tanti beni che finora ho ricevuti dalla vostra mano e che spero di ricevere in avvenire; ma vi amo principalmente, e sopra ogni altro riguardo, perché siete un Dio infinitamente degno d’essere amato per Voi medesimo, essendo Voi la stessa bontà. Amo ancora per amor vostro tutti i miei prossimi come me stesso, e li abbraccio con tutte le forze del mio cuore come immagini vostre, come creature fatte e redente da Voi: in particolare amo tutti quelli che mi hanno offeso, e perdono loro tanto di cuore quanto desidero che voi perdoniate a me, pregandovi a render loro altrettanto di bene, e più quanto essi mi hanno fatto e desiderato di male.

Atto di Pentimento.

Mio Dio, detesto sopra ogni male i miei peccati e me ne pento di tutto cuore per la loro orribile deformità, perché con essi ho macchiata l’anima mia, disonorata in me la vostra immagine, mi sono reso indegno de’ vostri beni, e reo innanzi a Voi di acerbe pene; anzi, offendendovi gravemente, ho meritato di essere da Voi privato del Paradiso e cacciato all’inferno: ma molto più detesto i miei peccati, e me ne dolgo perché peccando ho offeso un Dio così buono, cosi grande, così amabile come siete Voi. Vorrei prima esser morto che avervi offeso: e propongo fermamente col vostro santo aiuto di non offendervi mai più, né mai più disgustarvi perché vi amo sopra ogni cosa.

Indulgenze per gli Atti di Fede, etc.

Benedetto XIV, il 28 Gennaio 1756, concesse per gli Atti di Virtù Teologali le seguenti indulgenze, tutte applicabili anche ai defunti: 1. 7 anni e 7 quarantene ogni volta che si recitano; 2. Ind. plen. una volta al mese; 3. Ind. plen. in articulo mortis. Per l’acquisto di dette Indul. ciascuno può usar quella formula che vuole, purché in essa esprima e spieghi i particolari motivi di ciascuna delle tre teologali virtù.

Esercitando gli atti di qualunque virtù crescono le virtù in noi e sempre maggiormente si perfezionano; perciò quanto più spesso faremo Atti di Fede la nostra Fede diverrà sempre più viva; quanto più frequentemente ne faremo di Speranza, la nostra speranza si farà sempre più ferma, e quanto più moltiplicheremo Atti di Carità, ella si farà in noi sempre più ardente. (…) Vi è obbligo espresso di fare gli atti di Virtù Teologali, e sì potrebbe provare con moltissimi argomenti delle divine Scritture e dei Santi Padri. L’errore contrario fu condannato da S. S. Alessandro VII: perciò questi Atti si facciano frequentemente e con distinta frequenza l’Atto di Carità… [G. Frassinetti, “Catechismo dogmatico”, Cap. VI- I, Parma, 1860].

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (25): CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA (III)

CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA – III –

La rivoluzione cartesiana

[É. Couvert, in: “La gnosi universale”, cap. III]

Nello studio precedente abbiamo mostrato come il filosofo Cartesio abbia giocato un ruolo di “lavaggio del cervello” sulle anime cristiane. Ci resta da precisare il fatto che questo filosofo sia stato considerato, in un gran numero di casi, portatore di una illuminazione improvvisa, una nuova religione, una saggezza luminosa e divina. – Qual fervore presso i nuovi convertiti! Pierre Varignon (1654-1722), legge Cartesio e viene colpito da questa « nuova luce diffusa nel mondo pensante ». egli insegnava la Scolastica, diventerà un matematico. Tournefort (1656-1702), all’uscita dal collegio dei Gesuiti di Aix, trova Cartesio nella libreria di suo padre, lo legge di nascosto « riconosce subito la sua dottrina come quella che egli cercava », rinuncia alla teologia e diventa botanico. Louis Carré abbandona anch’egli la teologia, e diventa segretario di Malebranche; « dalla filosofia Scolastica, fu man mano trasportato alla fonte di una filosofia luminosa e brillante; là egli vede cambiar tutto, di fronte ad un nuovo universo che gli si svela ». Pierre Cally era professore all’università di Caen ove si era impiegato come professore di aristotelismo. Ecco che egli si scuote, come punto da una tarantola, per la nuova saggezza e si impegna nella controversia con gli scolastici. Secondo il suo fedele amico, Daniel Huet, viene appena dal concludere il suo corso di filosofia presso i Gesuiti. Egli è giovane, ricco, intelligente, si mette  a “divorare” Cartesio: «quale ammirazione nella mia anima giovanile alla vista di questi principi così chiari e semplici, che spiegano tutti i misteri del mondo e l’origine stessa del mondo e della natura ». Ed ecco ora il più fedele, il più logico dei figli di Cartesio, egli ha 26 anni, appartiene all’Oratorio. Trova presso un libraio il “trattato dell’uomo” di Cartesio. « Colpito come da una luce che usciva tutta nuova ai suoi occhi », sospettando « una scienza della quale non aveva idea », compra il libro, lo legge con alacrità e trasporto tale da prendergli dei batticuori che lo obbligano talvolta ad interrompere la lettura. Eccolo, è Malebranche, il più pericoloso dei cartesiani. È proprio dalla sua lettura che Bossuet comprenderà più tardi la malvagità di Cartesio. John Locke, a 27 anni, dopo aver letto Cartesio e Gassendi, rinuncia allo stato ecclesiastico al quale si destinava, per diventare medico. – Tutti hanno trovato, nella lettura di Cartesio, come una … illuminazione divina, una iniziazione ad un mondo nuovo di pensieri espressi con facilità, in uno stile limpido e brillante, facile da comprendere quasi senza sforzo, e che sembra dare del mondo una spiegazione totale e seducente. Questa lettura provoca nella loro anima come una rivoluzione immediata, potente ed irresistibile. Tutto cambia volto, è lo svelarsi di un nuovo universo … non la Scolastica pesante, lenta, ardua!. – Daniel Huet, grande ammiratore di Cartesio, diviene Vescovo di Avranches, si rivela figlio dei grandi umanisti. Nella sua persona la religione « sprofonda nell’umanesimo pagano ». Egli aveva scritto una « Dimostrazione evangelica » nella quale si sforzava di dimostrare che Mosè è un personaggio equivalente agli dei del paganesimo: Apollo, Pan, etc. Egli dimostra con la storia santa non sia che un misto di leggende ed il giorno in cui gli si mostrerà che Mosè ed i suoi misteri giudaici sono posteriori alle religioni orientali, sarà portato al suo stesso gioco. Egli riceve molti complimenti da parte dei protestanti, felici di veder conciliati Cristianesimo e paganesimo.- Il 18 maggio 1689, egli riceve una lettera da Bossuet che lo mette in guardia contro la dottrina di Cartesio: « Essa ha delle cose che io disapprovo molto, perché in effetti sono contrarie alla Religione …. Cartesio ha detto certe cose che credo essere utili contro gli atei ed i libertini, e molto simili a quelle che ho trovate in Platone e, ciò che stimo molto più, in San Agostino, san Anselmo, e qualcosa pure in S, Tommaso ed altri autori ortodossi, anche spiegate bene e meglio che in Cartesio, e non credo siano divenute cattive dal momento che se ne sia servito questo filosofo … le altre opinioni di questo autore, che sono indifferenti, come quelle sulla fisica particolare ed altre di questa natura, mi divertono  e le uso per le conversazioni divaganti; ma per non dissimularvi nulla, io credo opportuno che, per il vostro ruolo di Vescovo, prendiate parte seriamente di tali cose ». – Infine Mgr. D’Avranches riflette, e diviene così il più risoluto avversario di Cartesio. Ecco una conversione filosofica che mostra come con la riflessione ed il coraggio si possa resistere alla seduzione delle nuova filosofia. – Cartesio vien condannato da Roma nel 1643. I protestanti olandesi egualmente condannano la Logica di Cartesio al sinodo di Dordrecht nel 1656, inquietati per le conseguenze che il “dubbio metodico” potesse provocare in essi, minacciando così il rimasuglio delle credenze che restavano ancora nella Riforma. – È  un giudeo di Amsterdam, Spinoza che, nei suoi “Principi della filosofia di Cartesio”, pone il piccone e la dinamite nella struttura religiosa e morale della società cristiana. Egli applica al concetto di Dio (lo stesso del “grande abisso”, di gnostica memoria), le regole del “Discorso del Metodo”. Cartesio aveva dichiarato che l’estensione ed movimento erano l’essenza dei corpi; Spinoza ragiona di conseguenza bene a partire da questo punto. «  Si chiama finito, nel suo genere, egli dice in “Etica”, ogni cosa che può essere terminata da un’altra di uguale natura. Ad esempio, un corpo è finito perché noi ne concepiamo sempre un altro più grande ». Ora, se con una serie di numerazioni intere, noi percorriamo tutta la gamma delle grandezze, arriviamo ad un essere assolutamente infinito, cioè alla sostanza dotata di infiniti attributi, dei quali ognuno esprime una essenza eterna ed infinita. È evidente che questa sostanza sia unica, perché essendo ogni determinazione una negazione, se vi fossero due sostanze, esse si “determinerebbero”, cioè si limiterebbero l’un l’altra, e di conseguenza si negherebbero e cadrebbero nel nulla. Ora questa sostanza unica, che non può esistere che a condizione di non essere limitata nello spazio e nel tempo, “è ciò che è in sé, ciò che è concepito da sé, il cui concetto non ha bisogno del concetto d’un altro per essere formato”. Essa dunque ha gli attributi del divino. L’importante è conoscere la sua essenza. Seguiamo sempre il metodo di Cartesio … egli ci insegna che si conosce chiaramente e distintamente l’essenza di una sostanza, dato che si è identificato il suo attributo principale. Qual è dunque l’attributo principale della sostanza divina? Il nostro spirito ed i nostri sensi percepiscono senza errore possibile ciò che è l’estensione. È dunque chiaro che tutti gli esseri di questo mondo, dal più piccolo al più grande, sono, in ragione della loro estensione, parte integrante di Dio, senza cui sarebbero finiti, limitati, determinati, vale a dire, dei “niente”. Questo panteismo abbatte, e Spinoza lo dichiara senza timori, tutte le religioni. L’uomo e il mondo, essendo fin dall’eternità in Dio, non sono potuti uscire da Lui con un atto creatore … cattolici, protestanti, giudei, turchi, cinesi, … questi poveracci, si figurano che Dio sia in cielo mentre Egli vive e respira in fondo a loro stessi. C’è una vera religione che consiste “nel perseverare nel proprio essere”, nel comprenderne con gesto sacro, eterno, assoluto, infinito ed a ridare, mediante gli effetti di una volontà sempre tesa, la pienezza della divinità. Ma questa è la cabbala, è la gnosi, la teologia di satana!. La si può legittimamente estrapolare, come naturale conseguenza, dai principi di Cartesio. – « Di   modo tale, conclude Bayle, nel suo “Dizionario”, le stesse persone che hanno dissipato nel nostro secolo le tenebre della Scolastica diffusa in tutta l’Europa, hanno moltiplicato gli spiriti forti ed aperto ai più la porta all’ateismo, o al pirronismo, o alla incredulità. Eccole come conseguenza, se non proprio forzata, ma certamente naturale: 1°) lo spinozismo, 2°) la visione di Dio di Malebranche, 3°) l’Idealismo di Berkeley, 4°) l’Armonia prestabilita di Leibnitz … Tale è la debolezza dello spirito umano. Si inizia con il metodo e si finisce con le ipotesi … » (in: “Storia della filosofia moderna”). Ma gli ammiratori di Cartesio (cabalisti, massoni illuminati, novatori teologici, modernisti ecclesiastici …) trionfano: « Spirito indipendente, novatore, genio ardito di singolare potenza! Cartesio amava troppo farsi da solo delle idee, affidarsi al suo intimo sentimento, per non riconoscere l’autorità della ragione individuale ed il diritto che ha di esaminare e giudicare ogni specie di dottrina. È la gloria di Cartesio l’aver proclamato e praticato questi principi, ed essere l’autore di questa riforma intellettuale che ha portato i suoi frutti nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, ed oggi più che mai esercita la sua influenza sul mondo filosofico, morale, teologio. Oggi in effetti, grazie a Cartesio, noi siamo tutti protestanti in filosofia, come siamo tutti, grazie a Lutero, filosofi in religione. »Non si poteva dire di meglio. Queste parole, tratte dal n° 147 del giornale liberal-massonico « Le Globe », comparso sotto la restaurazione, serviranno come conclusione dello studio.  –

Il metodo cartesiano, non è altro quindi che un intruglio gnostico di bassa lega, confuso, illogico, sostenuto dalle proprie fantasie, ritenute “verità di per se stesse”, giustamente non discutibili per … la loro assurdità, imperniate sulla conoscenza dell’anima-divinità della favola platonica del “mondo delle anime” preesistenti alla creazione del corpo, [… da qui alla metempsicosi, il passo è breve], delle scintille divine, etc. . Questa gnosi, scambiata per Cristianesimo “aggiornato”, sostenuta dalle cricche rosa+croce e giudaico-massoniche, si infiltrò, secondo i piani di “coloro che odiano Dio e tutti gli uomini”, nella Chiesa Cattolica, coinvolgendo moltissime intelligenze, ingenue sì, ma sprovvedute sul piano teologico, come la vicenda di Bossuet ci informa. Il veleno è sempre più penetrato nella gerarchia, oltre che nella civile società, e a poco valsero i richiami dei Papi agli ecclesiastici, sull’obbligo dello studio della dottrina, della Scolastica e di San Tommaso in particolare. Quando il bubbone si ingrandì, Papa Pio X pensò di denunciarlo con fermezza, ma il cancro era già troppo avanzato, in metastasi generalizzata, ed il bubbone era pronto per scoppiare, come successe effettivamente nel neo-modernismo gnostico tionfante tutt’oggi nella falsa “chiesa dell’uomo”, gestita dai “burattini” circensi. Ognuno che abbia ancora un minimo di “sale nella zucca” si chiede, sbigottito, come sia stato possibile obliare totalmente i principi del Cattolicesimo, e piombare d’un tratto nella totale apostasia di popoli e ancor più della gerarchia ecclesiastica! [oramai quasi totalmente falsa e sacrilega]. Il 26 ottobre del 1958 non è stato un evento improvviso ed inatteso, non è stato un colpo di fulmine a ciel sereno, ma il lavoro “sapiente”, preparato da secoli ed ordito nelle logge, nelle retrologge, dalle conventicole al servizio del baphomet-lucifero, e nella “quinta colonna” infiltrata in tutta la Chiesa; l’apostasia è stata lungamente preparata, filosoficamente e teologicamente, dalle idee del rosa+croce Cartesio e dai suoi epigoni, i quali non hanno che semplicemente “impupazzato” la vecchia e stantia, ma mai indomita. gnosi, con abiti e chincaglieria pseudo-scientifica e teologica, per abbindolare gli incauti, gli orgogliosi, gli ignoranti, gli amanti delle novità-falsità. Ancora una volta i “figli delle tenebre” sono stati scaltri, i serpenti hanno morso ed ucciso molte colombe che, non mettendo in pratica i consigli del divino Maestro, sono state semplici ed ingenue, pensando di giocare sulla buca di lombrichi e non accorgendosi di essere su quella di aspidi mortifere, ignorando la scaltrezza e la prudenza che avrebbe potuto salvarle. L’inganno perpetrato e nel quale viviamo oggi, per lo più inconsapevoli, è stato amplissimo, pressoché totale, ed umanamente non ribaltabile. Ma il Signore Dio-Trino, incarnato in Cristo-Gesù il Salvatore, saprà certamente cosa e come fare per mantenere la sua promessa, come in altre note (dalla Sacra Scrittura) circostanze. Non è stato forse anch’Egli nel Getsemani, non è stato forse nel sepolcro picchettato da carcerieri, creduto morto anche dai suoi che erano stati istruiti lungo tre anni di paziente predicazione? Quando il nemico già gongolava trionfante, il Figlio di Dio è risorto, ha incatenato il “principe di questo mondo”, sprofondandolo negli inferi. E la Chiesa, sua Sposa e Corpo mistico non ha Egli promesso che non sarà mai sconfitta dalle porte degli inferi? E non ha preannunciato che il calcagno della Donna schiaccerà la testa del serpente infernale? “… et, Ipsa conteret caput tuum” … Quindi tranquilli, non temiamo, il Re-Profeta in più occasioni ha sentenziato che, quando i malvagi avranno pensato di avere in pugno la vittoria … qui habitat in cœlis irridebit eos, et Dominus subsannabit eos.[Ps. II, 4] … Dominus autem irridebit eum, quoniam prospicit quod veniet dies ejus.]Ps. XXXVI, 13] … Et tu, Domine, deridebis eos; ad nihilum deduces omnes gentes. [LVIII, 9] .. Tu, Signore, ti riderai di loro, ridurrai tutte le genti a niente. Deo gratias! Ed anche Cartesio, con i suoi seguaci, dal loro probabile inferno grideranno, come Giuliano …  “hai vinto Galileo!”

 

 

 

 

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (24): CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA -II-

CARTESIO CONTRO LA FEDE -II-

Le reazioni contro Cartesio.

Non bisogna credere, come si è già detto, che Cartesio abbia ricevuto la sua formazione filosofica dai Gesuiti di La Flèche; egli l’ha ricevuta dai Rosa+croce di Svevia. Il suo stesso professore di filosofia, il P. Veron, era un appassionato “ligueur” [aderente alla Lega cattolica] che aveva composto un’opera di violenta controversia contro i Protestanti, coloro che per Cartesio dovevano diventare i migliori amici [verosimilmente pure compagni di conventicola …]. – Durante tutto il Gran Secolo, i Gesuiti furono ardenti oppositori del cartesianesimo. Il padre de Valois scriveva allora: « I sentimenti di Cartesio sono opposti a quelli della Chiesa e conformi a quelli di Calvino », … cosa non malamente osservata. Per tutta la sua vita, Cartesio tenterà di sfuggire alla controversia con i Gesuiti, per paura di essere denunciato a Roma. Nel 1665, il P. Channerelle, Gesuita, scriveva: « In una sola parola, la dottrina cartesiana differisce dalla dottrina aristotelica, come la poesia dalla realtà, come l’immaginazione dall’intelligenza » … (Ricordate: cercare il principio della scienza non con la ragione dei filosofi, ma con l’ispirazione dei poeti, diceva lo stesso Cartesio). – Le opere di Cartesio furono messe all’indice nel 1663 « donec corrigatur », precisa il decreto, finché la sua filosofia non fosse stata corretta. Ahimè, non è possibile correggere ciò che è radicalmente erroneo, cioè falso sin dalla sua radice. – L’attitudine di Bossuet a questo riguardo, è molto suggestiva. Succede talvolta che le abilità del linguaggio, i travestimenti del pensiero, le mascherate verosimili, ingannino anche i più riflessivi. Bossuet, in un primo tempo, manifesterà soddisfazione, davanti alle affermazioni apparentemente spiritualiste di Cartesio e a certe pagine sulle prove dell’esistenza di Dio, pagine che sembravano riprodurre l’insegnamento tradizionale della Chiesa, così come si poteva trovare in Sant’Agostino o in San Tommaso. Noi sappiamo oggi che queste erano posizioni di prudenza destinate ad evitare le accuse di empietà o di ateismo che il nostro filosofo temeva fortemente. Quando Bossuet comprese, leggendo Malebranche, ove conducevano necessariamente le premesse del cartesianesimo [],  cioè all’inneismo gnostico, al mondo platonico delle idee, alle scintille divine, all’emanatismo, al panteismo, etc., il suo istinto di fede ed il suo robusto buon senso, presero il sopravvento. Egli scrisse questa lettera notevole ad un discepolo di padre Malebranche, che mostra a qual punto la sua chiaroveggenza fosse profetica: « Io vedo un grande combattimento preparato contro la Chiesa sotto il nome di “filosofia cartesiana”. Vedo nascere dal suo seno e dai suoi princîpi più di un’eresia, e prevedo che le conseguenze che si traggono contro i dogmi che i nostri padri hanno conservato, la rendono odiosa e faranno perdere alla Chiesa tutto il frutto che ne poteva sperare per stabilire nello spirito dei filosofi la divinità e l’immortalità dell’anima … Da questi stessi principi, un altro inconveniente terribile invade insensibilmente gli spiriti, perché, sotto pretesto che non bisogna ammettere se non ciò che si comprende chiaramente, cosa che ricondurrebbe a stretti limiti, è vero invece che ognuno si concede la libertà di dire ciò che vuole: io capisco questo, o non intendo quello, e su questo fondamento si approva o si rigetta tutto ciò che si vuole, senza addurre altro che le proprie idee “chiare e distinte”, ve ne sono di confuse e generali che non lasciano che si affermino verità sì essenziali che rivolgerebbero tutto  negandolo … Essi introducono, sotto questo pretesto, una libertà di giudizio che fa in modo che, senza riguardi per la tradizione, si proponga tutto ciò che si pensa. E giammai questo eccesso mi è sembrato più forte che nel nuovo sistema, ove io ritrovo tutti insieme gli inconvenienti di tutte le sette … Come voi, essi si sono dati un’aria di pietà  e, nominando spesso Gesù-Cristo, e parandosi con la sua Scrittura (nel doppio senso di “pararsi”: ornarsi e proteggersi), come voi, essi si sono vantati di proporre dei mezzi per ricondurre gli erranti alla fede della Chiesa (ad esempio le pretese di Cartesio di rispondere agli epicurei, agli atei ed ai libertini). Citare spesso le Scritture onde appoggiarsi su ciò che non serve nulla in tale materia, è ancora uno degli artifizi di cui l’errore si serve per attirare i pii.  … Non crediate che, comparandovi agli eretici, io voglia accusarvi di averne l’indocilità, né ciò che li ha infine portati alla rivolta contro la Chiesa, a Dio non piaccia! Ma io so che vi si giunge per gradi. Si comincia con la novità, si prosegue con l’intestardirsi. C’è da temere che la rivolta aperta non arrivi che in seguito, quando la materia sviluppata attirerà gli anatemi della Chiesa e dopo forse che essa si sarà uccisa per lungo tempo, per non darsi una reputazione di errore… » Lettera notevole in ogni suo punto, essa mostra bene il cammino dell’errore negli spiriti. Un nuovo principio (ad esempio il dubbio metodico, le idee chiare e distinte, il “cogito”, etc.) non può fare apparire tutto di seguito le conseguenze che vi sono implicate; soprattutto se l’autore, con abilità tattica, si sforza di sminuirne la portata per mezzo di restrizioni,  dichiarazioni di buona fede ed altri sotterfugi dei quali parla Bossuet. – Ma soprattutto Bossuet oppone alle idee “chiare e distinte”, quelle « confuse e generali che richiudono delle verità essenziali che non si possono negare senza ribaltare tutto ». Distinzione fondamentale. Ciò che Cartesio chiama “idee chiare e distinte” che sarebbero, secondo lui, le sole affettate del carattere dell’evidenza, non sono le forme degli oggetti conosciuti, sono gli esseri di ragione, principi o assiomi matematici, numeri, proposizioni dedotte da questi principi, composti dall’intelligenza secondo le convenzioni necessarie del nostro spirito. – Queste sono degli utensili logici, destinati a permettere la misura del reale, così com’è, “estensione e movimento”. Questi sono i concetti più universali, i più privi di contenuti, i più vuoti. Essi sono senza dubbio conosciuti immediatamente, senza il passaggio attraverso la percezione sensibile, e tuttavia il loro punto di partenza è certamente nel reale esteriore, ma nella sola misura in cui è quantificabile. Il numero due si legge nelle cose, … due niente, più due niente non fanno che quattro niente, cioè assolutamente niente. Ciò che è conosciuto dallo spirito con certezza, non è il numero, ma le cose numerate: due alberi più due alberi, fanno quattro alberi; sono gli alberi ad essere effettivamente conosciuti. – Quando il nostro spirito si applica al solo reale e non agli esseri di ragione, incontra un ostacolo  dimensionale: la materia, con ciò che in essa resta virtuale, potenziale, incompiuta, sfocata. Il nostro spirito non può tradurre fedelmente in “idee chiare e distinte” ciò che resta indeterminato, fluido, in movimento nell’essere. – Questo è il problema, ben individuato da S Tommaso e mal compreso da Cartesio, delle degradazioni continue dell’essere. Tra il “confuso” ed il “chiaro” dei passaggi insensibili, c’è il graduale. Il “chiaro” non è primo, ancor meno innato, ma è acquisito, si ottiene mediante una elaborazione, una espoliazione di un primitivo confuso pieno di ricchezze, in cui il nostro spirito deve cercare di veder  chiaro nel reale che gli viene dato globalmente. È ben evidente, come dice Bossuet, che le nostre idee “confuse e generali” siano un primo apprendimento di un reale ricco di forme che bisognerà estrapolare per astrazione: queste saranno verità certe, riproduzioni nel nostro spirito di idee già contenute nelle cose. – Così dunque, noi non potremmo mai giungere al substrato della natura intima di Dio, della nostra anima, o delle cose. Esse ci resteranno sempre nascoste sotto questa angolazione. Tuttavia, la nostra intelligenza è adatta a conoscere con certezza la forma, l’idea direttrice che è di essenza spirituale come la nostra anima. Questo è sufficiente ad affermare l’esistenza delle cose, quella di Dio con certezza. Il nostro spirito non deve fare un salto nell’ignoto, e lo scetticismo universale, che è contenuto implicitamente nella filosofia di Cartesio, e che professeranno i suoi discepoli fino al XIX secolo, non è fondato con ragione.

[] (Infatti dalla seconda metà del ‘600 il dibattito filosofico si accentra sugli aspetti problematici del pensiero di Cartesio: in particolare, la dimostrazione dell’esistenza delle idee innate, la possibilità di conoscere la realtà esterna al pensiero e gli altri uomini a partire dall’unica certezza del cogito (penso), il rapporto anima-corpo. L’occasionalismo di Malebranche (Parigi 1638-1715), nasce proprio dall’esigenza di spiegare il rapporto tra le anime e i corpi. Per Cartesio, infatti, le anime e i corpi appartengono a generi di sostanze assolutamente eterogenee e prive di comunicazione fra di loro: ma se per Cartesio l’interazione è un fatto del quale abbiamo certezza, anche se non possiamo darne una adeguata esplicazione, per gli occasionalisti il rapporto fra le due sostanze può spiegarsi unicamente con l’azione di Dio, il quale produce nell’anima una determinata sensazione o pensiero, allorché il corpo è modificato in una certa maniera: le creature forniscono dunque una causalità che è soltanto “occasionale”, ma non sono la causa né delle modificazioni corporee né degli avvenimenti materiali., che da questa impostazione trae la nozione della conoscenza come “visione delle idee in Dio”. Infatti Dio illumina le nostre menti e noi leggiamo in Lui le idee, che sono gli archetipi delle cose reali. – La dottrina occasionalista trae le sue origini dalla filosofia di Cartesio, il quale aveva teorizzato un dualismo pressoché irriducibile fra la res cogitans, ovvero la sostanza pensante, racchiusa nell’anima, e la res extensa, ovvero la materia corporea. Ben presto diversi pensatori criticarono questo dualismo cartesiano, soprattutto perché la spiegazione del collegamento fra le due sostanze, ideale e corporea, risultava piuttosto insufficiente: come può l’anima, incorporea, agire sul corpo, che invece è materiale? Sostennero dunque gli occasionalisti che non è l’anima, ad agire sul corpo, e che neppure all’interno dell’anima le idee, i pensieri, trovano la loro spiegazione e origine nell’anima stessa; l’unico Ente capace di creare e comandare, infatti, è solo Dio, mentre la volontà umana ha una sola funzione, quella, eventuale, di condurre l’uomo all’errore, quando essa si contrappone all’azione voluta da Dio. Pertanto, secondo queste teorie, sia gli atti conoscitivi – ovvero le idee, racchiuse in questo senso in un mondo superiore delle idee di stampo platonizzante – che le azioni pratiche – le quali si riducono a un mero assenso alla suprema volontà divina, che è l’unica ad essere libera – non sono che semplici occasioni per l’intervento di Dio.]

L’insegnamento di Cartesio nei collegi prima della Rivoluzione.

Fino al 1660, Cartesio è praticamente ignorato dappertutto, si insegna sempre Aristotele e San Tommaso. Nel 1661, il padre de la Chaise, insegna Cartesio al collegio della trinità, a Lione; il padre Lamy, ad Angers, nel 1674. Lo si discute, si enuncia il “cogito”, il “dubbio metodico”, l’intendimento, l’essenza dei corpi, etc.; ma è presente nell’insegnamento. A partire dal 1715, la maggioranza dei professori insegna Cartesio. A metà del XVIII secolo, l’idealismo cartesiano è utilizzato per lottare contro il materialismo, il sensualismo e l’empirismo filosofico ateo. – Nel 1690, il padre Gabriel, gesuita, scrive: « Non si stampa quasi più filosofia secondo il metodo della Scuola, e quasi tutte le opere di questa specie che compaiono oggi in Francia, sono dei trattati di fisica che presuppongono i principi della nuova filosofia … la filosofia delle classi ha cambiato volto … » Il corso di padre André, Gesuita, a la Flèche, nel 1706, è « cartesiano e malebranchista, sì chiaro e ben ordinato che si diffonde in tutti i collegi della Compagnia … » Si insegna la fisica, la meccanica alle dipendenza della metafisica. Dio è considerato come il “meccanico supremo”, il primo motore utile per dare mozione al mondo, non più fonte permanente di essere e di vita. Questo Dio “a schiocco”, come lo chiama Pascal, è l’orologiaio di Voltaire. Egli è soltanto causa efficiente, fabbricatore del mondo. Una volta lanciato nel suo movimento perpetuo, il mondo può facilmente fare a meno di Lui, come l’orologio può sopravvivere all’orologiaio e funzionare anche dopo la sua morte. Ecco Dio, diventato inutile. Ma le Congregazioni generali a Roma intervengono energicamente contro il castesianesimo, la 14° Congregazione generale dei Gesuiti a Roma nel 1696-1697, pubblica 30 proposizioni proscritte, contro la filosofia nuova, contro l’armonia prestabilita di Leibnitz, contro il dubbio universale di Cartesio. Condanne senza forza che bisognerà rinnovare, segno evidente della loro inefficacia sugli spiriti. La 16a congregazione generale, nel 1730-1731, rimette in vigore le condanne precedenti, decide che occorre restare fedeli alla filosofia di Aristotele. Nel 1732, il padre generale dei Gesuiti, proscrive 10 proposizioni da non insegnare, tutte estratte da Cartesio ed opposte alla Scolastica. Tempo perso! I professori dei collegi sono entusiasti della nuova filosofia e grandi adepti delle “idee chiare e distinte”. Nel XVIII secolo tutto l’insegnamento è cartesiano. – Due conseguenze importanti per gli spiriti: a) Il Deismo: è una forma religiosa bastarda che allontana gli piriti dal vero Dio, portandolo verso una idea vaga della divinità. Si sforza allora di allontanare Dio dal mondo, Egli è tropo grande e troppo lontano, gli uomini sono troppo piccoli ed insignificanti perché Dio possa pensare a loro: « Dio è un essere che non si occupa del bene e del male che si fanno gli uomini tra loro.  » È una blasfemia contro la Provvidenza. Si vedano “I viaggi di Gulliver” di Swift, “La pluralità dei mondi abitati” di Fontenelle, i “Micromega” di Voltaire, etc. « Il Cristianesimo, dice Fontanelle, è una favola. Non bisogna detestare le favole, bisogna sbarazzarsene dolcemente con l’efficacia della ragione. » Ecco la formula di tutti gli spiriti “illuminati” del XVIII secolo!

.b) Il Fideismo: è impossibile insegnare Dio con le idee “chiare e distinte”. È inconcepibile relegarlo nel “dubbio metodico” universale. Come dunque insegnare ciò che bisognerà continuare a chiamare delle verità, benché non rivestite dall’evidenza cartesiana? Il « Journal de Trévoux », redatto dai Gesuiti, sottolinea bene l’impotenza della nuova filosofia nell’insegnare la fede ed il passaggio insensibile al Fideismo. Esso scrive nel giugno del 1705 questo testo capitale: « Si teme di approfondire con essi (i bambini), la materie di religione. Ci si contenta di dar loro delle idee superficiali e di esigere da essi un attaccamento alla fede che li potrebbe persuadere … Siccome non si è posto alcun solido fondamento nel loro spirito, le esortazioni alla virtù le cui fatiche non fanno alcuna impressione se non quando il timore della vigilanza le rendono efficaci. Essi entrano nel mondo come in un campo di battaglia in cui la religione è attaccata da ogni parte e vi entrano senza armi, sempre battuti. Come potrebbero i giovani resistere? … » Riflessione sempre valida ancora oggi, attuale, ma vecchia di oltre tre secoli: il problema era già il medesimo. Si misura solo oggi la distesa del disastro. Nel 1706 si poteva già prevedere che il disastro sarebbe stato infinito. Ciò che effettivamente è stato esplodendo nel Modernismo e neomodernismo filosofico-teologico della falsa “chiesa dell’uomo”, la sinagoga di satana, casa comune ai rosa+croce, tugurio frequentato da Cartesio, adoratore dello stresso baphomet-lucifero, signore dell’universo del Novus ordo.

L’insegnamento di Cartesio nei seminari del XIX secolo

Dopo il tormentone rivoluzionario, dopo le macerie prodotte bisognava pur ricostruire: Napoleone aveva riorganizzato l’Università sotto il monopolio statale. La Chiesa non aveva il diritto di aprire se non i Seminari per la formazione del clero. – Ora, i primi professori furono i sopravvissuti delle ecatombi rivoluzionarie, essi stessi formati sulla nuova filosofia. M. Emery, di cui il canonico Leflon ci ha raccontato precedentemente la vita movimentata, fu il negoziatore discreto ed efficace del concordato del 1801. Egli fu incaricato di ricostruire la società dei sacerdoti di San Sulpizio destinata a formare i futuri professori dei Seminari. Egli ne fu dunque il fondatore e il primo superiore, … ma ahimè, era cartesiano! – L’Abate J. Bellamy, nella sua opera. « La Théologie catholique au XIX siècle » riassume così la situazione nei Seminari: « In Francia, il cartesianesimo era tanto potente e, quando si sa quanto questa filosofia sia refrattaria ad ogni adattamento teologico, ci si stupisce della decadenza profonda in cui fosse caduta la scienza sacra nel nostro paese. Uno dei preti più distinti e più sapienti dell’epoca, M. Emery, credette di rendere un servizio alla teologia pubblicando diversi trattati di filosofia religiosa totalmente impregnati di spirito cartesiano, in particolare: “I pensieri di Cartesio sulla Religione e sulla Morale”. In tutti i Seminari si insegnava il cartesianesimo ed il manuale più in voga, la “Filosofia di Lione”, era l’opera dell’oratoriano Valla, autore di una teologia posta all’indice dal Papa Pio VI nel 1792. Le “Lezioni elementari di Filosofia”, dell’abate Fluttes, che si leggeva  pure nei seminari, tenevano in grande stima e seguivano su tanti punti Locke, Condillac e G. G. Rousseau. Come poteva con una filosofia così difettosa, prendere il volo la Teologia? » – La Sorbona era divenuta maestra del pensiero universale nella società francese … non c’era più una università cattolica libera. I professori dei Seminari, che volevano prendere i loro gradi universitari, dovevano passare davanti ai giurì di Stato. Se ne videro le conseguenze. – Renan, che era buon testimone in materia, ci dice che « l’insegnamento filosofico nei seminari era la Scolastica in latino, non la scolastica del XIII secolo, barbara ed infantile (quale giudizio sprezzante e senza fondamento di una filosofia che egli non aveva mai neppure studiato, evidentemente incapace!), ma ciò che si può chiamare la scolastica cartesiana, cioè questo cartesianesimo mitigato che fu adottato in generale dall’insegnamento ecclesiastico del XVIII secolo e fissato nei tre volumi conosciuti sotto il nome di “Filosofia di Lione” ». – “Cartesianesimo mitigato”: questo equivale ad una presentazione di Cartesio sbarazzato da ciò che sembrava allora incompatibile con l’insegnamento della Fede ed orientato verso il rifiuto degli atei e dei libertini. Si riconosceva a Cartesio la volontà di aver difeso l’esistenza di Dio, lo spiritualismo, l’immortalità dell’anima ed altre verità della Fede cattolica. Non si comprendeva però allora che queste verità egli le aveva idealizzate, rigettate fuori dal reale, le aveva … svuotate della loro sostanza. – I professori delle università anticlericali non si fecero ingannare. Essi insegnarono Cartesio come maestro di Razionalismo, precursore del libero-pensiero (quello sbarazzato del Reale e della Tradizione), come l’avversario trionfante della Scolastica, come il demolitore dei pregiudizi (quelli della Fede cattolica, ben inteso!), come l’adoratore della ragione, divenuta infallibile. – Noi vediamo così apparire nell’insegnamento, un doppio Cartesio, l’uno in apparenza cristiano e preteso difensore della Fede, l’altro maestro e precursore della nuova filosofia, quella che demolisce, abbattendolo, tutto l’edificio della cultura cristiana. – Quanto alla Scolastica, detta barbara ed infantile da Ernest Renan, essa è ben morta e sotterrata. Un giorno Victor Cousin, gran maestro della filosofia ufficiale, percorrendo le banchine della Senna, si mise ad osservare le esposizioni dei librai. Gli occhi caddero per caso sul libro di un certo “Aquinate” e fu sorpreso, egli dice, di trovarvi molto buon senso. Discreta orazione funebre!

Il cartesianesimo contro la Fede.  

 Andiamo allora a cercare nella corrispondenza di Ernest Renan gli effetti più eclatanti della nuova filosofia. Renan era entrato in Seminario con l’entusiasmo di un’anima appassionata di verità. Ahimè! Egli dovette rapidamente disincantarsi: gli si insegnava il “dubbio metodico”. Vediamone gli effetti: « Tutto l’effetto prodotto su di me da ciò che abbiamo visto fin qui, non è stato che l’aver trovato difficoltà dappertutto, anche là dove in precedenza non vedevo ombre … Del Pirronismo, in passato, ridevo di tutto cuore, non concepivo che vi fossero uomini così assurdi da concepire simili idee; ora non rido più. Questo non vuol dire che sono scettico … bisogna confessare che saremmo ben infelici se dovessimo rigettare tutti i sistemi contro i quali si possono fare delle obiezioni. … » – In questa prima lettera, si vede apparire già un rimpianto, una inquietudine davanti ad un insegnamento così negativo. Il profondo bisogno di certezza che dirige tutta la nostra intelligenza verso il vero, si ribella. Nel 1848, Renan scrive: « È proprio della filosofia almeno il dare delle nozioni ben sicure piuttosto che sollevare una folla di pregiudizi. Si è tutti sbalorditi quando si comincia a vedere che, fin là, si era stati il giocattolo di mille errori, radicati nell’opinione, nel costume, nell’educazione: è la morte del Bello ideale. Si vedono le cose così come esse sono (???) e si resta sorpresi di vedere i giudizi più certi posti sullo stesso piano dei problemi … » . – Si sente, in questa lettera a sua madre, che segue di poco la precedente, una reazione di buon senso, ma tutta provvisoria e che non persisterà lungo tempo al cospetto di una filosofia così negativa: « Figuratevi, mia buona madre, che vi si domanda seriamente: è vero che io esisto? Non è un sogno, una illusione? Io vedo una cara madre indignarsi: certamente che il mio Ernest esiste! Vorrei ben vedere qualcuno che si azzardi a negarlo. È che, vedete, i filosofi sono le persone più divertenti del mondo: essi dubitano di tutto. Ma non abbiate paura, cara madre, io non sono ancora giunto là … » . – Ma … non era lontano … L’intelligenza umana è ordinata alla certezza del Vero, non può riposare sul dubbio. Il dubbio non è che un passaggio provvisorio dall’ignoranza alla certezza, abbiamo detto. Ogni uomo, dal principio della vita, riceve un insegnamento, dei riti, delle abitudini radicate nella propria natura sociale, dunque delle tradizioni. Egli è debitore della sua famiglia e della società in cui cresce. Egli deve sapere, prima di comprendere: egli deve agire prima di conoscere le ragioni esplicite della sua azione. Egli ha bisogno, per questo, di una autorità protettrice che prevenga i suoi possibili errori, che gli tracci il cammino da seguire, freni le sue fantasie, che gli permetta di crescere senza troppe rotture. Dalla Chiesa egli riceve, prima di comprenderla, una Tradizione che è nel contempo rivelazione dell’inconoscibile e saggezza divina. – Ecco l’ordine di natura! Dio ha preposto delle autorità alle quali l’uomo deve sottomettersi. I principi del cartesianesimo sono invece una rivolta contro questo ordine. Il ruolo del maestro di filosofia è applicare l’intelligenza del suo discepolo a questo insieme di conoscenze più o meno confuse, di mostrarne il buon fondamento, farne risaltare l’ordine, marcare i legami logici e necessari: di aiutare dunque una intelligenza ancora tutta nuova, a mettere in ordine le molteplici conoscenze già acquisite dopo numerosi anni, di raddrizzarne le deviazioni esistenti, di insegnare così, a questa ragione che si sveglia, che ha pensato e riflettuto già molto tempo prima, di mostrare che i problemi che si pongono ad essa oggi, hanno, già nel passato, ricevuto delle risposte certe e decisive e che ogni intelligenza non deve ricostruire il mondo con il pensiero, ma comprenderlo alla luce dei grandi maestri della filosofia succeduti nel corso dei tempi. – Ahimè, Cartesio ha lavorato con accanimento a dissolvere l’intelligenza, a « trovare difficoltà là ove non c’erano », a « rigettare tutti i sistemi », a « eliminare una folla di pregiudizi », a mostrare agli uomini che essi sono « il giocattolo di mille errori » a schernire i costumi e l’educazione ricevuta, ad « uccidere ogni ideale », a « mettere le certezze sullo stesso piano dei problemi », etc. – È una bella demolizione dell’anima umana. Non si vede come la grazia divina possa far germogliare la Fede su tale terreno.  [2 – continua …].

É. Couvert è un autore francese che ha trascorso la vita nello studio della “gnosi”, comprendendone i meccanismi intimi e le “maschere” di cui si è servita in passato e di cui si serve ancora, per ingannare gli uomini di ogni epoca. Le sue opere sono di una chiarezza notevole, ed hanno il pregio indiscutibile di rendere intellegibile a qualsiasi mente, anche quella non particolarmente erudita e smaliziata, argomenti che in altri, autori di opere anche più robuste, restano complessi e scarsamente comprensibili. L’unico appunto che gli si possa muovere, nasce dalla domanda legittima: “… come è possibile che non abbia capito [… speriamo che lo comprenda al più presto] che nella “vera” Chiesa Cattolica, la gnosi non sia mai entrata nonostante tutti i tentativi, e mai potrà aver parte con la Dottrina evangelica di Cristo, con la Teologia o con il Magistero pontificio? Come è possibile che non abbia ancora capito, dall’alto della sua immensa cultura e sagacia al riguardo, che quella che egli reputa Chiesa “contaminata”, “infiltrata” [eresia palese che egli ben dovrebbe comprendere!!!], è nulla più che la “sinagoga di satana” spacciatasi per Chiesa dal 26 ottobre del 1958? … mentre la VERA CHIESA CATTOLICA, la Sposa Immacolata di Cristo, unica Luce di tutti i popoli, la  Madre che dispensa il latte della pura Verità ai suoi figlioli, sia “eclissata”, come annunciato dal 1846 dalla Vergine Maria a La Salette, ma ancora robusta e rocciosa nei suoi principi, fondata com’è sulla Roccia di Pietro, garante dell’unica VERITA’ affidatagli dal Capo, il supremo Fondatore del suo Corpo mistico, GESÙ-CRISTO?”. Preghiamo perché il Signore, con l’intercessione di San Tommaso, Sant’Agostino e tutti i Santi dottori della Chiesa Cattolica, possa finalmente illuminarlo, ricompensandolo del lavoro indefesso fatto in difesa della Sua Chiesa Cattolica,  tanto amata da lui, mortificato nell’immaginarla offesa e vilipesa. Ma sii lieto e gioioso, Étienne, la Chiesa che tu rimpiangi è oggi nel sepolcro, è vero, ma c’è, ancora viva, ed è pronta al risorgere più bella e splendente che mai, … Gesù ce lo ha promesso e, se promette, lo sai … non mente: “et portæ inferi non prævalebunt“. La Gnosi non prevarrà giammai sulla Chiesa, lucifero non prevarrà giammai su Gesù Cristo!  De fide!

LA GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (23): CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA -I-

CARTESIO E LA FEDE CATTOLICA – I –

[Elaborato da: É. Couvert in “De la gnosi a l’Æcumenisme”]

Un CARTESIO segreto

Nella vita di Cartesio, vi sono diversi periodi durante i quali si perde la traccia dei suoi itinerari e della sua attività. Una vita perpetuamente errante, la sua, con amicizie equivoche e cangianti, fughe improvvise, spostamenti rapidi in Francia, una preferenza accordata all’Olanda ed ai paesi protestanti: tutto ciò richiede dei chiarimenti, delle spiegazioni. – Cartesio ha frequentato i rosa+croce, prima forma di massoneria nel XVII secolo (ancora oggi il “cavaliere rosa+croce” costituisce uno dei più infami gradi della massoneria: il 18°!]. I suoi più grandi e fedeli amici ne facevano tutti parte. Il matematico Faulhaber, rosa+croce esaltato, il suo amico Isaac Berckmann e diversi pastori protestanti erano degli aderenti alla setta e frequentatori assidui della conventicola. Il suo primo biografo, l’abate Baillet, ha cercato di … cristianizzare ed idealizzare il personaggio; tuttavia egli non ha potuto nascondere alcune verità che traspirano qua e là nella sua malconcia recita.  « Cartesio, egli dice, frequenta una confraternita di sapienti in Svevia, che si era stabilita già da qualche tempo sotto il nome di “Fratelli della Rose+Croix” ». Erano questi, si dice, delle persone che sapevano di tutto e che promettevano agli uomini una nuova saggezza, vale a dire la vera scienza che non era stata ancora scoperta … il soggiorno di Cartesio in Svevia ebbe come scopo quindi la ricerca di questi “nuovi sapienti” alfine di conoscerli egli stesso, conferire con essi ed acquisire … nuova saggezza. Uno dei loro statuti, ci dice sempre Baillet « era quello di non apparire per ciò che erano, di non distinguersi dagli altri uomini né per l’abito, né per i modi di vivere e di non manifestarsi nei loro discorsi … ». Altrimenti detto, di trasmettere il loro insegnamento con sufficiente discrezione per non svelare la loro appartenenza alla società [segreta …].  – E noi vediamo allora Cartesio osservare fedelmente ogni regola dei Rosa+Croce: vive da “lupo” solitario, vaga da città in città, rifugge dalla compagnia degli uomini e dalle agitazioni del mondo per occuparsi dello studio, assicurandosi la libertà del suo spirito. Moltiplica le prudenze, pubblica le sue opere dopo molte esitazioni in Olanda, comunica i suoi lavori ai rari e discreti  amici. Indubbiamente non troviamo in alcun luogo notizie circa la sua affiliazione a questa società segreta, così sarà sempre possibile il negarlo; ma la sua attività ed il suo insegnamento sono più eloquenti che una tessera o un numero e codice di iscrizione. – Dopo aver errato tra le armate protestanti, poi cattoliche, di Germania, dopo un lungo soggiorno in Svevia, sul quale ritorneremo, nel 1628, Cartesio si rifugia definitivamente in Olanda, e si iscrive alle università protestanti; i suoi migliori amici sono pastori. Sono questi ultimi che traducono in latino le sue opere. Egli ha un legame sentimentale, dal quale nasce una figlia, Francine che fa battezzare, naturalmente, da un pastore, a Deventer. Cartesio, ha reso egli stesso il senso della sua vita: « come i commedianti prudenti, perché non vedano l’onta che sale verso la loro fronte, si rivestono del loro ruolo, ugualmente nel momento in cui vado a salire sulla scena del mondo, di cui non sono stato finora che spettatore, io cammino mascherato ». è questa la formula satanica del “larvatus prodeo” (procedo nascosto).

Un Cartesio illuminato e prometeico

Si crede comunemente che il “metodo” cartesiano gli sia stato dettato dalle sue lunghe riflessioni filosofiche, e che sia dovuto ad una meditazione intensa, apparendogli infine con l’evidenza che segue una attività razionale. Ma non è affatto così! Cartesio fu, come tutti i grandi sovversivi, un “illuminato”. È nel corso del suo soggiorno presso i Rosa+Croce in Svezia che ha un “sogno”. Nel 1618 scrive infatti al suo amico e confidente. Isaac Berckmann: « Io dormivo e voi mi avete ridestato ». È la formula classica dell’illuminazione gnostica,ì. La sua nuova dottrina, egli non l’ha inventata, ma … ohibò l’ha … ricevuta. – Il 10 novembre 1619, sempre nel suo “focolare”  di Svevia, sogna che un vento impetuoso lo fa vacillare e lo distoglie dal suo proposito di andare a pregare nella cappella del suo collegio di La Flèche: « A malo spiritu ad templum propellabatur »: io ero spinto da un cattivo spirito verso il tempio, fortunatamente sono stato distolto da questo vento. Poi viene colpito da un colpo di fulmine che lo fa sussultare: « Questo è il segnale dello “spiritello” di verità che scendeva su di lui per possederlo ». Poi legge un verso: « Quod vitæ sectabor iter? » (quale cammino seguirò nella vita? E le parole «est et non », che sono, egli dice, il Si e No di Pitagora, rappresentante la verità e la falsità nelle conoscenze umane. Con questo sogno, egli dice, « … era lo spirito di verità che doveva aprirmi i tesori di tutte le scienze. » Questo fu « una brusca e rapida folgorazione! ». Egli vuole ribaltare tutti gli antichi sistemi e « … mettere a nudo il suo spirito ». Non è questa la forma classica di ogni sovversivo? – Cartesio aggiunge ancora che « in questa famosa notte in cui gli fu “rivelata” [senza osare dire … da chi!], la dottrina che è la pietra d’angolo della filosofia e che può riassumersi in questa doppia proposizione: il principio della scienza deve essere cercato in noi stessi, poiché esso è in noi, come il fuoco nella silice, e non bisogna ricercarlo con metodi e ragioni filosofiche, bensì con l’ispirazione dei poeti, cioè con l’intuizione ». Ecco la gran parola disvelata: “Intueor”, che vuol dire « guardare all’interno ». L’uomo non ha che da rivolgere il proprio sguardo al fondo della propria anima … vi vedrà la verità che già è in essa, egli la possiede in se stesso, … non gli viene dal mondo esterno. Paul Valéry ironizza giustamente: « Cosa c’è di più suggestivo del volere che dei sogni eccessivamente oscuri gli siano testimonianze in favore di “idee chiare”! » Ed aggiunge: « Cartesio chiede al cielo di essere  confermato nella sua idea di metodo che implica una credenza ed una fiducia fondamentale in se stesso, [… nei suoi sogni cioè! –ndr.] condizioni che gli sono necessarie per distruggere la fiducia e la credenza nell’autorità delle dottrine tradizionali ». Per meglio dire: la sovversione degli spiriti e la grande rivoluzione è cominciata nientemeno che con questa brillante “illuminazione”. – Cartesio cerca la « scienza ammirevole »;  “mirabilis scientiæ fundamenta”, quella che ingloba tutte le scienze particolari e che darà una conoscenza totale del mondo, una scienza innata, dispiego del nostro pensiero. Questa rivelazione per mezzo di un sogno [… nemmeno di mezza estate !!] è una “santa” intossicazione, una Pentecoste della ragione, scienza universale perfettamente una, come quella di Dio che vede tutto, costituita in un solo colpo, per uno solo (per lui, ovviamente: Cartesio!) senza il lento lavorio delle generazioni, lo sforzo continuo dei molti, e l’autorità magistrale di qualcuno. – Cartesio ci rivela finalmente, che « la scienza deve essere il lavoro di uno solo, che deve essere un’opera composta dalla mano di un unico maestro, … Cartesio divenuto Dio! È la grande opera, l’arte reale dei nostri franco-massoni, eredi dei Rosa+Croce. « Mi si dia la misura e il movimento ed io rifarò il mondo », egli dice ancora, nel suo delirio di onnipotenza. Qual pretesa esorbitante! Il mondo gli è stato dato già creato da Dio, ma … Cartesio lo considera mal fatto. « Benché la volontà di Dio sia giunta ad una potenza materiale incomparabilmente più grande della mia, non di meno essa non è spiritualmente più grande della mia, in quanto che la mia volontà è il poter fare una cosa o non farla, affermare o di negare, perseguire o fuggire … » Questo vuol dire che l’uomo è uguale a Dio con il suo spirito, ma che gli manca solo la forza materiale. Non oltrepassando l’uomo se non per la creazione della materia (ecco qui un pensiero propriamente gnostico!). questo vuole dire ancora  che lo spirito è ridotto interamente alla volontà, e questa volontà è riconducibile all’indifferenza del giudizio nei riguardi dei beni particolari, finiti e limitati che si presentano all’uomo … questa definizione della volontà non può applicarsi assolutamente a Dio … Cartesio non ha compreso qui l’analogia dell’essere, che è una similitudine (e non uguaglianza) nei rapporti, allorché i termini riportati sono radicalmente eterogenei, di natura diversa; il potere creatore di Dio non è di natura materiale e non è commensurabile al potere “fabbricatore” dell’uomo. Non c’è solo differenza di gradazione tra l’azione di creare e quella di fabbricare, c’è differenza di natura! Tuttavia l’analogia porta sulla relazione che c’è tra il Creatore e la sua creazione da una parte, tra l’operaio e la sua opera dall’altra parte. Di vede già qui prendere forma l’idea di un Dio demiurgo, l’orologiaio di Voltaire. Una prima forma di deismo … Ma qual orgoglio! Io sono capace, dice Cartesio, di rifare la creazione!

Il rifiuto del reale e della tradizione

« Con il nome di pensiero, dice Cartesio, io comprendo tutto ciò che è tale in noi, e di cui siamo immediatamente a conoscenza. Così tutte le operazioni della volontà, della comprensione, dell’immaginazione e dei sensi sono dei pensieri. » – Con il nome di idee, dice ancora, io intendo tal forma di ciascuno dei nostri pensieri con la percezione immediata della quale, noi abbiamo conoscenza di questi stessi pensieri. » Formula tautologica che si contenta di affermare l’identità del nostro pensiero con se stesso! Così, la Verità che era, secondo il senso comune, l’accordo dei nostri pensieri con le cose conosciute, è qui l’accordo di questo pensiero con l’idea-forma di questo stesso pensiero. Non è ciò che è quel che imprime la sua forma, ma è l’idea innata che si manifesta all’interno del nostro spirito. « Di modo che, dice Cartesio, la luce naturale mi fa conoscere evidentemente che le idee sono in me come dei quadri e delle immagini che possono in verità facilmente decadere dalla perfezione delle cose da cui esse sono state tratte (ecco una concessione, di pura forma, al realismo!) ma che non possono mai contenere nulla di più grande e più perfetto ». – Così dunque le idee sono per se stesse perfette, indipendentemente dalle cose alle quali esse corrispondono. Così, dunque, egualmente la luce non illumina le cose per farle vedere, ma rischiara l’interno del nostro spirito per farle apparire, svelare come quadri e forme che già vi sono contenute. Poco importano le cose in se stesse, delle quali non possiamo conoscere il grado di perfezione. – Cartesio doveva rigettare innanzitutto la filosofia tradizionale, perché essa era un ostacolo alla sua rivoluzione negli spiriti. « Si è talmente assoggettata la teologia ad Aristotele, egli dice, che è quasi impossibile spiegare un’altra filosofia senza che essa sia innanzitutto contro la fede ». Questo sarà veramente il problema contro il quale si andrà a cozzare nel XIX secolo: come insegnare la fede cattolica accanto alla filosofia cartesiana? Noi vedremo che ciò è impossibile, e che la filosofia nuova è di per se stessa distruttrice della fede. – La filosofia moderna è impotente a rendersi conto della metafisica. Cartesio ha modificato il vocabolario, ha soppresso e volatilizzato i termini della scolastica; nello stesso tempo, sono le stesse nozioni che sono state coinvolte da questa rivoluzione. – Un moderno sapiente, fisico, chimico, biologo, non fa che invertire le nozioni di forma, di essenza, di sostanza, etc.: egli si condanna così a non comprendere nulla del reale che osserva e misura con i suoi ausili matematici. Quando egli vuole per un momento dominare il suo soggetto, estendere la sua conoscenza all’universale, bruscamente deraglia, sragiona, non sa più cosa dice. Si è ben visto a proposito del trasformismo. Il biologo che cerca l’origine delle specie parla di “Evoluzione”, deifica la materia, ne fa l’essenza dell’essere, gli attribuisce un potere divino di creazione delle forme … etc. – Tuttavia la “chiesa” [quella falsa dell’uomo], continua ad utilizzare, per l’insegnamento del suo dogma, le nozioni metafisiche della scolastica, ma che non vengono più insegnate nella dottrina da quel tempo. Così il cristiano elevato nelle discipline moderne è spaesato davanti a questo linguaggio antico che gli sembra fuori moda ed inintelligibile. Egli è dunque privo dell’ausilio metafisico necessario ad una intelligenza profonda del reale. L’insegnamento della fede non si può fare che con l’aiuto dei concetti metafisici del tomismo, perché essi sono l’espressione elaborata del “senso comune”, al di fuori  dei quali è impossibile penetrare la natura delle cose. La filosofia moderna ne è invece radicalmente impotente; è in questo che essa è distruttrice della fede. – Cartesio vuole ancora una ragione tutta pura, allo stato naturale, se così si può parlare, privata del soccorso di un Magistero che trasmetta una tradizione ricevuta, l’insegnamento di una verità cercata e studiata da altri, davanti alla quale l’intelligenza di ognuno deve fare atto di umiltà; una ragione ancora priva degli “Habitus”, cioè delle virtù sviluppate dall’esercizio e da una ascesi intellettuale che predispone il nostro spirito a sottomettersi al reale.

Il Dio di Cartesio.

Quando Cartesio vuole introdurre il “Cogito” come punto di partenza della sua filosofia, deve dapprima rigettare tutte le conoscenze anteriori in un “dubbio metodico”, come egli lo chiama, vale a dire … artificiale e sistematico. Già in questa pretesa esorbitante, c’è un’attitudine assurda. Se ne fa con volontà, con una decisione arbitraria, un “vuoto di spirito”. Quando cominciamo a riflettere, a filosofare, noi abbiamo una materia sulla quale il nostro spirito lavora, dei dati primari, degli oggetti di conoscenza, sui quali possiamo elaborare una riflessione. Non si pensa il niente, bensì qualcosa. Questa posizione di dubbio metodico può dirsi a parole, ma non può praticarsi, perché la nostra anima spirituale è fatta per la verità e dunque per delle certezze; il dubbio non è che un passaggio provvisorio tra l’ignoranza e la certezza, supponendo già delle conoscenze certe alle quali appoggiarsi. Come mai Cartesio ha dunque provato il bisogno di escludere, da questo dubbio metodico, le verità della fede? Se possiamo dubitare, come pretende Cartesio, di tutti gli oggetti reali che ci circondano e di cui percepiamo l’esistenza nel corso del giorno, come potremmo non dubitare a maggior ragione, di un mondo soprannaturale di cui non abbiamo alcuna percezione diretta? La pretesa di Cartesio è insostenibile, ed i cartesiani del XIX secolo non faranno un grande sforzo per negare l’esistenza di questo sovrannaturale: questa ad esempio sarà l’attitudine di Renan. – Resta il fatto che Cartesio, contro ogni verosimiglianza, mantiene le certezze religiose fuori da ogni dubbio metodico. Si è detto che egli volesse sfuggire ai fulmini del Santo Officio. Forse e di fatto, dopo la sua morte, le sue opere saranno messe all’indice, come vedremo. – Ma c’è un’altra spiegazione. L’esistenza di Dio e le verità soprannaturale connesse a questa esistenza, non sono ricevute dall’esterno dalla percezione sensibile, né con l’insegnamento di un Magistero, tutte cose incapaci, ci dice Cartesio, di permetterci di raggiungere la certezza; sono verità evidenti per se stesse, idee “chiare e distinte”, percepite immediatamente dall’intelligenza dal suo esercizio immanente. Il “Cogito”, diviene allora questa formula: “Io penso Dio, dunque Dio esiste”. L’esistenza di Dio è tutta nel mio pensiero, è sospesa al mio pensiero. « È quasi la stessa cosa concepire Dio e concepire che Egli esista », ci dice Cartesio. Il “quasi” è ammirabile… vi si vede una esitazione prima di affermare una formula così assurda. Vi si potrebbe vedere una precauzione verso le critiche che non si sarebbero tardate a levarsi davanti ad una tal pretesa. Infatti, se è quasi la stessa cosa, non è dunque puramente la stessa cosa, non è dunque in tutto la stessa cosa. – Ma Cartesio prosegue il suo pensiero: « Tornando ad esaminare l’idea che avevo di un essere perfetto, trovavo che l’esistenza vi era compresa, nello stesso modo che è compresa in quella di un triangolo in cui i tre angoli sono uguali a due retti » È l’argomento chiamato “ontologico” di San Anselmo, uscito da una comparazione evidentemente matematica. Se esiste un triangolo, i suoi angoli sono uguali a due angoli retti, dirà il senso comune, certo, ma … questo non prova l’esistenza del triangolo. L’esistenza non è un attributo che si può aggiungere ad un altro. La definizione del triangolo riguarda la sua natura, non la sua esistenza. L’idea di perfezione rientra nella natura di Dio, dunque nella sua essenza, non nella sua esistenza. Io non posso aggiungere alla perfezione di Dio l’idea di esistenza ed in modo tale che negandone l’esistenza, Dio non sarebbe più perfetto, perché gli mancherebbe qualcosa. In effetti se Dio non avesse l’esistenza non avrebbe alcuna delle perfezioni che gli si potrebbero attribuire: bontà, forza, amore, etc. Quando si dice « Dio è sovranamente giusto », ad esempio, l’esistenza è compresa nel verbo  “essere” e non si aggiunge come complemento alla sua giustizia per perfezionarlo, completarlo. Così, dunque, l’idea della perfezione con contiene l’idea di esistenza. – Bisognava, diceva Cartesio, riportare la nozione di Dio ad una definizione matematica: l’esistenza è compresa nell’idea, ma questa non pone l’esistenza nel reale fuori dal mio pensiero. È una prima formula dell’immanenza vitale che i modernisti non si faranno scrupolo di sviluppare. Essa era già contenuta nelle affermazioni del cartesianesimo “presunto” cristiano. Maxime Leroy, nella sua opera intitolata: « Decartes, filosophe au masque » ci dice che le sue dimostrazioni religiose sono diabolicamente polemiche e che era un’anima sfuggente, espressione applicata da san Pio X ai modernisti.

Una morale provvisoria.

Abbiamo detto che la posizione di “dubbio metodico” è insostenibile per una intelligenza normale; essa lo è ancor più per un uomo che ogni giorno è costretto ad agire, e dunque a riflettere sulle proprie azioni, in modo da conformarle al Vero e al Bene. « Affinché non restassi irresoluto nelle mie azioni mentre la ragione mi obbligherebbe ad esserlo nei miei giudizi … » Grave problema! Ma è certo Cartesio che se l’è inflitto. Egli si vede costretto a forgiare una morale, detta provvisoria: bisogna agire come se si sapesse, poiché la nostra intelligenza non può darci dei criteri certi e veri della nostra azione. – Cartesio aggiunge: « Non seguire costantemente le opinioni meno dubbie, quando io mi ci sarei una volta determinato, come se fossero state sicurissime; ed è una verità certa (una verità certa, mentre tutto è dubbioso!) che quando non è ancora in nostro potere discerne le varie opinioni, noi dobbiamo seguire le più probabili, ed anche quando non notiamo maggiori probabilità alle une o alle altre, dobbiamo non di meno determinarci verso qualcuna e considerarle poi non più come dubbie e, riportandosi alla pratica, ma come verissime e certissime per il motivo che la ragione che l’ha determinata, si trova come tale » … ma come può dunque la ragione determinarsi a ciò che non ha ragione determinante nel nostro “far agire”? Non è dunque con la ragione sprofondata nel dubbio, dal quale non può uscire, che ci si conduce all’azione! Ed allora che cos’è? « E questo fu capace allora di liberarmi da tutti i pentimenti ed i rimorsi che hanno modo di agitar le coscienze di questi spiriti deboli ed oscillanti che si lasciano costantemente a praticare come buone le cose che essi giudica essere cattive. » Ecco dove si voleva arrivare! … liberare l’uomo dai rimorsi e dal pentimento! Liberarci dall’obbligo di giudicare prima di agire, obbligo penoso e fonte di conflitti interiori tra la ragione spirituale e le passioni sensibili, sforzo dell’intelligenza per ordinare in noi i differenti appetiti. E qual conclusione! … Agiamo, agiamo! I nostri dubbi diventeranno le nostre certezze: ciò che ho fatto è buono, per questa sola ragione che io l’ho giudicato così. È la mia azione che determina la verità! Cartesio è uno spirito forte che non si trova in imbarazzo nelle contraddizioni incontrate nel corso dell’esistenza tra i nostri desideri più o meno disordinati e la nostra conoscenza del vero. Il gergo ecclesiastico modernista utilizza molto l’espressione “fare la verità”. Essa era già in Cartesio. [1 – continua …]