UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI (… E SCISMATICI) DI TORNO: S. S. LEONE XIII – INSCRUTABILI DEI CONSILIO

Con questa “robusta” lettera Enciclica, il Santo Padre, appena insediato sulla Cattedra di Pietro, inaugura la lunga serie delle sue sollecitazioni, avvisi, consigli, tentativi riparativi, esortazioni pastorali, morali, teologiche ed altro contenute nei suoi numerosissimi, opportuni e fondamentali documenti, che lo annoverano tra i Papi più prolifici – da un punto di vista dottrinale – di ogni tempo, a difesa dei diritti della Sacrosanta Sede Apostolica, della Santa Chiesa di Dio, cioè dell’unica e vera Chiesa fondata da Cristo-Dio, cioè la Chiesa Cattolica Romana, dei popoli Cristiani, ed in definitiva dei diritti di Dio, diritti ai quali ogni uomo, volente o nolente, istruito o non edotto, giusto o peccatore, così come tutti i popoli del pianeta, sono tenuti ad essere soggetti e devono osservare strettamente in vista della salute eterna dell’anima e del benessere sociale e civile delle Nazioni. Vengono tracciate subito le linee di un Pontificato energico e di grandissimo vigore, in difesa di Dio e della Chiesa, e soprattutto del Pontificato che è la “vera” PIETRA, sulla quale si fonda tutta l’opera di Dio e del Figlio suo Unigenito Gesù-Cristo. Questa è la PIETRA di scandalo che il demonio, con i suoi adepti, ha sempre tentato di infrangere, con il risultato già dal Divin Maestro annunciato nella sua evangelica predicazione, di vedersi sfracellati e miseramente tramortiti, come è già successo a persecutori armati, principi, re, imperatori, ad eresiarchi e scismatici vari in ogni epoca. Ogni qual volta ci si è accaniti contro la Sede Apostolica ed il Vicario di Cristo, il risultato è stato sempre il medesimo: la distruzione totale e la sparizione dalla faccia della terra di quelli che si sono prestati all’opera temeraria e fallace, oltre al premio eterno che sicuramente satana riserva ai suoi più “fedeli” adepti. Oggi siamo nella situazione peggiore di sempre, oggi che le forze del male stanno attuando una strategia nuova, di azione distruttiva interna nella Chiesa, oltre che di dissolvimento sociale e civile mediante le conventicole massoniche disseminate in ogni ambito. Ma la vera strategia, apparentemente vincente, la stanno attuando i falsi prelati e i finti religiosi della quinta colonna, gestita dalle logge degli “Illuminati” che, una volta modificata e ribaltata la dottrina di Cristo, stanno propinando un falso culto agli ignari, ma colpevolmente ignoranti, fedeli a-cattolici dalle roccaforti della setta del Novus Ordo e della falsa chiesa dell’uomo – di “montiniana” fattura – da un lato, ma scaltramente pure da scismatici ed eretici pseudo-tradizionalisti tra i quali, guarda caso, occupano il primo posto i “fallibilisti” lefebvriani, e l’arcipelago delle sette sedevacantiste, che giungono addirittura a negare, con una sfacciataggine che ha dell’inverosimile, una verità di fede espressamente affermata e riaffermata da Gesù-Cristo e dalla sua Chiesa in diverse occasioni, dai Concili, dal Magistero, da tutta la Teologia dogmatica, dai Dottori e dai Padri della Chiesa, dalla Tradizione apostolica, da ogni fedele che abbia un minimo di sale nella zucca: che la Sede Apostolica è vacante da ben oltre sessanta anni, e la cui rioccupazione è demandata a … data da destinarsi. Sappiamo che lo scisma (delle sette sedevacantiste, come di quelle dei “classici” protestanti occidentali e degli scismatici orientali e bizantini), costituisce un peccato grave, oltre che eresia condannata con diverse censure, peccato oltretutto contro la Carità [come tutti i manuali di teologia morale insegnano], e San Paolo ci assicura che se non si ha la carità sono inutili i miracoli, i carismi anche i più straordinari, l’immolazione del proprio corpo dato alle fiamme, tutte le opere umane, etc. … come si legge nella prima lettera ai Corinti al ben noto capitolo XIII. Ma questo accecamento umanamente inspiegabile perché mai? Esso veramente è l’opera di satana volta contro il Vicario di Cristo, di cui oggi si nega perfino l’esistenza, o se ne ammette uno ( … o udite, udite, che orrore! …) … anzi due contemporaneamente reggenti, che sono eretici ed insegnano l’errore! Veramente questo è l’attacco più vergognoso e grave che mai sia stato sferrato contro il Papa, contro la Sede Apostolica e contro la Chiesa di Cristo. Ma ancora una volta, il “pusillus grex” Cattolico, ostinatamente stretto, mediante la Dottrina, a Gesù-Cristo, ha piena fiducia nel suo Capo celeste (… non prævalebunt!), nel suo Vangelo e, pur sapendo che lo aspetta un doloroso martirio, attende con fiducia che i nemici di Cristo siano sbaragliati rovinosamente e la sua Chiesa rifulga dello splendore che solo la Sposa Immacolata di Cristo può avere, e che sempre avrà fino alla fine dei tempi ( et IPSA conteret …). Facciamo quindi nostre le parole del Santo Padre Leone XIII, così profeticamente lungimiranti e conserviamole nel cuore e nella mente, in attesa della novella manifestazione dell’Opera di Dio (della quale l’“opus Dei” è una parodia luciferina), una volta cessata l’Eclissi della Chiesa, preannunciata a La Salette dalla Madre di Cristo e nostra, la Vergine Maria, alla quale il divin Figlio ci ha affidato a nostra protezione e salvezza, ed …. Ella sola schiaccerà il capo del serpente maledetto … non dubitiamo, e ricordiamo che  “ … Qui mange le Pape, meurt”.

Leone XIII
Inscrutabili Dei consilio

Ad Patriarchas, Primates, Archiepiscopos

et Episcopos universos Catholic Orbus

 gratiam et communionem

cum Apostolica Sede habentes

Lettera Enciclica

Non appena, per arcano consiglio di Dio, fummo, sebbene immeritevoli, innalzati al vertice dell’Apostolica dignità, sentimmo vivissimo il desiderio e quasi il bisogno di rivolgerci a Voi non solo per esprimervi i sensi dell’intimo Nostro affetto, ma anche per soddisfare all’ufficio divinamente affidatoci di rafforzare Voi, che siete chiamati a partecipare della Nostra sollecitudine, a sostenere insieme con Noi l’odierna lotta per la Chiesa di Dio e per la salute delle anime. – Infatti fino dai primordi del Nostro Pontificato si presenta al Nostro sguardo il triste spettacolo dei mali che da ogni parte affliggono il genere umano: questo così universale sovvertimento dei principi dai quali, come da fondamento, è sorretto l’ordine sociale; la pervicacia degl’ingegni intollerante di ogni legittima autorità; il perenne stimolo alle discordie, da cui le contese intestine e le guerre crudeli e sanguinose; il disprezzo delle leggi che proteggono costumi e giustizia; l’insaziabile cupidigia dei beni caduchi e la noncuranza degli eterni, spinta fino al pazzo furore che induce così spesso tanti infelici a darsi la morte; la improvvida amministrazione, lo sperpero, la malversazione delle pubbliche sostanze, come pure l’impudenza di coloro che con perfido inganno vogliono essere creduti difensori della patria, della libertà e di ogni diritto; infine quella letale peste che serpeggia per le più riposte fibre della società umana, la rende inquieta, e minaccia di travolgerla in una spaventosa catastrofe. – La causa principale di tanti mali è riposta, ne siamo convinti, nel disprezzo e nel rifiuto di quella santa ed augustissima autorità della Chiesa, che in nome di Dio presiede al genere umano, ed è garante e sostegno di ogni legittimo potere. I nemici dell’ordine pubblico avendo conosciuto ciò, non ravvisarono mezzo più acconcio per scalzare le fondamenta della società che quello di aggredire costantemente la Chiesa di Dio, e con ingiuriose calunnie presentarla impopolare, e odiosa, quasi si opponesse alla vera civiltà; indebolirne ogni giorno con nuove ferite l’autorità e la forza, per abbattere il supremo potere del Romano Pontefice, custode e vindice sulla terra degli eterni ed immutabili principi di moralità e di giustizia. Di qua ebbero origine le leggi contro la divina costituzione della Chiesa Cattolica, che con immenso dolore vediamo pubblicate in molti Stati; di qua il disprezzo dell’Autorità Episcopale, e gli ostacoli all’esercizio del ministero ecclesiastico; la dispersione delle famiglie religiose, la confisca dei beni destinati al sostentamento dei ministri della Chiesa e dei poveri; la sottrazione dei pubblici istituti di carità e beneficenza dalla salutare direzione della Chiesa; la sfrenata libertà del pubblico insegnamento e della stampa, mentre in tutti i modi si calpesta e si opprime il diritto della Chiesa all’istruzione e all’educazione della gioventù. – Né ad altro mira l’usurpazione del civile Principato, che la divina Provvidenza ha concesso da tanti secoli al Romano Pontefice perché potesse esercitare liberamente e senza impaccio la potestà conferitagli da Cristo per l’eterna salute dei popoli. – Abbiamo voluto, Venerabili Fratelli, ricordarvi questo cumulo funesto di mali, non già per aumentare in Voi la tristezza che questa lacrimevole condizione di cose V’infonde nell’animo, ma perché Vi sia appieno palese a quale gravissima condizione siano condotte le cose che debbono essere l’oggetto del nostro ministero e del nostro zelo, e con quanto impegno sia necessario adoperarci per difendere e tutelare come possiamo la Chiesa di Cristo e la dignità di questa Sede Apostolica, assalita specialmente in questi tempi calamitosi con indegne calunnie. – È chiaro, Venerabili Fratelli, che la vera civiltà manca di solide basi, se non è fondata sugli eterni principi di verità e sulle immutabili norme della rettitudine e della giustizia, e se una sincera carità non lega fra loro gli animi di tutti e ne regola soavemente gli scambievoli uffici. Ora, chi oserà negare essere la Chiesa quella che, diffuso fra le nazioni il Vangelo, portò la luce della verità in mezzo a popoli barbari e superstiziosi, e li mosse alla conoscenza del divino Creatore e alla considerazione di se stessi; che abolendo la schiavitù richiamò l’uomo alla nobiltà primitiva di sua natura; che spiegato in ogni angolo della terra il vessillo della redenzione, introdotte o protette le scienze e le arti, fondati e presi in sua tutela gl’istituti di carità destinati al sollievo di qualunque miseria, ingentilì il genere umano nella società e nella famiglia, lo sollevò dallo squallore, e con ogni diligenza lo foggiò conforme alla dignità e ai destini della sua natura? Se un confronto si facesse fra l’età presente, decisamente nemica della religione e della Chiesa di Cristo, e quei fortunatissimi tempi nei quali la Chiesa era venerata come madre, si scorgerebbe con evidenza che l’età nostra, tutta sconvolgimenti e rovine, corre dritta al precipizio, e che al contrario quei tempi tanto più fiorirono per ottime istituzioni, per vita tranquilla, ricchezze e ogni bene, quanto più i popoli si mostrarono ossequienti al governo e alle leggi della Chiesa. Pertanto se i moltissimi beni, che testé ricordammo come derivati dal ministero e dal benefico influsso della Chiesa, sono opere e splendore di vera civiltà, tanto è lungi dalla Chiesa il volerla schivare od osteggiare, ché anzi a buon diritto se ne vanta nutrice, Maestra e Madre. – Anzi, una civiltà che si trovasse in contrasto con le sante dottrine e le leggi della Chiesa, della civiltà non avrebbe che l’apparenza e il nome. Ne sono manifesta prova quei popoli cui non rifulse la luce del Vangelo, presso i quali poté talvolta ammirarsi una esteriore lustra di civiltà, ma giammai i veraci ed inestimabili suoi beni. – No, non è perfezionamento civile lo sfacciato disprezzo d’ogni legittimo potere; non è libertà quella che attraverso modi disonesti e deplorevoli si fa strada con la sfrenata diffusione degli errori, con lo sfogo di ogni rea cupidigia, con l’impunità dei delitti e delle scelleratezze, con l’oppressione dei migliori cittadini. Essendo tali cose false, inique ed assurde, non possono certamente condurre l’umana famiglia a perfetto stato e a prospera fortuna, perché “il peccato immiserisce i popoli” (Pr XIV, 34): ne consegue che, avendoli corrotti nella mente e nel cuore, con il loro peso li trascinano a rovina, sconvolgono ogni ordine ben costituito, e così, presto o tardi, conducono a gravissimo rischio la condizione e la tranquillità della pubblica cosa. – Qualora poi si volga lo sguardo alle opere del Pontificato Romano, qual cosa può esservi di più iniquo che il negare quanto bene i Pontefici Romani abbiano meritato di tutta la società civile? Certamente i Nostri Predecessori, al fine di procacciare il bene dei popoli, non esitarono ad intraprendere lotte di ogni genere, sostenere gravi fatiche, affrontare spinose difficoltà; e con gli occhi fissi al cielo, non curvarono mai la fronte alle minacce degli empi, né vollero con degeneri consensi tradire per lusinghe e promesse la loro missione. Fu questa Sede Apostolica che raccolse e cementò gli avanzi della vecchia società cadente; fu essa la benigna fiaccola che fece risplendere la civiltà dei tempi cristiani; fu essa, l’ancora di salvezza tra le fierissime tempeste che sbatterono l’umanità; il sacro vincolo di concordia che strinse fra loro nazioni lontane e diverse per costumi; fu infine il centro comune di religione e di fede, di azione e di pace. Che più? È vanto dei Pontefici Massimi l’essersi costantemente opposti quale muro e baluardo, perché la società umana non ricadesse nella superstizione e nell’antica barbarie. – Oh, se questa così salutare autorità non fosse stata mai disprezzata e ripudiata! Sicuramente il Principato civile non avrebbe perduto quel carattere solenne e sacro che la Religione gli aveva impresso, e che all’uomo sembra la sola condizione degna e nobile perché ubbidisca; né sarebbero scoppiate tante sedizioni e tante guerre a riempire di calamità e di stragi la terra; né regni, una volta floridissimi, sarebbero precipitati dal sommo della grandezza al fondo, sotto il peso di tante sciagure. Ne abbiamo l’esempio anche nei popoli di Oriente: rotti i soavi legami che li stringevano a questa Sede, perdettero lo splendore dell’antica grandezza, il prestigio delle scienze e delle arti, e la dignità dell’impero. – Benefìci tanto insigni, che derivarono dalla Sede Apostolica ad ogni parte della terra, come attestano illustri monumenti di ogni età, furono specialmente sentiti da questa regione Italiana, la quale essendo più vicina ad essa per condizione di luogo, ne colse più ubertosi frutti. Sì, l’Italia in gran parte va debitrice ai Romani Pontefici della sua vera gloria e grandezza, per le quali si levò al disopra delle altre nazioni. La loro autorità e la loro sollecitudine paterna più volte la protessero dagli assalti nemici, e le porsero sollievo ed aiuto perché la fede cattolica si mantenesse sempre incorrotta nel cuore degli Italiani. – Per tacere dei meriti degli altri Nostri Predecessori, citiamo particolarmente i tempi di San Leone Magno, di Alessandro III, di Innocenzo III, di San Pio V, di Leone X e di altri Pontefici, nei quali per opera o protezione di quei sommi, l’Italia scampò alla suprema rovina minacciatale dai barbari, salvò incorrotta l’antica sua fede, e tra le tenebre e lo squallore di un’epoca decadente nutrì e conservò vivo il fuoco delle scienze e lo splendore delle arti. Lo attesta questa Nostra alma Città, sede dei Pontefici, la quale trasse da essi tale singolarissimo vantaggio da divenire non solo rocca inespugnabile della fede, ma anche asilo delle belle arti, domicilio di sapienza, meraviglia e modello di tutto il mondo. Ricordato lo splendore di queste cose, affidato ad imperituri monumenti, si comprende facilmente che solo per astio e per indegna calunnia, al fine d’ingannare le moltitudini, si poté a voce e per iscritto insinuare che la Sede Apostolica sia un ostacolo alla civiltà dei popoli e alla felicità dell’Italia. – Quindi se le speranze dell’Italia e del mondo sono tutte riposte nella benefica influenza della Sede Apostolica, a comune vantaggio e nella unione intima di tutti i fedeli con il Romano Pontefice, ragione vuole che Noi Ci adoperiamo con la cura più solerte a conservare intatta la dignità della Cattedra Romana, e a rafforzare sempre più l’unione delle membra col Capo, dei figli col Padre. – Pertanto a tutelare innanzi tutto, nel miglior modo che Ci è dato, i diritti e la libertà della Santa Sede, non cesseremo mai di esigere che la Nostra autorità sia rispettata, che il Nostro ministero e la Nostra potestà siano pienamente liberi e indipendenti, e Ci sia restituita la posizione nella quale la Sapienza divina da gran tempo aveva collocato i Pontefici Romani. – Non è per vano desiderio di signoria o di dominio che Ci muoviamo, Venerabili Fratelli, per questa restituzione; Noi la reclamiamo perché lo esigono i Nostri doveri e i solenni giuramenti da Noi prestati; e perché non solo il Principato è necessario alla tutela e alla conservazione della piena libertà del potere spirituale, ma anche perché risulta evidente che quando si tratta del Dominio temporale della Sede Apostolica, si tratta altresì del bene e della salvezza di tutta l’umana famiglia. Quindi Noi, per ragione dell’ufficio che Ci impegna a difendere i diritti di Santa Chiesa, non possiamo affatto dispensarci dal rinnovare e confermare con questa Nostra lettera tutte le dichiarazioni e le proteste che il Nostro Predecessore Pio IX di santa memoria fece ripetutamente, sia contro l’occupazione del Principato civile, sia contro la violazione dei diritti della Chiesa Romana. Contemporaneamente Ci rivolgiamo ai Principi e ai supremi Reggitori dei popoli scongiurandoli, nel nome augusto dell’Altissimo Iddio, a non voler rifiutare in momenti così perigliosi il sostegno che loro offre la Chiesa; e ad unirsi concordi e volonterosi intorno a questa fonte di autorità e di salute, e a stringere vieppiù con essa intimi rapporti di rispetto e di amore. Faccia Iddio che essi, convinti di queste verità, e riflettendo che la dottrina di Cristo, come diceva Agostino, “se viene seguita, è sommamente salutare alla Repubblica” , e che nella incolumità e nell’ossequio alla Chiesa sono riposte anche la pubblica pace e la prosperità, rivolgano tutte le loro cure e i loro pensieri a migliorare le sorti della Chiesa e del visibile suo Capo, preparando in tal modo ai loro popoli, avviati per il sentiero della giustizia e della pace, una felice era di prosperità e di gloria. – Affinché poi ogni giorno più si faccia salda l’unione del gregge cattolico col Supremo Pastore, ora Ci rivolgiamo, con affetto tutto speciale, a Voi, Venerabili Fratelli, impegnando il Vostro zelo sacerdotale e la Vostra pastorale sollecitudine, affinché destiate nei fedeli a Voi affidati il santo fuoco di Religione che li muova a stringersi più fortemente a questa Cattedra di verità e di giustizia, a riceverne con sincera docilità di mente e di cuore tutte le dottrine, e a rigettare interamente le opinioni, anche le più diffuse, che conoscono essere contrarie agl’insegnamenti della Chiesa. A questo proposito i Romani Pontefici Nostri Predecessori, e da ultimo Pio IX di santa memoria specialmente nel Concilio Vaticano, avendo dinanzi agli occhi le parole di Paolo: “Badate che qualcuno non vi seduca per mezzo di filosofia inutile ed ingannatrice, secondo la tradizione degli uomini, secondo i principi del mondo, e non secondo Cristo” (Col II, 8), non omisero di condannare, quando fu necessario, gli errori correnti, e di colpirli con l’Apostolica censura. E Noi, sulle orme dei Nostri Predecessori, da questa Apostolica Cattedra di verità confermiamo e rinnoviamo tutte queste condanne; e nel tempo stesso insistentemente preghiamo il Padre dei lumi che tutti i fedeli, con un solo animo e con una sola mente, pensino e parlino come Noi. Spetta però a Voi, Venerabili Fratelli, di adoperarvi a tutt’uomo affinché il seme delle celesti dottrine sia con larga mano sparso nel campo del Signore, e fino dai teneri anni s’infondano nell’animo dei fedeli gl’insegnamenti della fede cattolica, vi gettino profonde radici, e siano preservati dal contagio dell’errore. Quanto più i nemici della Religione si affannano ad insegnare agli ignoranti, e specialmente alla gioventù, dottrine che offuscano la mente e guastano il cuore, tanto maggiore deve essere l’impegno, perché non solo il metodo d’insegnamento sia ragionevole e serio, ma molto più perché lo stesso insegnamento sia sano e pienamente conforme alla fede cattolica, vuoi nelle lettere, vuoi nelle scienze, ma in modo particolare nella filosofia, dalla quale dipende in gran parte il buon andamento delle altre scienze, e che non deve mirare ad abbattere la divina rivelazione, ma anzi a spianarle la via, a difenderla da chi la combatte, come ci hanno insegnato con l’esempio e con gli scritti il grande Agostino, l’Angelico Dottore, e gli altri maestri di sapienza cristiana. – Ma la buona educazione della gioventù, perché valga a tutelarne la fede, la religione ed i costumi, deve incominciare fin dagli anni più teneri nella stessa famiglia, la quale ai giorni nostri è miseramente sconvolta e non può essere restituita alla sua dignità se non si assoggetta alle leggi con cui fu istituita nella Chiesa dal suo divino Autore. Il quale, avendo elevato alla dignità di Sacramento il matrimonio, simbolo della unione sua con la Chiesa, non solo santificò il nuziale contratto, ma apprestò altresì ai genitori e ai figli efficacissimi aiuti per conseguire più facilmente, nell’adempimento dei vicendevoli uffici, la felicità temporale e quella eterna. Ma poiché leggi inique, disconosciuto il carattere religioso del Sacramento, lo ridussero alla condizione di un contratto puramente civile, ne derivò che, avvilita la nobiltà del cristiano connubio, i coniugi vivano invece in un legale concubinato, che non curino la fedeltà scambievolmente giurata, che i figli ricusino ai genitori l’obbedienza e il rispetto, s’indeboliscano gli affetti domestici e – quel che è di pessimo esempio e assai dannoso per il pubblico costume – che spessissimo ad un pazzo amore tengano dietro lamentevoli e funeste separazioni. Disordini tanto deplorevoli e gravi debbono, Venerabili Fratelli, eccitare il Vostro zelo ad ammonire con premurosa insistenza i fedeli affidati alle Vostre cure, affinché prestino docile orecchio agl’insegnamenti che toccano la santità del Matrimonio Cristiano, obbediscano alle leggi con cui la Chiesa regola i doveri dei coniugi e della loro prole. – Si otterrà con ciò anche un altro effetto desideratissimo, cioè il miglioramento e la riforma degli individui, poiché come da un tronco viziato derivano rami peggiori e frutti malaugurati, così la corruzione che contamina le famiglie giunge ad ammorbare e ad infettare anche i singoli cittadini. Al contrario, in una famiglia ordinata a vita cristiana, le singole membra pian piano si avvezzeranno ad amare la religione e la pietà, ad aborrire le false e perniciose dottrine, a seguire la virtù, a rispettare i superiori e a frenare quel sentimento di egoismo che tanto degrada e snerva la natura umana. A tal fine molto gioverà regolare e incoraggiare le pie associazioni, che principalmente ai giorni nostri, con grandissimo vantaggio degl’interessi cattolici, sono state fondate. – Grandi e superiori alle forze dell’uomo, Venerabili Fratelli, sono queste cose, oggetto delle Nostre speranze e dei Nostri voti: ma avendo Iddio fatte sanabili le nazioni della terra, e avendo istituito la Chiesa per la salvezza delle genti, promettendole la propria assistenza fino alla consumazione dei secoli, abbiamo ferma speranza che, grazie alle Vostre fatiche, l’umanità, ammaestrata da tanti mali e da tante sciagure, finalmente verrà a chiedere salute e felicità alla Chiesa, e all’infallibile Magistero della Cattedra Apostolica. – Intanto, Venerabili Fratelli, non possiamo porre termine allo scrivere senza manifestare la gioia che proviamo per la mirabile unione e concordia che legano gli animi Vostri fra loro e con questa Sede Apostolica. Riteniamo che esse non solo siano il più forte baluardo contro gli assalti dei nemici, ma anche fausto e lietissimo augurio di migliore avvenire per la Chiesa. Mentre tutto questo è d’indicibile conforto alla Nostra debolezza, Ci dà pure coraggio a sostenere virilmente, nell’arduo ufficio che abbiamo assunto, ogni lotta a vantaggio della Chiesa. – Dai motivi di speranza e di gaudio che Vi abbiamo manifestati, non possiamo separare le dimostrazioni di amore e di riverenza che in questo inizio del Nostro Pontificato Voi, Venerabili Fratelli, e insieme con Voi diedero alla Nostra umile persona moltissimi sacerdoti e laici, i quali con lettere, con offerte, con pellegrinaggi e con altre pie attestazioni Ci fecero palese che l’affetto e la devozione portati al Nostro degnissimo Predecessore durano nei loro cuori egualmente saldi, stabili ed interi per la persona di un Successore tanto disuguale. Per questi splendidissimi attestati di cattolica pietà, umilmente diamo lode al Signore per la sua benigna clemenza; e a Voi, Venerabili Fratelli, e a tutti i diletti Figli da cui li ricevemmo, professiamo dall’intimo del cuore e pubblicamente i sensi della Nostra vivissima gratitudine, pienamente fiduciosi che in questa angustia di cose e difficoltà di tempi non Ci verranno mai meno la devozione e l’affetto Vostro e di tutti i fedeli. Né dubitiamo che questi splendidi esempi di filiale pietà e di cristiana virtù varranno moltissimo per muovere il cuore del clementissimo Dio a riguardare propizio il suo gregge e a dare alla Chiesa pace e vittoria. E poiché speriamo che Ci siano più presto e più facilmente concesse questa pace e questa vittoria se i fedeli esprimeranno costantemente i loro voti e le loro preghiere per ottenerle, Vi esortiamo, Venerabili Fratelli, ad impegnarli e ad infervorarli a tal fine, invocando quale mediatrice presso Dio l’Immacolata Regina dei Cieli, e per intercessori San Giuseppe, Patrono celeste della Chiesa, i Santi Principi degli Apostoli Pietro e Paolo, al potente patrocinio dei quali raccomandiamo supplichevoli l’umile Nostra persona, tutta la Gerarchia della Chiesa e tutto il gregge del Signore. – Del resto vivamente desideriamo che questi giorni, nei quali solennemente ricordiamo la risurrezione di Gesù Cristo, siano per Voi, Venerabili Fratelli, e per tutta la famiglia cattolica, felici, salutari e pieni di santa allegrezza; e preghiamo il benignissimo Dio che col sangue dell’Agnello immacolato, con cui fu cancellato il chirografo della nostra condanna, siano lavate le colpe contratte, e sia benignamente mitigato il giudizio a cui per quelle sottostiamo. “La grazia del Signore Nostro Gesù Cristo, la carità di Dio, e la partecipazione dello Spirito Santo siano con tutti Voi”, Venerabili Fratelli, ai quali tutti e singoli, come pure ai diletti Figli, clero e popolo delle Vostre Chiese, in pegno di speciale benevolenza e quale augurio del celeste aiuto impartiamo con tutto l’affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, nel giorno solenne di Pasqua, il 21 aprile 1878, anno primo del Nostro Pontificato.

DOMENICA III DOPO PASQUA (2019)

DOMENICA TERZA DOPO PASQUA (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXV: 1-2. Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja. [Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Ps LXV: 3 Dícite Deo, quam terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi inimíci tui. [Dite a Dio: quanto sono terribili le tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi stessi nemici.]

Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio 

Orémus. – Deus, qui errántibus, ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis, qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári. [O Dio, che agli erranti mostri la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia, concedi a quanti si professano cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.]

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli: 1 Pet II: 11-19

“Caríssimi: Obsecro vos tamquam ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo, quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus, tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem, sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

OMELIA I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929 – imprim.]

SOGGEZIONE ALLE AUTORITÀ

“Carissimi: Io vi scongiuro che da stranieri e pellegrini vi asteniate dai desideri sensuali, che fanno guerra all’anima. Tenete una buona condotta fra i gentili, affinché, mentre sparlano di voi quasi foste malfattori, considerando le vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno in cui li visiterà. Per amor di Dio siate, dunque, sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Poiché questa è la volontà di Dio, che, operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Diportatevi da uomini liberi, che non fate della libertà un mantello per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Onorate tutti, amate la fratellanza, temete Dio, rendete onore al re. Servi, siate con ogni rispetto sottomessi ai padroni, e non soltanto ai buoni e benevoli, ma anche agli indiscreti; poiché questa è cosa di merito; in Gesù Cristo Signor nostro” (1 Piet. II, 11-19).

La lezione è tolta dalla prima lettera di S. Pietro. Precede immediatamente quella che abbiamo considerato la domenica scorsa. Vi si parla dei doveri sociali e in modo particolare dei doveri verso l’autorità civile. Dobbiamo essere soggetti all’autorità e a quelli che dall’autorità suprema sono incaricati di amministrare la giustizia, punendo i cattivi e premiando i buoni. Così, piaceremo a Dio e faremo tacere l’ignoranza dei cattivi. La nostra ubbidienza, poi, all’autorità dev’essere fatta da veri servi di Dio; cioè, per dovere di coscienza. Vediamo appunto, come la nostra soggezione all’autorità:

1. È  voluta da Dio,

2. Fa chiudere la bocca ai nemici del nome Cristiano,

3. Deve procedere da semplicità di cuore.

1.

 Per amor di Dio siate, dunque, soggetti a ogni autorità umana. S. Pietro chiama autorità umana l’autorità civile, perché la designazione degli individui, che rivestono questa autorità, generalmente, viene dagli uomini. Che un governo sia repubblicano, monarchico, federalista; che la suprema autorità sia designata per elezione o per successione, è cosa che dipende dalla volontà degli uomini. Ma non dipende dalla volontà degli uomini l’istituzione della autorità. È tanto naturale alla società il concetto di moltitudine e di autorità, di chi dirige e di chi è diretto, che non è neppur possibile immaginabile una società, senza chi la governi. Vuol dire dunque, che la natura stessa esige che nella società ci sia chi comandi, chi presieda, chi diriga. Vuol dire, infine, che l’autorità è voluta da Dio stesso, autore della natura. Perciò S. Paolo ci ammonisce:« Ogni persona sia soggetta alle autorità costituite, perché non vi ha potestà se non da Dio» (Rom. XIII, 1). Basterebbero considerazioni umane per indurci all’obbedienza verso le autorità. Senza l’ubbidienza dei sudditi sarebbe impossibile qualunque governo. Si avrebbe una piena anarchia con la conseguente perdita di ogni diritto, di ogni libertà, di ogni idea di giustizia. Ma i Cristiani devono ubbidire per un motivo più nobile. Devono ubbidire per piacere a Dio. Se ogni potestà viene da Dio, non è cosa indifferente che ad essa si ubbidisca o non si ubbidisca. Quando l’autorità costituita emana delle leggi e impone degli obblighi che non sono contrari alla legge naturale e alla legge di Dio e della Chiesa, rifiutando la nostra ubbidienza, offendiamo Dio, del quale le legittime autorità sono rappresentanti. Gesù Cristo stesso ricorda i doveri del cittadino quando dice : «Date a Cesare ciò che è di Cesare» (Matt. XXII, 21). La soggezione che dobbiamo all’autorità suprema dello Stato, la dobbiamo anche a coloro che ne fanno le veci, la rappresentano o, in qualunque modo, sono investiti di poteri in suo nome. Anche in questo, l’insegnamento è molto chiaro. Siate dunque sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Ma se il principe, se i suoi incaricati sono cattivi, siamo noi obbligati ugualmente a star loro soggetti? Quando non esigono cose ingiuste e non escono dai limiti della propria autorità, noi siamo obbligati a stare loro soggetti, anche se sono cattivi. Anche qui la soggezione ci riuscirà facile, se opereremo per amor di Dio. I Cristiani ai quali S. Pietro scriveva, si assoggettavano nientemeno che a Nerone.

2. 

S. Pietro adduce un altro motivo che deve indurre i Cristiani a essere ossequenti alle autorità. Poiché questa è la volontà di Dio, che operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Col nome di stolti sono qui designati i pagani, i quali accusavano i Cristiani con la più grande leggerezza, e li condannavano con la più grande facilità. La dottrina dei seguaci di Gesù Cristo, tanto sublime e differente da quella dei gentili; la loro condotta, che doveva esser l’opposto da quella tenuta nel gentilesimo, attiravano su di loro lo sguardo diffidente e malevolo dei pagani. «Vi basti — dice San Pietro — di aver fatto la volontà dei gentili nel tempo passato, camminando nelle libidini, nelle concupiscenze, nelle vinolenze, nelle gozzoviglie nelle ubriachezze e nelle abbominevoli idolatrie» (1 Pietr. IV, 3). Questo mutamento di condotta doveva spingere i pagani a trovare a ogni costo un pretesto per accusare i Cristiani. Non senza motivo, dopo aver inculcato il buon esempio in generale, S. Pietro insiste in modo speciale sulla soggezione alle autorità. Una delle accuse che si facevano ai Cristiani, tanto per aver pretesto di perseguitarli, era appunto l’accusa di ribellione contro lo stato. L’accusa era gratuita, ma non era inutile insistere sulla necessità di non dar nessun pretesto ai pagani di mettere in discredito la r Religione cristiana. – Il contegno dei Cristiani di fronte all’autorità fu sempre pretesto a biasimi e a persecuzioni da parte di persone di sentimenti opposti. Per coloro che all’autorità non vogliono assegnato alcun limite, i buoni Cristiani sono dei ribelli, dei nemici dello Stato, dei cospiratori, se hanno la fortezza di anteporre la legge di Dio alla legge degli uomini. Per i nemici dell’autorità essi sono degli schiavi dei fautori del dispotismo e della tirannia. Giudizi sbagliati gli uni e gli altri. I Cristiani nell’autorità vedono il rappresentante di Dio, e nella soggezione a essa il volere di Dio. Perciò, ubbidiscono ai suoi comandi, e vogliono essere esempio agli altri nell’adempimento di questo dovere. «I Cristiani ubbidiscono alle leggi stabilite e nella loro condotta avanzano le leggi » (Lett. a Diogneto 5, 10) leggiamo in uno dei primi apologisti. I Cristiani che seguono l’insegnamento di Gesù Cristo quando dice: «Date a Cesare ciò che è di Cesare», lo seguono anche quando dice: «E date a Dio ciò che è di Dio » (Matt. XXII, 21). E la cosa è tanto giusta che non dovrebbe far meraviglia a nessuno. S. Cipriano è processato davanti al proconsole Galerio Massimo. Questi dice al santo Vescovo: « I sacratissimi imperatori hanno ordinato di render culto agli dei ». Cipriano risponde: « Non lo faccio ». Invitato dal Proconsole a rifletter bene, dichiara: « In cosa tanto giusta non c’è di riflettere » (Acta proc. S. Cipriani. Ep. et Mart.). Quando si tratta di obbedire a Dio i buoni Cristiani non hanno un momento di titubanza. E nella soggezione a Lui, come nella soggezione alle autorità da Lui costituite, sono sempre i primi.

3.

L’ubbidienza poi all’autorità dev’essere fatta non tanto per timore delle sanzioni quanto per obbligo di coscienza. Comportatevi— dice S. Pietro da vimini liberi che non fate della libertà un manto per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio.Quindi, non l’ubbidienza forzata dello schiavo, ma l’ubbidienza spontanea dell’uomolibero, che è stato liberato bensì dalla schiavitù del peccato e dalla servitù della legge mosaica; ma non dall’obbligo di ubbidire a Dio, e quindi anche ai suoi rappresentanti. Nella soggezione all’autorità il Cristiano non deve essere guidato dallo spirito di parte. Prestare ossequio all’autorità perché chi ne è rivestito viene dal mio partito; rifiutarle il dovuto ossequio perché chi ne è rivestito viene da un partito che non è il mio; ubbidire quando chi comanda ci è persona simpatica, disubbidire quando chi comanda ci è persona antipatica, non è un diportarsi secondo coscienza. Così, non è un diportarsi secondo coscienza, quando ci si assoggetta in ciò che piace, e ci si ribella in ciò che non piace. Il nostro ossequio non è sincero quando si hanno secondi fini. Profondersi in inchini davanti all’autorità, proclamarne altamente i meriti, innalzarle inni di lode, son cose che si fanno ben frequentemente anche da chi nutre nel proprio interno una forte avversione. Non si sa mai: potrebbe venirne qualche onorificenza, qualche aiuto, qualche protezione, qualche posto. Giù, dunque, lodi smaccate e a buon mercato. Costoro si devono chiamare, non ossequenti; ma striscianti e servili. Sono i seguaci di coloro, che un giorno si presentarono a Gesù dichiarandogli:« Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non badi a nessuno, e che non guardi in faccia agli uomini ». E Gesù che leggeva nell’interno diede loro una risposta, che nessuno vorrebbe rivolta a sé: « Ipocriti, perché mi tentate? » (Matt. XXII, 16 18). Infatti, noi dobbiamo essere soggetti ai nostri superiori «in semplicità di cuore per timor di Dio» (Col. III, 22). « Ma il fare una cosa e averne nell’animo un’altra, non è semplicità, sebbene ipocrisia e simulazione» (S. Giov. Grisost. In Epist. ad Col. Hom. 10, 2). – L’autorità ha i propri pesi da portare, e noi abbiamo da portare i nostri, e tutti concorriamo a far della società una famiglia felice, quanto è possibile tra coloro che su questa terra sono stranieri e pellegrini. Se da una parte non si deve fare abuso dell’autorità propria, o farla sentire più del necessario; dall’altra non si deve disconoscerla o contrariarla; si deve anzi renderle facile il proprio compito con l’ubbidienza. L’ubbidienza dei sudditi rende felice il governare. I Cristiani devono fare ancor di più, pregare Dio che assista l’autorità. Gli Ebrei, schiavi in Babilonia, per mezzo del profeta Baruch, mandano a dire agli Ebrei di Gerusalemme: « Pregate per la conservazione di Nabucodonosor, re di Babilonia e per la conservazione di Baldassarre, suo figliuolo » (Baruch 1, 11). I Cristiani non devono essere da meno degli Ebrei, che pregano e fanno pregare per un tiranno, al quale la Provvidenza li aveva assoggettati. Essi devono accettare, ciascuno per sé, le parole di S. Paolo a Timoteo: «Raccomando che si facciano preghiere, suppliche, domande, ringraziamenti, per tutti gli uomini; per i re e per tutti quelli che stanno in dignità, affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta con tutta pietà e onestà» (1 Tim. II, 1-2).

Alleluja

Allelúja, allelúja. Ps CX: 9 Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo:alleluja. [Il Signore mandò la redenzione al suo pòpolo. Allelúia.]

Luc XXIV: 46 Oportebat pati Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja. [Bisognava che Cristo soffrisse e risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Joannes XVI: 16; 22

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabímini, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.” [In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre. Dissero perciò tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che significa ciò che dice: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre? Cos’è questo poco di cui parla? Non comprendiamo quel che dice. E conobbe Gesù che volevano interrogarlo, e disse loro: Vi chiedete tra voi perché abbia detto: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete. In verità, in verità vi dico che voi piangerete e gemerete, laddove il mondo godrà, sarete oppressi dalla tristezza, ma questa si muterà in gioia. La donna, allorché partorisce, è triste perché è giunto il suo tempo: quando poi ha dato alla luce il bambino non si ricorda più dell’affanno, a motivo della gioia perché è nato al mondo un uomo. Anche voi siete adesso nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà, e nessuno vi toglierà il vostro gàudio.]

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XXIV.

“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Un pochettino, e non mi vedrete; e di nuovo un pochettino, e mi vedrete: perché io vo al Padre. Dissero però tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che è quello che egli ci disse: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto e mi vedrete, e me ne vo al Padre? Dicevano adunque che è questo che egli dice: Un pochetto? non intendiamo quel che egli dica. Conobbe pertanto Gesù che bramavano d’interrogarlo, e disse loro: Voi andate investigando tra di voi il perché io abbia detto: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto, e mi vedrete. In verità, in verità, vi dico, che piangerete e gemerete voi, il mondo poi godrà: voi sarete in tristezza, ma la vostra tristezza si cangerà in gaudio. La donna, allorché partorisce, è in tristezza, perché è giunto il suo tempo, quando poi ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’affanno a motivo dell’allegrezza, perché è nato al mondo un uomo. E voi dunque siete pur adesso in tristezza; ma vi vedrò di bel nuovo, e gioirà il vostro cuore, e nessuno vi torrà il vostro gaudio”. (Jo. XVI, 16-22).

Prima della dolorosa sua passione e morte il divin Redentore aveva più volte annunziato ai suoi Apostoli, come presto si sarebbe da loro dipartito. Così appunto ci fa sapere il Vangelo di questa Domenica, Gesù aver detto a’ suoi discepoli: Ancor un poco di tempo, e non mi vedrete più. Ed in vero dopo la sua passione e morte Egli sarebbe scomparso dalla loro presenza col lasciarsi calar dalla croce e racchiudere dentro al sepolcro. Ma il divin Salvatore, come ci riferisce lo stesso Vangelo, aveva soggiunto: E di nuovo ancor un poco di tempo e mi rivedrete. Ed anche questa parola di Gesù Cristo si sarebbe verificata pienamente; poiché il terzo giorno, risorgendo gloriosamente da morte, sarebbe più volte riapparso ai suoi discepoli. Tuttavia in seguito alla sua risurrezione Gesù non si sarebbe fermato più a lungo su questa terra e gli Apostoli sarebbero quindi rimasti soli quaggiù e ne avrebbero sofferto assai. Ora Gesù volle predire loro anche questo e confortarli con queste parole: In verità, in verità, vi dico, che voi piangerete e gemerete, mentre invece il mondo godrà; ma la vostra tristezza si convertirà in gaudio. A somiglianza della madre, che dapprima soffre, ma poi si rallegra, perché è nato al mondo un uomo, così sarà di voi. che dapprima soffrirete, ma poi quando io verrò di nuovo, gioirà il vostro cuore, e nessuno torrà da voi il vostro gaudio. Ecco adunque, o miei cari, da queste parole di Gesù Cristo ben determinata la sorte dei suoi seguaci e dei seguaci del mondo. I primi dovranno su questa terra soffrire e spargere lagrime; i secondi invece sembreranno abbandonarsi ad ogni sorta di godimenti; ma alla fine cambiate le sorti, mentre i poveri mondani andranno a soffrire per sempre nell’inferno! I veri Cristiani andranno invece a godere per tutta l’eternità in cielo. Ed ecco i pensieri, che per spiegazione del Vangelo di questa domenica intendo di imprimere nella vostra mente.

1. Gesù Cristo adunque assegna per porzione ai suoi seguaci i patimenti e le lagrime. Ora, domanderete voi, non sembra, che in questo il divin Redentore manchi di tenerezza e di giustizia per i suoi fedeli amici? No, vi rispondo subito. E sapete perché! Perché le lagrime ed i patimenti, che Iddio assegna ai buoni, come loro porzione, sono una delle più belle prove dell’amore, che Iddio nutre in cuore per essi, poiché sono uno dei più validi mezzi, di cui Iddio si serve per operare la nostra santificazione. Così appunto l’Arcangelo S. Raffaele nel congedarsi da Tobia gli disse: Quia acceptus eras Deo, necesse fuit ut tentatio probaret te: Perché eri caro a Dio, fu necessario che fossi provato dalla tribolazione (Tob. XII, 13). E di fatti che cosa si fa per ripulire l’oro della sua scoria? Lo si getta, dentro al crogiuolo e lo si fonde nell’intenso calore della fornace. Così per cavar fuori da un sasso informe una bella statua, lo si percuote con ripetuti colpi di scalpello. E così pure affinché una pianta apporti numerosi frutti, durante la stagione invernale si procura di potarla ben bene. Non altrimenti i buoni diventano tali e tali si mantengono, che sotto all’azione penosa dei patimenti e delle lagrime. La virtù, ha scritto l’Apostolo Paolo, si perfeziona nel patire: virtus in infirmitate perficitur (2 Cor. XII. 8): e S. Giacomo ha soggiunto che la pazienza rende perfetta l’opera intorno a cui si travaglia: patientia opus perfectum habet (Jac. I, 4). Gettate lo sguardo sopra i Santi, siano dell’antico, siano del nuovo Testamento, e sempre riconoscerete come Iddio mise alla prova la loro virtù e la rese in loro perfetta per mezzo dei patimenti. Giobbe era uomo ricchissimo di ogni bene di fortuna. Aveva numerosa famiglia, migliaia di pecore, di cammelli e di buoni servi in quantità straordinaria. Ma era anche giusto, ed ogni giorno offriva sacrifici al Signore per sé e per la sua figliolanza. Iddio per altro lo provò e perfezionò con le più acerbe tribolazioni, permettendo al demonio di affliggerlo quanto sapeva, salva solo la vita. Ed in un giorno Giobbe perdette i suoi greggi, ì suoi pastori, e tutta la sua figliolanza. In seguito il demonio lo piagò in tutto il corpo con un’ulcerazione sì fetente, che divenuto insoffribile agli stessi parenti ed amici; fu portato sopra un letamaio. In questo lagrimevole stato era ancora insultato dalla moglie e dagli amici, che lo reputavano colpevole di qualche grave peccato. Ma il santo Giobbe, benché afflittissimo, non si turbò e mantenne inalterabile la sua pazienza in mezzo a tutte quelle calamità, aspettando umilmente, e non invano, che Iddio lo liberasse Egli da quelle tribolazioni. Or chi sa dire i grandi meriti che in tale circostanza si fece il santo Giobbe! Osservate Giuseppe, figliuolo di Giacobbe. Perché egli era fornito di ottime qualità, i suoi fratelli, pieni di invidia e di odio contro di lui, lo calarono prima nel fondo di una cisterna e poscia lo vendettero ad un signore di nome Putifarre. Ed anche nella casa di questo signore a cagione della sua virtù fu colpito dall’avversità, e benché innocente fu condannato al carcere. Osservate il giovane Davide. Quanto dovette soffrire per causa del suo bel cuore da parte di Saul. Così dovette soffrire l’innocentissimo Daniele, e così soffrirono molti altri santi Profeti dell’antico testamento. E dopo la venuta di Gesù Cristo, secondo che Gesù Cristo stesso aveva profetato, non andarono incontro ai più gravi patimenti gli Apostoli, i martiri e in seguito tutti gli altri Santi? Sì, ed appunto col patire, specialmente col patire si fecero santi; così che tanti fra di loro, quando non avevano da patire, non erano contenti, e chiamavano in grazia al Signore che mandasse loro dei patimenti. Or dunque se è così, come ardiremo ancora di lamentarci, quando Iddio ci manda da soffrire? Ah si! soffriamo volentieri: e quando la nostra natura tanto rifugge dai patimenti, che pure Iddio per nostro bene ci manda, non dimentichiamo che questi sono la porzione delle anime giuste, ed animiamoci pensando a quel che Gesù Cristo ha patito Egli anzitutto per amor nostro, e adattiamoci volentieri anche noi a portare la croce per amor suo. Oh! l’amore al Crocifisso, ecco il vero segreto per accettare ogni patimento, per esservi rassegnati, per esserne anzi contenti. È a questo divin Crocifisso che guardava Maria, quando immersa nel più grave dei dolori gioiva nell’anima sua di partecipare alle pene del figlio. È a questo Crocifisso che pensavano gli Apostoli, quando se ne andavano gaudenti dal cospetto del concilio, perché erano stati fatti degni di patire contumelie per suo amore. È alla croce di questo divin Crocifisso che si configgeva S. Paolo per sovrabbondare di gaudio in ogni sua tribolazione. È a questo Crocifisso che applicavano tutto il loro cuore San Francesco Zaverio, quando gridava: Ancora di più; o Signore, ancora di più; S. Giovanni della Croce, quando esclamava: Soffrire ed essere disprezzato; S. Teresa, quando ripeteva: O soffrire o morire; S. Maddalena de Pazzi, quando diceva: “Soffrire e non morire”. Oh! attingiamo tutti a questa ineffabile sorgente. Che la santa carità di Gesù Cristo ci spinga, c’investa, ci consumi. Ed allora quando verranno le tribolazioni ne saremo contenti, quando non verranno le cercheremo, quando fuggiranno da noi le inseguiremo. Il patire sarà il nostro compagno di giorno, il nostro compagno di notte, il nostro compagno per tutta la vita. In esso riconosceremo la manna nascosta, la scienza dei Santi, il gran dono di Dio, il suo regno terrestre, la libertà perfetta dei suoi figliuoli, la porta della vita eterna. E voi, o giovani, se finora non avete ancor provato davvero che voglia dire patire, disponetevi tuttavia a provarlo, che i patimenti non tarderanno ad esservi anche per voi; anzi non vi mancheranno neppure adesso. se siete veramente virtuosi, poiché, sono massimamente i giovani virtuosi, che si prendono di mira dai malvagi, ed ai quali si muove la persecuzione. Ma allora ancor voi ricordatevi di essere nel numero dei seguaci di Gesù Cristo e patite volentieri; rallegratevi anzi di poter patire per Lui, che questa sarà la vostra più bella gloria.

2. Ma il divino Maestro mentre assegnò come speciale porzione ai buoni il patire, disse per contrapposto che i seguaci del mondo avrebbero avuto i godimenti. E l’esperienza conferma la parola di Gesù Cristo nel santo Vangelo. I malvagi il più delle volte quaggiù trionfano fortunatamente nelle loro iniquità: essi ricchezze, essi onori, essi piaceri, essi insomma tutto ciò che sembra rendere felici gli uomini sopra di questa terra, « E perché mai, si domanda lo stesso profeta Geremia, perché mai il peccatore viene prosperato nelle sue vie? Perché l’ingiustizia ottiene un esito così fortunato?» (Jer. XII). Perché? Anzitutto, o miei cari, perché la giustizia di Dio non si compie quaggiù, perché dopo il tempo verrà l’eternità, perché il Signore alle volte con questi godimenti terreni vuol premiare quel po’ di bene, che quei malvagi fanno in mezzo a tanto male, perché vuol castigarli lasciandoli in una felicità che li acceca, li insuperbisce, e li lascia nell’abisso delle loro colpe senza che se ne avveggano. Ma poi anche perché la sorte dei mondani, benché felice in apparenza non lo è in realtà. E credete voi che il mondo con tutti i suoi tesori, con tutte le sue dignità, e con tutti i suoi piaceri possa dare ai suoi seguaci dei godimenti veri, che riescano a pienamente soddisfarli? No, o miei cari, non è possibile. Il mondo con tutti i suoi beni non può contentare il cuore dell’uomo, perché l’uomo non è creato per questi beni, ma solo per Iddio, ond’è che solo Dio può contentarlo. Le bestie, che son create per i diletti dei sensi, esse si trovano la pace nei beni di terra; date ad un giumento un fascio di erba, date ad un cane un pezzo di carne, sono contenti, non desiderano niente più. Ma l’anima, che è creata solo per amare e star unita con Dio, con tutti i piaceri del mondo non potrà mai trovare la sua pace; solo Dio può renderla appieno contenta. S. Bernardo dice di aver veduto diversi pazzi con diverse pazzie. Tutti questi pativano una gran fame, ma altri si saziavano di terra, figura degli avari; altri di aria, figura di quei che ambiscono onori; altri d’intorno ad una fornace imboccavano le faville, che da quella svolavano, figura degli iracondi; altri finalmente d’intorno ad un fetido lago bevevano quell’acque fracide, figura dei disonesti. Quindi ad essi rivolto il Santo, diceva loro: O pazzi, non vedete che queste cose più vanno accrescendo, che togliendo la vostra fame? I beni del mondo sono beni apparenti, e perciò non possono saziare il cuore dell’uomo. Di fatti l’avaro quanto più acquista, tanto più cerca di acquistare e non si accontenta mai per quanto venisse a possedere tutto il mondo. Il disonesto quanto più si rivolge tra le sordidezze, tanto più resta nauseato insieme e famelico; e come mai il fango e le sozzure sensuali possono contentare il cuore? Lo stesso avviene all’ambizioso, che vuol saziarsi di fumo, poiché l’ambizioso più mira quel che gli manca, che quello che ha. Alessandro Magno, dopo aver acquistati tanti regni, piangeva, perché gli mancava il dominio degli altri. Oh! Se i beni di questa terra contentassero l’uomo, i ricchi, i monarchi sarebbero appieno felici; ma la esperienza fa vedere l’opposto. Salomone, il quale asserisce egli stesso di non aver negato niente ai suoi sensi, con tutto ciò dovette confessare che i beni del mondo sono vanità delle vanità, ed afflizione di spirito.Sì, oltre al non restarne soddisfatto, chi si abbandona ai piaceri di peccato non trova che amarezza, agitazione, spavento e rimorso. Chi sta in peccato ha paura per niente. Ogni fronda che si muova lo spaventa. Il suono del terrore è sempre nelle sue orecchie. Fugge sempre, senza veder chi lo perseguita. E chi lo perseguita? Il medesimo suo peccato. Caino dopo che uccise il fratello Abele, diceva: “Ora chiunque mi trovi, mi ucciderà”. E sebbene il Signore l’avesse assicurato che niuno l’avrebbe offeso, pure come dice la Scrittura, Caino andò sempre fuggendo da un luogo ad un altro. Chi era dunque il persecutore di Caino se non il suo peccato? Per di più il peccato porta seco il rimorso della coscienza, ch’è quel verme tiranno, che sempre rode. Vada pure il misero peccatore al teatro, al festino, al banchetto; ma tu, gli dice la coscienza, stai in disgrazia di Dio; se muori, vai all’inferno! Epperò il rimorso della coscienza è una pena sì grande anche in questa vita, che taluni per liberarsene son giunti a darsi volontariamente la morte. Uno di costoro fu Giuda, che come si sa, per disperazione da se stesso si appiccò. Ah! Che cosa è un’anima, che sta senza Dio? Dice lo Spirito Santo, ch’è un mare in tempesta. Se taluno fosse portato ad un lautissimo e splendido pranzo, ma ivi fosse appeso coi piedi, costretto a mangiare con la testa in giù, potrebbe godere di quel pranzo? Tal è quell’uomo, che sta con l’anima sottosopra, stando in mezzo ai beni di questo mondo, ma senza Dio. Egli mangerà, beverà, si divertirà, porterà indosso ricche vesti, riceverà quegli onori, otterrà quel posto, farà quella vendetta, ma non avrà mai pace ed allegrezza vera. La pace solo da Dio si ottiene, e Dio la dà agli amici, non già ai nemici suoi. La felicità adunque dei mondani non è che una felicità apparente, vana e ingannevole. Ed ecco perché Dio lascia godere a costoro una tale felicità.

3. Ma quand’anche questa felicità della terra fosse reale e valesse a rendere davvero soddisfatti tanti miseri uomini, quale sarà il suo termine? Il termine di una tale felicità è l’inferno con gli orribili suoi tormenti. Eravi un uomo, racconta lo stesso Gesù Cristo nel Vangelo, eravi un uomo, il quale andava fastosamente vestito, ed ogni giorno si dilettava in apparecchiar lauti banchetti. Eravi eziandio un mendico per nome Lazzaro, il quale tutto coperto di piaghe giaceva alla porta del ricco, e sentivasi così travagliato dalla fame, che desiderava saziarsi delle briciole che cadevano dalla mensa di quel ricco e non le poteva avere; sicché i cani, più compassionevoli del padrone, andavano a leccare le sue piaghe. Ma non molto dopo Lazzaro morì e dagli angioli fu portato nel seno di Abramo. E morì anche il ricco, ma l’anima sua fu seppellita giù nell’inferno. Allora in mezzo agli acerbissimi tormenti, ch’ivi si soffrono, permise Iddio all’Epulone di levare lo sguardo e vedere Lazzaro nel seno di Abramo. “Padre Abramo, si mise ad esclamare, ti chiedo una grazia; per pietà mandami Lazzaro, che col dito intinto nell’acqua venga a me e ne lasci cadere una goccia sulla mia lingua, perché in questa fiamma son cruciato orribilmente” . Ma Abramo alla domanda di quel dannato rispose dicendo: Ricordati che hai già ricevuto dei beni durante la tua vita. E con questa risposta lo lasciò immerso in maggiore tristezza. Ecco adunque, o carissimi, ecco il fine della felicità mondana. Quel cattivo ricco visse quaggiù in mezzo ad ogni sorta di godimenti ed oramai da diciannove secoli si trova fra i tormenti dell’inferno, e vi starà per tutta l’eternità col più crudo rimorso di aver tanto goduto nel mondo. E tale sarà la sorte di tutti i mondani, se a tempo non si convertiranno e non faranno penitenza dei loro peccati. E vi pare questa una sorte invidiabile? Ah non è mille volte più desiderabile la sorte dei servi di Dio? Il discepolo del Salvatore quaggiù incontra delle difficoltà e delle prove. Egli ha da mortificare i suoi sensi, ha da resistere alle sue cattive inclinazioni, ha da frenare le sue malvagie passioni, ha da piegare sempre docilmente la sua testa alla volontà di Dio, anche in mezzo alle avversità, alle contraddizioni, ai patimenti ed alle lagrime. Ma tutto ciò quanti meriti gli acquista e qual ricompensa gli prepara in cielo! Tutto quanto egli fa, tutto quello che egli soffre, tutto è da Dio contato e tutto sarà da Lui ricompensato per tutta l’eternità. Gesù Cristo lo ha detto e la sua parola non fallirà mai: Ora piangete e siete nell’afflizione, ma la vostra tristezza un giorno si convertirà in gaudio; e questo gaudio, quand’io vi vedrò in cielo, nessuno toglierà da voi in eterno. Or se è così adunque, perché non ci animeremo a sostenere volentieri e con coraggio i travagli di una vita veramente cristiana? Negli stenti e nei sudori, che soffre il contadino affidando il suo seme alla terra, non si anima forse pensando al copioso raccolto, che farà un giorno? E non si anima il soldato tra i pericoli della battaglia pensando alla corona, che gli sta preparata? Così ancor noi volgendo lassù il nostro pensiero, ripetiamo spesso con l’Apostolo Paolo: Non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam, quæ revelabitur in nobis: È un nulla il patire di questo mondo, in confronto all’eterno godere che Iddio tiene apparecchiato per coloro che lo amano e lo servono fedelmente (Rom. VIII. 18). E ciò ripetiamoci con tanto maggior animo, quanto più siamo certi di conseguire l’eterno gaudio per la fedeltà di Gesù Cristo nelle sue divine promesse. Il contadino, benché si travagli a lavorare la terra, non è sempre sicuro di fare un raccolto copioso, che da un momento all’altro una grandine furiosa può disertarlo. Il soldato nell’atto stesso che espone la sua vita, la può perdere e con essa l’ambita corona. Ma non è così di noi soffrendo e lavorando per il cielo. Gesù Cristo ha detto chiaro: La vostra tristezza si convertirà in gaudio e questo gaudio nessuno mai re lo potrà rapire . E la parola di Gesù Cristo non verrà meno in eterno.

Credo…

Offertorium

Orémus

Ps CXLV: 2 Lauda, anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero, allelúja. [Loda, ànima mia, il Signore: loderò il Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]

Secreta

His nobis, Dómine, mystériis conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia. [In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]

Communio

Joannes XVI: 16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum, et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja. [Ancora un poco e non mi vedrete più, allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Sacramenta quæ súmpsimus, quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus tueántur auxíliis. [Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]

LO SCUDO DELLA FEDE (60)

LO SCUDO DELLA FEDE (60)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

CAPITOLO XI.

SI CONVINCE FALSO IL PROTESTANTISMO PERCHÈ NON HA UN CAPO SUPREMO.

Per poco che uno conosca la Religione Cristiana, sa molto bene che Gesù Cristo l’ha fondata sopra di un Capo il quale sempre la regolasse. Sentite le belle parole di Gesù Cristo eterna verità ed istitutore della S. Chiesa. Esso rivolto a Pietro gli dice: Tu sei Pietro, ed io sopra di te edificherò la mia Chiesa e le porte dell’Inferno non prevarranno contro di Lei. A te darò le chiavi del Regno dei cieli, e qualunque cosa avrai legata sopra la terra, sarà legata anche nel ciclo, e qualunque cosa avrai sciolta sopra la terra, sarà sciolta anche in cielo (Matt. XVI, 18). Dite: poteva parlarsi più chiaro? Gesù Cristo dice espressamente che fabbricherà la Chiesa sopra di Pietro, dunque Pietro è il Capo: dice che gli darà le chiavi, appunto come si danno ad un Principe, quando entra in una città in segno della sua padronanza, dunque egli è il Principe della Chiesa; gli dà pieno potere di legare e sciogliere qualunque cosa, dunque la sua autorità si estende a tutti i Fedeli. Ed è tanto chiaro tutto ciò, che bisogna non aver occhi per non vederlo. Poi per confermare questo Primato a San Pietro gli dice espressamente che pasca prima gli agnelli che sono i Fedeli, poi anche le pecore madri (Ioan. XXI. 15. 10) che sono i Pastori, cioè gli altri Vescovi e Sacerdoti. Gli dice espressamente che ha pregato per lui, perché non venisse meno la sua fede, affinché egli confermasse tutti i suoi fratelli (Luc. XXII, 22, 32), lo fa nominare nel S. Vangelo sempre il primo di tutti per denotare la sua superiorità. Tutti i più gran Santi della Chiesa hanno sempre intese così queste chiarissime parole, e perciò hanno sempre riverito San Pietro come il Capo della Chiesa, come il Vicario di Gesù Cristo. Del resto non poteva essere altrimenti. Come si sarebbe potuta mantenere la Chiesa che è sì vasta, che abbraccia tutto il mondo, senza di un Capo? Neppure una famiglia può regolarsi senza capo: tanto meno una città, un regno, tanti regni, quanti sono quelli che si accolgono nella S. Chiesa. Bisogna che qualcuno possa risolvere tutti i dubbi che insorgono, comporre tutte le liti e tutte le dissensioni che si accendono, mantenere la unità della dottrina, la concordia e la carità. Siccome poi la santa Chiesa per volontà di Gesù deve durare fino alla fine dei secoli, questo Capo deve esservi fino alla fine dei secoli, altrimenti la Chiesa non si manterrebbe come l’ha formata Gesù, concorde, unita, con la stessa dottrina, con lo stesso ordine. Ora chi sarà questo Capo della Chiesa? Non è e non può essere altri che quello che succede legittimamente a S. Pietro, cioè il Romano Pontefice. S. Pietro fondò la Sede Romana ed in essa visse, ed in essa morì. – Quella pertanto fu la vera Sede di Pietro nella quale si trovarono e nella quale passarono tutti i diritti di Lui. Se i successori di Pietro nella sua Sede non fossero i possessori dell’autorità di Pietro, come si verificherebbe che la Chiesa sopra di Pietro fosse fondata, come ha promesso Gesù? E dunque innegabile che tutti quelli che nei secoli susseguenti la occuparono sono i veri Capi visibili della Chiesa i Vicari di Gesù Cristo. E perciò tutti i nostri maggiori nella S. Fede, rispettando tutte le antichissime Sedi Episcopali, diedero sempre la preferenza alla Romana. A questa si appellavano in tutte le controversie che sorgevano, ed essa risolvette sempre tutti i dubbi, consigliò tutti gl’ignoranti, definì tutte le liti, condannò tutti gli errori. Alla Cattedra di S. Pietro fecero riverenza tutti i Fedeli, prestarono obbedienza tutti i Principi che vollero essere Cattolici, si sottoposero tutti i Pastori radunati nei Concili, fecero ossequio tutti i Cristiani. Ed in prova ancora che questa era istituzione sua, Gesù Cristo confermò con la sua assistenza quella gran Sede, sicché non venisse mai meno. Nelle altre Sedi anche antichissime, s’intruse qualche volta l’errore: le altre Sedi furono quasi tutte distrutte o assoggettate ad altre Sedi, quella di Pietro in mezzo a tutte le tempeste delle persecuzioni dei Principi ed Imperatori malvagi, e delle insidie degli Eretici, sempre rimase salva ed intatta, e Dio tanto assisté quella gran Sede, la quale è l’organo della sua sapienza, che perfino quando vi fu qualche Pontefice (che però furono pochissimimeno buono, non permise mai che insegnasse cosa alcuna, o contraria alla Fede, ocontraria alla morale; che anzi fece che questi Pontefici al pari degli altri confermassero sempre secondo la parola di Cristo i loro fratelli nella Fede, insegnando costantemente la verità. – Mirabile Istituzione che fece il nostro Divino Salvatore, sommamente provvida per tutti noi! poiché con questa ci accese una fiaccola che illumina le nostre tenebre per modo, che chiunque voglia camminare a quel lume, non può perdere la strada del cielo. – Ora che cosa fanno i Protestanti? Vi vogliono togliere questa bella fiaccola che così bene v’illumina, vi vogliono levare questa pietra immobile che vi rassicura, cioè vogliono togliere dalla S. Chiesa il Romano Pontefice. Gesù Cristo ha dato a Pietro ed ai suoi successori l’autorità ed essi gliela tolgono: Gesù Cristo ha detto a Pietro d’insegnare a tutti, ed essi pretendono che taccia, e si mettono ad insegnare essi: Gesù Cristo ha detto a Pietro che confermi nella Fede tutti, ed essi ricusano Pietro e pretendono di confermarsi da sé nella verità: Gesù Cristo l’ha fatto loro Capo, ed essi rigettano questo Capo messo da Gesù, per sottomettersi poi a chi? Mi vergogno fino a dirlo, o ad un soldato che li regola con la spada, o ad un Principe che non s’intende di nulla che appartiene alla S. Fede, oppure anche ad un fanciullo o ad una donna come è accaduto altre volte ed accade presentemente ai Protestanti d’Inghilterra. Se non è questa una vergogna sempiterna, che sarà mai? E questa è la bella Religione che ci vogliono portare? e per questa Religione ci vogliono strappare dal seno della Cattolica Chiesa? Obbediscano essi a chi loro piace: noi riconosceremo unicamente il Sommo Pontefice e Vicario di Gesù Cristo ed in compagnia di tutti i Santi, di tutti i Padri e di tutti i Dottori dipenderemo da Lui, e Lui onoreremo sopra la terra, né mai riconosceremo la vera Chiesa senza di Lui. Una campagnuola prudente ad un Signore che le diceva di farsi Protestante, fece questa interrogazione: ed allora a chi dovrei poi obbedire? A nessuno, rispose quegli, farete da voi, toccherà a voi leggere nelle Sacre Scritture e farvi la Religione. Allora essa rispose: Signore, neppure il mio pollaio può andar bene senza il gallo, pensate poi se possa andar bene tutta la S. Chiesa senza un Capo. E con questa semplice ma giusta risposta gli voltò un paio di spalle e lo lasciò confuso.

I SANTI MISTERI (5)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (5)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XVIII

Il Corporale, il pane ed il vino dell’altare.

Dopo il Credo e l’Oremus, il Prete recita una breve preghiera denominata Offertorio, che ricorda lo spirito del mistero o della festa del giorno. Poi egli stende sulla pietra d’altare un sacrissimo velo, chiamato Corporale, perché avrà ben presto l’onore di portare il Corpo adorabile del Figlio di DIO. Il Corporale deve essere propriamente, ancor più puro per quanto si possa, degli altri teli dell’altare, a causa della sua destinazione più santa. Esso non deve presentare la minima macchia, né il minimo rammendo; deve essere tutto bianco ed unito in tutta la sua semplicità e purezza. Esso ricorda la Santissima ed Immacolata Vergine MARIA, Madre del Figlio di DIO e Madre della Chiesa, più pura, mille volte più santa degli Angeli rappresentati, come visto, dai tre teli bianchi che coprono l’altare e che supportano il Corporale. MARIA, Madre di GESÙ, è portata dai nove cori degli Angeli; essi la riveriscono e l’amano come loro Sovrana. È in Ella che DIO ha operato, nella pienezza dei tempi, il mistero dell’Incarnazione di suo Figlio; ed è sul Corporale che sta per operarsi tra poco la consacrazione del Corpo e del Sangue di GESÙ. Aspettando la Consacrazione, il Corporale sta per portare il pane che sarà cambiato in Corpo del Signore, ed il vino che sarà cambiato nel suo Sangue; allo stesso modo, dopo l’inizio del mondo, fino all’Incarnazione, la futura Madre di DIO è stata costituita Regina dei Patriarchi, Regina dei Profeti, Regina di tutti i Santi dell’Antica Legge, non meno che Regina degli Angeli; la grazia della sua futura Maternità, che è un solo e medesimo mistero con l’Incarnazione e la Redenzione, comprendeva tutta la Religione, il culto, tutti i sacrifici dell’antica Alleanza, come il Corporale porta il pane ed il vino. In effetti, il pane ed il vino rappresentano là sull’altare le vittime tutte degli antichi sacrifici. Allo stesso modo questo pane e questo vino non hanno alcun valore in se stessi, e tutto il loro valore proviene dalla loro sublime destinazione; come le vittime ed i sacrifici che offrivano alla maestà del vero DIO i Santi della Legge antica, traggono tutta la loro virtù, tutto il loro valore dal Sacrificio divino e dall’adorabile Vittima che essi raffiguravano. Per la loro composizione, pure, il pane ed il vino rappresentano ancora l’unione di tutti i fedeli in una sola Chiesa Cattolica, cioè universale: il pane è formato da molti grani di frumento molati, poi impastati insieme con l’acqua, poi infine cotti al fuoco; e questo pane, così composto, deve essere cambiato in Corpo di GESÙ-CRISTO; il vino è ugualmente formato da una quantità di chicchi di uva schiacciati, il cui succo alcolico ha dovuto fermentare per diventare un eccellente liquore; e nel Calice, questo vino sta per essere cambiato nel Sangue del Figlio di DIO. Questo doppio mistero naturale della composizione del pane e del vino dell’altare è il simbolo dell’unità e della pace, che fanno di tutti i fedeli un solo corpo, una sola Chiesa; come gli uomini, essi sono separati e senza mutui legami di carità; essi sono i grani di frumento prima della mietitura, gli acini di uva prima di essere pressati. L’acqua del Battesimo ed il fuoco dello Spirito-Santo cambiano gli uomini in Cristiani, in membra di GESÙ-CRISTO, in templi viventi di questo divino Signore: essi sono delle ostie spiritualmente consacrate. Egualmente, con il lavoro della fermentazione, che purifica e lo fa diventar tale, il vino è simbolo dell’azione dello Spirito-Santo nelle anime che GESÙ chiama all’onore di fare “uno” con Lui e per Lui, con il Padre. Il pane ed il vino, deposti sul Corporale, stanno per essere transustanziati, cioè cambiati nella sostanza stessa del Corpo e del Sangue di GESÙ-CRISTO. Sotto questo aspetto, essi sono ancora i simboli evidenti della trasformazione spirituale e soprannaturale che si opera in noi con il mistero della grazia: noi non siamo cambiati, è vero, nella Persona di GESÙ, e la nostra sostanza non diviene la sua sostanza; ma lo Spirito-Santo, facendo di noi dei Cristiani, unisce sì intimamente il nostro spirito allo Spirito di GESÙ, i nostri pensieri ai suoi pensieri, i nostri sentimenti ai suoi sentimenti, che tra GESÙ ed il vero Cristiano vi è verosimilmente, come dice San Paolo, che « … un solo e medesimo spirito. » E così, la nostra vita è cambiata, trasformata nella vita transustanziata del nostro divin Capo. « Non sono più io che vivo, diceva ancora San Paolo, è GESÙ-CRISTO che vive in me. » Ecco cosa significano il pane ed il vino dell’altare. Così i Preti santi mettono ogni tipo di cura a tutto ciò che concerne questo pane e questo vino, materia del Sacrificio. Essi rigettano, come indegno, ogni ostia granulosa, deteriorata, imperfetta, ogni ostia caduta a terra: e si sforzano di non presentare all’altare un vino non solo puro, ma di buona qualità e di profumo delicato. Non sarebbe vergognoso veder riservato per la nostra tavola un vino fine e squisito, e dare al buon DIO, per il suo Sacrificio, ciò che non vorremmo offrire ad un confratello o ad un amico? Quando accade una tale irriverenza essa è indubbiamente il risultato ed il segno di una fede molto poco delicata. Un recente decreto della Congregazione dei Riti ordina che le ostie siano rinnovate almeno ogni quindici giorni. Soprattutto nei paesi umidi, questa precauzione è di una necessità evidente. Anche dopo la Consacrazione queste ostie, divenute in realtà il Corpo vivente del Signore, conservando le apparenze e le proprietà esteriori del pane, possono alla lunga alterarsi, e devono potersi alterare come dei pani ordinari. Senza questo, il Santissimo Sacramento non sarebbe più ciò che esso è assolutamente, « il mistero della fede, misterium fidei » come dice la Chiesa. L’alterazione delle sante specie è una conseguenza necessaria dell’idea stessa dell’Eucaristia; la conservazione di un’Ostia consacrata fuori dalle leggi naturali, che regolano la conservazione del pane azimo, sarebbe un miracolo, cioè un fatto divino, straordinario, insolito; ora la santa Eucaristia è, nella Chiesa, un Mistero, un mistero quotidiano e non un miracolo.  

XIX

La Patena, il Calice e la doppia oblazione.

L’ostia riposa su di un piccolo piatto, che si chiama Patena; ed il vino vien versato in una coppa, chiamata Calice. La Patena ed il Calice devono essere dorati, almeno internamente, nel rispetto per il Corpo ed il Sangue del Signore. Questi vasi sacri devono essere almeno d’argento (se proprio la chiesa fosse indigente, il diritto liturgico tollererebbe anche un calice di stagno), smerigliato, se possibile, cioè di argento dorato; meglio ancora se fosse in oro puro, come era in uso nelle grandi chiese. L’oro è nel culto divino il simbolo della carità e della perfezione; è per questo che ogni vaso sacro di uso eucaristico, deve essere almeno dorato; l’argento è il simbolo dell’innocenza, della purezza. Quanto al rame, al ferro e agli altri metalli comuni, la loro inferiorità è sufficiente per escluderli dalla confezione dei vasi sacri. Non si deve dir Messa con un Calice ed una Patena non consacrata dal Vescovo. È facile comprendere che ciò che debba servire ad un uso così augusto, così divino, sia preliminarmente purificato, benedetto, santificato, ed escluso dal numero delle cose profane. A meno di un permesso speciale, che non si accorda così alla leggera, è proibito a tutti coloro che non siano almeno chierici tonsurati, di toccare un Calice o una Patena, dal momento che essi sono consacrati. Secondo la Tradizione, è certo che l’uso della Patena e del Calice, come pure del Corporale per il Santo Sacrificio, risalga ai tempi apostolici. Gli Apostoli hanno imitato in questo Nostro Signore, che si servì per primo di un piatto (o Patena) e di una coppa (o Calice) quando celebrò nel Cenacolo il mistero eucaristico. Essi seguivano alla lettera il precetto del loro Maestro: « E voi, ogni volta che farete questo, lo farete in memoria di me, », cioè come me ed in ricordo di tutti i miei misteri. È ancora ad imitazione del primo Sacerdote, di GESÙ, che essi hanno ordinato ai Sacerdoti di fare prima l’offerta del pane, poi del vino, prima di consacrare e, facendo questa offerta, di levare gli occhi al cielo: « Et elevatis oculis in cœlum, » dice il Vangelo. Se il Sacerdote guarda più fissamente e più lungamente il Crocifisso durante l’offerta del Calice, è senza alcun dubbio perché il Sangue del Signore, che il Calice starà per contenere, è lo stesso che sull’altare sanguinante della Croce scorreva dalle mani, dai piedi, dal costato trafitto del Redentore. Il Sangue divino del Sacrificio, ha una relazione più immediata con GESÙ crocifisso che con il suo Sangue è entrato nel santuario, rinnovando a tutti i suoi membri, la beata eternità (Per proprium sanguinem introivit semel in Sancta, æterna redemptione inventa. (Ad Hebr., IX, 12.). Dopo trentatré anni e mezzo, il suo Corpo sacro aveva offerto, dapprima nel seno della Vergine Immacolata, il suo primo altare, poi a Bethléem, a Nazareth e in tutti gli altri misteri incruenti del lungo sacrificio della sua vita; ma il Sangue divino non era colato. Alla circoncisione, in effetti, non si era avuto che un anticipo della redenzione mediante il sangue.

XX

Cosa simbolizzano ancora la Patena, il Calice ed il Corporale.

Ma devono essere segnalate qui all’attenzione dei fedeli, ancora due altri significati del Corporale e dei due vasi sacri che esso sostiene. Il primo deriva dalle medesime parole delle preghiere liturgiche prescritte per la loro consacrazione dal Vescovo; il secondo si ricollega alla vista d’insieme del grande mistero di GESÙ-CRISTO, che abbiamo da poco ricordato. Il Vescovo, dopo aver solennemente consacrato la Patena ed il Calice, con il santo Crisma, chiede a DIO che questo Calice e questa Patena divengano, con la grazia dello Spirito-Santo, un nuovo sepolcro per il Corpo ed il Sangue di Nostro-Signore GESÙ-CRISTO (Corporis et sanguinis Domini nostri JESU-CHRISTI novum sepulcrum Sancti Spiritus gratia eificiantur.  – Pontif. Rom.). Ciò che fa dire al Papa Benedetto XIV, secondo Suarez e diversi altri, nel suo trattato di dogmatica e liturgia, De Sacrificio Missæ (Lib. I, cap. VI): « Il Calice simbolizza il sepolcro nuovo ove fu deposto il Cristo-Signore; la Patena rappresenta la pietra rimossa dall’entrata del sepolcro, ed il Corporale esprime il sudario bianco con il quale Giuseppe di Arimatea avvolse il Corpo del Cristo. » – Questa interpretazione si riporta unicamente e direttamente alla presenza reale, e mostra l’identità del Sacrificio mistico dell’altare con il Sacrificio cruento del Calvario. Da questo punto di vista è di una giustezza assoluta. – La seconda interpretazione si riporta, noi diciamo, alla contemplazione dell’unità e della universalità del mistero di Cristo, l’una e l’altra misticamente rappresentata all’altare. Ora ecco ciò che richiamano alla nostra fede il Corporale, la Patena ed il Calice, così come la doppia oblazione. La Patena, sulla quale è il pane dell’altare, significa in modo evidente la legge mosaica, con le sue vittime figurative ed il suo altare. L’altare sul quale DIO aveva ordinato che si immolassero queste vittime, era santo e consacrato, come i quattro corni che decoravano i suoi Angeli. Il Sacerdote prendendo la Patena per offrire il pane e sacrificarlo, la sostiene con le due mani giunte, per mezzo delle sue quattro dita consacrate. Nella consacrazione delle mani del Sacerdote, all’ordinazione, il Vescovo benedice e consacra, in effetti, in maniera speciale il pollice e l’indice di ogni mano, in vista della Santa Eucaristia che essi toccheranno. Queste quattro dita del Sacerdote, sostengono dunque la Patena che porta l’ostia; così come già, nel Tabernacolo e nel Tempio, i quattro corni consacrati sostenevano l’altare degli olocausti, ove si posavano le vittime. Durante questa oblazione, o offrendo il pane, il Sacerdote ha le due mani giunte al di sopra della Patena, come segno della unione segreta che esisteva tra i riti sacri dell’Antica Legge ed il Sacrificio adorabile del Calvario e dell’Eucaristia che un giorno dovevano sostituirli. Il Figlio di DIO medesimo offriva e santificava questi antichi sacrifici con il ministero dei Sacerdoti e dei Leviti: mediante il ministero del Sacerdote all’altare, lo stesso Figlio di DIO offre il pane ed il vino, ricordando così alla nuova Alleanza, i misteri e la santità profetica dell’Antica. La Chiesa ordina al Sacerdote che prima di iniziare questa prima oblazione, egli elevi per un momento, gli occhi al cielo o, per meglio dire, sul Crocifisso dell’altare che è l’immagine del Re del cielo; ma durante il restante della preghiera dell’offertorio, egli deve tenerli abbassati sull’ostia; al contrario, offrendo il vino del Calice, egli dovrà tenerli per tutto il tempo elevati al cielo, fissanti il Crocifisso. È il segno dell’inferiorità degli antichi sacrifici in rapporto al Sacrificio della nuova Alleanza: i primi venivano, è vero, dal Signore che li comandava, e raffiguravano il Sacrificio della Croce e dell’altare; ma questi non erano meno terreni; l’altro doveva essere tutto celeste, e non avere altro Sacerdote ed altra Vittima, che l’Uomo-DIO glorificato nel seno di suo Padre. Nel vino del Calice, la Chiesa vuole che si versi un poco di acqua (Il Messale dice « parum aquæ»: una goccia è sufficiente. Un quinto di acqua non invaliderebbe la Consacrazione, ma nei Sacramenti bisogna essere sempre sicuri al massimo): simbolo dell’unione invisibile dell’umanità e della divinità nella Persona unica di GESÙ-CRISTO; ed inoltre simbolo dell’unione indissolubile che il Sacrificio e la grazia di GESÙ hanno formato tra Lui e la sua Chiesa. Questa goccia di acqua rappresenta noi, piccoli e poveri niente, che da noi stessi non siamo nulla, e che non possiamo essere uniti a DIO se non incorporandoci con la sua grazia, al nostro Capo adorabile, GESÙ. Che felicità il non essere niente e sapere che GESÙ-CRISTO è tutto in ciascuno di noi! Tu solus Sanctus, Jesu Christe! Offrendo il Calice, il Sacerdote lo tiene con la mano destra e non fa che sostenerlo in basso con la mano sinistra: in effetti, solo la Chiesa cristiana offrirà il Sacrificio nuovo, rappresentato dal vino del Calice; e l’antica Chiesa, la Chiesa patriarcale e mosaica, non farà che portare la nuova Alleanza, come la serva sostiene la sua padrona. Concludendo le due oblazioni, il Sacerdote traccia con la Patena, poi con il Calice, un segno di croce al di sopra del Corporale, per santificare ancor più il luogo ove riposeranno presto questo pane e questo vino consacrati. Egli prende la Patena, dopo aver posto l’ostia sul Corporale, e in parte la nasconde, sotto il Corporale a destra, coprendo il resto con il velo chiamato Purificatorio, perché serve ad asciugare il Calice. Così velata, la Patena vuota raffigura la Chiesa giudaica che, dopo l’avvento di Nostro-Signore GESÙ-CRISTO, è privata della luce della fede, è senza sacerdozio e senza sacrificio, ed attende, nelle tenebre dell’infedeltà, il giorno della sua conversione. Noi vedremo più avanti questa conversione che tutti i Profeti e gli Apostoli hanno predetto, rappresentata in un’altra cerimonia della Messa. Alla Messa solenne, lo stesso mistero è raffigurato dal Suddiacono che, dopo la prima oblazione, discende con la Patena dall’altare, fino in basso; e là, avvolto da un velo, egli tiene con la mano destra la Patena alzata davanti agli occhi, per significare l’accecamento dell’antico popolo di DIO, che nulla comprende, che si ostina a non voler comprendere nulla del Mistero di amore e di misericordia di questo Cristo che tuttavia ha dato al mondo. Il Diacono, al contrario, Chiesa nuova, assiste da vicino il Celebrante, e contempla senza veli GESÙ-CRISTO rappresentato dal Celebrante, e realmente presente sotto le specie eucaristiche. Il Suddiacono che scende dall’altare velandosi il volto con la Patena, richiama le sante regole che ci ha conservato San Dionigi l’Aeropagita, secondo le quali, il Celebrante solo ed il suo ministro avevano il diritto di vedere faccia a faccia e di fissare il Mistero tutto divino dell’altare. Dall’Offertorio, in effetti, tutto ciò che si faceva per preparare il Sacrificio si compiva in religioso segreto, e San Dionigi minacciava con la collera di DIO, chiunque osasse rivelare o tradire le parole sacramentali. Il Suddiacono assisteva il Celebrante a sinistra, quando era necessario doveva tenersi più vicino al Celebrante degli altri chierici, alfine di poter egli presentare la Patena sul quale il Corpo di Cristo doveva essere frazionato e distribuito ai fedeli. Quando il suo ufficio non lo tratteneva all’altare, egli ne doveva discendere, e come i Serafini, velarsi il volto, riconoscendosi indegno di contemplare così da vicino i terribili misteri. Questo era ancor più naturale, in quanto il Suddiacono non aveva ancora ricevuto l’augustissimo Sacramento dell’Ordine; e poi, il popolo fedele, vedendo il Suddiacono stesso allontanarsi dall’altare, nel rispetto di un timore religioso, doveva comprendere più facilmente con quale riverenza dovevano essere trattate le cose sante, anche dai santi. Quanti Misteri nelle cerimonie della Chiesa? E qual grande cosa la Liturgia Cattolica! Il velo che avvolge il Suddiacono deve essere ampio; esso può essere di seta o di lino fine, non è necessario che sia bordato.

XXI

Gli Incensamenti

Nella Messa solenne, vi è una bella cerimonia, piena di misteri, come tutte le altre, e che si chiama l’incensamento. Vi sono quattro incensamenti durante la Messa solenne: il primo che precede la recita da parte del Prete, dell’Introito; il secondo prima e dopo il canto del Vangelo; il terzo, il più solenne, dopo l’offerta del pane e del vino; il quarto infine, durante l’Elevazione. L’Incensiere, che dovrebbe essere d’argento o smerigliato, oppure d’oro, raffigura la santa Umanità di Nostro-Signore; il fuoco che lo riempie, è lo Spirito-Santo che ardeva nel suo Sacro Cuore; l’incenso benedetto, che il Sacerdote mette sui carboni ardenti dell’incensiere, è la preghiera, sono le adorazioni con le quali GESÙ onora incessantemente ed in modo assolutamente divino la maestà di suo Padre. Uniti a GESÙ nello Spirito-Santo con la grazia, gli Angeli nel cielo ed i Cristiani sulla terra confondono le loro adorazioni e le loro preghiere con questa adorazione e questa preghiera ineffabile data da DIO. « Il Cristo prega in noi, come nostro Capo; Egli prega per noi, come nostro Sacerdote, » diceva Sant’Agostino. E così il fumo ed il profumo dell’incenso, rappresenta qui nello stesso tempo e la preghiera di GESÙ-CRISTO in se stesso, e la sua preghiera nei suoi Angeli ed in tutti i Santi del cielo e della terra. Si devono mettere tre cucchiai di incenso, innanzitutto in onore della Santissima Trinità, alla quale si indirizzano sovranamente tutte le adorazioni della Chiesa; poi per rappresentare le adorazioni della Chiesa patriarcale, da Adamo a Mosè; della Chiesa giudaica, da Mosè fino a Nostro Signore; della Chiesa cristiana e romana, dal primo Avvento del Salvatore, fino al secondo. –  Prima dell’Introito il Sacerdote incensa innanzitutto tre volte il Crocifisso: è l’adorazione universale di tutti gli eletti della Chiesa patriarcale, mosaica e cristiana, indirizzata alla Santissima-Trinità per Mezzo di GESÙ-CRISTO, Mediatore universale di Religione e Redenzione. Poi, incensa l’altare dodici volte dal lato dell’Epistola, e dodici volte dal lato dell’Evangelo, avvolgendo, per così dire il santo altare con il fumo dell’incenso; è la preghiera, è l’adorazione degli Angeli e dei Santi dell’antica Alleanza, primariamente rappresentata dai dodici Patriarchi e dai dodici Profeti; in seguito degli Angeli e dei Santi della Legge evangelica, rappresentata dai dodici Apostoli. Nell’Apocalisse, San Giovanni ci mostra, in effetti, tutti questi Santi, sotto figura dei ventiquattro Vegliardi vestiti di bianco ed adoranti l’Agnello di DIO, immolato e tutta via vivente, sul trono della sua gloria; la Chiesa ci rappresenta la stessa cosa in questi ventiquattro volute di incenso benedetto che avvolgono l’altare ed il Crocifisso. Inoltre, con questa atmosfera di incenso benedetto, essa vuole santificare, penetrare di GESÙ, deificare tutto ciò che serve al Santissimo Sacrificio, in particolare il pane ed il vino che sta per diventarne la materia, ed il Sacerdote con i ministri dell’altare ed i fedeli astanti, che stanno per incorporarsi al Signore con la Comunione. L’incenso è, in effetti, riservato a Dio solo; esso esprime qui la perfetta santificazione, la deificazione del Cristiano in GESÙ-CRISTO. – All’Offertorio, prima di questo incensamento, il Sacerdote incensa il pane ed il vino, onorando soprattutto, come vero DIO, Colui che sta per cambiare tra poco, la loro grossolana sostanza nella celeste sostanza della sua umanità, e velarsi sotto le loro apparenze. – Il secondo incensamento, che si fa tra i due suddetti, è destinato ad onorare il santo Vangelo, a ricordare ai fedeli che GESÙ è Sacerdote nel Sacerdote, e che, con la grazia del Sacramento dell’Ordine, costui non fa che un tutt’uno, interiormente e spiritualmente, con il GESÙ del Vangelo, con la Persona stessa di questo Figlio di DIO e di MARIA, che ha fatto e che ha detto tutto ciò che è riportato nella recita evangelica. Così il Diacono rappresenta la Chiesa, incensa con lo stesso numero di colpi di incenso il libro dei Vangeli ed il Sacerdote, GESÙ nel Vangelo, e GESÙ nel Sacerdote. – Il quarto incensamento si fa dai chierici di ordine inferiore, inginocchiati ai piedi dell’altare, dal lato dell’Epistola, durante l’elevazione della Ostia santa e del Calice. Il senso di questa cerimonia si svela da sé: l’incenso che sale allora verso il Santissimo-Sacramento è simbolo dell’adorazione e dell’amore di tutti i fedeli presenti nella Chiesa del cielo e della terra. Ricordiamolo infine: il Vescovo ed il Celebrante sono incensati per primi, e dopo di essi, sono incensati il Diacono, il Suddiacono, gli altri ministri dell’altare, il clero in abito da coro, ed infine il popolo dei fedeli. Questi incensamenti si riconducono tutti a Nostro-Signore GESÙ-CRISTO, presente e vivente in tutti i suoi membri; siccome Egli non vive in tutti allo stesso titolo, né con la stessa sublimità di grazia e di funzioni, l’incensamento si diversifica, e manifesta nel contempo l’unità della vita cristiana nella Chiesa e la molteplicità delle vocazioni e delle grazie. Il celebrante, ed a maggior ragione il Vescovo, riceve il triplo incensamento, perché egli rappresenta la pienezza divina della grazia del Cristo Crocifisso, resuscitato e glorificato nel più alto dei cieli. Nel semplice Sacerdote, Nostro-Signore è incensato e contemplato nella grazia del mistero della sua Resurrezione, e non nella grazia, ancor più perfetta, del mistero della sua Ascensione. Nei fedeli, il Figlio di DIO è incensato e contemplato nella grazia dei misteri della sua vita mortale, umiliato e crocifisso. – Tale è il senso profondo e toccante degli incensamenti della Messa solenne. È un vero dovere di Religione usare all’altare un incenso di ottima qualità. Qui, come dappertutto, ci si è voluto “raffinare” rispetto all’uso antico della Chiesa romana, e al posto della gomma di incenso polverizzata, che produce un magnifico fumo bianco, vaporoso, balsamico, si è immaginato non so quale incenso nerastro o rossastro che non dà che un fumo impercettibile, nerastro, che disturba la testa e la gola. È l’incenso gallicano! – A Roma, in tutte le chiese ed in particolare nella Basilica di San Pietro, ci si serve di un incenso puro d’Arabia, senza alcuna mistura; si riduce questa gomma d’incenso in polvere finissima, e non la si risparmia dell’incensiere. Questo produce una vera nuvola di vapore bianco, diafano, di un profumo squisito. Sull’altare maggiore di San Pietro, quando il Papa fa gli incensamenti della Messa Pontificale, non si intravvede che attraverso questa bella nuvola di incenso che avvolge ben presto l’altare, sale verso la cupola e profuma l’immensa basilica. Questo momento dell’Officio pontificale è particolarmente grandioso ed impressiona vivamente il pellegrino cattolico.

I SANTI MISTERI (4)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (4)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XIII

Perché il Sacerdote saluta sette volte il popolo dei fedeli durante la Messa.

Il Sacerdote dice per sette volte, durante la Messa, rivolgendosi al popolo: « Dominus vobiscum », vale a dire: “Che il Signore sia con voi!” Ed i fedeli, per bocca del servente Messa, gli rispondono: « Et cum spiritu tuo, cioè: e con il vostro spirito. » – Questi saluti del celebrante fanno parte di questi riti apostolici, pieni di misteri ed ispirati alla Scrittura. Il Sacerdote deve dirli o cantarli intimamente unito al Re del cielo,  GESÙ-CRISTO, e ai santi Angeli, principalmente ai sette grandi Arcangeli che stanno davanti al trono del Signore. Tutte le volte che nel nome del Sacerdote eterno GESÙ-CRISTO, il Sacerdote deve pregare in un unico e medesimo spirito con il popolo, egli rinnova l’unione che lo Spirito Santo ha stabilito tra il popolo fedele e lui; e questa unione è in GESÙ-CRISTO, solo che deve ravvivarsi incessantemente. Ecco perché prima del Dominus vobiscum, egli bacia ordinariamente il santo altare e si unisce più ardentemente al Cristo celeste, simbolizzato dall’altare. Aspirando così allo spirito di GESÙ, e sempre in società con gli Angeli, egli si volge verso il popolo, stende le mani verso di esso e lo saluta con le medesime parole con cui l’Arcangelo Gabriele salutò la Santa-Vergine. Ciò che Gabriele fece per la Vergine Maria, il Sacerdote lo fa per la Chiesa: egli è per essa l’organo, il canale del Santo Spirito, ed effonde su ciascuno dei fedeli lo spirito di Cristo: egli dà loro spiritualmente GESÙ-CRISTO, il Signore stesso. Rispetto alla Chiesa, che egli santifica con il suo saluto, il Sacerdote è come il sole di grazia che invia lo splendore dei suoi raggi in un puro specchio: ricevendoli, lo specchio li riflette e li rimanda al sole. Così fa il Sacerdote, dando alla Chiesa GESÙ-CRISTO nello Spirito-Santo, ricevendolo da questa stessa Chiesa che glielo rende, nel conservarlo con amore. Nel rispondere al Sacerdote: “et cum spiritu tuo”, la Chiesa si unisce a lui in GESÙ-CRISTO e nello Spirito-Santo; e così che, non facendo che uno, il Sacerdote ed i fedeli pregano insieme il Padre celeste, nel nome di GESÙ-CRISTO ed in GESÙ-CRISTO. – I sette Dominus vobiscum della Messa, sembrano ancora significare i sette Doni dello Spirito-Santo effusi da GESÙ-CRISTO, dal Sacerdote eterno di DIO, su tutti coloro che credono e sperano in Lui, dall’inizio fino alla fine del mondo. 1° Il primo, che si dice ai piedi dell’altare, dopo la confessione pubblica dei peccati, esprime ed effonde sugli astanti, il dono del Timore, con il quale lo Spirito-Santo ci conferma nell’orrore del peccato e nei sentimenti di penitenza di GESÙ-CRISTO. È questo spirito di timore religioso che deve riempire il cuore del Sacerdote così come quello degli astanti, nel momento in cui comincia il divin Sacrificio. 2° Il secondo Dominus vobiscum di dice dopo il Gloria e corona, per così dire, questo sublime inno. Esso esprime ed effonde il Dono della Pietà filiale che dal cuore di GESÙ si spande nei cuori di tutti i suoi fedeli. Tutti coloro che sono di GESÙ-CRISTO, Angeli o uomini, sono i figli di DIO; essi devono, come GESÙ e CON GESÙ, amare il loro Padre celeste con amore filiale con un amore in cui la fiducia e la tenerezza di uniscono al rispetto più profondo. Tutti, cioè tutti gli eletti delle sei ere del mondo che si ricordano nel Gloria, avranno così amato il buon DIO. È così che pure noi dobbiamo amarlo, riverirlo, servirlo ed è in questo spirito di pietà che il Sacerdote, a nome della fedele assemblea, reciterà le preghiere chiamate Collectes.  3° Il terzo Dominus vobiscum si dice all’Evangelo. Esso esprime il terzo Dono dello Spirito Santo, il Dono della Scienza. Il Dono della scienza è quello che ci scopre le cose della grazia sotto la corteccia delle cose della natura, e che così eleva i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre affezioni naturali per renderle soprannaturali, cioè cristiane. Il Vangelo che è la recita abbreviata delle azioni e delle parole di GESÙ-CRISTO, è la luce che ci rivela questa scienza divina; è per questo che la Chiesa, mediante l’organo del Sacerdote, richiede il Dono della scienza a tutti i Cristiani prima della recita o del canto dell’Evangelo. – 4° Il quarto Dominus vobiscum, corona il Credo e dà inizio all’offertorio. Esso esprime e diffonde il Dono della Fortezza, che GESÙ, con il suo divino Sacrificio e con i meriti della sua immolazione dà alla sua Chiesa, ai suoi Sacerdoti, a tutti i Cristiani. Esso è ben disposto dopo il Credo, essendo indispensabile la forza soprannaturale indispensabile a tutti per confessare la fede ed entrare nello spirito del Sacrificio che inizia, propriamente parlando, all’Offertorio. – 5° Il quinto saluto del Sacerdote vien dato all’inizio del Prefazio, preghiera solenne, tutta celeste, che apre quel che si chiama il Canone della Messa. Come preparazione immediata a riconoscere ed adorare  GESÙ-CRISTO, con i santi Angeli, sotto le apparenze del pane e del vino, la Chiesa ed il suo ministro chiedono per tutti i fedeli assistenti il Dono del Consiglio, che ci fa discernere, alla luce della fede, ciò che è di DIO, e ciò che non è da Lui, le impressioni della grazia e le illusioni del demonio. 6° Il Dono dell’Intelletto è invocato per i fedeli e significato dal sesto Dominus vobiscum, che il Sacerdote dice dopo la Comunione. Questo Dono eccellente ci fa penetrare fin nell’intimo del Mistero dei misteri, che non è altro che la Persona stessa del Verbo incarnato, presente al Sacramento dell’Eucaristia, Pan degli Angeli, vita e nutrimento delle nostre anime. Nella Comunione viene Egli stesso a noi, nella nostra carne mortale, alfine di farci dimorare più pienamente in Lui; in questo momento, più che in ogni altro, la Chiesa chiede per i suoi figli di ben comprendere l’inestimabile tesoro che ha loro portato il Battesimo e l’Eucaristia: la fede e l’amore. – 7° Infine il settimo Dominus vobiscum si dice alla fine del Santo Sacrificio prima dell’ultima benedizione: esso significa il Dono della Sapienza, il più sublime dei sette Doni dello Spirito-Santo, quello che ci fa gustare, nella contemplazione della pura luce di GESÙ e nell’unione intima di un purissimo amore, quanto il Signore sia dolce, quanto GESÙ ci ami; quello che ci fa comprendere con il cuore e l’esperienza quello che il Dono dell’Intelletto rivela al nostro spirito. È il dono della contemplazione e del puro amore per GESÙ-CRISTO, il più eccellente di tutti i frutti della grazia e della santa Comunione. Questa richiesta sì dolce è posta alla fine della Messa, come per indurre i fedeli a ritenerlo il più possibile. Tale è il senso, o almeno uno dei sensi di questi saluti ripetuti sette volte nel corso della Messa. Il Sacerdote, invero, dice un’ottava volta il Dominus vobiscum, dopo la benedizione e prima di recitare l’ultimo Vangelo; ma questo non fa parte, propriamente parlando, della Messa, la cui chiusura solenne è la benedizione del Sacerdote. Altra volta il celebrante diceva a bassa voce questa preghiera lasciando l’altare e tornando in sacrestia. È quanto si fa ancora alla Messa Solenne Pontificale. Il senso di questo ottavo Dominus vobiscum, che nella Messa Solenne Pontificale almeno, si indirizza direttamente al Diacono o al Suddiacono, esprime la beatitudine eterna di cui godono, con GESÙ-CRISTO e per GESÙ-CRISTO, tutti gli Angeli e tutti gli Eletti, tutti i fedeli dell’antica e della nuova Alleanza, rappresentati dal Suddiacono e dal Diacono quando il gran Sacrificio sarà terminato, e quando il tempo avrà fatto posto all’eternità. Il numero otto è il numero dell’ottava beatitudine, coronamento della grazia, che esprime specialmente il numero sette. Nei numeri c’è tutto un ordine di misteri, cioè di verità nascoste; la tradizione è unanime nell’attestarlo, e non vi è che la leggerezza superficiale dell’ignoranza che si permette di burlarsi di queste misteriose disposizioni della Provvidenza.

XIV

Cosa significano le Orazioni, l’Epistola ed il Vangelo.

Questa parte della Messa è destinata a ricordare agli astanti due grandi verità generali, che determineranno ciò che si può chiamare la seconda parte della preparazione al Santo Sacrificio. La prima è che Nostro Signore è nell’Antica Alleanza con nella Nuova, il principio di vita, di salvezza e di santità di tutti i servi di DIO; ancora Egli è la fonte della loro preghiera e della loro Religione. È quel che esprime il Sacerdote adorando e lodando DIO, ringraziandolo, supplicandolo « Per Nostro Signore GESÙ-CRISTO, » nelle orazioni solenni chiamate Collette e recitate o cantate dal lato dell’Epistola. Così pregavano già i Patriarchi, i Profeti ed i fedeli della Legge antica, in nome di Colui che doveva venire e con cui lo Spirito li riempiva e li santificava in abbondanza. Sull’altare in effetti, dal lato dell’Epistola, il lato sinistro, rappresenta l’antica Alleanza; vi si leggono i Profeti non meno che le Epistole. È con esse che il Sacerdote inizia da questo lato, per passare poi di là al lato destro, all’Evangelo. Ed è la seconda verità espressa a questo punto della Messa: il passaggio dall’antica Alleanza alla nuova, la Legge evangelica che succede alla Legge di Mosè, dei Patriarchi, dei Profeti. Passando dal lato dell’Epistola a quello dell’Evangelo, il Sacerdote alza gli occhi verso il Crocifisso, poi si inchina profondamente per recitare due belle preghiere preparatorie: questo rito rappresenta l’annientamento della Redenzione, a cui ha degnato di sottomettersi il DIO dei Patriarchi e dei Profeti, degli Apostoli e dei Martiri, quando purificò la Chiesa con il suo sangue e la acquisì così come sua Sposa. GESÙ-CRISTO è il DIO, il Salvatore dell’una e dell’altra Alleanza; è Lui, Verbo o parola di DIO, che ha parlato ad Adamo ed ai Patriarchi, ha dettato la legge di Mosè, ha salvato il suo popolo, ha inviato il suo Spirito a tutti i Profeti; è Lui che ha ugualmente inviato ed ispirato gli Apostoli, fondato la sua santa Chiesa, con la quale resta tutti i giorni fino alla fine dei secoli. Così, alla Messa solenne è il Suddiacono il rappresentante della Legge antica, che legge in basso all’altare le Profezie, o le Epistole; mentre il Diacono solo, rappresentante della Legge nuova, canta solennemente il Vangelo, dall’altro lato. Il Suddiacono gli regge il libro dei Vangeli, senza poterlo leggere; come l’antica Alleanza che non era che il piedistallo della nuova, e che non penetrava i Misteri ed i tesori di grazia che portava nel suo seno. –  Durante la recita o il canto del Vangelo si sta in piedi. Questo canto liturgico è molto bello; esso è obbligatorio ed il Sacerdote, o il diacono, non deve permettersi di cambiare volontariamente alcuna nota. Nei tempi della fede, nel Medio Evo, tutti i cavalieri dovevano sfoderare la loro spada all’inizio del canto del Vangelo, per manifestare la loro ferma volontà di difendere la fede e la Chiesa a prezzo anche della loro vita, e dare così la loro vigilanza a GESÙ-CRISTO, loro Maestro sovrano e loro grande Re; a GESÙ, Re dei re, Signore dei signori, al quale tutte lo potenze della terra devono obbedienza, devozione, servizio ed amore.   

XV

Le mani distese del Sacerdote durante le orazioni.

A proposito delle Orazioni, sottolineiamo qui un dettaglio liturgico che mostra quanto sia grande, anche nelle cose più piccole, il Culto cattolico. Il Sacerdote, figura di Nostro Signore, recita o canta le preghiere con le braccia aperte e le mani stese rivolte l’una contro l’altra. Questo rito esprime nuovamente quel che noi dicevamo appunto ora: l’unione delle due Alleanze nella persona di GESÙ-CRISTO! La mano destra del Sacerdote dignifica la Legge nuova, più potente, più perfetta dell’altra; la mano sinistra significa la Legge antica. Entrambe erano sante: le due mani del Sacerdote sono consacrate dal Vescovo. GESÙ è « tutto in ogni cosa, » diceva San Paolo; nelle cerimonie della Messa, più che altrove, questa grande verità trova la sua realizzazione. Là ancora come per i ceri, come per il cerimoniale del Gloria in excelsis, il Culto angelico è significato congiuntamente con il Culto della Chiesa sulla terra; e le due mani del Sacerdote levate, sante, rivolte l’una verso l’altra alla destra ed alla sinistra del ministro di GESÙ-CRISTO, sembrano significare la Religione e l’adorazione degli Angeli, principalmente di San Michele e San Gabriele, che riassumono in essi tutta la grazia del mondo angelico. Esse non devono mai levarsi più in alto delle spalle; e così, il capo, la testa del Celebrante, le domina sempre: in effetti, GESÙ, il Capo ed il Re degli Angeli, è al di sopra di tutti gli Angeli, così come è al di sopra di tutti gli uomini, di tutti gli Eletti; excelsior cœlis factus, dice San Paolo. Queste due mani ricordano i due Cherubini dell’arca, adoranti, con i Santi di Israele, il DIO  d’Israele, il Santo dei Santi, Colui che doveva venire. L’elevazione delle mani del Sacerdote, durante le Collette e le altre preghiere della Messa, ricorda infine che le preghiere della Chiesa della terra, si elevano fino al trono di DIO, portate « dal ministero degli Angeli, nostri fratelli in cielo, nostri amici e nostri servitori. » [Quando orabas cum lacrymis … ego (Rapaël) obtuli orationem tuam Domino (Tob. XII) – … et Angelus venit, et stetit ante altare. Habens thuribulum aureum: et data sunt illi incensa multa, ut daret de orationibus sanctorum de manu Angeli coram DEO – Apoc. VIII]. L’uso di tenere le braccia e le mani stese durante le preghiere della Messa, risale alla culla stessa della Chiesa. Sull’altare, in particolare, esso richiama il mistero della Croce, il divino Sacrificio che perpetua l’Eucaristia e che è, nella Chiesa, il centro, la fonte, il sole della Religione e della preghiera. Così pregò sulla Croce l’adorabile Redentore. Così pregavano i martiri nelle catacombe, con le braccia stese a forma di croce, le mani levate verso il cielo; così pregavano gli Apostoli; così pregava la Vergine Santissima e Nostro Signore stesso durante la sua vita mortale, come lo attestano gli affreschi cristiani dei primi tre secoli, recentemente scoperti nelle catacombe di Roma. Così pregavano i Profeti ed in particolare il più grande dei Profeti, il santissimo Mosè, quando salì sulla montagna (figura degli altari) e attirava la grazia e la vittoria su Israele che combatteva nella pianura. Più recentemente ancora di Mosè, il Sacerdote è, in GESÙ ed con GESÙ, il mediatore di DIO e degli uomini. La Liturgia cattolica ha conservato religiosamente questo costume; e la famiglia francescana, così profondamente evangelica ed apostolica, la pratica abitualmente anche al di fuori degli Offici liturgici. Nell’Antico Testamento, l’uso di pregare con le braccia in forma di croce, era abituale. Era una figura profetica dei misteri della Redenzione. 

XVI

La predica

Alla Messa solenne, si interrompono per un momento le preghiere liturgiche, dopo il canto dell’Evangelo, ed il Curato (o uno dei suoi vicari), sale sul pulpito, e là fa alcuni annunci che interessano il popolo dei fedeli; egli recita le preghiere e le pubbliche raccomandazioni ordinate dal Vescovo, legge ad alta voce il Vangelo del giorno in lingua volgare e termina le preci dal pulpito con una istruzione familiare chiamata “omelia”. Omelia viene da una parola greca che vuol dire conversazione. L’omelia deve essere innanzitutto istruttiva, alla portata di tutti gli uditori. È per eccellenza l’istruzione pastorale. La maggior parte dei Padri della Chiesa ci hanno lasciato al riguardo, dei modelli che non si studieranno mai abbastanza; le loro omelie sono di una semplicità, di una bellezza, di una profondità di dottrina e di una santità meravigliosa. L’omelia è destinata ad unire strettamente il pastore ai suoi agnelli; essa permette regolarmente al Curato di aprire il suo cuore ai suoi parrocchiani, di dar loro degli avvisi e dei consigli paterni, di far loro conoscere e gustare il servizio di DIO, dissipare i pregiudizi dell’ignoranza, eccitare i tiepidi, incoraggiare i buoni. L’omelia è una sorta di gran catechismo di perseveranza, ad uso della parrocchia; essa deve averne la solidità, tutta la semplicità ed il carattere. – Un santo Prete incanutito nei lavori del ministero, mi diceva che un’esperienza di più di trenta anni gli aveva fatto toccare con mano l’importanza straordinaria dell’omelia e del pulpito per la salvezza e la santificazione di una parrocchia. Egli aveva conosciuto diversi Curati che principalmente, se non unicamente con questo mezzo, avevano metamorfizzato le loro parrocchie in quattro o cinque anni; gli uffici abbandonati e negletti erano ora frequentati quasi unanimemente dagli abitanti, l’adorazione del Santissimo-Sacramento era organizzata in modo eccellente, le buone opere erano in onore; il confessionale, prima deserto, era preso d’assedio tutti i sabati e tutte le vigilie delle feste; non passava quasi ogni giorno senza Comunione; la domenica e le feste, la Tavola santa offriva uno spettacolo straordinario, e quasi nessuno mancava alla Pasqua. Oltre al catechismo, egli non vedeva nulla che meritasse maggiormente l’attenzione e tutte le cure del Prete. « Occorre innanzitutto che la predica sia breve, aggiungeva, un quarto d’ora o tutt’al più venti minuti. In venti minuti, si ha il tempo di dire tante cose! » – « Bisogna poi che sia ben preparata, e per questo è bene che vi si metta mano il lunedì, per non essere efficace nella domenica seguente. È meglio non impararla a memoria, affinché la parola sia più viva, semplice, interessante; ma bisogna possedere chiaramente la successione e la Concatenazione delle idee. » Egli era dell’avviso che la dottrina debba apparire quanto più è possibile appoggiata su esempi e posta in rilievo da comparazioni, e che il Sacerdote debba guardarsi dal parla con iracondia, con il pretesto dello zelo. Ogni Sacerdote, per questo solo fatto di essere incaricato delle anime, è capace di fare un’eccellente predica. Questo non vuol dire che ogni prete sia un oratore: no, certo, su mille uomini troverete appena un oratore. Ma la Chiesa, le anime non hanno bisogno di oratori; l’eloquenza che i fedeli attendono dal loro Prete, è l’umile, dolce e santa eloquenza del Vangelo; è una parola convincente e cordiale che espone puramente e semplicemente la verità, che la dimostra con prove facili da capire, che lascia da parte le frasi ad effetto ed i bei periodi e che non si preoccupa se non di una cosa solamente: far del bene alle anime, far conoscere loro Gesù, farlo amare ogni giorno di più, eccitarli al pentimento dei loro peccati ed alla pratica di tutto quello che la Chiesa comanda e consiglia. – Così predicava il buon Curato d’Ars. Certo, egli non aveva un gran talento naturale; ma se non era un oratore, era però un Prete, era un santo, amava il buon DIO, amava ardentemente il Santissimo Sacramento, la Santa Vergine, la Chiesa; egli amava le anime; aveva sete della conversione e della salvezza dei poveri peccatori. Così, quando egli predicava, tutti piangevano, e si convertivano a dozzine, a centinaia. Ecco la vera predicazione sacerdotale; ecco l’omelia, ecco la predica di cui i Cristiani hanno bisogno. – Il Concilio di Trento e la Santa Sede, attribuiscono una tale importanza all’insegnamento regolare della predica, che hanno fatto comporre una regola di predicazione per i Curati, sotto il nome di: Catechismo Romano ai parroci. Questo mirabile libro, riassunto pratico e familiare della Summa di San Tommaso, è come la guida dei Curati nel compimento del gran dovere della predicazione pastorale. I Preti non possono fare a meno di seguirlo, tutto ciò che vi si trova è incredibile: è un tesoro, una miniera inesauribile. La dottrina del Catechismus Romanus ha un’autorità pressoché simile all’autorità degli stessi decreti del Concilio di Trento. – Nella diocesi di Besançon, l’autorità ecclesiastica ordina, da quasi due secoli, a tutti curati di insegnare e spiegare per intero il Catechiamus Romanus al loro gregge, sotto pena di censure incorse “ipso facto”; questo corso di istruzione religioso si fa alla Messa solenne, sotto forma di Catechismo a domande e risposte, e dura circa mezz’ora; tre o quattro bambini intelligenti sono scelti ad hoc, e l’assemblea ascolta sempre con interesse visibile questa sorta di piccola conferenza. Tutti comprendono e nessuno … dorme! Tutti i Curati della diocesi sono tenuti ad istruire così i loro parrocchiani in una Domenica su due. È a questo genere di istruzione religiosa che si attribuisce la solidità del Cristianesimo dei buoni abitanti della Francontea. Come sarebbe desiderabile che questa eccellente uso si diffondesse dappertutto. E seguendo questa regola così cattolica, il Prete ha il vantaggio immenso di non ripetersi e di non stancare i fedeli con il ritorno inevitabile dei luoghi comuni. È sicuro così di presentare sempre delle buone e belle verità, molto utili e pratiche. La negligenza di certi Curati relativamente alla predica della Domenica è veramente inesplicabile. Io ne ho conosciuto uno, molto istruito, gran lavoratore che, per pura negligenza, si è contentato per più di trenta anni di leggere, in modo di omelia, le prediche noiose di Cochin, che egli copiava, tagliava affinché non durassero più di dieci minuti; per trenta anni, ogni anno, leggeva sempre la stessa cosa. Tutti dormivano ed il povero parroco non se ne rendeva ancora conto. Uno dei suoi confratelli, che aveva copiato da lui questa comoda ma disastrosa abitudine, annunciava un giorno con aria eroica ai suoi parrocchiani, che la Domenica successiva avrebbe fatto un « sermone della memoria. » … l’ho sentito con le mie orecchie; fortunatamente ho potuto sfuggire al « sermone della memoria ». Alla predica, come sull’altare, come al confessionale, come in ogni dettaglio del nostro ministero e della nostra vita, il grande ed unico segreto per riuscire, cioè per fare del bene, è quello di essere GESÙ, di parlare come GESÙ, amare come GESÙ, imitare in tutto GESÙ.

XVII

Il Credo.

Dopo il Vangelo e la predica, il Sacerdote torna al centro dell’altare e là, con le mani giunte, recita il Credo. L’unione delle sue mani, così come il posto che occupa davanti alla Croce, tra l’Epistola e l’Evangelo, manifesta nuovamente l’unione di tutti gli Angeli e di tutti gli Eletti, l’unione dei fedeli di tutti i secoli in una sola e medesima fede: la fede in un DIO solo Creatore, Salvatore e Santificatore; in un solo DIO, Padre e Figlio e Spirito-Santo; in un solo Cristo, Signore e Redentore, in una sola Chiesa, santa ed universale; ed infine la fede nella resurrezione della carne e nella vita eterna. Tutto questo è racchiuso nei misteri e nel sacrificio di GESÙ-CRISTO; perché GESÙ-CRISTO solo è « l’autore ed il consumatore della fede, » la luce di tutti i fedeli e di tutti gli Angeli; per Lui solo noi abbiamo accesso presso DIO Padre; » in Lui noi troviamo il Padre, diceva Egli stesso, … Noi siamo uno; colui che vede me, vede il Padre. » Ed anche il Padre non viene a noi che per GESÙ, e in GESÙ, come anche lo Spirito-Santo non ci è dato se non per GESÙ, che è, per così dire, il serbatoio universale in mezzo alle creature. Così la Chiesa ci fa fare la genuflessione ad un certo momento del Credo, nel momento in cui si dice: « E il Verbo si fece carne. » È questo il punto centrale del Simbolo della fede cristiana, il dogma che riassume e illumina ogni altro. E così e con ciò che Essa ci fa terminare il Credo con il segno della Croce che è il segno del mistero dell’Incarnazione e della Redenzione. Secondo gli usi antichi, ogni astante doveva mettersi in piedi durante la recita del Credo non diversamente dal Vangelo, come per attestare lo zelo di ognuno nel camminare ove la fede lo avesse chiamato, o a combattere per essa. Il Dominus vobiscum che segue immediatamente il Credo e comincia l’Offertorio, desidera per i Cristiani, come già abbiamo visto, la forza di praticare la vera fede e di conseguenza, la forza di entrare risolutamente nello spirito del Sacrificio che si appresta, vale a dire nella via di ogni rinuncia, alla sequela di GESÙ-CRISTO, Redentore e Vittima. Nulla di più solenne che l’aspetto di una chiesa, almeno nei Paesi di fede, durante il canto del Credo. Là, tutti sono in piedi, tutti cantano; è mirabile e colpisce! A Notre –Dame di Parigi, alla celebre comunione generale degli uomini che corona le conferenze di Quaresima e della Settimana-Santa, si è tutti come muti, le lacrime salgono agli occhi quando si sentono tre o quattromila Cristiani, che si apprestano tutti a ricevere la Santissima Comunione, cantare come una voce sola ed un cuor solo questo grande Credo Cattolico che risuona sotto le volte delle nostre chiese dall’epoca dei Martiri. Ognuno sa, in effetti, che il Credo della Messa, che non fa che sviluppare su qualche punto il Credo degli Apostoli, sia stato formulato al primo Concilio generale di Nicea, nell’anno 325, qualche ano appena dopo la terribile persecuzione di Diocleziano. La Chiesa non cambia; essa è come la verità; la si può attaccare, la si può odiare, ma mai distruggerla, e neanche alterarla. Un giovane studente mi raccontava che essendo entrato, in un giorno di festa, nella chiesa di San Sulpizio a Parigi, nel momento in cui si cantava il Credo, si era sentito rimescolare fino al fondo delle viscere e s’era messo a piangere. « Io credevo, egli diceva, di essere trasportato in mezzo agli antichi Concili di Nicea o di Efeso, o del Laterano. Era meravigliosamente bello. Io avrei voluto che tutti gli increduli fossero là, vicino a me. » Non si raccomanderà mai abbastanza a tutti i fedeli, uomini, donne, bambini, ricchi e poveri, di cantare con tutto il loro cuore, non solo il Credo, ma tutte le preghiere della Messa Solenne che il popolo può cantare; il Kirye, il Gloria, il Credo, il Sanctus, l’Agnus Dei e la risposta a tutti i Dominus vobiscum. Non si dimentichi che è questo il modo più cattolico, più liturgico di seguire bene la Messa solenne. I cantori non hanno altro compito che sostenere, aiutare e guidare il canto del popolo, essi non sono dei musicisti che tengono un concerto. Così pure è affatto contrario allo spirito della liturgia lasciare i cantori allontanarsi dalla semplicità così maestosa e sì popolare del canto piano romano, per sostituirlo con noiose volute o invenzioni più o meno mondane, più o meno eccentriche. Ci sono dei Curati che proibiscono ai fedeli di cantare: essi sono come dei capitani che proibiscono ai loro soldati di fare il loro esercizio. E cosa ne risulta?! L’ufficio della Chiesa diviene mortalmente noioso e non vi si viene più. Quando si canta non ci si annoia mai in chiesa. – Ora si vanno a cominciare i preparativi immediati del Santo-Sacrificio. Dopo essersi dato ai fedeli come Verità e come Parola di vita, con la lettura dell’Antico e del nuovo Testamento e con la predicazione del Sacerdote, il Verbo di DIO, GESÙ-CRISTO, sta per darsi ad essi sacramentalmente e come pane di vita. – Ai proconsoli che li rimproveravano di violare gli ordini degli imperatori, riunendosi per ascoltare la lettura dei Libri santi ed assistere al Sacrificio, i nostri antichi Martiri rispondevano spesso: « Sì, è vero, noi non teniamo conto di questi editti dei vostri principi; ma noi obbediamo ai precetti degli Apostoli. Essi ci hanno insegnato da parte di DIO, che il Cristiano non può restare Cristiano se non si nutre del Verbo divino sotto le sue due forme, come noi facciamo. » E si lasciavano uccidere piuttosto che abbandonare GESÙ-CRISTO e mancare alle sante assemblee della Chiesa. Sul loro esempio nutriamoci allora, riempiamoci del Verbo, della parola di DIO; e GESÙ-CRISTO, abitando così con la fede nei nostri cuori, avanziamo con timore ed amore verso i Santi Misteri. Raddoppiamo il fervore nella preghiera: il celebrante ci invita dicendo ad alta voce: Oremus. Preghiamo con lui, preghiamo con gli Angeli, preghiamo con il nostro Mediatore celeste,  GESÙ-CRISTO, Sacrificatore e Vittima nel contempo.  

I SANTI MISTERI (3)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (3)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

VIII

La pulizia delle mani prima di celebrare i santi Misteri.

Prima di vestirsi per la Messa, il Prete deve lavarsi le mani, alfine di togliere fino al più minuto pulviscolo che potrebbe esservi attaccato. È il simbolo della purezza senza macchia che deve avere la sua anima. Occorre essere molto delicati su questo punto. Un buono e santo vegliardo, Vicario di San Sulpizio, preferì un giorno ritardare la sua Messa di alcuni minuti piuttosto che mancare a questo simbolico lavaggio delle mani. Poiché gli si diceva che le sue mani fossero pulite: « … senza dubbio – egli rispose – ma proprio poco fa ho preso del tabacco, e credo che prima di salire all’altare sia più conveniente lavarmi di nuovo le mani. »  Non è necessario baciare preliminarmente la terra. Un povero abate si vestiva un giorno per dir Messa senza aver osservato questa usanza, quando il curato, tutto scandalizzato si elevò rimproverandogli la sua negligenza: « Ma, signore, questo non è segnato nelle rubriche, » rispose modestamente l’altro. « Non importa signore, bisogna fare più di quanto sia segnato; è più umile. » Prima di prendere l’amitto, ci si lava dunque le mani. Bisogna aver le mani pulite, molto pulite, prima di dir Messa, per toccare le cose sante, e soprattutto il Santo dei Santi stesso. Questa accortezza è indispensabile per un doppio ordine di motivi: per il rispetto del Santo Sacramento e per la carità verso i fedeli ai quali si distribuirà la santa Comunione.  Una pia dama mi diceva della strana ripugnanza che le causava il pensiero di comunicarsi dalle mani di un certo curato di campagna, uomo eccellente del resto, ma che non si lavava le mani tutti i giorni. « … è spaventoso – aggiungeva con aria disperata – è terribile vedere e sentire questo grosso pollice grigiastro toccarmi la lingua, checché io faccia. E le sue unghie a lutto! … io chiudo gli occhi per non vedere tutto ciò. Ma è orribile! » Dunque bisogna lavarsi le mani prima di indossare l’amitto. Come abbiamo detto, la pulizia esteriore e la decenza sono qui il simbolo della purezza interiore.

IX

Cosa rappresenta il Prete rivestito dei paramenti sacerdotali

Alfine di meglio rappresentare GESÙ-CRISTO, che è Prete con essi ed in essi, i Preti si rivestono, per celebrare la Messa, di ornamenti sacri, benedetti dal Vescovo; questi ornamenti, o paramenti, raffigurano la santità e la gloria di GESÙ. – I Preti si rivestono interamente di una lunga veste bianca che si chiama “alba” (Per avere il diritto di rivestirsi dell’amitto e dell’alba, bisogna essere almeno sub-diacono, i chierici inferiori ed ancor più i laici non devono mai indossarli, sia per recitare l’Epistola – in certe grandi Messe di campagna – sia per compiere nella chiesa qualche altra funzione apocrifa), che è fermata da un cordone ugualmente bianco; precedentemente egli ha posto sulla testa e poi abbassato sul collo un lino bianco, chiamato “amitto”, ed incrociato sul petto un ornamento simile, ma più lungo che si chiama “stola”; infine, al di sopra di tutto, un grande paramento, che lo copre quasi per intero: è la “casula”. Per celebrare la Messa, il Prete deve essere rivestito da tutti questi ornamenti. L’amitto simbolizza la purezza perfetta e l’energia della fede che devono avere i ministri dell’altare, dove essi stanno per toccare in modo così familiare il Mistero dei misteri, il Sacramento che la Chiesa chiama essa stessa « il Mistero della fede. » Dalla perfezione e dall’ardore della fede dei Sacerdoti, dipende in effetti, si può certo affermare, la santità della loro vita, ed in particolare la santità con la quale essi celebrano la Messa. L’alba ed il cordone significano con il loro candore, l’innocenza e la santità celeste dei Figli di Dio, di cui i Sacerdoti devono essere rivestiti per rappresentare degnamente GESÙ-CRISTO sull’altare. « Il Cristo – dice un Padre – è la gran tunica dei Preti, magna sacerdotum tunica. » L’alba deve essere di lino o di filo. Il pizzo che l’orna deve ugualmente essere di filo, e non deve invaderla interamente “fin sotto l’ascella”, come talvolta succede. Un buon curato di campagna, entusiasta alla vista di un bellissimo pizzo con cui una pia donna stava per ornare la sua alba delle grandi feste, volle forzatamente applicare questo pizzo tutto intero; e poiché questo proveniva da uno di questi immensi abiti che assorbono facilmente venticinque o anche trenta metri di guarnizioni, il bravo curato, dopo aver guarnito come conveniva la parte bassa della sua alba, immaginò di sovrapporvi due belle balze. Delle balze volanti ad un’alba!!! Nei secoli della fede, in cui la pietà metteva il suo sigillo in ogni cosa, l’alba di lino fine non aveva altro ornamento che cinque bei ricami, raffiguranti le cinque piaghe di Nostro Signore resuscitato: due erano al di sopra del polso, due in basso dell’alba sul davanti sopra i piedi; la quinta al centro del petto, o tutt’al più in basso all’alba e dietro. Il manipolo che il Prete porta sul braccio sinistro, come il diacono, era all’origine, un velo destinato ad asciugare le lacrime che in questi tempi di fede e di fervore primitivo, accompagnavano abitualmente l’oblazione dei divini misteri. Oggi purtroppo le lacrime di compunzione scorrono molto raramente. Il Prete tuttavia dovrebbe piangere sull’altare, con Nostro Signore, sui peccati del mondo intero e sulle proprie colpe. Egli dovrebbe piangere d’amore, dovrebbe portarvi questo spirito di vittima e di contrizione profonda da cui scorre il dono delle lacrime: ciò che dovrebbe fare all’altare, è in effetti, una immolazione, un sacrificio; è necessario che sia vittima con GESÙ-CRISTO, se vuole essere degnamente Prete e sacrificatore con GESÙ-CRISTO. La stola rappresenta la potenza sacerdotale del Figlio di DIO, in nome del quale il Sacerdote sta per salire sull’altare, rappresentarvi la santa Chiesa, consacrare il Corpo ed il Sangue del Salvatore e distribuire la santa Eucaristia al popolo fedele. È GESÙ che si dà Egli stesso ai Cristiani per mano dei suoi Sacerdoti. – La stola del semplice Prete è incrociata e legata sul suo petto perché egli non ha la pienezza del sacerdozio che risiede in lui, in virtù della sua consacrazione. – Infine la casula, che un tempo era più ampia di oggi, e che avviluppava il Prete interamente, era figura della gloria celeste di GESÙ-CRISTO che oggi non offre più il Sacrificio in una carne passibile e mortale, ma nello stato glorioso, impassibile, immortale celeste, nel quale è entrato con la sua Resurrezione e Ascensione. (Si è sfortunatamente caduti in un eccesso di forme molto meschine, con il pretesto di una maggiore comodità per il Celebrante e per motivo di risparmio economico. La maggior parte delle casule francesi assomigliano a delle casse da violino, sono strette, striminzite, orrende. Esse sono praticamente contrarie alle regole tracciate da Roma, che ultimamente ha espresso il desiderio che non ci si allontani dalle forme utilizzate all’epoca del Concilio di Trento. Ora, san Carlo Borromeo, constatando questa forma, dice che la casula deve avere circa un cubito e mezzo da ogni lato, a partire dalla scollatura – un cubito e mezzo equivale a ottanta o novanta centimetri – Io ho visto a Roma una casula di San Pio V: essa era larga così com’era lunga, ampia quasi più davanti che dietro. Nei tesori di due o tre santuari ne ho viste altre che datavano del sedicesimo secolo, e che ugualmente avevano una considerevole ampiezza. Quella di Sant’Ignazio è molto più stretta: ma pare che a più riprese egli l’abbia ritoccata, cioè accorciata, per tenerla in uno stato migliore. Il Italia, e a Roma stessa, alle casule non sono stati risparmiati deplorevoli colpi di forbici alle belle regole liturgiche relative ai paramenti sacerdotali. Io ho visto a Roma delle casule che non arrivavano fino alle ginocchia; queste, più che brutte, erano ridicole). Il colore della casula, che varia a seconda delle feste, ricorda ugualmente al Prete ed ai fedeli lo spirito particolare del mistero che si celebra in quel determinato giorno, o la grazia del Santo in onore del quale è offerto il Sacrificio. La Chiesa, dopo aver rivestito il Sacerdote di sacri ornamenti che raffigurano il Sacerdozio divino di GESÙ-CRISTO, gli permette di celebrare la Messa. Quanto grandi sono tutte le cose della Chiesa! La maggior parte dei poveri stolti che se ne burlano o la disdegnano, certamente cambierebbero condotta e linguaggio se si dessero la pena di studiare e penetrarne il senso profondo. 

X

Panorama d’insieme sul senso e sui riti della Messa.

Prima di entrare nel dettaglio delle nostre spiegazioni sul cerimoniale della Messa, non sarà inutile dare una panoramica generale, come chiave dell’insieme di queste cerimonie sacratissime. Si possono innanzitutto dividere i riti della Messa in due grandi sezioni: quelle parti che precedono il Sacrificio propriamente detto, dall’inizio fino alla Consacrazione; e quelle che concernono la Consacrazione, fino alla fine. Le prime sono i riti preparatori al Santo Sacrificio; le seconde ne costituiscono i riti complementari. Tra le due, come al centro, come la sommità, vi è la Consacrazione, in cui consiste essenzialmente il Sacrificio eucaristico. Analizzando ancora più dettagliatamente, si possono distinguere tra i riti preparatori, tre fasi, tre parti: dapprima la preparazione penitenziaria ai piedi dell’altare; poi i riti sacri che vanno dall’Introito all’Offertorio, e che rappresentano in maniera più generale l’unità della Religione Cristiana, sola Religione degli Angeli, dell’uomo innocente, dei Patriarchi, della Sinagoga e del Vangelo; infine i riti che vanno dall’Offertorio fino al Canone ed alla Consacrazione e terminano con il Pater fino alla fine, e che concernono più particolarmente il secondo avvento, il regno glorioso di Cristo e della sua Chiesa e la nostra futura consumazione nella gloria. La Messa è così un gran dramma che abbraccia nel suo magnifico simbolismo, tutti i secoli, gli eletti di tutti i tempi, l’opera di DIO intera, il mistero totale del Nostro Signore GESÙ-CRISTO e della santa Chiesa.

XI

Le prime preghiere e cerimonie della Messa.

Il Sacerdote, in piedi ai piedi dell’altare, saluta profondamente il Crocifisso; o se il Santissimo Sacramento è nel Tabernacolo, fa la genuflessione per adorarlo. Occorre fare le genuflessioni con grande rispetto. Nello stesso tempo, con il corpo le deve fare il cuore; cioè egli deve inchinarsi davanti al buon DIO, con umiltà, abbassarsi, contrirsi con grande amore davanti alla maestà di GESÙ-CRISTO. Il ginocchio destro deve toccare terra ed il resto restar ritto; le mani devono essere giunte. Le genuflessioni si ripetono così spesso nel culto divino che occorre essere molto diligenti nel ben farle. Lo stesso è per il Segno della Croce che bisogna fare religiosamente inquadrato in tutte le sue estensioni. Il servente Messa, che assiste il Sacerdote, si inginocchia di fianco a lui, sempre dal lato opposto al Messale. Dopo aver fatto la genuflessione, il Sacerdote comincia la Messa facendo il segno della Croce. Questo segno augusto che riassume e significa il Sacrifico cruento della Redenzione, è mirabilmente posto all’inizio della Messa, poiché la Messa non è altro che la rappresentazione mistica di questo stesso Sacrificio. Esso si ripete molto spesso nel corso della Messa, per questa stessa ragione. Il Sacerdote, così come il servente e tutti i fedeli, non devono farlo se non con un grande sentimento di venerazione e di fede. Le due mani giunte davanti al petto, con i pollici incrociati, il destro sul sinistro, il Sacerdote recita un salmo di penitenza e di speranza, ispirato già al Re-Profeta nell’angoscia dell’esilio. Il Sacerdote lo recita nel nome di GESÙ, anch’Egli esiliato, con la sua incarnazione, in mezzo ai nemici di DIO, in terra straniera. Con GESÙ e nello Spirito di GESÙ, la Chiesa militante aspira alla vera Gerusalemme; essa aspira « all’altare di DIO, ad altare Dei, » che non è altri che il Cristo celeste. L’altare ove il Sacerdote si appresta a salire per offrirvi, con GESÙ ed in GESÙ, il Sacrificio del cielo e della terra, simbolizza questo divino Re dei cieli, come già abbiamo detto. Dopo il salmo [Ps. XLII, Judica me Deus], il sacerdote si inchina profondamente e recita il Confiteor. Egli chiede perdono per i suoi peccati, perché, pur essendo Sacerdote, cioè un altro GESÙ-CRISTO, non di meno è un povero uomo peccatore, sottomesso, come gli altri uomini, alle infermità ed alle debolezza della umana natura. – In effetti alla Messa, il Sacerdote ricopre diversi ruoli, se ci è lecito parlar così; innanzitutto è GESÙ-CRISTO stesso che agisce e parla in lui; a volte è la Santa Chiesa de cui egli è ministro e ministro davanti a DIO; altre volte è l’uomo, il povero peccatore, che parla e supplica in suo nome dapprima, e poi a nome di tutti gli uomini, suoi fratelli, ed in particolare a nome degli astanti. Nella confessione dei peccati, il Sacerdote ricopre insieme tutti questi ruoli. I peccati di cui GESÙ ha voluto caricarsi per aprirgli i cieli sono in effetti l’ostacolo universale che ha obbligato il divin Capo, innanzitutto, e poi tutti i suoi membri con Lui, ad umiliarsi nella penitenza, a soffrire, a piangere, a morire, ad annientarsi davanti alla maestà di DIO tre volte Santo. GESÙ, l’Agnello di DIO, ha espiato tutto sull’altare della Croce. Resuscitati con Lui ed in Lui, noi possiamo come Lui, aspirare al cielo, salire all’altare del Signore, e questo per i meriti di GESÙ-CRISTO, per quelli della Vergine Immacolata, « Porta del cielo, » di San Michele Arcangelo e di tutti gli Angeli, di San Pietro e di tutti i Santi. Dopo essersi così umiliato e purificato con la confessione pubblica e generale dei propri peccati, il Sacerdote sale sull’altare. Egli lascia il comune terreno, il livello dei semplici fedeli, si eleva al di sopra della terra; non deve essere più un uomo, ma un Angelo, un Cristo, un cero celeste. Egli deve lasciare in basso tutti i pensieri umani, tutti i sentimenti umani, anche i più onesti, i più utili, per non avere che pensieri divini degni di Colui di cui è, sull’altare, il rappresentante visibile. Sull’altare degli Angeli, egli deve essere un Angelo. – Egli bacia l’altare: cerca in GESÙ-CRISTO, che l’altare raffigura, nell’assistenza dei Santi, ed in particolare di quelli di cui l’altare contiene qualche reliquia, a benedizione, la grazia che non possiede per se stesso. E qui termine quella che possiamo chiamare, la preparazione immediata di penitenza. – Il Confiteor, non lo dimentichiamo, è una dei sacramentali della Chiesa. Quando è recitato con le disposizioni convenienti, esso possiede la virtù di cancellare i peccati veniali. Il Sacerdote e tutti gli astanti devono dunque recitarlo con molta pietà e contrizione. Durante tutte le preghiere preparatorie, bisogna unirsi a GESÙ, Penitente universale che ha portato ed espiato tutti i peccati del mondo e che, vivendo nei suoi Sacerdoti e nei suoi fedeli, comunica loro con il suo spirito di penitenza il perdono e la santità. Alle Messe solenni, il Diacono ed il Suddiacono si pongono a lato del Sacerdote, fanno come lui la confessione dei peccati e con lui salgono all’altare; come diremo dopo, essi rappresentano l’antica e la nuova Alleanza, di cui gli eletti sono tutti i poveri peccatori convertiti e santificati. Questo inizio dei santi Misteri si fa ai piedi dell’altare, non sull’altare stesso, per ricordare a tutti che il Sacrificio di GESÙ-CRISTO e della sua Chiesa celebrato quaggiù nella penitenza, in mezzo alle lotte e nell’afflizione, si completa, si consuma nel cielo, tra gli Angeli. La nostra vittima, il nostro GESÙ eucaristico, si offre simultaneamente in sacrificio in mezzo alla sua Chiesa militante ed in mezzo alla sua Chiesa trionfante, sulla terra e nei cieli. Il Sacrificio cruento terrestre è il medesimo del Sacrificio incruento e celeste. 

XII

L’Introito, il KYRIE ed il GLORIA.

Il Sacerdote si pone dal lato dell’Epistola, fa nuovamente il segno della croce e recita ciò che si chiama l’Introito. Poi torna in mezzo all’altare per recitare le nove invocazioni del Kyrie eleison e poi l’inno mirabile conosciuto con il nome di Gloria, di cui il nostro grande santo Ilario, Vescovo di Poitiers, è molto probabilmente l’autore. Questa parte delle preghiere della Messa ha un carattere particolarmente grandioso e mistico, cioè pieno di misteri. Il Sacerdote recitando l’Introito (che un tempo si componeva di uno o più salmi), e segnandosi col segno della croce, raffigura il Sacerdote eterno, GESÙ-CRISTO Nostro Signore, riempiendo Adamo ed i primi Patriarchi del suo spirito di Religione, di preghiera, di adorazione e cominciando con essi, fin dalle origini del mondo, ad adorare il vero DIO, a rendergli grazia, a domandargli misericordia e ad espiare il peccato. – Il Figlio di Dio, che doveva farsi uomo quaranta secoli più tardi, viveva già in Adamo, in Abele e nei primi Padri del genere umano. Egli era loro interiormente unito e li santificava con lo Spirito della sua grazia. Era là la prima fase della Religione Cristiana, la sola vera Religione, di cui il Cristo è il grande Sacerdote eterno, secondo l’ordine di Melchisedech. E siccome la Religione degli uomini è sempre stata la stessa Religione degli Angeli; siccome il Sacerdote, per il solo fatto di esser salito all’altare di Dio, conversa con gli Angeli, è associato alle Gerarchie celesti, osa mescolare la sua voce alle voci degli Angeli, unisce le sue adorazioni e quelle della Chiesa militante, alle adorazioni dei novi cori degli Angeli. È con questo spirito che si avvia con fiducia alla stessa adorabile Trinità, supplicando, con gli Angeli, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo di avere pienamente compassione della Chiesa militante di cui è ministro. Le nove invocazioni del Kyrie sono innanzitutto la professione di fede del Mistero della Santissima Trinità, sul quale riposano tutti gli altri misteri della Religione Cristiana; poi, esse ci ricordano che i nove cori degli Angeli adorano e lodano, come noi e con noi, il Signore nostro DIO: DIO il Padre, al quale è offerto direttamente il santo Sacrificio della Messa; DIO Figlio, GESÙ, vero DIO e vero uomo, che è il Sacerdote e la Vittima del Sacrificio; DIO, Spirito Santo, che è il centro focale di questo stesso Sacrificio, cioè l’Amore infinito che ha spinto GESÙ a sacrificarsi così, sul Calvario dapprima, poi sull’altare, e che deve riempire il cuore del Sacerdote e quello di tutti gli astanti. Gli Angeli hanno, in effetti, la nostra stessa Religione; così come noi e con noi, essi adorano GESÙ come loro Capo divino, come loro Re legittimo, e lo amano con un amore purissimo. Essi lo adorano e lo amano in particolare con noi, nella Santa Eucaristia che è, per così dire, il punto di contatto del cielo e della terra, il legame vivente della Chiesa militante e della Chiesa trionfante, l’incontro, visibile ed invisibile, celeste e terrestre, degli Angeli e degli uomini. Quanto al Gloria, esso ci mostra come in un riassunto, questo grande mistero della vera Religione, che si svolge dall’inizio alla dine dei secoli, e di cui GESÙ-CRISTO è l’anima e la vita. Noi abbiamo già visto che, secondo le tradizioni più venerabili, questo gran dramma del Cristianesimo militante deve durare sei mila anni, sei epoche. Non è forse per questo che la Chiesa ordina al Sacerdote di inclinare sei volte la testa durante la recita o il canto del Gloria? Egli deve farlo per prima, pronunciando il Nome di DIO, per la gloria del Quale tutto esiste, a gloria del Quale tutto si riporta. Ora essendo GESÙ il solo vero DIO vivente con il Padre e lo Spirito Santo, è di GESÙ che gli Angeli di Bethleem dicevano: « Gloria a DIO in cielo ». La Gloria è l’inno angelico dell’Incarnazione; sono gli Angeli che dicono agli uomini: « Gloria a GESÙ in cielo e sulla terra! Gloria al solo DIO vivente, da parte di tutti gli Angeli e di tutti gli uomini. » GESÙ-CRISTO è apparso sulla terra nella quarta epoca del mondo, l’anno quattromila dopo Adamo. Così il quarto inchino della testa si fa pronunziando il suo Nome adorabile. E siccome GESÙ-CRISTO deve tornare nel suo secondo Avvento, alla fine della sesta età del mondo per resuscitare tutti gli eletti e far trionfare la sua Chiesa con Lui, il Sacerdote inclina la testa per la sesta volta pronunziando di nuovo il Nome del Redentore, e proclamando che ogni creatura sarà forzata a riconoscere che GESÙ, il DIO del Calvario e dell’altare è « il solo Santo, il solo Signore, l’Altissimo, con lo Spirito Santo nella Gloria di DIO Padre. » Pronunciando per la seconda volta il Nome adorabile di GESÙ-CRISTO, il Sacerdote fa su se stesso il segno della Croce, per indicare che al secondo Avvento sarà compiuto il mistero della Redenzione, e che il Corpo mistico di GESÙ-CRISTO, la Chiesa intera, sarà liberata per virtù della Croce. Le inclinazioni della testa al Gloria hanno ancora, come i ceri sull’altare, un altro significato, ma più angelico e più mistico. Esse esprimono le adorazioni di ciascuno dei gruppi angelici presieduti dai sette grandi Serafini di cui parla la Scrittura. Essi sono sottoposti al governo spirituale e materiale di ciascuno dei sei Angeli che sovrintendono la durata della Chiesa militante, ed anche di questa settima era che sarà come la Domenica della grande settimana della Chiesa, l’era del riposo, della pace, del trionfo. È lo stesso mistero rappresentato dai sei ceri della Messa solenne, e dal settimo della Messa Solenne Pontificale. – Quale gloria, quale santo onore per noi, l’essere ammessi già da questo mondo ad adorare Nostro-Signore con gli Angeli e come gli Angeli! Che santità in questi riti della Messa, così poco compresi e così semplici, almeno in apparenza! Ecco il senso grandioso e profondo dell’Introito e del Gloria. È la proclamazione dell’unità della Religione degli Angeli e degli uomini, dei Patriarchi, dei Profeti e degli Apostoli in GESÙ-CRISTO, Sommo Sacerdote di questa Religione divina, Capo di questa adorazione universale e nello stesso tempo Vittima del Sacrificio che la esprime e la riassume sui nostri altari. E pensare che ci sono persone che trovano che la nostra fede sia meschina e ristretta nelle idee! – Un celebre medico di Parigi, uomo onesto secondo il mondo, ma ignorante come un turco in ciò che concerne il Cristianesimo, non diceva ultimamente ad un suo amico che lo invitava a convertirsi: « … mio caro, io non amo se non ciò che sia grande. Che cos’è il DIO di cui tu mi parli? Il tuo DIO, vedi, è troppo piccolo per me! »?

I SANTI MISTERI (2)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (2)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887; PARIS, impr.]

IV

I ceri ed il loro bel significato

Nulla è trascurabile in pari materia. Nel culto cattolico, tutto ha un senso; le cose di minor importanza, hanno un significato spesso di profondo mistero. Così i ceri. Nella santa Messa, essi simbolizzano e rappresentano la Chiesa del cielo, la Chiesa degli Eletti e la Chiesa degli Angeli che si unisce nella gloria dei cieli alla Chiesa della terra ed alle sue adorazioni. Certo è che il cero pasquale è figura di Nostro Signore risuscitato glorioso e trionfante, per risalire al cielo il giorno dell’Ascensione: è per questo che lo si spegne in questo giorno dopo il canto del Vangelo. È ugualmente certo che nella scienza liturgica, il cero della Candelora rappresenti il Santo Bambino Gesù, Dio ed uomo, luce del mondo e gloria di Israele. La cera, sostanza purissima, prodotta dalle api con la polvere balsamica degli stami dei fiori, è un emblema suggestivo della carne verginale del Salvatore; la luce rappresenta la sua divinità. Si potrebbe dire altrettanto, fatte le debite proporzioni, degli Eletti, membri viventi di GESÙ-CRISTO. La cera dei ceri dell’altare, che li simbolizza, è il loro corpo resuscitato e glorificato; e la luce è non la loro divinità, ma la loro deificazione in GESÙ-CRISTO. Per il servizio dell’altare, i ceri devono essere di pura cera, e si devono accendere, almeno nelle chiese ove risieda il Santo Sacramento, alla luce della lampada liturgica, che non deve mai spegnersi (è assolutamente vietato conservare il Santo Sacramento senza accendere almeno una lampada sospesa sull’altare. Il Papa ha rifiutato diverse volte, anche a dei Vescovi, la dispensa della lampada eucaristica: « … nessuna lampada, nessuna dispensa ». Tale è stata la sua riserva invariabile. – Questa legge obbliga sub gravi. Lasciar per negligenza la lampada del santuario spenta per due o tre ore costituisce certamente, dice S. Alfonso Liguori, un peccato mortale per il curato o per colui che ha l’incarico di sorveglianza… torneremo in seguito su questo soggetto). La cera significa la purezza del Cristiano che deve brillare, davanti a Dio e davanti agli uomini, della luce divina di GESÙ-CRISTO, e bruciare del fuoco dell’amore divino. I ceri si accendono sul fuoco della lampada del santuario, che rappresenta GESÙ-CRISTO resuscitato e glorioso, sorgente di ogni luce e di ogni carità nella Chiesa. I ceri si consumano bruciando: i Cristiani devono consumarsi anche nella pratica fervente della fede e delle opere sante. È assolutamente proibito celebrare Messa senza ceri accesi. Nella Messa bassa bisogna che ce ne siano due: uno a destra del crocifisso, ed uno a sinistra. Il cero di sinistra, cioè dal lato dell’Epistola, rappresenta e simbolizza la fede, la santità, il fervore di tutti i fedeli e di tutti i Santi dell’antica Legge, da Adamo, fino a  GESÙ-CRISTO; il cero illuminato a destra, dal lato del Vangelo, rappresenta tutti i fedeli e tutti i Santi della Legge nuova, da dopo GESÙ-CRISTO fino alla fine del mondo. Il Crocifisso in mezzo all’altare, ricorda che GESÙ, il Figlio di DIO, crocifisso nel mezzo dei tempi per la salvezza degli uomini, è il DIO che tutti i secoli hanno dovuto e devono adorare, il Capo ed il centro della Religione, l’Autore della salvezza di tutti. Esso ricorda pure che il Sacrificio della Messa che si va a celebrare sull’altare, è lo stesso Sacrificio di quello della Croce. – Nella Grande Messa, si devono avere tre ceri accesi da ogni lato del Crocifisso, in tutto sei, né più, né meno. Ci sono di buoni curati che, « … perché questo sia più bello, » ne accendono trenta, quaranta, cinquanta. « … più ce ne sono, più è bello ». Se si osservano le regole esattamente, il Crocifisso deve levarsi al di sopra di tutti i ceri e dominarli. Questi sei ceri significano gli Eletti e i Santi delle sei ere della Chiesa militante. Da diversi passaggi della Sacra scrittura , spiegato in questo senso da un gran numero di Santi Padri: la Chiesa militante deve in effetti durare sei mila anni [questa dottrina, perfettamente tradizionale, è esposta in lungo ed in largo da Cornelio A Lapide, nei suoi Commentari sulla seconda lettera di San Pietro (cap. III, v. 8) e sull’Apocalisse (cap. XX, v. 5) ed altri ancora. « È – egli dice – l’opinione di molti Padri e Dottori: multorum Patrum ed Doctorum; dunque essa è probabile e non può essere tacciata di temerarietà. È il sentimento di un gran numero, aggiunge: consent multi, che il mondo debba durare sei mila anni; cioè, quattromila anni prima del Cristo, e due mila anni dopo di Lui. Non bisogna aspettarsi però questo in maniera assoluta, ma approssimativa. – Su questo punto le tradizioni cristiana, ebraica, pagana greca e latina, sono pienamente d’accordo. » Tra i Padri ed i Dottori che hanno sostenuto questa opinione, troviamo San Giustino, San Ireneo, Sant’Ilario, Lattanzio, Sant’Agostino, San Girolamo, San Cirillo di Alessandria, San Giovanni Crisostomo, San Atanasio sinaita, San Gaudenzio, San Germano di Costantinopoli, etc.; Rabano-Mauro, Bellarmino, Suarez, etc. citiamo solo San Girolamo che dice: « Quanto a me, secondo le parole di San Pietro: «un giorno è mille anni, e mille anni sono un giorno, » io penso che il mondo, che è stato creato in sei giorni, debba durare sei mila anni; in seguito verranno il settimo e l’ottavo giorno che saranno l’epoca del vero riposo. » E San Gaudenzio, Vescovo di Brescia, dice egualmente: « Noi viviamo nell’attesa di questo santo giorno del settimo millenario, che verrà dopo il sesto giorno. Quando saranno terminati, allora ci sarà il riposo della vera santità e di tutti coloro che hanno creduto alla Resurrezione di Cristo. allora in effetti non ci saranno più lotte da sostenere contro il diavolo, secondo ogni probabilità, e solamente allora si potrà realizzare la profezia del Signore: non ci sarà che un solo gregge ed un unico Pastore. » Il dotto Cornelio aggiunge che « essendo questo sentimento l’opinione più diffusa e più probabile: communis ed probabilis … non ha nulla in comune con l’errore dei millenaristi. » Noi insistiamo su questo punto di dottrina perché, secondo noi, è la chiave di diversi riti importanti della liturgia della Messa, in ciascuna di queste età, Gesù e la sua Chiesa contano numerosi fedeli figli della luce, infiammati dalla fede e brucianti di amore, GESÙ-CRISTO, GESÙ-CRISTO crocifisso, è in mezzo, come sempre, perché Egli è la « luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, » e che è da Lui che tutti gli eletti di tutti i tempi ricevono la luce della vita. Nelle Messe basse, ci devono essere dunque due ceri accesi sull’altare; nei giorni di festa i Vescovi hanno il privilegio di averne altri, nelle Grandi Messe, per qualunque solennità, ce ne voglio sei e sei soltanto, per i motivo che stiamo dicendovi. Questa è la regola. Nelle solennità è permesso accendere intorno all’altare delle girandole di luci: questo conferisce agli Uffici maggiore pompa e splendore, ma questa illuminazione è estranea alla liturgia, cioè alle regole del culto divino; esse non fanno parte della illuminazione simbolica dell’altare, e non si devono porre sull’altare queste luci non liturgiche. Queste poi, devono essere tutte di pura cera, non di stearina, come tutte le luci liturgiche; è la decisione formale della Santa congregazione dei Riti (7 sett. 1850 e 24 maggio 1861). Nella Gran Messa Pontificale, cioè nella Messa solenne celebrate dal Vescovo o dal Papa, si accende un settimo cero dietro al Crocifisso o, se non sia possibile, dal lato del Vangelo: questo settimo cero rappresenta allo stesso tempo, e la pienezza del Sacerdozio, e la pienezza dei Doni dello Spirito Santo che possiede il Vescovo; ed anche la gloria degli Eletti che nel giorno settimo della settimana, nella settima era del mondo, resusciteranno per trionfare con GESÙ-CRISTO e per regnare eternamente con Lui. Così come il cero pasquale simbolizza Gesù resuscitato, anche il cero pontificale rappresenta la Chiesa resuscitata, o per meglio dire, Gesù resuscitato con tutti i suoi membri, regnante eternamente con quelli della terra e quelli del cielo. – Auguriamo a tutti di essere così fedeli alla grazia del nostro Battesimo, così come questi bei ceri, bianchi e puri siano l’immagine della nostra vita. Ma ahimè, tra i battezzati ci sono dei poveri ceri spenti! – Io ho conosciuto un curato così negligente che talvolta non si dava la pena di accendere nemmeno un cero durante la celebrazione della Messa. Ad una persona pia che l’aveva notato, avendogli espresso la sua meraviglia, rispose con serenità: « Non avevo l’accendino sottomano. » Sfortunatamente!

V

I ceri e l’altare in un altro senso più profondo e più mistico.

La liturgia è per eccellenza una scienza mistica; questo non vuol dire una scienza di immaginazione o di fantasia, bensì una scienza piena di misteri, la scienza dei misteri della fede. Misteri, mistica: queste due parole sono correlate; ed è unicamente il disprezzo dell’incredulità voltairiana per i santissimi Misteri della fede che è giunta a falsare in un gran numero di spiriti, per non dire in tutti, il vero senso di questa grande parola della lingua cristiana: mistica. La scienza mistica è l’anima della teologia, la linfa della vera pietà cristiana e sacerdotale, la più reale, la più profonda, la più divina di tutte le scienze. La liturgia, e soprattutto la liturgia della Messa è essenzialmente mistica, perché essa esprime il Mistero dei misteri, cioè il Mistero universale del Cristo, dei suoi Angeli e dei suoi eletti. Oltre al significato mistico delle luci, dell’altare, relativo agli Eletti e che abbiamo esposto nel capitolo precedente, ce n’è un altro ancora più profondo, più segreto, più mistico, più celeste. Esso è relativo agli Angeli, e che tra l’altro non concerne che gli Eletti. Esso ce li fa contemplare gli uni e gli altri nella gloria del cielo, nella luce di GESÙ-CRISTO, ove gli Angeli ed i Santi saranno eternamente uniti in uno stesso amore, in una stessa adorazione, perfetta, deifica, ineffabile. Essa appartiene a questo simbolismo apostolico al quale fa spesso allusione San Dionigi l’Aeropagita nel suo libro della “Gerarchia celeste ed ecclesiastica” ed in una delle sue Epistole.La luce è una creatura misteriosa, la più perfetta, la più sublime di tutte. Essa simbolizza per noi il mondo celeste, che è tutto luce nel Signore; essa simbolizza GESÙ-CRISTO, Re del cielo; essa simbolizza anche gli Angeli, irradiazione celeste e vivente di GESÙ. La luce è, nell’ordine dei sensi, come una copertura della terra sui cieli. La Scrittura ed i Padri sono pieni di questo pensiero. I ceri accesi per il Santo Sacrificio significano dunque, esprimendo e rendendo per così dire presenti gli Angeli che assistono allo straordinario sacrificio di Colui che è il loro ed il nostro Signore. La lampada che contiene la sostanza dell’olio, rappresenta più sensibilmente la Chiesa della terra, sempre presente, che adora quaggiù GESÙ-CRISTO, per mezzo di quest’olio che produce la terra, ma che si illumina e brucia di un fuoco tutto celeste. Il cero, al contrario, che producono le api e che esse raccolgono sui fiori; la cera purificata e vergine, è una sostanza superiore, più in rapporto con la perfezione degli Eletti, e degli Angeli, con la luce celeste degli Angeli. Ecco perché la luce dell’altare consiste nei ceri e non nelle lampade d’olio. – E non si pensi che tutto ciò sia arbitrario, la Scrittura Sacra chiama gli Angeli: luce e fuoco; tra gli altri, questo passaggio del salmo, ripetuto da San Paolo (Psal. CIII; ad Hebr. I): « Qui facit Angelos suos spiritus ed ministros suos flammam ignis » e la tradizione antica li chiama spesso « lumina, sacra lumina, lumi. » Al secondo capitolo dell’Apocalisse, San Giovanni vede sette candelabri accesi  (Vidi septem candelabra aurea: et in medio septem candelabrorum aureorum, similem Filio hominis. – II, 12 et 13.), e gli viene detto che queste sette luci sono sia i sette Angeli o Spiriti che stanno davanti al trono del Signore, sia i Vescovi delle sette Chiese dell’Asia Minore che l’Apostolo governava più direttamente. I Vescovi, in effetti, sono gli Angeli della loro Chiesa, e devono essere, quanto allo spirito che le anima, una sola ed una stessa cosa con gli Angeli custodi delle loro diocesi. GESÙ-CRISTO apparve a San Giovanni in mezzo a sette lumi, a questi sette Spiriti. Da qui l’uso antichissimo di accendere sette ceri sull’altare, quando è il Vescovo che deve celebrare pontificalmente; perché allora la perfetta santità del Vescovo deve pienamente manifestare Nostro-Signore, Re degli Angeli, Sommo eterno Sacerdote, adorato dagli Angeli. I sette ceri significano certamente questi sette grandi Arcangeli, questi sette Spiriti principali che, al dire di uno di essi, l’Arcangelo Raffaele, « … stanno davanti al Signore ». I sei ceri che si accendono nelle Messe solenni ordinarie, si ricollegano a questo stesso mistero, secondo la profezia del Profeta Ezechiele, ove dei personaggi misteriosi appaiono intorno ad un settimo, che aveva le somiglianze di un uomo. Quest’uomo era vestito di una bianca tunica di lino e attraversava la città, segnando sulla fronte tutti i suoi eletti. Il Pastore Harmas vede in quest’uomo il Principe, il Signore dei sei Angeli. È GESÙ, l’Angelo del gran Consiglio, l’Angelo dell’alleanza, Angelus Testamenti, come dice la Scrittura, l’Angelo degli Angeli, Angelus Angelorum, come dice S. Agostino. Quando il Vescovo celebra solennemente, quest’uomo, questo Principe, questo Angelo di DIO appare nella luce del settimo cero, per significare che il Vescovo debba essere la luce di tutta la sua Chiesa. – Quanto ai due ceri che devono sempre bruciare sull’altare alla Messa del Sacerdote semplice, a destra e a sinistra del Crocifisso, essi rappresentano senza dubbio alcuno i primi due grandi Arcangeli Serafini che si tengono ai lati del Cristo, secondo l’ordine del Signore; Mosè li aveva fatti rappresentare nel Santo dei Santi, ai due lati del Propiziatorio, ed il Profeta Isaia, rapito in spirito, li aveva contemplati in adorazione davanti al Signore stesso che per amor nostro si è incarnato ed è morto sulla croce; egli li aveva sentiti cantare nel cielo: « Sanctus, sanctus, sanctus, Dominus Deus Sabaoth. » Il primo, l’Angelo della destra e dell’onnipotenza del Signore, è l’Arcangelo Michele, simbolizzato dal cero di destra; il secondo, l’Angelo dell’Incarnazione e della misericordia, l’Angelo della Vergine Santa, è l’Arcangelo Gabriele, rappresentato dal cero del lato sinistro; il lato sinistro è il lato del cuore, e l’Incarnazione è ancor più l’opera dell’amore, che l’opera dell’onnipotenza del Signore. Tale è in sintesi il significato più intimo, e nello stesso tempo il più elevato, dei ceri del nostro altare. Essi simbolizzano intorno a GESÙ eucaristico, la Chiesa gloriosa degli Eletti e degli Angeli. Da questo si giudichi l’importanza e la santità delle prescrizioni liturgiche sul soggetto dei lumi del Santo Sacrificio!

VI

I teli e gli ornamenti dell’altare.

Se non ci sono tre teli bianchi di filo o di lino sull’altare, è proibito dir Messa. Questi teli, che devono essere mantenuti sempre in uno stato di perfetta conservazione, coprono interamente dapprima la parte superiore dell’Altare, poi il lato destro ed il lato sinistro. Quello superiore almeno, deve pendere dai due lati, fino in basso. La parte anteriore dell’altare deve essere ugualmente coperto da un tendaggio o drappo dello stesso colore degli ornamenti del Sacerdote; se a Messa si dice in bianco esso deve essere bianco; se la Messa si dice in rosso, nero, deve essere rosso, nero, etc. in modo tale che l’altare stesso sia interamente coperto e velato agli sguardi (Si tollera una eccezione in favore degli altari preziosamente lavorati e che sono verosimilmente un oggetto d’arte. Lo stesso è per il tabernacolo che, salvo casi eccezionali, deve essere coperto e come avvolto da un velo bianco, – o del colore del giorno – segno della presenza del Santo Sacramento nel Tabernacolo. Ma vi ritorneremo più avanti). Così è Nostro-Signore che non possiamo più vedere, dopo che è risalito in cielo. I tre teli bianchi che coprono l’Altare, raffigurano le tre gerarchie celesti dei santi Angeli che l’adorano con tanto amore; ed i drappi che coprono il resto dell’altare significano i Santi, ed in particolare il Santo o la Santa in onore del quale si celebra la Messa. Gli Angeli ed i Santi sono, in effetti, come il bel vestito di Nostro Signore GESÙ-CRISTO. Noi siamo nei nostri vestiti, ci viviamo, ci muoviamo in essi; allo stesso modo il Figlio di DIO abita e vive nei suoi Santi; Egli parla con essi; fa con essi ed in essi le sue mirabili opere di carità e di santità; riempie il loro spirito ed il loro cuore; i Santi prendono, per così dire, tutte le sue forme e tutti i suoi sentimenti, tutte le sue virtù. – I nostri vestiti ci riscaldano e ci difendono; con l’ardore del loro amore, i Santi consolano GESÙ per la freddezza di tanti ingrati e tanti indifferenti; e con le meraviglie della loro vita, manifestano splendidamente agli occhi del mondo intero, l’onnipotenza della grazia di GESÙ che fa loro compiere sì grandi opere e praticare virtù sì eroiche. Nel cielo, i Santi sono il vestito di gloria del Re di gloria, dopo essere stati sulla terra, e il vestito di grazia dei Re della grazia. I santi Angeli pure, sono nel cielo i ministri, i servi di GESÙ-CRISTO, ed il loro magnifico vestito. Se Nostro Signore è ammirabile nei suoi Santi, come annuncia la Scrittura, non è meno ammirabile nei suoi Angeli. Ecco perché nell’Altare, in ogni ora, gli Angeli ed i Santi del cielo adorano GESÙ eucaristico faccia a faccia e senza velo, mentre adorandolo noi sotto i veli dell’Eucaristia, ecco che, io dico, l’altare della Messa è ricoperto da teli e drappi. I colori di questi drappi come quelli dei paramenti sacerdotali, variano a seconda delle feste. Il colore bianco, che è il colore perfetto, il colore dell’innocenza e della gloria, è comandato dalla Chiesa per tutte le feste di Nostro Signore (salvo quelle della Passione), per tutte le feste della Santa Vergine, degli Angeli e dei Santi non martiri. Il colore rosso, colore del sangue e del fuoco, è utilizzato per celebrare le feste della Passione, quelle dello Spirito-Santo e quelle dei Martiri. Il verde, colore della speranza, è impiegato per tutte le ferie e Domeniche dell’anno, fuori dal tempo dell’Avvento, del Tempo di Natale, della Quaresima e dei tempi pasquali. Il violetto è colore della penitenza; la Chiesa lo impiega nei suoi uffici delle domeniche dell’Avvento e della Quaresima, alle Rogazioni e in Quatempora. Infine il colore nero della morte e della tomba, è riservato alle Messe dei morti a agli uffici delle Tenebre.

VII

Il Sacerdote che sta per celebrare la Messa.

Il Sacrificio della Messa è un solo e medesimo Sacrificio di quello della Croce, ed è diversa solo la forma esteriore: sulla Croce questa forma era cruenta; sull’altare è incruenta; « Il Sacrificio della Croce non differisce dal Sacrificio dell’altare, dice il Concilio di Trento, se non per la forma, sola offerendi ratione diversa ». Lo stesso è per il Prete che offre il Sacrificio: il Sacerdote, al Calvario come all’altare è  GESÙ-CRISTO, allo stesso tempo è Sacrificatore e vittima. È Lui che si offriva e si offre ancora in Sacrificio a gloria di Dio, suo Padre, e per la salvezza del mondo intero. Soltanto, all’altare si vela sotto l’aspetto dei suoi Sacerdoti, alfine di offrire attraverso le loro mani il suo Sacrificio divino. GESÙ e il Prete hanno un solo e medesimo sacerdozio:  GESÙ, Sacerdote eterno, comunica il suo Sacerdozio ai suoi Sacerdoti per mezzo del Sacramento dell’Ordine, ed il Sacerdote non ha altro Sacerdozio che quello di  GESÙ-CRISTO. Ecco perché i Sacerdoti, ed essi soli, possono offrire il Santo Sacrificio. – Il Sacerdote che sta per celebrare la Messa, deve prepararsi come meglio può; sarebbe superfluo insistere su questo punto. Se ci si prepara con cura ad un’udienza del Papa, o anche di un imperatore o di un re, cosa non si farà quando si tratta di salire all’altare del DIO vivente e di comparire, come Mosè sul Sinai, alla santa presenza del Re dei cieli, di cui il Papa non è che il Vicario, e da cui tutti i grandi della terra non fanno che derivare la loro maestà. La preparazione alla Messa è innanzitutto una preparazione di coscienza e di cuore, con la contrizione per i pur minimi peccati, mediante una unione molto intima ed ardente con GESÙ, il Sacerdote dei Sacerdoti, il Santo dei Santi, interiormente presente nel Sacerdote, nel voler trovare in lui uno strumento purissimo e fedelissimo del suo divino Sacerdozio; infine e soprattutto una fede viva, profonda, attuale, al mistero dell’Eucaristia, e con un amore sereno e fervente verso l’adorabile Signore  GESÙ. La buona preparazione alla Messa è il gran mezzo per evitare la routine e, da questa la negligenza, la tiepidezza e la divagazione dello spirito all’altare. Il Sacerdote che abitualmente trascura di prepararsi bene prima di salire all’altare, esporrebbe certamente la sua santificazione, per non dire la sua salvezza. Se si può dire in tutta verità: « a tal Messa, tale giorno! » si può pure dire:  « Tale preparazione, tal Messa! » Questa è dunque una cosa seria. la migliore di tutte le preparazioni: una buona preghiera, una preghiera di un’ora, di tre quarti d’ora o almeno di mezz’ora. San Vincenzo dei Paoli diceva un giorno ad un giovane Prete della Missione, che gli domandava una direzione per perseverare nel fervore: « Amico mio, tutto dipende dall’ora del vostro sonno.  » E siccome il giovane missionario sembrava sorpreso, aggiunse: « Senza dubbio, vedete: se vi addormentate ad un’ora fissa, potrete facilmente svegliarvi ad un’ora fissa di buon ora; se vi alzate così, potrete fare la vostra orazione ogni giorno; ora, dalla vostra preghiera dipenderà la celebrazione santa della Messa; e tutta la vita di un Sacerdote dipende dalla maniera in cui dice la Messa. Dunque, figlio mio, avevo ragione di dirvi che la vostra perseveranza e la vostra salvezza dipendono dall’ora del vostro addormentarvi. » Questo consiglio vale come l’oro. Quanta negligenza su questo punto! Non ho visto a volte un buon curato di campagna, entrando nella sua chiesa, contentarsi, come preparazione, di un povero Pater recitato in piedi, ai piedi dell’altare, toccando terra solo con il ginocchio e l’altro per aria per poter cominciare più presto? Quattro minuti prima ancora si faceva la barba a guisa di orazione; in sacrestia imprecava e spingeva; la sua Messa durava venti minuti, e questa era coronata da un’azione di grazie estatica, degna della preparazione, uno stesso Pater sacramentale, recitato in gran parte sullo stesso ginocchio. O misero, o misero! E questo curato era un bravo uomo, molto fondato nelle sue abitudini, studioso, buono per la povera gente. Quanto ai Preti che confessano molto è certo, e l’esperienza lo dimostra ogni giorno, che questo ministero santifica e non lo distoglie affatto dallo spirito interiore, dalla pietà, dal raccoglimento, che sono la vera preparazione alla celebrazione dei santi Misteri. Tuttavia, perché le confessioni li preparano così a salire all’altare, bisogna che siano ascoltate santamente e che il confessore abbia cura di restare unito a Gesù, Salvatore, che molto ama le anime. L’amore prepara all’amore; il santo tribunale al santo altare. È proibito dalla Sacra Congregazione dei Riti, organo ufficiale del Sovrano Pontefice per tuto ciò che riguarda il culto divino, dire Messa senza essere vestito di sottana. Una volta, all’altare sotterraneo della Confessione di San Pietro, a Roma, ho visto un prete francese che aveva mancato a questa regola e che aveva indossato l’alba sopra la sottanella; egli era molto grosso, l’alba molto corta; si vedevano uscire di là, delle lunghe gambe magre che somigliavano a  due trampoli. Era il colmo del ridicolo e, malgrado la santità del luogo, né io, né alcuni altri, potemmo astenerci dal sorridere. Notiamo di passaggio che le sottane a coda sono vietate ai semplici Sacerdoti, sia curati, Arcipreti, gran Vicari. La Congregazione dei riti lo ha formalmente decretato. La coda della sottana è un segno prelatizio, esclusivamente riservato ai Prelati, ai Vescovi ed ai Cardinali. Allora nulla è più strano che questa coda eterodossa che spazza la polvere, e talvolta anche gli sputi. « La coda suppone il caudato, come la proprietà suppone il proprietario, » dice un proverbio liturgico: « Cauda clamat caudatario, sicut res clamat domino. » Onde evitare questo spazzare, buon numero di preti francesi (perché questa pia coda non si vede che da loro) hanno un’abitudine singolarmente maestosa: dalla sagrestia all’altare, e dall’altare alla sagrestia, essi camminano pieni di modestia e di gravità, tenendo nella mano sinistra il calice, mentre la destra tiene rispettosamente la coda tre volte santa. Se questo rito non è segnato nella rubrica, esso non è che “più bello” e più toccante. È proibito ai semplici Preti, ed anche ai Prelati che non siano Vescovi, di conservare la loro berretta durante la Messa. I Vescovi possono tenerla fino al Sanctus, e riprenderla dopo la Comunione. Infine, per salire all’altare, bisogna avere delle scarpe convenienti e soprattutto delle scarpe appropriate. Mi sono state riferite inconcepibili negligenze al riguardo, perfino scarpe colorate, come se fossero all’angolo del loro focolare; un altro giungeva a salire all’altare con gli zoccoli!

I SANTI MISTERI (1)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (1)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887. PARIS, impr.]

I SANTI MISTERI

Il Trattato dei Santi Misteri si rivolge più in particolare agli ecclesiastici, ai religiosi, ed alle persone maggiormente abituate alle cose di Dio. Preziose testimonianze permettono di affermare che sarà di gran vantaggio a tutti coloro che lo leggeranno con cura soprattutto nei piccoli o grandi seminari e nelle comunità religiose. Sei-settemila esemplari sono andati esauriti in pochi anni, ed è stato tradotto in italiano, spagnolo, fiammingo e, se non erriamo, in tedesco. 

Agli allievi del santuario

La Messa è il centro del culto di Dio sulla terra, è come il cuore della vita sacerdotale. Un Sacerdote che dice bene la Messa è d’ordinario un santo Prete, mentre un Sacerdote che la celebra negligentemente, senza riverenza e senza zelo, senza ardore, è se non una luce spenta, per lo meno una luce misera, senza splendore, senza ardore, prossima allo spegnersi. Voi siete in seminario, amici miei, unicamente per diventare un giorno dei Preti santi, per illuminare i popoli, convertirli infiammarli del fuoco divino dell’amore di Nostro Signore. Per voi, più che tutti gli altri fedeli, è di immensa importanza conoscere per bene le ineffabili grandezze del Sacrificio della Messa e circondarlo di profondo rispetto. La Messa che voi ascoltate ogni giorno, deve essere, fin da ora, ciò che sarà ben presto la Messa che voi celebrerete ogni giorno. Essa deve essere il cuore, il sole di ciascuna vostra giornata, il punto centrale al quale tutto si rapporta, intorno al quale tutto gravita nella grande opera della santificazione. Sappiatelo – amici miei cari – voi direte un giorno la Messa così come l’ascoltate oggi; se voi la ascoltate con pietà, con fede viva ed una religiosità molto intima, più avanti, quando sarete Sacerdoti, la celebrerete santamente; se voi la ascoltate male, la celebrerete male. Ora, uno dei mezzi più efficaci per farci bene intendere e ben celebrare la Messa, è senza dubbio l’intelligenza dei riti che la Chiesa ha istituito per la celebrazione dei santi Misteri. Il senso di queste cerimonie sacre ne è come l’anima, come la via; una volta penetrate e ben comprese, esso ci rivela dappertutto il grande mistero di GESÙ-CRISTO, che riassume in sé il cielo e la terra; questo impedisce la routine, respinge la negligenza  e la svogliatezza; sostiene meravigliosamente il fervore, la fede viva, la devozione. Benché questo piccolo lavoro possa servire a tutte le persone pie, io ve lo porgo in modo speciale, e vi prego di gradirlo come affettuoso omaggio. Possa esso elevare i vostri spiriti, illuminare ed attirare i vostri cuori, farvi venerare ancor più la santissima liturgia cattolica  e l’adorabile mistero dell’Eucarestia, sorgente principale, per non dire unica, di tutta la pietà cristiana e sacerdotale.

11 Aprile 1869, 50° anniversario della prima Messa del nostro Sommo Pontefice, il Papa Pio IX.

I MISTERI

PROLOGO

Prima di penetrare nella contemplazione e nell’esposizione del gran dramma della Messa, è necessario porre qui delle riserve. Esse vertono sulla natura stessa di queste spiegazioni. – Nel tesoro della Chiesa, non esiste, che io sappia, una interpretazione ufficiale e di conseguenza assolutamente certa dei sacri riti della Messa. Quale sia il senso vero, diretto di « queste mistiche benedizioni che ci vengono dalla disciplina e dalla Tradizione degli Apostoli? » Qual sia il vero senso, o quali siano i sensi che i santi Apostoli abbiano voluto celare sotto questi riti? Né i Santi Padri, né la Chiesa hanno creduto rivelarceli, sembra pure, al dire di San Dionigi l’Aeropagita e di Clemente di Alessandria, che i riti misteriosi del divino Sacrificio, siano stati istituiti per esprimere e nel contempo velare abissi di grazie e di luce, per nascondere i misteri della Saggezza divina agli occhi dei profani e per proporli, non alla visione chiara, ma alla meditazione ed alla contemplazione dei Cristiani spirituali, i quali, dice San Paolo, hanno il senso di Cristo e sono pieni dello Spirito « che penetra tutto, anche le profondità di Dio ». Queste profondità di Dio, sono tutte riassunte nel mistero universale del Cristo, ed il mistero del Cristo è Esso stesso interamente riassunto, condensato in questa azione adorabile che, per questa ragione la Chiesa chiama per eccellenza i Santi misteri. Nel Medio Evo, ed anche in seguito, sono state fornite molte spiegazioni su questo soggetto da parte di grandi e santi uomini  (tra gli  altri il Papa Innocenzo III, come dottore privato; San Tommaso, nei suoi Opuscoles; Durand, vescovo di Mende, nel suo Rational; Suarez; il Cardinale Bona; il santo Abate Olier), ma queste interpretazioni, benché moto belle in sé, differiscono le une dalle altre ed esprimono evidentemente delle vedute particolari della pietà e del genio di ciascuno di essi, ed inoltre non riportano il senso proprio e tradizionale, il senso apostolico ed ecclesiastico delle antiche cerimonie del Santo Sacrificio. Vere soggettivamente, queste interpretazioni, lo sono oggettivamente allo stesso grado? Nessuno saprebbe affermarlo. Quelle che andiamo a proporre qui alla pietà del lettore mi sembra realizzino più direttamente, e più completamente l’idea dominante del Sacrificio della Messa, la quale è certamente il riepilogo del mistero universale di GESÙ-CRISTO. Questo mistero adorabile, centro di tutti gli altri, celeste ed insieme terrestre, abbraccia tutti i tempi, fin dal primo momento della creazione degli Angeli e degli uomini, fino alla consumazione ultima, fino alla beata eternità. Questa interpretazione realizza pienamente, come sembra, la celebre parola del Salmo CX, applicato da tutti gli interpreti all’Eucaristia, Sacrificio e Sacramento: Memoriam fecit mirabiliam suorum misericors et miserator Dominus; escam dedit timentibus se.  Essendo la Messa il memoriale delle meraviglie e dei misteri del Signore Nostro, il cerimoniale che l’accompagna deve rispondere a questo pensiero. Ora le interpretazioni che riassumo qui mi sembrano emergere naturalmente dai riti medesimi e non possono avere quella nota di invenzione che spesso si riscontra spesso in tal materia, e che è più propria a discreditare la santa Liturgia che a conciliarne il rispetto e l’ammirazione. Esse non sono punto di fede; si collocano quasi tutte nell’ambito di quelle che si chiamano opinioni, liberi sentimenti; le si può non adottare se, contemplando i nostri santi misteri, si trovano luci che soddisfino di più e la pietà e la ragione e la sapienza. Queste sono state prese da fonti molto autorevoli; esse sono inoltre, mie relazioni con diversi dotti e pii personaggi, sia qui che a Roma. È dunque il frutto di tutto ciò che ho potuto, da venticinque anni, intendere, raccogliere e contemplare su questo bel soggetto che ho cercato di riassumere in un piccolo opuscolo, il cui merito principale è, senza dubbio, di essere breve ed alla portata di tutte le intelligenze e di tutte le borse. Un venerabile superiore di Seminario mi assicura che queste spiegazioni potranno essere molto utili alle anime pie ed al giovane clero. È in questa speranza che io oso proporlo qui, come capace di chiarire santamente lo spirito e di fortificare la pietà. – Studiamoli umilmente, non da dottori sapienti, ma come scolari che indagano. 

I

Quanto sante e venerabili siano le cerimonie della Messa.

Più una cosa o una persona è grande, più è naturale circondarla di rispetto e di onori. Quando un sovrano onora della sua visita una città o un castello, si mette in opera tutto per fare un’accoglienza degna di lui; non c’è nulla che sia di troppo; nulla si risparmia. Ancor meglio se si trattasse della visita del Papa. Come ci si può allora stupire che i santi Apostoli ed i primi Pontefici della Chiesa, regolando il culto divino, abbiano circondata di cerimonie augustissime questa divina visita che il Re del cielo si degna di fare ogni giorno alla terra, mediante la Consacrazione eucaristica? Le une, quelle che precedono la Consacrazione, sono come la preparazione del Sacerdote e del fedele all’arrivo del grande Re Gesù; quando appare questo Re celeste, tutti si prosternano ed adorano in silenzio. La altre cerimonie, quelle che seguono la Consacrazione e terminano la Messa, preparano il Sacerdote ed i Cristiani a ricevere, con la Comunione, l’adorabile Visitatore e ringraziarlo del suo amore misericordioso. – Il Concilio di Trento ci dichiara che: Tra le cose sante, nulla c’è di venerabile, niente di sacro, come queste benedizioni piene di misteri, che gli Apostoli stessi hanno istituito e lasciato in eredità alla Chiesa. « La nostra santa Madre Chiesa, dice il Concilio, ha introdotto, conformemente alla disciplina ed alla tradizione apostolica, delle cerimonie, come le benedizioni mistiche, le luci, gli incensamenti, gli ornamenti, e molte altre cose di questo genere, alfine di accrescere la maestà di sì gran Sacrificio ed al fine di eccitare gli spiriti dei fedeli, con questi segni sensibili della pietà e della Religione, alla contemplazione dei profondissimi misteri che cela questo Sacrificio. (Sess. XXII, c. V), Riassunto ed imperfetto senza dubbio, ma infine spiegandoli un po’. Le cerimonie della Messa, hanno per oggetto di ricordare e compendiare, intorno alla Persona stessa di Gesù eucaristico, tutto l’insieme del magnifico ed universale mistero di questo divin Salvatore: l’unità di Religione che esiste tra gli Angeli e gli uomini, tra l’Alleanza antica e la nuova, tra la grazia del primo Avvento di GESÙ-CRISTO e la gloria del secondo. Anche i Sacerdoti e tutti coloro che li assistono all’altare, devono rispettarle infinitamente, ed osservarle religiosamente. Omettere o negligere volontariamente quelle che si rapportano più direttamente alla Consacrazione, sarebbe certamente un peccato mortale; e tutte, anche le minime, obbligano in coscienza. È fuor di dubbio che le rubriche dell’Ordinario della Messa, dopo il segno della Croce, dall’inizio fino al Deo gratias finale, sono tutte imperative e non solo direttive. Bisogna osservarle alla lettera, con molta fede, religione ed amore, e fare tutto ciò che viene prescritto dalla Chiesa, così com’è prescritto, e solo ciò che è prescritto, senza nulla omettere, senza nulla aggiungere. Altrimenti si rischierebbe di falsare il senso delle cose sante che queste cerimonie sono destinate a significare. Questo punto è molto importante, e la dottrina che riportiamo è affatto certa, checché se ne possa dire. La Bolla di San Pio V, che è sempre in pieno vigore, come la Santa Sede l’ha espressamente dichiarato in precedenza, decreta che, nel Messale Romano, nulla dovrebbe essere mai aggiunto, né soppresso, né cambiato … « sotto penna dell’indignazione Apostolica », il Sovrano Pontefice « ordina a tutti i Sacerdoti in generale, ed a ciascuno in particolare, qualsiasi sia il rango nella Chiesa, e questo in virtù della santa obbedienza, di dire o cantare Messa secondo il rito, il modo e la regola che prescrive il Messale. »  Ed il Papa Urbano VIII decretò ugualmente, mediante la Congregazione dei Riti, « che in ogni cosa, “in omnibus et per omnia”, si devono osservare le rubriche del Messale Romano, nonostante ogni uso contrario, che egli dichiara essere un abuso. » Inoltre, tante volte la Congregazione dei Riti ha risposto, nel Nome del Sovrano Pontefice, a delle questioni relative a certe pratiche non indicate dalle rubriche: « Serventur rubricæ » [si servano della rucrica]. Questa risposta è significativa; essa ci rinvia puramente e semplicemente alla lettera delle rubriche. Vale a dire: che si osservino le rubriche, non si faccia più di quanto esse non dicano di fare, che si faccia tutto ciò che esse dicono di fare, né più né meno. – Un professore di liturgia insegnava nel passato, in pieno corso, in un gran Seminario molto considerevole, che le rubriche dovessero intendersi in questo senso: che bisognava fare almeno ciò che esse prescrivono; ma che si poteva fare di più, « … purché sia più bello ». A questo riguardo, si potrebbe, si dovrebbe far durare l’Elevazione un quarto d’ora o una mezz’ora, « … purché questo sia più maestoso. » In effetti, questo non è specificato dalla rubrica; essa nulla dice. Questa interpretazione moderna è semplicemente l’introduzione dei principii dell’89 nella liturgia. Questo falso dato liturgico ha aperto le porte alle mille ed una invenzioni che sfigurano la maestosa semplicità della liturgia romana. « Serventur rubricæ»; « … che si osservi la rubrica! » Ecco la regola delle regole, ed essa obbliga in coscienza [L’autorità della Congregazione dei Riti, e in generale, delle Sacre Congregazioni romane, è l’autorità medesima del Sovrano-Pontefice che, attraverso di esse, governa e regge la Chiesa. I Vescovi stessi sono sottomessi ai decreti delle Congregazioni e non possono né dispensarsene, né dispensare gli altri: ancor mano i curati ed i semplici Sacerdoti. Soltanto l’ignoranza del diritto canonico, ha potuto introdurre queste distinzioni chimeriche tra l’autorità del Papa e quella delle Sacre Congregazioni. Le Congregazioni sono all’Autorità del Papa, ciò che per noi sono i diversi ministeri all’autorità del Capo di Stato, ed ancor di più.]. Santa Teresa, che sapeva unire una mirabile larghezza di spirito a tutte le delicatezze dell’obbedienza, diceva: « Io darei la mia testa per le cerimonia più piccole della Chiesa. » Ella aveva ben ragione, pensiamo, diciamo, facciamo come lei.

II

 Cosa rappresenta l’altare sul quale  si celebra la Messa.

   L’altare deve essere di pietra. Se fosse di legno o di bronzo, o anche di argento ed oro, occorrerebbe comunque che lo spazio sul quale si offre il Sacrificio, sia di pietra; questa pietra si chiama appunto “pietra d’altare”. L’altare (o “pietra d’altare”, che è la stessa cosa, almeno in pratica) è consacrata dal Vescovo, che lo marchia con cinque croci, in onore delle cinque piaghe che Gesù-Cristo conserva in eterno nel suo Corpo glorificato; questa consacrazione si fa con il santo Crisma, che è il più sacro degli oli santi, e dopo le unzioni il Vescovo brucia un grano di incenso purissimo in ciascuna delle croci che sono incise nella pietra. – Così consacrato l’altare, in effetti, significa: Nostro Signore GESÙ-CRISTO, al di fuori del Quale, il Padre Celeste non gradisce alcun omaggio religioso, alcuna adorazione, nessun sacrificio. GESÙ-CRISTO è quindi il centro ed il fondamento vivente dell’unica vera Religione, la quale è iniziata con gli Angeli e con Adamo, fin dall’origine del mondo, e non finirà neppure con la fine del mondo, perché Essa durerà nel cielo, per tutta l’eternità. GESU è la pietra consacrata, la pietra angolare che supporta tutto l’edificio della Religione degli Angeli e degli uomini, ed è per questo che è assolutamente vietato celebrare la Messa fuori dall’altare consacrato, o almeno una pietra d’altare consacrata. L’altare significa allora GESÙ-CRISTO, fondamento divino della Religione e del Sacrificio. Ognuno può comprendere allora quale sia la santità dei nostri Altari, e perché sia proibito non solo di farlo servire per alcun uso profano, ma anche di non posarvi sopra nulla di estraneo al Culto divino. Ci sono dei preti che non si curano di posare sull’altare i loro occhiali, il loro berretto, la loro tabacchiera. Io ho visto sacrestani posarvi tranquillamente sopra la loro penna, la spazzola, etc. Il santo abate Olièr, uno degli uomini che hanno usato il massimo rispetto per il Santo Sacrificio ed il Santo Sacramento, era al riguardo di una severità straordinaria: una volta un giovane chierico del seminario di San Sulpizio, di cui Olièr era il Superiore, era stato scelto da lui per servir Messa per la sua grande pietà. Un giorno il pio giovane posò sbadatamente la sua piccola calotta sul cono dell’altare. M. Olièr lo riprese severamente, come per una mancanza di rispetto verso l’adorabile Eucaristia, e lo privò per otto giorni dell’onore di servire Messa. Non si è mai troppo delicati in ciò che concerne le testimonianze della fede e dell’adorazione nei riguardi dei santi Misteri e di tutto ciò che ha rapporto con il Santissimo Sacramento.

III

Gli altari privilegiati

Il Papa accorda talvolta la grazia dell’Indulgenza plenaria per le anime del Purgatorio, ai Sacerdoti che celebrano la Messa su certi altari. Questo privilegio sì prezioso ha fatto attribuire a questi altari il nome di “altari privilegiati”. Talvolta un altare è privilegiato una sola volta a settimana, altre volte il privilegio dell’Indulgenza si estende a due, tre, quattro giorni della settimana; più raramente è quotidiano. Questo dipende unicamente dalla concessione pontificale. L’indulgenza degli altari privilegiati è riservata esclusivamente alle anime del Purgatorio. A meno che il contrario non sia specificato nella concessione, queste indulgenze possono essere lucrate solo celebrando la Messa su un altare “fisso”. Per “altare fisso” si intende un altare immobile, che non possa essere cioè trasportato da un luogo ad un altro. Poco importa che sia consacrato interamente, o che ne sia consacrata solo la pietra, l’importante è che sia sigillato tanto al muro che al suolo. –  È arrivata a Parigi da qualche anno, una simpatica storia a proposito di un altare privilegiato (in francese altare, autel, si pronunzia “otel”): una pia ed eccellente dama, a giusto titolo considerata tale da tutti coloro che la conoscevano, aveva ottenuto dal Santo Padre il favore dell’altare privilegiato per la sua cappella domestica. Quando il rescritto da Roma arrivò, si era alla vigilia della sua partenza per la campagna. Ella fece dunque venire il suo amministratore, uomo di spirito e fiduciario, e gli diede ordini perché in sua assenza facesse venire pittori, scultori, indoratori, senza nulla risparmiare. Secondo la foggia delle Basiliche romane, ella desiderava far porre sopra la porta della cappella, come coronamento dello stesso altare che era appunto vicino alla porta, una bella iscrizione a caratteri d’oro: AUTEL PRIVILÉGIÉ (altare privilegiato). L’eccellente dama non si spiegò probabilmente in modo molto chiaro. In effetti, dopo quattro o cinque giorni dopo il suo soggiorno in campagna, ricevette una lettera dal bravo amministratore che le chiedeva nuove istruzioni. « Madame, lei ha senza dubbio dimenticato, diceva, che al di sopra della porta dell’hotel c’è uno stemma, etc.; i pittori e gli operai non sanno come posizionare l’iscrizione comandata da madame. » Il maldestro aveva confuso « autel » con « hotel » e se per fortuna (o per sventura), sulla grande porta d’entrata che dava sulla strada si fosse proceduto alla decorazione senza che si richiedesse una nuova consultazione, la povera santa signora, al suo rientro avrebbe trovato sopra la porta d’entrata, a grandi lettere d’oro, la scritta: HÔTEL PRIVILEGIATO. – Prova evidente che in materia liturgica, non ci si possa fidare … degli amministratori.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – QUARTO ABEUNTE SÆCULO

Obsecro autem eos, qui hunc librum lecturi sunt, ne abhorrescant propter adversos casus, sed reputent ea quae acciderunt, non ad interitum, sed ad correptionem esse generis nostri. Obsecro autem eos, qui hunc librum lecturi sunt, ne abhorrescant propter adversos casus, sed reputent ea quae acciderunt, non ad interitum, sed ad correptionem esse generis nostri. Questa lettera enciclica di S. S. Leone XIII ha un carattere del tutto particolare, ispirata com’è alle celebrazioni per la scoperta dell’America che in quell’anno ricordava appunto il quarto centenario della sua scoperta. Naturalmente si sottolinea l’aspetto legato alla Chiesa Cattolica ed alla sua diffusione  nel nuovo continente che ha dato effettivamente frutti copiosissimi per la salvezza di tante anime destinate altrimenti all’eterna dannazione. Naturalmente questi aspetti oggi sono completamente negletti, anzi si tende alla diffusione, attraverso il mondialismo politico-finanziario, del credo massonico dell’ecumenismo indifferentista, oggi tanto di moda nelle sette protestanti storiche, ed in gran spolvero in quella del baphomettiano “Novus Ordo” dei marrani antipapi, che fingendosi Chiesa di Cristo, è impegnata, a colpi pure di false e scandalose canonizzazioni, a demolire dalle fondamenta (… si fieri potest) quel che resta in piedi dell’edificio cattolico “esteriore”. Il Nuovo Mondo ed il cosiddetto odierno Terzo Mondo, sono stati, e lo sono sempre più, infarciti di ideologia anticristiana, con il rifiuto palese di ogni dogma definito e conosciuto, prendendo a pretesto una libertà sfrenata non soggetta alle leggi divine, e spesso neppure alle naturali ed umane, per il godimento dei pretesi “diritti dell’uomo” contro quelli di Dio, ed a vantaggio delle “jene usuraie” planetarie, adepte del satanismo praticato nelle conventicole “illuminate”. Ma, sempre fiduciosi nell’opera di Dio, che dal male sa trarre il bene in modo imprevisto all’uomo, [… Obsecro autem eos, qui hunc librum lecturi sunt, ne abhorrescant propter adversos casus, sed reputent ea quae acciderunt, non ad interitum, sed ad correptionem esse generis nostri – II Macc. VI, 12], e a dispetto dei malvagi, dei facinorosi, dei violenti, dei peccatori, dei “congregati contro Dio ed il suo Cristo”, restiamo ben saldi alla navicella di Pietro, ora più che mai battuta dai marosi e nella quale si grida da più parti: “Domine, perimus, … exsurge Domine, quare abdormis?”, fiduciosi che al momento inatteso dagli uomini, il Signore Gesù calmi i venti e faccia tornare la bonaccia buttando nel contempo in mare “… carri e cavalieri”, e con tutta calma, scorriamo il testo così edificante dell’Enciclica … Quarto abeunte ….

Leone XIII
Quarto abeunte sæculo

Lettera Enciclica

Cristoforo Colombo

1892

Allo spirare del quarto secolo dal dì che, auspice Iddio, l’intrepido ligure approdò, primo fra tutti, oltre l’Oceano Atlantico a sconosciuti lidi, sono lieti i popoli di celebrare con sentimenti di gratitudine la memoria di quel fatto e di esaltarne l’autore. E certo non si saprebbe agevolmente trovar cagione d’infervorare gli animi e destar entusiasmo più degna di questa, Poiché il fatto è in sé stesso il più grande e meraviglioso di quanti mai se ne videro nell’ordine delle cose umane; e l’uomo che lo portò a compimento non è paragonabile che a pochi di quanti furono grandi per tempra d’animo e altezza d’ingegno. – Per opera sua dall’inesplorato grembo dell’oceano venne alla luce un nuovo mondo; milioni di creature ragionevoli vennero dall’oblio e dalle tenebre a integrare la famiglia umana; da barbare, fatte mansuete e civili; e quel che infinitamente più importa, da perdute che erano, rigenerate alla speranza della vita eterna, grazie alla partecipazione dei beni soprannaturali, recati in terra da Gesù Cristo. – L’Europa, percossa allora di meraviglia alla novità e grandezza del subitaneo portento, fece poi giusta stima di quanto essa deve a Colombo, man mano che le colonie stabilite in America, le comunicazioni incessanti, la reciprocità di amichevoli uffizi, e l’esplicarsi del commercio marittimo diedero impulso poderosissimo alle scienze naturali, alla possanza e alle ricchezze nazionali, con incalcolabile incremento del nome europeo. – Laonde fra sì varie manifestazioni onorifiche, e in questoconserto di gratulazioni, non vuole rimaner muta la chiesa cattolica, usa com’è a raccogliere volenterosa e promuovere secondo quanto è in suo potere ogni onesta e lodevole cosa. Vero è che i sovrani suoi onori la chiesa li serba all’eroismo delle virtù morali in quanto ordinate alla vita eterna; ma non per questo misconosce ne tiene in poco conto gli altri eroismi: che anzi si compiace ognora di far plauso e onore ai benemeriti della comunità civile, e a quanti vivono gloriosi nella memoria dei posteri, Perché Dio è certo mirabile soprattutto nei Santi suoi; ma l’orma del divino valore rifulge a meraviglia anche negli uomini di genio, giacché il genio è pur esso un dono gratuito di Dio creatore e padre nostro. – Ma oltre a queste ragioni di ordine generico, abbiamo motivi del tutto particolari di voler commemorare, con gratitudine, l’immortale impresa. Imperocché Colombo è l’uomo della chiesa, Per poco che si rifletta al precipuo scopo onde si condusse ad esplorare il mar tenebroso, e al modo che tenne, è fuor di dubbio che nel disegno e nella esecuzione dell’ardua impresa ebbe parte principalissima la fede cattolica: cosicché anche per questo titolo tutta l’umanità ha obbligo non lieve alla chiesa cattolica. – Impavidi e perseveranti esploratori di terre sconosciute e di più sconosciuti mari, e prima e dopo di Colombo, se ne conta parecchi, Ed è ragione che la fama, memore delle opere benefiche, celebri perennemente il nome loro, in quanto riuscirono ad allargare i confini delle scienze e della civiltà, a sviluppare il pubblico benessere: e ciò non a lieve costo, ma a prezzo di fatiche immani, e sovente di rischi gravissimi. – Ma pure da essi a Colombo c’è gran divario. La nota caratteristica di Colombo sta in questo, che nel solcare e risolcare gli spazi immensi dell’oceano, egli aveva la mira a maggior segno che gli altri non avessero. Non già che nulla potesse in lui la compiacenza nobilissima di avanzar nel sapere, di ben meritare dell’umana famiglia: non che disprezzasse la gloria, i cui stimoli chi è più grande più sente, o che disprezzasse affatto la speranza dei materiali vantaggi: ma sopra tutte queste ragioni umane campeggiò in lui il sentimento della religione dei padri suoi, dalla quale egli prese senza dubbio l’ispirazione del gran disegno, e sovente nell’ardua opera di eseguirlo ne trasse argomenti di fermezza e conforto, Imperocché è dimostrato che egli intese e volle massimamente questo: aprire la strada all’evangelo attraverso nuove terre e nuovi mari. – La qual cosa può parere meno verosimile a chi, riducendo ogni pensiero e ogni cura entro i confini del mondo sensibile, ricusa di sollevare l’occhio più in alto. Al contrario a meta più eccelsa amano per lo più aspirare le anime veramente grandi, perché sono le meglio disposte ai santi entusiasmi della fede, Colombo, unendo lo studio della natura allo zelo della pietà, aveva mente e cuore profondamente formati alle credenze cattoliche. Perciò, persuaso per argomenti astronomici e antiche tradizioni che al di la del mondo conosciuto dovevano pure estendersi dalla parte d’occidente gran tratti di paese non ancora esplorati, la fede rappresentavagli allo spirito popolazioni sterminate, avvolte in tenebre deplorevoli, perdute dietro cerimonie folli e superstizioni idolatriche. Infelicità grande, agli occhi suoi, condurre la vita in assuetudini selvagge e costumi ferigni: ma incomparabilmente più grande l’ignorare cose di capitale importanza, e non avere pur sentore dell’unico vero Dio. Onde, pieno di tali pensieri, si prefisse più che altro di estendere in occidente il nome cristiano, i benefici della cristiana carità, come risulta evidentemente da tutta la storia della scoperta, Infatti, quando ai re di Spagna Ferdinando e Isabella, propose la prima volta di voler assumere l’impresa, ne chiarisce lo scopo col soggiungere che “la gloria delle loro maestà vivrebbe imperitura, ove consentissero di recare in sì remote contrade il nome e la dottrina di Gesù Cristo”. E non molto dopo, ottenuto quel che voleva, affida allo scritto ch’egli domanda al Signore di far sì con la divina sua grazia che i re (di Spagna) siano perseveranti nella volontà di propagare a nuove regioni e nuovi lidi la santa religione cristiana. – Tutto premuroso d’implorare missionari da papa Alessandro VI, gli scrive; “spero bene, con l’aiuto di Dio, di poter ormai spargere in tutto il mondo il santo nome e l’evangelo di Gesù Cristo”. E crediamo dovesse sovrabbondare di giubilo, allorché, reduce dal primo viaggio, scriveva da Lisbona a Raffaele Sandiez: “doversi rendere a Dio grazie immortali per avergli largito sì prospero successo. Che Gesù Cristo s’allieti e trionfi qui sulla terra, come s’allieta e trionfa nei cieli, prossima essendo la salvezza di tanti popoli, il cui retaggio sino ad ora fu la perdizione”. Se a Ferdinando e Isabella egli suggerisce di permettere solo a cristiani cattolici di navigare verso il nuovo mondo e piantare traffichi nelle nuove contrade, la ragione è che il disegno e l’esecuzione della sua impresa non ebbe altro scopo che l’incremento e l’onore della religione cristiana. E ciò conobbe appieno Isabella, essa che assai meglio d’ogni altro seppe leggere nella mente del grande: è anzi fuor di dubbio che quella piissima principessa, di mente virile e di animo eccelso, non ebbe ella medesima altro scopo. Scriveva infatti di Colombo, che egli affronterebbe coraggiosamente il vasto oceano “a fine di compiere un’impresa di grande importanza per la gloria di Dio”, E a Colombo medesimo, reduce dal secondo viaggio, scriveva che “erano egregiamente impiegate le spese ch’ella aveva fatte e che farebbe ancora per la Spedizione delle Indie, in quanto ne seguirebbe la diffusione del cattolicismo”. – Dall’altro canto, se si prescinde da un motivo superiore, donde avrebbe potuto egli attingere perseveranza e forza pari alle dure prove, che egli dovette affrontare e sostenere sino all’ultimo? Intendiamo l’opposizione dei dotti contemporanei, le repulse da parte dei prìncipi, i rischi del mare in tempesta, le veglie incessanti, sino a smarrirne più d’una volta la vista: aggiungasi le fiere lotte coi selvaggi, i tradimenti di amici e compagni, le scellerate congiure, le perfidie degli invidiosi, le calunnie dei malevoli, le immeritate catene All’enorme peso di tante sofferenze egli doveva senz’altro soccombere, se non lo avesse sostenuto la coscienza dell’impresa nobilissima, feconda di gloria alla cristianità, di salute a milioni di anime. – Impresa, intorno alla quale fa luce la situazione di quel tempo. Infatti Colombo Svelò l’America, mentre una grave procella veniva addensandosi sulla chiesa: sicché per quanto è lecito a mente umana di congetturare dagli eventi le Vie misteriose della Provvidenza l’opera di quest’uomo, ornamento della Liguria, sembra fosse particolarmente ordinata da Dio a ristoro dei danni, che la santa fede avrebbe poco dopo patito in Europa. – Chiamare gli indi al Cristianesimo, era senz’altro opera e compito della chiesa. Essa fin dai primordi della scoperta, pose mano a fare il suo dovere e proseguì e prosegue sempre a farlo col medesimo zelo, inoltratasi, non molti anni fa, sino all’estrema Patagonia. – Nondimeno persuaso di dover percorrere e spianare la via all’evangelizzazione delle nuove contrade e tutto compreso da questo pensiero, ogni suo atto coordinò Colombo a tal fine, nulla quasi operando se non ispirandosi alla religione e alla pietà. – Rammentiamo cose a tutti note, ma preziose a chi voglia penetrare ben addentro nella mente e nel cuore di lui. Forzato di abbandonare, senza aver nulla concluso, il Portogallo e Genova, e voltosi alla Spagna, all’ombra di un cenobio egli viene maturando l’alto disegno, confortatovi da un monaco francescano suo fido. Dopo sette anni, spuntato finalmente il giorno di far vela per l’Oceano, s’accosta ai divini sacramenti: supplica la Regina del cielo che voglia proteggere l’impresa e guidare la rotta: e non comanda di levare le ancore se non dopo invocata la Santissima Trinità, Avanzatesi quindi in cammino, fra l’infuriare dei marosi e il tumultuare dell’equipaggio, mantiene inalterata la serenità della sua fermezza, mercé la fiducia in Dio, Parlano del suo intendimento persino i nomi nuovamente imposti alle nuove isole: a ciascuna delle quali, appena postovi piede, adora supplichevole Dio onnipotente, e non ne prende possesso che in nome di Gesù Cristo. Dovunque approdi, il primo suo atto è di piantare sulla spiaggia la Croce: e dopo aver tante volte, al rombo dei flutti mugghianti, inneggiato in alto mare al nome santissimo del Redentore, lo fa risuonare egli per primo nelle isole da lui scoperte; per questo alla Spagnola il primo edificio è una chiesa, la prima festa popolare una solennità religiosa, – Ecco dunque ciò che intese, ciò che volle Colombo nell’avventurarsi per tanto spazio di terra e di mare all’esplorazione di contrade ignorate sino a quel tempo e incolte: le quali peraltro in fatto di civiltà, d’influenza, di forza, salirono poi velocemente a quel grado di altezza, che ognuno vede. La grandezza dell’avvenimento e la incommensurabile importanza degli effetti che ne seguirono, rendono doverosa la memoria e la glorificazione dell’eroe. Ma si deve innanzitutto riconoscere e venerare singolarmente gli alti decreti di quella mente eterna, alla quale ubbidì, consapevole strumento, il rivelatore del nuovo mondo. – A celebrare degnamente e in armonia con la verità storicale solennità colombiane, è dunque necessario che allo splendore delle pompe civili si accompagni la santità della religione. Onde come già al primo annunzio della scoperta furono rese a Dio immortale, providentissimo, pubbliche grazie, primo a darne l’esempio il pontefice; così ora nel festeggiare la memoria dell’auspicatissimo evento stimiamo doversi fare lo stesso. – Disponiamo perciò, che il giorno 12 ottobre, o la domenicasuccessiva, se così giudicherà opportuno l’ordinario del luogo, nelle chiese cattedrali e collegiate di Spagna, d’Italia, e delle Americhe, dopo l’Ufficio del giorno, sia cantata solennemente la Messa della Santissima Trinità. – Oltre alle regioni sopra indicate, confidiamo che per iniziativa dei vescovi la stessa cosa si faccia nelle altre, essendo conveniente che tutti concorrano a celebrare con pietà e riconoscenza un avvenimento che tornò profittevole a tutti. Intanto come auspicio dei divini favori e pegno della Nostra patema benevolenza a voi, venerabili fratelli, e al clero e popolo vostro impartiamo affettuosamente la benedizione apostolica,

Roma, presso S. Pietro, 16 luglio 1892, anno decimoquinto del Nostro pontificato.

DOMENICA II DOPO PASQUA (2019)

DOMENICA II DOPO PASQUA(2019)

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXXII: 5-6. Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Ps XXXII: 1. Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio. [Esultate, o giusti, nel Signore: ai buoni si addice il lodarlo.]

Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja. [Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui in Filii tui humilitate jacéntem mundum erexísti: fidelibus tuis perpétuam concéde lætítiam; ut, quos perpétuæ mortis eripuísti casibus, gaudiis fácias perfrui sempitérnis.

[O Dio, che per mezzo dell’umiltà del tuo Figlio rialzasti il mondo caduto, concedi ai tuoi fedeli perpetua letizia, e coloro che strappasti al pericolo di una morte eterna fa che fruiscano dei gàudii sempiterni].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. [1 Petri II: 21-25]

Caríssimi: Christus passus est pro nobis, vobis relínquens exémplum, ut sequámini vestígia ejus. Qui peccátum non fecit, nec invéntus est dolus in ore ejus: qui cum male dicerétur, non maledicébat: cum paterétur, non comminabátur: tradébat autem judicánti se injúste: qui peccáta nostra ipse pértulit in córpore suo super lignum: ut, peccátis mórtui, justítiæ vivámus: cujus livóre sanáti estis. Erátis enim sicut oves errántes, sed convérsi estis nunc ad pastórem et epíscopum animárum vestrárum. [Caríssimi: Cristo ha sofferto per noi, lasciandovi un esempio, affinché camminiate sulle sue tracce. Infatti Egli mai commise peccato e sulla sua bocca non fu trovata giammai frode: maledetto non malediceva, maltrattato non minacciava, ma si abbandonava nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava; egli nel suo corpo ha portato sulla croce i nostri peccati, affinché, morti al peccato, viviamo per la giustizia. Mediante le sue piaghe voi siete stati sanati. Poiché eravate come pecore disperse, ma adesso siete ritornati al Pastore, custode delle ànime vostre].

Omelia I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

SEGUIAMO GESÙ CRISTO.

“Carissimi: Cristo patì per noi lasciandovi l’esempio, perché abbiate a seguire le sue orme. Egli non commise peccato, e sulle sue labbra non fu trovato inganno. Egli, maledetto, non rispondeva con maledizioni, e, maltrattato non minacciava, ma si rimetteva a chi lo giudicava ingiustamente. Portò egli stesso i nostri peccati nel suo corpo sul legno, affinché, morti al peccato viviamo per la giustizia: per le piaghe di Lui siete stati guariti. Infatti eravate come pecore sbandate, ma ora siete ritornate al pastore e al vescovo delle anime vostre”. (1 Piet. II, 21-25).I cristiani dispersi nell’Asia minore, e precisamente nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia proconsolare e nella Bitinia, erano esposti a varie e dure persecuzioni da parte dei Giudei e dei pagani. S. Pietro, venuto a conoscenza di questo, scrive loro una lettera da Roma, per consolarli nelle loro afflizioni, e renderli costanti nella fede, esposta a tanti pericoli. Da questa lettera è tratta l’Epistola di quest’oggi. Dopo aver parlato, precedentemente, dei doveri verso il potere civile, viene a parlare della soggezione dei servi ai loro padroni. Devono star loro soggetti volentieri, seguendo l’esempio di Gesù Cristo, che non malediva quelli che lo maledivano, non minacciava quelli che lo facevano soffrire, ma si rimetteva al Padre, giudice supremo. Egli si caricò dei nostri peccati per procurarci la giustificazione. E così, da pecore erranti quali eravamo, siamo stati condotti al Pastore delle anime nostre. L’imitazione di Gesù Cristo, inculcata da S. Pietro, è necessaria a ogni Cristiano.

1. Gesù Cristo è il nostro Pastore,

2 Che dobbiamo seguire sempre,

3 Anche sotto la croce.

1.

Cristo patì per noi lasciandovi l’esempio, perché abbiatea seguire le sue orme. Niente s’impara senza una guida, e nessuna istituzione si regge senza chi la governa. È necessario uno che guidi nello stato, nella famiglia, in una nave. È necessario un pastore che diriga e sorvegli il gregge. È facile immaginare che cosa avverrebbe d’un gregge, che abbandonasse le orme del pastore. Si sbanderebbe qua e là, prenderebbe sentieri pericolosi; e, nell’ora del pericolo, le povere pecore, rimaste senza guida, invece di ritrovare la via dell’ovile, andrebbero a finire nelle fauci di qualche fiera o nelle mani di qualche ladro. La famiglia cristiana, è, nella Sacra Scrittura, paragonata a un gregge. Chi ne è il pastore? «Io sono il buon Pastore», dice Gesù Cristo (Giov. X, 11). Un giorno vede due fratelli, Pietro ed Andrea, che gettano una rete, e dice loro: « Venite dietro me e vi farò pescatori d’uomini. Ed essi, tosto lasciate le reti lo seguirono » (Matt. IV, 19-20). Sono, a cosi dire, le primizie del gregge di Cristo. Più tardi rivolgerà il suo invito a un pubblicano. «Seguimi», dirà a Matteo, e questi; rizzatosi dal banco lo segue (Matt. IX, 9). Ripeterà questo invito ad altri, alle turbe, a tutti gli uomini di buona volontà. « Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi consolerò » (Matt. XI, 28). Quando gli Ebrei partono dall’Egitto, il Signore li guida in colonna di fumo di giorno, e in colonna di fuoco durante la notte, per illuminare il loro cammino. Gesù Cristo è la luce che guida il suo gregge nei sentieri di questa vita. Egli è «la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Giov. I, 9). Egli ci è luce con gli insegnamenti che uscirono dal suo labbro, Egli ci è luce con le sue azioni. « Poiché quando Egli fa qualche cosa in silenzio, si fa conoscere quello che noi dobbiam fare » ( S. Gregorio M. Hom. 17, 1). Ed è principalmente alle sue azioni che ci richiama S. Pietro, quando ci dice di seguire le sue orme. Della virtù si è parlato molto dai sapienti di questo mondo, anche prima che venisse sulla terra Gesù Cristo. Ma tutte le loro discussioni portarono ben poco frutto. Quegli insegnamenti, oltre non essere esenti da errori, non erano confortati dall’esempio. Non da loro, ma da Gesù s’impara l’umiltà, la pazienza, l’ubbidienza, il vero amor del prossimo, il perdono delle offese, la purità e tante altre virtù, che formano uno splendido ornamento e una irrefragabile apologia del Cristianesimo. Chi vuol sapere, sappia Cristo. Da lui solo impareremo a camminare nella via di ogni virtù.

2.

Egli non commise mai peccato, e sulle sue labbra non fu trovato inganno, ecc. Queste parole, che S. Pietro riporta da Isaia, c’insegnano quanto fosse perfetta la vita diGesù Cristo, alla quale, per quanto ci è possibile, dobbiamo conformare la nostra. Forse, non è tanto l’eroismo degli esempi datici da Gesù Cristo, che trattiene il Cristiano dall’imitarlo; quanto la forza che esercitano ancora su di lui gli esempi del mondo. Si seguirebbe Gesù Cristo, quando il mondo non seducesse più: si seguirebbe Gesù Cristo, se si potesse seguirlo di nascosto. Fin che si è fanciulli si sente parlar volentieri degli splendidi esempi di virtù che il Salvatore ci ha dato. Ci si accosta frequentemente al sacramento della Penitenza per poter ricevere Gesù nel proprio cuore, e chiedergli la grazia di seguire le sue orme. Ma quando si sono lasciati i banchi della scuola primaria, si trova già un po’ pesante il seguire Gesù. Quando si è avviati alla bottega, allo stabilimento, all’ufficio, invece di seguire Gesù, si seguono coloro che ci circondano, e si prendono le loro abitudini di vita, che, quasi sempre, non sono proprio conformi agli esempi datici da Gesù. Come una lampada brilla sempre meno al nostro sguardo man mano che il giorno si avanza; così, man mano che crescono gli anni, si affievolisce la luce che viene dagli esempi di Gesù, e ci lasciamo abbagliare da altre luci false e nocive. Dobbiamo seguir Gesù non solamente quando siamo soli, ma anche quando siamo in compagnia: non solamente nella vita domestica, ma anche nella vita pubblica. Quando uno è ascritto a una associazione, ma si accontenta di avervi dato solamente il nome, tutt’al più legge al proprio tavolo la relazione di qualche adunanza, a cui non ha partecipato, possiam chiamarlo un cattivo socio. Se tutti fossero come lui, l’associazione dovrebbe sciogliersi. Questo sistema è proprio quello di tanti Cristiani. Seguir Gesù, ma senza disturbarsi, senza dar nell’occhio, senza urtare i sentimenti di coloro che non vogliono sapere di seguirlo. Alla festa dei tabernacoli, i Giudei domandano alle turbe dove si trova Gesù. Tra le turbe è un gran sussurro. «Nessuno, però, parlava di Lui con libertà per paura dei Giudei» (Giov. VII, 13). Tanti Cristiani si trovano indecisi a seguir pubblicamente Gesù con franchezza, per paura di qualche opposizione o di qualche frase. Come sono lontani dalla generosità di S. Ignazio martire, che dichiarava a quei di Efeso: « Nulla vi sia conveniente senza Gesù Cristo, per Lui io porto in giro le mie catene, perle spirituali » (Ep. ad Eph.). Non pensano questi seguaci di Gesù Cristo a metà, che, rifiutandosi di seguirlo apertamente, si rifiutano di seguire un pastore che un giorno potrebbe rinnegarli a sua volta, ed escluderli dal celeste ovile? Se vogliamo seguire Gesù sul serio, non dobbiamo distinguere tra età ed età, tra vita pubblica e vita privata. Dobbiamo seguirlo ovunque, con fermo proponimento, facendo nostre le parole di Rut a Noemi: «Dovunque andrai tu andrò anch’io, e dove starai tu, ivi io pure starò » (Rut. 1, 16).

3.

Per le piaghe di lui siete stati guariti. Qui ci vengono ricordati i dolori di Gesù. I dolori furono il suo retaggio, dalla culla alla croce. E la sorte dei discepoli non dovrà esser diversa da quella del maestro. Le pecore docili seguono il pastore anche pei sentieri stretti e sassosi; e i buoni Cristiani seguono Gesù anche quando c’è da insanguinarsi i piedi. Sarebbe troppo comodo star con Gesù nei momenti della gloria, come durante la trasfigurazione sul Tabor; abbandonarlo nei momenti della tristezza, come durante l’agonia nell’orto. Che giudizio si dovrebbe dare di quei soldati che seguono il loro comandante, che è in testa, quando si tratta di passeggiate piacevoli, e si rifiutano di seguirlo quando si tratta di marce o, peggio ancora, quando si tratta di combattere? Il giudizio è presto dato: sono dei vili che disonorano la loro divisa. I Cristiani sono pure dei soldati. « Sopporta i travagli da buon soldato di Cristo » (2 Tim. II, 3), dice S. Paolo a Timoteo. Quando Gesù Cristo saliva il Calvario, non portava un manto, ma uno straccio di porpora: aveva una corona, ma di spine. Non saliva sopra un carro di trionfo, ma sotto il peso della croce. E la croce è divenuta la divisa del Cristiano. Non è cosa che si possa accettare o respingere a piacimento. Fu assegnata da Gesù Cristo stesso: « Chi vuol venire dietro a me… prenda ogni giorno la sua croce e mi segua » (Luc. IX, 23.). Chi rifiuta di seguir Gesù Cristo sotto la croce, è un soldato vile, che disonora la sua divisa. Il monaco benedettino Maria Gachet, durante la rivoluzione francese, è condotto innanzi alla Commissione rivoluzionaria di Lione. I giudici, che s’intendevano ben poco di carattere sacerdotale, gli chiesero che consegnasse loro gli attestati di sacerdozio. Alla domanda dei giudici repubblicani Gachet risponde francamente: «Che fareste d’un soldato repubblicano, che consegnasse la sua spada la vigilia d’una battaglia? Sarebbe un vile. Non proponetemi una viltà, poiché anch’io sono soldato, soldato di Gesù Cristo, capite?». E il tribunale lo trattò da soldato, condannandolo alla fucilazione, invece che alla ghigliottina (Franc. Rousseau, Moines Bénédictins martyrs et confesseurs de la foi pendant la Révoluction, Paris, 1926, p. 131). Siamo soldati di Gesù Cristo. Ci teniamo a non esser soldati vili? Seguiamolo sempre, seguiamolo ovunque. Seguiamolo se siamo fanciulli, se siamo giovani maturi, se siamo adulti, se siamo vecchi. Seguiamolo soprattutto nelle croci e nelle difficoltà. «Egli camminò per vie aspre — osserva S. Agostino — ma promise grandi cose. Seguilo. Non voler badar unicamente alla via che devi percorrere; ma bada anche al luogo cui devi arrivare; sopporterai gravezze temporali, ma perverrai ai godimenti eterni » (En. 2 in Ps. XXXVI, 16). Tutti abbiam bisogno della misericordia del Signore e « il Signore usa misericordia coi servi suoi, i quali con tutto il cuore seguono le sue vie » (In Paral. VI, 14).

Alleluja

Allelúja, allelúja Luc XXIV: 35.

Cognovérunt discípuli Dóminum Jesum in fractióne panis. Allelúja [I discepoli riconobbero il Signore Gesú alla frazione del pane. Allelúia].

Joannes X: 14. Ego sum pastor bonus: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ. Allelúja. [Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.

Joann X: 11-16.

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis: Ego sum pastor bonus. Bonus pastor ánimam suam dat pro óvibus suis. Mercennárius autem et qui non est pastor, cujus non sunt oves própriæ, videt lupum veniéntem, et dimíttit oves et fugit: et lupus rapit et dispérgit oves: mercennárius autem fugit, quia mercennárius est et non pértinet ad eum de óvibus. Ego sum pastor bonus: et cognósco meas et cognóscunt me meæ. Sicut novit me Pater, et ego agnósco Patrem, et ánimam meam pono pro óvibus meis. Et alias oves hábeo, quæ non sunt ex hoc ovili: et illas opórtet me addúcere, et vocem meam áudient, et fiet unum ovíle et unus pastor”.

OMELIA II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali – SPIEGAZIONE XXIII.S. E. I. Ed. Torino,  1921]

“In quel tempo Gesù disse ai Farisei: Io sono il buon Pastore. Il buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle. Il mercenario poi, o quei che non è pastore, di cui proprie non sono le pecorelle, vede venire il lupo, e lascia lo pecorelle, e fugge; e il lupo rapisce, e disperde le pecorelle: il mercenario fugge, perché è mercenario, e non gli cale delle pecorelle. Io sono il buon Pastore; e conosco le mie, e le mie conoscono me. Come il Padre conosce me, anch’io conosco il Padre: e do la mia vita per le mie pecorelle. E ho dell’altre pecorelle, le quali non sono di questa greggia: anche queste fa d’uopo che io raduni: e ascolteranno la mia voce, e sarà un solo gregge e un solo pastore”. (Jo. X, 11-16).

Il divin Redentore per far vie meglio capire la bontà immensa del suo bellissimo cuore verso le anime di tutti gli uomini, si paragonò un giorno, secondo quel che dice il Vangelo di questa domenica, ad un buon Pastore. Io sono, disse Egli ai Farisei, io sono il buon Pastore. Et reliquia. Quanta tenerezza, o miei cari, sotto queste graziose immagini! Quanti amorevoli ed importanti ammaestramenti! Procuriamo in questa breve spiegazione di rilevarne i più importanti.

1. Ed anzi tutto nostro Signor Gesù Cristo col dirci che Egli è buon pastore, che dà la vita per le sue pecorelle, vuol richiamare alla nostra attenzione l’amore immenso, che ci ha dimostrato nel venire quaggiù a morir per noi, che eravamo come pecorelle perdute a cagione del demonio, lupo infernale. E per intendere l’amore che ci ha portato il Figliuolo di Dio nel venire a nascere e patire per noi sopra di questa terra, basta considerare le parole, che di Lui ha scritte San Paolo: « Il figlio di Dio si è impicciolito prendendo forma di servo, e si è umiliato facendosi obbediente sino alla morte e morte di croce ». Oh quale stupore ha recato e recherà agli Angeli per tutta l’eternità il vedere un Dio per amor dell’uomo farsi uomo e assoggettarsi a tutte le debolezze e patimenti dell’uomo! Quale meraviglia sarebbe vedere un re farsi verme per amore dei vermi? Ma è infinitamente maggior meraviglia il vedere un Dio fatto uomo: e dopo ciò vederlo umiliato sino alla morte così penosa e vituperosa della croce, dove finì la sua sacrosanta vita. Parlando di questa morte i profeti Mosè ed Elia sopra il Tabor, dice il Vangelo che la chiamarono un eccesso. Sì, dice S. Bonaventura, con ragione ella fu chiamata eccesso la morte di Gesù Cristo, perché, oltre all’essere stata un eccesso di dolore, fu pure un eccesso di amore, da non potersi mai credere, se non fosse già avvenuto. Sì, eccesso d’amore, ripiglia S. Agostino, mentre a tal fine il Figlio di Dio volle venire in terra a fare una vita così stentata e una morte così amara per far conoscere all’uomo quanto Egli l’amava. Ed in vero se Gesù Cristo non fosse stato Dio, ma un semplice uomo amico degli uomini, qual maggior amore avrebbe potuto dimostrar loro che morire per essi? E chi erano mai cotesti uomini, per cui sentì una passione d’amore così grande? Erano forse cuori che si disfacevano di amore per Lui? Tutt’altro, pur troppo. Erano infelici, che lo avevano e lo avrebbero offeso, che lo avrebbero insultato, perseguitato, disonorato, maledetto, calunniato, tradito, disconosciuto e maltrattato in mille guise. Sì, è per questi sciagurati suoi nemici, che Egli venne quaggiù a patire e morire sulla croce. Ah! ben a ragione tutto questo ad una S. Maria Maddalena de’ Pazzi pareva una pazzia: ond’ella chiamava il suo Gesù pazzo di amore: Sì, Gesù mio – diceva – tu sei pazzo d’amore. E così appunto i gentili, secondo attesta S. Paolo, sentendo predicare la morte di Gesù Cristo, la stimavano una pazzia da non potersi mai credere. Come mai, essi dicevano, un Dio, che è felicissimo da se stesso, che di nessuno ha bisogno, ha potuto morire per amore degli uomini suoi servi? Ciò sarebbe lo stesso che credere un Dio divenuto pazzo per amore degli uomini. Ma pur è di fede che Gesù Cristo vero Figlio di Dio per amore di noi si è dato alla morte. Epperò aveva ancor ragione la stessa S. Maria Maddalena, piangendo l’ingratitudine degli uomini a questo Dio così amante, di esclamare: « O amore non conosciuto, o amore non amato! » Sì, poiché se Gesù Cristo non è amato dagli uomini, si è perché essi vivono scordati del suo amore. Oh! se un’anima considera un Dio incarnato e morto per suo amore, non può vivere senza amarlo. Ben si sentirà ella infiammare e quasi costringere ad amare un Dio, che tanto l’ha amata. Perciocché poteva Gesù – dice un pio scrittore – redimerci con una sola goccia di sangue, ma Egli ha voluto spendere tutto il sangue e la sua vita divina, acciocché, a vista di tanti dolori e della sua morte, non ci contentassimo d’un semplice amore, ma fossimo dolcemente forzati ad amare con tutte le forze un Dio così innamorato. E ciò che ci deve spingere ognor più ad amarlo, si è che tutto quanto ha fatto e pari: Egli l’ha fatto e patito per ciascuno di noi in particolare, imperciocché, sebbene Gesù nel suo gran Cuore abbracciasse tutti gli uomini del mondo, e per tutti patisse e morisse, tuttavia sì grande, ardente e generoso fu l’amor suo, che Egli avrebbe lasciata la sua vita in croce per ciascuna anima in particolare. Gesù Cristo Figlio di Dio – scrisse S. Paolo – mi amò, e diede se stesso per me. Quindi ognuno di noi può dire al pari dell’Apostolo: Se io non sono ancora nell’inferno, se dei miei peccati ho da Dio il perdono, se cessano i miei rimorsi, se mi ritorna la pace nell’anima, se posso gioire di essere tuttavia erede del Cielo, e se ne andrò un giorno al possesso, tutto ciò io devo al buon Gesù, che tanti beni mi meritò con la sua passione e morte. Questa bontà adunque, questo amore di Gesù Cristo, devono essere per il nostro cuore, dice San Francesco di Sales, come un torchio che lo stringa per forza, e ne sprema, per così dire, l’amore per Lui. Ah! perché, soggiunge lo stesso santo, perché non ci gettiamo sopra di Gesù Crocifisso per morire sulla croce con Lui, che ha voluto morirvi per nostro amore! Come vi appagherò – o amante mio Gesù? – domanda alla sua volta il dottor Sant’Alfonso, mirando il Crocifisso. E così al pensiero dell’amore, dimostrato a noi da Gesù Cristo, tanti altri santi hanno stimato far poco il dar la vita e tutto per un Dio così amante. – Quanti giovani, quanti nobili han lasciate le case e la patria, le lor ricchezze, i parenti e tutto per ritirarsi in un chiostro a vivere al solo amore di Gesù Cristo! Quante verginelle, rinunziando le nozze dei principi e primi grandi del mondo, se ne sono andate giubilando alla morte, per render così qualche ricompensa all’amore di un Dio morto per loro amore e giustiziato in un patibolo infame! E noi, che cosa facciamo noi per corrispondere all’amore immenso di questo divino Pastore, che per noi si è sacrificato? Ah! procuriamo di fare anche noi quello che facevano i Santi. Accendiamoci tutti d’amore per Gesù, che ci ha tanto amati. Solleviamo sovente il pensiero a Lui: riponiamo in esso tutta la nostra speranza e tutta la nostra vita. E Gesù da noi sinceramente amato sarà la nostra salute e la vera felicità.

2. In secondo luogo Gesù Cristo nel Vangelo di questa mattina ci dice che essendo Egli il buon pastore, conosce le sue pecorelle, e le sue pecorelle conoscono Lui presso a poco in quel modo che si conoscono tra di loro Egli ed il suo divin Padre. Con le quali parole nostro Signor Gesù Cristo, in un modo così glorioso per noi, paragonando l’unione di amore, che vi ha tra di Lui e le anime fedeli, a quella stessa unione di amore che havvi tra Lui e il suo celeste Padre, ci fa intendere che Egli conosce benissimo tutte le anime, che gli appartengono, di qualunque età, di qualunque stato, di qualunque luogo esse siano, che tutte da qualunque punto del tempo e del mondo sono presenti al suo cuore ed al suo amore, e che alla lor volta tutte queste anime conoscono Lui, sanno l’amore, che ad esse porta, e vicendevolmente lo amano come loro supremo Pastore.Ma chi sono mai queste pecorelle così fortunate che sono conosciute dal divin Pastore, e lo conoscono? Sono quelle che appartengono al suo ovile, vale a dire alla sua vera Chiesa; sono le anime dei fedeli, che fanno professione della fede e della legge di Gesù Cristo nella ubbidienza a quegli altri pastori legittimi, che Egli pose quaggiù a perpetuare il suo ministero, tra i quali pastori tiene il primo posto il Papa. Ed in vero dopo la sua Risurrezione Gesù Cristo, avendo mangiato con i suoi discepoli per assicurarli ancor meglio della realtà del suo risorgimento, si rivolse a Simon Pietro e gli domandò per tre volte: Simone, mi ami tu più di questi? Pietro, che dopo il fallo della negazione di Cristo era divenuto più modesto, si contentò di rispondere: Signore,Voi sapete che io vi amo. E due volte il Signore gli disse: Pasci i miei agnelli. Ed una terza volta: Pasci le mie pecorelle. Per siffatta guisa nostro Signor Gesù Cristo costituiva San Pietro Principe degli Apostoli, Pastore universale di tutta la Chiesa, conferendogli di fatto quel potere supremo, che già avevagli promesso, e nella persona di S. Pietro tutti quanti i suoi successori, i Romani Pontefici, poiché Gesù Cristo, con la durata perpetua della Chiesa, volendo sino alla consumazione dei secoli trasmettere agli uomini il beneficio della sua Redenzione, volle altresì che sino alla consumazione dei secoli avesse. a durare il primato di Pietro. La Chiesa adunque è la Congregazione dei fedeli Cristiani sparsi per tutto il mondo, che a guisa di un numeroso gregge sono governati da un Pastore supremo, che è il Sommo Pontefice. Ma se ciascun Cristiano dovesse aver direttamente relazione col Vicario di Gesù Cristo, con difficoltà si potrebbero far pervenire a vicenda le proprie parole, e di rado comunicarsi i propri pensieri. Dio però pensò e provvide a tutti i bisogni dell’anima nostra. Ascoltate, è questo uno dei più bei tratti del Cattolicismo. Dio, come dissi, stabilì S. Pietro Capo della Chiesa, e morto Lui, succedettero i Romani Pontefici nel governo della medesima, e si succedettero in modo, che dal regnante Papa ne abbiamo la serie non interrotta fino a S. Pietro, e da S. Pietro abbiamo la serie dei Pontefici uno successore dell’altro, che ci conservarono intatta la santa Religione di Gesù Cristo fino a noi. Gli Apostoli poi esercitarono il loro ministero pastorale d’accordo e dipendenti da S. Pietro. Agli Apostoli succedettero altri pastori e Vescovi, che sempre d’accordo e sempre dipendenti dal Successore di S. Pietro governarono le varie Diocesi della cristianità. I Vescovi accolgono le suppliche, ascoltano la voce lei popoli e ne fanno pervenire i bisogni fino alla persona del supremo Gerarca della Chiesa. Il Papa, secondo il bisogno, comunica i suoi ordini ai Vescovi di tutto il mondo, ed i Vescovi li partecipano ai semplici fedeli Cristiani. Oltre gli Apostoli Gesù Cristo stabilì settantadue discepoli, che mandò in vari paesi a predicare il Vangelo. Gli Apostoli eziandio ordinarono sette diaconi, ed altri ministri che li aiutassero nella predicazione del Vangelo e nell’amministrazione dei Sacramenti. Così ai nostri tempi, oltre il Papa ed i Vescovi, ci sono altri sacri ministri, specialmente i Parrochi, i quali strettamente uniti e d’accordo coi Vescovi aiutano questi nella predicazione e nell’amministrazione dei Sacramenti, li aiutano a mantenere l’unità della fede, e soprattutto a conservare stretta relazione col Capo della Religione, la qual cosa è indispensabile per conoscere l’errore e conservare intatte le verità della fede. Onde noi possiamo dire che i nostri parrochi ci uniscono coi Vescovi, i Vescovi col Papa, il Papa ci unisce con Dio. Di più, i sacri pastori che governano le chiese particolari, essendosi regolarmente succeduti sempre dipendenti dal Papa, sempre insegnando la stessa dottrina, amministrando i medesimi Sacramenti, ne segue anzitutto la certezza che i ministri della Chiesa Cattolica in ogni tempo e in ogni luogo hanno sempre praticata la medesima fede, la medesima legge, i medesimi Sacramenti come furono predicati dagli Apostoli, e come furono istituiti dal nostro Signor Gesù Cristo; e in secondo luogo che tutti coloro, i quali non sono nella professione della fede e della legge di Gesù Cristo sotto l’obbedienza del Papa e di tutti gli altri legittimi pastori, non appartengono affatto all’ovile di Gesù Cristo, né sono pecorelle da Lui riconosciute per sue, e che riconoscano Lui per loro pastore. Ed al questo riflesso non vi è da tremare sapendo il gran numero di coloro, che non sono in grembo della Chiesa Cattolica e perciò tutti fuori di quell’ovile, in cui solo si può trovare salute? Ma noi santamente rallegriamoci, perché Iddio ci abbia chiamati senza alcun nostro merito a far parte di questo suo gregge, che è la Chiesa Cattolica. Siamo a Lui riconoscenti di un benefizio così grande, e dimostriamogli la riconoscenza nostra con l’essere docili alle voci del pastore universale, il Papa, e di tutti gli altri sacri pastori, come le pecore lo debbono essere alla voce del loro pastore. Dio ce li ha dati per nostri maestri nella scienza della Religione; dunque andiamo da essi ad impararla, e non dai maestri mondani. Dio ce li ha dati per guida nel cammino del cielo, dunque seguitiamoli nei loro ammaestramenti. Dio disse ai suoi ministri: « Chi ascolta voi, ascolta me: chi disprezza voi, disprezza me ». Pertanto andiamo volentieri ad ascoltarli nelle prediche, nelle istruzioni, nei catechismi, nelle spiegazioni del Vangelo. Secondiamoli nei consigli che ci danno, quando ci accostiamo ai santi Sacramenti, o quando ci istruiscono per riceverli degnamente; ascoltiamo le loro voci, come se venissero da Gesù Cristo medesimo. Abbiamo ancora per essi un grande rispetto, epperò Dio ci guardi dal disprezzarli con fatti o con parole. Alcuni giovanetti avendo deriso il profeta Eliseo con soprannomi, il Signore li castigò facendo uscire alcuni orsi da una selva, i quali avventandosi sopra quelli, ne sbranarono quarantadue. E così, chi non rispetta il sommo Pontefice, i Vescovi, i Sacerdoti, deve temer gran castigo dal Signore. Fuggite pertanto le compagnie di coloro che sparlano del Papa, o degli altri sacri pastori, e si fanno a deriderli, e compiangete la loro insensatezza, perché forse ne parlano male senza neppur conoscere chi essi sono! Che se vi accadesse di sentir questioni riguardo al Papa, ai Vescovi ed ai Sacerdoti, dite francamente: Io so bene questa verità, che chi sta coi legittimi pastori della Chiesa, sta con Dio, epperò non cerco altro, e mi glorio di essere una loro pecorella e di seguire tutti i loro insegnamenti.

 3. E finalmente il divin Redentore disse: Ed ho delle altre pecorelle, le quali non sono di questa greggia: anche queste fa d’uopo, che io raduni, e ascolteranno la mia voce, e sarà un solo gregge ed un solo pastore. E con queste parole Egli ci spiegò come la sua Chiesa sarebbesi formata non solo dei Giudei, che lo riconobbero per Dio, ma ancora dei Gentili, che si sarebbero a Lui convertiti, ed in seguito di tutti gli eretici e scismatici, i quali abiurati i loro errori sarebbero rientrati a far parte del suo gregge. Il che, come Gesù Cristo predisse, si è perfettamente avverato e si va tuttora avverando. Sì, o miei cari, anche oggidì, non ostante l’apparenza del contrario, sono a migliaia a migliaia le pecorelle che entrano o tornano all’ovile di Gesù Cristo. Per farvene un’idea sappiate che nel secolo XIX testé passato, come risulta da documenti ufficiali e irrefragabili, i progressi del Cattolicesimo furono addirittura enormi. E sommando insieme il numero dei Cattolici che presentemente si trovano in certi paesi ancor dominati dall’eresia e dal paganesimo, come nell’Inghilterra, nella Scozia, nell’Olanda, nella Germania, nella Svizzera, nella Turchia, nella Persia, nella Russia, nell’Africa, nell’Asia, nell’Oceania, negli Stati Uniti, nel Canada, nella Patagonia e in molte altre regioni dell’America, e facendo poi la differenza col numero di Cattolici che vi erano appena in questi Paesi medesimi al principio del secolo XIX, si viene a riconoscere come il numero dei Cattolici è ivi salito nientemeno che a 46 milioni in più. E questa cifra di 46 milioni non è una cifra, che dice eloquentissimamente come, nonostante gli sforzi dei nemici di Dio e della sua Chiesa, il gregge di Gesù Cristo tende sempre più a quell’unità, che Gesù Cristo stesso gli ha predetta? – Tuttavia, perché questo fatto si compia con sempre maggior larghezza, dobbiamo ancor noi far la parte nostra col l’adoperarci volentieri in tutti i modi per noi possibili alla propagazione della fede tra coloro che giacciono ancora nelle tenebre e nell’ombra di morte, ed al ritorno alla Chiesa di Gesù Cristo di quei tanti infelici, che ancor gemono tra gli errori dell’eresia e dello scisma. Tutti gli anni dei sacerdoti coraggiosi danno l’addio a tutto ciò che hanno quaggiù di più caro e partono. Il naviglio che li trasporta, fra mille pericoli, li sbarca sui ghiacci del polo o sotto i fuochi dell’equatore. Là essi sacrificano la loro vita ad evangelizzare quei nostri fratelli, che non conoscono ancor Gesù Cristo, affine di condurli al suo ovile.Or mentre essi fanno tanto, non lasciamo di far noi quel che possiamo. Facciamoci pertanto ascrivere volentieri alle opere della Propagazione della Fede e della santa Infanzia ed adempiamone gli obblighi con impegno; aiutiamo i missionari con le nostre offerte, e sopra tutto preghiamo assai, affinché Iddio nella sua infinita misericordia faccia davvero venir presto il tempo, in cui di tutti quanti gli uomini del mondo si farà un solo gregge sotto l’ubbidienza di un solo Pastore.

Credo

Offertorium

Orémus

Ps LXII:2; LXII:5  Deus, Deus meus, ad te de luce vígilo: et in nómine tuo levábo manus meas, allelúja.

Secreta

Benedictiónem nobis, Dómine, cónferat salutárem sacra semper oblátio: ut, quod agit mystério, virtúte perfíciat. [O Signore, questa sacra offerta ci ottenga sempre una salutare benedizione, affinché quanto essa misticamente compie, effettivamente lo produca].

Communio

Joannes X: 14. Ego sum pastor bonus, allelúja: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ, allelúja, allelúja [Io sono il buon pastore, allelúia: conosco le mie pecore ed esse conoscono me, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Præsta nobis, quaesumus, omnípotens Deus: ut, vivificatiónis tuæ grátiam consequéntes, in tuo semper múnere gloriémur. [Concédici, o Dio onnipotente, che avendo noi conseguito la grazia del tuo alimento vivificante, ci gloriamo sempre del tuo dono.]