EXTRA ECCLESIAM NULLUS OMNINO SALVATUR (3)

EXTRA ECCLESIAM NULLUS OMNINO SALVATUR (3)

IL DOGMA CATTOLICO:

Extra Ecclesiam Nullus Omnino Salvatur

[Michael Müller C. SS. R., 1875]

CAPITOLO I.

Introduzione.

[Uno scrittore anonimo scrive contro fr. Müller a proposito della dottrina di Extra Eccesiam nulla salus]

Nel 1874 abbiamo scritto un piccolo volume dal titolo “Familar Explanation of Christian Doctrine”. La Nostra Madre, la santa Chiesa Cattolica, ha saggiamente decretato che nessun libro che tratti la fede e la morale sia stampato senza l’approvazione del Vescovo della diocesi, e che nessun Vescovo debba dare la sua approvazione prima che il manoscritto sia stato sottoposto al vaglio di un teologo istruito e devoto, in modo che il lettore del libro possa sapere che esso non contenga nulla di contrario alla fede e alla morale. (Vedi Terzo Concilio Plenario di Baltimora, p.100, n. 220.) La Regola dei Padri Redentoristi, inoltre, richiede che un libro scritto da uno di loro debba essere esaminato da due teologi istruiti, prima che sia dato alle stampe. Noi abbiamo sottoposto il nostro piccolo volume al parere del molto istruito Rev. A. Konings, C. SS. R., Professore di teologia morale e di diritto canonico al Collegio Redentorista, Ilchester, Maryland, al defunto Dottore Francis J. Freel, allora amato Pastore della Chiesa di San Carlo Borromeo; Brooklyn, LI, al defunto Rev. Padre M. Sheehan, un dotto prete d’Irlanda, e a James A. McMaster, l’ultimo erudito direttore del New York Freeman’s Journal. Poiché il piccolo libro fu valutato con molto favore, ricevette l’Imprimatur del Rev. J. Roosevelt Bailey, Arcivescovo di Baltimora, e del Reverendo Jos. Helmpraecht, Provinciale della Società Redentorista negli Stati Uniti, e fu pubblicato nel 1875. Il piccolo volume ha avuto un’ampia diffusione durante questi quindici anni. L’anno scorso abbiamo pubblicato, per i tipi della “Benziger Brothers”, una nuova edizione di questo piccolo volume, notevolmente migliorato ed ampliato. – Nel piccolo volume (prima edizione) abbiamo mostrato, da pagina 10 a pagina 86, che solo la Chiesa Cattolica Romana è la vera Chiesa di Cristo sulla terra, istituita per la salvezza dell’umanità, che Essa è l’unica interprete infallibile della Parola di Dio scritta e non scritta, e che di conseguenza tutti coloro che desiderano essere salvati devono morire uniti a questa Chiesa. – Da pagina 87 a pagina 104, (cap. XII) abbiamo dato diversi motivi popolari per cui la salvezza dalla Chiesa Cattolica Romana sia impossibile per coloro che vivono secondo i principi e lo spirito del protestantesimo. Nella seconda parte di questo breve trattato abbiamo parlato di quei protestanti che non sono colpevoli dello spirito del protestantesimo o del “peccato di eresia”. – Il giornale “The Catholic Union and Times of Buffalo”, pubblicato il 26 gennaio 1888, conteneva un articolo anonimo, intitolato “Una strana spiegazione della dottrina cristiana“. Lo scrittore dell’articolo si sforza di provare, estrapolando alcune domande e risposte dalla nostra “Familiar Explanation” che noi abbiamo travisato la Dottrina Cattolica: … “Non c’è salvezza che nella Chiesa Cattolica Romana “, « … dal modo in cui l’articolo è scritto, è evidente che non sia stato scritto da un prete irlandese educato in Irlanda; perché se l’intero articolo fosse posto sotto forma di domande, qualsiasi uomo o donna irlandese confonderebbe lo scrittore di quell’articolo nel modo di rispondere a quelle domande. Lo scrittore è probabilmente un convertito dalla cosiddetta Chiesa episcopaliana, che è stata accolta nella Chiesa, ma senza il dono della fede divina, e di conseguenza non ha compreso né lo spirito della Fede Cattolica né quello del protestantesimo. Se non è questo veramente un tale convertito, allora siatene sicuri: si tratta di un Sacerdote liberale. Egli non fornisce alcuna prova della veridicità delle proprie affermazioni fatte in virtù di una autorità, e questo appare chiaramente dal fatto che non abbia firmato l’articolo, per cui solo per questo, non merita più credito di un libro delle favole. Il fatto che il Rev. Editor della Buffalo Catholic Union and Times (B. U. &T) chiami lo scrittore dell’articolo “il più eminente Sacerdote degli Stati Uniti dimostra la sua mancanza di prudenza, perché nessun uomo ragionevole lo avrebbe definito così; avrebbe potuto dire, ad esempio, “un prete eminente degli Stati Uniti”! Ma ecco l’editoriale: « Il Sacerdote più eminente negli Stati Uniti questa settimana ha onorato le nostre colonne con un articolo su una questione molto importante. La riconosciuta capacità dello scrittore e la recente pubblicità data ai punti in discussione, meritano lo spazio editoriale riservato a questa comunicazione magistrale. Speriamo che i nostri lettori – ed in particolare i nostri stimati lettori protestanti – riservino a questo articolo un’attenta lettura. Noi approviamo ogni sua affermazione e ringraziamo vivamente l’autore per la sua polemica abile e tempestiva ».  – Sembra molto strano definire un prete: … il “Sacerdote più eminente degli Stati Uniti”, senza che se ne riveli al pubblico il suo nome. Il Cardinale Arcivescovo, e tutti gli altri Arcivescovi, i Vescovi e tutti i Sacerdoti, così come pure tutti i Cattolici degli Stati Uniti, lo avrebbero ringraziato per aver fatto loro sapere chi, a suo parere, non solo sia un personaggio importante, ma addirittura il PIU’ EMINENTE Sacerdote negli Stati Uniti. Per brevità, noi lo chiameremo “Signor Oracolo” (S. O.).

Il Rev. Editor e il suo fratello-sacerdote, lo scrittore dell’ “Una strana spiegazione … “, sono perentori e autoreferenziali nel proclamare le loro opinioni errate, come se non avessero nulla da imparare dalla Chiesa ed apprendere dai suoi santi Dottori. A loro si può applicare ciò che san Francesco Saverio scrisse un giorno ad uno dei padri Gesuiti; vale a dire: “Tu, come tanti altri che ti assomigliano, ti sbagli di grosso se pensi di poter seguire le tue opinioni e il tuo giudizio, per il semplice fatto che sei membro della Compagnia”. (Vita di S. Padre Fr. Xav.)  –

“Hai letto per caso nel Buffalo Union and Times, l’articolo “Una strana Spiegazione”? – ho chiesto a un Prete amico – Sì,  l’ho fatto “, egli mi ha risposto. – “E cosa ne pensi?” – “Ho pensato che lo scrittore fosse un propagatore di quanto il cardinale Manning definisce nella sua opera “Il Concilio Vaticano”: « Una scuola di errori sorta in Germania e in parte in Inghilterra, favorita dal contatto con il protestantesimo, nata dall’opinione di coloro che, essendo nati nel protestantesimo, sono entrati nella Chiesa Cattolica, ma non sono in realtà mai stati liberati da certe errate abitudini di pensiero ». – « Che cosa mi consiglia di fare, Reverendo, al proposito? Potrebbe essere bene per me riportare al Signor Oracolo “… gli elogi fatti all’autore di” Familiar Explanation of Christian Doctrine?” – « Sì, infatti – mi dice il Prete amico, non solo questo è un bene, ma penso anche che sia  un dovere per voi farlo a beneficio dei lettori della Buffalo U. & T., alcuni dei quali potrebbero aver acquisito false impressioni, e specialmente i Cattolici liberali, che non hanno mai imparato a sufficienza le ragioni della fede che essi hanno. Quindi, se voi rimanete in silenzio, e omettete di fornire prove forti ed evidenti a favore della dottrina cattolica in questione, i Cattolici, e persino i protestanti che hanno letto l’articolo “La strana Spiegazione… “, in effetti, inizierebbero a dubitare della dottrina da voi esposta, e quello scrittore potrebbe affermare trionfalmente che siete stato messo a tacere dalle asserzioni anonime da lui proposte e pubblicate dal Rev. Editor della “Buffalo U. & T.”, che egli ha condiviso completamente in quell’articolo, sostenendolo spensieratamente in ogni sua affermazione. Dovete quindi, esporre al pubblico la sua teologia contraffatta, contrapponendola ad una teologia solida, spiegata in modo talmente chiaro che anche il più ignorante possa capirla. »  – « Queste osservazioni, secondo voi, dovrebbero essere comunicate al medesimo giornale, al Buffalo U. & T.?” in modo tale che il Buffalo. U. & T. sia obbligato a presentarle a tutti i suoi lettori? ».- « Vedi, io penso che poiché le istruzioni trasmesse mediante un giornale sono facilmente dimenticate e finiscono spesso nel cestino dei rifiuti, vi consiglierei di farle stampare e pubblicare sotto forma di opuscolo, affidandone la diffusione ai ben noti editori della “Publishers, Benziger Brothers”. Se scriverete queste osservazioni e, come tutti i tuoi altri lavori, li farete pubblicare ad un prezzo economico, esse avranno un’ampia diffusione e migliaia di cattolici e di non cattolici li divoreranno e ne trarranno beneficio. Ne potrebbero trarre beneficio anche certi Sacerdoti che sono purtroppo molto spesso ignoranti in questioni di grande importanza, come ignoranti sono coloro che non hanno mai avuto l’opportunità di apprendere una solida teologia cattolica che riguardi certe verità dogmatiche ».  – « Che ci sia questa carenza anche nel clero tedesco è evidente dal fatto che, nel 1886, il Rev. A. Klug aveva pubblicato, in Germania, un nuovo catechismo, in cui asseriva che “i protestanti sono salvati per quelle verità che hanno con noi in comune. Il cardinale Manning dice, sempre nel suo lavoro, “il Concilio Vaticano”, che molti tra il clero sono stati educati a pericolosi errori tradizionali nel corso di duecento anni, fino al tempo del Concilio Vaticano, e che i loro errori erano dovuti al fatto che non avevano mai concepito un’idea chiara e precisa della Chiesa, proprio perché non avevano mai avuto una conoscenza chiara e precisa del potere supremo del suo Capo, per cui, finché ciò non sia chiaramente compreso, la dottrina della Chiesa sarà sempre proporzionalmente oscura; infatti: « … la dottrina della Chiesa non determina la dottrina del Primato, ma la dottrina del Primato determina precisamente la dottrina della Chiesa ».  – « Molti sono ancora impregnati da quegli errori e conservano opinioni errate su certe dottrine cattoliche: sapete, non è un compito facile sbarazzarsi degli errori dell’intelletto e delle opinioni spurie dello spirito. Se voi, quindi, mostrate chiaramente gli errori di questi uomini, otterrete i ringraziamenti della maggior parte del clero e dei laici americani, e anche di molti protestanti onesti, che sono desiderosi di conoscere la vera Religione ».  – « Queste osservazioni dell’amico Sacerdote devoto sono realmente molto corrette. – L’età attuale è completamente assorbita da speculazioni di ogni tipo: politiche, commerciali, letterarie, scientifiche e persino religiose; così che la fonte dalla quale le nuove generazioni dovrebbe trarre una maggiore conoscenza dei propri doveri morali e religiosi è contaminata da un orgoglio invincibile, dal lusso smodato, da una moda ridicola, dall’interesse personale e dall’ignoranza generale circa la dottrina della salvezza. Da qui la tendenza dominante della generazione attuale, che è quella di godere della vita materiale, indulgere alle passioni, gratificare i poteri sensibili e appetitivi e trascurare completamente la cultura religiosa dell’intelletto, del cuore e dell’anima. È, quindi, un dovere indispensabile dei Sacerdoti, dei genitori e di tutti coloro che hanno la direzione spirituale dei giovani e delle famiglie cristiane, comunicare a tutti la sana dottrina cattolica come il grande mezzo per opporsi e curare la lebbra morale dell’età nostra. Questo era l’unico obiettivo che avevamo in mente nel pubblicare i nostri catechismi e le altre opere più impegnative per ogni classe sociale. I dottori ciarlatani in tutte le scienze, i pedanti speculatori nella letteratura, i monopolisti di ogni tipo e gli ipocriti nella Religione e nella politica, sono stati sempre spregevoli in ogni epoca e in ogni nazione e meritano un biasimo universale. Questa linguaggio può solleticare e agitare alcune persone. L’esposizione della Dottrina Cattolica nelle nostre opere più piccole, così come nelle nostre opere più grandi, è “troppo” Cattolica per le coscienze di certi uomini, i quali, a questo proposito, non mancheranno di addossarci le loro critiche rancorose e vendicative con un linguaggio farisaico. Un giorno Sant’Alfonso disse che egli avrebbe potuto sopportare in silenzio ogni offesa fattagli, tranne una sola: quella di essere chiamato “eretico”! Anche noi siamo pronti a sopportare in silenzio tutti gli insulti personali, tranne uno: quello di aver travisato la Dottrina Cattolica in una qualsiasi delle nostre opere. Anche dalla nostra infanzia lo studio della nostra Religione è stato il nostro più grande piacere: lo abbiamo sempre molto amato per travisarne qualsiasi verità. Abbiamo sopportato dolori inenarrabili per renderla chiara ed attraente per tutte le classi sociali, ed anche per i più piccoli. Non abbiamo mai pubblicato una riga che non sia stata letta da eccellenti teologi prima che finisse nelle mani della tipografia. Ecco perché abbiamo sentito il nostro dovere di vendicare, con un linguaggio forte, l’insulto che ci è stato fatto pubblicamente nel “Buffalo U. & T. Ora abbiamo già un piede nella tomba e l’altro lo seguirà presto: Pertanto, non abbiamo alcun motivo per essere vigliacchi nel pubblicare le verità della Religione Cattolica e nell’opporci a princîpi errati. Sarebbe davvero una grande vergogna per noi restarcene in silenzio in una questione della massima importanza. Se ci sono Sacerdoti abbastanza audaci da fare delle affermazioni false e fallaci riguardo alla nostra santa Religione, senza il dovuto rispetto per i Prelati e i Preti colti e devoti, nonché per la stampa cattolica in generale, che, tutti, hanno elogiato le nostre opere, per i loro solidi insegnamenti ortodossi, noi non dobbiamo essere meno audaci nel mostrare al pubblico l’ignoranza di quei Sacerdoti in questioni in cui è in gioco la salvezza delle anime.  – Circa quanto abbiamo scritto sopra, ecco che abbiamo ricevuto anche un’altra copia del “Buffalo Catholic Union and Times”, edita il 22 marzo 1888, in cui è pubblicato un altro articolo intitolato “Have Protestants Divine Faith? (= hanno i protestanti la divina fede?)“. Lo scrittore, questa volta, è il reverendo Alfred Young, un padre paolista di New York. Il nuovo articolo è scritto per corroborare e sostenere almeno una parte di quell’altro scritto e pibblicato in predenza dal “Prete più eminente degli Stati Uniti”. Egli loda il Rev. Padre Cronin per aver pubblicato quell’articolo “La Strana spiegazione… “. Siamo molto dispiaciuti per i gravi errori che questi sacerdoti hanno insegnato al pubblico, non certo intenzionalmente, ma perché non sapevano quello che stavano facendo, esponendo la loro errata dottrina sulla Fede Cattolica e su quella protestante in Cristo, ecc.. Noi seguiremo principalmente la dottrina di San Tommaso d’Aquino e di altri dottori ed eminenti teologi della Chiesa.  – « Quel metodo di insegnamento – dice Papa Leone XIII – che si basa sull’autorità e sul giudizio dei singoli professori, ha una base mutevole, e quindi nascono opinioni diverse e conflittuali che non possono presentare la mente del santo Dottore (Tommaso d’Aquino) e favoriscono i dissidi e le polemiche che hanno agitato le scuole cattoliche per lungo tempo e non senza grave detrimento per la scienza cristiana ». (Breve, 19 giugno 1886). « San Tommaso, infatti, è un dottore saggio, che cammina entro i confini della verità, che non solo non disputa mai con Dio, il Capo e la fonte di ogni verità, ma è sempre strettamente in pieno accordo con Lui, ed è sempre docile a Lui quando svela i suoi segreti in qualsiasi modo; … chi non meno devotamente ascolta il Romano Pontefice quando parla, riverisce in lui l’autorità divina, e sostiene pienamente che la sottomissione al Romano Pontefice è necessaria per la salvezza. (Opusc. Contra errores Græcorum). Seguendo San Tommaso d’Aquino come nostro autore e maestro, insegniamo, senza alcun pericolo di oltrepassare i confini della verità. Ma il raccogliere e spargere opinioni secondo la nostra volontà e a nostro capriccio,   è reputato come la licenziosità più vile, scienza falsa e menzognera, disonore e schiavitù della mente. ” (Encyc., Dic. 21., 1887.)

CAPITOLO II.

L’unica ed infallibile vera guida al cielo.

[La fede esplicita nel Mistero della Santissima Trinità,e nell’Incarnazione del Figlio di Dio,è necessaria per la salvezza, secondol’opinione più comune e vera dei teologi.]

Molti anni fa un famoso architetto ha costruito un magnifico palazzo. Completato il magnifico edificio, lo ha dato ad alcuni amici come loro abitazione. Ma questi si sono presto comportati male e sono diventati uno scandalo per tutto il vicinato. La gente diceva spesso: “Come mai è stato eretto un palazzo così splendido per tali malvagi facinorosi?” Alla fine è arrivato il re che ha preso possesso del palazzo. Ha perdonato ai servi e ha cercato di renderli di nuovo buoni. Allora il popolo disse: “Ora capiamo perché sia stato costruito questo magnifico palazzo, esso era per il re”.  – L’architetto in questa parabola è Dio Padre. Ha costruito un magnifico palazzo: il mondo. Ha posto in esso i suoi amici: Adamo ed Eva. Ben presto questi si sono comportati male; e gli Angeli allora chiesero: “Perché un palazzo così splendido – il mondo – è stato creato per questa gente tanto malvagia?” Finalmente è arrivato il Re, Gesù Cristo. Egli ha perdonato ai servi e ha cercato di renderli di nuovo buoni, e gli Angeli hanno esclamato: “Ora capiamo perché questo grande palazzo – il mondo – sia stato fatto: esso era per Gesù Cristo, il Re del mondo”. Dio ha decretato fin dall’eternità la creazione il mondo come dimora per gli uomini, che, con una vita santa, dovrebbero ottenere una ricompensa eterna. Egli previde sin dall’eternità che gli uomini non sarebbero sopravvissuti fino alla fine della loro creazione. Dio allora sarebbe stato frustrato nel suo disegno, se non avesse decretato già dall’eternità l’Incarnazione per la Redenzione della razza umana. Pertanto, il mondo fu creato principalmente per il bene dell’Uomo-Dio che doveva venire per la giustificazione e la glorificazione dell’uomo.  – Ecco perché san Tommaso d’Aquino dice: Ordo naturæ creatus est et institutus propter ordinem gratiæ. Il fine principale della creazione dell’universo è, in primo luogo, Gesù Cristo, e, in secondo luogo, per gli eletti che possono ricevere così la grazia di Dio attraverso Cristo. Anche se è vero che il mondo esisteva già prima che il Figlio di Dio diventasse uomo, tuttavia, nel piano della creazione e della redenzione, Gesù Cristo era già prima del mondo. Su questo racconto san Paolo chiama Gesù Cristo: il principio, il primogenito dai morti, che, in tutte le cose tiene il primato: perché in Lui è piaciuto al Padre far abitare ogni cosa, e per mezzo di Lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di Lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli. (Coloss, I. 18-20).  – Esiste quindi una certa unione intima tra la creazione del mondo e la natività di Cristo. Dio non ha voluto che Cristo fosse nato fuori da questo mondo; e ancora, Egli non desiderava che questo mondo dovesse esistere senza Gesù Cristo. No, è stato principalmente per Lui, come abbiamo detto, che Dio ha creato il mondo e per suo beneficio l’ha preservato e continuerà a preservarlo fino alla fine dei tempi. – Dio aveva decretato di istituire attraverso di Lui l’ordine della grazia, cioè l’ordine della giustificazione e della glorificazione degli eletti. Come l’artista produce la sua opera secondo la sua concezione e conoscenza, così, anche Dio ha creato l’uomo a sua immagine, poiché è il Figlio suo, la sua eterna Sapienza, il prototipo di tutte le cose. Ora, quando un’opera d’arte viene deteriorata dal tempo o da un incidente, essa viene riportata dalla mano abile dell’artista, al suo stato originale; così, allo stesso modo, sfigurata in Adamo l’immagine di Dio nell’uomo, la sua stessa fonte, il Figlio di Dio, si è fatto uomo per riparare la sua immagine. « … poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’Egli ne è divenuto partecipe, … perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. » (Ebrei II, 14, 17). – Così riceviamo la nostra figliolanza o adozione di figli di Dio da Colui che è il Figlio di Dio per sua natura. « … e se figli, siamo eredi anche di Dio e coeredi con Cristo ». (Rom. VIII 17) Quindi è sempre stato, sin dall’inizio, assolutamente necessario per la salvezza, riconoscere, mediante la fede divina, Dio come Creatore del cielo e della terra e come l’eterno Remuneratore del bene e del male, e l’Incarnazione del Figlio di Dio, di conseguenza: il mistero della Santissima Trinità; « Poiché Colui che viene a Dio – dice San Paolo – deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano ». (Ebr. XI, 6.) Su queste parole del grande Apostolo, Cornelius a Lapide commenta come segue:  « La conoscenza di Dio acquisita dalla contemplazione del mondo, insegna che Dio solo è l’Autore del mondo e di tutte le benedizioni naturali, e che questi beni naturali possano essere ottenuti e chiesti solo a Lui. Ma Dio vuole essere onorato e amato dagli uomini, non solo come l’Autore di beni naturali, ma anche come l’Autore dei beni soprannaturali ed eterni nel mondo a venire, e nessuno può, in nessun altro modo, venire a Lui e alla sua amicizia, piacere a Lui, ed essere a Lui accetto. Quindi è necessaria, la vera fede divina, perché è solo dalla luce della fede divina che noi conosciamo Dio. non solo come l’Autore della natura, ma anche come l’Autore della Grazia e della gloria eterna; pertanto l’Apostolo dice che per sapere che c’è un Dio che premia il bene e punisce i malvagi, bisogna conoscerlo come tale, non solo con la conoscenza e la fede naturali, ma anche con la conoscenza soprannaturale e mediante la fede divina.  – « Ma se San Paolo parla qui solo di queste due grandi verità, non ne segue affatto, che egli desideri insegnare che la conoscenza soprannaturale di queste due sole verità e la fede divina in esse, siano sufficienti per ottenere la giustificazione, cioè, per ottenere la grazia di diventare figli di Dio, ma è necessario, per essere fortemente animati dalla speranza, nel sopportare le dure fatiche e le lotte per la virtù ed ottenere quindi la grazia della giustificazione, credere anche ad altre verità soprannaturali, specialmente al mistero dell’Incarnazione di Cristo e a quello della Santissima Trinità. » (Comm. In Ep. Ad Heb., Ix. 6.)  – « Alcuni teologi – dice Sant’Alfonso – sostengono che il credere degli altri due articoli – l’Incarnazione del Figlio di Dio e la Trinità delle Persone – sia strettamente comandata ma non necessaria, come mezzo senza il quale la salvezza sia impossibile, in modo che una persona incolpevolmente ignorante di queste verità, possa essere salvata; ma secondo l’opinione più comune e più vera, è che la convinzione esplicita di questi articoli sia necessaria come mezzo senza il quale nessun adulto possa essere salvato ». (Primo comand., n. 8.) Secondo Sant’Agostino (De Prædest, Sanctorum C. 15) ed altri teologi, la predestinazione, l’elezione e l’Incarnazione di Cristo erano dovute non al merito previsto di qualcuno, nemmeno a quello di Cristo stesso, ma solo al buon piacere di Dio. Tuttavia, la predestinazione di tutti gli uomini in generale, o l’elezione di alcuni a preferenza degli altri, è dovuta ai meriti di Cristo, a causa del quale Dio ha chiamato tutti gli uomini alla vita eterna e dà loro la grazia sufficiente per ottenerla, se fanno un uso appropriato della sua grazia, e specialmente quella della preghiera.  « … Quella fede – dice lo stesso grande Dottore della Chiesa – solida, con la quale crediamo che né un adulto né un bambino possano essere liberati dal peccato e dalla morte dell’anima, se non da Gesù Cristo, l’unico Mediatore tra Dio e l’uomo. » (Ep. 190, ohm 157, parum a principio.). Quindi san Tommaso dice: « Dio Onnipotente decretò da tutta l’eternità il mistero dell’Incarnazione, affinché gli uomini potessero ottenere la salvezza attraverso Cristo. Era quindi necessario in ogni momento che questo mistero dell’Incarnazione dovesse, in qualche modo, essere esplicitamente creduto. Indubbiamente, questo significa necessariamente che è mediante una verità di fede che l’uomo ottenga la salvezza. Ora gli uomini ottengono la salvezza dal mistero dell’Incarnazione e dalla Passione di Cristo; poiché nella Sacra Scrittura si dice: “Non c’è nessun altro Nome sotto il cielo dato agli uomini per mezzo del quale dobbiamo essere salvati”. (Atti, IV, 10). Quindi era necessario in ogni momento che il mistero dell’Incarnazione di Cristo dovesse essere creduto da tutti gli uomini in qualche modo (aliqualiter, sia implicitamente che esplicitamente), tuttavia, in un modo diverso, secondo le circostanze dei tempi e delle persone. – Prima della caduta, l’uomo credeva esplicitamente all’Incarnazione di Cristo. Ante statum peccati homo habuit esplicitamente fidem de Christi incarnatione, secundum quod ordinabatur ad consummationem gloriæ, non autem secundum quod ordinabatur ad liberationem a peccato per passionem e resurrectionem, quia homo non fuit præscius peccati futuri. E che avesse la conoscenza dell’incarnazione di Cristo sembra derivare dalle sue parole: “Pertanto l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie”. (Gen. XI. 24) E san Paolo chiama questo un grande sacramento in Cristo e nella Chiesa; (Eph. V. 32.) e quindi non si può credere che il primo uomo ignorasse questo Sacramento.  Dopo la caduta dell’uomo, il mistero dell’Incarnazione di Cristo fu creduto esplicitamente, cioè non solo l’Incarnazione stessa, ma anche la Passione e la Risurrezione di Cristo, mediante la quale l’umanità è liberata dal peccato e dalla morte; perché altrimenti non avrebbero potuto prefigurare la Passione di Cristo mediante certi sacrifici offerti prima, così come anche dopo, la Legge Scritta, il cui significato era ben noto a coloro che avevano il dovere di insegnare la Religione di Dio; ma per quanto riguardava il resto del popolo, che credeva che quei sacrifici fossero stati ordinati da Dio per prefigurare Cristo a venire, essi avevano così una fede implicita in Cristo. Come il mistero dell’Incarnazione doveva essere creduto fin dal principio, così anche era necessario credere al mistero della Santissima Trinità; poiché il mistero dell’Incarnazione non può essere creduto esplicitamente senza la fede nella Santissima Trinità, in quanto il mistero dell’Incarnazione insegna che il Figlio di Dio ha preso per sé un corpo e un’anima umana mediante il potere dello Spirito Santo. Quindi, siccome il mistero dell’Incarnazione era esplicitamente creduto dagli insegnanti la Religione, ed implicitamente dal resto del popolo, così, anche, il mistero della Santissima Trinità era esplicitamente creduto dagli insegnanti la Religione e implicitamente dal resto delle persone. Ma nella Nuova Legge deve essere esplicitamente creduto da tutti. » (De Fide, Q II., Art. VII. E VIII.)  – Dio ha rivelato queste grandi verità della salvezza ai nostri progenitori subito dopo la caduta. Conservò la loro conoscenza attraverso i santi Patriarchi e Profeti che, con un linguaggio chiaro, predissero che sarebbe venuto il Redentore, e « sarebbe stato un sacerdote sul suo trono » (Zach. VI. 13), « un sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech » (Psal. XIV, 4), e che Lui stesso sarebbe stata la vittima offerta per i peccati dell’umanità. Da queste grandi verità fondamentali della Religione, comprendiamo facilmente perché San Paolo scrivesse agli Ebrei: « Gesù Cristo ieri, oggi, è lo stesso per sempre » (Ebrei XIII, 8), e « per mezzo di Lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di Lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli. » (Coloss, I. 20).  Il grande Apostolo vuol dire: O Ebrei, Gesù Cristo, l’Uomo-Dio e i Sommi Sacerdoti, erano ieri, cioè, erano nel tempo, prima di voi, dall’inizio. Gesù era la vittima e il Sacerdote prima della Legge, non in persona, ma in figura. Egli era la vittima in figura nell’agnello e degli altri animali che sacerdoti e patriarchi offrivano nei sacrifici. I fedeli adoratori vedevano Cristo in quei sacrifici sia esplicitamente che implicitamente; ed hanno creduto in Lui. Credevano che sarebbe venuto e riscattare il mondo. Con questa conoscenza spirituale condussero le loro vite: così i loro peccati furono perdonati sia per la loro colpa sia per la loro punizione. Il sacrificio di Abele era gradito a Dio, perché nell’agnello che aveva sacrificato non vedeva solo l’agnello, ma invero una vittima migliore – cioè il Salvatore – e credeva in Lui, e quindi Dio aveva riguardo per Abele e la sua offerta; e « Dio Padre – dice sant’Agostino – riconcilia a se stesso, attraverso Cristo, le cose sulla terra e le cose nei cieli, offrendo il perdono a tutti gli uomini, a causa di Cristo, e dando a quelli che si rendono degni di Lui, le sedi di gloria che gli angeli caduti hanno perso ». (Vedi Cornel. A Lap., Epist. Ad Ephes., C. I, da v. 1-10.)  Impariamo anche da Cristo e dalla sua Chiesa, che, come mezzo necessario per la salvezza, è richiesta anche la fede esplicita nei misteri della Santa Trinità e dell’incarnazione del Figlio di Dio.  « Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo » (Giovanni, XVII, 3), perché, dice, « Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me ». Giovanni, XIV, 6.). Ma se un uomo agisce secondo i dettami della sua coscienza e segue esattamente la luce della ragione che Dio ha impiantato in lui a sua guida, non è sufficiente questo a portarlo alla salvezza?  – « Questo è, invero, – dice il vescovo Hay – una proposta speciosa, ma sotto di esso si annida un errore: quando l’uomo fu creato, la sua ragione era una ragione illuminata, illuminata dalla grazia della rettitudine originale, con cui la sua anima era adornata, la ragione e la coscienza erano delle guide sicure per condurlo sulla via della salvezza, ma col peccato questa luce era stata miseramente oscurata e la sua ragione offuscata dall’ignoranza e dall’errore: non era, però, completamente estinta, egli infatti conosce chiaramente molte grandi verità, ma al momento è così influenzato dall’orgoglio, dalle passioni, dai pregiudizi e da altri motivi di corruzione, che in molti casi questo serve solo a confermarlo nell’errore, dando un’apparenza di ragione ai suggerimenti dell’amor proprio e delle passioni. Questo è molto comune anche nelle cose naturali, ma nel soprannaturale, nelle cose relative a Dio e all’eternità, la nostra ragione, se lasciata a se stessa, è miseramente cieca. Per rimediare a ciò, Dio ci ha dato la luce della fede come guida sicura e certa per condurci alla salvezza, nominando la sua santa Chiesa custode e depositaria di questa luce celeste; di conseguenza, sebbene un uomo possa credere di agire secondo ragione e coscienza, e anche illudere se stesso che lo faccia, tuttavia la ragione e la coscienza, se non illuminate e guidate dalla vera fede, non potranno mai portarlo alla salvezza. Nulla può essere più sorprendente delle parole della Sacra Scrittura su questo argomento. « C’è una via – dice l’uomo saggio – che sembra dritta a qualcuno, ma i suoi fini portano alla morte. ” (Prov. XIV. 12.). Nulla può essere più semplice di questo per dimostrare che un uomo possa agire secondo ciò che pensa alla luce della ragione e della coscienza, ben persuaso che stia facendo bene, e tuttavia, in realtà, sta correndo solo sulla via della perdizione! E non è così per tutti quelli che sono sedotti dai falsi profeti e da falsi maestri, pensando di essere nel giusto? Non sono essi sedotti forse con il pretesto di agire secondo coscienza? La bocca della verità stessa ha dichiarato che « … se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadranno nella fossa ». (Matteo XIV, 14). Per mostrarci a quale eccesso di malvagità l’uomo possa giungere con la pretesa di seguire la sua coscienza, la stessa Verità Eterna dice ai suoi apostoli: « Viene l’ora, in cui chiunque vi ucciderà penserà di servire Dio; » (Giovanni XXVI, 2), ma osserva ciò che aggiunge subito dopo: « E queste cose faranno perché non hanno conosciuto né il Padre né me ». (Ib. 3.). Questo dimostra che, se non si ha la vera conoscenza di Dio e di Gesù Cristo, che può essere ottenuta solo attraverso la vera fede nella Chiesa, non c’è enormità di cui non si sia capaci. pensando invece di agire secondo ragione e coscienza: se avessimo solo la luce della ragione a guidarci, saremmo giustificati nel seguirla, ma siccome Dio ci ha dato una guida esterna nella sua santa Chiesa, onde assistere e correggere la nostra ragione cieca alla luce di fede, la nostra sola ragione, non assistita da questa guida, non può mai essere mezzo sufficiente per la salvezza.  – « Niente lo renderà più chiaro di alcuni esempi: la coscienza dice a un pagano che non è solo lecito, ma è un dovere, adorare e offrire sacrifici agli idoli, lavoro delle mani degli uomini: potrà, questo agire secondo la sua coscienza, forse salvarlo? o questa serie di idolatrie saranno innocenti e gradevoli agli occhi di Dio, solo perché sono eseguite secondo coscienza? « … maledetto l’idolo opera di mani e chi lo ha fatto; questi perché lo ha lavorato, quello perché, corruttibile, è detto Dio. Perché sono ugualmente in odio a Dio l’empio e la sua empietà; l’opera e l’artefice saranno ugualmente puniti ». (Sapienza XIV, 8, 10). Inoltre, « … Colui che offre un sacrificio agli dei, oltre al solo Signore, sarà votato allo sterminio ». (Esodo XXII, 20). Allo stesso modo, la coscienza di un ebreo gli dice che può legittimamente e meritoriamente bestemmiare Gesù Cristo e approvare la condotta dei suoi antenati nel metterlo a morte su di un legno. Una simile bestemmia forse lo salverà, perché è secondo i dettami della sua coscienza? Lo Spirito Santo, per bocca di San Paolo, dice: « Se qualcuno non ama nostro Signore Gesù Cristo, sia anatema », cioè “maledetto”. (I. Cor. XVI, 22.) Un maomettano viene edotto dalla sua coscienza che sarebbe un crimine credere in Gesù Cristo e non credere in Maometto, … questa coscienza empia lo salverà? La Scrittura ci assicura che « non c’è nessun altro Nome dato agli uomini sotto il cielo per mezzo del quale possiamo essere salvati, ma solo il Nome di Gesù »; e « … colui che non crede al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimarrà su di lui. » Tutte le varie sette che sono state separate dalla vera Chiesa, in ogni epoca, l’hanno ugualmente calunniata e diffamata, parlando male della verità professata da Essa, credendo nella loro coscienza che questo non fosse solo lecito, ma altamente meritevole: le calunnie contro la Chiesa di Gesù Cristo li salvano a causa dell’approvazione della loro coscienza? La Parola di Dio dichiara: « Che la nazione e il regno che non la serviranno periranno; » e « … ci saranno in mezzo a voi falsi maestri che introdurranno eresie perniciose, rinnegando il Signore che li ha riscattati e attirandosi una pronta rovina. Molti seguiranno le loro dissolutezze e per colpa loro la via della verità sarà coperta di improperi ». (II Pet. II. 1.) In tutti questi casi, e simili, la coscienza è per essi, il crimine più grande, e si dimostra a quale altezza di empietà ci possano condurre la coscienza e la ragione, quando sono sotto l’influenza dell’orgoglio, delle passioni, del pregiudizio e dell’amor proprio. La coscienza e la ragione, quindi, non possono mai essere delle guide sicure per la salvezza, a meno che non siano dirette dalla sacra luce della verità rivelata. » – « Un effetto – dice San Tommaso – non è mai più grande della sua causa, né alcun atto più efficace del potere attivo che lo produce, pertanto il godimento della beatitudine eterna non è nella potenza delle nostre facoltà naturali. Lasciate ai propri poteri, esse possono solo produrre atti conformi alla propria natura e alla propria esistenza, come acquisire l’arte e la scienza, lavorare in qualsiasi occupazione e godere della felicità privata e sociale, ma non possono mai giungere a Dio e possederlo senza l’assistenza soprannaturale: è inutile accordare le corde di un’arpa o di una cetra, esse restano mute fino a quando non vengano messe in movimento dalla mano di un musicista. Una nave viene allestita con i suoi alberi, i cavi e le vele, ed è pronta per navigare, ma necessita di una brezza giusta per poter navigare al largo. nelle profondità. Allo stesso modo le persone, per essere salvate, necessitano che la potente mano di Dio diriga il loro corso verso un altro mondo, onde essere assistite e illuminate nel loro pellegrinaggio. È evidente che il primo passo verso Dio e la salvezza è la conoscenza soprannaturale di Dio e la fede divina nelle quattro grandi verità della salvezza come mezzo preparatorio necessario per ottenere la Grazia della Giustificazione; che né l’ignoranza invincibile delle necessarie verità di salvezza, né la semplice conoscenza di queste verità possa essere un mezzo per trasmettere la Grazia Santificante all’anima: alla conoscenza di quelle verità deve essere unita la Fede Divina Soprannaturale, la speranza fiduciosa nel Redentore, e la Carità Perfetta, che include la perfetta contrizione del peccato ed il desiderio implicito di conformarsi alla volontà di Dio in tutto ciò che Egli richiede all’anima, per essere salvata. – Queste disposizioni dell’anima sono gli effetti della grazia di Dio e non di qualsiasi altra cosa; e l’infusione della grazia santificante nell’anima, che è così preparata, è il dono gratuito concesso dall’infinita misericordia di Dio a causa dei meriti del Redentore.  – San Tommaso pone la domanda: « Gesù Cristo, quando discese nel Limbo, liberò le anime dei bambini che morirono nel peccato originale? » Per capire questo, dobbiamo ricordare un certo principio ed una certa dottrina, vale a dire: non c’è salvezza possibile per nessuno senza essere uniti a Gesù Cristo crocifisso. Quindi il grande apostolo San Paolo dice: «… è Gesù Cristo che Dio ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue » (Rm III, 25.). Ora, quei bambini non erano uniti a Cristo dalla loro stessa fede perché non avevano l’uso della ragione, che è il fondamento della fede; né erano uniti a Cristo dalla fede dei loro genitori, perché la fede dei loro genitori non era sufficiente per la salvezza dei loro figli; né quei figli si unirono a Cristo per mezzo di un Sacramento, perché non c’era alcun Sacramento sotto l’antica legge che avesse di per sé la virtù di conferire o la grazia o la giustificazione. Inoltre, la vita eterna è concessa solo a coloro che sono in stato di grazia santificante. « La grazia di Dio è la vita eterna in Gesù Cristo nostro Signore ». (Rom, VI. 23.) Tutti coloro, dunque, che morirono a qualsiasi età senza Perfetta Carità e Fede nel Redentore venturo, così come coloro che muoiono senza il Sacramento della generazione spirituale dopo la Passione e la Morte di Gesù Cristo, non sono purificati dalla macchia mortale del peccato originale e sono, di conseguenza, esclusi dal regno della gloria eterna ». (De Incarn., Q. III., Art. VII.). Tutto questo è certo anche da ciò che il Concilio di Trento ha definito (Sess. VI, can. 3.) cioè che, senza la conoscenza e la fede soprannaturali, è impossibile adempiere alla Legge di Dio, essere giustificati e diventare accetti a Lui. (Vedi Cornel. A Lap., Comment. in Ep. Ad Rom., C. II.). Quindi la nota a pié pagina, trovata a pagina 230 di “fede cattolica” non è corretta, vale a dire: « Un credente in Dio che, senza alcuna colpa da parte sua, non sa e crede che in Dio ci siano tre Persone divine, è, ciò nonostante, in uno stato di salvezza, secondo l’opinione della maggior parte dei teologi cattolici ». Nessun buon teologo ha mai fatto una simile affermazione. Tutti i buoni teologi non attribuiscono la giustificazione né all’ignoranza incolpevole,  né alla conoscenza delle necessarie verità di salvezza; essi la attribuiscono all’infinita misericordia di Dio, che si unisce all’anima solo quando questa è preparata dagli atti soprannaturali della Fede, della Speranza e della Carità divina. Pertanto, solo un teologo come “Signor Oracolo” (S. O.) potrebbe facilmente appoggiare la suddetta affermazione. – « Le tre virtù teologali – dice san Tommaso – inclinano e preparano l’uomo alla felicità soprannaturale: la ragione riceve le luci soprannaturali mediante la fede, che ci dà una preveggenza della gloria eterna, la volontà tende verso la speranza possibile e raggiungibile; la carità ci unisce a Dio, l’eterna fonte di ogni gioia e felicità ». – « È impossibile – dice O. A. Brownson – fare in modo che Cattolici e non Cattolici capiscano questa grande verità e possano concepire una corretta idea dello spirito e dell’essenza della Religione, a meno che non sia chiaramente dimostrato che la nostra Religione si basi sulla rivelazione divina e sulla tutela di un corpo di uomini divinamente incaricati di insegnare al mondo, autorevolmente e infallibilmente, tutte le sue verità sacre ed immutabili, – verità che tutti gli uomini sono quindi vincolati in coscienza a ricevere senza esitazione. Questo è lo standard fisso della Fede Cattolica. È questa la base su cui poggiano tutti i dogmi. Se questa importantissima verità è ben compresa dai Cattolici, le insidie ​​per intrappolarli possono sì essere molto astutamente disposte, ma essi non saranno facilmente catturati nelle maglie della rete ».  – Né può essere di grande utilità una discussione dei punti dottrinali per chi non è completamente convinto dell’autorità divina della Chiesa: una volta accettata questa, tutto il resto segue logicamente, naturalmente. Quindi nessuno dovrebbe essere ammesso nell’unico ovile di Cristo se non sostenga fermamente e dichiari che la Chiesa Cattolica Romana, governata dai successori di San Pietro, sia l’integra ed unica maestra del Vangelo sulla terra. Per quanto familiari possano essere con le nostre dottrine, o per quanto possano credere ai nostri dogmi, senza professare nel complesso le fondamentali verità della Fede Cattolica, questi non dovrebbero essere autorizzati ad unirsi alla Chiesa. Poiché queste siano comprese e credute fermamente, c’è bisogno di un piccolo ritardo nell’abiura.  La stessa Chiesa ci insegna questa lezione nella sua professione di fede per i convertiti e nel suo rituale. Nella professione di fede che la Chiesa richiede che i convertiti facciano prima di essere ricevuti nella Chiesa, il primo articolo di fede recita come segue: « Io, N. N., avendo davanti ai miei occhi i santi Vangeli che tengo con la mia mano, e sapendo che nessuno possa essere salvato senza quella fede che la santa, cattolica, apostolica, romana Chiesa detiene, crede e insegna, contro cui mi rattristo di aver commesso un grave errore … , etc. » – Quando un bambino viene portato in chiesa per il Battesimo, la prima domanda rivolta al bambino è: “Che cosa chiedi della Chiesa di Dio? ” E la risposta è: “La Fede”. Ciò che dobbiamo credere, etc., è insegnato solo dalla Chiesa Cattolica. Quindi si è un Cattolico, ben istruito, quando alla domanda: « Perché ci credi? » si risponde: « Perché la Chiesa, nostra Madre, crede ed insegna questo ». E .. « da chi la madre tua ha imparato questo?» – « Da Dio. » La Chiesa, quindi, è non un corpo religioso tra i molti; bensì è l’unico corpo religioso, inerente all’ordine divino della creazione e che rappresenta ciò che abbiamo detto sopra. Ciò su cui qui si insiste particolarmente è che, trattando nella Chiesa, le ragioni per le quali la salvezza al di fuori di essa sia impossibile dovrebbero essere chiaramente affermate, specialmente nella nostra epoca, in cui le società segrete stanno facendo tutto il possibile per minare l’autorità divina dell’insegnamento della Chiesa. La lezione, quindi, sulla Chiesa deve essere chiara, solida e profondamente impressa in tutti coloro che desiderano essere salvati; tutti devono imparare e capire che solo la Chiesa Cattolica è Maestra di Dio, e comprendere le ragioni per cui la salvezza fuori da Essa sia impossibile.  – Questa dottrina è chiaramente espressa nelle seguenti parole del Credo atanasiano: « Perciò, chi vuole essere salvato, deve quindi professare la Trinità », cioè deve credere alla dottrina della Santissima Trinità come spiegato in questo Credo. « Inoltre è necessario per la salvezza eterna che si creda pure giustamente all’Incarnazione di nostro Signore Gesù Cristo ». Quindi san Pietro dice: « Sia noto a te, che non c’è salvezza in nessun altro nome oltre a quello di Gesù Cristo; poiché non c’è nessun altro Nome sotto il cielo dato agli uomini per mezzo del quale dobbiamo essere salvati. » (Atti, IV, 10,). « Così, – dice S. Alfonso, – non c’è speranza di salvezza se non nei meriti di Gesù Cristo ». Quindi San Tommaso e tutti i teologi concludono che « … dalla promulgazione del Vangelo, ciò sia necessario non solo come materia di precetto, ma anche come mezzo di salvezza (necessitade medii, senza il quale nessun adulto può essere salvato), a credere esplicitamente che possiamo essere salvati solo attraverso il nostro Redentore. » (Riflessioni sulla Passione di Gesù Cristo, Cap. I, n. 19). L’esplicita fede nei misteri della Santa Trinità e dell’Incarnazione del Figlio di Dio è quindi della massima importanza: questa credenza insegna l’origine del mondo, la sua creazione da parte di Dio Padre, ci insegna il fine soprannaturale dell’uomo, la sua caduta e la redenzione dell’umanità da parte di Dio Figlio, insegna la santificazione delle anime per mezzo dei doni dello Spirito Santo. L’opera che il Redentore ha iniziato nella sua Incarnazione e completata nella sua Passione non è stata ancora stabilita e assicurata; il suo regno non doveva venire tutto in una volta, né il suo dominio stabilirsi immediatamente sulle rovine dell’impero del male. Il numero degli eletti deve essere raccolto da tutte le nazioni e generazioni degli uomini. I meriti della sua Passione devono essere applicati alle anime che Egli ha riscattato attraverso tutte le epoche successive. Questa grande missione è portata avanti attraverso la sua Chiesa, che a Pentecoste, è emersa nella potenza dello Spirito Santo. Attraverso di Essa, nostro Signore continua ad agire nel realizzare i suoi progetti. « La Chiesa, quindi, – come dice il dottor O. A. Brownson, – è inerente all’ordine divino della creazione e della grazia: Dio decretò la sua costituzione e la sua indefettibilità quando decretò l’ordine della creazione e della grazia. » Qualunque cosa sia incompatibile con il suo insegnamento, è incompatibile con il suo ordine divino, sì, con il Divino Essere Stesso. Come senza Dio non c’è nulla, così senza la Chiesa, o al di fuori di Essa, non c’è nessuna Religione, nessuna vita spirituale. Nel migliore dei casi le false religioni non hanno fondamento, non sostengono nulla e non sono nulla, e non possono dare né vita né sostegno all’anima, ma la lasciano fuori dall’ordine divino per farla cadere nell’inferno.  « I Cattolici hanno bisogno di sapere questo e devono essere armati di princîpi e argomentazioni che permettano loro di dimostrarlo contro tutti i detrattori, o, almeno, di consentire loro di difendersi, e di essere sempre in guardia contro le contaminazioni ed i sofismi dei protestanti. ”

EXTRA ECCLESIAM NULLUS OMNINO SALVATUR (2)

IL DOGMA CATTOLICO (2)

Extra Ecclesiam Nullus Omnino Salvatur

[Michael Müller C. SS. R., 1875]

PREFAZIONE

(di lettura indispensabile)

[Qualsiasi dogma non ammette interpretazioni contrarie a quelle che ha ricevuto fin dalle origini]

San Paolo, nella sua epistola a San Timoteo, esclama: “O Timoteo, custodisci il deposito; evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta scienza”. (l. Tim. VI. 20.) – « Chi è attualmente questo Timoteo? – chiede S. Vincenzo di Lerino e risponde – … È il Corpo dei Pastori della Chiesa, e quindi ogni Pastore deve applicare a sé queste parole di San Paolo: O Timoteo, o Pastore, o Dottore, o Sacerdote, “custodisci il deposito” che è affidato alla tua fedeltà, “pura e incontaminata”, lotta sinceramente per la fede, che fu trasmessa ai credenti una volta per tutte” (Giuda, v. 3); mai allontanarsi dalle sacre parole di Dio, « le parole che ti ho messo in bocca non si allontaneranno dalla tua bocca ». (Isai, LIX, 21). « Tu, dunque – dice il vescovo Hay – non devi mai intendere cosa significhi tergiversare nella Religione per compiacere gli uomini, né devi alterare nemmeno una virgola del Vangelo di Cristo. Devi dichiarare le sacre verità rivelate da Gesù Cristo nella loro originale semplicità, senza cercare di adornarle con parole persuasive di saggezza umana, e ancor meno devi mascherarle sotto un abito diverso dal loro: la verità, semplice e disadorna, è l’unica arma che devi impegnare contro i tuoi avversari, a prescindere dalla loro censura o dalla loro approvazione. “Questa è la verità – devi dire – rivelata da Dio, che devi abbracciare, o non potrai avere alcuna parte con Lui”. Se il mondo considera ciò che tu dici come follia, non devi sorprenderti, perché sai che « l’uomo sensuale non comprende le cose che sono dello spirito di Dio, perché è follia per lui e non può capire » (I. Cor. II. 14.); « ma che la follia di Dio è più saggia degli uomini; » e compatendo questa cecità devi pregare ardentemente Dio di illuminarli, « … sii dolce nel riprendere gli oppositori, nella speranza che Dio voglia loro concedere di convertirsi, perché riconoscano la verità » (II Tim. II. 25). – « Se mai vi è stato un momento in cui era particolarmente necessario che ogni Pastore della Chiesa vigilasse sulla purezza della fede e della morale che la Chiesa gli ha affidato, è il tempo e la situazione attuale, in cui, a spese della purezza della fede e della morale cattolica, sono ammesse e concesse tante condiscendenze e complimenti, e la via stretta che conduce alla vita è convertita, secondo l’opinione degli uomini, nella strada larga che porta alla perdizione. »  – « Questa osservazione vale soprattutto per quel principio latitudinario così comune ai giorni nostri, secondo il quale un uomo può essere salvato in qualsiasi religione, purché viva una buona vita morale, secondo la luce che ha, perché, con questo, la fede di Cristo è resa vana, e il Vangelo è inservibile, inutile: un ebreo, un turco, un ateo, sono tutti compresi in questo schema, per cui se vivono una buona vita morale hanno, a buon diritto, la salvezza dei Cristiani!  – « Non è più necessario essere un membro della Chiesa di Cristo, poiché, se conduciamo una buona vita morale, siamo nello stato di salvezza, che apparteniamo o meno a lei! Oh passioni di uomini! Che libertà per tutti i capricci della mente umana! È quindi della massima urgenza affermare e mostrare chiaramente la verità cattolica rivelata che: «non c’è salvezza se non dalla Chiesa cattolica».  – Va ricordato che ogni dogma cattolico è una verità rivelata che è sempre stata tenuta dai Padri della Chiesa sin dalle origini, e deve quindi essere interpretata, non secondo le opinioni moderne e i principi latitudinaristi, ma secondo la fede del Padri e dei dottori della Chiesa; a proposito S. Vincenzo di Lerino dice: « Un vero Cattolico è colui che ama la verità rivelata da Dio, che ama la Chiesa, il Corpo di Cristo, che stima la Religione, la Fede Cattolica, che è superiore a qualsiasi autorità umana, al talento, all’eloquenza, e alla filosofia, cose tutte che tiene in disprezzo, e rimane fermo e incrollabile nella fede che sa essere sempre stata fin dall’inizio professata dalla Chiesa Cattolica, e se si accorge che qualcuno, chiunque esso sia, interpreti un dogma in modo diverso da quello dei Padri della Chiesa, comprende che Dio permette che tale interpretazione sia fatta, non per il bene della Religione, ma come una tentazione, secondo le parole di San Paolo: « … È necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi. » (I Corinzi XI. 19). « E infatti, non appena vengono proclamate nuove opinioni, diventa chiaro che tipo di Cattolico è un uomo: » (Commonit.) Quindi, come dice Sant’Agostino, « un teologo che è umile, non insegnerà mai nulla come vero dottrina cattolica, a meno che non sia perfettamente certo della verità che afferma, e lo provi con la Sacra Scrittura e con la Tradizione della Chiesa ». Coloro che hanno imparato bene la teologia, dice San Basilio, non permetteranno che si tradisca una virgola nei dogmi cattolici e, se necessario, subiranno volentieri qualsiasi tipo di morte per la loro difesa. »  – « Essi propongono ogni dogma, e in particolare il dogma fondamentale, “fuori dalla Chiesa non c’è salvezza, con le parole della Chiesa spiegandolo come Essa lo intende, sono molto attenti a non indebolire minimamente il significato di questo grande dogma, neanche a titolo di proposta o di spiegazione, perché non dice San Paolo che: « … se qualcuno ti predica un Vangelo contrario a quello che ti abbiamo predicato, sia anatema? – dice San Giovanni Crisostomo – è per mostrarci che è maledetto chi indebolisce anche indirettamente le verità minime del Vangelo ». (Cornelio a Lapide in Epist. Ad Gal. I. 8) – « Come, – dice Pio IX – vi è un solo Dio Padre, un solo Cristo Figlio di Lui, un solo Spirito Santo, così vi è una sola verità divinamente rivelata, una sola fede divina, principio d’umana salvezza, fondamento di ogni normativa per la quale il giusto vive, e senza la quale è impossibile piacere a Dio e pervenire alla comunione dei suoi figli (cf. Rm. I, 16-17; Eb. XI, 5); non vi è che una vera, Santa, Cattolica, Apostolica, Romana Chiesa e una sola Cattedra fondata dalla voce del Signore su Pietro, e all’infuori di essa non si trova né la VERA FEDE né la SALUTE ETERNA, in quanto non può avere Dio come Padre chi non ha la Chiesa come madre e assurdamente confida di appartenere alla Chiesa colui che abbandona la Cattedra di Pietro sulla quale è fondata la Chiesa” (“Singulari quidem”, Lettera Enciclica, 17 marzo 1856.) – « Lo Spirito Santo – dice Sant’Agostino – è per il Corpo di Cristo, che è la Chiesa, ciò che l’anima umana è per il corpo umano: è per mezzo dell’anima che ogni membro del corpo vive ed agisce. Allo stesso modo, è per mezzo dello Spirito Santo che l’uomo giusto vive ed agisce; e poiché l’anima non segue un membro che sia tagliato fuori dal corpo, così, allo stesso modo, lo Spirito Santo non segue un membro che sia stato giustamente tagliato fuori dal Corpo di Cristo; colui, pertanto, che desidera ottenere la vita eterna, deve rimanere vivificato dallo Spirito Santo e, per rimanere vivificato dallo Spirito Santo, si deve conservare la carità, amare la verità e desiderare l’unità. » (Serm. 267). « Perciò nessuno può trovare la vita eterna tranne che nella Chiesa Cattolica”. (Serm. Ad Cæsarenses). – « Dove manca l’unità, non può esserci alcuna carità divina, e questo pertanto, è possibile solo nella Chiesa Cattolica ». (Contr. Lit. Petil., Lib. II, Cap. 77). Ora, siccome nessuno può ottenere la salvezza senza avere lo Spirito di Cristo, o la Carità divina, e siccome questo Spirito o virtù divina, che è chiamato l’Anima della Chiesa, è custodito solo nell’unità della Chiesa, è evidente che fuori dalla Chiesa non c’è positivamente alcuna salvezza.  – Va ricordato che ogni dogma è esclusivo e non ammette interpretazioni contrarie a quelle che ha ricevuto già sin dalle origini. Ad ogni dogma, quindi, si può aggiungere quello che Pio IX ha aggiunto nella definizione dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria [Ineffabilis Deus], vale a dire: « Se qualcuno dunque avrà la presunzione di pensare diversamente da quanto è stato da Noi definito (Dio non voglia!), sappia con certezza di aver pronunciato la propria condanna, di aver subito il naufragio nella fede, di essersi separato dall’unità della Chiesa … ».  – « È chiaro, dunque – dice S. Vincenzo di Lerino – che non hanno imparato bene la teologia, la imparino meglio, che provino quindi a capire ogni dogma per quanto possono e credano ciò che non sono in grado di capire … ricordino le parole di San Paolo: « Se qualcuno ti insegnerà qualunque oltre a ciò che hai ricevuto, sia anatema ». (Gal., I. 9.) Dediscant bene quod didicerant non bene et ex toto Ecclesiæ dogmate quod intellectu capi potest capiant, quod non potest credant!  O Timotæ, depositum custodi, devitan prophanas vocum novitates Si quis vobis annuntiaverit.. præterquam quod Acceptistis, anathema sit. (Commonit.). – « È secondo questo spirito cattolico e apostolico che ci siamo sforzati di spiegare la nostra Religione, e specialmente il grande dogma « Fuori dalla Chiesa Cattolica non c’è positivamente salvezza ». Ma la nostra spiegazione, a quanto pare, è “troppo cattolica” per alcune persone, perché noi non avremmo inserita in essa, alcuna opinione moderna né alcun principio latitudinarista. Credendo, quindi, che « avrebbero fatto un servizio a Dio » … e ai loro simili, specialmente ai loro “fratelli separati”, hanno reso noto, attraverso la “Buffalo Catholic Union and Times”, che noi avremmo distorto il Credo Cattolico riguardo al dogma “Fuori della Chiesa non c’è salvezza”.  – Il reverendo George Hay, vescovo di Edimburgo, in Scozia che, quando era ancora protestante, fece il voto di fare tutto il possibile per estirpare il Papismo, scrisse un trattato intitolato “Un’inchiesta se la salvezza possa essere vissuta senza la vera fede e al di fuori della comunione della Chiesa di Cristo. In questo trattato, il pio e molto istruito Prelato della Chiesa, dimostra chiaramente che « fuori dalla vera Chiesa nessuno può essere salvato », e aggiunge « che è solo di recente che questo modo di pensare e di parlare in modo sciolto dalla necessità della vera fede e dalla comunione con la Chiesa di Cristo, è apparso tra i membri della Chiesa, e questo è uno dei motivi più decisi della sua condanna: trattasi pertanto di una novità: questa è una nuova dottrina, inaudita fin dalle origini, anzi direttamente opposta alla dottrina univoca di tutte i grandi “lumi” della Chiesa, di tutte le epoche passate, ed è quindi sorprendente che qualcuno rimetta in questione questo punto dottrinale; ciò può essere giustificato solo dallo spirito generale di dissipazione e dal disprezzo per tutta la Religione che così universalmente prevale al giorno d’oggi, tant’è che i primi autori della cosiddetta riforma, e alcuni dei loro più sinceri seguaci, vedendo le forti prove dalla Scrittura su questo punto, e non trovando il più piccolo fondamento nelle Sacre Scritture che ne sostenesse il contrario, lo hanno solennemente riconosciuto, per quanto sia contro se stessi; nella confessione di fede della Chiesa protestante di Scozia, concordata dai teologi di Westminister, approvata dall’Assemblea generale nell’anno 1646  e ratificata dall’atto del Parlamento nel 1649, nel capitolo sulla Chiesa si dichiara in questi termini che « La Chiesa visibile, che è anche cattolica o universale sotto il Vangelo (non limitata a una nazione, come una volta secondo la legge), consiste di tutti coloro che in tutto il mondo professano la vera religione, e dei loro figli, ed è il regno del Signore Gesù Cristo, la casa e la famiglia di Dio, fuori dalla quale non esiste alcuna possibilità ordinaria di salvezza ». (Confession of Faith cap. XXV.). – “Ed i loro predecessori del secolo precedente, quando la religione presbiteriana iniziava inizialmente a muovere i primi passi in Scozia, parlavano non meno chiaramente sullo stesso argomento, perché nella loro Confessione di fede, autorizzata dal Parlamento nell’anno 1560, come una dottrina fondata sull’infallibile Parola di Dio,  si esprimono così, nell’Articolo XVI: « Come noi crediamo in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, così crediamo costantemente, che fin dall’inizio ci sia stata, ed ora ci sia, e fino alla fine del mondo ci sarà una sola Chiesa, cioè una compagnia ed una moltitudine di uomini, scelti da Dio, che lo adorano con giustizia e lo abbracciano con la vera fede in Gesù Cristo; … questa Chiesa è Cattolica – cioè, universale, perché contiene gli eletti di tutte le età, ecc., e fuori dalla quale Chiesa non c’è né vita né felicità eterna: e quindi aborriamo completamente la bestemmia di coloro che affermano che gli uomini che vivono secondo equità e giustizia possano essere salvati, senza aver mai professato la vera Religione ». Questa confessione originale della Chiesa di Scozia, fu ristampata e pubblicata a Glasgow nell’anno 1771, e da essa è tratto questo passaggio: « … lo stesso Calvino confessa la stessa verità, con queste parole, parlando della Chiesa visibile: “Fuori dal suo seno – egli dice – non è da sperare nessuna remissione dei peccati, nessuna salvezza, secondo Isaia, Gioele ed Ezechiele … così che è sempre altamente pernicioso allontanarsi dalla Chiesa … “; e questo afferma nelle sue stesse istituzioni, B. IV., c: 1, § 4. – Aggiungeremo in più ancora una testimonianza, che è particolarmente forte; è del Dr. Pearson, un vescovo della Chiesa d’Inghilterra, nella sua esposizione del Credo modificata del 1669, dove dice: « La necessità di credere nella Chiesa Cattolica è apparsa in primo luogo, in questo, che Cristo cioè l’abbia nominata come l’unica via per la vita eterna. Leggiamo innanzitutto in Atti II. 47: “… Che il Signore ha aggiunto alla Chiesa quotidianamente quelli che avrebbero dovuto essere salvati:” e ciò che veniva poi fatto quotidianamente è stato fatto poi per sempre. Cristo non ha mai nominato due vie per il Paradiso; né ha costituito una Chiesa per salvarne alcuni, e fatta un’altra istituzione per la salvezza di altri uomini (Atti IV. 10): “… Non c’è nessun altro Nome sotto il cielo dato agli uomini, per mezzo del quale possiamo essere salvati, se non il Nome di Gesù”; e quel nome non è altrimenti dato, sotto il cielo, se non nella Chiesa. Così nessuno fu salvato dal diluvio che non si trovasse nell’arca di Noè, per aver accolto il comando di Dio; così non visse nessuno dei primogeniti egiziani, che non si trovasse in quelle abitazioni i cui stipiti fossero stati cosparsi di sangue, secondo la parola di Dio, per la loro conservazione; nessuno degli abitanti di Gerico poté sfuggire al fuoco o alla spada, se non fosse stato nella casa di Raab, per la cui protezione era stata stipulata un’alleanza; – così NESSUNO sfuggirà mai all’ira eterna di Dio che non appartenga alla Chiesa di Dio ». Guarda fino a che punto la forza della verità prevalse tra i membri più eminenti della Riforma, prima che i princîpi latitudinaristi si insinuassero in mezzo a loro!  – « È vero, infatti, che, sebbene i fondatori di queste Chiese, convinti dalle ripetute ed evidenti testimonianze della Parola di Dio, professassero questa verità e la inserissero nelle costituzioni pubbliche della loro religione, tuttavia la loro posterità ora la disconosce accusando la Chiesa Cattolica di essere poco caritatevole nell’averla conservata, e questo dimostra solo la loro incoerenza, e mostra come essi siano privi di ogni certezza in tutto ciò in cui credono, perché se fosse una verità divina, quando queste religioni furono fondate, quella proposizione “ … fuori della vera Chiesa, e senza la Fede Cattolica, non c’è salvezza”, doveva essere immutabile: e se i loro primi fondatori si sbagliavano su questo punto, quale sicurezza possono avere i loro seguaci circa qualsiasi altro insegnamento? – La Chiesa, sempre coerente ed uniforme nella sua dottrina, sempre conservando le parole che un tempo le sono state messe sulle labbra dal suo Maestro divino, in ogni momento e in ogni tempo ha creduto ed insegnato la stessa identica dottrina come verità rivelata da Dio, e cioè che: « … fuori dalla vera Chiesa di Cristo, e senza la sua vera Fede, non c’è alcuna possibilità di salvezza; » e la testimonianza pubblica più autentica dei suoi nemici, dimostra che questa è la dottrina di Gesù e del suo santo Vangelo, qualunque cosa le persone private, mosse da motivi egoistici e interessati, possano dire in contrario. Qual rimprovero devono ricevere prima del giudizio di Dio, quei membri della Chiesa di Cristo che chiamano in causa o cercano di invalidare questa grande e fondamentale verità, la stessa barriera e il baluardo della vera Religione, verità che è così ripetutamente dichiarata da Dio nelle sue Sacre Scritture, professata dalla Chiesa di Cristo in tutte le epoche, attestata nei termini più forti dai più eminenti “lumi” del Cristianesimo, e candidamente riconosciuta pure dai più famosi scrittori e teologi della Riforma! Ogni tentativo di indebolire l’importanza di questa divina verità, non tradirà il Dio grande, la sua causa e gli interessi della sua santa Fede? … e chi lo farà sarà in grado poi di invocare la ignoranza invincibile, già chiamata prima a propria difesa?  ». (From Sincere Christian, American Edition.). – Ma ascoltiamo un’Autorità superiore che si esprime su questo argomento così importante. Nelle sue lettere encicliche, datate: 8 dicembre 1849; 8 Dic. 1864; e 10 agosto 1863, e nella sua Allocuzione del 9 dicembre 1854, Papa Pio IX. dice:   « Non è senza dolore che abbiamo costatato un altro errore non meno pernicioso, che è stato diffuso in diverse parti dei Paesi Cattolici, ed è stato fatto proprio da molti Cattolici, che sono dell’opinione che tutti coloro che non sono affatto membri della vera Chiesa di Cristo, possano essere salvati: quindi discutono spesso la questione riguardante il futuro destino e la condizione di coloro che muoiono senza aver professato la Fede Cattolica, e danno le ragioni più futili a sostegno della loro cattiva opinione … » – « È davvero di fede che nessuno possa essere salvato al di fuori della Chiesa Apostolica Romana, e che questa sia l’unica arca della salvezza, e colui che non è entrato in essa, perirà nel diluvio … » – « Dobbiamo menzionare e condannare ancora una volta l’errore più pernicioso, che sia stato fatto proprio da alcuni Cattolici, i quali sono dell’opinione che quelle persone che vivono nell’errore e non hanno la vera fede, e siano separati dall’unità cattolica, possano ottenere la vita eterna. Questa opinione in vero, è molto contraria alla fede cattolica, come è evidente dalle semplici parole di Nostro Signore, (Matteo XVIII, 17; Marco XVI, 16; Luca X, 16 – Giovanni III, 18) come anche dalle parole di San Paolo, (II Tim. III. 11) e di San Pietro (II Pietro 1) L’intrattenere opinioni contrarie a questa fede cattolica è essere un empio malvagio. »  – « Pertanto, ripubblichiamo, proscriviamo e condanniamo tutto e tutte queste opinioni e dottrine perverse, ed è nostra assoluta volontà e comando che tutti i figli della Chiesa Cattolica li ritengano come riprovati, proscritti e condannati. È nostro ufficio apostolico risvegliare il vostro zelo episcopale e la vostra vigilanza nel fare tutto ciò che è in vostro potere per bandire dalle menti del popolo opinioni così empie e perniciose, che portano all’indifferenza della Religione e, nel diffondersi sempre di più, alla rovina delle anime Opponete tutta la vostra energia ed il vostro zelo contro questi errori, ed impiegate zelanti Sacerdoti che li mettano in discussione e li annientino, ed imprimano molto profondamente nella mente e nel cuore dei fedeli il grande dogma della nostra santissima religione, che la salvezza si può avere solo nel Fede cattolica. Esortate spesso il clero e i fedeli a rendere grazie a Dio per il grande dono della Fede Cattolica ». – Ora, non è qualcosa di molto scioccante vedere tali errori condannati, e delle opinioni perverse proclamate come dottrina Cattolica da un giornale Cattolico, e da libri scritti e recentemente pubblicati da Cattolici? Abbiamo quindi ritenuto nostro dovere fare una presentazione forte, vigorosa ed intransigente della grande e fondamentale verità, vero recinto e baluardo della vera Religione: “FUORI DELLA CHIESA NON C’È POSITIVAMENTE NESSUNA SALVEZZA”, contro quei Cattolici mollicci, deboli, timidi, liberalizzanti, che lavorano per ammorbidire tutti i punti della Fede Cattolica che sembrano offensivi per i non Cattolici, e per far sembrare che non esistano problemi di vita e di morte, di Paradiso e d’Inferno, e differenze tra noi e i protestanti. – Liberare il prossimo dagli errori religiosi, dice Papa Leone, quando è in tuo potere farlo, è dimostrare a te stesso di non essere in errore, e « quindi – dice Papa Gregorio I – chi ha il dovere di correggere il suo vicino quando si trovi nella colpa, e tuttavia omette di operare tale correzione, si rende colpevole delle colpe del suo prossimo. » – « Effettivamente – dice Papa Innocenzo III di coloro che hanno il dovere di mantenere il deposito della fede puro e incontaminato – … non opporsi ad una dottrina errata è come approvarla, e non difendere per nulla la vera dottrina è come sopprimerla ».

EXTRA ECCLESIAM NULLUS OMININO SALVATUR (1)

EXTRA ECCLESIAM NULLUS OMNINO SALVATUR (1)

IL DOGMA CATTOLICO: Extra Ecclesiam Nullus Omnino Salvatur

[Michael Müller C. SS. R., 1875]

Questa piccola ma preziosissima opera del Sacerdote Redentorista tedesco, stabilito negli Stati Uniti, nasce da una controversia seguita alla pubblicazione su un giornale di Buffalo, di un articolo che pretendeva di dimostrare come l’opera del nostro Redentorista, il compendio catechistico: Explanation of Christian Doctrine, adapted for the family and more advanced students in catholic schools and colleges, No. III; (Spiegazione della Dottrina Cristiana, adattata per la famiglia e gli studenti avanzati delle scuole e collegi cattolici) – [Kreuzur Brothers, 30 North st., Baltimre, MD. – 1874], fosse difettosa e contenesse errori dottrinali, in particolare nei riguardi del dogma cattolico fondamentale: “Nessuno si salva assolutamente fuori dalla Chiesa Cattolica”. Il nostro buon Redentorista, teologo fine formato alla scuola di S. Alfonso M. De’ Liguori, consigliato da un amico sacerdote, difende la sua opera e soprattutto difende, con lume dottrinale rigoroso e coerente, il dogma cattolico che proprio in quegli anni la Santa Sede ribadiva con assoluta fermezza. Abbiamo così ricevuto in eredità uno scritto veramente illuminante, pieno di dottrina e citazioni di passi scritturali, della Tradizione, dei Padri della Chiesa, dell’immancabile San Tommaso, del Magistero della Chiesa. Oggi poi, questo scritto è utile non solo per confutare e persuadere i protestanti “storici”, che all’epoca già infestavano gli Stati Uniti, circa l’assoluta certezza della loro eterna riprovazione e dannazione, ma soprattutto per chiarire ai settari neoprotestanti della “chiesa dell’uomo”, nata dal conciliabolo c. d. Vaticano II, ove sono state ribaltate molte delle definizioni dogmatiche della Chiesa Cattolica, e poste le basi per un totale sovvertimento dottrinale e liturgico operato nel post-concilio dagli antipapi usurpanti la Cattedra di S. Pietro, succeduti fino ad oggi, nonché agli eretici fallibilisti pseudo-tradizionalisti e agli scismatici eretici sedevacantisti, che la loro posizione e sorte nella via eterna, è esattamente identica a quella di chi si trova fuori dalla Chiesa Cattolica (come lo erano allora pagani e protestanti), magari inconsapevolmente, ma in ogni caso colpevoli di ignoranza vincibile, per non avere mai voluto né apprendere, né approfondire la conoscenza della dottrina cristiana. Quindi, aggiungendo ai protestanti ritenuti storici della c. d. riforma, i protestanti della satanica riforma conciliare-montiniana, con gli pseudo-tradizionalisti, ci imbattiamo in un’opera ancor più preziosa ora, inizio del terzo millennio, di quanto lo fosse già all’epoca in cui essa fu concepita e pubblicata. – Lo scritto scorre con chiarezza dottrinale inconfutabile, sostenuta da citazioni opportune – al momento giusto e al posto giusto – fin poi ad arrivare ai toni patetici e quasi comici nei confronti dello scrittore anonimo dell’articolo pubblicato (indicato come “Signor Oracolo, il Prete più eminente degli Stati Uniti”), e del direttore del giornale di Buffalo, oltre che per certi protestanti dell’epoca, autori di scritti simili. Per essere però ancora più esaustivi, abbiamo pensato di iniziare la pubblicazione riportando il capitolo XII dell’“Esplanation…” (opera tra l’altro molto importante, seppur relativamente breve, fatta da domande e risposte, che pensiamo di pubblicare completo nel tempo perché chiarissima ed esaustiva della dottrina cattolica), il capitolo incriminato dal giornale di Buffalo e che ha poi armato la mano e la penna del Reverendo M. Muller nella stesura del “Dogma Cattolico: Extra Ecclesiam nullus omnino salvatur”.

MICHAEL MULLER:

Familiar Explanation of Christian Doctrine adapted for the family and more advanced students in catholic schools and colleges. No. III;

[Published by Kreuzer Brothers, 30 North st., Baltimore, Md., Catholic publication Society, 9 Watrren street, Nez York. Fr. PUSTET, 52 Barclay st. New York. 204 Vine st. Cincinnati. – 1875]

LEZIONE XII

NON C’È SALVEZZA AL DI FUORI DELLA CHIESA CATTOLICA ROMANA.

D. Dal momento che la Chiesa Cattolica Romana è la sola vera Chiesa di Gesù Cristo, chi muore fuori della Chiesa può salvarsi?

R. No, non può.

D. Perché no?

R. Perché uno che non fa la volontà di Dio non può essere salvato.

D. È quindi per volontà di Dio che tutti gli uomini dovrebbero essere Cattolici?

R. Sì; perché è solo nella Chiesa Cattolica Romana che si può conoscere la volontà di Dio, cioè, la dottrina completa di Gesù Cristo, che sola può salvarli.

D. Gesù Cristo stesso ci ha assicurato nel modo più solenne e con parole semplici, che nessuno può essere salvato fuori dalla Chiesa Cattolica Romana?

R. Sì, lo fece quando disse ai suoi Apostoli:

“Andate ed ammaestrate tutte le nazioni, e insegnate loro ad osservare tutte le cose che Io ho comandato. Colui che non crede a tutte queste cose sarà condannato”.

D. Gesù Cristo ci ha assicurato, in altre parole, la dannazione di coloro che muoiono fuori dalla sua Chiesa?

R. Sì, lo ha fatto con queste parole: “Colui che non vuole ascoltare la Chiesa, sia per te come un pagano e un pubblicano. (Matt. XVIII, 17).

D. Puoi fornire ulteriori prove che dimostrino che nessuno possa essere salvato fuori dalla Chiesa Cattolica Romana?

R. Da queste parole di Gesù Cristo: « Vi sono altre pecore che non sono di questo gregge, Io devo portare anche loro, ed esse ascolteranno la mia voce e saranno un solo gregge ed un solo pastore. » (Giovanni X, 16).

D. Come puoi dimostrare da queste parole di nostro Signore, che tutti coloro che desiderano essere salvati devono essere Cattolici romani?

R. Perché in questo passo Egli dichiara chiaramente che tutte quelle pecore che non appartengono al suo gregge (cioè alla sua Chiesa) devono, come condizione necessaria alla loro salvezza, essere portate a quel gregge.

D. Cosa dicono i Padri della Chiesa circa la salvezza di coloro che muoiono fuori dalla Chiesa Cattolica romana?

R. Tutti, senza eccezioni, si pronunciano infallibilmente, che essi andranno persi per sempre.

D. Cosa fecero Sant’Agostino e gli altri Vescovi d’Africa, al Consiglio di Zirta, nel 412 d.C.? ci si parli di loro!

R. « Chiunque – essi dissero – è separato dalla Chiesa Cattolica, quantunque encomiabile possa essere la sua vita, per il fatto stesso di essere separato dall’unione con Cristo, non vedrà la vita, ma su di lui incomberà l’ira di Dio ». (Giovanni III).

D. Cosa ci dice san Cipriano sulla salvezza di quelli che muoiono fuori dalla Chiesa Cattolica?

R. Egli dice questo: « Colui che non ha la Chiesa per sua madre non può avere Dio per  suo Padre; » e con lui i Padri in generale dicono che « … come tutti coloro che non erano nell’arca di Noè sono periti nelle acque del diluvio, così periranno tutti coloro che sono fuori dalla vera Chiesa. »

D. Chi è fuori dall’ambito della Chiesa Cattolica Romana?

R. I non battezzati, i non credenti, gli apostati, gli scomunicati, e tutti gli eretici.

D. Come sappiamo che le persone non battezzate non saranno salvate?

R. Perché Gesù Cristo ha detto: « Se un uomo non rinasce dall’acqua e dallo Spirito Santo, non può entrare nel regno di Dio. (Giovanni III, 5).

D. Come sappiamo che i non credenti non saranno salvi?

R. Perché si dice di loro, che essi non piacciono a Dio: « Senza fede è impossibile piacere a Dio. »

D. Come sappiamo che gli apostati non sono salvati?

A. Perché abbandonare la fede è un grande peccato, che fa perdere il regno del Paradiso.

D. Come sappiamo che le persone giustamente scomunicate, che non sono disposte a fare ciò che è richiesto loro prima di essere assolti, non sono salvati?

R. Perché il peccato di grande scandalo, per il quale erano come membri morti espulsi dalla comunione della Chiesa, li esclude dal regno dei cieli.

D. Qual è il significato della parola eretico?

R. Eretico è una parola greca e significa semplicemente un selezionatore, uno che sceglie.

D. Chi è dunque un eretico?

R. È un battezzato che sceglie tra le dottrine a lui proposte dalla Chiesa Cattolica Romana, quelle che gli sono più gradite, rifiutando le altre.

D. Come sappiamo che gli eretici non vengono salvati?

R. Perché ci assicura San Paolo Apostolo che un tale “selezionatore” o eretico è condannato: « Dopo una o due ammonizioni sta’ lontano da chi è eretico, ben sapendo che è gente ormai fuori strada e che continua a peccare condannandosi da se stessa. » (Tit III. 10, 11).

D. Ci sono ancora altri motivi che dimostrino che gli eretici o i protestanti che muoiono fuori dalla Chiesa cattolica Romana, non sono salvati?

R. Ce ne sono diversi, essi non possono essere salvati, perché:

1. Non hanno la fede divina.

2. Fanno di Gesù Cristo un bugiardo, così come pure dello Spirito Santo e degli Apostoli.

3. Non hanno fede in Cristo.

4. Hanno abbandonato la vera Chiesa di Cristo.

5. Sono troppo orgogliosi per sottomettersi al Papa, il Vicario di Cristo.

6. Non possono eseguire alcuna buona opera per cui possano ottenere il paradiso.

7. Non ricevono il Corpo ed il Sangue di Cristo.

8. Muoiono nei loro peccati.

9. Ridicolizzano e bestemmiano la Madre di Dio e dei suoi Santi.

10. Calunniano la sposa di Gesù Cristo, la Chiesa Cattolica.

D. Perché i protestanti non hanno la fede divina?

A. Perché non credono a Dio in coloro che ha Egli ha nominato per insegnare.

D. Chi è l’insegnante tra i protestanti?

A. Ciascuno di loro è insegnante, legislatore e giudice di se stesso in materia di religione.

D. C’è sempre stato un momento in cui Dio ha lasciato gli uomini a se stessi, per adattare a sé la propria religione, per inventare il loro credo personale e la stessa loro personale forma di culto?

A. No; fin dall’inizio del mondo Dio ha stabilito sulla terra per insegnamento, una autorità visibile, a cui era un dovere per ogni uomo sottomettersi.

D. Da questo cosa deriva?

A. Il protestante, rifiutando di prestare obbedienza a quella autorità istituita per l’insegnamento divino, non può avere la fede divina.

D. Qual è l’atto di fede di un protestante?

A. O mio Dio, io non credo a niente, tranne a quello che il mio giudizio privato mi dice di voler credere; quindi credo di poter interpretare la tua parola scritta: le Sacre Scritture; così come scelgo di credere che il Papa sia l’anticristo; che ogni uomo possa essere salvato, a condizione che sia un uomo onesto; credo che la sola fede sia sufficiente per la salvezza, mentre non siano necessarie le buone opere, né le pratiche di penitenza, né  la confessione dei peccati, ecc.

D. È questo un atto di fede divina?

R. È piuttosto una grande bestemmia contro Dio; è la lingua di Lutero, che, secondo la sua stessa confessione, l’ha appresa dal diavolo.

D. Ma se un protestante dovesse dire: “Io non ho niente a che fare con Lutero, o Calvino, o Enrico VIII, o John Knox, io attingo direttamente dalla Bibbia … » cosa gli si potrebbe rispondere?

R. In tal caso tu adotti e cadi nei principi e nello spirito di questi uomini, perché  cambiano la Parola di Dio scritta, nella parola d’uomo.

D. In che modo?

R. Perché ogni protestante interpreta la Sacra Scrittura a modo suo, dandole quel significato che ritiene opportuno darle, e quindi, invece di credere alla Parola di Dio, crede piuttosto alla interpretazione privata di essa, che è invece la parola d’uomo.

D. Ora, cos’è l’uomo senza la fede divina?

R. Un tale uomo è un profano e privo di tutta la Religione; e per aver rifiutato ogni obbedienza al suo Sovrano Signore, non godrà mai della sua presenza, né vedrà chiaramente ciò che non sia disposto a credere umilmente.

D. Come fanno i protestanti a fare di Gesù Cristo un bugiardo?

R. – Gesù Cristo dice: “Ascolta la Chiesa”.

No – dice Lutero e tutti i protestanti – Non ascoltare la Chiesa, ma protesta contro di Essa con tutta la tua forza.”

– Gesù Cristo dice: “Se qualcuno non vorrà ascoltare la Chiesa, consideralo come un pagano e un pubblicano.”

No – dice il protestantesimo – se qualcuno non ascolta la Chiesa, consideralo come un apostolo, come un ambasciatore di Dio “.

– Gesù Cristo dice: “Le porte dell’inferno non prevarranno contro la mia Chiesa” –

No – dice il Protestantesimo – Questo è falso, le porte dell’inferno hanno già prevalso contro la Chiesa già da mille anni e più!”

– Gesù Cristo ha dichiarato San Pietro e ogni successore di San Pietro – il Papa – essere il suo Vicario sulla terra. “

No – dice il protestantesimo – il papa è l’anti-Cristo”.

– Gesù Cristo dice: “Il mio giogo è dolce, e il mio carico leggero.” (Matt. XI. 30).”

No – dissero Lutero e Calvino – è impossibile osservare i comandamenti.”

– Gesù Cristo dice: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. (Matt. XIX, 17). “

No – dissero Lutero e Calvino – la fede da sola, senza le buone opere, è sufficiente per entrare nella vita eterna.”

– Gesù Cristo dice: “Se non fate penitenza, morirete tutti allo stesso modo”. (Luca III, 3).”

No – dissero Lutero e Calvino – i digiuni e le altre opere di penitenza, non sono necessarie come soddisfazione per il peccato. “

– Gesù Cristo dice: “Questo è il mio corpo”.

No – disse Calvino – questa è solo la figura del Corpo di Cristo, che diventerà il suo Corpo non appena lo si riceverà.”

– Gesù Cristo dice: “Io vi dico che chiunque ripudia la propria moglie, e ne sposa un’altra, commette adulterio; e colui che sposerà colei che è stata ripudiata, commette  adulterio. “Matt. XIX. 9.”

No – dicono Lutero e tutti i protestanti a un uomo sposato – puoi ripudiare tua moglie, divorziare, e sposarne un’altra.”

– Gesù Cristo dice ad ogni uomo: “Non rubare.” – “No – dice Lutero ai principi secolari – vi do il diritto di appropriarvi di tutte le proprietà della Chiesa Cattolica Romana.”

D. Come fanno i protestanti a fare dello Spirito Santo un bugiardo?

R. Lo Spirito Santo dice nella Sacra Scrittura: “L’uomo non conosce né l’amore né l’odio;” (Eccles, IX 1); – “Chi può dire: Ho purificato il cuore, sono mondo dal mio peccato?” (Prov. XX, 9); e ” … opera la tua salvezza con timore e tremore” (Filipp., II, 12). –

No – dissero Lutero e Calvino, – chiunque crede in Gesù Cristo, è nello stato di grazia.”

D. Come fanno i protestanti a fare dei bugiardi gli Apostoli?

R. San Paolo dice: “Se avessi la fede, in modo da poter smuovere le montagne e non avessi la carità, non sono nulla. “1 ​​Cor. XIII.”

No – dissero Lutero e Calvino, – la sola fede è sufficiente a salvarci.”

– San Pietro dice che nelle Epistole di San Paolo ci sono molte cose “… difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina.” (2 Piet. III, 16).”

No – dissero Lutero e Calvino – le Scritture sono molto semplici e facili da capire.”

– San Giacomo dice: “C’è qualche malato tra voi? Lasciate che lo si porti ai preti della Chiesa, e che preghino su di lui, ungendolo con olio, nel nome del Signore.” (Giac., V, 14). “

No – dissero Lutero e Calvino – questa è una cerimonia inutile.”

D. Ora, pensi che Dio Padre ammetterà in Cielo coloro che credono bugiardi suo Figlio Gesù Cristo, lo Spirito Santo e gli Apostoli?

R. No; Egli lascerà che essi abbiano la loro parte e la sorte di Lucifero, che per primo si ribellò contro Cristo, egli che è il padre dei menzogneri.

D. I protestanti hanno una qualche fede in Cristo?

R. No, non ne hanno mai avuta.

D. Perché no?

R. Perché non è mai vissuto un Cristo simile a quello che essi immaginano e credono.

D. E in qual tipo di Cristo credono?

R. In un “tale” che essi possono considerare impunemente un bugiardo, di cui possono interpretare la dottrina come meglio credono, perché, secondo loro, non importa ciò che un uomo crede, purché appaia un uomo onesto in pubblico.

D. Tale fede in questo tipo di Cristo, salverà i Protestanti?

R. Nessun uomo ragionevole asserirà mai una simile assurdità.

D. Cosa dirà loro Cristo nel giorno del giudizio?

R. Io non ti conosco, perché tu non mi hai mai conosciuto.

D. Potrà mai essere salvato colui che ha lasciato la vera Chiesa di Cristo, cioè la Santa Chiesa Cattolica?

R. No; perché la Chiesa di Cristo è il Regno di Dio sulla terra e colui che la lascia, si chiude da sé  il regno di Cristo in cielo.

D. I protestanti hanno lasciato la vera Chiesa di Cristo?

R. Essi hanno, tra i loro fondatori, chi se ne andò dalla Chiesa Cattolica per orgoglio o a causa di passioni come la lussuria e la cupidigia.

D. Chi furono i primi protestanti?

R. – 1. Martin Lutero, un cattivo prete tedesco, che lasciò il suo convento, infranse i voti solenni di povertà, castità ed obbedienza, che egli aveva fatto a Dio, sposò una suora, e divenne il fondatore dei luterani.

2. – Enrico VIII, un cattivo re cattolico di Inghilterra, che uccise le sue mogli fondando la chiesa episcopale o anglicana.

3. – Giovanni Calvino, un cattivo cattolico francese, fondatore dei calvinisti.

4. – John Knox, un cattivo prete scozzese, che è il fondatore dei Presbiteriani o puritani.

D. Che grande crimine hanno commesso tutti questi uomini malvagi?

R. Essi si sono ribellati alla Chiesa di Gesù Cristo, e hanno condotto  un gran numero di loro connazionali Cattolici a seguire il loro cattivo esempio.

D. Quale sarà la punizione di coloro che si ribellano volontariamente alla Santa Chiesa Cattolica?

R. Quella di lucifero e degli l’altri angeli ribelli, essi cioè saranno gettati per l’eternità nelle fiamme dell’inferno.

D. Chi ci ha assicurato questo?

R. Gesù Cristo stesso, il Figlio di Dio.

D. Quali sono le sue parole?

R. “Colui che non ascolterà la Chiesa, sia per te come un pagano e un pubblicano.” (Matt. XVIII, 17).

D. Cosa ci dice Gesù Cristo in queste parole?

R. Ci dice chiaramente che chi è fuori dalla sua Chiesa, e non obbedisce, è da Lui stesso considerato come un pagano e un pubblicano.

D. Cosa ne consegue da questo?

R. Ne consegue che, siccome i pagani sono dannati, saranno dannati pure tutti coloro  che muoiono fuori dalla Chiesa di Gesù Cristo.

D. Si può salvare un uomo che sia troppo orgoglioso per presentarsi al Capo della Chiesa di Cristo, disprezzando Gesù Cristo nel suo rappresentante, il Papa?

R. No non può; perché Gesù Cristo dice: “Colui che disprezza te (gli Apostoli e i loro successori) disprezza me!

D. I protestanti disprezzano Gesù Cristo nella persona di San Pietro e dei suoi successori?

R. Si, essi lo fanno; perché Lutero insegnò loro che chi non si oppone all’autorità del Papa, non può essere salvato. (1 Vol. Germ. Edit. f. 353).

D. Pensi tu che Cristo possa ammettere in Paradiso colui dal quale sia disprezzato?

R. No, questo è impossibile, e di questa verità parla infatti San Paolo quando dice: ” … poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. E quelli che vi si oppongono si attireranno addosso la condanna.” (Rom. XIII, 1, 2).

D. Qualcuno può entrare nel Regno del Paradiso senza buone opere?

R. No.

D. Come lo sappiamo?

R. Perché l’ultimo giorno del giudizio, Cristo dirà ai malvagi: « Partitevi da me, maledetti, nel fuoco eterno. Perché avevo fame e non mi avete dato da mangiare, avevo sete e non mi avete dato da bere. » (Matt, XXV, 41- 42).

D. I protestanti non fanno buone opere? 

R. Si,  molti di loro le fanno.

D. Saranno salvati per queste loro buone opere?

R. In nessun modo; perché le opere, seppur buone di per sé, ma eseguite al di fuori della Chiesa fondata da Gesù Cristo, non sono accompagnate e vivificate dalla fede divina, senza la quale è impossibile piacere a Dio, e, quindi, poiché non sono dentro di Essa, non possono meritare le gioie eterne del Cielo. Come la fede senza le opere è morta, così pure le opere senza la fede sono morte e non possono salvare dalla dannazione colui che le compie.

D. Cosa dice Gesù Cristo di coloro che non ricevono il suo Corpo e il suo Sangue?

 R. Se non mangi la carne del Figlio dell’uomo e non bevi il suo Sangue, non avrai la vita in te (Giovanni VI, 54).

D. I protestanti ricevono il Corpo e il Sangue di nostro Signore?

R. No, perché i loro ministri non sono sacerdoti e di conseguenza non hanno alcun potere da Gesù Cristo per dire Messa, nella quale, mediante le parole della Consacrazione, il pane ed il vino vengono cambiati in Corpo e Sangue di Cristo.

D. Cosa ne deriva da questo?

R. Che essi non entreranno nella vita eterna, e meritatamente, perché hanno abolito il santo Sacrificio della Messa.

D. Qual è stata la conseguenza dell’abolizione della Messa?

A. Abolendo la Messa, (come ha fatto l’eresiarca G. B. Montini nei tempi moderni, sostituendola con il rito sacrilego del N. O. – ndt. -), essi hanno rubato a Dio Padre l’infinito onore che Gesù Cristo gli rende in essa, e a se stessi tutte le benedizioni che Gesù Cristo conferisce a coloro che assistono a questo santo Sacrificio con fede e devozione. « … Così il peccato di quei giovani (i figli di Eli) era molto grande davanti al Signore perché avevano allontanato gli uomini dal sacrificio del Signore.” (1 Re II. 17).

Q. Credi che Dio Padre ammetterà in cielo questi rapinatori del Suo infinito onore?

R. No certamente; perché se sono dannati coloro che rubano i beni temporali del loro prossimo, quanto più saranno dannati quelli che privano Dio del suo infinito onore ed i loro simili delle infinite benedizioni spirituali della Messa.

D. Può essere salvato un uomo che muore in uno stato di peccato mortale?

R. No, non può; perché Dio non può unire se stesso ad un’anima in cielo che, per il peccato mortale, è un suo nemico.

D. I protestanti commettono inoltre altri peccati mortali oltre a quelli sopra menzionati?

A. Si, moltissimi, altri.

D. Come lo provi?

R. Se è un peccato mortale per un Cattolico Romano dubitare intenzionalmente anche di un solo suo articolo di fede, è anche e più sicuramente, un peccato mortale per i protestanti, negare volontariamente non solo una verità, ma quasi tutte le verità rivelate da Gesù Cristo.

D. Muoiono nei peccati di apostasia, di blasfemia, calunnia, ecc.?

R. Si è così, tutti loro muoiono in peccato mortale perché, avendo offeso gravemente l’Onnipotente Dio, non sono disposti a confessare i loro peccati.

D. Come lo sappiamo?

R. Perché Gesù Cristo ci assicura che quei peccati che non sono perdonati dai suoi Apostoli e dai loro successori, per mezzo della Confessione, non saranno perdonati. “Di chi riterrai i peccati, a questi sono ritenuti.” (Giovanni XX, 22, 23).

D. I protestanti sono disposti a confessare i loro peccati ad un Vescovo o ad un Sacerdote cattolico, che unicamente ha il potere da Cristo  di perdonare i peccati? “… a chi perdonerete i peccati, a questi saranno perdonati”.

R. No, perché generalmente essi hanno una totale avversione alla Confessione, e quindi i loro peccati non saranno perdonati per tutta l’eternità.

D. Cosa implica questo?

R. Che essi muoiono nei loro peccati, e pertanto sono dannati.

D. Se qualcuno ama Dio, amerà anche la Madre di Dio e tutti i suoi Santi?

R. Si, lo farà, senza dubbio.

D. I protestanti amano la Madre di Dio e i Santi?

R. No, essi non lo fanno, anzi ridicolizzano e bestemmiano la Madre di Dio e i Santi!

D. Da questo cosa ne scaturisce?

R. Che i protestanti non saranno mai ammessi alla compagnia dei Santi in cielo, che essi hanno ridicolizzato e bestemmiato in terra.

D. Un grande re di questo mondo punirebbe molto severamente qualcuno che calunni la regina?

A. Si, certo lo farebbe.

D. La Chiesa Cattolica è la sposa di Gesù Cristo, il Re del cielo e della terra?

A. Essa lo è, e San Paolo ci assicura che Gesù Cristo ama la sua Chiesa e che “ha dato se stesso per Essa, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata.” (Ef. V. 25-27).

D. I protestanti hanno mai cessato di calunniarla?

R. No, mai!

D. Come essi calunniano lo Sposa di Gesù Cristo?

R. Il libro protestante episcopaliano delle omelie, ad esempio, dice: “Laici e clero, dotti ed ignoranti, tutte le età e i gradi degli uomini, donne e bambini di tutta la cristianità, erano annegati in un’abominevole idolatria.”

D. L’idolatria è un peccato grave?

R. È uno dei peccati più gravi che possano essere commessi.

D. I protestanti potrebbero mai dimostrare che  la Chiesa Cattolica, la Sposa di Cristo, sia divenuta colpevole di questo peccato?

R. No mai; al contrario, tutti sanno che la Chiesa Cattolica ha abolito l’idolatria e l’ha sempre tenuta in abominio.

D. Cosa ne deriva da ciò?

A. Che i protestanti commettono un grande peccato di calunnia contro le Sposa di Cristo.

D. Possono commettere questo grande peccato senza accusare Gesù Cristo e nello stesso tempo abbandonando quella gloriosa Sposa, che Egli ama così ardentemente?

R. No, non lo possono.

D. Cosa ne consegue?

R. Che Gesù Cristo farà vendetta  prima o poi sui protestanti per avere essi commesso questi peccati di orrenda bestemmia e di calunnia.

D. Ma non è questa una dottrina molto poco caritatevole, il dire cioè che nessuno possa essere salvato fuori dalla Chiesa?

R. Al contrario, affermare questa dottrina nel modo più enfatico, è anzi un grande atto di carità 

D. Perché mai?

R. Perché Gesù Cristo stesso e i suoi Apostoli l’hanno insegnata con un linguaggio molto semplice.

D. Non è una grande carità avvertire il prossimo quando è in pericolo di cadere in un profondo abisso?

R. Certo lo è, davvero.

D. Non lo è per tutti quelli che, fuori dalla Chiesa, sono in grande pericolo di cadere nell’abisso dell’inferno?

R. Si, lo è!

D. Non è, quindi, una grande carità avvertirli di questo pericolo?

R. Anzi, sarebbe una grande crudeltà non farlo.

D. Quelli che sono fuori dalla Chiesa sono tutti allo stesso modo colpevoli e condannabili davanti a Dio?

R. No; alcuni sono più colpevoli di altri.

D. Chi sono i meno colpevoli e condannabili?

A. Coloro che, senza alcuna loro colpa, non conoscono affatto Gesù Cristo o la sua dottrina.

D. Chi sono invece i più colpevoli e quindi condannati?

A. Coloro che riconoscono che la Chiesa Cattolica sia l’unica vera Chiesa, ma non ne hanno abbracciato la fede, così come pure coloro che, pur potendo riconoscerla se l’avessero ricercata con sincerità, a causa dell’indifferenza ed altri colpevoli motivi, hanno trascurando di farlo.

D. Cosa dobbiamo pensare della salvezza di quelli che sono fuori dall’ovile della Chiesa senza nessuna loro colpa e di chi non ha mai avuto alcuna opportunità di conoscerla meglio?

R. La loro ignoranza incolpevole non li salverà; ma se temono Dio e vivono secondo la loro coscienza, Dio, nella sua infinita misericordia, fornirà loro i mezzi necessari alla salvezza, anche inviando loro, se necessario, un Angelo per istruirli nella fede cattolica, piuttosto che lasciarli perire a causa della loro ignoranza invincibile.

D. È giusto per noi dire che chi non sia entrato nella Chiesa prima della sua morte, sia dannato?

R. No.

D. Perché no?

R. Perché noi non possiamo sapere per certo ciò che avviene tra Dio e l’anima nel terribile momento della morte.

D. Cosa intendi dire con questo?

A. Intendo dire che Dio, nella Sua infinita misericordia, può illuminare, nell’ora della morte, colui che non è ancora Cattolico, in modo che possa vedere la verità della fede cattolica, e sia veramente contrito per i suoi peccati, desiderando sinceramente morire da buon Cattolico.

D. Cosa diciamo di coloro che ricevono tale grazia straordinaria, e muoiono in questo modo?

R. Diciamo di loro che muoiono uniti, almeno all’anima della Chiesa Cattolica, e quindi sono salvati.

D. Cosa attende quindi, tutti quelli che sono fuori dalla Chiesa Cattolica, e muoiono senza aver ricevuto una grazia così straordinaria nell’ora della morte?

A. La dannazione eterna, è cosa certa, come è certo che c’è Dio.

D. Ma non ci sono molti che perderebbero gli affetti dei loro amici, le loro case confortevoli, i loro beni temporali, le prospettive negli affari, diventando Cattolici? Gesù-Cristo non li scuserebbe in queste circostanze del non diventare Cattolici?

A. Per quanto riguarda gli affetti degli amici, Gesù Cristo ha dichiarato solennemente: “Colui che ama il padre o la madre più di me, non è degno di me; e colui che ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me” (Matt., X. 37); e per quanto riguarda la perdita di guadagni temporali, Egli ha risposto: “Che cosa servirà ad un uomo guadagnare il mondo intero se soffrirà la perdita della sua anima?” (Marco VIII. 36).

D. Ma non sarebbe sufficiente per una persona essere Cattolico solo nel cuore, senza professare la sua Religione pubblicamente?

R. No; perché Gesù Cristo ha dichiarato solennemente questo: “… Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell’uomo, quando verrà nella gloria sua e del Padre e degli Angeli santi.” (Luca IX. 26).

D. Ma non si potrebbe rimandare in modo sicuro l’essere ricevuto nella Chiesa fino all’ora della morte?

R. Questo sarebbe abusare della misericordia di Dio.

D. Quale potrebbe essere la punizione per questo peccato?

R. Perdere la luce e la grazia della fede, e morire da riprovato.

D. Cos’altro impedisce a molti di diventare Cattolici?

R. Si tratta in verità di questo: essi sanno molto bene che, se diventano Cattolici, devono condurre una vita onesta e sobria, essere puri, evitare i loro peccati, dominare le passioni, e questo essi non lo vogliono fare. “Gli uomini amano le tenebre anziché la luce – dice Gesù Cristo – perché le loro azioni sono malvagie. E “… Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”.

D. Cosa consegue da ciò che è stato detto sulla salvezza che si ottiene solo nella Chiesa Cattolica Romana?

A. Che è molto empio pensare e dire che importa poco che un uomo creda, purché sia ​​un uomo onesto.

D. Quale risposta puoi dare a un uomo che parla così?

A. Gli chiederei se egli creda o no che la sua onestà e la sua giustizia siano più grandi di quelle degli scribi e dei farisei nel Vangelo!

D. In che cosa consisteva l’onestà e la giustizia che gli Scribi e Farisei praticavano?

R. Essi erano costanti nella preghiera, pagavano le decime secondo la legge, facevano grandi elemosine, digiunavano due volte a settimana, oltrepassavano mare e terra per fare un convertito e portarlo alla conoscenza del vero Dio.

D. Cosa disse Gesù Cristo di questa giustizia dei Farisei?

R. Egli disse: “Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli”. (Matt, V. 20).

Q. La giustizia dei Farisei era quindi, molto difettosa agli occhi di Dio?

R. In gran parte lo era, senza dubbio. La loro giustizia era tutta un’esibizione esteriore ed un’ostentazione. Facevano del bene solo per essere elogiati ed ammirati dagli uomini; ma dentro di loro, le anime erano piene di impurità e di cattiveria. Essi erano lascivi ipocriti, che nascondevano grandi vizi sotto la bella apparenza dell’amore per Dio, la carità verso i poveri e la severità verso se stessi. La loro devozione consisteva nelle apparenze esterne, e disprezzavano tutti quelli che non vivevano come loro; erano severi nelle osservanze religiose delle tradizioni umane, ma non scrupolosi nell’osservanza dei Comandamenti di Dio.

D. Cosa pensi allora di quegli uomini che dicono: “Poco importa quello che crede un uomo, a condizione che sia onesto”?

R. Che la loro onestà esteriore, come quella dei farisei, può essere sufficiente a tenerli fuori dal carcere, ma non dall’inferno.

D. Un non-Cattolico potrebbe dire: “Mi piacerebbe molto credere alla dottrina della Chiesa Cattolica, ma non posso”: come risponderesti?

A. Che, senza dubbio, è la volontà di Dio, che “… tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità.” (1 Tim. II 4); ma è, allo stesso tempo, volontà di Dio che si dovrebbero assumere seriamente tutto i mezzi adeguati per acquisirla. È perciò necessaria la conoscenza; altrimenti, si mostra chiaramente che non si desidera credere sinceramente.

D. Quali sono i mezzi di cui parli?

R. La sincerità di cuore che deve essere dimostrata:

1°. Con il desiderio più sincero di conoscere la vera Religione,

2°. Con una ricerca diligente e persistente di esse,

3°. Con la fervente e frequente preghiera a Dio per ottenere il dono della fede,

4°. E infine, con una risoluta decisione di eliminare ogni elemento che potrebbe costituire un ostacolo o un ritardo nell’abbracciare la verità conosciuta.

D. Ma non si perderà la propria libertà se si crede e si fa ciò che la Chiesa Cattolica Romana insegna?

R. No; al contrario, solo allora si godrà della vera libertà, perché è libero solo colui che la verità rende liberi.

D. Non può Dio fare tutte le cose che gli piacciono?

R. Si che lo può!

D. Perché?

R. Perché Egli è la stessa libertà suprema.

D. Ma Dio può peccare?

R. No, non può.

D. Non sono liberi gli Angeli e i Santi in paradiso?

R. Essi sono perfettamente liberi, perché prendono parte alla libertà di Dio.

D. Ma i Santi possono peccare?

R. No, non possono.

D. È quindi, è un segno di libertà essere sotto il potere del peccato, seguire le proprie passioni, e così via, andando alla perdizione?

R. Questo non è avere il potere o  l’inseguire di libertà per ogni cosa.

D. Cos’è, allora?

R. È piuttosto un segno di debolezza e di miseria.

D. Cosa implica il potere del peccato?

R. La possibilità di diventare schiavo del peccato e del diavolo.

D. Quelli che poi sono veramente liberi, sono forse coloro che si fanno grandi sotto il potere del peccato, e quindi vanno all’inferno?

R. Essi sono piuttosto gli schiavi miserabili del peccato e delle loro passioni.

D. Cosa diventano essi sicuramente se rimangono sotto questo potere del peccato e delle loro passioni?

R. Saranno gli schiavi del diavolo all’inferno per l’eternità.

D. Chi, quindi, può definirsi veramente libero?

R. Libero è colui che vuole e fa ciò che Dio desidera per lui: la sua eterna felicità!

D. Se Dio, quindi, come abbiamo visto, lo desidera, gli uomini possono essere salvati solo nella Chiesa santa Cattolica Romana, e un uomo perde o gode della libertà, quando crede e fa ciò che la Chiesa insegna?

A. Ecco come, in effetti, egli gode della vera libertà, e ne fa un corretto uso.

D. Cosa dici di un uomo il cui potere è molto grande e facilmente sperimenterà delle difficoltà nel seguire l’insegnamento della Chiesa?

R. Un tale uomo è veramente libero.

D. I Cattolici, quindi, che vivono fedelmente l’insegnamento della Chiesa, godono di una maggiore libertà rispetto ai protestanti e ai non credenti, che credono e fanno come vogliono?

R. Sì, essi la godono, perché sono figli della luce della verità, che li guida al cielo, mentre quelli che vivono fuori dalla Chiesa, sono i figli delle tenebre dell’errore, che li condurranno alfine nell’abisso dell’inferno.

D. Se nessuno può essere salvato tranne che nella Chiesa Cattolica Romana, tutti quelli che ne sono fuori, cosa sono destinati a fare?

A. Sono obbligati a diventare membri della Chiesa.

D. Il buon senso non lo dice a tutti i non Cattolici?

A. Sì, che lo dice.

D. In che modo?

A. Perché ogni non Cattolico crede che ogni membro praticante della Chiesa Cattolica sarà salvato.

D. Cosa segue da questo?

A. Ne consegue chiaramente che quando c’è il problema della salvezza eterna e dell’eterna dannazione, un uomo ragionevole prenderà la via più sicura per il Paradiso.

D. Tutti quelli che sono membri della Chiesa Cattolica si salveranno?

A. No; solo i membri praticanti saranno salvati; ma quelli che sono dei membri morti, cioè i cattivi Cattolici, saranno condannati all’inferno.

D. Chi è un membro praticante della Chiesa Cattolica?

R. Coloro che credono fermamente tutte le verità contenute nel Credo degli Apostoli, osservano i Comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa, e usano i mezzi della grazia, che sono i Sacramenti e la preghiera.

D. Dove si impara tutto questo?

R. Nella dottrina cristiana.

D. Di chi è il dovere di insegnare la dottrina cristiana?

R. Questo è un dovere dei pastori della Chiesa Cattolica.

D. È molto gradito a Dio che si istruiscano gli uomini nella dottrina cristiana?

R. Sì; è una delle opere più sante e che più piacciono a Dio.

D. È dovere pure l’assistere alla spiegazione della dottrina cristiana?

R. Questo è il dovere di tutti, ma soprattutto di quelli che sono più o meno ignoranti della Religione Cristiana.

D. Dio è molto contento di coloro che con entusiasmo ascoltano la spiegazione della dottrina cristiana?

R. Dio è così contento di loro che spesso ha mostrato il suo piacere con miracoli.

D. Dio è anche molto scontento di coloro che non si interessano della dottrina cristiana?

R. Dio è così scontento di loro tanto che Egli spesso ha mostrato il suo dispiacere con spaventose punizioni.

D. Cosa dovremmo fare quando ascoltiamo un Cristiano spiegare la dottrina?

R. Dovremmo ascoltarlo con l’intenzione di profittarne.

D. Come si chiama il libro che contiene brevemente la dottrina cristiana sotto forma di domande e di risposte?

R. Il Catechismo!

D. Di che cosa tratta allora il Catechismo?

R. Il Catechismo tratta di ciò che dobbiamo conoscere e credere, di ciò che dobbiamo fare e dei mezzi della grazia che dobbiamo usare; cioè, i Sacramenti e la preghiera.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – UBI URBANIANO

Con questa lettera enciclica, S. S. Pio IX, denuncia i soprusi e la violenze perpetrate nella nobile e cattolica Polonia dalle autorità russe che opprimevano con ogni mezzo e pretesto la popolazione locale, ed in particolare i cittadini ed i prelati cattolici. Ancora una volta la Chiesa è oppressa, perseguitata, violata nelle sue prerogative, la fede irrisa ed orientata a seguire gli errori dello scisma di Fozio, il culto proibito o impedito, le Autorità episcopali cacciate, tormentate ed impedite nelle loro sacre funzioni, ostacolate nelle comunicazioni con la Santa Sede, i fedeli impossibilitati a rendere culto a Dio e a procacciarsi i beni spirituali loro necessari per la salvezza. Il Santo Padre, addolorato ed affranto per tanto ingiustificato accanimento, per tutti ha una parola di conforto e di esortazione a resistere citando, tra le altre, le parole dell’Apostolo Paolo ai Romani …”le sofferenze attuali non sono equiparabili alla futura gloria che si rivelerà in noi“. Un duro ammonimento viene rivolto ai governanti ed alle autorità civili che servono, attraverso le conventicole occulte, le potenze del male, citando le espressioni bibliche del libro della Sapienza « … Poiché vi fu dato dal Signore il potere, e vi fu data la virtù dall’Altissimo, che esaminerà la vostra opera e scruterà i vostri pensieri; poiché, essendo ministri di quel regno, non avete giudicato con rettitudine né custodito la legge di giustizia né avete camminato secondo la volontà di Dio, presto avrete una visione orrenda, poiché durissimo sarà il giudizio su coloro che comandano: all’umile si concede misericordia, i potenti invece subiranno crudeli tormenti” (Sap. VI, 4-7). Ma le espressioni più incisive, ammonimento adatto tuttora per i nostri giorni, sono le seguenti: « … i popoli, quando siano stati distolti dalla santissima nostra Religione e dalla sua benefica dottrina, dall’obbedienza dovuta a Dio, alla sua Chiesa e alle sue leggi, dalla libertà di comunicare con questa Santa Sede, si lasciano corrompere dai vizi e dagli errori più perniciosi e perciò, perduta la pietà e il timor di Dio, deposto il soave giogo della Religione e del tutto reietta l’obbedienza che si deve a Dio e alle leggi della sua Chiesa, si degradano miseramente in una vita e in un comportamento licenziosi: procedendo nell’empietà secondo i loro desideri, disprezzano il potere, bestemmiano la sovranità, insorgono contro i Principi e ad essi negano obbedienza. » Sono parole che non sono state seguite né allora né tanto meno ai giorni nostri, e le conseguenze funeste, profeticamente annunziate con largo anticipo dal Santo Padre, sono sotto gli occhi di tutti: vizi ed errori perniciosi di ogni genere, degradazione morale e nei costumi fino a giungere al livello delle bestie feroci ed immonde, libertinaggio sfrenato, licenziosità ed empietà in ogni ambito della vita sociale, disobbedienza alle leggi naturali, morali, civili con disprezzo di ogni autorità … in questo caso non ha funzionato il proverbio antico: “uomo avvisato, mezzo salvato!” E noi oltretutto rischiamo la perdita dell’anima e la dannazione eterna, guidati come siamo, non solo da governanti inetti e corrotti, burattini del potere satanico mondialista, ma soprattutto da lupi rapaci mascherati da agnelli, da finti pastori che aprono e spalancano l’ovile ad ogni bestia onnivora, da marrani indomiti strumenti del demonio che tutto vuol rovinare, distruggere e condurre con sé negli inferi. Ma per noi Cattolici che confidano in Dio, nel Cristo Redentore, nella felicità eterna, nulla ci può essere più dolce che la persecuzione per il nome di Dio e del suo Cristo, evento che spiana la via al cielo ed alla felicità eterna …  le sofferenze attuali non sono equiparabili alla futura gloria che si rivelerà in noi …

S. S. Pio IX

Ubi Urbaniano

Venerabili Fratelli, allorché nel Collegio Urbaniano per la propaganda della fede, in questa Nostra alma città, il 24 aprile scorso, sacro a San Fedele da Sigmaringa, invitto martire di Cristo, Ci siamo energicamente lamentati della infelice e non mai abbastanza deplorata condizione del Regno di Polonia e della inconsulta sommossa ivi sorta contro il potentissimo Principe, abbiamo anche reso noto che avevamo letto nei giornali che dal Governo Russo erano stati presi i più severi provvedimenti non solo per soffocare quella insurrezione, ma anche per estirpare gradatamente da quel Regno la Religione Cattolica. E ad un tempo abbiamo dichiarato che queste tristi notizie attendevano di essere confermate senza alcun margine di dubbio e con maggiore autorità, dato che non sempre si può dare credito ai giornali ufficiali. Ora però Ci sono state recate molte testimonianze degne di fede per cui, con inenarrabile dolore dell’animo Nostro, Venerabili Fratelli, abbiamo avuto conferma che sono proprio vere le vessazioni a cui il Governo Russo sottopone ogni giorno di più la Chiesa Cattolica, i suoi ministri e i suoi seguaci. – Ci è stato dato per certo, infatti, che quel Governo, già da molto tempo ostile alla Chiesa Cattolica, cercando di trascinare tutti nel più esiziale scisma, prende a pretesto la sollevazione per perseguitare crudelmente in tutti i modi la santissima nostra Religione e tutti i Cattolici. Perciò non è mai stata pienamente attuata la Convenzione stipulata con Noi e con questa Santa Sede; sono stati disattesi i pubblici accordi per la tutela della Religione Cattolica nel Regno di Polonia; sono stati emanati molti decreti e leggi assolutamente contrari agli interessi cattolici; lo stesso Governo inoltre non ha mai rinunciato a proibire gli scritti cattolici e a diffondere libri e giornali quanto mai contrari alla dottrina Cattolica, rivolti ad offendere il Vicario di Cristo in terra e questa Apostolica Sede, e soprattutto a corrompere il popolo polacco; non ha desistito dall’intralciare ogni comunicazione con Noi e con questa Sede Apostolica; dall’imporre un giuramento contrario alle leggi divine; dal sobillare il popolo contro i Sacerdoti cattolici; dal proibire che si predichi e si insegni la differenza che corre tra la verità cattolica e lo scisma; dall’impedire, minacciando gravissime pene, che qualcuno si sottragga allo sciagurato scisma e ritorni in seno alla Chiesa Cattolica. – Ne deriva che i Religiosi sono cacciati dai loro conventi; che i loro monasteri sono trasformati in alloggi militari; che i Vescovi Cattolici sono strappati alle loro Diocesi e mandati in esilio; si impedisce agli innumerevoli Cattolici di rito greco, già da tempo con subdole macchinazioni tratti a forza nello scisma, di ritornare in grembo alla Chiesa Cattolica, come vorrebbero. Anche molti Cattolici di rito latino sono strappati alla Chiesa Cattolica soprattutto mediante matrimoni misti, e i bambini orfani di genitori cattolici sono relegati in lontane regioni con il pretesto di proteggerli; sono sottratti al culto cattolico ed esposti al pericolo dello scisma; innumerevoli Cattolici di ogni ceto, età, sesso e condizione sono crudelmente oppressi e deportati in lontanissime terre; i templi dei Cattolici sono demoliti, profanati e adibiti al culto acattolico o a presidi militari; i Sacerdoti cattolici sono vessati in modo miserando, spogliati dei loro beni, ridotti a squallida povertà, cacciati in esilio o in carcere e perfino uccisi perché non hanno rinunciato a portare il soccorso e il conforto del sacro Ministero ai feriti in battaglia e ai moribondi. Inoltre, tanto i Preti che i laici esiliati sono privati di ogni conforto e aiuto della santissima nostra Religione, e ai Cattolici di Lituania non è consentita altra scelta che di andare esuli nelle più lontane regioni o di staccarsi dalla Religione Cattolica. Questi ed altri deplorevoli soprusi vengono continuamente perpetrati dal Governo Russo contro la Chiesa Cattolica. Perciò Noi, afflitti da immensa angoscia, non possiamo trattenere le lacrime vedendo Voi, Venerabili Fratelli, e i diletti figli Cattolici esposti a tutte le crudeli persecuzioni con le quali quel Governo cerca di trascinare in una crisi estrema la fede e la Religione Cattolica, sia nel Regno di Polonia, sia nelle altre regioni di quell’impero. – Inoltre, in questa ferocissima guerra condotta dal Governo Russo contro la Chiesa Cattolica, i suoi sacri diritti, i suoi ministri e i suoi interessi, siamo costretti a deplorare un altro atto temerario, prima d’ora inaudito negli annali della Chiesa: quel Governo non solo ha mandato in esilio in lontane regioni il Venerabile Fratello Sigismondo, insigne e lodato Arcivescovo di Varsavia, strappandolo al suo gregge, ma anche non ha esitato a privare quel Venerabile Fratello dell’autorità e della Giurisdizione Episcopale sulla Diocesi di Varsavia e a impedire che alcuno da quella Diocesi potesse comunicare con lui; e neppure si è fatto scrupolo di sostituirlo, come amministratore della Diocesi, con il diletto Figlio Paolo Rzewuski, suo Vicario generale, già da Noi eletto Vescovo di Prusa nel paese degli infedeli, e designato come suffraganeo del Vescovo di Varsavia. Non ci sono parole, Venerabili Fratelli, per riprovare e detestare simile azione. E chi non si meraviglierà sapendo che il Governo Russo è giunto al punto di affermare il falso, e di privare i Vescovi (che lo Spirito Santo pose a reggere la Chiesa di Dio) della sacra autorità che fu loro concessa da Dio e che in nessun modo dipende dal potere laico, e di allontanarli dal governo e dalla amministrazione delle loro Diocesi? Mentre riproviamo e condanniamo questi fatti, affermiamo apertamente e chiaramente che nessuno può obbedire a tale disposizione, e che tutti i fedeli della Diocesi di Varsavia devono totale obbedienza al Venerabile Fratello Sigismondo, vero e legittimo Presule di Varsavia. – Non dubitiamo che il diletto figlio Nostro Paolo Rzewuski, memore del proprio dovere, niente affatto ossequente agli ordini del Governo Russo, continuerà a esercitare la funzione di Vicario generale che gli è stata affidata dal Venerabile Fratello Sigismondo, Arcivescovo di Varsavia, suo superiore legittimo, e gli obbedirà puntualmente in tutto. Ma invero, Venerabili Fratelli, mentre chiamiamo a testimoni il cielo e la terra, chiediamo ragione di tutto ciò che si è compiuto e si compie nel Regno di Polonia e negli altri territori dell’impero russo contro la Chiesa Cattolica, i suoi Vescovi, ministri, patrimoni, diritti e contro i diletti figli della stessa Chiesa; con insistenza protestiamo contro la persecuzione che il Governo Russo non rinuncia a infliggere alla Chiesa, tuttavia non vogliamo in alcun modo approvare le inconsulte agitazioni purtroppo sorte in Polonia. Tutti sanno con quanto zelo la Chiesa Cattolica abbia sempre inculcato il principio secondo cui ogni anima è suddita delle più alte potestà e tutti sono sottomessi all’autorità civile, e si deve in tutto prestare la debita obbedienza a quelle disposizioni che non contrastano con le leggi di Dio e della sua Chiesa. Perciò è assai deplorevole che quelle rivolte abbiano offerto al Governo Russo l’appiglio di tormentare e opprimere ogni giorno la Chiesa, sempre di più. – Mentre poi disapproviamo e condanniamo tali funesti sconvolgimenti dello stato cristiano e civile, altro non possiamo fare che convincere tutti i più alti Principi di fare in modo che, per quanto possono, non cadano su di loro quelle severe parole rivolte dalla divina Sapienza ai Re: “Poiché vi fu dato dal Signore il potere, e vi fu data la virtù dall’Altissimo, che esaminerà la vostra opera e scruterà i vostri pensieri; poiché, essendo ministri di quel regno, non avete giudicato con rettitudine né custodito la legge di giustizia né avete camminato secondo la volontà di Dio, presto avrete una visione orrenda, poiché durissimo sarà il giudizio su coloro che comandano: all’umile si concede misericordia, i potenti invece subiranno crudeli tormenti” (Sap. VI, 4-7). – Inoltre, con il più grande trasporto dell’animo Nostro, esortiamo e preghiamo tutti i sommi Principi perché comprendano e si rendano conto che i popoli, quando siano stati distolti dalla santissima nostra Religione e dalla sua benefica dottrina, dall’obbedienza dovuta a Dio, alla sua Chiesa e alle sue leggi, dalla libertà di comunicare con questa Santa Sede, si lasciano corrompere dai vizi e dagli errori più perniciosi e perciò, perduta la pietà e il timor di Dio, deposto il soave giogo della Religione e del tutto reietta l’obbedienza che si deve a Dio e alle leggi della sua Chiesa, si degradano miseramente in una vita e in un comportamento licenziosi: procedendo nell’empietà secondo i loro desideri, disprezzano il potere, bestemmiano la sovranità, insorgono contro i Principi e ad essi negano obbedienza. Per la verità, nell’immensa tristezza del Nostro animo per l’enorme congerie di mali che affigge Voi, Venerabili Fratelli, e i fedeli a Voi affidati, non poco ci conforta e consola la vostra nobile, costante virtù nel tutelare la Chiesa e nel sopportare per la Fede Cattolica tanti affanni e tribolazioni. Sapete bene che sono beati coloro che sono perseguitati per la giustizia; che è molto bello e glorioso sopportare offese in nome di Gesù e che si salva colui che saprà perseverare fino alla fine; perciò non dubitiamo che Voi, Venerabili Fratelli, confortati dal Signore e dalla potenza della sua virtù, continuerete con animo invitto a combattere animosamente per la difesa di Dio e della sua santa Chiesa, per la salvezza delle anime, ricordando che “le sofferenze attuali non sono equiparabili alla futura gloria che si rivelerà in noi” (Rm VIII, 18). Perciò Vi scriviamo questa lettera, e vieppiù nel nome del Signore sollecitiamo la vostra forza di Pastori nel sopportare tante angustie, e la vostra vigilanza sul gregge a Voi affidato, affinché non vogliate risparmiare mai nessuna cura, nessuna decisione, nessuna fatica, in modo che i fedeli a Voi affidati si guardino da ogni male, non si lascino intimorire da alcun pericolo e rimangano ogni giorno più saldi e immoti nella professione della Religione e nella Fede Cattolica, e non si lascino mai ingannare e trarre in errore dai nemici della fede e della Religione. Ammoniamo, esortiamo e preghiamo anche i fedeli a Voi affidati e a Noi carissimi, con tutto l’affetto paterno del Nostro cuore, affinché professino con grande fermezza la Fede, la Religione e la Dottrina Cattolica che hanno ricevuto per singolare benevolenza di Dio; perché stimino inferiore ogni altro bene; perché camminino con sollecitudine lungo i sentieri indicati da Dio, e si dedichino a tutte quelle opere che rivelano la carità verso Dio e verso il prossimo, e che si addicono perfettamente ai figli della Chiesa Cattolica. – Siate poi del tutto persuasi che Noi, in piena umiltà di cuore, giorno e notte, senza sosta, innalziamo fervide preghiere al clementissimo Padre di misericordia e al Dio di ogni consolazione perché Vi infonda dall’alto la virtù, Vi protegga con la divina sua destra, Vi custodisca e Vi difenda, sorga a giudicare la sua causa e sottragga la sua Chiesa da tutte le calamità che l’affliggono, confonda la superbia dei suoi nemici, abbatta con la sua onnipotenza la loro caparbietà, e sempre propizio effonda i fecondi doni della sua bontà sopra di Voi e i fedeli a Voi affidati. – E come auspicio di questi doni e come pegno sicuro della particolare benevolenza con cui Vi abbracciamo nel Signore, dal più profondo del cuore impartiamo amorevolmente a Voi, Venerabili Fratelli e a tutti i fedeli, ecclesiastici e laici, affidati alla vostra vigilanza, l’Apostolica Benedizione.

Da Castel Gandolfo, il 30 luglio 1864, anno decimonono del Nostro Pontificato.

DOMENICA V DOPO PASQUA (2019)

DOMENICA V DOPO PASQUA (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Isa. XLVIII: 20

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiate usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja [Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

Ps LXV: 1-2 Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus. [Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: dà a Lui lode di gloria].

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja [Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

 Orémus.

Deus, a quo bona cuncta procédunt, largíre supplícibus tuis: ut cogitémus, te inspiránte, quæ recta sunt; et, te gubernánte, éadem faciámus. [O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi súpplici di pensare, per tua ispirazione, le cose che son giuste; e, sotto la tua direzione, di compierle.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli.

Jac. I: 22-27

Caríssimi: Estóte factóres verbi, et non auditóres tantum: falléntes vosmetípsos. Quia si quis audítor est verbi et non factor: hic comparábitur viro consideránti vultum nativitátis suæ in spéculo: considerávit enim se et ábiit, et statim oblítus est, qualis fúerit. Qui autem perspéxerit in legem perfectam libertátis et permánserit in ea, non audítor obliviósus factus, sed factor óperis: hic beátus in facto suo erit. Si quis autem putat se religiósum esse, non refrénans linguam suam, sed sedúcens cor suum, hujus vana est relígio. Relígio munda et immaculáta apud Deum et Patrem hæc est: Visitáre pupíllos et viduas in tribulatióne eórum, et immaculátum se custodíre ab hoc sæculo

Omelia I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

LE BUONE OPERE

“Carissimi: Siate osservanti della parola, e non uditori soltanto, che ingannereste voi stessi. Perché se uno ascolta la parola e non l’osserva, egli rassomiglia a un uomo che contempla nello specchio il suo volto naturale. Contemplato, se ne va, e subito dimentica come era. Ma chi guarda attentamente nella legge perfetta della libertà, e persevera in essa, diventando non un uditore smemorato, ma un operatore di fatti, questi sarà felice nel suo operare. – Se alcuno crede d’essere religioso, e non frena la propria lingua, costui seduce il proprio cuore, e la sua religione è vana. Religione pura e senza macchia dinanzi a Dio e al Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni, e conservarsi incontaminati da questo mondo”. (Giac. 1, 22-27).

L’Epistola di quest’oggi è una continuazione di quella della domenica scorsa. S. Giacomo aveva insegnato che si deve accogliere con mansuetudine la parola di Dio. Ora insegna che questa parola bisogna metterla in pratica. Con il paragone di chi si presenta allo specchio, e se ne ritorna come prima, dice che chi conosce la dottrina cristiana e non la fa seguire dalle buone opere, fa cosa inutile: egli rimane come era prima che udisse la predicazione del Vangelo. Al contrario, sarà beato colui che, oltre considerare attentamente la dottrina del Vangelo, la fa seguire dalle buone opere. Indica, poi, alcune di queste buone opere, come: l’astenersi dalla mormorazione e l’esercizio della carità. Tutti dobbiamo essere persuasi della necessità delle buone opere, poiché, senza le buone opere:

1. Inganniamo noi stessi,

2. Ci burliamo della parola di Dio,

3. Non pratichiamo la vera religione.

1.

Siate osservanti della parola, e non uditori soltanto, che ingannereste voi stessi. Con queste parole San Giacomo vuol dire che s’inganna fortemente chi crede che ei possa andar salvi con la sola fede, senza darsi cura di conformare agli insegnamenti della fede la propria condotta. La fede è la base e il principio della nostra salvezza. Senza la fede non perverremo alla vita eterna; ma la Sacra Scrittura ci dice ripetutamente che non deve essere una fede morta; cioè, disgiunta dalle buone opere.S. Giovanni ci insegna che per arrivare alla vita eterna dobbiamo avere la cognizione del vero Dio e dell’unico Salvatore e Mediatore Gesù. « La vita eterna è questa, che conoscono te, solo vero Dio, e Gesù Cristo,mandato da te » (Giov. XVII, 13) ; ma ci insegna anche che « da questo sappiamo se lo abbiamo conosciuto, se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice che lo conosce e non osserva i suoi comandamenti è bugiardo » (1 Giov. II, 3-4). Chi non pratica le opere prescritte non ha, dunque, una conoscenza conveniente di Dio, e la sua fede, essendo una fede morta, non gli giova per la salute eterna. Gesù Cristo ci parla ancor più chiaramente: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli; ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Matt. VII, 21). E continua: « Adunque, chi ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà paragonato a un uomo avveduto che si è fabbricata la casa sulla pietra … E chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica sarà paragonato allo stolto che si è fabbricata la casa sulla rena » (Matt. VII, 24 …26)). Come è destinata alla rovina una casa senza fondamento, così, non sfuggiranno alla rovina irreparabile coloro che, sul saldo fondamento che è la fede in Gesù Cristo, non costruiscono l’edificio delle loro opere; cioè, non adattano la loro vita agli insegnamenti che derivano dalla fede in Gesù Cristo. « Perché— dice Egli di costoro — mi chiamate, Signore, Signore, e poi non fate quello che vi dico? » (Luc. VI, 46). Del resto, basta un po’ di buon senso per capire come s’ingannino coloro che credono di arrivare alla vita eterna senza le buone opere, se si considera che l’eterna felicità è data da Dio in premio a quelli che qui sulla terra lo hanno servito. Nella parabola della vigna, venuta la sera, il padrone dice al suo procuratore: « Chiama i lavoratori e paga ad essi la mercede» (Matt. XX, 8). La mercede è data alla fine del giorno, come prescriveva la legge: ma è data a quei che hanno lavorato. Nessun di quei che hanno ricevuto la mercede si era rifiutato di seguire l’invito del padrone che lo chiamava al lavoro. Chi avesse preferito rimanere sulla piazza ozioso, non avrebbe ricevuto la mercede. Alla fine della nostra vita verrà data l’eterna ricompensa a coloro, che, assecondando la grazia di Dio, avranno lavorato a servirlo; ma dall’eterna ricompensa resteranno necessariamente esclusi quelli che si rifiutano di lavorare per il Signore. Il Paradiso non è per i poltroni.

2.

S. Giacomo con una bella similitudine dice che chi ascolta la parola del Signore e non la mette in pratica rassomiglia a un uomo che contempla nello specchio il suo volto naturale. Contemplatosi, se ne va, e subito dimentica come era». Colui che si porta davanti allo specchio per osservare com’è il suo volto, e poi non si cura di far scomparire le macchie che vi ha notato, fa opera per lo meno vana. Lo stesso fa colui che si accontenta di udire la parola del Vangelo, ma non si cura per nulla di metterla in pratica.« La misericordia del Signore — dice San Leone M.— nei suoi comandamenti ci ha dato un magnifico specchio nel quale l’uomo possa riflettere l’interno della sua mente» (Serm. 49, 4). Che serve aver davanti alla mente, come in uno specchio, i doveri cui il Cristiano deve attendere, e poi, di questi doveri non curarsi per nulla? E non puòneppur scusarsi il Cristiano che assicura di non compiere opere cattive nella sua vita. « Poiché non operare il bene è già un far male. Dimmi, infatti, se tu avessi un servo che non rubi, non offenda, non contraddica, si astenga dell’ubriachezza e da tutto il resto, e stia continuamente seduto in ozio, e non compia nulla di quello che un servo deve fare per il suo padrone, non lo puniresti? » (S. Giov. Cris. In Epist. ad Eph. Hom. 16, 1). Il meno che si possa dire di lui è che è un servo inutile, che si burla della volontà del padrone. Parimenti è inutile la vita del Cristiano, che non prende sul serio la parola di Dio, cercando di conformarvi la propria condotta. Ogni Cristiano è un albero piantato da Gesù Cristo nella sua vigna, la Chiesa. La grazia dei Sacramenti, la parola di Dio, le ispirazioni, tendono a rendere fruttifero questo albero. Ma, sgraziatamente, tante volte i frutti non si vedono. Troverai foglie, fronde; indarno, però, cercheresti qualche cosa di più sodo. Un po’ di apparenza, un po’ di religiosità superficiale; ma virtù soda, provata, non la trovi. Che giudizio dare di quest’albero? Quello che ha dato Gesù del fico infruttifero: albero che ingombra il terreno (Luc. XIII,7). La parola di Dio deve produrre qualche cosa di più che una apparenza esteriore e ingombrante. Qualche atto religioso, l’assistenza alla Messa festiva, l’intervento a qualche solennità fanno credere a certuni d’essere religiosi nel pieno senso della parola. Ma se chi si esercita in queste opere, trascura gli altri obblighi imposti dal Vangelo non sfugge alla condanna che dà San Giacomo: La sua religione è vana. Qualche atto religioso non vuol dir tutta la Religione. L’ascoltar la parola di Dio in qualche caso, e nel resto non curarla, è un disprezzarla tutta.

3.

Religione pura e senza macchia dinanzi a Dio e al Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni, è conservarsi incontaminati da questo mondo. San Giacomo nomina in particolare il soccorso che si deve dare ai pupilli e alle vedove, perché sono le due classi di persone, generalmente, più bisognose. Ma è chiaro che le sue parole vanno oltre queste due classi di persone, e si estendono a tutti i nostri fratelli, chiunque essi siano, che hanno bisogno dell’opera nostra. Come è chiaro che l’opera nostra non deve limitarsi alle visite, ma esplicarsi per mezzo di tutti gli aiuti spirituali e materiali di cui il prossimo ha bisogno. E qui abbiamo davanti un campo vastissimo in cui tutti possiam operare, ciascuno secondo le proprie condizioni. Se ci rifiutiamo, non facciamo certamente onore alla nostra religione. Se la religione importa doveri verso il prossimo, importa principalmente doveri verso Dio. Il Cristiano che non volesse compiere questi doveri non può piacere a Dio, e la sua religione non è senza macchia all’occhio di Lui. Al compimento dei propri doveri verso Dio si oppone il mondo; e i Cristiani che vogliono servire a Dio in una religione pura e senza macchia devono conservarsi incontaminati da questo mondo. Chi non segue il mondo segue necessariamente Dio. Chi odia il mondo ama il Signore, lo prega, celebra le sue lodi, venera il suo nome, santifica i suoi giorni, fa ammenda delle offese che gli ha recato, e si adopera, per quanto sta in lui, di farlo amare anche dagli altri. Chi non segue la volontà del mondo, segue la volontà di Dio. La segue quando prescrive il distacco da quanto ci è caro, la segue quando ci prescrive azioni a cui la nostra indolenza vorrebbe sottrarci. La segue, anche se il mondo disapprova e ostacola. Chi non si accontenta di sapere a mente gli insegnamenti della Religione, ma cerca di fare quanto ha imparato, accumulerà di giorno in giorno un tesoro di buone opere che lo faranno accetto a Dio, e gli renderanno calmo e sereno il passaggio da questa all’altra vita. La mattina del 27 Agosto 1942 il Beato Cafasso venne chiamato al letto d’una giovane signora, gravemente inferma. Vi si era già recato altre volte, ma n’era stato corrisposto in malo modo dall’ammalata. Questa, fuggita giovanissima dalla casa paterna, aveva corse tutte le vie del vizio, rimanendone vittima. E ora, a 33 anni, perduti onore, roba e sanità, stava per perdere la vita del corpo e quella dell’anima. Questa volta l’inferma, per la cui conversione si era celebrata la Messa all’altare del Sacro Cuore di Maria, riceve il Beato, e, con la più grande spontaneità, fa la sua confessione tra le lagrime. Nell’amaro rimpianto di aver speso così male i suoi begli anni, fu udita più volte esclamare con tono accorato e pietoso: « Oh, aver da morir così giovane! Povera figliuola sacrificata dal mondo! E morire, senza poter contare un giorno, anche solo, in tutti i miei anni di gioventù ! » (Il Beato Cafasso – Istituto della Consolata – Torino, 1925, p. 30 segg.). Se non ci scorderemo che è una vera pazzia affannarsi col mondo nel godimento di beni esterni, e rimaner digiuni dei beni interni; se terremo ben fisso nella mente che « non coloro che sentono parlare della legge sono giusti davanti a Dio, ma saranno riconosciuti giusti quelli che praticano la legge » (Rom. II, 13), quando sarà giunta l’ultima ora potremo contare tanti bei giorni; potremo contare al nostro attivo tutti quei giorni in cui avremo fatto del bene dinanzi a Dio. Chi si mette in viaggio per una lontana meta, porta con sé il suo bagaglio, o, meglio, lo manda innanzi. Noi siamo in viaggio per la beata eternità. Non vi potremo, però, entrare senza il bagaglio delle buone opere. « Nessuno — dice Agostino — si vanti di potervi abitare, se, mentre dice di essere servo di Dio, è privo di buone opere… Nessuno quivi abita se non mediante le sue opere… Le tue opere, dunque, ti precedano » (En. 2 in Ps. CI, 15).

Alleluja

Allelúja, allelúja.

Surréxit Christus, et illúxit nobis, quos rédemit sánguine suo. Allelúja, [Il Cristo è risuscitato e ha fatto sorgere la sua luce su di noi, che siamo redenti dal suo sangue. Allelúia.]

Joannes XVI: 28 Exívi a Patre, et veni in mundum: íterum relínquo mundum, et vado ad Patrem. Allelúja. [Uscii dal Padre e venni nel mondo: ora lascio il mondo e ritorno al Padre. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem. 

Joann XVI:23-30

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Amen, amen, dico vobis: si quid petiéritis Patrem in nómine meo, dabit vobis. Usque modo non petístis quidquam in nómine meo: Pétite, et accipiétis, ut gáudium vestrum sit plenum. Hæc in provérbiis locútus sum vobis. Venit hora, cum jam non in provérbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiábo vobis. In illo die in nómine meo petétis: et non dico vobis, quia ego rogábo Patrem de vobis: ipse enim Pater amat vos, quia vos me amástis, et credidístis quia ego a Deo exívi. Exívi a Patre et veni in mundum: íterum relínquo mundum et vado ad Patrem. Dicunt ei discípuli ejus: Ecce, nunc palam loquéris et provérbium nullum dicis. Nunc scimus, quia scis ómnia et non opus est tibi, ut quis te intérroget: in hoc crédimus, quia a Deo exísti.

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XXVI.

“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli. In verità in verità vi dico, che qualunque cosa domandiate al Padre nel nome mio, ve lo concederà. Fino adesso non avete chiesto cosa nel nome mio: chiedete, e otterrete, affinché il vostro gaudio sia compito. Ho detto a voi queste cose per via di proverbi. Ma viene il tempo che non vi parlerò più per via di proverbi, ma apertamente vi favellerò intorno al Padre. In quel giorno chiederete nel nome mio: e non vi dico che pregherò io il Padre per voi; imperocché lo stesso Padre vi ama, perché avete amato me, e avete creduto che sono uscito dal Padre. Uscii dal Padre, e venni al mondo: abbandono di nuovo il mondo, e vo al Padre. Gli dissero i suoi discepoli: Ecco che ora parli chiaramente, e non fai uso d’alcun proverbio. Adesso conosciamo che tu sai tutto, e non hai bisogno che alcuno t’interroghi: per questo noi crediamo che tu sei venuto da Dio” (Jo. XVI, 22-30).

In quell’ammirabile discorso, che nostro Signor Gesù Cristo rivolse ai suoi Apostoli dopo l’ultima cena, discorso che fu come il suo testamento, non poteva essere che lasciasse di raccomandare a loro ed a noi la più importante e indispensabile pratica di pietà, cioè la preghiera. Ed in vero in quel tratto di quel discorso, che la Chiesa ha scelto oggi per Vangelo della santa Messa, Gesù disse a’ suoi discepoli: In verità in verità vi dico, che qualunque cosa domandiate ai Padre nel nome mio, ve lo concederà. Fino adesso non avete chiesto nulla in mio nome: domandate e riceverete, affinché il vostro gaudio sia perfetto. Or ecco, o carissimi, in queste ultime espressioni compendiata tutta la dottrina, che riguarda la preghiera. Domandate: ecco il precetto e la necessità della preghiera. E riceverete: ecco l’efficacia e la virtù della stessa. Affinché il vostro gaudio sia perfetto: eccone il soavissimo frutto. E queste tre cose a riguardo della preghiera saranno appunto quelle, che vi dirò questa mattina, come spiegazione del santo Vangelo di oggi.

1. Iddio, essendo il nostro Creatore è anche il nostro padrone assoluto e come assoluto nostro padrone ha tutti i diritti di comandarci quel che gli piace, e noi abbiamo tutto il dovere di obbedirlo senza ricercare menomamente il perché de’ suoi comandi. Or bene, tra i vari comandi che il Signore ci ha fatto tiene pure un posto principalissimo quello della preghiera. Domandate, ci ha detto Gesù Cristo: questa è la legge, che Io vi impongo, se da me volete ricevere i miei benefici. E notate bene, o carissimi, che il divin Redentore non ci disse: Vi invito a pregare, vi consiglio di pregare, vi esorto a pregare; ma disse senz’altro: pregate, domandate: appunto perché intendessimo che questo era un comando formale ed assoluto, che noi avremmo avuto il dovere di praticare. Tuttavia per assicurarsi meglio dell’adempimento di questo dovere da parte nostra non si contentò di farcene il comando, ma volle ancora metterci in condizione tale che ne sentissimo il bisogno, affinché questo ci spingesse più facilmente a compire quello. Ed in vero che cosa siamo noi nell’ordine della salute? Siamo altrettanti poveri, soggetti ai più imperiosi bisogni, e ridotti ad una incredibile impotenza. Senza l’aiuto della grazia di Dio noi non possiamo neppure far nascere nel cuor nostro un buon movimento. Ora trovandoci in tale indigenza come non sentiremo la necessità di ricorrere a chi può e vuole aiutarci? E chi mai può e vuole aiutarci in tutti i nostri bisogni se non Iddio, il quale è infinitamente ricco ed infinitamente buono? Difatti, chi può dire i tesori infiniti di grazia, che Iddio tiene presso di sé, per dispensarli a coloro che glieli domandano? Contiamo pure, se ci è possibile, le stelle del cielo, le arene del mare, le gocce d’acqua dell’oceano, i fiori e le foglie delle piante… Tuttavia i tesori di grazia, che Iddio possiede superano di gran lunga tutte le cifre, che possiamo mettere insieme, perché tali tesori sono infiniti. Ma Iddio non è già come tanti ricchi del mondo, che pur possedendo ingenti ricchezze, le posseggono unicamente per sé, senza farne parte alcuna a quei poverelli, che pur ne avrebbero il diritto. Iddio invece, oltre all’essere infinitamente ricco, è pure infinitamente buono e vuole nella sua infinita bontà distribuirci i suoi tesori: Mirate come Egli li distribuisce a tutto il creato. È desso che invia incessantemente la sua benedizione ai fiori ed alle piante della terra, agli uccelli dell’aria, ai pesci dell’acqua, ed agli animali del bosco, persino ai più piccoli insetti, che non contano che l’esistenza di una qualche ora. Lo dice il re Davide: Aperis tu manum tuam et imples omne animal benedictione (Salm. CXLIV). Che se tanta è la bontà, che adopera verso le stesse creature irragionevoli, chi può dire la bontà con cui è pronto a trattar noi creature ragionevoli? Ma Egli vuole perciò assolutamente che noi lo preghiamo. Senza della preghiera, ordinariamente, Egli non ci dà le sue grazie, che ci sono così necessarie all’eterna salute. Epperciò disse il sacro Concilio di Trento, che Iddio non impone precetti impossibili ad osservarsi, poiché o ci dona la grazia prossima ed attuale per osservarli, oppure ci dà la grazia di chiedergli questa grazia attuale. E S. Agostino già aveva insegnato che, eccettuate le prime grazie, come sono la chiamata alla fede ed alla penitenza, tutte le altre e specialmente la perseveranza, Iddio non le concede se non a chi lo prega. Da ciò conchiudono i teologi con S. Basilio, S. Agostino, S. Giovanni Crisostomo, S. Clemente Alessandrino ed altri, che la preghiera agli adulti non è solo necessaria di necessità di precetto, cioè perché Dio ce l’ha comandata, ma ancora di necessità di mezzo, vale a dire perché senza pregare agli adulti è impossibile di salvarsi. Or bene, o carissimi, qual conto abbiamo fatto sinora di questo dovere e di questa necessità, in cui ci troviamo di pregare ? Ah! se mai ne avessimo fatto poco caso per il passato, facciamone quanto importa per l’avvenire. Preghiamo, sì preghiamo volentieri. Incominciamo e terminiamo ogni giornata con la preghiera; anche durante le nostre occupazioni solleviamo a Dio qualche sospiro: invochiamo soprattutto il suo aiuto nelle tentazioni e nei pericoli, e Dio ci esaudirà, perché Egli ce lo ha detto: Domandate e riceverete.

2. Ed eccomi a dirvi della virtù e dell’efficacia della preghiera. Le stesse preghiere che facciamo agli uomini riescono assai facilmente ad ottenere quel che loro domandiamo, massime quando son fatte coi debiti modi; quanto più riusciranno ad ottenere da Dio le grazie di cui abbisogniamo. Iddio è infinitamente giusto, ed inoltre Egli è Padre: due motivi che gli fanno porger orecchio alla voce di noi, suoi figli. Senza dubbio Egli ci deve niente, ma dacché ci ha promesso di esaudire la preghiera, questa divina promessa lo obbliga, e la giustizia esige che mantenga la sua parola; e questa parola è formale: Riceverete. E poi Dio è Padre. Ora qual padre vi è mai, il cui cuore rimanga chiuso ai bisogni ed alle preghiere dei suoi figliuoli? Del resto interrogate l’esperienza e facilmente vi convincerete della generosità, con la quale Iddio esaudisce la preghiera. Aprite i sacri Libri e risalite, se vi piace, ai primi tempi dell’umanità. Vedete Abramo, che perora la causa di Sodoma e delle altre città che hanno partecipato alle sue infamie. Contate le quante volte il santo Patriarca ritorna all’assalto: e Dio sempre gli accorda la sua domanda, e se le colpevoli città racchiudono il numero de’ giusti fissato da Abramo, saranno salve. Mirate Mosè che implora le mille volte il perdono del suo popolo, e che da Dio ottiene che non sia sterminato nel deserto, ad onta delle sue prevaricazioni. Più oltre vi è Davide, il quale si è abbandonato alle passioni del suo cuore. È divenuto grandemente reo; ma egli prega, ed il Signore perdona a questo re penitente. E nel santo Vangelo, quando percorriate la vita del Salvatore, trovate voi, o miei cari, una sola preghiera rigettata da Nostro Signor Gesù Cristo! Vedete voi un solo infelice che se ne vada con tristezza? No, non mai. Il buon Maestro accoglieva tutte le domande, esaudiva tutte le preghiere, sto per dire tutti i desideri. E sì, perciocché non era neppur necessario che la preghiera fosse formulata dagli accenti del labbro: l’emorroissa del Vangelo non osa alzar la voce, procura soltanto di toccar il lembo della veste del Salvatore, mute rimangon le sue labbra, ma parla il cuore: e Gesù l’intende, e la povera donna è salva. Il Vangelo tutto quanto è una prova incontrastabile della bontà, con cui Iddio ode ed esaudisce la preghiera. Quindi disse Teodoreto, che l’orazione è una, ma può ottenere tutte le cose. E S. Bernardo che, quando noi preghiamo, il Signore o ci darà la grazia richiesta, o un’altra per noi più utile. E S. Giacomo ci fa animo a pregare, dicendo, che quando il Signore è pregato, allarga le mani, dona più di ciò che gli si domanda, non rimproverandoci neppure i disgusti che gli abbiamo dati. Quando è pregato par che si dimentichi di tutte le offese che gli abbiamo fatte. S. Giovanni Climaco diceva che la preghiera in certo modo fa violenza a Dio a concederci quanto gli cerchiamo. Violenza sì, ma violenza che gli è cara, e che da noi desidera, come scrisse Tertulliano. Sì, perché, al dire di San Agostino, ha più desiderio Dio di far bene a noi che noi di riceverlo. E la ragione di ciò si è, perché Dio di sua natura è bontà infinita, e perciò ha un sommo desiderio di far parte a noi de’ suoi beni. Quindi diceva S. Maria Maddalena de’ Pazzi, che Dio resta quasi obbligato a quell’anima che lo prega, mentre così gli apre la via a contentare il suo desiderio di dispensare a noi le sue grazie. Conchiude perciò S. Teresa dicendo che, se non si ottengono grazie da Dio, non è per altra ragione se non perché non gli si domandano bene. – Ma alcuni di voi diranno forse, che non sempre hanno provata questa efficacia dell’orazione; bene spesso hanno domandato a Dio delle cose che non hanno ottenuto. Ciò sarà verissimo, ma sapete il perché? Per due principali ragioni: la prima perché non avrete pregato come si deve, la seconda perché non avrete chiesto cose utili alla vostra eterna salute. Anzitutto molti pregano e non ottengono, perché non pregano come si deve. Per ben pregare è necessaria primieramente una grande umiltà. Dio resiste ai superbi, e dà la sua grazia agli umili. Dio non esaudisce le preghiere dei superbi, ma all’incontro non lascia partire da sé le preghiere degli umili senza esaudirle. E ciò, benché per lo passato siano stati peccatori, essendo scritto: Signore, voi non disprezzerete un cuor contrito ed umiliato. Per secondo vi bisogna confidenza. Nessuno sperò nel Signore e restò confuso. A tal fine c’insegnò Gesù Cristo, che chiedendo le grazie a Dio, non lo chiamiamo con altro nome, che di Padre, « Pater noster » acciocché lo preghiamo con quella confidenza, con cui ricorre un figlio al proprio padre. Chi chiede dunque con confidenza, ottiene tutto: Qualunque cosa domanderete nell’orazione, abbiate fede di conseguirla, e l’otterrete. E chi può temere, dice S. Agostino, ch’abbia a mancargli ciò che gli viene promesso dalla stessa verità, ch’è Dio? Non è Dio come gli uomini, dice la Scrittura, che promettono, e poi mancano, o perché mentiscono allorché promettono, o pure perché poi mutano la volontà. E perché mai, soggiunge lo stesso S. Agostino, tanto ci esorterebbe il Signore a chieder le grazie se non ce le volesse concedere? Col promettere Egli si è obbligato a concederci le grazie che gli domandiamo. Ma soprattutto è necessaria la perseveranza. Dice Cornelio a Lapide, che il Signore vuole che siam perseveranti nell’orazione fino ad importunarlo. E ciò significano quelle Scritture: Bisogna sempre pregare — Vegliate in ogni tempo pregando — Pregate senza intermissione. Ciò significano ancora quelle parole replicate: Domandate e riceverete; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto. — Bastava l’aver detto: Chiedete; ma no, volle il Signore farci intendere, che dobbiamo fare come i mendici, che non lasciano di chiedere, d’insistere e di bussare la porta, sin tanto che non han la limosina. Anzi ci mostrò questa verità col fatto della Cananea. Venuto Gesù nel paese di Sidone e di Tiro, gli corse dietro una povera madre pregando ad alta voce che volesse guarire la sua figliuola, che era malamente tormentata dal demonio. Ma Gesù benedetto fece le viste di non sentire e non lo rispose parola: sì che i discepoli, accostatisi a Lui, lo pregarono ad esaudirla, dicendo che si rendeva troppo molesta col suo gridare e piangere continuo. Ma Gesù anche agli Apostoli die’ ad intendere di non voler fare quella grazia. Or bene si ristette forse la Cananea dal più pregare? Anzi, fattasi coraggio, andò la Cananea innanzi al Divin Redentore, gli si gettò ai piedi, e gli andava ripetendo: Signore, aiutami, Signore, aiutami. E Gesù le rinnovò la sua ripulsa. Ma la donna ritornò da capo a supplicarlo. Allora il Divin Salvatore più non resse alla virtù che animava quella preghiera così perseverante, e rispose alla Cananea: O donna, grande è la tua fede; ti sia fatto come desideri. E da quel punto fu sanata, la sua figliuola. Ecco adunque, come per lo più Iddio richiede di essere da noi pregato per esaudirci: vuole soprattutto che lo preghiamo con umiltà, con confidenza e con perseveranza. Ma vuole inoltre che gli domandiamo cose utili. Qualcuno dirà: Spesso mi parve d’aver pregato con tutte le disposizioni ond’io era capace; grande era il mio fervore, commosso era il mio cuore, i miei occhi erano molli di lagrime, ardenti erano i miei desideri, io parlava a Dio, come parla un figliuolo al suo padre, provava anche una certa felicità; ma avendo chiesto alcune grazie speciali, alcuni particolari favori, aspetto tuttora, e non ho ottenuto nulla. Anche questo è possibile, o miei cari, ma non pigliate da ciò occasione d’accusare la bontà di Dio della non efficacia della preghiera. Mirate quel fanciullo, che si trastulla sotto gli occhi di sua madre; vede una lama brillante che gli piace, il cui splendore lo sorprende; la desidera, la chiede alla madre. Questa naturalmente ricusa. Il fanciullo raddoppia le sue istanze, la scongiura a corrispondere ai suoi voti, versa copiose lagrime. Ma la madre è inesorabile. Direte ch’ella non ama il suo figlio? Oh! egli è appunto perché lo ama con una vera tenerezza, che ricusa ai suoi voti quella lama, che infallantemente lo ferirebbe. Così, o miei cari, alle volte noi domandiamo a Dio certi favori che ci sembrano buoni, eccellenti anche. Ma Iddio, la cui intelligenza è infinita, sa meglio di noi il risultato che potrebbero produrre, il danno che potrebbe derivarne all’anima nostra, i seri pericoli che avremmo a correre. Epperò Egli si rifiuta di esaudirci, ma in questo rifiuto vi ha un atto di misericordiosa paternità: e la nostra preghiera non è stata sterile, poiché Iddio mosso a pietà dell’anima nostra ce la conserva nei sentimenti della sua giustizia e del suo amore. Quindi siamo ben convinti, che ogni preghiera ben fatta è sempre esaudita; non sempre secondo il gusto che avremmo noi, ma sempre pel nostro maggior bene e per la gloria di Dio. Perciò il Salvatore dopo aver detto: Domandate e riceverete. aggiunse: Affinché il vostro gaudio sia perfetto. Ed ecco il frutto della preghiera.

3. E qui, o miei cari, chi può dire la dolcezza, la soavità, la santa allegrezza che emana dalla preghiera? Quando si è pregato bene, allora ci sembra di aver dilatato il nostro cuore nell’atmosfera celeste, di aver riempita di luce divina la nostra mente, di aver corroborata di una forza arcana la nostra volontà. Nella preghiera abbiamo affidato nelle mani di Dio i nostri più cari interessi, e dopo di essa noi andiamo innanzi tranquilli e lievi, contando sul divino aiuto, che certamente non ci mancherà. Se prima eravamo abbattuti, come ci sentiamo rinati alle speranze più vive dopo aver pregato! Se prima il dolore ci aveva oppressi, come ci sentiamo sollevati dopo aver pregato! Se prima eravamo titubanti, incerti nell’appigliarci al bene, da qual sicurezza e da qual coraggio ci sentiamo animati dopo aver pregato. Oh quand’anche fossero per sopravvenire le più dure tentazioni, le più sanguinose persecuzioni, dopo la preghiera non se ne ha più sgomento. – Il cuore che prega non teme le procelle;  nelle espansioni della preghiera ha inteso il suo Gesù rispondergli: Sono qui, non temere. E per quel cuore fervente la gioia rimane anche in mezzo ai più orribili patimenti. Ne fanno fede i martiri. Sugli eculei, dove erano slogate le loro membra, sui roghi, dove li divoravano le fiamme, sui patiboli dove erano crocifissi, mostravano sempre sulle labbra il sorriso della gioia, e come un saggio anticipato della beatitudine: Gaudium vestrum plenum. Ah! essi pregavano, e tutti i supplizi di quaggiù non potevano rapire loro la gioia del cuore. Quanto invece si soffre, quando più non si prega o pregando malamente è come non si pregasse! Come pel mancamento dell’aria non si può più respirare e in mezzo ai più atroci dolori si muore, così si può dire, che qualche cosa di simile per l’anima accade in chi non prega. Il coraggio, l’energia, gli slanci generosi, le forti risoluzioni di fare il bene, tutto scompare da un cuore che non prega. Ed in quella vece vi sottentrano dei languori, delle debolezze, anzi delle tristezze, delle irritabilità, dei disgusti della vita al tutto singolari. Sono sdegni inesplicabili contro Dio, contro le creature, contro se stessi. Ma no, che non sono inesplicabili. Queste angosce così cocenti, queste disperazioni così gravi si spiegano benissimo con l’assenza della preghiera. Massime in certi giorni, in cui la vita si fa sentire pesante, se non si curva il ginocchio davanti a Dio, se non si prega, allora con pazzo furore lo si bestemmia e lo si impreca. E come una macchina a vapore scoppierebbe, quando avendone condensato troppo, non avesse la valvola di sicurezza, così finisce per iscoppiare in qualche grave delitto, colui che, condensando nel suo cuore le tante miserie della vita, non dà loro l’uscita per mezzo della preghiera. Preghiamo adunque, o carissimi, preghiamo sovente e preghiamo bene. E Iddio che l’ha promesso ci esaudirà, e nell’esaudimento delle nostre preghiere troveremo la vera e perfetta allegrezza. Domandate e riceverete, affinché sia pieno il vostro gaudio.

Credo …

Offertorium

Orémus Ps LXV: 8-9; LXV: 20

Benedícite, gentes, Dóminum, Deum nostrum, et obœdíte vocem laudis ejus: qui pósuit ánimam meam ad vitam, et non dedit commovéri pedes meos: benedíctus Dóminus, qui non amóvit deprecatiónem meam et misericórdiam suam a me, allelúja. [Popoli, benedite il Signore Dio nostro, e fate risuonare le sue lodi: Egli che pose in salvo la mia vita e non ha permesso che il mio piede vacillasse. Benedetto sia il Signore che non ha respinto la mia preghiera, né ritirato da me la sua misericordia, allelúia].

Secreta

Súscipe, Dómine, fidélium preces cum oblatiónibus hostiárum: ut, per hæc piæ devotiónis offícia, ad coeléstem glóriam transeámus. [Accogli, o Signore, le preghiere dei fedeli, in uno con l’offerta delle ostie, affinché, mediante la pratica della nostra pia devozione, perveniamo alla gloria celeste].

Communio

Ps XCV: 2

Cantáte Dómino, allelúja: cantáte Dómino et benedícite nomen ejus: bene nuntiáte de die in diem salutáre ejus, allelúja, allelúja. [Cantate al Signore, allelúia: cantate al Signore e benedite il suo nome: di giorno in giorno proclamate la salvezza da Lui operata, allelúia, allelúia].

Postcommunio

Orémus.

Tríbue nobis, Dómine, cæléstis mensæ virtúte satiátis: et desideráre, quæ recta sunt, et desideráta percípere. [Concedici, o Signore, che, saziati dalla forza di questa mensa celeste, desideriamo le cose giuste e conseguiamo le desiderate.]

LO SCUDO DELLO FEDE (62)

LO SCUDO DELLA FEDE (62)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

SI CONVINCE FALSO IL PROTESTANTISMO PERCHÉ NON HA IL BENE DELLA S. COMUNIONE.

Dopo, la confessione, che ci purifica dai nostri peccati, il maggior bene dei Cristiani è la S. Eucaristia. Questo è il Sacramento che arreca il maggior conforto ai Cristiani e che è il loro più grande onore, poiché per esso sono fatti partecipi non solo delle grazie di Gesù, ma dello stesso Gesù. La S. Fede insegna adunque di questo mistero che per mezzo delle parole della Consacrazione pronunziate dal Sacerdote sul pane e sul vino, per virtù dell’Onnipotente cessa di esistere il pane ed il vino, passando per una vera transustanziazione quel pane e quel vino ad essere il corpo ed il sangue del nostro divino Redentore: tantoché sotto le specie del pane vi sta veramente Gesù Cristo e non in figura; vi sta realmente e non con una presenza immaginaria; vi sta sostanzialmente e non solo con la sua Divina virtù: e così chi riceve la S. Eucaristia riceve veramente il Corpo Divino di Gesù Cristo, il suo Sangue prezioso, la sua anima sacrosanta, la sua ineffabile divinità. Questa è una grazia tanto grande che non si potrebbe credere, se non fosse Gesù Cristo medesimo il quale ce ne fa certi. Ma viva Dio, che la verità eterna, Gesù Cristo, ce ne ha assicurati per modo, che non se ne potrà mai dubitare in eterno. Ecco quello che Egli si compiacque d’insegnarci in proposito la prima volta che entrò in discorso di questo argomento, che fu quando predicava nella Sinagoga di Cafarnao. In verità io vi dico, sono sue parole, che se non mangerete la carne del figliuolo dell’uomo, e non beverete il suo sangue, non avrete la vita in voi. Chi mangia la mio carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno. La mia carne è veramente cibo, il mio sangue è veramente bevanda (Ioan. VI. 54. 55). Fermiamoci qui. Potrebbe Gesù Cristo parlare più chiaramente per significarci che veramente ci voleva dare in cibo il suo corpo ed il suo sangue divino? Non dice chiaro … chi mangia la mia carne, chi beve il mio sangue? Non ripete che il suo corpo è cibo, il suosangue bevanda? Non aggiunge un significantissimo veramente, perché nessuno prenda in senso metaforico quelle espressioni? Si scandalizzano alcuni dei suoi discepoli di questa promessa, stimandola impossibile a mantenersi, e Gesù forse la ritratta? Tuttoal contrario la conferma con fortissimr espressioni, ripetendola, inculcandola in tuttele guise, ed in tutti i modi. Converrà dire che Gesù non sapeva farsi intendere, oppure che voleva ingannarci. Ma sarebbe una bestemmia il solo pensarlo.Eppure quasi ciò non bastasse, quandopoi giunse la grand’ora di fare questo preziosoregalo agli uomini, parla nello stesso modo. Egli prende il pane e lo benedice, e poi dopo di averlo benedetto, lo presentaai Santi Apostoli dicendo: Questo è il mio Corpo: benedice poi il calice e dandolo abevere ai medesimi dice: Questo è il mio sangue. Ma di qual corpo e di qual sangue parla Egli? Proprio del suo: di quel Corpoche sarà consegnato alla morte, di quel Sangue che sarà sparso per i peccatori (Luc. XXII, 17 –  1 Cor. XI. 25) aggiunge Egli. Se si possa parlare più chiaro di così, io non lo so. Epperò è che sopra queste parole divine fondati tutti gli Apostoli e tutta la Chiesa, sempre praticarono questo santo Mistero: però è che i primi Fedeli eranosoliti ad accostarsi a riceverlo spesso spesso,come ricordano gli Atti degli Apostoli: eperò è che perfino i Gentili, i quali non conoscevano bene questo Mistero, spargevano la voce che noi mangiavamo la carne dei bambinisacrificati: però è che tutta la S. Chiesaimpiega quasi tutto il suo culto in onoredel suo buon Dio Sacramentato. Aggiungete che ad autenticare questogrande Mistero Gesù adoperò tante altreprove di miracoli strepitosi, che avvennero nell’occasione delle ostie consacrate, e miracoli innegabili a tutta la perfidia degli eretici: facendo vedere ora quella S. Ostia contornata di splendori celesti, ora in essa un bambino di meravigliosa bellezza: altre volte col colpire di morte subitanea i profanatori del Sacramento, altre volte col fare grazie tutte speciali a quelli che lo adoravano riverentemente, e finalmente col dar molte volte prove chiarissime della sua presenza ai Fedeli, secondo che riferiscono tutte le vite dei Santi e tutte le ecclesiastiche storie. Il perché per lo spazio di dieci secoli mai nessuno osò neppure tra gli Eretici, per quanto fossero baldanzosi, mettere in dubbio questo divin Sacramento. E l’eresiarca Berengario che fu il primo si ebbe poi a ritrattare, e morì pentito del suo errore. Volete più? Lo stesso Martin Lutero, il padre di tutti i Protestanti, mai non osò negare la presenza reale di Gesù nel SS. Sacramento. Tanto essa è espressa chiaramente in tutte le Sante Scritture, in tutti i monumenti dell’antichità! Ora però, chi credesse a questi nuovi maestri, non è più così. Molti dei Protestanti moderni sono giunti a tanto di sacrilegio, che osano negare che vi sia Gesù nella S. Ostia, che giungono fino a chiamarla un pezzo di pane. Sì questi sciagurati arrivano fino a questo punto! Con che danno una mentita prima allo stesso Gesù Cristo, il quale afferma invece che è il suo vero Corpo, il suo vero Sangue, poi a tutta la S. Chiesa, la quale dopo d’avere impiegato tutto il suo Culto per adorare il suo buon Dio Sacramentato, sarebbe disposta a dare tutto il suo sangue per mantenerne la verità: danno una mentita anche allo stesso loro capo Lutero, il quale per quanto lo volesse mai non osò impugnare la reale presenza: insegnano un errore che è condannato uniformemente da tutta la S. Chiesa, da tutti i Santi Padri, anzi perfino da tutti gli eretici antichi, dalla maggior parte degli eretici anche moderni, e con una più che diabolica superbia pretendono di essere essi soli i veggenti, gl’illuminati a conoscere la verità! Oh presunzione! Oh temerità che non ha fine! Voi però nell’intendere bestemmie sì esecrande dette contro questo buon Dio d’amore, che si trattiene per noi giorno e notte sui nostri altari, fate così. Concepite prima un sommo orrore al Protestantismo il quale è senza la presenza del suo Gesù: inferiore in ciò agli stessi Giudei, i quali avevano almeno la figura del divin Sacramento nella Manna che conservavano nell’Arca; poi rinnovate sempre più la vostra Fede verso di esso e mostratela alla riverenza con cui gli state dinanzi.S. Luigi Re di Francia aveva una Fede così viva, che invitato una volta a recarsi in una Chiesa dove per gran miracolo Gesù si faceva vedere nell’ostia in forma di bambino, rispose che andasse pure chi volesse, che egli non si sarebbe mosso. Meravigliati di questa risposta: o perché, l’interrogarono, non voleva vedere Gesù? Ma il Santo replicò allora: Io per me ne sono tanto sicuro per Fede che non ho bisogno per crederlo, di vederlo con gli occhi. Inoltre andate a riceverlo più spesso che potete persuasi che in nessun altro modo sapreste contentare più e meglio l’amore che Egli ci porta, che con l’unirvi tutti a Lui in questo Mistero. Finalmente con ossequii specialissimidiretti al suo Cuor Sacrosanto compensate l’atrocità degl’insulti che riceve dagli Eretici che o non lo conoscono, o peggio ancora lo bestemmiano.

PERFEZIONE CRISTIANA (2)

PERFEZIONE CRISTIANA (2)

[G. B. Scaramelli S. J.: DIRETTORIO ASCETICO, vol. Primo, Tipogr. e libr. Speirani e Tortone – Torino, 1855

CAPO IV.

Acciocché i desiderii di perfezione conducano effettivamente il Cristiano alla bramata perfezione, è necessario ch’egli non si rallenti mai in essi, ma gli vada sempre distendendo all’acquisto di maggior perfezione.

60. Abbiamo già veduto che la pietra fondamentale, da cui ha da sorgere lo spirituale edificio della cristiana perfezione, sono i desideri di acquistarla, e abbiamo anche dato ai direttori il modo di muovere questa prima pietra e di gettarla nell’anima dei loro discepoli; voglio dire che gli abbiamo somministrato alcuni motivi atti a destare questi santi desideri! negli altrui cuori. Ora ci resta a vedere che questa pietra non forma buon fondamento abile a reggere la fabbrica della perfezione, se non sia sempre stabile, sempre ferma e sempre fissa nel cuor dell’uomo. E per parlare con tutta chiarezza dirò che ci rimane a dimostrare, che i detti desideri, acciocché ottengano il fine della perfezione a cui tendono coi loro ardori, bisogna che mai non cessino, mai non si rattiepidiscano, né si rallentino: ma acquistato un grado di perfezione, si distendano ad un altro grado di ulteriore perfezione; non facendosi questo, mina presto tutto il lavoro già fatto per l’acquisto della perfezione, e presto si ritorna a cadere nelle antiche freddezze.

61. Prima però di mostrare ciò con l’autorità voglio provarlo con la ragione, acciocché i detti dei santi padri e delle sacre scritture non sembrino al lettore esagerati. La perfezione del Cristiano non ha un certo termine che non si possa passare, né proceder più oltre; sicché solo quello possa dirsi perfetto che arrivi al detto termine, né possa dirsi tale chi non vi giunga. Hanno bensì questi limiti e questi confini le arti meccaniche e liberali: poiché il fabbro, l’architetto, il pittore, se arrivano a formare esattamente le loro manifatture secondo le regole che sono prescritte dalla loro facoltà, possono dirsi perfetti nella loro arte, e appena rimane loro altra perfezione ulteriore da conseguire. Ma non ha già questi confini la perfezione cristiana; mentre consistendo essa, come abbiamo di sopra mostrato, nella carità, può crescer tanto, quanto è il merito di quel gran Dio ch’ella ha per oggetto. E perché il merito, così dice l’Angelico, che ha Iddio di essere da noi amato, è infinito, così può sempre più in infinito dilatarsi la carità con le sue fiamme e coi suoi santi ardori (2, 2, quæst. 24, art. 7, in corp.). Ond’egli ne deduce ciò che noi andiamo dicendo, che in questa vita non può ella avere alcun termine. E conseguentemente né pure può aver termine la perfezione di nostra vita. Lo stesso dico della nostra perfezione istrumentale; perché o questa si consideri in quanto rimuove gl’impedimenti della carità, con le mortificazioni delle passioni e dei sensi; già né pur essa può aver termine, perché siccome non possono mai le nostre passioni pienamente estinguersi, così non deve cessarsi mai dal mortificarle e dal reprimerle; o si consideri in quanto una tal perfezione è positiva disposizione all’aumento della carità col perfetto esercizio delle virtù; e già non può aver fine, potendosi le virtù sempre più raffinare. Dunque se la nostra perfezione non può aver alcun limite, né può consumarsi in alcun termine, è necessario ch’ella stia in un continuo progresso di virtù morali e in un incessante accrescimento di carità. Onde non dovrà quello riputarsi perfetto, che giunto ad un certo grado di carità, ivi si fermi; ma quello bensì, che dopo aver superati bastevolmente gli ostacoli che fan guerra alla carità, sempre più si raffini in virtù e sempre più s’infiammi nel divino amore. Dunque, inferisco io, acciocché desideri di perfezione effettivamente ci portino alla perfezione, non devono mai illanguidirsi, ma dilatarsi sempre ed innalzarsi a maggior perfezione; poiché siccome non ha termine alcuno la perfezione a cui aneliamo, così non devono avere alcun limite le brame di conseguirla.

62. E a questo appunto volle alludere Salomone con quelle parole: la strada della perfezione, che è appunto la via per cui camminano i giusti, cresce sempre in splendore ed in lustro di maggiori virtù, finché giunga a quel giorno di perfetta chiarezza che solo in paradiso si gode (Prov. cap. IV, 18). Lo stesso dice il profeta reale: quello è beato che già ha risoluto nel suo cuore di andare sempre salendo in perfezione, finché dimora in questa valle di lagrime; giacché con la benedizione ed aiuto del divino legislatore andrà sollevandosi da una virtù in un’altra maggiore, finché giunga a vedere svelatamente la faccia di Dio nella beata Sionne del paradiso. (Ps. LXXXIII, 9). S’osservi in questo testo che il chiamarsi beato quello che con le brame del cuore aspira sempre a maggior perfezione, è lo stesso che dirlo perfetto; perché nella perfezione consiste la felicità terrena, e ne dipende l’eterna beatitudine. Chi è giusto, dice Iddio nell’Apocalisse, si faccia più giusto; e chi è santo, divenga santo ogni giorno più (Apoc. cap. XXII, 11). Tanto è vero che non ha termini la perfezione cristiana, e che quello è più perfettoche aspira a maggior perfezione.

63. Vediamo quanto ciò sia vero nel grande apostolo delle genti san Paolo. Non si può certamente rivocare in dubbio, ch’egli sia stato uno dei più gran santi e quasi una stella di prima grandezza nel cielo di s. Chiesa. Quante persecuzioni, quante pene, quanti travagli sofferti per Gesù Cristo! che carità accesa, che vampe d’amore, che zelo ardente del di lui onore! quante rivelazioni, quante visioni, quante estasi e rapimenti fino al terzo cielo! Eppure il santo apostolo, ricco di si grandi virtù e di eccelsi doni, non si reputa ancor perfetto, e se ne protesta (ad Philip, cap. III, 12). Confessa il santo d’essere stato lapidato, più volte flagellato, d’essere stato più volte naufrago in mezzo al mare, balzato notte e giorno dalle onde in questa parte e in quella (ad Corint. epist. 2, cap. 41). Confessa le sue molte vigilie, i suoi molti digiuni, la fame, la sete, la nudità ed i rigori del freddo tollerati per amor di Gesù. Palesa d’essere stato rapito in paradiso vivendo ancora in carne mortale. Arriva fino a dire, ch’egli non vive più in se stesso, ma vive solo in Gesù, trasformato in lui per amore. Ciò non ostante poi si dichiara che non gli pare d’essere ancora perfetto. Ma se tutte queste cose, o dottor delle genti, non vi bastano per essere perfetto, in qual cosa riponete voi l’acquisto della vostra perfezione? in qual cosa stabilite voi il colmo della vostra santità? Eccolo: Sequor autem, si comprehendam. L’andare avanti, quanto mi è più possibile nella via dell’istessa perfezione: distendermi sempre coi desideri e con le opere ad ulterior perfezione. Ed in fatti la glossa su queste parole così riflette al nostro proposito: nessun fedele ad esempio di questo gran santo, ancorché gli paia di aver fatto gran profitto nello spirito, dica mai: basta fin qui: perché parlando in questo modo esce dalla strada della perfezione, prima di giungere al fine della sua eterna beatitudine.

64. Né diversamente parla su questo punto s. Agostino: non è quello ottimo, cioè perfetto, che giunto a qualche grado di perfezione ivi si ferma, ma quello bensì è perfetto che sempre tende a Dio, nostra vita inalterabile, con le più fervide brame del suo cuore, e sempre più strettamente si unisce a lui (in lib. de doct. Christ.)  E più chiaramente s. Bernardo: una applicazione indefessa al proprio profitto e un conato continuo per conseguire la perfezione, si reputa essere l’istessa perfezione. Or se con lutte le forze del suo spirito l’attendere alla perfezione è lo stesso che essere perfetto, certamente il non volervisi seriamente applicare, sarà un mancare dalla perfezione. Dove sono ora quelli che dicono: ci basti il profitto ch’abbiamo finora fatto: non vogliamo già essere migliori dei nostri predecessori (epist. 253 ad Abat. Garivum)

65. il lettore forse mi taccerà d’incoerenza; perché avendo detto nel precedente articolo, che la perfezione cristiana consiste nella carità, par che ora mi ritratti riponendo con s. Paolo e coi precitati santi dottori tutti la sua sostanza in un progresso ed avanzamento continuo nelle virtù e in un desiderio indefesso del proprio profitto. Ma s’inganna egli certamente se ciò pensa; perché quello che ho detto prima, punto non discorda da ciò che vado presentemente dicendo. È vero che l’essenza della nostra perfezione è la carità, e gli instrumenti per conseguirla sono le virtù morali ed i consigli. Ma richiede ella, come condizione necessaria, senza cui non può lungamente sussistere, che la carità e tutte le altre virtù vadano sempre crescendo e si vadano ogni giorno più aumentando; perché non prendendo questo stato di consistenza, già tutta la perfezione va a terra, si distrugge e muore. E qui voglio alla ragione di sopra addotta aggiungerne un’altra che metta in chiaro la presente dottrina. Mostrai di sopra che per essere perfetto bisogna sempre distendere i desideri a maggior perfezione, perché la perfezione cristiana non ha termine; ora voglio persuadere con un’altra ragione lo stesso, ed è, che non solo la perfezione non ha limite che la ristringa, ma non può né pure avere stato di permanenza che la ritardi; acciocché perisca affatto, basta che si fermi e non vada più avanti.

66. Chi non sa, chi non prova la guerra atroce che abbiamo tutti entro noi stessi? Tanti sono i nemici interni che ci si ribellano contro, quante sono le passioni che si sollevano ne’ nostri animi, e coi loro moti sregolati ci spingono al peccato e ci portano all’eterna ruina. Né sapete decidere quali siano più veementi, quali siano più pericolose, se la limosina o l’avarizia; se l’amore o l’odio; se la presunzione o la disperazione; se l’ambizione o l’invidia. Questo solo è certo, che una sola tra tante passioni che ci predomini basta per trarci fuori dalla strada della perfezione e portarci per la via della perdizione al precipizio. Né men forti sono i nemici che abbiamo al di fuori in tanti demoni che per ogni parie ci circondano, in ogni luogo c’investono con le loro tentazioni e ad ogni passo ci tendono lacci al piede per farci cadere. Sicché siamo in una somma necessità di star sempre combattendo con le armi delle mortificazioni, delle virtù, e specialmente d’una fervente carità per reprimere gli assalti dei nemici che abbiamo dentro, e per rigettare gli attacchi dei nemici che abbiamo attorno. Or se mai accada che alcuno, parendogli d’aver fatto già gran profitto, voglia fermarsi in quel grado di perfezione in cui si trova, e però si rallenti nell’esercizio delle sante virtù e nel fervore della carità: chi non vede che rimarrà da tanti avversari in molte parti ferito e spinto fuori del sentiero della perfezione? Un esercito che vada generoso all’assedio d’una piazza risoluto d’impadronirsene, se incontri li nemici per istrada, può egli forse fermarsi senza andare avanti o senza tornare indietro? No certamente; perché ha a fronte chi lo respinge, chi l’urta; o bisogna che faccia forza al nemico, e con grande animo vada avanti all’impresa: o bisogna che si rivolga indietro e sidia bruttamente alla fuga. Così chi ha incominciato a salire il monte della perfezione non può fermarsi in mezzo alla strada, perché ha troppi nemici attorno che l’assaltano ed urlano in mille guise. E necessario che si vada sempre avanti, reso animoso dalla forza dei suoi desideri, o che illanguidito nelle sue brame, ceda ai nemici e torni indietro.

67. E però dice bene s. Bernardo: che il non procedere avanti nella perfezione è senza fallo un rivolgersi indietro; perciò niuno vi sia che dica: mi bastano i progressi che ho fatto, voglio rimanermene qui: sono contento di esser oggi qual fui ieri e nei giorni scorsi. (Ep. 342) E apporta in conferma di tal verità la scala di Giacobbe, vero simbolo della cristiana perfezione, mentre niuno v’era in quella che stesse fermo e fisso sullo stesso gradino; ma chiunque non saliva in alto, discendeva al basso. Quindi inferisce che volendo alcuno fermarsi in qualche grado di perfezione, tenta ciò che non è possibile ad ottenersi in questa mistica scala, onde gli converrà necessariamente cadere al basso. Ma più forzoso ed efficace è il discorso con cui il predetto mellifluo in un’altra sua lettera investe un monaco rattiepidito nei desideri di maggior perfezione; poiché venendo con esso lui a tu per tu, come suol dirsi, così gli parla: dunque, o monaco, tu non vuoi andare avanti, né brami maggior perfezione? dunque tu vuoi tornare indietro e perder ciò che hai acquistato. Oh questo no, non sia mai! Dunque che pretendi tu? Pretendo vivere così e restarmene in quello stato di perfezione a cui sono già arrivato; non voglio essere peggiore, né bramo divenir migliore. Dunque vuoi ciò che non può essere e non è stato giammai. E qual cosa v’è in questo mondo che stia sempre in uno stesso essere? E dell’uomo istesso non dice lo Spirito Santo che è fugace ed instabile come l’ombra, e che non rimane mai in un medesimo stalo? (Epist. 253 ad Abat. Garivum). E altrove assale il santo dottore queste persone tiepide e rimesse nei desideri della loro perfezione con la parità degli uomini mondani che mai non si saziano dei beni caduchi, a fine di farle in questo modo confondere e risvegliarle col loro esempio: quale ambizioso, dice loro, rinveniste mai che ottenuta una dignità non aspirasse ad un’altra maggiore (Ep. 341)? Che dirò degli avari che sempre sono avidi di maggiori ricchezze? che dei voluttuosi che non sono mai sazi dei loro piaceri? che dei vanagloriosi che vanno sempre in cerca di maggiori onori? Or se i desideri di questi verso i beni frali della terra sono insaziabili, che vergogna è la nostra, che siamo meno bramosi dei beni spirituali e meno avidi della nostra perfezione? Di queste forti ragioni e di questi giusti rimproveri si serva il direttore per risvegliare in sé e negli altri desideri di maggior perfezione, e per mantenerli sempre vivi; giacché raffreddandosi questi, la persona cessa dall’operare virtuosamente, non va avanti, si ferma nel cammino della perfezione, e fermandosi dà indietro, fino a cadere talvolta in precipizi, come abbiamo già chiaramente mostrato.

68. Confesso il vero, che mi hanno fatto sempre nell’animo grande impressione le industrie ammirabili che praticò Iddio per mantenere sempre accese nel cuore del celebre Pafnuzio le brame di maggiore e maggior perfezione, per cui aveva già stabilito di condurlo alle più alle cime della santità (Vitae PP., vita 16 s. Paphnutii). Viveva egli nei deserti della Tebaide, a niuno di quei santi solitari inferiore, e forse a tutti superiore nell’austerità della vita, nell’assiduità dell’ orare, nella illibatezza della coscienza e nello esercizio di tutte le virtù. Però vedendo Iddio che non v’era tra quei deserti chi potesse dargli con il suo esempio stimoli efficaci a maggior perfezione, si servì d’altri modi inusitati e strani per infiammarlo nei desideri di maggior profitto. Gli pose nel cuore una certa brama di sapere chi vi fosse nel mondo che lo pareggiasse in perfezione; quando poi stava già in atto di chiedere al Signore questa notizia, gli spedì un Angelo dal cielo con questa ambasciata: che andasse nella città vicina, ove avrebbe trovato un suonatore a lui eguale in meriti ed in santità. Rimase il santo attonito e stupefatto a queste parole, prese il suo bastone, corse veloce verso la città in cerca del suonatore, e ritrovatolo in una pubblica piazza in mezzo ad un circolo di gente sfaccendata, lo trasse in disparte e l’interrogò del tenore della sua vita. Io, gli rispose quello, sono un gran peccatore; già fui ladro di professione, ed ora col suono e col canto vado trattenendo il popolo, e in questo modo mi procaccio il vitto necessario per sostenere onestamente la vita. Con tutto ciò, esaminatolo il santo esattamente, trovò che nel progresso della sua vita aveva fatti vari atti di eroica virtù; posciachè, presa una volta dai ladroni suoi compagni una vergine consacrata a Dio, già stavano i scellerati per toglierle con la roba che seco aveva anche il prezioso tesoro della verginità; egli però, postosi di mezzo, la tolse a viva forza dalle loro mani e la ricondusse illibata ed intatta alla sua abitazione. Un’altra volta imbattutosi tra luoghi deserti in una donna di vago aspetto che riempiva di gemiti e di pianti tutta quella solitudine, interrogolla della cagione del suo dolore; quella rispose che si trovava disperata, perché eranle stati posti in prigione per debiti i figliuoli ed il marito, né aveva modo di ricuperare a quelli la libertà e di mantenere a se stessa la vita; egli in sentir questo non solo non fece alcun oltraggio alla di lei onestà, ma condottala nella sua grotta, ristorolla col cibo e poi donolle trecento scudi acciocché con essi liberasse i suoi congiunti dal carcere e se stessa da tante sciagure. Non è facile a dirsi quali desideri di perfezione accendesse nel cuore di Pafnuzio questo fatto; si vergognò di se stesso vedendo che in tanti anni di vita solitaria non era giunto ad eguagliare in santità un pubblico suonatore; si prefisse un esercizio più alto e più arduo di virtù; moltiplicò i digiuni, prolungò le vigilie, si diede ad uno studio più indefesso di orazioni, ad una mortificazione più esatta, ad una illibatezza di coscienza più fina, ed a procurare con maggior ardore di prima i suoi spirituali avanzamenti. Dopo alcuni anni d’una tal vita, tornò Iddio a risvegliargli nel cuore l’antica brama di sapere chi gli fosse simile in virtù, ed egli tornò a porgerne a Dio replicate preghiere. E questa volta parlandogli il Signore da se solo nell’intimo del cuore, gli disse che nella città vicina avrebbe trovato un ammogliato ne’ meriti simile a sé. Andò egli per chiarirsi del vero, e trovò un uomo secolare che da trent’anni indietro manteneva castità coniugale con la sua consorte, che era tutto dedito ad opere di carità verso i poveri e verso i pellegrini, e che praticava altre molte belle virtù. Questo esempio di rara bontà, come dice l’istoria, l’infiammò di maggiori desideri, e fece che tutto si consacrasse ad esercizi di perfezione maggiori di quelli che fin allora aveva praticati, nulla stimando le sue passate opere; mentre potevano stare al paragone delle virtù di chi viveva imbarazzato negli affari del secolo. Finalmente tornò dopo alcuni anni a fare a Dio la stessa domanda, e n’ebbe simile risposta, cioè che l’eguagliava nei meriti un certo mercatante, che già veniva verso la sua cella per visitarlo; e quindi seguirono desideri più accesi ed opere più eccellenti di perfezione. Finché consumato in tutte le virtù, tornò di nuovo a comparirgli l’Angelo del Signore in compagnia dei profeti ed altri spiriti beati, da cui accolto il di lui spirito fu portato alla celeste patria e collocato in alto posto, proporzionato alla sua gran santità. Insomma volendo Iddio innalzare Pafnuzio ad un sublimissimo grado di perfezione, altro non fece che risvegliare in lui con modi tanto più efficaci, quanto più insoliti, nuove brame e maggiori desideri di quella perfezione di cui volevalo arricchire. Dia dunque sempre il direttore ai suoi penitenti che vede disposti quel ricordo che s. Antonio andava sempre ripetendo alle orecchie dei suoi discepoli, come riferisce s. Atanasio: riputarsi sempre principiante e senza mai rattiepidirsi, andar sempre aspirando a maggiori progressi nello spirito (In vita s. Antonii) . Ma perché i mezzi praticati da Dio con s. Pafnuzio per accrescere in lui la brama di perfezione sono straordinari, né devono da noi praticarsi (non essendo lecito senza specialissima ispirazione fare a Dio quelle domande ch’egli replicate volte gli fece); perciò darò io ora mezzi ordinari, propri e connaturali per mantener sempre vivi e dilatare sempre più questi santi desiderii.

Capo V

Si propongono i mezzi per mantenere svegliati e per ampliarei desiderii della propria perfezione.

69. Primo mezzo sia l’uso frequente delle sante meditazioni. Nelle mie meditazioni, diceva il salmista, mi si accende nel cuore un santo ardore, che alla virtù mi stimola ed alla perfezione mi accende. E nella meditazione si ha da accendere anche ne’ nostri animi quel santo fuoco di desideri che ci svegli e ci sproni ad avvantaggiarci nel nostro spirituale profitto, perché nella meditazione si conosce il gran merito che ha Iddio di essere da noi amato; la grandezza dei suoi benefizi e del suo amore che ha tanta forza di provocare il nostro cuore alla corrispondenza d’un reciproco amore; l’obbligo d’imitar Gesù Cristo e renderci ogni giorno più perfetti con la di lui somiglianza. Nella meditazione si scorge il bello della virtù, e l’anima se ne invaghisce; si scopre l’orrido dei peccati, la deformità dei difetti, e l’anima ne concepisce orrore. Nella meditazione s’intende la grandezza dei beni che ci sono apparecchiati nella patria beata, e la grandezza dei mali che ci stanno preparati colaggiù negli abissi; onde l’anima per l’orrore di questi e per l’amore di quelli si accende in desiderio delle sante virtù. Insomma la meditazione è la fucina in cui il cuore umano depone ogni sua durezza s si ammollisce, si riscalda, s’infiamma di sante brame. Io non voglio trattenermi in questo punto, perché avrò in breve a parlare lungamente della meditazione in un intero articolo. Voglio solo raccontare un fatto in prova di tal verità, e sarà uno tra mille che a questo proposito potrei riferire (P. Greg. Rosig. not. memor. degli eserc. cap. 5, § 1). Si trovava ristretto nelle carceri di Castiglia un sacerdote, apostata da due religioni, profanatore dei sacramenti, oltraggiatore di cose sacre, reo di mille scelleratezze e degno di mille morti. Non isdegnò la divina misericordia di picchiare con le sue ispirazioni alle porte d’un cuore sì empio, e con battute sì forti, che quello venne a riscuotersi dal suo profondo letargo e vedere la sua perdizione. Chiamò subitamente un padre della mia compagnia, e palesandogli lo stato infelicissimo della sua anima, lo pregò di consiglio, di rimedio e di soccorso. Il padre vedendo le grandi e molte enormità in cui era colui precipitato, stimò che per ridurlo sulla strada della salute ed anche della perfezione, da cui aveva a poco a poco deviato, altro rimedio non vi fosse che porlo nella meditazione delle massime principali di nostra fede. E acciocché avessero queste forza maggiore di far breccia nel di lui cuore, volle proporgliene a meditare con quel bell’ordine con cui 1’espone s. Ignazio nei suoi esercizi. Né andò fallito il suo disegno, perché alle prime meditazioni che quello fece, diede subito in uno spirito di altissima penitenza; cominciò a digiunare frequentemente e tre volte la settimana in pane ed acqua; vestì sulle nude carni un orrido cilizio, e si cinse attorno al collo una ruvida fune; ogni notte per lo spazio d’una mezz’ora faceva con aspra disciplina un sanguinoso macello delle sue carni; nella confessione generale, che poi fece con gran profluvio di lagrime, si protestò che qualunque morte acerba e infame fossegli stata assegnata dalla giustizia umana, era inferiore alle sue scelleratezze, e che però non avrebbe adoperato alcun mezzo per ischivarla. Ma perché il fervore con lo studio del meditare si accendeva sempre più nel suo cuore, non contento del suo ravvedimento, si diede a predicare ai prigionieri; e sebbene ebbe sul principio a patire molti scherni ed irrisioni, contuttociò con la forza delle sue parole e con le elemosine che loro distribuiva di tutto ciò che gli era trasmesso per suo sostentamento e per suo uso, ottenne di convertirne molli, altri di migliorarli, e in altri d’introdurre con l’uso delle meditazioni, dei sacramenti e delle penitenze una qualche forma di perfezione. Sicché le carceri che prima sembravano un serraglio di fiere indomite, si videro cangiate in un oratorio di penitenti, in cui, invece di bestemmie, spergiuri e parole oscene, altro non si udiva risuonare che cantici spirituali, rosari, litanie e orazioni devote. Sparsa intanto la voce d’una conversione così ammirabile, e giunta alle orecchie dei giudici, pensarono questi di perdonargli la morte pur troppo da lui meritata. Ma egli porse tanti memoriali per esser trascinato al patibolo e condannato alla morte, quanti ne avrebbe dati ogni altro per isfuggirla. Quelli però contemperando la misericordia, non la giustizia, lo condannarono alla galera, acciocché forse risvegliasse in quelle navi la pietà che aveva sì felicemente introdotta nelle prigioni. La sentenza però non ebbe effetto, perché sorpreso da una cocentissima febbre, in breve si ridusse all’estremo; e tra’ sentimenti tenerissimi d’una gran contrizione e d’una viva confidenza in Dio spirò dolcemente l’anima, Or io su questo fatto la discorro così: se la meditazione delle verità cristiane ebbe forza di mutare un cuore il più perfido forse che allora fosse nel mondo, e da uno stato di vera dannazione ridurlo a perfezione di vita, non avranno poi simili meditazioni la virtù di tenere desto, svegliato, acceso un cuore ben disposto che già brama la sua perfezione, che già si esercita in quella, purché voglia però incessantemente praticarla? Non mi pare certamente che se ne possa dubitare. Questo dunque reputi il direttore il mezzo principale per mantener sempre vivi e per accrescere i desideri di perfezione nei suoi discepoli, l’esercizio stabile e frequente del meditare.

70. Secondo mezzo. Rinnovare sempre il proposito di tendere alla perfezione come se allora s’incominciasse. Queste risoluzioni e rinnovazioni di volontà tengono svegliata l’anima, acciocché non s’addormenti e non si stanchi di correre l’arringo della perfezione. Questo era il consiglio che dava l’Apostolo a quei novelli Cristiani della primitiva chiesa, che dal culto sacrilego de’ simulacri erano passati al vero culto di Gesù Cristo per mezzo del santo Battesimo: rinnovatevi con lo spirito della vostra mente (Renovamini spiritu mentis vestræ (ad Ephes. cap. IV, 45). E come si fa, direte voi, con la mente la rinnovazione dello spirito? Eccolo: replicare sempre con la sua mente e con la sua volontà la risoluzione di tendere alla perfezione, come se la persona non avesse mai incominciato, né mai posto mano ad un sì bel lavoro; e specialmente di scendere a quelle virtù e mortificazioni particolari di cui ciascuno si conosca bisognoso per il suo profitto, risolvendo frequentemente di volersi esercitare virilmente in quelle. Così faceva il santo David, come egli confessa di se stesso (Ps. LXXVI, 11). Quantunque il santo profeta camminasse già per le alle cime della perfezione, contuttociò, come se fosse un principiante imperfetto, diceva spesso seco stesso: oggi voglio incominciare a servire Iddio: oggi voglio dedicarmi interamente al divino servizio. Questo fu l’ultimo ricordo che s. Antonio diede ai suoi monaci, mentre gli facevano corona intorno al letto, stando egli vicino a morire, come racconta s. Atanasio: figliuoli miei, io già m’avvio per la strada che hanno battuta i miei predecessori: già Iddio mi chiama a sé, ed io stesso bramo già di trovarmi tra i celesti cori; ma ecco, viscere mie (così chiamava egli i suoi figliuoli spirituali), non vogliate perdere in un subito le fatiche che avete in tanti anni sofferte; e però figuratevi sempre, che ogni giorno della vostra vita religiosa sia il primo in cui intraprendiate la carriera della perfezione, acciocché con queste nuove risoluzioni cresca la fortezza delle vostre volontà in andare avanti e in profittare nelle sante virtù Questi ricordi applichi a sé e dia ai suoi discepoli il direttore, se vuol vederli avvantaggiati in perfezione, e soprattutto se non vuol vedere, come diceva quel gran santo ai suoi monaci, perdute prestamente le loro passate fatiche.

71. Terzo mezzo. Non pensar mai al bene che si è fatto, ma bensì al bene che resta da farsi ed alle virtù che rimangono da conseguirsi. Questo mezzo ce l’insegna s. Paolo e ci provoca a praticarlo col suo esempio: fratelli miei, io non istimo già di essere giunto al termine della mia perfezione e di essermene di già impossessato; dimenticandomi però di tutto il bene che ho fatto per il passato, mi distendo con tutte le forze del mio spirito al conseguimento di quel bene che mi resta da fare, e sieguo a correre con alacrità l’arringo della perfezione, per arrivare all’acquisto di quel pallio che Iddio chiamandomi a sé già mi ha destinato. E poi aggiunge queste parole: chiunque è perfetto, abbia questi stessi miei sentimenti (Phil. III, 13-14). S. Gio. Crisostomo spiega questo testo divinamente ed opportunamente al nostro proposito. Dic’egli che il ripensare al ben fatto partorisce due mali: primo, ingenera compiacenza vana e ci rende a poco a poco superbi ed arroganti; secondo, ci fa essere pigri al bene, perché rimirando con occhi di compiacenza il bene operato ne’ tempi scorsi, rimaniamo di noi stessi contenti e paghi, né aspiriamo più ad altro bene maggiore (hom. 11, in epist. ad Philippenses). Quindi deduce, che se l’Apostolo, dopo mille pericoli di perder la vita, a cui soggiacque; dopo tanti travagli e patimenti capaci di recargli mille volte la morte, si gettò il tutto dietro le spalle senza pensarci più; quanto più dobbiamo ciò fare anche noi che non siamo sì ricchi di meriti e di virtù.

72. Dopo esserci dimenticati del passato, seguita a dire il santo dottore, dobbiamo, ad esempio di s. Paolo, metter l’occhio nel futuro, come fanno quelli che corrono, che non guardano al viaggio che hanno fatto, ma a quello che loro resta da fare; e in questo modo prendono maggior lena. Tanto più che il pensare al ben fatto nulla giova, se questo non si rende compito e perfetto con l’aggiunta di ciò che resta a farsi

73. Né contento il Crisostomo di aver data una spiegazione tanto propria alle sopraccitate parole di s. Paolo, toma a farvi sopra nuove e più accurate riflessioni, acciocché ci s’imprima altamente nell’animo questo aforismo di spirito, che tanto giova ai progressi della nostra perfezione. Riflette dunque, che l’Apostolo non disse già: io non reputo degne di stima, io non faccio alcun conto, io non rammemoro le opere buone della mia vita passata; ma disse: io me ne sono affatto dimenticato, perché questa totale scordanza è appunto quella che ci rende diligenti e solleciti al bene, e aggiunge ai nostri animi una certa alacrità e prontezza all’esecuzione di quanto ci resta ad operare per l’acquisto della perfezione s . Inoltre riflette su quelle parole, extendens me ipsum, e dice che in quelle si esprime uno sforzo molto speciale che si faceva s. Paolo per giungere a gradi di più alta e più eminente perfezione. Perchè siccome un uomo che corre, per il desiderio che ha di arrivar presto al termine, si distende dalla parte anteriore con tutta la vita, e getta avanti i piedi, la fronte e le braccia per accelerare il suo corso; così il santo con uno sforzo continuo di desideri dilatava il suo spirito e lo distendeva ad opere di maggior perfezione; e in questo modo correva con grande alacrità e con gran fervore nella via del Signore. E cosi abbiamo a correre ancora noi, se davvero alla perfezione aspiriamo. Finalmente si rifletta, che questo dimenticarsi del bene operato, questo distendersi con tutto il vigore dello spirito al bene che ci resta da operare, non solo, secondo l’Apostolo, è mezzo per conseguire la perfezione, ma è la perfezione istessa (come notammo anche noi nel precedente capitolo), perché conclude dicendo: chiunque è perfetto procede in questo modo. E in questo senso appunto spiega tali parole s. Bernardo: chiunque brama dunque d’essere perfetto   cristiano, metta in totale dimenticanza quanto ha fatto di bene per lo passato; tenga sempre l’occhio della mente e tutto l’affetto del cuore fisso nel bene che gli rimane a fare nel tempo avvenire.

74. Quarto mezzo. Pensare spesso ai difetti presenti ed ai peccati passati. Ho detto nel numero precedente, che per mantener vivi i desideri di perfezione non bisogna andar considerando il bene fatto. Qui dico che è necessario pensare al male fatto e che giornalmente si va facendo, e insieme alle virtù di cui siam privi; perché tali pensieri ci riempiono di un santo interno rossore, ci destano nel cuore desideri della virtù di cui ci vediam privi, brame di mortificazione in tutto ciò in che ci conosciamo difettosi; e  però ci sono d’incitamento e di stimolo alla perfezione. Sentiamo ciò che dice s. Agostino su questo particolare: fratelli miei, se volete far gran profitto, esaminatevi spesso senza inganno, senza adulazione; giacché non v’è dentro di voi alcuno di cui abbiate a vergognarvi; in realtà vi è Dio, ma a lui piace l’umiltà e la bassa cognizione di te stesso; fa che sempre ti dispiaccia di essere quel che tu sei, se vuoi arrivare ad essere quel che non sei (de verbis Apost. Ser. 15); cioè, se tu vuoi conseguire la perfezione che non hai, è necessario che non sii mai di te contento, ma conosca i tuoi difetti, i tuoi peccati, i tuoi errori, la mancanza delle virtù, la ribellione delle tue passioni, e che te ne sti in una certa scontentezza di te stesso; ma però umile, quieta, pacifica e piena di confidenza in Dio: perché questa è quella che ti dà stimoli al cuore, che ti accende in desideri di migliorarti e di essere quel che ancora non sei E subito aggiunge: in alcuna cosa per mancanza di cognizione rimani soddisfatto di te stesso, è certo che ivi te ne rimarrai fermo, senza curarti di ascendere a maggior perfezione. Se poi mai t’inducessi a dire: mi basta la perfezione che ho acquistata, già sei perduto. E perché? perché non potrai rimanere (come ho di sopra provato) in quel grado di perfezione: ti converrà, voglia o non voglia, tornare indietro, e andare passo passo e senza avvedertene in perdizione. Dunque, conclude il santo, cammina sempre avanti, aggiungi sempre qualche cosa di più, fa sempre maggior profitto; non ti fermar mai nella via della perfezione, non voler deviare, né tornare indietro. E per ottener questo, altro modo non v’è che mantener sempre vivi, e distendere sempre i desiderii a maggior perfezione, per i mezzi che ho dati nel presente capo.

PERFEZIONE CRISTIANA (1)

PERFEZIONE CRISTIANA (1)

[G. B. Scaramelli S. J.: DIRETTORIO ASCETICO, vol. Primo, Tipogr. e libr. Speirani e Tortone – Torino, 1855

ARTICOLO II

Il primo mezzo per l’acquisto della perfezione cristiana deve essere il desiderarla, né mai rallentarsi in tali desideri, ma distenderli sempre a maggior perfezione. Si propongono i motivi con cui risvegliare ed accrescere tali desideri.

CAPO PRIMO.

Si mostra che il desiderio della perfezione cristiana è mezzo necessarissimo per acquistarla.

43. Dice s. Agostino, che la vita d’un buon Cristiano è un continuo desiderio della sua perfezione (Tract. 14 in 1 epis. Ioan.): perché s’egli non nutrisse sempre nel cuore queste sante brame, sarebbe bensì Cristiano, ma non già buon Cristiano. Conciossiachè i desiderii, come insegna l’Angelico, sono quelli che dispongono i nostri animi e gli rendono abili e apparecchiati a ricevere quel bene che è loro proporzionato (p. 4, qu. 42, art. 6 in corp.). E però siccome non vi fu mai uomo nel mondo che conseguisse la perfezione di alcun’arte, o sia meccanica, o liberale, se prima non bramò efficacemente di conseguirla, così non vi fu né vi sarà mai nella chiesa di Dio alcun fedele che arrivi a possedere la perfezione cristiana, se non brami con grande ardore di acquistarla.

44. Ma per penetrare al vivo una verità sì importante, ci fa d’uopo indagarne la ragione che ce la persuada. I desideri verso i beni spirituali, dice il dianzi citato dottore, in due luoghi hanno la loro sede e quasi vi fanno la loro residenza: nella parte razionale e superiore dell’ uomo in cui nascono, e nella parte brutale ed inferiore dell’istesso in cui talvolta per una certa ridondanza traboccano e l’accendono verso quei santi oggetti, acciocché anche il corpo si colleghi con lo spirito in promuovere i suoi spirituali avanzamenti (1, 2, qu. 30, art. 1 ad 1). I desideri santi quando si svegliano nella parte superiore e ragionevole, altro non sono che un moto affettuoso della volontà verso quei beni spirituali che ancora non si posseggono, ma si conoscono possibili a possedersi. Osservi bene il lettore queste parole, se vuole fare una esatta anatomia di tali desideri. Dissi che il desiderio riguarda sempre quei beni che non si possiedono; perché i beni già acquistati non cagionano brama nella nostra volontà, ma bensì allegrezza, contento e gaudio. Così un ambizioso quando giunga ad impossessarsi della dignità e degli onori non li desidera più, ma in essi giubila e gode. Dissi che il desiderio ha sempre per oggetto i beni possibili a possedersi; perché il bene impossibile ad aversi non muove al desiderio, ma alla disperazione. Così un viandante che è premuroso di arrivare prestamente alla sua patria, desidera di avere agilità ai piedi, ma non già ali alle spalle; perché quella è possibile, ma queste sono impossibili ad acquistarsi.

45. Fermiamoci ora un momento su questa dottrina, giacché è efficacissima a dimostrare la verità del nostro assunto. Abbiamo detto che il desiderio è un moto della volontà verso un bene possibile e convenevole per raggiungerlo ed impossessarsene. Se dunque il Cristiano non desidera la perfezione, è certo che la di lui volontà non si muove con alcun atto affettuoso verso di essa per abbracciarla e farla sua; ma sta ferma, sta pigra, sta lenta, sta immobile: come dunque è possibile che possa conseguirla? Può giungere alla meta un corridore che non si muove dalle mosse? Come dunque potrà giungere alla perfezione una volontà che verso lei non si muove con i suoi atti per arrivarvi? Tanto più che la perfezione cristiana è un bene arduo, e non si ottiene senonché per mezzi difficili, tutti liberi ed elettivi e dipendenti dall’arbitrio della volontà. Sicché non movendosi punto una volontà spogliata di desideri, né punto piegandosi verso l’acquisto della perfezione, come potrà superare quell’arduo? come potrà eleggere con fortezza e perseveranza quei mezzi tanto malagevoli?

46. Questi desideri poi quando dalla parte superiore traboccano nella parte inferiore, sono certi effetti sensibili, sono certe passioni sante, che tendono al possedimento di quegl’istessi beni spirituali, a cui già la volontà con i suoi atti aspira. Ed è incredibile quanto conferiscano ai progressi nella perfezione questi desideri sensibili: perché dilatano l’appetito sensitivo, animano la volontà, la confortano, la corroborano e quasi distendono i sensi dell’anima e la rendono capace di grandi beni. Spiega questo s. Agostino con una ben acconcia similitudine: che siccome dovendo alcuno ricevere gran quantità di roba, dilata i seni del sacco, o dell’otre, per renderli più capaci al ricevimento di tali cose; così i desideri dilatano ed amplificano i seni dello spirito e lo rendono abile ad accogliere in se stesso grandi beni spirituali. Ed arreca l’esempio di s. Paolo, il quale dice, che dimenticandosi del passato, distendeva se stesso con le sue brame, per rendersi capace a ricevere quella perfezione ulteriore che gli restava da acquistare (Tract. 4 in 4 epist. Ioan.). Quindi deduce il s. dottore che tutta la vita del Cristiano ha da essere un continuo esercizio di virtù per mezzo dei santi desideri Ma se tutto questo è vero, che progressi potranno sperarsi nella perfezione da chi non la desidera: mentre con la parte superiore dell’anima punto non si muove in verso essa e con la parte inferiore punto non si accende: nella volontà è lento e rimesso: nell’appetito sensitivo sta stretto e chiuso : in somma non la cura, non l’apprezza e ne vive affatto dimentico? Certamente è tanto impossibile ch’egli dia un passo nella via della perfezione, quanto è impossibile che cammini verso il termine chi non si muove. Veda dunque il direttore che questi desideri hanno da essere la prima pietra ch’egli ha da gettare nell’anima dei penitenti, in cui vuol ergere il bell’edifizio della cristiana perfezione. Questa ha da essere la semenza di quell’albero che ha da produrre frutti d’ogni virtù, e soprattutto il pomo d’oro della divina carità. Senza questa pietra fondamentale, senza questo seme fecondo, è stoltezza il pensare ch’egli possa conseguire il suo intento.

47. Mi sia testimonio di ciò quel giovane seguace del mondo e delle sue vanità, che ferito altamente da Dio nel cuore col dardo d’una veemente ispirazione, si accese tanto in desiderio della sua eterna salute e della sua perfezione, che tosto risolse di consacrarsi tutto a Dio in uno di quei monasteri, che allora tra luoghi ermi e solitari fiorivano in santità. L’impedimento maggiore che si attraversasse all’esecuzione dei suoi santi desideri, non furono le ricchezze, gli onori, i piaceri e le vanità mondane; giacché reso robusto dalla forza delle sue fervide brame, subito calpestò tutte queste cose con gran coraggio. L’ostacolo maggiore fu la madre con le sue lusinghe e con le sue preghiere. I primi assalti che questa gli diede furon le lagrime, e dopo le lagrime furono alcune parole interrotte dal pianto. Dunque, dicevagli, tu mi vuoi abbandonare in questa età cadente? vuoi che io muoia scontenta? No, ripigliava il giovane, io non voglio le vostre scontentezze, né la vostra morte; solamente volo salvare animam meam: voglio salvare quest’anima. E che? soggiungeva la madre: non puoi forse salvarla nel secolo? non puoi forse salvarla vivendo cristianamente nella tua casa? Si, rispondeva il figliuolo, ma io voglio salvarla con sicurezza, e però me ne voglio ire tra i deserti e tra le solitudini a menare vita perfetta e santa. Dunque, ripigliava l’afflitta genitrice, saranno per me perduti tanti stenti con cui ti ho condotto a questa età e a questo stato: perdute le sollecitudini, i patimenti, le cure, e me ne rimarrò qui sola a piangere la mia sventura? Non occorre altro, rispondeva il figliuolo: volo salvare animam meam. Datevi pace, mia madre, mi è entrato nel cuore un desiderio sì vivo della mia salute e della mia perfezione a cui non posso resistere: devo eseguirlo. Con questa massima sostenuta costantemente espugnò il cuore della madre, e pieno di grandi brame di perfezione se ne volò al monastero. Quivi giunto, si diede con gran fervore di spirito alle penitenze, alla mortificazione, all’orazione ed all’esercizio di tutte le virtù religiose. Ma che? non so come questi suoi gran desideri cominciarono a poco a poco a rallentarsi, poi a rattiepidirsi, e poi a cangiarsi in un vero raffreddamento. Sicché quello che prima spiccava su le ali dei suoi desideri voli sublimi fin su le porte del paradiso, oppresso poi ed abbattuto dalla sua gran freddezza, era già caduto fin su la porta dell’inferno, dentro cui sarebbe sicuramente precipitato, se la madre non veniva dal cielo a riaccendergli nel cuore le antiche brame. Posciachè trovandosi l’infelice monaco oppresso da grave infermità, fu portato in ispirito al tribunale di Dio, dove insieme con altri che vi dovevano essere giudicati, trovò anche la sua genitrice, hi vederlo, questa gli disse: e cosa è questa che io rimiro, o figliuolo? anche tu sei venuto in questo luogo reo di eterna condannazione? e dove sono quei santi desideri di salvar l’anima e di salvarla con sicurezza tra i rigori dei chiostri (in lib. doct. PP. lib. de comp., n. 5)? Questa riprensione della madre gli fece una sì grande impressione, che ritornato in sé e riavutosi della sua infermità, si chiuse in una piccolacella, e senza mai più partirne, altro non fece in tutto il residuo della sua vita che piangere li suoi passati errori; Si avverta in questo avvenimento la gran forza che hanno i desideri santi di distaccarci da tutto ciò che digradevole può darci il mondo, e di portarci alla cima della più alta perfezione; ed all’opposto quanto poco possiamo trovandoci privi di tali brame. La madre istessa di quel monaco traviato altro modo non trovò per ridurlo su la strada della perfezione, anzi della salute, che ravvivargli nel cuore i suoi antichi desideri, con rimetterglieli nuovamente alla mente. Dunque di qui incominci il direttore il suo lavoro spirituale nelle anime che vuol perfezionare, ricordandosi sempre delle parole di s. Agostino: che la vita d’un perfetto Cristiano altro non è, che con la spinta dei desiderii andare avanti nell’esercizio delle virtù.

CAPO II.

Primo motivo per risvegliare i detti desideri di perfezionesia l’obbligo che tutti hanno di procurarla.

48. Il motivo più potente di cui deve valersi il direttore per scuotere la tiepidezza di alcuni fedeli, che contenti di non commettere colpe gravi, nulla si curano di migliorare la propria vita, è certamente il rappresentare loro l’obbligo che Iddio impone a ciascuno di attendere alla perfezione del proprio stato. Gesù Cristo parla chiaro in questo particolare, e parla a tutti. C’impone il Redentore d’esser perfetti, e ci propone per idea della perfezione, a cui dobbiamo agognare, I’istessa perfezione del  suo eterno genitore (Estote ergo perfecti, sicut et Pater vester cœlestis perfectus est (Matth. cap. V, 48). S. Giacomo apostolo vuole che siamo interamente perfetti e in niuna cosa difettosi (Patientia opus perfectum habet, ut sitis perfecti, et inlegri, in nullo deficientes (Epist. c. I, 4). S. Paolo ci ordina a star sempre armati contro gli assalti dei nostri nemici e di essere in tutte le cose perfetti “Accipite armaturam Dei, ut possitis resistere in die malo, et in omnibus perfecti stare” (ad Ephes. cap. VI, 5 ). Lo stesso Apostolo non contento che siamo perfetti nella nostra volontà, vuole che tali siamo anche nell’intelletto, conformandolo agli altrui sentimenti con isfuggire la diversità dei pareri “Obsecro autem vos, per nomen Domini nostri Iesu Christi, ut idipsum dicatis omnes, et non sint in vobis schismata: sitis autem perfecti in eodem sensu, et in eadem sententia (I ad Cor. cap. I, 10). Sicché non si può dubitare che siamo tutti tenuti a procurare quella perfezione che è più confacevole alla nostra condizione.

49. Ma perché secondo il diverso stato delle persone, diversa è la perfezione che deve  da loro praticarsi, il direttore per procedere discretamente e con la debita rettitudine, bisogna che distingua tra i penitenti che sono religiosi, consacrati a Dio coi santi voti, e tra i penitenti che sono secolari, liberi e padroni di se stessi; onde non aggravi alcuno più del dovere, né esima alcuno dalle obbligazioni che sono loro proprie. Se sia religioso il suo penitente, deve spesso rammentargli quella dottrina dell’Angelico, ricevuta dal comune de’ teologi, che sebbene non è egli obbligato ad essere perfetto, è però tenuto con obbligo di peccato grave, di tendere e di aspirare alla perfezione. Deve significargli, che essendosi egli dedicato alla religione con la solenne professione, e a guisa di un garzoncello entrato nella bottega d’un legnaiolo o di un fabbro per apprendervi l’arte, perché siccome questo benché non sia tenuto ad operare perfettamente le manifatture o del legno o del ferro, è però obbligato a perfezionarsi nella sua arte, e quantunque non sia degno di riprensione per qualche sbaglio che commetta nei suoi lavori, sarebbe però di riprensione e di castigo se non andasse emendando e non gli andasse ogni giorno più migliorando; così esso non sarà avanti a Dio degno di riprensione. se non sarà perfetto; poiché la religione, in cui è entrato, non è un’adunanza di persone perfette, ma è scuola di perfezione; ma sarà gravemente reo e meritevole di castigo se non attenderà alla perfezione a cui con la professione religiosa si è obbligato, e non andrà correggendo e perfezionando la sua vita per quei mezzi che gli sono dalla sua religione prescritti (2, 2, quæst. 168, art. 2, in corp.). Qui vanno a ferire quelle pesantissime parole scrive ad Eliodoro, il quale, abbandonata la milizia, erasi fatto monaco e dedicato a Dio coi santi voti: Eliodoro, ricordati che hai promesso a Dio di esser perfetto. Quando tu, abbandonata la milizia terrena, giurasti nelmonastero perpetua castità, mosso dal desiderio della celeste patria, che altro facesti, che professare avanti Dio una vita perfetta? Ma avverti che un servo perfetto di Gesù Cristo altro non ha nel cuore che Cristo; o se altro vi ha, non è servo perfetto di Gesù Cristo. E se non è perfetto, avendo promesso d’esserlo, è egli appresso Iddio un mentitore, ed è già morto presso gli occhi suoi(in Epist. ad Eliod.). Si avverta però che Girolamo (come nota il Suarez su questa parola) non pretende di dire che Eliodoro dovesse esser già in pieno possesso di quella fina perfezione che egli gli esprime nella sua lettera, ma solo che fosse tenuto ad aspirarvi coi desideri ed a sforzarsi di conseguirla con le opere. Contuttociò sono parole molto significanti da mettere in grande apprensione qualunque religioso lento, tiepido e trascurato nel divino servizio.

50. Quindi si deduce in primo luogo, che ogni religioso è obbligato con grave obbligazione alla osservanza dei tre voti: povertà, castità ed obbedienza, che sono appunto quei consigli, che ci ha dati Gesù Cristo nel santo Vangelo, e che egli ha già abbracciati con solenne voto per giungere alla perfezione “Si vis perfectus esse, vade, et vende omnia quae habes et da pauperibus et sequere me“. In secondo luogo, che egli è gravemente tenuto all’osservanza delle sue regole, che sono i mezzi con cui nella professione, che ha fatto nella sua Religione, si è obbligato di tendere alla perfezione. Così insegna s. Tommaso: il religioso non è tenuto a tutte quelle pratiche ed esercizi spirituali, per cui si può andare alla perfezione, ma solo a quelli che gli sono tassati dalla regola in cui ha professato (2, 2, quæst. 186, art. 2 in corp.)..

51. E qui sentirà il direttore darsi subito quella risposta, da cui tanti religiosi pigliano ansa di vivere rilassatamene, cioè che la sua regola non obbliga ad alcun peccato. A questo replichi egli con s. Tommaso, che sebbene nella trasgressione di questa o quella regola, che non è di precetto, ma di mero consiglio, non si contenga colpa mortale, se ciò si faccia per condescendere a qualche sua passioncella, o per dar qualche pascolo all’amor proprio avido di libertà ed alieno da ogni strettezza e mortificazione (sebbene in tali casi il religioso inosservante non va esente da peccato veniale a cagione pone dei motivi non retti e irragionevoli da cui si muove a contravvenire alle sue regole); contuttociò se tali trasgressioni si facciano con disprezzo delle regole, si commette peccato grave: perché, come dice s. Gaetano, nel dispregio delle regole v’è un dispregio interpretativo di Dio, che in modo speciale le ispirò ai santi legislatori, da cui furono promulgate alle loro religiose famiglie. Questo disprezzo poi, dice il sopraccitato santo dottore, consiste in questo, che il religioso non voglia soggettarsi a qualche regola, e quindi passi avanti a trasgredirla con isfrenatezza e con baldanza (in resp. ad 3). Lo stesso dice s. Bonaventura (In Pharet. lib. 2, cap. 44). Lo stesso afferma S. Bernardo  (In lib. de praecept. et disp. et in costitut.), specialmente nelle sue costituzioni. E qui si osservi che l’Angelico, dopo aver detto che le particolari trasgressioni di certe regole non obbliganti, fatte senza formale dispregio, non racchiudono in se stesse peccato grave, soggiunse subito, che tali inosservanze se siano fatte frequentemente, portano a poco a poco il religioso ad un vero disprezzo delle sue regole ed alla colpa mortale, e per conseguenza anche alla eterna ruina. Si osservi ancora, che sebbene violando la persona religiosa or questa, or quella regola, per condiscendere alle sue imperfette inclinazioni, sia scusato da peccato mortale, qualunque volta l’inosservanza non passi in positivo dispregio; contuttociò è egli tenuto gravemente di avere, in generale almeno, animo e volontà risoluta di osservar le sue regole, perché essendosi nella sua professione obbligalo a procurare quella perfezione, che è propria del suo istituto, si è obbligato ancora a praticare quei mezzi che sono necessari per ottenerla; quali per lui altri certamente non sono che le sue regole. Quest’obbligo dunque di tendere alla perfezione, con l’osservanza dei voti e delle regole, intuoni spesso il direttore alle orecchie del suo penitente o della sua penitente religiosa; perché questo solo (se pure in essi è rimasto alcun vestigio di santo timore) basterà per destare loro nel cuore desideri di perfezione e premure di conseguirla; il che allora faccia più volentieri, quando gli veda tiepidi, rimessi e languidi nel divino servizio.

52. Ma se poi il penitente sarà secolare, qual obbligazione gli si avrà da imporre? Si assicuri il direttore che con questi avrà molto più da penare che con le persone religiose per rimuoverli dalla loro freddezza; poiché i secolari hanno una stolta persuasione, che la perfezione sia cosa propria di religiosi e di monache, e che ad essi punto non si appartenga; che ad essi basti osservare i precetti di Dio e di santa Chiesa alla grossa, in quanto alla loro sostanza, e con questo solo credono di aver adempiti i loro doveri. Anzi si avanzano taluni fino a dileggiare quei secolari devoti che frequentano Sacramenti, orazioni e chiese, che si esercitano in opere di carità verso il prossimo, che procedono con la debita ritiratezza e modestia, chiamandoli col titolo di collitorti, di bacchettoni, di beate, di sante, di pinzochere, e con altre simili parole di scherno indegne a proferirsi da una lingua cristiana che professa e venera la dottrina di Cristo. Or questi hanno bisogno d’essere istruiti e tolti da un inganno si pernicioso. A questo fine domandi loro cosa intendono per questa parola perfezione cristiana. – Se essi rispondono, che intendono significarsi quella perfezione più alta e più ardua che si racchiude nei tre consigli evangelici, povertà, castità ed obbedienza, essi hanno ragione di esimersi da una tal perfezione; perché non essendo da Dio chiamati alla Religione, non sono obbligati a spogliarsi delle loro facoltà, a rinunziare al matrimonio, a menar vita celibe e continente, ed a soggettarsi spontaneamente all’obbedienza d’alcun superiore che li regoli in tutte le loro azioni. Ma se poi per questo vocabolo di perfezione cristiana intendono altri consigli, e specialmente alcuni precetti circa materie leggiere che sono stati da Dio imposti a tutta l’universalità dei fedeli, per es., vivere distaccati dalla roba e da denari ancorché si possedano, e farne buon uso: impiegandone parte in elemosine o in coseche riguardano il divin culto; fuggire non solo i diletti illeciti, ma ancor le occasioni e gl’incentivi non solo prossimi, ma ancor remoti che lusingano e allettano gl’incauti a tali piaceri, con la debita ritiratezza, modestia e circospezione in conversare; soggettarsi ad un padre spirituale circa l’interno regolamento della scienza: dispregiare le vanità, le pompe, il fasto e la superbia mondana, e se il proprio stato esiga un decoroso trattamento, mantenere tra lo splendore del portamento esteriore la depressione interna del cuore e l’umiltà sì propria d’un seguace di Cristo; soffrire pazientemente le ingiurie, le avversità ed i travagli; amar gl’inimici, astenendosi non solo da ogni atto interno di risentimento, ma anche da ogni segno esterno di ostilità; mortificare le proprie passioni e non dar loro sfoghi irragionevoli; astenersi da peccati veniali, massime se siano deliberati; frequentare i Santissimi Sacramenti: orare spesso; andar riflettendo su le massime di nostra fede, che hanno tanta forza di raffrenarli, e di far si che procedano con cautela tra i tanti pericoli in cui vivono; e fare mille altre cose  che sono da Dio comandate, benché la loro trasgressione, a cagione della materia leggiera, non partorisca nelle anime colpa grave, o sono da Dio consigliate: perché sono cose, senza cui è moralmente impossibile vivere morigeratamente: se essi, dico, per questa voce perfezione cristiana, intendano tali cose, e poi dicano di non essere tenuti ad eseguirle, perché sono secolari che vivono in mezzo al mondo, s’ingannano grandemente; perché ad una tal perfezione sono obbligati tutti quelli che si vantano del nome cristiano. Sentano come parla su questo punto s. Tommaso, dopo averlo esaminalo con tutto il rigore della scuola: tutti, tanto i religiosi quanto i secolari, sono obbligati a fare in qualche modo, secondo le leggi della discrezione, tutto il bene che possono, perché a tutti ciò è imposto dall’Ecclesiastico; v’è però il modo di adempiere questo precetto e di sfuggire il peccato, cioè facendo ciascuno discretamente quel bene che può secondo la condizione del suo stato, e guardandosi di non dispregiare il ben maggiore che potrebbe farsi, acciocché l’anima non ponga ostacolo agli avanzamenti dello spirito (2, 2, quæst. 186, art. 2, ad 2). Notino i secolari in questo testo quei termini che usa il santo dottore, parlando della loro perfezione, obbligo, precetto, peccato; e poi dicano, se loro dà l’animo, che la perfezione è pei soli religiosi.

53. Sebbene, a dire il vero, neppure qui è necessaria l’autorità di sì gran dottore, mentre parlano chiaramente su questo proposito le sacre scritture. Domando quando s. Giacomo e l’Apostolo delle genti inculcavano tanto nelle loro epistole la perfezione, a chi parlavano? ai soli religiosi? oppure a tutto il mondo cristiano? Quando Gesù Cristo esclamava con tanta energia: siate perfetti, come è perfetto il mio eterno Padre; quando comandava il rinnegare se stesso, il portar volentieri la propria croce, l’essere umile, l’essere mansueto di cuore com’era Esso; a chi ragionava allora il Redentore? coi soli monaci? coi soli religiosi? con le sole vergini chiuse ne’ chiostri? oppure a tutta l’adunanza de’ fedeli che volevano essere suoi veri seguaci? A tutti, risponde s. Agostino: a tutti parlava Cristo allora. Questi insegnamenti di Cristo, dice il santo, non li hanno già da ascoltare le sole vergini e non le maritate; le sole vedove e non le spose; i soli monaci e non i coniugati; i soli chierici e non i laici: ma tutta la Chiesa universale, tutto il corpo dei fedeli distinto nei suoi gradi ha da seguitare il Redentore con la croce in ispalla, e tutto ha da eseguire i suoi santissimi documenti. (Serm. 47, de div., cap. 7). – S. Giovanni Crisostomo dopo aver riferite molte di quelle ammirabili dottrine con cui il Redentore ci esorta a vivere perfettamente, riflette opportunamente, che Cristo non fece già distinzione tra religiosi e laici, dicendo: questo insegnamento sia per i monaci, e questo per i secolari; ma parlò indistintamente a tutti (Nec monachi, nec sæcularis nomen adiecit). – E questo appunto, seguita a dire il santo, è la ruina del mondo tutto, il credere che i religiosi siano tenuti a mettere ogni diligenza per vivere perfettamente, e che i secolari possano vivere trascuratamente. Ma non è cosi, soggiunge subito; lo stesso tenor di vita si richiede da tutti. Io dico con tutta asseveranza: sebbene non sono io che lo dico, ma è Cristo giudice che lo dice di propria bocca. Finalmente dopo aver lungamente mostrata questa importantissima verità, termina il suo discorso così: credo che non vi sarà uomo sì litigioso e sfrontato, il quale voglia negarmi che in molte cose tanto il secolare quanto il monaco sia obbligato di tendere alla più alta cima della perfezione (adver. vitup. vitam monast., lib. 3). Un gran parlare è questo, a cui non si può certamente contraddire senza incorrere la taccia di una gran temerità. Quindi prenda il direttore stimoli acuti per risvegliare desideri di perfezione nei cuori dei secolari addormentati, mostrando loro l’obbligo preciso che ne hanno, conforme la dottrina dei santi padri e delle sacre scritture. Cancelli loro dalla mente quell’errore tanto dannoso, che la perfezione sia prescritta ai soli claustrali, che ad essi soli si appartenga menar vita devota, vita esatta e vita esemplare; e che ai secolari sia lecito, purché si guardino dal peccato mortale, condurre una vita molle, una vita libera, una vita rilassata. Falso, falso, ripeta spesso alle loro orecchie. Alla perfezione tutti i Cristiani sono obbligati, perché a tutti è stata imposta ed inculcata nelle sacre carte. Certo è che a persone che non siano di perduta coscienza, ma abbiano qualche timor di Dio, qualche premura della loro eterna salute, sarà questo un gran motivo per invogliarsene e per intraprendere un tenore di vita più regolata ed esatta.

54. Ma io già mi avveggo, che il direttore, presupposto l’obbligo di perfezione che hanno tutti i Cristiani, bramerebbe sapere in quale specie di peccato incorra un secolare, che contento di non cadere in colpa grave, non faccio pio conto dei peccati leggieri, non abbia alcuna volontà di far opere di carità e di supererogazione, insomma ponga in non cale ogni pensiero della sua perfezione. Rispondo, che se ciò egli faccia con disprezzo della perfezione, già cade nel peccato in cui non vorrebbe cadere: se poi succeda senza un tale dispregio, dico, essere il Gaetano di parere che un Cristiano sì trascurato commetta un peccato veniale (in textu soprac. d. Th.).  Dico inoltre, essere sentimento del padre della Reguera nella sua mistica teologia, non andare esente da grave peccato un Cristiano che non voglia attendere alla perfezione sua propria; sebbene limita egli poi in vari modi il suo detto e in varie guise lo ristringe. Con tutto ciò perché altri gravi autori non parlano con tanto rigore, io dirò (e lo mostrerò nel seguente capitolo) che quando ancora un secolare, che non vuole procurare la perfezione del suo stato, non pecchi per questa prava volontà e pessima disposizione in cui vive, incorrerà però in altri molti peccati mortali di altre specie, vivrà rilassatamente e starà in gran pericolo della sua eterna salute.

CAPO III.

Secondo motivo per risvegliare i desideri di perfezione sia la necessità che v’è di procurarla, non solo per esser perfetto, ma anche per esser salvo.

55. La ragione perché alcuni fedeli (o questi siano religiosi o secolari) non hanno alcuna premura di acquistare quella perfezione che si conviene alla loro condizione, è senza fallo il persuadersi, che guardandosi dal peccato mortale, vivranno in grazia di Dio; e così senza tante molestie e mortificazioni conseguiranno la loro eterna salute. Ma sono pur eglino mal avveduti in questa lor persuasione; perché quando ancora l’obbligo che, secondo la dottrina delle sacre scritture e dei santi padri, abbiamo tutti di attendere all’acquisto della perfezione confacevole al nostro stato, non fosse grave e non rendesse i trasgressori rei di colpa mortale; pur non volendovisi essi seriamente applicare, è certo che cadranno in molte altre colpe gravi, che vivranno con la coscienza macchiata e che saranno in gran pericolo di perdersi eternamente. Ognun sa che l’arciere bisogna che prenda la mira più alta se vuol cogliere nel segno con il suo strale. Così deve ognuno persuadersi che non si può cogliere nell’osservanza dei divini precetti, in quanto alla sostanza di non trasgredirli gravemente, se non si prende la mira più alta alla perfetta osservanza degl’istessi precetti, guardandosi dalle trasgressioni leggiere e colpe veniali per quanto comporta la debolezza delle nostre forze; anzi se non si alza la mira anche più in alto alle opere buone di supererogazione, che sebbene non son da Dio comandate, pur son da Lui volute per consiglio, e sono a noi sì vantaggiose a Lui sì grate. Vediamo quanto ciò sia vero incominciando da consigli, ma però brevemente.

56. Gersone francamente afferma, che è caso molto raro che un fedele osservi i precetti del decalogo e non faccia opere sante di supererogazione e non eseguisca i divini consigli, ora facendo orazioni, ora frequentando Sacramenti, ora mortificando il proprio corpo con digiuni o altre simili asprezze, ora compartendo elemosine, ora praticando atti di carità spirituali o  corporale verso il suo prossimo, ora esercitando atti di devozione e di ossequio verso i Santi e la loro Regina, oppure facendo altre simili cose che non ci sono imposte con rigoroso precetto, ma ci sono però raccomandate con soave consiglio. (Alphab. 68, part. 2, litt. 2). E il padre Suarez esaminando scolasticamente questa verità, decide che è impossibile, moralmente parlando, che un Cristiano, benché sia secolare, abbia volontà ferma, stabile e permanente di non peccar mortalmente, e che insieme non faccia molte opere virtuose di supererogazione e non abbia stabile proposito di perseverare in esse  (de Relig. tom. 4, lib. 1, c. 4, num. 12). – E lo dimostra con parità delle sostanze naturali, che senza l’accompagnamento e quasi il corteggio degli accidenti loro propri, non possono conservarsi nel loro essere, ma devono necessariamente perire. Così il fuoco senza calore si estingue; la neve senza la sua freddezza si strugge; l’aria senza il moto si guasta; l’acqua senza l’agitazione s’imputridisce; l’erbe, i pomi e tutte le altre cose senza le qualità loro connaturali si corrompono ed alla fine marciscono. Così, dic’egli, la grazia di Dio e la carità, senza le opere buone, che sono quelle qualità soprannaturali che la confortano, che la nutriscono, che la corroborano, che la difendono e che l’aumentano, alla fine perisce e muore. Sicché l’anima infelice, perduta la divina grazia per la sua infingardaggine in non volere operare il bene, si trova in grande pericolo della sua eterna perdizione.

57. Questa verità insegnò Iddio istesso di propria bocca al beato Errigo Susone in quella celebre visione delle nove rupi, che rappresentogli alla mente acciocché la pubblicasse al mondo tutto. Rapito in estasi il servo di Dio vide un monte sublime che arrivava con la sua cima a ferire le stelle. Pendevano per il dorso del monte nove rupi, una appoggiata alla sommità dell’altra, ed in ciascuna di dette rupi v’erano abitatori, dove in maggiore e dove in minor quantità. Significavano queste nove rupi i nove gradi di perfezione, a cui può ascendere un uomo in tutto il corso della sua vita mortale. Or mentre stava il santo mirando attonito la sublimità del monte e la disposizione di quelle rupi aspre e rovinose, all’improvviso si vede posto sulla cima della prima rupe, d’onde vide con una semplice occhiata la terra tutta, e tutta la vide ricoperta da una larghissima rete. Stupefatto il santo a quella vista, vollossi al Signore pregandolo a volergli palesare che significasse quella gran rete che involgeva tutta la terra, ma però non arrivava a ricoprire le rupi del monte. Gli rispose Gesù Cristo, che quella era la rete del diavolo, che significava i tanti lacci dei vizi e de’ peccati con cui il maligno teneva avvinto quasi tutto il mondo, e che la rete non arrivava a ricoprire le rupi del mistico monte, perché in quelle salivano solamente i Cristiani ch’erano liberi e sciolti dai legami della colpa mortale. Tornò l’uomo estatico a domandargli chi erano quelle persone che vedeva attorno a sé nella prima rupe. Gli rispose Gesù Cristo queste parole: questi sono uomini tiepidi, lenti, freddi, infingardi, che non sono inclinati, né dediti ad esercizi grandi; ma basta loro di vivere con proposito di non consentir mai a peccato enorme e mortale, e così stanno contenti fino alla morte (B. Enrico Susone, libro delle nove rupi, cap. 12.). Si osservi che questi appunto sono quei Cristiani, di cui presentemente io parlo. Di nuovo interrogò il Signore il servo di Dio, se quelle persone si sarebbero salvate o dannate, mentre vedeale poco lungi dalla rete e dai lacci. A questo rispose Cristo le seguenti parole: se moriranno senza coscienza di peccato mortale, si salveranno; ma stanno in maggior pericolo che non credono, perché si danno di poter egualmente servire a Dio ed alla natura, il che è difficile, e appena possibile, e il perseverare così in grazia di Dio è molto malagevole. Intanto vide il beato che molti precipitavano da quella prima rupe e andavano a nascondersi sotto la rete. Chiese subito al Signore che gi dichiarasse il significato di questo avvenimento. Gesù Cristo gli rispose così: questa rupe non può contenere quelli che consentono al peccato mortale; ma perché sono uomini tiepidi, facilmente cadono e ritornano ai lacci ed ai vizi. Tutta questa visione non ha bisogno di esposizione, perché in essa troppo chiaramente si protestò il Redentore: che i Cristiani tiepidi e freddi, che contenti di non commettere peccato mortale, non vogliono esercitarsi in opere sante di supererogazione, cadono di fatto in quelle gravi colpe gravi in cui non vorrebbero cadere, e vivono in gran pericolo della loro dannazione. Resta che il direttore sappia ciò rappresentare al vivo ai penitenti lenti e trascurati che a sorte gli capitassero ai piedi, perché questo solo basterà per riscuoterli dal loro gelo ed accenderli in desiderio di qualche perfezione.

58. Per un’altra ragione ancora non è loro possibile, moralmente parlando, osservare i precetti di Dio in quanto alla sostanza, e non curarsi della loro perfezione: perché operando essi in questo modo commetterebbero infiniti peccati veniali, i quali apriranno sicuramente la porta ai mortali ed alla trasgressione sostanziale degli stessi precetti, che pur essi non vorrebbero ammettere. Conciossiachè afferma l’Ecclesiastico: chi non fa conto delle cose piccole, cadrà nelle grandi (XIX, 1). D’onde s. Tommaso deduce: che chiunque pecca venialmente non fa conto delle cose minime (1, 2, quæst. 88, art. 5). Dunque si dispone a voltare affatto le spalle a Dio con la colpa grave, perché non soggettandosi l’anima incauta in cose piccole ai comandamenti di Dio, la volontà si va assuefacendo alle trasgressioni, va pigliandosi una dannosa libertà, finché giunge alla fine a scuotere affatto il giogo della divina legge. Ciò si può esemplificare in mille casi che tutto giorno accadono; ma di mille scegliamone alcuno. Comincia una fanciulla ad adornarsi soverchiamente, o per non parer deforme, o per comparir troppo vaga; dalla vanità nel vestire passa alla libertà di guardare qualunque oggetto; la licenza degli sguardi le desta nel cuore qualche affetto, nel principio forse non vizioso, ma troppo tenero e pericoloso; degenera a poco a poco l’affetto; s’attacca una tresca d’inferno; e finalmente si arriva a calpestare il fiore della verginità. Ecco come dai peccati leggieri quasi per tanti gradini si discende ai peccati più gravi, fino a cadere nel precipizio. A questo par che voglia alludere s. Ambrogio, parlando delle donne. Comincia alcuno a parlar liberamente degli altrui difetti; passa ad interpretare sinistramente le altrui azioni, a biasimarle apertamente. Alla fine trasportato da quel prurito di confutare, palesa qualche gran peccato del prossimo, che prima era occulto, e con grande mormorazione macchia l’altrui riputazione. Ecco come per la via de’ peccati veniali si va a poco a poco a cadere in colpe gravi.

59. Una tal verità ci viene espressa nell’Esodo con un memorabile avvenimento. Sale Mosè sulla cima del Sinai; entra dentro quelle sacre caligini che involgono la sommità del monte, e quivi si trattiene in lunghi e soavi colloqui con il suo Dio e riceve gli oracoli dalla sua bocca divina. E intanto il popolo che fa alle radici del monte? Dice il sacro testo: eccoli a sedere tutti oziosi; eccoli distesi sopra il terreno starsene neghittosi aspettando il ritorno del gran profeta (Es. XXXII, 6). Fin qui altro male non v’è che un poco d’oziosità, un poco di perdimento di tempo. Intanto trovandosi disoccupati, cominciano ad invitarsi a pranzo l’un l’altro. Parenti con parenti, amici con amici celebrano lieti e giocondi banchetti in mezzo al prato; non si mantiene la conveniente moderazione nel mangiare, né la conveniente misura nel bere; alquanto si eccede. E qui che male c’è? un po’ di crapula, un poco d’intemperanza. Trasportati intanto da una soverchia allegrezza, si danno al giuoco. Domini e donne, giovani e fanciulle, tutti ballano ad un circolo, tutti cantano ad un coro. Chi giuoca, chi ride, chi scherza; ma però senza verun pravo affetto. Ed in questo  che male c’è? un poco di scompostezza, un poco d’immodestia, un peccato veniale un poco più grosso. Avanti dunque, avanti, giacché non v’è male grave. Accecati dunque gli ebrei dalla crapula, resi ardimentosi dalla licenza di quei giuochi, cominciarono a parlamentare tra loro: Dio sa quando Mose farà ritorno a noi dalla sommità del monte! Dio sa quanto tempo ci converrà dimorare nel fondo di questa valle! Che serve più appettare? che serve indugiar più? Facciamoci anche noi un Dio visibile come si costuma in Egitto; Aronne, eccoli tutti i nostri orecchini, eccoti tutte le nostra anella d’oro: formane tu qualche nobile simulacro degno di collocarsi sopra gli altari. Condiscende Aronne. Si fonde un vitello d’oro; si espone alla pubblica venerazione del popolo; gli si porgono incensi sacrileghi e sacrifici nefandi. Avete veduto che mal v’è in un poco di oziosità, in un poco di crapula, in un poco di libertà in conversare? Questi furono i passi per cui a poco a poco arrivarono i miseri ad idolatrare un vitello. La riflessione non è mia, ma tutta di san Gregorio: il mangiare, il bere spinse il popolo a giuochi vani; i giuochi all’idolatria; perché se la persona non si raffrena nelle colpe subito va a cadere in grandi iniquità, attestandolo Salomone in quelle parole, che chi disprezza il poco cadrà nel molto. E però trascurandoci nelle cose piccole, sedotti insensibilmente dall’abito e dalla passione, commetteremo infallibilmente cose maggiori. Si lusinghi dunque chi vuole salvarsi senza la perfetta osservanza dei divini precetti, che ala fine conoscerà a prova nelle sue gravi cadute, quanto sia falsa questa sua idea: e Dio voglia che non l’abbia alla fine a conoscere nella sua dannazione.

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: LE VERITA’ ETERNE

LE VERITÁ ETERNE (*)

Memorare novissima tua, et in æternum non peccabis

“Ricordati della tua fine e non peccherai in eterno”

(Sir. VII, 40)

(*) Il testo originale è nel I volume di: SERMONS du Vénérable Serviteur de Dieu J.-B.-M. VIANNEY CURÉ D’ARS PARIS LIBRAIRIE VICTOR LECOFFRE, 90 RUE BONAPARTE. ——- LYON LIBRAIRIE CHRÉTIENNE(Ancienne Maison BAUCHU) ED. RUBAN, PLACE BELLECOUR, 6 –

APPROBATION.

Archevêche De LYON  –  Lyon, 20 août 1882.

f L. M. Card. CAVEROT, Archevêque de Lyon.

L’opera è pubblicata in rete da: Bibliothèque Sain Libère – htpp: www. liberius.net –

© Bibliothèque Saint Libèr 2011 (Toute reproduction à but non lucrative est autorisée- si autorizza ogni riproduzione senza fini di lucro).

La traduzione italiana è redazionale, ma confrontata con la versione italiana di Giuseppe D’Isengard F. d. M. in “I SERMONI DEL B° GIOVANNI B. M. VIANNEY, Curato d’Ars”. Libreria del Sacro Cuore – Rimpetto ai Ss. Martiri -, Torino, 1907 (Tip. Salesiana, via Cottolengo, 32)

Nihil obstat,

Torino, 5 aprile 1908 Teol. Coll. Giacomo Sacchieri, prete della Missione, Revisore delegato.

Imprimatur

Torino, 8 Aprile 1908, Can. Ezio Gastaldi-Santi Provic. Gen.

[N.B.: Si diffidano i fedeli “veri” Cattolici dal consultare altre versioni di a-cattolici modernisti, in particolare gli scismatici eretici aderenti alla setta del Novus ordo, in comunione con gli antipapi usurpanti attuali, non dotate né di Nihil obstat né dell’Imprimatur canonico imposto dalla Costituzione Apostolica “Officiorum ac Munerum” di S. S. Leone XIII, e dall’Enciclica “Pascendi” di S. S. San Pio X, passibili quindi di SCOMUNICA “ipso facto” latæ sententiæ riservata in modo speciale alla Sede Apostolica. … intelligenti pauca!

Fratelli miei bisogna che queste verità siano molto potenti e molto salutari, poiché lo Spirito Santo ci assicura che se le meditiamo seriamente non peccheremo mai. Ciò non è difficile da comprendere. In effetti, fratelli miei, chi è colui che potrebbe attaccarsi ai beni di questo mondo pensando che fra poco tempo non ci sarà più? Da Adamo fino al presente, nessuno si è portato via qualcosa da quaggiù, e anche per noi sarà lo stesso. Chi è colui che si occuperebbe  tanto degli affari di questo mondo, se fosse veramente persuaso che il tempo che trascorre sulla terra non gli sia donato se non per impegnarsi a guadagnare il cielo? Chi è colui che, ben impresso nella mente, o meglio nel cuore, che la vita del Cristiano debba essere vissuta nelle lacrime e nella penitenza, potrebbe ancora dedicarsi ai piaceri e alle gioie folli del mondo? Chi è colui che, essendo ben convinto che potrebbe morire in ogni momento, non si terrebbe sempre pronto? Ma voi mi direte: perché queste verità che hanno convertito tanti peccatori ci impressionano così poco? Ahimè, fratelli miei, questo accade perché noi non le meditiamo seriamente; il nostro cuore è troppo occupato dagli oggetti sensibili, che possono soddisfare le sue cattive inclinazioni; inoltre essendo il nostro spirito ingombro di affari temporali, perdiamo di vista queste grandi verità che dovrebbero costituire la nostra unica occupazione in questo mondo. Se mi domandaste perché lo Spirito Santo ci raccomanda con tanta insistenza di non perdere mai di vista queste verità, eccovene la ragione: il motivo è che non c’è nulla che sia più capace di distaccarci dai beni di questo mondo, niente di più potente per farci sopportare le miserie della vita in spirito di penitenza, o per meglio dire, nulla, più di queste verità ci faccia distaccare da tutte le cose create per non legarci che a DIO solo. – Ah! Fratelli miei, non dimentichiamo mai queste grandi verità, e cioè: che la nostra vita non è che un sogno; che la morte ci segue molto da vicino, e che ben presto essa ci raggiungerà; che un giorno saremo giudicati molto severamente, e che dopo questo giudizio la nostra sorte sarà fissata per sempre. Vedete, fratelli miei, quanto Gesù Cristo desideri salvarci: a volte ci si presenta come un povero Bambino nella sua mangiatoia, adagiato su una manciata di paglia che egli bagna con le sue lacrime; altre volte come un criminale, legato, incatenato, coronato di spine, flagellato, cadente sotto il peso della sua croce, e, infine, morente tra i supplizi, per amore nostro. Anche se ciò non fosse capace di  commuoverci, di attirarci a lui, ci induce però ad annunciare che un giorno ritornerà, rivestito con tutto lo splendore della sua gloria e della maestà del Padre suo, per giudicarci senza più grazia né misericordia. Allora Egli svelerà, davanti al mondo intero, sia il bene che il male che noi abbiamo fatto in ogni istante della nostra vita. Ditemi, fratelli miei, se noi pensassimo bene a tutto ciò, ci sarebbe bisogno d’altro, per farci vivere e morire da santi? Ma Gesù Cristo, per farci comprendere bene cosa dobbiamo fare per andare in cielo, ci dice nel Vangelo, che la persone del mondo conducono una vita completamente opposta a quella di coloro che gli sono graditi. appartiene interamente a lui. I buoni Cristiani, Egli ci dice, fanno consistere la loro felicità nelle lacrime, nella penitenza e nel disprezzo; mentre la persone del mondo fanno consistere la loro felicità nei piaceri, nella gioia e negli onori della terra, rifuggendo da tutto il resto. Sicché, ci dice Gesù Cristo, la vita degli uni è del tutto opposta a quella degli altri, ed essi non andranno mai d’accordo, né nel modo di vivere né di pensare. E questo è molto facile da comprendere. Io dico che ci sono quattro cose che fanno la felicità di un buon Cristiano: la brevità della vita, il pensiero della morte, il giudizio e l’eternità. E noi vediamo che proprio queste quattro cose, costituiscono, invece, la disperazione di un cattivo Cristiano, cioè di una persona che dimentica il suo fine ultimo, per occuparsi solo delle cose presenti.

1°. Dico che la brevità della vita è di conforto a un buon Cristiano, poiché egli vede che le sue pene, le sue disgrazie, le sue persecuzioni, le sue tentazioni, la sua separazione da DIO, non saranno lunghe. Quale gioia per noi, fratelli miei, quando pensiamo che tra poco tempo lasceremo questo mondo, dove siamo sempre in pericolo di offendere il buon DIO, che è un Salvatore così caritatevole, che ha tanto sofferto per noi. Ahimè! fratelli miei, con questo pensiero, potremmo forse noi mai attaccarci alla vita che è piena di tante miserie? “Che buona nuova! Esclamò san Girolamo. Quando si venne per annunziargli che stava per morire, felice nuova, che sta per unirmi al mio DIO, per sempre!”. Ed in effetti, fratelli miei, così è, dato che la morte è lo strumento di cui il buon DIO si serve per liberarci.

2° Io dico che il giudizio, ben lungi dal gettare il Cristiano nella disperazione, non fa invece che consolarlo, perché egli sta per trovarsi davanti non un giudice severo, ma suo Padre e il suo Salvatore. Sì, suo Padre, che lo attende per aprirgli le viscere della sua misericordia, al fine di riceverlo nel suo seno paterno; che sta, io dico, per manifestare al mondo intero tutte le sue lacrime, le sue penitenze, e tutte le buone opere che egli ha fatto durante tutti i giorni della sua vita.

3° Il pensiero dell’eternità, poi, porta al colmo la sua gioia. Se la sua beatitudine è infinita nelle sue dolcezze e nelle sue grandezze, l’eternità gli assicura che essa non finirà mai. Questo solo pensiero, fratelli miei, deve incoraggiarci a ben servire il buon DIO e per sopportare con pazienza tutte le miserie della vita, perché, una volta che saremo in cielo, non ne usciremo mai più! Ahimè! fratelli miei, tutte le miserie di questo mondo passano, tutto questo non dura che un momento, mentre la ricompensa durerà per sempre. Coraggio! ci dice san Paolo, siamo ormai vicini alla meta della nostra strada. Ma per un Cristiano, fratelli miei, che ha perso di vista il pensiero dei suoi fini ultimi, non è la stessa cosa; la brevità della vita è una sciagura e un’amarezza che lo turba e lo rode anche nel bel mezzo dei suoi piaceri; egli fa tutto ciò che può per allontanare questo pensiero della morte. Tutto ciò che gliene offre un ricordo, lo atterrisce; rimedi e medicine, tutto è invocato in suo soccorso, al minimo sentore che la morte si approssimi. Egli crede sempre di poter trovare la felicità quaggiù. Ma, purtroppo, egli si inganna. Questo povero derelitto, abbandonando il buon DIO, abbandona proprio ciò che poteva procurargliela; al momento della morte, sarà costretto a confessare, di aver trascorso tutta la vita nel cercare un bene che non è mai riuscito a trovare. Ahimè! fuori di Dio, solo molte pene, molte sofferenze, nessuna consolazione, e nessuna ricompensa! Prima di partire da questo mondo, avrà il suo bel gridare, come quel re di cui ci parla la Scrittura, nell’Antico Testamento, il quale, vedendosi sul punto di dover lasciare la vita e tutti i suoi beni, diceva: “Ah!, devo dunque morire! Devo lasciare le mie aiuole e i miei bei giardini, per andare in un paese dove non conosco nessuno!”. Ahimè! la morte che è la consolazione del giusto, diviene la sua disperazione; bisogna morire, e non ci si è mai pensato! Ah! triste pensiero, bisogna andare a rendere conto a DIO di una vita che non è che una catena di peccati, e… senza buone opere che possano rassicurarlo. Al momento di partire da questa vita, egli vede chiaramente che il buon DIO lo aveva posto sulla terra soltanto per servirlo e per salvare la sua povera anima, mentre non ha fatto altro che oltraggiarlo e perdere così la sua bella anima. Egli vede, capisce benissimo, in questo momento, che il buon Dio non voleva affatto che si perdesse, ma voleva assolutamente salvarlo, e che sono i suoi peccati che Lo costringono a condannarlo. Quanto poi all’eternità, egli vede che fra qualche minuto sarà gettato nell’inferno. DIO mio, che disperazione! Se il pensiero dell’eternità consola tanto un Cristiano, nella certezza che la sua felicità non avrà mai fine, questo medesimo pensiero, completa la disperazione di questo povero infelice. Ah! povero disperato, deve iniziare il suo inferno per non finirlo mai più! Entrando nell’inferno, vede l’infelice Caino che brucia fin dall’inizio del mondo ed egli  che ci sta entrando adesso, non ha meno tempo di lui da trascorrervi. Allora, i demoni stessi che lo hanno spinto a peccare, per rendere il suo supplizio ancora più violento, gli metteranno davanti tutte le grazie che il buon Dio aveva meritato per lui, con la sua morte e con la sua santa Passione. Egli vede come preoccupandosi della sua salvezza, sarebbe stato più felice. Egli vede quanto Gesù Cristo sia buono, per coloro che vogliono amarlo. – Ma, malgrado tutte queste riflessioni, che per lui saranno come altrettanti inferni, bisognerà rassegnarsi a bere, per tutta l’eternità, a piena bocca, il fiele del furore di Colui che doveva essere tutta la sua felicità, se egli si fosse deciso ad amarlo. Ah! triste meditazione che questo Cristiano farà per tutta l’eternità, dicendo a se stesso: ho perso il mio tempo, ho rovinato la mia anima, ho perduto DIO, ho rifiutato il cielo, ed ora mi aspetta una eternità di sofferenze! Ah! Cielo! che disgrazia! Ecco, fratelli miei, cosa succede a chi perde di vista i suoi fini ultimi. Ma! forse voi direte, voi dite bene che ci sia un’eternità infelice per i peccatori; ma occorre che lo dimostriate. Sarebbe molto facile, fratelli miei; ma questo significherebbe fare un affronto a dei Cristiani. Sarebbe molto meglio per voi, se potessi convincervi della necessità che avete di fare tutto il possibile per evitare quei tormenti. Se volete, ve ne dirò qualche parola, di passaggio, visto che siete così ignoranti e così ciechi, da nutrire qualche dubbio sull’argomento. Ascoltatemi bene. – Ecco cosa ci dice lo Spirito Santo per bocca del profeta Daniele: ci sono due sorta di uomini, ci sono coloro che sono giusti, vi sono quelli che sono peccatori; gli uni muoiono nella grazia di Dio, gli altri in odio a Lui. Tutti compariranno un giorno davanti al buon Dio, tutti si risveglieranno dal sonno della morte; tutti saranno giudicati e riceveranno una sentenza senza appello, dopo la quale, gli uni non avranno più nulla da temere, gli altri più nulla da sperare. Ma la differenza che sarà trovata tra gli uni e gli altri sarà molto grande, poiché gli uni si sveglieranno per andare a godere una gioia eterna, gli altri, per essere coperti di obbrobri, inabissati in ogni genere di pena, e questo, per tutta l’eternità. Lo Spirito Santo ci indica dappertutto, quale sarà la sorte dei peccatori nell’altra vita; Egli ci dice: « Il Signore spargerà il fuoco sulla loro carne, affinché ardano e siano eternamente divorati ». Il santo re Davide dice che « il peccatore che durante la vita ha disprezzato il suo Dio, sarà gettato nell’inferno ». Se desiderate procedere oltre, san Giovanni Battista, predicando ai Giudei il battesimo di penitenza, per prepararli alla venuta del Messia, insegna loro, ancora, quale sarà la sorte del peccatore nell’altro mondo, dicendo loro che Gesù Cristo verrà un giorno e separerà il buon grano dal grano cattivo e dalla paglia: il buon grano, che sono i giusti, il Padre eterno li porrà nel suo granaio, che è il cielo; il grano cattivo e la paglia, che sono i peccatori, saranno legati in fasci e saranno gettati nel fuoco, che è l’inferno; là vi sarà pianto e stridore di denti. Gesù Cristo, ci dice nel Vangelo, che il ricco epulone muore e che l’inferno è il suo sepolcro, dove soffre infiniti mali. Lazzaro, invece, è trasportato dagli Angeli nel seno di Abramo, cioè nel cielo. In un altro passo, parlando del peccatore ci dice: « Va’, maledetto, nel fuoco che è stato preparato per il demonio e per coloro che lo hanno imitato ». San Agostino ci dice parlando del peccatore: « Va’ maledetto, tu hai disprezzato il tuo DIO e le sue grazie durante la vita; va’ maledetto,  tu sarai precipitato in uno stagno di fuoco e di zolfo per tutta l’eternità. » Ma, fratelli miei, ciò che sto dicendo è inutile. Non c’è bisogno che vada a trovare così grandi prove, per mostrarvi che c’è una vita felice o infelice, a seconda che avremo vissuto bene o male. E’ sufficiente solo che apriate il vostro Catechismo, e lì troverete tutto quello che dovete credere, sapere e fare. Infatti, fratelli miei, quale è stata la prima domanda che vi è stata fatta, quando siete venuti in Chiesa per farvi istruire? Non è stata forse questa: chi vi ha creato e conservato fino al presente? E voi non avete forse risposto, molto semplicemente, che è stato DIO? Poi vi è stato chiesto: perché DIO vi ha creato? E voi avete risposto: per conoscerlo, amarlo, servirlo, e con questo mezzo guadagnare la vita eterna. Ecco, dunque, quale deve essere tutta l’occupazione di un buon Cristiano, e tutta la sua felicità. Deve imparare a conoscere DIO, cioè, a conoscere quali siano i mezzi più sicuri che debba usare, per piacere al buon DIO, evitando il male, e facendo il bene. Sto dicendo, fratelli miei, che noi dobbiamo amare il buon DIO. Ahimè! fratelli miei, non inganniamoci; se non ameremo il buon Dio in questo mondo, non avremo mai e poi mai la felicità di amarlo nell’altro. Non vi è stato detto forse, quando siete venuti al catechismo, che non se salvate la vostra anima, per voi tutto è perduto? Che avrete un bel piangere per tutta l’eternità, che non ne caverete un bel nulla! Non vi è stato forse assicurato, facendovi distinguere il bene dal male, che un solo peccato mortale, possa portarvi alla dannazione eterna? E non vi è stato detto che il peccato sia l’unico male che dovete temere, perché non c’è che esso che abbia il potere di separarci da Dio per tutta l’eternità, gettandoci nell’inferno? Non vi è stato forse detto, che tutti noi un giorno moriremo, e che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo per ognuno di noi? Non vi è stato forse ricordato che nell’istante in cui moriremo, saremo giudicati rigorosamente, e che tutto ciò che abbiamo fatto durante la nostra vita, sia in bene che in male, ci accompagnerà davanti al tribunale di Dio? Non avevo, dunque, ragione nel dirvi che se conoscessimo tutto quello che è scritto nel nostro Catechismo, avremmo tutta la scienza necessaria per salvarci? Allorché siete venuti qui, nella vostra infanzia, non vi è stato forse detto che, dopo questo tempo che finirà ben presto, ne verrà un altro che non finirà mai più, e che racchiuderà ogni sorta di bene o di male, a seconda che ci avremo fatto bene o male? Ditemi, fratelli miei, se tutte queste verità fossero incise nei nostri cuori, potremmo vivere senza amare il buon Dio, e senza fare tutto ciò che dipende da noi, per evitare tutti questi malanni? – Ahimè! fratelli miei, queste verità hanno fatto tremare i Santi, hanno fatto convertire grandi peccatori, e hanno spinto i penitenti a usare grande rigore nelle loro penitenze e nelle loro macerazioni! – Leggiamo nella storia che sant’Ambrogio, scrivendo all’imperatore Teodosio che aveva commesso un certo peccato, più per essere stato colto di sorpresa che per malizia, gli diceva: « Ho visto – dice Sant’Ambrogio – in una visione nella quale il buon DIO mi ha mostrato che, se ti avessi visto venire in chiesa, mi ha comandato di chiudervi la porta, poiché il vostro peccato vi aveva reso indegno di entrarvi ». Dopo la lettura di questa lettera, l’imperatore cominciò a spandere lacrime in abbondanza; tuttavia, come era suo costume, andò a presentarsi alla porta della chiesa, nella speranza che il Vescovo si sarebbe lasciato commuovere dalle sue lacrime e dal suo pentimento. Ma il Vescovo, ben lontano dal lasciarsi piegare, come i suoi ministri vili e compiacenti, vedendolo avvicinarsi alla chiesa, gli intimò di fermarsi, secondo l’ordine ricevuto da DIO, poiché non era degno di entrare nella casa di Colui che aveva osato oltraggiare, e gli ordinò di cominciare a espiare il suo peccato ». L’imperatore rispose: « E’ vero – gli dice l’imperatore –  che sono un peccatore e indegno di entrare nel tempio del Signore, ma il buon DIO vede il mio pentimento. Anche Davide ha peccato, ed il Signore gli ha perdonato ». – « Ebbene! – gli rispose sant’Ambrogio – se avete imitato Davide nel suo peccato, imitatelo nella sua penitenza ». L’imperatore, senza nulla replicare a queste parole, si ritira; le lacrime colano dai suoi occhi; il suo cuore si lacera per il dolore; si strappa i suoi abiti regali e ne indossa di poveri e laceri, si getta con la faccia a terra, abbandonandosi a tutta l’amarezza del dolore e facendo risuonare per il palazzo le grida più laceranti. I suoi sudditi, vedendolo in una così grande desolazione, non hanno il coraggio né di guardarlo, né di rivolgergli la minima parola per consolarlo; si contentano di mescolare le loro lacrime a quelle del loro padrone; il suo palazzo si trasforma in un luogo di dolore, di lacrime e di penitenza. Egli non si contenta di confessare il suo peccato nel tribunale della penitenza, ma lo confessò pubblicamente, affinché una tale umiliazione attirasse su di lui la misericordia di DIO. Era inconsolabile nel vedere che i suoi sudditi potessero entrare in chiesa, mentre egli ne era escluso. Se gli si permetteva di partecipare ad una preghiera pubblica, vi prendeva parte nella maniera più umiliante: non stava né in piedi, né in ginocchio, come gli altri, ma prostrato con la faccia a terra, inondandola di lacrime. Si strappava i capelli per mostrare la grandezza del suo dolore, raccoglieva delle pietre con le quali si martoriava il petto e gridava: Misericordia! Per tutta la vita conservò il ricordo del suo peccato: i suoi occhi versavano continuamente lacrime. Ma se voi mi domandate: quale è stata la causa di tante lacrime, di un così grande dolore e di una penitenza così straordinaria? Ahimè! fratelli miei, vi risponderei: che fu il solo pensiero che un giorno Dio lo avrebbe citato in giudizio per il suo peccato, davanti a quel tribunale dove sarebbe stato giudicato senza più misericordia. Ahimè! fratelli miei, se queste grandi verità fossero ben impresse nei nostri cuori, potremmo noi vivere senza lavorare continuamente per placare la giustizia di Dio, che i nostri peccati hanno tanto esasperato? In effetti, fratelli miei, chi è colui che, pensando che non si trovi in questo mondo se non per salvarsi l’anima, potrebbe ancora cercare di ingannare o fare torto al proprio prossimo? Chi è colui che ben convinto che tutti questi beni che accumula a discapito della salvezza della sua anima, fra poco tempo li lascerà a degli eredi che forse sono ingrati che li dissiperanno in dissolutezze, senza, forse, fare la minima preghiera in suffragio della sua anima? Ma, quand’anche essi li usassero per compiere opere buone, queste non potranno strapparvi all’inferno, se voi, avete lasciato la vostra anima nel peccato. Chi potrebbe ancora abbandonarsi ai divertimenti del mondo, che sono tanto fugaci e sì funesti per la nostra salvezza, perdendo di vista l’affare più grande della nostra salvezza. Chi è colui che, essendo ben persuaso che un solo peccato mortale possa dannarlo, avrebbe il coraggio di commetterlo? Oppure, chi, avendo avuto la disgrazia di averlo commesso, potrebbe restare ancora in uno stato sì deplorevole, in cui la mano di DIO può colpirlo da un momento all’altro, e non si affretterebbe invece a far ricorso al Sacramento della Penitenza, unico rimedio che il buon DIO ci offre, nella sua misericordia? – Chi è colui, fratelli miei, che pensando che potrebbe morire in qualunque momento, non vivrebbe ogni giorno, tremante, sull’orlo dell’abisso? Chi è colui che si attaccherebbe tanto fortemente alla vita, al pensiero che forse domani non esisterà più? Chi, fratelli miei, pur essendo certo che nell’istante in cui andrà a comparire davanti a DIO, sarà giudicato con ogni rigore, non temerebbe continuamente di dover subire un giudizio, così temibile perfino per i più giusti? Chi è colui fratelli miei che, essendo certo che dopo questa vita mortale ne avremo un’altra felice o infelice, a seconda che avremo vissuto bene o male, non metterebbe ogni cura nel meritare i beni che il buon DIO ha preparato per coloro che lo hanno amato? Ah! fratelli miei, diciamo ancora meglio, chi è colui che, meditando a fondo queste grandi verità, non vivrebbe e non morirebbe da santo? Anima mia – gridava un santo penitente – ricordati dei tuoi peccati e di queste grandi verità; non dimenticare mai da dove vieni, dove vai, da chi hai ricevuto l’essere, a chi devi donare il tuo cuore, che cosa hai portato in questo mondo e che cosa porterai via, uscendo dal tuo esilio. Ahimè! fratelli miei, noi, fino ad ora, non abbiamo mai considerato tutto questo fino al presente; ahimè! noi aspettiamo, per pensarci, il momento in cui le nostre lacrime e le nostre penitenze resteranno senza frutto. Come saremmo felici, fratelli miei, se queste grandi verità potessero dissipare le tenebre che ci accecano, riguardo al grande affare della nostra salvezza; se noi avessimo la fortuna di essere fortemente convinti che noi non siamo stati che un puro nulla e un miserabile verme di terra: che siamo solo peccatori e pieni di colpe, che un giorno saremo eternamente felici, se evitiamo il peccato, ed eternamente infelici, se seguiamo le nostre cattive inclinazioni! Ahimè! fratelli miei, forse non abbiamo a nostra disposizione che pochi istanti ancora, per prepararci al terribile passaggio. Rientriamo nei nostri cuori, fratelli miei, per non occuparci che delle grandi verità, le sole degne della nostra attenzione, le sole capaci di convertirci. Fratelli miei, lasciamo passare ciò che passa e perisce insieme a noi; attacchiamoci a ciò che è eterno e permanente. Diciamo a tutte le cose di quaggiù, come facevano tutti i santi: No! No! Voi per me non contate più nulla, dal momento che, forse domani, o voi o io, non esisteremo più; lasciatemi profittare del poco tempo che mi resta, per fare in modo che il buon Dio si degni di perdonarmi. Ah! no, no, io non voglio vivere che per Dio, disprezzando i beni che periscono. Ah! questi Santi hanno ben compreso queste grandi verità! E potremmo dire che ne hanno fatto l’unica loro occupazione! Leggiamo nella storia della Chiesa che un gran numero di Santi, tutti penetrati dal nulla di questo mondo e dalla grandezza delle verità, lo hanno disprezzato e abbandonato, per andare a chiudersi nei monasteri o ritirarsi nel fondo delle foreste, per poter meditare queste verità con maggiore agio. E là, nelle grotte spaventose e oscure, lontani dai rumori e dai tumulti del mondo, non si occupavano d’altro se non di queste verità immutabili. Penetrati da questi grandi sentimenti, esercitavano sui loro corpi tutti i rigori della penitenza, che il loro amore per DIO gli ispirava. La preghiera, il digiuno e la disciplina, riducevano i loro corpi in uno stato degno della più grande compassione. Una gran parte di loro non mangiava che qualche radice che trovava smuovendo la terra. Se mangiavano qualche pezzetto di pane, lo ammollivano con le loro lacrime, vedendosi costretti a dare un po’ di sollievo a quel corpo che era più morto che vivente. Così trascorrevano la loro vita, che non era altro che un continuo martirio. E allorché, dopo venti, trenta, quaranta o ottant’anni di penitenza, arrivavano alla fine della loro corsa, ancora tutti spaventati, si dicevano, gridando, gli uni gli altri: Pensate, amici miei, che Dio avrà finalmente pietà delle nostre anime e che si lascerà piegare? Che vorrà ancora accordarci il perdono dei nostri peccati? Pensate che potremo ancora trovare grazia davanti a questo giudice che allora sarà senza misericordia? Ah! chi pregherà per noi, per addolcire la severità del nostro giudice? Ah! potremo ancora sperare di aver parte un giorno alla felicità dei figli di DIO? – Sì, fratelli miei, noi vediamo che i Santi penitenti, dopo aver avuto la fortuna di conoscere che cosa sia veramente il peccato, e come il buon Dio lo punisca severamente nell’altra vita, non mettevano limiti alla loro penitenza. – San Girolamo ci racconta che una dama romana, avendo abbandonato il marito, a causa dei vizi a cui era dedito, credette che, essendosi separata secondo la legge, poteva, senza peccare, rimaritarsi legittimamente con un altro uomo. San Girolamo ci dice che un giorno la rese consapevole del suo peccato; ella allora fu colta da un tale dolore, coperta da una tale confusione, che abbandonò all’istante gli abiti mondani e si vestì di un sacco; … i capelli scompigliati, il volto coperto di fango, le mani tutte sporche, la testa coperta di cenere e di polvere, i vestiti tutti strappati, la bocca serrata. In questo misero stato, si va a gettare ai piedi del Santo Padre (san Girolamo). Il Santo Padre e tutti coloro che furono testimoni di questo spettacolo, non riuscivano a resistere vedendo il triste stato in cui questa signora romana era caduta, a causa della sua ignoranza. Roma, continua questo Padre, faceva echeggiare le sue mura delle grida più laceranti, e sembrava voler condividere il dolore di questa grande penitente. Ella confessava pubblicamente il suo peccato, sempre versando un torrente di lacrime. Portò per tutta la vita i vestiti della penitenza; il suo dolore e il suo pentimento la seguirono fino alla tomba. Non contenta di tutto ciò, vendette tutti i suoi beni, che erano immensi, per vivere e morire nella più grande povertà. A questo punto vi sarete chiesti: … ma quale è stata la causa di tutto questo? Ahimè! Il solo pensiero che un giorno le sarebbe stato intimato di andare a presentarsi davanti al tribunale di Gesù Cristo. Ella chiedeva a Dio la grazia di prolungarle di qualche giorno la vita, affinché avesse il tempo di fare penitenza. Ahimè! Gridava ad ogni istante, bisogna che io vada a comparire davanti al buon Dio; che ne sarà di me, se il mio peccato non sarà cancellato dalle lacrime e dalla penitenza? O felice penitenza! O lacrime salutari! Venite in mio aiuto: soltanto voi voglio come compagne per tutti i giorni della mia vita. Ahimè! Fratelli miei, ci dice il grande Santo Giovanni Climaco, se il pensiero dell’eternità ha portato tanti Santi a fare penitenze così straordinarie, quale sarà la nostra sorte, noi che non facciamo nessuna penitenza? DIO mio! Quanto sarà terribile la vostra giustizia per questi poveri peccatori che non avranno nulla su cui appoggiarsi! « Ah! Amici miei, egli ci dice, ho visto dei penitenti in un luogo che non si può nemmeno immaginare, senza versare lacrime; in un luogo, dico, sprovvisto di ogni aiuto umano, di ogni consolazione umana. Non c’era che oscurità, puzza e sporcizia; tutto era così spaventoso, che non lo si poteva vedere senza piangere di compassione. Questi nobili e santi penitenti non avevano in questo luogo né fuoco né vino, solo qualche radice e qualche pezzo di pane duro e nero che essi inzuppavano con le loro lacrime. Quando arrivai – ci dice san Giovanni Climaco, in quel luogo di penitenza, che molto giustamente è nominato « soggiorno del pianto e delle lacrime », vidi veramente, oserei dire, ciò che colui il quale trascura la sua salvezza, non ha mai visto, e ciò che colui che è pigro nei suoi doveri, non ha mai ascoltato, e ciò che il cuore di colui che cammina lentamente nella via della virtù, non ha mai potuto comprendere; poiché vi assicuro che ho visto delle azioni ed ho ascoltato delle parole, capaci di esprimerlo. Alcuni passavano le notti intere in piedi nel rigore dell’inverno e, quando il loro povero corpo cadeva per la debolezza e il rilassamento: Ah! maledetto, dicevano a se stessi, poiché hai avuto l’ardire di oltraggiare il buon DIO, bisogna che tu soffra in questo mondo o nell’altro. Scegli la parte che vuoi prendere; le sofferenze di questo mondo non sono che un di momento, invece quelle dell’altra vita sono eterne. Ne vidi altri che con gli occhi sempre levati al cielo, rivolgevano le grida più laceranti chiedendo misericordia. Altri che si facevano legare le mani, finanche le dita, durante la loro preghiera, come criminali, ritenendosi indegni di fissare il cielo. Essi erano talmente penetrati dalla loro miseria e del loro niente che non sapevano da dove cominciare la loro preghiera. Essi si offrivano a DIO come vittime pronte ad essere immolate. Si vedevano altri, vestiti da un sacco, coperti di cenere, distesi sul pavimento e battersi la fronte contro le pietre; altri che piangevano con tante lacrime, da formarne dei ruscelli. Ne vidi alcuni talmente pieni di ulcere, che ne usciva un’infezione capace di far morire coloro che erano loro vicini. Essi avevano sì poca cura di sé, che i loro corpi sembravano un ammasso di ossa coperto da una pelle. Ovunque ci si volgeva, non si ascoltavano che grida e singhiozzi che laceravano le viscere facendo versare lacrime. Le loro grida più frequenti erano: Ah! guai a noi che abbiam peccato! Gli uni portavano il loro rigore tanto lontano che non bevevano acqua se non per impedirsi di morire; altri, quando mettevano qualche boccone di pane in bocca, lo rigettavano subito dicendo che essi erano indegni di mangiare il pane dei figli di DIO dopo averlo oltraggiato. Essi avevano sempre presente al loro spirito e davanti ai loro occhi l’immagine della morte; essi si dicevano l’un l’altro: ahimè! Amici miei, cosa diventeremo? Pensate che avanziamo un poco nella strada della penitenza? Oh! Siano profonde le nostre lacrime! I nostri debiti sono troppo grandi! Come faremo per ripagarli? Facciamo, si dicevano, come i niniviti. Ahimè! Chissà se il buon DIO non avrà ancora pietà di noi? Facciamo tutto ciò che potremo per sperare che il Signore voglia ancora lasciarsi muovere; corriamo nella corsia della penitenza senza risparmiare questo corpo di peccato che non è che abisso di corruzione: uccidiamo questo corpo maledetto come esso ha voluto uccidere le nostre povere anime. Era questo il loro linguaggio ordinario, esso era sufficiente – ci dice San Giovanni Climaco, a condurli a piangere amaramente: essi avevano gli occhi abbattuti, infossati nella testa, non avevano più ciglia alle palpebre: le loro gote erano talmente infossate che sembrava che il fuoco le avesse rose, tanto era per loro ordinario il piangere con lacrime calde; il loro viso era così sfigurato e pallido che sembravano dei morti che avevano dimorato due giorni nella tomba; ve n’erano di taluni che si martoriavano talmente il petto a colpi di pietre, che alla maggior parte di essi si vedeva il sangue uscire dalla bocca; diversi chiedevano al loro superiore di mettere loro dei ferri al collo ed alle mani e ceppi ai piedi: una parte li tenevano fino alla tomba. Essi erano così umili, amavano talmente il buon DIO, avevano tanto dolore dei propri peccati, e si vedevano sul punto di comparire davanti al loro giudice, che essi pregavano in grazia del loro superiore, di non seppellirli; ma di gettarli in qualche fiume o in qualche foresta per servire da pasto ai lupi e alle bestie selvagge. Ecco – ci dice San Giovanni – la maniera in cui vivevano queste anime sante ed innocenti. Quando fui i ritorno – continua il Santo medesimo –  ed il superiore vide che ero così distrutto e che appena poteva riconoscermi e sembravo di non poter più vivere: ebbene! Padre mio – mi dice – avete visto i travagli ed i combattimenti del nostro genere di soldati? Io non potei rispondergli se non con lacrime e singhiozzi, tanto questi genere di vita mi aveva colpito in dei corpi umani. » Ahimè! Fratelli miei, dove siamo? Qual sarà la nostra sorte e la nostra eternità se DIO domandasse a noi altrettanto? Ah! No, no, fratelli miei, mai per noi il cielo se ci volesse tanto! Ah! almeno senza fare così grandi e spaventose penitenze e cominciassimo ad amare il buon DIO, potremmo  ancora sperare la stessa felicità DIO mio, quanto siamo ciechi circa la nostra eterna felicità! Ahimè!, fratelli miei, questo grandi Santi che ammiriamo senza avere il coraggio di imitarli, ditemi, avevano forse un altro Vangelo da seguire? Avevano un’altra Religione da praticare? Avevano un altro DIO da servire? Un’altra eternità da temere o da sperare? No, senza dubbio, fratelli miei, ma essi avevano la fede che noi non abbiamo, che noi abbiamo quasi spenta per la moltitudine dei nostri peccati: è che essi pensano seriamente alla salvezza della loro povera anima, mentre noi lasciamo da parte, questa povera anima che è sì povera e che tanto è costata a Gesù-Cristo, e che torna indifferente salvare o dannare. È che essi meditavano incessantemente queste grandi e terribili verità dell’altra vita, la perdita di un DIO, la grandezza del peccato, una eternità felice o infelice, l’incertezza della morte, gli abissi spaventosi dei giudizi di DIO e le sequele di un avvenire felice o infelice, secondo che avremo vissuto bene o male, mentre noi non ci pensiamo mai. Non essendo occupati che da cose di questo ondo, lasciamo la nostra anima ed il cielo da parte. In una parola, c’è che essi vivono da penitenti e da Santi, mentre noi viviamo da mondani, nel peccato e nei piaceri del mondo, e non di penitenza. O cecità dell’uomo, quanto grande tu sei! Chi potrà mai comprenderlo? Non essere in questo mondo che per amare il buon DIO e salvare la nostra anima, e non vivere per offenderlo e rendere la nostra anima infelice per l’eternità! In effetti, fratelli miei, qual è la nostra vita al presente? A cosa abbiamo pensato da quando siamo sulla terra? A chi abbiamo dato il nostro cuore? Cosa abbiamo fatto per Dio, nostro primo ed ultimo fine? Qual zelo, quale ardore abbiamo avuto per la gloria di Dio e la salvezza della nostra povera anima che è costata tante sofferenze a Gesù-Cristo? Quanti rimproveri, al contrario, non abbiamo da farci? Ahimè! Ben lungi dall’avere impiegato tutta la nostra vita a procurare la gloria di DIO ed assicurarci la felicità eterna, forse noi non vi abbiamo mai pensato un solo giorno, come un Cristiano dovrebbe fare tutta la vita. ah! ingrati! È forse per questo che il buon DIO  ci ha creati e messo sulla terra? Non è al contrario che per occuparci di Lui e consacrargli tutto i movimenti del nostro cuore? Noi non dovremmo vivere che per LUI, e forse non abbiamo ancora vissuto un solo giorno del quale potremmo dire di essere tutto per Lui e solo per Lui. Ahimè! Fratelli miei, ben presto ci toccherà render conto di tutte le nostre azioni. Cosa abbiamo da presentargli? Cosa avremo da rispondere a tutte le sua interrogazioni quando ci mostrerà da un lato tutte le grazie che ci ha accordato durante tutta la nostra vita, e dall’altra il poco profitto o piuttosto il disprezzo che e abbiamo fatto? È possibile mai che, avendo tra le mani, delle grazia così preziose, siamo ancora sì tiepidi, sì lassi e languidi nel servizio a DIO? Ah! fratelli miei, se i pagani e gli idolatri avessero ricevuto tante grazie come noi, non sarebbero divenuti gran Santi? Quanti, fratelli miei, grandi peccatori, se fossero stati ricolmi di tanti benefici come noi, non avrebbero fatto penitenza, come i niniviti, coperti da cenere e cilicio? Ricordiamoci, fratelli miei, tutto ciò che il buon DIO ha fatto per noi da quando siamo al mondo. Quanti tra voi sono morti senza avere avuto il beneficio di ricevere il santo Battesimo? Quanti altri che, dopo un peccato mortale sono stati colpiti subito e sono caduti nell’inferno! Oh! Quanti pericoli anche corporali da cui DIO, nella sua misericordia, ci ha preservato, preferendoci a tanti altri che sono periti in una maniera straordinaria. Ma a quanti di noi, dopo avere avuto la disgrazia di peccare, il buon DIO non ci ha perseguiti con rimorsi di coscienza, di buoni pensieri? Quante istruzioni, quanti buoni esempi che sembravano rimproverarci la nostra indifferenza per la nostra salvezza! Ditemi, fratelli miei, dopo tanti tratti di misericordia del buon DIO, cosa avremo da rispondergli quando ci domanderà conto del profitto che ne abbiamo fatto? O pensiero triste, fratelli miei,  per un peccatore che ha disprezzato tutto, e che non ha saputo profittare di nulla. Eh ben ingrato, ci dirà Gesù-Cristo, le virtù che vi ho comandato erano troppo difficili? Non potevate praticarle come tanti altri? In quale stato comparirete davanti a me! Non sapevate che sarebbe arrivato un giorno in cui Io avrei domandato a voi conto di tutto ciò che la mia misericordia ha fatto per voi? Ebbene, miserabile, rendetemi conto di tutto ciò che la mia misericordia ha fatto per voi! Ahimè! Fratelli miei, cosa andremo a rispondere, o piuttosto qual confusione per noi! Preveniamo, fratelli miei, questo momento orribile per il peccatore, profittando finalmente delle grazie che la bontà di DIO vuole ancora ben accordarci oggi. Io dico oggi, perché forse domani, in cui il buon DIO ci avrà abbandonato, non saremo più in questo mondo. Sapete, fratelli miei, il linguaggio che dobbiamo tenere in questo momento? Eccolo: Ah! diremo. Io sapevo molto bene che non ero sulla terra che per poco tempo, e tuttavia non ho vissuto che per il mondo. E perdendo la vita eterna, io sapevo he in qualche anno avrei finito la mia corsa, e che mille anni non sarebbero stati tanto lunghi per prepararmi a questo triste passaggio da questo mondo all’eternità in cui potevo entrare in ogni istante; e questo poco tempo io non l’h impiegato che per gli affari del tempo, per i divertimenti e per dei niente. Ecco questo tempo prezioso che DIO non mi aveva dato che per assicurarmi una eterna felicità che va a sparire ai miei occhi, e l’eternità che sta per cominciare per on finire mai. Sarà essa felice o infelice? Ahimè! Cosa ho fatto per meritarla felice? O tempo perduto! Eternità obliata! Qual disprezzo! Tu che getti anime nell’inferno! O cecità dell’uomo che potrà comprendere, quattro giorni da passare in questo mondo ed una eternità intera nell’altra: e questi quattro giorni hanno fatto tutta la mia occupazione, ed io ho fatto tutto ciò che ho potuto per cancellarvi dalla mia memoria. DIO mio, dov’è dunque la nostra fede? Dove la nostra ragione? Per vivere come viviamo. – Cosa dobbiamo concludere da tutto questo, fratelli miei? È che, malgrado noi abbiamo tanto disprezzato delle grazie, se vogliamo profittare di quelle che il buon DIO vuole accordarci nella sua misericordia, non soltanto potremo riscattare il tempo passato, ma procurarci una felicità infinita nell’altra vita. se il buon DIO ci ha conservato la vita, malgrado tanti peccati, non è che perché voleva effondere su di noi la grandezza delle sue misericordie; più siamo peccatori, più Egli desidera la nostra salvezza, affinché possiamo essere come tanti strumenti per manifestare per tutta l’eternità la grandezza delle sue misericordie per i peccatori. Sì, fratelli miei, Egli ci attende con le braccia aperte; Egli ci apre la piaga del suo Cuore divino per nasconderci alla severità della giustizia di suo Padre; Egli ci presenta tutti i meriti della sua morte e passione al fin di pagare per i nostri peccati. Se il nostro ritorno è sincero, Egli si incarica di rispondere per noi al tribunale di suo Padre, quando saremo interrogati per rendere conto della nostra vita. felice colui che obbedisce alla voce del suo DIO che lo chiama! Felice, fratelli miei, colui che non avrà mai perso di vista che la sua vita è breve, che può morire in ogni istante, e non ha mai perso il pensiero che dopo questa vita sarà giudicato, per una eternità di felicità e di dannazione, per il cielo o per l’inferno. O DIO mio! Se noi pensassimo incessantemente ai nostri fini ultimi, potremo vivere nel peccato, potremmo dimenticare questo tempo avvenire che, una volta cominciato, non finirà mai? Ditemi, fratelli miei, credete a questa eternità, vi che dopo forse dieci o venti anni siete nell’odio di DIO? Credete all’eternità, fratelli miei, voi che avete i beni di altri? Ah! no, no, se voi vi credeste, voi non potreste vivere come vivete. Ditemi, miserabile, che dopo tanti anni di peccati celati nelle vostre Confessioni, colpevole di tanti sacrilegi fatti con le Comunioni; ahimè! Se voi lo credeste appena un pico, non morireste di orrore di voi stesso, pensando ad ogni momento in cui siete esposto ad andare a rendere conto di tutte queste turpitudini davanti ad un giudice che sarà senza misericordia. Sì, fratelli miei, se avessimo la felicità di ben meditare su ciò che ci attende dopo questo mondo che è cos’ breve, sarebbe impossibile non lavorare per tutta la vita tremando nel timore di non riuscire a salvare la nostra povera anima. Felice, fratelli miei, colui che si terrà sempre pronto! Ciò che io vi auguro. 

LA COSCIENZA CRISTIANA (note dottrinali)

Coscienza buona e cattiva.

[Ab. BARBIER: I Tesori di Cornelio Alapide; vol. I, S. E. I. Torino, 1930]

1. Qual è la buona coscienza? — 2. Potenza e forza di una buona coscienza. — 3 Eccellenza e pregio della buona coscienza. — 4. Felicità che procura la buona coscienza. — 5. Disgrazie che attira la cattiva coscienza e disordini che produce. — 6. Cagioni della cattiva coscienza. — 7. Che cosa si deve fare per acquistare una buona coscienza.

1. QUAL È LA BUONA COSCIENZA? — Buona coscienza, dice Ugo da San Vittore, è quella che si mostra dolce con tutto il mondo, che non ferisce persona, che usa castamente dell’amicizia, che, paziente con i nemici, benevola verso tutti, fa il bene per quanto le è possibile. Buona coscienza si dice quella a cui Dio non imputa peccati, perché li schiva, né incolpa dei peccati altrui, perché essa non li approva, né accagiona di negligenza, perché ha parlato ed operato quando era necessario, né taccia d’orgoglio, perché si tenne sempre nell’umiltà e nell’unità (De Anima lib. III, c. IX). La buona coscienza è quella che è retta, che obbedisce alle leggi di Dio e della Chiesa e che si serve dei lumi della ragione per illuminarsi … La buona coscienza è quella che sta attenta per non cadere e che caduta, prontamente si rialza … La buona coscienza è l’uomo tutto intero; poiché l’uomo è nulla, o meglio è un mostro, un flagello, quando non ha la buona coscienza… La buona coscienza è l’immagine di Dio su la terra …

2. POTENZA E FORZA DI UNA BUONA COSCIENZA. — Il non aver nulla da rimproverarsi, il non aver da arrossire di colpa alcuna, dà tale forza che ci rende muri di bronzo, cantava Orazio (lib. I, Epist.); e il martire Tiburzio affermava che ogni patimento è lieve, anzi è un nulla, quando si ha la coscienza retta e pura. La buona coscienza niente teme; essa può ripetere col poeta: « Io temo Dio, caro Abner, e fuori di questo non conosco altro timore. — Ci travagli pure il corpo con le sue voglie e col pungolo della concupiscenza; ci solletichi o ci minacci il mondo; ci tenti o ci spaventi il demonio; la buona coscienza sta tranquilla, ferma, irremovibile. Al punto di morte la buona coscienza è piena di speranza e compare senza inquietudine al tribunale di Dio. Il mondo va e viene; piange e ride; passa e scompare senza che la buona coscienza ne resti scossa o macchiata. Si può battere, torturare, sbranare, crocifiggere, bruciare il corpo, ma la buona coscienza trionfa di tutte queste prove.

3. ECCELLENZA E PREGIO DELLA BUONA COSCIENZA. — « Che cosa vi è quaggiù di più prezioso, scriveva S. Bernardo a papa Eugenio, di più tranquillo e sicuro che una buona coscienza? Non teme perdita di beni, né ingiurie, né patimenti; la morte, non che intimidirla, le dà fierezza (De Consid. lib. I ) ». – « Non l’ampiezza del principato, non la copia delle ricchezze, non il fasto della potenza, non la gagliardia del corpo, né altra simile cosa dà tranquillità e gioia all’anima, ma solo la buona coscienza e infelicissimo sarebbe chi possedesse ogni sorta di beni, ma intanto avesse coscienza d’aver fatto male», dice il Crisostomo (Homil. I, in Epi. ad Rom.). Non si dà più sicuro pegno di future benedizioni che la consolante testimonianza di una buona coscienza; perciò i Proverbi la dicono, « un continuo festino » — Secura mens quasi iuge convivium (XV, 15). Quindi Ugo da S. Vittore la chiama un campo di benedizione, un giardino di delizie, un tabernacolo d’oro, la letizia degli angeli, l’arca dell’alleanza, un tesoro regio, il trono di Dio, la dimora dello Spirito Santo, il libro chiuso e sigillato che verrà aperto il dì del giudizio (De Anim. lib. III).

4. FELICITÀ CHE PROCURA LA BUONA COSCIENZA. — « La stessa notorietà delle buone opere che si sono fatte, infonde speranza a una buona coscienza, dice S. Agostino: poiché questa è naturalmente portata a sperare ed è piena di confidenza, mentre la cattiva coscienza è rosa dalla disperazione (Homil. in Ioann.)) ». – « Dove trovare cibo più gustoso, dice S. Ambrogio, fuori della testimonianza d’una buona coscienza, e d’un cuore innocente? (In Psalm. XLV) »; e tutti i giorni che una buona coscienza vede splendere, sono giorni di festa … La  pace dell’anima rende la vita felice (Officiò, lib. II, c. 1). Quando l’anima non è tormentata da rimorsi, predicava il Crisostomo, prova tanta felicità, che non si può dire. Che dirò? tutto ciò che vi è di più confortante e dilettevole in terra, è amarezza e melanconia se si confronta col piacere che proviene da una buona coscienza (Hom. ad pop.). Che può mai temere un giusto? egli sa che la sua purezza di coscienza gli guadagna la protezione e l’amore di Dio. La sua anima è calma, serena, tranquilla, piena di fiducia, di contentezza e di coraggio, perché egli è appoggiato a Dio. « Niente si può immaginare di più felice che la tranquillità di coscienza (De Givit. Dei, lib. XXI); e nessuno può contristare colui la cui gioia è Cristo (Sentent. XC) », dice S. Agostino. Nessuno è infelice, soggiunge Salviano, perché altri lo giudica tale, ma l’infelicità proviene solamente da noi medesimi. Ecco perché chi ha la fortuna di avere una coscienza monda e buona è felice, ancorché altrimenti ne giudicassero tutti gli uomini (De Prov. Dei). Anzi non solamente felicità, ma gloria nostra è, al dire di S. Paolo, la buona testimonianza della coscienza: — Gloria nostra hæc est, testimonium conscientiæ nostræ (II Cor. I, 12). Perciò non è a stupire se in questo convengono anche i pagani. « Qual è il sommo bene? domanda Ausonio, e risponde: Una coscienza che nulla ha da rimproverarsi. La coscienza di aver voluto il bene, è il massimo dei conforti nei travagli della vita »; la testimonianza di una buona vita, unita al ricordo del bene che si è continuamente fatto, forma la felicità dell’uomo, sentenziava Cicerone (Caio mal.). La buona coscienza ci libera da tutte le inquietudini della vita, leggiamo in Plutarco. Chi sono quelli che vivono felici? – fu domandato a Socrate: Sono coloro, rispose, che mantengono la loro coscienza netta di ogni sozzura (Anton, in Meliss.). Interrogato Biante qual fosse la cosa che nulla temeva, e Periandro qual fosse la più grande e perfetta contenuta nella più piccola e vile; risposero ambedue: essere la buona coscienza, e quest’ultimo aggiunse, nel corpo di un uomo.

5. DISGRAZIE CHE ATTIRA LA CATTIVA COSCIENZA E DISORDINI CHE PRODUCE . — « Conserva, scriveva S. Paolo a Timoteo, la buona coscienza, la quale perché alcuni rinnegarono, fecero naufragio nella fede » — Habens… bonam conscientiam, quam quidam repellentes circa fìdem naufragaverunt (I Tim. I, 29). La cattiva coscienza è la sorgente di tutte le eresie, della corruzione dello spirito e del cuore e di tutti i delitti. ..Il medesimo Apostolo accenna alcuni che avevano la coscienza cauterizzata:— Cauteriatam habentium suam conscientiam (I Tim. IV, 2). La coscienza cauterizzata, la quale è una coscienza profondamente corrotta e indurita, ha smarrito il senso del bene e del male. Altre volte regnava la coscienza, poi la scienza ne prese il luogo; finalmente l’una e l’altra disparvero e noi siamo divenuti esseri stupidi e perversi… L’errore, qualunque sia, è sempre pericoloso, ma quello che influisce sulla coscienza, su questa regola dei costumi, è il più dannoso. « Badate, diceva Gesù Cristo, che la luce la quale è in voi non si volga in tenebre » — Vide ne lumen quod in te est, tenebræ sint (Luc. XI, 35). L’occhio della nostr’anima è la coscienza; ora quando l’occhio è affetto da malore, tutti gli atti della vita ne patiscono; così quando la coscienza è inferma, tutto nell’anima è disordine: perché 1° non vi è eccesso a cui una cotale anima non si abbandoni…; 2° si commette il male arditamente e senza rimorsi …; 3° questo stato non ha più rimedio…

6. CAGIONI DELLA CATTIVA COSCIENZA. — Se si seguisse la legge di Dio, se sopra di essa si modellasse la condotta, la coscienza sarebbe retta e illuminata, perché la legge di Dio non soffre che si faccia il male: — Lex Domini immaculata (Psalm. XVIII, 7). Ma si interpreta secondo i propri disegni…; si traveste a capriccio delle passioni…; si elude, o piuttosto si disprezza e si calpesta… ognuno si foggia una coscienza a proprio modo… una coscienza compiacente… tutto ciò che si brama è buono, dice S. Agostino, tutto ciò che piace è santo (Serm.).

7. CHE COSA SI DEVE FARE PER ACQUISTARE UNA BUONA COSCIENZA. —

Per procurarsi una buona coscienza, bisogna, 1 ° consultare la legge di Dio e seguirla; 2° detestare il peccato, secondo il consiglio medesimo di Seneca: « Ancorché io sapessi, diceva questo filosofo pagano, che agli uomini starà nascosto e che Dio mi perdonerà il peccato, tuttavia non vorrei peccare, trattenuto dalla intrinseca bruttezza del medesimo » . – Un 3° mezzo ci è dato da S. Agostino, in quelle parole: « Si acquista una buona coscienza per mezzo di una buona vita ». Una vita cristiana, pura e santa, è prova di una buona coscienza; una vita sregolata, colpevole e scandalosa, genera una coscienza cattiva; e quando la coscienza è corrotta, i costumi si vanno man mano depravando e la coscienza s’indura. Allora tutto è perduto nel tempo e per l’eternità. – Il 4° mezzo è suggerito dai seguenti versi di Pitagora: « Non fare mai nulla di turpe né in presenza di amici, né di testimoni, né di te stesso ancorché solo, e trattate medesimo con somma modestia ». – Un 5° eccellentissimo mezzo sta nel considerare i tormenti e i castighi che infligge una cattiva coscienza. Essa infatti è una spada che trapassa il cuore…; è un abisso sopra di cui romba la tempesta… Il peccatore si trova del continuo tra l’affanno, il timore ed i rimorsi; passa la sua vita nell’amarezza e nel disgusto, anche quando pare che nuoti nell’abbondanza, nelle delizie, nella gioia… La vita dell’uomo senza coscienza è un sogno; all’aprire degli occhi il suo riposo è scomparso, i suoi piaceri sono svaniti. Voi non vedete di lui altro che i festini e le gioie di cui gode; considerate piuttosto la sua coscienza e le torture che gli cagiona… La coscienza è un testimonio…, un giudice…, un carnefice… Il verme roditore della coscienza non muore, disse Gesù Cristo: — Vermis eorum non moritur (Marc. IX, 47). No, dice S. Agostino, non vi è afflizione uguale a quella che è prodotta da una cattiva coscienza. Chi pecca, sta male con se stesso; è angustiato, perseguitato da’ suoi rimorsi; diviene carnefice e castigo a se stesso. Un nemico si può scansare, m a come fuggire se stesso? Non si danno patimenti simili a quelli che fa provare una cattiva coscienza, perché essendo il peccatore in urto con Dio, non trova consolazione in nessuna parte (Sentent.).

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DELLA COSCIENZA.

[G. Frassinetti: Compendio di teologia Morale di s. Alfonso M. De’ Liguori, Genova, Tipogr. Arcivescovile; 1882]

1. Prima regola delle nostre azioni è la legge divina; ma regola rimota. Regola prossima poi ne è la coscienza, che noi praticamente siamo obbligati a seguire. La coscienza quindi si definisce: il dettame della ragione, mediante il quale giudichiamo che una cosa sia da farsi o non farsi siccome lecita od illecita presentemente: hic et nunc. — La coscienza è la regola prossima delle nostre azioni, perché ogni atto umano si giudica virtuoso, o vizioso, non secondo il suo obbietto materiale, ma secondo l’idea che abbiamo della sua bontà o della sua malizia. — La Sinderesi è la cognizione dei principii universali: per esempio, il bene è da desiderare, il male è da fuggire, ecc.

CAPITOLO I.

DELLA COSCIENZA RETTA,  ERRONEA, PERPLESSA E SCRUPOLOSA.

2. La coscienza retta è quella che detta una cosa vera. —

La coscienza erronea è quella che detta una cosa falsa. Questa poi si divide in vincibile, ed in invincibile. È vincibile, quando ci si presenta alla mente il dubbio, ossia il pericolo di errare, e di più si avverte all’obbligo di appurare la verità della cosa. E invincibile, quando non occorre alla mente né quel dubbio, né questa avvertenza. Quando sia invincibile e precettiva, siamo obbligati a seguirla nelle nostre operazioni; che se poi è vincibile, allora, seguendola, noi peccheremmo.

3. Non si dà ignoranza invincibile riguardo ai primi principii, quale sarebbe questo: Non fare agli altri ciò che non vorresti che fosse fatto a te. — Riguardo alle conclusioni, che da tali principii vengono immediatamente, come sarebbero i precetti del Decalogo, non può darsi ignoranza invincibile,non siavi nell’azione cattiva alcuna circostanza che, almeno apparentemente, la giustifichi. — Si dà poi ignoranza invincibile in tutte le conchiusioni non immediate, cioè nelle conchiusioni che si deducono dai precetti del Decalogo. —Pertanto è da stabilire che si dà ignoranza invincibile, cioè incolpabile, anche nella legge naturale. — Chi poi conosce alcuna opera essere cattiva, non può ignorare invincibilmente che sia cattivo e peccaminoso anche il desiderio di essa.

4. La coscienza è perplessa, quando di due azioni dovendosi necessariamente farne una, si giudica che sia peccato l’una e l’altra, di modo che ad ogni modo si abbia da violare la legge di Dio. — Colui che si trovasse in questa perplessità, potendo, dovrebbe consigliarsi con persone dotte per sentire a quale parte dovesse appigliarsi. Non potendo poi prender consiglio, dovrebbe scegliere di fare il minor male, evitando la trasgressione del precetto più importante, come sarebbe la trasgressione di un precetto della legge naturale, a preferenza della trasgressione di un precetto positivo; mancando piuttosto, per esempio, al precetto della Messa che a quello della carità verso il prossimo. Se poi l’uomo non sa distinguere il maggior male dal minore, allora in qualunque modo egli operi, non pecca.

5. La coscienza scrupolosa è quella, che per ragioni vane, incapaci a persuadere un uomo prudente, dubita della onestà delle azioni. — E necessario che gli scrupolosi camminino per la strada della cieca ubbidienza, attenendosi alle regole assegnate loro dal Confessore. Questo poi darà sempre agli scrupolosi regole generali e senza restrizioni. Inoltre procurerà che bene si persuadano di due cose: primieramente, che il Cristiano procede con sicurezza sotto l’ubbidienza del Confessore, qualunque cosa gli comandi, purché non fosse un evidente peccato: in secondo luogo, che il maggiore scrupolo, ossia il timore di far male, dev’essere quello di mancare all’ubbidienza, per tutti i danni che questa mancanza apporta alla salute dell’anima, e in tanti casi anche a quella del corpo.

6. Gli scrupolosi non sono obbligati a confessar peccati, se pure non sieno talmente certi da poterne prendere giuramento, che quelli sieno veri, formali peccati mortali, e che inoltre non gli abbiano mai confessati. Frattanto il Confessore proibisca loro di fare esami sulla materia dei loro scrupoli, di ascoltare prediche di terrore, come quelle del Giudizio, dell’Inferno ecc., e di leggere i libri pii che ne trattano, se tali prediche e letture servono a disturbar la pace del loro spirito. Gli scrupolosi, che facilmente temono d’avere acconsentito a cattivi pensieri, si devono avvisare, non essere possibile che cadano in peccato senza che chiaramente se ne avvedano, per questo appunto che abborriscono il peccato. Quindi non si deve mai loro permettere che si accusino di alcun peccato se non sappiano d’averlo certamente commesso con piena avvertenza e deliberazione. Gli scrupolosi poi, che sono angustiali per le confessioni passate anche dopo d’aver fatto la confessione generale, e forse dopo che hanno già ripetute più volte le loro confessioni, sono da obbligarsi a non pensar mai ne all’integrità, ne alla validità delle loro confessioni.

7. Gli scrupolosi finalmente che temono di peccare quasi in tutte le operazioni che fanno, sono da esortare ad agire liberamente, se pure non riconoscano nelle loro operazioni una evidente malizia. Sono poi da ammonire ch’essi non devono temere di commettere peccato per ragione dello scrupolo od ansietà che li accompagna nell’operare; imperocché questa ansietà è una semplice trepidazione di animo, e non già quella coscienza formata, che ricercasi al peccato formale.

CAPITOLO II

DELLA COSCIENZA DUBBIA.

8, La coscienza dubbia è quella che rimane irresoluta, e sospende l’assenso per l’una e per l’altra parte. È dubbia negativamente, quando non ha motivo notevole per determinarsi più ad una parte che all’ altra. È dubbia positivamente quando tanto per l’una come per l’altra parte si hanno ragioni gravi. Il dubbio altro è speculativo, quando cioè si dubita della cosa in astratto: per esempio, se sia lecito guerreggiare. Altro è pratico, quando cioè si dubita d’ una cosa da fare: per esempio, se sia lecito prendere parte a quella tale guerra. Il dubbio speculativo riguarda il vero; il dubbio pratico riguarda il lecito.

9. E lecito alle volte agire col dubbio speculativo, quando è si abbiano buone ragioni da persuaderci che una data azione ci sia lecita di presente. Per es. dubito se il ricamare sia lecito nei dì festivi; tuttavia conoscendo di aver grave bisogno del guadagno che ricavo dal ricamo, giudico che attualmente il ricamare mi sia lecito. Invece col dubbio pratico non è mai lecito agire; esso deve prima deporsi. Per es. dubito se ciò che mi si presenta da mangiare in venerdì sia cibo grasso o magro; prima di mangiare devo verificare la cosa. Chi opera col dubbio pratico di peccare, pecca di quella specie di peccato, di cui dubita. Per esempio: chi dubita di rubare, pecca di furto. Chi opera dubitando di far peccato mortale o veniale, più probabilmente pecca di peccato veniale, purché allora non avverta al pericolo di peccare mortalmente, né all’obbligazione di verificare la cosa; e purché l’azione non sia da per sé manifesto peccato mortale, e la malizia dell’azione non si conosca almeno in confuso.

10. Nei dubbi è da vedere se posseda il precetto o la libertà. Se possedè il precetto, si deve certo adempiere; non v’è poi tal obbligo, se possiede la libertà. Or per conoscere se possegga il precetto o la libertà, è da osservare per chi stia la presunzione. La presunzione sta pel precetto quando n’è già cominciata l’obbligazione; ed obbliga fintantoché l’obbligazione di esso precetto non sia certamente cessata. Per lo contrario la presunzione sta per la libertà, quando non si può dir con certezza che l’obbligazione del precetto sia già cominciata; poiché noi non siam tenuti al precetto insino a tanto che non cominci in modo certo ad obbligarci. Sia per esempio: è la sera del sabbato, e dubito se sia passata la mezza notte, ed incominciata perciò la domenica; non potendo verificare la cosa, la presunzione è pel sabato, e non posso mangiare di grasso. Se invece fosse la sera del giovedì, nel dubbio se sia cominciato il venerdì, la presunzione sta pel giovedì, e posso ancora mangiare di grasso.

11. Quando si dubita se la legge sia stata accettata, la legge obbliga; perché la presunzione sta per essa. Infatti è da supporre ordinariamente che sia stato fatto ciò che era da fare. — Se per lo contrario si dubitasse della promulgazione della legge, non potrebbe essa obbligare, stando in possesso la libertà fin che non si provi la esistenza della legge. — Nel dubbio, l’atto si suppone valido, ove non si provi il contrario. Per esempio: nel dubbio deve tenersi per valida la confessione, né v’ha obbligo di rifarla. Chi dubita della validità del matrimonio, fatte le debite parti per conoscere la verità, potest recidere, et etiam petere.

12. Chi dubita d’aver fatto un voto, non è obbligato ad adempierlo: e chi dubita d’aver compreso nel voto una qualche particolarità, non è obbligato alla medesima. Il contrario si deve dire qualora sia certo d’aver fatto il voto, e si dubiti di averlo adempito; come se alcun dubiti d’aver recitato le Ore canoniche, d’aver fatta la penitenza sacramentale; s’intende sempre quando questi dubbi non siano mal fondati, quali sono quelli degli scrupolosi. – (A costoro in pratica non è mai da permettere che nel dubbio ripetano le preghiere né anche le comandate, come sarebbero appunto le Ore canoniche, o la penitenza data dal Confessore. E tuttavia sentenza sodamente probabile, e il Gury l’appella comunissima, che quando alcuno ha vera e soda probabilità di avere adempito a qualche sua obbligazione, non sia più tenuto a soddisfarvi nuovamente, ancorché non sia certo dell’adempimento. Vedi il Gury T. I . n. 80 colle note del Ballerini. Dice ivi il De Lugo che se il peccatore giudica probabilmente di avere già confessato un peccato, non è più obbligalo a confessarsene; e chiama questa sentenza comune). – È da osservare, che dopo passato molto tempo, di molte cose non si può avere più una certezza, ma soltanto una probabilità; ed allora specialmente la probabilità ci deve bastare. Per esempio: alcuno ricorda che vent’anni sono aveva un’obbligazione, cui probabilmente ha soddisfatto; che ha commesso un peccato, di cui probabilmente si è confessato. Costui non è più tenuto né a quella obbligazione, né a confessare quel peccato. Stante quella probabilità, ragionevolmente si suppone che siasi fatto ciò che si doveva tare.

13. Nel dubbio se un’azione comandata sia lecita, deve eseguirsi, perché possedè l’autorità del Superiore, fin che non si provi ch’esso ne abusa, comandando veramente ciò che non gli è lecito di comandare. — Chi dubita d’essere arrivato ai 60 anni, è obbligato al digiuno; e chi dubita di avere l’età. che si ricerca per gli Ordini e pei Benefìzii, non può ordinarsi, né accettare il Benefizio; perché in questi casi possede il precetto. Se invece al giovedì alcuno dubita se sia già mezza notte, può mangiare carne, come dicemmo, perché possede la libertà. Parimente chi dubita d’avere mangiato qualche cosa dopo la mezzanotte, probabilmente può comunicarsi; e si dice probabilmente, perché alcuni pensano che il precetto del digiuno sia positivo; tuttavia più comunemente si pensa che sia proibitivo, e che perciò nel dubbio sia lecita la Comunione. — Chi è certo del debito, e dubita di averlo pagato, è tenuto al pagamento; dicasi poi il contrario, se il debito è dubbio. Si vedano gli atri casi, dove si parla della restituzione.

CAPITOLO III.

DELLA COSCIENZA PROBABILE.

14. La coscienza probabile è quella che, appoggiata a qualche opinione probabile, ci detta che sia lecita un’azione. L’opinione poi probabile è quella che ha in appoggio una grave ragione capace a trarsi l’assenso d’un uomo prudente. — Generalmente è lecito operare con coscienza formata sopra d’una opinione veramente probabile. Tuttavia non sarebbe ciò lecito col pericolo del danno altrui, posto che abbia diritto, che non gli si apporti quel danno; e neppure sarebbe lecito col pericolo del danno proprio, a cui non ci sia lecito di sottometterci; poiché quella probabilità non potrebbe impedire il male, che forse ne verrebbe. — Per la qual cosa il cacciatore non può sparare lo schioppo contro un oggetto che vede muoversi dietro dei frondi, quando dubita se sia uomo o fiera. Parimente niuno in materia di fede, e in cosa necessaria all’eterna salvezza può seguire un’opinione anche probabilissima, se non è sicura. Lo stesso è da dirsi quanto alla materia dei Sacramenti, come vedrassi al proprio luogo, ove porremo le osservazioni fatte a proposito dal nostro Santo. — Che il giudice possa giudicare seguendo le opinioni meno probabili, è proposizione condannata da Innocenzo XI, n. 2. Che sia lecito seguirle in materia di fede e in cose necessarie alla vita eterna, e nella materia dei Sacramenti, abbandonata la sentenza più sicura, sono proposizioni| condannate dal medesimo Pontefice al n. I , ed al n. 4.

15. Tra le opinioni, altre sono più probabili, perché sii appoggiano sopra argomenti di maggiore peso che non le contrarie. Altre sono probabilissime, che si appoggiano sopra ragioni talmente gravi da non rimanere più bastantemente probabili le contrarie, le quali perciò si appellano tenuamente probabili. Altre sono moralmente certe; e son quelle che escludono ogni ragionevole timore di falsità: le contrarie a queste si appellano semplicemente improbabili. — Non è lecito operare seguendo opinioni tenuamente probabili, che non possono trarsi l’assenso di persona prudente. È lecito poi assolutamente seguire le opinioni probabilissime. Le opinioni che dicevano il contrarie furono condannate dalla Chiesa. (Vedi la proposizione 3 delle condannate da Innocenzo XI; e la proposizioni 3 tra le condannate da Alessandro VII). — Quando l’opinione in favore della legge ha una probabilità notevolmente maggiore di quella che presenta l’opinione che favorisce la libertà, deve affatto seguirsi. — Se l’opinione in favore della legge è ugualmente probabile che quella che favorisce la libertà, la legge non può obbligare; essendo chiaro che una legge certamente dubbia non può imporre una obbligazione certa. Per la qual cosa, perché ci sia lecito operare, non fa bisogno che l’opinione in favore della libertà sia più probabile di quella che sta per la legge.

16. Che la legge dubbia non obblighi, è principio fondamentale del Sistema Morale di S. Alfonso. Questo principio che è certo in se stesso, noi lo usiamo come principio riflesso a formarci nei casi dubbi una coscienza certa. Per esempio: nasce il dubbio che oggi sia giorno di digiuno; siamo in luogo da non poterlo verificare: in questo caso per noi la legge del digiuno è dubbia; quindi giudichiamo che a noi certamente sia lecito di non osservare il digiuno. — Parimente la legge non obbliga quando dubitiamo se l’opinione la quale è in favore della legge, sia o non sia più probabile di quella che è in favore della libertà; poiché eziandio in questo dubbio la legge rimane incerta. È da dire il contrario quando la maggiore probabilità è notevole, certa ed evidente; imperocchè allora l’opinione in favore della legge addiviene molto più probabile della sua contraria, e la legge si può dire sufficientemente manifestata. È da notare che, giusta la dottrina del Santo, ogni volta che qualche opinione è certamente ed evidentemente più probabile, è anche più probabile notabilmente. Dice al num. 31: « Quando all’intelletto certamente apparisce che la verità meglio si trovi nell’opinione in favore della legge che in quella che favorisce la libertà, allora la volontà non può prudentemente e senza colpa seguire la parte meno sicura ».

LA COSCIENZA

[F. Spirago, Cathéchisme Catholic Populaire. II Parte: i Comandamenti di Dio. 6a Ed. Paris, – 1903]

 Dalla conoscenza della legge, nacque la coscienza, vale a dire la scienza che ci fa conoscere se un’azione è permessa o no. La nostra ragione ci rende attenti nei casi concreti nei quali dobbiamo agire in ciò che dobbiamo fare secondo i precetti conosciuti. La ragione di conseguenza ci inculca la conoscenza della legge e del nostro dovere. Questa conoscenza del dovere è la coscienza. La coscienza è dunque un’attività dell’intelligenza e, come sappiamo, essa spinge potentemente la nostra volontà al bene. E poiché la nostra coscienza ci rende attenti alla volontà del bene, numerosi Santi l’hanno chiamata la voce di Dio. La coscienza è la voce di Dio che si manifesta come legislatore e come giudice. (S. Tommaso d’Aquino). La coscienza si rivela nel modo seguente: prima dell’azione, essa avverte ed incoraggia; dopo l’azione, essa tranquillizza o turba secondo che l’azione è stata buona o cattiva. Caino e Giuda furono turbati dal rimorso della loro coscienza. Un giudice umano può talvolta lasciarsi corrompere o farsi persuadere da adulazioni, insulti, minacce, ma il tribunale della coscienza, giammai (S. Giov. Chrys.). la coscienza è dunque buona o cattiva. La buona coscienza rende gai e caccia via la tristezza, come il sole disperde le nubi (S. Chrys.). Essa addolcisce le amarezze della vita, è simile al miele che non è solo dolce di per sé, ma edulcora le bevande più amare (S. Agost.). Una buona coscienza è un dolce cuscino. – La cattiva coscienza rende irascibili ed agitati; è un verme che esce dal marciume del peccato (S. Thom. D’Aq.), e che non muore mai (S. Marc. IX, 43). La cattiva coscienza avvelena tutte le gioie della vita; essa somiglia alla spada di Damocle sospesa ad un capello sopra la propria testa durante il pasto, la cui vista priva di ogni gioia. Colui che ha una cattiva coscienza somiglia ad un condannato a morte che, malgrado tutte le gioie che gli si accordano nelle sue ultime ore, non riesce ad esserne sinceramente felice. (S. Bern.). L’uomo può avere una coscienza delicata o una coscienza rammollita. La coscienza delicata risente delle minime colpe; la coscienza rammollita appena delle più grandi.Una coscienza delicata somiglia ad un bilancino da orefice, che è sensibile al minimo pulviscolo; la coscienza rammollita somiglia ad una bascula da fieno che appena si inclina sotto il peso di una libbra. I Santi avevano la coscienza delicata; essi si rammaricavano della minima offesa di Dio. I mondani hanno invece una coscienza rammollita; essi appena notano quel che è un peccato mortale manifesto. Nondimeno essi attribuiscono una grande importanza a delle nullità;  essi « … filtrano il moscerino e ingoiano il cammello! » (Matt. XXIII, 24). Un uomo dalla coscienza delicata è un uomo coscienzioso, quello con la coscienza rammollita sarà un uomo senza coscienza. L’uomo può anche avere una coscienza larga (lassa) o una coscienza timorosa (scrupolosa). Colui che ha una coscienza larga considera permessi tutti i più grandi peccati; egli come principio ha: che … una volta non è la consuetudine, che … una volta non conta, che … errare è umano, etc. La sua vita depravata non gli consente più di ascoltare i rimproveri della sua coscienza, come un uomo che abita nei pressi di una cascata d’acqua (o di una ferrovia) si abitua poco a poco al loro rumore e nonostante essi, dorme ugualmente molto bene (S. Vinc. F.). Colui che al contrario ha una coscienza scrupolosa, considera come proibite anche le azioni permesse. Uno scrupoloso somiglia ad un cavallo permaloso che si nasconde all’ombra di un albero o di una pietra, come se fossero un leone o una tigre, e che espone così tutto il suo carico al danno più grande. Lo scrupoloso immagina così dei pericoli là dove non ce ne sono, e cade allora facilmente nella disobbedienza e nel peccato (Scar.). Lo scrupolo non viene ordinariamente dall’ignoranza, ma da una sensibilità malaticcia che turba la ragione. Il fondo di ogni scrupolo è l’orgoglio (S. Franc. S.). ogni scrupoloso è timido e per questo non può diventar perfetto; egli somiglia ad un soldato pauroso che non ha il coraggio di affrontare il nemico e che depone le armi prima dell’attacco. Uno scrupoloso non deve mai fermarsi davanti ai suoi scrupoli, perché essi assomigliano alla pece o alla colla che si attaccano quanto più si cerca di scacciarla (Scar.). Lo scrupoloso deve disprezzarlo e fare il contrario di ciò che lo scrupolo gli vieta. (S. Alf.). Egli deve obbedire esattamente al suo confessore, altrimenti non guarirà e rischia di diventare folle. (S. Alf.). Lo scrupoloso deve diffidare del suo giudizio personale e del suo modo di intendere le cose, ed anche rinunciarvi completamente. Così spariranno i suoi scrupoli che risultano più di frequente dall’orgoglio e dall’attaccamento ostinato alle proprie idee (Marie Lat.). Colui che vuol fare grandi cose per Dio deve badare a non essere pusillanime: se gli Apostoli lo fossero stati, non avrebbero mai intrapreso la conversione del mondo (S. Ign. Loy.). Non si deve agire contro la propria coscienza, altrimenti si commette un peccato. La coscienza non è altra cosa che la legge applicata ai casi concreti; colui che agisce contro la sua coscienza, agisce dunque contro la legge. San Paolo dice: pecca colui che agisce contro la propria convinzione (Rom. XIV, 23). Pecca, ad esempio chi, nel giorno di giovedì, pensando che sia venerdì, ciò nondimeno mangia volontariamente la carne.

COSCIENZE MALATE

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli; vol. Secondo. – Soc. Vita e Pensiero, Milano, 1939 – imprim.]

È triste quando si spegne la luce degli occhi: ogni cosa perde la linea e il colore, ed una oscurità senza né tempi né mutamenti benda il volto del povero cieco.

È più triste quando si spegne la luce dell’intelligenza: l’anima è strappata via di forza e sepolta viva nella materia che la rende incapace d’agire. Il povero deficiente è al mondo, quasi come un vegetale, senza saperlo; ha uno spirito immortale e non sa d’averlo. Ma più triste ancora è quando si spegne la luce della coscienza: l’uomo ha sani gli occhi ma non vede, ha l’intelligenza aperta ma non capisce; non vede e non capisce che corre verso la sua finale e irrimediabile rovina. Le altre sventure sono la privazione di un grande bene, ma solo per i pochi anni della vita terrena. Questa ci sospinge verso la perdita di tutto il bene, e per tutta l’eternità. – La coscienza vale assai più della scienza; ed il mondo più che di uomini di scienza ha bisogno di uomini di coscienza, cioè di santi.

Che cos’è dunque la coscienza?

Essa è quella facoltà dell’anima che indica l’orientazione giusta alle nostre azioni. Gli animali hanno l’istinto che li guida, ma l’uomo ha la coscienza. Essa è un incorruttibile tribunale interiore che giudica ogni atto, ogni parola, ogni pensiero e di ciascuno pronuncia la sua sentenza: questo è buono e tu sei meritevole; questo è cattivo e tu sei riprovevole. Essa è l’eco della voce di Dio che ci parla senza strepito, che ci muove senza violenza. Non pretendete che Gesù vi appaia corporalmente come S. Paolo e vi fermi bruscamente sulla strada per imporvi di convertirvi o di pregare. Neanche pretendete che Dio vi mandi visibilmente la Madonna o qualche Angelo. Se rientrate in voi, se la vostra coscienza non è stata guastata dall’impurità e dall’orgoglio, allora sentirete realmente quello che Dio vuole e quello che non vuole da voi. Potete ora comprendere la grande importanza che la coscienza ha nella vita dell’uomo. E potete ora comprendere l’enorme disgrazia di chi l’ha pervertita. Costui cammina verso l’abisso dell’iniquità, e siccome la coscienza è guasta, lo lascia smemorato nel suo traviamento, quasi illuso di camminare verso la giustizia. È questa orribile illusione che Gesù denunciò prima di morire ai suoi Apostoli: Verrà l’ora in cui chi vi scaccerà e vi ucciderà, crederà di fare una buona cosa e penserà di dare gloria a Dio. Povere coscienze ottenebrate che non conoscono più né il Padre né me! Voi però non scoraggiatevi. Vi manderò lo Spirito Santo che vi darà la forza anche di morire per rendermi testimonianza ». La grave parola del Signore ci persuade a considerare le malattie della coscienza, specialmente quelle che sono le più disastrose perché danno l’illusione di essere onesti e religiosi.

Ci sono tre tipi di coscienze malate:

la coscienza cieca;

la coscienza farisaica;

la coscienza pervertita.

I. COSCIENZA CIECA

Quando l’aeroplano in volo entra nella nebbia, al pilota trema un poco il cuore. Manca ogni visibilità: di sopra e di sotto, a destra e a sinistra non c’è che un’informe e fiottante massa grigiastra. Dove sarà? Non avrà deviato dalla giusta rotta? È tempo di discendere? Come abbassarsi di quota se non si vede nulla? Un ostacolo improvviso, una collina, un campanile, potrebbero determinare la rovina. Nessuna paura; c’è il marconista in continuo collegamento coi campi d’aviazione che gli segnalano le condizioni opportune per atterrare; ci sono perfettissimi strumenti di misurazione che indicano di momento in momento la quota d’altezza, la velocità di volo, la direzione. Intanto l’aeroplano vola ciecamente nella nebbia. E se la radio non funzionasse più? Se gli istrumenti di misurazione si fossero guastati senza che nessuno se ne accorgesse? Basterebbe un minimo errore di calcolo. Allora ogni cosa più orribile può accadere. – Qualche anno fa un aeroplano, smarritosi nella nebbia si fracassava a tutta velocità contro la collina di Lanzo Torinese, spiaccicandovi otto persone.

La vita nostra, quaggiù sulla terra, è in tutto simile a un volo nella nebbia, la nebbia dei sensi. Noi non vediamo Dio, non vediamo il Paradiso che è la meta a cui tendiamo, non vediamo a che altezza e a che punto siamo del nostro viaggio. Ma abbiamo però la coscienza, dove ci sono strumenti perfetti di misurazione morale, e dove arrivano i radiogrammi del Signore. Appena con qualche peccato si esce dalla giusta rotta, allora nella coscienza si fa sentire una punta come di spina confitta, come di tarlo che rode. Guai a chi non bada e disprezza queste segnalazioni preziose! La coscienza si vendica facendosi sempre più fioca, fin che si spegne. Allora l’uomo è un disperso nella nebbia dei suoi istinti. Quel danaro, quella roba di mal acquisto non gli scotta più: per lui è come se fosse di guadagno legittimo. Quella lite maliziosamente intentata e con raggiri vinta non gli rimorde più: per lui è come se avesse sostenuto un proprio diritto. Quegli scherzi equivoci, quelle impudenti libertà di parola e di mano, quegli spettacoli corruttori, ora gli sembrano innocui divertimenti, una maniera allegra e piacevole di passar la vita. Ma se la rupe della morte gli si adergesse improvvisa davanti?… Ah! che disastro: altro che quello dell’aeroplano contro la collina di Lanzo Torinese.

2. COSCIENZA FARISAICA

Quando la luce vera si spegne nella coscienza, è facile che s’accendano falsi fanali che deformano la visuale. Ne deriva così quella coscienza farisaica che fu bollata a parole roventi dal Signore. Di essa voglio ora ricordare due caratteristiche.

a) La coscienza farisaica è una lampada cieca che proietta la luce sugli altri e tiene nell’ombra chi la porta. I farisei vedevano il fuscellino nell’occhio del prossimo, e non s’accorgevano di avere una trave nel proprio. I farisei scovavano macchie e scandali dappertutto, anche nelle azioni più buone, eccetto che in sé e nella propria condotta. I farisei avevano da sparlare di tutti, eccetto che di sé. « O Dio — pregava un fariseo nel tempio fulminando indietro uno sguardo di disprezzo, — ti ringrazio che non sono come gli altri uomini: tutti ladroni, ingannatori, adulteri come quel pubblicano laggiù » ( Lc., XVIII, 11). I farisei non ci sono più, ma il fariseismo è una malattia che è rimasta, e forse un poco ammorba anche la nostra anima. Che cos’è questa smania di osservare gli sbagli degli altri, di essere tra i primi a lanciare contro di essi la pietra, di mormorare, di disprezzare tutti? Segno che c’è una trave nel nostro spirito e non la vediamo. Che cos’è quest’altra smania di criticare continuamente i preti, il Vescovo e lo stesso Papa, come se si fosse più parrocchiani del parroco e più cattolici del Papa? Segno è che non si è né buoni parrocchiani né buoni cattolici.

b) Altra caratteristica della deformata coscienza farisaica è di fissarsi sulle cose minime e trascurare le massime. I farisei scolavano mosche per ingoiare cammelli. Facevano l’offerta al tempio e poi divoravano le case delle vedove e degli orfani. Temevano di contaminarsi entrando nella casa d’un pagano come Pilato, e non temevano di contaminarsi facendo ammazzare il Signore. – Ci può essere ancora chi fa consistere tutta la sua religione soltanto in cose esteriori: qualche preghiera a fior di labbra; la messa bassa alla festa; qualche piccola offerta nelle cassette dell’elemosina; dare il nome a qualche pia confraternita. Ma poi nessuna giustizia con gli operai, o col padrone; nessuna carità e compassione per il prossimo che soffre o che chiede; nessuno scrupolo di vivere anni ed anni in peccato mortale, conservando un’abitudine o un affetto proibito dalla legge di Dio. Come i farisei, questi Cristiani puliscono l’esterno del piatto e del bicchiere, e dentro lo lasciano colmo di immondezze e di ingiustizie.

3. COSCIENZA PERVERTITA

« Viene l’ora — ha detto Gesù — in cui chi vi uccide, crederà di rendere ossequio a Dio ». Non molto tempo dopo questa profezia, l’apostolo Paolo fu arrestato in Gerusalemme e custodito dal tribuno romano. Ebbene quaranta persone fecero un voto a Dio, invocando sopra di sé le più fiere maledizioni se non l’avessero mantenuto. Il voto era questo: non toccare cibo né bevanda, sino a che non avessero ucciso Paolo. Decisero d’attendere il momento in cui il tribuno l’avrebbe condotto dalla prigione al tribunale del Sinedrio, per strapparlo fuori dalle mani delle guardie e finirlo. Fortuna volle che un nipotino di Paolo, un figlio di sua sorella, venne a sapere la cosa e arrivò in tempo a sventare la congiura (Atti, XXIII, 12-21). Fu però ucciso dopo qualche anno a Roma, dove anche S. Pietro e dove anche numerosi Cristiani furono uccisi come nemici della civiltà e della patria, e degli Dei dell’Impero. Forse che oggi non ci sono uomini che con giuramento si legano a perseguitare i preti e i buoni Cristiani, a odiare il Papa, a distruggere la Chiesa? Sono nazioni intere che scacciano i ministri e i fedeli del Signore, accusandoli di disfattismo, di nemici della grandezza patria, di sostenitori delle ingiustizie sociali. Si organizzano perfino i bambini, e quando a schiere passano davanti a qualche chiesa o immagine religiosa si insegna a loro di levare il pugno chiuso e gridare : a No! No! ». Ah, quelle piccole mani che Gesù accarezzava, quelle candide voci che facevano tremare il cuore del Figlio di Dio!

CONCLUSIONE

Ma quando è possibile questo pervertimento totale della coscienza?

« Quando — risponde Gesù nel Vangelo — non si conosce più il Padre, né me ». Invano, o Cristiani, deprecheremo da noi e dalla nostra patria questo orrendo male, se non ci mettiamo a conoscere il Padre e il Figlio che ci ha mandato. Conoscerlo con l’intelligenza: istruzione cristiana. Conoscerlo con le opere: vita cristiana.

LA COSCIENZA

[E. IONE O.F.M.: Compendio di Teologia morale, 3° ed. Marietti, 1952 –imprim.]

CAPITOLO I.

Concetto e divisione.

I. Nozione. La coscienza, in senso proprio, è un giudizio della ragione pratica sulla bontà o colpevolezza di un’azione.

Applicando la legge al caso concreto,

la coscienza diviene norma prossima dell’agire morale.

II. Divisione. — 1° La coscienza è antecedente o conseguente, secondo che il giudizio pratico riguardaun’azione ancora da farsi oppure già fatta.Con la coscienza antecedente è congiunta la consapevolezzadell’obbligazione e la responsabilità di fronte alla norma morale;la coscienza conseguente, invece, è accompagnata dasentimento di calma o di inquietudine.

2° La coscienza è vera o falsa, secondo che la sua sentenza concorda o meno con la realtà oggettiva. La coscienza falsa o erronea può essere erronea colpevolmente o non colpevolmente, inoltre erronea vincibi1mente o invincibilmente.

3° Coscienza certa, dubbia, probabile, perplessa.

La coscienza certapronuncia il suo giudizio senza timore di errare. Basta che sia escluso ogni timore ragionevole; quindi che vi sia la certezza morale. In realtà, però, può errare anche una coscienza assolutamente certa. — La certezza morale può essere perfetta (per es. rubare un grappolo d’uva è solo colpa veniale; esiste l’America) e imperfetta; la perfetta esclude ogni dubbio; l’imperfetta esclude ogni dubbio prudente, pur non escludendo la possibilità del contrario (per es. la sincerità della mamma).

La coscienza dubbiasospende il giudizio. Il dubbio può riferirsi al fatto (dubium facti) oppure alla moralità e al diritto (dubium juris). Il dubbio speculativo riguarda la natura dell’azione e il suo valore morale in genere; il dubbio pratico riguarda la liceità di una data azione da compiersi al momento. Con il dubbio speculativo può star congiunta la certezza pratica.

La coscienza probabilepronuncia bensì un giudizio, basandosi su motivi sodi, ma con fondato timore di errare. — Relativamente considerato, secondo il diverso grado di probabilità, il giudizio può essere probabile, più probabile, probabilissimo.

La coscienza perplessasi ha allorché uno, posto fra due obbligazioni, crede di peccare in ogni caso, sia che si risolva per una parte sia che scelga l’altra.

4° Coscienza delicata, lassa, scrupolosa.

Tale distinzione riguarda principalmente uno stato permanente di coscienza.

La coscienza delicatapronuncia, anche nelle piccole sfumature di bene e di male, un giudizio oggettivamente retto, con una relativa facilità.

La coscienza lassa, in base a motivi insufficienti, giudica sia lecita una cosa che è peccato, oppure che una cosa sia soltanto peccato veniale mentre di fatto è peccato mortale.

La coscienza scrupolosa, in base a motivi apparenti, vede peccati dove non v’è neppur l’ombra, oppure vede peccati mortali dove non si tratta che di peccati leggeri. L’essenza della costiera scrupolosa non è tanto un errore, quanto uno stato d’animo in continua perplessità. Tali angustie veramente non appartengono affatto alla vita ragionevole e, quindi, neppure alla coscienza; si tratta piuttosto di suggestioni della fantasia, di impressioni della sensibilità, di tendenze o moti del sentimento. – I connotati di una coscienza scrupolosa sono: esami interminabili di coscienza su inezie e spesso su cose ridicole, rimestare una cosa senza posa, dare consistenza ad ogni possibile circostanza che possa verificarsi o presentarsi in un’azione, frequente mutamento di giudizio, irresolutezza, paura di eventuali peccati in ogni cosa, interrogare diversi confessori, paura di non essere da essi ben capiti, pertinacia nel proprio giudizio di fronte alle loro decisioni, ecc. Talvolta non è facile riconoscere la coscienza scrupolosa. A tale proposito, in modo particolare, si deve avvertire di non fidarsi del proprio giudizio, per attenersi in tutto a quello del confessore. Capita pure, talvolta, che uno sia scrupoloso su determinate cose ed in altre sia, invece, lasso. Le cause degli scrupoli sono: disturbi di salute, morbosi stati ereditari d’animo o dell’organismo, sovreccitabilità dei nervi, anemia, pressione del sangue sul cervello, fantasia vivace, prevalenza del sentimento sulla ragione, senso acuto precoce, auto osservazione coltivata esageratamente, incapacità di giudicare; talvolta anche un orgoglio segreto, che vorrebbe giustificare se stesso contro ogni rimprovero o raggiungere una certezza che escluda ogni dubbio, anche quello irragionevole; infine, troppo poca confidenza nella Misericordia divina. Gli scrupolosi sono spesso colpevoli direttamente del peggioramento del loro stato, perché non applicano metodicamente i rimedi loro prescritti. – I rimedi contro gli scrupoli sono: preghiera e fiducia in Dio, incondizionata e fiduciosa ubbidienza al Direttore spirituale, formazione di poche e semplici norme generali d’agire morale, stando ligi ad esse in modo assoluto, anche se in ciò, di quando in quando, si abbia errato, fuga dell’ozio, eliminazione delle cause, specialmente dei disturbi organici.

CAPITOLO II.

Forza obbligatoria della coscienza.

I . La coscienza certa deve essere sempre seguita, sia che comandi, sia che proibisca qualche cosa. Ciò vale tanto per la coscienza vera quanto per quella falsa. Pertanto, chi mentisce, persuaso che sia un dovere di carità aiutare con una bugia a levare da un guaio il prossimo, esercita un atto meritorio di carità verso il prossimo; e se agisse contro la sua falsa coscienza, peccherebbe. Chi crede che oggi sia giorno di astinenza, e ciò non ostante mangia carne, pecca, benché di fatto non sia giorno di magro. Chi, però, agisce contro la sua coscienza erronea, non incorre le pene “ipso facto” inflitte al trasgressore della legge. Chi, pertanto percuote un secolare, persuaso che questi sia un chierico, commette bensì un sacrilegio, ma non incorre la scomunica.

— Tuttavia ciò che è impossibile evitare, non è affatto peccato, anche se a causa di coscienza erronea si pensa che sia peccato grave. Quindi se per es. ad un prigioniero è impossibile ascoltare la Messa di domenica, egli non pecca, anche se pensa di commettere peccato mortale. Se la coscienza certa permette un’azione, è sempre lecito seguirla. Chi adunque mangia carne di venerdì nella persuasione che sia giovedì, non pecca. La coscienza certa, anche se obbiettivamente erronea, purché non sia colpevole, è per accidens norma di moralità. Tuttavia v’è sempre l’obbligo di formarsi la coscienza retta, usando i mezzi possibili.

II. Con un dubbio pratico circa la liceità di un’azione, non è mai lecito agire. Un cacciatore che dubiti se sia bestia o uomo ciò a cui tira, pecca di omicidio, anche se poi risulta che ha freddato un capo di selvaggina. Tuttavia, non bisogna naturalmente preoccuparsi dei dubbi irragionevoli. Chi, pertanto, ha ucciso uno investendolo mortalmente con la propria automobile, purché abbia usate le prescritte precauzioni, non ha peccato, anche se qualche volta gli sia passato per la mente il pensiero che, nei suoi viaggi in auto, poteva accadergli di uccidere qualcuno.

Quanto si dice del dubbio pratico, vale pure per la coscienza praticamente probabile.

III. In caso di coscienza perplessa, bisogna fare ciò che ad uno sembra minor peccato. Se due azioni si ritengono entrambe egualmente peccaminose, si può allora scegliere ciò che si vuole. – La ragione sta in ciò, che nell’impossibilità non v’ha neppure colpa. Però, si presuppone sempre che non si possa differire l’azione senza grave danno: e, quindi, che non si abbia mezzo alcuno per formarsi una coscienza retta.

IV. Seguire la coscienza lassa è, di solito, peccato grave, quando la trasgressione riguarda un precetto obbligante sub gravi.

La ragione sta in ciò, che una tale coscienza d’ordinario si deve considerare come una coscienza colpevolmente falsa. Un tale individuo, più facilmente di qualunque altro, deve fare attenzione a dubbi che potessero sorgergli, e non può disprezzarli così facilmente come scrupoli. — In casi eccezionali, però, anche tale individuo può essere scusato da peccato grave, e precisamente quando egli non sia conscio del suo stato di coscienza e neppure in genere riesca a conoscere la malizia dell’azione o l’obbligo di una più accurata ricerca.

V. Agire contro la coscienza scrupolosa non è affatto peccato, neppure quando si compie l’azione con un vivo timore di peccare. La coscienza scrupolosa, infatti, è propriamente solo uno stato di paura. Il principio dato vale anche quando lo scrupoloso, nel momento dell’azione (hic et nunc), non ha pensato che il suo stato è un puro scrupolo; basta che egli abitualmente sappia che gli è lecito tutto quanto non conosce certamente per peccato. — Allo scrupoloso è lecito tutto ciò che vede praticarsi da gente timorata di Dio, anche se ciò sia contro la propria opinione. Nelle sue azioni egli è tenuto ad applicare soltanto una diligenza mediocre. Quando non riesce ad applicare le direttive ricevute, né può chiedere consiglio ad alcuno, gli è lecito di fare ciò che vuole, eccetto che si tratti evidentemente e sicuramente di peccato. Per causa di grave danno, lo scrupoloso può essere anche scusato da molti obblighi positivi, come per es. dalla correzione fraterna, dall’integrità della confessione. Se, nel guardare oggetti e persone innocenti, gli sorgono pensieri impuri, egli può pure guardare tali oggetti e modestamente queste persone, senza preoccuparsi di simili sentimenti o movimenti. Riguardo agli scrupoli se abbia adempiuto o meno il proprio dovere (per es. breviario, penitenza, voti), può lecitamente ammettere di avere soddisfatto al proprio obbligo. Nel timore se il dolore sia sufficiente, può risolvere in proprio favore. Non è tenuto a confessare i peccati commessi prima dell’ultima confessione, tranne che possa giurare di avere certamente commesso peccato grave e di non averlo certamente ancora accusato. Anche in quest’ultimo caso, possono verificarsi delle circostanze che lo scusino dall’integrità della confessione. Lo stesso dicasi di dubbi sulla validità delle confessioni antecedenti. Si avvertano gli scrupolosi, i quali confondono sentimenti di paura (paura precordiale) con i rimorsi di coscienza, che causa di tale paura sono i nervi e non eventuali peccati. V’è, inoltre, l’obbligo di agire contro gli scrupoli, perché altrimenti si pecca di superbia, di caparbietà, di disubbidienza, oppure perché il corpo e l’anima o la propria professione ne soffrirebbero danno. Quando, però, lo scrupoloso ha buona volontà, non è facile che, nei singoli casi, commetta peccato grave. Per ragione dei danni accennati, anche il confessore permetta una volta soltanto una esposizione completa degli scrupoli o una confessione generale. Ma anche questa unica esposizione dello stato di coscienza si deve vietare, quando lo scrupoloso si sia già da poco tempo aperto con altro confessore e si preveda che anche adesso non rimarrà per lungo tempo presso il nuovo confessore.

CAPITOLO III.

Formazione di una coscienza praticamente certa.

Poiché non è mai lecito agire con un dubbio pratico circa la liceità di un’azione, bisogna cercare di formarsi una coscienza praticamente certa.

I. Una soluzione diretta di dubbi di coscienza nelle cose più frequenti si può ordinariamente acquistare col riflettere con maggiore precisione sulla cosa in questione, con lo studiarla, col domandarne consiglio ad altri.

Si deve tentare questa soluzione, finché esiste fondata speranza di poter, per tal via, sciogliere il dubbio con una diligenza relativa all’importanza della cosa; a meno che non si voglia in ogni caso scegliere la parte più sicura.

II. Una soluzione indiretta dei dubbi di coscienza, cioè una soluzione con il sussidio di diversi principi e sistemi morali, è permessa quando per via diretta non si può ottenere alcuna certezza. Con tale soluzione, il dubbio teorico sulla liceità o necessità di un’azione rimane sempre; però si raggiunge una certezza su ciò che attualmente si deve o si può fare.

Se si tratta del raggiungimento necessario di un fine, bisogna scegliere la parte PIÙ SICURA,se non si riesce a deporre il dubbio teorico.

Trattandosi del raggiungimento dell’eterna felicità,

si devono usare quei mezzi che conducono con certezza a questo fine; fintanto che si hanno tali mezzi sicuri, non è lecito accontentarsi di mezzi, che soltanto probabilmente raggiungono questo fine. —

Nella amministrazione dei sacramenti, per riverenza verso di essi, spessoanche per giustizia e carità, bisogna, nel dubbio, risolversi per quell’opinione, seguendo la quale, la stessa amministrazione è certamente valida. Se, però, nell’amministrare un Sacramento, non si possa avere alcuna materia certamente valida, nell’interesse della salute spirituale, è lecito usare anche di una materia dubbia. — Quando si tratta del diritto certo di un terzo o di un danno imminente ad un terzo, bisogna scegliere quella sentenza, con la quale l’altro raggiunga sicuramente il suo diritto o venga sicuramente preservato dal danno. Perciò, il medico per es. non può lecitamente applicare rimedi la cui efficacia è dubbia, quando si possono avere altri rimedi più efficaci; un cacciatore non può lecitamente sparare, quando ha il dubbio fondato di recar danno ad un uomo.

Se si tratta della liceità di un’azione, si può lecitamente seguire qualunque opinione che sia certamente probabile, anche se l’opinione opposta sia più probabile.

a) Certamente probabile è un’opinione, quando essa può determinare un uomo ragionevole a dare il suo assenso, anche dopo aver ponderato i motivi contrari. Bisogna, conseguentemente, che sussista il timore che il contrario possa essere vero. I motivi, in favore di un’opinione, possono essere interni ed esterni, secondo che si appoggiano su una intrinseca considerazione e valutazione della cosa oppure sull’autorità di altri. In tal caso, però, si presuppone che queste persone abbiano pesati attentamente i motivi interni. — Sui motivi interni, può portare un giudizio solo un buon moralista; su quelli esterni, anche una persona mediocremente istruita. Una persona non istruita deve attenersi al giudizio di un prudente confessore o parroco. I pastori d’anime possono stare all’opinione di approvati moralisti o anche del solo S. Alfonso. Se l’opinione che favorisce l’esenzione dall’obbligazione della legge sia ben fondata veramente, lo si conosce in molti casi abbastanza facilmente con l’applicazione dei princìpi riflessi.

I principali sono: nel dubbio, ci si deve attenere alla pratica comune (in dubio judicandum est ex communiter contingentibus); nel dubbio, bisogna pronunciarsi per la validità di un’azione già compiuta (in dubio standum est prò valore actus); non è lecito ritenere qualcuno cattivo, fintanto che non ne sia provata la malizia (nemo malus, nisi probetur); nel dubbio, ciò che è favorevole si deve interpretare in senso largo, ciò che è sfavorevole, in senso stretto (favores sunt ampliandi, odiosa restringenda).

b) È lecito l’uso di una tale opinione sodamente probabile:

α) di fronte a qualunque legge.

β) anche se, in altro caso, ci si è risolti per l’opinione contraria.

Si comprendono qui tanto le leggi umane, quanto le divine positive e naturali. Il dubbio può versare, sia sull’esistenza di tale legge, sia sulla sua cessazione, sia pure sull’obbligazione già adempiuta.

È lecito, quindi in un caso adire l’eredità avuta da un testamento informe, e in un altro caso esigere la dichiarazione giudiziale di nullità. — Ma in una medesima opera, non è lecito seguire due opinioni opposte, perché in tale azione si trasgredirebbe certamente la legge. Chi, pertanto, ha accettato l’eredità di un testamento informe, deve anche riconoscere come validi i legati contenutivi e soddisfarli.

Nota. — I diversi sistemi morali.

Poiché l’opinione sopraesposta e sostenuta non è condivisa da tutti i moralisti, esponiamo qui brevemente i diversi sistemi morali.

a) Il Tuziorismo assoluto: insegna che, in ogni controversia di opinioni, si deve scegliere la parte più sicura, decidendosi quindi per l’osservanza della legge. Soltanto la completa certezza del contrario può esimere dall’obbligazione.

b) Il Tuziorismo mitigato: afferma la esenzione dall’obbligazione, quando l’opinione in favore della libertà è probabilissima.

c) Il Probabiliorismo: insegna che si può lecitamente seguire l’opinione favorevole alla libertà, soltanto quando essa fosse certamente più probabile dell’opinione che milita in favore della legge.

d) L’Equiprobabilismo: esige che l’opinione favorevole alla libertà sia almeno egualmente o quasi egualmente probabile che l’opinione favorevole alla legge. Inoltre, sostiene che tale principio si può applicare soltanto nel dubbio circa l’esistenza della legge, ma non nel dubbio se sia cessata o, rispettivamente, sia stata adempiuta.

e) Il Sistema di Compensazione: insegna che, nel dubbio circa la liceità di un’azione, si deve avere un motivo sufficientemente grave per decidersi in favore dell’opinione contraria alla legge. Quanto più grave è la legge e quanto più probabili sono i motivi che parlano in favore di essa, tanto più gravi motivi devono aversi per permettere il pericolo di una trasgressione materiale.

f) Il Probabilismo: insegna l’esposta sentenza, e precisamente che si possa lecitamente seguire qualunque opinione favorevole alla libertà, purché sia certamente ben fondata (probabile), anche se l’opposta sia più probabile.

g) Secondo il Lassismo: si può seguire l’opinione favorevole alla libertà, anche quando essa è solo debolmente o dubbiamente probabile.

Nel giudicare tali opinioni si deve tener presente che il tuziorismo assoluto e il lassismo furono condannati dalla Chiesa. Gli altri sistemi sono tutti permessi.

In pratica, il confessore si sforzi di scegliere coscientemente per se stesso sempre la parte più perfetta e di consigliare anche ai suoi penitenti il più perfetto. Non si dimentichi, comunque, che il confessore non ha diritto alcuno di imporre al penitente la propria opinione, quando l’opinione contraria è probabile. — Né deve dimenticare che non rare volte il più perfetto non è l’osservanza di una legge per se stessa incerta.

[Il colore è redazionale]