UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. GREGORIO XVI – “QUAS VESTRO”

Oggi, una lettera Enciclica, come il breve Quas vestro, sarebbe considerata antiquata ed inaccettabile per tutti coloro che sono assuefatti all’oppio dell’ecumenismo di stampo massonico, per mezzo del quale si occulta la bestiale eresia dell’indifferentismo religioso, da sempre condannata e stroncata dalla Chiesa Cattolica e dalla sua dottrina apostolica, della Tradizione e da tutti i teologi unanimi della Scuola, che non ammettono tentennamenti o il tergiversare: o si è Cattolici totali sotto lo stendardo di Cristo, o si appartiene a Beliaal, alle sue armate sotto il labaro del demonio seppur mascherato da angelo di luce. Una terza via non è possibile … chi crede si salverà, chi non crede – magari fingendo il dialogo che nasconde l’incredulità – non si salverà. È sentenza evangelica indiscussa, de fide e di diritto divino inalienabile, perenne, immodificabile. Il Santo Padre Gregorio XVI, ce lo ricorda a proposito dei matrimoni di mista religione – problema oggi totalmente ignoto alle nuove generazioni, che anzi credono di essere cattolici, senza sapere che anche una mezza eresia, accettata, condivisa o favorita, mette fuori dalla Chiesa Cattolica, quindi dalla grazia santificante e dai meriti delle buone opere, rendendo organi staccati dal corpo mistico di Cristo, dalla cui linfa si irradia unicamente la salvezza eterna e proviene la gloria dei cieli. Questa è semplice e pura dottrina cattolica che misconosciuta o rifiutata, condanna alla eterna dannazione. D’altra parte, è arcinota la sentenza di S. Giacomo nella lettera ai suoi fedeli … quicumque autem totam legem servaverit, offendat autem in uno, factus est omnium reusPoiché chiunque osservi tutta la legge, ma la trasgredisca anche in un punto solo, diventa colpevole di tutto (II, 10). Oggi il problema, per il piccolo gregge cattolico, è veramente pressoché insormontabile, perché trovare un coniuge che non sia ateo, deista, vatican-modernista, tradizionalista falso cattolico o protestante, è impresa oltremodo titanica. E certamente, visti i rischi per l’anima propria e per quelle di un’eventuale prole infetta di eresia, ai quali si va temerariamente incontro, è meglio seguire i consigli di S. Paolo che al proposito consigliava già ai suoi tempi – per certi aspetti molto meno pericolosi degli attuali – ai fedeli di Corinto: … bonum est illis si sic permaneant, sicut et ego… (I Cor. VII, 8), e qualche rigo sotto: qui non junget, melius facit… (vv. 38). Mettiamoci comodi, quindi, restando sobri ed attenti, e meditiamo profondamente le parole del Sommo Pontefice.

BREVE
DEL SOMMO PONTEFICE
GREGORIO XVI

QUAS VESTRO

  Ai Venerabili Fratelli Presuli dell’Ungheria. Il Papa Gregorio XVI. 
Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.
Le devotissime lettere che, a nome vostro e dei Vescovi di codesto Regno, Ci avete fatto pervenire tramite il Venerabile Fratello Vescovo canadese Giuseppe, pervase di sentimenti di sincera devozione, sono state per Noi motivo di gioia e di tristezza ad un tempo. A buon diritto perché, dovendo salvaguardare con ogni cura, in forza del Nostro dovere apostolico, l’integrità della sacra dottrina e del diritto, non possiamo tollerare il sopraggiungere di qualsiasi cosa che possa metterla in pericolo. È perfettamente noto il pensiero della Chiesa circa i matrimoni fra a cattolici ed acattolici. Essa considerò sempre illecite e deleterie tali nozze, sia per la degradante comunione nelle cose divine, sia per l’incombente pericolo di perversione del coniuge cattolico e la scorretta educazione della prole. Trattano proprio di questo problema le più antiche disposizioni canoniche che le riprovano con tutta severità, nonché le più recenti norme adottate dai Sommi Pontefici, di cui non sembra necessaria una lunga e particolareggiata elencazione, essendo più che sufficiente ciò che precisò al riguardo il Nostro predecessore Benedetto XIV, di felice memoria, nella lettera enciclica indirizzata ai Vescovi di Polonia e ciò che si trova nel famosissimo scritto noto con il titolo De Synodo Dioecesana. Se in qualche luogo, per le gravi difficoltà del momento e per la pesante situazione sociale, siffatti matrimoni vengono tollerati, ciò deve essere ricondotto ad una prassi di profonda ed accorta valutazione che non può in alcun modo essere presa come indizio di approvazione e di consenso, ma di semplice tolleranza, che scaturisce non da un atto di volontà ma dalla necessità di evitare mali maggiori, come sapientemente annotò Pio VII, di venerata memoria, nella lettera inviata il 9 ottobre 1803 all’Arcivescovo di Magonza, riproponendo le risposte del proprio predecessore indirizzate ai Vescovi di Bratislava, di Roznava e di Spisskà Belà. Se, allentando in qualche modo la severità delle disposizioni canoniche, questa Sede Apostolica permise qualche volta siffatti matrimoni misti, lo fece assai a malincuore, in forza delle summenzionate considerazioni e per gravi e seri motivi, ma sempre con l’espressa ingiunzione di definire le debite precauzioni, non solo per evitare che il coniuge cattolico potesse essere fuorviato da quello i, ma anche perché tenesse sempre presente l’obbligo, nei limiti del possibile, di far recedere la comparte dall’errore e si provvedesse inoltre ad educare nella santa Religione cattolica i figli di entrambi i sessi eventualmente procreati. Si tratta di precauzioni che fondano la loro ragion d’essere nella stessa legge divina e naturale: certamente pecca contro di essa chiunque espone temerariamente se stesso e i futuri figli al pericolo della perversione. Dalle vostre predette lettere abbiamo avuto la certezza di un abuso assai diffuso nelle diocesi di codesto Regno: matrimoni fra cattolici e acattolici senza la dovuta dispensa della Chiesa e senza le necessarie precauzioni vengono legittimati con la benedizione e con i riti sacri dai parroci cattolici. Potete ben comprendere, Venerabili Fratelli, come non potessimo non essere gravemente colpiti da tutto questo, soprattutto perché ci siamo resi conto di quanto ampiamente abbia preso piede la pratica di tali matrimoni misti, e come si sia inoltre profondamente radicata l’indifferenza verso i contenuti della Religione in vastissime regioni di un Regno che era per l’addietro un vero vanto della Fede cattolica. Non è Nostra intenzione sorvolare sul fatto che, in forza del Nostro santissimo compito, non avremmo tralasciato di prendere le opportune misure se fossimo stati da tempo a conoscenza della situazione. Potete facilmente intuire il motivo del Nostro silenzio: negli ultimi tempi non è stata concessa alcuna dispensa apostolica per matrimoni misti da celebrare presso di voi se non con l’ingiunzione delle prescritte precauzioni e l’aggiunta delle norme che, per disposizione di questa Santa Sede, si debbono osservare. Tuttavia, tra le notizie riportate, Ci è stato di non poca consolazione il fatto che, mentre venivamo edotti del male incombente, apprendevamo anche che da parte vostra e dei vostri colleghi venivano messe in atto le strategie per porvi rimedio. Ancor più sovrabbondò di gioia il Nostro cuore constatando con quanto zelo operate in comune per salvaguardare l’integrità della fede, con quale unanime, deferente ossequio vi rivolgete a questa Sede Apostolica, maestra autorevole di verità, sempre attenti al suo cenno per orientare il vostro impegno pastorale. Dopo aver conosciuto le Nostre disposizioni emanate in materia per altri paesi, non appena avete appurato che la prassi invalsa nei vostri territori era in aperto contrasto con i principi e le indicazioni della Chiesa, e pertanto non poteva più a lungo essere tollerata senza gravi conseguenze, non avete minimamente dubitato, in unità di intenti e di azione, che si dovesse eliminarla e, come era logico, a non demordere, pronti anche ad affrontare con fermezza eventuali gravi pericoli per garantire la salvezza eterna vostra e del gregge a voi affidato. A rendere piena la Nostra gioia sopravvennero i copiosi frutti che scaturirono dalle vostre solerti iniziative. Sappiamo bene infatti come i parroci, e l’altro clero, abbiano obbedito alle vostre ammonizioni e alle vostre istruzioni in proposito, tanto che – rimossa in lungo e in largo l’illegittima consuetudine – è stata ripristinata l’antica disciplina dei sacri canoni. Esprimiamo dunque a voi, Venerabili Fratelli, la Nostra viva soddisfazione, e mentre ringraziamo Dio che vi ha rafforzato dall’alto per la tutela della fede e della dottrina, non smettiamo di esortarvi e di stimolarvi vigorosamente perché con pari decisione e costanza vi sforziate di difendere la causa della Chiesa cattolica affinché non abbia più a risorgere la malvagia consuetudine: se ancora ne persistesse qualche vestigia, ne possa essere totalmente sradicato il germe. Nel frattempo non abbiamo potuto non soppesare con oculata attenzione tutte le cose che vi premuravate di riferirci nelle vostre lettere documentando le gravissime difficoltà contingenti che vi hanno indotti, e quasi costretti, a optare per la tolleranza qualora un cattolico o una cattolica, nonostante gli ammonimenti e le debite esortazioni dei sacri pastori, persistesse nel proposito di contrarre nozze miste in assenza delle necessarie precauzioni. In questa situazione, non potendo altrimenti ovviare a un male maggiore per la Religione cattolica, avete deciso che i parroci potessero assistere alle nozze passivamente, senza intervenire in alcun modo nel rito religioso e senza assumere atteggiamenti che potessero essere intesi come approvazione. Mentre rendevate operativi questi provvedimenti, con l’intento di far fronte con assennatezza al problema del momento, avevate già deciso di sottoporre al più presto a Noi un simile arduo dilemma, per ottenere in proposito il Nostro assenso, che presumevate di potere in qualche modo avere in presenza delle pressanti necessità. Per la verità Noi, pur operando con estrema decisione al fine di mantenere integri i sacrosanti principii della Chiesa cattolica, non abbiamo mai smesso, in forza del potere a Noi conferito, di portare rimedio alle funeste situazioni di codeste regioni e alle angustie a voi sopravvenute. Pertanto, non disapproviamo le ragioni della vostra decisione, e riteniamo che si debba accondiscendere alla vostra richiesta. Decidiamo ciò in piena sintonia con quanto Noi stessi, sull’esempio dei Nostri predecessori, abbiamo per l’addietro permesso a fatica a favore di altre regioni. Allo stesso modo si era espresso a più riprese Pio VI, di venerata memoria, nei confronti di qualche diocesi dello stesso Regno di Ungheria. Infatti nella risposta che già nel 1782, mentre dimorava a Vienna, e poi nell’anno successivo, dopo il suo ritorno a Roma, inoltrò al vescovo di Spisskà Belà (e la stessa risposta ordinò fosse inviata al successore di questi nel 1795), così palesò il proprio pensiero a proposito dei matrimoni misti in quelle particolari circostanze: «Pur in presenza di precise disposizioni al riguardo, è necessario che il vescovo e i parroci si adoperino con prudente sollecitudine perché simili matrimoni non abbiano luogo e, nel caso vengano celebrati, pretendano che tutti i figli siano educati nella Religione cattolica. Tuttavia ogni qualvolta si verifichi, contro la loro volontà, ciò che non può essere approvato, si astengano sempre dalla benedizione nuziale e la loro presenza, se lo richiedono le circostanze, sia puramente fisica e non si permettano atti o dichiarazioni che autorizzino o approvino che la prole possa essere educata in un’altra religione che non sia quella cattolica». Se dunque, Venerabili Fratelli, per particolari circostanze locali e situazioni personali si verifichi nelle diocesi di codesto Regno l’eventualità di un matrimonio fra un acattolico e una donna cattolica, o viceversa, anche in assenza delle prescritte precauzioni della Chiesa e non sia possibile in alcun modo evitare altrimenti il danno per la Religione senza il pericolo di un danno maggiore e di uno scandalo e nello stesso tempo (per usare le parole del Nostro predecessore Pio VII di venerata memoria nella succitata lettera al vescovo di Magonza) si arguisca di poter contribuire al bene della Chiesa, simili nozze, pur vietate ed illecite, siano celebrate in presenza di un parroco cattolico piuttosto che di un ministro eretico a cui facilmente potrebbero rivolgersi. In questo caso il parroco cattolico, o un altro sacerdote da lui delegato, potrà assistere al matrimonio con una presenza assolutamente passiva, con l’esclusione di qualsivoglia rito religioso, come se assolvesse al compito di semplice testimone, per così dire, qualificato o autorizzato che, dopo aver raccolto il consenso di ambedue i coniugi, avrà la possibilità, in forza del suo ufficio, di riportare nel libro dei matrimoni la validità dell’atto compiuto. In queste circostanze, come specificamente raccomandava lo stesso Nostro predecessore, i vescovi e i parroci devono, con ancora maggiori cura e preoccupazione, provvedere che sia rimosso il pericolo di perversione per il coniuge cattolico; che si provveda nel migliore dei modi all’educazione dei figli di entrambi i sessi nella Religione cattolica e che il coniuge di fede cattolica, secondo l’obbligo che gli incombe, s’impegni con le proprie forze alla conversione del coniuge acattolico: ciò gli sarà assai utile per ottenere più facilmente da Dio il perdono dei peccati commessi. Intimamente addolorati che si debbano introdurre simili criteri di tolleranza in un Regno che si segnalava per la professione della Religione cattolica, confessiamo con tutta sincerità di fronte a Dio di esservi stati indotti, o meglio trascinati, unicamente per evitare il sopraggiungere di più gravi danni per la Chiesa cattolica. Con tutto il cuore esortiamo dunque voi, Venerabili Fratelli, e tutti i vostri colleghi, per l’immenso amore di Gesù Cristo che immeritatamente rappresentiamo sulla terra, a mettere in atto, dopo aver implorato la luce dello Spirito Santo, ciò che in un affare di così grande rilievo può validamente rispondere allo scopo. Cercate anche di perseguire unanimemente l’obiettivo prefisso, perché a tale tolleranza nei confronti delle persone che si accingono a contrarre illecitamente matrimoni misti non tenga dietro, nel popolo cattolico, l’affievolimento del rispetto dei canoni che condannano tali nozze e della incessante cura con la quale la Santa Madre Chiesa si preoccupa di dissuadere i suoi figli dal contrarre tali matrimoni che recano danno alle loro anime. Sarà dunque compito vostro, degli altri Vescovi solidali con voi e dei parroci, di ammaestrare i fedeli sia privatamente, sia in pubblico, e ricordare l’insegnamento e le disposizioni che riguardano questi matrimoni e pretenderne la scrupolosa osservanza. Non mancherete certo di provvedere a tutto ciò in forza della vostra provata devozione, della fede e del rispettoso ossequio verso questa Cattedra del Beato Pietro, e Noi, con grande affetto impartiamo a voi e a tutti i vostri colleghi l’Apostolica Benedizione, propiziatrice dell’aiuto celeste e testimonianza del Nostro amore: Benedizione che ciascuno estenderà al proprio gregge. Dato a Roma, presso San Pietro, sotto l’anello del Pescatore, il 30 aprile 1841, undicesimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA DELL’OTTAVA DEL CORPUS DOMINI – II DOPO PENTECOSTE.

DOMENICA NELL’OTTAVA DEL CORPUS DOMINI II DOPO PENTECOSTE

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La Chiesa ha scelto, per celebrare la festa del Corpus Domiti, il giovedì che è fra la domenica, nella quale il Vangelo parla della misericordia di Dio verso gli uomini e del dovere che ne deriva per i Cristiani di un amore reciproco (l dopo Pentecoste) e quella (II dopo Pentecoste) nella quale si ripetono le stesse idee (Epist.) e si presenta il regno dei cieli sotto il simbolo della parabola del convito di nozze (Vang.)  [Questa Messa esisteva coi suoi elementi attuali molto prima che fosse istituita la festa del Corpus Domini. Niente infatti poteva essere più adatta all’Eucaristia, che è il banchetto ove tutte le anime sono unite nell’amore a Gesù, loro sposo, e a tutte le membra mistiche.) Niente poi di più dolce che il tratto nel quale si legge nell’Ufficio la storia di Samuele che fu consacrato a Dio fin dalla sua più tenera infanzia per abitare presso l’Arca del Signore e diventare il sacerdote dell’Altissimo nel suo santuario. La liturgia ci mostra come questo fanciullo offerto da sua madre a Dio, serviva con cuore purissimo il Signore nutrendosi della verità divina. In quel tempo, dice il Breviario, « la parola del Signore risuonava raramente e non avvenivano visioni manifeste », poiché Eli era orgoglioso e debole, e i suoi due figli Ofni e Finees infedeli a Dio e incuranti del loro dovere. Allora il Signore si manifestò al piccolo Samuele poiché « Egli si rivela ai piccoli, dice Gesù, e si nasconde ai superbi », e S. Gregorio osserva che « agli umili sono rivelati i misteri del pensiero divino ed è per questo che Samuele è chiamato un fanciullo ». E Dio rivelò a Samuele il castigo che avrebbe colpito Eli e la sua casa. Ben presto, infatti l’Arca fu presa dai Filistei, i due figli di Eli furono uccisi ed Eli stesso mori. Dio aveva così rifiutato le sue rivelazioni al Gran Sacerdote perché tanto questi come i suoi figli non apprezzavano abbastanza le gioie divine figurate nel « gran convito » di cui parla in questo giorno il Vangelo, e si attaccavano più alle delizie del corpo che a quelle dell’anima. Così applicando loro il testo di S. Gregorio nell’Omelia di questo giorno, possiamo dire che « essi erano arrivati a perdere ogni appetito per queste delizie interiori, perché se n’erano tenuti lontani e da parecchio tempo avevano perduta l’abitudine di gustarne. E perché non volevano gustare la dolcezza interiore che loro era offerta, amavano la fame che fuori li consumava». I figli d’Eli, Infatti prendevano le vivande che erano offerte a Dio e le mangiavano; ed Eli, loro padre, li lasciava fare. Samuele invece, che era vissuto sempre insieme con Eli aveva fatto sue delizie le consolazioni divine. Il cibo che mangiava era quello che Dio stesso gli elargiva, quando, nella contemplazione e nella preghiera gli manifestava i suoi segreti. « Il fanciullo dormiva» il che vuol dire, spiega S. Gregorio, «che la sua anima riposava senza preoccupazione delle cose terrestri ». « Le gioie corporali, che accendono in noi un ardente desiderio del loro possesso, spiega questo santo nel suo commento al Vangelo di questo giorno, conducono ben presto al disgusto colui che le assapora per la sazietà medesima; mentre le gioie spirituali provocano il disprezzo prima del loro possesso, ma eccitano il desiderio quando si posseggono; e colui che le possiede è tanto più affamato quanto più si nutre ». Ed è quello che spiega come le anime che mettono tutta la loro compiacenza nei piaceri di questo mondo, rifiutano di prender parte al banchetto della fede cristiana, ove la Chiesa le nutre della dottrina evangelica per mezzo dei suoi predicatori. « Gustate e vedete, continua S. Gregorio, come il Signore è dolce ». Con queste parole il Salmista ci dice formalmente: «Voi non conoscerete la sua dolcezza se voi non lo gusterete, ma toccate col palato del vostro cuore l’alimento di vita e sarete capaci di amarlo avendo fatto esperienza della sua dolcezza. L’uomo ha perduto queste delizie quando peccò nel paradiso: ma le ha riavute quando posò la sua bocca sull’alimento d’eterna dolcezza. Da ciò viene pure che essendo nati nelle pene di questo esilio noi arriviamo quaggiù ad un tale disgusto che non sappiamo più che cosa dobbiamo desiderare. » (Mattutino). « Ma per la grazia dello Spirito Santo siamo passati dalla morte alla vita » (Ep.) e allora è necessario come il piccolo e umile Samuele che noi, che siamo i deboli, i poveri, gli storpi del Vangelo, non ricerchiamo le nostre delizie se non presso il Tabernacolo del Signore e nelle sue intime unioni. Evitiamo l’orgoglio e l’amore delle cose terrestri affinché « stabiliti saldamente nell’amore del santo Nome di Dio » – (Or.), continuamente « diretti da lui ci eleviamo di giorno in giorno alla pratica di una vita tutta celeste » (Secr.) e « che grazie alla partecipazione al banchetto divino, i frutti di salute crescano continuamente in noi » (Postcom.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XVII: 19-20.

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.

[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene] Ps XVII: 2-3

Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus.

[Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.]

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.

[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]

Oratio

Orémus. Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis.

[Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III: 13-18

“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”

[“Carissimi: Non vi meravigliate se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida; e sapete che nessun omicida ha la vita eterna abitante in sé. Abbiam conosciuto l’amor di Dio da questo: che egli ha dato la sua vita per noi; e anche noi dobbiam dare la vita per i fratelli. Se uno possiede dei beni di questo mondo e, vedendo il proprio fratello nel bisogno, gli chiude le sue viscere, come mai l’amor di Dio dimora in lui? Figliuoli miei, non amiamo a parole e con la lingua, ma con fatti e con sincerità”].

VERA E FALSA CARITÀ.

Noi andiamo o fratelli, coll’Apostolo della carità e con il suo veramente divino apostolato, di meraviglia in meraviglia. Domenica scorsa l’Apostolo San Giovanni ha messo la carità in cielo. Dio è Carità — ha pronunziato una parola di sublimità incomparabile. Questa domenica, dal cielo più alto discende sul terreno più umile; scrive parole di una incomparabile praticità: «Miei figliuoli, non amiamo a chiacchiere… o più letteralmente ancora, non amiamo colla bocca, colle parole, amiamo coll’opera, se vogliamo amare per davvero ». Dove è chiaro che si tratta di quell’amore che merita nome di carità e della carità che corre le vie della terra, tra uomo e uomo. L’Apostolo ha l’orrore della carità falsa, apparente — che sembra carità e non è carità, come un banchiere (i banchieri sono i devoti, gli apostoli, i mistici della moneta, della vera, s’intende) detesta, abborre, abbomina la moneta falsa — che pare e non è, che par oro ed è orpello. E qual è questa carità falsa? È proprio la carità che non fa e parla. Il non fare ne costituisce il non essere, e il parlare le dà l’apparenza. La parola buona, caritatevole, vuota di opere; non è più abito, è maschera, è commedia. Come frequente allora e adesso la commedia della carità! Come facile e frequente (appunto perché tanto facile) l’impietosirsi gemebondo sulla miseria del prossimo. Poverino qua! Poverino là! E come frequente la esaltazione verbale della carità: facile e frequente il panegirico della filantropia! E quanti, sfogato così il loro istinto retorico e sentimentale, si credono, si sentono in pace con la loro coscienza! Credono di aver fatto tutto, perché hanno parlato molto! L’Apostolo della carità è terribilmente e semplicemente realista. Che cosa serve tutta questa logorrea? A che cosa serve per chi soffre la fame, il freddo, lo sconforto della vita? Nulla. Le parole lasciano il tempo che trovano. E che sincerità in queste parole infeconde, sistematicamente, regolarmente infeconde di opere! Che razza di cuore, di carità ha colui che vede il suo prossimo in bisogno, e non fa nulla per sollevarlo? Vede aver fame e non gli dà da mangiare? aver sete e non gli amministra da bere? – Fare bisogna, se si vuole che la carità sfugga all’accusa, al sospetto di simulazione, di ipocrisia. L’opera è la figlia dell’amore, ne è la prova sicura e perentoria. Fare, notate, dice l’Apostolo, anziché semplicemente dare, perché il dare è una forma particolare del fare. Fare quello che si può con le persone che si amano fraternamente davvero. – Fare per gli altri quello che, a parità di condizione, faremmo e vorremmo che gli altri facessero per noi. Fare e molto, e bene, e sempre. Fare non per farsi vedere, ma per renderci benefici. Fare del bene, non fare del rumore. C’è più carità in una goccia di operosità, che in un mare di chiacchiere. E allora il grande quesito che noi dobbiamo proporci se vogliamo esaminarci bene sul capitolo della carità, la virtù che ci assomiglia a Dio, il grande quesito è questo: che cosa, che cosa abbiamo fatto, che cosa facciamo? cosa, cosa, non parole!

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch. : 1 -3-1938]

Graduale

Ps CXIX: 1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me.

[Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]

Alleluja

Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja

[O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]

Ps VII:2 Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja.

[Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.

Luc. XIV: 16-24

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit coenam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit cœnam meam”.

(“In quel tempo disse Gesù ad uno di quelli che sederono con lui a mensa in casa di uno dei principali Farisei: Un uomo fece una gran cena, e invitò molta gente. E all’ora della cena mandò un suo servo a dire ai convitati, che andassero, perché tutto era pronto. E principiarono tutti d’accordo a scusarsi. Il primo dissegli: Ho comprato un podere, e bisogna che vada a vederlo; di grazia compatiscimi. E un altro disse: Ho comprato cinque gioghi di buoi, o vo a provarli; di grazia compatiscimi. E l’altro disse: Ho preso moglie, e perciò non posso venire. E tornato il servo, riferì queste cose al suo padrone. Allora sdegnato il padre di famiglia, disse al servo: Va tosto per le piazze, e per le contrade della città, e mena qua dentro i mendici, gli stroppiati, i ciechi, e gli zoppi. E disse il servo: Signore, si è fatto come hai comandato, ed evvi ancora luogo. E disse il padrone al servo: Va per le strade e lungo le siepi, e sforzali a venire, affinché si riempia la mia casa. Imperocché vi dico, che nessuno di coloro che erano stati invitati assaggerà la mia cena”).

Omelia

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla santa Messa.

In omni loco sacrificatur et offertur nomini meo oblatio munda.

(MALACH. I, 11).

È certo, Fratelli miei, che l’uomo, come creatura, deve a Dio l’omaggio di tutto il suo essere, e come peccatore gli deve una vittima di espiazione: per ciò nella Legge antica si offriva a Dio nel tempio una moltitudine di vittime. Ma quelle vittime non potevano soddisfare a Dio interamente, pei nostri peccati: ne occorreva una più santa e più pura che dovesse durare sino alla fine del mondo e fosse capace di pagare quanto dobbiamo a Dio. Questa vittima santa è Gesù Cristo istesso, Dio come il Padre suo, e Uomo come noi. Egli si offre tutti i giorni sui nostri altari, come già sul Calvario, e con questa oblazione pura e senza macchia rende a Dio tutti gli onori che gli sono dovuti, e si sdebita a nome dell’uomo, di tutto ciò che questo deve al suo Creatore: si immola ogni giorno, per riconoscere il sovrano dominio che ha Dio sulle sue creature, e vien pienamente riparato l’oltraggio fatto a Dio dal peccato. Gesù Cristo, quale. mediatore tra Dio e gli uomini, ci ottiene col suo sacrificio tutte le grazie che ci sono necessarie: essendosi contemporaneamente reso vittima di ringraziamento, rende a Dio gli uomini tutta la riconoscenza che gli devono.Ma per aver la fortuna, F. M., di ricevere tutti questi beni, bisogna che facciamo anche noi qualche cosa da parte nostra. Per meglio farvelo sentire, vi farò comprendere, almeno quanto mi sarà possibile:

1° la grandezza della fortuna che abbiamo di assistere alla santa Messa;

2° le disposizioni con le quali dobbiamo assistervi;

3° come vi assiste la maggior parte dei Cristiani.

Non voglio, F., M., entrare nella spiegazione di quanto significano i paramenti indossati dal sacerdote: penso che lo sappiate, almeno molti. Quando il sacerdote va in sagrestia per pararsi, rappresenta Gesù Cristo che discende dal cielo per incarnarsi nel seno della Vergine santissima, prendendo un corpo come il nostro per sacrificarlo al Padre suo pei nostri peccati. Quando il sacerdote prende l’amitto, che è quel lino bianco che si mette sulle spalle, lo fa per rappresentarci il momento in cui i Giudei bendarono gli occhi a Gesù Cristo, percuotendolo e dicendogli: « Indovina chi è che ti ha percosso? » Il camice rappresenta la veste bianca della quale lo fece rivestire Erode per ischerno quando lo rimandò a Pilato. Il cingolo raffigura le corde con le quali fu legato, quando fu preso nel giardino degli Olivi, i flagelli coi quali fu tormentato. Il manipolo, che il sacerdote si mette al braccio sinistro, ci rappresenta le funi con cui Gesù Cristo fu attaccato alla colonna per essere flagellato: esso si mette al braccio sinistro perché più vicino al cuore, il che ci mostra che l’eccesso dell’amor suo gli fece soffrire questa crudele flagellazione pei nostri peccati. La stola ci raffigura la corda gettatagli al collo quando portava la croce. La pianeta ci ricorda lo straccio di porpora, ed il suo vestito senza cuciture giuocato a sorte. – L’Introito ci rammenta il desiderio ardente che avevano i Patriarchi della venuta del Messia: perciò lo si ripete due volte. Quando il sacerdote dice il Confiteor, ci rappresenta Gesù Cristo che si carica dei nostri peccati, per soddisfare alla giustizia di Dio suo Padre. Il Kyrie eleison, che vuol dire: « Signore, abbi pietà di noi, » rappresenta lo stato sventurato in cui eravamo prima della venuta di Gesù Cristo. Non voglio proseguir oltre. L‘Epistola significa la dottrina dell’Antico Testamento; il Graduale significa la penitenza che fecero i Giudei dopo la predicazione di san Giovanni Battista: l‘Alleluja, ci rappresenta la gioia d’un’anima che ha ottenuto la grazia: il Vangelo ci ricorda la dottrina di Gesù Cristo.I differenti segni di croce che si fanno sull’ostia e sul calice ci richiamano tutti i patimenti che Gesù Cristo ha sofferto nel corso di sua Passione. Ritornerò un’altra volta su questo argomento.

I. — Prima di esporvi il modo di udire la santa Messa, occorre vi dica qualche cosa sul significato della parola: santo Sacrificio della Messa. [Il Beato ha tolto queste spiegazioni dal Rodriguez Tratt. VI, cap. XV. — La maggior parte di questo discorso, come anche i tratti storici riportati più avanti, vengono dalla medesima fonte. Noi lo ricordiamo una volta per tutte.]. Sapete che il santo sacrificio della Messa è lo stesso che quello della croce, offerto una volta sul Calvario, il Venerdì Santo. Tutta la differenza è, che quando Gesù Cristo si offrì sul Calvario, il sacrificio suo era visibile, cioè lo si vedeva cogli occhi del corpo; Gesù Cristo fu offerto a Dio suo Padre per mano dei suoi carnefici, e sparse il suo sangue: per questo si chiama sacrificio cruento; cioè il sangue usciva dalle vene, e lo si vide scorrere sino a terra. Ma nella santa Messa Gesù Cristo si offre al Padre suo in modo invisibile: cioè lo vediamo solo cogli occhi dell’anima, non con quelli del corpo. Ecco, M. F., in breve, che cos’è il santo sacrificio della Messa. Ma per darvi un’idea della grandezza del valore della santa Messa, mi basta dirvi con S. Giovanni Crisostomo, che la S. Messa rallegra tutta la corte celeste, solleva tutte le povere anime del purgatorio, attira sulla terra ogni sorta di benedizioni, e rende più gloria a Dio che non tutti i tormenti dei martiri, le penitenze dei solitari, tutte le lagrime che i santi sparsero fin dal principio del mondo; e tutto ciò che faranno sino alla fine dei secoli. Se me ne domandate la ragione, è chiarissima: tutte queste azioni sono fatte da peccatori più o meno colpevoli: mentre nel santo sacrificio della Messa è un Uomo-Dio eguale al Padre suo che gli offre i meriti della sua Passione e Morte. Vedete quindi, F. M., che la santa Messa è d’un valore infinito. Perciò, vediamo nel Vangelo, che alla morte di Gesù Cristo si operarono molte conversioni: il buon ladrone vi ricevé la promessa del paradiso, molti Giudei si convertirono, ed i Gentili si percuotevano il petto, dicendo che Egli era veramente Figlio di Dio. I morti risuscitarono, le rupi si spezzarono, e la terra tremò. F. M.. se avessimo la fortuna di assistervi con buone disposizioni, quand’anche disgraziatamente fossimo ostinati come i Giudei, più ciechi dei Gentili, più duri delle rocce che si spezzarono, otterremmo certissimamente la conversione. Infatti, S. Giovanni Crisostomo, ci dice che non v’è tempo più prezioso per trattare con Dio della nostra salvezza di quello della santa Messa, in cui Gesù Cristo si offre Egli stesso in sacrificio a Dio suo Padre, per ottenerci ogni sorta di benedizioni e di grazie. « Siamo afflitti? ci dice questo gran santo; vi troviamo ogni sorta di consolazioni. Siamo tentati? andiamo ad ascoltare la S. Messa, e vi troveremo il modo di vincere il demonio. » E, a questo proposito, voglio citarvi un bell’esempio. Si racconta da Papa Pio II che un gentiluomo della provincia d’Ostia, era continuamente combattuto da una tentazione di disperazione, che lo trascinava ad appiccarsi, e già parecchie volte si era ridotto al procinto. Andato a trovare un santo religioso per scoprirgli lo stato dell’anima sua e domandargli consiglio, il servo di Dio, dopo averlo consolato e fortificato il meglio che poté, lo consigliò di tenere in casa un sacerdote che gli dicesse ogni giorno la santa Messa. Il gentiluomo diss’egli che lo farebbe volentieri. Si ritirò in un suo castello: ed ogni giorno un pio sacerdote gli celebrava la santa Messa, alla quale assisteva il più devotamente che poteva. Mentre quel gentiluomo godeva, così regolandosi, grande tranquillità di spirito, avvenne che il sacerdote lo pregò di permettergli d’andare a celebrare la santa Messa in un paese vicino, in occasione d’una particolare festività: cosa che gli accordò facilmente, intendendo di andarvi egli pure ad ascoltarla. Ma un affare sopravvenuto lo trattenne in casa fin presso mezzogiorno. Allora, tutto sbigottito per aver perduto la santa Messa, e sentendosi assalito dall’antica tentazione, esce di casa. Incontra un contadino, che gli domanda dove andasse. « Vado, risponde il gentiluomo, ad ascoltare la santa Messa. » — « Ma, è troppo tardi, gli dice il contadino, son già tutte celebrate. » Fu una notizia sì dolorosa per lui, che si mise a gridare: « Ahimè! Non ho sentito Messa, e sono perduto! » Il contadino, che amava il denaro, vedendolo in tale stato, diss’egli: « Se volete, vi cedo la Messa che ho ascoltato, e tutto il frutto ricavatone. » L’altro, senza riflettere a nulla, ed addolorato d’aver perduto la Messa: « Grazie, caro; eccovi il mio mantello. „ Quell’uomo non poteva certamente cedere il frutto della Messa a cui aveva assistito senza farsi reo di grave peccato. Separatisi, il gentiluomo non tralasciò di continuare la sua strada per fare in chiesa le sue preghiere: e, tornando dopo averle recitate, trovò quel povero contadino avaro, appeso ad un albero nel medesimo luogo dove aveva ricevuto il mantello. Il buon Dio, in punizione della sua avarizia, aveva permesso che la tentazione del gentiluomo passasse in quell’avaro. Colpito da tale spettacolo, il gentiluomo ringraziò Dio d’averlo liberato da sì grande castigo, e non tralasciò mai d’assistere alla santa Messa per renderne grazie al Signore. E all’ora di morte, confessò che dacché aveva avuto la fortuna d’assistere tutti i giorni alla santa Messa, il demonio non l’aveva più tentato di disperazione. [Questo fatto storico è anche riportato dal P. Rossignoli, Le meraviglie divine nella Ss. Eucaristia, LXIII meraviglia]. Ebbene! F. M., non aveva ragione S. Giovanni Crisostomo, di dirci che se siamo tentati dobbiamo ascoltare devotamente la santa Messa, e possiamo stare sicuri che il buon Dio ci libererà? Sì, F. M., se avessimo abbastanza fede, la santa Messa sarebbe un rimedio per tutti i mali che potremmo subire nel corso della vita: infatti, Gesù Cristo non è nostro medico e dell’anima e del corpo?…

II. Ho detto che la santa Messa è il sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, sacrificio che è offerto a Dio solo, non agli angeli ed ai santi. Sapete che il sacrificio della santa Messa fu istituito il Giovedì Santo, quando Gesù Cristo prese il pane, lo mutò nel suo Corpo, prese il vino e lo cangiò nel suo Sangue. Nello stesso momento, diede ai suoi Apostoli ed a tutti i loro successori quel potere che noi chiamiamo Sacramento dell’Ordine. La santa Messa consiste nelle parole della consacrazione: e voi sapete che i ministri della santa Messa sono i sacerdoti ed il popolo che ha la fortuna di assistervi, se si unisce ad essi: d’onde concludo, che il modo migliore di ascoltare la santa Messa è d’unirsi al sacerdote in tutto quanto egli dice; seguirlo in tutte le sue azioni, quanto è possibile. [1° Nel santo Sacrificio della Messa, Gesù Cristo è il sommo Sacerdote ed il ministro principale. Egli offre il sacrificio in suo nome e per propria potestà: senza dubbio, si serve di mani estranee per offrirlo, ma Egli solo comunica tutta l’efficacia al sacrificio).

2° Il Sacerdote che celebra è veramente sacerdote e ministro del sacrificio. E stato chiamato ed ordinato per questo fine; ha ricevuto questo potere da Gesù Cristo. È ministro di Gesù Cristo, e tiene il posto del Salvatore. Egli offre adunque, immediatamente il sacrificio per l’azione ed il ministero che gli sono personali. L’offre da solo, senza bisogno di concorso degli assistenti.

3° I fedeli, in fatto, non sono veramente, strettamente i ministri del sacrificio. Se alcune volte sono detti ministri coerenti il santo sacrificio, è in senso largo; non l’offrono da se stessi, ma pel ministero del sacerdote. Ed ecco come vi concorrono: 1° In modo generale, come membri della Chiesa che deputa il sacerdote ad offrire il sacrificio in suo nome; 2° in modo speciale, quando i fedeli assistendo alla Messa, si uniscono coll’intenzione, al sacerdote, per offrire a Dio questo sacrificio; 3° in modo specialissimo, quando concorrono in modo più prossimo al sacrificio, sia servendo il sacerdote all’altare, sia dando elemosine per la celebrazione delle Messe.]; e procurar di penetrarsi dei più vivi sentimenti d’amore e di riconoscenza: bisogna tenere questo metodo.Possiamo distinguere tre parti nel santo sacrificio della santa Messa: la prima parte, dal principio sino all’Offertorio; la seconda dall’Offertorio alla Consacrazione; la terza dalla Consacrazione alla fine. È necessario farvi notare che se noi fossimo volontariamente distratti durante una di queste parti commetteremmo un peccato mortale il che ci deve indurre a guardar bene di non lasciar divagare il nostro spirito a cose estranee, cioè che non hanno rapporto al santo sacrificio della Messa.

[“Se fossimo distratti volontariamente durante una di queste parti, commetteremmo peccato mortale. „ Questa asserzione del B. Curato d’Ars è severa. I fedeli non debbono esser trattati più rigorosamente dei sacerdoti. Ora, i sacerdoti sono aggravati di peccato mortale soltanto se si rendono colpevoli d’una distrazione volontaria durante la consacrazione]. Dal principio all’Offertorio, dobbiamo comportarci come penitenti che sono penetrati del più vivo dolore dei loro peccati. Dall’Offertorio alla Consacrazione dobbiam condurci come ministri che debbono offrire Gesù Cristo a Dio suo Padre, e fargli il sacrificio di quanto siamo: cioè offrirgli i nostri corpi, le anime, i beni, la vita, ed anche la nostra eternità.Dopo la consacrazione, dobbiam considerarci come persone che debbono partecipare al Corpo adorabile ed al Sangue prezioso di Gesù Cristo: ed occorre per conseguenza fare ogni nostro sforzo per renderci degni di tal felicità. A meglio farvelo comprendere, F. M., vi proporrò tre esempi tolti dalla S. Scrittura, che vi mostreranno il modo con cui dovete ascoltare la santa Messa: cioè, di che cosa dovete occuparvi durante questo momento, fortunato per chi ha la ventura di ben comprenderlo. Il primo, è quello del pubblicano, che vi insegnerà che cosa dovete fare al principio della Messa. Il secondo è quello dei buon ladrone, che vi apprenderà come dovete diportarvi durante la Consacrazione. Il terzo, è il centurione che vi guiderà durante la santa comunione. – Anzitutto il pubblicano ci insegnerà come dobbiamo comportarci al principio della santa Messa, che è un’azione così gradita a Dio e così efficace per ottenerci ogni sorta di grazie. Non dobbiam quindi aspettare d’essere in chiesa per prepararvici. No, F. M., no; un buon Cristiano comincia a prepararsi quando si sveglia, non lasciandosi occupare lo spirito da niente che non abbia relazione col santo Sacrificio. Dobbiamo rappresentarci Gesù Cristo nel giardino degli Ulivi, che prostrato la faccia a terra si prepara al sacrificio sanguinoso che offrirà sul Calvario; a considerare la grandezza della carità che gli fa subire il castigo che dovremmo subir noi per tutta l’eternità. Bisogna venirvi digiuni, per quanto è possibile: ciò è molto gradito al buon Dio. Nei primi tempi della Chiesa, tutti intervenivano digiuni [Perché essi si comunicavano nella Messa]. Occorre, al mattino, non lasciarsi mai occupare lo spirito da affari materiali, ricordando che dopo aver lavorato tutta la settimana pel vostro corpo, è ben giusto che occupiate questo giorno nei bisogni dell’anima vostra e nel domandare al buon Dio perdono dei vostri peccati. Quando venite in chiesa, non fate conversazione: pensate che seguite Gesù Cristo il quale porta la croce al Calvario e va a morire per salvarvi. Bisogna trovar sempre un momento, prima della santa Messa, per raccogliersi alquanto, gemere sui propri peccati e domandarne perdono al buon Dio, esaminare le grazie più necessarie da domandargli durante la Messa, e guardarsi dal non mancar mai né all’Aspersione dell’acqua benedetta, né alla lettura della Passione, né alla Processione. [In gran numero di parrocchie, dall’Invenzione della S. Croce (3 Maggio) sino all’Esaltazione (14 Settembre) il parroco legge ogni giorno ai piedi dell’altare, prima di celebrare la santa Messa, la Passione per i prodotti della terra – Il Beato parlò di già nel discorso sulle Rogazioni, delle processioni domenicali che si fanno in molte parrocchie, secondo un’antica consuetudine, ogni domenica, prima della Messa solenne, dall’Invenzione sino all’Esaltazione della S. Croce, o come si dice a Cruce ad Crucem], perché sono azioni sante che vi preparano a fare ascoltare la Messa. Quando entrate in chiesa compenetratevi della grandezza della vostra felicità, con un atto di fede vivissima ed un atto di contrizione dei vostri peccati, che vi rendono indegni d’avvicinarvi ad un Dio così santo e così grande. Pensate, in questo momento, alle disposizioni del pubblicano quando entrò nel tempio ad offrire a Dio il sacrificio della sua preghiera. Ascoltate S. Luca: « Il pubblicano, egli dice, stavasi in fondo al tempio, gli occhi inclinati a terra, non osando guardar l’altare, e battevasi il petto dicendo a Dio: Abbiate pietà di me, o Signore, perché sono un peccatore » (Luc. XVIII). Vedete quindi, F. M, che egli non faceva come quei Cristiani che entrano in chiesa con aria altera ed arrogante, « che sembrano volersi accostare a Dio – ci dice il profeta Isaia – come persone che nulla hanno sulla coscienza che possa umiliarli davanti al loro Creatore. » (Is. LXVIII). Infatti, se volete ben osservare, quando entrano in chiesa questi Cristiani che hanno forse sulla coscienza più peccati che non capelli in testa, voi li vedete, dico, entrare con aria di noncuranza, o meglio con una specie di sprezzo per la presenza di Dio. Toccano l’acqua santa press’a poco come se immergessero le mani in un catino d’acqua per lavarsi dopo il lavoro; la maggior parte fanno questo senza divozione e senza pensare che l’acqua benedetta presa con grande rispetto cancella i peccati veniali e ci dispone a ben ascoltare la santa Messa. Vedete il nostro pubblicano, che credendosi indegno d’entrare nel tempio va a mettersi nel posto meno apparente che può trovare: è talmente confuso alla vista dei propri peccati, che nemmeno osa alzar gli occhi al cielo. E dunque ben lontano da quei Cristiani di nome che non sono mai abbastanza comodi, che si inginocchiano soltanto sulla sedia, che abbassano appena la testa durante l’Elevazione, che si sdraiano sulla sedia, od incrociano le gambe. Non diciamo nulla di coloro che non dovrebbero venire in chiesa se non per piangervi i loro peccati, ed invece lo fanno solo, per insultare un Dio umiliato e disprezzato, col loro sfoggio di vanità, nell’intenzione d’attirarsi gli sguardi altrui: ed altri solo per alimentare il fuoco delle loro passioni colpevoli. O mio Dio! con tali disposizioni si può aver l’ardire di venire ad assistere alla santa Messa? « Ma il nostro pubblicano – ci dice S. Agostino – , si batte il petto per mostrare a Dio il rimorso d’averlo offeso. » Ahimè! F. M., se noi Cristiani avessimo la sorte felice d’assistere alla santa Messa con le medesime disposizioni del pubblicano, quante grazie, quanti benefizi otterremo! Usciremmo ricolmi di beni celesti come le api dopo aver trovato più fiori che non volevano! Oh! se il buon Dio ci facesse la grazia di essere in principio della santa Messa ben penetrati della grandezza di Gesù Cristo, davanti al quale ci presentiamo, e della gravità dei nostri peccati, ben presto avremmo ottenuto il perdono delle nostre colpe e la grazia della perseveranza! Dobbiamo soprattutto tenerci in grandi sentimenti di umiltà durante la santa Messa: questo deve ispirarci il sacerdote quando discende dall’altare per dire il Confiteor inchinandosi profondamente, egli, che, tenendo il posto di Gesù Cristo stesso, sembra caricarsi di tutti i peccati dei suoi parrocchiani. Davvero! se il buon Dio ci facesse una volta comprendere che cos’è la santa Messa, quante grazie, quanti beni avremmo, che or non abbiamo! Da quanti pericoli saremmo preservati se avessimo una gran divozione alla santa Messa! Per provarvelo, F. M., vi citerò un bell’esempio che vi mostrerà che il buon Dio protegge in modo visibile quelli che hanno la fortuna di assistervi con divozione. Leggiamo nella storia, che S. Elisabetta, regina di Portogallo e nipote di S. Elisabetta regina d’Ungheria, era tanto caritatevole verso i poveri che, sebbene avesse ordinato al suo elemosiniere di non rifiutar loro nulla, faceva altresì continue elemosine di sua propria mano o per mezzo dei domestici. Ordinariamente si serviva di un paggio, del quale aveva riconosciuta la grande pietà: il che vedendo un altro paggio, ne fu geloso. Andò costui un giorno dal re, e dissegli che quel paggio aveva relazione peccaminosa con la regina. Il re, senza nulla esaminare, stabilì subito di disfarsi del paggio il più segretamente possibile; e passando il dì stesso in un luogo dove si faceva cuocere la calce, chiamò quelli che avevano cura di mantenere acceso il fuoco, e disse loro che il domani mattina manderebbe un paggio, del quale era malcontento, che loro domanderebbe se avessero eseguito gli ordini del re: dovevano prenderlo e gettarlo subito nel fuoco. Tornato a casa, comandò al paggio della regina d’andare il mattino seguente di buon’ora a fare questa commissione. Ma vedrete che il buon Dio non abbandona mai chi l’ama. Il buon Dio permise che, per fare la propria commissione, dovesse passare vicino ad una chiesa; ed in quel momento appunto udisse suonare l’Elevazione. Entra per adorare Gesù Cristo ed ascolta il resto della Messa. Ne incomincia un’altra; l’ascolta; una terza dopo finita la seconda; l’ascolta ancora. Frattanto il re, impaziente di sapere se erano stati eseguiti i suoi ordini, manda il paggio suo a domandare se avessero fatto quanto aveva lor comandato. Credendo fosse questi il primo, lo prendono e lo gettano nel fuoco. L’altro, che intanto aveva terminato le sue divozioni, va a far la commissione, domandando se avessero eseguito il comando del re. Gli risposero che sì. Ritornò costui a portar la risposta al re, che fu assai sorpreso di vederlo ritornare. Furibondo che fosse avvenuto il contrario di quanto sperava, gli domandò dove fosse stato per sì lungo tempo… Il paggio dissegli che, passando vicino ad una chiesa per andare dove avevagli ordinato, aveva udito il campanello dell’Elevazione, che ciò lo aveva stimolato ad entrare e restarvi sino alla fine della Messa: e che un’altra Messa avendo subito incominciato, prima che fosse finita quella, e poi una terza, le aveva ascoltate tutte: perché il padre suo prima di morire, dopo avergli dato la sua benedizione, gli aveva assai raccomandato di non lasciare una Messa cominciata senza aspettare che fosse finita, perché questo atto di pietà attirava molte grazie, e preservava da molte sventure. Allora il re, rientrato in sé, comprese che questo era avvenuto per giusto indizio di Dio: che la regina era innocente, ed il paggio un santo: che l’altro aveva operato solo per invidia. – Vedete, F. M., che senza la sua divozione, quel povero giovane sarebbe stato arso, e che Dio gli ispirò di entrare in chiesa per salvarlo da morte: mentre l’altro, che non aveva divozione per Gesù Cristo nel sacramento adorabile dell’Eucaristia, fu gettato nel fuoco. S. Tommaso ci dice che un giorno durante la santa Messa vide Gesù Cristo colle mani piene di tesori, che cercava di distribuire; e aggiunge che se avessimo la ventura di assistere devotamente e spesso alla santa Messa, avremmo ben più grazie di quelle che abbiamo per salvar le anime nostre, ed anche per i bisogni temporali.

2° In secondo luogo ho detto che il buon ladrone ci istruirà sul modo di diportarci nel tempo della Consacrazione e dell’Elevazione della santa Messa, quando dobbiamo offrirci a Dio con Gesù Cristo, siccome chiamati a partecipare a questo augusto mistero. Vedete, F. M., come questo penitente fortunato si diporta nel momento medesimo del suo supplizio? vedete come apre gli occhi dell’anima per riconoscere il suo liberatore? Ed insieme, qual progresso fa mai nelle tre ore che si trova in compagnia del suo Salvatore morente? E attaccato alla croce, non ha più liberi che il suo cuore e la lingua; vedete con qual premura offre a Gesù Cristo l’uno e l’altra: gli dà tutto quanto può donargli, gli consacra il cuore con la fede e la speranza, e gli domanda umilmente un posto in paradiso, cioè nel suo regno eterno. Gli consacra la lingua pubblicando la sua innocenza e santità. Dice al suo compagno di supplizio: « È giusto che noi soffriamo: ma Egli è innocente . „ Mentre gli altri sono intenti solo ad oltraggiare Gesù Cristo colle bestemmie più orribili, egli ne diventa il panegirista: mentre i suoi discepoli stessi l’abbandonano, prende le sue difese: e la sua carità è sì grande che fa ogni sforzo per indurre l’altro a convertirsi. No, F. M., non meravigliamoci per nulla se scopriamo tante virtù in questo Buon Ladrone, perché niente è tanto capace di commuovere quanto la vista di Gesù Cristo morente: non v’è altro momento in cui la grazia venga data con tanta abbondanza. Ahimè! F. M., se nel fortunato momento della Consacrazione avessimo la ventura d’essere animati da una viva fede, una Messa basterebbe per strapparci da qualsiasi vizio in cui fossimo, e per farci divenire veri penitenti, cioè perfetti Cristiani. Perché dunque, mi direte voi, assistiamo a tante. Messe e siamo sempre gli stessi? F. M., perché vi siamo presenti col corpo, ma lo spirito non vi è punto; e vi veniamo piuttosto a ricevere la nostra riprovazione colle cattive disposizioni con cui vi assistiamo. Ahimè! quante Messe ascoltate male, che invece d’assicurare la nostra salvezza ci peggiorano vieppiù! Apparso Gesù Cristo a S. Metilde, le disse: « Sappi, figlia mia, che i Santi assisteranno alla morte di tutti coloro che avranno ascoltato devotamente la santa Messa, per aiutarli a ben morire, per difenderli dalle tentazioni del demonio e presentare le loro anime al Padre mio. » Qual fortuna per noi, F. M., esser assistiti in questo momento terribile da tanti Santi quante Messe avremo ascoltate!… No, F. M., non temiamo mai che la santa Messa ci causi ritardo negli affari temporali: anzi al contrario: stiamo sicuri che tutto andrà bene, e che anche i nostri affari ci riusciranno assai meglio che se avessimo la mala sorte di non assistervi. Eccone un esempio mirabile. Raccontasi di due artigiani, del medesimo mestiere e dimoranti nello stesso borgo, che uno di essi, carico di numerosa prole, non tralasciava mai ogni giorno di ascoltare la santa Messa, e viveva comodamente del suo mestiere: l’altro, invece, che non aveva figli…, lavorava parte della notte e tutto il giorno, e spesso il giorno dì domenica, eppure stentava assai per vivere. Questi che vedeva prosperare tanto gli affari dell’altro, incontratolo un giorno gli domandò donde poteva ricavar tanto da mantenere sì bene una famiglia numerosa come la sua: mentre egli, solo con la moglie, lavorando senza tregua, era spesso sprovvisto di tutto. Risposegli l’altro che, se volesse, gli mostrerebbe il dì appresso donde veniva tutto il suo guadagno. Contentissimo di sì buona notizia, aspettò con impazienza il domani, che gli avrebbe insegnato a far anch’egli fortuna. Infatti l’altro non mancò d’andare a prenderlo. Eccolo che parte di buona voglia e lo segue con fedeltà. L’altro lo condusse alla chiesa, dove ascoltarono la santa Messa. Dopo che furono ritornati: “Amico mio, disse quegli che si trovava in prospere condizioni, ritornate al vostro lavoro. „ Altrettanto fece il giorno appresso: ma andato a prenderlo una terza volta pel medesimo scopo: “Come? dissegli l’altro: se voglio andare a Messa, ne so la strada, senza che vi disturbiate a venirmi a prendere: non voleva sapere questo, io; ma dove trovate tutto quel benessere che vi fa vivere comodamente; volevo vedere se facendo come voi, vi avrei trovato il mio interesse. „ — “Amico mio, rispose quegli, non conosco altro luogo che quello della chiesa, ed altro mezzo che l’ascoltare ogni giorno la santa Messa: e da parte mia vi assicuro di non aver mai usato altri mezzi per aver tutto il bene che vi stupisce. Ma, noi! avete visto che Gesù Cristo nel Vangelo ci dice “di cercare anzitutto il regno dei cieli, e tutto il resto ci verrà dato? „ A queste parole l’altro intese a che mirasse il primo conducendolo alla santa Messa: e gli soggiunse: “Avete ragione; chi non calcola che sul proprio lavoro è un cieco, ed io vedo che la santa Messa giammai impoverirà alcuno. Voi ne siete una prova ben grande. Voglio far come voi, e spero che il buon Dio mi benedirà. „ Infatti cominciò il giorno dopo e continuò per tutta la sua vita: ed in poco tempo divenne agiato. Quando gli si domandava donde proveniva che ora non lavorava più in domenica né di notte come prima, e diveniva più ricco, egli rispondeva: “Ho seguito il consiglio del mio vicino: andate a trovarlo, e vi insegnerà a star bene senza lavorar troppo; ascoltando cioè la Messa ogni giorno. „ Ciò forse vi fa meraviglia, F. M.? A me no. È quanto vediamo ogni giorno nelle case dove si coltiva la pietà: coloro che vengono spesso alla santa Messa, fanno assai meglio i loro affari di coloro ai quali la loro poca fede fa credere di non avere mai tempo per questo. Ahimè! se avessimo posto ogni nostra confidenza in Dio, e non contassimo sul nostro lavoro, quanto saremmo più felici! — Ma, mi direte, se non abbiamo nulla, nessuno ci dà niente. — Che cosa volete che il buon Dio vi aiuti quando non contate che sul vostro lavoro, e niente su di Lui? Voi non trovate neppure il tempo di recitare le vostre orazioni mattina e sera, e vi accontentate di venire alla Messa una volta alla settimana. Ahimè! non conoscete le risorse della Provvidenza di Dio per chi si confida in Lui. Ne volete una prova evidente? essa è davanti ai vostri occhi: Osservate il vostro pastore, ed esaminate la cosa davanti a Dio. — Oh! mi direte, c’è chi ve ne dà. — Ma chi me ne dà, se non la Provvidenza di Dio? ecco dove sono i miei tesori, e non altrove. Davvero! che l’uomo è cieco di tormentarsi tanto per andar dannato, ed essere anche infelice in questo mondo! Se aveste la fortuna di pensare bene alla vostra salvezza e d’assistere alla santa Messa, più spesso che potete, vedreste bentosto la prova di quanto vi dico. No, F. M., nessun momento è più prezioso, per domandar a Dio la nostra conversione, di quello della santa Messa: vedetelo. Un santo eremita, chiamato Paolo, vide un giovine assai ben vestito, che entrava in una chiesa accompagnato da gran quantità di demoni: ma dopo la santa Messa, vide uscire il giovine accompagnato d’una schiera di angeli che camminavano ai suoi fianchi. “O mio Dio, esclamò il santo, bisogna che la santa Messa Vi sia ben gradita!„ Il santo Concilio di Trento ci dice che la santa Messa placa la collera di Dio, converte il peccatore, rallegra il cielo, solleva le anime del purgatorio, rende gloria a Dio, ed attira ogni sorta di benedizioni sulla terra!. « Sess. XIII e XXII. Oh! F. M., se potessimo ben comprendere che cosa è il Sacrifizio della santa Messa, con qual rispetto vi assisteremmo?… Il santo abate Nilo ci racconta che il suo maestro S. Giovanni Crisostomo gli aveva detto un giorno, in confidenza, che durante la santa Messa vedeva una schiera d’Angeli che discendevano dal cielo per adorare Gesù Cristo sull’altare, e che molti s’aggiravano in chiesa per ispirare ai fedeli il rispetto e l’amore che debbono avere per Gesù Cristo presente sull’altare. Momento prezioso, momento felice per noi, F. M., questo nel quale Gesù Cristo è presente sui nostri altari! Davvero! se i padri e le madri lo comprendessero e sapessero approfittarne, i loro figli non sarebbero così sventurati, così lontani dalla via del cielo. Mio Dio, quanti poveri vicino a sì grande tesoro!

3° Ho detto che il Centurione ci serve d’esempio quando abbiam la bella sorte di comunicarci, o spiritualmente o corporalmente. L’esempio di questo Centurione è così ammirabile, che la Chiesa sembra compiacersi di rimettercelo davanti agli occhi ogni giorno nella S. Messa. ” Signore, dissegli quest’umile servo, non son degno che veniate nella casa mia, ma dite una sola parola, ed il mio servo sarà guarito„ Ah! se il buon Dio vedesse in noi la medesima umiltà, la medesima cognizione del nostro nulla, con qual piacere ed abbondanza di grazie non verrebbe nel nostro cuore? Quanta forza e coraggio avremmo per vincere il nemico della nostra salvezza! Vogliamo, F . M., ottenere di mutar vita, cioè abbandonare il peccato e tornare a Dio? Ascoltiamo alcune Messe con questa intenzione, e stiamo sicuri, se le ascoltiamo devotamente, che Dio ci aiuterà ad uscire dal peccato: eccone un esempio. – Narrasi nella storia che una giovanetta per più anni aveva condotto una vita miserabile con un giovane. Un giorno si sentì presa da paura, e riflettendo allo stato cui poteva ridursi la povera anima sua, se continuava quella vita. Subito, dopo la santa Messa, andò da un sacerdote a pregarlo d’aiutarla a uscire dal peccato. Il sacerdote, che ne conosceva la condotta, le domandò che cosa l’avesse decisa a questo cambiamento. “Padre mio, gli disse, durante la santa Messa, che la madre mia prima di morire mi fece promettere d’ascoltare ogni sabato, ho concepito un sì grande orrore del mio stato, che non posso più reggervi. „ — “O mio Dio! esclamò il santo sacerdote, ecco un’anima salvata dal valore della santa Messa!„ Ah! F. M., quante anime uscirebbero dal peccato, se avessero la fortuna di ascoltare la santa Messa con buone disposizioni! Non meravigliamoci dunque se il demonio ci mette tanti pensieri estranei. Ah! egli prevede, assai meglio di voi, la perdita che fate assistendovi con sì poco rispetto e divozione. F. M., da quanti pericoli e morti improvvise ci preserva la santa Messa! Quante persone, per una santa Messa ascoltata, salverà Iddio dalla sventura! S. Antonino ce ne racconta un bell’esempio. Ci dice che un giorno di festa due giovani andarono per una partita di caccia: l’uno aveva ascoltato la santa Messa, l’altro no. Mentre erano per via, il cielo si rannuvolò: udivansi tuoni spaventosi, e vedevansi lampi sì frequenti che il cielo sembrava in fiamme. Ma ciò che li atterriva ancor di più, era l’udire tra le folgori, di tratto in tratto, una voce che gridava: “Colpite quei disgraziati, colpiteli!„ Quietatasi un po’ la burrasca, incominciarono a rassicurarsi. Proseguendo il loro cammino, ad un tratto scoppiò un fulmine che incenerì quegli che non aveva ascoltato la. santa Messa. L’altro fu preso da sì gran spavento che non sapeva se dovesse proseguir oltre. In questa paura, udì ancora la voce gridare: “Colpite, colpite l’infelice!„ il che raddoppiava il suo spavento, avendo visto ai suoi piedi il compagno fulminato. Mentre credevasi perduto, udì un’altra voce che disse: ” No, non colpitelo; egli ha ascoltato stamattina la Messa.„ La santa Messa ascoltata la mattina prima di partire lo preservò da una morte sì spaventosa. Vedete, F. M., come Dio ci concede grazie e ci preserva dalle sventure, quando abbiam la fortuna d’ascoltare la Messa come si deve? Ahimè! quali castighi debbono aspettarsi coloro che non hanno difficoltà di perderla in domenica. Anzitutto, il castigo visibile, è che essi periscono quasi tutti malamente: i loro beni vanno in deperimento, la fede abbandona i loro cuori, e sono doppiamente disgraziati. Mio Dio! quanto l’uomo è cieco sotto tutti i rapporti, per l’anima e pel corpo!

III. — La maggior parte delle persone del mondo ascoltano la santa Messa alla maniera dei farisei, del cattivo ladrone e di Giuda. Ho detto che la santa Messa è il ricordo della morte di Gesù Cristo sul Calvario: perciò Gesù Cristo vuole che, ogni volta che celebriamo il santo sacrificio della Messa, lo facciamo in sua memoria. Tuttavia dobbiamo dire gemendo che, mentre rinnoviamo il ricordo dei patimenti di Gesù Cristo, molti che v’assistono rinnovano il delitto dei Giudei e dei carnefici che l’attaccarono alla croce. Ma per meglio farvi conoscere se avete la sventura d’esser nel numero di coloro che così insultano i nostri santi misteri, vi farò notare, F. M., che fra coloro che furon testimoni della morte di Gesù Cristo sulla croce, ve ne erano di tre sorta: gli uni non facevano che passare davanti alla croce, senza fermarsi e senza sentire un vero dolore, più insensibili delle creature inanimate. Gli altri si avvicinavano al luogo del supplizio, consideravano tutte le circostanze della morte di Gesù Cristo; ma non era che per beffarsene, farne oggetto di risa ed oltraggiarlo con le bestemmie più orribili. Infine, un piccolo numero versava lagrime amare vedendo spiegare tante crudeltà sul corpo del loro Dio e loro Salvatore. Vedete ora a qual numero appartenete. Non parlerò di coloro che corrono ad udire una Messa in furia in una parrocchia dove hanno qualche affare, né di coloro che vi vengono a metà; che, in tal tempo, vanno a trovare un amico per bere un bicchierino in compagnia: lasciamoli da parte, perché costoro vivono come se fossero sicuri di non avere un’anima da salvare: essi hanno perduto la fede, e con ciò tutto è perduto. Ma parliamo solo di quelli che vi vengono ordinariamente. Ebbene, molti non vi vengono che per vedere ed essere veduti, con un contegno dissipato, come andrebbero ad un mercato, o in piazza, e, permettete la frase, ad un ballo. Vi stanno senza modestia: a mala pena mettono le ginocchia a terra durante l’Elevazione o la Comunione. Pregate voi, F. M., in tempo di Messa?…. No?! Ma, allora vi manca la fede! Ditemi, quando vi recate dai vostri superiori per domandare una grazia, non è vero che ne siete preoccupati durante tutta la strada; entrate con modestia, fate ad essi un profondo saluto, state scoperti davanti a loro, non pensate neppure a sedervi; tenete gli occhi bassi, e riflettete soltanto al modo di esprimervi bene e colle parole più adatte? Se sbagliate in qualche cosa, vi scusate subito della vostra poca educazione. Se essi vi ricevono con bontà, sentite la gioia nascere nel vostro cuore. Ebbene! ditemi, F. M., non deve ciò confondervi, vedendo che usate tante precauzioni per un bene temporale? mentre venite alla chiesa con noncuranza, quasi con disprezzo, davanti ad un Dio morto per salvarci, e che ogni giorno versa il suo sangue per ottenervi grazia presso il Padre suo. Quale affronto, F. M., non è per Gesù Cristo vedersi insultato da vili creature? Ahimè! quanti durante la santa Messa commettono più peccati che non in tutta la settimana. Alcuni non pensano neppure al buon Dio, altri parlano, mentre il loro cuore ed il loro spirito si perdono, o nell’orgoglio, o nel desiderio di piacere, o nell’impurità. Quanti altri lasciano entrare ed uscire tutti i pensieri e desideri che il demonio loro manda. Quanti non hanno difficoltà di guardare, di volger la testa, di ridere e chiacchierare, di dormire come se fossero in letto, e forse ancor meglio. Ahimè! quanti Cristiani escono di chiesa forse con trenta o cinquanta peccati mortali di più che quando vi entrarono! Ma, mi direte, è meglio allora non assistervi. — Sapete che dovete fare ?… Assistervi, ed assistervi come si conviene, facendo tre sacrifici a Dio, cioè: quello del vostro corpo, del vostro spirito e del vostro cuore. Dico : del vostro corpo; che deve onorare Gesù Cristo con religiosa modestia; quello del vostro spirito,che ascoltando la santa Messa, deve penetrarsi del vostro nulla e della vostra indegnità, evitando ogni sorta di dissipazioni, allontanando da sé le distrazioni; quello del vostro cuore, che è l’offerta a Lui più accetta, poiché è il vostro cuore che vi domanda con tanta insistenza: “Figlio mio, vi dice, dammi il tuo cuore. Concludo, F. M., dicendo quanto siamo sfortunati quando ascoltiamo male la santa Messa, poiché troviamo la nostra riprovazione là dove gli altri trovano la loro salvezza. Voglia il cielo che assistiamo alla S. Messa ogni qualvolta potremo, poiché le grazie vi si attingono cosi abbondanti; e che vi portiamo sempre le migliori disposizioni. Così attireremo sopra di noi ogni sorta di benedizioni per questo mondo e per l’altro!… Ecco quanto vi auguro.

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps VI: 5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam.

[O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]

Secreta

Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem.

[Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XII: 6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi.

[Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]

Postcommunio

Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus.

[Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA SANTA MESSA

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla santa Messa.

In omni loco sacrificatur et offertur nomini meo oblatio munda.

(MALACH. I, 11).

E’ certo, Fratelli miei, che l’uomo, come creatura, deve a Dio l’omaggio di tutto il suo essere, e come peccatore gli deve una vittima di espiazione: per ciò nella Legge antica si offriva a Dio nel tempio una moltitudine di vittime. Ma quelle vittime non potevano soddisfare a Dio interamente, pei nostri peccati: ne occorreva una più santa e più pura che dovesse durare sino alla fine del mondo e fosse capace di pagare quanto dobbiamo a Dio. Questa vittima santa è Gesù Cristo istesso, Dio come il Padre suo, e Uomo come noi. Egli si offre tutti i giorni sui nostri altari, come già sul Calvario, e con questa oblazione pura e senza macchia rende a Dio tutti gli onori che gli sono dovuti, e si sdebita a nome dell’uomo, di tutto ciò che questo deve al suoi Creatore: si immola ogni giorno, per riconoscere il sovrano dominio che ha Dio sulle sue creature, e vien pienamente riparato l’oltraggio fatto a Dio dal peccato. Gesù Cristo, quale mediatore tra Dio e gli uomini, ci ottiene col suo sacrificio tutte le grazie che ci sono necessarie: essendosi contemporaneamente reso vittima di ringraziamento, rende a Dio per gli uomini tutta la riconoscenza che gli devono.Ma per aver la fortuna, F. M., di ricevere tutti questi beni, bisogna che facciamo anche noi qualche cosa da parte nostra. Per meglio farvelo sentire, vi farò comprendere, almeno quanto mi sarà possibile:

1° la grandezza della fortuna che abbiamo di assistere alla santa Messa;

2° le disposizioni con le quali dobbiamo assistervi;

3° come vi assiste la maggior parte dei Cristiani.

Non voglio, F.. M., entrare nella spiegazione di quanto significano i paramenti indossati dal sacerdote: penso che lo sappiate, almeno molti. Quando il sacerdote va in sagrestia per pararsi, rappresenta Gesù Cristo che discende dal cielo per incarnarsi nel seno della Vergine santissima, prendendo un corpo come il nostro per sacrificarlo al Padre suo pei nostri peccati. Quando il sacerdote prende l’amitto, che è quel lino bianco che si mette sulle spalle, lo fa per rappresentarci il momento in cui i Giudei bendarono gli occhi a Gesù Cristo, percuotendolo e dicendogli: « Indovina chi è che ti ha percosso? » Il camice rappresenta la veste bianca della quale lo fece rivestire Erode per ischerno quando lo rimandò a Pilato. Il cingolo raffigura le corde con le quali fu legato, quando fu preso nel giardino degli Olivi, i flagelli coi quali fu tormentato. Il manipolo, che il sacerdote si mette al braccio sinistro, ci rappresenta le funi con cui Gesù Cristo fu attaccato alla colonna per essere flagellato: esso si mette al braccio sinistro perché più vicino al cuore, il che ci mostra che l’eccesso dell’amor suo gli fece soffrire questa crudele flagellazione pei nostri peccati. La stola ci raffigura la corda gettatagli al collo quando portava la croce. La pianeta ci ricorda lo straccio di porpora, ed il suo vestito senza cuciture giuocato a sorte. – L’Introito ci rammenta il desiderio ardente che avevano i patriarchi della venuta del Messia: perciò lo si ripete due volte. Quando il sacerdote dice il Confiteor, ci rappresenta Gesù Cristo che si carica dei nostri peccati, per soddisfare alla giustizia di Dio suo Padre 1. Il Kyrie eleison, che vuol dire: « Signore, abbi pietà di noi, » rappresenta lo stato sventurato in cui eravamo prima della venuta di Gesù Cristo. Non voglio proseguir oltre. L‘Epistola significa la dottrina dell’Antico Testamento; il Graduale significa la penitenza che fecero i Giudei dopo la predicazione di san Giovanni Battista: l‘Alleluja, ci rappresenta la gioia d’un’anima che ha ottenuto la grazia: il Vangelo ci ricorda la dottrina di Gesù Cristo.I differenti segni di croce che si fanno sull’ostia e sul calice ci richiamano tutti i patimenti che Gesù Cristo ha sofferto nel corso di sua Passione. Ritornerò un’altra volta su questo argomento.

I. — Prima di esporvi il modo di udire la santa Messa, occorre vi dica qualche cosa sul significato della parola: santo Sacrificio della Messa. [Il Beato ha tolto queste spiegazioni dal Rodriguez Tratt. VI, cap. XV. — La maggior parte di questo discorso, come anche i tratti storici riportati più avanti, vengono dalla medesima fonte. Noi lo ricordiamo una volta per tutte.] Sapete che il santo sacrificio della Messa è lo stesso che quello della croce, offerto una volta sul Calvario, il Venerdì Santo. Tutta la differenza è, che quando Gesù Cristo si offrì sul Calvario, il sacrificio suo era visibile, cioè lo si vedeva cogli occhi del corpo; Gesù Cristo fu offerto a Dio suo Padre per mano dei suoi carnefici, e sparse il suo sangue: per questo si chiama sacrificio cruento; cioè il sangue usciva dalle vene, e lo si vide scorrere sino a terra. Ma nella santa Messa Gesù Cristo si offre al Padre suo in modo invisibile: cioè lo vediamo solo cogli occhi dell’anima, non con quelli del corpo. Ecco, M. F., in breve, che cos’è il santo sacrificio della Messa. Ma per darvi un’idea della grandezza del valore della santa Messa, mi basta dirvi con S. Giovanni Crisostomo, che la S. Messa rallegra tutta la corte celeste, solleva tutte le povereanime del purgatorio, attira sulla terra ogni sorta di benedizioni, e rende più gloria a Dio che non tutti i tormenti dei martiri, le penitenze dei solitari, tutte le lagrime che i santi sparsero fin dal principio del mondo; e tutto ciò che faranno sino alla fine dei secoli. Se me ne domandate la ragione, è chiarissima: tutte queste azioni sono fatte da peccatori più o meno colpevoli: mentre nel santo sacrificio della Messa è un Uomo-Dio eguale al Padre suo che gli offre i meriti della sua Passione e Morte. Vedete quindi, F. M., che la santa Messa è d’un valore infinito. Perciò, vediamo nel Vangelo, che alla morte di Gesù Cristo si operarono molte conversioni: il buon ladrone vi ricevé la promessa del paradiso, molti Giudei si convertirono, ed i Gentili si percuotevano il petto, dicendo che Egli era veramente Figlio di Dio. I morti risuscitarono, le rupi si spezzarono, e la terra tremò. F. M.. se avessimo la fortuna di assistervi con buone disposizioni, quand’anche disgraziatamente fossimo ostinati come i Giudei, più ciechi dei Gentili, più duri delle rocce che si spezzarono, otterremmo certissimamente la conversione. Infatti, S. Giovanni Crisostomo, ci dice che non v’è tempo più prezioso per trattare con Dio della nostra salvezza di quello della santa Messa, in cui Gesù Cristo si offre Egli stesso in sacrificio a Dio suo Padre, per ottenerci ogni sorta di benedizioni e di grazie. « Siamo afflitti? ci dice questo gran santo; vi troviamo ogni sorta di consolazioni. Siamo tentati? andiamo ad ascoltare la S. Messa, e vi troveremo il modo di vincere il demonio. » E, a questo proposito, voglio citarvi un bell’esempio. Si racconta da Papa Pio II che un gentiluomo della provincia d’Ostia, era continuamente combattuto da una tentazione di disperazione, che lo trascinava ad appiccarsi, e già parecchie volte si era ridotto al procinto. Andato a trovare un santo religioso per scoprirgli lo stato dell’anima sua e domandargli consiglio, il servo di Dio, dopo averlo consolato e fortificato il meglio che poté, lo consigliò di tenere in casa un sacerdote che gli dicesse ogni giorno la santa Messa. Il gentiluomo diss’egli che lo farebbe volentieri. Si ritirò in un suo castello: ed ogni giorno un pio sacerdote gli celebrava la santa Messa, alla quale assisteva il più devotamente che poteva. Mentre quel gentiluomo godeva, così regolandosi, grande tranquillità di spirito, avvenne che il sacerdote lo pregò di permettergli d’andare a celebrare la santa Messa in un paese vicino, in occasione d’una particolare festività: cosa che gli accordò facilmente, intendendo di andarvi egli pure ad ascoltarla. Ma un affare sopravvenuto lo trattenne in casa fin presso mezzogiorno. Allora, tutto sbigottito per aver perduto la santa Messa, e sentendosi assalito dall’antica tentazione, esce di casa. Incontra un contadino, che gli domanda dove andasse. « Vado, risponde il gentiluomo, ad ascoltare la santa Messa. » — « Ma, è troppo tardi, gli dice il contadino, son già tutte celebrate. » Fu una notizia sì dolorosa per lui, che si mise a gridare: « Ahimè! Non ho sentito Messa, e sono perduto! » Il contadino, che amava il denaro, vedendolo in tale stato, diss’egli: « Se volete, vi cedo la Messa che ho ascoltato, e tutto il frutto ricavatone. » L’altro, senza riflettere a nulla, ed addolorato d’aver perduto la Messa: « Grazie, caro; eccovi il mio mantello. „ Quell’uomo non poteva certamente cedere il frutto della Messa a cui aveva assistito senza farsi reo di grave peccato. Separatisi, il gentiluomo non tralasciò di continuare la sua strada per fare in chiesa le sue preghiere: e, tornando dopo averle recitate, trovò quel povero contadino avaro, appeso ad un albero nel medesimo luogo dove aveva ricevuto il mantello. Il buon Dio, in punizione della sua avarizia, aveva permesso che la tentazione del gentiluomo passasse in quell’avaro. Colpito da tale spettacolo, il gentiluomo ringraziò Dio d’averlo liberato da sì grande castigo, e non tralasciò mai d’assistere alla santa Messa per renderne grazie al Signore. E all’ora di morte, confessò che dacché aveva avuto la fortuna d’assistere tutti i giorni alla santa Messa, il demonio non l’aveva più tentato di disperazione. [Questo fatto storico è anche riportato dal P. Rossignoli, Le meraviglie divine nella Ss. Eucaristia, LXIII meraviglia]. Ebbene! F. M., non aveva ragione S. Giovanni Crisostomo, di dirci che se siamo tentati dobbiamo ascoltare devotamente la santa Messa, e possiamo stare sicuri che il buon Dio ci libererà? Sì, F. M., se avessimo abbastanza fede, la santa Messa sarebbe un rimedio per tutti i mali che potremmo subire nel corso della vita: infatti, Gesù Cristo non è nostro medico e dell’anima e del corpo?…

II. Ho detto che la santa Messa è il sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, sacrificio che è offerto a Dio solo, non agli angeli ed ai santi. Sapete che il sacrificio della santa Messa fu istituito il Giovedì santo, quando Gesù Cristo prese il pane, lo mutò nel suo Corpo, prese il vino e lo cangiò nel suo Sangue. Nello stesso momento, diede ai suoi Apostoli ed a tutti i loro successori quel potere che noi chiamiamo Sacramento dell’Ordine. La santa Messa consiste nelle parole della consacrazione: e voi sapete che i ministri della santa Messa sono i sacerdoti ed il popolo che ha la fortuna di assistervi, se si unisce ad essi: d’onde concludo, che il modo migliore di ascoltare la santa Messa è d’unirsi al sacerdote in tutto quanto egli dice; seguirlo in tutte le sue azioni, quanto è possibile. [1° Nel santo sacrificio della Messa, Gesù Cristo è il sommo Sacerdote ed il ministro principale. Egli offre il sacrificio in suo nome e per propria potestà: senza dubbio, si serve di mani estranee per offrirlo, ma Egli solo comunica tutta l’efficacia al sacrificio.

2° Il Sacerdote che celebra è veramente sacerdote e ministro del Sacrificio. E stato chiamato ed ordinato per questo fine; ha ricevuto questo potere da Gesù Cristo. È ministro di Gesù Cristo, e tiene il posto del Salvatore. Egli offre adunque, immediatamente il sacrificio per l’azione ed il ministero che gli sono personali. L’offre da solo, senza bisogno di concorso degli assistenti.

3° I fedeli, in fatto, non sono veramente, strettamente i ministri del Sacrificio. Se alcune volte sono detti ministri coerenti il santo Sacrificio, è in senso largo; non l’offrono da se stessi, ma pel ministero del sacerdote. Ed ecco come vi concorrono: 1° In modo generale, come membri della Chiesa che deputa il sacerdote ad offrire il sacrificio in suo nome; 2° in modo speciale, quando i fedeli assistendo alla Messa, si uniscono coll’intenzione, al sacerdote, per offrire a Dio questo sacrificio; 3° in modo specialissimo, quando concorrono in modo più prossimo al sacrificio, sia servendo il sacerdote all’altare, sia dando elemosine per la celebrazione delle Messe.]; e procurar di penetrarsi dei più vivi sentimenti d’amore e di riconoscenza: bisogna tenere questo metodo.Possiamo distinguere tre parti nel santo sacrificio della santa Messa: la prima parte, dal principio sino all’Offertorio; la seconda dall’Offertorio alla Consacrazione; la terza dalla Consacrazione alla fine. È necessario farvi notare che se noi fossimo volontariamente distratti durante una di queste parti commetteremmo un peccato mortale il che ci deve indurre a guardar bene di non lasciar divagare il nostro spirito a cose estranee, cioè che non hanno rapporto al santo Sacrificio della Messa.

[“Se fossimo distratti volontariamente durante una di queste parti, commetteremmo peccato mortale. „ Questa asserzione del B. Curato d’Ars è severa. I fedeli non debbono esser trattati più rigorosamente dei sacerdoti. Ora, i sacerdoti sono aggravati di peccato mortale soltanto se si rendono colpevoli d’una distrazione volontaria durante la consacrazione]. Dal principio all’Offertorio, dobbiamo comportarci come penitenti che sono penetrati del più vivo dolore dei loro peccati. Dall’Offertorio alla Consacrazione dobbiam condurci come ministri che debbono offrire Gesù Cristo a Dio suo Padre, e fargli il sacrificio di quanto siamo: cioè offrirgli i nostri corpi, le anime, i beni, la vita, ed anche la nostra eternità. Dopo la consacrazione, dobbiam considerarci come persone che debbono partecipare al Corpo adorabile ed al Sangue prezioso di Gesù Cristo: ed occorre per conseguenza fare ogni nostro sforzo per renderci degni di tal felicità. A meglio farvelo comprendere, F. M., vi proporrò tre esempi tolti dalla S. Scrittura, che vi mostreranno il modo con cui dovete ascoltare la santa Messa: cioè, di che cosa dovete occuparvi durante questo momento, fortunato per chi ha la ventura di ben comprenderlo. Il primo, è quello del pubblicano, che vi insegnerà che cosa dovete fare al principio della Messa. Il secondo è quello dei buon ladrone, che vi apprenderà come dovete diportarvi durante la Consacrazione. Il terzo, è il centurione che vi guiderà durante la santa Comunione. – Anzitutto il pubblicano ci insegnerà come dobbiamo comportarci al principio della santa Messa, che è un’azione così gradita a Dio e così efficace per ottenerci ogni sorta di grazie. Non dobbiam quindi aspettare d’essere in chiesa per prepararvici. No, F. M., no; un buon Cristiano comincia a prepararsi quando si sveglia, non lasciandosi occupare lo spirito da niente che non abbia relazione col santo Sacrificio. Dobbiamo rappresentarci Gesù Cristo nel giardino degli Ulivi, che prostrato la faccia a terra si prepara al Sacrificio sanguinoso che offrirà sul Calvario; a considerare la grandezza della carità che gli fa subire il castigo che dovremmo subir noi per tutta l’eternità. Bisogna venirvi digiuni, per quanto è possibile: ciò è molto gradito al buon Dio. Nei primi tempi della Chiesa, tutti intervenivano digiuni [Perché essi si comunicavano nella Messa]. Occorre, al mattino, non lasciarsi mai occupare lo spirito da affari materiali, ricordando che dopo aver lavorato tutta la settimana pel vostro corpo, è ben giusto che occupiate questo giorno nei bisogni dell’anima vostra e nel domandare al buon Dio perdono dei vostri peccati. Quando venite in chiesa, non fate conversazione: pensate che seguite Gesù Cristo il quale porta la croce al Calvario e va a morire per salvarvi. Bisogna trovar sempre un momento, prima della santa Messa, per raccogliersi alquanto, gemere sui propri peccati e domandarne perdono al buon Dio, esaminare le grazie più necessarie da domandargli durante la Messa, e guardarsi dal non mancar mai né all’Aspersione dell’acqua benedetta, né alla lettura della Passione, né alla Processione. [In gran numero di parrocchie, dall’Invenzione della S. Croce (3 Maggio) sino all’Esaltazione (14 Settembre) il parroco legge ogni giorno ai piedi dell’altare, prima di celebrare la santa Messa, la Passione per i prodotti della terra – Il Beato parlò di già nel discorso sulle Rogazioni, delle processioni domenicali che si fanno in molte parrocchie, secondo un’antica consuetudine, ogni domenica, prima della Messa solenne, dall’Invenzione sino all’Esaltazione della S. Croce, o come si dice a Cruce ad Crucem], perché sono azioni sante che vi preparano a fare ascoltare la Messa. Quando entrate in chiesa compenetratevi della grandezza della vostra felicità, con un atto di fede vivissima ed un atto di contrizione dei vostri peccati, che vi rendono indegni d’avvicinarvi ad un Dio così santo e così grande. Pensate, in questo momento, alle disposizioni del pubblicano quando entrò nel tempio ad offrire a Dio il sacrificio della sua preghiera. Ascoltate S. Luca: « Il pubblicano, egli dice, stavasi in fondo al tempio, gli occhi inclinati a terra, non osando guardar l’altare, e battevasi il petto dicendo a Dio: Abbiate pietà di me, o Signore, perché sono un peccatore » (Luc. XVIII). Vedete quindi, F. M, che egli non faceva come quei Cristiani che entrano in chiesa con aria altera ed arrogante, « che sembrano volersi accostare a Dio – ci dice il profeta Isaia – come persone che nulla hanno sulla coscienza che possa umiliarli davanti al loro Creatore. » (Is. LXVIII). Infatti, se volete ben osservare, quando entrano in chiesa questi Cristiani che hanno forse sulla coscienza più peccati che non capelli in testa, voi li vedete, dico, entrare con aria di noncuranza, o meglio con una specie di sprezzo per la presenza di Dio. Toccano l’acqua santa press’a poco come se immergessero le mani in un catino d’acqua per lavarsi dopo il lavoro; la maggior parte fanno questo senza divozione e senza pensare che l’acqua benedetta presa con grande rispetto cancella i peccati veniali e ci dispone a ben ascoltare la santa Messa. Vedete il nostro pubblicano, che credendosi indegno d’entrare nel tempio va a mettersi nel posto meno apparente che può trovare: è talmente confuso alla vista dei propri peccati, che nemmeno osa alzar gli occhi al cielo. E dunque ben lontano da quei Cristiani di nome che non sono mai abbastanza comodi, che si inginocchiano soltanto sulla sedia, che abbassano appena la testa durante l’Elevazione, che si sdraiano sulla sedia, od incrociano le gambe. Non diciamo nulla di coloro che non dovrebbero venire in chiesa se non per piangervi i loro peccati, ed invece lo fanno solo per insultare un Dio umiliato e disprezzato, col loro sfoggio di vanità, nell’intenzione d’attirarsi gli sguardi altrui: ed altri solo per alimentare il fuoco delle loro passioni colpevoli. O mio Dio! con tali disposizioni si può aver l’ardire di venire ad assistere alla santa Messa? « Ma il nostro pubblicano – ci dice S. Agostino – si batte il petto per mostrare a Dio il rimorso d’averlo offeso. » Ahimè! F. M., se noi Cristiani avessimo la sorte felice d’assistere alla santa Messa con le medesime disposizioni del pubblicano, quante grazie, quanti benefizi otterremo! Usciremmo ricolmi di beni celesti come le api dopo aver trovato più fiori che non volevano! Oh! se il buon Dio ci facesse la grazia di essere in principio della santa Messa ben penetrati della grandezza di Gesù Cristo, davanti al quale ci presentiamo, e della gravità dei nostri peccati, ben presto avremmo ottenuto il perdono delle nostre colpe e la grazia della perseveranza! Dobbiamo soprattutto tenerci in grandi sentimenti di umiltà durante la santa Messa: questo deve ispirarci il sacerdote quando discende dall’altare per dire il Confiteor inchinandosi profondamente, egli, che, tenendo il posto di Gesù Cristo stesso, sembra caricarsi di tutti i peccati dei suoi parrocchiani. Davvero! se il buon Dio ci facesse una volta comprendere che cos’è la santa Messa, quante grazie, quanti beni avremmo, che or non abbiamo! Da quanti pericoli saremmo preservati se avessimo una gran divozione alla santa Messa! Per provarvelo, F. M., vi citerò un bell’esempio che vi mostrerà che il buon Dio protegge in modo visibile quelli che hanno la fortuna di assistervi con divozione. Leggiamo nella storia, che S. Elisabetta, regina di Portogallo e nipote di S. Elisabetta regina d’Ungheria, era tanto caritatevole verso i poveri che, sebbene avesse ordinato al suo elemosiniere di non rifiutar loro nulla, faceva altresì continue elemosine di sua propria mano o per mezzo dei domestici. Ordinariamente si serviva di un paggio, del quale aveva riconosciuta la grande pietà: il che vedendo un altro paggio, ne fu geloso. Andò costui un giorno dal re, e dissegli che quel paggio aveva relazione peccaminosa con la regina. Il re, senza nulla esaminare, stabilì subito di disfarsi del paggio il più segretamente possibile; e passando il dì stesso in un luogo dove si faceva cuocere la calce, chiamò quelli che avevano cura di mantenere acceso il fuoco, e disse loro che il domani mattina manderebbe un paggio, del quale era malcontento, che loro domanderebbe se avessero eseguito gli ordini del re: dovevano prenderlo e gettarlo subito nel fuoco. Tornato a casa, comandò al paggio della regina d’andare il mattino seguente di buon’ora a fare questa commissione. Ma vedrete che il buon Dio non abbandona mai chi l’ama. Il buon Dio permise che, per fare la propria commissione, dovesse passare vicino ad una chiesa; ed in quel momento appunto udisse suonare l’Elevazione. Entra per adorare Gesù Cristo ed ascolta il resto della Messa. Ne incomincia un’altra; l’ascolta; una terza dopo finita la seconda; l’ascolta ancora. Frattanto il re, impaziente di sapere se erano stati eseguiti i suoi ordini, manda il paggio suo a domandare se avessero fatto quanto aveva lor comandato. Credendo fosse questi il primo, lo prendono e lo gettano nel fuoco. L’altro, che intanto aveva terminato le sue divozioni, va a far la commissione, domandando se avessero eseguito il comando del re. Gli risposero che sì. Ritornò costui a portar la risposta al re, che fu assai sorpreso di vederlo ritornare. Furibondo che fosse avvenuto il contrario di quanto sperava, gli domandò dove fosse stato per sì lungo tempo… Il paggio dissegli che, passando vicino ad una chiesa per andare dove avevagli ordinato, aveva udito il campanello dell’Elevazione, che ciò lo aveva stimolato ad entrare e restarvi sino alla fine della Messa: e che un’altra Messa avendo subito incominciato, prima che fosse finita quella, e poi una terza, le aveva ascoltate tutte: perché il padre suo prima di morire, dopo avergli dato la sua benedizione, gli aveva assai raccomandato di non lasciare una Messa cominciata senza aspettare che fosse finita, perché questo atto di pietà attirava molte grazie, e preservava da molte sventure. Allora il re, rientrato in sé, comprese che questo era avvenuto per giusto indizio di Dio: che la regina era innocente, ed il paggio un santo: che l’altro aveva operato solo per invidia. – Vedete, F. M., che senza la sua divozione, quel povero giovane sarebbe stato arso, e che Dio gli ispirò di entrare in chiesa per salvarlo da morte: mentre l’altro, che non aveva divozione per Gesù Cristo nel sacramento adorabile dell’Eucaristia, fu gettato nel fuoco. S. Tommaso ci dice che un giorno durante la santa Messa vide Gesù Cristo colle mani piene di tesori, che cercava distribuire; e aggiunge che se avessimo la ventura di assistere devotamente e spesso alla santa Messa, avremmo ben più grazie di quelle che abbiamo per salvar le anime nostre, ed anche per i bisogni temporali.

2° In secondo luogo ho detto che il buon ladrone ci istruirà sul modo di diportarci nel tempo della Consacrazione e dell’Elevazione della santa Messa, quando dobbiamo offrirci a Dio con Gesù Cristo, siccome chiamati a partecipare a questo augusto mistero. Vedete, F. M., come questo penitente fortunato si diporta nel momento medesimo del suo supplizio? vedete come apre gli occhi dell’anima per riconoscere il suo liberatore? Ed insieme, qual progresso fa mai nelle tre ore che si trova in compagnia del suo Salvatore morente? E attaccato alla croce, non ha più liberi che il suo cuore e la lingua; vedete con qual premura offre a Gesù Cristo l’uno e l’altra: gli dà tutto quanto può donargli, gli consacra il cuore con la fede e la speranza, e gli domanda umilmente un posto in paradiso, cioè nel suo regno eterno. Gli consacra la lingua pubblicando la sua innocenza e santità. Dice al suo compagno di supplizio: « E giusto che noi soffriamo: ma Egli è innocente . „ Mentre gli altri sono intenti solo ad oltraggiare Gesù Cristo colle bestemmie più orribili, egli ne diventa il panegirista: mentre i suoi discepoli stessi l’abbandonano, prende le sue difese: e la sua carità è sì grande che fa ogni sforzo per indurre l’altro a convertirsi. No, F. M., non meravigliamoci per nulla se scopriamo tante virtù in questo Buon Ladrone, perché niente è tanto capace di commuovere quanto la vista di Gesù Cristo morente: non v’ è altro momento in cui la grazia venga data con tanta abbondanza. Ahimè! F. M., se nel fortunato momento della Consacrazione avessimo la ventura d’essere animati da una viva fede, una Messa basterebbe per strapparci da qualsiasi vizio in cui fossimo, e per farci divenire veri penitenti, cioè perfetti Cristiani. Perché dunque, mi direte voi, assistiamo a tanteMesse e siamo sempre gli stessi? F. M., perché vi siamo presenti col corpo, ma lo spirito non vi è punto; e vi veniamo piuttosto a ricevere la nostra riprovazione colle cattive disposizioni con cui vi assistiamo. Ahimè! quante Messe ascoltate male, che invece d’assicurare la nostra salvezza ci peggiorano vieppiù! Apparso Gesù Cristo a S. Metilde, le disse: « Sappi, figlia mia, che i santi assisteranno alla morte di tutti coloro che avranno ascoltato devotamente la santa Messa, per aiutarli a ben morire, per difenderli dalle tentazioni del demonio e presentare le loro anime al Padre mio. » Qual fortuna per noi, F. M., esser assistiti in questo momento terribile da tanti Santi quante Messe avremo ascoltate!… No, F. M., non temiamo mai che la santa Messa ci causi ritardo negli affari temporali: anzi al contrario: stiamo sicuri che tutto andrà bene, e che anche i nostri affari ci riusciranno assai meglio che se avessimo la mala sorte di non assistervi. Eccone un esempio mirabile. Raccontasi di due artigiani, del medesimo mestiere e dimoranti nello stesso borgo, che uno di essi, carico di numerosa prole, non tralasciava mai ogni giorno di ascoltare la santa Messa, e viveva comodamente del suo mestiere: l’altro, invece, che non aveva figli…, lavorava parte della notte e tutto il giorno, e spesso il giorno dì domenica, eppure stentava assai per vivere. Questi che vedeva prosperare tanto gli affari dell’altro, incontratolo un giorno gli domandò donde poteva ricavar tanto da mantenere sì bene uria famiglia numerosa come la sua: mentre egli, solo con la moglie, lavorando senza tregua, era spesso sprovvisto di tutto. Risposegli l’altro che, se volesse, gli mostrerebbe il dì appresso donde veniva tutto il suo guadagno. Contentissimo di sì buona notizia, aspettò con impazienza il domani, che gli avrebbe insegnato a far anch’egli fortuna. Infatti l’altro non mancò d’andare a prenderlo. Eccolo che parte di buona voglia e lo segue con fedeltà. L’altro lo condusse alla chiesa, dove ascoltarono la santa Messa. Dopo che furono ritornati: “Amico mio, disse quegli che si trovava in prospere condizioni, ritornate al vostro lavoro. „ Altrettanto fece il giorno appresso: ma andato a prenderlo una terza volta pel medesimo scopo: “Come? dissegli l’altro: se voglio andare a Messa, ne so la strada, senza che vi disturbiate a venirmi a prendere: non voleva sapere questo, io; ma dove trovate tutto quel benessere che vi fa vivere comodamente; volevo vedere se facendo come voi vi avrei trovato il mio interesse. „ — “Amico mio, rispose quegli, non conosco altro luogo che quello della chiesa, ed altro mezzo che l’ascoltare ogni giorno la santa Messa: e da parte mia vi assicuro di non aver mai usato altri mezzi per aver tutto il bene che vi stupisce. Ma, noi! avete visto che Gesù Cristo nel Vangelo ci dice “di cercare anzi tutto il regno dei cieli, e tutto il resto ci verrà dato? „ A queste parole l’altro intese a che mirasse il primo conducendolo alla santa Messa: e gli soggiunse : “Avete ragione; chi non calcola che sul proprio lavoro è un cieco, ed io vedo che la santa Messa giammai impoverirà alcuno. Voi ne siete una prova ben grande. Voglio far come voi, e spero che il buon Dio mi benedirà. „ Infatti cominciò il giorno dopo e continuò per tutta la sua vita: ed in poco tempo divenne agiato. Quando gli si domandava donde proveniva che ora non lavorava più in domenica né di notte come prima, e diveniva più ricco, egli rispondeva: “Ho seguito il consiglio del mio vicino: andate a trovarlo, e vi insegnerà a star bene senza lavorar troppo; ascoltando cioè la Messa ogni giorno. „ Ciò forse vi fa meraviglia, F. M.? A me no. È quanto vediamo ogni giorno nelle case dove si coltiva la pietà: coloro che vengono spesso alla santa Messa, fanno assai meglio i loro affari di coloro ai quali la loro poca fede fa credere di non avere mai tempo per questo. Ahimè! se avessimo posto ogni nostra confidenza in Dio, e non contassimo sul nostro lavoro, quanto saremmo più felici! — Ma, mi direte, se non abbiamo nulla, nessuno ci dà niente. — Che cosa volete che il buon Dio vi aiuti quando non contate che sul vostro lavoro, e niente su di Lui? Voi non trovate neppure il tempo di recitare le vostre orazioni mattina e sera, e vi accontentate di venire alla Messa una volta alla settimana. Ahimè! non conoscete le risorse della Provvidenza di Dio per chi si confida in Lui. Ne volete una prova evidente? essa è davanti ai vostri occhi: Osservate il vostro pastore, ed esaminate la cosa davanti a Dio. — Oh! mi direte, c’è chi ve ne dà. — Ma chi me ne dà, se non la Provvidenza di Dio? ecco dove sono i miei tesori, e non altrove. Davvero! che l’uomo è cieco di tormentarsi tanto per andar dannato, ed essere anche infelice in questo mondo! Se aveste la fortuna di pensare bene alla vostra salvezza e d’assistere alla santa Messa, più spesso che potete, vedreste bentosto la prova di quanto vi dico. No, F. M., nessun momento è più prezioso, per domandar a Dio la nostra conversione, di quello della santa Messa: vedetelo. Un santo eremita, chiamato Paolo, vide un giovine assai ben vestito, che entrava in una chiesa accompagnato da gran quantità di demoni: ma dopo la santa Messa, vide uscire il giovine accompagnato d’una schiera di angeli che camminavano ai suoi fianchi. “O mio Dio, esclamò il santo, bisogna che la santa Messa Vi sia ben gradita!„ Il santo Concilio di Trento ci dice che la santa Messa placa la collera di Dio, converte il peccatore, rallegra il cielo, solleva le anime del purgatorio, rende gloria a Dio, ed attira ogni sorta di benedizioni sulla terra!. « Sess. XIII e XXII. Oh! F. M., se potessimo ben comprendere che cosa è il Sacrifizio della santa Messa, con qual rispetto vi assisteremmo?… Il santo abate Nilo ci racconta che il suo maestro S. Giovanni Crisostomo gli aveva detto un giorno, in confidenza, che durante la santa Messa vedeva una schiera d’angeli che discendevano dal cielo per adorare Gesù Cristo sull’altare, e che molti s’aggiravano in chiesa per ispirare ai fedeli il rispetto e l’amore che debbono avere per Gesù Cristo presente sull’altare. Momento prezioso, momento felice per noi, F. M., questo nel quale Gesù Cristo è presente sui nostri altari! Davvero! se i padri e le madri lo comprendessero e sapessero approfittarne, i loro figli non sarebbero così sventurati, così lontani dalla via del cielo. Mio Dio, quanti poveri vicino a sì grande tesoro!

3° Ho detto che il Centurione ci serve d’esempio quando abbiam la bella sorte di comunicarci, o spiritualmente o corporalmente. L’esempio di questo Centurione è così ammirabile, che la Chiesa sembra compiacersi di rimettercelo davanti agli occhi ogni giorno nella S. Messa. ” Signore, dissegli quest’umile servo, non son degno che veniate nella casa mia, ma dite una sola parola, ed il mio servo sarà guarito„ Ah! se il buon Dio vedesse in noi la medesima umiltà, la medesima cognizione del nostro nulla, con qual piacere ed abbondanza di grazie non verrebbe nel nostro cuore? Quanta forza e coraggio avremmo per vincere il nemico della nostra salvezza! Vogliamo, F . M., ottenere di mutar vita, cioè abbandonare il peccato e tornare a Dio? Ascoltiamo alcune Messe con questa intenzione, e stiamo sicuri, se le ascoltiamo devotamente, che Dio ci aiuterà ad uscire dal peccato: eccone un esempio. Narrasi nella storia che una giovanetta per più anni aveva condotto una vita miserabile con un giovane. Un giorno si sentì presa da paura, e riflettendo allo stato cui poteva ridursi la povera anima sua, se continuava quella vita. Subito, dopo la santa Messa, andò da un sacerdote a pregarlo d’aiutarla a uscire dal peccato. Il sacerdote, che ne conosceva la condotta, le domandò che cosa l’avesse decisa a questo cambiamento. “Padre mio, gli disse, durante la santa Messa, che la madre mia prima di morire mi fece promettere d’ascoltare ogni sabato, bo concepito un sì grande orrore del mio stato, che non posso più reggervi. „ — “O mio Dio! esclamò il santo sacerdote, ecco un’anima salvata dal valore della santa Messa!„ Ah! F. M., quante anime uscirebbero dal peccato, se avessero la fortuna di ascoltare la santa Messa con buone disposizioni! Non meravigliamoci dunque se il demonio ci mette tanti pensieri estranei. Ah! egli prevede, assai meglio di voi, la perdita che fate assistendovi con sì poco rispetto e divozione. F. M., da quanti pericoli e morti improvvise ci preserva la santa Messa! Quante persone, per una santa Messa ascoltata, salverà Iddio dalla sventura! S. Antonino ce ne racconta un bell’esempio. Ci dice che un giorno di festa due giovani andarono per una partita di caccia: l’uno aveva ascoltato la santa Messa, l’altro no. Mentre erano per via, il cielo si rannuvolò: udivansi tuoni spaventosi, e vedevansi lampi sì frequenti che il cielo sembrava in fiamme. Ma ciò che li atterriva ancor di più, era l’udire tra le folgori, di tratto in tratto, una voce che gridava: “Colpite quei disgraziati, colpiteli!„ Quietatasi un po’ la burrasca, incominciarono a rassicurarsi. Proseguendo il loro cammino, ad un tratto scoppiò un fulmine che incenerì quegli che non aveva ascoltato la. santa Messa. L’altro fu preso da sì gran spavento che non sapeva se dovesse proseguir oltre. In questa paura, udì ancora la voce gridare : “Colpite, colpite l’infelice!„ il che raddoppiava il suo spavento, avendo visto ai suoi piedi il compagno fulminato. Mentre credevasi perduto, udì un’altra voce che disse:”No, non colpitelo; egli ha ascoltato stamattina la Messa.„ La santa Messa ascoltata la mattina prima di partire lo preservò da una morte sì spaventosa. Vedete, F. M., come Dio ci concede grazie e ci preserva dalle sventure, quando abbiam la fortuna d’ascoltare la Messa come si deve? Ahimè! quali castighi debbono aspettarsi coloro che non hanno difficoltà di perderla in domenica. Anzitutto, il castigo visibile, è che essi periscono quasi tutti malamente: i loro beni vanno in deperimento, la fede abbandona i loro cuori, e sono doppiamente disgraziati. Mio Dio! quanto l’uomo è cieco sotto tutti i rapporti, per l’anima e pel corpo!

III. — La maggior parte delle persone del mondo ascoltano la santa Messa alla maniera dei farisei, del cattivo ladrone e di Giuda. Ho detto che la santa Messa è il ricordo della morte di Gesù Cristo sul Calvario: perciò Gesù Cristo vuole che, ogni volta che celebriamo il santo sacrificio della Messa, lo facciamo in sua memoria. Tuttavia dobbiamo dire gemendo che, mentre rinnoviamo il ricordo dei patimenti di Gesù Cristo, molti che v’assistono rinnovano il delitto dei Giudei e dei carnefici che l’attaccarono alla croce. Ma per meglio farvi conoscere se avete la sventura d’esser nel numero di coloro che così insultano i nostri santi misteri, vi farò notare, F. M., che fra coloro che furon testimoni della morte di Gesù Cristo sulla croce, ve ne erano di tre sorta: gli uni non facevano che passare davanti alla croce, senza fermarsi e senza sentire un vero dolore, più insensibili delle creature inanimate. Gli altri si avvicinavano al luogo del supplizio, consideravano tutte le circostanze della morte di Gesù Cristo; ma non era che per beffarsene, farne oggetto di risa ed oltraggiarlo con le bestemmie più orribili. Infine, un piccolo numero versava lagrime amare vedendo spiegare tante crudeltà sul corpo del loro Dio e loro Salvatore. Vedete ora a qual numero appartenete. Non parlerò di coloro che corrono ad udire una Messa in furia in una parrocchia dove hanno qualche affare, né di coloro che vi vengono a metà; che, in tal tempo, vanno a trovare un amico per bere un bicchierino in compagnia: lasciamoli da parte, perché costoro vivono come se fossero sicuri di non avere un’anima da salvare: essi hanno perduto la fede, e con ciò tutto è perduto. Ma parliamo solo di quelli che vi vengono ordinariamente. Ebbene, molti non vi vengono che per vedere ed essere veduti, con un contegno dissipato, come andrebbero ad un mercato, o in piazza, e, permettete la frase, ad un ballo. Vi stanno senza modestia: a mala pena mettono le ginocchia a terra durante l’Elevazione o la Comunione. Pregate voi, F. M., in tempo di Messa?…. No?! Ma, allora vi manca la fede! Ditemi, quando vi recate dai vostri superiori per domandare una grazia, non è vero che ne siete preoccupati durante tutta la strada; entrate con modestia, fate ad essi un profondo saluto, state scoperti davanti a loro, non pensate neppure a sedervi; tenete gli occhi bassi, e riflettete soltanto al modo di esprimervi bene e colle parole più adatte? Se sbagliate in qualche cosa, vi scusate subito della vostra poca educazione Se essi vi ricevono con bontà, sentite la gioia nascere nel vostro cuore. Ebbene! ditemi, F. M., non deve ciò confondervi, vedendo che usate tante precauzioni per un bene temporale? mentre venite alla chiesa con noncuranza, quasi con disprezzo, davanti ad un Dio morto per salvarci, e che ogni giorno versa il suo sangue per ottenervi grazia presso il Padre suo. Quale affronto, F. M., non è per Gesù Cristo vedersi insultato da vili creature? Ahimè! quanti durante la santa Messa commettono più peccati che non in tutta la settimana. Alcuni non pensano neppure al buon Dio, altri parlano, mentre il loro cuore ed il loro spirito si perdono, o nell’orgoglio, o nel desiderio di piacere, o nell’impurità. Quanti altri lasciano entrare ed uscire tutti i pensieri e desideri che il demonio loro manda. Quanti non hanno difficoltà di guardare, di volger la testa, di ridere e chiacchierare, di dormire come se fossero in letto, e forse ancor meglio. Ahimè! quanti Cristiani escono di chiesa forse con trenta o cinquanta peccati mortali di più che quando vi entrarono! Ma, mi direte, è meglio allora non assistervi. — Sapete che dovete fare ?… Assistervi, ed assistervi come si conviene, facendo tre sacrifici a Dio, cioè: quello del vostro corpo, del vostro spirito e del vostro cuore. Dico : del vostro corpo; che deve onorare Gesù Cristo con religiosa modestia; quello del vostro spirito, che ascoltando la santa Messa, deve penetrarsi del vostro nulla e della vostra indegnità, evitando ogni sorta di dissipazioni, allontanando da sé le distrazioni; quello del vostro cuore, che è l’offerta a Lui più accetta, poiché è il vostro cuore che vi domanda con tanta insistenza: “Figlio mio, vi dice, dammi il tuo cuore. Concludo, F. M., dicendo quanto siamo sfortunati quando ascoltiamo male la santa Messa, poiché troviamo la nostra riprovazione là dove gli altri trovano la loro salvezza. Voglia il cielo che assistiamo alla S. Messa ogni qualvolta potremo, poiché le grazie vi si attingono cosi abbondanti; e che vi portiamo sempre le migliori disposizioni. Così attireremo sopra di noi ogni sorta di benedizioni per questo mondo e per l’altro!… Ecco quanto vi auguro …

LO SCUDO DELLA FEDE (159)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (28)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA – 1861

SECONDA PARTE.

Genuino prospetto del Cattolicismo, e del Pretestantismo, delineato dai Protestanti.

PRATTENIMENTO III

Prospetto del Protestantesimo

PUNTO I.

Definizione e origine della Riforma protestante. Qualità dei suoi fondatori.

37. Prot. « Una rivolta, la quale, secondo che vediamo, dobbiamo chiamare – Riforma – separò regni potenti dalla Chiesa Cattolica. Di fatti, se ben si riguardano da giusti estimatori delle cose e le conseguenze e la sicurtà della Chiesa germanica, è forza conchiudere essere stata la Riforma un infausto parto d’ingiusta e demagogica rivoluzione. » (Enrico Steffens, Caricatura del Santuario, ossia, delle cose più sacre, T. 2, p. 298). Ascoltami:

« L’appellazione di Protestante fu un nome dato a coloro che si dichiararono o protestarono contro la Chiesa Cattolica, ossia universale. Una tal mania di protestare trasse origine in Germania l’anno 1547 da un Frate, il cui nome era Martino Lutero, appartenente ad un Convento di Frati Agostiniani, nell’Elettorato di Sassonia. A quest’epoca stessa il Papa aveva ordinato che si annunziassero l’indulgenze; ed avendo Sua Santità affidato quest’opera all’Ordine de’ Domenicani, e non a quello a cui Lutero apparteneva, ed acui affidata l’aveva sempre per lo innanzi: piccato l’eretico di questa preferenza, deliberò di farne vendetta opponendosi al Papa. Egli comunicò il suo progetto all’elettorato di Sassonia suo sovrano, ed in lui trovò il suo protettore, perché questi, secondo tutte le apparenze, aveva al saccheggiamento forte inclinazione, la quale alcuni anni dopo s’impadronì del nostro tiranno inglese (Enrico VIII), dei suoi cortigiani, del suo Parlamento.! » (Cobbet, Op. cit. Lett. 7, §99).

38. Apost. Ho già capito! Voi vi accingete ad infamare anche i grandi Fondatori della Riforma, dichiarandoli gente perversa!!! Ma come oserete degradare in tal modo quegli uomini sommi, proclamati dai vostri Missionari quali uomini santi, quali Apostoli mandati da Dio a riformare la sua Chiesa? Rispondete.

Prot. « Il mondo per avventura non ha mai in alcuna età veduto uno stuolo di miscredenti scellerati cotanto, quanto il furono Lutero, Zuinglio, Calvino, Bezza e il resto degli illustri Riformatori della Cattolica Chiesa…. Ognun di essi era notoriamente famoso pei vizi più scandalosi, anche a seconda dell’ampia confessione che ne hanno fatta i loro stessi seguaci… Eglino non si accordavano in nulla, se non se nella dottrina – che le buone opere sono inutili; e per verità la loro condotta di vita comprovava la sincerità del loro insegnamento; poiché non vi aveva un solo fra essi, le cui azioni non meritassero una forca » (Il medes., ivi, § 200).

« Tutti gli autori di un sentimento si accordano a rappresentare Lutero come un uomo il più scapestrato e facinoroso. Nella possibilità, che si fosse sentito eccitare al cangiamento di sua religione dalla sua coscienza, la sua coscienza però senza fallo non ha potuto giammai suggerirgli le abbominevoli azioni, di cui egli è colpevole, anche giusta le sue proprie confessioni. » (Il medes. ivi, Lett. 3, § 100).

« Lutero dice nelle opere sue, che dagli argomenti del diavolo (il quale, dic’egli, mangiava, beveva e dormiva seco) fu indotto ad apostatare e farsi patriarca del Protestantismo. Egli è quel Lutero, che dal suo discepolo Melantone viene appellato uomo brutale, vuoto di pietà e di umanità, più Giudeo che Cristiano. (Ivi, Lett, 8, § 251). » Senti qual sorta di orazione faceva a Dio questo preteso tuo Santo.

« O. Dio! per vostra bontà provvedeteci di abiti, di cappotti e di mantelli, di vitelli ben grassi, di capretti, di buoi, di montoni e di vitelle, di molte femmine e di pochi figli. Ben bevere, ben mangiare è il vero mezzo di non ammalarsi.» (Questa strana orazione, non è negata neppure dal furioso Bost nel suo Appel. né vi è chi ne dubiti). Una sera che la sua druda gli faceva osservare il cielo stellato, egli le disse:

« Oh la bella luce! Ella però non brilla per noi…. E perché, ripigliò Caterina, egli è forse che noi siamo spossessati del regno de’ cieli? — Può essere, rispose egli, in punizione dell’aver noi abbandonato il nostro stato, e sospirò. — Dunque converrà ritornarci? disse Caterina. — Ma Lutero rispose: È troppo tardi, il carro è troppo incagliato! » (Vedi Audin, Histoîr de vie de Luther, p. 278). Ecco, dunque, che il Patriarca della Riforma si dichiara egli stesso dannato, e dispera della propria salute come Caino.

39. « Di Zuinglio dicono, che egli ripurgò la diletta Sposa di Cristo, la Chiesa,… non con giusta e legittima predicazione della parola, ma con ispirito frenetico e tumultuante infuriò per ogni rispetto temerariamente, strinse violentemente le armi, e la spada vietata da Cristo, affin di costringere i suoi contraddittori alla sua sentenza. » (Gualtiero, Apologia pro Zuinglio, et operibus ejus, Tiguri 1581, fol, 18).

« Lutero asserisce essere stato Zuinglio miserabilmente ucciso dai papisti in battaglia, e perciò esser morto ne’ suoi peccati, e che al tutto disperava della salvezza dell’anima di Zuinglio. » (Hospiù, Mist. Sacram. par. 2, ad ann. 1544, fol. 187).

40. « Calvino è la più sinistra figura che ci offra il quadro della pretesa Riforma, vero mostro di corruzione e d’ipocrisia che cammina nell’ombra. Tutti i suoi passi son calcolati, e si direbbe che i suoi occhi, sfavillanti di una fiamma impura, slanciano sguardi mortali come quelli dal basilisco. » (Il traduttore (protestante) del Mosemio, T. 4, p. 91, in Nota).

« Calvino terminando la vita nella disperazione morì di vergognosissima e turpissima malattia, quale Dio minacciò ai ribelli e maledetti, pria tormentato e consunto. Ciò che io oso attestare con ogni verità, io che di presenza con questi miei occhi vidi il funesto e tragico fine di lui. » (Joan. Harenius, discepolo di Calvino, in Libello de vita Calvini).

« Dio colla sua potente mano di tal modo percosse questo eretico, che disperata la salute, invocati i demoni, giurando, esecrando e bestemmiando miserabilissimamente esalò l’anima maligna. » (Schlusselburg, De Theologia Calvini, 1594, lib. 2, fol. 72).

44. « Carlostadio è stato abbandonato al reprobo senso;… penso che non sia stato quell’uomo infelice posseduto da un solo diavolo. Dio abbia misericordia del peccato di lui, col quale pecca a morte. » (Lutero, în Locis comm. Class. V, cap. 15, fol. 17).

« Non si faccian le maraviglie, se io lo chiamo un diavolo; perocchè non mi prendo verun pensiero di Carlostadio, non guardo lui, ma a quello da cui è ossesso! » (Lutero, Mensal.  T. 3, fol. 61)

42. « Bezza cantò al mondo i suoi nefandi amori, gl’illeciti accoppiamenti, le fornicazioni, i sozzi adulterii con sacrilega poesia, non contento di ravvoltarsi quale immondo animale nel loto di laidissime libidini egli solo, se non contaminava altresì le orecchie della studiosa gioventù colla sua sozzura. » (Tilman Hesusius, in Lib. Verde et sanæ Confessionis). Li altri, che per brevità tralascio, erano modellati sullo stesso tipo. Da ciò puoi facilmente conoscere se eglino erano santi e Apostoli mandati da Dio a riformar la sua Chiesa!… Ma quanto a questo ultimo punto, ascolta oltreciò quello che insegna lo stesso patriarca della Riforma, Lutero, allorchè ad essi dirige la sua parola.

45. » Volete fondare una Chiesa? Or bene, dite: chi vi manda? Chi vi diede missione? Siccome rendete testimonianza di voi medesimi, così non dobbiamo credervi a bella prima, secondo il consiglio di S. Giovanni; ma bensì provarvi. Iddio non ha mandato alcuno nel mondo che non sia stato, chiamato dall’uomo, od annunziato con segni, neppure il suo Figlio. I Profeti traevano il loro diritto. dalla legge e: dall’ ordine profetico, come noi dagli -nomini. Non vi riconosco, se altro non avete a porre innanzi che una rivelazione affatto nuda. Iddio non avrebbe voluto che Samuele parlasse altrimenti ‘che in virtù dell’autorità di Eli. Allorchè si viene per cangiare la legge, occorrono miracoli: ove sono i vostri miracoli? Ciò che i Giudei dicevano al Signore, noi ve lo ridiciamo: Maestro, noi vogliamo un segno. Tanto per le vostre funzioni di Evangelisti. » (Lutero, Orazione recitata in Wittemberga contro Carlostadio – Vedi Audin, Op. cit. trad, ital. Vol. I, p.193).

« Fratelli,… non parlate di rivelazioni che autorizzino la vostra ribellione ! Ove sono i miracoli che l’attestino? » (Il medes., alle petizioni degli Anabattisti) Queste opposizioni e domande sono giustissime, e però possono e debbono farsi a tutti i Riformatori; compreso Lutero. Ora ritornando al primo punto, aggiungo a quanto ti ho detto, che …

» La Riforma, com’ella vien chiamata, fu ingenerata da brutale incontinenza, fu alimentata da ipocrisia e perfidia, e fu fomentata e favorita da ruberie, da devastazioni e fiumi di sangue. » (Cobbet, Op. cit. Lett, 1, § 4.

Ascolta adesso il resto. [Continua...]

IL SACRO CUORE (43)

IL SACRO CUORE (43)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE SECONDA.

CAPITOLO IV

RIASSUNTO E CONCLUSIONE

I

CONFRONTO DI QUESTA DIVOZIONE CON ALTRE

I misteri particolari  e il fondo dei misteri; gli atti e il  principio dell’azione.

Tutte le divozioni, che hanno per oggetto i misteri di Gesù si rivolgono alla Persona adorabile di Gesù, ma la riguardano o in uno stato, o in un fatto della sua vita. A. Natale onoriamo Gesù Nascente; nella Passione: Gesù penante; a Pasqua Gesù resuscitato etc. La divozione del sacro Cuore non si fissa a nessun mistero di Gesù, né a uno stato speciale della sua santa vita. Ma tutti, però, sono dominio di questa divozione in ciò che hanno di più intimo, perché essa vi studia il suo amore; i suoi sentimenti e le sue virtù. Essa va dunque in fondo ad ogni mistero per cercarne l’anima, per approfondirne lo Spirito ed averne, così, l’ultima spiegazione. Così, diceva il postulatore del 1765, con la festa del sacro Cuore (e si può dire altrettanto della divozione), « non ci si rappresentano solamente delle grazie Speciali, ma ci si dischiude internamente tutta la grande Sorgente di tutte le grazie. Non vi si ricorda un mistero particolare, ma vi si propone la meditazione e l’adorazione di tutti i misteri. Tutto quel che vi ha di misteri e di grazie nell’intimo di Gesù è nei segreti del suo cuore; tutti i beni che son venuti agli uomini da questo amore dell’amantissimo Redentore; tutto quello che la interna passione di Cristo… offre ai nostri sguardi e al nostro amore, tutto questo è rappresentato dalla festa del sacro Cuore, tutto vi è ricordato, tutto onorato » (Replicatio, n. 20: in Nilles, L. I, parte I, c. III, § 3, t. I, P. 146). – Da ciò si può comprendere quello che ci dicono i predicatori della convenienza liturgica della festa e il posto che tiene nel ciclo annuale. Questa festa sprigiona come l’essenza, il succo di tutti i misteri speciali di cui la liturgia ci ha ravvivata la memoria, e si capisce quello che essi ci dicono dell’eccellenza di questa devozione, sia che se ne riguardi o l’oggetto, o la fine, o l’atto proprio. – Senza seguirli in questi sviluppi del loro pensiero ci accontenteremo d’indicare come la divozione al sacro Cuore, sia un riassunto chiaro e profondo, una espressione viva e parlante, la formula la meglio indovinata dell’essenza stessa del Cristianesimo,

II.

IL SACRO CUORE E L’ ESSENZA DEL CRISTIANESIMO

Il Cristianesimo, Religione di Gesù; il Cristianesimo religione d’amore. Formula eccellente della divozione al sacro Cuore.

Che cosa è, infatti, il Cristianesimo nella sua intima sostanza? È insieme la Religione di Gesù, la Religione dell’amore, poiché Gesù e l’amore non formano che uno in una fusione ammirabile.

La Religione di Gesù. Riguardiamo le cose in Dio. Egli non ci conosce, per così dire, e non ci ama che in Gesù, nel solo mediatore fra Lui e noi; Egli non gradisce i nostri Omaggi, che presentati da Gesù; non vi è altro commercio fra Lui e noi, che per mezzo di Gesù, e, può dirsi, che non esistiamo per Lui, nell’ordine soprannaturale, che in Gesù, e per Gesù. Riguardando, ora, da parte nostra, noi non siamo salvi che per Gesù; non conosciamo il nostro Padre celeste che per mezzo di Gesù; non possiamo amarlo che per Gesù; non viviamo della vita soprannaturale che in quella misura che diveniamo uno con Gesù. Egli è veramente il tutto della nostra Religione, il tutto della vita cristiana. Ebbene! Nulla ci dà Gesù, ce lo fa conoscere ed amare intimamente in se stesso, ci mette in rapporto stretto e personale con Lui, ci fa vivere di Lui e in Lui, come la divozione al sacro Cuore. Non è essa forse, fra Lui e noi, quella fusione dei cuori che ne fa uno solo di due? Con il sacro Cuore abbiamo tutto Gesù. – Come è dunque possibile poter trovare qualcosa di più espressivo, di più efficace? San Giovanni Crisostomo riassumeva san Paolo, dicendo: « Il cuore di Paolo è il cuore di Cristo ». La divozione al sacro Cuore fa del cuore cristiano il cuore di Gesù.

La religione dell’amore. Si è definita la Religione come l’incontro di due amori. Come religione, non è precisamente questo. È affare di dovere, di riconoscimento dei rapporti essenziali tra Dio e noi. Ma questi rapporti, per non riguardare che la natura delle cose, non sono rapporti di amicizia; sono piuttosto apporti di padrone e di Servo, di Creatore e di creatura. Perché siano possibili rapporti di amicizia, fra Lui e noi, occorre una volontà speciale di Dio, che c’innalzi all’ordine soprannaturale, una effusione dello spirito di adozione, che ci permetta di dire « Padre mio » a quegli che, adottandoci, vuol ben chiamarci suoi figli. Ma, se la Religione, come tale, non può chiamarsi « l’incontro di due amori », il Cristianesimo lo può, ed è questa una delle idee più belle, più vere che se ne possa dare. Da parte di Dio, è un grande sforzo d’amore per vincere il nostro amore. Lo si è definito una grande misericordia, perché viene in soccorso di una grande miseria. Ma questa. Misericordia stessa, da dove viene? Dall’amore. La prima come l’ultima parola delle vie di Dio su di noi, è l’amore. A che cosa dobbiamo Gesù? All’amore: Sic Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret. A che cosa dobbiamo la passione e la redenzione? All’amore, Dilexit me, et tradidit semetipsum pro me. Tutto il mistero di Gesù si presenta come un supremo sforzo d’amore: Cum dilexisset suos qui erant in mundo, in finem dilexit eos. E la Chiesa tutta, coi Suoi sacramenti, e la sua magnifica organizzazione, per propagare nel mondo la grazia è la verità, non è altra cosa che una invenzione d’amore. Dio ha voluto che la prima condizione del governo ecclesiastico sia l’amore, l’amore per Iddio traboccante in amore sugli uomini. Amas me? Pasce agnos meos. Egli ha voluto che la prima legge imposta ai fedeli fosse la legge dell’amore. È il gran comandamento; se si osserva questo tutto andrà bene. Dilige, et quod vis fac (Si dice generalmente: ama et fac quod vis. La formula del testo è la formula stessa di Sant’Agostino. In epist. Joannis ad Parthos, tr. VII, c. IV, n. 8, Migne, t., XXXV, col. 2033. Indicazione dovuta alla erudita cortesia dell’abate Urbain).E pure dalla parte dei fedeli tutto converge all’amore. La legge, lo abbiamo veduto, si riassume nell’amore; la fede cristiana, al dire di San Giovanni, si caratterizza; come la fede, nell’amore: Et nos credidimus caritati. Tutta la vita cristiana consiste nel vivere in Gesù per l’amore; e la perfezione cristiana si definisce come l’unione dell’amore e la trasformazione amorosa in Gesù. La Religione cristiana, dunque, si riassume tutta nell’amore. Ma ciò significa che si riassume tutta nel sacro Cuore poiché la divozione al sacro Cuore è interamente divozione all’amore, divozione d’amore.Infine il Cristianesimo non è già Gesù, o l’amore, come fossero due cose distinte. È l’amore di Gesù per noi, è il nostro amore per Gesù; è l’amore di Dio per noi in Gesù, e il nostro amore per Iddio in Gesù. Non è forse un ridire con ciò in altri termini che il Cristianesimo è tutto intiero nel sacro Cuore?Senza dubbio, non è questa una formula necessaria, ma chi può negarle di essere una formula ammirabile, concisa, luminosa e singolarmente espressiva, siccome quella che parla e allo spirito, all’anima e agli occhi? Mons. Pie lo diceva sino dal 1857: « il Cristianesimo non saprebbe identificarsi così assolutamente con nessun altra devozione, come con quella del Sacro Cuore ». E Mons. Dubois lo diceva non è molto, nella sua bella pastorale (Lettera Sinodale, Dicembre 1857, Oevres, t. III, pag. 42) sul culto del sacro Cuore. « Tutta la Religione è qui, perché è la Religione dell’amore divino. La nostra fede crede a questo amore, principio di tutti i nostri misteri; la nostra morale vi risponde, ciò che è il compimento della legge » Questo culto è dunque con certezza, secondo la parola di Mons. Dubois, « il riassunto e come l’essenza medesima del Cristianesimo » (Lettera Pastorale, riprodotta nella Revue du Clergè français, 1903, t. XXXIV, pag. 646 e segg.). Non vi ha luogo di meravigliarci, se è così, delle magnifiche promesse di Nostro Signore alla beata Margherita Maria in favore dei devoti del Sacro Cuore. Che cosa non possiamo aspettarci da un tale amore? – Ciò può aiutarci a comprendere la parola singolarmente ardita della beata Margherita Maria. Che il Sacro Cuore, cioè, è come un nuovo mediatore, nuovo mediatore si intende come manifestazione nuova dell’eterno ed unico Mediatore, che fa come un nuovo dono di se stesso, dandoci il suo cuore che ci discopre: mediatore per mezzo del quale andiamo a Gesù, e troviamo Gesù, come per Gesù andiamo al Padre suo, e in Gesù troviamo Dio. Ciò può aiutarci anche a comprendere come Leone XIII abbia designato il sacro Cuore come il labarum dei nuovi tempi. Non che la croce debba sparire ed eclissarsi davanti al cuore, ma il cuore ci fa comprendere e conoscere meglio la croce; ci fa penetrare fino in fondo del mistero della redenzione, ne fa discendere, fino a noi le grazie della salute. Il regno del sacro Cuore nelle anime assicura il regno d’Iddio sulla terra (Vedi prima parte, c: II, §7. p. 43-46).

FESTA DEL CORPUS DOMINI (2021)

FESTA DEL CORPUS DOMINI (2021)

Doppio di I cl. con Ottava privilegiata di 2° ordine.

Paramenti bianchi.

Dopo il dogma della SS. Trinità, lo Spirito Santo ci rammenta quello dell’Incarnazione di Gesù, facendoci celebrare con la Chiesa il Sacramento per eccellenza che, riepilogando tutta la vita del Salvatore, dà a Dio gloria infinita e applica alle anime in tutti i momenti i frutti della Redenzione (Or.) ». Gesù ci ha salvati sulla Croce e l’Eucarestia, istituita alla vigilia della passione di Cristo, ne è il perpetuo ricordo (Or.). L’altare è il prolungamento del Calvario, la Messa annuncia « la morte del Signore » (Ep.). Infatti Gesù vi si trova allo stato di vittima; poiché le parole della doppia consacrazione ci mostrano che il pane si è cambiato in corpo di Cristo, e il vino in sangue di Cristo; di modo che per ragione di questa.doppia consacrazione, che costituisce il sacrificio della Messa, le specie del pane hanno una ragione speciale a chiamarsi « Corpo di Cristo», benché contengano Cristo tutto intero, poiché Egli non può morire, e le specie del vino una ragione speciale a chiamarsi « sangue di Cristo », per quanto anche esse contengano Cristo tutt’intero. E così il Salvatore stesso, che è il sacerdote principale della Messa, offre con sacrificio incruento, nel medesimo tempo che i suoi i sacerdoti, il suo Corpo e il suo Sangue che realmente furono separati sulla croce, e che sull’altare lo sono in maniera rappresentativa o sacramentale. – D’altra parte si vede che l’Eucarestia fu istituita sotto forma di cibo (All.) perché possiamo unirci alla vittima del Calvario. L’Ostia santa diviene così il « frumento che nutre le nostre anime » (Intr.). E a quel modo che il Cristo, come Figlio di Dio, riceve la vita eterna dal Padre, così i Cristiani partecipano a questa vita eterna (Vang.) unendosi a Gesù mediante il Sacramento che è il Simbolo dell’unità (Secr.). Così, questo possesso anticipato della vita divina sulla terra mediante l’Eucarestia, è pegno e principio di quella di cui gioiremo pienamente in cielo (Postcom.). « Il medesimo pane degli angeli che noi mangiamo ora sotto le sacre specie, dice il Concilio di Trento, ci alimenterà in cielo senza veli », poiché saremo faccia a faccia nel cielo, Colui che contempliamo ora con gli occhi della fede sotto le specie eucaristiche. – Consideriamo la Messa come centro di tutto il culto eucaristico della Chiesa; consideriamo nella Comunione il mezzo stabilito da Gesù per farci partecipare più pienamente a questo divino sacrifizio; così la nostra devozione verso il Corpo e il Sangue del Salvatore ci otterrà efficacemente i frutti della sua redenzione. Per comprendere il significato della Processione che segue la Messa, richiamiamo alla mente come gli Israeliti onoravano l’Arca d’Alleanza che simboleggiava la presenza di Dio in mezzo a loro.Quando essi eseguivano le loro marce trionfali, l’Arca santa avanzava portata dai leviti, in mezzo a una nuvola d’incenso, al suono degli strumenti di musica, di canti, e di acclamazioni di una folla entusiasta. Noi Cristiani abbiamo un tesoro molto più prezioso, perché nell’Eucaristia possediamo Dio stesso. Siamo dunque santamente fieri di fargli scorta ed esaltiamo, per quanto è possibile, il suo trionfo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXX: 17.
Cibávit eos ex ádipe fruménti, allelúia: et de petra, melle saturávit eos, allelúia, allelúia, allelúia.
Ps 80:2 [Li ha nutriti col fiore del frumento, allelúia: e li ha saziati col miele scaturito dalla roccia, allelúia, allelúia, allelúia.]

Exsultáte Deo, adiutóri nostro: iubiláte Deo Iacob.

[Esultate in Dio nostro aiuto: rallegratevi nel Dio di Giacobbe.]


Cibávit eos ex ádipe fruménti, allelúia: et de petra, melle saturávit eos, allelúia, allelúia, alleluja

[Li ha nutriti col fiore del frumento, allelúia: e li ha saziati col miele scaturito dalla roccia, allelúia, allelúia, allelúia.

Oratio

Orémus.
Deus, qui nobis sub Sacraménto mirábili passiónis tuæ memóriam reliquísti: tríbue, quǽsumus, ita nos Córporis et Sánguinis tui sacra mystéria venerári; ut redemptiónis tuæ fructum in nobis iúgiter sentiámus:

[O Dio, che nell’ammirabile Sacramento ci lasciasti la memoria della tua Passione: concedici, Te ne preghiamo, di venerare i sacri misteri del tuo Corpo e del tuo Sangue cosí da sperimentare sempre in noi il frutto della tua redenzione:]

Lectio

Léctio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor XI: 23-29
Fratres: Ego enim accépi a Dómino quod et trádidi vobis, quóniam Dóminus Iesus, in qua nocte tradebátur, accépit panem, et grátias agens fregit, et dixit: Accípite, et manducáte: hoc est corpus meum, quod pro vobis tradétur: hoc fácite in meam commemoratiónem.
Simíliter ei cálicem, postquam cenávit, dicens: Hic calix novum Testaméntum est in meo sánguine. Hoc fácite, quotiescúmque bibétis, in meam commemoratiónem. Quotiescúmque enim manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat. Itaque quicúmque manducáverit panem hunc vel bíberit cálicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini. Probet autem seípsum homo: et sic de pane illo edat et de calice bibat. Qui enim mánducat et bibit indígne, iudícium sibi mánducat et bibit: non diiúdicans corpus Dómini.

(Fratelli: Io lo appreso appunto dal Signore, ciò che ho trasmesso anche a voi: che il Signore Gesù la notte che fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso le grazie, lo spezzò, e disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che sarà offerto per voi: fate questo in memoria di me. Parimenti, dopo aver cenato, prese il Calice, e disse: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue. Tutte le volte che Lo berrete, fate questo in memoria di me. Poiché ogni volta che mangerete questo pane, e berrete questo calice, annunzierete la morte di Signore fino a che egli venga. Perciò chiunque mangerà questo pane, o berrà il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso, e poi mangi di questo pane e beva di questo calice. Poiché chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna, non distinguendo il corpo del Signore.)

Né dagli uomini, né dagli altri Apostoli, dice s. Paolo, io so ciò che vi ho insegnato sull’Eucaristia; ma Gesù Cristo stesso me l’ha rivelato. Non lascia la circostanza del tempo; la notte stessa, dice egli, in cui il Salvatore fu tradito da uno dei suoi Apostoli, dato in mano de’ suoi nemici e trattato con la peggior crudeltà, istituì questo divin sacramento, pegno il più prezioso del suo amore, ed attestato il più splendido della sua tenerezza. Colà propriamente fu fatto il testamento di questo amabile Padre, col quale dà tutto se stesso ai suoi figli, poche ore davanti la sua morte. S. Paolo entra quindi in molte particolarità di quanto avvenne in quella sì meravigliosa istituzione. È da osservare che l’Apostolo e tutti gli Evangelisti hanno voluto raccontare fin le minime circostanze di tale istituzione. Il Salvatore prese il pane. Gesù Cristo non poteva prendere che pane senza lievito, il solo di cui era permesso servirsi nel fare la pasqua: onde con ragione nella Chiesa romana si consacra con pane azzimo. Egli ringrazia il Padre suo della potestà che gli ha comunicato; i quali atti di ringraziamento eran sempre il preludio quand’era per operare le meraviglie più straordinarie. Quindi avendo spezzato il pane che teneva in mano, disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, che sarà dato per voi. Non disse: prendete e mangiate questo pane; ma prendete e mangiate, questo è il mio corpo; la sostanza che Io vi offro sotto queste specie, è il corpo mio, non è più pane. Poiché il Verbo eterno, la stessa verità, dice: Questo è il mio corpo, siamone convinti, dice s. Giovanni Grisostomo, crediamolo senza esitanza, riguardiamolo con gli occhi di una fede viva. Questo è il mio corpo: tale è la virtù e la forza delle parole della consacrazione, di produrre, come causa efficiente, ciò che esse esprimono. Perché tali proposizioni si trovino vere, bisogna solamente che la cosa che esse indicano esista dopo che son pronunziate. Ciò che Gesù Cristo prese in mano, non era che pane; ma appena Egli ebbe pronunziate le parole: Questo è il mio corpo, tutta la sostanza del pane fu annichilata, ed in ciò che Gesù Cristo diede a mangiare ai suoi Apostoli non restò altra sostanza che il suo proprio corpo, il quale indi a poche ore doveva esser dato in mano ai suoi nemici, saziato d’obbrobri, flagellato e crocifisso. Non vi restavan del pane che le sole apparenze, cioè il colore, la figura, peso, il sapore, che si dicono comunemente specie. Nel Nuovo Testamento non abbiamo nulla di più formale, di più preciso, di meglio indicato che questa realtà del corpo? del sangue di Gesù Cristo nell’adorabile eucaristia. Ogni volta che si parla di questo divino mistero, o nel sesto capitolo di s. Giovanni, o in tutti gli altri Evangelisti, od in s. Paolo, sempre vi siparla di una presenza e di un mangiare realmente e corporalmente ilcorpo ed il sangue di Gesù Cristo. Il senso delle figure non vi entra affatto, anzi n’è escluso positivamente, poiché il corpo che Gesù Cristo dette a mangiare a’ suoi Apostoli era il medesimo, secondo la sua parola, di quello che abbandonava alle ignominie della sua passione e alla croce per riscattarci. Questo è il mio corpo, che sarà dato per voi. Ora senz’essere Manicheo, nessuno ardirebbe dire che il corpo del Figliuolo di Dio non è stato dato alla morte che in figura. Dal tempo degli Apostoli fino ai nostri giorni, tutta la Chiesa ha sempre creduto che il corpo di Gesù Cristo è realmente e veramente offerto in sacrifizio, distribuito ai Fedeli nella Comunione, e realmente presente nell’eucaristia; e noi non potremmo parlare della presenza reale di Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento in modo più chiaro, più formale, più preciso di quel che hanno fatto i Padri dei primi secoli. – Voi mi direte forse, dice s. Ambrogio, che questo pane che vi si dà a mangiare nella comunione è pane usuale e ordinario. È vero che prima delle parole sacramentali questo pane era pane; ma dopo la consacrazione, in luogo del pane si trova il corpo di Gesù Cristo. Ecco che deve essere indubitabile per noi. Ma come si può fare, continua il medesimo Padre, che ciò che è pane sia il corpo di Gesù Cristo? E risponde: Per la consacrazione, la quale non contiene, se non che le proprie parole Gesù. Cristo; poiché, prosegue egli, in tutto ciò che precede la consacrazione, il sacerdote parla in suo nome, quando loda e benedice il Signore, ovvero prega per il re e per il popolo; ma quando arriva alla consacrazione, il sacerdote non parla più in suo nome, ma Gesù Cristo medesimo che parla per la bocca del sacerdote. È dunque, a dir propriamente, la parola di Gesù Cristo medesimo che opera questo sacramento; quella parola, io dico, che dal nulla ha create tutte le cose. Egli ha parlato, continua il medesimo Padre, e tutte le cose sono state fatte; ha comandato, ed ogni cosa è uscita dal nulla. Or, prima della consacrazione, non vi era affatto il corpo di Gesù Cristo, non eravi che pane ordinario: ma dopo la consacrazione, io ve lo ripeto, non vi è più pane, ma è il corpo di Gesù Cristo. Se s. Ambrogio avesse avuto a rispondere ai Protestanti dei nostri giorni, avrebbe egli potuto parlare in modo più preciso e più chiaro? – S. Cirillo, patriarca di Gerusalemme, che viveva nel IV secolo, spiegando al suo popolo le principali verità della religione, gli dice: La dottrina di s. Paolo sul divino mistero dell’Eucaristia deve più che bastare a stabilir la vostra credenza circa un sì augusto sacramento. Questo grande Apostolo ci diceva nella lezione che avete udita, come la notte istessa che questo divin Salvatore doveva esser tradito, prese del pane, e rendute le grazie, lo spezzò e disse: Prendete e mangiate; questo è il mio corpo. E parimente prendendo il calice, disse: Bevete, questo è il mio sangue. Dopo dunque che Gesù Cristo ha detto del pane che aveva preso: Questo è il mio corpo, chi è che oserà di avere il minimo dubbio? E poiché il medesimo Gesù Cristo ha detto così affermativamente: Questo è il mio sangue, chi potrà mai dubitare di questa verità, e dire che non è realmente il suo sangue? E come! dice egli, colui che ha cangiato l’acqua in vino alle nozze di Cana, non meriterà che crediamo che Egli cangi il vino nel suo prezioso sangue? Sotto le specie del pane e del vino, continua il medesimo Padre, il Salvatore ci dà il suo corpo ed il suo sangue; in guisa che noi portiamo veramente Gesù Cristo nel nostro corpo, quando riceviamo il suo: Sic enim efficimur Christiferi, cum corpus ejus et sanguinem in membra nostra recipimus. I pani della proposizione dell’antico Testamento sono aboliti: noi non abbiamo nel Nuovo che questo pane celeste e questo calice di salute, i quali santificano l’anima e il corpo. E perciò, conclude egli, guardatevi bene dall’immaginarvi che ciò che vedete non sia che pane e vino: è realmente il corpo e il sangue di Gesù Cristo: bisogna che la fede corregga l’idea che ve ne danno i sensi. Guardatevi bene dal giudicarne con gli occhi o dal sapore, ma la fede vi renda certa e indubitabile questa verità, essere il corpo e il sangue di Gesù Cristo che voi ricevete. Queste sono le parole di s. Cirillo. Ecco quale è stata la fede dei primi Fedeli sull’eucaristia. Si è sempre creduto nella Chiesa, dal primo giorno della sua nascita fino a noi, che la sostanza del pane e del vino si cangi nella sostanza del corpo e del sangue di Gesù Cristo: ed è ciò che la Chiesa chiama transustanziazione, cioè cangiamento di sostanza; e per la virtù onnipotente delle parole di Gesù Cristo, che il sacerdote pronunzia in nome del Salvatore, si opera questo portento. Se Dio poté cangiare la moglie di Lot in una statua di sale, la verga di Aronne in un serpente, e l’acqua in vino alle nozze di Cana, dicevano i Padri della Chiesa quando istruivano i novelli battezzati per la prima comunione, perché questo medesimo Dio non potrà cangiare il pane ed il vino nel suo sacro corpo e nel suo prezioso sangue nel sacramento dell’eucaristia? – Ogni volta che mangerete di questo pane, dice Gesù Cristo, e berrete di questo calice, annunzierete la morte del Signore, fino a tanto che Egli venga. Il sacrifizio incruento di Gesù Cristo non differendo che nel modo dal sacrifizio cruento del medesimo Salvatore, deve richiamare alla mente di quelli che vi partecipano, la memoria della morte di Gesù Cristo. Con queste parole: Fino a tanto che egli venga, s. Paolo ci mostra che il sacramento dell’eucaristia durerà sino alla fine del mondo. Chiunque, pertanto, mangerà di questo pane o berrà di questo calice indegnamente, dice il s. Apostolo, sarà reo di delitto contro il corpo e il sangue di Gesù Cristo. Questa espressione prova in modo convincente la presenza reale del corpo e del sangue di Gesù Cristo. Qual orrore non dobbiamo avere del peccato che commettono coloro, i quali fanno comunioni sacrileghe! non è un sacrifizio che essi offrono, dice s. Giovan Grisostomo, è un omicidio che commettono; non è un nutrimento che prendono, è un veleno. Colui che mangia questo pane e beve di questo calice indegnamente, mangia e beve la sua condanna, per la colpa di non discernere il corpo del Signore; cioè egli ha in se stesso la prova visibile del suo peccato; e il suo processo, per così dire, è bell’e fatto. Questo divin Salvatore è il suo giudice, questo pane di vita è il decreto della sua morte. Sacrilegio, tradimento, nera ingratitudine, crudele ipocrisia, quanti delitti in una sola Comunione fatta indegnamente! E quali ne sono gli effetti? Spessissimo l’induramento e l’impenitenza finale.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Graduale

Ps CXLIV: 15-16
Oculi ómnium in te sperant, Dómine: et tu das illis escam in témpore opportúno,

[Gli occhi di tutti sperano in Te, o Signore: e Tu concedi loro il cibo a tempo opportuno,]

V. Aperis tu manum tuam: et imples omne animal benedictióne. Allelúia, allelúia.

[Apri la tua mano: e colma ogni essere vivente della tua benedizione,]


Ioannes VI: 56-57
Caro mea vere est cibus, et sanguis meus vere est potus: qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo. Alleluia.

[La mia carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui. Alleluia.]

Sequentia
Thomæ de Aquino.

Lauda, Sion, Salvatórem,
lauda ducem et pastórem
in hymnis et cánticis.

Quantum potes, tantum aude:
quia maior omni laude,
nec laudáre súfficis.

Laudis thema speciális,
panis vivus et vitális
hódie propónitur.

Quem in sacræ mensa cenæ
turbæ fratrum duodénæ
datum non ambígitur.

Sit laus plena, sit sonóra,
sit iucúnda, sit decóra
mentis iubilátio.

Dies enim sollémnis agitur,
in qua mensæ prima recólitur
huius institútio.

In hac mensa novi Regis,
novum Pascha novæ legis
Phase vetus términat.

Vetustátem nóvitas,
umbram fugat véritas,
noctem lux elíminat.

Quod in coena Christus gessit,
faciéndum hoc expréssit
in sui memóriam.

Docti sacris institútis,
panem, vinum in salútis
consecrámus hóstiam.

Dogma datur Christiánis,
quod in carnem transit panis
et vinum in sánguinem.

Quod non capis, quod non vides,
animosa fírmat fides,
præter rerum órdinem.

Sub divérsis speciébus,
signis tantum, et non rebus,
latent res exímiæ.

Caro cibus, sanguis potus:
manet tamen Christus totus
sub utráque spécie.

A suménte non concísus,
non confráctus, non divísus:
ínteger accípitur.

Sumit unus, sumunt mille:
quantum isti, tantum ille:
nec sumptus consúmitur.

Sumunt boni, sumunt mali
sorte tamen inæquáli,
vitæ vel intéritus.

Mors est malis, vita bonis:
vide, paris sumptiónis
quam sit dispar éxitus.

Fracto demum sacraménto,
ne vacílles, sed meménto,
tantum esse sub fragménto,
quantum toto tégitur.

Nulla rei fit scissúra:
signi tantum fit fractúra:
qua nec status nec statúra
signáti minúitur.

Ecce panis Angelórum,
factus cibus viatórum:
vere panis filiórum,
non mitténdus cánibus.

In figúris præsignátur,
cum Isaac immolátur:
agnus paschæ deputátur:
datur manna pátribus.

Bone pastor, panis vere,
Iesu, nostri miserére:
tu nos pasce, nos tuére:
tu nos bona fac vidére
in terra vivéntium.

Tu, qui cuncta scis et vales:
qui nos pascis hic mortáles:
tuos ibi commensáles,
coherédes et sodáles
fac sanctórum cívium.
Amen. Allelúia.

[Loda, o Sion, il Salvatore,  loda il capo e il pastore,  con inni e càntici.
Quanto puoi, tanto inneggia:  ché è superiore a ogni lode,  né basta il lodarlo.
Il pane vivo e vitale  è il tema di lode speciale,  che oggi si propone.
Che nella mensa della sacra cena,  fu distribuito ai dodici fratelli,  è indubbio.
Sia lode piena, sia sonora,  sia giocondo e degno  il giúbilo della mente.
Poiché si celebra il giorno solenne,  in cui in primis fu istituito  questo banchetto.
In questa mensa del nuovo Re,  la nuova Pasqua della nuova legge  estingue l’antica.
Il nuovo rito allontana l’antico,  la verità l’ombra,  la luce elimina la notte.
Ciò che Cristo fece nella cena,  ordinò che venisse fatto  in memoria di sé.
Istruiti dalle sacre leggi,  consacriamo nell’ostia di salvezza  il pane e il vino.
Ai Cristiani è dato il dogma:  che il pane si muta in carne,  e il vino in sangue.
Ciò che non capisci, ciò che non vedi,  lo afferma pronta la fede,  oltre l’ordine naturale.
Sotto specie diverse,  che son solo segni e non sostanze,  si celano realtà sublimi.
La carne è cibo, il sangue bevanda,  ma Cristo è intero  sotto l’una e l’altra specie.
Da chi lo assume, non viene tagliato,  spezzato, diviso:  ma preso integralmente.
Lo assuma uno, lo assumino in mille:  quanto riceve l’uno tanto gli altri:  né una volta ricevuto viene consumato.
Lo assumono i buoni e i cattivi:  ma con diversa sorte  di vita e di morte.
Pei cattivi è morte, pei buoni vita:  oh che diverso esito  ha una stessa assunzione.
Spezzato poi il Sacramento,  non temere, ma ricorda  che tanto è nel frammento  quanto nel tutto.
Non v’è alcuna separazione:  solo un’apparente frattura,  né vengono diminuiti stato  e grandezza del simboleggiato.
Ecco il pane degli Angeli,  fatto cibo dei viandanti:  in vero il pane dei figli  non è da gettare ai cani.
Prefigurato  con l’immolazione di Isacco, col sacrificio dell’Agnello Pasquale,  e con la manna donata ai padri.
Buon pastore, pane vero,  o Gesú, abbi pietà di noi:  Tu ci pasci, ci difendi:  fai a noi vedere il bene  nella terra dei viventi.
Tu che tutto sai e tutto puoi:  che ci pasci, qui, mortali:  fa che siamo tuoi commensali,  coeredi e compagni dei santi del cielo.  Amen. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangéli secúndum S. Ioánnem.
Ioann VI: 56-59
In illo témpore: Dixit Iesus turbis Iudæórum: Caro mea vere est cibus et sanguis meus vere est potus. Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in illo. Sicut misit me vivens Pater, et ego vivo propter Patrem: et qui mandúcat me, et ipse vivet propter me. Hic est panis, qui de coelo descéndit. Non sicut manducavérunt patres vestri manna, et mórtui sunt. Qui manducat hunc panem, vivet in ætérnum.

[Gesù disse un giorno alle turbe della Giudea: « La mia carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, resta .in me, e Io in lui. Come il Padre vivente ha mandato me, e io vivo per il Padre; così chi mangerà da me, vivrà per me. Questo è il pane che discese dal cielo. Non come i vostri padri, che mangiarono la manna e morirono: chi mangia di questo pane, vivrà in eterno » (Giov. VI, 56-59). ]

OMELIA

(G. Bonomelli, Misteri Cristiani, vol. IV, Brescia. Tip. E Libr. Queriniana, 1896)

La presenza reale. — La parola della $S. Scrittura e la parola della tradizione.

Ragionando della Santa Eucaristia, troviamo sul nostro cammino due sorta di avversari, coi quali ci è forza combattere. Gli uni ci muovono incontro a nome della ragione e, atteggiandosi a vindici de’ suoi diritti imprescrittibili, levano alto la voce e fieramente gridano: – Il vostro dogma della presenza reale di Cristo viola tutte le leggi della natura, è il più manifesto insulto che si possa fare alla ragione: noi non possiamo, non dobbiamo ammetterlo. Per credere a questa vostra dottrina dovremmo cessare d’essere uomini, abdicare alla ragione e fare a Dio, che ce l’la data, il massimo degli oltraggi -. Sono questi i razionalisti antichi e moderni. Gli altri ci muovono incontro a nome della stessa fede e armati della Scrittura e della autorità della tradizione, ci dicono: – Voi non intendete né quella, né questa: voi fate dire a Cristo e alla tradizione ciò ch’essi non insegnarono: voi falsate i Libri Santi; voi fraintendete i Padri e la dottrina della Chiesa antica: la dottrina della presenza reale è dottrina vostra, introdotta più tardi, e come tale vuolsi sbandire -. Ai razionalisti antichi e moderni risponderemo nel Ragionamento seguente colle armi della difesa, che sono bastevoli all’uopo, né altre si possono esigere da noi là dove si tratta d’una dottrina, che eccede le forze tutte della natura e della ragione umana. Agli avversarii, che discendono in campo contro di noi colle armi della Santa Scrittura e della veneranda antichità cristiana, risponderemo usando delle stesse armi, e condizioni pari. Voi ci provocate sul campo della interpretazione biblica e patristica: di buon grado accettiamo la lotta e giudici della stessa siano i nostri lettori, e, osiamo dirlo, gli stessi nostri avversari onesti e leali. –  Vero è che codesti avversarii, che protestano di impugnare le sole armi della Scrittura, se bene sì guarda, sono alleati dei razionalisti e spesso senza confessarlo si schierano nelle loro fila e combattono colle loro armi stesse. Ma checché sia di queste occulte alleanze coi razionalisti, noi qui accettiamo il duello sul terreno, sul quale ci sfidano. Essi dicono: – I Libri Santi del Nuovo Testamento intesi a dovere non istabiliscono la dottrina della presenza reale -. Noi diciamo precisamente il contrario: – I Libri Santi del Nuovo Testamento intesi a dovere stabiliscono ad evidenza la dottrina della presenza reale -. Essi dicono: – I Padri della Chiesa antica stanno per noi -. Noi diciamo: – Essi stano contro di voi e per noi -. Alla prova. È questione di semplice interpretazione e non difficile -. Sono tre Evangelisti, Matteo (XXVI, 26-28), Marco, (XIV, 22), Luca (XXXII, 19 e seg.) e l’ Apostolo Paolo (1° Cor., XI, 23 e seg.), i quali tutti, narrando la cena ultima di Nostro Signore, riferiscono colle identiche parole l’istituzione della Santa Eucaristia: « Questo è il mio corpo – Questo è il mio sangue ». Sulla autenticità ed integrità di queste parole per noi Cattolici come pei Protestanti di tutte le comunioni non esiste ombra di dubbio: perfettissimo è il consenso. Ciò posto ci sembra di poter ragionare in questa forma: Se le parole pronunciate da Cristo sul pane, che teneva in mano: « Questo è il mio Corpo » e sul vino, ch’era nel calice: « Questo è il mio sangue » si devono intendere nel loro senso proprio e naturale per modo che il corpo significhi il corpo e il sangue significhi il sangue e non altro, è chiaro che la presenza reale è messa fuori d’ogni dubbio. Or bene: il più volgare buon senso vuole che alle parole si dia quel significato che loro è proprio e naturale semprechè non vi sia necessità manifesta di darne uno metaforico e figurato. Qui nostro Signore dice che quel pane è il suo Corpo e quel vino è il suo Sangue: con qual diritto gli muteremo noi le parole in bocca, facendogli dire: – Questo pane è figura del mio corpo – Questo vino rappresenta il mio sangue. – Questo pane contiene la virtù del mio corpo – Questo vino racchiude la efficacia del mio sangue? – Se le parole corpo e sangue usate da Nostro Signore non si doveano prendere alla lettera per Corpo e sangue, perché mai Cristo non lo disse, o almeno non lo lasciò capire in modo indiretto? Perché mai i quattro Scrittori ispirati con un consenso veramente singolare ripetono quelle parole: « Questo è il mio corpo – Questo è il mio sangue? » Perché l’uno o l’altro per togliere i pericoli dell’errore, per dissipare il dubbio, ch’è troppo naturale in cosa sì nuova e al tutto inaudita e nemmeno immaginabile, non disse: – Questo pane figura il mio corpo – Questo vino è l’immagine del mio sangue? – Ci voleva sì poco per chiarire la verità! La qual cosa, poi era tanto più naturale quantochè non è raro il caso, in cui gli Evangelisti trovano conveniente spiegare il senso di alcune espressioni meno oscure e meno gravi di queste. S. Giovanni dopo aver riferite le parole di Cristo dette agli Ebrei: « Sciogliete questo tempio » crede bene aggiungere: – Ciò diceva del tempio del suo corpo -. Dopo aver riferito quelle altre: « Chi ha sete venga a me e dal suo seno scorreranno rivi » spiega la cosa e dice: – Questo Gesù diceva dello Spirito Santo, che i credenti avrebbero ricevuto -. E un altro Evangelista, riportata la frase di Cristo: « Guardatevi dal lievito dei farisei » la chiarisce, dicendo: – Che è l’ipocrisia -. Perché dunque nessuno dei quattro sacri Scrittori ebbe cura di far capire con una sola parola, con un solo cenno indiretto, che le parole corpo e sangue pronunciate da Gesù doveansi intendere in senso improprio e figurato? Perché questo senso non vi era e doveansi intendere nel loro senso proprio e comune di vero corpo e di vero sangue! – Oltrecchè noi apprendiamo dallo studio degli Evangelii e dalle Lettere di S. Paolo, che sono ben poche quelle verità e quelle istituzioni di Cristo, che siano riferite unanimemente colle stesse parole dagli Evangelisti e da S. Paolo: non lo stesso dogma della Santissima Trinità, non il Battesimo, non il Primato di Pietro, non la Confessione e andate dicendo: la sola istituzione della Santa Eucaristia è narrata da tre Evangelisti e da S. Paolo, senza mutarne una sillaba, e da Giovanni riportata a lungo perché omessa dagli altri. Perché tanta cura e consenso in riferirla con le stesse parole? Certamente perché cosa di suprema importanza. Ora vi domando: se l’Eucaristia non è che il simbolo del corpo e del sangue di Cristo, od una cotal sua virtù, sarebbe essa una gran cosa? Sarebbe meno del Battesimo, meno della Confessione e del Primato di Pietro. Dunque l’Eucaristia non è, non può essere una povera figura del corpo e del sangue di Cristo; ma sì la realtà e verità della sua presenza. Senza di che è da osservare che un linguaggio metaforico e improprio nel parlare comune non si usa, né si deve usare se non si può facilmente intendere, massime se si parla a gente poco istruita e di grosso intendimento: e se pure si vuole usare, ogni ragion vuole che accuratamente si spieghi per non indurre in errore gli uditori. Ora presso gli Ebrei era forse in uso che il pane indicasse il corpo, e che il vino indicasse il sangue? No, per fermo: nessuno pigliava il pane come segno del corpo e il vino segno del sangue. Gesù Cristo adunque non poteva usare quella metafora affatto ignota e meno ancora doveva usarla cogli Apostoli sì tardi ad intendere le cose più comuni fino a confondere il lievito della dottrina con quello del pane; fino a non comprendere; che non sono i cibi presi materialmente quelli che macchiano l’anima e a provocare quel duro rimprovero, che Gesù rivolge loro. La volle usare? Lo poteva, ma a patto di spiegarla in guisa che capissero essere figura e non realtà e per conseguenza dovea dire o far dire agli Evangelisti: – Questo è il mio corpo, cioè figura del mio corpo – Questo è il mio sangue, cioè figura del mio sangue -. Nol disse, non lo fece dire, non lo spiegò, non lo fece spiegare: ragion vuole che pigliamo le sue parole quali sono e che il corpo sia il corpo, e il sangue sia il sangue. – Direte voi che la evidente impossibilità della cosa costringeva gli Apostoli a dare alle parole di Cristo un senso figurato? Rispondo: Gli Apostoli Sapevano che Cristo era Dio; avevano visto tante meraviglie, tanti e sì splendidi prodigi operati da Lui: un anno prima aveano udita dalla sua bocca la promessa di ricevere un giorno la sua carne in cibo e la sua bevanda in sangue: ricordavano lo scandalo suscitato da quella promessa con tanta asseveranza affermata e le proteste di Pietro a nome di tutti di credere alle sue parole: sapevano imminente la morte del divino Maestro e udivano da Lui stesso, essere quello il suo Testamento: come non dovevano credere, essere quello il compimento della promessa avuta, il suggello del suo amore e perciò, non una semplice figura (cosa insignificante), ma la verità del suo corpo? A Lui, che aveva mutato l’acqua in vino, che aveva risuscitato Lazzaro: a Lui questo pure era possibile e perciò potevano, anzi dovevano interpretare il linguaggio di Cristo nel senso che aveva e che importava un grande miracolo. Ma se l’Eucaristia non era che una figura del suo corpo, non era miracolo e si riduceva ad una prova di amore della più lieve importanza di gran lunga inferiore a tante altre per essi ricevute. Ne è da dimenticare il tempo, l’ora, in cui Gesù compiva quell’atto e pronunciava quelle parole. Era quella l’ultima cena, che Gesù faceva co suoi cari: pochi momenti lo separavano dalla sua passione: vedeva i suoi nemici raccolti a consiglio e deliberanti sul modo e sul luogo di impadronirsi della sua Persona: vedeva al suo lato il traditore, che l’aveva venduto: tratto tratto il suo volto si oscurava e una mortale angoscia affannava l’anima sua e non la nascondeva a’ suoi cari: il suo cuore si apriva come un padre amoroso, che sta per abbandonare i suoi figli, e dalle sue labbra cadevano parole d’una confidenza, d’un affetto, d’una tenerezza, che gli stessi Apostoli non avevano mai udito le eguali: essi pure ne erano stupiti. E voi potete immaginare che in quella espansione ineffabile d’una tenerezza ineffabile Gesù pensasse a darne la prova a tutti i secoli venturi con questa espressione inintelligibile: – Sappiate che in questo pane vi lascio il simbolo del mio corpo, e in questo vino il simbolo del mio sangue? -. Si può dare idea più strana, trovato più inesplicabile, e vorrei dire più ridicolo di questo? In quei momenti solenni poteva tenere un linguaggio più oscuro? Eppure era allora che i poveri Apostoli, scossi dalle sue parole sì chiare e sì piene d’amore, esclamavano: « Ecco, ora parli chiaramente e non dici parabola alcuna: ora sappiamo che conosci tutte le cose e non hai bisogno che altri ti interroghi ». (Giov. XVI, 29, 3). Allora adunque il linguaggio di Cristo era chiaro, netto, sciolto da figure e metafore. Come lo sarebbe stato se le parole della consacrazione, senza spiegazione di sorta, intese come una metafora, erano un enigma? E non è tutto: è un fatto storico indubitato che gli Apostoli, i primi Cristiani, la Chiesa tutta fino al secolo XVI intesero le parole di Cristo nel loro senso proprio ed ovvio: appoggiati a quelle parole essi credettero sempre e tutti e fermamente la presenza reale di Cristo nella Eucaristia. (Nel secolo XI, Berengario, forse il primo, intese le parole di Cristo in senso figurato: fu combattuto e condannato e si ritrattò. Da Berengario a Zuinglio nessuno più, che si sappia, pensò a quella interpretazione). Possibile che tanti uomini, sì pii e sì dotti, per tanti secoli, gli stessi Apostoli, che udirono quelle parole dalle labbra di Cristo, non le intendessero e cadessero nell’enorme errore di credere presente Cristo nella Eucaristia, mentre non lo era, di adorare un po’ di pane e di vino in luogo dell’Uomo-Dio? E allora a che si ridusse per tanti secoli l’opera di Cristo? E più ancora. Noi tutti Cattolici e protestanti siamo unanimi nel professare che Gesù Cristo è Dio-Uomo. Come Dio-Uomo, Egli conosceva tutto, non occorre il dirlo. Allorchè adunque sedeva a mensa con i suoi Apostoli, in quell’ultima sera e, porgendo loro il pane e il vino; diceva: « Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue », lo sguardo suo onniveggente penetrava nelle menti loro e spaziava su tutti i milioni e miliardi di credenti futuri: e che vedeva? Vedeva tutti questi credenti, pieni d’amore per Lui, pronti a dare la vita per Lui, e moltissimi l’avrebbero data in mezzo ai tormenti, cader vittime d’un errore grossolano, d’una superstizione incredibile, d’una idolatria, che non ha l’eguale nella Storia dell’umanità, quella di adorare il Pane e il vino! Vedeva che la causa od occasione di tanta aberrazione proveniva da quelle sue quattro parole, intese alla lettera e ciò per la fede smisurata nella sua potenza e per l’ardentissimo amore, che faceva loro credere possibile tanto miracolo: vedeva che sostituendo a quella sola parola, la parola rappresenta o figura, sarebbesi cessato l’immenso errore e la detestabile superstizione: come credere che non l’avrebbe voluto impedire? Come immaginare che non volesse dire quella parola, che spiegava la verità e rendeva facilissima la fede nell’incomprensibile mistero? Per me, lo confesso altamente, non saprei concepire come Gesù, l’amabile maestro, sempre pronto a rischiarare la verità, ad istruire i suoi Apostoli, a togliere ogni dubbio anche in cose di poco momento, potesse permettere col tacere sì falsa e sì empia interpretazione delle sue parole e proprio allora che faceva il suo Testamento ed era per immolare sé stesso a loro salvezza. Dare per essi la vita sulla croce e rifiutare una parola che bastava a dissipare l’errore! è possibile? – S. Luca e S. Paolo alle parole di Cristo: « Questo è il mio corpo » fan seguire quest’altre: « Che è dato per voi – Che si spezza per voi. – Questo è il calice del mio sangue – Che si sparge per voi ». Ora si chiede: se è il pane che si dà o si spezza; se è il vino che sì versa per la salvezza degli uomini, oppure il corpo e il sangue di Cristo? La risposta non può essere dubbia: dunque quel pane che si spezzava e si dava: quel vino, che si porgeva, erano veramente il corpo e il sangue di Cristo. Se così non fosse, le parole di Lui non avrebbero senso, o l’avrebbero sacrilego. – Scorrendo gli Evangeli ci si presenta un fatto degno di considerazione. Delle verità e delle istituzioni capitali si parla più volte e si annunziano prima di proclamarle e stabilirle definitivamente. Così il Battesimo, la fondazione della Chiesa, l’istituzione del Primato di Pietro, la Missione degli Apostoli, la sua passione, la sua morte e la sua risurrezione, Cristo più e più volte annunziò, predisse e promise agli Apostoli chiaramente all’intento di preparare gli animi a credere e disporli alle dure prove, che li attendevano. Ma, non esito ad affermarlo, nessuna verità, nessuna istituzione Egli annunziò, predisse e promise con tanta chiarezza, con tanta forza e direi quasi con tanta durezza quanto l’Eucaristia. E potremo noi credere, dopo sì solenne annunzio e promessa di Cristo, che l’Eucaristia si riduca ad un simbolo, ad una figura, che è la cosa più facile a concepirsi, che esclude ogni mistero ed è priva d’ogni importanza reale? A voi il giudizio. – Intanto consideriamo in ogni sua parte la promessa della Eucaristia, che si legge nel capo VI del Vangelo di S. Giovanni che avvenne un anno circa prima della istituzione. L’Evangelista narra il miracolo della moltiplicazione dei pani, che fu operato il dì innanzi alla promessa. Evidentemente Gesù Cristo fece quel miracolo per aprirsi la via a parlare della Eucaristia e con esso ottener fede al miracolo senza confronto più grande della presenza reale. Seguiamo il discorso di Cristo. Dopo aver inculcata la necessità della fede e di nutrirsi d’un altro pane, migliore della manna del deserto, pane che dà la vita, continua e apertamente dice qual sia codesto pane: « Il pane, che io vi darò, è la mia carne, che dà la vita al mondo ». Gesù parla di pane, che darà: dunque non è la fede, perché questa allora si esigeva e non pel futuro. Che pane è desso? Lo dice Egli stesso in termini: « Il pane che vi darò è la mia carne ». È forse la grazia? No, perché in tutti i Libri Santi non troverete che Gesù Cristo abbia chiamato carne sua la sua grazia. Sarebbe stato un linguaggio non più udito, non inteso, perché oscurissimo e da Lui non ispiegato. Ed è sì vero che quella parola carne pronunciata da Cristo tornava strana e nuova agli uditori tutti, compresi certamente gli stessi Apostoli, che nacque tra loro contesa e dicevano gli uni agli altri: « Come può costui darci a mangiare la sua carne? ». Erano dunque persuasi che Gesù parlava della sua carne, che si doveva mangiare per avere la vita eterna, e non di un pane figurato o di qualsiasi cibo spirituale. Gesù intese che gli uditori suoi contendevano sul significato delle sue parole e precisamente sulla carne, che si doveva mangiare. Che fa egli ogni maestro degno di questo nome, allorché si accorge che le sue parole, o non sono intese, o sono malamente fraintese? S’affretta a spiegarne il senso, e se nol fa, fallisce al suo dovere, incorre giustamente il biasimo delle persone oneste e l’errore dei discepoli a ragione si imputa al maestro. Gesù era il Maestro per eccellenza; il suo linguaggio era sempre d’una semplicità incomparabile: ogni qualvolta i discepoli non lo comprendevano non disdegnava di spiegarsi meglio, adoperando i termini e le immagini più comuni. Il Vangelo è là a provarlo. Che doveva dunque egli fare Gesù allorché udì quel lamento: – Come può Costui darci a mangiare la sua carne? – Essi evidentemente avevano inteso che parlasse, non di fede, non di grazia, non di pane figurato, ma propriamente della sua carne. Come Maestro pieno di bontà, compatendo la loro ignoranza, doveva subito correggere il loro errore e dire: – Voi errate: io non parlo della mia carne, che dovete mangiare, no: io parlo della fede, che dovete avere in me, che deve essere il vostro cibo: parlo del pane, che un giorno vi darò e voi piglierete come figura del mio corpo -. Ogni difficoltà si dileguava dalla mente degli uditori. È così che Gesù parla? Udite. Con atteggiamento pieno di autorità, che non ammette replica, risponde: « In Verità, in verità vi dico, che se voi non mangiate la carne del Figliuolo dell’uomo e non bevete il suo sangue, voi non avrete la vita in voi! » Come, o divino Maestro? Questi uditori e discepoli non sanno comprendere come sia possibile, che voi diate loro a mangiare la vostra carne e ve ne chiedono la spiegazione, e voi raddoppiate la difficoltà, affermando che devono bere il vostro sangue? E voi sapete come la legge Mosaica, di cui sono gelosi osservatori, vieti loro severamente bere il sangue sotto qualsiasi forma? Se questi vostri uditori e discepoli non comprendono il vostro linguaggio, benigno come siete, spiegatelo: se colla parola carne e sangue intendete la figura o la virtù della vostra carne e del vostro sangue, o la grazia, o la fede, o ciò che a voi meglio piace, non vogliate tormentare e quasi opprimere le corte loro menti: parlate, parlate più chiaro: basta una sola parola!…. Nulla di tutto ciò. Gesù ribadisce la stessa cosa e dopo avere affermato con una forma solenne, quasi di giuramento: « In verità, in verità vi dico » continua e dice: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno ». Bastava questa sentenza, che è la ripetizione della antecedente. Eppure a Gesù non basta ancora e prosegue: « Perché la mia carne è veramente cibo ed il mio sangue è veramente bevanda ». La frase è ad un tempo ripetizione e spiegazione delle altre: ripetizione, perché troviamo sempre le parole carne e sangue; spiegazione, perché dice che la sua carne è ordinata ad essere cibo, il suo sangue bevanda e solo chi mangia di questa carne e beve di questo sangue si unisce a Lui, e rimane in Lui. Poteva esprimersi con maggiore chiarezza ed asseveranza? Sei volte Gesù ripete la parola mangiare, cinque volte la parola carne, quattro volte la parola bere, e quattro pure la parola sangue: non una sola volta le parole figura, segno, virtù od altra equivalente, che lasci anche solo da lungi sospettare, non trattarsi veramente della carne e del sangue adorabile del Figliuol di Dio. È dunque ragionevole, è necessario pigliare le parole di Cristo nel loro senso comune e naturale, perché così Cristo volle e non altrimenti: dunque nella Santa Eucaristia è veramente, realmente e sostanzialmente presente il corpo e il sangue di Gesù Cristo. Egli lo disse e come disse deve essere. Né è da omettere un ultimo argomento, che getta una luce ancor più viva sul senso delle parole di Cristo, che avete udite. S. Giovanni, che contro il suo costume si diffonde su questo fatto, scrive: – Che molti dei discepoli, udito il discorso di Gesù, dissero: « Questo parlare è duro; chi può ascoltarlo? » (È noto che S. Giovanni nel suo Vangelo è più sollecito di riferire le parole e la dottrina di Cristo che i fatti: questi sono pochi assai. Eppure su questo fatto, sia nei precedenti, sia nei conseguenti si diffonde. E perché duro? Senza dubbio è duro, perché non sanno comprendere come Gesù possa dare qual cibo la sua carne e qual bevanda il suo sangue. Non vi sarebbe nulla di duro se quel pane e quel vino fossero figura del corpo e del sangue di Cristo, o ne contenessero la misteriosa virtù. Dunque quei discepoli intendevano le parole di Cristo come noi ora le intendiamo. Ponete che tale non fosse il senso vero delle sue parole: non era dovere di Cristo rettificarlo? Che fa Egli? Udendo il bisbiglio de’ suoi discepoli, con accento ancora più risoluto, a Lui insolito co’ suoi cari, dice: « Ciò che vi ho detto vi scandalizza – e non lo potete credere? Che sarà allorché vedrete il Figliuol dell’uomo salire là dov’era prima? Allora sarà anche più difficile il comprenderlo; eppure lo dovrete credere ». A quelle parole alcuni dei discepoli non ressero: gli volsero le spalle e l’abbandonarono. A quella vista Gesù mutò forse linguaggio? Temperò forse le sue espressioni? Disse forse: – Badate ch’io parlo della fede, della figura del mio corpo e del mio sangue. Che difficoltà trovate voi che nell’Agnello pasquale avete già la figura mia? – Nulla di tutto ciò: con volto austero, e parola vibrata si rivolse ai dodici Apostoli, che gli facevano corona, e disse: « Volete andarvene voi pure? – Se non volete credere a ciò che vi ho detto, andatevene: non muto sillaba ». Quelli rimasero e Pietro a nome di tutti uscì in quella nobilissima protesta: « Signore, a chi ce ne andremo? Tu hai parole di vita eterna ». Fratelli! Un’ultima osservazione, che mi sembra di grandissimo peso. Dopo il discorso di Cristo, avviene una divisione tra’ suoi discepoli, come avete udito. Rimangono fedeli a Lui quelli che credono alle parole sue, quelli cioè che credono doversi mangiare la sua carne e bere il suo sangue per avere la vita eterna: l’abbandonano quelli che non possono e non vogliono ammettere tanto miracolo e che certo non avrebbero avuto difficoltà a rimanere con Lui e credere quando si fosse trattato d’una semplice figura del corpo e del sangue di Cristo. Ora’ se Cristo nelle sue parole non istabiliva la presenza reale del suo corpo, ma solo la figura o la virtù sua, quale ne sarebbe stata la conseguenza? Questa e non altra: Cristo avrebbe ritenuto presso di sé e tenuti come suoi discepoli fedeli quelli, che non comprendevano le sue parole e cadevano in un gravissimo errore e lasciava che da Lui partissero quelli, che avevano compreso il suo linguaggio e se ne andavano per non voler ammettere un errore grossolano, che il Maestro condannava. Possiamo noi dar luogo ad una ipotesi sì assurda ed empia? Eppure, se noi accettiamo l’interpretazione protestante, la conseguenza è inevitabile: rimasero con Cristo gli erranti, lo abbandonarono quelli che respingevano l’errore e Cristo non solo permise, ma volle sì manifesta contraddizione! Ve lo dissi più sopra: quanto alla istituzione della Santa Eucaristia, S. Paolo, quasi dimenticando l’indole d’una lettera, assume il carattere di Evangelista e la narra distesamente colle stesse parole di S. Luca, suo discepolo. Ma, riferito il fatto della istituzione, come voleva il suo scopo, scostandosi dagli Evangelisti, discende alla applicazione morale e scrive: « Chi riceve indegnamente l’Eucaristia si fa reo del corpo e del sangue di Lui ». Reo di lesa maestà è colui che direttamente offende la persona del principe, non mai chi fa ingiuria alla sua immagine: nella Eucaristia adunque si contiene, non la figura o la virtù di Cristo, sebbene la persona sua stessa. E poi i Protestanti condannano il culto delle immagini quasi un ritorno alla idolatria: come dunque nella Eucaristia riconoscerebbero una figura e tal figura del corpo di Cristo, che chi fa onta a questa, la faccia a Cristo istesso? – Vuole l’Apostolo che chiunque mangia del pane Eucaristico e del vino del calice, prima metta a prova se stesso; cioè scruti la sua coscienza e se la trova rea di colpa, o si astenga dalla Eucaristia, o se ne mondi. Se l’Eucaristia non fosse che la figura del corpo di Cristo sarebbe egli necessario premettere l’esame di coscienza e purificarla col dolore? Quando mai si disse non potersi contemplare il Crocifisso da chi si trova in peccato e il contemplarlo in peccato essere sacrilegio? Eppure S. Paolo insegna che chi riceve l’Eucaristia in peccato mangia e beve la sua condanna eterna. E perché? Perché, risponde l’Apostolo, non distingue il corpo del Signore – Non diiudicans corpus Domini -. Dunque vi è pane e pane; il pane comune, e il pane Eucaristico, che è il corpo del Signore. Qual prova che questo pane non è, non può essere una nuda figura, ma la verità del corpo di Cristo? Fratelli! Penso che codesta lunga dimostrazione biblica della presenza reale di Cristo nella Santa Eucaristia vi abbia recato noia e fastidio. Ma poteva io passarmene? Poteva io tenere in nessun conto la interpretazione protestante sopra questo capitolo della nostra fede? La mia sarebbe stata una colpa e quasi dissi una implicita confessione di impotenza in faccia ai nemici della presenza reale, che ci si fanno innanzi coi Libri Sacri alla mano e si vantano di tenerne essi soli la chiave. – Ma la dimostrazione cavata dalla Bibbia, tuttoché perentoria, sarebbe imperfetta quando non fosse avvalorata dalla autorità del Magistero della Chiesa, che ne è il riflesso e l’interprete infallibile. La verità rivelata è simile al seme: deposto nei Libri Santi, cresce e vigoreggia, quasi albero lussureggiante, nella Chiesa. Mi duole, o fratelli, dovervi spiegare sotto gli occhi la fede della Chiesa Cattolica dei primi secoli nel dogma della presenza reale, fede, che si manifesta in mille forme svariatissime: dico, mi duole, perché vi obbligo ad udir cose già conosciute e l’udirle ripetere non è senza molestia. Ma è una necessità dell’ordine ed io mi studierò di rendervi men grave quest’ultima parte colla maggiore brevità possibile e col ridurre a pochi capi tutto l’insegnamento della veneranda antichità cristiana per ciò che spetta alla presenza reale di Cristo nella divina Eucaristia, Svolgiamo i cento volumi, nei quali i Padri della Chiesa da S. Ignazio martire fino a S. Bernardo, nel corso non interrotto di undici secoli deposero il tesoro della fede, che gli Apostoli raccolsero dalla bocca di Cristo stesso: svolgiamo tutti i libri liturgici, la cui origine risale alla culla del Cristianesimo, di tutti i riti, di tutte le Chiese d’Oriente e d’Occidente, non escluse le separate da noi, di tutte le lingue: interroghiamo tutte le memorie cristiane antiche, scolpite sui monumenti in pietra, in cristallo, in bronzo, in argento, in oro, nei templi, sui sepolcri, sulle pareti delle Catacombe; dipinte sulle tavole, sugli indumenti sacri: in una parola interroghiamo tutta l’antichità cristiana in tutti gli angoli della terra, ed essa colle mille sue lingue, colle quali professa la sua fede, ci risponderà, che sempre, dovunque e unanimemente e fermissimamente ha creduto, nella Eucaristia contenersi l’Uomo-Dio, il Figlio di Dio e della Vergine, Gesù Cristo, il Salvatore del mondo. Odo la gran voce dei Padri, che salutano il Sacramento Eucaristico come il Sacramento dell’unione con Dio, della nostra consumazione con Lui, come il Sacramento dei Sacramenti, il mistero santo, il mistero terribile, il mistero tremendo, il mistero adorabile, il mistero dell’amore e della fede, la sorgente della vita, la prova suprema della carità divina, il Sacramento, nel quale Gesù Cristo diè fondo alle ricchezze infinite della sua bontà. — Riducete l’Eucaristia ad una figura, a non so quale comunicazione della virtù propria al corpo di Gesù Cristo: quel linguaggio dei Padri non ha senso, è una esagerazione intollerabile: ammettete la presenza reale e diventa l’espressione rigorosa e propria della verità. – Odo la gran voce dei Padri, che gridano: In questo Sacramento non badate ai sensi: la loro testimonianza vi inganna: ascoltate la fede, la sola fede: essa supplisce agli occhi, al tatto, al gusto: essa è tutto: qui bisogna fermare la nostra mente sulla parola di Cristo. – Perché questo linguaggio si usa dai Padri parlando della sola Eucaristia e sempre a preferenza della sola Eucaristia? Perché l’Eucaristia è il culmine dei misteri cristiani, a tutti sovrasta i Sacramenti e a tutti sovrasta, perché se gli altri racchiudono, conferiscono la grazia di Cristo, questo contiene Cristo stesso. Pensatevi finché vi piace, voi non vedrete altra ragione della sua eccellenza sopra il Battesimo, porta della Chiesa e sulla stessa Ordinazione, partecipazione del sovrano Sacerdozio di Cristo. – Odo la gran voce dei Padri, che mi assicurano, per la Santa Eucaristia, noi, venuti tanti secoli dopo Cristo, essere fatti contemporanei di Cristo, possederlo com’essi lo possedevano, vederlo, toccarlo com’essi lo vedevano e toccavano – Perché nessun Padre mai usò espressioni come queste, ragionando degli altri Sacramenti? A voi la risposta. – Odo la gran voce dei Padri, che mi dicono: nella Eucaristia il pane si muta, si converte, si trasforma, diventa il corpo di Cristo e il vino nel sangue di Lui. Non basta: mi dicono che, come il fango per virtù divina si mutò nel corpo di Adamo e l’acqua alle nozze di Cana fu fatta vino, e il cibo, che noi pigliamo diventa nostro sangue e nostra carne, così il pane ed il vino, posti sull’altare, alla voce del Sacerdote si trasformano nel corpo e nel sangue di Cristo. È egli possibile intendere queste parole tante volte ripetute e inculcate dai Padri, rigettando la presenza reale e la transustanziazione? – Odo la gran voce dei Padri, che predicano, l’Eucaristia essere l’opera della onnipotenza divina: Quegli solo poterla produrre, che disse e tutto fu fatto. Se noi non vi vediamo che un nudo ricordo, una figura di Cristo, dov’è il bisogno della sua onnipotenza? Chi di noi non può creare un simbolo e lasciare dopo di sé una memoria, che rammenti la nostra esistenza, o qualcuna delle opere nostre? – Odo la gran voce dei Padri, che nelle forme più chiare ed energiche insegnano, nella Santa Eucaristia essere veramente, realmente, propriamente, certamente tutto Cristo qual fu sulla terra ed ora è in cielo: non in figura, non in apparenza, non per ombra, ma nel suo vero corpo e sangue: che nella Eucaristia Egli si unisce a noi e noi a Lui: che il suo sangue si confonde col nostro: che le nostre labbra e la nostra lingua rosseggiano di esso; che il nostro corpo si impingua del suo: che Gesù Cristo è lì sull’altare come sulla croce: che l’altare diviene il cielo: che il Sacerdote lo tiene tra le sue braccia come tra le sue lo teneva la Vergine benedetta: che gli Angeli fanno corona all’altare, adorando il loro Re: che in questo Sacramento Gesù fa ciò che non fanno molte madri coi loro bambini, perché queste li danno a nutrire a donne estranee e Quegli ci nutre delle sue carni, ci abbevera del suo sangue. – Odo la gran voce dei Padri, che mi insegna, Gesù aver nascosto il suo corpo sotto i veli eucaristici per esercitare la nostra fede, perché più fidenti ci avviciniamo a Lui, perché lo possiamo ricevere dentro di noi. Se non fosse nascosto sotto le specie del pane e del vino, come potremmo noi avvicinarci a Lui, sostenere il fulgore della sua luce e albergarlo ne’ nostri petti? Odo la gran voce dei Padri, che non esitano ad asserire, che le parole di Cristo: – « Questo è il mio corpo – Questo è il mio sangue » – sono chiare, manifeste, indubitate: che non hanno bisogno di spiegazione; che si hanno da prendere come suonano, perché Egli è onnipotente: Egli l’ha detto e basta: che dobbiamo guardarci dallo scrutare tanto mistero: qui la ragione deve tacere, devono ammutolire i sensi e al loro luogo comandare la fede, la sola fede, se non vogliamo errare. Gran cosa! Leggo i Padri e trovo, che mi dicono: – Bada bene: se i Libri Santi insegnano, che Dio sì pente, che Dio si sdegna, che Dio cammina, che Dio ha occhi e orecchi, che Dio odia; tu non devi credere che Dio veramente si penta, che Dio si sdegni, che Dio cammini, che Dio abbia occhi e orecchi, che Dio odii: nulla di tutto questo può essere in Dio, infinita perfezione. I Libri Santi parlano così perché a te, uomo soggetto ai sensi, non possono parlare altrimenti. — Perché questi Padri stessi, parlando dell’Eucaristia e commentando le parole di Cristo: « Questo è il mio corpo – Questo è il mio sangue » non hanno cura di avvertirmi: – Poni ben mente: il corpo di Cristo, di cui qui si parla, non è il suo vero corpo; il sangue non è il suo sangue: ma sono l’uno e l’altro figurati nel pane e nel vino, che vedi -. E sì qui maggiore era la necessità di spiegare la cosa che non là dove si parla di Dio, perché ciascuno intende da sé che quelle imperfezioni disdicono a Dio, natura semplicissima e perfettissima, dovecchè nell’Eucaristia si parla di corpo, sotto corporee specie e questa metafora del pane e del vino significanti il corpo e il sangue di Cristo non s’era udita sulla terra e non ispiegata confondeva necessariamente tutte le menti. –  Finalmente odo la gran voce dei Padri, che a tutti i credenti intimano: – Piegate il ginocchio, chinate la fronte, e nella Santa Eucaristia, nel tempio, sulle vie, in pubblico, in privato, dovunque la trovate, nelle mani del Sacerdote, del Vescovo, del Papa, fosse anche nelle mani d’un laico, non importa, adoratela -. Perché? – Perché in essa è il Figlio di Dio, Gesù Cristo, in corpo, sangue, anima e Divinità -. È a questa voce dei Padri, della Chiesa Cattolica, che riempie i secoli e lo spazio, fanno eco le Chiese, che lo scisma e l’eresia divelsero dalla nostra, la Chiesa Inglese e la Luterana stessa, la Russa e la Foziana, l’Armena e la Nestoriana e la Eutichiana. Quale concento meraviglioso, o fratelli! E tutti costoro, pastori e fedeli, maestri e discepoli, sarebbero caduti nell’errore? Che dico nell’errore! Nella più turpe idolatria? Se così fosse, avrei tutto il diritto di rivolgermi a Cristo e dirgli: – O Figlio di Dio, venisti sulla terra per stabilire il tuo Regno, per fondare la tua Chiesa, e formarti di essa una sposa fedele senza macchia e senza ruga: per essa Tu versasti il sangue e nel suo seno versasti i tesori tutte delle tue grazie: Essa dichiarasti Maestra infallibile e quelli sono tuoi figli ch’Essa ti genera. Ora dov’è questa tua Chiesa? Questa tua sposa? Questa continuatrice dell’opera tua? Questa salvatrice dell’uman genere? Dov’è questa lucerna inestinguibile, che Tu accendesti e collocasti sul monte, perché illuminasse le vie della vita? Essa è spenta: Essa non è più: la tua sposa è infedele: l’opera tua è distrutta, il frutto del tuo sangue è perduto, rovesciato il tuo regno: la tua Chiesa, che dicesti non sarebbe mai vinta dalle porte dell’inferno, orrore! è caduta nella più abbietta idolatria! – Vedila colla fronte nella polvere adorare un po’ di pane e di vino! E Tu lo Potesti permettere? Tu, che con una sola parola potevi impedire tanto vituperio? – Ah, basta, basta, o fratelli. Ciò non è, non può essere: Cristo avrebbe fallito alle promesse! Il ginocchio a terra, o fratelli, e, fissi gli sguardi in quell’Ostia Sacrosanta, cantiamo coll’Angelo della Scuola: – Devoto io ti adoro, o nascosta Divinità, che ti veli sotto queste apparenze: il mio cuore si china innanzi a te, perché, pensando a te, sente d’essere nulla. L’occhio, il tatto, il gusto qui si ingannano: solo alla tua parola sicuramente si affida: credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio: non vi è nulla di più vero della tua parola di verità. Sulla croce la sola Divinità si occultava; qui anche l’umanità si ecclissa -. Credo, o Signore, credo -. Aiuta, sostieni la mia debolezza -. Amen.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Levit. XXI: 6
Sacerdótes Dómini incénsum et panes ófferunt Deo: et ideo sancti erunt Deo suo, et non pólluent nomen eius, allelúia.

[I sacerdoti del Signore offrono incenso e pane a Dio: perciò saranno santi per il loro Dio e non profaneranno il suo nome, allelúia.]

Secreta

Ecclésiæ tuæ, quǽsumus, Dómine, unitátis et pacis propítius dona concéde: quæ sub oblátis munéribus mýstice designántur.

[O Signore, Te ne preghiamo, concedi propizio alla tua Chiesa i doni dell’unità e della pace, che misticamente son figurati dalle oblazioni presentate.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

1 Cor XI: 26-27
Quotiescúmque manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat: itaque quicúmque manducáverit panem vel bíberit calicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini, allelúia.

[Tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore, finché verrà: ma chiunque avrà mangiato il pane e bevuto il sangue indegnamente sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.
Fac nos, quǽsumus, Dómine, divinitátis tuæ sempitérna fruitióne repléri: quam pretiósi Corporis et Sanguinis tui temporalis percéptio præfigúrat:

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che possiamo godere del possesso eterno della tua divinità: prefigurato dal tuo prezioso Corpo e Sangue che ora riceviamo].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “IL CORPUS DOMINI”

IL ” CORPUS DOMINI „

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Incola ego sum in terra.

(Ps. CXVIII, 19)

Queste parole, F. M., ci ricordano tutte le miserie della vita, il disprezzo che dobbiamo avere delle cose create e periture, ed il desiderio di uscirne per andare nella nostra vera patria, poiché la nostra patria non è il mondo. Tuttavia, F. M., consoliamoci nel nostro esilio: vi abbiamo un Dio, un amico, un consolatore ed un redentore, che può addolcir le nostre pene, e da questo luogo di miserie ci fa scorgere grandi beni; il che deve portarci ad esclamare, come la sposa dei Cantici: “Avete visto il mio diletto? e se l’avete visto, ah! ditegli che io altro non faccio che languire d’amore. „ — “Ah! sin a quando, Signore, esclama il santo Re profeta nei suoi trasporti d’amore e d’ammirazione; ahi sino a quando prolungherete il mio corpo esilio lontano da voi? (Ps. CXIX, 5)„ Ma, F. M., più felici dei santi dell’Antico Testamento, non solo possediamo Dio nella grandezza di sua immensità per la quale trovasi dappertutto; ma l’abbiamo ancora tal quale fu durante nove mesi nel seno di Maria, e sulla croce. Ancor più felici dei primi Cristiani che percorrevano cinquanta o sessanta miglia per aver la fortuna di vederlo, ogni parrocchia lo possiede, ogni parrocchia può goder quanto vuole della sua dolce compagnia. Ah! popolo felice quello dei Cristiani! E qual è, F. M., il mio proposito oggi? Eccolo. Voglio mostrarvi quanto è buono Iddio nella istituzione del sacramento adorabile della Eucaristia, ed i grandi vantaggi che ne possiamo cavare.

I. – F. M., ciò che forma la felicità d’un buon Cristiano, costituisce la sventura del peccatore. Ne volete la prova? Eccola. Per un peccatore che non vuol uscire dal peccato, la presenza di Dio diviene il suo supplizio: vorrebbe poter cancellare il pensiero che Dio lo vede e lo giudicherà: si nasconde, fugge la luce del sole, si immerge nelle tenebre, ha orrore di quanto può richiamargliene il pensiero: un ministro di Dio gli fa ombra, lo odia, lo fugge: ogni volta che pensa d’avere un’anima immortale, che Dio la ricompenserà o la punirà nell’eternità, a norma di quanto avrà fatto: è per lui uno strazio che lo divora senza tregua. Ah! triste esistenza quella d’un peccatore che vive nel peccato! Invano, amico mio, vorresti toglierti dalla presenza di Dio, non lo potrai! ” Adamo, Adamo, dove sei? „ — ” Ah! Signore, esclama, ho peccato, e temo la vostra presenza! „ Adamo, tutto tremante, corre a nascondersi, e proprio nel momento in cui credeva che Dio nol vedesse, la sua voce si fa sentire: “Adamo, tu mi troverai dappertutto: tu hai peccato, ed Io fui testimonio del tuo delitto: i miei occhi eran fissi su di te. „ — “Caino, Caino, dov’ è tuo fratello? „ Caino, udendo la voce del Signore, fugge come disperato. Ma Dio l’insegue colla spada alle reni: “Caino, il sangue di tuo fratello grida vendetta (Gen. III, 10). „ Oh! è dunque vero che il peccatore è nel timore, nella disperazione continua. Peccatore, che facesti? Dio ti punirà. — No, no, esclama, Dio non mi ha visto, “non vi è Dio „ — Ahi disgraziato, Dio ti vede e ti punirà. Da ciò concludo che un peccatore può ben tentare di rassicurarsi, di dimenticar i peccati, di fuggir la presenza di Dio e procurarsi quanto il suo cuore può desiderare; non sarà che un infelice: trascinerà dappertutto le sue catene ed il suo inferno. Ah! triste esistenza! No, F. M., non andiamo più oltre, questo pensiero è troppo straziante, questo linguaggio non conviene oggi davvero: lasciamo quei poveri sventurati nelle tenebre, poiché vogliono restarvi: lasciamoli dannarsi, poiché non vogliono salvarsi. “Venite, figli miei, diceva il santo re David, venite, ho grandi cose da annunciarvi; venite, e vi dirò quanto è buono il Signore con chi l’ama. Ha preparato ai suoi figli un nutrimento celeste, che produce frutti di vita. Dappertutto lo troveremo il nostro Dio: se andiamo nel cielo, là Egli vi è; se traversiamo i mari, lo vedremo al nostro fianco; se ci nascondiamo negli abissi del mare, ci accompagnerà (Ps. XXXIII, XXXII, CXXXVIII). „ No, no, il nostro Dio non ci perde di vista, come una madre non perde di vista il bambino che incomincia a muovere i primi passi. “Abramo, dice il Signore, cammina alla mia presenza e la troverai dappertutto. „ — “Mio Dio! esclama Mosè, mostratemi di grazia la vostra faccia: avrò quanto posso desiderare.„ (Es. XXXIII, 12). Ah! un Cristiano è consolato da questo caro pensiero che Dio lo vede, che Egli è testimonio delle sue pene e delle sue lotte, che Dio è al suo fianco. Ah! diciamo meglio, F. M., egli stringe Dio continuamente al suo seno. Ah! popolo cristiano, quanto sei avventurato di avere vantaggi che tanti altri popoli non hanno! E non aveva ragione di dirvi che se la presenza di Dio è un tormento pel peccatore, essa però è una felicità ineffabile, un cielo anticipato pel buon Cristiano? Sì, F. M., tutto questo è bello, è vero: ma è ancor poco, per così dire, in confronto dell’amore che Gesù Cristo ci porta nel sacramento adorabile dell’Eucaristia. Se parlassi ad increduli o ad empi che osano dubitare della presenza di Gesù Cristo in questo Sacramento adorabile, comincerei col dar loro delle prove così chiare e convincenti, da morir pel dolore d’aver dubitato d’un mistero basato su ragioni tanto forti e convincenti; io direi loro: Se Gesù Cristo è verace, lo è pure questo mistero, che preso del pane disse ai suoi Apostoli: « Eccovi del pane: ebbene lo cambio nel mio corpo; ecco del vino, lo cambio nel mio sangue: questo corpo è veramente lo stesso che sarà crocifisso, ed il sangue è lo stesso che verrà sparso per la remissione dei peccati: ogni volta che pronuncerete queste parole, voi farete il medesimo miracolo: questo potere voi lo comunicherete gli uni agli altri sino alla consumazione dei secoli „ Ma qui lasciamo da una parte queste prove: questo ragionamento è inutile per Cristiani, che tante volte gustarono le dolcezze che Dio loro comunica nel Sacramento d’amore. S. Bernardo ci dice che vi sono tre misteri ai quali non può pensare senza sentirsi il cuore morir d’amore e di dolore. Il primo è quello dell’Incarnazione, il secondo quello della Passione e Morte di Gesù Cristo, e il terzo quello del Sacramento adorabile dell’Eucaristia. Quando lo Spirito Santo ci parla del mistero dell’Incarnazione, adopera frasi che ci mettono nell’impossibilità di poter comprendere sin dove arriva l’amor di Dio per noi, dicendoci: “Così Dio ama il mondo, „ come se ci dicesse: lascio al vostro spirito, alla vostra immaginazione la libertà di formarvi quelle idee che vorrete: quand’anche aveste tutta la scienza dei profeti, i lumi dei dottori, le cognizioni degli Angeli, vi sarà impossibile comprendere l’amore che ebbe per voi Gesù Cristo in questi misteri. Quando S. Paolo ci parla dei misteri della Passione di Gesù Cristo, ecco come si spiega: “Benché Dio sia infinito in grazia e misericordia, sembra essersi esaurito per l’amor nostro. Eravamo morti, ci ha dato la vita. Eravamo destinati ad essere infelici per tutta l’eternità, e per sua bontà e misericordia cambiò la nostra sorte! (Ef. II, 4-6) „ Infine, quando S. Giovanni ci parla della carità che Gesù Cristo ebbe per noi istituendo il Sacramento adorabile dell’Eucaristia, ci dice « che ci ha amati sino alla fine » (Giov. XIII, 1) , „ cioè ha amato nel corso della sua vita l’uomo d’un amore senza confronto. Dirò meglio, F. M., ci ha amato quanto poteva amarci. O amore, quanto sei grande e poco conosciuto! Ecchè, amico mio! non ameremo un Dio che ha sospirato per la nostra felicità durante l’eternità intera?… Un Dio, che ha tanto pianto i nostri peccati, ed è morto per cancellarli! Un Dio, che volle lasciare gli Angeli del cielo, dov’è amato d’amor sì puro e perfetto, per venire in questo mondo, quantunque sapesse benissimo come sarebbe stato disprezzato. Conosceva anticipatamente le profanazioni di cui sarebbe stato oggetto in questo Sacramento d’amore. Sapeva che gli uni lo riceverebbero senza contrizione; gli altri senza desiderio di correggersi: altri forse col peccato nel cuore, e lo farebbero morire. Ma no, tutto questo non poté arrestare il suo amore. O popolo fortunato quello dei Cristiani!… “O città di Sion, rallegrati, fa conoscere il tuo giubilo, esclama il Signore per bocca del profeta Isaia, perché il tuo Dio abita in mezzo a te „ (Is. XII, 6). Sì, F. M., ciò che il profeta Isaia diceva al suo popolo, posso dirlo a voi, anzi con più verità. Cristiani, rallegratevi! Il vostro Dio vuol comparire in mezzo a voi. Questo tenero Salvatore vuol visitare le vostre piazze, le vostre e vie, le case vostre: dappertutto vuol spargere le sue benedizioni più abbondanti. O case avventurate, davanti alle quali egli passerà! O strade fortunate, che sosterranno i suoi passi santi! Potremo, trattenerci di dire dentro di noi, quando ritorneremo per la medesima via: Ecco dove è passato il mio Dio, ecco la strada che ha preso quando spargeva benefico le sue benedizioni su questa parrocchia. – Oh! quanto è consolante questo giorno per noi! Ah! se è permesso gustare qualche consolazione in questo mondo, non è in questo momento felice? Sì, dimentichiamole è possibile, tutte le miserie. Questa terra d’esilio sta per divenire veramente l’immagine della celeste Gerusalemme, le feste e le gioie del cielo discendono sulla terra. Ah! « se la mia lingua può obliare questi benefici, s’attacchi al mio palato !… „ (Ps. CXXXVI). Ah! se i miei occhi debbono ancor volgere i loro sguardi sulle cose terrene, che il cielo rifiuti loro la luce! Sì, F . M., se consideriamo tutto quanto Dio ha fatto: il cielo e la terra, questo bell’ordine che regna nel vasto universo, tutto ci annuncia una potenza infinita che ha tutto creato, una saggezza ammirabile che tutto governa, una bontà suprema che a tutto provvede con la stessa facilità che se fosse occupata d’un essere solo: tanti prodigi, non possono che riempirci di stupore e di ammirazione. Ma, se parliamo dell’adorabile sacramento dell’Eucaristia, possiamo dire che qui v’è il prodigio dell’amore d’un Dio per noi: qui la sua potenza, la grazia, la bontà sua risplendono in modo al tutto straordinario. Possiamo dire con tutta verità, che qui v’è il pane disceso dal cielo, il pane degli Angeli, che ci è dato per cibo delle anime nostre. E questo pane dei forti che ci consola, ed addolcisce le nostre pene. E qui veramente ” il pane dei viatori; „ diciamo anzi, F. M., la chiave che ci ha aperto il cielo. “Chi mi riceverà, dice il Salvatore, avrà la vita eterna: chi non mi riceverà, morrà. Chi ricorrerà, dice il Salvatore, a questo sacro banchetto farà nascere in sé una fonte che zampillerà sino alla vita eterna(Giov. VI, 54, 55). Ma per meglio conoscere l’eccellenza di questo dono, bisogna esaminare sino a qual punto Gesù Cristo ha spinto il suo amore per noi in questo Sacramento. No, F. M., non bastava al Figlio di Dio l’essersi fatto uomo per noi: per accontentare il suo amore, bisognò che si desse a ciascuno di noi in particolare. Vedete, F. M., quanto ci ama. Nel medesimo istante che i suoi poveri figli si preparavano a farlo morire, il suo amore lo porta a fare un miracolo, per restare in mezzo ad essi. Si vide, si può vedere un amore più generoso e più splendido di quello che ci mostra nel Sacramento del suo amore? Non possiamo dire, come il Concilio di Trento, che in esso la sua liberalità e generosità hanno esaurito tutte le loro ricchezze ? (Sess. XIII, cap. II). Può forse trovarsi qualche cosa sulla terra, ed anche in cielo, capace di essergli messa a confronto? Si vide alcune volte la tenerezza d’un padre, la liberalità d’un re pei suoi sudditi andar sì oltre quanto quella di Gesù Cristo nel Sacramento dei nostri altari! Vediamo che i genitori, nel testamento danno i loro beni ai figli: ma nel testamento che Gesù Cristo ci fa, non ci dà i beni temporali, poiché li abbiamo…, ma ci dà il suo Corpo adorabile ed il suo Sangue prezioso. Oh! felicità del Cristiano, quanto poco sei gustata! – No, F. M., non poteva spingere più lungi il suo amore che dandosi a noi: poiché ricevendolo, lo riceviamo con tutte le sue ricchezze. Non è questa la vera prodigalità d’un Dio per le sue creature? Sì, se Dio ci avesse data la libertà di domandargli quanto desideravamo, avremmo osato spinger sì lontano le nostre speranze? “D’altra parte, Dio stesso, benché Dio, poteva trovare cosa più preziosa da dosarci?„ domanda S. Agostino. Sapete, F . M., che cosa indusse Gesù Cristo ad acconsentire di restar notte e giorno nelle nostre chiese? Ah! F. M., fu perché ogni volta volessimo vederlo, potessimo trovarlo. Ah! tenerezza di padre, quanto sei grande! Può esserci cosa più consolante per un Cristiano, che sa di adorare un Dio presente in Corpo ed Anima!” Ah! Signore, esclama il Re-profeta, un giorno passato vicino a Voi, è preferibile a mille passati nelle adunanze del mondo!„ (Ps. LXXXIII, 11) Che cosa rende le nostre chiese così sante e rispettabili? Non è la presenza di Gesù Cristo? Ah! popolo felice quello dei Cristiani!

II. — Ma, chiederete, cosa dobbiamo fare per testimoniare a Gesù Cristo il nostro rispetto e la riconoscenza nostra? — Ecco, F. M.:

1° Non ci presenteremo davanti a Lui se non col più grande rispetto, e lo seguiremo in processione con gioia tutta celeste, raffigurandoci alla mente il gran giorno di quella processione che si farà dopo il giudizio universale. – Sì. F. M., per penetrarci del rispetto più profondo basta ricordarci che siamo peccatori, che siamo indegni di seguire un Dio così santo e puro. E un padre buono che tante volte abbiam disprezzato ed oltraggiato, che ci ama ancora, e ci dice che è pronto ad accordarci perdono. Cosa fa Gesù Cristo quando lo portiamo in processione? Eccolo. E come un re buono in mezzo ai suoi sudditi, come un buon padre circondato da’ suoi figli, come un buon pastore che vigila il suo gregge. Qual pensiero dobbiamo avere seguendo il nostro Dio? Eccolo. Dobbiamo seguirlo come i primi fedeli lo seguivano quand’era sulla terra, e beneficava tutti. Se avessimo la ventura di accompagnarlo con fede viva, potremmo essere sicuri di ottenere quanto gli domanderemo. Leggiamo nel Vangelo, che due ciechi, trovatisi sulla via seguita dal Signore, si posero a gridare: “O Gesù! Figlio di Davide, abbi pietà di noi! „ Gesù, n’ebbe compassione e domandò loro cosa volessero. “Ah! Signore, gli dissero, fate che noi vediamo. „ — “Ebbene! vedete, „ disse loro il buon Salvatore. (Matt. XX, 30-34).Un gran peccatore, Zaccheo, desiderando vederlo, s’arrampica su d’un albero: ma Gesù Cristo, che non ora venuto che per salvare i peccatori, gli gridò: “Zaccheo, discendi, perché oggi voglio fermarmi in casa tua. „ In casa tua! È come se gli avesse detto: Zaccheo, da lungo tempo la porta del tuo cuore è chiusa pel tuo orgoglio e le tue ingiustizie: aprimi oggi, vengo a darti il perdono. Sull’istante Zaccheo discende, si umilia profondamente davanti al suo Dio, ripara tutte le sue ingiustizie, e non vuol più che la povertà ed i patimenti per sé. O  fortunato momento che gli valse una felicità eterna! Un altro giorno in cui il Salvatore passava per un’altra via, una povera donna, afflitta da dodici anni da una perdita di sangue, lo seguiva. “Ah! diceva tra sé, se avessi la fortuna di toccare anche solo il lembo del suo abito, sono sicura che guarirei. „ (Luc. XIX, 1-10). Piena di confidenza, corre a gettarsi ai piedi del Salvatore, tocca il lembo del suo abito e sull’istante è liberata dal suo male. Sì, F. M., se avessimo la medesima fede, la medesima confidenza, otterremmo le medesime grazie: perché è lo stesso Dio, lo stesso Salvatore, lo stesso Padre, animato dalla stessa carità. “Venite, diceva il Profeta, venite, Signore, uscite dai vostri tabernacoli, mostratevi al popolo vostro che vi desidera e vi ama. „ Ahimè! quanti ammalati da guarire: quanti ciechi, cui render la vista! Quanti Cristiani, che seguiranno Gesù Cristo, e la loro povera anima è ricoperta di piaghe! Quanti Cristiani che sono nelle tenebre, e non vedono che son vicini a cadere nell’inferno! Mio Dio! Guarite gli uni ed illuminate gli altri! Povere anime, quanto siete sventurate! S. Paolo ci dice che essendo ad Atene, trovò scritto sa un altare: “Al Dio ignoto, „ o almeno dimenticato (Act. XVII, 23). Ah! F. M.! io potrei ben dirvi al contrario: vengo ad annunciarvi un Dio che sapete essere il vostro Dio, e non lo adorate e lo disprezzate. Quanti Cristiani che nei giorni di domenica non sanno che fare del loro tempo; che non si degnano neppure di venire per qualche breve momento a visitare il loro Salvatore, che arde di desiderio di vederli a sé vicini, per dir ad essi che li ama e vuol colmarli di benefizi. Oh! qual vergogna per noi!… Succede qualche novità? Si lascia tutto, e si corre. Per Iddio altro non facciamo che disprezzarlo e fuggirlo; il tempo ci pesa alla sua santa presenza; quanto facciamo è sempre lungo. Ah! qual differenza tra i primi fedeli e noi! essi consideravano come il tempo più felice di lor vita quello in cui avevano la fortuna di passare i giorni e le notti intere nelle chiese a cantar le lodi del Signore, od a piangere i loro peccati: ma oggi non è più così. Egli è lasciato, abbandonato da noi, v’è persino chi lo disprezza: la maggior parte ci presentiamo nelle chiese, in questi luoghi sacri, senza rispetto, senza amor di Dio, senza neppur sapere cosa vi veniamo a fare. Gli uni lasciano occupare il loro spirito ed il cuore da mille cose terrestri, e forse anche peccaminose: gli altri vi stanno con noia e disgusto: altri s’inginocchiano a fatica, mentre un Dio sparge il suo sangue prezioso pel loro perdono: altri infine lasciano appena discendere il Sacerdote dall’altare e subito sen fuggono. Mio Dio, come i figli vostri vi amano poco, o piuttosto vi disprezzano! Infatti, quale spirito di leggerezza e dissipazione non mostrate voi, quando siete in chiesa! gli uni dormono, gli altri parlano, e quasi nessuno si occupa di quanto dove fare.

2° F. M., tutti noi, fatti per Iddio, ricolmati di continuo de’ suoi benefizi più abbondanti, tutti dobbiamo testimoniargli la nostra riconoscenza, e affliggerci di vederlo tanto oltraggiato. Dobbiam fare come un amico che si rattrista per la sventura di un amico: così gli mostra sincera amicizia. Eppure, F. M., per quanti servigi abbia quest’amico potuto rendere all’amico, non avrà fatto mai quanto Dio ha fatto per noi. — Ma, chi deve, a quanto pare, dimostrare un amore più grande ed ardente per gli oltraggi che Gesù Cristo riceve da parte dei cattivi Cristiani? — Certamente tutti debbono affliggersi dei disprezzi che gli si fanno, e procurar di risarcirnelo: ma alcuni fra i Cristiani vi sono obbligati in modo particolare; ed eccoli: sono coloro che hanno la ventura d’appartenere alla confraternita del Ss. Sacramento. Dico: “Che hanno la fortuna. „ Ah! può darsi sorte più cara di quella d’esser scelti per far riparazione a Gesù Cristo degli oltraggi che riceve nel Sacramento del suo amore? Ma non illudetevi, F. M; come confratelli, siete obbligati a condurre una vita ben più perfetta che il resto dei Cristiani. I vostri peccati sono assai più sensibili per Gesù Cristo. Miei cari, non basta portare una candela in mano, per mostrar d’essere fra coloro che Dio ha scelto: ma bisogna che ci distingua la nostra vita, come la candela ci distingue da chi non l’ha. Perché, F. M., brillano queste candele? se non perché la vita vostra dev’essere un modello di virtù, e voi dovete gloriarvi d’essere figli di Dio, pronti a dar la vita per sostenere gli interessi del vostro Dio, al quale vi consacraste con grande sincerità? Sì, F. M., affaccendarsi ad abbellir le chiese ed i tabernacoli: sono queste buone e lodevoli dimostrazioni esteriori: ma non bastano. I Betsamiti, quando l’arca del Signore passò per il loro territorio, mostrarono la maggior premura e lo zelo più ardente: appena scortala, il popolo uscì in folla per incontrarla: tutti si affrettarono di uccidere buoi pel sacrificio. Eppure cinquanta mila furon colpiti da morte, perché non era stato abbastanza grande il loro rispetto!. (1 Re, VI). Oh! F. M., ci deve ben far tremare quest’esempio! Cosa rinchiudeva quell’arca? Ahimè! un po’ di manna, le tavole della legge: eppure, perché coloro che vi s’avvicinano non sono abbastanza penetrati della sua presenza, il Signore li colpisce di morte. Ma, ditemi, chi riflettendo alquanto alla presenza di Gesù Cristo, non sarebbe colto da timore? Quanti, F. M., sono così sciagurati da far compagnia al Salvatore, col cuore macchiato di colpe! Ah! disgraziato, potrai ben piegar le ginocchia, mentre Dio si alza per benedire il suo popolo: i suoi sguardi penetranti non lasceranno di vedere gli orrori che sono nel tuo cuore. Ma se l’anima nostra è pura, presentiamoci a seguire Gesù Cristo come un gran re che esce dalla sua città capitale a ricevere gli omaggi dei sudditi, e colmarli di benefici. Leggiamo nel Vangelo, che i due discepoli d’Emmaus camminavano col Salvatore senza conoscerlo: quando lo riconobbero, scomparve. Rapiti di gioia, si dicevano l’un l’altro: “Come mai non l’abbiamo conosciuto? I nostri cuori non si sentivano forse infiammati d’amore quando ci parlava spiegandoci la santa Eucaristia?„ (Luc. XXIV, 13-32) Mille volte più felici, . M., di quei discepoli, che camminavano con Gesù Cristo senza conoscerlo, noi sappiamo che è il nostro Dio ed il nostro Salvatore, che parla in fondo al nostro cuore, e vi fa nascere un numero infinito di buoni pensieri, di buone ispirazioni. “Figlio mio, ci dice, perché non vuoi amarmi? Perché non lasci quel maledetto peccato, che mette un muro di separazione tra noi due? Ah! figlio mio, vuoi dunque abbandonarmi? vorrai costringermi a condannarti ai supplizi eterni? Figlio mio, eccoti il perdono: vuoi tu pentirti? „ Ma che gli dice il peccatore? “No, no, Signore, preferisco vivere sotto la tirannia del demonio ed esser riprovato, anziché domandarvi perdono. „ Ma, mi direte, noi non diciamo questo al buon Dio. — Ed io vi soggiungo, che lo dite continuamente, ogni volta Iddio vi manda il pensiero di convertirvi. Ah! infelice, verrà un giorno che domanderai quanto oggi rifiuti; e forse non ti sarà accordato. È certo, F. M., che se avessimo la fortuna di tanti santi, ai quali Dio si faceva vedere, come a S. Teresa, talora come bambino nella culla, talora confitto sulla croce, avremmo senza dubbio maggior rispetto ed amore per Lui: ma non lo meritiamo; e poi ci crederemmo già santi: il che ci sarebbe argomento d’orgoglio. Ma, sebbene il buon Dio non ci conceda una tal grazia, non è meno presente e pronto ad accordarci quanto gli domanderemo. – Raccontasi nella storia, che un sacerdote, dubbioso di questa verità, dopo aver pronunciato le parole della consacrazione: “Come è possibile, diceva tra sé, che le parole di un uomo facciano un sì gran miracolo? „ Ma Gesù Cristo, per rimproverargli la sua poca fede, fece trasudare sangue all’Ostia santa in grande abbondanza. Ascoltate che cosa ci dice il medesimo autore: essendosi appiccato il fuoco in una cappella, tutta la costruzione fu abbruciata e distrutta: e la santa Ostia restò sospesa in aria, senza appoggio alcuno: venuto il sacerdote a riceverla in un vaso, subito vi discese dentro (È il miracolo delle sante Ostie di Faverney, nella diocesi di Besançon, avvenuto il ’26 Maggio 1608. Mgr de Ségur, La Francia ai piedi del Ss. Sacramento, xv, ricorda alcune particolarità del fatto in modo un po’ differente dal racconto del Beato). . Leggiamo nella storia ecclesiastica (Questo celebre miracolo avvenne in Parigi l’anno 1290. Vedi Rohrbacher, Storia universale…, lib. LXXVI), che la fantesca d’un giudeo, per pura compiacenza verso del padrone, gli portò un’Ostia santa. Dopo ricevutala in bocca, questa disgraziata la prese, la mise nel fazzoletto e la portò al padrone. Questo mostro, ebbro di gioia per aver Gesù Cristo in suo potere, come già i padri suoi quando lo misero in croce, si abbandonò a quanto il furor suo poté ispirargli. Gesù Cristo volle mostrargli quanto vivamente sentisse gli oltraggi che gli faceva. Il disgraziato, messa l’Ostia santa su d’una tavola, la colpì parecchie volte col temperino: l’Ostia si coperse tosto tutta di sangue: il che fece fremere la moglie ed i figli suoi, presenti a così raccapricciante spettacolo. Ripresala, la sospende ad un chiodo, e le dà molti colpi di staffile e di lancia: il sangue usciva in grande abbondanza come prima. La riprende per la terza volta, e la getta in una caldaia d’acqua bollente. Subito l’acqua fu cambiata in sangue: e nello stesso istante Gesù Cristo riprende la forma che aveva sull’albero della croce. In tal modo sembrava volesse Gesù Cristo tentar se poteva di commuoverlo. Ma il disgraziato, simile a Giuda, considera il suo delitto come troppo grande, e, disperando del perdono, fu condannato ad esser abbruciato vivo. F. M., non possiamo udir questi orrori senza fremere. Ahimè! quanti Cristiani lo trattano ancor più crudelmente! Ma, mi direte, come è possibile diportarsi in tal modo? — Ahimè! amico mio, Dio voglia che non vi tocchi mai tale sventura! Ogni volta che acconsentite al peccato!: un pensiero di orgoglio lo calpesta sotto i piedi e gli dà la morte: un pensiero impuro gli squarcia il cuore. — Ahimè! in questa processione raffiguriamoci il Salvatore come se andasse al Calvario: gli uni gli davano dei calci, gli altri lo ricoprivano d’ingiurie e di bestemmie… soltanto alcune anime sante lo seguivano piangendo, e mescolavano le lor lagrime col Sangue prezioso, di cui bagnava la via. Oh! quanti Giudei e carnefici stanno per seguire Gesù Cristo, e non si accontenteranno solo di farlo morire una volta, ma sopra tanti calvari, quanti sono i loro cuori! Ah! è possibile che un Dio che ci ama tanto sia così disprezzato e maltrattato? Sì, F. M., se amassimo il buon Dio, ci faremmo una gioia ed una felicità di venir tutte le domeniche a passar alcuni istanti per adorarlo, domandargli la grazia di perdonarci: considereremmo questi momenti come i più belli della vita. Ah! che gli istanti passati con questo Dio di bontà sono dolci e consolanti! Siete nell’affanno! venite a gettarvi un momento a’ suoi piedi, e vi sentirete consolati. Siete sprezzati dal mondo? venite qua, e troverete un amico che non vi mancherà di fedeltà. Siete tentato? oh! è qui che troverete delle armi forti e terribili per vincere il vostro nemico. Temete il giudizio formidabile che ha fatto tremare i più gran santi? approfittate del tempo in cui il vostro Dio è il Dio della misericordia, ed in cui vi è sì facile ottenere la sua grazia. Siete oppresso dalla povertà? Venite qui,vi troverete un Dio infinitamente ricco, e che vi dirà che tutti i suoi beni sono per voi, non in questo mondo, ma nell’altro. “E là ch’io ti preparo dei beni infiniti; disprezza questi beni perituri, e ne avrai altri che non periranno mai. „ Vogliamo incominciare a gustare la felicità dei santi? veniamo qui, e ne gusteremo il beato inizio. Ah! quanto fa bene, F. M., il godere i casti amplessi del Salvatore! Non li avete mai gustati? Se aveste avuto tal felicità non potreste più abbandonarla. Non meravigliamoci più che tante anime sante abbiano passata la lor vita nella sua casa giorno e notte: esse non potevano più separarsi dalla sua presenza. – Leggiamo nella storia, che un santo sacerdote trovava tante dolcezze e consolazioni nelle chiese, che dormiva sul pavimento dell’altare per aver la fortuna, svegliandosi di trovarsi presso il suo Dio: e Dio, per ricompensarlo, permise che morisse ai piedi dell’altare. Vedete S. Luigi, che nei suoi viaggi, Invece di passar la notte nel letto, la passava aipiedi degli altari, vicino alla dolce presenza del suo Salvatore. Perché, F. M., abbiamo tanta indifferenza e disgusto quando dobbiamo venir qui? Ahimè! perché mai gustammo questi momenti felici. Che dobbiam concludere da tutto ciò? Eccolo. Dobbiam riguardare come il momento più felice di nostra vita quello, in cui possiamo tener compagnia ad un amico sì buono. Seguiamolo in processione con un santo timore: siamo peccatori, domandiamogli con dolore e lagrime il perdono dei nostri peccati e saremo sicuri di ottenerlo… Riconciliati, sollecitiamo il dono prezioso della perseveranza. Diciamogli che piuttosto di offenderlo ancora, preferiamo morire. No, F. M., fin che non amerete il vostro Dio non sarete mai contenti: tutto vi peserà tutto vi annoierà: ma dacché l’amerete, passerete una vita felice, e aspetterete la morte con desiderio… Quella morte avventurata che ci riunirà al nostro Dio!… Ah! felicità! quando verrai?… Quanto è lungo questo tempo! Ah! vieni! tu ci procurerai il più grande di tutti i beni, il possesso di Dio!… Ciò che… vi desidero.

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (8) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (V)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (8)

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE, AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (V)

Mi sono alquanto diffuso nell’esempio di questo illustre Atleta della libertà Ecclesiastica. Ma non è egli il solo. Basta scorrere le vite dei Santi Pastori, per esempio di S. Ambrogio, di S. Anselmo, di S. Antonino, di S. Carlo Borromeo, e da per tutto si trovano luminosi esempi di giusta resistenza alla loro invasione dei laici. Ora avrebber essi esposta la loro vita e la pace della Chiesa per conservare l’immunità e la giurisdizione Ecclesiastica, se non lo avesser creduto necessario? O pure la Chiesa ricorderebbe con lode il lor coraggio apostolico, se nol credesse degno d’ammirazione? Passo al presente all’ultima ricerca, cioè della vita e dell’esempio necessario e nella pace, e nella persecuzione ad un Vescovo. Il Concilio di Trento ei somministra in pochi tratti il metodo di vita, e l’esemplarità dovuta da un Pastore in ogni circostanza in faccia al suo gregge; e da questo metodo sarà facile l’argomentare come debba diportarsi, quando vede se stesso, e la sua Chiesa perseguitata, e combattuta (Concil. Trident. Sess. 25 de reform. cap. 1). « Optandum est (dice il Sacro Concilio), ut ii, qui Episcopale Ministerium suscipiunt, quæ suæ sint partes, agnoscant; ac se non ad propria commoda, non ad divitias, aut luxum; sed ad labores, et sollicitudines pro Dei gloria vocatos esse intelligant. Nec enim dubitandum est, et fideles reliquos ad religionem, innocentiamque facilius inflammandos, si præpositos suos viderint non ea, quæ mundi sunt, sed animarum salutem, ac cœlestem patriam cogitantes. Hæc cum ad restituendam ecclesiasticam disciplinam præcipue esse necessaria Sancta Synodus animadvertat; admonet Episcopos omnes, ut secum ea sæpe meditantes factis etiam ipsis, ac vitae actionibus, quod est veluti perpetuum quoddam prædicandi genus, se muneri suo conformes ostendant: în primis vero ita mores suos omnes componant, ut reliqui ab eis frugalitatis, modestiæ, continentiæ, acquæ nos tantopere commendat Deo, sanetae humilitatis exempla petere possint. Quapropter exemplo Patrum nostrorum in Concilio Carthaginensi, non solum iubet, ut Episcopi modesta suppellectili, et mensa, ac frugali vietu contenti sint; verum etiam in reliquo vitæ genere, ac tota cius domo caveant, ne quid appareat, quod a sancto hoc instituto sit alienum; quodque non simplicitatem, Dei zelum, ac vanitatum contemptum præseferat. Omnino vero iis interdicit, ne ex redditibus Ecelesiæ consanguineos, familiares suos augere studeant: cum el Apostolorum canones prohibeant, ne res ecclesiasticas, quæ Dei sunt, consanguineis donent, sed, sì pauperes sint, iis, ut pauperibus, distribuant eas autem non distrahant, nec dissipent illorum causa: immo quam maxime potest, eos saneta Synodus monet, ut omnem humanum hune erga fratres, nepoles, propinquosque carnis affectum, unde multorum malorum in Ecclesia seminarium extat, penitus deponat. » [Sarebbe desiderabile che chi riceve il ministero episcopale conosca i propri doveri e comprenda di essere stato chiamato non per cercare la propria utilità, né per procurarsi ricchezze o vivere nel lusso, ma a fatiche e preoccupazioni per la gloria di Dio. Non c’è dubbio che anche gli altri fedeli saranno piú facilmente incitati alla religione e all’onestà, se vedranno i loro pastori preoccupati non delle cose del mondo, ma della salvezza delle anime e della patria celeste. Il santo Sinodo comprende che questi principi sono fondamentali per il rinnovamento della disciplina nella Chiesa ed esorta tutti i vescovi perché, meditandoli spesso, anche con i fatti stessi e le azioni della vita, si mostrino conformi al loro ufficio: cosa che può considerarsi un continuo modo di predicare. E prima di tutto, diano un andamento tale a tutto il loro modo di vivere, che gli altri possano prendere da essi esempio di frugalità, di modestia, di continenza e di umiltà, che ci rende tanto graditi a Dio. Sull’esempio, quindi, di quanto prescrissero i nostri padri al Concilio di Cartagine (412), non solo comanda che i vescovi si contentino di una modesta suppellettile, di una sobria mensa e di un vitto frugale, ma che si guardino bene perché nel resto della loro vita e in tutta la loro casa non vi sia nulla di alieno da questo santo genere di vita, che non mostri zelo per Iddio e disprezzo per le vanità. In modo particolare, poi, proibisce loro assolutamente di cercare di favorire esageratamente i loro parenti e familiari con i redditi della Chiesa, poiché anche i canoni degli apostoli proibiscono loro di donare ai loro parenti i beni ecclesiastici che sono di Dio. Se poi fossero poveri, li diano loro come poveri, ma non li sottraggano e non li dissipino per essi. Anzi il santo Sinodo li esorta vivamente, perché depongano del tutto questo affetto umano della carne verso i fratelli, i nipoti e i parenti, da cui nella Chiesa hanno avuto origine tanti mali. Le cose dette dei vescovi non solo devono valere tenuto conto del grado di ciascuno per tutti quelli che hanno benefici ecclesiastici, sia regolari che secolari, ma si stabilisce che debbano valere anche per i cardinali della Santa Chiesa Romana, poiché sarebbe inconcepibile che quelli col consiglio dei quali il Romano Pontefice governa la Chiesa universale, non debbano poi brillare per le virtù e per una vita castigata, che attiri a buon diritto gli sguardi di tutti. Vuole dunque il Sacro Concilio ed esige dai Vescovi: la Frugalità, la Modestia, la Continenza, l’Umiltà, non di qualunque ge- nere, ma tale, che tutti gli altri da loro ne possano prender esempio. Vuole e comanda, che queste belle virtù traspirino e nella loro mensa, e nelle loro suppellettili, e in tutta la loro famiglia di modo che da per tutto si veda semplicità, zelo della gloria di Dio, e disprezzo di tutte le vanità mondane. Vuole e comanda, che le rendite della Chiesa si impieghino in usi pii, e non mai in accrescere lo stato dei congiunti, avvertendo, che quest’umano affetto è nella Chiesa di Dio un seminario di molti mali.]. – Queste regole generali di vita per tutti i Pastori della Chiesa si possono vedere minutamente ridotte a una legge pratica dai Concili Provinciali di Milano celebrati sotto l’insigne Pastore di quella Chiesa, dico l’immortale S. Carlo Borromeo. Io ne ho riportato un breve squarcio. nell’Opuscolo intitolato: Abusi nella Chiesa: ma ciascuno può da se stesso molto meglio mettersi all’esame di quelle savissime leggi. Che se alcuno replicasse, che di que’ tempi il lusso tra i secolari non era così eccessivo, come ai tempi nostri, e che perciò più facilmente potevano moderare lo splendor della lor famiglia anche gli Ecclesiastici; rispondo: primo, che ciò è falso, perché l’istesso S. Carlo nella sua Istruzione ai Confessori dice espressamente così: Sono ridotte le pompe di questi tempi nel maggior colmo, che possano essere (Act. 4, p. 652, edit. Lugdun. ann. 1862). Secondo, perché quanto è maggiore il lusso nei secolari, tanto dev’essere maggiore la moderazione negli Ecclesiastici, essendo inutile ogni altro mezzo per estirpare il lusso, fino a tanto che i secolari potranno dire: che gli Ecclesiastici insegnano una cosa, e ne fanno un’altra. Se un arboscello è molto inclinato da una parte, non basta tirarlo al mezzo per raddrizzarlo, ma bisogna piegarlo violentemente dall’altra, perché lasciandolo in libertà torni al suo sito, e alla sua dirittura naturale. Altrimenti se uno si contentasse di tirarlo soltanto al mezzo, lasciandolo poi andare, ripiglierebbe subito la sua prima inclinazione. Voglio dire, che quanto è maggiore il lusso ne’ laici, tanto dev’essere maggiore la semplicità, e la frugalità degli Ecclesiastici, per riformare col loro esempio il mondo ingannato. Guardate, se siamo lontani che quella scusa abbia nessuna forza nel caso nostro. Certo è, che senza distinzione alcuna di tempo né di circostanze decide su questo particolare il Cardinal Bellarmino (ad Nepot. Controv. 8) così: « Certum est peccare mortaliter eos Episcopos, qui non sunt contenti frugali mensa, et tenui suppellectili, et reliqua non insumunt in reparationem Ecclesiæ, et usum pauperum ». Ed è da notare, che appoggia la sua decisione sull’autorità di (2, 2 qu. 183, art. 7) S. Tomaso. Replica non molto di poi spiegando sempre più chiaramente la sua opinione: « Frugalius vivere debent, multoque cum minori pompa, quam divites huius mundi. Negue conviviorum aut lautities illis est licita, neque alius domesticus apparatus. Nam, ut ait Hieronymus, de altari illis vivere fas est, non luxuriari. » – Passo innanzi adesso, e dico così: Se la frugalità, la modestia, l’umiltà, il disinteresse, la semplicità d’un Vescovo dev’esser somma in ogni tempo, molto più lo dev’essere in tempo di persecuzione. E perché? Perché questo è un mezzo necessario per recidere e per deludere la persecuzione medesima. Questa proposizione viene corroborata da tre gagliarde ragioni. Primo; perché questo è quello, che ordinariamente vuole Iddio col permettere la persecuzione. Secondo; perché questo è quello, che più spaventa il furore della Podestà secolare. Terzo; perché questo è quello, che rende un Vescovo quasi affatto libero per esercitare il suo ministero, e per difendere la sua Chiesa. Spiego tutte queste ragioni una per una.

Primo: Dio col permettere la persecuzione ordinariamente domanda riforma negli Ecclesiastici, e specialmente nei Pastori. Dunque in tempo di persecuzione i Pastori devono in singolar modo attendere a riformarsi non solo nello spirito, ma anche nell’esterno tenor di vita. Questo si prova con un argomento d’induzione. Imperocchè ordinariamente le persecuzioni si sono permesse da Dio in pena, e in emenda dei falli. Chi è colui, dice Geremia (Thren. III, 37 et segg.) il quale va dicendo, che i mali d’Israele sono accaduti senza comando del Signore? « Quis est iste, qui dixit, ut fieret, Domino non iubente? Ex ore Altissimi non egredientur nec bona, nec mala? » Questa diventa una falsa difesa dei peccati. Quid murmuravit homo vivens, vir pro peccatis suis? Esploriamo puree ricerchiamo i nostri passi, e torniamo al Signore; per questo Egli è divenuto inesorabile, e ha stesa dinanzi a’ suoi occhi una nube, perché non passino al suo cospetto le nostre orazioni: Scrutemur vias nostras, et quæramus, et revertamur ad Dominum… Nos inique egimus, et ad iracundiam provocavimus idcirco tu inexorabilis es…. Opposuisti nubem tibi, ne transeat oratio. Questo è quello, che dice anche Iddio per bocca del Profeta Amos (Am. III, 4): Osservate, se v’è male nessuno, che non sia stato fatto dal Signore: Si erit malum in civitate, quod non fecerit Dóminus. Io l’ho detto in altro luogo (Lettera a Sofia) su la scorta del Vangelo. Quando il vizio è arrivato a diseccare, o a infracidare molti tralci della vite, i quali non fanno più frutto, viene l’agricoltore celeste, e gli recide, e gli (Joa. XV, 2) separa; e in quella stessa occasione rimonda i tralci fruttiferi, acciocchè facciano più frutto. Quando tra il grano eletto si è mescolata molta paglia, il capo di famiglia prende in mano il vaglio (Luc. III, 17), e separa l’uno dall’altra, raduna il frumento nel suo granaio, e ammucchia le paglie sul fuoco per arderle. Quando la religione è divenuta quasi soltanto una esterior apparenza, e lo zelo non si distingue ormai più dall’interesse, perché producono quasi gli stessi effetti, allora Iddio permette nella sua Chiesa una gran tentazione; affinché (Luc. III, 34, et 35) si scuoprano gli occulti pensieri dei cuori (Joan. II, 19) ipocriti. Per questo Iddio permise la profanazione del Tempio (2 Machab. V, 17 et sequ. VI, 12 et seq.) sotto Antioco, e non la permise. sotto Seleuco, cioè « propter peccata habitantium civitatem… propter quod et accidit circa locum destructio. . .. perché non propter locum gentem, sed propter gentem locum Deus elegit. Ideoque et ipse locus particeps factus est populi malorum. » La permise Iddio per correzione del suo popolo: « Reputent ea, quæ ceciderunt, non ad interitum, sed ad correctionem esse generis nostri.» Per questo Iddio permise nella sua Chiesa la crudele persecuzione di Decio, e di Diocleziano, come osservano Eusebio, e S. Cipriano (Eused. hast. lib. 8, c. 1, S. Cypr. ep. 7, et lib. de Lapsis edit. Venet. 1758, col. 435); rilevando specialmente la corruttela, la negligenza, l’avarizia dei Pastori di quel tempo. Per questo ha permesso Iddio tant’altre (Sanct. Bernardin. Senens, in Apoc. cap. 2 Edit. Venet. 1745, 1.5, p. 18) persecuzioni nella sua Chiesa; e ciò ben si conosce col riflettere, che le persecuzioni non sono ordinariamente cessate, se non con qualche riforma specialmente degli Ecclesiastici; e così avvenne dell’eresia di Lutero, la quale non fece gran progressi dopo le riforme del Concilio di Trento. Dunque ogni qual volta si vuole il termine di qualche atroce persecuzione: Scrutemus vias nostras, et quæramus, et revertamur ad Dominum; altrimenti non avranno nessuno forza le nostre orazioni; Opposuisti nubem tibi, ne transeat oratio.

Secondo: non v’è cosa, che spaventi tanto la podestà secolare, quanto la sobrietà, l’umiltà e il disinteresse d’un Vescovo. Dunque in tempo di persecuzione sono sommamente necessarie queste virtù in un Pastore per far argine alle invasioni della secolar podestà. La ragione è molto chiara, se si rifletta, che l’idolo del mondo è l’interesse, l’onore, e la grandezza, e che queste sono le cose, che nel mondo si stimano, e che queste sono i premi, che dà il mondo, e che la privazione di questi beni è uno dei maggiori castighi del mondo. Quando adunque il mondo vede un Vescovo, che non cura nessuna di queste cose, si spaventa ne’ suoi disegni, perché non ha più come assalirlo, né con speranza di premi, né con minacce di povertà, e d’esilio, e in conseguenza resta molte volte avvilito nelle sue pretese. Infatti le prime mosse del mondo contro la Podestà Ecclesiastica incominciano d’ordinario dall’impadronirsi de’ suoi Beni, per avere in mano il freno; con cui regolare a capriccio la sua giurisdizione, e la sua fede. Dunque non v’è un mezzo migliore in tempo di persecuzione per resistere alle macchine del mondo, quanto un totale disprezzo de’ suoi beni. – In fine il disinteresse è quello, che rende un Vescovo. Quasi affatto libero nell’esercizio del suo ministero e nella difesa del suo gregge. Dunque il disinteresse è sommamente necessario al Vescovo in tempo di battaglia. Anche questo si manifesta ad evidenza riflettendo, che le Maggiori tentazioni per tradire il proprio impiego nascono d’ordinario dalla cupidigia d’avere, o di conservare i beni del mondo; e quanto più uno è spogliato di questo attacco, tanto è più coraggioso per intraprendere qualunque affare di servigio di Dio, e della Chiesa; ma dei primi non è così: « Qui volunt divites fieri in tentationem, et in laqueum diaboli, ‘et desideria multo inutilia, et nociva, quæ mergunt homines in interitum, et perditionem. Radix enim omnium malorum est cupiditas: quam quidam appetentes erraverunt a fide.  Al contrario coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione. L’attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori. – 1 Timot. VI, 9 ».  E pure troppo è verissimo quello, che dice, e ripete l’Ecclesiastico (Eccles. XI, 10): Si fueris dives; non eris immunis a delictose esagererai, non sarai esente da colpa; e (XXXIV, 5) si aurum diligit, non iustificabitur – se ami l’oro, non sarai giustificato … Onde per evitare questi pericoli non v’è altro rimedio, che posseder le ricchezze, come se non si avessero, ed esser poveri di spirito in mezzo all’abbondanza. Per questo anche ha detto Gesù Cristo quella gran sentenza: (Luc. XIV,  33). Qui non renuntiat omnibus, quæ possidet, non potest meus esse discipulus; che chi non rinunzia coll’affetto a tutto ciò che possiede, non può essere discepolo. Ora dico io, come può essere distaccato col cuore dai beni della Chiesa quel Vescovo, il quale se ne serve per far buona comparsa nel mondo, e mette prima da parte tutti i suoi comodi, e tutta quella, che il mondo chiama decenza dello stato superiore talvolta alla decenza dei ricchi del secolo; e poi destina gli avanzi, e le briciole, che cascano dalla mensa, al sovvenimento dei poveri, i quali per altro sono quasi egualmente padroni dei beni della sua Chiesa? Come può un tal Vescovo aver le mani libere per esercitare la sua autorità, e per difendere la sua fede, quando il mondo lo minacci di spogliarlo di tutto quello, che sino allora amò con tanta sollecitudine? Non mancheranno pretesti e dettami per acquietare insieme la propria cupidigia, e la propria coscienza; e si vorranno conciliare insieme questi due padroni, cioè Dio, e il mondo; ma sì perderà certamente Iddio, perché servire a due padroni non si può; e questo è di fede. – Ma un Vescovo, che non abbia attacco né ai suoi comodi, né al proprio lustro, e che possa dire, che il mondo non trova in lui niente del suo, non ha nemmeno nessuna paura della morte. Ma un Cristiano frugale, e disinteressato non ha grande inimicizia colla morte, perché la morte poco gli può togliere, e molto gli può dare col metterlo ai confini di quell’eternità, dove sarà liberato di tutto il peso del suo ministero, e riceverà cento per uno di tutto quello, che fedelmente ha distribuito ai poveri. Oltre a che Dio è impegnato ad aiutare in tale circostanza quel servo fedele, che ha mostrato tanta cura della sua famiglia, e che ha vestito e sfamato tante volte Lui medesimo nella persona de’ suoi poverelli. Dunque la frugalità, e il disinteresse rendono un Vescovo libero, e coraggioso nell’esercizio della sua giurisdizione e nell’insegnamento della Fede. Dunque la frugalità, e il disinteresse sono oltremodo a lui necessari in tempo di persecuzione, in cui si combatte la Fede e l’Autorità della Chiesa. E con ciò io credo di aver abbastanza soddisfatto a quei tre articoli, che mi proposi ad esaminare sin da principio scorrendo quei punti principali, che potrebbero esigere qualche esame in queste circostanze. Sarebbe stato facile il recare più esempi, o più autorità intorno ad ogni quesito. Ma questa non è un Opera; è un Opuscolo, che può correre agevolmente per le mani di molti senza spaventare colla sua mole, e col suo peso chi si presenta a riguardarlo, e a leggerlo. Questo è stato il costume di molti Padri, come per esempio di Tertulliano, di S. Ambrogio, di S. Cipriano, di S. Bernardo, di S. Pier Damiani, e di più altri. V’è la sua utilità nelle Opere grandi, e v’è nelle piccole. Ognuno segue il suo talento, il suo genio, e i suoi fini.

F I N E

LA PARUSIA (8)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (8)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE Rue de Rennes, 117 – 1920 TOUS DROITS RÉSERVÉS

ARTICOLO OTTAVO

LA PAROUSIA NELLE EPISTOLE DEGLI APOSTOLI, GLI ULTIMI GIORNI, IL DECLINO DEI SECOLI.

Bossuet, nel libro IV della sua Storia delle Variazioni, dà un bell’esempio del modo in cui coloro che si impegnano nella lettura della Scrittura e dei Padri diventano confusi, privi di una sufficiente preparazione teologica, ignorando le regole dell’ermeneutica sacra e i suoi principi fondamentali, disdegnando qualsiasi guida dalla tradizione o dal magistero della Chiesa, e per dirlo in una parola, con le sole risorse delle loro belle menti e della comune critica letteraria. L’esempio ci viene offerto nella persona di Melantone, che fu al suo tempo il più rinomato degli umanisti tedeschi, e rappresenta, inoltre, tutto ciò che era più o meno rispettabile tra i grandi capi della Riforma. Questo Melantone, al quale non si poteva negare una certa dose di sincerità e di zelo per la religione senza ingiustizia, aveva iniziato sostenendo con forza la realtà della presenza di Gesù Cristo nel sacramento dell’Eucaristia. Aveva persino composto un libro del “Sentimento dei Santi Padri sulla Cena del Signore“, in cui aveva raccolto molti passaggi esplicitanti la verità del dogma cattolico. Solo che, nel corso del tempo, si era reso conto che, tra il gran numero di testi citati, molti erano falsamente attribuiti a coloro che non ne erano gli autori, e questa spiacevole scoperta era stata la causa della sua prima delusione. Ben presto sorse un altro motivo di imbarazzo, più serio e fondamentale, che Bossuet spiega in questi termini: « Ciò che lo imbarazzava di più era trovare negli antichi molti luoghi dove chiamavano l’Eucaristia una figura. Ha raccolto i passaggi e si è stupito, dicendo di vedere una grande diversità in essi. Egli era un debole teologo che non si rendeva conto che lo stato di fede e di questa vita non ci permetteva di godere di Gesù Cristo allo scoperto, per cui si è dato in una forma estranea, unendo necessariamente la verità con la figura, e la presenza reale con un segno esterno che ce la coprisse. È da ciò che viene nei Padri questa apparente diversità che stupiva Melantone. La stessa cosa gli sarebbe apparsa, se ne avesse preso atto, sul mistero dell’Incarnazione e sulla divinità del Figlio di Dio, prima che le dispute degli eretici avessero obbligato i Padri a definirli con maggior precisione . E in generale, ogni volta che è necessario accordare insieme due verità che sembrano contrarie, come nel mistero della Trinità e in quello dell’Incarnazione, essere uguale ed essere meno (uguale al Padre, e meno di Lui), e nel sacramento dell’Eucaristia – essere presente ed essere in figura (presente sostanzialmente, ma sotto specie estranee) -. L’uso rende naturalmente il linguaggio che sembra confuso, a meno che non si abbia, per così dire, la chiave della Chiesa, e la piena comprensione di tutto il mistero… Melantone non sapeva così tanto… Grande umanista, ma solo un umanista, aveva a malapena potuto imparare l’antichità ecclesiastica dal suo maestro Lutero, ed era tormentato da una strana specie di contrarietà che credeva di vedere nei santi Padri. »  Tale fu, secondo Bossuet, la storia dei dubbi di Melantone all’inizio, poi dei malintesi e infine delle palinodie sul dogma dell’Eucaristia. Ora, la storia è degna di nota, da ricordare, perché non è un caso isolato, né un incidente fortuito; è, al contrario, un caso che si ripete con la costanza e la regolarità di una legge, ovunque l’interpretazione delle Scritture sia lasciata, come qui, alle sole risorse della letteratura e della mente privata. È ripetuto, in particolare sul punto preciso della parusia, dai nostri modernisti attuali, che vediamo sconcertati, allo stesso modo e nelle stesse condizioni, dalle contraddizioni che credono di trovare negli scritti degli Apostoli. Infatti, non leggiamo forse in San Paolo, per esempio, per non parlare di altri, che la parusia era vicina, che era alle porte, che non poteva essere ritardata, e d’altra parte che non bisognava dare alcun credito alle voci diffuse sull’imminenza della sua venuta? Nessuno di essi doveva realizzarsi, dico, e per la buona ragione che prima del suo arrivo, dovevano essere realizzati molti degli eventi, ed i più considerevoli. E come possiamo conciliare insieme cose che sembrano così contrarie? … essere vicino ed essere lontano? Ancora nell’ignoto del futuro, e già in vista, già sul punto di essere realizzato? – Quindi ci sarà una doppia spiegazione. Per coloro che usano «la chiave della Chiesa », la chiave che dà « la piena comprensione di tutto il mistero » come previsto dalla Scrittura, riconosceranno senza difficoltà i due punti di vista che abbiamo spiegato a lungo negli articoli precedenti. Diranno che la parusia secondo San Paolo, per quanto remota possa essere stata in relazione all’universalità del mondo, era allo stesso tempo molto vicina in relazione ad ogni uomo in particolare, e a quelli in particolare, la maggior parte dei quali erano arrivati alla fine della loro carriera, che l’Apostolo esortava e aveva direttamente in vista. E questa spiegazione, così naturale e così semplice, finché si comprende il principio su cui poggia, ha il doppio vantaggio di dare da un lato, piena soddisfazione alla mente, e dall’altro, di essere in completo accord con i dati generali della fede, che non soffrono nei libri ispirati di errori di alcun tipo. Ma quanto diversa sarà la soluzione di coloro che, senza alcuna preoccupazione per la chiave di cui la Chiesa è custode, senza alcun riguardo per la regola della tradizione, senza essersi mai presi la briga di sapere che esista un glossario proprio degli Scrittori sacri, sono rimasti, come Melantone, “solo umanisti”! Essi non sapranno dire altro se non: … che le prime generazioni cristiane erano ossessionate dall’idea che il mondo stesse per finire, e che, nonostante certi tratti sparsi che ci mostrano San Paolo affrancato a volte da questa ossessione (Duchesne, Histoire ancienne de l’Eglise, tom. 1, cap. 4, pag. 41 – edizione 1900), bisogna ammettere che ha pesato nella mente degli stessi Apostoli, e anche nella scrittura delle loro lettere, che ogni Cristiano è tenuto a riverire come scritte sotto la dettatura o l’ispirazione dello Spirito di Dio. E questa è la loro spiegazione: una spiegazione che è apertamente contraria alla fede cattolica, ma alla quale li conduce fatalmente la loro ignoranza – in cui essi sono – degli idiotismi della Scrittura, e della maniera propria di alterare le cose.  Altrettanto si deve dire ora delle conclusioni che essi traggono da un’altra classe di testi, che la continuazione del nostro soggetto ci porta ad esaminare; intendo quelli in cui gli apostoli chiamano comunemente il tempo in cui vivevano, gli “ultimi giorni” (Act,, II, 16 segg.. ; II Tim,, III, 1 ; Piet. III, 3, etc.), “l’ultima ora” (I Joan., II 18), o “la fine e il declino dei secoli” (I Cor,, x, Hebr., IX, 26).

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Certamente, se c’è un punto in cui la Scrittura ha un modo di parlare che è interamente proprio, è quello che riguarda la cronologia del mondo. Per convincersene, basterebbe aprirla dalla primissima pagina, dove si racconta la formazione dell’universo in sei diversi periodi chiamati i sei giorni. È vero che si potrebbero riempire intere biblioteche con le diverse e contraddittorie opinioni che sono state espresse nel corso dei secoli riguardo ai giorni della Genesi. Cosa non è stato detto, cosa non è stato scritto?  Tuttavia, sembra che oggi, dopo tante scoperte nelle viscere della terra, dove si conservano intatte le registrazioni autentiche del processo della creazione (almeno dal momento in cui iniziò l’individualizzazione della terra con la sua separazione dalla massa primitiva), sia difficilmente possibile conservare il minimo dubbio sul loro vero significato. Lasciamo dunque da parte l’interpretazione di Sant’Agostino: un’interpretazione alla quale fu portato solo da una versione errata di un testo dell’Ecclesiastico (Ëccl., XVIII, 1 – Sant’Agostino leggeva con la Vutgata: Qui vivit in æternum creavit omnia simul, Colui che vive eternamente ha creato tutto nello stesso tempo. Invece il Greco recita: ha creato tutto, [κοινή = koine], communiter, cioè tutto senza eccezione, ed anche, e principalmente, come egli stesso spiega in varie occasioni, per la necessità di sfuggire a difficoltà di natura fisica, per le quali non vedeva, nello stato delle scienze naturali del suo tempo, alcun tipo di soluzione (De Gen. ad litt , liv. 1, c. 19; liv. IV, c. 28, et alibi passim). Non parliamo nemmeno dell’invenzione di alcuni moderni, per i quali la settimana della Genesi sarebbe stata solo una settimana comune e volgare, durante i sei giorni della quale Dio avrebbe presentato all’Adamo appena creato, in altrettanti quadri distinti, cioè in sei grandi visioni immaginarie, la storia dell’origine delle cose. Questa è una strana idea, perché ci permetterebbe ancora di dire che Dio abbia rivelato la creazione del cielo e della terra in sei giorni, ma non che li abbia fatti in sei giorni, come la Scrittura afferma formalmente in molti luoghi (Esodo, XX, 11; XXXI, 17, ecc.). Non impantaniamoci ulteriormente nella vecchia opinione classica che riteneva che questi giorni della creazione fossero giorni di ventiquattro ore: un’opinione che è stata smentita e dimostrata insostenibile, non tanto dagli scavi effettuati nelle viscere della terra, quanto dalle sorprendenti particolarità del testo di Mosè. Dico: “le particolarità del testo di Mosè”, tra le quali ce n’è una che, più delle altre, deve attirare qui la nostra attenzione. È questa è quella per cui i giorni dei quali si parla sono chiaramente giorni che, lungi dall’essere regolati dal corso uniforme del sole o di qualsiasi altra stella, non hanno altra misura della loro durata che la durata stessa delle opere a cui corrispondono, e secondo le quali si distinguono; essi cominciano con l’inizio di un’opera e finiscono con la fine di quella stessa opera; si dispiegano e si succedono secondo lo svolgimento e la successione delle grandi fasi dell’opera di formazione del mondo, e così si configurano come giorni di una condizione molto diversa da quelli che compongono le nostre settimane, mesi e anni (Dixitque Deus: fiat … et factum est ita. . et factum, est dies unus, dies secundus, dies tertius, etc.). – Restano dunque da considerare grandi epoche cosmiche, che la Scrittura, è vero, ci descrive solo nei loro tratti più generali e salienti; ma anche così, bisogna riconoscere, in tutte le cose almeno suscettibili di passare attraverso il nostro controllo, che in modo meraviglioso concordano con i dati più certi delle nostre scienze moderne, e specialmente della geologia. Infatti, una volta messo da parte l’opera dei primi due giorni, che è estranea alla geologia propriamente detta, « che comprende solo il tempo che va da quando la terra ha cominciato a depositarsi sul fondo dei mari e la vita poté nascere e svilupparsi sulla sua crosta sufficientemente raffreddata. » (A. de Lapparent, trattato di Geologia, Morfologia della Terra), non c’è nulla nella descrizione di Mosè che non sia sostenuto nel modo più chiaro, non dico da ipotesi o congetture, ma dalle conclusioni meglio fondate di questa scienza: sia che si tratti della prima formazione dei mari e dell’asciutto, o in altre parole, dei continenti, con cui inizia l’opera del terzo giorno, o della mirabile vegetazione che ebbe luogo in quel momento sulle terre appena emerse, e ci valse quegli immensi depositi di carbone in cui l’industria moderna ha trovato il principio della sua forza motrice; sia che si tratti della nuova ripartizione del calore e della luce che ebbe luogo al quarto giorno, con l’organizzazione definitiva del nostro attuale sistema solare, e con la quale è iniziata la differenza dei climi; o, infine e soprattutto, dell’ordine secondo il quale la vita animale ha preso gradualmente possesso del nostro pianeta, con la creazione prima degli animali acquatici, poi delle bestie terrestri, e infine dell’uomo (cf. de Lapparent, op. cit., passim). Tali, dunque, sono i giorni della Genesi: epoche di immensa durata, divise tra loro secondo i diversi progressi con cui è piaciuto a Dio di portare il mondo dallo stato informe e caotico in cui la fece nella prima creazione, allo stato di bellezza e perfezione in cui lo vediamo attualmente. Perché “colui che poteva fare tutte le cose, che poteva con un solo decreto della sua volontà creare e disporre tutte le cose, e con un solo tratto della sua mano, per così dire, mettere l’abbozzo e la finitura nel suo quadro, nello stesso tempo disegnarlo, progettarlo e perfezionarlo, ha tuttavia voluto… fare e segnare l’abbozzo della sua opera, prima di mostrare la sua perfezione; e dopo aver fatto prima come lo sfondo del mondo, ha volute poi farne l’ornamento con sei diverse progressioni che ha voluto chiamare sei giorni” (Bossuet, Elevazioni, terza settimana, V). Sei giorni! Certamente, nessuno negherà che c’è un modo di dire che non è simile alla maniera del discorso ordinario; che non comporta le convenzioni usuali, specialmente per quanto riguarda lo stile unitario della narrazione semplice, di cui si cercherebbe invano un altro esempio nella letteratura profana, e che, tuttavia, deve essere riconosciuto come appartenente al glossario proprio della Scrittura, agli occhi della quale, « mille  anni sono come il giorno di ieri che è passato, e come una guardia della notte » (Psal. LXXXIX, 4). Ora, ciò che ora richiede di essere ben considerato, è che questo modo così particolare di distinguere le epoche attraverso la durata dei tempi geologici, è stato poi esteso ai tempi della nostra storia, per quanto riguarda la continuazione della Religione, dal suo primo inizio dopo la caduta originale, al suo termine finale alla consumazione dei secoli. « Vedo – dice S. Agostino – nel testo delle Scritture divine, come sei età di opera che sono distinte l’una dall’altra da certe linee di demarcazione, e hanno un rapporto di somiglianza con i sei giorni nei quali si dice che Dio abbia fatto il cielo e la terra » (August., de Genes. contra Manichæos, liv, I c. 23). Pertanto: « In  principio Dio fece il cielo e la terra, e da allora, tempo fino al tempo presente compreso, ci sono sei età, come sapete per averlo spesse volte sentito dire: da Adamo al diluvio, dal diluvio ad Abramo, e secondo quanto continua e distingue San Matteo nel suo Vangelo, da Abramo a Davide, da Davide al ritorno dalla deportazione a Babilonia, dal ritorno dalla deportazione a Babilonia al primo avvento di Gesù Cristo, da lì alla fine del mondo (August, in Joan., tract. 9, n. 6. – Cfr. Contra Faustutn, lib. XII, c. 8; Contra Adimantum, c. 7, ecc.) » E queste diverse età sono divise tra loro, non da una lunghezza o misura fissa del tempo, come i nostri giorni, i nostri anni e i nostri secoli, ma solo – come i giorni della Genesi – secondo i diversi progressi che hanno segnato l’evoluzione della Religione sulla terra, la quale, sempre una e identica a se stessa, quanto alla sua sostanza, ha tuttavia subito varie fasi o stati successivi: « Sotto la legge di natura e sotto i Patriarchi, sotto Mosè e sotto la Legge scritta, sotto Davide e sotto i Profeti; dal ritorno dalla cattività fino a Gesù-Cristo, ed infine sotto Gesù-Cristo stesso, cioè sotto la Legge della grazia e sotto il Vangelo (questa distinzione delle diverse età della Religione dovrebbe essere annotata attentamente come una chiave per la soluzione di molte difficoltà. Quanti ci sono, per esempio, per i quali le cose dell’antica storia sacra sembrano al di là di ogni credenza, per la ragione che vogliono giudicarle solo secondo il criterio proprio dei tempi del Vangelo, simili in questo a persone che pretenderebbero di vedere in inverno ciò che appartiene solo alla stagione estiva, o viceversa. Questo è ciò che Sant’Agostino osserva spesso nei suoi libri contro Faustus il Manicheo, ed altri oppositori della Legge e dei Profeti). » – Innanzitutto c’è l’epoca patriarcale. Vediamo in essa l’inizio della rivelazione nei suoi due articoli fondamentali, riguardanti il fine soprannaturale, da una parte, e la provvidenza che ci conduce ad esso, dall’altra (Heb., VI); poi, non appena il peccato ebbe rovesciato la prima economia, la promessa del recupero da parte del Redentore (Gen., III, 15). Allora, la fede in questo Redentore a venire, unita all’osservanza della semplice legge naturale, formava la base della Religione, che, inoltre, non aveva altra forma sociale che la famiglia, né altro governo che l’antico governo della razza umana, in cui ogni padre di famiglia era un principe nella sua propria casa. Questo stato di cose durò fino al diluvio. – Dopo il diluvio essa fu ristabilita e rimessa in vigore, con le poche aggiunte richieste dalle nuove condizioni dell’umanità rinata. Solo che queste stesse condizioni dovevano peggiorare sempre di più, perché man mano che ci si allontanava dall’origine delle cose, gli uomini confondevano le idee che avevano ricevuto dai loro antenati; i figli ignoranti o non istruiti non volevano più credere ai loro decrepiti nonni che conoscevano appena dopo tante generazioni. D’altra parte, era sorto e già minacciava di infettare il mondo intero un nuovo male, il male dell’idolatria. – Fu allora che, con la vocazione di Abramo, si inaugurò una nuova e memorabile fase della Religione, dopo le due precedenti, l’ante e post diluviana, e l’era patriarcale (Bossuet, Hist. univ., IIe partie, c. 1, passim.). Nella persona di Abramo, dobbiamo vedere il popolo di cui era la sorgente, il popolo che Dio voleva riservare per sé separandolo dagli altri, per conservare le sue leggi e preparare l’avvento del Redentore. Ecco i suoi primi inizi nelle tende di Mamre, Socoth e Sichem; poi la sua emigrazione in Egitto, la sua prodigiosa moltiplicazione, la sua liberazione dalla schiavitù, le sue peregrinazioni nel deserto, il suo ingresso nella terra promessa, le sue lunghe guerre contro le popolazioni palestinesi, seguite infine dal possesso pacifico e tranquillo della terra che Dio aveva designato come sua dimora. Tutto questo per completare la terza età. E questa terza epoca sarà segnata da tre grandi fatti che sono caratteristici tra gli altri: in primis il rinnovo più volte ripetuto della promessa fatta quasi dopo la caduta sulla culla del mondo; in secondo luogo, con l’istituzione della circoncisione come segno e sigillo dell’alleanza stipulata da Dio con i discendenti di Abramo, dai quali doveva uscire il Messia promesso; e infine, e soprattutto, la promulgazione della legge di Mosè, le cui numerose osservanze, tutte figurative del Cristo a venire, dovevano essere innestate per i Giudei sullo sfondo immutabile e sempre presente della legge primitiva. E così alla Religione patriarcale successe la Religione mosaica, che tuttavia era ancora nella sua prima fase, non raggiunse il suo pieno e regolare esercizio fino all’inizio della quarta età, che si apre con l’avvento di Davide. Infatti, durante tutto il periodo dei Giudici ed il regno di Saul che lo seguì, il servizio del culto era stato stabilito solo provvisoriamente. Il tempio, che il Deuteronomio (XII, 5 e seguenti) designava come centro e fulcro della religione d’Israele, mancava sempre, e fu Davide per primo che, dopo aver stabilito il suo trono e completato la pacificazione di tutto il paese, ne decise la costruzione, ne designò il luogo,  ne raccolse i materiali, lasciando a suo figlio Salomone il compito di realizzare ciò che aveva solo preparato. La fondazione del tempio fu quindi un evento considerevole. Essa segnò l’inizio del regolare funzionamento dell’istituzione mosaica, e quindi il punto di partenza di una nuova era, che tuttavia doveva distinguersi dalle precedenti per un carattere ancora più rimarchevole ed ancor più nettamente caratterizzato.  – Infatti, mentre il culto della vecchia legge raggiungeva il suo pieno sviluppo, il sole pieno della profezia messianica stava anche sorgendo all’orizzonte di Israele. La quarta epoca sarà per eccellenza l’epoca dei profeti « a Samuel e deincepsda Samuele e da quanti parlarono in seguito » (Act., III, 24): dei grandi profeti, dico, la cui successione si svolge su un periodo di tempo di più di cinquecento anni, con annunci ammirevoli nei quali le caratteristiche del Messia atteso sono sempre più chiaramente definite e determinate diventano sempre. Si tratta di David, Isaia, Michea, Gioele, Osea, Geremia, Ezechiele, Daniele e altri. E che nomi sono questi! Che magnifici oracoli! Che aumento continuo delle luci della rivelazione! Che marcia progressiva verso quella pienezza dei tempi in cui, con tutte le promesse realizzate, la Religione raggiungerà finalmente il suo apogeo! Tuttavia, non siamo ancora arrivati a questo punto. – Rimane, a separarci da essa, tutta la quinta età, che comprenderà i tempi del secondo tempio costruito da Zorobabele dopo il ritorno dalla cattività. Questo è il periodo di attesa. Tre cose sono particolarmente evidenti: la chiusura della profezia dell’Antico Testamento (Mal., IV, 4-6); l’ultimo segnale dato dell’arrivo relativamente vicino del Desiderato da più di quaranta secoli (Agg., II, 7-10; Zach., IX, 9; Malach, III, 1); infine, la diffusione dei Giudei nelle principali parti del mondo, in Asia superiore, nell’Asia minore, nell’Egitto, Grecia, e persino nel centro stesso dell’impero di Roma, per diffondervi le Scritture, per far risplendere il Nome e la gloria del Dio d’Israele tra i gentili, per porvi le prime fondamenta e come il primo innesco della loro futura conversione al Messia che verrà. – Infine, Gesù Cristo è apparso al tempo predetto dai profeti, per adempiere tutto ciò che i profeti avevano predetto. Egli predica la Sua dottrina celeste, … fonda la sua Chiesa, istituisce i suoi sacramenti .., si offre sulla croce come vittima propiziatoria per i peccati di tutti noi, risorge, ascende al cielo, aprendoci le porte della vita eterna per la potenza del suo sangue. Non appena salito al cielo, promulga la sua legge attraverso i suoi Apostoli; per loro mezzo la stabilisce in tutto il mondo, ed ecco ora arriva la sesta età. – Questa è l’epoca della rivelazione ormai chiusa, del compimento di tutte le figure, dell’ultima fase della Religione sulla terra, dopo la quale non ne verranno altre, né potrebbero venirne altre. Infatti la legge evangelica, chiamata anche legge della grazia, portava con sé la pienezza delle ricchezze della redenzione, il dono di tutto ciò che le leggi precedenti rappresentavano in speranza, e contenendone le promesse. Di conseguenza, essa si sostituiva a tutte loro, le abrogava tutte, non per essere abrogata in seguito e sostituita da un’economia migliore, ma per durare in perpetuo, senza alcuna sottrazione, aggiunta o modifica, fino al giorno del Signore che viene a chiudere l’intera serie dei tempi ed inaugura il culmine di tutte le cose nelle glorie della beata eternità. Questo è ciò che San Paolo mostra e sviluppa così magnificamente nella splendida epistola agli Ebrei, che dovrebbe essere qui riportata e commentata dall’inizio alla fine (Heb. VII-XII). –  Questo è ciò che chiunque abbia praticato le nostre sacre lettere riconoscerà immediatamente come il carattere proprio della nuova legge e la differenza essenziale che la distingue da tutte le istituzioni delle epoche precedenti. Questa, infine, è la chiave per una chiara comprensione del vero significato di queste espressioni, “gli ultimi giorni“, “l’ultima ora“, “la fine o il completamento dei secoli“, nello stile degli scrittori sacri. Perché queste non erano locuzioni impiegate per significare un breve intervallo di tempo fino alla catastrofe suprema, ma per designare, secondo ciò che è stato appena esposto, l’ultimo e definitive stato della Religione quaggiù, e di conseguenza anche dal punto di vista che è quello della Scrittura, l’ultima età dell’umanità: ma si noti bene, l’ultima età di cui nulla però ne determina la durata, breve o lunga che sia, che fu sempre nascosta nel segreto impenetrabile in cui piacque a Dio di confinarla. Ciò che San Tommaso, seguendo Sant’Agostino, spiega paragonando la vecchiaia, che è l’ultima età della vita umana, e si distingue proprio per questa particolarità che non è come l’infanzia, o la giovinezza, o la maturità, comprese entro limiti precisi; ma essa non ha un termine prefissato, nessun limite definito, nessuna misura determinata che possa essere assegnata in anticipo. E così, possiamo dire, che è, con le debite proporzioni, per questi « ultimi giorni », questa « ultima ora », questa « fine dei tempi », che è così frequentemente menzionata negli scritti apostolici. Invano si vorrebbe vedere in essi un’indicazione che non c’è assolutamente, poiché sarà sempre vero dire che la vecchiaia è l’ultima ora e l’ultima fase della nostra vita; il che non impedisce che talvolta non solo eguagli, ma anche superi in durata ciascuna delle età che l’hanno preceduta. (« Dicendum quod ex hoc quod dicitur, novissima hora est, vel ex similibus locutionibus quæ in Scriptura leguntur non potest aliqua quantitas temporis sciri. Non enim est dictum ad significandum aliquam brevera horam temporis, sed ad significandum novissima ætas quæ quanto spatio duret, non est definitum, eum etiam nec senio quod est ultima ætas hominis, sit aliquis certus terminus definitus », S. Thom, Suppl, q. 88, a. 3 ad 3).

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Questa è dunque la solida spiegazione che ci fornisce, riguardo alla presente difficoltà, la tradizione patristica. E questa spiegazione, già così ben fondata in se stessa, riceverà ora una nuova e più ampia conferma dalla tradizione della Sinagoga: dalla Sinagoga, dico, la cui autorità, immagino, nessuno penserà di contestare, per quanto riguarda il significato da attribuire alle espressioni usate dagli antichi profeti. Ora, è un fatto ricepito e accettato senza dubbio da tutta l’esegesi rabbinica, che nel linguaggio dei profeti, la formula « gli ultimi giorni » designa puramente e semplicemente i tempi del Messia e della sua legge. « È nella tradizione degli antichi Ebrei – osserva Rosenmüller con la sua ben nota competenza –  che con la formula novissimi dies si designano i tempi messianici (Rosenmüller, in Isaia, II, 2; Gerem., XLVIII, 47; XLIX, 39, ecc.). Cosa si deve intendere per tempi messianici? Indubbiamente, come indica il nome stesso, tutto il periodo dalla venuta del Messia fino alla consumazione dei tempi, in altre parole, dal primo al secondo avvento del Signore. Vogliamo di più? Ebbene, ecco ciò che sarà ancora più conclusivo: è che questo stesso significato, come vedremo, è quello che emerge invariabilmente dalla detta formula o dai suoi equivalenti, in tutti i passi degli scritti apostolici che ci oppongono i nostri avversari i modernisti. Quando San Pietro, per esempio, nel discorso inaugurale rivolto alla moltitudine accorsa alle porte del cenacolo dopo il prodigio di della prima Pentecoste, iniziava dicendo: “Quello che vedete è ciò che è stato annunciato dal profeta Gioele: Negli ultimi giorni, dice il Signore, effonderò il mio Spirito su ogni carne, e i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, ecc., quale pensiamo possa essere il significato di queste parole, negli ultimi giorni? C’era forse nelle circostanze del momento, c’era nell’evento appena accaduto, c’era nella mentalità presente degli Apostoli o della folla riunita davanti a loro, qualcosa che giustificasse una dichiarazione sugli ultimi giorni come intesa dall’obiezione? Assolutamente niente. E chi allora poteva anche solo pensare alla prossima fine del mondo? Le preoccupazioni erano certamente alte. Essi riguardavano unicamente la questione che era stata lasciata in sospeso dal recente dramma del Calvario, e che era ancora alimentata dalle cose straordinarie che avevano avuto luogo nel cenacolo. Questa questione era quella che San Pietro aveva appena mostrato davanti a Gerusalemme, al suo popolo, ai suoi principi e al suo Sinedrio, proclamando due cose: primo, che i tempi messianici erano arrivati, come dimostrato dall’attuale adempimento della profezia di Gioele sull’effusione dello Spirito Santo negli ultimi giorni (vers. 14-21), e secondariamente, che il Messia era quel Gesù di Nazareth, che era stato da poco inchiodato alla croce e messo a morte per mano degli empi, come testimoniava il miracolo eclatante della sua risurrezione (versetti 22-36). Questo è tutto il discorso del Principe degli Apostoli in questa solenne promulgazione della nuova legge; dove è evidente che gli ultimi giorni da lui menzionati non avevano altro significato che quello che abbiamo dichiarato, stabilito e spiegato sopra. La stessa conclusione è ora da trarre dall’esame di testi simili che si trovano nelle epistole canoniche. Quando San Paolo nell’epistola agli Ebrei mostrò la differenza tra il sommo sacerdote dei Giudei, che entrava annualmente nel santuario con il sangue di capri e tori, con il quale era impossibile che i peccati fossero espiati, e Cristo venuto una sola volta nel compimento dei tempi, [ἐπὶ συντελείᾳ τῶν αἰώνωνepi … epi sunteleia ton aiononeri], per abolire finalmente il peccato con il Suo proprio sacrificio (Eb., IX, 26): che cosa, dunque, poteva designare con questa espressione, [συντελείᾳ τῶν αἰώνων] se non la suddetta età messianica, al momento vista come un necessario epilogo e culmine obbligato delle epoche che l’avevano preceduta, annunciata, preparata e prefigurata? Infatti, come dice subito dopo, all’inizio del capitolo successivo (Eb, X, 1), le epoche precedenti avevano avuto solo le ombre dei beni a venire, umbram enim habens lex futurorum bonorum, non ipsam imaginent rerum;  ed è solo nell’era messianica, che attraverso Gesù Cristo, con Gesù Cristo e in Gesù Cristo, le ombre hanno preso corpo, le figure sono diventate realtà. In questo senso, quindi, questa stessa epoca fu davvero, e letteralmente, il completamento (συντελείᾳ – sunteleia) di tutte le altre. Era la loro realizzazione, il loro complemento, il loro termine, io dico, qualunque dovesse essere allora l’estensione della sua durata, limitata al breve spazio di una o due generazioni, o al contrario estesa attraverso una serie indefinita di secoli. Questa è senza dubbio la dottrina più autentica e provata di San Paolo; è il tema che egli sviluppa a lungo, da un capo all’altro dell’epistola agli Ebrei in particolare. E come possiamo allora rifiutarsi di riconoscere il vero significato dell’espressione incriminata, proprio in un luogo dove la figura del sommo sacerdote della vecchia legge, come riportato sopra, è espressamente contrapposta alla realizzazione della figura in Gesù Cristo, dall’altro lato? Riflettiamo su questo, riguardiamolo da vicino, facciamo riferimento al contesto immediato, così come all’argomento generale di tutta la lettera, e si dovrà convenire che il significato suddetto è l’unico possibile, l’unico conforme al soggetto e alla sequenza del discorso, senza che si intravveda il minimo spazio per la questione della imminenza della parusia, anche qui considerate del tutto fuori luogo. Questo è anche il significato di un passaggio simile nel decimo capitolo della Prima Corinzi (X, 11), dove l’Apostolo, dopo aver raccontato i particolari dell’uscita dall’Egitto e del soggiorno degli antichi Israeliti nel deserto, dice che « tutte queste cose accaddero loro in figura e furono scritte per la nostra istruzione, noi che siamo giunti alla fine dei tempi « in quos fines sæculorum (τὰ τέλη τῶν αἰώνων – ta tele ton aionon) devenerunt ». Dove vediamo esattamente la stessa opposizione tra il tempo delle figure sotto Mosè, e quello del loro compimento sotto Gesù Cristo; così questa è ancora l’era messianica, concepita come la fine ed il culmine delle epoche antiche, che la formula “τὰ τέλη τῶν αἰώνων” designa, appena diversa, quanto alla forma, da quella usata da San Paolo nel passaggio precedente. – E quando a sua volta Giovanni scriverà, nella sua prima epistola (II, 18): È l’ultima ora; come avete sentito che l’anticristo sta per venire, così ora ci sono già molti anticristi; da questo sappiamo che è l’ultima ora: anche lui non farà ancora e sempre che designare questa stessa era messianica, sebbene ora con un’altra peculiarità che gli è propria. – Infatti, se, come dice poco più avanti (III, 8), è per distruggere le opere del diavolo che il Figlio di Dio è apparso, va da sé che ciò non poteva avvenire senza che il diavolo si ponesse, o nella sua persona o per mezzo dei suoi suppositi, come antagonista dichiarato di coloro che venivano a spogliarlo del suo impero. Quindi, per quanto riguarda i tempi messianici, c’è un nuovo carattere segnato qui da San Giovanni, che questi saranno i tempi degli anti-messia, cioè degli anticristi, e non solo dell’anticristo per eccellenza, annunciato nell’approssimarsi della catastrofe finale, ma anche degli anticristi precursori, gli anticristi eresiarchi, i capi di sette, i corifei dell’empietà, che sono venuti e verranno prima della lotta suprema e definitiva. – San Giovanni, dunque, non ha una concezione diversa da quella di San Paolo e di San Pietro, e se tutti e tre sono d’accordo nel parlare dell’ultima epoca del mondo come di un’epoca già attuale nel loro tempo, è sempre e ovunque, sia ben ricordato, in virtù di questo principio, che per loro l’ultima età, è l’età che abbiamo detto, che con un altro nome si chiama l’età della “legge Cristiana”, o, ciò che equivale alla stessa cosa, della legge evangelica sotto la quale abbiamo l’onore e la felicità di vivere.

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Ma ora sorge un’ultima difficoltà. Si obietta una cosa che basterebbe a rendere inutile tutto ciò che è stato detto fino ad ora. È che, qualunque sia il nome con cui può essere chiamata, quest’ultima epoca è stata positivamente ridotta da San Paolo alla pura e semplice durata della prima generazione cristiana, e questo in tre passaggi formali, espliciti e categorici, cioè nella prima ai Tessalonicesi (IV, 13-18), e in altri due luoghi paralleli (I Cor., XV, 51-52, e II Cor., V., 3), dove l’Apostolo, parlando dei viventi che l’ultimo giorno troverà ancora sulla terra, testimonia sufficientemente, con l’uso costante della prima persona plurale, che egli si considerava come personalmente nel loro numero loro, egli e coloro ai quali scriveva. – « Non vogliamo – scriveva ai Tessalonicesi –  poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui. Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’Arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole. » – Questo è il modo in cui San Paolo parlava, apparentemente a causa della sua ferma convinzione che nella sua vita, nella vita dei fedeli che lui istruiva, sarebbe venuto il grande giorno di Dio. Perché cos’altro avrebbe voluto dire con queste parole molto precise del versetto 15: Nos qui vivimus, qui résidui sumus in adventum Domini, che ripete di nuovo al versestto 17, come per sottolinearne il significato e per meglio focalizzare l’attenzione dei suoi lettori? Noi che siamo vivi, dice. E chi, noi, se non Paolo stesso, con coloro ai quali era indirizzata la sua lettera? È su questo che si basano gli avversari, che considerano una prova decisiva, un argomento senza risposta. Ma noi (c’è bisogno di dirlo?), vediamo qualcos’altro, e ci sentiamo molto sicuri agli occhi di chiunque vorrà pensarvici e guardarlo da vicino, che tutto qui si riduce a un semplice modo di parlare che il contesto mette pienamente in luce, e non senza fornire, inoltre, una nuova e molto positiva conferma di tutte le nostre precedenti conclusioni, come cercheremo di mostrare prima di concludere. Notiamo dapprima qual era l’errore che San Paolo si proponeva di correggere. Era l’errore di coloro che, ancora nuovi alla dottrina della fede, erano stati persuasi che i morti, già giacenti nei loro sepolcri, non avrebbero avuto alcuna parte nella gloria del giorno del Signore, ma che solo i vivi avrebbero dovuto ascoltare ciò che si legge nel Vangelo, che il Figlio dell’uomo, arrivando sulle nuvole del cielo, avrebbe mandato i suoi Angeli a raccogliere i suoi eletti dai quattro venti, da un capo all’altro del cielo, per renderli partecipi del suo trionfo (Matth., XXIV, 31). E in questa falsa persuasione, essi si affliggevano eccessivamente per i loro morti; essi li piangevano, o come temendo che non risorgessero affatto, o che quantomeno perdessero quella folgorante manifestazione di Cristo nella sua parusia, oggetto, come sappiamo, delle più ardenti aspirazioni dei Cristiani della prima ora. San Paolo li istruisce e li rassicura completamente sia sull’uno che sull’altro punto. La risurrezione gloriosa di coloro che si sono addormentati nella fede e nell’amore di Gesù è una conseguenza necessaria della risurrezione di Gesù stesso; non c’è quindi motivo di piangere per loro come se non dovessero risorgere, nella beata immortalità, dalla polvere delle loro tombe: questa è la prima cosa. La seconda cosa è che coloro che sono vivi nell’ultimo giorno, e che sono riservati per la venuta del Signore, non avranno nessun vantaggio sugli altri per quanto riguarda la partecipazione al trionfo della parusia. Perché i “dormienti” si sveglieranno dal loro sonno alla vita immortale, mentre i vivi, da parte loro, vi entreranno con un rapido cambiamento che non comporta alcuna pausa duratura nella morte, e tutti insieme, tutti nello stesso tempo, vivi e dormienti, saranno portati ad incontrare il Signore, dal quale non saranno mai più separati. Questo, dico, è il preciso insegnamento con cui San Paolo ha combattuto e distrutto la falsa idea che i suoi neofiti avevano sui morti, e non  abbiamo bisogno di entrare qui in sviluppi che sarebbero estranei al nostro tema. Ma dobbiamo soffermarci sull’unica cosa che è importante per la soluzione che cerchiamo, cioè il modo in cui l’Epistola designa ciascuna delle due categorie che ha appena esposto come aventi una parte uguale nel trionfo di Cristo al suo ultimo avvento. In primo luogo, qui ci sono i morti, e chi sono questi morti? Ovviamente, non possiamo parlare qui di tutti i morti, intendo di tutti quelli che indiscriminatamente giaceranno nelle tombe all’arrivo del Figlio dell’Uomo. Infatti, tra di loro, quanti sono riservati a quella che il Vangelo chiama la “resurrezione per la condanna”! Mentre qui sono ora in questione solo coloro che risorgeranno alla vita, e alla vita della gloria eterna. È quindi facile da capire perché, parlando di questi morti, San Paolo non dice mai i morti “tout court”, ma piuttosto, i morti in Cristo [v, 16 “οἱ νεκροὶ ἐν Χριστῷ” – oi necroi en Cristo], o coloro che si sono addormentati in Gesù, [v. 14 “κοιμηθέντας διὰ τοῦ Ἰησοῦ” – koimetentas dia tou Iesou]; con ciò egli designa i soli eletti, i soli predestinati. Del resto, questo è abbastanza chiaro in sé e non ha bisogno di spiegazioni, e se lo richiamiamo all’attenzione particolare del lettore, è perché servirà ora a chiarire ciò che si dice della seconda categoria, quella dei vivi, laddove sta tutta la difficoltà. I vivi che saranno sulla terra all’arrivo del grande giorno e che, in compagnia dei vivi di cui abbiamo appena parlato, ne condivideranno la gloria, sono designati dalla seguente formula nel versetto 15, ripetuta ancora nel 17: ἡμεῖς οἱ ζῶντες οἱ περιλειπόμενοι εἰς τὴν παρουσίαν τοῦ κυρίου – [emeis oi zontes oi perileipomenoi eis ten parousian tou kuriou], cioè, parola per parola: noi, i vivi, quelli che sono rimasti per la venuta del Signore. Esaminiamo tutti i termini con attenzione, e per maggiore chiarezza, nel seguente ordine: primo – οἱ ζῶντες [oi zontes]; secondo, ἡμεῖς [emeis]; terzo, οἱ περιλειπόμενοι [oi perileipomenoi]. E da questo esame emergerà forse un senso ben diverso da quello in cui trionfano i nostri modernisti, e che a prima vista avremmo potuto supporre noi stessi. Oi zontes [oi zontes] primariamente: i vivi, quelli dell’ultimo giorno, questo si capisce; ma quali? Forse l’universalità di coloro che popoleranno il mondo nel momento in cui cominceranno ad apparire i segni del giudizio? Ovviamente no, perché in quel numero, quanti peccatori impenitenti, quanti miscredenti, quanti reprobi, che, lungi dall’essere trasportati nella gloria per incontrare il Signore, saranno lasciati nella perdizione in mezzo alla distruzione universale! « Come accadde ai tempi di Noè – dice Nostro Signore nel Vangelo – così accadrà alla venuta del Figlio dell’uomo. Gli uomini mangiavano e bevevano, si maritavano e maritavano le loro figlie fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e il diluvio li sorprese. Allora, di due uomini che saranno nel campo, uno sarà preso, l’altro lasciato; di due donne che saranno a macinare al mulino, una sarà presa, l’altra lasciata. » Tale è la separazione che avverrà tra i viventi con i viventi, in quest’ultima ora del mondo! Così come prima non poteva trattarsi dell’universalità dei morti, così ora non può trattarsi dell’universalità dei vivi, e quindi era necessario un determinativo che limitasse la comprensione del termine οἱ ζῶντες [oi zontes] ai soli giusti, ai soli fedeli, ai soli amici di Gesù. E dove troveremo questo determinativo? Precisamente nel termine incriminato, in questo pronome di prima persona plurale, che l’Apostolo ha aggiunto qui e dice: ἡμεῖς οἱ ζῶντες [emeis oi zontes]- Noi, i vivi, nello stesso senso che aveva usato parlando dei morti, “οἱ νεκροὶ ἐν Χριστῷ” [oi necroi en Cristo] i morti in Cristo, o coloro che si sono addormentati in Gesù, “κοιμηθέντας διὰ τοῦ Ἰησοῦ” – koimetentas dia tou Iesou]. E, infatti, chi non sa che il detto pronome di prima persona plurale è comunemente usato nel linguaggio abituale per designare, confusamente, e senza altra determinazione particolare, quelli della classe, della categoria a cui appartiene colui che parla, soprattutto se alla stessa classe, alla stessa categoria, appartengono, con lui, coloro che ha di fronte e ai quali parla? Certamente, se io, un francese, dicessi che abbiamo appena vinto una seconda battaglia della Marna, nessuno penserebbe che io personalmente sia stato tra quelli che l’hanno vinta (queste righe sono state scritte nell’ottobre 1918). E se, parlando davanti ad un grande pubblico, aggiungessi che, secondo tutte le probabilità, saremo a Berlino in un futuro più o meno prossimo, nessuno di quelli tra il pubblico, si crederebbe personalmente incluso nell’ampiezza del noi collettivo di cui avrei usato. In verità, sarebbe abbastanza inutile, per una cosa così semplice, moltiplicare gli esempi che mi vengono in mente, e c’è solo da fare l’applicazione al caso che stiamo trattando. Infatti, non sarebbe forse, nel senso appena indicato, che San Paolo abbia usato ora questo noi, “ἡμεῖς”, che causa tante difficoltà per alcuni? Non è forse la categoria, la classe dei fedeli in quanto tali, che aveva in vista qui, piuttosto che il Tizio, il Caio, il Sempronio che la componeva al tempo in cui scriveva? Insomma, quando, per designare i vivi che nell’ultimo giorno si uniranno all’esercito trionfante dei gloriosi risorti, portati in aria per incontrare il Signore, l’Apostolo diceva, parlando ai suoi ferventi seguaci [i neofiti, noi, i viventi, ἡμεῖς οἱ ζῶντες – emeis oi zontes] non è come se avesse detto, senza altra precisazione o determinazione di persone, i nostri allora viventi? – I nostri, cioè quelli della nostra parte, del nostro partito, della nostra comunione, i credenti, gli amici di Gesù e del suo avvento, in contrasto con coloro che la seconda Tessalonicesi presenta (I, 8-10) come non conoscitori di Dio, non obbedienti al Vangelo, e quindi, nel giorno della parusia, sofferenti la pena della perdizione eterna, lontani dalla faccia del Signore e dallo splendore della sua potenza? Sì, senza il minimo dubbio, questo è il significato della lettera, che è confermato nel più espressivo, dall’intero contesto. Per quanto riguarda il contesto, non potremmo, senza esporci ad una noiosa ripetizione, esaminarne qui le angolazioni e le asperità. Quindi non lo faremo. È comunque un punto che non può assolutamente passare sotto silenzio, e che dobbiamo portare brevemente all’attenzione del lettore. È il passaggio finale con cui l’Apostolo designa gli ultimi fedeli che l’ultima ora del mondo avrebbe trovato vivi sulla terra: “οἱ περιλειπόμενοι εἰς τὴν παρουσίαν τοῦ κυρίου” [oi perileipomenoi ei sten parousian tou kuriou]. Infatti, quanto è significativo questo passo, e quanto bene si adatta al nostro caso, e quale nuova conferma porta alle nostre precedenti affermazioni, distruggendo sempre più a fondo l’affermazione degli avversari, che, con queste parole, “noi, i vivi”, con cui San Paolo avrebbe considerate personalmente se stesso, con coloro ai quali era indirizzata la sua lettera! Tutta l’osservazione riguarda il participio περιλειπόμενοι [perileipomenoi] dal verbo λείπω [leipo] che ovunque sia usato, ovunque entri, sia come radice che come componente, dà l’idea di un resto, un debole resto staccato dalla massa. Per esempio, nella Lettera ai Romani (IX, 27), San Paolo, citando Isaia, scrive: Quando il numero dei figli d’Israele sarà come la sabbia del mare, solo un piccolo resto sarà salvato, τὸ ὑπόλειμμα σωθήσεται [to upoleimma sotesetai. E più avanti (XI, 5), paragonando il piccolo numero di Giudei convertiti al Vangelo con i settemila uomini che non si erano inginocchiati a Baal: Anche oggi, dice, c’è un resto secondo una scelta di grazia, λεῖμμα κατ’ ἐκλογὴν χάριτος [leimma kat’ecloghen karitos]. Ma con quanta più forza questa stessa idea emerge nella frase del nostro testo: Noi che viviamo, lasciamo loro un resto per la venuta del Signore! Essi dovevano dunque essere solo un resto, un residuo; se è permesso parlare in questo modo, un residuo, qui residui sumus, secondo la traduzione  esattissima della Vulgata; qualcosa come una retroguardia che arriva all’ultimo luogo, dopo che l’esercito principale è già passato. Questo, in altre parole, significava che nell’idea di San Paolo i fedeli viventi dell’ultimo giorno sarebbero stati solo un numero molto ridotto, una piccolissima minoranza, rispetto alla massa dei Cristiani addormentati in Cristo: proprio il contrario, come è ovvio, di ciò che comportava l’ipotesi del giudizio che arrivava durante l’epoca apostolica. Così l’esegesi modernista è sconfitta nelle sue pretese, e perde una posizione dopo l’altra. Non c’è un solo passaggio nelle epistole degli Apostoli su cui possa stabilire un argomento che sia anche lontanamente fondato con raziocinio. – Rimane ora l’Apocalisse di San Giovanni, che richiede un esame separato, e questo esame sarà il soggetto dei prossimi due articoli.

LA PARUSIA (9)

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: GIUGNO 2021

GIUGNO È IL MESE CHE LA CHIESA CATTOLICA DEDICA AL CULTO EUCARISTICO E AL CUORE DI GESÙ

[LE MERAVIGLIE Divine nella santa Eucaristia

Di p. Giovanni Rossignoli S. J.]

CXIV – LE INDUSTRIE DEI CATTOLICI IN MEZZO AGLI ERETICI

Memoriale tuum in desiderio animæ

Niente può farvi apprezzare e venerare l’augusto sacrificio della Messa più della storia delle pie industrie che i Cattolici d’Inghilterra usavano per procurarsi la felicità di ascoltare la Messa durante l’atroce persecuzione dell’empia regina Elisabetta. Sapevano che la celebrazione della Messa era allora proibita sotto pena di morte, ma i grandi vantaggi che trovavano nell’oblazione della Vittima immacolata li facevano facilmente trascurare questa considerazione. Un Padre della Compagnia di Gesù di nome John Gerard era stato rinchiuso in una angusta prigione nella città di Londra: essa era contigua ad un’altra prigione molto spaziosa, in cui era detenuta una grande moltitudine di Cattolici di tutte le condizioni. Essi hanno sentito che un prete si trovava nella piccola prigione accanto, così hanno fatto una grande apertura nel muro tra le due prigioni, che hanno accuratamente nascosto in modo che potessero parlare tra di loro a prorio agio. Fin dal primo momento in cui gli parlarono, espressero il loro forte desiderio di ascoltare la Santa Messa e di partecipare al banchetto eucaristico; Padre Gerard, che aveva avuto lo stesso pensiero, acconsentì prontamente al loro pio piano. Cominciarono immediatamente a cercare e combinare i mezzi per portarlo a buon fine senza incorrere nella pena di morte. Hanno parlato confidenzialmente con un buon Cattolico che aveva fortunatamente ottenuto il permesso di visitarli o come amico o come parente di alcuni di loro. Anche se si esercitava un’attenta vigilanza sui prigionieri, la inconvenienza della perquisizione non si estendeva alle persone che venivano a visitarli, come hanno fatto da allora anche i governi cattolici. Erano quindi in grado di ottenere tutti gli oggetti necessari per il Santo Sacrificio attraverso di lui. Non hanno avuto difficoltà a convincere il carceriere a non sorvegliarli così strettamente come era abituato a fare, perché lui stesso ha ammesso che erano molto docili e che doveva solo congratularsi con loro per il buon comportamento. – Per incoraggiarlo a farlo gli diedero una somma di denaro che egli ricevette con gioia. Ogni giorno, prima dell’alba, il Padre ascoltava le confessioni, poi celebrava la Messa e distribuiva la Santa Comunione. Poi rivolgeva loro un breve discorso, esortandoli a disprezzare la vita presente e a desiderare la vita eterna. Subito dopo, tutto ciò che era stato usato per il santo Sacrificio veniva riposto in un luogo sicuro, ed ognuno si ritirava al suo posto. Ma un traditore che s’era accorto, non si sa come, di ciò che avveniva nella prigione, prima dell’aurora, non ebbe nulla di più urgente che riferire la cosa ai ministri della regina. Questi pur tuttavia non furono dell’avviso di applicare tutti i rigori della legge, e si contentarono di inviare il padre Gérard alle prigioni della torre di Londra. Ma Dio nella sua clemenza, volle che anche là il buon padre potesse darsi la consolazione di poter offrire l’Agnello senza macchia. Nella medesima prigione si trovava un gentiluomo di nome Ardenn, anch’egli detenuto per il suo attaccamento alla fede cattolica. Il carceriere gli permetteva talvolta di respirare un pò d’aria a pieni polmoni sulla piattaforma della torre. Il padre Gérard, che non ignorava che fosse cattolico, intravedendolo un giorno dalla sua finestra, gli fece intendere a segni e a gesti, che volesse mandargli delle piccole croci richiuse in un foglio di carta, sul quale, avvicinandolo al fuoco, egli potesse leggere in segreto quel che gli premesse comunicargli. Egli scrisse dunque su questo figlio con del succo di arancia delle parole invisibili, che si potessero leggere avvicinandole al fuoco. In questa missiva gli diceva che aveva un estremo desiderio di dire la santa Messa e di dargli egli stesso la santa Comunione del Corpo di Gesù Cristo; aggiunse che sarebbe stato facile alla moglie che ogni settimana veniva a portargli le lenzuola, potervi introdurre oggetti necessari per celebrare la Messa. Il gentiluomo, dopo essere riuscito a leggere il messaggio del gesuita, gli rispose con dei segni dalla piattaforma che approvava fortemente il suo progetto, perché non aveva mai provato in vita sua un desiderio così forte di ricevere la Santa Comunione come quello che lo tormentava da alcuni giorni. Così disse a sua moglie quello che voleva fare in collaborazione con un sacerdote nella stessa prigione. Costei si affrettò a portare, in parte e in tempi diversi, gli ornamenti e altri oggetti indispensabili per l’oblazione del santo Sacrificio. Quanto al direttore della prigione, padre Gérard si sforzò di conquistare le sue grazie, così che con le sue preghiere e con l’aiuto di qualche piccolo regalo, riuscì ad ottenere da lui il permesso di condurlo una volta nella cella di Ardenn, affinché i due prigionieri potessero consolarsi a vicenda nella loro comune disgrazia. La sera della vigilia della Natività della Beata Vergine il padre fu portato nella prigione di Ardenn, dove fu rinchiuso con lui. Passarono buona parte della notte in preghiera, e un po’ prima dell’alba il padre, che aveva confessato il suo compagno di prigionia, celebrò il Sacrificio divino e gli diede la Santa Comunione, che ricevette con ineffabile consolazione. Allo stesso tempo, consacrò un certo numero di ostie, che mise da parte per ricevere lui stesso la Santa Comunione nei giorni seguenti, per trovare nel pane eucaristico la forza e la consolazione di cui aveva tanto bisogno nella triste condizione in cui si trovava. Benché grande fosse la devozione dei Cattolici di Londra, verso la divina Eucaristia durante questo terribile tempo di persecuzione, essa non superò quella dei Cattolici di Dorchester, e soprattutto i signori di Arundel, un’antica famiglia di estrazione molto nobile, più grande ancora nella generosa professione della fede cattolica che fecero con fermezza e pari costanza. Per soddisfare il loro ardente desiderio di assistere alla Messa e di ricevere la santa Comunione, tenevano il padre Giovanni Cornelius, un gesuita, in uno dei loro castelli, senza preoccuparsi degli editti reali che dichiaravano colpevole di lesa-maestà chiunque ospitasse un prete cattolico, poiché preferivano rischiare la loro vita e la perdita dei loro beni, che privarsi dei divini misteri dell’Eucaristia. Essi avevano fatto disporre ed ornare una bella cappella in un luogo segretissimo del loro palazzo, ed era lì che tutta la famiglia si riuniva per ascoltare la Messa. Spesso facevano offrire il Santo Sacrificio per i defunti che avevano convertito alla Religione Cattolica. E queste anime apparivano loro o per ringraziarli o per chiedere più insistentemente l’aiuto delle loro preghiere, come accadde una notte al signore di Arundel. Mentre era in un sonno profondo, fu improvvisamente svegliato dall’apparizione di uno dei suoi vecchi amici, che apparve per pregarlo di dire alcune Messe per lui, di cui aveva bisogno per uscire dalle fiamme del purgatorio. Ma, a questo proposito, è necessario riferire un evento che fece grande scalpore tra i Cattolici dell’epoca, e che può essere di beneficio per i vivi a causa delle circostanze relative ad esso che si verificarono durante il santo Sacrificio. – Essendo il primo marito della duchessa di Arundel, il barone Jean Sturton, morto, ella pregò il padre Cornelius di offrire il divin Sacrificio espiatorio per il riposo dell’anima del defunto … glielo aveva promesso. Il giorno dopo egli celebrò la Messa per questa intenzione, ma si notò che ad un certo punto si fermò a lungo a pregare dal momento della consacrazione fino al memento dei morti. Dopo la Messa fece una breve esortazione sulle parole dell’antifona di comunione della messa da Requiem, e poi aggiunse: “Ho visto una foresta immensa che non era altro che fuoco e fiamme. In mezzo a queste fiamme divoranti ho visto l’anima del barone: egli era in tormenti inesprimibili, gridava con lamenti, anzi con urla terribili che gelavano il sangue nelle vene: si lamentava delle sue colpe passate, si accusava di aver vissuto così male per molti anni, soprattutto durante il suo soggiorno alla corte della regina Elisabetta, e specificava ognuna delle colpe che aveva commesso allora. Poi implorò il nostro aiuto, ripetendo con accorato ringraziamento le parole del santo uomo Giobbe: “Abbiate pietà di me, abbiate compassione dei miei tormenti, almeno voi che siete miei amici, perché la mano del Signore si è posata su di me. ” Miseremini mei, miseremini mei, saltem vos amici mei, quia manus Domini tetigit me. Poi, rivolgendosi a me, mi pregò di continuare ad aiutarlo con la preghiera e soprattutto con l’oblazione del Santo Sacrificio, … poi non vidi più nulla.” Questo resoconto portò le lacrime agli occhi di tutti i presenti, ma soprattutto ai familiari, che contavano più di ottanta persone. A conferma della realtà di questa apparizione, Dio permise ad alcuni dei presenti di vedere, durante la Messa, un bagliore di carboni ardenti sul muro bianco vicino all’altare, che essi attribuirono inizialmente alla luce delle candele o a qualche altra causa naturale.

Indulgenze per il mese di giugno:

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Mensis sacratissimo Cordi Iesu dicatus Fidelibus, qui mense iunio (vel alio, iuxta Rev.mi Ordinari prudens iudicium), pio exercitio in honorem Ssmi Cordis Iesu publice peracto devote interfuerint, conceditur:

Indulgentia decem annorum quolibet mensis die;

Indulgentia plenaria, si diebus saltem decem huiusmodi exercitio vacaverint et præterea peccatorum veniam obtinuerint, eucharisticam Mensam participaverint et ad Summi Pontificis mentem preces fuderint. Iis vero, qui præfato mense preces vel alia pietatis obsequia divino Cordi Iesu privatim praestiterint, conceditur:

Indulgentia septem annorum semel quolibet mensis die;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem idem obsequium peregerint; at ubi pium exercitium publice habetur, huiusmodi indulgentia ab iis tantum acquiri potest, qui legitimo detineantur impedimento quominus exercitio publico intersint (S. C. Indulg., 8 maii 1873 et 30 maii 1902; S. Pæn. Ap., 1 mart. 1933).

(A coloro che nel mese di giugno praticano un pio esercizio in onore del Sacro Cuore di Gesù in pubblico, si concedono 10 anni ed in privato 7 anni per ogni giorno del mese, e Indulgen. Plenaria se esso verrà praticato almeno per 10 giorni con le s. c.).

Altre indulgenze ove viene celebrato solennemente il Cuore Sacratissimo di Gesù con corso di predicazione.

Queste sono le feste del mese di

GIUGNO 2021

2 Giugno Ss. Marcellini, Petri, atque Erasmi Martyrum    Simplex

3 Giugno Festum Sanctissimi Corporis Christi    Duplex I. classis

4 Giugno S. Francisci Caracciolo Confessoris    Duplex

                             I Venerdì

5 Giugno S. Bonifatii Episcopi et Martyris    Duplex

                             I sabato

6 Giugno Dominica II Post Pentecosten infra Octavam Corporis Christi   

                         S. Norberti Episcopi et Confessoris    Duplex

9 Giugno  Ss. Primi et Feliciani Martyrum    Simplex

10 Giugno S. Margaritæ Reginæ Viduæ    Semiduplex

11 Giugno Sanctissimi Cordis Domini Nostri Jesu Christi    Duplex I. classis

S. Barnabæ Apostoli    Duplex majus

12 Giugno S. Joannis a S. Facundo Confessoris    Duplex m.t.v.

13 Giugno Dominica III Post Pentecosten infra Octavam SSmi Cordis D.N.J.C    Semiduplex Dom.  minor

                    S. Antonii de Padua Confessoris    Duplex

14 Giugno S. Basilii Magni Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex m.t.v.

15 Giugno Ss. Viti, Modesti atque Crescentiæ Martyrum    Simplex

18 Giugno S. Ephræm Syri Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

19 Giugno S. Julianæ de Falconeriis Virginis    Duplex

20 Giugno Dominica IV Post Pentecosten    Semiduplex Dominica minor

               S. Silverii Papæ et Martyris    Simplex

21 Giugno S. Aloisii Gonzagæ Confessoris    Duplex

22 Giugno S. Paulini Episcopi et Confessoris    Duplex

23 Giugno In Vigilia S. Joannis Baptistæ    Simplex *L1*

24 Giugno In Nativitate S. Joannis Baptistæ    Duplex I. classis *L1*

25 Giugno S. Gulielmi Abbatis    Duplex

26 Giugno Ss. Joannis et Pauli Martyrum    Duplex

27 Giugno Dominica V Post Pentecosten    Semiduplex Dominica minor *I*

28 Giugno S. Irenæi Episcopi et Martyris    Duplex

29 Giugno SS. Apostolorum Petri et Pauli    Duplex I. classis *L1*

30 Giugno In Commemoratione S. Pauli Apostoli    Duplex majus *L1*