31 MAGGIO 2021: FESTA DELLA BEATA VERGINE MARIA REGINA – PREGHIERA DI CONSACRAZIONE DEL GENERE UMANO AL CUORE IMMACOLATO DI MARIA DI S. S. PIO XII

31 MAGGIO FESTA DELLA BEATA VERGINE MARIA REGINA – PREGHIERA DI CONSACRAZIONE AL CUORE IMMACOLATO DI MARIA DI S. S. PIO XII

[D. P. Gueranger: L’Anno Liturgico – vol. II, Ed. Paoline, Roma, 1956]

Che cosa è la regalità.

Analizzando le note fondamentali della regalità, per dimostrare poi la loro presenza in Cristo, fin dall’inizio della sua vita terrena, Bossuet definì, con una magnifica frase, la sua essenziale grandezza: « La regalità – disse – consiste nella forza di fare il bene del popolo che si domina; il nome di re è come il nome di un padre comune, di un universale benefattore » (Discorso pronunciato a Metz, per la Circoncisione, nel 1557).

Questa è la regalità che Cristo rivendicò davanti a Pilato. Per farne meglio capire e onorare il carattere Pio XI, al termine dell’Anno Giubilare del 1925, istituì la Festa della Regalità universale e sociale di Cristo ed esortò i fedeli a sottomettere a Cristo Re le loro intelligenze e le loro volontà, a consacrargli le famiglie, la patria, e tutta la società per poter ricevere da Lui, con più abbondanza, quelle grazie di cui sempre più abbiamo bisogno. – Quando, a sua volta. Pio XII, a conclusione dell’Anno mariano 1954, istituì la Festa della Beata Vergine Maria Regina, non aveva intenzione di proporre al popolo cristiano una nuova verità, né di giustificare, con un nuovo titolo, la nostra pietà verso la Madre di Dio e degli uomini. « La nostra intenzione – disse nel suo discorso del 1 novembre – è di presentare agli occhi del mondo una verità capace di porre rimedio ai suoi mali, di liberarlo dalle sue angosce, di portarlo su quel cammino della salvezza che egli cerca con ansia… Regina più di ogni altro per la grandezza della sua anima e per l’eccellenza dei suoi doni divini. Maria non cessa mai di prodigare i tesori del suo affetto e delle sue materne attenzioni alla desolata umanità. Lungi dall’essere basato sulle esigenze dei suoi diritti e sulla volontà d’un altezzoso dominio, il regno di Maria ha una sola aspirazione: il dono completo di sé, nella più alta e totale generosità ».

Regalità di Maria nella tradizione.

Coronata d’un diadema di gloria nella beatitudine celeste, Maria regna sul mondo con cuore materno. Già dai primi tempi i fedeli hanno detto che la Madre del « Re dei Re e del Principe dei Principi » ha una gloria speciale, perché ha ricevuto grazie e favori particolari. I primi scrittori della Chiesa l’hanno chiamata, come già Elisabetta, « Madre del mio Signore » e quindi Sovrana, dominatrice, Regina del genere umano. Rifacendosi alle numerose testimonianze e partendo dai primi tempi del Cristianesimo, i teologi della Chiesa hanno elaborato la dottrina, in virtù della quale essi chiamano la SS. Vergine, Regina di ogni creatura, Regina del mondo. Sovrana dell’universo. La liturgia, specchio fedele della dottrina trasmessa dai dottori e professata dai fedeli, ha sempre cantato, sia in Oriente quanto in Occidente, le lodi della Regina del Cielo, e l’arte stessa, appoggiandosi alla dottrina della Chiesa e ispirandovisi, ha interpretato esattamente, dopo il Concilio di Efeso del 431, la pietà autentica e spontanea dei cristiani, rappresentando la Vergine con gli attributi di Regina e di Imperatrice, ornata di insegne reali, cinta del diadema di cui l’ha incoronata il Redentore, attorniata da una coorte di Angeli e di Santi che cantano la sua dignità e la sua gloria di Sovrana.

L’insegnamento della teologia.

L’Arcangelo Gabriele è stato il primo ambasciatore della dignità regale di Maria. « Chi nascerà da te – egli le disse – sarà chiamato Figlio dell’Altissimo; Iddio gli darà il trono di Davide suo padre, egli regnerà per sempre e il suo regno non avrà fine ». Logicamente, se ne deduce che anche Maria è Regina, perché dà la vita ad un figlio che, dall’istante stesso della concezione, anche come uomo, era re e signore di ogni creatura, in effetto della unione ipostatica della sua natura umana col Verbo. II principale argomento su cui si basa la dignità regale di Maria, è senza dubbio la sua divina maternità. S. Giovanni Damasceno scriveva: « Nel momento in cui divenne Madre del Creatore, Ella divenne pure sovrana di tutta la creazione » (De fide de cattol. L. IV, c. 14.). In più. Maria è stata chiamata da Dio stesso a sostenere una parte importante nella economia della salvezza: Ella doveva collaborare col suo Figlio divino, fonte della nostra salvezza, così come Eva aveva collaborato con Adamo, causa della nostra morte; e come Cristo, nuovo Adamo, è nostro re, non soltanto perché figlio di Dio, ma anche per diritto di conquista, perché è nostro Redentore, si può dire che, per una certa analogia, anche la Santa Vergine è Regina, non soltanto perché Madre di Dio, ma anche perché, novella Eva, fu associata al nuovo Adamo nell’opera della nostra redenzione. – Nel regno messianico, soltanto Gesù Cristo è Re nel significato esatto del termine; però l’autorità del re non è affatto sminuita quando, al suo fianco, vi è una autentica Regina. Anzi, tale presenza nobilita la grandezza della sovranità, la rende più amabile, la arricchisce di una confidente intima. È in questo senso che Maria è Regina: non per comandare in vece del Cristo, né per consigliarlo, ma per esercitare sul suo cuore, in favore dei suoi fedeli, soprattutto dei più deboli, l’influenza decisiva di una potente preghiera. È a questa Regina che il Cristo affiderà l’elargizione dei suoi favori; in questo regno, il Cristo dona ogni grazia con amore e delicatezza: ecco perché l’affida a Maria. « È con cuore materno – diceva Pio IX – che ella si preoccupa del genere umano in relazione alla nostra salvezza; voluta dal Signore come Regina del Cielo e della Terra, Maria ottiene udienza per la potenza della sua preghiera materna, si vede concesso tutto quanto chiede, non ha mai ricevuto nessun rifiuto » (Bulla Ineffabilis). A sua volta. Pio XII, nell’Enciclica Coeli reginam., diceva così: « Essendoci poi fatta la convinzione, dopo mature, ponderate riflessioni, che ne verranno grandi vantaggi alla Chiesa, se questa verità solidamente dimostrata risplenda davanti a tutti… con la Nostra Autorità Apostolica decretiamo e istituiamo la festa di Maria Regina, da celebrarsi ogni anno in tutto il mondo il giorno 31 maggio. Ordiniamo ugualmente, che in detto giorno sia rinnovata la. In questo gesto, infatti, è riposta grande speranza che possa sorgere una nuova era, allietata dalla pace cristiana e dal trionfo della religione » (Atti e Discorsi di S.S. Pio XII. voi, XVII pag. 327, Ed. Paoline.  Roma..). Uniamo noi pure i nostri sentimenti a quelli del Papa, Angelico, e recitiamo la preghiera che Egli compose e recitò il 1 Novembre 1954, dopo aver coronata la Vergine « Salus populi romani ».

Consacrazione del genere umano al Cuore Immacolato della Beatissima Vergine Maria

« Dal profondo di questa terra di lacrime, ove la umanità dolorante penosamente si trascina; tra i flutti di questo nostro mare perennemente agitato dai venti delle passioni; eleviamo gli occhi a voi, o Maria, Madre amatissima, per riconfortarci contemplando la vostra gloria e per salutarvi Regina e Signora dei cieli e della terra, Regina e Signora nostra.

» Questa vostra regalità vogliamo esaltare con legittimo orgoglio di figli e riconoscerla come dovuta alla somma eccellenza di tutto il vostro essere, o dolcissima e vera Madre di Colui, che è Re per diritto proprio, per eredità, per conquista.

» Regnate, o Madre e Signora, mostrandoci il cammino della santità, dirigendoci ed assistendoci, affinché non ce ne allontaniamo giammai. » Come nell’alto del cielo Voi esercitate il vostro primato sopra le schiere degli Angeli che vi acclamano loro sovrana; sopra le legioni dei Santi che si dilettano nella contemplazione della vostra fulgida bellezza; così regnate sopra l’intero genere umano, soprattutto aprendo i sentieri della fede a quanti ancora non conoscono il vostro Figlio.

» Regnate sulla Chiesa che professa e festeggia il vostro soave dominio e a voi ricorre come a sicuro rifugio in mezzo alle calamità dei nostri tempi. Ma specialmente regnate su quella porzione della Chiesa, che è perseguitata ed oppressa, dandole la fortezza per sopportare le avversità, la costanza per non piegarsi sotto le ingiuste pressioni, la luce per non cadere nelle insidie nemiche, la fermezza per resistere agli attacchi palesi, e in ogni momento la incrollabile fedeltà al vostro Regno.

» Regnate sulle intelligenze, affinché cerchino soltanto il vero; sulle volontà, affinché seguano solamente il bene; sui cuori, affinché amino unicamente ciò che voi stessa amate.

» Regnate sugli individui e sulle famiglie, come sulle società e sulle nazioni; sulle assemblee dei potenti, sui consigli dei savi, come sulle semplici aspirazioni degli umili.

» Regnate nelle vie e nelle piazze, nelle città e nei villaggi, nelle valli e nei monti, nell’aria, nella terra e nel mare.

» Accogliete la pia preghiera di quanti sanno che il Vostro è regno di misericordia, ove ogni supplica trova ascolto, ogni dolore conforto, ogni sventura sollievo, ogni infermità salute e dove, quasi al cenno delle vostre soavissime mani, dalla stessa morte risorge sorridente la vita.

» Otteneteci che coloro, i quali ora in tutte le parti del mondo vi acclamano e vi riconoscono Regina e Signora, possano un giorno nel cielo fruire della pienezza del vostro Regno, nella visione del vostro Figlio, il quale col Padre e con lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Così sia! » (Atti e Discorsi di S. S. Pio XII, vol. XVI, pag. 367-68. Ed, Paoline – Roma).

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (7) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (IV)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (7)

ESPOSTI

DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ, ROMA

STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (IV)

 Ma ormai è tempo di esaminar il debito della giurisdizione d’un Vescovo in tempo di persecuzione. L’ esame è facile, e la decisione è certa dopo quello, che abbiam veduto circa il suo pastorale ufficio in tempo di pace. Ciò, ch’egli è tenuto di fare o ad omettere: per istituzione divina, e per indole del suo stesso ministero; di tenuto a farlo e ad ometterlo in ogni tempo; non v’è né pur legge ecclesiastica, che possa dispensarlo da questo dovere; dunque anche in tempo di persecuzione deve un Vescovo esaminare ed approvare quelli, che vogliono accostarsi al Santuario per non introdurre il contagio tra le pecore, né mai in qualunque caso, né per veruna minaccia potrà abilitare al Sacerdozio, alla cura Parrocchiale, o all’amministrazione dei Sacramenti persone di depravato costume, o di cattiva fede; Chierici, che abbiano frequentate scuole sospette d’eresia, o appresa la dottrina da libri condannati dalla Chiesa; Parrochi de’ quali sappiasi, che tengono massime erronee, sospette, pericolose, e molto più eretiche; confessori, i quali mostrano in pratica dottrine scandalose, pregiudizievoli alla salute dell’anime. Tutti questi cani traditori deve il Pastore tenerli lontano dalla greggia, o aspettarsi sicuramente d’essere anch’egli condannato di tradimento. Imperocchè se sarà riprovato non solo chi commette il male, ma anche chi vi acconsente, potendo impedirlo; quanto più incorrerà nell’eterna dannazione chi vi concorre coll’opera sua, e presta le armi in mano ai malfattori? Sarebbe un perder di tempo il voler provare più a lungo una verità per se stessa evidente. – Così pure sarà sempre tenuto ad invigilare, che i Fedeli si accostino ai Santi Sacramenti almeno una volta all’anno, secondo il precetto della Chiesa. In tempo di persecuzione tanto ne ha maggior obbligo, quanto è maggiore per i Cristiani il bisogno dell’aiuto dei Sacramenti. Questo è così vero, che ai tempi di S. Cipriano, quando la penitenza era molto più rigorosa, tuttavia, avvicinandosi la persecuzione, se ne accorciava a’ penitenti la durata, per poterli armare colla Eucaristia alla battaglia della Fede. Lungi pertanto quella scandalosa dottrina, che insegna essere inutile in certi tempi su questo punto la pastoral vigilanza. Quanto più il contagio s’avvicina, tanto più studia il Pastore nuovi mezzi per preservarne la greggia. E se la greggia non ostante le sue diligenze resta sorpresa dall’infezione, il Pastore però avrà liberata l’anima sua. È incerto, se riusciranno inutili le premure; le grida, e le correzioni del Pastore; ma è certo, che riuscirà dannosa la sua dissimulazione, e il suo silenzio. – Che diremo poi delle leggi Ecclesiastiche? Può un Vescovo in tempo di persecuzione soffrire in silenzio, che sieno violate dalla podestà secolare? In tempo di persecuzione, rispondo, ordinariamente di no. Forse può darsi il caso, in cui il Pastore vedendo una trasgression della legge Ecclesiastica, possa dissimularla, o perché giudichi, che questa disubbidienza fu una leggerezza, e un impeto di passion passeggiera o perché creda, che non produrrà scandalo, né  altra perniciosa conseguenza; o perché tema prudentemente d’inasprire gli animi senza nessun buon effetto. Ma in tempo di persecuzione non si disubbidisce alla Legge Ecclesiastica per fragilità, ma per massima; si mette mano in tutte le leggi della Chiesa, per attaccare nella sua radice la giurisdizione Ecclesiastica; perché si pensa, e s’insegna, e si vuol far credere, che la Chiesa è una podestà dipendente, che non ha forza coattiva, e che tutte le sue leggi sono subordinate a quelle del Principato. La massima, che fa agire, è quella, che si legge in tanti empii libercoli, che hanno ai nostri tempi infestata tutta l’Europa, e che in sostanza fanno il Principe, secondo i principii di Lutero, Capo della Chiesa. Si aggravano i beni della Chiesa, perché la Chiesa non gode immunità, e si disprezzano su questo particolare le sue censure, perché la Chiesa non ebbe autorità di difender con esse i suoi beni, si rapiscono le sostanze del Clero, perché il Clero non ha diritto di possedere. Si assegna ai Claustrali, e ai Chierici l’età di consacrarsi a Dio, perché la Chiesa non ha facoltà di determinarla da sé. Si allargano le autorità ai Vescovi per sottrarli dalla giurisdizione del Vicario di Gesù Cristo; e così andate discorrendo di mille altre innovazioni contro la Chiesa. Dunque, questi son fatti appoggiati a una massima scismatica, ed eretica. Dunque, dissimulando questi fatti, si viene col silenzio ad autorizzare lo scisma, e l’eresia. Dunque per ragion dello scandalo contro la fede non può un Vescovo ai nostri tempi dissimular questi fatti. Né vi sorprenda, se chiamo eresia una disubbidienza di massima, e una ribellion di sistema contro le leggi, e l’autorità Ecclesiastica. Così chiamava S. Pier Damiani col nome di Nicolaiti i Chierici (Opusc. 5 Argum.) fornicatori, e perché? Udite il Santo. « Vitium quippe in hæresim vertitur, cum perversi dogmatis assertione firmatur. » Così chiamava lo stesso Santo col nome di eretici quelli, che (ibid. Serm.) tentavano d’involare i privilegi della Romana Sede, e perché? Ecco, che lo spiega egli medesimo: « Non dubium, quia quisvis cuilibet Ecclesiæ ius suum detrabit, iniustitiam facit: qui autem Romanæ Ecclesiæ privilegium ab ipso summo omnium Ecelesiarum Capite traditum auferre conatur, hic proculdubio in hæresim labitur: et cum ille notetur iniustus, hic est dicendus hæreticus. Fidem quippe violat, qui adversus illam agit, quæ Mater est Fidei; et illi contumax invenitur, qui eam cunetis Ecclesiis prætulisse cognoscitur. » – Molto meno potrà un Vescovo positivamente concorrere a queste violazioni. Non potrà egli stesso pubblicar leggi contrarie alla giurisdizione Ecclesiastica. Non potrà eseguire ordini e decreti di simil natura. Non potrà ricevere dai magistrati o dal Principe una più ampia giurisdizione. Non potrà dispensare da quelli impedimenti, né assolvere da quelle censure, che sono riservate al Papa. Non potrà rinunziare all’immunità, né al possesso dei beni della sua Chiesa. Questo sarebbe un concorso diretto e positivo alla trasgression della legge, e un concorso indiretto allo scisma e all’eresia, che detta, e inspira, ed eseguisce tutte queste violente e maligne trasgressioni. Ora chi dirà mai, che un Pastore possa per qualunque motivo o in qualunque più grave circostanza favorire l’eresia e lo scisma? Né le minacce, né il timore, né il falso pretesto di non accrescere i mali della Chiesa può mai lusingare un Pastore a cooperare colla sua autorità e col suo esempio a ciò, che intrinsecamente è male, cioè allo scandalo e al pericolo della fede. Sia pur vero, che le leggi violate sono leggi umane, ma, come avverte il Bellarmino: tutti i Dottori convengono in un punto; (Risposta a Giovanni Marsilio Napolitano preposizione quinta edit. Rom. 1601, c. 67, e segg.) cioè, che il timore non iscusa mai dal precetto umano, quando dal non osservare il precetto umano ne segue la trasgressione del precetto divino e naturale. Come per esempio il non mangiar carne il venerdì è comandamento umano, e nondimeno se alcuno fosse costretto dagli eretici a mangiar carne il venerdì in dispregio della nostra Santa Fede, o in segno e protesta di essere della setta Luterana, non potria mangiarla, ancorché gli fosse minacciata la morte; né il timore saria giusto, né scuserebbe in modo alcuno, perché il dispregio della fede, e la protezione dell’eresia è contro il precetto divino, e naturale. E così la Santa Chiesa ricevé nel numero de’ gloriosi Martiri i sette fanciulli Maccabei con la loro Madre, e con quel venerando vecchio Eleazaro, perché vollero prima morire con acerbissimi tormenti, che gustare la carne proibita nell’antica legge, sebbene quella era legge positiva, e naturale. Similmente il precetto, che proibisce il matrimonio ne’ gradi remoti di consanguineità ed affinità, massime nel terzo, e quarto grado, è precetto umano; e nondimeno non dee, né può nessuno per qualsivoglia timore indursi a fare il matrimonio, e molto meno a consumarlo con persona congiunta in terzo o quarto grado senza dispensa; perché sebbene quell’impedimento è stato introdotto per legge umana, nondimeno rende la persona inabile al matrimonio; e congiungersi con persona inabile per parentela non è matrimonio, ma incesto, il quale è proibito per legge divina naturale. All’istesso modo l’interdetto è censura di precetto umano, e nondimeno non si può per qualsivoglia timore lasciar di osservarlo, quando chi costringe a osservar l’interdetto, lo faccia per dispregio della podestà Ecclesiastica, perché il non dispregiare la podestà Ecclesiastica è precetto divino naturale. Finalmente per non moltiplicare più esempi, non è lecito per qualsivoglia timore disobbedire al precetto umano, se da quella disobbedienza ne segua scandalo, il quale è proibito per legge divina naturale. Ed in questa proposizione così dichiarata siamo d’accordo con i sette Dottori, come si vede dalla loro dichiarazione, e massime nel fine, dove allegano il Soto (lib. 1 de justitia, et iure q. 6, art. 4) e Silvestro (Verbo excommunicatio 5, n. 14), i quali dicono, che il timore non è giusto, e non iscusa quando la disobbedienza del precetto umano è con iscandalo, o in pregiudizio della Fede. Sin qui sono parole del Cardinal Bellarmino. Lo stesso è il sentimento del Suarez. (De Legibus l. 3, cap. 28, num. 24). « Transgredi legem (Prælati) ex contemptu eiusdem, quatenus Prælatus est, semper censeo esse peccatum mortale. … Ratio autem est, quia illud est contemnere Potestatem eius et quia tunc contemnitur quatenus repræsentat Deum, et vices eius gerit, et ideo talis contemptus redundat in contemptum Dei (Luc. X). Qui vos audit, me audit, et qui vos spernit, me spernit. » Et cap. 50, num. 7. « Per accidens fieri posse, ut etiam in eo casu (scalicet periculo mortis) obligetur homo ad (humanam) servandam legem, communis etiam est; talisque necessitas esse consetur, quando violatio legis propter talem metum cederet in contemptum, vel iniuriam religionis, aut grave scandalum pusillorum: tunc enim bonum commune, et religionis præferendum est privato etiam propriæ vitæ. Item quia tune trasgredi præceptum humanum esset vel deficere in confessione fidei tempore debito, vel cooperari ad aliquod intrinsece malum… Nec satis erit in huiusmodi casu habere intentionem non contemnendi nec scandalizandi, et exterius agere contra legem ad vitandum mortem. Hoc non est satis, quia tenemur exterius non contemnere, nec contemnentibus consentire, vel cooperari; et similiter ad vitandum scandalum maxime necessarium esse solet actum externum vitare. Si autem protestatio aliqua externa sufficeret ad tollendum scandalum, tunc cessaret illa necessitas, ut notavit Bonavent. in 4, dist. 33, dub. 8, et latius in tractat. de scandalo. » Dalla qual dottrina agevolmente si può dedurre la soluzione di molti dubbi, che talvolta occorrono. Può un Vescovo acconsentire, dissimulare, o cooperare alla violazione delle leggi ecclesiastiche per timore di sé medesimo, o di un peggior male alla Chiesa? In tempo di persecuzione, torno a risponder di no. Imperocché è manifesto a tutti i buoni Cattolici, che questo spirito di disubbidienza nasce, come abbiam detto, da ribellione alla podestà Ecclesiastica, e da disprezzo, o da mancanza di Fede. Dunque l’acconsentire, il dissimulare, il cooperare in questi tempi alla violazione delle leggi ecclesiastiche, è un acconsentire, un dissimulare, un cooperare alla ribellione contro una legittima Podestà instituita da Gesù Cristo, e al disprezzo della Fede e allo scandalo dei Fedeli, il che è proibito per legge divina e naturale. E siccome sino nella Dottrina Cristiana s’insegna, che né pure una sola bugia potrebbe dirsi per impedire la rovina di tutto il Paradiso; così molto meno si può dar mano allo scandalo, e al disprezzo della Fede, e della Podestà Ecclesiastica per impedire la propria rovina, o anche la rovina (che non è possibile) della Chiesa medesima. La ragione di tutto questo è una sola, e breve e chiara; cioè che in nessun caso, né per nessun timore di male né per nessuna speranza di bene, né in nessun tempo si può mai fare una cosa qualunque sia intrinsecamente cattiva. Ma il dar mano, o coll’opera, o col silenzio, o coll’accettazione al disprezzo della Fede e della Chiesa, e allo scandalo dei Fedeli è una cosa intrinsecamente mala. Dunque assolutamente non si può, e non si può da nessuno di qualunque rango e dignità. Così in altri tempi (Fleury Stor. Eccles. an. 895) protestarono i Vescovi delle Provincie di Reims, e di Roven a Lodovico Re di Germania con queste rimarchevoli parole: « Le Chiese, che Dio ci ha confidate non sono feudi, che il Re abbia diritto di dare, o di togliere, come gli piace. Essi sono beni consacrati a Dio, dei quali niuno può entrare in possesso senza commettere sacrilegio. » Ma vediamone le efficaci espressioni nella lettera di questi Vescovi al suddetto Re, che il Labbé riporta all’ann. 858 (t. 10, col. 95, et 96) « Res, et facultates Ecclesiasticas, quae sunt vota fidelium, pretia peccatorum, stipendia ancillarum, et. Dei Servorum, deprœdari, et ab Ecclesiis discindi, nolite sustinere, sed fortiter, ut Rex Christianus et Ecclesiœ alumnus resistite, atque defendite… Et sacri Canones Spiritu Sancto dictati eos, qui facultates ecclesiasticas diripiunt, et res ecclesiasticas indebile sibi usurpant, Iudae traditori Christi similes computant. De quibus sacrilegis in Prophetia Psalmi 82 prædictum est: Qui dixerunt: Hæreditate possideamus Sanctuarium Dei. Deus meus pone illos, ut rotam, et sicut stipulam ante faciem venti; et sicut ignis, qui comburit sylvam, et sicut flamma comburens montes, ita persequeris illos in tempestate tua, et in ira tua turbabis eos; imple facies eorum ignominia. » Sono anche molto efficaci l’espressioni di Pietro Blesense nella sua lettera già citata (ep.112) al Vescovo di Orleans, dove gl’inculca di resistere al Re, se avesse voluto violare l’immunità Ecelesiastica; delitto molto enorme; e perchè? « Si enim testimonio veritatis in ignem æternum mittitur, qui sua pauperibus non dedit: ubi quæso mittendus est, qui bona pauperum vel Ecclesiæ rapuit aut fraudavit? » Indi soggiunge: Scio, quod si Rex tuus angariis, parangariis, exectioninibus, capitationibus, caeterisque sordidis, et extraordinariis muneribus Ecelesiam decreverit praegravare, quam plures Episcopos huius rei fautores inveniet… Sie olim Rege Antioco iura templi, et Sacerdetii pervertente, multi de Israel egressi sunt, quia solius adulationis, aut vani timoris intuitu in consensum illius tyrannidis transierunt. Tu vero, Reverendissime Pater, pro domo Israel ex adverso ascendas, et pro testamento Dei murum inexpugnabilem te opponas. Enorme namque famæ, et animæ discrimen incurres, sì hanc iniuriam Christi silentio, aut neglectu dissimules. » S. Tommaso tratta espressamente questo articolo, cioè se (2, 2 qu. 43, art. 8 în corp.) per timore di scandalo debbano dimettersi i Beni temporali; e risolve così: « Contra est, quod Beatus Thomas Cantuariensis repetiit res Ecclesiarum cum scandalo Regis. Respondeo dicendum, quod circa temporalia distinguendum est: Aut enim sunt nostra, aut sunt nobis ad conservandum pro aliis commisa; sicut Bona Ecclesiae committuntur Prælatis, et Bona communia quibusecumque Reipublicæ rectoribus. Et talium conservatio, sicut et depositorum imminet his, quibus sunt commissa ex necessitate: et ideo non sunt propter scandalum dimittenda: sicut nec alia, quæ sunt de necessitate salutis.» Anzi aggiunge il Santo Dottore, che né meno i propri beni devono dimettersi per timore di scandalo, quando lo scandalo non nasce da ignoranza, ma da malizia. « Aliquando vero scandalum nascitur ex malitia, quod est scandalum Phariseorum: et propter eos, qui sic scandala concitant, non sunt temporalia dimittenda: quia hoc et noceret bono communi; (daretur enim malis rapiendi occasio) et noceret ipsis rapientibus; qui retinendo aliena in peccato remanerent. Unde Gregorius in 31 Moral. dicit (cap. 8 circa med.). Quidam, dum temporalia a nobis rapiunt; solummodo sunt tolerandi: quidam vero æquitate servata prohibendi non sola cura, ne nostra subtrahantur, sed ne rapientes non sua semetipsos perdant. » – Ed ecco altre due ragioni, per cui non può un Pastore dissimulare, e molto meno cooperare all’avvilimento, al disprezzo, o all’usurpazione della giurisdizione ecclesiastica. Prima ragione: Quia hoc noceret bono communis; daretur enim malis rapiendî occasio; questo modo di operare e di tacere nuocerebbe al bene comune spirituale, e all’onore di Dio e della Chiesa, perché darebbe occasione ai malvagi di sopraffare la Podestà ecclesiastica, vedendo il suo notabil timore. Lo avvertiva anche S. Cipriano fin dai suoi tempi scrivendo (ep. 55) a Papa Cornelio. « Si ita res est frater carissime, ut nequissimorum timeatur audacia, et quod mali iure, atque æquitate non possunt, temeritate, ac desperatione perficiant, actum est de episcopatus vigore, et de Ecclesiæ gubernandæ sublimi, ac divina potestate, nec christiani ultra aut durare, aut esse iam possumus, si ad hoc ventum est, ut perditorum minas, atque insidias pertimescamus. Nam et gentiles, et iudæi minantur, et hæretici, atque omnes, quorum pectora, et merites diabolus obsedit, venenatam rabiem suam quotidie furiosa voce testantur. » – Seconda ragione: Quia hoc noceret ipsis rapientibus, qui retinendo aliena in peccato remanerent; questo modo di operare edi tacere nuocerebbe altresì alle anime degli stessi magistrati, edei Principi, che trasgrediscono le leggi ecclesiastiche e divine;perché le pecore erranti vedendo, che il Pastor non le sgrida, oche le accompagna ne’ loro errori, comincerebbero a persuadersi d’aververo diritto contro la podestà Ecclesiastica, e diverrebbero inemendabili e ostinati nella loro prevaricazione. Dove bisogna riflettere, che il Vescovo non solo a titolo (La Croix cum omn. doctor. 1.2 de Charit. dub. 4, num. 208, et seg.) di carità, ma di giustizia deve la correzione fraterna, anzi dirò meglio la paterna correzione anche ai Principi e ai Magistrati. Dunque dissimulando i loro errori, o quel che è peggio; secondando le loro trasgressioni, manca d’eseguire un debito di giustizia coll’anime a lui commesse; debito tanto importante, quanto importa l’eterna loro salute.Ed è ben da notare che l’Immunità dei Beni Ecclesiastici, o sia diritto divino, o sia diritto umano, è inviolabile dalla Podestà secolare, sotto pena di sacrilegio. Dunque un Vescovo passando in silenzio l’invasione laica dei beni della Chiesa, lascerebbe dormire le sue Pecore in un continuo enorme peccato. E chi dirà mai, che un tal silenzio convenga coll’ufficio pastorale d’un Vescovo?Vediamo un altro passo di S. Tommaso, in cui conferma di nuovo l’accennata dottrina. Parla il Santo Dottore dell’obbligo, che corre ad ogni Cristiano di professare anche esteriormente la fede in certi tempi, e in alcuni luoghi, e ragiona così (2, 2 qu. 3, ar. 2). « Confiteri fidem non semper, nec in quolibet loco est de necessitate salutis, sed in aliquo loco, et tempore, quando scilicet per omissionem huius confessionis substraheretur honor debitus Deo, et etiam utilitas proximis impendenda; puta, si aliquis interrogatus de fide taceret, et ex hoc crederetur, vel quod non haberet fidem, vel quod fides non esset vera, vel alii per eius taciturnitatem averterentur a fide. » V’é dunque obbligo di protestare esternamente la fede, quando per l’omissione di una tal protesta si toglierebbe l’onor dovuto a Dio, o si mancherebbe alla cura dovuta al prossimo; per esempio quando il silenzio di uno, che fosse interrogato in materia di fede, facesse credere o ch’egli non avesse fede, o che la fede non fosse vera, o desse con ciò occasione agli altri di mancare alla fede. Ora, soggiungo adesso, il silenzio di un Pastore, che vede invasa la Podestà ecclesiastica,che soffre in pace questa usurpazione peggio, che la seconda e vi concorre; è un silenzio e una cooperazione, che fa credere che né pur egli vuol esser soggetto alla Podestà ecclesiastica, o che anch’egli dubita dell’esistenza di questa Podestà istituita da Gesù Cristo; e inoltre è un silenzio, e una cooperazione, che fa prevaricare anche gli altri, specialmente i Chierici e i Parrochi a lui Soggetti; e in fine è un silenzio e una cooperazione, che conferma i Principi e i Magistrati nelle loro usurpazioni e nel disprezzo della Podestà Ecclesiastica; usurpazioni e disprezzo, che attaccan la fede. Dunque un Pastore non può essere sicuro in coscienza, adoperando in questi casi un timoroso silenzio; e molto meno cooperando a un mal sì grande e sì scandaloso coll’accettare, promulgare ed eseguire i decreti contrari alla libertà Ecclesiastica.Questo si conoscerà sempre meglio coll’esempio de’ più Santi Pastori della Chiesa. Si trattava forse di fede ai tempi di S. Tomaso di Cantuaria nell’Inghilterra? No, ma bensì di consuetudini contrarie alla libertà e alla giurisdizione ecclesiastica, che riuscivano d’impedimento, di scandalo e di disprezzo della Podestà ecclesiastica. Non si voleva, che i Vescovi uscissero dal Regno per andare (Convent. Clarendon. an. 1164) a Roma senza licenza della Corte. Si voleva, che i Chierici si presentassero al tribunale dei Laici anche senza concessione della Chiesa. Non si voleva che alcun Ministro del Re fosse scomunicato senza intelligenza del Principe. Si voleva, che la Curia del Re giudicasse in ultima istanza delle appellazioni de’ Chierici. In somma si trattava solo di questi e d’altri simili articoli oltraggiosi alla Immunità della Chiesa. E pure né S. Tomaso, né Papa Alessandro voller mai cedere su questo punto ad Enrico. Quando S. Tommaso (Vit. S. Thom. c. 24)fu chiamato dal Re, prima ch’egli entrasse all’udienza, Bartolomeo Vescovo uscendo dalla stanza di Enrico si gettò ai piedi del Santo, e gli disse: Padre mio, abbi pietà di te, e di noi perché tutti siamo in pericolo per causa tua. Imperocchè è uscito un editto del Re, che chiunque abbraccerà il tuo partito, sarà riguardato come pubblico nemico, e condannato al taglio della testa; e Tommaso guardandolo: fuggi via di qua, gli rispose, che non hai cognizione degl’interessi di Dio. Alessandro Papa ne avea tanta estimazione, che colle lagrime agli occhi disse ai messaggeri del (Quadrip. vit. S. Thom. l. 2, c. 5) Santo: Dominus vester adhuc vivens iam martyrii privilegium sibi vindicat; Il vostro padrone benché vivo gode il privilegio di martire. Anche al Santo si fecero le stesse istanze, che sono state adoperate in ogni tempo. Gli domandarono, se voleva promettere l’osservanza di quelle consuetudini, che alla (S.Thom. l. 2, ep. 27 et 28) fine non erano nuove nel Regno, ma praticate dagli stessi antecessori d’Enrico. Con questo si ridonava la pace a lui, e a tutto il Regno. Tommaso rispose, che non avrebbe mai permesso l’osservanza di quelle consuetudini, che apertamente sono contrarie alla legge di Dio, che distruggono i privilegi della Sede Apostolica, e che opprimono la libertà della Chiesa. E bene, soggiunsero, almeno promettete di dissimulare e di tollerare. Rispose Tommaso: che chi tace confessa: Taciturnus spiritum prætendit confitentis; e che voleva piuttosto morir esule, che fare una pace di questa sorte con danno della sua salute e della Ecclesiastica libertà. Patres nostri, disse un’altra volta il Santo (In Quadri,cap. 23) in faccia a due Re, cioè a quello di Francia, e a quello d’Inghilterra: Patres nostri passi sunt, quia Christi nomen tacere noluerunt. Et ego, ut hominis gratia restituatur, Christi honorem deberem supprimere? Absit. Ma che? Non (ibid. cap. 26) molto di poi il Re Ludovico di Francia ebbe a chieder perdono al Santo del cattivo consiglio datogli di cedere ad Enrico: « Rex gemens ait: Vere domine mi pater, tu solus vidisti; nos omnes cœci fuimus, qui contra Deum tibi dedimus consilium in tua causa, ad nutum hominis honorem Dei remittentes. Pœniteo, pater, et graviter pœniteo. Ignosce ergo, et ab hac culpa me absolve.» Tanto è vero, che Iddio protegge i suoi Ministri fedeli, e coraggiosi contro tutte le podestà della terra; e che vani sono gli spaventi dei figliuoli delle tenebre; perché cor Regis in manu Domini, et quocumque voluerit inclinabit illud. Né questare sistenza di Tommaso ad Enrico di non voler approvare le consuetudini contrarie all’Ecclesiastica libertà, era capricciosa e riprensibile.Alessandro III scrisse di suo pugno ai Vescovi d’Inghilterra proibendo loro di prestare verun giuramento diverso da quello, che tutti i Vescovi sogliono dare al Re, e ordinando ad essi di rivocare qualunque giuramento prestato in danno della libertà della Chiesa? (Alexander Episc. 6, Labbé tom. 13, col. 73): « Præcipiendo mandamus, et in virtute obedientiæ iniungimus, quatenus, si illustris Anglorum Rex quidquam a vobis aliquo tempore requisierit, quod contra Ecclesiasticam libertatem existat, hoc ei facere nullatenus attentetis. Nec vos in aliquo, et maxime contra Romanam Ecelesiam obligetis: aut novæ promissionis, seu iuramenti formam inducere præsumatis, præter id, quod Episcopisuis Regibus facere consueverunt. Si autem iam dicto Regi superhuiusmedi vos in aliquo adstrictos cognoscitis, quod promisistis,nullatenus observetis, sed hoc potius revocare curetis; et de promissione illicita Deo studeatis, et. Ecclesiæ reconciliari. » –  E perché forse Enrico si scusava delle ruberie commesse sopra i beni della Chiesa col pretesto di volerne convertire le vendite in limosine e in usi pii, è notabile ciò, che gli scrisse in tal proposito Papa Alessandro (ibid. ep. 10, col. 76). « Si autem universo, quæ in usus tuos per buiusmodi angarias de bonis ecclesiasticis convertuntur, in refectionem pauperum, vel aliis pietatis operibus expenderes; obsequium non magis Deo gratius efficeres, quam si altari quolibet discooperto, aliud cooperires: aut si Petrum crucifigeres, ut Paulum a mortis periculo liberares. » Enrico convocò in seguito i Vescovi del suo Regno per intimar loro un editto, (S. Thom. I. 3, ep. 65) in cui vietava d’accettare l’interdetto del Papa. – Ma quanto può mai in tutti i Vescovi anche l’esempio e il coraggio d’un solo? Quelli, che prima parevano tutti dichiarati contra Tommaso, dopo aver poi ammirata la sua costanza, ricusarono d’intervenire a quest’adunanza, alcuni di loro protestarono in iscritto contra ogni attentato del Principe. Si riconciliò in fine, benché di mala voglia, il Re col Santo Arcivescovo, senza fare né pur parola di quelle consuetudini (S. Thom., lib. 5, ep. 43), per cui erasi sino allora mostrato così ribelle alla Chiesa; ed è notabile quello che scrisse allora lo stesso S. Tomaso (S. Thom. I 5, ep. 48) a Graziano Legato del Papa:« Ecce ut facta est vox nuperrimæ comminationis Apostolicæ in auribus Regis, qua constitit terram eius subiiciendam esse Interdicto, et mandati prævaricatores Episcopos suspendendos, vel excommunicandos, illico ad honorem Dei et Ecelesiae….. pacem fecit. Nec dubium, quin infra duos primos exilii nostri annos eam fecisset, si cum ab initio hac via aggressus esset Dominus Papa.» – È vero, che questa pace fu di corta durata, e che Tommaso ritornò nel Regno per ispargere il sangue generoso sul pavimento della sua Chiesa. Ma la sua morte fu onorata ben presto per tutto il Cristianesimo, e si vide il Re Enrico in abito penitente domandar perdono di questo sangue, che si era per altro versato senza suo comando. Così in fine Dio esalta i suoi servi, e umilia i loro persecutori.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “SANTA DEI CIVITAS”

Un recente servo “vicario” dell’anticristo, diceva che il proselitismo cristiano è una “solenne sciocchezza”, contraddicendo – come giustamente fanno i servi suddetti – alle parole dei Signore Nostro Gesù Cristo che comandò invece ai suoi Apostoli e ai loro successori, di andare a predicare il Vangelo a tutte le genti e a battezzarle nel Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. E per meglio imprimere nella mente dei suoi Apostoli e discepoli, ed in quella dei veri fedeli Cattolici di ogni tempo quest’obbligo, aggiungeva che … et praedicabitur hoc Evangelium regni in universo orbe, in testimonium omnibus gentibus: et tunc veniet consummatio … (Matt. XXIV, 14),… quando il Vangelo del regno, sarà annunziato a tutte le genti, allora giungerà la fine!!! … Quindi, lasciamo da parte gli ignoranti, ma coerenti con i loro intenti, i (finti) imbecilli servi del demonio e vediamo, ad esempio, come in questa lettera Enciclica, S. S. Leone XIII, ribadisca questa necessità, se vogliamo escatologica, della predicazione e quindi delle missioni, in tutto il pianeta a tutte le genti, dopo la quale ci sarà la fine, cioè la parusia di Gesù Cristo Giudice che verrà a ricompensare ognuno secondo le sue opere. Eccone un passaggio significativo: ” … La fede dipende dunque dalla predicazione, e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm. X, 14.17). Codesto ufficio poi spetta a coloro che legittimamente siano stati iniziati ai sacri misteri …”. Seguono poi esortazioni e lodi per le missioni ed i loro sostenitori. Quello che a noi oggi maggiormente importa, è il capire che questa predicazione è oggi – favorita anche dai mezzi divulgativi di massa, che raggiungono ogni angolo del pianeta – pressoché completata: non c’è popolo, credente o eretico, ostinatamente pagano o infedele, che non conosca, pur se in chiave negativa, o anche col rifiuto di aderirvi, la verità evangelica annunziata da Cristo e dai suoi Apostoli, per cui dobbiamo tenerci pronti, oggi più che mai, e solerti al ritorno del “nostro Padrone” di ritorno dal suo viaggio in “un paese lontano” e farci trovare come servi operanti e svegli nell’esercizio operoso della vera ed unica fede salvifica della Chiesa Cattolica, Cattedra di verità e di gloria eterna, fondata e guidata visibilmente dal suo Vicario, S. S. Gregorio XVIII, e invisibilmente, ma con potenza, da Gesù Cristo, Dio incarnato e Giudice severo – ma giusto e misericordioso con i pentiti ed i penitenti – del comportamento di ogni uomo venuto in questo mondo. Chi avrà creduto si salverà … chi, invece, avrà “dialogato” come l’idiota sciocco citato sopra, e l’avrà seguito nelle sue eresie, o meglio nell’apostasia, finirà nelle tenebre esterne … nello stagno di fuoco preparato per la bestia, il falso profeta ed il dragone maledetto. Parola di Dio … Sancta Dei civitas …

SANCTA DEI CIVITAS

LETTERA ENCICLICA 
DI SUA SANTITÀ

LEONE PP. XIII

La città santa di Dio che è la Chiesa, non essendo circoscritta da alcun confine di regioni, ha la forza trasfusale dal suo Fondatore di dilatare ogni giorno più il luogo della sua tenda e di estendere le pelli dei suoi tabernacoli (Is LIV, 2). Questi accrescimenti dei popoli cristiani, sebbene siano principalmente opera dell’intima assistenza e dell’aiuto dello Spirito Santo, tuttavia si compiono estrinsecamente per opera di uomini e secondo l’umano costume. Infatti è consentaneo alla sapienza di Dio che tutte le cose siano ordinate e realizzate nel modo che conviene alla natura di ciascuna di esse. Tuttavia la specie degli uomini e degli uffici, per mezzo dei quali si ottiene l’aumento di nuovi cittadini a questa terrestre Sionne, non è una sola. Infatti le prime parti spettano a coloro che predicano la parola di Dio: ciò Cristo insegnò con i suoi esempi e con le sue profezie. Su ciò l’Apostolo Paolo insisteva con queste parole: “Come potranno credere a colui che non hanno udito? E come potranno udire se non vi è chi predichi?… La fede dipende dunque dalla predicazione, e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm X,14.17). Codesto ufficio poi spetta a coloro che legittimamente siano stati iniziati ai sacri misteri. – A questi, per certo, recano non poco aiuto né lieve conforto coloro i quali sogliono o apprestare loro soccorsi esterni o con preghiere innalzate a Dio attirare su di essi i doni celesti. Perciò nel Vangelo vengono lodate quelle donne le quali “soccorrevano con le proprie sostanze” (Lc VIII, 3). Cristo che predicava il regno di Dio; e Paolo attesta che a coloro i quali annunziano il Vangelo è per divino volere concesso che vivano del Vangelo (1Cor IX, 14). Parimenti sappiamo che Cristo diede ai suoi seguaci ed ai suoi uditori questo comando: “Pregate il padrone della messe che mandi ad essa gli operai” (Mt IX, 38; Lc 10,2), e che i primi suoi discepoli, dietro l’esempio degli Apostoli, solevano supplicare Dio con queste parole: “Concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta fiducia la tua parola” (At. IV,29). Questi due uffici, che consistono nel dare e nel pregare, oltre che essere utilissimi per allargare i confini del regno dei cieli, hanno altresì questo di proprio, che possono essere facilmente compiuti da uomini di qualunque condizione. Infatti, chi è tanto povero che non possa dare una piccola moneta, o tanto occupato che non possa qualche volta alzare a Dio una preghiera per i nunzi del Santo Vangelo? Di questi aiuti sempre si servirono gli uomini apostolici e specialmente i Pontefici Romani, ai quali maggiormente incombe il compito di propagare la fede cristiana, sebbene non si sia sempre tenuto il medesimo modo di procurare tali soccorsi, ma vario e diverso, secondo la varietà dei luoghi e la diversità dei tempi. – Essendo tendenza della nostra età di intraprendere le cose ardue mercé l’unione dei pareri e delle forze di molti, vedemmo dappertutto formarsi società di cui talune furono costituite perché contribuissero anche a promuovere la Religione in alcune regioni. Fra tutte, la più eminente è la pia associazione formata circa sessant’anni fa a Lione, in Francia, e che prese il nome della Propagazione della fede. Questa in principio si propose di soccorrere alcune missioni nell’America; poi, come il grano della senape, crebbe diventando un albero gigantesco i cui rami largamente fioriscono, e così a tutte le missioni, sparse per tutta la terra, porge operosa beneficenza. Questa eccellente istituzione fu tosto approvata dai Pastori della Chiesa e ricolma di splendidi elogi. I Romani Pontefici Pio VII, Leone XII, Pio VIII, Nostri Predecessori, la raccomandarono calorosamente e la arricchirono dei doni delle Indulgenze. Con molto maggiore impegno la promosse, e con affetto veramente paterno la considerò Gregorio XVI, che nella Lettera enciclica del 15 agosto 1840 [più esattamente, con il Breve Probe nostis del 18 settembre 1840] di essa parlò in questi termini: “Opera, questa, veramente grande e santissima, che si sostiene, si allarga, si accresce con le modeste offerte e con le quotidiane preci innalzate a Dio dagli amici di essa; opera che, rivolta a sostenere gli operai apostolici, a esercitare la carità cristiana verso i neofiti, a liberare i fedeli dall’impeto delle persecuzioni, è da Noi considerata degnissima di ammirazione e di amore da parte di tutti i buoni. Né si può credere che senza un particolare disegno della Provvidenza divina sia toccato alla Chiesa, in questi ultimi tempi, un vantaggio, una utilità così grande. Mentre infatti con artifici di ogni genere il nemico infernale tormenta la diletta Sposa di Cristo, nulla di più opportuno poteva accaderle che la difesa e gli sforzi congiunti di tutti i fedeli che sono infiammati dal desiderio di diffondere la verità cattolica e di guadagnare tutti a Cristo”. – Dopo ciò esortava i Vescovi, affinché ognuno nella propria diocesi alacremente operasse in modo che una istituzione tanto salutare si accrescesse di giorno in giorno. Né dall’indirizzo del suo Predecessore si allontanò Pio IX di gloriosa memoria, il quale non tralasciò alcuna occasione per aiutare la benemeritissima società e per promuovere sempre più la sua prosperità. Infatti per sua decisione vennero concessi ai soci più ampi privilegi della indulgenza pontificia; fu spronata la pietà cristiana a sussidiare l’opera, e i soci più illustri, dei quali fossero provati i singolari meriti, furono decorati di varie onorificenze; infine, alcuni aiuti esterni, destinati a questa istituzione, furono dallo stesso Pontefice elogiati ed amplificati. Nello stesso tempo l’emulazione della pietà fece sì che nascessero due altre società, delle quali l’una prese il nome della Santa Infanzia di Gesù Cristo, l’altra delle Scuole d’Oriente. La prima ha per scopo di educare nei costumi cristiani gl’infelicissimi bambini che i genitori, costretti dalla miseria o dalla fame, abbandonano barbaramente, specialmente nelle regioni dei Cinesi, nelle quali è maggiormente in uso questa sorta di crudeltà. Pertanto, la carità dei soci li raccoglie affettuosamente e, dopo averli recuperati talvolta con il denaro, cura che siano lavati nel fonte della rigenerazione cristiana, in modo che, con l’aiuto di Dio, crescano nella speranza della Chiesa o almeno, presi dalla morte, possano garantirsi il modo di acquistare l’eterna felicità. – L’altra società, che sopra abbiamo nominata, prende cura degli adolescenti e con ogni impegno si adopera affinché essi siano imbevuti di sana dottrina, e si adopera di allontanare da loro i pericoli della scienza fallace, verso la quale essi sono spesso inclinati per improvvida cupidigia d’imparare. – Del resto, l’uno e l’altro sodalizio prestano la loro opera coadiutrice a quello più antico che si chiama Propaganda Fide e che, sostenuto dal denaro e dalle preghiere dei popoli cristiani, con amica alleanza opera allo stesso fine. Tutti infatti tendono a far si che mediante la diffusione della luce evangelica moltissimi estranei alla Chiesa vengano alla conoscenza di Dio, e adorino Lui e il Mandato da Lui, Gesù Cristo. Quindi, come accennammo, queste due istituzioni furono elogiate con lettere apostoliche dal Nostro Predecessore Pio IX e largamente arricchite di Sacre Indulgenze. – Pertanto, dato che questi tre sodalizi hanno goduto di tanta sicura grazia agli occhi dei Sommi Pontefici, e dato che ognuno di essi non ha mai desistito dal compiere con concorde impegno il proprio ufficio, così diedero abbondanti frutti salutari alla Nostra Congregazione di Propaganda Fide, arrecarono non mediocre aiuto e conforto nel sostenere i pesi delle missioni e sembrarono tanto vigorosi da dare lieta speranza di messe più ampia per l’avvenire. Però le molte e violente tempeste che si sono scatenate contro la Chiesa nelle regioni già illuminate dalla luce evangelica, recarono detrimento anche a quelle opere che erano state istituite per incivilire i popoli barbari. Infatti furono molte le cause che diminuirono il numero e la generosità dei soci. Certamente, venendo sparse nel mondo prave opinioni con le quali si aguzza l’appetito della terrena felicità e si spregia la speranza dei beni celesti, che cosa ci si deve aspettare da coloro che usano la mente per escogitare e per gustare le voluttà del corpo? Uomini siffatti possono innalzare preghiere in forza delle quali Dio, implorato, possa condurre con la grazia trionfante i popoli immersi nelle tenebre alla luce divina del Vangelo? Costoro possono forse recare aiuto ai sacerdoti che per la fede si sacrificano e combattono? Invece, per la malvagità dei tempi avvenne che anche gli animi degli uomini pii si facessero più restii alla munificenza, in parte perché nell’abbondanza delle iniquità si raffreddò la carità di molti, in parte perché le angustie delle cose private, i moti di quelle pubbliche (e si aggiunga anche il timore di tempi peggiori) fecero sì che molti fossero tenaci nel conservare, parchi nel dare. – Al contrario le missioni apostoliche sono strette da molteplici e gravi necessità poiché si fa ogni giorno minore il numero dei sacri operai, né a coloro che sono rapiti dalla morte, cadenti per la vecchiaia, logorati dalla fatica, sono pronti a succedere missionari pari di numero e di valore. Infatti vediamo famiglie religiose, dalle quali molti partivano per le sacre missioni, sciolte da leggi nefaste, i chierici strappati dagli altari e costretti agli obblighi della milizia, i beni dell’uno e dell’altro Clero quasi dappertutto messi al bando e proscritti. – Frattanto, aperto l’adito ad altre regioni che parevano inaccessibili, cresciuta la conoscenza di luoghi e di genti, furono richieste molte altre spedizioni di soldati di Cristo, e si stabilirono nuove stazioni; perciò si desiderano molte persone che si dedichino a codeste missioni ed arrechino opportuni aiuti. – Tralasciamo le difficoltà e gli ostacoli generati dalle contraddizioni. Infatti, spesse volte uomini fallaci, seminatori di errori, si camuffano da apostoli di Cristo, e abbondantemente forniti di aiuti umani prevengono l’ufficio dei sacerdoti cattolici, o si insinuano al posto di quelli che vengono a meno, o siedono su una cattedra eretta contro di essi, ritenendo di avere sufficientemente conseguito il loro fine, se a quelli che ascoltano la parola di Dio spiegata in diverso modo, rendono ambigua la via della salvezza. E volesse Iddio che non riuscissero con le loro arti! Certamente è da deplorare che quegli stessi i quali o hanno in uggia tali maestri o non li conoscono affatto, e anelano alla pura luce della verità, non trovino spesso l’uomo da cui siano istruiti nella sacra dottrina ed invitati nel seno della Chiesa. Veramente i pargoli chiedono il pane, e non vi è chi lo spezzi loro; le contrade biancheggiano di messe: questa è molta, ma gli operai sono pochi e meno ancora forse diverranno in futuro. – Stando così le cose, Venerabili Fratelli, stimiamo Nostro dovere stimolare lo zelo e la carità dei Cristiani, affinché, sia con le preghiere, sia con le offerte, si adoperino ad aiutare l’opera delle sacre missioni e a promuovere la propagazione della fede. Quanta sia l’eccellenza di tale attività lo dimostrano tanto i beni che ad essa sono proposti, quanto i frutti che se ne ritraggono. Infatti, questa santa opera tende direttamente ad estendere sulla terra la gloria del nome divino e il regno di Cristo. Essa è oltremodo benefica per coloro che sono richiamati dal fango dei vizi e dall’ombra della morte, e che, oltre ad essere resi idonei alla salvezza eterna, sono tratti da uno stato di barbarie e da costumi selvaggi alla dignità del vivere civile. Inoltre, tale opera riesce molto utile e fruttuosa anche a coloro i quali in qualsiasi modo vi partecipano, poiché procura ad essi ricchezze spirituali, offre materia di merito e rende Dio quasi debitore nei loro confronti del beneficio compiuto. – Voi dunque, Venerabili Fratelli, chiamati a partecipare della Nostra sollecitudine, caldamente esortiamo affinché, sorretti dalla fiducia in Dio e non turbati da qualsiasi difficoltà, con animi concordi vi adoperiate con Noi ad aiutare attivamente ed energicamente le missioni apostoliche. Si tratta della salute delle anime per le quali il Nostro Redentore offerse l’anima sua e costituì Noi Vescovi e Sacerdoti per la formazione dei santi e per la edificazione del suo corpo. – Pertanto, ciascuno nel luogo dove da Dio fu posto a custodia del gregge, sforziamoci con ogni mezzo affinché alle sacre missioni siano forniti quegli aiuti che, come abbiamo ricordato, la Chiesa usò sin dai primordi, vale a dire la predicazione del Vangelo, le preghiere e le elemosine degli uomini pii. Se dunque troverete alcuni zelanti della gloria divina e pronti ed idonei ad intraprendere le sacre missioni, rincuorateli affinché, esplorata e conosciuta la volontà di Dio, non si facciano impigrire dalla carne e dal sangue, ma si affrettino ad assecondare le voci dello Spirito Santo. – Agli altri Sacerdoti, poi, agli ordini religiosi dell’uno e dell’altro sesso, e infine a tutti i fedeli affidati alle Vostre cure, inculcate con insistenza affinché con preghiere incessanti implorino l’aiuto celeste a favore dei seminatori della divina parola. Adoperino poi quali intercessori la Vergine Madre di Dio, che può uccidere tutti i mostri degli errori, il suo purissimo Sposo, che molte missioni hanno già eletto a proprio protettore e custode, e che la Sede Apostolica ha recentemente dichiarato Patrono della Chiesa universale; i Principi degli Apostoli e tutta la schiera da cui partì per la prima volta la predicazione del Vangelo che risuonò per tutta la terra; infine, tutti gli altri uomini illustri per santità, che nello stesso ministero consumarono le forze o profusero il sangue e la vita. – Alla supplice preghiera si unisca l’elemosina, la cui forza consiste nel far sì che coloro i quali aiutano gli uomini dell’apostolato, ancorché separati da grandi distanze o trattenuti in altre occupazioni, si rendano loro soci, tanto nei travagli quanto nei meriti. Per la verità, il tempo è tale che molti sono presi dalla povertà familiare, tuttavia nessuno per questo si perda d’animo, in quanto a nessuno certamente può essere grave l’oblazione della piccola moneta che si richiede per questo scopo, dato che molte offerte convogliate unitariamente possono approntare aiuti abbastanza grandi. Ognuno poi consideri, secondo il Vostro insegnamento, Venerabili Fratelli, che la sua liberalità non gli sarà di iattura ma di vantaggio, poiché chi dà al povero presta a Dio, e perciò l’elemosina fu detta la più lucrosa di tutte le attività. Infatti se, come da promessa dello stesso Gesù Cristo, non perderà la sua mercede colui che abbia dato un bicchiere d’acqua fresca ad uno dei suoi poveri più miseri, amplissima mercede certamente spetterà a colui che, spesa per le sacre missioni una somma anche esigua ed aggiuntavi la preghiera, sollecita contemporaneamente molte e diverse opere di carità, e si fa collaboratore di Dio per la salute del prossimo in quell’opera che i Santi Padri chiamarono la più divina fra le opere divine. – Nutriamo certa fiducia, Venerabili Fratelli, che tutti coloro i quali si gloriano del nome di cattolici, meditando nella loro mente queste considerazioni ed infiammati dalle Vostre esortazioni, non verranno meno a questa opera di pietà, che a Noi sta tanto a cuore, né permetteranno che le loro premure di dilatare il regno di Gesù Cristo siano vinte dall’attività e dall’impegno di coloro che si sforzano di propagare il dominio del principe delle tenebre. – Frattanto, implorando Iddio propizio alle pie imprese dei popoli cristiani, impartiamo affettuosamente nel Signore l’Apostolica Benedizione, testimone della Nostra singolare benevolenza, a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero ed al popolo affidato alla Vostra cura.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 3 dicembre 1880, anno terzo del Nostro Pontificato.

DOMENICA DELLA SANTISSIMA TRINITÁ (2021)

FESTA DELLA SANTISSIMA TRINITÁ (2021)

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O Dio, uno nella natura e trino nelle Persone, Padre, Figlio e Spirito Santo, causa prima e fine ultimo di tutte le creature, Bene infinito, incomprensibile e ineffabile, mio Creatore, mio Redentore e mio Santificatore, io credo in Voi, spero in Voi e vi amo con tutto il cuore.

Voi nella vostra felicità infinita, preferendo, senza alcun mio merito, ad innumerevoli altre creature, che meglio di me avrebbero corrisposto ai vostri benefìci, aveste per me un palpito d’amore fin dall’eternità e, suonata la mia ora nel tempo, mi traeste dal nulla all’esistenza terrena e mi donaste la grazia, pegno della vita eterna.

Dall’abisso della mia miseria vi adoro e vi ringrazio. Sulla mia culla fu invocato il vostro Nome come professione di fede, come programma di azione, come meta unica del mio pellegrinaggio quaggiù; fate, o Trinità Santissima, che io mi ispiri sempre a questa fede e attui costantemente questo programma, affinché, giunto al termine del mio cammino, possa fissare le mie pupille nei fulgori beati della vostra gloria.

[Fidelibus, qui festo Ss.mæ Trinitatis supra relatam orationem pie recitaverint, conceditur: Indulgentia trium annorum;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus (S. Pæn. Ap.,10 maii 1941).

[Nel giorno della festa della Ss. TRINITA’, si concede indulgenza plenaria con le solite condizioni: Confessione [se impediti Atti di contrizione perfetta], Comunione sacramentale [se impediti, Comunione Spirituale], Preghiera secondo le intenzioni del S. Padre, S. S. GREGORIO XVIII]

Canticum Quicumque


(Canticum Quicumque * Symbolum Athanasium)


Quicúmque vult salvus esse, * ante ómnia opus est, ut téneat cathólicam fidem:
Quam nisi quisque íntegram inviolatámque serváverit, * absque dúbio in ætérnum períbit.
Fides autem cathólica hæc est: * ut unum Deum in Trinitáte, et Trinitátem in unitáte venerémur.
Neque confundéntes persónas, * neque substántiam separántes.
Alia est enim persóna Patris, ália Fílii, * ália Spíritus Sancti:
Sed Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti una est divínitas, * æquális glória, coætérna majéstas.
Qualis Pater, talis Fílius, * talis Spíritus Sanctus.
Increátus Pater, increátus Fílius, * increátus Spíritus Sanctus.
Imménsus Pater, imménsus Fílius, * imménsus Spíritus Sanctus.
Ætérnus Pater, ætérnus Fílius, * ætérnus Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres ætérni, * sed unus ætérnus.
Sicut non tres increáti, nec tres imménsi, * sed unus increátus, et unus imménsus.
Simíliter omnípotens Pater, omnípotens Fílius, * omnípotens Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres omnipoténtes, * sed unus omnípotens.
Ita Deus Pater, Deus Fílius, * Deus Spíritus Sanctus.
Ut tamen non tres Dii, * sed unus est Deus.
Ita Dóminus Pater, Dóminus Fílius, * Dóminus Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres Dómini, * sed unus est Dóminus.
Quia, sicut singillátim unamquámque persónam Deum ac Dóminum confitéri christiána veritáte compéllimur: * ita tres Deos aut Dóminos dícere cathólica religióne prohibémur.
Pater a nullo est factus: * nec creátus, nec génitus.
Fílius a Patre solo est: * non factus, nec creátus, sed génitus.
Spíritus Sanctus a Patre et Fílio: * non factus, nec creátus, nec génitus, sed procédens.
Unus ergo Pater, non tres Patres: unus Fílius, non tres Fílii: * unus Spíritus Sanctus, non tres Spíritus Sancti.
Et in hac Trinitáte nihil prius aut postérius, nihil majus aut minus: * sed totæ tres persónæ coætérnæ sibi sunt et coæquáles.
Ita ut per ómnia, sicut jam supra dictum est, * et únitas in Trinitáte, et Trínitas in unitáte veneránda sit.
Qui vult ergo salvus esse, * ita de Trinitáte séntiat.
Sed necessárium est ad ætérnam salútem, * ut Incarnatiónem quoque Dómini nostri Jesu Christi fidéliter credat.
Est ergo fides recta ut credámus et confiteámur, * quia Dóminus noster Jesus Christus, Dei Fílius, Deus et homo est.
Deus est ex substántia Patris ante sǽcula génitus: * et homo est ex substántia matris in sǽculo natus.
Perféctus Deus, perféctus homo: * ex ánima rationáli et humána carne subsístens.
Æquális Patri secúndum divinitátem: * minor Patre secúndum humanitátem.
Qui licet Deus sit et homo, * non duo tamen, sed unus est Christus.
Unus autem non conversióne divinitátis in carnem, * sed assumptióne humanitátis in Deum.
Unus omníno, non confusióne substántiæ, * sed unitáte persónæ.
Nam sicut ánima rationális et caro unus est homo: * ita Deus et homo unus est Christus.
Qui passus est pro salúte nostra: descéndit ad ínferos: * tértia die resurréxit a mórtuis.
Ascéndit ad cælos, sedet ad déxteram Dei Patris omnipoténtis: * inde ventúrus est judicáre vivos et mórtuos.
Ad cujus advéntum omnes hómines resúrgere habent cum corpóribus suis; * et redditúri sunt de factis própriis ratiónem.
Et qui bona egérunt, ibunt in vitam ætérnam: * qui vero mala, in ignem ætérnum.
Hæc est fides cathólica, * quam nisi quisque fidéliter firmitérque credíderit, salvus esse non póterit.

MESSA

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Doppio di I° classe. – Paramenti bianchi.

Lo Spirito Santo, il cui regno comincia con la festa di Pentecoste, viene a ridire alle nostre anime in questa seconda parte dell’anno (dalla Trinità all’Avvento – 6 mesi), quello che Gesù ci ha insegnato nella prima (dall’Avvento alla Trinità – 6 mesi). Il dogma fondamentale al quale fa capo ogni cosa nel Cristianesimo è quello della SS. Trinità, dalla quale tutto viene (Ep.) e alla quale debbono ritornare tutti quelli che sono stati battezzati nel suo nome (Vang.). Così, dopo aver ricordato, nel corso dell’anno, volta per volta, pensiero di Dio Padre Autore della Creazione, di Dio Figlio Autore della Redenzione, di Dio Spirito Santo, Autore della nostra santificazione, la Chiesa, in questo giorno specialmente, ricapitola il grande mistero che ci ha fatto conoscere e adorare in Dio l’Unità di natura nella Trinità delle persone (Or.). — « Subito dopo aver celebrato l’avvento dello Spirito Santo, noi celebriamo la festa della SS. Trinità nell’officio della domenica che segue, dice S. Ruperto nel XII secolo, e questo posto è ben scelto perché subito dopo la discesa di questo divino Spirito, cominciarono la predicazione e la credenza, e, nel Battesimo, la fede e la confessione nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo ». Il dogma della SS. Trinità è affermato in tutta la liturgia. È in nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo che si comincia e si finisce la Mesa e l’Ufficio divino, e che si conferiscono i sacramenti. Tutti i Salmi terminano col Gloria Patri, gli Inni con la Dossologia e le Orazioni con una conclusione in onore delle tre Persone divine. Nella Messa due volte si ricorda che il Sacrificio è offerto alla SS. Trinità. — Il dogma della Trinità risplende anche nelle chiese: i nostri padri amavano vederne un simbolo nell’altezza, larghezza e lunghezza mirabilmente proporzionate degli edifici; nelle loro divisioni principali e secondarie: il santuario, il coro, la navata; le gallerie, le trifore, le invetriate; le tre entrate, le tre porte, i tre vani, il frontone (formato a triangolo) e, a volte le tre torri campanili. Dovunque, fin nei dettagli dell’ornato il numero ripetuto rivela un piano prestabilito, un pensiero di fede nella SS. Trinità. — L’iconografia cristiana riproduce, in differenti maniere questo pensiero. Fino al XII secolo Dio Padre è rappresentato da una mano benedicente che sorge fra le nuvole, e spesso circondata da un nimbo: questa mano significa l’onnipotenza di Dio. Nei secoli XIII e XIV si vede il viso e il busto del Padre; dal secolo XV il Padre è rappresentato da un vegliardo vestito come il Pontefice.Fino al XII secolo Dio Figlio è rappresentato da una croce, da un agnello o da un grazioso giovinetto come i pagani rappresentavano Apollo. Dal secolo XI al XVI secolo apparve il Cristo nella pienezza delle forze e barbato; dal XIII secolo porta la sua croce, ma è spesso ancora rappresentato dall’Agnello. — Lo Spirito Santo fu dapprima rappresentato da una colomba le cui ali spiegate spesso toccano la bocca del Padre e del Figlio, per significare che procede dall’uno e dall’altro. A partire dall’XI secolo fu rappresentato per questo sotto forma di un fanciullino. Nel XIII secolo è un adolescente, nel XV un uomo maturo come il Padre e il Figlio, ma con una colomba al disopra della testa o nella mano per distinguerlo dalle altre due Persone. Dopo il XVI secolo la colomba  riprende il diritto esclusivo che aveva primieramente rappresentare lo Spirito Santo. — Per rappresentare la Trinità si prese dalla geometria il triangolo, che con la sua figura, indica l’unità divina nella quale sono iscritti i tre angoli, immagine delle tre Persone in Dio. Anche il trifoglio servì a designare il mistero della Trinità, come pure tre cerchi allacciati con il motto Unità scritto nello spazio lasciato libero al centro della intersezione dei cerchi; fu anche rappresentata come una testa a tre facce distinte su un unico capo, ma nel 1628 Papa Urbano VIII proibì di riprodurre le tre Persone in modo così mostruoso. — Una miniatura di questa epoca rappresenta il Padre e il Figlio somigliantissimi, il medesimo nimbo, la medesima tiara, la medesima capigliatura, un unico mantello: inoltre sono uniti dal Libro della Sapienza divina che reggono insieme e dallo Spirito Santo che li unisce con la punta delle ali spiegate. Ma il Padre è più vecchio del Figlio; la barba del primo è fluente, del secondo è breve; il Padre porta una veste senza cintura e il pianeta terrestre; il Figlio ha un camice con cintura e stola poiché è sacerdote. — La solennità della SS. Trinità deve la sua origine al fatto che le ordinazioni del Sabato delle Quattro Tempora si celebravano la sera prolungandosi fino all’indomani, domenica, che non aveva liturgia propria. — Come questo giorno, così tutto l’anno è consacrato alla SS. Trinità, e nella prima Domenica dopo Pentecoste viene celebrata la Messa votiva composta nel VII secolo in onore di questo mistero. E poiché occupa un posto fisso nel calendario liturgico, questa Messa fu considerata costituente una festa speciale in onore della SS. Trinità. Il Vescovo di Liegi, Stefano, nato verso l’850, ne compose l’ufficio che fu ritoccato dai francescani. Ma ebbe vero, principio questa festa nel X secolo e fu estesa a tutta la Chiesa da Papa Giovanni XXI nel 1334. — Affinché siamo sempre armati contro ogni avversità (Or.), facciamo in questo giorno con la liturgia professione solenne di fede nella santa ed eterna Trinità e sua indivisibile Unità (Secr.).

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus 

Tob XII: 6.

Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam.

[Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.]

Ps VIII: 2

Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in univérsa terra!


[O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!]

 Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam.

[Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.]

Oratio

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui dedísti fámulis tuis in confessióne veræ fídei, ætérnæ Trinitátis glóriam agnóscere, et in poténtia majestátis adoráre Unitátem: quaesumus; ut, ejúsdem fídei firmitáte, ab ómnibus semper muniámur advérsis. 

[O Dio onnipotente e sempiterno, che concedesti ai tuoi servi, mediante la vera fede, di conoscere la gloria dell’eterna Trinità e di adorarne l’Unità nella sovrana potenza, Ti preghiamo, affinché rimanendo fermi nella stessa fede, siamo tetragoni contro ogni avversità.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom XI: 33-36.

“O altitúdo divitiárum sapiéntiæ et sciéntiæ Dei: quam incomprehensibília sunt judícia ejus, et investigábiles viæ ejus! Quis enim cognovit sensum Dómini? Aut quis consiliárius ejus fuit? Aut quis prior dedit illi, et retribuétur ei? Quóniam ex ipso et per ipsum et in ipso sunt ómnia: ipsi glória in sæcula. Amen”. 

[O incommensurabile ricchezza della sapienza e della scienza di Dio: come imperscrutabili sono i suoi giudizii e come nascoste le sue vie! Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi gli fu mai consigliere? O chi per primo dette a lui, sí da meritarne ricompensa? Poiché da Lui, per mezzo di Lui e in Lui sono tutte le cose: a Lui gloria nei secoli. Amen.]

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

DIO É CARITA’.

La gloria del Cristianesimo, della Rivelazione cristiana, che ha per oggetto suo primo Dio, è di aver saputo e di saper parlare alla nostra mente e al nostro cuore, appagando i due supremi bisogni dell’anima, sapere e amare. Ce n’è per le intelligenze più aristocratiche, ce n’è per i cuori più umili, quelle si arrestano pensose, questi si fermano giocondi.  Oggi l’Epistola della domenica ha una parola delle più sublimi e delle più consolanti. Dio è carità: «Deus charitas est». Dio è un fuoco, una promessa, un suono infinito di amore, di bontà, di carità. La carità è il suo attributo, per noi Cristiani più alto, più caratteristico. Vedete, o fratelli, le armonie mirabili del dogma, della morale di N. S. Gesù Cristo. La carità è il grande comandamento della sua Legge, così grande che può parere e dirsi in qualche modo il solo: in realtà riassume, compendia in sé tutti gli altri. È « praeceptum magnum in lege ». Bisogna amar Dio e tutti quelli e tutto ciò che Egli desidera vedere amato da noi. Amare Dio! Che gran parola! Se Dio permettesse all’uomo di amarlo, pensando quanto Egli è grande, quanto noi siamo piccini, dovremmo riguardarlo come una concessione straordinaria da parte di Dio. Ebbene, no, Dio non ci permette: Egli ci comanda di volerGli bene, come figli al Padre, come amici all’Amico. Ma noi Gli dobbiamo voler bene, perché (ecco il dogma) Egli è buono, anzi è la stessa bontà, una bontà non contegnosa, non fredda, una bontà calda, espansiva: è carità. Questo dogma corrisponde a quel precetto: nel precetto si raccoglie tutta la morale, in quel precetto e in questo dogma si compendia la storia dogmatica dei rapporti di Dio con noi. La carità è la chiave della creazione, della Redenzione, della Santificazione. Noi siamo da tanti secoli ormai abituati a sentirci predicare questo ritornello: Dio è carità, che rimaniamo quasi indifferenti. Ma quei primi che raccolsero queste parole dalle labbra di Gesù e poi dagli Apostoli, ne rimasero estatici. Per secoli i Profeti avevano con una commossa eloquenza celebrato la grandezza di Dio e la Sua giustizia. Certo non avevano dimenticato la misericordia, attributo troppo prezioso perché nella sinfonia profetica potesse mancare. Ma la grande predicazione profetica era la predicazione della grandezza e della giustizia: volevano incutere il timore di Dio in quel popolo dalla dura cervice e dal cuore incirconciso. E parve una musica nuova e dolce questa del Figlio di Dio, di Gesù: Dio è bontà, è amore, è carità: vuole essere amato. E lo so, e l’ho detto e lo ripeto: al ritornello ci abbiamo fatto l’orecchio. Ma siamo noi ben convinti di questo dogma? Crediamo noi davvero, crediamo noi sempre alla bontà di Dio? Purtroppo l’amara interrogazione ha la sua ragion d’essere. Perché crederci davvero vuol dire amare Dio fino alla follia come facevano i Santi, e ciò è più difficile in certi momenti oscuri della vita, è un po’ difficile sempre. La carità di Dio è anch’essa misteriosa come sono misteriosi tutti gli attributi di Dio, dato che Dio stesso è mistero. – Oggi la Chiesa ce lo ricorda celebrando la SS. Trinità, il primo mistero della nostra fede, e cantando con le parole di Paolo: « O altitudo divitiarum sapientiæ et scientiæ Dei! » – Dio è un abisso dove la ragione da sola si smarrisce, guidata dalla fede cammina quanto quaggiù è necessario ed è possibile, come chi tra le tenebre ha una piccola, fida lucerna. È un abisso, è un mistero anche l’amore di Dio. Dobbiamo accettarlo, crederlo. Perciò l’Apostolo definisce i Cristiani così: gli uomini che hanno creduto e credono alla carità di Dio. « Nos credidimus charitati ». Ma credendo, e solo credendo a questo mistero della bontà, della carità di Dio per noi, per tutti, ci si rischiara il buio che sarebbe altrimenti atroce della nostra povera esistenza: ci si illumina quel sovrano dovere di amare anche noi il nostro prossimo che renderebbe tanto meno triste il mondo e la vita se noi ne fossimo gli esecutori fedeli. Il Dio della carità accenda nei nostri cuori la Sua fiamma e faccia splendere ai nostri sguardi la Sua luce!

 Graduale 

Dan III: 55-56. Benedíctus es, Dómine, qui intuéris abýssos, et sedes super Chérubim, 

[Benedetto sei Tu, o Signore, che scruti gli abissi e hai per trono i Cherubini.]

Alleluja

Benedíctus es, Dómine, in firmaménto cæli, et laudábilis in sæcula. Allelúja, 

[V.Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, alleluia.]

Dan III: 52 V. Benedíctus es, Dómine, Deus patrum nostrórum, et laudábilis in sæcula. Allelúja. Alleluja. 

[Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, allelúia]

Evangelium

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum Matthæum. Matt XXVIII: 18-20

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Data est mihi omnis potéstas in coelo et in terra. Eúntes ergo docéte omnes gentes, baptizántes eos in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti: docéntes eos serváre ómnia, quæcúmque mandávi vobis. Et ecce, ego vobíscum sum ómnibus diébus usque ad consummatiónem sæculi”. 

« Gesù disse a’ suoi discepoli: Ogni potere mi fu dato in cielo ed in terra: andate adunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, insegnando loro di osservare tutte le cose, che io vi ho comandate: ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino al termine del secolo ».

OMELIA

[Mons. G. Bonomelli, Misteri Cristiani; vol. IV, Queriniana ed. Brescia, 1896]

RAGIONAMENTO II.

La SS. Trinità secondo il Simbolo – Mistero che trascende la ragione umana – Vestigia della Trinità nel creato.

Ci sta dinanzi un essere qualunque, una pietra, un albero, un animale, un uomo. Noi lo vogliamo studiare e conoscere. Qual via terremo per raggiungere l’intento? Se non erro, non vi sono che due vie. Noi possiamo e dobbiamo considerare e studiare la pietra, l’albero, l’animale, l’uomo nelle loro manifestazioni esterne, nelle loro qualità, nei loro effetti, che cadono sotto dei nostri sensi e che possiamo sottoporre alla esperienza. È la prima via, più facile e comune. Ma noi possiamo anche andare più oltre e spingere l’occhio nostro più addentro nella pietra, nell’albero, nell’animale, nell’uomo; possiamo armare la mano e l’occhio di strumenti potentissimi e penetrare l’intima loro natura, scrutarne le fibre più riposte, numerare, misurare e pesare gli elementi, afferrare e stabilire le leggi a cui soggiacciono e ridurle ad un codice sicuro ed invariabile. È  questa la seconda via, più difficile, ma più perfetta e riserbata a pochi. Fratelli dilettissimi! La fede e la ragione ci mettono dinanzi l’Essere degli esseri, Dio infinito. Per conoscerlo noi possiamo tenere le due vie, che vi ho accennate: noi possiamo studiarlo e conoscerlo nelle sue meravigliose ed ineffabili manifestazioni esterne, nelle opere tutte delle sue mani, come Creatore e  conservatore ed anche come Redentore e della bellezza, varietà e grandezza delle medesime assurgere al conoscimento della sua esistenza e delle sue perfezioni divine quali risplendono nell’universo creato e nella economia della Redenzione. È ancora la prima via, rischiarata dalla ragione e dalla fede. Parimenti dinanzi alla maestà di Dio, posti in faccia a questo Essere che è infinito, che tutte le cose produce dal nulla, conserva, regge e penetra, che faremo noi? Ci prostreremo noi tremebondi e in religioso silenzio lo adoreremo? È il consiglio che ci dà il Nazianzeno (Oraz. 35) e potremmo seguirlo. Oseremo noi, tenendo nella destra la face della fede, riverenti e consci della nostra debolezza, entrare nei misteri della vita divina e scandagliare secondo le nostre forze gli abissi della sua essenza e fissare l’occhio in quelle tre Persone, nelle quali essa sì svolge e si appunta? E questo pure possiamo fare ed è bene il fare, seguendo l’esempio dei Padri e camminando sulle loro tracce, Investigare la Trinità è da temerario; crederla è proprio delle anime pie; conoscerla è la stessa vita, ci grida S. Bernardo (Lib. V, de Consid., c. 8). –  Accostiamoci adunque con animo umile a questo mistero dei misteri, addentriamoci in mezzo a questa luce sfolgorante, che per il suo eccesso diventa tenebre per la nostra debolezza, E per non mettere piede in fallo nell’alto cammino, ecco i termini del nostro assunto in questo Ragionamento, che deve essere l’introduzione del prossimo. 1.° Vedremo la dottrina della SS. Trinità quale ci è data dalla Chiesa, Maestra infallibile. 2.° Vedremo come a noi pellegrini sulla terra e contemplanti le eterne verità, quasi in ispecchio e in enigma, non sia possibile dimostrare in se stessa la SS. Trinità. Finalmente 3.° Vedremo nel creato lo ombre, dirò meglio, le vestigia della Trinità. – E dove potremo noi trovare esposta nettamente ed autorevolmente la dottrina della Chiesa cattolica intorno al dogma del SS. Trinità? Senza dubbio ne’ suoi Simboli e nominatamente in quello che più ampiamente la spiega e porta il nome del grande Atanasio. (Il simbolo volgarmente detto Atanasiano non è di S. Atanasio, ma corre sotto il suo nome perché esprime la dottrina di quell’incomparabile campione intorno alla Trinità. Questo simbolo appartiene ad un’epoca Posteriore, perché proscrive gli errori dei Nestoriani, dei Monofisiti, dei Monoteliti e degli Apollinaristi, con una precisione che lo mostra composto dopo di essi, nel 5° secolo. Lo si attribuisce a Virgilio di Tapsa). Lo volto nella nostra lingua parola per parola. « Questa è la fede cattolica, che veneriamo un Dio solo nella Trinità e la Trinità nella Unità; che non confondiamo le persone, né separiamo la sostanza. Perocchè altra è la Persona del Padre, altra quella del Figlio e altra quella dello Spirito Santo; ma una sola è la Divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, eguale la gloria, coeterna la maestà! Qual è il Padre, tale è il Figlio, tale lo Spirito Santo: increato il Padre, increato il Figlio, increato lo Spirito Santo: immenso il Padre, immenso il Figlio, immenso lo Spirito Santo: eterno il Padre, eterno il Figlio, eterno lo Spirito Santo, e tuttavia non sono tre eterni, ma un solo eterno; come non sono tre increati, né tre immensi, ma un solo increato, e un solo immenso. Similmente onnipotente è il Padre, onnipotente il Figlio, onnipotente lo Spirito Santo; e tuttavia non sono tre onnipotenti, ma un solo onnipotente. Così Dio è il Padre, Dio il Figlio, Dio lo Spirito Santo, e nondimeno non sono tre Dei, ma un solo Dio. Così Signore è il Padre, Signore il Figlio, Signore lo Spirito Santo, e nondimeno non sono tre Signori, ma un solo Signore; perché come la verità cristiana ci obbliga a confessare che ciascuna persona è Dio e Signore, così la Religione Cattolica ci vieta di dire che sono tre Dei e tre Signori. Il Padre non è fatto da alcuno, né creato, né generato; il Figlio viene dal solo Padre; non è fatto, né creato, ma generato; lo Spirito Santo viene dal Padre e dal Figlio; non è fatto, né creato, né generato, ma procede. Un solo pertanto è il Padre, non tre Padri; un solo il Figlio, non tre Figli; un solo lo Spirito Santo, non tre Spiriti Santi. E in questa Trinità non vi è nulla che sia prima o poi, nulla di maggiore o di minore; ma tutte tre le Persone sono tra loro coeterne e coeguali, onde per ogni rispetto, come sopra si disse, si ha da venerare l’Unità nella Trinità e la Trinità nella Unità ».  Non sarebbe possibile esprimere con maggior precisione la fede cattolica intorno al dogma fondamentale della Trinità, su cui si impernia l’altro dogma fondamentale della Incarnazione, dal quale poi, come da fonte immediata, scaturiscono tutti gli altri. – La dottrina della Trinità si aggira tutta su due punti, l’unità della natura, o essenza, o sostanza, che dire vogliamo, e la Trinità delle Persone, come chiaramente afferma il Simbolo. E poiché è pur necessario determinare i concetti per sapere ciò che crediamo, non vi sia grave che vi intrattenga qualche minuto sui due concetti di natura, o essenza o sostanza, e su l’altro di Persona. Il concetto di natura, o essenza, o sostanza, che per noi qui non differiscono, sta racchiuso nella risposta alla domanda sì comune: — Che cosa è questa? – Voi rispondete: – Questa è acqua: questa è una pianta: questo è un uomo -. La parola “è” vi dice la natura della cosa, il genere, a cui appartiene, la base, la radice, che sta nel fondo della cosa stessa. La sostanza, o la natura, o essenza, noi non la vediamo; essa si nasconde nella cosa e si invola incessantemente ai nostri sensi. – Ma questa natura si circoscrive, si determina, mi si presenta nelle sue proprietà specifiche, che la distinguono da tutti gli altri esseri, ed allora io dico: Ecco l’acqua, ecco il cedro, ecco il cavallo. Le qualità proprie indicano l’acqua, la vita vegetale specifica il cedro, e la vita animale determina il cavallo. –  Salgo più alto: vedo un uomo: la sua natura si determina in modo incomparabilmente più perfetto, perché intende, ragiona, vuole, è padrone di sé, ed è impossibile confonderla con altra, e giunge a dire: Io esisto, io vivo, io sento, io intendo, io voglio, io sono libero, io sono io, e non posso essere altro che io, io Pietro, io Giovanni, e allora dico: ecco che spunta la persona: ecco la natura pervenuta al supremo suo grado di determinazione e di affermazione coscienziosa dell’essere mio. La persona adunque non è un’altra natura sovrapposta alla natura, ma la natura stessa nella massima sua perfezione ed è per questo che la parola persona non si dice degli esseri inferiori, ma soltanto dell’uomo (S. Tomm. S. Th. Ia, q. 29, a,3). Ora la natura divina, infinita, immensa, tutta e sempre in atto, da cui tutto muove e deriva ogni perfezione, debb’essere sovranamente determinata e perciò il concetto di persona le è proprio come quello di natura. Una sola persona? No: quell’infinita Essenza fiorisce necessariamente in tre Persone. Perché in tre Persone e non in una sola Persona, come una sola è l’Essenza? Perché in Dio tutto è infinito. Mi spiego. Tu, o uomo, sei e pensi e vuoi: sono tre cose, o tre proprietà inseparabili dalla tua natura: nella tua natura spuntano due forze o potenze tra loro distintissime, l’intelligenza e la volontà, e questa emana da quella, come quella emana da chi per essa e con essa intende. Queste tre proprietà, rampollanti tutte dal fondo dell’anima tua in modo che ciascuna tutta la possiede e la comprende, in te, che sei finito, concorrono in una sola persona, in un solo io: in Dio, che è infinito, ciascuna di queste proprietà è infinita ed ecco che ciascuna è una persona, eguali tra loro, perché la natura è comune e da tutte e tre egualmente posseduta. La prima Persona, l’io intelligente, produce la seconda Persona, l’io pensato o inteso, sua Immagine perfetta e sostanziale; e l’io intelligente e l’io pensato, o inteso producono l’eterno e sostanziale Amore, che li congiunge e tu hai il terzo io, o terza Persona. In te stesso adunque, o uomo, hai un riflesso, una pallida immagine delle tre Persone della S. Trinità e dei rapporti loro vicendevoli. Ma di questo profondissimo dei misteri della nostra fede e delle sue convenienze razionali, in altro Ragionamento : per ora è da vedere che la ragione, per sé stessa, è impotente a darcene una rigorosa dimostrazione. – Vi furono alcuni Padri (e dei maggiori) e sulla loro autorità alcuni scrittori ecclesiastici, degnissimi di rispetto, i quali affermarono, Platone e la scuola platonica aver conosciuto la Trinità e questa, almeno dopo la rivelazione evangelica, potersi dimostrare colla ragione, come si dimostrano le altre verità filosofiche. Ma questa affermazione, messa alla prova, non regge e devesi abbandonare. –  La terra, l’universo, l’ordine che vi regna, la ragione, la coscienza, il grido dell’umanità tutta proclamano che vi è Dio; che è l’Essere primo e sovrano, ordinatore Supremo d’ogni cosa, eterno, sapientissimo, giustissimo: chi sia in se Stesso non è facile conoscerlo: sappiamo che vi è: argomentiamo alcune sue perfezioni da ciò che Egli squaderna, come dice il poeta, nell’universo: come sia in se stesso: qual sia la sua vita intima: quali le azioni e le processioni, che si compiono nelle inscrutabili profondità della sua natura, a noi non è possibile saperlo, s’Egli non ce lo dice. – Scorrete col pensiero tutte le creature uscite dalla mano di Dio: fissate l’occhio della mente sopra di esse, ciascuna di esse, studiatele per ogni verso e dovrete confessare, che voi non potete penetrare nell’intima loro natura: che al di là di ciò che conoscete vi è pur sempre qualche cosa che sfugge alle vostre indagini, che si vela al vostro sguardo, che si sottrae a tutti i vostri sforzi e questo qualche cosa inesplorata e inesplorabile è ciò che forma il fondo d’ogni essere, volete materiale, volete spirituale. Ora se le creature tutte nel fondo dell’essere loro sfidano e sfideranno l’occhio più acuto del sapiente, come credere ch’esso possa penetrare nelle profondità dell’Essere divino e vedere e contemplare gli atti ineffabili, che vi si compiono? Più che una presunzione audace e intollerabile sarebbe una follia degna di compassione. Noi non possiamo conoscere Dio che salendo dalle creature, quasi per altrettanti gradini, a Lui, che ne è il Creatore e Conservatore: dal visibile montiamo all’invisibile, dal temporario all’eterno, dall’effetto argomentiamo la Causa, la Causa prima. È questa l’unica via additata e battuta da tutti i filosofi e teologi di tutti i tempi e di tutti i paesi, Cristiani e non Cristiani. Ebbene: le creature tutte vi dicono ch’esse sono effetti e che Dio è loro Causa: vi presentano in sé stesse il suggello della Causa e questa Causa è una sola, Dio, non trino, ma uno. Illustrerò la verità con una similitudine. Voi vedete una statua: che vi dice essa? Vi dice, che vi è uno scultore e che essa è sua creazione. Egli per farla, l’ha pensata e nella sua mente ne ha formata l’immagine: poi colla sua volontà ha determinato di eseguirla nel marmo; poi collo scalpello, colla mano, guidata dall’occhio, l’ha scolpita. Guardando la statua, voi conoscete lo scultore, come unica sua causa, ma non potrete mai neppure immaginare la pluralità di cause, se così posso esprimermi, che concorsero insieme, con unico atto, a produrre la statua. – I teologi cattolici, con a capo S. Tommaso, insegnano che gli atti di Dio, fuori di Dio, cioè che hanno per termine le creature sotto qualsiasi forma, si riferiscono a Dio in quanto è uno nella sua essenza, precisamente come gli atti dell’uomo fuori dell’uomo provengono da lui in quanto è un solo operante, benché vi concorrano l’intelligenza e la volontà. Questi atti fuori di Dio provengono da Dio Padre, da Dio Figlio, da Dio Spirito Santo, ma non in quanto si distinguono, sebbene in quanto sono un solo Dio, una sola Natura e per conseguenza i loro effetti rappresentano Dio come un solo, come una sola Natura, ed è impossibile che lo rappresentino nella Trinità delle Persone. Queste sono prodotte dagli atti interni del conoscere e dall’amare, che rimangono nella essenza divina. È dunque impossibile che l’uomo, salendo dalle creature a Dio, conosca la Trinità delle Persone: potrà averne qualche barlume, qualche conoscenza, come diremo, ma conoscimento chiaro, dimostrazione certa, non mai. – E in vero, se noi sottoponiamo a severo esame le dottrine di Platone e d’altri filosofi antichi e moderni, che parvero mettere il dogma della Santa Trinità nel numero di quelle verità che si dimostrano colla sola ragione, almeno dopo la rivelazione evangelica, troveremo che sono manchevoli, piuttosto ipotesi che tesi, piuttosto analogie, similitudini, verosimiglianze, che verità dimostrate e poste fuori d’ogni controversia. Chi poi afferma che in Platone si trova chiaramente esposta la dottrina cattolica della Santa Trinità, mostra che non ha letto Platone, o, lettolo, non vi ha posto ben mente: giacché la dottrina di Platone su questo capo presenta tali e tante differenze col dogma cattolico, che se quella si accettasse, questo sarebbe non solo alterato, ma totalmente distrutto. Noi dunque, camminando sulle tracce di S. Tommaso e dei grandi teologi, che esprimono il senso della Chiesa, diremo, che la Trinità è il segreto di Dio, è il mistero dei misteri, che dobbiamo credere ed adorare. Ma perché la Trinità Santa è un mistero e mistero dei misteri, non vi sia tra voi chi pensi, esser questo un dogma, una dottrina, che urti e offenda comecchessia la ragione umana. Mistero non vuol dire cosa o dottrina contraria alla ragione, ma cosa o dottrina superiore alla ragione; che certamente esiste, ma che sfugge ai suoi calcoli, e ch’essa non può afferrare nei rapporti intimi e sottoporre al suo sindacato. Fratelli miei! Il mondo materiale e intellettuale, come il mondo morale e sociale, sono pieni di fatti e di fenomeni indubitati, che vediamo co’ nostri occhi e tocchiamo colle nostre mani, e dei quali andiamo ansiosamente cercando le ragioni: noi li chiamiamo misteri di natura, ben differenti senza dubbio dai misteri della fede, perché di quelli si può trovare la spiegazione intrinseca e forse la si troverà, ma di questi sulla terra non si troverà mai; ma pure, almeno per ora, sono misteri: e chi oserebbe negare quei fatti e quei fenomeni, ancorchè l’intima loro ragione di esistere rimanga occulta? Nessuno per fermo, perché un fatto, un fenomeno può essere certo quantunque inesplicato e inesplicabile. L’esistenza d’una cosa può essere fuori d’ogni dubbio, anche quando il modo della esistenza è avvolto tra fitte tenebre. Tali sono: i dogmi della nostra fede, tal è il dogma della Santa Trinità, chiaramente rivelato e imposto da Cristo, ma non spiegato in modo che la ragione lo comprenda e faccia suo. Noi diciamo e professiamo che vi è il mistero d’una sola essenza con tre Persone eguali, perché Dio lo ha rivelato; ma con ciò non diciamo, né professiamo una dottrina, che offenda la ragione, come non offendete la ragione neppur voi allorché riconoscete nell’uomo l’unione d’una sostanza spirituale con una sostanza materiale in un’unica persona e il passaggio della forza da un corpo ad un altro e la sua azione a distanze enormi, benché ignoriate il modo dell’unione, del passaggio e della sua azione, ed ignoriate persino che cosa siano anima e materia e forza in sé stesse. – E non è fare oltraggio alla ragione, ci si dice, quando voi affermate che Dio è un solo e in pari tempo trino? S’Egli è un solo, non può essere trino: se è trino non può essere un solo. Perdono! o fratelli. Noi diciamo che Dio è un solo per ragione della natura, trino per ragione delle Persone, che è ben altra cosa. Io dico: Tu, o uomo, sei un solo: eppure in qualche vero senso tu hai due nature, o sei uno solo in due nature: dico io forse cosa che ripugna alla ragione, o non anzi alla ragione conforme? Io dico: Uomo, la tua anima è una sola, un solo io, semplicissimo io. Tu lo confessi e lo senti: eppure la tua intelligenza non è la tua volontà, e la tua intelligenza e la tua volontà non sono la tua memoria, quantunque la tua intelligenza sia tutta la ripugnanza, perché due cose, o due termini incerti od oscuri mi tolgono di vedere e affermare la conseguenza del loro raffronto e me la devono lasciare incerta ed oscura. È verità che non si dimostra. Ora, parlando della Santa Trinità, i termini che si opporrebbero sarebbero l’essenza, che è una sola, e le Persone, che sono tre. Conosco io che cosa sia l’Essenza divina? So che essa esiste: so che è eterna, infinita, immutabile, che trascende infinitamente la povera mia intelligenza. Dite altrettanto delle Persone, esse pure eterne, infinite, immutabili ed eccedono le forze di qualunque intelligenza creata, fosse pur quella del più sublime degli spiriti celesti. Dunque io non conosco, non posso, non potrò mai conoscere perfettamente i due termini del dogma della Trinità, l’Essenza unica, e la Trinità delle Persone. Se è così, io non potrò mai dire, che codesti termini ripugnano e involgono contraddizione: dal confronto di due termini oscuramente conosciuti traggo una conseguenza chiarissima, dicendo: – si contraddicono -. Questo è offendere le regole della logica. Che dovrò io dire? Non comprendo i due termini e non mi è lecito affermare che si contraddicono. L’astronomo fissa l’occhio sopra una stella, che si perde nella immensità de’ cieli: applica la paralasse: le due linee tirate sopra un lato comune e distanti milioni e milioni di leghe sono parallele, perfettamente parallele ed egli vi dice: – Impossibile misurarne la distanza – ed è vero. Ma dunque quelle due linee sono veramente parallele? – L’occhio, l’esperienza, più scrupolosa vi dicono: si, sono parallele: ma la ragione mi dice con maggiore sicurezza: No; è impossibile che siano parallele; sono impotente a rilevare l’inclinazione. Ma questa vi è. È ciò che dobbiamo confessare noi a maggior diritto, allorché ci pare di scorgere contraddizione tra l’unità dell’Essenza divina e la Trinità delle Persone. L’immensurata e immensurabile distanza tra noi e Dio, crea un’oscurità profonda e attraverso quel buon effetto del nostro corto vedere, ci sembra che l’unità dell’Essere divino non si possa comporre nella Trinità delle Persone. È vera sapienza il dire: Dio ha detto che Egli è uno nella natura e trino nelle Persone: io non lo comprendo, ed è naturale ch’io, essere finito e piccolo, non lo comprenda e mi sembri contrario alla ragione: ma Egli non erra, né può errare, mi basta: credo. Il figlio non crede egli al padre, il discepolo al maestro, il servo al padrone anche in ciò che non intende e che talvolta ripugna alla sua ragione, perché sicuro di non essere ingannato? Si: e questa è pure sapienza. Perché non farò io altrettanto con Dio, mio padre, mio maestro, mio padrone assoluto? Sarei stolto se non lo facessi, e perciò lo faccio. Ma egli è poi vero che la nostra ragione nel mistero della Santa Trinità non vede nulla, che risponda alle sue esigenze? Nulla che la ischiari, e in qualche modo la introduca nei penetrali della sua vita intima? No, essa non ci può dare una formale e perfetta dimostrazione della divina Trinità, ma qua e là nel creato la trova adombrata. Vediamo queste ombre o queste vestigia di Dio uno e trino. – La sapienza greca, rappresentata da Aristotele, poneva quale aforisma, questo motto: – Omne trinum est perfectum -. Essa considerava questo numero come sacro e quel motto ebbe sempre un’eco fedele presso molti popoli antichi e moderni. Quale e d’onde la ragione di questo fatto? Non sembra inverosimile che la si debba ripetere da una antica e venerabile tradizione, che si nasconde nelle tenebre dei secoli, che risale all’origine dell’umanità e che è forse il riverbero d’una divina rivelazione. Nella quale opinione ci conferma un altro fatto anche più degno di considerazione. Noi, e sopra l’abbiamo notato, siamo ben lungi di ammettere in Platone la dottrina della Santa Trinità, quale è insegnata dai Libri Santi, e professata dalla Chiesa Cattolica. Troppe e troppo sostanziali differenze corrono tra le due dottrine perché possiamo menar buona l’opinione di alcuni Padri e dotti scrittori, che in Platone riconobbero per poco un precursore dell’Evangelista S. Giovanni. Ma è pur sempre vero che il sommo Platone in Dio intravvide una cotale Trinità a suo modo: è pur vero, che qualche sprazzo di questo dogma si trova sparso nei poeti e filosofi greci ed anche nella loro mitologia. È anche vero che nei Libri Sacri dell’India e della Persia e in fondo a quasi tutte le credenze religiose dei popoli, sotto forme più o meno esplicite, si incontrano espressioni e simboli che abbastanza chiaramente alludono ad una certa Trinità nell’Essere divino. Ora come Spiegare l’esistenza senza dubbio confusa e talora contradditoria di questa nozione d’una Trinità divina senza ricorrere o ad una tradizione primitiva, poi alterata, o ad un Vago presentimento della natura umana, che scorge il lontano riflesso del Mistero, che Dio nasconde negli abissi dell’essere suo? Quale che ne sia la vera origine, il fatto è indubitato, ed è un vestigio dell’augusto mistero. – E non basta: Scrutate questa materia inorganica e organica che vediamo e tocchiamo. Perché questa pietra, questo cristallo, questo corpo inanimato, è intimamente congiunto nelle singole sue parti, ne’ suoi atomi e mi presenta, la forma, che vedo? Perché in ogni sua parte, ancorchè minima, v’è una forza invisibile, che opera e stringe in uno gli atomi tutti e forma il corpo, che ci sta dinanzi? Questa forza è distinta dalla materia, che essa trae a sé, unisce e condensa in modi sì diversi e mirabili. Qui dunque abbiamo due Principii distinti, materia e forza, o forma, se così vi piace chiamarla. Ma due termini distinti non si possono concepire senza un rapporto, un nesso qualsiasi tra loro; ed eccoci nella stessa materia un’orma, un vestigio, appena visibile, è vero, ma un vestigio d’un essere, che è uno solo e che mi presenta alcun che di trino. La materia! Qualunque sia la sua natura e quali che siano le sue forme, essa non potrà mai avere che tre dimensioni, la lunghezza, la larghezza, la profondità. Trasformate come meglio vi piace la materia; voi la troverete sempre sottoposta a questa triplice dimensione della larghezza, della lunghezza e della profondità: esse sì intrecciano e si fondono tutte insieme nello stesso corpo, formando un solo corpo e rimanendo tra loro sempre distinte in guisa che l’una non è, né può essere l’altra. E nella materia non abbiamo il numero, il peso e la misura, tre cose distinte nella stessa identica cosa? – Vedete (il pensiero lo tolgo da S. Anselmo) l’acqua: essa è sempre la stessa nella sua fonte, nel fiume, che percorre, nel mare dove entra: così è la stessa essenza nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Vedete il sole: esso è un solo corpo immenso, tutto luce e tutto calore; e la luce non è il sole, né il calore, né il calore è il sole e la luce; tre cose distinte in una sola sostanza, e quel che è una è l’altra, inseparabili e distinte ad un tempo. Vedete l’albero: è una sola sostanza, che comincia dalla radice, si svolge nel tronco, si compie nel frutto: sempre tre cose distinte in una sola sostanza. Non fa mestieri il dire che tutte queste sono similitudini tolte dalla materia, la quale per essere l’ultima eco dell’azione creatrice e il punto più lontano da Dio, ne riverbera debolissima l’immagine. – Vedete l’animale: la Vita, la stessa vita, parte dall’uno, si svolge nell’unione col secondo e si compie nella produzione di un terzo; nella distinzione di tre esseri separati esiste la stessa natura. La famiglia umana consta del padre, della madre, del figlio. La società stessa (espansione della famiglia), come la famiglia, domanda un principio organatore, che risiede nella autorità, un principio che vuolsi organare, la moltitudine, e il mezzo che l’uno e l’altro congiunge, che è la forza delle leggi; principe, personale, o collettivo, sudditi e molteplici vincoli, che li collegano. – Vedete l’uomo nella sua parte più nobile, l’anima; essa è una sola e semplicissima sostanza, come sopra accennava, e da essa emanano perennemente due facoltà, intelligenza e volontà, due principii procedenti l’uno dall’altro e che necessariamente suppongono un primo principio, fonte di entrambi e tutti e tre sussistenti nella comune e unica sostanza. Ma di questa immagine della S. Trinità, la più bella e la più perfetta, che sia tra gli esseri creati, ci occuperemo più a lungo nel prossimo Ragionamento. E qui non si vogliono dimenticare altre e pur belle analogie, che effigiano il mistero della S. Trinità. Carattere inalienabile dell’uomo è il ragionare: ora per ragionare è necessario formare il giudizio: e il giudizio, base d’ogni ragionamento, consta di tre termini, non uno più, non uno meno, il soggetto, il predicato e il vincolo, che li unisce: – il cielo è sereno -. Eccovi i due termini, il cielo, soggetto; sereno, il predicato, e il verbo è, che li unisce. Tutti i giudizi possibili si riducono a questi tre termini, che congiunti formano un solo giudizio. L’uomo ragiona e forma giudizi: e due giudizi, raffrontati tra loro, producono una conseguenza, ed eccovi il sillogismo, forma suprema di tutti i ragionamenti: una proposizione generale, una particolare e la conseguenza, che ne scaturisce: tre in uno ed uno in tre! Finalmente considerate la forma di tutti i verbi, di tutti i tempi, di tutti i paesi, di tutte le grammatiche, di tutti i popoli: essa vi presenta costantemente le tre persone, io, tu, quegli, e per tormentarvi il cervello che facciate, non potrete mai aggiungervi una quarta persona. Che è tutto questo, o fratelli miei? Ho io forse dimostrato l’ineffabile mistero della Trinità? No, sicuramente. Vi ho messo innanzi alcune similitudini, alcune vestigia, alcune immagini, che in qualche modo adombrano il dogma cattolico, lo chiariscono, scemano le difficoltà di pensarlo e ce lo rendono, umanamente parlando, concepibile e credibile. E possiamo noi, proseguendo per questa via, sollevarci più in alto, accostarci ancor più a questa luce sfolgorante e affissarvi l’occhio nostro mortale, rischiarato dalla fede? Sì, lo possiamo!

IL CREDO

Offertorium

Orémus

 Tob XII: 6. Benedíctus sit Deus Pater, unigenitúsque Dei Fílius, Sanctus quoque Spíritus: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. 

[Benedetto sia Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Secreta

Sanctífica, quæsumus, Dómine, Deus noster, per tui sancti nóminis invocatiónem, hujus oblatiónis hóstiam: et per eam nosmetípsos tibi pérfice munus ætérnum. 

[Santífica, Te ne preghiamo, o Signore Dio nostro, per l’invocazione del tuo santo nome, l’ostia che Ti offriamo: e per mezzo di essa fai che noi stessi Ti siamo eterna oblazione.]

Præfatio de sanctissima Trinitate

… Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in unius singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre cotídie, una voce dicéntes:

[ …veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola Persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce: ]…

COMUNIONE SPIRITUALE

Sanctus,

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt coeli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Communio

Tob XII:6. Benedícimus Deum coeli et coram ómnibus vivéntibus confitébimur ei: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. 

[Benediciamo il Dio dei cieli e confessiamolo davanti a tutti i viventi: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Postcommunio 

Orémus.

Profíciat nobis ad salútem córporis et ánimæ, Dómine, Deus noster, hujus sacraménti suscéptio: et sempitérnæ sanctæ Trinitátis ejusdémque indivíduæ Unitátis conféssio.

[O Signore Dio nostro, giòvino alla salute del corpo e dell’ànima il sacramento ricevuto e la professione della tua Santa Trinità e Unità.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (157)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (27)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA – 1861

SECONDA PARTE.

Genuino prospetto del Cattolicismo, e del Pretestantismo, delineato dai Protestanti.

PRATTENIMENTO II

Alcune sovrumane bellezze della Chiesa Cattolica

Punto II.

L’invincibilità della Chiesa Cattolica nei suoi grandi e continui combattimenti; suoi stupendi trionfi e progressi.

23. Lasciando da parte per brevità i tempi antichi, dei quali alcuna cosa ho già detto: « La storia ecclesiastica degli ultimi sette secoli racconta dei fatti continuamente vacillanti. Da che la cristianità occidentale si trova sotto l’amorevole autorità della Chiesa  Romana, quattro volte lo Spirito umano si è a questa ribellato per togliersene dal collo il giogo soavissimo, E ben due volte la Chiesa ha riportata una vittoria compiuta e perfetta: e due volte Ella sortì dalla battaglia colle onorate cicatrici è vero di gravi ferite, ma nullameno conservando tutto intiero e vigoroso il Principio della sua Vita. Se noi, lungi dal porle in non cale, richiamiamo alla memoria le tempestose e terribi procelle a cui essa ha potuto sì fermamente resistere, oh! allora io non so che cosa ci rattiene dal confessare che essa non può.

24. «La storia delle due seguenti generazioni (dal principio del protestantismo) è la storia della gran lotta tra il protestantismo che possedeva l’Europa settentrionale, ed il Cattolicismo che occupava la meridionale per ottenere il territorio dubbio posto tra mezzo … – Al principio la Speranza sembrava decisamente favorire il protestantismo, ma la vittoria restò alla Chiesa di Roma. In tutti i punti essa trionfò. Se oltrepassiamo un altro mezzo Secolo, la troviamo Vittoriosa e dominante in Francia, nel Belgio, nella Baviera, in Boemia, in Austria, Polonia ed Ungheria. Né il protestantismo nel corso di due secoli (ora sono più di tre) ha potuto riconquistare qualunque porzione di quel che allora perdette. né si deve dissimulare che questo mirabile trionfo del Papato debba attribuirsi principalmente non alla forza delle armi, ma ad una grande influenza della pubblica opinione.

25. » Non è da far gran meraviglia se nell’anno 1799 alcuni osservatori di alto ingegno ed acutissimo avessero questa sentenza, che la speranza di rivivere per la Chiesa Romana era pressoché morta, anzi esserne già sonata l’ultima ora. Un potere salito al più splendente fastigio e menante trionfo per ogni parte, era nemico della Chiesa Cattolica e se non all’aperto, con segrete mene guerresgiavala. Il Pontefice era vicino a dar l’estremo spirito nella captività; cacciati in esilio i prelati di Francia, e tanto più malmenati quanto più erano esemplari ed illustri, costretti poi a viver la vita degli accattoni colle limosine de’ protestanti. Gli edifizii che facevano di sé mostra della più grande magnificenza, consacrati dalla liberalità de’ secoli al culto divino, si erano tramutati in templi della vittoria, o in profane sale tutte occupate da banchetti e da adunanze politiche, o in fine, mutati in cappelle teoso-filantropiche. Per la qual cosa non poteva essere opinione al tutto malfondata ed ingiusta, vedere in quello che infino a qui si è detto un indizio probabilissimo dell’estrema rovina di un dominio, comechè continuatosi per così lungo tempo.

26. » Ciò non ostante non era quella la sua fine. La cerva bianca sebbene ferita a morte, nulla dimeno non doveva morire. Fumavano ancora gli altari per le esequie, e pei sacrifizii offerti a Dio per l’eterna pace di Pio VI, quando contrarii e potentissimi conati incominciavano a sollevarsi per ogni banda; ed al presente, dopo un giro di quarant’anni, hanno preso novella vita e più crescente vigore. Scomparsa per benigno riguardo del cielo l’anarchia, un nuovo ordinamento di cose è surto, per così dire, fuori del caos. Nuove dinastie sono apparse, nuove leggi, nuovi titoli, e di mezzo a tutto questo l’ ANTICA RELIGIONE.

27.» In verità, qual altra istituzione sarebbe stata ferma a difendersi vittoriosamente da tante tempeste che le si mossero contro? E volendo parlare anche in una maniera non cristiana, dodici secoli di (doveva dire più di 18) ogni fatta di avvenimenti, e l’intelligenza, e le cure perseveranti di quaranta generazioni di grandi politici, hanno condotto la Chiesa a tale una perfezione, che il governo di lei al cospetto di tutte Ie umane invenzioni sale degnamente nel primo e più alto grado …. – Secondo che ci vien raccontato da una favola araba, la grande piramide edificata già dai re empi del diluvio è stata lo sola che tra tutte le opere degli uomini sia rimasta i piedi dopo quella universale inondazione. Tale è la sorte del Papato. sembrava sepolto col rimanente della terra allagata, e pure le buone e sode sue fondamenta, salde e profondissime che erano, non crollarono già, ma (mirabile a vedersi!) come le acque andavano declinando al basso, esse comparivano a grado a grado maestose tra gli ultimi avanzi del mondo rovinato e distrutto. La repubblica Olandese, l’impero alemanno, il gran senato di Venezia, l’antica confederazione degli alleati elvetici, le case dei Borboni, i parlamenti e le aristocrazie di Francia, tutto era scomparso, e l’Europa avea cangiato sembiante. Era tutta piena di novelle creazioni, contava nel suo seno un impero Francese, un regno Italico, un’alleanza Renana.

28. » Nè alcuno pensi che questi sconvolgimenti avessero solamente disfatte le istituzioni politiche, cambiati i confini de’ territori; poiché le possessioni de’ terreni erano state per diverso modo distribuite, e lo spirito e l’intiero ordinamento della società quasi in tutta l’Europa cattolica con subite maniere totalmente mutato. Intanto la Chiesa si manteneva sempre immutabile ne suo primiero stato. Dopo di che sarà riserbato ad uno storico venturo il narrare le manifestazioni novelle che farà di sé e della potenza sua il Cattolicismo nel ‘secolo XIX!» (Meculay, Op. e luogo cit.)..

29. « L’opinione pubblica nell’Alemagna non ha saputo rendersi conto del nuovo sviluppo del Cattolicismo, che dall’arresto dell’Arcivescovo dî Colonia in poi. Protestanti assennati, a capo de’ quali è l’attuale Re di Prussia, han ben presto preveduto a che sarebbe riuscito un tal atto; imperocché ogni Chiesa (una Chiesa dovea dire) che riposa sulla verità cristiana, possiede delle armi contro le quali si spuntano e sempre si spunteranno quelle della gendarmeria. Alcuni anni dopo, alcuni falsi profeti  hanno gridato: Convien che Roma cada. Da quel punto Roma ha preso un possente e nuovo slancio; e quando è venuto l’anno 1848 con, tutte le potenze delle tenebre, quando Roma parve rovinare, noi abbiamo veduto che Roma poteva esistere eziandio fuori di Roma. Sul Vaticano sventolava la bandiera rossa, il Papa pigliava la fuga; ma la Chiesa Romana non ispiegava perciò meno un’attività sorprendente. Essendo un potere uno in sé, che sa ciò che vuole (la monarchia ben potrebbe richiederla di questo segreto), la Chiesa Romana fa le più grandi conquiste, ne’ tempi di desolazione universale? Ella sa trar partito da tutte le vicissitudini. Sulla vertigine dell’unità germanica ella edificò il duomo di Colonia. Nelle assemblee costituenti ed effimere: ella sola con mano sicura afferrò il ben reale, la libertà d’insegnamento. Le sue missioni percorrono il paese. Di tutte le folli associazioni del delirio rivoluzionario non vi rimane che il rannodamento dell’episcopato tedesco appoggiato sulle riunioni cattoliche.

30. « Un nuovo legno surse per la Chiesa Cattolica nella vecchia Inghilterra in mezzo a mille turbini. Sulle rovine della Francia ella pianta la sua bandiera protettrice. Le aberrazioni costituzionali nel Mecklemburg, vecchio paese Luterano, fanno rinascere il Cattolicismo: Colla reazione in Austria prende egli un nuovo accrescimento; come in Francia egli solo sa salvare la sua libertà in mezzo alle manette universali. Nel suo centro; sedendo sopra un vulcano, nè sostenendosi che per l’appoggio dello straniero, offre il suo soccorso a regni potenti. In Inghilterra; ove la Chiesa Cattolica è soltanto tollerata, ella vi comparisce di botto qual padrona. Più uno la opprime, più vien maltrattata; più ella riporta. vittorie. Ella non chiede che uguaglianza di libertà per guadagnare ad un trattò tutta la palma. Vien privata in tutti i paesi cattolici de suoi beni; della sua potenza temporale; ed ella guadagna. il doppio per la stessa sua povertà. Vien ridotta al più assoluto spogliamento; ed ella non manca né di denaro per dar la vita a nuove creazioni, né di cuori e di mani che travagliano nelle privazioni. Ora ella aspira a far ritorno verso i tempi del Medio Evo, ed ora ella tien dietro al progresso del tempo. Mentre che ne’ suoi ordini monastici logori ella ristabilisce i vecchi regolamenti di energia e di condotta severa (e prestando fede alle nuove provenienti di Fiandra e di Westfalia, il fervore interno degli antichi tempi non ha tardato di riaccendersi), ella entra risolutamente nell’idea moderna delle associazioni.

31. « Verso i Yancheys, verso il fratello Jonathan si avanza il trappista col suo unico — Memento mori, = nell’atto che ne villaggi e nelle città della Silesia, imitando i democratici, la Chiesa appende degli affissi e solleva, nelle adunanze pubbliche accessibili a tutti, le questioni tutte ardenti dell’epoca, le quali ella risolve senza agitazione. Ella è per tutto. Il suo Arcivescovo di Parigi cade sulle barricate, opponendo alle palle la sua parola di Pastore; ed appena gli ammutinati sono legati e stretti, che ella si offre per consolarli, e per seguirli nell’esilio e nella disgrazia. Mentre che tra noi si stanno elaborando mille progetti di costituzione di Chiesa, e che ognuno di essi appena è nato spira sotto le proteste della destra, della sinistra e del centro, la Chiesa Romana, di una mano ferma e senza dir parola, fa uscir fuori dal vecchio tesoro delle sue tradizioni i Concili provinciali e i Sinodi diocesani. Frattanto che presso noi si discute per anni, e senza verun risultato, sulle relazioni della libertà di riunione, e del dovere di obbedienza clericale, la Chiesa Romana, senza controversia e dissensione, copre delle riunioni libere tutti i paesi dell’Europa: Società di S. Vincenzo per gli uomini, e di Santa Edwige per le donne; Società di S. Francesco Regis per legittimare matrimoni selvaggi; Società di Maria-Herz per la conversione degli impenitenti; di S. Francesco Saverio per le missioni agli infedeli; di S. Bonifazio per la Chiesa germanica, in opposizione agli associati di Gustavo Adolfo; finalmente Società di Pio IX, le cui riunioni generali si tengono su di ogni punto dell’Alemagna. La Francia abbonda di Fratelli e di Suore insegnanti.

52. « Le scuole dello stato si vuotano, le scuole cattoliche riboccano assolutamente, come la facoltà cattolica improvvisata a Magonza ha lasciati i professori: dell’Università di Gnesen predicare e dissertare davanti ai banchi e a calamai.. Nel Belgio la libertà d’insegnamento ha talmente aumentata l’influenza dei Cattolici, che i liberali credendosi perduti, hanno decretato, grazie alla maggioranza, l’insegnamento forzato imposto dallo Stato. Nell’Annovria un secondo Vescovato è conceduto ai cattolici, e ve ne sarà ben presto un altro in Amburgo! Un Vescovato surse nell’America settentrionale in mezzo allo sperpero delle sette senza numero che vi brulicano. In Inghilterra la Chiesa Romana stabilì la sua Gerarchia alla barba dello Stato; né le dimostrazioni clamorose del popolo, né i decreti del Parlamento la fanno indietreggiare di un sol passo. Una Chiesa si aderge dopo l’altra, un convento dopo l’altro: tutti si popolano dei dotti discepoli della Università di Oxford. Nel cuor di Londra si dedica una cattedrale arcivescovile, ed a Berlino l’ospitale cattolico rivaleggia con successo in favore di tutte le confessioni con la Betania reale. Alle serie luminose e cospicue de’ suoi convertiti della Germania del Nord, il Conte Federigo Leopoldo di S. Fulbergo in capo, ella aggiunge un gran numero nel Mecklemburg….In tutti i paesi ella guadagna, non so come, i talenti più vigorosi, i meglio dotati! » (Dal foglio del popolo di Alta, sul progresso del Cattolicismo: articolo riportato per intiero dalla nuova Gazzetta di Prussia, e quindi nell’Univers, 4 Maggio 1852, e negli altri giornali di Francia).

33. « O posizione degna d’invidia della Chiesà Caltolica! Attaccata da tutte parti, minacciata di estese apostasie, premuta dalla incredulità e dalla frivolezza della nostra epoca, che la rodono al cuore, e nel momento in cui il suo Capo è circondato e tenuto captivo da bande associate a tutti che alzano le lor mani contro l’edifizio della Chiesa, i suoi rappresentanti tengono lo stesso linguaggio, qual noi troviamo in tutte le pagine della sua storia, la barca di Pietro, qualunque siasi la tempesta che l’agita, ha la promessa di giungere al porto; sempre porta seco Cesare e la sua fortuna. » (Un protestante Alemanno: Vedi la Gazzetta Universale di Augusta, Gennaio 1849)

Apost. Quando finirà questa predica ? Ormai comincia a seccarmi…

Prot. Devo dirti ancora poche parole; che ti prego a non dimenticare….

34. « Io non posso far senza di non andar meco stesso continuamente domandando: è può esser mai che una Religione, la quale con tanta perseveranza, e con tanta costanza coopera. Chiaramente alla umana felicità, non sia poi riguardo a tutti i suoi comandamenti Religione divina? Io resto compreso da grande stupore in considerando attentamente la venerabile antichità di questa sublime Chiesa, la sua ampiezza, la magnificenza e gli ordini de’ suoi edifizi: poi? ammirabile e santa disciplina di lei, la quale, per ciò che è, sembra chiaramente originare da una mente sovrumana. Quindi la costanza con che tollerò ogni fatta di persecuzioni, le grida, le villanie, le calunnie che le scagliarono contro i nemici suoi, e che pure non valsero a nulla e furono impotenti; il carattere, la dignità, le virtù, l’ingegno dei difensori della medesima Chiesa, il mal affare e la nulla fede de’ primi che la inimicarono; tutte queste verità rendono l’uomo attonito e come fuori di sé. Da ultimo ponendo ben mente allo sparire di tante differenti sette che presero le mosse e si levarono per combatter la Chiesa: la breve durata di quelle che al presente sì sarebbero volute rannodare: i dogmi dissonanti, e le discordie di fede che si alimentano nelle medesime sette; queste cose nel mentre colmano i buoni di consolazioni dolcissime, presentano in pari tempo agli sguardi dell’universale, una prossima rovina eziandio delle più innumerabili sette, siano esse protestanti, o non protestanti. E potrebbe per avventura succedere che entrando alcuno in cosifatte congregazioni, dovesse di necessità vedersele dileguare dinnanzi, e sopravvivendo ad esse, arrossire di trista vergogna, e per soprassalto di delirio correre ai baci; ai disonesti abbracciamenti, ed alle infinte carezze di un’altra setta.» (Lord Fitz-William, lettere di Attico, ossia, Considerazioni sopra la Religione Cattolica ed il Protestantesimo,  p. 30)

55. « Quante volte la Cattolica fede fosse così falsa, come taluni pretendono che ella siasi, d’onde nasce che essa non sia stata per l’addietro giammai estirpata? Quando per verità il Papa godea di una grande possanza, quando persino i Re eran costretti di curvarsi a lui, poteva per avventura dirsi, e dirsi con ripiego alcuno poco più aggiustato, che niuno osava brandire le armi della ragione contro la Cattolica fede. Ma noi abbiamo veduto il Papa captivo in terra straniera; lo abbiamo veduto privo quasi di vitto e vestito; e abbiamo veduto in fine i torchi di più che metà del nostro pianeta posti in piena libertà per trattar con la stampa Esso e la sua fede in quella guisa che ad ognuno più andava a grado. E poi non abbiamo noi vedute le sette protestanti affaticarsi tutte per lo spazio di trecento anni a distrugger la Cattolica credenza? E non veggiamo alla fine di questi tre secoli, che quella Fede è tuttora la fede dominante del Cristianesimo? Che anzi non veggiamo forse che ella va dilatandosi in questo stesso momento perfino in questo medesimo regno. (d’Inghilterra), ove una gerarchia protestante riceve otto milioni di lire sterline all’anno, e dove i Cattolici sono tuttora severamente esclusi da ogni potere, e in alcuni casi da tutti i politici e civili diritti, sotto una costituzione dai loro Cattolici antenati stabilita? Può egli dunque essere che questa fede sia falsa? Può stare che questo culto sia idolatra? Possibile che fosse necessario l’abolirlo in Inghilterra per quanto era in poter della legge? È egli credibile infine; che fosse pel nostro bene, pel nostro onore il saccheggiare il nostro suolo nativo, il violare tutti i diritti di proprietà, l’inondare il paese di sangue, affine di cangiar la nostra Religione?? » (Cobbet, Opera cit. Lett. 7, § 203) Ascoltami ancora …:

36. Apost. No!… no!… no!… ne ho abbastanza!… Avete esaltata sino alle stelle, avete voluto incielare la Cattolica Chiesa, il Papa, il Papato, la sua Gerarchia, i Preti, i Frati, le Monache, e persino i Gesuiti!… Sì (ahi rabbia), anche i Gesuiti e collocati li avete quasi sul trono del Padre Eterno!…. Questo da voi non mi aspettava. Mi basta: non ne voglio più… Se volete riconciliarmi con voi, narratemi l’origine, i progressi le bellezze, i trionfi della vostra Riforma., che deve ‘certamente aver molto di buono e di bello. Su via, da bravo: mettetevi un poco a sedere, che io faccio lo stesso. Quanto più bella e magnifica sarà la descrizione che ne farete, tanto più vi ascolterò volentieri, tanti più vi amerò. Avanti.

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (6) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (III)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (6)

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE – AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (III)

Ma intanto io procedo più oltre. Ho mostrato quello, che deve far colla lingua un Vescovo in ogni circostanza. Passo a cercare il debito e l’uso della sua giurisdizione. Quando il sacro Concilio di Trento afferma, che un Pastore è tenuto ad amministrare al suo gregge i Sacramenti, comprende in queste parole i principali offici della giurisdizione di un Vescovo. Ora io cerco, che cosa porta questo debito in tempo di pace, per prender poi norma di ciò, che esige in tempo di persecuzione. Distinguo due parti nella giurisdizione di un Pastore; cioè quella, ch’egli può e deve esercitare; e quella, che non deve e non può mai praticare. – Comincio subito dalla prima, e dico così. Il Vescovo amministra i Sacramenti in due modi. Alcuni ne amministra solo da sé, cioè la Cresima e l’Ordine Sacro. Alcuni ne amministra insieme cogli altri, ma però in modo, che gli altri dipendano nell’amministrazione di questi Sacramenti della sua autorità. L’obbligo di conferire da sé a tutti la Cresima, e a quelli, che vi sono chiamati, l’Ordine Sacro, genera nel Vescovo un’altra obbligazione, cioè quella della residenza nella sua Diocesi. Non è questo realmente il solo titolo della residenza, ma è per altro il principale. Anche gli altri doveri del Pastore colla sua greggia lo costringono ad invigilare colla sua presenza ed autorità, affinché il lupo non divori le pecore senza ch’egli neppure il sappia. Per non dipartirci dalla nostra brevità, specialmente in un punto, che non ha mestieri di prova, eccovi le sanzioni del Sacro Concilio di Trento (Sess. 6 de reform. cap. 1). Dopo di aver raccomandato a tutti i Pastori l’adempienza del lor ministero, soggiunge così: « Implere autem illud se nequaquam posse sciant, si greges sibi commissos mercenarioruin more deserant; atque ovium suarum, quarum sanguis de eorum est manibus a supremo iudice requirendus, custodiæ minime incumbant: cum certissimum sit, non admitti pastoris excusationem, si lupus oves comedit, et pastor nescit. – [Sappiano poi, che non potranno adempierlo in nessun modo se, come mercenari, abbandoneranno i greggi loro affidati, e non attenderanno alla custodia delle loro pecore, del cui sangue il Giudice supremo chiederà conto alle loro mani. È certissimo infatti che non sarà accettata alcuna scusa per il pastore se il lupo ne divora le pecore e egli non se ne accorge.] »  Passa di poi il Concilio a rinnovare gli antichi canoni, e a decretare giuste pene ai Pastori, che non risiedono nella loro Diocesi. Ripete le stesse cose alla Sessione de reform. cap. 1; né  questo è un dovere, che possa in verun conto chiamarsi in questione. Passiamo adunque ad altro. – Al Vescovo spetta per ufficio proprio e inalienabile l’esaminare ed approvare quelli, che domandano d’entrare nel Santuario. La ragione è palpabile ed evidente. Il Pastore è il custode dell’ovile: tocca a lui lo scegliere i cani da mettervi in guardia. Il prelato è il Padre di famiglia: tocca a lui il deputare i custodi e i maestri de’ suoi figliuoli. Il Vescovo è il primo nella Casa di Dio: tocca a lui l’eleggere i ministri idonei al divino servigio (can. 24 dist. Concil. Carth. 3, c. 22). Quindi il Sacro Concilio di Trento inerendo agli antichi Canoni comanda ai Vescovi di esaminare insieme con altre persone esercitate nelle leggi Ecelesiastiche, e da lui scelte a tal fine, tutti quelli, che si accostano a domandare il Sacro Ministero: (Conc. Trid. Sess. XXIII de refor. cap. 7). « Sancta Synodus, antiquorum canonum vestigiis inhærendo, decernit, ut, quando Episcopus ordinationem facere disposuerit, omnes, qui ad sacrum ministerium accedere voluerint, feria quarta ante ipsam ordinationem, vel quando Episcopo videbitur, ad civitatem evocentur, Episcopus autem, Sacerdotibus, et aliis prudentibus viris peritis divinæ legis, ac in Eccelesiasticis sanctionibus exercitatis, sibi adscitis, ordinandorum genus, personam, ætatem, institutionem, mores, doctrinam, et fidem diligenter investiget, el examine. » E infatti avendo Iddio conferita ai Pastori podestà di creare i Ministri della Chiesa, deve anche aver loro conferito i mezzi necessari a questo fine, cioè l’autorità di esaminare i costumi e la fede. Quindi è, che S. Paolo a Tito, e non ad altri prescriveva alcune riflessioni da praticarsi nell’elezione de’ Sacerdoti (ad Tit. I., 2 et seq.): « Huius rei gratia reliqui te Cretæ, ut ea qua desunt, corrigas, et constituas per civitates Presbyteros, sicul et ego disposui tibi. – [Per questo ti ho lasciato a Creta perché regolassi ciò che rimane da fare e perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato] » E quindi passa ad insegnargli, quali debbano esser le doti dei Ministri, che deve introdurre nel Santuario. Così pure prescrive a Timoteo (1 ad Timoth. III, 2 et seq.), e non solo per la scelta de’Sacerdoti, ma anche de’ Diaconi, e vuole, che da lui siano prima provati, e poi passino ad esercitare il lor ministero: « Et hi autem probentur primum: et sic ministrent, nullum crimen habentes. » – Perciò siano prima sottoposti a una prova e poi, se trovati irreprensibili, siano ammessi al loro servizio. – Anche i Parrochi da lui dipendono: e spetta ad esso il distribuire il popolo in certe e proprie Parrocchie, affinché ognuno abbia il suo Parroco determinato, a cui ubbidire, e da cui ricevere i Sacramenti. Così comanda (c. Ecclesias. 13, g. 1, c. pœn. de iis, quæ fiunt a prælat. c.1, 13, q.1, cap. plures 16, qu. 1, cap.1, de paroch. Conc. Tolos. an. 843, c. 7) il Sacro Concilio di Trento sulla scorta delle antiche leggi (Sess. 14 de reform. c. 9, sess.24, c. 4 et sess. 24, c. 13). « Mandat Sancta Synodus Episcopis, pro tutiori animarum eis commissarum salute, ut distincto populo incertas propriasque parochias, unicuique suum perpetuum, peculiaremque Parochum assignent, qui eas cognoscere valeat, et a quo solo licite Sacramenta suscipiant, aut alio utitiori modo, prout loci qualitas exegerit, provideant. Idemque in iis civitatibus, ac locis, ubi nullac sunt parochiales, quam primum fieri curent: non obstantibus quibuscumque privilegiis, et consuetudinibus etiam immemorabilibus. » Aggiungo di più, che al Vescovo istesso spetta l’assegnare e ai Sacerdoti, e ai Parrochi il congruo loro sostentamento, e il regolare le tasse funerali, ed altri simili. Quindi è, che il Sacro Concilio di Trento ha ingiunto ai Vescovi di non promuovere (Sess. XXI de ref. c.2 et 3) nessuno agli ordini sacri, se non è bastantemente provveduto a vivere onestamente, e senza disonore del suo carattere. AI Vescovo ha ingiunto di fissare in tutte le Cattedrali, e Collegiate le quotidiane distribuzioni. A lui (ibid. e. 5) pure di unire più Chiese Parrocchiali, se divise non possono sussistere per la loro povertà. E il Concilio medesimo alle (sess. XXV de reform. c. 13) Cattedrali e Parrocchie ha voluto, che si paghi dai fedeli la tassa, che chiamasi la Quarta funerale. È facile il dire, che tutto questo si è fatto dal Concilio con intelligenza, e con dipendenza dalla secolar podestà; ma è impossibile il provarlo con argomenti positivi, poiché nell’ordinazioni del Concilio di Trento, e negli antichi canoni su tali materie, non si fa nessuna menzione del consenso dei Laici. Se nei capitolari dei Franchi, o anche nelle leggi degl’Imperatori si trovano alcune simili ordinazioni, abbiamo anche un’espressa accettazione dei Concili, da cui concludere, che questi ordini hanno avuto il lor vigore dall’approvazione della Chiesa; e si sono vedute tali sanzioni emanate privativamente dai Concili, ma non privativamente e impunemente dai Magistrati, in modo che la Chiesa o non abbia mai reclamato, o pure abbia confessato una vera e necessaria dipendenza dalle leggi del secolo. – In realtà per qual titolo devono avere i Sacerdoti dai fedeli il lor congruo sostentamento? per essere Ministri di Dio, per occuparsi della salute dell’anime, per il servigio dell’Altare. Ma la mercede degli operai della vigna spirituale, deve assegnarsi dai ministri del padron della vigna, i quali sono i depositari della volontà del Signore, conoscono l’abilità, le forze, e il lavoro degli operai, e devono render conto della vigna medesima. Dunque, non ha da farsi l’assegno di questa mercede da uomini non chiamati da Dio alla ispezione della sua vigna. Se questi tali, vorranno intromettersi in un ufficio non loro, non è forse troppo facile, che paghino gli operai senza discrezione di meriti e di lavoro? Essi non sanno e non devono sapere della coltura di una vigna spirituale: Come, dunque vorranno pagarne con dovuta misura i suoi coltivatori? Inoltre, chi sono questi stipendiati? sono i Ministri di Dio e della sua Chiesa. Ora domando, qual è in tutto il mondo quella casa privata, che non abbia né pur diritto di pagare di proprio arbitrio i suoi servi e i suoi ministri? E quel diritto, che ha ogni casa privata anche tra i barbari, non l’avrà la Casa di Dio in mezzo ai Cristiani? In fine di dove si trae questa mercede dei Ministri di Dio? Dalle decime, dalle primizie e dalle oblazioni; e queste sono di Dio medesimo (Concil. Trid. Sess. XXV de refor. c. 12, Exod. 22 et 23, Levit. 27, num. 12, Tob. 1, Malach. 3, c. decimas 16, q.1, c. decimas cum seq. 16, q. 7, c. parochianos c. ex transmissa. Conc. Matiscon. 2 Ticin. versi in sacris); o pure dai fondi Ecclesiastici; e questi parimenti appartengono a Dio (Concil. Trident. Sess. XXIII de refor. c. 1, e l’Opuscolo dell’Immunità reale letter. prima). Dunque da’ suoi Ministri devono dispensarsi, e non già dagli stranieri. Dunque e per la qualità delle persone, che ricevono lo stipendio ecclesiastico, e per la situazione del campo, dove lavorano, e per la natura dei beni, dai quali ricavasi un tale stipendio, la distribuzione del congruo sostentamento ai Parrochi e agli altri Sacerdoti dipende privativamente dalla podestà Ecclesiastica. Il fare altrimenti sarebbe un invertire e sconvolgere tutte le idee, e i diritti comuni, e le pratiche universali, e specialmente il buon ordine della Chiesa. Questa confusione di cose non può essere da Dio. Dunque da Dio non può avere avuto la podestà secolare il diritto della distribuzione de’ beni ecelesiastici ai Ministri della stessa Chiesa. – In fatti negli Atti Apostolici noi leggiamo, che gli Apostoli eran quelli, che distribuivano le sostanze della Chiesa secondo il bisogno di ciascheduno; e’ che essi destinaron di poi (Act. IV et VI) alcuni Diaconi per questo Ministero. S. Paolo ingiungeva a Tito (ad Tit. V, 16 et sequ.) di non dispensare l’entrate ecclesiastiche a quelle vedove, che potevano essere mantenute da’ loro congiunti, ut non gravetur Ecclesia; e all’opposto voleva, che i Sacerdoti più degni ricevessero un doppio stipendio. Non sarà dunque mai giusto e lodevole, che la Chiesa resti priva di quella libertà, che godeva sotto Caligola e Nerone. – Quindi nel Concilio Lateranense quarto sotto Innocenzo III anno 1215, cap. 44 si proibisce ai Laici di fare costituzioni, che si chiamano piuttosto distruzioni, e colle quali si alienino e si vendano i beni ecclesiastici, e si usurpi la giurisdizion della Chiesa, anche sulle tasse funerali, o altre simili cose che sono annesse allo spirituale diritto, e si condannano i contravventori ad essere scomunicati. Così pure nella sessione 10 del Lateranese quinto sotto Leone X. (Labbé tom. 19, col. 911). Circa l’età e le disposizioni di quelli, che vogliono essere ammessi nel Santuario, il Concilio di Trento (Sess. XXIII de reform.) ha saggiamente prescritte ai Vescovi le regole più opportune secondo i sacri canoni. A loro dunque appartiene il riconoscere e le persone e l’età di quelli, che vogliono dedicarsi al divino servigio. Non può la secolar podestà impedire a veruno il mettersi fra le mani della Chiesa contro i decreti della Chiesa medesima. Se si trovano delle leggi Imperiali, che proibiscono ad alcuni occupati nei pubblici impieghi, o nella milizia di entrare nel Santuario e nel Chiostro; bisogna anche sapere due cose; Primo, che alcune di queste proibizioni erano conformi ai canoni stessi della Chiesa (Tomassini de Benefic. part. 4, lib. 3, c. 61) e perciò lecite anche al Principe Secolare difensore dei canoni. Per esempio il Concilio d’Orleans all’anno 1141 vieta di ascriversi al Clero a quelli, che non avessero licenza del Re, o dai Magistrati. Faceva la Chiesa questo divieto appunto per l’indennità dell’ordine civile che per quanto si può deve aversi presente dalle leggi Ecclesiastiche. Secondo, che quando gl’Imperatori promulgarono delle leggi su questo particolare contrarie alla volontà della Chiesa, i Papi e i Vescovi reclamarono, e non ubbidirono. Maurizio Imperatore e Carlo Magno fecero leggi in cui si vietava ai militari di entrare ne’ Monasteri. Ma S. Gregorio (Vit. S. Gregor. per Ioan. Diacon. l. 3, c.16, et S. Gregor. 1.12, ep. 23), e gli altri Vescovi vi si opposero, e queste leggi furono distrutte. Basta leggere su tal proposito ciò, che scriveva Inemaro Arcivescovo di Reims a Carlo Calvo Re di Francia: « Tulianus, et postea Imperator Mauritius decreverunt, ut ei, qui semel in terrena militia signatus fuerit, nisi aut expleta militia, aut pro debilitate corporis repulsus in Monasterio recipi, et Christo eum militare non liceat. Quod religiosi Imperatores, et Sanctus Gregorius auctoritate Apostolica, et generali Episcoporum consensu, Ecclesiastico vigore, et Reipublicæ Christianæ cohibente religione destruxerunt; velut in eius epistolis ad Mauritium Imperatorem, et ad plurimos Episcopos directis ostenditur. Quod, et divæ memoriæ avo vesto Carolo surripuit, sicut maiorum traditione, et verbis, et scriptis discimus. Et in libro 1 Capitul. cap. 112 demonstratur de liberis hominibus ad servitium Dei sine sua licentia non convertendis. Quod Ecelesia, et Respublica non consentit, quodque postea correxit, sicut in eodem libro cap.134 monstratur (Spilic. tom. 2, pag. 823). » Così pure Giustiniano volle prefiggere al suddiaconato l’anno vigesimo quinto. Ma il canone Trullano non ostante la legge dell’Imperatore ordinò, che fosse sufficiente l’anno ventesimo. E Leone il sapiente inerendo ai canoni abrogò la (Novel. 123, constit. 16 ) legge di Giustiniano appunto come contraria ai decreti della Chiesa. Che se S. Gregorio dopo aver disapprovata la legge di Maurizio, nondimeno la promulgò, bisogna avvertire, che S. Gregorio non la credé affatto empia, ma (4b. 3, epist. 65), solo non conforme alla pietà; quia lex Deo minime concordat; e che quella legge poteva sostenersi col Concilio Gangrense can. 3, e molto più col canone 4 del Concilio Calcedonese. E nondimeno questa legge fu poi in seguito, come abbiam detto, del tutto abrogata. Niente dunque provano questi fatti contro l’autorità ecclesiastica. Mostrano solo, che la secolar podestà ha tentato talvolta d’invadere i confini del Santuario, ma che poco dopo si è pentita delle sue invasioni. – Per tale autorità il Sacro Concilio di Trento (Sess. XXV de regularib. c. 18), ha fulminato l’anatema contro tutti quelli, anche rivestiti di qualunque dignità, i quali sanctarum virginum vel aliarum mulierum voluntatem vel accipiendi, vel voti emittendi, quoquo modo sine iusta causa impedierint (che non impedirono con giusta causa il forzare la volontà delle sante vergini o di altre donne a di prendere o emettere voti). E certamente non può essere causa giusta quella, che espressamente combatte i decreti della Chiesa, come sarebbe nel nostro caso il motivo dell’età, dopo che l’istesso Concilio di Trento (ibid. cap. 15) ha fissato l’anno decimo sesto compito, come termine, dopo cui può ciascuno essere ammesso alla religiosa professione. In fine sarà tenuto il Vescovo ad invigilare sui costumi e sulla fede di tutti i suoi sudditi, perché per questo appunto si chiama Vescovo. Episcopus, dice Alcuino (de offic. divin. cap. de tons. Cleric.), dicitur superintendens, supervidens: quia ipse debet supervidere vitam subiectorum suorum, qualiter vivant, qualiter Dei præcepta custodiant. Al qual proposito si può anche vedereciò che ne serive Rabano Mauro (de Inst. Cleric. lib. 1, c. 5), eS. Isidoro (de Eccles. Offic. lib. 2, cap. 5); e Ugone da S. Vittore(Erudit. Theol. lib.1, cap. 40). Imperocchè se il Vescovo è ordinato a indirizzare i Cristiani alla vita eterna, non può ometterela vigilanza sulla loro fede, che è il principio della salute.Veduto adesso ciò, che spetta sempre ai Pastori per l’esercizio della loro giurisdizione, diamo un’occhiata a ciò, che a loro non appartiene senza l’intervento della Chiesa universale, o del Romano Pontefice. Non può per esempio il Vescovo ampliare i confini della sua diocesi, o lo faccia di propria autorità, o lo faccia per intervento, e per comando della podestà secolare. La ragione è non, solo chiara, ma evidente. La giurisdizione di un Vescovo è spirituale; dunque non può essere conferita, né ampliata dai secolari magistrati. La giurisdizione di un Vescovo è stata limitata o dalla Chiesa, o dal Capo della Chiesa a un territorio determinato; dunque non può il Vescovo usurparsi alcuna maggior estensione senza l’intervento della podestà ecclesiastica. – Molto meno potrà un Vescovo permettere, che i suoi Chierici frequentino scuole sospette, o studino libri infetti e condannati dalla Chiesa. Se a tutte le pecore è obbligato il Pastore d’interdire i pascoli nocivi, molto più a quelle, che devono un giorno divenir guide delle sua greggia. Non solo la podestà secolare, ma neppur qualunque ecclesiastica podestà. può dispensarlo da questo suo dovere, inerente per natura e per divina istituzione al suo pastoral ufficio, Questo sarebbe un permettere espressamente, e tacitamente acconsentire, che la sua greggia fosse divorata dai lupi. Che se mai avesse il Pastore nella sua Diocesi alcuno o maestro in privata scuola, o lettore in pubblica Università, che insegnasse dottrine eretiche, o sospette, non potrà per verun modo dissimulare con lui, ma dovrà resistere, ed opporsi con tutto il vigore Apostolico. – Che sarebbe mai, se un Pastore vedesse il lupo in mezzo alla greggia, e non alzasse la verga per discacciarlo? Questi sarebbe peggiore di un mercenario, perché il mercenario vedendo accostarsi il lupo fugge per timore, ma questo tale avrebbe il coraggio di vedersi scannare senza dolore sotto degli occhi tutta la greggia. Io confesso, che quasi quasi mi ha fatto tremare il leggere negli Atti dei Concilii di Milano quello, che si prescriveva due secoli fa contro il commercio degli eretici, e l’obbligo, che s’ingiungeva ai Parrochi d’invigilare sulla loro condotta in ogni ora, e per così dire in ogni momento: È da sperarsi (Concil. Province. 5 part. 1, edit. Lugdun. 1862 tom. 1, pag. 167) dice il Concilio, che i Principi e i Magistrati pel loro dovere di difendere la Fede cattolica, e pel loro amore verso la religione, non permetteranno mai, che vengano in questi paesi soggetti al lor dominio soldati di diversa fede da quella della Cattolica Romana Chiesa, né pure a riposarvi di passaggio; essendo cosa certa e ben sperimentata, che nessuna cosa offende tanto gravemente Iddio, né tanto provoca la sua collera, quanto la peste dell’eresia: e inoltre, che non v’è cosa, la quale tanto cooperi alla rovina dei Regni e delle Provincie, quanto questa spaventosa infezione. Ma se ciò mai accadesse (il che tenga Iddio lontano), metta il Vescovo tutta la diligenza dell’animo suo, e tutta l’industria del pastoral ufficio, e si adoperi in ogni maniera, affinché le pecorelle redente col Sangue di Gesù Cristo, e a lui commesse, non restino in verun modo attaccate da questo contagio. Primieramente per tanto si porti egli stesso in persona a quei luoghi, ne’ quali saranno alloggiati questi uomini pestilenti; avvisi con tutto calore, e diligenza il popolo fedele, che non prenda mai norma dai loro costumi; che non dia mente, né orecchio alle loro parole; che non conversi in nessuna maniera con loro; che non imiti la loro dissolutezza e la libertà del loro vivere; ma che perseverando con timore e con tremore nella Fede ortodossa, e nella grazia del Signor nostro Gesù Cristo, si mantenga nell’unità ed obbedienza della santa Romana Cattolica Chiesa, e negli esercizi di Cristiana pietà. Passa indi a prescrivere ai Parrochi, « … che osservino, se è possibile non solo ad ogni ora, ma anche ad ogni momento, che essi facciano, che cosa si pensi, e si macchini intorno alla Fede: che tengan lontane le insidie di satana, e per quanto possono impediscano ogni sforzo degli avversarii. » Vuole inoltre il Concilio, che i detti Parrochi informino ogni giorno il Vescovo dello stato delle cose, e che il Vescovo non sia contento di tutte queste diligenze, ma ne studi sempre delle nuove, e mandi in que’ luoghi de’ zelanti Predicatori per conservare la sua greggia; e ch’egli (ibid. p. 169, col. 1) medesimo invigili di continuo secondo le costituzioni de’ Sommi Pontefici, e specialmente d’ Innocenzo III, e di Martino V per impedire ed estirpare l’eresia. . Chi non ha da tremare vedendo, che tanto sono mutati i tempi, non essendo per altro mutata la dottrina di Gesù Cristo, e della Chiesa? Oggi tra i Cattolici sono mescolati senza necessità non solo gli eretici, ma persino gl’increduli; e che diligenza si usa per preservare i sani Cattolici da questo veleno? Oggi una buona parte dei libri, che vengono alla luce del mondo dalle tenebre dell’inferno, insegnano espressamente, o tacitamente l’empietà e la dissolutezza; e a questa ingratitudine infernale, che riparo si oppone? Oggi nelle Cattedre dell’Università cattoliche siedono impunemente maestri di proscritta dottrina; e chi alza la voce per farli tacere? Oggi persin quelli, che devono entrare nel Santuario si fanno prima discepoli in questa scuola di satana, e chi li respinge? Chi renderà conto di tanta infezione della greggia, e di tante pietre di scandalo, che s’incastrano persin nelle mura del Santuario e del Tempio? Questa digressione veniva più opportuna, quando parleremo di poi della giurisdizione de’ Vescovi in tempo di persecuzione; ma non si può aspettar troppo a spremere il proprio dolore sulle piaghe esacerbate della Chiesa Cattolica. Torniamo al filo del nostro esame. – Per queste istesse ragioni non può un vero Pastore servirsi di ministri sospetti nell’esercizio della sua giurisdizione; e i ministri saranno sospetti, quando gli saranno proposti dai nemici della Chiesa; molto più se, per pubblica fama fossero già notoriamente mal costumati, o poco Cattolici. Molto meno potrà assegnar alle Chiese vacanti qualche Parroco di cattiva dottrina, o tollerarlo nell’attuale esercizio, s’egli sia tale; e tale sarà, se si vedrà, che stringa lega cogli uomini dichiarati contro la Chiesa. In fine, per accorciare questa materia, non può il Vescovo di propria autorità dispensare da quelli impedimenti, che al matrimonio appose la Chiesa. Solo la Chiesa stessa, e il di lei Capo, cioè il Vicario di Gesù Cristo in terra, possono dispensare da questi impedimenti, che per comune consenso vi furono apposti. Se un Vescovo intraprendesse un qualche attentato contro i canoni della Chiesa, sarebbe lo stesso, come se un privato volesse disfar le leggi del suo Monarca. Non v’è podestà civile, che possa al Pastore conferire questa autorità negl’impedimenti del matrimonio. Imperocchè la Chiesa può mettere nuovi impedimenti al Sacramento del matrimonio, che non solo lo rendano illecito, ma anche invalido. Questo è di fede (Concil. Trid. Sess. XXIV, can. 3). Ma le leggi si devono dispensare solo da quella legittima potestà che le ha stabilite. Dunque, alla Chiesa tocca il dispensare da quelli impedimenti, ch’Ella «medesima ha fissati nel Sacramento del matrimonio. Ogni altra dispensa non solo è illecita, ma anche invalida. Come, dunque, potrebbe un Pastore prevalersene per la sua greggia senza delitto?

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (7) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (IV)

LA PARUSIA (7)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (7)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE, Rue de Rennes, 117 – 1920

TOUS DROITS RÉSERVÉS

ARTICOLO SETTIMO

LA PARUSIA NELLE EPISTOLE DEGLI APOSTOLI. TESTI PARENETICI.

Era abbastanza naturale che dopo aver imputato a Gesù Cristo stesso l’errore che abbiamo visto sulla prossimità della fine del mondo, il razionalismo moderno lo imputasse anche agli Apostoli di Gesù-Cristo. Perché se l’errore del Maestro è come regola generale, e questo per la natura stessa delle cose, l’errore dei suoi discepoli, quanto più nel caso molto particolare di un errore che coinvolge tutta l’opera che Egli avrebbe lasciato loro, come ai confidenti del suo pensiero, la cura di continuare dopo di Lui. Questo era il terrore di Gesù, secondo i modernisti, poiché per loro il Vangelo era originariamente un’opera di riforma da promuovere all’interno del giudaismo, in vista dell’imminente crollo del mondo attuale, che doveva essere seguito dall’instaurazione del Regno di Dio in un mondo completamente nuovo, sotto la presidenza di Cristo nella sua parusia.  Pertanto, su un punto così caratteristico e fondamentale, qualsiasi dissenso tra il Maestro ed i discepoli non era verosimilmente sostenibile, e quindi occorreva bene che gli Apostoli fossero a loro volta convinti, volenti o nolenti, di avere avuto, sulla questione escatologica, esattamente le stesse opinioni, le stesse idee, la stessa credenza, diciamo la parola, gli stessi sogni chimerici e le stesse illusioni. Ecco, quindi, che ci troviamo di fronte ad una serie di testi tratti dai loro discorsi e dai loro scritti. Non è più qui il Vangelo ad essere posto in questione, sono gli Atti, le Epistole e soprattutto l’Apocalisse. Da qui una nuova serie di argomenti e di ragioni, al cui esame saranno dedicati questo e gli articoli successivi.

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Ma prima di entrare nei dettagli della discussione, è opportuno porre davanti agli occhi del lettore i passi in cui la questione del tempo della parusia è espressamente riferita e, come si usa dire, trattata ex professo. Non è, infatti, in questi luoghi che si cerca generalmente l’espressione corretta ed esatta del pensiero degli autori su un dato punto, e di conseguenza la norma di interpretazione, almeno negativa, per ciò che, nel resto dei loro scritti, potrebbe essere equivoco o ambiguo? Niente è quindi più appropriato che farne un inventario fin dall’inizio, se non altro come prima indicazione della mentalità degli scrittori, e un’indicazione generale del senso del loro pensiero. Ora, i passaggi in cui il pensiero apostolico si è pertinentemente e categoricamente espresso sull’epoca della parusia, sono in numero di tre, e tre solamente. Il primo si trova nella prima lettera ai Tessalonicesi, V., 1-3: « Quanto ai tempi e ai momenti – dice San Paolo – non c’è bisogno di scriverne. Perché voi stessi sapete molto bene che il giorno del Signore verrà come un ladro nella notte. Quando gli uomini diranno: ‘Pace e sicurezza!” allora una distruzione improvvisa si abbatterà su di loro, come un dolore sulla donna che sta per partorire, ed essi non potranno sfuggirvi. Ma voi, fratelli miei, non siete nelle tenebre, perché quel giorno vi colga come un ladro… Non dormiamo dunque come il resto degli uomini, ma vegliamo e siamo sobri, ecc. » – La seconda è sulla seconda ai medesimi Tessalonicesi, II, 1-9: « Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo – scrive l’Apostolo – vi preghiamo di non essere scossi nei vostri sentimenti, né di allarmarvi, né per alcuna profezia, né per alcuna parola o lettera che possa essere supposta venire da noi, come se il giorno del Signore fosse imminente. Nessuno vi tragga in inganno, perché quel giorno non verrà prima che sia giunta l’apostasia e sia apparso l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, l’avversario che si eleverà al di sopra di tutto ciò che è chiamato Dio, o onorato con un culto. Non vi ricordate che vi ho detto queste cose quando ero ancora tra voi? E ora sapete cosa lo trattiene …, perché il mistero dell’iniquità è già in opera, aspettando solo che sparisca colui che lo tiene. Poi sarà scoperto l’empio che il Signore Gesù sterminerà con il soffio della sua bocca e annienterà con lo splendore della sua venuta. » Infine il terzo passaggio è nella seconda epistola di San Pietro (III, 8-14), dove leggiamo: « Una cosa, fratelli miei, non dovete ignorare: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno solo. No, il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come alcuni immaginano; ma Egli è paziente con voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento. Il giorno del Signore verrà come un ladro. In quel giorno i cieli passeranno con un grande rumore, e gli elementi saranno dissolti con il fuoco, e la terra sarà bruciata con le opere che vi si trovano… Poiché tutte queste cose sono destinate a dissolversi, cosicché dovreste essere impegnati in una vita tutta santa e tutta dedita alla pietà, affrettandovi verso l’avvento del giorno di Dio, in cui tutte queste cose sono destinate a dissolversi e gli elementi infuocati si scioglieranno. Ma noi attendiamo, secondo la Sua promessa, un nuovo cielo ed una nuova terra dove abita la giustizia. In questa attesa, fate ogni sforzo per essere trovati da Lui senza macchia e irreprensibili nella pace. »  – E questo è il totale delle indicazioni date dagli Apostoli, nei luoghi in cui affrontano espressamente la questione che allora agitava tante menti ed era oggetto di tante conversazioni. Sarà difficile, immagino, trovare una traccia di ciò che Renan ha osato darci come la credenza più “profonda” e “costante” della prima generazione cristiana. C’è forse almeno una parola, un’insinuazione, un’allusione qualsiasi che tradisca la persuasione di un prossimo ritorno di Cristo sulle nuvole del cielo, o non sarebbe piuttosto il contrario? San Paolo ricorda che Gesù, lasciando la terra, aveva detto ai suoi: Non sta a voi conoscere i tempi e i momenti, “χρόνους ἢ καιρούς” [cronous e kairous] che il Padre ha fissato con la sua propria autorità », ed ispirandosi a questa parola, riferendosi a questo avvertimento, riprendendo il discorso, per non sbagliare, negli stessi termini, inizia dichiarando ai suoi Tessalonicesi che, sui tempi e i momenti, [περί δή τών χρόνων καί καίρών – peri de ton kronon kai ton kairon] non ha bisogno di scrivere a loro. E perché mai? Per il motivo che erano già informati di tutto ciò che se ne poteva sapere: che l’ora della parusia sarebbe stata l’ora del “ladro di notte”, che non è possibile prevederla in anticipo; che, inoltre, sarebbe stato inutile cercare di penetrare segreti la cui conoscenza è stata negata ai mortali, e che, di conseguenza, invece di cercare inutilmente di soddisfare una vana curiosità, bisognava pensare a non lasciarsi sorprendere impreparati, disponendosi con una vita santa al giudizio di Dio, in qualunque momento esso dovesse venire: « Non dormiamo dunque come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri, prendendo per corazza la fede e la carità, e per elmo la speranza della salvezza ». Questo è l’intero significato, l’intera portata, l’intera conclusione del primo passaggio. – Tuttavia, mentre le voci sull’imminenza della catastrofe continuavano a diffondersi, San Paolo torna alla carica in una seconda Epistola, e va ancora più avanti su ciò che aveva detto nella prima. Questa volta, corregge espressamente l’errore, non vuole che si dia credito alle voci messe in circolazione in modo così avventato, annunciando inoltre che prima che venga la parusia, dovranno aver luogo degli eventi, il cui corso e la cui sequenza egli spiega, è vero, per iscritto, solo in modo molto enigmatico, ma che, in ogni caso, sembrano richiedere, per svolgersi, un tempo piuttosto considerevole. Infatti questa apostasia di cui parla, questa defezione generale dalla fede di Gesù Cristo, questa elaborazione dell’opera d’iniquità, la cui manifestazione fu ritardata da qualche misterioso impedimento, questo avvento dell’”empio“, cioè, senza difficoltà, del grande e principale anticristo, di cui tanti altri dovevano essere i precursori (1 Giov. II, 18), tutto questo non fu evidentemente una di quelle cose che avvengono in un batter d’occhio, che iniziano, si sviluppano, si evolvono da un giorno all’altro. Qualunque sia dunque la vera interpretazione del famoso “καtέχον” [katechon], ciò che lega, ciò che ostacola, che si legge nel versetto 6, o dell’altra espressione “ό καtέχων” [o kathecon], ciò che tiene, o contiene, o occupa, che ritorna nel verso successivo (Vedi Bossuet: Avvertimento ai protestanti sul loro preteso adempimento delle profezie, n. 45 e segg.), resta vero che l’ipotesi di una venuta immediata o imminente del Signore fu chiaramente respinta dall’Apostolo, e che, se era già abbastanza chiaro per i suoi diretti corrispondenti, a maggior ragione lo è per noi, che tanti eventi ormai compiuti hanno messo in grado di penetrare meglio il significato della sua profezia, e di misurarne la portata. – E finalmente sentiamo San Pietro: San Pietro che non solo abbonda, ma sovrabbonda nello stesso senso, dichiarando che fa suo tutto ciò che è stato detto da colui che chiama un po’ più in basso, il suo diletto fratello Paolo. Anche lui è lontano mille leghe dal fissare, anche approssimativamente, qualsiasi misura del tempo. Anch’egli si attiene puramente e semplicemente all’unica cosa che ci è utile sapere, cioè che: come tutti, senza eccezione alcuna, devono vedere il giorno del Signore che verrà a giudicare i vivi e i morti (II Tim., IV, 1); tutti senza eccezione, che debbano morire o meno prima della sua venuta, hanno l’obbligo di prepararsi ad essa senza indugio, con l’esercizio delle buone opere ed una costante applicazione per purificarsi dall’amore delle cose deperibili, destinate a passare per sempre. Ma ciò che è particolarmente sottolineato è che la questione del ritardo di Dio nell’adempimento della sua promessa sarebbe, in ogni caso, del tutto priva di senso, perché Dio non ha fissato alcuna data, e inoltre, nessun tempo è lungo, o meglio, nessun tempo è abbastanza lungo. “Un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno”, e così il ritardo, per quanto lungo si possa immaginare essere nelle epoche a venire, sarebbe ancora chiamato con il suo vero nome, non un ritardo, ma un piano di misericordia e di salvezza da parte di Colui « che non vuole che nessuno perisca, ma che tutti giungano a penitenza ». – Questo è il cuore e l’anima del pensiero apostolico. Niente di più, niente di meno, e in mezzo a tutto questo cerco la cosiddetta mentalità che ci è stata rappresentata come confinata o circoscritta dall’idea fissa di una parusia che sta per scoppiare e di un mondo che sta per finire. Possiamo dunque già concludere che in tutti i passi in cui la questione del tempo della parusia è posta dagli Apostoli come oggetto proprio, diretto e categorico del loro discorso, non c’è nessun segno, nessuna traccia, nessuna vestigia della persuasione che il razionalismo contemporaneo presenta, ma piuttosto, per quanto lo permetteva il riserbo in cui Gesù stesso intendeva porsi, tutte le indicazioni di una persuasione diametralmente opposta. – Così, non è da questa parte che si volta il libero pensiero. Questi passaggi, senza dubbio i più importanti di tutti, e anche in un certo senso, gli unici veramente convincenti, non vengono nemmeno discussi, vengono lasciati nell’ombra, si vuole ignorarli, per ripiegare esclusivamente su testi che, a dir poco, sono fuori tema, e che tutte le indicazioni che si crede di trovarvi alla breve scadenza dell’ultimo giorno del mondo, non vi si vedono che attraverso il prisma di ragionamenti costruiti su falsi presupposti, provenienti, per la maggior parte, dall’ignoranza del linguaggio proprio della Scrittura, e del suo stesso modo di considerare le cose. Dobbiamo ora esaminare questi testi da vicino e, per ordine e chiarezza, li ridurremo ad alcune categorie principali.

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La prima categoria comprenderà testi che potrebbero essere chiamati parenetici, testi che esortano alla pratica di tutte le virtù cristiane, in vista della venuta del Signore che è vicina. Ecco gli esempi principali. « È tempo – dice San Paolo ai Romani – di svegliarci dal nostro sonno, che è la conseguenza della diminuzione del nostro primo fervore. Perché ora la salvezza è più vicina a noi di quando abbiamo abbracciato la fede. La notte è passata da un pezzo e il giorno si avvicina. Spogliamoci dunque delle opere delle tenebre e indossiamo l’armatura della luce. » (Rom., XIII, 11-12). E ai Filippesi: « Rallegratevi nel Signore in ogni tempo, ripeto, rallegratevi, che la vostra dolcezza sia nota a tutti gli uomini, perché il Signore è vicino. Non siate in ansia per nulla, ma in ogni circostanza esponete a Dio le vostre necessità con preghiere e suppliche, con ringraziamenti » (Filippo, IV, 4-6). E agli Ebrei: « La perseveranza vi è necessaria, affinché, avendo fatto la volontà di Dio, otteniate ciò che vi è stato promesso. Ancora un po’ e colui che deve venire verrà e non tarderà » (Eb., X, 36-37). E San Giacomo a sua volta: « Siate pazienti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Il contadino, nella speranza del prezioso frutto della terra, aspetta pazientemente finché non riceve le piogge autunnali e primaverili. Siate pazienti e rafforzate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. Non lamentatevi gli uni contro gli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alla porta » (Jacob., V, 7-9). Questi, dico, sono i testi della prima categoria. L’elenco potrebbe senza dubbio essere esteso, ma senza utilità o profitto; perché il resto consisterebbe solo in ripetizioni o varianti, che sarebbero più che altro una questione di parole, e non modificherebbero in alcun modo, né nel contenuto né nella forma, la difficoltà che si presenta, che consiste interamente in affermazioni come queste: Dominus prope est, adhuc modicum aliquantulum, ecce judex ante januam assistit, e se ci sono altri di uguale forza e portata. – Ma la soluzione di questa difficoltà è ancora da trovare, o non possiamo dire che  già la possediamo? In effetti, abbiamo qui una pura e semplice attuazione delle istruzioni date da Gesù ai suoi discepoli nelle pagine che sono state oggetto del nostro precedente studio. È chiaro che le esortazioni apostoliche a vegliare, a perseverare, ad essere pazienti, a rinunciare alle concupiscenze mondane, ad essere sempre pronti per l’arrivo del Signore, accompagnando l’attenzione e la diligenza con le preghiere, sono solo un’applicazione, adatta ai fedeli della prima ora, delle esortazioni che leggiamo in San Matteo, San Marco e San Luca, come conclusione del discorso escatologico. Dal che consegue chiaramente, se non mi sbaglio, che, per aiutarci a comprendere il legittimo e vero significato del pensiero degli Apostoli, tutti i punti precedentemente messi in luce dovrebbero ora servire, senza bisogno di ulteriori dimostrazioni, all’esatta comprensione delle parole di Gesù; e in particolare, il principale, il più eclatante e il più importante di tutti, che riguardava il doppio aspetto sotto il quale il Vangelo prevede la parousia: da un lato, nella sua sfolgorante realtà del grande giorno di Dio, quando verrà l’ultima ora del mondo, e dall’altro, nelle sue segrete anticipazioni di ogni giorno, quando arriverà l’ultima ora di ogni singolo uomo. Tutta la questione, quindi, è sotto quale di questi due aspetti la parusia è presa nei testi sopra menzionati. È sotto il primo? Allora sì, la difficoltà rimane. È sotto il secondo? Allora la difficoltà scompare per questo stesso fatto, e svanisce del tutto”. Ora, non ci possono essere dubbi sulla risposta. Dipenderà dalle osservazioni che metteremo davanti agli occhi del lettore. – Osserviamo dunque, in primo luogo, il contenuto dei passi in cui troviamo l’intimazione di una prossima parusia, a breve termine, alla vigilia del suo prodursi. Questi passaggi sono forse tra quelli che rappresentano lo scenario, l’apparato, la grande scena del giudizio universale? Niente affatto. Sono solo testi in cui la parusia è presentata come la venuta del Signore o del Giudice, senza alcuna altra precisazione o determinazione, senza alcuna aggiunta, senza alcuna menzione diretta o indiretta della gloria, della potenza e del potere in cui esploderà nell’ultimo giorno del mondo. Leggiamo solo che il Signore è vicino, che Colui che deve venire non tarderà, che il Giudice è già alla porta: da ciò possiamo dedurre la conclusione pratica che c’è motivo di entrare nei sentimenti, e di fare i preparativi necessari per questo arrivo. Non è dunque, come in tanti altri luoghi degli scritti apostolici, dove viene descritto l’avvento glorioso, adventus gloriæ (Tit., n. 13), del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo, come tale; dove la parousia diventa la rivelazione (άποκάλυψις – [apokalipsis]), l’apparizione (ἐπιφάνεια – [epifaneia]) di Gesù Cristo e della Sua gloria. – Come in San Paolo, per esempio, quando parla ai Tessalonicesi del giorno in cui il Signore Gesù apparirà dal cielo, con i messaggeri della sua potenza, in mezzo a una fiamma di fuoco, per fare giustizia a coloro che non obbediscono al Vangelo (II Tess., I; 7), e più giù, … del giorno in cui verrà per essere glorificato nei suoi santi e per essere ammirato in tutti coloro che credono (ibid., 10); e altrove, della manifestazione di Nostro Signore Gesù Cristo, … che apparirà a suo tempo il benedetto e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, (I Tim, VI, 15), e ancora nella Prima Corinzi, I, 7, e in quella ai Colossesi, III, 4, e nella Seconda ai Tessalonicesi, II, 8, e nella prima di Pietro, IV, 13, ecc. – Certamente, sono tutti testi che non si penserebbe mai di applicare a nessun altro giorno che quello della grande assise della consumazione dei secoli, e se fosse nei testi di questo tenore che si trovano gli annunci della prossima venuta e che sono oggetto della presente difficoltà, bisognerebbe riconoscere che i testi della presente difficoltà non rientrano nella suddetta distinzione dei due aspetti della parusia in cui avremmo trovato la soluzione, almeno adeguata e sufficiente. Ma no, per quanto cerchiamo nelle lettere degli Apostoli, dalla prima all’ultima pagina, non riusciremo mai a produrne un solo esempio. Se San Paolo, parlando dell’apparizione della gloria di Nostro Signore Gesù Cristo, menziona allo stesso tempo il tempo in cui sarà realizzata, sarà solo per insinuare ancora una volta il segreto impenetrabile in cui Dio ha voluto che rimanesse nascosto: … fino alla manifestazione di Nostro Signore Gesù Cristo – dice nel testo citato sopra – che nel suo tempo (ἣν καιροῖς ἰδίοις – en kairois idiois), il Re dei re e Signore dei signori (ὁ βασιλεὺς τῶν βασιλευόντων καὶ κύριος τῶν κυριευόντων – o basileus ton basileuonton kai kurios ton kurieuonton) renderà manifesta [μέχρι τῆς ἐπιφανείας τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ – mekri tes epifaneias tou kuriou emon Iesuou Kristou]. “A suo tempo” è tutto quello che l’Apostolo probabilmente sa su di esso; in ogni caso, è tutto quello che ci farà sapere su di questo. E altrove, riguardo alla venuta dell’anticristo, che il Signore Gesù distruggerà con lo splendore della sua venuta, [τῇ ἐπιφανείᾳ τῆς παρουσίας αὐτοῦ – te epifaneia tes parousias autou], farà uso della stassa modalità di linguaggio, che si sottrae ad ogni calcolo, e sfugge ad ogni valutazione: E ora sapete cosa che lo trattiene, in modo che possa manifestarsi nel suo tempo [εἰς τὸ ἀποκαλυφθῆναι αὐτὸν ἐν τῷ ἑαυτοῦ καιρῷ – eis to apokaluftenai auton en to autou kairo] (II Tess., II, 6.). – Perciò, in qualunque modo si prendano i passi degli scritti apostolici in cui la parusia è data come prossima (sia in modo assoluto o in modo comparativo, sia in se stessa o nei molteplici contrasti che ne fanno emergere più chiaramente il significato), tutto ci dice, tutto ci avverte che si tratta di questa venuta del Signore che si compie segretamente e invisibilmente, man mano che la morte raccoglie le anime umane, e che su ognuna di esse viene pronunciata la sentenza irrevocabile e definitiva, dopo la quale rimane solo la pubblicazione, la messa in luce, riservata alla parusia visibile e brillante della fine dei tempi (I Cor, IV, 5); … di questa venuta del Signore, che il Vangelo di San Luca, nel dodicesimo capitolo, ha precedentemente posto davanti ai nostri occhi, dove, indipendentemente da qualsiasi allusione alla catastrofe mondiale, ci è stato ingiunto di essere costantemente in attesa del ritorno del nostro Maestro, in modo che, non appena Egli verrà, sotto le spoglie della morte, o con il bussare alla porta con i colpi che annunciano l’avvicinarsi della morte, noi gli apriremo subito, ed apriremo per essere messi in seguito, se vigilanti, in possesso del suo regno, della sua eterna beatitudine, delle sue inestimabili ricchezze;  e infine, la venuta del Signore, che può essere sempre annunciata con fiducia come molto vicina, senza pretendere di penetrare il grande segreto che è chiuso a tutte le creature, e anche agli Angeli del cielo, il segreto di cui è scritto « Perché quel giorno e quell’ora (quando il Figlio dell’uomo verrà in maestà e potenza per giudicare il mondo), nessuno lo conosce tranne il Padre. » E quanto giustamente, quanto naturalmente, soprattutto, questa stessa venuta del Signore, quella molto vicina, quella che era già in vista e che non poteva più ritardare, non fu presentata dagli Apostoli a coloro di cui volevano ravvivare l’ardore o sollevare il coraggio! A questi primi fedeli, la maggior parte dei quali erano avanti nella vita, che avevano sofferto e stavano ancora soffrendo per la fede (Filipp., I, 29-30; Eb., X, 32-37; Giacomo, I, 2), che si avvicinavano alla corona, che erano tentati di vacillare, o sollecitati a disertare le assemblee cristiane (Eb., X, 25), aveva bisogno solo di un po’ di perseveranza per raccogliere il frutto di tanto lavoro e fatica! « Ricordate quei primi giorni in cui, dopo la vostra conversione, avete sostenuto una grande lotta di sofferenze, a volte esposti come in uno spettacolo all’obbrobrio e alla tribolazione, a volte prendendo parte nelle sofferenze di coloro che venivano trattati in questo modo. Infatti, avete convissuto con i prigionieri e avete accettato il saccheggio dei vostri beni, sapendo che avete una ricchezza migliore, che durerà per sempre. Perciò non abbandonate la vostra fiducia, perché c’è una grande ricompensa legata ad essa. Perché la perseveranza è necessaria per voi, affinché, avendo fatto la volontà di Dio, possiate ottenere ciò che vi è stato promesso. Ancora un poco, e Colui che deve venire verrà, non tarderà. Il mio giusto (dice la Scrittura) vivrà per fede, ma se si ritira, la mia anima non metterà compiacimento in lui. – Perché noi non siamo di quelli che si ritirano per la propria perdita, ma di quelli che conservano la fede per salvare le loro anime » (Eb. X, 32-39). E infine, la venuta del Signore, che può essere sempre annunciata con fiducia come molto vicina, senza pretendere di penetrare il grande segreto che è chiuso a tutte le creature, e anche agli Angeli del cielo, il segreto di cui è scritto « Perché quel giorno e quell’ora (quando il Figlio dell’uomo verrà in maestà e potenza per giudicare il mondo), nessuno lo conosce tranne il Padre. »

E quanto giustamente, quanto naturalmente, soprattutto, questa stessa venuta del Signore, quella molto vicina, quella che era già in vista e che non poteva più ritardare, non fu presentata dagli Apostoli a coloro di cui volevano ravvivare l’ardore o sollevare il coraggio! A questi primi fedeli, la maggior parte dei quali erano avanti nella vita, che avevano sofferto e stavano ancora soffrendo per la fede (Filipp., I, 29-30; Eb., X, 32-37; Giacomo, I, 2), che si avvicinavano alla corona, che erano tentati di vacillare, o sollecitati a disertare le assemblee cristiane (Eb., X, 25), aveva bisogno solo di un po’ di perseveranza per raccogliere il frutto di tanto lavoro e fatica! « Ricordate quei primi giorni in cui, dopo la vostra conversione, avete sostenuto una grande lotta di sofferenze, a volte esposti come in uno spettacolo all’obbrobrio e alla tribolazione, a volte prendendo parte nelle sofferenze di coloro che venivano trattati in questo modo. Infatti, avete convissuto con i prigionieri e avete accettato il saccheggio dei vostri beni, sapendo che avete una ricchezza migliore, che durerà per sempre. Perciò non abbandonate la vostra fiducia, perché c’è una grande ricompensa legata ad essa. Perché la perseveranza è necessaria per voi, affinché, avendo fatto la volontà di Dio, possiate ottenere ciò che vi è stato promesso. Ancora un poco, e Colui che deve venire verrà, non tarderà. Il mio giusto (dice la Scrittura) vivrà per fede, ma se si ritira, la mia anima non metterà compiacimento in lui. – Perché noi non siamo di quelli che si ritirano per la propria perdita, ma di quelli che conservano la fede per salvare le loro anime » (Eb. X, 32-39). Io chiedo, non è questo che potrebbe dire ancora oggi senza cambiare una sola parola, il più risoluto sostenitore di una durata indefinita del mondo, a coloro che vedrebbe nelle condizioni in cui si trovavano gli Ebrei che San Paolo esortava un tempo? E questi, nientemeno, sono i testi in cui la “sapienza” modernista vede l’ossessione dell’idea che erano giunti i tempi che il mondo stava per finire! Chi potrebbe immaginarlo? Ma se avessimo bisogno di confermare quanto appena detto con nuove prove, le troveremmo in abbondanza in ogni pagina in cui gli Apostoli, con le loro raccomandazioni, i loro consigli, le loro istruzioni pratiche, ci fanno vedere, e fino all’evidenza, che l’idea che avevano del futuro era in tutto conforme a quella che ne abbiamo noi stessi, ancora oggi. – Ascoltiamo San Paolo che or ora diceva che il Signore era vicino e che Colui che doveva venire non poteva tardare. Ascoltiamolo, dico, esortare ora i fedeli a vivere nel riposo, a badare ai propri affari (I Tess., IV, 11), a lavorare pacificamente, a mangiare il pane coscienziosamente guadagnato (II Tess., III, 12), a fare preghiere, suppliche, intercessioni, per i re e per quelli costituiti in dignità … affinché possiamo passare una vita tranquilla e pacifica in tutta pietà e onestà (I Tim., II, 1). Questo è dunque il linguaggio di chi si crede alla vigilia del crollo della macchina del mondo, e sente già le prime avvisaglie della terribile tempesta in cui l’universo sta per affondare? Ma, per l’amor di Dio, notiamo come la prospettiva dell’Apostolo era aperta solo ad uno stato di cose assolutamente normale, lasciando spazio ad una vita tranquilla e regolare, alla sola condizione di mantenere l’ordine sociale di cui sono incaricati i responsabili del potere pubblico, per i quali raccomandava di pregare proprio a questo scopo. – Ascoltiamo San Giacomo che, non contento di annunciare che la venuta del Signore si avvicinava, mostrava anche il giudice già sulla soglia della porta: ecce judex ante januam assistit! E ora, nel corso delle sue raccomandazioni, è portato a correggere la presunzione di quei Cristiani che, senza alcun riguardo per l’incertezza del domani, progettavano l’avanzamento e la fortuna, comportandosi in tutto come se il futuro appartenesse a loro e che fossero padroni di disporne come volevano. Certamente, per portare questi temerari alla realtà delle cose, era cosa giusta mettere davanti ai loro occhi la visione dell’imminente catastrofe mondiale, e mostrare loro che l’ultima base di tanti vani calcoli sarebbe presto svanita, poiché non ci sarebbe stato più un futuro terreno per loro o per nessuno. Quale argomento potrebbe essere più conclusivo di questo? Quale motivo potrebbe essere più appropriato, se si deve credere all’esegesi modernista, alla mentalità della prima generazione cristiana? E invece, cosa vediamo? Una pura e semplice ammonizione sulla brevità della vita, la sua fragilità, la sua mancanza di consistenza, la sua durata effimera ed essenzialmente casuale, tutte cose che non hanno nulla a che vedere con la fine del mondo, e che sono rimaste e rimarranno per sempre nei luoghi comuni della predicazione evangelica: voi che dite: « Oggi o domani andremo  in questa o quella città, ci resteremo per un anno, faremo affari e guadagneremo, voi che non sapete cosa succederà domani! Infatti, cosa è la vostra vita? Un vapore che appare per un momento e poi svanisce. Invece di dire: … se il Signore vuole o se siamo vivi faremo questo o quello. Ma ora vi vantate della vostra presunzione. » (Jac., IV, 13-16). Sicuramente non c’è nulla qui che prepari anche lontanamente ai terrori che la storia, o forse più precisamente la leggenda, attribuisce all’anno mille.

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La vita, un vapore che appare per un po’ e poi svanisce! Questo, dunque, è tutto ciò che San Giacomo sapeva del futuro, allorquando rimproverava la presunzione di coloro che facevano piani per il futuro, come se fossero stati i padroni del futuro. E questo, posso aggiungere, è il limite dell’orizzonte degli altri, quando si appellano alla brevità del tempo come motivo per staccarci dal mondo, dai suoi beni, dai suoi piaceri, anche dai suoi godimenti più legittimi, per attaccarci a Colui che solo rimane eternamente. È della breve durata della vita che sentono parlare, non della vicinanza della catastrofe suprema. – Così, ad esempio, è per San Paolo, in questo passaggio della Prima ai Corinzi (VII, 25-35), sul quale la fertile immaginazione degli storici della nuova scuola si è esercitata abbondantemente, e che, per questo, richiede qui una piccola spiegazione. L’Apostolo risponde alle domande che gli sono state poste sul soggetto della verginità ed egli inizia affermando categoricamente che la verginità non è un precetto, ma un puro e semplice consiglio; che è una via più alta e perfetta, che, come aveva già insinuato (vers. 2 e seguenti), non può essere, in ogni caso, la via comune, ma solo quella di un’élite, cioè di pochi (« Per evitare ogni impudicizia, ogni uomo abbia la propria moglie, e ogni donna il proprio marito, ecc. – Versetto 2 e seguenti). Tuttavia, egli è tanto più ansioso di impegnare in essa quelli e quelle ai quali Dio avrebbe concesso il dono di una vocazione così eccellente (« Io vorrei che tutti fossero come me, ma ognuno riceve da Dio il suo dono particolare, uno in un modo, l’altro in un altro » – vers. 7), ed il primo motivo per cui cerca di attirarli è l’esenzione  dalle preoccupazioni, dalle sollecitudini e dalle difficoltà di ogni genere che il vincolo del matrimonio porta con sé: « Per quanto riguarda le vergini – dice – non ho alcun comandamento dal Signore, ma do un consiglio, come per aver ricevuto dal Signore la grazia di essere fedele. Penso, quindi, che a causa della difficoltà inerente allo stato di matrimonio, è bene che un uomo resti così. Sei legato a una moglie? Non cercare di rompere questo legame; non sei legato a una moglie, non cercare una donna. Ma se ti sposi, non pecchi, e se una vergine si sposa, non pecca. Questa, dico, è la prima ragione addotta dall’Apostolo. Consiste nella libertà dai molti imbarazzi, dolori, tribolazioni e preoccupazioni che di solito accompagnano la vita matrimoniale, e che hanno fatto dire a San Francesco di Sales che … se Dio avesse istituito un noviziato per il matrimonio, come ha fatto per la vita religiosa, ci sarebbero ben pochi novizi che vorrebbero fare la professione. (Sul: διὰ τὴν ἐνεστῶσαν ἀνάγκην, [dia ten anestosan anaghketen] che la Vulgata traduce, propter instantem necessitatem (verso 26), e che si correla con il    θλῖψιν δὲ τῇ σαρκὶ ἕξουσιν, [tlipsin de te sarki exousin] tribulatianem carnis hahehunt del verso 28, vedi San Giovanni Crisostomo nel suo libro della Verginità, n. 43-58. Il santo Dottore si sofferma a lungo sulle tribolazioni della vita matrimoniale, mettendo in grande rilievo le condizioni imposte al matrimonio nella Nuova Legge, proprio quelle che avevano portato i discepoli a dire, Matth. xXIX, 10: « Se questa è la condizione di un uomo nei confronti di una donna, è meglio non sposarsi. » Al che Gesù rispose: « Non tutti capiscono questa parola, ma solo quelli a cui è stato dato. Perché ci sono eunuchi che lo sono per nascita…; e ci sono eunuchi che sono eunuchi per mano d’uomini; e ci sono eunuchi che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, che capisca. » Non c’è bisogno di sottolineare il perfetto parallelismo tra il Vangelo e San Paolo. Da entrambe le parti, l’esenzione dalla servitù del matrimonio serve come punto di partenza per condurre alle ragioni di un ordine completamente superiore, che raccomandano come più perfetto, lo stato di verginità). – Tuttavia, questa ragione, che di per sé è ancora solo di ordine temporale e umano, è anche solo una ragione per il primo impegno; prepara solo la strada, o se volete, presenta l’esca come un modo per sollecitare la natura, e ora dobbiamo salire più in alto. San Paolo continua quindi: Ma questo è ciò che io dico, fratelli. Il tempo è breve. Quel tempo? Senza difficoltà, il tempo (καιρός – kairos) che ci è dato per preparare la nostra eternità; il tempo di cui, nella seconda ai Corinzi, dice (VI, 2): « Ora è il tempo buono, ora sono i giorni della salvezza »; e ai Galati (VI, 10: « Mentre abbiamo tempo, facciamo il bene »; e agli Efesini (V, 16): « Sfruttiamo il tempo, perché i giorni sono cattivi. » Il tempo è breve, e un po’ più in basso: « La figura di questo mondo sta passando », non dice al futuro: passerà, o passerà presto (παράξει – paràxei.), come riferendosi a una catastrofe a venire, che secondo lui avrebbe portato via tutto. Ma dice: passa (παράγει – paraghei) al presente, come indicando la condizione propria della figura del mondo, che è sempre in atto di passare. Passa, infatti, e passa incessantemente, come passano le rive del fiume per coloro che sono trascinati dalla corrente (la corrente della vita), e che presto saranno arrivati all’abisso dal quale non c’è ritorno. E dal fatto che il tempo della vita è breve, dal fatto che la figura del mondo sta passando, l’Apostolo trae la conclusione che, se c’è motivo di usare del mondo ed i legittimi piaceri che può offrirci, almeno questo debba essere con moderazione, e senza mettervi o attacarvi il cuore;  inoltre, c’è un modo migliore e incomparabilmente migliore, che è proprio nella beata libertà indicata più sopra, dove, liberati dagli obblighi e dalle preoccupazioni del matrimonio, siamo in grado di darci interamente a Colui che solo non passa e non cambia, cioè a Dio e alle cose del suo servizio. – Ma ascoltiamo attentamente il resto delle parole dell’Apostolo: « Io dico questo, fratelli miei. Il tempo è breve; perciò, quelli che hanno mogli siano come se non ne avessero, e quelli che piangono come se non piangessero, e quelli che gioiscono come se non gioissero, e quelli che comprano come se non possedessero, e quelli che usano del mondo come se non ne usassero; perché la figura di questo mondo sta passando. E per quanto mi riguarda, vorrei che foste spensierati. Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore; cerca di piacere al Signore per compiacere il Signore; ma chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, cerca di compiacere sua moglie, ed è diviso. Allo stesso modo, la moglie: la donna non sposata e la vergine sono attente alle cose del Signore, per essere sante nel corpo e nello spirito; ma la donna sposata è attenta alle cose del mondo, cercando di piacere a suo marito. Ora lo dico per il vostro bene non per gettare una rete su di voi, affinché siate uniti a Dio senza lotte o divisioni. » – Questo è il pensiero di San Paolo sulla verginità. Potrebbe esserci qualcosa di più chiaro? Per riassumere, la verginità è buona, è da raccomandare, e questo per due motivi: in primo luogo, a causa degli imbarazzi che lo stato di matrimonio porta con sé, e in secondo luogo, a causa dell’eccellenza di una condizione in cui, liberati dalla sollecitudine della vita che è così breve, e che in ogni momento ci sfugge, possiamo con piena libertà occuparci degli affari della salvezza, servire Dio, e adempiere alla nostra preghiera. Queste ragioni, come possiamo vedere, non hanno alcuna connessione, nemmeno apparente, con l’ipotesi di una prossima fine del mondo; perché, sia che supponiamo che il mondo sia sul punto di finire o che gli diamo migliaia di anni di durata, esse conservano invariabilmente la stessa forza, lo stesso peso, lo stesso valore. Eppure il modernismo non si arrende. Con una sola voce predica e proclama che i consigli evangelici sulla continenza volontaria e la povertà procedono direttamente dalla previsione di un’imminente fine dei tempi, da quella preoccupazione costante, per non dire ossessione, che avrebbe pesato sui pensieri di Gesù Cristo e dei suoi Apostoli come un incubo. È incredibile, ho letto in una recente storia della Chiesa, che non è senza una grande reputazione di erudizione e di scienza, e precisamente nel capitolo che tratta dell’organizzazione e della vita delle prime comunità cristiane secondo le lettere di San Paolo, questa sorprendente frase: « La verginità assoluta era lodata, e persino raccomandata, in vista dell’imminenza dell’ultimo giorno » (L. Duchesne, Histoire ancienne de l’Église (Parigi, 1906) tom. I, cap. 4, pagina 47). Certamente, non è più confermativo questo in vista dell’ultimo giorno, ove l’avrebbe visto lo storico? Se San Paolo avesse taciuto sulle ragioni che gli facevano raccomandare la continenza, si poteva porgere a scusante che l’autore, desideroso di fornire  spiegazioni plausibili su un punto importante, si sarebbe ritenuto autorizzato a supplire al silenzio dell’Apostolo, secondo le proprie idee. Ma no, San Paolo si è spiegato, e nel modo più chiaro, più categorico e più intelligibile del mondo. Ha detto che raccomanda la verginità, vedendo prima instantem nécessitatem del versetto 26, che ovviamente porta alla tribulatio carnis del verso seguente; vedendo poi, eprincipalmente, e soprattutto, l’alta convenienza di ciò che facilitava præbet sine impedimenio Dominum obsecrandi [versetto. 35). Invece di questo, si scrive senza battere ciglio, senza glosse, né spiegazioni,né commento: “in vista dell’imminenza dell’ultimogiorno”. Ma in verità, è troppo un abusare della semplicità del lettore, se non lo si avverte, è dargli una ragione troppo buona per concludere che, finché l’ufficio dello storico non consiste nel sostituire le proprie fantasie all’autorità dei documenti, un libro così fatto mancherà sempre delle garanzie che la dignità e la serietà della storia richiedono.

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Ciò che abbiamo detto finora sembrerebbe quindi più che sufficiente per stabilire il vero significato dei passi in cui la venuta del Signore è data dagli Apostoli come prossima, e per mostrare chiaramente quanto questo significato sia diverso da quello dato loro dall’esegesi protestante e modernista. Tuttavia, per non tralasciare nulla che possa contribuire ad illuminare la religione del lettore su un punto di così grande importanza, aggiungiamo, a conferma delle precedenti conclusioni, alcune nuove considerazioni, che ora ci verranno fornite principalmente dalle epistole di San Pietro. Nel quarto capitolo della prima, il Principe degli Apostoli raccomanda ai Cristiani che aveva evangelizzato, che durante il breve tempo che rimaneva loro in questa vita mortale, vivessero non più secondo le concupiscenze degli uomini, ma secondo la volontà di Dio. « Basta – scriveva loro – col tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo, vivendo nelle dissolutezze, nelle passioni, nelle crapule, nei bagordi, nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli. Per questo trovano strano che voi non corriate insieme con loro verso questo torrente di perdizione e vi oltraggiano. Ma renderanno conto a Colui che è pronto a giudicare non solo i vivi ma anche i morti … ». E l’Apostolo mostra, nel contempo, con il fatto della discesa agli inferi (altrimenti detto Sheol, la dimora dei morti) che la sovranità di Cristo si estende anche ai morti; e che su di loro, e già ora, senza dover aspettare il giorno dell’ultima risurrezione, si esercita il suo giudizio. (Versetto 6: Propter hoc enim et mortuis evangelizatum est, da confrontare con il versetto 19 del capitolo precedente: His qui in carcere erant spiritibus veniens prædicavit). Ora – egli continuava – la fine di tutto è vicina: omnium autem finis appropinquavit. E cosa significa questo … “la fine di tutto”? Senza difficoltà: o la fine di ogni uomo in particolare, o, meglio ancora, la fine di tutti coloro che erano in questione, sia i pagani che bestemmiavano, sia di quelli che volevano riprendere i loro antichi disordini; per tutti loro la morte era vicino, e con la morte, il giudizio per il quale sono giudicati i morti. (È a torto che si traduce “Πάντων δὲ τὸ τέλος ἤγγικεν” – omnium autem finis  appropinquavit  con: la fine di tutte le cose è vicina, come se Πάντων [panton] fosse qui il genitivo del neutro “Πάντα”, e non invece  – come come lo indica il contesto e tutto il resto del ragionamento – il genitivo del maschile “Πάντες” [pantes]: dovrebbe quindi essere tradotto: “è vicina la fine di tutti”, cioè di tutti quelli di cui si parla nei quattro versetti precedenti, cioè i pagani blasfemi e i Cristiani convertiti). Da qui segue, infine, in modo del tutto naturale, l’esortazione a prepararsi che riempie il resto del capitolo, e che è diviso in due parti. Prima di tutto (versetti 7-11), la raccomandazione delle virtù che costituiscono la base comune e invariabile della vita cristiana in generale: … siate prudenti e sobri per dedicarvi nella preghiera, e soprattutto abbiate ardente carità gli uni per gli altri… Ognuno metta il dono che ha ricevuto da Dio al servizio del suo prossimo, ecc. Dopo (versetti 12-19) ci sono gli avvisi speciali dati in vista delle circostanze particolari che la Chiesa stava attraversando, ed è qui, come è naturale, che cercheremo le informazioni più affidabili e autorevoli sulle idee del prossimo futuro che preoccupavano l’Apostolo. Ma cosa troveremo lì? Niente di niente di qualsiasi cosa che vada nella direzione delle conclusioni della nuova scuola. Solo una cosa è stata messa in prospettiva, e non la conflagrazione generale che precederà l’arrivo del Giudice, né lo scuotimento delle potenze del cielo che metterà tutti gli abitanti della terra nel terrore, né lo schianto che accompagnerà la dissoluzione della macchina del mondo, ma semplicemente la persecuzione che aveva già cominciato ad abbattersi sulla Chiesa, e che doveva essere esercitata quasi senza sosta per circa tre secoli. San Pietro stava preparando i fedeli affidati alle sue cure a sopportare l’urto di questa prova, e qualunque cosa si dicesse o facesse, non si poteva trovare nelle sue parole alcun accenno a qualsiasi altra preoccupazione o timore di altro genere: « Miei cari – egli continuava – non stupitevi del fuoco della persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per mettervi alla prova, come se vi fosse successo qualcosa di straordinario. Ma nella misura in cui avete parte alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, in modo che quando la sua gloria sarà manifestata, anche voi possiate essere nella gioia ed esultare. Se siete oltraggiati per il nome di Cristo, siate lieti, perché lo Spirito di gloria, lo Spirito di Dio, riposa su di voi. Che nessuno tra voi soffra come assassino, come ladro, come malfattore, o come uno che è avido del bene degli altri. Ma se soffre come Cristiano, non si vergogni, anzi glorifichi Dio proprio per questo stesso Nome. Perché questo è il tempo in cui sta per iniziare il giudizio (per metterlo alla prova e purificarlo) dalla casa di Dio. » – La stessa osservazione può essere fatta sulla seconda Epistola, che fu, come tutti sanno, il testamento dell’Apostolo: l’epistola in cui, dopo aver annunciato la sua fine imminente, rivolgeva le sue ultime raccomandazioni ai fedeli, dicendo che credeva fosse suo dovere, finché era in questa vita mortale, tenerli svegli con i suoi avvertimenti, e fare in modo che dopo la sua morte se ne ricordassero sempre (I, 13-15). Ora, questi avvertimenti che riempiono tutto il corpo della lettera, dalla seconda metà del primo capitolo fino all’epilogo compreso, su cosa vertevano? Sempre e solo, sui pericoli che minacciavano la Chiesa, e questa volta, sulla persecuzione che è la più terribile di tutte, che sarebbe venuta da falsi maestri e predicatori di eresie. Proteggere i Cristiani che egli aveva generato a Gesù Cristo dalla seduzione delle molte eresie pronte a sorgere, questo era l’intero scopo del supremo addio di San Pietro a loro, al momento della sua partenza. E se, alla fine, menziona la parusia, non è per suggerire che sia imminente, ma per denunciare e screditare in anticipo gli schernitori che, a causa del presunto ritardo del Signore nell’adempimento della sua promessa, avrebbero argomentato contro la verità della promessa stessa, come è già stato detto. E ora, chiedo, come si può immaginare che, prendendo congedo da coloro che pensava stessero per essere sorpresi vivi dalla terribile catastrofe, egli avrebbe trascurato la singolarità di una situazione così tragica? Qual è l’apparenza, soprattutto, con la quale egli avesse voluto, in questa occasione, dissimulare i suoi pensieri sulla prossimità dell’evento, ricorrendo alla considerazione artificiale dei mille anni che davanti a Dio sono l’equivalente del giorno passato ieri? È quindi una nuova e manifesta negazione, che si aggiunge a tante altre, che nelle forme più varie, tutte le pagine del Nuovo Testamento si oppongono alla tesi modernista.

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Ma c’è un’ultima considerazione che domina tutto il resto, e che basterebbe da sola a mettere al suo posto (cioè la pattumiera -ndt.- ) l’affermazione degli avversari. È che, lungi dal suonare “a morto” la campana del mondo, le Epistole apostoliche hanno suonato piuttosto il rinnovamento di esso: questo magnifico rinnovamento che il Vangelo e la grazia di Gesù Cristo gli hanno portato. In esse vi vediamo la restaurazione di tutte le cose in Cristo, e non solo di quelle che riguardano la vita futura, ma anche di quelle che sono della terra e del buon ordine della vita presente. Restaurazione della società politicaState sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio. Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re. » (1 Petr. II, 13-17), – « Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. I governanti, infatti, non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo, dunque. dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi l’onore, l’onore. » (Rom., XIII, 1-7). Ripristino della società coniugaleUgualmente voi, mogli, state sottomesse ai vostri mariti perché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati considerando la vostra condotta casta e rispettosa. Il vostro ornamento non sia quello esteriore – capelli intrecciati, collane d’oro, sfoggio di vestiti -; cercate piuttosto di adornare l’interno del vostro cuore con un’anima incorruttibile piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio. Così una volta si ornavano le sante donne che speravano in Dio; esse stavano sottomesse ai loro mariti, come Sara che obbediva ad Abramo, chiamandolo signore. Di essa siete diventate figlie, se operate il bene e non vi lasciate sgomentare da alcuna minaccia. E ugualmente voi, mariti, trattate con riguardo le vostre mogli, perché il loro corpo è più debole, e rendete loro onore perché partecipano con voi della grazia della vita: così non saranno impedite le vostre preghiere. » – 1 Petr. III, 1-7). – « … Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore … il marito infatti è capo della moglie …, … così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso … » (Ef., v, 22-33). – Restaurazione della società domestica in tutte le sue parti e dipendenzeVoi servi, siate soggetti ai vostri padroni con ogni tipo di rispetto, non solo a chi è buono e gentile, ma anche a chi è difficile. Perché è gradito a Dio che per amor suo si sopporti una pena ingiustamente inflitta… Questo è ciò che siete stati chiamati a fare, poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un modello, affinché seguiate le sue orme. » (1 Petr. II, 18-23), – « Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto. Onora tuo padre e tua madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra. E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell’educazione e nella disciplina del Signore. Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo, e non servendo per essere visti, come per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, compiendo la volontà di Dio di cuore, prestando servizio di buona voglia come al Signore e non come a uomini. Voi sapete infatti che ciascuno, sia schiavo sia libero, riceverà dal Signore secondo quello che avrà fatto di bene. Anche voi, padroni, comportatevi allo stesso modo verso di loro, mettendo da parte le minacce, sapendo che per loro come per voi c’è un solo Signore nel cielo, e che non v’è preferenza di persone presso di lui. »  (Ef., VI. 1-9). – Cfr. Colossesi, III, 18-25; IV, 1, ecc.). – Restauro di tutta la società umana, nelle diverse classi che la compongono, e i doveri reciproci di giustizia e carità che li legano gli uni agli altri (Jacob., II, 1-17, e V, 1-6; 1 -Joan., III, 11-24, ecc.). Meditiamo su queste pagine meravigliose, e si dica pure che essi furono dominati dall’idea che il mondo stava per finire – coloro che le scrissero – che posero in esse con tanta lungimiranza le basi per la ricostruzione di tutto l’ordine sociale, sia pubblico che privato, che con mano così sicura stabilirono i principi di quella mirabile civiltà cristiana che i secoli a venire dovevano vedere sorgere sulle rovine della barbara civiltà del paganesimo! Che si sostenga questo, che si osi sostenerlo, … sarebbe un insulto alla ragione, una sfida al senso comune, il più paradossale delle impertinenze che sia mai apparsa nella lista, per quanto lunga, delle aberrazioni umane. – Eppure, qualcuno dirà qui, tutte le ragioni addotte finora non cancelleranno i numerosi passaggi in cui gli Apostoli dichiarano in termini espliciti che al loro tempo, gli ultimi giorni, l’ultima ora del mondo, la fine, la consumazione dei secoli era arrivata. Al che rispondiamo che, senza dubbio, non li sopprimono, ma che garantiscono già una spiegazione completa e soddisfacente; che, inoltre, questi passaggi costituiscono una nuova categoria di testi che richiedono chiarimenti particolari da riservare all’articolo seguente.

LA PARUSIA (8)

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (5) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (II)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (5)

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE, AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (II)

Avete altri dubbi da farmi? E se i Principi stessi e le Podestà del secolo vietassero al Pastore di annunziare la verità della Fede, di opporsi agli empii, e di pascere il suo popolo; in tal caso deve il Pastore ubbidire e tacere? Rispondo, che il Pastore in questo caso né deve accettare il comando, né deve ubbidire. Un Vescovo non ha la sua missione dal Principe, ma da Dio. Accettando e ubbidendo a un ordine di questa sorte, viene implicitamente a riconoscere l’autorità del Principe come superiore a quella di Dio. Mi spiego anche meglio. L’obbligo d’un Vescovo di pascere il suo popolo non solo è precetto Ecclesiastico, ma ancora divino. Dunque non v’è nel mondo autorità nessuna, che possa distruggerlo e dispensarlo. Solo la Chiesa, come giudice della Fede, può prescrivere ciò che devesi insegnare, o tacere, per eseguire questo divino precetto. Non tocca all’autorità laica il prescrivere i dogmi da insegnarsi, o da porsi in silenzio. Chi si presta timoroso a un simil comando, viene a riconoscere tacitamente la podestà laica per giudice della Fede. E questa non sarebbe una specie d’apostasia in un Vescovo? – Avete mai letto nelle Scritture, che Geroboamo, Ozìa, Acabbo, e Giosìa mandassero i Profeti a predicare ad Israele e a Giuda? Io vi ho dato per Profeta alle genti: disse Dio (Ier. 1, 5) a Geremia. Udite, o cieli, e tu ascolta, o terra, perché Dio è quegli, che parla: diceva (Isaî. 1, 2) Isaia. Ecco la parola del Signore, che si è fatta sentire ad Osea: così si legge nel primo capo(Ose. I, 1) di questo Profeta, e così si ripete in tutti gli altri. Poterono bene le podestà del secolo perseguitare un Elia, un Geremia,e tant’altri profeti; ma questi non tacquero, e la loro persecuzione fu alfine vendicata da Dio. Avete forse letto nel Vangelo, che Erode mandasse Giovanni Battista a predicare nel deserto? – Voi troverete tutto all’opposto, che Giovanni fu mandato da Dio (Joan. I, 16) Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Ioannes. E perché Giovanni era mandato da Dio, non ebbe timore di protestare ad Erode più volte che non gli era lecito l’aver la moglie di suo fratello: Non licet te habere uxorem fratris tui (Marc. VI, 18) sicché per la libertà del suo predicare perdette la vita.Avete voi letto, che Cesare, o Pilato spedissero gli Apostoli a predicare? Io ho ben letto, che Gesù Cristo gli elesse, e gli spedì senza il rescritto di Augusto per tutta la Giudea (Math. X, 5et sequ.). Questi dodici furono mandati da Gesù. Hos duodecim misit Jesus. E insieme prescrisse loro quello, che doveano predicare;fu Gesù, che loro il prescrisse, e non il Re, né il Governatore della Giudea, né Cesare. Andate e predicate dicendo, che si è avvicinato il Regno de’ Cieli: Euntes autem prædicate dicentes: Quia appropinquavit regnum cœlorum. Sapeva Gesù Cristo che avrebbero per questo incontrato degli oppositori: vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; ecce ego mitto vos in medio luporum.Ma non per questo insegnava loro a tacere, ma bensì a parlare, promettendo ad essi di mettere la parola dello Spirito Santo sulle loro labbra. « Cum autem tradent vos, nolite cogitare, quomodo, aut quid loquamini: dabitur enim vobis in illa hora, quid loquamini. Non enim vos estis qui loquimini, sed Spiritus Patris vestri, qui loquitur in vobis. (E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi) [Matt. X, 19]. » In fine dopo la sua risurrezione gli spedisce a promulgare il suo Vangelo non più alla sola Giudea, ma a tutta la terra (Marc. XVI, 15). Et dixit eis: Euntes in mundum universum prædicate Evangelium omni creaturæ. – Con questa missione divina gli Apostoli predicarono in ogni luogo senza punto dipender dalla secolar podestà. (Marc. XVI, 20). Illi autem profecti prædicaverunt ubique. Quando gli Apostoli dopo aver ricevuto lo Spirito Santo salirono (Act. III, 4) in pulpito ad annunziare la nuova legge; non presero il rescritto del Governatore a questo fine. Dissero e predicarono liberamente secondo l’istinto del divino Spirito: Prout Spiritus Sanctus dabat eloqui illis. Se Pilato avesse loro proibito di entrare in alcune questioni, avrebbero essi dovuto ubbidire a Pilato, o pure allo Spirito Santo, che gl’ispirava diversamente? Ora i Vescovi sono i successori degli Apostoli; e gli eredi della loro ordinaria autorità e della divina missione. Non possono dunque e non devono dipendere dalla secolare podestà nella predicazione della Fede. Se fanno diversamente, vengono tacitamente a riconoscere nella podestà temporale un’autorità superiore a quella di Cristo. Poterono è vero i Sacerdoti e i Magistrati del Tempio imprigionar per questo gli Apostoli: fecero anche loro divieto di non insegnar più nessun dogma nel nome di Gesù Cristo (Act. IV, 18). Et vocantes eos denuntiaverunt, ne ommnino loquerentur, neque docerent in nomine Iesu. Ma per questo gli Apostoli ubbidirono? No: ma Pietro, e Giovanni a nome anche degli altri risposero, che la loro missione era da Dio, e che rimettevano al giudizio altrui, se era lor debito il prestar orecchio piuttosto ad essi, che non a Dio (Ibi, v. 19). Si iustum est in conspectu Dei, vos potius audire quam Deum, iudicate. Non enim possumus, quae vidimus, et audivimus, non loqui.Di nuovo sono arrestati gli Apostoli per la libertà del lor predicare;e Iddio per mostrare che la sua Chiesa non dipende da nessuno, spedisce dal cielo un Angelo, che (Act. V, 19 et segg.) apre le porte della prigione, e gli manda un’altra volta a predicare nel Tempio. Se i Giudei avessero avuto diritto d’impedireagli Apostoli di predicare, avrebbe mai Dio approvata con un miracolo la disubbidienza de’ suoi predicatori? E che risposero dopo. questo gli Apostoli ai Magistrati, i quali gl’interrogarono, perché avessero trasgrediti i lor comandi? Risposero con coraggio apostolico,che bisognava ubbidire prima a Dio, e poi agli uomini (Act.IV,19et V, 29). Obedire oportet Deo magis, quam hominibus. I Magistrati gli fanno battere, e intimano loro di nuovo l’istesso divieto: Ne omnino loquerentur in nomine Jesu (Act. V, 40). E gli Apostoli? (Ibi v. 42). Omni die non cessabant in templo, et circa domos, docentes, et evangelizantes Christum Jesum. – E ogni giorno, nel tempio e a casa, non cessavano di insegnare e di portare il lieto annunzio che Gesù è il Cristo).Ecco l’esempio della libertà evangelica necessaria ne’ Pastori. in tempo di persecuzione e in ogni tempo. Non è stato il Vangelo. pubblicato dal Principe, ma da Dio. Tocca dunque ai Pastori suoi ministri il divulgarlo come, e quando, e dove lor piace. Anche il principe è pecora dell’ovile di Gesù Cristo. Non appartiene alle pecore il regolar la voce del Pastore. Al Pastore appartiene. il pascere, il correggere e lo sgridare le pecore. Ha il Pastore. anch’egli a chi render conto della sua predicazione, cioè a Quegli,che lo ha mandato. Ma se il Pastore temesse tanto le minacce di una pecora, che si lasciasse da lei chiuder la bocca, e non ardisse per rispetto di lei di sgridare i lupi, guai a questo Pastore. Egli sottoporrebbe il comando del suo padrone a quello di una pecora.Non ne riporterebbe dunque perciò un’eterna confusione, avendo avvilito in questa guisa l’autorità divina, e il proprio ministero? –  Quando Costanzo Imperatore nell’an. 638 pubblicò il famoso Tipo (Concil. Lateran. Secret. 4) in cui ordinò, che nessuno dei suoi sudditi altercasse o contendesse contra i Monoteliti, a lor favore,ubbidì forse la Chiesa a quest’Editto? Noi sappiamo, che il. Capo stesso della Chiesa, il Santo Papa Teodoro depose subito Paolo. Patriarca di Costantinopoli, per essere stato autore a Costante di. un tal comando. E pure i Monoteliti non erano stati condannati da un Concilio di Laterano intorno al Tipo di Costante? (Concil.Later. Secret. 4). « Relectus Typus bonum quidem intentum habere dignoscitur; dissonantem autem virtutem intentui continet. Bonum est namque procul dubio… cohibere dissensiones, et altercationes pro causa fidei; sed non est utile, et bonum cum malo, destruere bonum, id est cum hæreticis orthodoxorum Patrumverba, et dogmata; quoniam hoc potius exurit, non enim mitigat merito controversiarum statum nullo videlicet patiente denegare cum impietate hæretica venerabile verbum fidei… Sufficit nobis Patriarchæ voce Serenissimum Principum alloqui… ( Gen. 18).Nullo modo tu facies secundum hoc verbum, ut interficias iustum cum impio, et erit iustus sicut impius… Propterea intentum Typi bonum laudamus, sed modum ab intentu dissonantem avertimur: quoniam omnino est inconveniens Catholicæ Ecelesiæ regulæ, in qua utique adversa tantummodo iubentur merito sepeliri silentio. » In fine, che uso fa del Tipo medesimo. il Concilio di Laterano? Lo condanna, e vuole che siano condannati tutti quelli che non lo condannano (Concil. Later. an. 649, can.18). Si quis… » non anathematizat anima, et ore… scelerosum Typum, qui ex suasione Pauli nuper factus est a Serenissimo Principe Costantio Imperatore contra Catholicam Ecclesiam, utpote cum Sanctis Patribus, et scelerosos hæreticos ab omni reprehensione, et condemnatione iniuste liberari definientem, in amputationem catholicæ Ecclesiæ definitionum, seu regulæ… huiusmodi condemnatus sit. » E quando poi si volle persuadere a S. Massimo Abate di ricevere il Tipo, che metteva la pace dall’una parte e dall’altra, che fece il S. Abate? Si gettò in terra, e colle lagrime agli occhi (Mans Concil. tom. 11, col. 8) rispose: Non debuerat contristariî benignus, et pius dominus adversus humilitatem meam; non enim possum contristare Deum tacens, quæ ipse nos. loqui, et confiterî præcepit. Non ho io detto a ragione sin da principio, che la Scrittura, i Padri, i Concili e gli esempii de’ Santi istruiscono abbastanza un Pastore del suo dovere in tempo di persecuzione? –  E che diremo poi, se il Principe istesso errasse nella fede e nei costumi, e direttamente o indirettamente perseguitasse la Chiesa e le sue leggi, e la spogliasse della sua autorità e de’ suoi privilegi? È forse tenuto un Vescovo ad annunziare anche al Principe la verità, ad ammonirlo e a correggerlo coll’ecclesiastica verga, se faccia bisogno? Io non credo, che si possa (Concil. Mediol. edit. Lugd. p. 66, col. 2) porre in dubbio questo debito del Pastore da chiunque rifletta, che cosa è Chiesa, e che cosa sono i Cristiani. La Chiesa è un ovile; il Vescovo è il Pastore; i Cristiani sono gli agnelli. Anche il Principe è un agnello di questa greggia. Da chi dunque si deve pascere il Principe cristiano, da chi ammonire, da chi correggere, se non se dai Pastori della Chiesa? Chi dovrà render conto della sua perdita, e della perdita degli altri, a cui il Principe fu d’inciampo, di rovina, di scandalo, se non colui che dovea guidarlo al pascolo cogli altri agnelli? Ecco che cosa disse Iddio a Geremia, quando lo mandò a predicare, e a profetare sotto il Regno di Giosia Re di Giuda (Ier.I, 18). Ego quippe dedi te hodie in civitatem munitam, et in columnam ferream, et in murum aereum, super omnem terram, Regibus Iuda, Principibus eius, et Sacerdotibus, et Populo terræ [Ed ecco oggi io faccio di tecome una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese]. Era uno scandalo pubblico quello, che commetteva Erode col tenere la moglie di suo fratello, e S. Giovanni Battista si credeva obbligato (Marc. VI, 18) ad intimargli, che ciò non era lecito: Non licet. Infine S. Paolo scrivendo a Timoteo, non gli prescrive soltanto la condotta, che deve tenere col volgo, (1 Timoth. VI, 17, et sequ.) anche il comando, che deve esercitare coi Grandi del secolo: Divitibus huius saeculi præcipe: se bene agere. [Ai ricchi in questo mondo raccomanda … di fare del bene]. È soverchio il provar questo punto (S. Gregor. Nazianz. orat. ad cives. et Chrysost. 1.3 de Sacerd. Ambros. de dign. Sacerd. c.2, Gregor. Magn. ad Maurit. Bellarm. de offic. Princip. 1.1, c.5), che da nessun Cattolico è mai stato messo in dubbio. Quis enim dubitat, scriveva S. Tommaso Arcivescovo di Cantuaria (ad Episc. Angliae Labbé tom. 13, col. 79), Sacerdotes Christi Regum, et Principum , et omnium Fidelium Patres, et Magistros censeri? Dunque anche i Principi sono tenuti ad ubbidire ai Vescovi nelle cose spirituali, come agnelli ai pastori, come figliuoli ai padri, come discepoli ai maestri; e i Vescovi sono obbligati ad invigilare (Vid.Lucifer. Calarit. de non parcendo in Deum delinquentibus), sui Principi, come maestri sui discepoli, come padri sui figliuoli, come pastori sugli agnelli. Dunque sarebbe delitto per un Vescovo il dissimulare i peccati, i sacrilegii, gli errori e le usurpazioni dei Principi. « Ex Sacris Scripturis, scriveva il Bellarmino (respons. ad duos libellos Colon. Agrip. an.1607, pag.15), quæ ius divinum positivam complectuntur, Sacerdotes Pastores sunt; Laici quamvis Principes oves; Sacerdotes patres, Laici filii; ac iusta naturæ inductionem, quia ius divinum naturale est, ovis pastori, non illi pastor parere debet; filius itidem patri, non pater filo. » Volendo il Re Chilperico, a sommossa della Regina Fredegonda, opprimere il Vescovo Pretestato, il quale era stato calunniosamente accusato di lesa maestà, vi si oppose S. Gregorio Turonense; ed ecco in qual maniera ammonì gli altri Vescovi, i quali non osavano di resistere alla volontà del Re (Hist. Francor. 1.5, c.19). « Attenti estote sermonibus meis, o sanctissimi Sacerdotes Dei; et præsertim vos, qui familiariores esse Regi videmini. Adhibete ei Concilium sanctum, atque Sacerdotale, ne excandescens in Ministrum Dei pareat, ac ira eius et regnum perdat, et gloriam.» E perchè essi a queste parole tacevano, vi aggiunse. « Mementote, Domini mei Sacerdotes, verbi prophetici, quod ait: Si viderit speculator iniquitatem hominis, ct non dixerit, reus erit animæ pereuntis. Ergo nolite silere, sed prædicate, et ponite ante oculos Regis peccata eius, ne forte ei aliquid mali contingat, et vos rei sitis pro anima eius. » Così narra questo fatto lo stesso S. Gregorio. Un altro esempio ci somministra egli della pastoral fermezza. Domandava Chilperico, che suo figlio Meroveo, fosse espulso dalla Chiesa, in cui erasi rifugiato; ma non potè ottenere dal Santo, benché gli minacciasse di far incendiare tutto quel paese, ch’egli concorresse alla violazione dell’ecclesiastica Immunità (l8.5, cap. 14). « Chilperieus nuntios ad nos direxit dicens: Eiicite Apostatam illum de Basilica; sin autem aliud totam regionem illam igni suecendam. Cumque nos rescripsissemus, impossibile esse, quod temporibus hæreticorum non fuerat, Christianorum temporibus nunc fieri, ipse exercitum commovet, et illuc dirigit.  … cacciate l’eretico fuori dalla basilica …] » Troppo nota è l’ecclesiastica libertà, con cui rispose il Vescovo Osio a Costanzo, il quale volea da lui estorcere la sottoscrizione alla condanna dell’innocente Atanasio (apud Atanas. epist. Ad solit. et apud Mansi Concil. tom. 3, col. 246). « Desine quæso, et memineris te mortalem esse; reformida diem iudicii; serva te in illum diem purum, ne te misceas ecclesiasticis, neque nobis » in hoc genere præcipe, sed potius ea a nobis disce. Tibi Deus Imperium commisit; nobis quae sunt Ecclesiæ coneredidit. Et quemadmodum qui tuum Imperium malignis’ oculis carpit, contradicit ordinationi divinæ: ita et tu cave, ne, quae sunt Ecclesiæ, ad te trahens, magno crimini obnoxius fias. Date, scriptum est, quae sunt Cæsaris Casari, et quae sunt Dei Deo. Neque enim fas est nobis in terris Imperium tenere: neque tu thimiamatum et sacrorum potestatem habes, imperator. Hæc quidem ob curam tuæ salutis seribo: et de iis, quae in epistolis scribis, hanc meam sententiam accipe. Ego neque Arianis assideo, neque suffragor, sed eorum haeresim anathemate damno: neque in Athanasium accusationibus subscribo, quem nos et Romana Ecclesia, et universa Synodus innocentem pronunciavit. » Queste erano l’espressioni, che suggeriva ai Vescovi anche negli ultimi tempi l’immortale Benedetto XIV, dove vietava ad essi di riconoscere nella secolar podestà il diritto d’intimare pubbliche preghiere nelle Chiese, o di prescriverne le formole (Constit. Quemadmodum preces. §. 6. Bullar. tom. 1). « Sin autem, quod Nobis persuadere non possumus, laicalis aliqua Potestas usu, vel consuetudine aliqua (quæ abusus revera dici debet) praesumat auctoritatem vestram in hoc minime agnoscere, sed iure suo directe velit publicas preces indicere, immo et poenam parere renuentibus statuere audeant; loquiminor et Vos, quemadmodum Osius ad Imperatorem loquutus est. » Converrebbe scorrer tutta la lettera prima dal S. Pontefice Felice III diretta ad Acacio, e nella quale egli lo riprende per la sua dissimulazione contro gli eretici e gl’invasori, e per la sua taciturnità su questo particolare coll’imperator Zenone. Ecco che cosa fra le altre esso gli scrisse (Mansî Concil.t. 7, col. 1028, et sequ.) « Cur eorum, frater, quærere semitas veteres nunc relinquis? Cur irruentibus in ovile dominicum lupis nulla vigilantia ministerii pastoralis obsistis, sed æquanimiter atque securus commissum gregem aut laniari perspicis, aut necari? Non dicentem recolis Dominum, et animam suam quidem pro ovibus ponere pios pro devotione pastores; mercenarium autem de his curam penitus non habentem, mox ut bestiam forte conspexerit, sine ulla diffugere consideratione testantem?… Diligenter attende, nihil aliud esse, non procurare quæ Christi sunt, nisi se palam profiteri eius inimicum… Atque ideo, cum ita sit, moneo, hortor, et suadeo, ut quæ commissa sunt corrigas, el sequentibus studiis de te facias meliora sentire. Negligere quippe, cum possis deturbare perversos, nihil est aliud quam fovere. Non caret scrupolo societatis occultæ, qui evidenti facinori desinit obviare….. Verumtamen, salvo eo, quod in die iudicii talem a nobis Ecclesiam, certum est, qualem a patribus accipimus, exigendam; etiam in hac vita se ad eam non pertinere cognoscat, qui quippe, cum possis deturbare perversos, nihil est aliud quam fovere. Non caret serupolo societatis occultae, qui evidenti facinori desinit obviare….. Verumtamen, salvo eo, quod in die iudicii talem a nobis Ecclesiam, certum est, qualem a patribus accipimus, exigendam; etiam in hac vita se ad eam non pertinere cognoscat, qui non solum plenitudini eius noxia conatur inferre, sed etiam qui es, quæeidem congruentis sunt, dissimulat providere. » – né già per questo si credé dispensato il S. Pontefice dal fare istanza egli stesso presso l’imperatore per il bene della Chiesa con quella schiettezza e libertà, che richiedeva il suo pastoral magistero, come può vedersi dalla di lui lettera seconda e nona, nella quale così conchiude (Mansi ibid. col. 1066). « Et ex hoc quidem de his hominibus conscientiam meam ante tribunal Christi causam dieturus absolvo. Vestræ mentis intererit magis ac magis cogitare, et in rerum præsentium statu sub divina nos exam natione subsistere, ac post huius vitae cursum ad divinum consequenter venturos esse iudicium. » – Imperocchè aveano presenti questi Santi Pontefici la risposta, che dà S. Girolamo a quelli, che negano di parlare, perché non sono ascoltati. In Ezech. cap. 33. « Nec statim respondeamus: quid prodest docere, si nolit auditor facere, quae docueris? Unusquisque enim ex suo animo atque officio iudicatur: Tu si loquutus non fueris: ille, si audire contempserit. »  – La Chiesa è stata sempre così gelosa della paterna e pastorale autorità dei Vescovi, che ha loro espressamente proibito l’umiliare colla podestà temporale non solo la loro giurisdizione, ma persino il loro decoro. Basta leggere per tutti su questo proposito l’ultimo general Concilio di Trento (Concil. Trid. sess. XXV, c. 17 de ref.), il quale nello stesso tempo ricorda, anzi comanda ai Principi di onorare e rispettare i Vescovi come lor Padri. Eccone i termini precisi: « Non potest Sancta Synodus non graviter dolere, audiens Episcopos aliquos, sui status oblitos Pontificiam dignitatem non leviter debonestare, qui cum Regum ministris, Regulis, et Baronibus in Ecclesia, et extra indecenti quadam demissione se gerunt, et veluti inferiores ministri altaris, nimis indigne non solum loco cedunt, sed etiam personaliter itlis inserviunt. Quare hæc, et similia detestans Sancta Synodus, sacros canones omnes, Conciliaque generalia, atque alias Apostolicas sanctiones ad dignitatis decorem, et gravitatem pertinentes renovando, praecipit, ut ab huiusmodi in posterum Episcopi se abstineant; mandans eisdem, ut tam in Ecclesia, quam foris suum gradum, et Ordinem præ oculis habentes, ubique se Patres, et Pastores esse meminerim; reliquis vero tam Principibus, quam cæteris omnibus, ul cos paterno honore, ac debita reverentia prosequantur. [Il santo Sinodo non può non rammaricarsi grandemente, sentendo che alcuni vescovi, dimenticando il loro stato, abbassano non poco la loro dignità episcopale, comportandosi in Chiesa e fuori di essa con indecente servilismo con ministri regi, governatori, baroni, e quasi fossero inservienti di second’ordine all’altare, non solo danno ad essi la precedenza, senza alcuna dignità, ma li servono anche personalmente. Perciò questo santo Sinodo, detestando queste e simili manifestazioni, rinnovando tutti i sacri canoni e i concili generali e le altre disposizioni apostoliche, che riguardano il decoro e la maestà della dignità vescovile, comanda che in avvenire i vescovi si astengano da questo modo di agire e che, in Chiesa e fuori abbiano dinanzi agli occhi il loro grado e il loro ordine e si ricordino dovunque di essere padri e pastori. Esorta, poi, i principi e tutti gli altri a trattarli con l’onore dovuto ai padri e con la debita riverenza.] » – Provati questi doveri d’un Vescovo col suo popolo e col Capo del popolo istesso, in ogni tempo, e massime in tempo di persecuzione, resta a fare un’altra domanda; cioè in che modo dovrà esercitare il Vescovo questo dover d’istruzione colle sue pecore, coi suoi figliuoli, coi suoi discepoli. Rispondo con una risposta sicura e con una decisione inappellabile. Il Vescovo dovrà tener quella strada, e quei mezzi, che la Chiesa assistita dallo Spirito Santo, dietro gl’insegnamenti di Gesù Cristo e de’ Padri, ha prescritti al Vescovo istesso. Chi potrà rifiutare l’indirizzo o l’istruzion della Chiesa sua Madre? Ora io trovo nel Concilio di Trento (Sess.13, cap. de refor.) disegnata a un Pastore tutta la traccia della sua pastorale condotta in questo particolare. Ricorda dunque il Concilio ai Vescovi, primo, di procurare di tener lontani i lor sudditi dal mal fare coll’esortazioni e coll’ammonizioni: « Elaborent, ut hortando, et monendo ab. illicitis deterreant; e perché? ne ubi deliquerint, debitis eos pocnis coercere cogantur. » Secondo: di rimproverarli, e sgridarli con bontà e con pazienza, giusta l’avviso dell’Apostolo quando cadono in qualche fallo: « Quos tamen, si quid per humanam fragilitatem peccare contigerit illa Apostoli ab eis servanda prœceptio, ut illos arguant, obsecrent, increpent in omni bonitate, et patientia: cum sæpe plus erga corrigendos agat benevolentia, quam austeritas; plus exhortatio, quam comminatio; plus charitas, quam potestas. » Terzo: se faccia bisogno di usar verga, di, usarla, ma con mansuetudine e con misericordia: « Sin autem ob delicti gravitatem virga opus fuerit; tune cum. mansuetudine rigor, cum misericordia iudicium, cum lenitate severitas adbibenda est; ut sine asperitate disciplina populis salutaris, ac necessaria conservetur, el qui correcti fuerint, emendentur; aut si resipiscere noluerint, caeteri salubri in eos animadversionis exemplo a vitiis deterreantur. » Porta il sacro Concilio al nostro proposito l’esempio del Pastore, che all’infermità delle pecore applica da prima alcuni leggieri fomenti; indi se il morbo si aggrava, passa a più pungenti e gravi rimedii; in fine, se né pur questi portano alcun profitto, separa dalla greggia l’agnelle morbose per salvar dal contagio le altre, che tuttavia son sane :« Cum sit diligentis, et pii simul pastoris officium, morbis ovium levia primum adhibere fomenta; post, ubi morbi gravitas ita postulet,ad acriora, et graviora remedia descendere; sin autem, ne ea quidem proficiant, illis submovendis, caeteras saltem oves contagionis periculo liberare. »Dove osservo due cose; prima, all’ammonizione, alla correzione, e anche al castigo vuole la Chiesa, che sempre vada unita la mansuetudine e la misericordia, di modo che si veda un Padre, un Maestro, un Pastore, che sferza contro sua voglia un figlio, un discepolo, una pecora, unicamente pel desiderio di ridurli sul buon sentiero. Così anche si spiegano le Costituzioni Apostoliche (I. 2,c. 15): « Misericors cum iustitia Dominus noster, bonus, et singulari in homines charitate, reo criminis, ac malefico non dat impunitatem, redeuntem in viam rectam recipit, eique vitam tribuit. » – Così pure scriveva Pietro Blesense al Vescovo d’Orleans (cp.142).« Si Regis Francorum faciem revereris, adhibe tibi de Coepiscopis tuis, qui spiritu Dei aguntur, ut tanta verboram moderatione utaris, ut si fortis est sermo, nibilominus sit suavis: nam et sapientia, quæ attingit a fine usque ad finem fortiter, staviter universa disponit. » Secondo, che la Chiesa in tutta questa condotta colle pecore inferme e contagiose, mai e poi mai prescrive al Vescovo il silenzio, perché senza la parola del Vangelo adempie non si l’obbligazion di un Pastore. – Lo Spiega in poche parole S. Bernardo, scrivendo a (de Consider. L 4, c. 3, n. 6) Papa Eugenio:« Evangelizare pascere est. Fac opus Evangelistæ, et Pastoris opus implevisti.» Ma parlando, dirà taluno, specialmente ai grandi del secolo, si corre pericolo di aggravar la persecuzione. E tacendo, rispondo io, non solo si corre pericolo di aggravar la persecuzione, ma la persecuzione certamente si aggrava. Quando i Pastori hanno parlato unendo insieme lo spirito della giustizia a quello della discrezione, si sono veduti alcuni contumaci figliuoli delle tenebre ribellarsi alla luce, e inasprirsi contro la Chiesa. E quando i Pastori hanno taciuto, i lupi fra le tenebre e il silenzio si sono insinuati impunemente nell’ovile, e hanno divorata la greggia. Se il Pastore si presenta coll’armi incontro al lupo, corre rischio egli medesimo di essere assalito, e che il lupo inferocisca forse con più rabbia contro le pecore. Ma se il Pastore al vedere i lupi non si mette in difesa, e la greggia e il Pastore sarà preda inevitabile di quella fiera. Dunque non si deve per un incerto pericolo esporre la greggia a una rovina sicura. Oltre a che v’è un altro equivoco in questa difficoltà. Quando il Vescovo si oppone con zelo apostolico alla podestà temporale che perseguita la Chiesa, corron pericolo d’ordinario solo, o quasi solo le sostanze, l’onore e anche la vita dei fedeli. Ma quando il Vescovo tace in faccia a un Principe persecutore, vanno a perire la fede, la religione, e le anime dei Cristiani. Ora siccome il bene spirituale deve onninamente anteporsi ad ogni ben temporale; così il pericolo delle anime deve per ogni conto fuggirsi assai più, che non il pericolo delle sostanze e della vita.?Quando al S. Pontefice Felice si faceva questa obbiezione, affinché rimettesse Acacio alla comunion della Chiesa; « Come? rispose il Papa; (Felicis Pap. III, tractat. Labbé tom. 5, col. 197)se si custodisce la fede e la cattolica comunione, corre pericolo la religione. E poi se resta violata la fede e la cattolica comunione, si dirà, che la religione è in salvo? Dio non voglia che questa proposizione esca dalle labbra di un Cattolico. Se si conserva la fede e la comunion cattolica, voi direte, che si diminuisce la dignità della Sede Apostolica? E poi se si offende la fede e la cattolica comunione, direte che si è conservato il decoro dell’Apostolica Sede? Dio non voglia, che questa proposizione si proferisca da un Cattolico. Se si conserva la fede e la cattolica comunione, direte, che si offende l’Imperatore? e violandole, forse l’Imperatore non si offende? Dio ci guardi, che l’Imperatore, o un qualche Cattolico parli così. Sarebbe l’istesso, che dire che bisogna offender la fede per non offendere 1’Imperatore. Ma noi amiamo tanto l’Imperatore,che vogliamo, ch’egli faccia quanto è necessario per la sua salute, per l’anima sua e per la sua coscienza. » Anche più forti sono a questo proposito i sentimenti, che scriveva il martire S. Cipriano al S. Papa Cornelio, intorno agli eretici Fortunato, Felicissimo, e a loro seguaci, che per via di minacce voleano ritornare alla Chiesa, ed esser trattati come cattolici (S.Cyp.ep. 55). « Io abbraccio, egli scrive, prontamente e con tutto l’amore quelli che penitenti ritornano, confessando il lor peccato con umile e semplice soddisfazione. Ma se alcuni pensano di poter ritornare al seno della Chiesa, non colle preghiere, ma colle minacce, e credono di aprirsi la strada non col pianto e colla penitenza, ma col farci timore, sieno pur certi, che per loro è serrata la Chiesa di Dio, e che il campo di Gesù Cristo forte, munito, e invincibile per la protezione di Dio non può esser vinto dalle minacce. Un Sacerdote di Dio, che sta attaccato al Vangelo, e che osserva iprecetti di Cristo, può essere ucciso, ma non può esser vinto. ..Imperocchè, se alcuni pochi temerari e scellerati lasciano le celestie salutari strade del Signore, e non facendo il bene sono abbandonati dallo Spirito Santo; non per questo anche noi dobbiamo dimenticarci delle divine tradizioni, e far più conto della scelleraggine di alcuni furibondi, che non del giudizio dei Sacerdoti; né dobbiam credere, che abbia più forza per combatterci l’umana podestà di quello, che ne abbia per difenderci la divina protezione.O pure si deve forse sacrificare la dignità della Chiesa Cattolica,l’incorrotta gravità del popolo fedele alla Chiesa, e la Sacerdotale autorità, perché possano giudicare della condotta della Chiesa uomini posti fuori della Chiesa, e gli eretici dei Cristiani, gl’infermi dei forti, i feriti dei sani, i caduti dei fedeli, i rei del giudice, i sacrilegi del Sacerdote? Che cosa manca in questo caso, se nonché la Chiesa ceda il posto al Campidoglio, e che partendo i Sacerdoti,e portando seco l’Altare del Signore, passino nel sacro e venerabil consesso del nostro Clero i simulacri, e gl’idoli coiloro altari? » -« Se domandano pace, depongan le armi. E se vogliono dar soddisfazione, perché minacciano? Ma se vogliono minacciare, sappiano, che i Sacerdoti di Dio non hanno timore di loro. Imperocché né men l’Anticristo, quando verrà, potrà entrare colle sue minacce nella Chiesa, né si cederà alle sue armi, ed alla sua violenza, perché protesterà di voler uccidere, chi gli farà resistenza. Ci fanno gli eretici prender le armi, quando credono di spaventarci colle loro minacce; nè ci abbattono in tempo di pace, ma vie più ci muovono e ci accendono, mentre presentano ai loro fratelli una pace peggiore della persecuzione…. Preghiamo e supplichiamo quel Dio, ch’essi non cessano di provocare, e d’inasprire, affinché i lor cuori si facciano mansueti. .. Che se vorranno persistere nel lor furore, e perseverare crudelmente in queste parricidiali insidie e minacce, non vi è tra i Sacerdoti di Dio alcuno sì debole, né alcuno sì prostrato e abbattuto, né alcuno così imbecille ed invalido per umana miseria, il quale non si alzi per aiuto sovrano contro i nemici e gl’impugnatori di Dio, e la di cui umiltà e debolezza non prenda coraggio dal vigore e dalla fortezza donatagli dal Signore. A noi niente importa l’essere uccisi da uno o da un altro, in questo o in quel tempo, sapendo, che da Dio riceveremo il premio della nostra morte. » lo confesso, che nel trascrivere questi gloriosi sentimenti di S. Cipriano vo’ domandando a me stesso: perché non potrebbe un Vescovo in tempo di persecuzione opporre queste medesime parole alla Podestà persecutrice? Chi avrà coraggio di rimproverarlo per aver ricopiato lo squarcio di una lettera di S. Cipriano? E pure l’umana prudenza non cessa per anche di opporre le sue difficoltà. Se un Vescovo facesse così, gli direbbero forse altri: Come siete dunque voi solo, che vi volete salvare? Il numero forse maggiore di quelli, che tacciono, cercherebbe di opprimere quelli, che parlano; e si farebbe anche comparire per singolarità, e per superbia lo zelo Pastorale dell’ecclesiastica e della divina giustizia. Ma in questo caso che cosa bisognerebbe rispondere? Quello che rispose l’illustre S. Massimo ai suoi accusatori, e nemici, i quali volevano che comunicasse con quelli, ch’erano stati condannati dalla Chiesa. Come? Gli disser costoro, recandogli l’esempio degli (Acta S. Maximi t. 1, Oper. n. 6, Parisiis 1675) altri, che ubbidivano all’Imperatore: Ergo tu solus salvaberis, et omnes perierunt? « Non dico questo, rispose S. Massimo; e non condanno nessuno. Non condannarono né pur veruno i tre Fanciulli di Babilonia, i quali non vollero adorar la statua adorata da tutti. Imperocché non pensavano a ciò, che gli altri facevano, ma pensavano per se stessi a non mancare alla vera religione. Così anche Daniele chiuso nel lago de’ leoni non condannò nessuno di quelli che per ubbidire al decreto di Dario non aveano fatta orazione a Dio: ma fece quello, ch’egli doveva fare, e volle piuttosto morire, che offendere Iddio, e prevaricare contro la stessa legge di natura. Né pur io (così me ne tenga lontano Iddio) né pur io ardisco di condannare veruno, né dico, che io solo mi salverò. Del resto voglio morir piuttosto, che operare contro i dettami della mia coscienza, e cedere all’errore in pregiudizio della fedeltà dovuta a Dio. » Ripigliarono di poi i Commissarii dell’Imperatore: Almeno (ibid. num. 8, et 9) non date questo disgusto all’Imperatore, il quale ha fatto il Tipo solo per la pace, e non per altra causa. E allora il Santo gettandosi col volto a terra, e bagnando il pavimento di lagrime, … Non doveva, rispose, disgustarsi il benigno e pio Imperatore coll’umile suo servo. Imperocché io non posso disgustare Iddio, tacendo quello, ch’Egli ci ha comandato di dire e professare. Ma dunque, ripresero coloro (ibid. num. 13) tu hai detto anatema al Tipo? Si l’ho detto; rispose il Santo. Ed essi: Hai detto anatema al Tipo? In conseguenza hai detto anche anatema all’Imperatore: Typum anathematizasti? Imperatorem anathematizasti. Rispose il Servo di Dio: io non ho anatemizzato l’Imperatore, ma bensì uno scritto alieno alla Fede della Chiesa: Ego Imperatorem non anathematizavi, sed Chartam alienam ab Ecclesiastica Fide. – Così rispondevano i Santi alle maligne accuse del secolo. Anzi non erano essi, che rispondevano, ma lo Spirito Santo per bocca loro (Matth. X, 19). Cum autem tradent vos, nolite cogitare, quomodo, aut quid , dabitur enim vobis in illa ora quid loquamini. E non occorre, che nessuno si scusi col dire: io non sono un santo. – Questa condotta dei santi non era una condotta di consiglio, ma di precetto. Essi così rispondevano, perché non potevano diversamente rispondere, salva la loro coscienza. Imitando de’ Santi non si corre nessun pericolo; ma si cammina ben molto all’oscuro e all’incerto, se si vuol tener dietro a quelli, che non furono Santi. Dio non condannerà nessuno per aver preso in prestito le parole da un S. Felice, da un S. Massimo, da un S. Cipriano. Ma potrà ben rimproverare, chi le avrà prese in prestito dai prudenti figliuoli del secolo. Se un S. Anselmo e un S. Tomaso di Cantuaria avessero prestato orecchio alle timide insinuazioni dei loro confratelli, essi non sarebbero Santi; questo è poco: ma io aggiungo, che forse non sarebbero né pur salvi. Perché S. Tomaso cedette al Re in una sola parola, ne provò subito tal rimorso, che si determinò di scrivere a Roma per l’assoluzione. Questi sono fatti, che dovrebbero far tremare le pietre’ più forti del Santuario.

LA PARUSIA (6)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (6)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE, Rue de Rennes, 117 – 1920

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ARTICOLO SESTO

LE PARABOLE CHE FANNO DA EPILOGO AL DISCORSO ESCATOLOGICO. TESTI CONSIDERATI IN CONTROSENSO DAI MODERNISTI

La nostra esegesi del discorso di Gesù sulla fine del mondo e la parusia non sarebbe completa se passassimo sotto silenzio le due parabole delle dieci vergini e dei talenti, che in Matteo (XXV, 1-30) servono da e pilogo. È, infatti, abbastanza evidente che queste parabole sono un tutt’uno con il contenuto del capitolo XXIV, e che non sono altro che una drammatizzazione, sotto immagini e figure appropriate, di ciò che l’oracolo escatologico annunciava come dover accadere in futuro. Ci offrono, quindi, un mezzo sicuro per controllare l’interpretazione dell’oracolo stesso, e allo stesso tempo ci forniscono un mezzo per fare una controprova della verità delle conclusioni a cui siamo arrivati finora. – In primo luogo, ecco la parabola delle dieci vergini. Il materiale è tratto dalla celebrazione delle nozze, come era praticata in Palestina al tempo di Nostro Signore, e così com’è ancora praticata oggi in tutto l’Oriente. Quando la sposa, a causa del suo matrimonio, doveva trasferirsi da una località all’altra, le ragazze della località che stava lasciando, le facevano  un corteggio d’onore e la conducevano in gran pompa davanti allo sposo, che a sua volta veniva incontro alla sposa per condurla a casa sua ed introdurla dapprima nella sala del banchetto dove si concludeva la cerimonia nuziale. (Un esempio ne vien dato nel primo libro dei Maccabei, c. IX, vv. 17 ss. « Fu annunciato a Giona e a suo fratello Simone che i figli di Jambri celebravano un matrimonio solenne e che portavano da Madaba, con grande sfarzo, la sposa, figlia di uno dei potenti principi di Chanaan…. Guardando in alto, essi osservarono, ed ecco, si udì un grande rumore ed apparve un grande corteo. Lo sposo, accompagnato dai suoi fratelli ed amici, si fece avanti per incontrarla, con tamburelli, strumenti musicali ed un notevole armamentario. » Solo che questa volta la festa fu terribilmente disturbata, e sappiamo come le nozze si trasformarono in lutto, ed i suoni gioiosi della loro musica in lamenti). Inoltre, era durante le prime ore della notte che l’intera cerimonia veniva solitamente eseguita. Da qui le torce, le fiaccole, le lampade accese nelle mani dei paraninfi. Da qui, anche, la metafora dell’essere gettati nelle tenebre esterne, o, ciò che equivale alla stessa cosa, dell’essere mandati fuori dalla sala del banchetto nelle tenebre esteriori, che è così spesso usata nel Vangelo per significare la dannazione dell’anima, esclusa da quel banchetto celeste che la gloria di Dio illumina, e di cui l’Agnello è la lampada, come dice San Giovanni nella sua Apocalisse (XXI, 23). Il mistero del regno dei cieli ci sarà descritto in termini di parusia, sotto forma di una di quelle solennità nuziali che si tenevano quotidianamente nei villaggi della Giudea e della Galilea. Lo sposo atteso è Gesù Cristo; Gesù Cristo nel Suo Secondo Avvento; Gesù Cristo che ritornerà, come Egli stesso ha annunciato, per risuscitare tutti i morti dalle loro tombe (Gv. V. 28) e, dopo la risurrezione generale, una volta completato il giudizio universale, per portare la Sua sposa, la Chiesa trionfante, ora senza macchia o ruga o contaminazione di qualsiasi tipo, alle nozze eterne. Le dieci vergini che vanno incontro allo sposo (si noti che mentre la Vulgata recita: “per incontrare lo sposo e la sposa“, il greco riporta semplicemente: “per incontrare lo sposo“) sono l’universalità dei fedeli, che, per il fatto stesso di professare il Cristianesimo, professano anche di credere nella seconda venuta di Cristo. Ora, aspettare qualcuno, cos’altro è se non andargli incontro in spirito e in pensiero? Per questo Sant’Agostino dice: Quid est ire obviam sponso? corde ire, exspectare ejus adventum (S. Agostino, Serm. 93 de verbis evang., n. 6.), da cui è chiaro che fare una professione di Cristianesimo è figurare come colui che sta per incontrare il Cristo immortale, nostro grande Dio e Salvatore, autore e consumatore della nostra fede, nel suo glorioso ritorno alla fine dei tempi. – Vediamo, tuttavia, che tra coloro che si definiscono Cristiani, molti non conformano la propria condotta al credo che professano. Da qui la distinzione tra le vergini sagge e le vergini stolte. Le cinque stolte, avendo preso le loro lampade, non presero l’olio con loro, ma le sagge presero l’olio nei loro vasi con le loro lampade. Ciò significa che le stolte trascurarono di fare i preparativi necessari, mentre le sagge ebbero cura di dotarsi, in ogni momento, di tutto ciò che il cerimoniale della festa poteva richiedere. E senza perderci qui nel dettaglio quasi infinito delle molteplici applicazioni del testo evangelico, diciamo in modo generale che mentre le lampade simboleggiano la legge, l’olio di cui furono private le vergini stolte, rappresenta la carità e le buone opere, senza le quali la lampada mistica della fede è come una lampada che fuma, si consuma e si spegne. Ma ancora c’è dell’altro. Il corteo, che era partito all’imbrunire, dovette fermarsi e fare una sosta perché lo sposo tardava ad arrivare. Era in ritardo, anzi, doveva ritardare fino a metà della notte. Certamente, questo era un ritardo straordinario, considerando i costumi dell’epoca; meglio ancora, era un ritardo oltre ogni misura. Non c’è quindi da stupirsi se durante un’attesa così lunga, le dieci vergini furono infine prese dal sonno una dopo l’altra: si assopirono tutte – dice il Vangelo – e si addormentarono. Dormitaverunt omnés et dormierunt. Questa caratteristica è degna di nota. È necessario, in particolare, notare questo “omnes”: tutte, cioè, sia le sagge che le stolte. Questo porta immediatamente alla conclusione che il sonno qui non è messo in cattiva luce, come il sonno della negligenza e della pigrizia, come quando fu detto in San Marco, XIII, 36: « Vegliate, perché il padrone di casa non vi trovi addormentati. » No, non è più il sonno della dimenticanza del dovere, non è più il sonno del peccato, non è più il sonno dell’incuria che si intende questa volta. Questo non può essere – dice Sant’Agostino – perché tra il numero delle vergini che si addormentarono c’erano anche le sagge, quelle che sono date modello, che rappresentano le elette, davanti alle quali, infine, si sarebbero aperte le porte del banchetto nuziale, figura del banchetto della gloria eterna, al quale si è ammessi solo a condizione di aver perseverato fino alla fine, secondo quanto è scritto: « Colui che avrà perseverato fino alla fine, costui sarà salvato. » Ma c’è un altro sonno da cui nessuno può fuggire, ed è il sonno della morte. Infatti, chi non sa che la morte è costantemente presentata come un sonno nelle scritture del Nuovo Testamento? … Che i morti sono comunemente chiamati dormienti, e quelli che muoiono, come quelli che sono dormienti? (Matth., XXVII, 52; Joan, XI, 11; I Cor., VII, 39; XV, 6, 18, 20; I Thess, IV, 12-1.4, ecc.) – Non c’è dunque da ingannarsi: il sonno che prende le dieci vergini che andarono davanti allo sposo rappresenta la morte, la morte che depone nel sepolcro le generazioni cristiane una dopo l’altra, finché l’ora tarda della parusia e la resurrezione non venga a suonare (Omnes dormitaverunt, id est mortuæ sunt, quia sanctorum mors somnus appellatur, – Hieron., in Matth. XXV, 5). – Subindicat mortem esse somnum. Dormierunt, inquit. (S. G. Crisostomo, Hom. 78 in Matth., n. 1). – Infine, nel cuore della notte, un grido risuonò improvvisamente: Ecco, lo Sposo sta arrivando; andate a incontrarlo! Questo è il grido di cui l’Apostolo ha detto: « Al segnale dato, alla voce dell’Arcangelo, al suono della tromba divina, il Signore stesso scenderà dal cielo e i morti risorgeranno. » (I Thess., IV, 15). –  Allora le dieci vergini si svegliarono, si alzarono e si misero a preparare e ad accendere le loro lampade per formare un corteo d’onore per seguire colui che, dopo tante ore, stava finalmente arrivando. Ma le donne stolte vedono le loro spegnersi per mancanza di olio. Nella loro angoscia, si rivolgono alle sagge che si ricusano, perché in quel momento ognuno risponderà per se stesso e non potrà dare del suo superfluo agli altri. « Non ne abbiamo abbastanza per noi e per voi  » – rispondono – « ma andate piuttosto da chi lo vende e compratelo per voi. » Un’ironia struggente che esprime l’irrimediabile infortunio in cui saranno gettati tutti coloro che non approfittano della vita presente per assicurarsi l’eternità. E conosciamo il resto …  Più tardi vennero anche le altre vergini, dicendo: Signore, Signore, apri a noi. Ed egli disse loro: “In verità vi dico che non vi conosco“. E questa è la morale della parabola: Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora. È sempre la stessa raccomandazione ad essere vigili, quella che suona come un serio ritornello nei supremi avvertimenti di Gesù. Se non fosse questa legge tale, potrebbe sembrare a molti abbastanza spropositata, venendo, come abbiamo osservato, dopo l’esempio di quelle vergini che, invece di vegliare, dormivano tutte, comprese le sagge, quando fu dato il segnale dell’arrivo dello sposo. Di fatto, non c’è via d’uscita alla difficoltà nell’esegesi modernista, che può solo offrire al Vangelo le contraddizioni più grossolane ed assurde. Ma la contraddizione scompare non appena ci riferiamo a ciò che abbiamo detto prima, e soprattutto a questi due punti capitali: in primo luogo, che è il sonno della morte, di cui si parla qui; e in secondo luogo, che il Vangelo è solito considerare l’ora della parusia ancora nell’impenetrabile ignoto del futuro, come risuonante per anticipazione per ciascuno in particolare, all’ora, altrettanto inconoscibile in anticipo, in cui la morte, cogliendolo, lo fissa nello stato, o di grazia o di dannazione, in cui lo troverà il giorno del Giudizio universale. Su questi due punti, infatti, una volta che le leggi siano ben stabilite, c’è piena armonia, perfetta corrispondenza, tra la similitudine proposta e la lezione che se ne trae. Infatti, da questo punto in poi, appare che la vigilanza raccomandata nella morale della parabola si riferisce al tempo che precede la venuta del Figlio dell’uomo, considerato, non tanto nella sua realtà di ultima ora del mondo, quanto in quella di ultima ora di ogni individuo: assolutamente come, nella parabola stessa, la lungimiranza richiesta alle dieci vergini morava non al tempo immediatamente precedente l’arrivo del pentimento, ma a quello che precedeva il momento in cui il sonno, cogliendole una dopo l’altra, toglieva loro allo stesso tempo, mentre procedevano, ogni potere di fare ulteriori preparativi, ogni mezzo per compensare ciò che mancava, ogni possibilità di aggiungere qualcosa alle provviste che avevano fatto prima di andare a dormire. Non è dunque ad un senso accommodatizio, ma al senso proprio, letterale e naturale, che San Crisostomo si è attaccato nell’Omelia LXXVIII su San Matteo, quando, in accordo con tutta la Tradizione, ha spiegato la parola alla fine, vigilate itaque, quia nescitis diem neque horam, dicendo: « Vedete come frequentemente termina con queste parole, mostrando che è utile per noi essere inconsapevoli del giorno della nostra partenza da questa vita: κρησίμην δεικνύς τήν ἄγνοιαν τῆς ἐζόδου τῆς ἐντεῠθεν… [kresimen deiknus ten agnoian tes ezodou tes enteuden] » (P. G. t. LVII, col. 713). – Questa, dunque, è la prima delle due parabole che seguono, in San Matteo, al discorso escatologico, e che raffigurano il regno dei cieli sulla terra, nella sua relazione con la seconda venuta di Gesù Cristo. Per essere ben compreso, questo aveva bisogno di qualche chiarimento, ed è per questo che abbiamo dovuto soffermarci un po’ su di esso. – Quanto al secondo, quello dei talenti, è troppo ovvio e troppo trasparente in sé, almeno nel suo senso generale, e dal punto di vista che qui ci interessa, per richiedere una spiegazione dettagliata. Si vede, infatti, che l’uomo che va all’estero per un viaggio è Gesù stesso, che presto sarebbe salito al cielo; che i servi sono gli stessi che prima erano rappresentati dalle dieci vergini; che i talenti loro affidati sono i doni della natura e della grazia, dati a ciascuno per essere usati; che il ritorno del padrone è il ritorno di Gesù alla fine dei secoli, e il resoconto dell’uso dei talenti ricevuti è quello che ci verrà chiesto, per servire da base al giudizio in cui saremo ricompensati secondo le nostre opere. Inoltre, la parabola dei talenti si riferisce allo stesso oggetto della prima, e la sola differenza è che la prima, insistendo sull’incertezza del giorno e dell’ora, concludeva con la necessità della vigilanza, mentre questa, insistendo sul rigore del conto da rendere, conclude con la necessità del lavoro, dello sforzo e di un’attività costante. Tutte queste cose sono evidenti e non soffrono di alcuna difficoltà, e resta solo da mettere in una luce adeguata ciò che le due parabole contengono di particolarmente adatto a distruggere la sciocca pretesa dei modernisti che, nella mente di Gesù, la catastrofe suprema fosse vicina, o che sarebbe venuta imminentemente, o che dovesse avvenire nel corso della generazione contemporanea. E a questo proposito, viene spontaneamente alla mente il già citato verso della parabola dei voti di Gesù. E a questo proposito, viene alla mente la caratteristica sottolineata prima nella parabola delle vergini, del ritardo dello sposo, moram autem faciente sponso. Lo sposo tardava a venire; tardava addirittura, osserviamo, in un modo che si potrebbe dire “esorbitante”, poiché far aspettare fino a mezzanotte una festa di nozze è qualcosa che non si vede, che non si è visto, che probabilmente non si vedrà mai. Era a mezzanotte che iniziava la terza veglia, e la terza veglia, lungi dall’essere considerata come l’ora possibile per l’inizio di una festa di nozze, era al contrario considerata come l’ora estrema in cui si ritornasse. Ne è testimone ciò che si dice del padrone che i servi aspettano al suo ritorno dalle nozze: et si venerit in secunda vigilia, et si in tertia vigilia venerit, et ita invenerit, ecc. (La seconda guardia era dalle nove di sera a mezzanotte, la terza da mezzanotte alle tre del mattino). D’altra parte, non credo che si tratti di una caratteristica puramente accessoria, aggiunta senza alcuna intenzione di significato, come un semplice ornamento alla narrazione della parabola. Non solo nulla autorizza una tale supposizione, ma tutto al contrario contribuisce ad escluderla, poiché se c’è una cosa che è evidente, è che la circostanza di un ritardo così straordinariamente prolungato è qui la circostanza principale; è quella che comanda tutte le altre, a cui viene dato il maggior risalto, e da cui dipende tutto ciò che è proprio, originale e caratteristico nel racconto. Bisogna quindi riconoscere, volenti o nolenti, una caratteristica appartenente alla sostanza stessa del racconto della parabola, e, di conseguenza, alla figura del mistero da rappresentare, formalmente presa come tale; di conseguenza, bisogna cercarne il senso, il significato e la portata. Ma il compito sarà facile, perché dal momento in cui lo sposo atteso rappresenta Gesù Cristo nella sua parusia, va da sé che il notevole ritardo nell’arrivo dello sposo rappresenta un proporzionale ritardo nell’arrivo di questa stessa parusia. Quindi non si discute più dell’imminenza o della vicinanza dell’avvento glorioso. Al contrario, la parabola lo presenta come un ritardo, e un ritardo, va notato, tanto notevole in relazione alla durata del mondo quanto quello dello sposo in relazione alla durata di una cerimonia nuziale. E pensiamo forse che sia una cosa da poco? Sembra piuttosto che la proporzione ben stabilita possa dare solo un periodo di tempo misurato da una lunga serie, non direi di giorni, né di anni, ma di secoli. Anche San Crisostomo, su queste parole, moram autem faciente sponso, dice: « Qui di nuovo mostra un intervallo di tempo non indifferente, dissuadendo i suoi discepoli dall’idea che il suo regno stesse per venire, poiché essi erano in questa speranza, e questa è la ragione per cui spesso li allontana da essa (Hom. 78, in Matth. n. 1.). » E San Girolamo commentando lo stesso passo, « Lo sposo fu lento a venire, perché non è un breve spazio di tempo, quello che si estende dal primo al secondo avvento del Signore (Moram autem faciente sponso, darmitaverunt omnes et dormierunt. Non enim parum temporis inter priorem et secundum adventum Domini prætergreditur. in Matth.,XXV, 5, P. L. XXVI, col. 184.) ». Ma c’è di più. La caratteristica del ritardo dello sposo apparirà molto più sorprendente e significativo se lo confrontiamo con quello che abbiamo letto poco prima (Matth., XXIV, 48), a proposito dei due servi, uno dei quali fu trovato, al ritorno del padrone, a compiere fedelmente i doveri del suo ufficio, l’altro, al contrario, a battere i suoi compagni, a mangiare e bere con gente dedita al vino. Infatti, parlando di quest’ultimo, Gesù gli aveva messo in bocca questa ragione della sua vita disordinata e dissoluta: Il mio padrone è lento a venire, moram facit dominus meus venire. Questa ragione è notevole, e non è stata messa qui a caso. Era la ragione di un miscredente che non si preoccupava affatto della parusia, ma la cui incredulità era avvolta dalla constatazione ironica del suo ritardo. Infatti questa parusia, che il fervore della prima epoca attendeva come se fosse vicina, non sarebbe venuta nel breve tempo che si supponeva. Da qui le delusioni contro le quali gli Apostoli dovevano custodire la fede dei fedeli; da qui anche, l’idea del ritardo che non poteva non cogliere l’umore beffardo dei miscredenti. Come quelli di cui parla San Pietro nella sua seconda epistola (III, 3-5): « Sappiate che negli ultimi giorni verranno degli schernitori che vivranno secondo le loro passioni, dicendo: Dov’è la promessa della sua venuta? Perché da quando i nostri padri sono morti, tutte le cose continuano come erano dal principio della creazione. » E tutto questo, insieme al resto, che è facile immaginare, era incluso nell’ironia di questa parola: moram facit dominus meus venire! Ma delle delusioni di alcuni, così come delle beffe di altri, Gesù si mostrò pienamente consapevole nel suo discorso escatologico, e si rivelò anche in pieno possesso della conoscenza del futuro; dico di tutto il futuro, del più vicino come del più remoto, e del tempo del giudizio come dello stato degli spiriti la mattina della sua ascensione al cielo. Perciò denunciò in anticipo il motivo del servo malvagio, con ciò che doveva essere la base del suo pretesto, e nel denunciarlo, diede già a intendere che la parusia avrebbe sì ritardato rispetto alla smania ed all’attesa della prima generazione, ma non sull’ora segnata nei suoi consigli; che il presunto ritardo avrebbe avuto luogo solo in esecuzione delle disposizioni eterne della Sua provvidenza, e che il movimento a ritroso dell’avvento glorioso nelle epoche lontane sarebbe stato il puro e semplice compimento di un disegno precedentemente formato e voluto, e, come tale, predetto e annunciato da Lui. Questo è il significato di moram facit dominus meus venire, come profeticamente messo da Gesù nella bocca del servo miscredente. Questo è lo stesso significato e la stessa portata di moram autem faciente sponso, che riceve così una nuova luce ed una nuova enfasi dal confronto, cosa che è molto importante notare. Eppure non è ancora tutto. Ecco ora la parabola dei talenti che completerà il punto in questione. E a proposito di questa seconda parabola, potremmo osservare prima di tutto che è molto simile a quella delle mine, che San Luca riporta come proposta qualche giorno prima o il giorno prima della Domenica delle Palme, e che ci presenta accompagnandola, o meglio facendola precedere da questa informazione (XIX, II): « Egli (Gesù) aggiunse una parabola, perché era vicino a Gerusalemme e la gente pensava che il regno di Dio sarebbe apparso presto. » Questo per indicarci la falsa opinione che la suddetta parabola intendeva confutare e distruggere. – Ed infatti, Gesù fu presentato in figura di un uomo di alto lignaggio che va in un paese lontano per essere investito della regalità; il quale, avendo chiamato dieci dei suoi servi, diede loro dieci mine, dicendo: “Usatele finché non torni“; e quando tornò, dopo aver ricevuto l’investitura del suo regno, nonostante l’opposizione dei suoi concittadini che lo odiavano e avevano mandato dei deputati a seguirlo per dire: “Non vogliamo che quest’uomo regni su di noi“, fece chiamare i dieci servi per sapere quale guadagno avesse fatto ciascuno di loro. E tutto questo per ribaltare il pregiudizio popolare di cui sopra. No, il regno di Dio, quello che avevano in vista, quello a cui anelavano, il regno della gloria e del trionfo, non stava per giungere. Era necessario che Gesù andasse prima in cielo e poi ritornasse, e che nel frattempo tutte le risorse di salvezza, sia individuali che sociali, che Egli avrebbe lasciato nelle nostre mani, fossero messe in opera. Così, non era una questione di pochi giorni, e giudicando a priori, secondo i calcoli basati sulla natura semplice delle cose, l’intervallo tra la partenza ed il ritorno non poteva essere di durata mediocre. Ma ciò che lasciava indovinare la parabola delle mine, il cui scopo diretto era solo quello di eliminare l’idea che i Giudei sognassero un regno temporale del Messia che stava per essere inaugurato nella città di Gerusalemme, la parabola dei talenti, il cui scopo era più alto e si estendeva a tutta la questione escatologica, avrebbe dato un’indicazione positiva attraverso una caratteristica significativa. Molto tempo dopo – è detto – il padrone che era andato all’estero tornò e chiese ai suoi servi un resoconto dei talenti che aveva affidato loro. Post multum vero temporis, venit dominus servorum Moram, et posuit rationem cum eis. Ovviamente, anche questo post multum temporis, μετά πολύν χρόνον [meta polun cronon], non è stato messo lì senza motivo. D’altra parte, non ne vediamo molto bene la ragione, se ci poniamo esclusivamente dal punto di vista della lezione morale che Nostro Signore intendeva dare. Infatti, dal punto di vista della lezione morale, bastava dire che il padrone tornava dal suo viaggio, che al suo ritorno chiedeva conto, e che poi rendeva a ciascuno dei servi secondo il lavoro svolto e l’attività da lui profusa. Inoltre, che il ritorno avvenisse o meno molto tempo dopo la partenza, dopo uno, due, dieci o cinquant’anni, era la cosa più indifferente del mondo e la meno degna di nota. Non dovremmo quindi trovare il significato del post multum temporis nell’aspetto profetico e figurativo della parabola, e riconoscere che se la partenza ed il ritorno del Maestro rappresentavano l’ascensione e la parusia del Signore, il lungo tempo trascorso prima del ritorno rappresentava anche una lunghezza proporzionale di tempo, che dovrebbe separare la grande scena sul Monte degli Ulivi quaranta giorni dopo la resurrezione, dalla scena ancora più grande nella valle di Giosafat alla fine dei tempi? Tutto farebbe pensare a questo, ed è così che San Girolamo lo ha giustamente inteso nel suo commento a San Matteo: «Molto tempo dopo – dice – il padrone di questi servi tornò… (per significare che) grande è il tempo tra l’ascensione del Salvatore e la sua seconda venuta. Grande tempus est inter ascensionem Salvatoris et secundum ejus adventum (P. L., vol. XXVI,  col. 187)  » Ecco, dunque, tre dei tratti più sorprendenti in cui si rivela il pensiero di Gesù sulla durata del mondo; tre tratti che, uno dopo l’altro, danno la più assoluta smentita alla tesi modernista. Il mio padrone tarda a venire, fa dire Gesù al servo cattivo. Siccome lo sposo tardava a venire, disse poco dopo, parlando di se stesso nella parabola delle vergini. Dopo molto tempo, il padrone tornò, dice poche righe dopo, nella parabola dei talenti. Questo porta alla mente il famoso passaggio del Salmo XXI, che promette alla Chiesa di Gesù Cristo un’ampia diffusione tra tutti i popoli della terra, che Sant’Agostino opponeva ai Donatisti, i quali, sebbene ridotti ad un piccolo canto dell’Africa, nondimeno avevano la pretesa di essere la vera Chiesa. « Pensate – diceva egli a questo riguardo un giorno di Venerdì santo – che abbiano ascoltato il loro lettore questa mattina quando ha letto dall’ambone questo annuncio profetico dei frutti della redenzione: Le estremità della terra si sovverranno e si convertiranno al Signore? Ma abbiate pazienza, è ancora solo un verso. Suvvia, avrete pensato a qualcos’altro, o stavate chiacchierando con il vostro vicino; ma ora fate attenzione, perché egli dice di nuovo, e colpisce le orecchie dei sordi: “E tutte le famiglie dei gentili si prostreranno davanti alla sua faccia“. Non avete ancora sentito? Poi si ripete una terza volta: Al Signore appartiene il dominio, ed egli dominerà su tutte le nazioni. Ricordatevi di questi tre versi, fratelli miei (Enarr. in Salmo XXI, 28-29, P. L., t. XXXVI, col. 179). Così dirò, a mia volta, dei tre incisi menzionati sopra, relativi a ciò che è stato chiamato la “mora finis“: Il mio padrone tarda a venire – Lo sposo tardava ad arrivare, – Dopo molto tempo, il padrone è tornato! Quale mente irata e prevenuta, a tale insistenza, proprio nella pagina in cui si tratta ex professo la questione del secondo avvento di Gesù Cristo, non rovescerebbe i pregiudizi e forzerebbe il suo ingresso? A meno che non si pretenda che la parusia sia stata ritardata, che sarebbe giunta dopo un lungo ritardo, dopo un tempo considerevole, dovendo arrivare, secondo quanto i modernisti vogliono trovarne la predizione nel Vangelo, durante la stessa generazione che aveva visto nascere e morire Gesù! Certamente, queste ragioni sembrano perentorie. Ma sorge subito una difficoltà. Si porrà di nuovo la questione di come conciliare quanto appena detto con l’opinione, così diffusa nel primo secolo, di un rapido ritorno del Signore, e l’obiezione viene a porsi da sola sulle labbra. I primi Cristiani non avevano letto il Vangelo? O forse non erano in grado di comprenderlo, essi che l’avevano ricevuto dalle mani degli Apostoli, e si trovavano presso la fonte originale da cui scaturisce tutta la tradizione cristiana? E quello che noi vediamo lì, o crediamo di vedere lì, inculcato con tanta insistenza, essi non l’avrebbero visto! Anzi, cosa dico? Essi avrebbero visto tutto il contrario, come attestano molti documenti dell’epoca apostolica, ai quali abbiamo già accennato sopra. E si contristavano per quelli del loro stesso numero che si addormentavano nell’ultimo loro sonno, come se questi cari morti fossero stati in tal modo privati dal partecipare, come essi avevano ardentemente desiderato, alla gloria ed al trionfo del giorno del Signore; e San Paolo fu costretto a consolarli, assicurando loro che la partecipazione a questo trionfo non sarebbe stato il privilegio esclusivo di coloro che il grande giorno avrebbe trovato ancora vivi sulla terra; (I Tess., IV, 13-18). Anche essi erano turbati dal ritardo, e San Pietro doveva rafforzarli con questa considerazione, che per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno; che, inoltre, Gesù non ritardò l’adempimento della sua promessa, ma fu paziente, non volendo che qualcuno perisse, ma che tutti venissero a pentimento; (II Petr., III, 8-9). No n si sapeva quindi nulla né del moram faciente sponso, né del post multum temporis venit dominus servorum illorum, né di nessuna delle caratteristiche che abbiamo menzionato prima, di natura tale da far entrare l’idea del ritardo nelle menti più ribelli. Questa è la ragione più plausibile che possano darci, e tuttavia non pensiamo di uscire dai limiti della più completa moderazione nel dire che essa non vale assolutamente nulla. È inutile, in primo luogo, perché qui si applica il principio così spesso invocato riguardo alle profezie, che, in generale, sono comprese correttamente solo dopo che l’evento ne abbia fornito la chiave. Invano, quindi, si sosterrà che i Cristiani dell’epoca apostolica, essendo più vicini alle fonti della rivelazione, erano anche in una posizione migliore della nostra per leggere e interpretare le profezie del Vangelo. È proprio il contrario, proprio l’opposto della verità. Potremmo infatti dire, per esempio, che le profezie di Daniele sui re di Siria e d’Egitto (Dan, XI, 2 segg.) – respinte come apocrife dai razionalisti, solo per la sorprendente precisione con cui vediamo ora designati, anche nei minimi dettagli, tutti gli eventi dei loro regni – che queste profezie, dico, erano più comprensibili ai contemporanei di Daniele stesso, che a noi che le decifriamo così facilmente con l’aiuto dei documenti forniti dai libri dei Maccabei e dagli altri monumenti della storia. – Essa non vale nulla, poi e soprattutto, perché la predizione del lungo tempo che doveva trascorrere fino al secondo avvento del Signore, non è presentata da nessuna parte ex professo, né in termini espliciti e formali, ma solo accidentalmente, e come per caso, in righe sparse, che a prima vista sembrano essere cadute qua e là per caso dal discorso, e tanto più indegne di attenzione, in quanto sono come perse nelle ombre delle parabole, e nascoste sotto i veli dell’allegoria. Quale meraviglia, allora, che siano passati inosservati alla prima generazione, le cui preoccupazioni erano ben altre? Quale meraviglia, inoltre, che quando gli eventi avevano una volta smentito le speranze di alcuni, gli allarmi di altri e le aspettative dei più, e avevano così costretto le menti a soffermarsi sull’idea di una parusia che era ancora lontana, ciò che era sfuggito ai lettori disinformati delle epoche precedenti fu scoperto in uno studio più profondo del Vangelo? E questo è precisamente ciò che Gesù aveva in mente; è stato in vista di questo risultato che Egli ha misurato le sue parole e, se posso usare l’espressione, ha misurato luci e ombre nella sua risposta alla domanda degli Apostoli: « Dicci quando avverranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo? » Senza dubbio il giorno del giudizio doveva rimanere completamente nascosto per quanto riguarda la sua data precisa né si doveva sapere in anticipo se fosse vicino o lontano. Tuttavia, ciò non poteva impedire che alcune indicazioni profetiche venissero discretamente inserite nella moratoria concessa al mondo: indicazioni che, portate alla luce col passare del tempo, sarebbero servite a rassicurare la fede delle epoche successive, che altrimenti sarebbe stata scoraggiata da un’attesa indefinitamente prolungata, non supportata dai dati concordanti della rivelazione. Li troviamo, come abbiamo appena detto, con la loro razione di ombra per i primi tempi, e di luce per quelli successivi, nelle due parabole in cui ha rappresentato, sotto immagini semplici e popolari, tutto il mistero della sua parusia. Questo è già stato sufficientemente dimostrato, senza che ci sia bisogno di ritornarci sopra. Aggiungerò solo ora, a titolo di epilogo, che la parabola delle dieci vergini, indipendentemente dall’indicazione data dalla circostanza precedentemente spiegata, ne contiene un’altra, ancora più velata e misteriosa, ma anche tanto più significativa perché emerge dall’intero quadro della narrazione allegorica, e sempre, sempre più, in una direzione diametralmente opposta al significato ed all’idea modernista. Ed infatti, è evidente che quando Gesù disse che il regno dei cieli sarebbe stato come (simile erit) dieci vergini che, prese le loro lampade, andarono incontro allo sposo: sotto il nome di “regno dei cieli”, Egli intendesse il regno di Dio che era venuto a fondare sulla terra, il regno alla cui instaurazione aveva dedicato i tre anni della sua predicazione, il regno che doveva essere costituito dalla moltitudine del popolo cristiano, dalla prima pubblicazione del Vangelo fino alla consumazione dei secoli. È dunque l’insieme dei fedeli del futuro che la parabola ci presenta. Ma perché ora, sotto l’immagine di queste vergini che, una dopo l’altra, si addormentano durante le lunghe ore di attesa dello sposo che tarda ad arrivare? Voleva forse significare che anche questi fedeli del futuro si addormenteranno, ma con il sonno della morte, prima che venga il giorno della parusia? … e che dormiranno nelle loro tombe nel momento in cui risuonerà il grido: “Ecco, lo sposo viene!” Forse. Una restrizione è tuttavia necessaria, e, per quanto fondato sia il senso che abbiamo appena esposto, sarà sempre necessario escludere coloro che saranno sorpresi dall’ultimo giorno del mondo, proprio come la catastrofe del diluvio sorprese gli uomini del tempo di Noè. (Matt. XXIV, 37 ss.; Luca, XXI, 35.) C’è ancora un problema da risolvere, se questi Cristiani dell’ultima generazione dovranno anch’essi pagare il loro tributo alla morte. – Diversi Padri, basandosi su vari passi della Scrittura, opinano in negativo, e pensano che saranno un’eccezione alla legge comune, passando immediatamente dallo stato di mortalità presente, alla vita incorruttibile del secolo avvenire (tra questi, San Crisostomo nella sua omelia 48° sulla prima ai Corinzi, n, 2; e San Girolamo nella sua lettera 59° ad Marcella. n. 3). Non importa per il momento, perché qualunque sia il caso di questa opinione, respinta peraltro, e con ragione, sembra, dal maggior numero di teologi (« È un’opinione più comune e più certa – dice San Tommaso – che tutti moriranno, e risorgeranno dai morti, e questo per tre ragioni, ecc. » – Suppl., q. 79, a. 1), una cosa è assolutamente certa, cioè che se passeranno attraverso la morte, la attraverseranno come se non la attraversassero, perché la attraverseranno senza rimanervi, senza fermarsi, in un pronto e rapido passaggio dalla vita alla morte, e dalla morte alla resurrezione (Sant’Agostino, 1. II Retract., c. 33, dice: De vita ista in mortem et de morte in aeternam vitam celerrima commutatione). – E questo è ciò che, in ogni caso, li metterà in una categoria del tutto diversa dagli altri morti che scendono nel sepolcro per rimanervi a dormire fino a quando suonerà l’ora del risveglio generale. Questo è anche ciò che basta a spiegare come e perché San Paolo, quando tratta della venuta del Signore nella sua prima Epistola ai Tessalonicesi (IV, 12-18), li distingue dai dormienti (vs. 12), da quelli che si sono addormentati in Gesù, (versetto 13); inoltre, li designa costantemente come viventi, in opposizione a quelli che chiama morti (vers. 15, 17), in conformità con l’articolo del Simbolo dove si dice che Gesù è seduto alla destra del Padre suo, da dove verrà a giudicare vivos et mortuos (« Questa distinzione tra i vivi e i morti non si riferisce al momento stesso del giudizio, quando tutti saranno vivi; né a tutto il tempo che precede il giudizio, poiché tutti saranno stati per un tempo vivi e per un tempo morti; ma si riferisce al tempo definito che precederà immediatamente la prima comparsa dei segni del giudizio. » San Tommaso, loc. cit. ad l).  Qui, dunque, siamo in presenza di due categorie ben distinte. Da un lato, i fedeli che devono addormentarsi, cioè morire prima del giorno della parusia, e dall’altro, quelli che il giorno supremo troverà vivi sulla terra: i primi, che la parabola ci presenta sotto la figura delle dieci vergini addormentate; i secondi, di cui la parabola non dice nulla, che passa sotto silenzio e ignora completamente. E subito sorge una domanda: da che parte stava, nella mente di Gesù, la generalità, la massa, il gran numero? Dico il gran numero di fedeli che compongono il regno dei due che sono qui in questione? Dalla parte dei primi o dalla parte dei secondi? Ma non è necessario formulare la risposta. Evidentemente, Gesù vedeva la generalità nella categoria che la sua parabola ritraeva. Quanto all’altra categoria che ha lasciato all’oscuro, quella dei contemporanei dell’ultimo giorno, di cui San Paolo, nel passo citato sopra, parla solo di un resto, una reliquia (Nos qui résidui sumus. Qui relinquimur, περιλειπόμενοι [perileipomenoi], egli dice, I Tess., iv, 11-13, parlando nella persona di coloro che l’ultimo giorno troveranno ancora vivi), evidentemente vedeva in essa solo una categoria di eccezione, una minuscola minoranza, che per questo non entrava nel quadro complessivo del regno dei cieli che la parabola aveva in vista. Ora, supponiamo con i modernisti che Gesù credesse che la parusia stesse per essere realizzata. Sarebbe stato proprio il contrario che si sarebbe presentato alla sua mente: la generalità, il grande numero, dalla parte dei fedeli che la parusia avrebbe trovato vivi; l’eccezione, il piccolo numero, dalla parte di coloro che la morte avrebbe già deposto nella tomba. Non è dunque da questi, ma da quelli che avrebbe preso la similitudine di quel regno dei cieli di cui ha detto: Simile erit regnum cæloram decem virginibus quæ, acceptes lampadibus, exierunt obviant sponso, e se la caratteristica del ritardo dello sposo non aveva più alcun tipo di ragione d’essere, come si è già detto, quella della sonnolenza e del sonno che coglie le dieci vergini, divenne più incoerente e più incomprensibile ancora. Da ogni parte, dunque, non vediamo altro che solenni smentite date dal Vangelo all’idea modernista, ed è un fatto che, giunti alla fine del nostro studio del discorso in cui tutta la questione della parusia è trattata ex professo e in modo approfondito, possiamo vedere che non c’è una sola delle loro interpretazioni che regga al vaglio, non uno solo dei testi di cui abusano che non li condanni, non uno solo dei loro tratti che non si rivolti contro di loro; è la piena verifica della parola del salmista: Et infirmatæ sunt contra eos linguæ eorum . Ma forse saranno in grado, rispetto all’errore del punto principale, di rivalersi con passaggi tratti da altre parti del Vangelo? Molto meno ancora, perché, per quelli, non sono più nemmeno ad rem, portano a falsità, sono fuori dal soggetto, non hanno alcun rapporto con la questione.  Tale è il passaggio che leggiamo in San Matteo, XVI, 28, in San Marco, VIII, 39, e in San Luca, IX, 27, dove Gesù dice: « Io vi dico in verità, molti di quelli che sono qui presenti non gusteranno la morte senza aver visto il Figlio dell’Uomo venire nella sua regalità. » È vero che a prima vista, così separato dal corpo della narrazione, questo testo sembrerebbe stabilire in termini espliciti e formali la tesi degli avversari. Ma un momento … Ricorriamo al contesto, e vedremo con piena evidenza che abbiamo a che fare qui, non con la parusia stessa, ma con un esempio della gloria della parusia, che Gesù si propose di dare a tre dei suoi discepoli nella sua trasfigurazione. « E dopo sei giorni – continua San Matteo – Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, li condusse su un alto monte e si trasfigurò davanti a loro. » La stessa cosa è detta in San Marco; stessa cosa è detta in San Luca, che è ancora più esplicito: E circa otto giorni dopo aver detto queste parole (quelle del testo in questione), Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, ecc. Factum est autem post hæc verba fere dies octo (San Matteo e San Mare dicono sei giorni; San Luca dice: circa otto giorni dopo. I primi due includono solo i giorni intermedi, mentre il terzo include il giorno della promessa e il giorno del compimento). Era impossibile sottolineare più chiaramente la connessione tra la promessa precedente e la visione dei tre apostoli sul Tabor. Perché Gesù aveva detto: « Chi vuole salvare la propria vita la perderà, e chi perderà la propria vita per causa mia la troverà. E che profitto ha l’uomo se guadagna il mondo intero e perde la sua anima? Perché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo con i suoi angeli, e allora renderà a ogni uomo secondo le sue opere. » Si appellava dunque all’avvento glorioso in cui presiederà alla distribuzione dei premi e delle punizioni eterne. Ma questa gloria del Padre suo, nella quale diceva che sarebbe ritornato, doveva apparire solo nella vita futura, al momento della risurrezione generale! E nel frattempo, chi lo testimonierà, chi lo renderà credibile soprattutto a coloro che lo scandalo della croce disturberebbe così profondamente? È per questo che Gesù promise subito di mostrarne ai testimoni privilegiati un esempio nella vita presente: promessa che adempì in questa meravigliosa trasfigurazione, di cui San Pietro, alla fine della sua carriera, proprio alla vigilia del suo martirio, fece il commovente ricordo nelle supreme raccomandazioni che lasciò alla Chiesa (II Petr., I, 16): « Non vi abbiamo fatto conoscere la potenza e l’avvento (parousia, παρουσίαν) del nostro Signore Gesù Cristo sulla base di favole ingegnose – scrisse – ma come testimoni oculari della sua maestà, quando ricevette onore e gloria da Dio Padre, e che d’una gloria magnifica, una voce dal cielo disse: Questi è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto. E abbiamo sentito questa voce dal cielo quando eravamo con Lui sul santo monte. » – Da tutto questo risulta apertamente, che il testo invocato dai nostri avversari (sunt quidam de hic stantibus, qui non gustabunt mortem donec videant Filium hominis venientem in regno suo), non è in alcun modo ad rem, che è falso, che è del tutto estraneo e fuori dal punto in discussione. A fortiori lo stesso deve essere detto di quello di quello che Renan ha portato fino all’estremo, per dimostrare che le affermazioni di Gesù sulla prossimità della catastrofe finale non lasciavano spazio ad equivoci: Quando si vede il rosso di sera, si prevedete che sarà bel tempo; quando si vede il rosso ombroso del mattino, si annuncia la tempesta. Come mai voi che giudicate l’aspetto del cielo non conoscete i segni dei tempi? Infatti, sarebbe impossibile per noi che abbiamo ricevuto la comprensione delle Scritture dalla Chiesa, vedere in questa risposta del Salvatore a coloro che, per tentarlo, gli chiedevano di mostrare loro un segno dal cielo, una qualsiasi allusione, anche remota, anche solo apparente, all’arrivo dei tempi segnati per la fine del mondo. Possiamo vedere, senza difficoltà, che Gesù rimprovera i giudei di non saper riconoscere i segni dati nelle profezie per questa venuta del Messia, che doveva compiersi in grande povertà ed umiltà per la redenzione del genere umano e l’espiazione del peccato. Ma non ci sarebbe mai venuto in mente di sminuire questo testo nel senso dell’ultimo avvento, che si riconoscerà da solo, senza bisogno di segni di alcun tipo. E se qualcuno vi dice: « Ecco, è nel deserto, ecco, è nei luoghi più interni della casa, non lo credete. » Non è più il tempo che Egli verrà in questo modo, in una casa particolare, una città oscura, un deserto, ma apparirà improvvisamente con una brillantezza sorprendente, come un lampo che si vede rapidamente andare da levante a ponente, da una parte all’altra del cielo, così il Figlio dell’uomo apparirà in tutta la terra. La causa dell’incomprensione dei razionalisti è, dunque, che essi hanno supposto che l’avvento messianico e la Parusia siano una stessa cosa, così che riferiscono indistintamente a quest’ultima tutto ciò che è detto nel Vangelo riguardo al primo. Inutile aggiungere che essi si guardano bene dal dimostrare il principio stesso, preferendo, piuttosto che tentare una tale impresa, assumerlo come una verità primaria che non richiede alcuna dimostrazione. Noi non li seguiremo su questo terreno, e li lasceremo in possesso della loro incrollabile certezza; però è certo che pregheremo il Padre delle luci di togliere il velo che è steso sui loro cuori, affinché possano finalmente riconoscere questo avvento di grazia e di misericordia, che li metterebbe sotto la copertura del futuro avvento della giustizia, secondo il voto della Chiesa nelle solennità del Natale: Ut quem Redemptorem læti suscipimus, venientem quoque Judicem securi videamus.

LA PARUSIA (7)


LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA – OBBLIGHI DI UN PASTORE (I)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (4)

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE

AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (I)

Che cosa deve far un Vescovo per soddisfare alle sue obbligazioni? Io tremo nel dover risponder a questa interrogazione, perché potrebbe parer a taluno, che io fossi ardito a tal segno di voler prescriver leggi ai Pastori della Chiesa. Nondimeno ho speranza, che troverò scusa appresso tutti quelli, che mi leggeranno, quando vedranno, che io non parlo né come Autore, né come Teologo alla Chiesa Cattolica, ma come un semplice raccoglitore dei sentimenti dei Teologi, dei Padri e dei Concilii. Ma per trattare quest’argomento con qualche metodo, convien distinguere nell’esercizio del pastoral ministero due tempi diversi; tempo di calma, e tempo di tempesta. Ricerchiamo dunque i doveri d’un piloto nella calma, e conosceremo insieme i suoi doveri nella procella. Mostratemi gli obblighi d’un pastore, che non è circondato dai lupi, ed io vi mostrerò i suoi obblighi, quando i lupi insidiano l’ovile e la greggia. Quello, che un pilota, e un pastore è tenuto a fare in tempo che gode la pace coi venti e colle fiere, è molto più tenuto a farlo, quando entra in battaglia colle fiere e coi venti. E quello che un Vescovo deve al suo popolo in tempo di calma, lo deve molto più al suo popolo in tempo di agitazione.

Dunque quali sono i principali doveri di un Vescovo in tempo di pace?

Gesù Cristo ha chiamato se medesimo col nome di Pastore: Ego sum pastor bonus (Ioan. X, 11). Egli medesimo raccomandando a S. Pietro tutti i fedeli, lo ha dichiarato Pastor della Chiesa: Pasce agnos meos… pasce oves meas (Joan. XXI, 16, 17). S. Paolo Apostolo indirizzando il discorso a tutti i Vescovi raccomanda loro, come a Pastori la greggia: Attendite vobis, et universo gregi, in quo vos Spiritus Sanctus posuit Episcopos regere Ecclesiam Dei (Act. XX, 28). Dunque, i doveri di un Vescovo sono quelli di un Pastore, cioè, secondo il Concilio di Trento, di pascère il suo popolo colla divina parola, coll’amministrazione de’ Sacramenti (Concil. Trident. Sess. XXIII, Decr. de ref. c.1, Act. Eccles. Mediol. part. A, orat. S. Carol. in Concil. Province. primo Lugdun. 1682, pag. 50), e coll’esempio di tutte le buone opere. « Præcepto divino mandatum est omnibus, quibus animarum cura commissa est, oves suas agnoscere… verbique divini prædicatione, Sacramentorum administratione, ac bonorum omnium operum exemplo pascere. » – E per cominciare dal primo, il predicare al popolo la divina parola è un obbligo così rigoroso in un Vescovo, che non lo può dispensare, se non un legittimo impedimento, perché la predicazione, del Vangelo è il principale ufficio del Pastore (Concil. Cart. 4, can. 20, Concil. Mogunt. an. 813, can. 25, Concil. Rhemens. 2, c. 14 et 15, Tolet. A1, can. 2, Trullan. can.19, 20, Arelat. an. 843, can. 3, Turonens. 3, an. 81 3, can. 17, Ticinens. an. 850, can. 5, Lateran. 4, can. 10, Avenion. an. 1209, can. 4, Paris. an.1212, can. 3, Balsamon. în can. 58, Apost. Orat. S.Carol. in 2 Concil. Provinc. Bellarmin. ad Nepot. contr. 2). Perciò, allorquando il Vescovo è consacrato, gli consegnano il Vangelo, e gli dicono: Accipe Evangelium, vade, et prædica populo tibi commisso [Ricevi il Vangelo e predica al popolo a te affidato]. Nè queste sono leggi antiquate, o che possano abolirsi. L’ultimo general Concilio di Trento lo ricorda e lo ingiunge a tutti i Pastori in questa forma: Quia  vero Christianæ Reipublicæ non minus necessaria est prædicatio Evangelii, lectio; quam et hoc est præcipuum Episcoporum munus; statuit, et de- crevit cadem Sancta Synodus, omnes Episcopos, Archiepiscopos, Primates, et omnes alios Ecclesiarum Praclatos teneri per se ipsos, si legitime impediti non fuerint, ad prædicandum sanctum Jesu Christi Evangelium. (Concil. Trident. Sess. 3 de reform. cap. 2) Ripete la stessa cosa alla sessione vigesima quarta capo quarto; e senza questa né pure una lunghissima desuetudine può dispensare i Vescovi da questa legge, la quale, come abbiam veduto coll’autorità dello stesso Concilio, non è legge Ecclesiastica, ma divina: Præcepto divino mandatum est. E infatti le pecore devono seguir il Pastore, e ascoltar la sua voce, e il Pastore deve chiamarle a nome una per una, e condurle al pascolo: Ques vocem eius audiunt, proprias oves vocat nominatim et adducit eas. Et cum proprias oves emiserit, ante eas vadit: et oves illum sequuntur, quia sciunt vocem eius [Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce – Joan. X, 3 et segg.). Dunque è necessario, che il Vescovo faccia sentire al Popolo la sua voce. Di più i Vescovi sono i successori degli Apostoli nell’Episcopato, e gli Apostoli hanno predicato per se medesimi il Vangelo per tutta la terra: In omnem terram exivit sonus eorum, et în  fines orbis terræ verba eorum [Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola. – Psalm. XVIII, 5]. S. Paolo protestavaagli Efesini di aver predicato e in pubblico, e per le case; Vos scitis… quomodo nihil subtraxerim utilium, quominus annuntiarem vobis, et docerem vos publice, et per domos [voi sapete … come non mi sia sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio pubblicamente e nelle case … – Act. XX). Aggiungeva, che questo fosse un dovere, e guai, se non avesse predicato, (1 Cor., IX, 16). Si Evangelizavero non est mihi gloria, necessitas enim mihi incumbit: væ enim mihi est, si non evangelizavero [Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo (1 Cor. IX, 18). Non enim misit me Christus baptizare, sed evangelizare. Quindi scriveva a Tito: Tu autem loquere, quæ decent sanam doctrinam [Tu però insegna ciò che è secondo la sana dottrina:  – Ad. Tit. II, 1]; e a Timoteo: Prædica verbum, insta opportune: argue, obsecra, increpa in omni patientia, et doctrina [… annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. – 2 Timot. IV, 2].Che però il Concilio Romano dell’anno 1074 arriva a dire, che niente giova a un Vescovo l’esser virtuoso, se poi non è capace0d’istruire il suo popolo (Concil. Roman. an. 1074, cap. 16), e di esortarlo a mantenersi nella sana dottrina. « Oportet Episcopum esse Doctorem: nihil enim prodest ei conscientia virtutum perfrui, nisi et creditum sibi populum posset instruere, et valeat exhortari in doctrina, et eos qui contradicunt redarguere.. [… è necessario che il Vescovo sia dotto, nulla gli vale una   non ha credito nell’insegnare ed esortare alla dottrina e redarguire gli oppositori …] » E questo è ciò, che scriveva anche S. Girolamo (lib. 2 ep. select. 2) a Paolino: Sancta quippe rusticitas solum sibi prodest: et quantum ædificat ex vitæ merito Ecclesiam Christi, tantum nocet, si destruenti non resistat.[una santa rusticità serve a sé solamente, ma edifica col merito della Chiesa di Cristo, e tanto nuoce se non resiste ai ribelli]. – Troppo sarebbe, se io volessi qui riferire tutti i detti de’ Padri, i quali, (S. Gregor. Reg. Past. p. 2, c. 4 et in Evang. hom. 17,S. Agost. ep. 59, S. Leone ep.62, S. Isidor. de Eccles. offic. l. 2,S. Iar. 1.8 de Triniît. S. Cæsar. Vit. c. 6, S. Fulbert. Carnot. ep. 88ad Robert. Petrus Blesens. de instit. Episc. S. Thom,3 p. q. 67,art. 2) quando hanno parlato de’ Vescovi, si sono sempre dichiarati per questo incontrastabile loro dovere. Ma ecco quello, che scriveva S. Bernardo a un semplice Abate, ricordandogli l’obbligo di pascere col pane della divina parola i suoi sudditi, e sciogliendo insieme quelle (Bern. ep. 101, n.2) difficoltà, che dall’umana pigrizia. si sogliono produrre. « Procura di farti trovare dal servo fedele e prudente, e di comunicare a’ tuoi fratelli il celeste grano senza invidia, e di distribuirlo senza pigrizia; e non volerti scusar vanamente col dire, che sei uomo nuovo ed imperito; il che non so, se tu lo credi veramente, o pure se il fingi. Imperocchè non piace una infruttuosa verecondia, né deve lodarsi una falsa umiltà. Abbi dunque l’occhio al tuo impiego. Caccia via la vergogna in riflesso del tuo dovere, ed opera da maestro. Sei uomo nuovo, ma sei debitore; e sappi, che allora sei divenuto debitore, quando hai preso questo legame. Forse la novità Scuserà appresso il tuo creditore la perdita che farai del guadagno? Forse il trafficante soffre, che Scorrano senza frutto i primi mesi? Ma risponderai, che non sei abile a questo incarico. Come se il tuo buon animo dovess’essere accetto per quello, che non hai, e non piuttosto per quello, che hai. Devi esser pronto a render ragione di quel solo talento, che hai ricevuto, e niente più. Se hai ricevuto molto, molto hai da rendere; se poco, devi fruttificar questo poco. Imperocché chi non è fedele nel poco, non lo è né pure nel molto. Dà tutto quello che hai, perché dovrai render conto sino all’ultimo denaro; ma certamente quello che hai, non quel che non hai.» Qui finisce il Santo; ed io discorro così: Se s. Barnardo incaricava sì strettamente ad un Abate di predicare a’ suoi Monaci, che avrà poi detto a un Pastore di molte migliaia di anime? Così pensava ancora Giuliano Pomerio quando scriveva (De vit. contempl. l. 1, c. 21). « Nec vero se per imperitiam Pontifex excusabit, quasi » propterea docere non valeat, quod ci sufficiens, et luculentus sermo non suppetat; quando nulla alia Sacerdotis doctrina debet esse, quam vila; salisque auditores possint proficere, si a Doctoribus suis, quod vident Specialiter fieri, hoc sibi ctiam simpliciter » audiant prædicari: dicente Apostolo: Et si imperitus sermone, » sed non lingua….. Non igitur in verborum splendore, sed in Operum virtute totam prædicandi fiduciam ponat. » Ed infatti chi doveva parere più insufficiente a predicare di un Ambrogio, che di laico all’improvviso fu creato Vescovo, e dai tribunali fu di repente introdotto nel Santuario? Lo rifletteva egli medesimo; e pure non si credeva per questo dispensato dall’ob- bligo di predicare (S. Ambr. Office. 1. 1, c.1): S. Agostino racconta di averlo sentito (Conf. I. 6, c. 3) egli medesimo a predicare ogni Domenica. Chi potrà dunque scusarsi al tribunale di Dio per non avere dispensata al popolo la sua parola, quando Dio gli rinfaccerà l’esempio di un laico togato, che in un giorno solo è divenuto zelante banditore del suo Vangelo? Ma se in ogni tempo; e di precetto divino è tenuto un Pastore ad aprire le labbra colle sue pecorelle, molto più sarà tenuto di farlo in tempo di persecuzione. S’egli è obbligato a conservar la fede, quando è rispettata, molto più è obbligato a difenderla quando è assalita. S’egli deve guidar le pecore ai pascoli, quando i pascoli sono sani, molto più deve guardarle, quando sono infetti. Le pecore non conoscono i lupi, conoscono solo il pastore; e se il pastore non parla, andran senza riparo in bocca ai lupi. E se anche le pecore conoscessero il lupo, tuttavia non potrebbero da se difendersi; tocca al pastore o a custodirle nell’ovile, o a farsi innanzi a loro, e a spaventar colla sua voce, e a cacciare il lupo. Non è un pastore, ma un mercenario colui il quale quando vede venire il lupo, o fugge, o si nasconde, questo è segno, che le pecore non sono sue; questo è indizio, che a lui non appartengono quelle pecore (Joan. X, 12 et segg.). « Mercenarius autem, et qui non est pastor, cuius non sunt oves propriæ, videt lupum venientem, et dimittit oves, et fugit: et lupus rapit, et dispergit oves. Mercenarius autem fugit, quia mercenarius est, et non pertinet ad eum de ovibus. [Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore ]» Ma il Pastore deve alzar la voce anche contro quelli, che non sembrano lupi al di fuori, e che si coprono colle lane degli agnelli? Sì: bisogna avvisar le pecore, che si guardino anche da questi. Così ha fatto il primo Pastore Gesù Cristo Signor Nostro, il quale ha detto espressamente: (Math. VII, 15). Attendite a falsis prophetis, qui veniunt ad vos in vestimentis ovium, intrinsecus autem sunt lupi rapaces. [Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci]. Anzi più contro questi, che non contro gli altri,quanto è più facile il pericolo di seduzion nelle pecore. Se la pecora non può difendersi dal lupo, fugge almeno da lui, quando lo conosce per tale. Ma da un lupo travestito d’agnello la pecora né si difende, né fugge. « Episcopi, præsbyteri, scriveva Alcuino (de Offic. divin. de tons. Cleric.) debent annuntiare populis sibi subiectis adventum nequissimi hostis diaboli ut se prævideant, ne eius laqueo capiantur. »Ma dovrà dunque un Pastore espor la vita per la difesa delle sue pecorelle? Il Mercenario no: ma il Pastore anche la vita deve perdere per la loro salute. (Joan. X, 11). Così ha insegnato, e ha praticato Gesù Cristo. Ego sum Pastor bonus. Bonus Pastor animam suam dat pro ovibus suis. [Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore]. È vergogna per un Pastore, diceva Giovanni Scolastici (de Pastor Offic.) il temere la morte: Confusio est Pastori formidare mortem. (Quindi asseriva giustamente Giovanni Fonseca Dottore Spagnuolo nella sua Orazione recitata (Lab. t. 20, col.572) ai Padri del Concilio di Trento. Tenetur Pastor, sì quandoingruerit persecutionis procella, exemplo sui ducis Christi Crucifixi proprium caput pro ovium salute periculis obiicere; I fasti della Chiesa sono pieni delle gesta di zelanti Pastori, che hanno sostenuta la morte in difesa della fede, ed essi sono grandi nel Cielo, non per aver fatta un’opera di libera elezione, ma per aver compito intrepidamente al debito loro.Fu ricercato S. Pietro Damiani da Enrico Arcivescovo di Ravenna, qual fosse il suo sentimento su l’Antipapa Cadolao, e insieme fu avvertito, che mandasse la sua risposta segretamente per. non esporsi a qualche affronto. Che cosa rispose il Santo? Rispose circa il primo punto, ch’egli giudicava Cadolao un simoniaco, e perciò indegno del Pontificato. E intorno al secondo punto, eccole sue parole: (Petri Damian. L 3, p. 4 edit. Bassan.1783 t. 1,col. 91). « Quod autem scripsistis, ut mitterem vobis litteras taciturnitate signatas, quasi paterno mihi consulentes affectu, ne adversafortassis incurrerem, si sensa cordis cum libertate proferrem;absit a me, ut in tali negotio dura prorsus, et aspera perpetisubterfugiam, et negligendo tam ingenuæ matris incestum, sub, umbra degener filius delitescam. Immo peto, ut epistola hæc in publicum veniat, et sic per vos, quid super hoc totius mundi periculo sentiendum sit, omnibus innotescat. »Ma se non si spera di placar la fame dei lupi, né di ritirarle pecore dal pascolo dovrà tanto e tanto il Pastore alzar la voce autorevole, ed esporsi forse a un insulto? Il Pastore sì: il Mercenario no: perché il mercenario non cerca che il suo vantaggio, e il pastore non bada che al suo dovere. Dio, che consegnò quella greggia al pastore, non gli domanderà conto della vita delle pecore, ma gli chiederà conto della sua vigilanza. La vita delle pecore non dipende totalmente dal pastore; dal pastore dipende il vegliare perché non si perdano. (Ezech. III, 17) « Io ti ho messo, disse Iddio ad Ezechiele, io ti ho messo per guardia della casa d’Israele; ed ascolterai le parole, che escono dalle mie labbra, e le promulgherai ad essi in mio nome. Se quando io dico all’empio, tu morirai, non lo farai sapere a lui, e non parlerai, affinché rivolga i passi dall’empio sentiero, e non muoia, colui se ne morrà nel suo peccato, ma io domanderò conto alle tue mani del suo sangue. Che se tu l’annunzierai all’empio, ed egli non si ritirerà dal suo peccato, e dall’iniquo sentiero; egli senza dubbio morirà nella sua iniquità,ma tu avrai messo in salvo l’anima tua. » Ecco il primo dovere di un Pastore, cioè di sgridar gli empii, che cercano di divorare la greggia, benché non speri, che costoro cangino le vie e i pensieri d’iniquità. Segue adesso l’altro dovere di un Pastore, cioè di ammonire i giusti, perché non si lascino depravar dagli empii (Ibi 20 et seg.) … « Che se un giusto abbandonerà le vie della giustizia, e diverrà iniquo: metterò un’inciampo dinanzi a lui, egli morirà, perché tu non l’hai avvertito; morirà nel suo peccato, e non resterà più memoria dell’opere buone ch’egli fece: ma del suo sangue io domanderò conto alle tue mani. Ma se tu avviserai il giusto, perché non pecchi, ed egli infatti non peccherà: conserverà la sua perché tu l’ammonisti, e tu avrai messo in salvo l’anima tua. » – Non son forse queste espressioni, e questi sentimenti a sufficienza terribili per l’anima di un Pastore? Ma se queste non bastano (Ved. le constitut. Apost. lib. 2, cap. 20), eccone delle altre (Ezech. XXXIV, 2 et segg.): « Guai, dice il Signore Iddio ai Pastori d’Israele, che pascevano se medesimi: non son forse le greggi, che devon esser pasciute dai Pastori? Voi mangiavate del latte, e vestivate delle lane, e uccidevate le più pingui agnelle; ma non pascevate la mia greggia. Non rinvigoriste le deboli, non risanaste le inferme, non fasciaste le lor ferite, e non riconduceste le smarrite, e non cercaste conto delle perdute; ma sovrastaste loro con austerità e con potere. E le mie pecore andaron disperse per non aver pastore; e caddero in bocca a tutte le bestie del campo, e si dispersero… Ecco dunque, che io stesso domanderò conto ai pastori della mia greggia.» – Faremo ancora tanto caso di questa scusa: a che serve il predicare, l’ammonire, il correggere? in questi tempi non può sperarsi alcun profitto. Ma dunque non è ancora evidente, che Iddio non cerca dal pastore la guarigion delle pecore, ma la cura della lor infermità. Nè pur da Pietro cercava Gesù Cristo altra cosa, fuorché il medicar le pecore, non già il guarirle, come diceva il Dottor Pietro Frago ai Padri (Labbé tom. 20, col. 332) del Concilio di Trento. Ne Christus quidem aliud a Petro postulavit: non enim a Pastore sanatio, sed cura, et sollicitudo exigitur. E Pietro Blesense al Vescovo di Orleans, esortandolo a difendere l’Immunità dinanzi al Principe (ep. 112): Ab exortatione, gli scrive, quæso non cesses, licet ille suorum consilio assessorum se obduret. Non scriveva S. Paolo a Timoteo, che aspettasse il frutto delle sue prediche, ma bensì che predicasse in tutte le guise. (2 Timoth. IV, 2). Prædica verbum, insta opportune; importune; argue, obsecra, increpa in omni patientia, et doctrina. [… annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina]. Che ottenne Gesù Cristo dai Giudei, che lo perseguitavano, colle sue prediche? Ottenne la morte sopra un patibolo, e questa fu la sua gloria più bella, e la sua maggior soddisfazione. – Bisogna leggere ciò, che scriveva S. Bernardo a Papa Eugenio intorno all’obbligo di predicare anche ai ribelli della fede, e ai trasgressori della legge. Voi dite, scriveva (de Consid. l. 4, c. 4, num. 8) il Santo Dottore, voi dite, che non siete punto migliore dei vostri Padri, i quali non furono ascoltati, ma anzi piuttosto derisi da un popolo iniquo. Ma appunto Maggiormente per questo voi dovete insistere per vedere se mai diano orecchio, e si calmino, insister dovete anche con quelli, che vi resistono. Potrebbe darsi, che queste mie parole vi sembrassero troppo avanzate. E che son forse (2 Timot. IV, 2) mie quelle parole: Insta opportune, importune?All’Apostolo, e non a me dovete dar la taccia d’indiscreto, se avete tanto coraggio. A un Profeta si comanda (Isai. LVIII, 1). Clama, ne cesses. E con chi? se non se cogli scellerati, e coi peccatori? Annuntia populo meo scelera eorum, et domui Jacob peccata eorum. Avvertite saggiamente, che s’indicano insieme e gli scellerati, e il popolo di Dio. Dovete far l’istesso concetto dei vostri Sudditi. Quantunque siano scellerati ed iniqui, guardatevi da quel rimprovero del Signore (Matth. XXV, 45), Quod uni ex minimis meîs non fecisti, nec mihi fecisti. Confesso, che codesto popolo sino ad ora ha mostrato una cervice dura, e un cuore indomito, ma non vedo poi, come possiate saper di certo, che sia un popolo affatto indomabile. Può succedere quello, che sino ad ora non è accaduto. Se voi diffidate, ricordatevi per altro, che nessuna cosa è impossibile dinanzi a Dio. Se hanno una fronte dura, indurate ancor voi la vostra contra di loro. Nessuna cosa è tanto dura, che non ceda a una più dura di lei. Diceva Iddio al Profeta (Ezec. III, 8). Dedi frontem tuam duriorem frontibus corum. [Ecco io ti do una faccia tosta quanto la loro e una fronte dura quanto la loro fronte]. Una sola cosa vi si può assolvere, cioè se avete operato col vostro popolo in guisa, che possiate dire; Popule meus, quid tibi debui facere, et non feci? [Popolo mio cosa avrei dovuto fare che non ho fatto?]. Se avete operato così, ma senza profitto, ecco che cosa vi resta da fare, e da dire. Uscite fuori da codesta Città dei Caldei, e dite, che v’è bisogno di predicare anche ad altre Città. Credo, che non vi pentirete d’andar esule, cangiando una Città con tutto il mondo. V’è dunque un tempo, in cui può un Pastore lasciar di predicare e di correggere il suo popolo. Ma quando? non quando teme di non far profitto, ma quando, dice S. Bernardo, avendo predicato, sgridato e resistito a un popolo iniquo, trova di non aver ricavato alcun profitto: « Insiste Magis… insiste et resistentibus …. Potest » fore, quod nec dum fuit….. Si dura fronte sunt, durato et tu contra tuam…… Unum est, quod te absolvit, si egisti cum populo illo, ut possis dicere: Popule meus, quid tibi debui facere, et non feci? » – Non sono meno spaventosi i sentimenti di S. Pietro Damiani a Niccolò II Pontefice. Signoreggiava a quei tempi fra i Chierici l’incontinenza, e scriveva il Santo al Sommo Pontefice (S. Petri Damian. Opusc. 18, Dissert. 2, cap. 8, tom. 3, col. 409) ricordandogli il suo dovere di opporsi con tutto lo zelo all’inondazione di questo vizio. « Valde tibi cavendum est, venerabilis Pater, qui quamvis temetipsum præbeas vernantis pudicitiæ candore conspicuum permittis tamen, ut in Clero tuo, tamquam cruenta illa Iezabel, obtineat luxuria principatum; de qua nimirum Angelo Thiatiræ Ecclesiæ dicitur ( Apoc. II, 20). Habeo adversum te pauca: quod permittis mulierem Iezabel, quæ se dicit Prophetam, docere el seducere servos meos fornicari. [Ma ho da rimproverarti che lasci fare a Iezabèle, la donna che si spaccia per profetessa e insegna e seduce i miei servi inducendoli a darsi alla fornicazione e a mangiare carni immolate agli idoli.]. Authentica certe est illa sententia, qua dicitur: Facti culpam habet, qui quod potest, negligit emendare. Quid enim profuit Heli (1 Reg. II), quia in luxuriam ipse non corruit, sed fornicantes filios paterna quidem pietate,non autem sacerdotali auctoritate corripuit? » [Eli non si diede alla lussuria, ma non emendò il comportamento dei figli con la sua autorità sacerdotale]. Al quale proposito soggiunge altrove il Santo (Opusc. 17, col. 379): « Si ergo Heli propter duos dumtaxat filios, quos non ea, qua digni crant, invectione corripit, cum eis simul, et cum tot hominum moltitudine periit; qua arbitramur dignos esse sententia, qui in aula Ecclesiastica, et soliis indicantium praesident, et super non ignotis pravorum hominum criminibus tacent? Qui dum dehonestare homines in publico metuunt, ad contumeliam superni Iudicis divinæ legis mandata confundunt; et dum perditis hominibus amittendi honoris officium servant, ipsum Ecclesiasticæ dignitatis Auctorem crudeliter inhonorant. » Conformi a questi sentimenti di S. Pier Damiani son pure le parole del Concilio di Aquisgrana, ann. 816, (lib. 1, cap. 26, Labbé tom. 9, col. 434). « Ille autem, » cui dispensatio verbi commissa est etiam si sancte vivat, et tamen perdite viventes arguere aul erubescat, aut metuat, cum omnibus, qui eo tacente perierunt, perit. Et quid ei proderit non puniri suo, qui puniendus est alieno peccato? » Quindi è, che Papa Agatone nella sua lettera a Tiberio ed Eraclio, Augusti, recitata nell’Azione quarta del terzo Concilio Costantinopolitano, ed Ecumenico l’an. 680 dopo aver esaltata la libertà Apostolica dei suoi predecessori nell’annunciare con infallibile certezza la Fede, soggiunge di se stesso così; (Labbé tom. 7, col. 662). « Væ enim mihi erit, si veritatem Domini mei, quam illi sinceriter prædicarunt, prædicare neglexero. Vae mihi erit, si silentio texero veritatem, quam erogare nummulariis iussus sum, idest Christianum populum imbuere, et docere. Quid in ipsius Christi futuro examine dicam si hic, quod absit, praedicare eius sermonum veritatem confundor?... [Guai a me se dimenticassi di predicare sinceramente la verità del Signore mio …]  Quem infidelium saltem non perterreat illa severissima comminatio, qua indignaturum se protestatur, et asserit inquiens [incorrerei nelle severissima sentenza di indignazione comminata in …] (Math. X, 34): Qui me negaverit coram hominibus, negabo et ego eum coram Patre meo, qui in Coelis est. [ …chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.   » –  Ecco anche che cosa scriveva Pietro Blesense al Vescovo d’Orleans animandolo a sostenere coraggiosamente l’Immunità Ecclesiastica (Ep.112 edit. Paris.1667, pag.175): « Noli æmulari in malignantibus Episcopis dico, qui Regem tuum blandis adulationibus palpant, canes muti, non valentes latrare. Acceptissima quidem est in Episcopis apud Deum professio veritatis. Animam pro veritate ponere non formides, ut videas dies bonos, quia sanguinem pereuntis Dominus de manu muti Sacerdotis exquiret. Arca siquidem Dei capitur, et populus gladio ruit, dum Sacerdos in filiorum correctione torpescit. [Non imitare quei Vescovi maligni che cercano di adulare il tuo re, che come cani muti, non abbaiano … graditissima presso Dio è nei Vescovi la professione della verità …]  »,  Io ho recato ancora altre testimonianze su questo particolare nell’Opuscolo XXX, che ha per titolo Gregorio VII, e difendono la libertà Apostolica di questo Sommo Pontefice. – E che direm poi, se dalla esecuzione del debito pastorale si temano e si prevedano alla Chiesa mali maggiori, come sarebbe per esempio una violenta persecuzione, che togliesse l’esercizio del pubblico culto, onde verrebbero i Fedeli a restar privi del pascolo dei Sacramenti e della predicazione, e si troverebbero esposti a perdere facilmente anche la Fede? Rispondo, che se la Chiesa dovesse, unicamente reggersi secondo l’umana prudenza, questa difficoltà potrebbe avere gran peso. Ma poiché la Chiesa dev’essere secondo le divine ordinazioni governata, avendo Iddio sì chiaramente comandato, che i suoi pastori non tacciano, quest’umana prudenza indurrebbe una vera trasgressione della legge di Dio, e sarebbe a Lui ingiuriosa, quasi che l’infinita sapienza, e provvidenza di Dio non avesse mezzi, onde assicurare la conservazione e il buon ordine della sua Chiesa. Si potrà, non nego, in qualche caso differire l’ammonizione e la correzione, aspettando circostanze più favorevoli; ma è assai da temere per i Pastori, che la stessa dilazione non renda poi la piaga immedicabile, e che ciò che non si è fatto da prima per timore di qualche scandalo, si renda sempre più difficile a farsi in progresso, allorquando la piaga non medicata si sarà dilatata anche alle membra più sane, e avrà distese le sue radici alle parti vitali del corpo. Allora farà d’uopo d’una cura più assidua, d’un ferro più tagliente, d’una scienza più profonda, di un coraggio più intrepido. Allora l’infermo si contorcerà ed urlerà sempre più alla vista del medico e all’apparato della medicina; sinché atterrito l’uno e l’altro, arrivi finalmente a incancrenire la piaga, e a toglier la vita. Troppo pericolosa è quest’umana prudenza, la quale scuserebbe quasi sempre i Pastori dall’obbligo di ammonire e correggere i delinquenti. Imperocché quando mai accade, che questi cedano alla verga pastorale senza resistenza? È notabile a questo proposito ciò, che leggesi nei Dialoghi di Severo Sulpizio (l. 3) essere accaduto al Vescovo S. Martino. L’Imperator Massimo avea minacciato al Santo, che se egli non avesse comunicato con Itacio, da cui più Vescovi cattolici si erano separati per aver egli procurata la sentenza di morte contro i Priscillianisti, avrebbe mandato i tribuni nella Spagna a togliere e sostanze e vita a questi eretici. Non v’era dubbio, che in questa esecuzione sarebbero stati compresi anche molti cattolici de’ più santi. E perché Martino non avea voluto cedere all’istanze dell’Imperatore, questi avea già diretti i tribuni cogli ordini i più violenti. « Quod ubi Martino compertum est, dice Severo, iam noctis tempore, Palatium irrumpit, spondet, si parceretur, se communicaturum, dummodo Tribuni iam in excidium Ecclesiarum ad Hispanias missi retraherentur. Nec mora intercessit; Maximus indulget omnia. » E di fatti Martino comunicò coi Vescovi Itaciani nell’ordinazion di Felice, satius aestimans ad horam cedere, quam his non consulere, quorum cervicibus gladius imminebat. Convien qui riflettere, che alla fine Itacio non era un’eretico, onde il comunicare cogl’Itaciani non era un approvare qualch’errore, ma piuttosto un mostrare di non disapprovare la loro sanguinolenta condotta contro gli eretici contraria allo Spirito della Chiesa, la quale ha bensì procurato la deportazione degli eretici ostinati e perniciosi, ma si è sempre astenuta dal domandare contro di loro la pena capitale. Inoltre S. Martino vi aveva acconsentito per breve tempo ad horam e per salvare tant’innocenti, che altrimenti, sarebber periti. E pure ciò non ostante egli ne provò di poi un gran rammarico, e n’ebbe quest’avviso da un Angelo: « Merito, Martine, compungeris, sed aliter exire nequisti. Repara virtutem, resume constantiam, ne iam non periculum gloriæ, sed: salutis incurreris. » Laonde da quel tempo in poi si guardò il Santo con gran diligenza dal comunicare cogl’Itaciani. E non dimeno confessava egli stesso, che dopo un tal fatto avea sentita diminuire in sé medesimo la virtù de’ miracoli. « Cæterum, cum quosdam ex energumenis tardius quam solebat et gratia minore curaret, subinde nobis cum lacrimis fatebatur, se propter communionis illius malum, cui se vel puncto temporis, necessitate, non spiritu miscuisset, detrimentum sentire Virtutis. » Questo fatto può far comprendere, quanto dispiaccia a Dio qualunque azione ed omission d’un Pastore la quale diasegno o di approvare, o di non disapprovare abbastanza l’erroree l’empietà de’ malvagi, per il motivo di non irritarli vie più contro la Chiesa, e d’impedire mali maggiori. Se una qualche connivenza fosse in alcuni casi tollerabile, lo sarebbe al più ad horam per impedire un’imminente disordine, e a patto di ritrattarla subito che fosse possibile, come fece il santo Vescovo, e nei termini più ristretti, come praticò questo Santo, il quale comunicando una sola volta cogl’Itaciani, verumtamen summa vi Episcopis nitentibus, ut communionem illam subscriptione firmaret, extorqueri non potuît. Il vero è, che S. Ambrogio non volle dipoi a nessun patto comunicare cogl’Itaciani, sebbene con ciò irritasse sommamente l’animo di Massimo, e mettesse un impedimento ai felici effetti della sua legazione presso quest’Imperatore. (Paulin in vit. S. Ambros. et Ambros. in epist. ad Valentinian.). – Se S. Ambrogio avesse abbracciata questa falsa opinione, che per impedire maggioni mali si può condiscendere nelle cose, che immediatamente non riguardano il dogma, certamente non si sarebbe opposto con tanta fermezza a Valentiniano, che voleva, che gli consegnasse la Basilica e i sacri vasi per darli dipoi in mano agli Ariani. Avrebbero potuto dire, ch’egli cedeva le cose sacre all’Imperatore, che non apparteneva a lui il cercare ciò ch’egli ne avrebbe fatto, ch’esso non acconsentiva al sacrilego uso che ne farebber gli eretici; e che intanto era men male condiscendere agli ordini del Principe, che non esporre resistendo tutti i Cattolici alla di lui collera. Poteva aggiungere, che non volendo ubbidire, egli sarebbe stato per lo meno cacciato in esilio, e che il popolo senza pastore sarebbe poi stato facilmente sedotto dagli eretici; e che perciò non era prudenza il voler contrastare ai comandi risoluti di un Monarca irritato. E pure tale non fu il discorso del Santo Dottore, né conforme a questi dettami fu la sua risoluzione; ma rispose intrepidamente: « Absit a me, ut tradam Christi hæreditatem… Respondi ego quod Sacerdotis est; quod Imperatoris est, faciat Imperator; prius est, ut animam mihi, quam fidem auferat… Fugere autem et relinquere Ecclesiam non soleo; ne quis gravioris poente metu factum interpretetur. Scitis et vos ipsi, quod Imperatoribus soleam deferre non cedere; suppliciis me libenter offerre, nec metuere quæ parantur (Ambr. In Auxent.).» Ma perché il Santo sostenne coraggiosamente la causa di Dio, che ne seguì? Ecco che cosa ne dice il Cardinal Baronio nella sua Storia ecclesiastica. « Sed quæ post hace sunt subsequata? admiratione plane digna, Uni Ambrosio pro Ecclesiastica libertate pugnanti populus ac milites subditi atque principes, terra cœlumque mortales et superi, viventes atque vita functi, et quid insuper? ipsi denique spiritus adversarii, licet inviti, ei lamen præsto fuere. »