UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. PIO IX – “MAXIMÆ QUIDEM”

Questa breve Lettera Enciclica, con la quale il Santo Padre Pio IX, elogia l’operato dei Vescovi bavaresi nel difendere la sana dottrina cattolica, nel rivendicare i sacrosanti diritti della Santa Sede, e nel difendere il pensiero cristiano nelle scuole superiori dalle ignobili e false ideologie che fin da allora infestavano le menti di giovani destinati a diventare guide del popolo intero, merita particolare attenzione per il contenuto encomiabile sotto il profilo sociale e dottrinale che costituisce ancor oggi in modello da cui apprendere la sapienza necessaria nella conduzione retta e apportatrice di benessere per il popolo, il clero, la Chiesa tutta. Certamente oggi i modelli sociali sono quelli imposti dalla élite formata nelle scuole ideologicamente gnostico-massoniche (in Italia ad esempio ce ne sono numerose di livello universitario, tutte oggetto di propaganda opportunamente manipolata e guidate da notissimi esponenti di sette di perdizione d’oltreoceano e nostrane), ove il Cristianesimo, addirittura ridicolizzato da menti bacate e prive di ogni retta sapienza, è sostituito da filosofie prive di ogni fondamento razionale e di pura fantasia, o meglio delirio, che con linguaggio brillante ma falso ed ingannevole hanno modellato (o meglio deformato), e tuttora modellano (leggi: deformano) giovani poi destinanti, con la compiacenza di pseudo-autorità statali, a guidare ministeri, governi, l’intera Nazione. Ideologie blasfeme, astratte, fantasiose, (“ciò che penso è” … diceva il panteista Cartesio, fondando il falso metodo scientifico moderno) ma che hanno tutte in comune un feroce attacco al Cristianesimo. Eccone qualche tratto emblematico … « perché i fedeli, affidati particolarmente alla Vostra vigilanza, seguano con somma e dovuta riverenza e obbedienza Noi e la stessa Cattedra di Pietro, che è il centro della unità cattolica e non solo il Capo di tutte le Chiese, ma altresì la Madre e la Maestra, colei che allontana da ogni dove le tenebre dell’errore ed è porto sicuro per chi è agitato dai flutti (….) difendano la libertà della Chiesa Cattolica, che fu generata dal sangue del Figlio Unigenito di Dio, sposo della stessa Chiesa, e che si battano virilmente per tutti i venerandi diritti della Chiesa stessa, ad essa divinamente elargiti … ben sapete che una volta rimosse da queste scuole la dottrina, l’autorità e la vigilanza che provengono dalla Chiesa, più gravi danni e mali deriveranno, dal momento che saranno contagiati da errori e da false dottrine gli uomini del ceto più qualificato, che sono destinati a ricoprire pubblici incarichi di governo e che di solito contribuiscono a formare lo spirito della società civile. » Chi parla più così, in questa nostra società paganizzata, o meglio luciferina, con i pastori apostati e usurpanti che danno in pasto ai lupi gli agnelli loro affidati, e di cui spolpano i rimasugli eduli? … i mercenari fuggono alla vista del lupo, questi invece li attraggono e gli preparano lauti banchetti. Ma … state sereni, pagherete tutto fino all’ultimo spicciolo … dice il divin Maestro nel Vangelo … un poco di tempo e ci sarete (apparentemente vivi ma già morti dentro), un altro poco e ci sarete viventi ma nello stagno di fuoco ed … in eterno.

ENCICLICA
MAXIMÆ QUIDEM
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO IX

Ai Venerabili Fratelli Gregorio, Arcivescovo di Monaco e di Frisinga, Michele, Arcivescovo di Bamberga, e ai loro Vescovi suffraganei in Baviera.
Il Papa Pio IX. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Assai consolante fu per Noi, afflitti da gravissime preoccupazioni ed angustie, la Vostra graditissima Lettera che Ci inviaste il 20 luglio, Venerabili Fratelli, durante il congresso da Voi tenuto a Bamberga per confrontare le Vostre opinioni e per stabilire quei provvedimenti che, soprattutto in questi tempi calamitosi, possono concorrere a tutelare la causa, la dottrina, i diritti della Chiesa Cattolica e a preservare ogni giorno di più la salute dei Vostri fedeli. Infatti nella stessa Lettera rifulgono in ogni passo la Vostra eccelsa e riconosciuta fede verso di Noi e verso questa Cattedra di Pietro, l’amore, l’obbedienza e il mirabile zelo che Vi pervade nel far di tutto perché i fedeli, affidati particolarmente alla Vostra vigilanza, seguano con somma e dovuta riverenza e obbedienza Noi e la stessa Cattedra di Pietro, che è il centro della unità cattolica e non solo il capo di tutte le Chiese, ma altresì la madre e la maestra, colei che allontana da ogni dove le tenebre dell’errore ed è porto sicuro per chi è agitato dai flutti. Pertanto proviamo una grande gioia per questa Vostra eminente virtù episcopale e Ci congratuliamo di vero cuore con Voi, Venerabili Fratelli, poiché con la Vostra azione e con le lettere pastorali indirizzate ai fedeli affidati alla Vostra cura, avete fatto conoscere, con le dovute e meritate lodi, quella strettissima e ammirevole unità di tutte le Sacre Gerarchie dell’intiero mondo cattolico che sopravvive, in questi tempi luttuosi, col Vicario di Cristo in terra e con questa Apostolica Sede per singolare grazia di Dio e che rifulge ogni giorno di più per tante splendide azioni. E ancor più Ci rallegriamo del convegno che avete tenuto a Bamberga nel quale Voi tutti, Venerabili Fratelli, con intenti pienamente concordi, in ragione del severo impegno richiesto dal Vostro ministero episcopale, avete adottato quelle decisioni che, soprattutto in questi tempi, avete ritenute più idonee a tutelare la causa della Chiesa, a far valere le sue ragioni e a reprimere gli empi tentativi dei nemici che bisogna sconfiggere con l’unanime, costante e vigilante impegno dei Vescovi. E certamente, fra l’altro, spetta ai Vescovi (come già avete compreso) combattere fieramente contro i nemici della nostra santissima Religione, particolarmente in questa nostra funesta epoca. – Pertanto i Vescovi, forti del divino ausilio, devono con assidua sollecitudine alzare la loro voce episcopale e predicare il Vangelo a tutti, annunciare, trasmettere, spiegare e inculcare le eterne verità della nostra fede, la dottrina, i precetti e i dogmi dell’augusta religione ai sapienti e agl’ignoranti. Con altrettanto zelo gli stessi preposti ai sacri riti hanno l’obbligo di esporre e mostrare sia ai Sommi Principi, sia ai Governi, i mali e i danni (assai funesti e mai abbastanza deplorati) che ricadono sui popoli e sugli stessi Principi quando, come oggi, si disprezza la Religione: e prevale l’incredulità che, suggerita dalle tenebre sotto l’ingannevole apparenza di progresso sociale, si rafforza e domina ogni giorno di più a gravissimo detrimento della comunità cristiana e civile e perverte e corrompe in modo miserando le menti e gli animi degli uomini. Perciò fu motivo di sommo gaudio per Noi apprendere che Voi, Venerabili Fratelli, avete inviato una Lettera a codesto carissimo in Cristo Figlio Nostro, l’illustre Re di Baviera, perché siano difesi la nostra santissima Religione e i suoi diritti, e Ci sostiene la speranza che lo stesso Serenissimo Principe, per la pietà, la giustizia e l’equilibrio del suo animo, si adoperi di assecondare volentieri i vostri giustissimi desideri e le vostre richieste. – Certamente non ignorate, Venerabili Fratelli, che vi è un altro dovere che i Sacri Pastori devono compiere con ogni più tenace sforzo. È necessario che essi, con costante coraggio, difendano la libertà della Chiesa Cattolica, che fu generata dal sangue del Figlio Unigenito di Dio, sposo della stessa Chiesa, e che si battano virilmente per tutti i venerandi diritti della Chiesa stessa, ad essa divinamente elargiti. Inoltre è necessario che i Vescovi, con la parola e con gli scritti, non desistano mai dal richiamare alla memoria di tutti che la Chiesa è sempre esistita ed esiste perché è salvifica la forza della sua dottrina e sapientissime sono le sue leggi e le sue istituzioni; perché non solo è madre e maestra di tutte le virtù e persecutrice di tutti i vizi, ma è anche colei che fonda e modera, tra tutte le genti, la vera umanità, l’onestà, la civiltà, la libertà, il progresso, la prosperità, la tranquillità; essa sola può saldamente consolidare e salvare l’ordine pubblico dell’umano consorzio che dovunque in questi giorni è tanto violentemente sconvolto dall’empietà e dalla ribellione. Vi rivolgiamo dovute e meritate lodi, Venerabili Fratelli, perché con la Vostra Lettera inviata a codesto Governo – oltre che solleciti del bene e della guida delle scuole popolari – avete difeso in proposito la dottrina, l’autorità e i diritti della Chiesa Cattolica con ogni argomento, con forza e con intelligenza, fedeli allo spirito con cui Noi nella Nostra Epistola inviata al Venerabile Fratello Ermanno, Arcivescovo di Friburgo in Brisgovia, il giorno 14 luglio di quest’anno, fummo costretti a tutelare e rivendicare i diritti della Chiesa, al riparo dai tentativi e dalle macchinazioni dei nemici che nel Granducato di Baden giunsero al punto di proporre leggi atte a distruggere del tutto l’indirizzo cristiano delle scuole. Sebbene Noi teniamo in gran conto le ragioni per cui, Venerabili Fratelli, vi siete preoccupati tanto di difendere i diritti della Chiesa per quanto riguarda le scuole popolari, tuttavia non possiamo, in questa occasione, trattenerci dal sollecitare con insistenza l’insigne Vostro zelo episcopale affinché operiate in modo attivo e combattivo, così che siano riconosciuti e preservati gli stessi diritti della Chiesa circa le scuole superiori di lettere e delle più severe discipline. Infatti, in virtù della Vostra saggezza, ben sapete che una volta rimosse da queste scuole la dottrina, l’autorità e la vigilanza che provengono dalla Chiesa, più gravi danni e mali deriveranno, dal momento che saranno contagiati da errori e da false dottrine gli uomini del ceto più qualificato, che sono destinati a ricoprire pubblici incarichi di governo e che di solito contribuiscono a formare lo spirito della società civile. – A questo punto, Venerabili Fratelli, Vi supplichiamo di tenere presente quanto Noi esponemmo al Venerabile Fratello Gregorio, Arcivescovo di Monaco, con la Nostra Epistola del 21 dicembre dello scorso anno, circa la diffusione delle discipline filosofiche e teologiche, e Vi esortiamo vivamente a dedicare senza tregua tutte le Vostre cure e i Vostri pensieri a promuovere ogni giorno di più l’accurata formazione e l’educazione del Clero, e a non lasciare nulla di intentato, in modo che il Vostro Clero riceva quella piena e solida formazione che, attinta da pure e incontaminate fonti e sorretta dal comune insegnamento della Chiesa Cattolica, allontani tutti quei pericoli di cui sono evidentemente colpevoli gli odierni nuovi metodi d’insegnamento, fondati sulla libertà (o piuttosto sulla licenza) del sapere, e tanto ostentati. Perciò, Venerabili Fratelli, desideriamo ardentemente che vogliate richiamare alla memoria ed applicare tutte quelle disposizioni che già altre volte comunicammo e caldamente raccomandammo a tutti e ai singoli del Vostro Ordine episcopale circa la costruzione e la direzione dei Seminari per i Chierici in conformità delle sagge prescrizioni del Concilio Tridentino. – Siamo poi fermamente persuasi che Voi, Venerabili Fratelli, in virtù della Vostra esemplare religiosità e del Vostro zelo episcopale, difenderete energicamente gli altri diritti della Chiesa che non sono ancora pienamente riconosciuti in Baviera, e per i quali i Vescovi della Baviera non omisero di elevare le loro proteste soprattutto nel convegno di Frisinga. Perciò di tutto cuore approviamo la Vostra decisione di convocare ogni anno il Vostro congresso. Ciò, tuttavia non deve impedire in alcun modo che Voi, Venerabili Fratelli, facciate ogni tentativo perché possiate quanto prima concelebrare i Sinodi provinciali (come è nei Nostri voti) secondo la prescrizione dei Sacri Canoni, come hanno fatto in Germania altri Vescovi nelle loro province ecclesiastiche, con sommo gaudio dell’animo Nostro e a beneficio dei loro fedeli. Sicuramente nulla a Noi sarà più gradito che recare a Voi, in questa circostanza, ogni aiuto e soccorso. – Vogliamo infine che abbiate per certa la benevolenza particolare con cui Vi seguiamo. Di tale benevolenza ricevete, come sicuro pegno, l’Apostolica Benedizione che dal profondo del cuore impartiamo a Voi stessi, Venerabili Fratelli, a tutti i Sacerdoti e ai fedeli Laici affidati alla cura di ciascuno di Voi.

Dato a Castel Gandolfo, il 18 agosto 1864, nell’anno decimonono del Nostro Pontificato.

DOMENICA III DOPO PENTECOSTE

DOMENICA NELL’OTTAVA DELLA FESTA DEL SACRO CUORE e III DOPO LA PENTECOSTE. (2021)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La liturgia di questo giorno esalta la misericordia di Dio verso gli uomini: come Gesù « che era venuto a chiamare non i giusti, ma i peccatori », cosi lo Spirito Santo continua l’azione di Cristo nei cuori e stabilisce il regno di Dio nelle anime dei peccatori. Questo ricorda la Chiesa nel Breviario e nel Messale. — Le lezioni del Breviario sono consacrate quest’oggi alla storia di Saul. Dopo la morte di Eli gli Israeliti si erano sottomessi a Samuele come a un nuovo Mosè; ma quando Samuele divenne vecchio il popolo gli chiese un re. Nella tribù di Beniamino viveva un uomo chiamato Cis, che aveva un figlio di nome Saul. Nessun figlio di Israele lo eguagliava, nella bellezza, ed egli sorpassava tutti con la testa. Le asine del padre si erano disperse ed egli andò a cercarle e arrivò al paese di Rama ove dimorava Samuele. Ed egli disse: « L’uomo di Dio mi dirà, ove io le potrò ritrovare ». Come fu alla presenza di Samuele, Dio disse a questi: « Ecco l’uomo che io ho scelto perché regni sul mio popolo ». Samuele disse a Saul: « Le asine che tu hai perdute da tre giorni sono state ritrovate ». Il giorno dopo Samuele prese il suo corno con l’olio e lo versò sulla testa di Saul, l’abbracciò e gli disse: « Il Signore ti ha unto come capo della sua eredità, e tu libererai il popolo dalle mani dei nemici, che gli sono d’attorno ». « Saul non fu unto che con un piccolo vaso d’olio, – dice S. Gregorio – perché in ultimo sarebbe stato disapprovato. Questo vaso conteneva poco olio e Saul ha ricevuto poco, perché  la grazia spirituale l’avrebbe rigettata » (Matt.). « In tutto – aggiunge altrove – Saul rappresenta i superbi e gli ostinati » (P. L. 79, c. 434). S. Gregorio dice che Saul mandato « a cercare le asine perdute è una figura di Gesù mandato da suo Padre per cercare le anime che si erano perdute » (P. L. 73, c. 249). « I nemici sono tutt’intorno in circuitu », continua egli; lo stesso dice il beato Pietro: « Il nostro avversario, il diavolo, gira (circuit) attorno a voi ». E come Saul fu unto re per liberare il popolo dai nemici che l’assalivano, cosi Cristo, l’Unto per eccellenza, viene a liberarci dai demoni che cercano di perderci. – Nella Messa di oggi il Vangelo ci mostra la pecorella smarrita e il Buon Pastore che la ricerca, la mette sulle spalle e la riporta all’ovile. Questa è una delle più antiche rappresentazioni di Nostro Signore nell’iconografia cristiana, tanto che si trova già nelle catacombe. L’Epistola ci mostra i danni ai quali sono esposti gli uomini raffigurati dalla pecorella smarrita. « Vegliate, perché il demonio come un leone ruggente cerca una preda da divorare. Resistete a lui forti nella vostra fede. Riponete in Dio tutte le vostre preoccupazioni, poiché Egli si prende cura di voi (Ep.), Egli vi metterà al sicuro dagli assalti dei vostri nemici (Grad.), poiché è il difensore di quelli che sperano in lui (Oraz.) e non abbandona chi lo ricerca (Off.). Pensando alla sorte di Saul, che dapprima umile, s’inorgoglisce poi della sua dignità reale, disobbedisce a Dio e non vuole riconoscere i suoi torti, « umiliamoci avanti a Dio » (Ep.) e diciamogli: « O mio Dio, guarda la mia miseria e abbi pietà di me: io ho confidenza in te, fa che non sia confuso (Int.); e poiché senza di te niente è saldo, niente è santo, fa che noi usiamo dei beni temporali in modo da non perdere i beni eterni (Oraz.); concedi quindi a noi, in mezzo alle tentazioni « una stabilità incrollabile » (Ep.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV: 16; 18 Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus.

[Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

Ps XXIV: 1-2 Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam.

[A te, o Signore, elevo l’ànima mia: Dio mio, confido in te, ch’io non resti confuso.]

Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus.

[Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

Oratio

Orémus.

Protéctor in te sperántium, Deus, sine quo nihil est válidum, nihil sanctum: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, te rectóre, te duce, sic transeámus per bona temporália, ut non amittámus ætérna.

[Protettore di quanti sperano in te, o Dio, senza cui nulla è stabile, nulla è santo: moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché, sotto il tuo governo e la tua guida, passiamo tra i beni temporali cosí da non perdere gli eterni.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet V: 6-11 “Caríssimi: Humiliámini sub poténti manu Dei, ut vos exáltet in témpore visitatiónis: omnem sollicitúdinem vestram projiciéntes in eum, quóniam ipsi cura est de vobis. Sóbrii estote et vigiláte: quia adversárius vester diábolus tamquam leo rúgiens circuit, quærens, quem dévoret: cui resístite fortes in fide: sciéntes eándem passiónem ei, quæ in mundo est, vestræ fraternitáti fíeri. Deus autem omnis grátiæ, qui vocávit nos in ætérnam suam glóriam in Christo Jesu, módicum passos ipse perfíciet, confirmábit solidabítque. Ipsi glória et impérium in sæcula sæculórum. Amen”.

(“Carissimi: Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti nel tempo della visita. Gettate ogni vostra sollecitudine su di lui, poiché egli ha cura di voi. Siate temperanti e vegliate; perché il demonio, vostro avversario, gira attorno, come leone che rugge, cercando chi divorare. Resistetegli, stando forti nella fede; considerando come le stesse vostre tabulazioni sono comuni ai vostri fratelli sparsi pel mondo. E il Dio di ogni grazia che ci ha chiamati all’eterna sua gloria, in Cristo Gesù, dopo che avete sofferto un poco, compirà l’opera Egli stesso, rendendoci forti e stabili. A lui la gloria e l’impero nei secoli dei secoli”).

LE PERSECUZIONI.

Non più l’Apostolo della carità Giovanni, oggi parla l’Apostolo dell’autorità, il Duce, San Pietro. Odor di battaglia intorno al capo e ai gregari, quell’odor di battaglia che è così frequente nella storia della Chiesa… « Tu, che da tanti secoli soffri, combatti e preghi…» Il Duce rincuora la sua truppa, la rincuora a modo suo, ma la rincuora in modo e forma che sarà utile sempre. Sotto la raffica resistono meglio talvolta gli alberi che invece di irrigidirsi superbi, piegano e flettono. Sotto la raffica del vento, sotto la tempesta della persecuzione il Cristiano deve umiliarsi con un gesto che non è umiliazione, è prudenza, è dignità, perché deve umiliarsi non agli uomini, ma a Dio: « sub potenti manu Dei » dice il testo, di quel Dio che se non vuole, permette le tribolazioni della sua Chiesa, dei suoi figliuoli più cari; potente anche quando agli occhi superficiali Egli sembra debole; di quel Dio che vigila anche quando pare agli increduli, ai cattivi, che Egli dorma. – Lo pensavano forse che Dio dormisse alcuni di quei neofiti, di quei poveri Cristiani della prima ora che entrati appena nella barca di San Pietro in cerca di tranquillità, di sicurezza, la vedevano così terribilmente sbattuta dalle onde. Dorme Dio, dicevano, ci ha abbandonati. Ai quali l’Apostolo della autorità, il Duce ricorda che Egli è sollecito, da buon Padre amoroso, dei suoi figli, «ipsì est cura de vobis». Veglia non visto. Il che però, se deve sgombrar la viltà dell’animo dei fedeli perseguitati, non vi deve accendere il fuoco fatuo della presunzione. – Visti, vigilati, aiutati da Dio, appunto perciò, i fedeli devono combattere con tutte le loro forze, come se Dio li avesse lasciati soli a se stessi. Sobrii e attenti; ecco il programma che il Duce traccia ai suoi militi nella aspra guerra spirituale in cui sono impegnati. Sobrii perché la carne non frenata con la sobrietà, vince essa lo spirito e vigili, per non essere sorpresi, per non cader vittime di una imboscata qualsiasi. Il gran nemico, da buon condottiero, qual è anche lui, colla sua genialità malefica, questo tenta e vorrebbe: sorprendere coloro che vuol abbattere. Veglino e tengano desta con maggior diligenza la fede. « Fortes in fide». La fede è per essi, pei Cristiani, l’«ubi consistam» della loro vittoriosa resistenza. Credenti, sono forti; scettici, dubbiosi sono vinti. Che importa se alla loro fede si fa guerra? guerra nella loro piccola comunità? guerra al loro piccolo gruppo? No, la guerra non è così ristretta: è mondiale, dappertutto dove la fede cristiana si afferma, la lotta pagana si impegna, vincolo nuovo di tutta la grande fraternità, confraternità. – Il Duce lo rammenta con una specie di santo orgoglio, perché la Chiesa non cerca la lotta, ma neanche la teme, non la teme neanche quando essa prende estensioni inaudite: il mondo intero. Tutto questo fa pensare ad una persecuzione imperiale da parte di Roma pagana. Il Duce è forte, coraggioso, audace, senza ombra di spavalderia, perché sa di poter contare sull’appoggio indefettibile di un altro Duce. Egli, Pietro, è un Vicario, un sostituto, un facente funzione di… il Capo reale, invisibile è Gesù Cristo. Ed Egli ha il suo stile. Lascia soffiar la tempesta sui suoi per un po’ di tempo: «modicum ». Le tribolazioni della vita sono tutte brevi: le persecuzioni dei malvagi passano, anche quelle che paiono ai pazienti più lunghe, anche quelle che i carnefici, i persecutori, credono eterne: passano, sono temporanee, La Chiesa ha per sé l’eternità. La “vera” Chiesa non muore… E quando il vento impetuoso che pareva eterno è passato, inesorabilmente passato, si trova che invece di scalfire il gran monumento che è la Chiesa, l’ha spolverato, invece che fracassare i cieli, li ha purificati. Lezione magnifica, buona sempre, opportuna per chi temesse le persecuzioni, opportuno per chi desiderasse scatenarle…

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. (Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)]

Graduale

Ps LIV: 23; 17; 19 Jacta cogitátum tuum in Dómino: et ipse te enútriet.

[Affida ogni tua preoccupazione al Signore: ed Egli ti nutrirà.]

V. Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam ab his, qui appropínquant mihi. Allelúja, allelúja.

[Mentre invocavo il Signore, ha esaudito la mia preghiera, liberandomi da coloro che mi circondavano. Allelúia, allelúia]

Ps VII: 12 Deus judex justus, fortis et pátiens, numquid iráscitur per síngulos dies? Allelúja.

[Iddio, giudice giusto, forte e paziente, si adira forse tutti i giorni? Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.

S. Luc. XV: 1-10

“In illo témpore: Erant appropinquántes ad Jesum publicáni et peccatóres, ut audírent illum. Et murmurábant pharisæi et scribæ, dicéntes: Quia hic peccatóres recipit et mandúcat cum illis. Et ait ad illos parábolam istam, dicens: Quis ex vobis homo, qui habet centum oves: et si perdíderit unam ex illis, nonne dimíttit nonagínta novem in desérto, et vadit ad illam, quæ períerat, donec invéniat eam? Et cum invénerit eam, impónit in húmeros suos gaudens: et véniens domum, cónvocat amícos et vicínos, dicens illis: Congratulámini mihi, quia invéni ovem meam, quæ períerat? Dico vobis, quod ita gáudium erit in cœlo super uno peccatóre pœniténtiam agénte, quam super nonagínta novem justis, qui non índigent pœniténtia. Aut quæ múlier habens drachmas decem, si perdíderit drachmam unam, nonne accéndit lucérnam, et evérrit domum, et quærit diligénter, donec invéniat? Et cum invénerit, cónvocat amícas et vicínas, dicens: Congratulámini mihi, quia invéni drachmam, quam perdíderam? Ita dico vobis: gáudium erit coram Angelis Dei super uno peccatóre pœniténtiam agénte”.

(“In quel tempo andavano accostandosi a Gesù de’ pubblicani e de’ peccatori per udirlo. E i Farisei e gli Scribi ne mormoravano, dicendo: Costui si addomestica coi peccatori, e mangia con essi. Ed Egli propose loro questa parabola, e disse: Chi è tra voi che avendo cento pecore, e avendone perduta una, non lasci nel deserto le altre novantanove, e non vada a cercar di quella che si è smarrita, sino a tanto che la ritrovi? e trovatala se la pone sulle spalle allegramente; e tornato a casa, chiama gli amici e i vicini, dicendo loro: Rallegratevi meco, perché ho trovato la mia pecorella, che si era smarrita? Vi dico, che nello stesso modo si farà più festa per un peccatore che fa penitenza, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza. Ovvero qual è quella donna, la quale avendo dieci dramme, perdutane una, non accenda la lucerna, e non iscopi la casa, e non cerchi diligentemente, fino che l’abbia trovata? E trovatala, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi meco, perché ho ritrovata la dramma perduta. Così vi dico, faranno festa gli Angeli di Dio, per un peccatore che faccia penitenza”).

Omelia

[DISCORSI DI SAN G. B. M. VIANNEY CURATO D’ARS Vol. III, Marietti Ed. Torino-Roma, 1933]

Visto nulla osta alla stampa. Torino, 25 Novembre 1931.

Teol. TOMMASO CASTAGNO, Rev. Deleg.

Imprimatur: C. FRANCISCUS PALEARI, Prov. Gen.]

Sulla misericordia di Dio.

Erant autem appropinquantes ei publicani et peocatores, ut audirent illum.

(Luc. XV, 1).

La condotta di Gesù Cristo, durante la sua vita mortale, ci mostra la grandezza della sua misericordia verso i peccatori. Vediamo infatti che tutti vengono presso di Lui: ed Egli, anziché rigettarli o allontanarsi da essi, cerca invece tutti i modi possibili di trovarsi con loro, per attirarli al Padre suo. Li va cercando coi rimorsi della coscienza, li riconduce colle attrattive della sua grazia e li guadagna coi suoi modi amorevoli. Li tratta con tanta bontà, che li difende perfino contro gli scribi ed i farisei che volevano biasimarli e non potevano soffrirli vicino a Gesù Cristo. Giunge anche più oltre; vuol giustificarsi della sua condotta a loro riguardo con una parabola, che dipinge, come meglio non si potrebbe, la grandezza del suo amore pei peccatori, in questo modo: “Un buon pastore, che aveva cento pecore, avendone perduta una, lascia tutte le altre per correr dietro a quella che s’è smarrita: ed avendola trovata, se la mette sulle spalle per evitarle la fatica della strada: riportatala all’ovile, invita i suoi amici a rallegrarsi con lui d’aver trovato la pecora che credeva perduta. „ Aggiunge anche la parabola della donna, che possedendo dieci dramme., ed avendone perduta una, accende la lampada per cercarla in tutti gli angoli di casa sua, e trovatala invita le amiche a rallegrarsene. “Così, disse loro, il cielo tutto gioisce pel ritorno d’un peccatore che si converte e fa penitenza. Non son venuto pei giusti, ma per i peccatori: i sani non hanno bisogno del medico, bensì gli ammalati. „ E Gesù Cristo applica a se stesso queste vive immagini della grandezza della sua misericordia verso i peccatori. Ah! Fratelli miei, qual felicità per noi il sapere che la misericordia di Dio è infinita! Qual forte desiderio non dobbiam sentire nascere in cuore di gettarci ai piedi d’un Dio che ci riceverà con tanta gioia! F. M., se ci danneremo non avremo scuse, quando Gesù Cristo stesso ci mostrerà che la sua misericordia fu sempre grande abbastanza per perdonarci, per quanto fossimo colpevoli. E per darvene un’idea, oggi vi mostrerò: 1° la grandezza della misericordia di Dio verso i peccatori; 2° ciò che dobbiamo fare da parte nostra, per meritarci la fortuna di ottenerla.

I. — F. M., tutto è consolante, tutto è incoraggiante nella condotta di Dio verso di noi. Quantunque colpevoli, la sua pazienza ci attende, il suo amore ci invita ad uscir dal peccato per ritornare a Lui, la sua misericordia ci riceve fra le sue braccia. Colla pazienza, dice il profeta Isaia, Dio ci attende per usarci misericordia. Appena commesso il peccato, meritiamo d’essere puniti. Niente è più dovuto al peccato quanto la punizione. Dacché l’uomo s’è ribellato al suo Dio, le creature tutte domandano vendetta, dicendo: Signore, volete facciam perire quel peccatore che v’ha oltraggiato? Volete, gli dice il mare, ch’io l’inghiottisca nei miei abissi? E la terra: Signore, debbo aprire le mie viscere per farlo discendere vivo nell’inferno? E l’aria: Signore, mi permettete di soffocarlo? Ed il fuoco: Ah! di grazia lasciatemelo abbruciare. E così tutte le altre creature domandano vendetta ad alte grida. I lampi ed i fulmini vanno avanti al trono di Gesù Cristo domandandogli licenza di annientarlo e divorarlo. — Ma no, risponde il buon Gesù, lasciatelo sulla terra sino al momento stabilito dal Padre mio; forse avrò la fortuna di convertirlo. Se il peccatore si svia ognor più, questo tenero Padre piange su di lui, e non lascia di perseguitarlo colla sua grazia, facendo in lui nascere violenti i rimorsi della coscienza. ” O Dio delle misericordie, esclama S. Agostino, quand’era peccatore m’allontanavo da voi sempre più; i miei passi e le mie azioni tutte erano altrettante nuove cadute nel male; le passioni s’infiammavano ognor più vivamente; eppure avevate pazienza, e m’aspettavate. O pazienza del mio Dio! son tanti anni che vi offendo, e non mi avete ancora punito: donde può venire questa lunga attesa? Davvero, o Signore, è perché volete ch’io mi converta, e ritorni a voi colla penitenza. „ È possibile, F. M., che nonostante il desiderio del buon Dio di salvarci, noi ci perdiamo così deliberatamente? Sì, F. M., se vogliamo percorrere le differenti età del mondo, vediamo la terra ricoperta dappertutto delle misericordie del Signore, e gli uomini avvolti nei suoi benefizi. Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli perdono; ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore, e lo fa ritornare a sé. Ne volete un bell’esempio? Vedete come fece con Adamo dopo il suo peccato. Invece di punirlo, come si meritava, per quella ribellione contro il suo Creatore, che avevagli concesso tanti privilegi, che l’aveva ornato di tante grazie e destinato per un fine così beato: quello d’esser suo amico e di non morir mai; Adamo, dopo il peccato, fugge la presenza di Dio: ma il Signore, come un padre desolato che ha perduto il figliuol suo, corre a cercarlo, e lo chiama quasi piangendo: “Adamo, Adamo, dove sei? Perché fuggi la presenza del tuo Creatore? „ (Gen. III, 9). Desidera tanto di perdonargli, che neppure gli dà tempo di domandar perdono: subito gli annuncia che vuol perdonargli, che manderà il Figliuol suo, il quale nascerà da una Vergine e riparerà il danno che il peccato ha cagionato a lui ed ai suoi discendenti, e che questa riparazione si farà in un modo ammirabile. Infatti, F. M., senza il peccato di Adamo, mai avremmo avuto la fortuna d’aver Gesù Cristo per Salvatore, né di riceverlo nella santa Comunione, e neppure di possederlo nelle nostre chiese. Nei lunghi secoli durante i quali l’eterno Padre attese di mandare sulla terra il Figliuol suo, Egli non cessò di rinnovare queste consolanti promesse per bocca dei patriarchi e dei profeti. O carità di Dio, quanto sei grande pei peccatori! Vedete, F. M., la bontà di Dio pel peccatore? Potremo ancora disperare del nostro perdono? Giacché il Signore mostra tanto il desiderio di perdonarci, se restiamo nel peccato è tutta colpa nostra. Vedete che cosa fece con Caino, dopoché questi uccise il fratello. Va a trovarlo per farlo rientrare in se stesso, e potergli perdonare: perché bisogna necessariamente domandargli perdono, se vogliam che ce lo dia. Ah! mio Dio, è troppo! “Caino, Caino, che hai fatto? Domandami perdono, perché io possa perdonarti. „ Caino non vuole, dispera della sua salvezza, si ostina nel peccato. Eppure vediamo il buon Dio che lo lascia a lungo sulla terra per dargli tempo, se avesse voluto, di convertirsi. Vedete ancora la sua misericordia verso il mondo, quando i delitti degli uomini avevano ricoperto la terra infangandola nelle più infami passioni: il Signore era costretto a punirli: ma prima di decidersi, quante precauzioni, quanti avvertimenti, quanti indugi! Li minaccia molto tempo prima di punirli, per iscuoterli e farli rientrare in se stessi. Vedendo che i delitti andavano sempre aumentando, mandò loro Noè, al quale comandò di costruire un’arca, impiegandovi cento anni, e di dire a tutti quanti glielo domandassero, il perché di quella costruzione; che, cioè il Signore voleva far perire il mondo intero, con un diluvio universale, ma che se volevano convertirsi e fare penitenza, cambierebbe il suo decreto. Infine però, vedendo che a nulla servivano tutti questi avvertimenti e che gli uomini si ridevano delle sue minacce, fu obbligato di punirli. E tuttavia sappiamo che il Signore disse che si pentiva d’averli creati: il che ci mostra la grandezza di sua misericordia. E come se avesse detto: Preferirei non avervi creati piuttosto che vedermi costretto a punirvi (Gen. VI). Ditemi, F. M., poteva Egli, quantunque Dio, spingere più lungi la sua misericordia? F. M., cosi Egli aspetta i peccatori a penitenza e ve li invita coi movimenti interiori della sua grazia, e la voce dei suoi ministri. Vedete ancora come si diporta verso Ninive, questa grande città peccatrice. Prima di punirne gli abitanti, comanda al suo profeta Giona, d’andare da parte sua ad annunciar loro che fra quaranta giorni li avrebbe puniti. Giona, invece d’andare a Ninive, fugge in altro luogo. Vuol attraversare il mare: ma Dio, invece di lasciare i Niniviti senza avviso prima di punirli, fa un miracolo per conservare il suo profeta durante tre giorni e tre notti nel seno d’un cetaceo, che al terzo dì miracolosamente lo rigetta sul lido. Allora il Signore dice a Giona: “Va ad annunciare alla grande città di Ninive che fra quaranta giorni sarà distrutta. „ Non mette condizioni. Il profeta, andatovi, annuncia a Ninive che fra quaranta giorni sarebbe perita. A questa notizia, tutti si danno alla penitenza ed alle lagrime, dal contadino fino al re. “Chi sa, dice loro il re, che il Signore non abbia ancora pietà di noi?„ Il Signore, vedendoli ricorrere alla penitenza, sembrò gustare la gioia di perdonarli. Giona, vedendo passato il tempo del castigo, si ritirò fuori della città, per aspettare che il fuoco del cielo cadesse su di essa. Vedendo che non cadeva: “Ah! Signore, esclama, mi fate forse passare per un falso profeta? fatemi piuttosto morire. Ah! io so bene che siete troppo buono; non cercate che di perdonare!” — Ecchè, Giona! gli disse il Signore; vorresti ch’Io facessi perire tante persone, che si umiliarono davanti a me? Oh! no, no, Giona, non ne avrei il coraggio: invece li amerò e li conserverò (Jon. I-IV) .„ Ecco precisamente, F. M., quanto fa Gesù Cristo a nostro riguardo: alcune volte sembra voglia punirci senza misericordia: ma al più piccolo pentimento ci perdona e ci rende la sua amicizia. Vedete, quando volle far discendere il fuoco dal cielo sopra Sodoma, Gomorra e le città vicine. Sembrava non potervisi risolvere senza consultare il suo servo Abramo; quasi per sentire che cosa dovesse fare. “ Abramo, dissegli il Signore, i delitti di Sodoma e Gomorra giunsero sino al mio trono; non posso più soffrirli quegli uomini; li farò perire col fuoco del cielo. — Ma, Signore, risponde Abramo, punirete i giusti insieme ai peccatori? — Oh! no, no, gli dice il Signore. — Ebbene! soggiunge Abramo: se vi fossero trenta giusti in Sodoma, la punireste, o Signore ? — No, disse, se ne trovo trenta, perdono a tutta la città per amore dei giusti. „ (Gen. XVIII). Arrivò sino a dieci. Ahimè! in una città sì grande non si trovavano dieci giusti! Vedete che il Signore sembrava gioisse di consultare il suo servo su quanto voleva fare. Vedendosi costretto a punirli, mandò subito un Angelo a Lot per dirgli di uscire lui e tutta la sua famiglia, per non andar puniti coi colpevoli (idem XIX). Ah! mio Dio, quale pazienza! quanti indugi prima dell’esecuzione! Volete sapere qual peccato obbligò il Signore a far piombar sulla terra tanti castighi? Ahimè! è il maledetto peccato dell’impurità, di cui la terra era tutta coperta. Volete vedere come Dio tarda a punire? Vedete che cosa fece per castigar Gerico (Gios. VI) . Ordinò a Giosuè di far portare in processione l’arca dell’alleanza, oggetto sacro che mostrava la grandezza della misericordia di Dio. Volle che fosse portata dai sacerdoti, depositari di sua misericordia. Comandò di fare per sette giorni il giro delle mura della città, facendo suonare le medesime trombe che servivano ad annunciare l’anno del giubileo, che era un anno di riconciliazione e di perdono. Eppure vediamo che le stesse trombe destinate ad annunciare loro il perdono, fecero cadere le mura della città, per mostrarci che se non vogliamo approfittare delle grazie che Dio vuol accordarci, diventiamo perciò più colpevoli: ma che se abbiamo la fortuna di convertirci, Egli ne prova una gioia sì grande da dirci che ci dà il perdono con maggior prontezza di quella con cui una madre estrae il suo bambino dal fuoco. Vedemmo, F. M., che dal principio del mondo, sino alla venuta del Messia, tutto è misericordia, grazia, benefizi. Eppure possiamo dire che sotto la legge di amore i benefizi, di cui Dio ha colmato il mondo, sono ancor più abbondanti e preziosi. Quale misericordia nell’eterno Padre il quale non ha che un Figlio, ed acconsente che perda la vita per salvarci tutti! Ah! F. M., se percorressimo tutta la storia delle sofferenze di Gesù Cristo con cuore riconoscente, quante lagrime non verseremmo! Vedendo il tenero Gesù nella culla, ecc.. Vedete che la misericordia del Padre non può andar oltre, poiché avendo un sol Figlio, che è la cosa sua più cara, lo sacrifica per salvarci. Ma se consideriamo l’amore del Figlio, che cosa ne diremo noi? Egli acconsente volontariamente di soffrire tanti tormenti, ed anche la morte per procurarci la felicità del cielo! Ah! F. M., che cosa non ha Egli fatto durante i giorni di sua vita mortale? Non contento di chiamarci a Lui colla sua grazia, e di fornirci tutti i mezzi per santificarci, vedete come corre dietro le pecorelle smarrite: vedete come attraversa le città e le campagne per cercarle e ricondurle nel luogo della sua misericordia: vedete come lascia gli apostoli per aspettare la Samaritana presso il pozzo di Giacobbe, dove sapeva sarebbe venuta: la previene Lui stesso; comincia a parlarle, perché la sua parola piena di dolcezza, unita alla sua grazia, la tocchi e la commuova: le domanda acqua da bere, perché ella stessa gli chieda qualche cosa di più prezioso, la sua grazia. Fu così contento d’aver guadagnato quell’anima che quando gli apostoli lo pregarono di cibarsi: “Oh! no, disse loro.„ Sembrava dicesse: “Ah! no, no, io non penso al cibo del corpo, tanto gioisco d’aver guadagnata un’anima al Padre mio! „ (Giov. IV) Vedetelo nella casa di Simone il lebbroso: non vi si reca per mangiare, ma perché sapeva che vi verrebbe una Maddalena peccatrice: ecco, F. M., che cosa lo conduce a quel banchetto. Osservate la gioia che mostra in volto, vedendo Maddalena a’ suoi piedi, bagnarli di lagrime ed asciugarli co’ suoi capelli. Ma il Salvatore, dal canto suo, la ricompensa: versa a piene mani la grazia nel cuore di lei. Vedete come prende le sue difese contro chi se ne scandalizza (Luc. VI) . Giunge tant’oltre che non contento di perdonarle tutti i peccati e cacciare i sette demoni che aveva in cuore, vuol anche sceglierla per una delle sue spose: vuole che l’accompagni in tutto il corso di sua passione, e che “ … dove sarà predicato il Vangelo, si racconti quanto ella fece per Lui (Matt. XXVI, 13):„ non vuole che si parli de’ suoi peccati, perché son già tutti perdonati coll’applicazione anticipata dei meriti del suo sangue adorabile, che Egli deve spargere. Vedetelo prender la via di Cafarnao per andar a trovare un altro peccatore al suo banco; era S. Matteo, di lui voleva fare uno zelante apostolo (Matt. IX). Domandategli perché prende la via di Gerico; soggiungerà che v’è un uomo chiamato Zaccheo, il quale è in voce di pubblico peccatore; vuol andarlo a trovare per salvarlo, per farne un perfetto penitente. Fa come un buon padre, che ha perduto il suo figliuolo, lo chiama: “Zaccheo, gli dice, discendi, perché oggi voglio venire in casa tua, e vengo per concederti la mia grazia. „ È come se Egli dicesse: “Zaccheo, lascia questo orgoglio e quest’attaccamento ai beni del mondo: discendi, cioè scegli l’umiltà e la povertà.„ Per ben farlo comprendere a quanti erano con Lui, aggiunge: “Questa casa oggi riceve la salute. ,,

1. — O mio Dio! quant’è grande la vostra misericordia pei peccatori! Domandategli ancora perché passò per quella piazza pubblica. “Ah! vi dirà, perché aspetto una donna adultera, che vien condotta alla lapidazione: ed io prenderò la sua difesa contro i suoi nemici, la commuoverò e convertirò.„ Vedete il tenero Salvatore vicino a quella donna, come si comporta, come prende le sue difese? Vedendola circondata dal popolaccio che aspettava solo il segnale per lapidarla, il Salvatore sembra dir loro: “Un momento, lasciatemi fare, poi toccherà a voi. „ Si piega verso terra, scrive, non la sentenza di morte, ma la sua assoluzione. Rialzatosi li guarda. Non sembra dir loro: “Ora che questa donna è perdonata, non è più peccatrice, ma una santa penitente: chi di voi è uguale ad essa? Se siete senza peccato, gettatele la prima pietra.„ Tutti quegli ipocriti, vedendo che Gesù il Cristo leggeva nella loro coscienza, si ritirarono; primi i più vecchi che certamente erano i più colpevoli, poi gli altri. Gesù Cristo, vedendola rimasta sola, le disse con bontà: “Donna, chi ti ha condannato?„ come per dirle: dopo che Io ti ho perdonato, chi avrebbe osato condannarti? ,, Ah! Signore, risposegli la peccatrice, nessuno. — Ebbene! va, e bada di non più peccare (Giov. VIII).„ Vedete ancora che bontà Egli rivela per quella donna che da dodici anni soffriva perdita di sangue. Essa si getta umilmente a’ suoi piedi: “perché, pensava, se posso toccar soltanto il lembo del suo manto, son certa di guarire.„ Gesù Cristo, voltandosi con aria di dolcezza, dice: “Chi mi tocca? Andate, figlia mia, abbiate fiducia, siete guarita nell’anima e nel corpo. „ (Matt. IX). Vedetelo come ha compassione di quel padre, che gli presenta il figlio posseduto dal demonio sin dall’infanzia (Marc. IX)… Vedetelo piangere avvicinandosi a Gerusalemme, che era la figura dei peccatori, che non voglion lasciarsi toccare il cuore. Vedete come piange sulla sua rovina eterna. “Oh! quante volte, ingrata Gerusalemme, volli io ricondurti al seno di mia misericordia, come una chioccia raccoglie i pulcini sotto le ali: ma tu non volesti. O ingrata Gerusalemme che hai ucciso i profeti, e fatto morire i servi di Dio! oh! se almeno volessi ricever la grazia che ti porto! „ (Matt. XIII). Vedete, F. M., come il buon Dio piange la perdita delle anime nostre, quando vede che non vogliamo convertirci? Ora che vediamo quanto Gesù Cristo ha fatto per salvarci, come potremmo disperare della sua misericordia, giacché il suo più grande piacere è di perdonarci: e, per quanto numerosi siano i nostri peccati, se vogliamo lasciarli e pentircene siamo sicuri del perdono? Quand’anche le colpe nostre uguagliassero il numero delle foglie della foresta, saremo perdonati, se il nostro cuore è veramente pentito. Per convincervene, eccone un bell’esempio. Leggiamo nella storia che un giovane, chiamato Teofilo, sacerdote, fu accusato presso il suo Vescovo, e deposto dalla sua dignità. Questa pena lo infuriò talmente, che chiamò il demonio in suo soccorso. Lo spirito maligno gli apparve, promettendogli di fargli ricuperare la sua dignità, a patto che rinnegasse Gesù e Maria. Accecato dal furore, lo fece; e diede al demonio una rinuncia scritta di sua mano. Il giorno dopo il Vescovo, riconosciuto il suo errore, lo chiamò in chiesa, gli domandò perdono d’aver troppo facilmente creduto a quanto gli era stato detto, e lo ristabilì nella sua dignità. Il sacerdote. allora si trovò in grave imbarazzo: per lungo tempo si sentì straziato dai rimorsi della coscienza. Gli venne il pensiero di ricorrere alla Vergine Ss., sentendosi troppo indegno di domandar perdono a Dio. E andò a prostrarsi dinanzi ad un’immagine della Ss. Vergine, pregandola di ottenergli perdono dal suo divin Figliuolo, e a tal fine, digiunò quaranta giorni, e pregò continuamente. Dopo i quaranta giorni, la Vergine gli apparve, dicendogli che gli aveva ottenuto il perdono. Fu consolato da questa grazia: ma gli restava ancora una spina ben profonda da togliersi: era lo scritto dato al demonio. Pensò che Dio non rifiuterebbe questa grazia alla sua Madre: continuò per tre giorni a pregarla, e, finalmente, svegliatosi trovò la carta sul suo petto. Pieno di riconoscenza va in chiesa, e, davanti a tutti, pubblica la grazia che il buon Dio gli aveva concessa per intercessione della sua santa Madre. Facciamo altrettanto: se ci troviamo troppo colpevoli per domandar perdono a Dio, indirizziamoci alla Ss. Vergine, e stiam sicuri del perdono. Ma per incoraggiarvi ad aver gran confidenza nella misericordia di Dio che è infinita, eccone un esempio che il Vangelo ci mette innanzi, il quale ci fa intendere che la misericordia di Dio è senza confini: è quello del Figliuol prodigo, che dopo aver domandato al padre suo quanto gli poteva spettare, andò in paese straniero. Ivi dissipò tutta la sua sostanza, vivendo da libertino e scostumato. La sua cattiva condotta lo ridusse in tal miseria che diventato guardiano di porci, stimavasi troppo fortunato di potersi sfamare colle loro ghiande, sebbene non ne avesse quante la sua fame esigeva. Riflettendo un giorno sulla grandezza della sua miseria, diceva al padrone presso il quale era custode degli immondi animali. “Datemi almeno quanto mangiano le vostre bestie.„ Quale miseria, F. M,, è paragonabile a questa? Eppure nessuno lo soccorreva. Vedendosi ridotto a morir di fame, e vivamente commosso del suo infelice stato, apre gli occhi, e si ricorda di avere un padre tanto buono e che tanto l’amava. Risolve di ritornare alla casa paterna, dove i più umili servi avevano pane più del bisogno. Diceva a se stesso: “Ho errato assai abbandonando il padre mio che tanto mi amava: ho dissipato tutto il mio, menando una vita cattiva: sono tutto lacero e sucido; come potrà il padre mio riconoscermi per suo figlio? Ma mi getterò ai suoi piedi, glieli bagnerò di lagrime: gli domanderò di mettermi solo nel numero dei suoi servi. „ Eccolo che si alza e parte, tutto preoccupato dello stato infelice a cui l’aveva ridotto il suo libertinaggio. Il padre, che ne piangeva da lungo tempo la perdita, vedendolo da lungi venire, dimenticò la tarda età sua, e la cattiva condotta del figlio, si gettò al suo collo per abbracciarlo. Il povero giovane, commosso dell’amore del padre suo: “Ah! padre mio, esclama, ho peccato contro di te e contro il cielo! non merito più d’essere chiamato tuo figliuolo, mettimi solo nel numero dei tuoi servi. — No, no, figlio mio, grida il padre pieno di gioia per la felicità di aver ritrovato il figliuolo che credeva perduto: no, figlio mio, tutto è dimenticato, non pensiamo che a rallegrarci. Gli si porti l’antica veste per ricoprirlo, gli si metta un anello al dito, ed i calzari ai piedi: si uccida un vitello ben pingue, e si faccia festa: perché mio figlio era morto ed è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato.„ (Luc. XV). Bella immagine, F. M., della grandezza della misericordia di Dio per i più sventurati peccatori! Infatti, allorché abbiam la sventura di peccare ci allontaniamo da Dio, e ci riduciamo, seguendo le nostre passioni, ad uno stato più miserabile dei porci, gli animali più immondi. O mio Dio! quanto il peccato è spaventoso! come si può commetterlo? Ma, per quanto siamo colpevoli, da quando risolviamo di convertirci, al primo segno di conversione le viscere di sua misericordia sono mosse a compassione. Questo tenero Salvatore colla sua grazia va innanzi ai peccatori, li previene favorendoli di consolazioni le più deliziose. Infatti, mai un peccatore prova maggior piacere di quando lascia il peccato per darsi a Dio: gli sembra che niente potrà arrestarlo: né preghiera, né penitenza: niente gli appar troppo duro. O momento delizioso! O quanto saremmo felici, se avessimo la fortuna di comprenderlo! Ma ahimè! non corrispondiamo alla grazia, e quindi questi felici momenti si dileguano. Gesù Cristo dice al peccatore per bocca dei suoi ministri: – Si indossi a questo Cristiano convertito il primo suo abito, che è la grazia perduta del battesimo: lo si rivesta di Gesù Cristo, della sua giustizia, delle sue virtù e meriti tutti.„ Ecco, F. M., il modo con cui ci tratta Gesù Cristo quando abbiam la fortuna di abbandonare il peccato per darci a Lui. Ah! F. M., qual motivo di confidenza per un peccatore, anche se assai colpevole, il sapere che la misericordia di Dio è infinita!

II. — No, F. M., non è la gravità dei nostri peccati, né il loro numero che ci devono spaventare; ma solo le disposizioni che dobbiamo avere. Eccovi, F. M., un altro esempio che ci mostra, che, per quanto colpevoli, siamo sicuri del perdono se vogliamo domandarlo a Dio. Leggiamo nella storia che un gran principe nella sua ultima malattia fu attaccato da una tentazione orribile di diffidenza nella bontà e misericordia di Dio. Il sacerdote che l’assisteva, vedendo che perdeva la confidenza, faceva il possibile per ispirargliela, dicendogli che mai il buon Dio negò il perdono a chi glielo domandò. “No, no, disse l’ammalato, non v’ha più perdono per me, ho fatto troppo male.„ Il sacerdote non trovando altra risorsa, si mise a pregare. In quel mentre Dio gli pose sulle labbra quelle parole che il santo Re profeta pronunciò prima di morire: “Principe, dissegli, ascoltate il profeta penitente; siete peccatore come lui, dite sinceramente con lui: Signore, avrete pietà di me, perché i miei peccati sono grandi, ed è appunto la gravità dei miei peccati il motivo che vi impegnerà a perdonarmi. „ A queste parole il principe svegliandosi come da un profondo sonno, stette un momento come in un trasporto di gioia, e mandando un sospiro profondo: “Ah! Signore, proprio per me furono pronunziate queste parole! Sì, mio Dio, appunto perché ho fatto molto male avrete pietà di me! „ Si confessa, e riceve tutti i Sacramenti versando torrenti di lagrime: fa con gioia il sacrificio di sua vita, e muore con in mano il crocifisso che inonda di lagrime. Infatti, F. M., che cosa sono i nostri peccati, se li paragoniamo alla misericordia di Dio? un granellino in confronto ad una montagna. O mio Dio! come si può acconsentire di andar dannati, mentre costa sì poco il salvarsi, e Gesù Cristo desidera tanto la salvezza nostra? – Però, F. M., se Dio è sì buono da attenderci e riceverci, non bisogna stancare la sua pazienza: se ci chiama, ci invita di venire a Lui, dobbiamo andargli incontro: se ci riceve, dobbiamo essergli fedeli. Invece, F. M., sono forse più di cinque o sei anni che il buon Dio ci chiama: perché restiamo nei nostri peccati? Egli è sempre pronto ad offrirci la grazia, perché non lasciamo il peccato? Infatti, M. F., S. Ambrogio ci dice: “Dio, per quanto buono e misericordioso, non ci perdona se non gli domandiamo perdono, se non uniamo la nostra volontà a quella di Gesù Cristo. „ Ma quale volontà, F. M., domanda Dio da noi? Ecco: è una volontà che corrisponda alle sante sollecitazioni della sua misericordia, che ci faccia dire con S. Paolo: “Voi avete sentito raccontare quali furono la mia condotta e le mie azioni prima che Dio mi facesse la grazia di convertirmi. Perseguitavo la Chiesa di Gesù Cristo con tanta crudeltà, che ne ho orrore io stesso ogni volta che vi penso. Chi avrebbe creduto che appunto questo momento aveva scelto Gesù Cristo per chiamarmi a Lui? In quell’istante fui circondato da una luce: udii una voce che mi disse: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? „ (Gal. I, 13-15). Ah! F. M.! quante volte il buon Dio non ci ha fatto la medesima grazia? Quante volte in peccato, o vicini a cadervi, udimmo una voce interna che ci gridava: Ah! figlio mio, perché vuoi farmi soffrire, e perdere l’anima tua? „ Eccone un bell’esempio. Leggiamo nella storia che un figlio incollerito, uccise il padre suo. Ne concepì un rimorso tale, che sembravagli udir continuamente una voce che gli gridasse: “Ah! figlio mio, perché mi hai ucciso? „ Ne soffriva tanto che egli stesso andò a denunziarsi al giudice. Non solo, F. M., dobbiamo abbandonare il peccato, perché Dio è tanto buono di perdonarci: ma dobbiamo anche piangere di riconoscenza. Ne abbiamo un bell’esempio nel giovane Tobia, guidato e ricondotto dall’Angelo (Tob. XII): il che ci mostra quanto piaccia a Dio essere ringraziato. Leggiamo che quella donna, che da dodici anni soffriva di perdita di sangue, guarita da Gesù Cristo, per riconoscenza e per mostrare a tutti la bontà di Dio con lei, fece erigere vicino alla casa sua una bella statua rappresentante una donna davanti a Gesù Cristo che l’aveva guarita. Parecchi autori ci dicono che attorno vi nasceva un’erba sconosciuta, che quando arrivava alla frangia del vestito della statua guariva ogni sorta di malattie. Vedete S. Matteo, per ringraziar Gesù Cristo della grazia che gli aveva fatto l’invitò a casa sua. e resegli tutti gli onori possibili. Vedete il lebbroso samaritano: vedendosi guarito ritorna su’ suoi passi, si getta ai piedi di Gesù Cristo per ringraziarlo della grazia che gli aveva fatta (Luc. XVII, 16). S. Agostino ci dice che il miglior rendimento di grazie è che l’anima vostra sia sinceramente riconoscente verso la bontà di Dio, dandosi tutta a Lui con tutti i suoi affetti. Vedete il Salvatore quando ebbe guarito i dieci lebbrosi, vedendo che uno solo ritornava a ringraziarlo: “E gli altri nove, dissegli Gesù, non furono parimente guariti? „ (Luc. XVII, 17). Come se avesse detto: Perché gli altri non vengono a ringraziarmi? S. Bernardo ci dice che bisogna essere assai riconoscenti verso il buon Dio, perché ciò lo impegna ad accordarci molte altre grazie. Davvero, F. M.! quante grazie non dobbiam rendere a Dio, di averci creati, di averci redenti colla sua passione e morte, di averci fatto nascere nel seno della sua Chiesa, mentre tanti altri vivono e muoiono fuori del suo seno. Si, F. M., poiché la bontà e la misericordia di Dio sono infinite, procuriamo di ben approfittarne, e così avremo la ventura di piacergli e di conservar le anime nostre nella sua grazia: il che ci procurerà la felicità d’andar un giorno a godere la sua santa presenza con tatti i beati in cielo. Ecco quanto vi auguro.

IL CREDO

 Offertorium

Orémus: Ps IX: 11-12 IX: 13 Sperent in te omnes, qui novérunt nomen tuum, Dómine: quóniam non derelínquis quæréntes te: psállite Dómino, qui hábitat in Sion: quóniam non est oblítus oratiónem páuperum.

[Sperino in te tutti coloro che hanno conosciuto il tuo nome, o Signore: poiché non abbandoni chi ti cerca: cantate lodi al Signore, che àbita in Sion: poiché non ha trascurata la preghiera dei poveri.]

 Secreta

Réspice, Dómine, múnera supplicántis Ecclésiæ: et salúti credéntium perpétua sanctificatióne suménda concéde.

[Guarda, o Signore, ai doni della Chiesa che ti supplica, e con la tua grazia incessante, fa che siano ricevuti per la salvezza dei fedeli.]

COMUNIONE SPIRITUALE

 Communio

Luc XV: 10. Dico vobis: gáudium est Angelis Dei super uno peccatóre poeniténtiam agénte.

[Vi dico: che grande gaudio vi è tra gli Angeli per un peccatore che fa penitenza.]

 Postcommunio

Orémus.

Sancta tua nos, Dómine, sumpta vivíficent: et misericórdiæ sempitérnæ praeparent expiátos. [I tuoi santi misteri che abbiamo ricevuto, o Signore, ci vivifichino, e, purgandoci dai nostri falli, ci preparino all’eterna misericordia.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA MISERICORDIA DI DIO

DISCORSI DI SAN G. B. M. VIANNEY

CURATO D’ARS

[Vol. III, Marietti Ed. Torino-Roma, 1933

Visto nulla osta alla stampa. Torino, 25 Novembre 1931.

Teol. TOMMASO CASTAGNO, Rev. Deleg.

Imprimatur.

C . FRANCISCUS PALEARI, Prov. Gen.]

Sulla misericordia di Dio.

Erant autem appropinquantes ei publicani et peocatores, ut audirent illum.

(Luc. XV, 1).

La condotta di Gesù Cristo, durante la sua vita mortale, ci mostra la grandezza della sua misericordia verso i peccatori. Vediamo infatti che tutti vengono presso di Lui: ed Egli, anziché rigettarli o allontanarsi da essi, cerca invece tutti i modi possibili di trovarsi con loro, per attirarli al Padre suo. Li va cercando coi rimorsi della coscienza, li riconduce colle attrattive della sua grazia e li guadagna coi suoi modi amorevoli. Li tratta con tanta bontà, che li difende perfino contro gli scribi ed i farisei che volevano biasimarli e non potevano soffrirli vicino a Gesù Cristo. Giunge anche più oltre; vuol giustificarsi della sua condotta a loro riguardo con una parabola, che dipinge, come meglio non si potrebbe, la grandezza del suo amore pei peccatori, in questo modo: “Un buon pastore, che aveva cento pecore, avendone perduta una, lascia tutte le altre per correr dietro a quella che s’è smarrita: ed avendola trovata, se la mette sulle spalle per evitarle la fatica della strada: riportatala all’ovile, invita i suoi amici a rallegrarsi con lui d’aver trovato la pecora che credeva perduta. „ Aggiunge anche la parabola della donna, che possedendo dieci dramme., ed avendone perduta una, accende la lampada per cercarla in tutti gli angoli di casa sua, e trovatala invita le amiche a rallegrarsene. “Così, disse loro, il cielo tutto gioisce pel ritorno d’un peccatore che si converte e fa penitenza. Non son venuto pei giusti, ma per i peccatori: i sani non hanno bisogno del medico, bensì gli ammalati. „ E Gesù Cristo applica a se stesso queste vive immagini della grandezza della sua misericordia verso i peccatori. Ah! Fratelli miei, qual felicità per noi il sapere che la misericordia di Dio è infinita! Qual forte desiderio non dobbiam sentire nascere in cuore di gettarci ai piedi d’un Dio che ci riceverà con tanta gioia! F. M., se ci danneremo non avremo scuse, quando Gesù Cristo stesso ci mostrerà che la sua misericordia fu sempre grande abbastanza per perdonarci, per quanto fossimo colpevoli. E per darvene un’idea, oggi vi mostrerò: 1° la grandezza della misericordia di Dio verso i peccatori; 2° ciò che dobbiamo fare da parte nostra, per meritarci la fortuna di ottenerla.

I. — F. M., tutto è consolante, tutto è incoraggiante nella condotta di Dio verso di noi. Quantunque colpevoli, la sua pazienza ci attende, il suo amore ci invita ad uscir dal peccato per ritornare a Lui, la sua misericordia ci riceve fra le sue braccia. Colla pazienza, dice il profeta Isaia, Dio ci attende per usarci misericordia. Appena commesso il peccato, meritiamo d’essere puniti. Niente è più dovuto al peccato quanto la punizione. Dacché l’uomo s’è ribellato al suo Dio, le creature tutte domandano vendetta, dicendo: Signore, volete facciam perire quel peccatore che v’ha oltraggiato? Volete, gli dice il mare, ch’io l’inghiottisca nei miei abissi? E la terra: Signore, debbo aprire le mie viscere per farlo discendere vivo nell’inferno? E l’aria: Signore, mi permettete di soffocarlo? Ed il fuoco: Ah! di grazia lasciatemelo abbruciare. E così tutte le altre creature domandano vendetta ad alte grida. I lampi ed i fulmini vanno avanti al trono di Gesù Cristo domandandogli licenza di annientarlo e divorarlo. — Ma no, risponde il buon Gesù, lasciatelo sulla terra sino al momento stabilito dal Padre mio; forse avrò la fortuna di convertirlo. Se il peccatore si svia ognor più, questo tenero Padre piange su di lui, e non lascia di perseguitarlo colla sua grazia, facendo in lui nascere violenti i rimorsi della coscienza. ” O Dio delle misericordie, esclama S. Agostino, quand’era peccatore m’allontanavo da voi sempre più; i miei passi e le mie azioni tutte erano altrettante nuove cadute nel male; le passioni s’infiammavano ognor più vivamente; eppure avevate pazienza, e m’aspettavate. O pazienza del mio Dio! son tanti anni che vi offendo, e non mi avete ancora punito: donde può venire questa lunga attesa? Davvero, o Signore, è perché volete ch’io mi converta, e ritorni a voi colla penitenza. „ È possibile, F. M., che nonostante il desiderio del buon Dio di salvarci, noi ci perdiamo così deliberatamente? Sì, F. M., se vogliamo percorrere le differenti età del mondo, vediamo la terra ricoperta dappertutto delle misericordie del Signore, e gli uomini avvolti nei suoi benefizi. Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli perdono; ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore, e lo fa ritornare a sé. Ne volete un bell’esempio? Vedete come fece oon Adamo dopo il suo peccato. Invece di punirlo, come si meritava, per quella ribellione contro il suo Creatore, che avevagli concesso tanti privilegi, che l’aveva ornato di tante grazie e destinato per un fine così beato: quello d’esser suo amico e di non morir mai; Adamo, dopo il peccato, fugge la presenza di Dio: ma il Signore, come un padre desolato che ha perduto il figliuol suo, corre a cercarlo, e lo chiama quasi piangendo: “Adamo, Adamo, dove sei? Perché fuggi la presenza del tuo Creatore? „ (Gen. III, 9). Desidera tanto di perdonargli, che neppure gli dà tempo di domandar perdono: subito gli annuncia che vuol perdonargli, che manderà il Figliuol suo, il quale nascerà da una Vergine e riparerà il danno che il peccato ha cagionato a lui ed ai suoi discendenti, e che questa riparazione si farà in un modo ammirabile. Infatti, F. M. , senza il peccato di Adamo, mai avremmo avuto la fortuna d’aver Gesù Cristo per Salvatore, né di riceverlo nella santa Comunione, e neppure di possederlo nelle nostre chiese. Nei lunghi secoli durante i quali l’eterno Padre attese di mandare sulla terra il Figliuol suo, Egli non cessò di rinnovare queste consolanti promesse per bocca dei patriarchi e dei profeti. O carità di Dio, quanto sci grande pei peccatori! Vedete, F. M., la bontà di Dio pel peccatore? Potremo ancora disperare del nostro perdono? Giacché il Signore mostra tanto il desiderio di perdonarci, se restiamo nel peccato è tutta colpa nostra. Vedete che cosa fece con Caino, dopoché questi uccise il fratello. Va a trovarlo per farlo rientrare in se stesso, e potergli perdonare: perché bisogna necessariamente domandargli perdono, se vogliam che ce lo dia. Ah! mio Dio, è troppo! “Caino, Caino, che hai fatto? Domandami perdono, perché io possa perdonarti. „ Caino non vuole, dispera della sua salvezza, si ostina nel peccato. Eppure vediamo il buon Dio che lo lascia a lungo sulla terra per dargli tempo, se avesse voluto, di convertirsi. Vedete ancora la sua misericordia verso il mondo, quando i delitti degli uomini avevano ricoperto la terra infangandola nelle più infami passioni: il Signore era costretto a punirli: ma prima di decidersi, quante precauzioni, quanti avvertimenti, quanti indugi! Li minaccia molto tempo prima di punirli, per iscuoterli e farli rientrare in se stessi. Vedendo che i delitti andavano sempre aumentando, mandò loro Noè, al quale comandò di costruire un’arca, impiegandovi cento anni, e di dire a tutti quanti glielo domandassero, il perché di quella costruzione; che, cioè il Signore voleva far perire il mondo intero, con un diluvio universale, ma che se volevano convertirsi e fare penitenza, cambierebbe il suo decreto. Infine però, vedendo che a nulla servivano tutti questi avvertimenti e che gli uomini si ridevano delle sue minacce, fu obbligato di punirli. E tuttavia sappiamo che il Signore disse che si pentiva d’averli creati: il che ci mostra la grandezza di sua misericordia. E come se avesse detto: Preferirei non avervi creati piuttosto che vedermi costretto a punirvi (Gen. VI). Ditemi, F. M., poteva Egli, quantunque Dio, spingere più lungi la sua misericordia? F. M., cosi Egli aspetta i peccatori a penitenza e ve li invita coi movimenti interiori della sua grazia, e la voce dei suoi ministri. Vedete ancora come si diporta verso Ninive, questa grande città peccatrice. Prima di punirne gli abitanti, comanda al suo profeta Giona, d’andare da parte sua ad annunciar loro che fra quaranta giorni li avrebbe puniti. Giona, invece d’andare a Ninive, fugge in altro luogo. Vuol attraversare il mare: ma Dio, invece di lasciare i Niniviti senza avviso prima di punirli, fa un miracolo per conservare il suo profeta durante tre giorni e tre notti nel seno d’un cetaceo, che al terzo dì miracolosamente lo rigetta sul lido. Allora il Signore dice a Giona: “Va ad annunciare alia grande città di Ninive che fra quaranta giorni sarà distrutta. „ Non mette condizioni. Il profeta, andatovi, annuncia a Ninive che fra quaranta giorni sarebbe perita. A questa notizia, tutti si danno alla penitenza ed alle lagrime, dal contadino fino al re. “Chi sa, dice loro il re, che il Signore non abbia ancora pietà di noi?„ Il Signore, vedendoli ricorrere alla penitenza, sembrò gustare la gioia di perdonarli. Giona, vedendo passato il tempo del castigo, si ritirò fuori della città, per aspettare che il fuoco del cielo cadesse su di essa. Vedendo che non cadeva: “Ah! Signore, esclama, mi fate forse passare per un falso profeta? fatemi piuttosto morire. Ah! io so bene che siete troppo buono; non cercate che di perdonare! — Ecchè, Giona! gli disse il Signore; vorresti ch’Io facessi perire tante persone, che si umiliarono davanti a me? Oh! no, no, Giona, non ne avrei il coraggio: invece li amerò e li conserverò (Jon. I-IV) .„ Ecco precisamente, F. M., quanto fa Gesù Cristo a nostro riguardo: alcune volte sembra voglia punirci senza misericordia: ma al più piccolo pentimento ci perdona e ci rende la sua amicizia. Vedete, quando volle far discendere il fuoco dal cielo sopra Sodoma, Gomorra e le città vicine. Sembrava non potervisi risolvere senza consultare il suo servo Abramo; quasi per sentire che cosa dovesse fare. “ Abramo, dissegli il Signore, i delitti di Sodoma e Gomorra giunsero sino al mio trono; non posso più soffrirli quegli uomini; li farò perire col fuoco del cielo. — Ma, Signore, risponde Abramo, punirete i giusti insieme ai peccatori? — Oh! no, no, gli dice il Signore. — Ebbene! soggiunge Abramo: se vi fossero trenta giusti in Sodoma, la punireste, o Signore? — No, disse, se ne trovo trenta, perdono a tutta la città per amore dei giusti. „ (Gen. XVIII). Arrivò sino a dieci. Ahimè! in una città sì grande non si trovavano dieci giusti! Vedete che il Signore sembrava gioisse di consultare il suo servo su quanto voleva fare. Vedendosi costretto a punirli, mandò subito un Angelo a Lot per dirgli di uscire lui e tutta la sua famiglia, per non andar puniti coi colpevoli (idem XIX). Ah! mio Dio, quale pazienza! quanti indugi prima dell’esecuzione! Volete sapere qual peccato obbligò il Signore a far piombar sulla terra tanti castighi? Ahimè! è il maledetto peccato dell’impurità, di cui la terra era tutta coperta. Volete vedere come Dio tarda a punire? Vedete che cosa fece per castigar Gerico (Gios. VI) . Ordinò a Giosuè di far portare in processione l’arca dell’alleanza, oggetto sacro che mostrava la grandezza della misericordia di Dio. Volle che fosse portata dai sacerdoti, depositari di sua misericordia. Comandò di fare per sette giorni il giro delle mura della città, facendo suonare le medesime trombe che servivano ad annunciare l’anno del giubileo, che era un anno di riconciliazione e di perdono. Eppure vediamo che le stesse trombe destinate ad annunciare loro il perdono, fecero cadere le mura della città, per mostrarci che se non vogliamo approfittare delle grazie che Dio vuol accordarci, diventiamo perciò più colpevoli: ma che se abbiamo la fortuna di convertirci, Egli ne prova una gioia sì grande da dirci che ci dà il perdono con maggior prontezza di quella con cui una madre estrae il suo bambino dal fuoco. Vedemmo, F. M., che dal principio del mondo, sino alla venuta del Messia, tutto è misericordia, grazia, benefizi. Eppure possiamo dire che sotto la legge di amore i benefizi, di cui Dio ha colmato il mondo, sono ancor più abbondanti e preziosi. Quale misericordia nell’eterno Padre il quale non ha che un Figlio, ed acconsente che perda la vita per salvarci tutti! Ah! F. M., se percorressimo tutta la storia delle sofferenze di Gesù Cristo con cuore riconoscente, quante lagrime non verseremmo! Vedendo il tenero Gesù nella culla, ecc.. Vedete che la misericordia del Padre non può andar oltre, poiché avendo un sol Figlio, che è la cosa sua più cara, lo sacrifica per salvarci. Ma se consideriamo l’amore del Figlio, che cosa ne diremo noi? Egli acconsente volontariamente di soffrire tanti tormenti, ed anche la morte per procurarci la felicità del cielo! Ah! F. M., che cosa non ha Egli fatto durante i giorni di sua vita mortale? Non contento di chiamarci a Lui colla sua grazia, e di fornirci tutti i mezzi per santificarci, vedete come corre dietro le pecorelle smarrite: vedete come attraversa le città e le campagne per cercarle e ricondurle nel luogo della sua misericordia: vedete come lascia gli apostoli per aspettare la Samaritana presso il pozzo di Giacobbe, dove sapeva sarebbe venuta: la previene Lui stesso; comincia a parlarle, perché la sua parola piena di dolcezza, unita alla sua grazia, la tocchi e la commuova: le domanda acqua da bere, perché ella stessa gli chieda qualche cosa di più prezioso, la sua grazia. Fu così contento d’aver guadagnato quell’anima che quando gli apostoli lo pregarono di cibarsi: “Oh! no, disse loro.„ Sembrava dicesse: “Ah! no, no, io non penso al cibo del corpo, tanto gioisco d’aver guadagnata un’anima al Padre mio! „ (Giov. IV) Vedetelo nella casa di Simone il lebbroso: non vi si reca per mangiare, ma perché sapeva che vi verrebbe una Maddalena peccatrice: ecco, F. M., che cosa lo conduce a quel banchetto. Osservate la gioia che mostra in volto, vedendo Maddalena a’ suoi piedi, bagnarli di lagrime ed asciugarli co’ suoi capelli. Ma il Salvatore, dal canto suo, la ricompensa: versa a piene mani la grazia nel cuore di lei. Vedete come prende le sue difese contro chi se ne scandalizza (Luc. VI) . Giunge tant’oltre che non contento di perdonarle tutti i peccati e cacciare i sette demoni che aveva in cuore, vuol anche sceglierla per una delle sue spose: vuole che l’accompagni in tutto il corso di sua passione, e che “ … dove sarà predicato il Vangelo, si racconti quanto ella fece per Lui (Matt. XXVI, 13):„ non vuole che si parli de’ suoi peccati, perché son già tutti perdonati coll’applicazione anticipata dei meriti del suo sangue adorabile, che Egli deve spargere. Vedetelo prender la via di Cafarnao per andar a trovare un altro peccatore al suo banco; era S. Matteo, di lui voleva fare uno zelante apostolo (Matt. IX). Domandategli perché prende la via di Gerico; soggiungerà che v’è un uomo chiamato Zaccheo, il quale è in voce di pubblico peccatore; vuol andarlo a trovare per salvarlo, per farne un perfetto penitente. Fa come un buon padre, che ha perduto il suo figliuolo, lo chiama: “Zaccheo, gli dice, discendi, perché oggi voglio venire in casa tua, e vengo per concederti la mia grazia. „ È come se Egli dicesse: “Zaccheo, lascia questo orgoglio e quest’attaccamento ai beni del mondo: discendi, cioè scegli l’umiltà e la povertà.„ Per ben farlo comprendere a quanti erano con Lui, aggiunge: “Questa casa oggi riceve la salute. ,,

1. — O mio Dio! quant’è grande la vostra misericordia pei peccatori! Domandategli ancora perché passò per quella piazza pubblica. “Ah! vi dirà, perché aspetto una donna adultera, che vien condotta alla lapidazione: ed io prenderò la sua difesa contro i suoi nemici, la commuoverò e convertirò.„ Vedete il tenero Salvatore vicino a quella donna, come si comporta, come prende le sue difese? Vedendola circondata dal popolaccio che aspettava solo il segnale per lapidarla, il Salvatore sembra dir loro: “Un momento, lasciatemi fare, poi toccherà a voi. „ Si piega verso terra, scrive, non la sentenza di morte, ma la sua assoluzione. Rialzatosi li guarda. Non sembra dir loro: “Ora che questa donna è perdonata, non è più peccatrice, ma una santa penitente: chi di voi è uguale ad essa? Se siete senza peccato, gettatele la prima pietra.„ Tutti quegli ipocriti, vedendo che Gesù il Cristo leggeva nella loro coscienza, si ritirarono; primi i più vecchi che certamente erano i più colpevoli, poi gli altri. Gesù Cristo, vedendola rimasta sola, le disse con bontà: “Donna, chi ti ha condannato?„ come per dirle: dopo che io ti ho perdonato, chi avrebbe osato condannarti? ,, Ah! Signore, risposegli la peccatrice, nessuno. — Ebbene! va, e bada di non più peccare (Giov. VIII).„ Vedete ancora che bontà Egli rivela per quella donna che da dodici anni soffriva perdita di sangue. Essa si getta umilmente a’ suoi piedi: “perché, pensava, se posso toccar soltanto il lembo del suo manto, son certa di guarire.„ Gesù Cristo, voltandosi con aria di dolcezza, dice: “Chi mi tocca? Andate, figlia mia, abbiate fiducia, siete guarita nell’anima e nel corpo. „ (Matt. IX). Vedetelo come ha compassione di quel padre, che gli presenta il figlio posseduto dal demonio sin dall’infanzia (Marc. IX)… Vedetelo piangere avvicinandosi a Gerusalemme, che era la figura dei peccatori, che non voglion lasciarsi toccare il cuore. Vedete come piange sulla sua rovina eterna. “Oh! quante volte, ingrata Gerusalemme, volli io ricondurti al seno di mia misericordia, come una chioccia raccoglie i pulcini sotto le ali: ma tu non volesti. O ingrata Gerusalemme che hai ucciso i profeti, e fatto morire i servi di Dio! oh! se almeno volessi ricever la grazia che ti porto! „ (Matt. XIII). Vedete, P. M., come il buon Dio piange la perdita delle anime nostre, quando vede che non vogliamo convertirci? Ora che vediamo quanto Gesù Cristo ha fatto per salvarci, come potremmo disperare della sua misericordia, giacché il suo più grande piacere è di perdonarci: e, per quanto numerosi siano i nostri peccati, se vogliamo lasciarli e pentircene siamo sicuri del perdono? Quand’anche le colpe nostre uguagliassero il numero delle foglie della foresta, saremo perdonati, se il nostro cuore è veramente pentito. Per convincervene, eccone un bell’esempio. Leggiamo nella storia che un giovane, chiamato Teofilo, sacerdote, fu accusato presso il suo Vescovo, e deposto dalla sua dignità. Questa pena lo infuriò talmente, che chiamò il demonio in suo soccorso. Lo spirito maligno gli apparve, promettendogli di fargli ricuperare la sua dignità, a patto che rinnegasse Gesù e Maria. Accecato dal furore, lo fece; e diede al demonio una rinuncia scritta di sua mano. Il giorno dopo il Vescovo, riconosciuto il suo errore, lo chiamò in chiesa, gli domandò perdono d’aver troppo facilmente creduto a quanto gli era stato detto, e lo ristabilì nella sua dignità. Il sacerdote. allora si trovò in grave imbarazzo: per lungo tempo si sentì straziato dai rimorsi della coscienza. Gli venne il pensiero di ricorrere alla Vergine Ss., sentendosi troppo indegno di domandar perdono a Dio. E andò a prostrarsi dinanzi ad un’immagine della Ss. Vergine, pregandola di ottenergli perdono dal suo divin Figliuolo, e a tal fine, digiunò quaranta giorni, e pregò continuamente. Dopo i quaranta giorni, la Vergine gli apparve, dicendogli che gli aveva ottenuto il perdono. Fu consolato da questa grazia: ma gli restava ancora una spina ben profonda da togliersi: era lo scritto dato al demonio. Pensò che Dio non rifiuterebbe questa grazia alla sua Madre: continuò per tre giorni a pregarla, e, finalmente, svegliatosi trovò la carta sul suo petto. Pieno di riconoscenza va in chiesa, e, davanti a tutti, pubblica la grazia che il buon Dio gli aveva concessa per intercessione della sua santa Madre. Facciamo altrettanto: se ci troviamo troppo colpevoli per domandar perdono a Dio, indirizziamoci alla Ss. Vergine, e stiam sicuri del perdono. Ma per incoraggiarvi ad aver gran confidenza nella misericordia di Dio che è infinita, eccone un esempio che il Vangelo ci mette innanzi, il quale ci fa intendere che la misericordia di Dio è senza confini: è quello del Figliuol prodigo, che dopo aver domandato al padre suo quanto gli poteva spettare, andò in paese straniero. Ivi dissipò tutta la sua sostanza, vivendo da libertino e scostumato. La sua cattiva condotta lo ridusse in tal miseria che diventato guardiano di porci, stimavasi troppo fortunato di potersi sfamare colle loro ghiande, sebbene non ne avesse quante la sua fame esigeva. Riflettendo un giorno sulla grandezza della sua miseria, diceva al padrone presso, il quale era custode degli immondi animali. “Datemi almeno quanto mangiano le vostre bestie.„ Quale miseria, F. M,, è paragonabile a questa? Eppure nessuno lo soccorreva. Vedendosi ridotto a morir di fame, e vivamente commosso del suo infelice stato, apre gli occhi, e si ricorda di avere un padre tanto buono e che tanto l’amava. Risolve di ritornare alla casa paterna, dove i più umili servi avevano pane più del bisogno. Diceva a se stesso: “Ho errato assai abbandonando il padre mio che tanto mi amava: ho dissipato tutto il mio, menando una vita cattiva: sono tutto lacero e sucido; come potrà il padre mio riconoscermi per suo figlio? Ma mi getterò ai suoi piedi, glieli bagnerò di lagrime: gli domanderò di mettermi solo nel numero dei suoi servi. „ Eccolo che si alza e parte, tutto preoccupato dello stato infelice a cui l’aveva ridotto il suo libertinaggio. Il padre, che ne piangeva da lungo tempo la perdita, vedendolo da lungi venire, dimenticò la tarda età sua, e la cattiva condotta del figlio, si gettò al suo collo per abbracciarlo. Il povero giovane, commosso dell’amore del padre suo: “Ah! padre mio, esclama, ho peccato contro di te e contro il cielo! non merito più d’essere chiamato tuo figliuolo, mettimi solo nel numero dei tuoi servi. — No, no, figlio mio, grida il padre pieno di gioia per la felicità di aver ritrovato il figliuolo che credeva perduto: no, figlio mio, tutto è dimenticato, non pensiamo che a rallegrarci. Gli si porti l’antica veste per ricoprirlo, gli si metta un anello al dito, ed i calzari ai piedi: si uccida un vitello ben pingue, e si faccia festa: perché mio figlio era morto ed è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato.„ (Luc. XV). Bella immagine, F. M., della grandezza della misericordia di Dio per i più sventurati peccatori! Infatti, allorché abbiam la sventura di peccare ci allontaniamo da Dio, e ci riduciamo, seguendo le nostre passioni, ad uno stato più miserabile dei porci, gli animali più immondi. O mio Dio! quanto il peccato è spaventoso! come si può commetterlo? Ma, per quanto siamo colpevoli, da quando risolviamo di convertirci, al primo segno di conversione lo viscere di sua misericordia sono mosse a compassione. Questo tenero Salvatore colla sua grazia va innanzi ai peccatori, li previene favorendoli di consolazioni le più deliziose. Infatti, mai un peccatore prova maggior piacere di quando lascia il peccato per darsi a Dio: gli sembra che niente potrà arrestarlo: né preghiera, né penitenza: niente gli appar troppo duro. O momento delizioso! O quanto saremmo felici, se avessimo la fortuna di comprenderlo! Ma ahimè! non corrispondiamo alla grazia, e quindi questi felici momenti si dileguano. Gesù Cristo dice al peccatore per bocca dei suoi ministri: – Si indossi a questo Cristiano convertito il primo suo abito, che è la grazia perduta del battesimo: lo si rivesta di Gesù Cristo, della sua giustizia, delle sue virtù e meriti tutti.„ Ecco, F. M., il modo con cui ci tratta Gesù Cristo quando abbiam la fortuna di abbandonare il peccato per darci a Lui. Ah! F. M., qual motivo di confidenza per un peccatore, anche se assai colpevole, il sapere che la misericordia di Dio è infinita!

II. — No, F. M., non è la gravità dei nostri peccati, né il loro numero che ci devono spaventare; ma solo le disposizioni che dobbiamo avere. Eccovi, F. M., un altro esempio che ci mostra, che, per quanto colpevoli, siamo sicuri del perdono se vogliamo domandarlo a Dio. Leggiamo nella storia che un gran principe nella sua ultima malattia fu attaccato da una tentazione orribile di diffidenza nella bontà e misericordia di Dio. Il sacerdote che l’assisteva, vedendo che perdeva la confidenza, faceva il possibile per ispirargliela, dicendogli che mai il buon Dio negò il perdono a chi glielo domandò. “No, no, disse l’ammalato, non v’ha più perdono per me, ho fatto troppo male.„ Il sacerdote non trovando altra risorsa, si mise a pregare. In quel mentre Dio gli pose sulle labbra quelle parole che il santo Re profeta pronunciò prima di morire: “Principe, dissegli, ascoltate il profeta penitente; siete peccatore come lui, dite sinceramente con lui: Signore, avrete pietà di me, perché i miei peccati sono grandi, ed è appunto la gravità dei miei peccati il motivo che vi impegnerà a perdonarmi. „ A queste parole il principe svegliandosi come da un profondo sonno, stette un momento come in un trasporto di gioia, e mandando un sospiro profondo: “Ah! Signore, proprio per me furono pronunziate queste parole! Sì, mio Dio, appunto perché ho fatto molto male avrete pietà di me! „ Si confessa, e riceve tutti i Sacramenti versando torrenti di lagrime: fa con gioia il sacrificio di sua vita, e muore con in mano il crocifisso che inonda di lagrime. Infatti, F. M., che cosa sono i nostri peccati, se li paragoniamo alla misericordia di Dio? un granellino in confronto ad una montagna. O mio Dio! come si può acconsentire di andar dannati, mentre costa sì poco il salvarsi, e Gesù Cristo desidera tanto la salvezza nostra? – Però, F. M., se Dio è sì buono da attenderci e riceverci, non bisogna stancare la sua pazienza: se ci chiama, ci invita di venire a Lui, dobbiamo andargli incontro: se ci riceve, dobbiamo essergli fedeli. Invece, F. M., sono forse più di cinque o sei anni che il buon Dio ci chiama: perché restiamo nei nostri peccati? Egli è sempre pronto ad offrirci la grazia, perché non lasciamo il peccato? Infatti, M. F., S. Ambrogio ci dice: “Dio, per quanto buono e misericordioso, non ci perdona se non gli domandiamo perdono, se non uniamo la nostra volontà a quella di Gesù Cristo. „ Ma quale volontà, F. M., domanda Dio da noi? Ecco: è una volontà che corrisponda alle sante sollecitazioni della sua misericordia, che ci faccia dire con S. Paolo: “Voi avete sentito raccontare quali furono la mia condotta e le mie azioni prima che Dio mi facesse la grazia di convertirmi. Perseguitavo la Chiesa di Gesù Cristo con tanta crudeltà, che ne ho orrore io stesso ogni volta che vi penso. Chi avrebbe creduto che appunto questo momento avevascelto Gesù Cristo per chiamarmi a Lui? In quell’istante fui circondato da una luce: udii una voce che mi disse: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? „ (Gal. I, 13-15) Ah! F. M.! quante volte il buon Dio non ci ha fatto la medesima grazia? Quante volte in peccato, o vicini a cadervi, udimmo una voce interna che ci gridava: Ah! figlio mio, perché vuoi farmi soffrire, e perdere l’anima tua? „ Eccone un bell’esempio. Leggiamo nella storia che un figlio incollerito, uccise il padre suo. Ne concepì un rimorso tale, che sembravagli udir continuamente una voce che gli gridasse: “Ah! figlio mio, perché mi hai ucciso? „ Ne soffriva tanto che egli stesso andò a denunziarsi al giudice. Non solo, F. M., dobbiamo abbandonare il peccato, perché Dio è tanto buono di perdonarci: ma dobbiamo anche piangere di riconoscenza. Ne abbiamo un bell’esempio nel giovane Tobia, guidato e ricondotto dall’Angelo (Tob. XII): il che ci mostra quanto piaccia a Dio essere ringraziato. Leggiamo che quella donna, che da dodici anni soffriva di perdita di sangue, guarita da Gesù Cristo, per riconoscenza e per mostrare a tutti la bontà di Dio con lei, fece erigere vicino alla casa sua una bella statua rappresentante una donna davanti a Gesù Cristo che l’aveva guarita. Parecchi autori ci dicono che attorno vi nasceva un’erba sconosciuta, che quando arrivava alla frangia del vestito della statua guariva ogni sorta di malattie. Vedete S. Matteo, per ringraziar Gesù Cristo della grazia che gli aveva fatto l’invitò a casa sua. e resegli tutti gli onori possibili Vedete il lebbroso samaritano: vedendosi guarito ritorna su’ suoi passi, si getta ai piedi di Gesù Cristo per ringraziarlo della grazia che gli aveva fatta (Luc. XVII, 16). S. Agostino ci dice che il miglior rendimento di grazie è che l’anima vostra sia sinceramente riconoscente verso la bontà di Dio, dandosi tutta a Lui con tutti i suoi affetti. Vedete il Salvatore quando ebbe guarito i dieci lebbrosi, vedendo che uno solo ritornava a ringraziarlo: “E gli altri nove, dissegli Gesù, non furono parimente guariti? „ (Luc. XVII, 17). Come se avesse detto: Perché gli altri non vengono a ringraziarmi? S. Bernardo ci dice che bisogna essere assai riconoscenti verso il buon Dio, perché ciò lo impegna ad accordarci molte altre grazie. Davvero, F. M.! quante grazie non dobbiam rendere a Dio, di averci creati, di averci redenti colla sua passione e morte, di averci fatto nascere nel seno della sua Chiesa, mentre tanti altri vivono e muoiono fuori del suo seno. Si, F . M., poiché la bontà e la misericordia di Dio sono infinite, procuriamo di ben approfittarne, e così avremo la ventura di piacergli e di conservar le anime nostre nella sua grazia: il che ci procurerà la felicità d’andar un giorno a godere la sua santa presenza con tatti i beati in cielo. Ecco quanto vi auguro.

LO SCUDO DELLA FEDE (160)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (28)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA – 1861

SECONDA PARTE.

Genuino prospetto del Cattolicismo, e del Pretestantismo, delineato dai Protestanti.

PRATTENIMENTO III

Prospetto del Protestantesimo

PUNTO II.

Effetti e orride dottrine della Riforma: putrefazione e disfacimento del Protestantismo.

44. « Le conseguenze di ciò, per rispetto alla morale del popolo, furono tali quali dovevano necessariamente aspettarsi. Tutti gli storici convengono in asserire, che: vizj d’ogni genere, ed i misfatti d’ogni maniera non erano mai per l’addietro avvenuti né così orribili, né così numerosi. Ciò venne altresì confessato dagli stessi maestri della Riforma, e tuttora i protestanti hanno magnificato questo regno come il regno della coscienza e della Religione! Egli era così evidente che il cangiamento era iniquo, che gli uomini non poterono procedere per errore! » (Cobbet, Ivi, Lett. 7, § 201)

45. « Sin dal principio i Protestanti cominciarono ad esser fra se stessi discordi; ma tutti sostenevano, che la sola fede bastava ad assicurare la salvezza; mentre i Cattolici sostenevano che le opere buone pur anco son necessarie. Il più malvagio degli uomini, il più brutale e sanguinario de tiranni esser puote (secondo questa dottrina) uno zelatore credente, poiché gli stessi diavoli credono: ed è perciò che a prima giunta, sembraci veramente cosa strana, che Enrico VIII non divenisse subito uno zelator protestante, vale a dire uno de’ più devoti discepoli di Lutero. Egli lo sarebbe stato senza dubbio; ma Lutero cominciò la sua Riforma alcuni anni troppo presto pel Re… Se cominciato avesse dodici anni dopo, il Re sarebbe divenuto ad un tratto protestante, nel vedere specialmente che questa novella religione permetteva a Lutero e a sette altri de’ suoi fratelli, fautori della Riforma, di accordare di loro propria autorità una licenza al Langravio di Assia, di aver due mogli ad un tempo stesso!!… Una religione sì compiacente e sì tollerante senza dubbio sarebbe stata, ed era precisamente secondo il gusto del Re all’epoca del divorzio; ma ebbe luogo dodici anni troppo presto per lui.  » (Il medes: Op, cit. Lett, 3, § 10). Insomma, ritornando al punto …

« I Riformatori differivano l’uno dall’altro nella più parte delle cose, come i colori dell’iride; ma essi tutti accordavansi in questo, cioè che le opere buone non eran necessarie alla salvezza, e che i Santi (come avean la modestia di chiamar sè stessi) non potevan perdere il lor diritto al cielo per quantunque peccati, comunque molti ed enormi si fossero.! » (Cobbet ivi, Lett. XI, § 328)

« La nostra Chiesa, seguendo il corso del tempo, che cosa ella mai divenne, se non una nuova e vera Babilonia?? » (Giul. di Mueller, nel periodico: La Chiesa Cristiana nella sua idea, T, 1, p. 59).

« Fra tanti dicitori non ve ne son neppur due, i quali sieno d’accordo fra loro. In quella guisa stessa che ciascuno ha la sua peculiare fisonomia, ciascuno in pari tempo ha un’opinione tutta sua propria e speciale. Non sarebbe in verità cosa soverchiamente meravigliosa, se noi banditori di religione fossimo annoverati nella cerchia di quegli antichi aruspici, i quali per avventura incontrandosi insieme, e non sapendo che dirsi, scambievolmente si deridevano. E Tullio che così li descrive. » (I. H. Tiestrunk, Critica del dogma cristiano protestante, 1799, T, 1, prefazione).

« Ecco poi perché il popolo fa le risa e si burla di essi, come farebbe di falsi profeti; ecco perché in esso l’apatia e l’indifferenza s’intromette in luogo di un fervoroso e sublime amore alla religione. Ciò è un gran motivo di sofferenza per il nostro stato ecclesiastico. Quanto per lo meglio si può, fannosi le beffe de’ predicatori, perché non veggono in essi che falsi profeti » (Luedke, Dialoghi sull’abolizione dello stato ecclesiastico).

« Si scorge facilmente, e questo è cagione di non poca meraviglia, che nel breve spazio di due leghe si vuol far credere a quattro, cinque ed eziandio a più sorte di Vangeli; ed il popolo che esamina attentamente, ben se ne avvede…. Egli molto se ne querela, e disprezza e non cura i suoi maestri; che anzi con male parole li vilipende e li umilia;… niun’altra stima egli ne ha che di uomini di pessima fiducia», o per lo meno ignorantissimi… Il popolo semplice, secondo che è, crede esser la verità una sola, e non cape nell’intelletto, per beneficio della Provvidenza, come mai ciascuno di cotali signori si abbia una sua propria e speciale verità. » (Fischer, Introduzione alla dogmatica della Chiesa evangelico-protestante. Tubinga 1828, p. 210.) Nè questo è il peggio! Ascolta.

46. « Le Confessioni protestanti si sono dilungate dalla Chiesa (Cattolica). Perocchè appellando esse alla Scrittura come ad unico fondamento, hanno rinunziato al Divin Paracleto, e all’influenza che Egli si ha nella Chiesa universale che tanto vale fin nella stessa Scrittura, che ne è anzi il fondamento. E se per avventura l’ammettono, ciò non addiviene altrimenti, se non perché gli danno una certa azione entro di sé medesimi soggettivamente. Però togliendo via a questo modo l’ordine statuito dal Fondatore, con propria autorità, é avvenuto che lo Spirito Santo non gli ha più assistiti col divino suo lume. » (Binder, Il discioglimento completo del protestantismo, T. I, p. 10, Sciaffusa 1844).

« La Scrittura salì in quel grado medesimo di autorità che per l’avanti l’antica gerarchia avea posseduto, e questa in un colla sua forza ordinatrice ed unitiva venne meno e scomparve dalla Chiesa (protestante)… Se con buona volontà, con retta fede e con mano esperta si fosse purgata la Chiesa, in vece di rovinarla, ben avrebbe potuto ringiovanire la fede, levare in alto i sentimenti e dar novella e giusta vita all’obbedienza. » (Enrico Steffens, Op. cit., p 14, Nota 1, p. 298).

« L’unione della fede e della libertà, che i Riformatori volevano porre in effetto, non ha resistito; e l’età a noi più vicina ha cacciato fuori l’una appresso l’altra le pietre, delle quali si compone l’edificio della Chiesa. » (Hullmann, Studi teologici, cc. 1832).

« Moltissime prediche fatte dai così detti sopraintendenti e sopraintendenti generali della Corte, si potrebbero convenevolmente e con efficacia tenersi dinanzi alle Sinagoghe degli Ebrei, e dalle Moschee de’ Turchi! Né vi mancherebbe altro, se non torne la parola – Cristianesimo, – e il nome venerando di Cristo, che quivi veramente si trovano per causa di disonore nominati !… e sostituirvi, indovinando così la mente degli uditori, dettati ed insegnamenti de’ più savi fra i pagani, come a cagion di esempio Socrate, Platone, Confucio, Zoroastro, Maometto, ed altri di tal guisa. » (Corrispondenza omiletica, liturgica del 1830, N. 116.). Ma vi è ancora di peggio!… Ascolta.

47. « Niuno sale i pergami, o monta sulle cattedre, che uomo vile o vendereccio non ‘sia, o incredulo mercenario, o parassita, o cane mutolo, o lima sorda! » (H. Dietz, Sermone in onora della festa tresecolare della Riforma, 1830).

« La nostra scuola popolare, per quello che si appartiene principalmente alle istituzioni primarie, è pagana. Il principio cristiano o è del tutto scientemente sbandito, o pure per non curanza scomparisce; e se in qualche maniera se ne fa cenno, lo si fa per guisa accidentale, e toccandogli il primo, gli si dà l’ultimo posto. Le nostre scuole sono profanate. Sono istituti intesi a metter la gioventù per entro gli artifizii e gli addestramenti, cui si crede menar diritto a’ guadagni terreni, all’industria ed alle arti; e ciò facendo, si spera di formar buoni cittadini, quasi che potesse altri essere un vero e buon cittadino di uno Stato cristiano, senza esser Cristiano, ovvero che il Cristianesimo non fosse il fondamento e la colonna de nostri Stati cristiani e della loro Costituzione.! » (F. A. Krummacher, Sermoni di vario argomento, p. 81).

« L’anticristianesimo si vede e si ode chiaramente; perocché a voce alta se ne leva la troppo subita fama. Avevamo noi la Bibbia, ed era essa il fondamento della nostra fede; ma adesso non oso dirlo, né lo potrei dire; giacché essa s’interpreta per modo, che là dove le nostre Università spingano più innanzi, per questo riguardo, io temo forte che da sé stesse si scavino la fossa, e si procaccino la loro estrema rovina. » (2 Giul. di Mueller, nel foglio periodico del Archenholz, intitolato. La Minerva, Luglio 1809, p. 67).

» Tanto è il novero di quei tali che spiegano naturalmente i miracoli del Nuovo Testamento nella Chiesa protestante, che senza tema di dare in fallo si può chiamare una legione, sicché i loro seguaci sono innumerabili come le stelle del firmamento. » (Op. Sulla Bibbia ed i libri liturgici 1798, Coburgo, p. 21) « Non vi ha dogma del Cristianesimo Evangelico-protestante, come che sia fondamentale, contro del quale non si volga in istile ed in modo oltre ogni credere pungente una copia abbondevolissima di scritti. » (I. R. Piderit, Considerazioni in difesa e schiarimento del Canone della Scrittura Etc. , Erlangen, 1775, p. 85.).

« Che diremo oggimai dei libri protestanti in fatto di cristiana morale? Che vi ha in essi che pur sappia, sia pur debolmente; di cristianesimo oltre il titolo? » (De Wette, Almanacco della Riforma 1819)

«Se vi fosse una legge pur tale, che mediante la sua censura desse proibizione di stampare cosa alcuna contro la Chiesa, converrebbe dichiarare proscritta tutta intiera la moderna letteratura teologica, se già non se n’accettassero alcuni trattatelli.! » (H. Hase, Gnosis, ossia, Dottrina evangelica per gli uomini colti, 1829, 1-3,).

« Si può anche tenere, che Lucifero stesso caduto a basso creda assai più che parecchi. di questi nostri espositori della Sacra Scrittura, e che Maometto sia di più gran lunga di costoro migliore. » (Ewald, Considerazioni sopra le parabole di Gesù Cristo, Annover).

« Il Maomettano crede pur anco ai miracoli di Cristo, e per conseguente più si avvicina ai Cristiani che questi moderni dottori protestanti. » (Trembley, Sur l’Etat present du Christianisme, P. 13).

« In mezzo a’ Turchi (incredibile a dirsi!) non è dato di bestemmiare a chicchesia, né così alla sfacciata e senza alcun timore di pena; il nome di Cristo, di Abramo e di Mosè, come per una rea usanza fra i Cristiani Evangelici, e nei loro scritti continuamente arcade! » (E F, de Marees, Lettere nuove in difesa della fede.)

48. « La Chiesa protestante è presso ad esser ridotta in fascio. Conciossiachè talmente sia guasta, da tornar vana ed inutile qualunque opera di ristorazione  o di puntello si opponga alla rovina di lei. » (F. Boll, nella Gazzetta ecclesiastica di Darmstadt 1831, N. 150).

« L’altezza di questo edificio a vero dire, è già crollata, e la religione Evangelica è pur ridotta in un punto da cui più non si  risorge. » (Di Woltmann, Storia della Riforma etc. 1800, T. 1, prefazione, p. 13.).

« E facendoci fin dalle prime a veder tritamente in che consista, e d’onde abbia avuto principio cotanta corruzione della Chiesa, ben si scorge chiaramente che l’idea del Cristianesimo non solamente in mezzo ai predicatori, ma eziandio per entro le recenti coetanee generazioni si è ecclissata e si è spenta. Insieme alla forma già travalicata nella vecchiezza, essa ha perduto anche lo spirito, e la Vita, e le luci; che perfino non si presta credenza ed ossequio a un Dio personale, cosicché appena si osa pronunziar colle labbra tremanti questo nome!!! Da tutto ciò che andiamo discorrendo si pare chiaro che non vi ha fondamento alcuno, per poco buono e saldo che sia, su cui posarsi. » (Zimmermann, nella Gazzetta ecclesiastica universale di Darmstadt; 1851, N. 70).

49. « Non vi occorrono dimostrazioni, tanto la cosa è facile, ed è stata messa le mille volte in luce: il Protestantismo non può metter bene addentro le radici, e produrre ed allargare i suoi rami in altro terreno che di razionalismo non sia. Perocchè appunto su questo sì reggono e si fondano î protestanti. » (Sittig, nella stessa Gazzetta, 1830, n. 66).

« Oltre chè il razionalismo ben si pare una continua manifestazione dell’Anticristo. » (GA Rudelbach, La natura del razionalismo, 1830).

«Non vi è angolo di terra della Germania protestante, il quale di novelli panteisti non sia fecondissima. Il panteismo è la religione dei nostri più grandi pensatori, dei più eccellenti fra gli artisti. Nessuno si prova di farne parola, ma non vi ha neppur uno che non sappia il panteismo essere nella Germania il mistero pubblico, la segreta religione della Germania » (Heine, Sala di conversazione. Lipsia 1845, T. 2 p. 17)

« Sarà il mondo presente giunto a sì alto acume ed a così sublime raffinamento, da reputar cosa ridevole il credere in un Dio, come è ridicola la fede dell’esistenza degli spettri ? » (Lichtemberg. Opere varie, T. 1, p. 166).

« O protestantismo!… o protestantismo!…ove mai ti sei condotto ? Non ti accorgi che i medesimi tuoi seguaci al cospetto delle intelligenze protestano contro qualunque religione ? » (H. Jenisch. Sull’adorazione di Diop e sulle riforme ecclesiastiche, 1803).

« Lutero edificò la sua Chiesa; noi ci riuniamo insieme come per tributarne lodi e grazie senza fine a Dio: ma ohimè! Mentre preghiamo, essa già non esiste più. »

FESTA DEL SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ (2021)

FESTA DEL SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ (2021)

VENERDÌ DOPO L’OTTAVA DEL CORPUS DOMINI.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Doppio di Ia cl. con Ottava privilegiata di 3° ordine. – Param. bianchi.

Il Protestantesimo nel secolo XVI e il Giansenismo nel XVIII avevano tentato di sfigurare uno dei dogmi essenziali al Cristianesimo: l’amore di Dio verso tutti gli uomini. Lo Spirito Santo, che è spirito d’amore, e che dirige la Chiesa per opporsi all’eresia invadente, affinché la Sposa di Cristo, lungi dal veder diminuire il suo amore verso Gesù, lo sentisse crescere maggiormente, ispirò la festa del Sacro Cuore. L’Officio di questo giorno mostra « il progresso trionfale del culto del Sacro Cuore nel corso dei secoli. Fin dai Primi tempi i Padri, i Dottori, I Santi hanno celebrato l’amore del Redentore nostro e hanno detto che la piaga, fatta nel costato di Gesù Cristo, era la sorgente nascosta di tutte le grazie. Nel Medio-evo le anime contemplative presero l’abitudine di penetrare per questa piaga fino al Cuore di Gesù, trafitto per amore verso gli uomini » (2° Notturno). — S. Bonaventura parla in questo senso: « Per questo è stato aperto il tuo costato, affinché possiamo entrarvi. Per questo è stato ferito il tuo Cuore affinché possiamo abitare in esso al riparo delle agitazioni del mondo (3° Nott.). Le due Vergini benedettine Santa Geltrude e Santa Metilde nel XIII secolo ebbero una visione assai chiara della grandezza della devozione al Sacro Cuore. S. Giovanni Evangelista apparendo alla prima le annunziò che « il linguaggio dei felici battiti del Cuore di Gesù, che egli aveva inteso, allorché riposò sul suo petto, è riservato per gli ultimi tempi allorché il mondo invecchiato raffreddato nell’amore divino si sarebbe riscaldato alla rivelazione di questi misteri (L’araldo dell’amore divino. – Libro IV c. 4). Questo Cuore, dicono le due Sante, è un altare sul quale Gesù Cristo si offre al Padre, vittima perfetta pienamente gradita. È un turibolo d’oro dal quale s’innalzano verso il Padre tante volute di fumo d’incenso quanti gli uomini per i quali Cristo ha sofferto. In questo Cuore le lodi e i ringraziamenti che rendiamo a Dio e tutte le buone opere che facciamo, sono nobilitate e diventano gradite al Padre. — Per rendere questo culto pubblico e ufficiale, la Provvidenza suscitò dapprima S. Giovanni Eudes, che compose fin dal 1670, un Ufficio e una Messa del Sacro Cuore, per la Congregazione detta degli Eudisti. Poi scelse una delle figlie spirituali di S. Francesco di Sales, Santa Margherita Maria Alacoque, alla quale Gesù mostrò il suo Cuore, a Paray-le-Monial il 16 giugno 1675, il giorno del Corpus Domini, e le disse di far stabilire una festa del Sacro Cuore il Venerdì, che segue l’Ottava del Corpus Domini. Infine Dio si servì per propagare questa devozione, del Beato Claudio de la Colombière religioso della Compagnia di Gesù, che mise tutto il suo zelo a propagare la devozioni al Sacro Cuore». (D. GUERANGER, La festa del Sacro Cuore di Gesù). – Nel 1765, Clemente XIII approvò la festa e l’ufficio del Sacro Cuore, e nel 1856 Pio IX l’estese a tutta la Chiesa. Nel 1929 Pio XI approvò una nuova Messa e un nuovo Officio del Sacro Cuore, e vi aggiunse una Ottava privilegiata. Venendo dopo tutte le feste di Cristo, la solennità del Sacro Cuore le completa riunendole tutte in un unico oggetto, che materialmente, è il Cuore di carne di un Uomo-Dio, e formalmente, è l’immensa carità, di cui questo Cuore è simbolo. Questa festa non si riferisce a un mistero particolare della vita del Salvatore, ma li abbraccia tutti. È la festa dell’amor di Dio verso gli uomini, amore che fece scendere Gesù sulla terra con la sua Incarnazione per tutti (Off.) che per tutti è salito sulla Croce per la nostra Redenzione (Vang. 2a Ant. dei Vespri) e che per tutti discende ogni giorno sui nostri altari colla Transustanziazione, per applicarci i frutti della sua morte  sul Golgota (Com.). — Questi tre misteri ci manifestano più specialmente la carità divina di Gesù nel corso dei secoli (Intr.). È « il suo amore che lo costrinse a rivestire un corpo mortale » (Inno del Mattutino). È il suo amore che volle che questo cuore fosse trafitto sulla croce (Invitatorio, Vang.) affinché ne scorresse un torrente di misericordia e di grazie (Pref.) che noi andiamo ad attingere con gioia (Versetto dei Vespri); un acqua, che nel Battesimo ci purifica dei nostri peccati (Ufficio dell’Ottava) e il sangue, che, nell’Eucaristia, nutrisce le nostre anime (Com.). E, come la Eucaristia è il prolungamento dell’Incarnazione e il memoriale del Calvario, Gesù domandò che questa festa fosse collocata immediatamente dopo l’Ottava del SS. Sacramento. — Le manifestazioni dell’amore di Cristo mettono maggiormente in evidenza l’ingratitudine degli uomini, che corrispondono a questo amore con una freddezza ed una indifferenza sempre più grande, perciò questa solennità presenta essenzialmente un carattere di riparazione, che esige, la detestazione e l’espiazione di tutti i peccati, causa attuale dell’agonia che Gesù sopportò or sono duemila anni. — Se Egli previde allora i nostri peccati, conobbe anche anticipatamente la nostra partecipazione alle sue sofferenze e questo lo consolò nelle sue pene (Off.). Egli vide soprattutto le sante Messe e le sante Comunioni, nelle quali noi ci facciamo tutti i giorni vittime con la grande Vittima, offrendo a Dio, nelle medesime disposizioni del Sacro Cuore in tutti gli atti della sua vita, al Calvario e ora nel Cielo, tutte le nostre pene e tutte le nostre sofferenze, accettate con generosità. Questa partecipazione alla vita eucaristica di Gesù è il grande mezzo di riparare con Lui, ed entrare pienamente nello spirito della festa del Sacro Cuore, come lo spiega molto bene Pio XI nella sua Enciclica « Miserentissimus » (2° Nott. dell’Ott.) e nell’Atto di riparazione al Sacro Cuore di Gesù, che si deve leggere in questo giorno davanti al Ss. Sacramento esposto

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXXII: 11; 19
Cogitatiónes Cordis ejus in generatióne et generatiónem: ut éruat a morte ánimas eórum et alat eos in fame.

[I disegni del Cuore del Signore durano in eterno: per strappare le ànime dalla morte e sostentarle nella carestia.]


Ps XXXII: 1
Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.

[Esultate nel Signore, o giusti, la lode conviene ai retti.]

Cogitatiónes Cordis ejus in generatióne et generatiónem: ut éruat a morte ánimas eórum et alat eos in fame.

[I disegni del Cuore del Signore durano in eterno: per strappare le ànime dalla morte e sostentarle nella carestia.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui nobis in Corde Fílii tui, nostris vulneráto peccátis, infinítos dilectiónis thesáuros misericórditer largíri dignáris: concéde, quǽsumus; ut, illi devótum pietátis nostræ præstántes obséquium, dignæ quoque satisfactiónis exhibeámus offícium.  

[O Dio, che nella tua misericordia Ti sei degnato di elargire tesori infiniti di amore nel Cuore del Figlio Tuo, ferito per i nostri peccati: concedi, Te ne preghiamo, che, rendendogli il devoto omaggio della nostra pietà, possiamo compiere in modo degno anche il dovere della riparazione.]


Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios. Eph III: 8-19

Fratres: Mihi, ómnium sanctórum mínimo, data est grátia hæc, in géntibus evangelizáre investigábiles divítias Christi, et illumináre omnes, quæ sit dispensátio sacraménti abscónditi a sǽculis in Deo, qui ómnia creávit: ut innotéscat principátibus et potestátibus in cœléstibus per Ecclésiam multifórmis sapiéntia Dei, secúndum præfinitiónem sæculórum, quam fecit in Christo Jesu, Dómino nostro, in quo habémus fidúciam et accéssum in confidéntia per fidem ejus. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis ei in terra nominátur, ut det vobis, secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis, quæ sit latitúdo, et longitúdo, et sublímitas, et profúndum: scire étiam supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem Dei.

[Fratelli: A me, minimissimo di tutti i santi è stata data questa grazia di annunciare tra le genti le incomprensibili ricchezze del Cristo, e svelare a tutti quale sia l’economia del mistero nascosto da secoli in Dio, che ha creato tutte cose: onde i principati e le potestà celesti, di fronte allo spettacolo della Chiesa, conoscano oggi la multiforme sapienza di Dio, secondo la determinazione eterna che Egli ne fece nel Cristo Gesù, Signore nostro: nel quale, mediante la fede, abbiamo l’ardire di accedere fiduciosamente a Dio. A questo fine piego le mie ginocchia dinanzi al Padre del Signore nostro Gesù Cristo, da cui tutta la famiglia e in cielo e in terra prende nome, affinché conceda a voi, secondo l’abbondanza della sua gloria, che siate corroborati in virtù secondo l’uomo interiore per mezzo del suo Spirito. Il Cristo abiti nei vostri cuori mediante la fede, affinché, ben radicati e fondati nella carità, possiate con tutti i santi comprendere quale sia la larghezza, la lunghezza e l’altezza e la profondità di quella carità del Cristo che sorpassa ogni concetto, affinché siate ripieni di tutta la grazia di cui Dio è pienezza inesauribile.]

Graduale

Ps XXIV:8-9
Dulcis et rectus Dóminus: propter hoc legem dabit delinquéntibus in via.
V. Díriget mansúetos in judício, docébit mites vias suas.

[Il Signore è buono e retto, per questo addita agli erranti la via.
V. Guida i mansueti nella giustizia e insegna ai miti le sue vie.]
Mt XI: 29

ALLELUJA

Allelúja, allelúja. Tóllite jugum meum super vos, et díscite a me, quia mitis sum et húmilis Corde, et inveniétis réquiem animábus vestris. Allelúja.

[Allelúia, allelúia. Prendete sopra di voi il mio giogo ed imparate da me, che sono mite ed umile di Cuore, e troverete riposo alle vostre ànime. Allelúia

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joannes XIX: 31-37
In illo témpore: Judǽi – quóniam Parascéve erat, – ut non remanérent in cruce córpora sábbato – erat enim magnus dies ille sábbati, – rogavérunt Pilátum, ut frangeréntur eórum crura, et tolleréntur. Venérunt ergo mílites: et primi quidem fregérunt crura et alteríus, qui crucifíxus est cum eo. Ad Jesum autem cum veníssent, ut vidérunt eum jam mórtuum, non fregérunt ejus crura, sed unus mílitum láncea latus ejus apéruit, et contínuo exívit sanguis et aqua. Et qui vidit, testimónium perhíbuit: et verum est testimónium ejus. Et ille scit quia vera dicit, ut et vos credátis. Facta sunt enim hæc ut Scriptúra implerétur: Os non comminuétis ex eo. Et íterum alia Scriptúra dicit: Vidébunt in quem transfixérunt.

[In quel tempo: I Giudei, siccome era la Parasceve, affinché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era un gran giorno quel sabato – pregarono Pilato che fossero rotte loro le gambe e fossero deposti. Andarono dunque i soldati e ruppero le gambe ad entrambi i crocifissi al fianco di Gesù. Giunti a Gesù, e visto che era morto, non gli ruppero le gambe: ma uno dei soldati gli aprì il fianco con una lancia, e subito ne uscì sangue e acqua. E chi vide lo attesta: testimonianza verace di chi sa di dire il vero: affinché voi pure crediate. Tali cose sono avvenute affinché si adempisse la Scrittura: Non romperete alcuna delle sue ossa. E si avverasse l’altra Scrittura che dice: Volgeranno gli sguardi a colui che hanno trafitto.]

OMELIA

[Mons. Bonomelli: Misteri cristiani vol. IV, Queriniana ed. Brescia, 1896]

RAGIONAMENTO VIII

Il Sacro Cuore di Gesù

Gesù Cristo è l’autore e l’oggetto della nostra fede, il fondamento ed il fine della nostra speranza, la sorgente e il termine della nostra carità: tutto viene da Lui e tutto ritorna a Lui, principio e fine, primo ed ultimo, alfa ed omega d’ogni cosa, come insegnano i Libri Santi; e perciò è verissimo il dire: « Christus tota religio – La Religione tutta si riduce a Cristo ». Egli per la Sinagoga, pei Profeti, pei riti Sacri, pei patriarchi, per le tradizioni antiche risale ad Adamo: per la Chiesa discende giù giù per la serie dei secoli fino all’ultimo uomo, che vivrà sulla terra. – La Chiesa, l’erede delle sue ricchezze e delle sue glorie, la Sposa sua fedele, che vive solo per Lui e di Lui, colla parola, coi Sacramenti, colla preghiera, colla pompa sacra del culto, in mille modi, richiama senza tregua le menti e i cuori dei fedeli a Lui, che è il suo Capo e suo Sposo: Essa lo fa Vivere continuamente in mezzo agli uomini nelle verità, nella grazia, che sgorgano da Lui, e soprattutto nel mistero Eucaristico, pel quale è veramente e realmente presente tra loro. Considerate l’arte divina, con cui la Chiesa tien sempre viva tra suoi figli la memoria e l’azione di Gesù Cristo. Si apre l’anno ecclesiastico col sacro Avvento: e la Chiesa, se così posso dire, ponendosi nei tempi, che precedettero la venuta di Cristo e, confondendosi coi patriarchi, coi Profeti e con Mosè, lo invoca e lo saluta da lungi suo Salvatore: poi raccoglie tutti i suoi figli presso la culla di Lui e lo adora e nella letizia delle feste Natalizie canta: – Vi annunzio una grande allegrezza: è nato il Salvatore del mondo -. Poi ce lo mostra nell’atto di Versare le prime stille del suo sangue, principio del sacrificio della Croce: è il mistero della Circoncisione. Poi ci invita a vedere i Magi, primizie dei Gentili, prostrati ai piedi del divino Infante: è il mistero della Epifania. E poi nelle Domeniche che seguono, ce lo mette innanzi bambino, riconosciuto e proclamato Salvatore del mondo tra le braccia del venerando Simeone, profugo in Egitto, reduce a Nazaret, fanciullo a 12 anni nel tempio di Gerusalemme, giovane, operaio volontariamente sepolto nella officina paterna. Poi ce lo addita nel deserto, che nel digiuno e nella preghiera si prepara alla vita pubblica; è il tempo Quadragesimale. Poi ci fa assistere alla sua passione e alla sua morte crudele di croce nella settimana che a ragione dicesi Santa. – Poi ci vuole testimonii della gloriosa sua risurrezione nella Pasqua, del suo trionfale ingresso in cielo, nella Ascensione. Ecco l’Anno Liturgico, che ci spiega sotto gli occhi la vita di Gesù Cristo dal dì del suo Nascimento a quello della sua Ascensione. – Ma, chiuso il periodo della vita di Gesù Cristo, comincia quello, che nel suo Nome e nella virtù della sua parola deve continuare fino al termine dei tempi per opera della Chiesa: eccovi la Pentecoste. Ma la vita e la forza della Chiesa tutta deriva da Gesù Cristo. Ed Egli dov’è? In cielo letizia di sé i beati e sulla terra nel Sacramento dei Sacramenti, l’Eucaristia, illumina, nutre, santifica la Chiesa: eccovi la festa del Corpo di Cristo. – Quale magnifico spettacolo ci svolge essa la Chiesa sotto gli occhi nel corso dall’anno! La storia della vita e delle opere di Cristo e con essa inseparabilmente congiunto il richiamo dei dogmi capitali della nostra fede ci passano dinanzi in guisa che tutti, dotti e indotti, li debbono conoscere, direi quasi loro malgrado. La liturgia della Chiesa è la perenne e più efficace predicazione delle divine verità, della vita e delle opere di Gesù Cristo. – Ora, una domanda, o fratelli. Questa serie stupenda delle verità e delle opere di Cristo, che si svolgono dall’Avvento al Corpus Domini, donde derivano? Da qual fonte promanano? Non esito un istante a rispondere: – dalla smisurata carità di Gesù Cristo -. E questa smisurata carità di Cristo dove si adombra perfettamente? Quale ne è lo strumento e l’organo? E dove ci conduce essa? Il Cuore adorabile di Gesù è il simbolo più perfetto dell’amore di Dio: ne è l’organo e lo strumento naturale: è il termine, a cui ci conduce. E sono queste le tre verità, che mi studierò di mettere in luce in questo Ragionamento. – Forse non avrete mai posto mente ad una verità semplicissima per sé stessa e che è pure la prima ragione del culto al Sacro Cuore di Gesù Cristo, culto oggi mai universale nella Chiesa di Dio: la verità è questa: qualunque culto, qualunque devozione praticata e riconosciuta nella Chiesa ha un doppio oggetto, l’uno sensibile e materiale, l’altro invisibile e spirituale, il qual secondo è assai più nobile ed eccellente del primo, perché ne è il fine; noi, per ragione d’esempio, prestiamo culto alla croce, ai chiodi, alla lancia, alle spine, al sudario, agli strumenti tutti, che furono santificati dall’immediato contatto del sangue e del corpo adorabile del Salvatore. Questi strumenti e queste sante memorie della passione di Gesù Cristo costituiscono l’oggetto immediato, visibile e materiale del nostro culto: l’oggetto invisibile ed immateriale, a cui principalmente vuolsi tener volto lo sguardo, è l’amore divino manifestatoci per questi strumenti stessi, è Dio medesimo, che si degnò usare di codesti mezzi e impreziosirli nell’opera della umana redenzione. Ciò stesso avviene nel culto al Cuore sacratissimo di Gesù Cristo. Il Cuore di Lui è primamente oggetto visibile e materiale del nostro culto, perché questo Cuore è il simbolo e la prova della infinita carità di Gesù Cristo verso dell’uomo, come canta la Chiesa: « Hoc sub amoris symbulo -….. Christus sacerdos obtulit – Cristo, sacerdote in eterno offre il suo Cuore qual simbolo della sua carità ». Ciò che altrove la Chiesa in forma solenne dichiara e conferma: «Ut charitatem Christi patientis et pro generis humani redemptione morientis …… fideles sub Sanctissimi Cordis symbulo devotius et ferventius recolant ». Che fu un dire: – La Chiesa venera ed adora il Cuore di Gesù a fine di celebrare e glorificare più devotamente e più fervidamente quella carità che lo condusse alla croce e alla morte per noi, carità che tutta e mirabilmente ci viene simboleggiata nel suo santissimo Cuore -. Vedete, o fratelli, ciò che si fa nel mondo profano: il simbolo od emblema lo trovate dovunque e sempre. Veggo un leone alato, che stringe nelle zampe un Vangelo: saluto la Regina dell’Adria, Venezia. Veggo ondeggiare al vento una bandiera e in essa dipinto un leopardo: riconosco la Regina dei mari, l’altera Albione. Veggo uno scudo e in esso con le ali aperte, stringente nelle unghie una spada, un’aquila incoronata, dalla doppia testa, ed esclamo: Ecco l’Austria. Voi non trovate una nazione, una società qualunque, una famiglia, che si reputi nobile, la quale non si onori del suo segno o simbolo, d’una bandiera, in cui compendia il suo nome e le sue glorie. Guai a chi fa oltraggio a quel simbolo, a quella bandiera! È un nemico! Amico è chi l’onora! – Il somigliante avviene nella Chiesa. Tutto in essa è figura e simbolo: è il suo linguaggio più caro e più eloquente. Qui la colomba vi ricorda lo Spirito Santo, là l’agnello, il pellicano vi rammentano l’Uomo-Dio; altrove il giglio vi rappresenta la purezza, la nave adombra la Chiesa, l’aquila simboleggia l’Evangelista Giovanni, il leone raffigura l’Evangelista Marco e andate dicendo: nella liturgia, nella pittura e scultura, nel linguaggio della Chiesa tutto è simbolico. Essa coi segni, colle figure più svariate parla e ammaestra il popolo, che la intende a meraviglia: dirò anzi che il popolo ama e preferisce questo linguaggio dei segni e delle figure al linguaggio comune, perché meglio gli mette innanzi le cose e le verità. Egli, il popolo, all’udire preferisce il vedere e le cose e le verità, ch’egli riceve per gli occhi, si stampano nella sua mente più assai che quelle, che gli giungono per la via delle orecchie. Ora qual simbolo, qual figura più viva e più naturale dell’amore quanto il simbolo e la figura del cuore? Appena i miei occhi cadono su quella figura vermiglia; appena veggono quella ferita stillante sangue, quella corona di spine, che l’avvolge, quelle fiamme che dal suo vertice si elevano, la mia mente corre a Gesù, pensa all’amor suo per gli uomini tutti, ricorda la sua passione, la sua morte, tutta la storia della sua vita; il mio cuore a quella vista si commuove, si accende e sente che l’amore di Gesù domanda amore ed io l’amo con tutte le forze dell’anima mia. È dunque ragionevole e santa cosa onorare il cuore di Gesù come figura convenzionale e naturale la più espressiva della sua smisurata carità. Tacciano dunque e arrossiscano coloro che volevano sbandito dalla Chiesa il culto del Cuore di Gesù Cristo, questo sì caro e sì perfetto emblema del divino amore e ne faceano bersaglio de’ loro motti sarcastici e delle loro insolenti facezie. Perché non levavano essi la voce con eguale e maggior ragione contro il culto della Croce e degli istrumenti tutti della passione? Perché non condannavano i libri ispirati, che tante volte parlano della carne e del sangue di Gesù Cristo, che sono parte della sua umanità, come parte nobilissima ne è il suo cuore? Allorché parliamo del cuore di Gesù e lo adoriamo, la nostra mente si fissa nel cuore di Gesù, non separato dal corpo e dall’anima sua benedetta, ma nel cuore congiunto a Lui ipostaticamente, nel cuore vivente, formante parte della sua umanità gloriosa. – Ma sarebbe troppo grave errore considerare il cuore di Gesù Cristo come un semplice e nudo simbolo della sua carità, perché esso ne è lo strumento e l’organo materiale. Il cuore di Gesù, o fratelli miei, si ha da adorare non solamente perché ebbe ed ha immediato ed esterno contatto col Verbo divino, come l’ebbero i chiodi, e gli strumenti della passione, ma perché esso fu assunto, vivificato, posseduto, divinizzato, fatto proprio del Verbo Istesso, tantoché esso è veramente e rigorosamente cuore di Dio: cuore in cui Dio stesso vive, sente, ama e si comunica agli uomini. Seguitemi col vostro pensiero. – Nell’uomo convien distinguere due essenzialissime facoltà o potenze, cioè la facoltà o potenza di intendere e ragionare, e la facoltà o potenza di volere ed amare. Come queste due facoltà o potenze sono distinte tra loro e tanto distinte che talora sono opposte, così hanno sede distinta nel corpo: l’intelligenza si attua più propriamente nel capo, la volontà e l’amore riseggono e si svolgono più propriamente nel cuore (Io non voglio entrare in questioni fisiologiche, né seguire gli antichi nelle loro ricerche intorno alla sede dell’anima. Essa è tutta in tutto il corpo, perché semplice: ma come riceve le sensazioni per mezzo dei sensi, così gli atti intellettivi si manifestano nei nervi del cervello, e gli atti affettivi nel cuore. Questo è il fatto, non mi occupo della Spiegazione scientifica); onde chi pensa e ragiona accenna al capo, chi ama accenna al cuore; e chi pensa e medita a lungo e intensamente, prova una molesta, sensazione al capo, e chi ama fortemente sperimenta una scossa gagliarda e una viva commozione al cuore. Allorché voi volete indicare che un uomo è dotato d’alto ingegno, dite: È un uomo di gran testa: se volete indicare che è uomo caritatevole, generoso, amorevole, dite: Ha un bel cuore: è  uomo di cuore eccellente. Come noi vediamo cogli occhi, udiamo colle orecchie, parliamo colla lingua, lavoriamo colle mani, gustiamo col palato, così amiamo col cuore, che si agita, che ci martella in petto, che si dilata, si accende proporzionatamente alla intensità dell’amore. Non è dunque accidentale convenzione di linguaggio quella che indusse tutti gli uomini a scegliere il cuore per simboleggiare l’amore, ma la voce della natura, il grido stesso della verità a talché se noi fossimo vissuti fuori di società, per significare l’amor nostro ad una persona avremmo sempre usate queste o simili espressioni: – Io vi sento, io vi tengo, io vi porto nel mio cuore: io ho scritto il vostro nome nel mio cuore: il mio cuore è vostro: datemi il vostro cuore: il mio cuore arde per voi! – Sì: il cuore è il centro della vita! (Fisiologicamente il centro primo della vita è il cervello, il secondo è il cuore: di là il moto dei nervi e col moto la vita: di qui il moto del sangue, che alimenta i nervi e tutto il corpo. L’uno non vive senza dell’altro. Al mio scopo bastano queste verità e sarebbe superfluo addentrarci in altre questioni.): da esso muove, ad esso ritorna il sangue per rifarsi e vivificarsi e proseguire il misterioso e ammirabile suo giro, ed esso è lo strumento dell’amore, la sede delle affezioni tutte, come il cervello è lo strumento e la sede della intelligenza e del pensiero. – Ora, o fratelli, non vi può essere dubbio, ciò che avviene naturalmente in ogni uomo deve avvenire eziandio in Gesù Cristo, perché Egli è vero e perfettissimo uomo in ogni cosa a noi eguale, del peccato e delle conseguenze del peccato infuori, come insegna la fede; se dunque in noi il cuore è lo strumento e l’organo materiale, per cui dispiegasi la fiamma amorosa, è forza affermare, che anche il cuore di Gesù, dal Verbo personalmente assunto e da Lui inseparabile, sia lo strumento e l’organo materiale dell’amor suo infinito. Come Gesù Cristo vedeva cogli occhi e udiva con le orecchie, così Egli amava col suo cuore. Chi potrebbe dubitarne? È una conseguenza del mistero dell’incarnazione. – Ben è vero che il Verbo anche prima di farsi uomo amava tutte le opere delle sue mani, e l’uomo soprattutto dopo l’Angelo: ben è vero che allora l’amor suo era affatto indipendente da qualsivoglia strumento corporeo, perché incorporeo e sovranamente spirituale era la sua natura; ma dall’istante ch’Egli si fece uomo, ama e deve amare eziandio col cuore materiale, che assunse, per la ragione che questo cuore, congiunto inseparabilmente alla Persona divina del Verbo, nulla opera, né può sperare senza il concorso immanente del Verbo stesso, come osserva acutamente San Anselmo. Dal che segue questa stupendissima verità, che l’amore eterno del Verbo verso gli uomini si riverbera incessantemente in questo amore sacrosanto, che tutto si avviva sotto i cocenti suoi raggi, e fedelmente risponde a Lui come un’arpa armonica appena è tocca dalla mano di un esperto suonatore. Il sole splende sempre egualmente nel mezzo dei cieli e la sua luce è candida: sotto a quei raggi collocate un prisma ed i suoi raggi d’un tratto vestono tutti i colori dell’iride; il sole è il Verbo divino; il prisma meraviglioso che rifrange i suoi raggi e li colora è il cuore assunto; esso è l’organo dell’amor divino, anzi intrecciando ineffabilmente fa scintillare l’amore, e il candore dell’eterna luce si confonde col vermiglio e purpureo di questo cuore benedetto. – E chi varrà mai a spiegare le ricchezze nascoste in questo divinissimo cuore? Chi potrà spingere gli sguardi nei suoi penetrali, accessibili solo agli sguardi di Dio e agli impeti della sua infinita carità? Chi potrà mai nonché descrivere, ma anche solo da lungi immaginare gli infuocati palpiti di questo cuore, che è, badate bene, cuore veramente di Dio? Quando io mi ingegno di concepire in qualche modo i tesori di amori racchiusi nel cuore di Gesù, non trovo immagine più acconcia di questa: immagino un mare, sul quale per quantunque l’occhio si spazii non scopre le sponde e si perde su quella immensa stesa delle acque e in quella non meno immensa vòlta de’ cieli, che sembra circoscriverla; penso che questo cuore sia simile all’amore divino, che da nessuno si comprende; poi immagino che questo mare sterminato sbocchi per un ampio fiume, che solo dà sfogo perenne alle sue acque e per cui solo dilaga e feconda le sottoposte pianure. Così mi sembra possiamo fornirci qualche idea del divino amore, che immensurato ed immensurabile in se stesso, non potendo quasi capire in sé pel cocentissimo desiderio, che lo punge e muove ad effondersi e comunicarsi alle sue creature, si precipita quanto vi cape nel cuore di Gesù, lo riempie, lo inonda e nella sua piena trabocca d’ogni Parte. Per tal modo Questo cuore diviene la sorgente unica, il fiume vastissimo e sempre rigonfio, che a noi tutti  in terra ed in cielo, agli uomini ed agli Angeli deriva le acque della vita,  possiamo ripetere: il fiume della Vita, nella sua piena rallegra la città di Dio – Fluminis impetus lætificat civitatem Dei -. Sì, sì, fratelli miei! Questo cuore è Veramente la fonte, il fiume delle acque della vita, onde verdeggia, fiorisce e fruttifica il campo della Chiesa: è la porta e la via, per la quale Dio stesso discende e viene a noi, Lo volete vedere? Udite e fatemi ragione. – Dio viene a noi e a noi si comunica coll’istruirci, col soffrire e morire per noi: viene a noi col versare nello anime nostre i tesori delle sue grazie, con tutte quelle opere prodigiose, ch’Egli compì per noi sulla terra e che nei sacramenti e nella sua Chiesa durano e dureranno fino al termine dei secoli. – Scorrete col pensiero tutta la vita di Gesù Cristo, cercate ad una ad una tutte le sue opere che germinò quel fiore nel seno verginale di Maria fino all’istante che sulla croce esalò l’estremo anelito: numerate, se potete, tutte le sue fatiche, i suoi affanni, i suoi dolori: contate tutte le sue parole, tutti i suoi passi, tutti i suoi viaggi: mettete insieme tutti i suoi pensieri, tutti i suoi affetti, tutti i suoi desiderii: rammentate l’istituzione di tutti i sacramenti, rivi inesauribili di grazie e di vita: ricordate soprattutto il mistero eucaristico, che lo imprigiona sui nostri altari e lo fa spuntare, vero albero di vita, su tutti i punti del pianeta: pensate alle catene, ai fagelli, alle spine, agli insulti, agli schiaffi, alla sentenza di morte, alla croce, ai chiodi, all’aceto, al fiele, alle agonie, all’abbandonamento desolato del Calvario: considerate Gesù Cristo qual è, quale ci è presentato dal Vangelo, con tutto ciò che ha fatto, che fa, che farà fino all’ultima ora dei secoli: aggiungete tutto quel di più ch’Egli era pronto a fare per noi e non fece, cioè gli ardori di quella carità, che l’avrebbero portato a patire e morire tante volte quante sono le anime da salvare, a tollerare tormenti a mille doppi maggiori di quelli che tollerò, se tutto questo fosse stato necessario. Mio Dio! quali e quante opere d’infinito valore! Quali prove di ineffabile carità! Che poteva fare e non ha fatto per noi questo amabile Gesù? Ora vi domando: tutte queste opere compiute da Gesù per l’uomo e che riempiono lo spazio e si distendono coi secoli, da qual fonte sgorgano? Dove furono prima concepite, maturate, consumate? Tutte, tutte, senza eccezione, rampollano dall’amore divino: Propter nimiam charitatem, qua dilexit. E l’amore divino,dopo l’incarnazione dove risiede? Dove si attua? L’amore divino risiede e si attua in questo Cuore santissimo: tutte spuntano, tutte si spandono da questo cuore, come i rami dalla radice, i ruscelli dal fonte, tutte sono faville dell’incendio beato onde arde questo cuore amoroso. È desso che, raccogliendo in sé tutto il sangue, che è vita divina, coi suoi palpiti lo spinge per le arterie e per le vene e per le ferite aperte in tutto il corpo, a stille a stille lo fa piovere su tutte le anime, le purifica, le risana, le vivifica, le abbellisce, le fa sante. -Se dunque dal divino amore discendono a noi tutti i beni e se i raggi del divino amore per il mistero della Incarnazione si appuntano e si incentrano tutti nel Cuore di Gesù, in cui hanno principio e compimento le azioni tutte (Nella mente splende la verità, norma delle opere: la luce della verità scende come raggio nella volontà, che risiede nel cuore: qui la luce della Verità, quasi scintilla elettrica, accende la fiamma dell’amore e l’amore determina l’opera: perciò ogni opera comincia nella mente e si compie nella volontà, ossia nell’amore, che è quanto dire nel cuore), ne conseguita a tutta evidenza, che questo Cuore è veramente la fontana perenne e vivace d’ogni grazia: ne conseguita che in questo Cuore noi troviamo ogni cosa, che in esso sono scritte a caratteri incancellabili l’opere tutte dell’Uomo-Dio, e che in esso possiamo vedere come nel loro Principio e nel germe tutto ciò che Cristo svolse nei giorni di sua vita mortale. E qui pure non vi spiaccia, seguirmi per pochi momenti. Metto sulla palma della mia mano un granello di frumento, il seme d’un abete, il germe d’un cedro: da quel granello un giorno uscirà una spiga, da quel seme verrà un abete, da quel germe svolgerassi un altissimo cedro: dunque in quel granello è racchiusa la spiga, in quel seme si contiene l’abete, in quel germe esiste il cedro: s’io avessi l’occhio sì acuto da penetrare ogni punto, ogni atomo di quel grano, di quel seme, di quel germe, certamente vi scorgerei in embrione la spiga, l’abete, il cedro, che un giorno germoglieranno, spiegando alla luce del sole le loro foglie e i loro rami. Chi mai potrebbe dubitarne? Ebbene: nel Cuore di Gesù si racchiudono come nel loro germe tutti gli atti di quell’amore, che man mano nel corso della sua vita fioriscono nelle opere, che va compiendo: dunque in quel Cuore si precontiene tutta la serie delle sue opere, figlie tutte del suo amore: in quel Cuore pertanto io posseggo e adoro tutta quanta la meravigliosa economia della Redenzione, perché tutta scaturisce da esso come dal suo principio. Ah! dunque questo Cuore, canterò colla Chiesa, è il santuario della nuova Alleanza (Cor, Sanctuarium novi Intemeratum fœderis); è il tempio senza confronto più santo dell’antico (Templum vetusto sanctius); è il velo, che nasconde il Santo de’ santi (Velumque scisso utilius); è l’Arca, in cui l’uman genere fu salvo dalle acque inondatrici della colpa (Hoc ostium Arcæ in latere est Genti ad salutem positum) [Inni del Sacro Cuore]; è la tavola su cui Dio ha scritto la legge di grazia e di amore: è l’altare, su cui fu offerta l’Ostia di pace e di perdono e l’umanità tutta espiata e riconciliata con Dio; è il talamo in cui Cristo consumò le nozze con la sua Sposa immacolata, la Chiesa, è la porta dei cieli. – Se non che a Gesù Cristo non bastava far distillare dal suo cuore la rugiada fecondatrice dei doni celesti; Egli voleva aprire l’erario dei suoi tesori, voleva spalancarne le porte, affinchè tutti potessero entrarvi liberamente e arricchirsene a talento. E perciò, grida Agostino, ecco che il novello Adamo, punto dall’amore, che l’arde, sale il suo talamo: « Ascendat sponsus noster thalami sui lectum »; sale cioè il letto si doloroso della croce; morendo vi si addormenta: « Dormiat Morendo ». E mentre è immerso nel sonno profondo della morte, voluta per amore, gli si  apre il fianco, gli si fende il Cuore; « Aperiatur eius latus ». E che n’esce? Ne esce, qual Vergine sposa, la Chiesa a Lui inanellata nel dolore e nel sangue: « Et Ecclesia prodeat Virgo ». Così come dal fianco del primo uomo addormentato nel giardino di delizie si formò la madre dei viventi, Eva, dal fianco squarciato di Cristo addormentato sulla croce, che si innalza sul Calvario, si formò la Chiesa, la madre dei viventi secondo lo spirito: « Ut quomodo Hæva facta est ex latere facta est ex latere Christi in cruce pendentis » Graziosissima immagine ricordata da altri Padri e che la Chiesa tradusse in un linguaggio poetico che merita di essere riportato: « Dal Cuore lacerato di Cristo nasce la Chiesa che a Lui si disposa. Da questo cuore a guisa di settemplice fiume scorre perenne la grazia; affinché nel sangue dell’Agnello imbianchiamo le nostre stole »). E S. Giovanni Crisostomo, contemplando questo Cuore aperto e stillante ancora vivo sangue, rivolto al popolo, un impeto di carità, esclama: « Guarda donde emanano principalmente le acque della fede e della grazia: guarda da qual fonte derivano: esse provengono dalla croce, zampillano dal fianco, dal costato trafitto del nostro Gesù » (In Jann., Hom. 19). E veramente allorchè si aperse questo Cuore, parve atterrato l’ argine, che conteneva l’impeto del fiume d’amore, che traboccò, gittando le ultime gocce di sangue e di acqua, che doveano lavare e nutrire la Chiesa. – Ah! rispondete, o fratelli, questo amorosissimo Gesù svenato poteva più eloquentemente testimoniare la sua carità? Il suo Cuore lo trasse a patire: lo fece correre alla obbrobriosa morte della croce: ve lo conficcò, ve lo tenne, ve lo fece spirare: questo Cuore avea già cessato di palpitare e patire: non avea più filo di vita; era già freddo: ma non avea cessato di amare, anzi più che mai ardeva delle fiamme amorose, già morto vuol essere trapassato da crudel lancia per aprirvi larghissima porta e dare, sarei per dire, l’ultimo sfogo all’affocata sua carità. – Ma il Cuore di Gesù com’è per noi lo strumento e la porta, per cui esce l’amor divino e si spande incessantemente sopra tutti gli uomini, così è anche il termine, a cui noi dobbiamo tendere, la via e la porta per unirci a Dio, il punto, nel quale le anime nostre debbono stringere con Gesù Cristo il loro santo connubio: è la fonte, dice S Bonaventura, delle acque della vita e tu vi accosta le labbra e ti disseta. Ogni cosa tende necessariamente e incessantemente a ricongiungersi alla sua origine. Il pellegrino, che viaggia per terra straniera, sospira di rivedere la patria: il raggio, che batte sullo specchio, torna dritto più su al punto onde si parte: i fiumi discendono al mare donde per altre vie ritornano alle sorgenti: il fiore si volge al sole, che gli apre il seno e lo colora e il sangue, che il cuore spinge e preme per tutto il corpo, al cuore ritorna. L’amore divino a noi discende dal Cuore di Gesù, che ne è la bocca e la porta, come dicevamo: i nostri cuori adunque, attratti dal divino amore, quasi da celeste calamita, devono muoversi verso il Cuore di Gesù e in esso quietarsi come nel naturale lor centro. Io vorrei paragonare il divino amore ad un filo d’oro, col quale Gesù Cristo lega e tira dolcemente a sé i cuori degli uomini: ma questo filo d’oro donde a noi si cala? Dal Cuore di Gesù, perché esso ne è il centro e l’organo: è dunque naturale che gli uomini, legati da questo filo, siano soavemente e fortemente tirati al Cuore di Gesù e a Lui si uniscano. Né è da tacere un’altra verità, che conferma a meraviglia il mio pensiero. È cosa indubitata e manifesta per la quotidiana esperienza, che mezzo sovra ogni altro efficace per muovere altri ad amarci è il mostrar loro che noi gli amiamo: « Amor che nullo amato amar perdona », disse sapientemente il poeta filosofo e teologo: l’amore domanda amore, anzi provoca l’amore in quella stessa misura con cui si ama, Ora in qual guisa e in qual misura ci ha Egli amato Gesù Cristo? Questo Cuore ve lo dice: col suo muto, ma eloquente linguaggio ci chiama, ci invita ad accostarci a Lui, ad entrare in Lui per quella stessa via, per la quale si è dato a noi, come scrive un Santo. Quel Cuore ci narra tutta la storia dell’amore divino e col mostrarcisi ci ripete le bibliche parole: « Figliuolo, dammi il tuo cuore – fili, præbe mihi cor tuum ». E in vero per qual altra ragione Gesù Cristo ci avrebbe dischiusa la porta del suo Cuore se non per mostrarci la via della legge, l’ingresso del cielo? Gesù Cristo nel Vangelo chiama se stesso via e porta: « Ego sum via – Ego sum ostium ». So che Gesù Cristo, appropriandosi quelle parole, designava tutto se stesso e non il solo suo Cuore: so pure che tutte le piaghe della sua sacrosanta Umanità diconsi e sono porte a salvezza nostra aperte: ma so ancora, che se tutta l’Umanità di Gesù Cristo si può e si deve chiamar via e porta degli uomini, lo si dee dire eziandio del Cuore, organo precipuo della vita e membro fra tutti nobilissimo del corpo istesso. Se tutte le ferite del corpo di Gesù sono bocche e porte di misericordia e salute, come non lo è quella del suo Cuore? – Ed io credo che non senza altro mistero Gesù Cristo volesse che l’ultima delle sue ferite fosse quella del Cuore per significare, che tutte le altre erano state aperte dal suo Cuore istesso, ma che sembravano troppo anguste alla sua carità e che questa del Cuore era la via regia, che rimaneva aperta a tutti gli uomini e introduceva nel santuario stesso dell’amore. Gesù ha fatto come colui, che riserba per ultimo il dono più caro e più prezioso, qual compimento e  corona di tutti gli altri. – Qual meraviglia, pertanto, che la Chiesa riconosca adombrato il Cuore di Gesù in quella porta che Noè per ordine di Dio aperse nel fianco dell’Arca noetica, per la quale entrò il Patriarca con tutta la sua famiglia e fu salvo dalle acque del diluvio? Qual meraviglia che i Santi a gara ci esortino ad entrare in questo Cuore per unirci a Dio e santificarci? Essi lo chiamano il tempio della Divinità, il santuario della grazia, come S. Bernardo: lo chiamano l’erario e la miniera inesausta dei doni più eletti, il porto del paradiso, come S. Bonaventura. Essi lo paragonano al nido, in cui la Chiesa qual tortorella gemente ripone e assicura contro le insidie del nemico i suoi teneri nati, finché mettano l’ali e venga il tempo d’inviarli al cielo; così S. Tommaso da Villanova. Essi lo appellano la dimora dei vergini, la rocca in cui si riparano le anime fuggiasche dal mondo, l’asilo della pace, della speranza, il rifugio dei peccatori. – Ah! esclamerò con Agostino: « Longino, il soldato che trafisse il fianco di Gesù, colla sua lancia mi aperse il cuore di Lui; io vi entrerò e vi riposerò sicuro e tranquillo – Longinus mihi aperuit latus Christi et ego intravi et requiesco securus ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps LXVIII: 21

Impropérium exspectávi Cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni

[Obbrobrii e miserie si aspettava il mio Cuore; ed attesi chi si rattristasse con me: e non vi fu; cercai che mi consolasse e non lo trovai.]

Secreta

Réspice, quǽsumus, Dómine, ad ineffábilem Cordis dilécti Fílii tui caritátem: ut quod offérimus sit tibi munus accéptum et nostrórum expiátio delictórum.

[Guarda, Te ne preghiamo, o Signore, all’ineffabile carità del Cuore del Tuo Figlio diletto: affinché l’offerta che Ti facciamo sia gradita a Te e giovi ad espiazione dei nostri peccati].

Præfatio
de sacratissimo Cordis Jesu

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui Unigénitum tuum, in Cruce pendéntem, láncea mílitis transfígi voluísti: ut apértum Cor, divínæ largitátis sacrárium, torréntes nobis fúnderet miseratiónis et grátiæ: et, quod amóre nostri flagráre numquam déstitit, piis esset réquies et poeniténtibus pater et salútis refúgium. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes: Sanctus.

 [È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che hai voluto che il tuo Unigenito, pendente dalla croce, fosse trafitto dalla lancia del soldato, così che quel cuore aperto, sacrario della divina clemenza, effondesse su di noi torrenti di misericordia e di grazia; e che esso, che mai ha cessato di ardere d’amore per noi, fosse pace per le anime pie e aperto rifugio di salvezza per le ànime penitenti. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine: Santo …]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joannes XIX: 34

Unus mílitum láncea latus ejus apéruit, et contínuo exívit sanguis et aqua.

[Uno dei soldati gli aprì il fianco con una lancia, e subito ne uscì sangue e acqua.]

Postcommunio

Orémus.
Prǽbeant nobis, Dómine Jesu, divínum tua sancta fervórem: quo dulcíssimi Cordis tui suavitáte percépta;
discámus terréna despícere, et amáre cœléstia:

[O Signore Gesù, questi santi misteri ci conferiscano il divino fervore, mediante il quale, gustate le soavità del tuo dolcissimo Cuore, impariamo a sprezzare le cose terrene e ad amare le cose celesti:]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ACTUS REPARATIONIS ET CONSECRATIONIS

Iesu dulcissime, cuius effusa in homines caritas, tanta oblivione, negligentia, contemptione, ingratissime rependitur, en nos, ante altaria [an: conspectum tuum] tua provoluti, tam nefariam hominum socordiam iniuriasque, quibus undique amantissimum Cor tuum afficitur, peculiari honore resarcire contendimus. Attamen, memores tantæ nos quoque indignitatis non expertes aliquando fuisse, indeque vehementissimo dolore commoti, tuam in primis misericordiam nobis imploramus, paratis, voluntaria expiatione compensare flagitia non modo quæ ipsi patravimus, sed etiam illorum, qui, longe a salutis via aberrantes, vel te pastorem ducemque sectari detrectant, in sua infìdelitate obstinati, vel, baptismatis promissa conculcantes, suavissimum tuæ legis iugum excusserunt. Quæ deploranda crimina, cum universa expiare contendimus, tum nobis singula resarcienda proponimus: vitæ cultusque immodestiam atque turpitudines, tot corruptelæ pedicas innocentium animis instructas, dies festos violatos, exsecranda in te tuosque Sanctos iactata maledicta àtque in tuum Vicarium ordinemque sacerdotalem convicia irrogata, ipsum denique amoris divini Sacramentum vel neglectum vel horrendis sacrilegiis profanatum, publica postremo nationum delicta, quæ Ecclesiæ a te institutæ iuribus magisterioque reluctantur. Quæ utinam crimina sanguine ipsi nostro eluere possemus! Interea ad violatum divinum honorem resarciendum, quam Tu olim Patri in Cruce satisfactionem obtulisti quamque cotidie in altaribus renovare pergis, hanc eamdem nos tibi præstamus, cum Virginis Matris, omnium Sanctorum, piorum quoque fìdelium expiationibus coniunctam, ex animo spondentes, cum præterita nostra aliorumque peccata ac tanti amoris incuriam firma fide, candidis vitæ moribus, perfecta legis evangelicæ, caritatis potissimum, observantia, quantum in nobis erit, gratia tua favente, nos esse compensaturos, tum iniurias tibi inferendas prò viribus prohibituros, et quam plurimos potuerimus ad tui sequelam convocaturos. Excipias, quæsumus, benignissime Iesu, beata Virgine Maria Reparatrice intercedente, voluntarium huius expiationis obsequium nosque in officio tuique servitio fidissimos ad mortem usque velis, magno ilio perseverantiæ munere, continere, ut ad illam tandem patriam perveniamus omnes, ubi Tu cum Patre et Spiritu Sancto vivis et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione, sacra Communione et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitatione, si quotidie per integrum mensem reparationis actus devote recitatus fuerit.

Fidelibus vero, qui die festo sacratissimi Cordis Iesu in qualibet ecclesia aut oratorio etiam (prò legitime utentibus) semipublico, adstiterint eidem reparationis actui cum Litaniis sacratissimi Cordis, coram Ssmo Sacramento sollemniter exposito, conceditur:

Indulgentia septem annorum;

Indulgentia plenaria, dummodo peccata sua sacramentali pænitentia expiaverint et eucharisticam Mensam participaverint (S. Pæn. Ap., 1 iun. 1928 et 18 mart. 1932).

[Indulg. 5 anni; 7 anni nel giorno della festa – Plenaria se recitata per un mese con Confessione, Comunione, Preghiera per le intenzioni del Sommo Pontefice, visita di una chiesa od oratorio pubblico. –

Nel giorno della festa del Sacratissimo Cuore di Gesù, 7 anni, e se confessati e comunicati, recitata con le litanie de Sacratissimo Cuore, davanti al SS. Sacramento solennemente esposto: Indulgenza plenaria].

LA PARUSIA (10)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (10)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE – Rue de Rennes, 117 – 1920

ARTICOLO DECIMO

Ci si può chiedere, così come sono state spiegate le cose nell’articolo precedente, da dove possa essere venuta l’opinione, così antica e così diffusa, che vedeva e vede ancora, nell’Apocalisse, solo un quadro profetico della fine del mondo e dei suoi prodromi. A questo risponderei che hanno avuto qui la loro influenza molte cause di vario genere, ma che se vogliamo risalire all’origine, troveremo due ragioni principali, alle quali le altre si possono facilmente ridurre. La prima aveva solo il valore di un pregiudizio. Consisteva nella persuasione per cui i destini del mondo erano legati a quelli di Roma; in altre parole, che l’Impero Romano non poteva avere altra fine che quella dell’universo. Ecco perché, essendo la rovina dell’Impero così chiaramente prevista nell’Apocalisse, si concluse naturalmente che i tempi apocalittici non potevano essere che quelli del declino definitivo, e dell’ultima fine delle cose (« Tutto ci mostra – scriveva Lattanzio, in De divin, instit. Lib., VII, c. 25 – che la rovina suprema non è lontana: e che non sembra essere da temere finché Roma è in piedi. Ma appena questa testa del mondo è caduta, chi può dubitare che essa non sia arrivata? Illa, illa est civitas quæ adhuc sustentat omnia. » E tale è anche il sentimento di Tertulliano, di Sant’Ottato, di San Girolamo e di molti altri. È perché lo splendore di Roma, la loro patria, si era imposto su di loro in tal modo da far loro credere che ci fosse un legame necessario tra il mantenimento della civiltà quaggiù e la conservazione dell’Impero; che la rovina dell’Impero non poteva che essere la distruzione dei quadri della società umana ed il segnale della decomposizione universale; e di conseguenza, che l’Impero che teneva il mondo sotto il suo potere, era precisamente il misterioso ostacolo alla venuta dell’Anticristo di cui parla San Paolo nella Seconda ai Tessalonicesi, quando dice (II, 6): Et nunc quid detineat scitis, ecc., Vedi Bossuet, Prefazione su l’Apocalisse, n. 22.). –  Ma a questa prima ragione se ne aggiunse una seconda, che, tratta dal testo stesso della profezia, doveva sopravvivere alla smentita che gli eventi hanno da tempo preso a dare alla prima. Dall’inizio alla fine delle predizioni di San Giovanni, troviamo, mescolati alle visioni che si svolgono una dopo l’altra come le varie scene di un unico dramma, quadri e descrizioni che sembrano riferirsi, volenti o nolenti, al giudizio finale ed al crollo totale del mondo. Così, per esempio, proprio all’inizio, subito dopo l’apertura dei primi sei sigilli (VI, 12-17), le grandi calamità, i cui dettagli saranno sviluppati nei capitoli seguenti, non appena sono mostrate in modo confuso e come a grandi linee, il sole diventa già nero come un sacco di crine, la luna come di sangue, le stelle cadono dal cielo come i fichi verdi cadono da un fico scosso da un forte vento; il cielo scompare come un libro arrotolato, e tutti i monti e le isole sono sradicati dai loro posti; i re della terra, i principi, gli ufficiali di guerra si nascondono nelle caverne e dicono ai monti: “Cadete su di noi e nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello”. – Più avanti (XI, 18), al suono della settima tromba, mentre, secondo noi, San Giovanni non farebbe che descrive solo le persecuzioni romane, quella di Diocleziano in particolare, che avrebbero portato su Roma i grandi castighi che abbiamo visto, sentiamo i ventiquattro anziani adorare Dio dicendo: Ti ringraziamo, Signore Dio Onnipotente, che sei e che eri, che ti sei rivestito della tua grande potenza… Le nazioni sono adirate ed è venuto il tempo della tua ira, il tempo di giudicare i morti, di dare la ricompensa ai profeti tuoi servi e a quelli che temono il tuo nome, e di distruggere coloro che hanno corrotto la terra. Più avanti (XVI, 18-21), quando, con la settima coppa, viene il tempo dell’esecuzione della grande Babilonia, tutte le isole fuggono, le montagne scompaiono, ed enormi massi di grandine del peso di un talento cadono dal cielo sugli uomini. Così è sempre e ovunquelo stesso cataclisma completo e universale: tutto perisce, tutto crolla, tutto va in rovina, e l’immagine funerea del grande giorno dell’ira che apre e chiude la prospettiva, si proietta anche da un capo all’altro, su tutto il quadro. Come non vedere chiaramente indicato da questo il vero soggetto delle predizioni dell’Apocalisse? Così, almeno, ne giudicheranno facilmente coloro che non sono molto versati nella lettura dei profeti, e che non hanno molta familiarità con il genere proprio della Scrittura, limitandosi alla pura e semplice materialità della lettera. Ma un’esegesi ben informata non avrà difficoltà a riformare questo giudizio, e per ridurre i testi citati al loro vero valore, basteranno alcune brevi osservazioni. – Bisogna considerare prima di tutto che le immagini più forti usate qui da San Giovanni sono prese dagli antichi profeti, specialmente da Isaia ed Osea, nelle loro descrizioni delle calamità, certamente ben distinte dalla suprema catastrofe mondiale, che Dio doveva scatenare contro i nemici di Israele, o contro Israele stesso. Così, nell’annuncio della futura devastazione di Babilonia da parte dei Medi e dei Persiani, noi leggiamo (Isaia, XIII, 10): « Ecco, il giorno del Signore è venuto a fare un deserto della terra e a sterminarne i peccatori; perché le stelle del cielo non brilleranno più, il sole si è oscurato al suo sorgere e la luna non darà più la sua luce… Ecco, io solleverò i Medi contro di loro… e Babilonia, la gloria dei superbi Caldei, sarà come Sodoma e Gomorra… » E più avanti, nel giudizio contro gli Idumei (Isaia, xxxiv, 4): « I loro morti saranno gettati via senza sepoltura e le montagne si scioglieranno nel loro sangue. I cieli saranno arrotolati come un libro, e tutto il loro esercito cadrà come cade la foglia appassita e avvizzita del fico; perché la mia spada si è ubriacata nei cieli, ed ecco, essa scende su Edom, che ho votato  allo sterminio per giudicarlo. E nell’annuncio del castigo che Israele si era procurato con le sue idolatrie (Osea, x, 8): « Gli alti luoghi dell’idolo di Bethel, il peccato d’Israele, saranno distrutti; allora diranno ai monti: Coprici, e alle colline: Cadici addosso. » La stessa cosa in Ezek. xxvi, 15-18, e XXXII, 7-8. Lo stesso in Gioele, II, 10-11, anche se sia nell’uno che nell’altro è sempre una questione di disastri particolari, come la rovina di Tiro, o dell’impero dei Faraoni, o del regno di Giuda sotto Nabucodonosor. Questi tipi di dipinti di grandi calamità pubbliche, per quanto sproporzionati al loro oggetto possano sembrarci, erano nel gusto e nel genio dell’Oriente, e quando San Giovanni, il profeta del Nuovo Testamento, dipinge con gli stessi colori le piaghe che dovevano preparare o accompagnare il ristabilimento del Cristianesimo nel mondo, non farà altro che continuare la maniera dei suoi predecessori, i profeti del Vecchio Testamento. – Ma ecco una seconda osservazione che deve essere aggiunta alla precedente per completarla e chiarirne meglio il significato. Dicendo che le descrizioni di cui sopra si riferivano direttamente e immediatamente a catastrofi che la storia ha registrato da tempo nei suoi annali, non intendiamo in alcun modo negare che esse si riferissero anche in qualche modo a quel grande giorno che porrà fine all’esistenza terrestre dell’umanità e a tutto l’attuale ordine dell’universo. La ragione di ciò risiede nell’abitudine costante della Scrittura, che è stata sottolineata più volte nel corso di questo studio, di unire le cose figurate alle loro figure: di tracciare, per esempio, schizzi del futuro giudizio del mondo attraverso il reticolo di eventi che, nel corso dei secoli, dovevano esserne le immagini; inoltre, e questo è qualcosa che non sarà mai sottolineato abbastanza, di vedere in questi stessi eventi una prima esecuzione del grande e terribile dramma rappresentato da essi e in essi. Non ci sarà dunque ragione di mettere in dubbio il significato, precedentemente stabilito su prove solide, della prima e principale parte delle predizioni apocalittiche, sotto il pretesto che vediamo qua e là, mescolate incidentalmente, allusioni più o meno trasparenti al giudizio finale, o addirittura, in uno dei tre passi citati sopra (XI, 18), la menzione formale ed espressa della sua venuta. Ma l’unica conclusione da trarre sarà quella a cui la maniera abituale della Scrittura conduce naturalmente, e che è confermata dall’accordo dei suoi interpreti più autorizzati: « San Giovanni – ci diranno – unisce l’ultimo giudizio a quello che doveva essere esercitato su Roma, come Gesù Cristo aveva fatto nel predire la rovina di Gerusalemme. È l’abitudine della Scrittura di unire le figure alla verità. » Infine, bisogna notare, come tesi ancora più generale, che una stessa profezia può avere diversi significati: uno, vicino e immediato, già realizzato; l’altro, lontano e mediato, ancora nascosto nelle profondità del futuro. Abbiamo visto esempi di questo sopra, sia nella profezia di Daniele sulla persecuzione di Antioco (Dan., XI, 30 segg.), o in quella di Nostro Signore stesso sull’abominio della desolazione posto nel luogo santo (Matth., XXIV, 15 segg.), e niente sarebbe più facile che estendere la lista all’infinito. Ma senza bisogno di fare qui un maggior dispendio di erudizione, chi non avrebbe presente nella sua memoria la risposta di Gesù ai suoi discepoli che lo interrogavano sulla venuta di Elia, predetta dal Signore, e chi non avrebbe potuto ricordare la risposta di Gesù ai suoi discepoli che lo interrogavano sulla venuta di Elia, predetto da Malachia nell’ultima pagina degli oracoli del Vecchio Testamento (IV, 5-6)? « È vero –  disse loro – che Elia deve venire e che ristabilirà tutte le cose; ma io vi dico che Elia è già venuto ed essi non lo hanno conosciuto. » Così, con l’adempimento di una stessa profezia, Elia era già venuto e … doveva ancora venire. Egli era già venuto nella persona di San Giovanni Battista: questo è il primo senso già adempiuto, come vediamo nel Vangelo di San Luca (Luca, I:17: « Egli (Giovanni Battista) convertirà molti dei figli d’Israele al Signore loro Dio, ed egli stesso lo precederà nello spirito e nella potenza di Elia…, per preparare al Signore un popolo perfetto »). Egli doveva venire ancora: questo è il secondo significato, il cui mistero solo gli ultimi giorni del mondo potranno chiarire (Vedi Bossuet, Prefazione sull’Apocalisse, n. 15, 2). Se, dunque, l’esistenza nella Scrittura di profezie con significati multipli è così ben provata, che meraviglia sarebbe se anche la profezia di San Giovanni appartenesse a questa categoria? Che meraviglia se, fermo restando il significato primordiale precedentemente stabilito, avesse anche un altro significato, strettamente escatologico, il cui compimento sarebbe riservato all’estrema fine dei secoli? Certamente, troverà in esso dei difetti solo chi non ha un’idea corretta della capacità di comprensione di un libro che i Padri ci danno come pieno di segreti ammirevoli, e molto più, come contenente, secondo la forte espressione di San Girolamo, infiniti misteri del futuro, infinita futurorum mysteria continentem (S. Gerolamo, L. I contr, Jovin., n, 26). Per questo Bossuet, il cui modo di vedere le predizioni apocalittiche è ben noto, non manca di aggiungere: « Tuttavia, Dio non voglia che qualcuno immagini che con questa spiegazione (quella che propone, e che noi stessi abbiamo seguito), abbiamo esaurito il significato di un libro così profondo. Non dubitiamo che lo Spirito di Dio abbia saputo rintracciare in una storia ammirevole (delle prime sofferenze della Chiesa), un’altra storia ancora più sorprendente (delle sue ultime lotte), e, in una predizione, un’altra predizione ancora più profonda. Ma lascio la spiegazione a coloro che vedranno più da vicino il regno di Dio, o a coloro ai quali Dio darà la grazia di scoprirne il mistero. » Questa è una riserva saggia e prudente, come possiamo vedere, e alla quale faremo bene ad attenerci, senza affermare nulla su questo significato futuro, ma senza nemmeno negare nulla, attaccandoci esclusivamente a ciò che è importante per i nostri scopi, cioè il primo significato, prossimo e immediato, che può essere considerato come dimostrato e acquisito, qualunque altra cosa possiamo pensare o congetturare sull’altro. – E questo senso ci presenta, dal capitolo VI al capitolo XIX compreso, tutta la successione dei giudizi di Dio sui primi persecutori: Giudei animati dall’odio di Colui che avevano crocifisso, o Gentili che sostenevano l’idolatria con cui Satana teneva il mondo soggetto alle sue leggi. Mette davanti ai nostri occhi la nascita lunga e dolorosa di questo figlio maschio del capitolo XII, che doveva governare tutte le nazioni con uno scettro di ferro, e non era altro che il Cristianesimo emergente e vigoroso, Un grande prodigio apparve in cielo: una donna (figura della Chiesa)… Era grassa e gridava per i dolori della morte. Un’altra meraviglia apparve in cielo: un grande drago rosso (figura del diavolo)… E questo drago stava davanti alla donna che stava per partorire, per divorare suo figlio appena partorito. Ed ella partorì un figlio maschio, ecc. “. Infine, ci offre il quadro degli eventi attraverso i quali Dio, per una provvidenza ammirevole, ha condotto la sua Chiesa ai suoi inizi, per farla trionfare, dopo la grande prova del battesimo di sangue, “non solo in cielo, dove ha dato gloria immortale ai suoi martiri, ma anche sulla terra, dove l’ha stabilita con tutto lo splendore che le era stato promesso dai profeti (Isaia, XIX, 2 3; LX, 1-6; Dan., n, Vi, ecc.) “Ed è di tutte queste cose che San Giovanni disse molto giustamente ed esattamente che sarebbero avvenute presto (i, i, e XXII, 6), perché in effetti la sequenza di eventi qui profetizzata, pur estendendosi molto nel futuro, avrebbe tuttavia cominciato a svolgersi dal giorno dopo, per così dire, la rivelazione apocalittica: cioè, come già detto, dal regno di Traiano, l’immediato successore di Domiziano, dal quale il santo Apostolo era stato condannato alla pentola di olio bollente, e dopo la sua miracolosa conservazione, all’esilio. Sulla vera data dell’Apocalisse, che i razionalisti, contro la testimonianza di tutta l’antichità, fanno risalire all’anno 69 della nostra era, prima della rovina di Gerusalemme, vedi Bossuet, Apoc, 1, versetto. 9). Da ciò consegue, infine, che l’argomento che i critici modernisti pretendevano di derivare da quæ oportet fieri cito, cade di per sé come partendo da un immaginario presunto, e andrà così ad ingrossare la lista delle ragioni precedentemente confutate, le cui apparenze speciose non potrebbero che far meglio emergere la vera inanità.

L’ultima difficoltà che rimane sono le ripetute assicurazioni di una prossima venuta, poste alla fine sulla bocca di Gesù o, il che equivale alla stessa cosa, sulla bocca dell’Angelo che parla in nome e nella persona di Gesù: “Ecco, io vengo presto” (XXII, 7); “Sì, io vengo presto” (XXII, 20); “Io vengo presto, e la mia ricompensa è con me per rendere ad ogni uomo secondo le sue opere” (XXII, 12). È vero che dopo tante spiegazioni già date sui due modi in cui la Scrittura è solita prevedere la parusia, o nel giudizio generale dell’umanità nell’ultimo giorno del mondo, o prima, nel giudizio particolare di ogni individuo nell’istante immediatamente successivo alla sua morte, la difficoltà dovrebbe essere considerata come ormai classificata, risolta, e definitivamente svuotato. Tuttavia, non ci dispiace riportare un’ultima precisazione che, presa in prestito dallo stesso libro dell’Apocalisse, avrà il doppio vantaggio di combattere l’obiezione con la fonte stessa da cui è tratta, e di distruggere sempre più radicalmente le fallacie dell’esegesi razionalista in materia escatologica.

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Il luogo principale, tornando al nostro argomento, è in questo capitolo XX, dove, dopo la caduta della grande Babilonia, i tempi della pace della Chiesa sono sommariamente descritti a grandi linee, come è stato detto prima, così come il regno dei suoi martiri, la cui gloria celeste non manca di essere prolungata sulla terra dagli onori che sono resi loro e dai miracoli che Dio opera per mezzo della loro intercessione. – San Giovanni ci ha appena mostrato un Angelo che scende dal cielo, afferra il dragone, il serpente antico che è il diavolo e satana, lo lega per mille anni e lo rinchiude nell’abisso, per togliergli il potere di sedurre le nazioni come era riuscito a fare ai tempi del dominio universale dell’idolatria. Dopo di che continua (XX, 4-6): Ho visto anche dei troni sui quali sedevano coloro ai quali era stato dato il potere di giudicare; ho visto le anime di coloro ai quali è stato tagliato il capo per aver reso testimonianza a Gesù e per la parola di Dio…, ed essi han vissuto e regnato mille anni con Gesù Cristo. Gli altri morti non hanno avuto vita fino al compimento dei mille anni. Questa è la prima resurrezione. Beato e santo è colui che partecipa alla prima risurrezione; la seconda morte non avrà potere su di loro, ma saranno sacerdoti di Dio e di Cristo, e regneranno con lui per mille anni. Tale è l’immagine che San Giovanni ci presenta della gloria e della felicità dei Santi, ancora allo stato di anime separate, durante il periodo ora in corso, intermedio tra la loro partenza da questo mondo e il giudizio finale. Ho detto, nello stato di anime separate. Infatti, ciò che è importante notare prima di ogni altra cosa in questo quadro è che sono le anime ad esserne il soggetto: anime senza corpo, le anime dei decapitati, ai quali sono attribuiti troni, e questo per significare che già da ora, dai giorni presenti, mentre i loro resti giacciono ancora nelle profondità dei loro sepolcri – e quindi, molto prima che sia giunta la consumazione dei tempi – essi sono associati alla beatitudine e alla gloria di Gesù Cristo, così come ai giudizi che nel corso dei secoli, Egli esercita sul mondo: et vidi sedes. …et animas decollatorum… et vixerunt et regnaverunt eum Christo mille annis – (Questo, per dirlo di sfuggita, è già sufficiente a distruggere l’errore dei millenaristi, i quali, basandosi su questo passo dell’Apocalisse, dove vediamo dal principio alla fine, regnare con Gesù Cristo, solo le anime, ammettevano prima della resurrezione generale della carne nell’ultimo giorno del mondo una resurrezione anticipata per i martiri, ed un regno visibile di Gesù Cristo con loro per mille anni sulla terra, in una Gerusalemme ricostruita con nuovo splendore, che essi credevano essere la Gerusalemme descritta da San Giovanni nel capitolo XXI; « Papias, un autore molto antico, ma di mente molto piccola, avendo considerato troppo grossolanamente certi discorsi degli Apostoli che i loro discepoli gli avevano riferito, introdusse nella Chiesa quel regno di Gesù Cristo per mille anni in una Gerusalemme terrena magnificamente ricostruita, dove la gloria di Dio avrebbe brillato in modo mirabile, dove Gesù Cristo avrebbe regnato visibilmente con i suoi martiri risorti, dove alla fine tuttavia i santi sarebbero stati attaccati, e i loro nemici consumati dal fuoco del cielo, dopo di che la resurrezione generale e l’ultimo giudizio avrebbero avuto luogo ». Così Bossuet parla di un opinione che Sant’Agostino dalla sua parte, nella sua Città di Dio. libro XX, c, 7, tratta giustamente come un equivoco scritturale, poi trasformato in ridicole favole: De duabus resurrectionibus, dice, Joannes in libro Âpocalynsis, eo modo locutus est, ut earum prima a quibusdam nostris non iniellecta, insuper etiam in quasdam ridicutus fabulas verieretur. Infatti, chiunque legga ciò che i migliori e più rispettabili dei suoi sostenitori hanno scritto, come per esempio Sant’Ireneo (liv. V, c. 33, P, G., t. VII, col. 1213 sqq.), e Lattanzio (liv. VII De divin. Instit. c, 24, 25, 26, P. L., t. vi, col. 808-814) dovrà concordare sull’intera correttezza della censura. Perciò la suddetta opinione non poté resistere a lungo alla critica illuminata, e scomparve così tanto « nella grande luce del quarto secolo » che non se ne vede quasi più traccia. Ma fu riservato ai protestanti del XVII secolo il compito di farla risorgere dalle sue ceneri, e fu l’odio della Chiesa romana che li determinò a farlo. Infatti, poiché nell’Apocalisse, il regno millenario viene dopo il giudizio e l’esecuzione della grande meretrice, che secondo loro non era altro che la Chiesa romana in persona, essi pensavano di fare una cosa meravigliosa resuscitando l’antica favola millenarista, per l’opportunità che dava loro di promettere ai loro aderenti il futuro più luminoso, dopo la caduta del Papato, che annunciavano come prossima. Che i cattolici, dunque, nei quali si è risvegliato ai nostri giorni il gusto per le prodigiose fantasie di Fapias, notino di sfuggita “in quale bottega” (ci si perdoni la parola che la bella lingua di Bossuet non ha ripudiato), sono stati raccolti e rimessi in onore i resti di essa. Inoltre, il millenarismo, comunque lo si spieghi, sia con Papias che con Cerinto, è un grave errore che è apertamente condannato dai dati più formali della Scrittura. Infatti la Scrittura ci insegna: primo, che il cielo debba contenere Gesù Cristo fino all’ultimo giudizio (Atti, III, 21); secondo, che il giorno della seconda venuta e quello della fine del mondo sono uno stesso giorno (Matth, XXIV, 29-31; Marco XIII, 24-26, ecc.); in terzo luogo, che tutti i morti, e specialmente tutti i Santi, tutti i giusti, tutti gli eletti, risorgeranno allo stesso tempo, cioè in novissimo die (Joan, VI, 39, 44, 55), al suono dell’ultima tromba (I Cor, XV, 51), al segnale dato, alla voce dell’Arcangelo, mentre il Signore stesso scende dal cielo (1 Thess., IV, 16), Così che sarebbe più che giusto lasciare agli interpreti protestanti, se ce ne sono rimasti, quei “resti delle opinioni giudaiche”, che la luce della Chiesa ha interamente dissipato negli ultimi sedici secoli.) – Di conseguenza, la prima resurrezione di cui è detto, hæc est resurrectio prima, deve anche essere intesa come una resurrezione che può essere adatta solo alle anime: cioè, la resurrezione che ha avuto inizio con la giustificazione, secondo le parole dell’apostolo agli Efesini: « Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti, e Cristo ti darà la luce », è completata, perfezionata e consumata alla fine di questa vita presente, dall’ingresso nella vita eterna nella visione di Dio. (Sulla resurrezione delle anime, vedi S. Agostino, Città di Dio, lib. XX, c. 10, dove mostra cosa si debba rispondere a coloro che pensano che la resurrezione è detta solo dei corpi, e non possa convenire alle anime). E questa risurrezione è chiamata la prima, perché deve essere seguita, ma solo nell’ultimo giorno del mondo, da una seconda risurrezione, quella della carne, secondo quanto è detto più avanti, nella tavola del giudizio generale che chiude tutta la serie delle predizioni apocalittiche (« La seconda risurrezione, cioè la risurrezione dei corpi che avrà luogo alla fine dei tempi », dice Sant’Agostino, loc. cit. c. 6, in accordo con Apocalisse XX, 12-13, dove si legge … poi vidi un grande trono pieno di luce e Colui che era seduto su di esso… E vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono. E i libri furono aperti, e fu aperto un altro libro, che è il libro della vita; e i morti furono giudicati secondo ciò che era scritto nei libri, secondo le loro opere. Il mare consegnò i suoi morti, la morte e l’inferno consegnarono i loro, e furono giudicati ciascuno secondo le proprie opere.). Per di più, i mille anni che il regno dei Santi deve durare prima che i loro corpi siano ripresi, non devono essere considerati come un numero preciso e determinato di anni. No – dice Sant’Agostino – il numero di mille è usato qui per esprimere la totalità del tempo che deve passare fino alla fine dei secoli, ed è preso nello stesso senso riportato in quel luogo del Salmo CIV, versetto 8, dove si dice che Dio si ricorda eternamente della sua alleanza e della parola che ha dato « per mille generazioni »; cioè, senza difficoltà, per tutte le generazioni che si succederanno nel futuro (Sant’Agostino, loc. cit., c., 7, n. 2). Se, infine, la prima risurrezione è particolarmente attribuita ai martiri, la ragione è, come osserva sempre Sant’Agostino, che i martiri che hanno combattuto per la verità fino allo spargimento del loro sangue ne hanno naturalmente la parte principale. Ma secondo la figura retorica che consiste nel prendere la parte, specialmente la parte più eccellente e riconosciuta, per il tutto, dobbiamo senza dubbio intendere nella persona dei martiri, l’universalità dei morti che la voce che scende dal cielo designava poco più sopra (XIV, 13), come « morenti nel Signore » (S. Agostino, loc. cit., c. 9, n, 2). Tutti, infatti, appartengono ugualmente a Cristo; tutti sono diventati la sua eredità e il suo regno per sempre; tutti anche, e allo stesso modo, sono separati dai caeteri mortuorum del versetto 5: i quali, esclusi dalla prima risurrezione, saranno di conseguenza esclusi anche dalla seconda, essendo la risurrezione dell’ultimo giorno per loro solo una risurrezione di condanna, aggiungendo la dannazione del corpo a quella dell’anima, e gettando così l’intero uomo in quella che qui è giustamente chiamata la seconda morte (Come la prima risurrezione è quella in cui i Santi sono glorificati nell’anima, e la seconda quella in cui sono glorificati sia nel corpo che nell’anima; così la prima morte è quella in cui le anime sono sepolte con il “malvagio ricco” nell’inferno, e la seconda, quella che seguirà la risurrezione, in cui l’uomo intero, in corpo e anima, andrà, come è detto in San Matteo, XXV, 46, al tormento eterno). – Perciò San Giovanni, dopo aver detto: « Beato e santo colui che partecipa alla prima risurrezione », aggiunge immediatamente: « La seconda morte non avrà alcun effetto su  di loro »: La seconda morte non avrà alcun potere su di loro, implicando che si sfugge alla seconda morte, che non è altro che la morte consumata ed eterna, solo a condizione di aver partecipato alla prima risurrezione, e che di conseguenza i partecipanti alla suddetta risurrezione sono tutti i giusti, tutti gli eletti di Dio, in quanto, avendo completato il loro cammino, entrano nella loro eternità – (In questa descrizione della prima risurrezione, si fa sempre astrazione dai ritardi che possono essere richiesti dalle espiazioni del purgatorio, per due ragioni principali: la prima è che sono i martiri l’obiettivo principale del testo di San Giovanni, e che solo loro sono esplicitamente designati in esso; ma per i martiri non si può parlare di purgatorio. La seconda è che la prima risurrezione deve essere considerata qui, non secondo le condizioni accidentali, contingenti, infinitamente variabili di persone particolari, ma solo secondo la regola stabilita dalla volontà antecedente di Dio, che afferma che dopo la consumazione della nostra redenzione mediante la passione di Gesù Cristo, le anime dei Giusti, sono ammesse alla vita eterna subito dopo la fuoriuscita dal corpo, salvo impedimento da parte loro, cosa che significa che è in questo momento che deve essere considerato, come tesi assoluta nel Nuovo Testamento, l’ingresso dei Santi nella beatitudine qualunque possano essere sia i ritardi più o meno lunghi imposti in casi particolari, per colpe che non sono state sufficientemente espiate nella vita presente da degni frutti di penitenza). – Perciò San Giovanni, dopo aver detto: « Beato e santo colui che partecipa alla prima risurrezione », aggiunge immediatamente: « La seconda morte non avrà alcun effetto su  di loro »: La seconda morte non avrà alcun potere su di loro, implicando che si sfugge alla seconda morte, che non è altro che la morte consumata ed eterna, solo a condizione di aver partecipato alla prima risurrezione, e che di conseguenza i partecipanti alla suddetta risurrezione sono tutti i giusti, tutti gli eletti di Dio, in quanto, avendo completato il loro cammino, entrano nella loro eternità – (In questa descrizione della prima risurrezione, si fa sempre astrazione dai ritardi che possono essere richiesti dalle espiazioni del purgatorio, per due ragioni principali: la prima è che sono i martiri l’obiettivo principale del testo di San Giovanni, e che solo loro sono esplicitamente designati in esso; ma per i martiri non si può parlare di purgatorio. La seconda è che la prima risurrezione deve essere considerata qui, non secondo le condizioni accidentali, contingenti, infinitamente variabili di persone particolari, ma solo secondo la regola stabilita dalla volontà antecedente di Dio, che afferma che dopo la consumazione della nostra redenzione mediante la passione di Gesù Cristo, le anime dei Giusti, sono ammesse alla vita eterna subito dopo la fuoriuscita dal corpo, salvo impedimento da parte loro, cosa che significa che è in questo momento che deve essere considerato,, come tesi assoluta nel Nuovo Testamento, l’ingresso dei santi nella beatitudine qualunque possano essere sia i ritardi più o meno lunghi imposti in casi particolari, per colpe che non sono state sufficientemente espiate nella vita presente da degni frutti di penitenza). – Questo, dunque, è ciò che l’Apocalisse ci insegna su questa fase di transizione in cui i Santi, e specialmente i martiri, morendo sulla terra, inizieranno prima una nuova vita in cielo come anime benedette. Qui abbiamo sollevato un angolo del velo che nascondeva le condizioni misteriose della loro esistenza postuma da questo momento fino alla resurrezione finale. Non si ragiona, dunque, come se non ci fosse altra venuta di Gesù con la sua ricompensa se non quella che avverrà nella gloria e maestà alla consumazione dei tempi, o come se fosse di questa venuta che la parola contestata sarebbe necessariamente da intendere: « Ecco, io vengo presto, e la mia ricompensa è con me, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. » Ma no! L’Apocalisse suppone una prima venuta di Gesù, segreta e invisibile, per il giudizio e la ricompensa delle anime secondo i meriti delle loro opere, appena lasciano il corpo. Il quadro che abbiamo appena visto, in cui i Santi sono già ammessi da Gesù a condividere il suo regno, già accolti per sedere sul suo trono, già messi in possesso della beatitudine celeste, testimonia apertamente questo, salvo il complemento finale della resurrezione del corpo ed una certa gloria accidentale, riservata all’ultimo giorno. Hæc est resurrectio prima. Questa è la prima resurrezione mostrata a San Giovanni nella famosa visione del regno dei mille anni.

****

Ma questo non è l’unico posto nell’Apocalisse dove viene menzionata questa prima venuta di Gesù con la sua ricompensa. All’inizio del libro, tra gli avvertimenti che San Giovanni riceve l’ordine di scrivere alle chiese, Gesù dice all’Angelo della chiesa di Smirne, in previsione della persecuzione che doveva venire (II, 10): « Sii fedele fino alla morte, e senza indugio, appena sarà giunta la fine della tua prova, ti darò la corona della vita. » Dice ancora, poche righe più giù, nel passo parallelo dell’epistola alla chiesa di Tiatira (II, 26-28): « A colui che conserva le mie opere fino alla fine, io darò la stella del mattino. » E cos’è la stella del mattino? Apparentemente, la beatitudine della gloria eterna, anche se non ancora nella sua pienezza, dove sarebbe paragonata al sole di mezzogiorno, ma nella sua fase iniziale, e per così dire, mattutina, cioè prima del giudizio generale e dell’ultima risurrezione. E questa beatitudine iniziale prima del giudizio generale e della risurrezione finale, propria delle anime ancora separate dai loro corpi, San Giovanni non si stanca di portarla alla nostra attenzione. – Vi ritorna costantemente, e in così tanti modi diversi, che dobbiamo vedere in esso uno dei punti più salienti di questo libro divino dell’Apocalisse, e uno dei suoi tratti più caratteristici. Vi ritorna in particolare nel capitolo VI, ai versetti 9-11, dove ci si presentano le anime (e si noti che sono sempre anime), le anime dei martiri, animas interfectorum, alle quali, in attesa che sia fatta giustizia ai loro persecutori, vengono date vesti bianche, simbolo della gloria che già godono in cielo. «Vidi – dice – sotto l’altare le anime di coloro che erano stati sacrificati per la parola di Dio e per rendergli testimonianza…, e a ciascuno di loro fu data una veste bianca, dicendo loro che aspettassero il resto, finché fosse completato il numero di coloro che servivano Dio come loro, ed il numero dei loro fratelli che dovevano soffrire la morte come loro. » Vi ritorna di nuovo nel capitolo successivo (VII, 9-17), dove ci mostra questi … stessi martiri con le loro vesti bianche e le palme in mano, in piedi davanti al trono di Dio, servendolo giorno e notte nel suo tempio, senza più fame, sete o alcun tipo di disagio, perché l’Agnello che è in mezzo al trono sarà il loro pastore, e li condurrà alle fonti delle acque vive, e Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. – Torna su questo, e ancora più espressamente, ancora nel capitolo XIV, dove ci fa sentire la voce che lui stesso ha sentito, la voce dal cielo che dice: « Beati i morti che muoiono nel Signore: d’ora in poi, dice lo Spirito, si riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono. Amodo jam dicit Spiritus ut requiescant et laboribus suis. D’ora in poi, dice, come per combattere formalmente e direttamente l’idea che Gesù sarebbe venuto con la sua ricompensa solo alla fine dei secoli. No, no! amodo: già da ora, da subito dopo la morte, dal giudizio particolare: che già giustifica ampiamente la venio cito, venio velociter, dell’ultima pagina del libro, pur lasciando, come si vede, il campo assolutamente libero a tutte le ipotesi possibili circa il tempo dell’arrivo in gloria e maestà sulle nuvole del cielo, per la chiusura dei tempi e la resurrezione generale dei morti, per la solennità delle grandi assise dell’umanità, per il giudizio pubblico del mondo, per la consumazione finale dei castighi e delle ricompense, in breve … per il completamento ed il regolamento finale di tutte le cose e gli affari di quaggiù. Questo è detto senza pregiudicare un altro significato, dove il venio cito si riferirebbe anche all’ultima venuta che realizzerà, con l’ultimo giudizio, il rinnovamento universale del cielo e della terra di cui parla San Pietro nella sua seconda epistola c. III, 10-13. (Ma in questo caso, il termine cito sarebbe preso, ovviamente, non in relazione alla durata degli individui, ma alla durata totale del mondo dalle sue prime origini. E anche per questo motivo, si troverà facilmente che mille anni sono come un giorno). Questo, se non ci sbagliamo, è molto più di quanto sia necessario per mostrare quanto infondate, quanto contrarie ai dati più solidi della Scrittura, siano le famose posizioni dei modernisti sulla parusia, la pietra angolare di tutto il loro sistema di interpretazione del Vangelo. Questo era quello che volevamo dimostrare. E se, concludiamo con l’autore del secondo libro dei Maccabei, la presentazione degli argomenti è stata ciò che serviva per generare convinzione nella mente del popolo, avremo raggiunto lo scopo dei nostri sforzi. Se, invece, essa è rimasto imperfetta e difettosa, possiamo solo incolpare l’inabilità del dimostrante.

F I N E

L’INFALLIBILITA’ DEL PAPA (II)

UNA LEZIONE DI CATECHISMO: L’INFALLIBILITÀ DEL PAPA (II)

H. MONTROUZIER. S. J.

[Lettera sul futuro Concilio ecumenico. In Rév. Des  Sc. Eccl. 3a SERIE, T. I.  — APRILE 1870.]

III.

D. Come mai, però, diversi Pontefici sono accusati di aver sbagliato nella definizione delle questioni di fede?

R. « La costante applicazione dei nemici dell’autorità dei sovrani Pontefici si è sempre esercitata nel trovare errori nelle loro definizioni: ma essi non hanno mai potuto scoprire alcun errore contro i dogmi, che sia stato enunciato da alcun Romano Pontefice, come Pontefice e Dottore della Chiesa. » Così dice S. Liguori (P. Jacques, op. cit., p. 171). Non potendo seguire il santo Vescovo nello sviluppo delle sue prove, mi limito ad una breve riflessione sui Pontefici più gravemente incriminati, che sono i Papi San Liberio, Vigilio e Onorio. – Ora, la caduta di Papa San Liberio è così incerta che Bossuet non credeva di poterne trarre un argomento contro l’infallibilità. Inoltre, è stato dimostrato mille volte che il santo Papa non ha mai disertato l’ortodossia. Deve essere menzionato il magnifico lavoro di M. Edouard Dumont nella Revue des questions historiques. – Per quanto riguarda Papa Vigilio, non solo non ha sbagliato nella fede, ma il famoso Pierre de Marca, poco sospettabile di parzialità a favore dei Papi, ha composto una dissertazione per stabilire l’alta prudenza di cui il Pontefice fece prova negli atti per i quali è così duramente rimproverato.  – Per quanto riguarda Onorio, il vescovo di Grenoble ha recentemente dichiarato al suo clero (20 luglio 1868). « Che né la fede cattolica, né la dottrina dell’infallibilità del Papa, che definisce ex Cathedra, e nemmeno la fede personale di Onorio sono in discussione nei dibattiti sollevati in occasione del sesto Concilio. San Alfonso de’ Liguori, che tratta molto bene la questione di Onorio, giunge alla conclusione: « Egli doveva tranciare l’errore dal principio, ed è sotto questo aspetto che ha mancato (ibid., p. 179. Si veda la notevole dissertazione di Pierre de Marca nella Patrologia del Migne, t . LXIX, p. 127 e seguenti). » – Perché non dire di sfuggita che tutti coloro che predicano la moderazione oggi raccomandano ai Padri del Concilio di imitare la condotta che essi rimproverano così duramente nel Papa? Se Onorio ha prevaricato tacendo sull’errore che osava mostrarsi, perché i Padri del Concilio non dovrebbero “prevaricare” a loro volta tacendo anche sugli errori che pervadono il nostro secolo? Avviso a P. Gratry! (il p. Gratry ritrattò poi completamente la sua posizione fallibilista – ndr. -) Ma torniamo indietro. Che valore ha l’obiezione dedotta dagli errori più o meno numerosi commessi dai Papi nell’esercizio della loro suprema autorità? Rispondo che questa obiezione non ha alcun valore, finché non si portano fatti positivi e incontestabili. Ora, questi fatti non saranno mai portati. I critici più maligni si sono consumati senza successo. Tournély concorda volentieri sul fatto che le presunte colpe dei Papi non esistono e non provano nulla; arriva a rammaricarsi che si screditi la causa gallicana volendola sostenere con argomenti così speciosi (De Ecclesia, t. II., p. 183 ss.). E ora, cosa si può dire di quegli uomini che passano il loro tempo a ripetere calunnie che sono state confutate già mille volte? È la loro ignoranza o la loro malafede che deve essere stigmatizzata? – Che dire, soprattutto, dell’impudenza che insulta la Chiesa universale imputandole la falsificazione calcolata del suo libro di preghiere; così che, per tre secoli, la Chiesa, che è la colonna della verità, ha costretto i suoi sacerdoti ad aprire ogni giorno la bocca per recitare odiose menzogne? È una follia, una bestemmia? O Dio, vendicate la vostra Chiesa!

D. Bisogna convenire che l’infallibilità difficilmente può essere concepita in uomini viziosi, come purtroppo sono stati troppi Papi.

R. Prima di tutto, vi prego di osservare che il numero dei Papi viziosi è stato molto sopravvalutato; tanto che oggi i protestanti onesti sono essi stessi i vendicatori dei nostri Pontefici ingiustamente calunniati. Nientemeno che pure Papa Alessandro VI è stato in qualche modo riabilitato dall’anglicano Roscoë! Ma dopo tutto, cosa dimostra l’obiezione? Se potesse avere una qualche forza, essa proverebbe che un sacerdote indegno è, per il fatto stesso della sua indegnità, privato del potere di amministrare validamente le cose sante. Eccoci dunque in piena eresia di Wicleff, e nella Chiesa invisibile dei luterani, come il Vescovo di Rodez osservò con perfetta precisione al Vescovo Maret, autore dell’obiezione. – Una volta per tutte, dobbiamo essere convinti che le grazie concesse da Nostro Signore ai suoi ministri per la guida delle anime sono indipendenti dalle disposizioni del soggetto che le riceve. L’infallibilità del Romano Pontefice non gli è data per il suo bene, così come il potere di perdonare i peccati non è dato al sacerdote per il suo bene. Il Papa è infallibile, e il sacerdote è investito di poteri soprannaturali solo a beneficio dei fedeli. Sono in tutti i casi strumenti di Dio. Che siano santi o no, lo Spirito Santo continuerà a servirsi di loro per la dispensazione delle sue grazie. Egli è, infatti, il primo Autore dei prodigi da loro compiuti, e questo musicista celeste produrrà la sua divina armonia con una lira d’oro così come con una lira di legno il più grezzo.  Ancora una volta, l’infallibilità del Papa non è né il suo talento né la sua virtù; è lo Spirito Santo che assiste la debolezza del suo ministro. Ecco come, quante difficoltà svaniscono così!

IV.

D. Se l’infallibilità del Papa è una verità così profondamente radicata nella tradizione, perché la Chiesa non l’ha ancora definita solennemente?

R. « È vero. Gesù Cristo non ha affermato nulla con più amore e ricchezza di espressione nel Vangelo che i due dogmi che possono essere chiamati il cuore e il capo della sua Chiesa: il dogma dell’Eucaristia e il dogma del sovrana potenza, e quindi della fallibilità di Pietro. È vero che nella Chiesa, come nel Vangelo, nell’opera vivente come nell’opera scritta, nulla brilla con un bagliore più divino del Tu es Petrus e di Ego sum panis vivus qui de cœlo descendi (Lettera di Mons. Dechamps di Malines a Mons. Dupanloup.). » Tuttavia, bisogna osservare, con l’Arcivescovo di Malines, che « la Chiesa definisce i dogmi solo quando sono negati dall’eresia o contestati dalla buona fede. » (Ibid.) Questo spiega perché il dogma dell’Immacolata Concezione sia stato proclamato così tardi. La Chiesa non ha sempre creduto nella gloriosissima prerogativa di Maria?  « Ora, la Chiesa ha sempre vissuto della fede dell’infallibilità del Romano Pontefice, e l’ha vissuta ovunque, anche dove è stata contestata in buona fede. (Ibid.) » Testimoni sono le eresie che, durante i primi tre secoli, sono state soppresse dal solo braccio del Papa; testimoni il Giansenismo ed il Quietismo e mille altri errori che, negli ultimi tre secoli, sono stati soppressi dalla Santa Sede; testimoni quelle dichiarazioni dottrinali e persino quelle definizioni dogmatiche che più di una volta la Chiesa ha pregato il Pontefice di pronunciare. Non è questo un vivere della fede nell’infallibilità? E la Chiesa avrebbe dovuto ritenersi obbligata a formulare una definizione dogmatica, quando vedeva tutta la società cristiana unanime nel riconoscere nel Papa la regola vivente della fede? Al Concilio di Trento, si trattò di opporre una definizione di infallibilità a qualche raro dottore che la contestava: ma i Padri ritennero giustamente di dover disprezzare questi dissidenti, come avevano fatto con i pochi oppositori dell’Immacolata Concezione… Ora che il clamore è più forte, la Chiesa può alzare la sua grande voce. Chi sa se non sia suonata l’ora della sentenza suprema?

D. Un’altra domanda. Se la Chiesa crede nell’infallibilità del Papa, perché convoca i Concili?

R. La ragione è abbastanza semplice. Benché dotato di infallibilità, il Papa è tuttavia tenuto a circondarsi di tutte le precauzioni che la prudenza umana suggerisce a chiunque voglia trovare la verità. Lo Spirito Santo assiste il Papa non per rivelargli la dottrina, ma solo per impedirgli di ingannare se stesso e gli altri. È quindi naturale che il Papa consulti i suoi fratelli nell’Episcopato, e si avvalga così dei loro lumi e della loro saggezza: questo viene fatto soprattutto nei Concili Generali.  Ascoltiamo la risposta di San Alfondo de’ Liguori a Febronio: « Ma, si dirà, se i giudizi del Sommo Pontefice sono infallibili, e se la sua autorità è suprema e indipendente, a che servono i Concili? La risposta è che servono a diversi scopi molto importanti. Servono a far sì che i Vescovi si applichino più energicamente per soffocare i dissensi; servono a reprimere le contese; servono, infine, a farli aderire più scrupolosamente ai dogmi della fede, come scrive San Vincenzo di Lerino: Qual risultato – egli dice – ha ottenuto la Chiesa con i decreti dei Concili, se non quello di far ammettere CON MAGGIORE IMPRESSIONE ciò che prima era oggetto di semplice credenza? « Aggiungiamo che talvolta i sovrani Pontefici convocano i Concili per essere più illuminati dallo Spirito Santo attraverso la discussione in un Concilio su qualche dubbio in materia di fede: perché, dice il Cardinale Du Perron, l’infallibilità del Papa non consiste nel suo ricevere sempre dallo Spirito Santo la luce necessaria per decidere tutte le questioni di fede, ma nel suo pronunciare un giudizio libero da errori su quelle questioni in cui si sente sufficientemente illuminato da Dio. Quanto alle questioni in cui non si sente sufficientemente illuminato, le rimanda alla decisione del Concilio, per pronunciare in seguito il proprio giudizio.  Ma non fraintendiamo il significato di queste ultime parole. « – dice Monsignor Dechamps – il Papa rimette certe questioni al Concilio, non come ad un tribunale superiore, ma per essere illuminato dal giudizio dei Vescovi, e per confermare il giudizio di questi vari giudici, se lo ritiene opportuno, con il proprio giudizio supremo » (Lettera al vescovo Dupanloup).

CONCLUSIONE.

Questo è ciò che tutti i fedeli dovrebbero sapere. Si dovrebbe inculcare loro una completa e pronta obbedienza ai giudizi della Santa Sede, che, secondo San Vincenzo de’ Paoli, è il miglior mezzo per discernere i veri figli della Chiesa dagli ostinati. – Essi dovrebbero essere persuasi che, lungi dal meritare il rimprovero di un’adulazione servile del Papa, i difensori dell’infallibilità servono soprattutto i loro propri interessi; perché se il Papa è infallibile, è perché noi possiamo essere infallibili; se egli ha il potere di non ingannare, è perché noi abbiamo il diritto di non essere ingannati (Mons. Berteaud, discorso predicato a S. Eustachio il 19 novembre 1864).  – Infine, si dovrebbe far loro apprezzare il vero valore del triste coraggio « di alcuni uomini rancorosi e schiavi che sognano una Chiesa separata dal suo Capo; mostrandoci così, con una contraddizione piuttosto strana, un corpo mutilato che può fare a meno della vita per giudicare, e i cui giudizi non hanno forza perché mancano di vita; mostrandoci con compiacenza la Chiesa costruita su Pietro, convocando Pietro al suo tribunale per condannarlo, perché probabilmente non sarà stato un fondamento abbastanza solido per essa, nonostante le preghiere e le promesse di Gesù Cristo. Figli ingrati ed ingenerosi, che rivendicano, come un diritto inalienabile, la libertà di contraddire il loro padre, e di contestare il suo diritto di mantenere la pace in casa e la subordinazione all’interno della famiglia. Dottori inquieti e irrequieti, sempre pronti a chiamare il Papa al Concilio, e quindi a distruggere il capo della Chiesa, o a crearne due, poiché un appello al Concilio implicherebbe che il Concilio è il capo della Chiesa. Senza entrare in ulteriori discussioni con loro, rispondiamo con Sant’Avito, Vescovo di Vienne, parlando a nome dei Vescovi delle Gallie, che non c’è nessuna legge o ragione per sottoporre il capo della Chiesa ai suoi inferiori, e che se il Vescovo della città di Roma è chiamato in giudizio, non è un Vescovo che è minacciato, ma l’intero Episcopato che è scosso.  (Istruzione pastorale di Mons. de Donald, Vescovo di Le Puy, per il periodo quaresimale del 1838, sul Capo visibile della Chiesa. In questo magnifico scritto, l’infallibilità del Papa è mirabilmente stabilita. Sarebbe auspicabile che l’opera del venerabile Cardinale fosse ancora una volta data alle stampe. Sarebbe un meritato omaggio alla memoria di una persona che tutta la Chiesa considererà sempre come una delle sue luci più vive.

 (H. MONTROUZIER. S. J.)

DEVOZIONE DELLE MANI DIVINE DEL NOSTRO SALVATORE

Devozione de:

LE MANI DIVINE DEL NOSTRO SALVATORE

Opera di Zelo e di Riparazione

Come devozione privata.

(Estratto dal libro omonimo pubblicato nel 1894, con Nihil Obstat, ed Imprimatur, di prossima pubblicazione sul blog tradotto in italiano.)

Aiutiamo il nostro Santo Padre il Papa (il regnante Gregorio XVIII-ndt. -) e tutte le Nazioni della Terra per mezzo delle Mani Divine del nostro Salvatore.

Litanie in onore delle Mani Divine di nostro Signore.

(Approvate dal cardinale Donnet, arcivescovo di Bordeaux, nel 1865, e dal cardinale Deschamps, arcivescovo di Malines).

Recitare queste Litanie con cuore contrito, profondamente addolorati per i dolori di nostra Madre Chiesa.

Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, abbiate pietà di noi e perdonate i nostri numerosi peccati. (3 volte).

Mani Divine, degnatevi di umiliare i nemici della Chiesa, e del nostro Santo Padre Papa. (n. b.).

Sacro Cuore di Maria Immacolata e Madre della Grazia, implorate le Mani Divine di nostro Signore perché siano umiliati i nemici della Chiesa e del nostro Santo Padre il Papa.

San Giuseppe, Sposo della Madonna, chiedete alle Mani Divine del Nostro Salvatore ché siano umiliati i nemici usurpanti del nostro Santo Padre il Papa. (3).

Rp.: Pregate ché le Mani Divine del nostro Salvatore umilino i nemici usurpanti(*) del Santo Padre.

(*) [precisazione del trad. riferita alla situazione odierna che vede “gli” antipapi usurpare la cattedra di s. Pietro nel silenzio e con la complicità di chi sa e finge di dormire.]


San Gioacchino, Padre della Beata Vergine,  pregate …..
Sant’Anna, Madre della Beata Vergine, pregate ….
San Michele Arcangelo ….
San Gabriele ….
San Raffaele ….
O quattro Arcangeli, che in unione con San Michele, San Gabriele e San Raffaele, circondate il trono dell’Altissimo, ….
Santi Serafini, ….
Santi Cherubini, ….
Sacri Troni, ….
Sante Dominazioni, ….
Sante Virtù, ….
Sante Potestà, ….
Santi Principati, ….
Santi Arcangeli, ….
Santi Angeli, ….
San Giovanni Battista,
San Pietro, (3 volte con la risposta)
San Paolo, …
San Giovanni, l’amato Discepolo, …
Santi Apostoli, …
Sant’Ireneo, …
Sant’Agostino, …
San Francesco di Sales, …
San Domenico,…
San Francesco d’Assisi, …
Sant’Antonio da Padova, …
San Pietro d’Alcantara, …
Sant’Ignazio di Loyola, …
San Francesco Saverio, …
San J. Francesco Regis, …
San Vincenzo de’ Paoli,
S. Teresa, (3 volte con la risposta)

Tutti voi Santi di Dio, chiedete alle Mani Sante di umiliare i nemici del Santo Padre.

℣. Che la tua mano sia sull’uomo della tua mano destra:
℟. E sul figlio dell’uomo che Tu stesso hai confermato.

Oremus:

O Dio Onnipotente! Con grande umiltà ti supplichiamo di liberarci dagli usurpanti operatorii d’iniquità, mentre poniamo tutta la nostra fiducia nelle Mani Divine di nostro Signore Gesù Cristo, tuo amato Figlio, che vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo, unico Dio, nei secoli dei secoli. Amen.

[N.B. — Le Litanie di cui sopra possono essere recitate per qualsiasi altra intenzione. È sufficiente modificare l’intenzione per la quale vengono offerte.]

Promesse per coloro che sono devoti alle Mani Divine del nostro Salvatore.

Gesù Cristo disse a questo santo uomo: “Pubblica e lascia che altri proclamino ciò che Io farò

– 1. “Verserò grazie eterne sulle anime di coloro che pregheranno le Mie Mani Divine.

– 2. “Verrò a soccorrere i moribondi che avranno pregato le Mie Mani Divine.

– 3. “Io convertirò il peccatore dal quale sono state invocate le Mie Mani Divine.

4. “Darò beni temporali alle famiglie povere che pregheranno le Mie Mani Divine.

5. “Fortificherò e rafforzerò coloro che invocano le Mie Mani Divine.

– 6. “Curerò i malati che invocano le Mie Mani Divine.

– 7. “Libererò rapidamente dal Purgatorio le anime che, quando erano sulla terra, hanno invocato le Mie Mani Divine.

8. “Libererò da tutti i pericoli coloro che invocano le Mie Mani Divine”.

(“Le Mani Divine del nostro Salvatore, Opera di Zelo e Riparazione, Come devozione privata”, 1894 d.C., Nihil Obstat, Imprimatur.)

LA PARUSIA (9)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (9)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE – Rue de Rennes, 117 – 1920

ARTICOLO NONO

LA PARUSIA NELL’APOCALYPSE. IL VERO SOGGETTO DELLA GRANDE PROFEZIA DEL NUOVO TESTAMENTO

“Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi servi le cose che devono presto accadere, e che egli manifestò inviando il suo angelo al suo servo Giovanni. Questi attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto. Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e mettono in pratica le cose che vi sono scritte. Perché il tempo è vicino”. È così che inizia l’Apocalisse. (I; 1-3). Ed ecco come termina (XXII, 5-20): « Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo Angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve. Ecco, io verrò presto e la mia retribuzione è con me per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io, Gesù, ho mandato il mio Angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese … Si, Io verrò presto, Amen: Venite Signore Gesù. » Come possiamo vedere, la dichiarazione della fine è solo una ripetizione di quella fatta all’inizio. E questa dichiarazione, che apre e chiude l’Apocalisse, che la inquadra nella sua totalità e abbraccia tutto il suo contenuto, che è la prima e l’ultima parola, l’alfa e l’omega, si presenta così come qualcosa di primaria importanza nell’economia del libro. Questa non è una caratteristica accidentale che può essere trascurata e messa da parte, un dettaglio aggiunto incidentalmente, un accessorio infine, senza connessione con l’argomento principale. Al contrario, essa è un punto essenziale tra tutti gli altri, che si riferisce a tutta la rivelazione che San Giovanni, attraverso il ministero dell’Angelo, ha ricevuto da Gesù Cristo: in cui, di conseguenza, siamo costretti a vedere un’indicazione data sul significato generale della profezia, una luce gettata sulle sue oscurità, e una chiave che dovrebbe servire ad aprirne gli arcani. D’altra parte, sono da rilevare due affermazioni molto chiare e categoriche: la prima è che gli eventi oggetto delle predizioni apocalittiche dovevano accadere presto, quæ oportet fieri cito; la seconda è che anche Gesù sarebbe venuto presto, portando con sé la sua ricompensa, per rendere a ciascuno secondo le sue azioni, (ecce venio cito, et merces mecum est reddere uninique secundum opéra sua). E queste due affermazioni, considerate soprattutto come completantesi ed illuminantesi l’un l’altra, sembreranno senza dubbio a molti giustificare le idee moderniste sull’annuncio, negli scritti del Nuovo Testamento, di una parusia molto prossima. Infatti, non dobbiamo pensare di discutere qui il significato della parola “presto” (ταχύ, ἐν τάχει – taku, en takei), che deve ovviamente essere presa nel suo senso ovvio e naturale, senza che ci sia motivo di appellarsi, per uscire dalla difficoltà, alle parole di San Pietro, che dice che “per il Signore, un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno”. Perché una cosa è stimare il tempo in relazione all’eternità di Dio, un’altra è valutarlo in relazione a noi altri che siamo soggetti ad esso. È abbastanza comprensibile che quando si parla di Dio, si dica che davanti a Lui, e in relazione all’eternità che gli è sempre presente, tutto è breve. Ma quello che certamente non capiremmo più è che Dio, parlando con noi, usasse la stessa misura, una misura che, riassumendo tutti i tempi allo stesso modo, eliminerebbe anche tutte le differenze; e se, per indicarci gli eventi che devono avvenire, per esempio, tra mille, diecimila, centomila anni da ora, ci assicurasse di arrivare presto, e che il tempo sia vicino. Molto meno capiremmo se insistesse sulla prossima data degli eventi annunciati, con quel lusso di espressioni che si notano negli ultimi versi dell’ultimo capitolo, dove la vicinanza è confermata, assicurata, inculcata una dopo l’altra, in tutti i modi possibili, fino a cinque volte consecutive: quæ oportet fieri cito (versetto, 6) ed ecce venio velociter (versetto 7); tempus prope est (versetto 10); ecce venio cito (versetto 12); etiam, venio cito (versetto 20). Abbiamo bisogno di altro? Bene, qui c’è ancora di più. Infatti, mentre a Daniele fu detto, quando ricevette l’annuncio profetico della persecuzione di Antioco, che era essa stessa il tipo e come l’abbozzo della suprema persecuzione dell’anticristo: Sigillate la profezia, perché il tempo è lontano (Dan., VIII, 26, confrontare con XII, 4, 9);  ora, al contrario, è detto a San Giovanni (Apoc, XII, 10): Non sigillate le parole della profezia di questo libro, come se questo libro dovesse rimanere chiuso per molto tempo. E la ragione di ciò gli viene subito data: perché il tempo in cui deve venire l’adempimento delle predizioni in esso contenute, è vicino … tempus enim prope est. Questo implicava, nel modo più formale e ovvio, che se le cose rivelate a Daniele gli erano state annunciate in un futuro lontano, non era così per quelle rivelate a San Giovanni, che avrebbero cominciato a svolgersi immediatamente dopo di lui. Ecco, dunque i due punti su cui si basa tutta la difficoltà dell’Apocalisse, e che dobbiamo ancora chiarire in questi ultimi articoli: primo, l’annuncio del prossimo compimento delle predizioni apocalittiche; secondo, l’annuncio della venuta di Gesù per rendere a ciascuno secondo le sue opere. E poiché entrambi questi punti richiedono una spiegazione separata, li esamineremo separatamente, uno dopo l’altro, cominciando dal primo, che è anche il principale, mentre il secondo ha bisogno solo dei principi precedentemente enunciati per essere illuminato, i quali, come vedremo, troveranno, nell’Apocalisse stessa. una nuova, formale e definitiva consacrazione.

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Tra i pregiudizi sui libri della Sacra Scrittura, non ce n’è uno più diffuso di quello che ritiene che l’Apocalisse sia, o esclusivamente, o almeno nella sua parte principale, la profezia della fine dei tempi, dei suoi precursori, degli eventi che la precederanno, delle catastrofi che la annunceranno. Infatti, chiedete alla maggior parte di coloro che si interessano di questioni religiose, e che ne hanno qualche conoscenza, e con pochissime eccezioni, vi diranno che, prima di tutto, l’Apocalisse è un libro sibillino che non si dovrebbe nemmeno tentare di decifrare, poiché tutti coloro che hanno tentato di farlo hanno fallito miseramente; che, inoltre, se la comprensione di esso è forse riservata al futuro, per il momento almeno, solo una cosa si sa vagamente di esso: Che sono predizioni riguardanti l’Anticristo, le ultime lotte della Chiesa, la persecuzione suprema, la venuta di Enoch ed Elia, l’apparizione del Giudice dei vivi e dei morti, le assise generali dell’umanità, con le pene e le ricompense eterne che seguiranno. Ma quanto strana, quanto incredibile, quanto soprattutto paradossale, apparirebbe loro l’opinione di chi, sostenuto anche dalla grande autorità di Bossuet, tenterebbe timidamente di sostenere che la parte dell’Apocalisse direttamente e immediatamente rivolta agli ultimi giorni, occupa nel libro il posto di soli dieci versetti, esattamente gli ultimi nove del capitolo XX! Sicuramente, come a San Paolo che pronunciava nell’Areopago la parola della resurrezione dei morti, gli sarebbe stato detto di tornare per farsi sentire un’altra volta, tanto grande e considerevole è il potere del pregiudizio comunemente ricevuto. Ora, la scuola modernista non poteva non sottolineare questo pregiudizio nella questione della parusia, e cercare in esso una base di argomentazione molto sicura. E infatti, è così se fosse vero che la fine del mondo è l’oggetto, o l’unico o almeno il principale, delle predizioni dell’Apocalisse; se invece, come abbiamo chiaramente dimostrato sopra, queste stesse predizioni vi sono state indiscutibilmente date come prossime a realizzarsi, ne consegue strettamente che, secondo le nostre Scritture, il mondo, al tempo di mondo, al tempo delle visioni di Patmos, era alla vigilia della sua fine e la grande rivelazione di Cristo stava per avere luogo. Così tutta la questione attuale si riduce ad un punto un punto: qual è il vero oggetto delle previsioni apocalittiche? È la fine del mondo? Allora non ci resta che chinare il capo e pronunciare la sentenza. È, al contrario, qualcos’altro? Allora la difficoltà crolla, come crolla un edificio quando crolla la sua base. La questione merita quindi di essere esaminata da vicino, e per circoscrivere meglio il campo su cui la discussione deve concentrarsi, cominciamo con un rapido sguardo sul piano e alla divisione della grande profezia del Nuovo Testamento.  – Come osserva Bossuet all’inizio del suo ammirevole commento, le funzioni del ministero profetico si riducono a tre principali, la prima delle quali era di rimproverare, ammonire ed esortare; la seconda, di predire e annunciare il futuro; la terza, di confortare e incoraggiare con la promessa delle ricompense. Quindi non cerchiamo altrove il piano e l’ordine dell’Apocalisse, questa incomparabile profezia, il culmine e il coronamento di tutta l’opera degli antichi profeti. E infatti, dopo il capitolo I, che occupa il posto di un prologo o di una prefazione, troviamo gli avvertimenti e le esortazioni. Questi riempiono i capitoli II e III, dove San Giovanni è incaricato di inviare ai sette Vescovi dell’Asia i rimproveri o gli elogi che le loro chiese meritavano, con le raccomandazioni appropriate alle condizioni di ciascuna di esse. Poi vengono in secondo luogo le predizioni, che sono di gran lunga la parte più considerevole dell’opera, e vanno dal capitolo IV al capitolo XX compreso. Tutti questi sono tratti da quel libro del futuro, chiuso e sigillato, che nessuno poteva aprire o guardare, ma che, quando fu dato nelle mani dell’Agnello per rompere i suoi sigilli (V, vv. 1-1.0), lasciò fuoriuscire i suoi misteriosi segreti. Infine, ecco, in terzo luogo, le promesse della felicità futura, di cui ci viene data un’immagine deliziosa negli ultimi due capitoli XXI e XXII, dove la Gerusalemme celeste appare « tutta bella e perfetta nella riunione di tutti i Santi, e la perfetta assemblea di tutto il Corpo mistico di Gesù Cristo ». Tale, dico, è la divisione molto naturale dell’Apocalisse, e si vedrà subito, da questa rapida esposizione, che non è né la prima né la terza parte, ma solo la seconda, quella delle predizioni, che è ora in questione. Bisognerà eliminare i capitoli iv e v, che non sono che un preludio dedicato a rappresentare la scena della visione, e a descrivere l’apparato della scena in cui l’Agnello, il protagonista divino, riceve dalle mani di colui che era seduto sul trono il libro misterioso, i cui sigilli stava per sciogliere. Così, alla fine, la serie di oracoli riguardanti gli eventi a venire inizia esattamente con il sesto capitolo, e termina definitivamente con il ventesimo. È dunque sui quindici capitoli inclusi e compresi in questi due termini estremi, che riguarda la questione posta sopra; voglio dire la questione di sapere se è vero, sì o no, che, secondo il pregiudizio volgare, le predizioni apocalittiche sono direttamente rivolte, o nella loro totalità, o nella loro parte maggiore e principale, alla catastrofe suprema e agli eventi precedenti. A questo rispondiamo senza esitazione con una negazione assoluta, che sarà giustificata, se non ci sbagliamo, dalle molte ragioni che saranno proposte alla considerazione e alla riflessione del lettore.

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E prima di tutto un’osservazione preliminare. Se mai c’è stata una profezia che, secondo i principi spiegati all’inizio di questo studio, possa essere ben compresa solo a posteriori, cioè alla luce dei fatti compiuti (almeno nella sua totalità e nella connessione delle sue varie parti), questa deve essere, prima di tutte le altre, quella dell’Apocalisse. Questo è evidente dal modo in cui è scritta, dallo stile enigmatico con cui essa è scritta, dai simboli, dalle immagini e dalle metafore che sono interamente sui generis, e con cui è avvolta e velata dal principio alla fine: in breve, da tutto ciò che fece dire a San Girolamo … che essa conteneva tanti misteri quante erano parole, tot sacramenta quot verba. E non ci sarebbe già qualcosa per escludere a priori l’ipotesi di un’Apocalisse che abbia per unico, o almeno principale oggetto, ciò che doveva accadere solo quando il mondo fosse giunto al punto stesso di finire? Perché, ci si chiede subito, quale utilità avrebbe potuto avere allora … ugualmente nessuna, come sembrerebbe, sia che ci collochiamo prima o dopo l’evento: se ci si colloca dopo, infatti, in tale ipotesi, il tempo successivo sarebbe solo quello della vita futura, per la quale non sono fatte, ovviamente, le profezie; ed ugualmente se ci mettiamo innanzi, poiché non sembra che, senza il filo conduttore dei fatti compiuti, arriveremo mai ad un’interpretazione, non dico congetturale e fantasiosa, di cui non sappiamo cosa farcene, ma certa e autentica, di tante figure misteriose che formano un labirinto ancora più complicato, e più oscuro di quello da cui Arianna tempo addietro, diede a Teseo il mezzo per uscire. – Inoltre, non è questa l’unica ragione dell’idea così generalmente diffusa, alla quale abbiamo accennato sopra? Dico di questa idea che ritiene l’Apocalisse una logografia incomprensibile e indecifrabile, per non dire altro, una specie di rebus che può servire tutt’al più ad esercitare l’immaginazione degli oziosi, i quali, non avendo nulla da fare nel mondo finché dura, pretendono almeno di insegnargli quando e come finirà: creatori chimerici di interpretazioni ancora più chimeriche. Ma ora chiedo a tutti coloro che credono nell’ispirazione delle nostre sacre Scritture: è possibile che questa fosse la vera e reale condizione di un libro di cui Dio stesso era l’autore, e che ha dato, come tutti gli altri, alla sua Chiesa come mezzo per insegnare, convincere, correggere e istruire, secondo le parole di San Paolo a Timoteo: Omnis scriptura utilis ad docendum, ad arguendum, ad erudiendum in justitia? Certamente, porre la questione in questi termini è già risolverla, e immagino che coloro che parlano dell’incomprensibilità senza speranza dell’Apocalisse, difficilmente potranno fare a meno di vedere qui tutto ciò che l’ipotesi conterrebbe di non plausibile, o meglio, inammissibile. Che questa sia la prima indicazione che essi possono sbagliarsi sul vero oggetto della profezia di San Giovanni, e che la collocano molto male in un futuro dove i fatti della storia non dovrebbero mai servire a trovare il filo di tanti oracoli, la maggior parte dei quali sono così disparati e oscuri, e dove non ci sarebbe spazio per nient’altro che interpretazioni oziose, appoggiate su nessun fondamento oggettivo fermo e sicuro. Ma, ripeto, questa è solo un’osservazione preliminare, e sarà valida solo, se si vuole, contro gli avversari, come pura e semplice presunzione. Veniamo ora ad argomenti più attuali, e cominciamo a stabilirne la base, quella base solida che, come è stato appena detto, mancherà sempre a chiunque si lanci nell’esegesi apocalittica sulla base del solo testo, indipendentemente da qualsiasi direzione o informazione tratta dalle fonti della storia.

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Se ripercorriamo i grandi eventi della storia dai tempi di San Giovanni a Patmos fino ai nostri tempi moderni, non ne troveremo certamente nessuno che eguagli in importanza e portata il crollo dell’Impero Romano, sotto i colpi duplici dei Barbari all’inizio del quinto secolo, e della decomposizione che, seguitane, portò infine, contro ogni aspettativa, alla formazione dei vari regni della cristianità, emersi uno dopo l’altro da questo immenso caos. Sia che si prenda il punto di vista dello storico, sia che si risalga con il teologo alle ragioni ultime delle cose, da entrambe le parti si arriva alla stessa conclusione, quella di un evento assolutamente ineguagliabile. Per lo storico, sarà la scomparsa definitiva della civiltà antica, che lascia il posto ad una civiltà completamente nuova, cioè ad uno stato sociale regolato d’ora in poi secondo i principi e le leggi del Vangelo. Per il teologo, sarà la sorprendente realizzazione delle linee principali del del piano divino, così a lungo segnato nelle antiche profezie, e specialmente in quella di Daniele, sulla successione degli imperi, quando il colosso che era apparso in sogno a Nabucodonosor, “fu ridotto alla polvere sottile che il vento estivo porta via“, e « la pietra che aveva colpito la statua divenne una grande montagna, e riempì tutta la terra. » Ebbene, è questo fatto, immenso, il più vasto, il più fecondo della storia, che, alla luce della storia stessa, la troveremo predetta nell’Apocalisse, e con tale chiarezza, tale abbondanza di prove, tale precisione di dettagli, che sarà impossibile per il più cieco non riconoscerla. È l’evento “maestro” che occupa il posto principale nella profezia di San Giovanni, che ne dà anche la chiave, ne indica il significato, e dal punto centrale in cui è collocato, getta luce su tutto il seguito, in modo sufficiente, almeno, che nessun dubbio possa rimanere sul vero e proprio oggetto delle predizioni apocalittiche. – Apriamo dunque questa misteriosa Apocalisse nei capitoli XVII e XVIII, che sono precisamente il punto centrale da cui abbiamo detto che la luce deve venire, e vediamo lì, in primissimo luogo, presentata sotto il nome mistico di Babilonia, Roma imperiale, la Roma dea della terra e delle nazioni, la madre dell’idolatria e la persecutrice dei santi. Siamo nel punto della visione in cui sette angeli hanno appena ricevuto sette coppe piene dell’ira di Dio, con l’ordine di versarle sulla terra (XVI, 1). Dio si è ricordato della grande Babilonia, che ha fatto bere a tutti i popoli il vino del furore della sua prostituzione (XVI, 8), e ora le darà da bere il vino dello sdegno della sua ira (XVI, 19). È allora che uno dei sette Angeli si avvicina a San Giovanni e gli dice (XVII, 1 sqq.): Vieni, ti mostrerò la condanna della grande prostituta che siede sulle grandi acque, con la quale si sono corrotti i re della terra… E vidi – continua San Giovanni – una donna seduta su una bestia di colore scarlatto, piena di nomi blasfemi, che aveva sette teste e dieci corna. E la donna era vestita di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle, e aveva in mano un vaso d’oro pieno dell’abominio e dell’impurità della sua fornicazione. E questo nome era scritto sulla sua fronte: Mistero: la grande Babilonia, la madre della fornicazione e delle abominazioni della terra. E vidi la donna inebriata del sangue dei Santi e del sangue dei martiri di Gesù… Allora l’Angelo mi disse: Ti svelerò il mistero della donna e della bestia che la porta, che ha sette teste e dieci corna… Le sette teste sono sette montagne (o colline) su cui la donna siede… E la donna che hai visto è la grande città che regna sui re della terra. Certamente, ecco ciò che sembrerebbe non dare adito ad equivoci, poiché in caratteristiche così marcate, chi non riconoscerebbe nella mistica Babilonia, la cui immagine ci viene qui presentata, la Roma del paganesimo? San Giovanni, osserva Bossuet nella sua prefazione, le dà due caratteri che non permettono di disconoscerla. Perché in primo luogo (XVII, versetto 9), è la città dei sette colli (una caratteristica topografica universalmente accettata come caratteristica di Roma); e in secondo luogo (versetto 18), è la grande città che comanda tutti i re della terra (un altro carattere, di natura politica, che al tempo di San Giovanni era ancora più evidente, e più certo). Se essa è rappresentata anche sotto la figura di una prostituta (verso 1), riconosciamo lo stile ordinario della Scrittura, che contrassegna l’idolatria con la prostituzione. Se si dice di questa superba città fosse la madre delle impurità e delle abominazioni della terra (verso 5), è il culto dei suoi falsi dei, che ha cercato di stabilire con tutta la potenza del suo impero, ad esserne la causa. La porpora di cui appare vestita (versetto) era il distintivo dei suoi imperatori e magistrati; l’oro e i gioielli di cui è ricoperta (ibid.) mostrano la sua immensa ricchezza. La parola Mistero che porta scritta sulla sua fronte (versetto 5), non ci indica nulla di più che gli empi misteri del paganesimo, di cui si era fatta la protettrice. Gli altri segni della bestia e della prostituta che essa porta sono visibilmente della stessa natura, e San Giovanni ci mostra molto chiaramente le persecuzioni che ha fatto subire alla Chiesa, quando dice che era ubriaca del sangue dei martiri di Gesù (versetto 6). » È quindi un enigma molto facile da decifrare, Roma sotto la figura di Babilonia (versetto 5). E sarà molto più facile ancora, quando si considererà che già da tempo si era stabilito nella Chiesa l’uso di riferirsi all’una con il nome dell’altra, come è perentoriamente provato dal noto passaggio di San Pietro nella sua prima Epistola: La Chiesa che è in Babilonia, cioè a Roma, ti saluta (l Petr., V, 13). Così vediamo i medesimi interpreti razionalisti, ed i più inflessibili, arrendersi a tanti segni così convergenti e così precisi; li vediamo, dico, presi in questo ambito, come per la gola, e costretti a pronunciare questo nome di Roma, che, se posso dirlo, dovrebbe strangolarli, perché equivale al riconoscimento di una delle profezie più splendide e sorprendenti dei nostri libri sacri. Infatti, qui, prima di tutto, la descrizione della grande Babilonia è seguita in San Giovanni dalla predizione del suo castigo e della sua caduta, che si è poi verificata di fronte all’universo. Questo è il soggetto del capitolo XVIII, dove troviamo i primi grandi tratti della profezia in questione e questo quando l’impero era nella sua piena fioritura, e non mostrava ancora alcun segno di decadenza, ma al contrario, la credenza nella sua perennità era così saldamente radicata nella mente degli uomini, che sia i Cristiani che i pagani, come vedremo in seguito, non le assegnavano meno che la durata del mondo: proprio allora, più di tre secoli prima dell’evento, fu rivelato a San Giovanni, e tramite lui alla Chiesa, che il colosso sarebbe caduto. – Poi, a Patmos, fu dipinto il quadro di ciò che realmente accadde sotto Alarico, quando, assediata, presa, saccheggiata, devastata dal ferro e dal fuoco, l’antica Roma ricevette il colpo fatale dal quale non si sarebbe più rialzata, e, come leggiamo in tutti gli autori contemporanei, San Girolamo, Sant’Agostino, Paolo Orose e tanti altri, il mondo intero fu terrorizzato alla vista della sua desolazione. Dopo questo – continua San Giovanni – vidi un altro Angelo che scendeva dal cielo con grande potenza. E gridò con tutta la sua forza, dicendo: La grande Babilonia è caduta, è caduta ed è diventata una dimora di demoni, una dimora di ogni spirito immondo, una dimora di ogni uccello immondo e ripugnante… E udii un’altra voce dal cielo, che diceva: “Uscite da Babilonia, popolo mio, cosicché non siate partecipi dei suoi peccati e non siate avvolti dalla sua calamità… E i re della terra, che si sono corrotti con essa, piangeranno su di lei e si batteranno il petto quando vedranno il fumo del suo incendio. Ed essi le staranno lontani, dicendo: Guai! Guai! Babilonia, grande città, potente città, la tua condanna è giunta in questo momento. E i mercanti della terra piangeranno e si lamenteranno per lei, perché nessuno comprerà più la loro merce, queste mercanzie d’oro e d’argento, di gioielli e di perle, di lino fine, di porpora, di seta, di scarlatto ed ogni sorta di legno profumato, e mobili d’avorio, di ottone, di ferro, di marmo, di cannella, di profumi, d’incenso, di vino, d’olio, di fior di farina, di frumento, di bestie da soma, di cavalli e di carri, schiavi, e di anime di uomini… Allora un Angelo forte alzò una pietra come una grande macina e la gettò nel mare, dicendo: “Babilonia, la grande città, sarà precipitata … E in quella città fu trovato il sangue dei profeti e dei Santi e di tutti quelli che furono uccisi sulla terra. Questo è l’annuncio profetico che fu ripreso trecento anni dopo dalle parole di San Girolamo, il quale, ricevendo a Betlemme la fulminante notizia dell’immenso disastro, scrisse che « la lucedell’universo si era spenta, la testa dell’impero romano tagliata, o, per parlare più precisamente, l’intero universo rovesciato in una sola città (Lib. 1 in Ezech., Proœm. 1) ».

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Ma questo non è ancora il punto forte della profezia; né, si noti, è il punto forte della nostra dimostrazione. Inoltre, non ignoriamo che, per quanto precisi siano i caratteri che ci sono appena serviti ad identificare la Babilonia apocalittica, e di conseguenza a riconoscere, nell’annuncio della sua rovina, l’annuncio del grande evento che ha segnato nella storia gli inizi del Medioevo, non mancano menti più esigenti, alle quali non possono ancora bastare i nostri precedenti argomenti, e che vogliono vedere nella detta Babilonia, piuttosto che la Roma dei Cesari, un’entità collettiva e morale senza alcuna particolare determinazione, come sarebbe la società anticristiana in generale, altrimenti detta « la città degli uomini contrapposta alla città di Dio », il cui definitivo rovesciamento non è che da attendersi se non solo alla fine dei tempi. Ecco perché ora dobbiamo andare oltre, e portare alla luce il luogo della profezia fatto per forzare la convinzione dei più ostinati, e allontanare i rimasugli delle loro esitazioni: il luogo, dico, dove le cose sono così determinate, talmente particolarizzate, talmente circostanziate, più che il nome stesso dell’antica Roma, e ove in tutte le sue lettere vi si vedrebbe scritto che non vi potrebbe essere un’indicazione più chiara, né un’informazione più sicura. Questo luogo è quello che si interpone tra i due passaggi riportati sopra, e che, seguendo la descrizione della grande prostituta, o Babilonia mistica, precede e prepara il quadro già presentato del suo rovesciamento e della sua caduta. – Un Angelo spiega a San Giovanni (XVII, 7) il mistero della prostituta e della bestia con sette teste e dieci corna su cui essa siede: simboli entrambi – come il contesto chiarisce – di una stessa cosa, che diciamo essere la Roma idolatra ed il suo impero (« … la bestia e la donna – osserva Bossuet nel commento al capitolo XVII – sono fondamentalmente una stessa cosa… Ecco perché la bestia è rappresentata come colei che ha sette colli (versetto 9), e la donna è la grande città che domina sui re della terra (versetto 18). L’una e l’altra è dunque Roma, ma la donna è più adatta a marcare la prostituzione, che è nelle Scritture il carattere dell’idolatria. » A questo possiamo aggiungere che ogni volta che appare nell’Apocalisse una figura cavalcante, il cavalcato e la figura insieme rappresentano la stessa cosa; come per esempio nel capitolo VI, il cavallo rosso, il cavallo nero ed il cavallo pallido, ciascuno con colui che lo cavalca, rappresentano rispettivamente la guerra, la carestia e la pestilenza. E nello stesso capitolo VI, come più avanti nel capitolo XIX, il cavallo bianco con il suo cavaliere rappresenta un oggetto unico, che è Gesù Cristo vittorioso. Unico quindi sarà anche l’oggetto del mistero della donna e della bestia su cui è seduta). Nella spiegazione che dà, l’Angelo istruttore  passa in rassegna successivamente le varie parti della misteriosa figura, e finalmente fermandosi sulle dieci corna della bestia, continua: « Le dieci corna che hai visto sono dieci re che non hanno ancora ricevuto il loro regno, ma che riceveranno come re, il potere nella stessa ora appresso alla bestia. Questi hanno uno stesso disegno, e daranno la loro forza e il loro potere alla bestia. Essi combatteranno contro l’Agnello, ma l’Agnello li vincerà, perché Egli è il Signore dei signori, e quelli che sono con Lui sono i chiamati, gli eletti e i fedeli. Ed egli (l’Angelo) mi disse ancora: “Le dieci corna che hai visto nella bestia, queste sono quelle che odieranno la prostituta; e la ridurranno all’estrema desolazione, la spoglieranno, ne divoreranno la carne, e la faranno bruciare al fuoco. Perché Dio ha messo nei loro cuori di fare ciò che a Lui piace, di dare la loro regalità alla bestia finché le parole di Dio non siano compiute. E la donna che hai visto è la grande città che domina sui re della terra” (XVII, 12-18) ». Ecco, ancora una volta, il passaggio essenziale in cui crediamo sia contenuto il chiaro epilogo della profezia, e sul quale dobbiamo quindi richiamare l’attenzione del lettore. E prima di tutto, ciò che appare a prima vista, è che i re in questione sono gli esecutori della vendetta divina contro la grande Babilonia rappresentata dalla prostituta e dalla bestia che la porta: esecutori che sono stati incaricati di distruggerla, e che la distruggeranno davvero, secondo quanto è scritto nella seconda metà del brano citato, ai versetti 16 e 17: odieranno la prostituta, la ridurranno all’ultima desolazione, divoreranno la sua carne, perché Dio ha messo nei loro cuori di eseguire ciò che gli piace. Certamente, non si può immaginare nulla di più esplicito, e qui certamente ogni commento sarebbe superfluo. – Ma notiamo ora le peculiarità di questi re distruttivi e i caratteri con cui ci vengono presentati. Quattro cose sono da notare. In primo luogo, la profezia li conta come dieci, decem reges sunt (versetto 12), e se questo deve essere inteso come un numero preciso, o piuttosto come un numero tondo e approssimativo, sarà sempre un numero considerevole per i re, specialmente per dei re che, sebbene indipendenti l’uno dall’altro, agiscono come se fossero in concerto, contro lo stesso nemico e nell’unità dello stesso scopo. In secondo luogo, una circostanza ancor più singolare e notevole: tutti e dieci sono dei re senza regno, qui regnum nondum acceperunt, e dovono entrare contemporaneamente, e solo dopo che la bestia sia abbattura, nel pieno possesso del potere reale, sed potestatem tamquam reges una hora accipient post bestiam (versetto 12). – In terzo luogo, e questo diventa un vero enigma di cui non si sa come accordare i dati, tanto sembrerebbero essere contraddittori; questi stessi re che ridurranno la bestia all’ultima desolazione, che divoreranno la sua carne, e sono quindi i suoi nemici implacabili, sono tuttavia presentati come essere le corna, e di conseguenza, le difese della bestia stessa; inoltre, secondo quanto è espressamente segnato, come dando ad essa, la bestia, la loro forza e la loro potenza, et virtutem et potestatem suam bestiæ tradent (versetto. 13). – In quarto ed ultimo luogo, come se tutto ciò non bastasse, questi re, ministri delle alte opere di Dio « che ha messo nei loro cuori di fare ciò che a Lui piace », si dice tuttavia che dovranno combattere contro Dio stesso, o, che è la stessa cosa, contro l’Agnello, che tuttavia li vincerà, perché Egli è il Re dei re ed il Signore dei signori, e quelli che sono con Lui sono i chiamati, gli eletti e i fedeli; cum Agno pugnabunt, et Agnus vincet illos, quoniam dominas dominorum est, el qui cum Me sunt, vocati, fidèles et electi (versetto. 14). Chi non vede che si cercherebbe invano di penetrare, con le sole risorse del testo, il mistero di una complicazione così straordinaria? Ma chi può non vedere che se la storia del passato ci presentasse da qualche parte un gruppo di eventi e di cose a cui il quadro che abbiamo appena visto è applicabile punto per punto, e in tutta l’ampiezza del quadro, non meno che nel dettaglio dei particolari più caratteristici, ci sarebbe in questo solo fatto, insieme alla prova dell’origine divina della profezia, l’indizio certo e indubitabile di quale sia il suo vero oggetto? Ebbene allora! Ecco ora, con la storia alla mano, la prova della piena realizzazione dell’ipotesi: ecco, io dico, il quadro che abbiamo appena visto, che si applica efficacemente, punto per punto, in tutta la sua estensione, fino al dettaglio delle particolarità più singolari, e con la precisione più sorprendente, a tutto quell’insieme di eventi e di cose che riempirono l’epoca notevole tra tutte le altre, della distruzione di Roma antica, dello smembramento del suo impero, e della posa delle prime fondamenta di quello che fu poi chiamato l’edificio politico della cristianità. Per giustificare questa affermazione, basterà presentare un riassunto della glossa di Bossuet sul passo che ci occupa, che unita a tutto ciò che ha già preceduto, costituirà, se non ci sbagliamo, la più convincente delle dimostrazioni (Bossuet, l’Apocalypse con una spiegazione, cap. XVII, spiegazione della seconda parte, 1).

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Si tratta dunque di dieci re, esecutori, ripetiamolo, delle alte opere di Dio contro la grande città, madre degli abomini della terra. Decem reges sunt. Dieci re! Questo è già molto suggestivo, perché a questo numero considerevole di capi di popoli venuti da vari punti per abbattere un grande impero e stabilirsi nelle sue terre, il pensiero si riferisce al tempo dell’invasione dei barbari, e che ci piaccia o no, pensiamo subito a coloro che hanno rovinato Roma e rovesciato il suo potere, soprattutto in Occidente. Allora, infatti, si sono visti apparire, quasi contemporaneamente, i Vandali, gli Unni, i Franchi, i Burgundi, i Suebi, gli Alani, gli Eruli, i Longobardi, i Germani, i Sassoni, e più di tutti questi, i Goti, che furono i principali distruttori dell’impero. Inoltre, non c’è nulla che forzi a tormentarci nel ridurli precisamente al numero di dieci, anche se potrebbero essere ridotti a quel numero in relazione ai regni fissi che essi vi stabilirono. Ma uno dei segreti dell’interpretazione dei profeti è di non cercare finezze dove non ce ne sono, e di non perdersi in minuzie quando si trovano grandi personaggi che colpiscono l’occhio fin dall’inizio. Qui, senza bisogno di ulteriori dettagli, c’è un carattere piuttosto notevole, che da un solo impero si formino tanti grandi regni, in varie province della Spagna, in Africa, nella Gallia celtica, nell’Aquitania, nella Sequania, nella Gran Britannia, nell’Italia e altrove, e che l’impero romano sia abbattuto alla sua fonte, cioè nell’Occidente dove è nato, non da un solo principe che comanda in capo, come accade di solito, ma dall’inondazione di tanti nemici che agiscono tutti indipendentemente gli uni dagli altri. Ma andiamo sempre avanti. Questi re, che smembrarono l’Impero romano, hanno nella storia caratteri ben marcati e ben determinati. Passiamo dunque in rassegna quelli che, da parte sua, la profezia di San Giovanni attribuisce ai dieci re distruttori della grande Babilonia, confrontiamoli e vediamo se corrispondono. In primo luogo, c’è un carattere per i dieci re di San Giovanni, che consiste, come abbiamo detto, nel fatto che al momento della loro prima apparizione non avevano ancora ricevuto il loro regno, qui regnum nondum acceperunt. Ora, apro la storia, e mi chiedo se sarebbe stato possibile caratterizzare meglio la condizione di questi avventurieri, di questi capi barbari, che vediamo arrivare nei secoli IV e V sulle terre dell’Impero. Certamente, quando sono arrivati lì, non avevano ancora alcun possesso. Così, il regno che dovevano stabilire lì, non era ancora dato loro, e doveva essere effettivamente dato solo dopo la sconfitta della bestia, secondo ciò che è segnato dalle parole che seguono in San Giovanni: sed potestatem tanquam reges accipient post besitam. Ma c’è di più, perché non solo non avevano ancora alcun possesso nell’Impero, ma né nell’Impero né altrove avevano un dominio fisso. Le regioni dove intendevano stabilirsi con il loro popolo dovevano essere conquistate, ed è con grande precisione che Bossuet osserva: « I re in questione non sono re come gli altri, che cercano di fare conquiste per allargare il loro regno. Sono tutti re senza regno, o almeno senza una sede determinata del loro dominio, che cercano di stabilirsi in un paese più conveniente di quello che hanno lasciato. Non ci sono mai stati tanti re di questo carattere come durante la decadenza dell’Impero Romano, e questo è già un carattere molto particolare di quell’epoca, ma gli altri sono molto più sorprendenti. » Molto più sorprendente, infatti, è quello che San Giovanni assegna al secondo posto, e che abbiamo detto prima essere completamente intellegibile: … ed essi metteranno la loro forza e la loro potenza al servizio della bestia: et virtutem et potentiam suam bestiæ tradent. Ma come? Al servizio della bestia, proprio coloro che la profezia ci dà come suscitati da Dio per farla a pezzi e divorarla? Cos’è dunque questo mistero, e chi potrebbe conciliare cose così contrastanti? Ebbene, anche qui non dobbiamo preoccuparci di cercare, perché la storia ci libera da questa preoccupazione e ci dà la chiave dell’enigma mostrandoci gli eserciti di questi re, ricevuti all’inizio al soldo di Roma e nell’alleanza dei suoi imperatori. … « È il secondo carattere di questi re distruttivi di Roma – continua Bossuet – ed il segno dell’avvicinarsi della decadenza di quella città, una volta così trionfante, per trovarsi infine ridotta a un tale punto di debolezza, che non essa non poteva più comporre eserciti se non da queste truppe di barbari, né sostenere il suo Impero se non arruolando coloro che venivano ad invaderlo. » Questo periodo di debolezza è molto ben descritto in queste parole di Procopio: Allora la maestà dei principi romani era così indebolita, che dopo aver sofferto molto dai barbari, non trovò modo migliore per coprire la sua vergogna, che allearsi con i suoi nemici, ed abbandonare a loro anche l’Italia, sotto il titolo specioso di confederazione e alleanza … Oltre agli Alani e ai Goti, Procopio elenca anche gli Eruli e i Longobardi, i futuri padroni di Roma e dell’Italia, tra gli alleati dei Romani. Sotto Teodosio il Grande e i suoi figli, vediamo i Franchi nostri antenati avere un rango considerevole nell’armata romana sotto Arbogasto il loro capo, che poteva fare tutto nell’Impero. Gli alani e gli unni servirono contro Radagasio nell’esercito di Onorio, sotto la guida di Stilicone… I Franchi, i Burgundi, i Sassoni, i Goti sono nell’esercito di Ezio, generale romano, al rango di truppe ausiliarie contro Attila. E per attaccarci ai Goti ai quali appartiene principalmente o la gloria o il disonore di aver sconfitto Roma, li vediamo negli eserciti di Costantino, di Giuliano l’Apostata, di Teodosio il Grande, di suo figlio Arcadio… – Era dunque verissimo che Roma, in un certo tempo segnato da Dio, doveva essere sostenuta da coloro che alla fine l’avrebbero distrutta. E tutto questo è l’adempimento della profezia di San Giovanni sui dieci re: Et virtutem et potentiam suam bestiæ tradent. – Ma ecco un ultimo carattere che, chiaramente marcato in San Giovanni, è anche il più evidente nella storia, e sempre nella persona di questi stessi barbari, nemici giurati di Roma, che venivano a saccheggiare, depredare e devastare, e che finivano per stabilirsi nelle terre dell’Impero distrutto. Combatteranno contro l’Agnello, ma l’Agnello li vincerà: cum Agno pugnabunt, et Agnus vincet eos. E come combatteranno contro l’Agnello? In quanto tutti loro saranno dapprima idolatri; poi, in parte, infettati dall’arianesimo; spesso anche crudeli persecutori. Come, al contrario, saranno superati da Lui? In quanto alla fine diventeranno tutti Cristiani, tutti Cattolici, come i Goti in Spagna, i Franchi e i Burgundi in Gallia e Germania, i Longobardi in Italia, i Sassoni in Inghilterra, gli Unni in Ungheria. Perché tale fu la bella, magnifica, splendida vittoria che era opportuno che l’Agnello riportasse su di loro: ben diversa da quella descritta più avanti (XIX, 11-21), dove vediamo il Fedele e Verace che cavalca sul cavallo bianco, con occhi come una fiamma di fuoco, vestito di una veste macchiata di sangue, avendo in bocca una spada a due tagli, armata per il giudizio, la sconfitta e lo sterminio degli empi. Qui, al contrario, è l’Agnello mite, che senza dubbio ha nella sua faretra frecce affilate per trafiggere i suoi nemici e far cadere i popoli ai suoi piedi (Sal. XLIV, 6), ma frecce d’amore che cambiano i nemici in amici, e ne fanno, come dice espressamente San Giovanni qui (versetto 14), i chiamati, gli eletti e i fedeli: et qui cum eo sunt, vocati, fidèles, et electi (Si veda, specialmente questo passo, la spiegazione di un Commento all’Apocalisse attribuito a Sant’Ambrogio. Migne P. L., t. XVII, col. 914 e 915). –  Concludiamo, dunque, che non c’è dubbio che l’oracolo di San Giovanni sulla grande Babilonia avesse davvero per oggetto la caduta dell’antica Roma, pagana e idolatra: dell’antica Roma, dico, che anche dopo che Costantino vi aveva eretto il vessillo della croce, nonostante la grande e gloriosa Chiesa cristiana che aveva in seno, nonostante l’esempio e le difese dei suoi ultimi imperatori, era tuttavia rimasta la prostituta che la profezia ci presenta: sempre attaccata ai suoi vecchi dei, sempre sospirando “dietro a questi amanti impuri“, sempre pronta a darsi a loro alla prima occasione, come apparve sotto Giuliano l’Apostata, sempre protestando contro l’interdetto lanciato sui templi dei suoi idoli, come si vide sotto Teodosio, per esempio, nelle sollecitazioni del Senato per il ripristino dell’altare della Vittoria. (Si vedi su questo argomento la lettera di Sant’Ambrogio all’imperatore Valentiniano. Migne, P, L., t. XVI, col. 961 sqq., e la risposta dello stesso al rapporto di Symmaco, prefetto di Roma, Ibid. 9 col. 971 sqq.), e fino al tempo stesso di Alarico, nelle violente recriminazioni di tutti diffuse e vigorosamente confutate da Sant’Agostino nella sua Città di Dio, che attribuivano all’abbandono dell’antico culto tutte le sventure dell’impero (Orosio, Hist., 1. VII, c. 37. Migne, P. L. xxxi, col. 1159).1). Concludiamo che questa caduta definitiva di Roma pagana, preludio necessario all’instaurazione del regno sociale di Gesù Cristo e della sua Chiesa nel mondo, è il grande e memorabile evento che San Giovanni aveva principalmente in vista: dal che segue, per naturale conseguenza, che è anche ciò che deve servire da chiave a tutto il resto della profezia, sia in ciò che precede che in ciò che segue.

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E prima di tutto in ciò che precede. Perché tutto ciò che precede, dal luogo in cui iniziano le predizioni apocalittiche, ha una stretta connessione con ciò che abbiamo appena visto riguardo alla condanna e all’esecuzione della grande Babilonia, ed è per questo grande fatto, secondo la felice comparazione di Bossuet, ciò che il corpo di un poema è per la catastrofe che lo finisce e lo dispiega. Di questo non vedrei altra prova, se ce ne fosse bisogno, che la visione che apre il capitolo VI, e che ritorna di nuovo alla fine del capitolo XIX, come per racchiudere nel contesto dello stesso quadro e nell’unità dello stesso dramma, tutta la serie di visioni interposte. All’inizio del capitolo VI, in capo a tutte le visioni del futuro, subito dopo l’apertura del primo sigillo, subito dopo l’apertura del primo sigillo, appare un misterioso cavaliere montato su un cavallo bianco, come quello che avevano i vincitori nel giorno del loro ingresso e trionfo: Guardai, dice San Giovanni (VI, 2), e vidi un cavallo bianco; e Colui che vi sedeva sopra aveva un arco, e gli fu data una corona, e se ne partì come un conquistatore che va a riportare vittorie su vittorie. Et exivit vincens ut, vinceret. Questo misterioso cavaliere è evidentemente Gesù Cristo stesso, che ha già vinto la morte nella sua gloriosa risurrezione, e che è qui rappresentato nell’atto di partire per nuove vittorie, che, naturalmente, non possono essere che vittorie sull’inferno ed i suoi sostenitori, che cospirano per impedire con tutti i mezzi in loro potere l’instaurazione definitiva ed universale del regno di Dio, cioè della Chiesa, nel mondo. Quali saranno allora le visioni che seguiranno, se non tante immagini profetiche dei mezzi provvidenziali da usare per questo stabilimento e trionfo del Cristianesimo, delle sanguinose persecuzioni da subire, dei formidabili ostacoli da superare prima che questo possa essere realizzato, dei vari tipi di avversari da ridurre, e anche dei terribili giudizi che Dio eserciterà sui suoi nemici per l’esecuzione del suo piano? Ecco, dunque, gli oracoli successivi dei sette sigilli, delle sette trombe, delle sette coppe, dei tre “vae” o guai. Ecco la bestia che appare dal capitolo XIII, e prima con le sue sette teste e dieci corna, più tardi (capitoli XIV, XVI) sotto il nome mistico di grande Babilonia; più tardi ancora (capitolo XVII) come un tutt’uno con la prostituta opulenta e crudele, madre degli abomini della terra. Ecco il suo giudizio, la sua condanna, il suo castigo, il suo rovesciamento, che getta il mondo intero, come è stato detto, nella costernazione. Ecco ora, a titolo di epilogo (XIX, 1-8), l’inno di lode che i Santi del cielo cantano a Dio per questa grande opera della sua giustizia, della sua potenza e della sua mirabile provvidenza sulla Chiesa. E infine, per chiudere l’insieme di queste grandiose e terribili scene, la riapparizione del cavaliere che era apparso per la prima volta al levarsi del sipario: “Poi vidi – aggiunge San Giovanni (XIX, 11-16) – il cielo aperto, e apparve un cavallo bianco; e colui che vi sedeva sopra era chiamato il Fedele e Verace che giudica e combatte con giustizia. I suoi occhi erano come una fiamma di fuoco… Era vestito con una veste tinta di sangue, ed è chiamato il Verbo di Dio. E gli eserciti che sono nei cieli lo seguivano su cavalli bianchi, vestiti di puro lino bianco. E dalla sua bocca uscì una spada a doppio taglio per colpire le nazioniE vidi la bestia e i re della terra e i loro eserciti riuniti per fare guerra contro Colui che sedeva sul cavallo e contro il suo esercito. Ma la bestia fu presa… e gettata nello stagno di fuoco e zolfo. Naturalmente, sarebbe superfluo preoccuparsi di dimostrare più a lungo l’identità del cavaliere presentato qui con quello di prima, poiché è ovvio che, in entrambi i casi, si tratta di uno stesso personaggio, e che questo personaggio è Gesù Cristo. Con questa differenza, però, che all’inizio fu mostrato nell’atto di intraprendere la spedizione, e come nell’abito del guerriero che va alla battaglia, invece ora riappare di nuovo, essendo ancora, se posso esprimermi così, in tutta la foga della lotta, e con i segni sanguinosi della carneficina, ma una volta finiti lotta e carneficina, e nell’atto di consumare la vittoria. In questo modo, tutta la parte dell’Apocalisse che si estende dal capitolo VI al capitolo XIX compreso, ci presenta una raccolta compatta di fatti, eventi e cose, che culmina infine nell’esecuzione della bestia, cioè nel rovesciamento dell’antica Roma, come il termine in cui si compie ciò che San Giovanni aveva in vista, cioè: Gesù Cristo vittorioso, la sua Religione trionfante sugli ostacoli umanamente insormontabili che si opponevano al suo solido e definitivo stabilimento, ormai in grado di prendere nel mondo l’alta direzione degli affari; in una parola, satana espropriato, gettato fuori, e l’idolatria abbattuta con l’impero che la sosteneva. Questo – conclude Bossuet – è ciò che San Giovanni celebra nell’Apocalisse; è qui che ci conduce attraverso una serie di eventi che durano più di trecento anni, ed è qui che finisce finalmente la parte principale della sua predizione – (Così, la prima e principale parte delle predizioni apocalittiche avrebbe già ricevuto, e per molto tempo, almeno per quanto riguarda il suo primo e immediato significato, un pieno e completo compimento. Questo assicurerebbe all’esegeta, nei dati della storia del secondo, terzo e quarto secolo, la più sicura regola di interpretazione. Per segnalare qui, a grandi linee, solo le cose più sorprendenti: in questa luce della storia possiamo vedere in primo luogo, nei capitoli VII e VIII, la vendetta divina, che cade prima sui Giudei, così come poi sui primi autori o istigatori delle persecuzioni contro la Chiesa; Questa vendetta fu sospesa per un momento a favore dei dodicimila segnati di ciascuna delle dodici tribù, che dovevano essere separati dal resto della nazione, ma fu presto nuovamente scatenata, terribile e inesorabile, sotto Traiano e soprattutto sotto Adriano, su quegli sfortunati resti di Israele che la rovina di Gerusalemme sotto Tito aveva risparmiato. Poi nel capitolo IX vediamo, nelle locuste mistiche che escono dal pozzo dell’abisso, un altro tipo di nemico infinitamente più pericoloso, dal quale anche la Chiesa ai suoi inizi doveva trionfare: cioè le prime eresie, la maggior parte delle quali nascevano da opinioni giudaiche, e per questo sono legate nella profezia alle persecuzioni esercitate dagli stessi Giudei. Poi, con il capitolo XI, arriviamo alle persecuzioni romane, che San Giovanni riassume in quella di Diocleziano, la più lunga, la più violenta, la più crudele, la più universale di tutte, e che descrive con caratteri così precisi e particolari che, una volta conosciuta la chiave, ci sembra di vedere svolgersi dei quadri tratti dalla vita degli eventi. Ma più si va avanti, più i soggetti di sorpresa si moltiplicano. Il capitolo XIII ci mostra la bestia, cioè l’idolatria romana, ferita a morte dalla vittoria di Costantino, poi riportata in vita sotto Giuliano e, in questa sorta di resurrezione, ammirata come miracolosa, ricevente i servizi di un’altra bestia, nella quale riconosciamo la filosofia pitagorica, « … che sostenuta dalla magia, faceva concorrere i suoi ragionamenti più speciosi e i suoi prodigi più sorprendenti alla difesa dell’idolatria. » Il resto (XIV-XIX) è finalizzato direttamente al rovesciamento dell’Impero Romano come detto e spiegato sopra).  

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Ed ora, essendo il significato di questa prima e principale parte ben determinato e ben stabilito, il resto non può più fare alcuna difficoltà, perché il resto non è che la continuazione ed il completamento di ciò che precede. Il resto è il capitolo XX, dove San Giovanni, riprendendo la continuazione della sua profezia dalla caduta dell’Impero Romano, srotola la trama fino alla fine dei secoli. E infatti era naturale che, dopo aver descritto profeticamente il primo periodo della Chiesa, le sue prime lotte, le sue prime prove e quella che si potrebbe chiamare la sua prima presa di possesso del mondo, egli descrivesse anche il suo destino  nel corso successivo delle epoche. Eppure egli lo fa solo in modo estremamente sommario e, per così dire, in due o tre pennellate. È come un pittore che, dopo aver dipinto con colori vivaci quello che è il soggetto principale del suo quadro, traccia ancora in modo distante e confuso altre cose più lontane da questo oggetto. Tuttavia, qualunque sia l’indeterminatezza con cui lo Spirito di Dio si è compiaciuto di lasciare quest’ultimo schizzo del futuro, noi vediamo molto chiaramente e distintamente segnati in esso altri due tempi della Chiesa che vengono dopo il tempo dei suoi primi inizi: prima, il tempo del suo regno sulla terra (versetti 1-6), e poi il tempo della sua prova suprema e più terribile (versetti 7-10), immediatamente seguito dal giudizio universale di cui San Giovanni, in conclusione, ci dà (versetti 11-15), un’immagine in riduzione. Del regno della Chiesa sulla terra (che sarà anche, come è detto al versetto 4, il regno dei santi martiri, a causa della gloria da cui saranno circondati, dei grandi onori che saranno resi loro, e dei miracoli abbaglianti con cui Dio autorizzerà il loro potere presso di lui), solo una cosa ci è rivelata qui, che sarà relativamente lungo e tranquillo. Relativamente lungo, come si vede dai mille anni attribuitigli dalla profezia, poiché questo numero, per quanto figurativo, non può ovviamente che rappresentare un periodo di durata considerevole. È anche relativamente tranquillo, come appare dall’incatenamento del drago, cioè di satana « … rinchiuso nell’abisso senza fondo, affinché non inganni più le nazioni, finché i mille anni siano compiuti. » Questo, però, deve essere inteso secondo l’ordine attuale della provvidenza, che non implica una totale esclusione dell’azione diabolica nel mondo, e tenendo conto di quel modo di parlare, frequente nella Scrittura, che consiste nel rappresentare una cosa, non tanto secondo ciò che è in sé, quanto secondo ciò che sembra essere in confronto ad un’altra. – Così ora dobbiamo vedere in questo incatenamento di satana un incatenamento relativo, cioè meritevole di questo nome solo in confronto alla libertà che gli era stata lasciata nei tempi antichi, e che gli aveva permesso di stabilire un’idolatria universalmente dominante, corrompendo tutta la terra, ovunque opprimendo e perseguitando i Cristiani. – Per quanto riguarda il tempo dell’ultima prova, che è il tempo dello scatenamento di satana e della persecuzione dell’anticristo, esso è descritto in meno di quattro versetti, ed in termini il cui significato sarebbe forse avventato, soprattutto riguardo a Gog e Magog, cercare di specificare ora. Lasciamo dunque al futuro il compito di sollevare qui il velo, e accontentiamoci di ciò che San Giovanni ha esplicitamente indicato, cioè che questa persecuzione suprema sarà breve (versetto 3), che sarà una persecuzione ancora più di seduzione che di violenza (versetto 7), e che sarà prontamente seguita dalla venuta del Giudice dei vivi e dei morti (versetto 11 e seguenti). Da tutto ciò che si è detto finora, dunque, risulta tutta la verità di ciò che dice Sant’Agostino nel libro XX della Città di Dio, cap. VIII, n. 1: che il tempo abbracciato dal libro dell’Apocalisse va dal primo avvento di Gesù Cristo alla fine del mondo, quando avrà luogo il secondo avvento. « Totum hoc tempus quod liber iste complectitur, a primo scilicet adventu Christi usque in sæculi finem quo erit secundus ejus adventus. » E da questo segue anche, per una necessaria conseguenza, la piena soluzione della prima delle due difficoltà proposte all’inizio di questo articolo, di quella che era presa da quæ oportet fieri cito: poiché si trattava di una lunga serie di eventi che si sarebbero susseguiti nel corso delle epoche, il significato di fieri cito non poteva essere che l’insieme delle predizioni si sarebbe presto realizzato, ma solo, come la natura delle cose indica abbondantemente, che l’inizio e il principio sarebbero presto arrivati. E infatti le predizioni apocalittiche riguardavano eventi che si sarebbero verificati dalla fine del regno di Domiziano – la data della rivelazione a San Giovanni – alla prima metà del quinto secolo, il tempo del crollo dell’Impero Romano, e più tardi, come è stato spiegato, alla fine dei tempi. Anche qui, dunque, l’esegesi modernista è sconfitta in tutte le sue pretese.

LA PARUSIA (10)

L’INFALLIBILITA’ DEL PAPA (I)

UNA LEZIONE DI CATECHISMO: L’INFALLIBILITÀ DEL PAPA (I)

H. MONTROUZIER. S. J.

[Lettera sul futuro Concilio ecumenico. In Rév. Des  Sc. Eccl. 3a SERIE, T. I.  — APRILE – 1870.]

I.

D- Che cos’è l’infallibilità del Papa?

R. È il privilegio per il quale, in virtù della perpetua assistenza divina, il Papa è assolutamente preservato da ogni errore, quando, nell’esercizio del suo ufficio di supremo pastore e dottore della Chiesa universale, insegna ai fedeli ciò che devono credere o praticare.

D. Come si dimostra l’esistenza di questo privilegio?

R. Lo dimostra l’idea stessa del primato che appartiene al Papa. È di fede, infatti, che il Romano Pontefice esercita il primato, cioè la suprema autorità dottrinale e disciplinare sulla Chiesa universale e su ogni Chiesa in particolare. Ora, come ha detto Mons. Dupanloup, un’autorità non può essere sovrana in materia di fede senza essere infallibile (Lettera sul futuro Concilio Ecumenico.). Così, in virtù del suo primato, il Papa è infallibile.  – Inoltre, la fede insegna che « Nostro Signore Gesù Cristo ha lasciato sulla terra un uomo che fosse il suo Vicario visibile e governasse la Chiesa come Capo Supremo, in modo che tutti i fedeli potessero ricorrere a Lui nelle loro rimostranze, e potessero ottenere una decisione definitiva riguardo alla vera dottrina, in modo da conservare una sola e medesima fede in tutta la Chiesa. Questo risultato non avrebbe potuto essere ottenuto se Dio non avesse stabilito un unico Capo e Giudice che decidesse tutte le controversie in modo infallibile, e al quale tutti devono sottomettersi… E San Cipriano ha espresso questo pensiero profondamente vero: che tutte le eresie e gli scismi sono sorti dal non obbedire al Sacerdote di Dio, e dal non considerare che quaggiù non c’è che uno solo che nella Chiesa sia Sacerdote e Giudice al posto di Gesù Cristo. (Epistol. 55 ad Cornel.) »  – Così pure parla S. Alfonso Liguori, che in diverse sue dotte opere ha solidamente stabilito la verità dell’infallibilità del Papa (Del Papa e del Concilio, etc, del R. P. Jules Jacques, p. 6. Per le citazioni di S. Liguori, mi riferirò d’ora in poi a questa preziosa raccolta che valse al suo autore un Breve molto espressivo).

D. Ma è davvero certo che il Salvatore abbia conferito a San Pietro l’infallibilità della fede?

R. Niente potrebbe essere più sicuro. Il Vangelo lo attesta in tre testi precisi: quando riporta il Tu es Petrus et super hanc petrametc. (Matth. XVI, 18); quando menziona la preghiera fatta da Nostro Signore Gesù Cristo per la stabilità della fede del suo Vicario, e allo stesso tempo l’ordine dato dal Salvatore a San Pietro di confermare i suoi fratelli nella fede: Et tu aliquando conversus confirma fratres tuos (Luc., XXII, 26) (È abbastanza usuale tradurre le parole di Nostro Signore et tu aliquando conversus con queste: e tu, quando ti sarai convertito, cioè, quando avrai ottenuto il perdono per la tua caduta. È molto più naturale invece tradurre: e tu, rivolgendoti ai tuoi fratelli, li confermerai nella fede. Questa interpretazione è più conforme al disegno del Salvatore e all’uso biblico, come un teologo moderno ha perfettamente dimostrato. Chi, per esempio, vorrebbe intendere da una conversione del cuore questo passo del salmo: Deus, tu CONVERSUS vivificabis nos? dobbiamo quindi concludere con questo teologo: “Cura itaque Christum audîmus ita Petrum compellantem: Ego rogavi pro te ut non deficeret fides tua, et tu aliquando conversus confirma fraires tuos: idem nobis esse débet ac si eum audiremus dicentem: Si cuti ego ad te conversus pro te rogavi, ne deficeret fides tua, ita et tu aliquando ad tuos fraires conversus (conversione non pœnitentiæ et luctus, sed tutelæ et protectionis), confirma illos,” (Caroli Passaglia commentarius de prœrogativis B. Petri, 1. 1, c. 13). Vedi anche il bel lavoro di P. Clement Schrader, de Unitate romana, p. 179 e seguenti, dove la stessa interpretazione è fermamente stabilita. L’erudito fr. Maldonat accetta questa interpretazione, e Cornelius a Lapide cita diversi SS. Padri che lo condividono); infine, quando parla dell’investitura data da Nostro Signore al suo Apostolo dell’ufficio di Pastore supremo: Pasce agnos, pasce oves (Joan. XXI, 16).

D. Come si dimostra che l’infallibilità del Papa è evidente da questo triplice testo del Vangelo?

R. Per l’impossibilità di capire 1°. che Pietro, essendo per la sua fede il fondamento della Chiesa, non possiede la fermezza che egli comunica a tutto l’edificio; 2°. che la preghiera del Salvatore è rimasta senza effetto; che Pietro possa ingannarsi, mentre è obbligato dal suo ufficio a confermare tutti quelli che vacillano o dubitano; 4°. e che non sappia discernere con perfetta certezza i pascoli sani da quelli avvelenati, a rischio di presentare alle sue pecore un cibo che dà loro la morte. – Ascoltate la spiegazione di San Francesco di Sales, che è qui in tutto e per tutto conforme alla Tradizione cattolica:

« Tutti sono tentati e non si prega solo per lui… Egli prega, dunque, per San Pietro, come per conferma e sostenitore degli altri… La verità è che questo comando a San Pietro di confermare i suoi fratelli (che senza dubbio rappresentavano tutta la Chiesa) non poteva essere dato se non fosse egli incaricato di prendersi cura della loro fede: perché come potrebbe essere messo in atto questo comando senza che gli sia dato il potere di prendersi cura della debolezza o della fermezza degli altri, per rafforzarli e rassicurarli? Non è forse il dirlo e ridirlo ancora, il fondamento della Chiesa? Se egli sostiene, se rassicura, se rafforza e se conferma anche le pietre fondamentali, come può non rafforzare tutto il resto? Se ha l’incarico di sostenere le colonne della Chiesa, come non sosterrà tutto il resto dell’edificio? Se ha l’incarico di pascere i pastori, non sarà egli stesso il pastore sovrano? Il giardiniere che vede i continui ardori del sole su una giovane pianta, per preservarla dalla siccità che la minaccia, non porta acqua ad ogni ramo? si accontenta di innaffiare e bagnare bene la radice e crede che tutto il resto sia sicuro, perché la radice disperde l’umidità al resto della pianta? Così Nostro Signore, avendo piantato questa santa assemblea dei suoi discepoli, pregò per il Capo, e innaffiò questa radice, affinché l’acqua della Fede viva non mancasse in colui che doveva dissetare tutto il resto, e perché attraverso il Capo la Fede fosse sempre conservata nella Chiesa, prega dunque per San Pietro in particolare, ma per il beneficio e l’utilità generale di tutta la Chiesa (Controversie, discorso 34) ». San Crisostomo chiama San Pietro Os Christi, perché parla per tutta la Chiesa e a tutta la Chiesa in qualità di capo e di pastore, e ciò che dice non è tanto una parola umana, quanto quella di Nostro Signore stesso. – Così ciò che San Pietro diceva e determinava non poteva essere falso; e in verità se il confermatore fosse caduto, non sarebbe crollato tutto il resto? Se il confermatore vacilla e barcolla, chi lo confermerà? Se il confermatore non è fermo e costante in se stesso, quando gli altri verranno meno, chi li rafforzerà? Sta scritto: Se il cieco guida il cieco, entrambi cadranno nella fossa; se l’instabile ed il debole vogliono sostenere e assicurare il debole, entrambi cadranno a terra, da cui segue che Nostro Signore, nel dare l’autorità e il comando a San Pietro di confermare gli altri, glene diede anche il potere ed i mezzi per farlo, altrimenti per nulla avrebbe ordinato una cosa impossibile. I mezzi necessari per confermare gli altri e rassicurare i deboli, è quello di non essere soggetti alla debolezza né al terrore, ma di essere solidi e fermi in se stessi come una vera pietra e come un re: e tale era questo santo Apostolo, come Pastore generale e governatore della Chiesa universale. « Così, quando San Pietro fu posto a fondamento della Chiesa cristiana, e alla Chiesa  fu assicurato che … le porte dell’inferno non avrebbero prevalso contro di essa, non era come dirci che San Pietro, come pietra fondamentale del governo e dell’amministrazione ecclesiastica, non avrebbe mai potuto essere sgretolato o rovesciato dall’infedeltà, che è la principale porta dell’inferno? Perché chi non sa che se le fondamenta sono rovesciate e minate, l’intero edificio cadrà? « Dopo tutto, se fosse possibile che il supremo Pastore ministeriale conduca le sue pecore in pascoli velenosi, è certo che l’intero parco sarebbe presto perso. Se il supremo Pastore ministeriale ci conducesse al male, chi rialzerebbe il gregge? Se si smarrisse, chi lo riporterebbe alla verità? Dobbiamo solo seguirlo, non lasciarlo, altrimenti le pecore sarebbero pastore (Controversie, discorso 48. L’espressione Pastore ministeriale usata da San Francesco di Sales non ha ovviamente nulla in comune con il caput ministeriale di Richer. Quest’ultimo considerava il Papa come deputato dalla Chiesa stessa ad essere il suo ministro; il santo Vescovo chiamava il Papa Pastore ministeriale solo per distinguerlo da Gesù Cristo, che è il Pastore invisibile che conferisce la loro missione a tutti gli altri Pontefici). »

D. L’infallibilità di San Pietro è stata ereditata da tutti i Pontefici Romani che gli sono succeduti?

R. Senza dubbio. Ascoltiamo di nuovo San Francesco di Sales: « Tutto questo non ha avuto luogo solo in San Pietro, ma nei suoi successori; poiché come rimane la causa, così rimane l’effetto. La Chiesa ha sempre bisogno di un confermatore permanente, al quale possiamo rivolgerci per trovare un fondamento solido, che le porte dell’inferno, e specialmente l’errore, non possano rovesciare: il suo Pastore non deve portare all’errore, né condurci al male. Solo i successori di San Pietro hanno questi privilegi, che non seguono la persona ma la dignità pubblica della persona. (Mgr. Mermillod ha constatato che la maggior parte delle edizioni francesi hanno indebolito il pensiero di San Francesco di Sales relativamente all’infallibilità pontificia).

II.

D. L’infallibilità del Papa può essere provata dalla Tradizione?

R. Certamente. I teologi, tra cui il famoso Thomassin, sottolineano che i primi otto Concili generali sono un riconoscimento impressionante dell’infallibilità del Papa. Bossuet stesso ha dimostrato solidamente contro Ellies Dupin che nei concili di Efeso e Calcedonia, il Papa ha dettato ed imposto la sua sentenza. Mi limiterò a citare il decreto del Secondo Concilio Generale di Lione (1274), sottoscritto anche dai Greci, secondo il quale – come è detto ivi – la Chiesa Romana è tenuta più di ogni altra a difendere la verità della fede, e pure le questioni sollevate su questa stessa fede devono essere definite dal suo giudizio. » – Non c’è bisogno di ricordare la famosa definizione del Concilio di Firenze, che il dotto Muzzarelli sostiene sia stata data con una forte intenzione di stabilire l’infallibilità. L’affermazione di Muzzarelli è confermata dagli atti del Concilio, e anche dal poco affetto che i gallicani hanno sempre mostrato verso il Concilio di Firenze -.

D. I Padri e i Dottori credevano nell’infallibilità?

R. Sì, senza dubbio alcuno. San A. de’ Liguori, nella sua confutazione di Febronio, ha un capitolo intitolato: Il potere supremo, e di conseguenza, l’infallibilità del Romano Pontefice provata dalla comune testimonianza dei santi Padri (P. Jaques, il Papa e il Concilio, ecc, p. 283 e seguenti) – Vi si leggono i nomi dei principali dottori che hanno illustrato la Chiesa durante i primi dodici secoli, Sant’Ignazio di Antiochia, Sant’Ireneo, San Cipriano, San Girolamo, Sant’Atanasio, Sant’Agostino, San Gregorio di Nazianzo, San Cirillo d’Alessandria, Sant’Ilario, San Pietro Crisologo, San Fulgenzio, San Gregorio Magno, il venerabile Beda, Sant’Anselmo, San Bernardo, San Bonaventura, San Tommaso d’Aquino. – Dopo questa enumerazione, che sarebbe stato facile prolungare (Il lettore troverà una splendida esposizione di ciò che i Padri credevano a proposito dell’infallibilità nella bella opera de Papa di M. Bouix, e ancora nel libro di P. Schräder de Unitate romana. Ai santi dottori citati da San A. de’ Liguori ne aggiungerò due, Sant’Ambrogio e San Leone IX. Sant’Ambrogio ha detto: lpse est Petrus, cui dixit: Ta es Petrus et super hanc petram ædifîcabo Ecclesiam meam: UBI ERGO PETRUS, IBI ECCLESIA. La parola ergo dà al testo già forte una nuova energia. – San Leone IX, ricordando a Michele Cerulario l’infallibilità del Romano Pontefice basata sulla preghiera del Salvatore: Ego rogavi pro te, aggiungeva: « Qualcuno sarà così temerario dal supporre che la preghiera di Colui la cui volontà è potenza, sia stata vana in qualche cosa? » Ebbene si! Diversi gallicani, seguendo Bailly, hanno sollevato questo empio dubbio), San A. de’ Liguori conclude: « Tutte le testimonianze dei santi Padri che abbiamo appena citato mostrano chiaramente che il Sommo Pontefice è infallibile. » – E Suarez, nel quale, secondo Bossuet, si sente tutta la Scuola … Suarez non esita a dire di coloro che attaccano l’infallibilità del Papa, « che la loro opinione non è solo avventata all’eccesso, ma anche erronea, per il fatto che il sentimento degli scrittori cattolici è così unanime riguardo a questa verità, che non è affatto permesso revocarla in dubbio. » (De Fide, disp. 20, sez. 3).

D. Ma tra le presunte testimonianze, non ce ne sono forse molte che possano essere ricusate: per esempio, quelle dei Papi, che sono troppo sospette poiché possano testimoniare per la loro stessa causa?

R. Si noti che la verità dell’infallibilità si basa: . sugli stessi Concili Ecumenici; e . su un immenso numero di Padri, Dottori e Teologi che non erano Sommi Pontefici. Così, ridotta a queste sole testimonianze, sarebbe sufficientemente stabilita. – Ma, anche se i soli Papi testimoniassero a suo favore, dovremmo comunque accettare le loro deposizioni: è Bossuet che lo dichiara. « Già sento – dice – quello che mormorano i nostri avversari, che non dobbiamo fidarci di quello che dicono i Papi in favore delle prerogative della loro Sede, perché sono parti interessate. – Né, per la stessa ragione, dovremmo fidarci dei Vescovi e dei Sacerdoti quando parlano della loro dignità. Noi dobbiamo dire proprio il contrario; perché Dio ispira a coloro che pone nei ranghi più sublimi della sua Chiesa sentimenti del loro potere che sono in accordo con la verità, di modo che, usandoli nel Signore con piena fiducia, quando l’occasione lo richieda, possano verificare questa parola dell’Apostolo: Abbiamo ricevuto lo Spirito da Dio, per mezzo del quale conosciamo i doni che ci ha elargito. (I Cor. II, 12). – Io ho ritenuto necessario fare almeno una volta questa osservazione, per confondere la risposta temeraria e detestabile che ci si oppone; e io dichiaro che, per quanto riguarda la dignità della Santa Sede, mi attengo alla tradizione e alla dottrina dei Romani Pontefici. (Defensio Declarat, p. III., 1. x., c. 6. Fénelon tiene assolutamente lo stesso linguaggio, Dissertat, de S. Pontif. auctor., c. 15). » Notiamo di passaggio che Bossuet non poteva sopportare che le lodi ed i titoli d’onore conferiti dai santi Padri alla Cattedra Apostolica fossero presi per semplici complimenti. « È entrare – diceva – nello spirito dei greci scismatici che, nel Concilio di Firenze, volevano prendere per attestato di onestà e per complimenti tutto ciò che i Padri scrivevano ai Papi per sottomettersi alla loro autorità (Osservazioni su l’Hist. Des Conciles, ecc., t. xxx, p. 521 (ed. Lebel).  » 

D. Almeno, è incontestabile che esaltando la Chiesa Romana e la Sede Apostolica, i Concili, i Padri e i Dottori abbiano voluto celebrare le prerogative inerenti alla persona dei Romani Pontefici?

R. Sì. « Launoy – dice San Alf. de’ Liguori – … Launoy e tutti coloro che, come lui, combattono l’infallibilità del Papa, fanno una distinzione tra la Sede Apostolica e romana, con cui intendono la Chiesa universale, e colui che occupa quella Sede, cioè il sovrano Pontefice. Ora affermano che la prima sia infallibile, ma che il secondo non lo sia.  « La distinzione è ingegnosa, ma è falsa e contraria al comune sentire dei Concili, dei Sommi Pontefici e dei Santi Padri, che per Sede Apostolica o Romana intendono generalmente il Pontefice di Roma. Pertanto, sotto la denominazione di Sede, si intende colui che vi è seduto (P. Jacques, op. cit., p. 157). Fénelon confuta molto bene questa distinzione tra la sede e l’occupante. Vedi la sua dissertazione già citata, cap. VII e segg.) ». – Il corifeo del giansenismo, Àrnauld, non era contento di questa distinzione che, nonostante il suo odio settario, non poteva conciliare con le testimonianze della tradizione (Lettera a M. Du Vaucel, 9 ottobre 1686 (n.° 591).  – Infine, Tournély, un teologo che i gallicani hanno ascoltato abbastanza volentieri, è d’accordo sul fatto che la distinzione tra la sede e l’occupante non è né vera e nemmeno intelligibile. Né lo trova suscettibile di accomodamento sulla testimonianza della tradizione. Essa non ha altro valore che quello che gli viene dall’autorità secolare: Allonge difficilius est ea conciliare cum declaratione Cleri gallicani, a qua recedere nobis non permittitur (De Ecclesia, t. II, p. 134).

D. Perché affermate l’esistenza di una tradizione a favore dell’infallibilità, mentre la Chiesa gallicana si è sempre pronunciata contro di essa?

B. Niente è più falso di questa presunta opposizione della Chiesa di Francia. Non è solo all’estero che i teologi hanno vendicato la Francia di una tale calunnia. D’Àguirre, Sfondrate, Zaccaria, Boccaberti, Orsi e San A. de’ Liguori hanno saggiamente stabilito che la Francia era sempre stata devota al sentimento dell’infallibilità. – Ma la stessa tesi è stata portata alla luce in Francia da Charlas, Fénelon e dal cardinale Villecour. – È vero che nel 1682 l’assemblea del clero di Francia emise una dichiarazione ostile all’infallibilità. Ma tutti sanno oggi a cosa attenersi riguardo ai motivi vergognosi che hanno causato la convocazione di questa triste assemblea e la redazione della Dichiarazione. Dopo il bel libro del signor Ch. Gérin, dobbiamo esclamare con il signor l’abate Maynard: « La culla del gallicanesimo è così macchiata di dispotismo e viltà che respingere i quattro articoli non è più solo una questione di ortodossia, ma una questione d’onore. (Bibliografia cattolica, aprile 1869).

L’INFALLIBILITA’ DEL PAPA (II)