DOMENICA XI dopo PENTECOSTE

Introitus
Ps LXVII:6-7; 36
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]
Ps LXVII:2
Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus.
[Sorga Iddio, e siano dispersi i suoi nemici: fuggano dal suo cospetto quanti lo odiano.
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ. [Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui, abundántia pietátis tuæ, et merita súpplicum excédis et vota: effúnde super nos misericórdiam tuam; ut dimíttas quæ consciéntia metuit, et adjícias quod orátio non præsúmit.
[O Dio onnipotente ed eterno che, per l’abbondanza della tua pietà, sopravanzi i meriti e i desideri di coloro che Ti invocano, effondi su di noi la tua misericordia, perdonando ciò che la coscienza teme e concedendo quanto la preghiera non osa sperare.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV:1-10
“Fratres: Notum vobis fácio Evangélium, quod prædicávi vobis, quod et accepístis, in quo et statis, per quod et salvámini: qua ratione prædicáverim vobis, si tenétis, nisi frustra credidístis. Trádidi enim vobis in primis, quod et accépi: quóniam Christus mortuus est pro peccátis nostris secúndum Scriptúras: et quia sepúltus est, et quia resurréxit tértia die secúndum Scriptúras: et quia visus est Cephæ, et post hoc úndecim. Deinde visus est plus quam quingéntis frátribus simul, ex quibus multi manent usque adhuc, quidam autem dormiérunt. Deinde visus est Jacóbo, deinde Apóstolis ómnibus: novíssime autem ómnium tamquam abortívo, visus est et mihi. Ego enim sum mínimus Apostolórum, qui non sum dignus vocári Apóstolus, quóniam persecútus sum Ecclésiam Dei. Grátia autem Dei sum id quod sum, et grátia ejus in me vácua non fuit.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli, “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, Torino 1899 –imprim.]

Omelia XXIII.

“Ora vi rammento, o fratelli, il Vangelo che vi ho predicato e che voi avete anche accettato, e nel quale state saldi e per il quale anche vi salverete, se lo ritenete nel modo che vi ho predicato, purché non abbiate creduto indarno. Perché prima di tutto vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto; come cioè Cristo è morto pei nostri peccati, secondo le Scritture, e come fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, secondo le stesse Scritture: e come apparve a Cefa e poscia agli undici: quindi apparve a più di cinquecento fratelli, dei quali molti vivono tuttora e gli altri morirono. Poi apparve a Giacomo, poi agli Apostoli; finalmente all’ultimo di tutti, quasi ad aborto, apparve anche a me, che sono il minimo degli Apostoli, indegno d’essere chiamato apostolo perché ho perseguitata la Chiesa di Dio. Ma per la grazia di Dio sono quel che sono, e la grazia di Dio in me non fu sterile: anzi ho lavorato più di essi tutti: non già io, ma la grazia di Dio con me „ (I. Cor. c. XV, vers. 1-10).

Noi siamo siffatti, che sentiamo il bisogno vivissimo di mutare spesso le cose che ci stanno intorno, e le impressioni che riceviamo, anche belle e gradite. Un cibo, una bevanda, ancorché squisita, se è sempre quella, ci viene a noia: una armonia, una vista, una scena, ancorché incantevole, dopo un certo tempo, non ci interessa gran fatto. Noi abbiamo bisogno di variare le nostre impressioni per gustarne la bellezza: siamo simili alle api, che vanno di fiore in fiore, succhiando da ciascuno il miele e assaporandone sempre nuove dolcezze. I Libri sacri, massime del nuovo Testamento, sono come un immenso panorama, nel quale le scene variano mirabilmente: sono come un vastissimo prato, coperto d’una infinita varietà di fiori, una splendida mensa imbandita d’ogni sorta di cibi. La Chiesa ci spiega dinanzi questo panorama, ci mostra questo prato, ci introduce a questa mensa, ma pone ogni cura di variare le viste ed i fiori, di mutare i cibi, onde colla novità rendere più gradevoli le nostre impressioni. Perciò ogni Domenica la Chiesa ci mette innanzi qualche tratto nuovo, volete nell’Epistola, volete nel Vangelo: ora è un fiore colto in una delle quattordici lettere di S. Paolo, od in una di quelle di S. Pietro, di S. Giovanni o di S. Giacomo; ora ci dà a gustare una scena narrata in uno dei quattro Evangeli, e ci nutre col cibo sostanzioso delle sentenze di Gesù Cristo, che vi sono largamente disseminate. Così la novità delle cose eccita la nostra curiosità e tien desta la nostra attenzione, e la nostra curiosità eccitata e la nostra attenzione più vivamente destata trovano più gradito e più sostanzioso l’alimento della verità, che ci è offerta. – La Chiesa in questa Domenica ci fa leggere e meditare i primi dieci versetti del capo XV della prima lettera ai Corinti, e servono di prefazione alla dottrina della risurrezione finale dei nostri corpi, che l’Apostolo ampiamente vi svolge. Io vi invito a considerare con me questa breve lezione della Epistola, con cui S. Paolo si apre destramente la via a spiegare il dogma fondamentale della futura nostra risurrezione. – È manifesto da questo capo XV di S. Paolo, che a Corinto, nella Chiesa fondata da lui stesso, vi erano alcuni, che negavano la risurrezione dei corpi o almeno ne dubitavano (vers. 12, 35), e muovevano difficoltà, che turbavano la fede dei semplici. Forse era il mal seme già sparso dagli eretici Imeneo e Pileto, riprovati da S. Paolo (II. Timot. II, 17, 18), e che si propagava come gangrena, a detta dello stesso Apostolo. Volendo egli pertanto porre in sodo questo articolo capitale della nostra fede, comincia dal ricordare ai Corinti ciò che loro aveva insegnato, cioè che Cristo era veramente risorto dai morti, e ne cita i testimoni, per conchiudere poi a suo luogo, che se Cristo era veramente risorto, Egli il capo dell’umanità, tutti sarebbero risorti. Udiamolo: ” Ora io vi rammento, o fratelli, il Vangelo, che vi ho predicato, che voi ancora avete accettato, nel quale v i mantenete saldi. „ Il Vangelo, che Paolo qui ricorda ai fedeli di Corinto, non è certamente il libro scritto, ma sì l’insegnamento evangelico, ossia la dottrina di Gesù Cristo: questa dottrina, egli Paolo, l’aveva annunziata, ed essi, i Corinti, l’avevano accolta: Accepìstis, non solo, ma in essa stavano saldi: In quo et statis. Doppio elogio, che l’Apostolo fa ai suoi Corinti, quello d’aver ricevuto il Vangelo e di perseverare in esso in mezzo ai pericoli ed alle persecuzioni, che d’ogni parte li circondavano e molestavano. Figliuoli! quel Vangelo che i Corinti avevano ricevuto adulti, noi l’abbiamo ricevuto ancor bambini, prima ancora di conoscerne il tesoro: i Corinti vi si tennero fermi; imitiamoli, conservando gelosamente e a qualunque costo questa santa eredità lasciataci dai nostri avi: In quo et statis. Pur troppo alcuni dei nostri cari fratelli, massime istruiti, colpa dei tempi e della scaltrezza dei nemici e della debolezza umana, hanno perduta la fede succhiata col latte tra le braccia della madre: deh! Che nessuno di voi la perda, ma la serbi intatta e viva, perché ad essa è legata la nostra speranza e la eterna nostra salvezza. – Seguitiamo S. Paolo. “Per questo Vangelo voi sarete salvi; „ ma a qual patto? ” Se lo tenete nel modo, con cui io ve l’ho predicato, „ risponde l’Apostolo. Non basta, o cari, avere la fede, ma bisogna averla e conservarla quale l’autore e consumatore della fede; ma egli ce la dà per mezzo della sua Chiesa, che ne è la depositaria ed interprete infallibile. Noi dunque dobbiamo ricevere e conservare questa fede secondo l’insegnamento della Chiesa: aggiungervi o levarne una sola sillaba sarebbe delitto, sarebbe sacrilegio. Nessuno può mutare una parola d’una sentenza pronunciata da un tribunale, che giudica secondo il codice e l’applica ai casi particolari, e se la mutasse sarebbe punito: similmente noi dobbiamo ricevere le sentenze della Chiesa, unica interprete infallibile del Vangelo. Teniamo dunque il Vangelo come ce lo porge la Chiesa, e allora non avremo creduto indarno: Nisì frustra credidistìs, giacché pretendere di piegare la fede, allargarla, restringerla, modificarla secondoché pare alla nostra corta intelligenza, è un sottoporre Dio a noi stessi, è un farci giudici della sua parola, è un distruggere la natura stessa della fede, e questa è inutile: Frustra credidistìs. In tal caso non crederemmo a Dio, ma a noi medesimi, e la fede sarebbe, non l’opera di Dio, ma sì l’opera nostra. Che cosa anzi tutto avete voi insegnato, o grande Apostolo, ai vostri Corinti? Qual fu il punto capitale del vostro Evangelo? Eccovelo: “Prima di tutto vi ho trasmesso quello, che anch’io ho ricevuto. „ La verità, sì la naturale, come la sovrannaturale, quella propria della ragione, come quella della fede, non è opera o fattura dell’uomo; se lo fosse, sarebbe in potere dell’uomo annientarla o mutarla: essa viene da Dio, da Dio solo, e l’uomo non può esserne che il mezzo o lo strumento di comunicazione, non mai la sorgente. Bene a ragione pertanto S. Paolo dice: Quelle verità, che io vi ho insegnate, non sono mie, non le traggo da me stesso, ma le ho ricevute anch’io, come voi le ricevete da me: Tradidi vobis in primis quod et accepi. E da chi le ha ricevute S. Paolo? Lo dice e lo ripete altrove; non dagli uomini, né per gli uomini, ma da Gesù Cristo. — E che cosa ricevette da Gesù Cristo? ” Che Gesù Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture. „ Non basta: ” Fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, secondo le stesse Scritture. ,, In queste poche parole, come vedete, si contiene il compendio di tutta la fede cristiana, la morte di Gesù Cristo per i nostri peccati, la sua sepoltura, la sua risurrezione, in breve, il secondo mistero della fede, che ci insegna il Catechismo. È da notarsi quella espressione ripetuta due volte: “Secondo le Scritture: „ Secundum Scripturas, che la Chiesa volle conservata nel Simbolo, che si canta nella Messa. E perché questa espressione è con insistenza speciale inculcata? Le Scritture, delle quali parla in questo luogo l’Apostolo, non possono essere i libri del nuovo Testamento, che allora non esistevano che in minima proporzione, nè v’era ragione di citarli. Resta dunque che si alluda a quelli dell’antico Testamento, e v’era ben ragione di accennarvi. In quasi tutti i libri dell’antico Testamento si parla di Gesù Cristo, della sua venuta, della sua origine, della sua vita, della sua passione, morte e risurrezione, tantoché non è esagerazione il dire che tutta la vita di Cristo, prima che nei Vangeli, è scritta nei profeti. È questo un vero miracolo, una prova della divinità di Gesù Cristo, e perciò S. Paolo, inteso sempre a raffermare nella fede i suoi neofiti, ricordando la vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo, ricorda eziandio che questa vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo era già stata predetta e descritta nei Libri santi, e così delle prove della divinità di Gesù forma un solo fascio, che vince ogni opposizione e schiaccia qualunque mente riottosa. Vedete, sembra dire l’Apostolo, il cumulo di miracoli operati da Cristo che tutti si incentrano nella risurrezione, sono più che bastevoli a mostrare chi Egli sia: eppure vi è un altro cumulo di miracoli, che si legano ai primi, ed è che questi miracoli furono tutti predetti, e se volete persuadervene pigliate in mano i libri del vecchio Testamento e ve li troverete descritti prima che avvenissero: Secundum Scripturas. – Scopo dell’Apostolo, come dicemmo, è di mostrare il dogma della risurrezione universale: per mostrare questo dogma, egli appella alla risurrezione di Cristo, predetta dai profeti. Ma questa risurrezione di Cristo è avvenuta? E certa? Si può provare? La risurrezione di Gesù Cristo è un miracolo, il sommo dei miracoli operati da Cristo, ed è insieme un fatto; un fatto che si può e si deve provare a punta di ragione. Ora i fatti come si provano? Indubbiamente coi testimoni; non c’è altra via. Come provate voi che Cristoforo Colombo abbia scoperto l’America e che Goffredo di Buglione abbia preso Gerusalemme? Colle testimonianze di quelli che videro od udirono quei fatti. Similmente nel caso nostro: se Cristo è veramente risorto noi lo sapremo da coloro che lo videro ed udirono risorto. Fuori dunque i testimoni degni di fede della risurrezione di Cristo. Paolo li accenna per sommi capi, e le sue parole sono come l’eco ed il sunto delle narrazioni evangeliche. “Gesù Cristo, dice S. Paolo, apparve a Cefa, cioè Pietro: „ Visus est Cephæ? È cosa che non deve passare inosservata: l’Apostolo, enumerando le principali apparizioni di Cristo, mette in primo luogo quella fatta a Pietro, avvenuta certamente il giorno stesso della risurrezione, come apparisce dal Vangelo di S. Luca (XXIV, 34), ancorché l’Evangelista non la descriva particolarmente (Senza dubbio la prima apparizione di Cristo risorto e dai Vangelisti narrata, fu fatta alle donne e alla Maddalena, andata al sepolcro in sul far del giorno, ma l’Apostolo la passa sotto silenzio e si restringe a quelle che ebbero gli Apostoli e: discepoli, e la ragione è manifesta). E perché porre in primo luogo l’apparizione di Pietro: Visus est Cephæ? La ragione vuolsi cercare, penso io, nella dignità di Pietro: egli era il capo degli Apostoli, la pietra fondamentale della Chiesa, il Vicario di Gesù Cristo, da Lui stesso ripetutamente designato come tale: la sua testimonianza era la maggiore, e perciò doveva andare innanzi a quella degli Apostoli tutti: è questo un indizio non dubbio del primato di S. Pietro, che l’Apostolo S. Paolo ci dà in questo luogo, e del quale si deve tener conto. Dopo l’apparizione di Pietro viene quella degli Apostoli uniti: Et post hoc undecim. Gesù apparve il giorno della risurrezione, a notte chiusa, ai dieci Apostoli raccolti in Gerusalemme: erano dieci, perché, oltre Giuda, il traditore, mancava Tommaso, come narra S. Luca (XXIV). Otto giorni appresso, ancora secondo il Vangelo di S. Luca Gesù apparve nuovamente agli Apostoli, ed a questa seconda apparizione di Gesù era presente S. Tommaso, ed a questa indubbiamente accenna S. Paolo, allorché dice: ” E poscia agli undici: „ Et post hoc undecim. Credo poi che l’Apostolo, accennando a questa seconda e più completa apparizione fatta a tutti gli Apostoli, in modo indiretto sì, ma certo, alludesse anche alla prima fatta ai dieci e registrata nello stesso Vangelo di S. Luca, che secondo alcuni, è quello che S. Paolo chiama Vangelo suo: Secundum Evangelium meum. Prosegue S. Paolo la sua enumerazione, e dice: ” Quindi apparve a più di cinquecento fratelli insieme: „ Deinde visus plus quam quingentis fratribus simul. La parola, insieme, usata da S. Paolo, non permette di considerare questi cinquecento e più testimoni come la somma totale di quelli, ai quali Gesù risuscitato apparve; qui evidentemente parlasi di una apparizione speciale, a cui erano presenti più di cinquecento persone. Non può essere quella della Ascensione, perché S. Luca (Atti Apost. c. I, vers. 15) afferma che questa avvenne sul monte degli Olivi, presso Gerusalemme e sembra che tutti quelli, i quali ne furono testimoni, si raccogliessero poi nel cenacolo, ed erano in numero di circa cento venti. Quale è dunque questa apparizione fatta a più di cinquecento persone insieme, molte delle quali, allorché S. Paolo scriveva la sua lettera, erano morte, ma alcune vivevano ancora? Dai Vangeli non apparisce né quando, né dove, né come avvenisse la grandiosa apparizione, ma secondo ogni verosimiglianza avvenne nella Galilea, dove Gesù Cristo stesso aveva comandato si radunassero e dove si sarebbe loro mostrato. ” Dite ai fratelli miei, che vadano in Galilea; là mi vedranno „ (Matt. XXVI, 10). – Checché sia del luogo e del tempo di questa apparizione, è indubitato, che oltre a cinquecento persone ne furono testimoni, che è ciò che più importa. S. Paolo continua la enumerazione: “Dopo apparve a Giacomo, poi a tutti gli Apostoli .„ – Ignoriamo i particolari della apparizione fatta a Giacomo, che si crede sia il Minore e poi vescovo di Gerusalemme. L’apparizione poi che dicesi fatta agli Apostoli tutti si può considerare come il compendio o riassunto di tutte le altre narrate o indicate nei Vangeli. – “Finalmente, all’ultimo di tutti, come ad aborto, conchiude S. Paolo, apparve anche a me. „ Io pure, esclama il grande Apostolo, ho veduto Cristo risorto, là sulla via di Damasco; io, ultimo degli Apostoli, io aborto di Apostolo, perché chiamato a tanta dignità dopo gli altri e in modo affatto diverso dagli altri, io pure l’ho veduto Gesù risorto, io pure ne sono testimonio. — Qui la mente dell’Apostolo, com’era naturale, vola sulle memorie e sulle vicende del passato: ricorda ciò che fu e quel che è di presente, raffronta l’alta dignità di Apostolo, della quale è rivestito, e la sua vita e condotta prima della miracolosa sua vocazione, sente la propria indegnità e l’immenso beneficio della grazia ricevuta, e nell’impeto, non so ben dire della sua riconoscenza o del suo dolore, e più probabilmente dell’una e dell’altro, esce in questo grido sublime: “Perché io sono il minimo degli Apostoli, indegno d’essere chiamato Apostolo! „ E perché, o vaso di elezione, vi chiamate minimo degli Apostoli, indegno d’essere Apostolo? Non avete voi lavorato come e più degli altri Apostoli? Non siete voi l’Apostolo dei Gentili? Non siete voi stato chiamato da Cristo stesso, e in un baleno da Lui trasformato meravigliosamente? Non avete portate le vostre catene dinanzi ai tribunali della terra per amore di Cristo, per Lui vergheggiato, per Lui lapidato? Migliaia e migliaia di Gentili, guadagnati a Cristo, non formano la corona e la gloria del vostro apostolato? Sì, tutto questo è vero, lo so, risponde l’incomparabile Apostolo; ma io ricordo d’aver perseguitato la Chiesa di Dio: Persecutus sum Ecclesiam Dei; il sangue di Stefano mi sta sempre dinanzi agli occhi: sono Apostolo di Cristo, ma prima fui suo persecutore e feroce persecutore: Persecutus sum supra modum, come scrive altrove: unico tra gli Apostoli fui persecutore della Chiesa prima d’essere Apostolo: ciò mi umilia, mi confonde, mi copre di vergogna, e mi fa sentire d’essere non solo l’ultimo degli Apostoli, ma indegno d’essere Apostolo. Questi due versetti, nella loro semplicità ed inarrivabile eloquenza, ci rivelano tutta la grand’anima dell’Apostolo, ce ne fanno vedere il fondo, e per poco ci strappano le lacrime. Ma torniamo all’argomento, che l’Apostolo sta svolgendo. Vuol provare, come dicemmo, la risurrezione futura dei nostri corpi; per provarla appella alla risurrezione gloriosa del corpo di Gesù Cristo, nostro capo e modello: e per provare il fatto della risurrezione di Gesù Cristo appella all’autorità dei testimoni, Pietro, Giacomo, gli undici Apostoli, tutti gli Apostoli, cinquecento persone, che lo videro, e infine produce la propria testimonianza. Qual serie, quale schiera di testimoni pel numero, per le qualità morali, per la costanza, per la varietà ed unanimità, per le conseguenze pari a questa! Un fatto qualunque attestato da due, tre, quattro persone oneste ed intelligenti e degne di fede genera in noi la certezza del fatto istesso per guisa, che non ci resta ombra di dubbio, e sulla loro testimonianza i tribunali pronunciano sentenze della più alta importanza, e tutti le trovano ragionevoli e giuste: il fatto della risurrezione di Gesù Cristo è affermato da tutti gli Apostoli e i discepoli: è affermato da oltre cinquecento persone, che protestano d’averlo veduto e toccato, d’aver mangiato con Lui e ricevuti i suoi comandi; è affermato dovunque, costantemente, sempre allo stesso modo, e a costo di esili, di carceri, di supplizi e della morte più atroce: chi mai potrebbe dubitarne? Se fosse possibile dubitare di tale e tanta testimonianza, sulla terra non vi sarebbe più un solo fatto, che si potesse dir certo; sarebbe forza dubitare d’ogni cosa. Voi vedete pertanto che il gran fatto della risurrezione di Gesù Cristo, base della nostra fede, riposa sul più incrollabile fondamento, che si possa desiderare, agli occhi stessi della ragione umana. Paolo aveva proclamato d’essere il minimo degli Apostoli, d’essere indegno di sì alta prerogativa: era il grido sincero della sua coscienza, era l’omaggio dovuto alla verità; ma l’umiltà è inseparabile dalla verità, anzi essa è verità, null’altro che verità. Io, per me, dice Paolo, non sono stato che un miserabile persecutore della Chiesa, e lo sarei tuttora; “ma per la grazia di Dio sono quel che sono; „ sono cioè apostolo di Gesù Cristo: Gratìa Dei sum id quod sum. E perché, o grande Apostolo, per la grazia di Dio siete quel che siete? Perché, risponde, la grazia di Dio in me non fu sterile. ., Non fu come un raggio di sole, che cade sopra un occhio chiuso, come un seme sparso sulla pietra, come un ramo innestato sopra un tronco disseccato. A questa grazia, colla quale Iddio mi chiamò senza alcun mio merito, anzi ad onta dei miei demeriti, io risposi, e risposi perché mi diede la grazia di rispondere e feci ogni suo volere. In altri termini, se sono uscito dalla cecità ebraica, ed ho abbracciato il Vangelo di Gesù Cristo, e fattone apostolo, lo devo anzi tutto alla grazia di Dio; ma non solo alla grazia di Dio, sebbene anche alla mia cooperazione. E questa la dottrina cattolica intorno ai rapporti della grazia divina e del nostro libero arbitrio, esposta da S. Paolo con una chiarezza e precisione, che non lascia nulla da desiderare. Dio previene con la sua grazia, illuminando la mente e movendo la volontà, e l’uomo lasciandosi illuminare e muovere e cooperando alla grazia coll’unire all’azione di questa la propria azione. Che cosa sono le opere buone e sante del cristiano? Sono il risultato dell’azione divina, mercé della grazia e dell’azione umana, mercé del concorso della volontà nostra, insieme unite ed armonizzanti. – Badiamo, o cari, che la grazia di Dio non fa mai difetto, come nel seme non fa difetto il principio vitale; ma che questo rimane sterile se la terra, che lo riceve, non è preparata e non risponde. Che non rimanga giammai sterile questo germe della grazia, che Dio ci largisce, onde possiamo dire con S. Paolo: Gratia ejus in me vacua non fuit! L’Apostolo conchiude il suo dire che la grazia di Dio in lui non solo non fu sterile ma fu ricca di opere, a talché, soggiunge: “Ho faticato più di tutti gli Apostoli: „ Abundantius illìs omnibus laboravi. Santa franchezza e mirabile audacia questa del nostro Paolo! Protesta d’essere l’ultimo degli Apostoli, indegno di chiamarsi Apostolo, non Apostolo, ma aborto di Apostolo, e poi non esita a dichiarare di aver fatto più di tutti gli altri Apostoli. Parrebbe una contraddizione manifesta, ed è una lampante verità: egli è veramente l’uno e l’altro, secondochè consideriamo in lui ciò che era da sé, prima dell’opera della grazia e ciò che fu poi dopo l’opera trasformatrice della grazia. E poiché gli parve, che l’aver detto: “Ho faticato più degli altri Apostoli, „ potesse sonare millanteria, quasi fosse opera tutta sua, spiega stupendamente l’espressione, soggiungendo: “Non io, ma sì la grazia di Dio con me: „ Non ego autem. sed gratia Dei mecum. Le opere del mio apostolato sono grandi, maggiori di quelle dei miei fratelli, che mi precedettero; voi le vedete e le vede il mondo tutto; ma esse non sono esclusivamente mie; sono mie e della grazia di Dio, che mi prevenne, mi avvalorò e le condusse a termine. È la stessa verità sopra accennata è  qui ribadita con una frase brevissima e insieme chiarissima: “La grazia di Dio con me. „ – Tenete saldi, o dilettissimi, questi due gran capi di dottrina cattolica, qui stabiliti dall’Apostolo, vale a dire, la necessità della grazia di Dio e la cooperazione della libera nostra volontà per fare il bene ed operare la nostra salvezza eterna; questi due elementi, queste due forze insieme unite portano le anime nostre alle altezze de cieli e le depongono in seno a Dio; separate, le lasciano povere e nude su questa misera terra, anzi le lasciano cadere negli abissi di eterna dannazione. Il far sì che siano o congiunte o separate dipende da noi, onde se bene si guarda la salute eterna o l’eterna perdizione è nelle nostre mani, perché è sempre in nostro potere usare o non usare della grazia divina a tutti e sempre più che bastevolmente offerta.

Graduale
Ps XXVII:7 – :1
In Deo sperávit cor meum, et adjútus sum: et reflóruit caro mea, et ex voluntáte mea confitébor illi.
[Il mio cuore confidò in Dio e fui soccorso: e anche il mio corpo lo loda, cosí come ne esulta l’ànima mia.]
V. Ad te, Dómine, clamávi: Deus meus, ne síleas, ne discédas a me. Allelúja, allelúja [A Te, o Signore, io grido: Dio mio, non rimanere muto: non allontanarti da me.]

Alleluja

Allelúia, allelúia
Ps LXXX:2-3
Exsultáte Deo, adjutóri nostro, jubiláte Deo Jacob: súmite psalmum jucúndum cum cíthara. Allelúja.

[Esultate in Dio, nostro aiuto, innalzate lodi al Dio di Giacobbe: intonate il salmo festoso con la cetra. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Marcum.
R. Gloria tibi, Domine!
Marc VII:31-37
In illo témpore: Exiens Jesus de fínibus Tyri, venitper Sidónem ad mare Galilaeæ, inter médios fines Decapóleos. Et addúcunt ei surdum et mutum, et deprecabántur eum, ut impónat illi manum. Et apprehéndens eum de turba seórsum, misit dígitos suos in aurículas ejus: et éxspuens, tétigit linguam ejus: et suspíciens in coelum, ingémuit, et ait illi: Ephphetha, quod est adaperíre. Et statim apértæ sunt aures ejus, et solútum est vínculum linguæ ejus, et loquebátur recte. Et præcépit illis, ne cui dícerent. Quanto autem eis præcipiébat, tanto magis plus prædicábant: et eo ámplius admirabántur, dicéntes: Bene ómnia fecit: et surdos fecit audíre et mutos loqui.


Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Marco VII, 31-37]

-Lingua oscena-

E perché Gesù Cristo per dar la favella a un muto tanti adopra modi inusitati, e riti misteriosi? Udite, è S. Marco che nel Vangelo della corrente Domenica ci narra come il divin Signore a guarire quel muto si lasciò prima pregare da molti, “deprecabantur eum”: indi lo trasse fuor della turba in disparte, poscia gli pose le dita nelle orecchie, in seguito con poca saliva tratta dalla sua bocca gli toccò la lingua, e alzati gli occhi al cielo, alzò un sospiro, e finalmente in tuono imperioso pronunziò una parola siriaca “Ephetà”, apritevi, ed ecco sull’istante aperte le sue orecchie, e sciolta la sua lingua per modo che felicemente parlava: “Loquebatur recte”. E perché, io ripeto, tanti adopera il Redentore segni misteriosi e insolite maniere? Non eran queste a guarirlo assolutamente necessarie, dice qui un saggio Spositore (Cardin. Cajet.): senza di queste aveva pure risanati infermi, risuscitati morti o col solo tocco della sua mano, o col semplice suono della sua voce. Ecco, se io ben mi avviso, la vera cagione. – Si trattava di dare l’uso della lingua ad un muto: la lingua suole essere strumento di mille peccati, e perciò bisognava, dirò così, consacrarla con mistiche significazioni, e colla saliva dell’Uomo-Dio. Anche verso di noi furono nel nostro Battesimo dalla Chiesa praticati quasi tutti i riti, che Gesù adoperò a riguardo dell’odierno mutolo, e con tutto ciò qual uso abbiamo fatto della nostra lingua? Quante volte l’abbiamo contaminata colle mormorazioni, e colle oscene parole? Delle prime già vi parlai in altra Spiegazione. – Ora mi desidero un fuoco di santo zelo per scagliarmi contro le lingue oscene; la onde passo a dimostrarvi quanto male fa a sé stesso, tanto nell’ordine civile, quanto nel morale, l’impuro parlatore.

I. Il peccato della disonestà è un vizio così infamante, un mostro così abominevole, che ama le tenebre, cerca nascondigli, esige segreti, egli è una colpa così vergognosa, che per nasconderne i turpi effetti si ricorre talvolta a micidiali bevande, anzi che sopravvivere allo scoprimento d’un fallo di questa sorta, si elegge la morte. Ora l’osceno parlatore viene coll’impura sua lingua a scoprire, e ad infamare sé stesso. Non bada è vero alla sua onta, alla sua infamia, ma per sé ne copre, e svela senza riflettere l’interna infezione del suo cuore impuro. È detto evangelico, e la ragione e l’esperienza lo confermano, che la lingua parla dall’abbondanza del cuore, “ex abundantia cordis os loquìtur (Matth. XII, 34); onde per quella relazione tanto fisica quanto morale, che passa tra il cuore e la lingua, ne segue che scopre la lingua l’interne qualità l’intime disposizioni dell’animo buono o malvagio. Fuori la lingua, dice il medico all’infermo, e dalla lingua sporca, nera, immonda, argomenta l’interno malore. – Domandiamo ai Teologi se sia temerario giudizio il pensare di alcuno, che fa sovente laidi discorsi, o vomita spesso disoneste parole, il pensare, dissi che abbia corrotto e marcio il cuore, e ci risponderanno che non è né giudizio temerario e né pur giudizio, ma bensì una giusta necessaria conseguenza derivata da una certa premessa, o pure una evidente cognizione della causa per mezzo del suo effetto, come chi dicesse: “fumus, ergo ìgnis”; così lingua oscena, dunque anima oscena. –  Infatti se la lingua d’un oriuolo [cucù] segna le ore fuor di regola, se l’oriuolo stesso batte l’ore a sproposito, non si può dire che l’interno movimento delle ruote non sia guasto e sconnesso? Se un vaso esala dalla bocca un fetore intollerabile, dovrem dire che sia pieno d’acqua odorifera? Se un tale per tosse frequente, sputa marcia e sangue corrotto, chi potrà dire o credere che abbia sani i polmoni/? È questo il primo male che cagiona a sé stesso l’impuro parlatore, si qualifica per un impudico sfacciato, per uomo carnale, incivile, spregevole, da cui fuggono come da una puzzolente cloaca le oneste persone, meno quelle che com’esso lui son avvezze allo stesso linguaggio. Ma questo è un’ombra di male in paragone degli altri eccessi di cui fa reo, per il suo immondo e scandaloso parlare.

II. Il Re Profeta rassomiglia una di queste bocche immodeste ad un’aperta sepoltura piena di verminosi e fetenti cadaveri, “sepulchrum patens est guttur eorum” (Ps. V, 11). È avvenuto talora che all’alzarsi la lapide d’un sepolcro, per l’esalazione di quell’aria fetida, pestifera, sono caduti morti tutt’i circostanti. Così suole avvenire qualora una bocca immonda s’apre in oscene parole, restano per lo più infetti, avvelenati e morti nell’anima tutti gli ascoltanti. “Sepulchrum patens est guttur eorum”. Or chi può calcolare la strage di tanti innocenti, e la spiritual morte di quegl’incauti, che con piacere ascoltano, o non correggono, o non s’allontanano con orrore da quelle bocche infernali? Tutte quest’anime ferite ed uccise son tutte a carico del sordido e pessimo ciarlatore. Con questo di più che le oscene parole, le favole disoneste, i turpi racconti, i motti allusivi, gli equivoci maliziosi, le sporche buffonerie con gusto s’imparano, si ripetono, come malvagie sementi, passano di bocca in bocca, di orecchio in orecchio, e con diabolica fecondità crescono e si moltiplicano all’infinito. Ecco in effetti quel che asserisce l’Apostolo S. Giacomo: la lingua scorretta è un fuoco d’inferno, “lingua ignis est inflammata a gehenna” (Jacob. III, 6). Una sola scintilla di questo fuoco tartareo basta ad eccitare un incendio immenso, che incenerisca un numero sterminato di mille anime e mille. “Ecce quantus ignis quam magnam sìleum intendit” (V, 7). Ma di questo incendio divoratore, che forse non s’estinguerà mai più, tutta sarà la colpa della lingua oscena. Dirò di più, dirò cosa che a prima giunta sembrerà strana. Può darsi il caso che un parlatore osceno pecchi tuttavia, ancorché confinato col corpo in un sepolcro, e coll’anima nell’inferno. Non è mio questo sentimento, ma del gran Padre S. Agostino, il quale parlando dell’empio eresiarca Ario, già morto e dannato, dice che pur pecca e ancor va peccando, “Arius adhuc peccat”; pecca nei suoi pervertiti seguaci, pecca per l’eresie da esso sparse e seminate, che in tanti incauti pullulano e si riproducono; laonde tutti questi tristi germogli attribuirsi debbono alla velenosa radice, come effetti della causa primiera; e perciò in un senso ancorché Ario sia “in terimino”, nell’eterna dannazione, ove non v’è più luogo a merito o a demerito, pure per le conseguenze funeste a lui imputate in origine, si può dire che ancor pecca. “Arius adhuc peccat”. Già forse mi preveniste nell’applicazione dell’esempio. Un uomo di lingua impura, già incenerito nella tomba, già sepolto nell’abisso, pecca ancora per la zizzania sparsa dalle sue turpi parole, per la peste uscita dalla lorda sua bocca, con cui ha infette tante anime, peste che forse si propagherà fino alla consumazione de’ secoli. – Possibile!? Dirà qui alcuno di voi, possibile un male sì grande, anzi una serie di tanti mali! “Io pronunzio, è vero, qualche sconcia parola, qualche motto allusivo, ma così per ischerzo a muovere il riso, ben lontano dal prevedere, molto meno dal voler tanta rovina”. Lo so, e lo dice nei Proverbi lo Spirito Santo, che lo stolto, cioè il peccatore, fa il male come per riso e per trastullo, quasi per risus et stultus operatur scelus (Prov. I, 23); ma quella turpe facezia, quella ridicola maliziosa parola è un cancro micidiale, dice l’Apostolo, che dall’orecchio passa al pensiero, dal pensiero si attacca al cuore, e fa nell’anima una piaga insanabile, “sermo eorum ut cancer serpit (ad. Tim. II, 17). Scolpatevi ora col pretesto di dire per burla e per scherzo, la vostra scusa accrescerà la vostra colpa. Non trovate voi dunque altro modo di ricreare lo spirito, che ridendo a danno dell’anima vostra, e delle anime altrui che costano tutto il sangue preziosissimo di Gesù Cristo? Sarà dunque minore l’oltraggio fatto alla sua Divina Maestà, perché lo fate per giuoco per sollazzo? Scusereste voi i Giudei quando per burla schernivano il divin Redentore, e con finte adorazioni Lo acclamarono Re da beffe e da teatro? Voi ne fate altrettanto; ma udite le proteste e le minacce di un Dio vilipeso. Voi ridete oltraggiandomi, voi mi oltraggiate ridendo, anch’Io quando sarete tra le fauci di morte nelle angustie estreme della vostra agonia, anch’Io mi riderò di voi: “Ego quoque in interitu vestro ridebo, et subsannabo” (Prov. I, 26). – “Ma noi, soggiungono altri, noi senza malizia alcuna e senza riflessione ci lasciamo uscire di bocca certe parole veramente poco oneste, ma non si bada, la lingua scorre, siamo avvezzi così, bisogna compatire.” – A questo passo vi voleva S. Giovanni Crisostomo per farvi tornar in gola le vostre discolpe, frivole insieme, ed aggravanti il vostro reato. – Un ladro (dice egli in una delle sue Spiegazioni al popolo di Antiochia) un ladro non è così folle da dire al giudice: “Signore perdonate o almeno compatite il mio fallo, io sono assuefatto a rubare che non mi posso astenere”; sarebbe per tale scusa più severamente punito. “Cur non praetendit fur consuetudinem, ut a supplicio liberetur (Rom. XII)? Ecco l’esempio che vi condanna. L’abito malvagio non diminuisce, anzi aggrava la colpa. Si forma quest’abito dagli atti ripetuti, continuati, per i quali la rea consuetudine passa in seconda natura. Da ciò ne segue, che sebbene vi cadan di bocca parole scorrette senz’avvedersene, in forza dell’abito cattivo da voi contratto, siete più rei per inveterata malizia, come d’accordo parlano i Teologi. – E pur non è ancor questo il colmo dei mali che cagiona a sé stessa una lingua oscena. Il colmo dei mali suoi, lasciatemi così esprimere, si è lo scrivere colle sue sozze parole sulla propria fronte il carattere della sua riprovazione. Per poco che uno sia versato nelle divine Scritture sa che figura dei predestinati fu Giacobbe, e immagine dei presciti Esaù. Ora Giacobbe, sebbene nascosto sotto le spoglie del fratello, e sotto le pelli del capretto, fu dal cieco padre riconosciuto alla voce: “Vox quidem, vox Jacob est” (Gen XXVII, 22). Per simil modo sebbene il mistero della predestinazione sia recondito ed inscrutabile, pure da certi contrassegni si può averne una cognizione capace a darcene una probabile e quasi certa congettura. Uno di questi chiari e forti segni è la lingua. Volete sapere se sarete predestinato o reprobo? parlate ch’io vi vegga: “Loquere ut videam”. Dal canto si conoscono gli uccelli, dal linguaggio gli uomini delle diverse nazioni. Aveva un bel dire S. Pietro là nel pretorio, e confermare col giuramento le sue proteste, che l’ancella più che a lui, credeva al suo linguaggio: “tu sei Galileo, gli diceva, il tuo parlare ti scopre per quel che sei”: “Loquela tua manifestum te facit” (Matth. XXVI, 73). Parlate orsù voi, se volete che io argomenti se sarete nel numero dei reprobi o dei predestinati. Voi avete una lingua pessima, laida, immonda, un vocabolario di termini nefandi? Ohimè, voi vi assomigliate ai dannati, voi sarete con essi abitatori dell’inferno. Laggiù si bestemmia, si maledice, si parla e si parlerà sempre male. Voi, come mi giova sperare, avete una lingua modesta, un parlar da buon cristiano, vi servite della lingua, come l’odierno muto risanato, a parlar rettamente, a lodare Dio, a edificare il prossimo? Consolatevi, voi sarete cittadini del cielo. Lassù quei beati comprensori hanno sempre in bocca le glorie dell’Altissimo: “Exaltationes Dei in gutture eorum (Ps. CXLIX). Aspiriamo colla purità delle nostre lingue, ad esser loro consoci.

 Credo …

Offertorium
Orémus
Ps XXIX:2-3
Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me, nec delectásti inimícos meos super me: Dómine, clamávi ad te, et sanásti me.
[O Signore, Ti esalterò perché mi hai accolto e non hai permesso che i miei nemici ridessero di me: Ti ho invocato, o Signore, e Tu mi hai guarito.]

Secreta
Réspice, Dómine, quǽsumus, nostram propítius servitútem: ut, quod offérimus, sit tibi munus accéptum, et sit nostræ fragilitátis subsidium. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno al nostro servizio, affinché ciò che offriamo a Te sia gradito, e a noi sia di aiuto nella nostra fragilità.]

Communio
Prov III:9-10
Hónora Dóminum de tua substántia, et de prímitus frugum tuárum: et implebúntur hórrea tua saturitáte, et vino torculária redundábunt.
[Onora il Signore con i tuoi beni e con l’offerta delle primizie dei tuoi frutti, allora i tuoi granai si riempiranno abbondantemente e gli strettoi ridonderanno di vino.]

Postcommunio
Orémus.
Sentiámus, quǽsumus, Dómine, tui perceptióne sacraménti, subsídium mentis et córporis: ut, in utróque salváti, cæléstis remédii plenitúdine gloriémur.
[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, mediante la partecipazione al tuo sacramento, noi sperimentiamo l’aiuto per l’ànima e per il corpo, affinché, salvi nell’una e nell’altro, ci gloriamo della pienezza del celeste rimedio.]

MESSA DELL’ASSUNTA

Introitus
Ap XII:1
Signum magnum appáruit in cœlo: múlier amicta sole, et luna sub pédibus ejus, et in cápite ejus coróna stellárum duódecim [Un gran segno apparve nel cielo: una Donna rivestita di sole, con la luna sotto i piedi, ed in capo una corona di dodici stelle].
Ps XCVII:1
Cantáte Dómino cánticum novum: quóniam mirabília fecit. Cantate al Signore un càntico nuovo: perché ha fatto meraviglie.
Signum magnum appáruit in coelo: múlier amicta sole, et luna sub pédibus ejus, et in cápite ejus coróna stellárum duódecim [Un gran segno apparve nel cielo: una donna rivestita di sole, con la luna sotto i piedi, ed in capo una corona di dodici stelle].

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui Immaculátam Vírginem Maríam, Fílii tui genitrícem, córpore et ánima ad coeléstem glóriam assumpsísti: concéde, quǽsumus; ut, ad superna semper inténti, ipsíus glóriæ mereámur esse consórtes.
Onnipotente sempiterno Iddio, che hai assunto in corpo ed ànima alla gloria celeste l’Immacolata Vergine Maria, Madre del tuo Figlio: concédici, Te ne preghiamo, che sempre intenti alle cose soprannaturali, possiamo divenire partecipi della sua gloria.

Lectio
Léctio libri Judith.
Judith XIII, 22-25; XV:10
Benedíxit te Dóminus in virtúte sua, quia per te ad níhilum redégit inimícos nostros. Benedícta es tu, fília, a Dómino Deo excelso, præ ómnibus muliéribus super terram. Benedíctus Dóminus, qui creávit coelum et terram, qui te direxit in vúlnera cápitis príncipis inimicórum nostrórum; quia hódie nomen tuum ita magnificávit, ut non recédat laus tua de ore hóminum, qui mémores fúerint virtútis Dómini in ætérnum, pro quibus non pepercísti ánimæ tuæ propter angústias et tribulatiónem géneris tui, sed subvenísti ruínæ ante conspéctum Dei nostri. Tu glória Jerúsalem, tu lætítia Israël, tu honorificéntia pópuli nostri.
[Il Signore ti ha benedetta nella sua potenza, perché per mezzo tuo annientò i nostri nemici. Tu, o figlia, sei benedetta dall’Altissimo piú che tutte le donne della terra. Sia benedetto Iddio, creatore del cielo e della terra, che ha guidato la tua mano per troncare il capo al nostro maggior nemico. Oggi ha reso cosí glorioso il tuo nome, che la tua lode non si partirà mai dalla bocca degli uomini che in ogni tempo ricordino la potenza del Signore; a pro di loro, infatti, tu non ti sei risparmiata, vedendo le angustie e le tribolazioni del tuo popolo, che hai salvato dalla rovina procedendo rettamente alla presenza del nostro Dio. Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu la gloria di Israele, tu l’onore del nostro popolo!]

Graduale
Ps XLIV:11-12; XLIV:14
Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam, et concupíscit rex decórem tuum. [Ascolta, o figlia; guarda e inclina il tuo orecchio, e s’appassionerà il re della tua bellezza.]

V. Omnis glória ejus fíliæ Regis ab intus, in fímbriis áureis circumamícta varietátibus. Allelúja, allelúja. V. Tutta bella entra la figlia del Re; tessute d’oro sono le sue vesti. Allelúia, allelúia.
V. Assumpta est María in coelum: gaudet exércitus Angelórum. Allelúja.  [Maria è assunta in cielo: ne giúbila l’esercito degli Angeli. Allelúia.]

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc 1:41-50
“In illo témpore: Repléta est Spíritu Sancto Elisabeth et exclamávit voce magna, et dixit: Benedícta tu inter mulíeres, et benedíctus fructus ventris tui. Et unde hoc mihi ut véniat mater Dómini mei ad me? Ecce enim ut facta est vox salutatiónis tuæ in áuribus meis, exsultávit in gáudio infans in útero meo. Et beáta, quæ credidísti, quóniam perficiéntur ea, quæ dicta sunt tibi a Dómino. Et ait María: Magníficat ánima mea Dóminum; et exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo; quia respéxit humilitátem ancíllæ suæ, ecce enim ex hoc beátam me dicent omnes generatiónes. Quia fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus, et misericórdia ejus a progénie in progénies timéntibus eum.”

[In quel tempo: Elisabetta fu ripiena di Spirito Santo, e ad alta voce esclamò: Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno! Donde a me questo onore che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, infatti, che appena il tuo saluto è giunto alle mie orecchie, il bimbo ha trasalito nel mio seno. Beata te, che hai creduto che si compirebbero le cose che ti furono dette dal Signore! E Maria rispose: L’ànima mia magnifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore, perché ha guardato all’umiltà della sua serva; ed ecco che da ora tutte le generazioni mi diranno beata. Perché grandi cose mi ha fatto colui che è potente, e santo è il suo nome, e la sua misericordia si estende di generazione in generazione su chi lo teme.]

OMELIA DELL’ASSUNTA

DISCORSO PER L’ASSUNZIONE

DELLA SS. VERGINE.

[da: Discorsi parrocchiali del sig Billot – II ediz. Napoli- 1840]

“Quæ ista quæ progreditur quasi aurora consurgens,

pulchra ut luna, electa ut sol?”

[Cant. VI]

Voi mi prevenite senza dubbio, fratelli miei, nell’applicazione che debbo fare di queste parole del mio testo, e facilmente comprendete che quella magnifica descrizione, che fa qui lo Spirito Santo conviene perfettamente all’incomparabile Vergine, di cui celebriamo in questo giorno la trionfante Assunzione. Ma qual gloria, fratelli miei! E chi può esprimerne l’eccellenza? Il sepolcro medesimo, ove la gloria degli altri mortali sparisce, è glorioso per Maria: Erit sepulcrum eius gloriosum. Siccome Ella era stata preservata dalla corruzione del peccato, ed aveva servito di santuario alla divinità, così conveniva che il suo corpo non fosse soggetto alla corruzione del sepolcro. E perciò non sì tosto si addormenta Maria nel seno della morte che il suo corpo riprende una nuova vita, e riunito, alla sua anima, è innalzato con essa al trono di gloria che gli è apparecchiato nel cielo. Non cerchiamo dunque più Maria in questa bassa regione di morte, che non meritava più di possederla; ma seguitiamola in ispirito lassù nel cielo, ove Ella sale accompagnata da una moltitudine di Angeli, che premurosi sono di renderle gli onori che merita. Di già quest’arca misteriosa è introdotta nei tabernacoli eterni, e va a riposarsi nel posto che le è destinato. Di già io vedo questa Vergine incomparabile innalzata sopra i cori degli Angeli, assisa su di un trono accanto del suo caro Figliuolo, dove non riconoscendo alcun superiore fuorché Dio, Ella è riconosciuta per Regina degli Angeli e degli uomini. Tale è, fratelli miei, il gran soggetto di allegrezza che occupa il cielo e la terra in questa solennità: motivo di allegrezza per Maria, che vede in questo giorno le sue virtù ricompensate dalla gloria che ha meritata: motivo d’allegrezza per gli uomini, cui questa divina Madre è per servire di avvocata e di protettrice presso Dio per ottener loro tutte le grazie onde hanno bisogno. Ma quali saranno coloro che proveranno gli effetti della sua protezione, che avranno parte ai suoi favori? Tutti quelli che avranno una vera devozione verso di Ella. Per rinnovarla nei vostri cuori questa devozione verso la Madre di Dio, voglio proporvene i motivi, insegnarvene la pratica. Quali sono i motivi che indurre ci debbono alla devozione verso la Santissima Vergine, primo punto. In che consiste questa devozione, secondo punto.

Ave Maria.

I Punto. Benché Dio solo meriti il culto supremo a cagione dell’eccellenza e dell’indipendenza del suo Essere, ciò non impedisce che noi onoriamo i Santi che sono i suoi servi ed amici. Lungi di qui dunque quegli eretici che condannano questa pratica della nostra santa Religione come se disonorassimo il Figliuolo di Dio con gli onori che rendiamo ai suoi eletti. Il culto che loro rendiamo è sempre un culto subordinato; non è che un culto di venerazione, la cui gloria tutta si riferisce ancora a Dio, perché onorando i Santi, noi non onoriamo in essi che l’eccellenza dei doni che hanno dal cielo ricevuti: Dio medesimo, il quale, come ci attesta il Vangelo, onora i suoi servi, Honorìficabit eum Pater meus, ci fa un comando di onorarli a suo esempio. Or se è un obbligo di onorare e di invocare i Santi, non dobbiamo noi a più forte ragione decretare lo stesso onore a Quella, che tra tutti i Santi occupa il primo grado? L’innalzamento di Maria corrisponde e alla sua qualità di Madre di Dio e alla pienezza dei suoi meriti; e ancora su questa divina Maternità e sulle virtù sublimi che l’accompagnarono è fondato tutto il culto religioso che noi le dobbiamo. Che Maria sia Madre di Dio ella è una qualità che non si può disputarle senz’attaccare la fede, contraddir la Scrittura e dispregiare l’autorità della Chiesa nelle sue decisioni. Infatti quando il Vangelo ci dice che da Maria è nato Gesù: De qua natus est Jesus, non dice forse che essa è Madre di Dio? Poiché questo Gesù nato da Ella è il Figliuolo del Dio vivente, Dio da tutta l’eternità com’Egli, uguale a Lui in tutte le sue perfezioni. Invano per rapire a Maria l’augusta qualità di Madre di Dio, l’empio Nestorio ebbe la temerità di asserire che eranvi due persone in Gesù Cristo, e che Maria non era che madre di un uomo: questa bestemmia fu anatematizzata dalla Chiesa, radunata per questo motivo in Efeso; e vi fu deciso che sebbene vi fossero due Nature in Gesù Cristo, non eravi però che una sola Persona; e che Maria essendo la Madre di un uomo che era Dio, era per conseguenza Madre di Dio. E la Chiesa perciò radunata in questoCconcilio mise in bocca dei suoi figliuoli quella bell’orazione che noi indirizziamo tutti i giorni alla Santissima Vergine: Sancta Maria mater Dei, ora prò nobis peccatoribus. Or se Maria è Madre di Dio, qual rispetto, qual venerazione dal canto nostro non le merita una sì augusta qualità? Poiché se Maria è Madre di Dio, egli è fuor d’ogni dubbio che Ella ha data la vita all’Autore del suo essere e di tutte le creature che ha generato nel tempio Colui che il Padre Eterno ha generato sin dall’eternità; che ha portato nel suo seno Colui che la terra e i cieli non possono contenere; che entra a parte in qualche modo dei diritti del Padre celeste sopra il suo Figliuolo adorabile; Colui che comanda a tutta la natura le è sottomesso; il che c’insegna il Vangelo con quelle parole; Erat subditus illis. Gesù era sottomesso a Maria ed a Giuseppe! Qual cosa più gloriosa per una pura creatura? – Se Maria è madre, Ella è, per servirmi delle parole di s. Bernardo, la  riparatrice di tutti i secoli, la salute di  tutto l’universo, non certamente nel senso che lo è stato Gesù Cristo; Egli solo è il nostro Salvatore, Egli è il nostro unico Redentore, perché Egli solo ha potuto con i suoi patimenti e con la sua morte soddisfare pienamente alla giustizia di Dio suo Padre, ed ha versato il suo sangue per riscattarci. Ma non possiamo forse dire che la ss. Vergine ha cooperato a questa redenzione in quanto che Ella ha somministrato il suo più puro sangue per formare quel corpo adorabile offerto per nostro riscatto? Ella ha nutrito del suo proprio latte la Vittima che doveva essere sacrificata per i peccati degli uomini. Ella ha offerto nel tempo ed al piede della croce il suo Figliuolo adorabile per la redenzione del genere umano. – Ella ha dunque avuta la gloria di cooperare alla nostra salute, ed a questa gloria l’ha innalzata la divina maternità. Qual motivo, dico, di renderle i nostri omaggi ed i nostri rispetti. – Se Maria è Madre di Dio, Ella contrasse un’alleanza più particolare che alcuna creatura colle tre auguste Persone della Santissima Trinità. Ella è divenuta figliuola dell’Eterno Padre, Ella è il capolavoro della sua onnipotenza; come Madre del Figliuolo, Ella è stata la dimora e come la sede della sua sapienza; Sedes sapientìæ; come sposa dello Spirito Santo, Ella possiede i tesori del suo amore. In una parola, Ella è, secondo l’espressione di s. Agostino, l’opera per eccellenza dei disegni eterni: Æterni consiliì opus; e per parlare con s. Bonaventura, Ella è un raggio della Divinità: Radius Divinitatis. Sì, fratelli miei, Maria è il capolavoro dell’onnipotenza dell’Eterno Padre, della sapienza del Figliuolo, dell’amore dello Spirito Santo, poiché non vi è creatura alcuna in cui questi divini attributi si siano maggiormente manifestati che in Ella. L’onnipotenza di Dio si è manifestata in Maria in quanto che Ella non solamente è la più perfetta di tutte le creature, ma perché Dio non ha potuto, come dice s. Tommaso, fare una Madre più grande di Maria: Maiorem matrem Virgine Maria facere non poterat. La ragione che ne apporta questo santo dottore si è che, per fare una Madre più grande di Maria, converrebbe aver potuto darle un Figliuolo più grande di Gesù Cristo, che è Dio; e siccome nulla v’è di più grande che Dio, cosi nulla dopo Lui di più grande che Maria. Ella è altresì stata il capolavoro della sapienza di Dio, non solo per i lumi abbondanti che le sono stati comunicati, ma ancora perché Ella è stata scelta per essere la dimora ed il santuario di quella divina sapienza che risiedeva in Dio “ab eterno”. Anche lo Spirito Santo ne fece il capo d’opera del suo amore colla pienezza di grazie di cui la favoreggiò; pienezza di grazie sì grande che non solamente Maria fu preservata sin dal primo istante del suo concepimento dalla macchia del peccato originale, ma non ha neppure provato durante sua vita il minimo assalto del peccato, e che i ricchi doni di cui la sua anima è ricolma uguagliano la dignità a cui l’innalza la Maternità divina; di modo che, per giudicare dell’abbondanza dei doni che Ella riceve, converrebbe comprendere ciò che può fare di grande Colui che è il solo potente: Fecit mihi magna qui potens est. Bisogna forse stupirsi dopo questo, fratelli miei, all’udire i padri della Chiesa confessare ingenuamente l’impossibilità in cui sono di lodare degnamente le grandezze di Maria? Quali lodi, dice la comun dei dottori con s. Agostino, quali lodi, Vergine Santissima, possono accostarsi alla grandezza dei vostri meriti? Quìbus te laudibus effèram, nescio. L’impossibilità in cui siamo di parlare degnamente di Voi è precisamente ciò che ci dà una vera idea della vostra grandezza, e ciò che vi rende ai nostri occhi più degna dei nostri omaggi e del nostro rispetto. Ma un motivo molto forte ancora di esservi tutti dedicati si è quel complesso di virtù sublimi che accompagnò le vostre gloriose prerogative. – Qui, fratelli miei, io entro in un altro abisso di cui non posso penetrare la profondità. Se la santa Vergine ricevette dal suo Dio una pienezza di grazie si può dire che la sua vita fu un prodigio di virtù e di santità, perché, sempre fedele alla grazia, la lasciò operare sopra di sé in tutta la sua forza ed estensione, di modo che tutti i movimenti della sua vita furono segnati con azioni di virtù; e perché aveva essa ricevute maggiori grazie che tutte le creature insieme, né alcuna di queste grazie fu in Ella sterile, bisogna necessariamente confessare, dice il Crisostomo, che questa Vergine incomparabile ha sorpassato in virtù tutti i Santi, che essa ha avuta maggior fede che i Patriarchi ed i Profeti, maggior carità che gli Apostoli, maggior pazienza e costanza che i Martiri. Ma a qual segno principalmente non portò Ella l’umiltà, la purità? Lungi dal prevalersi nel mondo della sua dignità di Madre d’un Dio per esigere gli ossequi che le erano dovuti, Ella chiude gli occhi su tutto ciò che ha di grande, dimentica la nobiltà della sua nascita e non si ricorda che dell’umiliazione di sua natura. Ella mettesi sempre nel numero delle più semplici ancelle, e per meglio involare al mondo i favori che riceve dal cielo, Ella si confonde nella folla delle donne ordinarie, si sottomette, benché innocente, ad una legge stabilita per purificarsi dal peccato. Essa nasconde la santità della sua vita nell’oscurità del ritiro, e si studia di rimanere sconosciuta agli occhi degli uomini per non piacere che a Dio. O la più umile delle vergini! Quanto questo abbassamento volontario in cui vivete confonde il nostro orgoglio! Deh possiamo noi a vostro esempio amar il dispregio e l’oscurità, e meritare come Voi i favori del nostro Dio coll’umiltà dei sentimenti e con la purezza del cuore! Voi lo sapete, fratelli miei, la purità fu la virtù favorita di Maria: sin dall’età di tre anni essa si consacra al Signore con lo stato di verginità che abbraccia, virtù che era allora in obbrobrio tra le figliuole d’Israele. Quindi quale attenzione a fuggire tutto ciò che può lusingare i sensi? La vista di un Angelo la fa tremare, essa ama meglio rinunciare di esser Madre di Dio che rompere la fatta promessa di una verginale purità; e se consente finalmente al suo innalzamento, ciò non è che dopo essersi assicurata di non avere per isposo che lo Spirito Santo. Or sono queste sublimi virtù e tante altre da Maria praticate in un grado eminente che l’hanno innalzata a quel trono di gloria che occupa, e che sono i sodi fondamenti del culto religioso che le si rende in tutto il mondo cristiano. Invano i nemici della sua gloria si sono sforzati e si sforzerebbero di distruggere nello spirito dei fedeli i sentimenti di venerazione che sono stati sempre riserbati alle sue auguste qualità. – Invano le potenze dell’inferno han fatto ogni loro possa per togliere agli uomini il dolce rifugio che essi trovano nella sua protezione: questa potente Regina trionferà sempre dei nemici del culto; e la Chiesa, sempre condotta dallo Spirito Santo, si farà in tutti i tempi un dovere di sostenere gli interessi della Madre di Dio. Quindi le feste che esse ha istituite in suo onore, le chiese che consacra a Dio sotto il suo nome, le orazioni pubbliche che le indirizza, le confraternite erette a sua gloria, quelle società religiose che combattono sotto i suoi stendardi. La Chiesa s’ingannerebbe ella dunque inspirando e sostenendo una devozione falsa e temeraria? No, fratelli miei, ma sono i nemici della Chiesa che s’ingannano! Dio medesimo fa conoscere i loro errori: i miracoli che opera, le grazie singolari che accorda ai devoti servi di Maria provano abbastanza che Egli si compiace di vederla onorata sotto questi riguardi; ma per ricevere queste grazie bisogna metterne in pratica la devozione.

II Punto. In che consiste, fratelli miei, la vera devozione verso la Santissima Vergine? Nell’invocarla con confidenza, nell’imitarla con fedeltà. Queste due pratiche seguono naturalmente dai motivi che vi ho proposti per inspirarvi questa devozione. Infatti, se Maria è Madre di Dio, qual credito non ha Ella presso del suo Figliuolo, e qual confidenza non dobbiamo noi avere nella sua protezione? Se Maria è un modello perfetto di tutte le virtù, qual mezzo più efficace di meritare la sua protezione che imitare gli esempi che Ella ci ha dati? Quel che c’induce a mettere la nostra confidenza nelle persone capaci di farci del bene si è il potere e la volontà che esse hanno di farcene. Se non avessero che il potere senza la volontà o la volontà senza il potere, la nostra confidenza sarebbe vana; ma quando il potere è accompagnato da una buona volontà, questo è che fa nascere e sostiene la nostra speranza e ci autorizza a domandare delle grazie. Or l’uno e l’altra si trovano nella Santissima Vergine, dice s. Bernardo; Ella è Madre di Dio, per una necessaria conseguenza Madre degli uomini: la sua qualità di Madre di Dio, ci assicura del suo potere, e la sua qualità di Madre degli uomini ci assicura della sua buona volontà verso di noi. Ella è la più potente e la migliore di tutte le madri; con qual confidenza dobbiamo noi dunque indirizzarci ad Ella nei nostri bisogni! – Che la ss. Vergine in qualità di Madre di Dio abbia tutto il potere presso del suo caro Figliuolo, ella è una verità sulla quale non è possibile di formare il minimo dubbio. Ed in vero che non può la più perfetta di tutte le madri presso di un figliuolo che teneramente l’ama? Or un figliuolo amò mai egli giammai più teneramente la propria madre di quel che Gesù Cristo ami la sua? Potremmo noi credere che Colui il quale ha comandato ai figliuoli di amare e rispettare i loro genitori, mancasse di rispetto verso sua Madre? -Ah! fratelli miei, non impieghiamo qui altro linguaggio che quello della natura. Che non fareste voi per una madre che teneramente amate? Potreste voi ricusarle qualche grazia che Ella vi domandasse, senza esser tenuto per un ingrato, per un mostro di natura? E potreste voi avere sentimenti sì ingiuriosi verso Gesù Cristo di creder che Egli rassomigliasse a quei figliuoli disumani i quali non hanno che della durezza verso i loro genitori? Ah! Pensate meglio della bontà di un figliuolo che tiene a sua madre nel cielo il medesimo linguaggio che Salomone teneva un tempo alla sua. Domandate, o madre, tutto quello che vorrete, mettete alla prova la tenerezza d’un figliuolo, mentre non conviene ch’io vi ricusi alcuna cosa: Pete, mater mea, neque enim fas est, ut avertam faciem tuam.Tutte le mie grazie sono nelle vostre mani, spargetele sopra i vostri servi; qualunque cosa voi dimandiate, vi sarà accordata: Neque enim fas est etc. – Noi ammiriamo, fratelli miei, il potere di quei servi di Dio, di cui fa menzione la Scrittura, i quali avevano tanto accesso presso sua divina Maestà che Dio sembrava farsi ubbidiente alla loro parola, come è detto di Giosuè: Obediente Deo voci hominis. Or se i servi hanno avuto tanto di credito presso del padrone, quanto grande non deve essere quello della madre presso del figliuolo? Ella ne ha ricevuto tutto il potere nel cielo e sulla terra, dice s. Bonaventura, applicando ad Ella le parole di Gesù Cristo medesimo: Data est mihi omnis potestas in cœlo et in terra. S. Antonino aggiunge che è impossibile che Maria non sia esaudita: Impossibile est Mariam non exaudiri. Di modo che, continua egli, la prontezza con cui le vien accordato tutto quel che domanda le dà un credito che ha del comando e dell’impero. Rationem habet imperii.- Qual felice conseguenza, fratelli miei, a dedurre a favore di coloro che mettono la loro confidenza in questa divina Madre! Poiché alla grandezza del suo potere Ella unisce eziandio la volontà più sincera di soccorrerci. Noi siamo i suoi figliuoli, ed Ella ci ama con tenerezza; Ella vede in noi i fratelli di Gesù Cristo, e a ciascuno di noi in particolare questo divin Salvatore la diede per Madre prima di spirare sulla croce: Ecce mater tua. Noi possiamo ben dunque dire con ragione di avere una Madre onnipotente nel cielo. Or qual cosa più consolante? Potrebbe Ella dimenticare i nostri bisogni o vederli con occhio indifferente? No, fratelli miei, questa divina Madre dall’alto grado di gloria a cui è innalzata, non è talmente occupata della sua felicità che non pensi più a noi. Ella ci serve di avvocata presso di Dio; e siccome Gesù Cristo è il principale mediatore che difende la nostra causa presso suo Padre, come dice s. Paolo: Semper vivens ad interpellandum prò nobis, Maria impiega altresì la propria mediazione presso del suo Figliuolo, in favore di coloro che ricorrono alla sua protezione. Per mezzo di questa potente mediazione, arresta Ella il braccio della divina giustizia pronta a vibrare i suoi fulmini sopra gli uomini colpevoli. Oimè! quanti peccatori tra coloro che mi ascoltano sarebbero di già precipitati nell’inferno, se la Santissima Vergine non avesse domandata grazia per essi, se non avesse loro ottenuto il tempo di far penitenza. Quanti peccatori le sono debitori della loro conversione, quanti giusti della loro perseveranza, quanti Santi della loro ricompensa nel cielo! In una parola, la Santissima Vergine è come il canale per cui tutte le grazie, tutti i tesori del cielo ci sono comunicati: chiunque è favorevolmente ascoltato da Maria lo è altresì da Gesù Cristo; e chiunque con fiducia la invoca è sicuro di essere esaudito e di provare gli effetti della sua protezione. Ricorrete dunque a Maria, conchiude a questo proposito s, Bernardo, o voi tutti che vi riguardate in questo mondo come sopra un mare procelloso, agitati dalle tempeste, trasportati dai flutti, esposti ad ogni momento al pericolo di far naufragio. Se voi volete non restare sommersi, tenete fissi gli occhi a quest’astro che calma le tempeste: « Respice stellam, voca Mariam ». Se voi siete assaliti dalle tentazioni, come da venti fuoriosi, che si sollevano contro di voi, se le vostre passioni vi spingono contro gli scogli, se l’ira vi strascina al precipizio: ricorrete a Colei che può far cessare la tempesta e che vi farà trionfare dei vostri nemici con le grazie che vi otterrà per superarli: Voca Mariam. Se, molestati dai rimorsi di vostra coscienza e dalla gravezza dei vostri peccati, siete tentati di precipitarvi nell’abisso della disperazione alla vista dei terribili giudizi di Dio, pensate solamente: Maria, invocatela nei vostri pericoli, nelle vostre tribolazioni, in tutti i vostri bisogni, e proverete consolazione nelle vostre pene, sentirete rianimarsi la speranza, perché è impossibile, dice s. Bernardo, che un vero servo di Maria possa perire. Datemi qualcheduno, dice egli, che l’abbia invocata invano, ed io consento che non l’invochi più. Ma ricordatevi, aggiunge il citato santo Dottore, che il mezzo più efficace di rendervela propizia è d’imitare gli esempi delle virtù che Ella vi ha dati: Ut impetres eius oratiònis suffragium , non deseras contersationis èxemplum. In questa pratica, fratelli miei, consiste principalmente la vera devozione verso lo Santissima Vergine. Bisogna onorarla, ella è cosa buona ed utile, invocarla con confidenza. Ma contentarsi di darle qualche segno di venerazione, d’indirizzarle alcune preci, d’essere aggregato a qualcheduna delle sue confraternite ed attenersi precisamente a questo, senza fare alcuno sforzo per imitare le sue virtù, ella è una devozione superficiale ed inutile. Per essere vero servo di Maria Vergine, bisogna esser servo di Gesù Cristo, ubbidire come Ella alla sua legge, camminare come Ella sulla tracce di questo divin modello. La Santa Vergine, è vero, è il rifugio dei peccatori: Refugium peccatorum; essa ottiene loro le grazie di conversione e di salute. Ma otterrà Ella forse queste grazie di conversione ai peccatori che non vogliono convertirsi, che persistono ostinatamente nei loro disordini? Salverà Ella forse quei peccatori che non vogliono profittare delle grazie di salute? No, fratelli miei, Dio medesimo che ci ha creati senza noi, non ci salverà senza di noi, dice s. Agostino. Non bisogna dunque, o peccatori, immaginarvi che con alcune preci indirizzate alla Madre di Dio, con alcune pratiche di devozione in onor d’Ella adempite, voi nulla abbiate a temere, perché siete, dite voi, sotto la protezione di Maria, la quale non vi abbandonerà. Voi avete ragione di mettere in Lei la vostra confidenza, e di tutto aspettare dal suo potere e dalla sua bontà; ma non è confidenza, ella è presunzione il credere che la Santa Vergine farà tutto dal canto suo mentre voi nulla volete fare dal vostro. Essa protegge i peccatori ma ha in orrore il peccato. Le stanno troppo a cuore gl’interessi del suo caro Figliuolo per autorizzare gli oltraggi che Gli si fanno; chiunque dichiara la guerra al suo Figliuolo incorre il suo sdegno; l’ubbidienza ai voleri del Figliuolo è il solo mezzo con cui sperare si possono i favori della Madre. –  Eh! come mai questa Vergine, che è stata la più grande e la più umile nello stesso tempo tra tutte le creature, accorderebbe Ella i suoi favori a quegli uomini orgogliosi che pieni di se stessi non hanno che del dispregio per gli altri; che cercano solo d’innalzarsi e comparire quel che non sono, mentre hanno tanti motivi di umiliarsi, di abbassarsi? Con qual occhio questa Vergine tutta pura potrebbe vedere nel numero dei suoi figliuoli quelle anime carnali e voluttuose, che nutriscono la loro immaginazione di pensieri disonesti, si abbandonano ai desideri sensuali, s’immergono nel fango e nella sozzura del peccato, cui Ella ha tanto in orrore? Quali grazie possono sperare da questa Madre del divino Amore quei vendicativi che non vogliono perdonare, quei maldicenti che vibrano i loro colpi avvelenati contro la riputazione dei prossimo, quegli usurpatori ingiusti dei beni altrui? No, no, peccatori, chiunque voi siate, non vi lusingate dalla protezione e del credito della Santissima Vergine; se voi non lascerete le vie dell’iniquità, non crediate che all’ombra delle sue ali possiate mettervi a coperto delle ree passioni che non volete domare; non sperate che, dopo aver passata la vostra vita nel peccato, Ella vi ottenga la grazia d’una santa morte. Egli è impossibile, lo so, che un vero servo di Maria perisca, ma se volete essere di questo numero ed aver parte alla sua amicizia, cessate di essere i nemici del suo Figliuolo: cominciate a lasciare i vostri disordini, a cambiare vita, ed Ella vi otterrà gli aiuti di cui avete bisogno per rientrare in grazia con Dio. Nel che la sua potente protezione molto serve ai peccatori; mentre i peccatori, per uscire dall’abisso del peccato, hanno bisogno di una grazia particolare, che essi non meritano; ma se hanno un vero desiderio di ritornar a Dio, e per riuscire in quel buon disegno ricorrono alla Santa Vergine, ah! allora sì che Ella fa loro sentire il suo credito, ottenendo loro quelle grazie forti e potenti che fanno loro ricuperare la libertà dei figliuoli di Dio. – Quanto a voi, anime giuste, che possedete l’amicizia del vostro Dio, e che in questa qualità avete maggior parte ai favori della Santa Vergine, voi potete tutto sperare dalla sua protezione, se siete fedeli a camminare sulle sue tracce. Indirizzatele ferventi orazioni, Ella vi otterrà la perseveranza nel bene e la grazia di morire della morte dei giusti. – Per ottenere tanti favori, a Voi ricorriamo, o Vergine Santissima, Madre di misericordia, nostra speranza presso Dio: Mater misericordiæ, vita, dulcedo, spes nostra. Noi v’indirizziamo i nostri voti, i nostri sospiri in questa valle di lacrime, ove la nostra occupazione è di gemere, di piangere sulle nostre miserie: Ad te suspiramus. Degnatevi di gettare su di noi i vostri sguardi propizi, affine di procurarci dopo il nostro esilio, un accesso favorevole presso del vostro caro Figliuolo: Et Jesum benedictum etc. – Noi non vi domandiamo, Vergine Santissima, i beni transitori di questo mondo: noi non vi domandiamo neppure di ottenerci la liberazione dai mali di questa vita, essi possono essere per noi un motivo di predestinazione, se ne facciamo un santo uso; ma noi vi preghiamo di ottenerci la pazienza di soffrirli in vista della nostra salute. Otteneteci un grande orrore del peccato, che è il solo male che dobbiamo temere. Domandate per noi la purità, l’umiltà e le altre virtù che vi hanno resa sì gradita a Dio. Fate vedere in questo che voi siete nostra Madre; fatecelo conoscere principalmente al momento della morte, che deve decidere della nostra sorte eterna. Si è soprattutto per quell’ultimo momento che noi imploriamo il vostro potentissimo patrocinio affinché il nemico della salute non prevalga su di noi, e la morte non sia che un passaggio alla vita beata. Cosi sia. [Oltre le pratiche generali di devozione verso la Santa Vergine, che si sono proposte in questa istruzione, si raccomandano le seguenti: Recitare ogni giorno qualche preghiera in suo onore, come la corona, le sette allegrezze: ascriversi nelle sue confraternite come del Rosario, del Carmine ecc. Si può facilmente recitare la terza parte del Rosario ogni giorno, cominciando sempre con un atto di contrizione; digiunare, o far qualche mortificazione il sabato in suo onore, averne un’immagine nella sua camera, salutarla quando si passa avanti qualche cappella o immagine, dicendo: O mater Dei, memento mei: o madre di Dio, ricordatevi di me, adesso e nell’ora della mia morte. Proporsela per modello nelle sue azioni, principalmente le persone del sesso, domandando spesso a sé medesimo come la Santa Vergine pregava, come conversava essa col modo; qual era il suo orrore per le compagnie profane, il suo amore per la solitudine, pel silenzio ecc.]

 

Offertorium
Orémus
Gen III:15
Inimicítias ponam inter te et mulíerem, et semen tuum et semen illíus.[Porrò inimicizia tra te e la Donna: fra il tuo seme e il Seme suo.]

Secreta
Ascéndat ad te, Dómine, nostræ devotiónis oblátio, et, beatíssima Vírgine María in coelum assumpta intercedénte, corda nostra, caritátis igne succénsa, ad te júgiter ádspirent.
[Salga fino a Te, o Signore, l’omaggio della nostra devozione, e, per intercessione della beatissima Vergine Maria assunta in cielo, i nostri cuori, accesi di carità, aspirino sempre verso di Te.]

Communio
Luc 1:48-49
Beátam me dicent omnes generatiónes, quia fecit mihi magna qui potens est. [Tutte le generazioni mi diranno beata, perché grandi cose mi ha fatto colui che è potente.]

Postcommunio
Orémus.
Sumptis, Dómine, salutáribus sacraméntis: da, quǽsumus; ut, méritis et intercessióne beátæ Vírginis Maríæ in coelum assúmptæ, ad resurrectiónis glóriam perducámur.
[Ricevuto, o Signore, il salutare sacramento, fa, Te ne preghiamo, che, per i meriti e l’intercessione della beata Vergine Maria Assunta in cielo, siamo elevati alla gloriosa resurrezione.]

DOMENICA X dopo PENTECOSTE

Introitus
Ps LIV:17; 18; 20; 23
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante saecula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet. [Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]
Ps LIV:2
Exáudi, Deus, oratiónem meam, et ne despéxeris deprecatiónem meam: inténde mihi et exáudi me.
[O Signore, esaudisci la mia preghiera e non disprezzare la mia supplica: ascoltami ed esaudiscimi.]
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet. [Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui omnipoténtiam tuam parcéndo máxime et miserándo maniféstas: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, ad tua promíssa curréntes, cœléstium bonórum fácias esse consórtes.
[O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto perdonando e compatendo, moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché quanti anelano alle tue promesse, Tu li renda partecipi dei beni celesti.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XII:2-11
Fratres: Scitis, quóniam, cum gentes essétis, ad simulácra muta prout ducebámini eúntes. Ideo notum vobisfacio, quod nemo in Spíritu Dei loquens, dicit anáthema Jesu. Et nemo potest dícere, Dóminus Jesus, nisi in Spíritu Sancto. Divisiónes vero gratiárum sunt, idem autem Spíritus. Et divisiónes ministratiónum sunt, idem autem Dóminus. Et divisiónes operatiónum sunt, idem vero Deus, qui operátur ómnia in ómnibus. Unicuíque autem datur manifestátio Spíritus ad utilitátem. Alii quidem per Spíritum datur sermo sapiéntiæ álii autem sermo sciéntiæ secúndum eúndem Spíritum: álteri fides in eódem Spíritu: álii grátia sanitátum in uno Spíritu: álii operátio virtútum, álii prophétia, álii discrétio spirítuum, álii génera linguárum, álii interpretátio sermónum. Hæc autem ómnia operátur unus atque idem Spíritus, dívidens síngulis, prout vult.

Omelia I

[Mons. G. Bonomelli, Omelie, vol III – Torino, 1899. Omelia XXI]

« Voi sapete, che, essendo Gentili, andavate agli idoli muti, come vi menavano. Perciò vi dico, che nessuno, parlando nello Spirito di Dio, può dire anatema a Gesù; e che nessuno può dire Signore Gesù, se non per lo Spirito Santo. Vi sono poi diversi doni, ma lo Spirito è medesimo: e sono diversi ministeri, ma è lo stesso Signore; e sono diverse operazioni, ma è lo stesso Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito ad utilità. Perciocché ad uno è data per lo Spirito parola di sapienza, ad altro di scienza, secondo lo Spirito stesso. Ad altro la fede per il medesimo Spirito, ad altri doni di guarigioni nello stesso Spirito. Ad altro l’operare portenti, ad altro profezia, ad altro il discernere gli spiriti, ad altro generi di lingue, ad altro interpretazioni di lingue. Ora tutte queste cose le opera quell’uno e medesimo Spirito, dividendole a ciascuno come vuole „ (I. Cor. XII, 2-11).

Lo scopo della prima lettera di S. Paolo ai Corinti (le sentenze che or ora avete udite spettano a quella lettera) è vario, come apparisce a chi la legge anche solo superficialmente. Si studia di togliere i dissidi, che turbavano la pace di quella Chiesa e vuole, che smesse le pretensioni a sapienza, riconosca nei sacri ministri Colui che li manda. Usando della sua autorità, separa dalla Chiesa l’incestuoso: stabilisce come devono regolarsi, quanto al mangiar le carni offerte agli idoli e dichiara la dottrina di Cristo intorno al matrimonio ed alla verginità, e dà le norme intorno al modo di celebrare la cena e di ricevere la S. Eucaristia. Nella primitiva Chiesa erano assai frequenti i doni straordinari, secondo la promessa di Cristo. L’Apostolo per cessare i pericoli e la confusione, che ne potevano derivare nella Chiesa, ricorda ai fedeli la dottrina cattolica intorno a questi doni e poi traccia le regole pratiche, alle quali si devono attenere nell’uso dei medesimi. Nella lezione, che debbo spiegare, si espone la dottrina cattolica rispetto a tutti i doni celesti, ed essa è ben meritevole di tutta la vostra attenzione. Dio è il Padre dei lumi, dice S. Giacomo, – è la fonte inesauribile di tutti i doni, siano naturali, siano sovrannaturali. I doni di Dio, che appartengono all’ordine sovrannaturale si sogliono partire in due grandi classi: alla prima classe spettano i doni più eccellenti, quelli che per se stessi ci fanno grati a Dio, ci costituiscono suoi amici, anzi suoi figliuoli e partecipi della sua stessa natura; tal è la grazia di Dio santificante. Alla seconda classe di doni sovrannaturali appartengono quelli, che propriamente non ci fanno amici di Dio, ma che ci possono condurre a lui e che si possono trovare e si trovano di fatti anche in uomini peccatori. Così taluno può avere il dono della profezia, di far miracoli e andate dicendo, e vivere in peccato ed anche perdersi. Questi doni sovrannaturali nessuno può meritarli; Iddio li concede a chi vuole secondo i consigli della sua sapienza, e direttamente hanno per fine, non il bene di chi li riceve, ma sì il bene altrui. Così il potere sacerdotale è volto principalmente alla salvezza delle anime e può trovarsi e validamente si esercita anche da chi ne è indegno e vive nel peccato e nello scandalo. S. Paolo nel luogo, che siamo per ispiegare, ragiona dei doni sovrannaturali della seconda classe, a quei tempi molto comuni, perché erano ordinati a diffondere e stabilire la fede e la religione, ch’era in sul suo nascere. – L’Apostolo scrive a ai Corinti, molti dei quali erano stati Gentili, e dopo aver detto loro: – Quanto ai doni spirituali non voglio che ne siate ignari, ,, prosegue e scrive: ” Voi sapete, che, essendo Gentili, andavate agli idoli mutoli, come vi menavano. „ Con destrezza affatto naturale S. Paolo contrappone lo stato presente a quello, in cui poco prima si trovavano quei suoi neofiti allo scopo manifesto di far loro conoscere l’immenso beneficio ricevuto. Non potete dimenticarlo, par che dica l’Apostolo: pochi anni or sono voi eravate idolatri e adoravate statue mute e come pecore vi lasciavate condurre a’ loro piedi. Voi, esseri dotati di ragione e di libera volontà, prestavate il vostro culto ad idoli muti, sordi, senza vita. Quale vergogna per voi caduti sì basso! Ora avete conosciuto Dio, il vero Dio, puro spirito e lui solo adorate, lui, sorgente d’ogni bene e perciò siete capaci di conoscere il pregio eccelso de’ suoi doni e il modo di usarne a vostra santificazione. “Il perché vi significo, continua S. Paolo, che nessuno, parlando nello Spirito di Dio può dire anatema a Gesù. „ Dire anatema significa maledire, bestemmiare, esecrare, ed è forma di parlare ebraica. Volete conoscere chi ha lo Spirito di Dio e possiede la verità – Volete conoscere i veri dottori e distinguerli dai falsi, dagli impostori? Tenete questa regola: Chi sente bene di Gesù Cristo, lo riconosce, lo confessa qual è, nostro Salvatore: chi l’onora e l’ama, costui ha lo Spirito di Dio, è nella verità, e potete sicuramente ascoltarlo e seguirlo. In quei primi principi, erano già sorti non pochi maestri, che insegnavano perverse dottrine: chi diceva ch’era uomo soltanto e non Dio: chi affermava che non aveva corpo vero, ma solo apparente, e perciò solo apparentemente aveva patito ed era morto, e chi altri errori spacciava intorno a Gesù Cristo. Ebbene: chiunque erra intorno a Gesù Cristo e lo bestemmia, sappiatelo bene. non parla nel suo spirito, e fuggitelo. Questo stesso criterio è ripetutamente stabilito quarant’anni dopo da S. Ignazio M. nelle sue magnifiche lettere, che sembrano l’eco di quelle di san Paolo, del quale dovette essere discepolo. Per contrario, “Nessuno può pronunziare Signore Gesù, se non per lo Spirito santo. „ In altri termini: Chi riconosce Gesù per Signore, lo confessa, lo benedice, questi ha lo spirito di lui, e in lui dovete riconoscere un suo sincero discepolo. Una grande verità è qui affermata dall’Apostolo, ed è questa: Nessuno, sia quanto si voglia pieno d’ingegno e di dottrina, senza la grazia divina, senza l’aiuto dello Spirito Santo, può credere e sperare, come si deve,, in Gesù Cristo, e nemmeno invocarlo a salute. Senza gli occhi potreste voi vedere le cose? Senza gli orecchi potreste voi udire? Senza la ragione potreste voi ragionare e senza volontà potreste voi volere? Certo che no, e non occorre dimostrarlo. Similmente senza la grazia di Dio, che illumina la nostra mente ed eccita ed avvalora la nostra volontà, noi non solo non possiamo credere, né sperare, né amare Iddio, ma nemmeno fare il minimo atto od avere il minimo pensiero, che a lui ci guidi e ci renda accettevoli. In una parola: senza l’aiuto della grazia divina non possiamo fare né poco, né molto, in ordine alla nostra salvezza, ma nulla, perfettamente nulla: non possiamo nemmeno pronunciare o invocare, come si deve, il nome di Gesù! “Nemo potest dicere Dominus Jesus nìsì in Spiritu sancto”. Quale argomento di umiliarci dinanzi a Dio e di riconoscere la necessità assoluta della sua grazia e di chiederla con ogni istanza! Tutti i beni, tutte le grazie vengono da Dio, e senza di lui non abbiamo, né possiamo fare cosa alcuna: è verità di fede. “Sono poi diversi i doni, ma lo Spirito è il medesimo. „ I doni, dei quali qui si discorre, sono quelli, che si chiamano gratis dati, per es. i miracoli, le profezie, i doni del sacro ministero e via via: essi sono vari e più innanzi li nomina distintamente, ma la causa o il principio, che li produce è un solo, lo Spirito santo. Quantunque tutti questi doni vengano tutti egualmente dalle tre divine Persone, nondimeno si attribuiscono specialmente allo Spirito santo, perché esso è l’Amore sostanziale del Padre e del Figlio, e questi doni sono un frutto od una conseguenza dell’amore di Dio verso di noi. – “E diversi sono i ministeri, ma è lo stesso Signore. „ La parola ministeri, qui usata, significa i diversi uffici o servigi che sono nella Chiesa, per es. l’ufficio di diacono, di prete, di vescovo; sono diversi, è vero, ma è un solo e medesimo chi li ha istituiti, che è Gesù Cristo, fondatore della Chiesa. – “E diverse sono le operazioni, ma è lo stesso Dio che opera tutto in tutti. „ Colla parola operazioni S. Paolo indica la potenza, la forza od efficacia, per cui le grazie e i ministeri sacri producono i loro effetti variamente; ma il  principio, da cui derivano, è sempre Dio e più propriamente il Padre, che è il principio senza principio del Figlio e dello Spirito Santo. E Dio opera tutto in tutte le cose: “Operatur omnia in omnibus”. Questa espressione o sentenza, perché non sia torta a cattivo senso, richiede un po’ di spiegazione. – Senza fallo tutte le cose che esistono, tanto nell’ordine naturale, che nel sovrannaturale, tutte muovono da Dio, sono effetto dell’azione divina: Qui operatur omnia. Ma Dio opera o produce anche gli effetti, che derivano dalle cause seconde? Il fuoco brucia, la luce illumina, l’acqua bagna, l’albero germoglia il suo frutto: questi effetti sono essi prodotti da Dio stesso? Certamente il fuoco brucia per sé, e la luce lumina per sé, e l’acqua per sé bagna, e l’albero per sé fruttifica; ma perché poi tutte teste cose producono questi effetti? D’onde traggono le forze per produrli? Essi fanno ciò che fanno, perché tale è la loro natura, né potrebbero fare diversamente da quello che fanno; ma la forza per cui producono gli effetti, che noi vediamo, fondamentalmente la ricevono da Dio solo, che le ha create, tantoché possiamo dire, che è Dio che opera per loro e tutto opera in ciascuna di loro. Onde è verità certissima il dire, che Dio brucia col fuoco, ci illumina colla luce, ci disseta coll’acqua, ci nutre coi frutti degli alberi e ci veste colle lane delle pecore: Deus operatur omnia in omnibus. Tutti i servigi, che noi riceviamo ad ogni istante dalle creature, che ne circondano, li riceviamo veramente da Dio, poiché esse non fanno che ciò che Dio creatore vuole facciano: sono esecutrici fedeli e infallibili delle sue leggi e de’ suoi voleri. – È dunque un linguaggio pieno di verità quello che si ode sì spesso sulle labbra del popolo credente: Dio ci ha dato la pioggia! Dio ci dà il calore del sole! Dio ne ha concesso un raccolto abbondante! Dio ci ha mandata questa siccità! e via dicendo. È dunque un linguaggio pieno di verità e a torto gli uomini della scienza lo biasimano quasi erroneo e contrario alla scienza. Il popolo in tutti i fenomeni naturali vede e riconosce la Causa prima senza negare le cause seconde, e quella li ascrive: gli uomini della scienza non badano alla causa prima e si fermano alle cause seconde. Questi ragionano bene, e ragionerebbero meglio se quando è necessario e conveniente dalle cause seconde risalissero, alla Causa prima, e quelli riconoscendo la prima debbono riconoscere anche le cause seconde o immediate: ma questi meritano compatimento se non le ricordano, perché spesso le ignorano: ma il loro linguaggio è sempre vero e sapiente. Ma vi sono creature, fornite di ragione e libertà, come gli angeli e gli uomini; anch’esse operano secondo la loro natura. Ma come? Sicuramente in modo ben diverso da quello che tengono le creature irragionevoli. Le creature ragionevoli operano liberamente, possono fare e non fare, a questo e a quel modo, e Iddio non le sforza, ma rispetta egli stesso quella libertà, che loro ha data. Ma la forza di fare ciò che fanno, sia bene, sia male, da chi la ricevono? Anch’esse tutte e sempre la ricevono da Dio solo e perciò è giusto il dire, che anche in esse Dio opera tutto in ciascuna: Operatur omnia in omnibus. Non opera, né può operare il male, ch’egli non vuole, né può volere, ma la forza, con cui l’uomo fa il male, anche questa viene da Dio. È vero pertanto che tutto è dono di Dio, in qualunque ordine di cose, e ch’egli opera tutto in ogni cosa. Dio è un solo e nella semplicissima sua unità produce la più sterminata varietà di effetti: diversissimi sono i doni, eppure un solo è lo Spirito, da cui scaturiscono. – S. Cirillo di Gerusalemme spiega la cosa con una similitudine, che non è senza grazia. Uditelo: “Vedete, così il santo in una delle sue mirabili catechesi, vedete l’acqua; essa è una sola e da per tutto la stessa, senza colore proprio; fate che si spanda sopra un prato e lo irrighi; dovunque spuntano fiori per colore e fragranza differentissimi tra loro. Similmente la grazia dello Spirito Santo: essa è una sola in se stessa, eppure variamente partecipata produce vari effetti, ond’è verissima la sentenza dell’Apostolo: Diverse sono le operazioni, ma è lo stesso Iddio, che opera tutto in tutti. „ S. Paolo ora discende ai doni particolari, che Dio concede a vantaggio della Chiesa: “A ciascuno è data la manifestazione dello Spirito a fine di utilità; „ il che vuol dire, che il dono dello Spirito santo, nel quale lo stesso Spirito Santo si fa conoscere, come il sole si manifesta nei suoi raggi, ha per fine proprio il bene della Chiesa. E in vero; ad uno è data la parola di sapienza per lo Spirito Santo: “Alii quidem datur sermo sapientìæ”. Che è quanto dire, lo Spirito Santo ad uno largisce il dono di spiegare i misteri più alti della dottrina evangelica, di gustare e far gustare colla parola le verità più sublimi e farne sentire tutta l’altezza e la profondità, la lunghezza e la larghezza, come altrove scrive lo stesso Apostolo:  “Ad un altro è data la parola della scienza, secondo lo stesso Spirito. „ Noi possiamo conoscere semplicemente le verità, averne la nozione precisa, e possiamo conoscerle, assaporarne la bellezza e la dolcezza e praticarle: questo secondo dicesi dono della sapienza, quel primo, dono della scienza. Non occorre il dire che la sapienza sovrasta alla scienza e ne è, a così dire, il fine. Un teologo o filosofo può conoscere nettamente le verità della fede, spiegarvele e mostrarvele ad evidenza senza praticarle: S. Francesco d’Assisi, che passa le notti intere, meditando quelle parole; ” Mio Dio, voi siete tutto per me, „ si delizia nella contemplazione della verità: egli possiede il dono della sapienza. La scienza è luce, sì, ma luce fredda: la sapienza è luce che spande per tutte le fibre dell’anima il tepore ed il calore della vita, che ci fa amare e praticare la verità. – Seguitiamo l’Apostolo nella sua lunga enumerazione dei doni celesti: ” Ad un altro è data la fede nello stesso Spirito: „ “Alteri fides in eodem Spiritu”. Gesù Cristo un giorno disse agli Apostoli: ” Se voi avete fede, direte a questo monte: Tirati in là e gettati in mare, e il monte ubbidirà. „ E di questa fede, operatrice di miracoli, non della fede ordinaria e comune, teologica che Gesù Cristo ragiona. Questa è un dono singolare, punto necessaria per salvarsi, ma solo per operare miracoli. – “Ad altri sono dati doni di guarigioni nello stesso Spirito. „ Gesù Cristo e gli Apostoli assai volte con una parola, con un cenno, con una preghiera, coll’ombra della loro persona scacciavano le infermità più ostinate e restituivano ai miseri, che n’erano travagliati, la perfetta guarigione. Questo dono speciale di guarire gli infermi era assai comune nella Chiesa dei primi secoli, e qui è ricordato da S. Paolo: ” Ad altro è dato operare prodigi: „ Alii operatio virtutum. Nella sentenza precedente S. Paolo accenna in particolare il dono di risanare gli infermi, qui designa più largamente il dono di far miracoli: Alii operatio virtutum, che è molto più ampio del far guarigioni, giacche comprende qualunque miracolo. ” Ad altri è data la profezia. „ Ve lo dissi altra volta: la parola profezia ha parécchi significati distinti nei Libri santi, e due sono i principali: talora la parola profezia importa conoscimento e annunzio di cose future affatto superiori alle forze umane, e questo è il significato più comune e più proprio: tal altra si usa per significare semplicemente l’annunzio di verità divine, onde profeta e predicatore o apostolo equivalgono. In questo luogo la parola profezia suona precisamente il dono di dichiarare in pubblico le verità della fede, e i sensi della Scrittura santa, in modo piano ed intelligibile. – “Ad altro, continua S. Paolo, è dato il discernere gli spiriti: „ Alii discretio spirituum. Che dono è questo, dilettissimi? Ciò che avviene in fondo al nostro spirito, i pensieri, che si affacciano alla nostra mente, gli affetti e desideri, che spuntano nel nostro cuore, non sono manifesti che a Dio solo: i demoni, anzi gli stessi Angeli, senza una illustrazione particolare di Dio, non possono spingere lo sguardo nei penetrali del nostro spirito e leggervi ciò che vi passa. Possono, come noi uomini e più di noi uomini, perché dotati di acume assai maggiore, possono argomentare i pensieri e gli affetti interni dagli atti esterni ed averne una cognizione congetturale, ma non certa ed assoluta. Conoscere pertanto con sicurezza gli occulti pensieri e leggere nel libro delle coscienze a Dio solo è riservato e a quegli uomini, che Iddio rischiara della sua luce: esso è un dono affatto sovraumano, ed era frequente in quei primordi della Chiesa. “Ad altro, prosegue ancora S. Paolo, è dato di avere generi di lingue: „ Alii genera linguarum. Nessun uomo può parlare una lingua ignota: la è cosa evidente: il perché se una persona favella in una lingua ad essa ignota, è forza arguire che lo fa per virtù divina, che è un dono dall’alto. Ebbene: il dì della Pentecoste avvenne questo miracolo e avvenne pubblicamente per le vie di Gerusalemme, come si narra nel libro degli Atti apostolici. Gli Apostoli annunziavano il Vangelo nella loro lingua nativa e le turbe, che li ascoltavano, benché ignare di quella, li intendevano, onde attonite esclamavano: Come avviene, che noi li intendiamo ciascuno nel nostro linguaggio? Quel fatto ebbe a ripetersi più volte e se n’ebbero prove indubitate nelle predicazioni di S. Francesco Xaverio. Ai tempi apostolici questo miracolo del favellare in una lingua ignota non doveva essere infrequente, perché S. Paolo ne parla qui e in altro luogo più innanzi. Ma se alcuni  parlavano linguaggi stranieri e mostravano in sé la virtù divina, vi erano altri, che li spiegavano, illustrati sempre dallo stesso Spirito, onde S. Paolo soggiunge: “Ad un altro è data l’interpretazione delle lingue: „ Alii interpretatio sermonum. Il parlare improvvisamente una lingua affatto ignota in mezzo all’adunanza dei fedeli mostrava l’azione divina ed era una prova della verità della fede, ma non illuminava le menti, che udivano accenti strani senza afferrarne il senso: stupivano gli uditori, ma nulla apprendevano, e ciò che più importa è che  le menti siano illustrate dalla luce del vero. Ed  ecco che Iddio, aggiungendo miracolo a miracolo, in mezzo all’assemblea dei fedeli, ad un tratto dava a qualcuno il dono di interpretare quelle lingue straniere e ne spiegava i sensi, tantoché i presenti ne ritraevano edificazione. – “Tutte queste cose, conchiude il nostro Apostolo, opera un solo e medesimo Spirito, spartendole a ciascuno come vuole. „ Sono dodici doni diversi, che in questo luogo sono partitamente numerati da S. Paolo: doni che avevano per iscopo diretto di mostrare la divinità della fede, di rassodarla negli animi e propagarla rapidamente, e che per se stessi non erano tali da santificare né quelli che li possedevano, né quelli che n’erano testimoni. Questi doni se nella Chiesa non vennero, né  verranno meno giammai, sono senza fallo assai più rari, perché minore è il bisogno, e a quella prova della divina origine della cristiana religione altre splendidissime sono sottentrate [Quando gli Apostoli cominciarono la predicazione evangelica, i miracoli erano una necessità, e perciò erano frequentissimi: più tardi la stessa propagazione e conservazione della Chiesa divennero un miracolo permanente, e l’adempimento delle profezie a tutti manifesto, può tenere il luogo di tutti i miracoli.]. – Tutti quei doni sì magnifici e sì vari sgorgavano dalla stessa fonte, da Dio, causa suprema d’ogni cosa, da Dio, che li dà a chi vuole, come vuole, quanto vuole e quando vuole perché nessuno può dirgli: Io ho il diritto di averli. L’unica ragione della partecipazione di questi doni è la volontà sovrana del donatore. – Carissimi figliuoli! Iddio dispone ogni cosa in numero, peso e misura, e come non abbonda nelle cose superflue, così non manca nelle necessarie. Gli Apostoli, annunziando il Vangelo, dovevano provarne la verità e la divina origine ai Giudei ed ai Gentili: come potevano ciò fare senza miracoli, che scuotessero quei popoli rozzi, ignoranti, schiavi di superstizioni antichissime? Si trattava di insegnare e far abbracciare una dottrina, che aveva per autore un uomo vissuto poverissimo, morto sulla croce; una dottrina, che imponeva misteri inscrutabili, che muoveva guerra asprissima a tutte le passioni: una dottrina, che veniva proposta da pescatori, da uomini sprezzati, senza cultura, senza autorità. Come far credere e tenere fermissimamente questa dottrina senza l’intervento immediato di Dio, senza la prova irrecusabile dei miracoli? E i miracoli furono fatti, si moltiplicarono sui passi degli Apostoli e dei loro discepoli, miracoli solenni, indubitati, quasi continui, come ne fanno fede gli Atti apostolici e S. Paolo in questa lettera, e la Chiesa fu stabilita. Poiché la Chiesa fu stabilita, la necessità dei miracoli se non cessò al tutto, certamente scemò di molto, ed ecco perché i miracoli nel corso dei secoli furono meno frequenti. A noi per credere la divinità della nostra religione non occorrono nuovi miracoli; basta la cognizione certa di quelli, che accompagnarono la sua comparsa sulla terra: basta il compimento delle profezie, che si avverano sotto i nostri occhi, e la forza delle quali cresce di giorno in giorno; a noi basta la sola vista di questa Chiesa, che inerme e sempre combattuta attraverso i secoli, e sulla via da lei percorsa spande tanta luce di verità, tal serie e tal cumulo di benefici d’ogni maniera da mostrare ad evidenza, essere ella opera, non degli uomini, ma di Dio. – Un’altra osservazione ed ho finito. I miracoli sono fatti visibili, certi, che ci attestano la presenza di Dio: sono la sua voce, che risuona sulla terra, l’opera immediata della sua mano, e perciò grandissimo è in tutti il desiderio di vederli, di toccarli. Per vedere un miracolo che non farebbero i popoli? Basta la sola fama, la sola voce d’un miracolo per agitarli, per far loro intraprendere lunghi viaggi,  per riempirli di gioia o di timore, per imporre loro i maggiori sacrifici. Sì, i miracoli son cose grandi e per esserne testimoni è  bene spesa qualunque fatica; ma io, grida S. Paolo, vi addito cose ancor più grandi, doni senza confronto più eccelsi, che voi potete acquistare: “Æmulaminì charismata melìora et adhuc excellentìorern viam vobis demonstro”. Io suppongo che ciascuno di voi parli per divina virtù tutte le lingue della terra e le intenda: che conosca tutti i segreti dei cuori, che con una parola risani tutte le infermità, che comandi a tutta la natura, che sappia tutti gli avvenimenti dell’avvenire, che richiami a vita novella i morti. Qual potenza! Qual gloria! Qual felicità! Ebbene: io vi dico, che chiunque di voi ha viva la fede in cuore, chiunque possiede la carità, pratica l’umiltà, la mortificazione, l’obbedienza; chiunque in breve è adorno delle virtù proprie del cristiano, è di gran lunga superiore a chi avesse il potere di operare tutti i miracoli più strepitosi. Perché? Perché con questo potere sì glorioso potrebbe miseramente perdere l’anima sua, doveché col possesso della virtù egli è caro a Dio e assicura l’eterna sua salvezza. Una vecchierella pia e virtuosa dinanzi a Dio è più grande del massimo operatore di miracoli, a talché di Giovanni Battista sta scritto, che non fece alcun miracolo, eppure tra i figli di donna non sorse chi fosse maggiore di lui [Questa sentenza evangelica non vuol dire, come taluno parve credere, che il Precursore fosse veramente il più gran santo che sia stato sulla terra: essa significa soltanto che Giovanni Battista fu il maggiore dei profeti per ragione del suo ufficio.]

Graduale
Ps XVI:8; LXVIII:2
Custódi me, Dómine, ut pupíllam óculi: sub umbra alárum tuárum prótege me.
[Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio: proteggimi sotto l’ombra delle tue ali.]
V. De vultu tuo judícium meum pródeat: óculi tui vídeant æquitátem. [Venga da Te proclamato il mio diritto: poiché i tuoi occhi vedono l’equità.]

Alleluja
Allelúja, allelúja

 Ps LXIV:2
Te decet hymnus, Deus, in Sion: et tibi redde tu votum in Jerúsalem.
Allelúja. [A Te, o Dio, si addice l’inno in Sion: a Te si sciolga il voto in Gerusalemme. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc XVIII:9-14.
In illo témpore: Dixit Jesus ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam: Duo hómines ascendérunt in templum, ut orárent: unus pharisæus, et alter publicánus. Pharisaeus stans, hæc apud se orábat: Deus, grátias ago tibi, quia non sum sicut céteri hóminum: raptóres, injústi, adúlteri: velut étiam hic publicánus. Jejúno bis in sábbato: décimas do ómnium, quæ possídeo. Et publicánus a longe stans nolébat nec óculos ad cœlum leváre: sed percutiébat pectus suum, dicens: Deus, propítius esto mihi peccatóri.Dico vobis: descéndit hic justificátus in domum suam ab illo: quia omnis qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.”  [In quel tempo: Ad alcuni che si ritenevano giusti e disprezzavano gli altri, Gesú disse questa parabola: Due uomini salirono al tempio per pregare: uno era fariseo, l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava cosí entro di sé: Signore, Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, o come anche questo pubblicano. Io digiuno due volte il sabato e dò le decime di tutto quello che posseggo. E il pubblicano, stando lontano, non osava neppure levare lo sguardo in alto, ma si percuoteva il petto, dicendo: O Dio, sii clemente con me peccatore. Orbene, io vi dico che questi ritornò a casa sua giustificato a preferenza dell’altro, poiché chi si esalta verrà umiliato e chi si umilia verrà esalato.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

-Opere buone-

Il Fariseo descritto da Gesù Cristo nell’odierno Vangelo si può rassomigliare a quella canna là nel deserto agitata dal vento, di cui lo stesso divin Salvatore ad altro proposito fa menzione. Osservate: una canna è ritta, vuota, infeconda; eppur se la muove un leggero vento, par che applauda a sé stessa col rumorio delle foglie. Mirate se non è questa l’immagine più espressiva del Fariseo superbo. Ritto in piedi innanzi all’altare, vuoto di meriti, sterile di opere buone, fa plauso a sé stesso, e si vanta per uomo singolare e virtuoso; e, Signore, dice, io non sono già come il restante degli uomini, ingiusti, adulteri, rapaci. In ogni settimana io fo due digiuni, pago puntualmente le decime di tutto ciò che possiedo. Un pubblicano per l’opposto in fondo del Tempio, come un albero carico di frutti, che piega i rami, e curva la cima fin sul terreno, sta cogli occhi e col capo chini al suolo, e battendosi il petto, chiede pietà e perdono, e si confessa peccatore. Diversa è la disposizione d’entrambi, diversa la sorte. Il primo accresce la sua malizia e la sua colpa, il secondo se n’esce giustificato dal Tempio. Oh quanti cristiani sono imitatori del Fariseo! E perché stanno lontani da alcuni vivi più enormi, si lusingano d’ottener salute, ancorché tralascino l’opere buone. Quanti cristiani contenti delle foglie d’un apparente virtù sperano conseguir l’eterna mercede! A disingannare costoro passo senza più a dimostrare come una vita senza opere buone equivale ad una vita rea, e come una virtù di esterna apparenza non si distingue dal vizio. Incominciamo.

I. – Molti, che alieni dalle opere della cristiana pietà menano una vita sterile, oziosa, indifferente in tutto ciò che riguarda il bene dell’anima, ed il servizio di Dio, a sedare i rimorsi della propria coscienza, o sedotti da una non sempre scusabile ignoranza, sogliono uscire in queste espressioni: Io non faccio alcun male, non rubo, non bestemmio, non fo torto a persona, e in così dire credono aver fatto il tutto per andar salvi. – Voi dunque dite: “Non faccio alcun male”. E che male, io rispondo, fece quel servo nell’Evangelio? a cui il suo padrone diede un talento da mettere a traffico? Non consumò già quel danaro in crapule, in giuochi, in gozzoviglie, anzi lo custodì gelosamente; ma perché lo tenne ozioso fu condannato e punito. “Io non faccio alcun male”: e che male fecero quelle cinque vergini dall’Evangelo chiamate stolte? Non macchiarono già né in fatti, né in pensieri la loro purezza, eppure perché negligenti a provvedersi di olio per andar incontro al divino sposo, furono escluse per sempre dalle nozze celesti. “Io non faccio alcun male”: e che male fece quella ficaia da Gesù Cristo maledetta? Non aveva già prodotti frutti velenosi o nocivi; eppure perché infruttuosa la maledisse. Fu quella ficaia un immagine della riprovata Sinagoga, ed è altresì una figura d’un anima pigra, trascurata, sterile di buone operazioni, e come tale non può aspettarsi che la divina maledizione. – In effetti Cristo giudice alla fine del mondo non dirà rivolto ai reprobi: lungi da me, bestemmiatori, ladri, sacrileghi, adulteri, fornicatori; perché tutti questi portando scritti in fronte i loro delitti, e il carattere della loro riprovazione, non vi à bisogno di somiglianti invettive. Dirà ad essi bensì, andate, maledetti, al fuoco eterno, perché avete omesse le opere della cristiana carità. Io era affamato nella persona dei miei poverelli, e non mi avete soccorso, era ignudo, e non mi avete coperto, era infermo e non mi siete comparsi davanti. Dunque, quand’anche non si fosse fatto altro male, l’omissione delle opere buone è un motivo più che sufficiente, e giustissimo per meritare condanna di morte eterna. – Due cose, dice il re Profeta, si richiedono per operare la nostra salute, declinar dal male, e praticare il bene: “Diverte a malo, et fac bonum” (Psal. XXXIII, 14). Son questi i due piedi, coi quali si cammina per la strada del paradiso, sono queste le due ali, con le quali si vola al cielo. – Chi si allontana dal male va con un piè solo, e pretende volare con una sol’ala; ma con un sol piede non può far lunga strada, ma con un’ala sola il volo si converte in caduta. Voi vi astenete dal male, questo è tenersi sul negativo; ma per salvarsi non basta una bontà negativa, è necessaria una positiva bontà. Anche una statua à una bontà negativa, perché non fa né può far male alcuno; ma non ha alcun merito, né può aver alcun premio. – Tutti quei cristiani dunque che nulla fanno di positivo bene, si possono rassomigliare, col citato re Profeta, agl’idoli del paganesimo, così da esso descritti; hanno questi falsi Dei, fatti per man degli uomini, hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non sentono, hanno lingua e non parlano, hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano. Tali sono quelli trascurati e neghittosi nel ben operare. Hanno occhi, e non vedono il pericolo a cui gli espone una vita così discorde dalle verità della fede: hanno orecchie, e non ascoltano la parola di Dio, né le voci e i reclami della rea coscienza: hanno lingua, e non pregano, né si confessano interamente: hanno mani, ossia facoltà di travagliare per la loro salvezza, e stanno “tota die otiosi”: hanno piedi finalmente, ma non battono quella strada che conduce al cielo. Or che sarà di quest’idoli, di questi simulacri? Che ne sarà? Incorreranno la divina maledizione al par degl’idoli pagani, come sta scritto nel libro della Sapienza : “Idolum maledictum. . . et qui fecit illud” (Sap. XIV, 18).

II. “Ma noi, parmi d’essere qui interrotto da chi va dicendo, noi ben persuasi, che senza buone opere non si può sperar salute, frequentiamo i Sacramenti e le ecclesiastiche funzioni, facciamo limosine, visitiamo infermi, e tanti altri atti pratichiamo di religione e di cristiane virtù”. Assai mi consola quanto voi asserite. Ma siccome può nascer dubbio se l’opere vostre siano in realtà, o in apparenza virtuose, contentatevi che per puro zelo ed amor delle vostre anime io le chiami ad esame. Voi frequentemente vi confessate e comunicate. Fin qui questi sono verbi, vi dirò col beato Alberto Magno precettore di S. Tommaso l’angelico, “verba, sunt ista”; ma i verbi non bastano per il merito e per la salute; è necessario che ai verbi si aggiungano gli avverbi. Mi spiego: confessarsi, comunicarsi, questi son verbi, confessarsi bene, comunicarsi fruttuosamente, questi sono avverbi. Voi frequentate i Sacramenti, ma frequentate altresì le conversazioni pericolose, ove si parla, si burla, si ride a spese della santa onestà; frequentate i Sacramenti, e frequentate del pari le bettole, i giuochi, i ridotti: accusate le vostre colpe nel tribunale di penitenza, ma ricadete con la stessa facilità nelle medesime colpe: ricevete sulla vostra lingua Gesù sacramentato, ma la vostra lingua è sempre mordace, impura, mormoratrice: accogliete in seno il mansueto Agnello di Dio, ma siete sempre impazienti, iracondi, collerici, se è così, le vostre confessioni, le vostre comunioni sono foglie e non frutti, sono veleno e non medicina. E voi che vantate opere di pietà e di virtù, venite qua. In prima, un atto, per essere virtuoso e meritevole, fa d’uopo indirizzarlo a un buon fine. Se fate limosina per esser veduti e stimati dagli uomini, l’azione per sé ottima e santa, diventa rea, peccaminosa pel fine obliquo di vana ostentazione. Dite altrettanto di qualunque altro atto di virtù. Il fine buono o malvagio, dicono i Teologi con S. Agostino, fa buona o malvagia la vostra azione: “Noveris ex fine a vitiis discernendas esse virtutes”. – In secondo luogo: sia buono, sia retto il vostro fine, se voi non siete in grazia di Dio, le opere vostre tuttoché naturalmente buone, potranno bensì esservi giovevoli a piegar il cuore di Dio, a concedervi grazia di ravvedimento e dì conversione, ma in ordine alla vita eterna sono di nessun valore, sono cadaveri di virtù, sono opere morte. Avete mai veduto nelle grandi città qualche superbo mausoleo innalzato per tomba e per memoria d’illustre personaggio? In mezzo sta locata un’urna marmorea, che racchiude il corpo del rinomato defunto; stanno intorno in atto dolente diverse statue esprimenti le virtù reali o supposte del morto soggetto. Evvi la giustizia che piange, la clemenza che si scopre il volto, la pietà che si asciuga le lacrime, la prudenza che ad una mano appoggia la fronte. Tutte queste sono virtù di marmo, virtù simboliche che fanno onore ad uno scheletro. Per non dissimil guisa, se per alcun grave peccato siete morti alla grazia, le virtù da voi praticate sono, in ordine al merito di vita eterna, simulacri di virtù, vane immagini di un’anima incadaverita. Dunque, fratelli amatissimi, non ci pasciamo di vento, come l’odierno Fariseo, non ci vantiamo di foglie. – È vero che il divin maestro c’inculca a dare, coll’opere buone, esteriore esempio edificante, onde ne sia glorificato il Padre celeste: “Videant opera vestra bona, et glorificent patrem vestrum qui in cœlis est” (Matth. V, 16); ma se agli atti esterni di pietà e di religione ci obbliga il buon esempio, l’intenzione, dice S. Gregorio Magno (Ad Philip. II, 12), l’intenzione occulta del nostro spirito, veduta da Dio solo, dev’essere pura, a Dio diretta, a Dio piacente, e custodita nel segreto del cuore. Purifichiamo pertanto la nostra intenzione nell’operare il bene: non siamo così facili ad approvare noi stessi e la morale nostra condotta. Temendo, tremando, ci esorta S. Paolo, operate la vostra salute: “Cum metu et tremore, vestram salutem operamini”. Semplice, temente Iddio e santo era Giobbe, eppur temeva di tutte l’opere sue “Verebar omnia opera mea” (Job. IX, 21). Non crediamo così agevolmente d’essere giusti o giustificati. Son ripresi nel Vangelo odierno quei che in sé confidando si reputavano giusti: “Qui in se confidebant tamquam justi”. Temiamo, miei cari, sull’incertezza di salvarci, e temiamo sul pericolo di perderci. Ancora uno sguardo al penitente pubblicano: compreso da salutare spavento non ardisce inoltrarsi nel Tempio; ma dietro al Fariseo si tiene in fondo, umiliato, confuso, non osa alzar gli occhi dal pavimento, si confessa peccatore, e come tale implora la divina clemenza, e a colpi sonori si batte il petto: Percutiebat pectus suum”. Tre cose sono da osservarsi a nostra istruzione su questo battersi il petto, sulla scorta di Teofilatto, Eutimio, e S. Agostino. Il moto della mano, il petto percosso, e il suono del colpo. Nel moto della mano son figurate l’opere buone necessarie a praticarsi per chi vuole andar salvo: nel petto percosso il pentimento del cuore per le colpe commesse, e la riparazione delle stesse colla penitenza: finalmente nel suono del colpo il buon esempio che nasce dall’emendazione della vita. – Ecco la norma che dobbiamo seguire per evitare la condanna del Fariseo, per ottenere, come il Pubblicano, il perdono, la grazia giustificante, e la vita eterna, che Dio ci conceda. 

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps XXIV:1-3
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.
[A Te, o Signore, ho innalzata l’ànima mia: o Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire: che non mi irridano i miei nemici: poiché quanti a Te si affidano non saranno confusi.]

Secreta
Tibi, Dómine, sacrifícia dicáta reddántur: quæ sic ad honórem nóminis tui deferénda tribuísti, ut eadem remédia fíeri nostra præstáres. [A Te, o Signore, siano consacrate queste oblazioni, che in questo modo volesti offerte ad onore del tuo nome, da giovare pure a nostro rimedio.]

Communio
Ps L:21.
Acceptábis sacrificium justítiæ, oblatiónes et holocáusta, super altáre tuum, Dómine. [Gradirai, o Signore, il sacrificio di giustizia, le oblazioni e gli olocausti sopra il tuo altare.]

Postcommunio
Orémus.
Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, quos divínis reparáre non désinis sacraméntis, tuis non destítuas benígnus auxíliis.
[Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché benigno non privi dei tuoi aiuti coloro che non tralasci di rinnovare con divini sacramenti.]

 

 

DOMENICA IX dopo PENTECOSTE

 

Introitus
Ps LIII:6-7.
Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine. [Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’ànima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]
Ps LIII:3
Deus, in nómine tuo salvum me fac: et in virtúte tua libera me.
[O Dio, salvami nel tuo nome: e líberami per la tua potenza.]
Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine. [Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’ànima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]

Oratio
Orémus.
Páteant aures misericórdiæ tuæ, Dómine, précibus supplicántium: et, ut peténtibus desideráta concédas; fac eos quæ tibi sunt plácita, postuláre.
[Porgi pietoso orecchio, o Signore, alle preghiere di chi Ti súìupplica, e, al fine di poter concedere loro quanto desiderano, fa che Ti chiedano quanto Ti piace.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.
1 Cor X:6-13
Fatres: Non simus concupiscéntes malórum, sicut et illi concupiérunt. Neque idolólatræ efficiámini, sicut quidam ex ipsis: quemádmodum scriptum est: Sedit pópulus manducáre et bíbere, et surrexérunt lúdere. Neque fornicémur, sicut quidam ex ipsis fornicáti sunt, et cecidérunt una die vigínti tria mília.
Neque tentémus Christum, sicut quidam eórum tentavérunt, et a serpéntibus periérunt. Neque murmuravéritis, sicut quidam eórum murmuravérunt, et periérunt ab exterminatóre. Hæc autem ómnia in figúra contingébant illis: scripta sunt autem ad correptiónem nostram, in quos fines sæculórum devenérunt. Itaque qui se exístimat stare, vídeat ne cadat. Tentátio vos non apprehéndat, nisi humána: fidélis autem Deus est, qui non patiétur vos tentári supra id, quod potéstis, sed fáciet étiam cum tentatióne provéntum, ut póssitis sustinére.

 Omelia I

[Mons. Bonomelli, Omelie, Torino, 1899]

OMELIA XIX

“Non siamo desiderosi di cose malvagie come anche quelli ne desiderarono. Non diventate idolatri, come alcuni di loro, secondoché sta scritto: Il popolo si sedette e si pose a mangiare e bere, poi si levò per danzare. Non fornichiamo, come alcuni di loro fornicarono, e in un sol giorno ne caddero ventitré mila. Non tentiamo Cristo, come alcuni di loro tentarono e furono uccisi dai serpenti. Non mormorate come alcuni di loro mormorarono e furono distrutti dallo sterminatore. Ora tutte queste cose avvenivano a quelli in figura e sono scritte ad ammonimento di noi, nei quali si sono scontrati i termini dei secoli. Il perché chi pensa di restar ritto, badi che non cada. Non vi colga tentazione se non umana; Dio è fedele, ed egli non permetterà Che siate tentati sopra le forze vostre; ma colla tentazione darà l’uscita, affinché la possiate “ sostenere „ (I. ai Corinti, X, 6-13;)

Voi stessi vi sarete accorti, che la lezione della Epistola propria della Messa è quasi sempre tolta dalle lettere di S. Paolo. E perché ciò, o dilettissimi? Se non erro, le ragioni principali di quest’uso della sacra liturgia, devono essere le seguenti: le lettere dell’Apostolo, messe insieme, formano un volume pressoché eguale a quello dei quattro Evangeli uniti e di gran lunga superiore a quello che formerebbero le sette lettere, che ci rimangono di S. Giacomo, di S. Pietro, di san Giovanni e di Giuda Taddeo. Qual meraviglia, che formando le Epistole di S. Paolo una parte
sì considerevole del nuovo Testamento, forniscano anche in proporzione assai maggiore delle altre la materia di lettura nella santa Messa? Oltreché vuoisi avvertire che nelle Epistole di S. Paolo si condensa in modo ammirabile la dottrina dogmatica e particolarmente la morale di Cristo, e perciò queste si prestano a preferenza d’altre parti scritturali alla considerazione ed edificazione dei fedeli [Nei Vangeli occupano una parte considerevole i fatti della vita di Cristo, dovechè nelle Epistole di S. Paolo di fatti non se ne fa menzione, che pochissime volte: in quella vece vi si espone la dottrina di Cristo si dogmatica come morale, onde per questa parte si può dire che nelle Epistole abbiamo una ricca miniera al pari e più degli Evangeli.] – Nei versetti precedenti S. Paolo ha detto, che gli conveniva lavorare e mortificare il suo corpo, se non voleva trovarsi tra i reprobi dopo di aver predicato agli altri. Giustifica poi questo suo timore per sè e per gli altri, di esser trovato reprobo, coll’esempio del popolo d’Israele, caduto quasi tutto miseramente nel deserto prima di entrare nella terra promessa; e qui, colto il destro, applica ai cristiani, moraleggiando, i fatti che avvennero agli Ebrei nel deserto. Vedete, dice l’Apostolo: dei seicentomila Ebrei, dai vent’anni in su, che uscirono dall’Egitto, due soli entrarono nella terra promessa: ciò potrebbe accadere anche a noi viaggianti verso la vera terra promessa, il cielo. “ Non siamo desiderosi di cose malvage, come anche quelli ne desiderarono. „ Continua il riscontro tra gli Ebrei e noi cristiani; gli Ebrei nel deserto, rammentando i cibi succulenti che si mangiavano in Egitto : Sedebamus super ollas carnium, e dimenticando l’orribile schiavitù, che vi soffrivano, si levarono a rumore contro Mosè e contro Dio, che li aveva condotti in quel luogo selvaggio, e desideravano le carni: il desiderare le carni per sè non sarebbe stato un gran delitto, ma lo era bene, e gravissimo, il lagnarsi di Dio, il ribellarsi a Mosè, il dimenticare i beneficii innumerevoli ricevuti e il rimpiangere la servitù, ond’erano stati liberati. Iddio punì quell’ingrato e maligno popolo, e gran numero di
esso rimase in quel luogo percosso di morte, tantoché gli fu dato il nome di Sepolcri della concupiscenza; Sepulchrum concupiscentiæ (Num. c. XII, 33, 34). Badiamo, grida qui l’Apostolo, di non imitare codesti Ebrei, per non incorrere il loro castigo ed essere esclusi dal cielo. Il popolo, o fratelli miei, è sempre lo stesso, simile ad un fanciullo, mobile, facile ad essere sedotto, a dimenticare i benefizi. Vedete gli Ebrei: dovevano rammentare gli orrori della schiavitù in Egitto, le fatiche intollerabili, i bambini dal barbaro tiranno fatti gettare nel Nilo, i prodigi Operati da Mosè: nulla di tutto ciò. In un momento di malcontento, di dispetto, d’ira, pensa alle cipolle ed alle carni d’Egitto: si lamenta di Dio, grida contro Mosè, si solleva contro il liberatore e lo minaccia. E non è ciò che troppo spesso facciamo noi pure? Liberati dal peccato, col pensiero torniamo agli antichi piaceri, rimpiangiamo la servitù, le catene delle passioni portate sì a lungo e ci pare troppo aspra la via della virtù, troppo dura la vita cristiana? Stolti! desideriamo di ritornare in Egitto e volgiamo le spalle alla terra promessa, la vera terra promessa, a cui Dio ci chiama. Non desideriamo cose malvage; Non simus concupiscentes malorum! Il desiderio dei Giudei si riferiva soltanto alle carni, come apparisce dal sacro testo, ed era colpevole: l’Apostolo proclama che noi cristiani dobbiamo guardarci in genere da ogni desiderio di cose malvage: Non simus concupiscentes malorum. Gli uomini non vedono che le cose esterne, e questo pure in modo assai imperfetto; ma l’occhio di Dio penetra nelle pieghe del nostro cuore, nelle fibre del nostro spirito, e tutto vede, pesa e misura senza pericolo di errore. – Carissimi! quanti desideri spuntano, si agitano, si succedono in fondo al nostro cuore! Chi potrebbe mai contarli? S’incalzano come le onde del mare, e tutti vi lasciano la traccia del loro passaggio: non importa che si manifestino negli atti e gli uomini li vedano e li contino: li vede e li conta Iddio! Ora quali sono questi desideri, figli dei nostri pensieri e dei nostri amori? Sono tutti buoni, retti, onesti, o almeno indifferenti? Ohimè! se siamo sinceri, dovremo confessare che molti di questi desideri, che erompono dal fondo dell’anima nostra, sono viziosi, colpevoli e tali, che arrossiremmo, se fossero conosciuti, non
che da altri, ma dai nostri amici! Perché aprire il cuore, vagheggiare e accarezzare questi desideri, che vorremmo nascondere agli uomini, ai nostri cari istessi e sono manifesti a Dio, e un giorno saranno manifestati all’universo intero? Vegliamo adunque su questi desideri, e quelli che sono buoni e santi coltiviamo, quelli che sono malvagi o pericolosi cacciamo prontamente perché imbrattano l’anima: “Non simus concupiscentes malorum”. S. Paolo prosegue ne’ suoi riscontri, e dice: “ Non siamo idolatri, come alcuni di loro (cioè degli Ebrei nel deserto). „ Mosè narra, che mentre egli era sul monte e riceveva la legge, il popolo si fabbricò un vitello d’oro (era un idolo degli Egiziani) e lo adorò, gli offerse sacrifici e probabilmente, secondo l’uso dei gentili, mangiò delle carni offerte all’idolo stesso e si pose a danzare. Non dimentichiamo che queste danze sacre dei gentili dinanzi ai loro idoli erano orge oscene e lascivie senza nome, e possiamo credere che tali fossero pur quelle degli Ebrei dinanzi al vitello d’oro. Ebbene, cosi ragiona S. Paolo: Stiamo in guardia noi pure cristiani, e non sia mai che per noi si cada nella idolatria alla maniera
degli Ebrei. Di quale idolatria discorre l’Apostolo? Chiaramente della idolatria nel senso rigoroso della parola, perché così vuole l’allusione alla idolatria ebraica; né deve far meraviglia, che S. Paolo creda necessario mettere in sull’avviso i fedeli contro il pericolo della idolatria. Non pochi dei fedeli, ai quali scriveva, erano stati gentili ed idolatri e la loro conversione era recente. Il pericolo di ricadere era assai grave, considerata la loro triste abitudine, e visto che l’idolatria allora regnava padrona assoluta dal trono alla capanna. La storia ci narra che non erano rari gli esempi di apostasie e di cristiani, che dopo ricevuto il battesimo, o per timore delle persecuzioni, o per interesse, o per altre cause ritornavano al culto degli idoli. L’esortazione dunque di S. Paolo non era fuor di luogo, anzi molto opportuna e necessaria. Oggidì per noi non vi è più ombra di pericolo che si cada nella idolatria antica: quel periodo del massimo degradamento morale per i nostri popoli è passato e passato per sempre. Ma se è cessato il pericolo della idolatria propriamente detta, non è cessata, anzi dura più elle mai vigorosa e generale un’altra idolatria, l’amore sfrenato dei beni della terra, ai quali si sacrifica troppo spesso l’onore, il dovere, la coscienza, Dio stesso. Che faceva l’idolatra? Pigliava un tronco di legno, un pezzo di metallo, ne foggiava una statua e cadendo ginocchioni dinanzi ad essa, l’adorava, le offriva sacrifici, ed esclamava: Tu sei il mio Dio ! — Che fa l’uomo schiavo dell’amore sfrenato dei beni di quaggiù? Accumula oro ed argento: vagheggia un posto d’onore: ficca cupido gli sguardi in volto seducente e prostrandosi vilmente dinanzi a loro, grida: Voi avete il mio cuore, tutto l’amor mio; io vivo per voi; voi siete il mio Dio; a voi tutto sacrifico. Non è questa brutta e schifosa idolatria? Una mente, un cuore, uno spirito, che adorano la materia e vituperosamente vi si tuffano? E ch’io non esageri punto, me ne assicura il grande Apostolo, il quale in altro luogo, parlando della cupidigia e della avarizia, la chiama “ servitù di idoli, cioè idolatria: „ Quod est idolorum servitus. Noi detestiamo l’idolatria, come un gran delitto e il sommo vituperio della natura umana, e lo è veramente: detestiamo pur anco ed abbominiamo quest’altra idolatria, per la quale diveniamo adoratori delle ricchezze, degli onori e dei piaceri: Neque idolatræ efficiamìni, sicut
quidam ex ipsis. In alto le menti e i cuori! appuntiamo lo spirito nostro in Dio e in lui e con lui ci eleveremo: lui solo adoriamo: i beni della terra sono appena degni di stare sotto i nostri piedi, e vi stiano sempre. – Prosegue S. Paolo il suo riscontro tra noi e i figli d’Israele nel deserto e dice: “ Né fornichiamo, come alcuni di quelli fornicarono. „ Mosè nel libro dei Numeri narra come moltissimi Ebrei si abbandonarono al turpe peccato colle figliuole dei Moabiti, e come per comando di Dio furono terribilmente puniti, rimanendone sul campo ben ventitré mila trucidati. Tanta strage ci riempie di stupore e di terrore; ma non dobbiamo mai dimenticare, che quel popolo di dura cervice e di cuore incirconciso, si facile in trascorrere ad ogni eccesso, solamente con queste tremende lezioni poteva essere contenuto, quando pur queste bastavano. Quel formidabile castigo ci mostra come sia brutta e gravissima colpa la fornicazione. Lungi dunque da noi, sembra dire l’Apostolo, questo delitto, che trasse in capo ai figli d’Israele sì aspra vendetta: Neque fornicemur, sicut quidam ex ipsis fornicati sunt. Questa sozzura è dessa rara tra i cristiani, figli della legge di grazia e d’amore? Dio immortale! essa, a vergogna del nome cristiano, è frequente e in certi luoghi, in certe città si considera come cosa da nulla e passa quasi in trionfo. Ah! cosa da nulla questo peccato, che la giustizia di Dio percosse si fieramente, e lavò col sangue di ventitré mila vittime? E bensì vero che si paurosi castighi, per bontà di Dio, ora non si rinnovellano; ma non crediate, che si detestabile peccato rimanga sempre impunito anche quaggiù sulla terra, sotto la legge evangelica. Dio dispone le cose per guisa, che soventi volte gli schiavi di questo peccato si puniscono da se stessi colle opere delle loro mani. Le discordie, gli odii, gli scialacqui, lo sperpero dei più ricchi patrimoni, la miseria, il disonore, i duelli, i delitti di sangue, le più vergognose infermità dello spirito e del corpo, l’ebetismo e la morte precoce non sono frequentemente gli amari frutti di questo peccato? Se noi potessimo conoscere le vittime che questo peccato va facendo in mezzo a noi e contarle ad una ad una, inorridiremmo, e forse dovremmo confessare che il braccio di Dio anche al presente non è meno terribile di quello che fosse coi figliuoli d’Israele. – Allora era Dio, che direttamente percuoteva il popolo fornicatore, ora sono gli stessi fornicatori che si puniscono da se stessi, e trovano qui nel loro peccato un saggio di quella pena eterna, che si tesoreggiano nella vita futura. S. Paolo continua: “ Non tentiamo Cristo, come alcuni di loro tentarono e perirono pei morsi dei serpenti. „ Il popolo ebreo (Num. c. XXI, vers: 5 seg.) nel deserto prese a lagnarsi di Dio e di Mosè, perché mancava l’acqua e si annoiava dello stesso cibo, e dovette prorompere in invettive è bestemmie: esso, dimentico dei tanti prodigi veduti e dei tanti beneficii ricevuti, metteva a dura prova la bontà e la pazienza di Dio: Tentaverunt! E Dio lo fiagellò, mandando in mezzo a quel popolo ingrato e ribelle gran moltitudine di serpenti; i loro morsi erano mortali e gran numero di Ebrei miseramente perì. Ciò che accadde a loro sia nostro ammaestramento: Non tentiamo Cristo, cioè non dubitiamo delle promesse divine, delle verità, che ci furono annunziate; non facciamo come gli Ebrei, che ad ogni istante domandavano miracoli: ci basta la parola di Gesù Cristo e sopra di essa riposiamo tranquillamente. Iddio regge le cose umane colla sua provvidenza, vale a dire con quelle leggi ordinarie, che egli ha stabilite e sulle quali poggia tutto l’ordine naturale: il miracolo è una eccezione fatta a quelle leggi, è l’intervento diretto ed immediato di Dio e questo non si deve ammettere se non quando la evidenza ci obbliga ad ammetterlo, perché le leggi naturali sono la regola, il miracolo è l’eccezione e l’eccezione si ammette solo quando è necessario ammetterla e la ragione naturale ci costringe ad ammetterla. Dio può fare la eccezione, ossia il miracolo ; ma lo deve fare quando è necessario; ma quando è necessario? Egli ed egli solo ne è il giudice assoluto e nessuno può imporglielo, perche nessuna creatura può dire al Creatore: Voi dovete far questo e questo, s’egli non ha promesso di farlo e farlo in quel modo e in quel tempo. Volere adunque che Iddio faccia un miracolo, a nostro modo, e deroghi a nostro cenno alle sue leggi, è un tentare Dio, un imporgli la legge e mostrarci diffidenti delle sue promesse e del corso ordinario della sua provvidenza. Noi possiamo e dobbiamo pregarlo in ogni nostro bisogno con piena confidenza ed umiltà, rimettendoci con figliale abbandono alla sua paterna bontà quanto al modo, al tempo ed alla misura, con cui vorrà esaudirci. “ Nè mormoriate, prosegue S. Paolo, come alcuni di loro mormorarono e furono annientati dallo sterminatore; „ è questo l’ultimo dei riscontri, che ci lasciò l’Apostolo fra la storia del popolo ebreo e ciò che può accadere al popolo cristiano. Molte volte Israele mormorò nel deserto contro Dio e Mosè, che a nome di Dio lo guidava: a quale di queste mormorazioni del popolo qui si alluda non è chiaro: certo è che tutte le volte fu più o meno punito, ondechè non irragionevolmente possiamo dire che qui il sacro testo tutte le comprenda. Le mormorazioni del popolo contro Mosè e perciò contro Dio, che mandava Mosè, per vero dire, sono piuttosto sommosse e ribellioni, e Dio ne fece aspra giustizia. L’autorità ha sempre la sua fonte in Dio, da cui solo deriva, sia nell’ordine naturale, sia nell’ordine sovrannaturale: gli uomini, che ne sono investiti, non sono che i mandati e i rappresentanti di Dio, e perciò il mormorare contro di essi, e più assai il ribellarsi, è un offendere Dio stesso ed uno sconvolgere l’ordine per lui stabilito. Può bene accadere, che quelli, i quali sono investiti dell’autorità, volete civile, volete paterna, volete anche ecclesiastica, nelle varie sue gradazioni,, falliscano al loro dovere ed anche ne abusino malamente; noi possiamo richiamarcene alla autorità superiore, mostrare il torto che riceviamo e chiedere giustizia nei modi onesti e stabiliti, ma rivoltarci contro di loro non mai; l’interesse pubblico e l’ordine posto da Dio non lo consente. I ribelli a Mosè là nel deserto furono percossi da Dio; se al presente Dio non punisce i riottosi quaggiù in modo visibile, senza fallo non sfuggiranno alla sua giustizia nella vita futura. Rispettiamo dunque, o cari, Ogni autorità, quale ch’essa sia, e quelli che ne sono investiti, e rispettiamoli in ragione della grandezza ed eccellenza dell’autorità stessa, perché questo è il volere di Dio e chi vien meno non sfuggirà al castigo di Colui che disse: Chi sprezza voi sprezza me. Seguitiamo il testo dell’Apostolo: “ Ora tutte queste cose avvenivano a quelli, vale a dire agli Ebrei, in figura e sono scritte ad ammonimento di noi, nei quali i termini dei secoli si sono riscontrati, „ ossia di noi, che veniamo ultimi, nell’ultimo periodo dei secoli. Siamo dunque accertati per questa sentenza dell’Apostolo, che tutti i fatti accaduti agli Ebrei e qui commemorati, erano e sono una figura di ciò che accade nella Chiesa, e devono essere un ammaestramento per noi. Ve lo dissi altra volta, i fatti dell’antico Testamento sono anch’essi come altrettante parole, che ci
ammaestrano intorno ai nostri doveri, a ciò che dobbiamo credere, fare od evitare, ed è questo quel senso delle Scritture, che dicesi mistico, o recondito. – Forseché tutti e ciascuno dei fatti registrati nell’antico Patto sono figure di dottrine e di fatti del nuovo Testamento? Ciò sarebbe eccessivo, e S. Paolo non disse semplicemente “ tutte le cose, „ ma si tutte queste cose, che vi ho accennato, erano figura di quello che sarebbe avvenuto nel nuovo patto. – L’Apostolo, dopo aver toccati questi quattro fatti dell’antico Patto e cavatane la pratica morale pei fedeli di Corinto, ai quali scrive, passa ad una osservazione od esortazione generale, scrivendo; “Chi crede di stare ritto in piedi, veda di non cadere. „ Avete visto, o cari, così egli, come i figli d’Israele, messi alla prova caddero; vedete ancor voi, che vi riputate saldi, di non cadere come quelli. La nostra volontà è debole, si muta ad ogni istante, e benché siamo certi che l’aiuto della grazia divina a chi lo vuole non fa mai difetto, non siamo mai certi di corrispondere alla stessa, e perciò la nostra perseveranza nel bene a Dio solo è nota. Diffidiamo dunque di noi stessi, temiamo della nostra debolezza, umiliamoci dinanzi a Dio, preghiamolo con gran fede: sono questi i mezzi per star fermi nella grazia ricevuta. Viviamo sulla terra, vero campo di incessanti battaglie: affrancarci da ogni tentazione, interna od esterna, non è possibile. Che fare? “ Nessuna tentazione vi colga, scrive S. Paolo, se non umana: „ Tentatio vos non apprehendat, nisi humana. Che cosa è dessa questa tentazione umana? Penso che mente dell’Apostolo sia di esortare i fedeli a fuggire tutte le tentazioni che si possono fuggire, rassegnandosi a quelle, che sono inevitabili e a queste virilmente resistendo. Vi sono tentazioni, che è in poter nostro prevenire e schivare, e queste, secondo le circostanze, con ogni cura preveniamo e schiviamo: vi sono altre tentazioni, che nostro malgrado ci si affacciano, ci stringono, ci travagliano in mille modi, e vengono dalla carne, dal mondo, dal demonio: queste si dicono umane da S. Paolo, cioè inerenti alla nostra condizione presente, che avvengono secondo l’andamento ordinario delle cose umane. Queste Iddio le permette per i suoi fini altissimi e per il nostro bene. E allorché queste tentazioni umane sopraggiungono e vi molestano, quale deve essere la vostra regola e la vostra condotta? Anzi tutto ricordatevi, che “ Dio è fedele: „ Fidelis Deus est: ciò che promette, fedelmente mantiene: ha promesso di aiutarvi; non ne dubitate, vi aiuterà secondo il bisogno. Non basta: imporreste voi al vostro servo, ai vostri figliuoli un peso troppo grave, sotto del quale rimarrebbero oppressi? No, di certo; se lo faceste, sareste ingiusti e crudeli: ora voi siete servi di Dio, anzi suoi figli bene amati : : sarebbe bestemmia pure il pensare che Iddio, padrone giustissimo, anzi padre amorosissimo, vi sottometta ad una prova o tentazione superiore alle vostre forze; statene sicuri: “ Dio non lascerà che siate tentati sopra ciò che potete. „ E verità insegnata in termini da S. Paolo, e quando pure non la trovassimo nei libri santi, la dovremmo tenere per la sola ragione, tanto essa è manifesta. Nessuno adunque dica giammai: “La tentazione era troppo forte; io era impotente a resistere. E una menzogna, un’ingiuria atroce a Dio, è un far ricadere sopra di lui la causa del nostro peccato. Dio non comanda mai cose impossibili, o se le comanda, dà la forza perché siano possibili. E verità questa consolante per noi tutti, che ogni giorno ci troviamo alle prese col nemico e che ci toglie ogni scusa se soccombiamo. – Va innanzi S. Paolo ed alle due verità si belle e si consolanti espresse nelle due sentenze brevissime: “ Dio è fedele, e non permettérà, che siate tentati sopra le vostre forze, „ ne fa seguire una terza, dicendo: Ma colla tentazione darà l’uscita a poterla sostenere: „ Sed faciet cum tentatione proventum, ut possìtis sustinere. Permettendo che la tentazione v’ incolga, Dio vi darà la grazia di uscirne vittoriosi, e lungi dal riportarne danno alcuno, ne avrete vantaggi non lievi. Quali? Quelli che riporta il soldato valoroso, che torna vincitore dalle battaglie. Questo nelle battaglie si addestra sempre meglio a combattere il nemico ed a vincerlo, onde tr i’ soldati novelli il veterano a ragione si reputa più valente. Come gli atti ripetuti in un’arte qualunque ci danno l’abito della stessa e ce ne rendono più facile e più perfetto l’esercizio, cosi le tentazioni sviluppano meglio le forze spirituali, ci fanno più forti e più generosi, ci fanno correre più speditamente la via della virtù e della perfezione e per conseguenza ci rendono più agevole la resistenza alle tentazioni future: Ut possitis sustinere. Finalmente le tentazioni ci porgono occasione di procacciarci maggiori meriti pel cielo, giacché ogni tentazione superata è una vittoria riportata sul nemico, ed ogni vittoria ci dà il diritto ad una nuova corona, secondochè sta scritto : “ Colui che avrà debitamente combattuto riceverà la corona. „

Graduale  Ps VIII:2
Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in universa terra!
Signore, Signore nostro, quanto ammirabile è il tuo nome su tutta la terra!
V. Quóniam eleváta est magnificéntia tua super cœlos. Allelúja, allelúja [Poiché la tua magnificenza sorpassa i cieli. Allelúia, allelúia]

Alleluja Ps LVIII:2
Alleluja, Alleluja

Eripe me de inimícis meis, Deus meus: et ab insurgéntibus in me líbera me. Allelúja.  [Allontànami dai miei nemici, o mio Dio: e líberami da coloro che insorgono contro di me. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIX:41-47
“In illo témpore: Cum appropinquáret Jesus Jerúsalem, videns civitátem, flevit super illam, dicens: Quia si cognovísses et tu, et quidem in hac die tua, quæ ad pacem tibi, nunc autem abscóndita sunt ab óculis tuis. Quia vénient dies in te: et circúmdabunt te inimíci tui vallo, et circúmdabunt te: et coangustábunt te úndique: et ad terram prostérnent te, et fílios tuos, qui in te sunt, et non relínquent in te lápidem super lápidem: eo quod non cognóveris tempus visitatiónis tuæ. Et ingréssus in templum, coepit ejícere vendéntes in illo et eméntes, dicens illis: Scriptum est: Quia domus mea domus oratiónis est. Vos autem fecístis illam speluncam latrónum.
Et erat docens cotídie in templo”. [In quel tempo: Essendo Gesú giunto vicino a Gerusalemme, scorgendo la città, pianse su di essa, dicendo: Oh! se in questo giorno avessi conosciuto anche tu quello che occorreva per la tua pace! Ma tutto ciò è ormai nascosto ai tuoi occhi. Perciò per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno con trincee, ti assedieranno e ti angustieranno da ogni parte; e getteranno a terra te e i tuoi figli che abitano in te, e non lasceranno in te pietra su pietra, poiché non hai conosciuto il tempo in cui sei stata visitata. Entrato poi nel tempio, cominciò a cacciare quanti lí dentro vendevano e compravano, dicendo loro: Sta scritto: La mia casa è casa di preghiera. Voi invece ne avete fatta una spelonca di ladri. E ogni giorno insegnava nel tempio.]

Omelia II

Omelia della Domenica IX dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Luca XIX, 41-47]

-Anima in peccato-

“Infelice Gerusalemme (cosi lagrimando dicea Gesù-Cristo in vista di quella sciagurata città, come ci narra l’odierna evangelica storia) Gerusalemme infelice! Buon per te, se conoscessi in questo tuo giorno l’amorevole visita, che ti fa Colui che è mandato per la tua salvezza; ma tu hai sugli occhi e sul cuore un velame di cecità e di perfidia, che non ti lascia vedere il presente tuo stato, né lo stato peggiore, a cui fra non molto sarai ridotta, quando i nemici tuoi si stringeranno intorno con assedio sì fiero, che ti ridurranno all’ultimo sterminio, fino a non lasciare di te pietra sopra pietra”. – Queste divine minacce ben si possono rivolgere ad un’altra e mistica Gerusalemme, cioè all’anima di coloro che trovansi in istato di colpa mortale. Essi per lo più non conoscono né il misero loro stato presente, né il pericolo di un peggiore stato avvenire. Sono essi da un denso velo avvolti nella mente e nel cuore, onde non vedono né il loro male presente, né il rischio di un estremo male futuro. A rimuovere questo velo fatale io dico che un’anima rea di grave peccato ella è in istato di spiritual morte ciò che vedremo da prima, ella è in pericolo di eterna morte, ciò che vedremo dapprima se mi favorite di attenzione cortese.

I. Anima in grave peccato, anima morta. Adamo, vedi tu quest’albero? In segno di mio dominio e di tua ubbidienza non ne gusterai. Che se avrai l’ardimento di rompere quest’unico mio precetto, in quel giorno stesso sarai colto da certa morte: “In quocumque die comederis ex eo, morte morieris(Gen. II, 17). Così al nostro primo padre Iddio Creatore. Mangia Adamo il vietato pomo e non muore: come si avvera la divina minaccia? Si avvera, risponde S. Agostino, in doppio modo (2Tract. 47 in Joan.). Adamo prima immortale, resta in quell’istante di sua trasgressione soggetto alla morte, e ciò riguardo al corpo. Muore al tempo stesso di più funesta morte, e ciò riguardo all’anima. Che cosa è morte? prosegue il santo Dottore: è la separazione dell’anima dal proprio corpo (De Civ. Dei lib. 13, c. 2). Ora siccome la vita del corpo è l’anima che l’informa; così la vita dell’anima è Dio che la vivifica. Divisa l’anima dal corpo, ecco la natural morte. Diviso per lo peccato Iddio dall’anima, ecco la morte spirituale. – A questa spiritual morte volle alludere il Signore, allorché dopo la caduta di Adamo discese nel terrestre paradiso, si fece così a chiamarlo, ed a compiangerlo, “Adam … ubi es(Gen. III, 9)? E dir volle, secondo il prelodato S. Agostino, “o Adamo, a quale stato deplorabile ti sei ridotto? Tu, creato nell’originale giustizia, tu dotato della santificante grazia, tu ricco per tanti doni, ora pel tuo delitto di lutto spogliato, morto alla mia grazia, sei divenuto agli occhi miei oggetto di abominazione più che un verminoso cadavere”. – Tal è lo stato luttuoso, a cui il peccator si riduce talvolta per un vile interesse, per un immondo piacere, per uno sfogo di brutale passione. Una goccia di mele, può dir di sé stesso, mi è costata la vita; “gustans gustavi… paululum mellis, et ecce morior(1 Reg. XIV, 43). Oh Dio! A quanti dirsi potrebbe ciò che nel divino Apocalisse fu detto a quel vescovo, “nomen habes quod vivas et mortuus es(III, 1). Voi siete vivo, vegeto, sano, robusto, “nomen habes quod vivas”, ma portate in seno un’anima morta, “sed mortuus es”. – Ma questo non è il tutto. Muore pel grave peccato insieme coll’anima ogni opera buona, ogni merito acquistato. A ciò comprendere più chiaramente rammentate quel che dell’anime prevaricatrici scrive l’apostolo S. Taddeo nella sua epistola Cattolica. Chiama egli quell’anime: alberi autunnali due volte morti, “arbores autumnales, eradicatæ , bis mortuæ(V, 12). Avrete forse veduto sul cominciar dell’autunno un albero carico di frutti non ancor giunti a maturità; quando un turbine procelloso gli si aggira d’intorno, lo stravolge, lo schianta fin dall’ime radici, e lo distende sul campo. Quest’albero è due volte morto; morto perché dalla radice non può più trar lumor vitale, morto perché non può più maturare i suoi pomi, i quali per mancanza di alimento cadono disseccati sul terreno. Tanto avviene ad un’anima colpita da grave peccato; perde colla vita di grazia il frutto di tutte le precedenti sue opere buone. Avesse acquistati tutt’i meriti de confessori, delle vergini, de’ martiri, degli Apostoli, di tutti i beati del cielo, resta di tutti onninamente spogliata. “Omnes iustitiæ eius, quas fecerat, non recordabitur” (Ezech. XIII, 24). – Alla vista di tanta perdita, alla considerazione di questa doppia morte chi vi è che si risenta, che si commuova? “Io mi aggiro talvolta (diceva S. Giovanni Crisostomo al popolo Antiocheno) talvolta mi aggiro per le vostre contrade, e mi accade sentire da qualche casa uscir un mischio di pianti, di sospiri, di gemiti e di clamori, volgo il piede verso la casa rimbombante di tanti lamenti, ascendo le scale, ed ecco m’incontro in un cadavere, intorno a cui piangono inconsolabili i congiunti, i familiari, gli amici: chi singhiozza, chi urla, chi si dibatte, chi si strappa i capelli. Ah, miei figliuoli, esclamo allora, piangete pure la perdita, piangete la morte di un vostro caro, ben ne avete ragione. Si concede in questi casi funesti un moderato sfogo alla natura e al vostro dolore, ma di grazia per il ben che vi voglio, per l’amor che vi porto, permettetemi che io vi mostri un oggetto assai più meritevole del vostro pianto. Se voi per lo peccato siete in disgrazia di Dio, l’anima vostra è morta a Dio, alla sua grazia, alla sua amicizia: è questa la morte che più di ogni altra merita le vostre lacrime. Ma ohimè! che al sentir questa morte, morte degna di eterno pianto, io vi vedo stupidi, insensibili, indifferenti. O miei figli, o santa fede! Possibile, che per un defunto, che pur una volta doveva cessar di vivere, siete inconsolabili, e per la morte della vostr’anima immortale ed eterna non versiate una lacrima, non alziate un sospiro! Tanta commozione ed ambascia per un corpo fatto cadavere, e tanta indolenza e freddezza per un’anima resa per il mortale peccato a condizione più luttuosa di mille fetenti cadaveri, o miei figliuoli, o santa fede ! che cecità ella è mai questa?

I. Ma tutto qui finisce. Un’anima rea di grave delitto non solo è in istato di spiritual morte, ma essa è in pericolo di eterna morte. Ritorniamo a quella casa di lutto, ove ci ha condotti il Crisostomo. Io veggio uscir dalle sue porte collocato in un feretro il compianto defunto. Figli, così dunque lasciate portar via l’amato genitore? Egli è morto, voi mi rispondete. Consorte, come soffrite che vi sia tolto dagli occhi il fido vostro compagno? Egli è morto. E voi congiunti, domestici, amici. .. Egli è morto. E che volete voi dirmi con questo tanto ripetere: “egli è morto” ? Vogliam dire che un cadavere chiama il sepolcro, che chi più non vive sopra la terra, deve andare sotterra; Ho inteso: per chi è morto “solum superest sepulchrum (Giob. XVII). Così è, non deve funestare i vivi chi è nel numero de’ morti. Il suo luogo è la tomba: è questa la pratica di tutti i secoli. Ditemi ora, fratelli carissimi, se l’anima vostra, che Dio non voglia, fosse morta per grave peccato, a qual luogo sarebbe essa destinata? Non rispondete? Morta che ella è, anch’essa chiama il suo sepolcro. E qual è il sepolcro di un’anima rea, di un’anima morta? Egli è l’inferno. Così affermò Gesù Cristo quando parlò dell’Epulone, “mortuus est… dives, et sepultus est in inferno( Luc. XVIII, 22). Trapassato che fu quel ricco malvagio sarà stato per avventura il suo corpo collocato da suo pari in qualche superbo mausoleo; ma 1’anima sua fu sepolta nell’abisso infernale, “sepultus est in inferno”. Ecco la tomba che sta aspettando ogni anima peccatrice. – S’è così, e perché, voi ripigliate, un’anima morta non vien tosto colà giù seppellita? E perché, vi rispondo, un corpo morto nol mandate subito dal letto al sepolcro? Perché dopo un giusto contristamento degli addolorati congiunti convien comporlo in casa, esporlo poscia in Chiesa, e dar tempo che si compiano intorno ad esso le sacre ecclesiastiche cerimonie. E costume di tutte le nazioni incivilite di lasciar sopra terra i defunti per uno o più giorni secondo gli usi, le circostanze, o le qualità del soggetto. Dite altrettanto riguardo ad un’anima nel suo stato di morte. Chiama ella il suo sepolcro, cioè l’inferno; ma Iddio pietoso mosso dalle preghiere della Chiesa, dall’intercessione dei Santi, e dalle viscere della sua misericordia, più che al castigo propende al perdono, differisce il suo destino, accorda tempo, aspetta che si ravveda, che apra gli occhi sul suo pericolo, che si adopri, che chieda aiuto per tornare in vita; e a questo fine, con una pazienza tutta propria, dice S. Agostino, di un Dio Onnipotente, con un amore tutto diretto a salvarla, indugia, ritarda per mesi, per anni a seppellirla nell’abisso. Guai però per chi non si profitta di quest’indugio, guai per chi si abusa del tempo concesso pel suo ravvedimento! – Potrà dire di sè quest’infelice: “Si sustinuero, infernus domus mea est. (Giob. XVII). Se io continuo in questo stato di morte, se non tronco quell’amicizia, se non abbandono quella pratica, se non dismetto quel giuoco, se non restituisco 1’altrui roba, se non riparo l’altrui fama, in una parola, se non lascio il peccato, “si sustinuero”, la mia tomba, la mia abitazione perpetua sarà l’inferno; “si sustinuero infernus domus mea est”. – Che facciam dunque, peccatori miei cari? Vogliamo persistere in questo luttuosissimo stato di morte con evidente pericolo di morte sempiterna? Ah! no, diamo ascolto alla voce di Dio, ai richiami della nostra coscienza, agli amorevoli inviti dell’apostolo Paolo, che a me peccatore e a ciascuno di voi così va dicendo: “O cristiano fratello, tu sei sepolto in un sonno letargico, tu sei morto a Dio e alla sua grazia; via su, svegliati in questo istante, apri gli occhi alla luce, sorgi da morte, che Gesù Cristo ti stende la mano, e di figlio che sei delle tenebre, ti cangerà in figlio di luce: “Surge qui dormis, et exurge a mortuis, et illuminabit te Christus(Ephes. V, 14). Lo so, per la nostra spirituale risurrezione, ci vuole un miracolo della divina onnipotente destra, maggior di quel che si richiede a risuscitare un morto; miracolo ch’è pronto a farlo Iddio pietoso. Passa però questa differenza tra la vivificazione di un corpo, e la vivificazione di un’anima: che il corpo nulla può contribuire al proprio risorgimento; l’anima però, tuttoché morta, è sempre fornita del libero arbitrio, non è in essa estinto il lume della fede, non è insensibile ai pungoli della sinderesi, non è priva di qualche naturale virtù; onde assistita dalla grazia, che sempre è pronta a porgerle aiuto, può e deve concorrere al suo risorgimento. – Mezzo efficacissimo a questo risorgimento, è l’umile e fervorosa preghiera; e perciò a voi rivolto, mio pietoso Signore, vi prego più col cuore che con le labbra, a dar la vita a chi n’è privo. Forse io son quello; ma deh! Voi fatemi penetrare alla mente un raggio di viva luce, acciò non mi addormenti in un sonno mortifero, per cui il mio nemico, il demonio si vanti di avermi vinto e perduto. “Illumina oculos meos ne unquam obdormiam in morte, ne quando dicat inimicus meus: preavalui adversus eum(Ps, XII,4) .

Credo

Offertorium
Orémus
Ps XVIII:9;10;11;12
Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulcióra super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.
[La legge del Signore è retta e rallegra i cuori, i suoi giudizii sono piú dolci del miele e del favo: e il servo li custodisce.]

Secreta
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine, hæc digne frequentáre mystéria: quia, quóties hujus hóstiæ commemorátio celebrátur, opus nostræ redemptiónis exercétur. [Concedici, o Signore, Te ne preghiamo, di frequentare degnamente questi misteri, perché quante volte si celebra la commemorazione di questo sacrificio, altrettante si compie l’opera della nostra redenzione.]

Communio Joann VI:57
Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo, dicit Dóminus.
[Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me, ed io in lui, dice il Signore.]

Postcommunio
Orémus.
Tui nobis, quǽsumus, Dómine, commúnio sacraménti, et purificatiónem cónferat, et tríbuat unitátem.
[O Signore, Te ne preghiamo, la partecipazione del tuo sacramento serva a purificarci e a creare in noi un’unione perfetta.]

« O Dio, che nella gloriosa Trasigurazione del tuo Unigenito confermasti con la testimonianza dei patriarchi i misteri della fede, e con la voce uscita dalla nube luminosa proclamasti mirabilmente la perfetta adozione dei figli, concedici, nella tua bontà, di divenire coeredi della gloria e partecipi della medesima » (Colletta del giorno). Nobile formula, che riassume la preghiera della Chiesa e ci presenta il suo pensiero in questa festa di testimonianza e di speranza.

Ma è bene osservare subito che la memoria della gloriosa Trasigurazione è già stata fatta due volte nel Calendario liturgico: la seconda Domenica di Quaresima e il Sabato precedente. Che cosa significa ciò, se non che la solennità odierna ha come oggetto, più che il fatto storico già noto, il mistero permanente che vi si ricollega, e più che il favore personale che onorò Simon Pietro e i igli di Zebedeo, il compimento dell’augusto messaggio di cui essi furono allora incaricati per la Chiesa? Non parlate ad alcuno di questa visione, fino a quando il Figlio dell’uomo non sia risuscitato dai morti (Mt. XVII, 9). La Chiesa, nata dal costato squarciato dell’Uomo-Dio sulla croce,non doveva incontrarsi con lui faccia a faccia quaggiù; e quando, risuscitato dai morti, avrebbe sigillato la sua alleanza con lei nello Spirito Santo,solo della fede doveva alimentarsi il suo amore. Ma, per la testimonianza che supplisce la visione, nulla doveva mancare alle sue legittime aspirazioni di conoscere.

La scena evangelica.

A motivo di ciò, appunto per lei, in un giorno della sua vita mortale, ponendo tregua alla comune legge di sofferenza e di oscurità che si era imposta per salvare il mondo, egli lasciò risplendere la gloria che colmava la sua anima beata. Il Re dei Giudei e dei Gentili (Inno dei Vespri) si rivelava sul monte dove il suo pacifico splendore eclissava per sempre i bagliori del Sinai; il Testamento dell’eterna alleanza si manifestava, non più con la promulgazione d’una legge di servitù incisa sulla pietra, ma con la manifestazione del Legislatore stesso, che veniva sotto le sembianze dello Sposo a regnare con la grazia e lo splendore sui cuori (Sa. XLIV, 5). La profezia e la legge, che prepararono le sue vie nei secoli dell’attesa, Elia e Mosè, partiti da punti diversi, si incontravano accanto a lui come fedeli corrieri al punto di arrivo; facendo omaggio della loro missione al comune Signore, scomparivano dinanzi a lui alla voce del Padre che diceva: Questi è il mio Figlio diletto. I Tre testimoni, autorizzati più di tutti gli altri, assistevano a quella scena solenne: il discepolo della fede, quello dell’amore, e l’altro figlio di Zebedeo che doveva per primo sigillare con il sangue la fede e l’amore apostolico. Conforme all’ordine dato e alla convenienza, essi custodirono gelosamente il segreto, fino al giorno in cui colei che ne era interessata potesse per prima riceverne comunicazione dalle loro bocche predestinate.

Data della festa.

Fu proprio quel giorno eternamente prezioso per la Chiesa? Parecchi lo affermano. Certo, era giusto che il suo ricordo fosse celebrato di preferenza nel mese dell’eterna Sapienza: Splendore della luce increata, specchio immacolato dell’infinita bontà (Verso alleluiatico; cfr. Sap. VII, 26). Oggi, i sette mesi trascorsi dall’Epifania manifestano pienamente il mistero il cui primo annuncio illuminò di così dolci raggi il Ciclo ai suoi inizi; per la virtù del settenario qui nuovamente rivelata, gli inizi della beata speranza sono cresciuti al pari dell’Uomo-Dio e della Chiesa; e quest’ultima, stabilita nella pace del pieno sviluppo che l’offre allo Sposo (Cant. VIII, 10), chiama tutti i suoi figli a crescere come lei mediante la contemplazione del Figlio di Dio fino alla misura dell’età perfetta di Cristo (Ef. IV, 13). Comprendiamo dunque perché vengano riprese in questo giorno, nella sacra Liturgia, formule e cantici della gloriosa Teofania. Sorgi, o Gerusalemme; sii illuminata; poiché è venuta la tua luce, e la gloria del Signore s’è levata su di te (I Responsorio di Mattutino; cfr. Is. LX, 1). Sul monte, infatti, insieme con il Signore viene glorificata la sua Sposa, che risplende anch’essa della luce di Dio (Capitolo di nona; cfr. Apoc. XXI, 11).

Le vesti di Gesù.

Mentre infatti « il suo volto risplendeva come il sole – dice di Gesù il Vangelo – le sue vesti divennero bianche come la neve » (Mt. XVII, 2). Ora quelle vesti, d’un tale splendore di neve – osserva san Marco – che nessun tintore potrebbe farne di così bianche sulla terra (Mc. 9, 2), che altro sono se non i giusti, inseparabili dall’Uomo-Dio e suo regale ornamento, se non la tunica inconsutile, che è la Chiesa, e che Maria continua a tessere al suo Figliuolo con la più pura lana e con il più prezioso lino? Sicché, per quanto il Signore, attraversato il torrente della sofferenza, sia personalmente già entrato nella sua gloria, il mistero della Trasfigurazione non sarà completo se non allorché l’ultimo degli eletti, passato anch’egli attraverso la laboriosa preparazione della prova e gustata morte avrà raggiunto il capo nella sua resurrezione. O volto del Salvatore, estasi dei cieli, allora risplenderanno in te tutta la gloria, tutta la bellezza e tutto l’amore. Manifestando Dio nella diretta rassomiglianza del suo Figliuolo per natura, tu estenderai le compiacenze del Padre al riflesso del suo Verbo che costituisce i figli di adozione, e che vagheggia nello Spirito Santo fino alle estremità del manto che riempie il tempio (Is. VI, 1).

Il mistero dell’adozione divina.

Secondo la dottrina di san Tommaso, infatti (III, qu. 45, art. 4), l’adozione dei figli di Dio, che consiste in una conformità di immagine con il Figlio di Dio per natura (Rom. VIII, 29-30), si opera in duplice modo: innanzitutto per la grazia di questa vita, ed è la conformità imperfetta; quindi per la gloria della patria, ed è la conformità perfetta, secondo le parole di san Giovanni: « Ora noi siamo figli di Dio; ma non si è manifestato ancora quel che saremo. Sappiamo che quando si manifesterà saremo simili a lui, perchè lo vedremo quale egli è » (I Gv. III, 2).

Le parole eterne: Tu sei il mio Figliuolo, oggi io ti ho generato (Sal. II, 7) hanno due echi nel tempo, nel Giordano e sul Tabor; e Dio, che non si ripete mai (Giobbe XXXIII, 14) non ha in ciò fatto eccezione alla regola di dire una sola volta quello che dice. Poiché, per quanto i termini usati nelle due circostanze siano identici, non tendono però allo stesso fine – dice sempre san Tommaso – ma a mostrare quel modo diverso in cui l’uomo partecipa alla rassomiglianza con la filiazione eterna. Nel battesimo del Signore, in cui fu dichiarato il mistero della prima rigenerazione,come nella sua Trasfigurazione che ci manifesta la seconda, apparve tutta la Trinità: il Padre nella voce intesa, il Figlio nella sua umanità, lo Spirito Santo prima sotto forma di colomba e quindi nella nube risplendente; poiché se, nel battesimo, Egli conferisce l’innocenza indicata dalla semplicità della colomba, nella resurrezione concederà agli eletti lo splendore della gloria e il ristoro di ogni male, che sono significati dalla nube luminosa (III, qu. 45, ad 1 et 2).

Insegnamento dei padri.

« Saliamo il monte – esclama sant’Ambrogio; – supplichiamo il Verbo di Dio di mostrarsi a noi nel suo splendore e nella sua magnificenza; che fortifichi se stesso e progredisca felicemente, e regni nelle anime nostre (Sal. XLIV). Alla tua stregua infatti, o mistero profondo, il Verbo diminuisce o cresce in te. Se tu non raggiungi quella vetta più elevata dell’umano pensiero, non ti appare la Sapienza; il Verbo si mostra a te come in un corpo senza splendore e senza gloria » (Comm. su san Luca, 1. VII, 12). Se la vocazione che si rivela per te in questo giorno é così santa e sublime (VII Responsorio di Mattutino; cfr. Tim. 1, 9-10), «adora la chiamata di Dio -riprende a sua volta Andrea da Creta (Discorso sulla Trasfigurazione): – non ignorare te stesso, non disdegnare un dono così sublime, non ti mostrare indegno della grazia, non essere tanto pusillanime nella tua vita da perdere questo celeste tesoro. Lascia la terra alla terra, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti (Mt. VIII, 22); disprezzando tutto ciò che passa, tutto ciò che muore con il secolo e con la carne, segui fino al cielo senza mai separartene Cristo che per te compie il suo cammino in questo mondo. Aiutati con il timore e con il desiderio, per sfuggire alla caduta e conservare l’amore. Donati interamente; sii docile al Verbo nello Spirito Santo, per raggiungere quel fine beato e puro che é la tua deificazione, con il gaudio di indescrivibili beni. Con lo zelo delle virtù, con la contemplazione della verità, con la sapienza, arriva alla Sapienza principio di tutto e in cui sussistono tutte le cose» (Col. 1, 16-17).

Storia della festa.

Gli Orientali celebrano questa festa da lunghi secoli. La vediamo fin dagli inizi del secolo IV in Armenia, sotto il nome di « splendore della rosa », rosæ coruscatio, sostituire una festa floreale in onore di Diana, e figura tra le cinque feste principali della Chiesa armena. I Greci la celebrano nella settima Domenica dopo Pentecoste, benché il loro Martirologio ne faccia menzione il 6 di agosto. – In Occidente, viene celebrata soprattutto dal 1457, data in cui il Papa Callisto III promulgò un nuovo Ufficio e la rese obbligatoria in ringraziamento della vittoria riportata l’anno precedente dai cristiani sui Turchi, sotto le mura di Belgrado. Ma questa festa era già celebrata in parecchie chiese particolari. – Pietro il Venerabile, abate di Cluny, ne aveva prescritto la celebrazione in tutte le chiese del suo Ordine quando Cluny ebbe preso possesso, nel secolo XII, del monte Thabor.

La benedizione delle uve.

Vige l’usanza, presso i Greci come presso i Latini, di benedire in questo giorno le uve nuove. Questa benedizione si compie durante il santo Sacrifìcio della Messa, al termine del « Nobis quoque peccatoribus ». I Liturgisti, insieme con Sicardo di Cremona, ci hanno spiegato la ragione di tale benedizione in un simile giorno: « Siccome la Trasfigurazione si riferisce allo stato che dev’essere quello dei fedeli dopo la resurrezione, si consacra il sangue del Signore con vino nuovo, se è possibile averne, onde significare quanto è detto nel Vangelo: Non berrò più di questo frutto della vite, fino a quando non ne beva del nuovo insieme con voi nel regno del Padre mio » (Mt. XXVI, 29).

Terminiamo con la recita dell’Inno di Prudenzio, che la Chiesa canta nei Vespri ed al Mattutino di questo giorno:

INNO

O tu che cerchi Cristo,

leva gli occhi in alto; ivi scorgerai il segno della

sua eterna gloria.

La luce che risplende manifesta Colui che non conosce termine,

il Dio sublime, immenso, senza limiti,

la cui durata precede quella del cielo e del caos.

Egli è il Re delle genti, il Re del popolo giudaico,

e fu promesso al patriarca Abramo e alla sua stirpe per tutti i secoli.

I Profeti sono i suoi testimoni, e sotto la loro garanzia,

testimone egli stesso,

il Padre ci ordina di ascoltarlo e di credere in lui.

Gesù, sia gloria a te che ti riveli agli umili,

a te insieme con il Padre e

lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.

 

 

DOMENICA VIII dopo PENTECOSTE

Introitus Ps XLVII:10-11.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua. [Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Ps XLVII:2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus. [Grande è il Signore, e degnissimo di lode nella sua città e nel suo santo monte.]

Ps XLVII:10-11 Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua. [Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Oratio

Orémus.

Largíre nobis, quǽsumus, Dómine, semper spíritum cogitándi quæ recta sunt, propítius et agéndi: ut, qui sine te esse non póssumus, secúndum te vívere valeámus. [Concedici propizio, Te ne preghiamo, o Signore, di pensare ed agire sempre rettamente; cosí che noi, che senza di Te non possiamo esistere, secondo Te possiamo vivere.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII:12-17

Fratres: Debitóres sumus non carni, ut secúndum carnem vivámus. Si enim secúndum carnem vixéritis, moriémini: si autem spíritu facta carnis mortificavéritis, vivétis. Quicúmque enim spíritu Dei aguntur, ii sunt fílii Dei. Non enim accepístis spíritum servitútis íterum in timóre, sed accepístis spíritum adoptiónis filiórum, in quo clamámus: Abba – Pater. – Ipse enim Spíritus testimónium reddit spirítui nostro, quod sumus fílii Dei. Si autem fílii, et herédes: herédes quidem Dei, coherédes autem Christi.

Omelia I

[Mons. Bonomelli. Omelie, vol. III, Torino, 1899].

Omelia XVII

Fratelli, noi non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne; perché se vivrete secondo la carne, voi morrete: ma se con lo spirito avrete mortificato la carne, vivrete. Perché, quanti sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figliuoli di Dio. E’ vero, voi non avete ricevuto di nuovo lo spirito di servaggio a timore; ma avete ricevuto lo spirito di adozione, nel quale diciamo: Abba! Padre! Poiché lo stesso Spirito rende testimonianza allo spirito nostro, che noi siamo figliuoli di Dio. Se poi siamo figliuoli, siamo altresì eredi: eredi cioè di Dio, ma coeredi di Cristo „ (Ai Romani, VIII, 12-17).

La dottrina contenuta in questi sei versetti, l’altezza delle idee, la forma del dire ed il contorno dei periodi vi dicono senz’altro, che questo tratto dell’Epistola appartiene all’Apostolo Paolo; e veramente si legge nel capo ottavo della sua lettera ai Romani. Questa lettera tra le quattordici lasciateci dall’Apostolo è la principale per la copia e profondità della dottrina dogmatica e morale ed anche per l’ampiezza dello svolgimento, e fra i sedici capi, onde consta la lettera, questo, a mio giudizio, tocca la massima altezza per ciò che spetta la natura e gli effetti della rigenerazione operata da Cristo. – Dopo aver toccata la felice condizione dei rigenerati in Cristo, raffrontati a quelli che vivono nella carne, afferma che in essi abita lo Spirito Santo, e che esso un giorno li risusciterà come già risuscitò Gesù Cristo. Qui o cari, comincia il testo, che devo interpretare e che domanda tutta la vostra attenzione. – “ Fratelli, noi non siamo debitori alla carne, per vivere secondo la carne. „ L’Apostolo, lo sapete, con la parola carne indica l’uomo vecchio, l’uomo del peccato, l’uomo corrotto, l’uomo schiavo delle passioni, le quali hanno la loro radice principalmente nella carne, e perciò lo chiama semplicemente carne: con la spirito significa l’uomo nuovo, l’uomo della grazia, l’uomo rigenerato nel battesimo, l’uomo che segue lo spirito di Cristo, e perciò lo chiama spirito. Il battesimo mette in noi la grazia, che cancella il peccato, depone in noi un germe nuovo, una forza, una vita nuova, che è la partecipazione della vita stessa di Cristo, ma non distrugge le conseguenze o pene del peccato, e lascia sussistere accanto al nuovo uomo il vecchio, accanto alla grazia la concupiscenza, accanto allo spirito di Cristo, la carne con le sue passioni, e ciò ad esercizio della virtù. Vedeste mai, o dilettissimi, spuntare una pianta gentile, una vaga rosa, un candido giglio in mezzo ad un terreno pantanoso? È un’immagine del cristiano, esso ha in sé la grazia di Gesù Cristo, pianta gentile che germoglierà la rosa ed il giglio; ma la terra, in cui sorge e tiene le radici, è un pantano, che spesso esala miasmi pestilenziali, è il nostro corpo, la nostra natura corrotta, nella quale si annidano le più sozze passioni. Che dobbiamo far noi? Ciò che fa l’industre giardiniere: e gli non guarda al pantano, non l’ama, non vi mette il piede, che vi s’imbratterebbe, non se ne cura, anzi ne torce lo sguardo, rimira e vagheggia con occhio di compiacenza la rosa ed il giglio e circonda la pianta di tutte le sue cure amorose. – Similmente noi pure, o dilettissimi. Gesù Cristo ha ha posto in noi, come dicevo, la sua grazia: col santo battesimo a Lui ci siamo dati e gli abbiamo fatta solenne promessa di vivere come Lui, di seguire il suo spirito e di combattere il mondo, il demonio e la carne. Che cosa dobbiamo noi alla carne? Quali benefici ci ha essa fatti? Quali benefici possiamo aspettarci? Nessun beneficio ci ha fatto, né ci può fare, ed ogni male passiamo da essa temere. Dunque “non viviamo secondo la carne: „ – “Debitores sumus non carni, ut secundum carnem vìvamus.” La carne ci invita, ci trae a seguire la vanità, ad accumulare ricchezze, a mangiare e bere senza misura, a poltrire nell’ozio, ad odiare chi ci ha offesi, a vendicarci, a sfogare le basse voglie del senso e andate dicendo; no, non seguitiamo la carne per questa mala via; essa non ha diritto alcuno che noi la seguitiamo, e mal per noi se lo facessimo. E perché? – Perché esclama S. Paolo, “se vivrete secondo la carne, morrete: „ “Si enim secundum carnem vixiritis, morìemini”. Termine ultimo ed infallibile delle malnate vostre passioni soddisfatte, sappiatelo bene, sarà la morte. Qual morte? La morte dell’anima e con quella dell’anima la morte altresì del corpo nell’eterna perdizione. Chi di voi non ha orrore della morte? Chi di v o i non la fugge a tutto potere? Che non fareste voi per sottrarvi al suo braccio di ferro? Ebbene: non vivete secondo la carne, combattete virilmente le sue malvagie passioni e non sarete preda della morte. – No, noi non vivremo secondo la carne, come ci intimate voi, o grande Apostolo: come dunque vivremo? secondo qual legge? Udite: ” Se con lo Spirito avrete mortificate le opere della carne, vivrete: „ Si autem spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis. Comprendeste, o cari? Armati dalla grazia divina, come d’una spada a due tagli, avvalorati dalla forza dello spirito in noi infuso mercé del battesimo e degli altri Sacramenti, dobbiamo rintuzzare le opere della carne, cioè le male cupidigie, che pullulano nella carne, ed allora vivremo, cioè avremo la vita eterna dell’anima e a suo tempo quella del corpo. Lo so, che il raffrenare e il castigare le perverse voglie della carne cagiona assai volte dolori acutissimi, e la natura nostra fieramente si rivolta, né sa rassegnarsi a certi tagli crudeli; ma se vogliamo vivere è forza sottomettersi: Si spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis. – Un infelice è minacciato di gangrena in un braccio, in un piede o in altra parte del corpo: si chiamano i più valenti chirurghi: esaminano, si consultano tra loro e dichiarano unanimi, essere necessario il taglio. L’infermo impallidisce e domanda ansioso se non v’è altro rimedio. No, rispondono gli uomini della scienza: o il taglio e prontamente, o la vita. – Il misero s’ arrende e lascia che il ferro penetri profondamente nelle carni, e recida senza pietà le parti cancrenose, vi dica Dio con quale atroce spasimo. – Quello sventurato trova, nella sua volontà e nel timore della morte e nel desiderio della vita temporale la forza bastevole per sottomettersi al ferro ed al fuoco, e soffrire strazi indicibili e talora inutilmente; e noi nella nostra volontà sostenuta e rinvigorita dalla grazia divina, nel timore della morte e nel desiderio della vita eterna non troveremo la forza necessaria per isvellere quella triste abitudine, per isbarbicare quel turpe amore, per recidere quella scellerata passione, che quasi cancro rode e va spegnendo la vita della misera anima? Che il timore della morte eterna e l’amore della vita eterna siano meno efficaci sul nostro cuore del timore della morte temporale e dell’amore della vita temporale? Se così fosse, noi saremmo pessimi ragionatori. – Se voi seguirete, così l’Apostolo, se voi seguirete non gli appetiti della carne, ma lo spirito, ossia la grazia di Gesù Cristo, non solo non morrete, non solo avrete la vita, ma quella vita che è propria dei figli di Dio. Perché quanti sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio: „ “Quicumque enim Spiritu Dei aguntur, ii sunt filli Dei”. Questa espressione dell’Apostolo è molto forte e in alcuno può far sorgere il timore, che corra pericolo la nostra libertà; se siamo mossi dallo Spirito di Dio, si dirà, è tolta la libertà nostra, e se questa è tolta, è tolta la ragione del merito e della pena, e tra noi ed i bruti non corre differenza alcuna. Non temete, o cari, che lo Spirito di Dio tolga o scemi la nostra libertà; Esso non solo la rispetta, ma la sorregge e l’aiuta, perché sta scritto, che dove è lo Spirito di Dio, ivi è la libertà. – Il vento agita e muove l’albero; il sole muove intorno sé la terra ed i pianeti; il pilota guida dove e come vuole la sua nave, il cocchiere i suoi cavalli: è forse così che Dio con il suo Spirito muove le nostre volontà? No, per fermo; se così le muovesse, la libertà nostra sarebbe annientata: 1’albero non può non muoversi sotto il soffio del vento, la terra ed i pianeti non sono liberi di seguire il sole, la nave non può resistere al pilota, ed i cavalli sono costretti ad ubbidire al freno. Come, dunque le nostre volontà sono mosse dalla grazia, eppure rimangono libere? Come! Un giorno vostro padre e vostra madre vi dissero: Figliuoli! voi non andrete nel tal luogo dove correreste pericolo; voi attenderete allo studio ed andrete alla scuola; voi non piglierete il tal cibo e la tal bevanda, ma quello che v i sarà dato ed all’ora per voi stabilita, e tutto ciò pel vostro bene. Se non lo farete, mal per voi; se lo farete, noi, vostri genitori ne gioiremo e ne avrete la giusta mercede. E voi che faceste? Pel timore del castigo, per l’amore dei vostri genitori, seguiste il consiglio, faceste il loro volere, vi lasciaste guidare dal loro spirito. Perdeste voi la vostra libertà? No, sicuramente. Potevate fare il contrario di ciò che vi era da essi consigliato o comandato? Chi ne dubita? E forse in parte lo faceste ed ora ne provate rimorso. Il somigliante avviene rispetto a Dio, Padre nostro. Ci fa conoscere ciò che dobbiamo sfuggire e ciò che dobbiamo fare: ci mostra la via del male e ci dice: Non camminate per questa; ci mostra la via del bene e ci dice: Ti metti per questa. Poi infonde nell’anima nostra la forza necessaria perché facciamo ciò che ci comanda, ma non ci costringe, e ci lascia, come dice la Scrittura santa, in mano del nostro libero arbitrio. Dio dunque si muove, come si può muovere una volontà libera; ci muove come voi potete muovere la libertà d’un amico, dei vostri figli mostrando loro la verità, eccitandoli, esortandoli, minacciandoli, pregandoli, allettandoli ed in cento altri modo studiandovi di far sì che le loro volontà seguano la vostra (corre una gran differenza tra la nostra azione e quella di Dio: noi non possiamo agire sugli altri che in modo esterno, dovechè Dio agisce esternamente ed internamente; esternamente illumina la mente ed internamente muove la volontà e la avvalora secondo i bisogni). Forse che voi costringete e fate violenza alla loro volontà? E ciò che fa Dio con noi con la sua grazia e voi potete comprendere, che essa non nuoce, ma giova alla libertà, come il vostro consiglio ed il vostro comando e i vostri eccitamenti giovano al bene de’ vostri figliuoli. – In quanto siamo mossi e guidati dallo Spirito di Dio, “siamo figli di Dio, „ scrive san Paolo: Quicumque Spiritu Dei aguntur, ii sunt fillii Dei”. È questa una dottrina altissima, che ha bisogno d’essere ben compresa, e a ben rischiararla, userò d’una similitudine. Un padre, modello d’ogni virtù, ha due figli: l’uno è la copia fedele del padre, come lui pio e virtuoso; l’altro è il rovescio, superbo, iracondo, invidioso, dissoluto, senza fede, viziosissimo. Sono entrambi figli dello stesso padre? Indubbiamente, perché entrambi da lui hanno ricevuta la vita e secondo 1’ordine naturale, rispetto alla vita umana, sono fratelli e fratelli, li dice il popolo. Ma secondo la vita morale sono essi fratelli e figli dello stesso padre? Certamente, no, e il padre nel suo dolore più volte va esclamando: Ah! tu non sei mio figlio; e il popolo lo conferma, ripetendo: Questo non è figlio di quell’ottimo padre. Che differenza passa tra i due figli? Il primo ha in sé non solo la vita naturale del padre, ma anche la parte migliore di lui, la vita morale: ha in sé lo spirito del padre, è mosso e guidato dallo stesso spirito, si dice ed è perfettamente suo figlio. Il secondo ha dal padre la vita naturale, come il fratello, ma non ha la parte migliore, la vita morale, non ha lo spirito del padre, non è mosso, né guidato dallo stesso spirito, e perciò si dice che per questo rispetto non è figlio del padre. Così noi tutti siamo opera di Dio creatore, tutti riscalda un Dio redentore, e come tali tutti egualmente siamo figli di Dio; ma se la nostra condotta non è quale si conviene ai figli di Dio, se lo Spirito di Dio non ci muove e non ci guida, a ragione si deve dire, che non siamo figli di Dio. Guardando alle opere nostre, ai pensieri, agli affetti, onde si informa il nostro spirito, troviamo noi d’essere simili a Dio e figli di Dio, perché mossi ed informati del suo Spirito? Se, si, rallegriamoci e ringraziamone il buon Dio; se, no, facciamo del nostro meglio per essere tali almeno in avvenire. – “E veramente, voi non avete ricevuto di nuovo lo spirito di servaggio a timore”; è questa la sentenza che segue la spiegata e la rincalza. Noi siamo figli di Dio, guidati dal suo Spirito; e come potrebbe essere altrimenti? dice l’Apostolo. Noi, uomini della nuova legge, discepoli di Gesù Cristo, non abbiamo ricevuto lo spirito della legge antica, lo spirito di quella legge e quello spirito era proprio, non di figli, ma di servi, non di figli che amano il padre, ma di servi che temono il padrone. Che vuol dir ciò, o carissimi? L’indole e lo spirito della legge mosaica era quello di incutere timore con le pene gravissime temporali e con esse frenare le passioni e metterle in orrore il peccato, onde quella legge riguardava soltanto le opere esterne e non poteva, se non indirettamente, esercitare l’azione sua sull’interno e formare i l cuore. Gli Ebrei servivano a Dio più per timore che per amore, erano più servi che figli; ma noi, dice S. Paolo, siamo informati ad un’altra scuola: lo spirito che abbiamo ricevuto, quello di figli adottivi di Dio; è tale spirito, che ci diritto di chiamare Iddio col dolce nome di Padre: “In quo clamamus: Abba, Pater”. Dio Padre, per opera dello Spirito Santo congiunse la Persona del Figliuol suo colla natura umana assunta, e lo congiunse per modo, che l’Uomo-Cristo è vero Dio; Gesù Cristo vero dio e vero Uomo, con la grazia, con la carità e soprattutto con la S. Eucaristia, congiunge gli omini a se stesso per guisa che formano con Lui, una cosa sola, vivono della sua vita, partecipano della sua stessa natura e diventano anch’essi figli, non naturali, che è impossibile, ma adottivi, e come tali possono chiamare Dio loro padre. Che cosa importi questa eccelsa dignità di figliuoli adottivi di Dio, lo spiegai in altra omelia, e perciò qui me ne passo. – E possiamo noi sapere se abbiamo veramente in noi lo Spirito di Dio e se siamo suoi figli? Sì, risponde S. Paolo: ” Per lo stesso Spirito rende testimonianza allo spirito nostro, che noi siamo figli di Dio. „ – Noi possiamo avere una certezza di fede come quella che abbiamo p. es. della presenza reale di Gesù Cristo nella S. Eucaristia, e questa è la massima ed esclude qualunque ombra, ancorché lievissima, di dubbio; perché il nostro assenso si appoggia all’autorità stesso di Dio, che non può né ingannare, né ingannarsi: e possiamo avere una certezza umana, che esclude pur questa ogni dubbio e che appoggia alla nostra ragione od alla testimonianza altrui; così io sono certo che ogni effetto suppone la sua causa e che esiste il Giappone, benché io non l’abbia veduto. Chi mai, che sia sano di mente, potrà dubitare di queste due verità? Ebbene: noi siamo certi, dice S. Paolo, d’essere figli di Dio. E d’onde questa certezza? A qual prova si appoggia? Alla testimonianza che lo Spirito di Dio ci rende internamente. E questa una certezza di fede (Il Concilio di Trento insegnò, che l’uomo giustificato non è tenuto a credere per fede di essere nel numero dei predestinati, e che nessuno sa con assoluta ed infallibile certezza di essere predestinato, se non lo conosce per via di speciale rivelazione. -Sess. VI, Can. 15, 16.-) se non vi è una speciale rivelazione di Dio, della quale qui l’Apostolo non fa cenno e che è fuori di questione, perché parla in generale di tutti i fedeli, dicendo : ” Perché lo stesso Spirito rende testimonianza allo spirito nostro, che siamo figli, di Dio. „ È questa dunque una certezza umana, maggiore o minore, secondo le persone e secondo le circostanze, che tiene, a così dire, il mezzo tra la certezza assoluta e la congettura. Ma in qual maniera poi lo Spirito Santo ci accerta che siamo figli di Dio e perciò adorni della sua grazia? Lo Spirito di Dio nella Scrittura santa e nell’insegnamento ordinario della Chiesa ci dice chiaramente, che chi crede le verità della fede, ed osserva la legge divina ed adempie come meglio può i propri doveri tutti, costui si santifica e si salva: ora, se interrogando schiettamente la nostra coscienza, essa ci dice che tutto questo noi abbiamo fatto e facciamo, noi abbiamo l’umana certezza d’essere nella sua grazia e di salvarci. Come siamo noi certi di godere l’amicizia di questa o quella persona? Come siamo noi certi che i genitori ci amano? Guardando alle opere loro e nostre, considerando il complesso delle cose tutte, noi teniamo con maggior o minore certezza di poter riposare sulla fedeltà degli amici e sull’amore dei nostri genitori, tantoché assai volte non ci si affaccia un’ombra sola di dubbio. Similmente, ragguagliata ogni cosa, possiamo dire dell’amicizia e dell’amore di Dio. – Alcuni provano angustie penose e grandi timori perché ignorano se sono in grazia di Dio od in peccato, se si salveranno o perderanno, e si sentono stringere il cuore. Nessuno sa con assoluta certezza se è degno d’odio o di amore, come insegna la S. Scrittura: il nostro cuore è un abisso e solamente l’occhio di Dio vi legge con tutta chiarezza; con tutto ciò a noi pure è dato leggervi alcun poco e tanto da poterne avere una cotale certezza, che ci procuri quella pace, che quaggiù è possibile . – Carissimi! volete voi sapere se siete veramente in grazia di Dio e per conseguenza suoi figliuoli? Sì, mi rispondete voi ad una voce e mi domandate : Come ottenere questa certezza sì desiderata e sì consolante? Raccoglietevi in voi stessi, nel santuario della vostra coscienza, e mettendovi faccia a faccia con essa, indirizzatele queste domande semplicissime: Credo io tutto ciò che insegna la Chiesa, madre mia? Se conoscessi d’aver commesso un peccato grave, me ne pentirei di cuore e sinceramente me ne confesserei? Se Dio, ora, in questo punto, mi comandasse un sacrificio grande, doloroso, sarei io pronto a farlo, sostenuto dalla sua grazia? Se in questo istante mi si offrisse un grande onore, un tesoro a patto di offendere Dio con un peccato mortale, avrei io il coraggio di respingere quell’onore e quel tesoro? Se la vostra coscienza vi risponde: Sì, consolatevi, la grazie di Dio è in voi e voi siete suoi figli. È una prova che ciascuno può fare in se stesso ogni qual volta gli piaccia (sono questi i segni che siamo in grazia di Dio indicati da S. Francesco di Sales. Iddio poi vuole che la nostra certezza sia sempre accompagnata da un po’ di timore per scuotere la nostra pigrizia. “Perpende, dulcissima filia, così S. Gregorio M. ad una pia dama di corte, quia mater negligentiæ solet esse securitas. Habere ergo in hac vita non debes securitatem, per quam negligens reddaris”). – Se siamo figli, siamo altresì eredi, eredi di Dio, ma coeredi di Cristo. „ Con questa sentenza si chiude la lezione della nostra Epistola. Se siamo figli di Dio e perciò nell’anima nostra simili a Lui, quale ne sarà la conseguenza? quale il frutto? “Saremo eredi di Dio. „ il Figlio di Dio, il figlio docile ed amorevole, che adempie tutti i suoi doveri, ha diritto alla eredità del padre: così noi, se adempiremo fedelmente i doveri nostri verso Dio, che ci ha adottati per sola sua bontà, saremo eredi suoi. Di quali beni saremo noi eredi? Di tutti i beni, onde risulta la eterna felicità, fonte dei quali è il possesso di Dio medesimo. – Direte: i figli,- siano essi naturali od adottivi, non ricevono la eredità che alla morte del padre; ora Dio, padre nostro, non muore mai, né puo’ morire: perché dunque i beni, che un giorno ci darà su in cielo, si chiamano eredità? Si chiamano eredità, per indicare i rapporti che passano tra Dio rimuneratore e gli uomini rimunerati, che sono appunto i rapporti tra padre adottante e i figli adottati. Oltreché, noi siamo fratelli di Gesù Cristo secondo la sua natura umana: Gesù Cristo, in quanto uomo, ricevette dal Padre tutti i beni, come Figliuol suo naturale, e questi beni si chiamano la sua eredità; il perché, per ragione di analogia, pure i nostri beni futuri si dicono eredità. Nell’ordine naturale i figli qui sulla terra ricevono l’eredità dopo la morte dei genitori; nell’ordine sovrannaturale i figli devono morire prima di riceverla dal Padre immortale; ad ogni modo, per avere questi beni deve sempre precedere la morte, e perciò si chiama eredità. Eredi di Dio! “Hæredes Dei!” Quale dignità! Quale grandezza è la nostra! Quei beni sono certamente un dono gratuito di Dio, se consideriamo la loro radice, che è la grazia, ma ci sono anche dovuti, se poniamo mente alla nostra prerogativa di figli di Dio e alle opere nostre, frutto della grazia. La eredità è dovuta ai figli per giustizia: poteva Iddio non adottarci; ma dopo l’adozione non può negarcela; Egli stesso ce ne ha dato il diritto. Eredi di Dio! Queste parole svegliano nella mente dell’Apostolo un”altra idea nobilissima e subito la nota, dicendo: “E coeredi di Cristo. „ Sì, siamo figli di Dio, e quindi eredi suoi; figli ed eredi di Dio, perché il Figlio di Dio si fece uomo e fratello nostro, e per Lui ed in Lui, Figlio naturale ed erede necessario della eredità paterna, noi pure siamo figli per adozione di Dio e suoi eredi. Tutto dunque abbiamo per Gesù Cristp e perciò a Lui si devono tutte le grazie, e la gloria di tanta grandezza. a cui siamo sollevati. – O poveri che mi ascoltate; che bagnate di sudore il vostro pane quotidiano, che non possedete un palmo di terra, che soffrite tutti i mali ed i dolori, che sono inseparabili compagni della povertà e della miseria, rallegratevi, gioite: levate i vostri occhi al cielo, esso è vostro. Iddio il padrone d’ogni cosa, ha un Figliuolo, unico Figliuolo: Egli ha diritto al possesso di tutti i beni del Padre suo; per eccesso di bontà Egli ha voluto associare voi tutti ai suoi diritti sulla eredità paterna; voi sarete suoi coeredi, a quest’unica condizione, che vi riuniate a Lui con la fede, con la speranza e con la carità, e dietro a Lui portiate quella croce ch’Egli per primo portò dinanzi a voi.

 Graduale Ps XXX:3

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias. [Sii per me, o Dio, protezione e luogo di rifugio: affinché mi salvi.]

Ps LXX:1 V. Deus, in te sperávi: Dómine, non confúndar in ætérnum. Allelúja, allelúja. V. O Dio, in Te ho sperato: ch’io non sia confuso in eterno, o Signore. Allelúia, allelúia

Alleluja Ps XLVII:2

Alleluja, Alleluja.

Magnus Dóminus, et laudábilis valde, in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. Allelúja. [Grande è il Signore, degnissimo di lode nella sua città e sul suo santo monte. Allelúia].

 

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. Luc XVI:1-9

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: jam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii hujus saeculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula. [In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli questa parabola: Vi era un uomo ricco che aveva un fattore, e questi fu accusato presso di lui di avergli dissipato i beni. Allora lo chiamò e gli disse: Che cosa sento dire di te? réndimi conto del tuo operato, perché ormai non potrai più essere mio fattore. Questi disse fra sé: Cosa farò poiché il padrone mi toglie la fattoria? Non posso zappare, mi vergogno di chiedere l’elemosina. Ma so quello che farò, affinché quando sarò cacciato dalla fattoria, possa essere accolto in casa altrui. Adunati quindi tutti i debitori del suo padrone, diceva al primo: Quanto devi al mio padrone? E questi: Cento orci d’olio. E il fattore: Prendi la tua obbligazione, siediti e scrivi: cinquanta. Poi disse a un altro: E tu, quanto devi? Cento staia di grano. E il fattore: Prendi la tua lettera e segna: ottanta. E il padrone lodò il fattore disonesto che aveva agito con astuzia, poiché i figli del secolo sono piú accorti, fra loro, dei figli della luce. E io dico a voi: fatevi degli amici con le ricchezze dell’iniquità, affinché, quando morrete, gli amici vi accolgano nelle loro eterne dimore.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Luca XVI, 1-9]

-Tre tribunali-

“Rendimi conto, economo infedele (così Cristo introduce a parlare nell’evangelica parabola un padrone mal soddisfatto del suo fattore), rendimi conto, servo malvagio, di tua condotta nell’amministrazione a te affidata de’ miei averi; perciocché tu più non avrai né impiego, né tempo a dissipare le mie sostanze!: redde rationem villicationis tuæ: iam enim non poteris villicare”. Atterrito da questa minaccia il tristo castaldo cominciò a pensare, e a dire fra sé: “Che farò quando dal mio Signore io venga rimosso dalla mia carica? Zappare? Io non ho forza. Mendicare? Io non ho faccia. So ben io quel che fare mi giova”; e chiamati i debitori del suo padrone, se l’intese con quelli, e provvide, sebbene ingiustamente, a’ suoi futuri bisogni. Cristiani uditori, saremo ancor noi citati un giorno innanzi al divino giudice, anche a noi sarà intimato quel “redde rationem villicationis tuæ”. Non potremo in quel dì pigliar tempo, e provvedere a noi stessi, come lo scaltro fattore. Il tempo che allora ci mancherà l’abbiamo adesso: Iddio ce l’accorda al presente, non ce lo promette in futuro. Anzi, notate finissimo tratto della sua immensa bontà, acciò al suo divin tribunale possiamo rendere buon conto di noi, Egli, dice il Crisostomo, Egli ha stabilito due altri tribunali: “tribunal mentis, tribunal poenitentiæ, tribunal iudicii[Homil. De poenit.]. Osservate con qual ordine. Il primo è piantato nel nostro cuore da Dio Creatore, il secondo nella sua Chiesa da Dio Redentore, il terzo al fin di nostra vita da Dio giudice; il primo è un tribunale di giustizia e di misericordia: il secondo di pura misericordia; il terzo di sola giustizia. Il primo è diretto acciò ricorriamo al secondo, il secondo affinché ci disponiamo al terzo. Guai se non usiamo bene de’ due primi, saremo irrevocabilmente condannati nel terzo. Uditemi attentamente.

I. Il primo tribunale collocato nel nostro cuore da Dio Creatore, egli è un tribunale di giustizia insieme e di misericordia; e primieramente di giustizia. – Appena gl’incauti nostri progenitori rompono il primo precetto, che sull’istante, presi da confusione e da rossore, si ritirano, si nascondono, si coprono di fronde e foglie. Chi li accusa? Chi li condanna? Non hanno ancor sentito la voce di Dio sdegnato nel terreno paradiso, perché dunque si turbano, si coprono, e si nascondono? E non lo vedete; chi li accusa, e chi li condanna è quel giudice inesorabile da Dio Creatore custodito nel loro cuore, che alza la voce, che li confonde, che fa provare tutto l’orrore, che fa sentire tutto il peso del loro delitto. Una più chiara prova ci somministrano le parole del grande Iddio dirette al loro primo figliuolo, invidioso Caino. Io leggo, o Caino nel tuo volto turbato un certo iniquo disegno. Ascolta, infelice, se tu opererai il bene ne avrai la ricompensa, se il male, ne porterai subito la pena. Il peccato, come un cane latrante alla porta del tuo cuore, ti farà provare i più fieri rimorsi : “Si bene egeris, recipies, sin autem male, statim in foribus peccatun aderit” [Gen. IV, 6], Così avvenne. Appena tinto del sangue dell’innocente fratello, un torbido orrore gl’invase la mente, un così strano e gelido spavento gli sconvolse l’animo, che profugo sulla terra temeva ad ogni passo incontrarsi in chi gli desse la morte. – È questo il tribunale della coscienza, “tribunal mentis”, in cui, come nel tribunale degli uomini, v’interviene il reo detenuto, gli accusatori che denunziano, il giudice, che condanna. Reo detenuto è il peccatore, che non può fuggire da sé stesso; accusatori sono 1’intelletto che gli fa conoscere, la memoria, che gli ricorda i suoi delitti; il giudice è la coscienza, giudice inesorabile, che parla contro chi non vorrebbe, che non si può far tacere, che dà sentenze, che pronunzia condanna. Tu tieni ingiustamente la roba altrui, dice ad uno, tu sei un ladro coperto, ma sei un ladro. Tu sei un disonesto, dice ad un altro, ti nascondi agli occhi del mondo, ma a te stesso nascondere non ti puoi. Tu sei in stato di dannazione, dice ad un terzo, se tu non lasci il peccato, se non ti penti, se non ti confessi, tu sei perduto. – Via, peccatori quanti mai siete, distraetevi pure dai reclami della rea coscienza, fate strepito per non sentirla, passate senza interrompimento dall’uno all’altro piacere, dal convito al giuoco, al passeggio, al ballo, al teatro, vi saprà ben seguire e mordere in ogni luogo, in ogni tempo il verme della sinderesi, e massime alla prima disgrazia che v’intervenga, o alla prima malattia che vi colga. Disingannatevi, dice il Crisostomo, ovunque possiate rivolgervi, porterete sempre con voi un giudice che la farà da carnefice per tormentarvi. – Questo tribunal di giustizia ne’ disegni di Dio pietoso è anche un tribunale di misericordia, fa Iddio con noi come medico sagace, che maneggia il ferro, adopra il fuoco per ridurre a sanità il povero infermo. Quelle fitte, peccatori miei cari, quelle spine, che vi trafiggono, sono dirette a farvi conoscere che il peccato non può farvi contento, che bisogna togliere la spina se volete che cessi il dolore. Ad una di queste spine deve la sua conversione il penitente Profeta: “conversus sum in aerumna mea, dum conficitur spina” [Ps. XXXI]. Sono spine, è vero, sono punture, ma sono grazie del misericordioso Signore, acciò afflitti e conturbati nel tribunale della vostra coscienza cerchiate rimedio alle vostre piaghe e pace al vostro cuore nel tribunale della penitenza.

II. Il tribunale di penitenza, posto da Dio Redentore nella sua Chiesa, è tribunale di misericordia. Ne’ tribunali terreni la confessione del peccato si trae addosso la pena, confessarsi reo e condannarsi è la cosa stessa. Tutto il contrario nel tribunale della penitenza. Chi si discolpa moltiplica il suo reato: chi si accusa, chi si condanna, resta assoluto e prosciolto: “Si nosmetipsos diiudicaremus, non utique iudicaremur” [I Cor. XI, 31]. – È sempre stato questo 1′ ordinario costume del nostro Iddio, che è la stessa bontà e la stessa giustizia, di condannar chi si scusa, e di perdonar chi s’incolpa. Si scusa Adamo, e dice: “la donna, che dato mi avete, fu la cagione del mio trascorso”. Si scusa Eva, e ne ascrive la causa al serpente. Scuse in faccia di un Dio veggente? Fuori del terren Paradiso! Si scusa Aronne e dell’idolo da lui innalzato alle falde del Sinai, ne fa carico alla turba tumultuante, e viene escluso perciò dal metter piede nella terra promessa. Si scusa Saul, e di sua trasgressione al divino comando ne incolpa il popolo; e Samuele gli annunzia la perdita del regno temporale, a cui si aggiunse poi la perdita del regno eterno. In somma, reo che si scusa dinanzi a Dio, non l’indovina. Per l’opposto chi si umilia, chi si confessa colpevole disarma la divina giustizia, e ottiene grazia e perdono. .- “Peccavi , dice Davide , peccavi Domine”, e Natan profeta l’assicura che il suo peccato è rimesso, “Dominus quoque transtulit peccatum tuum” [ II Reg. XII, 13]. Si dichiara massimo peccatore il Pubblicano, si batte il petto cogli occhi a terra e se n’esce giustificato dal tempio. Si protesta il prodigo indegno del nome di figlio, e viene accolto con festa dal buon genitore. Si confessa, a finirla, il buon ladro meritevole del suo supplizio, ed ottiene da Gesù moribonde e perdono e promessa di paradiso. – Ecco come 1’umile confessione delle proprie colpe placa la giusta collera di Dio offeso, e ciò in tutti i tempi, massime però nel tribunal di penitenza, in cui la sincera confessione dell’uomo ravveduto e compunto acquista soprannatural vigore, e maggior merito per l’efficacia del Sacramento, in modo, dice S. Isidoro, che se siete infermi vi risana, se in disgrazia di Dio, vi giustifica, se meritevoli di castigo vi perdona, perché nella sacramental Confessione ha collocata la sua sede la divina misericordia: “in confessione locus misericordiæ”. Aggiustiamo dunque, fratelli carissimi, in questo tribunale di misericordia i nostri conti con Dio, se vogliamo incontrar bene al tribunale, a cui appena morti dovremo comparire, tribunale di pura giustizia.

III. Così è, a quel finale giudizio presiede la sola giustizia di Dio, e la misericordia è da quello affatto lontana: “Judicium sine misericordia”. Dura la divina misericordia finché dura la vita: finita questa, si chiude la porta della divina clemenza per non aprirsi mai più. A quel tremendo tribunale non ci accompagnano se non le nostre opere o buone o malvagie. Portiamo con noi il nostro processo, da cui dipende la nostra eterna sorte. Quivi, a nostro modo di intendere, ognun di noi sarà posto nelle bilance di rigorosa giustizia: se, come Baldassarre, saremo trovati mancanti, una sentenza irrevocabile, una condanna di eterno supplizio sarà il giusto castigo, che ci renderà eternamente infelici. – Ah, mio Dio! Dunque se io vi comparisco davanti col peccato nell’anima, sarò da voi rigettato in eterno? E in quel finale giudizio sarà dalla spada della vostra giustizia recisa per sempre la via della pietà e della misericordia? “Numquid in æternum proiiciet Deus …aut in finem misericordiam suam abscìndet?! [Ps. LXXVI, 7-8] Ah mio Signore! E non ci dite voi per bocca di un vostro profeta, che in mezzo all’ira vi ricorderete della misericordia? Appunto, di me sta scritto, “cum iratus fueris misericordiæ recordaberis” (Habac. II, 5), e ben me ne ricordo di quella misericordia usata con voi in tutto il corso della vostra vita: mi ricordo della mia pazienza in sostenervi per tanto tempo peccatori: mi ricordo dell’abbondanza delle mie grazie, e dell’ostinazione dei vostri rifiuti. Quanti lumi ho fatto balenare alla vostra mente, quanti impulsi ho fatto sentire al vostro cuore, quanti stimoli alla vostra coscienza per svegliarvi dal mortale letargo delle vostre viziose abitudini? La mia misericordia è quella, che colla voce delle mie ispirazioni, e con quella dei miei ministri vi chiamava al tribunale di penitenza; affinché in quello saldaste i debiti colla mia giustizia, e non aveste in questo a provarne i rigori, questi e mille altri sono i tratti della clemenza usata con voi, e al rammentarli in quest’istante si accende di maggior fiamma il giusto mio sdegno. Itene dunque maledetti per sempre. Voi non siete più miei, Io non sono più vostro; “Vos non populus meus, et ego non ero vester (Osea I, 9 ). – Miei cari, se vogliamo in quel tribunale schivar la sentenza di eterna morte, profittiamo del primo tribunale, che Dio Creatore ha posto nel nostro cuore, ricorriamo al secondo della penitenza, che Dio Redentore ha stabilito nella sua Chiesa. L’avviso è del Crisostomo : “Si volumus a tribunali iudicii particularìs absolvi, duo reliquia iudicia frequentemus” [Hom. de Pœnit.].

Credo …

Offertorium

Orémus Ps XVII:28; XVII:32

Pópulum húmilem salvum fácies, Dómine, et óculos superbórum humiliábis: quóniam quis Deus præter te, Dómine? [Tu, o Signore, salverai l’umile popolo e umilierai gli occhi dei superbi, poiché chi è Dio all’infuori di Te, o Signore?]

Secreta

Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera, quæ tibi de tua largitáte deférimus: ut hæc sacrosáncta mystéria, grátiæ tuæ operánte virtúte, et præséntis vitæ nos conversatióne sanctíficent, et ad gáudia sempitérna perdúcant. [Gradisci, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che noi, partecipi dell’abbondanza dei tuoi beni, Ti offriamo, affinché questi sacrosanti misteri, per opera della tua grazia, ci santífichino nella pratica della vita presente e ci conducano ai gaudii sempiterni.]

Communio Ps XXXIII:9 Gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus: beátus vir, qui sperat in eo. [Gustate e vedete quanto soave è il Signore: beato l’uomo che spera in Lui.]

Postcommunio

Orémus. Sit nobis, Dómine, reparátio mentis et córporis cæléste mystérium: ut, cujus exséquimur cultum, sentiámus efféctum. [O Signore, che questo celeste mistero giovi al rinnovamento dello spirito e del corpo, affinché di ciò che celebriamo sentiamo l’effetto.]

DOMENICA VII dopo PENTECOSTE

I tre Marrani: “dai frutti [ERESIE] li riconoscerete… !” (Matt. VII, 16)

Introitus

Ps XLVI:2.  Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis.[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Ps XLVI:3 Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis: Rex magnus super omnem terram. [Poiché il Signore è l’Altissimo, il Terribile, il sommo Re, potente su tutta la terra.] Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis. [O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Oratio

Orémus. Deus, cujus providéntia in sui dispositióne non fállitur: te súpplices exorámus; ut nóxia cuncta submóveas, et ómnia nobis profutúra concédas. [O Dio, la cui provvidenza non fallisce mai nelle sue disposizioni, Ti supplichiamo di allontanare da noi quanto ci nuoce, e di concederci quanto ci giova.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom 6:19-23

“Fratres: Humánum dico, propter infirmitátem carnis vestræ: sicut enim exhibuístis membra vestra servíre immundítiæ et iniquitáti ad iniquitátem, ita nunc exhibéte membra vestra servíre justítiæ in sanctificatiónem. Cum enim servi essétis peccáti, líberi fuístis justítiæ. Quem ergo fructum habuístis tunc in illis, in quibus nunc erubéscitis? Nam finis illórum mors est. Nunc vero liberáti a peccáto, servi autem facti Deo, habétis fructum vestrum in sanctificatiónem, finem vero vitam ætérnam. Stipéndia enim peccáti mors. Grátia autem Dei vita ætérna, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

Omelia I

[Mons. Bonomelli, Omelie, vol III, omelia XV.Torino 1899]

Parlo da uomo, secondo la vostra naturale debolezza: siccome offriste le vostre membra a servire alla immondezza ed alla iniquità per la iniquità, così ora fate di offrirle alla giustizia per la santificazione. E invero, quando eravate servi del peccato, eravate franchi dalla giustizia. Ora qual frutto ricavaste da quelle opere, delle quali ora arrossite? Perché termine di quelle è la morte. Ma ora affrancati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per vostro frutto la santificazione e per termine la vita eterna. Perché lo stipendio del peccato è morte; ma il dono di Dio è vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore„ ( Ai Rom. VI, 19-23).

L’omelia, che tengo, come sapete, si riduce costantemente ad un commento del Vangelo o della Epistola della Domenica corrente. Questo metodo ha il vantaggio di seguire l’esempio dei Padri, di rispondere alla lettera ed spirito della prescrizione tridentina, di esporre l’insegnamento divino della Scrittura, ma non va immune da alcune difficoltà, delle quali la principale è questa: il testo del Vangelo o della Epistola, che si legge nella santa Messa, è tolto qua e là da uno dei quattro Vangeli e dalle Lettere apostoliche. Naturalmente staccato dagli antecedenti e dai conseguenti, raro è che presenti un tutto insieme, che stia da sé e si possa comprendere separatamente dal contesto, e ciò specialmente quanto alla Epistola. Se voi vedete un ramo tagliato dal suo albero, per giudicarne siete obbligati di guardare all’albero, dal quale fu tagliato. Così avviene a me nella spiegazione in particolar modo della Epistola; per conoscere debitamente il senso della parte, che riferisco, sono obbligato a vedere ciò che precede il testo, affine di seguire il filo del ragionamento e trovare il nesso che congiunge le parti. – Scopo dell’apostolo Paolo in questo capo sesto della lettera ai Romani è di mostrare che il battezzato ha l’obbligo di vivere una vita nuova, la vita di Cristo, rimovendo la vita dell’uomo vecchio, la vita del peccando. Svolgendo questa verità, S. Paolo si avvia ad una applicazione pratica bellissima, e dice che tutto quello che in noi servì di strumento alle passioni ed al peccato prima del battesimo, deve servire a strumento di virtù dopo il battesimo: come prima eravamo servi del peccato, cosi dopo dobbiamo essere servi della giustizia. E qui comincia il testo dell’Apostolo, che avete udito e che deve formare il soggetto della presente omelia. – “Parlo secondo uomo per la vostra naturale debolezza: perché siccome offriste le vostre membra a servire alla immondezza ed alla iniquità, così or fate di offrirle alla giustizia per la santificazione. „ Vi ho detto, che voi col battesimo siete diventati servi della giustizia: Servi facti estis justitiæ. Questa parola “servi”, soggiunge l’Apostolo quasi scusandosi, vi torna grave e quasi vi offende, perché l’essere servi importa l’aver perduto ciò che l’uomo ha di più alto e di più caro, la libertà; ma ho dovuto usare questa parola, non avendone altra a mano e che risponda alla cosa. Sono costretto a parlare così per la povertà del nostro linguaggio e per farmi intendere come meglio posso, e voi o Romani, non offendetevi della parola “servi” “Humanum dico, propter infìrmitatem carnis vestræ”. – Fors’anche questa frase Humanum dico, può significare: vi dico cosa piana affatto, naturale, facile ad intendersi. E qual è? Finché voi vivete nel peccato, seguendo le vostre passioni, voi foste servi delle stesse e portaste il loro giogo vergognoso. Le vostre membra furono strumento al peccato, gli occhi, le orecchie, la lingua, le mani, i piedi, tutto il vostro corpo, che altro fecero se non servire in mille modi al peccato? Voi, che disprezzate il servo e non volete essere servi di chicchessia, pure serviste ad ogni turpitudine, “Immunditiæ”, ad ogni iniquità in guisa di precipitare da iniquità in iniquità: Iniquitate in iniquitatem, ora non dovete aver vergogna d’essere servi della giustizia, della virtù, affine di santificarvi. Udite il commento che questa sentenza ci lasciò un Padre della Chiesa: “Con queste parole San Paolo vuole che i suoi lettori arrossiscano di se stessi, affinché facciano per la virtù quello che prima fecero pel vizio, quasi dicesse: prima i vostri piedi correvano al delitto, ora corrano alla virtù; prima le vostre mani si allungavano per rapire l’altrui, ora si stendano per largheggiare del vostro; prima i vostri occhi si volgevano intorno per bramare d’avere l’altrui, ora si volgano intorno per soccorrere i poverelli, e quel servizio che ciascun membro del vostro corpo prestò ai vizi, ora lo renda alle virtù, e se un tempo corse dietro a sozzi piaceri, ora batta le vie della castità e della santità. „ Vi torna amara questa parola” servi della giustizia, „ – “Servi facti estis justitiæ”; non la vorreste udire, perché vi sembra un oltraggio alla vostra dignità; ma ricordatevi di quel tempo, nel quale “eravate servi del peccato, ed eravate franchi, cioè liberi del giogo della giustizia: “Cum servi essetis peccati, lìberi fuistis justitiæ”. – Qui è necessario spiegare più largamente il pensiero dell’Apostolo. Vi è il bene, vi è il male; vi è la virtù, vi è il vizio; vi è la legge di Dio, vi è la legge del mondo e della carne: noi siamo posti tra la legge di Dio e la legge del mondo, tra il vizio e la virtù, tra il bene ed il male: dobbiamo necessariamente appigliarci all’uno od all’altro; lo starcene indifferente è impossibile e vorrebbe dire, se pure fosse possibile, che ci gettiamo dalla parte del male, del vizio e del mondo, perché chi non è con Cristo è contro di Lui. È dunque condizione assoluta dell’uomo il servire al bene od al male, al vizio od alla virtù, a Dio o al mondo; è la sua stessa natura, che l’obbliga a mettersi dall’una o dall’altra parte, a scegliere d’essere servo di Dio o del mondo, del peccato o della giustizia. Per quanto gli spiaccia questa parola servire, non è in poter suo sottrarsi a questa legge sovrana. Ora fino al giorno nel quale avete creduto a Cristo e avete ricevuto il battesimo, a chi avete voi servito? domanda l’Apostolo. Al peccato: Cum servi essetis peccato. Servendo al peccato, per fermo non servivate alla giustizia, eravate sciolti e franchi dal suo giogo: ora vi sembra, così argomenta l’Apostolo, che sia più degno dell’uomo servire al peccato od alla giustizia? Poiché vi è pur forza piegare il collo sotto il gioco dell’uno o dell’altra, chi non vede che è meglio servire alla giustizia che al peccato? – Strana e quasi incredibile contraddizione quella dell’uomo! Egli ha una tendenza innata, che gli fa considerare come nemico chiunque metta un limite alla sua indipendenza, e come un diritto sacro inalienabile quello di usare come meglio gli piace della sua libertà. Egli non vede che i suoi diritti e la sua libertà; di doveri e di dipendere non ama che gli si parli e volentieri li dimentica. Che cosa è la libertà debitamente intesa? È il potere di usare delle proprie forze, di fare o non fare certi atti, di non essere impedito nell’esercizio delle sue facoltà e de suoi diritti. Ora si può essa comprendere questa libertà dell’uomo senza il dovere di rispettare i diritti altrui, ossia la libertà altrui? Evidentemente, no. Intorno ad ogni uomo vi sono altri uomini, che hanno diritti eguali ai suoi, e vi sono libertà che limitano la sua, giacché dove comincia la libertà degli altri cessa la nostra. Al di sopra di lui vi è l’autorità civile e politica con le sue leggi: vi è la Chiesa con le sue leggi, e al di sopra della civile autorità e della Chiesa vi è Dio, il Padrone assoluto di tutti. In faccia ai diritti dei suoi simili, in faccia alle autorità umane, alla Chiesa, a Dio, che a tutti sovrasta, qual è il dovere d’ogni uomo? Che uso deve egli fare della sua libertà? L’uso ch’egli deve fare della sua libertà è quello di sottoporla a chi ha diritto d’averla a sè sottoposta. Allora essa è al suo posto, usa debitamente delle sue forze e con l’adempimento esatto dei suoi doveri si mostra rispettosa pei diritti altrui ed è vera libertà. – Come sarei felice se potessi farvi comprende che la libertà vera sta riposta, non già nel fare ciò che a noi piace, sia bene, sia male, ma solamente nell’adempire i nostri doveri e fare il bene, che solo veramente ci giova! L’occhio per vedere deve dipendere dalla luce, i polmoni per respirare devono dipendere dall’aria, il sangue per fare il suo giro deve dipendere dal cuore e così via via dite di tutte le membra del corpo, ciascuna delle quali più o meno dipende dalle altre. Oltre che direste voi se col pretesto di voler piena libertà l’occhio respingesse la luce, i polmoni non volessero aver che fare coll’aria, il sangue rigettasse ogni dipendenza dal cuore ed ogni membro rifiutasse sottostare all’altro e volesse fare da sé? Avremmo il disordine più perfetto e la morte. È la dovuta dipendenza quella che crea e mantiene la libertà di ciascun membro del nostro corpo: così la legittima dipendenza, o in altre parole l’adempimento perfetto dei nostri doveri verso i nostri simili, verso tutte le autorità e sovra tutto verso Dio quello che ci dà ed assicura la nostra vera libertà, e in questo senso Cristo disse, che chi commette il peccato è schiavo del peccato, e quegli è libero chi è liberato da lui. Dunque, o cari, non confondiamo le cose, non diamo il santo nome di libertà alla schiavitù, né col brutto nome nome di schiavitù vogliamo designare la vera libertà. Schiavo è colui che ubbidisce alle passioni, che serve al peccato; libero invece è quegli che frena le passioni, caccia da sé il peccato e serve alla giustizia ed alla virtù, perché l’uomo di sua natura è fatto per servire alla virtù e non per servire al peccato. – Vi è un figliuolo: egli rifiuta di ubbidire ai suoi genitori ed ubbidisce ad un servo, al quale deve comandare, vantandosi d’essere libero di così fare. Direte voi che questo figliuolo è veramente libero? Voi direte che è libero il figliuolo che ubbidisce ai suoi genitori e comanda al suo servo, perché così vuole la giustizia e l’ordine. Similmente noi diremo che chi respinge il giogo del peccato e serve a Dio, suo Padre, e a cui servire è regnare, è veramente libero. Deh! Carissimi cessiamo dal chiamare luce le tenebre e le tenebre luce, libertà la schiavitù e la schiavitù libertà. Siamo servi della giustizia, servi di Dio, e saremo liberi dal peccato e franchi dal mondo. Forse non mai nel corso dei secoli si parlò tanto di libertà come ai nostri tempi e forse non mai se n’ebbe un’idea sì confusa e sì falsa. Quanti al giorno d’oggi credono ci sia libertà vera fare ciò che piace, sia bene sia male! Quanti che vogliono per sé la libertà più sconfinata, non badando che questa importa la violazione dell’altrui libertà! Siffatta libertà metterebbe il mondo sossopra e produrrebbe la più brutta schiavitù. Ricordatelo bene: la libertà vera secondo la ragione e secondo il Vangelo, è rispettare e osservare le leggi di Dio, della Chiesa e di tutte le autorità anche civili: libertà vera è adempiere ciascuno i propri doveri, rispettando i diritti degli altri. Voi, ne sono certo, vi atterrete a questa legge, e così sarete veramente liberi. – Seguitando ora il nostro commento, vedete come l’Apostolo rincalzi a meraviglia la verità sopra accennata, vale a dire che dobbiamo essere servi della giustizia, e non del peccato. “Qual frutto aveste allora da quelle opere delle quali ora arrossite? „ Un tempo, così S. Paolo, prima di ricevere il battesimo, eravate servi del peccato, facevate le opere del peccato: ora, illuminati dalla verità, considerando quelle opere, non è vero che vi sentite salire sul volto la fiamma della vergogna? Non è vero che sentite tutta la vergogna di quel vituperoso servaggio? Ecco una prova indubitata che il servire al peccato non è libertà, ma servitù indegna, perché se fosse libertà non ne avremmo vergogna, anzi ne andremmo alteri. – Non solo il servire al peccato ci fa vergognare, continua l’Apostolo, ma vi è ben peggio: “Termine, ossia frutto delle opere del peccato è la morte, „ Finis illorurn mors est. Quale morte? La morte eterna! Bando adunque al servaggio del peccato, che dopo averci coperto di vergogna, spesso agli occhi del mondo, sempre a quelli della coscienza e di Dio, ci getta in braccio alla morte eterna. Bando al servaggio del peccato, che ci disonora ed uccide l’anima! – Che faremo dunque? “Sciolti o affrancati dal peccato e divenuti servi di Dio, avete per frutto la santificazione e per termine la vita eterna. „ In questo versetto S. Paolo ha condensato i doveri tutti dell’uomo nel tempo ed il suo destino nella eternità: romperla con le passioni e con il loro frutto, il peccato, santificarsi con l’esercizio della virtù e così toccare la meta ultima, il conseguimento della vita eterna: Finem vero vitam æternam. – Il versetto che segue, ultimo del capo e ultimo della nostra lezione è, possiam dire, la ripetizione di quello che abbiamo spiegato: “Perché lo stipendio del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna, in Cristo Gesù, nostro Signore.„ L a parola stipendio qui adoperata, è tolta dall’uso militare e per sé significa il soldo che si dava qual mercede al soldato. Sì, sembra gridare l’Apostolo: se voi servirete alle passioni, al peccato, e come soldati militerete sotto la sua bandiera, avrete anche dal peccato la mercede dovuta alla vostra miserabile milizia: il vostro stipendio sarà la morte eterna. Volgerete voi le spalle al peccato?” Correrete sotto la bandiera della giustizia e combatterete animosamente per essa? Il vostro stipendio, !a vostra mercede sarà il dono di Dio, che è la vita eterna: autem Dei, vita æterna, e questa la dovrete ai meriti di Gesù Cristo. – Questa sentenza di S. Paolo ci presenta una difficoltà, ed è questa: S. Paolo ci insegna ripetutamente in altri luoghi, che la vita eterna è corona dovuta a chi combatte e vince: è mercede dovuta a chi lavora e dovuta rigorosamente per giustizia: Gesù Cristo stesso ci dice di rallegrarci, perché grande ed abbondante è la mercede, che ci è riserbata in cielo; ora come sta che qui S. Paolo la chiama dono o grazia di Dio? Gratia autem Dei, vita æterna? Se è grazia, non è mercede: se è mercede non può essere grazia. Forsechè l’Apostolo bruttamente contraddice a se stesso? L’Apostolo certamente non può contraddire a se stesso, e la risposta non è difficile. La vita eterna è mercede di giustizia dovuta alle opere nostre: Dio non può negarla a chi opera rettamente. Ma come, con qual mezzo facciamo noi le opere meritevoli della vita eterna? Col mezzo della grazia che Dio ci ha data. E la grazia, la prima grazia, è essa nostra, o dono di Dio? La grazia, la prima grazia non è opera nostra, non la possiamo in alcun modo meritare, ed è dono della bontà divina. La vita eterna pertanto considerata nella sua radice, che è la grazia, è dono di Dio affatto gratuito: considerata nelle opere, frutto della grazia e della nostra corrispondenza alla medesima, è mercede: corona a noi dovuta. Volete comprendere questa verità con una similitudine comunissima, che tolgo dal Vangelo e precisamente dalla parabola dei talenti? Udite. Un ricco signore vi dà una grossa somma da trafficare a vostro talento. Che diritto avete voi a quella somma? Nessuno: essa è dono, ch’egli vi fa per sola sua bontà. Voi trafficate e fate con quella somma, mercé della vostra industria un grosso guadagno. Quel guadagno è frutto delle vostre fatiche e insieme del dono ricevuto da quel generoso signore, ed io potrei dire il vostro guadagno è dono del signore ed anche che è mercede delle vostre fatiche, perché l’una e l’altra cosa è egualmente vera: così è vero il dire, che il cielo è grazia e dono di Dio, ed è vero altresì, che è mercede e ricompensa delle nostre fatiche, perché per guadagnarlo è necessaria la grazia di Dio e necessaria l’opera nostra, e se l’uno o l’altra fa difetto, è impossibile ottenerlo.

Graduale Ps XXXIII:12; XXXIII:6

Veníte, fílii, audíte me: timórem Dómini docébo vos. – V. Accédite ad eum, et illuminámini: et fácies vestræ non confundéntur. [Venite, o figli, e ascoltatemi: vi insegnerò il timore di Dio. V. Accostatevi a Lui e sarete illuminati: e le vostre facce non saranno confuse.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps XLVI:2 Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis. Allelúja. [O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.

Matt VII:15-21 “In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Atténdite a falsis prophétis, qui véniunt ad vos in vestiméntis óvium, intrínsecus autem sunt lupi rapáces: a frúctibus eórum cognoscétis eos. Numquid cólligunt de spinis uvas, aut de tríbulis ficus ? Sic omnis arbor bona fructus bonos facit: mala autem arbor malos fructus facit. Non potest arbor bona malos fructus fácere: neque arbor mala bonos fructus fácere. Omnis arbor, quæ non facit fructum bonum, excidétur et in ignem mittétur. Igitur ex frúctibus eórum cognoscétis eos. Non omnis, qui dicit mihi, Dómine, Dómine, intrábit in regnum coelórum: sed qui facit voluntátem Patris mei, qui in cœlis est, ipse intrábit in regnum cœlórum.” [In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi sotto l’aspetto di pecore, ma che nell’intimo sono lupi rapaci: li riconoscerete dai loro frutti. Forse che alcuno raccoglie l’uva dalle spine o il fico dai rovi? Cosí ogni albero buono dà buoni frutti; mentre l’albero cattivo dà frutti cattivi. Non può l’albero buono produrre frutti cattivi, né l’albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che dà frutti cattivi sarà tagliato e gettato nel fuoco. Dunque, dai loro frutti li riconoscerete. Non chiunque mi dirà: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, questi entrerà nel regno dei cieli.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

Vang. di S. Matteo VII, 15-21

– Peccato castigo di sé medesimo –

 “Un albero malvagio, così Gesù Cristo nell’odierno Vangelo, un albero malvagio non può produr frutti buoni”: “Non potest …arbor mala bonos fructus facere”. E che si darà uomo così folle, che si lusinghi raccogliere da uno spino grappoli d’uva, ovvero fichi da’ triboli? Eh che uno spino non può produrre che spine pungenti, e un tribolo non può dare che triboli aspri e molesti. “Non potest arbor mala bonos fructus facere. E qual è quest’albero malvagio? Egli è il peccato; qualunque altro male o di animo o di corpo, o di sostanze non merita il nome di male. Solo il peccato, il peccato solo è l’unico e vero male, è quella pianta infelicemente feconda di tutti gli altri mali, è quell’albero pessimo velenoso che produce frutti a sé proporzionati, pessimi cioè, maligni, avvelenati. – Ad accennarli in compendio, come richiede la strettezza del tempo, basterà il dire che il peccato è pena e castigo di sé medesimo, o si consideri secondo la natural ragione, o si riguardi secondo Dio. Passo a dimostrarvelo, se mi seguite con attenzione cortese.

I . Il peccato è pena e castigo di sé medesimo considerato secondo la natural ragione. Che cosa è il peccato? Egli è una violazione della legge eterna, scritta nel nostro cuore da Dio Creatore, regola infallibile d’ogni nostro operare. Ora un’azione qualunque, opposta a questa legge è un vero disordine, e siccome cosa fuori del suo ordine, trovasi in istato di violenza, la violenza stessa deve portare sconcerto tanto nel fisico, quanto nel morale; sconcerto che non può seguire senza pena e dolore, come un osso fuor dal suo luogo che reca spasimi, finché non torni alla propria giuntura; onde quelle stesse opere malvagie, dice lo scrittore della Sapienza, alle quali si determina l’uomo peccatore, si convertono in suo danno e in suo tormento. “Per quæ peccat quis, per hæc et torquetur” [Sap. XI, 17). – Vediamolo in pratica. Un uomo dedito al vizio del vino, non è egli vero che tosto perde la stima e la reputazione, che diviene l’obbrobrio del paese, e la favola delle conversazioni? Non è un castigo, per uno smodato e vile piacere di gola, restar privo dell’uso di ragione, rovinarsi la sanità, ed abbreviarsi la vita? Gli antichi Spartani, sebbene idolatri, avevano in sommo orrore questo vizio; onde per allontanarne i loro figliuoli, facevano a bella posta divenir ubriaco un loro schiavo; indi convocati i figli: mirate, dicevano, a che si riduce un uomo posseduto dal vino, come parla a sproposito, come va barcollando: ohimè! dà del capo or in questa, or in quella parete. Ahimè! Che cade stramazzone per terra, e sbalordito vomita un lago di caldo vino fetente. Ecco, o figli, i tristi effetti del vino e dell’ubriachezza; abbominate, o cari, vizio tanto vituperoso e dannevole. – Con più ragione dunque possiamo dire noi cristiani che questo peccato è un vero e palpabile castigò di sé medesimo: “Per quæ peccat quis, per hæc et torquetur”. Che diremo poi del vizio del giuoco, di quel giuoco che forma l’occupazione de’ giorni anche festivi, prolungati sovente a notte avanzata? Di quel giuoco in cui si arrischia tutto il guadagno della settimana? Quante spine produce mai quest’albero maligno! Quanti rancori, risse, contrasti, collere, imprecazioni, bestemmie! Che notti inquiete senza chiuder occhi per un giocatore che ha perduto! Guai alla povera moglie, guai ai figli, al primo in cui s’incontra un giocatore disperato. A quanti giusti rimbrotti si espone per la sua crudeltà in togliere il pane di bocca ai suoi figlioletti per sacrificarlo alle carte e alla sua malnata passione! Quanti per giuoco passano da una buona fortuna alla mendicità; quanti, a finirla, morti allo spedale lasciano raminga e pezzente la propria famiglia! Non sono questi i meritati castighi, che si trae addosso il peccato del giuoco disordinato e vizioso? Così è: Per quæ peccat quis, per hæc et torquetur”. E di quel vizio, che l’apostolo neppur vorrebbe si nominasse, del vizio e della disonestà, così universale nel mondo, che dovrò io dire? Io non vorrei camminare in questo fango, non vorrei maneggiare questa pece. Mi basterà mostrarvi nella persona di Sansone, che non v’è forse altro vizio che più di questo formi la pena ed il tormento del vizioso. Sansone, giudice in Israele, terrore dei Filistei, onor di sua nazione, per la rea amicizia di Dalila donna venale, perde la riputazione, perde i capelli, perde la forza, perde gli occhi, perde finalmente la vita. – A tutte queste disavventure va incontro un impudico. Perdite d’onore, di sostanze, di sanità e della vita stessa, dacché non vi è peccato che più di questo acceleri la morte, e consumi la vita di chi n’è infetto, anche per fisiche cagioni. E ben lo sanno per dolorosa prova quei sciagurati, che ancor vivi, portano già le carni marce e infracidite. Qui sì che ci cade precisamente il detto del Savio: “Per quel che uno pecca, per quell’istesso vien tormentato:Per quæ peccat quis, per hæc et torquetur, peccato di carne, pena di carne. – Dite altrettanto d’ogni vizio. L’avaro è nemico di sé stesso, il superbo è da tutti aborrito, l’invidioso fa sangue cattivo, il ladro non ride sempre, il goloso si accorcia la vita. Insomma, siccome il ferro produce la sua ruggine, siccome il legno il suo tarlo, e il panno la sua tignola, così il peccato, anche secondo la natural ragione, genera la sua pena, e il suo castigo.

II. Che sarà poi quando alla ragione naturale si aggiunga la giustizia di Dio? È verità di fede che il peccato deve esser punito. Siccome l’ombra segue necessariamente il suo corpo, così la pena necessariamente segue il peccato. E perciò una delle due, o dobbiamo noi castigare in noi stessi la nostra colpa, e distruggerla con vero dolore di animo umiliato e contrito, o pure Iddio offeso troverà ben Egli modo da prendersi la giusta vendetta. Ve lo ripeto, è di fede, che il peccato deve essere punito o in questa, o nell’altra vita! La sentenza è data, e registrata nell’odierno Vangelo: “Omnis arbor quæ non facit fructum bonum excidetur, et in ignem mittetur”. Ogni albero che non fa frutti buoni “excidetur”, ecco la pena temporale, “et in ignem mitteturecco la pena eterna. La strada dunque non passa: o punire il peccato colla sincera contrizione del cuore, e con le opere di vera penitenza, o lo punirà Iddio colla sua giustizia. Se ne protesta Egli altamente (Ezech. VII, 9 ): “Scitis quia ego sum Domimis percutiens: si pœnitentiam omnes simul peribitis(Luc. XIII, 13). Suppongo qui che forse alcun di voi vada dicendo in cuor suo: Io ho peccato, continuo a peccare e me ne vanto talora nelle brigate degli amici pari miei, e pure vivo tranquillo, e non me ne è venuto alcun male : “Ne dixeris, Peccavi, et quid mifi accidit triste? [Eccl. V, 4]. Rispondo: quando si dice che il peccato chiama il castigo, non si asserisce che sarà castigato sull’istante: la pena non sempre scarica in sul momento sopra il peccatore. Non vi lasciate più passare nel pensiero, o uscir di bocca: io ho peccato e pecco, e non me n’è avvenuto alcun male. “Ne dixeris, peccavi, et quid mihi accidit triste?”. Ve ne avvisa lo Spirito Santo; perciocché l’Altissimo Iddio è un paziente distributore, “Altissimus enim est patiens redditur” [Eccl. ut supra]. Dio è paziente, dice S. Agostino, perché è onnipotente. Paziente, soggiunge S. Pietro (Ep. II, 3, 9), perché abbiate tempo a ravvedervi, perché vi aspetta a penitenza, perché vi vuol salvi; ma se voi abusate di sua sofferenza, il giorno di Dio destinato alla vostra punizione potrà tardare qualche tempo; ma un po’ più presto, un po’ più tardi vi coglierà, quando meno il pensate: “adveniunt autem dies Domini ut fur” (ibidem, v. 10). – Osservate i sempre giusti ed inscrutabili giudizi di Dio in ritardare o in accelerare i meritati castighi. Cento venti anni tardò il castigo di tempi di Noè minacciato agli uomini carnali: venne poi, e sommerse in un universale diluvio il mondo intero. – Venti anni stette nascosto ed impunito l’attentato dei fratelli di Giuseppe da essi venduto in ischiavo: ma in fine la tribolazione, la prigionia e lo spavento di peggiori sciagure tolse loro di bocca la confessione, che il sangue del tradito fratello chiamava sopra di loro la meritata vendetta. – Tre anni Acab godé in pace la vigna usurpata a Nabot, e poi ferito a morte sparse nella stessa vigna l’ultimo sangue. – Un anno Davide riposò tranquillo nel suo peccato, ma dopo con la morte di due figli, con la ribellione di un terzo figlio, con mille altri infortuni provò quant’era pesante la mano di Dio vendicatore. – Poche ore passarono dalla calunniosa sentenza data dai sordidi vecchioni contro la casta Susanna, ad essere sepolti, a furor di popolo sotto una tempesta di pietre. – Un istante, in cui Anania e Saffira confermarono una solenne bugia, bastò per farli cader morti ai piedi di S. Pietro. – Or qui, miei cari, se siamo persuasi che peccato e castigo siano due cose inseparabili, se io e voi che mi ascoltate siamo peccatori, come in tutta verità dobbiamo confessare, che faremo per evitare l’ira di Dio armata a scaricarci sul capo i colpi di sua mano tremenda? Quale scudo al riparo, o qual via alla fuga? È questa l’interrogazione che in riva al Giordano faceva il Battista alle turbe ebree venute ad ascoltarlo. “Razza di vipere, gridava egli altamente, chi vi mostrerà il modo da fuggire la divina iracondia, che si va preparando a farvene sentire i più funesti effetti? “Genimina viperarum, quis ostendit vobis fugere a ventura ira (Luc. III, 7). – Ecco ch’io vel suggerisco e vel predico: fate frutti degni di penitenza “Facite fructus dignos pænitentiæ” (Luc. V, 3). Badate bene al mio avviso. Voi siete alberi malvagi, che non producono alcun buon frutto, e perciò la scure è già vicino alla radice che vi minaccia il taglio: e la condanna al fuoco: “Jam securis ad radicem; omnis arbor non faciens fructum bonzi excidetur, et in ignem mittetur(Ibid. v. 2). – Altrettanto inculco a voi, fedeli miei dilettissimi: volete fuggire l’ira di Dio che vi sovrasta? Fate frutti, e frutti degni di penitenza. La vera e degna penitenza comincia dallo spirito contristato per l’orrore della colpa, e del cuore umiliato e contrito, ch’è quel sacrificio tanto a Dio accettevole che placa il suo sdegno. A questa interiore penitenza fa d’uopo aggiungere l’opera di penitenza esteriore, l’osservanza dei comandati digiuni, l’adempimento dei propri doveri, la mortificazione dei sensi, la pazienza, la rassegnazione alla divina volontà nelle tribolazioni, le preghiere, le limosine, le pratiche infine di soda cristiana pietà. Così facendo non avremo a temere i divini flagelli: saremo alberi ricchi di buoni frutti, frutti di virtù di vita eterna, che Iddio ci conceda. 

Credo …

Offertorium

Orémus Dan III:40

“Sicut in holocáustis aríetum et taurórum, et sicut in mílibus agnórum pínguium: sic fiat sacrifícium nostrum in conspéctu tuo hódie, ut pláceat tibi: quia non est confúsio confidéntibus in te, Dómine”. [Il nostro sacrificio, o Signore, Ti torni oggi gradito come l’olocausto di arieti, di tori e di migliaia di pingui agnelli; perché non vi è confusione per quelli che confidano in Te.]

 

Secreta

Deus, qui legálium differéntiam hostiárum unius sacrifícii perfectione sanxísti: accipe sacrifícium a devótis tibi fámulis, et pari benedictióne, sicut múnera Abel, sanctífica; ut, quod sínguli obtulérunt ad majestátis tuæ honórem, cunctis profíciat ad salútem. [O Dio, che hai perfezionato i molti sacrifici dell’antica legge con l’istituzione del solo sacrificio, gradisci l’offerta dei tuoi servi devoti e benedicila non meno che i doni di Abele; affinché, ciò che i singoli offrono in tuo onore, a tutti giovi a salvezza.]

Communio Ps XXX:3. Inclína aurem tuam, accélera, ut erípias me. [Porgi a me il tuo orecchio, e affrettati a liberarmi.]

Postcommunio Orémus. Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et ad ea, quæ sunt recta, perdúcat. [O Signore, l’opera medicinale (del tuo sacramento), ci liberi misericordiosamente dalle nostre perversità e ci conduca a tutto ciò che è retto.]

DOMENICA VI dopo PENTECOSTE

Introitus

Ps XXVII:8-9 Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum. [Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.] Ps XXVII:1 Ad te, Dómine, clamábo, Deus meus, ne síleas a me: ne quando táceas a me, et assimilábor descendéntibus in lacum. [O Signore, Te invoco, o mio Dio: non startene muto con me, perché col tuo silenzio io non assomigli a coloro che discendono nella tomba.] Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum. . [Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.]

Oratio

Orémus.

Deus virtútum, cujus est totum quod est óptimum: ínsere pectóribus nostris amórem tui nóminis, et præsta in nobis religiónis augméntum; ut, quæ sunt bona, nútrias, ac pietátis stúdio, quæ sunt nutríta, custódias. [O Dio onnipotente, cui appartiene tutto quanto è ottimo: infondi nei nostri cuori l’amore del tuo nome, e accresci in noi la virtú della religione; affinché quanto di buono è in noi Tu lo nutra e, con la pratica della pietà, conservi quanto hai nutrito.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom VI:3-11

“Fratres: Quicúmque baptizáti sumus in Christo Jesu, in morte ipsíus baptizáti sumus. Consepúlti enim sumus cum illo per baptísmum in mortem: ut, quómodo Christus surréxit a mórtuis per glóriam Patris, ita et nos in novitáte vitæ ambulémus. Si enim complantáti facti sumus similitúdini mortis ejus: simul et resurrectiónis érimus. Hoc sciéntes, quia vetus homo noster simul crucifíxus est: ut destruátur corpus peccáti, et ultra non serviámus peccáto. Qui enim mórtuus est, justificátus est a peccáto. Si autem mórtui sumus cum Christo: crédimus, quia simul étiam vivémus cum Christo: sciéntes, quod Christus resurgens ex mórtuis, jam non móritur, mors illi ultra non dominábitur. Quod enim mórtuus est peccáto, mórtuus est semel: quod autem vivit, vivit Deo. Ita et vos existimáte, vos mórtuos quidem esse peccáto, vivéntes autem Deo, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Omelie, Torino 1899, impr. -Omelia XIII]

“Tutti quanti siamo stati battezzati in Gesù Cristo, siamo stati battezzati nella morte. Noi dunque siamo stati con Lui seppelliti per il battesimo, a morte; affinché, come Cristo è risuscitato dai morti per la gloria del Padre, similmente noi pure camminiamo nella vita nuova: perché se siamo stati innestati con Cristo alla conformità della sua morte, certo lo saremo ancora a quella della sua risurrezione. Sapendo questo, che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con Lui, affinché il corpo del peccato sia annullato, sicché noi non serviamo più al peccato, perché chi è morto è sciolto dal peccato. Ora se noi siamo morti con Cristo, crediamo che vivremo altresì con Lui. Sapendo che Cristo, risuscitato dai morti, non muore più; la morte non ha più signoria sopra di Lui. Perché quanto all’essere morto per il peccato, Egli morì una volta: quanto al vivere, Egli vive a Dio. Così anche voi fate conto di essere bensì morti al peccato, ma di vivere a Dio in Gesù Cristo Signor nostro „ ( Ai Rom. VI, 3-11).

– Delle quattordici lettere di S. Paolo, per sentenza unanime degli interpreti, la più importante e più difficile ad intendersi è quella indirizzata ai Romani, perché in essa il grande Apostolo tratta diffusamente della vocazione alla fede, della grazia divina e della sua gratuità, della rinnovazione che si opera per il santo battesimo, del peccato originale e d’altri punti capitalissimi di dottrina cristiana. Il brano, che vi ho recitato, si legge nel capo sesto di questa epistola ai Romani. Esso riguarda ai doveri, che hanno i battezzati di morire al peccato e di vivere a Cristo, nel che si compendia tutta la sapienza pratica del Vangelo. È un argomento della più alta importanza, ma non facile a spiegarsi, attesa la forma concisa e serrata propria dell’Apostolo. La vostra attenzione renda a me più agevole la chiusa delle sentenze riportate ed a voi più fruttuoso l’apprenderne il senso. “Tutti quanti siamo stati battezzati in Cristo, fummo battezzati nella morte di Lui. „ Punto principalissimo della dottrina di Cristo, svolto in tutte le forme da san Paolo, è questo: noi siamo riconciliati a Dio per la fede in Gesù Cristo, e questo è dono totalmente gratuito, al quale, per nessun titolo avevamo diritto; e la larghezza di questo dono apparisce mirabilmente più grande se consideriamo lo stato di colpa universale, in cui tutti, senza eccezione, Giudei e Gentili ci trovavamo. Ora noi siamo battezzati, che è quanto dire siamo passati dallo stato di morte allo stato di vita, e tutto ciò per Gesù Cristo. Ma che vuol dire questa frase di san Paolo, ” fummo battezzati nella morte di Cristo? „ Noi sappiamo che al tempo degli Apostoli e dopo essi per molti secoli, cioè fino al tempo di S. Tommaso, il battesimo solevasi amministrare quasi sempre per immersione: la persona tutta era immersa nell’acqua, anche il capo: in quest’atto o rito il battezzato rappresentava la morte e la sepoltura di Cristo, come nell’atto e nel rito di uscire dall’acqua rappresentava la sua risurrezione. Cristo, morendo sulla croce, cessò di vivere alla vita di prima, cioè al peccato del quale era schiavo; Cristo, uscendo dal sepolcro, rivive, ma di una vita nuova, immortale; così il battezzato uscendo dall’acqua deve ricominciare una vita nuova, spirituale, santa. Come Cristo lasciò nel sepolcro, a così dire, la vita sua passibile e mortale, così il battezzato lascia nell’acqua del battesimo il peccato e tutte le opere del peccato. – È ciò che S. Paolo più chiaramente sviluppa nel versetto seguente: “Fummo sepolti con Cristo nel battesimo, affinché come Cristo risuscitò dai morti, a gloria del Padre, così noi pure camminassimo in una vita nuova. „ Chi è desso il cristiano? domandava a se stesso Tertulliano, e rispondeva con frase ardita sì, ma vera ed incisiva: Alter Christus. Egli è un altro Cristo, una copia fedele di Cristo in ogni cosa. Tutto ciò che avvenne in Cristo, dice S. Agostino, ragguagliata ogni cosa, deve ripetersi nel suo vero discepolo: Cristo morì in croce alla vita naturale del corpo, e tu devi morire nel battesimo al peccato, alle passioni, ai piaceri illeciti della carne, cioè devi essere a tutte queste cose quello che è un morto, che non se ne cura, non le vede, non le ama. Cristo risuscitò, rifiorente d’una immortale giovinezza: e tu devi uscire dalle acque del battesimo rifatto, nei pensieri, nelle parole, nelle opere uomo nuovo, nuova creatura; e camminare per la via nuova della virtù e della santità. Cristo risuscitò e colla sua risurrezione ci provò la santità della sua dottrina e manifestò la gloria sua e la gloria del Padre, che l’aveva mandato: così tu, rinnovato nel battesimo, colla tua vita, modellata su quella di Cristo, farai in te stesso testimonianza alla santità della dottrina, che professi, e renderai gloria a Dio, giacché gli uomini, come dice altrove Gesù Cristo stesso, vedendo le opere tue buone ed affatto nuove, frutto della tua fede, riconosceranno la grandezza e santità di Colui, del quale sei discepolo, e glorificheranno Dio. In altre parole più brevi e forse più chiare, per il battesimo (l’Apostolo parlava ad adulti) deve cessare in noi il peccato e la vita antica, vita schiava delle passioni, e deve cominciare la grazia e la vita nuova, la vita di Cristo. – Oh piacesse a Dio, che queste maschie verità penetrassero negli animi nostri e informassero la nostra condotta! Persuadiamocene bene, o dilettissimi, che il bisogno è grande in ogni classe di persone: la vera vita cristiana non sta in parole, in proteste, in pratiche esterne, in novene, in tridui, in processioni, in luminarie, in feste, in pellegrinaggi clamorosi, ma nelle opere della vita cristiana, nell’imitazione di Gesù Cristo, l’eterno modello di ogni perfezione. Tutte quelle pratiche esterne sono buone, commendevoli senza dubbio, ma sono mezzi e non fine, e intanto si hanno da fare in quanto ci conducono al fine, cioè alla pratica delle virtù cristiane. Se in noi non appare la vita di Gesù Cristo, cioè se in noi non risplendono le virtù di Gesù Cristo, tutte quelle pratiche religiose non giovano a nulla, sono una contraddizione manifesta e in qualche modo sono la nostra condanna. Ribadisco questa grande verità perché mi sembra che grande ne sia il bisogno. – S. Paolo ribadisce questa verità nel versetto che segue, scrivendo: “Se siamo stati innestati alla conformità della morte di Cristo, lo saremo eziandio a quella della risurrezione. „ Scopo dell’Apostolo è sempre quello di stabilire la unione intima di Cristo e dell’anima per Lui rigenerata e quella identità di vita, che forma la vera nostra grandezza, e che il divino Maestro espresse stupendamente allorché nel discorso dell’ultima Cena disse: Io sono la vite e voi siete i tralci: come il tralcio non può dare frutto alcuno, se non rimane unito alla vite, così voi pure se non rimarrete uniti a me. Osservate, dice S. Paolo, ciò che avviene nell’albero: se sopra quest’albero si inseriscono rami d’altri alberi, questi rami succhiano l’umore dell’albero, su cui sono innestati, di esso vivono e vigoreggiano e formano con l’albero stesso una sola cosa: così deve avvenire anche di noi, rami inseriti nell’albero della vite divina, che è Gesù Cristo. Inseriti in Lui per il santo battesimo, siamo simili in ogni cosa a Lui, viviamo a Lui e con Lui, e produciamo i suoi frutti stessi. Che avverrà? Morti all’albero antico, da cui siamo tagliati, cioè all’uomo vecchio, ad Adamo peccatore per il battesimo e inseriti nell’albero della vita divina che è Cristo, con Cristo vivremo e risorgeremo: Si enim complantati facti sumus dsimilitudini mortis ejus, sìmul et resurrectionìs erimus. Vedi: d’inverno l’albero si spoglia dell’ammanto delle sue frondi, e coll’albero i rami, che sembrano morti: ritorna la bella stagione: l’aria si intepidisce, il sole vibra più ardenti i suoi raggi, l’albero si desta dalla sua morte apparente, rifonde la vita nei rami, che tosto si ricoprono di foglie e di fiori e albero e rami insieme rivivono: così avverrà a noi, o cari, se saremo inseriti nell’albero della vite vera, che è Gesù Cristo; come Egli già risuscitò, noi puro risusciteremo e con Lui vivremo eternamente. Oh la bella e consolante dottrina dell’Apostolo! Inseriti in Cristo, risuscitiamo prima alla vita della grazia e per la grazia abbiamo in noi il germe felice della finale risurrezione anche del corpo: Sìmul et resurrectionis erimus. – Troppo preme all’Apostolo far comprendere ai fedeli di Roma il mistero della morte nostra per il battesimo, e quindi della conseguente nostra risurrezione in Cristo, e perciò vi torna sopra nei versetti seguenti: “Questi ben sapendo, che il nostro vecchio uomo è stato con Lui (Cristo) crocifisso, affinché il corpo del peccato sia annientato. „ Voi, o fedeli, sapendo queste cose, cioè che noi siamo per il battesimo morti al peccato, inseriti Cristo e che dobbiamo vivere una vita nuova, la vita stessa di Cristo, dovete anche sapere che il nostro uomo vecchio è crocifisso con Cristo. E che è questo uomo vecchio, del quale qui ed altrove si parla dall’Apostolo? Lo dissi altra volta, ma non sarà inutile ripeterlo qui. L’uomo vecchio, l’uomo fuor d’uso, l’uomo esterno, espressione che si trova nel solo S. Paolo, è detto per opposizione all’uomo nuovo, ossia rinnovato per Cristo. Il nuovo fu quello, che uscì pel primo dalle mani di Dio, come nuova dicesi quella casa, appena fabbricata dall’architetto: uomo vecchio è quello che vien dopo, che per ragione di tempo o per altre cause è guastato, come dicesi vecchia la casa, che ha bisogno d’essere ristorata. Adamo innocente era l’uomo nuovo: Adamo peccatore è l’uomo vecchio e uomo vecchio è ogni peccatore, che viene da lui con il peccato d’origine e cogli altri peccati a quello aggiunti. Il vecchio uomo pertanto qui importa ogni uomo, guasto dal peccato originale, schiavo delle passioni e delle malvagie abitudini contratte. Or bene, dice san Paolo, sappiatelo bene: quest’uomo corrotto fu confitto alla croce con Cristo, cioè ucciso con Cristo nel battesimo, e lo deve essere giorno per la grazia di Cristo, in quanto ché ogni giorno noi dobbiamo combatterlo, crocifiggendo, e se fosse possibile, uccidendo tutte le sue perverse voglie. Che cosa deve fare ogni giorno il vero discepolo di Gesù Cristo? combattere e soggiogare le proprie passioni: ecco che cosa vuol dire crocifiggere con Cristo l’uomo vecchio; come Cristo confisse il suo corpo alla croce, così noi dobbiamo mettere in croce le nostre passioni : è tutta qui la sapienza di Cristo, l’insegnamento del Vangelo. E se ciò faremo, quale ne sarà la conseguenza? “Il corpo del peccato sarà annientato, „ Ut evacuetur corpus peccati. Questo corpo del peccato, di cui parla S. Paolo, può significare il cumulo dei peccati, onde ciascuno è aggravato, o meglio il corpo stesso in quanto che in esso si annida la concupiscenza, radice di tutti i peccati, e in questo senso è lo strumento ed anche l’incentivo dei peccati stessi. – Forse che s’intende che il corpo debba essere distrutto? No, per fermo, giacché l ‘Apostolo in altro luogo vuole che il corpo serva alla giustizia, a Dio, come prima ha servito all’iniquità: il corpo del peccato si dice dover essere annientato, cioè il corpo, ora strumento di peccato, deve essere sciolto da questo servaggio, diventando strumento della virtù: “Ut evacuetur corpus delinquentiæ per emendationem vitæ, non per interitum substantiæ”, disse sapientemente Tertulliano (De Besurr. Carnis, c. 47, apud A Lapide). Quando avremo crocifisso l’uomo vecchio, e annientato il corpo del peccato, che è la stessa cosa, allora noi non serviremo al peccato: “Et ultra non serviamus peccato”. Il nostro corpo, lo disse il maggiore dei filosofi pagani, è simile ad un destriero: questo ubbidisce a chi lo cavalca, e va dove esso vuole che vada. Se l’anima è rigenerata da Cristo, informata dalla sua grazia, il corpo ubbidisce ad essa e si presta alle opere di vita: se per contrario l ‘anima e in balia delle passioni e serva del peccato, il corpo fa opere di peccato. E qui l’Apostolo in una sentenza piena di energia compendia tutta la dottrina esposta in questi versetti, dicendo: “Chi è morto è sciolto dal peccato. „ Noi, nel battesimo, dando il nostro nome a Cristo e venendo innestati in Lui, non abbiamo più nulla a fare col peccato: in faccia al peccato siamo come i morti rispetto alle cose, che li circondano: per essi sono come se non fossero. E per tenerci all’altra immagine di S. Paolo, noi siamo rami tagliati da un albero per essere innestati nell’albero della vita, che è Gesù Cristo. Questi rami tagliati dall’albero sono morti totalmente all’albero stesso, né più possono produrre frutti innestati in un altro albero possono vivere e fruttificare, ma vivono e fruttificano del nuovo albero. Similmente noi; dopo il battesimo non dobbiamo più vivere di Adamo, cioè dell’uomo peccatore e far le opere sue, ma vivere di Cristo e fare le opere di Cristo. Questa sentenza sì profonda e sì forte dell’Apostolo ci stia fitta nell’animo. – Rigenerati in Cristo, viventi di Lui, non dobbiamo curarci del mondo, né dei suoi piaceri: tra noi e lui non ci debbono essere rapporti: egli è morto a noi e noi a lui. Il ramo che è innestato in un albero e vive di esso ed in esso, cerca e gli forse di separarsi da questo per ritornare ancora all’albero antico, da cui fu reciso? Certamente no, e se lo facesse, per esso varrebbe quanto il disseccare ed il perire. Questa è la dottrina dell’Apostolo ed il succo del Vangelo: noi, che ora apparteniamo a Gesù Cristo per il battesimo, dovremmo essere come morti all’amore sregolato del mondo e delle mondane cose: questo il nostro dovere. È così anche nel fatto? La nostra condotta è conforme alla nostra vocazione? Ohimè! quanto siamo lontani da questo sublime ideale del vero cristiano tratteggiato da S. Paolo. Col pensiero, coll’affetto sempre volti alle cose della terra, queste amiamo, queste cerchiamo, per queste viviamo, in queste collochiamo le nostre gioie, il nostro fine: a Gesù Cristo ed alle cose del cielo, noi, cristiani, raramente pensiamo, se pure qualche volta vi pensiamo. Quasi continuamente intesi ad accarezzare il corpo ed appagarne le voglie malnate, dimentichiamo il dovere che abbiamo di crocifiggerlo, di farlo morire al peccato! Eppure a questo si riduce tutta la vocazione e l’opera del cristiano, e se non lo facciamo, non siamo cristiani che di nome. – “Se dunque siamo morti con Cristo, crediamo, eziandio che vivremo insieme con Cristo. ,, È la conclusione naturale delle cose sopra accennate: se saremo imitatori di Cristo, nel far morire il nostro corpo ai piaceri terreni, avremo comune con Cristo la vita futura. Voi vedete che l’Apostolo con la somma cura, con cui cerca porci sotto gli occhi i sacrifici che dobbiamo fare per la virtù, per l’imitazione di Cristo, ci ricorda anche il premio e la corona riserbata, e come tutto Egli consideri sempre in rapporto a Cristo. – “Sapendo che Cristo, risuscitato dai morti, non muore più; la morte non ha più signoria sopra di Lui .. Quest’altro versetto si lega col primo e vuol dire che vivremo con Cristo. Quanto? Por sempre, perché Cristo è risorto per non ricadere più mai in potere della morte, che ha vinto. E prosegue, svolgendo meglio questo pensiero: Perché quanto all’essere morto per il peccato, Cristo morì una sola volta al peccato, una sola volta per sempre: così noi, morti una volta al peccato; fatta una volta la rinuncia al mondo e alle opere sue, dovremmo essere morti per sempre, e la rinuncia fatta una volta al mondo non dovrebbe più aver bisogno d’essere rinnovata; e come Cristo, risorto una volta, è risorto per sempre e sempre vivrà nella gloria, così noi pure, resuscitati a Dio colla grazia, viventi in Cristo, dovremmo vivere in Lui per sempre e non ricadere più mai in balia della morte, ritornando al peccato. Eccoci all’ultimo versetto della nostra epistola: “Così ancor voi fate conto d’essere morti al peccato, ma di vivere a Dio in Gesù Cristo Signor nostro. „ Dopo avere esposta la dottrina evangelica, sì teorica, come pratica in genere, l’Apostolo si rivolge direttamente e particolarmente ai fedeli, ai quali scrive e dice: “Ora a voi, o carissimi, applicare l’insegnamento, che vi ho dato. Secondo le vostre forze studiatevi d’essere sempre morti al peccato e sempre vivi soltanto a Dio, ad imitazione di Gesù Cristo, o forse meglio, mercé l’aiuto di Gesù Cristo S:gnore nostro. „ – S. Paolo in tutti questi versetti, che abbiamo commentati, con linguaggio poetico ci rappresenta la virtù e il vizio, come due esseri v iventi, che combattono tra loro, e si contendono tra loro la signoria del cuore dell’uomo. Questo sta in mezzo ai due contendenti, libero di darsi all’uno od all’altro; se si getta dal lato del vizio, diventa schiavo delle passioni, che militano nel corpo, vive della vita del corpo e muore per sempre a Dio; se per contrario si mette dalla parte della virtù, della santità, di Cristo, diventa figlio di Dio, muore al mondo e vive per sempre a Cristo. La scelta è inevitabile, e così l’uomo è l’artefice della propria sorte, o eternamente infelice col peccato, o eternamente beata colla virtù in Cristo. O morire a Dio per vivere col peccato; o morire al mondo per vivere con la grazia: non c’è via di mezzo, e tra i due è forza scegliere. A quale dei due, che domandano l’ingresso del nostro cuore, porgeremo noi le chiavi? Al peccato od alla virtù? Al mondo o a Cristo? A chi col piacere presente ci porta la morte eterna, o a chi col dolore passeggero ci offre la vita eterna? Voi non potete stare in forse un solo istante; la vostra scelta è fatta: voi vi schierate sotto la bandiera della virtù, che è la bandiera di Gesù Cristo, perché con Lui solo vi è la vita

Graduale

Ps LXXXIX:13; LXXXIX:1 Convértere, Dómine, aliquántulum, et deprecáre super servos tuos. V. Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie. Allelúja, allelúja. [Vòlgiti un po’ a noi, o Signore, e plàcati con i tuoi servi. V. Signore, Tu sei il nostro rifugio, di generazione in generazione. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XXX:2-3 In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me: inclína ad me aurem tuam, accélera, ut erípias me. Allelúja. [Te, o Signore, ho sperato, ch’io non sia confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e allontanami dal male: porgi a me il tuo orecchio, affrettati a liberarmi Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Marcum. R. Gloria tibi, Domine! Marc VIII:1-9 In illo témpore: Cum turba multa esset cum Jesu, nec haberent, quod manducárent, convocatis discípulis, ait illis: Miséreor super turbam: quia ecce jam tríduo sústinent me, nec habent quod mandúcent: et si dimísero eos jejúnos in domum suam, defícient in via: quidam enim ex eis de longe venérunt. Et respondérunt ei discípuli sui: Unde illos quis póterit hic saturáre pánibus in solitúdine? Et interrogávit eos: Quot panes habétis? Qui dixérunt: Septem. Et præcépit turbæ discúmbere super terram. Et accípiens septem panes, grátias agens fregit, et dabat discípulis suis, ut appónerent, et apposuérunt turbæ. Et habébant piscículos paucos: et ipsos benedíxit, et jussit appóni. Et manducavérunt, et saturáti sunt, et sustulérunt quod superáverat de fragméntis, septem sportas. Erant autem qui manducáverant, quasi quatuor mília: et dimísit eos. [In quel tempo: Radunatasi molta folla attorno a Gesú, e non avendo da mangiare, egli, chiamati i discepoli, disse loro: Ho compassione di costoro, perché già da tre giorni sono con me e non hanno da mangiare; e se li rimanderò alle loro case digiuni, cadranno lungo la via, perché alcuni di essi sono venuti da lontano. E gli risposero i suoi discepoli: Come potremo saziarli di pane in questo deserto? E chiese loro: Quanti pani avete? E risposero: Sette. E comandò alla folla di sedersi a terra. E presi i sette pani, rese grazie e li spezzò e li diede ai suoi discepoli per distribuirli, ed essi li distribuirono alla folla. Ed avevano alcuni pesciolini, e benedisse anche quelli e comandò di distribuirli. E mangiarono, e si saziarono, e con i resti riempirono sette ceste. Ora, quelli che avevano mangiato erano circa quattro mila: e li congedò.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

– Soccorso ai Poveri.-

Questa turba famelica (così Gesù Cristo ai suoi discepoli, come narra S. Marco nell’odierno Vangelo) desta nel mio cuore sensi di commiserazione e di pietà: “Misereor super turbam”. Sono ormai tre giorni che mi va seguitando in queste diverse solitudini, e non ha con che sfamarsi, ed Io rimando costoro così digiuni alle loro case, verranno meno nel cammino per alcuni disastroso, per altri lontano. Quanti pani avete con voi? Sette, risposero, ed Egli benedicendoli insieme a pochi pesciolini, ordinò che si distribuissero, e rese con quelli ristorata e sazia una moltitudine di quasi quattromila persone e degli avanzi ne furono pieni sette capaci canestri. Anche noi siamo circondati tutto dì da una turba di affamati, di pezzenti, di bisognosi. Oh se nel nostro cuore si svegliasse una commiserazione simile a quella del pietoso nostro Redentore! La nostra mano allora dispenserebbe ad essi il necessario ristoro, e quella povera turba resterebbe provveduta, ristorata, contenta. A destare in voi, uditori umanissimi, questa pietà, ad ottenere quest’intento io venni quassù, e per riuscirvi risponderò alle scuse di quei restii, che d’ogni pretesto si prevalgono per esimersi dal soccorrere i poveri, e farò vedere le ricompense promesse ai limosinieri. Sciolte così le scuse, e proposte le ricompense, spero si muoverà il vostro cuore, si apriranno le vostre mani a soccorso degl’indigenti vostri fratelli. Diamo principio.

 I.- A chi ha poco buona volontà non mancano scuse. Io, dice taluno, mangio il pane del mio sudore, e vivo a stento; e che volete ch’io dispensi ai poveri? Vi compatisco; sentite però quel che al suo figliuolo diceva il buon Tobia: “figlio, fa’ di buon animo limosina ai poveri; se avrai molte sostanze, molto ancora darai con generosità ed abbondanza, se poche, di quel poco non tralasciare di darne un altro poco a chi ha più bisogno di te”: “Sì multum tibi fuerit abundanter tribue, si exiguum ... etiam exiguum libenter impertiri stude” (cap. IV, 2). Altrettanto io dico a voi: la provvidenza dispone che poco sia il vostro avere, ma si danno tanti casi, nei quali con un tozzo di pane, con poche frutta, con pochi erbaggi, potete levare la fame a un miserabile. Fatelo per pietà, e sarà più a Dio gradito quel piccolo atto di carità, che le larghe limosine dei più facoltosi. Quella povera donna, che pose nel Gazofilacio del tempio due quattrini, fu da Gesù Cristo più encomiata, che quei facoltosi che diedero argento ed oro. – Un’altra scusa si ascolta più di frequente in bocca di molti. Non vedete, dicono essi, come le annate corrono sterili, il commercio è languido, la famiglia è numerosa, le spese son molte, i guadagni son pochi? Non si può, per conseguenza dividere quel che c’è necessario. – Prima di rispondere datemi licenza di entrare in questo momento nelle vostre case. In alcune vedo e sento augelletti da canto, ed altri riservati per l’uccellagione; in altre osservo cagnolini da vezzo, o cani da caccia. Il Signor benedice i vostr’innocenti piaceri; ma in grazia per l’annuo mantenimento di questi animali non vi à difficoltà né di campagne sterili, né di scarsi guadagni; questi motivi però solo si fan valere per non sborsare un danaruzzo, per non dare un tozzo di pane, una veste rimessa, uno straccio a sovvenimento dell’altrui miseria? Udite: si narra nel libro primo dei Re come ai tempi d’Elia, in quella straordinaria siccità, che durò più di tre anni, Acabbo re d’Israele in vista della estrema calamità e universale desolazione, chiama Abdia suo economo, e che facciam noi? gli dice. Non vedi tu i nostri cavalli e i nostri muli, che per mancanza di pascolo non si reggono più in piedi? Corriamo dunque su per le valli, se tu andrai a destra, io andrò a sinistra, se per avventura ci riuscisse trovar fieno o erba qualunque, perché non periscano questi nostri giumenti: “Si forte possumus invenire herbam, et salvare equos et mulos” (V, 5) . Come, o re malvagio, tante famiglie, tante vedove, tanti orfani, tutti in fine i tuoi sudditi ridotti all’estremo per la fame non ti commuovono? Solo la tua sollecitudine è ristretta ai cavalli e ai muli? Io non vorrei che lo scritturale confronto facesse arrossire alcun di noi; ma non è egli vero che per animali di puro sollazzo e per cento altri minuti piaceri tutta si ha la premura, e per i poveri tutta la dimenticanza? Più e ancor di peggio: per l’osteria, pel giuoco, per quell’amicizia ci vuol danaro, e si trova; per il teatro, pel ballo, per la moda, per il lusso, per i vizi in fine e per il peccato tutto si trova, e per un poverello non si trova nel cuore di taluno una stilla dì pietà, che lo muova a dargli un soccorso. “Heu grandis crudelitas!” direbbe qui S. Agostino. – Ma la limosina, direte voi, per tanti e tanti è un fomento di poltroneria: sono di buona età, son robusti, e perché non si danno al travaglio? Il sovvenirli è un confermarli nella vita oziosa col pregiudizio di altri poveri, vecchi, infermi, impotenti. – Ottima è la vostra riflessione. Il re Salmista chiama beato colui che sa discernere tra povero e povero. “Beatus vir, qui intelllgit super egenum et pauperem” (Ps. XL, 1). Certamente che i ciechi, gli storpi, i vecchi, gl’infermi, incapaci a guadagnarsi il pane, devono preferirsi, ma si danno certi tempi, nei quali o per pioggia, o per neve, o per altro accidente non si trova travaglio; e perciò in questi casi non ha più luogo il vostro riflesso; e la limosina sarà sempre un atto meritorio, quand’anche venisse data a chi attualmente non ne abbisogna. – La limosina, dicono altri men colti, è un atto di supererogazione, che si può omettere e supplire con tante altre opere buone. – Errore, miei cari. La limosina a’ poveri non è atto di supererogazione, è un atto di rigorosa giustizia. Avrete più volte sentito da persone poco istruite e poco cristiane: “Dio non ha fatto le cose giuste: a chi tanto, a chi nulla, tanti ricchi fino al sommo, e tanti poveri fino all’estremo”. Ohimè! Questo parlare racchiude un’eresia, ed una bestemmia. Iddio “bene omnia fecit”, Iddio è giusto, ed è un tratto della sua sapienza, che nell’umana società vi siano e poveri e facoltosi, perché i poveri han bisogno de’ ricchi, ed a vicenda i ricchi han bisogno dei poveri. Ma se fosse vero, che non vi fosse una stretta obbligazione di soccorrere i nostri bisognosi fratelli, quella proposizione ereticale sarebbe vera. Ma no; che Dio, Padre universale di tutti, ha fatto, e fa espresso comandamento ai benestanti, di far parte delle loro sostanze ai bisognosi, i quali hanno un positivo diritto alle comuni facoltà: comando, che ha i suoi gradi di obbligazione minore o maggiore a misura de’ gradi dell’altrui miseria; così che se i poveri si trovano in una necessità comune ed ordinaria, come sono i pezzenti, che van mendicando, siamo obbligati a sovvenirli de’ nostri beni superflui: se sono in grave necessità siamo tenuti a soccorrerli con qualche parte del necessario al nostro stato: se finalmente la loro necessità è estrema, dobbiamo aiutarli con quel che avanza alla necessità di nostra sussistenza. Come dunque si può asserire senza errore e senza empietà, che la limosina è un’opera non comandata e di mera elezione? Se fosse tale, come potrebbe Cristo giudice dire ai reprobi nel giorno estremo: andate maledetti al fuoco eterno, Io nella persona de’ poveri aveva fame e non mi avete pasciuto, pativa sete e non mi avete ristorato, ero ignudo e non mi avete coperto.

II.- Sciolte le scuse, vediamo le ricompense. Son queste d’ogni genere, temporali, spirituali ed eterne. Temporali primamente. Bisogna restar persuasi che ciò che si dà a’ poverelli non è perduto, ma è messo a traffico e a certo guadagno. L’arte più facile e più sicura per moltiplicare i propri averi è la limosina. “Ars quæstosissima” la chiamano i santi Padri. Voi, diceva un sant’uomo, date un pezzo di pane dalla porta e Iddio ve lo restituisce dalle finestre. Le case per ordinario hanno una porta sola, le finestre sogliono essere più numerose. Oltre a ciò Dio ve lo manda dalle finestre, cioè per vie straordinarie, per vie da voi mai pensate: vi libera a cagion d’esempio da una lite che sarebbe la vostra rovina, salva dal naufragio le vostre merci, dal gelo i vostri aranci, dalla grandine le vostre vigne, dai ladri le vostre sostanze, dalle malattie i vostri corpi, da mille altri infortuni la vostra famiglia. Date, dice S. Pier Crisologo, date al povero, perché date a voi stessi, “da pauperi, ut des tibi” (Serm. 8, de ieiun. et eleemos.). Se mai per le limosine agli indigenti aveste timore d’impoverire, vi assicura lo Spirito Santo, che questo non avverrà giammai : “Qui dat pauperi, non indigebit” (Prov. XXIII, 27). – La limosina nelle divine Scritture si chiama semente. Quando seminate il frumento e lo seppellite sotterra, lo gettaste forse a perdere? Non già, voi sapete che a suo tempo lo vedrete spuntare in erba, poscia biondeggiare in spiga, per mieterlo in fine moltiplicato in manipoli. Dice altrettanto l’Apostolo: limosinieri, Iddio moltiplicherà la vostra buona semente e accrescerà come biade feconde l’opere della vostra pietà, che insieme sono opere di grazia. “Multiplicabit semen vestrum, et augebit incrementa frugum iustitiæ vestræ” (I Cor. IX, 12). Ecco fra tante altre le temporali ricompense promesse ai benefattori dei poveri.- I beni spirituali poi prodotti dalla carità versi i bisognosi sono senza numero. La limosina, dice lo Spirito Santo nel libro di Tobia, libera dalla morte : “Eleemosyna . . . a morte liberat” (IV, 11), non dalla morte corporale, ma dalla morte dell’anima e dalla morte eterna. Ecco come: voi siete in grazia di Dio? Fate limosina, e questa vi libererà dal cadere in peccato mortale, ch’è la morte dell’anima. Siete per vostra sventura in peccato mortale? Fate limosina e questa muoverà il cuore di Dio a darvi le grazie necessarie per uscire da questo stato di morte, e liberarvi dal pericolo di eterna morte. “Eleemosyna ab omni peccato, et a morte liberat, et non patietur anìmam ire in tenebras”. – Nascono talora in un cuore cristiano temente Iddio taluni dubbi e contristanti incertezze: che sarà di me in punto di morte? Farò io la preziosa morte de’ giusti, o la pessima dei peccatori? Che sarà dell’anima mia al divin tribunale? Avrò sentenza di morte o consolazione di vita? Che parte mi toccherà nella gran valle, la destra o la sinistra? A queste funeste apprensioni, ecco il rimedio, la limosina, la carità ai poverelli: osserviamolo nelle divine Scritture. – Per il punto di morte, dice il re Profeta: “Beato chi sa intendere che gran tesoro è il dar soccorso al povero, all’indigente, nell’ultimo de’ giorni suoi, nelle sue agonie avrà Iddio, Iddio stesso assistente, che lo libererà dalle angosce della morte, dalle angustie della coscienza, dalle tentazioni dell’infernale nemico”: “Beatus qui ìntelligit super egenum et pauperem, in die mala liberabit eum Dominus (Ps. XL, 1). Anzi come un’affettuosissima madre, ch’è tutta in movimento per porgere aiuto all’infermo moribondo figliuolo, così si adoprerà Iddio pietoso l’agonizzante limosiniere. “Dominus opem ferat illi super lectum doloris eius, universum stratum eìus versasti in infìrmìtate eius” ( Ps. XL, 3). – Al divin tribunale poi, oh con qual fiducia potrà presentarsi un amico de’poveri: “Dispersit, dice il Salmista , dedit pauperibus” (Ps. CXI, 9), ha egli distribuite le sue sostanze a favor dei miserabili, potrà dunque andar preparando le sue ragioni a produrre in quel giudizio: “Disponet sermones suos in iudicio” (Ps. CXI, 5). E quali? Signore usate verso di me quella misericordia, che ho usato verso de’ vostri poveri, misuratemi colla vostra misura che ho adoperata verso de’ meschini miei fratelli: “Dicturus causam, conchiude il Crisologo, in judicio Dei, patronam libi misericordiam. Per quam liberari possis, assume” (Ser. ut sup.). – Nella gran valle in fine non avrà a temere l’amico de’ poveri. Chi sarà alla sinistra co’ reprobi? I duri di cuore, i capretti che non hanno pensato che a pascere se stessi. Chi sarà cogli eletti alla destra? L’ anime caritatevoli, che somiglianti a docili pecorelle han dato volentieri la lana a sovvenimento de’ bisognosi. A queste rivolto Gesù Cristo, “venite, dirà, benedette dal Padre mio, venite a ricevere la ricompensa del bene che fatto mi avete. Io nella persona de’ poverelli pativa fame, e voi mi avete pasciuto; soffriva nudità e mi avete coperto”: “esurivi, et dedisti mihi manducare, nudus eram, et operuisti me” (Matth. XXIII, 33-36 ), venite a possedere l’a voi preparato eterno regno, “possidete paratum vobis regnum”, che Iddio ci conceda.

Credo …

Offertorium Orémus Ps XVI:5; XVI:6-7 Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine. [Rendi fermi i miei passi sui tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino: porgi l’orecchio ed esaudisci la mia preghiera: fa risplendere le tue misericordie, o Signore, Tu che salvi quelli che sperano in Te.]

Secreta Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, et has pópuli tui oblatiónes benígnus assúme: et, ut nullíus sit írritum votum, nullíus vácua postulátio, præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur. [Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, et has pópuli tui oblatiónes benígnus assúme: et, ut nullíus sit írritum votum, nullíus vácua postulátio, præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.]

Communio

Ps XXVI:6 Circuíbo et immolábo in tabernáculo ejus hóstiam jubilatiónis: cantábo et psalmum dicam Dómino. [Circonderò, e immolerò sul suo tabernacolo un sacrificio di giubilo: canterò e inneggerò al Signore.]

Postcommunio

Orémus. Repléti sumus, Dómine, munéribus tuis: tríbue, quæsumus; ut eórum et mundémur efféctu et muniámur auxílio. [Colmàti, o Signore, dei tuoi doni, concédici, Te ne preghiamo, che siamo mondati per opera loro e siamo difesi per il loro aiuto.]

 

 

DOMENICA V dopo PENTECOSTE

Introitus

Ps XXVI:7; XXVI:9 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus. [Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Ps XXVI:1 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timébo? [Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò?] Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus. [Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Orémus. Deus, qui diligéntibus te bona invisibília præparásti: infúnde córdibus nostris tui amóris afféctum; ut te in ómnibus et super ómnia diligéntes, promissiónes tuas, quæ omne desidérium súperant, consequámur. [O Dio, che a quanti Ti amano preparasti beni invisibili, infondi nel nostro cuore la tenerezza del tuo amore, affinché, amandoti in tutto e sopra tutto, conseguiamo quei beni da Te promessi, che sorpassano ogni desiderio.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet III:8-15

“Caríssimi: Omnes unánimes in oratióne estóte, compatiéntes, fraternitátis amatóres, misericórdes, modésti, húmiles: non reddéntes malum pro malo, nec maledíctum pro maledícto, sed e contrário benedicéntes: quia in hoc vocáti estis, ut benedictiónem hereditáte possideátis. Qui enim vult vitam dilígere et dies vidére bonos, coérceat linguam suam a malo, et lábia ejus ne loquántur dolum. Declínet a malo, et fáciat bonum: inquírat pacem, et sequátur eam. Quia óculi Dómini super justos, et aures ejus in preces eórum: vultus autem Dómini super faciéntes mala. Et quis est, qui vobis nóceat, si boni æmulatóres fuéritis? Sed et si quid patímini propter justítiam, beáti. Timórem autem eórum ne timuéritis: et non conturbémini. Dóminum autem Christum sanctificáte in córdibus vestris.”

[Mons. Bonomelli, “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, Torino 1899 –imprim.]-

Omelia XI

“Siate tutti concordi, compassionevoli, amatori dei fratelli, pietosi, modesti, umili: non rendendo male per male, od ingiuria per ingiuria; ma, per contrario, benedite, perché a questo siete chiamati, acciocché ereditiate la benedizione. Chi pertanto vuole amare la vita e vedere giorni felici, raffreni la sua lingua dal male e le sue labbra non proferiscano frode. Si ritragga dal male e faccia il bene, cerchi la pace e la procacci. Perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti, e le sue orecchie intente alle loro preghiere; ma il volto del Signore sta contro quelli che fanno male. E chi mai potrà farvi male, se siete studiosi del bene. Ma se pure patite alcuna cosa per la giustizia, beati voi! Non abbiate timore di loro, né ve ne turbate. Adorate Cristo Signore nei vostri cuori„ (I. di S. Pietro c. III, 8-15).

In questi otto versetti vi ho presentato nella nostra lingua il tratto dell’epistola, che or ora si è letta nella Messa. Esso è tolto dal capo terzo della prima lettera di S. Pietro ai fedeli sparsi in varie province dell’Asia Minore. È cosa affatto superflua il farvi osservare come ogni versetto, dirò meglio, quasi ogni parola di questa breve lezione racchiuda un documento altissimo di sapienza morale; voi stessi, udendone la versione, ve ne sarete accorti. Noi avvezzi fino da fanciulli ad udire queste sì sante verità, quasi non vi poniamo mente e non ne riceviamo grande impressione, come non facciamo le meraviglie allorché al mattino il sole spunta sull’orizzonte, raggiante di luce. Ma così non doveva essere dei primi cristiani, massime di quelli che erano allora allora usciti dal paganesimo. Io immagino, che quei cristiani all’udirsi leggere queste sentenze sì semplici, sì sublimi e sì conformi ai principi della stessa ragione naturale ed ai sentimenti più nobili del cuore, eppure sì nuove, pieni di stupore gratitudine, dovessero esclamare: Oh! come bella, ammirabile e divina questa Religione! Benedetto Colui, che per sua misericordia l’ha manifestata agli uomini! Felici gli uomini che la ricevono e la osservano! – Ma lasciato da banda ogni esordio, mettiamo mano non tanto alla spiegazione (che in tanta chiarezza non occorre), ma alla considerazione ed applicazione di queste verità, che rispondono ad ogni età e condizione di persone. – S. Pietro nei versetti, che precedono, ricorda alle donne i loro doveri verso dei mariti, e le esorta ad essere sollecite più degli ornamenti esterni, della vera bellezza, che è tutta interna; poi eccita i mariti ad usare ogni riguardo alle loro donne, affinché possano avere insieme l’eterna eredità. Poi proseguendo, scrive: ” Siate tutti concordi, compassionevoli, amatori dei fratelli, pietosi, modesti, umili. „ Dite, o carissimi: era possibile in sì poche parole condensare maggior numero di massime morali di queste più belle e più stupende ? “Siate tutti concordi, „ o, come porta il testo della Volgata, ” unanimi, „ cioè abbiate tutti un animo solo, un solo sentimento. Si può dire che nelle lettere, specialmente di S. Paolo, la raccomandazione della concordia si incontra ad ogni pagina. La concordia esterna, delle parole e degli atti, nella famiglia e società, perché sia vera concordia e durevole, deve essere una conseguenza dell’interna, deve scaturire dalla mente e dal cuore. Abbiamo tutti gli stessi principi, professiamo tutti le stesse verità, amiamoci tutti come fratelli, e la concordia regnerà regina in mezzo a noi. Mi direte: Sta bene aver comuni gli stessi principi, tener salde le stesse verità, ecco la base della concordia. — Ma è egli possibile trovarci uniti nelle stesse verità e negli stessi principi? Volete voi che ciascuno sacrifichi le sue convinzioni? La diversità di parlare e di giudicare è una necessità delle cose ed è voluta in gran parte dalla disuguaglianza delle menti, della istruzione e di cento altre cause, onde la concordia in tanta differenza di caratteri e di pensamenti è impossibile. — No, non è impossibile, o cari. La carità scambievole, senza offendere la libertà individuale, può mantenere la concordia. Le voci dell’organo sono diverse fra loro, ma si possono armonizzare: il rispetto vicendevole, la tolleranza, figlia della carità, possono mantenere la più perfetta concordia: anche tra quelli, che quanto a principi dissentono profondamente tra loro. Studiamoci di essere uniti nella verità e avremo la concordia: che se non possiamo essere uniti nella stessa verità, lo siamo sempre nella carità e ne avremo egualmente il frutto nella concordia esterna. Lo so dilettissimi: alcuni credono che la differenza di religione e di fede debba spezzare il vincolo della carità e generare la discordia e l’odio. È un errore: Dio non ama Egli i peccatori e per amore non li chiama a penitenza? Gesù Cristo non morì forse per tutti? Se Dio li ama, se Gesù Cristo morì anche per essi, perché non ameremo noi pure quelli che non hanno comune con noi la stessa fede? Noi non approveremo mai la loro dottrina e i loro errori, che faremmo oltraggio a Dio: ma rispetteremo sempre ed ameremo le loro persone, li terremo in conto di fratelli, perché anch’essi come noi creati da Dio, chiamati alla stessa fede, perché anche per essi è morto Gesù Cristo. Tolga dunque Dio che noi nutriamo ombra d’odio o di rancore contro quelli, che non professano la nostra fede o che avendola professata, la rigettarono. Deploreremo la loro caduta, la loro miscredenza, ma li rispetteremo e li ameremo sempre e cordialmente, e perciò anche con loro sarà perfetta la nostra concordia. – “Siate compassionevoli, „ Compatientes, dice S. Pietro, che importa piangere con chi piange, patire con chi patisce. Allorché un membro del nostro corpo soffre, in qualche modo soffrono tutti gli altri e il corpo nostro languisce, perché il male d’uno è male degli a1tri: similmente quando una persona a noi cara patisce, noi pure patiamo con essa, perché l’amore, che ad essa ci lega, di due anime ne forma quasi una sola, e perciò il dolore è comune. Ciò, in qualche misura, dovrebbe avvenire ogni qualvolta vediamo un fratello soffrire: se lo amiamo, come vuole il Vangelo, il suo soffrire, sarà nostro soffrire: allora saremo compassionevoli e tosto appariranno i frutti della carità, giacché non è possibile sentire vera compassione pei mali altrui e non far nulla per alleviarli. È egli possibile che una spina vi si conficchi nella mano sinistra e la destra non si adopri a levarla prontamente? “Siate amatori dei fratelli, „ Fraternitatis amatores. O la santa parola! Quegli uomini pieni d’orgoglio, che nel secolo scorso proclamarono la fratellanza universale, quasi che fossero stati essi gli scopritori ed i primi apostoli, meditino queste due parole, diciannove secoli or sono, scritte dal principe degli Apostoli: Fraternitatis amatores. – Non solo dobbiamo essere concordi, compassionevoli gli uni verso gli altri, ma dobbiamo amarci come fratelli. Per i fratelli, per i veri fratelli che si amano, ogni bene è comune, e la sventura che colpisce uno, colpisce tutti. Ah! Carissimi, come sarebbe felice il mondo, se questa fratellanza inculcata da Gesù Cristo e predicata da S. Pietro in questo luogo, regnasse in mezzo a noi e si manifestasse nelle opere. Si parla molto, si parla eloquentemente di fratellanza; tutti 1’hanno sulla lingua: ma l’hanno anche nelle opere? Ohimè! Parlano di fratellanza e si lacerano tra loro, e il forte opprime il debole, il ricco il povero, l’uomo istruito abusa dell’ignoranza altrui e vedo una classe armata e fremente contro l’altra. È questa la fratellanza che Gesù Cristo ha portato sulla terra e san Pietro proclama altamente quando scrive: siate amatori dei fratelli — Fraternitatis amatores? — Ditelo voi, carissimi. S. Pietro prosegue: siate pietosi, „ Misericordes, che suona alcun che di più vivo e sentito del compassionevoli. Cosa strana e quasi incredibile! Vi furono filosofi antichi, come Seneca, che osarono insegnare la pietà verso i miseri essere una debolezza d’animo, una infermità dello spirito e doversi combattere e disprezzare. La pietà e la commiserazione verso i sofferenti è la dote che maggiormente onora la natura umana e la rende più simile a Dio, che è la stessa bontà e misericordia: per essere insensibili ai dolori altrui; bisogna rinnegare la propria natura e renderci simili alle piante ed alle pietre, non dico alle bestie, le quali talvolta sembrano compatire ed aver pietà almeno coi loro nati. Noi, o dilettissimi, non dimenticheremo mai questa sublime sentenza di Gesù Cristo, che disse: “Siate misericordiosi, com’è misericordioso il Padre vostro che è nei cieli, „ e “Beati i misericordiosi, perché anch’essi otterranno misericordia. „ “Siate modesti, umili, „ Modesti, umile. Modestia ed umiltà, osserva S. Bernardo, sono due sorelle, ed io volentieri le chiamerei piuttosto, madre e figlia, giacché mi sembra che la modestia sia la figlia della umiltà. La modestia riguarda direttamente l’esterno dell’uomo, l’umiltà si riferisce all’interno. Per la modestia l’uomo compone il suo esterno in guisa che torna caro ed amabile a tutti: la modestia apparisce nelle vesti, nel passo, nel suono della parola, nell’aspetto, negli atti esterni, nell’atteggiamento della persona, che spira benevolenza, piacevolezza, benignità, rispetto, affabilità e grazia, a talché la compagnia della persona modesta è da tutti desiderata e tutti rallegra. Perché poi la modestia non sia ingannevole apparenza, ma virtù vera e solida, deve germogliare dal fondo dell’anima, deve emanare dall’umiltà del cuore, come la fragranza dal fiore. L’anima, che conosce se stessa e perciò sente bassamente di sé, veglia sempre sopra de’ propri atti, ama il nascondimento, tutti reputa migliori di sé, si tiene all’ultimo luogo, e ne gode: essa è sempre tranquilla e pacifica nel santuario della sua coscienza: e qual meraviglia, che la pace interna informi i suoi atti esterni e si irradii costantemente sul suo volto e si manifesti nella modestia? – “Non rendendo male per male e ingiuria per ingiuria. „ Veramente un uomo, un cristiano, quale lo vuole S. Pietro i n questo luogo, che abbiamo chiosato brevemente, dovrebbe essere amato da tutti e parrebbe impossibile possa essere offeso: ma non è così. Tanta è la malignità di certi uomini e il pervertimento di certi cuori, che le anime più umili, più modeste, più pie, più caritatevoli non vanno salve dall’odio e dalle offese più gravi, e sembra talvolta che le loro virtù siano incitamento e motivo ad accrescere l’ira e le persecuzioni dei tristi. Pietro stesso che scriveva queste verità sì sante e le praticava; tutti gli Apostoli e Gesù Cristo medesimo non furono fatti segno della malevolenza più cupa, dell’odio più feroce dei malvagi fino a rimanerne vittime? Perciò S. Pietro, continuando la sua esortazione, dice: “Ancorché voi, o cari, siate perfettissimi in codeste virtù, non dovete meravigliarvi se il mondo vi tratterà da pari suo, e se vi perseguiterà e coprirà d’ingiurie. È questa la mercede ch’egli suole dare ai buoni. E voi che farete? Non rendete male per male, ingiuria per ingiuria. „ In queste parole di S. Pietro ed in quelle che seguono si ripete quasi letteralmente l’insegnamento di Cristo registrato nel capo V del Vangelo di S. Matteo. E non solo noi non dobbiamo rendere male per male, ingiuria per ingiuria, che sarebbe già molto; ma per contrario dobbiamo benedire chi ci offende: Sed e contrario benedicentes; frase che risponde perfettamente al precetto di Cristo: Benedicite maledicentibus vobis (Matteo, V, 44). È il grado sommo della carità, è virtù eroica, senza dubbio; ma Gesù Cristo l’ha comandata, più ancora, l’ha praticata Egli stesso sulla croce, e per noi basta. “E questa, soggiunge S. Pietro, quasi per prevenire la difficoltà, la vostra vocazione, „ “Quia in hoc vocati estis.” Non movete difficoltà, sembra dire l’Apostolo, perché la religione, alla quale siete chiamati, vi impone virtù sì alta, “se volete ereditare la benedizione, „ Ut benedictionem hareditate possideatis. Di quale benedizione intende qui parlare S. Pietro, data qual premio del perdono generoso delle offese, del benedire chi ci maledice? Non dubito che intenda parlare principalmente della benedizione eterna, del premio dei giusti, ma non senza una allusione anche alla benedizione o mercede temporale, che il mondo stesso non rare volte riserba ai magnanimi, che perdonano le offese e rendono bene per male. Affermata questa dottrina sì eccelsa del perdono delle offese, anzi del rendere bene per male, benedizione per maledizione, S. Pietro cita un luogo del Salmo XXX, 13 e seg., e dice: ” Chi dunque vuole amare la vita e godere buoni giorni, raffreni la sua lingua dai male, e le sue labbra non proferiscano frode; „ vale a dire: chiunque desidera di possedere la vita beata in cielo e felice anche quaggiù sulla terra, quanto a noi è possibile, raffreni la sua lingua e si guardi dal tessere inganno od ordire frode contro il fratello. È chiaro che questa testimonianza del Salmo si connette colla sentenza evangelica del perdonare e benedire chi ci maledice: Benedìcite maledicentibus vobis, ed è qui riportata da S. Pietro come conferma, tanto più conveniente in quantoché la lettera era indirizzata ai cristiani, la maggior parte dei quali era di Ebrei, cresciuti nelle idee naturalmente ebraiche. Una lingua che non sa raffrenarsi, che rende ingiuria per ingiuria, non solo si prepara giorni amari nella vita futura, dove sarà reso a ciascuno secondo le opere sue, ma sovente se li prepara anche nella presente, perché sparge il seme della discordia, offende ed irrita i fratelli, si crea dei nemici e dilata l’incendio degli odi, dove ché colui che tace, benefica chi gli fa male e benedice chi lo ingiuria, gli chiude la bocca e vince, come scrive S. Paolo, col bene il malvagio. Si ritragga dal male, faccia il bene, cerchi la pace e la procacci. „ Quest’altra sentenza, tolta dallo stesso Salmo, è amplissima, vedete, e contiene quattro cose distinte, che S. Pietro conferma e raccomanda e sulle quali mi passo. Fuggire il male, fare il bene, cercare la pace e conservarla con ogni diligenza, le sono cose generalissime, sulle quali non occorre fermarci, e perciò passiamo all’altra sentenza del Salmo. – “Perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti, e i suoi orecchi sono intesi alle loro preghiere; ma il suo volto sta contro quelli che fan male. „ Il fissare gli occhi sopra una persona può avere un doppio significato affatto contrario: gli occhi si fissano sopra una persona per mostrare ira e disprezzo, o per mostrare compiacenza ed amore. Si guarda il nemico con occhi torbidi, fieri, dispettosi; la madre sul bambino, che porta sulle braccia, tiene fissi gli occhi pieni di letizia e d’amore. In qual senso il Salmista afferma che Dio tiene fissi gli occhi sui giusti? Evidentemente li tiene fissi sopra di loro con cura ed affetto paterno, perché si tratta di giusti, che sono figli bene amati. Dio poi verso di loro tiene aperte le orecchie per udire le loro preghiere ed esaudirle. Come è bella e soave questa pittura, che il Salmista fa di Dio rispetto ai buoni! Iddio li guarda amoroso, li ascolta sollecito, come un padre, anzi come una madre fa con i suoi figli: la madre è tutta intenta ai bisogni dei figli, li mira tacita, li previene ed appena ode un loro grido, un gemito, vola a loro e darebbe per essi la vita. È questa una poverissima immagine delle sollecitudini amorose, onde Iddio circonda i giusti e provvede ai loro bisogni. Che se Dio è tutto tenerezza verso dei giusti, il suo volto, dice il salmista, è pieno di sdegno e di terrore contro i malvagi, per scuoterli e ridurli a miglior consiglio. Non è mestieri, o dilettissimi, il dirvi che in questo luogo della sacra Scrittura, come in mille altri, si parla di Dio, come se fosse un uomo, che ha occhi, orecchie e volto, mentre per ragione sappiamo e per fede, che Dio è puro spirito e come tale non ha né occhi, né orecchi, né volto, ma solo mente e volontà, come si conviene alla natura sua semplicissima. – Qui S. Pietro ripiglia la sua esortazione e scrive: “E chi mai potrà recarvi danno, se siete studiosi del bene? „ Sopra ha detto ai suoi discepoli, che non rispondano male per male, ma benedicano a chi li maledice, e qui a confermarli nel bene aggiunge: Se voi fate bene a tutti, anche a chi vi odia, e se volgete in vostro vantaggio il male, che tentano di farvi i nemici, chi mai potrà recarvi danno? Non ve lo possono fare, i nemici; chi dunque ve lo farà? Ai giusti, ai veri figli di Dio tutto giova sulla terra e tutto si volge a bene, dice S. Paolo: Omnia cooperantur in bonuum. Giovano i favori e le benedizioni degli uomini, come le contraddizioni e le maledizioni, perché i giusti da tutto traggono occasione di esercitare la virtù e di servire a Dio. – “Che se pure, così S. Pietro, soffrite alcuna cosa per la giustizia, felici voi!” È questa una sentenza tolta quasi di peso dal Vangelo, dove Cristo dice: “Beati quelli che soffrono persecuzione per la giustizia; „ e ancora : “Beati voi allorché gli uomini vi avranno maledetti e vi avranno perseguitato: godete ed esultate, perché grande è la vostra mercede. „ E non temete di loro, né vi turbate, soggiunge S. Pietro. A che temere quelli che vi odiano, vi maledicono e vi perseguitano? Essi vi spianano la via del cielo, vi preparano la corona, e se possono togliervi il corpo, non possono togliervi l’anima, né torcervi un solo capello. Dunque bando ad ogni timore non solo, ma ad ogni più lieve turbamento: Non conturbemini. – Ci resta da spiegare l’ultimo versetto: “Adorate nei vostri cuori Cristo Signore. „ Il testo della nostra Volgata dice: “Santificate”, parola che risponde all’adorate, nel senso preciso che ha pure nell’orazione domenicale, in cui diciamo a Dio; ” Sia santificato il vostro nome, „ cioè siate onorato, glorificato, e adorato. Come doppia è la nostra natura, così doppio vuol essere il culto, che tributiamo a Dio, il culto dello spirito e del cuore, che è interno, e il culto del corpo, che è esterno: questo non può mai separarsi da quello e, se è separato, si risolve o in una ipocrisia o in atti materiali senza valore dinanzi a Dio. Il culto del cuore deve precedere ed informare il culto esterno come l’anima informa il corpo, e benché il primo alcune volte possa esistere senza il secondo, tuttavia ordinariamente lo trae seco come una necessità: è come il pensiero, che produce naturalmente la parola. San Pietro in questo luogo inculca ai suoi figliuoli questo culto interno, questa adorazione di Cristo nel cuore, causa e radice del culto esterno. Miei cari! Dio è spirito, disse Gesù Cristo alla samaritana, e perciò vuole che gli uomini lo adorino anzi tutto in spirito. Allorché pertanto vogliamo o dobbiamo adorare Iddio, poniamoci dinanzi alla sua maestà infinita, raccogliamo i nostri pensieri ed i nostri affetti, ritiriamoci nel santuario della nostra mente e del nostro cuore, e quivi riconosciamo il nostro nulla e la grandezza di Dio: questo conoscimento, questo sentimento intimo del nostro nulla, e del tutto che è Dio, mentre fa curvare tutto l’essere nostro al cospetto di quella immensa grandezza e quasi lo annienta, fa piegare le nostre ginocchia e la nostra fronte e fa risuonare sulla nostra lingua quelle parole di S. Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” Allora adoriamo Dio nei nostri cuori: Dominum Christum sanctificate in cordibus vestris. –  È questo adorare Dio in spirito e verità.

Graduale

Ps LXXXIII:10; LXXXIII:9

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice super servos tuos, [O Dio, nostro protettore, volgi il tuo sguardo a noi, tuoi servi]

V. Dómine, Deus virtútum, exáudi preces servórum tuórum. Allelúja, allelúja [O Signore, Dio degli eserciti, esaudisci le preghiere dei tuoi servi. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XX:1

Alleluja, alleluja Dómine, in virtúte tua lætábitur rex: et super salutáre tuum exsultábit veheménter. Allelúja. [O Signore, nella tua potenza si allieta il re; e quanto esulta per il tuo soccorso! Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt V:20-24

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nisi abundáverit justítia vestra plus quam scribárum et pharisæórum, non intrábitis in regnum coelórum. Audístis, quia dic tum est antíquis: Non occídes: qui autem occídent, re us erit judício. Ego autem dico vobis: quia omnis, qu iráscitur fratri suo, reus erit judício. Qui autem díxerit fratri suo, raca: reus erit concílio. Qui autem díxerit, fatue: reus erit gehénnæ ignis Si ergo offers munus tuum ad altáre, et ibi recordátus fúeris, quia frater tuus habet áliquid advérsum te: relínque ibi munus tuum ante altáre et vade prius reconciliári fratri tuo: et tunc véniens ófferes munus tuum.”

[In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Se la vostra giustizia non sarà stata più grande di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli. Avete sentito che è stato detto agli antichi: Non uccidere; chi infatti avrà ucciso sarà condannato in giudizio. Ma io vi dico che chiunque si adira col fratello sarà condannato in giudizio. Chi avrà detto a suo fratello: raca, imbecille, sarà condannato nel Sinedrio. E chi gli avrà detto: pazzo; sarà condannato al fuoco della geenna. Se dunque porti la tua offerta all’altare e allora ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta all’altare e va prima a riconciliarti con tuo fratello, e poi, ritornato, fa la tua offerta.]

Omelia

Omelia della Domenica V dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

– Falsa pietà –

Se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella che vantano gli scribi e i farisei, voi non entrerete nel regno dei cieli. “Nisi abundaverit iustitia vestra plusquam scribarum et pharisæorum, non intràbitis in regnum cœlorum”. Così il divin Salvatore nell’odierno Vangelo ai suoi discepoli e a noi. E perché minaccia così decisa e formidabile? Perché la giustizia e la pietà de’ farisei e degli scribi era tutta riposta in una superficiale corteccia, in una esteriore apparenza. Non fu già tale la giustizia e la pietà del santo precursore Giovanni Battista, [ … di cui in questo dì si celebra la solenne rimembranza del suo nascimento]. Basti il dire che fu canonizzato dalla bocca di Gesù Cristo per il maggiore di tutti i santi: “non surrexit maior Joanne Baptista”. Egli infatti fu una città ben munita, una colonna di ferro, una muraglia di bronzo. Così lo caratterizza la Chiesa con quelle parole, che disse già Iddio al profeta Geremia: “Dedi te … in civitatem munitam, et in columnam ferream, et in murum aeneum” (cap. 1, 18). Esso fu una città munita nella sua nascita, una colonna di ferro nella sua vita, una muraglia di bronzo nella sua morte: una città munita sulle montagne della Giudea, una colonna di ferro nel deserto, una muraglia di bronzo nella Caldea, e nel castello di Macheronte. Ecco tutto l’encomio di colui che nasce, che vive, che muore da giusto. Vediamo se può reggere al suo confronto la nostra giustizia, o se più tosto è simile all’apparente giustizia e falsa pietà degli scribi e de farisei.

I. – Là sui monti della Giudea nasce Giovanni come la stella mattutina foriera del giorno: fin dal seno materno è dotato dell’uso perfettissimo della ragione, santificato prima di nascere, ripieno di Spirito Santo. Di Spirito Santo è ripiena la madre sua Elisabetta, e profetizza: di Spirito Santo è ripieno Zaccaria suo padre, e scioglie anch’esso prodigiosamente la lingua in profezie. Gode per tre interi mesi l’assistenza di Maria, e quella di un Dio umanato, che si fa conoscere nell’utero verginale da lui che esulta nell’utero materno. Oh che città ben munita! “Dedi te in civitatem munitam”. – Anche noi nello spirituale nostro rinascimento fummo ripieni di Spirito Santo: lo Spirito Santo venne ad abitare nelle anime nostre come un tempio vivo. La grazia santificante ci costituì figliuoli di Dio ed eredi del celeste regno; l’acqua rigenerante impresse nel nostro spirito l’indelebile carattere di cristiani, ed infuse nel nostro cuore gli abiti delle soprannaturali virtù: Fede, Speranza e Carità. Una città ben munita e ben difesa fu altresì la nostra anima, “dedi te civitatem munitam”. Ma ohimè! Che allo spuntar dell’uso della ragione questa mistica città fu dai nemici circondata ed assalita, e forse la maggior parte di noi deve piangere la sua caduta! Che se poi fu riedificata, come le mura di Gerusalemme, nel Sacramento della Penitenza, ecco il modo di mantenerla costante nella spirituale sua restaurazione. – In quella guisa si conserva sicura dall’invasione ostile una città ben cinta di mura e di antemurale; così la nostra anima si manterrà nella santificante grazia ricevuta nel Battesimo o recuperata nella sacramental Penitenza, se dall’eterne massime e dall’evangeliche verità sarà ben custodita e difesa. Un cristiano che illuminato da viva fede vada dicendo a se stesso: “A che fare, ed a che fine Iddio mi ha posto in questo mondo?” – Per amarlo, per servirlo nel breve pellegrinaggio di questa vita, e poi goderlo eternamente nella patria de’ beati. Un po’ più tardi, un po’ più presto convien partire, non è questo il luogo di una permanenza: “Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus” (Ad Hebr. XIII, 14). Si avvicina la morte, si avvicina 1’eternità, l’eternità felice o sventurata; quale di queste due sarà per toccarmi? Quale mi fa sperare o temere la vita che meno: son io in stato di grazia o di peccato? Se in stato di grazia, che fo per conservarla? Se in stato di peccato, che fo per uscirne? Eh via si risolva. Voglio lasciar il peccato, voglio staccarmi da questo mondo, voglio darmi a Dio, voglio salvarmi. Oh questa sì che è una città ben munita! Che se per mala sorte cadono a terra questi ripari, ella è perduta. “Luxit antemurale, et murus pariter dìssipatus est. Defixæ sunt in terra portæ eius” (Thren. 8.9) . – Ma che gioverebbe ad una città essere ben fortificata, se dal proprio principe non venisse provveduta degli opportuni sussidi? E come potrebbe un’anima sussistere in grazia, se da Dio non fosse custodita e protetta? Nisi Dominum custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam (Ps. CXXVI, 2). Questi aiuti però tanto necessari, acciò non cada in man de’ nemici, Iddio è sempre pronto a concederli a condizione facilissima, che si domandino con umili, fervide ed incessanti preghiere. La grazia e la preghiera, dice il re Profeta (Ps. LXV, 29), vanno del pari. Eccettuata, soggiunge S. Agostino (Lib. De Eccl. Dogm. C. 58), la prima grazia della fede per un infedele, tutte l’altre a noi derivano pel canale della preghiera. Petite, et accipietis (Lc. II, 9), c’inculca il nostro divin Salvatore, pel desiderio ch’Egli ha di esaudirci, e per animare la nostra fiducia, ci assicura di favorevole rescritto con affermativa sua ripetuta parola: “Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo dabit vobis(Io. XVI, 23).

II. Ritorniamo al Battista. Ei fu una colonna di ferro nel deserto: “Dedit te … in columnam ferream”. Miratelo in quelle orride selve mal coperto di ruvida spoglia, il suo cibo son vili locuste é miele silvestre, la sua bevanda è l’acqua del fonte, la sua abitazione le grotte e le caverne, il suo letto il nudo terreno. Or come durarla dagli anni più teneri fino alla virilità in tanta inedia, in tanta nudità, esposto all’inclemenza delle stagioni? Come soffrire il tedio di tanta solitudine, la pena di sì lungo silenzio, l’asprezza di vita sì austera? Ecco il perché: la sua virtù superiore a tutti i gusti del senso, a tutt’i reclami dell’umanità, a tutti i bisogni della natura, era a somiglianza del ferro che doma tutti i metalli: “Dedi te in columnam ferream”. Gesù Cristo infatti interrogando i suoi discepoli disse loro: “Che avete veduto nel deserto, vedendo Giovanni? Una canna forse, una fragile canna agitata dal vento”? Non già, avrebbero potuto rispondere, ma una colonna inflessibile di costanza e di fermezza. – Uditori carissimi, a che dobbiamo paragonare la nostra pietà? Alla colonna del Battista, o alla canna del deserto? Non v’è simbolo forse più espressivo della falsa pietà, che una canna. Ella è vuota, sterile, infeconda, e secondo la varietà de’ venti or si piega dall’una, or dall’altra parte, e quando spira un’aurea leggera, pare che applauda a se stessa col rumoreggiare delle foglie. Canna vuota è colei che finge devozione per attirarsi la stima degli uomini; canna sterile è chi mena vita molle, dissipata, oziosa; canna pieghevole, agitata, instabile, è chi si lascia trasportare dalle proprie passioni; canna che applaude a se stessa, è chi pieno di vanità e gonfio di superbia non ha concetto, non ha amore, che per sé. Altri, è vero, si accostano alla sacra Mensa; pare col modesto atteggiamento, colla devota compostezza, che onorino quel Dio che ricevono; ma L’insultano, invece perché ricevendo il Principe della pace, sono in guerra coi loro prossimi, sono in discordia nelle loro famiglie; si pascono delle carni immacolate del divino Agnello, ed hanno il cuore macchiato da affetti troppo sensibili, e talvolta ancor sensuali; danno a Gesù un bacio di apparente amicizia; ma è bacio di tradimento, bacio di Giuda. Son simili costoro a quella canna posta dai Giudei in mano di Gesù Cristo schernito d’onore, perché in forma di scettro; ma in realtà era uno scettro di scorno, d’ignominia, di contumelia. – Si esercitano altri in opere di carità, ma per gloria vana; distribuiscono limosime, ma per ostentazione; soccorrono infermi, ma per aver nome nel testamento; assistono moribondi, ma per aver parte nell’eredità; proteggono la vedova e la pupilla, ma per facilitarsi l’accesso alle loro case, la libertà in trattarle, e insidiare così a colpo più franco alla loro onestà. Somiglianti son questi a quella canna, di cui si servirono i manigoldi a temperare le arsure di Gesù Cristo sitibondo sulla croce. Sembrava tal canna, su la cui cima era applicata un’umida spugna, sembrava strumento di ristoro e di conforto, ma era ristoro di aceto mordace, ma era conforto di amarissimo fiele.

III. – Fu finalmente Giovanni Battista un muro di bronzo nella Galilea, e nel castello di Macheronte: “Dedi te in murum æneum”. Dopo aver predicato alle turbe la penitenza in riva al Giordano, fa il precursore di Cristo penetrar la sua voce nella reggia d’Erode Antipa, ed animato da santo zelo della legge di Dio: non ti è permesso, gli dice, tener presso di te, come tua, la moglie di tuo fratello Filippo, ancora vivente; egli è questo un enorme adulterio, un abominevole incesto. “Non licet tibi habere uxorem fratris tui(Io. VI, 18); e come un muro di bronzo si oppose costantemente alla pratica iniqua di due potenti regnanti. – È tale la nostra fermezza nella giustizia e nella cristiana pietà? Tale sarà, se qualora ci venga proposta un’antidata a falsificare uno scritto, risponderemo, “non licet”. Tale sarà se chiamati a giurare contro la verità, se al presentarsi un ingiusto guadagno, un contratto usurario, un’opportunità di vendetta, una qualunque occasione di peccato, diremo a noi stessi: “non licet, non licet”… Se fummo per lo passato muraglie pendenti, giusta la frase del re Salmista, e macerie sconnesse per l’inclinazione al senso, all’interesse, alle cose terrene, imitiamo ora la generosa fortezza del Santo precursore, come muraglia di bronzo, in resistere a tutto ciò ch’è contrario alla retta coscienza, e alla santa legge di Dio. – Ancor uno sguardo al Battista, acciò l’imitazione delle sue virtù e dei suoi esempi sia in noi perfettamente compiuta. Nella prigione del castello di Macheronte ove per odio dell’empia Erodiade sta rinchiuso, egli corona la sua costanza e la sua vittoria, lasciando la testa sotto la spada del carnefice in testimonio della verità da lui predicata. – Fedeli miei dilettissimi, notate bene. Se noi non ci troviamo in questa necessaria disposizione di dar la testa, il sangue, la vita prima che commettere un solo peccato mortale, non è vera la nostra pietà, è falsa la nostra giustizia. “Prima la testa in terra, – dobbiamo dire col beato Leonardo – che il peccato nell’anima”. Questa assoluta risoluzione, conviene ripeterlo, è cotanto necessaria ed indispensabile, che se con pienezza d’animo e decisa determinazione di volontà non siamo in grado di dire e protestare, prima qualunque disgrazia, prima la morte, e qualunque morte, che offendere Dio con grave peccato, è vana la nostra fede, falsa la nostra opinione, bugiarda la nostra pietà, fallace la nostra giustizia. Giustizia da Farisei e da Scribi, che, come dal bel principio vi accennai, non può aver ingresso nel regno dei cieli: “Nisi abundaverit iustitia vestra plus quam Scribarum et Pharisæorum, non intrabitis in regnum cœlorum”. 

Credo …

Offertorium V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps XV:7 et 8. Benedícam Dóminum, qui tríbuit mihi intelléctum: providébam Deum in conspéctu meo semper: quóniam a dextris est mihi, ne commóvear. [Benedirò il Signore che mi dato senno: tengo Dio sempre a me presente, con lui alla mia destra non sarò smosso.]

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris: et has oblatiónes famulórum famularúmque tuárum benígnus assúme; ut, quod sínguli obtulérunt ad honórem nóminis tui, cunctis profíciat ad salútem. [Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche, e accogli benigno queste oblazioni dei tuoi servi e delle tue serve, affinché ciò che i singoli offersero a gloria del tuo nome, giovi a tutti per la loro salvezza.]

Communio

Ps XXVI:4 Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. Una cosa sola chiedo e chiederò al Signore: di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita.

Postcommunio

Orémus. Quos cœlésti, Dómine, dono satiásti: præsta, quæsumus; ut a nostris mundémur occúltis et ab hóstium liberémur insídiis.

 

IV DOMENICA dopo PENTECOSTE

Introitus

Ps XXVI:1; XXVI:2 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timebo? Dóminus defensor vitæ meæ, a quo trepidábo? qui tríbulant me inimíci mei, ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt. [Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò? Il Signore è baluardo della mia vita, cosa temerò? Questi miei nemici che mi perséguitano, essi stessi vacillano e stramazzano.] Ps XXVI:3

Si consístant advérsum me castra: non timébit cor meum. [Se anche un esercito si schierasse contro di me: non temerà il mio cuore.]

Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timebo? Dóminus defensor vitæ meæ, a quo trepidábo? qui tríbulant me inimíci mei, ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt. [Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò? Il Signore è baluardo della mia vita, cosa temerò? Questi miei nemici che mi perséguitano, essi stessi vacillano e stramazzano.]

Orémus. Da nobis, quæsumus, Dómine: ut et mundi cursus pacífice nobis tuo órdine dirigátur; et Ecclésia tua tranquílla devotióne lætétur. [Concedici, Te ne preghiamo, o Signore, che le vicende del mondo, per tua disposizione, si svolgano per noi pacificamente, e la tua Chiesa possa allietarsi d’una tranquilla devozione.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom VIII:18-23. Fratres: Exístimo, quod non sunt condígnæ passiónes hujus témporis ad futúram glóriam, quæ revelábitur in nobis. Nam exspectátio creatúræ revelatiónem filiórum Dei exspéctat. Vanitáti enim creatúra subjécta est, non volens, sed propter eum, qui subjécit eam in spe: quia et ipsa creatúra liberábitur a servitúte corruptiónis, in libertátem glóriæ filiórum Dei. Scimus enim, quod omnis creatúra ingemíscit et párturit usque adhuc. Non solum autem illa, sed et nos ipsi primítias spíritus habéntes: et ipsi intra nos gémimus, adoptiónem filiórum Dei exspectántes, redemptiónem córporis nostri: in Christo Jesu, Dómino nostro. [Fratelli: Penso che le sofferenze presenti non sono paragonabili alla gloria futura che si manifesterà in noi. Poiché l’attesa del creato si rivolge tutta alla rivelazione dei figli di Dio. Infatti il creato è stato assoggettato alla vanità, non per suo volere, ma da colui che lo ha assoggettato con la speranza che lo stesso creato sarà liberato dalla schiavitú della corruzione nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutto il creato è unito nei gémiti e nelle doglie del parto fino ad ora. E non solo il creato, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo in noi stessi aspettando, dopo l’adozione a figli di Dio, la redenzione del nostro corpo: in Gesù Cristo nostro Signore.]

Omelia I

[Mons. G. Bonomelli [*], “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, Torino 1899 –imprim.]- Om. IX.

“Tengo per certo, che le sofferenze del tempo presente non hanno punto proporzione colla gloria che sarà manifestata in noi. Perché la stessa creatura irragionevole aspetta ansiosamente la manifestazione dei figliuoli di Dio: perché la stessa creatura suo malgrado fu sottomessa alla vanità da colui che ad essa l’ha sottoposta nella speranza. Perché anch’essa creatura sarà francata dalla servitù della corruzione e messa nella libertà gloriosa dei figliuoli di Dio. Sappiamo difatti, che fino ad ora ogni creatura geme ed è in travaglio quasi di parto. Né solamente essa, ma noi ancora, che abbiamo le primizie dello spirito e gemiamo in noi stessi, anelando all’adozione a figliuoli di Dio, alla redenzione del nostro corpo „ (Ad Rom. VIII, 18– Paolo ci lasciò quattordici lettere e prima di tutte nella Scrittura è posta quella ai Romani, dalla quale sono tolti i pochi versetti, che avete uditi e che si leggono nella Messa odierna. Questa tiene meritamente il primo posto tra le lettere di S. Paolo, non già perché sia stata scritta prima delle altre, ma perché è indirizzata alla Chiesa di Roma, madre di tutte le altre Chiese, sede del Primato, ed anche perché è la più lunga e per ragione della dottrina dogmatica in essa sviluppata sopra le altre importantissima. Questa lettera fu scritta da S. Paolo in Corinto, allorché era sulle mosse per Gerusalemme, l’anno 58, al più tardi, il 59 dell’era nostra. – Il tratto che devo chiosare si legge nel capo ottavo della lettera, ed è una miniera d’altissime verità teoriche e pratiche. L’Apostolo comincia il capo, toccando la felice condizione dei rigenerati in Cristo, e afferma ch’essi sono sciolti dalla legge del peccato; poi accenna alla misera condizione di coloro che vivono secondando la carne. Insegna che nei rigenerati in Cristo abita lo Spirito santo, come devono seguirne la legge e come nell’intimo della coscienza abbiano la testimonianza d’esser figli di Dio. A quali condizioni potranno riceverne la mercede? A condizione di patire con Cristo; soffrendo con Lui, con Lui saranno anche glorificati. E qui comincia la lezione che devo spiegare. – « Tengo per certo, che le sofferenze del tempo presente non hanno proporzione con la gloria, che sarà manifestata in noi. „ È questa una verità, che troviamo, starei per dire, ad ogni pagina nelle lettere dell’Apostolo, ma che pure non è mai abbastanza ripetuta, perché di questa abbiamo bisogno continuo. La nostra vita quaggiù è una serie di afflizioni interne ed esterne raramente interrotte: il fardello del dolore ci sta sempre sulle spalle e l’ombra della croce ci segue dovunque. Ora in mezzo a tante tribolazioni, a tanti e sì crudeli affanni, che ci accompagnano nel cammino della vita, la verità più consolante, che possiamo avere, è questa: “Siamo certi, che le sofferenze del tempo presente non hanno proporzione colla gloria, che sarà manifestata in noi” —. Quali sofferenze? Forse quelle soltanto che ci vengono direttamente dal professare la fede di Gesù Cristo e dalla osservanza fedele dei suoi precetti? Indubbiamente queste ci meritano la gloria divina; ma l’Apostolo non parla di queste solamente, ma di tutte le sofferenze della presente vita: Hujus temporis —, come sono quelle del lavoro, delle infermità, dell’inclemenza delle stagioni, dei timori, delle contraddizioni, della povertà e andate discorrendo; anche queste, quantunque comuni a tutti gli uomini, patite con spirito di fede, per amore di Gesù Cristo, ci fruttano per il cielo. Quale conforto il cristiano può attingere in questo insegnamento di S. Paolo! Egli può e deve dire a se stesso: io soffro, ma il mio soffrire è seme, che frutterà il godere e godere eterno; tra il soffrire presente e il godere futuro non vi è proporzione alcuna; il soffrire lieve, immenso il godere; il soffrire è breve, pochi giorni, pochi anni; il godere interminabile; la ricompensa, Dio stesso. Io affido alla terra un granellino, che l’occhio appena discerne; questo, dopo alcuni giorni, qualche mese o qualche anno, mi dà un fiore bello a vedersi, soave a odorarsi, un albero che curva i rami sotto il peso dei suoi frutti moltiplicati. Ecco l’immagine del mio soffrire quaggiù sulla terra e del mio godere su in cielo. Questo pensiero deve essere un balsamo versato sulle ferite del mio povero cuore e deve mitigarne e raddolcirne il dolore, come la speranza della messe copiosa rallegra il contadino, che suda sull’aratro e sparge la semente nel solco aperto. – S. Paolo dice: “Tengo per certo „ existimo che le sofferenze presenti mi daranno una gloria senza confronto maggiore del merito. „ Quale certezza abbiamo noi di ricevere il premio del nostro patire? La nostra certezza non è, né può essere di fede, perché la Chiesa ha definito contro gli eretici, che nessun cristiano, senza una speciale rivelazione, può essere certo di fede d’aver ottenuto la grazia, senza la quale non si può ottenere la vita eterna (Conc. di Trento, sess. VI, can. XIII, XLI); ma la nostra certezza può essere una certezza umana, che viene dalla coscienza di adempiere i propri doveri, di fare ciò che possiamo per pacere a Dio, per fuggire il peccato, simile a quella certezza che abbiamo d’essere amati dall’amico, dal padre, dalla madre, ai quali ci studiamo di mostrarci fedeli e ubbidienti. Questa gloria, che deve essere il frutto delle presenti sofferenze, sarà manifestata in noi, dice l’Apostolo, e a ragione. La gloria e la gioia, che avremo in cielo, non è altra cosa che la esplicazione e la fioritura della grazia, che possediamo sulla terra, come i fiori ed i frutti dell’albero non sono che la esplicazione e la fioritura di quel piccolo seme, che avete affidato alla terra; ondechè, possedendo la grazia, possediamo in potenza o in germe la gloria, e soffrendo in pace i dolori della vita, portiamo in noi stessi la gioia, che un dì sgorgherà dal fondo dell’anima nostra: Revelabitur in nobis. – Poiché noi tutti siamo fatti per la felicità e ad essa tendiamo necessariamente, come la pietra tende al suo centro, ne conseguita che i nostri cuori con ardente brama sospirano questa ricompensa delle nostre sofferenze e la gloria onde saremo vestiti. – Ma vi è di più, continua l’Apostolo: non pure noi, noi esseri deboli di ragione, sollevati e mossi dalla grazia aspettiamo col desiderio più acceso questa futura trasformazione, “ma la stessa natura irrazionale aspetta con ansia che siano manifestati i figliuoli di Dio, „ ossia che apparisca il giorno della loro manifestazione o gloria celeste. – Che è dessa quella creatura, che dicesi aspettare con ansia la rivelazione? Alcuni vi ravvisarono indicati gli angeli, ma a torto: perché questa creatura la si dice tosto nel versetto seguente soggetta alla vanità, e per fermo gli angeli non possono essere soggetti alla vanità. D’altra parte non possono essere gli uomini giusti, perché si dice, che questa creatura aspetta la rivelazione dei figli di Dio, cioè dei giusti, onde è manifesto, che la creatura che aspetta non si può confondere coi giusti: non possono essere nemmeno i tristi o peccatori, perché questi né aspettano, né possono aspettare questa rivelazione, che non conoscono, disprezzano od odiano. Resta dunque che quella parola creatura significhi la natura tutta irragionevole, ossia l’universo. S. Paolo, uomo orientale e nutrito nello studio dei Profeti, con un volo arditissimo di fantasia, ci rappresenta non solo le anime cristiane, ma le creature tutte anche irragionevoli, che si uniscono a quelle in desiderare ardentemente il compimento della speranza mercé la manifestazione della gloria eterna. Ma come mai e perché la natura irragionevole può unirsi alle anime credenti in questo affocato desiderio della futura trasformazione? Questo modo di parlare è veramente poetico, attribuendo 1′ aspettazione ansiosa a esseri destituiti di ragione e di volontà e perciò incapaci di desiderio; ma vi si nasconde un senso profondo, che mi studierò di spiegare alla meglio. Tutte e le cose materiali sono create per l’uomo e debbono servire a lui in tutti i modi, e in gran parte per via di evoluzioni meravigliose e perenni debbono entrare nell’organismo dell’uomo stesso, diventare successivamente parte del suo corpo ed essere assunte all’altissimo onore di strumento del suo pensiero e della sua volontà. Il perché tutte le creature materiali, a nostro modo di dire, aspirano alla loro unione con l’uomo, perché in esso e con esso si nobilitano, partecipano alla sua vita fisica e spirituale e sentono che la loro sorte è legata indissolubilmente alla sorte dell’uomo. Ecco perché tutte queste creature irragionevoli, a loro modo anch’esse, come formanti il corteggio, l’appendice dell’uomo, formanti anzi qualche parte dell’uomo insieme con lui sospirano che venga il giorno dell’umana trasformazione e risplenda agli occhi di tutti la gloria degli eletti e dei figli di Dio. E qui S. Paolo sviluppa più ampiamente il suo pensiero. Seguitiamolo. “La stessa creatura è soggetta alla vanità. „ Tutte le creature, che esistono sulla terra che direttamente o indirettamente servono l’uomo, giusta il volere del Creatore, nell’ordine presente, subiscono incessanti trasformazioni ed alterazioni: ora passano dalla natura in organica all’organica vegetale od animale e fino all’umana e poi ritornano all’inorganica. Osservate ciò che avviene intorno a noi e nel nostro corpo e troverete un movimento incessante, un farsi e disfarsi perpetuo delle creature, or lento, or rapido, tantoché la morte è la condizione della vita e la vita la condizione della morte: non vi è una sola creatura visibile che sfugga alla legge, che tutto fa vivere e morire e dalla morte trae gli elementi di una, vita novella e getta nella vita i germi della morte. Tutte queste creature non solo sono sottoposte a questa trasformazione che non cessa un solo istante, ma devono servire (ahi quante volte!) di strumento al disordine, all’offesa del Creatore, contro il loro fine. L’aria, la luce, l’acqua, la terra, le sue produzioni più belle e più preziose, tutto il regno vegetale, animale ed universale, per opera dell’uomo sono forzati a deviare dal loro fine e a diventare strumento di peccato. Inquantoché sono sottomesse al lavoro della trasformazione senza tregua ed alla necessità di essere soventi volte costrette ad un uso contrario al loro fine naturale, queste creature sono dette da S. Paolo ” sottoposte alla vanità: „ Vanitati creatura subjecta est. Espressione sublime, che rappresenta il mondo tutto in uno stato di prova e di violenza, come 1’uomo, del quale segue necessariamente la sorte, perché ad esso è ordinato, come mezzo al fine. Questo mondo visibile, continua S. Paolo, non vorrebbe questa legge di continue mutazioni, di alternative di morte e di lotta e rivolta contro il Creatore, alla quale è costretto dall’uomo: Non volens; ma vi si acconcia, perché così vuole il Creatore; vi si acconcia, ma con la speranza che verrà pure quel giorno, nel quale cesserà questa lotta, che lo affatica, nel quale saranno cieli nuovi e terra nuova e tutto sarà composto in una pace inalterabile e perfetta. “La stessa creatura è sommessa alla vanità, non volente, ma da Colui, che a questa l’ha sottoposta nella speranza. „ Sì, la natura tutta irrazionale, nel suo linguaggio domanda al pari di noi, uomini e cristiani, il cessare del suo stato presente, al quale istintivamente rilutta: il suo grido, eco lontana del nostro, è questo: Quando, Signore, porrete fine al mio travaglio? Quando mi darete la pace ? Quando, anch’io, come l’uomo e per l’uomo, sarò rinnovata e secondo la mia natura non servirò che a Lui solo? E giusto, risponde l’Apostolo: “anch’essa, questa natura irrazionale sarà affrancata dal servaggio della corruzione, nella libertà della gloria dei figliuoli di Dio. „ Non è facile intendere questo luogo del sacro testo, ma sembra fuor di dubbio, essere, non altrimenti del seguente, una spiegazione dell’antecedente. La natura tutta irrazionale, quasi culla, reggia e nutrice dell’uomo, suo re, al termine dei secoli, quando egli ripiglierà, rifiorente di vita immortale, il suo corpo, anch’essa si rinnovellerà, quasi per fare più bella la gloria dell’uomo, e ad imitazione dell’uomo stesso: Et ipsa creatura liberabitur a servitute corruptionis, in libertatem gloria filiorum Dei. Quale sarà questo rinnovellamento della natura irrazionale, riflesso del rinnovellamento dell’uomo? Come finirà il suo servaggio e quale sarà la libertà sua, di cui qui favella l’Apostolo? Sappiamo che avverrà, ma quale sarà lo ignoriamo, e solo per una cotale induzione possiamo formarcene un’idea. Saranno cieli nuovi e terra nuova, l’uno e l’altra abitazione degna dell’uomo glorificato, sottratta interamente all’impero e all’influenza di ogni male morale e fisico, e saper questo ci basti. – Da questa dottrina sì alta e sì bella dell’Apostolo si fa manifesto che il fine delle creature tutte irragionevoli è legato al fine proprio dell’uomo e da questo dipende tantoché, se così posso esprimermi, anch’esse saranno felici o infelici della sua felicità od infelicità: ed è giusto perché le creature irragionevoli sono create per l’uomo e a lui debbono servire e per conseguenza la sorte del principale tira seco la sorte del secondario. Gli elementi, onde risulta il nostro corpo, accompagneranno e per sempre l’anima o beata in cielo, o straziata nell’inferno, perché l’unione sarà sempiterna, e perciò siamo noi che determiniamo la sorte eterna del mondo materiale. Il linguaggio dunque dell’Apostolo in questo luogo è poetico e ad un tempo altamente filosofico e vero. Questa idea dell’aspettazione ansiosa della natura irrazionale è ribadita e con più forte tinta rilevata in questo altro versetto: “Sappiamo di fatto che ogni creatura finora geme ed è come nel travaglio del parto. „ Questo gemere e quasi soffrire i dolori del parto di tutte le creature irragionevoli, aspettanti la loro liberazione e trasformazione finale, ci fa sentire la loro solidarietà coll’uomo e com’esse fremono nello stato di disordine e di violenza, in cui al presente troppo spesso si trovano. Questa frase dell’Apostolo ci riduce alla memoria quell’altra frase non meno energica del libro della Sapienza, in cui si dice, che Dio armerà tutte le creature contro gli stolti, cioè i peccatori. Ah! ricordiamola sempre, o dilettissimi, questa verità. Ogni volta che noi abusiamo delle creature, peccando, rivolgendole contro il Creatore, esse, per così dire, si sdegnano contro di noi, soffrono, gemono e sospirano il momento, nel quale spezzeranno il giogo della corruzione, che loro imponiamo: strumento nostro quaggiù al peccato, al piacere colpevole, diventeranno allora strumento di Dio a nostra punizione. S. Paolo, dopo questa breve e brillante digressione sulle creature tutte irrazionali, che con sì affocato desiderio aspettano e invocano la propria libertà e rinnovazione, ritorna a sé, ai credenti, e prosegue: “E non solo essa, cioè la creatura irrazionale, ma noi ancora, che abbiamo le primizie dello spirito, gemiamo in noi stessi, anelando alla adozione dei figliuoli di Dio, alla redenzione del nostro corpo. „ Sì, l’universo sospira e geme, ma con esso e ben più di esso, noi, cristiani, primizie del giardino di Cristo, la Chiesa, o meglio, noi cristiani, che abbiamo ricevuto i primi e più copiosi doni dello Spirito, sospiriamo e gemiamo nel fondo delle anime nostre. Travagliati da sollecitudini ed affanni interni, fatti segno di calunnie e di persecuzioni, sbandeggiati, flagellati, gettati in carcere, trascinati dinanzi ai tribunali, divenuti il rifiuto del mondo, ci viene a noia la vita, ita ut tæderet nos etiam vivere, volgiamo lacrimosi gli occhi al giorno, in cui la grazia, o l’adozione di fìgli di Dio ci schiuderà le porte del cielo e saremo liberati da questo corpo mortale e rivestiti del corpo impassibile e glorioso: Adoptionem filiorum Dei, expectantes redemptionem corporis nostri. Questo grido affannoso dell’Apostolo, che guarda, aspetta ed invoca la gloria della risurrezione del corpo, risponde al grido di Giobbe, che, straziato e disfatto dalla lebbra esclama: ” So che il mio redentore vive, e ch’io alla fine dei tempi risorgerò dalla polvere e rivestirò questa carne, e in essa vedrò il mio Dio e mio Salvatore. „ È questo il grido, che erompe dal cuore d’ogni credente, che attraversa questa terra d’esilio, che sente la miseria della vita presente, che cammina verso la vera patria, al possesso di Dio. Sia pur questo il grido che esce dai nostri cuori, disillusi della terra e anelanti al cielo!

[*][NOTA: Un lettore ci ha fatto cortesemente notare come Mons. G. Bonomelli, ai suoi tempi, sia stato in “odore” di Modernismo, anche per le sue abituali frequentazioni con A. Fogazzaro. I volumi dai quali traiamo le omelie sulla lettura, sono tutti muniti di nihil obstat ed imprimatur, letti da “quelli” del Santo Uffizio e dell’Indice. Vigilare è sempre opportuno, e la prudenza non è mai troppa, per cui invitiamo i lettori Cattolici a segnalare eventuali “svarioni” modernisti, sui quali abbiano chiuso gli occhi o si siano addormentati i censori del Santo Uffizio. Grazie a tutti anticipatamente]

Graduale

 

Ps LXXVIII:9; LXXVIII:10 Propítius esto, Dómine, peccátis nostris: ne quando dicant gentes: Ubi est Deus eórum? V. Adjuva nos, Deus, salutáris noster: et propter honórem nóminis tui, Dómine, líbera nos. [Sii indulgente, o Signore, con i nostri peccati, affinché i popoli non dicano: Dov’è il loro Dio? V. Aiutaci, o Dio, nostra salvezza, e liberaci, o Signore, per la gloria del tuo nome.]

Allelúja

Alleluja, allelúja Ps IX:5; IX:10 Deus, qui sedes super thronum, et júdicas æquitátem: esto refúgium páuperum in tribulatióne. Allelúja [Dio, che siedi sul trono, e giudichi con equità: sii il rifugio dei miseri nelle tribolazioni. Allelúia.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. Luc. V:1-11

In illo témpore: Cum turbæ irrúerent in Jesum, ut audírent verbum Dei, et ipse stabat secus stagnum Genésareth. Et vidit duas naves stantes secus stagnum: piscatóres autem descénderant et lavábant rétia. Ascéndens autem in unam navim, quæ erat Simónis, rogávit eum a terra redúcere pusíllum. Et sedens docébat de navícula turbas. Ut cessávit autem loqui, dixit ad Simónem: Duc in altum, et laxáte rétia vestra in captúram. Et respóndens Simon, dixit illi: Præcéptor, per totam noctem laborántes, nihil cépimus: in verbo autem tuo laxábo rete. Et cum hoc fecíssent, conclusérunt píscium multitúdinem copiósam: rumpebátur autem rete eórum. Et annuérunt sóciis, qui erant in ália navi, ut venírent et adjuvárent eos. Et venérunt, et implevérunt ambas navículas, ita ut pæne mergeréntur. Quod cum vidéret Simon Petrus, prócidit ad génua Jesu, dicens: Exi a me, quia homo peccátor sum, Dómine. Stupor enim circumdéderat eum et omnes, qui cum illo erant, in captúra píscium, quam céperant: simíliter autem Jacóbum et Joánnem, fílios Zebedaei, qui erant sócii Simónis. Et ait ad Simónem Jesus: Noli timére: ex hoc jam hómines eris cápiens. Et subdúctis ad terram návibus, relictis ómnibus, secuti sunt eum”.

[In quel tempo: Affollàtesi le turbe attorno a Gesú per udire la parola di Dio, Egli si teneva sulla riva del lago di Genézareth. E vide due barche tirate a riva, poiché i pescatori erano discesi e lavavano le reti. Salendo in una barca, che era di Simone, lo pregò di allontanarlo un poco dalla spiaggia; e sedendo insegnava alle turbe dalla navicella. Quando finí di parlare, disse a Simone: va al largo, e getta le reti per la pesca. E rispondendogli, Simone disse: Maestro, per tutta la notte abbiamo lavorato senza prendere niente, tuttavia, sulla tua parola, getterò la rete. E fattolo, presero una cosí grande quantità di pesci che le reti si rompevano. E allora fecero segno ai compagni che erano nell’altra barca affinché venissero ad aiutarli. E vennero, e riempirono le due barche al punto che stavano per affondare. Visto questo, Simone Pietro si gettò ai piedi di Gesú, dicendo: Allontanati da me, o Signore, poiché sono un peccatore. Lo spavento infatti si era impadronito di lui e di quelli che erano con lui a causa della pesca: ed erano sbigottiti anche Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano compagni di Simone. E Gesú disse a Simone: Non temere: d’ora in poi sarai pescatore di uomini. E avendo tirato a secco le barche, lasciata ogni cosa, lo seguirono.]

Omelia della Domenica IV dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

Uomini come pesci-

Fa menzione l’odierno Evangelo d’una pesca miracolosa notturna tentata dai discepoli del Salvatore con esito infelicissimo; poiché passarono tutta la notte in fatiche continue, e non venne loro fatto di prendere un solo pesce: “tota nocte laborantes nihil cœpimus”; ma poi, gettata nuovamente la rete, raccolsero una tal copiosa moltitudine di pesci, che la rete minacciava di rompersi, e la navicella di affondarsi. Da questa evangelica narrazione di pescatori e di pesca io prendo motivo di assomigliare gli uomini ai pesci. Non vi sorprenda l’assunto, è S. Ambrogio che me ne porge l’idea. “Pisces enim sunt, dice egli, qui hanc enavigant vitam” (Lib. 4 in Luc.). E a questa similitudine fece allusione il divin Redentore allorché disse a Pietro e ad Andrea; venite, seguitemi, e di pescatori di muti animali farò che siate pescatori di uomini: “Venite post me, et faciam vos fieri piscatores hominum”. Ora siccome i pesci si lasciano ingannare dal pescatore per un poco d’esca lusinghiera, così una gran moltitudine d’uomini incauti si lasciano ingannare dal pescatore per quel poco di dolce con cui li alletta a peccare. Deploriamo, fedeli amatissimi, la stoltezza di quei peccatori, che per un misero gusto di soddisfazione brutale cadono nella rete del peccato e del demonio, e perdono miseramente la vita dell’anima e l’eterna vita. La proposta allegoria degli uomini simili ai pesci riuscirà per avventura più sensibile, più opportuna al disinganno, e allo spirituale vantaggio di tutti. Favoritemi della solita vostra graziosa attenzione. – Fingiamo ipotesi (anche le ipotesi impossibili giovano a meglio schiarire la verità), fingiamo che i pesci avessero intendimento e discorso, e tra di loro andassero dicendo così: mirate quanto è grande la bontà e l’amore, che gli uomini hanno per noi. Abbandonano le loro case, vengono sulla sponda del mare, o ascendono su qualche naviglio, passano le notti in vigilie, e i giorni sotto la sferza del sole, esposti ai venti, alle piogge e al rigore delle stagioni. E tutto ciò perché? Per recarci qualche scelto alimento, per gettarci i più squisiti bocconi. Un tal discorso farebbe pietà insieme, e moverebbe il riso. Stolti, insensati, voi potreste rispondere, gustate pure ed inghiottite quei cibi che gli uomini vi apportano, e mi saprete poi dire quanto è grande per voi la loro bontà. Quel che non dicono, né possono dire i pesci muti e irragionevoli, lo dicono tanti uomini del bel mondo, dediti al piacere e al libertinismo, descritti nel libro della Sapienza: “Venite fruantur bonis” [Cap. II, 6], si dicono essi a vicenda: non vedete quanti beni ci presentano le creature, il mondo, il senso, la gioventù? Venite adunque, godiamo di questi piaceri, faranno questi la nostra felicità: “venite ergo, et fruamur bonis . . . quoniam hæc est pars nostra” (V, 8). Ah gente senza consiglio, più insensati, più deplorabili che i pesci non sono! Sotto l’esca allettante dei mondani piaceri si nasconde un amo adunco, micidiale, che vi strapperà le viscere, che vi toglierà la pace, la vita di grazia, e, se non vomitate con vera penitenza il dolce boccone trangugiato, anche la vita eterna. È lo Spirito Santo, che precisamente descrive nell’Ecclesiaste la vostra insensatezza e la vostra disgrazia. Avviene agli uomini, dice egli, come ai pesci, di venir presi ed uccisi da un amo nascosto : “Sicut pisces capiuntur hamo .., sic capiuntur hómines” (Eccl. IX, 11). – Vediamolo in pratica. Quel giovane frequenta ridotti: il demonio, pescatore scaltrito, lo alletta al giuoco coll’esca del guadagno, colla speranza di accrescere il suo coll’altrui danaro, e di rifarsi delle sue perdite. Questa è l’esca lusinghevole, sotto di cui un amo crudele gli fa poi sentire le più vive punture, per le perdite di somme considerabili, per le discordie domestiche, minacce del padre adirato, lacrime dell’afflitta madre, rimproveri dei congiunti, amarezze, rancori, disperazioni. Oh povero pesce ingannato, quanto ti costa quell’esca traditrice! “Sint pisces capiuntur hamo, sic capiuntur homines”. Quell’altro è spinto a intavolare una lite. Il demonio per invilupparlo in una rete inestricabile muove la passione dell’interesse colla speranza della vittoria, muove quella dell’amor proprio, e gli fa credere forti, evidenti, insuperabili le sue ragioni, e di nessun peso quelle della parte avversa; muove l’irascibile e gli fa dire: quando anche dovessi restar mendico, non voglio che il mio emolo se ne rida. Tutte queste passioni compongono un’esca molto saporosa ed attraente: vediamo se chi l’ingozza l’indovina. S’incomincia la lite, incominciano gli affanni, si prosegue, si va avanti, e allo stesso passo corrono le spese; ma le lusinghe sono che presto sarà finita. Passano intanto i mesi, passano gli anni, ma non cessa il conturbamento dell’anima, ed il dolor della borsa: nascono incidenti che affliggono, sospetti che affannano: succedono bugie, che velate consolano, e scoperte amareggiano giorni tristi, notti inquiete: lunghe anticamere, accoglimenti poco graziosi: sommissioni che costano, raccomandazioni che non giovano, parole simulate, promesse non adempite, odi, inimicizie, decadenza di stato, rovina di famiglia. Ecco le fitte pungenti e crudeli dell’amo nascosto, a cui delusi da un falso bene vi siete appigliato. Così è: “sicut pisces capiuntur hamo, sic capiuntur homines”. – Voi, o donna, coltivate quell’amicizia: badate bene, colui che vi viene attorno vuole tradirvi. Le lodi, le adulazioni, i donativi, le promesse sono le solite vie dell’inganno e del tradimento, e sono esche lusinghevoli per tirarvi ai suoi malvagi disegni. Non mi credete? aspettate forse che vi obblighi a credermi la vostra luttuosa esperienza? Oh Dio! Già questa vostra amistà è divulgata, le visite troppo frequenti fan parlare i vicini, ne mormorano i lontani, tutto il paese ne bolle. Siete figlia? Contro di voi si allarmano i genitori, i fratelli, i congiunti, i veri amici. Siete maritata? Sorgono contro di voi le gelosie, i sospetti, le minacce, le percosse dell’offeso consorte. Chiunque voi siete, se non recidete il filo della rea corrispondenza, il vostro onore è perduto, non potete più mostrar faccia, e coll’onore perduta avete la grazia di Dio e dell’anima. Questo vuol dire lasciarsi ingannare come i pesci dall’esca: “Sicut pisces capiuntur hamo, sic capiuntur homines” – Non sempre, dirà qui un uomo di mondo, non sempre avvengono le da voi descritte disavventure. Quante volte i pesci senza lor danno portan via dall’amo la pasta, e troncano il filo o fuggono dalla rete, e liberi guizzanti lasciano deluso il pescatore? – Ho inteso. E da casi rari, fortuiti, volete dedurre una general conseguenza, che dunque l’esporvi al pericolo sia da uom ragionevole e da buon cristiano? Eh miei cari, pericolo di peccare, che si vuole, si cerca, si ama, è peccato, in morale non si distinguono, e in pratica il pericolo che non si teme si cangia in rovina: “Qui amat periculum, in illo peribit” (Eccl. III, 27). – Sansone, prodigio di fortezza , allettato dalle carezze di Dalida, e caduto nelle sue reti, rompe la prima, la seconda, la terza volta le grosse funi, i forti legami, con cui dalla traditrice è stato avvinto; sprezza il pericolo, si fida della sua forza, e finalmente dato in man dei nemici perde la libertà, perde gli occhi, e perde la vita. Ecco il tragico fine di questo grosso fortissimo pesce; ecco l’esito funesto dei dolci allettamenti, e del non curare i pericoli. Diciamolo ancor una volta: “Sicut pisces capiuntur hamo, sic capiuntur nomine”. – Un altro pesce stoltissimo fu Esaù. Voi stupite in sentire dalle divine Scritture ch’egli rinunziò alla sua primogenitura, e con essa al diritto di pingue eredità, per una vile minestra di lenticchie. E poi non vi fa specie, quando voi, per un sozzo piacere, per un vile interesse, per una momentanea soddisfazione rinunziate a Dio e all’eredità del regno eterno! Non basta; la rinunzia di un sommo bene, voi lo sapete, porta seco necessariamente l’incontro di un sommo male. Or ditemi di grazia se l’uomo non è più stolto di un pesce, qualora per un boccone di sensuale diletto si condanna ad un sempiterno supplizio? Nel corso delle umane cose, dice il Santo Giobbe, dove si troverà persona così insensata, che voglia gustar di un cibo, conoscendo che le darà la morte? “Potest aliquis gustare, quod gustatum offert mortem?” (Job. VI, 6). Sia pur dolce, dolcissima una bevanda, sia pur ardente la sete, se di certo si sa che in fondo a quel bicchiere brillante sta una goccia di veleno, niuno è così pazzo e nemico di se stesso da accostarvi le labbra. Giusto riguardo per non perdere la vita. E solo, solo per l’anima saremo ciechi, forsennati, indifferenti, insensibili? O Cristiani, dov’è la nostra fede, dov’è l’uso di nostra ragione, dov’è il naturale amore di noi stessi? – Non poteva darsi pace il povero Gionata, quando si vide condannato a morte per aver gustato una goccia di miele: “Gustans, gustavi paullulum mellis, et ecce morior” ( I Re XIV, 43). Da un più grande e doloroso rammarico saranno compresi ed agitati tutti coloro, che per una stilla d’animalesco piacere hanno segnata la sentenza della loro morte spirituale ed eterna. – Eh via, miei cari, fuggiamo una volta, fuggiamo per carità gli allettativi del demonio, del mondo e della carne, ai quali abbiamo solennemente rinunziato nel santo battesimo. – Il Signore per nostra istruzione ci manda ad imparare la sollecitudine dalla formica, la semplicità della colomba, la prudenza del serpente, ed io, per vostro bene, contentatevi che vi proponga l’esempio di alcuni pesci, che sembrano dotati di ragione, di senno e di consiglio. Vedono questi sovente andar ondeggiando tra’ flutti esche saporite, delicati bocconi; vedono accorrere a questi tanti altri pesciolini, ed essi? Oh! Essi, sebbene allettati dalla vista, sebbene spinti dalla fame, guai che si accostino, voltano la coda, li lasciano intatti, e deludono lo scaltro pescatore. Volete vedere un di questi pesci saggi, prudenti, giudiziosi? (Già vi dissi dal bel principio con S. Ambrogio: “pisces sunt, qui hanc enavigant vitam”). Vedetelo dunque in casa di Putifarre, egli è Giuseppe figliuolo di Giacobbe. Questo casto virtuosissimo giovane venne più volte tentato dall’impudica padrona; ma egli, occhi a terra, piedi in fuga e costanti rifiuti; e quando la sfacciata ardì tenerlo per la veste, gliel’abbandonò fra le mani, e si salvò con fuggire. Atto sì generoso, vittoria così segnalata meritò che Iddio l’esaltasse al grado di viceré dell’Egitto, e la gloria del suo nome immortale nei secoli, qual santo patriarca in terra, e beato comprensore nel cielo. Esempio così luminoso non ha bisogno di commento. Felice chi navigando fra i pericoli di questo mare tempestoso, che è il mondo, saprà fedelmente seguirlo. Più felice chi si avvicinerà al divino Redentore per esser preso dalle sue dolci attrattive. Egli, come abbiamo dall’odierno Vangelo, ascese sulla barca di Simon Pietro, per essere più facilmente inteso dalle turbe che stavano sul lido, e, come osserva S. Gregorio Nazianzeno, per far preda del cuor dell’uomo, per trarre dal profondo delle lor colpe i peccatori, come dal fondo del mare si traggono i pesci. “Ut a profundis extrahat. piscem hominem, natantem in amaris huius vitæ pericoli” (D. T. in Cat. aurea). – Conchiudiamo: Gesù Cristo rassomiglia la sua Chiesa ad una gran rete, che nel suo seno accoglie una moltitudine immensa di pesci di ogni genere, di ogni forma, di ogni colore: “Simile est regnum cœlorum sagenæ missæ in mare, et ex omni genere piscium congreganti” (Matth. XIII, 17). Tratta sul lido la rete si fà dai pescatori la scelta, i pesci buoni si ripongono in vasi opportuni, i cattivi si gettano a marcir sull’arena. Così avverrà alla fine del mondo nella gran valle; discenderanno gli angeli dal cielo a separare i buoni dai malvagi, i giusti dai riprovati. Quei che dagl’incentivi del senso, dalle lusinghe del mondo si sono lasciati sedurre saranno gettati all’eterna perdizione, quei che da saggi e prudenti han saputo disprezzare i vietati piaceri, fuggire i pericoli e mantenersi a Dio fedeli, saranno collocati negli eterni tabernacoli, ove Iddio ci conduca.

 Credo…

 Offertorium

Orémus Ps XII:4-5 Illúmina óculos meos, ne umquam obdórmiam in morte: ne quando dicat inimícus meus: Præválui advérsus eum. [Illumina i miei occhi, affinché non mi addormenti nella morte: e il mio nemico non dica: ho prevalso su di lui.]

Secreta

Oblatiónibus nostris, quæsumus, Dómine, placáre suscéptis: et ad te nostras étiam rebélles compélle propítius voluntátes. [Dalle nostre oblazioni, o Signore, Te ne preghiamo, sii placato: e, propizio, attira a Te le nostre ribelli volontà.]

Communio

Ps XVII:3 Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus: Deus meus, adjútor meus. [Il Signore è la mia forza, il mio rifugio, il mio liberatore: mio Dio, mio aiuto.]

Postcommunio

Orémus. Mystéria nos, Dómine, quæsumus, sumpta puríficent: et suo múnere tueántur. Per … [Ci purifichino, o Signore, Te ne preghiamo, i misteri che abbiamo ricevuti e ci difendano con loro efficacia.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

29 giugno: SS. PIETRO E PAOLO

Omelia di S. S. GREGORIO XVII – 1975

La solennità odierna è dedicata al ricordo e all’intercessione dei Santi Pietro e Paolo. C’è diversità tra i due. Gli antichi calendari, almeno dal secolo IV, hanno posto nello stesso giorno la passione di S. Pietro e di S. Paolo. Per questo motivo, e forse anche per risparmiare un giorno di festa, li hanno messi insieme, ma non è la stessa cosa, sia chiaro! Pertanto mi limito a parlare questa mattina di Pietro; avrò altre occasioni per parlare di Paolo. – Perché tutta la Chiesa è invitata a fare festa, solennità anzi, nel giorno del martirio di S. Pietro? Il martirio di Pietro fu illustre perché fu doloroso. Fu protratto; non fu ucciso d’un colpo ma crocifisso; dovette attender la morte fra dolori lancinanti, mirabilmente sopportati. Ma non è questa la ragione per cui si fa solennità oggi. La ragione sta in quelle parole (Mt XVI, 13-19) che avete sentito leggere ora dal diacono e che sono state rivolte da Cristo a Pietro e a tutti i suoi successori, perché Gesù non aveva davanti soltanto l’arco di vita di Pietro, ma l’arco di vita dell’umanità. Le parole erano queste: “Tu sei Pietro e su questa pietra edifico la mia Chiesa e le potenze dell’inferno non prevarranno mai contro di essa; e do a te le chiavi del Regno dei Cieli, e quello che avrai stabilito in terra è stabilito in Cielo, e quello che avrai sciolto in terra sarà sciolto in Cielo” (Mt XVI, 18-19). Non esiste nella storia dell’umanità un’arditezza che abbia avuto il coraggio di far dare un simile potere ad un uomo. Ma, lasciando ora la questione dell’unicità di questo discorso, esso porta alla ragione per cui esiste la solennità di S. Pietro. Per questo motivo: egli rappresenta il capo del Regno di Dio visibile in terra, il capo di quello che conduce la storia del mondo e che decide della salvezza eterna di tutte le singole anime, appartengano sia al corpo sia all’anima della Chiesa, dato che è di fede la necessità assoluta di appartenervi per entrare nel Regno dei Cieli. E questo il motivo! – Nel discorso fatto da Gesù a Pietro ci sono alcune parole sulle quali attiro la vostra attenzione. Gesù ha nominato la “Sua Chiesa” (Mt XVI, 18). Quel possessivo “sua/mia” è commovente, ma aggiunge subito, ed è forte: “e le potenze dell’inferno non prevarranno mai contro di essa” (ibid.). E necessario leggere un po’ più a fondo queste parole. Qui Gesù dà evidentemente l’impegno divino di un’assistenza perché mai prevalgano le forze avverse, che, siano di questo mondo, siano dell’altro, vengono tutte giustamente dette potenze infernali (gloria a quelli che vi si ascrivono, gloria! Infernali!). Però qui c’è la sentenza: finite, tutte! Vediamo in particolare a che cosa ha garantito l’indefettibilità con queste parole Nostro Signore. Ha garantito l’indefettibilità alla Sua Chiesa, cioè alla costituzione gerarchica della Chiesa, che è fatta di Sommo Pontefice, di Vescovi, di ministri e di fedeli, in posizione diversa, con responsabilità diverse e con dignità diversa, con capacità uguale per tutti rispetto al merito che vale nel Regno dei Cieli. A questa struttura ha garantito l’indefettibilità. Guai a chi la tocca! Guai, perché c’è la promessa divina su questo. Ma per che cosa era costituita questa società giuridica, gerarchica, visibile? Era costituita per portare con sé delle grandi cose, che in una celebre parabola del cap. XIII di Matteo (v. 44) Gesù chiama il “tesoro del Regno”. E su questo tesoro che scende la garanzia divina dell’indefettibilità. Attenti bene! La verità. Elevati ad esser figli di Dio, con l’ingresso del Verbo incarnato nel mondo gli uomini dovevano conoscere qualche cosa di più, e per questo c’è una Rivelazione. È verità. La verità di Dio è come Dio, non è soggetta né a mutazioni né a evoluzioni; sono soggetti a mutazione gli uomini, che possono passare dall’ignoranza incompleta ad una passabile acquisizione di nozioni, dalla stupidità colpevole – e questa veramente dilaga – alla umile accettazione dell’unica verità di Dio. Sono gli uomini che possono cambiare, che si trovano in diversa posizione. Come tutti gli scolari imparano la stessa grammatica, ma c’è chi piglia dieci e c’è chi piglia zero; e chi ha preso dieci ha meritato dieci e chi piglia zero ha meritato zero, ma la grammatica non cambia! È su questo che cade la promessa d’indefettibilità: sul deposito della dottrina. Guai a chi la tocca; finisce male! Non basta. Tutta l’azione sacramentale e scarificale con tutto il suo contorno, che non sto a descrivere, commessa alla Chiesa: su questo cade la promessa di indefettibilità. E attenti bene: tutti i Sacramenti e il Sacrificio sono caratterizzati dal fatto che hanno un effetto, che generalmente – salvo casi straordinari, come accadeva nei primi secoli, meglio nel I secolo per la Cresima – ne hanno risultanze esterne, e per volontà e designazione di Cristo stesso vengono resi noti ai fedeli attraverso elementi esterni capaci di significarli. – È così che le apparenze del pane e del vino qualificano la certa presenza reale sacramentale di Gesù Cristo nell’Eucaristia. E così che l’unzione crismale sulla fronte del cresimando accerta la discesa dello Spirito Santo e l’incisione di quel carattere crismale, che accompagnerà l’anima per sempre. Ossia, su questa realtà che deve esser continuamente tradotta con segni esterni adeguati scende la indefettibilità della Chiesa, avvertimento a coloro che vogliono lasciare le realtà soprannaturali senza segni esterni. Questa è irragionevolezza! Irragionevolezza che confina con qualche cosa di peggio dell’irragionevolezza, perché la necessità di tradurre agli uomini quello che essi non possono vedere con gli occhi del corpo mediante elementi accolti dalla natura e dall’arte degli uomini è affermata da Gesù Cristo stesso. Su questo modo sacramentale e sacrificale, che rappresenta tutto un mondo, scende la promessa di indefettibilità della Chiesa. E mi fermo qui. – Ora mi rivolgo a voi, prossimi sacerdoti e prossimi diaconi. Questa indefettibilità seguirà anche voi. Badate: non voi come voi, i vostri difetti, le vostre dimenticanze, ma seguirà quella parte del vostro ministero che voi farete degnamente, legittimamente, secondo gli ordinamenti della Chiesa, in nome e per autorità e come vicari di Cristo. Seguirà anche voi, e seguirvi indica tante cose, che non possiamo ora analizzare. Per voi, che siete, che sarete portatori della Grazia di Dio per le opere che compirete, il bene che farete – siatene certi – sarà sempre molto più grande e più lontano di quello che voi non crediate. Andrà sempre lontano, perché, fatto nell’ambito del ministero ricevuto con l’Ordine, nell’ambito della legittimità, con l’osservanza della legge della Chiesa, gode di tutti i carismi che sono conseguenze dell’indefettibilità della Chiesa. Quando vedrete niente, chiudete pure gli occhi e dentro di voi pensate a quali latitudini arriverà la vostra opera. Sarà necessario che viviate di fede per vedere ogni giorno, ogni momento, fin dove arriverà la vostra mano, la vostra benedizione, la vostra consacrazione, i vostri atti di ministero, e soltanto con la vostra fede capirete che l’onda da voi suscitata si propaga si direbbe all’infinito, come accade quando si getta un sassolino in un lago, le onde si propagano fintanto che c’è acqua e non si ristanno prima. Abbiate questa fede e uscite da questa Ordinazione, che sarà ora celebrata, con questa fede che sorregga, che vi dia una visione più giusta di quello che accade intorno a voi, che vi dia la pazienza di attendere, l’umiltà di perdonare ed anche la gioia di vedere, avendo chiuso gli occhi alla realtà umana. Questo consegno a voi, perché non si diparta mai dalla vostra anima!

[I grassetti sono redazionali]

IL TRIPLICE AFFIDAMENTO DELLA CHIESA AL BEATO PIETRO

[da I SERMONI di S. Antonio da Padova]

 «Pasci i miei agnelli» (Gv XXI,15-16). Fa’ attenzione al fatto che per ben tre volte è detto: «pasci», e neppure una volta «tosa» «mungi». Se ami me per me stesso, e non te per te stesso, «pasci i miei agnelli» in quanto miei, non come fossero tuoi. Ricerca in essi la mia gloria e non la tua, il mio interesse e non il tuo, perché l’amore verso Dio si prova con l’amore verso il prossimo. Guai a colui che non pasce neppure una volta e poi invece tosa e munge tre o quattro volte. A costui «il re di Sodoma», cioè i il diavolo, «dice: Dammi anime, tutto il resto prendilo per te» (Gen XIV, 21), tieni cioè per te la lana e il latte, la pelle e le carni, le decime e le primizie. A un tale pastore, anzi lupo, che pasce se stesso, il Signore minaccia: «Guai al pastore, simulacro di pastore, che abbandona il gregge: una spada sta sopra il suo braccio e sul suo occhio destro; tutto il suo braccio si inaridirà e il suo occhio destro resterà accecato» (Zc XI,17). – Il pastore che abbandona il gregge affidatogli, è nella Chiesa ìl simulacro di pastore, come Dagon, posto presso l’Arca del Signore (cf. IRe V, 2); era un idolo, un simulacro: aveva cioè l’apparenza di un dio, ma non la realtà.Perché dunque occupa quel posto? Costui è veramente un idolo, un dio falso, perché ha gli occhi rivolti alle vanità del mondo, e non vede le miserie dei poveri; ha gli orecchi attenti alle adulazioni dei suoi ruffiani e non sente i lamenti e le grida dei poveri; tiene le narici sulle boccettine dei profumi, come una donna, ma non sente il profumo del cielo e il fetore della geenna; adopera le mani per accumulare ricchezze e non per accarezzare le cicatrici delle ferite di Cristo; usa i piedi per correre a rinforzare le sue difese e riscuotere i tributi, e non per andare a predicare la parola del Signore; e nella sua gola non c’è il canto di lode né la voce della confessione. Quale rapporto ci può essere tra la chiesa di Cristo e questo idolo marcio? «Cos’ha a che fare la paglia con il grano?» (Ger XXIII,28). «Quale intesa ci può mai essere tra Cristo e Beliar?» (2Cor VI,15). – Tutto il braccio di quest’idolo s’inaridirà per opera della spada del giudizio divino, perché non possa più fare il bene. E il suo occhio destro, cioè la conoscenza della verità, si oscurerà, perché non possa più distinguere la via della giustizia né per sé, né per gli altri. E questi due castighi, provocati dai loro peccati, si abbattono oggi su quei pastori della Chiesa che sono privi del valore delle opere buone e non hanno la conoscenza della verità. E allora, ahimè, il lupo, cioè il diavolo, disperde il gregge (cf. Gv X,12), e il predone, cioè l’eretico, lo rapisce. Invece il buon pastore, che ha dato la vita per il suo gregge (cf. Gv X,15), di esso sempre sollecito, avendolo a sì caro prezzo, lo affida a Pietro dicendo: «Pasci i miei agnelli ». Pascili con la parola della sacra predicazione, con l’aiuto della preghiera fervorosa e con l’esempio della santa vita. – E fa’ attenzione: per due volte gli raccomanda gli agnelli, che sono più delicati e deboli, e una volta sola le pecore. E qui è da capire che coloro che nella Chiesa sono più delicati e più deboli devono essere assistiti e sostenuti con maggiori attenzioni, sia spirituali che materiali. Dice l’Apostolo: «Confortate i pusillanimi e sostenete i deboli» (lTs V,14). Dice infatti la Genesi: Dio prese Adamo, cioè il prelato, e lo pose nel giardino delle delizie, vale a dire nella Chiesa perché la coltivasse con le opere di misericordia verso i suoi fedeli e la custodisse (cf. Gen II,15) con la predicazione della parola, e insieme con i fedeli meritasse di raggiungere il premio del regno. Amen.

 

Preghiere per il Papa alla Messa.

Orazione

“Deus, omnium fidelium pastore et rector, famulum tuum Gregorium, quem pastorem Ecclesiæ tuæ præesse voluisti, propitius respice: da ei, quæsumus, verbo et exemplo, quibus præest, proficere; ut ad vitam, una cum grege sebe credito, pervenit sempiternam. Per Dominum …”

[O Dio, pastore e capo di tutti i fedeli, volgi benevolmente lo sguardo sul tuo servo Gregorio che hai preposto alla tua Chiesa; da’ a lui di giovare con la parola e con l’esempio ai suoi sudditi e di poter giungere, insieme al gregge affidatogli, alla vita eterna. Per nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio …]

Secreta

“Oblatis, quæsumus, Domine, placare muneribus: et famulum tuum Gregorium, quem Pastorem Ecclesiæ tuæ præesse voluisti, assidua protectione guberna. Per…”. [ Lasciati placare o Signore, dai doni che ti presentiamo, e guida con incessante aiuto il tuo servo Gregorio che hai messo a capo della Chiesa. Per nostro Signore Gesù Cristo, …]

Dopocomunione

“Hæc nos, quæsumus, Domine, divini sacramenti perceptio protegat: et famulum tuum Gregorium, quem pastorem Ecclesiæ tuæ præesse voluisti; una cum commisso sibi grege, salvet semper, et muniat. Per Dominum …”

[Ci protegga o Signore, il sacramento divino che abbiamo ricevuto; mantenga incolume e fortifichi sempre, insieme al gregge affidatogli, il tuo servo Gregorio che hai messo a capo della tua Chiesa. Per nostro Signore …].

Si raccomanda di recitare anche i Salmi sul nome PETRUS [Salmi sul nome PETRUS, exsurgatdeus.org]