GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: I CONTENUTI (3)

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO

I CONTENUTI (3)

VIII. – Ortodossia

[lettera pastorale del luglio 1971; «Rivista Diocesana Genovese», 1971]

VI

I «contenuti» per il popolo di Dio

1. Noi abbiamo posto il problema dei «contenuti» al livello delle persone che leggono libri, che pongono e capiscono problemi di pensiero e che facilmente vogliono vedere il fondo degli argomenti. Ma c’è il popolo. Sono i più. La questione dei «contenuti» per il popolo, per i più, assume una particolare complessità, che Noi non possiamo assolutamente evadere. Il «contenuto» della Fede, e di quanto è a qualunque titolo connesso con la Fede, il popolo lo lega a cose concrete, semplici, tradizionali. Esaminiamo questa posizione del problema, che è di somma importanza. Queste cose concrete sono: la Chiesa, i libri di devozione, le sacre immagini, tutti i segni religiosi dei quali nel corso dei secoli sono stati abbondantemente fregiati portici, porte, muri, complessi di arredamento, canti, musica, cerimonie sacre, sacri paludamenti. Sarebbe un errore sottovalutare questo, quasi la Fede del «popolo» sia materiale e talvolta superstiziosa, anche perché ogni regione ha la sua propria emotività, che gli altri o non intendono o intendono male. La verità è che «niente è nell’intelletto se prima non è sta nell’immagine sensitiva» e tale regola può subire una applicazione più «caricata» in molti fedeli. Tutte le cose concrete enumerate, ed altre ancora, mantengono in qualche modo (magari riassuntivo, poco definito, frammentario, ma forte) il senso della Fede. E ringraziamone Dio, se ha permesso che le cose materiali e concrete concorressero tanto a mantenere la Fede del suo popolo. Spesso le nostre linfatiche prediche ed il nostro frettoloso catechismo, talvolta il nostro parlare da iniziati (teologia del linguaggio) non fanno altrettanto. Ed è per questo che la sottovalutazione delle cose concrete quando si tratta della Fede del popolo è per lo meno incapacità di comprendere, spesso insipienza completa, talvolta pazzia! È per questo che il disprezzare o distruggere queste cose concrete, le loro giuste manifestazioni esterne, le loro dignitose coreografie o cambiarle a piacimento, senza riguardo, oltre che iconoclastia è distruzione della Fede. La tradizione per il popolo ha importanza, che non potrà mai essere valutata appieno e coi suoi elementi bisogna fare i conti con pazienza e lungimiranza. – Cari confratelli, vi abbiamo spinto a togliere tutte le immagini sacre che non sono dignitose e che non hanno una giusta e possibilmente architettonica collocazione; ma vi abbiamo esortato sempre a credere nella efficacia delle Immagini sacre. – Le cose più concrete sono: il Tabernacolo, il Crocifisso, la Madonna, gli Angeli, i Santi. Prima di essere cose concrete per l’apprendimento degli uomini sono cose reali, vere! Per carità, non toccatele, non umiliatele, non affrettatene l’oblio, non diminuitene il rispetto e la presenza. Sarebbe un distruggere la Fede. A poco a poco. Cose semplici. – Sono le formulazioni riassuntive, ridotte al midollo, forse anche scarnite ed anche queste frammentarie, resti sufficienti di una impalcatura impostata dal primo catechismo della infanzia, di una saltuaria predicazione, di molti casuali incontri riesumatori e vivificatori. Ma tutto questo nella mente dei fedeli è vero «contenuto» della Rivelazione e lo sarà fintanto che si useranno catechismi chiari, semplici, dai termini assolutamente comuni e quindi accessibili, dalle definizioni precise. Le formulazioni generiche, le allusioni di scorcio, i discorsi in «ottica» e con chissà quale «prospettiva», le innovazioni maniache delle mode, le esposizioni tratte da modelli umani (troppo umani e poco ortodossi), non possono dare il solido fondamento dell’umile vero catechismo. Cose semplici sono per il popolo i racconti della storia sacra, della vita dei Santi; tali veridici strumenti nella loro ricostruzione apparentemente quasi visiva di fatti tangibili custodiscono il segreto di cose profonde, di intuizioni, di godimenti spirituali. E non c’è da aspettarsi che queste cose semplici vengano sempre a fior di labbra con parole proprie e definizioni perfette. Per fortuna l’uomo afferra molto più ed approfondisce molto più di quanto sa rendere letterariamente nella comunicazione con gli altri. L’uso degli «astratti», dei termini accarezzati, perché impegnano nessuno e niente. Non serve a mantenere la Fede del popolo. – Cose semplici sono tutte le sane, ortodosse e magari ingenue e candide devozioni, le pratiche di pietà che esse ispirano. Custodiscono e traducono a modo loro, ma generalmente efficace, quello che neppure grandi teologi saprebbero inoculare con erudite spiegazioni nell’animo dei bimbi e dei semplici, degli ignoranti in materia religiosa (che è peggiore delle incapacità infantili!). Non distruggete, per carità, Rosari, Via Crucis, piccole immagini, giaculatorie, novene, tridui, quarantore, pratiche eucaristiche,… Naturalmente tenetele nel giusto binario. Ma se vi trovaste a sottovalutare o addirittura a disprezzare e ridicolizzare tutto questo santo armamentario degli indotti ed anche dei dotti, dovremo avvertirvi che siete certamente fuori strada. Avreste perduto la nozione del modo graduale, dei diversi successivi livelli, della progressione ineffabile e mai riducibile in formule, col quale si costruiscono negli uomini e si consolidano i fatti spirituali, gli orientamenti costruttivi, tra i quali sta in primo piano la Fede. I «contenuti veri della stessa Fede» li custodirete quanto più voi farete parlare nel Tempio le «cose». – «I contenuti» (parliamo sempre del «popolo») sono profondi: Dio, Padre Figlio e Spirito Santo, Gesù Dio Crocifisso e risorto, la Madre di Dio, la Vita eterna, il peccato, la Santa Messa, la Sacra Comunione, la Confessione, la preghiera, l’Inferno, i morti nel purgatorio… il Rosario, le Litanie, la Via Crucis, le orazioni – quelle del catechismo e imparate da bimbi – , il «Dio sia benedetto » … sono al disotto della Divina Liturgia, ma spesso prima di essa e in sostituzione di essa, valevoli ad imprimere nel popolo i «contenuti» della salvezza. Non disprezzate mai, per carità, i mezzi umili e semplici. Spiegateli, teneteli nella giusta e cristiana interpretazione ma non lasciateli cadere. – Le cose semplici noi le afferriamo se guardiamo al modo umile col quale tra gli uomini avvengono i fatti più necessari, si hanno le risorse più modeste eppure più indispensabili alla vita. In fin dei conti anche gli uomini più grandi, forse più superbi, magari più tiranni e dominatori, debbono scendere a un certo punto tra le cose comuni e naturali, tra i sentimenti più domestici e spontanei, non scoppiare della loro miserabile inflazione!

Le cose tradizionali. – Non parliamo qui della tradizione divina, che nessuno può toccare. Parliamo di quello che fu e resta, che ha fatto parte giusta e non ignobile della nostra vita, che fu soddisfazione e costume di quanti sono vissuti prima di noi ed hanno costruito il clima e il contesto nel quale siamo cresciuti. Parliamo di noi gente, che ha avuto un passato, ed un passato trasmesso attraverso legami sacri di amicizia e di beneficenza, di arte e di intelligenza, soprattutto di sangue! Questa tradizione certamente non può considerarsi vetrificata, mummificata e deve costantemente accogliere apporti e variazioni, non violenze e irruzioni pazzesche. Essa deve lasciare al rotare dei fatti e della Storia, in modo amabile, senza vittime, di procedere innanzi, di percorrere il suo cammino. Non può considerarsi statica; ma i suoi adattamenti debbono avvenire in modo utile, schietto ed umano. Tutto questo va tenuto in conto quando si tratta dell’ambiente popolare più facile alla emotività che al secco ragionamento. – Il succo del discorso è questo: non distruggiamo per il popolo gli umili strumenti, che salvano ad esso il contenuto della Fede!

2. Quando si parla di «contenuti» per il popolo cristiano in genere dobbiamo soffermarci su un altro grave e impegnativo aspetto del problema. Ecco di che si tratta. – I -contenuti» della Fede intanto sono tali in quanto vengono in qualche modo «appresi». Dove non c’è l’apprendimento il «contenuto» non entra. L’apprendimento è legato alla «intelligenza» della cosa presentata. L’intelligenza penetra nella realtà, anche invisibile e non semplicemente fenomenica: è la sua caratteristica. – Ora le verità della Fede non sono rebus da imparare semplicemente a memoria. E verissimo che i misteri non possono comprendersi, non possono cioè essere esauriti dalla nostra intelligenza. Essa non ne può toccare il fondo. Però, anche quello che non si può comprendere, si può in qualche grado intendere. Si tratterà di intendimento certamente parziale ed anche estremamente umile, ma si tratta di vero intendimento. Lo si chiama analogico, perché in parte coincide con la cosa che intende, in parte (ed è infinitamente maggiore) non la raggiunge. Resta ad un modesto inizio della lunga via: è qualcosa, per noi molto. – Bisogna affermare con tutta la forza che, se non ci fosse alcun intendimento delle verità rivelate, la Rivelazione rimarrebbe incomprensibile e sarebbe inutile. – Resta dunque vero che qualcosa, anche nel catechismo dei bimbi, qualcosa deve essere capito, poco o tanto. Ecco ora la conseguente grave affermazione: per capire bisogna spiegare. Chi, come, con che mezzo? Ma si può dire anche una sola parola della Sacra Scrittura. Perché  essa non sia scritta invano (il che è impossibile nella divina saggezza), deve qualche poco essere capita. La spiegazione non può partire che da una certa interpretazione della parola stessa e, se non in tutta la Scrittura, in molte parti di essa è pur necessario capire con certezza qualcosa. Ora questo è possibile applicando le regole della ermeneutica cattolica guidata dalla divina tradizione e dal Magistero della Chiesa. – Ma non ci sono solamente i concetti, le parole, ci sono le proposizioni intere che costituiscono, ad esempio, i Dogmi. Per  queste «proposizioni» non è affatto sufficiente capire le singole parole staccate della proposizione stessa. Non sempre l’ermeneutica, che può spesso tenere la chiave del significato delle parole e dei modi di dire, è in grado di farci penetrare tutta la sostanza della verità. A questo punto appare evidente la assoluta necessità della teologia speculativa. Essa sola ci permette quella intelligenza delle proposizioni dottrinali tale da spiegare e rendere più intelligibile ai piccoli, al popolo, agli ignoranti, le medesime verità. Abbiamo inteso dire da maestri saggi e venerati che per spiegare dieci, bisogna almeno avere imparato e capito cento. L’aspetto pastorale della catechesi non può essere raggiunto se non c’è una teologia speculativa che ne doni lo strumento. – Errano pertanto coloro che tacciono o addirittura vorrebbero distrutta la teologia speculativa. Senza di essa e supponendo la giusta ermeneutica della Bibbia, l’insegnamento del Vangelo si ridurrebbe ad una recitazione continua, forse ad un balbettio, degno delle scuole cinesi dei tempi andati. – Anche perché il popolo vuol capire qualcosa. Ha generalmente senso dei propri limiti, ma qualcosa vuole capire: ce lo chiede. Senza teologia speculativa che possiamo dire a chi ci propone questioni, dubbi, a chi ci chiede approfondimenti, ci domanda di aprire vie che possono anche mirare alle altezze della intelligenza mistica? Noi teniamo nel debito conto tutti gli strumenti culturali ed afferenti a tale scopo, ma ricordiamo che non si spiega nulla senza teologia speculativa. – La teologia speculativa ha un valore reale. Ha certamente il valore  della sua chiarezza, logica, capacità esplicativa. Ha il peso di una tradizione scolastica che non può essere sottovalutata. Ha il pregio di portare ai confini della conoscenza nella Parola di Dio. Ha la forza di sciogliere le apparenti contraddizioni che talvolta affiorano nel mistero, donando una quiete reale all’intelletto. Ma c’è altro. – In molti punti essa sostanzialmente raccoglie il consenso dei dottori e il consenso almeno tacito della Chiesa Maestra. Nessuno ad esempio può dubitare che taluni punti esplicativi del Dogma Trinitario e del Dogma Cristologico, nel secolo quarto e quinto, non sono semplici tentativi di scuola. Essa, se stiamo in un certo alveo, ha avuto il benevolo incoraggiamento e la approvazione della Chiesa Docente. Per tali motivi la teologia speculativa non è oggetto di demitizzare, ma soltanto da approfondire ed arricchire nel solco della Tradizione della Chiesa. Non dimentichiamo mai che generalmente è per la teologia speculativa che si arriva a vedere sistematicamente la coordinazione e la sintesi: punti di vista panoramici per godere nel suo insieme la Divina Rivelazione. Del resto Dio ha consegnato alla nostra intelligenza la Sua Rivelazione salvifica; dobbiamo mantenere il contenuto nella luce della intelligenza e non possiamo rassegnarci a vederla consegnata puramente all’udito toccato solo da onde sonore. –  Possiamo concludere che i «contenuti» possono restare incompresi e sminuiti della loro mirabile efficacia per difetto di metodo e cioè per rinuncia all’uso impegnato della intelligenza e di tutti i suoi strumenti offerti dalla esperienza scolastica e dalla storia sotto lo sguardo del Magistero. – In argomento non possiamo tacere che sono stati tentati dei succedanei della Teologia speculativa, né conformi al senso della ispirazione, né esatti, né concludenti. – La speculativa parte dal principio che Dio ha assunto nel rivelare parole e pensiero umano, nonché dal principio che la verità rivelata rappresenta realtà superiori alla comprensione umana, sicché è possibile solo un tentativo della parziale, coscienziosa, metodica penetrazione. I «succedanei», anche se non lo dicono, hanno semplicemente saltato l’ostacolo attenuando il soprannaturale, spaziando nel campo naturalistico, che non spiega, ma elimina la Rivelazione. È il caso di qualche celeberrima pubblicazione, sulla quale mettiamo in guardia. Talvolta l’ostacolo si salta negando esplicitamente la autenticità del testo biblico o rifiutando o ignorando la sola legittima interpretazione di esso, quale è data dalla Tradizione della Chiesa. – I «contenuti» possono essere violentati da queste forme erronee di interpretazione e ne possono uscire completamente svuotati. – Non è questo che il popolo cristiano attende.

3. I «contenuti» nel popolo di Dio possono più o meno lentamente svanire, sotto diverse pressioni. Non c’è dubbio che la Fede del popolo resiste più di quella di taluni ceti. Tuttavia anch’essa va soggetta ad usura. I giovani, quelli che ora si stanno facendo le ossa in tutti i sensi, sono i più esposti a tale usura, pur dimostrando ma sete di nutrimento spirituale che meraviglia quando si avvicinano senza paura e senza complessi.

Ecco i due più gravi pericoli:

a. I «contenuti» sentono la sferza della «moda». La moda ha tanto  maggiore presa quanto più uno ha bisogno della presenza, degli occhi, del consenso degli altri (si tratti di salotto, di bar, di club, di branco occasionale, di amicizie a denominatore comune). La «moda» è effimera e per questo ha un contenuto – se si tratta di mode intellettuali – che in parte almeno non è veritiero. Ora esistono mode di affermazioni sconcertanti e sconvolgenti su tutto, non fosse altro che per gustare l’effetto del disagio su chi ascolta. Non facciamo un elenco delle diverse mode, perché non abbiamo mai voluto metterci in polemica diretta. Facciamo il nostro dovere, ma non amiamo le liti tra fratelli!

b. I «contenuti» per il popolo sono insidiati dal «dileggio», oggetto del dileggio è quanto esisteva alcuni anni addietro. Per secoli si dovrebbe credere che non ne hanno indovinata una. Questo modo di comportarsi dimentica che le cose mutano e possono essere valide per una epoca e non valide per un’epoca susseguente. Proviamo a paragonare i vestiti dell’epoca vittoriana coi nostri. Eppure allora ne andavano pazzi, come i contemporanei vanno ugualmente pazzi per i loro vestiti. Il dileggio generalmente colpisce addobbi, vestiti, espressioni d’arte, modi di comportarsi etc. Si tratta di cose esterne, ma proteggono verità e sostanze non sempre tali da esporsi al dileggio. – Stanno ad esempio perdendosi buone costumanze liturgiche, né proibite, né diffidate dalla recente legislazione e che avevano una immediata influenza indicativa e stimolante. Conopei e pallii vanno scomparendo, togliendo quella immediata presenza che rendeva anche gli indotti più consci e più vicini al culto del Signore. Si gareggia in spogliazioni e ci domandiamo a quali spogliazioni delle anime e della Fede esse possano condurre.

4. Il deperimento del canto e della musica è impressionante. L’uno e l’altra hanno una efficacia insostituibile nel tenere il popolo avvinto alla sua Chiesa. La diminuzione dei fedeli che partecipano alla Messa festiva la si può già benissimo registrare e non è il caso di dare tutta la colpa al turismo domenicale. La Fede deve pure essere sostenuta con quegli onesti mezzi che la millenaria tradizione ha esperimento ed indicato, anche se non sono mancate le esagerazioni e le deformazioni. La psicologia e la emotività dei fedeli non possono essere trascurate. Sì, si tratta di cose esterne, ma i grandi «contenuti» hanno bisogno, per secondare la natura dell’uomo, anche di sostegni ed incitamenti esterni.

Conclusione

Insomma alle parole vuote, ai termini evanescenti, di cui si compiacciono letteratura e moda, vanno opposti dei «contenuti». La Fede ha un «contenuto» essenziale, preciso, intoccabile: senza questo «contenuto» non resiste. – Bisogna che saggistica, letteratura, ricerca, stampa quotidiana e periodica — cattolici beninteso – ritornino ad avere l’impegno dei «contenuti» immutabili, sacri. – Bisogna che la predicazione ritorni «decisamente» ai «contenuti». Tutti parlano di giovani. Ebbene è ora di accorgersi che questi hanno fame e sete di verità, di sostanza, di speranza, anche se per ottenerli occorre la durezza e la austerità. Col diluire, coll’accomodare si ottiene in essi la precisa sensazione che vengono ingannati e fuggono. – Capiscono che il Cristianesimo non si ha senza Croce e, per quanto possa sembrare duro, essi lo vogliono come è. Non vogliono un Cristianesimo addomesticato ed imbastardito. La ragione principale per la quale la massa giovanile manifesta segni di antipatia religiosa, sta nel fatto che da un certo numero di anni, troppi untorelli hanno predicato un Cristianesimo, che tutti capiscono non essere né vero, né serio. – E ora di finirla. Che esisteva lo scandalo della Croce, lo abbiamo sempre saputo e ce lo aveva detto Dio; abbiamo voluto edulcorare lo scandalo e la gente non ci crede più. Ha proprio tutti i torti? Bisogna che i catechismi, di prossima redazione, obbediscano a questa suprema esigenza di completezza, di chiarezza, magari di durezza. Che non si facciano prendere la mano da pubblicazioni responsabili di avere sconvolto la autentica Fede. Non si segue il mondo; anche qui: si segue Gesù Cristo!

[Fine]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: I CONTENUTI (2)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I CONTENUTI (2)

[lettera pastorale del luglio 1971; «Rivista Diocesana Genovese», 1971]

III

I «contenuti» distrutti dalle reinterpretazioni

1. Il termine di «reinterpretazione» è di per sé più che sospetto, per solo fatto che la «reinterpretazione» non è più la semplice interpretazione. In realtà la interpretazione, bene o male, rimuove o tenta rimuovere il velo che inibisce la chiara lettura di un testo, di una verità, di un fatto; la «reinterpretazione» suppone una interpretazione precedente, alla quale si oppone. Tanto è, se diamo alle parole il senso che naturalmente hanno. Una reinterpretazione del «contenuto cristiano» vorrebbe dir di per sé una interpretazione per lo meno diversa o addirittura contraria a quella che è stata data fin qui. Conterrebbe: il relativismo della, verità, negherebbe il carisma certo della infallibilità della Chiesa affermerebbe, almeno per due mila anni, la inutilità sostanziale della Rivelazione. Addio Santo Vangelo! Con tutto questo, chiaro e ben definito, taluni continuano a parlare di «reinterpretazione» del dogma usando artificiosi ghirigori e non sono pochi quelli che li stanno a sentire. C’è solo da sperare che gli uni e gli altri non sappiano quello che fanno. Nessuno nega che passi della Sacra Scrittura ed anche lunghe pericopi di essa, sulle quali non esiste un dato certo e conclusivo di Tradizione Divina o di Magistero almeno ordinario, o di consenso avallato dal Magistero, possano con nuovi strumenti di indagine essere meglio interpretati. – Noi stiamo parlando del «contenuto» dottrinale, patrimonio delia Chiesa Cattolica, nei limiti già sopra ben delimitati. Qualunque interpretazione nuova o reinterpretazione della verità certa, che variasse il contenuto, aggiungesse qualcosa di non contenuto nelle fonti teologiche sicure, cadrebbe senza dubbio nelle condanne della Enciclica Pascendi e del Decreto Lamentabili.

2. È tuttavia importante chiedersi, prima di esaminare qualche dettaglio, quale sia la radice logica delle interpretazioni. Noi diciamo che quanti parlano di reinterpretazioni partono coscientemente da quelle radici; diciamo solo che da quelle dovrebbero partire se fossero veramente logici. Perché le vere reinterpretazioni non possono avere altro iter.

a) La radice meno disonesta è la seguente: adattiamoci, per adeguare la dottrina cattolica alla mente dei nostri contemporanei, alla apertura loro, alla cultura del tempo. Non neghiamo che qui ci possano essere dei sentimenti e degli intenti generosi, ma solo sentimenti e mire, niente altro. – Il volere adattare la sacra dottrina, alterandola nel fondo, nella prospettiva e nel dettaglio è senz’altro la negazione del Cristianesimo. – Infatti la Dottrina nella nostra Fede viene da Dio immutabile ed eterno: partecipa della Sua eternità ed immutabilità, deve cambiare gli uomini, non essere da essi cambiata o comunque alterata. Le qualità divine si sposterebbero senz’altro e con ben poca forza di convinzione agli uomini ed alla loro storia. In più, un tal modo di pensare rivela la convinzione che nella natura umana, nell’ordine in cui è iscritta, nella Legge cui è sottoposta, tutto sia fluido e tale da variare i principi primi dello stesso pensare. –

b) La radice vera e autentica, quella che vien fatto di richiamare dopo la considerazione ora appena conclusa, è il relativismo. Nulla è, tutto scorre; così la vita, così l’uomo, così la sua esperienza. Nel relativismo non può esistere Dio e pertanto non può esistere il relativismo stesso. – Sappiamo bene che la tragica esperienza di una civiltà materiale ed ingiusta ha stancato talmente gli uomini da trovarsi essi propensi ad accogliere qualunque cosa irrazionale pur di poter pensare che quanto li ingolfa e li stufa cambierà. Ma questo spiegherà le malinconie degli uomini, non giustifica il relativismo. Del resto non è questa la prima volta che ne parliamo e pertanto rimandiamo a quanto già scritto. – Ma vorremmo ci si rendesse conto come talune concezioni sulla Sacra Scrittura e talune interpretazioni, per nulla scientifiche (oltre tutto), sono semplicemente i preamboli per coloro che debbono dedicare le loro fatiche alle affermazioni del relativismo. Purtroppo, nonostante tutto e nonostante le contraddizioni, certi scritti continuano a comparire, rendendo ulteriormente impossibile trattare la Bibbia col rispetto e la fiducia di sempre. Sono i demolitori!

c) Per le reinterpretazioni si tira in ballo l’intento ecumenico, Questo intento è certamente santo, ma un intento santo non può usare mezzi disonesti, perché il fine non giustifica mai i mezzi. – Un certo modo di reinterpretare, cassando, limando e magari sostituendo vorrebbe rendere facile il ritorno ai fratelli separati. Esso va in cerca di denominatori comuni. Ma i denominatori comuni eliminano di per sé i denominatori «non comuni» e cioè cancellano con un semplice rigo le obiettive ragioni, che ancora dolorosamente ci separano dai fratelli separati.

3. Cerchiamo ora di esemplificare su taluni modi di reinterpretazione storicamente attuati. Quello che si presenta per primo nella nostra tormentata epoca; la reinterpretazione cosmica. Molti ne hanno parlato e si è stabilita così una gamma, che va dallo strano modo di filosofare fino alla distruzione di tutto il contenuto cristiano. Abbiamo assistito ad apologie eroiche che non hanno convinto. E non può essere diverso quando in questioni del genere c’entrano motivi eterogenei come la simpatia, l’amicizia, la poesia e via di seguito. Lasciamo da parte i nomi e consideriamo per il momento solo la punta estrema della reinterpretazione cosmica. – Per essa Incarnazione, Redenzione, finalità, vita eterna vengono spostate dal piano concreto delle singole umane persone ad una interpretazione cosmica. Il vero soggetto di questo fatto grande come è la Incarnazione rischia di diventare il cosmo. Se non ci si casca del tutto siamo evidentemente a poca distanza dal panteismo. –  Ci sono modi di reinterpretare in chiave cosmica la Rivelazione più attenuati e felpati, ma hanno il torto di tutte le teorie, le quali accettano principi e si fermano prima di averne dedotte tutte le ultime conseguenze. Quando si desiste dal procedere da un principio adottato, per timore di andare oltre, si smentisce e si rinnega il principio stesso. –  Questa reinterpretazione ha avuto una certa fortuna perché spesso si implicava con la poesia, con la ammirazione dell’immenso creato, col cantico di tutte le cose. Ma questa fortuna forse non ha scavato molto a fondo nelle anime per il carattere incerto, inafferrabile nei contorni, della sua stessa poesia!

4. Abbiamo la interpretazione «demitizzante». Avvertiamo subito che tale interpretazione rivela nei vari autori diverse sfumature non imponderabili ed anche larghe contaminazioni col relativismo. Parliamo di un tipo medio, che può rappresentarli tutti. Questa interpretazione è partita da alcuni teologi protestanti. È ovvio che essa deve avere alla base strani concetti sulla autenticità e ispirazione della Sacra Scrittura. Mira infatti a sfrondare fatti e verità per ridurre ad un nucleo, il quale – molto logicamene – varia a seconda della posizione degli interlocutori in questa materia. – Molte cose accolte da millenni nella Fede e nella pratica cristiana vengono sottoposte ad un giudizio negativo. – La reinterpretazione «demitizzante» non può comporsi con la ortodossia cattolica per i principi che accetta, per l’arbitrio infondato con cui depenna, per il concetto naturalistico da cui è pervasa. Nessuno infatti mette le mani riformatrici in dottrina e in fatti che si sanno avere natura ed origine soprannaturali. Si ha motivo di credere che non vengano rispettati i canoni scientifici. – Infatti oggi, per grazia di Dio, i documenti dei primi tre secoli, sia scritti, sia reperti archeologici, sono tali che permettono di controllare storicamente se la Chiesa abbia avuto mutazioni nella sua sostanza da allora ad oggi. Ora la demitizzazione in genere suppone esattamente il contrario, cioè il falso. – C’è da fare un’altra grave considerazione. Il complesso rivelato è talmente armonico, unito, logico in se stesso, che non è possibile cancellarlo in una minima parte, senza dover arrivare a negarlo tutto. E la stessa interna armonia che rivela questo. Una superiore filosofia della teologia crediamo conduca agevolmente alla evidenza di questa affermazione. Taluni, ad esempio, vorrebbero, demitizzando, ridurre tutto al nucleo centrale della salvezza. Ma che significato ha la salvezza, se non si accettano i dogmi relativi allo stato dell’uomo decaduto e pertanto tale da poter essere salvato? E come ha necessità di salvarsi dal peccato e sue conseguenze, se non si premette la nozione e il fatto del peccato? Questo come sussiste, senza la Legge, e la Legge come sussiste senza Dio? Che significato ha la Incarnazione senza la elevazione all’ordine soprannaturale? Che significato ha la umanità di Cristo senza l’uso di quei mezzi per i quali i rapporti tra Dio e l’uomo restano nella forma umana, non violano i limiti dell’uomo, pur producendo qualcosa di soprannaturale (i Sacramenti ad esempio)? Come è possibile parlare della Legge senza parlare della persona che ne è recettiva e che senso ha una legge se manca la sanzione? Ci pare ovvio che questo modo di reinterpretare sia assolutamente alieno da ogni razionalità.

5.  Ci sono singolari tipi di reinterpretazione, che affiorano qua e là, che sono poco coordinati, talvolta timidi, talvolta petulanti. Tale reinterpretazione riduce tutto all’afflato della carità e dell’amore. Dovremo riprendere il discorso più avanti in questa lettera. Qui basti osservare che un tale modo di vedere butta fuori: complesso dogmatico, Rivelazione e sua funzione, Chiesa. È difficile dire se rimane la morale perché in tale contesto la carità e l’amore possono diventare proteiformi, inafferrabili e indefinibili. Si salva abbastanza Gesù Cristo, perché la carità ad un certo modo l’ha insegnata Lui. Ma fino a che punto? È difficile rispondere. Certo si è del tutto fuori strada.

IV

I «contenuti» sostituiti

1. Le «sostituzioni» nascono dalla speranza o dalla illusione cui non ci si accorga che qualcosa è stato sottratto. Il posto è occupato e forse nessuno dirà niente. Purtroppo la sostituzione è uno dei metodi apprezzatissimi per distruggere la Fede. La tecnica del metodo può descriversi nel modo seguente. Si calca la penna su punti od affermazioni, che hanno realmente a che fare col dogma rivelato, ma che non sono quello o «tutto» quello. – L’affinità e la parentela di quel che si afferma con quello che si vuol mandare in ombra copre l’operazione. E a forza di battere, rimane quello che si dice e si fa scivolare verso l’oblio quello di sostanziale che non piace. È un metodo volpino, ma è un metodo che dà frutti e deve essere apertamente smascherato. Ci interessa più parlare del «metodo» che delle singole «sostituzioni» perché possiamo prevedere che queste non sono ancora finite.

2. Che il mistero pasquale sia centrale ed espressione concreta delia divina opera di salvezza tutti lo sanno, i cattolici lo venerano. – Ma che il mistero pasquale debba servire a tacere, coprire, annullare il mistero della sofferenza, della morte in Croce, della Passione del Signore, questo nessun maestro vero nella Chiesa l’ha mai detto! L’intenzione è chiara e la strana logica non meno. Ecco come La Croce, il Sacrificio, la piena e perenne dedizione non piacciono, si tratta di cose indigeste al «mondo», rendono più difficile l’accostamento dei «lontani», disturbano la buona digestione ai gaudenti. Conclusione: parliamo della Pasqua, per nascondere e far sparire il Venerdì Santo. Questo non è né vero né giusto!

3. Uno dei tentativi maggiori, fatto talvolta con connivenze proditorie, è quello di «sostituire» una inafferrabile comunità, senza autorità e con un mal definito amore, al posto della Legge, alla Santa Chiesa di Dio, società gerarchica da Cristo costituita e voluta in tutti i suoi elementi sostanziali, immutabili. Di questa sostituzione abbiamo parlato abbastanza nella nostra Lettera Pastorale Le ombre di questi anni al punto primo ed a quella rimandiamo. Ma qui vogliamo sia chiaro, senza ombra di dubbio, che una tale posizione è perfettamente e certamente eretica, mette fuori della Chiesa e priva dei Sacramenti. La realtà della Chiesa è troppo chiara, nei Vangeli, negli scritti Neotestamentari, nella divina tradizione, per poter ammettere una qualsivoglia ombra pur tenuissima di dubbio. Che poi la parte umana della Chiesa possa conoscere umani difetti non diminuisce la sua natura di istituzione divina, ma la esalta perché solo Dio può senza pericolo mettere in mano d’uomini, che lascia perfettamente liberi, una istituzione tanto delicata. – Vogliamo notare che, se pochi forsennati fanno la piena sostituzione della acefala comunità alla Chiesa di Dio, molti con il loro silenzio e con la loro indifferenza, tacendo della Chiesa, aiutano quella già denunciata congiura del silenzio, che può concorrere a far perdere la nozione concreta della Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica. – Siamo della opinione che si debba parlare sempre di più della Chiesa in concreto, senza paure. Emarginata la Chiesa, che cosa resta, alla fine?

4. Altra «sostituzione» indegna ed ereticale è quella della carità o amore alla Legge. Parliamo della sostituzione vera, quella che con la carità intende eliminare la Legge, quindi il diritto canonico, la sacra Autorità e qualunque cosa si frapponga alle personali idee fisse. – Prima di tutto la carità è essa stessa una Legge. In secondo luogo la carità impera essa stessa (appunto perché contiene o suppone molti atti, quali sono recensiti mirabilmente da San Paolo nella I Cor. c. XIII). In terzo luogo perché Gesù ha spiegato chiaramente che «amare Lui», amare il Padre, significa obbedire a tutta la Legge stabilita da Dio. E si potrebbe continuare. –  Ma la «sostituzione» diventa addirittura indecente per la contraddizione, che la inficia: infatti sostituisce all’ordine stabilito da Dio un altro ordine, forse mai precisato nella mente di quanti vi si appellano. – La carità è una cosa seria e tutta la vita del Divino Salvatore, fattosi Uomo per salvare gli uomini, è una concreta e precisa descrizione di che cosa comporti «amare» nella linea dell’Evangelo. La carità non è uno strumento per coprire stoltamente cose indegne.

5. C’è la sostituzione della «propria libera coscienza» alla obbedienza.

Bisogna ricordare che la «coscienza individuale» è criterio di moralità quando è formata ed informata. Formazione e soprattutto informazione vengono dall’esterno di essa, cioè da Dio e da ogni mezzo eletto all’uopo da Dio. La coscienza non crea la Legge, la norma, ma giudica nel caso particolare della rispondenza o meno degli atti alla Legge stessa. Il concetto di Legge e pertanto di sudditanza è intrinseco alla coscienza. Fintantoché esisterà la Legge, sarà necessaria ed inderogabile per gli uomini la obbedienza. La rivolta insita nella sostituzione della coscienza alla legge è intrinsecamente illogica, assurda. La coscienza che si regola da sé non è più intelligenza giudicante su una uniformità o difformità, ma è solo una cessione al sentimento, all’istinto, alla reazione di queste cose, al complesso, ad oscuri istinti, a tutto meno che all’intelligenza. La sostituzione della coscienza alla Legge è esattamente la sostituzione di se stessi a Dio! Bella Religione! – Per tale ignobile sostituzione basta spostare l’angolo e si può volere ammazzare, rubare, ingannare, fornicare… con la falsa idea che non ci sia più Dio a controllare le azioni degli uomini. – Chi ha la norma della sua autonoma coscienza deve ammetterla per tutti gli altri e non può lamentarsi se l’ammazzano, se lo derubano, se lo insozzano… ; se qualche Autorità gli comanda… – Siamo all’inverosimile di ogni capovolgimento, al contrario ed al contrario di tutto, al contraddittorio di ogni contradditorio ed alla indifferenza di ogni affermazione e negazione. La incauta ed esagerata difesa della persona umana porta lentamente a questo disordine.  Dio ha voluto la persona umana con la sua autonomia, ma ha messo accanto sullo stesso piano la Legge e la sanzione. Nessuna delle tre cose nel presente ordine di Provvidenza può essere mai separata dalle altre due. – Tanto abbiamo ricordato perché si rifletta su questo: che le oltraggiose «sostituzioni» cominciano assai lontano e che taluni sbandamenti intellettuali, troppo leggermente considerati innocui, portano, con una progressione logica e inarrestabile, assai lontano, persino a rompere tutti i legami con Dio! L’obbedienza resta la grande obbligazione dell’uomo. La sua vita è il lasso di tempo libero lasciatogli perché liberamente dica di sì o di no a Dio. E cioè il tempo in cui per salvarsi deve obbedire ed in cui, se non vuol obbedire, si danna. La vita religiosa non esiste senza obbedienza, a qualunque livello. La obbedienza fa sì che la nostra poca saggezza sia sostenuta da una Eterna Saggezza, che il nostro limitato periodo di luce sia acceso da una Eterna Luce. La obbedienza fa sì che diventi strumento di vita e gloria eterna anche quello che umanamente può sembrare piccolo, irrilevante, forse… stolto. – Quando  si volesse dare un peso esagerato alla «dignità» dell’uomo, sarà opportuno ricordarsi delle sue molte miserie, a cominciare da quelle fisiche.

V

I «contenuti» svuotati

1. Assistiamo a dei fenomeni generali, che avremmo potuto trattare nel capitolo delle «sostituzioni»; ma che preferiamo chiamare svuotamenti del Cristianesimo. Infatti le «sostituzioni» sono meno radicali degli svuotamenti. Come abbiamo già detto questi tristi fenomeni cominciano da lontano. Si svuotano piccole cose, si deformano particolari che stanno nell’ordine delle sfumature; si commettono piccole leggerezze, talvolta nell’ordine pratico della tattica associativa; si permette che si scollino connessure soprannaturali nella valutazione dei fatti; si mina colpevolmente e contro ogni serio criterio scientifico ogni base storica della Rivelazione e della costituzione della Chiesa; si affina lo sforzo per mettere d’accordo Hegel con Cristo, Freud con Cristo. Si arriva al blasfemo termine della «morte di Dio» e così si hanno gli svuotamenti generali del contenuto cristiano. Il triste iter dello svuotamento è chiaramente inciso in particolari morali, in arbitrarie interpretazioni liturgiche destinate ad eliminare Eucarestia e Parola di Dio, in volontà di non differenziarsi a tutti i costi da quelli che dissentono dalla Chiesa Cattolica. – L’iter lo si vede dappertutto, si rivela in antipatie di cose e di persone, in scelte di simpatia e di odio; ma la tremenda spirale si delinea. – La via degli svuotamenti totali sta sovente in sfumature.

2. Il sociologismo nella sua posizione estrema, l’unica logica e coerente, è la forma più chiara, decisa e delimitata dello svuotamento del Cristianesimo. Attentato, s’intende! – Raccogliendo i “placita” da ogni parte, ecco come lo si può presentare:

– Di Cristo sussiste la carità e l’amore. Il resto forse è mito. Che poi riesca a sussistere la «carità» (cosa che non coincide in tutto con quello che può classificarsi «amore») senza la certezza di Dio Padre e di tutto un rapporto Creatore e creatura, senza la divina storia della Rivelazione, è al tutto incomprensibile.

– Ci si deve occupare anzitutto di redimere l’uomo dai mali terreni.

Taluno, non tutti, aggiunge «poi ci occuperemo del bene eterno oltre la morte». Chi ha cominciato a mettere l’accento forte sulla redenzione terrena era cattolicissimo e lo abbiamo sentito chiamare da qualcuno «santo». Ma il fermento dell’errore deve svolgersi ed arrivare all’assurdo. Non parliamo più di Paradiso, parliamo invero di tutte quelle cose che portano alla perfetta eguaglianza nel perfetto benessere, al livellamento tra il primo, il secondo, il terzo e il quarto mondo… – Se poi talune cose, pie o devozionali, possono servire a percorrere il cammino verso questa pura umana redenzione, si tolleri pure! …

– Per redimere gli uomini dalla loro miseria, dalle guerre etc. parliamo soprattutto di solidarietà. Questa consiste in un sentimento umano che scopre i vincoli per i quali siamo legati a tutti gli uomini, li accetta quando può, li salva, li anima… La pura solidarietà difficilmente supera gli scogli continui dell’orgoglio e della sensualità umani.

– Ci si dedichi ad un’opera sociale: il rimanente serve come puro strumento, molte volte utile, qualche volta necessario per la redenzione sociale. – Non tutti i sociologisti dicono questo o tutto questo. Ma qualunque sociologista è sulla via di dire questo e, se non si libera dalla spinta, logicamente deve finire col dire questo. Noi attiriamo l’attenzione dei nostri cari confratelli, non tanto su coloro che dicono tutto questo (costoro hanno già spiritualmente apostatato), ma sui molti che dicono, recitano, inculcano briciole di quello strano catechismo. E il piccolo contrabbando fatto passando a piedi da minori valichi alpini. –

3. A questo proposito è necessario parlare della «liberazione globale» della quale si comincia a fare un uso forse esagerato. Niente meglio che chiarire.

Il termine «liberazione globale» può avere un significato perfettamente ortodosso, che è il seguente:

– liberazione dal peccato;

– liberazione dal livello terreno mediante la grazia santificante;

– liberazione dalla pressione della debolezza umana, mediante la grazia attuale, i doni dello Spirito Santo etc;

– liberazione della transitorietà effimera della vita presente nella Vita eterna;

– liberazione dalla corruzione della morte nella risurrezione finale.

La «liberazione globale» sulle labbra di altri pare avere un valore assai ridotto. Si tratterebbe della liberazione dalla fame, dalle strettezze, dai limiti coartati per la espansione personale, dai tiranni, dagli oppressori etc. In quale Luna si trovino coloro che sognano in una vita umana questa perfetta liberazione, non ci riesce di dire. – Comunque una cosa è chiara: che questa liberazione, dato e non concesso che possa esistere, non sarebbe globale. La ragione è che non si preoccupa affatto di altre cose spirituali dalle quali l’uomo dovrebbe essere liberato per una passabile vita, anche solo i n questa valle di lagrime. Ma sulle labbra di molti la «liberazione globale» suona sinistro. E cioè:

– liberazione dai limiti messi dalla virtù;

– liberazione dal mito della vita eterna, del soprannaturale;

– liberazione da ogni forma di obbedienza.

Talune celebri contestazioni hanno preso questa ultima via. Non occorre aggiungere parole perché tutto risulti svuotato nella Fede quando le «liberazioni globali» si prendono a certi modi. – Il modo di comportarsi di talune persone, anche religiose, fa fortemente sospettare che in fondo non abbiano più Fede e credano solo a questa liberazione globale. E nel frattempo stanno più comode che possono.

[2 – Continua …]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: I CONTENUTI (1)

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO

I CONTENUTI (1)

VIII. – Ortodossia

[lettera pastorale del luglio 1971; «Rivista Diocesana Genovese», 1971]

 Cari confratelli, parliamo dei contenuti della predicazione, della Catechesi, dei libri in qualche modo religiosi, dell’apostolato. Intendiamoci subito sul valore della parola «contenuto». Il contenuto – in oggetto – è la dottrina cattolica. Spieghiamoci chiaro su quello che è «dottrina cattolica». È tale: – quanto è espresso dalla Rivelazione sia per mezzo della Sacra Scrittura, sia per mezzo della Divina Tradizione;

– quanto è stato esplicitato o dedotto con certezza dalla divina rivelazione;

– quanto è stato interpretato, esplicitato, insegnato dal Magistero infallibile della Chiesa, sia solenne che ordinario;

– quanto è garantito dalle ordinarie fonti teologiche, nelle condizioni in cui esse sono capaci di generare vera certezza.

Nessuno si meravigli che la dottrina cattolica contenga anche verità indirettamente rivelate. Infatti: la Rivelazione contiene ricchezze che possono essere svolte e dipanate nella loro grande ricchezza; molte verità non rivelate sono talmente connesse con le verità rivelate che, quelle distrutte, anche queste patirebbero danno; finalmente il Magistero non è un organo stabilito da Cristo per «solamente ripetere» a guisa di semplice registratore, ma è vero Magistero e verte su quanto è necessario alla esplicitazione ed all’approfondimento della piena verità contenuta o connessa con la Divina Rivelazione.

Per quale motivo si parla di «contenuti»

La domanda è ovvia e la risposta è semplice: perché i «contenuti» vengono taciuti deducendoli in tal modo, col silenzio, a graduale morte nella mente dei fedeli; perché vengono reinterpretati in maniera eterodossa; perché vengono sostituiti; perché vengono addirittura svuotati. Premettiamo che l’attentato più lene, ma più immediato contro i «contenuti», che spesso accade sornionamente attraverso la porta maggiore, è quello per cui vengono «diluiti» nella nuova teologia del linguaggio.

Cominceremo da questa ultima.

È nostro preciso dovere mettervi in guardia, affinché la vostra buona fede non venga sorpresa per la grande foschia in cui nuotano oggi troppe pubblicazioni.

I

I «contenuti» svuotati dal linguaggio

  1. Non si può dare ancora una definizione stabile ed univoca della teologia del linguaggio. Si parla anche di una filosofia del linguaggio, etc. Noi chiamiamo teologia del linguaggio quella che risulta non da una teoria, ma da un fatto, accessibile da tutti. descriviamo il fatto, per maggiore chiarezza, attraverso varie tappe.

a) Si cercano parole, mai o solo raramente usate in Teologia prima dell’ultimo decennio. Queste parole vengono elette coi seguenti criteri:

– siano il più «nuove» possibili. Anzitutto e soprattutto bisogna purificarsi da ciò che è vecchio. Si tratta di un criterio inconsistente, perché il termine «nuovo» può indicare indifferentemente il bene e il male, non più del termine vecchio. Questa opzione di relatività sta a indicare che il vero e il falso, il bene e il male, il conveniente e lo sconveniente importano poco, se non addirittura niente;

– siano suggestive, prese non solo da idee, ma da scienze e fatti (angolazione, ottica, tangente, prospettiva, cosmico…) tali da destare una certa impressione e – perché no? – strappare una certa ammirazione;

– siano «sfuggenti», e cioè o di per se stesse non abbiano una prensione indicativa di verità teologiche, o siano mantenute libere da epesegetici, da definizioni, cioè da limiti e permettano sempre di dire e non dire, di piacere a destra e a sinistra, a cattolici e a protestanti, a ortodossi e a eterodossi…. Insomma «non devono impegnare» e debbono lasciare una porta aperta a tutte le situazioni (sono ricavate soprattutto dai teologi protestanti ora di moda).

b) Si cercano «modi di dire», slogans (ci scusiamo di usare una parola neppure italiana, ma fortunata), che permettano soprattutto la illusione di presentare le idee da punti di vista nuovi. Purtroppo il punto di vista «nuovo» rispetto alla «verità» potrebbe essere facilmente 1’«errore».

2. C’è una tecnica nell’uso della invadente terminologia. Essa deve avvicinarsi il più possibile al rischio, al colpo sovversivo, al rovesciamento di qualcosa. La tecnica risulta «felice» quando fa sbalordire, produce i crampi, mette in stato di depressione coloro che ancora usano nelle scienze teologiche i termini: definizione, proposizione, sostanziale, materiale, formale, efficiente, per sé, per accidens… Evidentemente la fatica di tanti secoli per mettere nelle mani della Teologia termini sicuri, irreversibili, indeformabili, delimitati per ogni verso, allo scopo di salvaguardare la proprietà e la chiarezza delle idee, è stata fatica inutile. La questione è di sapere se ancora ci si tenga alle idee e se ancora in molte teste ci siano idee. Spesso si ha la impressione che alle idee vengano sostituite le emozioni e gli stati d’animo. Tutto questo i nostri lettori potranno verificarlo in libri e riviste che hanno tra mano. È così che con alcune decine di termini e di frasi fatte è possibile parlare di ogni argomento teologico, fare messaggi, prediche … Tanto più che quanto accade in teologia, accade in filosofia, in sociologia, in politica… Si dirà che chi legge o ascolta simili divagazioni, non sempre al corrente del fluidissimo significato di termini e frasi, stenterà a capire. Ciò sarebbe naturale, ma spesso non è affatto naturale, perché tra gli ideali massimi del nostro «momento di civiltà » c’è quello di pensare solo quello che pare e piace. E il modo più adatto per permettere a chi legge o ascolta, di pensare ciò che più gli pare e piace è quello di scrivere e parlare nel modo sopraddetto. Quasi più nessuno vuole «impegni» con la verità immutabile. Per tutto questo abbiamo sopra parlato di «illusione».

3. La teologia e la filosofìa del linguaggio dimostrano e circoscrivono uno degli aspetti più scadenti della nostra idolatrata cultura. Noi siamo arrivati al pieno «nominalismo». Trattiamo il linguaggio come se esso non avesse più una sostanza, fondamento, una obbiettiva giustificazione, insomma un significato. È il risultato di un processo storico di cultura, che ha radici lontane. La sostituzione dell’oggetto col soggetto fu fatta da un tale ben noto al principio del decimosesto secolo. Cominciò allora il processo di un graduale assorbimento ed annichilimento dell’oggetto nel soggetto. Grande cosa! Quel «tale» però fece la confusione dell’oggetto col soggetto unicamente perché ciò serviva a lui per risolversi un problema personale; questione, adunque, di comodo. – Sono passati quattro secoli ed in essi si sono allineati nomi ritenuti grandi a sostenere le aste di un simile baldacchino. La finale ci riporta al principio: il nominalismo odierno fa lo stesso servizio che faceva quasi cinque secoli innanzi. Nessuno vorrà negare che la teoria hegeliana, ad esempio, col suo metodo sempre vivo ed imperante, è comodissima per farsi una verità di comodo, una morale di comodo, una politica di comodo e così via. La grandiosità storica di tutto un periodo di cultura arriva a questo punto. – Quanto detto in questo capitolo va completato con quanto si trova al capitolo III e IV.

II

I «contenuti» eliminati dal silenzio

1. Un sistema più facile e meno dispendioso per eliminare sacri «contenuti» della nostra Fede è quello del silenzio. Ossia ci sono verità anche «capitali» delle quali da troppi non si parla più. Il silenzio, oltre la restante confusione, eliminerà, se non si provvede a tempo, un parte, forse tutto il patrimonio cristiano dal consenso dei fedeli. – Questo silenzio non sempre è deliberato e cosciente e si può ammettere che molti seguano la folla e la moda, senza rendersi ben conto di quello che fanno. La nostra lettera è diretta a loro soprattutto, perché si sveglino a tempo. Una cosa è certa: il silenzio su qualche parte del «contenuto» della Divina Rivelazione dimostra la vera mancanza di logica. Infatti tale è la coerenza della nostra Fede che, sgranato un punto, tutto deve cadere! – Il silenzio diventa grave e progressivo. Infatti si estende per la forza di imitazione, che seduce gli uomini. – Questa eliminazione di verità fondamentali si attua a mezzo di una congiura del silenzio, si direbbe furbescamente organizzata e saggiamente orchestrata, con l’impiego di tutti i mezzi che distraggono,  impauriscono, addormentano gli uomini. – Non illudiamoci: esiste gente che può e che vuole la distruzione del Cristianesimo. Questa gente che ritiene fastidiosissimo il Cristianesimo deve sapere che nel caso la operazione migliore è la operazione «indolore», quella del silenzio. Vien fatto di sospettare, esaminando anche la editoria detta cattolica (che sfugge spesso al controllo dei Vescovi) come le altre «operazioni» sui «contenuti» sono in realtà in funzione della «operazione silenzio». In tutte queste operazioni gira troppo danaro. Si comincia col far tacere qualche registro dell’organo, poi si aumenta la chiusura fino ad arrivare all’ultima parte che è quella in cui è tolto il fiato alle trombe! La  «operazione silenzio» è tale che permette di trovare soldati di ventura anche dove non si crederebbe. E dunque una questione grossa. Evidenziamo alcuni punti circa i quali è più acuta la «operazione silenzio». – Vorremmo, prima di addivenire a singoli punti d’esame, notare che è giusto ed esatto dover essere la predicazione anzitutto biblica. Ma sarebbe grave errore pastorale puntare su una predicazione esclusivamente biblica. Ciò perché esistono la Tradizione Divina, la prassi, gli esempi, gli strumenti della santità (stupendo commento alla Parola di Dio); perché ci sono verità ed applicazioni che debbono essere attinte a diverse fonti; perché una predicazione esclusivamente biblica difficilmente potrebbe essere sistematica e non si servirebbe probabilmente della parte speculativa teologica. Senza conoscenza di teologia speculativa nessuno può riuscire a spiegare quello che dei dogmi è spiegabile, sia ai dotti che agli indotti. La  Teologia speculativa, necessaria alla Pastorale, è oggi oggetto forse primario della operazione silenzio. – Oggetto del silenzio è la parte fondamentale, dimostrativa della verità e validità della Divina Rivelazione. La si chiamava «Teologia Fondamentale». Per esse si seguiva e tuttavia si segue, ove la ragione prevale ancora, la linea logica. Era: la dimostrazione della storicità dei documenti coi quali si accerta il fatto storico di Cristo, nonché delle prove da Lui addotte per dare garanzia della verità rivelata. Era la b ricostruzione storica della Sua opera, da Lui fondata, la Sua Chiesa. Era, su tali fondamenti, la ricostruzione degli elementi da Lui lasciati come fonti della Rivelazione e come argomenti probanti le verità dottrinali e pratiche. – Da tutto questo e su un formidabile basamento storico emerge il Cristo Dio, la Sua Chiesa; emergono le fonti della Rivelazione, il Magistero infallibile ed autentico. In tal modo lo spirito critico di chi voleva sapere se «poteva» credere e se «doveva credere» a Cristo arrivava al cosiddetto giudizio di credibilità e di credendità. L’atto di Fede lo si fa per la grazia di Dio, ma alle soglie dell’atto di Fede, con certezza poteva spingersi la ricerca razionale. Di questo non si sente quasi più parlare. – Aveva cominciato anni or sono qualcuno a schernire la Apologetica». Oggi lo scherno è forse finito, ma per molti è calato il silenzio. Eppure lo spirito critico degli uomini, la loro ricerca, per convincersi che possono e debbono credere, non sono finiti. La ragione per la quale molti non praticano è perché non sentono più corrisposte, dalla catechesi corrente, le certe ragioni per le quali possono credere. – Oggi, andando completamente al di fuori della tradizione cattolica e, non meno, della metodologia scientifica, si cercherà di sgretolare in modo demoniaco punto per punto gli elementi coi quali si risponde allo spirito critico dei contemporanei. Per questo motivo si erode la storicità dei Vangeli; saltando a piè pari il fatto che sulla storicità dei medesimi rendono testimonianza gli elementi del primo secolo e dimenticando che la critica interna deve seguire e non precedere la critica esterna. Contemporaneamente si demolisce la teologia fondamentale dei poveri, che è costituita dalla presenza della Vergine Santissima e dei Santi; si bandiscono dalle Chiese e si dimentica che il popolo bene spesso crede in Dio perché crede nella intercessione e questa accoglie perché crede nei miracoli della Vergine, dei Santi, dei loro santuari, etc. Si tratta di una logica certamente semplificata, ma che contiene una sostanza perfettamente valevole e concludente. Chiediamo: che cosa si è sostituito alla dimostrazione storica della verità di Cristo?

Il silenzio convince nessuno.

2. Altra eliminazione col silenzio viene fatta circa la impostazione fondamentale della vita umana. Ognuno ha il diritto di chiedersi perché io sono in questo mondo, perché nasco, muoio e debbo conoscere tra queste due parentesi l’indeclinabile dolore? In un procedimento razionale (quello che si conviene ad uomini intelligenti) la soluzione di questo problema, per sé, non segue l’idea religiosa, ma la precede. Infatti, se uno avesse sufficientemente deciso di trovarsi a caso in questo mondo e di non avere un preciso e valido fine per la propria vita, sarebbe difficile convincerlo che deve avere la Religione. – Molti hanno eliminato la meditazione del fine persino dagli esercizi spirituali, sostituendola, magari, con acconce discussioni sul sesso. Si tratta di una verità che fa da travatura portante – come le altre che qui recensiamo – e la mancanza di travature portanti è talmente avvertita dal popolo, e massimamente dai giovani, che hanno crescente disgusto della predicazione. – Il tracciato base sta nella idea della finalità della vita. Guai a trascurarlo!

3. La congiura del silenzio raggiunge una capacità addirittura ferina a proposito dei Novissimi. Sono le ultime verità: morte, giudizio, Inferno e Paradiso. Questa congiura è sconcertante. Qando taluni aprono bocca sullo scottante argomento è per dire che l’Inferno è solo uno spauracchio, che – anche se c’è – nessuno ci va: testi nei quali è chiaramente portato dalla Rivelazione sono di dubbia autenticità etc. L’Inferno c’è chiarissimo nella sacra Scrittura e nella Tradizione ed ha questa grande interessante diversità dal Paradiso: che mentre per andare in Paradiso bisogna crederci, per andare all’Inferno non occorre affatto crederci. La mancanza di Fede diventa una facilitazione. Pensare che, se non esistesse l’Inferno, noi non troveremmo più il bandolo per la Provvidenza, per la legge, per la moralità, per la giustizia, per la caduta dell’uomo, per la Incarnazione, per la Redenzione… Qui la concatenazione è troppo grave e fermamente cogente!

4. La eliminazione dei Novissimi porta in modo logico alla disintegrazione di tutta la morale con conseguenze tali da annullare ogni Traccia di umano e da rendere addirittura stupido il timore di qualunque peccato. Infatti si è cominciato su questa via di perdizione. Si è scritto – Dio perdoni! – che la masturbazione non è peccato, che le esperienze totali prematrimoniali non sono più peccato, che pertanto è logico e consigliabile il libero amore, che siamo pienamente arbitri di aprire a piacimento e di chiudere altrettanto a piacimento la via della vita… questo è poco, perché, arrivati alla negazione dei Novissimi, non si capisce che senso abbiano l’onore, la lealtà, la giustizia, la solidarietà, la sociologia, l’amore e quanto si può pensare… Se l’Inferno non esiste (e poiché esiste contiene la privazione della gloria e quindi della grazia), vien fatto di domandarsi per quale motivo ci sarebbe stata la Incarnazione del Verbo.

5. È lecito e forse molto utile chiedersi se la congiura del silenzio circa una parte della dottrina cristiana, oltre ad avere come fine ultimo – si è detto – la distruzione del Cristianesimo, non abbia anche qualche fine mediato. Ecco perché facciamo questa domanda. Ci è occorso di avere tra mani una lettera di un illustre Vescovo d’oltralpe, diretta ad un teologo, nella quale si chiedeva allo stesso di spiegarsi chiaro circa la divinità di Cristo, dato che un suo modo di esprimersi in una assemblea lasciava dubbi su un dogma fondamentale del Cristianesimo. Abbiamo pure tra mani la risposta del nominato teologo per nulla soddisfacente. L’episodio è un sintomo rivelatore: il centro dell’attacco è la divinità di Cristo. Senza di essa non esiste il Cristianesimo. Non per nulla, quando al secolo quarto ci si accorse che la Chiesa superava ormai le persecuzioni e poteva ormai procedere vittoriosa in mezzo al già fatiscente impero greco-romano, si negò il dogma della divinità di Cristo. Era l’assalto diretto e disperato. L’eresia era certamente antitrinitaria, ma era antitrinitaria perché negava la divinità del Verbo incarnato.La straordinaria grandezza del Concilio di Nicea (325) sta nel fatto che non solo affermò la divinità del Verbo contro le varie e ramificate negazioni della prima generazione ariana; ma che prevalse decisamente e definitivamente contro l’impressionante riflusso di tali errori alla fine del IV secolo (come ci attestano molti Padri del tempo, e in particolare S. Girolamo) culminato al Concilio, non ecumenico, di Rimini (359) causato da molteplici debolezze. Tale vittoria della verità cattolica rimane ammonizione a tutti i tempi. Il silenzio tenuto da molti sulla Vergine Santissima, sugli Angeli, sui santi e sulla controfigura dei demoni, è la preparazione del silenzio intorno a Nostro Signore Gesù Cristo.Naturalmente l’iconoclastia, quella per cui si cacciano le sacre immagini, ormai dilagante, è una forma di silenzio artefatto. Ma ha tutta la logica di questo colpevole e distruttore silenzio. Vorremmo si notasse che non abbiamo recensito tutti i punti sui quali si tace; abbiamo soltanto esemplificato, richiamando l’attenzione sulle più gravi lacune dovute al silenzio.

6. Ci sono le forme maggiormente colpevoli del silenzio. Bisogna enumerare le principali. Il silenzio comincia a gravare sulla intera catechesi. Perché viene disertata e perché spesso si creano le premesse da questa diserzione. Intanto la «omelia» difficilmente assolve a compito di una formazione sistematica, anche se rimane la prima forma di sacra predicazione ed anche se, con taluni accorgimenti può essere abbastanza piegata a divenire maggiormente una sistematica esposizione della Dottrina. Non è questo il momento di parlare degli accorgimenti a tale scopo. In secondo luogo la catechesi propriamente detta «degli adulti» era legata ad una più seria coscienza del dovere di santificare la festa. Era legata non meno a pratiche liturgiche (il Vespro e la Ufficiatura) e paraliturgiche od extra liturgiche. Si direbbe che in questi ultimi anni i Vespri, la Benedizione col Santissimo Sacramento, il Santo Rosario, la Via Crucis etc. abbiano subito un notevole collasso. Noi abbiamo sempre detto e ripetuto che ove fossero cadute la altre pratiche di pietà in breve volgere di tempo sarebbe svanita la coscienza del dovere, la devozione, il sacro sentimento verso la Santa Messa. Per salvare questa, occorre salvare tutto il resto. – Ma, diminuite le pratiche sacre, è diminuita la catechesi degli adulti. Forse per talune località sarebbe meglio dire che può essere grave e,, se la misuriamo nelle conseguenze lontane, gravissima diminuzione catechetica. – Il catechismo dei fanciulli comincia a vacillare là dove è legato al solo giorno festivo: il giorno festivo è giorno di fuga da molti doveri. Ma comincia a svanire anche per la incertezza ingiustificata che grava sul testo del catechismo. Molti non sanno che i catechismi fino a questo momento approvati dalla competente Autorità Ecclesiastica conservano tutto il loro valore. Quando ci saranno nuove redazioni, migliori delle antiche, le adotteremo; ma intanto non condanniamo al «vuoto religioso» le generazioni che crescono. Conosciamo e lodiamo degni sforzi che si fanno per salvare gli Esercizi Spirituali nella loro forma e nel loro necessario contenuto. Ma sappiamo anche che molti Esercizi che diventano amene conversazioni, magari prolungate, sul sesso, che tacciono del tutto le verità fondamentali atte alla purificazione ed alla conversione della vita. – Abbiamo saputo di Sacre Missioni nelle quali nessuno ha parlato di peccato, morte, giudizio, Inferno e Paradiso. Non sappiamo su quale fondamento abbiano edificato questi stolti missionari. La predicazione in genere subisce la tentazione di adeguarsi a contenuti evanescenti, al tutto di dubbia ortodossia, di gerghi incomprensibili, di astrattismi intellettualistici. Crediamo che il peccato del silenzio macchi molte anime!

[Continua …]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (14)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(14)

16. La verginità

Della via della perfezione io ho avuto tempo e agio solo di richiamare alcune pietre miliari; è evidente che non ho potuto richiamare tutto, e il tempo limitato non mi ha consentito di trattare argomenti di estrema importanza e pertinenti all’argomento generale. Vi parlerò ora della verginità. – Vorrei spiegare il termine perché ha un significato preciso, specifico, che qui non sarebbe usato con proprietà. Io intendo parlare non della verginità ma della castità. Però, data la bellezza del nome, dato il fascino che anche le parole esercitano, invece di usare la parola castità, lasciatemi usare la parola verginità. Il termine verginità è caratteristico, è specifico, ma è tanto bello; lasciate che me ne serva; con la dichiarazione previa, tutto va a posto. La verginità è una strada che non è stata imposta a tutti, no; è strada di elezione, e pertanto diventa figlia di una libertà umana, di un atto sovrano della persona umana che abdica a qualche cosa che potrebbe avere, che potrebbe prendere, e fa tale cosciente e libera abdicazione. Badate che è un gesto sovrano questo. I sovrani di questo mondo cessano di essere sovrani quando abdicano; ma in questo caso lo si diventa quando si abdica, ossia è esattamente il rovescio. Presentato così l’argomento, comincio a dipanarlo. Che cosa vuol dire verginità? Verginità vuol dire una netta e stagliata superiorità sul mondo, su tutto il mondo. Mi direte: A quali condizioni e perché? Prima me ne sto in campo storico, perché la storia ha sempre da parlare e parla sempre bene. È la prima e l’ultima ad aprir bocca, la storia delle faccende umane, e per questo sa che cosa dice, tanto più quando i suoi protagonisti sono taluni. Guardate bene il contegno di Nostro Signore Gesù Cristo. Nostro Signore si è diportato da uomo, ha preso tutto come noi, salvo il peccato e quello che è antecedentemente o conseguentemente connesso col peccato: pertanto Egli non ha conosciuto, come uomo, quello che è il fomite della concupiscenza. Guardate come si è diportato. Ha preso 12 Apostoli; tra questi 12 Apostoli si delinea un primato di stima e di commissione, questo indica la persona di Pietro. Dalla tradizione sappiamo che Pietro aveva moglie, e lo sappiamo anche dal Vangelo, perché Nostro Signore è andato a guarirgli la suocera. La tradizione gli ha sempre affibbiato una figlia, santa, e il ricordo di questa figlia sta nella basilica di S. Pietro, perché nella cappella di testata della navata destra, in fondo, a fare pendant con quella di S. Leone Magno, c’è la cappella di S. Petronilla. Pietro riceve certamente la prerogativa del primato di stima e di commissione da parte di Gesù Cristo; e sapete che cosa Gesù Cristo ne ha fatto di Pietro! E come si vede benissimo in tutto l’Evangelo costruirsi questo primato che più tardi, in momenti solennissimi, prima a Cesarea di Filippo e poi sul lago di Tiberiade, viene esplicitamente confermato, ponendosi con quella commissione di primato la pietra definitiva e basilare della Chiesa. – Ma aveva il primato di stima e di commissione, Pietro, non ha avuto il primato di affetto. Il primato di affetto l’ha avuto un altro, Giovanni, l’Apostolo che è rimasto intatto, l’Apostolo vergine, la figura più spirituale, la più eterea, la più trascendente di tutto il collegio apostolico. E l’Evangelo non tace questo: egli è chiamato per antonomasia « il discepolo che Gesù prediligeva ». Nell’Ultima Cena la bontà del Signore permise un episodio perché rimanesse significativo. Siamo al banchetto pasquale dell’Ultima Cena; era un banchetto festoso, ricco; Gesù aveva voluto che lo preparassero sul serio, con tutti gli intingoli imposti dal cerimoniale. Nonostante tutto questo, Giovanni, a un certo punto, gli piglia il sonno e non lo manda via, comincia a scendere, comincia ad accoccolarsi un po’ e finisce con l’andare ad appoggiarsi a Nostro Signore, il quale né lo sveglia né lo manda via, lo lascia stare fintanto che non si sveglierà da sé. Gli era vicino; essergli vicino voleva dire essere il più caro di tutti. Dall’altra parte abbiamo motivo di ritenere che ci fosse Pietro perché infatti, se qualcuno vuol sapere qualche cosa da Gesù, si rivolge a Pietro perché glielo chieda. Così c’era vicino anche lui, ma quello non si è addormentato. Gesù rimane così in questo atteggiamento verso il discepolo vergine. E questo è l’unico che ha il coraggio di seguirlo; non fugge, gli va dietro e, approfittando del fatto che la sua casa probabilmente si trovava non lontano dalla casa del Sommo Sacerdote e che era conosciuto, entra dentro. Ha avuto del coraggio, questo giovanotto, perché è andato in bocca al lupo: c’è andato ed è restato, e non gli è successo niente di male. Poi è andato a occuparsi della Vergine Madre, l’ha accompagnata, lui, al Calvario ed è rimasto, spettatore unico del collegio apostolico, sul Calvario. Gesù compì in lui il massimo atto di fiducia: gli affidò la Madre e affidò lui a sua Madre, reciprocamente. Voi sapete che in quell’episodio la tradizione ha sempre visto il genere umano affidato alle mani materne della Madre di Dio. Allora bisogna dire che Giovanni in quel momento faceva da genere umano, il discepolo che non ha mai lasciato di essere vicino al Signore. Con Pietro, Giovanni camminò verso il sepolcro, la mattina di Pasqua; camminò a gran passi, a sbalzelloni. Ci arrivò prima di Pietro e, arrivato là, esitò e rimase fuori, aspettò che arrivasse Pietro, che giunse con passo più pacato ed entrò per il primo. L’altro gli andò dietro. Sul lago di Genezaret Giovanni ha sempre il suo ruolo di discepolo che Gesù prediligeva. Quando quella mattina avvenne l’incontro con il Signore, dopo la Risurrezione, secondo l’appuntamento dato da Gesù, gli Apostoli stavano a pescare sul lago e nella bruma mattutina videro un’ombra sulla spiaggia. Chi sarà? È stato lui, Giovanni, con la intuizione del discepolo affezionato e vergine, a riconoscerlo: « Dominus est ». Pietro, quando sente dire questo, non capisce più niente, si getta a nuoto per arrivare; ma chi l’ha conosciuto è Giovanni. Dopo un po’, giunti a terra, Pietro si sente intonare una musica che sembra non gli sia andata molto a genio, perché Gesù molto bonariamente gli fa fare la ritrattazione della triplice negazione. Prima domanda: « Pietro, mi ami tu? ». « Signore, sì che ti amo ». « Pietro, mi ami tu? ». « Sì che ti amo ». « Pietro, mi ami tu veramente? ». E quello s’impressiona, capisce che c’è un ritmo di rispondenza; tre volte l’aveva rinnegato, e capisce, tre volte deve ritrattare. « Ma Signore, tu lo sai che io ti amo ». Va bene allora. Come per dire: quello che è successo non ha rotto niente. E viene la riconferma: « Pietro, pasci i miei agnelli; pasci le mie pecorelle ». Sii il pastore dei miei agnelli e delle mie pecorelle, di tutto il gregge. E poi subito dopo, così per dosare le cose, perché quello non si mettesse troppo su, gli annunciò come sarebbe morto. Ho già avuto occasione di ricordare questa faccenda. Quella non gli andava tanto a genio al povero Pietro, e ce ne accorgiamo da questo particolare, particolare minimo ma espressivo in sommo grado. Dietro, mentre passeggiavano, veniva Giovanni. Pietro non era molto soddisfatto, si vede, e avrà pensato: almeno fossimo in due ad avere questo guaio! Si volta e vede Giovanni e chiede: « E costui? ». Sperava che Gesù dicesse: lo prenderanno, lo squarteranno, sta tranquillo, così sarete in due. No, no, Gesù dice: « E se Io voglio che costui rimanga fintanto che Io ritornerò, a te che importa? ». Non gli dà la soddisfazione. Pietro non ne parlò più. Questa frase però l’hanno raccolta gli altri, e Giovanni se la sentì ripetere tante volte. Nel suo Vangelo sentì il bisogno di fare la rettifica: « Gesù non gli disse che non sarebbe morto, ma: e se Io voglio che costui rimanga finché Io tornerò, a te che importa? ». Questo discepolo, Giovanni, fu il custode della Madre di Dio, dopo la sua prima missione in Giudea e in Samaria. Egli venne mandato in Samaria per dare la Cresima; dopo che il diacono Filippo aveva fatto un gran chiasso e ne aveva convertito una grande quantità, allora mandarono due, e di questi due uno era Giovanni, per andare a dare la Cresima a quelli della Samaria. Ma dopo il Concilio Giovanni scompare, non lo si ritrova più, se ne perdono le tracce; è a custodire la Madre di Dio. La tradizione dice che egli andò in Asia Minore e la portò con sé. Effettivamente in Asia Minore, proprio in questi anni, si sono scoperte le due chiese, vicine, 1abside dell’una combaciante con l’abside dell’ altra, una dedicata a Giovanni, una alla Madre di Dio. Ora, se si tiene conto di come costruivano le chiese allora, questo può essere ritenuto come la documentazione di una tradizione là fortissima e vigente nel secolo IV circa la permanenza della Madonna e di S. Giovanni a Efeso. La casa fu riscoperta a Capuna, su una collina, a pochi chilometri da Efeso. Poi la Vergine andò in Cielo. Allora Giovanni ritornò nella vita attiva, ma mantenne un carattere inconfondibile. Forse vi meraviglierete che io insista su questa parte storica, ma capirete adesso il perché. Non c’è nella storia della Chiesa primitiva il caso di un uomo che sia apparso ai contemporanei così etereo e che abbia avuto una venerazione così viva come Giovanni. Perché quest’uomo invecchia ma rimane sempre giovane spiritualmente. Difatti si diceva che non sarebbe morto. Quando ha passato gli ottanta anni, gli mettono le mani addosso per portarlo a Roma, lo immergono in una caldaia d’olio bollente, ma non muore, nonostante tutto. Quando Domiziano si convinse che i cristiani non volevano portargli via l’impero, si mise un po’ in pace e lasciò andare con la persecuzione. Allora liberò Giovanni. – Poi venne l’episodio di Patmos, e a Patmos la redazione dell’Apocalisse, la visione di Cristo; poi se ne ritornò in Asia Minore dove continuò il suo ministero. Il ministero di Giovanni è un ministero pacato, fatto tanto di parole che di silenzi, un ministero essenzialmente interiore. Da quello che noi sappiamo, egli ha tutto l’aspetto di un grande direttore spirituale dell’Asia Minore; non ha niente della caratteristica incendiaria di Paolo. È un’altra figura! E ‘ una figura eterea. Pare un disincarnato, Giovanni! E’ così! Invecchia, ma rimane sempre giovane; le forze, quando ha passato i cento anni, cominciano ad andar giù, ma egli continua così, disincarnato. La prima età ha guardato Giovanni come noi guardiamo, in certi tramonti meravigliosi e limpidi, una nuvoletta bianca che rimane sull’orizzonte, e poi la vediamo dorata dal sole che noi non vediamo più: essa riceve ancora i raggi del sole e s’indora laggiù, mentre noi il sole non lo vediamo più. La figura di Giovanni nella prima età è così: questo qualche cosa di disincarnato e pur umanissimo che sta all’orizzonte della Chiesa e che riceve i raggi del sole che noi non vediamo. – A Patmos aveva veduto un’altra volta il Signore. Aveva veduto tutti i destini dell’umanità e li aveva segnati. Aveva veduto l’epilogo di tutte le cose. Già prima egli era andato più in su di tutti gli scrittori del Nuovo Testamento col prologo del suo Evangelo, la più grande pagina che sia stata scritta nella storia umana; ma a Patmos in tutti i destini dell’umanità egli vede il Signore. Da allora rimase non solo disincarnato, ma lo si sarebbe detto estatico. Continuava a guardare da quella parte dove l’aveva veduto. E l’ultima parola che gli era rimasta sulle labbra nel chiudere l’Apocalisse fu la parola che rimase sulle sue labbra per tutta la vita che trascinò ancora, sempre disincarnato, sempre estatico, ed è questa: « Veni, Domine Iesu! ». È l’ultima parola con la quale si chiude l’Apocalisse; vieni, Signore Gesù, vieni presto! Non poteva più parlare a lungo, gli ultimi anni, perché ormai era ridotto a una piccola fiamma che ardeva ma prossima a estinguersi. Lo portavano nella adunanza dei fedeli, ed egli che non poteva più tenere le catechesi ripeteva soltanto: « Figliolini, vogliatevi bene l’un l’altro ». Una volta gli dissero: « Maestro, ma perché dici sempre la stessa cosa? ». Rispose: « Perché se avrete fatto questo, veramente sarete col Signore Gesù, se vi vorrete bene l’un l’altro ». E lo scrittore del II secolo che ci riporta il fatto dice: « Digna Johannis hæc sententia »: è stato un modo di parlare degno di Giovanni. Egli rimane come l’Apostolo vergine, che sovrasta la prima età, disincarnato, estatico, altissimo, come una figura di eternità, egli che incoraggiò la Chiesa, che creò la prima grande scuola, la scuola di Efeso, dalla quale usciranno tutti i primi grandi scrittori, scuola che continuò coi discepoli suoi: Papia, Policarpo di Smirne, e arrivò fino a Ireneo: la prima grande scuola cristiana che egli illuminò con la sua luce calda, eterea. – L’apostolo vergine rimane come un simbolo nella storia della Chiesa. La Chiesa, a poco a poco, ha chiesto e poi ha imposto ai suoi ministri di seguire Giovanni l’Evangelista nel celibato. Ha chiesto ai suoi ministri il celibato, non perché fosse assolutamente necessario, ma l’ha chiesto, e non se ne potrebbe fare a meno: l’ha chiesto e l’ha imposto a tutti. È rimasto fuori il gruppo dei greci, approfittando del tempo in cui esso era costume e tradizione ma non ancora legge grave. E guardate cosa hanno combinato! Uno scisma. E tutta la fascia che va dall’Artide al Mediterraneo mostra che lo scisma non ha avuto un’idea e che ha perduto la forza di imporsi anche socialmente e socialmente redimere. La Chiesa ha indicato Giovanni al sacerdozio perché la Chiesa ha veduto che il servizio al mondo lo si fa solo seguendo Giovanni. Non si possono servire completamente i propri fratelli se non c’è la verginità. Ecco la storia. E allora la prima condizione per entrare a servizio della Chiesa Cattolica è questa: la verginità, la castità: senza questa i fratelli non si salvano. Ho detto che la verginità è la superiorità sul mondo! E fin qui ho parlato in nome della storia. Ora lasciamo la storia e torniamo al ragionamento. Perché la verginità è la superiorità sul mondo? Perché chi l’ha, non per paura o neghittosità ma per volontà propria, è certamente un dominatore della vita; plana su tutti gli altri. Vediamo più intimamente perché è una superiorità. Vi prego di osservare una colleganza che è nell’uomo, e questa determinerà la testimonianza della superiorità. Non è vero quel che dice Freud che l’istinto sessuale sia quello che domina la vita; è vero solo che è quello che può avere influenza su tutta la vita materiale; ma ricordiamoci bene che, se questo può avere una influenza su tutta una impostazione della vita materiale, la vita materiale poi finisce col condizionare quella spirituale. E allora si vede anche come, per altri titoli, il collegamento si protragga. Perché? Perché la via che non è di verginità mette l’uomo in una situazione morale di dover fare come proprio l’interesse materiale di coloro che lo seguono nella generazione e nella vita. E questo crea tutta una quantità di appigli materiali; non c’ è mai libertà; sono vincoli onesti, che possono, certo, essere onesti, ma sono vincoli. Quando un uomo ha una famiglia, non è padrone di disporre della propria vita come vuole, ha dei doveri. Solo un uomo che non ha quei vincoli è libero da certi doveri e pertanto può donarsi e può donare; può morire, può consumarsi, può essere povero, perché allora non impone agli altri la sua povertà, è libero di essere povero, cioè di essere ancora più libero. È questa verginità che crea le due classi del mondo: quella di chi anche onestamente ha onesti doveri, la cui onesta dedizione deve condizionarsi a una quantità di ragioni puramente materiali, e quella di chi non si condiziona a situazioni d’ordine puramente materiale: è l’indipendenza. Che se poi si va a guardare interiormente, non è difficile vedere come la verginità integra escluda tutta una sequenza interiore che diventa grave per l’uomo, che lo lega, gli aumenta i bisogni, gli riduce tutto, e questo glielo fa anche se egli sta nella via dell’onestà che è quella dell’onesto matrimonio; ma glielo fa in modo infinitamente più grave e profondo se sta nella via del peccato perché gli conturba tutto. Là sta il principio di ogni squilibrio, che incatena sentimento, istinto, fantasia, crea problemi, il principio che mette in contrasto una cosa con l’altra dentro l’uomo. Due classi: eccovi la superiorità, la grande superiorità! Però vi sono delle condizioni, e le condizioni sono quelle della verginità piena, perché quello che io vado dicendo è che la verginità piena non condiziona semplicemente la parte materiale di noi, ma condiziona la mente, il sentimento e la fantasia; dà il distacco pieno, la esenzione non dalla tentazione ma dalla colpa, perché quello che conta è la esenzione dalla colpa, non dalla tentazione; perché chi può guardare dall’alto il male che lo insidia alle calcagna, lo guarderà sempre dall’alto, anche se quello insidia. Egli è sempre al disopra, è sempre signore, sempre vittorioso. Miei cari amici, giacché una strada la si percorre, percorriamola tutta: intera, dignitosamente! Se abbiamo fatto 90, facciamo 100. Perché perdere il vantaggio per poco? Se occorre gettare giù qualche cosa di viscido del sentimento, qualche cosa di ricorrente nella mente e nell’abitudine, anche di non peccaminoso ma di impiastricciato, un affetto che non è più al suo posto, giacché ci siamo, facciamo piazza pulita! – Dal momento che nella verginità si è fatto il più, si capisce quanto sia decoroso fare il meno e arrivare al completo, e che tutto sia chiaro, che tutto sia pulito; se è necessario sfogliare ancora un po’ sto carciofo perché non abbia più punte, sfogliamolo ancora un po’, leviamole tutte le punte a questo carciofo, e facciamo in modo che non abbia da pungere niente. Voi capite che quando si è fatto il sacrifico del più, lo si può fare del meno, si può farne il sacrificio in quella tale modestia che compone l’atmosfera giusta affinché la verginità vi respiri bene, quella modestia che è cautelata, che è prudente, moderata, contenuta, che è sovrana padrona di sé e di quanto la circonda. Certo ci vuole una custodia sui sensi interni e sui sensi esterni, ma la verginità è coronata. – Voi sapete che la Sacra Scrittura ci parla di tre aureole speciali che saranno nella vita eterna rispondenti a tre situazioni. Ma la prima è quella della verginità. Giovanni stesso, quando vede la celeste Sion, vede l’Agnello; ma « sequuntur Agnum virgines quocumque ierit »; vede che l’Agnello è seguito dai vergini. L’eternità porterà per sempre lo stigma della verginità del tempo. La verginità porta via qualche cosa, certo; quello per cui gli uomini non rimangono in una certa solitudine, glielo porta via. Bisogna ricordarcelo questo; la verginità porta via qualche cosa, porta via per sacrificare al Signore; ma il fatto che porta via serve a dare all’umiltà di chi la osserva una indicazione preziosa, e cioè che a quel posto bisogna mettere sempre un’altra cosa, altrimenti rimane un vuoto. E questo spiega perché talvolta vi sono delle anime verginali che a un dato momento pare che rotolino su sé stesse, senza far niente di male, forse, ma rotolano su sé stesse come le trottole. La ragione è questa: che la verginità porta via qualche cosa, e se al posto di quella non ci si mette qualche altra cosa, viene a mancare il peso che fa l’equilibrio, e allora comincia il movimento della trottola. E cosa ci si deve mettere? La vita soprannaturale. Bisogna metterci l’amore di Dio, il dovere, una missione, anche nascostissima. Bisogna metterci il livello soprannaturale. Allora state tranquilli che di trottole non ce ne saranno, e voi avrete le figure più complete che si possano pensare al mondo. Avrete i più coraggiosi, i più moderni, i più materni, e parrebbe una contraddizione; avrete i più fini, i più forti, avrete gli intelletti più alti e le soluzioni più radicali. Badate che, a quanto è stato dato a noi di sapere, l’intelletto più alto del genere umano è stato S. Tommaso d’Aquino. La guglia! Nessuno è penetrato in cielo col suo pensiero, al di fuori si capisce delle rivelazioni soprannaturali. La guglia. S. Tommaso! Un colosso alto un po’ più di due metri, che pesava più di un quintale e mezzo, per cui gli avevano dovuto fare un taglio nella tavola perché potesse collocare l’epa; però alla fine della famosa tentazione di Roccasecca fu miracolosamente da Dio liberato per sempre dalla comune condizione degli uomini, e allora filò diritto in cielo con la mente. Senza Roccasecca non si capirebbe S. Tommaso d’Aquino. S. Tommaso, ammalatosi in viaggio verso il Concilio di Lione, a Fossanova, lo misero a letto. Era malato, e dal letto, per ripagare i buoni monaci Cistercensi che lo ospitavano, cominciò a spiegare il Cantico dei Cantici. Accanto al suo letto fra Guglielmo da Tucco, suo segretario, prendeva gli appunti. Un bel modo di morire! Fino all’ultimo respiro ha spiegato ai buoni monaci che si assiepavano intorno al suo letto il Cantico dei Cantici, il cantico degli sponsali eterni fra l’anima e Dio, fra l’umanità redenta e Dio, simboleggiata dal canto fra Dio e Israele suo popolo. Se quel tale vuoto che la verginità lascia viene riempito da elementi soprannaturali, avrete le figure più complete. E quando avrete da risolvere delle cose a questo mondo, mandate a chiamare quelle figure, perché gli altri non ce la faranno. Ricordatevi che la verginità dà: questo almeno portatevelo con voi: dà la verginità, quando è autentica! La verginità autentica, quella spirituale, ha la freschezza che non tramonta mai. Non avete mai incontrato voi delle persone che, vecchissime, hanno ancora il sorriso dei bambini? Non perché ci sia dell’artificio, no. Perché? Dio ha i suoi disegni. – Si incontrano talvolta delle persone vecchissime che hanno un fascino straordinario, che sono disincarnate. Si sente qualche cosa; cosa sarà? Chi è pratico capisce che cos’è! La verginità vera impedisce che si diventi veramente vec-chi. Si muore giovani quando c’è la verginità integra, quella spirituale, perché tiene talmente aperte le finestre sull’eterno azzurro che non vi sono mai ombre crepuscolari; ci potranno essere temporali, ma ombre del crepuscolo no; c’è sempre una luce che irradia e lascia quello che la natura dà ai bambini. I bambini scoprono sempre qualche cosa di nuovo; sempre; è la gioia dell’infanzia scoprire qualche cosa di nuovo. Vedete, il risultato è questo. Tra l’altro, non avendo mai toccato il fondo, c’è sempre del nuovo per i vergini, sempre tutto nuovo. E poi la verginità dà l’entusiasmo, il dono delle piccole cose. Il giorno in cui si sono spenti gli entusiasmi, un uomo è diventato vecchio. Nella verginità questo non succede. E poi la verginità dà la irradiazione dei missionari. Voi dovete far del bene agli altri; ma non sapete che razza di predica fate voi soltanto con la verginità? Non si traduce, non si sa che linguaggio abbia, e chi lo può dire? Non si può fissare in un codice; però quelli che vi avvicinano sentiranno in voi qualche cosa che non sentono negli altri. La irradiazione di un vergine! Voi volontari siete per questa strada. Questo è il ricordo che vi lascio. Dovete arrivare alla perfezione; ci potete arrivare; se mettete a posto l’orazione, ci arriverete certamente. Ora siccome la vostra via di perfezione caratteristica, che vi distingue, è quella che io ho chiamato della verginità, sappiate che cosa è questa strada! Sappiate che cosa porta questa strada a voi e a me. E possiate tutti essere come Giovanni l’Evangelista, i disincarnati, non inumani ma disincarnati. In alto, da illuminare nella luce crepuscolare la vita degli altri che non vedono più il sole. Così, come Giovanni l’Evangelista! – E così sia!

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (13)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(13)

15. L’obbedienza

L’amore di Dio, quello d’acciaio, cioè serio, domanda l’obbedienza. Parliamone, partendo dall’esempio di Nostro Signore Gesù Cristo. Perché è stato l’esempio di Lui più marcato, quello della obbedienza. S. Paolo, riassumendo tutta la figura di Nostro Signore, gli pone sulle labbra queste parole: « In capite libri scriptum est de me ut faciam, Deus, voluntatem tuam»; in testa al libro (Salmo XL, 8-9) sta scritto che io faccia, Signore, la tua volontà (Ebrei X, 7). In realtà Nostro Signore si è sempre difeso contro gli attacchi dei suoi nemici dicendo due cose, cioè che Egli non cercava la propria gloria, che Egli faceva la volontà del Padre. Quando stava al pozzo di Samaria discorrendo con la samaritana, sopraggiunsero i discepoli che erano andati a cercare qualche cosa da mangiare, e gli parlavano del cibo; ma egli rispose: « Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato ». E anche nel momento supremo della passione lasciò che la natura che aveva assunta agisse nel senso che le era proprio, cioè paventasse il male: « Padre, se è possibile, passi da me questo calice. Tuttavia faccio non la mia ma la tua volontà ». – Nostro Signore ha dato prova di obbedienza. Come Dio, Egli non poteva obbedire; come uomo, sì, Egli poteva obbedire; era nella sua natura umana di poter obbedire, e per questo ha potuto obbedire. Se non ci fosse stata l’umana natura, a Lui non sarebbe stato possibile obbedire; ma è la divina Persona responsabile giuridicamente della sua obbedienza. È qui dove si vede che l’Incarnazione e l’obbedienza sono essenzialmente legate. Vi ho voluto ricordare questo perché l’esempio di quello su cui ora dobbiamo accuratamente meditare viene dall’alto; c’è stata l’Incarnazione del Verbo per poter dare tale esempio. – Il fatto che viene così dall’alto e che vi sia stata l’Incarnazione del Verbo per potere far sì che noi avessimo questo esempio vi dice l’importanza dell’argomento. – Questa obbedienza l’ha chiesta Nostro Signore. Egli l’ha chiesta ai discepoli, agli Apostoli, a tutti. Egli ha chiesto semplicemente di seguirlo; non ha chiesto soltanto l’obbedienza esecutiva, ossia che noi piegassimo la volontà nostra alla sua, ha comandato anche l’obbedienza intellettuale, che noi piegassimo la nostra mente alla sua parola. Quando si parla di obbedienza, bisogna sempre ricordare questo particolare, perché la forma più sottile della disobbedienza obbediente è quella di mancare nel campo dell’intelletto; si eseguisce, ma si giudica al contrario di quello che si eseguisce e si compie pertanto una continua distorsione, una innaturale divisione; e questo mina essenzialmente l’ordine che l’obbedienza, come tale, dovrebbe conservare, costituire, ricomporre. Nostro Signore ha chiesto l’obbedienza intellettuale e l’obbedienza intellettuale consiste nell’accettare la verità, quella che è sulla parola, sulla testimonianza, sulla autorità. L’obbedienza intellettuale è quella che raddrizza, se c’è bisogno, che costituisce, valorizza l’obbedienza puramente esecutiva. Generalmente Nostro Signore Gesù Cristo, quando doveva operare un miracolo, prima chiedeva un atto di obbedienza: « Credi nel Figlio di Dio? », cioè accetti, pieghi la tua intelligenza alla verità che io ti propongo e che è questa: che Io, che tu vedi uomo, sono il Figlio di Dio? Egli ha chiesto sempre questa obbedienza intellettuale. È qui dove voi potete vedere che l’atto di fede di cui abbiamo parlato non è altro che una forma di obbedienza intellettuale. – Si direbbe che della sua obbedienza al Padre Gesù abbia voluto lasciare un’impronta in tutta quanta la vita della Chiesa, perché a rinfrescarne l’esempio tutti i giorni Egli, in un certo senso, obbedisce alla voce dei sacerdoti. Perché quando noi sacerdoti consacriamo, Egli ritorna presente sotto le apparenze del pane e del vino, e siamo noi liberamente a decidere di pronunciare quelle parole divine, siamo noi a decidere liberamente di mettere quella intenzione senza la quale a niente varrebbe pronunciare le parole della Consacrazione. Quando noi pronunciamo quelle parole Egli diventa presente. Ed è così che la stessa SS. Eucaristia, nella quale è continua, reale, vera, personale, sostanziale la presenza del nostro divin Salvatore, in fondo è sempre come una potente eco di quel primo atto di obbedienza col quale Gesù si piegò per primo al Padre facendosi uomo e col quale, nella veste e nella sostanza di uomo, Egli non ha fatto altro che eseguire la volontà del Padre suo che è nei Cieli. Questo è l’esempio, questa è la volontà di Nostro Signore Gesù Cristo. – Ora però noi dobbiamo leggere più a fondo nel mistero dell’obbedienza. E la ragione è questa. Se vi insisto è perché nel mistero dell’obbedienza c’è tutto il mistero della perfezione. Questi Santi Esercizi sono stati condotti sotto questa insegna: noi dobbiamo aspirare alla perfezione. Ora guardate che l’obbedienza è il grande segreto della perfezione appunto perché è l’elemento condizionante l’amore di Dio che è il culmine della perfezione. Noi dobbiamo ragionare sulla intima essenza della obbedienza. Vi prego di osservare. Noi siamo piccoli, siamo solo parzialissimamente potenti. Nel più di quanto ci si presenta come oggetto di considerazione, noi siamo incapaci e impotenti. Noi siamo dei piccoli che vivono in un grandissimo ordine: non dimentichiamolo mai. L’ordine non è fatto soltanto dal cosmo, con la luna, col sole, con le lontane galassie, quell’ordine spaziale, spazialmente immenso, ma pure infinitamente piccolo. Viviamo in un altro ordine fatto di cose spirituali, che supera tutti i confini dello spazio. Noi siamo piccoli chiamati a vivere in un ordine immenso, ma noi riceviamo tutto da quest’ordine, tutto da Dio, anche l’ordine cosmico che viene così a condizionare la nostra vita. Noi non solo siamo dei piccoli, ma siamo dei condizionati. Dobbiamo accettare quello che siamo; non accettare ciò che siamo sarebbe non solo rivolta sciocca, ma insipienza tragica, contraddizione dolorosa e dannosa; non ci farebbe nessun onore, non darebbe corpo a nessuna fierezza, ci renderebbe semplicemente ridicoli. Noi siamo i piccoli, siamo i condizionati del grande ordine. È evidente l’ontologica necessità d’inserirci in questo ordine che è prima di noi e del quale abbiamo bisogno per continuare a vivere. È ovvio che noi ci inseriamo nell’ordine. Come si chiama l’atto così logico, così ovvio, così naturale, d’inserimento? Si chiama obbedienza. Se volete potete anche cambiare nome; questo non ha importanza; ma noi dobbiamo accettare qualche cosa, perché siamo condizionati nell’essere, restii a sopravvivere a quest’ordine. È della nostra natura che vi sia un’obbedienza. Perché è della nostra natura, che vi sia un’obbedienza? Perché è della nostra natura l’essere piccola e il dover ricevere. Pertanto l’atto del ricevere completo, dignitoso, si chiama obbedire. È il cosmo stesso che ci attesta questo, è la struttura stessa dell’essere, dell’esistere, della vita che ci dà contezza piena di tutto questo. Noi non possiamo fare diversamente. Perché il fare diversamente diventerebbe atto violento contro di noi, sarebbe un assassinio fatto contro noi stessi. Tutto io devo dire, perché non crediate che l’obbedire sia qualche cosa di aggiunto alla nostra natura e che persino la contrasti obbligandola a deporre la sua naturale fierezza. No, è una parte della nostra natura l’obbedire, come la bocca, il naso, le orecchie; come i nostri capelli, come le ossa delle quali è strutturata la nostra forza, la nostra situazione nella statica, come qualunque altra parte della nostra natura. Noi siamo fatti di obbedienza. E’ vero che possiamo disobbedire; Dio ci ha lasciati liberi; ma allora non siamo più completi, non siamo più nell’ordine, non siamo più quello che dobbiamo essere e non prepariamo più quello che dobbiamo essere. È così. Questa è la prima ovvia ragione, ontologica, che fa capire l’obbedienza. Io non ho detto ora a chi dobbiamo obbedire, parlo dell’obbedire e basta, senza affatto riferirmi, in questo momento, a chiunque. Non accettare l’obbedienza vuol dire non accettare quello che si ama. Traducete: vuol dire rinnegare noi stessi. Questa è la prima ragione.

– Ce n’è poi un’altra, una ragione ontologica per cui dobbiamo obbedire e per cui si vede la ragione intima della obbedienza intellettuale, quella con la quale si piega la nostra facoltà emotiva, la volontà, la nostra facoltà esecutiva, ma si piega anche il colmo dell’essere nostro, l’intelletto. Si avrà l’obbedienza più vera, la più meritoria, quella che innerva l’altra e senza la quale l’altra obbedienza diventa facilmente ipocrita. Osservate, siamo forse noi gli autori della verità? Noi non siamo gli autori della verità; la verità è obbiettiva e pertanto viene dal di fuori. Noi non abbiamo fatto la realtà dell’uomo: che l’uomo sia così fatto di anima e di corpo, con quelle potenze, con quelle caratteristiche, con quelle qualificazioni, non l’abbiamo fatto noi. Pertanto non possiamo creare noi la definizione dell’uomo. Non vi pare che sarebbe ridicolo se tentassimo di farlo? Noi possiamo semplicemente accettare la definizione dell’uomo, cioè obbedire a una regola di verità che è fuori di noi. Noi non dobbiamo creare il mondo; il mondo è quello che è. Noi non possiamo forgiare la realtà e dire: il mondo è un triangolo. No, nel mondo ci sono dei triangoli e cose riducibili a triangoli, dato che il triangolo è una figura geometrica perfetta; ma il mondo non è un triangolo, anche se io lo dico. Io debbo obbedire, lo vedete. Io ho gli anni che ho; è inutile che dica che ne ho trenta di meno. Il mio stato anagrafico è quello che è, io non lo posso alterare; dirvi una bugia, farei una commedia. Io debbo dipendere dalla realtà, debbo obbedire alla realtà: la realtà che s’identifica con la verità perché « ens et verum convertuntur » come « ens et bonum convertuntur » come « verum et bonum convertuntur ». La realtà è quella che è. Io devo dipendere dalla realtà, la debbo accettare intellettualmente. Io non posso dire che l’essenza è distinta dalla esistenza, se è vero invece che l’essenza è identica all’esistenza. Perché la realtà è quella che è. Io posso blaterare quanto voglio, ma la realtà resisterà sempre al mio blaterare. Io devo obbedire alla realtà. Guardate come l’obbedire è nella nostra costituzione di essere creati: perché noi non siamo il principio di noi stessi né il principio di nessuna cosa. La verità per noi è una derivazione. La ragione per cui dobbiamo dipendere è perché siamo stati creati, perché se fossimo il principio delle cose, saremmo anche il principio della verità; e questo non è. Pertanto noi dobbiamo dipendere. – Agli uomini, in quel margine in cui gli uomini sono lasciati liberi da Dio, Dio ha detto: arrangiatevela a fare come volete. Ed è in questo piccolo margine che noi possiamo fare della democrazia, ma solo in questo piccolo margine. Il cosmo è gerarchico, non è democratico. L’ordine religioso ha la dipendenza della via gerarchica. Proviamoci a imporre una costituzione a Dio! – Ci si è provato l’illuminismo, ci si è provato l’enciclopedismo. L’illuminismo, l’enciclopedismo, il voltairianesimo, che cosa sono? Non sono altro che una costituzione ridicolmente imposta a Dio. Naturalmente è una costituzione rimasta lettera morta, perché a Dio non se ne impongono di costituzioni. L’ordine tra creatura e Creatore, cioè l’ordine religioso, è essenzialmente gerarchico. Stiamo attenti a non fare delle sciocchezze, a non lasciarci entrare nell’anima l’idea che bisogna fare anche qui un po’ di democrazia. Mettiamo ai voti il primo, il secondo e soprattutto il sesto comandamento e cerchiamo di aggiustarli come ci piace. Non diciamo sciocchezze! Perché noi potremmo provarci a far passare in Parlamento la legge che non si muore più. Beh, facciamola, vediamo che cosa succede. Ricordate il famoso decreto del Sindaco di Peretola? C’erano troppi gobbi a Peretola, e un bel giorno il Sindaco ha fatto il decreto che non dovessero nascere più gobbi. I gobbi sono continuati a nascere e forse nascono ancora a Peretola. Io non lo so. Comunque il decreto del Sindaco di Peretola è rimasto l’elemento proverbiale per parlare della commedia dell’impossibile e dell’incredibile. Ricordiamo bene che la democrazia sta in quel piccolo campo che Dio ha lasciato agli uomini perché agiscano a loro modo. Ma, al di là e al di sopra di quel piccolo campo, non esiste più. Questa è la ragione per cui la Chiesa, che è la realizzazione sociale dell’ordine religioso nel mondo, per divina volontà e positiva costituzione divina è essenzialmente gerarchica; e il portare qualunque elemento che volesse toccare la disposizione gerarchica della Chiesa sarebbe rovinare perfettamente il disegno di Gesù Cristo, contaminare essenzialmente la Chiesa e rendersi ridicoli nel voler portare là dove Dio ha segnato un ordine un altro ordine fatto sulla misura delle nostre grettezze. – La Chiesa, la quale imita Dio, in taluni punti della sua vita lascia degli ordinamenti democratici, ma li lascia entro determinati limiti. Voi vedete che negli Ordini religiosi in genere la costituzione è sempre democratica, perché in tutti gli Ordini religiosi sono gli inferiori che eleggono i loro superiori. In modo diverso avviene per qualche Ordine, come ad es. per i Gesuiti, per le Congregazioni monastiche, per i Benedettini dove l’Abate una volta eletto è sempre Abate. Così è della Chiesa. La Chiesa non può far niente, non può mutare niente. Il Papa non può diventare un sovrano costituzionale, il Vescovo, che è definito nella sua caratteristica dalla divina istituzione, non può diventare un principe di carattere costituzionale, perché questo altererebbe la costituzione della Chiesa. E non sarà mai che i fedeli possano discutere gli ordini del loro Vescovo; non sarà mai che i fedeli e i Vescovi possano discutere gli ordini del Romano Pontefice. Ricordiamoci bene quanto ho richiamato spiegando questa seconda ragione ontologica dell’obbedienza, perché dobbiamo essere convinti, in questa universale visione, che noi non siamo il principio dell’ordine. Ecco perché l’ordine è gerarchico. Noi non siamo il principio dell’essere, della verità e del bene. Ecco perché l’ordine religioso è gerarchico, ecco perché la Chiesa che, per costituzione divina, è la traduzione sociale dell’ordine religioso del mondo, è gerarchica. – Vedete le grandi ragioni dell’obbedienza? Ma vi prego di osservarne una terza, una ragione ontologica. L’obbedienza diventa il più grande sussidio che abbiano gli uomini nella vita morale. Cioè, in quell’ordine in cui gli uomini sono liberi, — perché nell’ordine in cui sono liberi e possono fare in un modo o in un altro, incide talmente la loro piccolezza che li espone a non avere saggezza — l’obbedienza è il più grande ausilio che abbiano. Con l’obbedienza io acquisto quello che non ho. Se sono disobbediente, sono incompleto; con la obbedienza acquisto tutto quello che non ho. Si devono osservare le leggi, almeno quelle che sono passate al vaglio della esperienza e sono veramente la saggezza dei popoli; quelle fondamentali, quelle tradizionali, quelle istituzionali, quelle ben fatte, uguali in tutti i codici: nel codice Napoleonico come nel codice di Giustiniano. Sono sempre le stesse, e se si cambiano quelle, Dio ce ne guardi e liberi, allora sì che la politica salta; ma quelle per fortuna non cambiano; fino adesso in genere nessuno ha avuto il coraggio di toccarle, per grazia di Dio. – Ora, che cosa acquisto io, osservando le leggi? Quando io obbedisco alle leggi, mi completo. Supponiamo che io non abbia mai avuto tempo di studiare diritto. Il diritto supremo è lo strumento umano regolatore fra gli uomini; è molto più importante sapere il diritto che non la fisica, perché è il diritto che regola gli uomini. Se ne sanno anche un po’ meno di certe cose, state tranquilli che campano lo stesso; ma se il diritto lo sanno un po’ meno e lo applicano meno, non campano. Se io obbedisco alle leggi, mi completo come se avessi studiato il diritto. Io obbedisco al medico: è come se io mi fossi laureato in medicina. Io obbedisco all’architetto: è come se avessi studiato architettura. Vorrei che vedeste questo: io obbedisco; bene, è come se conoscessi tutto l’ordine nel quale vivo. Io obbedisco a una legge: mi completo; è come se io sapessi tutto il passato, tutte le prospettive, tutto l’avvenire, tutta la situazione presente di questa legge. E’ necessario che noi vediamo questo aspetto ontologico della obbedienza. Noi ci completiamo. Noi diciamo: i bambini debbono obbedire, anche i giovani debbono dar retta ai vecchi. Perché? Ma perché così si completano, non possono sapere tutto. Si completano nella volontà, perché alle volte la volontà è debole, non ce la fa; è soltanto con l’obbedienza che riescono a ingranarsi e a prendere la buona strada. – Potrei continuare fino a domani, ma debbo finire. Badate che la obbedienza è la nostra ricchezza. Ecco, forse bisogna trovarsi al punto in cui non si ha più da obbedire a nessuno per capire che cosa voglia dire l’obbedienza. Credetelo pure. Quando si ha solo da comandare e quasi sempre solo da comandare, allora si capisce che cosa sia il « bonum obœdientiæ », come sia tranquilla l’anima quando si ha soltanto da obbedire e come difficilmente riesce ad esserlo quando ha solo da comandare. Vi ho detto tutto questo perché capiate che obbedire non è una vergogna, è semplicemente una grande furbizia, oltre a essere una grande tranquillità, condizione della santità e dell’amore di Dio. È veramente il fondamento della pace la obbedienza. Il nostro orgoglio dice di no; ma non crediamo al nostro orgoglio. Il nostro orgoglio è la causa del 99% degli inutili dolori della nostra vita. Non diamo retta al nostro assassino che è il nostro orgoglio. – Ma a chi si obbedisce? A tutti, ma a uno solo, a Dio. Perché io obbedisco alle leggi? Perché è Dio che dà la forza alle leggi, a qualunque legge civile e morale. Perché obbedisco ai superiori? Perché è Dio che ha voluto che al mondo ci fossero dei superiori costituendo la Chiesa, la società civile, volendo la società; e società non esiste senza autorità e senza legge. Pertanto Dio ha voluto l’autorità e la legge. Obbedire ai genitori in quello che a loro compete, perché è Dio che li ha costituiti tali. Obbedendo alle tradizioni e ai regolamenti, io obbedisco a Dio. Perché a un uomo, a qualunque uomo, da solo, non ci sarebbe mai ragione di obbedire; non dobbiamo fare gli uomini più grandi di quel che sono, attribuendo alla loro persona, in quanto tale, ciò che non ha. E anche quando si accetta una preminenza magisteriale, si accetta quello che dice il maestro perché è maestro, si sa che sa. Questa non è la vera obbedienza, è l’accettazione libera, di cui liberamente ci si convince. Là c’è la saggezza, là c’è un tesoro, e allora si attinge a quel tesoro; e là si obbedisce a Dio. – Ma si deve obbedire in tutte le circostanze, perché le circostanze sono quelle che mi vengono dalla volontà di Dio. Se oggi mi dovessi trovare a fare 5 o 6 ore insieme con una persona fastidiosissima, potrei anche tentare di fare qualche sforzo per cercare di esimermi; questo è onesto; ma supposto che non ci si riesca, che cosa vuol dire? Vuol dire che Dio vuole che io mi subisca quella persona fastidiosa. Ed ecco che i fatti mi parlano della volontà di Dio. Se oggi piove, io devo accettare che piova; è inutile che stia a fare il muso perché piove. È la volontà di Dio che piova e basta, tutto finisce lì. I fatti. Voi credete che si obbedisca solo ai superiori? Si obbedisce a tutto, anche ai fatti. Io vado per la strada, sento uno che fa un gran rumore. Beh, cosa posso fare? Posso toccarlo con una bacchetta magica quel rumore, farlo scomparire? No. Il mio dovere è di stare lì; non posso toglierlo, è dunque la volontà di Dio che non vuole che lo tolga. C’è poco da fare. Io obbedisco a Dio accettando i fatti. Questa non è la stupida passività indiana. Io posso reagire contro i fatti fino a cercare di rimuovere l’ostacolo; ma quando non posso reagire o reagendo è lo stesso, vuol dire che Dio vuole che non lo smuova. Non ho niente da fare. – O si obbedisce a tutti o non si obbedisce a nessuno. Perché si obbedisce a uno solo che è Dio. Ai fatti, ai regolamenti, alle persone si obbedisce perché tutti, nella loro quota, sono rappresentanti della divina volontà, portatori della divina volontà. Ma siccome a Dio, Autore della divina volontà, si obbedisce con l’intelletto, perché principio della verità, voi capite perché occorre sempre che ci sia l’obbedienza intellettuale. Dio vuole che noi obbediamo perché così gli diamo una prova di amore. Nell’obbedienza Dio non ci ha dato l’incarico di misurare la ragionevolezza degli ordini, no, perché non è quello l’oggetto; l’oggetto sta nell’accettare con amore la sua volontà e non la ragionevolezza degli ordini. Pertanto non è giusto misurare la ragionevolezza degli ordini, salvo il caso in cui è ammesso discutere, come è ammesso in democrazia. La democrazia rivela sé stessa in questo, poiché lascia discutere intellettualmente, mentre esecutivamente deve essere obbedita, perché la legge accettata dal Parlamento io in coscienza la devo osservare anche se la posso criticare. La democrazia mi consente di dire : questa legge non va bene; però devo obbedire. Badate che, salvo l’ambito della democrazia, non si distingue la obbedienza esecutiva dalla obbedienza intellettuale. Naturalmente anche in democrazia la critica non deve essere sciocca. Criticherà chi può: una certa abituale e ristrettissima distinzione tra l’obbedienza intellettuale e quella esecutiva può essere soltanto in un limitato settore, per limitate persone della democrazia politica. Dunque non è umiliante obbedire, perché l’essenza dell’obbedire è che Dio vuole che facciamo la sua volontà. Non si può obbedire con riserva, perché l’essenziale è che io accetto Dio. Quando c’è di mezzo Dio, vogliamo stare a badare al resto? La via della santità passa di qui; non sperate che vi sia santità senza obbedienza.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (12)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(12)

14. L’amore di Dio

Poiché non è possibile realizzare la perfezione cristiana senza l’amore di Dio, la carità verso Dio, è necessario che noi ne parliamo. E così, accanto allo spirito di fede, accanto allo slancio della speranza, bisogna mettere l’ordine della carità. Naturalmente io parlo dell’amore di Dio sotto il profilo di questi Santi Esercizi. Ne parlo cioè in quanto per realizzare pienamente la perfezione bisogna realizzare pienamente l’amore di Dio nella nostra vita: questo è il punto di arrivo. Ma guardate un po’, non è soltanto un punto di arrivo, è uno strumento per arrivarci. Pertanto l’amore di Dio va considerato, non solo come quello che realizziamo ora; ma quando avremo fatto tutto, lo avremo realizzato perfettamente. Bisogna realizzarlo giorno per giorno; esso è termine ed è via nello stesso tempo; lo si raggiunge avendolo; lo si aumenta usandone. Allora vi prego di tener presente le seguenti considerazioni.

Prima considerazione. Che cos’è l’amore di Dio? Cerchiamo di avere qualche idea semplice e chiara. L’amore è essenzialmente un atto di volontà, né più né meno. Quindi è un atto che si compie nella sfera dell’anima, il suo livello è l’anima. Esiste anche un amore sensitivo, ma è un’altra cosa, appartiene al numero delle passioni filosofiche; l’amore sensitivo, che è vibrazione del sentimento, vibrazione che porta ad avvicinare, ad appetire, può essere utile, come è utile il sego sullo scalo per far scivolare la nave quando deve essere varata. Ma questo non è l’amore. L’amore è un atto di volontà. E quale atto di volontà? È un atto appetitivo della volontà, ossia l’atto col quale la volontà vuole qualcosa e il bene di qualcosa. Amare una persona nel senso dignitoso e netto, senza complicanze di carattere diverso, volere bene a quella persona, volere il bene di quella persona. Amore di Dio che cosa vuol dire? Vuol dire volere Dio, tendere a Dio, volere Lui e volere il bene suo. Intendiamoci, non è che noi glielo possiamo dare, ma Lui, che è sommo Bene, diventa termine del movimento dell’anima nostra. Questo è amare Dio, ridotto così, schematicamente, semplicemente, con termini inequivocabili. Vi prego di averli presenti. Quello che io chiamo amore, cioè amore sul serio, amore non ridicolo, amore non contaminato da sentimenti e da attività che sono perfettamente impropri, accezioni assolutamente contaminanti. L’amore di Dio è questo. Il discorso non è finito. Per quale motivo si deve amare Dio? Come per l’atto di fede, ci vuole un motivo. Quale è il motivo dell’amore di Dio? È il bene stesso che è in Dio. Dio lo si ama perché è Lui il Sommo Bene. E pertanto il sommo appetibile. È la caratteristica delle virtù teologiche, che hanno per motivo Dio stesso. Nella virtù della fede è Dio rivelante il motivo dell’atto di fede; nell’atto di speranza è Dio promettente e fedele il motivo dell’atto di speranza; nell’atto d’amore è Dio Sommo Bene. Naturalmente nella dizione: Dio Sommo Bene, ci possono entrare tutte le manifestazioni con le quali Dio ha mostrato il suo amore per noi, la sua paternità e tutto quello che rientra nell’amore di Dio. – E’ per questo che l’amore di Dio è una virtù teologica. Perché non ha soltanto per oggetto Dio, ma ancora Dio per motivo unico e adeguato. Notate bene che l’amore perfetto di Dio non esclude un motivo di ordine secondario, esclude solo che quest’ultimo motivo sia primario e determinante; non esclude cioè che Dio, che si ama primamente e per sé, perché è bene in sé stesso, in secondo luogo lo si ami anche perché è bene per noi. Ma capite che se si amasse Dio soltanto perché è bene per noi, l’amore non sarebbe più puro. Sapete la distinzione che c’è tra l’amore di benevolenza e l’amore di concupiscenza. Parlo di concupiscenza in senso filosofico, non morale, evidentemente. L’amore di benevolenza si ha quando si ama una cosa per sé stessa. Ed è per questo che l’amicizia deve sempre essere di un amore di benevolenza; se non è fatta d’amore di benevolenza, è finita. – Invece l’amore di concupiscenza si ha quando una cosa si ama perché ne viene bene a noi. Quando si ama di un amore di concupiscenza, chi è che si ama? L’amante ama sé stesso. Uno vuol bene ai cuscini perché gli salvano le ginocchia, cioè vuol bene a sé stesso. Vi prego di osservare che i tre quarti dell’amore, a questo mondo, sono amori di concupiscenza; in questo senso che sono società di mutuo sfruttamento. Di amori di benevolenza ce ne sono piuttosto pochi, questo senza affatto voler diminuire i nostri simili. Molti matrimoni sono fatti d’amore di concupiscenza, è vero? Infatti durano poco. Perché l’uno ama l’altra? Perché gli viene bene. L’altra ama l’uno perché le viene bene. È fatto così questo amore di concupiscenza; è soggetto ai quarti lunari, c’è e non c’è, viene e non viene, non ha una consistenza solida. Ecco, il motivo di concupiscenza non può essere mai il primo motivo dell’amore di Dio; non può esserlo mai perché l’amore di Dio sarebbe degradato, perderebbe di essenza teologica. Noi in realtà non ameremmo Dio ma noi stessi. Non si fermerebbe a Dio il nostro amore; ritornerebbe sopra di noi e, in fondo, finiremmo con l’avere la religione di noi stessi, non la religione di Dio. Riflettete quanto sia importante decifrare, definire il motivo vero, primo, per cui si deve amare Dio. Però Dio è il più umano di tutti, non esclude che più giù, come piccola e umile appendice al primo motivo, ci possa essere anche il secondo: noi lo amiamo perché viene bene anche a noi. E lo possiamo dire questo, perché ce lo ha insegnato Lui: ci ha insegnato Lui a desiderare la vita eterna, e pertanto ci ha autorizzato a metterci anche un po’ di questo, ma sotto, in secondo piano, anche in terzo, in quarto. – C’è stata nel ‘600 una donnetta, una vedovella, una certa Guyon, che si era messa a spifferare certe sentenze sul perfetto amor di Dio che escludeva i motivi secondari; e c’è cascato anche il suo confessore, che era, nientemeno, l’Arcivescovo di Cambrai, Fénelon, il grande Fénelon. Ma le faccende sono andate male per il Vescovo e per la vedovella. Perché c’è stata la condanna di Roma. Questa storia dell’amore puro di Dio è una concezione errata; Dio stesso ha voluto che noi volessimo il nostro bene. E allora un posticino, recondito, più in giù, lo si può lasciare. Vedete la discrezione, l’equilibrio umanissimo della Chiesa! Le teorie dell’amore puro furono condannate; e là si vide la grande virtù di Fénelon, e fu il più grande gesto che egli ha fatto. Quando arrivò la condanna, fu lui che montò sul pulpito della Cattedrale di Cambrai e lesse al popolo la sua condanna dicendo: « Non potrei essere il vostro Vescovo se non incominciassi a inginocchiarmi davanti a chi è il mio superiore ». E fece fare poi un ostensorio, nel cui piede si vedeva un angelo che calpestava un suo libro nel quale era contenuto qualche riflesso delle teorie della Guyon. Questo ho voluto dirvi perché a nessuno di voi venga in mente che questo amore di Dio abbia una maschera spaventosa; no. È un atto di virtù teologica, ma è umano. Non esclude che al secondo posto si ami Dio anche per il nostro bene, perché il nostro fine, la nostra felicità e la nostra corona sarà Dio stesso. – Ma come si fa a prendere questa volontà e mandarla verso Dio? Come si fa praticamente a tenere questo arco teso verso l’infinito? Perché dire che costituzionalmente l’amore di Dio è questo, si fa presto, ma a realizzarlo! Perché quando si passa dal dire teorico al fare pratico, potrebbe sembrare che niente ci sia di più difficile che prendere la volontà e spingerla avanti, come se fosse un missile. Come si fa? Veniamo al concreto. Ce l’ha detto Nostro Signore Gesù Cristo come si fa. Per amare Dio e volere Dio, si fa quello che vuole Dio. Ecco il modo col quale questa volontà tende concretamente, praticamente, obbiettivamente verso Dio. Gesù ha detto: « Non chi dice: Signore, Signore, ma chi fa la volontà del Padre ». E pertanto Gesù ci ha insegnato come si fa ad amare Dio e ha confermato che il primo dei precetti è questo: « Ama Dio con tutta la tua mente, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze ». Ossia saranno gli atti buoni della tua mente, della tua anima conformi alla divina volontà; sarà il pieno uso di tutte le tue forze secondo quella divina volontà che realizzerà l’attenzione, la gettata della volontà verso Dio. E questo mi pare che sia abbastanza semplice, e sicuro, perché ce l’ha detto Nostro Signore Gesù Cristo. Ma, arrivati a questo punto, noi dobbiamo preoccuparci di scendere a qualche dettaglio più pratico, perché la cosa diventi afferrabile nei dettagli dei fatti e non lasci in ombra qualche cosa che è di somma importanza. L’amore di Dio per realizzarsi deve passare attraverso gli atti concreti e conformi alla divina volontà. Ma questo impone al nostro amore di Dio di andare a passare da certe parti, e se da quelle parti non ci si passa, non si arriva lassù. E qui viene qualche cosa di duro, come ho già detto: « Chi non prende la croce e non mi segue non è degno di me ». E Gesù ha detto di sé stesso: « Io amo il Padre perché faccio la volontà del Padre » e l’ha detto a proposito della passione. Nell’orto degli Olivi ha detto: « Passi da me, se è possibile, Padre, questo calice; però non la mia, ma la tua volontà ». « È un battesimo, aveva detto un’altra volta, del quale ardo di essere battezzato », e questo battesimo era la sua croce. Ossia l’amore di Dio deve passare per il cammino della croce. Gesù continua, e il secondo comandamento è simile al primo: « Ama il prossimo tuo come te stesso ». Se l’amore di Dio non passa attraverso il prossimo, perde la strada, e a Dio non ci si arriva. Ecco, questo è il punto. Noi non amiamo Dio se non amiamo quello che vuole Dio, e Dio vuole che amiamo il nostro prossimo. Il nostro amore verso Dio è autentico quando è passato attraverso l’amore del nostro prossimo. È necessario vedere il carattere completivo dei due oggetti nei quali si ripartisce l’atto teologico della carità e dell’amore: Dio e il prossimo. Notate bene, sono tutt’e due atti di carità perché hanno lo stesso motivo. Il prossimo lo si deve amare per amore di Dio, cioè per lo stesso motivo per cui si ama Dio; e pertanto anche l’amore del prossimo è virtù teologica perché ha lo stesso motivo per cui si ama Dio. Ma se non si vede il carattere completivo dell’uno rispetto all’altro, ci si sfasciano nelle mani tutt’e due, ci si sfascia l’amore di Dio. Perché non si illuda di amare Dio chi non ama il prossimo, e non si illuda di amare il prossimo chi non ama Dio. La proposizione è reversibile, e capite perché. Se il prossimo si ama per amore di Dio, allora ce la si fa ad amare; ma se non lo si ama per amore di Dio, io vi sfido tutti a dire quanto dura. Perché, che volete mai? una parte del nostro prossimo si presenta qualche volta, a cominciare dall’esteriore, scostante: come si fa ad amarlo? Ci vuole altro! Se si ama Dio, ci si riesce, e ci vuole tutta; ma se non si ama Dio, è garantito che non ci si riesce. Sono tutte storie quelle che vanno predicando qua e là sull’umanitarismo; sono tutte sciocchezze alle quali non credono neanche loro. – Quelli che non vogliono sentir parlare nemmeno di Dio, tanto meno di amor di Dio, ridacchiano tranquilli, ma perché non amano sul serio, amano perché fa loro comodo, finché una persona abbastanza presentabile, abbastanza simpatica, abbastanza vicina. Nossignori; si deve amare anche chi è antipatico, anche chi ci ha fatto del male, i nostri avversari, i nostri nemici, i nostri assassini, anche quelli si devono amare. – Un giorno quei farisei sofisti che Gesù aveva sempre tra i piedi, gli hanno chiesto: « Ma chi è il nostro prossimo? ». Speravano che Egli, dopo aver parlato tanto del prossimo, facesse una certa cernita, e naturalmente ci mettesse loro, e poi tutti quelli che essi non amavano li escludesse. Guardate che cosa ha combinato Gesù. Ha raccontato una parabola in cui, a far la parte dell’amante del prossimo, ci ha messo un loro nemico, uno dei loro pessimi nemici, un samaritano, e a fare la parte di amato come prossimo ci ha messo un giudeo. Quelli si devono essere tagliati la lingua fra i denti. Ma Gesù ha dato loro questa risposta: Signori giudei, vostro prossimo sono i peggiori uomini che esistano al mondo, cioè i samaritani, e per farveli andar giù anche meglio, la parte bella la faccio fare a un samaritano, non a voi. Anche il peggiore degli uomini bisogna amare. – Costa, sapete, costa. Andate un po’ nel mondo, impicciatevi di tante e tante cose, vedrete come costa. Fintanto che il prossimo si vede in una comunità ordinata, anche lì ci vuole un po’ d’amore di Dio sul serio per resistere. Ma quando vi saltano fuori dei campioni, delle facce così false, dei filibustieri, dei mentitori, dei rivenditori di menzogne, delle vere canaglie negli affari, degli avversari politici, è garantito che bisogna tirar fuori l’amore di Dio e attaccarcisi con tutte e due le mani, altrimenti non ci si riesce. – Allora, che cosa è interessante qui, per arrivarci e perseverare? Fare la volontà di Dio e accettarla. Voi vedete come l’atto d’amor di Dio ha bisogno della obbedienza. Senza l’obbedienza, si sfascia l’amor di Dio nella nostra vita. Perché se non c’è questa accettazione, questo continuo piegarsi al Nostro Creatore, al nostro Padre che sta nei cieli, non si ama Dio. L’amore ha bisogno dell’obbedienza, ed è per questo che si deve fare un discorso speciale sulla virtù dell’obbedienza. Perché bisogna che nell’anima di nessuno rimanga l’equivoco che uno possa credere di amare Dio distruggendo in sé il principio della subordinazione a tutto quello che, in un modo o nell’altro, nelle persone, nei fatti, nelle leggi, nelle tradizioni, nei costumi, ci porta l’eco della divina volontà. Però se l’amore di Dio per realizzarsi ha bisogno dell’obbedienza, ha bisogno anche di un’altra cosa, ha bisogno del distacco dai beni terreni, perché è più che evidente, nella sua logica intuitiva, che un atto col quale si va verso Dio comporti l’allontanarci dalla terra. Se è atto di congiunzione tra due punti che sono distanti, avvicinarsi all’uno equivale allontanarsi dall’altro. Com’è possibile amare Dio, se non si distacca il cuore dai beni terreni? E allora l’esercizio del distacco del cuore dai beni terreni — che è certo la più grandiosa realizzazione della nostra esistenza, in quanto ci dà la vera libertà, la vera fierezza, la vera intoccabilità e la vera extraterritorialità dal mondo — diventa condizione necessaria per la sincerità dell’amore di Dio. Perché se il mio cuore se ne rimane terra terra, se io amo disordinatamente le creature, non arrivo a Dio, vado in direzione opposta. Il polo mio non è quello, io sono bell’e extrapolato, se non mi sono distaccato sufficientemente dalle creature. Voi sapete che questo distacco dalle creature non significa che si debbano disprezzare, non usare, non amare, vuol dire che devono essere ricercate non più di quello che possono essere ricercate, per amore di Dio, come ponti per arrivare a Dio, non come strade diversive da Dio. Il distacco del cuore dalle creature non vuol dire che si debbano odiare o che si debba loro negare l’amore che meritano; ma questo deve essere un mezzo per arrivare a Dio, non un tiranno sopra di noi che venga a escludere l’amore di Dio; ma queste cose terrene devono rimanere strumenti, non padroni. E pertanto il distacco del cuore dai beni terreni non è disumano, ma è soltanto un mettere ordine. Quello che è strumento deve rimanere strumento. Il mio vestito non è il padrone, è il mio vestito. Non sono io il servo del mio vestito, è il vestito che deve servire a me. È uno strumento. Se io metto tutta la gioia nel mio vestito, sono uno scemo, perché sono io che faccio da servo al mio vestito e non viceversa. È uno strumento il danaro; sta sotto, io devo star sopra. Questo deve essere il mio strumento, non il mio padrone; se comanda, se è il mio valore e la mia gioia, se apre e chiude la porta del mio cuore, se fa a me i giorni belli e brutti, se mi fa la faccia bella e brutta, se mi spinge più in là che di qua, se mi dà ordini, se mi fa diventare iracondo, violento, interessato, e io come un cagnolino eseguo tutti questi suoi ordini, sono il ridicolo, ridicolissimo servitore del mio servo. Capite che cosa vuol dire avere il cuore distaccato dai beni terreni? Non vuol dire né il disprezzo né il non uso; vuol dire tenerli al loro posto di strumenti, non di padroni. E se sono cose più nobili, come le persone, anche allora devono stare al loro posto di archi del ponte per arrivare a Dio, non di sponda alla quale io devo arrivare. Se invece di fare da archi per portarmi a Dio, fanno da sponda, allora debbo ricordarmi che il Signore ha detto: « Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me ». Tutte le cose possono essere amate per quel che sono, per quel che valgono obbiettivamente, per quella che è la loro funzione. Il distacco del cuore dai beni terreni, la povertà di spirito non è una grande rivoluzione, un atto di violenza, un gran saccheggio, una strage degli innocenti, una calata di barbari, un sacco di Roma. Niente di tutte queste cose; è semplicemente che le cose facciano quello che hanno da fare; il tappeto faccia da tappeto, io ci cammino sopra. Ricordatevi che come l’amore di Dio deve passare attraverso l’amore del prossimo, altrimenti non è degno; come deve passare attraverso la obbedienza, perché la obbedienza è quella che ci permette di fare la volontà di Dio, così deve avere come base di lancio il distacco del cuore dai beni terreni. Altrimenti noi diciamo di amare Dio, ma non è vero; ameremo noi stessi, ci illuderemo, ci metteremo davanti qualche idolo scrivendovi sopra: Dio Padre; ma è un idolo, non Dio. Questo è in concreto amare Dio. Io non vi ho parlato di sospiri: amore, amore! Sospiri languidi, infinito di qui, infinito di là, tesoro di qui, tesoro di là. Beh, se vi vengono bene, ditele pure quelle parole; ma c’è molto pericolo che queste parole facciano perdere la strada. Ecco quello che noi dobbiamo dire, con assoluta fermezza, prima di concludere la nostra meditazione: attenti! l’amore di Dio va difeso da tutte quelle modanature dolciastre di cui facilmente cerchiamo di circondarci per avere l’illusione di trovare in quelle Dio, mentre in quelle troviamo semplicemente la soddisfazione dei nostri istinti. Attenti, l’amore di Dio è una cosa di acciaio, è una cosa forte, è una cosa rude. Di natura sua, non è volto alla dilettazione. Qualche volta la porta anche; e se la porta, ringraziamone il Signore; ma non è affatto vero che dobbiamo averle le dolcezze, le esperienze superne che fanno parte della nostra patria futura. – Ricordatevi che Lutero si è rotto il collo per avere sbagliato qui; da tipo pazzoide e squilibrato com’era, s’è gettato alla mistica, lui, un frate agostiniano. E della mistica si è messo a ricercare la dilettazione divina, i gaudi del paradiso. E’ per questo che vi dico: l’amore di Dio, nel suo concetto e nella sua pratica va difeso dal sentimentalismo. L’amore di Dio è tanto più meritorio quanto più viene a essere, così permettendolo il Signore, nei momenti della nostra prova, spoglio di ogni consolazione interiore. La famosa notte oscura è uno di quei momenti a cui mi permetto di richiamare quelli che hanno letto i mistici: ma la notte oscura non occorre essere mistici per averla provata. La notte oscura sta anche al di qua del livello della mistica. Quando proprio le papille sono tutte cauterizzate e non si sente più nulla, quando pare di essere diventati sordi e non si avverte più, quando è notte fonda, senza luna e senza stelle, quando non c’è più niente che vibri, morti con una sopravvivenza puramente cerebrale, allora è la notte oscura. Oh, non occorre essere mistici per aver provato la notte oscura. Però v’avverto che sono i momenti di notte oscura quelli in cui si ama Dio sul serio. Quando non c’è proprio nessun diletto, quando tutto è volontà nuda e cruda. Allora veramente si ama Dio. S. Teresa, dopo essere entrata nel suo tirocinio, è stata per 18 anni nella notte oscura. In quegli anni ha provato persino a non credere all’esistenza di Dio. I 18 anni, come piacque a Dio, finirono, e quando finirono, essa era S. Teresa. Da allora il cammino dell’anima sua è stato trionfale, perché si è aperto, fino alla fine della vita, in una forma che è accaduta poche volte nella storia della Chiesa. Ma badate 18 anni! Viene freddo, sapete! Che cosa avremmo fatto noi? Per 18 anni, niente! Che queste mura non dicano niente, che questo altare non dica niente, che Dio non dica niente, che quel tabernacolo non dica niente, che il Crocifisso non dica più niente, niente per 18 anni. È proprio una gran santa quella! Sapete, gli spagnoli dicono che Santa Teresa si è preso un quarto del cervello di ogni donna; metà se l’è preso la Madonna, l’ultimo quarto è da dividersi fra tutte le altre. Io non accetto questo proverbio spagnolo, ma è una forma paradossale per fare l’elogio di una delle donne più grandi che abbia conosciuto il genere umano. Dico il genere umano. Anche come letterata, essa fa testo nella letteratura spagnola. Ma quei 18 anni! – Arrivare così a questo amore, difenderlo, spogliarlo da ogni cosa eterogenea e distante, liberarlo da ogni contaminazione, proteggerlo da ogni ombra, purificarlo da ogni sospetto, poterselo portare in mano per l’ultimo giorno e poter dire: Dio, Signore, Padre, io ti amo! Perché agli altri possiamo anche raccontare qualche storia, in fatto di amore, ma a Dio non possiamo raccontare storie; e allora la vita deve essere tesa a una serenità austera, ma che la innerva, che le dà fierezza, grandezza, decoro e dignità, purché si arrivi a questo atto ultimo che riassume la vita, l’amore di Dio. Il resto passerà; si spegnerà la nostra fede quando vedremo Dio; si spegnerà la nostra speranza, quando l’avremo raggiunto; ma non si spegnerà mai l’eterna carità. E pensare che questa ce la stiamo facendo ora. E allora facciamocela!

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (11)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(11)

13. L’orazione

Per quanto già abbia sommariamente parlato di uno degli strumenti fondamentali della perfezione cristiana, che sono il Sacrificio e i santi sacramenti, io debbo parlare di uno strumento che a quelli è connesso e che è dirimente, perché in un certo senso, non per la dignità e per il valore, ma per la logica, direi che li precede. É la orazione. La orazione non è il primo strumento della santificazione, della nostra perfezione, perché il primo strumento sono i santi sacramenti e il santo Sacrificio; però deve ritenersi che molto meno si attinge dal Sacrificio e dai sacramenti se non c’è l’orazione nella vita; vorrei dire che, secondo l’ordine di natura, non di dignità, in un certo senso l’orazione è il primo strumento della nostra perfezione. Dobbiamo parlare della orazione sotto un determinato profilo, cioè in quanto e come essa serve alla perfezione più completa della nostra vita. Credo che bisogna formulare questo principio: noi progrediamo nella perfezione, risolviamo le nostre questioni spirituali, questioni esterne e questioni interne, nella stessa proporzione con cui siamo impregnati di orazione. Ricordo che quando ero piccolo credevo che i Santi fossero tali perché stavano inginocchiati tutto il giorno con le mani alzate. Avevo visto qualche immagine in cui erano rappresentati così ed ero convinto che per essere santi bisognava stare tutto il giorno inginocchiati con le braccia alzate, ragion per cui disperavo di poterlo diventare. Vedete che idea della santità! Però dopo tanti anni ritorno a dire che la prima intuizione che ho avuta da bambino era più giusta di tutte. A parte le ginocchia che non ce la farebbero, a parte le braccia che non ce la farebbero, a parte sto fratel-corpo che non ce la farebbe a stare così, la verità è che i santi si fanno con la grande orazione. – Noi oggi studiamo la orazione non in sé stessa, per sé stessa, ma in quanto serve alla perfezione. Voi l’avrete studiato tante volte; ma io debbo dirvi con assoluta certezza che quando si tratta di via della perfezione, con l’orazione risolviamo tutto, è certo: sormontiamo tutti gli ostacoli, è certo; realizziamo tutte le nostre soprannaturali mire, compatibilmente con la sottomissione ai disegni della divina volontà. E Gesù Cristo l’ha detto, questo, e l’ha detto chiaro quando ha parlato della infallibilità della preghiera. – La preghiera è sempre efficace. Non sempre ottiene l’oggetto per cui preghiamo; noi siamo così corti che possiamo domandare a Dio il nostro danno o il danno di tutti. Perché ci sono delle orazioni che, se Dio le accogliesse, sarebbero a danno nostro, a danno dei nostri fratelli, a danno di tutta la comunità; noi guasteremmo tutto con le nostre preghiere; se Dio sempre le accogliesse, squinterneremmo tutto; ma Dio questa brutta figura non ce la fa fare, e allora cambia l’oggetto. Domandi questo che ti fa male, prendi quest’altro che ti fa bene! – Ma quando si tratta della perfezione, siccome la perfezione è un oggetto giusto, saremo sempre ascoltati, anche se, trattandosi di mezzi di perfezione, Dio può benissimo cambiarli facendoci passare per una strada un po’ più diretta o un po’ più nascosta o per una strada meno evidente alla nostra intelligenza ma di cui Lui sa e conosce con infinita certezza la maggiore efficacia. Quando si tratta di perfezione, siccome non sempre giudichiamo bene dei passaggi e degli elementi intermedi, Dio li può sostituire; ma sull’oggetto generale della perfezione Dio ci ascolta sempre, se abbiamo la persistenza della preghiera. Questo è l’annuncio più bello che io vi devo fare in questi Esercizi. Siamo partiti dicendo: studiamo la perfezione cristiana, perché la perfezione cristiana non è una chimera, è una proposta che Gesù Cristo ha fatto agli uomini. Questa sera sono in grado di dirvi che la questione può essere risolta con certezza. Tutti possiamo arrivare alla perfezione, purché la orazione entri dentro da impregnarla tutta, da farla tutta quanta vibrare, da costituirla tutta in una luce nuova senza violentarla. Vedete, come si facevano i cornicioni? Come facevano a far sostenere anche sbalzi di due o tre metri? Mettevano un mattone che sporgesse qualche centimetro, e su quello comprimevano; e poi un altro mattone che sporgesse qualche centimetro, e su quello comprimevano: a questo modo i cornicioni sporgevano di qualche metro; erano fatti di mattoni che sporgevano ciascuno per qualche centimetro. Anche nella vita spirituale Dio ci ha dato questa risorsa. Noi non dobbiamo affrontare le questioni in blocco, non affrontarle per il loro peso, per il loro volume. Basta che ne risolviamo una piccola parte iniziale; con quella si rimette a posto tutto. Ci saranno passioni: orazione, e vanno a posto tutte; istinti indiavolati: orazione e anche quelli sono domati; sentimenti mezzo matti: orazione e li mette a posto; passato subcosciente e incosciente, temperamenti fatti a rovescio, sensibilità che sono clamorose: non temete, orazione, e va tutto a posto bene. Ma orazione, ricordiamo, a un certo modo. Come vedete, io uso la parola orazione piuttosto che la parola preghiera, perché la prima: orazione è quella meditativa, quella mentale, quella della quale io ho avuto modo di dirvi che, a nutrirla e a sussidiarla bene, può diventare, senza varcare il limite dell’ordinario, contemplativa; quando cioè la intuizione intellettuale vede senza bisogno di troppo raziocinio e, vedendo, penetra senza variarne la proporzione, come se la luce la imbevesse, la pace la componesse e l’illuminazione suprema tutta la impregnasse. È la meditazione la grande orazione. Quand’è che le ruote della orazione mentale si muovono? Quand’è che la orazione mentale può arrivare a quella posizione di quiete contemplativa? Quando è preparata. Come la si prepara? Badate che è nella preparazione il segreto della sua risposta. Io conosco molta gente che dice: Mi metto a fare la meditazione e la testa è sempre fuori, oppure è come un arancio secco; spremo, spremo, spremo, non viene fuori niente. Beh, questo potrà essere anche spiegabile per tante circostanze contingenti e non abituali. Però, perché generalmente accade questo? Perché non c’è preparazione alla orazione. E come si fa questa preparazione? Ve ne dico gli elementi: quanto più essi entreranno nella nostra vita, tanto più diventeremo dei contemplativi senza per niente diventare dei distratti. Io conosco delle persone che fanno la meditazione tutto il giorno, e sono persone che vivono con gli occhi aperti; l’abitudine è diventata tale che tutto il giorno, dalla mattina alla sera, sono in contemplazione. Nessuno se ne accorge né se ne può accorgere, ma praticamente essi ci sono dalla mattina alla sera. Questo spiega tutto. – Badate, è la preparazione che tiene il segreto della meditazione, perché chi crede che il lavoro della meditazione, dell’orazione mentale comincia nel momento in cui si fa il segno della santa Croce, si dicono quelle due preghiere, si apre un libro e si comincia a leggere, sbaglia. Può essere che gli vada bene, sì, ma può essere che non gli vada bene. – La preparazione è fatta di un avvistamento dell’argomento prima, ed è per questo che è assolutamente necessario che per la meditazione che si fa il mattino l’avvistamento del tema sia fatto la sera prima. Non pare, ma è questo il primo elemento germinativo della meditazione. Deponete un germe, un fermento nell’animo, lasciate che lo afferri il subcosciente, che lavora sempre anche quando noi dormiamo, e vedrete che cosa potrà essere domani. Io credo che molti non facciano alcun caso a questo, mentre è tanto importante. Avvistare prima e permettere poi che quella officina sotterranea che in noi si chiama subcosciente, che Dio ha mirabilmente costruito e di cui noi non conosciamo le leggi, ma di cui conosciamo soltanto la esistenza e di cui talvolta comprendiamo gli effetti, agisca per noi. Siamo furbi, mettiamo a profitto anche il dormire. Perché in questo caso viene a profitto anche il dormire. Ora guardate di quali altri elementi si può avvantaggiare la preparazione. Si avvantaggia del silenzio; per questo c’è da raccomandare di osservare il massimo silenzio il mattino prima di fare la meditazione, salvo quelle parole che sono necessarie per la cortesia, per l’urbanità, per l’ufficio. È questo silenzio, anche non meditativo ma silenzio, che lascia filtrare qualche cosa, che prepara alla meditazione del mattino. Ma non basta; c’è anche una preparazione più “a longe”, ed è ogni argomento spirituale che si tratta nella giornata. Non parrebbe, vedete, che il parlare di argomenti spirituali, il far volgere il discorso a qualche cosa di spirituale, il fare la lettura spirituale debba servire alla orazione; ma non è così. È come lasciar acceso in sordina un motore che non si spegne mai; è l’abitudine, durante la giornata, di spingere le constatazioni e le cose che si vedono, anche le più umane, le più modeste, le più materiali, le più ordinarie a considerazioni di fede: cosa che non costa ed è facilissima. Questo è veramente lasciare il motore in sordina sempre acceso. Se ne prende l’abitudine anche senza parlare, perché tante volte si è in mezzo a gente con la quale non si possono fare discorsi spirituali, perché se si facessero si annoierebbe o si otterrebbe l’effetto contrario; bisogna essere discreti con gli altri. Ma con sé stessi, questa abitudine di fare considerazioni spirituali su tutto e di portare tutto, a un certo momento, a una considerazione di fede, sfruttando tutte le cose che si vedono, è sempre possibile. Si vedono immagini della Vergine, immagini dei Santi, un luogo sacro, si ode un suono di campana, si vede una persona buona il cui solo apparire è un buon esempio che dà. Tante cose: sempre considerazioni di fede. Tutto questo crea l’ambiente a longe di cui si beneficia quando ci si mette a fare la orazione mentale. Non solo è una preparazione, ma in questo modo, perfezionandosi senza per niente trasformare la propria vita, facendo quel che si deve, giocando, studiando, facendo il proprio dovere con serenità e con letizia, si può riuscire a cambiare tutta la giornata in un atteggiamento di continua presenza a Dio. – Voi riconoscete facilmente gli uomini che vivono sempre alla presenza di Dio. Non ne parleranno mai, per discrezione, ma sono diversi dagli altri. Ci sono degli uomini dei quali non si sa dire il perché, ma sono diversi dagli altri. Perché sono diversi dagli altri? Perché c’è sempre in loro una lampada accesa; eppure li vedete praticissimi, attentissimi ai loro doveri, socievoli, pronti allo scherzo, alla letizia, all’allegria; proprio quelli sono i motori dell’allegria, perché possono darla agli altri sino a contagiarli tutti. Non si saprebbe dire che cosa c’è in loro. C’è una vita profonda che esternamente non si vede, ma che dal fondo riecheggia; è la preparazione all’orazione mentale. – Ora parliamo di quella non mentale, della preghiera propriamente detta. In realtà la distinzione tra orazione mentale e orazione vocale non è una distinzione adeguata, è una distinzione equivoca, perché qualunque orazione detta vocale deve essere un pochino mentale, altrimenti non è orazione. La distinzione è fatta così, come per sgranare l’argomento in diversi bocconi, non perché esista una sostanziale diversità. Invece è da affermarsi la almeno analoga identità e forse la univoca identità. A ogni modo è certo che la orazione detta vocale è meno impegnativa, è più immediata, costringe meno la nostra capacità raziocinante, disturba meno la nostra inventiva, mette meno in moto tutte le nostre riserve, e pertanto è più facile. Difatti c’è molta gente che arriva a quella vocale; quanto a quella mentale, ne ha paura e quando deve fare la meditazione, dorme e amen, ha risolto il problema così. Ma quella vocale è necessaria. Nella alimentazione materiale ci sono dei cibi che danno 600 oppure 650 calorie ogni 100 grammi. Ma se vivrete continuamente di cibi che danno 600, 650 calorie ogni cento grammi, vedrete che cosa vi succede. Ci vogliono anche gli altri cibi, dei cibi che diano solo 30, 40, 50 calorie ogni 100 grammi. Così nella alimentazione spirituale è necessaria anche la preghiera vocale, senza tener conto di quanto essa è necessaria nella vita di comunità. Quand’è che la comunità cristiana si ritrova? Si ritrova per la preghiera vocale. La preghiera mentale non è un fatto comunitario; comunitario potrà essere l’enunciato, la predica, come la sentite voi; ma se sentiste solo e non faceste altro, sarebbe inutile aver predicato; il bello viene dopo, ciò che succederà nella vostra testa. – Ma la preghiera vocale è essenziale alla vita della comunità cristiana, ed è non meno essenziale alla vita individuale. La preghiera vocale è come quella pioggerella fine, non violenta, che non fa le ampolle per terra; quella pioggia che penetra e che ci vuole per attivare le semenze senza distruggere i virgulti e senza portar via i fiori. Ci vuole la preghiera vocale; è necessaria, è più facile della preghiera mentale; si può insinuare in tutti gli angoli, è un po’ come i motoscooter che si infilano tra le macchine e per questo, quando le strade sono tortuose, passano sempre avanti alle automobili. Ora questa preghiera vocale di che cosa è fatta? Ecco, siccome deve impregnare la vita anche questa, perché resta, come l’altra, condizione per la perfezione da raggiungersi, bisogna studiarla dal punto di vista il più raggiungibile da tutti. Tenete presente che la preghiera vocale non è soltanto quella fatta a formule; quella precede, perché ha le formule divine della orazione tolte dalla Sacra Scrittura, le formule santissime tolte dalla veneranda antica tradizione della Chiesa, e quelle precedono tutte le altre; ma con Dio si può fare un dialogo anche senza formule. Con Dio si può parlare mediante i silenzi, perché Dio capisce anche i silenzi illuminati da una intenzione, i silenzi che non dicono nulla, ma uniscono l’anima a Dio. Anche i silenzi fanno parte del dialogo col Padre che sta nei cieli. E quante volte i silenzi servono mirabilmente, i silenzi aperti e illuminati da una precisa intenzione. Poi il dialogo fatto col Signore verte su tutto. Con gli uomini noi non potremmo parlare di tutto, perché riderebbero. Dio che ci ha creato è l’unico che non ride; con Lui possiamo parlare di tutto quello che abbiamo nell’anima, con una semplicità da bambini. Non abbiamo niente da nascondere a chi ci conosce da tutta l’eternità, e possiamo parlare con quelle modanature che non terremmo con gli altri. Con gli altri dovremmo cercare modanature a seconda dell’altezza della nostra cultura, delle nostre abitudini, intonate al nostro abituale contegno. Con Dio non occorre questo, siamo dispensati. Il dialogo col Signore può essere su qualunque cosa, la più immediata, sto per dire la più senza senso, perché con Dio si può parlare senza mettere troppo in moto il potere raziocinante. L’immediatezza: è questa preghiera che può riempire tutti gli angoli della nostra giornata, questa preghiera che riduce ogni questione a un consiglio di bambini; e questa preghiera fa sì che la orazione si possa attuare sempre, senza sforzo; e allora, fatta così, realizza veramente la presenza di Dio nella nostra vita. E quando piove a questo modo, le sementi germinano. – A questo modo si impone all’evidenza che il primo sblocco delle nostre difficoltà è quello di parlarne con Dio; il primo epilogo di qualsiasi questione si fa col parlarne con Dio. E state tranquilli che quando questo accade, si è con certezza sulla via della perfezione. Come le anime semplici arrivano alla perfezione? Perché c’è tanta gente alla quale nessuno ha insegnato l’ascetica, eppure è sulla via della perfezione? E ce n’è di perfezione, ce n’è di grazia di Dio! Perché hanno avuto la orazione, e con questa hanno trovato tutto. Se occorresse fare delle rivelazioni, Dio le farebbe; ma non c’è bisogno che Dio faccia delle rivelazioni con nubi, con Angeli e altre cose; non occorre affatto, perché Dio ha modo di parlare alle anime; e le anime non se ne accorgono, ed è bene che non se ne accorgano, ma è Lui che detta. E questo accade molto più di quanto non si creda. Perché? Perché hanno l’orazione. Quale orazione? Talvolta non sanno dire altro che l’Ave Maria: Ave Maria! Ave Maria! Rosari su Rosari! Non state a osservare che non hanno cominciato dalle forme cerebrali; non importa; hanno messo il cuore nel dire l’Ave Maria, e nella seconda Ave Maria ce ne hanno messo un po’ di più. E il resto com’è stato? Mah, non si sa come è stato, però alla perfezione ci sono arrivati, il che vuol dire che la amministrazione del loro intelletto è stata, agli effetti della perfezione, maggiore di quella che forse può avere un grande teologo. Hanno avuto l’orazione e con quella hanno trovato tutto.

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (10)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(10)

12. La legge dell’amore

Inserirsi pienamente nell’ordine soprannaturale è condizione essenziale per raggiungere la perfezione. Ho detto le diverse condizioni per inserirsi pienamente nell’ordine soprannaturale. Alcune le ho dipanate, un’altra l’ho lasciata da dipanare, vi ho accennato soltanto per compiutezza d’elenco, ed è questa: il nostro comportamento morale coerente a quell’ordine. – Si tratta di questo. A Dio, il quale oltre l’ordine della creazione ci ha dato l’ordine soprannaturale e la Redenzione, noi dobbiamo dare qualche cosa. Questo è estremamente logico. A Dio che ci ha dato più della vita e del cosmo in nostro uso, ma che ci ha aperto un mondo infinitamente più grande di noi, che ci ha prospettato un più vasto orizzonte, dobbiamo dare, col nostro contegno morale, qualche cosa di più. È qui dove si vede la valutazione degli uomini onesti che sanno. Molti non sanno. Ma quelli che sanno debbono trarre una conclusione, semplice, spontanea, la cui logica è evidente. A Dio bisogna dare qualche cosa di più di quello che la semplice morale umana forse sarebbe disposta a concedere. È questo di più che importa mettersi bene in testa. La formula stessa: qualche cosa di più, è una formula che indica generosità. E allora ci rimanga nella mente che noi diamo questo di più in quanto entriamo in una formula di generosità, dove non si fanno i piccoli conti, dove non si aguzza l’ingegno per poter definire fino a quale punto si riesca a fare il proprio comodo senza offendere Dio. Questi discorsi non hanno più posto e ragione. A Dio si deve dare di più. Si deve di più per una ragione ontologica che è quella della proporzione. Inseriti nella grazia col Battesimo, noi non siamo più per Iddio semplici creature, noi siamo figli, e allora il livello morale deve alzarsi, dal piano dei servi deve arrivare al piano dei figli. C’è stato un cambiamento ontologico nella nostra situazione; ci deve essere un pari cambiamento ontologico nel nostro comportamento morale. Dal piano dei servi al piano dei figli. Tutti capiscono che non è lo stesso piano, e del resto anche fra gli uomini la differenza fra i due piani è evidentissima e generalmente si presenta come alquanto odiosa. Ma qui siamo con Dio. A Dio bisogna dare quello che corrisponde alla dignità di figli che Lui ci ha data. – Dove possiamo prendere per dare a Dio nel margine che egli ha lasciato a nostra discrezione? Il margine che ha lasciato a nostra discrezione è quello in cui siamo liberi di scegliere tra il più e il meno; perché veramente ci muoviamo con l’intera responsabilità, e pertanto con la nostra imputabilità e col nostro intero merito. Dobbiamo restituire. Che cosa restituiremo? Nel momento in cui moriremo restituiremo la vita che Dio ci ha dato; tanto se la prenderebbe ugualmente. Ma è nella nostra libera elezione che noi abbiamo la capacità di poter fare una restituzione dignitosa, una di quelle restituzioni che avvengono non per naturale svolgimento delle cose. Accade che talvolta gli uomini superbi accettino, cioè si pieghino a Dio nel momento in cui muoiono, perché allora si curvano, piegano la schiena davanti a Dio. Che merito c’è? C’è un’altra ragione perché noi dobbiamo dare di più. E ‘ per la nostra assimilazione a Gesù Cristo. Dite un po’: dobbiamo lasciarlo solo sul Calvario? Solo sulla croce a offrirsi per tutti gli altri e a perdonare a quelli che lo insultano? Dobbiamo lasciarlo solo? Ma che faccia avremmo noi? Che dignità ci rimarrebbe, non dico di cristiani ma di uomini, se sul Calvario lo lasciassimo solo? E ‘ ovvia la ragione. Noi dobbiamo dare a Gesù Cristo, a Dio nostro Padre e nostro Salvatore, più di quello che esige la semplice morale umana. Mi pare tanto evidente! – Ora veniamo al pratico. Il di più dove ci viene descritto? Nell’Evangelo. E tutto l’Evangelo forza i limiti della morale umana, perché esso odia la morale consuetudinaria, che è stata insegnata dai saggi, dagli uomini onesti fuori del Cristianesimo. – Prendiamo la morale mosaica e vediamo che arriva a certi limiti e a quei limiti si ferma. Il Vangelo questi limiti li forza tutti. Non sarebbe pedagogico richiamare del Vangelo tutto quello che induce il di più; pertanto io mi soffermo su alcuni punti che sono estremamente caratteristici, sono tali che, assolti quelli, è assolto tutto il resto. – Il punto certamente più caratteristico è quello dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. Nostro Signore ha detto: « Chi vuole essere con me, chi vuole venire dietro di me, prenda la sua croce e mi segua ». Quando egli diceva queste parole, aveva dinanzi l’ombra della propria croce; gli altri forse non hanno capito niente perché, per quanto già ci fosse stato un annuncio della Passione del Signore, essi erano assolutamente riottosi su questo punto e non ne volevano sentir parlare. Basta ricordare la reazione di Pietro: « Dove vai tu, vengo anch’io ». Erano riottosi, non avevano le orecchie aperte a sentir parlare di croce. Io penso che quando Gesù ha detto quella frase, gli apostoli non abbiano capito niente; a ogni modo l’ha detta sapendo che l’avrebbero capita poi, dopo il commento che Egli ne avrebbe fatto con la sua vita. Comunque rimane che Gesù ha detto che chi vuole andare dietro di Lui deve prendere la croce. La croce è una caratteristica del più che noi dobbiamo restituire al nostro Salvatore. Leviamoci dalla testa che la via della perfezione sia una via asfaltata, senza ostacoli, senza salite e senza discese, in piano, in mezzo ai boschi d’estate per avere fresco, senza ombre d’inverno per goderci il sole. No, la via della perfezione non è questa. Bisogna scuotere l’anima nostra da un certo preconcetto che disegni l’avvenire un po’ con la liturgia del Natale, un po’ con la liturgia della Pasqua, un po’ col canto dei fringuelli e così via. Una composizione di colori, tutti ben dosati, in rapporti tonali armonici, se non perfetti, e poi molta luce, e per di più il gaudio delle cose eterne, e poi tante belle consolazioni spirituali, e poi tanti sorrisi e tante belle cose col sorriso di ritorno. No, questa non è la via della perfezione. La via della perfezione è quella della croce. Gesù ha detto che la via che conduce alla vita è stretta e che la porta è angusta: metafora di commento alla via della croce. – Noi non possiamo prescindere da questo concetto, che la via della perfezione deve essere necessariamente una via della croce. Questa non è un’affermazione spaventosa, perché io non ho detto che sulla croce ci si rimanga attaccati tutta quanta la vita. Nostro Signore sulla croce c’è stato tre ore e poi è morto. Ma la croce ci deve essere nella vita e non la si deve respingere; la si deve accettare, e bisogna anche un po’ cercarla: e non vi sembri violento questo, non vi sembri sadismo, perché il cercarla fa un po’ da contrappeso alla voglia di scappare quando c’è, e così si tiene l’equilibrio; ma anche perché il cercarla anche quando non c’è, dà la misura della nostra generosità e del nostro amor di Dio. Voi sapete che i sacrifici si distinguono in diverse categorie. C’è un sacrificio che è legato all’adempimento di qualche dovere, perché tutti i doveri costano in qualche momento. Ci sono dei doveri che sono piacevoli, ma non resistono ad essere sempre piacevoli, e talvolta debbono diventare spiacevoli anche per il fatto che, se non si rovesciano loro, ci rovesciamo noi; ma possono diventare anche pesanti e talvolta dolorosi, di dolore anche lancinante. E allora il sacrificio bisogna farlo. Ma c’è un altro ordine di sacrifici: vi sono dei sacrifici che non sono direttamente collegati coi nostri doveri, e tra questi possiamo scegliere. Qualcuno è leggero, ma non dobbiamo eleggerne il numero maggiore possibile, dobbiamo orientare la nostra simpatia verso le cose che ci piacciono meno, che ci soddisfano meno e costano di più. Noi possiamo dire d’aver raggiunto una buona quota nel cammino della perfezione quando saremo così snodati da essere quasi nella santa indifferenza per quello che ci piace di più e quello che ci piace di meno, per quello che ci costa di più e quello che ci costa di meno, tali da fare con la stessa facilità le cose che ci costano di più e quelle che ci costano di meno, tali da fare con lo stesso sorriso le cose che ci sono antipatiche e quelle che ci sono simpatiche. – Allora si arriva a quello che gli asceti chiamano lo stato di indifferenza, che non è lo stato d’inedia, d’ignavia, d’assenza del sentimento, tutt’altro; è lo stato della positiva e volitiva perfetta padronanza di sé stessi. Ma a questo stato non si arriva se non in molti anni, e bisogna cercare di far pendere la scelta dalla parte delle cose che non piacciono e che costano piuttosto che dalla parte delle cose che sono di nostro gusto e di nostra simpatia e che sono fatte per riempirci di gloria, di diletto, che costituiscono un perenne diversivo. Non dico che, almeno in partenza, debbano essere eliminati tutti i diversivi della nostra vita; non sarebbe certo una buona norma per chi è ai primi passi e per chi di passi ne ha fatti pochi: bisogna essere umani. Però man mano che si va avanti, diminuisce il bisogno di mettere il diversivo nella vita, salva si capisce la ragione della sanità. Perché, specialmente quando si debbono fare i conti con questi poveri mezzi di cui disponiamo noi esseri umani, possiamo benissimo volere, ma talvolta abbiamo un frate asino che strepita e che a un certo momento, in certe situazioni non tratteniamo più, non controlliamo più. E talvolta, bisogna dirlo, il lavoro consuma non la vita ma il sistema nervoso, e si arriverà a un certo punto in cui ci sarà qualche cosa in noi che è diventato la nostra penitenza costante, che noi non teniamo più in mano. – Ma quando si arriva a questo stato, che è di malattia, stato patologico, allora avverrà la nostra ascesi, la grande ascesi. Allora bisogna pure mettere tra i casi possibili situazioni che non dipendono più da noi, ma che si debbono semplicemente subire; e può essere che soltanto nel fatto di subirle vi sia un immenso merito. Perché qualche volta ci sono delle paralisi che non sono affatto colpa, ma sono semplicemente croci che si aggiungono, costituiscono una umiliazione che Dio permette perché sia maggiore il merito della nostra vita. – Ma qui entriamo in una casistica marginale. Io dovevo accennarvi almeno, perché devo anche supporre che qualcuno dei miei ascoltatori potrebbe trovarcisi un giorno. E allora prenda coraggio; ci sarà sempre una soluzione, perché una soluzione c’è sempre per tutto. Ci possono essere delle soluzioni più su, delle soluzioni più giù, vi sono delle soluzioni che possono sembrare anche così, da meschinelli. – Ma le soluzioni possono sempre salvare la ragione della perfezione anche nella peggiore delle situazioni, perché anche quando non si vince trionfando, si vince perdendo; anche quando non si vince conquistando, si vince cedendo a Dio tutto quello che si ha, buono o cattivo che sia. – Comunque è certo che la via della croce bisogna abbracciarla e che accanto ai sacrifici che si devono accogliere, perché sono insiti, connaturati, immanenti nell’esercizio del proprio e semplice stretto dovere, ce ne sono altri che si possono scegliere. Il limite della sufficienza non è un limite degno dell’amore. Quando Gesù ha voluto fare un dono al suo Vicario e dargli un onore, gli ha profetizzato il martirio: « Quando sarai vecchio, stenderai le mani, e un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorresti ». Pietro se ne sarebbe ricordato, e quando è venuto il momento, non ha voluto che la croce fosse rizzata nel modo normale, ha chiesto e ottenuto che la croce fosse capovolta. Così è andato in croce, e così l’annuncio del Salvatore si è adempiuto: nella sua libera elezione egli ha voluto morire rovesciato, con la testa in giù. Non si sentiva dì fare da controfigura al suo Salvatore. Il dono che ha fatto Gesù Cristo al suo primo Vicario, badate, è stata una croce, e glielo ha detto per tempo affinché la vedesse per tutta la vita. Non che gli apparisse l’ultimo “giorno e che per tutta la vita se ne stesse giubilando di primavera, ma che la vedesse tutta la vita, perché fosse in grado di accettarla tutta la vita, di volerla tutta la vita. – Io non so molto dell’intimo di Pietro, ma forse non vado lontano dal vero dicendo che la sua conclusione, la preghiera fatta: rovesciate questa mia croce e mettetemi con la testa in giù, non era altro che il frutto di una meditazione durata tutta la vita. Ci è arrivato preparato dignitosamente e con la ferma volontà di volerla e accettarla, ma di toglierle la somiglianza con Gesù Cristo; non se ne sentiva degno. E forse la sua ultima preghiera è proprio la rivelazione di una contemplazione e di una accettazione che è stata costante per tutta quanta la sua vita. Il dono di Cristo al suo Vicario è stata la croce. Non esattamente una croce d’oro, ma una croce autentica; non una croce sul petto, una croce dietro le spalle. – Ora voi capite che non è possibile che noi allontaniamo la croce dalla nostra vita cercando di imbottire tutte le pareti. Non dobbiamo allontanarla, certi che quando essa compare, quando già si delinea, è quello il momento di Dio. È quello il momento del massimo amore nostro per Lui. Il Vangelo è questo: Vangelo concreto, Vangelo austero, Vangelo duro. – Tra le cose che Gesù ci ha detto nel Vangelo ne prendo una che pare l’ultima, ma che è riassuntiva, perché se si riesce a fare quella, si fa tutto il resto. E questa non me la invento affatto. C’è un apostolo, cugino di Gesù Cristo, che ha scritto una lettera, è la Lettera Cattolica di S. Giacomo. Vi pregherei di leggerla. Perché questa lettera non indugia, come avrebbe fatto S. Giovanni, sulla carità, che è certamente il centro della elevazione morale cristiana; questa indugia invece su un’altra parte, indugia sulla lingua. E come dice che la lingua è l’università di tutte le iniquità, dice anche che è il concentrato di tutte le verità e virtù. Un apostolo che la sapeva lunga, e non soltanto perché era cugino di Gesù Cristo ma per molti altri motivi, ed era divinamente ispirato, ha richiamato i cristiani su quel punto. – Del resto quel che si vede di più negli uomini è che la lingua non la sanno tenere a posto. L’argomento è interessante, è un rigoroso, un forte argomento che va trattato con grande acutezza, ed è per tutti questi motivi che io l’ho messo qui davanti. Nel di più che dobbiamo dare a Dio c’è anche questo: che dobbiamo tenere la lingua a posto. Voi sapete bene che se si riesce a tenere la lingua a posto vuol dire che abbiamo tutte le virtù, perché questa arriva per ultima, non per prima. Quando si arriva a non giudicare più il proprio prossimo, a non prendersi più la soddisfazione di starsi a sentire, quando si arriva al punto di non rivelare quello che si sa di meno onorevole del nostro prossimo, di non pronunciare più nessuna parola forte, di contenere sempre la parola nei limiti dell’onesto e dell’utile al prossimo, togliendone tutto quello che può per il prossimo diventare incitamento non solo al male, ma a situazioni meno nobili e meno sicure, è garantito che noi abbiamo raggiunto la stabilità della virtù. – Quando dieci anni fa io stavo pensando a una norma riassuntiva da dare ai miei cappellani di fabbrica, dopo aver pensato e ripensato, ho concluso col dire così: « Io vi chiedo due sole cose, il resto sono sicuro che vien da sé; datemele, vi chiedo poco. Vi chiedo di non fumare mai e vi chiedo di non dire mai male del vostro prossimo, chiunque esso sia. Se mi date solo questo, io sono contento, ne ho abbastanza ». Sono passati dieci anni e debbo dire che in sostanza mi hanno dato tutte e due le cose, forse perché sono stato discreto nel chiedere. Ho pensato che bisogna levarsela questa sigaretta dalla bocca, perché non credo che i nostri fratelli, e parlo a voi sacerdoti, abbiano di noi stima quando ci vedono sul loro piano, con le loro stesse debolezze; bisogna che ci vedano su un piano più alto, dove ci ha messo Nostro Signore Gesù Cristo. Ci devono vedere più in su, bisogna che vedano in una forma tangibile che noi non abbiamo le loro stesse abitudini e che di qualche abitudine, che per loro può essere onesta se contenuta entro certi limiti, noi sappiamo essere al di sopra. È un errore credere che per essere vicini ai nostri fratelli dobbiamo assumere i loro difetti o, se non i loro difetti, i loro usi umanissimi e i loro divertimenti. – Poi ho chiesto loro di non dir mai male del prossimo, salvo ben inteso quando c’è un dovere da compiere, quando devono dare rapporti doverosi; e allora devono dire le cose come sono, allora è dovere d’ufficio, non è la propria voglia, il proprio orgoglio, la propria soddisfazione; allora non si parla in funzione della persona propria ma in funzione di un incarico. Quando si parla per dovere, viene quella naturale castigatezza, quella connaturale prudenza, sovente quella discrezione che tutela noi nella virtù. – Non dire mai male di nessuno. Quando arriveremo a non lasciar mai uscire dalle nostre labbra una parola oziosa, quella parola oziosa della quale parla l’Evangelo; quando arriveremo a non giudicare più nessuno, riservandoci di giudicare soltanto se gualche volta avremo l’ufficio di giudici; quando saremo arrivati a non prendere più nessuna soddisfazione a danno del nostro prossimo, allora potremo dire d’aver salito alcune rampe della scala che porta a Dio e di aver fatto un cammino lungo nella via della perfezione. Nostro Signore Gesù Cristo ci ha detto che saremo giudicati anche di una parola oziosa. S. Giacomo vi ha fatto il commento. E allora, dovendo parlare del di più che dobbiamo dare a Gesù Cristo perché ci ha portato in un ordine soprannaturale, come vedete ho preso un po’ di là e un po’ di qua. Ho preso la legge dell’amore che è la croce. E poi ho preso quest’altra, tante volte trascurata massima evangelica, che sembra un epilogo, ed è effettivamente un epilogo. Però è una di quelle porte strette che, se si vogliono passare, bisogna diventare piccoli per forare, e diventando piccoli, ci si entra; si prendono le nostre giuste proporzioni, quelle che Dio ci vuol vedere addosso per guardarci con sguardi di compiacenza. Non sarà in sé stesso la pienezza della carità e della grazia il dominio sulla lingua, però è certo che per poterlo possedere bisogna avere e la pienezza della carità e la pienezza della grazia. E ‘ uno di quegli elementi di controllo, di quei traguardi che sembrano più materiali degli altri; però, materiali come sono, a volerli toccare si deve fare tutto e avere tutto. Si deve avere la pazienza, la discrezione, l’umiltà, il dominio di sé, la chiarezza intellettuale, la verità nell’anima, la semplicità, tutto. Se questo non c’è, si parla, si parla strabocchevolmente, si rompono i timpani del nostro prossimo, come i fiumi che fanno delle vere alluvioni. Ma se la lingua la tenete a posto, non c’è alcun dubbio, domani vi si canonizzerà.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (9)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(9)

11. La Grazia

Non è possibile pensare a una perfezione cristiana senza un inserimento completo nell’ordine della grazia. L’inserimento nell’ordine della grazia è essenziale per la perfezione, perché è la vita stessa della perfezione. Non ve ne ho parlato prima per evitare un equivoco. L’equivoco che l’inserimento nell’ordine della grazia sia una cosa talmente automatica e talmente passiva da essere paragonata a quando si chiama un’ambulanza sulla quale ci si fa caricare e che poi va per conto proprio. E’ necessario ricordare che se nell’ordine della grazia, sotto un certo aspetto, noi siamo del tutto passivi perché riceviamo sempre, siamo anche completamente attivi perché dobbiamo sempre dare. La grazia coopera con l’uomo e l’uomo coopera con la grazia; e allora era meglio mettere avanti alcuni punti di quello che dobbiamo fare noi per non essere presi dalla facile illusione nella quale cadono certi cristiani per i quali entrare nell’ordine della grazia è entrare in una sorta di vitalizio dove, in fondo, non c’è più da lavorare se non qualche volta, ma beatamente cullarsi in alcuni sentimenti generici, come quelli dell’ inserimento nel Cristo vivente, nel Corpo Mistico ecc. e non fare più nulla. E soprattutto cessare da quel continuo pungolo, da quella continua spinta verso l’attenzione, la diligenza, la rettitudine d’intenzione, l’amor di Dio, l’amor di Dio attivo, il sacrificio, la croce, il distacco; cessare da quelle cose che rimangono ugualmente valevoli anche se noi siamo pienamente assorbiti ed elevati nell’ordine della grazia. Era meglio mettere innanzi quello che noi dobbiamo fare, almeno alcuni punti fondamentali, perché credessimo che, se tutto dobbiamo aspettarci dalla grazia, però alla grazia dobbiamo dare tutta la nostra cooperazione; e se nella grazia noi siamo, sotto un certo punto di vista, passivi, noi con la grazia dobbiamo essere perfettamente attivi. – La grazia è l’essenza del Cristianesimo, perché è l’essenza della ragione per cui Gesù Cristo si è incarnato, ed è questa essenza, questo tesoro, del quale parla lungamente nelle sue parabole, che Egli ha portato alla sua Chiesa, al genere umano e a tutti i singoli uomini purché vogliano a quella arrivare. – Che cosa è quest’ordine della grazia? L’ordine della grazia è composto di due elementi, uno si chiama grazia abituale, l’altro si chiama grazia attuale. L’una e l’altra rappresentano lo scopo principale per cui è venuto Gesù Cristo. Il prologo di S. Giovanni ce ne dà una chiara indicazione: in esso si dice perché il Verbo si è fatto Uomo : « ex Deo nati sunt », perché anche noi diventassimo figliuoli di Dio, avessimo in noi qualche cosa della vita divina. Il prologo di S. Giovanni non parla  affatto della Redenzione; è impressionante questo! – È una grave dimenticanza? No; S. Giovanni ha voluto portare la ragione assoluta e non quella relativa. Della relativa avrebbe parlato dopo, di quella assoluta ha parlato nel suo prologo perché sta in testa a tutto. La ragione assoluta è quella: « ex Deo nati sunt », e sarebbe stata valevole anche se l’uomo non avesse peccato; essa era, in altri termini, indipendente in modo assoluto, per divina iniziativa, dalla iniziativa anche pessima dell’uomo, quella del peccato. Pertanto la ragione assoluta diventa la prima, perché l’assoluto comprende sempre il relativo: Gesù Cristo è venuto perché noi fossimo figli di Dio, cioè per dare a noi quel tanto di vita per cui noi potessimo essere figli di Dio. – Noi non dobbiamo dimenticare, allora, che questa ragione è la prima a giustificare l’Incarnazione del Verbo e anche la prima e la sola, in sede assoluta, a giustificare l’ottimismo cristiano. Se il Verbo si fosse fatto carne per riparare il peccato, e fosse quella la ragione assoluta, l’iniziativa sarebbe del peccato; la prima parte sarebbe stata quella, e in fondo l’ordine divino sarebbe stato determinato dall’aspetto più deteriore dell’ordine umano. Non è questo. L’ordine divino non è stato determinato né dall’ordine umano, né dal suo aspetto deteriore che è la colpa. L’ordine divino è stato determinato dall’amore di Dio che ha voluto espandersi agli uomini dando agli uomini qualche cosa della vita divina. E così è nato l’ordine della grazia, così noi vediamo nella grazia la finalità dell’Incarnazione, la finalità di tutto quello che Gesù Cristo ha fatto. – Sono due gli elementi: la grazia abituale e la grazia attuale. La principale evidentemente è la prima, l’essenza sta nella prima. La seconda è una conseguenza. – La prima, la grazia abituale, che cosa è? È quella dignità che è elargita da Dio agli uomini, per Gesù Cristo. Dignità non morale o giuridica, ma ontologica, che cambia completamente il valore della persona umana; lo cambia elevandola all’ordine divino, all’ordine soprannaturale, cioè a un ordine che supera la capacità e perfino i desideri e le possibilità stesse di desiderio di ogni creatura creata e creabile; dignità ontologica che porta all’uomo una misteriosa partecipazione della vita divina, si capisce per quanto è possibile in una creatura e senza alcuna contaminazione di concetti indegni della divinità e di concetti panteistici. Di tale partecipazione attiva divina noi portiamo il mistero, perché noi possiamo girarle intorno, ma sapere intrinsecamente che cosa essa sia, noi non possiamo ancora quaggiù. Un giorno lo vedremo, quando saremo lassù. Per ora dobbiamo fare un atto di fede in questa partecipazione alla vita divina quale è possibile alla creatura. Tuttavia ne conosciamo alcune conseguenze. Le conseguenze sono queste. Proprio per quella partecipazione si stabilisce una comunione con Dio, e questa è la ragione per la quale noi diventiamo figliuoli adottivi di Dio, tempio vivente dello Spirito Santo, principio di operazioni soprannaturali; gli atti che procedono da noi, atti umani, sono soprannaturali hanno un valore soprannaturale e ad essi è corrisposto un merito soprannaturale: fatti nella grazia, altrettanto essi fondano nella gloria. Questa è la grazia santificante. Ad essa s’allinea la grazia attuale, la quale non è altro che la erogazione soprannaturalizzante di energia, di forza perché noi possiamo vivere in modo adeguato alla dignità che abbiamo, e possiamo sopportare i carichi morali che quella dignità comporta. Possiamo insomma supplire alle nostre debolezze e lacune; possiamo rimediare alle nostre carenze e immettere nelle nostre misere azioni quell’ordine soprannaturale che le rende conformi alla vocazione eterna alla quale noi siamo stati indirizzati. Perché poi potessimo essere preparati a ricevere questa grazia attuale, ci sono i sette doni dello Spirito Santo. Dono di sapienza, di intelletto, di consiglio, di fortezza, di scienza, di pietà e di timor di Dio. Sono tutti doni preparatori all’azione piena della grazia oppure affinché l’ordine fosse completo, affinché non ci fossero scalini insormontabili, affinché non ci fossero abissi aperti che potessero dividere, ma tutto fosse in una perfetta, assoluta gradualità di divina armonia, affinché ci esponesse, ci preparasse, ci completasse nell’ordine della grazia. – Ho richiamato tutto questo perché il quadro doveva essere completo nel suo principio logico, che è la Incarnazione, nella sua finalità assoluta, che è quella indipendente dalla colpa e dal peccato degli uomini, nel suo dipanarsi intrinseco, attraverso la grazia santificante, la grazia attuale e i doni dello Spirito Santo. Questo quadro avvolge la vita, perché la dignità è ontologica, tocca la nostra persona. – Questa dignità quando ci è data nel Battesimo e aumentata nella Cresima, ci imprime anche un carattere che non si cancellerà mai più. Poi la grazia aumenta continuamente, e per sé stessa quando viene data nei Sacramenti, e per le opere buone che con essa compiamo. La si perde completamente con la colpa grave, ma la si riacquista completamente con la penitenza. Questa grazia è data sufficiente a tutti gli uomini attraverso l’orazione e i sacramenti, sorgenti contingenti nel tempo, dispensatrici dell’eterna grazia di Cristo Signore. Questa grazia attuale può avere, proprio attraverso quelle sorgenti, dei meravigliosi, straordinari, munifici ampliamenti, e con essa è possibile superare tutto e arrivare a quei capolavori della santità, con o senza azione esterna, che hanno sempre ingemmato la vita della Chiesa. – Eccovi l’ordine della grazia. In quello noi dobbiamo inserirci. Di quello dobbiamo vivere. La santità essenziale è essere in grazia di Dio ed è alimentare continuamente, con l’orazione, i sacramenti e le opere buone, la grazia di Dio santificante. Quella è la perfezione essenziale; il rimanente si richiede per quella e in ragione di quella; il rimanente si richiede perché diversamente noi avremmo degli elementi contrastanti o addirittura contraddittori con essa. Il rimanente della morale e dell’azione si richiede perché la collaborazione ci vuole, dato che Dio ha disposto nella sua perfetta munificenza verso di noi che la nostra dignità doveva essere intatta, e che tutta la nostra libertà doveva entrare anche in quella, affinché noi non fossimo semplicemente dei ricchi mendicanti, mendicanti di tutto, ma fossimo i collaboratori dell’azione divina, perché la nostra umana dignità, l’autonomia dignitosa dell’umana persona rimanesse salva, glorificata, come si conviene non a mortificati figli adottivi, ma a liberi figli di Dio. – Dobbiamo inserirci in questo ordine. E come si fa a inserirci in questo ordine? Questo è il punto essenziale; non è più il punto teorico, ma il punto essenzialmente pratico. Noi ci inseriamo in questo ordine mediante la fede. Ma la fede, che è atto di adesione, ha una sua applicazione, ha una sua estensione che la corrobora, la rende attuale, la rende attiva e fruttuosa, ed è la meditazione, la contemplazione. – La contemplazione è l’attività raziocinante nostra sulle verità di Dio. Escludo di parlare della contemplazione infusa, quella è un miracolo che avviene per opera dello Spirito Santo. Parlo di questa contemplazione terra terra. Allora la contemplazione terra terra, quella che è applicazione della vita di fede, è proprio la considerazione della verità, di questa verità. – La considerazione fatta nella quiete che sosta e arriva a quella profondità dove non è più tanto il raziocinio che deduce, quanto l’affermazione della verità che rimane, l’entrare in essa guardando, vedendo, lasciandocene penetrare totalmente, lasciandocene impregnare, lasciando che essa si sistemi al fondo della nostra anima e via via aumenti la sua luce, e questa sua luce ci porti a tutti quegli svariati e altissimi effetti che, anche senza essere trasbordati sulle rive della contemplazione infusa, carismatica, miracolosa, possono dare una incredibile serenità, una profonda gioia, una meravigliosa pace, una indistruttibile quiete all’anima. A questo bisogna mirare per entrare veramente e con perfezione nell’ordine della grazia; perché se noi non miriamo a questo, se non arriviamo a questo, non rimaniamo inseriti nell’ordine della grazia. – Ma in quest’ordine della grazia entriamo con la nostra intelligenza e con tutte le facoltà che roteano intorno alla nostra intelligenza. C’entriamo con la spinta motiva della nostra volontà, con la capacità penetrativa del nostro intelletto, con la capacità vorrei dire, passiva del nostro intelletto, che è quella di essere impregnata di una luce, dominata dall’alto, che è la forza della divina grazia elargita a noi dalla suprema munificenza. – Voi vedete che parte abbia la meditazione, la quale deve tendere sempre a diventare contemplazione, e vedete quale parte abbia l’orazione, la preghiera: la meditazione che è la forma più alta della preghiera, l’orazione mentale; ma anche quell’altra orazione che noi impropriamente diciamo vocale, perché non adeguatamente possiamo distinguerla dalla orazione mentale. Tutto il mondo della orazione è strada, via, collegamento necessario, sicuro, grandioso alla grazia, ed è tale da poter riempire tutta la vita degli uomini. Non ci si meravigli quando si sente dire di gente che nella storia, e ancora oggi nella vita, è capace di resistere intere giornate nella orazione. Che cosa è questa, in fin dei conti, se non un cammino nello spazio più reale e più grande, che è quello della verità divina, della luce divina, della quale noi ci lasciamo impregnare? Se si potesse descrivere cosa vuol dire questo lasciarci impregnare dal conoscere anche in profondità di teologia la verità divina, che cosa significa esserne impregnati! E quanti teologi non ne sono affatto impregnati! Perché che s’accenda la luce è una cosa; ma che s’accenda tanto da far accadere in noi quello che accade con certi raggi straordinari che si usano in alcune indagini mediche, così da perdere la opacità e diventare trasparenti, ed essere non più materia, ma essere diventati completamente luce, e tutto questo senza aver varcato i confini della ascesi ordinaria, questa è un’altra cosa. Poterlo descrivere! Ma forse è meglio provarlo. E siccome in questo tutti ci si possono provare, non mi rimane che dirvi: la strada è la meditazione, che tende però a quel punto. Prendetela questa strada, andate avanti, non voltatevi indietro, guardate sempre avanti, e poi state tranquilli, il resto verrà dopo. Così si entra nell’ordine soprannaturale della grazia, e così veramente si cammina per realizzare la perfezione. – Ora c’è un altro elemento per entrare nell’ordine soprannaturale della grazia. Ci vuole la coerenza morale a quell’ordine che la grazia attuale ci aiuta a realizzare; non basta stare al piano terreno, bisogna cercare di arrivare con la coerenza morale al piano sul quale Dio ci ha messo. L’inserimento nell’ordine della grazia avviene col santo Sacrificio della Messa e coi santi sacramenti. Noi potremmo trovarci in questa situazione di spirito: di credere la S. Messa una cosa che è là e noi siamo qui, una specie di spruzzo che parte di là e arriva fin qui. No, non è così. La S. Messa è la prima essenza della nostra vita soprannaturale. È il primo, il più grande strumento della vita soprannaturale del mondo. Perché in essa si rinnova sempre il sacrificio di Cristo che è la sorgente della grazia. Noi possiamo riguardare la S. Messa come una cosa alla quale ci uniamo pregando, cantando, suonando, facendo tutto quello che esternamente si vede, perché è la parte del popolo cristiano. Ma alla S. Messa si assiste come assistono le sedie e i banchi della Chiesa e le lampade che pendono dal soffitto quando noi non facciamo quello che dovremmo fare per unirci alla S. Messa. Badate che la S. Messa è una cosa che deve essere riguardata come essenziale per la vera perfezione cristiana, perché è qui che noi incontriamo tutto Gesù’ Cristo, dato che nella Messa entriamo completamente quando facciamo la S. Comunione, e pertanto c’è proprio una nostra identificazione con Gesù Cristo. – La S. Messa naturalmente termina nella Comunione; la S. Messa lascia sempre qualche cosa di scoperto quando non termina nella Comunione. Il Sacrificio non è nella Comunione, il Sacrificio è essenzialmente nella Consacrazione; ma la Comunione è il termine del Sacrificio, è la integrazione del Sacrificio. Gesù Cristo si è immolato per gli uomini, per arrivare agli uomini, per darsi agli uomini; ed è nella Messa, quando si dà agli uomini, che integra il Sacrificio. La S. Messa e gli altri sacramenti non vanno considerati come locomotori « ab extrinseco », che si mettono davanti al treno e lo tirano; sono locomotori dentro il treno. I sacramenti sono parte essenziale della nostra vita soprannaturale. Senza sacramenti non si resiste, senza sacramenti non abbiamo l’aumento della grazia santificante, in quanto senza di essi siamo dei tronchi senza gambe, non possiamo camminare. Non bisogna vederli come elementi accidentali, rispetto ai quali in fondo la santità ce la costruiamo da soli, con le nostre mani. Noi non costruiamo un bel niente della santità senza i santi sacramenti, e non c’è un uomo che resista a vivere in grazia senza i santi sacramenti. E se lui non ha colpa se non li prende, allora Dio aggiusta le cose coi mezzi suoi, come aggiusta lo stesso sacramento del Battesimo, supplendolo col Battesimo di sangue e col Battesimo di desiderio. Ma bisogna che non ci sia colpa, che l’uomo non sia lui a determinare l’incapacità a ricevere i santi sacramenti. Quando questa capacità c’è, quando questa capacità non è preclusa all’uomo, ricordiamoci che senza sacramenti non regge niente. E allora, vedete, deve essere riattivata, come si riattiva il fuoco in un camino, la fede nel sacramento. – Vi sono delle persone che pensano di non poter risolvere certe questioni. Devono ricordarsi che si risolvono coi santi sacramenti, con la fede nei santi sacramenti. Noi comprendiamo la saggezza della educazione cristiana anche dove non si può fare molta teologia, dove non si possono fare superiori elucubrazioni suggerite dalla teologia. Noi comprendiamo un Don Bosco, il cui metodo educativo è tutto qui: portare a fare la Confessione e la Comunione. Poi hanno dato tanti titoli al suo metodo, hanno fatto tante impostazioni scientifiche: non so se Don Bosco le abbia mai pensate. Questa è stata la tattica, niente affatto nuova, del più grande educatore cristiano del secolo scorso: Confessione e Comunione, fatte bene, non fatte per forza, per abitudine, all’improvviso, senza una preparazione; non fatte senza fede e senza orazione, ma impregnate di fede, di orazione, di pazienza, d’attesa, di atti che graduassero per arrivarci bene. Tutto portava lì: egli faceva giocare per arrivare alla Confessione, faceva divertire e stare allegri per dipanare la serenità dell’anima verso la comprensione della Comunione. Portava in giro i ragazzi, anche con la banda in testa, per i colli del Monferrato per condurli a fare la Confessione e la Comunione, non comunque, ma a un certo modo. Stava qui il suo segreto: a un certo modo. Quando si parla di educazione cristiana riassunta in poche cose, l’educazione cristiana si chiama Confessione e Comunione, con tutto quello che logicamente esse prendono. Purtroppo oggi noi abbiamo insegnato a fare la Comunione come qualche cosa di staccato, fuori della vita, qualche cosa che come atto in sé è bell’e finito, e allora si assiste a una specie di devozione, creata così, attaccata alle cose di Dio non so con quale colla: gente che va a fare la Comunione tutti i giorni e arriva in chiesa affannata, corre fino alla balaustra a fare la Comunione, abbraccia Nostro Signore e se ne dimentica subito, scappa e va a fare altre cose. Fanno pietà. – Capisco che qualche volta si potrà anche scorrazzare così, e capisco anche che a volte si dovrà stare dieci ore fuori e un minuto in chiesa. Dieci ore fuori però saranno fatte, da chi capisce, in preparazione a quel minuto, e le dieci ore che seguono saranno un ringraziamento a quel minuto, saranno vissute in quella dignità, in quell’afflato, con quella inclinazione continua che ha il girasole verso l’astro del giorno, perché le cose siano fatte bene. Ricordatevi, se non c’è un inserimento nella vita dei sacramenti, la perfezione non esiste.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (8)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(8)

10. La Redenzione

La verità che propongo a voi è quella della Redenzione. S’è parlato della Incarnazione; completiamo l’argomento con la Redenzione. Vediamo che cosa questa grande verità dice a noi e come debba entrare nella nostra vita per realizzarvi la fede concreta, illuminante e tale da innervare ogni nostro atto e tutta la nostra vita. Consideriamo un punto: i termini dell’impossibilità degli uomini di salvarsi senza la Redenzione. Voi li conoscete questi termini: il peccato dell’uomo è più grande dell’uomo, e non vi sembri una contraddizione. Perché il peccato dell’uomo, essendo contro Dio, non in ragione della causa che lo pone, l’uomo, ma in ragione della Persona a cui è diretto, Dio, è più grande dell’uomo. Ed è per questo che l’uomo è stato, è e sarà sempre incapace di cancellare il proprio peccato. Di questa incapacità profonda è sostanziata tutta la tristezza del genere umano, il quale, prima di Gesù Cristo ha cercato dei diversivi, e non ne ha mai trovati di concludenti; e talvolta anche dopo Gesù Cristo cerca dei diversivi, non volendo infilare la strada giusta, ma non ne trova mai di concludenti. Sicché esso più apparentemente diventa ricco di possessi terreni, di scoperte, di capacità di assorbirsi le creature, e più diventa annoiato e triste. – Il genere umano ha sempre avuto la sensazione, varia ma profonda, ma lancinante, di questa sua impossibilità a riemergere. In quelle civiltà che hanno avuto maggiore cultura e in cui l’uomo ha affinato lo spirito per affermarne e trattarne i problemi, le espressioni di questo dramma hanno preso tutto l’accento della disperazione. Questo è il primo termine che ci fa riflettere. Noi siamo talmente abituati alla Redenzione e ai frutti suoi che forse non la stimiamo più. Siamo talmente abituati, se il peccato avesse mai qualche volta battuto alla nostra porta, a cancellare la colpa con un Sacramento che è alla portata di tutti, che spesso e volentieri ci dimentichiamo che cosa sia la colpa, che cosa sia costato il toglierla a Colui che ha pagato andando in croce per noi. – Guardate che fa parte del cammino di perfezione scuotere l’indifferenza. Che vale vivere la fede, se non si scuote la indifferenza e se non ci si mette in sintonia con la fede? Noi non sappiamo che cosa voglia dire toglierci il peccato di dosso. Perché appena avvertito il peccato, un altro ce lo ha tolto il peccato di dosso, e noi abbiamo sempre beneficiato del sangue di un altro, del patimento di un altro, e la nostra vita si è arricchita della morte di un altro. – Come possiamo credere di essere su un cammino vero di perfezione, se non ritorniamo all’evidenza di quelle verità che possono essersi attutite nel nostro spirito e più non lo colpiscono? Verità grandi, solenni e che forse abbiamo sostituito coi nostri piccoli problemi e con l’angolosità della nostra testa. Se queste verità non le stimiamo per quello che sono e per quello che valgono e non le lasciamo entrare in noi trionfalmente; se non le lasciamo diventare le dominatrici della nostra vita, come saremmo sulla via della perfezione? Come potrà avvicinarsi a Dio perfettissimo chi nel suo cammino non ha tenuto conto della cosa più grande che Dio ha fatto per noi, completando la Incarnazione del Verbo con la Redenzione, cioè con la passione e la morte di N.S. Gesù Cristo? Ci vorrebbero considerazioni e commozioni che ci sfuggono; perché in fondo non è difficile scrollarsi il peccato di dosso; ma nessuno di noi è dovuto andare nel Getsemani a sudare sangue; nessuno di noi ha avuto un Giuda, in quei termini, in quelle proporzioni, in quell’ambiente e con quella oscura cattiveria; nessuno di noi è dovuto andare in croce e farsi trapassare le mani e i piedi; nessuno di noi ha avuto tenebre tali, le tenebre del Getsemani, che quelle che si addensarono sul Calvario non furono che un piccolo simbolo. Ed è per questo che soltanto molta meditazione, una accurata attenzione e somma diligenza ci possono permettere di rievocare passabilmente i termini della Redenzione operata da Gesù Cristo. – Guai a noi se queste cose non le stimeremo e se non prenderemo di punta le fantastiche costruzioni della nostra anima, i suoi egoistici isolamenti, gli stravaganti indurimenti delle sue preoccupazioni sciocche, per lasciare spazio alle divine considerazioni di quello che Dio ha fatto per salvarci. È così che si vive la propria fede: nella meditazione sulla Redenzione di N. S. Gesù Cristo. E questo per la impossibilità nostra a toglierci il peccato, perché il peccato, che è fatto da noi, è più grande di noi, terribilmente più grande. – La Redenzione. Com’è avvenuta? Ci voleva un prezzo, una riparazione. Il peccato è un piacere illecito, sempre, e il caso contrario è una sottrazione di piacere, è un dolore. E così c’è stato il dolore. La rispondenza del diritto di giustizia è perfetta tra peccato e dolore. Però questo dolore per essere valevole, per poter vincere la colpa, e non quella di un uomo solo ma di tutti gli uomini, doveva essere di una dignità infinita. E come è venuta la dignità infinita a questo dolore? È venuta così: ciò che dà la dignità e il valore all’atto è la persona, il soggetto. Difatti se la mia mano uccide un uomo, non mettono in prigione la mano, mettono in prigione me, perché il valore dell’atto compiuto attraverso la natura dipende dal soggetto che porta la natura e ne è responsabile. È la persona quella che valorizza l’atto, sia da un punto di vista negativo se è colpa, sia da un punto positivo, se è merito. Però se la Persona divina non può soffrire, la natura umana può soffrire. E allora in Gesù Cristo ecco il mistero dell’Incarnazione: la natura umana assunta, ma assunta dalla Persona divina, poteva soffrire. – La valutazione dell’atto di sofferenza in questa umana natura dipendeva dalla dignità della Persona assumente, ed era dignità infinita. Il dolore si arrestava alla natura umana, ma la qualificazione dipendeva da chi sosteneva quella natura, dal soggetto che la portava, ossia dalla divina Persona. – Così il dolore dell’umana natura ha avuto l’infinito valore dalla Persona. Veramente il dolore acquistava quello che era necessario per coprire il gran debito, per superare la colpa e vincerla, per far trionfare un’altra volta la vita. E così Gesù Cristo ha portato il dolore. Ma perché è andato in croce? Bastava meno, oh, infinitamente meno; perché ha fatto tanto? È difficile a noi dire il perché. Ma è evidente, da tutto il comportamento della parola di Dio, che in quella croce Gesù ci ha voluto dare un documento, un documento di compagnia, si è messo accanto a quelli che nel mondo hanno sofferto e avrebbero sofferto di più. Così gli uomini sono in compagnia di Gesù. E ha dato un documento di esempio, perché la grettezza umana doveva essere sfondata in tutte le direzioni. Aboliti i se, aboliti i ma, e perché la grettezza umana, aboliti i se, aboliti i ma, fosse sfondata in tutte le direzioni, l’esempio è stato incredibile. Perché i termini dell’umana nequizia, dell’umano tradimento, dell’umano dolore si sono come concentrati in Gesù Cristo? Tenete presente che si soffre in proporzione dell’intelligenza, gli scemi soffrono molto meno, e nessuna natura, nessuna ha avuto naturalmente l’acutezza d’intelligenza e di sensibilità propria della natura assunta dal Figlio di Dio. I termini storici sono i più tragici, i più gravi, i più complicati, a leggere bene tutta la Passione; ma i termini interiori che danno la valutazione di quel dolore presentano un addendo che copre il mondo. Nessuno al mondo ebbe la sensibilità raffinata, l’intelligenza altissima dell’umana natura assunta dal Verbo Incarnato. E questo è stato documento di esempio perché entrasse negli uomini il superamento della loro grettezza e in questa ampiezza di stile fossero aiutati a imitare il Signore. – E finalmente dalla divina parola questo, che parrebbe a noi un eccesso, si rivela ed è il massimo documento dell’amore: così Dio ha amato gli uomini, da dare, da mettere nelle mani dei traditori il suo Unigenito Figlio. Così Dio ha amato gli uomini. È la documentazione dell’amore. Quando si parla dell’amore di Dio, bisogna sempre parlarne davanti al Crocifisso, perché nessun linguaggio sull’amore che noi dobbiamo a Dio, Padre nostro e Salvatore nostro, ha mai un termine di paragone esatto per poterlo valutare come il divino Crocifisso. » – Un’esagerazione, per noi che siamo piccoli. Ma vi ho detto che cosa la divina parola lascia intravvedere per giustificare pienamente questa esagerazione: Dio è stato il Signore. Quando si pensa che cosa è la redenzione e in che modo è avvenuta, si sente, si deve sentire il bisogno della penitenza, si deve essere in ritmo con quella grande condanna, ma s’impara lo stile di Dio che è stile da Signore, non da gretti. E noi cristiani, se l’abbiamo questo stile, siamo dei signori. E se siamo così, dei signori, siamo dei cristiani. Perché lo stile divino non è quello della miseria, delle piccole linee, dei piccoli lamenti, delle piccole ombre, delle piccole economie fatte sulla nostra generosità, no; davanti al modo con cui Dio ci ha redento si capisce che il cristiano è tanto cristiano quanto è signore anche lui, non un pidocchioso, gretto, miserabile, a lesinare continuamente la quantità del proprio valore e del proprio dono, e lesinarlo a Dio che l’ha salvato a questo modo. Stile da Signore! Guardate che senza di questo non si è in ritmo col nostro Maestro esemplare, che è andato in croce. Noi probabilmente non dovremo andare in croce materialmente; ma se dovremo andarci, non facciamoci pregare troppo, andiamoci e basta. Noi cristiani, se siamo tali, siamo dei signori; altrimenti non siamo cristiani. – La Redenzione dice questo. Però la Redenzione ha vinto: la colpa è stata cancellata virtualmente per tutti gli uomini. A quelli che tra di loro hanno peccato volontariamente, il rispetto che Dio ha per la loro libertà richiede che essi l’accettino, perché a chi ha peccato volontariamente Dio non perdona se non c ‘è il loro benestare: il perdono soggiace a questo benestare. Il benestare si chiama atto di penitenza, che è il rinnegamento della colpa in tutta l’estensione, compresa quella temporale, del passato e del futuro. La Redenzione ha vinto, e allora apre una visione nuova. È possibile vincere su quello che è ineluttabile? Due cose erano ineluttabili, la colpa e la morte. La colpa è stata già vinta del tutto; la morte anche, con la risurrezione di N.S. Gesù Cristo. La nostra morte verrà a suo tempo assimilata a quella e allora sarà compiuta la Redenzione totale; perché anche per i singoli uomini è stata definitivamente vinta la morte, e allora Cristo, tornato giudice, per usare la frase della Sacra Scrittura, « consegnerà il regno al Padre »: solo allora, perché solo allora sarà completata tutta la Redenzione. E questo ordine si chiuderà, questo ciclo sarà salvato, e su di esso nell’eterna gloria di Dio si rifletterà il cantico perenne dei beati, perché la Redenzione darà valore eterno a tutto quello che è servito all’uomo e che è entrato in qualunque modo a essere patrimonio inscindibile dell’uomo. Così la Redenzione si attuerà totalmente nella gloria eterna. Ed è la vittoria di Gesù Cristo. – Guardate ora che cosa riflette la Redenzione sulla nostra vita. E questo è il terzo punto. Per noi che siamo ancora nel tempo, nel cammino, riflette la speranza. Credete voi che sia possibile il cammino della perfezione senza il rispetto assoluto di tutte e tre le virtù teologali, della fede, della speranza e della carità? Il cammino di Dio deve passare per questi tre punti. Se noi credessimo di passare per un altro punto, in sostituzione a uno di questi, noi saremmo nell’errore, saremmo nella morte. La via della perfezione come deve passa attraverso la fede, deve passare attraverso la via della speranza. E perché è possibile la speranza agli uomini? Perché la Redenzione ha vinto. Che cos’è la speranza? E’ il desiderio fiduciale. La speranza è fatta di due pezzi: del desiderio e della fiducia. Se manca il desiderio, non abbiamo più la speranza; se manca la fiducia, non abbiamo più la speranza. La speranza è il desiderio fiduciale. Il desiderio che cos’è? È un movimento dell’anima che si sposta in avanti verso un bene ancora assente; non si desidera quello che si ha, quello che si ha lo si gode ma non lo si desidera più. Il desiderio è il movimento dell’anima che si protende verso un bene assente. Il bene può essere impossibile, e allora il desiderio è sballato; il bene può essere possibile, e il desiderio comincia a diventare ragionevole. – Ma non per questo siamo nella speranza, perché per avere la speranza, al movimento dell’anima e della volontà che tende a qualche cosa si deve unire la fiducia. Che cos’è la fiducia? La fiducia è quell’atteggiamento dell’anima conseguente a un giudizio dell’intelletto. Il giudizio dell’intelletto, documentando, dimostra possibile il bene desiderato e,  documentando, dimostra esserci una fedeltà che si è impegnata, sotto talune condizioni, a darcelo. Sicché quello che è desiderato non è semplicemente un possibile; ma, senza essere una certezza assoluta e infallibile, poggia sul giudizio di una fedeltà che è in causa e, nel caso, è la fedeltà divina che ha promesso, verificandosi le condizioni. Questa è la fiducia. È il giudizio insomma sulla possibilità di un bene desiderato e sulla presenza di una fedeltà capace, e nel caso è quella di Dio, impegnata, di farci conseguire il bene desiderato. E’ chiaro che quando il desiderio si sposa alla fiducia e la fiducia è di questo genere, parliamo della fiducia in Dio, ne viene il sollevarsi dell’anima, l’innervamento dell’anima, ne viene allora l’attesa, il coraggio e, già riflessa, anticipata, la gioia. Queste sono conseguenze della fiducia, cioè conseguenze della speranza che è il desiderio fiduciale. Ora voi capite che la vittoria della Redenzione, con quello che ho anche succintamente rievocato, documenta la fedeltà divina, la promessa di Dio, che è fedele a quello che ha promesso. E allora entra trionfale nella vita, negli uomini, il desiderio fiduciale, la speranza, il cui oggetto è la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla, come si dice nel comune atto di fede. Allora la Redenzione fa entrare nella vita la speranza. Ma è possibile che non entri? Perché se non entrasse, sarebbe un rinnegamento della Redenzione. La mancanza della speranza a proposito della Redenzione si ritorcerebbe in una mancanza di fede. La vita di fede non può esistere, se manca la virtù della speranza. Potrà sussistere l’atto di fede, forse, ma se non c’è la speranza, non si vive di fede. Allora come è necessario per camminare verso la perfezione vivere di fede, vedere queste verità, apprezzare queste verità, farne ogni momento stimolo e ragione e sfondo a quello che si fa, così è necessario che nella vita entri la speranza. – Vi prego di misurare brevemente quello che ciò significa. Che entri la speranza nella vita significa che entra il giusto e cristiano ottimismo; perché quando si ha dalla propria parte la fedeltà divina, impegnata con una promessa, non c’è più la ineluttabilità del male. Il pessimismo è il senso della ineluttabilità del male; non si concilia con la speranza. – Il pessimismo è una mancanza di speranza oppure è una malattia. Nel secondo caso bisogna curarlo come si curano tutte quante le malattie. Ma è certo che la speranza non solo dà l’ottimismo ma dà il coraggio. La speranza dà al momento opportuno la necessaria serenità all’anima che si può abbandonare e distendere in Dio per le infinite ragioni che Dio le manifesta nella sua divina parola e che possono essere pronte a sovvenire in tutte le sue circostanze, purché allora la semplicità e l’umiltà aprano la porta alla parola di Dio. Semplicità e umiltà, e la speranza è inscindibile, almeno per qualche momento, dalla gioia. È la speranza che dipinge chiari gli orizzonti, che non chiude gli orizzonti in limiti angusti e invalicabili. È la speranza che risolve i problemi della nostra debolezza e della nostra incontentabilità. Se non c’è questo abbandono in Dio, se non si fa a Dio, che per darcene un documento è andato in croce, l’onore di aver fiducia in Lui, non si è degni di avvicinarsi a Lui. – Il contrario della speranza è il peccato di disperazione; l’unico peccato che non si può perdonare è quello contrario alla speranza, perché il peccato di disperazione rifiuta di aver fiducia nella bontà di Dio. Tutti gli altri peccati sono remissibili da Dio; questo, fintanto che c’è, è irremissibile. Dio ci chiede l’onore di credere al suo amore, alla sua misericordia, alla sua bontà. La Croce è una esagerazione che rientra nell’equilibrio quando si pensa che a certi uomini, che dalle loro stesse ombre, dalla loro stessa talvolta amara esperienza cadono in pericolo di disperazione, era opportuno che la documentazione dell’amore fosse data senza limiti. E tale documentazione Dio ha dato a noi; e noi non possiamo rifiutare d’avere tale fiducia con pieno, filiale, assoluto abbandono, in ogni momento, in vita e in morte. La Redenzione, così inquadrata in questa esagerazione, è necessaria, perché in certi momenti della vita, se non ci fosse quella esagerazione, noi piccoli uomini quasi incapaci di concepire cose più grandi di noi non troveremmo motivi sufficienti per continuare a sperare. E invece anche il peggiore degli uomini, nella peggiore delle situazioni, nel peggiore dei momenti, di fronte alla morte, può credere nella Misericordia di Dio, credendo alla Croce. Guai se non ci fosse quella esagerazione! Noi siamo abituati a vedere il Crocifisso tutti i giorni, non ci facciamo più caso. Ma perché quelle braccia non si staccano dalla croce? Sono lì, e la Chiesa le vuole lì, non esige per legge nessun’altra immagine sull’altare; quella sì, e se non c’è, non si può dire la Messa. Le braccia aperte, inchiodate, il costato aperto, il capo reclino, sempre così, la divina esagerazione! Se l’abitudine ci ha fatto perdere il senso di che cosa significhi per noi quella divina esagerazione, la meditazione ristabilisca l’equilibrio e ci faccia capire che cosa vuol dire il Crocifisso e guardare il Crocifisso, perché ci sono dei momenti, nella vita di tutti gli uomini, che senza quella divina esagerazione la speranza non reggerebbe.