LO SCUDO DELLA FEDE (XX)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

 XX

GLI ANGELI

Esistenza degli Angeli. — Loro natura ed ordine. — Loro intelligenza e volontà. — Loro comunicazione e velocità. — Loro interesse per noi. — Loro azione nel movimento degli astri e sulle cose materiali.

— Fra gli esseri creati quali tengono il primo posto?

Gli Angeli e gli uomini.

— È proprio vero che gli Angeli esistano?

Quando pure non ce lo insegnasse e non ci obbligasse a crederlo la Chiesa, dovremmo riconoscerne l’esistenza dal sentimento comune dell’umanità. Tutti i popoli, eziandio più barbari e selvaggi, sempre e dappertutto hanno ammesso e riconosciuto, sia pure con denominazioni diverse, esistere degli esseri, spiriti invisibili, inferiori a Dio e superiori agli uomini, esistere gli Angeli. – Di fatti Socrate, Platone, Aristotele, Talete, Pitagora, Esiodo, Orfeo, tutti gli antichi filosofi, gli antichi Savi, gli antichi poeti hanno parlato ripetutamente eli questi spiriti come di numi secondari, di intelligenze separate, di anime celesti, di ministri della divinità, di centri di attrazione e di motori dei corpi celesti: tutti gli orientali, anche quelli di oggidì, che giacciono tra gli errori del feticismo, i popoli, che vivono ancora rintanati nelle selve più fìtte dell’Africa e dell’America ne paventano grandemente il potere.

— E non potrebb’essere che gli uomini si siano ingannati?

No, caro mio. Ciò che da tutti, sempre e dappertutto è stato creduto, è una verità indubitabile, la quale, se non fosse altro, è stata appresa dagli uomini per mezzo di una rivelazione primitiva, nella quale Iddio fece conoscere al padre del genere umano tutta l’ampiezza della sua creazione.

— Eppure, avendo io letto il primo capo del Genesi, dove Mosè parla della creazione, non ho trovato nulla a questo riguardo.

Si, è vero, Mosè nel libro del Genesi non ci parla della creazione degli Angeli: e ciò perché, al dire di S. Tommaso, egli conosceva troppo bene gli ebrei, e ben sapeva che se a quel popolo così rozzo avesse parlato di Nature incorporee, troppo facilmente avrebbe corso il rischio di cadere per esse nel peccato d’idolatria, al quale era assai inclinato. – Non di meno la Scrittura tutta, quasi ad ogni istante, ci parla apertamente di quelle manifestazioni, con le quali gli Angeli invisibili in apparizioni visibili si sono messi in comunicazione con gli uomini. Che anzi lo stesso Mosè, per essere storico fedele e narrare con precisione i grandi avvenimenti che si compirono in mezzo all’umanità coll’intervento degli Angeli, dimenticato il silenzio che si impose sulla creazione loro, con un candore ammirabile si fa a descrivere, ogni qualvolta il racconto lo esige, le magnifiche loro apparizioni, le loro parole, i loro atti, e i benefizi, che essi hanno recato dal cielo agli uomini. Per altra parte, secondo una profonda osservazione di S. Tommaso, la ragione istessa ci fa conoscere l’esistenza degli Angeli.

— Possibile? E come mai?

Vedi: L’esperienza ci mostra che dal momento che Iddio si compiacque di uscire dalla intimità della sua vita divina per creare, volle che tutti gli esseri fossero creati a guisa di una immensa scala con gradazioni ordinatissime, senza il minimo salto. Ecco dunque la materia inorganica, ecco quindi il regno vegetale, ecco di poi il regno animale, ecco in seguito nell’uomo il regno animale congiunto al regno intellettuale. Ora fra questo essere, che è materia e spirito, e Dio spirito purissimo, infinito, non vi sarebbe un distacco enorme, se non vi fosse il regno degli Angeli puri spiriti? La ragione pertanto, benché non dimostri la necessità assoluta, mostra tuttavia essere conveniente che esistano gli Angeli, anche per stabilire l’equilibrio numerico delle nature create, per proseguire la gradazione degli esseri, che sarebbe troppo bruscamente terminata nel composto umano.

— E in che tempo preciso gli Angeli sono stati creati?

Questo non si può dire. Ma certamente prima che fosse creato l’uomo. Si può ritenere come indubitato che siano stati creati a principio, allorché Iddio trasse dal nulla l’universo.

— E saranno molti?

Sono in numero sterminato, secondo che dice la Sacra Scrittura, e formano quella che la Chiesa chiama immensa milizia del celeste esercito. Ma il loro numero preciso non si sa.

— E come mai gli Angeli sono puri spiriti?

Sono puri spiriti, perché scevri d’ogni mescolanza di materia, per quanto si voglia sottile ed eterea.

— Ma perché dunque li raffigurano come bambini o come bellissimi giovanotti con le ali?

E come vorresti raffigurarli per fartene un’idea? Si rappresentano con le ali per indicare che sono pronti sempre a compiere la volontà di Dio, e si raffigurano come bambini o bellissimi giovanotti per indicare la loro purità, la loro innocenza, la loro bellezza, la loro forza. Anzi nella Sacra Scrittura sono talvolta rappresentati altramente, sotto le sembianze di viaggiatori, di pellegrini, di guerrieri, di animali strani, di ruote scintillanti, di fiamme ardenti e parlanti, ma specialmente di messaggeri, ragione per cui si dà loro il nome di Angeli, parola greca che vuol dire appunto mandati in messaggio ad alcuno.

— E questi Angeli sono realmente dotati di belle qualità?

Da quel che ci lascia trasparire la Santa Scrittura, la sapienza, la chiarezza, la bellezza, la forza, la possanza, la gloria e la magnificenza, di cui sono dotati, è qualche cosa di grandemente superiore alla capacità del nostro umano intelletto.

— Sono essi tutti uguali?

* No, certamente. Essi, come rilevasi da alcuni passi delle Scritture, sono di nove ordini o cori diversi, raggruppati in tre gerarchie, la suprema delle quali contiene i Serafini, i Cherubini e i Troni; la media le Dominazioni, le Virtù e le Potestà; l’ultima i Principati, gli Arcangeli e gli Angeli. Epperò tanto più appaiono belli, forti e potenti, quanto più si avvicinano all’augustissima Trinità. Anzi San Tommaso opina che ogni Angelo sia una specie a parte. Pensa quindi che immensa gradazione si dovrebbe ammettere nel mondo angelico!

— E posseggono anch’essi, come noi la ragione, la volontà e la libertà?

Sì, senza dubbio, ma in modo di gran lunga più eccellente di noi. Noi per imparare

le cose dobbiamo fare fatica e impiegare del tempo. Gli Angeli invece furono dotati di tale intelligenza da conoscere prontamente, rapidamente, tranquillamente, senza sforzi di sorta. E pari all’intelligenza ebbero la volontà, da potere senza più amare il bene e liberissimamente, e ad esso appigliarsi senza stare in forse, facendo senz’altro succeder l’atto del fare a quello del conoscere come il tuono succede al lampo.

— Gli Angeli possono conoscere il futuro e i nostri pensieri?

Gli Angeli con le sole forze della loro intelligenza possono conoscere i futuri, necessari nelle cause, da cui necessariamente derivano, non i futuri liberi, che possono solo congetturare. Non possono penetrare i nostri pensieri puramente interni, ma li possono conoscere quando in qualsiasi modo anche imperfettissimo noi li manifestiamo, e quando Iddio per i suoi fini li rivela loro.

— E di qual maniera gli Angeli comunicano fra di loro? Voglio dire come si manifestano i loro pensieri e i loro affetti, essendo puri spiriti?

Caro mio, questo non è possibile conoscerlo. Possiamo tuttavia intravederlo per analogia da quello che accade nell’uomo. Come noi manifestiamo agli altri i nostri pensieri interni per mezzo del suono della voce e per mezzo dei segni, così possiamo pensare che essi facciano trasparire i loro pensieri e i loro affetti quasi come un raggio che scintilla da luce.

— È egli vero che gli Angeli sono velocissimi?

Più veloci della luce. Solo il nostro pensiero può darci un’idea della loro rapidità. Come esso in un istante valica gli spazi frapposti ed in un lampo si trasporta da un capo all’altro del mondo, così gli Angeli.

— E si può essere sicuri che gli Angeli si interessino anche di noi?

Sicurissimi. Essi ci amano, e benché noi siamo a loro inferiori, ci riguardano come fratelli, ed eseguendo l’ordine di Dio, di buonissima volontà, ci custodiscono nel corpo e nell’anima preservandoci da tanti mali e procurandoci moltissimi beni.

— È dunque certo altresì che tutti abbiamo ai nostri fianchi un Angelo buono per custodirci ?

Che gli Angeli abbiano a custodire gli uomini in generale è verità chiaramente espressa nelle Sacre Scritture; che poi ciascun uomo abbia il suo Angelo custode non si può dire che sia verità assolutamente di fede. Ma tale è stato sempre il sentimento di tutti i Santi Padri, e la Chiesa ha sempre riguardata questa sua antichissima credenza come indubitata.

— Ma non può forse Iddio custodirci Egli direttamente?

Non solo lo può, ma non possiamo dubitare che egli lo faccia. Tuttavia gli piace altresì valersi in ciò del ministero degli Angeli, quasi per affratellarli con noi.

— E sarebbe vero che Dio si serva pure degli Angeli per regolare i movimenti degli astri?

È un’opinione antica e di gran valore. Il moto è impossibile spiegarlo con la sola materia; si deve perciò ricorrere allo spirito. Ora qual cosa più conforme all’economia universale del creato, quanto l’attribuire il movimento degli astri agli spiriti angelici?

— Ma gli astri non si muovono forse a seconda delle leggi di natura?

E che cosa sono le leggi di natura? Sono fatti; ma i fatti devono avere una ragione e un’origine. E perché la ragione e l’origine di questi fatti non potrebbero essere gli Angeli? – Allorché Forbes, discepolo di Newton, volle fargli dire che l’attrazione era la causa dei movimenti celesti questi si sdegnò. Herschell poi fece questa bella dichiarazione: « Studiando i fenomeni dell’attrazione, noi siamo compresi ad ogni istante della esistenza di cause, le quali non agiscono che sotto un velo, un velo che ci toglie di vedere la loro azione diretta ».

— Si può anche credere che gli Angeli abbiano potere sulle cose materiali e lo vadano esercitando ?

Si può credere benissimo. Con la loro finissima intelligenza e col loro singolare vigore essi possono produrre anche nelle cose materiali effetti mirabili. Possono, ad esempio, muovere i venti e le tempeste, produrre terremoti, pestilenze, stragi, e risanare malattie umanamente incurabili. Con ciò non intendo di dire che ogni vento che spira, ogni pestilenza che infierisce, eccetera, vengano immediatamente dall’azione di qualche Angelo, no; ordinariamente simili cose avvengono per immediato concorso delle cause naturali governate da Dio; ma ciò non toglie che alle volte concorrano a tali cose gli Angeli. E la Sacra Scrittura in molti luoghi lo attesta.

— Queste cognizioni intorno agli Angeli mi piacciono assai e mi accrescono la loro stima e venerazione;

Ed io ne sono lietissimo.

LE PIAGHE DELLA COMUNITA’ CRISTIANA: LE ERESIE (4 b)

LE PIAGHE DELLA COMUNITÀ’ CRISTIANA

Capitolo I

Le ERESIE,

ferite alla unità della fede

(4 b)

[“Somma del Cristianesimo”, a cura di R. Spiazzi, vol. II Ed. Paoline, Roma, 1958]

Art. 4. – LE ERESIE MODERNE. –B

 

Eresie sulla costituzione della Chiesa.

Movimenti materialmente ereticali, anche se non sfociati in scismi aperti e irreparabili, sono il Gallicanesimo, il Febronianesimo, ed il Giuseppinismo. Essi concordamente sottoponevano l’autorità del Papa al Concilio universale, negavano l’Infallibilità pontificia. Queste tendenze ereticali scompaiono definitivamente solo al concilio Vaticano, con esclusione del movimento apertamente scismatico ed ereticale dei Vecchi Cattolici, fondato da Dòllinger. Le teorie conciliari medievali e la difficoltà a distinguere tra il Papa come sommo Pontefice e il Papa come sovrano d’uno stato hanno causato questi errori. Ora queste teorie riconoscono contro il Protestantesimo, la costituzione divina della Chiesa; errano sul come intenderla.

Il Gallicanesimo ha questo nome perché assunse la sua forma classica in Francia. C’è un Gallicanesimo teologico che tende a deprimere il potere del Papa in favore dell’episcopato e del laicato: esiste un Gallicanesimo episcopaliano (Gersone), presbiteriano (Richer) e multitudinario (Marcantonio de Dominis). Il Gallicanesimo politico consiste in una scuola dottrinaria che deprime l’autorità della Chiesa in favore di quella dello stato. Secondo gli 83 articoli formulati nell’opera Les lìbertés de l’Eglise gallicaine di P. Pithou il re francese poteva impedire il ricorso dei Vescovi al Papa, negare il visto agli atti pontifici, non ammettere i decreti dei Concili. Il Gallicanesimo teologico ebbe come suoi teologi principali Richer, Pietro de Marca, H . Tournely; il centro principale fu la Sorbona. Richer, insegnante alla Sorbona, nel suo libro De ecclesiastica et politica potestate libellus nel 1611, affermava che il potere ecclesiastico è nella Chiesa intera; però si esercita soltanto attraverso un organo: la monarchia pontificia per l’esecutivo, per il potere legislativo l’organo è il sinodo che ha autorità sul Vescovo, e il Concilio che è superiore al Papa. Pietro de Marca nel De concordia Sacerdotii et Imperii asserisce che l’infallibilità pontificia compete al Papa soltanto quando segue il consenso di tutta la Chiesa. – H. Tournely (1658-1729), specialmente nella sua opera De “Ecclesia Christi” afferma che la costituzione della Chiesa è per istituzione divina monarchico-papale; però l’infallibilità è soltanto nella Chiesa universale dispersa o riunita. L’uso del potere pontificio deve essere regolato da canoni. Al Papa poi si deve obbedienza; però, non avendo infallibilità, i suoi giudizi non sono irreformabili senza il consenso dei Vescovi. Il Concilio è superiore al Papa. – Il Galliganesimo teologico e politico fu compendiato nei quattro articoli della Declaratio cleri gallicani composti da Bossuet e votati il 19 marzo 1682. Essi affermano: 1. l’assoluta indipendenza dei re e principi dall’autorità pontificia in cose temporali; 2. il Papa è inferiore al concilio; 3. il Papa non può esercitare il suo potere se non in conformità ai canoni della Chiesa universale e con le consuetudini della Chiesa gallicana; 4. al Papa spetta la preminenza in questione di fede; i suoi giudizi non sono però irreformabili senza il consenso di tutta la Chiesa. I quattro articoli furono condannati da Alessandro VIII nella bolla Inter multiplices del 4 agosto 1690. – Queste idee gallicane trovarono la loro ultima espressione nelle discussioni avvenute in Francia al tempo del concilio Vaticano, specialmente per opera del Vescovo Monsignor Maret che in un’opera Du concile general et de la paix relìgieuse affermava che l’Infallibilità pontificia aveva luogo soltanto col consenso dell’episcopato. – Anche in Germania si svilupparono idee erronee sulla costituzione della Chiesa, specialmente per mezzo di Nicolò de Hontheim (1701-1790), ausiliare del Vescovo di Treviri, chiamato Febronio dallo pseudonimo con il quale pubblicò nel 1763 la sua famosa opera De statu prœsenti Ecclesiaeœ et legitima potestate romani Pontifìcis. Influenzato da Van Espen, canonista dell’università di Lovanio e di idee gallicane, vuol ricondurre il Papa nei suoi poteri primitivi, che consistono nell’essere soltanto primus in ter pares ed esecutore dei canoni decisi dal concilio Universale del quale è delegato. Perché le leggi pontificie avessero valore dovevano essere approvate dai Vescovi i quali potevano deporre, con l’aiuto dell’autorità civile, il Papa stesso, se non rientrava nei suoi limiti originari. Il Primato pontificio è dato dal Cristo o dalla Chiesa? Febronio ha affermazioni contrastanti al riguardo; ad ogni modo dà alla Chiesa una certa costituzione democratica in quanto il potere della gerarchia deve essere esercitato sotto il controllo dei fedeli. L’opera ebbe successo e ebbe varie traduzioni e riduzioni; fu condannata dall’Indice nel 1764 e disapprovata pure dall’Assemblea del clero francese nel 1775. Febronio fece nel 1778 una ritrattazione che si presta ad ambiguità. – Il Febronianesimo fu ripreso specialmente dal canonista Eybel, nell’opera Che cosa è il Papa?, dove afferma che il Papa, il cui potere gli viene dalla Chiesa, ha soltanto gli stessi poteri e diritti dei Vescovi; al Papa poi si nega, se non in caso straordinario, di intervenire nelle altre diocesi. Pio VI nel 1786 nel breve Super solìditate condanna le idee fondamentali del Febronianesimo. – Queste idee ebbero un’attuazione politica da parte di Giuseppe II di Austria (donde Giuseppinismo) il quale si arrogò il governo temporale della Chiesa indipendentemente dai Vescovi. Proibì ogni comunicazione dei Vescovi col Papa e legiferò arbitrariamente in campo ecclesiastico, liturgico, matrimoniale, disciplinare da meritarsi l’appellativo di « re sacrestano ». I suoi consiglieri erano Rautenstrauch e Eybel. Un viaggio a Vienna di Pio VI non sortì effetto. Giuseppe II non fece che realizzare le idee del Febronianesimo e del Giansenismo. In fin di vita revocò molte disposizioni limitatrici dei diritti della Chiesa. – Anche il Giansenismo ebbe dottrine che negavano la costituzione della -Chiesa. Il sinodo giansenista di Pistoia asseriva che ogni potere era dato originariamente alla Chiesa della quale il Papa era soltanto l’esecutore; queste ed altre idee di ispirazione febroniana furono condannate nella bolla Auctorem fidei il 28 agosto 1794 da Pio VI. – Idee che corrispondono a quelle gallicane o febroniane come quelle conciliari per cui il concilio era superiore al Papa, furono varie volte condannate dalla Chiesa. [Oltre la terribile bolla “Exsecrabilis” di Pio II, Piccolomini –ndr. -] … Martino V condanna la procedura che appella al nuovo concilio; il concilio Lateranense V afferma la superiorità del Papa sui concili. Il concilio Vaticano il 18 luglio 1870 definiva solennemente la giurisdizione pontificia come ordinaria, immediata, suprema e completa su tutta la Chiesa (cfr. DENZ. 1831): inoltre definiva la infallibilità del Sommo Pontefice nel supremo esercizio della sua funzione di Dottore universale, infallibilità, « ex sese, non autem ex consensu ecclesiæ », per dottrine riguardanti la fede e la morale, (DENZ. 1839). Era la condanna definitiva di ogni idea di una Chiesa di costituzione conciliare, episcopaliana o democratica, come era nei sistemi dottrinali dei gallicani o febroniani. Tutti accettarono fuorché il teologo tedesco Dòllinger il quale, con la sua Chiesa dei cosidetti Vecchi Cattolici tedeschi entrava così nella eresia formale. Dòllinger infatti fu scomunicato dai Vescovi della Germania il 23 aprile 1871.

Il semirazionalismo e le reazioni del tradizionalismo e del fideismo.

La cultura illuministica e razionalistica del XVIII e XIX secolo è caratterizzata dall’abbandono del concetto di soprannaturale. La religione è accettata soltanto entro i limiti della ragione che diventa la norma e la fonte unica, ed assoluta di ogni verità, anche di quella religiosa. L’influsso di Kant poi è determinante: chiuso l’intelletto nel mondo fenomenico, solo la ragione pratica nelle sue esigenze morali induce ad affermare verità di ordine morale e religioso. Hermes (1775-1831), teologo tedesco, professore a Mùnster e poi a Bonn, vuol fare per la teologia ciò che Kant ha fatto per la filosofia. Il suo sistema è esposto in varie opere, tra le quali: Einleitung in die christ-Katholische Theologie: I Teil: Philosophische Einleitung 1819; II Teli: Positive Einleitung (18Z9); Christ-Katholische Dogmatik, 3 voll.; opera postuma. Accoglie come metodo un assoluto criticismo che bandisca il dogmatismo, per vedere se si possa conoscere con certezza scientifica il fatto della Rivelazione e giustificare razionalmente la fede; questo metodo lo vede imposto dalla filosofia del tempo. Hermes accettava questa filosofia nelle sue esigenze critiche e nei suoi principi secondo i quali ogni verità doveva avere un fondamento razionale, come pure accettava la Rivelazione con i suoi misteri. Dal tentativo di dare una giustificazione razionale secondo le esigenze filosofiche del suo tempo, e dalla accettazione di verità soprarazionali, nasce in Hermes un sistema apologetico caratteristico che sovverte lo stesso concetto di fede. Hermes non è un razionalista perché accetta la rivelazione, è un semirazionalista perché vuol dare un esclusivo motivo razionale alla fede stessa. Non discute il contenuto; vuol dare a questa accettazione del contenuto una base inconcussa tale da costringere i non credenti ad accettarlo necessariamente, come una conclusione dimostrata dalla ragione, se non si vuol abdicare alla ragione stessa. – Hermes accetta la distinzione kantiana di ragione pura o teorica e ragion pratica. La prima tiene per vere verità metafisiche, di necessità intrinseca. Per le verità di ordine morale, religioso e storico interviene la ragion pratica la quale fa ammettere per vero ciò che è necessario alle obbligazioni morali, come condizione o conseguenza della loro validità. Se Dio non fosse giusto, per portare un esempio, non avrebbe senso il mio agire bene del quale Egli, se non fosse tale, potrebbe non tenerne nessun conto; ciò ripugna alla nostra obbligazione morale. Così a credere si è obbligati necessariamente da imperativi morali. Allora per Hermes « la fede è uno stato di certezza e di persuasione in rapporto alla verità della cosa conosciuta, stato al quale noi siamo condotti con l’assentimento necessario della ragion pratica » (HERMES, Philosophische Einleitung p. 261). Ogni dubbio allora è escluso. L’autorità divina con la sua illuminazione ed elevazione interiore dell’intelligenza non è l’unico morivo della fede. Il vero motivo critico che ha valore probativo è la necessità morale di accettare la Rivelazione, non l’autorità di Dio. La fede è la conclusione di un sillogismo fondato su rigorose esigenze morali; non è per Hermes una conoscenza che sia frutto della grazia. È una fede di ragione (Vernunft glaube), la quale non differisce dalla fede che si presta a qualsiasi avvenimento storico. La grazia è necessaria appena per la fede viva o del cuore (Herzensglaube). Inoltre Hermes pare esigere inizialmente un vero dubbio reale, obbligatorio, secondo il quale, per avere una fede giustificata, il credente dovrebbe fare inizialmente un atto di incredulità e ciò senza colpa. Alcuni interpreti però come Schròrs e K. Erchweiber, asseriscono che il dubbio di Hermes sia soltanto metodico. – Se l’atto di fede è una conclusione di ragione consegue che non è più né libero, né soprannaturale; infatti il suo motivo non è l’autorità elevante di Dio, e in ciò sta il carattere eterodosso della dottrina di Hermes: verrebbe a negare il soprannaturale. Alla base di queste conseguenze erronee sta la dottrina di Hermes sulla grazia alla quale negava ogni carattere di divinizzazione ed illuminazione intrinseca: la considerava soltanto una benevolenza di Dio. Hermes ha avuto il torto di aver indicato una via puramente filosofica per arrivare al Cristianesimo. – I libri contenenti la sua dottrina furono condannati nel breve di Gregorio XVI Duna acerbissimas del 26 settembre 1835; diciotto tesi di Hermes furono condannate dal Vescovo di Colonia. Il Concilio Vaticano, pur senza nominare Hermes e seguaci, ne condanna la dottrina quando definisce la soprannaturalità della fede; ripetendo le espressioni dell’antico Concilio di Orange afferma che questa, sotto qualsiasi forma, non può essere ottenuta « senza l’illuminazione e l’ispirazione dello Spirito Santo » (DENZ. 1791); definisce pure la libertà esplicitamente: «se alcuno dice che l’assenso di fede cristiana non è libero, ma è prodotto necessariamente da argomenti della ragione umana, o che la grazia di Dio è necessaria per la sola fede viva che opera per la carità, sia anatema » (DENZ. 1814). Non solo la fede del cuore, ma anche quella di ragione è così soprannaturale. Espressamente condannato è pure il dubbio reale di Hermes (KARL ERSCHWEIBER, Die zwei Wege der neuen TheoLogie, 1926; G. B . GUZZETTI, La perdita della fede nei cattolici, 1940; R. ATJBERT, Le Problème de l’acte de foi, p. 102 sgg). Anche A. Gùnther (1783-1863) esagera in moltissime opere, tra le quali specialmente Vorschule e Euristheus und Heracles, l’eccessivo potere della ragione riguardo alla Rivelazione e mette in pericolo la soprannaturalità dell’aspetto essenziale di mistero che ha il Cristianesimo. Egli è guidato dalla preoccupazione costante di inserirsi in dialogo con la filosofia del tempo strutturalmente razionalista, per la quale la ragione è la norma unica ed assoluta di verità. Accetta la Rivelazione, però nella intelligenza di essa si appoggia piuttosto sui dati della ragione nei quali ha assoluta fiducia; l’intelligenza, messa in possesso dei dati della fede, per Gùnther, può penetrarne con le proprie forze il senso e dimostrarne scientificamente la verità. La teologia è allora un prodotto della filosofia: è la filosofia applicata ai dati rivelati, senza bisogno alcuno di una elevazione. Mentre però le affermazioni di Hermes riguardavano piuttosto i diritti della ragione per giungere con le proprie forze alla fede, il razionalismo di Gùnter si applica piuttosto ai diritti della ragione nella intelligenza della fede già accettata: i misteri sono così dimostrabili (Cfr. GUZZETTI, op. c., p. 20).Egli infatti insegna che l’anima, dalla conoscenza di sé può salire filosoficamente fino ad affermare e intendere il mistero della Trinità; e tutto ciò che esiste nella libera volontà di Dio rimane così completamente svelato alla ragione naturale, onde l’uomo in se stesso, non soltanto trova la testimonianza di Dio che crea, ma di Dio che redime e beatifica l’uomo. Il credere non è un ricevere, ma un sapere dei misteri di Dio con deduzione necessaria dallo spirito; la Rivelazione per se stessa non è trascendente in senso assoluto allo spirito umano, « la trascendenza della Rivelazione sulle forze naturali dell’uomo si intende come relativa, cioè causata dal peccato, ma che per i progressi nella formazione della ragione teoretica e pratica si può superare » (Vorschule, II, 510 cit. da: I . BEUMER. Theologia als Glaubensverstànduis, p. 138).L’applicazione di. questo metodo razionalistico ai vari misteri porta ad errori preoccupanti in Gùnther; sulla dottrina trinitaria, attingendo dalla filosofia idealistica, insegna che una Persona fa essere Persone le altre due; non tiene un solo Dio per la singolarità della sostanza (egli pare ne ammette tre in Dio), ma soltanto per la eguaglianza della sostanza stessa e la relazione delle persone.La condanna di questa dottrina, già pronta per la definizione al Concilio Vaticano, non poté essere raggiunta per l’interruzione del concilio stesso, (Cfr. L. ORBAN, Theologia gunthenana et concilium Vaticanum, 2 voll.).Riguardo ancora alla dottrina di Dio, Gùnther viene a negare la libertà della creazione e della Redenzione. Dio si manifesta a se stesso nella Trinità; questa manifestazione a se stesso per la sua sostanza, deve essere la manifestazione di un ens realissimum, sommamente attivo. Questa manifestazione a se stesso nelle sue opere, come attivo, è il complemento della manifestazione che Dio fa di sé a se stesso nella Trinità. Il pensiero del non-io, del mondo appartiene quindi alla spiegazione della divina coscienza e deve esserle dato con la necessità con cui si spiega Dio come assoluto. Dio non poteva non creare, perché non poteva manifestarsi a sé come impotente, o solo come potenza potenziale [trattasi, evidentemente, di una variante della dottrina gnostica del panteismo … la solita coda ofitica … -ndr-]Influenzato dal kantismo [è a tutti noto lo gnosticismo massonico del “fratello di loggia” E. Kant – ndr. -] è poi il suo dualismo antropologico e gnoseologico. L’uomo è una natura spirituale, cioè persona libera: infatti pensando alle sue manifestazioni le riferisce a sé come causa. Ma l’uomo è pure una natura fisica (Leibseele): la natura fisica non esiste per sé come lo spirito, ma per gli altri; questa natura fisica è unica in tutti gli esseri nei quali essa è contenuta e nei quali tende sempre a prender coscienza di sé nei vari generi e specie degli individui in cui si trova: solo però negli individui forniti di sensi questa materia pensa l’universale; onde nasce la conoscenza concettuale. L’io e la personalità spirituale è inconoscibile; la conoscenza concettuale in senso kantiano non trascende mai il mondo dei fenomeni. Solo la conoscenza ideale lo trascende. Ogni uomo è composto così di uno spirito (Geist) e di una realtà fisica unica che non può mai trascendere se stessa. Questo dualismo nega l’unità umana ed ha i suoi riflessi nel problema morale, ma specialmente nel problema del Cristo e nella unione ipostatica. Queste idee furono condannate nel breve Eximiam tuam del 15 giugno 1857 (cfr. DENZ. 1655-1658). Il Concilio Vaticano ha condannato la razionalizzazione che Gùnther fa del mistero : « se qualcuno dicesse che nella rivelazione divina non si contengono veri e propri misteri, ma che tutti i dogmi di fede possano essere compresi e dimostrati da principi naturali a mezzo di una ragione dovutamente educata, sia anatema » (DENZ. 1816); inoltre riafferma la libertà della creazione (DENZ. 1805). Hermes ha fatto della fede un atto umano; Gùnther ha reso il mistero termine proporzionato all’intelligenza: si tratta sempre di una fiducia illimitata nella ragione e della implicita eliminazione del soprannaturale quando questo è reso accessibile alla ragione non elevata ed illuminata dalla grazia. Il carattere ereticale della dottrina dei due teologi tedeschi (personalmente avendo accettato la condanna non sono eretici) è messo in risalto dai diversi accenni ad essi che si fa negli atti che preparano la formulazione dei canoni del Concilio Vaticano il quale in due diverse definizioni ha avuto presente i loro errori.

Tradizionalismo e fideismo.

Nel secolo XIX, oltre a questi errori nati tutti da infelici tentativi di una conciliazione del Cristianesimo con le idee del tempo a danno del soprannaturale, nacquero pure dei movimenti erronei di pensiero dovuti ad una reazione contro un’eccessiva fiducia nella ragione. Nella rivoluzione francese la ragione ebbe perfino un culto come dea; successivi insuccessi patiti dall’uomo in una spiegazione di sé e organizzazione della propria vita come autosufficiente, generarono una sottovalutazione della ragione alla quale fu negata, a causa del peccato originale, ogni capacità naturale di conoscenza riguardo alla esistenza e natura di Dio. Tali movimenti sorsero specialmente in Francia: furono il Tradizionalismo e il Fideismo.

Il tradizionalismo fu rappresentato specialmente dal Bonald (1754-1840), da De Lamennais (1782-1854) e da Bonnety (1798-1879). Lamennais e Gerbet hanno una sfiducia assoluta nella ragione individuale: ogni scienza comincia con l’atto di fede nel senso comune, nella ragione espressa nella collettività. La verità è estrinseca alla ragione stessa: le viene dall’autorità della società, senza una elevazione intrinseca della intelligenza stessa. Si ammette una vera impotenza fisica a giungere alla conoscenza delle verità metafisiche, morali e religiose riguardanti l’esistenza e l’essenza di Dio senza la rivelazione ricevuta; come l’uomo riceve passivamente l’essere e la vita, così riceve le verità. L’ordine della fede riguarda le verità primordiali concernenti Dio, l’ordine dei concetti invece ha per oggetto la scienza. Queste dottrine furono condannate da Gregorio XVI nelle Encicliche Mirari e Singulari nos. L’errore di Bonnety fu condannato da un decreto dell’Indice del 15 giugno 1855 in cui si afferma la precedenza della ragione alla fede. Il tradizionalismo riprese, mitigato da parte di vari professori dell’università di Lovanio, tra i quali Ubaghs, Beelen, Laforet. – L’uomo attuale ha un indigenza assoluta riguardo alla conoscenza di Dio; pur avendone la capacità non ha la spontaneità; perché questa si sviluppi condizione indispensabile è l’essere istruiti dagli altri, per autorità. Anche questa tendenza fu condannata varie volte da Pio IX nel 1864 e nel 1866 in due interventi.

Il Fideismo invece è rappresentato da Bautain. Anche il tradizionalismo era un fideismo, perché ammetteva la fede come base della conoscenza; però nel tradizionalismo la fede la si ottiene solo attraverso la società che istruisce; per Bautain invece da una comunicazione diretta. Egli ha sfiducia nella ragione che non può dar certezza della esistenza di Dio e delle sue perfezioni; solo per la fede, solo per una rivelazione diretta, si conosce Dio come esistente. Anche riguardo alla giustificazione della fede si esclude qualsiasi apologetica e la necessità di una riflessione sul miracolo: c’è una comunicazione diretta con Dio. Questa diretta intuizione di Dio era affermata anche dall’ontologismo. – Bautain non fu affatto un ribelle ed un pertinace nelle sue idee che rifiutò nella sottoscrizione di un formulario nel 1860. Questi movimenti eterodossi del secolo XIX non creano eretici, perché  quasi tutti si sottomettono alla Chiesa. Le loro idee però sono eterodosse appunto perché unilaterali: non sanno conciliare Dio e l’uomo, fede e ragione. Consegue una certa autosufficienza e il Cristianesimo perde il carattere di grazia: alla fede si giunge con le proprie forze. Esagerando il ruolo di soprannaturale si nega la natura, rifiutando all’intelligenza la sua naturale apertura a Dio si rende Dio totalmente inconoscibile; ed allora anche lo stesso soprannaturale viene messo in pericolo, perché si presenta come l’assolutamente arbitrario. Il Concilio Vaticano afferma la possibilità della conoscenza mediata della esistenza di. Dio da parte della ragione, con la sua luce naturale: « la Chiesa tiene e insegna che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con la luce naturale della ragione partendo dalle cose create » (DENZ. 1785). Viene ristabilito l’equilibrio rotto e l’armonia tra naturale e soprannaturale, tra ragione e fede che si integrano nella grazia. La ragione è un vero conoscere, però finito; la fede è il perfezionamento di questo conoscere il quale è così per dono di Dio reso capace di affermare con certezza ciò di cui non era capace.

Il modernismo.

[“sintesi di tutte le eresie”]

Il razionalismo di Hermes si applicava soltanto all’atto con il quale l’uomo raggiunge la fede o alla intelligenza della fede stessa: questi atti non erano soprannaturali, ma secondo la capacità naturale dell’uomo. In seguito il razionalismo divenne più radicale e fu applicato alla stessa rivelazione e alla figura del Cristo stesso, come del resto già aveva fatto Kant con la sua opera La religione entro i limiti della ragione. Vari autori che trattano della vita di Cristo come G. H . Paulus (1761-1851), D. F. Strauss (1808-1874), F. C. Baur (1792-1860) con.la scuola di Tubinga, e infine più recentemente A . Harnack (1851-1930), A. Loisy e Renan negano la divinità di Cristo in nome dell’esegesi storico-scientifica degli stessi Vangeli al cui studio storico-letterario e interpretativo si misero con accanimento e arbitrarietà. Come secoli addietro si era negata la Chiesa, con Hermes e Gùnther si era razionalizzato l’accesso alla fede, ora viene completamente negato il contenuto soprannaturale. La divinità del Cristo viene comunemente negata, pur trovandosi tra di loro in contraddizioni sull’interpretazione della figura di Gesù, che vien presentato come l’assertore e il simbolo della immanenza di Dio nel mondo (Baur), o come colui che nella intuizione della paternità Divina ebbe di Dio una idea liberatrice per la psicologia oppressa dal concetto di Dio giudice, (Harnack), oppure come il profeta escatologico, cioè annunziatore di una fine imminente del mondo ( A . Loisy). Viene negato il soprannaturale e quindi il miracolo in nome della ragione o della scienza, norme assolute di ogni verità. Inoltre il romanticismo del teologo protestante di F . Schleiermacher (1768-1834) ha influenzato moltissimo le generazioni seguenti per il concetto immanentistico di religione basata sul sentimento e sull’esperienza personale: religione è l’atto con cui l’uomo percepisce di essere in unione con l’infinito, onde nasce nell’animo un « sentimento di dipendenza ». Questa intuizione può assumere forme diverse (donde le varie religioni) e forme nuove che danno luogo alla rivelazione. (Cfr. Histoire de la Theologie protestante au xix siecle: L. PERRIRAZ, 3 coll.). A. Sabatier affermerà poi esplicitamente che tutte le religioni sono il risultato di questa esperienza originaria: la cristiana è la più perfetta. I dogmi poi non hanno valore oggettivo: sono la trascrizione inadeguata e relativa di una esperienza soggettiva (cfr. A . SABATIER, Esquisse d’une Philosophie de la religion). – Queste idee esegetiche e religiose hanno prodotto anche tra i Cattolici movimenti di pensiero in parte rimasti nell’ortodossia e in parte staccati: è l’eresia modernista i cui più espressivi e radicali rappresentanti sono tra gli altri, l’inglese G. Tyrrell (1861-1909), in Francia A . Loisy (1857-1940) con diramazioni anche in Italia, specialmente, per mezzo di E . Bonaiuti (Per la bibliografia si confronti l’opera fondamentale di I . RIVIÈRE, Le modernisme dans l’Eglise, Paris 1929; cfr. id. D.T.C, t. x c. 2009-2047; G. MARTINI, Cattolicesimo e storicismo, 1951. L . DA VEIGA COUTINHO, Tradition et Histoire dans la controverse moderniste, Roma). –

L’errore modernista, a differenza di precedenti eresie che negavano un punto del dato dottrinale, riguarda la base di tutto il Cristianesimo, perché mette in discussione i suoi elementi fondamentali, come il concetto di religione e di rivelazione, onde l’enciclica Pascendi lo definirà come « la sintesi di tutte le eresie». Tyrrell stesso affermava: «non è, come i nostri avversari lo suppongono, sopra uno o due articoli del simbolo che noi differiamo; gli articoli noi li accettiamo tutti, ma ciò che è in gioco è la parola credo, è il senso della parola « vero » quando la si applica al dogma, è tutto il valore della rivelazione » (Lettera a Von Hugel citata da R. ATTBERT, Le problème de l’acte de foi, 2 ed. p. 369). – Il modernismo è nato da una pretesa inadeguatezza riscontrata tra i fatti storici e la scienza sacra che ne è sorta. Loisy afferma che i miracoli e le profezie e l’insieme dei fatti straordinari non costituiscono che un cumulo di probabilità, onde la necessità, per fondare assolutamente la fede, di trovare una base nella stessa conoscenza religiosa. Non è necessario che tra i fatti storici e la dottrina ci sia una omogeneità oggettiva: è sufficiente il rapporto di simbolo e di realtà: i fatti storici non fondano la dottrina, ma ne sono le espressioni simboliche, soggettive, mutevoli. Il fondamento di ogni religione non consiste in basi esegetiche o storiche, ma la vita e la esigenza dello spirito umano, conformandosi in ciò all’immantismo del tempo in campo religioso e filosofico. I modernisti italiani nella risposta all’enciclica Pascendi affermavano: « la critica recente delle varie teorie della conoscenza porta a concludere che tutto è soggettivistico e simbolistico nel campo della conoscenza: la legge della scienza come le teorie metafisiche. Ma ciò non toglie che ciascuna delle creazioni dello spirito umano nelle sue varie sfere di attività abbia un valore assoluto. Anche il campo della fede ha il suo valore vitale e nel suo genere è assoluto» (Il Programma dei modernisti, 1908, pag. 111). La religione non è fondata sulla rivelazione trascendente che viene al soggetto, ma emana dalla vita, come frutto immanente in essa [la solita solfa gnostico-immanentista –ndr.-]: « e perché la nostra vita è per ciascuno di noi qualcosa di assoluto, anzi l’unico assoluto, tutto ciò che da essa emana e ad essa ritorna, tutto ciò che ne alimenta e arricchisce l’esplicazione, ha ugualmente il valore assoluto» (id. p. 112). – Mentre la religione è il senso dell’assoluto immanente vitalmente nell’uomo, la rivelazione ne è la manifestazione, « è la coscienza acquisita dall’uomo della sua relazione a Dio », come dice l’enciclica Pascendi (cfr. DENZ. 2020), interpretando alla lettera ciò che dice Loisv: « ciò che si chiama rivelazione non ha potuto essere che la coscienza acquisita dall’uomo del suo rapporto con Dio » (LOISY, Autour d’un petit livre, p. 195). Si tratta di un senso dell’assoluto immanente nell’uomo e di una intuizione originaria dell’umanità che si va sempre più perfezionandosi, sotto l’influsso della vita, con la percezione di nuovi rapporti. Per Tyrrell la rivelazione è una esperienza, cioè un fenomeno profetico morale e interiore; « non può essere introdotta in noi dal di fuori, essa può essere occasionata, ma non può essere prodotta per l’istruzione. L’insegnamento esterno deve evocare in noi una rivelazione » (TYRRELL, Trough Scyìla and Charybdis, p. 306). Colui che rivela non dà contenuti oggettivi nuovi, ma con la manifestazione della sua particolare esperienza ne risveglia di simili negli altri uomini. I sacramenti della Chiesa sono nati dal bisogno vitale di dare alla religione un corpo sensibile, mentre invece i dogmi sono la trascrizione di questa esperienza mutevole sviluppata nel corso dei secoli e che ha il potere suggestivo di risvegliare e riprodurre la stessa esperienza negli altri. – Per i modernisti la fede non è l’assenso a verità storiche ed oggettive, ma il risultato di una esperienza dove l’uomo prende coscienza della ricchezza spirituale del Cristianesimo considerato come l’unico fattore capace di far sviluppare il senso religioso, che consiste in una innata comunicazione personale con l’Infinito [e qui siamo in pieno campo gnostico – ndr. -]. La fede è una percezione di Dio immanente nel cuore, non l’affermazione di Dio che oggettivamente parla nella storia e attraverso di essa alle coscienze. I dogmi non sono altro che la trascrizione simbolica e l’intelligenza fa di questo dato vitale originario nel cui potenziamento e sviluppo consiste tutta la rivelazione; non sono oggettivi, ma la reazione tutta umana ed emotiva a questa forza vitale religiosa; hanno un valore pratico ed utilitario per esprimere la fede dell’individuo e suscitarla negli altri. In conclusione i dogmi sono un saggio tentato dall’uomo per formulare un’esperienza che muta; e quindi mutano anch’essi. Il simbolo è « una realtà, una realtà sui generis a cui la fede conferisce un valore inestimabile fino a farlo diventare veicolo reale e occasione benefica di una elevazione dello spirito e di una più profonda elevatezza religiosa» (Il Programma dei modernisti, p. 112); possono essere falsi o veri; però devono avere un valore pratico, quello di alimentare la pietà. Hanno quindi un valore soggettivo; non sono irreformabili, sono mezzi per suscitare la fede, non sono l’espressione oggettiva ed intellettuale dell’affermazione della rivelazione oggettiva e storica: esprimono il soggetto non l’oggetto. Il modernismo riduce il soprannaturale al sentimento del soprannaturale, il quale sentimento è un aspetto della vita psichica dell’uomo; la rivelazione nasce dall’uomo, non è l’atto libero di Dio trascendente che si rivela all’uomo nella storia; i dogmi non sono l’espressione autentica di una rivelazione oggettiva, la quale può essere tale soltanto se, essendo assoluta, si esprime come tale. Per il modernismo invece la conoscenza umana è chiusa nel mondo dei fenomeni e del relativo, come affermava Kant. Loisy parlando dei dogmi che afferma relativi e mutabili dice: «non è con gli elementi del pensiero umano che si può costruire un edificio eterno. La verità solo è immutabile, ma non la sua immagine nel nostro spirito » (L’Evangile et l’Eglise, ed. 1, p. 166, ed. 2, p. 210). Agnosticismo e immanentismo sono le basi filosofiche del modernismo, onde il senso stesso della parola credo è pervertito: non è l’affermazione oggettiva soprannaturale di una realtà vera, ma l’espressione soggettiva e quindi mutevole di una realtà e verità inconoscibili in se stesse e non attingibili dall’uomo che rimane chiuso in se stesso. – Per questo il decreto Lamentabili del 3-4 luglio del 1907 e poi in maniera più solenne l’enciclica Pascendi (8 settembre 1907) condanna il modernismo come « sintesi di tutte le eresie ». Svalutata la Chiesa nel protestantesimo, negato il Cristo con Dio nel liberalismo protestante, negato il soprannaturale nel razionalismo e reso oggetto dell’intelligenza nel semirazionalismo di Hermes e di Gùnther, il modernismo ha ridotto la stessa affermazione fondamentale cristiana e la rivelazione ad essere un prodotto dello spirito nella sua facoltà di alienarsi.

ALBERTO BELLINI

[Grassetto e colore sono redazionali]

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L’eresia modernista, che è la sintesi di tutte le eresie considerate fin qui, ha trovato suo pieno compimento: prima nel conciliabolo cosiddetto Vaticano II, e poi nell’opera ferocemente anticattolica, destabilizzante e demolitrice dei falsi prelati e degli antipapi apostati succedutisi dopo il 26 ottobre del 1958, giorno del trionfo di satana in Vaticano, giorno in cui è stato estromesso, esiliato ed umiliato il Santo Padre Gregorio XVII (già Cardinal G. Siri), la Cattedra di Pietro usurpata da un massone 33°, servo dell’anti-Cristo, e tutta la Cristianità un tempo Cattolica passata, suo malgrado e senza colpo ferire, con uno scisma formale e materiale, nella setta del “Novus Ordo” « … e la Chiesa sarà eclissata » [Apparizione approvata a La Salette, 1846]

LE PIAGHE DELLA COMUNITA’ CRISTIANA: LE ERESIE (4 a)

LE PIAGHE DELLA COMUNITÀ’ CRISTIANA

Capitolo I

Le ERESIE,

ferite alla unità della fede

(4 a)

[“Somma del Cristianesimo”, a cura di R. Spiazzi, vol. II Ed. Paoline, Roma, 1958]

Art. 4. – LE ERESIE MODERNE. –A

La cultura moderna ai suoi inizi si presenta dominata dall’umanesimo: questo movimento di pensiero condusse ad un paganesimo pratico, però rifacendosi ad una scoperta dell’uomo nei suoi valori e non essendo sorto nell’ambito del pensiero cristiano, come reazione ad esso o accentuazione unilaterale di qualche suo aspetto, ma autonomo, non produsse nessuna eresia, pur avendo dell’uomo e del suo potere un concetto esageratamente ottimistico e quindi non cristiano. Però il metodo esegetico dei testi da essi introdotto avrà i suoi effetti sulla Riforma protestante, specialmente su Zuinglio che, rifiutando il Magistero ecclesiastico, ad essa appella, per l’interpretazione della Sacra Scrittura. Le eresie moderne invece si presentano con il Protestantesimo e Giansenismo come antiumanistiche, in quanto v’è negato all’uomo la partecipazione al divino e la cooperazione alla salvezza propria. Oltre la negazione dell’uomo si nega la Chiesa, svalutando la ecclesiasticità come opus operatum. Nel secolo XIX si indebolisce lo stesso soprannaturale in quanto con il semirazionalismo di Hermes e Gùnther il suo accesso e la sua penetrazione vien resa possibile alle forze naturali dell’uomo. La negazione esplicita del soprannaturale della rivelazione e della stessa divinità del Cristo si avrà col razionalismo esegetico e col modernismo.  – L’uomo tende a ridurre il rapporto religioso ad un fatto soggettivo di alienazione con lo scopo di eliminare anche Dio dopo aver rifiutato la Chiesa, la rivelazione e il Cristo.

Il Protestantesimo.

Il protestantesimo si presenta come affermazione della trascendenza di Dio e della sovranità assoluta e totale della grazia che tutto opera nella salvezza dell’uomo. È eresia non per l’affermazione di questi principi che sono la base del Cristianesimo, ma perché li considera unilateralmente. – La trascendenza assoluta di Dio non impedisce che la sua azione diventi immanente nell’uomo, partecipata intrinsecamente come grazia; invece il protestantesimo, in base alla assoluta trascendenza di Dio, afferma una radicale opposizione tra Dio e l’uomo che dall’azione di Dio non viene intrinsecamente mutato. Inoltre il principio che la grazia è sovrana e tutto opera diventa nella dottrina luterano-calvinistica il principio della esclusiva azione della grazia la quale esclude quindi ogni cooperazione dell’uomo. – Anche qui unilateralità: non sa conciliare l’onnipotenza della grazia con la sua capacità di suscitare con essa altre attività libere e cooperatrici rese tali non per virtù propria di queste attività, ma per il dono di Dio. – L’eresia protestante consiste allora nel negare un rinnovamento ontologico nell’essere dell’uomo; nell’escludere ogni cooperazione dell’uomo e della sua libertà all’azione di Dio operante nella grazia; nel rifiutare ogni ecclesiasticità come strumentalità e realtà in se stessa costituita da Dio santa, perché mezzo con il quale la sua salvezza si perpetua, si manifesta ed opera nel mondo e sugli uomini. Innanzitutto il protestantesimo è eresia perché rifiuta ogni significato ontologico alla giustificazione che Dio opera per l’uomo. Infatti per la Riforma la grazia è benevolenza, giudizio misericordioso, favore che Dio usa verso l’uomo; è un atto trascendente e sovrano di Dio per il quale l’uomo rimanendo nel suo essere e nel suo operare, quello che era prima, cioè peccato e impotenza, dalla bontà di Dio viene considerato e reputato giusto. Infatti Lutero afferma: « sei giusto per la misericordia e la compassionevolezza di Dio. Ciò non è habitus o qualità tutte del mio cuore, ma qualche cosa di estrinseco, cioè la misericordia divina, perché sappiamo rimesso il nostro peccato e perché viviamo nelle sue misericordie numerose e grandi » (W. A. 40, I I , 353,3 : cfr. W. ELERT, Morphologie des Luthertums vol. I , p. 69, n. 1). Anche per Calvino « l’uomo non è oggettivamente giusto » (Inst. Christ.), come egli stesso asserisce in polemica contro i Cattolici. La giustificazione così viene descritta da Melantone nella sua Apologia: « essere giustificato significa assolvere il reo come avviene nei Tribunali (forensi consuetudine) e dichiarare uno giusto, per una giustizia estrinseca, cioè quella del Cristo, la quale giustizia estrinseca viene a noi comunicata per mezzo della fede » (Ap. 4, 305 da : Die Bekenntnisschriften der Evangelisch-lutherischen Kirche, p. 219). Sul presupposto di una trascendenza divina esageratamente intesa si esclude ogni partecipazione, interiorizzazione dell’azione di Dio nell’uomo nel quale nulla viene posto di realmente e oggettivamente nuovo come termine dell’azione divina. Viene rifiutata un’azione la quale sia veramente e ontologicamente rinnovatrice e santificatrice e la giustificazione non fa giusti, ma dichiara soltanto giusti. Il Protestantesimo non comprende come la parola creatrice di Dio la quale, dato un essere e un significato intrinseco alle cose che Egli ha creato dal nulla, può anche nella sua azione ricreatrice e giustificativa porre nell’uomo una realtà e una capacità santa. L’uomo è allora veramente giusto in se stesso, non per capacità propria, ma per dono di Dio. Lutero invece asseriva che l’uomo è simul justus et peccator: peccatore e non giusto in se stesso, giusto nel giudizio benevolo e gratuito di Dio. Invece la giustizia non viene soltanto imputata all’uomo, ma partecipata; e la redenzione oggettivamente compiuta nel Cristo, si soggettivizza in ogni uomo, con la cooperazione dello stesso uomo elevato dalla grazia. – Anche quando Lutero e Calvino affermano che la giustificazione è in se stessa santificatrice, escludono ogni valore ontologico e intrinseco a questa rinnovazione dell’uomo; infatti queste azioni sante non sono in quanto tali operate dall’uomo. Dio soltanto opera la santificazione con l’esclusione di ogni cooperazione umana: le opere compiute dall’uomo hanno solo il valore di segno di una attività santificatrice operata fuori dell’uomo. – Il Protestantesimo quindi diventa eresia perché rifiuta che la grazia possa essere intrinsecamente presente nell’uomo in modo che l’uomo sia reso giusto in se stesso. Il Concilio di Trento dichiara eretico colui che afferma che la grazia è soltanto un favore di Dio: infatti la carità e la grazia «ineriscono» all’uomo. Nella Rivelazione la grazia è presentata come una vita comunicata e partecipata all’uomo che di essa vive e in essa è intrinsecamente rinnovato. È la nozione troppo pessimistica nell’uomo che nella dottrina della Riforma diventa eretica. Infatti il peccato originale, identificato con la concupiscenza, è considerato una « corruzione della natura » (W. A. 8,105); è poi talmente radicale nell’uomo da rendere intrinsecamente cattivi tutti gli atti naturali: « Dio creò retto l’uomo, ma quando ha peccato, la volontà tutta fu corrotta e tutte le capacità naturali, e credo che siano corrotti anche i sensi naturali e che il corpo è viziato negli stessi sensi, nel sangue e nei nervi » (W. A. 40,2,323). Tutte le azioni dell’uomo sono allora peccato, anche le azioni naturalmente buone, e « le virtù dei pagani non sono altro che menzogna » (W. A. 2,458,613). Viene negato ogni valore etico alla natura in sé e quindi vien rifiutata ogni morale naturale; come del resto vien rifiutata ogni filosofia, poiché le cose hanno il valore che dà loro la Parola di Dio. – Questa radicale corruzione della creatura e l’esclusione di ogni rinnovamento intrinseco dell’uomo nella grazia porta al rifiuto di ogni libero arbitrio e di ogni cooperazione dell’uomo alla grazia. Lutero e la Riforma non escludono la libertà psicologica dell’uomo che può volere e non volere; escludono che questa libertà si applichi alla operazione della propria salvezza. La libertà dell’uomo è « res de solo titulo, figmentum penitus » cioè è « soltanto un vocabolo, una pura finzione ». – Non hanno più senso allora tutti gli inviti che Dio nella Sacra Scrittura fa all’uomo perché costui operi la propria salvezza, né ha senso l’ordine naturale dell’uomo come realtà elevata e perfezionata dalla grazia. Per il Concilio di Trento, nel settimo e venticinquesimo canone sulla giustificazione, le opere morali dell’uomo prima e dopo della giustificazione sono azioni buone e non peccato, come invece afferma Lutero: sono azioni di una natura incorrotta e quindi buona, anche se, in seguito alla privazione del soprannaturale, con più difficoltà l’uomo esplica la sua stessa naturalità. – Il Protestantesimo rifiuta così ogni cooperazione dell’uomo alla grazia e conseguentemente il valore delle opere buone e del merito. Negata ogni partecipazione intrinseca della grazia a una rinnovazione reale dell’uomo e non sapendo conciliare la cooperazione dell’uomo con la onnipotente, sovrana grazia che opera tutto nell’ordine della salvezza, Lutero e Calvino rifiutano ogni cooperazione attiva dell’uomo: « noi siamo giustificati per la sola fede senza le opere » (W. A. 30,2,659). Non viene negata la necessità delle buone opere, viene negato il loro ruolo attivo e cooperante. Calvino asserisce: « noi non siamo giustificati senza le opere, quantunque non sia per le opere » (Inst. Christ., III, 161) e Lutero nel suo scritto «della libertà cristiana» dice: «le opere buone e giuste non fanno mai un uomo buono e giusto, ma un uomo buono e giusto fa delle buone opere » (W. A. 7,32); onde la fede non giustifica per le opere, non però senza le opere: queste seguono soltanto come segno, ad onore di Dio, per obbedienza, senza però nessun valore e senza nessun influsso. – Qualora ciò avvenisse, per Calvino l’onore di Dio verrebbe diviso e Dio non sarebbe più il gran sovrano, poiché la sua gloria sarebbe divisa; per Lutero invece Dio non sarebbe più la causalità che tutto produce e opera. Il Protestantesimo non è eresia perché afferma che nella salvezza nulla viene operato fuori di Dio, ma perché nega che questa azione elevante di Dio sia talmente onnipotente da suscitare l’attività dell’uomo e porlo per grazia cooperatore nella propria santificazione. – Il Cattolicesimo non asserisce che la cooperazione dell’uomo si aggiunge a quella di Dio, come se questa non fosse efficace, ma afferma che la cooperazione umana nasce da questa grazia originaria, come suo frutto. Grazia e cooperazione sono inseparabili, anche nello stesso atto della giustificazione. L’uomo riceve il dono di operare con libertà la propria salvezza che è così tutta di Dio e tutta dell’uomo che agisce in subordinazione a Dio; il concilio di Trento, in armonia con la dottrina della Chiesa afferma che gli uomini adulti « resi capaci e aiutati dalla grazia divina si muovono liberamente verso Dio » (DENZ. 798), « assentendo e cooperando liberamente alla stessa grazia » (DENZ. 797). Il primato della grazia viene così salvato perché essa rimane unica causa della cooperazione dell’uomo la quale senza il dono di Dio non avrebbe luogo.- Il Protestantesimo è eresia perché è unilaterale: nella sua affermazione fondamentale della salvezza per la sola grazia non ha saputo vedere come esso non nuoceva alla cooperazione dell’uomo la quale nasceva dalla grazia stessa. Onde l’uomo veniva reso passivo, senza la libertà elevata a volere un oggetto più grande di sé, la vita di Dio, senza essere immesso in una realtà nuova, soprannaturale: la grazia santificante. Per il Protestantesimo l’uomo è soltanto un mendicante; per il Cattolicesimo l’uomo è reso da Dio cooperatore e degno di merito e tutto ciò per azione della grazia. Nella grandezza del dono sorge nell’uomo il potere di meritare come si esprime il concilio di Orange del 529: « la ricompensa è dovuta alle buone opere, se si fanno, non per qualsiasi merito che abbia preceduto la grazia, ma la grazia, che non è dovuta, precede perché esse siano compiute » (DENZ. 191). Negato all’uomo il dono della libera cooperazione, la salvezza dell’uomo è una decisione che si compie fuori dell’uomo, onde si cade nell’eresia predestinazionistica, affermata da Lutero nel suo De servo arbitrio e da Calvino: è la conseguenza della dottrina riformata della grazia che esclude ogni cooperazione umana. Nata con la pretesa di magnificare la grazia onnipotente la Riforma la svaluta: mentre per i cattolici essa è talmente attiva e sovrana da rendere altri attivi e sovrani in essa, per il Protestantesimo è resa impotente a rendere gli uomini potenti ed attivi. E questa potenza e attività non nuoce a quella di Dio, ma è effetto della Grazia talmente ricca e potente da rendere anche altri potenti ed attivi. – Il Protestantesimo nega pure ogni ecclesiasticità: non ha saputo vedere nella funzione gerarchica, nel Papato, nel Sacerdozio, nel Magistero ecclesiastico dei servizi e ministeri santi per istituzione divina, per mezzo dei quali soltanto l’uomo entra nella salvezza e nella comunità di Dio: essi sono soltanto delle creazioni umane, non istituzioni divine. Lutero e Calvino non sono stati fedeli alla dottrina della incarnazione che pure accettavano: se l’umanità in Gesù è veramente l’umanità di Dio e strumentalità di grazia e di salvezza, non nuoce alla trascendenza e alla libertà sua se Dio perpetua visibilmente la comunicazione dei frutti della salvezza attraverso altre umanità, quella della Chiesa visibile e dei suoi mezzi. Erede di movimenti di sfiducia nella Chiesa visibile, movimenti nati dal grande scisma occidentale e da assertori di uno spiritualismo disincarnato come Wyclif e Huss, l’eresia protestante rifiuta il visibile nella Chiesa. Anche coloro che come Calvino e Bucer accettano delle istituzioni ecclesiastiche come istituzioni divine, si nega da alcuni l’episcopato, da tutti il Papato, il Magistero ecclesiastico e la Tradizione come fonte della Parola di Dio. Il primato della Parola di Dio accentuato dai Protestanti diventa eresia quando questa Parola di Dio è ridotta alla sola Sacra Scrittura, e l’interpretazione della Parola di Dio non è autenticata in un magistero: allora vien meno la stessa rivelazione la quale, per non essere lasciata alle supposizioni e alle arbitrarietà soggettive; deve aver la possibilità di prodursi in modo sensibile, cioè adatto all’uomo; Dio non rivelerebbe se non fosse dato all’uomo il mezzo d’interpretare la sua parola: ogni messaggio per essere tale deve aver la capacità di farsi intendere dal destinatario in modo proporzionato alla sua natura. Negando il Magistero ecclesiastico il Protestantesimo diventa eresia, perché nega un elemento essenziale alla stessa Parola di Dio. Questa non viene resa schiava o subordinata nel magistero: soltanto requisisce per volontà sua il mezzo di farsi intendere dall’uomo in modo adatto all’uomo stesso.  Anche la stessa funzione sacramentale è intesa ereticamente dalla Riforma, almeno da diversi dei suoi movimenti, precisamente da quelli che riducono i sacramenti ad essere solo segni della fede o della grazia a donare la quale non cooperano affatto. Dell’Eucaristia o vien negata la presenza reale (Zuinglio e Calvino) o la transustanziazione (Lutero) o la sua funzione sacrificale nella Messa. – Come conseguenza del pessimismo sull’uomo e della negazione di ogni partecipazione intrinseca della grazia vien negato ogni culto ai santi. Essendo così unilaterale nell’intendere la grazia ed eliminando la ecclesiasticità o il primato il Protestantesimo non è una riforma della Chiesa, ma una rottura da essa e una separazione dalla sua dottrina. Per questo la condanna di Lutero nella bolla pontificia Exurge, Domine del 15 giugno 1520 e la condanna di tutte le dottrine della Riforma nel Concilio di Trento (1545-1563) non è altro che la conseguenza ultima di un movimento che già si era staccato dalla Chiesa stessa rifiutandone la fede in tutti i suoi aspetti. – Tolta l’interpretazione della Sacra Scrittura alla Chiesa si sviluppa in certi ambienti periferici alla stessa Riforma una tendenza razionalistica secondo la quale è la ragione che ha la signoria della Sacra Scrittura. Questo metodo ed interpretazione vengono specialmente applicati al dogma della Santissima Trinità. Si parte dalle affermazioni trinitarie considerate però da una intelligenza che è in rivolta contro di esse; onde queste affermazioni della Rivelazione vengono ridotte ad una pura funzione manifestativa di una unicità che nega ogni vera e reale Trinità. È l’eresia antitrinitaria: Fu negata dalla stessa Riforma e Calvino condannerà perfino alla morte il suo maggior rappresentante M. Serverò; però fu certamente la tendenza protestante a considerare la Trinità solamente in rapporti a noi, a far affermare ai nuovi eretici che essa non ha alcun valore oggettivo ed assoluto nella divinità in sé, ma solo nel suo manifestarsi a noi. – Gli Antitrinitari si dividono in due correnti: quella più mistica rappresentata da M. Serveto e quella razionalistica da Lelio Socino. M. Serveto (1509-1533) nato a Villanuova in Aragona scrisse nel 1531 un trattato De Trinitatis erroribus libri VII, come pure un’opera Christianismi restitutio. Contro di lui scriverà nel 1543 Calvino una Defensio orthodoxiae fidei de sancta Trinitate contra prodigiosos errores M. Serveti Hispani. Serveto ha affermato l’unicità di Dio considerato neo-platonicamente e panteisticamente come “essentia essentians” che si è rivelata in tre modi: come Parola o Verbo, come Cristo e come Spirito. Antitrinitari sono pure B. Ochino nei suoi Dialoghi, senese, e G. Blandrata che chiama la Trinità « Deum conflatum ». Ochino è alla testa dell’unitarismo che ebbe in Biddle (1601-1662) uno dei suoi maggiori rappresentanti.

Lelio Socino (1525-1562) nega la Trinità perché non in accordo con la ragione; la Trinità nella Sacra Scrittura deve essere intesa come una molteplicità di manifestazione.

Baianismo e Giansenismo.

– M. Baio.

Nei secoli XVI e XVII sorsero due eresie sviluppatesi nella difficoltà d’intendere l’azione della grazia nella libertà dell’uomo e di armonizzare la natura con il soprannaturale. Michele de Bay, alla latina detto Baius, nacque a Melin, oggi Meslin l’Evéque nel 1531; fu associato come professore di teologia all’Università di Lovanio; nel 1563 fece parte di una delegazione al concilio di Trento. Mori nel 1589. I suoi errori furono condannati da Pio v nel 1567 con la bolla Ex omnibus afflictionibus, compendiati in 79 proposizioni tolte dai suoi numerosi opuscoli. Baio si sottomise totalmente alla condanna. – Baio esprime un ottimismo esagerato sulla natura e la dignità dell’uomo prima del peccato originale, di modo che il peccato ha prodotto in esso un disordine totale e completo da rendere le azioni umane tutte peccaminose. Innanzitutto prima del peccato originale il soprannaturale e la vita eterna come conoscenza e possesso di Dio erano il termine e il riposo naturale delle tendenze spirituali dell’uomo: «come la natura dell’occhio è di vedere, così la natura della ragione e della volontà in Adamo fu di conoscere Dio, affidarsi a Dio, temere Dio » (citato da F. X. JANSEN, Baius et le Bajanisme, p. 36). Data la volontà e l’intelligenza in quanto tali è data la loro gravitazione naturale a Dio contemplato e posseduto: Baio confonde lo stato di Adamo innocente con lo stato naturale e normale dell’uomo e non sa che la vita in Dio non era termine naturale di Adamo, ma dono di Dio ad una natura resa capace di raggiungere un fine superiore e impossibile alle proprie tendenze. – Il peccato originale per Baio non soltanto ha privato l’uomo della elevazione e capacità soprannaturale, ma, dato il rapporto di necessità esistente in antecedenza tra l’uomo e Dio come vita eterna, ha reso le stesse facoltà naturali dell’uomo fuori dell’ordine e della legge propria; le sue azioni non giungono al fine a cui in quanto tali dovrebbero giungere nella legge del loro dinamismo; e quindi sono tutte peccaminose. Tutto l’uomo in quanto tale è senza senso, perché chiuso in se stesso e nel proprio egoismo in rottura radicale con Dio e quindi immorale in tutte le sue opere. Per Baio il peccato originale non è la privazione del soprannaturale, privazione che lascia l’uomo ancora nella bontà della sua natura e delle sue azioni; ma un atto dell’uomo, una concupiscenza, una perversione positiva dello spirito umano che viene corrotto e reso incapace di esplicare e tradurre in atto la propria dinamicità. La concupiscenza, il disordine e la disarmonia essenziale dell’uomo rimangono anche dopo il Battesimo, il quale toglie il reato e non imputa la colpa, ma non dà nessuna realtà nuova all’uomo. Questa concupiscenza congenita nell’uomo è sempre peccato, anche se non è voluta positivamente dall’uomo. Baio infatti confonde volontarietà con spontaneità: onde per commettere il peccato non si richiede che l’azione sia in potere dell’uomo nel suo essere adempiuta, ma che proceda dalla spontaneità della natura: non importa se è intrinsecamente determinata, come un istinto; purché non sia soggetta a costrizione estrinseca. L’uomo è una realtà dinamica protesa nell’agire e nell’operare; ma siccome è ora nella natura dell’uomo essere fuori del fine, cioè fuori della capacità di raggiungere Dio, tutte le azioni dell’uomo, come espressioni di questo dinamismo vano, frustrato nel suo scopo, cioè di questa concupiscenza, sono peccato. Sono peccati tutte le azioni dell’uomo dopo l’uso di ragione (cfr. la proposizione condannata 49: DENZ. 1049): Infatti «tutto ciò che opera il peccatore o il servo del peccato, è peccato» (pr. 35: DENZ. 1035) e «tutte le opere degli infedeli sono peccati e le virtù dei filosofi sono vizi » (pr. 25: DENZ. 1025). Le singole azioni dell’uomo, siano essi liberi o no, come atti ed espressioni di una natura radicalmente male orientata, sono azioni cattive e peccaminose. Per Baio peccato e natura si identificano. Nella sua attività l’uomo non può far altro che peccare (cfr. pr. 28): questa è la sua unica scelta e libertà; e la tragicità dell’uomo è di dovere essere condannato per azioni che non può evitare. La Sorbona ha condannato di Baio una proposizione: «L’uomo pecca e merita la condanna in ciò che fa necessariamente ». La tendenza di Baio è di accentuare la diversità tra la vita naturale e quella etico-religiosa. Negata l’autonomia della natura e asserita come necessaria l’esigenza che questa ha del soprannaturale considerato come il fine nel quale il suo tendere ha senso, tutto ciò che è natura è incompletezza essenziale; la natura in se stessa non ha quindi alcun valore etico-religioso. Il rapporto al fine, il quale per Baio non può essere che quello soprannaturale, costituisce l’oggetto morale come tale; dove esso fa difetto non ci può essere che immoralità e peccato; non si ammette una bontà naturale. – Baio non conosce la divinizzazione dell’uomo e la grazia elevante che ponga nell’uomo giustificato una realtà nuova e deifica; la giustificazione allora non è un’azione rinnovatrice ed elevante dell’uomo, ma soltanto consiste e nella osservanza perfetta dei comandamenti ottenuta per dono di Dio e realizzata dalla natura non perfezionata, e ancora nella remissione dei peccati che sono la conseguenza di una osservanza imperfetta. La giustificazione non è una grazia elevante, ma aiuto medicinale alla natura perché osservi la legge. – La giustizia non è una forma deifica, ma la semplice rettitudine della volontà e l’osservanza della legge; che le opere siano meritorie non deriva dalla grazia, ma dalla proporzione che esse hanno di natura loro con la ricompensa. La carità può trovarsi nell’uomo con il peccato. La grazia quindi non è il perfezionamento dell’uomo, ma il dono che permette alle facoltà dell’uomo di raggiungere il fine alle quali esse naturalmente gravitano. Il perdono di Dio rimane estrinseco all’uomo, viene soltanto imputato; l’effetto interiore non è una forma nuova perfettiva dell’uomo, ma il semplice raggiungimento di un fine proporzionato. Baio non ha saputo vedere l’uomo nella sua realtà naturale elevato ad una grandezza e ad un fine soprannaturale, in un innestarsi armonico di due ordini in cui la grazia è puro dono, e quindi in nessun modo dovuto. La natura senza la grazia, per Baio, è esclusiva concupiscenza; onde negazione di qualsiasi valore e bontà naturale dell’uomo fuori della grazia, con la conseguente separazione del divino dall’umano visto solo negativamente e non come la base sulla quale si inserisce il divino come perfettivo. Baio è antiumanista: fuori della grazia non c’è bontà. Se l’uomo è solo peccato fuori della grazia, questa allora è l’esclusiva agente e non può essere che necessitante, perché non è data al volere libero dell’uomo e la cui volontà non vi può cooperare attivamente. Per Baio la volontà libera naturale non ha altra scelta che il peccato e quindi non può avere come sua scelta l’accoglienza della grazia, la quale non può essere che necessitante. Rifiutata la libertà, quando si osserva che la grazia non ha effetti in tutti gli uomini, questi limiti alla sua estensione non possono essere che voluti da Dio; ed allora vien negata la volontà salvifica universale di Dio. Sono queste le conclusioni che Giansenio dedurrà fino alle ultime conseguenze. Solo una grazia sufficiente cioè la grazia considerata con la libertà vera e reale dell’uomo ad essa può spiegare che la grazia è veramente tale anche se non è efficace.

Giansenio e Giansenismo.

Giansenio, nato nel 1585 in Olanda: dal 1634 vescovo di Ypres, lasciò alla sua morte, avvenuta nel 1638, un’opera l’Augustinus che fu pubblicata postuma nel 1640, a Lovanio. L’opera già condannata nel 1641 dalla Inquisizione, e nel 1642 da Urbano VIII, in quanto ripeteva gli errori di Baio, nel 1649 fu denunciata alla Sorbona compendiata in sette proposizioni. Innocenzo X il 31 maggio 1653, nella bolla Cum occasione ne condannò cinque proposizioni; condanna che fu poi confermata da Alessandro VII nel 1656 con la bolla Ad Sanctam Beati Petri Sedem contro coloro che sfuggivano la condanna asserendo che le proposizioni erano eretiche, però esse non erano espressioni nel senso inteso da Giansenio. Alessandro VII ha definito che le cinque proposizioni erano condannate in tal senso e in una nuova costituzione « Regiminis Apostolici » del 15 febbraio 1665 impose un formulario che doveva essere sottoscritto dai Giansenisti. Clemente XI, nel 1705, nella costituzione Vineam Domini esigeva non solamente il rispettoso ossequio alla condanna, ma l’adesione interna; nel 1713 colla Bolla Unigenitus fu definitivamente rifiutata ogni forma giansenistica, con la condanna di 101 proposizioni di Quesnel. – I sostenitori del Giansenismo furono Saint-Cyran che mori nel 1643; suo successore fu A. Arnauld resosi famoso con il suo libro La fréquente Communion a ricevere la quale esigeva condizioni estremamente difficili. Arnauld mori nel 1694. Il terzo uomo del Giansenismo fu Quesnel con le sue Riflessioni sul nuovo testamento. Il movimento trovò appoggi specialmente nel Monastero di Port-Royal che, sotto la guida di Madre Angelica, ne divenne la cittadella spirituale. Il Giansenismo, dopo l’ultimo tentativo di appellare, donde il partito degli appellanti, ad un Concilio, dopo la bolla Unigenitus si esauri lentamente, prima di tutto per la morte di Quesnel che avvenne il 2 dicembre 1719 da impenitente e poi con l’accettazione della bolla stessa da parte di Noailles, Arcivescovo di Parigi, favorevole alle dottrine giansenistiche. Non tutti i Giansenisti aderiscono alle cinque proposizioni condannate. Molte volte si tratta di un Giansenismo inteso in senso più largo, consistente piuttosto in un comportamento che in una dottrina, nell’accettazione di un certo rigorismo e nell’accentuazione della necessità dell’amore di Dio per dare un qualsiasi valore alle buone opere. Ciò avviene in special modo nel Giansenismo italiano, dove assume anche un aspetto riformistico. L’espressione massima del movimento in Italia la si ha nel sinodo di Pistoia nel 1786, condannato il 28 Agosto del 1794 da Pio vi con la bolla Auctorem fidei. L’anima di questo sinodo fu il Vescovo di Pistoia Scipione de Ricci. Specialmente in quest’ultimo il Giansenismo fa sentire il suo influsso anche sulla dottrina ecclesiologica. La tendenza ad un esagerato spiritualismo fa affermare che la Chiesa non è di questo mondo ed è pienamente spirituale, onde viene condannata ogni sua azione temporale, che viene concessa esclusivamente ai principi. Però il Giansenismo è principalmente una eresia che concerne la grazia. – II Giansenismo si presenta come un tentativo d’imporre alla Chiesa, sotto il patronato di Sant’Agostino, una concezione tetra e severa del Cristianesimo, tendendo a scoraggiare lo sforzo umano, ingigantendo arbitrariamente le conseguenze incresciose del peccato originale e annientando la natura dinanzi alla grazia. Esso è frutto della dottrina di Baio, alla difesa del quale egli avrebbe voluto dedicare il suo Augustìnus; ne dipende specialmente riguardo alla concezione di un Dio severo e terribile, giudice del peccato inevitabile e tuttavia punibile, di una grazia assolutamente dispotica e non concessa a tutti gli uomini. Tutta la dottrina giansenistica fa perno suìl’Augustinus di Giansenio. Innanzitutto il Giansenismo vuol presentarsi come un Agostinismo riguardo alla dottrina del peccato e della grazia, del rapporto tra grazia e libertà e della predestinazione. Pur ammettendo molte espressioni verbali simili e impronte materialmente identiche, Giansenio ha travisato Sant’Agostino perché ha staccato frasi che si inserivano in un particolare contrasto polemico o rispondevano a domande o situazioni particolari e, non tenendo conto di altre espressioni agostiniane che potevano integrarle e farle intendere giustamente, le ha innestate in un sistema più vasto e universale, per rispondere a problemi alla cui soluzione esse non erano create, perché destinate a preoccupazioni particolari e storicamente diverse degli interlocutori agostiniani. – La dottrina giansenistica, come quella di Baio, è ottimistica e semi-pelagiana sullo stato dell’uomo prima della caduta. La grazia, chiamata grazia di Dio (grada Dei) per distinguerla da quella concessa all’uomo decaduto (gratia Christi), è postulata necessariamente dalle esigenze essenziali dell’uomo e in certo qual modo dovuta come sua perfezione. La 35a proposizione condannata di Quesnel dice: « la grazia di Adamo è conseguenza della creazione ed era dovuta alla natura sana ed integra » (DENZ. 1385). Il semipelagianesimo sta in ciò che la grazia, dono iniziale di Dio e soltanto condizione necessaria all’azione dell’uomo (adjutorium sine quo non), era tradotta in atto dalla volontà libera, senza che fosse indispensabile il concorso della grazia stessa per elevare e applicare la libertà ad operare il dono di Dio. – All’ottimismo sulla situazione iniziale dell’uomo prima del peccato originale subentra un pessimismo esagerato sullo stato dell’uomo attuale. Il peccato originale non è la perdita del soprannaturale, ma è atto peccaminoso trasmesso ad ogni uomo, è una corruzione profonda prodotta nell’animo e in tutte le facoltà, trasmessa come abitudine collettiva attraverso la nascita, in modo che tutti gli atti umani sono sviati da una concupiscenza congenita, e quindi sono peccaminosi: « la volontà non prevenuta dalla grazia non ha luce che per traviarsi, ardore che per precipitare, forze che per ferirsi, essa è incapace di ogni male e impotente ad ogni bene» (Quesnel citato da H. BONDET, Gratia Christi, p. 317). La grazia del Cristo perdona la colpa nel battesimo, ma lascia l’atto del peccato, cioè la concupiscenza. L’uomo è nella necessità di peccare, tutti i suoi atti sono di questa concupiscenza congenita e quindi meritano dannazione. La grazia è richiesta per ogni atto buono, di modo che viene svalutata ogni morale naturale. Consegue un pessimismo assoluto sulla natura, sulle opere degli uomini e sulla civiltà: tutto è corrotto dalla concupiscenza, quindi è condannabile: « tutto ciò che non è dalla fede cristiana soprannaturale che opera per carità è peccato» (proposizione condannata da Alessandro VIII nel 1690: DENZ. 1301). È per questo che Giansenio afferma che i bambini morti senza Battesimo vanno all’inferno: anche loro hanno peccato. Se la concupiscenza congenita nella natura fa peccare necessariamente, l’uomo è ancora libero? A questa domanda Giansenio risponde affermativamente, ma ha della libertà un concetto assolutamente errato. Giansenio non ammette, nello stato attuale dominato necessariamente dalla concupiscenza necessitante, una indifferenza attiva per la volontà la quale non è padrona del suo agire o non agire, dell’agire bene o male: essa non ha che una scelta: l’agire peccaminosamente e essere travolto dalla concupiscenza irresistibile. Giansenio confonde la libertà con la volontarietà e la spontaneità, cioè il fare con amore e senza costrizione esterna ciò che non si può in alcun modo non fare. – Lo stato dell’uomo quindi è quello di subire con spontaneità e con diletto, e quindi nel senso di Giansenio, liberamente, l’impulso necessitante della concupiscenza o di una forza superiore a questa, la grazia vittoriosa, senza che il volere una o l’altra sia in suo potere: esse le si impongono con necessità, come si impone a lui la conclusione di un teorema matematico. Ed allora per Giansenio la grazia è una delectatio victrix cioè è una concupiscenza santa con la quale Dio agisce finalisticamente sulla volontà in modo che sia più forte di quella carnale e la superi. Questa grazia è necessitante, è irresistibile e quindi ha sempre effetto ed è sempre vittoriosa: « in stato di natura decaduta alla grazia interiore mai si resiste » (È la seconda delle famose cinque proposizioni condannate dell’Augustinus: DENZ. 1093). Nella grazia la libertà dell’uomo è l’amare spontaneamente ciò che l’uomo non opera e non ha in suo potere, ma gli è dato come voluto. Questa azione voluta non gli è data come potuta (in Giansenio non c’è potere separabile dal volere) e quindi la libertà non è veramente libertà. – Il pessimismo sull’uomo, di cui afferma la radicale corruzione di ogni sua tendenza nella concupiscenza peccaminosa, ha veramente impedito a Giansenio di vedere l’aspetto ontologico della grazia. Nella dottrina cattolica essa è perfettiva ed elevante, di modo che raggiungere il fine consegue ad un dinamismo soprannaturale che la grazia ha creato e sostiene nella volontà dell’uomo elevato. Se la grazia è elevante e perfettiva significa che nell’uomo deve esservi un dinamismo fondamentalmente buono il quale deve essere elevato a raggiungere attivamente un fine superiore alle proprie capacità ed esigenze naturali; questo dinamismo soprannaturale per essere veramente umano deve essere in potere dell’uomo, cioè totalmente libero, se non è libera la grazia, non è interiore. Giansenio la chiama tale, ma quando afferma che la grazia è necessitante e proporzionalmente inversa alla concupiscenza e rifiuta che essa elevi soprannaturalmente, inserendosi perfettiva sulla base di un substrato naturale e di un dinamico tendere che viene rispettato e portato a capacità e a fini superiori alle proprie fondamentali esigenze, allora essa non è più veramente interiore. – Giansenio ha visto nella grazia solo l’aspetto finalistico, non quello ontologico di elevazione. La grazia per essere elevante e perfettiva dell’uomo deve donare un vero, reale e perfetto potere soprannaturale il cui tradursi in atto dipende veramente anche dall’uomo; se non si realizza è nella esclusiva responsabilità dell’uomo. Qualora ciò succeda la grazia in se stessa non è meno la vera, reale e perfetta grazia. Questa grazia che per la mancata libertà dell’uomo non giunge ad effetto è chiamata dalla dottrina teologica grazia sufficiente. E questa è negata da Giansenio per il quale la grazia ha sempre necessariamente ed irresistibilmente un effetto; se questo non ha luogo la grazia non è vera grazia. La grazia è sempre efficace, sempre vittoriosa (delectatio victrix). Infatti, affermando come cattivo ogni volere dell’uomo, l’unico volere è quello di Dio e questo, se è un volere, deve essere un volere, un effetto. Per Giansenio negare la grazia sufficiente equivale a rifiutare ogni cooperazione attivamente positiva dell’uomo ed affermare quindi che la salvezza può essere operata esclusivamente da Dio, perché l’uomo ha il suo potere soltanto teso verso il male. La grazia vera non è ora quella di Dio per Adamo (gratia Dei), che dava il potere; ma la gratia Christi sempre efficace, perché dà il volere senza il potere attivo dell’uomo. Giansenio dice che affermare la grazia sufficiente è un non senso, oppure è eresia, perché dottrina semipelagiana: la quarta proposizione condannata dice: « i semi-pelagiani ammettevano la necessità della grazia interiore proveniente per ciascun atto in particolare, perfino per l’inizio della fede: erano eretici per il fatto che essi volevano che questa grazia fosse tale che la volontà potesse resistere o obbedirgli » (DENZ. 1095). Per Giansenio non si dà grazia se non irresistibile, necessitante, di infallibile effetto, vittoriosa. Per il Cattolicesimo l’affermazione della grazia sufficiente equivale quindi alla affermazione che Dio dà la sua grazia anche a coloro per i quali essa non è stata efficace, ai quali tuttavia è dato un vero potere; la loro libertà è stata veramente elevata a poter realmente volere la salvezza; il mancato raggiungimento è colpa esclusiva dell’uomo. Sant’Agostino portato dai Giansenisti a loro testimonianza afferma invece: «consentire all’appello di Dio o dissentirgli ecco ciò che è proprio della volontà » (De Spiritu et littera, 34, n. 60). Anche quando la grazia è detta muovere irresistibilmente (insuperabiliter), questo effetto irresistibile non s’impone all’uomo, ma è realizzato nella libertà rispettata e potenziata dell’uomo. Il Giasenismo ha saputo e voluto soltanto considerare della grazia l’aspetto della sua irresistibilità, negando che ciò è avvenuto soltanto con la liberazione e la elevazione della libertà umana a volere attivamente essa pure. In questa esclusività sta la sua eresia, perché praticamente ha negato la libertà. I Giansenisti hanno quindi negato la grazia liberatrice ed elevante, la grazia che libera ed eleva la libera volontà dell’uomo a volere atti salutari e a raggiungere la sua vocazione soprannaturale per cui l’uomo è chiamato ad essere e ad operare azioni maggiori di se stesso e della sua capacità ed esigenza. Quando si afferma che la grazia non può essere se non vittoriosa nell’uomo e non può non avere il suo effetto ne consegue che tutti coloro i quali non si salvano, non si salvano perché non ricevono la grazia. Viene quindi dal Giansenismo negata l’universalità della redenzione, con conseguenze predestinazionistiche. La quinta proposizione condannata dell’Augustinus afferma : « è semipelagiano dire che Gesù Cristo è morto o ha sparso il suo sangue per tutti gli uomini » (DENZ. 1096). Se i dannati sono in questo stato è perché il Cristo non ha voluto esser loro redentore. « I pagani, i giudei, gli eretici ed altri di questo genere non ricevono da Cristo nessun influsso: e da ciò deduci rettamente che in essi la volontà è nuda e inerme senza qualsiasi grazia efficiente » (proposizione condannata da Alessandro VIII nel 1690: DENZ. 1295). Tristissima è questa visione giansenistica di una gran parte dell’umanità in marcia verso la dannazione, soltanto perché per istinto nella loro concupiscenza operano il male che non possono evitare e alla cui eliminazione non è dato alcun aiuto da parte di Dio! – La morale giansenistica è per conseguenza eccessivamente rigorista. Qualsiasi amore delle creature è sempre concupiscenza e quindi peccaminoso. Scopo della religione è liberare l’uomo da qualsiasi amore terreno. Non è permesso quindi gioire delle creature; queste si devono rifiutare sempre perché suscitano concupiscenza. Per la moralità dell’atto è sempre richiesto amore perfetto e diretto di Dio. Per la frequenza dei sacramenti Arnauld nel suo libro De la frequente Communion richiede condizioni impossibili e considera la comunione, più che alimento della debolezza, come una ricompensa ad una virtù che però è difficilissima. – Il Giansenismo è così un pessimismo: l’uomo è necessariamente proteso al male e tutte le sue azioni compiute fuori della grazia sono cattive; l’umanità nella sua maggioranza è in una marcia fatale verso la dannazione; il mondo e le creature non sono lo specchio, ma soltanto occasione di male e quindi sono sempre da rifiutarsi; la concupiscenza è solo la tentazione che l’uomo porta come conseguenza del peccato; invece di essere considerata nel piano attuale come strumento di prova e di merito e di essere considerata male soltanto quando è voluta, per il Giansenismo è sempre male. – Giansenio mette sempre in opposizione l’umano con il divino e lo spirituale ed il bene è assolutamente identificato col soprannaturale. Non c’è un atto buono naturale, c’è solo concupiscenza. Per ogni atto buono si esige la carità: « tutto ciò che non è dalla fede soprannaturale che opera per l’amore è peccato » (proposizione condannata da Alessandro VIII nel 1690 : DENZ. 1301). Il binomio cupiditas-caritas è esclusivo, non c’è il posto per la natura e per tutto ciò che, pur essendo naturale, è in se stesso buono e base su cui lo stesso soprannaturale s’inserisce come perfettivo. Perde senso il mondo, la cultura ed il profano sui quali non c’è che una parola di condanna. Saint-Cyran, entrando un giorno in una scuola, apertamente afferma che Virgilio era dannato. Nel rapporto uomo-Dio l’uomo non viene elevato, ma soltanto umiliato nella sua volontà e dimenticato nella sua attività. Il Giansenismo risulta così un antiumanesimo, dimenticando che è falsa la pretesa di dare lode a Dio, di dar risalto alla sua Onnipotenza e tener l’uomo nell’umiltà quando si dimentica o si vilipendia le opere nelle quali Dio è potente come suscitatore di potenza. – Il Giansenismo ha affermato che tutto viene dalla grazia; ha però dimenticato, e in questo sta la sua eresia, che dalla grazia viene anche la grandezza dell’uomo, la positività del mondo e l’esser l’uomo reso capace di operare attivamente la propria salvezza. La condanna esiste soltanto quando l’uomo al quale data per grazia la possibilità e realtà del rispondere attivamente, rifiuta l’amore. Il Dio del Giansenismo è soltanto l’Onnipotenza terribile, quello del vero Cristianesimo è l’amore; è la libertà usata male che lo rende terribile. Contemporaneamente si sviluppò in Italia, specialmente a Roma, per opera di un prete spagnolo, Michele Molinos, un’espressione ereticale, chiamata Quietismo. Fu divulgata specialmente nello scritto la Guida spirituale di Molinos, pubblicato a Roma nel 1675. Si affermava che la perfezione cristiana consisteva in uno stato perenne di contemplazione e di amore dove l’anima subisce soltanto l’azione di Dio ed è dispensata dall’azione e da tutti gli atti espliciti di virtù e dalla resistenza alle tentazioni che si dovevano accettare passivamente. Innocenzo XI con la costituzione Cœlestis Pastor del 1687 condannò 68 proposizioni di Molinos (DENZ. 1221-1288). In Francia rappresentante di questa tendenza fu Giovanna Bouvier Gujon; anche lo stesso Fénélon ne fu leggermente indiziato con il suo libro Esplications des maximes des Saints condannato da Innocenzo XII nel 1699.

(Continua …)

LE PIAGHE DELLA COMUNITA’ CRISTIANA: LE ERESIE (3)

LE PIAGHE DELLA COMUNITÀ CRISTIANA

Capitolo I

Le ERESIE,

ferite alla unità della fede (3)

[“Somma del Cristianesimo”, a cura di R. Spiazzi, vol. II Ed. Paoline, Roma, 1958]

Art. 3. – LE ERESIE MEDIOEVALI.

Caratteri generali.

La spiritualità medioevale, nelle sue forme monastiche, numerose e incessanti, e nelle sue espressioni popolari, vastissime, ha mantenuto operose nella Chiesa, inserita nelle strutture temporali e impegnata nei compiti civili della « respublica Christiana », la pratica delle virtù evangeliche, l’imitazione di Gesù Cristo, l’amore ai misteri della sua vita terrena, lo slancio verso la contemplazione, la ricerca e il gusto dell’alta unione con Dio. – Questa ricchezza di espressioni ascetiche e d’esperienze mistiche, tramite l’umanità di Gesù Cristo, ha configurato anche quella varietà di movimenti eterodossi dell’Occidente latino che, dal mille al cinquecento, sono qualificati come eresie medioevali. Esse sorgono come espressione del sentimento religioso che anima la società cristiana e sono volte non all’indagine del domma, ma all’attuazione (eresie pratiche) di un sistema di giustificazione e di salvezza, degli individui e del mondo, in contrasto con quella dipendente dall’autorità della Gerarchia ecclesiastica e dall’Ordine sacerdotale. Questo intento e la sua realizzazione concreta contribuiscono al successo dei moti ereticali, a cui aderiscono gruppi e adepti di ogni classe sociale (eresie popolari); l’elemento democratico (eresie laiche) più che dalla condizione, molto varia, degli eresiarchi e dei loro seguaci, è rappresentato dalla rivendicazione, da parte degli elementi laici, d’una religiosità non soggetta alla disciplina della Chiesa e dei poteri di magistero e di santificazione propri del Sacerdozio. Nella nuova economia religiosa, che essi propugnano, l’elemento propriamente ereticale, che s’aggiunge alle insurrezioni disciplinari, si manifesta nelle molteplici negazioni di carattere dottrinale, a giustificazione del rifiuto dell’ordinamento vigente del Cristianesimo e nella concezione e sistemazione unilaterale della Religione cristiana sia in uno o l’altro dei suoi elementi e fattori ascetici (eresie evangeliche) sia in una particolare interpretazione teologica e mistica (eresie dottrinarie). Questa unilateralità pragmatica ha tenuto le eresie medioevali ai margini della speculazione cristiana e filosofica, ne ha limitato il significato e il valore ed è stata la causa interna della loro dissoluzione.

Riforma ed eresie nel secolo X.

– Nel secolo X, in cui la feudalizzazione della Gerarchia ecclesiastica provocò l’abuso della investitura laica dei vescovadi, dei canonicati, delle abbazie, delle parrocchie e di altre dignità ecclesiastiche, e nel quale l’aristocrazia romana e gli imperatori germanici misero le mani sull’elezione papale, con .la conseguente designazione di persone indegne o inadatte, e il dilagare della simonia e del concubinato o del matrimonio illegale degli ecclesiastici, agisce soltanto la reazione riformativa che scaturisce dagli stessi ambienti inquinati. Nessun movimento ereticale compare accanto alla potente organizzazione monastica di Cluny (910), che svincola l’istituto benedettino dalla giurisdizione sia laica sia episcopale; con essa s’accompagna quella meno vasta dei centri riformatori lorenesi di Brogne (914) e di Gorzia (933), mentre nell’Italia meridionale influisce l’esperienza eremitica di San Nilo di Rossano (+ 1004). L’unico episodio ereticale di Vilgardo, in quel di Ravenna, nella seconda metà del secolo, ha carattere letterario, che lo isola nella tipologia degli eretici. Questo insegnante di grammatica si inorgoglì talmente della sua cultura classica da ritenere come oracoli gli autori pagani e da disprezzare le comuni nozioni religiose e la dottrina teologica; propugnò idee contrarie alla Fede Cattolica; può darsi sia arrivato al politeismo e alla morale dei pagani. È significativo il fatto che questo caso di eresia, rimasto senza imitazioni nel medioevo, sia provocato da un umanesimo vissuto in un’epoca che, per solito, è calunniata come decadente anche culturalmente.

Le origini del dualismo (secolo XI).

– Le prime comparse di gruppi ereticali e del loro proselitismo in Italia, Francia e Germania sono segnalate nella prima metà del secolo XI. Sono indiziati genericamente come manichei, in quanto i contemporanei riscontravano nei loro errori alcuni tratti, come la condanna del matrimonio, della manducazione delle carni e dei cibi provenienti dalla generazione, che erano tramandati dalla polemica di Sant’Agostino contro il manicheismo. Si tratta, in effetto, di manifestazioni pre-catare, del primo annunzio, cioè, nei paesi latini di quel catarismo, che dal secolo XII costituisce l’eresia più eminente, più organica e più pericolosa del medioevo. La sua concezione dualistica del principio creatore, del cosmo e dell’uomo si svolse piuttosto all’infuori dell’ortodossia cristiana e tentò di sostituire, con una nuova religione, il Cristianesimo latino, di cui però, valorizzò lo slancio ascetico. Il catarismo è legato idealmente alla tradizione dualistica orientale e balcanica, che è rappresentata nell’antichità dallo gnosticismo, dal marcionismo, dal manicheismo; quest’ultimo sincretismo dualistico, che si diffuse come organismo religioso, rimase vivo alla cultura medioevale, la quale qualificò di manicheo ogni ulteriore fenomeno dualistico, catarismo compreso (neo-manicheismo). – Nei Balcani non mancarono le infiltrazioni di dualismo ascetico del messalianismo siriaco; in Bulgaria si diffuse nel secolo IX la propaganda dei pauliciani armeni e dell’Asia Minore.Il bogomilismo, che fu predicato in Bulgaria, circa il 927, dal pope Bogomilo in una prima forma dualistica mitigata (chiesa bulgara) e che si sviluppò durante il secolo XI nel mondo bizantino in una speculazione dualistica assoluta (chiesa o ordine di Dragowitza) e si frazionò circa il 1200 in una terza confessione in Bosnia (chiesa o ordine di Slavonia), oscillante tra il primitivo dualismo mitigato e quello radicale, si rivelò come il movimento eretico più importante dei Balcani, dal quale dipese anche il catarismo occidentale latino. Il nucleo dottrinale del bogomilismo è costituito dalla teoria che presenta satana come creatura ribelle a Dio (principio buono) e come padrone del mondo, creatore del corpo umano; in esso ha imprigionato le anime, da lui fatte prevaricare dal cielo; il demonio è causa di tutti i mali di questa terra e della società. Gli spiriti, che mediante le nascite, si susseguono da corpo a corpo e da spirito a spirito (traducianismo), vengono a conoscenza di questa loro origine celeste ed allora iniziano la propria redenzione con la fuga dal mondo malvagio, dalle sue istituzioni politiche, come pure dalle forme religiose della Chiesa bizantina, gerarchica, sacramentale, cultuale; i bogomili, in apparato penitenziale, si rifugiano nella preghiera, nella pratica del digiuno, della mendicità, del proselitismo vagante all’apostolica; si astengono dai cibi animali e dai latticini, perché provenienti dalla generazione, condannano il matrimonio che, con la generazione dei corpi, procura a satana la schiavitù di nuovi spiriti.Gesù Cristo ebbe corpo e attività umana apparente; i bogomili rigettano il culto della croce perché la crocifissione rappresentò il trionfo di satana; la redenzione si compì nel richiamo degli spiriti al regno del Dio buono, da cui decaddero. Il rito della imposizione delle mani da parte dei maggiorenti costituisce il loro battesimo spirituale, che conferisce lo spirito di salvezza.Questa nuova religiosità era di carattere esoterico e iniziatico; i suoi primi araldi nel mondo occidentale tennero segreta la teorica dualistica e misero in risalto il programma ascetico, che si intonava con l’atmosfera evangelica in cui prendevano vigore gli istituti della Chiesa. Durante il secolo XI l’invasione della riforma cluniacense in tutti i paesi europei provocava il fiorire di altre congregazioni benedettine che ad essa si ispirano; la fuga dal mondo in un regime di penitenza s’incrementava coll’eremitismo dell’Ordine camaldolese (1012) e con quello di Fonte Avellana (1043); i nuovi Ordini di Vallombrosa (1035-1036), Chaise-Dieu (1046-1052), Grande Selve (1079), dei «Boni homines » di Granmont (1077), Grande-Chartreuse (1084), superano il monachismo tradizionale con una povertà più rigida, con l’isolamento dalla feudalità temporale, con il lavoro manuale; la riforma del clero, secolare e collegiale, moltiplicava i centri dei canonici regolari, che s’ispirano alla vita comune e apostolica della Chiesa primitiva, e danno nuovo incremento al culto divino, alla cura spirituale e all’assistenza sociale. L’opposizione alla simonia e al concubinato del clero feudale determinò il passaggio dalla riforma morale alla lotta contro l’investitura laica, e chiamò il popolo alla resistenza passiva ai sacerdoti degeneri, la quale nei moti patarinici passa a collaborare attivamente con l’azione della S. Sede e soprattutto con i propugnatori della riforma gregoriana. Nel settore ereticale, il cenacolo, scoperto a Orléans nel 1022, di una dozzina di chierici e canonici eminenti, e in maniera più manifesta la comunità di eretici laici, con elementi nobili, costituitasi nel castello di Monforte d’Asti, catturata nel 1028, professano una dottrina illuministica e praticano un programma ascetico, la cui ispirazione si ricollega facilmente con un dualismo mitigato; il gruppo vagante, di popolani, che fu confutato nel sinodo di Arras, 1025, proclama invece che il proprio rito di santificazione e la professione di vita evangelica e apostolica eliminano ogni atto sacramentale e cultuale della Chiesa gerarchica. I contorni dottrinali di altri episodi ereticali a Chalons sur Marne, c. 1045, e di Goslar, 1051, sfumano nella reticenza degli indiziati.

Sviluppo del catarismo (secoli XII-XIII).

– I catari (= puri) si ripresentano sulla scena della professione apostolica, del Cristianesimo povero, casto, penitente, nella prima metà del secolo XII; i sospetti e gli allarmi dei rappresentanti dell’ortodossia squarciano a stento questo velo con cui coprono la dottrina e l’organizzazione delle loro comunità in Aquitania, a Mont-Aimé in Sciampagna, dove si insidia, verso il 1144, il primo vescovo cataro della Francia Settentrionale; da cui si diffonde nel 1174 la nuova religione in Italia settentrionale e meridionale; un secondo episcopato si costituisce nel Mezzogiorno francese, vicino ad Albi, da dove derivò la denominazione di albigesi, attribuita impropriamente a tutto il movimento cataro; gli eretici della regione di Colonia, già attivi nel 1143-1145, trovano nell’abate Ecberto di Schònau, 1163, il polemista personalmente informato, che denuncia la loro dottrina del diavolo come ordinatore dell’universo, fattore del corpo umano e del matrimonio, e che volgarizza il termine di catari, già comparso, però, un secolo prima, nelle recriminazioni di Landolfo il Seniore contro i patarini milanesi. I rapporti con il bogomilismo bulgaro-greco si intensificarono mediante gli scambi commerciali tra Oriente e Occidente, i pellegrinaggi in Terra Santa, il regno latino di Gerusalemme (1099), i reduci dalla sfortunata seconda crociata (1147-1148). Nel 1167 Niceta, vescovo dei bogomili radicali di Costantinopoli, radunò i vescovi catari dell’Italia e della Francia, con numerosi « perfetti », in un concilio di Saint-Felix de Caraman, presso Tolosa, in cui riconsacrò questi rappresentanti del primitivo dualismo mitigato, di carattere pratico, nella nuova fede del dualismo assoluto di tipo dommatico. Il catarismo s’opponeva ormai palesemente al domma cristiano con una teologia, miti, gerarchia, organizzazione, culto propri; le comunità catare sono disseminate nelle movimentate città e borgate d’Italia, dal Settentrione alla Calabria, nelle regioni della Francia meridionale hanno sede i vescovi delle principali diocesi catare di Albi, Carcassona e Tolosa, il cui conte Raimondo V costatava allarmato, nel 1177, che il suo territorio pullulava di perfetti e simpatizzanti; la prima propaganda franco-renana si moltiplica nella Sciampagna, in Borgogna, nelle Fiandre e si diffonde lungo le grandi arterie di comunicazione commerciale e di pellegrinaggio sul Reno e sul Danubio, nelle antiche città episcopali tra Colonia e Vienna. – Questo successo di proselitismo svigorì lo slancio ascetico e spezzò l’unità nelle controversie dottrinali e personali. Dalla Bulgaria verso il 1180 vennero bogomili ad oppugnare la predicazione radicale di Niceta. In Italia si formarono sei gruppi regionali o diocesi con propri vescovi, che seguivano tre professioni di fede dualistica, attinta a tre differenti centri dommatici e giurisdizionali, fiorenti nei Balcani. Il primitivo dualismo mitigato dei bogomili bulgari fu ritenuto dalla chiesa di Concorezzo (Milano), i cui diaconi e fedeli erano numerosi in Lombardia; il loro vescovo, Garatto, si fece riconsacrare dal capo della chiesa di Bulgaria, nonostante fosse stato colto in peccato con una donna catara; alla esigenza della vita pura si sostituiva il valore predominante della vera credenza e della legittima ordinazione. I concorezzesi ritenevano Lucifero, decaduto dal cielo per il peccato con gli angeli complici, come l’artefice del mondo creato e del corpo umano, in cui rinchiuse un angelo da lui sedotto, al quale insegnò l’atto generativo con Eva; dalla prima coppia derivarono, per traducianismo, le anime umane, che si salveranno o si danneranno a seconda che avranno praticato la penitenza catara. Si frazionarono sulla natura dell’anima di Gesù Cristo e sulla realtà del suo corpo e delle sue azioni materiali; furono parimenti fluttuanti, successivamente, su altri punti dottrinali e miti come l’origine delle anime. – Dall’ordine dei dualisti assoluti, la chiesa bulgaro-greca di Dragowitza, in Tracia, dipendeva la corrente radicale degli albanesi, così denominati da un loro primo vescovo Albano, con sede centrale a Desenzano sul lago di Garda, e con diaconi e seguaci a Verona, in molte città lombarde, e nelle circoscrizioni catare della Marca Trevisana, Toscana, Valle Spoletana. Ritenevano la coesistenza dei due principi: il Dio buono con il suo regno celeste di spiriti buoni, e il dio perverso con il suo mondo terrestre di spiriti maligni, di animali e di corpi. Gli angeli sedotti da Lucifero, figlio del dio malo, furono incarcerati nei corpi umani e animali, nei quali trasmigrano successivamente fino a ricongiungersi coi propri corpi e spiriti lasciati in cielo. Cristo, figlio del Dio buono, venuto a richiamare queste anime, ebbe corpo apparente. Ulteriori sviluppi fecero coesistenti ai due principi i quattro elementi, rispettivamente di ordine spirituale e materiale; il parallelismo tra i due mondi indusse a far compiere in quello celeste al figlio del dio cattivo le stesse azioni che Gesù Cristo svolse in questo terreno. Tutte le anime, sia quelle celesti incarcerate sulla terra, sia quelle terrene incarcerate nel cielo, ritorneranno rispettivamente nel proprio mondo; ma la lotta tra i due regni, che personificano il bene e il male, ricomincerà sempre, fatalmente. Tra queste due frazioni opposte e rivali fluttuava la comunità dei bagnolesi, con sede gerarchica più probabilmente a Bagnolo di San Vito (Mantova), che riceveva l’ordine dalla chiesa di Bosnia. Insegnavano un dualismo mitigato; gli angeli caddero per malizia, e sono i diavoli, che non si salveranno, parte per seduzione, e questi ritorneranno al cielo; di questi sono Adamo ed Eva, da cui procedono però altre anime per traducianismo, a complemento del numero degli angeli decaduti e non redimibili. Seguivano il docetismo dei concorrezzesi; tuttavia il loro eclettismo facilitava le variazioni dottrinali. Avevano seguaci in Lombardia e nelle Romagne; la loro posizione dommatica era seguita, pur senza stabilità, dalla chiesa di Verona o della Marca Trevisana, dipendente dalla chiesa bosniaca. La Chiesa della Toscana evolvette dal dualismo assoluto alle posizioni bagnolesi per ritornare a quelle degli albanesi. Anche la sesta circoscrizione italiana della Valle Spoletana, ossia della Toscana papale e delle città del patrimonio di S. Pietro, pare condividesse la fede dei confinanti toscani. I Catari della Francia regia, d’antica professione mitigata, cacciati dalle reazioni dei re e dell’episcopato, si rifugiarono in Lombardia e in quel di Verona, e aderirono al credo dei bagnolesi; i catari, invece, della Francia meridionale professarono il vecchio dualismo radicale e trovarono potenti alleati nei signori feudali e nel conte Raimondo vi di Tolosa. La crociata armata contro gli albigesi (1209-1229), che .fu sollecitata da Innocenzo III dopo il fallimento delle missioni apostoliche e di quelle di San Domenico per salvare l’ortodossia e la stessa civiltà cristiana, e che finì con l’annessione della contea di Tolosa alla corona del regno, diede molta notorietà al catarismo albigese; i suoi capi e gregari, emigrati in Lombardia e nelle Puglie, riportarono in patria nella seconda metà del secolo le credenze del dualismo mitigato, che furono professate accanto a quelle radicali nella fase decadente del catarismo francese.

Fine del catarismo.

L’inquisitore domenicano R. Sacconi, a mezzo secolo XIII, riferisce che i censimenti, tentati più volte dai catari stessi, davano un totale di circa 4.000 d’ambo i sessi, per le 16 chiese o circoscrizioni bogomilico-catare costituite nei Balcani e nell’Occidente latino. I vescovi delle singole diocesi erano assistiti da un « figlio maggiore » e da un « figlio minore »; i tentativi di darsi un papa cataro, da contrapporre al Sommo Pontefice della Chiesa cattolica, non ebbero esito durevole e autorevole, per la mancanza di unità intrinseca del movimento. Esso si era andato provvedendo di dottori o maestri, provenienti anche dalle università, che dirigevano le scuole proprie della setta; gli altri, i «perfetti», funzionavano da gerarchi, si davano al proselitismo, assistevano i gruppi dei semplici « credenti » e simpatizzanti, il cui numero imprecisato è da aggiungere al computo suddetto della classe dirigente. Il rito fondamentale del « consolamentum » con il quale i candidati, dopo una conveniente preparazione e prova, venivano ammessi tra i « perfetti », con l’impegno di vivere la vita pura e penitente del primitivo catarismo, veniva conferito in extremis al credente per assicurargli la salvezza; per impedire un suo ritorno alla vita peccaminosa oppure per esprimere l’odio cataro all’esistenza corporea non era infrequente l’uso della morte violenta, sia mediante l’endura, suicidio per inedia o fame, scelto o imposto all’ammalato grave, sia mediante la forma più cruda del martyrium o tormentum, inflitto per mano altrui con la soffocazione del paziente, o in altro modo. Il semplice credente si obbligava alla recezione di questo sacramento cataro di salvezza mediante un patto detto « convenentia »; durante la vita non era tenuto a osservare la severa morale dualistica, ma solo a rendere onore e prestare aiuto ai perfetti, ricevendone la benedizione (= melioramentum), e a prender parte alla benedizione del pane, alla confessione generica dei peccati (= servitium o apparellamentum). L’affievolirsi dell’ideale della vita pura diffuse la confessione dei peccati gravi da parte dei perfetti, che venivano riconsolati dopo determinate penitenze. – Con il frazionamento dottrinale della fine del secolo XII e con l’aumentare dei semplici partecipanti ad una religione che non impegnava la loro condotta, il catarismo patteggiò con gli interessi mondani e non sdegnò di intensificare i rapporti con quella vita terrena, dal cui disprezzo era invece partito. Ad esso aderirono non solo gli entusiasti della predicazione evangelica, ma anche gli interessati che vi trovavano una salvezza facile ad essere ottenuta e un ideale che si poteva ammirare senza praticare e che non s’opponeva alla realtà del peccato e delle cupidigie umane. I suoi seguaci appartenevano ad ogni classe sociale, sia nobile sia contadina; ma andò aumentando il contingente del ceto medio dei possidenti, artigiani, mercanti e banchieri. Non solo i catari accettarono denaro, ma ammisero anche il prestito ad interesse e l’usura, che erano deprecati dalla coscienza contemporanea; si diedero al commercio del denaro e dei terreni; i perfetti vissero di beni loro offerti. La classe feudale, soprattutto la nobiltà decaduta della Francia meridionale, considerò la predicazione catara contro le temporalità della Chiesa cattolica come un efficace alleato della loro brama dei ricchi patrimoni ecclesiastici e monastici. – Dopo l’annessione della contea di Tolosa al regno di Francia (1229), i catari albigesi persero l’appoggio delle autorità locali, perché alle medesime non portavano più il giovamento popolare della loro avversione alle gerarchie ecclesiastiche e ai cristianissimi re di Francia. Anche nei movimenti comunali potevano entrare in combutta con le insurrezioni contro i privilegi feudali del clero; ma finirono nell’isolamento, quando le comunità cittadine organizzarono la loro, tutt’altro che pacifica, autonomia. Del resto la dottrina catara era avversa ai poteri statali, soprattutto all’esercizio dello « jus gladii », come espressione dell’impero del maligno; ogni compromesso pratico significava soltanto una svalutazione della loro dottrina e forza spirituale, mentre l’avversione al mondo, in cui si erano contraddittoriamente insediati, li indiziava come nemici e sovvertitori della società medioevale e della repubblica cristiana. – La legislazione ecclesiastica ed imperiale, come pure quella delle città, li colpì come eretici eminenti; l’inquisizione monastico-papale divenne intensa durante la seconda metà del secolo XIII; le comunità furono disperse, aumentando il loro frazionamento dottrinale. Gli albigesi, ritornati in patria dall’esilio verso la fine del secolo, riaccesero debolmente gli ultimi guizzi, che furono spenti definitivamente con l’ultimo cataro bruciato a Carcassona nel 1330. Intorno al 1300 finisce la notorietà del catarismo nell’Italia settentrionale; i suoi epigoni si perdono in Sicilia e nelle valli piemontesi, in sincretismo con altre sette, particolarmente valdesi; qui tuttavia si mantennero in contatto con i bogomili della Bosnia. – L’eresia dualistica fallì nel suo pretenzioso tentativo di assorbire nel dualismo orientale il Cristianesimo latino, per la povertà del suo contenuto teologico e filosofico e la fantasiosità dei suoi miti; essa rimase in arretrata inferiorità di fronte al completo sviluppo del pensiero scolastico nella considerazione dei problemi dell’umano e del divino, della scienza e della fede, dei rapporti tra Dio l’anima in una sintesi religiosa di umanesimo e di misticismo. Anche nel settore ascetico, che aveva offerto al dualismo antropologico ed etico della propaganda bogomilica e catara il mordente necessario per suggestionare l’anima medioevale, si trovò non solo soverchiato dal fiorire evangelico ed apostolico degli ordini mendicanti, soprattutto dei francescani e domenicani, che ripresero, dagli inizi del secolo XIII, l’esperienza ascetica degli istituti monastici precedenti con il dinamismo popolare e culturale del duecento, ma fu anche contestato dalla concorrenza contemporanea, già nella seconda metà del secolo XII, di altre sette e movimenti ereticali, che predicavano la salvezza mediante un particolare regime di opere ascetiche, oppure con la sola predestinazione, e che eliminavano il problema del dualismo con l’assorbimento dell’umano nel divino.

Insurrezioni antiecclesiastiche (secolo XII).

– Dall’inizio del secolo XII, nell’atmosfera della riforma gregoriana e dell’attivismo riformatore dei predicatori ambulanti, come San Roberto d’Arbrissel (+ 1117), San Vitale di Savigny (+ 1112), San Bernardo di Tiron ( + 1117), San Gaucherio d’Aureil (+ 1140), San Gilberto di Sempringham (+ 1189) e soprattutto San Norberto di Xanten (+ 1134), fondatore dei premonstratesi, si agitano anche eresiarchi che sommuovono il popolo contro la gerarchia ecclesiastica, i suoi poteri sacramentali e riti, appellando all’una o all’altra virtù come fattore o elemento di giustificazione e di salvezza. – Dall’opposizione al clero feudale, fautore del concubinato e dello pseudomatrimonio del clero, partì l’opposizione anche armata della truppa con una gilda apostolica di Tanchelmo (+ c. 1114) nelle regioni di Utrech, Zelandia, Anversa; la negazione delle forme religiose vigenti finì nella deificazione dello stesso eresiarca; i suoi seguaci furono dispersi dalla predicazione dei premostratesi. – Il sacerdote fedifrago Pietro di Bruis (1132-1135) condusse una campagna violenta nel Delfinato e nella Linguadoca contro la castità ecclesiastica e monastica, costringendo preti e monaci a sposarsi; questa difformità sia dalla lotta dei riformisti per l’integrazione del celibato ecclesiastico, sia dalla stessa critica degli eretici alle infrazioni morali del clero, combinava con l’eccentricità personale del laicismo religioso dei pietrobrusiani, che esigeva il battesimo insieme con una fede cosciente per la salvezza e destinava alla perdizione sia gli adulti non battezzati come i neonati inconsapevolmente battezzati, e che ripudiava il culto della croce, l’Eucarestia, le preghiere per i defunti, le chiese materiali, l’arte sacra, il canto liturgico. L’ex-monaco Enrico (+ dopo i l 1145) invece, che ne continuò l’agitazione nella Linguadoca, dopo aver turbato Le Mans, il Poitou e l’Aquitania, negò la necessità stessa del Battesimo per tutti, perché non ammetteva la imputabilità ai singoli del peccato originale, ritenendolo personale dei primogenitori; imitò l’apparato degli eremiti e dei predicatori di penitenza, diresse i suoi strali contro lo stesso ordine sacerdotale, contestandone i poteri, perché li dichiarava inesistenti a causa dei beni e dei privilegi della Chiesa e dei chierici, del lusso dei prelati, e trasferendoli ai laici, i quali, agendo per virtù dello Spirito Santo, possono consacrare il pane e il vino per le strade e le piazze, ricevere la confessione dei peccati, unirsi in matrimonio senza vincoli di legge e di riti. Enrico accasò le meretrici di Le Mans con i suoi discepoli, provvedendo a questi focolari, risultati assai presto instabili, con le risorse della cassa della sua comunità pellegrinante. La missione capitanata da San Bernardo di Clairvaux, nel 1145, sembrò chiudersi con la vittoria dell’ortodossia nella regione di Tolosa; ma lo sconvolgimento portato dalle rivolte’ di Pietro di Bruis e di Enrico aveva preparato il terreno al prorompere del catarismo albigese. – Elementi spirituali e sociali eterogenei infierirono confusamente nelle folla di servi della gleba in Bretagna che il fanatico Eon della Stella (1148). attribuendosi poteri di giudice divino, sistemò nei quadri d’una qualificazione angelica e d’una gerarchia apostolica e vescovile, con poteri sacerdotali; lanciò però questi diseredati alla conquista violenta dei beni terreni dei signori feudali, dei vescovadi e dei monasteri.

Deviazione arnaldista, valdese e umiliata dell’evangelismo (secoli XII-XV).

– Più netta e vigorosa la posizione estremista del pauperismo evangelico di Arnaldo da Brescia (+ 1155), che negò al Papato, come pure a tutti i chierici e monaci, lo stesso diritto di possedere, facendo di questa povertà assoluta non solo un postulato ascetico di fatto, ma una condizione giuridica di validità dei loro poteri giurisdizionali e delle loro funzioni sacerdotali, anzi teologicamente, una dottrina di salvezza. Sul terreno politico avversò con la facondia e l’irruenza del tribuno popolare il potere temporale della feudalità ecclesiastica e in modo particolare del Papato, entrando nel gioco delle fazioni comunali a Brescia e con maggiore clamore in quello della repubblica romana del 1144; questa azione politico-religiosa lo coinvolse fatalmente nelle vicende dei rapporti della stessa con l’imperatore Federico Barbarossa, e lo portò alla impiccagione e alla cremazione della salma per opera del prefetto Pietro. – Gli arnaldisti aggravarono, sotto l’insegna della povertà, l’avversione all’autorità sacerdotale, rivendicandone i compiti ai laici di condotta evangelica insieme con il diritto della libera predicazione. – Questa episodica ereticale, nei quadri della religiosità del secolo XII, rappresentò l’eccesso polemico e libertario di quell’evangelismo e di quella conformazione alla vita apostolica e all’intensità interiore della Chiesa primitiva che continuava a fermentare negli istituti monastici e canonicali, anche come polemica interna per una rivendicazione di maggior conformità ai suddetti ideali, e che traboccava in quelle associazioni di laici da essi dipendenti e assistiti. Mentre il mondo feudale era preso dalle contese di supremazia e d’indipendenza tra Papato, Federico Barbarossa e Comuni, proprio nelle regioni in cui il catarismo erompeva nella sua fase più alta, la borghesia della Francia meridionale e della Lombardia induceva due diverse professioni di evangelismo. – Il ricco borghese di Lione, Valdo, seguì tra il 1173-1178, con intensità generosa, la forma tradizionale della rinuncia ai beni, alla famiglia, per la pratica della povertà assoluta con una vita pellegrinante e mendica, sull’esempio degli Apostoli; i suoi poveri di Lione non solo predicavano al popolo questo ideale, ma difendevano l’ortodossia cattolica contro i catari e distinguevano nei Sacerdoti incriminati la condotta personale riprovevole dai loro poteri di santificazione e dall’autorità di magistero; inoltre non condannavano coloro che rimanevano nel mondo e usavano dei loro beni. Nel III concilio lateranense, del 1179, Alessandro III si mostrò benevolo verso Valdo e seguaci, ma ordinò che la loro predicazione fosse autorizzata e dipendente dall’autorità vescovile. Il cardinale Enrico, nella missione del 1181 contro gli eretici, ricevette nella cattedrale di Lione la professione di fede di Valdo. Ma l’opposizione dell’arcivescovo di Lione, Giovanni Bellesmains, che non sopportò la predicazione valdese nella città, avviò il movimento nello scisma. Nelle città lombarde, soprattutto a Milano, si opponevano agli eretici, particolarmente ai catari, con una polemica popolare e in modo più efficace con l’emulazione di una virtù ortodossa, quei mercanti e artigiani che si erano uniti nell’associazione laicale, detta degli umiliati, perché, d’apparato dimesso nelle vesti grezze, erano alieni dall’orgoglio delle classi borghesi, dalle contestazioni giudiziarie e dalle frodi dei mercanti; rimanevano nelle loro case e famiglie e si prestavano assistenza nel lavoro contro i soprusi del capitalismo nascente. Questo programma d’umiltà evangelica, ma familiare, lavorativo e industriale, li distingue dai valdesi, alla cui predicazione in Lombardia erano di poco anteriori. Alessandro III condizionò la sua approvazione con il divieto di celarsi in adunanze segrete e di predicare al popolo; con questa tattica, infatti, si era diffusa l’eresia catara, la cui virulenza causava questa severa sorveglianza dell’attività polemica e riformatrice d’iniziativa laica. La disobbedienza provocò la condanna solenne, a Verona, 1184, da parte del papa Lucio III e dell’imperatore Federico Barbarossa, sia dei catari e di altre sette, sia di quelli che si qualificavano umiliati o poveri di Lione. Tuttavia Urbano III (1187), che conservò anche la sede arcivescovile di Milano, due anni dopo prese sotto la sua protezione la chiesa di Viboldone degli umiliati: Innocenzo III approvò, nel 1201, i tre rami, o Ordini, laicale, monastico e canonicale in cui il movimento si sistemò. Una corrente estremista s’ostinò nella ribellione, s’unì con i valdesi di Lombardia e fondò il gruppo dei Poveri Lombardi, sotto il comando di Giovanni da Ronco; per questa unità organizzativa, il lavoro, le possessioni, il vincolo familiare, essi s’opposero a Valdo (1205) e si divisero dai poveri di Lione (1218). I Lombardi, sotto l’influsso arnaldista, già dall’inizio furono più decisamente contrari alla Gerarchia e Sacerdozio cattolico, investirono i loro laici dei poteri sacramentali. Ma anche i valdesi francesi, dopo le esitazioni di Valdo, dalla negazione dell’efficacia dei sacramenti, se amministrati da sacerdoti indegni, progredirono a costituire un proprio sacerdozio e una propria gerarchia; identificarono la santità con la pratica della povertà; il voto della vita povera e del celibato introduceva l’aspirante (« novellianus ») nella classe dei « maestri » e delle «maestre», detti « sandalati », perché l’uso di sandali di legno o di cuoio era sopravvalutato come professione di povertà; si qualificavano « apostoli » anche per la rivendicazione della libera predicazione ad uomini e donne. La repressione religiose e civile durante il secolo XIII li fece confluire nelle vallate delle Alpi Cozie. particolarmente intorno alla fortezza di Pinerolo e di Torre Pellice, e aumentò il loro distacco dall’ortodossia con la negazione del culto della Vergine e dei santi, delle Messe e preghiere in suffragio delle anime purganti, delle indulgenze, della Bibbia o del Nuovo Testamento, e con inquinamenti con altre sette; condannavano inoltre ogni giuramento, il servizio militare e la pena di morte, anche se era inflitta da un tribunale regolare. I loro simpatizzanti, detti « amici », pur partecipando alla vita esterna della Chiesa cattolica, aderirono sempre più alle comunità valdesi, che nel Piemonte e nel Delfinato erano governate da maestri detti «barba» ( = zio). Nella prima metà del Cinquecento entrarono in contatto con i luterani e calvinisti; nella « comune » (= congresso generale) di Chanforans (Val d’Angrogna), 12 settembre 1532, sciolsero la loro organizzazione sacramentale e smisero il costume penitenziale in ossequio al domma protestante della fede giustificante e a quello calvinista della predestinazione assoluta.

La soluzione predestinazionista (secoli XII-XIII).

– Il principio della giustificazione interiore, in virtù della predestinazione, costituì la dottrina centrale del sistema di Ugo Speroni, un civilista della scuola bolognese, console di Piacenza; la sua opposizione alla Gerarchia ecclesiastica lo trasformò, tra il 1177-1185, in eresiarca, con fisionomia singolare e rappresentativa nel confusionismo contemporaneo di sette e fazioni in Lombardia. Espose la sua dottrina in un libro: Iddio ritiene mondi e santi, per una giustizia intrinseca, coloro che Egli ha predestinato alla salvezza; questo giudizio di Dio, attivo e permanente, non muta anche quando i predestinati si comportano esternamente da peccatori e permangono nella colpa; per aderire a questa volontà divina giustificante non sono necessarie le opere buone, sia sacramentali sia precettive e devozionali; bastano quelle disposizioni interiori di pentimento dei peccati, di fiducia in Gesù Cristo, d’amore di Dio, che la scienza divina considera come sempre esistenti in colui che è destinato alla salvezza. Per contro, il prescritto non muta il suo stato interiore di peccaminosità e di dannazione nonostante le azioni esterne di giustizia e di santità. Gli speronisti perdurarono sulla scena ereticale durante la prima metà del Duecento; la loro concezione salvifica non solo ripudiava il processo cristiano di giustificazione attiva, ma sconfessava anche tutto quell’ascetismo penitenziale, con cui gli eretici affermavano la loro superiorità sull’efficacia giurisdizionale e sacramentale della Chiesa; anche il dualismo cataro veniva svuotato della sua drammaticità con l’assoluto predominio della prescienza e volontà divine.

Fermentazione escatologica e misticismo libertario {secoli XIII- XV).

– La temperie spirituale dei secoli XIII e XIV, particolarmente quella ereticale, si alimentò dell’annunzio di una nuova età, proclamato dall’abate Gioacchino da Fiore (+ 1202). Ogni movimento ereticale si rivendica la pretesa di rinnovare la Chiesa, la religione,, la società; a questa ambiziosa missione diede ansa lo escatologismo gioachimita, che descrisse la risoluzione dell’attuale età evangelica del Figlio, della Chiesa dei chierici e dei prelati, nella terza epoca dello Spirito Santo, della libertà e dell’amore, con una effusione carismatica più abbondante e con il predominio dei monaci contemplativi. La simmetria simbolica dei suoi calcoli nella divisione trinitaria della storia del mondo faceva cadere nell’anno 1260 l’inizio della rivelazione del « vangelo eterno », cioè della interpretazione spirituale di quello scritto, e della sua attuazione. -Tra i segni di dissolvimento dell’età presente Gioacchino contava anche il progresso delle sette ereticali, in modo particolare dei catari e valdesi; la sua ortodossia pratica, in cui svolse la sua attività di riformatore dei cistercensi con la sua congregazione di San Giovanni in Fiore, era lontana da ogni intento di reazione dommatica e disciplinare. – L’elemento escatologico si attuò nel monismo mistico degli Amalriciani, comunità spirituale di scolastici chierici e di laici della Francia settentrionale, che furono condannati a Parigi nel 1220. Sull’insegnamento del maestro parigino Amalrico di Bène (c. 1206), che affermò l’identità di essenza e d’esistenza tra Dio e le creature, i suoi discepoli si considerarono gli araldi della nuova età, caratterizzata dall’incarnazione in loro dello Spirito Santo; questa conoscenza della propria divinizzazione anticipava il paradiso e li toglieva dai limiti del peccato, poiché autore d’ogni loro azione ritenevano Dio stesso. Questa economia salvifica della terza epoca avrebbe eliminato, entro quindici anni, l’organismo ecclesiastico della Chiesa cattolica. Il superamento d’ogni opposizione dualistica di tipo cataro, come pure della stessa distinzione tra Dio e l’uomo costituisce il punto di partenza di quelle degenerazioni pseudomistiche che sono comprese sotto la qualificazione generale di libero spirito e che ebbero varia manifestazione nei secoli XIII-XV; il gruppo di Ortlieb di Strasburgo (c. 1200), gli eretici della diocesi d’Augusta, che professavano gli errori denunciati da Sant’Alberto Magno circa il 1262; quei nuclei eterodossi di beghine, begardi, bizzocche, che provocarono la condanna del concilio di Vienne, 1311-1312; la setta dello Spirito di libertà diffusa nell’Umbria durante la prima metà del Trecento; gli uomini dell’intelligenza facenti capo a un certo Egidio « le chantre » di Bruxelles, tra i cui discepoli si distinse l’ex-carmelitano Guglielmo di Hildernisse, condannato dal vescovo di Cambrai, nel 1411. Con varie formulazioni questi spiritualisti convenivano nell’affermare che l’anima, stabilita in una illuminata conoscenza o contemplazione di Dio e in una assorbente unione amorosa con la sua volontà, era sciolta dai vincoli delle autorità ecclesiastiche e della legge morale, e non era più legata ai comuni mezzi, sacramentali ed ascetici, di giustificazione e di santificazione; il determinismo divino santificava ogni attività, anche sensuale, a cui l’uomo poteva abbandonarsi quietisticamente. Il celebre scrittore mistico fiammingo G. Ruysbroek denunciò le contaminazioni erotiche, che i seguaci di Edvige Blomarts ( + 1335), una spirituale molto influente sulla nobiltà del Brabante, derivarono dalla sua dottrina sull’amore divino. Il milanese A. Saramita e due monache umiliate capeggiarono a Milano il cenacolo dei Guglielmiti, così nominati perché proclamavano la incarnazione dello Spirito Santo, ad inizio pentecostale di una terza era spirituale, nella principessa Guglielma o Guglielmina, d’origine boema, morta in concetto di santità a Milano (1282) e venerata nella sua tomba presso la abbazia cistercense di Chiaravalle. Nuovi vangeli e testi liturgici, una gerarchia femminile con particolari riti, la conversione degli ebrei e maomettani, i pellegrinaggi a Chiaravalle, avrebbero qualificato la imminente chiesa dello spirito. – Una fermentazione di sensualismo spiritualizzato s’accompagnò con la pratica della povertà in quegli eretici della Savoia e Delfinato, durante la metà del Trecento, che furono indiziati con il termine oscuro di turlupini.

Pauperismo messianico {secoli XIII-XV).

– Dall’inizio del Duecento, a partire dal pontificato di Innocenzo III, che con la preminenza spirituale del Papato domina la scena politica della società cristiana, lo spirito evangelico manifestò una vigorosa ripresa con gli ordini mendicanti; essi praticano la virtù nella forma radicale, con esclusione della proprietà in comune e d’ogni possessione e bene stabile; derivano il loro sostentamento dalle offerte occasionali o mendicate, svolgono un’opera di apostolato non legato a determinati luoghi o regioni, in plurima obbedienza ai propri superiori locali, provinciali e generali, alle richieste della santa Sede. I più attivi e numerosi di queste agili milizie dell’ascetismo completo, del misticismo fervido ed equilibrato, i francescani cioè e i domenicani, si scontrarono con le sette ereticali sul terreno dell’imitazione apostolica e le soverchiarono con il vigore della dottrina. Ma gli spirituali, capeggiati in Provenza da Pietro Giovanni Olivi ( + 1298), in Umbria da Angelo Clareno (+ 1337), in Toscana da Ubertino da Casale (+ dopo il 1329), fecero della povertà più rigida l’essenza della perfezione evangelica, che esigettero l’osservanza da tutti come condizione di salvezza e come fattore di rinnovamento nella Chiesa nella terza epoca monastica del «vangelo eterno», ossia dello Spirito Santo. Dopo complicate vicende polemiche furono condannati da Giovanni XXII (1317); quelli che s’ostinarono nella ribellione, detti fraticelli, ritennero eretico il Papa, di cui contestavano i poteri, s’opposero al Sacerdozio e alla Gerarchia, s’inquinarono con altre deviazioni gioachimite e pseudomistiche. La riforma dell’Ordine francescano fu compiuta nel Quattrocento dal movimento rigoglioso dell’Osservanza. Il fanatismo pauperistico dei discepoli di Guglielmo Cornelio di Anversa, condannato dopo il 1245, arrivò a ritenere lo stato d’i povertà come supremo fattore di giustificazione dagli altri peccati e di salvezza. – Una deformazione dell’azione missionaria dei francescani fu rappresentata in modo chiassoso dagli « apostoli » e « apostolissae » del parmese Gerardo Segarelli, che predicavano la penitenza e fomentavano la devozione popolare con canti e preghiere, ma si ritenevano spiritualmente liberi da ogni vincolo di comunità, di regola, di voti, di giuramenti. Gli successe, nel 1300, fra Dolano (+ 1307) che, a questo apostolismo libertario, aggiunse l’escatologismo di una quarta età, che doveva essere instaurata dall’autorità imperiale e superare l’epoca gioachimito-spirituale degli Ordini mendicanti.

Evangelismo e predestinazionismo {secoli XIV-XV).

– Il problema della povertà di Gesù Cristo venne ripreso da G. Wyclif (+ 1384), maestro di Oxford, contro il Papato, tutto il clero e i monaci che avevano possessioni terrene e godevano di benefici, dichiarando che per questo facevano parte, come presciti, del corpo dell’anticristo; inviò (1377) i suoi « poveri preti » , detti anche « lollardi », attraverso l’Inghilterra a predicare popolarmente il Vangelo in funzione antipapista, a cui s’aggiunse l’opposizione anche contro i rivali Ordini mendicanti. – Propugnava una invisibile chiesa di predestinati, che per il loro stato permanente di grazia non necessitano dell’opera sacramentale del Sacerdozio cattolico ed hanno un dominio sovrano sulle cose. Del resto anche la validità d’ogni potere sia temporale dei principi sia spirituale della gerarchia ecclesiastica era condizionata dallo stato di grazia, dipendente dalla predestinazione. Tutta questa teorica offriva a Wyclif e seguaci un comodo espediente per mettere sotto discussione l’autorità della Chiesa, a cui sostituivano il ricorso personale alla bibbia e il ministero dei laici. – G. Huss attinse queste, dottrine dalle opere di Wyclif, nell’ambiente universitario di Praga, di cui capeggiò le rivolte nazionali contro la Germania; e le diffuse con una predicazione che, pur vietatagli dall’arcivescovo, suscitava l’entusiasmo del popolo e della, nobiltà povera; i suoi sermoni e le lettere in lingua ceca rinfocolavano anche il sentimento nazionale contro il germanesimo della classe dominante; sostenne la richiesta della comunione sotto le due specie (utraquismo). L’imperatore Sigismondo eseguì con il rogo la condanna (1415) del concilio di Basilea. Gli utraquisti e soprattutto i taboriti continuarono l’opposizione armata, politica e religiosa sotto la guida di G. Zizka (+ 1424) e di Procopio il Calvo (+ 1434), fino alla pace con l’imperatore, 1434; ma dissensi e degenerazioni furono causati dalle licenziosità dei millenaristi in attesa della fine del mondo, dagli adamiti, promossi dall’illuminato Picardo, proveniente dalle Fiandre, che praticava il nudismo e la promiscuità dei sessi, in nome della restaurata integrità della natura umana. La « unione dei fratelli boemi » propugnò sotto l’influsso di P. Chelciky (+ 1460) una spiritualizzazione evangelica sia della religione sia della stessa società civile; ma finì per sistemarsi, per opera di Luca di Praga, nell’eterodossia moderna. – Il lollardismo tenne vivo l’antipapismo in Inghilterra; ma le sue imprese rivoluzionarie, in complicità con qualche eminente signore, provocarono una dura repressione da parte di Enrico IV.

Flagellantismo salvifico (secoli XIV-XV).

– Il carattere parossistico di molte correnti ereticali, che disarticolano il complesso unitario delle virtù ascetiche, è manifesto nelle esagerazioni dei flagellanti. Questa prassi penitenziale, molto in uso negli istituti monastici e nelle confraternite dei « disciplinati o « battuti », assurse al valore di mezzo necessario ed esclusivo di santificazione nella predicazione di alcuni circoli, denunciati da Clemente VI nel 1349. Il Concilio di Costanza condannò i flagellanti della Turingia e Sassonia che predicavano l’avvento della nuova economia redentrice della fustigazione a sangue con l’eliminazione della Chiesa romana.

Involuzione ebraica (secoli XII-XV).

– Il panorama tumultuario delle eresie medioevali conobbe anche le rappresentanze dell’influsso dell’antica religione ebraica, variamente presente nella civiltà del medioevo cristiano. Il monoteismo antitrinitario venne professato dai passagini lombardi dei secoli XII-XIII, insieme con la ripresa dell’osservanza del sabato, della circoncisione, ecc.. I circoncisi del Duecento probabilmente aggiunsero ai riti e Sacramenti cristiani la pratica della circoncisione; nei secoli XIV-XV si pose il problema dei «marrani» cioè di quegli ebrei e anche musulmani, che adottarono, per opportunismo, le esteriorità del Cristianesimo; di essi si occuperà in modo particolare la inquisizione spagnola (1482).

LE PIAGHE DELLA COMUNITA’ CRISTIANA: LE ERESIE (2)

LE PIAGHE DELLA COMUNITÀ’ CRISTIANA

Capitolo I

Le ERESIE,

ferite alla unità della fede (2)

[“Somma del Cristianesimo”, a cura di R. Spiazzi, vol. II Ed. Paoline, Roma, 1958]

Art. 2. – LE ERESIE ANTICHE: DAL I AL IX SECOLO.

Nell’esposizione delle eresie il criterio più facile è quello cronologico; l’adottano, non senza ragione, gli studiosi di storia della Chiesa, che inseriscono le deviazioni eretiche negli avvenimenti ed indicano così i rapporti intercorrenti: fatti e circostanze che influiscono nella formulazione erronea e, viceversa, posizioni mentali erronee che influiscono nell’orientare diversamente il corso della vita associata. Il pregio di questo criterio è assai intuitivo. – Ma non meno prezioso è il metodo seguito da altri studiosi, i quali, più che al richiamo cronologico, obbediscono al richiamo, per dir così, dottrinale, raggruppando le eresie secondo la materia, secondo cioè i grandi capitoli nei quali si articola la verità rivelata:

1) Dio Uno e Trino

2) Il Verbo Incarnato

3) La Grazia

4) La Chiesa

5) I Novissimi

6) La Morale cristiana.

Qui seguiremo il secondo criterio, non senza, però, notevole riferimento al primo.

Eresie intorno a Dio Uno e Trino.

La prima grande offensiva ideologica contro il Cristianesimo si ebbe nel II Secolo. Mentre l’autorità politica soffocava nel sangue le espressioni della libertà religiosa, obbedendo a quell’iniquo « Institutum Neronianum » che negava diritto di cittadinanza alla nuova fede, i gruppi gnostici spostarono la lotta sul piano delle idee. Lo gnosticismo domina nel mondo intellettuale di quel tempo. Quali forze influirono sul suo sviluppo e sulla sua affermazione non è facile dire. Certamente non fu estraneo ad esso il clima filosofico che dalla Grecia e dalla Persia seduceva gli spiriti, stanchi di una mitologia puerile che non appagava la vasta inquietudine ormai diffusa anche nei ceti umili e che non rispondeva alle più elementari esigenze critiche. Lo gnosticismo porta nella stessa sua organizzazione dottrinale questa irrequietezza, frazionandosi in sette o, meglio, in movimenti di idee che tradiscono la diversa origine psicologica. Il mezzo a tanta varietà però, è possibile cogliere un fondo comune che si può esprimere così: lo gnosticismo è un tentativo di ridurre il Cristianesimo ad una filosofia religiosa. Razionalismo ante litteram? Forse sì, ma non esclusivamente. La gnosi (o scienza) non rifiutava la fede, ma tendeva a dominarla, a superarla, ad esserne il più alto e nobile surrogato. Raccogliendo fonti disparate, amalgamando le idee più lontane, con una terminologia artificiosa, lo Gnosticismo diede corpo ad una teologia in cui brulicavano concetti rivelati e stravaganze nebulose. Pose così tra Dio e il mondo (la tesi dualistica è essenziale alla concezione gnostica) una serie di esseri intermedi — gli Eoni, procedenti a coppie, -, che formano il Pleroma o pienezza. Il Logos non era che un Eone disceso in Gesù di Nazareth per compiere la redenzione, cioè liberare la scintilla divina che geme nei vincoli della materia, sottoposta alla volontà dispotica del Demiurgo. – Questa ibrida concezione, nella quale gli elementi cristiani erano così diluiti da divenire irriconoscibili, fu fieramente avversata dagli scrittori ecclesiastici. Dominò su tutti l’alta personalità di Sant’Ireneo, le opere del quale — soprattutto l’Adversus hæreses — ci danno la sintesi dell’insegnamento gnostico e la relativa confutazione. – A questo primo attacco massiccio contro la Chiesa tenne dietro un’altra eresia di minore importanza: il Marcionismo, forma mitigata dello gnosticismo, sempre però legata allo schema dualistico Dio-Materia. I Marcioniti che escludevano, tra l’altro, il Vecchio Testamento e simpatizzavano con i Doceti, meritarono gli strali ironici della penna di Tertulliano. – Più importante, soprattutto per le ripercussioni dottrinali e la diffusione che ebbe, fu il Manicheismo. – Sono fuori dubbio i suoi presupposti pagani che non riuscivano a sganciarsi dal dualismo per spiegare, mediante il concetto di creazione, i rapporti tra Dio e il mondo e, in particolar modo, l’origine del male; ad essi però si frammischiavano concetti di ispirazione cristiana che non potevano non attrarre l’attenzione anche degli ambienti chiusi e refrattari all’assimilazione di idee estranee. – Suscitò simpatie tra le persone colte: vittima illustre fu lo stesso Agostino che, solo più tardi, nella chiarità del pensiero cristiano, denunziò le temperanze manichee e ne mostrò l’aperta contraddizione con i principi cattolici. – Altre tendenze ereticali registra la Storia dei Dogmi, ma sono, appunto, credenze più che errori definiti, movimenti di idee incerti più che posizioni chiare e ben strutturate: per cui riteniamo meglio fissare lo sguardo sulle eresie trinitarie che come tali furono riconosciute e condannate dalla Chiesa. – La Dottrina Trinitaria si manifestò in un ambiente del tutto sfavorevole. – Quale benevolenza poteva trovare nel rigido monoteismo giudaico o quale alleanza poteva stabilire con il politeismo pagano? Al primo opponeva la trinità delle Persone, al secondo l’unità di natura: finiva così con il suscitare le reazione dell’uno e dell’altro. – Se la nuova fede era inaccettabile per il popolo, al quale la lunga abitudine monoteistica o politeistica aveva cristallizzato, per così dire, le idee intorno alla natura vera di Dio, le menti elette, aperte alle novità dottrinali, che amoreggiavano con il neo-platonismo — la filosofia ufficiale del III secolo — non si mostravano indisposti, ma cercavano occulte parentele tra la loro filosofia e i misteri cristiani. Per esempio, non aveva tratto Filone alessandrino motivi e spunti dal platonismo per illuminare la religione giudaica? Non scritto tanto egli stesso intorno al Logos, riecheggiando mentalità stoica? In che cosa differiva, in fondo, il Logos giovanneo da quello filoniano? – Gli interrogativi si moltiplicavano e si moltiplicavano pure le risposte. Da tanto travaglio di pensiero furono generate le tipiche eresie trinitarie. Prima, fra tutte, fu quella modalistica. Dio è una sola Persona — diceva. Lo si può però considerare sotto tre modi o aspetti, in quanto crea, redime e santifica. La triplice manifestazione rende legittima il triplice nome di Padre, Figliuolo e Spirito Santo. È l’intelletto umano che triplica soggettivamente l’unità oggettiva di Dio: ecco tutto. Ai modalisti questa presentazione del mistero trinitario sembrava armonizzare le esigenze monoteistiche giudaiche con le esplicite affermazioni cristiane. Illusione! Quest’unitarismo (che ebbe vari nomi: monarchianismo, patripassianismo, sabellianesimo) era all’antitesi della concezione rivelata: non salvava nulla, nemmeno quell’unità a favore della quale tanto si batteva. – Si affermò contemporaneamente un altro errore che fu il precursore immediato dell’arianesimo. Gli diede paternità Paolo di Samosata. Raccogliendo echi modalistici e adozianistici (che era un nuovo specioso modi di negare la Trinità), negò la personalità del Verbo. Che cosa mancava ormai perché Ario negasse l’identità di natura tra la prima e la seconda Persona? Tutto il secolo non aveva seminato germi dottrinali che dovevano fatalmente germinare nella negazione ariana? – C’è tra gli errori una logica ed una connessione come tra gli anelli di una stessa catena: verità chiama verità, ma anche errore chiama errore. – La controversia ariana suscitò tra le file dei cattolici ingegni acutissimi che costruirono una diga ideologica possente contro l’eresia. L’Oriente fu pervaso dalla voce di Sant’Atanasio e l’Occidente da quella di Sant’Ilario. Seguirono poi Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa — i cosiddetti Padri Cappadoci; mentre a Milano teneva testa alle puntigliosità ariane Sant’Ambrogio. È stato considerato il IV secolo come il secolo d’oro della Patristica — e non a torto. Il vigore del pensiero, sostenuto da una profonda cultura filosofica e rivestita di una forma classica che conosceva la malta della parola, fu posto a servizio del Logos eterno, consostanziale al Padre. – Eliminata dall’eresia ariana la seconda persona della Trinità, non rimaneva che negare la terza: lo Spirito Santo. Fino a quel momento a nessuno era venuta in mente un’idea così poco brillante. Ci pensò Macedonio, Vescovo di Costantinopoli, a farsi promotore di quella eresia. Da Macedonio derivò una setta che fu chiamata dei Pneumatochi, che è come dire: oppositori dello Spirito. Negavano, difatti, la divinità della Terza Persona, riducendola a pura creatura anche se più nobile degli altri. Furono condannati nel Concilio di Costantinopoli del 381. – Ormai il ciclo dell’errore intorno al mistero trinitario poteva dirsi concluso. Dai balbettamenti gnostici che ponevano il Padre sul piano della materia — anch’essa eterna — fino alle fisime ariane neganti la divinità alle posizioni pneumatomache eliminanti lo Spirito Santo: una successione sistematica di errore! – Per alcuni secoli tacquero le eresie trinitarie. La Chiesa fu impegnata a difendere altre verità, come si vedrà nei capitoli successivi. Ma ecco, nel IX secolo, un’altra eresia: quella foziana. Nessuno finora è riuscito a scagionare Fozio dalla responsabilità personale di aver aperto una ferita nella Chiesa — e che ferita! Egli fu il « conditor » di uno scisma che ha allontanato milioni di persone dalla Chiesa cattolica. – Intelligenza acuta e capziosa, abile nelle sottigliezze logiche come in quelle esegetiche, Fozio dichiarò falsa la dottrina dei Latini intorno alla « processione dello Spirito Santo », proponendo la sua. – Oriente ed Occidente avevano sempre seguito la stessa dottrina riguardo allo Spirito Santo: differivano solo nella formulazione della stessa che dipendeva, per dir così, dal punto di vista diverso. Ai Greci piaceva la concezione dinamica della Trinità, ai Latini quella statica. I primi consideravano il Padre la fonte della divinità, da cui la vita divina si effondeva nel Figlio e mediante il Figlio nello Spirito Santo; gli altri, invece, preferivano contemplare nella stessa unità di natura le Persone alle quali davano origine le processioni immanenti. – Le due concezioni erano ortodosse e seguite con pari amore. A Fozio la concezione latina non piacque e partì all’attacco, sostenendo che lo Spirito Santo procede soltanto dal Padre, non dal Figlio. L’errore era nato. Tutta la tradizione latina, tutto l’acume di Agostino che aveva fatto precisazioni profonde intorno alla formula occidentale non valsero a far retrocedere Fozio dal suo equivoco. Non valse nemmeno la condanna inflittagli nel IV Concilio di Costantinopoli, VIII ecumenico, dell’870 a fargli rivedere le posizioni. Morì ostinato, ma l’errore non scese con lui nella tomba. Gli è dolorosamente sopravvissuto fino ad oggi — e fino a quando sopravvivrà?

Eresie intorno al Verbo Incarnato. –

La divinità di Cristo fu il punto centrale della catechesi dei Padri Apostolici che riecheggiarono gli scritti testamentari. Forse fu proprio tale insistenza — necessaria, d’altronde, a stabilire il carattere soprannaturale della nuova Religione — che indusse alcuni a ritenere Gesù non « vero uomo », gettando così i germi del Docetismo. Eresia, evidentemente, infantile, secondo cui l’umanità di Cristo apparteneva al regno della fantasia e tutta la narrazione evangelica esprimeva un mondo fittizio. Il Docetismo elaborò intorno a questo nucleo centrale — attraverso i suoi successivi propagatori: Simon Mago, Cerinto, Menandro, Saturnilo, Basilide, Cerdone, Marcione, Valentino, ecc. — inverosimili bizzarrie cui poteva dar credito solo l’illimitata credulità di fedeli ignoranti. Non ebbe mai, per questo, gran seguito. Bastò, in fondo, la sola offensiva di Ignazio di Antiochia per svuotarlo del suo contenuto dottrinale. Tardivi sforzi di restaurazione del Docetismo — come fecero, per es., i Catari del Medioevo — finirono nel vuoto. – Maggior fortuna, invece, ebbero le eresie relative alla divinità di Cristo. Non nacquero esse da spiriti superficiali come il Docetismo, ma da uomini abituati alle sottigliezze dialettiche, sensibili alle sollecitazioni della cultura pagana. Se Celso, nel II secolo, negò la divinità di Cristo con tutte le risorse di un ingegno brillante, sostenuto da una ironia scintillante e piacevole, gli Adozianisti (così li ha chiamati giustamente Harnack), tra il II e il III secolo, caddero nella stessa posizione pur partendo da un altro punto di vista: Gesù poteva tutt’al più considerarsi come « adottato » da Dio, arricchito di singolare potenza per attuare una speciale missione nel mondo. In Ario confluirono tutti i rivoli precedenti che non avevano ancora raggiunto una piena configurazione dottrinale; e da lui prese nome quell’eresia che agitò il quarto secolo, con profonde ripercussioni politiche, la quale negava la divinità del Verbo. Non c’è che un solo Dio ingenerato — egli diceva. La sostanza divina è incomunicabile; ciò che esiste fuori dell’unico Dio è creato; quindi anche il Verbo, per quanto la sua creazione preceda quella del mondo ed Egli sia l’intermediario tra Dio e quest’ultimo. – In tale posizione dottrinale la Chiesa trovò la più paurosa negazione di tutte le precedenti. Il Concilio di Nicea del 325, definendo la consostanzialità del Verbo con il Padre, riconfermò le fede nella divinità di Cristo. Questa solenne dichiarazione del Magistero ecclesiastico avrebbe dovuto precludere la via ad altri errori cristologici: così, almeno, si pensava. Stavano, invece maturando principi che spostavano l’attenzione, o meglio l’eresia, sull’unione delle due nature nell’unica persona di Cristo. Centri intellettuali di prim’ordine fiorivano ad Alessandria e ad Antiochia, richiamando le intelligenze più vive. – Nel Didascaleion egiziano vivevano lo spirito e l’eredità dottrinale di Clemente ed Origene. Un caldo soffio di misticismo, una viva simpatia per il pensiero platonico, la tendenza all’interpretazione spiritualistica della Sacra Scrittura, erano come le note caratteristiche della scuola. La definizione Nicea aveva trovato consenzienti tutti i maestri alessandrini “che non nascondevano la loro avversione all’arianesimo. Si gettarono pertanto nella lotta con un ardore illimitato. La vivacità dell’ingegno, sostenuto da una fede che commuove pur noi a distanza di secoli, rese egregi servizi alla « fides nicaena ». – La divinità di Cristo non poteva trovare sostenitori più agguerriti e preparati. –  Contemporaneamente, un’altra scuola toccava il vertice del suo splendore, quella di Antiochia. Seguiva strade metodologiche assai diverse dall’Alessandrina. All’allegorismo di questa preferiva il senso storico o letterale al quale richiamava ogni senso « tipico ». Non facevano mistero gli Antiocheni nell’esprimere le loro preferenze per la filosofia aristotelica, dalla quale traevano mentalità positiva ed analitica di sapore razionalistico. Esegeti di indiscussa autorità davano credito al Didascaleion. Antiocheno, come Diodoro di Tarso e Teodoro di Mopsuestia. – Nel clima intellettuale di queste due scuole divamparono le due maggiori eresie cristologiche del v secolo: il Nestorianesimo e il Monofisismo. Già Apollinare di Laodicea della corrente alessandrina, nella seconda metà del IV secolo, aveva elaborato una dottrina che gli sembrava risolvere meglio la questione dell’unità ontologica di Cristo contro le posizioni dualistiche degli adozianisti e degli ariani. Perché non ritenere — pensava Apollinare — che l’umanità di Cristo fu costituita solo di corpo e di anima sensitiva, affidando al Verbo le funzione della vita intellettiva? – Questa soluzione semplicistica sboccava in un errore manifesto: la natura umana di Cristo non era più integra, ma mutilata. Mentre Papa Damaso nel 377 colpiva di condanna questa concezione, un vivacissimo ingegno antiocheno, Diodoro di Tarso, criticava l’Apollinarismo. E lo fece con tale impeto polemico da cadere in un altro errore. Non si può pensare che il Verbo sia un elemento costitutivo della natura umana di Cristo, svolgendo le funzioni dell’anima intellettiva — sosteneva Diodoro. La natura umana di Cristo è perfetta — proseguiva. Il Figlio di Dio si è unito al Figlio di Maria nato nel tempo: ecco Cristo. Da Scilla a Cariddi. Aveva sbagliato Apollinare, sbagliava ora Diodoro. L’accusatore saliva a sua volta il banco degli accusati, perché  la posizione dottrinale assunta non solo non salvava affatto l’unità personale, ma favoriva apertamente il dualismo cristologico. Difatti, fu facile a Teodoro di Mopsuestia, prima, e a Nestorio poi inserirsi in questa corrente ideologica, formulando un insieme di principi che costituirono i pilastri dell’eresia nestoriana, i più importanti dei quali possono classificarsi così:

1) In Cristo ci sono due nature complete e distinte: quella divina con il suo « io » divino, quella umana con il suo « io » umano;

2) nonostante questo doppio soggetto fisico, Cristo è « uno » moralmente, perché Cristo Dio abita nel Cristo Uomo come in un tempio. Le due volontà convengono in una come la volontà del re si unifica con quella del suo legato.

– La posizione di Nestorio non poteva prestarsi a benevola interpretazione. Troppo manifesta era l’eresia che riduceva l’unione ipostatica ad una unione «accidentale» con la presenza di due persone tra loro unite da vincoli morali. Gli orientamenti naturalistici della scuola antiochena avevano giocato un brutto tiro al maestro Teodoro e al discepolo Nestorio, che non riuscivano a distinguere tra natura e Persona e concepivano la natura umana di Cristo come necessariamente personificata o ipostatizzata. (La tesi nestoriana della doppia persona in Cristo era stata scoperta in seguito all’insistenza con cui Anastasio negava alla Madonna il titolo di θεοτόκος, cioè genitrice di Dio. Si chiami al massimo χριστοτόκος, cioè genitrice di Cristo, sosteneva Anastasio, forte dell’appoggio dei suo maestro Nestorio).L’irriducibilità dell’eresiarca provocò il Concilio di Efeso del 431 che lo condannò esplicitamente. Il « custode dell’ortodossia », Cirillo Alessandrino, aveva impiegato tutta la forza del suo ingegno e il peso della sua autorità per giungere a quel passo. Ma la terminologia cristologica rimaneva, purtroppo, ancora vaga e oscillante, favorendo posizioni inesatte o errate. Fu proprio, difatti, da una espressione cirilliana che Dioscuro, prima, ed Eutiche, poi, trassero motivo per l’eresia monofisitica.Nuove nubi si addensarono in quel torbido cielo orientale nel quale le polemiche, sostenute da un’animosità rimasta proverbiale, erano tutt’altro che cessate. Eutiche non brillava per ingegno, molto meno per dolcezza di carattere. E cadde in una stravaganza dottrinale peggiore dello stesso Nestorianesimo, difendendo in Cristo non solo l’unità personale, ma la fusione stessa delle nature. Nasceva così quel movimento eretico che passerà alla storia con il nome di Monofisismo. Il Concilio di Calcedonia del 451, condannando Eutiche, fissò la dottrina cattolica in una formula rimasta celebre: «Un solo e medesimo Cristo, Figliuolo, Signore, Figliuolo unico, in due nature, senza mischianza, senza trasformazione, senza divisione ».Le due grandi eresie cristologiche non morirono purtroppo con la condanna dei due rispettivi Concili; avevano, però, notevolmente contribuito a chiarificare la terminologia e a far esprimere in formule precise la dottrina della Chiesa.Tentativi di restaurazione del monofisismo si ebbero successivamente, attraverso nuove formulazioni eretiche: il Monoergetismo e il Monotelismo. Nel VI  secolo, Severo di Antiochia, dall’unità del soggetto operante in Cristo, aveva tratto l’idea che anche la sua attività dovesse qualificarsi né esclusivamente divina né esclusivamente umana. Conveniva chiamarla — egli diceva — teandrica, cioè divino-umana, senza distinzione. Una, pertanto, la persona di Cristo, una la sua attività. La dottrina severiana, sottilissima come il suo autore, era un lontano, ma diretto ritorno alla tesi eutichiana che aveva unificato fino alla confusione le due nature in Cristo. E siccome ogni posizione dottrinale genera altre posizioni, soprattutto se sostenuta da forte ingegno, come in questo caso, il Monoergetismo sboccò nel secolo successivo nel Monotelismo. Creazione mentale di Sergio, patriarca di Costantinopoli, la nuova eresia parlava di una sola volontà in Cristo, dimenticando che se unico è il soggetto operante, duplice però è la fonte della sua attività, perché duplice è la natura. L’ombra di Eutiche riappariva dietro il monotelismo: ci volle l’impegno di San Massimo e di San Sofronio per farlo condannare prima nel Concilio di Roma del 649 e poi in quello ecumenico, III di Costantinopoli, del 680-681. – Cessarono, finalmente, le eresie cristologiche, rimanendo circoscritte determinati territori che ancor oggi sono lontani dalla Chiesa cattolica. Un ultimo, ma limitato tentativo, si ebbe nel secolo IX, non più in una terra classica di dispute, ma in Occidente, in quel lembo estremo di terra che è la Spagna. L’Arcivescovo di Toledo, Elipando, riprese i motivi nestoriani,  insistendo sull’adozianismo. Gesù — diceva — è figlio di Dio naturale come Verbo, Figlio di Dio adottivo per la sua umanità. Forse lo stesso Elipando, povero di dottrina teologica, non si rendeva sufficiente conto dell’errore che il suo dire conteneva; lo espresse, difatti, con più vivacità e chiarezza il Vescovo Felice di Urgel, contro cui rimangono, densi di acute osservazioni, gli scritti che gli oppose il famoso Alcuino.

Aggiungiamo a questo capitolo — per un comprensibile accostamento logico — l’eresia degli Antidicomarianiti. Sulla scia di Elvidio e Gioviniano, gli eresiarchi di questo nome si opponevano al culto della Madonna, della quale negavano in particolare la verginità prima e dopo il parto. Esse sorsero, a quanto sembra, in Arabia; avevano già provocato l’intervento di Epifanio con una critica serrata: ebbero vita stentata, perché la povertà dottrinale del loro messaggio antimariano non riuscì a far raccogliere gran numero di adepti intorno alla loro bandiera.

Eresie intorno alla Grazia. –

Pacifica fu nei primi quattro secoli la fede intorno al peccato originale ed alla grazia. Le due grandi tesi — che costituiscono appunto l’antropologia soprannaturale — erano così chiaramente espresse nelle lettere paoline (oltre che negli altri scritti neo-testamentari) che non vellicarono nessuno a farsene negatore. Le grandi polemiche si svolsero, come abbiamo già visto, intorno alla teologia trinitaria e cristologica. Le altre questioni non impegnarono che relativamente i grandi ingegni della Chiesa, quali la negazione dava la spinta apologetica ed il fervore di discussione e di approfondimento. – Ma nel V secolo, placatisi in parte i movimenti ereticali cristologici, divampò aspra un’altra lotta ideologica, nella quale fu impegnato uno dei grandi dottori della Chiesa e che meritò appunto l’appellativo, ormai consacrato dalla storia, di dottore della grazia: Sant’Agostino. Un monaco, Pelagio, aveva fatto polarizzare intorno a sé molte persone, attratte dal fascino della sua eloquenza e della sua dialettica. Spiccavano tra esse Celestio e persino un Eescovo, Giuliano di Eclano. – Da Roma, dove Pelagio era stato a contatto con San Girolamo, la sua fama si diffuse nell’Italia meridionale, varcò anzi il mare e giunse in Africa. Quali idee davano credito a questa fama? Quali speranze accendeva nei cuori il monaco bretone? – È difficile per noi oggi stabilire l’itinerario mentale di Pelagio; probabilmente, però, influirono nella maturazione delle sue idee motivi dottrinali antiocheni e, più ancora, stoici. – Pelagio era un ottimista, al quale il manicheismo appariva la peggiore assurdità metafisica e psicologica. Con un processo lento ma efficace, si fece strada nel suo spirito la convinzione che l’uomo è pienamente arbitro del bene; che nessun ostacolo può impedirgli di raggiungere la perfezione; che il peccato originale non ha lasciato traccia alcuna nell’umanità; che il Battesimo non è proprio necessario per la vita eterna; che la grazia, infine, pur essendo un magnifico ornamento dell’anima e un segno della sua divina adozione, non condiziona affatto l’attività soprannaturale. Il « corpus » dottrinale di Pelagio che sembrava tanto innocente era, in realtà, la distruzione dell’ordine soprannaturale. In esso perdeva significato la stessa redenzione di Cristo e la funzione dei Sacramenti. Con un naturalismo di così bassa lega non si accordava affatto la tradizione ecclesiastica, anzi si potevano già prevedere gli sbandamenti morali nei quali sarebbe caduta la « plebs Christiana », qualora tale insegnamento fosse stato divulgato. Sant’Agostino ebbe il merito di intuire il pericolo. Né poteva essere altrimenti, essendo troppo profonda la sua sensibilità in materia. Le « Confessiones » gli ricordavano assai da vicino il dramma della natura e della grazia. Con la precisione del teologo raffinato e la martellante argomentazione dialettica, Sant’Agostino attaccò l’eresiarca e i suoi seguaci in una lotta senza quartiere, fino a che lo stesso Magistero della Chiesa si pronunziò contro Pelagio nel Concilio di Milevi del 416 e in quello di Cartagine del 418. Il Concilio ecumenico di Efeso del 431 riconfermò le due condanne precedenti. La condanna di Pelagio però non aveva risolto tutte le questioni intorno alla grazia. La stessa autorità di Sant’Agostino che aveva raccolto intorno al suo nome le forze intellettuali della Chiesa, dava adito, in qualche punto, ad osservazioni e critiche tutt’altro che disprezzabili. Venne così a formarsi nel Sud della Gallia una nuova corrente di idee in un cenacolo di acuti studiosi, come Cassiano, Vincenzo di Lerino e Fausto di Riez, ai quali il pensiero agostiniano sembrava troppo rigido. Tale corrente di idee assai tardivamente — nel secolo XVI fu chiamato Semipelagianesimo: appellativo che non è perfetto. I pensatori di Marsiglia erano lontani dalla concezione fondamentale di Pelagio, ma non sfuggivano ad errori gravi quando attribuivano, per es., l’avviamento della fede non alla grazia, ma alla libera iniziativa dell’uomo; quando riducevano la predestinazione ad una semplice previsione dei meriti, ecc. Questa posizione era, in fondo, motivata dalla preoccupazione pratica di salvare il più possibile la libertà e di affinare il senso della responsabilità nella via ascetica. La polemica fu giovevole perché condusse a nuove precisazioni di pensiero, ad armonizzare meglio tesi in apparenza contrastanti, ad approfondire l’interpretazione degli scritti agostiniani. – Il Concilio di Orange del 527 affrontò le posizioni semipelagiane e fissò la dottrina ufficiale in un documento di altissimo valore.

Eresie intorno alla Chiesa. –

Le piccole ribellioni all’autorità o i movimenti scismatici furono assai modesti nella Chiesa primitiva. Sempre localizzati, non ebbero gran diffusione e — quel che più conta non trovarono mai una vera e propria giustificazione dottrinale. Verso la metà del III secolo, invece, destò serie preoccupazioni Novaziano, prete romano. Il clima di terrore creato dalla persecuzione di Decio andava declinando. I « lapsi », cioè coloro che avevano tradito la fede, apostatando, tornavano a resipiscenza e imploravano il perdono. Perché non riaprire le porte della Chiesa a coloro che per debolezza non avevano saputo affrontare la prova? Sorsero varie correnti prò e contro. Ai rigoristi la reintegrazione sembrava non soltanto inopportuna, ma impossibile. L’apostasia — secondo essi — apparteneva a quei « crimina graviora » che erano irremissibili: inutile quindi, parlar di penitenza da parte dei lapsi e di perdono da parte della Chiesa.  Questa la tesi dei rigoristi, i quali, però, preferivano non toccare il tasto della tradizione che sarebbe stato loro non troppo favorevole. Novaziano, al quale beghe locali e soprattutto ambizioni non soddisfatte, montarono la testa, pose a servizio dei rigoristi la sua agile penna e la sua fluida parola. Fece nascere anche una «chiesa» novaziana, nella quale il rigorismo raggiunse posizioni estreme, negando a tutti i peccatori gravi la riconciliazione con la Chiesa. Poi si andò lentamente spegnendo fino a scomparire del tutto verso la fine del VI secolo. Più saldo fu il Donatismo sorto nel IV secolo in Africa. Sembra strano, ma anche questa eresia (e questo scisma) ebbe origine da competizioni e ripicche personali con complicati intrighi nei quali soffiò l’astuzia di una certa Lucilla. Donato il Grande gettò le basi della rivolta; Parmeniano ne continuò l’opera. La sua struttura dottrinale era assai semplice — e questo fu il motivo maggiore del favore che raggiunse presso le persone poco istruite. La Chiesa — insegnavano i Donatisti — non è una barca che accoglie pesci buoni e pesci cattivi o un campo in cui c’è grano e zizzania: essa è la società degli eletti, dei Santi. La discriminazione tra giusti e peccatori è necessarla perché i primi possono dire di costituire la Chiesa, gli altri no, ché ne sono esclusi. E continuavano: i Sacramenti sono validi solo se somministrati da Sacerdoti santi; dei Sacerdoti non santi nessuno può garantire che conferiscano validamente i « signa gratiæ ». Non c’è chi non veda quale profondo errore racchiudesse la teologia ecclesiologica e sacramentaria dei donatisti e quale « presa » potesse fare un tale insegnamento, soprattutto se sostenuto da calda eloquenza e vivacità di immagini, sul popolo che non è abituato alle sottili distinzioni, pur necessarie in materia così delicata. – La rapida organizzazione della Chiesa donatista, ma specialmente le intemperanze fanatiche alle quali i suoi adepti si abbandonavano provocarono l’intervento dell’autorità civile, la quale durò fatica a limitare certe faziosità che rendevano insicura la stessa vita dei Cattolici. – Contro i donatisti scrissero e lottarono Sant’Ottavio di Milevi e sopratutto Sant’Agostino.

Eresie intorno ai Novissimi.

Una stranissima — e per noi assai inspiegabile — dottrina sedusse i Cristiani del I secolo. La si chiama Millenarismo o Chiliasmo. Probabilmente giaceva ancora in fondo al cuore dei neo-convertiti la vecchia aspirazione giudaica di un regno temporale del Messia: essa diede ali alla fantasia popolare che cominciò a credere dover Gesù regnare visibilmente sulla terra, alla fine del mondo, per il non breve tempo di 1000 anni. In questo regno millenario i giusti avrebbero partecipato alle gioie del Cristo; poi, ecco la risurrezione con il conseguente giudizio universale e l’assegnazione degli uomini al regno eterno di felicità (paradiso) o di infelicità (inferno). – Intorno a questa idea centrale folleggiarono motivi contrastanti, imprecisati, forse più come stati di animo che come espressioni dottrinali maturate. – La rapida diffusione dell’idea millenarista, che non ha alcun fondamento rivelato, richiamò l’attenzione degli scrittori ecclesiastici dal II al V secolo, i quali non le risparmiarono critiche motivate, tratte dall’esegesi del sacro libro e dalla mancanza di una tradizione canonica. – Assai più importante, sia per il nome del suo autore che per il contenuto sostanziale, fu l’errore che passa sotto il nome di Apocatastasi. Gli diede corpo Origene nella metà del III secolo, e piacque agli ammiratori del grande maestro. Se Origene si fosse mantenuto fedele al concetto di apocatastasi, come restaurazione universale, nel senso espresso da San Pietro (Atti III,21), la sua ortodossia non ne avrebbe minimamente sofferto; volle, invece, allontanarsi dall’idea rivelata, arzigogolando una apocatastasi fascinosa ma eretica, la quale comporta la riconciliazione finale di tutti gli esseri intelligenti, satana ed Angeli ribelli non esclusi, con Dio. E l’eternità dell’inferno, attestata dalla rivelazione in termini inequivocabili, come si accorda con la dottrina origenica? Anche un San Gregorio di Nissa fu attratto dalla compiacente concezione! Ciò però non impedì a Sant’Agostino di disapprovarla energicamente ed al V Concilio Ecumenico del 553 di condannarla come autentica eresia.

Eresie intorno alla morale cristiana. .-

Tendenze rigoriste si manifestarono subito nel tempo apostolico. Non fu, certamente, desiderio di perfezione o brama di eroismo a determinarle, ma una mentalità gnostica ancora soggiacente nella psiche dei convertiti. Sarebbe stato assai facile trarre dal Vangelo la distinzione tra precetti e consigli; gli encratiti, invece, preferirono non ammetterla affatto, sviluppando una morale acida e insopportabilmente onerosa. Proibirono il matrimonio, sbandierando la necessità della continenza, proibirono persino l’uso della carne e del vino. I testi rivelati erano tutt’altro che favorevoli a questa inumana concezione, ma quando mai gli eretici hanno bene interpretato le fonti e aderito all’interpretazione autentica che ne fa la Chiesa? – Ireneo ed Ippolito nel II secolo dimostrarono acutamente la falsità dell’encratismo, ma non riuscirono tuttavia ad impedire che esso si diffondesse e raccogliesse un po’ ovunque calorose simpatie. Lo sorresse pure, a quanto sembra, una discreta organizzazione ecclesiastica la quale poi si frazionò, dando origine a numerose chiesuole, unite nell’unico vincolo di un ascetismo immoderato. – Se la paternità dell’encratismo ci è ignota, conosciuto è, invece, il fondatore del Montanismo, altra eresia affine alla prima. Calato dalla Frigia,  sostenuto dal fanatismo di due donne che furono le prime ad essere conquistate alla nuova idea, Montano, per dar maggior credito ai suoi sentimenti, si creò intorno un alone mistico, proclamandosi « organo dello Spirito Santo ». Con un linguaggio ricco di calore profetico e con atteggiamenti paramistici, Montano suscitò l’aspettazione quasi morbosa di una nuova era, nella quale una terza ed ultima rivelazione, quella dello Spirito Santo, sarebbe stata accompagnata da manifestazioni carismatiche. Inoltre — diceva Montano — è imminente la parusia di Cristo. Occorre perciò disporvisi con tutto il cuore, con penitenze e con il distacco radicale da ogni affetto terrestre. L’austerità morale degli encratiti fu superata dai Montanisti con l’imposizione di prolungati digiuni e mortificazioni varie. Spinsero poi fino alla esasperazione la loro dottrina, insegnando l’irremissibilità di qualsiasi peccato commesso dopo il Battesimo. L’eresia, così, toccava il fondo. Ad essa purtroppo diedero credito uomini di prim’ordine. È risaputo, difatti, che lo stesso Tertulliano vi aderì in pieno, trovando nel Montanismo l’appagamento delle proprie tendenze. È vero che la sua intemperanza, irriducibile e nemica di ogni imposizione, finì con un gesto di ribellione e con la creazione di un  partito che da lui prese il nome; ma rimase la base dottrinale di stravagante durezza, inconciliabile con il principio formulato da Gesù: «Il mio giogo è soave, il mio peso è leggero» (Matt. XI ,30). Nel secolo successivo risuonarono altre voci discordanti: quelle di Elvidio, Gioviniano e Vigilanzio. Il primo sostenne la superiorità dello stato matrimoniale su quello verginale; il secondo sviluppò tutta una morale lassista che giustificava le peggiori turpitudini con il comodo principio che il rigenerato dal Battesimo non più peccare nè cedere alle suggestioni del demonio; il terzo, assai meno importante, criticò la vita religiosa e il culto dei Santi. – Tutti e tre trovarono resistenza in San Girolamo, il quale non misurò davvero le parole nel criticarli, ma li subissò con scintillanti battute ironiche. Ed a proposito del culto dei Santi e delle immagini, conviene qui ricordare — per quanto non sia il capitolo specifico — un’eresia che ebbe vastissime ripercussioni. Essa va sotto il nome di Iconoclasmo. Nei primi sette secoli, l’uso e il culto delle immagini era stato riconosciuto da tutti legittimo. Eccezion fatta per qualche timido dissenso, occasionato forse da spiegabilissimi abusa, i cristiani avevano trovato nel culto delle immagini forte incitamento alla pietà. L’avversavano, invece, i Giudei, ostili a qualsiasi rappresentazione della divinità, e i Maomettani. Ma, forse, agirono molti altri fattori sull’animo di Leone III l’Isaurico quando scatenò la lotta iconoclasta. Immediata fu la reazione dell’episcopato alla volontà del « basileus ». Il successore inscenò pure un concilio che si tenne nel 753 a Jeria, nel quale prevalse la dottrina iconoclasta. – Ma la sua artificiosità non sfuggì ai monaci e ai fedeli i quali perseverarono nella dottrina cattolica. Caddero le prime vittime: la furia iconoclasta si abbeverò di sangue. La lotta fu lunga perché si estese fino alla metà del IX secolo: salvo il periodo nel quale comandò l’imperatrice Irene. Con il suo appoggio fu possibile anche radunare un Concilio ecumenico a Nicea nel 787 che condannò l’eresia iconoclasta e definì legittimo il culto reso alle immagini. Difficile, a distanza di tanti secoli, è fare il bilancio dell’eresia iconoclasta. – Alcuni dati però sono acquisiti dalla scienza storica e si possono senz’altro accettare: se approfondì la divisione tra Oriente e Occidente, diede pure magnifici risultati positivi, come il numero stragrande dei martiri e l’appassionata dottrina di San Germano, San Giovanni Damasceno, San Tarasio, San Niceforo e San Teodoro Studita: cinque stelle di prima grandezza nel firmamento della Chiesa Orientale.

COSIMO PETINO

LE PIAGHE DELLA COMUNITA’ CRISTIANA: LE ERESIE (1)

 

LE PIAGHE DELLA COMUNITÀ’ CRISTIANA

Capitolo I

Le ERESIE,

ferite alla unità della fede (I)

[“Somma del Cristianesimo”, a cura di R. Spiazzi, vol. II Ed. Paoline, Roma, 1958 -impr.-]

Dell’eresia si occupano i teologi, i moralisti, i canonisti, gli storici. Questa convergenza di studi, sotto aspetti diversi, indica quale « fenomeno » complesso essa sia. Se si riducesse ad una delle tante categorie mentali più o meno discutibili, non attrarrebbe così l’attenzione degli studiosi: il regno delle idee si popola ogni giorno di nuove stranezze! L’eresia, invece, suscita grandi questioni perché sconvolge il tessuto dottrinale della Chiesa, genera il peccato di infedeltà, rompe la compagine del Corpo Mistico e influisce sugli avvenimenti storici. – In questo raggio così largo si inseriscono gli studi del teologo che esamina l’eresia come dottrina opposta all’insegnamento ufficiale; del moralista che vede in essa il tradimento della virtù teologale della fede; del canonista che determina l’uso del potere coercitivo della Chiesa riguardo ad essa; finalmente, dello storico che fissa le linee del processo storico dell’eresia, dalla sua genesi fino al suo tramonto. – Tutti e quattro gli aspetti meriterebbero trattazione specifica; qui, però, diamo sviluppo soltanto al primo aspetto come introduzione indispensabile per capire le eresie dal I al IX secolo.

Art. 1. – NATURA DELL’ERESIA.

Psicologia dell’eretico. – Il corpo dottrinale della Chiesa, essendo « rivelato », non può subire quei processi di alterazione e di adattamento ai quali sono sottoposte le dottrine umane: queste hanno per autori gli uomini, quelle, invece, Dio che è Verità infallibile. – Ma il velo di mistero che circonda le verità rivelate, se fa piegare il ginocchio all’uomo umile, rende audace il superbo che non si arresta alla intelligibilità analogica, volendo penetrare nella comprensione di esse, riservata al solo Autore Infinito. Questa compiacente tentazione affatica l’uomo da secoli; ma la vacuità dello sforzo e la irrilevanza dei risultati lo fanno ripiegare verso forme razionalistiche, mutilatrici della verità rivelata. – L’eresia è, appunto, grosso modo «una mutilazione ». Tra l’insegnamento della Chiesa che deve « custodire il deposito » e i propri pensamenti, si opta per questi ultimi; è una scelta (tale è il significato etimologico della parola αίρεσις [airesis]), una preferenza concessa all’idea personale in opposizione al Magistero. – La Chiesa discente, così, rifiuta quella docente; al credo ufficiale sostituisce un altro credo, alla πίστις [pistis] della Rivelazione una πίστις [pistis] soggettiva, intesa o come illuminazione interiore o come sforzo dialettico.

Le prime manifestazioni di eresie. – Assai istruttivo è seguire le varie fasi per le quali passa la parola αἵρεσις [aìresis] prima di assumere il significato tecnico definitivo.I Giudei chiamarono « eretici » i primi Cristiani (Atti XXIV,14) e questi ricambiarono l’accusa chiamando « eretici » i Sadducei (ib. V,17); e i Farisei (ib. XV,5 e XXVI,5); per gli uni e per gli altri, quindi, eresia era sinonimo di dottrina falsa in contrapposizione alla propria ritenuta vera. L’idea, tra i Cristiani, andò sempre più precisandosi; ogni dissenso dottrinale era qualificato come eresia; ogni tentativo di uscire dagli schemi comuni era un mettersi ai margini della ortodossia, un incipiente slittare verso l’eresia, cioè verso la falsa dottrina che non portava il carisma della infallibilità perché non era stata ispirata da Dio e che non veniva insegnata dagli Apostoli. San  Pietro (2 Piet. II,1) e San Paolo (Tit. III,10) esortavano, con calore di convinzione profonda, i fedeli ad evitare gli eretici perché maestri di menzogna. La vigile esortazione degli Apostoli passò ai Padri Apostolici. Quando Ignazio di Antiochia per es. rivolge un caldo elogio agli Efesini (VI,2) perché tra essi non c’è « eresia », sembra di sentire l’eco dell’avvertimento paolino. Sant’Ireneo, fine del II secolo, insiste contro gli gnostici sulla « regola fissa della fede » (Adv. Hær. I, ix,4) e attribuisce alla sola Chiesa il « carisma della verità » (ib. III. Xxvi l; iv, xxvi,2) colpendo in pieno le eresie del tempo e preparando strumenti che fisseranno la dottrina intorno all’eresia. Ecco, dopo Sant’Ireneo una voce dell’Africa, quella dell’irruente apologista Tertulliano che scrive un intero trattato « De præscriptione hæreticorum », nel quale riprende il motivo di Ireneo della « regula fidei » e lo arricchisce di acute riflessioni giuridiche.L’eresia ormai, di qualunque novità si ammanti, non può più sfuggire all’occhio vigile dei pensatori cristiani e soprattutto all’autorità della Chiesa: essa è sinonimo di errore perché non si allinea con l’insegnamento tradizionale ma da esso sostanzialmente differisce. San Girolamo, trattando di eresia e scisma, dirà con tacitiana concisione: « Inter hæresim et schisma hoc arbitror interesse, quod hæresis perversum dogma habeat, schisma autem quod ab Ecclesia separet  » (In Ep. ad Titum ML. 26,598): Ritengo esservi tra eresia e scisma questa differenza, che l’eresia comporta una dottrina perversa, lo scisma invece la separazione dalla Chiesa » (1- In pratica, oggi, non si può dissociare più lo scisma dall’eresia in quanto chi ricusa obbedienza al Sommo Pontefice nega implicitamente la dottrina del Primato)

Precisazione tecnica dell’eresia. – Volendo ridurre ad unità tutti gli elementi e comporli in definizione, si può dire che l’eresia è una dottrina che si oppone direttamente ad una verità rivelata da Dio e come tale proposta dalla Chiesa. [La forza sintetica di questa definizione diverrà nota dopo aver fatto l’analisi dei termini].

A) Si chiama verità rivelata una proposizione che è contenuta nelle fonti della Rivelazione. La teologia positiva, servendosi di tutti i sussidi storici, filologici ed esegetici, indaga sulla Scrittura e nella Tradizione per scoprire la voce di Dio ivi contenuta che il magistero della Chiesa poi esprimerà in dommi. È, in fondo, un lavoro di controllo, un’opera di verifica per stabilire la perfetta omogeneità tra quanto ha insegnato Dio e quanto insegna la Chiesa. L’assenso del credente è giustificato solo dalla identità dei due insegnamenti. Se il secondo, difatti, introducesse nella Rivelazione elementi ad essa estranei oppure le sottraesse elementi ad essa intrinseci, verrebbe meno l’allineamento dottrinale tra le voci dell’eternità e le voci del tempo; l’uomo non sarebbe più impegnato a credere « in nome di Dio », « per l’autorità di Dio rivelante, SomMa Sapienza e Infinita Sincerità », di cui la Chiesa è soltanto altoparlante nei secoli. – L’allineamento dottrinale, però, può andare da un « maximum » ad un « minimum ». Il « maximum » si ha quando il magistero della Chiesa riproduce una verità che è espressa « formalmente » dalla Rivelazione, vale a dire nella sua integrità, non importa se mediante forma esplicita o implicita. Il « minimum », invece, si ha nel cosiddetto « rivelato virtuale », quando cioè si richiede non una semplice esplicitazione, ma una vera e propria illazione sillogistica per trarre dalla Rivelazione la verità. Il principio razionale, in questo caso, ha una funzione non indifferente: esso integra il principio rivelato; la dialettica umana si aggiunge all’elemento oscuro giacente nella Rivelazione e ne ricava la tanto discussa « conclusione teologica ». – Il discorso qui si allungherebbe, se volessimo addentrarci nelle polemiche che i teologi fanno intorno a questa « conclusione teologica » che è, oggettivamente, la più ardita e sconcertante sintesi di due categorie: quella divina e quella umana. Basta però osservare, ai fini pratici dell’argomento che qui si svolge, che l’eresia riguarda « soltanto » le verità rivelate formalmente, non le altre, qualunque sia il nesso che le leghi alla rivelazione stessa, anche se la Chiesa le ha consacrate con il sigillo della infallibilità.

B) Non basta, però, che la verità sia contenuta nelle fonti della Rivelazione; occorre che il Magistero della Chiesa la proponga come tale. Il libero esame nel Cattolicesimo non ha senso e quindi non ha luogo. Che esso affascini gli spiriti leggeri, è comprensibile; l’uomo ama la propria autorità, non quella degli altri, che è il modo più diabolicamente subdolo per giustificare tutto e piegare la verità “alle suggestioni dell’orgoglio e delle passioni”. Si ha un bel dire e un bel invocare il « testimonium Spiritus Sancti »; tre secoli di protestantesimo indicano a quali lacerazioni del patrimonio rivelato si è giunti e quali compromessi — quotidianamente — si fanno, quando manca una norma estrinseca regolatrice. Il diluire la verità divina nelle varie concezioni soggettive è la maggiore offesa al richiamo appassionato che Paolo rivolgeva a Timoteo nella prima lettera direttagli (VI,20): «Custodisci il deposito». La Chiesa rivendica a sé il complesso della fede da custodire ed interpretare infallibilmente sotto l’assistenza, non saltuaria ma permanente, dello Spirito Santo: essa è la « magistra fidei ». – Esercita questo suo magistero ora in forma solenne (si pensi alle grandi definizioni conciliari o alle definizioni ex cathedra del Papa solo) o in forma ordinaria (le Encicliche, i documenti delle Congregazioni romane e dell’episcopato). L’importante è che il magistero dica autoritativamente, seguendo la prima o la seconda forma, che la verità deriva direttamente da Dio mediante il gran libro della Rivelazione. Il pronunziarsi sull’origine e sul carattere « divino » di quella determinata proposizione esclude ogni accostamento alle riflessioni e inchieste umane, ai frutti di qualsiasi ingegno che non potrà mai aspirare ad avere il suggello della divinità e quindi dell’immutabilità ed infallibilità. – Fissato così, dalla Chiesa, il criterio di valutazione della verità, il Cristiano vi aderisce con fede divina e cattolica: formula pregna di significato, in quanto appella a due autorità: invisibile la prima, visibile la seconda, che sorreggono l’uomo con la massima evidenza estrinseca, atta a garantirgli la « razionalità » del suo atto di fede.

C.) L’opposizione alla verità rivelata costituisce eresia. Opposizione indica atteggiamento di contrasto. Nel campo ideologico, non può significare, quindi, che accettazione e difesa di dottrina diversa. Ritorna il significato etimologico di «scelta», di «opzione» per una dottrina ritenuta soggettivamente « più vera », anche se non corrispondente a quella ufficiale. Il dissidio psicologico è tutto qui: superamento della posizione « di autorità » e irrigidimento alla posizione « personale ». – Questo irrigidimento mentale può esprimersi in proposizioni che i teologi esaminano con estrema accuratezza e sensibilità logica (dicono difatti che l’opposizione dev’essere immediata, diretta, contradittoria o contraria), ma il nocciolo della questione sta in questo: la preferenza cosciente (« pertinace » in linguaggio tecnico) ad una proposizione positivamente esclusa come falsa dall’intervento divino che attesta come vera quella contraria. Se, per es., Dio stesso con il peso della sua autorità infallibile attesta che Gesù è morto per tutti gli uomini, il ritenere che Gesù non sia morto per tutti è proposizione «eretica», cioè falsa, in quanto contradittoria a quella garantita da Dio. – Sono stati indicati, così, gli elementi costitutivi dell’eresia. Ma poiché l’iter per giungere ad essa è assai lungo e l’uomo le muove incontro per via di successive approssimazioni — si direbbe meglio: di successivi azzardi e rischi mentali, — ecco la vasta gamma delle cosiddette «censure teologiche » che qualificano le fasi tormentate per le quali egli passa prima di giungere alla rottura definitiva con il pensiero rivelato. Esse — le censure — non sono capestri che strozzano il libero evolversi dello spirito verso la verità, ma normale diritto di difesa che la Chiesa esercita per i suoi valori dottrinali, espressione elementare di qualsiasi insegnamento che non può attribuire egual valore alle tesi più contrastanti, senza cadere in quello sciocco soggettivismo che è sempre il battistrada di posizioni agnostiche e scettiche.

La funzione «provvidenziale» dell’eresia.

– Tutto è grazia! — esclama il Curato di Bernanos. Tutto è provvidenza! — diremo noi a proposito delle eresie. Esse hanno avuto una funzione assai utile nella storia del pensiero e della investigazioni teologica. Basta sfogliare un qualsiasi manuale di Storia dei Dommi per capire fino a qual punto l’errore abbia indirettamente contribuito alla genesi e allo sviluppo della verità. L’affermazione può sembrare paradossale, ma non è sempre Dio che scrive dritto sulle righe storte degli uomini? Ora, è un fatto che le eresie sono state spesso le occasioni prossime che hanno indotto la Chiesa alle definizioni dommatiche. Senza l’errore non avremmo avuto l’esercizio straordinario del più alto magistero della terra che ha chiarito in maniera inequivocabile ai fedeli il suo e loro credo. Senza l’errore non avremmo avuto quegli approfondimenti dottrinali che costituiscono uno dei patrimoni più cospicui del pensiero umano. I Dottori della Chiesa e, in secondo ordine, i teologi, spinti da necessità apologetica contro le eresie, hanno riesaminato «positivamente» le fonti della Rivelazione: quanti tesori nascosti sono venuti alla luce! Nuove intuizioni, nuovi accostamenti, nuove armonie hanno attratto le intelligenze dello studioso. Con uno sforzo paziente egli si è dato a scomporre analiticamente i termini, li ha confrontati con i supremi principi logici, non li ha trovati in opposizione, anzi ad essi allineati, ha scoperto finanche delle analogie, cioè delle somiglianze nell’ordine naturale, e così il panorama delle verità rivelate gli si è improvvisamente allargato, dandogli il brivido dell’infinito. Sempre sotto la pressione dell’eresia negatrice in nome della «razionalità», il teologo ha teso l’orecchio all’eco di voci lontane, a tutte le dottrine filosofiche pre-cristiane, vi ha scoperto mirabili anticipazioni — bagliori improvvisi nella notte oscura del pensiero — che l’hanno aiutato a convalidare il contenuto misterioso della propria fede. Nessuno, forse, quanto il teologo ha esplorato il mondo delle idee degli altri per trarre materiale alla propria costruzione non con un vago eclettismo, ma con discernimento sagace. Egli valorizza tutte le categorie mentali senza ingiustificati apriorismi, in quanto gli consentono di approfondire la intelligibilità della Rivelazione, traendo proprio dall’eresia impulso di ricerca e fecondità di sintesi. – E non soltanto su questo piano ideologico l’errore ha avuto la sua funzione, ma sul piano pratico che è, in fondo, strettamente collegato al primo. Ogni eresia, se è stata una forza dissolvente dell’unità della Chiesa, ha avuto quasi sempre la contropartita di cementare maggiormente i fedeli con Roma, non solo per un istinto di difesa, ma proprio per un ripensamento dottrinale, per amore ad una verità meglio assimilata e resa quasi più cosciente. La storia registra anche azioni esterne intense di drammaticità — talora rosseggianti di sangue — per difendere l’unità compromessa; l’eresia è stata scoraggiata nel suo nascere o nel suo diffondersi da forze espresse improvvisamente dal seno stesso della Chiesa in pieno assetto di guerra. Fin dove avrebbero esteso le tende gli Albigesi se i Domenicani non avessero loro ostacolato la marcia? E quanti territori sarebbero rimasti immuni dall’eresia protestante se i Gesuiti non avessero praticata una efficace profilassi mentale? Due esempi appena; forse i due più appariscenti, ma non certamente i soli, perché sono moltissimi i casi nei quali l’errore è stato l’occasione cui lo Spirito Santo ha legato — per leggi di altissima sapienza inafferrabili alla miopia umana — il sorgere di Ordini religiosi che hanno rimarginato con il sacrificio e l’apostolato della scuola o della predicazione le ferite aperte nel Corpo della Cristianità dal serpe dell’eresia. (p. Ilarino da MILANO)

[1. Continua …]

LO SCUDO DELLA FEDE (XIX)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XIX. LA CREAZIONE.

Iddio nel creare il mondo non si è servito di materia preesistente. Non l’ha tratto dalla sua sostanza. — L’ha cavato dal nulla. — Perché e quando Iddio l’ha creato. — I sei giorni della creazione. — Se Dio crei nuovi mondi e se i corpi celesti siano abitati.

— Questo mondo, che esiste, ha desso avuto un principio, oppure dura da tutta l’eternità?

Se il mondo esistesse fin dall’eternità come dicono certi cervelli balzani, non avrebbe un principio di esistenza, e conseguentemente esisterebbe da se stesso e per propria essenza. – Il mondo dunque sarebbe il Dio da adorarsi nel mondo. E si può dire una bestialità maggiore?

— Si deve dunque ritenere sul serio, che sia Iddio, che abbia creato tutto ciò che esiste?

E ti par questa una domanda da fare? Il mondo creato da Dio è una verità di fede, di cui non si può menomamente dubitare. Recitando il Credo devi dire: Credo in Dio Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra ». Il libro del Genesi, che è il primo della Sacra Scrittura, e fu scritto da Mosè, incomincia con queste parole: « Nel principio Dio creò il cielo e la terra ». S. Paolo nella sua lettera ai Colossesi, al capo I, versetto 16, dice che « per Lui sono state fatte tutte le cose nei cieli e in terra, le visibili e le invisibili ». Come vedi adunque, si tratta qui di una verità divinamente rivelata.

— Ma come ha fatto Iddio a creare? Si è forse servito di una materia preesistente?

* Se si fosse servito di una materia preesistente, da quanto tempo tale materia sarebbe esistita? Non avendola mai creata sarebbe esistita da tutta l’eternità. Sarebbe stata adunque infinita nella durata e per conseguenza nella grandezza, nell’intelligenza, nella vita, in ogni perfezione. Così vi sarebbero due infiniti, ciò che è assurdo. – No, Dio nel creare non si è servito di nessuna materia preesistente, ma il tutto ha cavato dal nulla. Perciocché creare, notalo bene, non è disporre, ordinare, trasformare, perfezionare o simili, ma è fare sì che esista una cosa che prima non era. Un artista per fare una statua si serve del marmo che già esiste, epperò non si può dire creatore della sua statua nel vero senso della parola. Iddio invece è Creatore dell’universo, perché non essendovi nulla all’infuori di sé, ha fatto che tutto l’universo esistesse.

— E perché dunque dinanzi ad una bella statua, mettiamo il Mosè di Michelangelo, siamo soliti di dire che è una sua stupenda creazione?

Noi siamo soliti di dire così, per modo di dire, ed anche perché la cosa in parte e sotto un aspetto è vera. Di fatti l’artista, che vuol fare una statua, crea nella sua intelligenza la figura, la forma, l’atteggiamento, che vuol dare alla statua; figura, forma, atteggiamento, che poi nell’esecuzione imprime realmente al marmo, che scalpella. Sotto questo aspetto l’artista si può dire autore e creatore della sua statua e la sua statua una creazione sua, cioè una creazione nella figura, nella forma, nell’atteggiamento che ha, ma solo in questo senso. – Al contrario Iddio è Creatore non solo delle forme, delle figure, dello stato di tutti gli esseri che esistono fuori di Lui, ma è l’Autore altresì di tutta la sostanza, di tutta la materia, di tutti gli elementi, di cui gli esseri si compongono.

— E questa sostanza, di cui Iddio ha creato il mondo, l’avrebbe forse tratta dalla sostanza sua?

Il credere ciò sarebbe un gravissimo errore. Perché la sostanza di Dio è indivisibile.

Essendo egli, come già ti spiegai parlando della natura di Dio, un essere semplicissimo, la sua sostanza non ha parti, altrimenti sarebbe soggetta a perire. Là dov’essa è, è necessariamente tutta intera, perfetta, infinita. Se dunque Dio avesse tratto il mondo dalla sua sostanza, questa sostanza divina sarebbe tutta intera, perfetta, infinita nel mondo, e per conseguenza il mondo stesso sarebbe infinito. Ora è così? Hai bisogno forse di dimostrazioni per conoscere che il mondo, composto di parti, che può esistere e non esistere, è finito e non già infinito? – Dunque il mondo non è stato tratto dalla sostanza divina, ma è stato cavato dal nulla.

— Ma io non posso capire questo cavare le cose dal nulla. Dal nulla non si fa nulla.

* Che tu non possa capire la creazione delle cose dal nulla non devi meravigliarti punto: non sei il solo. Si tratta qui di un mistero, e il mistero è mistero per tutti. Ma non perciò si tratta di cosa impossibile. Tu dici: « Dal nulla non si fa nulla ». Se con ciò intendi di dire che non si dà effetto senza causa, dici cosa giustissima, epperò vedendo il mondo ad esistere e comprendendo che non ha potuto dare a se stesso l’esistenza, devi precisamente inferire che è Dio la causa prima, che lo ha fatto esistere. Se poi dicendo : « Dal nulla si fa nulla », intendi dire che il nulla non è alcunché, da cui quasi da materia preesistente si possa cavare qualche cosa, dici certamente una verità, la quale però non si oppone affatto a che Iddio, senza che nulla esistesse, abbia creato il mondo. Se da ultimo tu vuoi parlare come i materialisti, e dire « essere impossibile fare qualche cosa senza materia, da cui si possa trarre », tu dirai cosa giustissima riferendola all’uomo, agli Angeli, a qualunque causa creata. Oh! non professiamo noi come verità incontrastabile che nessuno mai, all’infuori di Dio, sarebbe capace di creare, cioè di cavare dal niente, un solo filo d’erba? Ma se tu invece vuoi riferirla a Dio, e vuoi dire che è impossibile anche per Lui fare alcuna cosa senza materia, da cui trarla, allora dici una falsità enorme, e neghi a Dio l’onnipotenza e l’opera della creazione.

— Dunque Iddio ha creato Egli veramente tutto?

Sì, ogni cosa fu fatta da Lui.

— Ed è solamente il Padre che ha creato?

No; il Padre col Figlio e con lo Spirito Santo, con un solo, comune e medesimo atto.

— Perché dunque nel credo si dice soltanto: Credo in Dio Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra?

Si dice così perché dalla Scrittura si suole attribuire in particolare la creazione al Padre, la redenzione al Figlio, e la santificazione allo Spirito Santo, benché tutte e tre le Divine Persone abbiano cooperato insieme e alla creazione, e alla redenzione e alla santificazione. – Quindi è che si può dire benissimo: Dio, oppure la SS. Trinità ci ha creati, ci ha redenti, ci ha santificati, oppure; Il Padre ha creato il mondo, il Figliuolo lo ha redento, lo Spirito Santo lo ha santificato.

— E non poteva Iddio fare a meno di creare il mondo?

Altro che. E quale forza poteva mai spingerlo e determinarlo a creare? Non una forza esterna, perché fuori di Lui non c’era nulla; non una forza interna, perché Egli era perfettissimo da se stesso e di nulla poteva abbisognare.

— E perché dunque ha creato?

Perché nella sua infinita bontà gli è piaciuto che vi fossero altri esseri partecipi delle sue perfezioni, i quali a guisa di capolavori manifestassero ed esaltassero la sua grandezza, la sua potenza, la sua sapienza, la sua bontà, e così Egli rimanesse glorificato. E poi perché le stesse creature godessero dei beni creati, e noi uomini fossimo felici, giovandoci della creazione della nostra vita quaggiù e specialmente come mezzo per acquistarci l’eterna felicità.

— E quando è che Iddio prese a creare?

La nostra cronologia incomincia da circa sei mila anni, il che indica che l’uomo fu creato sei mila anni fa. Ma per il resto non possiamo dir nulla di preciso, perché la Sacra Scrittura non lo dice.

— E dei sei giorni della creazione che devesi pensare.

Puoi pensare a piacimento che siano veramente sei giorni di ventiquattro ore, e puoi credere che siano sei epoche indeterminate, come credono valenti interpreti e teologi, e puoi credere anche che siano sei giorni tipici, metaforici. La Chiesa su ciò lascia ampia libertà, e gli uomini della scienza possono, nella misura del tempo s’intende, riportare indietro l’esistenza del mondo quanto vogliono.

— Ma se io ritengo che i sei giorni della creazione siano sei giorni di ventiquattro ore, come posso conciliare i nuovi ritrovati della geologia, dell’etnografia, della archeologia, della paleontologia, e di altre simili scienze?

Ritieni caro mio, che i ritrovati delle scienze moderne, più che realtà e dimostrazioni evidenti, sono in gran parte semplici ipotesi e congetture. E poi considera che essendo Iddio onnipotente, cioè potendo creare in un attimo tutto ciò che vuole, sarebbe empio e ridicolo mettere in dubbio che Dio abbia potuto creare il mondo in sei giorni ordinari, e crearlo quale apparisce, producendo con la sua infinita virtù quei fenomeni e quegli effetti, che secondo le leggi di natura chiederebbero milioni e milioni di anni.

— Ma Mosè dice che Dio creò prima la luce e poi il sole. Come ci poteva essere la luce senza il sole?

* Ci poteva essere benissimo. Se noi possiamo generare la luce con l’elettricità e con la combustione, forse che Iddio avesse difficoltà a generare la luce senza sole?

— Mosè dice anche che il sole e la luna sono i luminari maggiori; eppure sappiamo benissimo che vi sono degli astri immensamente più grandi.

Mosè ha parlato come parliamo presentemente anche noi nel linguaggio popolare, che stando all’apparenza diciamo il sole e la luna più grandi delle stelle, e non intese parlare come parla un astronomo.

— A proposito di sole mi viene in mente che nella Storia Sacra si dice che « Giosuè fermò il sole ». E ciò non è contrario alla scienza, che ci mostra la terra girare attorno al sole?

E con tutta questa scienza non diciamo anche noi che il sole si leva, che il sole cade, che il sole è già alto, che il sole non c’è? Su queste espressioni popolari, com’è pure quella relativa a Giosuè, non bisogna sofisticare, ma prenderle per quel che valgono.

— È vero. Tornando ai sei giorni della creazione, ed anche ritenendoli per sei lunghe epoche, non si oppongono forse le scienze moderne a quanto racconta Mosè nel libro della Genesi intorno alla creazione stessa?

Mente affatto, anzi vi si accordano perfettamente. Senza dubbio Mosè non ha scritto la creazione del mondo in formule teologiche esattamente didattiche, e nemmeno ne ha fatto la esposizione scientifica, come potrebbe fare un geologo. Egli in certa guisa ha visto passare innanzi a’ suoi occhi successivamente sei quadri, come Iddio glieli mostrava, ed ha riferito la scena di ogni quadro in complesso, senza discendere come avrebbe potuto, ad infiniti particolari. Con tutto ciò i ritrovati della scienza si accordano onninamente con lui.

— Mi ha detto che quei sei giorni potrei riguardarli altresì come sei giorni tipici, metaforici. Questo non lo capisco.

Te lo spiegherò volentieri. Mosè avendo da fare con un popolo di dura cervice, e desiderando egli di indurlo facilmente a santificare il sabato, ossia il giorno festivo a quel popolo prescritto da Dio, dopo di aver detto che « Iddio a principio creò il cielo e la terra », enumera poi matematicamente sei giorni, in cui Iddio a guisa di operaio fece comparire al mondo i suoi diversi esseri, e finisce col dire che nel giorno settimo si riposò da ogni opera compiuta. Ora potrebbe essere benissimo che questi sette giorni così indicati da Mosè non siano che una figura tipica, di cui egli siasi servito per stabilire un’analogia tra l’azione e il riposo eli Dio da una parte, e il lavoro e il riposo degli uomini dall’altra; quasi per dire agli ebrei: Vedete? Iddio dopo aver lavorato da divino artefice per sei giorni, nel settimo si riposò. Dunque fate lo stesso anche voi: seguite il divino modello.

— In questo caso il racconto di Mosè sarebbe un’ingegnosa bugia?

No, e in questo caso Iddio, come dice un passo della Sacra Scrittura nell’Ecclesiastico, al capo XVIII, versetto primo, avrebbe creato tutto insieme, e i sei giorni, indicanti l’una dopo l’altra le diverse opere da Dio create, sarebbero giorni metaforici esprimenti in realtà l’ordine della mutua relazione, dipendenza, successione e distribuzione nel tempo e nello spazio di quelle opere, come vennero preordinate nella mente di Dio. Così Iddio da principio avrebbe con un atto solo della sua volontà creato l’universo, l’insieme di tutte quante le creature, con tutti i loro principii, con tutte le loro categorie, con tutte le relazioni, e con tutti i legami attivi e passivi di causa e di effetto, e poscia queste creature di per sé, senza nuovi atti della divina volontà, ma sempre in forza del primo atto, si sarebbero svolte e individuate, presentate e sussistite le une dopo le altre, nello spazio e nel tempo naturalmente.

— Mi sembra di aver capito: ma questa spiegazione intorno alla creazione non l’ho mai intesa.

Eppure è una spiegazione bellissima e data da molti ingegni moderni, e specialmente dallo Stoppani, il quale in queste materie è superiore ad ogni eccezione; e se tu lo desiderassi, potresti approfondirti meglio in questa idea col leggere il suo magnifico libro Sulla Cosmogonia Mosaica.

— È vero quel che dicono taluni che Dio continua tuttora a creare dei nuovi mondi, o

secondo l’ultima spiegazione datami ne faccia comparire dei nuovi a manifestarsi?

Può esserlo benissimo. Come ogni giorno e quasi ad ogni istante crea nuove anime, perché non potrebbe anche creare dei nuovi mondi?

— E si può ritenere come vero, che i corpi celesti disseminati nello spazio siano abitati da esseri viventi, ragionevoli, ancorché per natura diversissimi da noi?

Altro che. Ciò non è accertato, ma si può ben crederlo. « Armato di nuovo strumento ottico, ossia dello spettroscopio, il genio scientifico, dice Bougaud, ha preso ardimento. Ciascun astro è stato studiato e quasi anatomizzato. Gli si è fatto render ragione di ciò che conteneva nel suo seno ; e lo si è talmente avvicinato allo sguardo che si è potuto delinearne la mappa. Si è veduto perfettamente il levarsi e il declinare del giorno sopra certi globi; cadere le nevi in autunno e sciogliersi alla primavera sopra certi altri; altrove si sono distinti i mari, i laghi, i continenti; si è constatata l’atmosfera che li circonda; si sono vedute delle nubi, delle piogge, e si è quasi potuto dire qual tempo faceva in certi giorni sul tal pianeta. Finalmente si sono riunite delle prove così forti, così positive per dimostrare che la vita esiste in altri luoghi oltreché sul nostro globo, che ben presto sarà tanto impossibile rivocarlo in dubbio, come lo fu in tempo di Galileo, negare la rotazione della terra ». Oh! sì, la fecondità di Dio creatore è infinita, e la sua onnipotenza e sapienza si può manifestare in mille modi diversi, come meravigliosamente si manifesta anche solo in quel mondo che noi conosciamo. Sicché aveva ben ragione un poeta di cantare:

“Il mondo è un libro senza fin, né mezzo;

Per vivere ciascun ne legge un pezzo.

Sì profondo ne è l’accento,

Che scrutarlo invano io tento:

Vede il mondo Inocchio mio,

L’alma mia vi scerne Iddio.”

(Victor Hugo, Canti del crepuscolo, xx)

CATECHISMO DI BALTIMORA 3 (XII) – Lez. 35-37

CATECHISMO DI BALTIMORA 3 (XII) – Lez. 35-37

[Dal terzo Concilio generale di Baltimora

Versione 1891]

LEZIONE 35 –

PRIMO E SECONDO PRECETTO DELLA CHIESA

D. 1325. Sono i Precetti della Chiesa pure Comandamenti di Dio?

R. I Precetti della Chiesa sono anch’essi dei Comandamenti di Dio, perché sono stabiliti con la sua autorità, e siamo quindi tenuti, sotto pena di peccato, ad osservarli.

D. 1326. Qual è la differenza tra i Comandamenti di Dio ed i Precetti della Chiesa?

R. I Comandamenti di Dio sono stati dati da Dio a Mosè sul Monte Sinai; i Precetti della Chiesa sono stati dati in diverse occasioni dalla legittima Autorità della Chiesa. I Comandamenti dati da Dio stesso non possono essere modificati dalla Chiesa; ma i Precetti della Chiesa possono essere cambiati dalla sua autorità come la necessità lo richieda.

D. 1327. Quali sono i Precetti capitali della Chiesa?

R. I Precetti capitali della Chiesa sono sei:

– Ascoltare la Messa la Domenica e nei giorni festivi di precetto.

– Digiunare ed astenersi nei giorni comandati.

– Confessarsi almeno una volta all’anno.

– Ricevere la Santa Eucaristia durante il periodo di Pasqua.

– Contribuire al sostegno dei nostri pastori.

– Non sposare persone non Cattoliche, nè che siano nostri consanguinei fino al terzo grado di parentela, né privatamente senza testimoni, né solennizzando il matrimonio nei tempi proibiti.

D. 1328. Perché la Chiesa ha istituito i Precetti?

R. La Chiesa ha istituito i Precetti per insegnare ai fedeli come adorare Dio e per proteggerli dalla negligenza nei loro doveri religiosi.

D. 1329. È peccato mortale non ascoltare la Messa di Domenica o in una festa di precetto?

R. Sì, è peccato mortale non ascoltare la Messa di Domenica o in una festa di precetto, a meno che non siamo scusati di un serio motivo. Commettono anche peccato mortale coloro che, avendo altri sotto la loro autorità, impediscono loro l’ascolto della Messa, senza una valida ragione.

D. 1330. Che cosa è un “grave motivo” che possa scusare dall’obbligo di sentire la Messa?

R. Una “grave ragione” che scusi dall’obbligo di ascoltar la Messa è qualsiasi motivo che renda impossibile o molto difficile partecipare alla Messa, come la malattia severa, la grande distanza dalla Chiesa, o la necessità di certe opere che non possono essere trascurate o rinviate.

D. 1331. I bambini sono obbligati, sotto pena di peccato mortale, come gli adulti, ad ascoltare la Messa la Domenica e nei giorni festivi di precetto?

R. Sì, i bambini che abbiano raggiunto l’uso della ragione, come gli adulti, sono tenuti sotto pena di peccato mortale, ad ascoltare la Messa la Domenica e nei giorni festivi di precetto; ma se essi ne sono impediti dai genitori o da altri, il peccato ricade su coloro che lo impediscono.

D. 1332. Perché sono stati istituiti dalla Chiesa i giorni festivi?

R. I giorni festivi sono stati istituiti dalla Chiesa per richiamare alla nostra mente i grandi misteri della Religione, nonché la virtù e l’anniversario dei Santi.

D. 1333. Quanti giorni festivi di obbligo ci sono in questo Paese?

R. In questo Paese ci sono sei giorni festivi di precetto, vale a dire:

– Festa dell’Immacolata Concezione (8 dicembre);

– Natale (25 dicembre);

  1. – Festa della circoncisione di nostro Signore (1 ° gennaio);

– Festa dell’Ascensione di nostro Signore (quaranta giorni dopo Pasqua);

– Festa dell’Assunzione della Beata Vergine (15 agosto); e

– Festa di tutti i Santi (1 novembre).

D. 1334. Come dovremmo trascorrere le feste di precetto?

R. Dovremmo trascorrere le feste di precetto come la Domenica.

D. 1335. Perché certi giorni festivi sono chiamati giorni festivi di precetto?

R. Alcuni giorni festivi sono chiamati giorni festivi di precetto, perché in questi giorni siamo obbligati, sotto pena di peccato mortale, ad ascoltare la Messa e non compiere opere servili, come facciamo la Domenica.

D. 1336. Che cosa deve fare chi è obbligato a lavorare in una Festa di precetto?

R. Chi è obbligato a lavorare in una Festa di precetto, dovrebbe, se possibile, ascoltare la Messa prima di andare a lavorare, e dovrebbe anche rendere conto di questa necessità nella confessione, in modo da ottenere un parere sull’argomento dal Confessore.

D. 1337. Cosa si intende per “giorni di digiuno”?

R. I giorni di digiuno sono giorni in cui ci è permesso un solo pasto completo.

D. 1338. È permesso nel giorni di digiuno prendere cibo oltre un pasto completo?

R. Nei giorni di digiuno, oltre a un pasto completo, è consentito prendere due altri pasti, senza carni, per mantenersi in forza, in base alle esigenze di ciascuno. Ma questi due piatti senza carne, sommati, non devono uguagliare un altro pasto completo.

D. 1339. Chi sono tenuti a digiunare?

R. Tutte le persone oltre i 21 anno, e sotto 59 anni di età, la cui salute e occupazione consentiranno loro di digiunare.

D. 1340. La Chiesa scusi alcune classi di persone dall’obbligo del digiuno?

R. La Chiesa scusa alcune categorie di persone dall’obbligo di digiunare, a causa della loro età, delle condizioni di salute, della natura del loro lavoro, o delle circostanze in cui vivono. Queste cose sono spiegate nel regolamento per la Quaresima, che sono lette pubblicamente nelle chiese ogni anno.

D. 1341. Cosa deve fare chi dubita del proprio obbligo al digiuno?

R. Nel caso di dubbio, in materia di digiuno, deve essere consultato il parroco o il confessore.

D. 1342. Quando cadono durante l’anno principalmente i giorni di digiuno?

R. I giorni di digiuno cadono principalmente durante l’anno durante la Quaresima e l’Avvento, le Tempora, le veglie o le vigilie di alcune grandi feste. In una veglia che cade di Domenica, il digiuno non viene però osservato.

D. 1343. Che cosa si intende per Quaresima, Avvento, tempora e le vigilie delle grandi feste?

R. La Quaresima è il periodo di sette settimane di penitenza che precedono la Pasqua. L’avvento si svolge nelle quattro settimane di preparazione precedenti il Natale. Le Tempora sono i tre giorni che contraddistinguono ciascuna delle quattro stagioni dell’anno come giorni speciale di preghiera e di ringraziamento. Le Veglie sono i giorni immediatamente precedenti le grandi Feste istituite come loro preparazione spirituale.

D. 1344. Che cosa si intende per giorni di astinenza?

R. I giorni di astinenza sono giorni nei quali non può essere consumata nessun tipo di carne (astinenza completa), oppure nei quali essa possa essere consumata solo una volta al giorno (astinenza parziale). Questo è spiegato nel regolamento per la Quaresima. Tutti i venerdì dell’anno sono giorni di astinenza, tranne quando una festa di precetto cada il venerdì al di fuori della Quaresima.

D. 1345. I bambini e le persone non in grado di digiunare sono obbligati ad astenersi nei giorni di astinenza?

R. Sì, i bambini, fin dall’età di sette anni e le persone che non riescono a digiunare, sono tenuti ad astenersi nei giorni di astinenza, a meno che non siano dispensati per una ragione seria.

D. 1346. Perché la Chiesa ci ordina di digiunare e di astenerci?

R. La Chiesa ci comanda di digiunare e di astenerci, perché possiamo mortificare le nostre passioni e soddisfare per i nostri peccati.

D. 1347. Cosa si intende per “nostre passioni”, e per “mortificare le nostre passioni?

R. Per “nostre passioni” si intendono i nostri desideri peccaminosi e le nostre inclinazioni. Mortificarle significa vietarle, e nel superarle, esse hanno meno potere di condurci al peccato.

D. 1348. Perché la Chiesa ordinarci di astenerci dalla carne il venerdì?

R. La Chiesa ci comanda di astenerci dalla carne il venerdì in onore del giorno in cui morì il nostro Salvatore.

LEZIONE 36

IL TERZO, QUARTO, QUINTO E SESTO PRECETTO DELLA CHIESA.

D. 1349. Cosa si intende con il Precetto di confessarci almeno una volta all’anno?

R. Con il comando di confessarci, almeno una volta all’anno si intende che siamo obbligati, sotto pena di peccato mortale, a confessarci nel corso dell’anno .

D. 1350. Dovremmo confessarci solo una volta all’anno?

R. Noi dovremmo confessarci frequentemente, se vogliamo condurre una buona vita.

D. 1351. Dovremmo andare a confessarci a tempo debito, anche se pensiamo che non abbiamo commesso alcun peccato dalla nostra ultima confessione?

R. Noi dovremmo andarci a confessarsi a tempo debito anche se pensiamo che non abbiamo commesso peccato dalla nostra ultima Confessione, perché il Sacramento della Penitenza ha per oggetto non solo il perdono dei peccati, ma ci concede anche la grazia di rafforzare l’anima contro la tentazione.

D. 1352. Anche i bambini dovrebbero andare alla confessione?

R. I bambini devono andare alla confessione quando sono abbastanza grandi per commettere peccato, che comunemente è ritenuta l’età di sette anni.

D. 1353. Commette peccato chi trascura di ricevere la Comunione durante il periodo di Pasqua?

R. Colui che trascura di ricevere la Comunione durante il periodo di Pasqua commette un peccato mortale.

D. 1354. Qual è il tempo di Pasqua?

R. Il tempo di Pasqua tempo è, in questo Paese, il tempo tra la prima domenica di Quaresima e la domenica della SS. Trinità.

D. 1355. Quando cade la domenica della SS. Trinità?

R. La Domenica della Santissima Trinità è la domenica successiva alla Pentecoste, cioè otto settimane dopo la Pasqua; in tal modo ci sono ben quattordici settimane in cui si può rispettare il precetto della Chiesa per ricevere la Santa comunione tra la prima domenica di Quaresima e la domenica della SS. Trinità.

D. 1356. Siamo noi obbligati a contribuire al sostegno dei nostri pastori?

R. Sì, siamo obbligati a contribuire al sostegno dei nostri pastori e a versare la nostra quota per le spese della Chiesa e della scuola.

D. 1357. Dove ha avuto origine il dovere di contribuire al sostegno della Chiesa e del clero?

R. Il dovere di contribuire al sostegno della Chiesa e del clero ha avuto origine fin dall’antica legge, quando Dio ordinò a tutti, di contribuire al sostegno del tempio e dei suoi sacerdoti.

D. 1358. Che cosa implica l’obbligo di sostenere la Chiesa e la scuola?

R. L’obbligo di sostenere la Chiesa e la scuola implica il dovere di utilizzare Chiesa e la scuola partecipando al culto religioso in quella e attendendo all’educazione cattolica nell’altra; infatti se la Chiesa e la scuola non fossero necessarie per il nostro benessere spirituale, non ci sarebbe stato comandato di sostenerle.

D. 1359. Il quinto precetto della Chiesa contempla il sostegno solo dei nostri pastori, della Chiesa e della scuola?

R. Il quinto precetto della Chiesa, comprende anche il sostentamento del nostro Santo Padre, il Papa, dei Vescovi, dei sacerdoti, delle missioni, delle istituzioni religiose e della Religione in generale.

D. 1360. Qual è il significato del precetto di non contrarre matrimonio entro il terzo grado di parentela?

R. Il significato del precetto di non contrarre matrimonio entro il terzo grado di parentela è che a nessuno è permesso di sposarsi con persona consanguinea entro il terzo grado di parentela.

D. 1361. Chi sono coloro che rientrano nel terzo grado di parentela?

R. I cugini di secondo grado costituiscono un terzo grado di consanguineità, e persone di cui il rapporto è ancora più prossimo ai cugini di secondo grado, hanno un grado maggiore di affinità. È pertanto vietato a persone così consanguinee contrarre matrimonio senza una dispensa o un permesso speciale della Chiesa.

D. 1362. Ci sono altre relazioni oltre alla consanguineità che rendono il matrimonio illegale senza una dispensa?

R. Sì, ci sono altre relazioni, oltre al rapporto di consanguineità che rendono il matrimonio illegale senza una dispensa, vale a dire, le relazioni contratto in matrimonio, che sono denominati gradi di affinità, e il rapporto contrattato essendo padrini di Battesimo, che si chiama affinità spirituale.

D. 1363. Cosa dovrebbero fare le persone per sposarsi, se sospettano di essere consanguinei?

R. Le persone, nel contrarre matrimonio, se sospettano di avere affinità reciproche, dovrebbero far conoscere i fatti al Sacerdote: egli esamina così il grado di parentela e può procurarsi una dispensa se necessario.

D. 1364. Cosa è il significato del precetto di non sposarsi privatamente?

R. Il comando di non sposarsi privatamente significa che nessuno deve sposarsi senza la benedizione del Sacerdoti di Dio, o senza testimoni.

D. 1365. Costituisce peccato per i Cattolici l’essere sposati davanti al ministro di un’altra religione?

R. Sì, è un peccato mortale per i Cattolici l’essere sposati davanti al ministro di un’altra religione, ed incorrono pure nella scomunica la cui assoluzione è riservata al Vescovo.

D. 1366. Qual è il significato del precetto di non solennizzare il matrimonio nei tempi proibiti?

R. Il significato del precetto di non rendere solenne il matrimonio nei tempi proibiti è che durante la Quaresima e l’Avvento la cerimonia del matrimonio non deve essere eseguita con pompa o con una Messa nuziale.

D. 1367. Cos’è la Messa nuziale?

R. La Messa nuziale è una Messa istituita dalla Chiesa per invocare una benedizione speciale sulla coppia di sposi.

D. 1368. I Cattolici dovrebbero sposarsi in una Messa nuziale?

R. I Cattolici dovrebbero essere sposati in una Messa nuziale, sia per mostrare una maggiore riverenza per il Santissimo Sacramento, sia per invocare ricche benedizioni sulla loro vita coniugale.

D. 1369. Quali limitazioni la Chiesa pone sulle cerimonie di matrimonio quando una delle persone non sia un Cattolica?

R. La Chiesa pone numerose restrizioni sulle cerimonie di matrimonio quando una delle persone non sia Cattolico. Il matrimonio non può aver luogo nella Chiesa; il sacerdote non può indossare i suoi paramenti sacri, né utilizzare l’acqua santa, né benedire l’anello, né lo stesso matrimonio. La Chiesa pone queste restrizioni per mostrare la sua sgradevolezza per tali matrimoni, comunemente chiamato matrimoni misti.

D. 1370. Perché i matrimoni misti non sono graditi alla Chiesa?

R. La Chiesa non ama i matrimoni misti perché tali matrimoni sono spesso infelici, danno luogo a molte controversie, mettono in pericolo la fede del membro cattolico della famiglia ed impediscono la formazione religiosa dei figli.

LEZIONE 37 –

IL GIUDIZIO FINALE E LA RESURREZIONE: INFERNO, PURGATORIO E PARADISO.

D. 1371. Quando ci Cristo giudicherà?

R. Cristo ci giudicherà immediatamente dopo la nostra morte e l’ultimo giorno.

D. 1372. Come è chiamato il giudizio che dobbiamo subire immediatamente dopo la morte?

R. La sentenza che dobbiamo subire immediatamente dopo la morte è chiamata il giudizio particolare.

D. 1373. Dove si terrà il giudizio particolare?

R. Il giudizio particolare si terrà nel luogo dove ogni persona muore, e l’anima andrà subito verso la sua ricompensa o punizione.

D. 1374. Come è chiamato il giudizio che tutti gli uomini devono subire nell’ultimo giorno?

R. La sentenza che tutti gli uomini devono subire nell’ultimo giorno è chiamata il giudizio universale.

D. 1375. La sentenza pronunziata nel giudizio particolare verrà modificata nel giudizio generale?

R. La sentenza emessa nel giudizio particolare, non verrà modificata al giudizio universale, ma sarà confermata e resa pubblica a tutti.

D. 1376. Perché Cristo giudica uomini immediatamente dopo la morte?

R. Cristo giudica gli uomini immediatamente dopo la morte per premiarli o punirli secondo le loro opere.

D. 1377. Come possiamo prepararci ogni giorno per il nostro giudizio?

R. Possiamo prepararci ogni giorno al nostro giudizio mediante un buon esame di coscienza, in cui dobbiamo scoprire i nostri peccati ed imparare a temere la punizione che essi meritano.

D. 1378. Che cosa sono i premi o le punizioni assegnate alle anime degli uomini dopo il giudizio particolare?

R. I premi o punizio ni assegnate alle anime degli uomini, dopo il giudizio particolare sono il Paradiso, il Purgatorio e l’Inferno.

D. 1379. Che cosa è l’Inferno?

R. L’inferno è una condizione in cui i malvagi sono condannati, in cui sono privati della vista di Dio per tutta l’eternità e sono in terribili tormenti.

D. 1380. I dannati soffriranno nel corpo e nella mente?

R. I dannati soffriranno in mente e il corpo, perché la mente e il corpo hanno una parte distinta nei loro peccati. La mente soffre il “dolore della perdita”, con cui si viene torturato dal pensiero di aver perduto Dio per sempre, mentre il corpo soffre il “dolore di senso”, con il quale viene torturato in tutti le suoi membra e nei sensi.

D. 1381. Che cosa è il Purgatorio?

R. Il Purgatorio è lo stato in cui soffrono per un certo tempo coloro che muoiono colpevoli di peccati veniali, o senza aver soddisfatto con la penitenza dovuta per i loro peccati.

D. 1382. Perché questo stato è chiamato Purgatorio?

R. Questo stato è chiamato Purgatorio perché in esso le anime eliminano e vengono purificate da tutte le loro macchie; e non si tratta, pertanto, di uno stato permanente o duraturo dell’anima.

D. 1383. Le anime del Purgatorio sono sicure della loro salvezza?

R. Le anime del Purgatorio sono sicure della loro salvezza, ed entreranno in paradiso, non appena purificati completamente e rese degne di godere di quella presenza di Dio che si chiama: la visione beatifica.

D. 1384. Conosciamo quali siano le anime del Purgatorio, e per quanto tempo debbano rimanere lì?

R. Noi non sappiamo quali siano le anime del Purgatorio, né per quanto tempo debbano rimanere lì; da qui continuiamo a pregare per tutte le persone che sono morte apparentemente nella vera fede e libere da peccato mortale. Essi sono chiamati i fedeli defunti.

D. 1385. I fedeli sulla terra possono aiutare le anime del Purgatorio?

R. Sì, i fedeli sulla terra possono aiutare le anime del Purgatorio con le loro preghiere, digiuni, elemosine, opere; con le indulgenze e facendo celebrare Messe per loro.

D. 1386. Dal momento che Dio ama le anime del Purgatorio, perché le punisce?

R. Proprio perché Dio ama le anime del Purgatorio, Egli le punisce poiché la sua santità richiede che nulla di contaminato possa entrare in Paradiso e la sua giustizia richiede che tutti siano puniti o ricompensati secondo ciò che meritano.

D. 1387. Se ognuno è giudicato immediatamente dopo la morte, che bisogno c’è di un giudizio universale?

R. Vi è necessità di un giudizio universale, anche se ognuno è già giudicato immediatamente dopo la morte, per il fatto che la Provvidenza di Dio, che, sulla terra, spesso consente ai buoni di soffrire ed ai malvagi di prosperare, possa infine apparire davanti a tutti gli uomini.

D. 1388. Cosa si intende per “Provvidenza di Dio”?

R. Per “Provvidenza di Dio” si intende il modo in cui Egli preserva, provvede, regola e governa il mondo e vi diriga tutte le cose con la sua volontà infinita.

D. 1389. Ci sono altre ragioni per il Giudizio Universale?

R. Sì, ci sono altre ragioni per il Giudizio Universale, soprattutto perché Cristo nostro Signore possa essere visto da tutto il mondo che gli ha negato l’onore alla sua prima venuta, così da essere costretto a riconoscerlo come suo Dio e Redentore.

D. 1390. I nostri corpi condivideranno la ricompensa o la punizione delle nostre anime?

R. I nostri corpi condivideranno la ricompensa o la punizione delle nostre anime, perché mediante la Risurrezione essi saranno ancora Uniti ad esse.

D. 1391. Quando avverrà la Risurrezione generale di tutti i defunti?

R. La Risurrezione generale di tutti i morti si svolgerà prima del Giudizio Universale, quando gli stessi corpi in cui abbiamo vissuto sulla terra, usciranno dalla tomba e saranno ricongiunti alla nostra anima, rimanendo uniti con essa per sempre, in Cielo o all’Inferno.

D. 1392. In che stato saranno i corpi alla Risurrezione?

R. I corpi dei giusti risorgeranno gloriosi ed immortali.

D. 1393. Risorgeranno anche i corpi dei dannati?

R. Anche corpi dei dannati risorgeranno, ma essi saranno condannati alle pene eterne.

D. 1394. Perché portiamo rispetto per i corpi dei morti?

R. Dobbiamo portare rispetto per i corpi dei morti, perché questi erano la dimora dell’anima, il mezzo attraverso il quale ha ricevuto i Sacramenti, e perché sono stati creati per occupare un posto in Paradiso.

D. 1395. Che cosa è il Cielo?

R. Il Cielo è lo stato di vita eterna in cui si vede Dio faccia a faccia, si è come Lui nella gloria e si gode la felicità eterna.

D. 1396. In che cosa consiste la felicità nei cieli?

R. La felicità in Paradiso consiste nel vedere la bellezza di Dio, nel conoscerlo come Egli è nell’avere ogni desiderio pienamente soddisfatti.

D. 1397. Cosa dice s. Paolo del cielo?

R. S. Paolo dice del cielo: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano“. (I. Cor II, 9.)

D. 1398. La ricompensa nel cielo, o le punizioni nell’inferno sono le stesse per tutti coloro che entrano in uno di questi stati?

R. I premi del Cielo e le punizioni nell’Inferno non sono le stesse per tutti coloro che entrano in uno di questi stati, perché ogni ricompensa o punizione è proporzionata alla quantità di bene o di male che si è fatto in questo mondo. Ma siccome il Paradiso e l’Inferno sono eterni, ognuno gode la sua ricompensa o soffre la sua punizione per sempre.

D. 1399. Quali sono le parole che dovremmo tenere sempre in mente?

R. Noi dovremmo tenere sempre in mente queste parole del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo: “Cosa giova ad un uomo guadagnare il mondo intero e soffrire la perdita della propria anima?”, “ … cosa darà l’uomo in cambio della sua anima?” – “Il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo con i suoi Angeli”; e “…Egli renderà a ciascuno secondo le sue opere”.

R. 1400. Quali sono le verità religiose essenziali che dobbiamo conoscere e alle quali dobbiamo credere.

R. Le essenziali verità religiose che dobbiamo conoscere e alle quali credere sono:

– C’è un solo Dio, che ricompensa i buoni e punisce i malvagi.

– In Dio ci sono tre Persone Divine: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e queste Persone Divine sono chiamate la Santissima Trinità.

– Gesù Cristo, seconda Persona della Santissima Trinità, si è fatto uomo ed è morto per la nostra redenzione.

– Alla nostra salvezza è necessaria la grazia di Dio.

– L’anima umana è immortale.

(Fine)

 

CATECHISMO DI BALTIMORA 3 (XI) – Lez. 32-34

CATECHISMO DI BALTIMORA (XI) – Lez. 32-34

[Dal terzo Concilio generale di Baltimora

Versione 1891]

LEZIONE 32 –

DAL SECONDO AL QUARTO COMANDAMENTO

D. 1217. Qual è il secondo Comandamento?

R. Il secondo Comandamento è: tu non nominerai il Nome del Signore tuo Dio invano.

D. 1218. Che cosa si intende per “Nome di Dio invano”?

R. Per “Nome di Dio invano” si intende il nominarlo senza riverenza, come maledirlo o utilizzandolo in maniera leggera e spensierata, come esclamazione.

D. 1219. Cosa ci viene comandato dal secondo Comandamento?

R. Dal secondo Comandamento ci viene ordinato di parlare con riverenza di Dio e dei Santi e di tutte le cose sante, e di mantenere i nostri legittimi giuramenti e i voti.

D. 1220. È peccaminoso usare le parole della sacra Scrittura in senso cattivo o mondano?

R. Si, è peccaminoso usare le parole della Sacra Scrittura in senso cattivo o mondano, scherzare su di esse, ridicolizzarne il significato sacro, o in generale darne un significato che sappiamo essere quello che Dio non ha voluto trasmettere con esse.

D. 1221. Che cosa è un giuramento?

R. Un giuramento è l’invocare Dio per testimoniare la verità di ciò che noi diciamo.

D. 1222. Come è fatto di solito un giuramento?

R. Un giuramento è fatto solitamente ponendo la mano sulla Bibbia o alzando la mano verso il cielo come segno che noi chiamiamo Dio a testimoniare che quello che stiamo dicendo è sotto giuramento e vero, al meglio della nostra conoscenza.

D. 1223. Cos’è lo spergiuro?

R. Spergiuro è il peccato che si commette quando consapevolmente si fa un falso giuramento: Giura che sia la verità ciò che sa essere falso. Dare falsa testimonianza è un reato contro la legge del nostro Paese e un peccato mortale davanti a Dio.

D. 1224. Chi ha il diritto di farci prestare giuramento?

R. Tutte le persone alle quali la legge del nostro Paese ha dato tale autorità, hanno il diritto di farci prestare giuramento. Essi sono principalmente giudici, magistrati e funzionari pubblici, che hanno il dovere di far rispettare le leggi. In materia religiosa i Vescovi e gli altri ai quali è data autorità, hanno anche il diritto di farci prestare giuramento.

D. 1225. Quando possiamo prestare un giuramento?

R. Noi possiamo prestare giuramento quando è ordinato dall’autorità legittima o necessario per l’onore di Dio o per conto nostro o per il bene del nostro prossimo.

D. 1226. Quando un giuramento è necessario per l’onore di Dio o per il nostro o il bene del nostro prossimo?

R. Un giuramento può essere richiesto per l’onore di Dio o per il bene nostro o del nostro prossimo, quando siamo chiamati a difendere la nostra Religione contro false accuse; o per proteggere la proprietà o il buon nome nostro o del nostro prossimo; o quando siamo chiamati a dare una testimonianza che permetterà alle autorità legali di scoprire la colpevolezza o l’innocenza di una persona accusata.

D. 1227. È mai possibile che si prometta sotto giuramento, nelle società segrete o altrove, di obbedire ad altri in tutto ciò che di bene o di male si comandi?

R. No, non è mai permesso promettere sotto giuramento, nelle società segrete o altrove, l’obbedienza ad altro in qualunque cosa questi comandi di buono o di male, perché con tale giuramento ci dichiariamo noi stessi pronti e disposti a commettere peccato, se venisse ordinato di farlo, mentre Dio ci comanda di evitare anche il solo pericolo di peccare. Quindi la Chiesa vieta di partecipare a qualsiasi società in cui siano fatti tali giuramenti dai loro membri.

D. 1228. A quali associazioni ci viene in generale proibito di unirci?

R. In generale ci è proibito di partecipare:

– A tutte le società condannate dalla Chiesa;

– A tutte le società il cui oggetto è illecito e i mezzi utilizzati peccaminosi;

– Alle società in cui vengono violati i diritti e le libertà della nostra coscienza da giuramenti temerari o pericolosi;

– Alle società in cui venga utilizzato qualsiasi tipo di cerimonia religiosa o forma di culto falso.

D. 1229. Sono proibite le associazioni sindacali o le associazioni benefiche?

R. I sindacati e le associazioni benefiche non sono di per sé vietate perché abbiano finalità legali, che essi possono garantire con mezzi leciti. La Chiesa incoraggia ogni società che aiuti i suoi membri spiritualmente o materialmente in modo legale e censura o rinnega ogni società che utilizzi mezzi illeciti o peccaminosi onde garantire anche un fine supposto buono; la Chiesa non può mai permettere a chiunque di fare del male perché da esso possa derivarne bene.

D. 1230. È lecito per voto o promessa, una rigorosa obbedienza al superiore religioso?

R. È lecito per voto o promessa, una rigorosa obbedienza al superiore religioso, perché tale superiore può esigere obbedienza solo nelle cose che hanno la sanzione di Dio o della sua Chiesa.

D. 1231. Che cosa è necessario onde fare un giuramento legittimo?

R. Per rendere lecito un giuramento è necessario che ciò che giuriamo sia vero e che ci sia una causa sufficiente per prestare tale giuramento.

D. 1232. Che cosa è un voto?

R. Un voto è una deliberata promessa fatta a Dio di fare qualcosa che Gli piaccia.

D. 1233. Quali sono i voti fatti più frequentemente?

R. I voti fatti più frequentemente sono i tre voti di povertà, castità e obbedienza, presi da persone che vivono in comunità religiosa o consacrata a Dio. A persone che vivono nel mondo è talvolta permesso di rendere tali voti privatamente, ma questo non dovrebbe mai essere fatto senza il consiglio e il consenso del loro confessore.

D. 1234. Cosa si richiede a chi fa i voti di povertà, castità ed obbedienza?

R. I voti di povertà, castità e obbedienza richiedono che coloro che li facciano non posseggano né acquisiscano alcuna proprietà o beni per sé solo; che non si sposino né si rendano colpevoli di atti di libidine, e che dovranno rigorosamente obbedire ai loro legittimi superiori.

D. 1235. È sempre stato un costume dei pii cristiani, fare i voti e promesse a Dio?

R. È stato sempre costume dei pii cristiani il fare i voti e promesse a Dio: per implorare il suo aiuto per qualche fine speciale, o per ringraziarlo di qualche beneficio ricevuto. Sono stati promessi pellegrinaggi, buone opere, elemosine o si è giurato di erigere chiese, conventi, ospedali o scuole.

D. 1236. Che cosa è un pellegrinaggio?

R. Un pellegrinaggio è un viaggio in un luogo santo fatto in un modo religioso e per uno scopo religioso.

D. 1237. È un peccato non soddisfare i nostri voti?

R. Si, non per soddisfare i nostri voti è un peccato, mortale o veniale, secondo la natura del voto e l’intenzione che abbiamo avuto nel farlo.

D. 1238. Siamo tenuti a fare un giuramento o un voto illecito?

R. No, noi non stiamo tenuti, ma, al contrario, ci è positivamente vietato fare un giuramento o un voto illecito. In tale giuramento o nel fare tal voto, siamo colpevoli di peccato, e saremmo colpevoli di peccato ancora maggiore nel mantenerli.

D. 1239. Che cosa proibisce il secondo Comandamento?

R. Il secondo Comandamento proibisce tutti i giuramenti falsi, temerari, ingiusti e inutili, la bestemmia, le maledizioni e le parole volgari.

D. 1240. Quando un giuramento, è temerario, ingiusto o inutile?

R. Un giuramento è avventato quando non siamo sicuri della verità di ciò che noi giuriamo; è ingiusto quando ferisce un altro illecitamente; ed è inutile quando non c’è nessuna buona ragione per prenderlo.

D. 1241. Che cosa è una bestemmia, e quali sono le parole volgari?

R. La bestemmia è qualsiasi parola o azione intesa come un insulto a Dio. Anche il dire che Egli sia crudele o il trovare un difetto nelle sue opere è una bestemmia. È un peccato molto maggiore dell’imprecazione o del nominare il nome di Dio invano. La volgarità è dire parole cattive, irriverenti o irreligiose.

D. 1242. Qual è il terzo Comandamento?

R. Il terzo Comandamento è: ricordati di santificare il giorno del riposo.

D. 1243. Cosa ci comanda il terzo Comandamento?

R. Con il terzo Comandamento ci viene ingiunto di santificare il giorno del Signore e le feste dell’obbligo, nelle quali noi siamo tenuti a mettere il nostro tempo al servizio e al culto di Dio.

D. 1244. Cosa sono i giorni festivi di precetto?

R. I giorni festivi di precetto sono delle feste particolari della Chiesa nelle quali siamo obbligati, sotto pena di peccato mortale, ad ascoltare la Messa ed astenerci dai lavori corporali o servili quando questo possa essere fatto senza grandi perdite o inconvenienti. Chi, a causa di varie circostanze, non possa rinunciare al lavoro nelle feste d’obbligo, dovrebbe fare ogni sforzo per ascoltare la Messa e dovrebbe anche giustificare in confessione la necessità di lavorare nei giorni festivi.

D. 1245. Come dobbiamo fare noi per adorare Dio la domenica e nei giorni festivi di precetto?

R. Dobbiamo adorare Dio la domenica e nei giorni festivi di precetto, ascoltando la Messa, pregando e facendo altre opere buone.

D. 1246. Qual è il nome di alcune delle opere buone consigliate per la Domenica.

R. Alcune delle opere buone consigliate per la Domenica sono: la lettura di libri o documenti religiosi, lo studio e l’insegnamento del Catechismo, il portare sollievo ai poveri o ai malati, la visita al Santissimo Sacramento, la frequentazione dei Vespri, la recita de Santo Rosario o altre devozioni nella Chiesa; anche la frequenza di riunioni dei sodalizi o delle associazioni religiose. Non è necessario spendere tutta la domenica in tali opere buone, ma dobbiamo dedicare qualche tempo ad esse, affinché per amor di Dio possiamo fare un po’ più di ciò che rigorosamente ci viene ordinato.

D. 1247. È vietato, quindi, cercare piaceri o godimenti domenicali?

R. Non è proibito cercare piaceri leciti o qualche godimento di Domenica, soprattutto da coloro che sono occupati durante tutta la settimana, perché Dio non ha inteso istituire la Domenica come una punizione, ma come un beneficio per noi. Pertanto, dopo aver ascoltato la Messa, possiamo concederci qualche ricreazione quando sia necessaria o utile per noi; ma dovremmo evitare qualsiasi divertimento volgare, rumoroso o vergognoso che trasforma il giorno di riposo e di preghiera in un giorno di scandalo e di peccato.

D. 1248. Il giorno di sabato e la Domenica sono uguali?

R. Giorno di sabato e la Domenica non sono uguali. Il sabato è il settimo giorno della settimana è il giorno che è stato ritenuto Santo nella legge antica; la domenica è il primo giorno della settimana ed è il giorno che è ritenuto Santo nella nuova legge.

D. 1249. Cosa si intende per “vecchia” e “nuova” legge?

R. La legge antica significa la legge o la religione data agli Ebrei; la nuova legge significa la legge o la Religione data ai Cristiani.

D. 1250. Perché la Chiesa ci ordina di santificare la Domenica anziché il sabato?

R. La Chiesa ci comanda di santificare la Domenica anziché il sabato perché fu di Domenica che Cristo risuscitò dai morti e di Domenica ha mandato lo Spirito Santo sugli Apostoli.

D. 1251. Riteniamo santa la Domenica invece del sabato, anche per qualche altro motivo?

R. Dobbiamo santificare la Domenica invece del sabato anche per insegnare che la legge antica non è più vincolante ora per noi, e che dobbiamo osservare la nuova legge, che ha preso il suo posto.

D. 1252. Che cosa proibisce il terzo Comandamento?

R. Il terzo Comandamento proibisce tutte i lavori servili inutili e quant’altro possa ostacolare il dovuto rispetto del giorno del Signore.

D. 1253. Quali sono le opere servili?

R. Le opere servili sono quelle che richiedono un impegno del corpo più che della mente.

D. 1254. Da che cosa le opere servili derivano il loro nome?

R. Le opere servili derivano il loro nome dal fatto che tali opere venivano fatte in precedenza dai servi. Di conseguenza, la lettura, lo scrittura, lo studiare e, in generale, tutte le opere che gli schiavi di solito non eseguivano non sono considerate opere servili.

D. 1255. Le opere servili di Domenica non sono mai lecite?

R. Le opere servili sono lecite la Domenica quando le imponga l’onore di Dio, il bene del nostro prossimo o una impellente necessità.

D. 1256. Si diano alcuni esempi di quando l’onore di Dio, il bene del nostro prossimo o la necessità possano richiedere le opere servili di Domenica.

R. L’onore di Dio, il bene del nostro prossimo o le necessità possono richiedere opere servili di Domenica come, ad esempio, la ricerca di un posto nella santa Messa, il salvataggio di beni da tempeste o da incidenti, la cottura di cibi o simili opere.

LEZIONE 33 – DAL QUARTO AL SETTIMO COMANDAMENTO

D. 1257. Qual è il quarto Comandamento?

R. Il quarto Comandamento è: Onora tuo padre e tua madre.

D. 1258. Che cosa si intende con la parola “onora” in questo Comandamento?

R. Con la parola “onore” in questo Comandamento, si intende tutto ciò che sia necessario per il benessere spirituale e materiale dei nostri genitori, la dimostrazione di un giusto rispetto e l’adempimento nel fare tutti i nostri doveri.

D. 1259. Cosa ci comandato il quarto Comandamento?

R. Dal quarto Comandamento ci viene imposto di onorare, amare e rispettare i nostri genitori in tutto ciò che non sia peccato.

D. 1260. Perché dovremmo rifiutarci di obbedire ai genitori o ai superiori che ci comandano di peccare?

R. Noi dovremmo rifiutarci di obbedire ai genitori o ai superiori che ci comandano di peccare, perché non agiscono in questo caso con l’autorità di Dio, ma al contrario ed in violazione delle sue leggi.

D. 1261. Noi siamo tenuti a onorare e rispettare altri oltre che i nostri genitori?

R. Siamo anche tenuti ad onorare e rispettare i nostri Vescovi, pastori, magistrati, insegnanti ed altri legittimi superiori.

D. 1262. Cosa sono i magistrati?

R. Per magistrati si intendono tutti i funzionari di qualsiasi rango che abbiano un legittimo diritto per legge, sopra noi e sui nostri affari o possedimenti temporali.

D. 1263. Cosa sono i legittimi superiori?

R. Per legittimi superiori si intendono tutte le persone a cui siamo in qualche modo sottoposti, come i datori di lavoro o altri sotto la cui autorità viviamo o lavoriamo.

D. 1264. Qual è il dovere di servitori o operai ai loro datori di lavoro?

R. Il dovere dei servi o degli operai verso i loro datori di lavoro è quello di servire fedelmente e onestamente, secondo i loro accordi evitando di danneggiare le loro proprietà o la reputazione.

D. 1265. I genitori ed i superiori hanno eventuali doveri verso coloro che sono sottoposti alla loro autorità?

R. Dovere dei genitori e dei superiori è il prendersi cura di tutti coloro che si trovano sotto la loro autorità dando loro l’esempio ed una giusta direzione.

D. 1266. Se i genitori o i superiori trascurano il loro dovere o abusano della loro autorità in un qualunque particolare ambito, dovremmo seguire la loro direzione e l’esempio in quel particolare ambito?

R. Se i genitori o i superiori trascurano il loro dovere o abusano della loro autorità in qualsiasi particolare non dobbiamo seguire la loro direzione o l’esempio dato in particolare, ma seguire sempre i dettami della nostra coscienza nell’adempimento del nostro dovere.

D. 1267. Qual è il dovere dei datori di lavoro nei confronti dei loro dipendenti od operai?

R. Il dovere dei datori di lavoro nei confronti dei loro dipendenti od operai è quello di badare che essi siano provvisti del necessario, trattati gentilmente ed onestamente, secondo i loro accordi, e che siano giustamente corrisposti i loro salari al momento pattuito.

D. 1268. Che cosa proibisce il quarto Comandamento?

R. Il quarto Comandamento proibisce ogni disobbedienza, il disprezzo e l’ostinazione verso i nostri genitori o verso i legittimi superiori.

D. 1269. Cosa si intende per disprezzo e testardaggine?

R. Disprezzo è l’intenzionale mancanza di rispetto per la legittima autorità, mentre per testardaggine ostinata è la determinazione a non cedere alla legittima autorità.

D. 1270. Qual è il quinto Comandamento?

R. Il quinto Comandamento è: non uccidere.

D. 1271. Quale uccisione proibisce questo Comandamento?

R. Questo Comandamento proibisce l’uccisione solo degli esseri umani.

D. 1272. Come facciamo a sapere che questo Comandamento proibisca l’uccisione solo degli esseri umani?

R. Noi sappiamo che questo Comandamento proibisce l’uccisione solo degli esseri umani, perché, dopo aver dato questo Comandamento, Dio ordinò che gli animali venissero uccisi per il sacrificio nel tempio di Gerusalemme, e Dio non contraddice se stesso.

D. 1273. Cosa ci viene comandato dal quinto Comandamento?

R. Dal quinto Comandamento ci viene comandato di vivere in pace ed in unione con il nostro prossimo, di rispettarne i diritti, di cercare il suo benessere spirituale e corporale e di prenderci cura della nostra vita e salute.

D. 1274. Qual peccato è distruggere la propria vita, o commettere suicidio, come è chiamato questo atto?

R. Distruggere la propria vita o suicidarsi, come viene chiamato questo atto, è un peccato mortale, e le persone che volontariamente e consapevolmente commettono tale atto, muoiono in uno stato di peccato mortale e sono privati della sepoltura cristiana. È anche errato esporsi inutilmente al pericolo di morte con atti temerari e rischiosi.

D. 1275. È lecito per qualche motivo togliere deliberatamente ed intenzionalmente la vita ad una persona innocente?

R. Non è lecito mai per qualunque causa, togliere la vita deliberatamente e intenzionalmente ad una persona innocente. Tali atti sono sempre omicidio e non possono essere scusati mai per qualsiasi motivo, anche se ritenuto importante o necessario.

D. 1276. In quali circostanze può la vita umana essere legittimamente tolta?

R. La vita umana può essere legittimamente tolta:

– Per autodifesa, quando si venga ingiustamente attaccati e non si abbia nessun altro mezzo per salvare la propria vita;

– In una guerra giusta, quando la sicurezza o i diritti della nazione lo richiedano;

– Nell’esecuzione legale di un criminale trovato, con prove inoppugnabili, colpevole di un crimine punibile con la morte quando la conservazione dell’ordine pubblico ed il bene della Comunità richiedano tale esecuzione.

D. 1277. Che cosa proibisce il quinto Comandamento?

R. Il quinto Comandamento proibisce tutti gli omicidio dolosi, i combattimenti, la rabbia, l’odio, vendetta e il cattivo esempio.

D. 1278. Il quinto Comandamento può essere violato, pure dando scandalo o cattivo esempio es inducendo altri a peccare?

R. Il quinto Comandamento può essere violato anche dando scandalo o cattivo esempio ed inducendo altri a peccare, perché tali atti possono distruggere la vita dell’anima conducendola in peccato mortale.

D. 1279. Che cosa è lo scandalo?

R. Scandalo è qualsiasi parola peccaminosa, atto od omissione che disponga gli altri al peccato, o che diminuisce il loro rispetto per Dio e la Religione Santa.

D. 1280. Perché i combattimenti o duelli, la rabbia, l’odio e la vendetta sono proibiti dal quinto Comandamento?

R. La lotta e duelli, la rabbia, l’odio e lavendetta sono proibiti dal quinto Comandamento perché essendo peccati in se stessi, possono condurre all’omicidio. I Comandamenti vietano non solo tutto ciò che li viola, ma anche tutto ciò che può essere causa di una loro violazione.

D. 1281. Qual è il sesto Comandamento?

R. Il sesto Comandamento è: non commettere adulterio.

D. 1282. Cosa ci impone il sesto Comandamento?

R. Dal sesto Comandamento ci viene comandato di essere puri nel pensiero e modesti di tutti i nostri sguardi, parole e azioni.

D. 1283. È peccato ascoltare le conversazione, le canzoni o gli scherzi immodesti?

R. Si, è peccato ascoltare conversazioni, canzoni o facezie immodeste quando possiamo evitarlo, per mostrare che in alcun modo prendiamo piacere in queste cose.

D. 1284. Che cosa proibisce il sesto Comandamento?

R. Il sesto Comandamento proibisce tutte le libertà dell’impudicizia con altra persona che non sia il proprio coniuge; inoltre tutte le immodestie con noi stessi o verso altri mediante sguardi, vestiti, parole ed azioni.

D. 1285. Perché i peccati di impurità sono i più pericolosi?

R. I peccati di impurità sono i più pericolosi:

– perché in generale più numerose sono le tentazioni;

– perché, se intenzionali, sono sempre mortali, e

– perché, più di altri peccati, conducono alla perdita della fede.

D. 1286. Il sesto Comandamento proibisce la lettura di giornali e libri cattivi e immodesti?

R. Si, il sesto Comandamento vieta la lettura di giornali e libri cattivi e immodesti.

D. 1287. Che cosa si dovrebbe fare con i giornali ed i libri immodesti?

R. I libri ed i giornali immodesti dovrebbero essere distrutti al più presto, appena possibile, e se non possiamo distruggerli da noi stessi, dovremmo indurre i loro proprietari a farlo.

D. 1288. Quali libri la Chiesa ritiene cattivi?

R. La Chiesa ritiene malvagi tutti i libri contenenti insegnamenti contrario alla fede o alla morale, o che volontariamente travisano la Dottrina e la pratica cattolica.

D. 1289. Quali sono i luoghi pericolosi per la virtù della purezza?

R. Pericolosi per la virtù della purezza sono i teatri indecenti ed i luoghi analoghi di divertimento, poiché le loro rappresentazioni sono spesso destinate a suggerire cose immodeste.

LEZIONE 34 – DAL SETTIMO AL DECIMO COMANDAMENTO D.

D. 1290. Qual è il settimo comandamento?

R. Il settimo Comandamento è: non rubare.

D. 1291. Cos’è il peccato di rubare?

R. Il rubare può essere un peccato mortale o veniale, secondo l’importo rubato, le modalità o i tempi in cui è compiuto. Varie circostanze possono rendere il peccato più o meno grave, e dovrebbero essere sempre precisate nella Confessione.

D. 1292. Può mai essere un sacrilegio il rubare?

R. Sì, rubare è un sacrilegio, quando la cosa rubata appartiene alla Chiesa e quando il furto avviene nella Chiesa.

D. 1293. Quali peccati sono equivalenti al rubare?

R. Lo sono tutti i peccati di imbroglio, frode o nocumento all’altrui proprietà; anche il prendere in prestito o l’acquisto con l’intenzione di non mai ripagare, equivalgono a rubare.

D. 1294. In quali altri modi può una persona peccato contro l’onestà?

R. Le persone possono peccare contro l’onestà anche ricevendo consapevolmente, acquistando o condividendo beni rubati; allo stesso modo lo è il dare o prendere tangenti per scopi disonesti.

D. 1295. Cosa ci viene ordinato con il settimo Comandamento?

R. Con il settimo Comandamento ci viene ordinato di dare a tutti gli uomini ciò che appartiene a loro e di rispettarne la proprietà.

D. 1296. Come possono le persone che lavorano per gli altri, essere colpevole di disonestà?

R. Le persone che lavorano per gli altri possono essere colpevoli di disonestà lavorando meno del tempo per il quale sono pagati, facendo un cattivo lavoro o impiegando materiali scadenti senza che il loro datore di lavoro ne sia a conoscenza.

D. 1297. In quale altro modo una persona può essere colpevole di disonestà?

R. Una persona può essere colpevole di disonestà nell’ottenere denaro o beni con pretesti ingannevoli, e utilizzandoli per scopi diversi da quelli per i quali siano stati dati.

D. 1298. Che cosa proibisce il settimo Comandamento?

R. Il settimo Comandamento proibisce tutto quanto sia ingiusto prendere o l’appropriarsi di ciò che appartiene a un altro.

D. 1299. Cosa dobbiamo fare con le cose trovate?

R. Dobbiamo restituire le cose trovato ai loro legittimi proprietari appena possibile, e dobbiamo anche usare tutti i mezzi ragionevoli per trovare i proprietari se a noi sconosciuti.

D. 1300. Cosa dobbiamo fare se scopriamo che abbiamo comprato della merce rubata?

R. Se scopriamo di aver comprato merci rubate e conosciamo i loro legittimi proprietari, dobbiamo loro restituire la merce al più presto senza un risarcimento da parte del proprietario per quello che abbiamo pagato per la merce.

D. 1301. Siamo costretti a restituire beni illecitamente acquisiti?

R. Sì, siamo tenuti a restituire i beni illeciti, o il valore di essi, per quanto siamo in grado; altrimenti noi non possiamo essere perdonati.

D. 1302. Cosa dobbiamo fare se non possiamo restituire tutto ciò che dobbiamo, o se la persona alla quale dovremmo ripristinare sia morta?

R. Se non possiamo restituire tutto che dobbiamo, dobbiamo restituire quanto possibile, e se la persona a cui noi dovremmo restituire sia morta, dobbiamo restituire ai suoi figli o agli eredi, e se questi non possono essere ritrovati, possiamo farne elemosine ai poveri.

D. 1303. Cosa deve fare chi non può pagare i suoi debiti e vuole ancora ricevere i sacramenti?

R. Uno che non possa pagare i suoi debiti e ancora vuole ricevere i Sacramenti deve sinceramente promettere di ripagare quanto prima e deve immediatamente fare ogni sforzo in merito.

D. 1304. Siamo obbligati a riparare i danni che abbiamo provocato ingiustamente?

R. Sì, siamo tenuti a riparare i danni che abbiamo provocato ingiustamente.

D. 1305. Qual è l’ottavo Comandamento?

R. L’ottavo comandamento è: non darai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.

D. 1306. Cosa ci ordina l’ottavo comandamento?

R. Con l’ottavo Comandamento ci viene ordinato di dire la verità in tutte le cose e di stare attenti all’onore e alla reputazione di ognuno.

D. 1307. Che cosa è una bugia?

R. Una bugia è un peccato commesso consapevolmente nel dire ciò che è falso con l’intenzione di ingannare. Giurare circa una cosa menzognera rende il peccato maggiore, e tale giuramento è chiamato spergiuro. La finzione, l’ipocrisia, la falsa lode, il millantato credito, ecc., sono simili alle bugie.

D. 1308. Come possiamo conoscere il grado di colpevolezza di una bugia?

R. Possiamo conoscere il grado di peccaminosità in una bugia dalla quantità del danno che essa fa e dall’intenzione avuta nel raccontarla.

D. 1309. Ci scuserà un buon motivo per dire una bugia?

R. Una ragione, benché buona, non scuserà il profferire una bugia, perché una bugia è sempre un male in sé. Essa non è mai permessa, anche se fatta con l’intenzione di fare una cosa che non sia cattiva in sé.

D. 1310. Che cosa proibisce l’ottavo Comandamento?

R. L’ottavo Comandamento proibisce tutte le sentenze temerarie, la maldicenza, le calunnie e le menzogne.

D. 1311. Che cosa sono qualche escursionista, maldicenza, calunnia e giudizio temerario?

R. Il giudizio temerario è credere che una persona sia colpevole di peccato senza una causa sufficiente. La maldicenza è il dire cose cattive di un altro in sua assenza. La calunnia è dire bugie su di un altro con l’intenzione di ferirlo. La detrazione è rivelare i peccati altrui senza che ce ne sia la necessità.

D. 1312. È  permesso mai riferire le colpe di un altro?

R. È permesso dire le colpe di un altro quando sia necessario farle conoscere ai suoi genitori o ai superiori, di modo tale che i difetti possano essere corretti e così verrebbe impedito un peccato più grave.

D. 1313. Che cosa è racconto riportato, e perché è sbagliato?

R. Il racconto-riportato è l’atto di raccontare a persone ciò altri hanno detto su di loro, soprattutto se le cose che hanno detto sono malvagie. Esso è un errore, perché dà luogo a rabbia, odio, risentimento e malevolenza ed è spesso causa di peccati maggiori.

D. 1314. Cosa devono fare coloro che hanno mentito sul loro prossimo e gravemente ferito la loro reputazione?

R. Coloro che hanno mentito circa il loro prossimo e ne hanno ferito gravemente l’onore, devono riparare il danno fatto, per quanto siano in grado; nel caso contrario essi non saranno perdonati.

D. 1315. Qual è il nono Comandamento?

R. Il nono Comandamento è: non desiderare la donna del tuo prossimo.

D. 1316. Cosa ci ordina il nono Comandamento?

R. Dal nono comandamento ci viene imposto di mantenerci puri nel pensiero e nei desideri.

D. 1317. Che cosa proibisce il nono Comandamento?

R. Il nono Comandamento proibisce di desiderare un’altra donna o un altro uomo, nonché tutti i pensieri impuri illeciti, ed i pensieri immodesti.

D. 1318. I desideri ed i pensieri impuri sono sempre peccati?

R. Si, i desideri ed i pensieri impuri sono sempre peccati, a meno che essi ci dispiacciano e si cerca di eliminarli.

D. 1319. Qual è il decimo Comandamento?

R. Il decimo Comandamento è: non desiderare i beni del tuo prossimo.

D. 1320. Che cosa significa desiderare?

R. Desiderare, bramare, significa aver desiderio di ottenere ingiustamente ciò che un altro possiede o il rimpiangere di non poterlo avere al par di lui.

D. 1321. Cosa ci viene comandato dal decimo Comandamento?

R. Dal decimo Comandamento ci viene comandato di accontentarci di tutto quello che abbiamo e di gioire del benessere del nostro prossimo.

D. 1322. Non dovremmo, quindi, provare a migliorare la nostra posizione nel mondo?

R. Certamente, noi dovremmo cercare di migliorare la nostra posizione nel mondo, purché lo si possa fare onestamente e senza esporci a maggiori tentazioni o peccati.

D. 1323. Che cosa proibisce il decimo Comandamento?

R. Il decimo comandamento proibisce tutti i desideri di possedere o ritenere ingiustamente ciò che appartiene ad altri.

D. 1324. In che cosa consiste la differenza tra il sesto Comandamento ed il nono e tra il settimo ed il decimo?

R. Il sesto Comandamento si differenzia dal nono in questo, che il sesto si riferisce principalmente ad atti esterni di impurità, mentre il nono si riferisce più ai peccati di pensiero contro la purezza. Il settimo comandamento si riferisce principalmente ad atti esterni di disonestà, mentre il decimo si riferisce più ai pensieri contro l’onestà.

CATECHISMO DI BALTIMORA 3 (X)- Lez. 29-31

CATECHISMO DI BALTIMORA 3 (X)- Lez. 29-31

[Dal terzo Concilio generale di Baltimora

Versione 1891]

LEZIONE 29 – SUI COMANDAMENTI DI DIO

D. 1125. È sufficiente appartenere alla Chiesa di Dio per essere salvati?

R. No, non è sufficiente appartenere alla Chiesa per essere salvati, ma dobbiamo anche osservare i Comandamenti di Dio e della Chiesa.

D. 1126. I precetti della Chiesa sono anch’essi Comandamenti di Dio?

R. I precetti della Chiesa sono anche essi Comandamenti di Dio, poiché sono stati emanati con la sua autorità e sotto la guida dello Spirito Santo; tuttavia, la Chiesa può cambiare o abolire i propri comandamenti, mentre non è possibile modificare o abolire i Comandamenti dati direttamente da Dio.

D. 1127. Quali sono i Comandamenti che contengono tutta la legge di Dio?

R. I Comandamenti che contengono tutta la legge di Dio sono questi due:

1. Amerai il Signore tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente;

2. Amerai il prossimo tuo come te stesso.

D. 1128. Perché questi due Comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo contengono tutta la legge di Dio?

R. Questi due Comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo contengono tutta la legge di Dio, perché tutti gli altri Comandamenti sono dati per aiutarci ad osservare questi due, o direttamente o per evitare ciò che si oppone a loro.

D. 1129. Si spieghino ulteriormente come i due Comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo contengano l’insegnamento di tutti i dieci Comandamenti.

R. I due Comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo contengono l’insegnamento dei dieci Comandamenti, perché: i primi tre dei dieci Comandamenti si riferiscono a Dio e ci obbligano ad adorare Lui solo, a rispettare il suo Nome e servirlo come Egli vuole e così facendo queste cose, lo ameremo; in secondo luogo poi, gli ultimi sette tra i dieci comandamenti, si riferiscono al nostro prossimo e vietano di danneggiarlo nel corpo, nell’anima, nelle cose sue proprie o nella reputazione, e se lo amiamo non gli faremo alcun danno in ognuna di queste cose, ma, al contrario, cercheremo di aiutarlo per quanto possibile.

D. 1130. Quali sono i Comandamenti di Dio?

R. I Comandamenti di Dio sono questi dieci:

1.-Io sono il Signore tuo Dio, che ti fece uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avrai dèi stranieri oltre a me. Non ti farai alcuna scultura, né immagine di qualsiasi cosa che sia lassù nel cielo o sulla terra, né di quelle cose che sono nelle acque o sotto la terra. Non li adorare, non li servire.

2. – Tu non userai il Nome del Signore tuo Dio invano.

3. – Ricordati di santificare il giorno del riposo.

4. -Onora tuo padre e tua madre.

5. – Non uccidere.

6. – Non commettere adulterio.

7. – Non rubare.

8. – Non attestare il falso contro il tuo prossimo.

9. – Non desiderare la moglie del tuo prossimo.

10. – Non desiderare i beni del tuo prossimo.

D. 1131. Che cosa significa, una “scultura” o “immagine di nulla che sia nei cieli, sulla terra o nelle acque” nel primo Comandamento?

R. Il primo Comandamento, con “scultura” o “nulla che somigli a cosa che è nei cieli, sulla terra o nelle acque”, intende la statua, la rappresentazione o l’immagine di qualsiasi creatura del cielo o di qualsiasi animale sulla terra o nell’acqua destinata ad essere un idolo ed essere adorata come un Dio.

D. 1132. Chi ha dato i dieci Comandamenti?

R. Dio stesso diede i dieci Comandamenti a Mosè sul Monte Sinai, confermati poi da Cristo nostro Signore.

D. 1133. Come e quando sono stati dati i Comandamenti a Mosè?

R. I Comandamenti, scritti su due tavole di pietra, sono stati dati a Mosè in mezzo al fuoco e al fumo, tra tuoni e fulmini, dai quali Dio parlò sulla montagna, circa cinquanta giorni dopo che gli Israeliti furono liberati dalla schiavitù dell’Egitto e durante il viaggio attraverso il deserto verso la terra promessa.

D. 1134. Che cosa intendiamo quando diciamo che Cristo confermò i Comandamenti?

R. Quando diciamo che Cristo confermò i Comandamenti intendiamo dire che Egli fermamente li ha approvati e ci ha dato, con il suo insegnamento, una conoscenza più completa e più chiara del loro significato e della loro importanza.

D. 1135. Chiunque era tenuto a osservare i Comandamenti, anche prima che fossero stati dati a Mosè?

R. Tutte le persone, fin dall’inizio del mondo, furono obbligate a osservare i Comandamenti: da sempre è stato peccaminoso bestemmiare Dio, uccidere, rubare o violare gli altri Comandamenti, anche se non erano stati scritti fino al tempo di Mosè.

D. 1136. Quanti tipi di leggi avevano gli Ebrei prima della venuta di nostro Signore?

R. Prima della venuta di nostro Signore gli Ebrei avevano tre tipi di leggi:
1. Leggi civili, che regolano gli affari della loro nazione;
2. Un cerimoniale di leggi, che regolavano la loro adorazione nel tempio;
3. Leggi morali, che guidavano la loro credenza religiosa e le loro azioni.

D. 1137. A quale di queste leggi appartenevano i dieci Comandamenti?

R. I dieci Comandamenti appartengono alla legge morale, perché sono un compendio o un breve resoconto di ciò che dobbiamo fare per salvare le nostre anime; proprio come il Credo degli Apostoli è un compendio di ciò che noi dobbiamo credere.

D. 1138. Quando le leggi civili e i cerimoniali degli Ebrei cessarono di esistere?

R. Le leggi civili degli Ebrei cessarono di esistere quando il popolo ebraico, poco prima della venuta di Cristo, ha cessato di essere come nazione indipendente. Le leggi cerimoniali cessarono di esistere quando la religione ebraica ha cessato di essere la vera religione; cioè, quando Cristo ha stabilito la Religione cristiana, di cui la religione ebraica era solo una figura o una promessa.

D. 1139. Perché non vennero abolite anche le leggi morali degli Ebrei quando venne fondata la Religione cristiana?

R. Le leggi morali degli ebrei non sono abolite dall’istituzione della Religione Cristiana, perché racchiudono la verità e la virtù, sono state rivelate da Dio, e tutto ciò che Dio ha rivelato come vero, è sempre vero, e tutto ciò che ha condannato come male, continua ad essere sempre male.

LEZIONE 30 – IL PRIMO COMANDAMENTO

D. 1140. Qual è il primo Comandamento?

R. Il primo Comandamento è: Io sono il Signore tuo Dio: non avrai dèi stranieri oltre me.

D. 1141. Che cosa significa nel Comandamento il termine “dèi”?

R. Gli dèi nel Comandamento significa: “idoli” o “falsi dei”, che gli Israeliti adorarono frequentemente quando, con i loro peccati, abbandonavano il vero Dio.

D. 1142. Come possiamo anche noi, in un certo modo, adorare gli dèi?

R. Anche noi, in un certo senso, possiamo adorare gli dèi abbandonando la salvezza delle nostre anime per la ricchezza, gli onori, i vizi sociali, i piaceri mondani, ecc., così da offendere Dio, rinunciando alla nostra fede e abbandonando la pratica della nostra Religione per la loro ricerca.

D. 1143. Come il primo Comandamento ci aiuta ad osservare il grande Comandamento dell’amore di Dio?

R. Il primo Comandamento ci aiuta ad osservare il grande Comandamento dell’amore di Dio, perché esso ci comanda di adorare soltanto Dio.

D. 1144. Come adoriamo Dio?

R. Noi adoriamo Dio con la fede, la speranza e la carità, con preghiera ed il sacrificio.

D. 1145. Con quali preghiere adoriamo Dio?

R. Noi adoriamo Dio con tutte le nostre preghiere, ma in particolare con la preghiera pubblica della Chiesa e, soprattutto, con il santo Sacrificio della Messa.

D. 1146. Come viene violato il primo Comandamento?

R. La violazione del Comandamento avviene:

– quando si dà ad una creatura l’onore che appartiene a Dio solo;

– con una falsa adorazione;

– attribuendo ad una creatura una perfezione che appartiene solo a Dio.

D. 1147. Che cosa è l’onore che appartiene solo a Dio?

R. L’onore che appartiene solo a Dio è un onore divino, al Quale solo offriamo sacrificio, incenso o preghiera, unicamente per se stesso e per la propria gloria. Dare tale onore a qualsiasi altra creatura, quantunque santissima, sarebbe idolatria.

D. 1148. Come possiamo offrire una falsa adorazione a Dio?

R. Offriamo il culto falso a Dio rifiutando la Religione che Egli ha istituito e seguendone una a nostra piacimento, con una forma di culto che Egli non ha mai autorizzato, approvato o sanzionato [tipico esempio ne è il Novus Ordo –ndr.-].

D. 1149. Perché noi dobbiamo servire Dio con il culto della Religione che Egli ha istituito e non con nessun altro?

R. Noi dobbiamo servire Dio nella forma della Religione ha Egli ha istituito e non in altro modo, perché il Cielo non è un diritto, ma una ricompensa promessa, un dono gratuito di Dio, che noi dobbiamo meritare nel modo in cui a Lui piace e con il quale ci dirige.

D. 1150. Quando noi attribuiamo a una creatura una perfezione che appartiene solo a Dio?

R. Noi attribuiamo ad una creatura una perfezione che appartiene solo a Dio, quando crediamo che possieda una conoscenza o un potere indipendentemente da Dio e che possa così, senza il suo aiuto, conoscere il futuro od operare miracoli.

D. 1151. Coloro che fanno uso di incantesimi, amuleti e scongiuri, o che credono nei sogni, nei medium, negli spiritisti, cartomanti e simili, peccano contro il primo Comandamento.

R. Chi ricorre ad incantesimi, talismani, scongiuri, magia, o crede ai sogni, ai medium, agli spiritisti, ai cartomanti e simili, pecca contro il primo Comandamento, perché attribuisce a delle creature delle perfezioni che appartengono solo a Dio.

D. 1152. Cosa sono gli incantesimi e gli scongiuri?

R. Incantesimi e scongiuri, sono determinate parole, dicendo le quali, persone superstiziose credono di scongiurare il male, procacciarsi fortuna o produrre qualche effetto soprannaturale o portentoso. Possono essere anche oggetti o articoli indossati allo stesso scopo.

D. 1153. Non sono formule di scongiuro anche gli Agnus Dei, le medaglie, scapolari, ecc, che indossiamo sui nostri corpi?

R. Gli Agnus Deis, le medaglie, gli scapolari, ecc., che indossiamo sui nostri corpi, non sono cose che producono effetti miracolosi, dalle quali ci aspettiamo aiuto per loro virtù propria, ma, attraverso la benedizione che hanno ricevuto dalla Chiesa, ci aspettiamo aiuto solo da Dio, dalla Madre Sua o dal Santo in onore del quale li indossiamo. Al contrario, coloro che indossano gli amuleti si aspettano aiuto dalla virtù loro propria, o da qualche spirito maligno.

D. 1154. Da che cosa dobbiamo noi stare in guardia in tutte le nostre devozioni e pratiche religiose?

R. In tutte le nostre devozioni e pratiche religiose, noi dobbiamo guardarci attentamente dal richiedere a Dio che compia miracoli quando pure le cause naturali possono portare a ciò che speriamo di ottenere. Dio a volte potrà miracolosamente aiutarci ma, di regola, solo quando tutti i mezzi naturali hanno fallito.

D. 1155. Cosa sono i sogni, e perché è vietato di credere in essi?

R. I sogni sono i pensieri che abbiamo nel sonno, quando la nostra volontà non è in grado di guidarli. È vietato credere in essi, perché sono spesso ridicoli, irragionevoli o malvagi e non sono diretti dalla ragione o dalla fede.

D. 1156. I brutti sogni sono peccaminoso in se stessi?

R. I brutti sogni non sono peccaminosi in se stessi, perché noi non possiamo impedirli, ma li possiamo rendere peccaminosi:

  1. Alimentando il piacere certe cose, quando siamo svegli e
  2. Con le cattive letture o gli sguardi immodesti, pensieri, parole, azioni, visione di spettacoli, prima di andare a dormire; per nessun’altra cosa potremmo ritenerci responsabili di brutti sogni.

D. 1157. Non si è Dio, nella legge antica, frequentemente degnato di avvalersi dei sogni come mezzo per far conoscere la propria volontà?

R. Dio frequentemente nella legge antica si è avvalso dei sogni come mezzo per far conoscere la sua volontà; ma in tali occasioni ha sempre dato prova che ciò che Egli faceva conoscere, non era un semplice sogno, ma piuttosto una rivelazione o una ispirazione. Ma ora Egli non fa più uso di tali mezzi, perché rende nota la sua volontà attraverso l’ispirazione della sua Chiesa.

D. 1158. Cosa sono i medium e gli spiritisti?

D. Medium e spiritisti sono persone che fingono di conversare con i morti o con gli spiriti di un altro supposto mondo. Inoltre fanno finta di dare questo potere agli altri, affinché possano sapere cosa stia succedendo in paradiso, in purgatorio o all’inferno.

D. 1159. Quale altra pratica è molto pericolosa per la fede e la morale?

D. Un’altra pratica molto pericoloso per la fede e la morale è l’uso del mesmerismo o ipnotismo, perché è suscettibile di abusi peccaminosi, priva una persona per un certo tempo del controllo della sua ragione, ponendo il suo corpo e la sua mente interamente nel potere di un altro.

D. 1160. Cosa sono i veggenti?

R. I veggenti sono degli impostori che, per passato apprendimento o indovinando, fanno finta di conoscere anche il futuro e di essere in grado di rivelarlo a chi paga per la sua conoscenza. Inoltre fanno finta di sapere tutto ciò che riguarda cose perse o rubate nonché i pensieri segreti, le azioni o le intenzioni degli altri.

D. 1161. Com’è che credendo agli incantesimi, agli scongiuri, a medium, a spiritisti e cartomanti, attribuiamo alle creature le perfezioni di Dio?

R. Credendo ad incantesimi, a scongiuri, medium, spiritisti e indovini, attribuiamo alle creature le perfezioni di Dio perché ci aspettiamo che queste creature compiano miracoli, rivelino le sentenze nascoste di Dio e facciano conoscere i suoi disegni per il futuro riguardo alle sue creature, cose che evidentemente solo Dio stesso può fare.

D. 1162. È peccaminoso consultare medium, spiritisti, cartomanti e simili, anche quando non crediamo in essi, magari solo per semplice curiosità di sentire cosa dicono?

R. Si, è peccaminoso consultare medium, spiritisti, cartomanti e simili, anche quando noi non crediamo in essi, magari per la semplice curiosità di sentire che cosa dicono:
1. perché è sbagliato esporci al pericolo di peccare anche se non abbiamo intenzione di peccare;

2. perché possiamo dare scandalo ad altri che non possono sapere che vi andiamo solo per mera curiosità;

3. perché con la nostra finta convinzione incoraggiamo questi impostori a continuare le loro pratiche malvagie.

D. 1163. Peccati contro la fede, la speranza e la carità sono anche peccati contro il primo Comandamento?

R. Si, i peccati contro la fede, la speranza e la carità sono peccati contro il primo Comandamento.

D. 1164. Come fa una persona a peccare contro la fede?

R. Una persona pecca contro la fede:
1. Nel non cercare di conoscere ciò che Dio abbia insegnato;
2. Rifiutando di credere a tutto ciò che Dio ha insegnato;
3. Trascurando di professare la fede in ciò che Dio ha insegnato.

D. 1165. Come riusciamo a non conoscere ciò che Dio abbia insegnato?

R. Riusciamo a non conoscere ciò che Dio abbia insegnato, trascurando di imparare la dottrina cristiana.

D. 1166. Che cosa significa che dobbiamo apprendere la dottrina cristiana?

R. Abbiamo molti mezzi di apprendimento della dottrina cristiana: in gioventù abbiamo il Catechismo e le istruzioni speciali adatte alla nostra età; più tardi abbiamo sermoni, missioni, ritiri, sodalizi religiosi e associazioni attraverso i quali possiamo imparare. In tutti i tempi, abbiamo libri di istruzione e, soprattutto, i sacerdoti della Chiesa, sempre pronti ad insegnare. Dio non scuserà la nostra ignoranza se trascuriamo di apprendere la nostra Religione, dal momento che ce ne ha dato tutti i mezzi.

D. 1167. Dovremmo imparare la dottrina cristiana solo per il nostro bene?

R. Noi dovremmo imparare la dottrina cristiana non solo per il nostro bene, ma per il bene anche di altri che sinceramente desiderano imparare da noi le verità della nostra Santa Fede.

D. 1168. Come dovrebbero essere fornite tali istruzioni a coloro che ce le chiedessero?

R. Tali istruzioni dovrebbero essere date a chi ce le chiedesse, in un genere e spirito cristiano, senza controversie od offendendo. Non dovremmo mai tentare di spiegare però, le verità della nostra Religione, se non siamo assolutamente certi di quello che diciamo. Quando non siamo in grado di rispondere a ciò che ci viene chiesto, dovremmo, a chi lo richieda, inviarlo al sacerdote o ad altri meglio istruiti di noi.

D. 1169. Chi sono quelli che non credono a tutto ciò che Dio abbia insegnato?

R. Coloro che non credono a tutto ciò che Dio ha insegnato, sono gli eretici e gli infedeli.

D. 1170. Si denominino le diverse classi di miscredenti ed i loro argomenti.

R. Le diverse classi di miscredenti sono:
1. Gli atei, che negano che vi sia un Dio;
2. I deisti, che ammettono che ci sia un Dio, ma negano che Egli abbia rivelato una religione;
3. Gli agnostici, che non ammettono, né negano l’esistenza di Dio;
4. Gli infedeli, che non sono mai stati battezzati e che, per mancanza di fede, si rifiutano di essere battezzati;
5. Gli eretici, che sono stati battezzati Cristiani, ma non credono a tutti gli articoli di fede;
6. Gli scismatici, che sono stati battezzati e credono tutti gli articoli di fede, ma non vogliono sottomettersi all’autorità del Papa;
7. Gli apostati, che hanno rifiutato la vera Religione, in cui hanno creduto precedentemente, unendosi ad una falsa religione;
8. I razionalisti e materialisti, che credono solo nelle cose materiali.

D. 1171. La negazione di un solo articolo di fede farà di una persona un eretico?

R. La negazione di un solo articolo di fede farà di una persona un eretico, colpevole di peccato mortale, perché la Sacra Scrittura dice: “ognuno deve osservare tutta la legge, e rifiutandone un solo punto si diventa colpevole di tutto.”

D. 1172. Che cosa è un articolo di fede?

R. Un articolo di fede è una verità rivelata così importante e così certa che nessuno possa negarla o dubitarne senza rifiutare la testimonianza di Dio. La Chiesa molto chiaramente sottolinea quali verità siano articoli di fede, così da poterli distinguere dalle Pie credenze e dalle tradizioni, così che nessuno possa essere colpevole del peccato di eresia senza saperlo.

D. 1173. Chi sono coloro che trascurano di professare la loro fede in ciò che Dio ha insegnato?

R. Coloro che trascurano di professare la loro fede in ciò che Dio ha insegnato sono tutti coloro che non riescono a riconoscere la vera Chiesa in cui credere veramente.

D. 1174. Quali sono le persone che, membri della Chiesa, sono negligenti nel professare la loro fede?

R. Sono le persone che pur membri della Chiesa, trascurano di professare le loro convinzioni vivendo contrariamente agli insegnamenti della Chiesa: cioè, con il trascurare la Messa o i Sacramenti, facendo ingiuria al loro prossimo e disonorando la propria religione con una vita peccaminosa e scandalosa.

D. 1175. Che cosa impedisce principalmente alle persone che credono nella Chiesa di diventarne membri?

R. È principalmente la mancanza di coraggio cristiano che impedisce a soggetti che credono nella Chiesa di diventarne membri. Essi temono troppo l’opinione o la disapprovazione degli altri, la perdita di posizioni, cariche sociali o di ricchezza, ed in generale, le prove che potrebbero dover soffrire per amore della vera fede.

D. 1176. Cosa dice nostro Signore di coloro che trascurano la vera Religione per il rispetto di parenti o amici, o per paura della sofferenza?

R. Il Signore dice di coloro che trascurano la vera Religione per il rispetto di parenti o amici, o per paura della sofferenza: “colui che ama il padre o la madre più di Me, non è degno di Me; e colui che ama il figlio o la figlia più di Me, non è degno di Me”; anche: “… chiunque non porta la propria croce e non viene dietro di Me non può essere mio discepolo.”

D. 1177. Quale scusa certuni trovano per aver trascurato di ricercare ed abbracciare la vera Religione?

R. Alcuni recano come scusa per trascurare di cercare ed abbracciare la vera Religione, quella di vivere nella religione in cui sono nati, e che una religione è buona come un altra se crediamo che stiamo servendo Dio.

D. 1178. Come dimostriamo che tale scusa è falsa e assurda?

R. Si dimostra che tale scusa è falsa e assurda perché:

1. È falso ed assurdo dire che dovremmo rimanere nell’errore dopo che lo abbiamo scoperto;

2. Perché se una religione è buona come un’altra, nostro Signore non avrebbe abolito la religione ebraica, né gli Apostoli avrebbero predicato contro l’eresia.

D. 1179. Possibile mai che costoro non riescano a professare la loro fede nella vera Chiesa in cui credono, aspettando di essere salvati in quello stato?

R. A coloro che non riescono a professare la loro fede nella vera Chiesa in cui credono ed aspettano di potersi salvare mentre sono in quello stato, Cristo ha detto: ” … chiunque mi rinnegherà davanti agli uomini, Io pure lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.”

D. 1180. Siamo obbligati a rendere aperta professione della nostra fede?

R. Noi siamo obbligati a rendere aperta professione della nostra fede, spesso sia come onore a Dio, e se il bene spirituale del nostro prossimo o nostro lo richieda. “Chiunque”, dice Cristo, “mi riconoscerà davanti agli uomini, anche Io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli.”

D. 1181. Quando per onore di Dio, e per il bene spirituale del nostro prossimo o per il nostro bene ci viene imposto di fare un’aperta professione della nostra fede?

R. Per onore di Dio, per il bene spirituale del nostro prossimo, o per il nostro ci viene imposto di fare un’aperta professione della nostra fede quando non possiamo nascondere la nostra Religione senza violare qualche legge di Dio o della sua Chiesa, o senza dare scandalo agli altri od esporci al pericolo di peccare. Le pratiche di pietà non comandate possono essere omesse senza che vi sia nessuna negazione della fede.

D. 1182. Quali sono i peccati contro la speranza?

R. I peccati contro la speranza sono la presunzione e la disperazione della salvezza.

D. 1183. Che cosa è la presunzione?

R. La presunzione è l’aspettativa di salvezza senza che si faccia un uso corretto dei mezzi necessari per ottenerla.

D. 1184. Come possiamo essere colpevoli di presunzione?

R. Noi potremmo essere colpevoli di presunzione:
1. Omettendo la confessione quando si è nello stato di peccato mortale;
2. Ritardando l’emendamento della nostra vita ed il pentimento per i peccati del passato;
3. Con l’essere indifferenti al numero di volte in cui cediamo a qualsiasi tentazione, dopo che, ceduto una volta, abbiamo infranto la nostra risoluzione di resistervi;
4. Pensando che possiamo evitare il peccato, senza evitarne però l’occasione prossima;
5. Presumendo troppo in noi stessi e trascurando di seguire i consigli del nostro confessore per quanto riguarda i peccati che confessiamo.

D. 1185. Che cosa è la disperazione?

R. La disperazione è la perdita della speranza nella misericordia di Dio.

D. 1186. Come possiamo essere colpevoli di disperazione?

R. Noi possiamo essere colpevoli di disperazione, credendo di non poter resistere a certe tentazioni, di non poter superare certi peccati, o modificare la nostra vita in modo da piacere a Dio.

D. 1187. Tutti i peccati di presunzione e di disperazione sono gravi allo stesso modo?

R. Non tutti i peccati di presunzione e disperazione sono gravi allo stesso modo. Essi possono essere molto lievi o gravi, in proporzione al grado con cui neghiamo la giustizia o la misericordia di Dio.

D. 1188. Come pecchiamo contro l’amore di Dio?

R. Si pecca contro l’amore di Dio con tutti i peccati, ma soprattutto con il peccato mortale.

LEZIONE 31 – IL PRIMO COMANDAMENTO
(Sull’onore e l’invocazione dei Santi)

D. 1189. Il primo comandamento proibisce l’onore dei Santi?

R. Il primo Comandamento non proibisce l’onore dei Santi, ma piuttosto lo approva; perché onorando i Santi, che sono gli amici selezionati di Dio, noi onoriamo Dio stesso.

D. 1190. Cosa significa “invocazione”?

R. L’invocazione è chiedere ad un altro aiuto o protezione, specialmente quando siamo in uno stato di bisogno o pericolo. Si usa specialmente per quanto riguarda l’invocazione di Dio o dei Santi, e quindi significa “preghiera”.

D. 1191. Come dimostriamo che onorando i Santi, noi onoriamo Dio stesso?

R. Dobbiamo onorare i Santi perché essi onorano Dio. Pertanto, è bene per noi che li onoriamo, perché essi onorano Dio.

D. 1192. Si dia un altro motivo perché onoriamo Dio onorando i Santi.

R. Un’altra ragione perché noi onoriamo Dio onorando i Santi è questa: come noi onoriamo il nostro paese, onorando i suoi eroi, così noi onoriamo la nostra Religione onorando i suoi Santi. Onorando la nostra Religione onoriamo Dio, che ce lo ha insegnato. Di conseguenza, onorando i Santi onoriamo Dio, perché essi per amore della Religione divennero eroi nella loro fede.

D. 1193. Il primo Comandamento non proibisce di pregare i Santi?

R. No, il primo comandamento non ci vieta di pregare per i Santi.

D. 1194. Perché il primo Comandamento non ci vieta di pregare per i Santi?

R. Il primo Comandamento non proibisce di pregare i Santi, perché se siamo autorizzati a chiedere le preghiere di altre creature amiche sulla terra, ci viene consentito anche di richiedere le preghiere dei nostri amici in cielo. Inoltre, i Santi hanno interesse ad accrescere il nostro benessere, perché tutto ciò che tende a renderci più buoni, tende anche alla gloria di Dio.

D. 1195. Che cosa intendiamo per pregare per i Santi?

R. Per pregare per i Santi, intendiamo chiedendo loro aiuto e la loro preghiera di intercessione.

D. 1196. Ma non facciamo un affronto a Dio, rivolgendo le nostre preghiere ai Santi?

R. No, non facciamo affronto a Dio offrendo le nostre preghiere ai Santi, ma, al contrario, mostriamo un maggiore rispetto per la sua maestà e la sua santità, riconoscendo, con le nostre preghiere ai Santi, che siamo indegni di rivolgerci a Lui da noi stessi e che noi, pertanto, chiediamo ai suoi amici Santi che ci ottengano ciò che noi stessi non siamo degni di chiedere.

D. 1197. Come facciamo a sapere che i Santi ci ascoltano?

R. Noi sappiamo che i Santi ci ascoltano, perché essi sono con Dio, che fa loro conoscere le nostre preghiere per essi.

D. 1198. Perché crediamo che i Santi ci aiuteranno?

R. Noi crediamo che i Santi ci aiuteranno perché anche loro sono membri della stessa Chiesa, ci amano come loro fratelli.

D. 1199. Com’è che i Santi e noi siamo membri della stessa Chiesa?

R. I Santi e noi siamo membri della stessa Chiesa, perché la Chiesa del cielo e la Chiesa sulla terra sono la stessa Chiesa, e tutti i suoi membri sono in comunione tra loro.

D. 1200. Come si chiama la comunione dei membri della Chiesa?

R. La comunione dei membri della Chiesa si chiama Comunione dei Santi.

D. 1201. Che cosa significa la comunione dei santi?

R. La Comunione dei santi significa l’Unione che esiste tra i membri della Chiesa sulla terra da una parte, con i Beati del cielo e con le anime sofferenti del Purgatorio.

D. 1202. Quali vantaggi derivano dalla Comunione dei Santi?

R. Dalla comunione dei Santi derivano i seguenti vantaggi: i fedeli sulla terra si assistono reciprocamente con le loro preghiere e con le opere buone, e sono aiutati dall’intercessione dei Santi in cielo, mentre entrambi, i Santi in cielo e i fedeli sulla terra aiutano le anime in Purgatorio.

D. 1203. Come possiamo meglio onorare i Santi, e dove dovremmo imparare loro virtù?

R. Noi possiamo meglio onorare i Santi imitando le loro virtù, apprendendole dai resoconti scritti delle loro vite. Tra i Santi troveremo modelli per ogni età, condizione o stato di vita.

D. 1204. Il primo Comandamento ci vieta di onorare le reliquie?

R. No, il primo Comandamento non ci vieta di onorare le reliquie, perché le reliquie sono i corpi dei Santi oppure oggetti collegati direttamente a loro o a nostro Signore.

D. 1205. Quanti tipi o classi di reliquie ci sono?

R. Esistono tre tipi o classi di reliquie:
1. Il corpo o una parte del corpo di un Santo;
2. Oggetti, indumenti o libri, utilizzati dal Santo;
3. Oggetti che hanno toccato una reliquia del corpo o altre reliquie.

D. 1206. Cosa c’è speciale in una reliquia della vera croce sulla quale nostro Signore è morto e anche degli strumenti della sua passione?

R. Le reliquie della vera croce e le reliquie delle spine, dei chiodi, ecc., impiegati nella passione, hanno diritto a una venerazione molto speciale, e hanno alcuni privilegi per quanto riguarda il loro uso e il modo di conservarle che non hanno altre reliquie. Una reliquia della vera Croce non è mai conservata o trasportata con altre reliquie

D. 1207. Quale venerazione la Chiesa permette di dare alle reliquie?

R. La Chiesa ci permette di dare alle reliquie una venerazione simile a quella che diamo alle immagini. Non veneriamo le reliquie per amor loro, ma per l’amore delle persone che esse rappresentano. Le anime dei Santi canonizzati sono certamente in cielo, e siamo certi che lo saranno anche i loro corpi. Di conseguenza, potremmo onorare i loro corpi perché glorificati in cielo così come furono santificati sulla terra.

D. 1208. Quale cura richiede la Chiesa nell’esame e nella distribuzione delle reliquie?

R. La Chiesa prende la massima cura nell’esame e nella distribuzione delle reliquie.

1. Dovrà essere determinata la canonizzazione o la beatificazione della persona di cui abbiamo la reliquia.

2. Le reliquie vengono inviate in pacchetti sigillati, che devono essere aperti solo dal Vescovo della diocesi a cui vengono inviate le reliquie, e ogni reliquia o pacchetto dovrà essere accompagnato da un documento o da uno scritto cartaceo dimostrante la sua autenticità.

3. Le reliquie non possono essere esposea alla pubblica venerazione, fin quando il Vescovo non le abbia esaminate e pronunciato l’autentica, vale a dire che siano quello che si sostiene esse siano.

D. 1209. Di che cosa dovremmo essere certi prima di utilizzare qualsiasi reliquia o nel darla ad altri?

R. Prima di utilizzare qualsiasi reliquia o darla ad altri, dovremmo essere certi che siano state soddisfatte tutte le disposizioni della Chiesa al riguardo, e che la reliquia sia davvero, per quanto dato possibile sapere, ciò che crediamo essa sia.

D. 1210. Dio stesso ha onorato le reliquie?

R. Dio stesso ha onorato frequentemente le reliquie permettendo miracoli avvenuti attraverso di loro. C’è un esempio dato nella Bibbia, nel IV libro dei Re, dove è riportato che un uomo morto, è tornato in vita quando il suo corpo ha toccato le ossa, vale a dire le reliquie, del Santo profeta Eliseo.

D. 1211. Il primo comandamento proibisce la realizzazione di immagini?

R. Il primo Comandamento vieta la realizzazione di immagini se sono fatte per essere adorate come divinità, ma non vieta la loro realizzazione quando ci eccitano la mente a Gesù Cristo, alla sua Madre Santissima e ai Santi.

D. 1212 Come indichiamo che la realizzazione di immagini sia vietata dal primo Comandamento solo quando questo sia fatto per il culto.

R. Si dimostra che è solo per il culto che il primo comandamento vieti la realizzazione di immagini:
1. Perché nessuno pensa sia peccaminoso scolpire le statue o fare fotografie o quadri di parenti o amici;
2. Perché Dio stesso ha comandato la realizzazione di immagini per il tempio dopo aver dato il primo Comandamento, e Dio non contraddice se stesso.

D. 1213. È giusto mostrare rispetto per le immagini e le immagini di Cristo e i suoi Santi?

R. Si, è giusto mostrare rispetto per le rappresentazioni e le immagini di Cristo e dei Santi, perché esse sono loro riferimenti e memoriali.

D. 1214. Abbiamo in questo paese ogni civile personalizzato simile a quello di onorare le immagini e le immagini dei Santi?

R. Noi abbiamo, nei nostri Paesi, consuetudini civili assai simili a quella di onorare le rappresentazioni e le immagini dei Santi, ad esempio le decorazioni di giorni memorabili, i fiori, le bandiere o gli emblemi di cittadini patrioti, poste innanzi alle statue dei nostri eroi civili deceduti, per onorare le persone che queste statue rappresentano; e come noi possiamo disonorare un uomo abusando della sua immagine, così possiamo onorarlo trattandolo con rispetto e riverenza.

D. 1215. È consentito pregare per il crocifisso o per le immagini e le reliquie dei Santi?

R. No, non è consentito pregare per il crocefisso o per le immagini e reliquie dei Santi, perché essi non hanno vita, né il potere di aiutarci, né i sensi per ascoltarci.

D. 1216. Perché allora preghiamo davanti al crocifisso, alle immagini e alle reliquie dei Santi?

R. Noi preghiamo davanti al Crocifisso, ad immagini e reliquie di Santi perché esse animano la nostra devozione con desideri ed affetti pii, ricordandoci di Cristo e dei Santi, dei quali possiamo imitare le virtù.