ESAME DI COSCIENZA (1) – S. Alfonso Rodriguez

DELL’ESAME DELLA COSCIENZA (1)

 [S. A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e virtù cristiane; vol. II, Marietti ed. – Torino, 1917]

TRATTATO VII. (1)

CAPO I.

Quanto sia importante l’esame della coscienza.

Uno dei principali e efficaci mezzi che abbiamo pel nostro profitto, è l’esame della coscienza: e come tale ce lo raccomandano i Santi. S. Basilio, il quale è stato dei più antichi che abbiano dato Regole ai Monaci, comanda, che ogni sera facciamo questo esame. S. Agostino nella sua Regola comanda il medesimo. S. Antonio abbate insegnava e ingiungeva assai questo esame a’ suoi Religiosi. S. Bernardo, S. Bonaventura, Cassiano, e tutti comunemente convengono in caldamente raccomandarlo. Il beato S. Gio. Crisostomo tra gli altri sopra quelle parole del reale profeta David, In cubilibus vestris compungimini (Ps. IV, 5), Compungetevi e confondetevi nei vostri letti; trattando di questo esame, e consigliando, che si faccia ogni sera prima d’andar a dormire, n’adduce due buone ragioni. La prima, acciocché nel giorno seguente ci troviamo più disposti e preparati a guardarci dai peccati e da cader nelle colpe nelle quali siamo caduti oggi; perché essendoci noi oggi esaminati e pentiti di esse, e avendo fatto proponimento di emendarci, chiara cosa è, che questo ci servirà di qualche freno per non tornar a commetterle domani. – La seconda, che ancora per questo medesimo giorno d’oggi ci sarà di qualche freno l’averci ad esaminare la sera; perché il sapere, che in questo medesimo giorno abbiamo da render conto ci farà stare sopra di noi e vivere più circospettamente. Siccome un padrone, dice S. Gio. Crisostomo, non comporta, che il suo spenditore lasci di dar ogni giorno i suoi conti, acciocché questo non dia occasione di procedere con trascuraggine e di dimenticarsi, onde poi il conto non si possa veder netto; così anche sarà ragionevole, che noi altri rivediamo ogni giorno i conti a noi stessi, acciocché la trascuraggine e la dimenticanza non vengano ad imbrogliarli. S. Efrem e S. Giovanni Climaco (D. Eyhr. serm. Ascet., de vita relig.; D. Climac. grad. 7) v’aggiungono un’altra terza ragione, e dicono, che siccome i mercanti diligenti ogni giorno bilanciano e fanno conto delle perdite e dei guadagni di quel giorno, e se trovano d’aver fatta qualche perdita, procurano di rimediare ad essa e di ripararla con molta diligenza; così noi altri dobbiamo ogni giorno esaminarci e vedere i conti delle nostre perdite e dei nostri guadagni; acciocché la perdita non vada avanti né si dia fondo al capitale, ma lo rimettiamo e vi rimediamo subito. Il beato S. Doroteo v’aggiunge un’altra utilità grande, la quale è, che esaminandoci e pentendoci ogni giorno dei nostri errori e mancamenti, non si radicherà in noi il vizio e la passione, né verrà a crescere l’abito cattivo e la cattiva consuetudine (D. Doroth. doctr. 11). Per lo contrario si dice dell’anima che non è diligente e sollecita in esaminarsi, che è simile alla vigna dell’uomo pigro, della quale dice il Savio che passò per essa, e vide, che la siepe d’intorno era caduta e che ogni cosa era piena d’ortiche e di spine: Per ogrum hominis pigri transivi, et per vineam viri stulti: et ecce totum repleverant urticæ, et operuerant superfìciem ejus spinæ, et maceria lapidum destructa erat (Prov. XXIV, 30-31): Così sta l’anima di coluiche non ha cura di esaminare la suacoscienza; sta come una vigna che non silavora, divenuta un disertaccio pieno d’erbaccecattive e di spine. Questa cattivaterra della nostra carne mai non lascia digermogliare erbe cattive; onde bisognasempre stare col sarchiello in mano sbarbandola mala erba che spunta. Serve dunquel’esame di sarchiello per levar via esbarbar il vizio e la malvagità che cominciavaa germogliare, e per non lasciar chepassi avanti né getti radici.E non solo i Santi, ma anche i Filosofigentili col lume naturale conobbero l’importanzaed efficacia di questo mezzo. Quelgran filosofo Pitagora, siccome riferisconosan Girolamo e san Tommaso (D. Hier. tom. 1 in Apol. advemus Ruf. o. 10; D. Thom. lib. 4 de Regim. Frinc. c. 22. 1), fra gli altri documenti che dava ai suoi discepoli metteva questo per molto principale, che ciascuno avesse due tempi del giorno determinati, uno la mattina ed un altro la sera, ne’ quali si esaminasse e seco stesso facesse i conti di tre cose; che cosa ho fatta; come l’ho fatta; e che cosa ho lasciato di fare di quel che doveva, rallegrandosi del bene e pigliandosi dispiacere del male. Lo stesso raccomandano Seneca, Plutarco, Epitteto ed altri. Per questo il nostro S. P. Ignazio fondato nella dottrina dei Santi, nella ragione e nell’esperienza, c’ingiunge l’esame della coscienza come uno de’ più principali ed efficaci mezzi di quanti possiamo usare dalla parte nostra pel nostro profitto, e ce lo pose per regola. Usino, dice, tutti ogni giorno il solito esame della coscienza: e in un altro luogo dice, che ciò si faccia due volte il giorno. E in certo modo stimava più l’esame che l’orazione; perciocché coll’esame s’ha d’andar mettendo in esecuzione quello che per frutto si cava dall’orazione, che è la mortificazione delle proprie passioni e l’estirpazione dei vizi e difetti. E S. Bonaventura dice, che l’esame della coscienza è il più efficace mezzo che possiamo adoperare dal canto nostro pel nostro profitto. Onde nella Compagnia se ne fa tanto conto, che a suono di campanella siamo chiamati ad esso due volte il giorno, una la mattina e l’altra la sera: e così siamo invitati all’esame, come all’orazione; acciocché nessuno lasci di farlo né la mattina né la sera. E né anche si contentò il nostro S. Padre, che usassimo noi altri questo esame; ma volle ancora, che lo persuadessimo a coloro le cui coscienze venivamo a dirigere (P.7 Const. c. 4, litt. F , et lib. Exerc. ep. reg. seu annot. 13 ex prioribus.). Onde i buoni operari della Compagnia subito che cominciano a trattare con alcuno, gl’insegnano a fare l’esame generale della coscienza, e anche il particolare, per levar via qualche mala consuetudine, come di giurare, di dir bugie, di maledire, o di altra cosa simile, come facevano i nostri primi Padri, e particolarmente leggiamo del Padre Pietro Fabro, che questa era una delle prime divozioni che dava a quei che si mettevano sotto alla sua direzione. E del nostro santo Padre si legge (Lib. 5, c. 10 Vit. P. N. Ign.), che non si contentava di proporre questo mezzo dell’esame particolare a quella persona che egli voleva guarire di qualche vizio; ma che di più, acciocché non si dimenticasse di metterlo in esecuzione, le ingiungeva, che prima del pranzo, e prima di andare a letto, desse conto a qualche persona confidente che egli stesso assegnavale, e che le dicesse se aveva fatto l’esame, e come, e se nella maniera che esso glielo aveva ordinato. E sappiamo ancora (Ibid. lib 2, cap. 4), che trattenne lungo tempo i suoi compagni nei soli esami e nella frequenza dei Sacramenti; parendogli, che se questo si faceva bene, bastasse per conservarsi nella virtù. – Di qui abbiamo da cavare una stima e un apprezzamento tanto grande di quest’esercizio di esaminar due volte il giorno le nostre coscienze, che lo teniamo per un mezzo importantissimo ed efficacissimo pel nostro profitto, e come tale l’usiamo ogni giorno: e quel dì nel quale ciò mancheremo di fare, siamo persuasi di aver mancato in una cosa molto principale della nostra Religione. Non v’ha da essere occupazione alcuna bastante a farci lasciar questo esame: e se uno sforzato da qualche necessaria occupazione non avesse potuto farlo all’ora assegnata, ha da procurare di farlo quanto più presto potrà, come sarebbe dopo il pranzo prima d’ogni altra cosa. Nemmeno l’infermità e la indisposizione che basta per dispensarci dal far lunga orazione, ha da bastare per dispensarci dal far gli esami. E così conviene, che tutti sappiano, che gli esami non si hanno da lasciar mai, né il particolare né il generale. E ha ben materia l’infermo da far l’esame particolare, considerando come si conformi alla volontà di Dio nell’infermità e nei dolori che gli manda; come accetti i rimedi che gli ordina il medico, i quali alle volte sono più disgustosi e più penosi che la stessa infermità; e come sopporti con pazienza i mancamenti che gli pare si facciano con lui da quelli che lo assistono e servono.

CAPO II.

Circa quali cose s’ha da fare l’esame particolare.

Due esami usiamo nella Compagnia, uno particolare e 1’altro generale. Il particolare si fa sopra una cosa sola, e perciò si chiama particolare: il generale si fa sopra tutti i mancamenti ed errori ch’abbiamo commessi tra giorno, coi pensieri, parole e opere; e per questo si chiama generale, perché abbraccia ogni cosa. Tratteremo in primo luogo dell’esame particolare; ed indi diremo poi brevemente del generale quello che vi sarà da aggiungere, atteso che in molte cose il medesimo s’ha da fare nel generale che nel particolare: e così quello che si dirà del particolare servirà ancora pel generale. Due cose spiegheremo circa questo esame particolare. La prima, sopra quali cose si ha da fare; la seconda, come si ha da fare. Quanto alla prima, acciocché sappiamo sopra quali cose abbiamo principalmente da tirar quest’esame, si ha da notar bene una Regola, o avvertenza, che il nostro S. Padre mette nel libro degli Esercizi spirituali (D. Igo. lib. Exerc. spir. in reg. ad motus animæ discernendes, reg. 14), ed è altresì di S. Bonaventura (D. Bonav. 3 p. breviloq.). Dice, che il demonio fa con noi come un capitano che vuol battere e prendere una città, o fortezza, il quale procura di riconoscere prima con ogni diligenza la parte più debole della muraglia, e verso quella drizza tutta l’artiglieria, ed ivi impiega tutti i suoi soldati, ancorché vi sia pericolo della vita per molti di essi; perché gettata a terra quella parte, entrerà, e prenderà la città. Così procura il demonio di riconoscer in noi altri la parte più debole dell’anima nostra, affine di batterci e vincerci per quella. Or questo ci deve servir d’avviso per premunirci e prepararci contra il nostro nemico, che abbiamo a considerare e riconoscere con attenzione la parte più debole dell’anima nostra e più manchevole di virtù; ch’è quella cosa alla quale più ci tira l’inclinazione naturale, o la passione, o la cattiva consuetudine, o il mal abito; e in questa parte abbiamo ad invigilare con maggiore attenzione e a provvederci di maggior riparo. Questa tal cosa, dicono i Santi e i Maestri della vita spirituale (D. Dorotb. serm. 12 ; Hugo de S. Victore lib. de anim. cap. 8), questa è quella che principalmente e con maggior diligenza e sollecitudine dobbiamo procurare di sradicare da noi; perché di questo abbiamo maggiore necessità; e così a questo principalmente si deve applicar l’esame particolare. Cassiano adduce di ciò due ragioni (Cass. coll. 5 Abb. Serap. c. 14). La prima, perché questo è quello che ci suol mettere in maggiori pericoli e ci fa cadere in mancamenti maggiori: onde conviene, che ivi usiamo maggior diligenza e sollecitudine. La seconda, perché dopo che avremo vinti e superati i nemici più forti e che più ci fanno guerra, facilmente vinceremo e abbatteremo tutti gli altri: perocché colla vittoria e col trionfo di questi l’anima viene a farsi più coraggiosa e più forte, e il nemico più debole. E apporta Cassiano a questo proposito l’esempio di quei giuochi che si facevano anticamente in Roma alla presenza dell’Imperatore, ne’ quali traevano fuori dalle cave molte fiere, acciocché gli uomini combattessero con esse: e quei che si volevano mostrar più valenti e dar gusto all’Imperatore, investivano prima quella che vedevano esser più forte e più feroce, vinta la quale ed uccisa, facilmente vincevano e trionfavano delle altre. Or così, dice Cassiano, abbiamo da fare noi altri. Vediamo per esperienza, che ciascuno ha qualche vizio che è come sopra degli altri, che ha un grande impero sopra di lui, e come dietro di sé lo strascina per la grande inclinazione che egli ha ad esso. Vi sono certe passioni chiamate predominanti, le quali pare che s’impadroniscano di noi altri e ci facciano fare quello che per altro non vorrem fare. Onde sogliono dire alcuni: S’io non avessi questo difetto, mi pare, che non vi sarebbe cosa che m’intrigasse né mi desse fastidio. Or sopra di questo abbiamo da tirar principalmente l’esame particolare. – In quella guerra che fece il Re di Siria contra il Re d’Israele, dice la S. Scrittura, che quel Re comandò a tutti i capitani del suo esercito, che non combattessero contra nessuno né piccolo né grande, se non solamente contra il Re d’Israele: Ne pugnetis contra minimum, aut contra maximum, nisi contra solum Regem Israel (II. Paral. XVIII, 30), parendogli, che ove fosse vinto il Re, si sarebbe vinto tutto l’esercito: e così fu, che ferito il re Acab con una saetta che uno tirò a caso, e come si suol dire, a Dio e alla ventura, fu finita la battaglia. Questo è quello che abbiamo da fare noi altri. Vinci tu questo vizio predominante, che tutto il resto facilmente s’arrenderà. Taglia il capo a cotesto gigante Golia, e subito fuggiranno e resteranno sconfitti tutti gli altri Filistei. Questa è la miglior regola generale per poter ciascuno conoscere sopra che cosa ha da tirare e stendere quest’esame. Ma in particolare uno de’ migliori modi che in ciò si può dare, è,che ciascuno conferisca questocol suo Confessore e Padre spirituale, con dargli prima pieno ragguaglio della sua coscienza e di tutte le sue inclinazioni, passioni, affezioni e abiti cattivi, senza che resti cosa che non gli manifesti; perché in questa maniera veduta egli e conosciuta la necessità del figliuolo suo spirituale e le circostanze particolari, gli sarà facile il determinargli la materia sopra di cui gli converrà di tirare l’esame particolare. E una delle cose principali, che uno ha da esporre quando dà ragguaglio della sua coscienza, è, sopra di che suol fare l’esame particolare, e che frutto ne cavi, come si dice nelle Regole del Prefetto delle cose spirituali e nell’Istruzione che di ciò abbiamo. Importa grandemente l’accertar bene a tirare l’esame particolare sopra quello che più conviene. Siccome non ha fatto poco, ma assai, il medico, quando ha accertato nel trovare la radice dell’infermità, poiché allora si applicano rimedi a proposito e le medicine vanno facendo operazione; così noi altri non abbiamo fatto poco, ma assai, quando abbiamo accertato nel trovare la radice delle nostre infermità spirituali, perché in conseguenza accerteremo ancora a medicarle bene,applicando ad esse il rimedio e la medicina dell’esame particolare. Una delle cagioni, per cui molti cavano poco profitto dall’esame particolare, è perché non l’applicano a quella cosa alla quale dovrebbero applicarlo. Se tu tagli la radice dell’albero, o sbarbi quella dell’erba cattiva, subito si marcirà e si seccherà tutto il resto; ma se non fai altro che troncar rami, c lasci la radice intatta, subito torna a germogliare e a crescere come prima.

CAPO III.

Di due ricordi e avvertimenti importanti pur far buona elezione della cosa sopra della quale si ha da tirare l’esame particolare.

Discendendo in questa materia più alparticolare, si hanno qui da avvertire due cose molto principali. La prima, che quando vi sono difetti esteriori che offendono e scandalizzano i nostri fratelli, questi hanno da essere i primi che si ha da procurar di levare coll’esame particolare, ancorché vi siano altre cose interne di maggior momento; come sarebbe, se uno è difettivo nel parlare, o perché parla assai, o perché parla con impazienza e collera, o perché dice parole che possono mortificare il suo fratello, o forse parole di mormorazione e che possono oscurar alquanto un altro, o altre simili. Perché la ragione e la carità ricercano, che prima leviamo via quei difetti che sogliono offendere e scandalizzare i nostri fratelli, e che procuriamo di vivere e conversare di tal maniera fra essi, che niuno possa lamentarsi né offendersi di noi, come dice il sacro Evangelio del padre e della madre del glorioso Battista: Erant autem justi ambo ante Deum, incedentes in omnibus mandatis et justifìcationibus Domini sine querela (Luc. I, 6): Erano entrambi giusti dinanzi a Dio e vivevano senza querela dinanzi agli uomini. Questa è una gran lode d’un servo di Dio e una delle cose che ha da procurar assai un Religioso che vive in comunità. Non basta, che egli sia giusto dinanzi a Dio; ma ha da procurar che il suo modo di procedere nella Religione sia tale, che niuno si possa lamentare di lui, sine querela; che non si possa di lui dire alcun male. E se vi è qualche cosa che possa offendere, su questa si deve cominciar a tirare l’esame particolare. La seconda cosa, che si ha da avvertire, è, che non dobbiamo spendere tutta la vita nostra nel far esame particolare sopra queste cose esteriori; perché queste sono più facili e stanno più in poter nostro che le interiori. S. Agostino dice molto bene: io comando alla mano, e la mano ubbidisce; comando al piede, e il piede ubbidisce; ma comando all’appetito, e l’appetito non ubbidisce (D. Aug. lib. 8 Confess. c. 9). È cosa chiara, che stan più soggetti e son più ubbidienti la mano e il piede, che l’appetito; perché essi non hanno moto contrario, come lo ha l’appetito. E così abbiamo da procurare di sbrigarci da queste cose esteriori quanto più presto ci sia possibile, e di conchiuderla con esse, acciocché ci resti tempo per altre cose maggiori, come è l’acquistare qualche virtù principale, o qualche superior perfezione; una profondissima umiltà di cuore per cui uno arrivi non solo a sentire bassamente di se medesimo, ma altresì a gustar, che gli altri ancora sentano di lui bassamente o lo vilipendano; il fare tutte le cose puramente per Dio, finché arriviamo a poter dire quello che diceva quel Santo: Non ho mai pensato di servir ad uomini, ma a Dio (Vide supra tract. 3, c. V); una conformità  grande alla volontà di Dio in ogni cosa, e altre cose simili. Perché sebbene è vero, che l’esame particolare propriamente e drittamente serve a levar via i difetti e le imperfezioni, e sempre ci sia assai che fare in noi circa di ciò, poiché mentre viviamo non possiamo star senza difetti, nemmeno senza peccati veniali; nondimeno non se ne deve andar in questo tutta la vita nostra. È molto bene impiegato il tempo che si spende in carpir le erbe cattive dal giardino; ma non ha da esser ogni cosa il levar via la viziosità e i perniciosi germogli della terra; anzi questo si ordina per potervi piantar belli e buoni fiori: così ancora è molto ben impiegato il tempo che si spende negli esami, sradicando i vizi e le male inclinazioni dell’anima nostra; ma tutto questo si ordina per piantar in essa fiori buoni e odoriferi di virtù: Constitui te hodie… ut evellas, et destruas, et disperdas, et dissipes, et ædifices, et plantes, disse Dio a Geremia (Ger. I, 10). Prima ha da esser il gettar a terra e lo sradicare; ma di poi ha da seguire l’edificare e il piantare. Tanto più, che anche per levar via questi medesimi difetti e imperfezioni esteriori conviene alle volte il tirare l’esame particolare sopra qualche virtù o perfezioni superiore: perché molte volte suol essere questo mezzo più efficace per tal effetto, e più breve, e più soave. Hai un difetto di parlare ai tuoi fratelli con qualche mal termine e libertà; e tu tira l’esame sopra il tener tutti essi per superiori e te per inferiore: e questo t’insegnerà in che modo hai da parlare e da risponder loro: potrai bene startene sicuro, che non dirai ad alcuno parola aspra né mortificativa se conseguirai questa umiltà. Così ancora, se senti ripugnanza e difficoltà in certe cose, o occasioni, che ti si presentano, tira l’esame particolare sopra il ricevere tutte le cose che ti avverranno come venute dalla mano di Dio e per particolar disposizione e provvidenza sua, facendo conto, ch’Egli te le manda per maggior bene e utilità tua: e in questo modo te la passerai bene in tutte esse. Patisci d’immodestia, e sei facile a voltar gli occhi e il capo ad una banda e ad un’altra; ovvero hai per difetto di esser curioso in voler saper nuove e investigar ciò che occorre; e tu tira l’esame sopra lo stare alla presenza di Dio e il fare tutte le cose di maniera che possano comparire nel suo divino cospetto; e in poco tempo ti troverai modesto, raccolto e spirituale: e questo senza alcuna stracchezza e in certo modo anche senza averci sentita molta difficoltà. E che sia il vero, guarda come quando esci dall’orazione devoto, non ti vien voglia né di parlare né di guardare; perché il trattare e conversare con Dio ti fa scordare di tutte queste cose. E se vuoi metterti a rimediare a tutti questi difetti esteriori ad uno ad uno, oltre che sarà un molto lungo viaggio, avverrà di più molte volte, che se vorrai tirar l’esame sopra la modestia degli occhi non lo saprai fare, e ti verrà subito il dolore di capo, per volere tutto in un tratto e con violenza tener gli occhi a freno. E così un bravo Maestro di spirito soleva riprendere quelli che tutta la diligenza loro mettevano in avvertir di questi difetti esteriori, e diceva, che la principal cura e sollecitudine del buon Direttore e Pastore delle anime ha da essere circa la riforma del cuore e circa il procurare, che la persona rientri in se stessa, come dice la S. Scrittura di Mosè, che minabat gregem ad interiora deserti (Es. III, 1). Tratta di riformar il cuore, e subito sarà riformata ogni cosa.

CAPO IV.

Che l’esame particolare si ha da tirare sopra una cosa sola.

L’esame particolare sempre s’ha da tirare sopra una cosa sola, siccome lo dice il nome istesso. E la ragione, per la quale conviene che cosi si faccia, è, perché in questa maniera questo mezzo è più efficace e di maggior effetto che se lo tirassimo sopra più cose insieme. Perché è cosa chiara e l’istessa ragione naturale ce l’insegna, che è molto più potente un uomo contra un vizio solo che contra tutti insieme: Pluribus intentus minor est ad singula sensus. Chi molto abbraccia, poco stringe: e presi ad uno ad uno si vincono meglio i nemici. Questo modo di vincere i nostri nemici, cioè i nostri vizi e le passioni, dice Cassiano (Cass. coll. 5 Abb. Scrap. cap. 14), ce l’insegnò lo Spirito Santo, dando l’istruzione a’ figliuoli d’Israele circa il modo di governarsi con quelle sette Genti e Nazioni per vincerle e distruggerle: Dominus Deus tuus consumet nationes has in conspectu tuo paulatim, atque per partes. Non poteris easdelere pariter (Deuer. VII, 22), non le potrete vincere tutte insieme; ma a poco a poco Dio vi darà la vittoria di tutte esse. Lo stesso Cassiano, come rispondendo ad una tacita obbiezione che qui potrebbesi fare, nota, che non accade, che uno tema che occupandosi contra un sol vizio e impiegando ivi la sua principal diligenza, gli altri vizi gli facciano molto nocumento. Primieramente, perché questa medesima diligenza che usa per emendarsi di cotesto vizio particolare cagionerà nell’anima sua un orrore e odio grande contra tutti gli altri vizi, per quella malizia comune nella quale tutti convengono: e così, stando armato e premunito contra quello in particolare, starà armato e premunito contra tutti, custodito e difeso da essi. Secondariamente, perché colui, il quale nell’esame particolare usa diligenza per isradicar da sé una cosa, va tagliando la radice che è nel cuore per le altre tutte; che è la libertà che a lui dassi di secondare in ciò che vuole le sue inclinazioni; onde il fissarsi a far l’esame sovra d’un vizio particolare è un combattere contra tutti: perché quel raffrenamento e quella opposizione che fassi per combattere quello in particolare, serve ancora per combattere e raffrenar gli altri: come si vede in un cavallo sboccato, che il tirargli le redini e il dargli una stirata di freno, acciocché non si spinga né corra disordinatamente per una strada, serve ancora acciocché non corra disordinatamente per le altre. E a questo s’aggiunge la terza cosa, che facciamo anche ogni giorno un altro esame generale che abbraccia tutto il resto. – In tal modo poscia abbiamo da insistere nel non far mai l’esame particolare che sopra una cosa sola, che anzi spesse volte e più ordinariamente conviene che un sol vizio o una sola virtù restino da noi divisi in parti ed in gradi, e che si vada a poco a poco facendo l’esame particolare prima sopra una parte, o sopra un grado, e poi sopra l’altra dello stesso vizio, o virtù, per potere a questo modo conseguir meglio quello che si desidera; perché, se pigliassimo generalmente ogni cosa insieme, non faremmo niente. Per esempio, se uno vuol tirar l’esame particolare sopra lo sradicar da sé la superbia, e l’acquistar l’umiltà, non ha da pigliar la cosa così in generale, dicendo: non voglio esser superbo in cosa alcuna, ma in ogni cosa umile; perché questo comprende gran roba, e farebbe più che se tirasse l’esame sopra tre, o quattro cose insieme; e così farà poche faccende, perché abbraccia troppo, ma ha da divider questo in più parti, o gradi; perché in questa maniera dividendo i nemici, e pigliando ciascuno di essi da sé, si vinceranno meglio, e si verrà a conseguir più presto quello che si desidera. Acciocché questa cosa si possa meglio mettere in pratica, stenderemo qui alcune cose principali sopra delle quali si può fare l’esame particolare, dividendole nelle loro parti e gradi. E sebbene per quel che tocca alcune virtù facciamo questo ne’ loro trattati a parte; nondimeno acciocché ogni cosa si trovi unita, per esser questo il luogo proprio, di tutte ne metteremo qui una breve raccolta che ci potrà anche servire di esemplare e di specchio nel quale possiamo mirare se andiamo facendo profitto, e veder quanto ci manchi per acquistare la perfezione.

CAPO V.

Come si ha a tirare e dividere l’esame particolarenelle parti e ne’ gradi delle virtù.

Dell’umiltà.

1. Non dir parole che possano ridondare in mia lode e riputazione.

2. Non compiacermi quando un altro mi loda e dice bene di me; anzi pigliar da ciò occasione d’umiliarmi e di confondermi più, vedendo, che non son tale quale gli altri si pensano né quale dovrei essere. E con questo si potrebbe congiungere il rallegrarmi quando è lodato un altro e si dice bene di lui. E quando di ciò avrò qualche dispiacere, o qualche movimento d’invidia, notarlo per difetto e per errore. E così ancora quando avrò qualche gusto e compiacenza vana del dirsi bene di me.

3. Non far cosa alcuna per rispetti umani, né per esser veduto e stimato dagli uomini, ma puramente per Dio.

4. Non iscusarmi, e molto meno buttar la colpa addosso ad altri, né esteriormente né interiormente.

5. Troncare e soffocare subito i pensieri vani, alteri e superbi, che mi vengono, di cose concernenti il mio onore e la mia reputazione.

6. Tener tutti per superiori, non solo speculativamente, ma praticamente, e nell’attual modo di procedere con essi, portandomi verso tutti con quell’umiltà e rispetto che si deve ai Superiori.

7. Accettar volentieri tutte le occasioni che mi si porgeranno in materia d’umiltà; e circa di ciò andar crescendo e ascendendo per questi tre gradi: 1° Tollerandole con pazienza: 2° Con prontezza e facilità: 3° Con gusto ed allegrezza. E non mi ho da quietare, sinché non giunga al provare allegrezza e gusto nell’essere dispregiato e vilipeso, per assomigliare ed imitar Cristo nostro Redentore, il quale volle essere dispregiato e vilipeso per me.

8. Si può condurre l’esame particolare sì in questa materia, come in altre simili, facendo alcuni atti ed esercizi d’umiltà e di qualsisia altra virtù sopra della quale si farà l’esame particolare, sì interiori, come esteriori, a questo applicandomi tante volte la mattina e tante la sera, cominciando con meno e andando sempre aggiungendo di più, sinché vada acquistando abito e consuetudine in quella virtù.

Della carità fraterna.

1. Non mormorare né dire alcun mancamento, o difetto d’un altro, ancorché sia cosa leggiera e pubblica. Non guastargli le cose sue, né dar segno alcuno di far poca stima di lui, né in presenza né in assenza, ma procurare, che su la mia bocca tutti siano buoni, onorati e stimati.

2. Non dir mai ad un altro: Il tale ha detta la tal cosa di te, essendo cosa della quale possa ricevere qualche disgusto, per piccolo che sia; perché questo è seminar discordie e zizzania tra’ fratelli.

3. Non dir parole mordenti, né delle quali altri si possa mortificare, né aspre, o impazienti. Non contrastare ostinatamente, né contraddire, né riprendere altri senza esser ciò a carico mio.

4. Trattar tutti amorevolmente, e con carità, e dimostrarlo con gli affetti, procurando di far loro servizio, di aiutarli, e di dar loro gusto in quanto potrò. E specialmente quando uno per ragione dell’ufficio che ha deve aiutar gli altri, ha da procurare di far questo tanto più compiutamente, e di supplire colle buone maniere, colle buone risposte e colle buone parole, ove non potranno arrivare i fatti.

5. Schifare qualsivoglia avversione; e molto più il dimostrarla; come sarebbe lasciando per qualche disgusto di parlar ad un altro e di fargli servizio in qualche cosa, potendo; o in qualsivoglia modo dando segno di aver qualche sorta di querela contro di lui.

6. Non essere singolare con alcuno nel trattare, ed evitare le famigliarità e amicizie particolari che offendono.

7. Non giudicar alcuno, anzi procurar di scusare i suoi mancamenti e difetti con me stesso e con altri, tenendo buona opinione di tutti.

Della mortificazione.

1. Mortificarmi nelle cose e occasioni che mi si presentano, senza che io le vada cercando; o vengano immediatamente da Dio; o vengano per mezzo dei Superiori; o per mezzo dei nostri prossimi e fratelli; o per qualsivoglia altra via; procurando di accettarle di buona voglia e di approfittarmi di esse.

2. Mortificarmi e vincermi in tutto quello che m’impedirà l’osservanza delle mie Regole e il far bene le cose ordinarie che fo ogni giorno, sì spirituali, come esteriori; perché tutti i mancamenti che in ciò facciamo, procedono, o dal non vincerci e non mortificarci in patir qualche travaglio, o dal non astenerci da qualche gusto e diletto.

3. Mortificarmi in procedere colla modestia che debbo, essendo Religioso, e specialmente in quel che tocca gli occhi e la lingua, quando in ciò vi sia qualche mancamento, o difetto.

4. Mortificarmi in alcune cose che lecitamente potrei fare, come in non uscire dalla mia stanza; in non vedere qualche cosa curiosa; in non domandare né voler sapere quel che non m’importa; in non dir qualche cosa che ho voglia di dire; e in altre cose simili; tirando l’esame sopra il far tante di queste mortificazioni la mattina e tante la sera, cominciando con meno, e andando di mano in mano aggiungendone di più: perché l’esercizio di queste mortificazioni volontarie, ancorché sia circa cose piccole, è di molto gran giovamento.

5. Mortificarmi nelle istesse cose che non posso a meno di fare, in questo modo, che quando vo a mangiare, a studiare, a leggere, a predicare, o a far qualsivoglia altro esercizio del quale ho gusto, io mortifichi prima il mio appetito e la mia volontà; dicendo col cuore: Signore, io non voglio far questo per mio gusto, ma perché lo volete Voi.

Dell’astinenza, o gola.

1. Non mangiar cosa alcuna né prima né dopo l’ora comune, né fuori del refettorio.

2. Contentarmi di quello che si dà alla Comunità, senza voler altre cose, né quelle medesime accomodate o condite in altro modo, non ammettendo particolarità senza necessità molto ben conosciuta.

3. In queste cose comuni non eccedere circa la quantità la regola della temperanza.

4. Non mangiare con molta ansia né con molta fretta, ma con modestia e decenza, non lasciandomi trasportare dall’appetito.

5. Non parlare di cose appartenenti al mangiare, e molto meno mormorarne o lamentarmene.

6. Tagliare e troncare pensieri di gola.

Della pazienza.

1. Non mostrare alcun segno esteriore d’impazienza, anzi mostrar segno di molta pace nelle parole, nelle azioni, e nel sembiante del viso, reprimendo tutti i movimenti e affetti contrari.

2. Non permettere, che entri nel cuore alcuna perturbazione, o dispiacere, o sdegno, o tristezza, e molto meno desiderio di vendetta alcuna, benché sia molto leggiera.

3. Ricevere tutte le cose e occasioni che mi si presenteranno, come mandate da Dio per bene e utilità mia, in qualsisia modo e per qualsivoglia mezzo, o via, elle vengano.

4. Andarmi esercitando e attuando in ciò per questi tre gradi: il primo, sopportando tutte le cose che m’occorreranno, con pazienza; il secondo, con prontezza e facilità, il terzo, con gusto e allegrezza, per essere quella la volontà di Dio.

Dell’ubbidienza.

1. Esser puntuale nell’ubbidienza esteriore, lasciando la lettera cominciata, e movendomi anche al cenno della volontà del Superiore, senza aspettare comandamento espresso.

2. Ubbidire volontariamente e di cuore, ed avere uno stesso volere e volontà col Superiore.

3. Ubbidire ancora con intelletto e col giudizio, essendo di un medesimo parere e sentimento col Superiore, non ammettendo giudizi o ragioni contrarie.

4. Ricevere la voce del Superiore e della campanella come se fosse voce di Dio, e ubbidire al Superiore, qualunque egli sia, come a Cristo Signor nostro, ed anche agli Ufficiali subordinati.

5. Avere ubbidienza cieca; che vuol dire, ubbidire senza investigare, né esaminare, né cercar ragione del perché; o a che effetto; ma mi basti per ragione l’esser ubbidienza e comandarlo il Superiore.

6. Passar agli atti della volontà, attuandomi, quando ubbidisco, nello star ivi facendo la volontà di Dio, e che questo sia tutto il gusto e la contentezza mia.

Della povertà.

1. Non dare, né ricevere da altri in Casa, o fuori, cosa alcuna senza licenza.

2. Non imprestare, né pigliar cosa alcuna dalla Casa, o dalla stanza di un altro, senza licenza.

3. Non tener cosa alcuna superflua, privandomi di tutto quello che non mi sarà necessario, sì intorno ai libri e alle suppellettili della stanza, come intorno al vestire e mangiare e a tutto il rimanente.

4. Nelle medesime cose necessarie che adoprerò, ho da procurare di parer povero, poiché sono tale, e che elle siano delle più povere, più semplici, e di manco valuta; di maniera che e nella stanza, e nel vestito, e nel mangiare, e in tutto il rimanente risplenda sempre la virtù della povertà, e apparisca, che son povero, desiderando e gustando, che le cose peggiori della Casa siano sempre per me, per mia maggior abnegazione e profitto spirituale.

5. Gustare, che ancora di quello che mi è necessario mi manchi qualche cosa; poiché questo è il vero povero di spirito e imitatore di Cristo nostro Redentore, il quale, essendo tanto ricco e potente, si fece povero per amor nostro, e volle sentir mancamento delle cose necessarie, patendo fame, sete, freddo, stanchezza e nudità (2 Cor. VIII, 8),

Della castità.

1. Essere circospetto negli occhi, non guardando persone né cose che possano essere incentivo di tentazione.

2. Non dire né ascoltare parole che tocchino questa materia, o che possano eccitar movimenti, o pensieri cattivi, né leggere cose simili.

3. Non ammettere pensiero alcuno toccante a questo, ancorché sia molto remoto e lontano, scacciandolo con gran diligenza e prestezza subito al principio.

4. Non toccar altra persona, specialmente nella faccia, nelle mani, nel capo, né lasciarmi toccare.

5. Osservar con me stesso molta decenza e onestà in guardarmi, scoprirmi, o toccarmi, fuori di quel che è precisamente necessario.

6. Non tener amicizie particolari, né dare né ricever presentucci né cose da mangiare. E con persone di facile occasione e con chi sente quest’affetto e inclinazione proceder con gran circospezione, fuggendo con buon modo la loro pratica e conversazione: il che suole esser unico rimedio in queste cose.

Del far bene le opere e azioni ordinarie.

1. Non lasciar giorno alcuno di fare i miei esercizi spirituali compiutamente, dando loro tutto il tempo per essi assegnato. E quando in questo tempo occorresse qualche occupazione necessaria, supplire in altro tempo.

2. Far bene ed esattamente l’orazione mentale e gli esami generale e particolare, osservando le Addizioni: e negli esami trattenendomi nel dolore e nella confusione dei mancamenti ed errori, e nel proponimento di emendarmene, più che nell’esaminar quante volte vi sono incorso: perché in questo sta la sostanza e il frutto dell’esame; e per mancamento di ciò sogliono alcuni cavare da esso poco frutto.

3. Far bene gli altri esercizi spirituali, Messa, Ufficio, Lezione spirituale, e le penitenze e mortificazioni così pubbliche come private, procurando di cavarne il fine e il frutto per lo quale ciascuna cosa è ordinata, e non facendola come per usanza, per complimento e per cerimonia.

4. Esercitar bene il mio ufficio e i miei ministeri, facendo quanto potrò e starà in mia mano, acciocché riescan ben fatti, come chi fa tutto questo per Dio e alla presenza di Dio.

5. Non commettere mancamento né errore alcuno a posta.

6. Stimare assai le cose piccole.

7. E perché il mio profitto e la mia perfezione sta nel far bene e perfettamente queste opere e azioni ordinarie che facciam ogni giorno; debbo tenere molta cura di tempo in tempo, quando sentirò che mi ci vada intiepidendo, di ritornar a tirare per alcuni giorni l’esame particolare sopra di queste per rinnovarmi e rifarmi nel farle bene.

Del far tutte le cose puramente per Dio.

1. Non fare cosa alcuna per rispetto umano, né per esser veduto né stimato dagli uomini, né per mia comodità, interesse, o gusto.

2. Far tutte le opere e le azioni puramente per Dio, assuefacendomi a riferirle attualmente tutte a Dio; primieramente la mattina subito che mi sveglio: secondariamente nel principio di ciascuna operazione ed azione: in terzo luogo anche nel decorso dell’opera e azione istessa, alzando molte volte, mentre la sto facendo, il cuore a Dio, con dire: Per voi, Signore, fo questa cosa, per vostra gloria, perché così voi volete.

3. Andar tirando questo esame su l’attuarmi nelle cose sopra dette tante volte la mattina e tante la sera, cominciando col meno e andando poi successivamente aggiungendo di più, sino che io vada acquistando una buona consuetudine ed un buon abito di alzare molto frequentemente il cuore a Dio nelle mie opere e azioni, sicché in esse non abbia più altra mira che di compiacere alla Divina Maestà Sua.

4. Non mi ho da fermare circa il fare quest’esame ed esercizio fin a tanto che io non arrivi a far le opere e azioni mie come chi serve Dio, e non uomini, e a farle in tal maniera, che in esse io stia sempre attualmente amando Dio e gustando di star ivi facendo la volontà sua, e che tutto il mio gusto in esse sia questo; talché quando io starò operando, più paia che sto amando che operando.

5. Questa ha da essere la presenza di Dio nella quale ho da camminare e stare, e la continua orazione che ho da procurare di fare; perché sarà molto buona e molto utile per l’anima mia, e mi aiuterà a far le cose ben fatte e con perfezione.

Della conformità alla volontà di Dio.

1. Pigliare tutte le cose e tutte le occasioni che avverranno (siano elleno grandi o siano piccole, per qualsivoglia via e in qualsisia modo che vengano) come venute dalla mano di Dio, il quale me le manda con viscere paterne, per maggior mio bene e profitto; e conformarmi in esse alla sua santissima e divina volontà, come se io vedessi l’istesso Cristo che mi stesse dicendo: Figliuolo, Io voglio, che adesso tu faccia, o patisca questa cosa.

2. Procurare d’andar crescendo e ascendendo in questa conformità alla volontà di Dio in tutte le cose, per questi tre gradi, il primo, in queste cose uniformarsi con pazienza ; il secondo, con prontezza e facilità; il terzo con gusto e allegrezza, per esser quella la volontà e il gusto di Dio.

3. Non mi ho da fermare nella pratica di questo esame fin a tanto che io non arrivi a provare in me stesso uno sviscerato gusto e giocondità, che si adempisca in me la volontà del Signore, ancorché sia con travagli, con dispregi e dolori, e fin a tanto che tutta la mia allegrezza e il mio gusto non sia la volontà e il gusto di Dio.

4. Non lasciare di far cosa che io conosca esser volontà di Dio e maggior gloria e servizio suo, procurando in questo d’imitar Cristo nostro Redentore, il quale disse: Ego, quæ placita sunt ei, facio semper (Jo. VIII, 29): Io fo sempre quello che piace più al mio eterno Padre.

5. Lo stare in questo esercizio sarà molto buon modo di stare alla presenza di Dio, e in continua orazione, è molto utile.

6. L’esame della mortificazione che abbiamo posto di sopra si potrà far meglio per via di conformità alla volontà di Dio; pigliando tutte le cose e occasioni come venute dalla mano del Signore, nel modo che qui s’è detto. E in questa maniera sarà più facile, più gustoso e più utile; perché sarà esercizio di amor di Dio. – È da avvertire, che non vogliamo dire per questo che l’esame particolare si abbia da fare con quell’ordine col quale si mettono qui le virtù, né con quell’ordine dei gradi, o delle parti, che si è tenuto in ciascuna di esse. Ma la regola che in ciò s’ha da tenere ha da essere, che ciascuno faccia scelta di quella virtù della quale avrà maggiore necessità, e in essa cominci da quella parte e da quel grado che più gli abbisogna: e finito che avrà con questo, vada pigliando del rimanente quello che conoscerà più convenirgli, sino a che arrivi ad acquistare la perfezione di quella determinata virtù con la grazia del Signore.

[1- Continua] https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/17/esame-di-coscienza-2-s-alfonso-rodriguez/

LO SCUDO DELLA FEDE (81)

LO SCUDO DELLA FEDE (81)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO IV.

PECCATO ORRENDO CHE È L’ABBANDONARE LA S. CHIESA CATTOLICA.

Domanderete voi forse: ma si perde poi proprio il s. Paradiso per tutta l’eternità, lasciando la Religione Cattolica e facendosi Protestanti? Miei cari, che dubbio vi è? Quelli che sono nati sventuratamente in mezzo dei Protestanti e che senza loro colpa sono privi della verità, che non hanno neppure avuto seri dubbi intorno alla loro Religione, se facciano con semplicità quello che possono e si astengano dai peccati, oppure ne chiedano seriamente perdono a Dio con buoni atti di contrizione, possono ritrovare la via della salute (si veda a proposito il libro del redenterista Rev. M. Mueller: “Fuori dalla Chiesa Cattolica nessuno assolutamente si salva”): ma quelli che avendo ricevuta la grazia preziosissima della Fede Cattolica,  l’hanno poi sacrilegamente abbandonata, per quelli se non ritornano a Dio non vi è altro che la dannazione. E se voi ne dubitaste per ventura sentitene le ragioni. Chi abbandona la S. Fede, commette il più orrendo peccato che si possa commettere da un Cristiano: ma siccome questo peccato è come un vasto mare che contiene mille malvagità, fate di conoscerlo un poco più al minuto. – Contiene la più nera ingratitudine che si possa immaginare verso il Signore. Imperocché, che merito avevamo noi per essere eletti a nascere nella S. Chiesa Cattolica, piuttosto che altrove? Se Dio ci faceva nascere tra’ Giudei, tra’ Mussulmani, tra’ Gentili idolatri, noi avremmo passata una vita tutta di guai e disordini e poi incontrata una morte da bestie e finalmente incorsa un’eternità disperata dentro l’inferno. Che merito avevamo noi ad essere stati invece enumerati tra i figliuoli di Dio nel S. Battesimo e poi con tanta grazia riconfortati e messi sulla strada della salute, giacché perfino i Protestanti lo confessano che noi siamo sulla via del Paradiso? Che merito avevamo noi per un’elezione così amorevole? Fu tutta pura misericordia che il Signore con singolare predilezione volle usare verso di noi. Quale ingratitudine adunque può concepirsi più nera che quella di abbandonare la S. Fede concessaci così pietosamente, rinunziare alla S. Madre Chiesa e gettarci in braccio alla setta Protestante? Contiene un insulto gravissimo a Gesù Cristo; poiché i Cattolici ne godono tutte le tenerezze. Quei che son nati Protestanti e senza loro colpa si trovano fra di loro, non conoscono la verità, possono ancora in qualche modo amare Gesù Cristo, ma il Cattolico Apostata rinunzia totalmente a Gesù e non può più amarlo. Egli sa per Fede che la Chiesa Cattolica è la Sposa di Gesù, e perciò, calpestando la Sposa sa che non può non inimicarsi lo Sposo. Contiene un insulto gravissimo alla S. Chiesa. Il Cattolico sa che Gesù ha collocato nella sua Chiesa tutti i beni spirituali dei suoi fedeli, perché ha voluto che la Chiesa fosse nostra Madre e nostra Maestra. Ora chi si fa Protestante rinunzia a tutte le tenerezze di questa sua Madre, a tutte le sante istruzioni di questa Maestra e la contrista altamente e la disonora in faccia dei suoi nemici. – Se io avessi davanti a me un Cattolico infelice che volesse fare questo passo orribile, sapete che cosa vorrei fare? Quel che fece Agrippina col suo figliuolo Nerone Imperatore. Questi era solito giuocare delle somme immense, che poi perdeva e faceva pagare senza neppur vedere. Per ammaestrarlo, un giorno la madre gli fece trovare la somma che aveva perduta sopra una tavola e gliela fece contare. Allora si avvide quello scialacquatore nel maneggiar tutto quel danaro, che immensa somma fosse quella che aveva perduta. Io vorrei fare lo stesso con quell’infelice che vuole gettare la Fede. Orsù. gli vorrei dire, orsù ti vuoi fare Protestante? Prendi adunque la penna in mano e scrivi tutto quello a cui vuoi rinunziare. Hai da rinunziare a quella Fede che ti è stata infusa nel S. Battesimo, a quella che ti diede allora Gesù rivestendoti dell’abito dell’innocenza. Scrivi: Rinunzio. Rinunzia al Sacramento della Penitenza. Mai più non verserai il tuo cuore in quello del Sacerdote tuo padre, mai più non sentirai quella parola pronunziata in nome di Gesù: va’, sei perdonato. Rinunzia al cibarti mai più delle carni dell’Agnello Immacolato sì in vita che in morte. Il Pastor Divino mai non ti pascerà più di se stesso, il tuo cuore non palpiterà mai più sul cuore di Gesù. Scrivi: Rinunzio. – Rinunzia alla protezione della tua Madre Maria, che hai amata ed invocata fin dalle fasce. Sei stato nella sua protezione finora, rinunzia adesso ad esserle figliuolo e dille che non t’importa più di averla Madre. Scrivi, scrivi pure senza che ti tremi la mano, che tu rinunzi a Maria, che mai più non la invocherai. Rinunzia ai Santi tuoi patroni, al Santo di cui porti il nome, al Santo protettore di tua famiglia, al patrono del tuo paese, all’Angelo tuo Custode, e di’ loro che non li invocherai mai più, che non ti curi di loro protezione e non ne hai bisogno. Scrivi: Rinunzio. Rinunzia anche ai tuoi parenti, poiché non vuoi più avere con loro comune la S. Fede. Il Dio loro non sarà più il tuo Dio. Il tuo culto non sarà più il culto loro. Tu ti befferai di quello che essi onorano, mentre essi esecreranno te per la nuova Religione. Rinunzia a tutte le dolcezze degli affetti domestici, poiché questi non possono aver luogo tra quelli che non hanno da stare insieme in eterno. Scrivi: Rinunzio. Rinunzia a tutti gli aiuti che potevi sperare al punto della tua morte. Rinunzia all’Estrema Unzione, perché ai Protestanti non si conferisce: rinunzia alla benedizione del S. Rosario, della buona morte, del Carmine, perché i Protestanti non le curano. – Rinunzia a tutti i suffragi che la S. Chiesa presta ai defunti, perché i Protestanti non li credono. Rinunzia ad essere sepolto presso la Chiesa all’ombra della Croce accanto al tuo Padre, alla tua Madre, ai tuoi fratelli, alle tue sorelle, perché i Protestanti si gettano alla campagna, e non in terra benedetta. Come? tu tremi a fare tante rinunzie? Ah ti resta ben altro a rinunziare! Rinunzia pure animosamente a Dio Padre, perché sentenza universale della Chiesa è che non ha Dio per Padre chi non ha per Madre la Chiesa che tu rigetti: epperò Dio non sarà più tuo Padre; sarai sua creatura, sarai suo servo, ma figliuolo mai più. Rinunzia a Gesù suo divino Figliuolo, perché Gesù Capo della Chiesa Cattolica non riconosce nessuno per suo membro, che non appartenga a Lei, e tu allontanandoti dalla Chiesa dai per sempre un addio anche a Lui. Rinunzia allo Spirito Santo, il quale ti ha santificato un tempo, ma che ora contristato e rigettato da te, non vuole più saperne nulla, perché Egli non ha che fare con chi non è servo di Gesù. – Rinunzia dunque alla SS. Trinità, poiché molti dei Protestanti non ci credono, e con la credenza della Trinità rigetta anche pure l’Incarnazione, perché senza di essa non è possibile. Rigettati dunque tutti i misteri, abiurate tutte le verità, che sinora hai credute, ecco quello che abbraccerai. Starai a sentire tutte le contradizioni che i tuoi sozzi maestri ti vorranno insegnare, e tutte quelle accetterai come prettissima verità. Cambierai le tue credenze ogni ventiquattro ore, poiché niuna setta di Protestanti ha mai durato costante nelle medesime dottrine. Invece dell’augusta Dottrina Cattolica, invece del Romano Pontefice, dei Vescovi sparsi per tutto l’Orbe, obbedirai ad un sarto, ad un maestro da muro, ad un barbiere, alla tua propria opinione, ed in cambio di duecento milioni di Cattolici, avrai per fratelli un pugno di eretici, che si divorano gli uni gli altri sempre cercando e mai non arrivando la verità. – Per sostenere la tua fede non sarà più il magistero intelligente dei sacri Pastori sotto la scorta dei Vescovi, in comunione con la Cattedra di Pietro, che mai non è caduta, e mai non cadrà in errore; ma tutta tua sicurezza sarà una Bibbia corrotta che non intendi e che non puoi intendere, che ti hanno posto in mano uomini che non conosci e che non hanno altra autorità che quella che si sono arrogata da sè, e tu interpreterai questa Bibbia secondo ogni tuo capriccio che pazzamente chiamerai ispirazione dello Spirito Santo. Conforto di tua speranza non saranno le promesse che Gesù ha fatte alla sua Chiesa, perché il Protestante la crede caduta in errore; non saranno le buone opere, perché il Protestante non le crede di merito; non saranno gli aiuti divini, perché il più dei Protestanti con Calvino crede che Dio ha determinato senza riguardo o la salvezza o la dannazione di ciascuno di noi. Tuo conforto sarà la voce di un uomo sacrilego che ti assicura sulla sua parola che con la Fede sola ti salverai. La carità non avrai bisogno di alimentarla, perché non albergherà più nel tuo cuore. All’amor di Gesù sostituirai invece un po’di umanitarismo; alle caste e pure sue fiamme un sentimento freddo di probità. – É vero che sarai condannato in ciò dalla tua stessa ragione che ti rappresenterà mille volte le contradizioni a cui sei in preda, che sarai condannato dal buon senso naturale che ti rinfaccerà l’assurdo che hai commesso nel fidarti del tuo giudizio, piuttostochè di quello di tutta la Cattolica Chiesa; è vero che sarai condannato da duecento milioni di Cattolici diffusi per tutto l’orbe e da cento generazioni passate, nelle quali il fior dell’ingegno e della virtù si tenne stretto a quella Fede che tu vuoi abbandonare; è vero che sarai straziato dalla tua stessa coscienza, la quale ti rappresenterà sempre l’eccesso per cui osasti staccarti dal tuo Dio e dal seno di tua madre la Chiesa; è vero che ti prepari ad incontrare una morte tutta di rimorsi, di laceramenti, di disperazione: ma ne avrai per largo compenso di esser vissuto qualche anno senza la noia della Chiesa, dei Sacramenti, dei digiuni, delle astinenze, del culto Cattolico, in preda alle tue passioni ed ai tuoi capricci. Se questo compenso ti basta. se questo partito ti arride, e tu prendilo e gettati pure nelle braccia dei Protestanti, e rinunzia animosamente alla Fede che ti fu infusa con l’innocenza, alla Fede che ti consolò nella tua infanzia, alla Fede che asciugò pietosa le ultime lacrime di tuo padre e di tua madre, e fatti pur Protestante, cioè di niuna Religione; perché quelli che dal seno della Cattolica Chiesa passano ad essere Protestanti più non ne praticano veruna. La Chiesa tua Madre piangerà sulla tua rovina a lacrime di sangue, ma il suo Sposo le rasciugherà le lacrime concedendo il luogo da cui sei prevaricato ad un povero selvaggio dell’Oceania o dell’America o di qualche isola perduta in mezzo al mare, e tu farai il tuo corso e compirai la tua dannazione. Che se invece ti senti inorridire alla proposta che ti ho fatta, se l’amore di Gesù Cristo tuo Padre, se la divozione a Maria tua Madre, se la riverenza ai tuoi maggiori e parenti, se le lacrime di S. Chiesa, se il pensiero della tua salvezza, se il timor d’una infelice eternità possono qualche cosa presso di te, e tu allora levati sopra te stesso, e svincolati dai maestri d’iniquità che t’intorniano e di’ una volta che sei nato Cattolico, che vuoi morire Cattolico, e che prima ti strapperanno mille volte il cuore dal petto, che dal cuore la S. Fede.

LA GRAZIA: NOTE DI TEOLOGIA ASCETICA -3-

LA GRAZIA

(Note di teologia ascetica)

NATURA DELLA VITA CRISTIANA (3)

[A. Tanquerey: Compendio di Teologia ascetica a mistica – Desclée e Ci. Roma-Tournai – Parigi; 1948]

3° DELLA GRAZIA ATTUALE

Come nell’ordine di natura abbiamo bisogno del concorso di Dio per passare dalla potenza all’atto, così nell’ordine soprannaturale non possiamo porre in atto le nostre facoltà senza il soccorso della grazia attuale.

124. Ne esporremo: 1 ° la nozione; il modo di operare; la necessità.

A) La nozione. La grazia attuale è un aiuto soprannaturale e transitorio che Dio ci dà per illuminare la nostra intelligenza e fortificare la nostra volontà nella produzione degli atti soprannaturali.

a) Opera quindi direttamente sulle nostre facoltà spirituali, l’intelligenza e la volontà, non più soltanto per elevarle all’ordine soprannaturale, ma per metterle in moto e far loro produrre atti soprannaturali. Diamone un esempio: prima della giustificazione o dell’infusione della grazia abituale, ci illumina sulla malizia e sui terribili effetti del peccato per farcelo detestare. Dopo la giustificazione, ci mostra, alla luce della fede, l’infinita bellezza di Dio e la misericordiosa sua bontà per farcela amare con tutto il cuore.

b) Accanto però a queste grazie interne, ve ne sono altre che si chiamano esterne, le quali, operando direttamente sui nostri sensi e sulle nostre facoltà sensitive, indirettamente influiscono sulle nostre facoltà spirituali, tanto più che sono spesso accompagnate anche da veri aiuti interni. Cosi la lettura della Sacra Bibbia o d’un libro cristiano, l’ascoltazione di una predica, d’un pezzo di musica religiosa, d’una buona conversazione, sono grazie esterne: di per sé non fortificano la volontà, ma producono in noi delle impressioni favorevoli che scuotono l’intelletto e la volontà e li inclinano verso il bene soprannaturale. Dio, del resto, vi aggiungerà spesso dei movimenti interni che, illuminando l’intelletto e fortificando la volontà, ci aiuteranno potentemente a convertirci o a divenir migliori. È quanto possiamo dedurre dalle parole del libro degli Atti, che ci mostrano lo Spirito Santo che apre il cuore d’una donna chiamata Lidia, per renderla attenta alla predicazione di S . Paolo [Act. XVI, 14]. Dio poi, il quale sa che noi ci eleviamo dal sensibile allo spirituale, s’adatta alla nostra debolezza e si serve delle cose visibili per portarci alla virtù.

125. B) Suo modo di operare: a) La grazia attuale influisce su di noi in modo morale e fisico nello stesso tempo: in modo morale, con le persuasioni e le attrattive, come una madre che, per aiutare il bambino a camminare, dolcemente lo chiama e lo invita a sé promettendogli una ricompensa; in modo fisico, aggiungendo nuove forze alle nostre facoltà, troppo deboli per operare da sole, come fa una madre che prende per le braccia il suo bambino e l’aiuta, non solo con la voce ma anche col gesto, a fare qualche passo innanzi. Tutte le Scuole ammettono che la grazia operante opera fisicamente, producendo nell’anima nostra dei movimenti indeliberati; quando però si tratta della grazia cooperante, vi è tra le diverse scuole Teologiche qualche disparere, che del resto per la pratica non ha grande importanza: non entriamo in queste discussioni, perché non vogliamo fondare la nostra spiritualità su questioni controverse.

b) Sotto un altro aspetto, la grazia previene il nostro libero consenso o l’accompagna nel compimento dell’atto. Così mi nasce, per esempio, il pensiero di fare un atto d’amor di Dio senza che io abbia fatto nulla per suscitarlo: è una grazia preveniente, è un buon pensiero che Dio mi dà; se io l’accolgo bene e mi studio di produrre quest’atto d’amore, io lo faccio con l’aiuto della grazia adiuvante o concomitante. — Pari a questa distinzione è quella della grazia operante, per mezzo della quale Dio opera in noi senza di noi, e della grazia cooperante, per mezzo della quale Dio opera in noi e con noi, cioè colla nostra libera collaborazione.

126. C) Sua necessità. Il principio generale è che la grazia attuale è necessaria per ogni atto soprannaturale, perché vi dev’essere proporzione tra l’effetto e il suo principio.

a) Così, quando si tratta della conversione, vale a dire del passaggio dal peccato mortale allo stato di grazia, abbiamo bisogno d’una grazia soprannaturale per fare gli atti preparatorii di fede, di speranza, di penitenza e d’amore; e anche per l’inizio della fede, cioè per quei pio desiderio di credere che ne è il primo passo, b) Ed è pure per la grazia attuale che perseveriamo nel bene nel corso della nostra vita sino all’ora della morte. Per questo infatti: – 1) si deve resistere alle tentazioni che assalgono anche le anime giuste e che sono talvolta così insistenti e ostinate che non possiamo resistervi senza l’aiuto di Dio. Ecco perché Nostro Signore raccomanda agli apostoli, anche dopo l’ultima Cena, di vigilare e pregare, vale a dire di appoggiarsi non sui propri sforzi soltanto, ma sulla grazia per non soccombere alla tentazione [Matth. XXVI, 41].- 2) Si devono inoltre adempiere tutti i propri doveri, e lo sforzo energico, costante, richiesto da questo adempimento non può farsi senza l’aiuto della grazia: solo Colui che incominciò in noi l’opera della perfezione, può condurla a buon fine [Fil. I, 6]; solo l’Autore della nostra vocazione all’eterna salute ha diritto di darvi l’ultima mano. [Piet. V, 10].

127. E ciò è specialmente vero per la perseveranza finale che è un dono speciale e grande dono [Trident. Sess. VI, can. 16, 22, 23]: morire nello stato di grazia, non ostante tutte letentazioni che vengono ad assalirci in quell’ultimo momento, o sfuggire a queste lotte con una morte dolce o repentina che ci addormenti nel Signore è, a detta dei Concilii, la grazia delle grazie che non si potrà mai chiedere abbastanza, che non si può strettamente meritare, ma che si può ottenere con la preghiera e con la fedele cooperazione alla grazia, suppliciter emereri potest [S. Agost. De dono persev., VI, 10 P. L. XLV, 999]. c) e quando si vuole non solo perseverare, ma crescere ogni giorno più in santità, schivare i peccati veniali deliberati e diminuire il numero delle colpe di fragilità, non si dovrà pure far assegnamento sui divini favori? Pretendere che si possa stare a lungo senza commettere qualche peccato che ritardi il nostro avanzamento spirituale, è un andare contro l’esperienza delle anime migliori che si rimproverano così amaramente le loro debolezze, è un contradire S. Giovanni, che dichiara illusi quelli che pensano di non commettere peccati: “Si dixerimus quoniam peccatum non habemus, ipsi nos seducimus, et veritas non est in nobis” [1 Joan. I, 8]; è un contradire il Concilio di Trento il quale condanna chi dicesse che l’uomo giustificato può, senza uno speciale privilegio divino [Sess. VI, can. 23] evitare in tutta la vita i peccati veniali.

128. La grazia attuale ci è dunque necessaria anche dopo la giustificazione; ed ecco perchè la S. Scrittura insiste tanto sulla necessità della preghiera, con cui quella si ottiene dalla misericordia divina, come spiegheremo più tardi. Possiamo pur ottenerla con atti meritori o, in altre parole, con la libera cooperazione alla grazia; perché quanto più siamo fedeli ad approfittarci delle grazie attuali che ci vengono largite, tanto più Dio si sente inclinato a concedercene delle nuove.

CONCLUSIONI.

129. Dobbiamo dunque avere la più grande stima per la vita della grazia; è una vita nuova, una vita che ci unisce e ci rende simili a Dio, con tutto l’organismo necessario al suo esercizio. Ed è vita assai più perfetta della vita naturale. Se la vita intellettuale è molto superiore alla vita vegetativa e alla vita sensitiva, la vita cristiana è infinitamente superiore alla vita semplicemente razionale; questa infatti è dovuta all’uomo, posto che Dio si risolva a crearlo, mentre la vita della grazia supera tutte le attività e tutti i meriti delle creature anche più perfette. Qual creatura infatti potrebbe mai pretendere il diritto di divenire figlio adottivo di Dio, tempio dello Spirito Santo, e il privilegio di vedere Dio faccia a faccia come Dio vede se stesso? – Dobbiamo quindi stimare questa vita più di tutti i beni creati, e considerarla come il tesoro nascosto per il cui acquisto non si deve esitare a vendere tutto ciò che si possiede.

130. 2 ° Quando si possiede un tal tesoro, bisogna sacrificare ogni cosa piuttosto che esporci a perderlo. È questa la conclusione che ne trae il Papa S. Leone: “Agnosce, o Christiane, dignitatem tuam, et, divina consors factus natura, noli in veterem vilitatem degeneri conversatione redire ” [Sermon. XXI]. Non vi è alcuno che più del Cristiano debba rispettare se stesso, non certo per ragione dei propri meriti, ma per ragione di quella vita divina a cui partecipa, e perché è tempio dello Spirito Santo, tempio santo di cui non si deve mai offuscare la bellezza: “Domum tuam decet sanctitudo in longitudinem dierum [Ps. XCII, 5].

131. Anzi, è evidente che dobbiamo pure utilizzare, coltivare quest’organismo soprannaturale di cui siamo dotati. Se piacque alla divina bontà di elevarci ad uno stato superiore, di darci largamente virtù e doni che perfezionano le nostre facoltà naturali, se ad ogni istante ci offre la sua collaborazione per metterli in opera, sarebbe un mal corrispondere a tanta liberalità il rigettar questi doni col non voler fare che atti naturalmente buoni o col non far produrre alla vigna dell’anima nostra che frutti imperfetti. Quanto più il donatore si mostrò generoso, tanto più s’aspetta da noi una collaborazione attiva e feconda. Il che apparirà anche meglio quando avremo veduto la parte che ha Gesù nella vita cristiana.

(…..)

§ II. L’aumento della vita spirituale per mezzo del merito.

228. Noi progrediamo per mezzo della lotta contro i nostri nemici, ma più ancora con gli atti meritori che facciamo ogni giorno. Ogni opera buona, fatta liberamente da un’anima in stato di grazia per un fine soprannaturale, possiede un triplice valore, meritorio, soddisfattorio e impetratorio, che contribuisce al nostro progresso spirituale.

a) Un valore meritorio, col quale aumentiamo il nostro capitale di grazia abituale e i nostri diritti alla gloria celeste: ne riparleremo subito.

b) Un valore sodisfattorio, che inchiude a sua volta un triplice elemento: 1) la propiziazione, che per ragion del cuore contrito ed umiliato ci rende propizio Dio e l’inclina a perdonarci le colpe.

2 ) l’espiazione che, con l’infusione della grazia, cancella la colpa;

3) la soddisfazione che, per il carattere penoso annesso alle nostre buone opere, annulla in tutto o in parte la pena dovuta al peccato. Questi felici risultati non sono prodotti soltanto dalle opere propriamente dette ma anche dall’accettazione volontaria dei mali e dei patimenti di questa vita, come insegna il Concilio di Trento [Sess. XIV; il quale aggiunge che vi è in questo un gran segno del divino amore. Che cosa infatti di più consolante che poterci giovare di tutte le avversità per purificar l’anima e unirla più perfettamente a Dio?

c) Finalmente queste opere hanno pure un valore impetratorio, in quanto contengono una domanda di nuove grazie rivolta all’infinita misericordia di Dio. Come ben fa notare S. Tommaso, si prega non solo quando in modo esplicito si presenta una supplica a Dio, ma anche quando con uno slancio del cuore o con le opere si tende a Lui, così che prega sempre colui che l’intera sua vita tiene sempre ordinata a Dio: “tamdiu homo orat quamdiu agit corde, ore vel opere ut in Deum tendat, et sic semper orat quitotam suam vitam in Deum ordinat “ [In Romanos, cap. I, 9-10]. Infatti questo slancio verso Dio non è forse una preghiera, un’elevazione dell’anima verso Dio e un mezzo efficacissimo per ottenere da Lui quanto desideriamo per noi e per gli altri? – Per lo scopo che ci proponiamo, ci basterà esporre la dottrina sul merito dicendone: 1° la natura; 2° le condizioni che ne aumentano il valore.

I . La natura del merito.

Due punti sono da spiegare: 1° che cos’è il merito; in che modo le nostre azioni sono meritorie.

CHE COS’È IL MERITO.

229. A) Il merito in generale è il diritto a una ricompensa. Il merito soprannaturale, di cui qui trattiamo, sarà dunque il diritto a una ricompensa soprannaturale, vale a dire a una partecipazione alla vita di Dio, alla grazia e alla gloria. Non essendo Dio tenuto a farci partecipare alla sua vita, occorrerà una promessa da parte sua per conferirci un vero diritto a questa ricompensa soprannaturale. Si può quindi definire il merito soprannaturale: un diritto a una ricompensa soprannaturale, che risulta da un’opera soprannaturalmente buona, fatta liberamente per Dio, e da una promessa divina che garantisce questa ricompensa.

230. B) Il merito è di due specie : a) il merito propriamente detto (che si chiama de condigno), al quale la retribuzione è dovuta per giustizia, perché vi è una specie d’uguaglianza o di proporzione reale tra l’opera e la retribuzione; b) il merito di convenienza (de congruo), che non si fonda sulla stretta giustizia ma su un’alta convenienza, essendo l’opera solo in piccola misura proporzionata alla ricompensa. Per dare un’idea approssimativa di questa differenza, si può dire che il soldato che si diporta valorosamente sul campo di battaglia, ha uno stretto diritto al soldo di guerra, ma solo un diritto di convenienza ad essere citato nel bollettino di guerra o ad essere decorato.

C) Il Concilio di Trento insegna che le opere dell’uomo giustificato meritano veramente un aumento di grazia, la vita eterna, e, se muore in questo stato, il conseguimento della gloria [Jac. I, 12].

231. D) Richiamiamo brevemente le condizioni generali del merito: a) L’opera, per essere meritoria, dev’essere libera; infatti se si opera per forza o per necessità, non si è moralmente responsabile dei propri atti, b) Deve essere soprannaturalmete buona, per aver proporzione colla ricompensa; c) e, quando si tratta di merito propriamente detto, dev’essere fatta in stato di grazia, perché è la grazia che fa abitare e vivere Cristo nell’anima nostra e la rende partecipi dei suoi meriti; d) fatta nel corso della vita mortale o viatoria, avendo Dio sapientemente determinato che, dopo un periodo di prova in cui possiamo meritare o demeritare, arrivassi al termine, dove si resta fissati per sempre nello stato in cui si muore. A queste condizioni da parte dell’uomo si aggiunge, da parte di Dio, la promessa che ci dà un vero diritto alla vita eterna; secondo S. Giacomo infatti “il giusto riceve la corona di vita che ha promesso a coloro che l’amano: Accipiet corone vitæ quam repromisit Deus diligentibus se [Jac. I, 22].

2° COME GLI ATTI MERITORI AUMENTANO LA GRAZIA E LA GLORIA.

232. Pare difficile a prima vista capire come atti semplicissimi, comunissimi, ed essenzialmente transitori, possano meritare la vita eterna. La difficoltà sarebbe insolubile se questi atti provenissero solo da noi; ma in verità si è in due a farli, sono il risultato della cooperazione di Dio e della volontà umana, il che spiega la loro efficacia: Dio, coronando i nostri meriti, corona pure i suoi doni, avendo in questi meriti una parte preponderante. Spieghiamo dunque la parte di Dio e quella dell’uomo e così intenderemo meglio l’efficacia degli atti meritori.

A) Dio è la causa principale e primaria dei nostri meriti: “Non sono io che opero – dice S. Paolo [1 Cor. XV, 10] – ma la grazia di Dio con me: Non ego, sed gratia Dei mecum. È Dio infatti che crea le nostre facoltà, che le eleva allo stato soprannaturale perfezionandole con le virtù e coi doni dello Spirito Santo; è Dio che con la grazia attuale, preveniente e adiuvante, ci sollecita a fare il bene e ci aiuta a farlo; Egli è dunque la causa primaria che mette in moto la nostra volontà e le dà forze nuove per abilitarla a operare soprannaturalmente.

233. B) Ma la nostra libera volontà, rispondendo alle sollecitazioni di Dio, agisce sotto l’influsso della grazia e delle virtù, e diviene quindi causa secondaria ma reale ed efficiente dei nostri atti meritori, perché siamo i collaboratori di Dio. Senza questo libero consenso non c’è merito; in cielo non meritiamo più, perché là non possiamo non amare Dio che chiaramente vediamo essere bontà infinita e fonte della nostra beatitudine. D’altra parte anche la nostra cooperazione è soprannaturale: per mezzo della grazia abituale noi siamo divinizzati nella nostra sostanza, per mezzo delle virtù infuse e dei doni lo siamo nelle nostre facoltà, e per mezzo della grazia attuale anche nei nostri atti. Vi è quindi vera proporzione tra le nostre azioni, divenute deiformi, e la grazia che è essa pure una vita deiforme o la gloria che non è se non lo sviluppo di questa stessa vita. E’ vero che questi atti sono transitori e la gloria è eterna; ma poiché nella vita naturale atti che passano producono abiti e stati psicologici che restano, è giusto che nell’ordine soprannaturale avvenga lo stesso, che i nostri atti di virtù, producendo nell’anima una disposizione abituale ad amar Dio, siano ricompensati con una durevole ricompensa; ed essendo l’anima nostra immortale, conviene che la ricompensa non abbia fine.

234. C) Si potrebbe certamente obiettare che non ostante questa proporzione, Dio non è tenuto a  darci una ricompensa così nobile e duratura con la grazia e la gloria. Il che concediamo senza difficoltà e riconosciamo che Dio, nella sua infinita bontà, ci dà più di quanto meritiamo; non sarebbe quindi tenuto a farci godere dell’eterna visione beatifica se non ce l’avesse promesso. Ma Ei l’ha promesso per il fatto stesso d’averci destinato a un fìne soprannaturale; la qual promessa ci è più volte ricordata nella S. Scrittura, dove la vita eterna ci viene presentata come ricompensa promessa ai giusti e come corona di giustizia: “coronam quam repromisit Deus diligentibus se… corona justititiæ quam reddet mihi justus judex ” [Jac. I, 12]. Quindi il Concilio di Trento dichiara che la vita eterna è nello stesso tempo una grazia misericordiosamente promessa da Gesù Cristo, e una ricompensa che, in virtù della promessa di Dio, è fedelmente concessa alle buone opere ed ai meriti [Sess. VI, c. 16].

235. Per ragione appunto di questa promessa si può conchiudere che il merito propriamente detto è qualche cosa di personale: per noi e non per gli altri meritiamo la grazia e la vita eterna, perché la divina promessa non va oltre. — La cosa va ben diversamente per Gesù Cristo, il quale, essendo stato costituito capo morale dell’umanità, in virtù di quest’ufficio meritò per ognuno dei suoi membri, e meritò in senso stretto. – Possiamo certamente meritare anche per gli altri, ma solo con merito di convenienza; il che è già cosa molto consolante, perché cotesto merito viene ad aggiungersi a ciò che meritiamo per noi stessi e ci fa così capaci, lavorando alla nostra santificazione, di cooperare pure a quella dei nostri fratelli. Vediamo ora quali sono le condizioni che aumentano il valore dei nostri atti meritori.

II. Condizioni che aumentano il nostre merito.

236. Queste condizioni si traggono dalle varie cause che concorrono a produrre gli atti meritori e quindi da Dio e da noi. Quanto a Dio, possiamo fare assegnamento sulla sua liberalità, perché è sempre magnifico nei suoi doni. Onde la nostra attenzione deve principalmente rivolgersi alle nostre disposizioni: vediamo ciò che può renderle migliori sia da parte della persona che merita, come da parte dell’atto meritorio.

I. CONDIZIONI TRATTE DALLA PERSONA.

237. Quattro sono le condizioni principali che contribuiscono all’aumento dei meriti: il grado di grazia abituale o di carità; — l’unione con Nostro Signore; — la purità d’intenzione; — il fervore.

a) Il grado di grazia santificante. Per meritare in senso proprio, bisogna essere in stato di grazia: quindi quanta più grazia abituale possediamo, tanto più, a parità di condizioni, siamo atti a meritare. È vero che alcuni teologi lo negarono sotto pretesto che questa quantità di grazia non influisce sempre sui nostri atti per renderli migliori, e che anche certe anime sante operano talora con negligenza e imperfezione. Ma la dottrina comune è quella che sosteniamo.

1) Infatti il valore d’un atto, anche presso gli uomini, dipende in gran parte dalla dignità della persona che opera e dal credito che gode presso Colui che deve ricompensarla. Ora ciò che fa la dignità d’un Cristiano e gli dà credito sul cuore di Dio è il grado di grazia o di vita divina a cui è elevato; è questa la ragione per cui i Santi del cielo o della terra hanno un potere d’intercessione così grande. Se quindi possediamo un grado di grazia più alto, ne viene che agli occhi di Dio valiamo più di quelli che ne hanno meno, che maggiormente gli piacciamo, e che per questo capo le nostre azioni sono più nobili, più accette a Dio e quindi più meritorie.

2) Ma poi ordinariamentee normalmente questo grado di grazia avrà un felice influsso sulla perfezione dei nostri atti. Vivendo di vita soprannaturale più abbondante, amando Dio con amore più perfetto, siamo portati a far meglio le nostre azioni, a mettervi più carità, ad essere più generosi nei nostri sacrifizi; le quali disposizioni, come tutti ammettono, aumentano certamente i nostri meriti. Né si dica che talora avviene il contrario; si ha in tal caso l’eccezione non la regola generale, e noi ne abbiamo tenuto conto aggiungendo: a parità di condizioni. – Quanto consolante è questa dottrina! Moltiplicando gli atti meritori, aumentiamo ogni giorno il nostro capitale di grazia; questo capitale a sua volta ci aiuta a mettere maggior amore nelle nostre opere, onde acquistano maggior valore per accrescere la nostra vita soprannaturale: Qui justus est, justificetur adhuc.

238. b) Il grado d’ unione con Nostro Signore.

È cosa evidente: la fonte del nostro merito è Gesù Cristo, Autore della nostra santificazione, causa meritoria principale di tutti i beni soprannaturali, capo d’un Corpo mistico di cui noi siamo le membra. Quanto più vicini siamo alla sorgente, tanto più riceviamo della sua pienezza; quanto più ci accostiamo all’Autore di ogni santità, tanto maggior grazia riceviamo; quanto più siamo uniti al capo, tanto più riceviamo da Lui moto e vita. E non è ciò che dice Nostro Signore stesso in quel bel paragone della vite? “lo sono la vite, voi i tralci… chi rimane in me ed Io in lui, questi porta gran frutto: Ego sum vitis vera, vos pahnites… qui manet in me, et ego in eo, hic feri fructum multum[Joan. XV, 1-6]. – Uniti a Gesù come i tralci al ceppo, noi riceviamo tanto maggior linfa divina quanto più abitualmente, più attualmente, più strettamente siamo uniti al ceppo divino. Ecco perché le anime fervorose o che tali vogliono divenire, cercarono sempre un’unione ognor più intima con Nostro Signore; ecco perché la Chiesa stessa ci chiede di fare le nostre azioni per Lui, con Lui, in Lui: per Lui, per Ipsum, perché  “nessuno va al Padre senza passar per Lui, nemo venit ad Patrem nisi per me[Joan. XIV, 6]; con Lui, cum Ipso, operando con Lui, perché si degna di essere il nostro collaboratore; in Lui, in Ipso, vale a dire nella sua virtù, nella sua forza, e soprattutto nelle sue intenzioni, non avendone altre che le sue.Gesù allora vive in noi, ispira i nostri pensieri, i nostri desideri, le nostre azioni, tanto da poter dire con S. Paolo: “Io vivo, non più io, ma vive in me Gesù: Vivo autem, jam non ego, vivit vero in me Christus[Galat. II, 20] . È chiaro che opere fatte sotto l’influsso e l’azione vivificante di Cristo, con l’onnipotente sua collaborazione, hanno un valore incomparabilmente più grande che se fossero fatte da noi soli. Quindi in pratica bisogna unirsi spesso, massime al principio delle nostre azioni, a N. S. GesùCristo e alle sue così perfette intenzioni, con la piena coscienza della nostra incapacità a far nulla di bene da noi stessi e con l’incrollabile fiducia ch’Egli può rimediare alla nostra debolezza.

239. C) La purità d’intenzione o la perfezione del motivo che ci fa operare. Molti teologi dicono che perché le nostre azioni siano meritorie basta che siano ispirate da un motivo soprannaturale di timore, di speranza o d’amore. S. Tommaso vuole certamente che siano fatte sotto l’influsso almeno virtuale della carità, ossia in virtù d’un atto d’amor di Dio posto precedentemente e il cui influsso persevera. Ma aggiunge che questa condizione si avvera in tutti coloro che sono in stato di grazia e compiono un atto lecito: “Habentibus caritatem omnis actus est meritorius vel demeritorius” [De malo, q. 2, a. 5, ad 7] . Ogni atto buono infatti si riconduce ad una virtù; ora ogni virtù converge alla carità, essendo essa la regina che comanda a tutte le virtù, come la volontà è la regina di tutte le facoltà. La carità, sempre attiva, ordina a Dio tutti i nostri atti buoni e vivifica tutte le virtù dando loro la forma. Tuttavia, se vogliamo che i nostri atti diventino meritori quanto più è possibile, occorre una purità d’intenzione molto più perfetta e attuale. L’intenzione è la cosa principale nei nostri atti, è l’occhio che li illumina e li dirige al debito fine, è l’anima che li ispira e dà loro valore agli occhi di DioSi oculus tuus fuerit simplex, totum corpus lucidum erit” . Ora tre elementi danno alle nostre intenzioni un valore speciale.

240. 1) Essendo la carità la regina e la forma delle virtù, ogni atto ispirato dall’amor di Dio e del prossimo avrà assai maggior merito di quelli ispirati dal timore o dalla speranza. Conviene quindi che tutte le nostre azioni siano fatte per amore: così diventano, anche le più comuni (come il pasto e la ricreazione), atti di carità, e partecipano al valore di questa virtù, senza perdere il proprio; mangiar per rifarsi le forze è motivo onesto e in un Cristiano anche meritorio; ma rifarsi le forze per meglio lavorare per Dio e per le anime, è motivo di carità assai superiore che nobilita quest’atto e gli conferisce un valore meritorio molto più grande.

241. 2) Poiché gli atti di virtù informati dalla carità non perdono il proprio valore, ne viene che un atto fatto con più intenzioni insieme sarà più meritorio. Così un atto d’obbedienza ai superiori fatto per doppio motivo, per rispetto alla loro autorità e nello stesso tempo per amor di Dio considerato nella loro persona, avrà il doppio merito dell’obbedienza e della carità. Uno stesso atto può quindi avere un triplice, un quadruplice valore: detestando i miei peccati perché hanno offeso Dio, io posso avere l’intenzione di praticare nello stesso tempo la penitenza, l’umiltà e l’amor di Dio; onde quest’atto è triplicemente meritorio. È quindi cosa utile proporsi più intenzioni soprannaturali; ma si eviti di dar negli eccessi col cercare troppo affannosamente intenzioni multiple, il che turba l’anima. Abbracciare quelle che spontaneamente ci si presentano e subordinarle alla divina carità, è questo il mezzo di aumentare i propri meriti senza perdere la pace dell’anima.

242. La volontà dell’uomo essendo volubile, è necessario esprimere e rinnovar spesso le intenzioni soprannaturali; altrimenti potrebbe accadere che un atto cominciato per Dio continuasse sotto l’influsso della curiosità, della sensualità o dell’amor proprio, e perdesse così una parte del suo valore; dico una parte, perché queste intenzioni sussidiarie non distruggendo interamente la principale, l’atto non cessa d’essere soprannaturale e meritorio nel suo complesso. Quando una nave, salpando da Genova, fa rotta per New York, non basta dirigere la prora una volta per sempre verso questa città; ma poiché la marea, i venti e le correnti tendono a farla deviare, bisogna continuamente ricondurla, per mezzo del timone, verso la meta. Così è della nostra volontà; non basta ordinarla una volta, e neppure ogni giorno, a Dio; le umane passioni e le influenze esterne la faranno deviar presto dalla diritta via; bisogna spesso con atto esplicito ricondurla verso Dio e verso la carità. Così le nostre intenzioni restano costantemente soprannaturali, anzi perfette e assai meritorie, specialmente se vi aggiungiamo il fervore nell’operare.

243. d) L’intensità o Il fervore con cui si opera. Si può infatti operare, anche facendo il bene con negligenza, con poco sforzo, o invece con slancio, con tutta l’energia di cui si è capaci, utilizzando tutta la grazia attuale messa a nostra disposizione. È chiaro che il risultato in questi due casi sarà ben diverso. Se si opera con negligenza non si acquistano che pochi meriti e talvolta anche uno si rende colpevole di qualche colpa veniale, la quale del resto non distrugge tutto il merito; se invece uno prega, lavora, si sacrifica con tutta l’anima, ognuna delle fatte azioni merita una quantità considerevole di grazia abituale. Senza entrar qui in ipotesi poco sicure, si può dire con certezza che, rendendo Dio il cento per uno di ciò che si fa per Lui, un’anima fervorosa acquista ogni giorno un numero considerevolissimo di gradi di grazie e diviene così in poco tempo molto perfetta, secondo l’osservazione della Sapienza: “Perfezionatosi in breve, compì una lunga carriera; – Consummatus in brevi, explevit tempora multa” [Sap. IV, 13]. Qual prezioso incoraggiamento al fervore, e come torna conto rinnovar spesso gli sforzi con energia e perseveranza!

2. CONDIZIONI TRATTE DALL’OGGETTO O DALL’ATTO STESSO.

244. Non le sole disposizioni della persone aumentano il merito, ma tutte le circostanze che contribuiscono a rendere l’azione più perfetta. Le principali sono quattro:

a) L’eccellenza dell’ oggetto o dell’atto che compie. Vi è gerarchia nelle virtù: le virtù teologali sono più perfette delle virtù morali, quindi atti di fede, di speranza e massime quelli di carità sono più meritori degli atti di prudenza, di giustizia di temperanza, ecc. Ma, come abbiamo detto, questi ultimi possono, per ragione dell’intenzione, diventare atti d’amore e parteciparne quindi lo speciale valore. Similmente gli atti di religione, che tendono direttamente alla gloria di Dio, sono più perfetti di quelli che hanno per fine diretto la nostra santificazione.

b) Per certe azioni, la quantitàpuò influire sul merito; così, a parità di condizioni, un dono generoso di mille lire sarà più meritorio di uno di dieci centesimi. Ma si tratti di quantità relativa; l’obolo della vedova, che si priva d’una parte del necessario, moralmente vale di più della ricca offerta di colui che si spoglia d’una parte del superfluo.

e) Anche la duratarende l’azione più meritoria: pregare, soffrire per un’ora vale più che farlo per cinque minuti, perché questo prolungamento esige maggiore sforzo e maggior amore.

245. d) La difficoltà dell’atto, non per sé stessa ma in quanto richiede maggior amor di Dio, sforzo più energico e più sostenuto, quando non provenga da imperfezione attuale della volontà, accresce anch’essa il merito. Così resistere a una tentazione violenta è più meritorio che resistere a una tentazione leggiera; praticare la dolcezza quando si ha un temperamento portato alla collera e quando si è frequentemente provocati da chi ci sta attorno, è più difficile e più meritorio che farlo quando si ha un naturale dolce e timido e si è circondati da persone benevoli. Non se ne deve però conchiudere che la facilità, acquistata con ripetuti atti di virtù, diminuisca necessariamente il merito; questa facilità, quando uno se ne giovi per continuare e anche aumentare lo sforzo soprannaturale, favorisce l’intensità o il fervore dell’atto, e sotto quest’aspetto aumenta il merito, come abbiamo già spiegato. Come unbuon operaio, perfezionandosi nel suo mestiere, evita ogni sciupio di tempo, di materia e di forza e ottiene maggior frutto con minor fatica; così un Cristiano che sa meglio servirsi degli strumenti di santificazione, evita le perdite di tempo, molti sforzi inutili, e con minor fatica guadagna maggiori meriti. I Santi, che con la pratica delle virtù riescono a fare più facilmente degli altri atti di umiltà, d’obbedienza, di Religione, non ne hanno minor merito per il fatto che praticano più facilmente e più frequentemente l’amor di Dio; e d’altra parte essi continuano a fare sforzi e sacrifici nelle circostanze in cui sono necessari. In conclusione, la difficoltà accresce il merito, non in quanto è ostacolo da vincere ma in quanto eccita maggiore slancio e maggioramore.Aggiungiamo solamente che queste condizionioggettive non influiscono realmente sul merito se non in quanto sono liberamente accettate e volute e reagiscono quindi sulla perfezione delle interne nostre disposizioni.

CONCLUSIONE.

246. La conclusione che spontaneamente ne viene è la necessità di santificare tutte e ciascuna delle nostre azioni, anche le più comuni. Come infatti abbiamo detto, possono essere tutte meritorie, se le facciamo con mire soprannaturali, in unione con l’Operaio di Nazareth, il quale, lavorando nella sua bottega, meritava continuamente per noi. E se è così, qual progresso non possiamo fare in un sol giorno! Dal primo svegliarsi del mattino fino al riposo della sera, centinaia di atti meritori un’anima raccolta e generosa può compire; perché non solo ogni azione, ma, quando si prolunga, ogni sforzo per farla meglio, per esempio, per cacciar le distrazioni nella preghiera, per applicare la mente al lavoro, per schivare una parola poco caritatevole, per rendere al prossimo il minimo servizio; ogni parola ispirata dalla carità; ogni buon pensiero da cui si trae profitto; in una parola, tutti i movimenti interni dell’anima liberamente diretti verso Dio, sono altrettanti atti meritori che fanno crescere Dio e la grazia nell’anima nostra.

247. Si può quindi dire con tutta verità che non c’è mezzo più efficace, più pratico, più facile a tutti per santificarsi, che rendere soprannaturali tutte le proprie azioni; questo mezzo basta da solo ad elevare in breve tempo un’anima al più alto grado di santità. Ogni atto è allora un germe di grazia, perché la fa germogliare e crescere nell’anima, e un germe di gloria, perché aumenta nello stesso tempo i nostri diritti alle beatitudine celeste.

248. Il mezzo praticodi convertire a questo modo tutti i nostri atti in meriti, è di raccoglierciun momento prima di operare, di rinunziare positivamente a ogni intenzione naturale o cattiva, di unirci a Nostro Signore, nostro modello e nostro mediatore, col sentimento della nostra impotenza, e offrire pei mezzo di Lui le nostre azioni a Dio per la gloria sua e per il bene delle anime; cosi intesa l’offerta spesso rinnovata delle nostre azioni è un atto di rinunzia, di umiltà, di amore a Nostro Signore, di amore di Dio, di amore del prossimo; è un’accorciatoia per giungere alla perfezione. A pervenirvi più efficacemente abbiamo pure a nostra disposizione i Sacramenti.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/22/la-grazia-note-di-teologia-ascetica-4/

LA GRAZIA: NOTE DI TEOLOGIA ASCETICA -2-

LA GRAZIA

(Note di teologia ascetica)

NATURA DELLA VITA CRISTIANA (2)

[A. Tanquerey: Compendio di Teologia ascetica a mistica – Desclée e Ci. Roma-Tournai – Parigi; 1948]

1° DELLA GRAZIA ABITUALE.

105. Dio, volendo nell’infinita sua bontà elevarci a Lui per quanto è permesso alla debole nostra natura, ci dà un principio vitale, soprannaturale, deiforme: la grazia abituale, grazia che si chiama creata, (Questa espressione non è del tutto esatta, perché la grazia non è una sostanza, ma un accidente o modificazione accidentale dell’anima nostra. Essendo però qualche cosa di finito e non potendo venire che da Dio, senza essere da noi meritata, le si dà questo nome, o talvolta si chiama anche concreata, per notare ch’essa è tratta dalla potenza obbedienziale dell’anima nostra.), per opposizione alla grazia increata che consiste nell’abitazione dello Spirito Santo in noi. Questa grazia ci rende simili a Dio e ci unisce strettissimamente a Lui: “Est autem hæc deificatio, Deo quædam, quoad fieri potest, assimilatio unioque “. – Sono questi i due aspetti della grazia che esporremo, dandone la definizione tradizionale e determinando l’unione prodotta dalla grazia tra l’anima e Dio.

A) Definizione.

106. La grazia ordinariamente si definisce una qualità soprannaturale, inerente all’anima nostra, che ci fa partecipare in modo reale, formale, ma accidentale, alla natura e alla vita divina.

a) E dunque una realtàdi ordine soprannaturale ma non una sostanza, perché nessuna sostanza creata può essere soprannaturale; è un modo d’essere, uno stato dell’anima, una qualità inerente alla sostanza dell’anima nostra, che la trasforma, la eleva sopra tutti gli esseri anche più perfetti; qualità permanente di sua natura, che sta in noi finche non la scacciamo dall’anima nostra commettendo volontariamente un peccato mortale. “La grazia, dice il Card. Mercier, appoggiandosi su Bossuet, è quella qualità spirituale che Gesù diffonde nelle anime nostre, che penetra nel più intimo della nostra sostanza, che s’imprime nel più segreto delle anime nostre, e che si spande (per mezzo delle virtù) in tutte le potenze e le facoltà dell’anima, che possiede interiormente l’anima e la rende pura e grata agli occhi di questo divin Salvatore, la fa suo Santuario, suo tempio, suo tabernacolo, insomma suo luogo di delizie.”

107. b) Questa qualità ci rende, secondo l’energica espressione di S. Pietro, partecipi della natura divina, divinæ consortes naturæ; ci fa entrare, come dice S. Paolo, in comunione con lo Spirito Santo ” communicatio Sancti Spiritus “, (II Cor., XIII, 13), in società col Padre e col Figlio, come aggiunge S. Giovanni. (1 Joan., I , 3). – Non ci fa certamente uguali a Dio, ma esseri deiformi simili a Lui; e ci dà, non la vita stessa di Dio che è essenzialmente incomunicabile, ma una vita simile alla sua. Il che ora spiegheremo, per quanto l’umana intelligenza vi può arrivare.

108. 1) La vita propria di Dio è di contemplare direttamente Se stesso e di infinitamente amarsi. Nessuna creatura, per quanto sia perfetta, può contemplareda se stessa l’essenza divina ” che abitauna luce inaccessibile, lucem inhabitat inaccessibilem(1 Tim. VI, 16). Ma Dio, per un privilegio interamentegratuito, chiama l’uomo a contemplare questa essenza divina nel cielo; ed essendone l’uomo incapace, ne eleva, ne dilata, ne fortifica l’intelligenza col lume della gloria. Allora, dice S. Giovanni, saremo simili a Dio, perché lo vedremo come Egli vede se stesso, o, che è lo stesso, come Egli è in sé: ” Similes ei erimus, quoniam videbimus eum sicuti est ” (I Joan, III, 2). Lo vedremo, aggiunge S. Paolo,non più attraverso lo specchio delle creature, ma faccia a faccia, senza intermedio, senza nubi, con una fulgida chiarezza: “Nunc per speculimi et in ænigmate, lune autem facie ad faciem” (1 Cor. XIII, 12-13). Così parteciperemo, benché in modo finito, alla vita stessa di Dio, poiché lo conosceremo come Egli conosce se stesso e lo ameremo come Egli ama se stesso. Il che spiegano i teologi dicendo che l’essenza divina verrà ad unirsi alla parte più intima dell’anima nostra e ci servirà di specie impressa, per renderci capaci di vederla senza alcuno intermedio creato, senza immagine alcuna.

109. 2) Ora la grazia abituale è già una preparazione alla visione beatifica e quasi un saggio di questo favore, prælibatio visionis beatifica; è la gemma che già contiene il fiore, benché questo non debba sbocciare che più tardi; è quindi dello stesso genere della visione beatifica e partecipa della sua natura. – Cerchiamo di spiegarci con un paragone, per quanto possa riuscire imperfetto. Io posso conoscere un artista in tre modi: dallo studio delle sue opere, — dal ritratto che me ne fa un suo intimo amico — o finalmente dalle relazioni dirette che io ho con lui. La prima di queste conoscenze di Dio, è quella che abbiamo dalla vista delle sue opere, conoscenza induttiva molto imperfetta, perché le sue opere, pur manifestandoci la sua sapienza e la sua potenza, nulla ci dicono della sua vita interiore. La seconda risponde assai bene alla conoscenza che ce ne dà la fede: sulla testimonianza degli scrittori sacri e principalmente del Figlio di Dio, io credo tutto ciò che Dio si degnò di rivelarmi non solamente sulle sue opere e sui suoi attributi, ma anche sulla sua vita intima; io credo che da tutta l’eternità Egli genera un Verbo che è suo Figlio, che ama e dal quale è riamato, e che da questo mutuo amore procede lo Spirito Santo. Certo io non capisco, e soprattutto io non vedo, ma io credo con incrollabile certezza, e questa fede mi fa partecipare in modo velato, oscuro, ma reale, alla conoscenza che Dio ha di se stesso. Solo più tardi, per mezzo della visione beatifica, si avvererà il terzo modo di conoscenza; ma, com’è chiaro, il secondo è in sostanza della stessa natura di quest’ultimo, e certamente molto superiore alla conoscenza razionale.

110. C) Questa partecipazione della vita divina non è semplicemente virtuale ma formale. La partecipazione virtuale non ci fa possedere una data qualità che in un modo diverso da quello in cui si trova nella causa principale; cosi la ragione è una partecipazione solo virtuale dell’intelletto divino, perché ci fa conoscere la verità, ma in un modo assai diverso dalla conoscenza che ne ha Dio. Non è così della visione beatifica, e, salve le proporzioni, della fede; queste ci fanno conoscere Dio come Egli conosce se stesso, non certo nello stesso grado ma nello stesso modo.

111. d) Questa partecipazione non è sostanziale ma accidentale. Così essa si distingue dalla generazione del Verbo, che riceve tutta la sostanza del Padre; e dalla unione ipostatica, che è un’unione sostanziale della natura umana con la natura divina nell’unica Persona del Verbo; noi conserviamo infatti la nostra personalità e la nostra unione con Dio non è sostanziale. Tale è la dottrina di S. Tommaso: (S. th. Ia, IIæ, q. 110, a. 2). “Essendo la grazia molto superiore alla natura umana, non può essere né una sostanza, né la forma sostanziale dell’anima; non può esserne che la forma accidentale”. E, per spiegare il suo pensiero, aggiunge che tutto ciò che è sostanzialmente in Dio ci vien dato accidentalmente e ci fapartecipare alla divina bontà: “Idenim quod substantialiter est in Deo, accidentaliter fit in anima participante divinam bonitatem, ut de scientia patet “.Con queste restrizioni si evita di cadere nel panteismo,e si ha nondimeno un’idea altissima dellagrazia, che ci apparisce come una divina somiglianza impressa da Dio nell’anima nostra: “faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram(Gen. I, 26).

112. Per farci intendere questa divina somiglianzà, i Padri usano diversi paragoni. 1) L’anima nostra, essi dicono, è una immagine vivente della Trinità, una specie di ritratto in miniatura, poiché lo Spirito Santo stesso viene ad imprimersi in noi come il sigillo sulla molle cera e vi lascia così la sua divina somiglianza. Ne concludono che l’anima in stato di grazia è d’una meravigliosa bellezza, poiché l’artista che vi dipinge questa immagine è infinitamente perfetto, non essendo altri che Dio stesso: “Pictus es ergo, o homo, etpictus es a Domino Deo tuo. Bonum habes artificem atque pictorem” (S. Ambr. in Exæm, l. VI c. 8).E ne conchiudono pure con ragione che noi nonsolo non dobbiamo distruggere od offuscare questaimmagine, ma anzi renderla ogni giorno più rassomigliante.— Paragonano anche l’anima nostra a quei corpi trasparenti che, ricevendo la luce del sole, ne sono come penetrati e acquistano un incomparabile fulgore che diffondono poi tutto intorno a loro (S. Bas. De Sp. S., IX, 23); così l’anima nostra, simile a un globo di cristallo illuminato dal sole, riceve la luce divina, risplende di vivo fulgore e lo riflette sugli oggetti circostanti.

113. 2) Per dimostrare che questa rassomiglianza non è cosa superficiale ma penetra nel più intimo dell’anima nostra, ricorrono al paragone del ferro e del fuoco. Come, dicono essi, una verga di ferro, immersa in un ardente braciere, acquista subito lo splendore, il calore e la pieghevolezza del fuoco, così l’anima nostra, immersa nella fornace del divino amore, si libera dalle scorie e diviene brillante, ardente e docile alle ispirazioni divine.

114. 3) Un autore contemporaneo, volendo esprimere l’idea che la grazia è una vita nuova, la paragona a un innesto divino fatto sul ramo selvatico della nostra natura e che si fonde coll’anima nostra per costituire un nuovo principio vitale e quindi una vita assai superiore. Però, come l’innesto non conferisce al ramo selvatico tutta la vita di quella natura onde è stato tolto ma soltanto questa o quella delle sue proprietà vitali, così la grazia santificante non ci dà tutta la natura di Dio ma qualche cosa della sua vita che costituisce per noi una nuova vita; noi quindi partecipiamo alla vita divina ma non la possediamo nella sua pienezza (Eymieu). È chiaro che questa divina somiglianza prepara l’anima nostra ad una ultimissima unione con l’adorabile Trinità che abita in lei.

B) Unione tra l’anima nostra e Dio.

115. Da ciò che abbiamo detto sull’abitazione della SS. Trinità nell’anima nostra (n. 92), risulta che tra noi e l’ospite divino corre un’unione morale ultimissima e santificantissima. Ma non c’è forse qualche cosa di più, qualche cosa di fisico in quest’unione?

116. a) I paragoni usati dai Padri sembrerebbero indicarlo.

1) Un gran numero di essi ci dicono che l’unione di Dio coll’anima è simile a quella dell’anima col corpo: “In noi vi sono, dice S. Agostino, due vite, la vita del corpo e la vita dell’anima; la vita del corpo è l’anima, la vita dell’anima è Dio “sicut vita corporis anima, sic vita anima; Deus. “È chiaro che si tratta solo di analogie; ma studiamoci di cavarne la verità che contengono. L’unione tra il corpo e l’anima è sostanziale, così che non formano più che una sola e medesima natura, una sola e medesima persona. Non è così dell’unione dell’anima con Dio: noi conserviamo sempre la nostra natura e la nostra personalità e restiamo quindi essenzialmente distinti dalla divinità. Ma, come l’anima dà al corpo la vita di cui gode, così Dio, senza essere forma dell’ anima, le dà la vita soprannaturale, vita non uguale ma veramente e formalmente simile alla sua; e questa vita costituisce un’unione realissima tra l’anima e Dio. – Suppone una realtà concreta che Dio ci comunica e che serve di vincolo unitivo tra Lui e noi; questa nuova relazione non aggiunge certamente nulla a Dio, ma perfeziona l’anima nostra e la rende deiforme; lo Spirito Santo quindi diviene non causa formale, ma causa efficiente ed esemplare della nostra santificazione.

117. 2) Questa stessa verità si deduce dal paragone che alcuni autori fanno tra l’unione ipostatica e l’unione dell’anima nostra con Dio. Vi è certamente tra le due una differenza essenziale: l’unione ipostatica è sostanziale e personale, perché la natura divina e la natura umana, sebbene perfettamente distinte, non formano più in Gesù Cristo che una sola e medesima Persona, mentre che l’unione dell’anima con Dio per mezzo della grazia, ci lascia la nostra personalità, essenzialmente distinta dalla personalità divina, e non ci unisce a Dio se non in modo accidentale: “Si compie infatti per mezzo della grazia santificante, che è un accidente aggiunto alla sostanza dell’anima; ora, in linguaggio scolastico, l’unione d’un accidente ed una sostanza si chiama unione accidentale”. Ma rimane pur sempre vero che l’unione dell’ anima con Dio è un’unione di sostanza a sostanza,  e che l’uomo e Dio vengono in contatto così intimo come il ferro e il fuoco che l’avvolge e lo penetra, come il cristallo e la luce. Per dir tutto in una parola, l’unione ipostatica fa un uomo-Dio, l’unione della grazia fa degli uomini divinizzati; e come le azioni di Cristo sono divino-umane o teandriche, così le azioni del giusto sono deiformi, fatte in comune da Dio e da noi, e per questo titolo meritorie della vita eterna, la quale non è altro che la unione immediata con la Divinità. Possiamo quindi dire col P. de Smedt: che l’unione ipostatica è il tipo della nostra unione con Dio per mezzo della grazia, e che questa ne è l’immagine più perfetta che una pura creatura possa riprodurre in sé”. – Concludiamo con lo stesso autore che l’unione della grazia non è puramente morale, ma contiene un elemento fisico che ci permette di chiamarla fisico-morale: “La natura divina è veramente nel suo essere stesso unita alla sostanza dell’anima per mezzo di un vincolo speciale, per modo che l’anima giusta possiede in sé la natura divina come cosa che le appartiene, e quindi possiede un carattere divino, una perfezione d’ordine divino, una bellezza divina, infinitamente superiore a tutto ciò che può esservi di perfezione naturale in una creatura qualsiasi reale o possibile.

118. b) Se, lasciando da parte i paragoni, studiamo il lato dottrinale della questione, arriviamo alla stessa conclusione, 1) In cielo, gli eletti vedono Dio faccia a faccia, senza alcun intermedio; la stessa essenza divina fa l’ufficio di specie impressa: ” in visione qua Deus per essentiam videbitur, ipsa divina essentia erit quasi forma intellectus qua intelliget ” [S. TOMMASO, Sum. theol., Suppl., q. 92, a. 3, ad 8]. Vi è dunque tra essi e la Divinità un’unione vera, reale, che si può chiamare fisica, perché Dio non può essere visto e posseduto che a patto d’essere presente al loro intelletto colla sua essenza, e non può essere amato se non è effettivamente unito alla loro volontà come oggetto d’amore : “amor est magis unitivus quam cognitio“. [Sum. theol.. Ila q. 28 a. 1 ad 3]. Ora la grazia altro non è che un principio e un germe della gloria: “gratia nihil est quam inchoatio gloriæ in nobis“.[S. Th. IIa IIæ, q. 24, a 3 ad 2. – V. Illud munus di Leone XIII] – L’unione dunque cominciata sulla terra tra l’anima nostra e Dio per mezzo della grazia è in sostanza dello stesso genere di quella della gloria, reale e in un certo senso fisica come questa. Tal è la conclusione del P. Froget nel suo bel libro L abitazione dello Spirito Santo (p. 159), appoggiandosi su numerosi testi di S. Tommaso: « Dio è dunque realmente, fisicamente, sostanzialmente presente nel cristiano che ha la grazia; e non è già una semplice presenza materiale ma un vero possesso accompagnato da un principio di godimento ».

2) La medesima conclusione discende pure dall’analisi della grazia stessa. Stando all’insegnamento dell’Angelico Dottore, che si fonda sugli stessi testi scritturali che abbiamo citati, la grazia abituale ci è data per godere non solo dei doni di Dio, ma delle stesse Persone divine; Per donum gratia gratiam facicntis perficitur creatura rationalis ad hoc quod libere non solum ipso dono creato utatur, sed ut ipsà divina persona fruatur” [S. Th. I, q.43, a. 3 ad 1]. Ora, aggiunge un discepolo di S. Bonaventura, per godere d’una cosa è necessaria la sua presenza, e quindi per godere dello Spirito Santo la sua presenza è necessaria come necessario è il dono creato che unisce a Lui [ps. Bonaventura, Comp. Theol. Veritatis, 1. I, c. 9]. E poiché la presenza del dono creato è reale e fisica, quella dello Spirito Santo non dovrà forse essere dello stesso genere? Ecco dunque che le deduzioni della fede come i paragoni dei Patri ci autorizzano a dire che l’unione dell’anima nostra con Dio per mezzo della grazia non è soltanto morale, che non è neppur sostanziale in senso proprio, ma che è talmente reale da potersi chiamare fisico-morale. Restando per essa velati ed oscura ed essendo progressiva, nel senso che noi ne percepiamo tanto meglio gli effetti quanto più coltiviamo la fede e i doni dello Spirito Santo, le anime ferventi che sospirano l’unione divina, si sentono vivamente sollecitate ad avanzar ogni giorno più nella pratica delle virtù e dei doni.

2° DELLE VIRTÙ E DEI DONI, O DELLE FACOLTÀ DELL’ORDINE   SOPRANNATURALE.

Richiamatane prima l’esistenza e la natura, parleremo per ordine delle virtù e dei doni.

A) Esistenza e natura.

119. La vita soprannaturale inserita nell’anima nostra per mezzo della grazia abituale richiede, per operare e svilupparsi, delle facoltà di ordine soprannaturale, che la liberalità divina generosamente concede sotto nome di virtù infusee di doni dello Spirito Santo:  L’uomo giusto, dice Leone XIII, che vive della vita della grazia e che opera per mezzo delle virtù, che tengono in lui il posto delle facoltà, ha pure bisogno dei doni dello Spirito Santo: Homini iusto, vitam scilicet viventi divinæ gratiæ et per congruas virtutes tamquam facultates  agenti, opus piane est septenis illis qua; proprie

dicuntur Spiritus Sancti donis” [Divinum illud munus, 9 maggio 1897). Conviene infatti che le nostre facoltà naturali, le quali da se stesse non possono produrre che atti del medesimo ordine, siano perfezionate e divinizzate da abiti infusi, che le elevino e le aiutino ad operare soprannaturalmente. E Dio, infinitamente liberale qual è, ce ne da di due specie: le virtù, che, sotto la direzione della prudenza, ci abilitano a operare soprannaturalmente col concorso della grazia attuale; e i doni che ci rendono così docili all’azione dello Spirito Santo che, guidati da una specie di divino istinto, siamo, per così dire, mossi e diretti da questo divino Spirito. – Bisogna però notare che questi doni, i quali ci sono conferiti colle virtù e colla grazia abituale, non vengono esercitati con frequenza ed intensità se non dalle anime mortificate che, con una lunga pratica delle virtù morali e teologali, acquistarono quella soprannaturale pieghevolezza, onde rendonsi interamente docili alle ispirazioni dello Spirito Santo.

120. La differenza essenziale tra le virtù e i doni deriva dunque dal loro diverso modo di operare in noi: nella pratica delle virtù, la grazia ci lascia attivi, sotto l’influsso della prudenza; nell’uso dei doni, raggiunto che abbiano il loro pieno sviluppo, richiede da noi più docilità che attività, come esporremo meglio trattando della via unitiva. Intanto un paragone ci aiuterà a capire: quando una madre insegna a camminare al figlio, ora si contenta di guidarne i passi impedendogli di cadere, ora lo prende tra le braccia per fargli superare un ostacolo o per farlo riposare; nel primo caso si ha la grazia cooperante delle virtù, nel secondo si ha la grazia operante dei doni. Ma da ciò risulta che, normalmente, gli atti compiuti sotto l’influsso dei doni sono più perfetti di quelli che si compiono solamente sotto l’influsso delle virtù, appunto perché l’azione dello Spirito Santo nel primo caso è più attiva e più feconda.

B) Delle virtù infuse.

121. È certo, secondo la dottrina del Concilio di Trento, che nel momento stesso della giustificazionericeviamo le virtù infuse della fede, della speranzae della carità. Ed è dottrina comune, confermata dal Catechismo del Concilio di Trento [Sess. VI, C. 7] , cheanche le virtù morali della prudenza, della giustizia, della fortezza e della temperanza ci sono comunicatenello stesso momento. Non dimentichiamo peròche queste virtù ci danno, non la facilità, ma il potere soprannaturale prossimo di fare atti soprannaturali; saranno necessari ripetuti atti per aggiungerviquella facilità che viene dall’abitudineacquisita.Vediamo come queste virtù rendono soprannaturalile nostre facoltà.

a) Le une sono teologali, perché hanno Dio per oggetto materiale e qualche attributo divino per oggetto formale. La fedeci unisce a Dio, suprema verità, e ci aiuta a veder tutto e a tutto giudicare alla divina sua luce. La speranza ci unisce a Colui che è la sorgente della nostra felicità, sempre pronto a versare su noi le sue grazie per compiere la nostra trasformazione ed aiutarci col suo potente soccorso a fare atti di confidenza assoluta e di filiale abbandono. La caritàci eleva a Dio sommamente buono in se stesso; e, sotto il suo influsso, noi ci compiacciamo delle infinite perfezioni di Dio più che se fossero nostre, desideriamo che siano conosciute e glorificate, stringiamo con Lui una santa amicizia, una dolce familiarità e così diventiamo ognor più a Lui somiglianti. Queste tre virtù teologali ci uniscono dunque direttamente a Dio.

122. b) Le virtù morali, che hanno per oggetto un bene onesto distinto da Dio e per motivo l’onestà stessa di quest’oggetto, favoriscono e perpetuano questa unione con Dio, regolando le nostre azioni in modo che, non ostante gli ostacoli che si trovano dentro e fuori di noi, tendano continuamente verso Dio. Così la prudenzaci fa scegliere i mezzi migliori per tendere al nostro fine soprannaturale. La giustizia, facendoci rendere al prossimo ciò che gli è dovuto, santifica le nostre relazioni coi nostri fratelli in modo da avvicinarci a Dio. La fortezzaarma l’anima nostra contro la prova e la lotta, ci fa sopportare con pazienza i patimenti e intraprendere con santa audacia le più rudi fatiche per procurare la gloria di Dio. E, poiché il piacere colpevole ce ne distoglierebbe, la temperanzamodera il nostro ardore pel piacere e lo subordina alla legge del dovere. – Tutte queste virtù hanno dunque per ufficio di allontanare gli ostacoli e anche di somministrarci mezzi positivi per andare a Dio.

C) Dei doni dello Spirito Santo.

123. Senza descriverli in particolare (cosa che faremo più tardi) ci basti qui dimostrarne la corrispondenza colle virtù. I doni, senza essere più perfetti delle virtù teologali e specialmente della carità, ne perfezionano l’esercizio. Così il dono dell’ intelletto ci fa penetrare più addentro nelle verità della fede per scoprirne i reconditi tesori e le arcane armonie; quello della scienzaci fa considerare le cose create nelle loro relazioni con Dio. Il dono del timorefortifica la speranza, staccandoci dai falsi beni di quaggiù che potrebbero trascinarci al peccato e ci accresce quindi il desiderio dei beni celesti. Il dono della sapienza, facendoci gustare le cose divine aumenta il nostro amore per Dio. La prudenzaè grandemente perfezionata dal dono del consiglio che ci fa conoscere, nei casi particolari e difficili ciò che è o non è espediente di fare. Il dono della pietàperfeziona la virtù della religione, che si connette colla giustizia, facendoci vedere in Dio un padre che siamo lieti di glorificare per amore. Il dono della fortezzacompie la virtù dello stesso nome, eccitandoci a praticare ciò che vi è di più eroico nella paziente costanza e nell’operare il bene. Infine il dono del timore, oltre che facilita la speranza, perfeziona pure in noi la temperanza, facendoci temere i castighi e i mali che risultano dall’amore illecito dei piaceri. Tal è il modo con cui armoniosamente si sviluppano nell’anima le virtù e i doni, sotto l’influsso della grazia attuale, di cui ci resta ora a dir una parola.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/10/la-grazia-note-di-teologia-ascetica-3/

LO SCUDO DELLA FEDE (80)

LO SCUDO DELLA FEDE (80)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO III.

CI TOLGONO I PROTESTARTI ANCHE I BENI TEMPORALI

Io vi ho rappresentato alcuni dei beni spirituali che vorrebbero i Protestanti rapire alle vostre anime, ma non crediate che siano solamente spirituali i danni che vi fanno. No: anche in questo mondo, vi privano di molti beni temporali; perché per giusta permissione di Dio sono castigati nei beni di questa terra quelli che non si curano dei beni del cielo. Qual è il maggior bene che si possa trovare in una famiglia? É la santa pace, la tranquillità, l’amore che si portano scambievolmente quei che la compongono. Qual è il maggior bene di tutto un paese, di tutta una città? É la concordia, è la quiete e il buon ordine che regna fra tutti i cittadini. E così voi stessi siete soliti dire che fa più buon pro un boccone di pane mangiato in pace e santa carità, che qualunque delizia assaporata tra le discordie ed il mal umore. Ebbene osservate che dove entra il Protestantismo ivi entra il demonio della discordia con tutti i suoi disordini. Guai a quella famiglia, dove qualcuno si lascia incautamente sorprendere! Sta sempre in lite con tutti, perde ogni confidenza ed amore anche con i parenti più intimi, e siccome è agitato internamente dai rimorsi della coscienza e non è in pace con se stesso, così non lascia pace neppure agli altri. Voi non conoscete la storia del Protestantismo; ma se la conosceste vi metterebbe spavento. Dovunque esso si è affacciato ed introdotto ha lasciata una striscia nera nera di sangue. In Germania suscitò una guerra spaventosissima che durò moltissimi anni, ed i soli contadini che in essa lasciarono la vita si contano più di centomila. La strage fu tanta che quella guerra si chiamò dagli storici la guerra dei Contadini. Dite ai Protestanti che lo neghino se possono. Nella Francia e soprattutto nelle Province del mezzogiorno suscitò tante turbolenze e tante guerre che solo del povero popolo ne perirono molte migliaia senza contare i signori di tutte le classi che vi lasciarono la vita. Dite ai Protestanti che lo neghino se possono. Nell’Inghilterra poi il Protestantismo entrò col sangue, visse in mezzo al sangue, e sempre si mantiene nel sangue. Lo sanno i poveri Irlandesi nelle loro campagne quello che hanno dovuto soffrire dai loro padroni perché Protestanti, maltrattati, vessati, percossi, spogliati di tutto, condannati a morire di fame e di stenti. Dite ai Protestanti che lo neghino, se basta loro il coraggio. E con tutti questi delitti che ha commesso al mondo il Protestantismo, ha coraggio ora di affacciarsi alle belle nostre contrade per cambiarle in un deserto di orrore e riempirle tutte di confusione e stragi ed ammazzamenti? Ah il buon Gesù disperda tutti questi tentativi d’iniquità! Un altro gran danno che il Protestantesimo apporta dovunque entra è la miseria temporale. Qui da noi non mancano delle disgrazie anche grandi talvolta che riducono delle famiglie alla mendicità. Ma quanto è raro il caso che una famiglia intera muoia di pura fame! Passano anni ed anni che non si sente a contare, perché o un vicino caritatevole, o il Parroco, o qualche signore pietoso appena sentono certe miserie, si danno attorno a provvedervi. Ma domandate un poco ai Protestanti inglesi, se presso di loro mai nessuno muoia di fame? Molte migliaia di poveri hanno lasciato morire di puro stento, perché non avendo più cuore Cattolico, non hanno più viscere di compassione. Chiedete un poco a loro, come trattano i loro contadini in Irlanda. Li lasciano ammontati come le bestie in certi tuguri mal riparati, mal difesi, anche in tempo d’inverno sulla nuda terra, e quando concedono loro tante patate quante bastano non a saziarsi, ma a non morire, credono di aver fatto un miracolo di carità. Ogni anno molte migliaia piuttosto che morire di fame, sono costretti a lasciare la patria ed i parenti, ed, attraversato il mare, andarsene in America, per trovare quel tozzo di pane che non trovano più nei loro paesi. Eppure prima del Protestantismo, se non avevano sempre da trionfare, non sapevano neppure quel che fossero le miserie che ora provano. Ah è pur troppo vero, che il Protestantismo ha rubato loro anche i beni temporali! Gli artieri poi, i lavoranti, i manifattori in quello sventurato paese lavorano tutta la giornata senza un momento di riposo, e per ogni loro sostentamento guadagnano poche patate, e bevono acqua e tanto loro basta. Sfidate pure tutti i Protestanti a negarvi tutti questi funestissimi effetti del Protestantismo, se possono. – Ma lasciamo andare questi beni meschini di quaggiù. A voi popoli della campagna Iddio ha negato certi vantaggi che ha concesso ad altri, non avete la ricchezza dei signori, non avete i loro piaceri, i loro divertimenti: ma Iddio, da quel buon Padre che è, vi aveva dato un largo compenso in questo che avevate molto maggior facilità a guadagnarvi il cielo. Nelle campagne non avete tanti pericoli per la vostr’anima, vi è più semplicità e più innocenza. Epperò se avevate un poco da patire per qualche anno, vi era poi molto più facile giubilare per tutta l’eternità. Oh che buon cambio era questo per voi! Avere i patimenti che passano presto, avere i godimenti che non finiscono mai! Mancava adesso appunto che venissero questi traditori a rubarvi il cielo e tutta la facilità che il buon Gesù vi aveva dato per acquistarlo; senza darvi poi neppure quei beni meschini che si possono godere quaggiù. Eppure voi avete potuto comprendere che è veramente così: mentre vi tolgono colla Fede tutti i mezzi della salute, quali sono la Chiesa, i suoi aiuti, i suoi Sacramenti, le opere buone, e finalmente il santo Paradiso, senza darvi neppure quella misera consolazione che si può godere in questa vita. Ah per pietà, pensatevi prima di rinunziarvi, e dite a quelli che v’insidiano, che voi non volete in eterno perdere quel bel regno che vi è stato promesso da Gesù.

LA GRAZIA (Note di Teologia Ascetica) -1-

LA GRAZIA

(Note di teologia ascetica)

NATURA DELLA VITA CRISTIANA (1)

[A. Tanquerey: Compendio di Teologia ascetica a mistica – Desclée e Ci. Roma-Tournai – Parigi; 1948]

CAPITOLO II.

Natura della vita cristiana.

88. Essendo la vita soprannaturale una partecipazione della vita di Dio per i meriti di Gesù Cristo, viene talora definita la vita di Dio in noi o la vita di Gesù in noi. Queste espressioni sono giuste, se si bada a spiegarle bene in modo da evitare ogni cenno di panteismo. Noi infatti non abbiamo una vita identica a quella di Dio o di Nostro Signore, ma una somiglianza di questa vita, una partecipazione finita, benché reale, di questa vita. – Possiamo dunque definirla: una partecipazione della vita divina, conferita dallo Spirito Santo che abita in noi, in virili dei meriti di Gesù Cristo, e che noi dobbiamo coltivare contro le tendenze che le si oppongono.

89. E chiaro quindi che la vita soprannaturale è una vita in cui Dio ha la parte principale e noi la parte secondaria. Dio, la terza Persona della SS. Trinità (che si chiama anche Spirito Santo), viene personalmente a conferirci questa vita, perché Egli solo può farci partecipare alla sua stessa vita. Ce la comunica per i meriti di Gesù Cristo (n. 78), che è causa meritoria,, esemplare e vitale della nostra santificazione. È quindi vero che Dio vive in noi, che Gesù vive in noi; ma la nostra vita spirituale non è identicaa quella di Dio o a quella di Nostro Signore; ne è distinta ed è solo simile all’una e all’altra. La vita nostra consiste nell’utilizzare i doni divini per vivere in Dio e per Dio, per vivere in unione con Gesù e imitarlo; e poiché resta in noi la triplice concupiscenza, noi non possiamo vivere che a patto di accanitamente combatterla; e avendoci inoltre Dio dotati d’un organismo soprannaturale, noi dobbiamo farlo crescere con gli atti meritorii e con la fervorosa frequenza dei Sacramenti. È questo il senso della definizione che abbiamo data; l’intero capitolo non ne sarà che la spiegazione e lo svolgimento e ci darà modo di trarre delle conclusioni pratiche sulla devozione alla SS. Trinità, sulla devozione e sull’unione al Verbo Incarnato, ed anche sulla devozione alla S. Vergine ed ai Santi che discende dalle loro relazioni col Verbo Incarnato. Benché l’azione di Dio e l’azione dell’anima si svolgano parallelamente nella vita cristiana, noi, per maggior chiarezza, tratteremo in due distinti articoli della parte di Dio e della parte dell’uomo.

ART. I

DELLA PARTE DI DIO NELLA VITA CRISTIANA.

Dio opera in noi sia per Se stesso, sia per mezzo della SS. Vergine, degli Angeli e dei Santi.

§ I . Della parte della SS. Trinità.

90. Il primo principio, la causa efficiente principale e la causa esemplare della vita soprannaturale in noi è la SS. Trinità, o, per appropriazione, lo Spirito Santo. Perché la vita della grazia, benché sia opera comune delle tre divine Persone, essendo opera ad extra, si attribuisce specialmente allo Spirito Santo, come opera d’amore.Ora questa adorabile Trinità contribuisce alla nostra santificazione in due modi: col venire ad abitare nell’anima nostra e col produrre un organismo soprannaturale che, soprannaturalizzando l’anima, la abilita a fare atti deiformi.

I . L’abitazione dello Spirito Santo nell’anima.

91. Essendo la vita cristiana una partecipazione della vita stessa di Dio, è evidente che Egli solo la può conferire. E la conferisce venendo ad abitare nelle anime nostre e dandosi interamente a noi, affinché possiamo rendergli i nostri ossequi, godere della sua presenza e lasciarci da Lui docilmente guidare a praticare le disposizioni e le virtù di Gesù Cristo: è ciò che i teologi chiamano grazia increata.

Vedremo : 1° in che modo le tre divine Persone vivono in noi; 2° come dobbiamo diportarci verso di loro.

[Su questa verità fonda l’Olier la sua spiritualità: Catéchisme chrétien pour la vie intérieure, pp. 35, 37, 43 ed. 1906-1922. : “Chi è colui che merita di essere chiamato cristiano? Colui che ha in sé lo Spirito di Gesù Cristo… che ci fa vivere interiormente ed esteriormente come Gesù Cristo” — “Egli (lo Spirito S.) vi è col Padre e col Figlio, e vi diffonde, come abbiamo detto, gli stessi sentimenti, gli stessi costumi e le stesse virtù di Gesù Cristo.”]

1° IN CHE MODO LE DIVINE PERSONE ABITANO IN NOI.

92. Dio, come dice S. Tommaso (S. Theol., I , q. 8, a. 3), abita naturalmente nelle creature in tre modi diversi: con la sua potenza, nel senso che tutte le creature stanno soggette al suo dominio; con la sua presenza, in quanto che vede tutto, anche i più segreti pensieri del nostro cuore “omnia nuda et aperta sunt oculis eius“; con la sua essenza, perché opera dappertutto ed è dovunque la pienezza dell’essere e la causa prima di tutto ciò che è di reale nelle creature, comunicando loro continuamente non solo il moto e la vita ma lo stesso essere: “in ipso vivimus, movemur et sumus[Act. XVII, 28.].Ma la sua presenza in noi per mezzo della grazia è di ordine molto superiore e più intimo. Non è soltanto la presenza del Creatore e del Conservatore che regge gli esseri da Lui creati ma è la presenza della Santissima e Adorabilissima Trinità quale ci è rivelata dalla fede: il Padre viene in noi e vi continua a generare il Verbo; con lui riceviamo il Figlio, perfettamente uguale al Padre, sua immagine vivente e sostanziale, che non cessa di infinitamente amare il Padre come infinitamente ne è riamato; dal qual mutuo amore procede lo Spirito Santo, persona uguale al Padre e al Figlio, vincolo reciproco fra i due eppur distinto dall’uno e dall’altro.Quante meraviglie in un’anima in stato di grazia!La particolarità di questa presenza è che Dio non solo è in noi, ma si dà a noi, perché noi possiamo godere di Lui. Secondo il linguaggio dei nostri Libri Sacri, possiamo dire che, per mezzo della grazia, Dio si dà a noi come padre, come amico, come collaboratore, come santificatore, e che così Eglidiviene veramente il principio stesso della nostra vita interiore, la sua causa efficiente ed esemplare.

93. A) Nell’ordine della natura Dio è in noi come Creatore e sovrano padrone e noi non siamo che suoi servi, sua proprietà, cosa sua. Ma nell’ ordine della grazia Egli si dà a noi come nostro Padre, e noi siamo i suoi figli adottivi; mirabile privilegio che è il fondamento della nostra vita soprannaturale. – Questo continuamente ripetono S. Paolo e S. Giovanni: ” Non enim accepistis spiritum servitutis iterim in timore, sed accepistis spiritum adoptionis filiorum, in quo clamamus Abba (Pater). Ipse enim Spiritus testimonium reddit spiritui nostro quod sumus filli Dei[Rom. VIII, 15-16]”. Dio dunque ci adotta per figli, ma in modo assai più perfetto che non facciano gli uomini con l’adozione legale. Questi possono bene trasmettere ai figli adottivi il nome e le sostanze, ma non il sangue e la vita. ” L’adozione legale, dice con ragione il Cardinal Mercier, [la Vita interiore] è una finzione. Il figlio adottato viene considerato dai genitori adottivi come se fosse loro figlio e riceve da essi quell’eredità a cui avrebbe avuto diritto il frutto della loro unione; la società riconosce questa finzione e ne sancisce gli effetti; tuttavia l’oggetto della finzione non si trasforma in realtà… Ma la grazia dell’adozione divina non è una finzione… è una realtà. Dio largisce a coloro che credono nel suo Verbo la divina filiazione, dice S. Giovanni: “Dedit eis potestatem filios Dei fieri, his qui credunt in nomine eius[Giov. I, 12]. E questa filiazione non è nominale ma effettiva: “Ut filli Dei nominemur et simus“. Noi entriamo in possesso della natura divina, divinæ consortes naturæ“.

94. Questa vita divina è certamente in noi soltanto una partecipazione, ”consortes”, una somiglianza, un’assimilazione che fa di noi, non già degli dèi, ma degli esseri deiformi. Non è però men vero che essa non è una finzione ma una realtà, una vita nuova, non uguale ma simile a quella di Dio, e che, a detta della Sacra Scrittura, suppone una nuova generazione o rigenerazione: Nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto… per lavacrum regenerationis et renovationis Spiritus Sancti… regeneravit nos in spem vivant… voluntarie enim genuit nos verbo veritatis».[Joan. III, 5; Tit., III , 5; 1 Petr., I, 3 ; Jac, I, 18]. Tutte queste espressioni ci mostrano che la nostra adozione non è puramente nominale ma vera e reale, benché molto bene distinta dalla filiazione del Verbo Incarnato. Ed è per questo che noi diventiamo di pieno diritto eredi del regno celeste, coere di di Colui che è nostro fratello maggiore: ” hæredes quidem Dei, cohæredes autem Christi… ut sit ipse primogenitus in multis fratribus ». O non è dunque il caso di ripetere le così soavi parole di S. Giovanni: ” Videte qualem caritatem dedit nobis Pater, ut filii Dei nominemur et simus? (I Jann. III, 1). Dio quindi avrà per noi la premura, la tenerezza d’un padre. Egli stesso si paragona a una madre che non potrà mai dimenticare il figlio: “Numquid oblivisci potest mulier infantem suum, ut non misereatur filo uteri sui? Et si Illa oblita fuerit, ego tamen non obliviscar tui ” (Is. XLIX, 15). E l’ha ben dimostrato davvero, poiché, per salvare i figli decaduti, non esitò a dare e a sacrificare l’unico suo Figlio: Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenituni daret, ut omnis qui credit in eum non pereat, sed habeat vitam æternam” (Jann. III, 16). Ed è questo stesso amore che lo spinge a darsi interamente, fin d’ora e in modo abituale, ai figli adottivi, abitando nei loro cuori: “Si quis diligit me, sermonem meum servabit, et Pater meus diliget eum, et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus” (Joan., XIV, 23). Egli abita dunque in noi come Padre amantissimo epremurosissimo.

95. B) Dio si dà pure a noi come amico. L’amicizia aggiunge alle relazioni di padre e di figlio una certa uguaglianza, “amicitia æquales accipit aut facit“, una certa intimità, una scambievolezza d’affetto che porta seco le più dolci comunicazioni. – Relazioni appunto di questo genere la grazia pone tra Dio e noi; è vero che quando si tratta di Dio e dell’uomo non si può parlare d’uguaglianza vera, ma solo d’una certa somiglianza che però basta a stabilire una vera intimità. Dio infatti ci apre i suoi segreti; ci parla non solo per mezzo della Chiesa, ma anche interiormente per mezzo del suo Spirito: ” IIle vos docebit omnia et suggeret vobis omnia quæcumque dixero vobis ” (Jaon. XIV, 26). Quindi è che nell’ultima cena Gesù dichiara agli Apostoli che ormai non saranno più servi ma amici, perché Egli non avrà più segreti per loro: Iam non dicam vos servos, quia servus nescit quid faciat dominus eius; vos autem dixi amicos, quia omnia quæcumque audivi a Patre meo, nota feci vobis” (Jaon. XV, 15). Sarà quindi una dolce familiarità quella che governerà ormai le loro relazioni, la familiarità che corre tra amici che siedono alla stessa mensa: Ecco che io sto alla porta e picchio; se alcuno udirà la mia voce e mi aprirà la porta, io entrerò da lui, cenerò con lui ed egli con me: Ecce sto ad ostium et pulso; si quis audierit vocem meam et aperuerit mihi januam, intrabo ad illum et cœnabo eum illo, et ipse mecum” (Apoc. III, 20). Mirabile intimità a cui noi non avremmo mai osato aspirare se l’Amico divino non si fosse fatto avanti Lui per il primo. Eppure una tale intimità si è avverata e si avvera ogni giorno, non soltanto presso i santi, ma anche in quelle anime interiori che acconsentono ad aprire le porte dell’anima all’ospite divino. E ciò che ci attesta l’autore dell’Imitazione, quando descrive le frequenti visite dello Spirito Santo alle anime interiori, le sue dolci conversazioni con loro, le consolazioni e le carezze di cui le colma, la pace che fa regnare in loro, la stupenda familiarità con cui le tratta: “Frequens illi visìtatio eum nomine interno, dulcis sermocinatio, grata consolatio, multa pax, familiaritas stupenda nimis” (Imit. l. II, c.1, v. 1). Del resto la vita dei mistici contemporanei, di Santa Teresa del Bambin Gesù, di Suor Elisabetta della Trinità, della Beata Gemma Galgani e di tanti altri, ci prova che le parole dell’Imitazione si avverano tutti i giorni. È dunque vero che Dio vive in noi come un intimo amico.

96. C) Né vi resta ozioso ma vi opera come il più potente dei collaboratori. Sapendo bene che non possiamo coltivare da noi quella vita soprannaturale che pone in noi, Egli supplisce alla nostra impotenza, collaborando con noi per mezzo della grazia attuale. Abbiamo bisogno di luce per afferrare le verità della fede che dovranno ormai guidare i nostri passi? Verrà Lui, che è il Padre dei lumi, a illuminare il nostro intelletto sul nostro ultimo fine e sui mezzi per conseguirlo, e ci suggerirà buoni pensieri ispiratori di buone opere. Abbiamo bisogno di forza onde voler sinceramente dirigere la nostra vita verso il nostro fine, volerlo energicamente e costantemente? Ed Egli ci darà quel concorso soprannaturale che ci abilita a volere e ad eseguire le nostre risoluzioni, “operatur in vobis et velle et perficere” (Fil. II, 13). Se si tratta di combattere le nostre passioni o di disciplinarle, di vincere le tentazioni che talora ci assediano, Egli pure ci darà la forza di resistervi e di trarne profitto per rassodarci nella virtù: “Fidelis est Deus qui non patietur vos tentari supra id quod potestis, sed faciet etiam eum tentatione proventum (1 Cor., X, 13).Quando, stanchi di fare il bene, ci sentiremo tratti allo scoraggiamento e alla fiacchezza, Egli ci si avvicinerà per sorreggerci e assicurare la nostra perseveranza; Colui che in voi cominciò l’opera della vostra santificazione, la perfezionerà fino al giorno di Cristo Gesù; qui cœpit in vobis opus bonum, ipse perficiet usque in diem Christi Jesu” (Philip., I, 6). Insomma, noi non saremo mai soli, anche quando, privi di consolazione, ci crederemo abbandonati; la grazia di Dio sarà sempre con noi a patto che noi acconsentiamo a lavorar con lei: ” Gratia eius in me vacua non fuit, sed abundantius illis omnibus laboravi: non ego autem, se gratia Dei mecum…” (1 Cor., XV, 10). Appoggiati su questo onnipotente collaboratore, saremo invincibili, perché tutto noi possiamo in Colui che ci conforta: “Omnia possum in eo qui me confortat” (Philip., IV, 13).

97. D) Questo collaboratore è nello stesso tempo un santificatore: venendo ad abitare nell’anima nostra, la trasforma in un tempio santo ornato di tutte le virtù: “Templum Dei sanctum est: quod estis vos”. (1 Cor., III, 17).Il Dio infatti che viene in noi con la grazia, non è il Dio della natura, ma il Dio vivente, la SS. Trinità, sorgente infinita di vita divina, e che altro non chiede che farci partecipare alla sua santità; è vero che talora questa abitazione è attribuita, per appropriazione, allo Spirito Santo, perché è opera d’amore; ma, essendo operazione ad extra, è comune alle tre Persone divine. Ecco perché S. Paolo ci chiama indifferentemente tempii di Dio e tempii dello Spirito Santo: ” Nescitis quia templum Dei estis et Spiritus Dei habitat in vobis? ” (1 Cor. III, 10). – L’anima nostra diviene dunque tempio del Dio vivente, un sacro recinto riservato a Dio, un trono di misericordia donde si compiace di distribuire i suoi favori celesti e che Egli adorna di tutte le virtù. Descriveremo presto l’organismo soprannaturale di cui ci dota. Ma è evidente che la presenza in noi del Dio tre volte Santo, quale abbiamo descritta, non può essere che santificante, e che l’Adorabile Trinità che vive e opera in noi diviene veramente il principio della nostra santificazione, la sorgente della nostra vita interiore. E ne è pure la causa esemplare, poiché, essendo figli di Dio per adozione, dobbiamo imitare il Padre. Il che del resto intenderemo meglio spiegando come dobbiamo diportarci verso le tre divine Persone che abitano in noi.

2° I NOSTRI DOVERI VERSO LA SS. TRINITÀ CHE VIVE IN NOI.

98. Possedendo un tesoro cosi prezioso come la SS. Trinità, bisogna pensarvi spesso, “ambulare cum Deo intus“. Or questo pensiero fa nascere tre principali sentimenti: l’adorazione, l’amore, l’imitazione.

99. A) Il primo sentimento che scaturisce come spontaneamente dal cuore è quello dell’adorazione: ” Glorificate et portate Deum in corpore vestro ” (1 Cor. VI, 20). Come, infatti, non benedire, glorificare, ringraziare quest’ospite divino che trasforma l’anima nostra in un vero santuario? Dopoché Maria ebbe ricevuto nel casto suo seno il Verbo Incarnato, la sua vita non fu più che un perpetuo atto d’adorazione e di riconoscenza: Magnificat anima mea Domininum …fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus“; e tali pure sono i sentimenti, benché in grado minore, di un’anima che prende coscienza dell’abitazione dello Spirito Santo in lei: capisce che essendo tempio di Dio, deve incessantemente offrirsi come ostia di lode alla gloria delle tre divine Persone, a) Al principio delle proprie azioni facendo il segno di croce “ … in nomine Patris, Filii et Spiritus Sancti”, consacra loro ogni sua opera; terminandole, riconosce che tutto il bene da lei fatto si deve ad esse attribuire: Gloria Patri et Filio et Spiritili Sancto. b) Ama ripetere quelle preghiere liturgiche che ne celebrano le lodi: il Gloria in excelsis Deo, che esprime così bene tutti i sentimenti di Religione verso le divine Persone e specialmente verso il Verbo Incarnato; il Sanctus che proclama la santità divina; il Te Deum, che è l’inno della riconoscenza, c) Alla presenza di quest’ospite divino, molto amorevole senza dubbio ma che non cessa d’essere Dio, riconosce umilmente l’intera sua dipendenza da Colui che è il suo primo principio e il suo ultimo fine; la sua incapacità a lodarlo come Egli si merita, e questo sentimento si unisce allo Spirito di Gesù che solo può rendere a Dio quella gloria a cui ha diritto : “Lo Spirito viene in aiuto della nostra debolezza, perché noi non sappiamo che dobbiamo chiedere nelle nostre preghiere secondo i nostri bisogni; ma lo Spirito prega Egli stesso per noi con gemiti inenarrabili; ” Spiritus adiuvat infirmitatem nostram; nam quid oremus sicut oportet, nescimus; sed ipse Spiritus postulat pro nobis gemitibus inenarrabilibus(Rom. VIII, 26).

100. B) Dopo avere adorato Dio e proclamato il proprio nulla, l’anima si abbandona al sentimenti del più confidente amore. Per quanto sia infinito, pure Dio si abbassa a noi, come il padre più amoroso verso il proprio figlio, e c’invita ad amarlo e a dargli il cuore: Præbe, fili, cor tuum mihi(Prov., XXIII, 26). questo amore Egli potrebbe esigerlo imperiosamente ma preferisce chiederlo dolcemente, affettuosamente, perché vi sia, a così dire, più spontaneità nella nostra risposta, più abbandono filiale nel nostro ricorso a Lui. E come non rispondere con confidente amore a tanti e sì delicati riguardi, a tante così materne sollecitudini? Sarà un amore penitente, per espiare le nostre troppo numerose infedeltà passate e presenti; un amore riconoscente, per ringraziare quest’insigne benefattore, questo collaboratore premuroso che lavora l’anima nostra con tanta assiduità; ma principalmente un amore d’amicizia, che ci farà conversare dolcemente col più fedele e più generoso degli amici, ci farà caldeggiare tutti i suoi interessi, procurarne la gloria e farne benedire il santo Nome. Non sarà quindi un semplice sentimento affettuoso, ma un amore generoso, che va fino al sacrifizio, all’oblio di sé, alla rinunzia della propria volontà, per sottomettersi ai precetti e ai consigli divini.

101. C) Quest’amore ci condurrà dunque all’imitazione dell’adorabile Trinità in quel grado che è compatibile con l’umana debolezza. Figli adottivi d’un Padre tre volte Santo, tempii viventi dello Spirito Santo, intendiamo meglio la necessità di rispettare il nostro corpo e la nostra anima. Tale era la conclusione che l’Apostolo inculcava ai discepoli: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se alcuno violerà il tempio di Dio, Dio lo sperderà; poiché santo è il tempio di Dio che siete voi; Nescitis quia templum Dei estis, et Spiritus Dei habitat in vobis? Si quis autem templum Dei violaverit, disperdet illum Deus. Templum enim Dei sanctum est quod estis vos(1 Cor. III, 16). L’esperienza prova che per le anime generose non v’è motivo più potente di questo per allontanarle dal peccato ed eccitarle alla pratica delle virtù; infatti, non si deve forse purificare e ornare continuamente un tempio ove risiede il Dio tre volte Santo? Del resto quando Nostro Signore volle proporci un ideale di perfezione, non andò a cercarlo fuori della SS. Trinità: “Siate perfetti, Egli dice, come è perfetto il vostro Padre celeste: “Estote ergo perfecti, sicut et Pater vester celestis perfectus est(Matth., V, 48). A prima vista, quest’ideale sembra troppo elevato; ma quando ci ricordiamo che siamo figlia dottivi del Padre, e che Egli vive in noi per imprimervi la sua immagine e collaborare alla nostra santificazione, capiamo bene che nobiltà obbliga e che abbiamo il dovere d’avvicinarci sempre più alle perfezioni divine. Specialmente per praticar la carità fraterna Gesù ci chiede di avere dinanzi agli occhi quel perfetto modello che è l’indivisibile unità delle tre divine Persone: “Che siano tutti una cosa sola, come Tu sei in me, o Padre, e Io in te, che siano anch’essi una cosa sola in noi; Ut omnes unum sint, sicut tu, Pater, in me et ego in te, ut et ipsi in nobis unum sint(Joan. XVII, 21). Tenera preghiera, di cui san Paolo si faceva eco quando supplicava i cari discepoli di non dimenticare che, essendo un solo corpo e un solo spirito, non avendo che un solo ed unico Padre che abita in tutti i giusti, dovevano conservare l’unità dello spirito col vincolo della pace. (Ephes. IV, 3-6). Riepilogando possiamo conchiudere che la vita cristiana consiste prima di tutto in una unione intima, affettuosa e santificante colle tre divine Persone, che ci conserva nello spirito di Religione, d’ amore e di sacrifizio.

II. Dell’ organismo della vita cristiana.

102. Le tre divine Persone che abitano nel santuario dell’anima nostra si dilettano di arricchirla di doni soprannaturali e ci comunicano una vita simile alla loro, che si chiama la vita della grazia o vita deiforme. Ora in ogni vita vi è un triplice elemento: un principio vitale che è, per cosi dire, la sorgente della vita; delle facoltà che fanno produrre operazioni vitali; e in fine degli atti, che ne sono l’espansione e contribuiscono al suo accrescimento. Nell’ordine soprannaturale, Dio, che vive in noi, produce nelle anime nostre questi tre elementi, a) Ci comunica dapprima la grazia abituale, che fa in noi l’ufficio di principio vitale soprannaturale e divinizza, a così dire, la sostanza stessa dell’anima nostra, rendendola atta, benché remotamente, alla visione beatifica e agli atti che la preparano.

103. b) Da questa grazia sgorgano le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo, che perfezionanole nostre facoltà e ci danno il potere immediato difare atti deiformi, soprannaturali e meritori.

C) Per mettere in moto queste facoltà, Dio concede le grazie attuali, che illuminano la nostra intelligenza, fortificano la nostra volontà, ci aiutano ad operare soprannaturalmente e ad aumentano così il capitale di grazia abituale che ci ha compartito.

104. Questa vita della grazia, benché distinta dalla vita naturale, non è semplicemente a lei sovrapposta ma la compenetra tutta quanta, la trasforma e la divinizza. Si assimila tutto ciò che vi è di buono nella natura, nell’educazione nelle abitudini acquisite; perfeziona e soprannaturalizza tutti questi elementi volgendoli verso l’ultimo fine, che è il possesso di Dio per mezzo della visione beatifica e dell’amore che l’accompagna. – Spetta a questa vita soprannaturale il dirigere la vita naturale, in virtù del principio generale già esposto al n. 54, che gli esseri inferiori sono subordinati agli esseri superiori. Non può durare né svilupparsi se non a patto di dominare e serbar sotto la sua influenza gli atti dell’intelligenza, della volontà e delle altre facoltà; con ciò non distrugge né diminuisce la natura, ma anzi la esalta e la perfeziona. Il che dimostreremo, studiandone per ordine i tre elementi.

[1. Continua …]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/08/la-grazia-note-di-teologia-ascetica-2/

LO SCUDO DELLA FEDE (79)

LO SCUDO DELLA FEDE (79)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO II.

ALTRI BENI CHE CI VOGLIONO TOGLIERE I PROTESTANTI.

Ma non crediate che io abbia finito di rappresentarvi tutti i beni che vi vogliono rapire quei felloni che si brigano di nascosto a togliervi la S. Fede. Ne sentirete ben delle altre. Voi avete una gran fiducia nella protezione della Madonna SS. ed avete ragione di averla, perché tante volte quella buona Madre vi ha consolati, vi ha protetti, vi ha aiutati con le sue preghiere presso Gesù. Questo onore che voi rendete alla Madonna è molto giusto, molto doveroso e molto santo, perché la Madonna è la gran Madre del nostro Divin Salvatore Gesù, e perché quando onorate la Madre, voi onorate anche il Figliuolo, anzi tanto più onorate il Figliuolo, quanto più onorate la Madre. – Imperocché chi non direbbe che voi portate gran riverenza al padrone, quando per amore di lui riveriste perfino la madre di lui? Ora così facciamo noi. Amiamo tanto Gesù, che per amor suo amiamo moltissimo anche la Madre. Non è chiaro tutto ciò? E tuttavia questi Protestanti ingannatori non vogliono che voi onoriate la Madonna, che a Lei vi raccomandiate: sognano questa sciocchezza ed empietà, che se onorate la Madonna fate torto a Gesù, mentre anzi gli fate il più grande onore. E con tutte queste loro dicerie vi vogliono rubare la confidenza ed il patrocinio di Maria. Vogliono ridurvi ad essere figliuoli senza la buona vostra Madre: sicché quando siete afflitti non abbiate più quel cuore materno in cui consolarvi; quando i vostri peccati vi abbattono e vi fan perdere di coraggio, non abbiate più quel dolce rifugio che vi riceva e che pregando per voi Gesù suo figliuolo con Lui vi riconcili: vogliono levarvi il presidio sicuro di tutta la vostra famiglia, quella che protegge i vostri figliuoli, quella che ve li custodisce. Ah scellerati, quanti beni vi vogliono rapire! Anche dai vostri Santi Protettori voi ricevete molte grazie: perché, oltre all’esempio di ogni virtù che ci hanno lasciato qui sulla terra mentre vivevano con noi, adesso che sono nel cielo non lasciano mai di pregare per noi: e pregano particolarmente per quelli che si raccomandano a loro e che li onorano. Ora i Protestanti non vogliono sapere nulla di essi. Dicono anche qui che noi facciamo torto a Gesù, se ci raccomandiamo ai Santi. Eppure può dirsi sciocchezza più grande di questa? Dite: farebbe torto al Re, al Principe chi dovendo domandargli un favore, gli facesse presentare la supplica da uno della corte che è nella sua buona grazia? Ora che torto facciamo noi a Gesù se mandiamo al suo trono i Santi che Egli ha tanto cari? Tutto il contrario, noi lo onoriamo anche più di quel che faremmo se lo supplicassimo noi soli. E ben si vede poi dalle grazie che Dio ci concede per l’impetrazione dei Santi, quanto abbia caro che li invochiamo. Chi può dire tutte le grazie stupende che la Madonna ed i Santi c’impetrano di continuo? Basta andare ad un loro Santuario per vederne in tanti voti che pendono, in tante guarigioni ottenute, in tante disgrazie dalle quali hanno liberato i loro devoti, una prova solenne; ma tant’è, ci vogliono i Protestanti spogliare di tutto. – Sono dunque contenti di tutto ciò? Ci resta più altro da rubare togliendoci la S. Fede? Sì, dopo che ci hanno rubato tutto quel che avevamo di buono in vita, vorrebbero rubarci anche quello che abbiamo dopo la morte. Voi sapete che la S. Chiesa, Madre pietosa, dopo di averci aiutati in vita con tutti i suoi Sacramenti, con le sue preghiere, con l’intercessione della Vergine e dei Santi e con tanti altri mezzi. non ci dimentica neppure dopo la morte, ma con le sue orazioni, con le sue sante Indulgenze ci refrigera quando siamo nel Purgatorio. Ora i Protestanti ci vorrebbero rapire anche questo aiuto, che ella ci darà allora. Direte che non è possibile tanta malizia. Eppure è proprio così. Essi negano tutto il valore dei suffragi, delle orazioni, delle limosine, delle indulgenze per i defunti. Bestemmiano che non vi èPurgatorio, vi proibiscono di pregare pel vostro povero padre, per la vostra madre, per vostro marito, per la vostra sposa, per tutti i vostri parenti, e si beffano di tutta la vostra pietà. Snaturati che essi sono! Infuriare perfino contro dei morti! Eppure è così. Se dunque vi è qualcuno che si senta coraggio di rinunziare alla protezione della Madonna, all’intercessione dei Santi, alle preghiere della Chiesa, ai suffragi che essa ci farà dopo la nostra morte, faccia pure, rinunzi pure alla S. Fede Cattolica e si faccia Protestante, chela Fede Cattolica sarà più onorata col perdere un tal mostro che col ritenerlo.

LA GRAZIA (NOTE DI TEOLOGIA DOGMATICA) – 5 –

LA GRAZIA

(Note di Teologia Dogmatica) (5)

[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vis. Gen. 7/VI/1955]

§ 21. Il corteggio della grazia santificante.

Con la grazia santificante vanno uniti doni soprannaturali distinti ma ad essa intimamente connessi, designati dal Catechismo romano come il suo nobilissimo corteggio: « L’infusione della grazia è accompagnata dal nobilissimo corteggio (nobilissimus comitatus) di tutte le virtù, che entrano nell’anima battezzata » (II, 2, 50).

1. Le virtù teologali.

Con la grazia santificante vengono infuse le tre virtù divine o teologali della fede, della speranza e della carità. De fide.

Il Concilio di Trento insegna: « Nella giustificazione l’uomo, per mezzo di Gesù Cristo, cui viene inserito, riceve con la remissione dei peccati l’infusione della fede, della speranza e della carità » (D. 800). Queste virtù sono conferite all’anima come abiti, non come atti: l’espressione «infondere» (infundere) designa appunto la comunicazione di un abito. Per quanto riguarda la carità il Concilio dichiara espressamente che essa è diffusa nel cuore degli uomini e inerisce in loro, cioè rimane come stato (D. 821: quæ [se. caritas] in cordibus eorum per Spiritum Sanctum diffundatur atque illis inhaereat).

La dichiarazione del Concilio si fonda soprattutto su Rom. V, 5: « L’amore di Dio è largamente diffuso nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato ». Cfr. 1 Cor. XIII, 8: « La carità non viene mai meno ». Come la carità, così anche la fede e la speranza sono alcunché di permanente nel giusto. 1 Cor. XIII, 13: « Queste tre cose adunque rimangono: la fede, la speranza, la carità ». – S. GIOVANNI CRISOSTOMO, riferendosi agli effetti del Battesimo dice: « Tu hai la fede, la speranza, la carità che rimangono. Cercale; sono più grandi che i miracoli. Nulla è eguale all’amore » (In Actus Apostol. hom. 40, 2). Se anche la carità infusa non è oggettivamente identica con la grazia santificante, come insegnano gli scotisti, tuttavia l’una è indissolubilmente congiunta con l’altra. L’abito della carità viene infuso contemporaneamente con la grazia e si perde con quella. Cfr. D. 1031. – Gli abiti della fede e della speranza sono invece separabili dalla grazia. Si perdono, non come la grazia e la carità per mezzo di peccati gravi, ma soltanto per mezzo dei peccati diretti contro la loro natura, la fede con l’incredulità, la speranza con l’incredulità e la disperazione. Cfr. D. 808, 838. Per il fatto che le virtù teologali si possono separare dalla grazia e dalla carità, parecchi teologi (per es. Suarez) ammettono che esse, quando vi fosse una disposizione sufficiente, vengano infuse già prima della giustificazione come virtù informi (virtutes informes). Questa opinione non contraddice la dottrina del Concilio di Trento (D. 800: simul infusa), che intese parlare soltanto della fede e della speranza « formate », cioè operanti per mezzo della carità.

2. Le virtù morali.

Con la grazia santificante vengono infuse anche le virtù morali. Sent. communis.

Il Concilio di Vienne (1311-12) parla in generale, senza limitarsi alle virtù teologali, dell’infusione, a modo di abiti, delle virtù e della grazia santificante: virtutes ac informans gratia infunduntur quoad habitum (D. 483).Il Catechismo romano (II, 2, 50) parla del « nobilissimo corteggio di tutte le virtù ».L’infusione delle virtù morali non si può provare con certezza mediante la Scrittura; tuttavia si può intravedere in Sap. VIII, 7 (le quattro virtù cardinali sono una dote della sapienza divina), in Ez. II, 19-20 (seguire i precetti del Signore è un effetto del cuore « nuovo ») specialmente in 2 Piet. 1, 4-7,dove con la partecipazione della natura divina vien nominata tutta una serie di altri doni (fede, probità, continenza,pazienza, pietà, amor fraterno, amore di Dio). – S. AGOSTINO dice delle quattro virtù cardinali a cui si possono ricondurre tutte le virtù morali: « Queste virtù ci vengono date adesso nella valle del pianto, per grazia di Dio » (Enarr. in Ps. LXXXIII, 11). Cfr. AGOSTINO, In ep. I Joan., tr. 8, 1. Cfr. 5. S. th. I – II, 63, 3.

3. I doni dello Spirito Santo.

Con la grazia santificante vengono infusi anche i doni dello Spirito Santo. Sent. communis.

Il fondamento biblico si trova in Is. XI, 2-3, ove sono descritte le doti spirituali del futuro Messia: « E si poserà su lui (il Messia) lo Spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di timore di Dio, e nel timore del Signore è la sua ispirazione » (Settanta e Volgata: « … spirito di scienza e di pietà, e lo riempirà lo spirito del timor di Dio »). Il testo ebraico enumera, oltre lo Spirito del Signore, sei doni; i Settanta e la Volgata ne contano sette perché traducono distinguendo il concetto di « timor di Dio » del versetto 2 da quello del versetto 3. Il numero settenario che risale ai Settanta non è essenziale. La liturgia, i Padri (per es. AMBROGIO, De Sacramentis I I , 2, 8; De mysteriis 7, 42) ed i teologi hanno dedotto da questo passo che gli stessi doni vengono partecipati a tutti i giustificati, poiché essi sono conformati a Cristo (Rom. VIII, 29). Cfr. il rito della Cresima e gli inni liturgici Veni Sancte Spiritus e Veni Creator Spiritus, e l’enciclica sullo Spirito Santo Divinum illud di LEONE XIII (1897).

– Secondo la dottrina di S. TOMMASO, oggi comunemente seguita, i doni sono abiti permanenti e soprannaturali dell’anima, realmente distinti dalle virtù infuse, per i quali l’uomo è reso docile e pronto a seguire gli impulsi dello Spirito Santo: dona sunt quidem habitus perficientes hominem ad hoc, quod prompte sequatur instinctum Spiritus Sancti (S. th. I – II, 86, 4). Essi perfezionano parte le potenze intellettive (sapienza, intelletto, consiglio, scienza) e parte quelle volitive (fortezza, pietà, timor di Dio). Si distinguono dalle virtù infuse in quanto il principio motore delle virtù sono le potenze dell’anima perfezionate soprannaturalmente, mentre quello dei doni è immediatamente lo Spirito Santo: le virtù danno la capacità di compiere le azioni ordinarie della vita virtuosa cristiana, i doni di compiere atti straordinari ed eroici. Si distinguono anche dai carismi in quanto sono concessi per la salvezza di chi li riceve e sono sempre infusi nella giustificazione. Cfr. S. th.I – II, 68, 1-8.

§ 22. Le proprietà dello stato di grazia.

1. Incertezza.

Senza una particolare rivelazione divina nessuno può sapere con certezza di fede se egli si trovi in stato di grazia. De fide.

Contro la dottrina protestante secondo cui il giustificato possiede un’assoluta certezza di fede circa la propria giustificazione, il Concilio di Trento dichiara: « Chiunque, guardando la propria debolezza e indisposizione può temere e tremare della sua grazia, dacché nessuno può sapere con certezza di fede, che esclude la possibilità dell’errore, se abbia conseguito la grazia di Dio » (D. 802). – La Scrittura attesta l’incertezza dello stato di giustificazione. 1 Cor. IV, 4: « Non ho coscienza, no, di verun mancamento, ma non per questo mi sento giustificato » Fil. II, 12: « Operate la vostra salvezza con timore e tremore ». Cfr. 1 Cor. IX, 27.

La ragione di tale incertezza sta nel fatto che nessuno senza una particolare rivelazione può conoscere con certezza di fede se ha adempiuto a tutte le condizioni che sono necessarie per raggiungere la giustificazione. L’impossibilità della certezza di fede non esclude però una grande certezza morale che si appoggia sulla testimonianza della coscienza, e appunto per questo il Cattolicesimo non è una religione d’incertezza e di angoscia.

2. Ineguaglianza.

Il grado di grazia non è uguale per tutti i giustificati. De fide. La grazia ricevuta può essere aumentata mediante le opere buone. De fide.

I protestanti, sostenendo che la giustificazione positivamente considerata non è altro che l’estrinseca imputazione della giustizia di Cristo, dovevano concludere che essa è eguale per tutti i giustificati. Contro di essi il Concilio di Trento dichiarò che il grado della grazia santificante ricevuta varia nei singoli giusti a seconda della misura della libera distribuzione di Dio e secondo la propria disposizione e cooperazione di ciascuno (D. 799). Quanto poi all’aumento della grazia il Concilio dichiarò contro gli stessi protestanti, i quali consideravano le opere buone solo come frutti della giustificazione raggiunta, che le medesime buone opere sono anche cause o mezzi per aumentarla: Si quis dixerit, iustitiam acceptam non conservari atque etiam non augeri coram Deo per bona opera… A.S. (D. 834).Cfr. 803, 842. È poi evidente che l’ineguaglianza delle buone opere condiziona nei singoli giusti un ineguale accrescimento dello stato di grazia.Secondo la dottrina della Scrittura, la misura della grazia data a ciascuno non è eguale. Ef. IV, 7: « A ciascuno di noi è stata concessa la grazia secondo la misura del dono di Cristo». 1 Cor. XII, 11: « Egli (lo Spirito) distribuisce a ciascuno i suoi doni, come a lui piace ».La Scrittura attesta anche l’accrescimento della grazia.2 Piet. 3, 18: « Crescete nella grazia! ». Ap. 22, 11: « Chi è giusto diventi ancor più giusto, e chi è santo, si santifichi di più ».

S. GEROLAMO combatte l’errore di Gioviniano, il quale, per l’influsso della dottrina stoica dell’eguaglianza di tutte le virtù, attribuiva a tutti i giusti un identico grado di giustizia e a tutti i beati un identico grado di gloria (Adv. Iovin. 11, 23). – S. AGOSTINO insegna: « I santi sono rivestiti di giustizia, l’uno più e l’altro meno » (Ep. 167, 3, 13). L’intrinseca ragione della possibilità di diversi gradi di grazia sta nel fatto che questa è una qualità fisica: come tale è suscettibile di un più e di un meno. La ragione estrinseca è la volontà di Dio che dispone tale varietà per la bellezza della Chiesa: « (Deus) diversimode suæ gratiæ dona dispensat ad hoc quod ex diversis gradibus pulchritudo et perfectio Ecclesiæ consurgat » (S. th. I – II, 112, 4). L’aumento della grazia comporta pure un aumento delle virtù teologali; la cosa è certa almeno per la carità. Tale aumento poi va concepito come un aumento di intensità e non di estensione.

3. Amissibilità.

a) Perdita della grazia.

La grazia santificante si può perdere e si perde con ogni peccato grave. De fide.

Contro la dottrina di Calvino della assoluta inamissibilità della grazia e contro quella di Lutero per cui la giustizia si perderebbe soltanto con il peccato di incredulità, cioè cessando la fede fiduciale, il Concilio di Trento dichiarò che lo stato di grazia si perde non solo per l’incredulità, bensì anche per ogni altro peccato grave (D. 808). Cfr. 833, 837. Il peccato veniale non distrugge né diminuisce lo stato di grazia (D. 804). La Scrittura insegna l’amissibilità della grazia a parole e con esempi (gli angeli decaduti, i progenitori, Giuda, Pietro). Cfr. Ez. XVIII, 24; XXXIII, 12; Mt. XXVI, 41: « Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione ». 1 Cor. X, 12: « Chi crede di stare in piedi, badi bene di non cadere ». Paolo in 1 Cor. VI, 9-10 enumera insieme alla incredulità numerosi altri peccati che escludono dal regno di Dio e causano la perdita della grazia santificante. – S. GEROLAMO difese l’amissibilità della grazia contro Gioviniano (Ad. Jov. II, 1-4) che cercava di dimostrare il contrario con il passo di Gv. III, 9. – S. GIOVANNI GRISOSTOMO, commentando 1 Cor. X, 12, scrive: « Finché non siamo liberati dai flutti della vita presente e non siamo giunti al porto della salvezza, nessuno sta in piedi che non possa cadere. Non inorgoglirti, non confidare in te stesso, ma sta’ ben attento e vigilante per non cadere. Se temette Paolo, fra tutti fortissimo, molto più noi dobbiamo temere ». D’altronde tutta la prassi penitenziale della Chiesa presuppone la convinzione che lo stato di grazia si perde con ogni peccato mortale. La ragione intrinseca di tale verità si fonda, da un lato nella libertà umana, che importa la possibilità di peccare, e, dall’altro, nell’essenza del peccato mortale, che essendo distacco da Dio e attacco alla creatura, è proprio l’opposto della grazia santificante, che è soprannaturale comunione di vita con Dio.

b) Perdita delle virtù infuse e dei doni dello Spirito Santo.

Con la grazia santificante si perde sempre anche la virtù teologale della carità. La carità ed il peccato mortale si escludono a vicenda. La dottrina contraria di Baio fu condannata (D. 1031-1032).

La virtù teologale della fede, come definì espressamente il Concilio di Trento, non si perde sempre insieme con lo stato di grazia; quella che rimane è vera fede, anche se non è fede viva (D. 838). Si perde invece con il peccato di incredulità che va direttamente contro la sua natura.

La virtù teologale della speranza può esistere senza la carità (cfr. D. 1407), ma non senza la fede. La si perde mediante il peccato di disperazione che va direttamente contro la sua natura, e mediante il peccato di incredulità.

Le virtù morali infuse ed i doni dello Spirito Santo si perdono, secondo la dottrina comune dei teologi, insieme con la grazia e la carità.

CAPITOLO TERZO

Il frutto della giustificazione o il merito.

§ 23. La realtà del merito.

1 . Eresie.

I protestanti negarono la realtà del merito soprannaturale. Mentre LUTERO da principio insegnò che tutte le opere del giusto sono in sé cattive, a motivo del peccato che rimane in lui (cfr. D. 771: In omni opere bono iustus peccat), più tardi ammise che il giusto con l’aiuto dello Spirito Santo può e deve compiere opere buone (cfr. Conf. Aug.  art. 20: docent nostri, quod necesse sit bona opera facere), negando però che avessero valore di merito. Secondo CALVINO (Inst. III, 12, 4) tutte le opere dell’uomo davanti a Dio sono « sporcizia! e sudiciume »: inquinamenta et sordes. Nella Dottrina Cattolica del merito il protestantesimo scorge a torto una derogazione alla grazia e ai meriti di Cristo (cfr. D. 843), un incoraggiamento ad una santità di opere esteriori, ad una ricerca interessata del premio e a una giustizia farisaica.

2. Dottrina della Chiesa.

Mediante le buone opere il giusto si guadagna veramente un titolo alla ricompensa soprannaturale da parte di Dio. De fide.

Il II Concilio di Orange dichiarò con Prospero di Aquitania e con Agostino: « Benché nessun merito da parte nostra preceda la grazia, una ricompensa è dovuta alle buone opere, se son fatte; ma la grazia, che non ci è dovuta, le precede affinché sian fatte » (D. 191). Il Concilio di Trento insegna che la vita eterna è per i giustificati e una grazia promessa da Cristo e la ricompensa per i loro meriti e opere buone (D. 809). Dato che la grazia di Dio è il presupposto ed il fondamento delle opere buone (soprannaturali) con cui si guadagna la vita eterna, esse sono nello stesso tempo un dono di Dio e un merito dell’uomo: cuius (sc. Dei) tanta est erga omnes homines bonitas, ut eorum velit esse merita, quæ sunt ipsius dona (D. 810; cfr. 141). Il Concilio pone l’accento sul fatto che si tratta di un « vero merito » (vere mereri; D. 842), cioè di un merito de condigno. Cfr. D . 835.

3. Fondamento nelle fonti della fede.

Secondo la Scrittura la beatitudine eterna nel cielo è la ricompensa (merces, remuneratio, retributio, bravium) per le opere buone compiute durante la vita terrena. Ora ricompensa e merito sono concetti correlativi. Gesù promette a coloro che saranno oltraggiati e perseguitati per causa sua, grande ricompensa in cielo: « Gioite ed esultate, perché grande sarà la vostra ricompensa nei cieli » (Mt. V, 12). Il Giudice universale emette la sua sentenza sui giusti in base alle opere buone: «Venite, o benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno, che vi è preparato sin dalla creazione del mondo; perché ebbi fame e mi deste da mangiare » (Mt. XXV, 34-35). Il motivo della ricompensa ritorna frequentemente nei discorsi di Gesù. Cfr. Mt. XIX, 29; XXV, 21; Lc.. VI, 38. Paolo, che accentua assai la grazia, pone pure in risalto la meritorietà delle opere buone compiute con la grazia, insegnando che la ricompensa è regolata secondo le opere: « Egli renderà a ciascuno secondo le sue opere » (Rom. II, 6). « Ciascuno riceverà la propria mercede a proporzione del suo lavoro » (1 Cor. III, 8). Cfr. Col. III, 24; Ebr. X, 35; XI, 6. Definendo la ricompensa eterna come « la corona di giustizia, che il giusto giudice darà in premio » (2 Tim. IV, 8), egli mostra che le opere buone del giusto fondano presso Dio un vero diritto alla ricompensa (meritum de condigno). Cfr. Ebr. VI, 10. – La Tradizione, sin dai Padri apostolici, testimonia la meritorietà delle opere buone. S. IGNAZIO DI ANTIOCHIA scrive a Policarpo: « Dov’è maggiore la fatica, è più grande il guadagno » (1, 3). « Cercate di piacere a Colui per il quale militate e dal quale ricevete lo stipendio… I vostri depositi siano le vostre opere, affinché possiate avere (un giorno) rimborsi considerevoli » (6, 2). Cfr. GIUSTINO, Apol. I, 43. TERTULLIANO ha introdotto il concetto di merito, senza tuttavia alterare per nulla la dottrina tradizionale. S. AGOSTINO, nella lotta contro il pelagianesimo, ha accentuato con più forza che non i Padri anteriori la parte della grazia nel compimento delle buone opere, ma ha pure anche sempre insegnato la meritorietà di queste. Ep. 194, 5, 19: « Come potrà dunque l’uomo meritare la grazia, dato che ogni merito è in noi opera della grazia e che quando Dio corona i nostri meriti, non corona che i suoi doni? ». La ragione non può di per sé provare la realtà del merito soprannaturale, dato che questo si fonda sulla libera promessa divina della ricompensa. Tuttavia, appellandosi ai principii universali della coscienza umana, è in grado di mostrare la convenienza di una ricompensa soprannaturale per azioni buone soprannaturali e liberamente compiute. S. th. I – II, 114, 1.

§ 24. Le condizioni del merito.

1. Da parte dell’opera.

L’opera meritoria deve essere:

a) moralmente buona, cioè conforme, per l’oggetto, l’intenzione, le circostanze, alla legge morale. Cfr. Ef. VI, 8: « Voi sapete che ciascuno, schiavo o libero che sia, sarà rimeritato dal Signore, di quanto avrà fatto di bene ». Dio, l’assolutamente Santo, non può ricompensare che il bene.

b) libera tanto da costrizione esterna quanto da necessità interna. Innocenzo X condannò come eretica la dottrina giansenistica, secondo cui, nello stato di natura decaduta, basta per meritare e demeritare la libertà da coazione esterna (D. 1094). Cfr. Eccli. XXXI, 10; Mt. XIX, 17: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti ». Mt. XIX, 21; 1 Cor. IX, 17.

S. GEROLAMO dice: « Dove vi è necessità non vi è ricompensa  (ubi necessitas est, nec corona est; Adv. Iov. II, 3). Secondo la testimonianza della coscienza umana soltanto un’azione libera merita ricompensa o punizione.

c) soprannaturale, cioè fatta sotto l’azione della grazia attuale e per un motivo soprannaturale. Anche il giustificato ha bisogno della grazia attuale per compiere atti salutari (§ 8, 3). È richiesto un motivo soprannaturale, poiché colui che agisce è dotato di ragione e di libertà e deve quindi orientare coscientemente la sua azione a tal fine. Gesù promette ricompensa per le opere che vengono compiute per Lui. Mc. IX, 40: « Chiunque vi darà un bicchier d’acqua appunto perché siete di Cristo, in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa ». Cfr. Mt. X, 42; XIX, 29; Lc. IX, 48. Paolo ammonisce di compiere tutto in nome del Signore Gesù Cristo o per la gloria di Dio. Col. III, 17: « Qualunque cosa facciate o con parole o con opere tutto fate nel nome del Signore Gesù! ».

1 Cor. X, 31: « Sia che mangiate dunque, sia che beviate, sia che facciate altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio! ». – Il motivo più perfetto è il perfetto amor di Dio. Secondo i passi della Scrittura or ora citati, possono però bastare anche motivi meno perfetti, per es. l’ubbidienza al precetto divino, la speranza della beatitudine eterna (cosi Suarez, De Lugo contro l’opinione della maggioranza dei tomisti).

2. Da parte dell’uomo.

Chi merita dev’essere:

a) nello stato di via (in statu viæ) dato che, secondo la disposizione positiva di Dio, la possibilità del merito è ristretta al tempo della vita terrena. Cfr. Gv. IX, 4: « Viene la notte, quando più non si può operare ». Gal. VI, 10: « Mentre ne abbiamo il tempo facciamo del bene a tutti ». La ricompensa è commisurata a quello che è stato fatto « mediante il corpo », cioè nella vita terrena (2 Cor. II, 10). Cfr. Mt. XXV, 34; Lc. XVI, 26. I Padri negano, contro Origene, che nell’altra vita vi sia la possibilità di convertirsi e di procacciarsi dei meriti. – FULGENZIO dice: « Dio ha dato all’uomo la possibilità di guadagnare la vita eterna soltanto in questa vita » (De fide ad Petrum III, 36).

b) nello stato di grazia (in statu gratiæ), se si prende il merito in senso proprio (meritum de condigno). Le decisioni dottrinali del Concilio di Trento sul merito si riferiscono espressamente ai giustificati (D. 836, 842). La dottrina contraria di Baio fu condannata (D. 1013 ss.). Gesù esige la continua unione con Lui quale condizione indispensabile per produrre frutti soprannaturali: « Siccome il tralcio da sé non può portare frutto, se non rimane congiunto con la vite, così nemmeno voi, se non rimanete in me » (Gv. 15, 4). PAOLO richiede per l’azione meritoria la carità inseparabilmente congiunta con lo stato di grazia (1 Cor. XVI, 2-3). S. AGOSTINO insegna che soltanto « il giustificato dalla fede può vivere giustamente ed agire bene », e procacciarsi così la vita eterna (Ad Simplicianum I , 2, 21). La necessità dello stato di grazia è fondata sul fatto che tra l’opera meritoria e la sua ricompensa vi è reale equivalenza, solo quando chi merita è elevato, con la grazia abituale, allo stato di amicizia e figliolanza divina.

3. Da parte di Dio.

Il merito dipende dalla libera disposizione di Dio di ricompensare con la beatitudine eterna le opere buone compiute con l’aiuto della sua grazia. Per l’infinita distanza tra il Creatore e la creatura, l’uomo di per sé non può fare che Dio gli sia debitore, se Dio stesso con la sua libera disposizione non lo stabilisca. E che Dio abbia così disposto, risulta dalla promessa della ricompensa eterna. Cfr. Mt. V, 34 ss. (le otto beatitudini); XIX, 29 (ricompensa del centuplo); XXV, 34 ss. (sentenza del Giudice universale). Paolo parla della « speranza nella vita eterna, la quale Dio, che non mentisce, promise dall’eternità » (Tit. 1, 2). Cfr. 1 Tim. IV, 8; Giac. 1, 12. — S. AGOSTINO dice: « Il Signore si è fatto da sé debitore, non ricevendo, ma promettendo. Non gli si può dire: ritornaci ciò che hai ricevuto, ma soltanto: dacci quello che hai promesso» (Enarr. in Ps. LXXXIII, 16). S. th. I – II, 114, 1 ad 3. Secondo l’opinione dei nominalisti e degli scotisti la ragione della meritorietà delle opere buone sta esclusivamente nella libera accettazione di Dio, di modo che Egli potrebbe accettare come meriti anche le opere buone naturali e ricompensarle con la vita eterna. Secondo la concezione, meglio fondata, dei tomisti, la ragione della meritorietà sta nel valore intrinseco delle opere buone compiute nello stato di grazia; poiché tale stato produce un’intrinseca proporzione tra le azioni buone e la ricompensa eterna, come è nel concetto del merito de condigno.

NOTA. Le condizioni per il merito de congruo (merito di convenienza) sono le stesse che per il merito de condigno (merito di giustizia), fatta eccezione dello stato di grazia e della promessa divina.

§ 25. L’oggetto del merito.

1. Oggetto del merito de condigno.

Il giustificato si merita con le sue opere buone l’aumento della grazia santificante, la vita eterna e l’aumento della gloria celeste. De fide.

Il Concilio di Trento dichiarò: Si quis dixerit, iustificatum bonis operibus… non vere mereri augmentum gratiæ, vitam aeternam et ipsius vitæ aeternæ (si tamen in gratia decesserit) consecutionem, atque etiam gloriæ augmentum, A.S. (D. 842). Secondo questa definizione si devono distinguere tre oggetti del merito vero e proprio:

a) l’aumento della grazia santificante. Dato che la grazia è il preludio della gloria, e che la gloria si misura dalle buone opere, anche il grado della grazia deve aumentare con le opere buone. Come la gloria è oggetto del merito, così lo è anche l’aumento della grazia. Cfr. D. 803, 834. – Secondo S. Tommaso la grazia santificante non aumenta sempre appena compiuta un’opera buona, ma solo quando l’anima sia sufficientemente disposta. S. th. I – II, 114, 8 ad 3.

b) la vita eterna, più precisamente il diritto alla vita eterna e, se nell’istante della morte si è nello stato di grazia, il reale conseguimento di essa. Secondo la dottrina della Scrittura la vita eterna è la ricompensa delle opere buone compiute quaggiù. Cfr. Mt. XIX, 29; XXV, 46; Rom. II, 6-7; Giac. 1, 12. La perdita della grazia santificante a causa del peccato mortale importa la perdita di tutti i meriti anteriori. Le opere buone vengono in un certo senso uccise (opera mortificata). Esse tuttavia rinascono, secondo la dottrina generale dei teologi, quando si riacquista la grazia (opera vivificata).

c) l’aumento della gloria celeste. Dato che, secondo la dichiarazione del Concilio generale di Firenze, il grado della gloria varia nei beati a seconda dei loro meriti (prò meritorum diversitate; D. 693), è evidente che l’aumento dei meriti comporta un aumento della gloria. Paolo attesta: « Chi semina scarsamente, scarsamente mieterà, e chi semina abbondantemente, raccoglierà con abbondanza » (2 Cor. IX, 6). Cfr. Mt. XVI, 27; Rom. II, 6; 1 Cor. III, 8; Ap. XXII, 12.

– Osserva TERTULLIANO: « Perché ci sono presso il Padre molte dimore (Gv. XIV, 2), se non per la varietà dei meriti? » (Scorp. 6). L’errore di Gioviniano, che sosteneva l’eguaglianza della gloria celeste per tutti i beati, fu respinto da Gerolamo (Adv. Iov. II, 32-34).

2 . Oggetto del merito de congruo.

Non ci sono al riguardo decisioni del magistero della Chiesa. Dato poi che il concetto di merito de congruo non ha uno stesso significato in quanto per il motivo che lo fonda può essere più o meno ampio, le opinioni dei teologi non sono concordi.

a) Ciò che può meritare il peccatore.

Chi è in peccato mortale può meritare (de congruo), con la libera cooperazione della grazia attuale, ulteriori grazie attuali per prepararsi alla giustificazione e, in ultimo, la stessa grazia giustificante. Sent. probabilis.

Cfr. Sal. L, 19: « Un cuore contrito ed umiliato, o Signore, tu non lo disprezzerai ». AGOSTINO dice del pubblicano ( Lc. XVIII, 9-14) che « per merito della sua umiltà (merito fidelis humilitatis) se ne andò giustificato » (Ep. 194, 3, 9).

b) Ciò che può meritare il giusto.

1) Il giusto può meritare (de congruo fallibili) la grazia della perseveranza finale, in quanto è conveniente che Dio conceda a colui che coopera fedelmente con la sua grazia, la grazia attuale richiesta per durare nello stato di grazia. Sent. probabilis.

Il titolo del giusto alla grazia di perseveranza, fondato sulle buone opere è molto debole, e quindi l’effetto è incerto. Più sicuro è l’effetto dell’umile e costante preghiera. Mt. VII, 7: « Chiedete e vi sarà dato ». Gv. XVI, 23: « Quanto domanderete al Padre, ve lo darà in nome mio ». Cfr. AGOSTINO, De dono persev. 6, 10.

2) Il giusto può meritarsi (de congruo fallibili) di riavere la grazia santificante dopo un eventuale peccato, in quanto è conveniente che Dio per sua misericordia ridoni lo stato di grazia a colui che, quando era in tale stato, ha compiuto molte opere buone. Sent. probabilis.

Quando S. Tommaso insegna (S. th. I – II, 114, 7) che non si può meritare né de condigno né de congruo la conversione dopo la caduta in peccato, egli intende il merito de congruo in senso molto stretto. Commentando la Lettera agli Ebrei (cap. VI, lect. 3) egli ne allarga il senso e afferma la possibilità di un siffatto merito.

3) Per gli altri il giusto può meritare (de congruo) quello che può meritare per sé stesso, e in più la prima grazia attuale. Sent. probabilis.

La possibilità di meritare per gli altri ha il suo fondamento nella amicizia divina del giusto e nella comunione dei Santi. Occorre notare che per gli altri è più efficace la preghiera del merito. Giac. V, 16: « Pregate gli uni per gli altri per essere salvi. Molto vale la preghiera assidua del giusto ». Cfr. 1 Tim. II, 1-4.

4) I beni temporali sono oggetto di merito soprannaturale solo in quanto costituiscono un mezzo per conseguire la salute eterna. Sent. probabilis. Cfr. 5. S. th. I – II, 114, 10.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/09/17/la-grazia-note-di-teologia-dogmatica-1/

LA GRAZIA (NOTE DI TEOLOGIA DOGMATICA) – 4 –

LA GRAZIA

(Note di Teologia Dogmatica) (4)

[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vis. Gen. 7/VI/1955]

SEZIONE SECONDA

La grazia abituale.

Dopo la grazia attuale dobbiamo considerare la grazia abituale, quella cioè che ci santifica in modo permanente stabilendo in noi lo stato di grazia. La Scrittura chiama giustizia questo stato di grazia e giustificazione l’atto divino col quale esso è prodotto in noi. Dividiamo la materia in tre capitoli che trattano rispettivamente del processo della giustificazione, dello stato di grazia che ne è il risultato e del merito che è frutto dello stato di grazia.

CAPITOLO PRIMO

Il processo della giustificazione.

§ 16. La giustificazione.

1. La giustificazione secondo i riformatori.

Il punto di partenza della dottrina luterana della giustificazione è l’idea che la natura umana sia stata totalmente corrotta dal peccato di Adamo e che il peccato originale consista formalmente nella concupiscenza disordinata. LUTERO concepisce la giustificazione come un atto giudiziale (actus forensis) di Dio che dichiara giusto l’uomo, benché internamente rimanga peccatore (iustus et peccator). Siffatta giustificazione, nel suo aspetto negativo, non è ima vera abolizione o cancellazione dei peccati, ma solo una non imputazione o copertura di essi; nel suo aspetto positivo non è una rinnovazione e santificazione interiore, ma una semplice imputazione esterna della giustizia o santità di Cristo. La condizione soggettiva per la giustificazione è la fede fiduciale, cioè la fiducia dell’uomo, unita alla certezza della salvezza, che Dio misericordioso a cagione di Cristo gli perdoni i peccati. Cfr. Conf. Aug. e Apol. Conf. Art. 4; Art. Smalc. P. III, Art. 13; Formula Concordiæ P. II, c. 3.

2 . Dottrina cattolica della giustificazione.

Il Concilio di Trento, riallacciandosi a Col. I, 13, descrive la giustificazione come un « trasferimento da quello stato di peccato, in cui l’uomo nasce figlio del. primo Adamo, allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio per opera del secondo Adamo, Gesù Cristo nostro Salvatore » (translatio ab eo statu, in quo homo nascitur filius primi Adæ, in statum gratiæ et adoptionis filiorum Dei, per secundum Adam Iesum Christum Salvatorem nostrum; D. 796). La giustificazione sotto l’aspetto negativo cancella veramente i peccati,e sotto l’aspetto positivo santifica e rinnova soprannaturalmente l’uomo interiore: non est sola peccatorum remissio, sed et sanctificatio et renovatio interioris hominis (D. 799). La dottrina riformista della copertura dei peccati e dell’imputazione esterna della giustizia di Cristo fu respinta come eretica dal Concilio di Trento(D. 792, 821). – Per quanto riguarda l’aspetto negativo, la Scrittura concepisce la remissione dei peccati come una reale e perfetta abolizione dei peccati usando le seguenti espressioni:

a) delere = cancellare (Sal. L, 3 ; Is. XLIII, 25; Atti III, 19), auferre vel transferre = portar via (2 Sam. XII, 13; 1 Cor. XXI, 8; Mich. VII, 18), tollere = togliere(Gv. 1, 29), longe facere = allontanare (Sal. CII, 12);

b) lavare, abluere = lavare, mundare = purificare (Sal. L, 4; Is. 1, 16; Ez. XXXVI, 25; Atti XXII, 16; 1 Cor. VI, 11; Ebr. 1, 3; 1 Gv. 1, 7); c) remittere vel dimittere = rimettere, perdonare (Sal. XXXI, 1; LXXXIV, 3; Mt. IX, 2. 6; Lc. VII, 47-48; Gv. XX, 23; Mt. XXVI, 28; Ef. 1, 7). I pochi passi della Scrittura che parlano di una velatura o copertura dei peccati (Sai. XXXI, 1-2; LXXXIV, 3; 2 Cor. V, 19) devono essere interpretati alla luce delle espressioni parallele («remittere» in Sal. XXXI, 1; LXXXIV, 3) e degli altri passi scritturali chiari, nel senso di una effettiva cancellazione. In Prov. X, 12 (l’amore ricopre tutti i peccati) e 1 Piet. IV, 8 (l’amore copre la moltitudine dei peccati) si parla non della remissione dei peccati da parte di Dio, ma del perdono reciproco degli uomini. – Per quanto concerne l’aspetto positivo, la Scrittura rappresenta la giustificazione come rinascita da Dio, cioè generazione di una nuova vita soprannaturale nel peccatore (Gv. III, 5; Tit. III, 5-6), come nuova creazione (2 Cor. V, 17), rinnovamento interiore (Ef. IV, 23), santificazione (1 Cor. VI, 11) trasferimento dallo stato di morte allo stato di vita (1 Gv. III, 14), dallo stato di oscurità allo stato di luce (Col. 1, 13; Ef. V, 8), permanente comunione dell’uomo con Dio (Gv. XIV, 23; XV, 5), partecipazione della natura divina (2 Piet. 1, 4: divinæ consortes naturæ). Quando Paolo dice che Cristo è divenuto la nostra giustizia (1 Cor. 1, 30; cfr. Rom.V, 18) non esprime che la causa meritoria della nostra giustificazione.

– I Padri considerano la remissione dei peccati come vera abolizione o cancellazione. S. AGOSTINO respinge la deformazione pelagiana, secondo cui il Battesimo non rimette, ma si limita a radere i peccati: dicimus baptisma dare omnium indulgentiam peccatorum et auferre crimina, non radere; Contra duas epist. Pelag. I , 13, 26. La santificazione che si compie con la giustificazione vien spesso chiamata dai Padri divinizzazione (θείωσις =teiosis, deificano). S. AGOSTINO spiega che la giustizia di Dio (iustitia Dei) di cui parla S. Paolo, non è la giustizia per cui Dio stesso è giusto, ma quella per cui Egli ci rende giusti (cfr. D. 799); essa vien detta giustizia divina perché ci vien data da Dio (De gratia Christi 13, 14). È inconciliabile con la sua veracità e santità che Dio dichiari giusto un uomo, se internamente rimane peccatore.

§ 17. Le cause della giustificazione.

Il Concilio di Trento (D. 799) stabilisce le seguenti cause della giustificazione:

1. La causa finaleè la gloria di Dio e di Cristo (c. f. primaria) e la vita eterna dell’uomo (c. f. secondaria).

2. La causa efficiente, più propriamente la causa efficiente principale è Dio misericordioso.

3. La causa meritoria è Gesù Cristo, che, quale mediatore tra Dio e l’uomo, ha soddisfatto per noi ed ha meritato la grazia giustificante.

4. La causa strumentale della prima giustificazione è il sacramento del Battesimo. La dichiarazione del Concilio aggiunge: quod est sacramentum fidei, sine qua nulli unquam contigit iustificatio. Con ciò si stabilisce che la fede è condizione previa necessaria (causa dispositiva) per la giustificazione (degli adulti).

5. La causa formale è la giustizia di Dio, non quella della quale Egli è giusto, ma quella di cui fa giusti noi (iustitia Dei, non qua ipse iustus est, sed qua nos iustos facit), cioè la grazia santificante. Cfr. D. 820. Secondo la dottrina del Concilio Tridentino la grazia santificante è l’unica causa formale della giustificazione (unica formalis causa). Questo significa che l’infusione della grazia santificante opera sia la cancellazione dei peccati sia la santificazione interiore. Il Concilio respinge così la teoria della duplice giustificazione, sostenuta da alcuni riformatori (Calvino, Martino Butzer) ed anche da alcuni teologi cattolici (Girolamo Seripando, Gasparo Contarmi, Alberto Pighi, Giovanni Gropper), per cui la remissione dei peccati consisterebbe nell’imputazione della giustizia di Cristo e la santificazione positiva in una giustizia inerente all’anima. – Secondo la dottrina della Scrittura la grazia e il peccato sono antitetici e si oppongono come la luce e le tenebre, la morte e la vita. La comunicazione della grazia produce necessariamente la remissione dei peccati. Cfr. 2 Cor. VI, 14: « Quale consorzio tra giustizia e iniquità? e quale comunanza vi è tra la luce e le tenebre? ». Col. II, 13: « E mentre eravate morti a causa dei vostri peccati… Dio con lui (Cristo) vi richiamò alla vita». Cfr. 1 Gv. IX, 14; S. Th. I – I I, 113, 6 ad 2.

§ 18. La preparazione alla giustificazione.

1. Possibilità e necessità di una preparazione.

Il peccatore può e deve prepararsi, con l’aiuto della grazia attuale a ricevere la giustificazione. De fide.

I riformatori negavano la possibilità e la necessità di una preparazione alla giustificazione, partendo dal presupposto che la volontà dell’uomo, in seguito alla totale rovina della natura umana per il peccato di Adamo, sarebbe divenuta incapace di ogni bene. Il Concilio di Trento li condannò dichiarando: Si quis dixerit… nulla ex parte necesse esse eum (se. impium) suæ volontatis motu præparari atque disponi, A. S. (D. 819. Cfr. D . 797 ss., 814, 817).

IL Concilio adduce come prova della Scrittura (D. 797) il passo di Zac. 1, 3: « Convertitevi a me, che io mi rivolgerò verso di voi » e quello di Lam. V, 21: « Convertici a te, o Signore, e ci convertiremo ». Il primo testo accentua la libertà del nostro movimento verso Dio, il secondo la necessità della grazia preveniente.Occorre pure ricordare le numerose esortazioni del Vecchio e del Nuovo Testamento alla penitenza ed alla conversione e la prassi del catecumenato e della penitenza nella Chiesa antica. S. th. I – I I , 113, 3.

2. Fede e giustificazione.

Senza fede la giustificazione dell’adulto non è possibile. De fide.

Secondo il Concilio di Trento la fede è l’inizio della salvezza umana, il fondamento e la radice di ogni giustificazione » (humanæ salutis initium, fundamentum et radix omnis iustificationis; D. 801). Cfr. 799: sine qua (se. fide) nulli unquam contigit iustificatio; e anche D. 1793. – Per quanto concerne il contenuto della fede giustificante, non è sufficiente la cosiddetta fede fiduciale, ma si richiede quella teologica o dogmatica, che consiste nel ritenere vere le verità rivelate a motivo dell’autorità di Dio rivelante. Il Concilio di Trento: si quis dixerit, fidem iustificantem nihil aliud esse quam fiduciam divinæ misericordiæ, A. S. (D. 822). Cfr. D . 798: credentes vera esse, quæ divinitus revelata et promissa sunt; D. 1789 (definizione della fede). – Secondo la testimonianza della Scrittura la fede, e precisamente quella dogmatica, è la condizione previa indispensabile per il conseguimento della salvezza eterna. Mc. XVI, 15-16: «Predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crede e si fa battezzare, sarà salvato; chi non crede, sarà condannato». Gv. XX, 31: «Questi sono stati scritti, affinché crediate che Gesù il Cristo, è Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome ». Ebr. XI, 6: « Senza fede è impossibile piacere a Dio; poiché chi si accosta a Dio, deve credere che Egli esiste e che è rimuneratore di quei che lo cercano». Cfr. Gv. III, 14ss.; VIII, 24; XI, 26; Rom. X, 8 ss. . I passi addotti dagli avversari che accentuano molto l’importanza della fiducia (Rom. IV, 3 ss.; Mt. IX, 2; Lc.. XVII, 19; VII, 50; Ebr. XI, 1) non escludono la fede dogmatica, dacché la fiducia nella misericordia divina è una conseguenza necessaria della fede nella verità della rivelazione divina. – Una prova patristica di fatto in favore della necessità della fede dogmatica per la giustificazione è l’istruzione dei catecumeni nelle verità cristiane di fede e la professione del Credo prima del Battesimo. TERTULLIANO definisce il Battesimo il suggello della fede professata prima di riceverlo (obsignatio fidei, signaculum fidei; De pœnit. 6; De spect. 24). S. AGOSTINO dice: « Il principio della vita buona, della vita che merita la vita eterna è la retta fede » (Sermo 43, 1, 1).

3. Necessità di altri atti preparatorii oltre la fede.

Alla fede devono aggiungersi altri atti preparatorii. De fide.

Secondo la dottrina dei riformatori la fede, intesa nel senso di fede fiduciale, è l’unica causa della giustificazione (dottrina della « sola fides »). Al contrario il Concilio di Trento dichiarò che oltre la fede sono necessari altri atti preparatorii o dispositivi alla giustificazione stessa (D. 819). Vengono nominati il timore della giustizia divina, la speranza nella misericordia divina per i meriti di Cristo, l’inizio dell’amore di Dio, l’odio e la detestazione del peccato, il proposito di ricevere il Battesimo e di incominciare una vita nuova. Il Concilio descrive il normale processo psicologico della giustificazione, senza definire che tutti i singoli atti debbano sempre susseguirsi nell’ordine detto o che vi possano essere solo questi. Come non deve mai mancare la fede quale inizio della salvezza, così pure non deve mai mancare il pentimento per i peccati commessi, poiché la loro remissione senza conversione interiore non è possibile (D. 798. Cfr. D. 897). – La Scrittura richiede al di fuori della fede altri atti preparatorii, per es. il timor di Dio (Eccli. 1, 27-28; Prov. XIV, 27), la speranza (Eccli. II, 9), l’amore di Dio (Lc. VII, 47; 1 Gv. III, 14), il pentimento e la penitenza (Ez. XVIII, 30; 33, 11; Mt. IV, 17; Atti II, 38; 3, 19).

PAOLO e GIACOMO. Quando Paolo insegna che siamo giustificati mediante la fede senza le opere della legge (Rom. III, 28: « Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato dalla fede senza le opere della legge »; cfr. Gal. II, 16), intende per fede la fede viva, operante per mezzo della carità (Gal. V, 6) e per opere le opere della legge del Vecchio Testamento, per es. la Circoncisione, e per giustificazione la purificazione e la santificazione interiore del peccatore non Cristiano per l’adesione alla fede cristiana. Quando Giacomo, in apparente contrasto con Paolo, insegna che noi siamo giustificati dalle opere e non soltanto dalla fede (Giac. II, 24: « Vedete bene che l’uomo è giustificato per le opere e non solo per la fede »), intende per fede la fede morta, cioè senza la carità (Giac. II, 17; cfr. Mt. VII, 21), per opere le opere buone che procedono dalla fede cristiana e per giustificazione il dichiarare giusto chi lo è già, o renderlo maggiormente giusto. Paolo scrive contro i giudaizzanti che si facevano forti delle opere della legge e quindi accentua la fede; Giacomo scrive per i Cristiani tiepidi e perciò accentua le opere. Ambedue esigono concordemente una fede viva ed operante. I Padri, in armonia con la prassi antica del catecumenato, insegnano che la fede da sola non basta alla giustificazione.

S. AGOSTINO dice: « Senza la carità ci può essere la fede, ma serve a nulla » (De Trin. XV, 18, 32). Cfr. S. th. I – II, 113, 5.

CAPITOLO SECONDO

Lo stato di grazia.

§ 19. L’essenza della grazia santificante.

1. Determinazione ontologica della grazia santificante.

a) La grazia santificante è un dono creato soprannaturale realmente distinto da Dio. Sent. Fidei proxima.

Secondo PIETRO LOMBARDO (Sent. I, d. 17) la grazia santificante non sarebbe alcunché di creato, ma lo Spirito Santo stesso, che abita nell’anima dei giusti e vi opera immediatamente (non mediante aliquo habitu) gli atti di amor di Dio e del prossimo. Cfr. S. th. II- II, 23, 2.

– La dottrina del Concilio di Trento che presenta la grazia santificante come « giustizia di Dio, non quella della quale Egli è giusto, ma quella di cui fa giusti noi »

(D. 799), esclude l’identità dalla grazia santificante stessa con lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo non è causa formale, ma causa efficiente della giustificazione. Secondo Rom. V, 5: « L’amore di Dio è largamente diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo, che ci è stato dato ». Ma l’amore di Dio e la grazia sono indissolubilmente congiunti dimodoché se quello è distinto dallo Spirito Santo, come il dono dal donatore e l’effetto dalla causa, lo è anche questa.

b) La grazia santificante è un’entità soprannaturale infusa da Dio e inerente all’anima in modo permanente. Sent. certa.

Secondo i nominalisti la grazia giustificante è la costante benevolenza di Dio che per i meriti di Cristo condona i peccati al peccatore e gli concede la grazia attuale necessaria per il conseguimento della salvezza. Alla stessa guisa Lutero definisce la grazia giustificante come benevolenza di Dio che si manifesta nel non imputare al peccatore i suoi peccati, e nell’imputargli la giustizia di Cristo. – Le espressioni « diffunditur, infunditur, inhæret » (D. 800, 809, 821), di cui si serve il Concilio di Trento, indicano che la grazia giustificante aderisce all’anima del giustificato in modo permanente. Il Catechismo romano definisce la grazia santificante una « qualità divina inerente all’anima » (divina qualitas inhærens; II, 2, 49).

Anche dalla giustificazione degli infanti risulta che la grazia santificante è alcunché che inerisce in modo abituale al giustificato. Cfr. D. 410, 483, 790 ss. – La Scrittura descrive lo stato di giustificazione come la presenza nell’uomo di un seme divino (1 Gv. III, 9): « Chiunque è nato da Dio non pecca, perché un germe di Lui in esso dimora », come unzione, sigillo e pegno dello Spirito Santo (2 Cor. 1, 21-22), partecipazione della natura divina (2 Piet. 1, 4), vita eterna (Gv. III, 15-16, ecc.). La giustificazione vien detta rinascita (Gv. III, 5; Tit. III, 5), nuova creazione (2 Cor. V, 17; Gal. VI, 15) e rinnovazione interiore (Ef. IV, 23). Simili espressioni non si possono spiegare come interventi passeggeri di Dio nell’anima per produrre gli atti salutari, ma richiedono un’entità soprannaturale permanente e inerente all’anima. La nuova vita soprannaturale nel giustificato presuppone un principio soprannaturale permanente di vita.

S. CIRILLO DI ALESSANDRIA chiama la grazia giustificante una « qualità » (ποιότης = poiotes – che ci fa santi (Hom. Pasch. 10, 2) o « una certa forma divina », che lo Spirito Santo infonde in noi (In Is. IV, 2). Cfr. S. th. I – II, 110, 2.

c) La grazia santificante non è una sostanza, ma un accidente reale, inerente alla sostanza dell’anima. Sent. certa.

Il Concilio di Trento si serve dell’espressione « inhærere » (Denz. 800, 809, 821) che caratterizza il modo di essere dell’accidente. Come accidente che modifica l’anima la grazia santificante appartiene più propriamente alla categoria della qualità, e, in quanto la modifica in modo stabile, appartiene piuttosto a quella specie di qualità che si dice abito. Siccome la grazia santificante perfeziona immediatamente la sostanza dell’anima e ha solo rapporto mediato con l’azione, vien definita come abito entitativo (a differenza dell’abito operativo). Per la sua origine l’abito della grazia santificante si dice infuso (per distinguerlo da quello innato e da quello acquisito).

d) La grazia santificante è realmente distinta dalla carità. Sent. communior.

Secondo la dottrina di S. TOMMASO e della sua scuola, la grazia santificante, come perfezione della sostanza dell’anima (habitus entitativus), è realmente distinta dalla carità che è una perfezione della volontà (habitus operativus). Gli scotisti definiscono la grazia come abito operativo realmente identico con la carità, dalla quale pertanto si distinguerebbe solo virtualmente. Il Concilio di Trento non ha decisa la questione.

Mentre in un luogo (D. 821) distingue tra carità e grazia (exclusa gratia et caritate) in un altro, riallacciandosi a Rom. V, 5, parla soltanto dell’infusione della carità (D. 800). – In favore della concezione tomista milita soprattutto l’analogia dell’ordine soprannaturale con quello naturale, la quale ci fa vedere come i doni soprannaturali che perfezionano la sostanza dell’anima siano realmente distinti da quelli che perfezionano le sue potenze, proprio come la sostanza dell’anima e le sue potenze sono tra loro realmente distinte. Cfr. S. th. I – II, 110, 3-4.

2. Determinazione teologica della grazia santificante.

a) La grazia santificante è una partecipazione alla natura divina.

Nell’Offertorio della Messa la Chiesa prega: « Concedici di diventare, mediante il mistero di quest’acqua e di questo vino, consorti della divinità di Colui che si degnò farsi partecipe della nostra umanità». Similmente nel Prefazio della festa dell’Ascensione: « Il quale salì al cielo, per far noi partecipi della sua divinità». Cfr. D. 1021. Pio XII, nell’enc. Mystici Corporis, scrive: « Se il Verbo si esinanì prendendo la forma di servo (Fil. II, 7), ciò fece anche per rendere partecipi della divina natura (cfr. 2 Piet. I, 4 ) i suoi fratelli secondo la carne, sia nell’esilio terreno con la grazia santificante, sia nella patria celeste col possesso della beatitudine eterna» (A.A.S. 1943, P. 214). – Secondo 2 Piet. 1, 4, il Cristiano viene elevato alla partecipazione della natura divina: « Per essa (la sua virtù e la sua gloria) Egli (Dio) ci ha donato grandissime e preziose promesse affinché per mezzo di queste diventiate partecipi della natura divina». Anche i testi della Scrittura che presentano la giustificazione come generazione o nascita da Dio (Gv. 1, 12; III, 5; 1 Gv. III, 1. 9; Tit. III, 5; Giac. 1, 18; 1 Piet. 1, 23) insegnano in modo indiretto la partecipazione dell’uomo alla natura divina, dacché la generazione consiste nella trasmissione della natura dal generante al generato. Con questi passi e altri ancora (Sal. LXXXI, 6; Gv. X, 34-35) i Padri hanno elaborato la dottrina della divinizzazione dell’uomo mediante la grazia (deificatio). È loro ferma convinzione che Dio si fece uomo perché l’uomo divenisse Dio, cioè fosse deificato. Cfr. ATANASIO, Or. de incarti. Verbi 54: « Il Logos si è fatto uomo perché noi diventassimo Dio ». Cfr. Contro Arianos, or. 1, 38, PSEUDO-AGOSTINO, Sermo 128, 1: Factus est Deus homo, ut homo fieret Deus. Lo PSEUDO-DIONIGI spiega la deificazione come la « massima assimilazione e unione con Dio » (De Eccl. Hier. 1, 3).

b) Circa il modo di spiegare tale partecipazione si devono evitare due estremi:

1) Non va concepita in senso panteistico come trasformazione della sostanza dell’anima nella divinità. L’infinita distanza tra il Creatore e la creatura rimane intatta. D . 433, 510, 1225, 2290.

2) Né dev’essere intesa come pura partecipazione morale consistente nella conformità al pensiero e alla volontà di Dio, analoga alla figliolanza del peccatore col diavolo (Gv. VIII, 44).

3) Essa è una partecipazione fisica (reale) alla natura divina. Consiste in un’unione accidentale, che si attua mediante un dono divino creato, che assimila ed unisce l’anima con Dio in un modo che supera tutte le forze create. L’uomo che per il corpo è vestigio e per l’anima è immagine di Dio, viene elevato, mediante la grazia santificante, alla somiglianza divina, cioè ad un grado superiore e soprannaturale di assimilazione con Dio. Cfr. S. th. III, 2, 10 ad 1: gratia, quæ est accidens, est quædam similitudo divinitatis participata in nomine. – La somiglianza soprannaturale con Dio è fatta consistere dal Ripalda in una somiglianza con la santità divina, dal Suarez in una somiglianza con la spiritualità divina. Poiché questa è per Dio il principio della sua vita, cioè della sua conoscenza e del suo amore, la grazia santificante, quale partecipazione alla medesima, è il principio della vita divina nell’uomo giustificato.

c) La somiglianza soprannaturale con Dio, che sulla terra ha il suo fondamento nella grazia santificante, si completa nell’aldilà colla visione beatifica di Dio, cioè colla partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso e alla felicità che ne deriva. Grazia e gloria stanno tra loro come il seme al frutto. La grazia è il principio della gloria (gloria inchoata) e la gloria il compimento della grazia (gratia consummata).

Cfr. S. th. II – II, 24, 3 ad 2: gratia et gloria ad idem genus referuntur, quia gratia nihil est aliud quam quædam inchoatio gloriæ in nobis. La Scrittura attesta l’identità essenziale dellagrazia e della gloria, quando insegna che il giustificato porta già in sé la vita eterna. Cfr. Gv. III, 15; III, 36; IV, 14; VI, 54.

§ 20. Gli effetti formali della grazia santificante.

1. Santificazione dell’anima.

La grazia santificante santifica l’anima. De fide.

Secondo la dottrina del Concilio di Trento la giustificazione è « santificazione e rinnovazione dell’uomo interiore » (sanctificatio et renovatio interioris hominis; D. 799). PAOLO scrive ai Cristiani di Corinto: « Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore nostro Gesù Cristo e mediante lo Spirito del Dio nostro » (1 Cor. 6, 11). Egli definisce i Cristiani santi (cfr. il prologo delle epistole) e li esorta: « Vestitevi dell’uomo nuovo; quello secondo Iddio creato in vera giustizia e santità » (Ef. IV, 24). La santità comprende negativamente l’esenzione dal peccato grave e positivamente l’unione soprannaturale permanente con Dio.

2. Bellezza dell’anima.

La grazia santificante conferisce all’anima bellezza soprannaturale. Sent. communis.

Il Catechismo romano dice della grazia santificante: « La grazia è… simile ad uno splendore e una luce che dissipa tutte le macchie delle nostre anime e le rende più belle e più splendenti » (II, 2, 49). I Padri vedono nella sposa del Cantico dei Cantici un simbolo dell’anima adorna della grazia. – S. TOMMASO dice: Gratia divina pulchrifìcat sicut lux (In Ps. XXV, 8). Quale partecipazione alla natura divina, la grazia santificante produce nell’anima un’impronta della bellezza increata di Dio e la trasforma secondo l’immagine del Figlio (Rom. VIII, 29; Gal. IV, 19), che è fulgore della gloria e impronta della sostanza di lui (Ebr. 1, 3).

3. Amicizia con Dio.

La grazia santificante fa del giusto un amico di Dio. De fide.

Il Concilio di Trento insegna che l’uomo mediante la giustificazione « da ingiusto diviene giusto, e da nemico diviene amico (di Dio) »: ex inimico amicus (D. 799). Cfr. D. 803: amici Dei ac domestici facti. Gesù dice agli Apostoli. «Voi siete gli amici miei, se fate quanto vi comando. Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa ciò che fa il suo padrone: Io vi ho chiamato amici, perché vi ho manifestato tutto quello che ho sentito dal Padre mio » (Gv. XV, 14-15). Cfr. Sap. VII, 14; Ef. II, 19; Rom. V, 10. – Dice S. GIOVANNI CRISOSTOMO della fede giustificante: « Essa ti ha trovato come un morto, un perduto, un prigioniero, un nemico e ti ha fatto un amico, un figlio, un libero, un giusto, un coerede » (In ep. ad Rom. Hom. 14, 6). – L’amore d’amicizia, come dice S. TOMMASO seguendo Aristotile (Etica Nic. VIII, 2-4) è un reciproco amore di benevolenza fondato su una comunanza di vita (S. th. II – II, 23, 1). Il fondamento dell’amicizia con Dio è la partecipazione, concessa da Dio al giusto, della natura divina (consortium divinæ naturæ). La virtù teologica dell’amore, congiunta indissolubilmente con lo stato di grazia, rende il giusto capace di ricambiare, col suo proprio, il benevolo amore di Dio.

4. Figliolanza divina.

La grazia santificante fa del giusto un figlio di Dio e gli conferisce un diritto all’eredità celeste. De fide.

Secondo il Concilio di Trento la giustificazione è « un trasferimento… nello stato di grazia e di adozione dei figli di Dio »: translatio… in statum gratiæ et adoptionis filiorum Dei ( D . 796). Il giustificato è « erede in speranza della vita eterna »: heres secundum spem vitae aeternæ (Tit. 3, 7; D. 799). La Scrittura presenta lo stato di giustificazione come una relazione di figliolanza dell’uomo con Dio. Rom. VIII, 15-17: «Non avete ricevuto spirito di servitù da ricader nel timore, ma spirito di adozione a figliuoli, in cui gridiamo: Abba, Padre! Lo Spirito stesso attesta allo spirito nostro che siamo figli di Dio. E se figli, siamo pure eredi; eredi di Dio, coeredi di Cristo ». Cfr. Gal. IV, 5; Gv. 1, 12; 1 Gv. III, 1. 2. 9. L’adozione è l’accettazione graziosa di una persona estranea per figlio ed erede (personæ extraneæ in filium et hæredem gratuita assumptio). Mentre l’adozione umana presuppone la comunanza di natura tra l’adottante e l’adottato e stabilisce solo un rapporto morale-giuridico tra le due parti, nell’adozione divina invece si ha la comunicazione, mercé una nuova generazione (Gv. 1, 13; 3, 3), di una vita soprannaturale, deiforme, che produce una comunanza fisica del figlio adottivo con Dio. Prototipo della figliolanza divina adottiva è la figliolanza divina naturale di Cristo. Rom. VIII, 29: « Egli è il primogenito tra molti fratelli». Cfr. S. th. III, 23, 1.

5. Inabitazione dello Spirito Santo.

La grazia santificante fa del giusto un tempio dello Spirito Santo. Sent. certa.

Lo Spirito Santo abita nell’anima del giusto non soltanto mediante i doni di grazia che elargisce, ma anche con la sua presenza sostanziale e personale (inhabitatio substantialis sive personalis). Cfr. D. 898, 1015, 2290. La Scrittura ci garantisce simile abitazione. 1 Cor. III, 16: « Non sapete che siete tempio di Dio, e che lo Spirito divino abita in voi? ». Cfr. Rom. V, 5; VIII, 11; 1 Cor. VI, 19.

– I Padri attestano la chiara dottrina della Scrittura. Cfr. IRENEO, Ad. Hær. V , 6, 1-2. Essi provano la divinità dello Spirito Santo contro i macedoniani dal fatto della sua abitazione nell’anima del giusto. Cfr. ATANASIO, Ep. ad Serap. 1, 24. — Per la testimonianza della liturgia si veda la liturgia pentecostale. L’inno Veni Sancte Spiritus chiama lo Spirito Santo « dulcis hospes animæ ». Circa il modo di tale presenza si deve anzitutto ritenere che lo Spirito Santo non si unisce all’anima del giusto sostanzialmente, ma solo in modo accidentale (D. 2290). Inoltre, come opera divina esterna (ad extra) e quindi comune alla SS. Trinità, l’inabitazione importa la presenza delle tre divine Persone; ma perché effetto dell’amore divino, viene appropriata allo Spirito Santo, l’amore personale del Padre e del Figlio. La Scrittura attribuisce espressamente l’abitazione anche alla prima e seconda Persona. Gv. XIV, 23: « Se uno mi ama osserverà le mie parole, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui, e in lui faremo dimora ». Alcuni teologi (Petavio, Passaglia, Scheeben, ecc.), influenzati dai Padri greci, oltre l’inabitazione comune della Trinità ne ammettono una tutta propria ed esclusiva della terza Persona. Ma non è facile conciliare simile opinione con la dottrina dell’unità delle operazioni divine esterne. – Volendo ora precisare in modo positivo in che cosa propriamente consista quest’inabitazione della Trinità, riportiamo quanto scrive Pio XII nell’enc. Mystici Corporis: « Inhabitare quidem divinæ personæ dicuntur, quatenus in creatis animantibus intellectu præditis imperscrutabili modo præsentes, ab iisdem per cognitionem et amorem attinguntur, quadam tamen ratione omnem naturam trascendente, ac penitus intima et singularis » ( D . 2290). – L’inabitazione dunque importa due cose: la presenza fisica delle Persone divine che producono e conservano in noi i doni della grazia (presenza dinamica, operativa); la presenza intenzionale che è il potere di godere Dio Padre, Figlio e Spirito Santo con atti di intelligenza e volontà, in modo soprannaturale e amichevole. Il che, come insegnava LEONE XIII nell’enc. Divinum illud, è una certa qual anticipazione e un pregustamento della visione beatifica. Di queste due presenze quale costituisce propriamente e formalmente l’inabitazione? La presenza dinamica, rispondono alcuni (ad es. Galtier); la presenza intenzionale, rispondono altri (ad es. Froget); tutte e due con prevalenza della seconda, rispondono altri ancora (ad es. Gardeil).

[4 – Continua …]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/09/26/la-grazia-note-di-teologia-dogmatica-5/

LA GRAZIA (NOTE DI TEOLOGIA DOGMATICA) – 3 –

LA GRAZIA

(Note di Teologia Dogmatica) (3)

[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vis. Gen. 7/VI/1955]

§ 12. Il mistero della predestinazione.

1. Concetto e realtà della predestinazione.

a) Concetto.

In senso ampio predestinazione significa qualsiasi disposizione o decreto dell’eterna volontà divina; in senso stretto il decreto della stessa volontà riferentesi al fine soprannaturale delle creature razionali, abbia esso per oggetto la felicità eterna o l’esclusione da essa; in senso strettissimo il decreto di accogliere nella beatitudine celeste determinate creature razionali: Prædestinatio est quædam ratio ordinis aliquorum in salutem æternam in mente divina existens (S. th. I, 23, 2). La predestinazione divina comprende un atto dell’intelletto e uno della volontà: la prescienza e la predeterminazione. Per il suo effetto temporale si distingue la predestinazione incompleta o inadeguata, che si riferisce o soltanto alla grazia (prædestinatio ad gratiam tantum) o soltanto alla gloria (prædestinatio ad gloriam tantum), e la predestinazione completa o adeguata, che ha per oggetto la grazia e la gloria (prædestinatio ad gratiam et gloriam simul). Quest’ultima è definita da S. TOMMASO « una preparazione della grazia nel presente, e della gloria nel futuro » (praeparatio gratiæ in præsenti, et gloriæ in futuro; S. th. I , 23, ob. 4).

b) Realtà.

Dio ha predestinato, mediante il suo decreto eterno, determinati uomini alla beatitudine eterna. De fide.

Il magistero ordinario e universale della Chiesa propone questa dottrina come verità rivelata. Essa è presupposta dalle decisioni dottrinali del Concilio di Trento (D. 805, 825, 827). Cfr. D . 316 ss., 320 ss. La realtà della predestinazione è attestata nel modo più evidente in Rom. VIII, 29-30: « Perché quelli che egli ha preconosciuto li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine di suo Figlio, sì da essere lui primogenito tra molti fratelli. E quelli che ha predestinati questi ha anche chiamati; e quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; e quelli che ha giustificati li ha anche glorificati ». Questo passo pone in rilievo tutti gli elementi che appartengono alla predestinazione completa, l’atto dell’intelligenza e della volontà nel decreto eterno divino (præscire, prædestinare) e i momenti principali della sua attuazione nel tempo (vocare, iustificare, glorificare). Cfr. Mt. XXV, 34; Gv. X, 27-28; Atti XIII, 48; Ef. I, 4 ss. – S. AGOSTINO ed i suoi discepoli difendono contro i pelagiani ed i semipelagiani la realtà della predestinazione come un insegnamento tradizionale di fede. AGOSTINO osserva: « La Chiesa ha sempre avuto la fede in questa verità della predestinazione, fede che ora con rinnovata sollecitudine difende contro i nuovi eretici » (De dono persev. 23, 65). La predestinazione è una parte del piano eterno della divina Provvidenza.

2. Motivo della predestinazione.

a) Punto della questione.

La difficoltà principale della dottrina della predestinazione sta nel sapere se il predestinato stesso esercita una causalità (morale), prevista da Dio, sulla sua predestinazione, se cioè l’eterno decreto della predestinazione è stato formato tenendo conto o meno dei meriti dell’uomo (ante vel post prævisa merita). – La predestinazione incompleta alla sola grazia è indipendente da ogni merito (ante prævisa merita) poiché la prima grazia non si può meritare. Cosi pure è indipendente da ogni merito la predestinazione completa alla grazia ed alla gloria insieme, dato che la prima grazia non si può meritare e che le grazie seguenti e i meriti acquistati con la grazia e la loro ricompensa dipendono dalla grazia prima come gli anelli di una catena. Unicamente dunque per la predestinazione alla sola gloria, si può chiedere se avvenga con o senza la previsione dei meriti. Se c’è tale previsione, il decreto della predestinazione è condizionato (ipotetico), se non c’è è incondizionato (assoluto).

b) Tentativi di soluzione.

1) I tomisti, gli agostiniani, gli scotisti in massima parte e anche alcuni molinisti (Suarez, Bellarmino) sostengono una predestinazione assoluta (ad gloriam tantum), cioè avanti la previsione dei meriti (ante prævisa merita). Dio decide dall’eternità, senza guardare ai meriti dell’uomo, secondo il suo libero beneplacito, la beatitudine eterna di determinate persone e quindi la comunicazione delle grazie efficaci per realizzare il suo decreto (ordo intentionis). Nel tempo poi Egli dà prima le predeterminate grazie efficaci e quindi, come ricompensa per i meriti derivati dalla cooperazione della libertà con la grazia, la beatitudine eterna (ordo executionis). – L’ordine d’intenzione e l’ordine di esecuzione stanno tra loro in rapporto inverso (gloria – grazia; grazia – gloria).

2) La maggior parte dei molinistie anche S. FRANCESCO DI SALES ( f 1622) sostengono una predestinazione condizionata(ad gloriam tantum), cioè dopo la previsione dei meriti (post et propter prævisa merita). Secondo la loro teoria, Dio prevede con la scienza media come si comporterebbe la libertà dell’uomo nei più diversi ordini di grazia possibili. Alla luce di questa conoscenza Egli sceglie, secondo il suo libero beneplacito,un ordine di grazia ben determinato. Quindi con la scienza di visione preconosce infallibilmente quale uso farà il singolo uomo della grazia che gli concede. Coloro che cooperano con perseveranza con la grazia, sono da Lui scelti, in vista dei loro meriti, per la beatitudine eterna; mentre quelli che rifiutano la cooperazione sono destinati, in vista dei loro demeriti, alla pena eterna dell’inferno. L’ordine d’intenzione e l’ordine di esecuzione coincidono (grazia – gloria).

La Chiesa ammette ambedue i tentativi di soluzione (D. 1090). Le prove scritturali addotte dalle rispettive parti non sono decisive. I tomistisi appellano soprattutto ad alcuni passi dell’epistola ai Romani, nei quali balza in prima linea il fattore divino della salvezza (Rom. VIII, 29; IX, 11 – 1 3 ; IX, 20-21). – L’Apostolo però non parla della predestinazione alla sola gloria, ma alla grazia ed alla gloria insieme, predestinazione questa indipendente da ogni merito. — I molinisti si richiamano ai passi che attestano l’universalità della volontà divina salvifica, soprattutto a 1 Tim. II, 4, e alla sentenza del Giudice universale (Mt. XXV, 34-36), in cui le opere di misericordia sono addotte come motivo per essere accolti nel regno celeste. – Che però esse siano anche il motivo della « preparazione » del regno, cioè dell’eterno decreto della predestinazione, non può essere provato con certezza.

– Né può essere decisivo il richiamo ai Padri e ai teologi della Scolastica, giacché la questione venne posta soltanto dai teologi posteriori al Concilio di Trento. Mentre la tradizione preagostiniana è in favore della spiegazione molinista, AGOSTINO, specialmente nei suoi ultimi scritti, favorisce piuttosto quella tomista. Quest’ultima dà forte rilievo alla causalità universale di Dio, mentre la prima accentua di più l’universalità della volontà divina salvifica, la libertà della creatura e l’azione personale dell’uomo nell’opera della salvezza. Le difficoltà che rimangono da una parte e dall’altra provano che la predestinazione è un mistero impenetrabile anche per la ragione illuminata dalla fede (Rom. XI, 33 ss.).

3. Proprietà della predestinazione.

a) Immutabilità.

Il decreto della predestinazione è, quale atto dell’intelletto e della volontà di Dio, immutabile come l’Essere divino stesso. Il numero di coloro che sono scritti nel « Libro della vita » (Fil. IV, 3; Ap. XVII, 8; cfr. Lc. X, 20) è fissato materialmente e formalmente, cioè Dio preconosce e predestina con infallibile certezza quante e quali persone saranno beate. Solo Dio sa quale sia il numero dei predestinati: Deus, cui soli cognitus est numerus electorum in superna felicitate locandus (Secreta prò vivis et defunctis). Contrariamente all’opinione rigorista sostenuta anche da S. TOMMASO (S. th. I, 23, 7), la quale, appellandosi a Mt. VII, 13 (cfr. Mt. XXII, 14), sostiene che il numero dei predestinati sarebbe minore di quello dei reprobi, si deve ammettere, a motivo dell’universale volontà salvifica di Dio e della universalità della redenzione operata da Cristo, che il regno di Cristo non è più piccolo di quello di satana.

b) Incertezza.

Il Concilio di Trento dichiarò contro Calvino, che nessuno può conoscere con certezza se è realmente predestinato, se non mediante una rivelazione particolare: nisi ex speciali revelatione sciri non potest, quos Deus sibi elegerit (D. 805; cfr. D. 825-826). La Scrittura esorta di adoperarsi alla salvezza con timore e tremore (Fil. II, 12). « Chi crede di tenersi ritto, badi di non cadere » (1 Cor. X, 12). Nonostante questa incertezza si danno tuttavia segni (signa prædestinationis) dai quali si può arguire, almeno con grande probabilità, se si è predestinati (perseverante esercizio delle virtù raccomandate nelle otto beatitudini, comunione frequente, operoso amore del prossimo, amore a Cristo e alla Chiesa, devozione alla Madre di Dio).

§ 13. Il mistero della riprovazione.

3. Proprietà della predestinazione.

1. Concetto e realtà della riprovazione.

Per riprovazione s’intende il decreto eterno della volontà divina di escludere determinate creature ragionevoli dalla beatitudine eterna. Per i meriti soprannaturali, che sono il fondamento della eterna felicità, Dio coopera positivamente con la sua grazia, mentre invece per i peccati, che sono il motivo della dannazione eterna, non coopera affatto, ma si limita unicamente a permetterli. La riprovazione si distingue in positivae negativa a seconda che il decreto divino ha per oggetto la dannazione alla pena eterna dell’inferno oppure la non elezione alla beatitudine celeste. Si distingue pure in condizionata e incondizionata(assoluta) a seconda che il decreto divino è dipendente o non dalla previsione dei demeriti.

Dio, con il suo eterno decreto, ha predestinato determinate persone, in previsione dei loro peccati, alla riprovazione eterna. De fide.

La realtà della riprovazione non è formalmente definita, ma è insegnamento comune della Chiesa. Il Concilio di Valenza (855) insegna: fatemur prædestinationem impiorum ad mortem (D. 322). La Scrittura l’attesta in Mt. XXV, 41: « Andate via da me, o maledetti, al fuoco eterno, che è stato preparato per il diavolo e per gli angeli suoi », e in Rom. IX, 22: « Vasi di ira preparati per la perdizione ».

2. Riprovazione positiva.

a) Il predestinazianismo eretico nelle sue diverse forme (il prete gallo Lucido nel V secolo; il monaco Gottschalk nel secolo IX, secondo le informazioni dei suoi avversari che però non trovano conferma nei suoi libri riscoperti; Wicleff, Huss e soprattutto Calvino) insegna una predestinazione positiva al peccato ed una predestinazione incondizionata alla pena eterna dell’inferno, cioè senza tener conto dei demeriti. Il predestinazianismo venne condannato come eresia nei Concilii particolari di Orange (D. 200), Quiercy e Valenza (D. 316, 322) e nel Concilio ecumenico di Trento (D. 827). La riprovazione positiva incondizionata conduce alla negazione della universalità della volontà divina salvifica ed è in contraddizione con la giustizia e la santità di Dio e con la libertà dell’uomo.

b) Secondo la dottrina della Chiesa c’è una riprovazione positiva condizionata, cioè dipendente dalla previsione dei demeriti (post et propter prævisa demerita). Essa è richiesta dalla universalità della volontà divina salvifica, la quale esclude che Dio voglia fin da principio la perdizione di determinate persone. Cfr. I Tim. II. 4; Ez. XXIII, 11; 2 Piet. III, 9.

S. AGOSTINO insegna: « Dio è buono, Dio è giusto. Egli può salvare qualcuno senza meriti buoni, perché è buono; ma non può condannare nessuno senza meriti cattivi, perché  è giusto » (Contro Iul. III, 18, 35).

3. Riprovazione negativa.

I tomistisostengono, in corrispondenza con la predestinazione assoluta alla beatitudine eterna, una riprovazione pure assoluta, però soltanto negativa. La maggior parte di loro l’intende come una non elezione all’eterna felicità (non-electio), congiunta con il decreto della volontà divina di permettere che una parte delle creature ragionevoli cada in peccato e così, per propria colpa, perda la salute eterna. Contrariamente alla riprovazione assoluta positiva, i tomisti mantengono fermamente l’universalità della volontà divina salvifica e della redenzione, la concessione della grazia sufficiente ai reprobi con l’universalità della volontà divina salvifica. Quanto all’effetto, la riprovazione negativa incondizionata dei tomisti coincide con quella incondizionata positiva dei predestinazianisti, poiché fuori del cielo e dell’inferno non c’è un terzo stato definitivo.

4. Proprietà della riprovazione.

II decreto divino di riprovazione è, come quello della predestinazione, immutabile e incerto: senza una speciale rivelazione l’uomo non può conoscerlo.

CAPITOLO QUARTO

Grazia e libertà.

§ 14. La dottrina della Chiesa.

Dio concede a tutti gli uomini grazia sufficiente per la loro salvezza, ma di fatto soltanto una parte di essi la consegue. Vi sono, quindi, grazie che sortiscono l’effetto salutare voluto da Dio (gratiæ efficaces) e grazie che non sortiscono tale effetto (gratiæ mere sufficientes). Si tratta ora di sapere se la ragione di questa diversa efficacia stia nella grazia stessa, ovvero nella libertà umana. I riformatori ed i giansenisti cercarono di risolvere radicalmente la difficile questione negando la libertà. Cfr. LUTERO, De servo arbitrio. – Contro di essi la Chiesa difende la collaborazione della libertà con la grazia; i teologi poi cercano con vari sistemi di spiegare l’intima ragione dell’efficacia della grazia stessa.

1. Permanenza della libertà sotto l’influsso della grazia efficace.

La volontà umana rimane libera sotto l’influsso della grazia efficace. La grazia non è irresistibile. De fide.

Il Concilio di Trento dichiarò contro i Protestanti:

« Se qualcuno dirà che il libero arbitrio dell’uomo, mosso ed eccitato da Dio, non cooperi affatto, assentendo alla chiamata e all’eccitamento divino, e non possa disporsi e prepararsi a ricevere la grazia della giustificazione, e non possa dissentire, se vuole (neque posse dissentire si velit), ma comportarsi solo passivamente (mere passive) come un essere morto che in nessun modo può agire, sia anatema » (D. 814). Innocenzo X condannò la seguente proposizione di Cornelio Giansenio come eretica: « Nello stato di natura decaduta non si resiste mai alla grazia interna » (D. 1093). Cfr.

D. 797, 815-816, 1094-1095. – La Scrittura pone in risalto ora il fattore umano della libertà ora quello divino della grazia. Le numerose esortazioni alla penitenza ed al compimento di opere buone presuppongono che la grazia non tolga la libertà umana. La sua permanenza di fronte alla grazia è espressamente attestata in Deut. XXX, 19; Eccli. XV, 18; XXXI, 10; Mt. XXIII, 27: « Quante volte volli raccogliere i tuoi figli,ma tu non hai voluto »; Atti VII, 51: « Voi resistete sempre allo Spirito Santo ». La cooperazione della grazia e della libertà è posta anche in risalto da Paolo in 1 Cor. XV, 10: « Ma per grazia di Dio sono quel che sono, e la grazia di lui verso di me non fu cosa vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non già io, ma la grazia di Dio con me » (non ego autem, sed gratia Dei mecum). Cfr. 2 Cor. VI, 1; Fil. II, 12. – S. AGOSTINO, a cui si richiamano gli avversari, non ha mai negato la libertà di fronte alla grazia. Per difendere la libertà egli compose nel 426 o nel 427 il De gratia et libero arbitrio,nel quale cerca istruire e tranquillizzare coloro che « credono sia negata la libertà quando si difende la grazia, e quelli che difendono talmente la libertà da negare la grazia e affermare che ci vien concessa secondo i nostri meriti » (1, 1). La giustificazione non è soltanto opera della grazia, ma anche della libera volontà: « Colui che ti ha creato senza di te, non ti giustifica senza di te » (Sermo 169, 11, 13). Quando Agostino osserva che « noi operiamo secondo ciò che ci diletta maggiormente» (quod amplius nos delectat, secundum id operemur necesse est; Expositio ep. ad Gal. 49), non pensa ad un diletto buono o cattivo indeliberato, che preceda la decisione della volontà e la determini, come spiegavano i giansenisti, ma ad un diletto deliberato, compreso nella decisione della volontà.La permanenza della libertà sotto l’influsso della grazia èil presupposto necessario perché le opere buone siano meritoria. In favore della dottrina cattolica sta anche la testimonianza della coscienza umana.

2. La grazia sufficiente.

C’è una grazia che è veramente sufficiente, ma che rimane tuttavia inefficace. De fide.

Si intende con questo nome quella grazia, che attese le circostanze concrete, conferisce il potere di fare l’atto salutare (vere et relative sufficiens), ma che per la resistenza della volontà rimane di fatto inefficace (mere vel pure sufficiens). I riformatori e i giansenisti negarono la grazia sufficiente così concepita poiché, secondo loro, mancando il libero arbitrio, la grazia esercita un influsso necessitante sulla volontà. Pertanto, a loro vedere, la grazia sufficiente è sempre efficace. – La Chiesa, affermando la grazia veramente sufficiente, difende ancor una volta la libertà umana. Secondo la dottrina del Concilio di Trento l’uomo, mediante l’aiuto della grazia preveniente, può prepararsi alla giustificazione (vere sufficiens); ma egli può anche negare il suo assenso (mere sufficiens): potest dissentire si velit (D. 814; cfr. D. 797). Alessandro VIII condannò la proposizione giansenista secondo cui la grazia sufficiente non solo sarebbe inutile, ma nociva perché rende l’uomo debitore di fronte a Dio (D. 1296). – La Scrittura attesta che l’uomo spesso non utilizza la grazia che gli è offerta. Cfr. Mt. XXIII, 37; Atti VII, 51. La Tradizione insegna unanime la realtà delle grazie sufficienti, che rimangono senza effetto per colpa dell’uomo. – Anche S. AGOSTINO conosce, di fatto se non a parole, la distinzione tra grazie solo sufficienti e grazie efficaci. Cfr. De spiritu et littera 34, 60: « In tutto ci previene la sua misericordia. Però l’acconsentire alla chiamata di Dio o il dissentire da essa dipende dalla nostra volontà ». Quando non accetta come vera grazia quella che dà solo il potere (gratia quæ dat posse), egli pensa alla grazia di possibilità (gratia possibilitatis) dei pelagiani, consistente nel libero arbitrio. L’esistenza della grazia sufficiente deriva logicamente dalla universalità della volontà divina salvifica e della grazia, da un lato, e, da un altro lato, dal fatto che non tutti gli uomini conseguono la salvezza eterna.

§ 15. Indagine teologica.

1 . Tomismo.

La viva discussione teologica, sorta verso la fine del secolo XVI, riguardo al rapporto tra la grazia efficace e la libertà, si riduce a questo: quale è il motivo per cui la grazia efficace sortisce con infallibile certezza l’atto salutare voluto da Dio? Questo motivo sta nella grazia stessa o nel libero consenso della volontà previsto da Dio? La grazia è efficace per sua intrinseca virtù (per se sive ab intrinseco) oppure diviene tale per il consenso della libertà (per accidens sive ab extrinseco)? Di qui sorge l’altra questione: la grazia efficace è intrinsecamente distinta da quella sufficiente o lo è solo estrinsecamente per l’intervento del libero consenso della volontà? – Il tomismo elaborato dal domenicano spagnolo DOMENICO BANEZ ( f 1604) e sostenuto principalmente dai teologi dello stesso ordine, insegna quanto segue: Dio da tutta l’eternità stabilisce di salvare determinate persone e, come mezzo per tale fine, di concedere la relativa grazia efficace. Con quest’ultima Egli, nel tempo, opera fisicamente sulla libertà dell’uomo e lo muove a decidersi liberamente di cooperare alla grazia.La grazia efficace opera per sua intrinseca virtù (per se sive ab intrinseco) infallibilmente il consenso della volontà. Pertanto si distingue intrinsecamente ed essenzialmente dalla grazia sufficiente che dà solo la potenza di fare l’atto salutare. Perché poi questa potenza passi all’atto occorre l’intervento di una nuova grazia, intrinsecamente diversa (gratia efficax).Il libero consenso della libertà umana Dio lo prevede infallibilmente nel decreto della sua volontà, col quale dall’eternità ha deciso e la salvezza di determinate persone e la concessione di grazie efficaci. Il valore di questa concezione consiste nello sviluppare coerentemente il concetto che Dio è la causa prima di tutte le azioni create e che le creature, sia nel loro essere, sia nel loro agire, dipendono totalmente da Lui. Restano tuttavia le difficoltà del come la grazia sufficiente sia davvero sufficiente e del come si possa conciliare la libertà umana con la grazia efficace.

2 . Agostinianesimo.

Perfezionato nei secoli XVII-XVIII dagli eremiti agostiniani, come il card. ENRICO NORIS (t 1704) e LORENZO BERTI (f 1766) l’agostinianesimo ammette come il tomismo, che la grazia è efficace per intrinseca virtù. Tuttavia a differenza dei tomisti, sostiene che tale grazia efficace predetermina la volontà non fisicamente, ma soltanto moralmente mediante la dilettazione vittoriosa del bene, la quale produce il consenso della volontà in modo infallibile, ma libero (sistema della predeterminazione morale). L‘agostinianesimo cerca di salvaguardare la libertà, ma concepisce la grazia unilateralmente come semplice dilettazione, e non spiega sufficientemente l’infallibile successo della grazia efficace e la prescienza divina.

3. Molinismo.

Il molinismo, fondato dal teologo gesuita spagnolo LUDOVICO MOLINA (f 1600) e sostenuto principalmente dai teologi della Compagnia di Gesù, ammette tra la grazia sufficiente e quella efficace una differenza non intrinseca ed essenziale,ma esterna ed accidentale. Dio fornisce alla volontà la grazia sufficiente per agire soprannaturalmente, sicché l’uomo, senza l’aiuto di una nuova e distinta grazia, può porre l’atto salutare.Quando la volontà consente alla grazia e compie con essa l’atto salutare, la grazia sufficiente diventa isso fatto efficace.Se invece la volontà non presta il consenso, la grazia rimane soltanto sufficiente. Il libero consenso è infallibilmente previsto da Dio mediante la scienza media.Il molinismo accentua in modo particolare la libertà umana e con ciò indebolisce l’universale causalità divina. Rimane oscura la scienza media e la previsione, in essa fondata, del successo infallibile della grazia efficace.

4. Congruismo.

Il congruismo dovuto a FRANCESCO SUAREZ ( f 1617) e a ROBERTO BELLARMINO (f 1621), prescritto da CLAUDIO ACQUAVIVA (f 1613), Generale dei Gesuiti, come dottrina dell’Ordine, è un’ulteriore elaborazione del molinismo. Secondo tale sistema la diversità tra la grazia sufficiente e la grazia efficace è fondata non soltanto nel consenso della libera volontà, ma anche sulla convenienza o congruenza della grazia con le condizioni concrete di chi la riceve. Quando la grazia è adatta o proporzionata alle condizioni concrete esterne ed interne dell’uomo (gratia congrua), diviene efficace mediante il libero consenso della volontà; quando non lo è (gratia incongrua) rimane inefficace per la mancanza del consenso della volontà. Dio prevede la congruenza della grazia e il suo successo infallibile mediante la scienza media. Il congruismo in confronto con il molinismo accentua di più il fattore divino nell’opera della salvezza.

5. Sincretismo.

Il sincretismo, sostenuto principalmente dai teologi della Sorbona (NICOLA YSAMBERT f 1642; ISACCO HABERT f 1688; ONORATO TOURNELY f 1729) e da S. ALFONSO DE’ LIGUORI (f 1787), cerca di tenere una via di mezzo tra i sistemi nominati. Esso distingue due sorta di grazia efficace: con il molinismo ed il congruismo ammette per le opere buone più facili, in modo speciale per la preghiera, una grazia estrinsecamente efficace; con il tomismo e l’agostinianesimo ammette per le opere buone più difficili e per il superamento di gravi tentazioni, una grazia intrinsecamente efficace, la quale però determina non fisicamente, ma (nel senso dell’agostinianesimo) soltanto moralmente la libera volontà (prædeterminatio moralis). Coloro che utilizzano la grazia estrinsecamente efficace, soprattutto quella della preghiera, ottengono infallibilmente, mediante il sicuro esaudimento della preghiera stessa, la grazia efficace di per sé. Il sincretismo ha tutte le difficoltà che si incontrano nei diversi sistemi della grazia. Giusto è il concetto che la preghiera abbia una parte importante nella realizzazione della salvezza.

[3 – Continua …]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/09/26/la-grazia-note-di-teologia-dogmatica-4/