CATECHISMO CRISTIANO PER LA VITA INTERIORE DI J. J. OLIER (1)

J. J. OLIER

CATECHISMO CRISTIANO PER LA VITA INTERIORE (1)

A cura del Sacerdote Maurilio Andreolotti

III edizione

EDITRICE ÀNCORA

MILANO

Visto: nulla osta per la ristampa

Genova, 21 maggio 1945.

On. MARIO CARPANETO, Revis. Eccles.

IMPRIMATUR

Genuæ, die 25 V 1945.

STEPHANUS FULLE, P. V

Proprietà Riservata – Editrice Ancora – Milano

E. A. (Ge) R. n. 29 – 1 – 1944

Approvazione del Vescovo di Pamiers.

(per la prima edizione).

In questo libro l’eminenza e la purezza dello spirito cristiano si trovano espresse in un modo così breve e così chiaro, da non potersi dubitare che non sia stato ispirato da Dio al suo Autore e che questi non abbia ricevuto dal Padre dei lumi i pensieri sublimi e le espressioni di grazia di cui si serve per far conoscere e, in pari tempo, gustare le divine verità, che debbono dirigere e animare la vita dei veri figlioli di Dio. – Occorre soltanto che il lettore abbia cura di leggere santamente istruzioni così sante, apportando a questa lettura un cuore distaccato dall’affetto al peccato, perché l’affetto al peccato genera nell’anima certe tenebre, le quali le nascondono le verità della nostra santa fede. Occorre inoltre che legga con uno spirito ben risoluto di condurre una vita conforme alla santità della vocazione cristiana. – L’idea e le massime di tale vocazione vengono in questo libro proposte con tanta luce e tanta unzione, che il lettore si sentirà illuminato, e in pari tempo animato, a seguire Gesù Cristo per mezzo di vie così belle, così brevi e così sicure, purché si abbandoni allo Spirito di verità onde ne sia commosso, e le mediti davanti a Dio a suo bell’agio e con umiltà.

Dato a Parigi il 1 Aprile 1658.

f FRANCESCO – STEFANO DE CÀULET

Vescovo di Pamiers.

INTRODUZIONE

In questo libro il Servo di Dio Giovanni Olier espone, in forma di dialogo, i fondamenti della vita soprannaturale; lo compose nel 1656 per le anime che tendono alla perfezione e l’opera fu accolta con tanto favore che in pochi anni ne vennero pubblicate molte edizioni. L’opera è divisa in due parti e in brevi capitoli; nei primi diciannove capitoli che formano la prima parte, l’Autore insegna che il Cristiano, se vuole essere veramente tale, deve praticare l’abnegazione perfetta, ossia tenere il cuore distaccato dagli onori, dai piaceri e dai beni materiali, con le virtù di umiltà, di mortificazione e di povertà, contro le tre tendenze perverse della nostra carne corrotta dal peccato originale; anzi questa necessità dell’abnegazione, egli la deduce dalla corruzione medesima della carne, per la quale meritiamo ogni umiliazione, ogni sofferenza e ogni privazione. – Ci sembra opportuno premettere qualche schiarimento, affinché la dottrina del Servo di Dio non venga fraintesa. Cos’è questa carne di cui l’Olier dice tanto male? Non è precisamente il nostro corpo; ma il complesso, ossia la personificazione, per così dire, di tutte le nostre inclinazioni al male; è l’uomo in quanto non è rigenerato o è contrario alla grazia del Battesimo (San Paolo chiamò pure queste inclinazioni con l’espressione uomo vecchio, perché, avendole noi ricevute da Adamo peccatore, precedono l’uomo nuovo o spirituale formato in noi dalla grazia del Battesimo. (Rom., VI, 6 – Eph., II, 15; IV, 24; – Gal., VI, 15). Questa espressione non si riferisce dunque soltanto al corpo e alla parte infima dell’uomo, ma anche all’anima quando essa si abbandoni a pensieri e atti di volontà conformi alle nostre cattive inclinazioni. La parola carne viene sovente usata nel senso predetto da san Paolo, e si trova più di trenta volte nelle sue Epistole, specialmente in quella ai Romani; così pure, la usano nel medesimo senso san Pietro e san Giovanni, e anche, almeno tre volte, Nostro Signore stesso (Math. XXVI, 41 – Joan. III, 6; XI, 64; XIII, 15). Certuni, che non si sentono troppo molestati dalla concupiscenza, diranno forse che le espressioni dell’Olier sono eccessive; ma la Scrittura non parla diversamente (Per esserne convinti, basta leggere il cap. VIII dell’Epistola ai Romani). Gli Apostoli, e soprattutto san Paolo, condannano la carne come il principio e la sorgente delle concupiscenze, ossia di quelle inclinazioni disordinate che ci portano al peccato (Gal., V, 16, 17, 24, Spiritu ambulate et desideria carnis non perficietis. Caro enim concupiscit adversus spiritum; spiritus autem adversus carnem; hæc enim sibi invicem adversantur… Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiis. – I Joan., II. Ormne quod est in mundo, concupiscentia carnis est, et concupiscentia oculorum et superbia vitæ. – S. Pietro parla dei desideri della carne come della fonte di ogni perversità. (II Petr., II, 10, 18).

 Dio, prima del diluvio, diceva: II mio spirito non rimarrà nell’uomo perché egli è carne. (Gen, VI, 3, VIII, 21). – I figli della carne, dice san Paolo, non sono figli di Dio. (Rom. IX, 8). – Sono carnali e venduti come schiavi al peccato (Rom. VII, 14); camminano secondo la carne e ne eseguiscono i desideri; hanno la prudenza della carne che è una morte (Rom. VIII, 6). – La carne è nemica di Dio e non può essergli soggetta (Rom. VIII, 8). – Le opere della carne sono la fornicazione, i malefizi, gli odi, gli omicidi ecc. – Gal. V, 19, seg. -La carne dall’Apostolo viene chiamata peccato (Rom. VII, 17).Prima del battesimo l’uomo viveva nei desideri della carne, e ne adempiva le opere: le passioni del peccato operavano nelle sue membra (Rom. VIII, 5). – Coloro che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne, i suoi vizi e le sue concupiscenze. La carne concupiscit adversus spiritum. La carne combatte contro lo spirito e lo spirito contro la carne (Gal. V, 17, 24).Pertanto l’uomo è sollecitato da una parte dallo spirito e dall’altra dalla carne; se aderisce allo spirito è spirito; se invece segue le inclinazioni disordinate della sua natura, diventa carne. Donde una lotta intestina, di cui san Paolo, nel capo VII dell’Epistola ai Romani, ci dà una descrizione drammatica, concludendo con questo grido straziante: « Infelix ego homo! Oh me infelice! chi mi libererà da questo corpo di morte?» E risponde: La grazia di Dio, per Gesù Cristo. – Con tutta ragione quindi il Servo di Dio dichiara con grande insistenza che dobbiamo odiare la nostra carne, ossia reprimere tutte le nostre perverse inclinazioni al peccato; e chi non odia il peccato non può essere discepolo di Gesù; perciò Nostro Signore diceva: Chi ama l’anima sua (ossia l’anima sua in quanto segue l’inclinazione della carne) la perderà; chi odia l’anima sua in questo mondo la custodisce per la vita eterna (Joan. XII, 25).Per portare un giudizio esatto su la dottrina dell’Olier rispetto agli effetti del peccato originale, sarà bene ricordare che su questa questione esistono nella Chiesa due opinioni libere.Vari teologi insegnano che il peccato originale ci ha semplicemente privati del dono soprannaturale della grazia santificante e dei doni che chiameremo preternaturali, i quali costituivano l’uomo nello stato d’integrità, ossia di immortalità e di rettitudine. Pertanto, secondo questi teologi, l’uomo dopo il peccato si trova nello stato di natura pura, vale a dire nello stato in cui sarebbe stato creato se Dio non l’avesse elevato all’ordine soprannaturale; ma la privazione dell’ordine soprannaturale nell’uomo è effetto del peccato di Adamo, quindi contrario alla volontà di Dio; perciò l’uomo nello stato attuale non è nello stato voluto da Dio, ma in una condizione peccaminosa, ciò che in noi costituisce il peccato originale.Altri teologi invece sostengono che il peccato originale ha avuto anche effetti peggiori, avendo causato in noi uno stato di debolezza, di inclinazione al male, di concupiscenza, che san Paolo chiama peccato e legge di peccato (Rom. VII, 23).Secondo i primi, la concupiscenza, anche nel grado in cui si trova in noi adesso, sarebbe naturale all’uomo; mentre gli altri sostengono invece che in se stessa la concupiscenza sarebbe bensì naturale all’uomo, ma non nel grado in cui la sentiamo dopo il peccato di Adamo, per cui gli antichi teologi dicevano che l’uomo è stato dal peccato di Adamo ferito anche nella sua natura, vulneratum in naturalibus. I teologi moderni sono più inclinati ad ammettere la prima opinione; tuttavia le due opinioni sono libere nella Chiesa. Il Concilio di Trento non volle sciogliere la questione e si contentò di usare espressioni che si possono adottare tanto nell’una come nell’altra opinione.Il Servo di Dio si appigliò alla seconda Opinione (Questa venne pure seguita, prima dell’Olier, dal Cardinale de Bèrulle e in generale dalla scuola che a lui fa capo. L’espressione: Non siamo altro che niente e peccato, che venne usata dal Condren, dall’Olier e da San Vincenzo de’ Paoli, è del Bérulle; e il dotto e santo Cardinale insegna espressamente che l’uomo. nello stato attuale, trovasi in condizioni peggiori dello stato di natura pura.) e la spinse – dice Padre Faber -sino al punto in cui era possibile senza oltrepassare i limiti dell’ortodossia; e soggiunge: « Ho creduto bene di disapprovare certe espressioni di cui si è servito l’Olier, senza la minima intenzione di mancare di deferenza verso un uomo del quale ho detto altrove, che fra tutti i Servi di Dio non ancora canonizzati, di cui ho letto la vita, egli è quello che rassomiglia di più ad un Santo canonizzato » (Progresso dell’anima, cap. XX, in nota). – Il pessimismo dell’Olier, in questa questione si spiega facilmente. Egli, infatti aveva concepito un orrore profondo verso ciò che san Paolo chiama la carne, un po’ in seguito alla lettura abituale delle Epistole del grande Apostolo e delle opere di sant’Agostino, ma principalmente a motivo di una terribile crisi alla quale era stato sottoposto all’inizio della sua vita sacerdotale. Durante questa prova, che durò due anni, « Dio sembrava avergli tolto la virtù naturale che sorregge il corpo; la sua anima era come incapace di governare i sensi; egli era ridotto ad uno stato di stupidità per cui non si ricordava di nulla, non poteva imparar nulla, non trovava parola per esprimere qualsiasi concetto. Peggio ancora, era privo anche di ogni dono soprannaturale sensibile, e inoltre oppresso da ogni sorta di tentazioni, a segno che si considerava come riprovato da Dio » (Faillon, Vie de M. Olier, Tom. I, lib. VII). Uno stato così triste e desolante all’eccesso, era ben adatto a ispirargli l’idea dell’impotenza della natura per operare il bene e della corruzione dell’uomo decaduto. – Per altro è da notare che la dottrina del Servo di Dio, è essenzialmente opposta alle aberrazioni di Baio e del Giansenismo, di cui egli fu uno dei primi e più temuti avversari. Benché abbia espressioni fortissime contro la carne e la corruzione nativa dell’uomo, tuttavia sempre insegna che l’uomo può fare il bene con l’aiuto della grazia, e possiede il libero arbitrio (v. cap. XVI e XVII). – Inoltre, l’Olier parla il linguaggio non solo di san Paolo, ma della maggior parte degli autori mistici del suo tempo e dei tempi anteriori. San Vincenzo de’ Paoli diceva: « Che cosa abbiamo noi, da noi medesimi, fuorché il niente e il peccato? – Teniamo dunque per certo che in tutto e dappertutto siamo meritevoli di ogni disprezzo, per l’opposizione che da noi medesimi abbiamo contro la santità e le perfezioni di Dio, come contro la vita di Gesù Cristo e le operazioni della grazia; la propensione naturale e continua che abbiamo al male e la nostra impotenza per il bene ci devono maggiormente ancora persuadere di tale verità » (Abelly, Vita del Santo; Lib. III, cap. XXX). San Giovanni Eudes scriveva: « Da noi medesimi non siamo che tenebre e peccato, morte e inferno… Il peccato ha tutto pervertito in noi, nel corpo e nell’anima; ha riempito di oscurità e di malizia la parte superiore dell’anima nostra… Abbiamo in noi la sorgente di ogni male e siamo noi medesimi un abisso di perdizione e un vero inferno » (Memoriale della vita ecclesiastica. Su l’abnegazione di noi medesimi). Così parlano i Beati Grignon de Montfort (Lettera circolare agli amici della Croce, n. 6 e 9), e de la Colombière (Ritiro spirituale, 3a settimana). – Ricordiamo pure ciò che cantiamo noi nel giorno della Pentecoste, rivolgendoci allo Spirito Santo: Sine tuo numine, nihil est in homine, nihil est innoxium. – Da ultimo, notiamo che il Concilio Arausicano (di Orange) definì contro i semipelagiani che Nemo habet de suo, nisi mendacium et peccatum, ossia che l’avere dell’uomo, se egli fosse abbandonato a se stesso, senza la grazia di Dio, non sarebbe altro che errore e peccato.

***

Negli altri sei capitoli della prima parte, il Servo di Dio spiega come dobbiamo partecipare ai misteri di Gesù Cristo. Ogni azione del Divin Redentore può chiamarsi un mistero in senso mistico e spirituale, perché contiene per noi una lezione e una grazia e quindi è un simbolo efficace della vita cristiana; in ciascuna Gesù Cristo ci presentò un modello per la nostra vita e insieme ci meritò una grazia speciale per imitarlo (Mistero, in senso spirituale e secondo l’etimologia della parola, significa una cosa nascosta. Tutte le azioni della vita di Gesù, anche le più ordinarie, contenevano sensi nascosti che i discepoli medesimi non erano capaci di penetrare. Tuttavia il Servo di Dio considera soltanto i sei misteri principali: l’Incarnazione, la Crocifissione, la Morte, la Sepoltura, la Risurrezione, e l’Ascensione, i quali costituiscono il sacrificio completo del Salvatore. «Nell’Incarnazione, Gesù si offre al Padre suo; si immola nei misteri della Passione, della Morte e della Sepoltura; nella Risurrezione riceve nel sepolcro una vita nuova e nella sua gloriosa Ascensione viene consumato in Dio. L’anima che vuole giungere alla perfezione segue questa via; prima si offre a Dio; poi crocifigge le sue cattive inclinazioni… così progredisce nella perfezione e infine giunge ad operare abitualmente per motivo di carità, imitando Gesù Cristo risorto e salito al Cielo » (Introduzione scritta da un prete di san Sulpizio). In tal modo l’anima percorre le tre vie: purgativa, illuminativa e unitiva.

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Nella seconda parte, il Servo di Dio ci indica i mezzi per stabilirci nella vita soprannaturale, i quali sono la preghiera, le sante Comunioni e l’invocazione della Santissima Vergine e dei Santi. Prima tratta della preghiera che è il mezzo principale per acquistare e conservare la vita cristiana. Dopo aver spiegato le condizioni perché la preghiera sia fatta bene, insiste particolarmente su la necessità di pregare in unione con Gesù Cristo ossia in comunione spirituale con le sue disposizioni; nell’ultimo capitolo termina con belle considerazioni su la santa Comunione e su la divozione alla Madre di Dio. – Ci sembra opportuno riportare qui un brano dell’Introduzione scritta da un sacerdote di San Sulpizio. « La perfezione cristiana consiste essenzialmente nell’esercizio abituale della carità. Orbene, da una parte non si può giungere a questo abituale esercizio se non mortificando in noi l’uomo vecchio, ossia la carne; dall’altra, chi mortifica la propria carne per la virtù dello spirito, esercita necessariamente la carità: ne consegue che i maestri della vita spirituale si dividono, per così dire, in due scuole. Gli uni, san Francesco di Sales, per esempio, con l’Apostolo dell’amore san Giovanni sembrano non parlare se non di carità; gli altri come san Carlo Borromeo, seguendo san Paolo, parlano soprattutto di crocifissione e di morte. Non già che i primi perdano di vista la necessità della mortificazione; sono troppo convinti che mai potrà operare abitualmente per Dio, chi non abbia rinunciato alla sua vecchia natura: ma conducono le anime dal distacco delle creature per la via del divino amore. Perciò, diceva una delle figlie spirituali di san Francesco di Sales, che questo gran Santo tagliava il collo all’uomo vecchio con un coltello di zucchero, ma effettivamente lo tagliava. « I secondi non dimenticano che la carità costituisce l’essenza della perfezione, perciò suppongono sempre che il loro discepolo possegga lo Spirito Santo nell’anima sua e cercano pertanto i mezzi di dilatare l’impero di questo Spirito di amore col distruggerne i nemici. Tale è il compito dell’Olier in questo opuscolo, il quale può chiamarsi un commento di questa massima del Maestro: Chi vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso ecc. (Matth. XVI, 24).« I due metodi hanno i loro vantaggi, secondo il tempo e secondo le persone. Un carattere generoso preferirà la scuola della Croce; un animo dal cuor tenero preferirà quella della carità. In un tempo come il nostro, certuni sono scoraggiati dalla severità della scuola della Croce… altri invecene sono edificati, perché comprendono che la mortificazione è indispensabile. « I Santi non separano mai la mortificazione dall’amore. Quanto alle anime pusillanimi che si spaventano della mortificazione, sono incapaci di fare grandi progressi nella carità. Tuttavia se desiderano sinceramente andare a Dio e togliere gli ostacoli che finora le hanno trattenute, speriamo che dalla lettura attenta e dalla meditazione di questo libro, con la grazia di Dio otterranno luce e generosità secondo i loro voti. Questo libro infatti produsse grandi frutti quando venne pubblicato, e sembra che sia ancora destinato a rendere grandi servizi alle anime cristiane, richiamando loro le forti dottrine in esso contenute, in questi tempi in cui l’egoismo e la sensualità tendono a invadere ogni cosa e in cui sono così numerosi i nemici della Croce di Nostro Signore per i quali San Paolo versava amare lagrime » (Phil. III, 18).

A. M.

CATECHISMO CRISTIANO PER LA VITA INTERIORE

PRIMA PARTE

LO SPIRITO CRISTIANO

LEZIONE I.

Dello Spirito e delle due vite di Nostro Signore Gesù Cristo.

D. – Chi merita veramente di essere chiamato cristiano?

R. – Colui che ha in sé lo Spirito di Gesù Cristo (Si quis Spiritium Christi non habet, hic non est ejus. – Rom., VIII, 9).– (Lo stato del Cristiano non è una semplice professione esterna, ma consiste in una vita nuova interiore: non implica soltanto quella trasformazione, diremo, fisica che viene operata dal Battesimo per la grazia santificante; perché il Cristiano sia veramente degno di tal nome, si richiede anche quella trasformazione morale operata in noi dallo Spirito Santo).

D. – Che intendete voi per spirito di Gesù Cristo?

R. – Non intendo la sua anima, ma lo Spirito Santo che abita in Lui. San Paolo – (Rom. VIII, 9) chiama lo Spirito Santo (Spiritus Dei) Spirito di Gesù Cristo (Spiritum Christi), e con tutta ragione, 1° perché lo Spirito Santo procede da Gesù Cristo, seconda Persona della SS. Trinità, come procede dal Padre; 2° perché lo Spirito Santo venne infuso in tutta la sua pienezza nell’anima di Gesù, come in un oceano donde si diffonde in tutti i fedeli nel Battesimo; perciò san Giovanni dice che dalla pienezza di Gesù tutto abbiamo ricevuto (Ioan., I , 16); 3° perché Gesù ci ha meritato lo Spirito Santo, lo inviò alla Chiesa nel giorno della Pentecoste, e ce lo invia nel Battesimo. Notiamo poi che tutte le grazie vengono attribuite allo Spirito Santo, perché sono effetto dell’amore di Dio per noi e lo Spirito Santo è l’Amore personale nella SS. Trinità.

D. – Come potrà conoscere il Cristiano se ha in sè lo Spirito di Gesù Cristo?

R. – Lo saprà se riconoscerà di avere inclinazioni simili a quelle di Gesù Cristo, per le quali si vive come Egli viveva.

D. – Qual è questa vita di Gesù Cristo della quale parlate?

R. – È quella vita santissima che ci viene descritta nella Scrittura, soprattutto nel Nuovo Testamento.

D. – Quante sono le vite in Gesù Cristo?

R. – Ve ne sono due, la vita interiore e la vita esterna.

D. – In che consiste la vita interiore di Gesù Cristo?

R. – Consiste nelle sue disposizioni, nei suoi sentimenti rispetto a tutte le cose: per esempio, nella sua religione verso Dio, nel suo amore verso il prossimo, nel suo annientamento rispetto a se medesimo, nel suo orrore per il peccato, nella condanna del mondo e delle massime del mondo.

D. – E la sua vita esterna, in che consiste?

R. – Consiste nelle sue azioni sensibili e nella pratica visibile delle virtù che abbiamo accennate, emanate dal fondo del suo divino interiore.

D. – Per essere vero Cristiano, bisogna dunque aver in noi lo Spirito Santo, il quale ci faccia vivere interiormente ed esternamente come Gesù Cristo?

R. – Sì! (Lo Spirito Santo in noi è principio di una vita nuova, che è la vita medesima di Gesù Cristo; ci comunica i sentimenti e le disposizioni di Gesù Cristo onde si verifichi il precetto di san Paolo: Hoc sentite in vobis quod et in Christo Jesu: Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Gesù Cristo. (Philip., II, 5). Per essere veramente Cristiani dobbiamo, sotto l’azione dello Spirito Santo, imitare Gesù nella sua vita esterna, ma più ancora nella sua vita interiore, ossia nei suoi sentimenti).

D. – Ma questo è assai difficile!

R. – Certo, ma soltanto per chi non ha ricevuto il santo Battesimo, nel quale ci viene dato il Santo Spirito di Gesù Cristo affinché viviamo come Gesù.

LEZIONE II

Della perdita della grazia dopo il Battesimo, e del lavoro della penitenza per ricuperarla.

D. – Chi ha perduto la grazia dello Spirito Santo dopo il Battesimo, può forse riacquistarla?

R. – Sì; mediante la penitenza, ma con grande fatica e pena.

D. – Forse per questo il Sacramento della penitenza viene chiamato battesimo laborioso?

R. – Senza dubbio; nel Battesimo in cui siamo generati in Gesù Cristo, Dio nostro Padre ci dà, Egli stesso, la vita del Figlio suo, senza che la sua divina giustizia esiga da noi alcuna pena; ma così non avviene nella penitenza.

D. – Perché una tale differenza?

R. – Per ricuperare le virtù che Iddio solo ci aveva date da sé medesimo, e, con la sua mano onnipotente, aveva piantate nel nostro cuore, occorre affaticarci e penare; ci vuole il sudore della nostra fronte, affinché lo Spirito Santo renda di nuovo feconda la terra sterile e ingrata del nostro cuore, dove prima la grazia faceva germinare le virtù senza fatica e senza pena.

D. – E’ dunque un grave danno perdere la grazia del Battesimo?

R. – Certo; né si saprebbe esprimerlo a parole; e come mai si potrebbe riparare un tal capolavoro di grazia e di misericordia?

D. – Questa perdita non è forse riparata dalla penitenza?

R. – No, non è riparata in modo perfetto; possiamo paragonare l’anima penitente, a un novizio nell’arte della pittura, il quale voglia rinfrescare un quadro insigne molto sbiadito; l’opera nuova sarà ben lontana dal raggiungere la perfezione dell’originale.

D. – Ma perché mai ci vuole tanta fatica per ricuperare la grazia?

R. – Perché chi la perde si rende colpevole di una estrema ed incredibile ingratitudine, calpestando il Sangue di Gesù Cristo e soffocando lo Spirito Santo ch’esso aveva ricevuto nel Battesimo.

D. – Ma come mai? In che modo colui che offende Dio con un peccato mortale,  dopo il Battesimo, calpesta il Sangue di Gesù Cristo? –

R. – Dapprima, perché disprezza i meriti e il Sangue di Gesù Cristo, il quale ha acquistato per noi lo Spirito Santo e tutte le sue grazie. Inoltre, perché chi commette peccato mortale diventa un medesimo spirito col demonio, il quale in tal modo calpesta Gesù-Cristo nell’anima del peccatore e trionfa di Lui, persino nel suo proprio trono.

D. – E’ dunque per questo che il peccatore, secondo la parola di S. Paolo, crocifigge in se stesso Gesù Cristo?

R. – Sì. Come i Giudei, spinti dalla rabbia dei demoni, legarono e inchiodarono Gesù Cristo sulla Croce, di modo che non aveva più l’uso delle sue membra, né alcuna libertà per agire; così, per il peccato, Nostro Signore viene legato e ridotto all’impossibilità di agire in noi; l’avarizia rende inutile la sua carità; l’impazienza, la sua pazienza; la superbia la sua umiltà. In tal modo il peccatore, coi suoi vizi, lega, attanaglia e, per così dire, fa a brani Gesù Cristo che abita in lui.

LEZIONE III.

Dignità del Cristiano, in cui abita Gesù Cristo per animarlo dei suoi sentimenti e della sua indole, in una parola, della sua vita.

D. – Gesù Cristo abita in noi?

R. – Sì, Gesù Cristo per la fede abita nei nostri cuori, come c’insegna espressamente San Paolo dopo Nostro Signore stesso. (Ego in vobis – Joan., XIV, 29. — Christum habitare per fidem in cordibus vestris. – Ephes., III, 17).

D. – Non mi avete voi detto che anche lo Spirito Santo si trova in noi?

R. – Sì, lo Spirito Santo è in noi insieme col Padre e col Figlio, e diffonde in noi, come abbiamo detto, i medesimi sentimenti, le medesime inclinazioni, la medesima indole, le medesime virtù di Gesù Cristo.

D. – Il Cristiano è dunque qualche cosa di grande?

R. – Non v’è nulla di più grande, di più augusto, né di più magnifico; il Cristiano è un altro Gesù Cristo vivente sulla terra ». (Christianus alter Christus).

D. – E’ dunque ben disgraziato il Cristiano che perde tali tesori, col peccato mortale. Ma spieghiamoci meglio: Voi dite che Gesù Cristo abita in noi e che siamo noi pure unti della medesima unzione della quale venne unto Egli stesso (*), vale a dire dell’unzione dello Spirito Santo , e che diffonde in noi le sue inclinazioni e i suoi sentimenti; ma come sapete voi questo?
(*) (La Chiesa, nel Veni Creator, chiama lo Spirito Santo unzione spirituale = spiritalis unctio)

R. – Lo sappiamo da san Paolo, poiché ei vuole che abbiamo in noi gli stessi sentimenti di Gesù Cristo, il quale si annientò e si umiliò sulla Croce, sebbene fosse eguale al Padre suo (Hoc sentite in vobis quod et in Christo Jesu. Qui cum in forma Dei esset, non rapinam arbitratus est esse se æqualem Deo, semetipsum exinanivit … humiliavit semetipsum, factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis. (Philipp., II, 5-8).

D. – Che significa avere in sé i medesimi sentimenti di Gesù Cristo?

R. – Questo vuol dire avere nel nostro cuore e nell’anima nostra i medesimi desideri, per esempio, di essere umiliati e crocifissi come Lui.

D. – Dovremo noi avere tali desideri in un modo così perfetto come Gesù Cristo?

R. – Non dico questo; dico soltanto che dobbiamo avere desideri simili, sebbene non uguali, a quelli di Gesù Cristo.

D. – Possiamo noi davvero avere desideri simili a quelli di Gesù?

R. – Certamente, per la virtù dello Spirito Santo, il quale può darci inclinazioni affatto contrarie e opposte a quelle che abbiamo nella nostra carne in forza della nostra nascita da Adamo.

[1 – Continua …] https://www.exsurgatdeus.org/2019/11/07/catechismo-cristiano-per-la-vita-interiore-2/

LO SCUDO DELLA FEDE (84)

L[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO VII.

COMI SI DEBBANO IMPORTARE QUELLI CHE SONO TENTATI DAI PROTESTANTI COL DANARO.

Quando tutte le astuzie precedenti non bastano a pervertire un’anima Cattolica, sapete a che ricorrono specialmente coi poverelli? Depongono ogni vergogna dal volto, fanno luccicare qualche moneta e cercano di corrompere col danaro. S’ introducono però a poco a poco, s’informano del vostro stato, Fingono di compatirvi nelle vostre necessità, lamentano che la vostra Religione ed i vostri Sacerdoti non si prendono cura di voi, perché non vi è carità. Dopo tutte queste doglianze e queste compassioni soggiungono che essi diranno, che essi faranno per voi ogni cosa, e poi vi porgono qualche denaro pel presente e vi promettono molto più per l’avvenire se volete farvi dei loro. Questa è l’arte che hanno impiegata molte volte e che impiegano tuttodì. – Ora che cosa debba fare un Cattolico che si senta fare una tal proposta? Ve lo dirò io, ma fate di comprenderlo bene. La prima cosa che dovrebbe fare chi fosse tentato così, sarebbe andare sulle furie contro un mostro che ha coraggio di fargli tale proposizione. – Imperocché chi parla così ad un Cattolico, gli fa il più grande insulto che gli possa fare. Un uomo che si offre ad un altro per comperarlo mostra che non ha veruna stima di lui: ma chi si esibisce a comprarne la fede e l’anima mostra di averlo in conto d’un infedele e di un sacrilego. Fa con lui quel che fecero già con Giuda gli anziani ed i seniori del popolo Ebreo. Vi daremo tanti danari e voi ci venderete Gesù. Ora se non si risente un cuore cattolico ad essere stimato capace di un tal delitto, quando si risentirà? – Il S. Martire Policarpo era venerando per la sua canizie e per la sua santità. Trascinato dinanzi al Giudice per confessare la S. Fede di Gesù Cristo, gli venne posto dinanzi un monte d’oro e d’argento perché dovesse rinnegare la S. Fede. Ma quel S. vecchio andò sulle furie alla sola proposta e tutto inorridito non sofferse neppure di rimirare quei beni con una occhiata. Ora questo orrore, questo disprezzo è quello che debba avere un Cattolico che riceve l’esibizione di danaro per vendere la sua fede. Né basta solo l’orrore e l’indignazione, bisogna levarsi arditamente d’intorno chi ha potuto farci tal proposizione. Bisogna non accettare la loro compassione, non lasciar dinanzi a noi maltrattare la nostra Madre la Chiesa, come di poco amorevole, bisogna ricordare loro che noi siamo figliuoli di quei gran Padri che piuttosto che offendere Gesù, abbandonando la sua Fede, si sono lasciati pestare, lacerare, sbranare con tutte le più orride carneficine, bisogna protestare che siamo disposti a morire mille volte, piuttosto che portare alla bocca un tozzo di pane che ci costi l’anima, la Fede, l’eternità, l’amore di Gesù Cristo: e con questi sentimenti generosi levarceli risolutamente d’intorno. Ecco quello che bisogna fare. Se non che ripigliano alcuni: Io non ho abbandonata la S. Fede, la conservo tuttavia nel cuore, solo fingo di essere Protestante per ricevere quell’aiuto. Ah sì fingete solamente? E credete questa una scusa che vi possa salvare? E non sapete voi che vi è l’obbligo di professare all’esterno quel che si crede nel cuore? Non sapete voi che S. Paolo dice che col cuore si crede per essere giustificati, con la bocca se ne fa la confessione per giungere alla salute? (Rom. X, 40). Peccato che non conoscessero questa bella ragione i santi Martiri di Gesù Cristo! A loro nessuno domandava che rigettassero dal cuore la S. Fede, sì chiedeva solo che facessero qualche segno esterno di non credere: ed erano gli stessi persecutori che spesse volte consigliavano loro di fingere per un momento e così salvarsi la vita da tanti strazi. Ma essi udivano con orrore queste proposizioni, negavano di arrendervisi e protestavano che avrebbero incontrato prima mille morti che consentire ad una finzione così sacrilega. Eppure quella finzione poteva sembrare più tollerabile, perché essi non l’avrebbero fatta per guadagnare denaro, ma solamente per iscampare da una morte crudelissima e non meritata. – E tuttavia non furono mai ammesse per buone queste inique ragioni. Che cosa dunque dovrassi dire di quelli che non per timore di perdere la vita, ma per guadagnare due paoli al giorno vendessero la Fede? Che cosa potranno rispondere queste anime vili a Gesù Cristo che ci ha assicurati che non riconoscerà davanti ai suo Padre celeste quelli che non hanno riconosciuto Lui davanti agli uomini, quando verrà a giudicarli? Che cosa diranno quando li metta in confronto di una S. Agnese per esempio, di una S. Cecilia, di S. Agata e di tante altre S. Verginelle, le quali vinta la debolezza dell’età e del sesso, si presentavano ai tiranni con tanto ardore e si lasciavano tormentare con tanti strazi piuttosto che rinnegare la S. Fede? Che diranno in faccia a S. Ignazio, a S. Policarpo e ad altri vecchi venerandi, che si consolavano tutti di poter mostrare a Gesù la loro fedeltà a costo anche della vita? Che diranno in faccia a S. Felicita ed ai suoi sette figliuoli, giovani nel fior dell’età, che tripudiavano di gioia perché potevano morire in compagnia della santa loro madre, per testimoniare così la S. Fede? Ah io credo che correranno da sé medesimi a nascondersi negli abissi prima che Gesù Cristo getti loro sul volto quei quattro denari fecciosi che furono il prezzo dell’infame loro apostasia. – Imperocché quale sarà la loro sentenza? Quella che toccò a Simone il mago, che per danaro aveva voluto sacrilegamente comperare lo Spirito Santo. L’Apostolo S. Pietro disse a costui: «Il tuo denaro sia teco in perdizione. Or questa condanna sarà pur quella che da Gesù verrà pronunziata contro chi avrà venduta la propria fede. Giuda venduto che ebbe il suo Maestro divino, non ebbe più pace dai suoi rimorsi, finché disperato non s’impiccò da sé stesso e se n’andò con l’anima in fondo all’inferno; cosi ancor questi apostati straziati dai rimorsi, non godranno mai tranquillamente il frutto del loro peccato, e poi tosto o tardi presentandosi al giudice divino, la cui fede hanno venduta, saranno gettati nel baratro dell’eterna perdizione.

LA PERFEZIONE NELLE OPERAZIONI ORDINARIE (3)

[P. Alfonso RODRIGUEZ S. J.: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane – S. E. I. Torino; rist. 1948]

TRATTATO II.

DELLA PERFEZIONE DELLE OPERAZIONI ORDINARIE (3)

CAPO VII.

D’un altro mezzo, che è assuefarsi uno a far bene le opere proprie.

1. Come praticare questo mezzo. — 2. Ci viene insegnato dalla

S. Scrittura, — 3. Efficacia del buon abito.

1. Quel grande ed antichissimo filosofo, Pitagora, dava un consiglio molto buono ai suoi discepoli e ai suoi amici per diventar virtuosi e per rendersi loro facile e soave la virtù. Diceva loro così: Eleggasi ciascuno un modo di vivere molto buono, e non si sgomenti, per parergli da principio faticoso e difficile; perché di poi, con la consuetudine, gli riuscirà molto facile e molto gustoso. Questo è un mezzo molto principale, e del quale ci abbiamo da valere, non tanto per essere di quel filosofo, quanto perché è dello Spirito Santo, siccome or ora vedremo; e perché è mezzo molto valevole pel fine che pretendiamo. Già noi abbiamo eletto il buon modo di vivere, o per dir meglio, già il Signore ci ha eletti per questo: « Non siete voi che avete eletto me, ma io ho eletto voi » (Joan. XV, 16). Siane egli eternamente benedetto e glorificato. Ma in questa vita e in questo stato, nel quale il Signore ci ha posti, vi può essere il più e il meno: perché puoi esser perfetto, e puoi essere imperfetto e tiepido, secondo che andrai operando. Ora se vuoi far profitto e acquistare la perfezione in questo stato e nelle tue operazioni, procura di avvezzarti a far le opere e gli esercizi della religione ben fatti e con perfezione. Avvezzati a far bene l’orazione e gli altri esercizi spirituali; avvezzati ad esseremolto puntuale nell’ubbidienza e nell’osservanza delle regole e a far conto delle cose piccole; avvezzati al ritiramento, alla mortificazione e penitenza, alla modestia e al silenzio. Non dubitare; se nel principio sentirai in ciò qualche difficolta, dopo, con la consuetudine, ti si renderà non pur facile, ma soave e gustoso, e non ti sazierai di render grazie a Dio dell’esserti a ciò assuefatto.

2. Questa dottrina ci viene insegnata dallo Spirito Santo in molti luoghi della sacra Scrittura. Dicesi nei Proverbi: « Ti indirizzerò per la via della Sapienza » (Prov. IV, 11). Io t’insegnerò a prender sapore nella cognizione di Dio; che tanto appunto, per detto di S. Bernardo e di S. Bonaventura, vuol dire nella sacra Scrittura la parola sapienza, una « saporita cognizione di Dio ». – Or io t’insegnerò, dice lo Spirito Santo, la strada, per la quale tu venga ad aver sapore e gusto in conoscere, amare e servir Dio. « Ti condurrò nei sentieri della giustizia; e quando in essi sarai entrato, non troverai angustia ai tuoi passi, né inciampo al tuo corso » (Prov. IV, 11-12). Ti condurrò prima per i sentieri stretti della virtù, i quali chiama così, perché la virtù nei principi ci si rende difficile, per la nostra mala inclinazione, e ci pare uno stretto sentiero; ma passate che avrai quelle prime strettezze camminerai alla larga molto gustosamente e a piacer tuo; ed anche correrai senza inciampare, né troverai difficoltà in cosa alcuna. Lo Spirito Santo c’insegna elegantemente con questa metafora che, quantunque nei principi sentiamo difficoltà in questa strada della virtù e della perfezione, non abbiamo per questo da perderci d’animo; perché di poi, camminando avanti in questa strada, non solo non avremo difficoltà, ma vi troveremo molto gusto e grande contentezza ed allegrezza, e verremo a dire: « Io faticai per un poco ed ho trovato molto riposo » (Eccli. LI, 35). Lo stesso si replica nel capo sesto dell’Ecclesiastico: « Con un po’ di lavoro nella sua cultura ben presto ne godrai i frutti » (Eccli. VI, 20). E il glorioso Apostolo S. Paolo c’insegna anch’egli questo medesimo: « Ora qualunque disciplina sembra pel presente apportatrice non di gaudio, ma di tristezza: dopo però rende un tranquillo frutto di giustizia a coloro che in essa si sono esercitati » (Hebr. XII, 11). E così vediamo in tutte le arti e scienze. Quanto difficile non si rende ad un giovinetto lo studio nel principio! Molte volte bisogna condurvelo per forza, e si suol dire che l’apprender le lettere costa sangue; ma dopo con l’esercizio, quando va facendo profitto e imparando qualche cosa, gusta tanto dello studio, che alle volte tutto il suo trattenimento e la sua ricreazione è lo starsene studiando. Or così avviene ancora nella via della virtù e della perfezione.

3. S. Bernardo va dichiarando molto bene questa cosa sopra quelle parole di Giobbe: « Quelle cose che io per l’avanti non avrei voluto toccare, sono adesso nelle mie strettezze mio cibo » (Iob. VI, 7) . Vuoi tu sapere, dice egli, quanto fa l’esercizio e la consuetudine, e quanta forza ha! Al principio ti parrà una cosa molto difficile e insopportabile; ma se ti assuefai ad essa, coll’andar del tempo non ti parrà tanto difficile né tanto pesante: da lì a poco ti parrà cosa leggiera e facile; indi ad un altro poco non la sentirai più affatto: e in breve non solo non la sentirai più, ma ti darà ella tanto gusto e tanta contentezza, che potrai dire con Giobbe: Quello che prima l’anima mia aborriva, e non lo poteva vedere, ma mi cagionava orrore, adesso è mio cibo e nutrimento molto dolce e saporito (S. Bern. De cons. ad Eug. L. 1, c. 2)- Di maniera che ogni cosa riesce secondo che la persona si assuefà ad essa. Perciò a te riesce difficile l’osservar le addizioni e gl’indirizzi dell’orazione e dell’esame, perché vi sei poco assuefatto: perciò hai tanta difficoltà nel fissare e tener raccolta la tua immaginativa, acciocché non se ne scorra ove vuole subito che ti svegli e nel tempo dell’orazione, perché non hai fatto mai sforzo, né ti sei avvezzo a fissarla e a tenerla a freno, affinché non trascorra a pensar in altro che in quello che hai da meditare. Per questo ti cagiona tristezza e malinconia il silenzio e il ritiramento, perché poco l’usi. « La cella, dice il devoto Tomaso da Kempis, se ci si abita di continuo, riesce dolce; se male la si custodisce, ingenera noia » (De Imit. Chr. l. I, c. 20, 5) . Avvezzati tu adunque a startene in essa continuamente, che ti diventerà soave e gioconda. Per questo riescono difficili al secolare l’orazione e il digiuno, perché non vi si è assuefatto. E re Saul vestì Davide delle sue proprie armi, perché con quelle andasse a combattere col Filisteo; ma perché quegli non era avvezzo, non si poteva muovere con esse, e le lasciò: si assuefece poi alle armi, e con esse combatteva molto bene. – E quel che dico della virtù e del bene, dico anche del vizio e del male. Che se ti lasci trasportare dalla cattiva consuetudine, crescerà il male e piglierà forze maggiori; onde sarà poi più difficile il rimedio, e così te ne resterai tutta la tua vita. Oh se da principio tu ti fossi assuefatto a fare le cose bene, quanto ricco ti troveresti adesso e quanto contento, vedendo la virtù e il bene esserti ornai divenuti cotanto facili e soavi! Comincia ora ad assuefarti bene; che è sempre meglio tardi, che mai. Piglia a petto il far bene coteste cose ordinarie che fai, poiché tanto importa il farle bene, ed applica a questo, se sarà di bisogno, l’esame particolare, che sarà dei buoni esami che tu possa fare; e in questa maniera ti si andrà rendendo facile e soave il farle e il farle bene.

CAPO VIII.

Quanto importi al religioso il non allentare nella virtù.

1. Difficile dalla tiepidezza tornare al fervore. 2. Stato infelicedel tiepido. — 3. Diventa infermo con quello onde dovrebbeconservarsi sano. — 4. Rimedio.

1. Da quello che si è detto si verrà a conoscere assai bene, quanto importi al religioso il conservarsi nella devozione, l’aver sempre fervore negli esercizi della religione e il non lasciarsi cadere in tiepidezza, in lentezza e in rilassatezza; perché gli sarà di poi molto difficile l’uscire da essa. Potrà ben fare Iddio che ritorni dopo a vita infervorata e perfetta; ma questo sarà quasi come un miracolo. Dice questa cosa molto bene S. Bernardo, scrivendo ad un certo Riccardo, abate Fontanense, e ai suoi religiosi, coi quali aveva Dio fatto questo miracolo, che, avendo quelli menata sino a quell’ora una qualità di vita tiepida, lenta e rilassata, li aveva cangiati e trasferiti ad una molto infervorata e perfetta. Maravigliandosene e rallegrandosene assai, e congratulandosene con essi il Santo, dice cosi: « Qui vi è il dito di Dio: chi mi concederà che io colà mi trasferisca e veda, come un altro Mosè, questa prodigiosa visione? » Perché non è cosa meno meravigliosa questa che quella che vide Mosè nel roveto che bruciava e non si consumava. « È cosararissima e molto straordinaria il veder passar uno avanti e trascendere quel grado nel quale una volta si è fissato nella religione. Più facil cosa sarà ritrovare molti secolari, i quali dalla mala vita si convertano alla buona, che incontrarsi in un religioso, il quale da vita tiepida, lenta e rimessa passi a vita migliore » (S. Bern. Ep. 96; M. PL. V. 182, col. 22). E la ragione di ciò è perché i secolari non hanno i rimedi tanto continui quanto i religiosi; e così quando odono una buona predica, o vedono la repentina e disgraziata morte di un qualche vicino od amico, quella novità cagiona in essi spavento ed ammirazione, e li muove a mutare e ad emendare la loro vita. Ma il religioso, che ha questi rimedi tanto famigliari, tanta frequenza di Sacramenti, tante esortazioni spirituali, tanto esercizio di meditar le cose di Dio e di trattar della morte, del giudizio, dell’inferno, della gloria; se con tutto ciò se ne sta tiepido, lento e rimesso, che speranza si può avere che sia per mutar vita, essendo che già ha fatto l’orecchio a queste cose? E così quello che avrebbe da aiutarlo e muoverlo, e quello che suol muovere altri, non muove lui, né gli fa impressione alcuna.

2. Questa è anche la ragione di quella sentenza tanto celebre del glorioso S. Agostino: « Da che cominciai a servir Dio, siccome non ho conosciuti altri migliori di quelli che hanno fatto profitto nella religione; così non ho conosciuti altri peggiori di quelli che in essa sono caduti ». – S. Bernardo dice che di costoro, che sono caduti e che hanno mancato nella religione, molto pochi ritornano allo stato e grado di prima; ma più tosto vanno peggiorando (S. Aug. Ep. ad Cler. Et pleb. Hipon n. 9). Sopra dei quali, dice egli, piange il profeta Geremia: « Come mai si è oscurato l’oro! il suo bel colore si è cangiato? Quelli che erano stati allevati nella porpora, hanno brancicato lo sterco » (S. Bern. Serm. 3 in fest. App. Petri et Pauli, n. 2). Quelli cioè che erano tanto favoriti e accarezzati da Dio nell’orazione, e dei quali tutto il trattare e conversare era in cielo, si sono ridotti ad abbracciare lo sterco e a sguazzare nel fango e nelle pozzanghere.

3. Sicché, parlando secondo quello che ordinariamente accade, poco buona speranza si può avere di quelli che cominciano a dar indietro e a diventar cattivi nella religione. Cosa che ci dovrebbe cagionare grandissimo terrore. E la ragione di ciò è quella che abbiamo toccata; perché questi tali cadono infermi con le stesse medicine e rimedi, coi quali dovrebbero migliorare e guarire. Or se con quello con cui altri migliorano e guariscono, essi ammalano e peggiorano, che speranza si può avere della loro salute? L’infermo, nel quale non fanno operazione alcuna le medicine, ma più tosto si sente star peggio con esse, si può ben dare per disperato e spedito. Perciò facciamo tanto caso del peccato e della caduta di un religioso, e ne abbiamo tanta paura; mentre nei secolari non ne concepiamo tanto orrore. Quando il medico vede in una persona infermicela e debole uno svenimento, ovvero una gran debolezza di polso, non se ne piglia molto fastidio; perché quella cosa non è stravagante rispetto all’ordinaria disposizione di colui: ma quando vede una cosa simile in una persona molto sana e robusta, lo tiene per molto mal segno; perché tale accidente non può procedere se non da qualche umor maligno predominante, pronostico di morte o d’infermità molto grave. Così avviene nel caso nostro. Se un secolare cade in peccati, questi non sono casi molto disusati ed insoliti in quella vita tanto trascurata di chi si confessa una volta l’anno e di chi sta in mezzo a tante occasioni, che a tal vita lo portano; ma nel religioso, sostenuto da tanta frequenza di Sacramenti, da tanta orazione e da tanti santi esercizi, quando viene a cadere, è segno di virtù molto scaduta e d’infermità grave; onde v’è ragione di temere assai.

4. Non dico però questo, dice S. Bernardo (S. Bern. loc. cit. n. 3), perché nella disgrazia di qualche caduta ti abbia da disperare, specialmente se pensi a subito rialzarti; poiché quanto più lo differirai, tanto più si renderà difficile; ma lo dico acciocché non pecchi, acciocché non cada e acciocché non ti rallenti. Ma se alcuno cadesse, abbiamo un buono avvocato in Gesù Cristo, il quale può quello che non possiamo noi. «Figliuolini miei, scrivo a voi queste cose affinchè non picchiate. Che se alcuno avrà peccato, abbiamo nostro avvocato presso del Padre Gesù Cristo giusto » (1Joan., II, 1). Perciò nessuno si disperi, perché se si converte a Dio di cuore, senza dubbio conseguirà misericordia. Se l’Apostolo S. Pietro, dopo aver seguitato tanto tempo la scuola di Cristo ed essere stato tanto suo favorito, cadde sì gravemente, e dopo così grave caduta, come fu negare il suo Signore e Maestro, ritornò a tanto alto ed eminente stato; chi si dispererà? Peccasti tu colà nel secolo, dice S. Bernardo, più forse che 8. Paolo? Hai tu peccato qui nella religione più forse che S. Pietro? Or questi, perché si pentirono e fecero penitenza, non solo ottennero perdono, ma anche una santità e perfezione molto alta. Fa tu ancora cosi, e potrai ritornare non solo allo stato di prima, ma anche a perfezione molto maggiore.

CAPO IX.

Quanto importi ai novizi il valersi del tempo del noviziato e l’assuefarsi in esso a far bene; e come debbono esser fatti gli esercizi della religione.

1. Due ragioni di questa importanza. — 2. Quale in noviziato tale di poi. — 3. Difficile a vincere una passione invecchiata. — 4. Inganno di chi differisce l’emenda. — 5. Dalla buona educazione dei novizi dipende tutto  il bene della religione. — 6. Vantaggio di chi si dà alla virtù da giovane. — 7. Esempio.

1. Da quello che si è detto possiamo raccogliere per i novizi quanto importi a loro di valersi bene del tempo del noviziato e l’assuefarsi in esso a far gli esercizi della religione ben fatti: e questo potrà ancora servire per tutti quelli che cominciano a camminare per la via della virtù. La prima regola del Maestro dei novizi, che abbiamo nella Compagnia, ce lo dichiara molto bene e con poche parole, le quali non solo parlano a noi altri, ma anche a tutti i religiosi. « Persuadasi il Maestro dei novizi essergli stata commessa una cosa di molto grande importanza », dice detta regola, e ne rende due ragioni molto sostanziali, acciocché un tal Maestro apra gli occhi e conosca di quanto peso e momento è quel carico che ha sulle spalle. La prima è « perché da questa istituzione e prima educazione dei novizi dipende in maggior parte tutto il loro profitto per l’avvenire » : la seconda, perché in questa sta riposto il maggior capitale, essendo in essa « fondata tutta la speranza della Compagnia », e quindi dipende il benessere della religione (Reg. I Mag. Nov.). E per discendere a dichiarare più in particolare queste due ragioni, dico primieramente, che da questa prima instituzione e dalla positura nella quale uno si metterà nel noviziato, dipende, comunemente parlando, ogni suo o guadagno o scapito per l’avvenire. Se nel tempo del noviziato, come dicevamo nel capo antecedente, cammina uno tiepidamente e negligentemente nel suo profitto spirituale, tiepido se ne resterà sempre, senza far maggior frutto. Non occorre pensare che dopo, generalmente parlando, sia per camminare con maggior diligenza e fervore; perché v’è poca ragione per credere che dopo vi sia per essere questa mutazione e questo miglioramento; mentre ve ne sono molte per temere che non vi sarà.

2. Acciocché si possa veder meglio quello che dico, andiamo un poco parlando particolarmente col novizio, ponderando le ragioni e convincendolo con esse. Ora che è il tempo del noviziato, hai molto tempo per attendere al solo tuo profitto spirituale, e hai molti mezzi che in esso ti aiutano, perché a questo solamente attendono i Superiori, e questo è il principale ufficio loro. Ora hai molti esempi di tanti i quali non si occupano in altro che in questo; ed è cosa che dà grande animo e grande lena lo stare fra persone che non trattano d’altro, e il vedere che gli altri camminano avanti; sicché per pigro che uno sia, è come necessitato ad uscir di pigrizia. Ora hai il cuore sgombrato e libero da ogni altra cosa, e che pare desideroso della virtù; non hai occasione alcuna che ti dia disturbo né impedimento, ma molte che ti aiutano. Ora, se adesso che stai qui solamente per questo e non hai altro che fare, non attendi a far profitto e a stabilire per tuo capitale la virtù; che sarà, quando il tuo cuore si trovi imbarazzato e diviso in mille parti? Se adesso che stai tanto disoccupato e hai tante comodità e aiuti, non fai bene la tua orazione e i tuoi esami, né usi diligenza in osservare le tue addizioni e in far bene gli altri esercizi spirituali; che sarà quando ti trovi, con mille pensieri e sollecitudini di studi, e poi di negozi, di confessioni e di prediche? Se adesso con tanti ragionamenti ed esortazioni spirituali e con tanti esempi e stimoli non fai profitto; che sarà quando abbia occasioni e impedimenti che ti disturbino? Se adesso, nel principio della tua conversione, quando la novità delle cose dovrebbe cagionare in te maggiore divozione e fervore, te ne stai tiepido; che sarà poi quando ti trovi aver già fatto l’orecchio a tutto quello che ti potesse muovere ed aiutare? Di più, se adesso che la passione comincia appena a germogliare e la mala inclinazione non ha ancor forza, per essere nei suoi principi, non ti basta l’animo di farle resistenza, per la difficoltà che vi senti; come resisterai ad essa e la vincerai dopo, quando essa si sia fortemente radicata e abbia prese forze colla consuetudine?

3. Dichiarava S. Doroteo questa cosa con un esempio, che era solito raccontare di uno di quei Padri antichi. Stava questi coi suoi discepoli in una campagna piena di cipressi d’ogni sorta, alcuni grandi, altri piccoli, altri mezzani; e comandò ad uno dei suoi discepoli che sradicasse uno di quei cipressi; il quale, avendolo tirato, si svelse subito, perché era piccolo. Indi gli disse: Sradica ancora quell’altro, il quale era un po’ più grandicello; e lo sradicò, ma con maggior sforzo e fatica e con ambedue le mani. Per il terzo ebbe necessità di compagno: ma il quarto non lo poterono svellere tutti insieme. Allora il vecchio disse loro: Così sono le nostre passioni: nel principio, quando non sono ancora radicate, è facile estirparle; basta per farlo ogni poca forza che vi si metta: ma se mai avvenga che gettino profonde radici col lasciarle invecchiare, allora l’estirparle sarà molto difficile: gran forza sarete in necessità di mettervi, e ancora non so se vi riuscirete. (S. Doroth. Doct. 11, n.3)

4. Si vedrà quindi quanto grande inganno e quanto grave tentazione è il differire uno il suo profitto, e pensare che dopo si mortificherà e si vincerà in quelle cose, nelle quali adesso non gli basta l’animo di mortificarsi e di vincersi per la difficoltà che vi sente. Se quando la difficoltà è minore non ti basta l’animo di combattere contro di essa, come ti basterà quando sia maggiore? Se adesso, mentre la tua passione è un piccolo leoncino, contro esso sei sì codardo; che sarà quando sia cresciuta e fatta una grande e fiera bestia? Resta dunque persuaso che se adesso sarai tiepido e lento, tale sarai ancor dopo. Se adesso non sarai buon novizio e buono scolaro devoto e spirituale, non sarai dopo né buon veterano né buon operaio nella vigna del Signore. Se adesso sarai negligente nell’ubbidienza, o nell’osservanza delle regole, molto più negligente sarai per l’avvenire. Se adesso sarai trascurato negli esercizi spirituali e li farai malamente e a rappezzi, rappezzatore te ne resterai tutta la tua vita. Tutto il punto sta nella forma la quale adesso tu prendi. – Dicesi che nel mischiar l’acqua colla farina sta la facilità o la difficoltà del maneggiare e far bene la pasta. – Per questo S. Bonaventura dice: « Quella formazione, che uno prende da principio, a stento la smette. Chi sul bel principio della nuova maniera di vivere trascura la disciplina, difficilmente in seguito vi si adatta » (S. Bonav. In spec. disc. prol. N. 1). È proverbio questo, ed è proverbio dello Spirito Santo. « Il giovinetto, dice egli per bocca di Salomone, presa che ha la sua strada, non se ne allontanerà nemmeno quando sarà invecchiato » (Prov. XXII, 5). E perciò venne a dire S. Giovanni Climaco, che è cosa molto pericolosa e molto da temere che uno cominci tiepidamente e lentamente; perché, dice, è indizio manifesto della futura caduta (S. Io. Clim.: Scal. Parad. Grad. 1) . Per questo dunque è di somma importanza l’assuefarsi uno da principio alla virtù e a far bene gli esercizi spirituali. E così ce ne avverte lo Spirito Santo per mezzo del profeta Geremia: « Buona cosa è per l’uomo l’aver portato il giogo fin dalla sua adolescenza » (Ger., Thr. III, 27) perché sotto questo durerà poi sempre e gli sarà facile la virtù ed il bene: e quando no, la cosa gli riuscirà molto difficile, «Quello che tu non radunasti nella tua gioventù, come lo troverai nella tua vecchiezza? » ci domanda ancora lo stesso Spirito Santo nell’Ecclesiastico (Eccli. XXV, 5).

5. Da questa prima ragione viene in conseguenza la seconda: perché se tutto il profitto del religioso pel tempo avvenire dipende dalla prima sua istituzione, tutto il benessere della religione dipende altresì da essa. Poiché la religione non consiste nelle mura delle case o delle chiese, ma nell’adunanza dei religiosi: e quelli che stanno nel noviziato sono quelli che hanno successivamente a formare tutta la religione. Per questo la Compagnia non si contentò d’istituire i Seminari dei Collegi, nei quali si allevano i nostri in lettere e in virtù insieme; ma istituì a parte i Seminari di sola virtù, nei quali si attende solamente all’annegazione e mortificazione di se stessi, e all’esercizio delle virtù vere e sode, come a fondamento di più importanza che non sono le lettere. A questo servono le Case di Probazione, le quali, come dice il nostro Padre S. Francesco Borgia, sono per i novizi come una Betlemme, che s’interpreta « casa di pane »; perché quivi si fanno i biscotti e le provvigioni per la navigazione e per i pericoli grandi, incontro ai quali dobbiamo andare (S. Fr. Borgia. Epist. ad Soc.). Questo è il nostro agosto, questo è il tempo dell’abbondanza, questi sono gli anni della fertilità, nei quali avete da fare la provvigione delle vettovaglie e metter da parte per gli anni della carestia e della sterilità, come fece Giuseppe. Oh se quelli d’Egitto l’avessero preveduto e, con accorgersi della cosa, vi avessero fatta riflessione; di sicuro non avrebbero così facilmente lasciato uscire dalle case loro quello che Giuseppe radunava e riponeva nei granai Oh se ti accorgessi quanto t’importa l’uscire ben provveduto di vettovaglia dal noviziato, al certo non avresti desiderio d’uscire sì presto da esso, ma bensì dolore quando n’esci, considerando quanto poco provveduto vai di virtù e di mortificazione! E così il nostro Padre s. Francesco dice, che quelli i quali desiderano, o gustano d’uscire presto dal noviziato, mostrano difetto di cognizione e di non esser bene capacitati della necessità che hanno d’andare ben provveduti; e stimano poco la battaglia, poiché tanto poco temono l’uscire ad essa mal premuniti ed armati. – Oh quanto ricchi ed abbondanti di virtù si persuase il nostro Santo Padre che saremmo noi usciti dal noviziato. Così certamente lo presuppone egli nelle Costituzioni (Const. P. 4, c. 4, 1).Assegna due anni di prova e di esperimenti per questo, acciocché un novizio per tutto un tal tempo attenda al suo profitto, senza veder altri libri e senza far altro studio, che in quello che l’aiuta ad annegarsi maggiormente e a vieppiù crescere in virtù e perfezione. E poi, supponendo che il novizio esca dal noviziato tanto spirituale e infervorato, tanto amico della mortificazione e del ritiramento e tanto affezionato all’orazione e alle cose spirituali, che sia di bisogno ritenerlo; dà per avvertimento ai novizi, quando passano nei Collegi, che temprino i loro fervori durante il tempo degli studi, e che non facciano tante orazioni né tante mortificazioni; perché presuppone che la persona esca dal noviziato con tanto lume, con tanta cognizione di Dio e con tanto disprezzo del mondo, con tanta tenerezza di cuore e devozione, e tanto dal suo interno portata alle cose spirituali, che sia necessario andarla temperando con sì fatti avvertimenti. Procura tu dunque d’uscirne tale. Cava frutto da questo tempo tanto prezioso, che forse non ne avrai un altro tale in tutta la tua vita pel tuo profitto e per acquistare e radunare ricchezze spirituali. Non lo lasciar passare in vano e non ne perdere un punto. « Non ti privare di un buon giorno, e del buon dono non perdere nessuna parte » (Eccli. XIV, 14).

6. Una delle singolari grazie che il Signore fa a quelli che tira alla religione nella loro tenera età, e per la quale sono obbligati a ringraziarlo infinitamente, è perché allora è molto facile l’assuefarsi alla virtù e alla disciplina religiosa. L’albero, quando al principio è tenero, facilmente può essere raddrizzato, per farsi molto alto e bello; ma se si lascia crescere storto, più tosto che raddrizzarsi si romperà, e così se ne resterà per sempre. Nello stesso modo, quando uno tuttavia trovasi in età tenera, è facilmente raddrizzato e facilmente egli si applica al bene: e assuefacendosi a ciò da piccolo, vi va del continuo acquistando maggiore facilità, e così vi dura e persevera sempre. È gran vantaggio per una tintura l’essere fatta in lana, perché mai non smonta in colore. S. Girolamo dice: chi potrà mai rimettere nella sua bianchezza un panno tinto in porpora? Ed è del poeta Orazio quel detto che vaso uscito di fresco dalle mani del vasaio conserverà a lungo l’odore di quel liquore che per primo vi si pose dentro La divina Scrittura loda il re Giosia perché cominciò a servir Dio da fanciullo. « Essendo tuttora giovinetto cominciò a cercare il Dio di Davide suo padre » (II Paral.XXXIV, 2).

7. Racconta Umberto, uomo insigne e Maestro Generale dell’Ordine dei Predicatori, che un religioso dopo la sua morte apparve per alcune volte di notte molto bello e risplendente ad un altro religioso suo compagno, e che in una di queste, menandolo fuori della sua cella, gli mostrò un gran numero d’uomini vestiti di vesti bianche e molto risplendenti, i quali portando su le spalle alcune croci molto belle, con esse andavano processionalmente verso il cielo. Poco dopo gli fece vedere un’altra processione più vistosa e più risplendente della prima, nella quale ciascuno portava in mano, e non su le spalle come i precedenti, una croce molto ricca e molto bella. Poco appresso gli fece vedere un’altra terza processione, senza comparazione più vistosa delle precedenti, e le croci di quelli che andavano in questa processione superavano di gran lunga in bellezza quelle degli altri; e non le portavano essi su le spalle, né in mano, ma a ciascuno portava la sua croce un Angelo, che andava loro innanzi, acciocché essi allegri e gioiosi lo seguissero. Meravigliato il religioso di questa visione, ricercò il compagno, da cui gli era stata mostrata, che gliela dichiarasse; ed esso gliela dichiarò dicendo, che quelli che aveva veduti portare le croci su le spalle, erano quelli che già d’età matura erano entrati in religione; i secondi che le portavano in mano, erano quelli che vi erano entrati nell’adolescenza; e gli ultimi che andavano tanto allegri e leggiadri, erano quelli che da piccoli avevano abbracciata la vita religiosa.

(Fine.)

LA PERFEZIONE NELLE OPERAZIONI ORDINARIE (2)

LA PERFEZIONE NELLE OPERAZIONI ORDINARIE (2)

[P. Alfonso RODRIGUEZ S. J.: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane – S. E. I. Torino; rist. 1948]

TRATTATO II.

DELLA PERFEZIONE DELLE OPERAZIONI ORDINARIE (2)

CAPO IV.

D’un altro mezzo par far le opere bene che è farle come se non avessimo altro da fare.

1. Fa quel che fai. — 2. Arte del demonio per impedircelo.

1. Il terzo mezzo per far le cose bene è far ciascuna cosa come se non avessimo altro che fare. Far l’orazione, celebrare la santa Messa, dire il nostro Rosario, recitar le nostre ore come se non avessimo da far altra cosa; e così di tutto il resto. Nel mentre che stiamo occupati o in questa o in quella cosa, chi ci è alle spalle? chi ci rincorre? Non ci confondiamo dunque, né ci affrettiamo nelle nostre operazioni, né l’una c’impedisca l’altra; ma teniamoci sempre attenti a quella cosa che stiamo facendo di presente. Mentre facciamo orazione non pensiamo allo studio, né all’impiego, né al negozio; che questo non serve ad altro che ad impedir l’orazione e a non far bene né l’una né l’altra cosa, Tutto il rimanente del giorno serve per l’impiego, per lo studio, pel ministero. « Ogni cosa ha il suo tempo » e « basta a ciascun giorno il suo affanno » [Matth. VI, 34]. Questo è un mezzo tanto proprio e tanto ragionevole, che ancora i pagani, privi di fede, l’insegnavano, per trattar con maggior riverenza quelli che essi pensavano fossero dei, donde ebbe origine quell’antico proverbio: « Quelli che avranno da trattare con Dio, lo facciano sedendo » [Paul. Minut. In adag Plutarc.] e con attenzione e quiete, e non di passaggio e con trascuraggine. Plutarco, parlando della stima e riverenza con cui i sacerdoti del suo tempo stavano avanti ai creduti lor dei, dice che, mentre il sacerdote faceva il sacrificio, non cessava mai un trombettiere di gridare e dire ad alta voce queste parole: « Fa quello che fai »; sta con la mente fissa in cotesto affare, non ti divertire in altra cosa. Guarda bene al negozio che in quest’ora hai per le mani. Or questo è il mezzo che inculchiamo adesso, il procurar noi di stare tutti attenti nella cosa che facciamo, pigliandola a far di proposito e con sodezza, facendo ogni opera come se non avessimo altro che fare: « fa quello che fai ». Fissati in questo; metti tutta la tua cura e diligenza in cotesta cosa che ti è presente: licenzia per allora ogni altro pensiero di qualsiasi cosa; e a questo modo farai ogni cosa bene. Dicendo un filosofo: «Facciamo quello che ora preme » [Aristippus ex Æliano, 1, 14 hist.], intendeva dire che solamente abbiamo da stare attenti a quel che facciamo di presente, e non alle cose passate, né a quelle che han da venire. E apportava questa ragione: perché la cosa presente è quella che sola sta in mano nostra, e non la passata, né la futura; perché quella già passò, e così non sta più in nostra mano; e l’altra non sappiamo se verrà, Oh chi potesse ridursi a tal termine, e fosse tanto padrone di se stesso, dei suoi pensieri e delle sue immaginazioni, che non istesse mai fisso in altra cosa che in quella che sta facendo! Ma da un canto è tanta ristabilita del nostro cuore, e dall’altro è tanta la malizia e l’astuzia del demonio che, prevalendosi egli della nostra debolezza, ci reca pensieri e sollecitudini di quello che abbiam da far poi, per impedirci quello che di presente stiamo facendo.

2. Questa è una tentazione del nemico molto comune e molto pregiudiziale e nociva; perché con questo egli pretende ridurci a non far mai cosa ben fatta. A questo fine nell’orazione il demonio ti mette in capo pensieri del negozio, dello studio, dell’ufficio, e ti propone il modo da far bene quell’altra cosa, acciocché non faccia bene l’orazione nella quale stai di presente. E pur che questo gli riesca, non si cura punto di rappresentarti mille modi e maniere da poter di poi far bene l’altra cosa, perché non la fai adesso: ma quando poi sarai per farla, non gli mancherà qualche altra cosa da proporti, acciocché né anche quella tu abbia da far bene. E in questa maniera ci va ingannando, acciocché non facciamo bene cosa alcuna. « Non ci sono ignoti i disegni di lui » [2 Cor. II, 11] : gliele conosciamo ben tutte le sue astuzie. – Lascia stare le cose avvenire e non aver ora pensiero di esse; perché quantunque queste siano buone per altro tempo, non è bene pensarci adesso. E quando ti venga questa tentazione sotto colore che di poi non ti ricorderai di quell’altra cosa che allora ti si rappresenta; in questo medesimo vedrai che non è cosa che venga da Dio, ma tentazione del demonio; perché Dio non è amico di confusione, ma di pace, di quiete e d’ordine: e così quegli che ti toglie la quiete, la pace e l’ordine e concerto delle cose non è Dio, ma il demonio, il quale è amico di confusione e d’inquietudine. Scaccialo via e confida in Dio, che facendo tu quel che devi, Egli ti porgerà a suo tempo ciò che ti sarà spediente, e te lo porgerà con molto larga mano. E ancor che ti sovvenga una qualche buona ragione, o un buon punto, un bell’argomento, o il modo di scioglierlo, nel tempo degli esercizi spirituali, ributtalo, e credi pure che per far così non perderai niente, ma più tosto guadagnerai molto. S. Bonaventura dice: «La scienza che si lascia per la virtù, si ritrova di poi più compiutamente per mezzo della stessa virtù » [In pec. discipl.]. E il B. Giovanni D’Avila dice: Quando ti verrà nella mente qualche premuroso pensiero fuor di tempo, di’ pure: il mio Signore non mi comanda adesso niente di questo; e perciò non occorre che io vi pensi: quando il mio Signore me lo comanderà, allora v i penserò.

CAPO V.

D’un altro mezzo, che è far ogni operazione come se avesse ad esser l’ultima di nostra vita.

1. È mezzo suggerito dai Santi. — 2. Vantaggi per l’ora della morte. — 3. Disposti in ogni ora a morire, gran contrassegno d’essere in grazia. — 4. Pronto sempre a morire. — 5. Incerta è l’ora della morte. — 6. Astuzia del demonio.

1. Il quarto mezzo che danno i Santi per far le opere ben fatte, è il far ciascuna di esse come se quella avesse ad essere l’ultima di nostra vita. S. Bernardo, istruendo il religioso circa la maniera di portarsi bene nel far le opere sue, dice: « Ognuno s’interroghi in ciascuna sua operazione, e dica a se stesso: se or ora avessi da morire, faresti tu questo? lo faresti tu in questo modo? » E S. Basilio dice: « Abbi sempre dinanzi agii occhi tuoi l’ultimo tuo giorno. Quando ti alzerai al mattino, non riprometterti di arrivare alla sera; e quando alla sera poserai le stanche tue membra a riposare nel letto, non voler confidare di veder la luce del giorno dopo, affinché tu possa più facilmente astenerti da tutti i difetti » [S. Bas. Admon. Ad fil. Spir. C. 20] Il che del pari si legge nel libro dell’Imitazione di Cristo. « È mattina? Fa conto di non arrivare alla sera. È sera? Non osare di riprometterti la mattina. Sii sempre preparato. Vivi in modo che la morte non ti trovi impreparato mai. Molti muoiono di morte subitanea e improvvisa » [De imit. Chr. L. 1, c. 23-24]. Seneca pure, dopo aver invitato Lucilio a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, aggiunge: « Se Iddio ci darà il domani, riceviamolo contenti Chiunque ha detto (la sera innanzi): ho vissuto, sorge ogni mattino ad un nuovo guadagno ». Anche Orazio disse: « Pensa che ogni giorno sia per te l’ultimo » [Sen. Ep. 12, n.2 – Horat. L. 1, ep. 4]. Questo è un mezzo molto efficace per far le cose bene. E così leggiamo di S. Antonio, che dava spesso questo ricordo ai suoi discepoli per inanimarli alla virtù e a fare le cose perfettamente. Se noi facessimo ciascuna cosa come se subito avessimo da morire e quella avesse da esser l’ultima, tutte certamente le faremmo d’altra maniera e con altra perfezione. O quanto devota Messa io direi o ascolterei se mi persuadessi che quella fosse l’ultima operazione della mia vita, e che non mi restasse più tempo da operare né da meritare! Oh quanto attenta e fervente orazione io farei se sapessi che quella fosse l’ultima e che non vi avesse da esser più tempo per chiedere a Dio misericordia e perdono dei miei peccati! Perciò dice bene quel proverbio: « Se vuoi imparar ad orare, mettiti in mare ». Allora quando sta la morte alla gola si fa orazione d’altra maniera.

2. Raccontasi d’un religioso sacerdote servo di Dio, che soleva confessarsi ogni giorno per dir Messa e che finalmente cadde infermo; e vedendo il suo Superiore che l’infermità era mortale, gli disse: Padre, voi state molto male, confessatevi per morire. Al che rispose l’infermo, alzando le mani al cielo: Benedetto e lodato sia il Signore, che già sono trenta e più anni che mi son confessato ogni giorno come se subito avessi avuto a morire: onde non avrò ora bisogno d’altro che di riconciliarmi come per dir Messa. Questi camminava bene; e così abbiamo da camminare noi altri ancora. Ogni volta abbiamo da confessarci, come se allora fossimo per morire; al modo stesso abbiamo da comunicarci, e così abbiamo da fare in tutte le altre nostre operazioni: che con questo nell’ora della morte non vi sarà di bisogno che ci sia detto, confessatevi per morire, ma riconciliatevi come per comunicarvi. – Se camminassimo in questa maniera, la morte ci troverebbe sempre ben preparati, né mai ci coglierebbe all’improvviso. E così questa è la miglior orazione e la miglior devozione per non morire di morte subitanea. « Beato quel servo, cui il padrone, venendo, troverà diportarsi così » [Mattg. XXIV, 46], dice Cristo nostro Redentore. Tal vita menava il santo Giobbe. « In tutti i giorni di mia vita sto aspettando che venga il mio cangiamento » [Job. XIV, 14], diceva egli; ogni giorno fo conto che sia l’ultimo per me. «Mi chiamerai, ed io ti risponderò » [Ib. V, 15] . Chiamatemi, o Signore, in quel giorno che più vi piace, che io sto disposto e preparato per rispondervi e per venir pronto alla vostra chiamata in qualsiasi tempo ed ora che vi piacerà di chiamarmi.

3. Uno dei buoni contrassegni che vi sono per conoscere se una persona cammini bene e drittamente con Dio è appunto questo, se sta ella sempre preparata e all’ordine per rispondere a Dio quando a sé la chiamasse in qualsivoglia tempo e in qualsivoglia azione che stia facendo. Non parlo di certezza infallibile, che questa non si può avere nella vita presente senza particolare rivelazione; ma di congetture probabili e morali, che è quanto si può avere, Una di queste congetture molto grande e molto principale si è il considerare, se ti contenteresti che la morte ti cogliesse in questo tempo, in questa congiuntura, in quest’azione che stai facendo. – Considera se stai disposto come il santo Giobbe per rispondere a Dio, se in questo punto egli a sé ti chiamasse. Prendi spesso di te questa prova e fa a te stesso questa interrogazione: Se adesso venisse la morte, l’avresti tu acaro? – Quando io mi metto a pensare e a far a me medesimo questa domanda, se trovo che avrei caro che adesso, in questo punto e in quest’azione che io fo venisse la morte, posso giudicare di camminar bene, e restarmene con qualche soddisfazione; ma quando trovassi che non vorrei che venisse la morte adesso, né che mi cogliesse in quest’ufficio, in questa occupazione, né in questa congiuntura; ma che tardasse un poco, sin che avessero fine questi disegni che ora ho per capo, i quali mi tengono distratto; questo non è buon segno, anzi ho a tenerlo per chiaro indizio che son trascurato e negligente in quel che tocca il mio profitto e che non cammino come si conviene a un buon religioso. Perché, come dice il libro dell’Imitazione, « se tu avessi buona coscienza, non temeresti molto la morte » [De imit. Chr. l. 1, c.23, n.1]; poiché la temi tanto, è segno che ti rimorde in qualche cosa la tua coscienza, e che non puoi render buon conto di te. Meglio è temere il peccato che la morte. Il maggiordomo che tiene ben registrati i suoi conti, sta desiderando che gli siano riveduti; ma chi li tiene imbrogliati, sta con timore che gli siano domandati, e va ciò schivando e dilungando quanto mai può.

4. Il nostro Padre S. Francesco Borgia diceva che il buon esercizio del religioso ha da essere il prepararsi alla morte ventiquattro volte il giorno, e che allora stava egli bene quando poteva ogni giorno dire: « I o muoio ogni giorno » [Ribadeneira, Vita di s. Fr. Borgia l. 4]. Entri dunque ciascuno a far i conti con se medesimo, e con questo si esamini spesso. E se vi pare di non trovarvi ancora in buona congiuntura per morire, procurate di mettervi ben all’ordine per questo passo, e fate conto di chiedere al Signore come alcuni giorni di vita di più per tal effetto, e che Egli ve li conceda; e valetevi bene di questo tempo, procurando di vivere in esso come se immediatamente dopo aveste da morire. Beato chi vive qual desidera esser trovato nell’ora della morte!

5. Questa è una delle più utili cose che siamo soliti di predicare ai prossimi; cioè che vivano quali desiderano esser trovati nel punto della morte, e che non differiscano la conversione e la penitenza loro ad altro tempo; poiché, al dire di quel sant’uomo sopracitato, « il domani è incerto: e che sai tu, se avrai il giorno di domani? » [De Imit Chr. l. 1, c. 23,1]. San Gregorio dice: « Il Signore, il quale ha promesso il perdono al peccatore se farà penitenza, non gli ha mai promesso il giorno di domani » [S. Greg. Hom. 12 in Evang.]. Si suol dire che non v’è cosa più certa della morte, né più incerta dell’ora di essa, Ma Cristo nostra Redentore dice più ancora di questo, come leggiamo nel Vangelo: « E voi state preparati, perché nell’ora che meno pensate, verrà il Figliuolo dell’uomo » [Luc. XII, 40]. Che, sebbene va parlando del giorno del giudizio, possiamo con ragione intenderlo anche dell’ora della morte; perché in essa si farà il giudizio particolare di ciascuno; e quel che quivi si sentenzierà, non sarà alterato, ma confermato nel giudizio universale. – Dice dunque Cristo nostro Redentore, che non solo quest’ora è incerta, e che non sai quando essa abbia da venire, ma che verrà quando tu meno ci pensi, e forse quando più starai spensierato: che è quello che dice San Paolo: « Verrà come un ladro di notte » [1 Tess. V, 2]; e S. Giovanni nell’Apocalisse: « Verrò a te come un ladro, né saprai in quale ora verrò a te » [Apoc. III, 3] . Il ladro non avvisa, anzi aspetta che tutti stiano più spensierati ed anche addormentati. E così con questa medesima similitudine Cristo nostro Redentore c’insegna come ci abbiamo da portare acciocché la morte con subitaneo assalto non ci colga sprovveduti. « Or sappiate che se al padre di famiglia fosse noto a che ora fosse per venire il ladro, veglierebbe senza dubbio e non permetterebbe che gli fosse sforzata la casa » [Luc. XII, 39]. Se il padrone di casa sapesse l’ora nella quale ha da venire il ladro, basterebbe che stesse avvertito per tal ora: ma perché non sa l’ora, né se sarà o nell’entrar della notte, o a mezza notte, o la mattina; sta sempre vigilante, acciocché non gli sia scalata e rubata la casa. Or in questo modo, dice il Signore, avete da star preparati e vigilanti voi altri sempre e in ogni tempo per l’ora della morte, poiché ha da venire quando meno ve la pensate. – Notano su questo i Santi, che è stata grande misericordia del Signore l’averci lasciata incerta l’ora della morte, acciocché stiamo sempre preparati ed all’ordine per essa. Se infatti gli uomini ne sapessero il quando, una tal sicurezza sarebbe loro occasione di grande trascuraggine e negligenza e di molti peccati. Se con tutto che ne siano incerti e non sappiano la loro ora, vivono tanto trascuratamente, che farebbero se sapessero di certo, non aver a morir così presto? S. Bonaventura dice che il Signore volle che fossimo sempre incerti dell’ora della morte, acciocché facessimo poco conto delle cose temporali, né sì alla balorda c’immergessimo in esse; che ad ogni ora e ad ogni momento le possiamo perdere. Come appunto disse Dio a quel ricco avaro, riferito in S. Luca: « Stolto, in questa notte sarà ridomandata a te l’anima tua: e quel che hai messo da parte, di chi sarà? » [Luc. XII, 20]. E di più perché, avvertiti di questo, mettessimo il nostro cuore in quelle ricchezze che non avranno mai fine.

6. Sarà dunque ragionevole che quello che predichiamo ad altri lo pigliamo anche per noi medesimi, come ce ne fa avvertiti l’Apostolo: « Tu adunque, che insegni ad altri, non insegni a te stesso » [Rom. II, 21]. Una delle più comuni tentazioni, con cui il demonio inganna gli uomini, è il tener loro nascosta questa verità tanto chiara e manifesta, levandola loro dagli occhi e facendo che se ne scordino e non vi pensino, e dando loro a credere che vi è assai tempo per l’uno e per l’altro, e che di poi si emenderanno e vivranno d’altra maniera. E con questa medesima tentazione inganna anche molti religiosi, facendo che differiscano il profitto loro ad altro tempo. Quando saran finiti questi studi, quando io esca da quest’ufficio, concluso che sia questo negozio, ordinerò i miei esercizi spirituali, le mie penitenze, le mie mortificazioni. Misero te! e se tu muori negli studi, che ti serviranno le lettere, per cagion delle quali ti sarai allentato nella virtù, se non di paglia e di fieno, come dice S. Paolo [1 Cor. III, 12], per ardere maggiormente nell’altra vita? Vagliamoci dunque di quel che diciamo ad altri: « Medico, cura te stesso » [Luc. IV, 23]. Medica te stesso ancora con cotesto rimedio, poiché ne hai bisogno.

CAPO VI.

D’un altro mezzo per fare bene le opere nostre che è non far conto se non del giorno d’oggi.

1. Vivere giorno per giorno. — 2. Esempio d’un monaco tentatodi gola. — 3. Non avrebbe bisogno di questo mezzo chiamasse Dio davvero.

1. Il quinto mezzo che ci aiuterà e animerà grandemente a far le cose ordinarie ben fatte e con perfezione è, che non facciamo conto se non del giorno d’oggi. E sebbene pare che questo mezzo non sia differente dal passato, differisce nondimeno da quello, come si vedrà nell’esporlo che faremo. Una delle cose che suole far perdere d’animo ed allentare e rilassar molti nella strada della virtù, e una delle tentazioni con le quali il demonio lo va procurando, è il rappresentar loro: E come sarà possibile che per tanti anni tu possa camminare con tanta circospezione, con tanta puntualità, con tanta esattezza nelle cose, mortificandoti sempre, raffrenandoti, negando il tuo gusto e soffocando la tua volontà in tutte le cose! – Eciò rappresenta il demonio come cosa al sommo difficile; e che questa non è vita in cui poterla durar tanto a lungo. Così leggiamo del nostro S. Padre Ignazio l [Ribad. Vita S. P. Ign., l. 1 c. 6], che quando si ritirò in Manresa a far penitenza, tra le altre tentazioni, con le quali il demonio ivi l’assali, questa fu una: Come è possibile che tu possa tollerare una vita così aspra come è questa lo spazio di settantanni, che ancora ti restano avivere? – Or questo mezzo è per diritto volto a combattere questa tentazione. Tu non hai da far conto di molti anni, né di molti giorni, ma solamente del giorno d’oggi. Questo è un mezzo molto proporzionato alla debolezza e fragilità nostra; perché chi sarà quegli che per un giorno non si faccia animo e forza per viver bene e per far quanto può dal canto suo, acciocché le cose riescan ben fatte? Un modo è questo simile appunto aquello con cui il nostro Santo Padre ci propone di fare l’esame particolare, nel quale anche di mezzo in mezzo giorno ci comanda che facciamo i nostri proponimenti: da questo punto sino all’ora di pranzo almeno voglio usare modestia, ovvero osservare il silenzio, o esercitare la pazienza. In questa maniera si rende facile e tollerabile quel che forse ti si renderebbe molto difficile se lo pigliassi assolutamente, come sarebbe considerando che mai non avessi da parlare, ovvero che sempre avessi da star raffrenato e molto composto e ritirato.

2. Di questo mezzo si valeva quel monaco, di cui nelle Vite dei Padri si legge ch’era molto combattuto dalla gola, sorprendendolo la mattina a buon’ora tanta fame e tanta languidezza, che gli era intollerabile. Egli per non trasgredire la santa usanza dei monaci, di non mangiare se non tre ore dopo il mezzo giorno, usava questa industria: la mattina a buon’ora diceva fra se stesso: per molta fame che tu abbia, che gran cosa è aspettare sino all’ora di terza? allora potrai mangiare. Giunta l’ora di terza, diceva: in verità che mi ho da sforzare e non ho da mangiare sin all’ora di sesta; che, come ho potuto aspettare sin all’ora di terza, così potrò anche farlo sino a quest’altra. All’ora di sesta buttava il pane nell’acqua e diceva: Mentre s’inzuppa il pane, bisogna aspettare sino all’ora di nona; che, già che ho aspettato sin adesso, non voglio per due o tre ore di più trasgredir l’usanza dei monaci. Arrivata l’ora di nona, mangiava, dopo aver dette le sue orazioni. Fece così per lo spazio di molti giorni, ingannando se stesso con questi certi termini, sin a tanto che un giorno, sedendosi a mangiare a ora di nona, vide alzarsi un fumo dalla sportello, nella quale teneva il pane, e uscirsene per la finestra della cella, che dovette esser lo spirito maligno che lo tentava. E per l’avvenire non sentì mai più quella fame né quella falsa mancanza, come prima soleva; tanto che alle volte se ne stava due giorni interi senza mangiare e senza sentirne fastidio. Così gli fu pagata dal Signore la vittoria, che egli aveva riportata del suo nemico, e la guerra che aveva sofferta.

3. Perciò abbiamo detto, e non senza ragione, che questo mezzo è molto proporzionato alla debolezza e fragilità nostra; perché finalmente, come infermi e deboli, ci va questo confortando a poco a poco, acciocché in questo modo non ci spaventi il travaglio e la fatica. Ma se noi altri fossimo forti e infervorati e portassimo grande amore a Dio, non avremmo bisogno d’essere confortati in questa maniera, tanto poco a poco, con andarcisi nascondendo il travaglio e la difficoltà; perché al vero servo di Dio niuna impressione fa il molto tempo, né i molti anni; anzi ogni tempo gli par breve per servir Dio, ed ogni travaglio e fatica assai piccola. E così non v’è bisogno che venga in questa maniera animato e fortificato a poco a poco. S. Bernardo lo dice molto bene: Il vero giusto non è come il mercenario, o lavorante a giornate, che s’obbliga a servire per un giorno, o per un mese, o per un anno, e non più; ma per sempre, senza limite e senza termine, si offerisce a servir Dio con gran volontà! [S. Bern.: Epist. 253 ad Abb. Guar. N. 2]. Ascolta, dice, la voce del giusto, che esclama: « Non mi scorderò in eterno delle tue giustificazioni, perché per esse mi desti la vita … Inclinai il mio cuore ad eseguire eternamente le tue giustificazioni » [Ps. CXVIII, 93 e 118] . « Quindi la sua giustizia non è cosa del momento, non dura per qualche tempo, ma rimane per tutti i secoli » [S. Bern. l. c.] . E perché si offerì e deliberò di servir Dio assolutamente e senza termine, e non pose limite di un anno, o di tre anni, a fare tal cosa; perciò il suo premio e il suo guiderdone sarà anche senza termine ed eterno. « La fame sempiterna del giusto, conclude egli, merita una refezione sempiterna » [S. Bern. l. c.]. E in questa maniera dichiara il medesimo S. Bernardo quel passo del Savio: « Perfezionatosi in breve, compì una lunga carriera » [Sap. IV, 13]. Il vero giusto in poco tempo e in pochi giorni di vita vive molti anni; perché ama tanto Dio e ha tanto desiderio di servirlo, che se vivesse cent’anni, e anche cento mila, sempre s’impiegherebbe in servir maggiormente Dio. E per rispetto di questo tal suo desiderio e deliberazione anche un breve spazio di vita se gli computa come se per tutto questo tempo fosse vissuto in tal maniera; perché Dio lo premierà proporzionatamente al desiderio e alla deliberazione sua. Questi sono veramente uomini da qualche cosa, questi sono uomini forti, come Giacobbe, a cui per il grande amore che portava a Rachele parve poco il servir per essa sette anni, e dopo servirne altri sette: « Pochi gli parvero quei giorni per il grande amore » [Gen. XXIX, 20].

(2 – continua …)

LA PERFEZIONE DELLE OPERAZIONI ORDINARIE (1)

[P. Alfonso RODRIGUEZ S. J.: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane – S. E. I. Torino; rist. 1948]

TRATTATO II.

DELLA PERFEZIONE DELLE OPERAZIONI ORDINARIE (1)

CAPO I.

Come il nostro profitto e la nostra perfezione, consiste in far le nostre operazioni ordinarie ben fatte.

1. L’abito non fa il monaco – 2. Ma le opere. – 3. Quali opere ci facciano santi.- 4. In una stessa opera quanta diversità di meriti. – 5. Perfezione è fare quel che Dio vuole e come vuole. – 6. Visione di S. Bernardo.

1. Juste, quod justum est, persequeris disse il Signore al suo popolo (Deut. XVI, 20): Quel che è giusto e buono, fa che sia fatto bene, giustamente e compiutamente. Il negozio del nostro profitto e della nostra perfezione non consiste in far le cose, ma in farle bene: siccome né anche consiste nell’esser uno Religioso, ma nell’essere buon religioso. S. Girolamo, scrivendo a Paolino, dice: Non Jerosolymis fuisse, sed Jerosolymis bene vixisse laudandum est(D. Hieron. ep. ad Paul. de instit. mon.] Grande stima aveva questo Paolino di San  Girolamo: e assai lo lodava per questo stesso, perché abitava in quei santi luoghi  nei quali Cristo nostro Redentore operò i misteri della nostra Redenzione: e S. Girolamo su questo gli risponde: Non è da lodarsi il vivere in Gerusalemme, ma il vivere in essa bene; e va comunemente attorno questo detto, per avvertire i Religiosi, che non si diano per contenti per questo solo, perché stanno nella Religione: perché siccome l’abito non fa il Monaco, così né anche lo fa il luogo, ma sì bene la buona e santa vita; di maniera che tutto il punto sta non in essere Religioso, ma in essere buon Religioso; e non in far esercizi della Religione, ma in farli bene. In quel Bene omnia fecitche, come tra l’evangelista S. Marco, si diceva di Cristo (Marc. VII, 37); cioè aver Egli fatte tutte le cose bene; sì in quel Bene omnia fecitche dir si possa anche di noi consiste ogni nostro bene.

2. Certa cosa è, che ogni nostro bene ed ogni nostro male sta nell’esser buone o cattive le opere nostre: imperocché tali saremo noi, quali saranno le nostre operazioni. Queste parlano e manifestano chi è ciascuno. Dal frutto si conosce l’albero: e S. Agostino dice, che l’uomo è l’albero, e le opere sono il frutto che l’albero produce; e così dal frutto delle opere si conosce ciascuno chi è (D. Aug. de serm. Dom. in monte, secundam Matth. 1. 2). E perciò Cristo nostro Redentore disse di quegl’ipocriti e falsi predicatori: A fructibus eorum cognoscetis eos(Matth. VII, 16): Dal frutto delle opere loro conoscerete quel ch’essi siano. E per lo contrario dice di sé medesimo: Opera, quæ ego facto in nomine Patris mei, hæc testimonium perhibent de me(Jo. X, 25): Le opere ch’io fo rendono testimonianza di me: Et si mihi non vultis credere, operibus credite(Ibid. 38). E se non volete credere a me, credete alle opere mie, ch’elle dicono chi sia io. E non solo dicono e mostrano le opere quel che ciascuno è in questa vita; ma anche quei che di lui ha da essere nell’altra: imperciocché tali saremo eternamente nell’altra vita, quali saranno in questa le nostre operazioni; avendo Dio N. S. da premiare e rimunerare ciascuno secondo le opere sue. siccome la divina Scrittura lo replica tante volte sì nel vecchio come nel nuovo Testamento: Reddes unicuique juxta opera sua(Psal. LXI, 13; Matth. xvi, 27): e l’apostolo S. Paolo: Quæ seminaverit homo, hæc et metet(Ad Rom., II 6; I. ad Cor. III, 8; ad Gal. vi, 8): Quel che l’uomo avrà seminato, quello raccoglierà.

3. Ma veniamo più al particolare, e vergiamo un poco che opere sono queste, nelle quali sta ogni nostro bene e ogni nostro profitto e perfezione. Dico, che sono quelle operazioni ordinarie che facciamo ogni giorno: in fare, che la nostra orazione ordinaria sia ben fatta; che gli esami che facciamo siano ben fatti: in udir Messa, o in dirla come dobbiamo: nel dir le nostre Ore e le nostre divozioni con riverenza ed attenzione; in esercitarci continuamente nella penitenza e nella mortificazione: nel soddisfar bene al nostro ufficio e a quello che l’ubbidienza c’impone. Sefaremo queste opere con perfezione, saremo perfetti; e se le faremo imperfettamente, saremo imperfetti. E così questa è la differenza che passa fra il buono e perfetto Religioso, e l’imperfetto e tiepido: non istà la differenza nel far uno altra sorta di cose o più cose che l’altro; ma nel far quel che fa con perfezione o con imperfezione. Perciò quegli è buono e perfetto Religioso, perché fa queste cose bene; quell’altro perciò è imperfetto, perché le fa molto tiepidamente e negligentemente: e quanto più la persona si estenderà e andrà in avanti in questo, tanto sarà più perfetta o più imperfetta. –

4. In quella Parabola del Seminatore, che uscì a seminare la sua semenza, dice il sacro Evangelio (Matth. XIII, 8, 23), che anche la semenza buona è buttata in buon terreno, in qualche luogo fe’ frutto a ragione di trenta, in qualche altro di sessanta, e in qualche altro di cento. Nel che dicono i Santi, che si denotano i tre gradi di coloro che servono Dio; cioè di Principianti, di Proficienti e di Perfetti. Tutti noi altri seminiamo una medesima semenza; perché tutti facciamo le medesime opere ed osserviamo una medesima regola; tutti abbiamo un istesso tempo di orazione e di esami; e dalla mattina sino alla sera stiamo occupati per ubbidienza; ma con tutto ciò. nomini homo quid præstat? quanta differenza vi è, come suol dirsi, da Pietro a Pietro? e quanta da un Religioso ad un altro? Perciocché in uno queste opere che semina rendono il centesimo, atteso che le fa con ispirito e con perfezione; e questi tali sono i Perfetti: in un altro non rendono tanto, ma il sessagesimo; e questa sono i Proficienti, che vanno profittando: in un altro rendono solamente il trigesimo: e questi sono i Principianti, che cominciano a servir Dio. Guardi ora ciascuno da quali egli sia. Guarda, se tu sei di quelli del trigesimo; ed anche, piaccia a Dio, che nessuno sia di quelli che dice l’Apostolo (1 ad Cor. III, 12,13) che sopra il fondamento della Fede alzano legne, fieno e paglia, da esser tutto gettato sul fuoco nel giorno del Signore. Guarda, che tu non faccia le cose per vanità e per rispetti umani, per dar gusto agli uomini, e per esser tenuto da qualche cosa; perché questo è fabbricare con legne, fieno e paglia, acciocché arda almeno nel purgatorio; ma procura di far bene e perfettamente quel che fai; e sarà questo un alzar la fabbrica con argento, oro e pietre preziose.

5. Si conoscerà bene, che in questo sta il profitto e la perfezione nostra dalla seguente ragione. Ogni nostro profitto e perfezione consiste in due cose, in fare quel che Dio vuole che facciamo, e in farlo nel modo ch’Egli vuol che sia fatto; parendo, che più di questo non vi sia che potersi pretendere né desiderare. Or la prima cosa, cioè il far quel che Dio vuole che facciamo, già per sua divina misericordia l’abbiamo nella Religione: e questo è uno de’ maggiori beni e una delle maggiori consolazioni che godiamo noi altri che viviamo sotto ubbidienza; perché siamo certi, che quello che facciamo e quelle cose nelle quali ci occupiamo per l’ubbidienza, sono quelle che Iddio vuole da noi: e questo è come Primo principio nella Religione, cavato dall’Evangelio e dalla dottrina de’ Santi, come diremo quando tratteremo dell’ ubbidienza.Qui vos audii, me audit(Luc. X, 16): Ubbidendo al Superiore, ubbidiamo a Dio, e facciamo la sua divina volontà; perché quello è quel che Dio vuole che facciamo allora. Non vi resta se non la seconda condizione, di far le cose nel modo con cui Iddio vuole che le facciamo; cioè di farle bene e perfettamente; perché in questa maniera vuole Egli che si facciano: e questo è quello che andiam dicendo.

6. Nelle Croniche dell’Ordine Cisterciense si narra, che stando a Mattutino il glorioso S. Bernardo co’ suoi Monaci, vide molti Angeli, i quali stavano notando e scrivendo quel che ivi i Monaci facevano e in che modo lo facevano; e che di alcuni quei che scrivevano lo scrivevano con oro, di altri con argento, di altri con inchiostro, di altri con acqua, secondo l’intenzione e lo spirito con che ciascuno orava e cantava; e d’altri non iscrivevano niente, perché sebbene stavano ivi col corpo, nondimeno col cuore e col pensiero stavano molto lungi e divertiti in cose impertinenti. E dice ancora, che vide, come principalmente al Te Deum laudamuserano gli Angeli molto solleciti, acciocché si cantasse molto devotamente; e che dalle bocche d’alcuno che lo cominciavano, usciva come una fiamma di fuoco. Veda ora ciascuno qual sia la sua orazione; e se merita d’essere scritta con oro, o con inchiostro, o con acqua, o di non essere scritta in nessuna maniera. – Vedi se quando stai in orazione, escono dal tuo cuore e dalla tua bocca fiamme di fuoco; o pure non fai altro che sbadigliare e stiracchiar i nervi. Vedi, se stai ivi solamente col corpo, ma con la mente stai nello studio, o nell’ufficio, o nel negozio, o in altre cose niente allora appartenentisi.

CAPO II.

Che ci deve animar grandemente alla perfezione l’avercela Iddio posta in una cosa molto facile.

1. La perfezione è facile. — 2. Prove della Scrittura e dei Santi. — 3. Rinnovarci nelle azioni ordinarie ottima fra le preparazioni alle solennità.

1. Il P. Natale, uomo insigne della nostra Compagnia per la sua grande dottrina e virtù, quando venne a visitare le provincie di Spagna, tra le altre cose che più raccomandate lasciò, questa fu una, che s’insegnasse spesso questa verità: che ogni nostro profitto e perfezione consisteva nel far bene le cose particolari ordinarie e quotidiane che abbiamo per le mani. Di maniera che il profittare e il migliorare la vita non sta nel moltiplicare altre opere straordinarie, né in fare altri uffici alti ed eminenti; ma nel fare perfettamente le opere ordinarie della religione e gli uffici nei quali ci metterà l’ubbidienza, ancorché siano i più vili del mondo; perché questo è quello che Dio vuole da noi. Onde in questo abbiamo da metter gli occhi, se vogliamo fargli cosa grata e acquistare la perfezione. Or qua consideriamo e ponderiamo quanto poco ci abbia a costare l’esser perfetti; poiché colla stessa cosa che facciamo, senza aggiunta d’altre opere, possiamo esser tali. Questa è una cosa di grande consolazione per tutti e che ci deve animare grandemente alla perfezione. Se si ricercassero da te, per esser perfetto, certe cose squisite e straordinarie, certe elevazioni e contemplazioni molto alte; potresti aver qualche scusa e dire che non puoi, o che non ti basta l’animo di salir tant’alto. Se si ricercasse che ti disciplinassi ogni giorno a sangue, o che digiunassi a pane ed acqua, o che andassi scalzo, o che portassi perpetuamente un cilicio, potresti dire che non ti senti forze da far cose simili. Ma non ti si ricercano queste cose né sta in esse la tua perfezione; sta solo in far bene quello che fai. Colle medesime opere che fai, se tu vuoi, puoi esser perfetto: già è fatta la spesa, non hai bisogno d’aggiungere altre opere. Chi sarà che con questo non si faccia animo per procurare di essere perfetto, consistendo la perfezione in cosa tanto alla mano e domestica, facilmente eseguibile?

2. Diceva Dio al suo popolo, per animarlo al suo servizio e all’osservanza della sua legge: « Questo comandamento, che oggi io ti intimo, non è sopra di te, né  lungi da te, né è posto nel cielo, onde tu possa dire: Chi di noi può salire al cielo per recarcelo, affinché lo ascoltiamo e lo mettiamo in opera? Né è posto di là dal mare, onde tu trovi pretesto e dica: Chi di noi potrà traversare il mare e portarcelo, onde possiamo udirlo e fare quello che è comandato? Ma questo comandamento è molto vicino a te, è nella tua bocca e nel cuore tuo, affinché tu lo eseguisca » (Deut. XXX, 11 e segg.). Lo stesso possiamo dire della perfezione, della quale ora trattiamo. E così Sant’Antonio, con questo esortava e animava i suoi discepoli alla perfezione. I Greci, diceva, per far acquisto della filosofia e delle altre scienze, fanno grandi viaggi e lunghe navigazioni, esponendosi a fatiche e pericoli grandi; ma noi altri, per acquistar la virtù e la perfezione, che è la vera sapienza, non abbiamo bisogno di esporci a queste fatiche e pericoli, né meno d’uscire fuori di casa nostra, perché dentro di essa la troveremo, ed anche dentro di noi medesimi. Il regno di Dio è dentro di voi. In coteste cose ordinarie e quotidiane che fate sta la vostra perfezione.

3. Si suol domandare molto ordinariamente nelle conferenze spirituali, quando s’avvicina qualche tempo di devozione, come di Quaresima, d’Avvento, di Pentecoste o di rinnovazione dei voti, di che mezzi ci varremo per disporci e prepararci a questa rinnovazione, o per questa Quaresima, e per ricevere lo Spirito Santo, o il Bambino Gesù, nato di fresco. Ti sentirai propor molti mezzi e molte considerazioni, e tutte buone: ma il mezzo principale, nel quale dobbiamo insistere, è questo del quale andiamo trattando: perfezionarci in quello che ordinariamente facciamo. Va tu levando via i tuoi difetti e le tue imperfezioni circa le cose ordinarie e quotidiane, e procura d’andarle facendo ogni dì meglio e con meno difetti; e questa sarà una buonissima preparazione, o la migliore, per qualsivoglia solennità. Metti in questo principalmente gli occhi, e tutti gli altri mezzi e considerazioni siano indirizzate per aiutarti a far questo.

CAPO  III.

In che consiste la bontà e la perfezione delle nostre opere e d’alcuni mezzi per farle bene.

1. Farle con buona intenzione. — 2. Il meglio che possiamo. —3. Alla presenza di Dio. — 4. Gran mezzo questo. — 5. Epraticato dai Santi. — 6. Così sta del continuo in orazione.

1. Ma vediamo un poco in che cosa consista il far bene le nostre opere, acciocché possiamo ricorrere a i mezzi che ci aiuteranno a farle bene. Dico brevemente che consiste in due cose. La prima e principale è, che le facciamo puramente per Dio. S. Ambrogio dOmanda qual è la ragione, per cui nella creazione del mondo, creando Dio le cose corporali e gli animali, subito le lodò tutte. Crea le piante, e subito dicesi: « E Dio vide che ciò era buono ». Crea gli animali, gli uccelli, i pesci, e subito dicesi: « E Dio vide che ciò era buono ». Crea i cieli e le stelle, il sole e la luna, e dicesi subito: « E Dio vide che ciò era buono » [Gen. I, 10 e segg.]1 Tutte queste cose loda il Signore subito che ha finito di crearle: ma arrivato che è alla creazione dell’uomo, pare che esso solo se ne resti senza lode; perché qui il sacro testo non soggiunge: « E Dio vide che ciò era buono », come lo soggiungeva dopo la creazione di tutte le altre cose. Che mistero è questo, e quale sarà di ciò la cagione? Sai quali? dice il Santo: la cagione si è, che la bellezza e la bontà delle altre cose corporali e degli animali sta in quell’esteriore che apparisce al di fuori, e non vi è maggior perfezione di quella che si vede cogli occhi, e perciò viene subito la lode; ma la bontà e la perfezione dell’uomo non sta in quell’esteriore che apparisce al di fuori, ma nell’interiore, che sta nascosto colà dentro. « Tutta la gloria della figlia del re è interiore » [Ps. XLIV, 14 filiæ regis ab intus ];cioè tutta la bellezza dell’uomo, il quale è figliuolo di Dio, sta dentro; e questo è quello che piace agli occhi di Dio. « L’uomo infatti vede le cose che danno negli occhi, ma il Signore mira il cuore » 3, come disse Dio a Samuele [I Reg. XVI, 7]. Gli uomini vedono solamente le cose esteriori che appariscono al di fuori, e queste piacciono o dispiacciono loro; ma Dio vede l’intimo del cuore, guarda il fine e l’intenzione con cui ciascuno opera; e per questo non loda l’uomo subito che l’ha creato, come fa delle altre creature. L’intenzione è la radice e il fondamento della bontà e della perfezione di tutte le opere nostre. Le fondamenta non si vedono, ma esse sono quelle che sostengono tutta la fabbrica; e così è dell’intenzione.

2. La seconda cosa che si ricerca per la perfezione delle opere è, che facciamo in esse quanto possiamo e quanto è dal canto nostro per farle bene. Non basta che la tua intenzione sia buona, non basta che ti dica, che le fai per amor di Dio; ma bisogna che procuri di farle quanto meglio potrai, per piacere più a Dio con esse. Sia dunque questo il primo mezzo per far le opere bene, cioè il farle puramente per Dio; perché  questo ce le farà far bene e nel miglior modo a noi possibile, per poter con esse piacere maggiormente a Dio, ancor che non ci vedano i Superiori, e ancor che non siamo veduti dagli uomini: in una parola, farle come chi le fa per amore di Dio. Domandò una volta il nostro S. Padre Ignazio ad un fratello, il quale era alquanto negligente nel suo Officio: Fratello, per chi fai tu questo? E rispondendo egli, che lo faceva per amor di Dio, gli replicò il santo Padre: Or io t’assicuro, che se per l’avvenire lo farai in questa maniera, ti darò una molto buona penitenza. Perché se tu lo facessi per gli uomini, non sarebbe gran mancamento il farlo con cotesta negligenza; ma facendolo per un Signore tanto grande, è troppo gran mancamento farlo nella maniera che fai

3. Il secondo mezzo che i Santi propongono come molto efficace per questo, è il camminare alla presenza di Dio. Perfin Seneca diceva che l’uomo desideroso della virtù e di far le cose ben fatte si ha da immaginare d’avere avanti di sé qualche persona di grande venerazione, alla quale portasse gran rispetto; ed ha da fare e dire tutte le cose come le farebbe e direbbe se realmente stesse alla presenza di quella tal persona [Sen. Ep. 25] . Or se questo sarebbe un mezzo bastante per far le cose bene; quanto più efficace mezzo sarà il camminare alla presenza di Dio, e l’averlo sempre dinanzi agli occhi, considerando che Egli ci sta mirando. Specialmente non essendo questa una immaginazione, come quella di Seneca, ma cosa la quale veramente e realmente passa così; come tante volte ce lo replica la Scrittura. « Gli occhi del Signore sono più luminosi assai del sole, e mirano attorno tutte le vie degli uomini e l’abisso profondo, e vedono i cuori umani fino nei luoghi più riposti » Eccli. XXIII, 28].

4. Tratteremo appresso distintamente e più a lungo di questo esercizio di camminare alla presenza di Dio, e diremo quanto eccellente ed utile sia e quanto stimato e raccomandato dai Santi: adesso solamente ne caveremo al nostro proposito, di quanta importanza esso sia per far le opere ordinarie ben fatte. È di tanta importanza che, come ivi diremo, il camminare alla presenza di Dio non serve per fermarci in essa, ma perché ci sia mezzo per far bene le opere che facciamo. E se per istar noi attenti all’essere Dio presente ci trascurassimo e fossimo negligenti nelle opere che facciamo e commettessimo in esse mancamenti, questa non sarebbe buona divozione, ma illusione. E anche aggiungono alcuni qualche cosa di più, e dicono che quella presenza di Dio con la quale abbiamo da camminare, e quella che dalla sacra Scrittura e dai Santi ci viene tanto raccomandata; è il procurare di far le opere in tal maniera e tanto ben fatte, che possano comparire dinanzi a Dio, e che non sia in esse cosa indegna dei suoi occhi e della sua presenza. In una parola, che siano fatte come da chi le fa dinanzi a Dio, che lo sta rimirando. – E questo pare che ci volesse significare l’Evangelista S. Giovanni nella sua Apocalisse [Apoc. IV, 8], ove, riferendo le proprietà di quei santi animali, che vide stare dinanzi al trono di Dio, pronti ai suoi comandamenti, dice che dentro e fuori e all’intorno erano pieni d’occhi: occhi nei piedi, occhi nelle mani, occhi nelle orecchie, occhi nelle labbra e occhi negli stessi occhi; per significarci che quelli i quali vogliono servire Iddio perfettamente ed esser degni della sua presenza, hanno in ogni cosa a tener gli occhi aperti a mirar bene, per non far cosa indegna della presenza di Dio. Hai da esser pieno d’occhi dentro e fuori, e vedere come operi, come cammini, come parli, come odi, come vedi, come pensi, come vuoi, come desideri; acciocché in tutte le cose tue non ve ne sia alcuna che possa offendere gli occhi di Dio, nel cui cospetto stai.

5. Questo è un modo molto buono di camminare alla presenza di Dio. E così l’Ecclesiastico e l’Apostolo San Paolo, a proposito di quello che si dice nel Genesi di Enoch, che « camminò con Dio e disparve, perché il Signore lo rapì » [Gen. V, 14], dicono:, « Enoch fu caro a Dio, e fu trasportato nel paradiso » [Eccli. XIV, 16]; dimostrandoci chiaramente che è una cosa stessa il camminar sempre con Dio, o alla presenza di Dio, ed il piacere a Dio, poiché dichiarano una cosa con l’altra. E S. Agostino e Origene [Quæst. In Pentat.] dichiarano in questa stessa maniera quel che dice la sacra Scrittura nell’issopo, che quando Jetro andò a vedere il suo genero Mosè, si unirono Aronne e tutte le persone più gravi d’Israele « per mangiare con lui dinanzi a Dio » Lo dichiarano, dico, in questa maniera, dicendo: Non vuol dire che si unirono per mangiare dinanzi al Tabernacolo, o dinanzi all’Arca, perché non v’era ancora; ma che si unirono per far festa e mangiare e bere e passarsela lietamente con Lui; ma però con tanta pietà e santità, e con sì religiosa compostezza, come chi mangiava dinanzi a Dio; procurando che non vi fosse cosa che potesse offendere i suoi occhi divini. In questo modo camminano i giusti e i perfetti alla presenza di Dio in tutte le cose loro, anche nelle indifferenti e nelle necessarie alla vita umana. « I giusti banchettino e giubilino alla presenza di Dio, e godano nell’allegrezza », dice il Profeta [Ps. Lvii, 4]. Sia ciò di maniera tale, che ogni cosa possa comparire dinanzi agli occhi di Dio, né vi sia cosa indegna della sua presenza.

6. In questo modo anche dicono molti Santi che si adempie quello che nel Vangelo si legge che disse Cristo nostro Redentore: « Si deve sempre pregare, né mai lasciar di pregare » [Luc. XVIII, 1]; e S. Paolo ai Tessalonicesi: « Pregate senza intermissione » [1 Tess. V, 17]. Dicono cioè che sempre prega colui il quale sempre opera bene. Così pure S. Agostino sopra quelle parole del Salmista: « E la mia lingua andrà celebrando la tua giustizia, le tue lodi tutto il giorno » [Ps. XXXIV, 28]; vuoi, dice egli, un mezzo molto buono per stare tutto il giorno lodando Dio? « Tutto ciò che farai, fallo bene; e così starai tutto il giorno lodando Dio » [S. Aug. En. in Ps. XXXIV]. Lo stesso dice S. Ilario: « In questo modo avviene che da noi si preghi senza interruzione, quando, per mezzo delle opere che a Dio siano gradite e compiute sempre per la sua gloria, la vita tutta d’un qualsiasi sant’uomo diventa orazione; e per tal modo vivendo di giorno e di notte secondo il prescritto della legge, la stessa vita notturna e diurna si converto in meditazione della legge » E S. Girolamo, sopra quel verso: « Lodatelo voi, sole e luna; lodatelo tutte, o fulgide stelle » ]Ps. CXLVIII, 3], domanda in che modo lodano Dio il sole e la luna, la luce e le stelle? e risponde: Sai come lo lodano? Perché mai non cessano di far molto bene l’ufficio loro: sempre stanno servendo Dio e facendo quelle cose per le quali furono creati; e questo è star sempre [Hieron. Brev. In Ps CXLVIII, 3] lodando Dio 19. D i maniera che colui che fa molto bene le cose quotidiane e ordinarie della religione, sempre sta lodando Dio e sta sempre in orazione. E possiamo confermar questo con quel che dice lo Spirito Santo per mezzo del Savio: « Fa molte oblazioni chi osserva la legge: sacrifizio di salute è il custodire i comandamenti e allontanarsi da ogni iniquità » [Eccli. XXV, 1]. Con questo dunque si vedrà bene di quanta importanza e perfezione sia il far le cose ordinarie che facciamo ben fatte; poiché questo è moltiplicare l’orazione, e questo è uno star sempre in orazione e alla presenza di Dio, e questo è un sacrificio molto salutifero e che piace grandemente a Dio.

(1- continua …)

LO SCUDO DELLA FEDE (83)

LO SCUDO DELLA FEDE (83)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO VI.

COME DEBBONO DIPORTARSI QUEI CHE SONO TENTATI DAI PROTESTANTI CON LIBRI MALVAGI.

Oltre ai discorsi, impiegano i Protestanti anche il mezzo dei libri per trascinare nell’errore. Vi presentano certi libricciuoli galanti, pieni zeppi di veleno e ve li danno anche gratis, tanta è la loro carità. Questi libri sono: primieramente la Scrittura Sacra, ma tradotta male dal Diodati, come già vi ho detto; poi certi scritterelli di varii Apostati come il De Sanctis, il Borella e simili: libri che contengono molte empietà, contro la Chiesa, il Sommo Pontefice, il Sacerdozio, i Sacramenti, ec. che mettono in derisione le cose più sante della fede e della pietà. Ora voi potreste facilmente essere presi di curiosità a volerli almeno conoscere, almeno percorrere. Però ricordatevi che non si possono né leggere né ritenere. Se Eva non cominciava a rimirare il pomo con curiosità, non sarebbe stata alfine sedotta come purtroppo fu. Né vi muovano la eleganza, la bellezza ed i titoli pomposi con cui si inorpellano, perché sono veleno e non meno micidiale perché racchiuso in coppa d’oro. – Il solo ritenere quei libri è già un peccato, ricordatevene bene, è un altro peccato il leggerli, è un altro peccato il farli leggere anche ad altri. La S. Chiesa che ha legittima autorità sopra di noi, li ha proibiti sotto grave colpa e così non si possono tenere. – Il dire che la S. Chiesa non ha autorità di proibirceli è già un errore da Protestanti. Ma infine non sarebbe meglio il conoscere anche quel che dicono i nemici della S. Chiesa? Così sapremmo l’una e l’altra parte. Né la dottrina Cattolica, se è vera, deve temere il confronto. A questi sofismi ecco quello che io vi replicherò. Se voi trovate che è un’ingiustizia il non lasciarvi conoscere gli errori, perché non dite anche che è un’ ingiustizia il non lasciarvi assaggiare il veleno? E che? se noi prendiamo il veleno, abbiamo anche in pronto il contravveleno. Vi acconcereste voi a lasciarvi mordere da uno scorpione, perché avete in casa l’olio che ve ne guarirà? Mangereste volentieri un’insalata di cicute, quando sapeste di avere poi in pronto la panacea? Vi fareste così per trastullo una ferita in una mano o in un braccio, perché avete del balsamo che vi può risanare? Eh sono queste proposizioni da pazzo. Ma e perché non dite l’istesso rispetto alla vostra fede? Mentre per misericordia di Dio l’avete sana ed intatta nel cuore, si ha da permettere che essa riceva una ferita dalla lettura di quei libracci sul pretesto che sentirete l’una e l’altra parte? Chi ha mai detto che per istar meglio in salute bisogna provare anche l’infermità? Eppure si dice così rispetto all’anima. Che pazzia è mai questa! Molto più che forse pei mali del corpo potrete trovare un qualche rimedio: ma se leggete quei libri il rimedio forse non lo troverete mai: perocché, parliamo chiaro, siete voi tanto istruiti che possiate render conto dei misteri che credete, dei dommi che professate, di tutte le verità che vi propone la S. Chiesa? Ma e quando avete fatti cotesti studii? Avete imparato da fanciullo un poco di Catechismo e l’avete appreso con molta svogliatezza e però con molta superficialità. Fatta poi la prima Comunione avete sentito qualche spiegazione di Vangelo, qualche poco di Predica, e dico poco perché il più delle volte anche non v’interveniste, e non vi ricordate già più quasi di niente: e con questo bel corredo di scienza vi mettete a leggere un libro perverso? Ma come farete a scoprire le frodi e le fallacie che sono in essi senza una cognizione alquanto ampia della dottrina Cattolica? Se avete in mano un orologio che non cammina, conoscete voi perciò il motivo per cui non cammina? Eh bisogna aver pratica di tutto il suo meccanismo interiore per iscoprire dove stia il difetto. Lo stesso è a dirsi nel caso nostro. Dovreste conoscere tutta la Scrittura con tutti i suoi fondamenti per ravvisare subito in che siano riposti gli errori che essi v’insinuano, e non avendo voi mai fatti quegli studii, beverete grosso yutto quello che essi vi presenteranno; troverete buoni tutti i sofismi, vi parranno verità tutti gli errori, e riuscendovi al tutto impossibile di conoscere le frodi, le arti, le insidie che quei perversi mettono in campo, rimarrete alla fine miseramente sedotti. Ecco quello che è accaduto ad altri, ed ecco quello che avverrà anche a voi. Aggiungete che voi dite di voler conoscere l’una e l’altra parte: ma nel fatto poi non è vero. Vi conducete volentieri a leggere quei sofismi, ma quando è che leggete poi la verità? Su qual libri, a quale scuola l’apprendete? Anche nelle città dove vi è maggior copia di libri e d’istruzione, l’esperienza insegna che non si leggono né punto né poco i libri che espongono la S. Fede, che la illustrano, che la difendono, che ne mostrano i saldissimi fondamenti, che questi libri non si conoscono e non si vogliono conoscere: tanto che si giudica sempre della S. Fede da quel che ne dicono i nemici di lei: ma nelle campagne non solo non si fa nessuno studio della Religione, perché non si trova il tempo, ma non vi è pur possibilità alcuna di farlo perché mancano al tutto i libri opportuni. Laonde se si beve il veleno, il contravveleno affatto non vi è. – E ciò per non dir nulla di quel che accade molte volte, che Dio per gastigo della disobbedienza fatta alla Chiesa quando si legge quello che essa divieta, permette poi che chi si fidava di sé provi con l’esperienza la sua debolezza e venga a prevaricare. Che se non si giunge sino a quest’ultimo eccesso, la Fede rimane almeno indebolita, sorgono poi dei dubbi, delle angustie, e così o l’anima resta molto tempo travagliata oppure si apre una strada funesta che può mettere col tempo sino all’incredulità. Ma le vostre precauzioni in fatto di libri non si hanno a restringere solamente a quelli che apertamente malvagi assaltano senza riguardo la S. Fede; si deve stendere anche a quelli, che il fanno forse con maggior efficacia, perché più copertamente. Iovoglio significare con ciò una turba di Romanzi i quali avventano qua e là come di passaggio i loro colpi contro la Chiesa, certe storie maligne che mettono sotto false vedute le gesta dei Romani Pontefici, certe novelle scostumate che deridono i Sacerdoti ed i Religiosi, certe gazzette maligne che ne’ racconti infami delle loro appendici non rispettano nulla di quello che è più venerando in cielo ed in terra: tutte queste letture feriscono se non sempre direttamente, almeno indirettamente la S. Fede e le tolgono la vivezza, il lustro e lo splendore che dovrebbe avere. Il perché ricordatevi bene che avete obbligo strettissimo di rigettare quei libri funesti non accettandoli né conservandoli presso di voi, non leggendoli né prestandoli a leggere a veruno. E se siete padroni di casa, capi di bottega, padri di famiglia o in qualunque modo superiori ad altri, non dovete e non potete permettere ai vostri figliuoli. ai vostri subordinati e dipendenti che li tengano o comunque li leggano. Sapete quel che dice il proverbio? Tanto ne va a chi ruba quanto a chi tiene il sacco: tanto ne va a chi tiene come a chi scortica. E questo giudizio si pronunzia nell’altro mondo non meno che in questo.

LA GRAZIA (Note di Teologia Ascetica) -5-

LA GRAZIA (5)

(Note di teologia ascetica)

NATURA DELLA VITA CRISTIANA (2)

[A. Tanquerey: Compendio di Teologia ascetica a mistica – Desclée e Ci. Roma-Tournai – Parigi; 1948]

§ III. Della parte della SS. Vergine, dei Santi e degli Angeli nella vita cristiana.

154. Non vi è certamente che un Dio solo e un solo Mediatore necessario, Gesù Cristo : « Unus enim Deus, unus et mediator Dei et hominum homo Christus Jesus » (1 Tim. II, 5). Ma piacque alla Sapienza e alla Bontà divina di darci dei protettori, degli intercessori e dei modelli che siano o che almeno sembrino più vicini a noi; e sono i Santi, i quali, avendo ricopiato in se stessi le perfezioni divine e le virtù di Nostro Signore, fanno parte del suo Corpo mistico e si danno pensiero di noi che siamo loro fratelli. Onorandoli, onoriamo in loro Dio stesso e un riflesso delle sue perfezioni; invocandoli, a Dio in ultima analisi vanno le nostre invocazioni, perché chiediamo ai Santi di essere nostri intercessori presso Dio; imitandone le virtù, imitiamo Gesù, perché essi non furono Santi se non in quella misura che imitarono le virtù del divino modello. Questa devozione ai Santi non solo non nuoce al culto di Dio e del Verbo Incarnato, ma anzi lo conferma e lo compie. Ora poiché tra i Santi la Madre di Gesù occupa un posto a parte, esporremo prima l’ufficio suo e poi quello dei Santi e degli Angeli.

I . Dell’ufficio di Maria nella vita cristiana.

155. 1° Fondamento di quest’ufficio.

Quest’ufficio dipende dalla sua stretta unione con Gesù o in altri termini dal domma della divina maternità, che ha per corollario la sua dignità e l’ufficio suo di Madre degli uomini.

A) Nel giorno dell’Incarnazione Maria divenne Madre di Gesù, Madre di un Figlio-Dio, Madre di Dio. Ora, se teniamo conto del dialogo tra l’Angelo e la Vergine, Maria è Madre di Gesù non solo in quanto è persona privata, ma anche in quanto è Salvatore e Redentore. “L’Angelo non parla soltanto delle grandezze personali di Gesù; ma del Salvatore, dell’atteso Messia, dell’eterno Re dell’umanità rigenerata viene proposto a Maria di diventar Madre… Tutta l’opera redentrice è sospesa al Fiat di Maria e Maria ne ha piena coscienza. Sa ciò che Dio le propone e a ciò che Dio le domanda acconsente senza condizioni né restrizioni; il suo Fiat risponde all’ampiezza delle proposte divine e s’estende a tutta l’opera redentrice” (Beinvel). Maria è dunque la Madre del Redentore, e, come tale, associata all’opera sua redentrice; nell’ordine della riparazione tiene il posto che tenne Eva nell’ordine della nostra spirituale rovina, come con S. Ireneo e i Padri fanno rilevare. Quale Madre di Gesù, Maria avrà le più intime relazioni con le tre divine Persone : sarà la Figlia prediletta del Padre, la sua associata nell’opera dell’Incarnazione; la Madre del Figlio, con diritto al suo rispetto, al suo amore, e anche, sulla terra, alla sua obbedienza, e che, per la parte che prenderà ai suoi misteri, parte secondaria ma reale, ne diviene collaboratrice nell’opera della salvezza degli uomini e della loro santificazione; il tempio vivo, il santuario privilegiato dello Spirito Santo e, in senso analogico, la Sposa, in quanto che con Lui e dipendentemente da lui Lavorerà a partorire anime a Dio.

156. B) Nel giorno dell’Incarnazione Maria divenne pure madre degli uomini. Gesù, come abbiamo detto (n. 142), è il capo dell’umanità rigenerata, è la testa d’un Corpo mistico di cui noi siamo le membra. Ora Maria, madre del Salvatore, lo genera tutto intero e quindi come capo dell’umanità e come testa del corpo mistico. Ne genera quindi anche i membri, tutti quelli che sono incorporati con Lui, tutti i rigenerati o quelli che son chiamati ad esserlo. Cosi, diventando Madre di Gesù secondo la carne, Maria ne diviene nello stesso tempo Madre dei membri secondo lo spirito. La scena del Calvario non farà che confermare questa verità; nel momento stesso in cui la nostra redenzione sta per ricevere l’ultimo suo compimento con la morte del Salvatore, Gesù dice a Maria mostrandole S. Giovanni e in lui tutti i suoi discepoli presenti o futuri: « Ecco tuo Figlio »; e a S. Giovanni: « Ecco tua madre »; era questo un dichiarare, secondo una tradizione che risale ad Origene, che tutti i rigenerati sono figli spirituali di Maria. – Da questo doppio titolo di Madre di Dio e Madre degli uomini deriva l’ufficio di Maria nella nostra vita spirituale.

157. Maria causa meritoria della grazia.

Abbiamo visto (n. 133) che Gesù è causa meritoria principale e in senso proprio di tutte le grazie che riceviamo. Maria, sua associata nell’opera della nostra santificazione, meritò secondariamente e solo de congruo (questa espressione venne ratificata da S. Pio X nell’Enciclica del 1904 (Ad Diem Illum https://www.exsurgatdeus.org/2019/09/29/unenciclica-al-giorno-toglie-gli-usurpati-apostati-di-torno-s-s-pio-x-ad-diem-illum-laetissimum/) in cui dichiara che Maria ci meritò de congruo tutte le grazie che Gesù, ci meritò de condigno), in merito di convenienza, tutte queste stesse grazie. Non meritò che secondariamente, vale a dire in dipendenza dal Figlio e perché Gesù le conferì il potere di meritare per noi. Le meritò prima nel giorno dell’Incarnazione, nel momento in cui pronunziò il Fiat. Perché l’Incarnazione è la redenzione incominciata; quindi cooperare all’Incarnazione è cooperare alla redenzione e alle grazie che ne saranno il frutto e per conseguenza alla nostra salute e alla nostra santificazione.

158. Del resto Maria, la cui volontà è in tutto conforme a quella di Dio come a quella del Figlio, in tutta la vita s’associa all’opera riparatrice. È Lei che alleva Gesù, che nutre e prepara per l’immolazione la vittima del Calvario; associata alle sue gioie come alle sue prove, alle umili sue fatiche nella casa di Nazaret e alle sue virtù, si unirà con generosissima compassione alla passione e alla morte del Figlio, ripetendo il Fiat al piede della Croce e acconsentendo all’immolazione di Colui che amava assai più di se stessa, mentre l’amante suo cuore veniva trafitto da dolorossissima spada: “tuam ipsius animam gladius pertransibit” (Luc. II, 31). Quanti meriti acquistò Maria con questa perfetta immolazione! E continuò ad acquistarne nel lungo martirio sostenuto dopo il ritorno del Figlio al cielo: priva della presenza di Colui che formava la sua felicità, sospirando ardentemente il momento d’essergli unita per sempre e accettando amorosamente quella prova per fare la volontà di Dio e contribuire a edificare la Chiesa nascente, Maria accumula per noi meriti innumerevoli. I suoi atti sono tanto più meritori in quanto che sono fatti con la più perfetta purità d’intenzione “Magnificat anima mea Dominum“, con fervore intensissimo compiendo in tutta la sua interezza la volontà di Dio “Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum“, e in unione strettissima con Gesù, sorgente di ogni merito. – È vero che questi meriti erano anzitutto per Lei stessa e ne aumentavano il capitale di grazia e i diritti alla gloria; ma, in virtù della parte che prendeva all’opera redentrice, meritava pure de congruo per tutti; ed essendo per sé piena di grazia, lascia che questa grazia ridondi su noi, secondo la parola di S. Bernardo (In Assumpt., sermo II, 2): “Piena sibi, nobis superplena et supereffluens

159. Maria causa esemplare.

Dopo Gesù, Maria è il più bel modello che si possa da noi imitare; lo Spirito Santo che, in virtù dei meriti del suo Figlio, viveva in Lei ne fece una copia vivente delle virtù di questo Figlio: “Hæc est imago Christi perfectissima, quam ad vivum depinxit Spiritus Sanctus“. Mai Ella commise la minima colpa o la minima resistenza alla grazia, adempiendo alla lettera il fiat mihi secundum verbum tuum. Perciò i Padri, specialmente S. Ambrogio e il Papa S. Liberio, la presentano come modello perfetto di tutte le virtù,”caritatevole e premurosa verso tutte le compagne, sempre pronta a rendere servizio, nulla dicendo o facendo che potesse causar la minima pena, piena d’amore per tutte e da tutte riamata” (J.-V. BAINVEL, Le Saint Cœur de Marie, p. 313-314). – Ci basti rammentare le virtù additate nello stesso Vangelo: 1) la fede profonda che le fa crederesenza esitazione alcuna le meraviglie che l’Angelole annunzia da parte di Dio, fede di cui Elisabetta,ispirata dallo Spirito Santo, si congratula con Lei,“Beata te che credesti! – Beata quæ credidisti, quoniam perficientur ea qua dicta sunt tibi a Domino (Luc., I, 45); — 2) la verginità che appare nella risposta data all’Angelo: ” Quomodo fiet istud, quoniam vìrum non cognosco“? onde si vede la ferma volontà di rimanere vergine, quand’anche occorresse per questo di sacrificare la dignità di Madre del Messia; — 3) l’umiltà che risplende nel turbamento sorto in Lei per gli elogi dell’Angelo, nella dichiarazione di essere sempre la serva del Signore nel momento stesso in cui è proclamata Madre di Dio, in quel Magnificat anima mea Dominum che venne chiamato l’estasi della umiltà, nell’amore che dimostra alla vita nascosta mentre come Madre di Dio aveva diritto a tutti gli onori; — 4) nell’interno raccoglimento, che le fa raccogliere e silenziosamente meditare tutto ciò che si riferiva al divino suo Figlio: “Conservabat omnia verba hæc conferens in corde suo“; 5) l’amore per Dio e per gli uomini, che le fa generosamente accettare tutte le prove d’una lunga vita e principalmente l’immolazione del Figlio sul Calvario e la lunga separazione da questo Figlio prediletto che va dall’Ascensione al momento della morte.

160. Questo modello così perfetto è nello stesso tempo pieno d’attrattiva: Maria è una semplice creatura come noi, è una sorella, è una madre che ci sentiamo tratti ad imitare, se non altro per attestarle la nostra riconoscenza, la nostra venerazione, il nostro amore. – Ed è del resto modello facile ad essere imitato, nel senso almeno che Maria si santificò nella vita comune, nell’adempimento dei doveri di giovinetta e di madre, nelle umili cure della famiglia, nella vita nascosta, nelle gioie come nelle tristezze, nell’esaltazione come nelle più profonde umiliazioni. Siamo quindi certi d’essere in via molto sicura quando imitiamo la SS. Vergine; è questo il mezzo migliore d’imitare Gesù e d’ottenerne la potente mediazione.

161. Maria mediatrice universale di grazia.

Sono già parecchi secoli che S. Bernardo (Sermo de aquaductu, n. 7), formulò questa dottrina in quel notissimo testo: « Sic est voluntas eius qui totum nos habere voluit per Mariam». E bene determinarne il senso. È certo che Maria ci diede in modo mediato tutte le grazie col darci Gesù autore e causa meritoria della grazia. Ma inoltre, secondo l’insegnamento sempre più unanime, non vi è una sola grazia concessa agli uomini che non venga immediatamente da Maria, vale a dire senza il suo intervento. Si tratta quindi qui d’ una mediazione immediata, universale, ma subordinata a quella di Gesù.

162. Per maggiormente determinare questa dottrina, diciamo col P. de la Broise (Marie, Mère de gràce, p. 23-24), che « l’ordine presente dei decreti divini vuole che ogni beneficio soprannaturale sia concesso al mondo col concorso di tre volontà e che non se ne conceda mai altrimenti. Anzitutto la volontà di Dio che conferisce tutte le grazie; poi la volontà di Nostro Signore, mediatore che le merita e le ottiene in tutta giustizia di per sé stesso; infine la volontà di Maria, mediatrice secondaria, che le merita e le ottiene in tutta convenienza per mezzo di Nostro Signore ». Questa mediazione è immediata, nel senso che per ogni grazia concessa da Dio, Maria interviene con i suoi meriti passati o con le sue preghiere presenti; il che però non inchiude necessariamente che la persona che riceve queste grazie debba pregare Maria, potendo Maria intervenire anche senza esserne pregata. È universale, estendendosi a tutte le grazie concesse agli uomini dopo la caduta di Adamo. Ma resta subordinata alla mediazione di Gesù, nel senso che Maria non può meritare od ottenere grazie se non per mezzo del suo divin Figlio; e così la mediazione di Maria serve a far sempre meglio spiccare il valore e la fecondità della mediazione di Gesù. – Questa dottrina venne testé confermata dall’ufficio e dalla Messa propri in onore di Maria mediatrice concessi dal Papa Benedetto XV alle chiese del Belgio e a tutte quelle che ne faranno domanda (Ecco in quali termini S. E . il Cardinale MERCIER, con lettera del 27 Gennaio 1921, l’annunzia ai suoi diocesani : « Da molti anni l’episcopato belga, la facoltà di teologia dell’ Università di Lovanio, tutti gli ordini religiosi della nazione, facevano istanze presso il Sommo Pontefice perché autenticamente si riconoscesse alla SS. Vergine Maria, Madre di Gesù e Madre nostra, il titolo di mediatrice universale nell’impetrazione e nella distribuzione delle grazie divine. Ed ecco che S. Santità Benedetto XV concede alle chiese del Belgio e a tutte quelle della Cristianità che ne faranno domanda, un ufficio e una Messa propri, in data 31 maggio, in onore di Maria mediatrice). È  quindi una dottrina sicura di cui possiamo in pratica giovarci, valendo ad ispirarci grande confidenza in Maria.

CONCLUSIONE: DEVOZIONE ALLA SS. VERGINE.

163. Avendo Maria una parte così importante nella nostra vita spirituale, dobbiamo avere verso di Lei una grande devozione. Questa parola significa dedizione e dedizione e dono di sé. Saremo quindi devoti di Maria se ci diamo interamente a Lei e, per Lei, a Dio. In ciò non faremo che imitare Dio stesso che dà sé e suo Figlio a noi per mezzo di Maria. Le daremo la intelligenza con la venerazione più profonda, la volontà con una confidenza assoluta, il cuore col più filiale amore, tutto il nostro essere con l’imitazione più perfetta possibile delle sue virtù.

164. A) Venerazione profonda.

Questa venerazione si fonda sulla dignità di Madre di Dio sulle conseguenze che ne derivano. Non potremmo infatti stimare mai troppo colei che il Verbo Incarnato riverisce come Madre, che il Padre amorosamente contempla come figlia prediletta e che lo Spirito Santo riguarda come tempio di predilezione. – Il Padre la tratta col più grande rispetto, inviandole un Angelo che la saluta piena di grazia e le chiede il consenso all’opera dell’Incarnazione, in cui se la vuole così intimamente associare; – il Figlio la venera e l’ama come Madre e le ubbidisce; – lo Spirito Santo viene in Lei e vi prende le sue compiacenze. Venerando Maria, non facciamo quindi altro che associarci alle tre divine Persone e stimare ciò che Esse stimano. È vero che bisogna badare a evitare gli eccessi, specialmente tutto ciò che tenderebbe ad uguagliarle a Dio e farne la sorgente della grazia. Ma finché la consideriamo come creatura, che non ha grandezza di santità e di potenza, se non quel tanto che Dio le conferisce, non vi sono eccessi da temere: in Lei veneriamo Dio. Questa venerazione dev’essere maggiore di quella che abbiamo per gli Angeli e per i Santi, appunto perché per la dignità di Madre di Dio, per l’ufficio di mediatrice, per la santità supera tutte le creature. Ecco perché il suo culto, pur essendo culto di dulia e non di latria, viene a ragione detto culto d’iperdulia, essendo superiore a quello che si rende agli Angeli ed ai Santi.

165. B) Confidenza assoluta, che è fondata sulla potenza e sulla bontà di Maria, – a) Questa potenza viene non da Lei ma dal suo potere d’intercessione, non volendo Dio rifiutar nulla di legittimo a colei che venera ed ama più di tutte le creature. Ed è cosa pienamente equa; avendo infatti Maria somministrato a Gesù quell’umanità con cui poté meritare, e avendo coi suoi atti e coi suoi patimenti collaborato con lui all’opera redentrice, è pur conveniente che abbia parte nella distribuzione dei frutti della redenzione; nulla quindi di legittimo Ei potrà rifiutare alle sue domande, e così potrà dirsi che Maria è onnipotente con le sue suppliche, omnipotentia supplex. – b) Quanto alla bontà, è quella d’una madre che riversa su noi, membri di Gesù Cristo, l’affetto che porta al Figlio; d’una madre che, avendoci partoriti nel dolore, tra le angosce del Calvario, ha tanto maggior amore per noi quanto più le siamo costati. La nostra confidenza in Lei sarà quindi incrollabile ed universale. –

1) Incrollabile non ostante le nostre miserie e le nostre colpe; è infatti madre di misericordia, mater misericordiæ, che non ha da occuparsi di giustizia, ma che fu scelta per esercitare anzitutto la compassione, la bontà, la condiscendenza: sapendo che siamo esposti agli assalti della concupiscenza, del mondo e del demonio, ha pietà di noi che non cessiamo d’essere suoi figli anche quando cadiamo in peccato. Appena quindi manifestiamo la minima buona volontà, il desiderio di tornare a Dio, Ella ci accoglie con bontà; anzi spesso è Lei che, prevenendo questi movimenti, ci ottiene le grazie che ce li eccitano nell’anima. La Chiesa ha così bene inteso questa verità, che per alcune diocesi istituì una festa sotto un titolo che a prima vista pare un poco strano ma che in fondo è perfettamente giustificato, la festa del Cuore immacolato di Maria rifugio dei peccatori; appunto perché è Immacolata e non commise mai la minima colpa, tanto maggior compassione sente pei poveri suoi figli che non hanno come Lei il privilegio dell’esenzione dalla concupiscenza.

2) Universale, vale a dire che s’estende a tutte le grazie di cui abbiamo bisogno, grazie di conversione, di progresso spirituale, di perseveranza finale, grazie di preservazione in mezzo ai pericoli, alle angosce, alle più gravi difficoltà che possano presentarsi. Una tal confidenza raccomanda instantemente San Bernardo (Homil. I, de Laudibus Virg. Matris, 17): “Se sorgono le tempeste delle tentazioni, se ti trovi in mezzo agli scogli delle tribolazioni, leva lo sguardo alla stella del mare, invoca Maria in tuo soccorso; se sei sbattuto dai flutti della superbia, dell’ambizione, della maldicenza, della gelosia, guarda la stella, invoca Maria! Se l’ira, l’avarizia, i diletti del senso ti agitano la navicella dell’anima, guarda Maria. Se turbato dell’enormità dei tuoi delitti, confuso dello stato miserando della tua coscienza, compreso d’orrore al pensiero del giudizio, ti senti affondare nell’abisso della tristezza e della disperazione, pensa a Maria. In mezzo ai pericoli, alle angosce, alle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. La sua invocazioni, il suo pensiero non abbandonino mai né il tuo cuore né il tuo labbro, e, per ottenere più sicuramente l’aiuto delle sue preghiere, non trascurare d’imitarne gli esempi. Seguendola non ti puoi smarrire, supplicandola non ti puoi disperare, pensando a lei non puoi traviare. Se ella ti tiene per mano, non puoi cadere; sotto la sua protezione non hai nulla da temere; sotto la sua guida nessuna stanchezza, e col suo favore si arriva sicuramente al termine”. Avendo noi costantemente bisogno di grazie per vincere i nostri nemici e progredire, dobbiamo rivolgerci spesso a Colei che a così buon diritto viene detta la Madonna del perpetuo soccorso.

166. C) Alla confidenza aggiungeremo l’amore, amore filiale, pieno di candore, di semplicità, di tenerezza e di generosità. Maria è certamente la più amabile delle madri, perché, avendola Dio destinata a Madre del suo Figlio, le diede tutte le qualità che rendono amabile una persona, la delicatezza, la finezza, la bontà, l’abnegazione d’una madre. È la più amante, perché il suo cuore fu creato espressamente per amare un Figlio-Dio e amarlo quanto più perfettamente fosse possibile. Ora l’amore che aveva per il Figlio, Maria lo riversa su noi che siamo i membri viventi di questo Figlio divino, la sua estensione e il suo complemento. Quest’amore risplende pure nel mistero della Visitazione, in cui Maria s’affretta di portare alla cugina Elisabetta quel Gesù che ricevette nel seno e che con la sola sua presenza santifica tutta la casa; nelle nozze di Cana in cui, attenta a tutto ciò che succede, interviene presso il Figlio, per risparmiare ai giovani sposi una penosa umiliazione; sul Calvario, ove consente a sacrificare per la nostra salute ciò che ha di più caro; nel Cenacolo, ove esercita il potere d’intercessione per ottenere agli Apostoli maggior copia dei doni dello Spirito Santo.

167. Se Maria è la più amabile e la più amante delle madri, dev’essere pure la più amata. È questo infatti uno dei suoi privilegi più gloriosi: dovunque Gesù è conosciuto ed amato, lo è anche Maria; non si separa la Madre dal Figlio e, pur tenendo conto della differenza che passa tra l’uno e l’altra, sono entrambi circondati dello stesso affetto benché in grado diverso: al Figlio si rende l’amore che è dovuto a Dio, a Maria quello che è dovuto alla Madre d’un Dio, amor tenero, generoso, devoto ma subordinato all’amor di Dio. – È amore di compiacenza, che gioisce delle grandezze, delle virtù e dei privilegi di Maria, riandandoli spesso nella mente, ammirandoli, compiacendosene e congratulandosi con Lei che sia cosi perfetta. Ma è pure amore di benevolenza, che brama sinceramente che il nome di Maria sia meglio conosciuto e meglio amato, che prega perché se ne allarghi l’influsso sulle anime e che alla preghiera aggiunge la parola e l’azione. È amore filiale, pieno d’abbandono di semplicità, di tenerezza e di premura, che va sin a quella rispettosa intimità che una madre permette al figlio. È finalmente e principalmente amore di conformità, che si sforza di conformare in ogni cosa la propria volontà a quella di Maria e quindi al quella di Dio, essendo l’unione delle volontà il segno più autentico dell’amicizia. Il che ci conduce all’imitazione della SS. Vergine.

168. D) L ‘imitazione è infatti l’omaggio più delicato che le si possa rendere; è un proclamare non solo a parole ma a fatti che è un modello perfetto che siamo lieti d’imitare. Abbiamo già detto (n. 159) come Maria, essendo un ritratto vivente di suo Figlio, ci dà l’esempio di tutte le virtù. Accostarci a Lei è accostarci a Gesù; non possiamo quindi far di meglio che studiarne le virtù, meditarle spesso, sforzarci di imitarle. Per riuscirvi, non possiamo far di meglio che compiere tutte ed ognuna delle nostre azioni per Maria, con Maria e in Maria; per ipsam, et cum ipsa et in ipsa [Era la pratica del Sig. Olier, che il B. GRIGNION di Montfort ha meglio determinata e resa popolare nel le Secret de Marie e nel Traité de la vraie dévotion à la Sainte Vierge. (Trattato della vera devozione a Maria).

Per Maria, cioè domandando per mezzo suo le grazie che ci occorrono ad imitarla, passando per Lei per andare a Gesù, ad Jesum per Mariam. Con Maria cioè considerandola come modello e collaboratrice, chiedendoci spesso: Che cosa farebbe Maria se fosse al mio posto? e umilmente pregandola di aiutarci a conformare le nostre azioni ai suoi desideri. In Maria, in dipendenza da questa buona Madre, assecondandone i pensieri e le intenzioni, e facendo, come Lei, le nostre azioni per glorificar Dio: Magnificat anima mea Dominum.

169. Reciteremo con questo spirito le preghiere in onore di Maria: l’Ave Maria e L’Angelus che le ricordano la scena dell’Annunziazione e il titolo di Madre di Dio; il Sub tuum præsidium, che è l’atto di confidenza in Colei che ci protegge in mezzo a tutti i pericoli; l’0  Domina mea, l’atto d’intero abbandono nelle sue mani, con cui le affidiamo la nostra persona, le opere nostre, i nostri meriti; e specialmente la Corona o il Rosario che, unendoci ai suoi misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi, ci fa santificare con Lei e con Gesù le nostre gioie, le nostre tristezze e le nostre glorie.

Il Piccolo Ufficio della SS. Vergine è, per le persone che lo possono recitare, il riscontro del Breviario, che rammenta loro più volte al giorno le grandezze, la santità e l’ufficio santificatore di questa Buona Madre.

ATTO DI CONSACRAZIONE TOTALE A MARIA

[GRIGNION DE MONTFORT, op. cit.; A. LHOUMEAU, La Vie spírituelle à l’école du B. Grignion de Montfort, 1920, p. 240-427

170. Natura ed estensione di quest’atto.

È un atto di divozione che contiene tutti gli altri. Quale è esposto dal B. Grignion di Montfort, consiste nel darsi interamente a Gesù per mezzo di Mariae abbraccia due elementi: un atto di consacrazione che si rinnova ogni tanto, e uno stato abituale che ci fa vivere ed operare sotto la dipendenza di Maria. L’atto di consacrazione, dice il B. Grignion, “consiste nel darsi interamente, come schiavo, a Maria e per suo mezzo a Gesù”. Nessuno si scandalizzi di questa parola schiavo, a cui bisogna togliere ogni senso peggiorativo, vale a dire ogni idea di costrizione: non solo quest’atto non inchiude costrizione alcuna ma è l’espressione del più puro amore; se ne conservi quindi il solo elemento positivo quale è spiegato dal Beato: Un semplice servo riceve salario, resta libero di lasciare il padrone, non dà che il suo lavoro ma non la sua persona, i suoi diritti personali, i suoi beni; uno schiavo invece acconsente liberamente a lavorare senza stipendio, fiducioso nel padrone che gli dà vitto e vestito,si dà per sempre, con tutte le sue energie, la sua persona, i suoi diritti, per vivere in piena dipendenza da lui.

171. Facendone applicazione alle cose spirituali il perfetto servo di Maria dà a Lei e per suo mezzo a Gesù:

a) Il corpo, con tutti i suoi sensi, non conservandone che l’uso, e obbligandosi a non servirseli che secondo il beneplacito della SS. Vergine o del suo Figlio; e accetta anticipatamente tutte le disposizioni della Provvidenza riguardanti la salute, la malattia, la vita e la morte.

b) Tutti i beni di fortuna, non usandone che sotto la sua dipendenza per la gloria sua e per quella di Dio.

c) L’anima con tutte le sue facoltà, consacrandole al servizio di Dio e delle anime, sotto la guida di Maria, e rinunziando a tutto ciò che può compromettere la nostra salvezza e santificazione.

d) Tutti i beni interiori e spirituali, i meriti, le soddisfazioni e il valore impetratorio delle buone opere, in quella misura in cui questi beni sono alienabili. Spieghiamo questo ultimo punto:

1) I meriti propriamente detti (de condigno) per mezzo dei quali meritiamo per noi un aumento di grazia e di gloria, sono inalienabili; se quindi li diamo a Maria, è perché li conservi e li aumenti, non perché li applichi altrui. Quanto ai meriti di semplice convenienza (de congruo), potendo questi essere offerti per gli altri, ne lasciamo la libera disposizione a Maria.

2) Il valore soddisfattorio dei nostri atti, comprese le indulgenze, è alienabile, e ne lasciamo l’applicazione alla SS. Vergine (S. Thom. Suppl., q.13, a. 2).

3 ) Il valore impetratorio, vale a dire le nostre preghiere e le nostre opere buone in quanto godono di tal valore, possono esserle abbandonate e in fatto lo sono con quest’atto di consacrazione.

172. Una volta dunque fatto quest’atto non si può più disporre di questi beni senza il permesso della SS. Vergine; possiamo però e talora dobbiamo pregarla che si degni, in quella misura che le piacerà, disporne a favore delle persone verso le quali abbiamo speciali obbligazioni. Il mezzo di conciliar tutto è d’offrirle nello stesso tempo non solo la nostra persona e i nostri beni, ma anche tutte le persone che ci sono care “Tuus totus sum, omnia mea tua sunt, et omnes mei tui sunt“; così la SS. Vergine attingerà dai nostri beni e specialmente dai tesori suoi e da quelli di suo Figlio per venire in aiuto di queste persone; ed esse non vi perderanno nulla.

173. Eccellenza di quest’atto. È un atto di santo abbandono, ottimo già per questo verso, ma che inoltre contiene gli atti delle più belle virtù.

1) Un atto di religione profonda verso Dio, verso Gesù e verso Maria: con ciò infatti riconosciamo il sovrano dominio di Dio e il nostro nulla, e proclamiamo di gran cuore i diritti che Dio diede a Maria su noi.

2) Un atto di umiltà, con cui riconoscendo il nostro nulla e la nostra impotenza, ci priviamo del possesso di tutto ciò che il Signore ci diede, restituendoglielo per le mani di Maria, da cui, dopo Lui e per Lui, abbiamo ricevuto ogni cosa.

3) Un atto d’amore confidente, perché l’amore è il dono di sé, e per donarsi occorre una confidenza perfetta, una fede viva. – Si può dunque dire che quest’atto di consacrazione, se è ben fatto, spesso rinnovato di cuore e messo in pratica, è più eccellente ancora dell’atto eroico, con cui non si rinunzia che il valore sodisfattorio dei propri atti e le indulgenze che si guadagnano.

174. Frutti di questa devozione. Derivano dalla sua natura. 1) Con essa glorifichiamo Dio e Maria nel modo più perfetto, perché gli diamo tutto ciò che siamo e tutto ciò che abbiamo senza riserva e per sempre; e ciò nel modo a Lui più gradito, seguendo l’ordine stabilito dalla sua sapienza, ritornando a Lui per la via da Lui tenuta per venire a noi.

175. 2) Assicuriamo pure in questo modo la nostra santificazione. Maria infatti, vedendo che cediamo a Lei la nostra persona e i nostri beni, si sente vivamente mossa ad aiutare a santificarsi coloro che sono, per così dire, sua proprietà. Ci otterrà quindi copiosissime grazie, che aumenteranno i nostri piccoli tesori spirituali che sono suoi, ce li conserveranno e ce li faranno fruttificare sino al punto della morte. Porrà per questo in opera l’autorità del suo credito sul cuore di Dio e la sovrabbondanza dei suoi meriti e delle sue soddisfazioni.

3) Finalmente anche la santificazione del prossimo, e specialmente delle anime a noi affidate, verrà a guadagnarci; lasciando che Maria distribuisca i nostri meriti e le nostre soddisfazioni secondo il suo beneplacito, sappiamo che tutto sarà applicato nel modo più sapiente, perché è più prudente, più previdente, più premurosa di noi; i nostri parenti ed amici non potranno quindi che guadagnarci.

176. Si potrà, è vero, obiettare che a questo modo noi alieniamo tutto il nostro patrimonio spirituale, specialmente le nostre soddisfazioni, le indulgenze e i suffragi che si potessero offrire per noi, e che così potrebbe accadere che restassimo poi  lunghi anni in purgatorio. Per sé questo è vero, ma si tratta di confidenza: abbiamo, si o no, più confidenza in Maria che in noi stessi e nei nostri amici? – Se sì, non temiamo nulla; saprà Ella prendersi cura dell’anima nostra e dei nostri interessi meglio che non potremmo far noi; se no, è meglio che non facciamo quest’Atto di consacrazione totale di cui più tardi potremmo pentirci. In ogni caso non deve farsi che dopo matura riflessione e d’accordo col proprio direttore.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/07/consacrazione-di-se-stesso-a-gesu-cristo-sapienza-incarnata-per-le-mani-di-maria/

II. Della parte dei Santi nella vita cristiana.

177. I Santi, che possiedono Dio nel cielo, si prendono cura della nostra santificazione e ci aiutano a progredire nella pratica delle virtù con la loro potente intercessione e coi nobili esempi che ci lasciarono, dobbiamo quindi venerarli; sono potenti intercessori, dobbiamo quindi invocarli; sono i nostri modelli, dobbiamo quindi imitarli.

178. Debbiamo venerarli, e con ciò veneriamo in loro lo stesso Dio e lo stesso Gesù Cristo. Infatti quanto in loro è di buono è opera di Dio e del suo divin Figlio. Il loro essere naturale non è che un riflesso delle divine perfezioni; le loro doti soprannaturali sono l’opera della grazia divina meritata da Gesù Cristo, compresi gli atti meritori, che, pur essendo un bene loro nel senso che col libero consenso vi hanno collaborato con Dio, sono anche e principalmente dono di Colui che ne resta causa prima ed efficace: coronando merita nostra coronas et dona tua “. Onoriamo quindi nei Santi : a) i santuari viventi della SS. Trinità, che si degnò di abitare in loro, di ornarne l’anima con le virtù e coi doni, di operare sulle loro facoltà per farne produrre atti meritori, e concedere loro la grazia insigne della perseveranza;

b) i figli adottivi del Padre, da lui singolarmente amati, circondati della sua sollecitudine paterna, a cui seppero corrispondere avvicinandosi a poco a poco alla sua santità e alle sue perfezioni;

c) i fratelli di Gesù Cristo, suoi membri fedeli, che, incorporati al suo Corpo mistico, ricevettero da Lui la vita spirituale e la coltivarono con amore e costanza;

d) i tempii e i docili strumenti dello Spirito Santo, che da Lui si lasciarono guidare e dalle sue ispirazioni anziché seguir ciecamente le tendenze della guasta natura. Tali sono i pensieri espressi molto bene dal Sig. Olier: “Potrete adorare con profonda venerazione questa vita di Dio diffusa in tutti i Santi; onorerete Gesù Cristo che li anima tutti e tutti li perfeziona col divino suo Spirito per non farne che una cosa sola in Lui … Gesù è in tutti il cantore delle divine lodi; Gesù mette loro in bocca tutti i loro cantici; per Gesù tutti i Santi lo lodano e lo loderanno per tutta l’eternità”.

179. 2° Dobbiamo invocarli, per ottenere più facilmente, con la possente loro intercessione, le grazie di cui abbiamo bisogno. È vero che la sola mediazione necessaria è quella di Gesù, che basta pienamente in sé stessa; ma appunto perché membri di Gesù risuscitato, i Santi uniscono le loro preghiere alle sue; è quindi tutto il Corpo mistico del Salvatore che prega e che fa dolce violenza al cuore di Dio. Pregare coi Santi è quindi un unire le nostre preghiere a quelle dell’intero corpo mistico ed assicurarne così l’efficacia. I Santi del resto sono lieti d’intercedere per noi: “Amano in noi i fratelli nati dallo stesso Padre; hanno compassione di noi; rammentando, al vedere il nostro stato, quello in cui furono essi stessi, riconoscono in noi anime che devono, come loro, contribuire alla gloria di Gesù Cristo. Quale gioia non provano quando possono trovare associati che li aiutino a rendere i loro omaggi a Dio e a soddisfarne il desiderio di magnificarlo con mille e mille bocche, se l’avessero!”[J . – J . OLIER, Pensies choisies, p. 176]. La loro potenza e la loro bontà ci devono dunque ispirare piena confidenza. E li invocheremo specialmente nel celebrarne le feste; entreremo così nella corrente liturgica della Chiesa e parteciperemo alle virtù particolari praticate da questo o quel Santo.

180. Dobbiamo infatti imitare pure e principalmente le virtù. Tutti si studiarono di imitare gli esempi del modello divino e tutti ci possono ripetere la parola di S. Paolo: “Siate imitatori miei come io di Cristo: Imitatores mei estote sicut et ego Christi” (1 Cor. IV, 16) . Essi però coltivarono per lo più una virtù speciale che ne è, a così dire, la virtù caratteristica: gli uni l’integrità della fede, gli altri la confidenza e l’amore, questi lo spirito di sacrifizio, l’umiltà, la povertà; quelli la prudenza, la fortezza, la temperanza, la castità. Chiederemo a ciascuno più specialmente la virtù che ha praticato, convinti che ha grazia particolare per ottenercela.

181. Ecco perché la nostra devozione si volgerà specialmente a quei Santi che vissero nelle stesse nostre condizioni, che occuparono uffici simili ai nostri e praticarono la virtù che ci è più necessaria. Considerando le cose sotto un altro aspetto, avremo pure devozione particolare ai nostri santi patroni, vedendo nella scelta che se ne fece un’indicazione provvidenziale di cui dobbiamo giovarci. Ma, se per ragioni speciali, le attrattive della grazia ci portano verso questo o quel Santo le cui virtù consuonano meglio coi bisogni dell’anima nostra, nulla vieta che ci diamo alla loro imitazione consigliandocene prima da un savio direttore.

182. Così intesa la devozione ai Santi riesce molto utile: gli esempi di coloro che ebbero le stesse nostre passioni, che subirono le stesse tentazioni, e ciò non ostante, sorretti dalle stesse grazie, riportarono vittoria, sono stimolo potente per fare arrossire della nostra codardia, prendere energiche risoluzioni e indurci a sforzi costanti per metterle in pratica, sopratutto rammentandoci delle parole d’Agostino: “Tu non poteris quod isti et istæ Le loro preghiere poi compiranno l’opera e ci aiuteranno a batterne le orme.

III. Della parte degli Angeli nella vita cristiana.

Questo ufficio deriva dalle loro relazioni con Dio e con Gesù Cristo.

183. 1° Gli Angeli rappresentano anzitutto la grandezza e gli attributi di Dio: “Ognuno in particolare porge un qualche grado di quest’Essere infinito e gli è specialmente consacrato. Negli uni se ne ammira la forza, negli altri l’amore, in altri la fermezza. Ognuno è imitazione d’una bellezza del divino originale; ognuno l’adora e lo loda nella perfezione di cui è l’immagine” (Olier) . Dio stesso adunque onoriamo nei suoi Angeli: sono “fulgidi specchi, sono puri cristalli, sono brillanti sfere, che rappresentano le fattezze e le perfezioni di questo infinito Tutto”. Elevati all’ordine soprannaturale, partecipano della vita divina, e usciti vittoriosi dalla prova, godono della visione beatifica: “Gli angeli di questi fanciulli, dice Nostro Signore, vedono costantemente la faccia del Padre mio che è nei cieli: Angeli eorum in cœlis semper vident facieni Patris mei qui in cœlis est(Matth. XVII, 10).

184. 2° Considerando le loro relazioni con Gesù Cristo, non è certo, è vero, che ne abbiano ricevuto la grazia, è però certo che in cielo si uniscono a questo mediatore di Religione per lodare, adorare e glorificare la maestà divina, lieti di poter dare così maggior valore alle loro adorazioni: “Per quem maiestatem tuam laudant Angeli, adorant Dominationes, tremunt Potestates“. Quando dunque ci uniamo a Gesù per adorar Dio, ci uniamo pure agli Angeli e ai Santi, armonioso concerto che non può che glorificare più perfettamente la divinità. Possiamo quindi ripetere col già citato autore: “Che tutti i custodi dei cieli, tutte queste possenti virtù che li muovono, suppliscano mai sempre, in Gesù Cristo, alle nostre lodi; vi ringrazino essi per i beneficiche riceviamo dalla vostra bontà così nell’ordinedi natura come in quello della grazia” (Olier)

185. 3° Si deduce da queste due considerazioni che gli Angeli, essendoci fratelli nell’ordine della grazia, poiché partecipiamo, come loro, alla vita divina e siamo, come loro, in Gesù Cristo i religiosi di Dio, si prendono grande cura della nostra salute, bramosi di averci presto in cielo a glorificar Dio e partecipare alla stessa visione beatifica, a) Accettano quindi con gioia le missioni che Dio loro affida in servizio della nostra santificazione: “Dio – dice il Salmista – affidò loro il giusto, perché lo custodiscano in tutte le sue vie: “Angelis suis mandavit de te ut custodiant te in omnibus viis tuis (Ps. XC, 11-12)— E San Paolo aggiunge che sono tutti subordinati spiriti, mandati in servigio per quelli che hanno da ereditare la salute: “Nonne omnes sunt administratorii spiritus, in ministerium missi propter eos qui hæreditatem capient salutis? ” (Hebr. I, 14). Nulla infatti tanto bramano quanto radunare eletti per riempire i posti resi vacanti dalla caduta degli angeli ribelli, e adoratori per glorificar Dio in loro vece. Avendo trionfato dei demoni, altro non chiedono che di proteggerci contro questi perfidi nemici; è quindi specialmente opportuno invocarli per vincere le tentazioni diaboliche.

b) Offrono le nostre preghiere a Dio (Tob., XII, 12): il che significa che le avvalorano aggiungendovi le loro suppliche. È  dunque utile per noi l’invocarli, principalmente nei momenti difficili e soprattutto in punto di morte, perché ci proteggano contro gli ultimi assalti del nemico e portino l’anima nostra in paradiso [È dottrina tradizionale che gli angeli conducono le anime nostre il cielo, come dimostra DON LECLERQ, Dict. d’Archeologie, Les Anges psychagogues, t. I, 2121, sq.).

186. Gli Angeli custodi. Tra gli Angeli ve ne sono di quelli incaricati di ogni anima in particolare; sono gli Angeli custodi. Istituendo una festa in loro onore, la Chiesa consacrò la dottrina tradizionale dei Padri, fondata del resto sui testi della Sacra Scrittura e appoggiata su buone ragioni. Queste ragioni nascono dalle nostre relazioni con Dio: siamo i suoi figli, i membri di Gesù Cristo e i tempii dello Spirito Santo. “Essendo suoi figli, dice l’Olier,  ci dà per precettori i principi della sua corte, che si stimano molto onorati di tal carica, avendo noi l’onore appartenergli così da vicino. Essendo suoi membri vuole che quegli stessi spiriti che servono Lui siano sempre al nostro fianco per renderci mille buoni servizi. Essendo suoi tempi ed abitando in noi, vuole che abbiamo degli Angeli che siano pieni di venerazione verso di Lui, come lo sono nelle nostre chiese; vuole che vi stiano in continuo ossequio alla sua grandezza, supplendo a ciò che dovremmo far noi e spesso gemendo per le irriverenze che commettiamo verso di Lui”. Vuole pure in questo modo, egli aggiunge, intimamente collegare la Chiesa del cielo con quella della terra: “A tal fine fa scendere in terra questo misterioso esercito degli Angeli, i quali, unendosi a noi e legandoci a loro, ci collocano nel loro ordine, così da non formare che un sol corpo della Chiesa del cielo e di quella della terra”.

187. Per mezzo dell’Angelo custode siamo dunque in comunicazione permanente col cielo, e a trarne maggior profitto, non possiamo far di meglio che pensare spesso all’angelo custode, per esprimergli la nostra venerazione, la nostra confidenza e il nostro amore: — a) la nostra venerazione, salutandolo come uno di coloro che vedono sempre il volto di Dio, che sono per noi i rappresentanti del Padre celeste; nulla quindi faremo che possa dispiacergli o contristarlo, ci studieremo invece di mostrargli il nostro rispetto, imitandone la fedeltà nel servizio di Dio: modo veramente delicato di mostrargli la nostra stima; b) la nostra confidenza, rammentandoci la potenza che possiede per proteggerci e la bontà che ha per noi affidati alla sua custodia da Dio stesso. – Dobbiamo poi invocarlo principalmente nelle tentazioni del demonio, perché è abituato a sventare le astuzie di questo perfido nemico; come pure nelle occasioni pericolose, in cui la sua previdenza e la sua destrezza possono venirci molto opportunamente in aiuto; e nell’affare della vocazione, in cui può conoscere meglio di tutti, i disegni di Dio sopra di noi. – Inoltre quando abbiamo qualche cosa importante da trattare col prossimo, giova rivolgerci agli Angeli custodi dei nostri fratelli, perché li dispongano all’ufficio che vogliamo compiere presso di loro;

C) il nostro amore, riflettendo che fu sempre e sempre sarà per noi un ottimo amico, che ci ha reso ed è sempre disposto a renderci ottimi servizi, di cui solo in cielo potremo conoscere il valore ma che fin d’ora possiamo intravvedere con la fede, il che ci deve bastare per esprimergliene riconoscenza ed affetto. Soprattutto quando sentiamo il peso della solitudine, possiamo ricordarci che non siamo mai soli, ma che abbiamo al fianco un amico affezionato e generoso, con cui possiamo familiarmente conversare. Non dimentichiamo mai del resto che onorare quest’Angelo è onorare Dio stesso, di cui è il rappresentante sulla terra, e uniamoci qualche volta a lui per meglio glorificarlo.

SINTESI DELLA DOTTRINA ESPOSTA.

188. Dio ha dunque una parte grandissima nella nostra santificazione. Viene Egli stesso a risiedere nell’anima nostra per darsi a noi e santificarci. Per renderci capaci di elevarci a Lui, ci dà un intero organismo spirituale: la grazia abituale che, penetrando la sostanza stessa dell’anima, la trasforma e la rende deiforme; le virtù e i doni che, perfezionando le facoltà, le abilitano, col soccorso della grazia attuale che le mette in moto, a fare atti soprannaturali meritori di vita eterna.

189. Ma questo non basta ancora al suo amore: ci manda l’unico suo Figlio, il quale, facendosi uomo come noi, diventa il modello perfetto che ci guida nella pratica delle virtù che conducono alla perfezione e al cielo; ci merita la grazia necessaria per calcarne le orme non ostante le difficoltà che troviamo dentro e fuori di noi; e che, per meglio trarci alla sua sequela c’incorpora a sé, fa passare in noi, per mezzo del divino suo Spirito, la vita di cui possiede la pienezza, e con questa incorporazione dà alle nostre anche minime azioni un immenso valore; queste azioni infatti, unite a quelle di Gesù nostro capo, partecipano al valore delle sue, poiché in un corpo tutto diventa comune tra il capo e le membra. Con Lui e per Lui possiamo quindi glorificar Dio come merita, ottenere nuove grazie e avvicinarci così al Padre celeste ricopiandone in noi le divine perfezioni. Maria, essendo madre di Gesù e sua collaboratrice, benché secondaria, nell’opera della Redenzione, prende pur parte alla distribuzione delle grazie da Lui meritateci; per Lei andiamo a Lui, per Lei chiediamo la grazia; la veneriamo e l’amiamo come madre, studiandoci d’imitarne le virtù. E poiché Gesù non è soltanto capo nostro ma anche dei Santi e degli Angeli, mette a nostro servizio questi potenti ausiliari per proteggerci contro gli assalti del demonio e la debolezza della nostra natura: i loro esempi e la loro intercessione ci sono di efficacissimo aiuto. Poteva Dio far di più per noi? E s’Egli si diede così generosamente a noi, che cosa non dobbiamo far noi per corrispondere al suo amore e coltivare la partecipazione della vita divina di cui ci ha così generosamente gratificati?

LA GRAZIA (Note di Teologia Ascetica) -4-

LA GRAZIA – 4 –

(Note di teologia ascetica)

NATURA DELLA VITA CRISTIANA (1)

[A. Tanquerey: Compendio di Teologia ascetica a mistica – Desclée e Ci. Roma-Tournai – Parigi; 1948]

§ II. Della parte che ha Gesù nella vita cristiana.

132. Tutta la SS. Trinità ci conferisce quella partecipazione della vita divina che abbiamo descritta. Ma lo fa per riguardo ai meriti e alle soddisfazioni di Gesù Cristo, il quale sotto questo aspetto ha una parte cosi essenziale nella nostra Vita soprannaturale, che questa a buon diritto viene detta vita cristiana. Secondo la dottrina di S. Paolo, Gesù Cristo è il capo dell’umanità rigenerata, come Adamo lo era stato dell’umana stirpe al suo nascere, in guisa però assai più perfetta. Egli coi suoi meriti ci riconquistò il diritto alla grazia e alla gloria; coi suoi esempi ci mostra come dobbiamo vivere per santificarci e meritare il cielo; ma Egli è soprattutto il capo d’un corpo mistico di cui noi siamo le membra: è quindi causa meritoria, esemplare e vitale della nostra santificazione.

I . Gesù causa meritoria della nostra vita spirituale.

133. Quando diciamo che Gesù è causa meritoria della nostra santificazione, prendiamo questa parola nel suo più esteso significato in quanto comprende la soddisfazione e il merito; « Propter nimiam charitatem qua dilexit nos, sua sanctissima passione in ligno crucis nobis iustìficatione in meruit et prò nobis satisfecit ». Logicamente la soddisfazione precede il merito, nel senso che, per ottenere il perdono dei nostri peccati e meritare la grazia, è prima necessario riparare l’offesa fatta a Dio; ma in realtà tutti gli atti liberi di N. Signore erano nello stesso tempo soddisfatorii e meritorii, e avevano tutti un valore morale infinito, come abbiamo detto al n. 78. Non ci resta che trarre da queste verità alcune conclusioni.

A) Non vi sono peccati irremissibili, purché, contriti e umiliati, ne chiediamo umilmente perdono. E questo noi facciamo nel sacro tribunale della penitenza, ove la virtù del sangue di Gesù ci viene applicata per mezzo del ministro di Dio. Questo facciamo pure nel santo sacrificio della Messa, ove Gesù continua ad offrirsi, per le mani del sacerdote, vittima di propiziazione, eccita nell’anima nostra profondi sentimenti di contrizione, ci rende Dio propizio, ci ottiene perdono sempre più pieno dei nostri peccati e una remissione sempre più abbondante della pena che dovremmo subire per espiarli. Possiamo aggiungere che tutti i nostri atti cristiani, uniti ai patimenti di Gesù, hanno un valore soddisfattorio per noi e per le anime per cui li offriamo.

134. B) Gesù ci meritò pure tutte le grazie di cui abbiamo bisogno per conseguire il nostro fine soprannaturale e coltivare in noi la vita cristiana: « Benedixit nos in omni benedictione spirituali in celestibus in Christo Jesu » (Ephes., I, 3), Dio ci benedisse in Cristo con ogni sorta di benedizioni spirituali: grazie di conversione, grazie di perseveranza, grazie per resistere alle tentazioni, grazie per trar profitto dalle tribolazioni, grazie di consolazione, grazie di rinnovamento spirituale, grazie di nuova conversione, grazia di perseveranza finale, tutto Egli ci meritò; e ci assicura che tutto ciò che chiederemo al Padre in suo nome, vale a dire appoggiandoci sui suoi meriti, ci sarà concesso. Per ispirarci anche maggior fiducia, istituì i Sacramenti, segni visibili che ci conferiscono la grazia in tutte le circostanze più importanti della vita e ci danno diritto a grazie attuali che riceviamo a tempo opportuno.

135. C) Ma fece anche di più; ci diede il potere di sodisfare e di meritare, volendo così associarci a Lui come cause secondarie e far di noi gli artefici della nostra santificazione. Ce ne fa perfino un precetto e condizione essenziale della nostra vita spirituale. S’ei portò la croce, gli è perché anche noi lo seguiamo portando la nostra: « Si quis vult post me venire, abneget semetipsum, tollat crucem suam, et sequatur me ». (Matth. XVI, 24). Così l’intesero gli Apostoli: « Se vogliamo partecipare alla sua gloria, dice S. Paolo, dobbiamo anche partecipare ai suoi patimenti, « si tamen compatimur ut et conglorificemur» (Rom. VIII, 17); e S. Pietro aggiunge che se Gesù Cristo patì per noi, lo fece perché noi battiamo le sue orme (I S. Pietr. II, 21). Anzi, le anime generose si sentono stimolate, come S. Paolo, a soffrir lietamente, in unione con Cristo, per il suo corpo mistico che è la Chiesa (Colos. I, 24); a questo modo partecipano all’efficacia redentrice della sua Passione e collaborano come cause seconde alla salute dei fratelli. Oh! quanto questa dottrina è più vera, più nobile, più consolante dell’incredibile affermazione di certi protestanti che hanno il triste coraggio d’affermare che, avendo Gesù Cristo patito sufficientemente per noi, noi non abbiamo che da godere dei frutti della sua redenzione senza berne il calice! Pretendono con ciò di esaltare la pienezza dei meriti di Cristo, mentre in verità è il potere di meritare quello che fa risaltar meglio la pienezza della redenzione. Non è infatti più onorifico per Cristo il manifestare la fecondità delle sue soddisfazioni, associandoci all’opera sua redentrice e rendendoci capaci di collaborarvi, benché in modo secondario, con imitarne gli esempi?

II. Gesù causa esemplare della nostra vita.

136. Gesù non si contentò di meritare per noi, ma volle pur essere la causa esemplare, il modello vivente della nostra vita soprannaturale. Gran bisogno noi avevamo d’un modello di questo genere; perché, per coltivare una vita che è una partecipazione della vita stessa di Dio, dobbiamo avvicinarci quanto più è possibile alla vita divina. Ora, osserva S. Agostino, gli uomini che avevamo sotto gli occhi erano così imperfetti da non poterci servire da modelli, e Dio, che è la santità stessa, sembrava troppo distante. E allora l’eterno Figlio di Dio, viva sua immagine, si fa uomo e ci mostra coi suoi esempi come si può sulla terra avvicinarci alla perfezione divina. Figlio di Dio e figlio dell’ uomo, visse una vita veramente deiforme e poté dire « qui videt me, videt et Patrem » (Joan XIV, 9) chi vede me, vede anche il Padre mio. Avendo manifestato nelle sue azioni la santità divina, poté proporci come possibile l’imitazione delle divine perfezioni: « Estote igitur perfecti sicut et Patervester cœlestis perfectus est » (Matth. V, 48). Ecco perché il Padre ce lo propone come modello: nel Battesimo e nella Trasfigurazione, apparendo ai discepoli dice loro parlando del Figlio: « Hic est filius meus in quo mihi bene compiacui» (Matth. III, 17): ecco il mio Figlio nel qualemi sono compiaciuto. Se trova in Lui tutte le sue compiacenze, Ei vuole dunque che noi l’imitiamo. Anche Nostro Signore ci dice con tutta sicurezza: « Ego sum via… nemo venit ad Patrem nisi per me… Discite a me quia mitis sum et humilis corde… Exemplum enim dedi vobis ut quemadmodum ego feci vobis, ita et vos faciatis(Joan XIV, 6). E che cos’è in sostanza il Vangelo se non il racconto della vita, della passione e morte e risurrezione di Nostro Signore, onde proporlo alla nostra imitazione? « cœpit facere et docere» (Act. I, 1).Che cos’è il Cristianesimo se non l’imitazione di Gesù Cristo? tanto che S. Paolo compendierà tutti i doveri Cristiani in quello d’imitare Nostro Signore: « Imitatores mei estote sicut et ego Christi» (I Cor. IV, cfr. XI, 1). Vediamo dunque quali sono le qualità di questo modello.

137. a) Gesù è un modello perfetto; anche per confessione di coloro che non credono alla sua divinità, Egli è il tipo più compito di virtù che sia mai comparso sulla terra. Praticò le virtù in grado eroico e con le disposizioni interne più perfette: religione verso Dio, amore del prossimo, annientamento di se stesso, orrore del peccato e di ciò che può condurvi. Eppure è un modello imitabile ed universale, pieno d’attrattiva, i cui esempi sono pieni d’efficacia.

138. b) È un modello che tutti possono imitare; perché  volle assumere le nostre miserie e le nostredebolezze, subire persino la tentazione, esserci similein tutto fuori del peccato: « Non enim habemus Pontificem qui non possit compati infirmitatibus nostris; tentatum autem per omnia prò similitudine absque peccato » ( Hebr., IV, 15). Per trent’anni Ei visse la vita più nascosta, più oscura, più comune, obbedendo a Maria e a Giuseppe, lavorando come garzone ed operaio, “fabri filius” (Matth., XIII, 55 ); e perciò divenne il modello perfetto della maggior parte degli uomini, che non hanno se non doveri oscuri da compiere e che devono santificarsi in mezzo alle occupazioni più comuni. Ma visse pure la vita pubblica e praticò l’apostolato sia in un gruppo scelto, formando gli Apostoli; sia tra la folla, evangelizzando il popolo; e quindi dovette soffrire la fatica e la fame; godette l’amicizia di alcuni come ebbe a sopportare l’ingratitudine di altri; provò trionfi e sconfitte; passò insomma per le peripezie di ogni uomo che ha relazioni con gli amici e col pubblico. La sua vita sofferente ci diede l’esempio della pazienza più eroica in mezzo alle torture fisiche e morali che Ei tollerò, non solo senza lamentarsi, ma pregando per i suoi carnefici. Né si dica che, essendo Dio, patì di meno; era anche uomo: dotato di squisita sensibilità, sentì più vivamente di noi l’ingratitudine degli uomini, l’abbandono degli amici, il tradimento di Giuda; provò tali sentimenti di tedio, di tristezza, di timore, che non poté tenersi dal pregare che l’amaro calice, se fosse possibile, s’allontanasse da Lui; e, sulla croce, emise quel grido straziante che mostra la profondità delle sue angoscie: « Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? » (Matth., XXVII, 46). Gesù fu dunque un modello universale.

139. c) Si mostra pieno d’attrattiva. Aveva predetto che, quando fosse elevato da terra (alludendo al supplizio della croce), avrebbe attirato tutto a sé: « Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum » (Joan. XII, 32). La profezia si avverò. Vedendo ciò che Gesù fece e patì per loro, i cuori generosi si accesero d’amore pel divin Crocifisso e quindi per la sua croce (Tale è il senso della preghiera di S. Andrea Apostolo, crocifisso per Gesù, che saluta amorosamente la croce: O bona crux”; non ostante le ripugnanze della natura, portano valorosamente le croci interne od esterne, sia per meglio rassomigliare al divino Maestro, sia per attestargli il loro amore, soffrendo con Lui e per Lui, sia per avere una parte più abbondante dei frutti della redenzione e collaborare con Lui alla santificazione dei fratelli. E ciò che chiaramente si vede nella vita dei Santi, i quali corrono dietro la croce con più avidità che non i mondani dietro i piaceri.

140. d) Questa attrattiva è tanto più forte in quanto che Egli vi aggiunge l’efficacia della sua grazia: essendo le azioni fatte da Gesù prima della morte tutte meritorie, egli ci meritò la grazia di farne di simili; quando noi consideriamo la sua umiltà, la sua povertà, la sua mortificazione e le altre sue virtù, siamo eccitati ad imitarlo non solo per la forza persuasiva dei suoi esempi, ma anche per l’efficacia delle grazie che ci meritò praticando le virtù e che in quell’occasione ci concede.

141. Vi sono poi certe particolari azioni di Nostro Signore che hanno una maggiore importanza e a cui dobbiamo in modo speciale unirci perché contengono più copiose grazie: sono i suoi misteri. Così il mistero dell’Incarnazione ci meritò la grazia della rinunzia a noi stessi e della unione con Dio, perché Nostro Signore ci offrì con Lui per consacrarci tutti al Padre; il mistero della crocifissione ci meritò la grazia di crocifiggere la carne e le sue cupidigie; il mistero della morte ci meritò di morire al peccato e alle sue cause, ecc. La qual cosa, del resto, intenderemo meglio, vedendo in che modo Gesù è il capo del Corpo mistico di cui noi siamo le membra.

III. Gesù capo del corpo mistico o fonte di vita.

142. Questa dottrina si trova già sostanzialmente nelle parole di Nostro Signore : “Ego sum vitis, vos palmites(Joan. XV, 5),Io sono la vite e voi i tralci. Egli afferma infatti che noi riceviamo la vita da Lui come i tralci della vite la ricevono dal ceppo a cui sono uniti. Questo paragone fa dunque risaltare la comunanza di vita che corre tra Nostro Signore e noi; onde è facile passare all’idea del corpo mistico in cui Gesù, come capo, fa scorrere la vita nelle membra. Chi insiste di più su questa dottrina così feconda di risultati è S. Paolo. In un corpo sono necessari un capo, un’ anima e delle membra. Appunto questi tre elementi descriveremo, attenendoci alla dottrina dell’Apostolo.

143. 1° Il capo esercita nel corpo umano un triplice ufficio: ufficio di preminenza, perché ne è la parte principale; ufficio di centro d’unità, perché riunisce e dirige tutte le membra; ufficio d’influsso vitate, perché da lui parte il movimento e la vita. Ora appunto questo triplice ufficio esercita Gesù nella Chiesa e sulle anime, a) Ha certamente la preminenza su tutti gli uomini Egli che, come uomo, è il primogenito tra tutte le creature, l’oggetto delle divine compiacenze, il modello perfetto d’ogni virtù, la causa meritoria della nostra santificazione, Egli che, pei suoi meriti, venne esaltato su tutte le creature e al cui cospetto deve piegarsi ogni ginocchio in cielo, in terra e nell’inferno.

b) Gesù è nella Chiesa il centro d’ unità. Due cose sono essenziali in un organismo perfetto: la varietà degli organi e delle funzioni che compiono e la loro unità in un comune principio; senza questo doppio elemento non si avrebbe che una massa inerte o un aggregato d’esseri viventi senza vincolo organico. Ora è pur sempre Gesù che, dopo avere costituito nella Chiesa la varietà degli organi con l’istituzione della gerarchia, ne rimane centro d’ unità, poiché è Lui, capo invisibile ma reale, che imprime ai capi gerarchici la direzione e il movimento.

e) Gesù è pure il principio dell’influsso vitale che anima e vivifica tutte le membra. Anche come uomo riceve la pienezza della grazia per comunicarcela: “Vidimus eum plenum gratiae et veritatis… de cuius plenitudine nos omnes accepimus, et gratiam prò gratia” (Joan. I, 14-16). Non è infatti causa meritoria di tutte le grazie che riceviamo e che ci sono distribuite dallo Spirito Santo? Anche il Concilio di Trento afferma senza esitare quest’ azione e quest’influsso vitale di Gesù sui giusti: “Cum enim ille ipse Christus Jesus tanquam caput in membra… in ipsos iustificatos iugiter virtutum influat(Sess. VI, VIII).

144. 2° A d ogni corpo è necessario non solo un capo ma anche un’anima. Ora l’anima del corpo mistico di cui Gesù è il capo, è lo Spirito Santo (cioè la SS. Trinità indicata con questo nome); è lui infatti che diffonde nelle anime la carità e la grazia meritate da Nostro Signore: “Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis” (Rom., V, 5). – Ecco perché è chiamato Spirito vivificante: “Credo in Spiritum… vivificantem’. Ecco perché S. Agostino dice che lo Spirito Santo è per il corpo della Chiesa ciò che l’anima è pel corpo naturale: “Quod est in corpore nostro anima, id est Spiritus Sanctus in corpore Christi quod est Ecclesia ” (Sermo 187 de tempore).Questa espressione, del resto, fu consacrata da Leone XIII nella Enciclica sullo Spirito Santo (Atque hoc affirmare sufficiat quod cum Christus caput sit Ecclesiæ, Spiritus Sanctus sit eius anima “. (Encicl. 9 Maggio 1897)

— È pure questo divino Spirito che distribuisce i vari carismi: agli uni il discorso della sapienza o la grazia della predicazione, agli altri il dono dei miracoli, a questi il dono della profezia, a quelli il dono delle lingue, ecc. : “Hæc autem omnia operatur unus atque idem Spiritus, dividens singulis prout vult (1 Cor., XII, 6).

145. Queste due azioni di Cristo e dello Spirito Santo non solo non s’intralciano ma si compiono a vicenda. Lo Spirito Santo ci proviene da Cristo. Quando Gesù viveva sulla terra, possedeva nella santa sua anima la pienezza dello Spirito; con le sue azioni e principalmente coi suoi patimenti e con la sua morte, meritò che questo Spirito ci fosse comunicato: è dunque in grazia sua che lo Spirito Santo viene a comunicarci la vita e le virtù di Cristo e a renderci simili a Lui. Così si spiega tutto: Gesù, essendo uomo, può egli solo essere il capo di un corpo mistico composto di uomini, dovendo il capo e le membra essere della stessa natura; ma, come uomo, non può da se stesso conferire la grazia necessaria alla vita delle membra, onde vi supplisce lo Spirito Santo compiendo appunto quest’ufficio; ma poiché lo fa in virtù dei meriti del Salvatore, si può ben dire che l’influsso vitale parte in sostanza da Gesù per arrivare alle membra.

146. 3° Quali sono dunque i membri di questo corpo mistico? Tutti coloro che sono battezzati. Di fatti col Battesimo veniamo incorporati a Cristo, come dice S. Paolo: ” Etenim in uno Spiritu omnes nos in unum corpus baptizati sumus(1 Cor. XII, 13; Gal. III, 25; Rom. III, 17). Ecco perché  aggiunge che fummo battezzati in Cristo e che colBattesimo ci rivestiamo di Cristo (Rom. VI, 3), vale a dire che partecipiamo alle disposizioni interne di Cristo: la qual cosa il Decreto per gli Armeni spiega dicendo che col Battesimo diventiamo membri di Cristo e parte del corpo della Chiesa: per ipsum (baptismum) enim membra Christi ac de corpore efficimur Ecclesiæ(DENZIGER-BANN., n. 696).

– Ne viene che tutti i battezzati sono membri di Cristo ma in grado diverso: i giusti gli sono uniti per mezzo della grazia abituale e di tutti i privilegi che l’accompagnano; i peccatori per mezzo della fede e della speranza; i beati per mezzo della visione beatifica. Gli infedeli poi non sono attualmente membri del suo corpo mistico, ma, finché vivono sulla terra, sono chiamati a divenirlo; i dannati soltanto sono esclusi per sempre da questo privilegio.

147. Conseguenze di questo domma. —

A) Su questa incorporazione a Cristo è fondata la comunione dei Santi; i giusti che vivono quaggiù, le anime del Purgatorio e i Santi del cielo, fanno tutti parte del Corpo mistico di Gesù, tutti ne partecipano la vita, ne ricevono l’influsso e devono scambievolmente amarsi e aiutarsi come le membra d’uno stesso corpo; perché, dice S. Paolo, « se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui; e se un membro è glorificato, tutte godono con lui: Si quid patitur unum membrum, compatiuntur omnia membra; sive gloriatur unum membrum, congaudent omnia membra. » (1 Cor. XII, 26; Gal. III, 28; 1 Cor. XII, 13; Rom. X, 12)

148. B) Ecco perché tutti i Cristiani sono fratelli: non vi è più ormai né Giudeo, né Greco, né uomolibero né schiavo; siamo tutti uno solo in Cristo Gesù (Ephes., I, 23). Siamo dunque tutti solidarii e ciò che è utile ad uno è utile agli altri, perché, qualunque sia la diversità dei doni e degli uffici, tutto il corpo s’avvantaggia di ciò che vi è di buono in ciascun membro, come ciascun membro si avvantaggia a sua volta dei beni dell’intero corpo. Con questa dottrina si spiega pure perché Nostro Signore poté dire: Ciò che fate al più piccolo dei miei, a me lo fate; il capo infatti si identifica con le membra.

149. C) Ne viene che, secondo la dottrina di S. Paolo, i Cristiani sono il compimento di Cristo: Dio infatti “lo diede per capo supremo alla Chiesa, che è il corpo di Lui e la pienezza di Lui, il quale compie tutto in tutti: “Ipsum dedit caput supra omnem Ecclesiam, quce est corpus ipsius et plenitudo eius, qui omnia in omnibus adimpletur(Ephes. I, 23). – Gesù, infatti, pur essendo perfetto in se stesso, ha bisogno d’un compimento per formare il suo Corpo mistico: sotto questo aspetto, non basta a se stesso ma ha bisogno di membra per esercitare tutte le funzioni vitali. Onde l’Olier conchiude (Pensèes, p. 15-16): “Cediamo le anime nostre allo Spirito di Gesù Cristo perché Egli cresca in noi. Se trova soggetti ben disposti, si dilata, s’accresce, s’espande nei loro cuori, li profuma dell’unzione spirituale di cui è Egli stesso profumato “. E questo il modo con cui possiamo e dobbiamo compiere la Passione del Salvatore Gesù, soffrendo come ha sofferto Lui, affinché questa passione, così compita in se stessa, si compia anche nei suoi membri nel corso del tempo e dello spazio:Adimpleo ea qua desunt passionum Christi in carne mea prò corpore eius quod est Ecclesia (Colos. I, 24). Come si vede, non v’ è nulla di più fecondo di questa dottrina sul corpo mistico di Gesù.

CONCLUSIONE:

DEVOZIONE AL VERBO INCARNATO (P. BÉRULLE – chiamato l’apostolo del Verbo Incarnato-, Discours de l’Estat et des Grandeurs de Jesus).

150. Da tutto il fin qui detto sulla parte di Gesù nella vita spirituale risulta che, per coltivar questa vita, dobbiamo vivere in unione intima, affettuosa, abituale con Lui, o, in altri termini, praticare la devozione al Verbo Incarnato: ” Qui manet in me et ego in eo, hic fert fructum multuni; Chi resta ime ed Io in lui, produce frutti abbondanti (Joan. XV, 5). È quello che c’inculca la Chiesa, ricordandoci verso la fine del Canone della Messa, che per Lui noiriceviamo tutti i beni spirituali, per Lui siamo santificati, vivificati e benedetti, per Lui, con Lui e in Lui dobbiamo rendere ogni onore e ogni gloria a Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo (Per quem hæc omnia, Domine, semper bona creas, sanctificas, vivificas, benedicis et præstas nobis; per ipsum, et cum ipso et in ipso est tibi Deo Patri omnipotenti, in unitate Spiritus Sancti, omnis honor et gloria). Ecco un intero programma di vita spirituale: avendo ricevuto tutto da Dio per mezzo di Cristo, per Lui dobbiamo pure glorificar Dio, per Lui dobbiamo chiedere nuove grazie, con Lui e in Lui dobbiamo fare tutte le nostre azioni.

151. 1° Essendo Gesù il perfetto adoratore del Padre, o, come dice l’Olier, il religioso di Dio, il solo che gli possa offrire omaggi infiniti, è evidente che per rendere i nostri ossequi alla SS. Trinità, non possiamo far di meglio che unirci intimamente a Lui ogni volta che vogliamo compiere i nostri doveri di Religione. Il che è tanto più facile in quanto che, essendo Gesù il capo d’un Corpo mistico di cui noi siamo le membra, adora il Padre non solo in nome suo ma anche in nome di tutti coloro che gli sono incorporati, e mette a nostra disposizione gli omaggi che rende a Dio, permettendoci di appropriarceli per offrirli alla SS. Trinità.

152. 2° Con Lui e per Lui noi possiamo pure chiedere con la massima efficacia nuove grazie; perché Gesù, Sommo Sacerdote, prega incessantemente per noi, (semper vivens ad interpellandum prò nobis) (Hebr. VII, 25). Anche quando abbiamo la disgrazia d’offendere Dio, Egli perora la nostra causa, con tanto maggior eloquenza in quanto offre nello stesso tempo il sangue versato per noi: « Si quis peccaverit, advocatum habemus apud Patrem Jesum Christum iusttim, et ipse est propitiatio prò peccatis nostris»(Joan. II, 1). Inoltre dà alle nostre preghiere tal valore che, se noi preghiamo in suo nome, cioè appoggiandoci sugli infiniti suoi meriti, siamo sempre sicuri d’essere esauditi: « Amen, amen, dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis » (Joan. XVI, 23). Infatti il valore dei suoi meriti viene comunicato ai suoi membri, e Dio non può rifiutar nulla a suo Figlio: « exauditus est prò sua reverentia» (Hebr. V, 7).

153. Bisogna in ultimo fare tutte le nostre azioni in unione con Lui, avendo abitualmente, secondo una bella espressione dell’Olier (Introd. à la vie et aux vertus chrétiennes, cap. IV, p. 47, ed. 1906), Gesù davanti agli occhi, nel cuore e nelle mani: davanti agli occhi, vale a dire considerandolo come modello che dobbiamo imitare e chiedendoci, come S. Vincenzo De Paoli: Che cosa farebbe Gesù se fosse al mioposto? Nel cuore, attirando in noi le sue interne disposizioni, la sua purità d’intenzione, il suo fervore, per fare le nostre azioni secondo il suo spirito; nelle mani, eseguendo con generosità, energia e costanza le buone ispirazioni che ci suggerisce.Allora la nostra vita sarà trasformata e noi vivremo della vita di Cristo: « Vivo autem, iam non ego, vivit vero in me Christus: vivo, non più ioma vive in me Cristo » (Gal. II, 20).

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/23/la-grazia-note-di-teologia-ascetica-5/

LO SCUDO DELLA FEDE (82)

LO SCUDO DELLA FEDE (82)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO V.

COME SI DEBBANO DIPORTARE QUELLI CHE SONO TENTATI DAI PROTESTANTI CON BEI DISCORSI.

Abbiamo detto il gran male che sarebbe dove un Cattolico, fatto gettito del dono preziosissimo della S. Fede, si recasse ad abbracciare il Protestantismo. Resta ora a dire una parola ai Cattolici, i quali possono trovarsi tra pericoli di seduzione, oppure che fossero sventuratamente già stati sedotti. Il primo pericolo è quello che si corre dal vivo discorso dei ministri d’errore. Imperocché l’Apostolato diabolico che pur si fa per mezzo dei libri o del denaro non si può praticar tanto alla scoperta, né si può egualmente con tutti, ma ben si può con tutti impiegare il discorso e la persuasione: ed ecco in qual modo si procede da questi seduttori. Sulle prime testano il terreno solamente per vedere come risponde e si guardano bene dal manomettere le verità più riverite della Religione e dal profferir con che possa dannarsi come manifesta empietà. Fanno come il falco che vuol rapire i pulcini, prendono le volte larghe prima di avventarsi sopra la preda. Si contentano, per esempio, di intaccare la vita dei sacri ministri, di mettere in vista i falli, di cui come uomini non vanno esenti, di esagerarli, affermando che sono comuni a tutti egualmente e Sacerdoti e Religiosi. Poi passano a criticare le cerimonie del culto esterno, la sontuosità delle Chiese, la ricchezza degli apparati e degli ornamenti, a deridere le pratiche di pietà onde si nutrela divozione, burlando e beffeggiando come pinzochere e bacchettoni quelli che si esercitano in esse. Trovano sempre che dire sulla S. Chiesa. sui suoi diritti, sulle pretensioni come essi parlano della Corte Romana. e la mirano e ne parlano come di una tigre che sia sempre in atto di avventarsi sopra il Principato per usurparsene l’autorità. Di tutto che è religioso prendono noia o scandalo, e non possono patire che altri lodi ed esalti con fervore di devozione le cristiane osservanze, la gloria ed i trionfi di S. Chiesa. – Ora quando voi udite alcuno che parla a questo modo, e non una qualche volta di rado e per passione, ma parla così frequentemente ed a sangue freddo, e voi abbiatelo per un indizio sicuro che costui, sel sappia o no, è infetto di Protestantismo e maestro d’errore: epperò fuggitelo e non vogliate con lui mai trattenervi in conversazione, né averlo per amico, poiché a lungo andare vi contaminerebbe. Che se poi fosse di quelli che non solo tagliano i rami dell’albero della Fede, ma danno risolutamente al tronco mettendo in dubbio o condannando i dommi più sacrosanti della Fede, come la verità del Sacrifizio, la Confessione, la Comunione, il valore delle Indulgenze, l’autorità del Sommo Pontefice e simili, come allora non vi sarebbe più nessun dubbio che questi è un eretico Protestante, così allora non vi sarebbe abominio che fosse tanto al bisogno. – Nella Chiesa di Dio i Santi Apostoli ci ammaestrarono a fuggire come dal serpente ogni eretico. Tu fuggi, dice S. Paolo, dopo una o due riprensioni lo eretico (Tit. III, 10). – S. Giovanni Apostolo della carità non volle entrare in un bagno dove vi era un eretico per tema di contaminarsi. Il S. Vescovo Policarpo imbattutosi un giorno nell’eretico Marcione su una pubblica piazza, ed interrogato da lui se lo conoscesse: sì – rispose il Santo con ferma voce – sì io conosco il primogenito del diavolo: tanto era l’orrore che quel gran Santo aveva dicoloro che guastano la Fede. – Né i primi Fedeli ammaestrati da loro pensavano od operavano altrimenti. Nelle storie ecclesiastiche si legge di Sante Matrone, che non vollero più riconoscere i loro sposi, poiché questi avevano rinnegato la Fede, di mariti che non vollero riconoscere le spose per la stessa cagione, di sorelle che rinnegarono i fratelli i quali avevano disconosciuto Gesù. Come al contrario S. Cecilia riconobbe solo allora Tiburzio per suo cognato, quando questi ebbe abbracciata la Fede di Gesù Cristo: tanto era l’amore che queste grandi anime portavano alla S. Fede, che non sapevano e non potevano amare chi non la conoscesse e chi non l’amasse. Né questo amore era poi così raro e proprio solo di alcune anime più generose: i popoli interi Cattolici non volevano aver che fare per nulla con gli Eretici. Teodoreto narra che i Samosateni avendo risaputo che l’eretico Eunomio si era lavato nel pubblico bagno della loro città, non vollero più accostarsi a quello, finché levata tutta quell’acqua e condotta a perdersi in una fogna, non ne fu ivi rimessa dell’altra pura. Perfino i fanciulli Cattolici avevano orrore degli eretici, e negli Annali Ecclesiastici si legge che in Samosata, giocando a palla certi fanciulli sulla pubblica piazza e sfuggita loro di mano ed intrigatasi tra pie del giumento sopra cui cavalcava l’Eretico Lucio, quei fanciulletti Cattolici ne ebbero tanto orrore che non ardirono più toccarla se non dopo di averla purificata col fuoco. E di S. Francesca di Chantal è noto che ancor fanciulletta di poca età gettò prontamente sul fuoco un dono offertole da un signore eretico che frequentava la casa sua, dicendo con gran sentimento, che così brucerebbero nell’Inferno quei che non avessero la vera fede di Gesù Cristo. – Non mancherà alcuno a cui parrà soverchio quest’orrore e che crederà di esser tanto saldo nella sua fede da poter entrare in discorso con chicchessia senza pericolo. Se vi fosse alcuno che pensasse così, mostrerebbe di conoscer poco qual sia l’umana debolezza e quanto sia vero che chi si mette nel pericolo, rovina poi nel pericolo. Io vi darò solo un esempio di quel che può la seduzione, perché vi valga di ammaestramento. Margherita di Valois sorella di Francesco I, Re di Francia era donna, come scrive il Raimbourg, di eccelsi spiriti, di animo grande, di mente retta e salda, di ottimo cuore e di straordinaria accortezza negli affari. I Protestanti avendo fermo di trarla al loro empio partito, s’insinuarono cautamente nella sua corte, celati sotto l’apparenza di filologhi, letterati e filosofi, e col pretesto di zelare la purità della Religione, vennero a poco a poco scemando nel cuore di lei con critiche intemperanti il rispetto dovuto ai ministri e riti della Chiesa. Indi aggiungendo alle artificiose parole libricini non meno velenosi che leggiadri, e adoperandole intorno le già sedotte sue damigelle, fecero sull’animo dell’incauta principessa sì gagliarda impressione, che in breve l’ebbero non solo tutta loro, ma zelantissima a propagare le ree dottrine ed a proteggerne gli autori. E ben lo seppe il Bearn per lei ribellato alla Chiesa, anzi tutta la Francia col favore suo infettata sì largamente dall’eresia. Vero è che dopo più anni di errori accortasi dell’inganno in che era precipitata, se ne ritrasse ed amaramente lo pianse. Ma le sue lacrime, se valsero ad ottenerle pietà da Dio, non valsero certo ad estinguere il funesto incendio per lei massimamente acceso in Francia, né a cessarne le ree conseguenze, le quali furono trent’anni di guerra feroce, quattro grandi battaglie campali, da trecento sanguinose fazioni, il saccheggio o la distruzione delle migliori città, la ruina d’innumerabili Chiese, la violazione dei sepolcri dei re e dei Santi, e più di un milione di Francesi sgozzati senza processo (Pellicani I Compagni). – Andate adesso a fidarvi anime care, se potete, di voi medesime, mentre rovinano tanti grandi uomini. No no, chi ama il pericolo perirà in esso, dice lo Spirito Santo, e l’esperienza ogni dì lo conferma. Fate che non debba aggiungervi il tristo esempio della vostra persona.

ESAME DI COSCIENZA (2) – S. Alfonso Rodriguez

TRATTATO VII. (2)

CAPO VI.

Che non si deve mutar facilmente la materiadell’esame particolare; e quanto tempo starà bene il farlo sopra la stessa cosa.

Bisogna qui avvertire, che non abbiamo da mutar facilmente la materia dell’esame, prendendo ora una cosa ed ora un’altra; perché questo è un andare, come si suol dire, raggirandosi, e non far viaggio; ma abbiamo da procurare di proseguir una cosa sino al fine, e poi mettersi dietro ad un’altra. – Una delle cagioni per cui alcuni cavano poco frutto dall’esame particolare, suol essere questa; perché non fanno altro, per così dire, che dare certi furiosi assalti, facendo l’esame sopra una cosa per otto o quindici giorni, o per un mese, e subito si straccano e se ne passano ad un’altra, senza aver conseguito quello che pretendevano nella prima: e così danno un impetuoso assalto, e poi un altro. Siccome uno che pigliasse per impresa il tirar su per le coste d’un monte fino alla cima di esso una pietra grossa, e dopo averla tirata su un pezzo si straccasse, e libera la lasciasse rotolare sino al basso, e di poi tornasse una e più altre volte a fare l’istesso; giammai, per molto che s’affaticasse, non finirebbe di collocare la pietra nel luogo preteso; così avviene a coloro i quali cominciano a far l’esame d’una cosa, e prima di condurla al fine e di conseguire il primo intento, la lasciano, e ne pigliano un’altra e poi un’altra. Questo è straccarsi e non finir mai: Semper dìscentes, et numquam ad scientias veritatis pervenientes (II. ad Tim. III, 7). Questo negozio della perfezione non si acquista per via di certi impeti furiosi che presto finiscono; ma bisogna con molta perseveranza insistere e pigliare a petto prima una cosa e poi l’altra, facendo sforzo sino a riuscire con essa, ancorché ci costi assai. Il beato S. Gio. Crisostomo (D. Chrys. hom. 5 sup. Gen.) dice: Siccome quei che scavano cercando qualche tesoro, o qualche miniera d’oro o d’argento, non lasciano di scavare, di buttar fuori la terra, e di levare via tutti gl’impedimenti che trovano, e di affondar otto o dieci pertiche, sino al trovare il tesoro che cercano; così noi altri, che cerchiamo le vere ricchezze spirituali e il vero tesoro della virtù e perfezione, non abbiamo da riposarci sino ad averlo trovato, vincendo tutte le difficoltà, senza che da cosa alcuna ci lasciamo impedire. Persequar inimicos meos, et comprehendam illos, et non convertar, donec deficiànt (Psal. XVII, 38) : Perseguiterò i miei nemici, dice il Profeta, e non mi straccherò né ritornerò indietro fino a che non abbia riportata vittoria di essi. Questa santa e forte perseveranza è quella che vince il vizio e acquista la virtù, e non già il dare quegl’impetuosi assalti, e poi ritirarsi. – Facciamo ora i nostri conti. Di quante cose hai tu fatto l’esame particolare, da che ti sei dato a questo esercizio? Se sei riuscito in tutte, sarai già perfetto; ma se non riuscisti neppure in una di esse, perché la lasciasti? Mi dirai, che in quel particolare la cosa non ti riusciva bene: ma per questo non ti riesce bene perché vai mutando materia e non hai perseveranza nel condurre una cosa a fine. Se facendo esame di quella cosa e standovi su con particolar attenzione e vigilanza, dici, che non ti riusciva; peggio andrà il negozio, non facendo più esame sopra di essa. Perché, siccome dice quel Santo, se colui che propone, manca molte volle; che farà colui che tardi, o non mai, propone? Quel proporre la mattina, al mezzo giorno e la sera, ti servirà pure di qualche freno per non cader tante volte. E benché ti paia, di non finir mai d’emendarti, né di far cosa alcuna, non ti perder d’animo per questo, né lasciar l’impresa, ma umiliati e confonditi nell’esame, e torna a proporre e a cominciar di nuovo: che perciò permette Dio le cadute e che resti qualche Jebuseo nella terra dell’anima tua, acciocché finisca di conoscere, che non puoi niente colle tue forze, ma che ogni cosa ti ha da venire dalla mano di Dio, e così abbi ricorso a Lui e stii sempre dipendente da Lui. Molte volte con questo ha uno più fervore e usa più diligenza nel suo profitto, che se subito il Signore gli desse quello che desidera. Ma mi dirà qualcuno; quanto tempo sarà bene far l’esame particolare sopra una cosa? S. Bernardo ed Ugo di S. Vittore (D. Bern., Hugo de S. Vict, locis citatis, c. 1) trattano questa questione; quanto tempo sarà bene combattere contra un vizio? E dicono, che sin a tanto che il vizio stia tanto in declinazione, che subito che ricomincia a farsi vedere, tu lo possa facilmente reprimere e soggiogare colla ragione. Di maniera che non bisogna aspettare, che tu non senta più la tale o tal altra passione, la tale o tal altra ripugnanza; che questo sarebbe un non finir mai: ed Ugo di S. Vittore dice, che questa è più cosa da Angeli che da uomini. Basta che quel vizio, o passione, non ti sia più molesto né ti dia molto che fare; ma che subito che si muove tu la getti per terra e la scacci da te facilmente: allora potrai passar oltre a combattere e a far l’esame sopra qualche altra cosa. Per fin Seneca disse colà: Contra vìlia pugnamus, non ut penitus vincamus, sed ne vincamur (Seneca ad Lucili). Non è necessario, che giungiamo a non sentire più il vizio di sorta alcuna: basta che sia vicino ad esser vinto; sicché non ci sia d’impedimento né di disturbo per quello che ci conviene. Per affrontar meglio in questo particolare, il mezzo più espediente è, comunicarlo ciascuno col suo Padre spirituale; essendo questa una delle cose principali nelle quali fa bisogno di consiglio. Perciocché vi sono alcune cose sopra delle quali basta far l’esame poco tempo, come abbiamo detto di sopra (cap. 3); ed altre ve ne sono nelle quali è bene impiegato l’esame di un anno ed anche di molti. Se ogni anno, dice quel Santo, estirpassimo un vizio, presto diventeremmo uomini perfetti (Thomas a Kempis 1. c. 11, n. 5). E vi sono altre cose rispetto alle quali tutta la vita sarà molto bene impiegata in una di esse; quando questa è tale, che sola potrebbe bastare ad uno per acquistare la perfezione. E cosi abbiamo conosciuto alcuni i quali si presero a petto una cosa, e sopra di quella fecero esame particolare quasi tutta la vita loro, e con ciò diventarono insigni in essa; chi nella virtù della pazienza; chi in una profondissima umiltà; chi in una gran conformità alla volontà di Dio; chi in far tutte le cose puramente per Dio. Ora in questa maniera ancora abbiamo da procurare noi altri di farci eminenti in qualche virtù, insistendo e perseverando in quella sino ad averla perfettamente conseguita. Né questo toglie l’interrompere alcune volte questo esame; anzi conviene far così, tornando a far esame per otto o quindici giorni sopra il silenzio, sopra il far bene gli Esercizi spirituali, sopra il dir bene di tutti, sopra il non dir parola che possa offender alcuno in nessuna maniera, e sopra altre cose simili che sogliono tornare a germogliare e a rinverdirsi in noi altri, e poi ritornarcene subito all’esercizio di prima, e proseguir il nostro intento principale, sino a riuscire con quello che pretendiamo.

CAPO VII.

Come si ha a fare l’esame particolare.

La seconda cosa principale che abbiamo proposto di trattare, è, come s’ha da fare questo esame. Ha l’esame particolare tre tempi (D Ign. lib. Exerc. spirit. in prim. hebdom. titul. Exam.Partic.), benché poi l’esaminarsi si abbia a fare solo due volte. Il primo tempo è, subito che ciascuno si leva la mattina, e allora ha da proporre di guardarsi con ispecial diligenza da quel vizio, o difetto particolare, del quale si vuol correggere ed emendare. Il secondo tempo è al mezzo giorno, nel quale s’ha da fare il primo esame che contiene tre punti. Il primo è, domandar grazia al Signore di ricordarsi quante volte si è caduto in quel difetto del quale si fa l’esame particolare. Il secondo è, dimandar conto all’anima sua di quel difetto, o vizio, pensando da quell’ora in cui ciascuno si levò, e in cui fece quel particolare proposito, sino all’ora presente, quante volte è caduto in esso: e si hanno a far tanti punti in una linea d’un quadernuccio o librettino, che a quest’effetto ha da avere presso di sé, quante volte troverà esservi caduto. Il terzo punto è concepire un gran dolore d’esser caduto e domandarne perdono a Dio, proponendo di non cadervi più, particolarmente in quel resto del giorno, colla grazia del Signore. Il terzo tempo è la sera, prima di andare a letto, e allora si ha da far l’esame la seconda volta, né più né meno che al mezzo giorno, tenendo i medesimi punti, e riflettendo come sieno andate le cose dall’ultimo esame passato sin a quell’ora; e notando in un’altra seconda linea tanti punti, quante volte troverassi che si è caduto. E per poter estirpare più facilmente e più presto quel difetto, o vizio, sopra del quale facciamo l’esame particolare, il nostro S. Padre mette quattro avvertimenti ch’egli chiama Addizioni. La prima, che ciascuna volta che l’uomo cade in quel vizio, o difetto particolare, se ne penta, mettendosi la mano al petto ; il che si può fare ancorché si stia in presenza d’altri, senza che s’accorgano di quello che si fa. La seconda è, che la sera dopo fatto l’esame, confronti i punti dell’esame della mattina con quelli dell’altro esame della sera, per vedere se vi è stata qualche emendazione. La terza e quarta, che confronti anche il giorno d’oggi con quello di ieri, e la settimana presente con la passata per lo medesimo effetto. Tutta questa dottrina è cavata da’ Santi. Il beato Antonio abbate, come si riferisce nell’Istoria Ecclesiastica, dava per consiglio, che si notassero in iscritto i mancamenti che nell’ esame trovavansi di essere stati commessi; acciocché in questo modo l’uomo si vergognasse più, e più si impegnasse per l’emendazione, vedendo e considerando i suoi mancamenti. Il medesimo dice S. Giovanni Climaco (D. Jo. Clim. c. 4), il quale non solamente la sera e nel tempo dell’esame, ma a tutte le ore vuole che vada ciascuno notando il mancamento che commette subito che cade in esso, acciocché così possa far meglio l’esame: in quella guisa che il buon banchiere, o mercatante, e il buono spenditore, subito nota in un quadernetto di memorie quello che vende, o compera, acciocché non resti dimenticata cosa alcuna e la sera possa far meglio i suoi conti. S. Basilio e S. Bernardo espressamente notano e consigliano il confrontare un giorno coll’altro; acciocché in questo modo possa la persona conoscer meglio il profitto, o scapito, che fa, e procuri con diligenza di diventar ogni giorno migliore e più simile agli Angeli (2). S. Doroteo dà per consiglio il confrontare una settimana coll’altra e un mese coll’altro (D. Dorot. doc. 10). È il modo che ci propone il nostro S. Padre di farci a procurare l’emendazione del nostro mancamento e difetto, a tratto a tratto, e a poco a poco, da mezzo giorno a mezzo giorno, e non più, è un mezzo che mettono ancora S. Gio. Crisostomo, S. Efrem e S. Bernardo (D. Chrys. Berm. contra concubinarios; D. Bern. in quadam formula bene vivendi Canonico et Vicar. e 24.), come efficacissimo per isradicare qualsivoglia vizio, o difetto che abbiamo: e lo mette anche colà Plutarco (Plutarc. in dìal, de cohib. iracundia.), apportando l’esempio di colui il quale essendo per natura molto collerico e sentendo grandissima difficoltà nel ritenersi, si mise all’impegno di non adirarsi per un giorno, e così passò un giorno senza che si adirasse: e il dì seguente disse: Neanche oggi mi voglio adirare, l’osservò, perché nemmeno quel giorno s’adirò: il medesimo continuò a fare un altro e poi un altro giorno, sinché divenne molto mansueto e piacevole. Or questo è il modo che c’insegna e il disegno che ci propone il nostro S. P. nell’esame particolare, acciocché il combattere e vincere qualunque vizio ci riesca più facile. All’infermo che sta con nausea si dà il cibo a poco a poco, acciocché possa mangiarlo: se gli fosse posta innanzi tutta intera la gallina, gli parrebbe impossibile l’aver a mangiare tutta quella roba, e non potrebbe mandar giù boccone; ma gliene tagli un pochetto alla volta, e glielo porgi, tenendo nascosto il resto fra due piatti; e in questo modo, a poco a poco, bocconcino a bocconcino gli fai mangiare quanto gli basta. Nell’istessa maniera ci vuol guidare il nostro S. P. nell’esame particolare, come infermi e deboli, a poco a poco, da mezzo giorno a mezzo giorno, acciocché lo possiamo tollerare: perché, se pigliassi la cosa tutta insieme, dicendo, non voglio parlare in tutto l’anno, in tutta la vita mia voglio andare cogli occhi bassi, tanto raffrenato e con tanta modestia, solo a pensarvi potrebb’essere che ti straccassi, e ti paresse di non poterlo tollerare, e che sarebbe una vita mesta e malinconica; ma per un mezzo giorno, per una mattina, sin all’ora del pranzo, chi sarà quegli che non vada composto e tenga la lingua a freno? Di poi a mezzo giorno proponi solamente sino alla sera, perché il giorno seguente sa Dio quel che sarà: e che sai tu se vi arriverai? e quando bene vi arrivi, non sarà più d’un giorno, e non ti rincrescerà domani di esser proceduto oggi con questo riguardo, né ti troverai stracco per essere stato oggi accurato e diligente; anzi ti troverai di ciò molto allegro e più disposto a farlo tuttavia meglio e con maggiore facilità e soavità. Credo, che alle volte alcuni manchino in non far bene tutta la forza in questo, proponendo solamente per questo mezzo giorno; che se ciò facessero, molto ciò gli aiuterebbe a proporre con maggior efficacia. Nelle Cronache di S. Francesco (P. 2, lib. 6, c. 38 hist. Min.) si racconta di fraGiunipero, che, sebben egli parlava sempre molto poco, nondimeno una volta per sei mesi continui osservò perpetuo silenzio in questa maniera: il primo giorno propose di non parlare, e di farlo ad onore del divin Padre; il secondo ad onore del Figliuolo; il terzo ad onore dello Spirito santo; il quarto per amore della santissima Vergine: e così scorreva per tutti i Santi, osservando ogni giorno il silenzio con nuovo fervore e divozione per amore di alcuni di essi. In questa maniera la persona si anima maggiormente ad emendarsi di quella cosa sopra della quale fa l’esame particolare, e si vergogna anche e confonde più de’ mancamenti ed errori che commette; poiché per così poco tempo non ha potuto metter in esecuzione il suo proponimento. E così per ogni banda ci aiuterà assai questo mezzo.

CAPO VIII.

Che nell’esame abbiamo da insistere e trattenerciprincipalmente nel dolore e nel proponimentodell’emendazione.

Quel che in particolare si deve grandemente avvertire circa il modo di far l’esame, si è, che de’ tre punti che ha, i due ultimi sono i principali; cioè il dolerci e pentirci delle nostre colpe e negligenze, e il far fermo proponimento di emendarcene, secondo quello che diceva il Profeta: In cubilibus vestris compungimini ( Psal. IV, s. 5): Compungetevi nei vostri letti. In questa compunzione e pentimento, e in questo fermo proponimento di non tornare a cadere, sta tutta la forza e l’efficacia dell’esame per emendarci: onde in questo s’ha da spendere la principal parte del tempo. Una delle cagioni principali per cui molti fanno poco frutto e poco si emendano cogli esami, è, perché tutto quel tempo se la passano nell’andare cercando quante volte sono caduti ne’ mancamenti e negli errori, e appena hanno finito questo punto, che finisce ancora il tempo dell’esame e fanno il resto superficialmente, né si trattengono nel dolore e pentimento delle lor colpe, né nel confondersi e chiederne perdono a Dio, né in far fermi proponimenti d’emendarsi la sera, o il dì seguente, né in domandare a Dio grazia e forze per farlo. Di qua procede, che quante volte sei caduto oggi, tante altre cadi domani; perché nell’esame non hai fatto altro che pensare e ridurti a memoria quante volte sei caduto: e questo non è mezzo per emendarti; ma è il primo punto dell’esame e il fondamento sopra del quale hanno da cadere gli altri due punti principali. Il mezzo efficace per emendarti è il dolerti e pentirti molto da vero delle tue colpe e il proporre fermamente l’emendazione con chiedere al Signore grazia per farlo: e se non fai questo non ti emenderai. Stanno tanto affratellate fra di sé queste due cose, dolor del passato ed emendazione nell’avvenire, che al passo che cammina una cammina anche l’altra: perché è cosa certa, che quando abborriamo una cosa da vero, usiamo diligenza per non incontrarci in essa. Ogni giorno diciamo e predichiamo questo a’ secolari: sarà cosa ragionevole, che lo pigliamo anche per noi medesimi. Qual è la cagione, diciamo noi, che quelli del mondo così facilmente tornano a ricadere ne’ medesimi peccati dopo tante confessioni? sapete qual è? questa comunemente, che non gli hanno odiati e abborriti da vero, né vengono alle confessioni con proponimenti fermi di non tornar mai più a peccare: e siccome il cuor loro non finisce mai di rivolgersi totalmente a Dio, ma solamente a mezza faccia, come suol dirsi; così facilmente ritornano a quello che non hanno mai lasciato affatto. Che se da vero fosse lor dispiaciuto e avessero avuto in odio e in abbominazione il peccato, e fatto avessero un fermo proponimento di non tornare mai più a peccare; non vi sarebbero tornati così facilmente subito usciti dalla confessione, come se non si fossero confessati. Or per questo ancora voi altri incorrete la sera ne’ medesimi mancamenti ed errori ne’ quali siete incorsi la mattina, e oggi nei medesimi di ieri, perché non avete avuto vero dolore di essi: non gli avete odiati di cuore: non avete fatto fermo proponimento di emendarvene: né vi siete trattenuti in questo: che se ciò aveste fatto, non sareste ritornati ad essi così facilmente né così presto: perciocché non siamo soliti noi altri di far tanto facilmente quelle cose che abbiamo abborrite, e che ci ha recato dolore e dato pena l’averle fatte. – Il dolore e il pentimento de’ peccati, quando è vero, non solo toglie via i peccati passati ma è anche medicina preservativa per l’avvenire, come abbiamo detto di sopra (Vide supra tract. 5, c. 5): perché chi sta odiando il peccato, sta anche lontano da ricader in esso. Per sin quel Filosofo (Da Demost. ref. Aulus Gollius; lib. 1, c. 8) colà conobbe l’efficacia e la forza di questo mezzo per non cader in peccato; poiché domandandogli una donna di mala vita certo prezzo eccessivo per peccare con essa, egli rispose: Ego tanti pœnitere non emo: Io non compro tanto caro il pentirmi e il dolermi. Notisi questa ragione, poiché è degna non solo di un Filosofo, ma anche d’un uomo Cristiano e Religioso. Mi metto alcune volte a considerare la sciocchezza e lo sproposito di quelli che ardiscono di peccare, con dire: Mi pentirò poi, e Dio mi perdonerà. Come e in qual cervello può mai entrare, che per soddisfar ora al tuo appetito e per ricevere un brevissimo gusto che passa via in un momento, ti elegga e ti compri per tutta la vita un perpetuo dispiacimento e pentimento d’aver soddisfatto ad esso? – Perché sebben è vero, che Dio ti perdonerà poi questo peccato, pentendoti tu di esso; nondimeno, acciocché ti perdoni, bisogna pur alla fine che tu ti penta e senta gran dolore d’averlo commesso. Ha gran forza questa ragione, anche di qua parlando, come suol dirsi, dal tetto in giù, benché non vi fosse di mezzo l’amor di Dio che ha poi sempre ad essere il motivo principale che ci ha a ritenere; ma solamente il nostro gusto e amor proprio. Non voglio far quello che so che dopo m’ha da cagionare gran dispiacere e gran dolore d’averlo fatto: il gusto di farlo passa via in un momento; e il dispiacere e il dolore di averlo fatto ha da durare per tutta la vita; di maniera che già mai non ne posso più avere né gusto né compiacimento: Ego tanti pœnitere non emo. Grande sciocchezza è eleggersi un sì grave e diuturno dispiacimento per un sì piccolo e momentaneo piacere. Lo disse anche meglio l’Apostolo : Quem fructum habuistis tunc in illis, in quibus nunc erubescitis (Rom. VI, 21)? Che frutto cavaste voi da quelle cose delle quali ora v’arrossite e vi vergognate? Che ha che fare quel gusterello che v’avete preso col disgusto e dispiacere che vi rimane ad avere di poi? Questo si ha da considerare innanzi tutto, prima di cadere; quando viene la tentazione, allora hai da far questo conto e dire: Non voglio far una cosa della quale mi ho poi da vergognare e a pentire per tutta la mia vita. Anche di qua, quando vuoi persuadere ad uno, che non faccia una qualche cosa, gli dici, Guarda, che poi ti pentirai d’averla fatta; e colui risponde: Non me ne pentirò: perché se pensasse, che se n’avesse a pentire, egli stesso vedrebbe, che sarebbe uno sproposito far quello che sapesse che dipoi gli avesse a dispiacere e a dar gran dolore. Ho detto questo, acciocché si vegga quanto efficace mezzo sia per non tornar a cadere nelle colpe il dolore e vero pentimento di esse, e acciocché si conosca quanto importi trattenersi in questo quando si fanno gli esami. È vero, che può uno aver dolore e proponimento vero d’emendarsi, e con tutto ciò tornar di poi a cadere; perciocché non siamo Angeli, ma uomini deboli e di creta, la quale si può rompere e disfare, e subito tornarsi a rifare: ma siccome quando uno, finito che ha di confessarsi, ritorna subito ai medesimi giuramenti e ai medesimi desideri e peccati poco prima confessati, siamo soliti comunemente di dire, che non ne dovette avere né vera contrizione, né vero dolore, né fermo proponimento d’emendarsene, poiché così presto è tornato a cadervi; così anche è grand’indizio e argomento, che a te non è dispiaciuto da vero quando hai fatto l’esame al mezzo giorno, o la sera, l’aver rotto il silenzio, e che non hai avuto fermo proponimento d’emendartene, il vedere, che subito la sera, o il giorno seguente, lo rompi nell’istesso modo come se non avessi fatto esame. E l’istesso dico degli altri mancamenti, errori e difetti, sopra dei quali fai l’esame. Anche alla presenza de’ tuoi fratelli hai vergogna di dire una colpa, o di essere per essa ripreso e penitenziato, quando l’hai già detta tre o quattro altre volte; quanto maggiormente avresti vergogna di comparire recidivo avanti di Dio, se da vero avessi detestata la tua colpa avanti di lui, pentendotene di cuore, chiedendogliene perdono, e promettendone l’emendazione, non tre o quattro volte, ma più di tre o quattro dozzine di volte. Non è dubbio, che ci emenderemmo d’altra maniera, e faremmo altro profitto, se ci pentissimo ed avessimo vero dolore, e facessimo fermo proponimento di emendarci.

CAPO IX

Che aiuta grandemente l’aggiungere all’esamequalche penitenza.

Né anche si contentava il nostro S. Padre del dolore, del pentimento e dei proponimenti interiori; ma di più, acciocché la persona possa riuscir meglio in quel che desidera, leggiamo nella sua Vita (Lib. 5, c. 10 Vitæ P. N. Ign.), che consigliava l’aggiungere all’esame particolare qualche penitenza, imponendoci da noi stessi certa pena ed eseguendola in noi tutte le volte che cadremo in qualche mancamento, o errore, sul quale facciamo l’esame. Il padre fraLuigi di Granata apporta esempi di ciò in alcuni servi di Dio che egli conobbe: d’uno dei quali dice, che quando nell’esame della sera trovava, che avesse ecceduto in qualche parola sconcia, si metteva una morsa alla lingua per penitenza di essa; e di un altro, che faceva una disciplina sì per questo come per qualsiasi altro difetto nel quale fosse caduto. Si dice del santo abbate Agatone, che per lo spazio di tre anni portò in bocca un sasso per acquistare la virtù del silenzio (Befert Bollaterr. lib. 1, Autroph.). Siccome usiamo di portare un cilicio per mortificar la carne, e perché ci serva di svegliatoio per conservare la castità; così portava quel Santo un sassetto sotto la lingua, acciocché fosse il suo cilicio, e gli servisse di ricordo e di svegliatoio per non parlar più di quel che era necessario. E del nostro S. Padre leggiamo (Lib. 5, c. 10 Vita P. N. Ign.), che essendo nel principio della sua conversione molto tentato di riso, vinse quella tentazione a forza di replicate discipline, dandosi ogni notte tante sferzate, quante volte aveva riso in giorno, per leggiero che fosse stato il riso. E suol essere di gran giovamento questo ingiungere qualche penitenza all’esame; perché con la penitenza l’anima resta castigata o intimorita di maniera, che non ardisce di commettere un’altra volta quella colpa. Collo sprone la bestia cammina, per pigra e lenta che siasi. Giova tanto lo sprone, che solo l’accorgersi ella, che v’è, benché non la pungano con esso, la fa camminare. – Se ciascuna volta che uno rompe il silenzio avesse da fare una disciplina in pubblico, ovvero avesse per tre giorni da star solamente a pane ed acqua, che era la penitenza che anticamente veniva ingiunta nelle Regole a quei che rompevano il silenzio, al sicuro che questo ci ritrarrebbe molto dal parlare. – Oltre di ciò, ed oltre il merito e la soddisfazione che suol essere in questa cosa, v’è un altro gran bene, ed è, che Dio Signor nostro veggendo la penitenza colla quale uno si castiga ed affligge, suol esaudire la domanda e il desiderio suo. E questo è uno degli effetti della penitenza e mortificazione esteriore che notano i Santi, e l’apporta il nostro S. Padre nel libro degli Esercizi (D. Ign. lib. Exerc. spir. in Addit.). Disse l’Angelo a Daniello: Ex die primo, quo posuisti cor tuum ad intelligendum, ut te affligeres in conspectu Dei tui, exaudita sunt verba tua (Dan. X, 12): Dal primo giorno che ti deliberasti d’affliggerti dinanzi al Signore, fu esaudita la tua orazione. Aggiunse il profeta Daniello all’orazione il digiuno e la mortificazione della sua carne, e così impetrò la libertà del suo popolo, e che Dio gli manifestasse misteri grandi, e gli facesse altri benefizi molto particolari. Onde vediamo, che ò ed è stato sempre molto usato nella Chiesa di Dio questo mezzo per impetrare e conseguire il favore di Dio nei travagli e nelle necessità. Quando il fanciullino chiede alla madre il latte del quale ha necessità, e lo chiede solamente col desiderio significato per mezzo di qualche segno, molte volte la madre glielo nega, o differisce il darglielo; ma quando lo chiede piangendo e affliggendosi, non si può la madre contenere dal darglielo subito. Così quando l’uomo chiede a Dio la virtù dell’umiltà, della pazienza, della castità, ovvero la vittoria di qualche tentazione, o altra cosa simile, se chiede orando solamente col desiderio e con le parole, molte volte non ottiene quel che domanda, ovvero gli è differito assai: ma quando con l’orazione si congiunge la penitenza e la mortificazione della nostra carne, e ci affliggiamo ancora nel cospetto di Dio, allora otteniamo molto meglio quello che domandiamo, e con maggior certezza e prestezza. Ama Dio grandemente i giusti, e vedendogli afflitti ed in pena per conseguir quello che chiedono, li compatisce e usa loro maggior misericordia. Dice la Scrittura divina del patriarca Giuseppe, che non si poté contenere, vedendo l’afflizione e le lacrime dei fratelli, ma si scoprì loro e li fece partecipi di tutti i suoi beni : Non se poterat ultra cohibere Joseph…. et dixit fratribus suis: Ego sum Joseph (Gen. XLV, 1). Che farà quegli che ci ama più di Giuseppe, e che è più che un nostro fratello, vedendo l’afflizione e il dolor nostro? Per ogni banda ci aiuterà grandemente questo mezzo. – S’accorda molto bene con questo quello che dice Cassiano (Cass. coll. 5, abb. Serap. c. 14), trattando dell’accuratezza e diligenza con cui abbiamo da procedere in questa guerra ed esame particolare. Se l’esame e il combattimento particolare ha da essere, come abbiamo detto (sup. cap. 2), in riguardo a quella cosa della quale abbiamo maggiore necessità; se ha da essere di sradicare quella passione, o cattiva inclinazione, che regna più in noi altri, e ci tira più dietro a sé, ci mette in maggiori pericoli, e ci fa cadere in maggiori mancamenti ed errori; se ha da essere di vincere qualche vizio, il quale ove sia vinto, resteranno vinti tutti gli altri; o d’acquistare quella virtù colla quale avremo fatto acquisto di tutte le altre; quanta sollecitudine e diligenza vorrà la ragione che usiamo in una cosa che tanto c’importa? Sai quanta? dice Cassiano: Adversus illud arripiat principale certamen, omnem curam mentis ac sollicitudinem erga illius impugnationem observationemque defigens, adversus illud quotidiana iejuniorum dirìgens spicula, contra illud cunctis momentis cordis suspiria crebraque gemituum tela contorquens, adversus illud vigiliarum labores ac meditationem sui cordis impendens, indesinentes quoque orationum ad Deum fletus fundens, et impugnationes sua; extinctionem ab illo specialiter ac jugiter poscens (Cass. ubi sup.). Non abbiamo da contentarci d’usar questa sollecitudine e diligenza solamente nell’esame; ma dobbiamo anche usarla nell’orazione: e non solamente nell’orazione mentale della mattina, ma molte volte fra giorno abbiamo da alzar il cuore a Dio Signor nostro con orazioni giaculatorie e con sospiri e gemiti del cuore: Signore, umiltà: Signore, castità: Signore, pazienza. A questo effetto abbiamo da visitare spesso il santissimo Sacramento, chiedendo al Signore con grande istanza, che ci conceda grazia di acquistare una cosa che tanto c’importa. Abbiamo ancora da ricorrere alla beatissima Vergine e ai Santi, acciocché siano nostri intercessori. – A questo abbiamo da indirizzare i nostri digiuni, i nostri cilicci, le nostre discipline, e aggiungervi alcune divozioni e offrire alcune mortificazioni particolari. Sempre abbiamo da portar quella cosa fitta nel cuore, poiché c’importa tanto. Se procedessimo in questo modo e usassimo questa sollecitudine e diligenza nell’esame particolare, ne sentiremmo presto il frutto; perché il Signore vedrebbe la nostra afflizione, esaudirebbe la nostra orazione e soddisferebbe al desiderio del nostro cuore. E si deve notar bene tutto questo, per valercene anche in altre tentazioni e necessità gravi che occorrono. S. Bonaventura dice, che la Madonna santissima disse a S. Elisabetta d’Ungheria, che nessuna grazia spirituale viene all’anima, regolarmente parlando, se non per mezzo dell’orazione e delle afflizioni del corpo (D. Bonav. in Vit. Christ. c. 3).

CAPO X.

Dell’esame generale della coscienza.

L’esame generale della coscienza ha cinque punti. Il primo è ringraziar Dio dei benefizi ricevuti. – Si mette nel primo luogo il ricordarci dei ricevuti benefizi, acciocché contrapponendo a questi i mancamenti e i peccati che abbiamo fatti noi in contraccambio di tanti benefizi, pigliamo da ciò motivo di maggiormente confonderci e di sentirne maggior dolore. Così Natan profeta rappresentò a David i benefizi che Dio gli aveva fatti, per fargli maggiormente conoscere e comprendere la bruttezza del peccato che aveva commesso. – Il secondo punto è, chiedere grazia al Signore di conoscere i mancamenti e i peccati nei quali siamo caduti. – Il terzo domandar conto all’anima nostra di quanto ha fatto, cominciando dall’ora in cui proponemmo di guardarci da ogni mancamento, ed esaminare come siano andate le cose, discorrendo primieramente per i pensieri, secondariamente per le parole, e terzo per le operazioni. .- Il quarto punto è, chiedere al Signore il perdono dei mancamenti ed errori che troveremo aver fatti, dolendocene e pentendocene. – Il quinto, far proponimento di emendarci con la grazia del Signore, e finire con un Pater noster. –Questo esame generale s’ha da far sempre insieme col particolare: perché subito che la mattina ci leviamo, abbiamo da offerir al Signore tutto quello che faremo quel giorno. Siccome dice il nostro S. Padre dell’esame particolare, che subito che ci leviamo abbiamo da far proponimento di guardarci da quel vizio particolare del quale ci vogliamo emendare, e questo è il primo tempo dell’esame particolare; così ancora abbiamo allora da offerire a Dio tutti i pensieri, parole e operazioni di quel giorno, che tutto sia a gloria sua, proponendo di non offenderlo, e chiedendogli grazia per questo: ed è ben conveniente, che tutti abbiano per costume il fare così. Di poi due volte il giorno, al mezzo dì e alla sera, abbiamo da fare l’esame generale insieme col particolare. E tale è l’usanza della Compagnia fondata nelle nostre Costituzioni, e l’abbiamo espressamente nella prima delle Regole comuni: Ciascuno dia ogni giorno con ogni diligenza nel Signore ai due esami di coscienza quel tempo che gli sarà ordinato (4 p. Const. c. 4, § 3 et 4, et reg. 1 com.). Siccome s’accomoda l’oriuolo e s’alzano i suoi contrappesi due volte il giorno, la mattina e la sera, acciocché vada giusto; così abbiamo da accomodare l’oriuolo del nostro cuore con l’esamela mattina e la sera, acciocché vada sempre concertato e ben ordinato. Di maniera che siccome al mezzo giorno ci esaminiamoe a noi stessi domandiam conto di quante volte abbiamo mancato in quella cosa sopra della quale facciamo l’esame particolare, cominciando da quell’ora che proponemmo di non fare mancamenti circa essa, che fu subito che ci levammo dal letto, sino a quell’ora del mezzo dì in cui ci esaminiamo; così ancora abbiamo da esaminarci e domandar conto a noi stessi di quello che abbiamo mancato, o errato, circa i nostri pensieri, parole ed opere, d’allora che ci levammo sino a quella, in cui facciamo l’esame; e indi abbiamo da confonderci e pentirci di tutto quello in cui troveremo di aver mancato, o errato, tanto circa la materia dell’esame particolare, quanto circa la materia del generale; e di tutto insieme abbiamo a fare fermi proponimenti di emendarcene per tutto il rimanente di quel giorno sino alla sera. Allo stesso modo dobbiamo la sera fare l’esame generale insieme col particolare, cominciando però questo nuovo scrutinio di noi medesimi solamente dall’esame precedente del mezzo giorno.La principal cosa che si ha d’avvertire circa il modo di far questo esame generale, è l’istessa che abbiamo detta del particolare, cioè, che tutta la forza ed efficacia di esso sta in quei due ultimi punti; l’uno di pentirci e confonderci delle colpe nelle quali siamo caduti, l’altro di far fermo proponimento dell’emendazione per la sera, o per la mattina. E in questo consiste il far bene l’esame e il cavarne frutto. Il P. Maestro Avila (M. Avil. c. 62 de Audi filia), trattando di questo esame, dice così: Hai da far conto, che ti sia stato dato in governo il figliuolo d’un principe, acciocché tu abbia continua cura di esso, e di educarlo nei buoni costumi, e tenerlo lontano dai cattivi, con fargli ogni giorno i conti addosso. Se tu avessi questo carico, è cosa chiara, che la forza per la sua emendazione non la metteresti nel dirti egli quante volte sia oggi caduto e quante abbia errato; ma nel suo errore e mancamento, nella riprensionee nei ricordi che gli daresti, e nel ricavare da lui fermi proponimenti, procurando, che ti desse parola, da quel figliuolo che egli è, di emendarsi. Or in questo modo hai da aver cura dell’anima tua, come di cosa della quale Dio ti ha dato il carico, e così hai da procedere con essa nel domandarle conto dei suoi portamenti: in questo hai da mettere la forza del tuo esame e della tua emendaizione, non in ridurti a memoria gli errori e i mancamenti commessi, e quante volte sei caduto; ma in confonderti, e in pentirtene, e riprendertene, come riprenderesti un’altra persona della quale tu avessi cura; e in fare fermi proponimenti di non tornare a cader più in quelle colpe. E per ciò fare molto ci gioverà il riflettere, che l’esame generale è la disposizione e preparazione propria e legittima per la confessione: e questo è il titolo che gli dà il nostro S. Padre nel libro degli Esercizi spirituali: Examen conscientiæ generale ad purgationem anima; et ad peccatorum confessionem utilissimum (In lib. Exerc. spir. hebd. 1, timi. Exam. conscient.). E la ragione è manifesta; perché due sono le cose principali che si ricercano per la confessione: la prima è l’esame delle colpe; la seconda il dolor di esse: e queste si fanno compiutamente nell’esame della coscienza; onde se faremo bene questo esame, faremo anche bene la confessione. E bisogna avvertire, che il dolore necessario per la confessione, siccome dicono il Concilio di Trento (Sess. XIV, c. 4) e quello di Fiorenza, include due cose; dispiacere e pentimento di quel che è passato, e proponimento di non tornar più a peccare; e o l’una o l’altra che manchi, non vi sarà bastante disposizione per la confessione. Si pensano alcuni, che solamente quando lasciano di confessar qualche peccato per vergogna non sono ben confessati; ma io credo, che siano molto più le confessioni mal fatte, sacrileghe e nulle, per mancamento di vero dolore e di vero proponimento dell’emendazione. Ecco quanto è necessaria questa preparazione, e quanto importa l’assuefarci e far bene l’esame, e l’esercitarci e il trattenerci in questo dolore delle colpe, e in questo proponimento di non tornar più a cadere in esse. E così dico, che di tre punti principali che sono nell’esame, che gli altri sono come preamboli: la principal parte del tempo l’abbiamo da spendere nei due ultimi, cioè nel chiedere perdono a Dio, pentendoci e confondendoci delle nostre colpe, e nel fare proponimenti di emendarci; e la minor parte s’ha da spendere nel discorrere e ridurci a memoria i mancamenti ne1 quali siamo caduti. Per questo, che è uno dei tre punti, basta la terza parte del tempo dell’esame; e le altre due parti siano per questi altri due punti; poiché sono i principali e nei quali sta la forza ed efficacia dell’esame, e il frutto di esso. – Ma mi dirà qualcuno, come potremo in tanto poco tempo, quanto è la terza parte d’un quarto d’ora, discorrere pel numero delle volte che siamo caduti nella materia dell’esame particolare, e anche per i mancamenti ed errori commessi nelle materie del generale, co’ pensieri, parole ed opere, che anche tutto il quarto d’ora per ciò fare par poco? Il miglior mezzo per questo è portarsi già fatto il primo punto quando andiamo all’esame. Si dice del nostro santo P. Ignazio (Lib. 5, c. 5 Vita P. N. Ign.), che ciascuna volta che mancava in quella materia della quale faceva l’esame particolare, faceva un nodo in una coreggiuola che per questo effetto portava attaccata alla cintura; e di poi dal numero dei nodi sapeva il numero delle volte che aveva mancato, senza aversi a trattenere in questo più che tanto: e per quel che toccava l’esame generale, non lasciava passar ora del giorno nella quale non si raccogliesse entro di sé ed esaminasse la sua coscienza, licenziando ogni altra cosa. E se per sorte gli occorreva qualche negozio tanto grave, o qualche occupazione tanto urgente, che in quell’ora non gli concedesse di poter soddisfare a questa sua divozione, suppliva nella seguente, ovvero subito che l’occupazione glielo permetteva. Molto buona divozione sarebbe questa di dare un’occhiata alla nostra coscienza ogni volta che l’oriuolo suona l’ora. Alcuni ancora sogliono esaminarsi dopo ciascuna loro operazione. Ma se parrà troppo il far questo a ciascuna ora, o dopo ciascuna operazione, sarà bene farlo almeno dopo ciascuna delle principali operazioni che facciamo tra giorno; e di alcune già abbiamo ordine, che subito che le abbiamo finite, ne facciamo l’esame, come abbiamo detto di sopra (Vide enpra tract. 5, c. 27). – S. Bonaventura dice, che il servo di Dio s’ha da esaminare sette volte il giorno. E se nell’esame particolare osserveremo quell’Addizione di metterci la mano al petto ciascuna volta che facciamo mancamento, o errore, facilmente ci ricorderemo per questa via quante volte saremo caduti. Sebbene il nostro S. Padre non mette quest’Addizione, acciocché ci ricordiamo dei mancamenti, ma acciocché subito ci pentiamo di essi: e perciò vi pone questo segno, di mettersi la mano al petto, che è quanto dire: Signore, ho peccato. Ma in fine se osserveremo quest’Addizione, ci aiuterà assai a poterci poi ricordar facilmente quante volte siamo caduti. S’aggiunge a questo, che quando uno ha buona cura di se stesso, ed è sollecito in quel che tocca il suo profitto, subito che fa qualche mancamento, o errore, sente un certo rimorso di coscienza, che è il migliore svegliatoio che possa avere per ricordarsene. – Con questo si è risposto a due sorta di persone: perché ve ne sono alcune alle quali par anche poco tempo tutto il quarto d’ora per ricordarsi delle colpe nelle quali sono cadute; e a queste già abbiamo dato il rimedio di portarsi quasi fatto questo primo punto; acciocché così facendo resti loro tempo da occuparsi negli altri due ultimi. Altre poi al contrario ve ne sono alle quali par lungo il quarto d’ora dell’esame, e non trovano in che spenderlo; e a queste possiamo più facilmente soddisfare. Perché già abbiamo detto, che sì al mezzo giorno, come la sera, s’ha da far l’esame generale insieme col particolare, e dopo aver veduti i mancamenti e gli errori nei quali siamo caduti sì nell’uno come nell’altro esame, ci abbiamo da trattenere in confonderci e pentirci di essi, in chiederne perdono, in far fermo proponimento d’emendazione, e in domandar al Signore grazie per questo: nel che quanto più ci tratterremo, tanto meglio sarà. – Aggiunge qui S. Doroteo un ricordo molto giovevole, dicendo, che nell’esame non solo si ha da tener conto dei mancamenti ed errori nei quali cadiamo; ma anche, e molto più, della radice di essi, esaminando le cagioni e occasioni delle cadute, per istar avvertiti e guardarcene per l’avvenire (D. Doroth. serm. 12). Come sarebbe, se per uscir della mia stanza io ruppi il silenzio, o mormorai; ho da proporre di non uscirne più nell’avvenire senza necessità; ed allora uscirne coll’andar sull’avviso e preparato: e così di altre cose simili. Perché altrimenti ci avverrà come a colui che inciampa in un sasso, e perché passa oltre senza far riflessione nell’occasion dell’inciampo, vi inciampa anche domani; o come a colui che si pensasse di rimediar ad un albero guasto con levar solamente da esso alcuni rami e i frutti marci e verminosi. Se faremo in questo modo gli esami, non ci parrà lungo, ma corto, il tempo assegnato per essi.

CAPO XI.

Che l’esame della coscienza è mezzo per metterein esecuzione tutti gli altri mezzi, ricordi eavvertimenti spirituali: e che la cagione dinon far profitto è il non far l’esame comesi deve.

Il beato S. Basilio dopo aver dato ai Monaci molti ricordi e avvertimenti spirituali, conchiude con questo: che ogni sera, prima d’andar a dormire, facciano l’esame della coscienza, parendogli, che questo lor basterebbe per osservar tutto quello che avea detto loro e per perseverare in esso (D. Basii, homil. 5 de instit. Mon.). Ora con questo vorrei anch’io conchiudere questo trattato, raccomandando a tutti grandemente questo esame; perocché questo solo, con la grazia del Signore, basterà per mettere in esecuzione tutti gli altri ricordi e avvertimenti spirituali, e per rimediare a tutti i nostri difetti. Se allenterai nell’orazione, se ti trascurerai, o sarai negligente nell’obbedienza, se ti dissiperai nel parlare, se comincerai a pigliarti un poco di libertà; subito, mediante il favor del Signore, con l’esame si troncherà e si rimedierà a tutto questo. Chi farà ogni giorno quest’esame della coscienza ben fatto, potrà far conto d’aver seco un aio, un Maestro de’ Novizi, un Superiore, che ciascun giorno e in ciascun ora gli stia domandando conto e avvisandolo di quello che ha da fare, e riprendendolo subito che erra in qualche cosa. Il padre maestro Avila (M. Avila de Audi filia, c. 62) dice così: Non potranno durar molto i tuoi difetti, se durerà in te quest’esame, e questo rivedere i tuoi conti, e riprenderti ogni giorno e ogni ora: e se i difetti durano, e a capo di molti giorni, e forse anche anni, ti trovi tanto mal mortificato, e tanto vivo e risentito nelle tue passioni, quanto al principio; la cagione, perché non usi come devi questi mezzi che abbiamo per nostro profitto: perché se da vero pigliassi a petto il voler levar da te un difetto, o il voler acquistare una virtù, e procedessi in ciò con sollecitudine e diligenza, facendo buoni proponimenti tre volte il giorno almeno, la mattina, il mezzodì e la sera, confrontando ogni giorno i mancamenti e gli errori della sera con quelli della mattina, e quei d’oggi con quelli di ieri, e quei di questa settimana con quelli della passata, pentendoti e confondendoti d’esser tante volte caduto, e chiedendone aiuto a Dio e ai Santi per emendarti; come sarebbe possibile, che a capo di tanto tempo non ti fosse riuscito il migliorarti in qualche cosa? Ma se la persona se ne va all’esame per usanza o per complimento, senza aver vero dolore delle sue colpe, e senza far fermi proponimenti d’emendarsi, questo non è esame, ma cerimonia e trattenimento. Quindi è, che gli stessi vizi e gli stessi mali abiti e le male inclinazioni che uno portò seco dal secolo, ritiene anche per molti anni dopo. Se era superbo, superbo è adesso; se era impaziente e iracondo, il medesimo è adesso; se era avvezzo a dir parole aspre e mortificative, le dice anche adesso: di così mala natura è al presente, come il primo giorno: tanto voglioso, tanto capriccioso e tanto amico delle sue comodità; e piaccia a Dio, che anche in cambio di profittare e di crescere in virtù, non sia cresciuta in alcuni la mala natura; e che con l’anzianità non sia cresciuta la libertà; e che dovendo esser più umili, non abbiano maggior presunzione e non cadano in quella perversità che dice S. Bernardo: Quodque perversum est, plerique in domo Dei non patiuntur haberi contemptui, qui in sua nonnisi contemptìbiles esse potuerunt (D. Bern. hom. 4 sup. Missus est.): vi sono molti dei quali colà nel mondo non si sarebbe fatto conto alcuno, e qui vogliono essere stimati;  e i quali colà non avrebbero avute le cose necessarie, e qui cercano le delicate. – Da quello che si è detto si può ancora vedere quanto frivola scusa sia quella che allegano alcuni dei loro mancamenti e difetti, dicendo, tal essere il lor naturale. Anzi questa è cosa degna di maggior riprensione, che sapendo uno d’aver questa, o altra cattiva qualità naturale, quando dovrebbe aver applicata ogni sua sollecitudine e diligenza in corroborare questa parte debole, acciocché non s’abbia da perder per essa, se ne stia in quella a capo di tanto tempo così vivo e immortificato come il primo giorno. Rientri dunque in sé chiunque tratta di servir Dio; che con tutti parliamo qui; e cominci come di nuovo e da capo, procurando per l’avvenire di far tanto bene l’esame della coscienza, che se ne possa vedere in lui il frutto. Siamo uomini e abbiamo de’ difetti, e n’avremo finché staremo in questa vita: ma abbiamo da procurar con l’esame tre cose. La prima, che se i difetti erano assai, per l’avvenire sian pochi. La seconda, che se erano grandi, siano minori. La terza, che non siano sempre i medesimi: perché il reiterare molte volte un istesso difetto, o errore, arguisce gran trascuraggine e negligenza. – Narra Eugenio in un libro che fa della conversazione e degli esercizi corporali dei Monaci, che un santo Monaco diceva: Io non so che i demonii m’abbiano colto due volte in una medesima colpa (Refertur in Hist. Eccles. p. 2, lib. 6, c. 1). Costui faceva bene l’esame della coscienza, si pentiva da vero, e faceva fermi proponimenti di emendarsi: or così abbiamo da fare noi altri. Per questo mezzo Dio guidò il nostro santo padre Ignazio e l’alzò a tanta perfezione. Leggiamo di lui nella sua Vita (Lib. 5, cap. 1 Vitæ S. Ign.), che confrontando egli il giorno di ieri con quello d’oggi, e il profitto presente col passato, andava ogni giorno profittando più, e guadagnando terreno, o per dir meglio, cielo, in tal grado, che in sua vecchiaia venne a dire, che quello stato nel quale visse in Manresa e il quale nel tempo de’ suoi studi egli soleva chiamare la sua primitiva Chiesa, era stato come il suo noviziato; e che ogni giorno andava Dio nella sua anima colorendo, abbellendo e perfezionando quel disegno di cui in Manresa non aveva fatto altro che in lui tirarne i primi lineamenti. Usiamo dunque noi altri come dobbiamo questo mezzo che il Signore in sì particolar modo ci ha dato; e abbiamo gran fiducia, che per esso ci condurrà alla vera perfezione che desideriamo.

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