L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (9)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (9)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°)

P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov. Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA INABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO PRIMO

Scopo della missione invisibile dello Spirito-Santo e della sua missione nelle anime: la santificazione della creatura. –Perdono dei peccati, giustificazione.

Dopo aver stabilito il fatto di una presenza sostanziale e speciale di Dio nelle anime giuste e spiegato, seguendo San Tommaso, il modo di tale presenza, che, per essere spesso indicata nella Scrittura come dimora dello Spirito Santo, non può però essere considerato come appartenente alla terza Persona, ma ad essa semplicemente attribuita per appropriazione, dobbiamo ancora studiare, alla luce della rivelazione, lo scopo della venuta dello Spirito Santo in noi, così come i molteplici effetti che ne sono la sequela ordinaria, il risultato costante, si potrebbe quasi dire la conseguenza necessaria, della sua presenza divina. Se c’è un argomento che debba interessarci, è certamente questo: niente è più personale, niente è così prezioso, niente è più importante per noi. Necessario in ogni tempo per i Cristiani che hanno la legittima ambizione di non rimanere estranei alle cose dell’ordine soprannaturale, ancor più indispensabile nella nostra epoca di naturalismo sfrenato, dove sembriamo apprezzare solo i beni materiali e i doni della natura, per reagire contro questa tendenza disastrosa, per elevare la mente e il cuore, per dare un’alta idea della grazia e ispirarne una stima profonda, questo studio non solo non offre nulla di scoraggiante e di arido, ma è per noi come gettarci in veri e propri abissi di gratitudine, di ammirazione, di fiducia e di amore. L’Apostolo san Paolo augurava vivamente ai primi fedeli questa conoscenza dei beni spirituali. « Io non smetto – scriveva agli Efesini – di ringraziarvi e di ricordarvi nelle mie preghiere, affinché Dio, Padre del vostro Signore Gesù Cristo, vi dia lo spirito di sapienza e di rivelazione, illumini i vostri cuori e vi faccia conoscere qual è la speranza legata alla vostra vocazione e quali tesori di gloria costituiscono il patrimonio dei santi. » – Presentare un quadro riassuntivo ma sufficientemente completo dei doni relativi alla venuta dello Spirito Santo nella nostra anima, tracciare uno schizzo delle operazioni segrete di questo Ospite interiore e delle speranze di cui Egli è il pegno e la primizia, tale è l’arduo ma sovrano e dolce compito che ci viene ora imposto come coronamento del lavoro che abbiamo intrapreso.

I.

Che lo Spirito Santo sia inviato e dato ai giusti con la grazia, affinché si degni di fare della loro anima la sua dimora, il suo tempio, il suo trono, è una verità tanto indiscutibile quanto consolante, sulla quale non dobbiamo tornare. La questione che ci troviamo ad affrontare ora è questa: Perché questa missione? A cosa tende questa donazione? Qual è lo scopo, il fine, la ragione di questa inabitazione? Se, anche tra gli uomini, persone eminenti, i principi di sangue, i grandi dignitari di uno Stato, non sono inviati che per soggetti di mediocre importanza; se le missioni loro affidate hanno, in virtù del loro stesso stato o ufficio, un sigillo speciale di grandezza, quale dovrebbe essere l’importanza di una missione affidata ad una Persona divina? Quando Dio, volendo salvare il genere umano perduto per colpa del nostro primo padre, si degnò, nella sua misericordia, di mandare il proprio Figlio per realizzare la nostra Redenzione, questa testimonianza di infinita bontà strappò all’evangelista san Giovanni questo grido di ammirazione: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio per cui chiunque crede in Lui non morirà, ma avrà la vita eterna. » (Giov. III, 16). Tuttavia, per quanto sorprendente possa sembrare questa missione, essa si spiega, in una certa misura, con l’importanza dell’obiettivo da raggiungere e l’ampiezza del risultato da conseguire. – Ma quando si tratta di un bambino battezzato, di un peccatore convertito, di una persona giusta che cresce nella santità, dove sono le grandi cose per la cui realizzazione deve essere inviato lo Spirito Santo o gli interessi maggiori che richiedono la sua presenza? Soprattutto perché non si tratta di una missione passeggera, di una visita di breve durata, e nemmeno di un soggiorno temporaneo più o meno prolungato. Quando lo Spirito Santo entra in un cuore, è per dimorarvi e non lasciarlo mai più, a meno che non ne sia costretto a causa del peccato. Ad eum veniemus, et mansionem apud eun faciemus (Giov. XIV, 23).  Che cos’è allora, un altro scopo che lo porta? E perché viene? Sarebbe solo per ricevere in questo tempio vivente e santo la nostra adorazione e la nostra lode, le nostre preghiere e le nostre azioni di grazia? Sarebbe per incoraggiarci con la sua presenza nelle nostre lotte e combattimenti quotidiani, un po’ come un nonno venerabile che segue con uno sguardo simpatico e ringiovanito dall’amore, le gioie dei nipoti, senza però prendervi parte attiva? No. Se viene, è per agire, perché Dio è essenzialmente attivo; Egli è, dicono i teologi, un atto puro. Perciò, lungi dall’essere sterile e infruttuosa, la presenza in noi dello Spirito santificatore, la sua unione con le nostre anime, è, al contrario, sovranamente feconda. Strapparci dall’impero delle tenebre e trasferirci nel regno della luce; creare in noi l’uomo nuovo e rinnovare il volto della nostra anima rivestendola di giustizia e di santità; infonderci con la grazia una vita infinitamente superiore a quella della natura, per renderci partecipi della natura divina, per renderci figli di Dio ed eredi del suo regno; per espandere i nostri poteri aggiungendo ulteriori energie alle loro forze native, per riempirci con i suoi doni e per permetterci di fare opere meritorie di vita eterna; insomma, lavorare efficacemente, incessantemente, amorevolmente, per la santificazione della creatura, ad sanctificandam creaturam (S. Aug., De Trin., 1. III, cap IV), che è lo scopo della sua missione, che è il grande lavoro che viene a compiere e che svolgerà con successo se sappiamo non resistere alle sue ispirazioni e dargli l’aiuto che richiede e senza il quale nulla può avere successo. Ma è importante scendere qui nel dettaglio e studiare separatamente ciascuno dei benefici della sua presenza divina; questo è l’unico modo per conoscerli bene.

II.

Il primo effetto della missione invisibile dello Spirito-Santo, il primo frutto del suo ingresso in un’anima dove non era ancora residente, il primo dono che gli fa, è un perdono completo e generoso; perché, fin dalla caduta originale, dovunque Egli entri per la prima volta, anche nel cuore di un bambino appena nato e sulla cui fronte scorre l’acqua santa del Battesimo, trova un peccatore, cioè un figlio dell’ira: Eramus natura filii iras (Efes. II, 3). – Per apprezzare pienamente questa grazia del perdono, si dovrebbe avere la perfetta comprensione del peccato, comprenderne tutta la malizia, e dare un resoconto accurato delle terribili conseguenze che produce nel colpevole, prima in questa vita, e poi specialmente nell’eternità. Ma come possiamo sondare questo abisso con le nostre deboli luci? Chi dice peccato, dice offesa di Dio, disprezzo di Dio, rivolta contro Dio. Ora, cos’è un Dio offeso, disprezzato, irritato? Quali possono essere le conseguenze della sua collera, quali sono gli effetti della sua vendetta? Senza dubbio non dobbiamo trasportare le nostre passioni in Dio; e quando parliamo di collera e vendetta divina, è ovvio che dobbiamo scartare tutto ciò che comporti il turbamento, l’emozione, il disordine; ma pure dietro queste parole, così frequentemente presenti nella Scrittura, si nascondono delle realtà vere, sante e terribili! Dio infatti non sarebbe bontà assoluta se non fosse nemico implacabile del male; non sarebbe giustizia e santità se lasciasse impunito anche un solo atto la cui malizia è per certi versi infinita (S. Th., III, q. I, a. a, ad 2.). Se è grande nelle opere della sua misericordia, Dio non è meno grande nelle manifestazioni della sua giustizia; se ricompensa magnificamente tutto ciò che si fa per la sua gloria, prende pure un’eclatante vendetta per gli oltraggi commessi contro la sua santa Maestà. Egli agisce sempre da Dio, sia quando remunera la virtù, sia quando punisce il crimine. Che prospettiva apre questa semplice considerazione di fronte ad uno sguardo attento! Così, il santo Giobbe, permeato dal profondo sentimento della giustizia divina, si dichiarò « incapace di sopportarne il peso, come se avesse avuto sul capo le onde di un mare in furia: Semper quasi me super tumentes super me fluctus timui Deum, et pondus ejus ferre non potui » (Giob. XXXI, 23). E il grande Apostolo disse da parte sua, che è una cosa terribile cadere nelle mani del Dio vivente: Horrendum est incidere in manus Dei viventis (Hebr. X, 31).  – La caduta nelle mani degli uomini, di un nemico potente e crudele, sembra essere qualcosa di già singolarmente spaventoso. Eppure, che cosa può fare un mortale debole rispetto a Colui che porta il mondo e dal quale nessun peccatore può sfuggire? Anche Nostro Signore diceva ai suoi discepoli: “Non temete coloro che uccidono il corpo e poi non possono più fare nulla contro di voi. Vi dirò Io, chi dovete temere: è Colui che, dopo avervi tolto la vita del corpo, può ancora mandare la vostra anima nelle fiamme eterne. In verità, ve lo dico Io: è questi che bisogna temere. » (Luc. XII, 4-5). Ma Dio non aspetta l’altra vita per esercitare la sua vendetta contro i trasgressori della sua santa legge e i contendenti della sua adorabile Maestà; fin da qui sulla terra inizia il castigo del peccatore, e che sia, almeno di solito, solo puramente interiore e quindi invisibile, non è meno reale e non meno terribile. Ascoltate. Non appena l’uomo ha consumato la sua iniquità e commesso una colpa grave, Dio gli ritira la sua amicizia; invece di considerarlo e trattarlo come un figlio molto amato, circondato da cure e tenerezza, lo guarda con occhio irritato (Ps. XXXIII, 17), e lo tratta come un nemico; perché « Dio odia l’empio e la sua empietà: Odio sunt Deo impius et impietas ejus » (Sap. XIV, 9). Come prima manifestazione di questo odio, gli toglie tutti i beni soprannaturali di cui l’aveva ricolmato: dapprima la grazia santificante, ….. la perla evangelica che Nostro Signore ha acquistato per noi a prezzo del suo sangue, e per la cui conservazione dovremmo essere pronti a sacrificare tutto; poi la santa carità, che ha fatto dell’uomo l’oggetto della compiacenza divina e ha dato alle sue azioni tutto il loro valore. Dio ritira ancora dal peccatore le virtù e i doni infusi dello Spirito Santo, che aveva riversato nella sua anima come semi divini, che richiedevano solo di sbocciare in fiori e frutti di santificazione e di salvezza, e gli lascia solo la fede e la speranza come ultima tavola di salvezza, come un’ultima testimonianza di misericordia. Eccolo, questo uomo infortunato, spogliato di tutto! Da che era figlio di Dio, è diventato lo schiavo di satana; il vaso d’onore si è trasformato in un vaso di ignominia; l’erede al cielo non deve che aspettarsi, da Colui che ha cessato di essere suo Padre, e che rimane suo Giudice, solo una terribile vendetta e dei tormenti eterni.  – Avete mai assistito alla degradazione di un soldato, di un ufficiale criminale? Il colpevole viene portato in piazza, e lì, alla presenza dei suoi compagni, tutte le insegne del suo grado vengono successivamente rimosse: prima le sue decorazioni, se ce ne sono, perché, avendo perso l’onore, è indegno di indossare il segno d’onore, poi la sua spada. Questa spada, di cui era così orgoglioso e che gli era stata affidata per la difesa della patria, è spezzata davanti ai suoi occhi, e le sue parti disonorate vengono gettate via, perché è la spada di un traditore. Le sue spalline, i suoi galloni, tutto ciò che riguarda l’uniforme, viene strappato e consegnato al plotone di esecuzione, spoglio dei suoi vestiti e coperto di vergogna. È questa una immagine debole del degrado spirituale inflitto al peccatore da questa vita. Esternamente, è vero, nulla tradisce l’orribile cambiamento appena avvenuto nella sua anima; egli va e viene, fa i suoi affari, e forse vedendo la sua salute così florida come prima, la sua fortuna intatta, la sua reputazione salvata, sarebbe tentato di credere nella sua cecità che, dopo tutto, il peccato non è un male così grande; probabilmente, nonostante il monito dello Spirito Santo, avrebbe il coraggio di dire: « Ho peccato, e cosa mi è successo di spiacevole? » (Eccli. V, 4). Cosa gli è successo di così disastroso? Ah! Se potesse contemplare le terribili devastazioni compiute nella sua anima da un solo peccato mortale, il suo linguaggio sarebbe molto diverso. Quest’anima, un tempo così bella agli occhi di Dio e dei suoi Angeli, ha improvvisamente perso tutto il suo splendore (Thren. I, 6) e ora ha solo l’aspetto orrendo e ripugnante di un volto divorato dalla lebbra. Quest’anima, una volta tutta splendente di grazia, tutta impregnata del profumo delle virtù (II Cor., II, 15), si è improvvisamente coperta di orribili tenebre e ha diffuso intorno ad essa l’infezione di un cadavere: perché essa è morta davanti a Dio, morta e corrotta come i cadaveri delle tombe; non morta, senza dubbio alla vita della natura – in quest’ordine essa è immortale – ma alla vita più alta e incomparabilmente più preziosa della grazia. Perdendo la grazia, il peccatore ha perso tutto: l’amicizia di Dio, il diritto all’eredità eterna, i meriti acquisiti in precedenza, e anche la possibilità di acquisirne di nuovi, fin quando non avrà recuperato la carità divina. Tutto è morto, tutto è affondato nel naufragio. Ma ciò che finisce soprattutto per fare del peccato la più grande delle disgrazie è che esso significa nello stesso tempo la perdita di Dio. L’anima in stato di grazia è il tempio dello Spirito Santo, dimora delle tre Persone divine, che si danno ad essa per essere, in maniera iniziale, fin da questo esilio, oggetto del suo godimento e come anticipo del Paradiso. Ma non appena si commette il peccato mortale, questi Ospiti divini si ritirano, ripetendo quella parola spaventosa che risuonava nell’antico tempio di Gerusalemme all’avvicinarsi della sua rovina: « Usciamo da qui, partiamo da qui »; e l’anima così abbandonata diventa il rifugio di demoni, la tana di rettili e di animali velenosi che sono le passioni scatenate. Capite ora la grandezza del beneficio che Dio si degna di concedere ad una creatura peccaminosa concedendole il perdono per le sue offese? Lasciata a se stessa, abbandonata alle sue sole risorse, non sarebbe mai potuta uscire dal triste stato in cui si era gettata per sua colpa; ma Dio, del Quale – secondo la bella parola della Chiesa – « è proprio mostrare sempre misericordia e perdonare » (« Deus, cui proprieri est miserum semper, et parcere. » – Ex Breviar. Ord. Præd.), le tende una mano d’aiuto per rimuoverla dall’abisso. Benché sia offeso, è Lui che prende l’iniziativa della riconciliazione e muove i primi passi. Lo invita a pentirsi con terrori segreti, lo illumina sulle conseguenze dei suoi crimini, lo attira con le attrattive della sua grazia; gli provoca santi rimorsi, gli pone ostacoli salutari, bussa alla porta del suo cuore senza stancarsi; e non appena l’anima, cedendo alle pressanti sollecitazioni del suo amore, si pente ai suoi piedi dicendo come il prodigo: « Padre, ho peccato, non sono degno di essere chiamato tuo figlio », si china misericordiosamente verso di essa, si affretta a sollevarla, la abbraccia, le restituisce il suo Spirito Santo, che subito riprende possesso del suo santuario, portando con sé la grazia e la pace come dono della gioiosa venuta. Tutto è perdonato, tutto è cancellato, tutto è dimenticato; le antiche relazioni sono riprese e, nella sua felicità per aver ritrovato la pecora smarrita, il Buon Pastore si ripaga delle cattive giornate raddoppiando la tenerezza.

III.

La venuta dello Spirito Santo, o il suo rientro in un’anima, non avrebbe altro risultato se non quello di portarvi la remissione dei suoi peccati ed una grazia di perdono, che sarebbe già un bene inestimabile? Ma non si limitano a questo le larghezze dell’ospite divino. Non contento di dimenticare le offese di quest’anima e di perdonarle il suo debito verso la giustizia divina, si incarica di purificarla dalle sue contaminazioni, a guarire le sue ferite, a ricoprirla con una veste di innocenza; Esso abbatte il muro di separazione che il peccato aveva eretto tra essa e Dio (« Iniquitates vestræ diviserunt inter vos et Deum vestrum » – Is, LIX, 2.) ne spezza le catene, la strappa dall’impero delle tenebre per trasferirla nel regno della luce (« Eripuit nos de potestate tenebrarum, et transtulit in regnum Filii dilectionis suæ. » (Col., I, 13. – Cfr. etiam I Petr., II, 9.), ed essendo pienamente riconciliato con essa, le restituisce, insieme agli altri beni che aveva perso, il suo amore e la grazia che lo giustifica. Perdono e giustificazione sono una cosa sola, o, se ci piace di più, è il doppio aspetto, il doppio effetto di un’unica grazia, un dono soprannaturale e permanente versato nella nostra anima e conosciuto come grazia santificante, che cancella le nostre colpe e ci rende veramente giusti, santi e graditi a Dio.  – [L’eresia protestante non la intende in questo modo. Per essa la grazia divina è solo una denominazione estrinseca, un mero favore esteriore di Dio, che non mette nulla di reale, nulla di positivo, nulla in noi, nessun elemento di vera santificazione; non implica né mutazione né rinnovamento interiore, per cui la giustificazione del peccatore consiste esclusivamente nella remissione dei peccati, una sorta di amnistia che, senza cambiare nulla nella persona e nelle disposizioni morali del colpevole, lo dispensa dalla pena subita, lo autorizza a riprendere il suo posto nella società con tutti i suoi diritti precedenti, ne fa sparire fin’anche il ricordo del suo crimine. A giudizio degli pseudo-riformatori, il peccato perdonato non è realmente cancellato, ma semplicemente coperto; conoscendo per fede la giustizia di Gesù Cristo, il peccatore diventa come ricoperto da ricco mantello che copre e nasconde le orribili ferite della sua anima, e in un certo senso la sottrae  allo sguardo divino. Soddisfatto dell’oblazione volontaria di suo Figlio e del prezzo del nostro riscatto, Dio decide di non vendicarsi per gli oltraggi commessi contro la sua adorabile Maestà; e il colpevole, anche se non emendato, viene dichiarato giusto e rimandato indietro assolto.]. – Tutt’altro è il concetto cattolico di giustificazione. Invece di vederla come un mero condono della pena ed una non attribuzione di colpa, la Chiesa insegna che la giustificazione del peccatore implica la reale scomparsa del peccato, la sua distruzione, il suo annientamento, così come la santificazione, il rinnovamento dell’uomo interiore attraverso la suscezione volontaria della grazia e dei doni. Questo è ciò che il Concilio di Trento ha solennemente definito nella sua sesta sessione (C. Trid. Sess. VI, cap. VII). E, in effetti, è inconcepibile che possa essere altrimenti. Che un giudice umano, che non vede la profondità delle coscienze e debba fare riferimento ad una testimonianza esterna, respinga un imputato la cui colpevolezza non è chiaramente stabilita, è una necessità per non esporre un innocente ad una condanna. Che un sovrano, desideroso di ristabilire la pace nei suoi Stati e di cancellare anche le ultime tracce di discordia civile, e sia obbligato a trattare con avversari formidabili, desideroso di rimuovere da essi ogni motivo di agitazione, accetti politicamente di perdonare colpevoli che sono stati giustamente condannati e che non sono affatto pentiti, è ancora comprensibile. Ma che Dio possa lasciare, Egli che, secondo la parola della Scrittura, « scruta le reni ed i cuori » (… scrutans corda e renes Deus. – Ps. VII, 10.), e « davanti al quale tutto è nudo e scoperto » (Omnia nuda et aperta sunt oculis ejus – Hebr., IV, 13.); … che Dio, difensore dell’ordine e della legge, permetta che il crimine resti impunito, il disordine non eliminato, la giustizia violata e sia disposto a perdonare il peccatore impenitente e a chiudere gli occhi di fronte alle iniquità sempre vive; che dichiari giusto e consideri giusto chi in realtà è contaminato dai crimini, è ciò che la ragione ed il buon senso, non meno della fede, rifiutano di ammettere; è un’ipotesi contro la quale tutti gli attributi divini protestano: C’è un debito da pagare, un’offesa da riparare, un torto da correggere; finché Dio è Dio, deve esigere dal colpevole una soddisfazione necessaria, e non potrà mai rimandarlo indietro assolto e non emendato. Se così non fosse, la nostra giustizia sarebbe come quella degli scribi e dei farisei, che Nostro Signore ha condannato con tanta forza, quando ha detto: « Guai a voi, scribi e farisei!  ipocriti, perché siete come i sepolcri imbiancati, che esteriormente appaiono belli, ma interiormente sono pieni di putridume; così voi, all’esterno apparite giusti agli occhi degli uomini, ma interiormente siete pieni di inganni e di iniquità. » – Matth., XXVI, 27 – 28). – Se dunque il peccatore aspira al perdono divino, c’è solo un modo per ottenerlo, ed è il pentimento; se non vuole che le sue iniquità gli siano imputate, la condizione indispensabile è che siano veramente cancellate dall’infusione della grazia. Questa è la vera nozione della giustificazione, come la Chiesa ha sempre inteso ed insegnato, come risulta da un attento studio dei Libri Sacri e dei documenti della Tradizione.

IV.

Non è, infatti, solo una volta di passaggio, o in termini vaghi ed oscuri, che la Scrittura esprima questo dogma; lo fa in una moltitudine di passaggi ed attraverso espressioni tanto chiare quanto varie. Così si dice che i peccati vengono tolti (Giov. I, 29), cancellati (Act. III, 19), lavati (Ezech. XXXVI, 25), purificati (Hebr. I, 3). San Paolo, ricordando ai Corinzi, le loro antiche contaminazioni, cancellate dal Battesimo, diceva loro: « Voi eravate tutte queste cose, ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore nostro Gesù Cristo e dallo Spirito di Dio » (1 Cor. VI, 11). E così perfetta è questa purificazione, che il peccatore giustificato è più bianco della neve (Ps. L, 9 – Is. I, 18).  Se, invece di limitarsi esclusivamente ad uno o a due passi della Scrittura che rappresentano i peccati come coperti e non imputati, i nostri avversari avessero considerato tutti i testi che ci stanno davanti, relativi alla verità, avrebbero incontrato una moltitudine di testimonianze che attestano che i peccati perdonati non esistono più realmente, che sono scomparsi come neve sciolta al sole (Eccli. III, 17); avrebbero sentito lo stesso salmista che tanto esaltano, quando dice: « Beati coloro le cui iniquità sono perdonate e i cui peccati sono coperti; benedetto l’uomo al quale Dio non ha imputato il peccato – « Beati quorum remissæ sunt iniquitates, et quorum tecta sunt peccata. Beatus vir cui non imputavit Dominus peccatum. » (Ps. XXXI, 1-2), per tradurre il suo pensiero in un’altra forma non meno espressiva ed affermare che « quanto l’Oriente dista dall’Occidente, di tanto Dio allontana da noi le nostre iniquità » (Ps. CII, 12); avrebbero così appreso da un altro profeta che Dio getta i nostri peccati in fondo al mare (Mich. VII, 19), volendo lo Spirito Santo, attraverso questo significativo linguaggio figurato, farci capire che i peccati perdonati sono scomparsi e non sono più in questione; infine, avrebbero potuto leggere in Isaia queste parole che il Signore rivolgeva al suo popolo: «Sono Io, Io stesso che cancello i vostri peccati per riguardo a me. » (Is. XLIII, 25). Ora, come osserva Bossuet, non sarebbe un insulto a Dio pensare che ciò che Egli abbia rimosso da noi rimanga ancora là? … Che ciò che ha cancellato, distrutto, annientato, rimanga sempre? … che le macchie che Egli ha lavato e purificato non siano scomparse? Nel senso ordinario della parola, “lavare” non significa coprire, ma rendere puro; il suo significato non verrebbe sminuito, dal momento che è Dio stesso a lavarci, non con il sangue di tori e capre, ma con il sangue del proprio Figlio? Se un tempo il sangue degli animali poteva conferire la purezza legale, il prezioso sangue di Gesù Cristo sarà meno efficace nel purificare le nostre coscienze dalle opere di morte? (Hebr. IX, 14). Concludiamo dunque che, per Dio, giustificare qualcuno non è solo dichiararlo giusto e ritenerlo tale, ma è fare in modo che egli lo sia  effettivamente; perdonare i peccati non è solo esentarlo dalla punizione, ma è eliminare la colpa; coprirle è non farle più. Infatti, secondo l’osservazione giudiziosa di sant’Agostino, ci sono due modi per coprire una piaga: l’uno per guarirla, l’altro per nasconderla. Il medico copre la ferita per tenerla fuori dal contatto con l’aria e dalle influenze dannose, il paziente la copre per falsa vergogna o per paura di un intervento chirurgico doloroso; il primo la copre con una sostanza benefica che la fa scomparire; l’altro la copre e la conserva. « Che sia Dio – dice il santo Dottore – che copre le vostre ferite, e non voi; perché se le ricoprite voi perché ne arrossite, il medico non le guarirà. Lasciate che il medico le copra e le guarisca, perché le copre con una sostanza salutare. Quando il medico ha coperto una piaga, questa guarisce, ma quando la copre il paziente, essa viene solo nascosta. » (S. Aug., Enarr. 2a in Ps. XXXI, n. 12.). – A sostegno della dottrina che abbiamo appena delineato sulla giustificazione, san Tommaso porta una ragione teologica tanto bella quanto profonda. Innanzitutto osserva che, giustificando il peccatore, Dio gli dona le sue buone grazie e la sua amicizia; questo suppone la collazione di un dono fatto alla creatura che la rende degna di essere amata. A riprova di questa affermazione, basta ricordare la differenza cruciale che esiste tra l’amore di Dio e quello della creatura, tra la grazia di Dio e il favore dell’uomo. Il nostro amore, presuppone in noi la bontà, e di solito è causato dalle buone qualità e dalle perfezioni che abbiamo notato nell’oggetto amato; in seguito, può tradursi in benefici, ma in linea di principio, è causato dal bene preesistente. « L’amore di Dio, al contrario, crea e riversa nelle cose il bene che le rende amabili a Lui: Amor Dei est infundens et creatis bonitatem in rébus » (S. Th., I, q. XX, a. 2). E secondo la natura del bene conferito, in Dio si distingue un doppio amore: l’uno comune e generale, che si estende a tutto ciò che esiste e che ha per effetto l’essere naturale delle cose; l’altro speciale e di ordine più sublime, con il quale Dio eleva la creatura ragionevole al di sopra della sua condizione naturale e la chiama alla partecipazione della propria felicità. E’ quest’ultimo tipo di dilezione che è in gioco quando affermiamo semplicemente che qualcuno è amato da Dio, perché allora Dio vuole il Bene sovrano ed eterno che è Se stesso. Quando si dice di un uomo che egli possieda la grazia e l’amicizia di Dio, la parola “grazia” non indica qui un semplice sentimento di benevolenza, un favore estrinseco causato dal bene che è in lui, ma designa un dono soprannaturale, proveniente da Dio, e che trasforma in modo meraviglioso colui che lo riceve e che diventa così oggetto di compiacimento divino. (S. Th., 1a IIæ, q. CX, a. 1.). È qualcosa di ineffabile come il cambiamento operato nell’anima dalla grazia. Il peccato gli aveva dato la morte, la grazia gli rende la vita. Il peccato l’aveva resa criminale, schiava di satana, un ramo secco destinato al fuoco; la grazia gli conferisce, con la giustizia e la santità, il titolo di figlio di Dio ed il diritto all’eredità eterna. Il peccato l’aveva resa laida, contaminata, ottenebrata; con la grazia essa è bella, è pura, è luminosa. Oh, se ci fosse possibile contemplare un’anima in stato di grazia! È uno spettacolo tale da deliziare gli Angeli, fare gioire il cuore stesso di Dio, che è la gioia personificata.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/02/27/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-10/

LO SCUDO DELLA FEDE (100)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (10)

CAPO X.

I cieli predicano le glorie del loro Fattore.

I. Interrogato Anassagora, a che fosse venuto l’uomo, rispose, a guardare il cielo (L’uomo fu appunto denominato dai Greci andropos. che vuol dire alto-veggente, perché la sua posizione diretta e perpendicolare, lo distingue dai bruti chini al suolo.). Non fu egli sì stolido, che stimasse nulla esservi sopra il cielo di più ammirabile, come di lui sentì chi dannollo per tal risposta di mentecatto (Lact. Inst. 1. 3. c. 9). Anzi se si deve credere ad Aristotile (L. 1. metaph. C. 4), fu egli il primo fra gli antichi filosofi, a riconoscere il vero autor delle cose, attribuendole all’intelletto divino, da cui fece anche derivar tutto l’ordine tanto saldo da lor tenuto. Dunque disse egli ciò, perché, vago di astronomia, giudicò non avere i nostri occhi oggetto più abile ad introdurci nella cognizione di Dio, che il cielo netto da nubi. Però, se del cielo noi non curassimo altro che quanto noi rimiriamo ad un guardo esterno, come fan le aquile, sarebbe quasi vedere un bel libro aperto, ma non vi leggere. Conviene passar oltre col guardo interno a quello di più che gli astronomi fan sapercene, massimamente addì nostri, quando i moderni hanno conseguite di quella mole contezze tanto più esatte di quelle che ne corressero fra gli antichi da me seguiti altre volte. Voglio però, che voi, su tale specula sollevato a mirare il cielo, consideriate come egli mostraci i principali attributi del suo Fattore: con la vastità, la potenza; coi moti, la sapienza; e con gli influssi benefici, la bontà. Ed appunto a questi tre capi possiamo dire che riducasi il confluito di sì gran libro.

I.

II. Quello che a prima giunta dà più nell’occhio, è la vastità della mole. E intorno a questa per non confondere il vero col verisimile, favelliamo prima di ciò che par meno incerto, poi di ciò, che solo si tiene per congettura. Le seste, dirò così, di cui si vaglion gli astronomi in queste sì gran misure, sono le paratasse. Ma perché esse di là de’ pianeti sono insensibili, noi ci fermeremo di qua. Né poco dovrà sembrarci il poggiar tant’alto con sicurezza, sicché un uomo di pochi palmi possa arrivare a farsi una scala che giunga dalla terra sino a Saturno, la più lontana di tutte le stelle erranti. Quei campi poi sì vasti che di là restano, fino all’ultimo cielo, non han misure: Si mensurari potuerint cœli sursum. Ma questo medesimo fu ordinato con arte, ad insinuarci che in rintracciare della potenza divina, allora siamo da cupo, quando credevamo di esser giunti al termine. Pertanto frenando i guardi facciamo così. Né gli arrestiamo nella luna, assai nota, né li portiamo a Saturno, poco osservabile. Fissiamoli in faccia al sole, che sta nel mezzo.

III. Il sole però, che sembra dimorare in cielo fra tante stelle, come il re coronato dai suoi baroni, quantunque agli occhi nostri ingannati appaia sì piccolo, che ci divisiamo di chiuderlo in uno specchio, è egli un gigante di corporatura sì smisurata, che il suo diametro da un capo all’altro, è di miglia dugento settantatremila, cento settanquattro; e la circonferenza è di miglia ottocento settantasettemila, quattrocento sessantotto: maggiore però trentottomila seicento volte, che non è tutto il globo a lui suddito della terra (V. Ricciol. in Almag. 1. 3. c. 11.,). Non vi sembra pertanto che questa opera sola potrebbe coll’ampiezza del suo lavoro bastare a rappresentarci la immensità di chi creolla? Or che sarà, se ci faremo a misurare oltre a ciò l’ampiezza del cielo, ove questo sole si aggira, come in una reggia, spargendo a piena mano sopra tutte le creature inferiori i tesori della sua luce? La massima circonferenza di questo cielo è di cento novantasette milioni di miglia, novecento dieci mila, quattrocento ventiquattro. E di verità, se il sole che è un mondo di splendore, contuttociò nel concavo del suo cielo non comparisce quasi più che una lampana sospesa dalla sua volta, convien pure che siano sterminatissimi quegli spazi, de’ quali egli occupa, secondo l’apparenza, sì poco sito.

IV. Che se da questi spazi, che come io dissi, ci è dato di misurar con più sicurezza, noi vogliamo farci la strada ad argomentare l’eccesso dello altre stelle superiori, io ne uscirò con poco, dicendo che tale eccesso (massimamente se parlasi delle fìsse), è noto solo a quel divino maestro che lavorò sì gran corpi con l’impero della sua voce, per saggio di quel più che può senza termine fabbricare ad ogni momento: né noi possiamo discorrerne senza far da indovinatori: Homo ad immortalium cognitionem nimis mortali est, diceva Seneca (De vita beata c. 32.): nè ciò soltanto a cagion di quel poco che egli intende  dietro la scorta de’ sensi. Si tiene (Ricciol. 1. 6. c. 1) che una delle minime stelle da noi vedute con occhio libero, che sono quelle dette di sesta grandezza, contenga la medesima terra cinquemila trecento cinquantacinque volte, tutto che appaiano quasi minute facelle: tanta è la smisurata distanza del firmamento, lontano dal centro del nostro basso mondo quattrocento trentottomila, settecento trentaquattro milioni, quattrocento trentottomila, settecento trentaquattro miglia; di tal maniera, che se un corriere , emulo a quei di Alessandro (i quali facevano, per attestato di Solino, cento cinquanta miglia di strada il giorno), fosse per sorte in obbligo di compire tutto quel tratto, il qual è dalla terra al cielo stellato, converrebbe a compirlo che v’impiegasse cento cinquantottomila anni, settecento novantaquattro; sicché qualor egli si fosse messo in via dal dì primo che il mondo nacque, non sarebbe ancor giunto a trascorrere interamente la ventesima parte del suo cammino.

V. Questo è ciò che n’è parso ad astronomi peritissimi dei dì nostri, dopo lunghi computi, e dopo lungo commercio che tennero con le stelle. Eppure chi sa che questi ancora non diano di sotto al segno, come vi diedero quelli dei tempi andati, e che anch’essi non ci dipingano quella macchina eccelsa minor del vero? Chi sa, che la sfera delle stelle non sia parimente maggiore senza paragone; sicché quelle stelle le quali appaiono sì minori dell’ altre, non siano veramente meno vaste, ma più remote? Chi sa, che siccome coll’uso del cannocchiale abbiamo scoperti di quaggiù tanti lumi che prima non comparivano; così se potessimo ascendere fin lassù, dove sono i pianeti altissimi, ed indi come da tante torri valerci di un somigliante strumento, quasi di spia, non ci riuscisse con esso di rinvenire altre innumerevoli novità finora ignorate, per quella gran lontananza che non permette arrivar sin là niuna mai delle umane tracce? Certo che di qualunque maniera ci figuriamo noi essere quegli spazi, non possono ai nostri sensi riuscire meno di una piccola immensità, mentre al confronto di quelle sfere, il pianeta della, peraltro sì corpulento, svanisce a un tratto, e non fa più figura maggior d’un punto: dando con ciò luogo a quel famoso rimprovero che fé’ Seneca a tanti sciocchi mortali, intenti ad aggrandire i loro confini, a litigare, a lottare in sì angusto campo, mentre là sopra avrebbero tanto più dove dilatarsi: Punctum est, in quo navigatis, in quo bellatis, in quo regna dìsponitis, punctum est(Sen. nat. q. 1. ).

II.

VI. Ora tornando a moli sì smisurate, non sarebbe una grande impresa, se si arrivasse in molti anni, non dico a volgerle, ma solo a farle un tantino mutare di sito? Fu Creduta una gloria meravigliosa di Michel Angiolo il dirsi che in virtù delle macchine da lui divisate col suo cervello si poté poi da meno di mille uomini alzare sulla piazza vaticana quell’obelisco, intorno a cui i re d’Egitto ne avevano adoprati da trenta mila (Boz. de sign. eccl. 1. 6. sign. 24). A terra, o pensieri umani, per fare ossequio alla sublimità del primo motore! Il sole (corpo sì vasto) nell’equatore corre in qualunque ora sette milioni, ottocento ottantottomila, novecento trentaquattro miglia: ed in qualunque minuto secondo che è la sessantesima parte di un minuto primo, corre duemila centonovanta miglia, o per meglio dire non le corre, ma le divora, tanto si muove egli rapido. Non vi pare che il pensiero medesimo sia già lasso a tenergli dietro? Si fa ragione che quel viaggio il quale si compisce dal sole in un solo giorno che è di cento ottantanove milioni, trecento trentaquattro mila, quattrocento sedici miglia, appena si compirebbe da una palla d’artiglieria, portata egualmente sulle ale del fuoco, nel termine di cento venti anni interi.

VII. Ma non logorate di modo i vostri stupori, che non ve ne rimanga una buona parte per ciò che segue. Non è già il sole tra’ pianeti il più celere. Mercurio posto nella sua massima altezza, giunge in un’ora a scorrere molto più di undici miglia. Venere più di tredici, Marte più di ventidue, Giove più di cinquantuno, Saturno più di novantasette (V. Al. mag. 1. 7. c. 7). E se col vero non vi è grave di ammettere il verisimile, tra le stelle del firmamento ve ne ha di molte, poste nell’equinoziale, che in un’ora corrono senza stancarsi lo spazio di duemila dugento settantaquattro milioni, trecento ottantamila, cinquecento miglia: e in un secondo corrono lo spazio di miglia seicento trentunmila, ottocento ottantasette. Aveva ben dunque ragione colui di asserire che la vista del cielo era sufficiente a formare un grand’uomo saggio: Intuere cœlum et philosophare. Non ha mente chi non ravvisa nelle meraviglie dell’opere la sapienza del suo fattore. E chi tuttora voglia pertinace ridurre ad azion fortuita l’architettare macchine di grandezza sì esorbitante, e ridurle a concordia con tanta legge e a sospingerle al corso con tanta lena, sicuramente si merita andare prigione nello spedale de’ pazzi, come già privo di quel senno che ei dona al caso. Convien di necessità confessar ciò che vide Seneca al puro lume ch’ei n’ebbe tra i suoi buiori, ed è: Non sine aliquo custode tantum opus stare: nec hunc siderum certum discursum fortuiti impetus esse, sei hanc inoffensam velocitatem procedere aeternæ legis imperio (Seneca 1. 1. de prov. o. 1). Questi sono indizi troppo manifesti di mente governatrice: e chi né anche dalla sommità delle sfere sa ai nostri dì spiccare un volo a conoscerla, può dissi non curare l’ali a lui date dalla ragione, e però non altro dovergli, che andar carpone per terra come un giumento.

VIII. Che sarebbe poi, se fosse lecito al guardo osservare per minuto la proporziono di questi giri celesti, e la consonanza, e le cagioni, ed i fini di così vari, ma regolati andamenti? Noi che rimaniamo stupiti al concerto di un ballo che duri un’ora, da qual estasi di meraviglia non rimarremmo sorpresi a quella stabile danza che può tenere attonite le menti stesse delle intelligenze motrici? Ma checché di noi fosse allora, quel medesimo nulla, che or ne sappiamo, ci predica ad alta voce che vi ha un Dio, sovrano ingegnere di queste moli inaudite, e di quelle incredibili loro ruote, su cui si aggirano con tanta facilità. Che però del cielo possiamo dire più particolarmente ciò che del mondo tutto disse Agostino (De civ. Dei), pulchierrima specie, et factum se esse, et non nisi a Deo, ineffabiliter atque invisibiliter magno, et ineffabiliter atque? invisibiliter pulcro, fieri potuisse proclamat. E sue voci sono in prima la puntualità, se così vogliamo chiamarla, e la costanza inviolabile di questi gran movimenti; giacché dappoiché i cieli furono creati, non hanno variato mai da quella prima regola che fu loro prescritta al volgersi: onde fondati sull’apparente irregolarità di giri così diversi, possiam pubblicare i calcoli e le effemeridi; e possiam predire le congiunzioni e le ecclissi tanto tempo innanzi che avvengano. Ora se qualunque oracolo, affinché non erri, ricerca di necessità un artefice che il lavori con grande ingegno, che ad ora ad ora il rivegga, lo ripulisca, lo tenga in tuono; in quale animo potrà mai cadere che i cieli, cioè quegli appunto che danno coi loro moti la regola all’oriuolo, potessero aver dal caso i loro principii, dal caso i loro progressi, fino a durar già vicino a sessanta secoli di un tenore tanto uniforme?

IX. Dirassi provenir ciò dalla natura dei cieli, che così porta. Ma no: perché ogni moto proprio di un mobile non è indirizzato dalla natura di lui se non in vantaggio del medesimo mobile, il quale se ne va quasi peregrinando, affine di trovare altrove quel bene che in casa mancagli (S. Th. 1. p. q. 9. a. 1 in c.). Là dove muoversi puramente per muoversi è a lungo andare sì contrario alla propensione di ciascun essere, che i poeti nel loro inferno non seppero inventare pena più strana che il girar sempre, come l’infelice Issione, sopra una ruota, senza cavare mai maggior prò da quell’interminabile velgimento, che seguire ad un’ora, e fuggire » se stesso: Volvitur Ixion, et se sequiturque fugitque (Ovid.). Quel gran moto dunque de’ cieli, quel rotarsi che sempre fanno su’ nostri capi, quel camminar con tanta costanza, quel correre con tanta celerità, e ciò non per altro mai che per nostro bene, non può procedere dalla loro natura particolare: sì perché il loro moto, essendo circolare, non ha termine ove riguardi, e però non può essere a verun di loro appetibile per se stesso; sì perché non appare qual nuovo pregio si giunga a conseguir mai da verun de’ cieli co’ suoi viaggi incessanti. Anzi, mentre il primo cielo muovesi in se medesimo, se si movesse in grazia sua, cercherebbe la sua perfezione dentro di se, e così moverebbesi a ritrovare quel bene che già possiede: come uno stolto che si dimenasse con ansia per rinvenir quell’anello che tiene in dito. Rimane pertanto che quell’effetto il quale non può derivare dalla natura particolare delle sfere celesti, derivi da una cagione universalissima, che qual padrona del tutto, abbia a cuore il bene di altre creature più nobili, cui fa che le sfere servono ne’ loro moti.

X. Che se la vastità dei corpi celesti dichiaraci la potenza del loro artefice, e i moti ne dichiarano la sapienza, non sarà meno eloquente la ridondanza degl’influssi benefici a dimostrarcene la bontà. Basti dire che se i cieli posassero mai qualche poco, una tal quiete sarebbe l’ultimo eccidio della natura inferiore, priva però di vigore ad un tratto e di vita, non men di quello che ne rimangono prive tutte le membra al posare che faccia il moto del cuore. E di fatto quei danni che risultano nel nostro mondo dalle ecclissi de’ luminari superiori, dimostrano chiaramente la dipendenza somma che abbiam dal cielo, e quanto ogni piccolo impedimento che si attraversi alle loro assidue influenze ci riesca di scomodo e di sconcerto. Ma per favellare di cose anche più evidenti, non ci allontaniamo dal sole, tolto da noi per termine luminoso della nostra contemplazione.

XI. Gli antichi savi d’Egitto lo intitolavano figliuolo visibile del Dio invisibile ; e nel vero dissero troppo; se non che poté loro valer di scusa quell’eccessivo splendore che gli accecò. Il sole non figliuolo, ma è ritratto del primo Essere, che  volle in lui quasi adombrar se medesimo, e guidarci con questa face alla cognizione della sua natura divina, disponendo però che egli fosse insieme unico, insieme moltiplicato: unico nella natura, e moltiplicato nella beneficenza, sicché non vi sia creatura, la quale non riconosca il sole per padre, mentre, dove egli non giunge con la presenza, arriva con la virtù. Il sole adunque come primo ministro nel regno della natura ci va distribuendo ad ogni ora quanto abbiamo di vita, di salute, di spiriti, di piacere, secondo gli ordini che ne ricevè da principio dal suo sovrano. Dissi secondo gli ordini ricevuti, perché il viaggiò obliquo che egli fa in cielo mostra evidentemente l’arte divina che tenne la cagion prima in volerlo tale: a segno che l’intendere questa medesima obliquità è l’intender la cifra di tutti gli avvenimenti naturali mal conosciuti. Così ne parve anche a Plinio: Obliguitatem eius intellexisse, est rerum fores aperuisse(PI. 1. 2. c. 8). Conciossiachè è cosa certa che questo mondo aveva necessità di varie stagioni per mantenere la sua virtù. L’avea del verno, ad unire il calor natio, che. quando fosse assediato da brina ostile, sarebbesi ritirato tanto più addentro per sua difesa, gettando in tal concentramenlo più valide le radici, e provvedendosi di più copioso alimento. L’aveva della primavera, por uscir quasi in campo con buona ordinanza in nuove frondi, in nuovi fiori, in nuovi virgulti. L’aveva della state, per combattere e superare l’umor superfluo, estenuando ciò che no’ corpi è di esuberanza, e concedendo ciò ch’ovvi di crudità. E finalmente più l’aveva dall’autunno, per trionfare con la dovizia de’ frutti, di cui colma allora ogni seno. Ora tutto questo opera il sole col puro divertir che egli fa, ora verso l’aquilone, ora verso l’austro, fino a ventitre gradi e mezzo nella sua maggiore distanza dall’equatore. E quello che più è da stimarsi, opera tutto ciò con una mutazione quasi insensibile. Imperciocché se dai rigori vernali si passasse immediatamente alle vampe estive, o dallo vampe estive ai rigori vernali, quanto s’incomoderebbero i nostri corpi a quel subito cambiamento, e quanto risentirebbesi la natura? Ora il sole, torcendo a passo a passo con discretezza per la sua via, frammette tra gli estremi del sommo freddo e del sommo caldo la primavera, o tra gli estremi del sommo caldo e del sommo freddo l’autunno, e con pari soavità va temperando le fatiche cui ci obbliga, e va perfezionando le grazie che ci riparte. Ciò che altresì fassi da lui giara al mente nella giusta divisione delle ore diurne e delle notturne, assegnando un tempo al lavoro, un altro al riposo, ed ora allungando i giorni, ove sia d’uopo accrescere il calore alla terra; ora allungando le notti, ove per contrario sia d’uopo diminuirlo: ed ora pareggiando la notte al dì, quando il meglio sia che si agguaglino le partite. Chi però non iscorge che riuscendo i viaggi del sole, e proporzionalmente delle altre sfere, tutti in benefizio dell’uomo, tutti a legge, tutti a libra, tutti a misura, convien di necessità che siano quelli consiglio di una gran mente, la quale intenda il fine con sommo sapere e somma potenza adatti al tempo medesimo i mezzi al fine? Dall’altra banda il sole, benché sia nominato l’occhio del mondo, è cieco al conoscere questo fine, e all’adattar questi mezzi; ed è affatto insensibile a riscaldarsi nel nostro bene: e cieco parimente e insensibile affatto è il cielo con tutti i lumi delle sue stelle benefiche. Conviene adunque che tutto ciò sia opera di un artefice, il quale nella vastità delle sfere, nella velocità de’ moti, nella molteplicità delle influenze propizie abbia formato un ritratto del suo braccio, della sua mente, e del suo cuore divino, da motterci innanzi agli occhi. Sarebbe però troppo gran vergogna dell’uomo, se egli, che per l’orme lasciate da una fiera nel bosco sa riconoscerla, sa rintracciarla, sa arrivare infino a trovarla nel suo covile, non sapesse poi per le vestigia sì manifeste di onnipotenza, di sapienza, di bontà, stampate ne’ cieli, riconoscere, rintracciare, e giungere anche a trovar Dio nel suo trono, ed a venerarlo.

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (8)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (8)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°)

P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov. Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

TERZA PARTE

L’INABITAZIONE DIVINA PER MEZZO DELLA GRAZIA NON È LA PROPRIETÀ PERSONALE DELLO SPIRITO-SANTO, MA IL PATRIMONIO COMUNE DI TUTTA LA SANTA TRINITÀ. — ESSA È APPANNAGGIO DI TUTTI I GIUSTI, TANTO DELL’ANTICO CHE DEL NUOVO TESTAMENTO.

CAPITOLO II

L‘abitazione di Dio nelle anime non è esclusivo appannaggio dei Santi della nuova alleanza, ma la dote comune dei giusti di tutti i tempi.

I.

Ma questa unione delle nostre anime con Dio è propria dei santi della Nuova Alleanza, o comune a tutti i giusti? Anche in questo caso, ci scontriamo con una singolare opinione di Petau, che vedeva nella dimora dello Spirito Santo, mediante la grazia, un privilegio della legge evangelica. Questo, inoltre, era solo una conseguenza e un corollario della sua dottrina sulla causa formale della nostra adozione come figli di Dio. Distinguendo, seguendo Lessius, la santità o la giustificazione per la grazia, dalla filiazione adottiva, al punto che, secondo lui, l’una possa separarsi dall’altra, e che l’uomo possa essere giusto, di una giustizia soprannaturale, senza essere figlio di Dio, Petau sostiene che la vera causa, la ragione formale della nostra adozione divina, non è la grazia santificante, ma la sostanza stessa dello Spirito Santo applicata alla nostra anima. Infatti, come la causa formale della filiazione naturale non è altro che la comunicazione, per generazione, di una natura simile a quella del Generatore; così la vera causa della filiazione soprannaturale e adottiva è la natura divina stessa, identificandosi con la Persona dello Spirito Santo, liberamente comunicata all’uomo.  Così, secondo l’eminente gesuita, la partecipazione alla natura divina che ci rende giusti e figli di Dio non consiste, come i teologi cattolici hanno sempre creduto e insegnato, nel dono creato della grazia santificante, ma nella Persona stessa dello Spirito Santo, unendosi direttamente e senza intermediari con le nostre anime e divinizzandole con l’applicazione della propria sostanza (Petav., de Trin., 1. VIII, c. VI, n. 3). Per comprenderlo, la grazia e la carità accompagnano, è vero, nell’economia attuale, il dono increato, come una sorta di legame tra la divinità e noi, come disposizione preliminare e mezzo di unione; ma sono in definitiva solo un magnifico accessorio, in nessun modo necessario alla nostra rigenerazione spirituale, a tal segno che, anche quando nessuna qualità creata fosse riversata nelle nostre anime, la sola presenza dello Spirito Santo sarebbe pienamente sufficiente a divinizzarci e a farci santi e figli di Dio (Ibid.). Al contrario, sotto l’Antica Legge, chiamata dall’Apostolo legge del timore e della schiavitù, producendo solo schiavi, in servitutem generans (Gal. IV, 24), lo Spirito Santo, che è Spirito di adozione e di amore, non era ancora stato dato. Gli uomini erano allora giustificati da un dono creato che li purificava dai loro peccati, li rendeva graditi a Dio e degni della vita eterna; essi possedevano, come noi, la giustizia inerente, la grazia santificante, che li rendeva giusti e santi, ma non conferiva loro né il titolo né la qualità di figli di Dio; perché lo Spirito Santo era in loro solo per la sua operazione ed i suoi effetti, e non per la sua sostanza, essendo questo dono di Dio per eccellenza riservato ad un’economia migliore e più perfetta.  « Se qualcuno – dice Petau – vuole prendersi la briga di considerare attentamente i passi degli antichi che abbiamo citato, si convincerà, e non ho dubbi, che, secondo i Padri, dopo la venuta e la morte di Cristo, ci sia stata, secondo il parere dei Padri, una particolare comunicazione dello Spirito Santo, come mai aveva avuto luogo. Secondo loro, questo nuovo modo di comunicare risale al giorno in cui lo Spirito Santo discese sugli Apostoli sotto forma di lingue di fuoco. Fino ad allora, questo Spirito divino era nei santi solo attraverso la sua operazione, operazione tenuta [operatione tenus] da quel giorno in poi, in cui venne in Persona, substantialiter (Petav., de Trin., 1. VIII, c. VII, n. 1). – Parlando in un altro brano sulla presenza sostanziale dello Spirito Santo nelle anime, lo stesso autore aggiunge: « Secondo alcuni Padri, è solo dopo il compimento del mistero dell’incarnazione, dopo la discesa del Figlio di Dio sulla terra per la salvezza del mondo, che un beneficio così grande e sorprendente, frutto della venuta, dei meriti e del sangue di Gesù Cristo, sia stato concesso agli uomini. I giusti dell’Antica Alleanza non erano stati onorati con tale favore, perché, secondo la parola di San Giovanni Evangelista (VII 39), lo Spirito Santo non era stato ancora dato loro, perché Gesù non era ancora stato glorificato: Nondum erat Spiritus datus, quia Jesus nondum fuerat glorificatus. »  (Petav., de Trin., 1. VIII, c. IV, n. 5).

II.

Negando la presenza sostanziale dello Spirito Santo nei patriarchi, nonché attribuendogli una presenza propria e personale nei santi della nuova Legge, il dottore gesuita ha un bell’appellarsi all’antichità e all’autorità delle Scritture per stabilire il suo sentimento, anzi si pone in evidente opposizione con loro. Infatti, se si eccettua San Cirillo d’Alessandria, il cui vero pensiero può essere oggetto di contestazione, i Santi Padri insegnano di comune accordo che, se c’era, in relazione all’abitazione divina per mezzo della grazia, una differenza tra i Santi dell’Antico e del Nuovo Testamento, era una semplice differenza di grado, di misura e di manifestazione esterna. – Ascoltiamo san Leone Magno: « Quando, nel giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo riempì i discepoli del Signore, non fu la prima comunicazione di una tale benedizione, ma un’effusione più abbondante: Non fuit inchoatio muneris, sed adjectio largitatis, poiché i Patriarchi, i Profeti, i Sacerdoti e tutti i santi di un tempo erano stati vivificati e santificati da questo stesso Spirito. La virtù dei doni divini era sempre stata la stessa, solo la misura della loro collazione variava (S. Léo M., de Pentec, sermo II, c . 3.). Sant’Atanasio – da parte sua – dice: “È uno stesso e medesimo Spirito che, oggi come allora (secondo la vecchia Legge), santifica e consola coloro che lo ricevono; così come è uno e medesimo Verbo che, anche allora, chiamava all’adozione divina coloro che ne fossero degni. Perché sotto l’antica Alleanza c’erano figli che erano debitori della loro adozione al Figlio e non ad altri. » (S. Athan., Orat. 5, contra Arian. N. 25-26). – Non meno esplicita dei Padri, la Scrittura ci parla di personaggi santi appartenenti all’Antico Testamento e tuttavia pieni di Spirito Santo. Così si dice di San Giovanni Battista che sarebbe stato grande davanti a Dio e pieno di Spirito Santo fin dal grembo di sua madre: Erit magnas magnas coram Domino….. e Spiritu sancto replebitur adhuc ex utero matris suæ (Luc. I, 16). Il giorno in cui ricevette la visita di Maria, anche Elisabetta era piena di Spirito Santo: et repleta est Spiritu sancto Elisabeth (Luc. I, 41). Infine, l’evangelista san Luca riferisce anche, del vecchio Simeone, che lo Spirito Santo era in lui: Et Spiritus sanctus erat in eo (Luc. II, 25). E tutto questo accadeva molto prima della Pentecoste. Pertanto, sulla base dell’incrollabile fondamento della rivelazione, il Romano Pontefice dichiara « senza dubbio che lo Spirito Santo ha abitato per grazia nei giusti che hanno preceduto Cristo, come è scritto dei Profeti, di Zaccaria, di Giovanni Battista, di Simeone ed Anna. Certum quidem est, in ipsis etiam hominibus justis qui ante Christum fuerunt, insedisse per gratiam Spiritum sanctum, quemadmodum de prophetis, de Zacharia, de Joanne Baptista, de Simeone et Anna scriptum accepimus. » (Enc. Divinum illud munus). – Che cosa significa allora la parola di San Giovanni quando dice che prima della glorificazione di Gesù Cristo, lo Spirito Santo non era ancora stato dato? Nondum erat Spiritus datus, quia Jésus nondum erat glorificatus (Giov. VII, 39). Significa, nel giudizio di sant’Agostino, di san Girolamo, i sant’Atanasio, che, « dopo la glorificazione di Cristo, ci doveva essere una certa donazione dello Spirito Santo tale che mai aveva ancora avuto luogo fino ad allora. Non che questo Spirito divino non fosse stato dato realmente prima di questa epoca, ma che non era stato dato nello stesso modo. In effetti, se non fosse stato dato, di quale Spirito erano ripieni i Profeti quando parlavano? Perché la Scrittura dice apertamente, e mostra in molti luoghi, che è per mezzo dello Spirito Santo che essi hanno parlato » (S. Aug., de Trin., 1. IV, c. XX, n. 29). San Tommaso spiega nello stesso senso il testo evangelico: « Quando si dice che lo Spirito Santo non era ancora stato dato, queste parole non vanno intese nel senso che nessuno, prima della risurrezione di Cristo, avesse ricevuto lo Spirito santificante, ma nel senso che, da quel momento in poi, il dono di quello Spirito divino era più abbondante e più comune » (S. Th., in Rom., c. 1, lect. 3.); e aggiunge altrove: « … E accompagnato da segni visibili, come avvenne nel giorno di Pentecoste » S. Th., Summa Theol., I, q. XLIII, a. 6, ad 1.). Petau può distinguere un doppio modo secondo il quale questo Spirito divino possa essere presente nelle anime sante; prima con la sua operazione, e con i suoi effetti, κατ’ἐνέργειαν [=katenergheian], ciò che egli concede ai giusti anziani; poi con la sua sostanza, οὐσιωδῶς [=usiodos], quello che, a suo parere, sarebbe il privilegio della nuova Legge: Sant’Agostino non conosce affatto questa distinzione; al contrario, egli insegna, molto esplicitamente, che lo Spirito Santo era stato dato prima dell’Incarnazione, così come lo è stato da allora; tuttavia, secondo la legge della grazia, la missione dello Spirito Santo doveva avere una proprietà che gli mancava sotto l’economia mosaica: esso doveva essere accompagnata da una missione visibile, segno e indicazione di quella che si compiva invisibilmente nel profondo delle anime. In nessun luogo, infatti, come osserva il grande Vescovo di Ippona, leggiamo, a proposito dei personaggi dell’Antico Testamento, che, a seguito della visita dello Spirito Santo, abbiano cominciato a parlare un linguaggio nuovo e sconosciuto ad essi (S. Aug., de Trin., l. IV, c. XX, n. 29); in nessun luogo c’è indizio di una missione visibile, non avendo, le teofanie dell’Antica Legge – a giudizio di San Tommaso – le caratteristiche di una vera missione. (S. Th., Somma Theo., I, q. XLIII, a. 7, ad 6.)

III.

Così, quando, affrontando ex professo la questione delle missioni divine, l’angelico Dottore si chiede se la missione invisibile dello Spirito Santo sia la parte di tutti coloro che sono in stato di grazia, e quindi di tutti i giusti senza eccezione, in qualsiasi momento essi abbiano vissuto: Utrum missio invisibilis fiât ad omnes qui sunt participes gratiæ, la risposta è risolutamente affermativa (S. Th., Summa Theol, I, q. XLIII, a. 6.). Così –  egli conclude – i Patriarchi dell’Antico Testamento furono favoriti anch’essi da una missione invisibile di questo Spirito divino. Ergo dicendum quod quod missio invisibilis est facta e patres veteris Testarnenti (Ibid. ad 1). Un facile ragionamento ci dimostrerà la legittimità di questa conclusione. La missione invisibile è ordinata alla santificazione delle creature ragionevoli, e si svolge ad ogni collazione o incremento della grazia santificante, ogni volta, in una parola, che la carità, inseparabile dalla grazia, faccia di qualcuno un amico di Dio, e che, unita al dono della sapienza, gli permetta di raggiungere e possedere il bene sovrano attraverso la conoscenza e l’amore. Ora, gli Giusti erano, come noi, amici di Dio; la Scrittura lo dice formalmente di Abramo: Credidit Abramo Deo, et reputatum est illi ad justitiam, e amicus Dei appellatus est (Jac. III, 23), come noi, erano capaci di unirsi alla Divinità attraverso le operazioni della loro intelligenza e volontà. Non mancava nulla loro perché fossero veramente il tempio e la dimora dello Spirito Santo. Questa conclusione non ci sorprenderà affatto se si considera che i Patriarchi dell’antichità possedevano lo stesso tipo di santità del Cristiano; la grazia che li giustificava, li rendeva come essi santi, figli di Dio ed eredi della vita eterna. Infatti, secondo l’insegnamento del Concilio di Trento, « la giustificazione consiste non solo nella remissione dei peccati, ma anche nella santificazione e nel rinnovamento dell’uomo interiore attraverso la ricezione volontaria della grazia e dei doni, in modo che l’uomo diventi giusto, da ingiusto che era; da nemico, diventi amico ed erede nella speranza della vita eterna”. Essi hanno ricevuto, quindi, al momento della loro giustificazione, il perdono dei loro peccati, la grazia santificante e tutta quel meraviglioso corteggio di virtù e doni soprannaturali che la accompagnano e, con la grazia, lo Spirito Santo. Ma, secondo l’osservazione dei santi Dottori, questo dono reale e invisibile dello Spirito Santo non avrebbe dovuto poi essere accompagnato da una missione visibile, inopportuna in questo momento; perché la missione visibile del Figlio doveva precedere quella dello Spirito Santo (S. Th., Summa TheoL, I, q. XLIII, a. 7, ad 6.). Era infatti opportuno, prima che la terza Persona della Santissima Trinità si manifestasse esteriormente e si facesse chiaramente notare, che la pienezza dei tempi, segnata nei consigli divini dall’incarnazione del Verbo e la sua apparizione tra gli uomini, fosse arrivata.  Inoltre, prima di proporre ad un popolo incline all’idolatria, come il popolo ebraico, il dogma della Trinità, era necessario inculcarlo in anticipo e incidere con forza nel suo spirito la verità fondamentale dell’unità di Dio. L’unità di Dio, in contrapposizione al politeismo, è il dogma ricordato ovunque nell’Antico Testamento. « Ascolta, Israele, il Signore nostro Dio è uno solo. Audi, Israele, Dominus Deus noster, Dominus unus est » (Deut. VI, 4). Solo poche velate allusioni alla Trinità delle Persone; se a volte è in questione il Verbo di Dio e del suo Spirito, vi è fatta  menzione in termini così vaghi che è un problema difficile da risolvere, per noi, sapere se i maestri ebrei li conoscessero come Persone distinte. Secondo la nuova Legge, al contrario, dopo che il Verbo fatto carne si è degnato di mostrare se stesso agli uomini e dimorare in mezzo a loro, il mistero della Santissima Trinità è loro rivelato e annunciato apertamente, è una verità che tutti devono conoscere e professare. Alla luce fioca dell’Antico Testamento, proporzionata alla debolezza di un popolo ancora puerile, si è sostituito il pieno meriggio della rivelazione cristiana; il tempo è dunque propizio per una manifestazione esterna e distinta delle Persone divine. Da qui questa giudiziosa osservazione di San Gregorio di Nazianze: « Dopo l’apparizione del Figlio di Dio nella carne, era opportuno che anche lo Spirito Santo si mostrasse in modo sensibile: Decebat enim, postquam Filius corporaliter nobiscum versatus est, etiam illum (Spiritum sanctum) apparere corporaliter. » [S. Greg. Naz., orat. 41(al. 44), n. 11].

IV.

Ciò che emerge da tutto ciò che abbiamo detto finora, quanto si evince dallo studio dei Libri Santi e dei Padri fatto senza spirito di parte e senza alcuna preoccupazione sistematica, ciò in cui i dottori più autorizzati si accordano nell’insegnare è che ogni anima giusta, in qualsiasi età nel mondo si trovasse, a prescindere dal grado di santità nel quale si trovasse, che avesse già raggiunto l’apice della perfezione o fosse ancora agli inizi della carriera della giustizia, che si trattasse dell’anima di un adulto o di un bambino, ogni anima in stato di grazia possedeva in essa l’Ospite divino: Quilibet sanctus Deo unitur per gratiam (S. Th., Summa TheoL, IIL q. n, a. 10, obj. 3). L’Unione, è vero, può essere più o meno perfetta; i suoi gradi possono variare all’infinito, ma la profondità del mistero è la stessa ovunque. Il lettore è ora in grado di apprezzare l’opinione di Petau riservante ai santi della Legge nuova, la qualità dei figli di Dio e dei templi dello Spirito Santo, che negava ai giusti dell’Antico Testamento, stabilendo così una sorta di dualismo nell’opera della santificazione umana. Indubbiamente, qui come in precedenza, quando si trattava della abitazione personale dello Spirito Santo, il dotto gesuita fa appello all’autorità dei Padri; ma non è necessario, per spiegare il loro linguaggio, ricorrere a questa strana teoria, basta ricordare la doppia differenza che essi stabiliscono tra la missione dello Spirito Santo prima e dopo l’Incarnazione. Prima della comparsa sulla terra del Verbo fatto carne, lo Spirito Santo era stato realmente inviato e donato alle anime sante; ma questa missione invisibile non era mai stata accompagnata dalla missione esteriore e visibile così frequente in seguito, specialmente nei primi secoli della Chiesa, quando i fedeli avevano bisogno di essere rafforzati nella fede nel mistero della Santissima Trinità. Inoltre, se lo Spirito Santo era presente negli antichi giusti, non solo con la sua operazione, ma anche con la sua sostanza, non era con questa pienezza, questa abbondanza, questo tipo di profusione, che si formava il carattere distintivo della Legge evangelica.  – Ciò che può essere concesso a Petau è che l’inabitazione divina mediante la grazia e la filiazione adottiva, sebbene reale sotto l’economia sinaitica (Rom., IX, 4), non appartenesse tuttavia ai figli di Israele, come ora ai Cristiani, in virtù della loro stessa legge, vi legis, ma per fede nel futuro Messia e per una applicazione anticipata dei suoi meriti futuri. La natura delle due leggi spiega sufficientemente questa differenza. La legge mosaica era essenzialmente una legge figurativa e provvisoria « Hæc omnia in figura contingebant illis. » (1 Cor., X, 11); una legge imperfetta e inefficace in sé, che non conduceva affatto alla perfezione (Hebr., VII, 19.); essa prefigurava, annunciava la grazia futura, ma non la dava; formulava precetti, imponeva divieti, faceva conoscere il peccato (Rom. III, 20), ma non era in grado di cancellarlo (Hebr. X, 4). La santificazione che operava era una santificazione esterna e carnale, emundatio carnis (Ibid. IX, 13), che rendeva l’uomo capace di partecipare al culto divino, senza tuttavia cambiarlo e rinnovarlo interiormente. – È vero che esisteva allora, oltre alla giustizia legale, una vera e propria giustizia interiore che purificava l’uomo dai suoi peccati e lo rendeva gradito agli occhi di Dio; ma questa giustizia soprannaturale non veniva dalla legge stessa, essa veniva accordata non alle opere di quella legge, ma alla fede e ai meriti di Cristo a venire (Gal. II, 16). La vera santità, quella che cancella il peccato e trasforma l’uomo in una creatura divina, doveva essere effetto e proprietà della legge evangelica, chiamata perciò la legge di grazia. Pertanto, San Tommaso non ha difficoltà a dire che i giusti dell’Antico Testamento che possedevano la carità e la grazia dello Spirito Santo, e che, non soddisfatti delle promesse terrene legate alla pratica fedele delle osservanze legali, attendevano principalmente le promesse spirituali ed eterne, appartenenti, sotto questo aspetto, alla nuova Legge (Summa Theol., q. CVII, a 1, ad 2). Tuttavia, pur possedendo una giustizia ed una santità della stessa nostra natura, pur essendo, come noi, figli di Dio adottati per grazia, essi non vivevano nella condizione e nello stato di figli, ma piuttosto come servi (Encycl. Divinum illud munus.): simili in questo, secondo il paragone dell’Apostolo, a quei figli di nobile estrazione che, pur essendo i veri eredi della ricchezza paterna ed i veri padroni di tutto, non differiscono dai servi, e sono sottoposti a dei tutori e a dei curatori fino al tempo stabilito dal padre. Incapaci di entrare in possesso dell’eredità celeste, essi furono soggetti alle mille pratiche di schiavitù della legge, che servì loro da precettore per condurli a Cristo (Gal. III, 24). Ma quando arrivò la pienezza dei tempi, quando venne l’ora segnata dai decreti eterni, Dio mandò suo Figlio per liberarci dal giogo e dalla schiavitù della legge, e per comunicarci in modo perfetto la qualità e la condizione dei figli adottivi (Gal. IV, 4-5). E poiché siamo suoi figli, Egli ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre, (Ibid. V). La pienezza della missione divina doveva quindi essere il privilegio della legge evangelica.

V.

Ciò significa forse che i giusti dell’Antica Alleanza, Abramo, Isacco e Giacobbe, Mosè e Giosuè, Davide e Geremia, e tanti altri la cui fede, zelo, fedeltà, dolcezza e altre virtù sono celebrate in termini così magnifici nella Scrittura, fossero inferiori in santità ai giusti della Nuova Legge, e non possedessero nella stessa misura né la grazia né lo Spirito Santo?  – Parlando in generale, sembra che sia stato così, perché i mezzi di santificazione messi a disposizione del genere umano prima dell’incarnazione del Verbo erano incomparabilmente meno potenti dei nostri. Puramente figurativi, i vecchi sacrifici si ripetevano perennemente, perché non avevano virtù proprie capaci di perfezionare coloro in favore dei quali erano offerti, e di purificare la loro coscienza (Hebr. X, 1-2), mentre Gesù Cristo, con un’oblazione unica, ha reso perfetti per sempre coloro che ha santificato (Ibid. 14); i sacramenti della legge mosaica, invece di essere, come quelli della Legge nuova, delle cause efficaci della grazia, non erano egualmente che segni e simboli; essi prefiguravano la grazia che doveva essere prodotta dalla passione di Cristo, ma non la producevano (Conc. Florent., ex decreto pro Armenis). Per questo l’Apostolo li chiama « degli elementi indifesi e vuoti, infirma et egena elementa » (Gal. IV, 9); « impotenti – dice san Tommaso – perché erano vuoti e non contenevano la grazia » (Summa Theol. Ia-Ilæ, q. CIII, a. 2.). Un’altra considerazione dell’angelico Dottore, che sarà poi ripresa dal Concilio di Trento (Trid. sess. VI, cap.VII.), ci aiuta a capire perché, secondo la legge evangelica, il livello di santità è generalmente superiore a quello della Legge antica: colui che è meglio preparato alla grazia la riceve con più abbondanza. Illi qui magis sunt parati ad perceptionem gratiæ, pleniorem gratiam consequuntur (S. Th., in I Sent., dist. XV, q. V, a. 2.). Ora, dall’avvento del Salvatore, e come risultato di questo avvento, l’intera razza umana era meglio disposta e più capace di prima di ricevere doni divini; sia perché il prezzo del nostro riscatto era stato pagato e il diavolo sconfitto, sia perché, grazie alla dottrina di Cristo, le cose divine sono a noi più note (ibid.). Il Santo Dottore aggiunge, in un altro passaggio, che, prima dell’Incarnazione, i meriti e le soddisfazioni del Redentore non esistevano ancora realmente, la grazia era ripartita con meno abbondanza che dopo il compimento di questo mistero (De verit., q. XXIX, a. 4. ad 10.). E poiché la missione invisibile dello Spirito Santo non va senza la prima collazione o l’aumento della grazia, si può quindi affermare che questa missione si è fatta generalmente con maggiore pienezza di prima dopo l’Incarnazione. Et ideo, loquendo communiter, plenior facta est missio post Incarnationem quam ante (S. Th., in I Sent, dist. XV, q. V, a. 2).  – Ma se, invece di considerare lo stato generale dell’umanità, riflettiamo sulle particolari condizioni in cui si sono trovati alcuni personaggi antichi, presi singolarmente, nulla ci impedisce di credere che essi abbiano ricevuto la missione dello Spirito Santo con tale pienezza da elevarsi alla perfezione della virtù (Ibid.). E se confrontiamo la grazia personale dei Santi dell’Antico e del Nuovo Testamento, dobbiamo riconoscere con san Tommaso che, per la fede nel Mediatore, molti dei giusti antichi furono altrettanto bene provvisti, alcuni addirittura meglio dotati di molti Cristiani (Ibid. ad 2).  Ma c’è una grazia dietro la quale i patriarchi prima del Messia hanno dovuto sospirare a lungo senza poterla ottenere sotto l’economia mosaica; questa è la missione invisibile dello Spirito Santo che era riservata al tempo della Nuova Alleanza: era la grazia di essere ammessi alla visione di Dio, era la missione piena e consumata che si fa all’ingresso dei giusti nella gloria.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/02/25/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-9/

CHI APPARTIENE AL CORPO MISTICO DI CRISTO … E CHI NO!

Alla CHIESA CATTOLICA appartiene colui che, lasciata qualsiasi setta eretica e scismatica, sia battezzato ed abbia esplicito desiderio di appartenervi, pur non potendolo materialmente.

Lettera del Santo-Officio all’arcivescovo di Boston, 8 agosto 1949.

[Ed: AmER 127 (1952, Oct.) 308ss.]

De necessitate Ecclesiæ ad salutem

[La necessità della Chiesa per le salvezza.]

3866 …. Inter ea autem, quæ semper Ecclesia prædicavit et prædicare numquam desinet illud quoque infallibile effatum continetur, quo edocemur « extra Ecclesiam nullam esse salutem ». Est tamen hoc dogma intelligendum eo sensu, quo id intelligit Ecclesia ipsa. Non enim privatis iudiciis explicanda dedit Salvator noster ea, quæ in fidei deposito continentur, sed ecclesiastico magisterio.

3867 – Et primum quidem Ecclesia docet, hac in re agi de severissimo præcepto Iesu Christi. Ipse enim expressis verbis Apostolis suis imposuit, ut docerent omnes gentes, servare omnia quæ ipse mandaverat. Inter mandata autem Christi non minimum locum illud occupat, quo baptismo iubemur incorporari in Corpus mysticum Christi, quod est Ecclesia, et adhærere Christo eiusque vicario, per quem ipse in terra modo visibili gubernat Ecclesiam. Quare nemo salvabitur, qui sciens Ecclesiam a Christo divinitus fuisse institutam, tamen Ecclesiæ sese subiicere renuit vel Romano Pontifici, Christi in terris vicario denegat obœdientiam.

3868 Neque enim in præcepto tantummodo dedit Salvator, ut omnes  gentes intrarent Ecclesiam, sed statuit quoque Ecclesiam medium esse salutis, sine quo nemo intrare valeat regnum gloriæ caelestis.

3869Infinita sua misericordia Deus voluit, ut illorum auxiliorum salutis,  quæ divina sola institutione, non vero intrinseca necessitate, ad finem ultimum ordinantur, tunc quoque certis in adiunctis effectus ad salutem necessarii obtineri valeant, ubi voto solummodo vel desiderio adhibeantur. Quod in sacrosancto Tridentino Concilio claris verbis enuntiatum videmus tum de sacramento regenerationis tum de sacramento pænitentiæ [*1524 1543].

3870 Idem autem suo modo dici debet de Ecclesia, quatenus generale ipsa  auxilium salutis est. Quandoquidem ut quis æternam obtineat salutem, non semper exigitur, ut reapse Ecclesiæ tamquam membrum incorporetur, sed id saltem requiritur, ut eidem voto et desiderio adhæreat. Hoc tamen votum non semper explicitum sit oportet, prout accidit in catechumenis, sed ubi homo invincibili ignorantia laborat, Deus quoque implicitum votum acceptat, tali nomine nuncupatum, quia illud in eà bona animae dispositione continetur, qua homo voluntatem suam Dei voluntati conformem velit.

3871 Quæ dare docentur in [Pii XII Litt. encycl.] . . . De mystico Iesu Christi Corpore. In iisdem enim Summus Pontifex nitide distinguit inter eos, qui re Ecclesiæ tamquam membra incorporantur, atque eos, qui voto tantum modo Ecclesiæ adhærent …. « In Ecclesiæ autem membris reapse ii soli adnumerandi sunt, qui regenerationis lavacrum receperunt veramque fidem profitentur neque a Corporis compage semet ipsos misere separaverunt vel, ob gravissima admissa, a legitima auctoritate seiuncti sunt » [*3802]. Circa finem autem earundem Litterarum encyclicarum, amantissimo animo eos ad unitatem invitans, qui ad Ecclesiæ catholicæ compagem non pertinent, illos commemorat, « qui inscio quodam desiderio ac voto ad Mysticum Redemptoris Corpus ordinentur », quos minime a salute æterna excludit, ex altera tamen parte in tali statu versari asserit, « in quo de sempiterna cuiusque propria salute securi esse non possunt… quandoquidem tot tantisque cælestibus muneribus adiumentis carent, quibus in catholica solummodo Ecclesia fruì licet » [*3821].

3872 – Quibus verbis providentibus tam eos reprobat, qui omnes solo voto  implicito Ecclesiæ adhærentes a salute æterna excludunt, quam eos, qui falso asserunt, homines in omni religione aequaliter salvari posse [cf. *2806 2865]. Neque etiam putandum est, quodcumque votum ecclesiæ ingrediendæ sufficere, ut homo salvetur. Requiritur enim, ut votum, quo quis ad Ecclesiam ordinetur, perfecta caritate informetur; nec votum implicitum effectum habere potest, nisi homo fidem habeat supernaturalem [Alìegatur Hebr XI, 6 et Conc. Trid., sess. VI c. 8: *I532].

——

3866 – …. Or tra le cose che la Chiesa ha sempre predicato e non cesserà mai di predicare, si trova ugualmente questa affermazione infallibile che ci insegna che « Fuor dalla Chiesa, non c’è salvezza ». Questo dogma deve tuttavia essere compreso nel senso in cui la Chiesa stesso lo comprende. In effetti non è al giudizio privato che il Signore ha affidato la spiegazione delle cose contenute nel deposito della fede, ma al Magistero della Chiesa.

3867 – In primo luogo, la Chiesa insegna che in tal questione non si tratta di un comandamento in senso stretto di Gesù Cristo. Egli ha, in effetti, imposto espressamente ai suoi Apostoli di insegnare a tutte le Nazioni ad osservare tutto quel che aveva ordinato. Tra i comandamenti del Cristo, ed esso non è il minore, c’è quello che ci ordina di essere incorporati con il Battesimo nel Corpo mistico del Cristo, che è la Chiesa, e di restar uniti al Cristo ed al suo Vicario attraverso il quale governa Egli stesso in modo visibile la sua Chiesa sulla terra. Ecco perché, nessuno sarà salvato se, sapendo che la Chiesa sia stata divinamente istituita dal Cristo, non accetti tuttavia di sottomettersi alla Chiesa, o rifiuti l’obbedienza al Pontefice Romano, vicario di Cristo sulla terra.

3868 – Ora il Salvatore non ha solamente ordinato che tutti i popoli entrino nella Chiesa, ma ha deciso anche che la Chiesa fosse il mezzo di salvezza, senza il quale nessuno possa entrare nel Regno della gloria celeste.

3869 – Nella sua infinita Misericordia, Dio ha voluto che gli effetti necessari per essere salvati, di questi mezzi di salvezza che sono ordinati al fine ultimo dell’uomo, non per necessità intrinseca ma unicamente per istituzione divina, possano essere ottenuti in certe circostanze, quando questi mezzi non siano messi in opera che per desiderio o voto. Noi vediamo questo chiaramente enunciato nel Sacrosanto Concilio di Trento rispetto sia al Sacramento della Rigenerazione, sia al Sacramento della Penitenza. (D. 1524, 1543)

3870 – Lo stesso va detto, a suo modo, della Chiesa come mezzo generale di salvezza. Infatti perché qualcuno ottenga la salvezza eterna, non sempre è necessario che uno sia effettivamente incorporato nella Chiesa come membro, ma è almeno necessario che sia unito a lei con il voto e il desiderio. Tuttavia, non è sempre necessario che questo voto sia esplicito, come avviene tra i catecumeni, ma quando l’uomo è vittima di un’invincibile ignoranza, Dio accetta anche un voto implicito, così chiamato perché è incluso nella buona disposizione d’animo con cui l’uomo vuole conformare la sua volontà alla volontà di Dio.

3871 – Questo è il chiaro insegnamento dell’enciclica di Pio XII (Mystici corporis) sul Corpo Mistico di Gesù Cristo. In essa il Sommo Pontefice distingue chiaramente tra coloro che sono veramente incorporati nella Chiesa come suoi membri e coloro che sono uniti alla Chiesa solo dal voto… « … Ma solo coloro che hanno ricevuto il battesimo della rigenerazione e professino la vera fede, e che, d’altra parte, non si siano miseramente auto-separati dall’insieme del Corpo, o non ne siano stati tagliati fuori per gravissime colpe dalla legittima autorità, (per eresia, scisma, apostasia) sono veramente membri della Chiesa » (D. S. 3802). Verso la fine della stessa Enciclica, però, invitando molto affettuosamente all’unità coloro che non appartengono al Corpo della Chiesa cattolica, egli menziona « coloro che, per un certo inconscio desiderio e voto, si trovano ordinati al Corpo mistico del Redentore », che non esclude in alcun modo dalla salvezza eterna, ma di cui, d’altra parte, dice di essere in uno stato « in cui nessuno può essere sicuro della sua salvezza eterna…. poiché sono privati di così tanti e di così grandi e celesti aiuti e favori, di cui si può godere solo nella Chiesa cattolica » (D. S. 3821).

3872 – Con queste sagge parole egli condanna sia coloro che escludono dalla salvezza eterna tutti gli uomini che sono uniti alla Chiesa dal solo voto implicito, sia coloro che affermano falsamente che gli uomini possono essere salvati anche in una qualsiasi religione (2865).

Né si deve pensare che qualsiasi tipo di desiderio di entrare nella Chiesa sia sufficiente per essere salvati. Perché è necessario che il voto che ordina qualcuno alla Chiesa sia animato da una perfetta carità. Il voto implicito può avere effetto solo se l’uomo ha una fede soprannaturale. (Ebrei XI: 6; Concilio di Trento, VI\VIII ss. Cap. 8).

Questo documento Ecclesiastico irreformabile ed infallibile (come tutto il Magistero Ordinario ed Universale della Chiesa, al quale siamo obbligati a dare il nostro assenso, pena scomunica, secondo la lettera Enciclica « Satis Cognitum » di S. S. Leone XIII), giunge a conferma della dottrina tomistica di San Tommaso d’Aquino sulla grazia fornita dallo Spirito Santo a coloro che, pur non avendo la possibilità di accedere a veri Sacramenti, o al Santo Sacrificio validamente celebrato da Sacerdoti canonicamente consacrati, siano battezzati osservanti la Dottrina Cattolica, in unità con il “vero” Sommo Pontefice, unica condizione – una volta lasciata la setta di appartenenza – per ottenere l’eterna salvezza.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/02/14/una-cum-famulo-tuo-papa-nostro/


 Fuori dalla Chiesa Cattolica, cioè fuori dalla salvezza eterna, vi sono quindi:

1- Tutte le sette protestanti: luterane, anglicane, calviniste, ortodosse sec. Fozio, monotelite, monofisite, etc. …

2- La setta degli eretici e scismatici modernisti del Novus Ordo dell’attuale colle Vaticano – la “sinagoga di satana” inneggiante al signore dell’universo, il baphomet-lucifero delle logge massoniche – conformi alle eresie del conciliabolo c. d. Vaticano II (Concilio scomunicato con largo anticipo dalla bolla Execrabilis di Papa Pio II, Piccolomini);  sono qui compresi i secolari e tutti i religiosi degli ordini un tempo Cattolici, oggi “novusordisti”.

3 – I sedicenti tradizionalisti, supporter eretici del papa eretico – a loro dire -, la setta paramassonica-kadosh dei falsi chierici invalidi e sacrileghi, i c. d. lienart-lefebvriani di Ecône-Sion;

4- Tutte le sette pseudo-tradizionaliste degli eretici e scismatici sedevacantisti di Occidente e d’Oriente, parto distocico dell’ultima ora di satana che cominciava a capire che qualcosa non aveva funzionato nei suoi piani vacillanti e scricchiolanti, ed ha cercato di metterci una “pezza a colore”. .. ma si sa che il diavolo fa le pentole ma dimentica – per fortuna dei “veri” Cattolici – i coperchi … Questo documento sia dunque per loro, monito onde abbandonare senza indugi la setta infernale di appartenenza e confluire in massa, almeno con desiderio o voto esplicito, nella Chiesa Cattolica guidata dal suo Sommo Pontefice Romano, ovunque si trovi, prigioniero o nascosto! (Il Cristo ce lo ha promesso – solennemente – con noi fino all’ultimo giorno! … e pure la Pastor Aeternus).

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (7)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (7)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°)

P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

TERZA PARTE

L’INABITAZIONE DIVINA PER MEZZO DELLA GRAZIA NON È LA PROPRIETÀ PERSONALE DELLO SPIRITO-SANTO, MA IL PATRIMONIO COMUNE DI TUTTA LA SANTA TRINITÀ. — ESSA È APPANNAGGIO DI TUTTI I GIUSTI, TANTO DELL’ANTICO CHE DEL NUOVO TESTAMENTO.

CAPITOLO PRIMO

Benché attribuita ordinariamente allo Spirito Santo, l’inabitazione divina per mezzo della grazia non gli è esclusivamente propria, ma comune alle tre Persone.

Finora abbiamo parlato indistintamente della dimora dello Spirito Santo o della Santissima Trinità nelle anime in stato di grazia, conformandoci così al linguaggio stesso della Scrittura, che attribuisce all’una o all’altra Persona divina il soggiorno che Dio si degna di fare nei giusti. Così, lo stesso Apostolo che aveva scritto ai fedeli di Corinto: « Non sapete di essere il tempio di Dio e l’abitacolo dello Spirito Santo? » (1 Cor. III, 16), insegnò agli Efesini « … che Cristo abita in noi per fede » (Efes., III, 17). E lo stesso Nostro Signore disse ai suoi discepoli: « Se qualcuno mi ama, egli osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui, e stabiliremo in lui la nostra dimora. » (Giov. XIV, 23). Tuttavia, non si può ignorare che è lo Spirito Santo che viene più spesso designato come l’ospite delle nostre anime. Mentre, solo una volta appena, il testo sacro menziona la presenza in noi del Padre e del Figlio, parla spesso della venuta e della dimora dello Spirito Santo nei nostri cuori. La Scrittura lo rappresenta come il dono di Dio per eccellenza, donum Dei (Act. VIII, 20), il dono principe di tutti i doni, la fonte della vita soprannaturale, l’Autore della nostra santificazione, il pegno della beatitudine celeste (2 Cor. I, 21-22). È Lui che riversa la grazia e la carità nei nostri cuori (Rom. V, 5), che ci rende figli di Dio (Rom. VIII, 15) e che distribuisce i doni divini a suo piacimento (1 Cor. XII, 11). Come maestro interiore, illumina le intelligenze, insegnando loro tutta la verità (Giov. XIV, 13); Egli tocca e ammorbidisce i cuori, inclinandoli dolcemente e fortemente alla fedele osservanza dei comandamenti divini (Ezech. XXXV I, 27). È Lui che ci consola nei nostri dolori, ci consiglia nelle nostre incertezze, ci insegna a pregare, a chiedere ciò che è opportuno per la salvezza, formulando le nostre richieste Egli stesso con inenarrabili gemiti (Rom. VIII, 26); è Colui che ci risveglia dalla nostra sonnolenza, ci spinge al bene (Rom.VIII, 14), ci guida per le nostre vie e infine ci introduce nella vera terra promessa, dove regna la perfetta rettitudine (Ps. CXLII, 10). I Santi Padri non parlano con altro linguaggio. Anche per loro lo Spirito Santo è il grande dono di Dio, l’ostia interiore che, donando se stesso, ci comunica allo stesso modo una partecipazione della natura divina, e ci rende figli di Dio, esseri divini, (S. Basil, Contr. Eunom., 1. V) uomini spirituali e santi. (S. Basil., de Spir. Sanct.,c. IX). A loro piace quindi designarlo come lo Spirito santificatore, principio della vita celeste e divina (S. Basil., Contr. Eunom., l.V). Alcuni addirittura lo chiamano la forma della nostra santità (S. Basil, de Spir. Sanct., c. XXVI), l’anima della nostra anima, il legame che ci unisce al Padre e al Figlio, Colui attraverso il quale queste Persone divine dimorano in noi. Tale insistenza nell’attribuire l’inabitazione per mezzo della grazia e l’opera della nostra santificazione e della figliolanza adottiva alla terza Persona dell’augusta Trinità non sarebbe un indizio, un segno, una prova che lo Spirito Santo abbia rapporti speciali con le nostre anime, un modo di unione che è unico e proprio a Lui e che non condivide con altre Persone? Perché, infine, se risiede in noi come il Padre e il Figlio, perché rappresentarlo incessantemente, di preferenza rispetto alle altre Persone, come ospite delle nostre anime, e attribuirgli costantemente una presenza e un’azione che, in realtà, sarebbe comune a tutta la Trinità? Da qui è nato il sistema dell’inabitazione propria dello Spirito Santo. Secondo alcuni teologi, lo stato di grazia porterebbe all’unione diretta e immediata delle nostre anime con questo Spirito divino e, attraverso di Lui, con il Padre e il Figlio, in virtù dell’inseparabilità delle Persone divine. Questa è la famosa teoria che aveva, se non come autore, ma come principale mecenate e difensore, un uomo di grande erudizione, uno dei più illustri rappresentanti della teologia positiva del XVII secolo, Denis Petau, della Compagnia di Gesù. Ma la stragrande maggioranza dei dottori, qualunque sia la loro scuola di appartenenza, sono sempre stati resistenti e ostili a questo insegnamento; e convinti, a buon diritto, che la “legge di appropriazione” è pienamente sufficiente a spiegare i testi della Scrittura e dei Padri che sembrano fare della speciale presenza di Dio nel giusto la prerogativa dello Spirito Santo, ed hanno costantemente sostenuto che la Trinità tutta intera abiti in noi per mezzo della grazia, e che non c’è una unione più reale e immediata con la terza Persona rispetto al Padre e il Figlio; tuttavia, sebbene comune a tutte e tre le Persone, l’inabitazione divina per grazia è appropriata allo Spirito Santo per il suo carattere personale e per la natura stessa dell’unione tra Dio e l’uomo, che è frutto della santa carità. La questione sembrava quindi risolta, quando nuovi tentativi fatti all’epoca nostra, con l’obiettivo di far risorgere un’opinione che sembrava definitivamente giudicata e condannata, sono venute a rimettere tutto in discussione e a risvegliare una disputa che si poteva credere oramai risolta. Di fronte a questa levata di scudi, ci è sembrato che gli interessi della santa dottrina richiedano che la questione non fosse passata completamente sotto silenzio ma trattata almeno sommariamente; è ciò che stiamo per fare con l’aiuto di Dio.

I.

Il problema da risolvere è questo: quando la Scrittura e i Padri ci parlano dell’inabitazione dello Spirito Santo nei nostri cuori, senza menzionare le altre Persone, dovremmo prendere alla lettera questa formula e credere che lo Spirito Santo si unisca con le nostre anime in un’unione che gli è propria e gli appartiene in una particolare veste? O, al contrario, dovremmo considerare questa unione come comune alle tre Persone dell’adorabile Trinità e semplicemente appropriata ad una di loro? Petau, Ramière, Scheeben, altri ancora tengono per la prima interpretazione; i teologi scolastici, San Tommaso, San Bonaventura, Alberto Magno, Suarez, i teologi di Salamanca, ed attualmente anche gli eminenti cardinali Franzelin e Mazzella, i Rev. Pp.- Kleutgen, Pesch, Tepe, S. J., ecc. ecc. adottano il secondo. Qualunque sia l’opinione che si abbracci sulla maniera con cui lo Spirito Santo è unito all’anima giusta, il dogma cattolico richiede che in esso sia ammessa anche una vera presenza del Padre e del Figlio. Le Persone divine, in effetti, avendo una sola e medesima natura individuale, sono necessariamente inseparabili. « Lo Spirito Santo – dice San Giovanni Crisostomo – non può essere presente da nessuna parte senza la presenza di Cristo, perché dove c’è una Persona divina, la Trinità è presente nella sua interezza (S. Joan. Chrys., in Epist. ad Rom.., VIII, 9).  Sant’Agostino si esprime allo stesso modo: « Chi oserebbe pensare, se non ignorando completamente l’inseparabilità delle Persone divine, che il Padre e il Figlio possano abitare dove lo Spirito Santo non abiti, e che lo Spirito Santo abiti da qualche parte senza il Padre e il Figlio » (S. Aug., 1. de Præsentia Dei, cap. V, n. 16.). – Pertanto, i teologi concordano con san Tommaso che le due Persone divine, in ragione della loro eterna processione, possono essere inviate e date alla creatura ragionevole per santificarla, e non lo sono mai l’una senza l’altra; mai il Figlio viene ad illuminare l’intelligenza senza che lo Spirito Santo venga ad accendere la volontà; le loro missioni invisibili, anche se distinte, considerando gli effetti particolari secondo i quali vengono compiute e il modo di origine delle Persone, sono tuttavia unite da una radice comune, la grazia santificante, che non permette che l’una abbia luogo senza l’altra. (S. Th., Samm. Theol., I, q. XLIII» a. 5, ad 3.) Quanto al Padre, anch’Egli è presente in virtù della circumincessio; e se non è inviato, perché non procede da nessuno, viene tuttavia da se stesso, si dona all’anima giusta e vi abita con il Figlio e lo Spirito Santo, per santificarla di concerto con loro. Pur ammettendo questa presenza vera e sostanziale delle tre Persone divine, che non avrebbe potuto, peraltro, contestarsi senza opporsi manifestamente all’insegnamento unanime dei Padri e dei Dottori, e senza distruggere l’economia del mistero della Trinità, Petau sostiene che lo Spirito Santo abiti in modo speciale nell’anima giusta, che possiede con essa una modalità di unione che gli è personale e che non condivide con il Padre e il Figlio. Secondo lui, la terza Persona risiederebbe in noi da solo, direttamente e immediatamente; le altre due Persone risiederebbero in noi solo indirettamente, simultaneamente, in virtù della comunità di natura che li rende inseparabili.  – E, per spiegare il suo pensiero, dà un esempio di ciò che accade nel mistero dell’incarnazione. “Il Padre e lo Spirito Santo – egli dice – dimorano in Cristo non meno dello stesso Verbo; ma il modo di unione è diverso. Infatti, oltre all’unione che gli è comune con le altre Persone, il Verbo ne possiede una speciale, che gli appartiene a pieno titolo, poiché Egli è come la forma che fa di Cristo un uomo divino, o meglio un Dio, e il Figlio di Dio. È così che abitano le tre Persone, è vero, tutte nel giusto; ma lo Spirito Santo è solo come la forma che lo santifica e lo rende figlio adottivo di Dio comunicando la propria sostanza. « Riprendiamo a leggere – aggiunge – tutte le testimonianze degli antichi Padri che abbiamo descritto sopra, o, meglio ancora, leggiamo i passi della Scrittura che parlano o semplicemente dell’unione di Dio con i giusti, o in particolare della dimora del Figlio in essi, e troverete che la maggior parte di essi attesta che è per mezzo dello Spirito Santo che ciò avviene, come per sua causa successiva e, per così dire, formale. »  (PETAV.. de Trin., l. VIII, c. VI, n. 8.). Lo Spirito Santo è dunque, secondo Petau, unito ai giusti da una propria unione, che, senza essere ipostatica, è tuttavia analoga a quella del Verbo con la natura umana, in Gesù Cristo. Nel Verbo fatto carne, la natura umana è unita direttamente alla Persona del Figlio, e attraverso di Lui alla divinità e alle altre due Persone della intera Trinità. La Persona del Verbo è dunque il punto di congiunzione delle due nature, divina e umana, così come è il legame che unisce l’umanità di Cristo alle Persone del Padre e dello Spirito Santo. Allo stesso modo, Lo Spirito Santo è dunque, secondo Petau, unito ai giusti in una propria unione, che, senza essere ipostatica, è tuttavia analoga a quella del Verbo con la natura umana, e Gesù Cristo. Nel Verbo fatto carne, la natura umana è unita direttamente alla persona del Figlio, e attraverso di lui alla divinità e alle altre due persone della Principale Trinità. La persona del Verbo è dunque il punto di congiunzione delle due nature, divina e umana, così come è il legame che unisce l’umanità di Cristo alle Persone del Padre e dello Spirito Santo. Allo stesso modo, nell’opera della nostra divinizzazione per mezzo della grazia, è la Persona dello Spirito Santo che è il termine diretto ed immediato della nostra unione con Dio, è Ella che ci mette in contatto con il Padre e il Figlio e serve come una sorta di legame tra loro e noi. Il celebre gesuita sostiene che questo sia il sentimento dell’antichità, e chiede anche ai Libri Santi di stabilire e corroborare la sua opinione. Cosa bisogna pensare di queste affermazioni?

II.

Se ci rapportiamo ad un giudice competente, lungi dall’essere l’espressione fedele della verità rivelata, la dottrina dell’inabitazione personale dello Spirito Santo nel giusto è, al contrario, in palese opposizione all’insegnamento tradizionale, e si basa solo su un’errata interpretazione della Scrittura e dei Padri. Questo giudice, la cui imparzialità non può essere sospettata e la cui sentenza non può essere contestata, è l’immenso esercito di dottori che, nonostante la diversità delle loro tendenze e il loro antagonismo scolastico, si sono comunque trovati d’accordo su questo punto. I più eminenti teologi della Compagnia di Gesù, antichi e moderni, si incontrano qui con i fratelli ed i discepoli del Dottore Angelico; e sebbene fosse coinvolto uno dei loro, essi – siamo felici di rendere loro questa testimonianza – non sono stati né gli ultimi né i meno ardenti a combatterla. Ed effettivamente la lotta era davvero necessaria. Infatti, attribuire alla Persona dello Spirito Santo nell’opera della nostra santificazione, il ruolo del Verbo nell’incarnazione, era porsi in contraddizione con i principi teologici più incontestabili, di introdurre una novità, ed affermare, volenti o nolenti, tra lo Spirito Santo e ciascuna delle anime giuste, una sorta di unione ipostatica contraria a tutti i dati della fede. Per convincersi di questo, basti ricordare che in Dio, tutto è comune alle tre Persone, la natura, gli attributi, le operazioni esterne, le relazioni che ne derivano, tutto, tranne le relazioni d’origine opposte che costituiscono e distinguono le Persone e ciò che, dall’esterno, può essere qualificato come funzione ipostatica. (Ex. Conc. Florent. Decretum pro Jacobitis.). Invano, per sostenere la sua opinione, Petau fa appello all’antichità e cerca di stabilire che, se lo Spirito Santo non viene da solo nei nostri cuori, almeno Egli solo è il termine diretto ed immediato dell’unione (Petav., de Trin.,1. VIII. c. VI, n. 6.); L’antichità gli risponde, attraverso l’organo di San Tommaso, che, contrariamente a quanto accade nel mistero dell’Incarnazione, dove l’incontro delle due nature, la divina e l’umana, sebbene realizzato da tutta la Trinità, si realizza nell’unica Persona del Verbo, l’unione stabilita dalla grazia tra Dio e l’uomo è comune alle tre Persone, non solo nel suo principio effettivo, ma anche nel suo termine (S. Th., III, q. III, a. 4, ad 3.); e tutta la Scuola aggiunge, per bocca dei suoi più eminenti Dottori, che nessuna vera unione della Divinità con le creature può appartenere in sé ad una sola Persona divina senza essere di  fatto un’unione ipostatica. Perché di due cose l’una: o l’unione si fa direttamente con l’Essenza comune, e in questo caso appartiene ugualmente alle tre Persone; oppure si fa in ciò che è proprio di una di esse, nella sua ipostasi, ed allora essa è ipostatica. Tuttavia, la dottrina cattolica non conosce, nei fatti, altra unione ipostatica tra Dio e la creatura che quella del Verbo con l’umanità nella Persona di Gesù Cristo. Indubbiamente, lo Spirito Santo avrebbe potuto incarnarsi, anche Egli, avrebbe potuto unirsi personalmente a tutte le anime adornate di grazia, ma allora i giusti non solo sarebbero stati spiritualizzati e divinizzati, sarebbero stati essi stessi Dio, sarebbero stati cioè lo Spirito Santo. Concludiamo dunque con san Tommaso che la venuta o l’inabitatzione di Dio nella nostra anima, invece che essere prerogativa esclusiva, proprietà della terza Persona, è, al contrario, patrimonio comune della Trinità tutta intera. Et ideo adventus vel inhabitatio convenit toti Trinitati (S. Th., Sent., 1. I, dist. XV, q. II, a. 1, ad 4). – Se è così, perché la Scrittura e i Padri attribuiscono quasi costantemente la presenza di Dio in noi allo Spirito Santo? Perché si riferiscono a questo Spirito divino, di preferenza alle altre Persone, come l’ospite delle nostre anime? Questo è in virtù della “legge di appropriazione”.

III.

Che cos’è l’appropriazione? È l’attribuzione fatta ad una Persona divina di una perfezione o di un’operazione comune alle tre Persone. Ne abbiamo un esempio nelle seguenti parole del Simbolo: « Credo in Dio, Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra », dove attribuiamo alla prima Persona della Santissima Trinità l’onnipotenza e la creazione, che appartengono tuttavia a tutti e tre. È anche per appropriazione che attribuiamo allo Spirito Santo la concezione di Gesù Cristo nel seno della Beata Vergine Maria dicendo: « Credo in Gesù Cristo, Figlio unico di Dio, nostro Signore, che è stato concepito dallo Spirito Santo. » Perché questo tipo di attribuzione, che si incontra frequentemente nella Scrittura, nei Padri, nei Simboli, nella liturgia? Per la manifestazione della fede: Ad manifestationem fidei risponde San Tommaso. (S. Th., I, q. XXXIX, A. 7). È, infatti, opportuno – aggiunge il Santo Dottore – appropriare alle Persone divine degli attributi essenziali per istruire i fedeli e portarli, per mezzo di queste verità naturalmente accessibili alla ragione, alla conoscenza di ciò che l’Apostolo chiama la profondità di Dio, profunda Dei (1 Cor. II, 10), cioè del mistero della sua vita intima e dei caratteri distintivi delle Persone. Indubbiamente, la Trinità è una verità così lontana dalla nostra portata, che è impossibile raggiungerla e dimostrarla solo con le forze del nostro spirito; e anche dopo che Dio si sia degnato di rivelarla a noi, essa rimane coperta da un velo impenetrabile e avvolta nell’oscurità, finché camminiamo lontani dal Signore.  Tuttavia, utilizzando le verità già acquisite, possiamo proiettare sui dati della fede come un fascio di luce che, illuminandoli di più, ci permetta di ottenere una maggiore comprensione e un’intelligenza molto fruttuosa. Per raggiungere questo risultato, non c’è niente di meglio che ricorrere o alle lontane somiglianze della Santissima Trinità che il Creatore ha impresso nelle sue opere sotto forma di vestigia o immagini, o all’analogia che esiste tra le proprietà particolari di questa o quella Persona e gli attributi essenziali che gli sono propri. (Conc. Vatic, Const. Dei Filius, c. IV.). Così, per far conoscere il Padre, gli attribuiamo la potenza, l’eternità, l’unità (S. Th., I, q. XXXIX, a. 8), perché queste perfezioni, sebbene comuni alle tre Persone, offrono una certa somiglianza con le proprietà personali del Padre. La potenza, infatti, essendo un principio, una fonte di operazione, si addice alla prima Persona della Trinità, che è essa stessa il principio, l’origine, la fonte dell’Essere divino. Essa gli si addice ancora di più sotto un altro aspetto, cioè per farci capire che, a differenza di quanto sta accadendo qui sulla terra, dove i nostri padri della terra perdono le forze man mano che invecchiano, il Padre celeste rimane eternamente onnipotente. L’eternità è anche giustamente appropriata al Padre, perché è come Lui senza principio. Quanto all’unità, che si riferisce ad un’entità assoluta e che non presuppone nulla, essa conviene parimenti a quella delle Persone divine, che non presuppongono nulla a loro volta, perché non procedono da null’altro. La saggezza, la bellezza, l’eguaglianza, sono proprie del Figlio (S. Th., I, q. XXXIX, a. 8): la sapienza, perché, procedendo per intelligenza come termine della conoscenza paterna, Egli stesso è la sapienza generata; la bellezza perché con la sua processione è l’immagine perfetta del Padre e lo splendore della sua sostanza; l’uguaglianza, infine, perché, come Verbo, Egli è consustanziale al Padre, essendo l’espressione adeguata della sua scienza. – Allo Spirito Santo attribuiamo l’amore, la bontà, la gioia (Ibid.): l’amore, perché lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio per mezzo dell’amore, come termine sussistente della loro reciproca dilezione; la bontà, perché questa perfezione, essendo la ragione e l’oggetto dell’amore, offre una sorprendente analogia con il carattere proprio della terza Persona; la gioia, perché, essendo, in virtù della sua stessa processione, frutto dell’amore unico ed infinito che il Padre e il Figlio si scambiano l’un l’altro come Bene  sovrano, Egli è loro gioia e loro felicità. – Quanto appena detto circa gli attributi essenziali vale anche per le opere esterne di Dio – operibus ad extra, come dice la Scuola – che, pur appartenendo allo stesso titolo alle tre Persone, in quanto provenienti da una potenza comune a loro per natura, sono tuttavia attribuite a volte all’una, a volte all’altra di loro, con lo scopo di farla conoscere meglio, grazie alla somiglianza che esiste tra tale operazione e il carattere distintivo di tale Persona. Così noi appropriamo al Padre la creazione e tutto ciò che porta l’impronta della potenza o le vestigia del Principio primo, al Figlio l’illuminazione delle intelligenze e tutto ciò che è primizia della sapienza; allo Spirito Santo le opere della bontà e dell’amore, le ispirazioni, i buoni sentimenti, la vita della grazia, i buoni movimenti spirituali, la vita della grazia, i doni spirituali, la remissione dei peccati, la santificazione delle anime, la filiazione adottiva, l’unabitazione di Dio in noi.  – « È molto a proposito – nota Leone XIII – che la Chiesa è accostumata ad attribuire al Padre le opere divine in cui risplende la potenza, al Figlio quelle in cui risplende la sapienza, allo Spirito Santo quelle in cui domina l’amore. Non che tutte i perfezionamenti e tutte le opere esterne non siano comuni alle tre Persone, perché le opere della Trinità sono indivisibili come l’essenza stessa della Trinità, essendo l’azione delle Persone divine inseparabili come la loro essenza (S. Aug„ de Trin., 1. I, c. IV e V); ma perché, in virtù di un certo confronto, e per così dire di un’affinità che si nota tra le opere e le proprietà delle persone, tale opera è attribuita o, come si dice, appropriata a tale Persona piuttosto che a tal’altra ». (Encicl. Divunum illud munus, Papa Leone XIII).

IV.

Sarebbe quindi sbagliato affermare che una perfezione, una funzione, un’operazione sia specifica dell’una o dell’altra Persona divina, con il pretesto specioso che gli venga costantemente attribuita nelle Lettere sante o negli scritti dei Padri. Spetta ai teologi discernere ciò che sia veramente proprio e personale, e ciò che sia semplicemente appropriato, sulla base degli insegnamenti della fede e dei principi teologici relativi all’unità dell’Essenza divina e alla distinzione delle Persone. Ora, con poche eccezioni, tutti i dottori concordano sul fatto che l’abitazione per mezzo della grazia e l’unione speciale di Dio con i giusti come oggetto della loro conoscenza e del loro amore, non sia una proprietà dello Spirito Santo, ma un’opera comune alle tre Persone e appropriata per giusti motivi ad una di esse (S. Th., qq. disp., De verit, q. XXVII, a. 2, ad 3.) Perché appartenga alla terza Persona, dovrebbe essere, ad esclusione delle altre due, o la causa efficiente della grazia e della carità, o almeno il termine diretto e immediato della conoscenza sperimentale e dell’amore di godimento da cui i Santi sono gratificati, in modo perfetto in cielo, e incoativamente quaggiù. Questo è cosa facile da stabilire.  Poiché la presenza di Dio negli esseri creati si basa, come abbiamo dimostrato in precedenza (cap. I), sulla sua operazione, è concepibile che se lo Spirito Santo esercitasse da qualche parte un’azione indipendente e personale; se, ad esempio, gli atti di carità prodotti dai giusti fossero la sua particolare opera, Esso esisterebbe in essi, come agente, in un modo che gli apparterrebbe in proprio. Lo stesso varrebbe se la grazia e la carità, sebbene prodotte da tutta la Trinità, ci unissero in modo speciale alla Persona dello Spirito Santo, come nostro fine, all’oggetto particolare della nostra conoscenza e del nostro amore. – Ma nessuna di queste ipotesi può essere sostenuta: la prima, perché va direttamente contro un principio universalmente accettato in teologia e più volte citato dai Concili, cioè che le opere esterne sono comuni a tutte e tre le Persone: Opera ad extra sunt tribes personis communia (Ex. Symb. fidei Conc. Tolet., XI.); il secondo, perché lo stato di grazia quaggiù, non più della gloria del cielo, non ha l’effetto di unirci particolarmente con l’una o l’altra delle Persone divine, ma con Dio considerato nell’unità della tua essenza e della Trinità delle sue Persone. Non è lo Spirito Santo come Persona distinta, bensì è l’Essenza divina che è il nostro ultimo fine, l’oggetto il cui vero, ma oscuro possesso, costituisce in questa vita l’anticipazione della nostra felicità, e la cui chiara visione deve un giorno renderci perfettamente beati e realizzati. Sia che si consideri nella sua causa efficiente, o si consideri nei suoi effetti, cioè nei rapporti di intima unione che stabilisce, come perfetta amicizia, tra Dio e l’anima, la grazia o la carità non trova un rapporto speciale tra lo Spirito Santo e noi; e l’unione di cui è il principio, appartiene ugualmente alle tre Persone. Tuttavia, sebbene comune a tutta la Trinità, l’inabitazione divina, essendo opera d’amore, conseguenza e frutto d’amore, è naturalmente attribuita a quella delle Persone che è in Dio l’Amore sussistente, come ben spiega il Catechismo del Concilio di Trento, « Anche se tutte le opere esterne – esso dice – siano comuni alle tre Persone, molte di esse sono attribuite come proprie dello Spirito Santo, per farci comprendere che esse provengono dall’immensa carità di Dio verso di noi. Infatti, poiché lo Spirito Santo procede dalla volontà divina infiammata d’amore, possiamo così riconoscere che gli effetti a Lui appropriati abbiano la loro fonte nell’amore sovrano di Dio verso di noi. » (Ex Catech. Rom., p. I, a. VIII, n. 8.) – Quando, dunque, la Scrittura o i Padri ci rappresentano lo Spirito Santo come l’Autore della grazia e della carità, e ospite delle nostre anime, invece di voler trovare in queste espressioni il segno manifesto di una causalità propria di questo Spirito divino, o l’indicazione di un’unione diretta e immediata con le nostre anime, che sarebbe personale con Lui, dovremmo vedere solo un’appropriazione basata sul rapporto di analogia che esiste tra i doni della grazia e la caratteristica dello Spirito Santo. È, infatti, del tutto naturale attribuire gli effetti dell’amore, come la grazia, la carità, l’inabitazione divina, a quella delle Persone divine che procede nella capacità di amare. Indubbiamente, è da tutta la Trinità che la virtù della carità proviene, come causa efficiente; senza dubbio, l’esemplare primordiale a cui ci assimila è, soprattutto, l’amore essenziale comune alle tre Persone; in altre parole, è Dio come carità assoluta; tuttavia, se consideriamo il carattere proprio di ciascuna delle Persone divine, è indiscutibile che la carità offre una maggiore analogia, una somiglianza più evidente con lo Spirito Santo che con il Padre e il Figlio. Che cos’è, infatti, la carità, se non un legame dolce e forte che ci unisce a Dio, un’inclinazione abituale che ci conduce a Lui, e quindi un’imitazione espressiva di quella tra le Persone divine che è, in virtù della sua stessa processione, l’amore del Padre e del Figlio, il nodo che li allaccia? Questo è ciò che l’Apostolo san Paolo ha voluto chiarire quando ha detto che « la carità è riversata nei nostri cuori dallo Spirito Santo, che ci è stato dato: Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum sanctum, qui datas est nobis. » (ROM. V, 5). – Tutta questa dottrina è stata mirabilmente riassunta da san Tommaso in poche e sostanziali frasi che meritano di essere menzionate: « È necessario sapere – egli dice – che i beni che ci vengono da Dio si riferiscono a Lui come causa efficiente ed esemplare: come causa efficiente, in quanto effetti della potenza divina; come causa esemplare, in quanto imitano, in una certa misura, le perfezioni che sono in Dio. Poiché il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno una sola potenza e una sola essenza, ne consegue che tutto ciò che Dio opera in noi proviene in realtà dalle tre Persone come sua causa efficiente; tuttavia, la consapevolezza che Dio ci dà di Sé anche attraverso il dono della sapienza è una giusta rappresentazione del Figlio; allo stesso modo, l’amore con cui amiamo Dio rappresenta lo Spirito Santo in particolare. Così, anche se la carità che è in noi, sia l’opera del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, si dice tuttavia che essa sia stata riversata in modo particolare nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo. (Rom. V, 5) » (S. Th., Contr. Gent., 1. IV, c. XXI.) – Questo è l’insegnamento di tutti gli scolastici, tale l’interpretazione che hanno costantemente dato ai testi i sostenitori dell’inabitazione propria dello Spirito Santo. Tutti dichiarano formalmente che non ci sia unione reale e immediata con la terza Persona della Santissima Trinità più che con il Padre e il Figlio. E, unendo la propria voce a quella dei rappresentanti più autorevoli della scienza teologica, il Sommo Pontefice Leone XIII canonizzava in un qualche modo, adottandolo, l’insegnamento comune della Scuola. Ecco, in effetti, come ha spiegato il punto controverso nella sua Enciclica Divinum illud munus: « Questa mirabile unione, chiamata col suo vero nome inabitazione, sebbene prodotta veramente da tutta la Trinità presente nell’anima, è tuttavia attribuita allo Spirito Santo, come se gli appartenesse in modo particolare, de Spiritu Sancto tamquam peculiaris prædicatur. Non è quindi specifico o personale, ma solo appropriato: tanquam peculiaris prædicatur è il termine consacrato per semplice appropriazione. Sarebbe quindi temerarietà in questo momento sostenere ulteriormente che l’inabitazione divina, di cui i Libri Santi parlano così spesso, sia proprietà della terza Persona, e non sia patrimonio comune di tutta la Santissima Trinità.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/02/20/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-8/

LO SCUDO DELLA FEDE (98)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (9)

Si risponde a chi abusa il nome di naturaa negare Iddio.

I .

I . Plinio, istorico grande, ma tracotante, che quanto seppe dell’opere naturali, tanto ne ignorò dell’Artefice; dopo molto dibattere la sua penna per iscancellarsi dal cuore ciò che vi aveva da sé scritto chi lo formò, giunse finalmente a conchiudere che altro Dio non doveva conoscersi al mondo, che la natura: Per quæ declaratur haud dubie naturae potentia: idque esse, quod Deum vocamus (Pl.l.2.c. 7).(1) Queste parole di Plinio contengono la definizione del naturalismo metafisico, dottrina, che pone la natura al posto di Dio). Sembra però, che gli ateisti abbiano appreso dalla scuola caliginosa di un tale autore a non volere altro nume, che questo nume di natura, per altro venerandissimo, tanta è la sua antichità. Ma se è così, calino dunque pure giù la cortina, e ci lascin vedere ciò che si asconde sotto sì degno vocabolo. Intendono forse eglino per natura quella radice di proprietà singolare di ciascuno individuo? Ma ciò sarebbe, come se per levare la gloria a Fidia, si asserisse per autore delle sue statue il marmo, gli scarpelli, le seste, e non la mente di quell’artefice sommo. Conciossiachè, siccome quantunque il marmo sia capacissimo di ricevere la figura d’uomo, e gli scarpelli e le seste sian capacissimi di esser istrumenti a donargliela; contuttociò né quello né questi avrebbero da sé soli mai fatto nulla senza la mano maestra: così forza è che succeda nel nostro caso, anzi molto più; perchè se senz’arte non può mai formarsi verun lavoro dall’arte, molto meno senz’arte può mai formarsene alcuno dalla natura, la quale è quella che dà le regole all’arte.

II.

II. Pigliate in mano una rosa, e domandate a costoro, se sanno dirvi chi le lavorò sì gentilmente quel manto cui cede lo scarlatto ancora reale, e chi segue già, da tanti anni che il mondo dura, a lavorargliene ogni primavera un novello? La terra è cieca e non s’intende di colori, di vistosità, di vaghezza, di proporzioni; cieche sono le spine onde pullula sì bel fiore, cieche le radiche, ciechi i rami: cieche son le rugiade che ella ha per latte; e cieco il sole che le apre sul mattino la boccia su cui pompeggia, e che l’aduggia alla sera, per figurare a quanti vogliono attendervi de’ mortali, la vanità delle loro ambite bellezze: Magna admonitione hominum, quæ spectatissime florent, ertissime arescere. (Pl. . 21, c. 1). Conviene pur dunque trovare a parto sì vago una madre più bella che non è la terra, le spine, le radiche, i rami, l’umore, il sole, e gli influssi che piovono dalle stelle. Convien trovare chi mai fu che vi seppe dispor sì bene il vermiglio di quella porpora, diminuendolo a poco dalle foglie più intrinseche alle più estrinseche, senza svario. Convien trovare chi vi innestò sì profondamente l’odore che esse diffondono con pari soavità da qualunque lato. Convien trovare chi dispose quelle venette che vi scorrono dentro, e insieme vi ripartiscono l’alimento per tante vie, quante l’anatomia loro propria ne ha già scoperte. Convien trovare chi collocò tutte quelle foglie a suo luogo, chi le torse con tanto garbo, chi le agguagliò con tanta misura, chi le attondò con tanta maestria, chi vestì ciascuna di un velo finissimo più che il bisso, chi le coperse di una lanugine delicata, quasi a testificarne la giovinezza, e chi finalmente vi compilò tanto di stupori in un guardo, che la vita di un uomo sarebbe corta, se li dovesse trascorrere ad uno ad uno (S. Th. 1. 2. q. 21. art. 2. in e). Tutto questo doveva di necessità essere artifizio di una cagione sapientissima, la quale si valesse della materia variamente disposta della terra, delle spine, delle radici, de’ rami, delle rugiade, del calor solare, e degli altri influssi, come lo scultore si vale del marmo, degli scalpelli, delle seste, e d’ogni suo ferro, a perfezionare il disegno di quella statua che egli divisò nella mente: onde vano è per questo vocabolo di natura, nel caso nostro, intendere altro che Dio, primo Autore delle opere naturali.

III.

III. Oltre a che non veggiamo noi, come in tutte le parti, benché insensate, dell’universo, spicca una inclinazione, la quale sarebbe mirabile ancor tra quei che professano regole di onestà: ed è, d’intendere al bene del loro tutto, più che al loro proprio? qual dubbio adunque che non può questa in veruna di tali parti venire impressa da altri, che da una cagione universalissima, a cui appartenga la cura del prò comune? Eccovi per figura l’argento vivo. Se egli non fosse predominato da altra propension che da quella del proprio comodo, come volete voi che egli s’inducesse a salire in alto, quasi agile e non gravoso? Eppure egli sale, e sale a questo sol fine di empiere il vacuo, pregiudiziale alla pubblica utilità. Che però questa e più altre simili osservazioni che possono farsi sull’operare delle sostanze in bene non proprio, ci fanno scorgere ad evidenza, che oltre alle nature particolari, le quali a guisa di un padre di famiglia provvedono allo loro case private, v’è al mondo una natura universale, che a guisa di principe supremo invigila tutt’ora al servigio pubblico, valendosi a tal fine delle parti subordinate,, con accorgimento mirabile in prò del tutto. Senza questo supremo intelletto, nessuna delle nature inferiori potrebbe andare sì diretta al suo fine, qual nave al porto. Tolto questo intelletto, ciascuna natura mirerebbe a sé sola, nessuna al bene delle altre (Queste giuste considerazioni ci ricordano i versi di Dante: « … Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma, che l’universo a Dio fa somigliante – Par. c. 1. » ). Tolto questo intelletto, 1’uomo non potrebbe essere uomo, cioè non potrebbe essere ragionevole (S. Th. 1. p. q. 90. art. 1. ad 1.). Conciossiachè non v’essendo tra le cagioni visibili verun’altra, la quale possegga la perfezione d’intendere come lui, non si potrebbe rinvenir mai chi gli desse l’intendimento Che se pure vogliamo dire, che tolto questo intelletto supremo, l’uomo fosse quell’uomo che egli è al presente; l’uomo sarebbe altresì, come ragionevole, la cagione più nobile di quanto noi ne miriamo nel nostro mondo. E chi vi è di maggiore dal cielo ingiù, che la mente umana? Nihil est maius mente humana, nisi Deus; tanto è costretto a confessare ciascuno con Agostino (L. 14. de Trinit. c. 8): onde le invenzioni dell’ uomo, le industrie dell’uomo, i lavori dell’uomo dovrebbero superare tutte lo opere delle cagioni inanimate e prive di senno, e superarle di modo, che a tutte le fatture della natura dovrebbero preferirsi di lunga mano tutte le manifatture dell’arte, come provenienti dall’unico intenditore che in tutto l’universo sensibile rimarrebbe se si verificasse che non v’è Dio.

IV.

IV. Ecco però Dio nascosto insieme e svelato sotto questo nome sì celebre di natura,

che (a metterlo ancor più chiaro) ha due sensi: quello di natura, che chiamano naturata (seppure voi pigliate a sdegno i vocaboli delle cattedre), e quello di natura che chiamano naturante (Natura naturans … est Deus. Natura naturata est rerum omnium creatarum insita vis (Lexicon Peripat.). Con questa metafisica distinzione il naturalismo cade da sé.). La natura naturata è quella inclinazione che spinge qualunque cosa al conseguimento del fine a cui fu prodotta. La natura naturante è l’autore che dà tal inclinazione. Perché, come il volo della saetta, la quale è cieca a conoscere il suo bersaglio, dimostra apertamente, mentre vi va sì risoluta, sì retta, che ella è mandata da qualche direttore di buona vista; così il corso delle cose naturali, che sono cieche a conoscere il loro fine, dimostra più chiaramente (mentre vi tendono) che v’è chi il vede per esse e chi le inclina, o piuttosto ve le necessita; ma con questa diversità, che quella necessità la quale è impressa nelle cose dall’uomo è detta violenza; quella necessità la quale fu impressa nelle cose di Dio vien detta natura (S. Th. 1. p. q. 103. art. 1° ad 3.). Onde, se il veder la saetta necessitata a seguir con aggiustatezza il cinghial fuggente, ci obbliga a dire, evvi arciere che la scoccò: molto più il vedere la terra, l’acqua, l’aria, e tutte le sfere, necessitate a procedere con giudizio tanto più stabile e tanto più sollevato ne’ lor corsi, ci obbliga a dire, evvi nume che le indirizza. Mirate dunque, che come non può fuggirsi dal mondo senza incontrare quel mondo da cui si fugge, così non può negarsi Dio senza confessarlo. Il chiamare natura quella potenza invisibile che dà l’ordine a cose sì belle in sé, sì concatenate, sì comode, sì durevoli, e non volerla chiamare Dio, è un chiamare il sole principe de’ pianeti e non voler per dispetto chiamarlo sole. Può bene la lingua umana cambiargli titoli, ma non può gettarlo dal trono: Nòli intelligis te mutare nomen Deo? Disse già Seneca. Quia est aliud natura, quam Deus, et divino, ratio, toti mundo, et partibus eius inserta (Sen. De ben. 1. 4°. c. 7.). E però torna da capo il mio primo assunto, ed è, che più dovete penare senza paragone a persuadervi che non v’è Dio, che a persuadervi che v’è: tanto gli effetti cospirano unitamente a notificarvi il loro fattore.

V. Finora abbiamo veduto ciò. stando più sulle generali, per abbattere chi non crede. Orail vedremo discendendo maggiormente allocose particolari, per confortare tanto più chicomincia a credere. E perché questo fattoredell’universo è chiamato in ristretto Creatordel cielo e creatore della terra, stimerò difare il pregio dell’opera, se vi mostri, comei l cielo testifica a favor d’ esso, e come laterra.

“UNA CUM FAMULO TUO, PAPA NOSTRO …”

UNA CUM PAPA NOSTRO …”  GARANZIA DI GRAZIA SOPRANNATURALE  ED UNICA VIA DI SALVEZZA

L’UNIONE CON IL SOMMO PONTEFICE (quello canonicamente eletto in un vero e valido Conclave con Cardinali nominati dalla “vera” ed unica Autorità Apostolica, cioè il vero Papa!), è “condicio sine qua non” per

l’ETERNA SALVEZZA DELL’ANIMA.

“Chi aderisce ad un falso [o finto usurpante] Papa, diceva già S. Cipriano, è assolutamente fuori dalla Chiesa Cattolica – quindi sulla via della dannazione – come pure gli scismatici senza giurisdizione o missione con i loro settari, che sacrilegamente amministrano falsi sacramenti e false messe senza “una cum Papa nostro …” , l’unico garante della fede, dei Sacramenti e delle azioni liturgiche, e senza il quale, tutto il resto risulta inutile, anzi sacrilegio degno di riprovazione e condanna eterna. Ma sentiamo come si esprime la Dottrina immutabile e perenne della Chiesa Cattolica, per bocca del suo massimo teologo, l’Angelo della scuola, San Tommaso d’Aquino:

T. Pégues, O. P.:

LA SOMMA TEOLOGICA di S. Tommaso D’Aquino In forma di Catechismo per tutti i fedeli; (trad. aut. A. Romani) – ROMA, Marietti, 1922 p. 452, Impr ., (interamente pubblicato sul blog):

Sull’importanza vitale dell’essere in unione con la Giurisdizione papale onde  ricevere la grazia soprannaturale:

D. Perché questo potere supremo nell’ordine della Giurisdizione appartiene al Sovrano Pontefice?

R. Perché la perfetta unità della 9Chiesa esige che questo potere supremo appartenga a lui solo. Per questo motivo Gesù Cristo ha incaricato Simon Pietro di nutrire il suo gregge; e il Romano Pontefice è l’unico e solo legittimo successore di San Pietro fino alla fine dei tempi (XL. 6).

D. È quindi dal Sovrano Pontefice che dipende l’unione di ogni uomo con Gesù Cristo attraverso i Sacramenti, e di conseguenza la sua vita soprannaturale e la sua salvezza eterna?

R. ; poiché sebbene sia vero che la grazia di Gesù Cristo non dipende in modo assoluto dalla ricezione dei Sacramenti stessi quando è impossibile riceverli, almeno nel caso degli adulti e che l’azione dello Spirito Santo possa integrare questo difetto purché la persona non sia in malafede; è, d’altra parte, assolutamente certo che nessuno che si separi consapevolmente dalla comunione con il Sovrano Pontefice, possa partecipare alla grazia di Gesù Cristo, e che di conseguenza …

se muore in quello stato si perde irrimediabilmente “.

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (6)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (6)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’Ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°)

P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

SECONDA PARTE

DELLA SPECIALE PRESENZA DI DIO, O DELLA ABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI

CAPITOLO IV

Spiegazione della modalità specifica di presenza con la quale Dio onora i giusti della terra e i Santi in cielo

§  I. –  Come Dio sia presente con la sua sostanza all’intelligenza e alla volontà dei beati, in qualità di verità primaria e  sovrano Bene.

I.

Nell’elencare i diversi modi della presenza sostanziale che Dio può avere negli esseri creati, San Tommaso, come abbiamo notato, ne conta solo tre: come agente, come oggetto di conoscenza e di amore, e mediante l’unione ipostatica. Non ne ha forse omesso o dimenticato un quarto: quello che conviene agli eletti in cielo? (Trid., sess. XIII, c. III.).  – Infatti, se Dio deve essere unito in modo efficace ed intimo a certe creature, lo è certamente agli spiriti benedetti che possono contemplarlo faccia a faccia e trovare nel suo possesso la loro felicità suprema. Ebbene, no! Il santo Dottore non ha dimenticato od omesso nulla, e la numerazione che ci dà è completa, poiché l’unione della Divinità con i giusti della terra non è di natura assolutamente diversa da quella che è prerogativa dei Santi che godono della beatitudine. – Secondo l’esplicita e formale dichiarazione del Sommo Pontefice Leone XIII, « questa mirabile unione, chiamata col suo vero nome di inabitazione, differisce solo nella condizione o stato da quella che fa la felicità degli abitanti del cielo: Hæc autem mira conjunctio, qaæ suo nomine inhabitatio dicitur, conditione tantum seu statu ab ea discrepat qua cælites Deus beando complectitur (Encycl. Divinum illud munus).  Si differenzia da essa come l’inizio di un’opera si distingue dal suo coronamento, come il seme si distingue dal frutto che ha raggiunto la maturità. La grazia, infatti, è il seme della gloria; inaugura qui sulla terra, anche se in modo imperfetto, la vita che ci è riservata in cielo. – Ora la vita eterna consiste nella conoscenza dell’unico vero Dio e del suo inviato Gesù Cristo: Hæc est vita æterna, ut cognoscant te solum Deum verum, et quem misisti, Jesum Christum (Giov. XVII, 3); non di questa conoscenza mediata, astratta, oscura, che è la nostra partecipazione a questa vita, e che attinge alle opere di Dio e alla verità rivelata; ma nella visione diretta e immediata, nella contemplazione “chiara” di faccia, intuitiva dell’essenza divina; nel possesso e nel godimento del Bene sovrano; in altre parole, consiste nella presenza reale e sostanziale di Dio nella mente e nel cuore dei beati come oggetto diretto della loro conoscenza e del loro amore: ut cognitum in cognoscente et amatum in amante. – Se vogliamo quindi avere un’idea chiara e precisa di questo tipo di presenza, dobbiamo considerarla non come offertaci nella persona dei giusti della terra, dove è ancora in uno stato rudimentale, sotto forma di un germe; ma come esiste nei Santi del Paradiso, nei quali è giunta al suo pieno sviluppo; così come, per apprezzare pienamente ciò che è l’uomo, la sua natura, le sue facoltà, le sue operazioni, egli debba essere studiato non nello stato di embrione o di feto, durante i primi mesi della sua esistenza nel grembo materno, ma nello stato di essere perfetto, durante il periodo della vita in cui ha raggiunto il suo pieno sviluppo, la sua regolare e normale perfezione. Cerchiamo dunque di capire come Dio sia unito ai beati che sono già giunti alla fine del loro pellegrinaggio. È una verità della nostra fede che l’eletto in cielo veda Dio faccia a faccia, apertamente, chiaramente, intuitivamente, senza intermediari, così come è, nell’unità della sua essenza e nella Trinità delle sue Persone. (Ex Const. Benedictus Deus, Bened. XII, an. 1336). È in questa visione chiara e nel godimento che l’accompagna, che consiste la promessa corona di giustizia, come ricompensa, alle nostre opere meritorie. (« In reliquo reposita est mihi corona justitiae, quam reddet mihi Dominus in illa die jus tus judex : non solum autem mihi, sed et iis qui diligunt adventum ejus. » – II Tim., IV, 8). Ma come diventa possibile per la creatura una tale visione, che naturalmente appartiene e può solo naturalmente appartenere a Dio? Come si realizzerà questo effettivamente nei fatti?  – Secondo l’insegnamento dei filosofi scolastici, la nostra intelligenza, o meglio qualsiasi intelligenza creata, qualunque essa sia, non è e non può essere la causa totale ed esclusiva ed efficace del suo atto di conoscere. Facoltà passiva oltre che attiva, incapace di ricevere tanto quanto è capace di produrre, atta a conoscere ogni cosa, ma indeterminata per se stessa ed indifferente a cogliere questo o quello, l’intelligenza creata rimane inerte, finché non sia completata, azionata, mossa, fecondata da una qualità accidentale, una forma che gli venga dall’esterno, che si unisca ad essa in una strettissima unione, la perfezioni, la determini, la renda capace di produrre il suo atto, e diventi con essa co-principio del verbo mentale in chi e da chi conosce. Questa forma, questa determinazione, questa attuazione dell’intelligenza, non è altro che l’immagine o la rappresentazione intellettuale dell’oggetto che si tratta di conoscere, poiché è quasi sempre fuori dallo stato di potersi unire direttamente e da se stesso alla facoltà cognitiva. Da qui questo assioma mutuato da Sant’Agostino, che la conoscenza è il prodotto di un doppio fattore, l’oggetto e la facoltà.  – Nell’Angelo, una natura perfetta che non conosce infanzia, questo necessario complemento all’intelligenza gli arriva direttamente da Dio, dal quale, nel momento della sua creazione, riceve con l’essere le idee infuse di ogni cosa. Per l’uomo, invece, che arriva solo lentamente e per gradi, passando attraverso le diverse fasi dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza, in quell’età perfetta in cui ha il suo pieno sviluppo fisico ed intellettuale, questo complemento indispensabile gli viene in origine dai sensi. È la specie impressa, la forma intelligibile degli scolastici. E notiamo di passaggio che, nonostante l’origine estrinseca di questo elemento, il nostro atto di conoscenza intellettuale, il nostro intelligere, non cessa per questo di essere chiamato e di essere effettivamente un atto vitale, un movimento immanente, un motus ab intrinseco; perché la specie o l’immagine intelligibile dell’oggetto si unisce alla nostra facoltà per modalità di forma per effettuarla, perfezionarla e specificarla, determinandola a conoscere un oggetto piuttosto che un altro. – Con questi principi in mente, chiediamoci quale sarà, nella visione beatifica, la forma intelligibile che, unendosi al nostro spirito, gli permetterà di vedere Dio come è in se stesso.

II.

Ogni volta che San Tommaso affronta questa questione, e lo fa in una moltitudine di passaggi, insegna che nessuna immagine, nessuna forma intelligibile creata sia in grado di rappresentare adeguatamente l’essenza divina, dal momento che questa essenza è infinita, mentre ogni essere creato, qualunque esso sia, sostanza o accidente, non riceve mai dall’atto creativo che una natura determinata e finita, limitata ad un genere e ad una specie, e quindi si trova radicalmente incapace di rappresentare quidditativamente Colui che è la pienezza dell’essere. È quindi assolutamente necessario che l’essenza divina stessa si unisca all’intelligenza dei beati e svolga il ruolo di forma intelligibile. (S. Th., Comp. Theol., Opusc. III, cap. CV.). – Inoltre, secondo l’angelico Dottore, affermare che Dio è visto per mezzo di un’immagine, di una specie intelligibile, di una rappresentazione creata, è negare in modo equivalente la visione intuitiva: Unde dicere Deum per similitudine nem videri, est dicere divinam essentiam non videri; quod est erroneum (Summa Theol.. I, q. XII, a. 2). Ma questa unione dell’essenza divina con l’intelligenza creata è possibile? Sì, perché Dio è la verità vivente, come è l’Essere stesso, e la verità è la perfezione dell’intelligenza. Ipse enim sicut est suum esse, ita est sua veritas, quæ est forma intellectus (S. Th., Comp. Theol., cap. CV). – C’è tuttavia, una condizione preliminare, ed è che l’intelletto creato sia preparato e disposto a questa unità da una forza, una perfezione soprannaturale, che lo elevi al di sopra della sua condizione originaria; è lo stesso di quando, prima di insegnare a qualcuno una scienza superiore, ad esempio la teologia, o il calcolo infinitesimale, sia necessario, mediante una preparazione adeguata, che si renda il soggetto capace di ricevere questo insegnamento. Questa forza, questa qualità soprannaturale, che eleva, conferma e prepara la nostra anima a questa beata unione, non è altro che la luce di gloria (Ibid.). – Così, secondo San Tommaso, per vedere Dio intuitivamente, sono necessarie due cose: l’una che sta dal lato della facoltà creata e che ha lo scopo di rafforzare, ampliare, elevare il suo potere, ed è il ruolo della luce della gloria; l’altra che sta dalla parte dell’oggetto, è l’unione diretta e immediata dell’Essenza divina con l’intelligenza creata chiamata a contemplarla. Inutile cercare se questa essenza divina adempia rigorosamente le funzioni di specie impressa rispetto alla nostra intelligenza, o se non lo faccia che in maniera impropria, e in senso puramente analogico; in effetti, tutti sanno che, se la natura divina è la forma esemplare, il prototipo di tutte le cose, non può essere il principio formale intrinseco di qualsiasi creatura, (S. Th., Summa TheoL, I, q. III, a. 8), e che, se certe perfezioni sono comuni al Creatore e alla creatura, esiste, nel modo di possederle, una tale disparità che nulla possa essere attribuito ad ognuna di esse in senso identico (Id., ibid., I, q. XIII, a. 5). Del resto per evitare ogni malinteso, san Tommaso dichiara esplicitamente che, nella visione beatifica, l’Essenza divina svolge il ruolo di specie intelligibile, senza essere, in senso stretto, la forma dell’intelligenza creata (S. Th., Qq. disp., de verit., q. VIII, a. I). – Possiamo quindi considerare come una cosa inequivocabile che l’essenza divina è direttamente unita all’intelligenza dei beati in cielo, per essere, con essa, co-principio della visione beatifica; e poiché è questa stessa Essenza che deve essere vista, è allo stesso tempo  il termine e l’oggetto di questa visione; così che questa Essenza divina è sia l’alfa che l’omega, il principio ed il termine di questa operazione vitale che costituisce la beatitudine formale dei Santi. – Come non riconoscere allora, tra la Divinità e gli eletti in cielo, una vera e propria unione, poiché Dio può essere visto e posseduto solo se è presente al loro spirito di per Se stesso, e non con la sua immagine, per suam essentiam, et non per speciem essentiæ repræsentativam; un’unione speciale e formalmente distinta da quella che può avere ed ha effettivamente con le altre creature, poiché non è più solo come agente che Egli è nel beato, ma anche e soprattutto come oggetto di conoscenza e di amore, di conoscenza intuitiva, di amore beatifico; un’unione che, senza condurre all’unità di sostanza e, nel rispetto della doppia personalità di Dio e dell’essere creato, li mette in relazioni così intime che l’uno diventa la beatitudine e la perfezione suprema dell’altro. Quale sarà questa visione di Dio, questa contemplazione della bellezza infinita, ciò che essa porterà in gioia, dolcezza, delizia, nessuno lo sa, tranne Colui che la dà e colui che ne gode, nemo scit, nisi qui æcipit. (Apoc. II, 17). – Gli autori ispirati, ai quali lo Spirito Santo si è degnato di rivelarne qualcosa, ci dicono che sarà piena di tutti i nostri desideri « Qui replet in bonis desiderium tuum. » (Ps. CII, 5.) — « Satiabor cum apparuerit gloria tua. » (Ps. XVI, 15), un vero torrente di delizie capace non solo di riempire il nostro cuore, ma di inondarlo veramente; sarà sicuramente una conoscenza non arida e fredda, come un pallido raggio invernale, ma ardente, gustosa, sovranamente deliziosa, che genererà nella volontà un amore immenso, irresistibile, ininterrotto, ed una gioia tanto grande, quanto il nostro cuore ne potrà contenere.

III.

Presente con la sua sostanza all’intelligenza dei beati, potrebbe Dio essere mai assente dalla loro volontà? Quello che succede nella prima di queste facoltà non avrebbe conseguenze sulla seconda? Ciò che accade nell’ordine della conoscenza non avrebbe le sue necessarie ripercussioni nell’ordine dell’amore? Non è forse una verità universalmente accettata dai filosofi che tutte le forme sono seguite da un’inclinazione proporzionata? (S. Th., Summa Theol.,1, q. LXXX, a. I). L’amore, in effetti, segue naturalmente la conoscenza, e l’unione è il fine regolare dell’amore. Vedendo Dio faccia a faccia, i Santi del cielo sono nel felice bisogno di amarlo. E infatti, come potrebbe la loro volontà non essere portata, con impulso irresistibile, verso Colui che la loro intelligenza chiaramente conosce e propone loro apertamente come il Bene sovrano? E poiché lo possiedono, senza timore di perderlo, come non trovare in Lui la dilettazione suprema? Ma il godimento non si ha senza l’effettiva presenza dell’oggetto amato. Se allora Dio è veramente unito alla loro intelligenza come oggetto di conoscenza, Egli deve anche, diciamo meglio, deve essere il più forte motivo per cui deve essere realmente ed efficacemente unito alla loro volontà come oggetto di amore, perché « l’amore è più unificante della conoscenza: Amor est magis unitivus quam cognitio. » (S. Th., Ia.-IIæ, q. XXVIII, a. 1, ad 3). – Inoltre, una semplice unione d’affezione sarebbe assolutamente insufficiente per il perfetto e completo godimento che la beatitudine implica. L’unione d’affezione esiste certamente, poiché i beati amano Dio e sono da Lui amati, e l’amore consiste formalmente in questo legame morale che avvicina e incatena i cuori; ma l’amore tende e aspira all’unione reale, e la produce per quanto possibile: e a seconda che l’unione sia reale o solo affettiva, ci sono due modi di amare, uno di godimento, l’altro di desiderio. Ora, è l’unione del godimento che regna in cielo, poiché ogni legittimo desiderio vi è soddisfatto. Vedremo ciò che abbiamo creduto, possederemo ciò che abbiamo sperato e cercato nel modo, finalmente godremo pienamente, sicuramente, eternamente, il Bene supremo. È allora che l’opera della nostra divinizzazione sarà completa e compiuta, e noi saremo perfettamente simili a Dio, tutti permeati, tutti impregnati di Dio, tutti divini. Di già senza dubbio, noi gli somigliamo, avendo in noi un dono creato sovranamento prezioso, che è una partecipazione formale della sua natura; (« Maxima et pretiosa nobis promisse donavit, ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ. » II Petr., I, 4); già siamo suoi figli per adozione, con diritto all’eredità paterna; ma non si dice l’ultima parola del nostro destino; quello che un giorno saremo non appare ancora: « Charissimi, nunc filii Dei sumus, e nondum apparuit quid erimus » (I Giov. III, 2). È quando si mostrerà a noi senza ombre e veli, quando lo vedremo faccia a faccia e allo scoperto, quando ci apparirà così com’è, che saremo pienamente simili a Lui. « Scimus quoniam, cum apparuerit, similes ei erimus, quoniam videbimus eum sicut est » (Ibid.). Allora vivremo la sua vita, conoscendolo e amandolo, anche se in modo finito e limitato, come Egli stesso si conosce e si ama: « Tunc cognoscam sicut et cognitus sum » (I Cor. XIII, 12); perché la vita intima di Dio consiste nella conoscenza e nell’amore che ha del suo Essere e delle sue divine perfezioni. Ottenuto questo fine, il nostro desiderio di conoscenza sarà pienamente soddisfatto, la nostra sete di felicità completamente appagata, perché l’essenza divina, unita alla nostra intelligenza, sarà un principio sufficiente a farci conoscere tutta la verità: e, d’altra parte, possedendo la fonte di ogni bene e di ogni bontà, cos’altro potremmo mai ancora desiderare? (S. Th., Comp. TheoL, cap. CVI). Allora si compirà definitivamente la preghiera che il Salvatore ha formulato il giorno prima della sua morte per i suoi discepoli e per coloro che avrebbero creduto in Lui nei secoli successivi: « Padre Santo, custodite nel vostro nome quelli che mi avete dato, perché siano uno come noi….. » – « Che tutti siano uno solo, o Padre, come Voi siete in me e Io in Voi. Che siano anch’essi una cosa sola in noi, affinché il mondo veda che Voi mi avete mandato. E ho dato loro la gloria che Voi mi avete dato, affinché siano uno come noi. Io in loro, Voi in me; che possano essere consumati nell’unità. Et ego claritatem quam dedisti mihi, dedi eis, ut sint unum, sicut et nos unum sumus. Ego in eis, et tu in me, ut sint consummati in unum. » (Giov. XVII, 11-23). Così l’unione, l’unione di tutti con Dio, l’unione di tutti in Dio, l’unione consumata, tale è il voto supremo del cuore di Gesù, pienamente realizzato nella gloria, e di cui un primo adempimento, si riceve già fin da questa vita, per grazia e carità. Ci si domanderà ora, ancora una volta, se l’inesistenza di Dio nei Santi, come oggetto di conoscenza e di amore, sia una presenza veramente sostanziale? Coloro che non riusciranno a capire che questo tipo di presenza potrebbe essere efficace e reale, e non limitarsi solo ad una semplice unione oggettiva e morale, saranno più felici ora? Noi osiamo credere che le difficoltà così spesso proposte su questo punto saranno scomparse come per incanto, e che i lettori che sono stati così benevoli nel seguirci fino ad ora, comprenderanno facilmente il significato e la portata delle seguenti parole di san Tommaso: « Con la sua operazione, cioè con la conoscenza e l’amore, la creatura ragionevole raggiunge la sostanza stessa di Dio; ecco perché, invece di dire che, secondo questo particolare modo di presenza, Dio è nell’anima giusta, si dice che abita in essa come nel suo tempio. Et quia cognoscendo et amando creatura rationalis sua operatione attingit ad ipsum Deum, secundum istum specialem modum Deus non solum dicitur esse in creatura rationali, sed etiam habitare in ea sicut in templo suo. » (S. Th., I, q. XLIII, a. 3). Essi capiranno anche la ragione dell’insistenza del santo Dottore nel ripetere che la sola grazia santificante possa solo procurare questo particolare modo di presenza. Sola gratia facit singularem modum essendi Deum in rebus. (Id., q. VIII, a. 3, ad 4). – Questo perché la conoscenza che abbiamo di Dio nell’ordine naturale, essendo una conoscenza indiretta e astratta, non la rende veramente presente alla nostra anima; è nella nostra intelligenza solo attraverso il concetto che la rappresenta, e quindi in modo puramente ideale e oggettivo, e non efficace e reale. La fede ce lo fa conoscere, è vero, più perfettamente della ragione, perché essa ci inizia, anche se in modo oscuro ed enigmatico, ai segreti della sua vita intima; ma la fede da sola, separata dalla carità, non basta a rendere Dio veramente presente nella comprensione del fedele, per farlo abitare in lui; ciò che ha il peccatore che ha la fede, non è Dio stesso, ma l’idea di Dio, cioè un concetto soprannaturale che lo rappresenta. Solo la grazia santificante, almeno quando ha raggiunto il suo apogeo e il suo pieno sviluppo, come nei Santi del cielo, esige, richiede, conduce alla vera, reale, sostanziale presenza di Dio nell’anima beata come oggetto di conoscenza e di amore: la presenza dell’essenza divina nella sua intelligenza per consentirle di vedere Dio così com’è; la presenza del sovrano Bene nella sua volontà perché possa goderne e dilettarsi del suo possesso.

CAPITOLO V

Spiegazione del particolare modo della presenza con la quale Dio onora i giusti della terra e i Santi del cielo.

(seguito)

§ II – Come la grazia produca nei giusti della terra una presenza di Dio simile a quella dei Santi in cielo.

I.

Ma possiamo dire lo stesso dei santi di questo mondo? Possiamo legittimamente applicare ai giusti, ancora lungo la strada, ciò che è appropriato per gli eletti che sono già arrivati al termine, ed affermare che la grazia produca in loro una presenza, reale e nello stesso tempo speciale, di Dio come oggetto di conoscenza e di amore? Non c’è una differenza capitale tra questi due stati? Non è forse ovvio, innanzitutto, che l’essenza divina non sia direttamente e immediatamente unita all’intelligenza dei viaggiatori, come abbiamo detto per i comprensori (che godono già della visione di Dio), per essere il principio e il termine di una conoscenza intuitiva? – Senza dubbio, altrimenti vedremmo Dio faccia a faccia, e la fede avrebbe lasciato il posto alla luce piena della visione. Ma, pur confessando con l’Apostolo che la nostra attuale conoscenza della Divinità sia essenzialmente oscura ed enigmatica, imperfetta e speculare, (I Cor., XIII, 12), non arriviamo tuttavia al punto di concludere che Dio non ci onori veramente, fin da questa vita, con questa presenza sostanziale e speciale che la Scrittura e la Tradizione danno come prerogativa di chiunque si trovi in stato di grazia: questo sarebbe disconoscere le ricchezze della nostra vocazione e i tesori inestimabili che Dio si degna di conferire ai suoi figli adottivi inviando loro il suo Spirito Santo. Ma allora, in cosa consiste questa unione di Dio con le nostre anime? È appunto quello che dobbiamo spiegare.  – Secondo una dottrina mutuata dalle Sante Lettere dell’angelico Dottore, la grazia non è altro che l’inizio in noi della gloria futura: « Gratia nihil aliud is quam inchoatio gloriæ in nobis. » (S. Th., IIa-II”, q. XXIV, a. 3, ad 2). – Come risultato, possediamo già, in germe e in modo iniziale, ciò che un giorno costituirà la nostra beatitudine. E poiché la beatitudine formale consiste nell’atto con cui la creatura ragionevole prende possesso del Bene sovrano e ne gode, è necessario che, fin da questa vita, il giusto raggiunga – anche egli – con la sua operazione, la sostanza divina, che entri in contatto con essa attraverso la conoscenza e l’amore, e cominci a godere di Dio. Questo è ciò che avviene in realtà attraverso la conoscenza sperimentale e saporosa che è frutto del dono della Sapienza, e soprattutto attraverso l’amore di carità: conoscenza ed amore che presuppongono, non la vista, non il pieno possesso ed il godimento, ma la presenza reale e sentita dell’oggetto conosciuto ed amato. È ancora, è vero, solo un punto luminoso, molto debole e appena percettibile ai comuni Cristiani; ma – chiedo – se il lavoratore che semina una ghianda non avesse saputo che questo frutto proviene da un grande albero e che contiene un principio di riproduzione, come, dovendolo considerare con gli occhi della carne, avrebbe potuto congettare ciò che un giorno ne uscirà? Ora, la grazia è, secondo l’espressione del Principe degli Apostoli, un seme: « Renati non ex semine corruptibili sed incorruptibili per verbum Dei » (1 Petr. I, 23), un seme prezioso ed incorruttibile, destinato a fiorire al sole dell’eternità, ma che possiede, anche se solo in modo rudimentale, il ricco fogliame che offrirà in seguito. L’abitazione dello Spirito Santo in noi, che ne è la conseguenza e l’accompagnamento necessario, non è pur essa che soltanto un seme: « nondum apparve quid erimus » (I Giov. III, 2); per questo l’Apostolo, parlando della gloria futura, usa quasi sempre la parola rivelazione: ad futuram gloriam quæ revelabitur in nobis (Rom. VIII, 18). Un giorno le tenebre che ci circondano si dissiperanno, il velo che copre i misteri della vita soprannaturale sarà rimosso, e allora conosceremo, con un sentimento di profonda ammirazione e di ineffabile gratitudine, il tesoro che attualmente portiamo nascosto nel profondo del nostro cuore. – Nel frattempo, per guidarci nella notte piena del tempo presente, abbiamo la fiaccola della fede e la luce della verità rivelata, che è importante non perdere di vista, come raccomanda San Pietro: « Habemus firmiorem profeticum sermonem, cui bene facitis attendentes quasi lucernæ lucenti in caliginoso loco, donec dies elucescat, et lucifer oriatur in cordibus vestris » (II Petr. I, 19). Ora, è proprio la parola di Dio che ci insegna e ci certifica che, per grazia e con la grazia, lo Spirito Santo ci è inviato, ci è dato, che abita in noi, con la ferma volontà di rimanervi sempre; in modo che possiamo cominciare subito a godere della sua Persona divina (S. Th., I, q. XIII, a. 3, ad 1). Ma il godimento presuppone la presenza effettiva dell’oggetto amato, secondo la giusta osservazione di san Bonaventura: « Per godere di una cosa, è necessaria, oltre alla presenza di quell’oggetto, la disposizione adeguata del soggetto chiamato a goderne; di conseguenza, per godere dello Spirito Santo, è necessaria la sua presenza, così come il dono creato, o l’amore che ci unisce a Lui. « Ad fruendum eo profluendum est, requiritur præsentia fruibilis et etiam dispositio débita fruentis; unde requiritur præsentia Spiritus Sancti et ejus donum, scilicet amor quo inhoereatur ei » (S. Bonav., Comp. Theol. verit., 1. I, c. IX). – Con questo vediamo che, al momento della nostra giustificazione, riceviamo una doppia carità, l’une creata, l’altra increata; l’una con cui amiamo Dio, l’altra con cui siamo amati da Lui (S. Bonav., loc. cit.); l’una che è una delle tre virtù teologali, l’altra che è la Persona stessa dello Spirito Santo. Dio è dunque realmente, fisicamente, sostanzialmente presente nel Cristiano che ha la grazia; e non è una semplice presenza materiale, bensì è un vero possesso accompagnato da un inizio di godimento (S. Th., I, q. XLIII, a. 3, ad 2. – I, q. XXXVIII, a. I); è questa un’unione incomparabilmente superiore a quella che collega gli altri esseri al loro Creatore, e che viene superata solo dall’unione delle due nature, divina e umana, nella Persona del Verbo incarnato; un’unione che, raggiunta una certa misura, è veramente un pregustare le gioie celesti, una sorta di inchoazione e di preludio alla beatitudine. San Tommaso non ha quindi paura di affermare che da questa vita, nei santi, c’è già un inizio imperfetto di felicità futura, che egli paragona alle gemme, speranza e primizia della raccolta prossima (« cum jam primordia fructuum incipiunt apparere » (S. Th., Ia-IIæ q. LXIX, a. 2.). Parlando in questo modo, indubbiamente egli esprimeva ciò che lui stesso aveva sperimentato, e i grandi servi di Dio non usano altro linguaggio. Si passino in rassegna le opere di Santa Teresa, soprattutto il Castello interiore, e ci si convincerà facilmente che questa illustre maestra della scienza mistica condivideva pienamente il sentimento del nostro angelico Dottore. Questo è il mistero della vita che ogni credente giustificato porta in sé e che è il fondamento dello stato cristiano. Cerchiamo di penetrare ulteriormente nell’intelligenza di questa verità consolante.

II.

A giudizio di san Tommaso, seguito in questo dalla maggior parte dei dottori, appartenenti a diverse scuole, la grazia santificante stabilisce tra Dio e l’anima giusta, attraverso la carità, una vera e perfetta amicizia. Tre cose sono necessarie perché ci sia amicizia tra due esseri; prima di tutto, l’affetto che li unisce deve essere una vera fecondità, cioè un amore di benevolenza che li porti entrambi a volere, desiderare, fare del bene, cercare non la propria utilità o il vantaggio personale, ma il vantaggio della persona che si ama; in secondo luogo, il loro amore deve essere reciproco; e, infine, deve basarsi su una certa comunità di beni, per esempio, su una somiglianza di carattere o su una somiglianza di condizione e di vita; poiché solo ciò che è simile è unito, la somiglianza che gioca nell’Ordine morale lo sottrae all’affinità nel mondo dei corpi (S. Th., IIa-IIæ, q. XXIII, a. I.). Da qui l’adagio che l’amicizia implica o produce una certa parità tra coloro che unisce: Amicitia aut pares aut pares invenit aut facit. E secondo la natura dei diversi beni comuni a noi e agli altri, nascono i diversi tipi di amore: l’amore fraterno basato sulla comunità di sangue, l’amore coniugale basato sulla comunità di vita ed i diritti, l’amore tra cittadini basato sulla comunità della patria. Ora, chi possiede con la grazia, la carità, che ne è l’inseparabile compagna, ama Dio per se stesso con un amore sovrano ed è a sua volta da Lui amato. Ego diligentes me diligo. (Prov. VIII, 17). È una cosa molto sorprendente questa dilezione reciproca del Creatore e della creatura. Che noi amiamo Dio, la bellezza infinita, la bontà inesauribile, l’oceano di tutte le perfezioni, cosa potrebbe esserci di più naturale, di più conforme sia alla legge divina che alle inclinazioni del nostro cuore? Ma che l’Essere Infinito dia valore al nostro amore, che non solo ci permetta di amarlo, ma ci inviti a farlo nei termini di una tenerezza molto toccante, come quando ci dice: « Figlio mio, dammi il tuo cuore: Præbe, fili mi, cor tuum mihi (Prov. XXIII, 26), mia delizia è di stare con i figli degli uomini: Deliciæ meæ esse cum filiis hominum (Prov. VIII, 31); che possa addirittura farne un comandamento, il primo di tutti e quello che riassume tutti gli altri (Matth. XXIII, 37-38) impegnandosi a rimborsarci; questo è ciò che ci conduce allo stupore. Giobbe non può crederci e grida: « Dio mio, cos’è l’uomo, perché il vostro cuore debba riposare su di lui così? » (Giob. VII, 17). E il grande Vescovo di Ippona diceva dal canto suo: « Signore, che cosa sono io ai tuoi occhi, perché Voi mi ordiniate di amarvi, perché la vostra ira si accenda contro di me, e mi minacciate con terribili mali se io rifiuto il mio amore, come se non fosse già una miseria abbastanza grande il non amarvi? » (Conf. l. 1, cap. V). – È facile capire che Dio esiga le nostre adorazioni ed i nostri omaggi; questo è di norma, poiché Egli è l’Essere sovranamente perfetto. Che si degni poi anche di ammetterci all’onore di servirlo, è qualcosa che si spiega abbastanza da un lato con la sua infinita condiscendenza, e dall’altro, con la qualità di servitori che ci appartiene in quanto creature. Ma credere di poter stabilire tra Lui e noi dei rapporti di familiarità, legami di stretta unione, insomma, una vera amicizia, non è forse un’ambizione smisurata, un sogno, una chimera? Se, tra gli uomini, l’amicizia non è all’ordine del giorno tra un servo e il suo padrone, come potrebbe essere possibile tra il Padrone dei padroni e i suoi infimi servitori? Non è forse una verità, passata a mo’ di proverbio, che la maestà e l’amore non vanno insieme e non possono sedere sullo stesso trono? Infatti, mentre la maestà allontana e tiene a distanza, l’amore ci avvicina e ci unisce; la maestà ispira rispetto e paura, l’amore scaccia la paura e provoca familiarità e abbandono. Come possiamo conciliare cose così dissimili da sembrare incompatibili? E poi, cosa può trovare in noi Dio che attragga il suo amore e gli faccia desiderare il nostro? A cosa gli serviamo? Che interesse ha ad amarci? La creatura sarebbe, per caso, necessaria per soddisfare questo bisogno del cuore, per assaporare questa gioia intima, così dolce e ambita, per amare e sentirsi amati? A chi lo pretendeva, il Salmista rispose: « Ho detto al Signore: Voi siete il mio Dio, e non avete bisogno dei miei beni…. ». (Ps. XV, 2) Dio è pienamente autosufficiente; in Lui si trova tutto il bene, tutta la bellezza, tutta la gioia, tutta la felicità. Il Padre ama il Figlio che genera con infinito amore; il Figlio ama il Padre con uguale amore; e il termine di questa reciproca dilezione è la Persona stessa dello Spirito Santo, l’Amore sussistente. Prima che il mondo fosse, prima che gli Angeli, questi primogeniti della creazione, ebbero cantato, in onore dell’Altissimo, il loro inno di lode (Giob. XXXVIII, 7), allorché Dio solo era, si vedeva, si contemplava, diceva a se stesso nel suo Verbo, che generava in sé, comunicandogli la sua natura; e, rapito  dall’ineffabile bellezza che era loro comune, si riposava in questo Verbo con infinita indulgenza, abbracciandolo in un abbraccio piacevole, ardente, vivo, che si chiama lo Spirito Santo; Egli era in sé stesso, e per sé stesso, sovranamente, ineffabilmente, infinitamente felice. [« In se et ex se beatissimus. » – Conc. Vatic, Const. Dei Filius, c. 1.]. Non è dunque per indigenza che Dio esiga dalla creatura il tributo del suo cuore; non è per aumentare, né tanto meno per acquisire la propria felicità, che Dio ci ama e rivendica il nostro amore; è solo per bontà, per manifestare le sue perfezioni comunicandole, per trovare la sua gloria nella felicità delle creature (Conc. Vatic. , Const. Dei Filius, c. I). Come il sole diffonde la sua luce e il fiore il suo profumo, senza ricevere alcun profitto da chi li riceve a proprio vantaggio e ne gode; così Dio, la cui natura è eminentemente liberale e comunicativa, chiede solo di diffondere i suoi doni e rendere felici gli uomini (S. Hilar., in Ps II, n. 5) . Se Egli esige il nostro amore, non è che ne riceva alcun frutto per se stesso; ma, realizzando ciò che l’ordine e la natura delle cose richiedono, dobbiamo trovarvi un immenso profitto. Ciò che Egli vuole, quindi, è che servendolo ed amandolo, ci arricchiamo di meriti preziosi e ci rendiamo degni di partecipare un giorno alla sua beatitudine. (S. Th., I, q. XLIV, a. 4 ad 1.). – Ma se Dio ci ama e vuole che lo amiamo; se la dilezione reciproca non solo è possibile, ma realmente esistente tra l’anima che ha la grazia e la Divinità, dove possiamo trovare il terzo elemento di amicizia, questa comunità di beni, questa somiglianza di condizione e di vita, che questo tipo di parità suppone ed esige? Non c’è nulla in comune tra il Creatore e la creatura? Non sono infinitamente distanti l’uno dall’altro, separati da un abisso invalicabile, e che nulla può riempire? Indubbiamente, perché Dio è grande, immenso, infinito, e l’essere creato è così piccolo, così poca cosa, così vicino al nulla! Eppure, o meraviglia, la sapienza divina ha trovato il segreto per avvicinare termini così lontani l’uno dall’altro; e ciò che la sapienza ha concepito, l’amore lo ha realizzato. Per farci suoi amici, Dio si è umiliato, dice l’Apostolo: annientato, scendendo a noi per elevarci fino a Lui; è diventato, per così dire, nostro pari prendendo la nostra natura (II Cor. VIII, 9); ha preso in prestito la nostra indigenza e le nostre miserie per arricchirci con il suo spogliarsi (Fil. II, 6-7; Egli ci ha distribuito amorevolmente i beni immensi e sovranamente preziosi comunicandoci la sua natura (II Petr. I, 4), dandoci il titolo e la qualità di figli adottivi (I Giov. III, 1), dandoci  il diritto ad un’eredità paterna. (Rom. VIII, 17). Pertanto, la Chiesa, incapace di contenere i suoi sentimenti di ammirazione in presenza di una bontà così meravigliosamente condiscendente, esclama con gli accenti di un santo entusiasmo: « O ammirevole scambio! Il Creatore del genere umano si è degnato di prendere un corpo e un’anima, di nascere da una Vergine, e diventare uomo senza l’aiuto dell’uomo, per condividere con noi la sua divinità: « O admirabile commercium! Creator generis humani animatum corpus sumens, de Virgine nasci dignatus est; e procedens homo sine semine, largitus est nobis suam deitatem. » (In Officium Circoncisionis). – Seguendo l’esempio del re Alessandro, che, volendo una volta onorare con la sua amicizia il figlio di Mathatia, iniziò elevandolo alla dignità di sommo sacerdote, gli inviò la porpora ed una corona d’oro con queste parole: « Sei adatto a diventare nostro amico: Aptus es ut sis amicus noster » (I Machab. X., 9); Dio, senza derogare alla propria dignità, può unirsi a noi attraverso i legami di amicizia, poiché, per un miracolo di condiscendenza assolutamente inaspettato, si è degnato di ammetterci a far parte della sua casa (Ephes. II, 9), e ci introduce autenticamente nella sua razza: Ipsius enim et genus sumus. (Act. XVII, 28).

III.

La carità soddisfa quindi tutte le condizioni di una vera e perfetta amicizia tra Dio e l’uomo: essa è un amore di benevolenza, un amore reciproco, un amore basato su una comunità di natura, in attesa della comunità della felicità di cui è pegno. Essendo una vera amicizia, deve averne le prerogative e soddisfarne le esigenze. Ma cosa richiede l’amicizia? Che tipo di unione essa reclama tra coloro che avvicina? È soddisfatta da un semplice accordo di pensieri e di desideri, di una comunità di beni esterni e di un vincolo affettivo? È questo il fine ultimo di tutti i suoi obiettivi, la fine delle sue aspirazioni? No; quello che vuole, quello che desidera, quello che reclama, quello che esige, quello che cerca con tutte le sue forze, quello che fa per quanto possibile è l’unione reale e intima, è la vita in comune, è il godimento reciproco dei due esseri che si amano. Infatti, come osserva giudiziosamente San Tommaso, essendo l’amore, secondo l’espressione di San Dionigi, una forza unitiva, amor quilibet est vis unitiva, è l’essenza dell’amore tendere all’unione; e più l’amore è perfetto, più perfetta anche è l’unione che brama. Tuttavia, possono esistere due tipi di unione tra amici: una puramente emotiva e morale, consistente in un’inclinazione abituale, un’attrazione, una tendenza che ci conduce all’amato, ci ricorda la sua memoria, ci fa trovare gioia e piacere nel pensare a lui; l’altra efficace e reale, quando coloro che si amano sono presenti l’uno all’altro, possono vivere e conversare insieme. Di questi due tipi di unione, l’uno costituisce l’amore stesso, l’altro è l’effetto dell’amore. (S. Th., Summa Theol., Ia-IIæ, q. XXVIII, a. I.) Nelle amicizie umane, la vera unione, la convivenza può essere desiderata, ambita, perseguita, non sempre è possibile realizzarla; i doveri dello Stato, le esigenze di lavoro o di salute, le mille necessità della vita impongono spesso una dolorosa e più o meno lunga separazione a chi ha i cuori più uniti e si considerano felici di potersi ritrovare di tanto in tanto. Ma a Dio nulla è impossibile; per Lui né il tempo né la distanza sono degli ostacoli. Allora, poiché il suo amore sovrano ed efficace può facilmente realizzare ciò che desidera, non possiamo legittimamente concludere che la dilezione che porta all’anima giusta gli impone una sorta di necessità di entrarvi personalmente, di rimanervi, e di non  privarla della consolazione della sua presenza? Non è questo che l’amato apostolo voleva trasmettere con le seguenti parole: « Chi dimora nell’amore dimora in Dio e Dio in lui. Qui manet in charitate in Deo manet, et Deus in eo »? (I Giov. IV, 16). Non è questo che il Salvatore stesso ha promesso quando ha detto: « Se qualcuno mi ama, osserverà i miei comandamenti, e il Padre mio lo amerà, e Noi verremo a lui, e faremo in lui il nostro soggiorno » (Giov. XIV, 23)? Forse diremo: questa presenza effettiva dell’Amato non appartiene all’esilio, essa è riservata alla Patria; nel frattempo, una semplice presenza morale, un’unione di cuore e fedeltà, durante lo stato del cammino, soddisfa sufficientemente le esigenze dell’amicizia.  – Come una madre molto amorevole e teneramente amata, che, fisicamente separata dal figlio, è tuttavia sempre presente a lui come oggetto di conoscenza e di amore…. presente nella sua memoria con la sua carissima immagine, presente al suo cuore per non so quale dolce compiacimento che lo delizia, e quale invincibile attrazione che lo porta verso di lei; così Dio non si separa da chi ha la carità, è l’oggetto costante dei suoi pensieri, il centro dei suoi affetti. L’anima santa non ha altro piacere che amarlo, raccontargli il suo amore, parlargli in modo familiare (Nostra conversatio in cælis est –  Philip., III, 20); poiché “lungi dall’essere doloroso o causare noia, la sua conversazione è fonte di gioia e di piacere: Non enim habet amaritudinem conversatio illius, nec tædium convictus illius, sed lætitiam et gaudium (Sap. VIII, 16).  Non potendo dare nulla a colui che ama, perché Egli è la pienezza dell’essere e la perfezione, l’anima compensa la sua impotenza indulgendo nella sua beatitudine, rallegrandosi del pensiero che possiede tutte le cose, che Egli è il sovrano Bene, … che è Dio. E identificandosi in qualche modo con il suo Amato, essa sposa i suoi interessi più ardentemente che se si trattasse di se stessa, lavora con tutte le sue forze per estendere e promuovere il suo regno, per realizzare la sua santissima volontà, per procurare la sua gloria: essa è felice quando lo vede onorato, servito, amato; triste allo spettacolo delle offese commesse contro la sua divina Maestà; sensibile, in una parola, a tutto ciò che lo tocca. Da parte sua, con quale zelo, prontezza e delicatezza Dio compie per lui l’ufficio di un vero amico (vedere nella Summa contra Gentiles, i due magnifici capitoli XXI e XXII del IV libro, ove san Tommaso espone gli effetti prodotti dallo Spirito-Santo nelle anime in cui abita): illuminandola nelle sue tenebre e nei suoi dubbi, sostenendola nei suoi momenti di debolezza, incoraggiandola nei suoi sforzi, difendendola dai nemici, confortandola nei suoi dolori e talvolta introducendola in quelle misteriose cantine dove si beve il generoso vino della santa carità! Anche l’anima rapita esclama con la sposa dei Cantici: « Ho trovato colui che il mio cuore ama, lo possiedo e non lo lascerò mai più: Inveni quem diligit anima mea; tenui eum, nec dimittam. » (Cant. III, 4). Cosa possiamo volere di più in questo mondo? Pertanto, l’Apostolo san Paolo ci invita a rallegrarci, non per il possesso effettivo del Bene supremo, ma nella speranza di ottenerlo un giorno, spe gaudentes (Rom. XII, 12). Certamente, questa vita di unione morale con Dio, attraverso la contemplazione e l’amore, è una cosa infinitamente preziosa, e non avremmo mai osato innalzare i nostri desideri così in alto. Eppure, non si è fermata qui la liberalità divina, e le leggi dell’amore richiedono di più.

IV.

Se questo fosse per la carità, come per la fede e la speranza, che presuppongono, in virtù della loro stessa natura, l’assenza e la distanza dal loro oggetto – poiché la fede ha come oggetto ciò che non vediamo, e speriamo ciò che non possediamo, – saremmo obbligati a rassegnarci e ad aspettare, fino all’ingresso in cielo, il vero possesso di Dio. Ma lungi dal supporre la distanza dal suo oggetto principale, la carità implica, al contrario, la sua presenza e il suo possesso; poiché « si riferisce a ciò che si possiede già: Amor caritatis est de eo quod jam habetur. » (S. Th:, Summa Theol.,1a, IIæ, q. LXVI, a. 6). Essa è anche la più grande delle virtù teologali (1 Cor. XIII, 13), non perché abbia un oggetto più dignitoso ed elevato delle altre, poiché tutte e tre riguardano immediatamente Dio, ma perché si avvicina di più a Lui. (S. Th., Ia IIæ; q. LXVI, a. 6). Senza dubbio, rispetto al pieno possesso di Dio che ci attende in patria, e al frutto consumato che deve essere la nostra condivisione, la nostra ricchezza spirituale qui sulla terra può essere vista come povertà, e la nostra unione con Dio, per quanto crediamo sia vicina, può sembrare un allontanamento ed un esilio. Questo è ciò che ha strappato all’Apostolo tali gemiti: « Finché siamo in questo corpo, ci troviamo come in esilio lontano dal Signore: Dum sumus in corpore, peregrinamur a Domino » (II Cor. V, 6); questo è ciò che gli ha fatto desiderare la dissoluzione del suo essere, per vedersi piuttosto unito al suo Dio: Desiderium habens dissolvi, et esse cum Christo (Fil. I, 23 – 2 Cor. V, 8). È vero, tuttavia, che anche durante il tempo della prova, la carità ci unisce direttamente e immediatamente a Dio, perché, da questa vita, Dio « è veramente presente a coloro che lo amano con l’inabitazione della grazia: Est præsens se amantibus etiam in hac vita per gratiæ inhabitationem (S. Th., Summa Theol., IIa II”, q. XXVIII, a. 1, ad 1). E cosa c’è di sorprendente? La carità lungo il cammino non è forse uguale a quella della patria? La fede deve scomparire un giorno davanti alla chiarezza della visione, come le tenebre fuggono all’avvicinarsi della luce; la speranza deve lasciare il posto al possesso del fine ultimo, perché non speriamo più ciò che possediamo e godiamo; la scienza stessa rimarrà distrutta, scientia destruetur (1 Cor. XIII, 8); intendiamo la scienza di Dio, come la possiamo acquisire in questo mondo: la scienza essenzialmente imperfetta, perché non raggiunge direttamente il suo oggetto, ma solo per riflesso, per mezzo delle creature (Rom. I, 19-20), e gli esseri creati non sono in grado di farci conoscere il loro Autore così come è in se stesso. Tutto ciò che sappiamo di Dio nell’ora presente, tutto ciò che possiamo conoscerne, è immensamente al di sotto della realtà; « ciò che possediamo attualmente di scienza e di profezia è molto imperfetto, dice l’Apostolo: Ex parte cognoscimus et ex parte prophetamus » Anche quando arriverà il momento della grande rivelazione, quando sarà tolto il velo che cela la Divinità ai nostri occhi, quando lo stato perfetto sarà arrivato, tutta questa scienza parziale e incompleta scomparirà improvvisamente, come scompariranno  le debolezze e le imperfezioni dell’infanzia, mentre ci avviciniamo alla virilità: Cum autem venerit quod perfectum est, evacuabitur quod ex parte est (1 Cor. XIII, 9). Ma “la carità non passa: Charitas numquam excidit (Ibid. 8). La sua fiamma si riaccenderà alla presenza del Sommo Bene, il suo ardore aumenterà di intensità, la sua natura non cambierà. Ora, nel cielo, la carità esige una unione reale, un’unione perfetta, l’unione consumata della volontà creata con il Bene sovrano. Non sembra naturale che essa richieda, già da questa vita, la presenza vera e sostanziale dello Spirito Santo, affinché possiamo cominciare a godere di Lui, poiché è a questo scopo che ci viene donato? (S. Th., Sent., I, dist. XIV, q. II, a. 2, ad 2.) Questa conclusione si impone a chiunque pensi che, se la conoscenza lungo la via differisca essenzialmente da quella della patria, c’è, invece, solo una semplice differenza di gradi, di più o di meno, tra la carità del cielo e quella della terra; anche se attualmente non siamo in grado di conoscere Dio per essenza, di vederlo così com’è, possiamo comunque amarlo in se stesso, direttamente e immediatamente (Cf. S. Th., Sent., III, dist. XXVII, q. III, a. 1, ad 3). Non è impossibile trovare sulla terra, in mezzo alle ombre e alle tenebre della fede, anime che abbiano una carità abituale superiore a quella di molti Angeli del cielo; questo è necessario, poiché, dopo la loro partenza da questo mondo, queste anime sante sono elevate al di sopra di un gran numero di cori angelici; alcune meritano addirittura di prendere il loro posto tra i serafini. Tuttavia, per quanto perfetta sia la loro carità abituale, essa ha meno ardore di quella dell’ultimo beato ammesso a vedere Dio faccia a faccia (S. Th., I, q. XVII, a. 2, ad 3.). Stando così le cose, chi sarà sorpreso di sentire san Tommaso affermare « che c’è già in questa vita, nei santi, un inizio imperfetto di felicità futura: Quamdam inchoationem imperfectam futures beatitudinis in viris sanctis etiam in hac vita? (S. Th., Ia IIæ q. LXIX, a. 2) » Ma perché questo avvenga, lo Spirito Santo deve essere unito a loro come un ospite, un amico, un marito pieno di tenerezza, che abiti veramente nei loro cuori come in un tempio vivente, dove riceve la loro adorazione e i loro omaggi, e li porti ad essere, d’ora in poi, almeno in una certa misura, l’oggetto del loro godimento. Si verifica così parzialmente l’esattezza della formula usata dal Dottore Angelico, quando, per caratterizzare correttamente la speciale presenza di Dio nei giusti, dice che in essi abita lo Spirito Santo « come oggetto del loro amore » (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 2).

V.

Ma è vera anche l’altra parte della formula? Dio è veramente e sostanzialmente presente ai giusti della terra « come oggetto della loro conoscenza, sicut cognitum in cognoscente » ? In altre parole, se l’amore di carità richiede l’effettiva presenza dello Spirito Santo in coloro che hanno la grazia, si può dire lo stesso della loro conoscenza?  La risposta di San Tommaso è affermativa. Ma per evitare qualsiasi malinteso, il santo Dottore ha cura di avvertire che qualsiasi conoscenza, anche soprannaturale, non ha questo effetto; così, la conoscenza di Dio che la fede ci dà, non è sufficiente a farla abitare nella nostra anima. Perché ci sia una missione, un dono e, di conseguenza, una dimora di Persone divine in un’anima, non basta avere tutte le conoscenze teoriche, è necessario avere la conoscenza che proviene da un dono appropriato alla Persona che ci è inviata, che ci unisce e ci rende simili a Lei; una conoscenza in qualche modo sperimentale, che si acquisisce solo attraverso un’intima unione con Dio, e che è frutto del dono della Sapienza (S. Th., Sent., I, dist. XIV, q. IIa. 2, ad 3.). Infatti, così come si può conoscere teoricamente o per sentito dire il sapore di un frutto senza averlo mai portato alle labbra, senza averlo mai avuto nemmeno davanti agli occhi o a disposizione, ma non è possibile conoscerlo sperimentalmente finché non lo si è assaggiato o mangiato: Così, finché si tratta di conoscere Dio da una scienza speculativa, la sua presenza reale e fisica non è necessaria, essendo la sua immagine sufficiente; ma quando si tratta di conoscerlo sperimentalmente, di gustarlo, di sentire, di assaporare la sua dolcezza divina, la presenza puramente ideale di questo oggetto divino non è più sufficiente, e la sua presenza vera, reale e sostanziale diventa una necessità che si impone. – Ora, è proprio per poter godere delle loro Persone divine che il Figlio e lo Spirito Santo ci sono inviati e donati e che il Padre li accompagna. « Non possiamo avere in noi le Persone divine – dice San Tommaso – se non per goderne: o in modo perfetto, come si ottiene nella gloria, o in modo imperfetto, e questo è il frutto della grazia santificante: Persona divina non potest haberi a nobis, nisi vel ad fructum perfectum, et sic habetur per donum gloriæ, aut secundum fructum imperfectum, et sic hàbetur per donum gratiæ gratum facientis » (S. Th., Sent., I, dist. XIV, q. II, a. 2, ad 2). Dandoci se stessi, imprimendosi nelle nostre anime, le Persone divine lasciano alcuni doni che sono i princìpi formali di questo godimento; abbiamo nominato la carità e il dono della sapienza: la carità, che ci assimila allo Spirito Santo, l’amore increato; il dono della Sapienza, con cui diventiamo come il Verbo divino, conoscendo Dio con una conoscenza analoga a quella con la quale Dio conosce se stesso, cioè di una conoscenza che fiorisce nell’amore; perché il Verbo divino, questo termine della conoscenza paterna, non è un verbo qualsiasi, ma un Verbo che spira e produce l’amore. (S. Th., I, q. XLIII, a. 5, ad 2.). Un’analogia mutuata dal modo in cui la nostra anima si conosce, ci aiuterà a capire che cosa sia questa conoscenza sperimentale di Dio, frutto e conseguenza della grazia. Nello stato attuale di unione con il corpo, la nostra anima non si conosce direttamente e con l’intuizione non vede la propria sostanza; ma infonde l’esistenza degli atti di cui è principio e fonte. C’è, tuttavia, una differenza significativa tra la maniera in cui essa conosce se stessa e il modo in cui giunge a conoscere le altre anime. Se si tratta di conoscere l’anima del prossimo: ragioniamo sugli atti esterni di cui siamo testimoni, i movimenti di vita, gli atti di intelligenza e di volontà, e concludiamo che c’è un principio sostanziale, vivo, intellettuale e libero, che è la radice e la fonte di queste operazioni. Se si tratta di conoscere l’esistenza della propria anima: poiché non possiamo raggiungerla direttamente, siamo ancora obbligati a ricorrere al processo deduttivo; ma invece di prendere come unica base di ragionamento le manifestazioni esterne della vita, possiamo contare sui dati della coscienza e dei fatti dell’ordine interno; perché qui non vediamo semplicemente la vita, ma la sentiamo in noi, siamo consapevoli dei nostri pensieri, dei nostri desideri e di tutti questi movimenti di cui siamo testimoni e attori. Si ottiene così una sorta di conoscenza sperimentale del principio di questi atti, conoscenza indiretta e oscura, conoscenza deduttiva,  per quanto si voglia, ma significativamente diversa da questa stessa scienza teorica che possiamo acquisire dall’esistenza dell’anima degli altri. Da qui le parole di san Tommaso: “che la nostra anima si conosce con la sua presenza: Et ideo dicitur se cognoscere per suam præsentiam »  (S. Th., Summa TheoL, I, q. LXXXVII, a. 1). Questo è il caso, fatte le debite proporzioni, del modo in cui possiamo conoscere la presenza di Dio nel profondo dei nostri cuori. Non solo noi sappiamo teoricamente che Dio abiti nei giusti, ma attraverso il dono della Sapienza ne gustiamo la sua presenza divina. E benché nessuno possa, senza una speciale rivelazione, avere la certezza assoluta che lo Spirito Santo è in lui, « non sapendo nessuno con certezza di fede, incompatibile con qualsiasi errore, se sia in stato di grazia, come ha dichiarato il Concilio di Trento: Cum nullus scire valeat certitudine fidei, cui non potest subesse falsum, se gratiam Dei esse consecutum » (Trident. Sess. VI, c. IX); ma su questo punto non siamo ridotti alla totale ignoranza; perché, secondo la parola dell’Apostolo, « lo Spirito Santo stesso dà alla nostra anima la testimonianza che siamo figli di Dio: Ipse enim Spiritus testimonium reddit spiritui nostro quod sumus filii Dei » (Rom. VIII, 16): non indubbiamente con una voce esterna rivolta all’orecchio del corpo, ma, come spiega san Tommaso, « per effetto dell’amore filiale che produce in noi: per effectum  amoris filialis, quem in nobis facit ». (S. Th., in Epist. ad Rom. VIII, lect. 3). Noi non vediamo questo ospite interiore, un velo impenetrabile ci toglie lo splendore della sua presenza, il muro della carne ci separa dall’Amato; se « gemiamo nell’attesa della nostra piena adozione. Et ipsi intra nos gemimus, adoptionem filiorum expectantes » (Rom. VIII, 23). Ma, cosa dico? Non è nemmeno una parete, ma un semplice reticolo attraverso il quale l’Amato ci contempla. En ipse stat post parietem nostrum, respiciens per fenestras prospiciens per cancellos (Cant. V, 9); e quando, nella sua  bontà, si degna di passare la mano e far sentire di più la sua presenza, il nostro cuore ne è mosso. Per far capire questa verità, santa Teresa usa un confronto ingegnoso. Ella dice che « … è in un certo senso come una persona che, trovandosi con gli altri in un appartamento molto luminoso, smettesse improvvisamente di vederli se le finestre fossero chiuse senza però cessare di essere certa della loro presenza ….. A condizione che quest’anima sia fedele a Dio, a mio avviso, Dio non mancherà mai di darle questa visione intima e manifesta della sua presenza »  (Santa Teresa: Il Castello interiore, 7e dimora, ch. I. — Trad. P. Marcel Bouix, S. J.). Se chiedete da quali segni possiamo riconoscere la presenza dello Spirito Santo in un’anima, san Bernardo, parlando di se stesso, risponde che egli lo conosceva attraverso il movimento del suo cuore: Ex motu cordis intellexi præsentiam ejus; cioè attraverso la fuga dai vizi e dagli affetti carnali, dai rimproveri interiori rivolti a lui sui suoi peccati più segreti, dalla emendazione della sua vita e dal rinnovamento dell’uomo interiore. « Mi chiedete – egli dice – come posso conoscere la presenza di Colui le cui vie sono impenetrabili. Appena presente, risveglia la mia anima addormentata: si muove, si ammorbidisce, colpisce il mio cuore duro come la pietra e malato; comincia a strappare e distruggere, a costruire e piantare, ad innaffiare ciò che è secco e arido, ad illuminare ciò che è nell’oscurità, ad aprire ciò che è chiuso, a riscaldare ciò che è freddo, a raddrizzare ciò che è tortuoso, a spianare ciò che è ruvido. E così, quando lo sposo entra nella mia anima, riconosco la sua presenza, come ho detto, dal movimento del mio cuore. » (S. Bern., serm. 74 in Cant.). – San Tommaso dichiara dal canto suo che, al di fuori di una particolare rivelazione, concessa solo per un privilegio completamente gratuito, tutti possono avere dalla presenza di Dio nel profondo del cuore un triplice segno congetturale: In primo luogo, la testimonianza della propria coscienza, quando, ad esempio, si è consapevoli di amare Dio e di essere pronti, attraverso la sua santa grazia, a soffrire e sacrificare tutto piuttosto che offenderlo; in secondo luogo, la disponibilità ad ascoltare, e soprattutto a mettere in pratica la parola di Dio, secondo questa osservazione del divino. Maestro: « Chi è di Dio ascolta volentieri la parola di Dio: qui ex Deo est, verba Dei audit »; infine questa degustazione interiore della Sapienza divina, che è come un anticipo della felicità futura.  (S. Th., Opusc. LX, de Humanitate Christi, c. XXIV). Aveva ben gustato le soavità divine, colui che gridava: « Oh, come è buono, come è dolce il vostro spirito, o Signore! O come bonus e suavis est, Domine, spiritus tuus! » (Sap. XII, 1). Sant’Agostino, che sapeva apprezzare queste dolcezze spirituali, lasciava uscire dalle sue labbra questa esclamazione ardente: « Chi mi darà – o mio Dio – questa grazia, perché vi degniate di venire nel mio cuore, inebriarlo di delizie, e perché io dimentichi i miei mali per abbracciarvi, Voi che siete il mio unico bene! Quis mihi dabit ut venias in cor meum, et inebries illud, ut obliviscar mata, et unum bonum amplecter te ».

VI.

Dio è dunque veramente e sostanzialmente presente come ospite, amico, sposo, bene sovrano, ad ogni anima che ha la grazia e la carità: Egli è unito in un modo molto speciale che è privilegio esclusivo dei giusti, perché solo la grazia santificante permette loro di raggiungere Dio, attraverso la loro operazione, come ultimo fine e oggetto di beatitudine (S. Th., Opusc. LX, de Humanit. Christi, c. XXIV). Ma c’è unione ed unione. Sempre attuale nei beati che non cessano e non devono mai cessare di vedere e amare Dio, vivono in un continuo e ininterrotto atto di contemplazione e di godimento, che costituisce la loro beatitudine; puramente abituale nei bambini, che hanno ricevuto la grazia del santo Battesimo, ma la cui intelligenza non è ancora risvegliata, l’unione con Dio, che si opera negli adulti ancora in cammino, si trova nel mezzo tra la perfezione della prima e l’imperfezione della seconda; abituale solo durante il sonno e le mille occupazioni del giorno che assorbono l’attività della nostra mente, si realizza quando ci rivolgiamo a Dio in modo riflessivo, impegnandoci a conoscerlo e amarlo, camminando alla sua presenza, vivendo nella sua intimità.  Solo in cielo possiamo essere pienamente, perfettamente, totalmente ed inseparabilmente uniti a Dio, come al nostro ultimo fine; ma nel frattempo, dobbiamo lottare qui sulla terra per questa unione felice, desiderarla, chiederla, lavorare con tutte le nostre forze per renderla per quanto possibile attuale, rimuovere tutti gli ostacoli: in primo luogo, il peccato, che potrebbe o distruggerla in noi, facendoci perdere l’amicizia di Dio, o indebolirla riducendo il fervore della santa carità; in secondo luogo, l’attaccamento alle creature, ai beni e ai piaceri della terra, vere catene che tengono prigioniera la nostra anima e le impediscono di prendere il suo slancio verso il Bene sovrano; e, infine, la dissipazione dello spirito che allontana i nostri pensieri e gli affetti da Colui che deve esserne il centro. E poiché la beatitudine – intendiamo la beatitudine formale – è un’operazione (S. Th., Summa TheoL, Ia IIæ, q. II, a. 2), l’atto delle nostre facoltà intellettuali che unisce attraverso la contemplazione e l’amore alla prima Verità e al Bene sovrano, cioè all’unico oggetto capace di farci felici, è chiaro che se comprendiamo bene i nostri veri interessi, se vogliamo compiere seri progressi nella perfezione ed avere, da questa vita, come anticipazione della felicità futura, dobbiamo lavorare per rafforzare sempre più i legami che ci uniscono a Dio, andare allo studio delle perfezioni e dei benefici divini, e soprattutto moltiplicare gli atti di carità, perché « è privilegio dell’amore unirci immediatamente a Dio: Charitas est quæ diligendo animam immédiate Deo conjungit spiritualis vinculo unionis ». (S. Th., IIa- IIae, q. XXVII, a. 4. ad 3). Elevandosi al di sopra della scienza, entra con fiducia, mentre la scienza resta fuori. Così c’è una massima data dai maestri, che insegna che la perfezione della vita cristiana consiste nell’amore di Dio, e che il nostro progresso nella santità deve essere misurato non dall’accrescimento della scienza, ma dall’aumento della carità. Questo è ciò che fece dire all’Apostolo san Paolo ai fedeli di Colossi: « Soprattutto, abbiate la carità, che è il vincolo della perfezione: Super omnia autem hoec, charitatem habete, quod est vinculum perfectionis. (Col. III, 14) » Del resto, per amare molto, non è necessario sapere molto, perché, se la conoscenza è il principio dell’amore, non ne è la sua misura. « Noi vediamo – dice San Tommaso – delle persone semplici che sono ferventi nell’amore di Dio e che hanno una mente piuttosto aperta quando si tratta di conoscerlo » (S. Th., Sent., I, dist XV, q. IV, a 2, obj. 4.). Possiamo dunque amare Dio con grande ardore, senza avere una conoscenza approfondita della sua natura e dei suoi attributi, così come possiamo aver approfondito tutti i segreti della teologia e non provare che freddezza per le cose divine. Tuttavia, quando la scienza è ispirata e perfezionata dalla carità, dà un nuovo alimento alla sua fiamma. Esaminiamo dunque, seguendo l’esempio della sposa del Cantico dei Cantici, con una sagacia raffinata dall’amore tutte le bellezze, tutte le amabilità, tutte le perfezioni dell’Amato (Cant. IX, 17). Aggrappiamoci a Lui con tutte le nostre forze, diciamo come il Salmista: « Per me, la mia felicità è di essere unito a Dio: Mihi autem àdhærere Deo bonum est » (Ps. XXVII, 28); viviamo nel suo amore, viviamo del suo amore, godiamo della sua divina presenza e della sua intimità, ed il nostro colloquio, come quello dell’Apostolo, sia in cielo (Fil. III, 20). Così facendo, adempiremo sia la parola del discepolo amato ed il voto di amicizia: « Dio sarà in noi, e noi in Lui: Qui manet in charitate, in Deo manet, e Deus in eo. (1 Giov. IV, 16) » – L’unione con Dio, l’unione attuale, deve essere questo l’oggetto dei nostri più ardenti desideri, lo scopo dei nostri sforzi, il termine a cui dobbiamo indirizzare tutta la nostra vita spirituale: perché è in questa beata unione che consiste la perfezione del cammino, così come un giorno costituirà la perfezione e la felicità della patria.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/02/18/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-7/

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (5)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (5)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°)

P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

SECONDA PARTE

DELLA SPECIALE PRESENZA DI DIO, O DELLA ABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI

CAPITOLO III

Modo di questa presenza

Non è più solo in qualità d’agente che Dio è nell’anima giusta, ma come ospite ed amico, come oggetto di conoscenza e di amore.

È una verità indiscutibile, decisamente affermata dalla Sacra Scrittura, dai Padri e dai teologi che: riversando la grazia nelle nostre anime, lo stesso Spirito Santo vi viene personalmente e si stabilisce lì in modo permanente. Resta da determinare il modo di questa particolare presenza ai giusti e mostrare come Dio sia in loro, non più solo come agente o causa efficiente, ma ancora più perfettamente con un nuovo titolo distinto dal primo. Qual è questo titolo? – Questo è il problema a cui ora si cerca di dare la soluzione. Affrontiamo la parte più delicata e più astrusa della domanda che ci siamo proposti di trattare; ed è particolarmente qui che è davvero necessaria una guida sicura ed esperta. Grazie a Dio non c’è bisogno di andare a cercarla lontano, perché abbiamo la fortuna di possederla nel nostro angelico Dottore Tommaso, in cui lo spirito più penetrante si trova congiunto alla massima santità. Potrà egli quindi parlare per esperienza; a noi sta il seguirlo da vicino e non lasciarlo, se non vogliamo esporci, come tanti altri, o restare al di qua della verità, fornendo solo una spiegazione difettosa ed insufficiente o, per raggiungere l’obiettivo, cadendo nell’esagerazione e nell’errore, facendo dell’abitazione dello Spirito Santo una specie di unione ipostatica: doppio scoglio contro il quale numerosi scrittori sono venuti ad infrangersi. – Nessuno sarà sorpreso di incontrare su questa questione dell’unione della nostra anima con Dio, e soprattutto della maniera con la quale la si deve concepire, una certa diversità di opinioni tra Teologi cattolici; il contrario sarebbe piuttosto abbastanza sorprendente in un argomento così arduo, in cui la rivelazione non proietta che raggi deboli ed obliqui. La maggior parte dei dottori, è vero, si sono allineati seguendo San Tommaso; ma alcuni lo hanno fatto interpretando in modo errato, per non dire completamente impreciso, il pensiero del maestro, che sembrava poco chiaro, non che fosse oscuro in realtà, ma essi lo giudicavano così perché non lo avevano considerato nella sua giusta luce; altri pensavano di poter emanciparsi da una tutela che sembrava loro imbarazzante e che, in definitiva, era solo una condizione di sicurezza, e hanno provato, a loro danno, a battere un nuovo percorso; un piccolo numero ha spinto la temerarietà fino a condannare apertamente la spiegazione data dall’angelico Dottore. – Strada facendo, esamineremo le ragioni degli uni e degli altri. Ma come discernere, tra le diverse opinioni che sono state sostenute e le varie spiegazioni che sono state tentate, ciò che offre le maggiori garanzie di verità e che devo riunire tutti i suffragi? Con quali segni riconoscere il buono o il male fondato di questo o quel sentimento? – Abbiamo per questo un eccellente criterio, una norma facile e sicura, presa  dalle stesse viscere del soggetto. Per essere plausibile, la spiegazione della presenza speciale di Dio nei giusti deve realizzare tutto ciò che promette, tutto ciò che contiene il concetto di missione, donazione, di abitazione dello Spirito Santo; deve di conseguenza implicare una presenza nello stesso tempo sostanziale e speciale della Divinità. Se l’una o l’altra di queste condizioni manca, se ad esempio, il modo di intendere l’abitazione dello Spirito Santo nell’anima giusta, proposta da questo o quel teologo, suppone effettivamente una sostanziale presenza di questa Persona divina, ma unicamente come causa efficiente, la spiegazione suddetta è, per il fatto stesso, convinta di caducità, e deve essere respinta senza un più ampio ulteriore esame; perché non vi troviamo questa presenza speciale che suppone la missione invisibile dello Spirito Santo. Allo stesso modo, se la spiegazione proposta comporti una presenza speciale, è vero, ma puramente ideale, – i filosofi dicono obiettiva, – della Persona inviata, essa è ancora chiaramente insufficiente; perché l’abitazione di Dio in noi presuppone una presenza efficace e reale della Divinità. Esaminiamo, alla luce di questi principi, le diverse soluzioni che sono state date all’interessante problema dell’unione della nostra anima con Dio per mezzo della grazia.

I.

In un opuscolo in lingua latina pubblicato a Tournai nel 1890, e contenente cose eccellenti, un dottore in teologia della diocesi di Colonia, il M. Abate Oberdoerffer, ritenendo che la dottrina di san Tommaso sulla sostanziale inesistenza di Dio nei giusti fosse piuttosto oscura, se non addirittura incompleta, e contenesse più un’indicazione del frutto e dell’effetto della dimora divina, che una spiegazione adeguata di questo particolare modo di presenza, cercò di penetrare ulteriormente nell’intelligenza di questo mistero, e di dare una spiegazione più chiara, più precisa e completa. (Dr P. Oberdoerffer, De inhabitatione Spir. S. in animabus justorum,, c. II. P. 31.). Ecco un riassunto di quanto da lui proposto. – Con la sua operazione e la sua virtù onnipotente, e quindi con la sua sostanza che si identifica con esse, Dio è presente in ogni cosa, come autore della natura, per conservarle nell’esistenza, per muoverle all’azione e condurle al loro fine naturale. Ora, non è solo in questa veste che Egli è nei giusti, ma anche come Autore soprannaturale per conservare in essi la grazia santificante, ut sustineat gratiam, per assisterli nella produzione di atti salutari e infine portarli alla gloria, il termine supremo del loro destino. « Abbiamo qui, dunque – conclude il dotto scrittore – ore al modo ordinario, un particolare modo di presenza speciale all’anima giusta: Habemus igitur etiam sub hac ratione, præter modum ordinarium præsentiæ particularem quemdam. » (Dr Oberdoerffer, op. cit., c. XI, p. 33). È questo il concetto che dobbiamo avere di questa nuova e speciale presenza, di questa dimora di Dio in noi che è frutto della grazia santificante e prerogativa esclusiva dei giusti? Ci rammarichiamo di non poter condividere l’opinione del dottore tedesco su questo punto. – Infatti, dire che Dio è nei giusti, non solo per preservare il loro essere e portarli alle loro operazioni naturali, ma anche per sostenere e conservare la grazia e spingerli ad atti soprannaturali, è altra cosa che affermare la sua presenza in essi in qualità di causa  efficiente? Ora, non è questo un modo di presenza speciale per i giusti, un modo formalmente e specificamente distinto da quello che appartiene a tutti gli altri esseri; è solo il modo ordinario, elevato, se vogliamo, ingrandito, perfezionato, più ampio, più esteso, ma sostanzialmente lo stesso dell’ordine naturale: è la presenza di Dio come agente, per modum causæ agentis (S. T., I, q. VIII, a. 3]. Il colto autore lo ha sospettato, anche se non chiaramente compreso, perché si pone questa obiezione: « I peccatori che si preparano alla giustificazione possono, con l’aiuto della grazia presente, fare atti soprannaturali: perché allora diciamo che Dio non abita in loro, ma solo nei giusti ? »  (Dr Oberdoerffer, loc. cit., p. 33). Noi aggiungeremmo: Non sono solo le mozioni attuali che lo Spirito Santo opera nei peccatori, delle grazie di illuminazione e di ispirazione che Egli si degna di concedere loro; spesso Egli conserva ancora nelle loro anime le virtù teologali della fede e della speranza. Ora, se la speciale presenza di Dio nella creatura ragionevole consiste nel sostenere, conservare i doni liberi e infusi, e contribuire con essa alla produzione di atti soprannaturali, perché si dice che Dio non abiti anche nei peccatori? – E va detto, poiché questa è la dottrina unanime dei teologi, basata sui dati della rivelazione; poiché tale è l’insegnamento formale del Santo Concilio di Trento, che dichiara, nei termini di una perfetta chiarezza, che tutte le opere buone praticate da un Cristiano in stato di peccato, tutti gli atti di virtù che egli può compiere, sotto l’influenza della grazia attuale, per prepararsi alla giustificazione, non sono l’effetto della presenza dello Spirito Santo nel profondo della sua anima, ma la conseguenza di un semplice impulso di questo Spirito divino che bussa alla porta di un cuore che ancora non abita: Spiritus Sancti impulsum, non adhuc quidem inhabitantis. sed tantum moventis. (Trid. sess. XIV, c. iv). Le stesse virtù della fede e della speranza, misericordiosamente conservate dalla bontà divina, in mezzo al cataclisma causato dal peccato, come scintilla nascosta sotto la cenere e facile da riaccendere, come seme di vita soprannaturale che ha solo bisogno di svilupparsi, non sono frutto dell’inabitazione dello Spirito Santo, poiché è solo per la grazia santificante che lo Spirito del Padre e del Figlio procede temporalmente e viene ad abitare le nostre anime. (« Secundum solam gratiam gratum facientem mittitur et procedit temporaliter persona divina. » (S. Th., Summa Theol., I, q. XLIII, a. 3.). – Non era dunque un’opinione personale che san Tommaso difendeva, ma la dottrina della Chiesa che egli formulava, quando insegnava che la sola grazia santificante è il principio di un nuovo modo della presenza divina in noi, e che nessun’altra perfezione aggiunta alla sostanza della nostra anima è capace di rendere presente Dio come oggetto di conoscenza e di amore (S. Th. Summa Theol., I, q. VIII, a. 3, ad 4.). – Ora, se, per costituire questa presenza speciale, bastava che Dio fosse da qualche parte come autore della vita soprannaturale, allo scopo di preservare la grazia e muovere la creatura ragionevole verso atti soprannaturali, ci chiediamo ancora una volta: perché sostenere che Dio non abiti nei peccatori? Non conserva in molti modi i principi della vita soprannaturale, della fede e della speranza? Non contribuisce con loro, attraverso l’influenza della grazia attuale, alla produzione degli atti preparatori per la giustificazione? Padre Oberdoerffer risponde: « Questa obiezione non è infondata. Si può dire che l’esistenza di Dio nei peccatori attraverso la grazia presente è un’ombra della sua presenza nei giusti. Ma la potenza operativa che santifica la creatura e la eleva a somiglianza divina stabilisce in essa una presenza di Dio così singolare e sublime, che la ragione umana è incapace di concepirla e comprenderla perfettamente. È dunque con ragione che questa presenza si chiama presenza e dimora di Dio per eccellenza. » (Dr Oberdoerffer. loc. cit., p. 33). – Che la presenza di Dio nei giusti, ai quali conferisce, con la grazia che li giustifica, tutta questo magnifico corteggio di virtù infuse e doni dello Spirito Santo che accompagnano la grazia santificante, possa essere legittimamente chiamata dimora di Dio per eccellenza, almeno durante lo stato di via, non lo contraddiciamo. Ma se il modo speciale di presenza, frutto e conseguenza della missione invisibile o dono di una Persona divina, consiste essenzialmente nel sostenere la grazia, nel conservare i doni liberi che sono in noi i principi della vita divina, nel farci compiere atti soprannaturali, non possiamo più concepire perché non possiamo dire, in termini rigorosi, che Dio abiti veramente nei peccatori che hanno conservato fede e speranza, e perché questa presenza è solo un’ombra di ciò che i giusti possiedono. Che sia meno perfetto, d’accordo; che sia di altra natura, non solo nulla lo dimostra, ma tutto, al contrario, ci autorizza a negarlo. Non essendo questa spiegazione soddisfacente, dobbiamo cercarne un’altra più plausibile.

II.

Un canonista regolare che insegnava teologia a Monaco all’inizio del secolo scorso, Gaétan-Félix Verani, pensò di averla trovata. Dopo aver esaminato attentamente la spiegazione tomistica, non giungendo a comprendere come la presenza di Dio nei giusti, come oggetto di conoscenza e di amore, potesse essere una presenza reale e fisica, poiché si possono conoscere e amare le cose assenti (VERANI, Theologia speculativa universel, t. III., de Trin., disp. XV, sect.vu, n. 3.) – sempre la stessa obiezione – si volse ad un’altra parte.  Volentieri – ci dice – avrei adottato, per motivi di pietà, l’opinione qualificata come pia da Suarez, secondo la quale la grazia santificante e la carità rivendicano da sole, in virtù di un’esigenza connaturale, la presenza intima, vera e personale di Dio nell’anima santa, se anche la ragione avrebbe potuto persuadersi; ma – aggiunge malinconicamente – i fondamenti su cui si basa questa opinione non sono sufficientemente convincenti. (Verani, ibid., n. 4.). – E dopo essersi messo alla ricerca di una spiegazione più fondata, ecco quella che egli propone: « Io penso – dice – che il modo nuovo e speciale secondo il quale la Persona divina è nella creatura ragionevole a causa della grazia santificante è che Dio sia presente nell’anima come uno sposo alla sua sposa, un amico al suo intimo amico, o meglio ancora come un padre è nel suo figlio teneramente amato e come oggetto costante dei suoi pensieri, dei suoi affetti, della sua preoccupazione di creargli una brillante posizione: perché, facendo dell’uomo un amico e un figlio adottivo di Dio, la grazia santificante richiede che Dio si prenda cura di lui in modo particolare, che lo circondi di una provvidenza particolare. « Da questo modo di parlare – aggiunge il dotto canonico – è facile capire che Dio stia nel giusto in un modo del tutto distinto dal modo in cui vi si trova in tutte le cose con la sua essenza, la sua presenza e la sua potenza; perché se la sua provvidenza è universale e si estende a tutti gli esseri, è più attenta verso i giusti, anche per l’amore di cui è oggetto. Così, quando, per il dono della grazia santificante, le Persone divine sono inviate per la prima volta ad una creatura ragionevole, essa comincia ad essere amata da Dio con un amore speciale, e ad essere governata in modo particolare; e comprendiamo così come le Persone divine si trovino, anche in virtù della loro missione invisibile, presenti in modo nuovo nei giusti. Infatti, se si può dire, secondo il noto adagio, che l’anima si trova più nell’oggetto che ama che nel corpo che anima, perché tutti i suoi pensieri, tutta la sua sollecitudine sono diretti verso l’oggetto amato, possiamo anche affermare, con non minore verità, che per la grazia santificante le Persone divine si trovino in modo nuovo e speciale nei giusti, per la particolare provvidenza di cui sono l’oggetto. » (Verani, loc. cit., n. 11-12). – Noi ammettiamo senza difficoltà questa speciale provvidenza, questa paterna sollecitudine di Dio verso i giusti; e quando si tratta di coloro che possiedono la grazia non solo per un tempo, ma che devono conservarla fino alla fine, o recuperarla un giorno per non perderla più, cioè gli eletti, questa provvidenza ha in teologia un nome particolare: si chiama predestinazione. Ma questa sollecitudine di Dio per coloro che lo amano e che sono amati da Lui, per quanto così attenti come essi dovrebbero essere, non basta, da sola, a dare loro una presenza sostanziale e speciale della Divinità, come riconosce fedelmente  l’emerito professore di Monaco di Baviera. (Verani, ibid., n. 14.). La sua spiegazione non implica una vera abitazione, una presenza effettiva e reale di Dio nell’anima in stato di grazia, distinta dalla presenza d’immensità, ma una semplice unione di affetti. Ma – si affretta ad aggiungere – la grazia e l’amore d’amicizia non richiedono una presenza fisica e reale di Dio nell’anima giusta. (Ibid. n. 14). In contrasto con questo parere, abbiamo stabilito, in un capitolo precedente, e abbiamo dimostrato – crediamo – fino all’evidenza, che la missione invisibile o il dono di una Persona divina – compiuto in ciascuno – apporto o aumento della grazia santificante, implichi al contrario una nuova e sostanziale presenza della Divinità, di conseguenza una vera, reale presenza fisica e non solo una oggettiva e morale. Vedremo più avanti che l’amore della carità richiede anch’esso una presenza effettiva di Dio nell’anima santificata e non può accontentarsi di una semplice unione di affetti.

III.

Per completare l’enumerazione di opinioni più o meno difettose relative al modo di ascoltare e spiegare l’abitazione dello Spirito Santo nei giusti, sarebbe questo il posto giusto per esaminare e giudicare la celebre teoria di Petau, secondo cui la divina dimora per la grazia è peculiare della Persona dello Spirito Santo, invece di essere, secondo il sentimento generale dei teologi, comune a tutta la Santissima Trinità e semplicemente appropriata alla terza Persona; ma questa questione richiede uno studio separato, che discuteremo a tempo debito (cf. supra). – Scarsamente accolto alla sua apparizione e fino ai nostri tempi dalle scuole teologiche che l’hanno comunemente riprovata, questa teoria ha trovato ai nostri giorni un certo favore presso alcune individualità di Francia e di Germania. Essa ha, in particolare, come difensore e come patrono, un religioso francese, sottratto prematuramente al suo Ordine, che onorava con i suoi talenti, e alla Chiesa, che egli edificava con il suo zelo, il R. P. Ramière, della Compagnia di Gesù. Ecco come lo ha spiegato in un libro intitolato: Le aspettative della Chiesa. « Lessius dà come perfettamente certa la dottrina secondo la quale lo Spirito Santo è presente nell’anima giusta, non solo con i suoi doni, ma anche con la sua sostanza. Egli ne ha il diritto, poiché la dottrina opposta, manifestamente contraria alla Scrittura e alla Tradizione, è qualificata come errore dai dottori più autorevoli. In questa grande questione non c’è che un punto solo su cui c’è ancora qualche oscurità. Questa è la parte speciale dello Spirito Santo, in questa opera di santificazione che gli è attribuita ovunque nelle Sacre Scritture. Due cose sono indubitabili: in primo luogo, che lo Spirito Santo non possa venire a vivere nell’anima giusta senza le altre Persone divine che vivono lì con Lui. Anche Nostro Signore dice che se qualcuno lo ama, sarà amato da suo Padre e le tre Persone divine verranno in lui e prenderanno la loro dimora in lui. (Joan. XIV, 23). D’altra parte, non è certamente senza motivo che la missione il cui oggetto è la santificazione delle anime, sia attribuita allo Spirito Santo e non al Figlio. Se in questa missione non vi fosse nulla di proprio allo Spirito Santo, se non facesse nulla che anche il Padre e il Figlio non facciano ugualmente, non sarebbe stato realmente inviato dal Padre e dal Figlio, e le assicurazioni così positive che Gesù Cristo ci dà nel discorso dopo l’Ultima Cena, che ci invierà questo Spirito divino e che suo Padre ce lo invierà nel suo nome, non sarebbero altro che parole vane. Bisogna quindi ammettere, naturalmente, che tra il Giusto e lo Spirito Santo esiste un’unione che non si estende allo stesso modo alle altre Persone. Ma cos’è questa unione? Questo è ciò che lo stesso padre Petau non osa determinare; (Petau., De Trinit., 1. VIII, cap. VI, n. 6).  ci sarà permesso di essere più audaci di lui. » (Ramière, Les Espérances de l’Église. Appendice, XII. in nota). – (In un’opera successiva “La divinizzazione dell’uomo” il p. Ramiere si allinea però completamente alle posizioni del Froget – n. d. r.) – Non è senza ragione che la missione invisibile il cui oggetto è la santificazione delle anime e l’unione con Dio per la carità siano attribuite allo Spirito Santo. La ragione di questa attribuzione, come spiegheremo più avanti in un capitolo successivo, si trova nella sorprendente analogia che esiste tra il carattere della terza Persona, vale a dire la bontà e l’amore, e l’inabitazione  divina per la grazia, questa meravigliosa effusione di amore e di bontà. Quindi, sebbene realizzato nella realtà dalle tre Persone, benché comune a tutta la Trinità, questa ammirevole unione della creatura e del Creatore è attribuita allo Spirito Santo come se appartenesse a Lui di diritto. (« Hæc autem mira conjunctio, quaa suo nomine inhahitatio dicitur, tametsi verissime efficitur pressenti totius Trinitatis numine, ad eam veniemus et mansionem apud eam faciemus (Joan., XIV, 23), attamen de Spiritu Sancto tanquam peculiaris prædicatur. » (Encycl. Divinum illud munus – Leonis PP. XIII.).E giustamente, osserva Leone XIII, poiché « se le tracce della potenza divina e della sapienza si manifestano persino nel peccatore, il giusto solo partecipa all’amore, che è la caratteristica dello Spirito Santo Santo. Aggiungete a ciò che lo stesso Spirito è chiamato “Santo”, poiché essendo il primo e supremo Amore, spinge le anime alla santità, che consiste in definitiva nell’amore di Dio. Ecco perché l’Apostolo, che chiama i giusti “il tempio di Dio”, non li nomina espressamente come il tempio del Padre e del Figlio, ma dello Spirito Santo (I Cor., VI, 19): « non sapete che i vostri corpi sono il tempio dello Spirito Santo che è in voi, che avete ricevuto da Dio? » Quindi quando la Scrittura o i Padri ci rappresentano lo Spirito Santo come l’ospite delle nostre anime, non dobbiamo vedere in questo che una semplice appropriazione basata sull’uso in vigore nella Chiesa, di attribuire allo Spirito Santo le opere della Divinità ove domina l’amore. Ma partire da lì per affermare tra questo Spirito divino e le anime giuste, non so quale particolare unione alla terza Persona e non estendersi allo stesso modo alle altre due, e soprattutto attribuire ad essa la propria e soprattutto attribuirgli come propria la produzione di un qualunque effetto sulle creature, pretendere che « se nella missione (invisibile) non ci fosse nulla di proprio allo Spirito Santo, se non facesse niente che il Padre e il Figlio non facciano altrettanto, non lo si è realmente inviato » è fraintendere stranamente il significato e la portata delle parole della Scrittura e dei Padri, è dividere l’unità dell’operazione in Dio, contrariamente al dogma cattolico, secondo cui tutte le opere esterne sono comuni alle tre Persone per l’unità della loro natura; perché dove non c’è che una sola natura, ci deve essere una sola potenza e una sola operazione.

IV.

Dopo tutti questi tentativi infruttuosi che portano invariabilmente ad escludere l’opinione di Petau, la più improbabile di tutte, restano l’una o l’altra di queste due ipotesi: o una presenza sostanziale di Dio nel giusto, ma come causa efficiente, cioè una presenza comune a tutti gli esseri e che non si differenzia che accidentalmente di molto da ciò che essa è nei peccatori ed anche negli esseri inanimati; o una presenza speciale negli esseri ragionevoli dotati della grazia, ma puramente oggettiva; è tempo allora di proporre finalmente il vero modo di questa presenza dello Spirito Santo, sostanziale e speciale, che la grazia santificante apporta all’anima giusta, senza sacrificare nessuna di queste due condizioni, e senza introdurre questa unione propria e personale con lo Spirito Santo, come ha sostenuto padre Ramière, seguendo Petau. Ci basterà per questo esporre il sentimento di san Tommaso, non come è stato compreso da questi o da quest’altri, ma tale come risulta dalle stesse parole e dai testi comparati del Santo Dottore. – Secondo gli insegnamenti del maestro angelico, Dio può essere sostanzialmente presente in una creatura in tre modi diversi: primo, come agente, o come causa efficiente: questo è il modo ordinario comune a tutti gli esseri senza eccezione; secondo, come oggetto di conoscenza e di amore, ed è la presenza speciale per i giusti della terra ed i Santi del cielo; ed infine, in virtù di un’unione ipostalica: è così che il Verbo si è unito alla nostra umanità in Nostro Signore. (S. Th., I, q. VIII, a 3). Il primo modo di presenza è universale; esso si ritrova ovunque vi sia un effetto qualunque della potenza divina, naturale o soprannaturale; poiché ogni essere creato, essendo essenzialmente dipendente da Dio, non può né giungere all’esistenza, né rimanervi senza l’azione immediata, e quindi senza la presenza intima del suo Creatore. Abbiamo già sufficientemente spiegato sopra questa modalità di presenza per esserne dispensati dall’obbligo di ritornarvi. – La presenza di Dio come oggetto di conoscenza e di amore appartiene solo alle creature ragionevoli, le uniche capaci di conoscerlo e di amarlo. Ma questo secondo modo di presenza ci può essere offerto in una duplice forma, che è estremamente importante discernere bene, se vogliamo evitare l’equivoco in cui è caduto un certo numero di teologi, e per evitare l’obiezione che abbiamo già incontrato sul nostro cammino, e che  continua a ritornare sotto la penna degli oppositori della dottrina di san Tommaso. O si tratta di una presenza puramente oggettiva e morale, oppure, al contrario, si tratta di una presenza effettiva e reale. Nella prima ipotesi, tutti coloro che conoscono e amano Dio, anche attraverso la conoscenza e l’amore puramente naturali, godono di una certa presenza di Dio; perché Egli è nella loro intelligenza attraverso la sua immagine, la sua idea, la sua somiglianza intellettuale; nella loro volontà attraverso un’attrazione che li porta a Lui, attraverso un legame affettivo che li unisce a Lui. Ma questa non è una presenza vera e reale; e anche se, per assurdo, Dio risiedesse esclusivamente in cielo, sarebbe comunque presente, con questa presenza ideale e affettiva, a chiunque faccia della Divinità l’oggetto della sua contemplazione e del suo amore.  – Nella seconda ipotesi, al contrario, se si tratta di una presenza fisica e sostanziale, non solo la conoscenza naturale e l’amore non sono capaci di far abitare Dio in un’anima, ma né la conoscenza soprannaturale che la fede dà, né l’amore del desiderio che la speranza genera, possono dare un tale risultato; solo la grazia santificante e la carità ci danno un tale onore (S. Th., I, q. VIII, a. 3 ad 4). – Quanto al terzo modo di presenza sostanziale, esso si trova solo in Cristo, per effetto dell’unione ipostatica: un’unione ineffabile e incomprensibile, che ci autorizza ad attribuire al Figlio di Dio tutto ciò che fa o soffre la natura umana da Lui assunta; un’unione mirabile, che dà un prezzo infinito a ciascuna delle azioni e delle sofferenze del Dio-Uomo, e gli permette di soddisfare in modo adeguato la giustizia di Dio oltraggiata dal peccato. Questi tre modi di presenza sono riuniti in Nostro Signore. Infatti, Dio è in Lui, come in ogni creatura, come agente, conservando la santa umanità del Salvatore che Egli ha creato e unito al Verbo. C’è ancora, per la grazia santificante, questa presenza speciale per i giusti e i santi; perché fin dal primo momento della sua esistenza, l’anima di Cristo conosce e ama Dio con una conoscenza soprannaturale accompagnata dalla carità; lo conosce, non attraverso le ombre della fede, ma alla luce della visione beatifica; Essa lo possiede così nel modo più perfetto in cui possa essere posseduto da una creatura; Essa lo ama con l’amore di godimento consumato, per cui è veramente beata. Infine, come coronamento di questa doppia unione, già da ora sì perfetta, a questa vi si aggiunge l’unione ipostatica, per mezzo della quale il Verbo comunica alla natura umana, che Egli ha sposato nel grembo della Beata Vergine, la propria sussistenza, affinché, secondo la parola dell’Apostolo, la pienezza della Divinità abiti corporalmente nel Cristo (Col. II, 9), essendo unita non solo alla sua anima ma anche al suo corpo. (S. Th., III, q. II, a. 10, ad a). E non si dica che l’abitazione di Dio per grazia sia perfettamente inutile, se non impossibile, ad un’anima che abbia l’incomparabile vantaggio di essere personalmente unita al Verbo. – È così poco inutile che la stessa unione ipostatica, senza il possesso e il godimento di Dio per mezzo dell’intelligenza e della volontà, non sarebbe sufficiente a beatificare quest’anima. Dio stesso, la felicità sussistente, sarebbe incapace di felicità se non conoscesse e non amasse se stesso; perché senza di essa non potrebbe godere del bene infinito e trovare, nella contemplazione della sua essenza divina, quella gioia suprema che è necessaria  per la beatitudine. Affinché l’anima di Cristo sia beata, essa deve avere, oltre alla sua personale unione con il Verbo, questa unione con Dio mediante l’operazione che consiste nella visione dell’essenza divina e nella fruizione che l’accompagna; e per questo ha bisogno di una grazia creata che la disponga e la renda capace di produrre atti così elevati al di sopra di ogni potenza naturale, e di essere naturalmente alla portata solo di Dio. (S. Th., Qq. disput., De verit., q. XXIX, a. I).

V.

Questa dottrina di san Tommaso, sul triplice modo di presenza sostanziale che Dio può avere nelle cose, è riprodotta in termini quasi identici nella questione delle missioni divine. (S. Th., I, q. XLIII, a. 3). Tuttavia, il santo Dottore vi aggiunge un aspetto particolare e molto importante, sul quale dovremo ritornare; egli dice che con la sua operazione, cioè con i suoi atti di intelligenza e volontà, la creatura ragionevole raggiunge Dio in se stesso: Sua operatione attingit ad ipsum Deum. – Indicheremo di seguito il significato e la portata di queste parole. Ma non possiamo ignorare un articolo magistrale in cui l’angelico Dottore dà al suo pensiero degli sviluppi più ampi, delle spiegazioni che lo rendono più accessibile alla nostra intelligenza, ma che egli non ha ritenuto opportuno riprodurre in seguito nelle opere della sua maturità, dove ha condensato maggiormente la dottrina. Ecco questo articolo. Dopo essersi chiesto se Dio è in tutte le cose con la sua potenza, presenza ed essenza, nei Santi con la grazia, e in Cristo con il suo essere, egli risponde nel seguente modo: « La distinzione di questi modi viene in parte dalla creatura, in parte da Dio. Viene dalla creatura, per come è variamente ordinata e unita a Dio, non da una semplice diversità di ragione, ma da una reale diversità. Infatti, come diciamo di Dio che Egli sia nelle cose a secondo di come Egli è a loro unito e in qualche modo applicato, ne consegue che là dove il modo di unione e di applicazione differisce, il modo di presenza stessa è diverso. Ora la creatura è unita a Dio in tre modi: primo: mediante una semplice somiglianza, perché ogni essere creato possiede in sé una partecipazione e una somiglianza della bontà divina, senza però raggiungere la sostanza stessa di Dio; questo è il modo ordinario di unione, secondo il quale Dio è in tutte le cose con la sua essenza, la sua presenza e la sua potenza. « Secondo, non è più per una semplice somiglianza che la creatura è unita a Dio, ma essa lo raggiunge in Se stesso, considerato nella sua sostanza, per mezzo della sua operazione: questo è ciò che accade quando egli aderisce per fede alla primaria verità, e per carità alla bontà sovrana; questo è il secondo modo, secondo il quale Dio esiste in modo speciale nei Santi, in virtù della grazia. – « In terzo luogo, la creatura raggiunge più Dio non solo con la sua operazione, ma con il suo essere; questo non va inteso come dell’essere che è l’atto dell’essenza, perché nessuna creatura può trasformarsi in Dio, ma dall’essere che è atto di ipostasi o della Persona alla cui unione è stata elevata la natura creata: questo è l’ultimo modo in cui Dio è in Cristo mediante l’unione ipostatica. – Considerata dalla parte di Dio, la diversità dei modi di unione non è reale, ma solo razionale; essa deriva da ciò che si distingue in Dio: essenza, potenza ed operazione. Ora l’essenza divina, essendo assoluta e indipendente da tutte le creature, si trova negli esseri creati solo perché li avvicina a se stessa con la sua operazione; e come operazione nelle cose, è in esse per presenza, perché l’agente deve essere presente in qualche modo alla sua opera; e poiché l’operazione divina non si separa dalla virtù attiva da cui emana, si dice che Dio è nelle cose con la sua potenza; infine, siccome la virtù e la potenza di Dio è identica alla sua essenza, ne consegue che Dio è nelle cose con la sua essenza. »  (S. Th., Sent., lib. I, dist. XXXVIII, q. I, a. 2). Questi, secondo san Tommaso, sono i tre modi di presenza sostanziale che Dio può avere in una creatura, i tre tipi di riavvicinamento e di unione che possono esistere tra il Creatore e l’opera delle sue mani. Dalla parte di Dio, unione con la creatura, con ogni creatura come agente, per conservarla e muoverla nei suoi vari atti; unione con la creatura ragionevole e santa come oggetto della sua conoscenza e del suo amore; infine unione con la natura umana, per assunzione di questa natura e la sua elevazione fino alla personalità divina per costituire questo mirabile composto che noi chiamiamo Dio-Uomo. – Dalla parte della creatura, l’unione con Dio attraverso la semplice somiglianza, cioè attraverso i doni creati che gli sono stati dati come tante partecipazioni e imitazioni analogiche della bontà divina; l’unione per operazione, cioè per mezzo degli atti di intelligenza e di volontà, per mezzo dei quali l’essere creato si porta verso Dio, la verità primaria e il sovrano  Bene, lo raggiunge in se stesso e lo possiede fino a poterne godere in modo iniziale durante lo stato di via, in attesa del godimento consumato che avrà luogo in cielo; l’unione infine nell’unità della persona con Dio, che la fede ci mostra realizzata in Gesù Cristo, la cui natura umana sussiste attraverso la stessa sussistenza del Verbo che gli è stata comunicata. È chiaro che queste diverse modalità di presenza e di unione sono assolutamente irriducibili, e che non c’è solo una differenza di gradi, una differenza accidentale o di più o meno, ma una differenza formale, essenziale e veramente specifica. Una cosa, infatti, è avere Dio presente in noi come causa efficace; un’altra cosa è possederlo come ultimo fine e oggetto del nostro godimento; a maggior ragione il non formare con Lui una sola persona. Nel primo caso, la creatura non raggiunge Dio stesso, benché gli sia intimamente presente; ella non gode di Lui, e spesso ne è incapace; se possiede qualcosa di Dio, non è la sua sostanza, ma è solo una somiglianza, una partecipazione analogica, un’imitazione lontana della sua bontà. Conjungitur creatura Deo tripliciter. Primo modo secundum similitudinem tantum, in quantum invenitur in creatura aliqua similitudine divinæ bonitatis, non quod attingat ipsum Deum secundum substantiam: et ista coniunctio invenitur in omnibus creaturis per essentiam, præsentiam et potentiam (S. Th. Loc. cit.). – Nel secondo caso, al contrario, l’essere ragionevole dotato di grazia possiede veramente Dio nel profondo del suo cuore, raggiunge la sostanza divina attraverso gli atti delle sue facoltà intellettuali, gode di Dio. Secundo creatura attingit ad ipsum Deum secundum substantiam suam consideratum, et non secundum similitudinem tantum; et hoc est per operationem: scilicet quando aliquis fide adheret ipsi primæ veritati, et charitate ipsi summæ bonitati; et sic est alius modus quo Deus specialiter est in sanctis per gratiam (Ibid.). – Sarebbe ingannarsi, tuttavia, considerare questi diversi modi di presenza come realmente distinti in Dio; poiché, al di là dei rapporti di origine opposti, realmente distinti l’uno dall’altro come le Persone divine stesse che essi costituiscono, tutto in Dio è perfettamente unico; la sostanza, le facoltà, le operazioni, le perfezioni i cui concetti sembrano più opposti, si fondono in Lui in perfetta unità e semplicità, e sono solo praticamente distinti. Ci si perdonerà per esserci un po’ attardati su queste nozioni, ma esse ci sono sembrate necessarie per preparare il cammino e illuminare la nostra marcia  verso la meta desiderata; e chiunque sa che una domanda chiaramente posta, e i cui termini siano stati ben chiariti, è per metà risolta, riconoscerà facilmente che non sono né un fuori tema, né una superfetazione.

VI.

Prima di spingere oltre il nostro cammino, fermiamoci un attimo, guardiamo indietro per riconoscere il percorso che abbiamo intrapreso, e prendiamo solidamente possesso del terreno che abbiamo conquistato.  – Quando, facendosi interprete della Scrittura e della Tradizione, San Tommaso dichiara che Dio è nei giusti in una maniera nuova e speciale, che Egli abita il santuario della loro anima, questo non significa, come intende il Dr. Oberdoerffer, che Egli sia in loro per sostenere e conservare la grazia santificante, ut sustineat gratiam, per muoverli alle loro operazioni soprannaturali; è certamente là in questo modo e per questo scopo, ma questo è il modo ordinario e comune di presenza. Questo  non significa che Egli sia unito a loro con i legami di un affezione particolare, che li circondi con una protezione speciale, che ne faccia l’oggetto costante dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni, come sosteneva Verani. Limitare a questo l’unione di Dio con le anime sante, è giungere, volenti o nolenti, alla negazione di una vera abitazione dello Spirito Santo in loro, e di sostituirla con una semplice unione morale, incapace di soddisfare i requisiti di una perfetta amicizia e di soddisfare pienamente alle sì chiare promesse del Salvatore che, « se qualcuno lo ama, sarà amato dal Padre e che le tre Persone divine verranno in lui e vi fisseranno il loro soggiorno. (Giov. XIV, 23). – Per caratterizzare chiaramente questo modo di unione con Dio, che è proprio dei giusti, san Tommaso dichiara che Dio è in loro come oggetto di conoscenza e di amore, in modo che essi possano, con la loro operazione, raggiungere la sostanza divina, (S. Th., I, q. XLIII, a. 3.) e cominciare, già da questa vita, a godere del sovrano Bene. (S. Th. Ibid. ad I). – Ma è sufficiente, per costituire questa presenza speciale, che Dio sia conosciuto e amato con ogni conoscenza e amore soprannaturale? No, per niente. I fedeli in stato di peccato mortale, conoscono Dio non solo attraverso i lumi della ragione, ma anche con quello della fede; essi lo amano ugualmente, non solo con un amore naturale, ma anche con un amore soprannaturale che ha il suo principio nella virtù della speranza; essi possono anche avere quell’inizio di diletto che il Concilio di Trento elenca tra le disposizioni preparatorie per la giustificazione (Trid., sess. VI, c. VI);   eppure Dio non abita ancora in essi, sta solo per entrare nel loro cuore, bussa alla porta, chiedendo che gli si apra. Ecce sto ad ostium et pulso. (Apoc. III, 20). – Abbiamo quindi sentito san Tommaso dirci più in alto, che la conoscenza di Dio, anche soprannaturale, se non è accompagnata dalla carità, è insufficiente a far abitare in un’anima la Santissima Trinità (S. Th., in I ad Cor., c. II, lect. 3.). Per questo egli dichiara, a più riprese, che la sola grazia santificante, ad esclusione di ogni altra perfezione, produce la speciale presenza di Dio,  come oggetto di conoscenza e di amore. (« Nulla alia perfectio superaddita substantiae facit, Deum esse in aliquo sicut objectum cognitum et amatum, nisi gratia; et ideo sola gratia facit singularem modum essendi Deum in rébus, » – S, Th., I., q. VIII, a. 3, ad 4.).  Pertanto, né le virtù soprannaturali della fede e della speranza o gli atti che esse ispirano, né le grazie attuali, né le grazie gratuite, come il dono della profezia o il potere di compiere miracoli, né, a maggior ragione, le qualità naturali sono sufficienti a far abitare Dio in un’anima.  – Perché ci sia una vera dimora dello Spirito Santo, secondo il giudizio di san Tommaso, deve esserci qualcosa di diverso dall’azione di Dio che produce o conserva la grazia; qualcosa di diverso dalla presenza di abitudini soprannaturali e dagli atti che ne derivano; qualcosa di diverso da una speciale provvidenza, per quanto possa essere attenta; è necessaria la presenza vera, reale, sostanziale dello Spirito Santo come oggetto di conoscenza e di amore; è necessario il possesso e almeno il godimento iniziale del sovrano Bene, raggiunto in sé dagli atti di intelligenza e di volontà creata; è necessario un inizio di questa unione beata che un giorno sarà consumata in cielo, ed una sorta di pregustazione della felicità eterna. – Ma questo è ancora un enigma; chi lo scioglierà? Una formula forse preziosa, ma difficile da cogliere, se giudichiamo dalle varie interpretazioni che ne sono state date. Dove gli altri si sono sbagliati, saremo noi più felici? Dove altri hanno fallito, possiamo lusingarci di aver raggiunto sicuramente la verità? Se, per comprendere e spiegare un dogma di così alto ordine, fossimo ridotti ai soli nostri lumi; se, per penetrare nelle profondità di un mistero che va ben oltre la nostra portata, potessimo contare solo sulle nostre risorse, avremmo sicuramente motivo di temere, ricordando le parole dello Spirito Santo: « Non cercare le cose troppo difficili per te, non indagare le cose per te troppo grandi – Altiora te non quæsieris, et fortiora te non scrutatus fueris »; (Eccli. III, 20); perché qui tocchiamo ciò che è di più grande, più santo, più profondo nella vita interiore e mistica, siamo veramente al centro dell’ordine soprannaturale. Ma colui del quale finora abbiamo seguito gli insegnamenti ed esposto la dottrina, san Tommaso, vorrà certamente – lo speriamo – assisterci dall’alto del cielo e ottenerci da Dio i lumi di cui abbiamo bisogno. Contando sulla sua  assistenza fraterna ed il soccorso della sua intercessione, noi andremo  umilmente e coraggiosamente avanti.

LO SCUDO DELLA FEDE (97)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO VIII.

Dalla costanza dei medesimi effetti nella natura vieppiù si scuopre non venire essi da caso, ma da consiglio.

I. Se un raggio solare passi per qualche spiraglio della finestra, osserverete, al porgli innanzi una carta, che egli dilungatosi alquanto da quel forame, non ritien più la figura quadra, ottangola, ovata, o triangolare, propria di quel forame, per cui passò, ma riducendosi sempre al pari in un cerchio, par che egli dica a chi intenda ben la favella della sua luce: lo son figliuolo del sole: da lui venni a discendere per natura, ed a lui ritorno, dandogli questa gloria di figurare nella mia piccolezza una immagine illustre della sua sfera, tanto maggior della mia (Aristot. in probl, sect. 15. n. 10). Ora quello che è il raggio rispetto al sole, è qualsisia creatura rispetto a Dio: procede ella da lui come da principio, ed a lui ritorna, col dimostrarlo a qualunque occhio non losco: mentre ella non lascia mai di rappresentare in piccolo qualche pregio eminente del suo fattore, sicché chiunque la riguardi abbia occasione di sollevarsi ad argomentare tra sé, che se tanto bello è l’effetto, troppo più bella senza paragone debbe esserne la cagione. Ma come avveierebbesi tal discorso, su l’ordine, l’armonia, l’artifizio, la maestà, che traspira in tutto il creato, non avesse altro principio, che un vil miscuglio di corpuzzi abbracciatisi alla carlona? Sicuramente troppo più alto sarebbe quivi l’effetto, che la cagione. Onde, se ciò non si dee mai concedere in modo alcuno, conviensi necessariamente assegnare a così bel tutto un principio dotato sopra ogni credere di quel senno, di quel sapere, che folgora cosi vivo da tal effetto.

I.

II. Che se pure taluno di que’ protervi i quali non si stimano mai convinti fin che hanno la lingua libera a contraddire, volesse tuttavia sostenere questo partito affatto incredibile, cioè che quelle tante sconciaturelle, cui diamo il nome di atomi, con accozzarsi ciecamente fra loro infinite volte, arriverebbero pure in una a formare questo gran colosso del mondo sì ben inteso: abbiasi per ammesso un tale impossibile. Ma che vale? Né più né meno sarà egli costretto in fine a concedere, che so il caso poteva dare la forma a così bell’opera, non poteva però mantenergliela stabilmente: mentre, fra tutte le proprietà del caso, questa è la massima, la volubilità e la vicenda.

III. E dove si troverà, che egli dia sempre alla luce un parto uniforme? Anzi suo proprio è il variarli più spesso che non fa l’Affrica, cui par poco popolar le arene di mostri, se non gli dà sempre nuovi. Mirate un giocatore non malizioso. Se lascia andare su la tavola i dadi, come lor piace, non è possibile che a qualunque tratto egli scuopra l’istesso punto, ma sempre varia, tanto che, se egli senza intermissione venisse aver tre sei, non vi sarebbe da dubitar che in tal giuoco non fosse inganno. Contenderebbesi al giuocator la vittoria come non giusta: e si terrebbe per manifesto da’ giudici, che quei dadi furono da lui tratti con arte da disleale, e non alla semplice. Quindi è, rimaner celeberrima nelle istorie (Fam. de bell. belg. dec. 2. icon. anim. c. 4), la temerità di quel fantaccino, il quale obbligato con più altri compagni suoi fuggitivi a tirare il dado sotto le forche apprestategli, scoperse alla prima un punto sì avventuroso, che lo campò dalla morte. E pur egli insensato s’indusse a venderlo per poche doppie al vicino. Tornò la seconda volta al funesto giuoco, e sorti il medesimo tiro: ond’egli imbriacato di sua ventura, non dubitò di rivenderlo nuovamente: finché alla terza scoperse un punto pessimo, e lo pagò, con perdere quella vita, di cui si era mostrato sì poco degno. Argomentava lo sciocco, dall’essergli due volte il caso propizio, che gli sarebbe la terza: e non si apponea: mentre all’opposito, perché due volte gli era stato propizio, però più lo doveva egli alla terza temer nemico. Tale è il talento del caso. Non sa mai tessere una tela continova di operazioni tra sé concordi: e benché vagliasi dei medesimi mezzi, non sa valersene ne’ medesimi modi, che è ciò che ricercherebbesi ad assicurare con quelli l’istesso fine. Siamo certificati dalla natura, che questo non è proprio di altri, che di chi opera con accorgimento perfetto. Pertanto, anche a fingere questo grande impossibile, che uno stuolo immenso di que’ corpuzzi volanti alla spensierata si fossero uniti insieme sì bellamente, che avessero composto un leone vivo, come farebbero poi per sessanta secoli, da che oramai sono apparsi leoni al mondo, a formarne tuttodì tanti e tanti simigliantissimi,  quanti sono quei che ne contano da sé solo le selve ircane? E ciò che si dice de’ leoni, dite di tanti altri animali che non han numero, dite dell’erbe, dite delle frutta, dite dei fiori, e dite di tutto ciò che rende al tempo stesso sì nobile l’universo.

II.

IV. E molto più, come potrebbe un collegamento fortuito durare incessantemente fra tante contrarietà e tanti contrasti? Dove mai caverebbe il caso vischio bastevole a tener insieme e strette fra loro sì lungamente parti tanto opposte, proprietà tanto ostili, generazioni di cose tra sé implacabili: di leggiere e di gravi; di sode e di fluide; di stabili e di flessibili; di lucide e di opache; di calorose e di fredde; di vincitrici in assidue gare e di vinte? Certamente, che se non può unirsi insieme senza arte una macchina di ruote fra sé contrarie, quali sono quelle che formano l’oriuolo, molto meno può credersi, che senza arte possa ella del continuo poi correre di un tenore, sicché l’istessa contrarietà de’ suoi moti vaglia a maggior concordia, l’opposizione a maggiore perseveramento, l’ostilità a maggior pace. Quante monarchie sono in pochissimi secoli andate a terra? Ecco che il dominio degli Assiri, dei Medi, de’ Macedoni, de’ Romani fu vinto da un dominio maggior del loro, qual è quello del tempo; e ciò con tale sterminio, che di corpi sì vasti né anche restano a rimirarsi più l’urne, non che le ceneri. E pure quelle gran monarchie erano tutte già governate con somma accortezza, guidate con somma attenzione, sostentate con somma forza. E vorremmo poi darci a credere, che la repubblica delle creature potesse durare costante a onta del tempo, se ella non solo fosse già fondata dal caso , ma dal caso ancor sostenuta? Nulla è più naturale, che risolversi le cose un dì ne’ principii donde furono originate. E però un tutto nato dal caso, dalla confusione, e dal miscuglio d’infinite minuzie, non potrebbe non ridursi poi nel suo caos, nella sua confusione, e nel suo miscuglio natio. E certamente quel capitano, il quale dopo la rotta sa riparare in tempo l’esercito, raccogliere i fuggitivi, riunir le file, e rimettere la battaglia, vien riputato nell’arte militare come un prodigio di perspicacità e di prudenza. Ben dunque è d’uopo, che non solo sia lippo, ma che voglia essere, chi nega di ammirare per colmo di arte quell’artefice sommo della natura, il quale delle perdite sa valersi a fare nuovi acquisti; e poiché le cose caduche, non solamente sono sbaragliato, ma spente, sa trovar modi da sostituirne altre subito in luogo loro, sicché su la fine di qualunque anno, mancando, per dir così, la natura stessa nel suo sfiorire, non manchi mai; e disfacendosi, sempre più torni intera a riporsi in forze. Che follia pertanto è la vostra, se in vece di fare al vero il dovuto ossequio, con dirgli, Io cedo, volete ancora oppugnarlo? No no, si gettino le armi, che egli ha trionfato, sol che voi tenghiate a memoria quanto io vi ho detto. Una cagion casuale (Una cagion casuale è una contraddizione in termini. Poiché cagione è forza attiva, efficiente, epperciò dotata di realtà, mentre il caso è una mera entità as tratta, a cui non risponde veruna realtà in natura. Arroga, che il vocabolo caso pigliasi altresì a significare un fatto, un avvenimento, un fenomeno qualunque siasi. Or come un fatto, val quanto dire un effetto può esser cagione?Adunque cagione casuale varrebbe quanto circolo quadrato), non può partorire effetti tanto ordinati, con tale proporzione di mezzi adattissimi al fine ch’ella riporta. E dato per impossibile, che taluno ne partorisse, questo sarebbe rispetto a lei come un mostro: onde non potrebbe esserne ella feconda di tanti e tanti, quanti se ne richieggono alla costituzione dell’universo. E posta finalmente anche in lei questa sì prodigiosa fecondità, non potrebbe tal cagione mai seguitare per tanti secoli, a riprodurre gli stessi effetti con rinnovellamenti sì universali, con regole sì uniformi, e con un tenore di operazioni sì stabili nello stesse instabilità.

III.

V. E pure, che i medesimi effetti abbiano sempre da ritornare nella natura, e da ritornare con ordine, è cosa già tanto fuori di controversia, che gli ateisti medesimi 1’hanno a credere, non ostante l’oltraggio manifestissimo che, col mostrare di crederla, fanno al caso. Altrimenti si dovrebbe da loro mettere in dubbio, se domani sia per sorgere il sole dall’orizzonte, come sorse ieri; se la terra potrà loro più essere di sostegno, se l’aria di respiro, se l’acqua di refrigerio; se sian più per nascere uomini come prima; ed in una parola se tutta la natura abbia da durar più nell’antica forma, o pure svanire, come un palazzo d’incanto. I popoli del Messico, innanzi di venire alla incoronazione del loro re, voleano che egli giurasse loro di fare, che i cieli non si fermassero mai; che niun pianeta mutasse punto il suo corso, ne il suo veruna stagione; che i mari mai non avessero ad asciugarsi, e che i prati, i campi, i colli, ed i boschi annosi, non mai restassero di dare quasi decrepiti i loro parti, e di germogliare (Saved. In inst. princip. p. 46). Ora una cerimonia sì stolta, qual era questa, dovrebbe riuscire il senno più fino degli ateisti, quando eglino da senno credessero, che l’universo non fosse altro che un aggregato casuale d’innumerabili atomi volubili e vagabondi. Conciossiachè nulla sarebbe più verisimigliante, che il doversi questi disciogliere all’improvviso, per assecondare il talento innato che essi hanno di andare in volta; e lo sperare che avessero a star costanti in perpetua unione, sarebbe lo sperare un chiaro miracolo; onde il passato non potrebbe essere agli ateisti argomento valevole, come è a noi, d’indovinare il futuro; anzi il sapersi da essi quello che fu, dovrebbe valer loro piuttosto ad inferire ciò che non dovrà essere: sicché l’universo sarebbe per loro simile ad un oriuolo guasto, che già più ad altro non serve che a mostrare quell’ora la qual non è. La verità si è però, che tra essi non ha veruno il quale seguiti in pratica la dottrina da sé protetta: ma tutti sempre regolano le loro deliberazioni come fa chiunque tiene per indubitato, che la natura non altererà le sue leggi; altrimenti è chiaro che i miseri non potrebbero né seminare, né mietere, né mangiare, né medicarsi, né per poco durare due giorni in vita. E pure che è il presupporre una tale uniformità tra gli effetti che debbono intervenire nella natura e gl’intervenuti, senonché il presupporre un’opera tutta piena d’intelligenza contraria al caso?

IV.

VI. Pare che il caso sia finito con ciò di cadere a terra. E tuttavia non ha egli ricevuta finora la spinta massima: spinta, che gli viene dal braccio d’un Aristotile, nimico suo capitale (Aristot. phys. 1. 1. c. 8. tex. 66. Metaph. 1. 11. c. 9. n, 15). Perocché vi chieggo: che cosa è mai la cagion casuale di qualunque effetto che voi sappiate assegnarmi? E altro forse che una cagione imitante la cagion propria di quel medesimo effetto? Se un pittore, fortunatissimo al pari di quello già da noi menzionato, gettando per dispetto la spugna carica di colori sulla sua tela, può figurare casualmente una rosa, distinta in più vaghe foglie, conviene adunque, che con quei colori medesimi possa figurarsi su quella tela una rosa tale, anche ad arte: conciossiachè, so non vi si potesse fingere ad arte, né anche mai vi si potrebbe da alcuno fingere a caso. Che dite pertanto voi? Dite che a caso potesse il mondo l’ormarsi dagl’intrecciamenti di atomi svolazzanti, o che a caso da questi ancora egli possasi mantenere nella prima forma? Dunque non potete negare insieme un artefice intelligente, che altrettanto potesse far di consiglio, e tuttora il possa: altrimenti converrà, che a forza vi risolviate a inghiottir questa gofferia tanto intollerabile, che vi sia cagion casuale di quello cose di cui non v’è cagion propria. Ma un tale artefice altro non è, né può essere, se non Dio. Dunque il caso stesso confermaci che Dio v’è. Ogni cagione accidentale presuppone la naturale.

V.

VII. Risponderete, che por cagion naturale può supplire d’avanzo nel caso nostro la natura medesima delle cose, le cui diverse inclinazioni bastarono a lavorare le varie parti di questo tutto visibile, e bastano a mantenerle in perpetua corrispondenza senza altro Dio. Onde quando anche si abbia finalmente ad ammettere qualche artefice universale, maggior del caso, ecco qual è: la natura. Ma grazie al cielo, che con tale risposta venite al meno a degradare ormai gli atomi da quel posto ove gli aveva sollevati il capo vanissimo di Democrito e de’ suoi malcauti seguaci. Contuttociò, perché il rispondere voi così non è altro che fare come la seppia, la quale, dove è colta, si aiuta subito a spargere tanto inchiostro d’intorno a sé, che vi disparisca; converrà che a forza io vi tragga da coteste nuove tenebre fatte a mano, mettendo in chiaro questo male inteso vocabolo di natura, che è il nascondiglio.