LO SCUDO DELLA FEDE (114)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXV.

L’ astrologia giudiziale non si può né anche fondare sull’esperienza.

I. Le fiere più maliziose sogliono alle lor tane formare due bocche, le quali se da’ cacciatori non sono serrate a un’ora, vana è la caccia. Dopo aver pertanto all’astrologia chiusa una porta della sua tana, che è la ragione, vantata a torto, conviene incontanente chiuder l’altra, che è l’esperienza: tanto più che da questa si fida più di scappare la maliziosa ove le riesca.

I.

II. E indubitato che qualunque esperienza si conseguisce colla induzion di più casi particolari tra loro simili, i quali danno la regola universale, madre dell’arte; e l’induzione, come il filosofo insegna (Arist. metaph. 1. 1. c. I . eth. 1. 6 c. 4), vuol decorso lungo di tempo: che è la cagione onde i giovani ne son privi. Dican però gli astrologi, che esperienza sia mai la loro di lungo tempo? A lasciare andare le favole, Tolomeo riduce le prime prove di una tal arte ai caldei, usi di vivere anticamente all’aperto, per osservare gli andamenti anche minimi delle sfere. Ma i caldei non osservarono altro più che i moti solari ed i moti lunari: e poco attesero a quei degli altri pianeti, come si raccoglie da Ipparco, il quale spogliò per sé tutti i loro fondachi (V. Gassend. tom. 1. 1. 6. c. 1). Eppure quelle osservazioni medesime furono da’ caldei formate alla grossa (come avviene in tutti i principii delle arti), sì perché ancor non avevano altri istrumenti, che mastini e malfatti, sì perché quelli malamente adattavano alle misure (V. Sext. Empir. 1. 1. in mathem. c. 21): onde chi può dire gli errori corrotti in essi, non pure da Tolomeo, ma da tutti i seguenti astronomi, che sulle tavole, formato poi da lui più distintamente, si tennero lunga età per non ire a fondo?

III. Senonchè neppur esse bastarono a preservarli da un generale naufragio, mentre fino al passato secolo tutti al pari, con presupporre che le sfere de’ cieli fosser concentriche, si appoggiarono ad un sistema, convinto ormai e condannato ad evidenza per falso.

IV. E pur v’è di più. Perchè l’età nostra, portando il guardo per mezzo del cannocchiale fin sulle sfere più alte, ha scoperto un nuovo cielo, dirò così, dentro il cielo antico: scoperte stelle senza numero, o massimamente nella via lattea (che per la gran moltitudine che ne accoglie non può non formare una costellazione più attiva di qualunque altra): scoperte ne’ pianeti stessi nuove apparenze, nuovi compagni, nuovi corsi, non più notati che a variare gl’influssi buoni o maligni de’ suddetti pianeti, sicuramente possono molto più, che non può il semplice luogo, considerato sol dagli astrologi nelle loro calcolazioni, o piuttosto finto di un zodiaco posticcio, qual è uno zodiaco fuori del cielo stellato; e scoperte soprattutto macchie vastissime in faccia al sole per cui, quando ancora le osservazioni antiche fossero esatte, verrebbero a scapitare infinitamente di autorità: perciocché essendo queste macchie solari come nuvole immense, riputata taluna eguale a tutta l’Europa (Blancan. in sphaera 1. 10. c. 25), chi può spiegare quanto a quel gran corpo di fuoco, cui stanno opposte, rifrangano la sua possa, con alterare tutti gli effetti sullunari a gran segno? che però a quegli anni, in cui tali nubi sono comparse più smisurate o più stabili, il nostro mondo inferiore ha goduta una state molto più mite, standosi quasi all’ombra di quello sì vaste tende; come per contrario, non essendosi dopo le comete insigni, vedute più in volto al sole per qualche tempo simili macchie, i mesi estivi sono corsi più accesi, e le stagioni più asciutte. Ora, non pure gli astrologi da principio non osservarono nulla di tutto ciò, ma né anche ne fan parola addì nostri come dovrebbero, dappoiché il Galileo, primo discopritore, non di una terra incognita, ma di un cielo, ce ne recò le novelle. Che esperienze però son coteste loro? Bisogna prima fermar come stian le sfere, e dipoi fondarvi i discorsi.

V. Ma questo è ‘l bello, che ne’ caldei tutti gli astrologi notano gravi abbagli quanto al sistema de’ cieli, e in un protestano di non volersi dipartir da’ caldei nelle loro regole. Così fa Tolomeo medesimo (Alex, de Ang. 1. 4. in astrol. c. 4). Ed il Cardano, che vantasi di avere rialzata l’astrologia dalle sue rovine con gloria maggiore che non sortì il Fontana dal rialzarne l’obelisco sì bello del Vaticano, riconosce Tolomeo qual principe degli astrologi; eppure non solamente gli appone abbagli gravissimi sopra i moti del sole e della luna, due pianeti i più validi ad operare; ma di quattro falli, i più solenni nella sua professione, che sono falsa ratio, falsa computatio, falsa observatio, falsa temporum enumeratio (Sect. 1. aph. 71), lo dichiara reo de’ due ultimi chiaramente: quasiché i due ultimi non si tirino dietro ancora i due primi. L’onore istesso fa egli a Giulio Firmico, pronunciando che fu uno sfacciato e uno stolido: l’istesso all’Albumasarre, 1’istesso all’Albubater, l’istesso al Bonato, maestri sommi: laddove quelli che sono poi succeduti al Cardano, tacciano lui di aver errato, qual uomo audace, all’ingrosso, anche ne’ primi principii. E così leggasi il Bellanzo, il Pighio, il Pontano, il Nifo, i l Gaurico, il Giuntino, il Vossio, o sia chi si vuole, non troverassi un astrologo, il quale non danni l’altro d’ignorantissimo, di venale, di vano, di trascurato (Al. de Ang. 1. 4. c. 2). Che però dov’è l’esperienza di sì grand’arte, se in lei non v’è chi seguire con sicurezza, dacché ella nacque?

VI. Almeno fosse vero, che quelle prove alquanto legittime che si fossero tolte per lo passato, potessero adattarsi al tempo presente. Ma non si può. Conciossiachè avanzandosi le stelle fisse col moto proprio dall’occidente verso l’oriente, fino ad un grado, nello spazio di settantadue anni e quattro mesi; ne segue, che oggi abbiano in cielo un posto diverso assai da quello che occupavano al tempo de’ primi osservatori de’ loro corsi (Ricciol. Almag. 1. 4. c. 14): tanto che la prima stella d’ariete, collocata nel destro corno, era, duemila anni sono, nel primo grado dell’istesso ariete, ed ora è nel vigesimonono: e il simile è di più altre (Alex, de Angel. 1. 4. c. 21). Pertanto, cambiato il luogo, di cui i giudiziari fanno così gran caso, vengono a cambiarsi le declinazioni e le altezze meridiane, e conseguentemente ancora gì’influssi, come apparisce nel sole, sì differente ne’ suoi effetti la state da quello che egli è di verno, per la mera diversità di quel posto che tiene in cielo. Sicché non essendo l’ottavo cielo tornato anco nella positura medesima che ebbe al tempo de’ suoi primi osservatori, né potendovi ritornare (come dimostrasi) se non in capo ad anni, per lo meno ventottomila; qualunque prova che adducasi da’ moderni, sarà una prova singolare, e pero non atta a meritarsi nel tribunale della sapienza fede maggiore di quella che si meriti nel tribunale della giustizia la testimonianza d’un solo: Unus testis nullus testis. E posto ciò, chi non vede, per conclusione, che da più prove simili non han potuto gli astrologi cavar finora una regola universale, su cui tenersi nelle loro natività? E se non hanno una regola universale, come possono dunque alla professione che fanno dar nome d’arte? Ella al più è giuoco semplice di fortuna, non è induzione; mentre non ha potuto finora avere per sua guida l’esperienza, ma salo il caso: Experientia facit artem, inexperientia casum.

II.

VII. Che se non l’ha potuta avere finora, la potrà forse avere da ora innanzi? Questo è il peggio: che non potrà: onde se l’astrologo non vuole andare alla caccia dell’ombra propria, che quanto più si segue, tanto più fugge, meglio è che lasci l’impresa.

VIII. I moti di Mercurio e di Marte (che sulle scene de’ genetliaci fanno le prime parti come quelli da cui dipendono gli affari più rilevanti della pace e della guerra), né finora sono ben palesi a veruno, né possono essere. Mercurio si dilunga così poco dal sole, che i più valenti e i più vecchi astronomi appena si potranno dar vanto di averlo veduto in vita loro due volte. Marte poi è così strano ne’ suoi viaggi, che fu creduto dagli antichi talora quasi esule dalla patria, cioè dal suo cielo (Ricciol. Almag. t. 1. in praef. pag. 14). Certa cosa è, che Ticone (il quale nel contemplare le stelle parve un’intelligenza terrena emula delle celesti che le governano) afferma, non potersi per via delle tavole usate saper le congiunzioni di Marte con Saturno più esattamente, che con pericolo di dare lo spazio di tre o quattro giorni di là dal vero ( L . de nova stella). E tuttavia gli astrologi assegnano non solo il giorno e l’ora, ma sino il minuto preciso di tal congiunzione, per adattar bene le cuspidi delle loro case celesti (come ad uno di loro rimproverò l’istesso Ticone) (Ib. Contra Appian.). formandosi gli antichi il cielo a lor modo, quasiché nessuno abbia mai da riconvenirli.

IX. Queste medesime difficoltà s’incontrano più o meno, nel divisare gli andamenti degli altri pianeti ancora: donde nasce il tanto variare che fanno nelle loro effemeridi gli astronomi, benché dotti: nasce il non accertare per appunto nelle predizioni delle ecclissi, in cui spesso discordano le loro tavole l’ore intere; e nasce la necessità che v’è stata perpetuamente di riordinare ad ora ad ora il calendario non mai ben fermo. L’incostanza degli anni è quella che ha portata una tale necessità, non si può negare: ma l’incostanza degli anni ecco donde viene: dal non essersi mai finora potuto arrivare il punto preciso dell’equinozio vernale, che è quello da cui piglia l’anno astronomico il suo principio. So però non si può sapere appunto l’ingresso che fa il sole ne’ propri segni, come si potrà saper quello che facciano ne’ loro gli altri pianeti di lui più occulti? E se non si sa tale ingresso, su che stabiliranno gli astrologi l’esperienze de’ loro superbi annunzi? Potrà definire in qual grado, in qual particella, in qual punto i pianeti si trovino di alcun segno chi non sa quando fu il passaggio lor preciso dall’uno all’altro?

X. Diranno che non è di necessità una cognizione sì esatta di tali tempi e di tali trasmigrazioni, ma che bastane una morale. Questa risposta, che par sostegno da reggere la fabbrica già cascante, è nondimeno un ariete a finir di rovinarla. E che sia tale:

XI. Uno de’ più solenni argomenti a discredito di quest’arte è la diversissima fine che ordinariamente sortiscono due gemelli nati ad un’ora. Di questo argomento si valse Tullio (L. 4. de Div.) coll’esempio di Proclo e di Euristene, signore de’ lacedemoni, pari nel nascere, e dissimigliantissimi sì nel vivere, si nel morire: e più acutamente se ne valse il grande Agostino (L. 5. de civ. c. 6), coll’esempio di due gemelli, diversi ancora di sesso: ed uno, che, tolta moglie, lasciò la casa per andare alla guerra; l’altra vergine, data a guardar la casa. Se dunque fosse vero quello che è primo principio de’ genetliaci, cioè che al primo momento dell’uscir fuori la creatura dall’utero, le stelle natalizie v’improntano i loro influssi per tutto il tempo avvenire, come il sigillo improntasi in una cera: se fosse, dico, ciò vero, converrebbe che i due gemelli sortissero senza divario un destino stesso sino alla fin della vita. Ma per lo più succede tutto l’opposto: dunque conviene che sia falso il principio su cui i genetliaci fondano le avventure.

XII. Lo scudo che essi oppongono a sì gran lancia, fu il pensier sovvenuto a Nigidio Figulo, pensiero a lui così caro per la invenzione, che ne pigliò fino il nome, qual Scipione dall’Africa debellata. Entrato Nigidio nell’officina di un vasaio, mentre il vasaio volgeva appunto la ruota più fortemente, la segnò due volte con due velocissimi tratti di tinta nera che aveva in mano, e fattola poi restare, fè vedere agli astanti, che que’ due segni, benché impressi quasi ad un attimo, erano tuttavia ben distanti l’uno dall’altro, per la celerità della ruota nel suo girarsi. Così disse egli, addiviene nel rotarsi de’ cieli tanto più rapidi. Quel breve tempo che si frammette nel venire i due gemelli alla luce (quantunque immediatamente l’un dopo l’altro) è la cagione della diversità che poi passa nel loro vivere.

XIII. Ora per veder quanto male a loro difesa si vagliano i genetliaci di questa ruota, quasi di fatata rotella, rispondano a Favorino filosofo, che presso Gellio (L. 14. c. 1) gl’interroga di tal guisa: Se uno spazio sì breve, qual è quello che si frappone nel nascimento di due gemelli, è di sì alto rilievo, che basta a collocarli sotto un fato sì differente; com’è possibile, che gli astrologi dalle stelle natalizie possano mai saper nulla degli accidenti futuri a verun mortale, mentre non possono mai sapere accertatamente la positura di tali stelle nell’atto della natività la quale non può avvenire in sì breve tratto, che in breve non abbiano già quello seguito a correre più che la ruota di qualsisia vasellaio: o molto meno possono innalzare il tema di detta natività sulla relazione che sian per darne i genitori, le mammane, i medici, o qualunque altro che fosse assistente al parto: né si può fare mai diligenza che basti a rinvenire questo momento fatale, senza scambiarlo, massimamente in tanta dissension di orologi non mai concordi; eppure un momento che sia pigliato per l’altro, benché immediato, fa tanto svario! Così non intendono gli astrologi, che ad un architetto di castelli in aria non basta l’avere ingegno, vi vuol memoria. Di sopra dicevano essi, che a’ loro assiomi non è necessaria una cognizione esattissima de’ minuti e de’ movimenti, bastandone una morale; ed ora dicono che la diversità d’un momento solo cagiona ne’ gemelli effetti così contrari, non che diversi : Oportet mendacem esse memorem. Se avessero tal memoria, non oserebbero certamente di far gli oroscopi, non solo ai bambinelli, ma alle città. E non veggono essi quanti lustri vogliono a porle in piedi? Eppure non temono di formare ad esse le loro natività: come anticamente un certo Taruzio la fece a Roma, e come ultimamente il Cardano la fece a tante d’Italia (a Venezia, a Bologna, a Milano, a Firenze), dappoi di avere apprese già le loro indoli e i loro istinti, per esser più sicuro d’indovinarli : 0 vim maximam erroris, dicea però bene Tullio (L. 2. de div.) montato in ira: Etiamne urbis natalis dies ad vim stellarum pertinebat ? Fac in puero referre ex qua affectione cœli primum spiritum duxerit: num hoc in latere, aut cæmento ex quibus urbs effecia est, poterit valere?

III.

XIV. Ma, dacché tutto il saper loro si fonda sull’esperienza, dicano inoltre: da quale esperienza si conducono essi ad argomentare il tenor del vivere ed il tenor del morire, dal solo punto del nascere, mentre l’esperienza ci fa vedere in contrario, che tanti entrati nel mondo sotto oroscopi diversissimi, ne escono tuttavia coll’istesso fine? Mi spiegherò. Muoiano oggi due uomini, l’uno in acqua, l’altro di spada: se voi consultate gli astrologi (tanto felici a rinvenire ciò che fu, quanto infelici a dir ciò che sia per essere), vi troveranno subito donde avvenne. Chi naufragò, dicon essi, sortì nascendo la secchia dell’acquario per ascendente: e chi ferito morì in battaglia, sortì la punta acutissima della freccia del sagittario (V. Miletto 3. curs. math. de astr. prop. 9). Fermi le risa chi può, e passi ad addimandare: certo è, che pochissimi appo gli astrologi son gli aspetti significatori di morte in guerra, o di morte in acqua, Postò ciò, quando nel secolo passato 1’armata navale cristiana, rompendo la turchesca di Selimo II, tinse il mare di sangue maomettano, ed empì le spiagge vastissime di cadaveri, dobbiamo noi credere che tutti quei musulmani, periti di ferro fossero stati al nascer loro feriti dalla cuspide del sagittario, e tutti gli affogati nell’onde fossero nati coll’urna in capo di acquario? Non si può dire che sì, perché in tanti natali differentissimi sarebbe stoltizia volerselo divisare. Adunque diversi oroscopi nel nascere portano ad un medesimo termine nel morire.

XV. Senonchè per difendere una falsità minore con una maggiore, sognano essi certe rivoluzioni universali, che tirandosi dietro a forza gli oroscopi particolari, stravolgano loro il corso: come farebbe ad una nave bene avviata dal vento in poppa, un turbine improvviso ed impetuoso sorto da fianco. E queste universali rivoluzioni portano tanti insieme, per loro detto, a perire di naufragio, di fuoco, di ferro e di altre sciagure indebite. Ma se le stelle non sono né segni, né cagioni degli eventi liberi o casuali, conforme abbiamo veduto, ma influiscono al più nel solo temperamento a formare un’indole o un’inclinazione, piuttosto che un’altra: con quali lieve svolgono le cose sossopra in queste universali rovine? Dove s’impressero allora quelle influenze sì maligne al nome ottomano? Nel mare nato già sei mil’anni prima? ne’legni? negli archibusi? nelle aste? nelle spade? nelle saette? nelle munizioni? Dicasi, in che? Di poi, quando a risposta sì capricciosa pur donisi il passaporto non meritato, ne segue dunque, non poter mai gli astrologi predir nulla intorno alla vita ed alla morte degli uomini; perocché sempre rimarrà a dubitare di qualche abbattimento di stelle non preveduto, che tronchi a mezzo la tela incamminata de’ successi privati, coll’occasione di qualche squarcio solenne, recato ai pubblici da tali rivoluzioni.

XVI. Passiamo innanzi. Qual esperienza ha loro insegnato o potrà insegnare, di ascrivere alle stelle, ascrivere ai segni, una man di effetti che manifestamente debbonsi al sole? Eccone chiaro l’esempio. Ascrivono questi i caldi eccessivi di agosto al segno del leone ed alla stella del cane unita a tal segno. Eppur nulla meno. Conciossiachè quelle vampe che noi proviamo quando il sole è in leone, provan gli antipodi quando il sole è in acquario: e il nostro agosto è il loro gennaio, e il nostro gennaio è il loro agosto: cambiandosi tra loro e noi totalmente le altezze meridiane del sole, da cui proviene la state. Quindi se il mondo segua a vivere ancora diecimil’anni, il cane si avanzerà a nascere nel cuore di gennaio. Vogliamo però noi credere che allora il gennaio debba essere sì cocente, come or l’agosto nei giorni canicolari, perché il cane è focoso di sua natura? Eppure così avverrebbe se fosse vera quella distribuzione che fanno gli astrologi di segni ignei e di stelle che buttan fuoco. Qual dubbio dunque che ingiustissimamente attribuiscono essi alle stelle, qual parto suppositizio ciò ch’è del sole, e che però troppo sono da dileggiarsi, quando per la congiunzion de’ pianeti in questi segni ignei, pronosticano incendi sì spaventosi?

XVII. Senonchè non è certo, che tali segni sono tutti fantastici? E come dunque un puro nome avrà forza di operare le più strane cose del mondo? Eppure così è. Distinguono i genetliaci prima il cielo in dodici parti, e danno a questo il nome di case, in cui riconoscono poscia tanto di forza, che un pianeta buono in una casa cattiva divien dannoso, e un pianeta cattivo in una casa buona divien propizio; quasi che qualunque pianeta sia come il pesco, che piantato in Persia è veleno, trapiantato in Italia si dà per cibo: Posuit translata venenum (V. Millet. 10. 3. curs. mat. propos. 3. astr. Alex, de Ang. 1. 4. c. 19. et 1. 4. c. 6). La prima casa, situata all’oriente, dicon essere della vita: e perché, dopo la vita nessuna cosa amasi più della roba; danno la seconda al guadagno: e perché la roba porta gli amici in copia, danno la terza agli amici: e perché la quarta è nel posto principale, detto imo cielo, danno la quarta ai padri, al patrimonio ed a tutto ciò che provenga felicemente da eredità: e perché per questa sogliono star bene i figliuoli, danno la quinta ai figliuoli, intitolandola dalla buona ventura, promessa quivi da Venere; e perché nella sesta, finta sull’occidente scorgono Marte, danno la sesta alla fortuna sinistra, con farla significare i servi e le serve, e le cadute sì orride ai cortigiani; e perché dopo gl’ineguali succedono ben gli eguali, danno la settima alle nozze, in cui godesi l’eguaglianza; l’ottava, scorta da un malefico raggio non aspettato, viene attribuita alla morte già imminente; la nona alla pietà, perché quel luogo, secondo loro, è prossimo al sommo cielo; la decima agli onori, perché è nel mezzo; l’undecima al genio buono, perché v’è Giove: la duodecima finalmente al cattivo, perché così loro aggrada: che è la ragione anche vera di tutto il resto. Voi che leggete, udiste mai zingaresca più dilettevole? Veramente non vi abbisognano catapulte, quando si tratti di abbattere case tali, fondate in aria. Contuttociò domandate prima agli astrologi, perché ripartiscano il cielo in dodici case e non più: non han che rispondervi, mentre la divisione è affatto arbitraria. Gli auguri antichi lo ripartivano in sedici (Tull., de div. 1. 2). Quanto a me io vorrei ridurre tutte queste case a due semplici appartamenti, ed allogarne uno alla temerità di chi propon queste ciance come misteri, l’altro alla leggerezza di chi le crede.

XVIII. Oltre a ciò, non solo gli astrologi disconvengono in tal partizione dagli auguri; ma né anche convengono ben tra loro; perché alcuni nel disegno di case tali seguono l’architettura di Tolomeo, altri quella degli arabi, altri quella dell’Alchibizio, altri quella del Cardano, altri quella del Montereggio (Ap.Ricciol. Almag. 1. 1. c. 14): donde segue, che avendo ciascun di loro una canna diversa per misurarle nell’assegnazion de’ confini, quel pianeta che starà ad albergare nell’undecima casa secondo un ordine, e significherà buoni amici, starà secondo l’altro ad albergare nella duodecima, e significherà prigionia.

XIX. E poi, che sono queste case celesti? Forse palazzi incantati? Sono tante parti di cielo al tutto omogenee, cioè ciascuna della medesima qualità, pura pura, di cui son l’altre. Or come dunque la quinta casa ha da stimarsi della buona fortuna, e ha però ad esser colma di piaceri, di conviti, di conversazioni, di musiche e di regali: e la sesta, che è la contigua, dirò così, a muro a muro, ha da ricettare non altro che malattie, che mestizie, che avversità? Idem manens idem, semper facit idem. Se però gli astrologi non vogliono abusare indiscretamente la credulità popolare, conviene che dimostrino donde mai da un corpo unico ed uniforme ha da provenire questa diversità d’influenze così contrarie, che nel medesimo tempo piova su l’uno aconito, su l’altro ambrosia.

XX. L’istesso dite de’ segni dello zodiaco meri nomi e mere partizioni ad arbitrio; e tuttavia, se si volesse prestar fede alle chiacchiere, questi sono i primi ministri nel governo di tutte le cose inferiori, mentre vogliono che l’efficienza delle stelle sia promossa, sia rattenuta, o sia talora tramutata in contraria dal segno in cui si trova ciascun pianeta. Ci dicano dunque cotesti interpreti delle cose celesti, che sia questo zodiaco sì misterioso per li suoi segni?Non è altro, che il sommo cielo, diviso non dalla natura, che l’ha fatto tutto di un modo, ma dall’astronomia, che l’ha cosi ripartito in tante intersecazioni mentali per favellarne con legge (Alex, de Ang. 1. 4. c. 22). Adunque come non si vergognano i genetliaci di attribuire effetti così diversi a quella parte di mondo superiore, che in sé non ha veruna diversità, per minima ch’ella sia, ma l’ha soltanto nella fantasia dei mortali? Queste parti, che neppure sono parti reali, come son le membra dell’uomo, ma un tutto sempre somigliante a se stesso, da ciascun lato, com’è un cristallo; queste, dico, potranno affatto disgiungersi con chiamarle altre maschie, altre femmine, altre diurne, altre notturne, altre lucide, altre tenebrose, altre stanti, altre pellegrine, e queste medesime avranno sopra i costumi degli uomini, e le lor sorti, tanto differente potere, che possa affermarsi ciò che sì sfacciatamente scrive il Cardano (L. 2. de revol. c. 11). Si ascendit aries, erit natus in timore mortis violentæ; si taurus, ægrotabit ex libidine; si gemini, sollicitabitur in perquirendis secretis; si cancer, erit amator rerum publicarum ? E fin a quando i deliri si venderan dagli audaci a prezzo di oracoli, e si compereran dagl’insani?

XXI. Una pari temerità mostrano questi falsari nel determinare gli effetti delle costellazioni pur ora dette, avendo usurpate le favole de’ poeti per fondo da lavorarvi i punti in aria delle loro vaticinazioni bugiarde. Guai al parto, dice il Cardano, cui servano di ascendenti due pianeti congiunti in pesce: nascerà muto: quasi che l’altre stelle avessero voce da farsi intendere (Alex, de Ang. 1. 2, c. 10). Perché non afferma, che chi nascerà sotto il granchio , avrà all’andare otto gambe invece di due, e quattro chi sotto il capricorno, o sotto il centauro? Guardati, disse altrove l’istesso autore, guardati di non pigliar medicina quando la luna è in toro. E perché? Notisi l’ingegno profondo. Perché lo stomaco non terrebbela, ma come il toro, dopo aver mangiato, richiama alla bocca il cibo, e torna a ruminarlo; così tu saresti costretto a rigettar la bevanda salubre con tua gran pena. Ma piano, che il toro richiama il cibo alla bocca, non vi richiama la medicina. Adunque dirò io, quando la luna è in toro, guardati di non pigliar cibo, perché lo vomiterai: anzi non meno guardati di pigliarlo quando è in montone, perché il montone anche rumina quanto il toro. Eccovi gli assiomi de’ giudiziari (Id. 1. 4. c. 13): e secondo questi udirete, che la spiga in mano della vergine sia feconda di agricoltori: che la lira produca musici valentissimi; che la nave d’Argo sbarchi dall’alto nocchieri; che la corona piova diademi in capo ai re, che lo scorpione empia le case sotto lui fabbricate di scorpioni, impossibili a disnidarsi, ed altre sì fatte inezie, per cui è di stupor grande, che gli astrologi incontrandosi per le vie, possano mai fra loro tener le risa, come Catone soleva dir degli aruspici: Sicutdixit Cato, miravi se, quod non rideret aruspex, aruspicem cum vidisset (Tuli. 1. 2.de div.).

XXII. Per tutte queste cose, e per altre noiose a dirsi, è manifesto quanto a torto presuma l’astrologia di paragonarsi alla medicina, con chiamarsi un’arte ancor ella congetturale. Che arte congetturale, se neppure ella merita il nome d’arte, tanto è priva di ogni ragione e di ogni esperienza? o s’ella è arte, è arte di frappatoro, che spaccia per oro fino quello che neppure può vendersi per orpello; e per dir meglio, è arte da giuntatore, che, vendendo oro falso, riceve il vero, beffando i creduli con un’alchimia più vana, ma più lucrosa: Homines æruscatores, et cibum quœstumque ex mendaciis captantes (Gell, lib. 24. c. 1). Ella è un aggregato di favole e di follie, fondato tutto in analogie puerili di nessun pregio, da che si sa che in cielo non v’ha né toro, né leone, né lupo, né vergine, né scorpione, né sagittari, né pesci; ma corpi lucidissimi, intitolati altrimenti dagli arabi, altrimenti dagli egiziani, altrimenti dagli ebrei, altrimenti da’ cinesi (Montan. in astrol. devict. pag. 38). E se da’ greci anche furono già chiamati con tali nomi (introdotti, come apparisce più verisimile, parte da’ pastori, parte da’ pescatori, usi di fare la loro vita all’aperto), non da altro avvenne, che dalla usata licenza loro poetica d’innalzare sino alle stelle, non solamente gli croi della loro altera nazione, ma sin le bestie, che somigliavano colla loro figura la situazion di quegli astri. Eppure gli astrologi vi discorrono su. come se quei nomi fossero una perfetta definizione della cosa, errando più all’ingrosso di chi alle antiche piramidi dell’Egitto avesse attribuita virtù d’infuocare tutto il paese, perché esse avevano, non pure il nome, ma la figura dal fuoco.

XXIII. Nel rimanente, quando a’ pianeti vogliasi pur dare alcuna virtù reale di formare il temperamento, qual esperienza ha persuaso o potrà mai persuadere agli astrologi un impossibile, cioè, che un agente naturale possa più da lontano, che da vicino ad aiutar l’altro (a guisa di fuoco che scaldi chi più sta lontano dal cammino, che chi dappresso), o possa parimente più da lontano che da vicino a fargli contrasto: a guisa di remora, che molte miglia distante ancor dalla nave l’arresti più, che quando v’è fatta ai lati?Eppure ciò costoro asseriscono francamente, dicendo che gl’influssi di un pianeta non si avvalorano dagli influssi dell’altro, né si rifrangono, quando ambedue sono in un medesimo segno, ma solo quando, già separatisi por tratti immensi di cielo, si mirano dirimpetto, o si mirano di traverso (Alex, de Ang. 1. 4. c. 30): tanto che secondo quattro aspetti soli le stelle si aiutino l’una l’altra, o si sturbino all’operare: fuori di questi, sieno cieche al vedersi e sorde all’intendersi.

XXIV. L’istesso dicasi dell’affermar che un pianeta nell’influire, passi da un estremo all’altro oppostissimo senza mezzo. Non è ciò del tutto impossibile alla natura? Eppure Giove secondo le loro regole, mentre sta nell’ultimo grado, nell’ultimo minuto, e nell’ultimo secondo al segno di gemini, vien riputato dimorare in un segno avverso, e contrarre, dirò così, dalla rea conversazion di que’ due gemelli malnati cinque gradi di nera malignità e contuttociò nel primo minuto del tempo seguente, passando al primo principio del grado del granchio, Giove, non più vestito a bruno, ma a festa, non sì tosto ha messo il pie sopra quella soglia fortunatissima, che diviene tutto benefico e con quattro gradi di profusa liberalità rimira ogni parto. E questo non è più che un volerci persuader che la terra oggi sia tutta sterile, tutta secca, quale è nella bruma algente, e stasera sia tutta gaia, tutta gioconda, qual è nella primavera? Chi può udir cose tali senza piegarsi a compassione della gente che vi dà retta? Eppur la stolta si lascia persuader, che le congiunzioni, le opposizioni, i sestili, gli esagoni, i quadrati, i trini, i trigoni, cioè null’altro che la mera corrispondenza de’ segni in una figura di sei lati, a cagion d’esempio, più che di quattro corrispondenza che altrove nulla opera nella natura di fisico, in bene o in male), solo in questi sette lucidi corpi abbia tal virtù, che ora versi in seno agli uomini ogni ventura, ed ora ad ogni passo spalanchi un precipizio sotto i lor piedi, o erga un patibolo; tanto più che nelle linee s’intende bene, come queste vengano a costituire un quadrato, cioè una figura di quattro angoli, o a costituire un esagono, cioè una figura di sei: ma in corpi tante e tante volte maggiori ancor della terra, per dir così, indivisibili, in cui finiscano quegli angoli tanto validi ad operare?

XXV. Almeno si contentassero di affermare, che per operazioni così stupende, prodotte da que’ punti, vi voglia assai. No: tutto si opera in uno stante: mentre quelle figure a un tratto svaniscono col girar velocissimo delle sfere. Eppure ciò che in uno stante operossi dura, secondo questi, tutta la vita; come se gli uomini si marcassero dalle stelle a guisa, di puledri, che portansi poi quel segno, malgrado loro, benché decrepiti.

XXVI. Se non altro fossero paghi di darci a credere che i pianeti più possano all’influire, quando stan sopra l’orizzonte, che sotto. Né anche a ciò consentono quegli assiomi, che tutto riferiscono ai puri aspetti. Ma Dio buono! Il sole non può sensibilmente più a mille doppi in questo basso mondo, di quel che possono tutti gli altri pianeti? E nondimeno sperimentiamo pur tutti, che quando egli di giorno è sull’orizzonte, ci scalda in altra guisa, che quando egli è sotto l’orizzonte, di notte. Qual esperienza dunque insegna a costoro, che Mercurio, sì poco visibile ad osservarsi, e sì poco valevole all’operare quando è sorto dall’orizzonte, influisca nel feto all’istesso modo che quando è sito? Una lieve nuvola rifrange i raggi del sole, e tutto il materiale e il massiccio del corpo terreno non potrà rifrangere ad una stella il vigore, non potrà indebolirlo? Questo è far peggio assai che da romanzieri, i quali, se non ci raccontano cose vere, ci raccontano almeno le verisimili. Che però giustamente Sisto di Eminga, nobilissimo astronomo del suo tempo, dopo aver confessato lo studio grande impiegato da lui nell’astrologia su gli anni più freschi, conclude alfine così: Curri autem longo usu et experientia multa doctus, rem penitus inspexissem, comperi, astrologicam doctrinam, cui prius, antequam nota esset, impense favebam, esse impossibilem, falsam, nulla fide dignam et inutilem, quia nulla habent rationum momenta genethliaci, solis experimentis artem suam constare profitentur. Expressimus iam experimenta quoque facere adversus genethliacam. Restat, ut omnium scriptorium libri, omnes hominum ordines, omnium gentium linguœ astrologiæ loquantur vanitatem (Sixt. ab Hem. in gen. Caroli V. ap. Alex, de Ang. 1. 5. c. 16 in fine).

IV.

XXVII. Ma che? verissimo è il detto di santo Ambrogio (L. 4. in hex. c. 4): La sapienza de’ genetliaci è tutta in ordire una gran tela di ragno, la quale può ben prendere ogni meschino con sicurezza, ma non può vantarsi di avere mai finora arrestata un’aquila. Che voglio dire? Cervelli deboli di leggeri si trovano andar perduti dietro una scienza sì vana (Se l’astrologia genetliaca è arte di cervelli deboli, non pregiata da verun forte intelletto, non metteva proprio conto, che l’autore l’avesse presa così in sul serio a confutare). Ma quale intelletto forte la pregiò mai! Socrate la dannò come temeraria. Pitagora e Platone, che nell’astronomia studiarono tanto, dell’astrologia non fecero un caso al mondo. Aristotile, quell’uomo sì prodigioso nel render la ragione di tutte le cose, anche più riposte, la curò sì poco, che neppure degnò di farne menzione in verun suo libro né fisico, né morale (Ap. Euseb. 1. 14. de praep. Ev. c. 4). Cicerone (L. 2, de div.) savissimo la derise, ad imitazione di quegli uomini eccelsi, da lui lodati, che, benché peritissimi delle stelle, la dileggiarono. Ippocrate, Galeno, Avicenna, Porfirio, Plotino, Teofrasto, che furono i più dotti de’ loro secoli, certa cosa è che l’ebbero tutti a vile, come han poi fatto concordemente gli astronomi più moderni, arricchiti dal tempo di maggior lume (Perer. in Gen. 1. 2). Sicuramente fra questi può Ticone valore per uno stuolo. Eppure dopo ogni prova, egli dispregiò l’astrologia come vana, e gli astrologi come vaneggiatori (Gassenno in vita 1. 7). E l’unico Tolomeo che la professò tra gli uomini grandi, non la professò per la stima che mai ne avesse, mentre in più luoghi ( L . 1. de iud. cap. 1. Centiloq. sent. 1. et 5. Quadripart. 1. 2). ancor egli l’abbattè poco men che da’ fondamenti: la professò per bisogno: poiché veggendo egli il tenue guadagno che ritraeva dall’astronomia, nella quale era versatissimo, applicossi all’astrologia, volendo, come disse il Cheplero, che una figliuola stolta, qual è l’astrologia, alimentasse una madre savia, qual è l’astronomia: madre che l’avea data al mondo, qual legittimo parto, non può negarsi; ma parto degenerante, quando a poco a poco, da astrologia naturale, ella tralignò in astrologia giudiziale.

IL SACRO CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (12)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (12)

[Ed. chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

TERZA PARTE

MEZZI PARTICOLARI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Capitolo VI.

IL CUORE DI GESÙ È NELL’EUCARISTIA IL COMPAGNO DEL NOSTRO PELLEGRINAGGIO

Le visite di Dio agli uomini.

Se il primo dovere dell’uomo è quello di inchinarsi davanti al suo Creatore, con il sacrificio, il suo primo bisogno è quello di vedere il suo Creatore inchinarsi a lui e concedergli la sua amicizia. L’unione con Dio è lo scopo della Religione, così come il sacrificio è il suo atto supremo. Con il sacrificio testimoniamo a Dio la nostra assoluta dipendenza e il nostro bisogno del suo aiuto. Non serve nient’altro per attirarci nella sua infinita bontà e per fargli fare alleanza con la nostra debolezza in un’alleanza misericordiosa. Ma questo patto tra Dio e l’uomo non è sempre stato altrettanto intimo. Dio era sempre contento di conversare con i figli degli uomini, ma essi non erano ugualmente disposti a ricevere le sue visite paterne. Queste erano all’inizio solo poche apparizioni concesse alla fede dei Patriarchi. Poi fu innalzato il Tabernacolo e Dio fece la sua abituale dimora nell’Arca dell’alleanza, dove conversava direttamente solo con il Sommo Sacerdote ed in alcune circostanze solenni. La gente poteva parlargli solo dall’esterno. Finalmente il velo è stato strappato. L’ingresso del santuario è stato aperto agli uomini. Il vero Santo dei Santi, Colui di cui l’Arca dell’Alleanza non era che una pallida immagine, apparve alla vista degli uomini. Il Verbo stesso di Dio ha parlato la nostra lingua e per trentatré anni ha conversato con noi come uno di noi. E non solo Mosè, ma anche l’ultimo dei peccatori ha potuto affrontarlo faccia a faccia. Non è questo, per Dio, l’apice della condiscendenza? E non dovrebbe essere soddisfatto Egli che una volta aveva detto che le sue delizie erano “l’abitare tra i figli degli uomini”? No, non è soddisfatto! Per soddisfare tutte le esigenze del suo amore deve inventare un’unione molto più stretta, una disposizione che lo avvicinerà a tutti i suoi fratelli fino alla fine dei tempi. E questo, senza togliere il merito della fede, permette loro di vedere, in modo più sensibile, il suo immenso amore per loro. Questo è il capolavoro del Cuore di Gesù.

Dio resta con gli uomini fino alla fine dei tempi.

Aveva terminato la sua carriera mortale e doveva andare da suo Padre. La sola notizia della sua partenza aveva addolorato gli Apostoli; ma quanto più vividamente desiderava non essere separato da loro! Che cosa farà allora? Obbedirà al Padre che Lo chiama, ed allo stesso tempo al suo amore che Lo trattiene. Salirà in cielo, ma poco dopo scenderà di nuovo sulla terra in modo definitivo. I suoi figli non avranno perso nulla nella loro separazione, al contrario, ne avranno tratto vantaggi inestimabili. Perché l’amore del Cuore di Gesù ha saputo approfittare della sua impossibilità di rimanere sulla terra nella sua forma, per soddisfare più pienamente il desiderio di stare con ciascuno dei suoi figli. La sua presenza sarà d’ora in poi meno sensibile, ma molto più completa. Fino ad ora è stato presente in un solo luogo, e quanti uomini non hanno potuto vederlo! Egli stesso andò ad incontrare coloro che avevano bisogno del Suo aiuto; corse dietro alle infermità per curarle. Ma il suo stesso amore sacrificale gli impedisce di rimanere negli stessi luoghi in modo stabile e di soddisfare i desideri di chi avrebbe voluto tenerlo con sé. Passò facendo del bene e compiendo miracoli, ma passò. A parte le poche persone chiamate a seguirlo, la maggior parte di coloro che ebbero la grande gioia di vederlo, si rallegrarono solo per poco tempo. Non sarà più lo stesso in futuro: non in un solo luogo, ma in tutta la terra Gesù Cristo è presente: in tutte le regioni dell’Europa cristiana, in tutti i villaggi di montagna e nei quartieri delle città; in Asia, in Africa, in America, nelle isole dell’Oceania, ovunque il Cuore di Gesù è presente per fortificare i suoi ministri, per incoraggiare i suoi fedeli servi, per consolare coloro che soffrono, per lavare via le macchie dei peccatori. E non passa, rimane! Va dove viene chiamato, ma non si allontana da Se stesso e rimane fino a quando lo si vuol tenere. Non chiede palazzi splendidi, né brillanti cortei, ma un po’ di pane come velo, il recipiente più povero in cui riposare e la capanna più vile per preservarsi dalle intemperie, alcune anime sacrificate per tenergli compagnia, e nient’altro. E si rassegna, in molti luoghi, a rimanere solo per giorni interi. Solitudine alla quale la nostra vergognosa indifferenza lo condanna, e che non lo appesantirà finché Gli lasceremo la speranza di consolarci quando le necessità ci costringeranno a ricorrere a Lui. Questo è il modo in cui il Cuore di Gesù è costantemente presente, non in alcune anime privilegiate, ma in tutti i suoi fratelli e sorelle, sia nei peccatori che nei giusti. Questa presenza deve durare per secoli. Qualunque siano, le prove non ci mancheranno. In tutte le nostre lotte avremo con noi Colui che ha già combattuto in nostro nome e che ha sconfitto tutti i nostri nemici. E in tutte le nostre afflizioni il Divino Consolatore sarà alla nostra porta, pronto a ricevere la fiducia nei nostri dolori. Nell’ultimo giorno della nostra vita, quando non potremo andare da Lui, Egli verrà da noi per sostenerci nella battaglia suprema e per guidarci nel terribile passaggio. Egli farà lo stesso con gli uomini che ci seguiranno sulla terra. Fino alla consumazione dei secoli, il Cuore di Gesù avrà la sua delizia nell’abitare questa dimora di miseria e di peccato. Il suo amore avrà sempre più potere per trattenerli in Lui, ché la sua santità Gli impedisce di allontanarsene.

La nostra condizione è migliore di quella di chi ha visto il Salvatore.

Siamo, in un certo senso, meno favoriti di quelli che hanno vissuto durante la sua vita mortale. Ma siamo compensati per questo da un’altra e più grande grazia. Ricordiamo la risposta dell’apostolo S. Tommaso, quando, dopo essersi assicurato, con la testimonianza dei suoi sensi, della risurrezione del Salvatore, cadde ai suoi piedi ed esclamò: « Mio Signore e mio Dio »; « Tu hai creduto, Tommaso, perché hai visto; beati coloro che non hanno visto ed hanno creduto. » Perché siamo sulla terra? Vedere e riposare nello splendore di quella visione? No certo, ma per raggiungere, attraverso il cieco assenso della nostra fede, la dolcezza della visione eterna del cielo; per incrementare queste dolcezze con l’aumento della nostra fede. La felicità della vista è la felicità del cielo stesso, ma c’è, per gli abitanti della terra, una felicità che i Santi non possono avere: quella di accrescere il loro tesoro eterno con i loro meriti. Il Cuore di Gesù ha cercato di rendersi presente a noi, conciliando due interessi: quello della nostra debolezza, che richiedeva una presenza sensibile, e quello della nostra felicità futura, che chiedeva una presenza il più possibile favorevole all’esercizio della nostra fede. Se in questa presenza non ci fosse stato nulla per i nostri sensi, il nostro spirito, imprigionato in essi, non sarebbe stato in grado di raccoglierne i frutti. Se, al contrario, fossero stati completamente soddisfatti, la nostra fede non avrebbe avuto nulla a che fare con questo, e non avremmo potuto meritarla. Grazie sian dati al Cuore di Gesù, che ha così mirabilmente riconciliato interessi così contrastanti! Ha dato ai nostri sensi tutto ciò che la nostra debolezza richiedeva, senza togliere alcun merito alla nostra fede. Si manifesterà in modo tale da lasciarsi vedere, toccare e mangiare. Il Sacramento dell’amore diventerà il centro della Religione, la ragione dell’ergersi di magnifici templi, il legame più forte dei pii incontri in cui i figli di Dio si riuniscono attorno alla mensa paterna, l’oggetto principale di solenni cerimonie, davanti alle quali vengono oscurati gli splendori dell’antico culto. E senza dubbio, il Cuore di Gesù è rimasto nella Santa Eucaristia come oggetto della nostra fede. Egli lo esercita per quello che nasconde e per quello che mostra. San Tommaso vedeva l’umanità e credeva nella divinità che non vedeva. Il nostro merito sarà doppio, perché non vediamo né l’umanità né la divinità. È vero che l’una e l’altra ci vengono mostrati sotto le specie del pane e del vino, ma quelle specie, mostrandoci ciò che non sono, aumentano il merito, lungi dal diminuirlo. Perché se è un grande merito credere che Dio è in loro non vedendolo, non è meno meritorio credere che non ci sia il pane, anche se tutte le apparenze ci mostrano tutt’altro. Così, ci si dà l’opportunità di compiere un fervente atto di fede, che diventa un merito, e quanto meno ci viene mostrato Gesù Cristo, tanto più crescono i nostri diritti per godere della visione della sua bellezza.

Gesù Cristo è meno visibile nell’Eucaristia di quanto lo fosse sulla terra?

L’attributo che Dio vuole manifestare principalmente sulla terra è l’amore. Fin dall’inizio, sembra che si sia compiaciuto di nascondere tutti gli altri attributi, per non permettere agli altri di apparire. Raramente ha manifestato il suo potere attraverso i miracoli e la sua giustizia attraverso terribili punizioni. Erano eccezioni strappate alla ripugnanza di Dio per necessità forzate. L’Amore divino, al contrario, ha approfittato di ogni occasione e di ogni pretesto per far scaturire la sua generosità e la sua indulgenza. Le opere buone e i peccati, la fedeltà dei giusti e il pentimento dei colpevoli, sono serviti come rimedio. Nei momenti in cui la sola giustizia sembrava operare, l’amore la moderava. Solo l’Amore divino poteva guidare creature così miserabili come noi siamo al sublime fine per il quale siamo stati creati. L’Amore divino è il nostro sostegno, la nostra risorsa, l’oggetto principale della nostra fede, il più fermo sostegno della nostra speranza. Esso è lo stimolo del nostro amore. Come possiamo osare amare Dio se non ci dimostra Egli stesso che vuole trattarci come suoi amici? Dio Nasconde per il tempo debito gli altri attributi. Nasconde la sua grandezza e la sua potenza, che non farebbero che spaventarci allontanandoci da Lui. Quello che dobbiamo conoscere in Lui, l’unica cosa di cui dobbiamo essere sicuri, è il suo amore. Di tutti i modi in cui Egli può manifestarsi a noi, il più utile sarà quello che più chiaramente ci manifesta il suo amore. Stando così le cose, come possiamo dubitare che nell’Eucaristia, Gesù Cristo ci sia mostrato più visibilmente di quanto non fosse stato durante la sua vita mortale? Come si può scoprire l’amore se non attraverso gli sforzi che fa? E quando l’amore di Gesù Cristo si è maggiormente mostrato a noi? Quando gli ha imposto sacrifici maggiori di quando è stato costretto a spogliarsi non solo delle glorie della divinità, ma delle forme stesse dell’umanità per nascondersi in apparenze inanimate? Se san Bernardo poteva dire che nella culla il Figlio di Dio si è mostrato tanto più amabile quanto più si ancor più evidente? Confessiamo che in questo Sacramento divino Gesù Cristo nasconde tutti gli attributi della sua divinità. Ma diciamo ad alta voce che il suo amore non era mai stato così palpabile. Non vediamo l’umanità del Salvatore, né il suo adorabile volto, né le sue mani che curano le malattie, né sentiamo la sua voce, né possiamo toccare la sua veste. In Lui non vediamo altro che il suo Cuore. In questo Sacramento vediamo il Cuore di Gesù. Lo vediamo nella sua umiltà e dolcezza, con la sua condiscendenza e la sua indulgenza che perdona ogni ingratitudine; con la sua generosità che dona senza mai stancarsi, e la sua misericordia che ha consolazioni per tutte le miserie. Abbiamo sentito il Cuore Divino che ci parlava nel suo silenzio. Possiamo toccarlo, tenerlo vicino al cuore. Questa è veramente la presenza del Cuore di Gesù. È la sua manifestazione completa. Il Salvatore stesso ci ha mostrato l’intima connessione della devozione al suo Cuore con la devozione all’Eucaristia. Non separiamole mai. L’Eucaristia è il segno, e il Cuore di Gesù è la realtà divina da Lui indicata. Naturalmente, la carne del Salvatore è contenuta e simboleggiata dalle Sacre Specie. Ma è carne sacra, in quanto sacrificata per amore e che serve come organo di questo amore ineffabile per santificare le nostre anime. Ora, l’organo speciale dell’amore del Salvatore è il suo Cuore, ed è Lui che si manifesta a noi in modo speciale nelle specie sacramentali: è il Cuore che dobbiamo adorare in modo particolare.

Economia delle manifestazioni divine.

Riflettendo sulle varie manifestazioni divine, possiamo comprendere la loro economia misericordiosa. Sarà facile per noi vedere che la bontà di Dio ci sia stata mostrata più generosamente, poiché la sua grandezza è stata nascosta sotto i veli più oscuri. Il Verbo incarnato si è rivelato agli uomini in tre modi: in primo luogo, si è fatto conoscere agli uomini come il Verbo del Padre, quando ha conversato con Mosè, i Patriarchi e i Profeti, imponendo loro i suoi precetti e togliendo il velo del futuro. Si è poi circondato degli abiti della sua divinità, si è avvolto nelle nuvole, facendo scoppiare il fulmine e incutendo un rispettoso timore in tutti coloro che hanno ricevuto i suoi messaggi. La seconda manifestazione del Verbo divino è stata meno brillante, ma più misericordiosa. Era visto tra gli uomini vestito come un servo e come l’ultimo di noi. Nascondendo di più la sua divinità, si donava di più a noi. Più la sua unione con noi diventava intima, meno appariva la sua superiorità. Infine, la terza manifestazione adempie alla sua bontà e al misterioso stupore della sua grandezza. Il Dio che già si nascondeva nel Sinai e che a Betlemme si circondava della natura umana come di un velo, si nascondeva in un pezzo di pane. Coprendosi in questo modo, si è consegnato più che mai. Si è unito alla sua Chiesa ed a ciascuno dei suoi fratelli. Attraverso la sua Incarnazione ha unito la natura umana alla sua divinità; attraverso l’Eucaristia unisce tutto in una volta sola con ogni uomo: la sua divinità e la sua umanità. Ma fa anche di più: in quest’ultimo mostrarsi riunisce tutte le manifestazioni precedenti. Come la manna, senza avere un sapore proprio, aveva in sé il sapore di tutte le prelibatezze, così, il Cuore di Gesù nell’Eucaristia ripete a noi tutti ciò che ha rivelato ai Patriarchi, ai Profeti e agli Apostoli, e rinnova tutti i misteri che ha compiuto durante la sua morte: la grandezza di Dio, la sua potenza, la sua stessa giustizia, la sua misericordia e bontà, il prezzo delle nostre anime, l’orrore del peccato, la grandezza dei destini per i quali Dio ci ha fatti, e delle punizioni che subiremmo se ci mostriamo ingrati, le virtù che dobbiamo praticare, l’umiltà, la dolcezza, la pazienza, la dimenticanza del male. Tutto si manifesta a noi attraverso il Cuore di Gesù con un’incomparabile eloquenza. Non sarà difficile per noi trovare in questo Sacramento tutta la Religione, con tutti gli insegnamenti della sua fede e tutti i precetti della sua morale. Nell’Eucaristia, Gesù rinnova tutti i misteri della sua vita: si incarna come a Nazareth, nasce come a Betlemme, riceve l’adorazione dei Magi e dei pastori, fugge in Egitto, guarisce i malati, consola gli afflitti, passa facendo del bene. Ma sulla sua strada Egli raccoglie, come durante la sua vita mortale, ingratitudine e odio; viene di nuovo consegnato da Giuda, abbandonato da discepoli pigri, crocifisso dai farisei, tradito da un popolo ingrato. Lì muore e viene sepolto, ma anche risorge e riporta in vita molti. Che cosa gli manca per rispondere alle nostre esigenze ed essere il compagno inseparabile del nostro pellegrinaggio? Una sola cosa: che acconsentiamo a rimanere uniti a Lui, ad appoggiarci al suo braccio quando vacilliamo, a chiamarlo in nostro aiuto quando il pericolo ci minaccia, a permettergli di sollevarci quando siamo caduti, per dare al suo Cuore il conforto che desidera ardentemente per renderci santi e felici

Capitolo VII

IL CUORE DI GESÙ È NELL’EUCARISTIA IL CIBO DELLE NOSTRE ANIME

I figli della nuova alleanza sono superiori a Mosè.

L’ambizione del Cuore di Gesù è stata quella di essere non solo con l’umanità in generale, ma con ogni uomo in particolare, di abitare contemporaneamente in ogni parte della terra e in tutto il susseguirsi dei secoli, per poter soddisfare ogni esigenza e consolare ogni dolore. Una presenza universale e costante in mezzo a noi, iniziata nel momento stesso in cui la provvidenza sembrava obbligarlo a lasciarci. Ma non si è accontentato di questo. Non gli bastava essere presente ad ognuno di noi, voleva essere presente in noi. Gli sembrava poco mettersi a disposizione dei suoi fratelli, per ricevere le loro confidenze e rispondere ad esse con gli effluvi del suo amore. Non aveva fatto di più con Mosè. Le comunicazioni intime che ebbe con il legislatore degli Ebrei sulla cima del Sinai e nel Tabernacolo erano state sufficienti per elevarlo al di sopra di tutti i santi che lo avevano preceduto: « Mai prima d’ora, dice la Scrittura, c’era stato un uomo come Mosè, con il quale Dio si degnò di conversare faccia a faccia ». Ma la dignità dei figli della Nuova Alleanza sarà molto più alta. Con loro Dio non parlerà faccia a faccia, ma Cuore a cuore. Perché è il regno del Cuore di Gesù. La vecchia legge parlava all’esterno, la nuovo parla dall’interno. Il primo è stato scritto dal dito di Dio sulle tavole di pietra, il secondo dal Cuore di Gesù sulle tavole vive del cuore cristiano. È giusto che il Cuore di Gesù, incaricato di promulgare questa legge, penetri nel nostro interno e che imprima nel cuore di ciascuno dei suoi membri questa legge, che non è altro che il suo amore. Questo succede né più né meno nella Santa Comunione. È essa la consumazione di tutti i piani d’amore del Cuore di Gesù. Attraverso il Battesimo Egli si è donato a noi e ci ha uniti a sé per comunicarci la sua vita e formarci a sua immagine. Attraverso il santo Sacrificio della Messa è diventata la nostra vittima e l’ostia di un Sacrificio ininterrotto. Rimanendo presente sull’altare con il Sacrificio, era diventato il compagno del nostro pellegrinaggio. Lasciando l’altare per fare del nostro cuore un tabernacolo vivente, termina la sua opera.

La santa comunione alimenta la nostra vita divina.

La vita divina, come la vita animale e razionale, deve essere costantemente rinnovata, pena il decremento e l’estinzione. Perché siamo obbligati a dare cibo al nostro corpo ogni giorno? Perché tutti gli elementi sembrano togliergli la vita. L’aria che respiriamo, il calore che dilata i nostri organi, portano via parte della nostra sostanza in ogni momento. L’esercizio stesso di quegli organi li indebolisce e li logora. Il nostro corpo morirebbe presto di una morte orribile se, attraverso il cibo, non ci preoccupassimo di riparare queste perdite. Lo stesso vale per le facoltà della nostra anima. Se non ci preoccupiamo di nutrirle con lo studio e la riflessione, saranno irrimediabilmente indebolite. La memoria dimenticherà ciò che ha imparato. L’acutezza della comprensione sarà smorzata. L’energia della volontà si esaurirà. E le anime più adornate di doni naturali difficilmente si distingueranno dagli animali più stupidi, per non aver approfittato dei doni ricevuti dalla mano di Dio. Nostro Signore voleva che la nostra vita divina seguisse queste leggi. Essa può e deve crescere costantemente, perché altrimenti non può che indebolirsi. È una vita, questa, essenzialmente militante: tutti gli elementi esterni le fanno guerra. Tutta l’attenzione, la stima e l’affetto che se ne vanno per le cose del mondo, vanno a discapito della nostra unione con Dio. Il nostro cuore ha solo pochi limiti di forza e di amore. Tutto ciò che cade a terra è perduto per il cielo. Se non vogliamo che la nostra aspirazione a Dio si indebolisca e che il vaso della nostra vita divina si esaurisca, c’è solo un modo: rinnovarla incessantemente, attirarla fuori dalla fonte senza interruzioni. Come? Attraverso la Comunione! Perché la fonte della vita divina è il Cuore di Gesù che la Comunione porta nel nostro cuore.

Nella comunione, il Cuore di Gesù forma in noi la sua immagine.

Dobbiamo essere riformati in tutto: il nostro corpo con i suoi organi e la nostra anima con le sue facoltà; ma soprattutto il nostro cuore, l’organo attraverso il quale il nostro corpo influenza gli affetti e le tendenze dell’anima. Era giusto, quindi, che Gesù Cristo ci desse tutto il suo essere, il suo corpo e la sua anima, ma soprattutto il suo Cuore, sede principale dei suoi affetti e dei suoi meriti: questo è ciò che ha fatto e fa nella Comunione. In essa il Cuore di Gesù compie la seconda parte della sua missione, che consiste nel formare in noi la sua immagine. Questa contiene il frutto necessario della nostra unione con Lui e la condizione indispensabile della nostra felicità eterna. Più siamo simili a Gesù Cristo, più Dio Padre riconoscerà in noi i suoi figli adottivi e più ci riempirà di favori. Ma l’immagine divina ci può essere conferita solo dal modello divino che dobbiamo imitare. Gesù Cristo, nella Comunione, è il nostro cibo, ma in modo molto diverso dal cibo che prendiamo per riparare la nostra vita corporea, perché, mentre questi cibi sono morti ed ad essi noi diamo la vita, Gesù Cristo è un cibo vivo, che ci comunica la sua stessa vita e con essa la sua immagine divina. Ci nutriamo del suo Cuore, non per conservare la nostra vita naturale, ma per perderla e vivere solo della vita di quel Cuore che vuole prendere il posto del nostro. La Comunione completa in noi l’effetto del Battesimo e finisce con l’incorporarci nel tronco divino al quale siamo stati uniti dal primo Sacramento, non come un comune innesto destinato a dare al tronco la dolcezza dei suoi frutti, ma perché perda la sua linfa selvaggia ed acquisisca da esso le sue qualità divine. Nella Comunione Gesù Cristo si innesta su di noi e aumenta la nostra fecondità. La Comunione rinnova in ogni Cristiano il grembo di Maria. Il Verbo di Dio non è meno presente in noi di quanto lo sia stato nella Beata Vergine durante i nove mesi in cui lo ha portato nel suo grembo. Ma quando ricevette da Maria la forma dell’uomo, l’immagine di Adamo, Egli diede ai figli di Adamo, nella Comunione Eucaristica, la propria immagine e con essa la forma di Dio.

La Santissima Trinità è l’immagine dell’azione del Cuore di Gesù nell’Eucaristia.

Per comprendere l’azione del Cuore di Gesù, dobbiamo andare con Lui nel seno del Padre. Vediamo due Persone adorabili che non sono che una sola vita, e la cui felicità si traduce nell’intima, completa, eterna comunicazione della vita infinita che, senza mai essere esaurita o sminuita, va dal Padre al Figlio e da quest’ultimo al primo. Questo è l’esempio ineffabile che Gesù Cristo si è proposto nell’istituzione dell’Eucaristia, e che cerca di realizzare ogni volta che si dona a noi nella Comunione: « Come il Padre mio mi ha mandato, comunicandomi la sua vita – ci dice – e come Io vivo solo per il Padre mio, così chi si nutre di me vivrà solo per me. » Tra noi e Lui si stabilisce un rapporto simile a quello che esiste tra Lui e suo Padre. Come la vita del Figlio è solo l’espressione e l’irradiazione di quella del Padre, così la nostra vita soprannaturale non è altro che l’estensione e la irradiazione di quella di Gesù Cristo.

Capitolo VIII.

IL CUORE DI GESÙ CI DÀ LA VITA ETERNA NELL’EUCARISTIA

Con la Comunione noi raggiungiamo la vita eterna.

La nostra unione con il Cuore di Gesù non sarebbe completa, né soddisferebbe il suo amore, se avesse una fine. Perché la vita che questo cibo divino ci darà non è temporanea, ma eterna. Egli stesso è la vita eterna, e chi la riceve, anche se era già tra le braccia della morte, può sfidarla vittoriosamente, perché ha in sé l’immortalità. Se vogliamo misurare la ricchezza infinita e la potenza illimitata del Cuore di Gesù, dobbiamo metterci su questo terreno. Considerate un Cristiano che abbia raggiunto la sua ultima ora. La morte si è impadronita di lui, lo ha tenuto nelle sue crudeli grinfie e ora ne sta divorando le viscere. Non è più che un cadavere appena animato da un soffio di vita. I suoi occhi sono spenti, le sue guance sono incavate, le sue labbra non possono proferire più di qualche parola. E, in questo disfacimento del suo involucro mortale, l’anima non sembra meno depressa: l’intelligenza non può collegare i suoi pensieri, la volontà è impotente la sensibilità è assorbita dal dolore e dall’angoscia, l’annientamento sembra completo. Beh, a quell’uomo che la morte ha scelto come vittima, a quel cadavere che sarà prigioniero nella tomba, si presenta il Sacerdote, tenendo in mano il Pane Celeste, e con le stesse parole di Gesù Cristo dice: « Se mangiate di questo pane vivrete per sempre. » E quel Cristiano, dopo essere diventato un tutt’uno con quel cibo divino, ripete l’ultimo articolo del Credo: Credo nella vita eterna. Non solo credo che questa vita sia in cielo, ma credo che sia dentro di me e che io la possegga veramente. Non sento niente in me se non la morte, ma credo nella vita non meno fermamente. Nel momento preciso in cui ogni sostegno è inutile e tutte le forze umane stanno fallendo, l’amore del Cuore di Gesù si manifesta con tutta la sua potenza e ci insegna a superare la morte lasciandosi sconfiggere da essa. Il Cristiano che, attraverso la Comunione, ha ricevuto il Cuore di Gesù, possiede la vita eterna, per avere nel Cuore Divino un titolo sufficiente a raggiungere quella vita benedetta. Qual è il prezzo del paradiso? Non è il sangue di Gesù Cristo? Una sola goccia di sangue divino basterebbe per comprare tutte le glorie del paradiso. E il Cristiano ha appena ricevuto tutto questo nell’Eucaristia. Ogni nuova Comunione conferma e assicura i suoi diritti all’eredità dell’unico Figlio del Padre. La felicità che il Verbo di Dio possedeva per diritto di nascita, voleva conquistarla a prezzo della più dolorosa delle morti, per tutti coloro che la sua Incarnazione aveva reso suoi fratelli. E ci comunica questo diritto attraverso tutti i Sacramenti che ci rendono partecipi dei suoi meriti, ma soprattutto attraverso quello che ci mette in possesso della sua stessa Persona. Per mezzo di Lui ci appropriamo veramente dell’ostia del Sacrificio Divino che ha espiato le nostre colpe, placato la giustizia divina e acquistato per noi tutti i beni dell’eternità. La stessa carne che è stata immolata sulla croce, noi l’abbiamo nella Santa Comunione. Noi la possediamo e possiamo offrirla a Dio come nostra proprietà. Cosa non otterremo con una tale moneta? Quale felicità dal cielo non chiederemo in cambio di tali tesori? Quando il nostro Divino Salvatore ci dà il Suo corpo e il Suo sangue nella Comunione, Egli mette già l’equivalente del cielo nelle nostre mani. Ogni volta che questo dono si rinnova, ci rende più facile la conquista dell’eternità.

La comunione è il seme della vita eterna.

La Comunione non solo mette nelle nostre mani il prezzo della nostra eredità celeste, ma deposita in noi il seme della vita eterna. Il seminatore getta il seme nel terreno. Cosa succederà al chicco di grano sepolto nella terra? Marcirà. Tutte le sue parti si decomporranno. È per questo che l’operaio ha lavorato così duramente per rimuovere la terra che doveva riceverlo? Certo che no! È sicuro che la vita uscirà dal marciume, e che ogni grano produrrà una spiga viva. In mezzo agli elementi visibili che si stanno decomponendo, apparirà una forza vitale, fino ad allora invisibile, in attesa che la morte completi la sua opera distruttiva per manifestarsi. Questa forza misteriosa si impadronirà degli stessi elementi, spogliati dalla morte della loro vecchia forma, e ne darà una nuova. Molto presto, invece di un solo grano, ne avrete cento, una ricompensa sovrabbondante per le fatiche del campo. Ciò che la forza vitale è per il chicco di grano, lo è il Cuore di Gesù per il Cristiano che ha appena ricevuto il suo Salvatore nella Santa Eucaristia. La vita che il Cuore Divino porta con sé non può manifestarsi quaggiù. Finché il Cristiano mantiene la sua forma mortale, la vita divina è nascosta; ma ciò non di meno significa che non sia in lui. Cosa aspetta a farsi vedere? Che la morte abbia fatto il suo lavoro. Allora il Cuore di Gesù dispiega tutta la sua virtù. Il corpo nato da esso sarà restituito alla terra, ma nel momento in cui il corpo si dissolverà, l’anima, libera dai suoi legami, salirà a Dio, spinta dalla virtù del Cuore di Gesù. Ogni volta che questo Cuore Divino è stato donato al Cristiano, è servito come veicolo per lo Spirito Santo. E, mentre il corpo del Salvatore rimane unito a quello del Cristiano solo per un breve periodo di tempo, l’unione tra lo Spirito di Dio e quello dell’uomo conserva tutta la sua forza. La comunione dà al Cristiano un più completo possesso della sua eredità eterna; fa sì che lo Spirito di Dio entri più pienamente in suo possesso e permette allo Spirito Santo di disporlo in questo modo per godere un giorno della sua eredità divina. Come può un’anima piena di quello Spirito temere la morte? Ciò che lo Spirito di Gesù Cristo ha fatto nel nostro Capo non può non essere fatto nei suoi membri? Ascoltiamo San Paolo: « Se lo Spirito che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti dimora in noi, Colui che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti riporterà in vita anche i vostri corpi mortali, a causa dello Spirito che abita in voi. » E la cosa più bella è che in noi, come nel chicco di grano, il germe vivente si nutre delle spoglie stesse della morte. I nostri dolori, le miserie della nostra mortalità e, soprattutto, la nostra stessa morte, ci uniscono allo Spirito di Dio e ci rendono più degni della vita eterna. Ciò che per l’anima separata da Gesù Cristo è motivo di disperazione e di condanna, in quella del vero Cristiano è trasformato dalla virtù del Cuore di Gesù in una materia di merito. In questo modo il Cuore Divino, dopo averci dato il prezzo della nostra eterna beatitudine e aver depositato il suo seme nel nostro grembo, lo sviluppa fino ad aprirsi al sole dell’eternità.

La Comunione ci rende già da ora possessori della vita eterna.

Nella Comunione, Gesù Cristo ci dà il cielo e ci rende possessori della vita eterna. Egli stesso lo afferma in un modo che non lascia spazio a dubbi: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna. » Non dice che l’avrà, ma che ce l’ha già. Che cos’è la vita eterna se non il possesso di Dio, l’unione con Dio? Qual è la felicità dei Santi in cielo? Il cielo è Dio: la sua infinita Verità, che con il suo splendore illumina l’intelligenza dei beati; la sua infinita bellezza, che suscita in essi la sua ammirazione; la sua infinita bontà, che trascina e domina su tutti i loro affetti. Non riceviamo forse nella Santa Eucaristia lo stesso Dio che riempie i suoi eletti di sempre nuove delizie? È in questo mistero Egli meno buono ed infinito che in cielo? Quando si dà a noi, non ci dà la vita eterna? E quando Lo riceviamo, non abbiamo il cielo intero nei nostri cuori? Qual è la differenza tra il Cristiano che ha appena ricevuto la Comunione ed i Santi in cielo? Questi ultimi vedono chiaramente ciò che possiedono. Mentre il Cristiano, che possiede gli stessi tesori, non può vederli se non con gli occhi della fede. Questa è l’unica differenza tra la Comunione beatificata e la Comunione Eucaristica. Per il resto l’Oggetto è lo stesso e il possesso di questo Oggetto infinito può essere in un Cristiano sulla terra in grado superiore a quello di un Santo in cielo. L’intera differenza sta nel modo di possederlo. Entrambi sono figli di Dio ed eredi del suo regno; ma nell’uno è già mostrato ciò che è, mentre si nasconde nell’altro. La differenza, naturalmente, è immensa, perché la vista delle perfezioni divine costituisce la gioia dei beati. Ma se, per quanto riguarda la gioia, la Comunione beatificata ha un vantaggio, la Comunione Eucaristica vince, per la sua stessa oscurità, perché questa è la condizione del merito. La deliziosa comunione del cielo non ha un vantaggio così immenso. I beati godono dei meriti acquisiti, ma non ne ottengono di nuovi. Sono sicuri di non perdere il tesoro che possiedono, ma anche di non vederlo mai più aumentare. Dio li riempie della sua immensità, e anche se fa nascere nelle loro anime una nuova sete di felicità senza interruzione, non cessa di spegnerla; ma né la sete né la sazietà crescono di intensità. Raccolgono ciò che hanno seminato sulla terra, vedono ciò in cui hanno creduto, hanno ciò che speravano, godono di ciò che hanno amato liberamente. Ma né la chiarezza della visione, né la pienezza del possesso, né la soavità delle gioie si estendono oltre la fede, la speranza e l’amore che avevano quaggiù. Al contrario, ogni Comunione Eucaristica ci fa acquisire nuovi meriti. Tutto ciò che perdiamo nelle gioie attuali, lo guadagniamo in quelle eterne. Possiamo aggiungere qualcosa alla parola del Maestro e dire che, non solo abbiamo la vita eterna mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue, ma ancor più la aumentiamo.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/06/09/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-13/

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (11)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (11)

[Ed. chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

TERZA PARTE

MEZZI PARTICOLARI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Capitolo IV.

IL CUORE DI GESÙ E L’EUCARISTIA

Unione tra Cristo e noi.

È verità che l’unione definitiva degli uomini con Dio attraverso Gesù Cristo non possa avvenire qui sulla terra. Essa avrà luogo in cielo. Quando tutto ciò che è terreno e mortale in noi sarà stato sepolto sulla terra e consumato nel sepolcro, allora la nostra anima potrà unirsi a Dio con tutte le sue forze, ricevere nella sua intelligenza tutto lo splendore della luce divina, fare spazio nella sua volontà alle fiamme dell’amore divino, unendosi a Dio con le facoltà sensibili, ed essere – secondo San Paolo – uno e medesimo spirito con Lui, inebriarsi del torrente delle sue delizie, entrare nella sua gioia, godere della sua beatitudine. Allora – come dice ancora l’Apostolo – Dio sarà tutto per tutti gli uomini, e tutti gli uomini saranno uno in Gesù Cristo e nel Padre suo, come il Padre è uno con il Figlio, e il Figlio uno con il Padre. Solo allora tutti i desideri del Cuore di Gesù saranno soddisfatti. Mentre siamo sulla terra ci saranno sempre in noi elementi che si opporranno alla nostra perfetta divinizzazione, e la nostra unione con Dio e tra di noi, attraverso Gesù Cristo, non potrà mai essere perfetta. Ma non crediamo che questa impossibilità spinga il Cuore di Gesù a rinunciare alle sue aspirazioni. Anche se la nostra unione con Lui non sarà completa sulla terra, Egli non cessa di lavorare per la sua realizzazione. Se è obbligato a mantenere l’unione beatifica per una vita migliore, ne creerà sulla terra, nella Comunione eucaristica, una più adatta alla nostra esistenza attuale, attraverso la quale potrà soddisfare il desiderio di unione che l’amore per noi fa nascere nel suo Cuore. Nessun Santo Dottore ha espresso meglio di San Cirillo d’Alessandria l’amorevole piano che ha spinto il Divin Salvatore ad istituire questo Sacramento: « Per aiutarci a raggiungere la perfetta unione con Dio e tra di noi, per quanto lontani siamo l’uno dall’altro nel corpo e nello spirito, il Figlio unigenito di Dio ha adottato un mezzo degno della sua sapienza: santificare i fedeli nella Santa Comunione, con il cibo dello stesso corpo, il suo, che li rende “concorporali” con Se stesso e tra di loro. Chi potrebbe, infatti, mettere in discussione e negare l’unione sostanziale che si opera tra tutti coloro che questa divina delizia unisce a Gesù Cristo? Nutriti dallo stesso pane, non possiamo che formare un unico corpo, perché Gesù Cristo non può essere diviso… Egli è uno ed indivisibile; e quando i nostri corpi sono uniti al Suo, con la più intima delle unioni, i nostri membri sono suoi più che nostri. » San Paolo testimonia la realtà di questa unione corporea che contraiamo con Gesù Cristo partecipando alla sua carne divina, quando ci ha parlato di questo mistero di pietà: « Sconosciuto in passato ai figli degli uomini, ai quali lo Spirito Santo lo rivela ora attraverso gli Apostoli e i Profeti, è giusto sapere che tutti i popoli sono invitati a diventare parte dell’eredità divina, ad essere incorporati a condividere insieme i frutti delle promesse di Gesù Cristo. » (Ef.. III, 5-6). Come possiamo dubitare di essere una cosa sola con Lui e tra di noi, se siamo tutti “concorporei”, non solo tra di noi, ma con il Divin Salvatore, presente in ognuno di noi attraverso la sua carne? Comprendiamo dunque questa ammirevole economia? Il Figlio di Dio che ci aveva dotato di una natura spirituale e corporale allo stesso tempo e che, per riscattarci, volle formarsi un corpo e un’anima simile alla nostra, si è compiaciuto di unirsi a noi spiritualmente e corporalmente in questo Sacramento. Nell’Incarnazione, il suo corpo sensibile e palpabile gli era servito come mezzo per rivelarsi agli uomini, immerso nell’oscurità dei sensi. Quel Corpo divino è stato per tutta l’umanità il veicolo materiale della sua dottrina celeste e della sua grazia spirituale. Nell’Eucaristia lo stesso corpo gli servirà non solo per mostrarsi, ma per donarsi. Egli verrà a portare lo Spirito di grazia non solo in seno all’umanità, ma al cuore stesso di ogni singolo uomo. Gesù Cristo ha due corpi ugualmente reali: uno materiale, simile al nostro; l’altro mistico, le cui membra siamo noi. Attraverso la Comunione eucaristica, le membra del suo corpo materiale servono come cibo per i membri del suo Corpo mistico, come nella Redenzione gli servirono come vittima e come riscatto. Mangiando la carne del loro Capo, essi sono uniti più strettamente a Lui e, attraverso di Lui, l’uno all’altro. Più Lo ricevono, più gli appartengono. Ogni volta che lo prendono come cibo, essi incorrono in un nuovo obbligo di consacrare a Lui la vita che Egli conserva per loro. Infatti, come il Divin Salvatore può vivere solo per il Padre suo, così chi si nutre di Lui è obbligato a vivere solo per Lui (Giov. VI, 58). La Comunione eucaristica realizza sulla terra le aspirazioni del Cuore di Gesù e i disegni misericordiosi del suo amore. È il centro al quale convergono tutte le operazioni divine nell’ordine della grazia e l’immagine più perfetta che abbiamo in terra delle meraviglie celesti dell’ordine della gloria. La vita e la felicità degli Angeli e dei Santi del cielo viene dal possesso di Gesù Cristo stesso che, nell’Eucaristia, ci viene donato nella sua interezza. In loro questo possesso è accompagnato da una certa gioia, ma è privato del merito. In noi si compensa con il merito ciò che si perde in gioia. Questo Sacramento dell’amore significa che sono in vera ed intima unione non solo i Cristiani con Gesù e i Cristiani della terra tra di loro, ma anche gli abitanti della terra con quelli del cielo, gli uomini con gli Angeli, consumando così nell’unità vivente del Cuore di Gesù, tutta la creazione razionale.

Comunione eucaristica e creazione materiale.

Ma essa fa ancora di più: estende alla natura materiale le glorie di questa unione di tutti gli esseri con Dio attraverso Gesù Cristo. Natura e grazia non sono che due parti della stessa opera, armoniosamente subordinate l’una all’altra. Non perdiamo di vista questa verità di fede così cara enunciata da San Paolo. È bene sapere che le cose materiali della terra, così come le cose spirituali del cielo, sono state create per Gesù Cristo. Non hanno altro scopo se non quello di glorificarlo, e devono trovare in Lui, come nel loro comune Capo, la loro perfezione e la loro unità. I Santi avevano questa verità davanti a sé ed hanno anche scoperto nel libro della natura, bellezze e ragioni per amare Dio. Imitiamoli e consideriamo la creazione materiale nel suo rapporto con la Comunione Eucaristica. Sarà facile per noi comprendere che questa Comunione non è solo il punto di unione tra cielo e terra, ma anche il coronamento soprannaturale dell’ordine della natura. La natura è una scala vivente, i cui passi tendono a salire incessantemente, ad unirsi a quelli più alti ed a salire verso Dio. È un’unione ininterrotta, in cui gli elementi si uniscono ai minerali, questi alle piante, le piante agli animali e questi all’uomo. Ma sembra che lì l’unione sia interrotta. Tra l’uomo e Dio c’è un abisso che nulla può colmare, eppure deve essere colmato. Perché Dio ha fatto la creazione non per separarsene, ma al contrario per unirla a Sé. Con quali mezzi userà il suo amore per unire tra loro termini separati da una distanza infinita? Molti si sono offerti a Lui. Potrebbe Egli, innanzitutto, accontentarsi di dare all’uomo il potere di conoscerlo nelle sue opere, di amarlo come un servo ama il suo padrone e di meritare una mercede commisurata ai suoi servizi. Queste relazioni del Signore con il servo avrebbero stabilito tra l’uomo e Dio una certa unione, anche se molto imperfetta, realizzando i disegni misericordiosi dell’amore divino. Egli ha progettato che l’uomo vivesse della sua vita, che fosse animato dal suo Spirito e che fosse degno della gioia dell’eterna visione “faccia a faccia”. La nostra unione con Dio si fermerà lì? Dandoci il Suo Spirito ci unisce al mondo degli spiriti; ma il mondo dei corpi non può così partecipare alla gioia di questa intima comunicazione. L’opera dell’Amore divino sarebbe incompleta. Affinché non fosse così, il Figlio di Dio assunse un corpo simile al nostro. A quel corpo, composto come il nostro da elementi presi dal mondo materiale, Egli comunica una dignità veramente divina, perché è il corpo di un Dio. In Lui, quindi, il mondo dei corpi e degli spiriti è in comunicazione con Dio. Tuttavia, questa è un fatto solo parziale. In tutto il mondo materiale e nell’immensità dello spazio c’è un solo punto illuminato dagli splendori della divinità. Questo non basta per l’Amore divino, che vuole un’unione più intima ed estesa allo stesso tempo, un’unione più universale e perfetta. Come ottenere questo risultato? Il corpo dell’Uomo-Dio avrà il potere di riprodursi simultaneamente in tutti i punti dello spazio, di unirsi a tutti gli altri corpi, di darsi in pasto a tutti gli uomini, di farli comunicare con Sé e, attraverso di Sé, con la Trinità. Per operare questa unione, alla quale tutti i corpi e gli spiriti sono invitati, Gesù userà due sostanze che si trovano ovunque: il pane ed il vino. Non c’è un solo chicco di grano, un solo grappolo d’uva sulla terra che, in virtù delle parole sacramentali, non possa diventare il corpo e il sangue di Gesù Cristo. E poiché ogni chicco di grano ed ogni acino d’uva è composto da parti prese dagli elementi, dall’aria, dalla terra, la creazione intera, materiale e spirituale, realizza incessantemente la sua ascensione a Dio nell’Eucaristia. Questo è il modo di considerare la Comunione Eucaristica. Non è solo l’unione dell’uomo con Dio e dei Cristiani con gli altri Cristiani. È, inoltre, l’unione universale di tutti gli esseri creati con il loro Creatore, attraverso Gesù Cristo, il Mediatore Universale. Attraverso la Comunione eucaristica, il Cuore di Gesù ha così colmato l’abisso che separa il finito dall’infinito. Attraverso di essa, si completa in modo soprannaturale l’ascesa della natura verso Dio, che sembrava destinata ad essere incompleta. Attraverso di essa, Egli unisce continuamente il mondo della natura a quello della grazia, e quello della grazia a quello della gloria. Realizza così il piano di raccogliere in Sé, come nel comune Capo, tutte le cose del cielo e della terra. Cosa c’è di più bello dell’unità di tutte le cose nel Sacramento che in modo molto speciale può essere chiamato il Sacramento del Cuore di Gesù? Se ci soffermassimo su questi pensieri, sarebbe molto più facile per noi elevarci a Dio attraverso la contemplazione della creazione. Si comprenderebbe meglio il linguaggio con cui ciascuno degli esseri che lo compongono glorifica non solo il Dio invisibile che lo ha fatto uscire dal nulla, ma anche il Dio incarnato, in previsione del quale è stato creato. Con i Santi saliremmo i gradini di questa scala mistica che porta dalla terra al cielo, dal visibile all’invisibile, dalla creatura al Creatore. Non potremmo prendere il pane materiale che nutre il nostro corpo ed il vino che lo fortifica, senza desiderare il Cibo divino di cui queste sostanze sono al tempo stesso simbolo e veicolo. Così, in ognuno di quegli oggetti sensibili, che così spesso ci distolgono da Gesù Cristo e da Dio, troveremmo i mezzi per unirci a Gesù Cristo e, attraverso Gesù Cristo, alla Trinità.

Capitolo V

IL CUORE DI GESÙ SI IMMOLA INCESSANTEMENTE PER NOI NELL’EUCARISTIA

Immolazione del Cuore di Gesù

Il primo e principale aspetto dell’opera divina, che dobbiamo realizzare con il Cuore Divino, è il sacrificio, poiché la sua prima funzione sulla terra è stata la continua immolazione di se stesso. Il nostro primo dovere verso di Lui è quello di immolarci con Lui. Tra tutti gli atti di religione, il sacrificio è il più perfetto di tutti, il più glorioso per Dio, il più meritorio per l’uomo, perché è la testimonianza più significativa che l’uomo possa dare alla sovrana maestà di Dio, la più solenne dichiarazione che possa fare della sua completa dipendenza dalla potenza assoluta del Creatore. Il primo e principale aspetto dell’opera divina, che dobbiamo compiere con il Cuore Divino, è il sacrificio, poiché la sua essenziale attività sulla terra è stata la continua immolazione di se stesso. Il nostro primo dovere verso di Lui è quello di immolarci con Lui. Le parole sono solo un suono passeggero che proviene frequentemente dalle labbra. I sentimenti del cuore sono ascoltati solo da Dio, ed il suo linguaggio è più sincero di quello delle labbra, anche se non è sempre privo di illusioni. Ma, quando la creatura si offre da se stessa alla propria immolazione per onorare il suo Creatore, non riconosce forse che Egli è il principio della sua vita, l’arbitro supremo dei suoi destini? Questo è esattamente ciò in cui consiste il sacrificio. Esso non è solo la testimonianza di sentimenti, di parole o di atti: è la testimonianza della morte; l’osservanza della volontà onnipotente di Dio, non solo nell’accettazione del bene, ma anche del male; è il nulla e la tomba che ci obbligati a glorificare l’Autore della vita. Ma ciò che rende meritoria questa testimonianza è proprio ciò che sembra renderla impossibile: Dio non ha fatto le sue creature per niente e, nell’immolarsi, esse operano contro i suoi piani: « Voi non vi dilettate della nostra distruzione », diceva Tobia al Signore. E non c’è, infatti, nessun crimine che sia punito più severamente nella Scrittura che i sacrifici umani. Cosa possiamo fare per esprimere a Dio, attraverso il sacrificio, la nostra completa dipendenza, senza privarci della vita che Egli ci ha dato? Per molto tempo gli uomini non potevano fare altro che ricorrere al sacrificio di animali. Hanno sostituito la loro vita con quella degli animali. Sceglievano dai loro greggi i tori più grassi, o gli agnelli più teneri, e, immolando sull’altare dell’Altissimo quelle vittime, riconoscevano di dipendere da Lui non solo nei loro possedimenti, ma in tutto il loro essere. Fino a che punto questa testimonianza è stata degna della maestà di Colui al quale è stata offerta! Che cos’erano quegli agnelli o quei capri che venivano macellati per manifestare la grandezza dell’Altissimo? Non erano nulla di per sé, ma Dio li ha accettati come figure dell’Ostia Immacolata che, nella pienezza dei tempi, gli sarebbe stata offerta. Infatti, è nel seno di Maria che comincia a battere il Cuore che darà a Dio tutta la gloria che merita. Il suo primo battito fu l’inizio del suo sacrificio: « I sacrifici non potevano esservi graditi – disse a Dio Padre fin da quel primo momento – ma per rimediare alla loro insufficienza mi avete dato un corpo; così io ho detto: eccomi, sono pronto a fare la vostra volontà. » Avete bisogno di una vittima parimenti divina come Voi; perché la vostra infinita maestà e potenza siano riconosciute, deve essere sacrificata una vita di valore infinito. In realtà, la vita mortale del Salvatore non fu che una lunga immolazione, durante la quale Egli non cessò di offrire nel suo Cuore il Sacrificio che doveva offrire poi sulla croce. Il Sacrificio di sangue è durato alcune ore, mentre quello del Cuore è durato trentatré anni. Cosa manca ora alla gloria divina? Cosa manca nella testimonianza data all’Onnipotente dall’umanità? Quando un uomo, che è vero Dio accettò la morte in croce, in quel giorno ci fu una perfetta uguaglianza tra il saldo ed il debito. Quel giorno gli omaggi della terra erano in perfetta consonanza con la Maestà che riempiva il cielo. Ma il sacrificio è finito, la vittima ha lasciato l’altare e Dio Padre gli ha restituito la vita che aveva perso per amore. Cosa ci resta da offrire a Dio? Rimarremo senza sacrificio? La più perfetta delle religioni sarà privata dell’atto supremo della religione? Qui l’immenso amore del Cuore di Gesù chiamerà in suo aiuto la sapienza del Verbo di Dio. Il Cuore Divino aveva trovato i mezzi per iniziare la sua immolazione trentatré anni prima del sacrificio del Calvario. È giusto che ora trovi i mezzi per continuare il suo Sacrificio fino alla fine dei secoli. Colui che è immortale deve sottomettersi alla distruzione della morte, perché senza di essa non c’è sacrificio. Inoltre, il rinnovarsi del Sacrificio cruento del Calvario, deve avvenire non tutto in una volta e in un solo luogo, ma ogni giorno e in quasi tutti i punti dello spazio. Il Profeta infatti lo aveva annunciato e il Cuore di Gesù è incaricato dell’attuazione di questa parola: « Da est ad ovest il mio Nome è grande tra le nazioni, e ovunque l’ostia immacolata viene sacrificata e offerta nel mio nome. » La profezia non si è forse compiuta? L’Immortale non muore in ogni momento? L’Agnello Divino non è costantemente sugli altari? Qual clima, per quanto sia mortifero, quale regione è così barbara da non essere fecondata dal sangue di questa vittima divina? In quale momento del giorno o della notte non è immolato in qualche parte nel mondo?

L’immolazione eucaristica è solo apparente?

Diremo allora che questa immolazione è apparente, e che, di conseguenza, non può soddisfare le esigenze di una Religione perfetta, che chiede un vero sacrificio? Chi non vede che nel sacrificio reale ciò che piace di più a Dio non è la distruzione del corpo, come atto esteriore, ma la libera accettazione che ne fa il cuore? Se così non fosse, il sacrificio più glorioso per Dio sarebbe la morte incessante ed eterna che i condannati soffrono all’inferno. No, quello che Dio vuole è l’abbandono di un cuore così penetrato nel rispetto della sua sovrana Maestà, così pieno d’amore della sua infinita bontà, che dimentica se stesso, che si abbandona, si arrende, non fa conto di ciò che non sia Dio, e, contento di compiacerlo, accetta finanche la morte con la stessa volontà come della vita, la ignominia con tanta gioia quanto la gloria. Non sono queste le disposizioni del Cuore di Gesù nella Santa Eucaristia? Se è impassibile in se stesso, non è impassibile nella specie in cui è coinvolto. Sotto queste Egli è davvero soggetto ad insulti, ad oltraggi ed a rifiuti. Si guardi come si arrende a loro, con quanta sincerità si dona. C’è mai stata una vittima più obbediente? La morte stessa è per caso più passiva ed immobile? E qual è la causa di questa indifferenza? È per caso impotenza? No, perché quella Vittima-Ostia immobile è l’Autore della vita. Solo l’amore lo riduce in quello stato, l’amore per Padre suo ed il nostro amore. Cos’è che manca nel suo sacrificio perché sia il più libero, il più espressivo ed efficace di tutte le testimonianze date alla Maestà divina? D’altra parte, il Sacrificio che il Cuore di Gesù offre sull’altare non è un sacrificio isolato: è il rinnovamento perpetuo del Sacrificio del Calvario. Come il Cuore Divino ha potuto, trentatré anni prima, offrire quel Sacrificio di sangue, anche se il sangue non scorreva ancora, così potrà rinnovarlo ora e fino alla fine dei secoli, anche se il sangue non scorre. Era necessario che il sangue fosse versato una sola volta, perché quel Sacrificio, essendo pubblico, non poteva essere compiuto solo nel silenzio del cuore; ma avendo soddisfatto a questo requisito, cosa può impedire che il sacrificio si rinnovi frequentemente?

Noi completiamo l’immolazione eucaristica.

Il Sacrificio Eucaristico non è del tutto completo di per sé. La sua unione con il sacrificio del Calvario non è sufficiente a dargli tutta la perfezione che dovrebbe avere nella mente della Vittima divina. Sta a noi dargli il suo ultimo complemento. Poiché la terra continua ad oltraggiare la giustizia divina, è opportuno che l’espiazione di questi oltraggi non venga interrotta. I continui eccessi di sensualità e di orgoglio, devono essere contrapposti ad una reale e perpetua immolazione. Il sangue deve scorrere senza sosta, per lavare via le macchie con cui gli uomini non smettono di coprirsi. Ma quel sangue, che non può scorrere dal Cuore di Gesù, può scorrere dalle membra del Corpo mistico del Salvatore. Ed infatti, deve essere così. E se non fosse così, in che modo i membri sarebbero degni del Suo Capo? Come riconoscerebbe Dio Padre nei fratelli adottivi di Gesù Cristo, l’immagine del suo Figlio naturale? Non è forse l’unica condizione per la salvezza degli uomini, la loroà somiglianza con il modello divino degli eletti? E possiamo sperare di raggiungere la somiglianza con un Dio la cui vita di sacrificio è stata una continua immolazione, se ci rifiutiamo di immolarci con Lui? Non sarebbe ingiusto volere che il nostro Capo Divino si sacrifichi per l’espiazione dei nostri crimini, e rifiutarsi assolutamente di far parte di questa espiazione? Quando si incaricò di soddisfare per noi, non è stato per compensare la nostra impotenza. Offrendo se stesso per primo in sacrificio, ci ha messo a disposizione infinite soddisfazioni, che non potrebbero essere applicate a noi se non volessimo sacrificarci con Lui. – Anche se l’unione con il sacrificio del Salvatore non fosse di assoluta necessità, esso sarebbe comunque un obbligo d’onore. Ed infatti, supponendo che sia in nostro potere unirci alla più divina di tutte le opere di Gesù Cristo, il Sacrificio del Calvario, e che spettasse solo a noi dare al Sacrificio Eucaristico il complemento che gli manca, non saremmo forse noi felici di usare un tale potere? Questa indifferenza dimostra che non prestiamo attenzione ai desideri che il Cuore di Gesù ci manifesta assistendo alla sua immolazione eucaristica. Infatti, ogni volta che si Egli presenta a noi sull’altare, chiede il sacrificio di coloro che lo amano. In un altro tempo disse ai suoi Apostoli: « Sarò battezzato con un battesimo di sangue, e come sono in angoscia finché non sarà compiuto! » – Ognuna delle palpitazioni del suo Cuore aveva lo stesso merito dello spargimento di tutto il suo sangue. Ma quel merito non gli bastava, perché sapeva che gli uomini avevano bisogno della potente voce del sangue per uscire dal loro letargo. Perché vedeva ovunque che l’orgoglio e la sensualità avevano strappato via la gloria di Dio, proclamando che i piaceri e la gloria di questa vita sono gli unici beni dell’uomo. E ardeva dal desiderio di poter protestare contro queste menzogne e di gridare, con i tormenti e le ignominie della sua morte, che la gloria ed il piacere non sono nulla; che solo Dio merita il nostro amore. Per questo desiderava poter offrire, in faccia del cielo e della terra, quel Sacrificio che già da tempo aveva offerto nel suo cuore. L’orgoglio e la sensualità non esercitano lo stesso impero nelle anime e non rinnovano gli stessi oltraggi contro la Maestà divina? Il sacrificio del sangue versato liberamente e delle persecuzioni subite con amore è meno necessario oggi che in passato? Senza dubbio il Cuore di Gesù offre in esso il suo sacrificio mistico, di valore pari a quello della croce. Ma pur avendo lo stesso merito, non brilla allo stesso modo. C’è bisogno di qualcos’altro, quindi, per riparare alla gloria divina. È necessario che il battesimo di sangue sia rinnovato nel corpo del Salvatore. Il Cuore di Gesù assaporerà un’angoscia indicibile fino a quando i suoi membri non gli daranno la soddisfazione di vederlo riprodotto in loro. Questo è proprio quello che chiede ad essi: « Io faccio quel che è la mia parte, e ciò che voi non potreste fare. Offro a Dio mio Padre un’immolazione di un prezzo infinito, che metto a vostra disposizione; c’è però qualcosa che non posso più fare e che voi dovete compensare. Non posso più soffrire, eppure per ciò è necessaria una sofferenza volontaria per compensare la giustizia divina e salvare il mondo. Compensate la mia impotenza in ciò che questo riguarda, e nulla mancherà al nostro sacrificio; così sarà veramente il sacrificio di tutto il mio Corpo mistico; voi presenterete la materia e io le darò la virtù. In questo modo il mio Cuore avrà compiuto in voi la sua grande funzione, che consiste nel riprodurre Me stesso in ciascuno dei miei membri, e nel continuare nella mia Chiesa, fino alla fine dei secoli, la grande opera che ho compiuto nella mia Persona durante la mia vita mortale. »

LO SCUDO DELLA FEDE (113)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXIV.

L’astrologia giudiziale non ha ragione su cui si fondi.

I . Se i genetliaci hanno a risaper dalle stelle qualche poco degli eventi futuri, o liberi, o casuali, convien di necessità, che le stelle ne sieno, o segni, o cagioni; non avendo esso altre voci da palesarli. Ma le stelle non sono né cagioni, né segni di tali eventi; adunque è manifesto, che i genetliaci non possono dalle stelle risaper nulla degli eventi futuri, o liberi, o casuali, neppur da lungi. Tutta la difficoltà si riduce a mostrar per vera la minore proposizione; non si potendo contendere la maggiore, se non da chi non la intenda. Dunque mostriamola con levar prima alle stelle la virtù loro attribuita di sogni, giacché la godono a torto.

I.

II. E qui addimando: Se elleno sono segni delle vicissitudini umane, che segni sono i segni naturali, quale è l’iride della serenità, o segni, come dicono, a piacimento, quali sono la tromba e il tamburo della battaglia? Naturali non sono, perché, se fossero tali, non potrebbe non avvenire tutto ciò che da loro è significato. Ed ecco tolta in tal caso la contingenza, e con la contingenza il libero arbitrio, (mentre all’uomo tanto sarebbe il divertire ciò che di lui dicono i cieli, quanto il distogliere i cieli da’ loro corsi); eccovi l’uomo, non più uomo, ma bruto, e bruto guidato con freno d’oro bensì, ma però più forte: onde possa un puledro sperar di rompere quella cavezza che il priva di libertà, ma non lo possa già sperare un mortale, nato al comando: eccovi il destino funesto: eccovi il diamante fatale: eccovi tutte a terra le leggi più venerabili, come inette: ed eccovi alla giustizia cadute da una mano le bilance che ci ha, dall’altra la spada: le bilance, come inutili a pesare i meriti proceduti da forza; la spada, come iniqua a punire i falli. E però chiaro a chi ritiene scintilla ancor di discorso, che le stelle non possono essere segni naturali de’ fatti umani. E se non sono qual dubbio v’è, che non possono ne meno dirgli in confidenza agli astrologi, checché questi si vantino di saperli sì per minuto?

III. Saranno dunque segni imposti da libera istituzione: Sicché quel Dio, che antivede le cose prima che avvengano, abbia congegnati i pianeti con sì bell’arte, che questi col fuggirsi, coll’incontrarsi, coll’intrecciarsi, e col muoversi in tante guise, formino un’istoria del vivere di ciascuno in quel vasto cielo, che egli però distese a guisa di pelle: Extendens cælum sicut pellem (Ps. 103,2). Così le stelle non inducono alcuna necessità, ma sono meri interpreti del futuro, come sono i profeti: onde a saper ciò che dicano, basta intenderli.

IV. Un tal rispondere non può in prima valere per gli ateisti, perché essi negano la cura a Dio delle cose. Per quelli poi che l’ammettono, non può stare, perché se le stelle sono segni istituiti dalla provvidenza divina a farci antivedere sì il nostro male, come dunque Dio non c’invita a una scuola riguardevole di prudenza, con esortarci a leggere in quel suo libro continuamente, o a cercare chi vi legga per noi se non lo intendiamo? Anzi Egli non fa altro che ritirarci da tale studio, con metterlo in derisione. A chi sperava assai dalle stelle (e fu Babilonia) Stent, disse egli, stent, et salvent te augures cœli, qui contemplabantur siderei, et supputabant menses, ut ex eìs annuntiarent ventura tibi – si presentino e ti salvino gli astrologi che osservano le stelle, i quali ogni mese ti pronosticano che cosa ti capiterà.(Is. XLVII. 13). Ed a chi ne temeva (ed era Gerusalemme) A signis, disse, a signis cæli nolite metuere, quæ timent gentes – … e non abbiate paura dei segni del cielo, (Ier. X, 2). Se dunque per avviso di Dio medesimo non dobbiamo noi regolarci da tali segni, né a sperar bene, né a temer male, che segni sono? Sicuramente non sono segni da Dio istituiti a significarcelo, ma segni finti dagli uomini a lor piacere; onde che resta a noi far più di quei libri, i quali ci dichiarano tali segni? Resta gettarli sul fuoco. Tanto fecero quei gentili, convertiti già in Efeso dall’Apostolo, e tanto abbiamo a far noi: Multi autem ex eis, qui fuerant curiosa sentati contulerunt libros, et combusserunt coram omnibus – … e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti.  (Act. XIX. 19). E che quei fossero libri di astrologia, ne fa fede sant’Agostino (In Ps. 61) . L’avere però Dio steso il cielo a guisa di pelle, fu solo per denotarci, averlo steso con tanta facilità con quanta da noi suole stendersi un padiglione (Bellar. i n Ps. 103. 2). Ma se egli è padiglione, conviene adunque, che qualcuno ce l’alzi, a volere entrarvi col guardo.

V. E vaglia la verità, se in cielo fosse cosi descritta l’istoria dell’ avvenire, come pur si divisano tali astrologi, chi mai di loro potrebbe aspirare ad intenderla, senza Dio che gli porgesse quasi in mano le chiavi di sì gran cifera? Potrebbe forse una chiave tale porgersi dall’inferno? Ma come dall’inferno, se quegli spiriti non l’hanno sicuramente nemmen per sé ? Quinci è, che negli antichi oracoli sì famosi di Delfo, di Didone, di Delo, aveano i demoni per uso di dare risposte sì artifiziose. sì ambigue, che del pari valessero ad ogni evento: Ibis redibis non morieris in bello. Che accadeva loro però lavorar questi, come specchietti a più facce, se le verità contingenti stanno là sui cieli descritte a sì chiare note? Non hanno i demoni all’ingegno più forti l’ale, di quelle che abbiavi verun astrologo sommo? Ora come dunque non potevano essi poggiar tant’alto da leggere quei caratteri i n vicinanza, ed esporli poi, con gloria tanto maggiore, alla vista de’ riguardanti in uno specchio pianissimo di parole sincere e schiette? So non lo fecero, segno dunque è, che non lo potevano fare: e posto ciò, convien dire, che il futuro accidentale e arbitrario non è da Dio registrato in que’ vasti fogli. E quando volessimo violentar la ragione a credere, che vi fosse, non v’è registrato di modo che possa leggersi da nessun occhio creato, se Dio non glielo discopra. Ma con chi Egli ciò fece mai, se piuttosto egli divietò qualunque spezie di auguri, con dichiararsi, che sue parti sono renderli tutti vani? Ego sum Dominus, irrita faciens signa divinorum – Io sono il Signore, … Io svento i presagi degli indovini (Is. XLIV, 25). Forse. Dio scrisse tali cose in cielo per gli Angeli dell’empireo, a cui le può tanto meglio mostrare in se medesimo quando voglia?

VI. Senonché i moti degli aspetti celesti ci danno chiaro a veder, che non ve lo scrisse. Perché tali moti sono uguali, uniformi, e regolatissimi, come moti ordinati dalla natura: laddove gli eventi umani, come dipendenti dalla libertà, sono irregolari, e tutti differenti fra loro, e tutti difformi. Come dunque è possibile, che questi eventi siano mai per quei moti significati, se quelli e questi sono quasi due linee che non han misura comune? Non l’hanno nella qualità pur ora accennata, non l’hanno nel numero; essendo i moti degli aspetti celesti, secondo sé, di numero certo, e gli eventi umani più e più sempre movibili in infinito: onde que’ moti potrebbero al più spiegare alcune universalità corrispondenti al numero che ebber essi dalla natura, ma non potrebbero discendere a mille individualità particolari e precise che non han fine.

II.

VII. Ed ecco tolto alle stelle l’essere segni degli eventi futuri, di cui si disse. Ma né  anche ne son cagioni, né possono essere, che è l’altra parte che rimane a provarsi. E prima è certo, che non sono esse cagioni necessitanti: altrimenti urteremmo di subito nello scoglio, da noi scorto di sopra per troppo infame, qual è, che l’arbitro riconosciuto nell’uomo da tutti i teologi, da tutti i filosofi, da tutti i fisici, da tutti i giureconsulti, anzi da tutti i popoli ad una voce, per padrone di sé, sia ristretto in ceppi. Eppure in ceppi egli saria più che mai, quando a lui si assegnasse una cagion necessaria, da cui dipenda. Ma appunto tali a lui sarebbon le stelle, che, a guisa di tutti gli altri agenti naturali, sono costantemente determinate agli stessi corsi: Omnis naturæ actio terminatur ad aliquid unum (S. Th. 1. p. q. 96. a. 1. in c). Così cesserebbe ogni considerazione, ogni consiglio, ogni elezione di mezzi, ogni politica, ogni prudenza; anzi cesserebbe ogni virtù fra gli uomini, ed ogni vizio; mentre non si dovrebbe ad un uomo più maggior lode, dì quella che si meriti il ferro, quando si lascia tirare dal polo amico della sua calamita; nè ad un uomo empio dovrebbesi maggior biasimo di quello che si meriti il ferro stesso, quando dal polo avverso della medesima calamita si lascia mandar lontano.

VIII. Che se, conforme abbiam già veduto, Dio è l’architetto di questo tutto, chiamato mondo, come può egli averne mai disposte le parti sì malamente, che la natura inferiore, qual è la materiale, regga la superiore, qual è l’intellettuale? quella che è cieca, guidi la veggente? quella che è insensata, governi la ragionevole? Ogni dominio naturale è fondato sulla eccellenza della natura, dice Aristotile; (L. 3. de anima tex. 57) che però l’uomo naturalmente comanda alla donna, perché dentro la medesima spezie egli è un individuo più perfetto di lei; e però molto più signoreggia anche gli animali, e gli sferza ritrosi, e li sottomette ribelli, perché è molto più perfetto di loro ancor nella spezie. Pertanto, come hanno i cieli a dominare le nostre menti, se quanto sono a noi superiori di sito, tanto sono inferiori di dignità? Se le loro combinazioni e i loro contrasti sono la cagiono del nostro operare, converrà che si disordini il tutto con ritornare nell’antico suo caos, mentre le sostanze perfette sono tiranneggiate dalle imperfette, le spirituali dalle corporali, le semplici dalle composte; e l’uomo, in una parola che è il fine dell’universo, vien sottoposto alla natura incapace di proprio bene (Arist. 1. 4 phys. test. 34).

IX. E notisi il dir che è fine: perché se l’uomo fosso soggetto alle stelle nell’operare, l’uomo dunque sarebbe fatto per le stelle, o non le stelle per l’uomo. Ma come ciò? Non è l’uomo quegli, in grazia di cui fu da Dio già creato tutto il visibile? Non ve ne ha dubbio: mercecchè l’uomo è l’ottimo che vi sia. Se però le stelle sono fatte anch’esse per l’uomo come dunque l’uomo ha da dipendere dalle stelle nelle opere che egli fa? Chi da un altro non è dipendente nell’essere, né anche n’è dipendente nell’operare, dice l’Angelico (Contra  gentes!.. 2. c. 8), perché l’operare seguita in tutti la condizione dell’essere.

X. Ma che stancarsi in tal cosa? Non prova ciascuno in sé, che la ragione domina il corpo e che il corpo non domina la ragione? Per quanto la fame mi stimoli, se io mi risolva di anteporre il diletto stabile della temperanza al diletto de’ cibi, che è sì fugace, la mano mia non si stende a prenderli da veruna mensa più lauta cui sia presente. Se mi sollecita l’appetito inferiore, non mi violenta: ed io ho la gloria di levarmi digiuno da quel convito, che darebbe alla gola si grato pascolo. Adunque la mente comanda al corpo, non il corpo alla mente. Onde, a conchiuderla, quantunque l’uomo non abbia podestà sopra i cieli, perché non li può volgere a suo talento; non però è loro soggetto in veruna azione, ma egli è padrone di sé, ed ha le redini in mano del suo volere, senza che tutti i moventi sì rapidi delle sfere possano violentarlo a dare neppure un passo se a lui non piace.

XI. Né sia chi dica, che non i corpi celesti ma le intelligenze motrici di tali corpi (Come ancora oggi ritengono i neo platonici cabalisti della massoneria mondiale, che adorano il sole e l’inventato assurdo sistema eliocentrico – ndr.-) son quelle, cui l’uom soggiace; perché le intelligenze, a muovere l’uomo, non possano valersi d’ogni istrumento, quantunque improporzionato. Come lo scultore non può mai col pennello far la sua statua, o come il dipintore non può mai fare il suo quadro con lo scalpello; così le intelligenze non possono muover mai l’arbitrio dell’uomo coi giri di verun corpo. Convien che il muovano con rappresentargli alla mente il bene che a lui ridondi dalla tal opera, che è quanto dire, convien che il muovano a modo di chi consiglia e di ehi conforta, non di chi trascina in catene. Ma ciò non ha che far punto col caso nostro: perché  i consigli e i conforti lasciano l’uomo indifferente ad ammettergli, o a ributtarli: e però da’ giri de’ cieli non sarà mai possibile antivedere di lui ciò che sia per farsi.

XII. Senonchè quanto si è divisato finora vale a provar, che le stelle non abbiano che far colle sorti umane, quali cagioni diretto (secondo che gli antichi le veneravano, fino ad adorarle però, come loro numi); ma non vale a provar, che non vi abbiano almeno a fare, quali cagioni indirette, che è il ricovero sotto il quale i moderni astrologi si fan forti, affermando, più cauti, se non più casti, che i cieli non influiscon nell’animo de’ mortali di primo lancio, ma di rimbalzo, in quanto alterando gli organi delle potenze sensitive, il temperamento, i fluidi, le flemme, e le qualità tanto a lui necessarie nell’operare, possono fare, che egli operi di un modo più che di un altro. E fin qui dicono bone: ma con ciò confessano insieme, che né sanno né possono saper nulla di quanto pronosticano intorno al tempo della vita e della morte dell’uomo, intorno alle ricchezze e alla povertà, intorno alla prosperità e alle disgrazie, che pur sono tutto quel fondo su cui lavorano i ricami delle loro fole. E che sia vero, osservate, che se nell’astrologia vi ha nulla di sodo, è questo discorso. Il temperamento dell’uomo dipende dalle stelle; l’indole, le inclinazioni, ed i costumi di lui dipendono dal temperamento; dunque altresì l’indole, le inclinazioni ed i costumi di lui dipendono dalle stelle, indirettamente, sì, ma pur quanto basti a formarne un giudizio retto. Ora un tale discorso è tutto fallace. Se però traballa sì forte la prima pietra, che sarà della mole, che su vi sorge?

XIII. Ma su, esca pure in luce il bambino sotto un oroscopo il più fortunato a dar buono il temperamento: se s’incontra in una balia mal atta a cooperarvi, io veggo le stelle in un labirinto grandissimo, senza filo da giungere a mantenere ciò che promisero. Conciossiachè tutti i filosofi e tutti i fisici son d’accordo, che il latte della nutrice, giovane o vecchia, gagliarda o vizza, porti al temperamento divario grande: e che il latte congenito della madre sia sempre migliore alla prole che quello di una straniera: la quale, ove pure ammettasi, vogliono che sia scelta anche di costumi, mentre le istorie romane tutt’ora piangono il loro Romolo, allattato da una lupa crudele, un Comodo ed un Caligola, abbeverati di sangue più che di latte; ed un Tiberio, allattato da una levatrice intemperantissima.

XIV. Spoppato quinci il bambino, ecco che egli incomincia a nutrirsi di cibo sodo, e con ciò cresce l’impegno alle stelle, e l’impossibilità di mantenersi veridiche, benché vogliano. Perciocché chi non sa quanto possa nel nostro corpo la qualità del nutrimento quotidiano? Basta leggere i trattati che ci hanno sopra ciò lasciati i medici più famosi, tanto benemeriti del genere umano, quanto ne sono traditori gli astrologi. Fino i poeti intesero questo vero: ond’è che Omero, formando nel suo Achille l’idea di un eroe magnanimo, lo finse nutrito colle midolle dei leoni, per figurarlo robusto di forze insieme e di cuore. Fate però, che il garzoncello, mirato sì benignamente da’ luminari celesti ne’ suoi natali, si dia tosto in preda ai banchetti, ai bagordi, all’intemperanza; con quale stame le stelle sue natalizie potranno allungargli la vita? Plures occidit gula, quam gladius. E il simile dite se egli nasca in luogo d’aria insalubre, o vada a soggiornare per accidente in valli palustri, umide, uliginose, e non dominate da venti, fuorché nocevoli. Vinceranno le stelle la qualità di quel suolo infausto? E finalmente, se egli, caduto infermo a cagione de’ suoi disordini, si abbatta in un di quei medici che si fanno pagare per ammazzarvi, con quale scudo il ripareranno da questo colpo i pianeti promettitori?

XV. Direte forse, che se egli nacque sotto buono ascendente, non ha da temere di quegli incontri sinistri da me accennati? Ma perché non ha da temerne? Perché le stelle che lo tolsero in cura gli abbiano per ventura a tenere indietro quali protettrici amorevoli? Ma ciò sarebbe altro che farle operare da cagioni particolari e parziali, influitrici nel solo temperamento. Sarebbe farle operare da cagioni universalissime, anzi vive, veggenti, e piene in sé di perfetta divinità, la qual disponesse dì tante varie creature a bacchetta per giungere al fine inteso. E poi, se le stelle potranno provvedere il lor caro allievo di medico ottimo, quando egli sarà in pericolo di morire: come potranno, quando egli ancora non nacque, provvederlo di ottimi genitori, se i genitori non poté veruno sortire fuorché nascendo? Non vedete voi, che coteste sono follie da contarsi per ridere in su le veglie? A voler però, che l’astrologo possa farci promessa di lunga vita a nome delle stelle, da lui considerate al nostro natale, converrà prima che egli conosca assai bene il temperamento di quei che ci generarono, e poi che da quelle stelle medesime egli risappia ad uno ad uno gl’innumerabili casi i quali, nel temperamento nostro influendo più da vicino, avranno sempre possanza somma a rifrangere e ripercuotere quegli influssi che sì da lungi mandino a noi le costellazioni celesti per nostro prò. Ma chi può ridir tali casi, se, come innumerabili, sono ignoti a qualsivoglia altra mente, che alla divina? Nè anche gli Angeli, motori dello stelle, potrian ridirli, se non fossero interrogati.

XVI. Certo è, che Sisto di Eminga, dopo di avere, in questa scuola de’ pianeti, consunti poco men che tutti i suoi giorni, confessa che gli astrologi, per quanto studio si facciano sopra l’oroscopo di un bambino nascente, non potranno mai risaper dalle pure stelle se egli sia nato vivo, o sia nato morto (In Genitura Caroli a Brimeu); giudicate poi se ne potran risapere (come si vantano), se egli sarà per vivere molto o per viver poco ? E forse che tal prova non è stata già fatta più d’una volta con gran piacere, chiedendo la natività di un bambino estinto, come s’egli fosse anche vivo, e ricevendola tuttavia dall’astrologo felicissima?

XVII. Mi giova riferire una beffa, anche più piacevole, che un principe italiano si fè di sì vana scienza, affine di schernire, come a lui parve giusto, frode con frode (Millet. prop. 19): Questi avvisato del nascimento di un mulo nelle sue stalle, ne fece dare all’astrologo il punto esatto, sotto un nome di un bastardo nato in palazzo. E l’astrologo di ciò ignaro, postosi lungamente a studiare su quell’oroscopo, per la speranza di ottener tanto più di vantaggio alla sua fortuna, quanto più egli ne presagisse all’altrui, trovò subito in cielo due luminari ne’ segni maschi, assistiti da cinque pianeti mattutini in riguardo al sole, e vespertini in riguardo alla luna; e conchiuse che il cielo non poteva essere mai più bello, e che però non potendo quel bambino essere re, come ad ogni patto volevate Tolomeo sotto quegli aspetti (L. 4. de iudic. c. 3), conveniva per necessità che fosse sollevato alle prime dignità, ancora sacre, di cui capaci si fossero i suoi natali. Questi furono i vaticini che, recati al principe e letti da lui pubblicamente a’ suoi cavalieri, empirono tanto il volto di rossore a quel valent’uomo, quanto credea che gli dovessero empire le mani d’oro. Pertanto converrà dire che se le stelle mandano su tutti i viventi gli stessi raggi, una bestia nata sotto i più favorevoli che vi sieno dovesse andar per lo meno libera da ogni soma per tutta la vita sua, o che se alcuna ne avesse pure a portar mai, come l’altre, dovesse puramente, qual mulo illustre, sottoporgli omeri a qualche lettiga reale.

XVIII. Non è di poi meno falsa, l’altra proposizione, su cui si appoggia l’astrologia giudiziaria per tenersi in piedi, ed è, che le volontà degli uomini seguano per lo più il temperamento de’ corpi subordinato alle stelle: ond’è, che per esso può verisimilmente congetturarsi ciò che quegli sian per volere. Sì, se null’altro ostasse a tal congettura.  Conciossiachè quanto importa primieramente a variar l’indole, l’inclinazione, i costumi, la buona e rea educazione che sortisca? Su ciò si fonda principalmente la stima in che tutte le genti han tenuta sempre la nobiltà de’ natali: su la presunzione, che reca seco di andar congiunta con educazione più onorevole, attesi gli stimoli che di più lo porgono al fianco le operazioni degli antenati, in virtù di cui, quasi a generoso corsiere, se le raddoppi la necessità  di portarsi più risoluta in cima alla gloria. Onde in ordine ad un allevamento tale (stimato da’ legislatori la base potissima dell’umana felicità), che parte hanno le stelle? Se non vogliam delirare, nessuna affatto: mentre ciò non dipende da alcuna qualità corporea, cui solo può stendersi l’efficienza de’ cieli. Tanto più, che questa medesima educazione riceve gran vantaggi e gran varietà dal governo de’ dominanti, dalle pene, da’ premi e dalle leggi da loro tenute in vigore. Vogliamo noi credere, che le stelle influissero diversamente in Atene, in Sibari, in Sparta, situate in distanza nulla considerabile quanto agli astri? Eppure gli ateniesi erano sì ingegnosi di spirito, i sibariti sì femminili, gli spartani sì forti. La diversità non veniva però dal cielo, ma dal governo. Quel bracco di buona razza, che, se da piccolo fosse stato avvezzato a latrare intorno alla morta pelle di un orso, avrebbe animo di sfidar le fieranche vive nella lor tana; perché all’incontro fu avvezzato in cucina da un guattero poltroncello a covar la cenere, appena da lontano lo mira, che fugge in salvo.

XIX. Medesimamente il vivere in compagnia de’ cattivi, chi non sa, forse anche a suo costo, quanto pregiudichi alla sincerità de’ costumi? Un cedro marcio è men abile ad ammorbare quel sano, cui sta vicino, che un reo compagno quel buono: Sumuntur a conversantibus mores, diceva Seneca (De ira 1. 3. c. 8), et ut quædam in contactos. corporis vitia transiliunt. ita animus mala sua proximistradit.

XX. Cosi anche il rimprovero interno della coscienza, quanto vale a ridurci sul buon sentiero? quanto l’avviso di un consigliere fedele? quanto l’ambizion di una carica fruttuosa? Il timore di non rovinare i figliuoli, non è bastante a rattenere da più vendette anche un animo pronto all’ira? Quanti disordini viene a distornar nelle case una moglie saggia, coll’autorità che le danno le sue maniere? quanti raffrena la dignità del suo grado? quanti ritiene il detto delle sue genti? E con ciò, che hanno a fare giammai le stello? Anzi tanto meno vagliono queste di tutto ciò, che non v’è tra’ saggi chi esse chiami più volentieri a consulta sui propri affari, con persuadersi, che esse li guidino meglio. Ne’ matrimoni, ne’ cambi, nelle compere, ne’ litigi da imprendersi che si fa? Si pesano le ragioni, non si va di notte, neppur dagli astrologi, a interrogare i pianeti apparsi.

XXI. Però, quando ben per via delle stelle potesse risapersi il temperamento di verun uomo (che neppur si può risapere), il volere tuttavia dal temperamento raccorre in altri le propensioni che egli abbia, e dalle propensioni indovinare le operazioni libere che abbia a fare, è molto più temerario, che se entrando nelle stanze di Apelle, volessero altri indovinar le figure ch’egli formerà sulla tela che ha quivi all’ordine. Perché in fino né Apelle, né Protogene, né Parrasio, né Raffaello, indettati insieme, sapranno mai rimenare sì variamente, e rimescolare le loro tinte, che non sia sempre più varia la combinazion che può fare l’arbitrio umano de’ suoi pensieri, nelle risoluzioni a cui vuole apprendersi.

XXII. Replicheranno gli astrologi che essi non pronosticano ciò che assolutamente sia per succedere dalle volontà de’ mortali, ma ciò che succederebbe, se le inclinazioni impresse dalle stelle nel temperamento de’ corpi non fossero disturbate. Bellissimo sotterfugio. Ma se è cosi, pronosticano dunque essi ciò che non sanno, né possono sapere, se sarà mai. Perciocché queste inclinazioni verranno sempre variate dalle cagioni mentovate di sopra, che sono inescogitabili; ed affinché non si varino, converrà ritrovare un uomo, che viva fuori del mondo o non v’entri mai. Che se, al detto dell’Angelico (1. p. q. 57. art. 5), quelle verità contingenti, che accadono rade volte, non possono mai sapersi da verun uomo prima che accadano, bisognerà pure confessar, che l’astrologia giudiziale non è scienza, ma ciurmeria.

XXIII. E che sia così, non ha dubbio, che ad arrivare le inclinazioni degli uomini molto più dovrebbon valere le regole della fisonomia, la quale si fonda sul temperamento già lavorato dalla natura nel corpo umano, di quelle che ci porga l’astrologia, la quale si fonda sul temperamento che ancora ha da lavorarsi (Arist. Prior, 1. 2. e ult. phys. c. 1. etc.). Il curatore de’ cani, all’aspetto sa riconoscere il cane ardito: il cozzon de’ cavalli, all’aspetto sa ravvisare il cavallo altero. Così il fisonomista, all’aspetto sa raffigurare se l’uomo sia forte o timido, verecondo o sfacciato, umile o superbo, ingegnoso o goffo; mercecché convenendo in quei segni tutti gli animali sottoposti a tali affezioni, e non vi convenendo alcuno degli altri non sottoposti, giustamente egli ne deduce, che siano segni da poterle indicare al pari negli uomini anch’essi, benché superiori agli altri per la ragione. Eppure da que’ segni di forte, di timido di verecondo, di sfacciato, di umile, di superbo d’ingegnoso, di goffo, anzi neppure dalle inclinazioni già comprovate per tali segni, può mai sapersi, come Aristotile afferma (Physon. c. 2. n. 11), se uno sia soldato, sia musico, sia medico, sia architetto, e per aggiungere ancora ciò, sia prelato di santa chiesa. E come dunque da’ segni di quelle inclinazioni, anzi da quelle inclinazioni medesime può dedursi che egli sarà? E la ragione fondamentale si è, perché ad essere, a cagion d’esempio, prelato di santa chiesa, non basta l’inclinazione della natura data allo studio, alla pietà, alla prudenza, alla rettitudine, ci vuole di più chi ti ammaestri a proposito, chi ti porti, chi ti promuova, e chi al confronto di mille competitori, non meno di te meritevoli, elegga te. E ciò si può inferir dalla inclinazione che in te prevalga?

XXIV. Divinamente insegnò Aristotile (L . 2. phys. c. 7. text. 53), esser la fortuna, sì prospera come avversa, ignota ad ogni uomo, perché gli effetti, separati e sconnessi, a cui ella può stendersi, non han fine: e l’infinito, come infinito, non abita nella mente di alcun mortale. Eppure la fortuna, sì prospera come avversa, è quella che si arrogan gli astrologi di mettere alla tortura tra le lor sèste, perché confessi loro tutto ciò che ella sia per fare.

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (10)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (10)

[chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

TERZA PARTE

MEZZI PARTICOLARI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Capitolo III

IL CUORE DI GESÙ E LA CONFERMAZIONE

La Confermazione è il complemento del Battesimo.

I Sacramenti sono i principali legami che stabiliscono, tra il Cuore di Gesù e i cuori degli uomini, la comunicazione vitale che fa vivere Cristo in loro e loro in Lui. Il Battesimo ha iniziato quella grande opera in noi, facendoci nascere dalla morte del Salvatore. Tra il nostro cuore e quello del Divin Salvatore, si è stabilita una comunicazione costante che ci comunica i meriti, i sentimenti e le virtù del Divin Cuore, come del sangue. E con essa il calore e la vita fluiscono dal nostro cuore di carne attraverso tutte le membra del nostro corpo. Ma non è stato compiuto tutto coll’essere nati. Alla nascita, l’uomo non è altro che un uomo abbozzato e rudimentale. È un fiore nel suo bocciolo, in cui si nasconde il meglio del suo profumo e del suo splendore. Per essere un uomo perfetto bisogna che egli cresca e si sviluppi, bisogna che rafforzi le proprie membra e sviluppi le proprie facoltà. Lo stesso vale per il Cristiano. La nostra nascita in Gesù Cristo con il Battesimo ci aveva dato la vita divina, animando la nostra anima con il soffio dello Spirito Santo, che abitava in noi in modo sostanziale anche se ancora piuttosto limitato. Eravamo neonati e la Chiesa, la nostra balia, ci offriva il latte e gli insegnamenti di una madre. Ma non per sempre poteva tenerci in fasce. Incaricata di formarci ad immagine di Gesù Cristo, l’uomo perfetto, aspirava a darci una grazia più forte, un cibo più solido, per renderci Cristiani completi e perfetti. Per questo ci ha dato il Sacramento della Cresima. Essa, come dice il suo nome, finisce, conferma e sviluppa ciò che il Battesimo aveva iniziato e delineato. Esso non ci dà, come il Battesimo, un nuovo essere; ma una nuova partecipazione all’Essere divino, che è stato prodotto in noi dall’acqua santa. « Già con il Battesimo – ci dice San Cirillo nella sua bella Catechesi sulla Cresima – ci siamo rivestiti di Gesù Cristo e abbiamo ricevuto in noi l’immagine della sua forma divina; noi eravamo quindi già “altro Cristo”. Tuttavia, non potevamo ritenerci degni di quel nome se non con l’unzione del santo crisma, l’immagine dello Spirito divino riversata sul Salvatore stesso. » (S. Ciril. di Gerusal. MG: 33, 1089). La cresima completa l’immagine del Cristiano e del suo modello divino. Il Vangelo ci dice che quando Gesù Cristo uscì dalle acque in cui era stato immerso per prefigurare la sua morte e sepoltura, vide lo Spirito di Dio scendere dal cielo sotto forma di colomba e riposare sul suo capo, mentre il Padre celeste diceva: « Ecco il mio diletto Figlio nel quale mi sono compiaciuto ». Questa è stata la Confermazione del nostro Capo divino. Lo ricevette dal Padre all’inizio della sua vita pubblica, quando stava per ingaggiare con satana tre grandi battaglie, immagine dei nostri combattimenti. Fino ad allora, Egli, nella sua vita nascosta, sembrava vivere solo per se stesso. Da quel momento in poi si preoccuperà solo di istruire i suoi fratelli. Non è più un bambino come a Betlemme, ma un uomo compiuto e nella pienezza della vita. Tutti questi tratti devono apparire in colui che la Cresima ha reso un Cristiano perfetto: « Al bambino – dice San Tommaso – è permesso di occuparsi solo di se stesso e che tutti si occupino di lui; l’uomo perfetto, invece, deve mettere la sua gloria nel rendersi utile ed impiegare le sue forze a favore dei suoi simili. Così deve fare il Cristiano che ha ricevuto la virtù dello Spirito Santo. » (S. Tomm. D’A., III, q. 72. a. 12.). Non si tiri egli allora, indietro di fronte alle lotte, non abbia il desiderio di riposare. Dio stesso, per mano del suo ministro, ha impresso sulla sua fronte il segno del soldato, ha unto la sua anima con l’olio che fortifica gli atleti. Combattere e trionfare, deve essere la sua unica cura e pietà, come ricorda la croce disegnata sulla sua fronte. Questa parola di San Pietro può essere a lui rivolta: « Cristo ha sofferto nella sua carne, entrate in questo pensiero. » Cioè, ricordate che dovete, come il vostro Maestro, vivere inchiodato alla croce, e si noti:

  1° Che, come colui che è legato alla croce non può muovere gli arti a suo piacimento, perché li ha confitti in essa, così il Cristiano non può disporre delle sue membra secondo i capricci della sua volontà, ma deve sottometterli alla legge di Dio e di Cristo.

  2° Colui che è inchiodato alla croce si sente continuamente crocifisso. Il Cristiano deve anche crocifiggere instancabilmente i suoi sensi e la sua carne, sottomettendosi alla legge che gli ordina di mortificare e tagliare ogni desiderio, ogni azione colpevole.

  3° A chi è sospeso dalla croce non importa più degli uomini, dei fasti e delle delizie del mondo. Il Cristiano deve fare lo stesso.

  4° Il crocifisso non si preoccupa del domani, il suo cuore non conosce l’ambizione. Così deve essere il Cristiano.

  5° L’uomo crocifisso respira ancora, ma si considera già morto a tutte le cose del mondo, e pensa solo a quelle che presto incontrerà. Anche il Cristiano deve essere morto, non solo ai peccati e alle passioni, ma anche a tutto ciò che è effimero. Egli deve dirigere tutto il suo essere verso Dio, verso il cielo, dove spera di arrivare da un momento all’altro. Morto anche ad ogni azione, ad ogni desiderio a cui anela il mondo, non vivrà più, se Cristo non vivrà in lui, Cristo crocifisso per lui (Cornelio a Lapide, in I Ep. Petr., p. IV, 1).

Il Cristiano battezzato e confermato è un’immagine perfetta di Gesù Cristo morto nella sua carne, ma che ha riempito la sua anima con tutte le effusioni della divinità. Non si può negare che ciò che in Gesù Cristo si compie in piena realtà, si operi nel Cristiano sotto il velo del Sacramento. Come il Battesimo è un’immagine della morte del Salvatore, così anche il Crisma, effuso dalla mano del Vescovo, è un’immagine dello Spirito Divino effuso da Dio Padre nel suo Figlio: « Ma – continua San Cirillo – guardatevi dal credere che nessuna realtà corrisponda a quell’immagine. » Così come il Pane Eucaristico diventa ogni giorno pane vivo e veramente divino, l’olio della Cresima, santificato dalla benedizione della Chiesa, serve da veicolo per i doni di Gesù Cristo e riceve l’efficacia divina attraverso la presenza dello Spirito Divino: mentre il corpo è unto dall’olio visibile, l’anima è santificata dalla virtù vivificante dello Spirito Santo.

La confermazione ed il Cuore di Gesù

Possiamo già dedurre che, per formare un concetto proprio della Confermazione e del Battesimo, questi Sacramenti devono essere considerati nella loro relazione con il Cuore di Gesù. Questo Cuore Divino non è solo il modello, alla cui perfetta imitazione è diretta la venuta dello Spirito Santo con la Cresima, ma anche la fonte da cui questo Spirito vivificante si riversa in noi come nel Battesimo. Noi infatti riceviamo l’unzione dello Spirito Santo solo nella misura in cui siamo membri viventi del Figlio di Dio e sotto l’influenza di quel Capo Divino. San Cirillo non vuole che si perda di vista questo fatto. E in questo, come in tutte le cose: « L’unico principio della nostra salute è Gesù Cristo. Egli è la primizia, il lievito, la cui virtù voi, che siete la pasta, dovete appropriarvi. Se le primizie sono sante, come si può lasciare seriamente andare l’impasto che è stato influenzato da quella santità? » I Santi Dottori e lo stesso Re Profeta vedono un’immagine della consacrazione del Cristiano per grazia dello Spirito Santo, nell’unzione sacerdotale di Aronne. Infatti, l’olio santo versato da Mosè sul capo del Sommo Sacerdote era sparso sul suo viso e persino sui suoi vestiti: « Così – dice San Francesco di Sales – l’olio della benedizione, cioè lo Spirito Santo versato sul Salvatore, il Capo della Chiesa militante e trionfante, viene sparso sui beati, che, come sulla sacra barba del Divin Maestro, sono sempre attaccati alla sua gloriosa sofferenza, e poi distillati sui fedeli insieme, e uniti dall’amore per la sua divina maestà; l’uno e l’altro, come fratelli gemelli, possono giustamente esclamare: Oh! Com’è bello e gioioso vedere i fratelli uniti! È l’olio versato sulla testa di Aronne che si estende attraverso la barba e fino all’orlo dell’abito. » Questa unzione non è solo il frutto della Cresima, ma anche di tutti i Sacramenti e persino di tutti gli atti meritori, ognuno dei quali fa scendere dal Cuore di Gesù nel nostro cuore una nuova infusione della grazia dello Spirito Divino. Ma la Confermazione è dotata di una speciale efficacia per produrre questo risultato, perché ci rende veramente “nuovi Cristo”, i veri unti del Signore.

Frutti della Confermazione.

Completiamo le idee sui frutti della Cresima. La Chiesa era già nata dalla morte di Gesù Cristo, e ricevette ai piedi della croce il battesimo di sangue e acqua dal Cuore semiaperto del Salvatore. Probabilmente tutti gli Apostoli erano stati battezzati dallo stesso Maestro Divino. Credevano, speravano, amavano. Essi possedevano la vita soprannaturale e lo Spirito Santo abitava nei loro cuori. Due volte, come nota S. Gregorio Naz. (S. Gregorio Naz., Orat. XLI, In Pentec, MG: 36-427.), il Salvatore aveva dato il suo Spirito Santo ai suoi discepoli: la prima volta prima della sua Passione, quando li aveva rivestiti del potere di scacciare i demoni; la seconda dopo la Sua risurrezione, quando aveva conferito loro il potere di perdonare i peccati. Eppure, Egli annunciava la venuta dello Spirito, come se fosse ancora lontano da loro, dichiarando di non poter inviarglielo finché non fosse più con loro. Il fatto è che Lo avevano ricevuto con scarsità e Lui voleva che fosse loro donato con una pienezza molto maggiore. Ma perché ciò avvenisse, gli Apostoli dovevano liberarsi di ogni attaccamento naturale a Lui, in modo che Egli potesse compiere così tutti i suoi doveri e prendere il suo posto in cielo come Capo della Chiesa; da lì avrebbe riversato su di Essa la pienezza della vita. Così come, attraverso l’Incarnazione e la Redenzione, ha completato l’opera che Dio Padre aveva iniziato con la creazione, allo stesso modo, quando questa seconda opera sarà completata, lo Spirito Santo scenderà a coronarla con la santificazione delle anime. E poiché in cielo vi è il complemento della Trinità, l’opera di santificazione che continuerà nel mondo fino alla fine dei secoli, sarà il complemento delle opere attribuite alle tre Persone divine. In questo modo nessuno di esse sarà privata della gloria che i secoli lor devono. Inseparabili nelle loro operazioni ad extra, ognuna avrà la sua parte speciale nell’opera che viene attribuita a tutte e tre. E per tutta l’eternità, le anime degli eletti canteranno: Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo! Non ci si deve meravigliare che le sofferenze e la morte del Figlio di Dio abbiano prodotto risultati così incompleti prima della venuta dello Spirito Santo. Come Dio Padre non ha voluto salvare il mondo senza l’intervento del suo Figlio, così Dio Figlio non vuole santificarlo senza l’intervento dello Spirito Santo. La Chiesa, prima della sua Cresima, era debole, malaticcia, priva del potere di riprodursi e di diffondersi. Era come un bambino. Non c’è da stupirsi se vediamo in Essa le debolezze dell’infanzia. Ma poi improvvisamente lo Spirito della vita scende su di Essa. Dalla fornace dell’amore divino, che è il Cuore di Gesù, sono spuntate le fiamme che si sono posate sul capo degli Apostoli. Essi sono divenuti luminosi, perché lo Spirito di Gesù Cristo illumina le intelligenze nella stessa misura in cui Egli brucia i cuori. È l’amore per la verità che fa capire e indovinare la verità stessa. Fino a quel giorno gli Apostoli erano stati poco lucidi, perché avevano amato poco. Da quel momento in poi ameranno ardentemente, e tutti i misteri saranno rivelati al loro amore. Le fiamme avranno la forma di lingue, perché la Chiesa, d’ora in poi, non dovrà tenere per sé la verità, ma testimoniarla ed estenderla fino ai confini dell’universo. Queste lingue sono accompagnate da un vento, immagine dello Spirito Santo, che soffia dove vuole e fa piovere dove piace dalle fertili nuvole di grazia. Un vento che, all’inizio del mondo, è stato portato sulle acque e ha già sparso i semi della vita. Vento che in seguito ha scatenato le onde vendicative del diluvio e ha riportato la vita sulla terra purificata. Vento che in questo momento realizza una nuova creazione e rinnova la faccia della terra con un’infusione molto più abbondante dei suoi beni. Quanto è diversa la Chiesa dopo aver ricevuto il battesimo dello Spirito e del fuoco. Ciò che era debole e sterile solo poco tempo prima, acquista un vigore ed una fecondità incomparabili. È il bambino che ha raggiunto in un attimo la pienezza delle sue forze. Egli testimonia Gesù Cristo senza temere i castighi ai quali è esposto. E questa testimonianza è così efficace che tremila uomini chiedono subito il Battesimo. Questi sono i primi degli immensi frutti che la Chiesa confermata raccoglie in tutto l’universo, e i prodigi che non ha smesso di ripetere fino ai nostri giorni. Questi prodigi, che la venuta dello Spirito Santo ha prodotto nella Chiesa, dovrebbero essere rinnovati, anche se in misura minore, nelle anime di tutti i Cristiani confermati. Così lo stesso Spirito che è sceso visibilmente sugli Apostoli nel giorno di Pentecoste, scende invisibilmente su ciascuno di coloro che ricevono questo Sacramento. La grazia che ha riversato su coloro che ci hanno preceduto non ha in alcun modo diminuito la sua pienezza. Egli vuole arricchirci allo stesso modo, illuminarci con la stessa luce, bruciarci con lo stesso amore, vestirci con la stessa forza. La piccolezza dei nostri cuori deve essere stata l’unico ostacolo affinché si riempissero di questi beni celesti, mentre l’olio santo scorreva sulle nostre teste.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/06/02/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-11/

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (9)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (9)

[Ed. Réganault/Egnault, chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

SECONDA PARTE

MEZZI GENERALI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Capitolo X

LO SPIRITO CRISTIANO, SIGILLO DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Terza vita del Cristiano: « La vita dello Spirito »

Sappiamo che, se siamo Cristiani, c’è qualcosa in noi che ci appartiene veramente e che ci eleva al di sopra di noi stessi rendendoci un essere veramente divino che ci fa uscire dalla sfera delle cose create: una terza vita che il giorno del Battesimo si è aggiunta alla vita animale e alla vita razionale, ricevute dalla natura, ma superiore alle altre due infinitamente più di quanto la vita razionale sia superiore a quella animale. Questo essere divino del Cristiano ha nella Scrittura un nome il cui significato è stato alterato dal linguaggio abituale: lo spirito. L’uomo è un insieme di corpo e di anima. Il Cristiano, per grazia, possiede, oltre alla vita del corpo e dell’anima, anche la vita dello spirito. I discepoli del Salvatore sono chiamati da San Paolo uomini spirituali mentre gli uomini carnali sono quelli che lo Spirito di Gesù Cristo non ha liberato dalle loro inclinazioni corrotte. Per l’Apostolo, la vita dello spirito è la vera vita. Non ci sono uomini vivi se non quelli in cui questa vita sia sufficientemente vigorosa tanto da soffocare quella della carne (Rm. VIII, 13). Qual è questo spirito con cui abbiamo a che fare adesso? La Scrittura, che usa continuamente questa parola, non le dà sempre lo stesso significato. A volte è difficile discernere se ci parli dello Spirito di Dio o del nostro. Esiste una differenza profonda, in verità, perché tra lo Spirito di Dio e lo spirito creato più perfetto c’è una distanza infinita. Non è molto glorioso che la nostra somiglianza con lo Spirito Creatore possa raggiungere il punto da confondersi con Lui? Egli l’ha voluto con ogni deliberazione usando, per indicare il risultato della nostra unione con Lui, una parola dal doppio significato, che può essere applicata nello stesso modo a Lui e a noi.

Similitudine dello spirito cristiano con lo Spirito Santo.

Negli uffici della Chiesa, la formula con cui finiscono quasi tutte le preghiere, viene a volte modificata. Invece di dire: per Gesù Cristo nostro Signore che vive e regna con Te nell’unità dello Spirito Santo, diciamo « … nell’unità dello stesso Spirito Santo ». Il che significa che si è parlato dello Spirito Santo nella preghiera così conclusa. Ora, alcuni anni fa la Sacra Congregazione dei Riti ha ordinato che le parole “dello stesso” venissero tolte dalla fine di alcune preghiere alle quali era stata aggiunta. Si era parlato di Grazia, tuttavia, e le parole “dello stesso” erano state introdotte partendo dal presupposto che questo spirito non poteva essere altri che lo Spirito Santo. Sopprimendo queste parole la Sacra Congregazione ha deciso che lo spirito in questione fosse lo spirito del Cristiano, unito per grazia allo Spirito di Dio. Si deve credere che l’inserimento delle parole “dello stesso” contenesse un errore dogmatico e che, nel pronunciarlo, i ministri della Chiesa attribuissero a Dio ciò che è proprio della creatura? Niente affatto! Tutto ciò che si dice dello spirito cristiano, in quanto vive della vita soprannaturale, può giustamente essere applicato allo Spirito di Dio come suo principio. Tra i due c’è lo stesso rapporto che c’è tra il volto di un uomo e la sua immagine riflessa in uno specchio dai raggi di luce. Così come si possono dare giudizi sull’immagine, questi stessi possono essere applicati allo spirito di grazia che è nel Cristiano, qualità e prerogative che, di per sé, non dicono altro che “nello Spirito di Dio”. Se c’è confusione, essa non ha altro fondamento che l’ineffabile bontà dello Spirito Santo, il Quale, nel contemplare Se stesso nell’anima giusta, si rallegra nel trasformarla tanto da poter essere confusa con Esso.

Lo Spirito Santo si compiace di questa somiglianza.

Lo Spirito Santo è estremamente soddisfatto di questa somiglianza. Basta leggere le Lettere di San Paolo per convincersi che lo Spirito Santo, lungi dal temere che lo spirito cristiano sia simile a Lui, lo cerca e si compiace di questo. La parola “spirito”, che ad ogni passo scorre dalla penna dell’Apostolo, si riferisce tanto allo Spirito di Dio, come si riferisce al nostro. A volte i due sensi si confondono nella stessa frase, a volte c’è motivo di chiedersi quale dei due sia stato nella mente dell’Apostolo. In alcuni testi non c’è dubbio che egli abbia in mente lo Spirito Santo, terza Persona della Trinità, come quando ad esempio dice: « La carità di Dio è stata diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato. Non sapete che i vostri membri sono templi dello Spirito Santo? » (1 Cor. VI, 19); « E poiché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori, che grida: “Abbà, Padre”. » (Gal. IV, 6). Ma ecco un testo, simile all’ultimo, in cui non si riferisce allo Spirito di Dio, ma al nostro: « Non avete ricevuto lo spirito di schiavitù che ispira paura, ma lo spirito di adozione di figli, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre! » (Rm. VIII, 16). La somiglianza tra Dio e noi, di cui abbiamo parlato poco fa, si mostra qui in tutto la sua chiarezza. Non possiamo non notare, nel confrontare i due testi di San Paolo, la stretta unione di questi due spiriti. Da un lato, lo Spirito del Figlio è mandato nei nostri cuori e grida in noi: Padre! Dall’altro, il nostro stesso spirito, sentendo la sua adozione divina, lancia lo stesso grido a Dio, che è la sintesi di ogni preghiera del Cuore di Gesù. Il Figlio di Dio, nel trasformare un’anima umana, l’ha riempita di Spirito Santo, che procede da Lui, e le ha dato il diritto di rivolgersi a Dio come suo vero Padre. Ma lo Spirito del Figlio viene dal Cuore di Gesù al nostro, e in Lui, come in Gesù, usa lo stesso linguaggio che con Dio e grida: Padre! invitandoci ad unire la nostra voce alla sua. Infatti, San Paolo dice: « Lo Spirito testimonia al nostro spirito che siamo figli di Dio. » (Rm VIII, 16). Se ascoltiamo la sua voce, se ci lasciamo trasportare dalla sua influenza divina, il nostro spirito sarà animato dai suoi sentimenti; esso concepirà per Dio un amore e una fiducia del tutto filiale; canterà all’unisono con Lui e dirà: “Padre!” Ascoltate l’Apostolo e vedete come spiega, con l’uso della stessa parola in entrambi i sensi, la comunità di vita e di finalità che risulta dall’unione dello Spirito di Gesù Cristo con lo spirito del Cristiano: « Non siete dalla carne – dice ai suoi discepoli – ma dallo spirito, se davvero lo Spirito di Dio abita in voi. Ma chi non ha lo Spirito di Cristo, Esso non è di Lui. E se Cristo è in voi, il corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito vive per la giustizia. E se lo Spirito di Colui che è stato risuscitato dai morti dimora in voi, Colui che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti darà vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. » (Rom. VIII, 9-11). L’intera dottrina di San Paolo sulla somiglianza e la relazione tra i due spiriti è riassunta in un confronto, la cui verità e bellezza i santi Padri si sono presi la briga di mettere in evidenza: « Voi avete ricevuto il suggello – dice l’Apostolo agli Efesini – dello Spirito Santo. » (Ef 1, 13). Ascoltiamo la spiegazione data da sant’Atanasio nella sua lettera a Serapione: « Lo Spirito Santo è il sigillo che il Verbo usa per incidere la sua immagine sulle creature; quel sigillo porta l’effigie di Colui che lo usa. Citando Gesù Cristo che ci imprime il suo sigillo (dandoci il suo Spirito), noi prendiamo la sua forma, secondo quanto dice l’Apostolo: « Figlioli, io soffro di nuovo per voi i dolori del parto, finché non vedrò Gesù Cristo formato in voi. » In questo modo la creatura è associata al Verbo e attraverso di Lui tutti noi partecipiamo della divinità. Basta pensare un po’ a questo confronto per vedere il rapporto tra la dottrina dei due spiriti che ora esponiamo e i princìpi precedentemente stabiliti sulla grazia increata e creata. Prendete un sigillo e applicatelo alla cera. Se questa è abbastanza morbida, l’impressione che si riceve sarà la riproduzione esatta e completa delle linee incise sul metallo. Avremo su entrambi i lati la stessa immagine con una sola differenza: nel sigillo l’immagine è come nel suo principio e nella cera come nella sua materia. Nel primo, l’immagine è in qualche modo attiva, si dà da se stessa, mentre nel sigillo viene ricevuto più passivamente. È, né più né meno, ciò che accade nell’anima quando è unita allo Spirito di Dio. Lo Spirito Santo non si accontenta di essere sostanzialmente presente nell’anima, ma si unisce ad essa e vi imprime i suoi sentimenti: « Egli lavora in essa in modo tale – dice San Tommaso – che l’anima comincia ad essere ciò che è sostanzialmente. » (S. Th. I, 2., q. 110, a 2 ad. 2.). Nuove luci, sono prodotte nell’anima, nuovi sentimenti, nuova forza, nuova vita, infinitamente superiore alle luci, ai sentimenti, alle facoltà, alla vita naturale della creatura razionale ed immagine perfetta della vita di Dio.

Cosa intende la Scrittura per spirito cristiano?

Questo è ciò che la Scrittura chiama lo spirito del Cristiano: non è la sostanza stessa dello Spirito di Dio, anche se suppone la presenza reale e sostanziale dello Spirito Divino nell’anima; né è una terza sostanza incompleta, distinta dall’anima, come essa lo è dal corpo. No, lo spirito cristiano è costituito da un insieme di facoltà, abitudini e atti che appartengono alla classe delle perfezioni che i teologi chiamano accidentali, perché si aggiungono alla sostanza dell’anima. Ma sono accidenti divini che portano l’anima ad una perfezione infinitamente superiore a quella che le sostanze più eccellenti possono avere naturalmente. Questo spirito è uno e molteplice. Come la nostra vita naturale nasce dallo stesso principio, l’anima razionale, che contiene in sé una meravigliosa varietà di forze e tendenze, così la nostra vita divina è formata in noi da un unico spirito, che è, rispetto alla nostra anima razionale, ciò che essa è rispetto al corpo: « Rinnovatevi – dice San Paolo – nello spirito della vostra mente. » (Ef. IV, 23). Applicato alle nostre facoltà, produce una moltitudine di spiriti che sono, per questo, ciò che i rami sono nell’albero. Essi sono tanti, quante sono le virtù e i doni gratuiti dell’ordine soprannaturale. C’è infatti lo spirito di fede e di amore, di saggezza e di intelligenza, di consiglio e di forza, di conoscenza, di pietà e di timor di Dio, di profezia e di molti altri. Sono queste altrettante forze divine, diverse nelle loro manifestazioni, ma identiche nel loro principio. Qual è questo principio? Innanzitutto lo Spirito di Dio che, attraverso la sua unione con l’anima, la rende capace di produrre opere soprannaturali: Hæc omnia operatur unus atque idem Spiritus (1 Cor XII, 2); e, nell’anima stessa, la grazia santificante si rende uno stesso spirito con Dio: Qui adhæret Deo unus spiritus est. Sì, San Paolo ha detto bene: uno stesso spirito. Ci allontaneremmo dalla verità se supponessimo che, nella divinizzazione della nostra anima, il sigillo divino sia separato dalla sua immagine. Quando facciamo questa separazione nell’ordine materiale, è molto facile per noi distinguere la traccia lasciata nella cera dal sigillo che l’ha prodotta. Ma prima che si separino l’uno dall’altro, quando il sigillo è ancora attaccato alla cera, non forma davvero una sola cosa con la sua immagine? Cera e metallo sono due sostanze, ma sono unite dalla stessa immagine, che è attiva in una e passiva nell’altra. Ora, l’anima cristiana, divinizzata dallo Spirito di Gesù Cristo, non è separata da quel sigillo divino. Se avesse la sfortuna di farlo, nello stesso istante, la divinizzazione cesserebbe. Essa rimane costantemente sotto questa feconda pressione. Essa è attaccata a Lui e riceve la Sua influenza, che non cessa di impressionarla e di renderla a Sé simile; in realtà non fanno più che un medesimo spirito, e ora si comprende come la parola spirito, usata per esprimere questa ineffabile unione, possa riferirsi a una delle due sostanze tra le quali si produce: Qui adhæret Deo unus spiritus est.

Cosa significa “spirito buono” e “spirito cattivo”?

Queste spiegazioni ci permettono di risolvere un problema di straordinaria importanza pratica. Si dice di certi uomini che abbiano uno spirito buono, di altri che siano animati da spiriti cattivi. Quale potrebbe essere il significato di queste parole? Certamente non intendiamo che tutti coloro ai quali attribuiamo uno spirito malvagio siano in peccato mortale. Ma, d’altra parte, se supponiamo che siano in uno stato di grazia, non dobbiamo forse riconoscere che abbiano lo Spirito Santo, che è lo spirito buono per eccellenza? Come è compatibile uno spirito cattivo con il possesso di questo Spirito? Per spiegare questo fatto, la cui realtà è dimostrata dall’esperienza quotidiana, ricordiamo ciò che abbiamo da poco ammesso. Il Cristiano è tale in ragione dello spirito buono; ma, diventando Cristiano, non cessa di essere uomo. La terza vita che la grazia di Cristo gli ha conferito, non ha distrutto in lui le due vite inferiori, quella animale e quella razionale. Egli rimane libero, anche dopo aver ricevuto lo Spirito Santo, di seguire l’impulso degli istinti animali e delle inclinazioni egoistiche. Se si lascia trascinare nel peccato mortale, distrugge in se stesso la vita divina, spegne lo spirito, secondo l’espressione di San Paolo (1 Tess. V, 9). Ma senza arrivare a quell’estremo, di quante infedeltà può diventare colpevole! Lo spirito buono rimarrà in lui per tutto questo tempo. Ma il Cristiano imperfetto, lungi dal mostrare nella sua condotta l’influenza di quell’Ospite, manifesterà movimenti e tendenze contrarie. Tutti coloro che lo vedono all’opera, giudicando l’albero dai suoi frutti e l’anima dalle sue abitudini, diranno di lui che ha uno spirito cattivo. Quale Cristiano si può dire che sia di buono spirito? Colui che non si accontenta di avere in sé lo Spirito di Dio, ma che opera abitualmente sotto la sua influenza, che lo consulta nei suoi dubbi, che ascolta attentamente le sue ispirazioni, segue il suo impulso con docilità, si sforza in ogni momento di vivere, non secondo la volontà della carne, né secondo visioni puramente umane, ma come un vero figlio di Dio (1 Giov. I, 13); colui che è continuamente in guardia contro i legami dello spirito maligno e che, con l’esercizio di un’instancabile vigilanza, abbia acquisito l’arte del discernimento e l’abitudine di preservarsi da essi. Poiché la santità consiste nella fedeltà alle ispirazioni dello spirito buono, non lo si può mai raggiungere se non si impara a discernere queste ispirazioni dalle illusioni con cui lo spirito malvagio si sforza di sedurre coloro che non riesce a trascinare con le tentazioni manifeste. La scienza del discernimento degli spiriti è uno dei rami più importanti della grande scienza dei Santi. Non ce n’è un altro il cui uso sia più continuo, poiché siamo sempre sotto l’influenza di questi vari spiriti. Da un lato, siamo inclini al bene per lo Spirito di Dio, per i nostri Angeli e per le inclinazioni soprannaturali della nostra anima, dall’altro al male, apparente o nascosto, per l’angelo di satana e per le inclinazioni corrotte della nostra natura. Se non ci armiamo di una instancabile vigilanza e di una risolutezza incrollabile, saremo senza dubbio abbattuti dalla violenza della tentazione, o deviati verso i terribili sentieri dell’illusione.

Risoluzione pratica.

Ecco perché è indispensabile che, docili all’esortazione così incoraggiante del Divin Maestro, chiediamo incessantemente lo spirito buono al nostro Padre Celeste, che non può negarlo ai suoi figli! (S. Lc. XI, 13). Ma non accontentiamoci di chiedere quello Spirito che deve venire dal cielo; ricordiamoci che c’è in noi un altro spirito che, nato da Dio, non può vivere o svilupparsi senza la nostra libera collaborazione. Dio non ha aspettato che le nostre richieste ci segnassero con il suo sigillo, perché abbiamo ricevuto l’immagine divina prima di poterne apprezzare il valore, prima di conoscere noi stessi. Ma noi non siamo cera morta in cui questa immagine può sempre essere ricevuta passivamente. Possiamo cancellarla, così come permettere all’amore divino di inciderla più profondamente nella nostra anima. Viviamo già secondo lo spirito; ma sta a noi camminare più velocemente, lavorare più coraggiosamente sotto la sua influenza (Gal. V, 25). Possiamo rinnovarci incessantemente nello spirito della nostra anima (Ef. IV, 23) e completare, sottomettendoci sempre più alla legge dello spirito della vita, la nostra liberazione dalla schiavitù del peccato e dalla morte.

PARTE TERZA

MEZZI PARTICOLARI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Capitolo 1

IL CUORE DI GESÙ ED I SACRAMENTI IN GENERALE

Introduzione alla terza parte

Nella conoscenza del nostro rapporto con Gesù Cristo sta la vera scienza del Cristiano, la scienza per eccellenza che lo pone al di sopra di tutti gli altri, quanto il cielo si innalza sopra la terra. Non c’è niente altro da imparare se sappiamo bene cosa sia il Cuore di Gesù per noi, il suo modo di stare con noi e come il nostro cuore debba corrispondere alla sua azione. Se sapessimo bene le condizioni dello scambio meraviglioso, attraverso il quale il Cuore di Gesù ci viene donato nella sua interezza,  potremmo donarci interamente a Lui. Coraggio, siamo sulla via più breve e sicura che possa guidarci per questa preziosa scienza. Studiamo con sempre maggiore attenzione e con un amore più ardente, i mezzi con cui il Cuore di Gesù ci viene comunicato, per sapere come dobbiamo andargli incontro. Sappiamo che Egli è la fonte della nostra vita divina; ci resta da scoprire quali siano i canali che distribuiscono questa vita nel nostro cuore. Ce ne sono alcuni che, da se stessi e indipendentemente dalla nostra azione, hanno la virtù di conferirci la vita in modo permanente, purché non mettiamo ostacoli sulla nostra strada. A questa classe appartengono i Sacramenti, chiamati da Isaia, le fonti del Salvatore. Il Cuore di Gesù ci comunica anche la vita divina attraverso tutti gli atti che ci fa compiere in unione con Lui, una volta che ci ha uniti a Sé con la giustificazione: a questa comunicazione, permanente come la grazia dei Sacramenti, si dà il nome di merito. Attraverso la grazia vera e propria, che può essere puramente esterna, ma che ci può essere data anche attraverso il ministero della Chiesa, il Cuore di Gesù esercita su di noi un’azione transitoria, che non costituisce un merito in sé, ma ci mette nella condizione di acquisirlo. Lo studio della nostra unione con il Cuore di Gesù, sotto questi diversi aspetti, ci aiuterà a conoscere meglio la nostra Religione ed a coordinare meglio le conoscenze che abbiamo acquisito da essa. La nostra pietà, ben fondata sui dogmi, sarà allo stesso tempo più solida e tenera. Perché è impossibile non amare il Cuore di Gesù più ardentemente, quanto più si penetra intimamente nella sua conoscenza. Tuttavia, non possiamo  comporre qui un trattato completo sui Sacramenti, che sono il mezzo con cui si realizza la grande opera di formazione di Gesù Cristo in noi. L’unico obiettivo che ci proponiamo è quello di far capire il legame che unisce questa parte importante del dogma cattolico con il centro di tutta la Religione. È bene far vedere, con sempre maggiore chiarezza, l’unità di tutte le cose in quel Cuore Divino. Per raggiungere questo obiettivo non abbiamo bisogno di ricorrere a ipotesi avventurose o a sottili speculazioni. Ci basterà considerare il Cuore di Gesù così com’è realmente e così come ci è stato proposto alla nostra venerazione dal Divin Maestro stesso, cioè come un Cuore vivo, che ci ama e che non cessa di riversare su di noi gli influssi vivificanti del suo amore. Non possiamo negare che lo Spirito Santo sia l’inizio immediato della nostra vita divina; ma le grazie dello Spirito Divino ci vengono comunicate attraverso la santa umanità del Salvatore e attraverso un libero atto del suo amore. Il suo Cuore, organo e sede di quell’amore, deve essere visto come la sorgente da cui scorre incessantemente il fiume di vita che irrora il paradiso della Chiesa. Questo è il punto di vista in cui dobbiamo porci se vogliamo comprendere la nostra vera relazione con il Cuore di Gesù, e non vogliamo esporci al compromesso arbitrario di una devozione così ampia come la Religione stessa e di cui la sua devozione è il centro. E come il centro in una sfera, lungi dall’assorbire e confondere i vari punti della circonferenza, dà a tutti il suo ordine e la sua posizione, così la devozione al Cuore di Gesù ben compresa, non solo non oscura le devozioni particolari, né sminuisce le varie parti della Religione, ma al contrario, fa emergere molto meglio la sua ammirevole varietà e la sua divina armonia.

Capitolo II.

IL CUORE DI GESÙ E IL BATTESIMO

Meraviglie che opera il Battesimo.

Il Battesimo è il primo legame che unisce i Cristiani al Cuore di Gesù; è il sigillo dell’alleanza che porta il figlio dell’uomo nella famiglia di Dio; è il primo anello di una meravigliosa catena che Gesù Cristo ha operato durante la sua vita mortale, curando lebbrosi, paralitici, sordi, muti, posseduti, resuscitando i morti, tutte cose che non sono nulla in confronto al miracolo che si opera nel bambino che riceve il Battesimo. Il miracolo del Battesimo è la realtà di ciò che è figurativo nelle altre cose. Perché essendo com’era, cioè in potere del diavolo, l’anima di quel bambino è liberata; egli era morto e ora riceve la vita; era coperto dalla lebbra e viene completamente purificato, al posto di una forza umana, gli vien data una forza sovrumana. Tutto questo viene fatto non nell’ordine delle cose visibili che passano, ma nell’ordine delle cose invisibili, che sono uniche. Tutto questo avviene nell’ordine divino, perché la vita che il figlio dell’uomo riceve è una vita divina; le sue forze sono forze divine; l’eredità che egli acquisisce per diritto infallibile, è un’eredità divina. LAutore di tutte queste meraviglie è il Cuore di Gesù che, nel momento in cui l’acqua benedetta tocca la fronte del bambino, comunica al suo cuore lo spirito e la vita che Egli stesso anima.

Battesimo, mistero della morte.

Il mistero del Santo Battesimo è insieme un mistero di morte e un mistero di vita. Da quando l’uomo, dopo essersi spogliato della vita di Dio attraverso il peccato, si è volontariamente condannato a morte, non può tornare nel suo stato precedente se non si sottomette alla giusta punizione che i suoi peccati meritano. La misericordia divina non può rigenerarlo se la giustizia divina non sia prima soddisfatta. Il bambino che ha appena aperto gli occhi alla luce ha un debito da pagare, il debito contratto dal nostro primo padre e che è stato esteso a tutti i suoi discendenti. Un debito che deve essere pagato prima che il nuovo figlio di Adamo possa riacquistare i suoi diritti sull’eredità celeste. Come può essere ripagato da un bambino che non riesce nemmeno a pensare o ad agire da solo? Lo pagherà così come l’ha contrattato. Ha peccato nella persona del suo primo padre, il vecchio Adamo. Ma ha un altro Padre, il nuovo Adamo, che ha preso su di Sé, espiandolo, il debito del suo peccato. Gesù Cristo è morto per quel bambino e il Battesimo lo renderà partecipe della sua morte in modo meraviglioso: infatti, egli si impadronirà della giustizia del nuovo Adamo per distruggere l’opera della morte e la grazia sovrabbonderà dove il peccato aveva abbondato. Il primo effetto del Battesimo è quello di innestarci nella morte di Gesù Cristo, secondo il dire di San Paolo; di seppellirci nella sua tomba e di battezzarci nella sua morte. Sono espressioni dell’Apostolo, il cui contenuto aveva reso la Chiesa più palpabile, nei primi secoli, per l’usanza che aveva di battezzare per immersione. Il catecumeno era immerso e sepolto completamente nelle acque, per poterne uscire trasformato, in qualche modo, in un uomo nuovo. Così è stato battezzato Gesù Cristo e in questa azione, la prima della sua vita pubblica, i Santi Padri vedono la figura dell’atto con cui ha dovuto chiuderla. Fu immerso nelle acque del Giordano, mentre doveva essere sepolto nella tomba per distruggere la carne del peccato, di cui portava l’immagine. Gesù Cristo, il Figlio dell’uomo, ha riunito tutta l’umanità colpevole, l’ha sommersa nelle acque e poi l’ha sepolta sulla terra per seppellirla e purificarne i crimini. Un santo Dottore dice che, quando uscì dal Giordano, sollevò ed estrasse con sé dalle acque il mondo sommerso da una nuova inondazione. (Secum quodam modo demersum educens et levans mundum – S. Gregorio Naz., Orat. 39: in s. lumina). Si vede in questo perché Dio Padre ha scelto quel momento per riconoscerlo solennemente come suo Figlio: fino ad allora, sembrava che lo avesse ignorato, perché lo vedeva vestito delle nostre iniquità. Ora lo riconosce e dice: “Ecco il mio diletto Figlio in cui ho riposto tutte le mie compiacenze”. Ogni volta che il Battesimo del Salvatore viene conferito ad un nuovo Cristiano, questo mistero si rinnova. Quello che è stato a lungo fatto nel Capo, si opera sul membro. La morte del Salvatore, raffigurata nell’immersione nel Giordano, è riprodotta dall’acqua versata sulla fronte del bambino. I suoi peccati vengono distrutti, le sue macchie lavate via, e Dio Padre, che prima vedeva in lui solo un figlio dell’ira, si compiace ora di riconoscere in lui l’immagine del suo Figlio diletto. In un altro tempo la giustizia divina, irritata dai crimini degli uomini, aveva mandato un diluvio sulla terra per purificarla. Era un battesimo d’ira che aveva distrutto sia i peccati che i peccatori. Il Battesimo di Gesù Cristo è un diluvio di misericordia, che distrugge il peccato molto più efficacemente del primo diluvio, ma che allo stesso tempo salva il peccatore. Per questo motivo, è molto meglio raffigurato nel passaggio del Mar Rosso, che porta il popolo eletto fuori dal paese della schiavitù e lo libera. Solo il faraone e il suo esercito, cioè i vizi che tenevano prigioniera l’anima, vengono inghiottiti dalle onde vendicative, mentre l’anima ne esce viva e libera.

Il Battesimo, mistero di vita

Questo mistero è un mistero di vita molto più che di morte, perché  la comunicazione di Gesù Cristo che distrugge il peccato nell’anima dei battezzati è la più vitale e vivificante di tutte le operazioni. Proprio come il Divin Salvatore ha dato vita al mondo, morendo per noi, così Egli dà la sua vita ad ogni uomo, rendendolo partecipe dei meriti della sua morte. Il Cuore di Gesù contiene due tesori ugualmente infiniti: quello delle soddisfazioni del Salvatore e quello dei suoi meriti. Comunicandoci i suoi meriti, ci dà la vita; distrugge la morte in noi, comunicandoci le sue soddisfazioni: è una doppia comunicazione che avviene nel Battesimo. È allora che il figlio dell’uomo diventa parte del Corpo mistico del Figlio di Dio e ne diventa membro vivente. Qualcosa di simile a ciò che accade nel nostro corpo, accade poi nel Corpo divino ogni volta che assimila nuovi elementi. Tutte le parti che al momento attuale compongono i nostri membri, erano sparse nell’aria o sulla terra, appartenevano alla natura inferiore, al mondo materiale. Ma una volta divenuti la nostra sostanza, sono stati messi in comunicazione con la nostra anima, che li ha presi, li ha uniti, ha comunicato loro le sue forze, dando loro un nuovo essere. Gli elementi, che prima erano puramente materiali, fanno ora parte di un essere spirituale e razionale; sono saliti alla categoria più alta della creazione. E mentre siamo sulla terra non smetteremo di assimilare sostanze inferiori e di elevarle in noi ad un ordine superiore alla loro natura. Questo mistero della crescita e della comunicazione della vita naturale è una figura ammirevole del mistero della propagazione della vita nell’ordine soprannaturale. Finché il Corpo mistico di Gesù Cristo, che è la Chiesa, sarà sulla terra, nuovi membri presi dall’umanità decaduta e degradata vi si uniranno continuamente. Ma, non appena queste anime sono messe in comunicazione con il Cuore di Gesù mediante il Battesimo, lo Spirito Santo, l’anima del suo Corpo mistico, li trasforma, li eleva al di sopra di se stessi, comunica loro la sua forza, la sua vita, il suo essere. In una parola, li innalza allo stato soprannaturale e divino. Un’altra comparazione, usata da San Paolo, ci dà una migliore comprensione degli effetti prodotti nell’anima del Cristiano dal Battesimo: è il paragone dell’innesto. Ammirate un olivo selvatico che non produce altro che frutti rachitici ed amari. Il contadino ha profuso la sua cura su di esso senza ottenere alcun risultato soddisfacente. Ma prima di decidere di sradicarlo, si risolve nell’innestarlo. Prende la parte di un olivo buono, fa un’incisione in uno dei rami e lo inserisce. Presto la pianta si innesta al ramo, gli comunica le sue qualità e allo stesso tempo si nutre della sua linfa. Da questa unione nascono frutti che, pur rimanendo dell’olivo selvatico, hanno un sapore ed una forza simile a quella dei frutti di un buon olivo. Questo bel simbolo ha una doppia applicazione: può essere applicato all’umanità malata e ad ogni Cristiano, all’Incarnazione e al Battesimo: esso si è realizzato per la prima volta nel modo più commovente nell’Incarnazione del Figlio di Dio, quando, attraverso la mediazione della Beata Vergine Maria, l’innesto divino, Gesù Cristo, è stato posto nell’albero selvatico e maledetto dell’umanità. È avvenuto di nuovo, ma in senso inverso, in ognuno di noi, il giorno del nostro Battesimo: l’innesto dell’olivo sterile nell’albero buono ha ricevuto da esso l’abbondanza della linfa ed il sapore dei suoi frutti. Prima che questo mistero di grazia si realizzasse in noi, non potevamo produrre altro che frutti di morte, né potevamo fare altro che opere colpevoli ed inutili per il cielo. La nostra linfa era corrotta, le nostre facoltà erano assopite, la nostra natura era condannata ad una irrimediabile sterilità. Eppure il contadino celeste, Dio, nostro Creatore e Padre, ci aveva destinato a portare frutti di vita immortale. Non poteva quindi rassegnarsi a vedere i suoi piani vanificati dalla malizia di satana. Ed allora che cosa ha fatto? Lo abbiamo già detto: ci ha innestati sull’olivo buono, la vite divina, Gesù Cristo, il suo Figlio prediletto. In questo modo, senza perdere nulla del nostro essere e delle nostre facoltà naturali, abbiamo acquisito un nuovo essere e una nuova fecondità, la vita stessa del Salvatore, siamo stati resi capaci di fare le opere che l’Uomo-Dio ha fatto sulla terra, di portare frutto in Lui, di appropriarci dei suoi meriti divini. Finché siamo disposti a rimanere in Lui, la Sua linfa divina ci viene comunicata in abbondanza sempre maggiore.

Gli effetti del Battesimo, secondo i Santi Padri.

Ciò che il Salvatore disse ai suoi Apostoli, ora ripete a coloro che si uniscono a Lui nel Battesimo: « Io sono la vite e voi i tralci; colui che dimora in me, e colui in cui risiedo, porta molto frutto; ma senza di me non potete fare nulla. Mio Padre mette la sua gloria nel farvi portare molto frutto. » Da essere maledetto, da figlio del nulla e destinato alla morte, senza eredità e senza speranza, spogliato di ogni merito e della possibilità di acquisirlo, si vede improvvisamente, per dono gratuito, infinitamente al di là della sua condizione naturale: unito al Figlio di Dio, reso partecipe della sua vita, fecondità e ricchezza. Questo è ciò che fa il Battesimo. Che meravigliosa trasformazione opera nel bambino! Che miracoli fa in un istante! I Santi Padri hanno esaltato gli effetti ammirevoli della giustificazione che il Cristiano riceve nel Battesimo: « Il Battesimo è – dice San Gregorio Nazianzeno – lo splendore delle anime, il cambiamento di vita in qualcosa di più perfetto, il sostegno della nostra debolezza, la dismissione della carne, l’acquisizione dello Spirito Santo, la condivisione del Verbo, la guarigione della nostra natura, il diluvio che ci lava dal peccato, la comunicazione della luce, la cacciata delle tenebre. Il Battesimo è un carro che Dio solo conduce, un pellegrinaggio con Gesù Cristo, il sostegno della fede, il perfezionamento dell’anima, la chiave del regno dei cieli, la trasformazione della vita, la cessazione della schiavitù, lo spezzarsi delle catene, la conversione dell’uomo ad uno stato migliore. » (2 S. Gregorio Naz., Orat. 40: in x. baptisma, MG: 36, 359). Cosa possiamo continuare ad aggiungere? Il Battesimo è il più bello e il più grande dei benefici di Dio. Come certe cose si chiamano le cose sante delle cose e i cantici dei cantici perché si diffondono maggiormente, abbracciano più oggetti ed hanno una dignità particolare, così il Battesimo si chiama l’illuminazione, perché per la sua santità supera tutte le altre illuminazioni. E come Gesù Cristo ha vari nomi ed attributi diversi, così questo dono si chiama in modi diversi, nel pervaderci dalla gioia che produce in noi, perché chi ama una cosa le dà una moltitudine di nomi, proprio per la moltitudine dei suoi effetti. « Chiamiamolo dono, grazia, battesimo, unzione, illuminazione, vestito di purezza, bagno di rigenerazione, sigillo, e in altri modi molto più eccellenti ancora. Chiamatelo dono perché è dato senza essere meritato; grazia, perché è dato ai peccatori; battesimo, perché attraverso di esso il peccato è sepolto nell’acqua; unzione, perché è sacra e regale, perché da essa si ha tutto ciò che sia unto; illuminazione, perché è splendore e chiarezza; vestito, perché copre la nostra ignominia; sigillo, perché ci preserva e rappresenta il nostro regno. I cieli sono in gratitudine per esso, gli Angeli lo celebrano, perché per il suo splendore siamo diventati suoi alleati. È l’immagine della beatitudine; vorremmo esaltarlo con inni e lodi, ma la sua dignità è così eccelsa che sarebbe impossibile per noi comprenderla. » San Giovanni Crisostomo avverte che alcuni Cristiani non vedono nel Battesimo altro che la remissione dei peccati, mentre esso contiene in sé magnifiche prerogative: ci rende liberi, giusti, santi, figli di Dio, eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo, membra di Gesù Cristo, templi e strumenti viventi dello Spirito Santo. (San Giovanni Crisostomo, Om. ad Neoph., apud Augustinum, ML: 44, 654-655.).

Il Battesimo è l’ultimo grado dell’ascensione della natura al suo Creatore.

Poiché Dio ha creato tutti quegli esseri cavandoli da Sé fin dall’eternità, tutti tendono a ritornare a Lui, come i fiumi che si dirigono verso l’oceano. Tutta la natura non è altro che una grande opera, uno sforzo con cui le creature si elevano di grado in grado fino a raggiungere una perfezione superiore e si avvicinano così alla perfezione sovrana. Nelle piante, la natura minerale viene portata alla vita vegetativa. Negli animali la natura minerale e vegetale viene elevata a quella sensibile. Nell’uomo i tre regni inferiori si elevano alla vita razionale, il grado più alto nella scala delle perfezioni naturali. Ma tra il massimo grado di perfezione creata e non creata, tra la vita razionale e quella divina, c’è un abisso infinito. Il Battesimo colma questo abisso in parte innalzando la vita razionale alla vita divina e portando l’uomo e tutte le sue nature inferiori nell’ordine divino. In questo modo l’idea di cui gli empi hanno fatto uno dei loro errori più mostruosi si realizza completamente. Dicono che Dio si è fatto, intendendo con questo che Dio non abbia una vera esistenza, e che non c’è altro Dio se non il mondo, che si perfeziona costantemente, avvicinandosi sempre più alla perfezione assoluta. Questo errore, come tanti altri, non è altro che la verità falsificata: cioè che Dio ha voluto, per un atto del suo libero arbitrio, rendere le creature razionali partecipi della sua natura, della sua vita, della sua felicità. Questa comunicazione della vita di Dio si espande costantemente attraverso il Battesimo: il Corpo mistico di Gesù cresce ogni volta che un nuovo membro vi si unisce. In questo modo aumenta il numero degli dèi creati. Dio stesso, secondo l’espressione di San Paolo, cresce, cioè: rimanendo in Sé perfettamente immutato, riceve da noi, attraverso la virtù del Cuore di Gesù, un nuovo prolungamento di vita (Ex quo totum corpus crescit in augmentum Dei. Col. II, 19). Il potere veramente meraviglioso che il Battesimo conferisce al Cristiano consiste nel fatto che lo fa crescere in Dio e fa crescere Dio in lui.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/05/29/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-10/

LO SCUDO DELLA FEDE (113)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXIII.

Se l’astrologia vaglia punto ad invalidare la provvidenza.

I. E comune a tutti i ribelli il riconoscere ogni padrone più volentieri, che il proprio: onde a gittar questo dal soglio, non temerebbero di sostituirvi un Nerone. Mirate dunque se gli ateisti sono ribelli solenni. Purché Dio non sia quegli che li governi con la sua provvidenza da uomini ragionevoli, giungono a sognar sino un fato là su le stelle, che li governi da bruti.

II. E vero che non tutti procedono ad egual passo: mentre alcuni, più cauti nel favellare, se non più religiosi nel credere, protestano di non assegnare ai pianeti la parte di padroni nel gran teatro delle umane vicende, ma di messaggi. Contuttociò questi ancora, benché men empi, non però meno vani, conviene avvolgere in un’istessa rovina, precipitandoli per mano della ragione giù da quel cielo che essi con le lor predizioni infamano tanto, quanto i poeti lo infamarono con le loro insanie.

III. Conosco bene a qual cimento io mi esponga, pigliandola a viso aperto con un tal genere di persone ingannevoli, e pur amata: Genus hominum sperantibus fallax, quod semper vetabitur, semper et retinebitur (Tac. hist.1. 1). E l’ingegno umano sì avido di antivedereil futuro, che non si vergognò ne’ secolipiù vetusti di mendicarne gli annunzi da ridicolissime osservazioni: tanto che il garrirdegli uccelli, il tripudiar de’ polli, il trapassarde’ porci, ed altri sì vani auguri, valevan piùin una Roma ad accelerare le determinazioni o a sospenderle, di quello che valessero i voti de’ senatori. Ed oggi non ha tra noi chi tien per infausto l’inciampar su l’uscio di casa, l’abbattersi in un tal cane, l’ascoltare una tal civetta, o l’essere in un tal ruolo di convitati? Non è meraviglia però se riesca agli astrologi di ottenere dal commercio con gli astri, da lor vantato, quella credulità che ottenevano già gli aruspici dal budellame dei montoni, o dei manzi, da loro aperti a tal fine; e quella che più vecchierelle ottengono anche oggi per via di superstizioni più fievoli e più fallite, che vanno in volta. Tanto più che gli astrologi, a vantaggiare il loro partito, si travestono da politici, e promettendo sì al pubblico, sì al privato, con la previsione de mali un prò inesplicabile, qual è quello di ripararli fan sì che il dir loro contra sembri un volere opporsi all’umana felicità: né di ciò paghi, abbigliano i loro pronostici di voci sì pregnanti, sì pellegrine, che, benché non intese neppur da essi quando le proferiscono, fanno tuttavia rimanere la gente attonita, quasi perle tratte dagli stipi più ignoti della sapienza.

Oroscopo, mezzo cielo, aspetti, direzioni, dignità, esaltazioni, transiti, triplicità, erezioni, capo di dragone, coda di dragone, combustioni, stelle che veggano, ma non odano, stille che odano, ma non veggano, magne congiunzioni, magne rivoluzioni, case celesti, raggi felici, retrogradazioni funeste, gradi lucidi e tenebrosi, ed altrisì fatti, misteri tutti al dir loro, e pur null’altroin sé che palloni, tanto più vuoti diverità, quanto più gonfi di suono. Difficilissimoè pertanto pigliarsela in poche carte contracostoro, che coi soli vocaboli inauditi fannocorrersi dietro la gente matta.

IV. Mi basta nondimeno, o lettore, che voi siate contento di stare in bilico, senza declinar con l’affetto più ad una parte che all’altra; ed io confido nel peso delle ragioni, che in poco d’ora concorrerete voi pure da voi medesimo senza spinta, a dispregiare qual bugiarda una ciurmeria che va fra molti col passaporto di scienza; anzi ad abbominarla qual traditrice, mentre ella invece di giovar mai alla repubblica, come falsamente promette, perturba la repubblica insieme e la religione, porgendo nel latte di una verità immaginaria mille veleni di errori, tanto più nocevoli al mondo, quanto meno sospetti, e più dilettosi.

V. Senonchè prima di passare innanzi, conviene che io mi spieghi bene. E però, siccome io non voglio per mio nimico chi nimico non è della religione, così sappiate come io qui non intendo di uscire in campo contra l’astrologia naturale, che è quella la quale dagli aspetti de’ cieli predice i nuvoli, i nembi, le siccità, e le ricolte, or povere, or piene, agli agricoltori. Questa, a dir giusto, è più congettura, che arte. Perchè qualor vi fossero uomini daddovero intendenti di tali cose, a che prezzo non si torrebbono dai monarchi? Se Filippo II re delle Spagne, quando stava in procinto di porre in mare quella formidabile armata, che egli inviò contra l’Inghilterra, avesse in corte avuto un astrologo, il quale gli presagisse quella furiosa burrasca che gliela mandò tanto male; che non gli avrebbe egli dato di ricompensa? E così quanto pagherebbero i principi d’ogni grado, aver chi loro dinunziasse con sicurezza le carestie, le contagioni, i tremuoti, ed altri infortuni, che preveduti, potrebbero distornarsi opportunamente, o almeno debilitarsi? Eppur vediamo tutto di, che non gli hanno. Adunque è segno che tale scienza non v’è, e se pur v’ è, v’è da scena, non v’è da cattedra. Contuttociò, perché ella non va punto a ferire la provvidenza, non è dovere impiegare gli strali contra una fiera sì dimestica, quando frattanto scappano via le selvagge. Quella che non può soffrirsi è l’audacia de’ genetliaci, i quali non si curando di dar la buona ventura alle campagne, agli alberi, agli animali (da cui non possono cavar nulla di lucro), la danno agli uomini, con predir loro la vita, ora lunga, ora breve, e gli avvenimenti, ora prosperi, ed ora avversi: volendo che, come già gli egiziani aspettavano dal Nilo, e non dal cielo, la loro fertilità; così noi dal cielo, e non dal Fattore del cielo attendiamo la nostra sorte. Intendo io dunque di far vedere che tutta l’arte di questa professione superba è, se ben si rimira, sognar con arte. Ed eccovi su ciò la mia schietta proposizione.

VI. L’astrologia giudiziale è un ritrovamento fondato in aria, senza ragione alcuna, e senza esperienza bastevole a sostenerla. Cominciamo la ragione (L’astrologia giudiziale, od astromanzia, ebbe la sua culla nell’antico Oriente, e viene reputata una corruzione di antichissime dottrine astronomiche, detta per ciò da Keplero una figlia pazza di madre saggia; e la sua pazzia è così universalmente riconosciuta, che non v’ha oggidì uomo di senno, nonché pensatore serio, che la tenga in qualche conto)

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (8)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (8)

[chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

SECONDA PARTE

MEZZI GENERALI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Capitolo VIII

COME LO SPIRITO SANTO OPERA LA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Come si realizzerà questo miracolo?

Come avverrà mai questo miracolo? Tale è il grido che parte dal cuore di Maria alla notizia del grande mistero che deve essere consumato nel suo grembo: la divinizzazione dell’umanità. Come posso essere madre, e Madre del mio Dio, io figlia di Adamo, costretta per voto irrevocabile alla sterilità perpetua? E se quello che nascerà da me è il Figlio di Davide, come può essere allo stesso tempo il Figlio dell’Altissimo? Se davvero possiede la natura umana come può possedere la natura divina? – Anche noi vediamo simili impossibilità quando ci viene annunciato il piano divino, che ci fa partecipare all’Incarnazione del Verbo di Dio. Perché, se proprio non c’è una perfetta somiglianza tra questi due misteri, c’è almeno un’intima analogia, ed entrambi sono superiori alle forze e alle esigenze della nostra natura. Possiamo anche chiedere come l’umile Vergine di Nazareth: Come può accadere questo? Alla nostra domanda, il messaggero dell’amore divino risponderà in un senso diverso, ma con la stessa verità, come l’Arcangelo rispose a Maria: « Lo Spirito Santo scenderà su di voi e la potenza dell’Altissimo vi coprirà con la sua ombra. E così il Santo che nascerà da voi sarà chiamato Figlio di Dio ».

Lo Spirito Santo verrà su di noi.

Lo stesso Spirito che è sceso nel grembo di Maria per prepararla a diventare Madre di Dio, è stato mandato nei nostri cuori per farci rinascere, per farci figli adottivi del Padre Celeste e fratelli e sorelle di Gesù Cristo: « Poiché Dio ha voluto farvi suoi figli – esclama San Paolo – ha mandato nei vostri cuori lo Spirito del Figlio suo, che grida Abba Padre » (Gal. IV, 6). Queste due missioni, diverse nei risultati, sono ugualmente reali, e l’una è il complemento dell’altra. Lo Spirito di Dio è in noi, se abbiamo la felicità di essere in uno stato di grazia, come lo era Maria: come nel grembo di Maria Esso ha formato l’Uomo-Dio, così, unendoci a Gesù Cristo, ci rende uomini divini. A noi resta da capire, per quanto possiamo comprendere, in cosa consista la nostra divinizzazione. – Non è una divinizzazione per pura somiglianza, frutto della perfezione che un uomo può acquisire sviluppando le sue facoltà. Un abile pittore è in grado di riprodurre i lineamenti e l’espressione di un uomo vivo in modo tale che venga riconosciuto e si dica: è lui! Tuttavia, tra l’immagine della vita e la vita stessa c’è un abisso. Così l’uomo può rendere questa immagine sempre più simile, perfezionando la sua intelligenza con la conoscenza della verità, e la sua volontà con l’amore del bene. Alcuni uomini sono saliti a tal punto che sono stati chiamati divini: così si dice ad esempio “il divino Platone”. Nello stesso senso, si dice di un capolavoro d’arte, che è divinamente bello. Essendo Dio il modello sovrano di ogni perfezione, più divine sono le opere della natura e dell’arte, più si avvicinano alla perfezione. – È questa la natura della divinizzazione del Cristiano? Per niente! Supponiamo che l’uomo faccia, per secoli e per tutta l’eternità, un continuo progresso nella perfezione propria della sua natura; che la sua intelligenza penetri sempre più nella conoscenza della verità, e che la sua volontà si elevi altrettanto rapidamente sulla scala della virtù. Quando quest’uomo avesse raggiunto la vetta, sarebbe stato infinitamente al di sotto della perfezione conferita ad un bambino cristiano dal Battesimo. Perché la divinizzazione di quest’uomo sarebbe puramente metaforica, mentre quella del bambino cristiano è reale. – Quello che diciamo della natura umana lo possiamo dire anche della natura angelica. Secondo San Tommaso, tra gli spiriti puri ci sono tante specie diverse quante sono gli individui. Non c’è dubbio che le gerarchie celesti siano diverse l’una dall’altra, e che crescano nella perfezione dagli Angeli ai Serafini. – Ebbene, se il più eccellente di questi spiriti puri fosse stato lasciato nella sua condizione naturale, anche se la sua perfezione fosse stata incomparabilmente superiore alla perfezione naturale dell’uomo, sarebbe stato infinitamente inferiore al bambino battezzato. Quest’ultimo infatti è stato veramente elevato dal Battesimo all’ordine divino, che è infinitamente superiore a quello angelico.

La nostra divinizzazione non risultada un semplice contatto della divinità con l’anima.

La nostra divinizzazione non deriva dal semplice contatto della divinità con l’anima. Dobbiamo immaginare la santità dell’anima come il risultato di una sorta di contatto della santità divina? Supponiamo un bicchiere di ferro sporco e ammuffito. Un abile argentiere lo prende, e senza cambiarne la natura, anche senza toglierne la muffa, lo circonda con una placca dorata così ben aderente che assume tutte le forme del vaso e ne nasconde la bruttezza. Siamo santificati e divinizzati in questo modo? – Lutero la pensava così, ma il suo errore è stato anatemizzato dal Concilio di Trento. Secondo l’eretico, il peccatore può essere giustificato senza essere liberato dalla sua sporcizia e senza liberarsi del suo attaccamento al peccato: basterebbe che la giustizia di Gesù Cristo sia applicata per fede: da quel momento in poi l’uomo sarebbe giusto a causa di questa giustizia. Ed i suoi peccati quindi, senza essere distrutti, sono coperti. Dio non vede in lui le macchie dell’uomo colpevole, ma solo la santità del suo Figlio Divino. Così, per Lutero, Gesù Cristo, invece di distruggere i nostri peccati, non avrebbe fatto altro che nasconderli; invece di divinizzarci realmente, avrebbe coperto le nostre miserie con il mantello della sua divinità. Il Concilio di Trento ha definito che l’uomo peccatore riceve per la sua giustificazione una giustizia propria che, in luogo degli affetti colpevoli da cui lo libera, conferisce al suo cuore la carità divina e tutte le altre virtù soprannaturali. È di fede che l’uomo non è giustificato e divinizzato per il solo fatto di avere nel cuore la grazia e la carità increata, che è lo Spirito Santo. Affinché la nostra santificazione sia reale, deve essere posseduta da noi la santità; che le virtù naturali, che possiamo acquisire con il buon uso della nostra libertà, ci appartengono così come ci appartengono. La divinizzazione del Cristiano non deriva quindi dal contatto della divinità con l’anima, né dalla semplice somiglianza tra essa e la divinità. Le due spiegazioni peccano per difetto: la prima non attribuisce all’anima nulla di veramente divino; la seconda, avvicinando la divinità a noi, la lascia fuori di noi. Né l’uno né l’altro modo ci divinizza veramente.

La nostra divinizzazione non è unatransustanziazione, né l’unione divinadegli eutichiani. né l’unione ipostatica.

Per avere una certa idea di questa divinizzazione, dobbiamo concepirla come una sorta di transustanziazione? Siamo cambiati in Dio, o per grazia sulla terra, o per gloria in cielo, come il pane e il vino sono cambiati nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo con le parole della consacrazione? – Questo è stato apparentemente insegnato da alcuni falsi mistici del XIII secolo, secondo i quali l’anima che ha raggiunto la perfezione, si spoglia del proprio essere e si immerge nell’oceano dell’Essere divino. Interpretare in questo senso certe metafore dei Santi Padri, è cambiare la più sublime di tutte le verità in un’assurdità. Privarci del nostro essere non sarebbe divinizzarci, ma annientarci. D’altra parte, come può mai la creatura unirsi a Dio in modo tale che il suo essere limitato sia confuso con l’Essere infinito di Dio? Gettiamo allora questa assurdità fuori dalla nostra mente. La nostra divinizzazione non può consistere nella confusione del nostro essere con l’Essere di Dio. Né può consistere in quell’altro tipo di unione divina che alcuni discepoli di Eutiche avevano attribuito all’umanità del Salvatore e che Michele Server, bruciato vivo da Calvino, concedeva a tutte le anime giuste. Secondo questi eretici, la divinità anima e vivifica l’umanità, così come l’anima anima e vivifica il corpo. Così come l’anima e il corpo, sebbene diversi, formano in noi un’unica natura, così la divinità diventerebbe un’unica natura con l’umanità. Questo secondo errore è stato condannato dalla Chiesa, quando ha definito contro gli eutichiani che, anche nell’Uomo-Dio, non ci può essere confusione o mescolanza tra la natura divina e la natura umana. – C’è un terzo tipo di unione che non è impossibile, poiché è stata realizzata in Gesù Cristo, ma a cui gli altri uomini non possono aspirare, poiché è il privilegio esclusivo del Figlio di Dio: è quella per cui la natura umana, pur rimanendo distinta dalla divina, forma con essa una sola Persona. Basti dire che ciò che costituisce la grandezza di Gesù Cristo e che lo eleva, considerato come uomo, al di sopra delle nature create è che, in virtù di quell’unione, Gesù Cristo è vero Dio senza cessare di essere vero uomo. Il suo nome proprio, come abbiamo detto, è quello di Uomo-Dio, mentre il Cristiano è un uomo divinizzato.

Nel mezzo c’è la verità.

Le ultime tre spiegazioni peccano per eccesso, come le prime hanno peccato per difetto. La verità sta tra questi due estremi. Ma chi ce lo mostrerà? Due paragoni, familiari ai santi dottori e riprodotti dai due principali maestri della scuola cattolica: San Tommaso e San Bonaventura, spiegheranno questo dolce mistero. Il primo è preso dalla luce materiale. Due condizioni sono necessarie perché la terra sia illuminata: la prima è che il sole sia all’orizzonte; la seconda che invii i suoi raggi nell’atmosfera. Queste due cose sono diverse. La prova è che in un’eclissi, il sole, è sopra l’orizzonte, eppure siamo circondati dall’oscurità. L’illuminazione della terra richiede come prima condizione la presenza del sole; ma richiede che il sole irradi luce su tutta la natura. Così, secondo san Bonaventura, la giustificazione e la divinizzazione del Cristiano sono il risultato di due tipi di grazia: la grazia increata, lo Spirito Santo, che è come il sole, e la grazia creata che è l’irradiazione di quel sole divino sull’anima giusta. – San Tommaso usa un’altra immagine: quella del ferro fuso nel fuoco: « quel ferro non ha perso la sua natura, esso è ancora ferro, e senza dubbio viene privato delle qualità del ferro per essere rivestito da quelle del fuoco. Invece di essere scuro, freddo, resistente, è diventato duttile, splendente e bruciante come il fuoco. Non si è mutato in fuoco, ma è stata ignificato, bruciato. Così, il Cristiano al quale Dio si dona con la grazia santificante, conserva la sua natura umana e la sua personalità, ma acquisisce la forza e le qualità divine. Non diventa Dio, ma un uomo divino. Questa divinizzazione non è l’effetto di una somiglianza. È il risultato dell’intima unione dell’anima con la divinità, e dell’immediata influenza della divinità sull’anima: « Poiché, come il fuoco ha il potere di ignificare, così nessuna influenza può divinizzare l’anima se non quella della divinità, dando all’anima una partecipazione della sua somiglianza e natura » (I. II. Q. 112, a I). Questi paragoni non dissipano tutte le nebbie del mistero della nostra divinizzazione. Come tutti gli altri misteri, esso si vedrà chiaramente solo in cielo. Ma possiamo farci un’idea della divinità infinita che la grazia ci conferisce. Possiamo determinare il luogo che la nostra unione con Gesù Cristo ci segnala ad una distanza infinita dall’Uomo-Dio, ma ad una distanza altrettanto infinita da tutto ciò che è puramente creato. – Abbiamo trovato il giusto mezzo che cercavamo tra la divinizzazione puramente morale e figurativa, e quello che ci voleva spogli del nostro essere per rivestirci dell’essere di Dio; tra la semplice somiglianza e l’incarnazione. Così l’anima giusta possiede in sé una santità distinta dallo Spirito Santo; ma essa è inseparabile dalla presenza dello Spirito Santo in questa anima ed è quindi infinitamente superiore alla santità più alta che potrebbe essere raggiunta da un’anima in cui lo Spirito Santo non abitasse. Quest’ultima anima non potrebbe che essere divinizzata moralmente dalla somiglianza delle sue disposizioni con quelle di Dio. Il Cristiano, al contrario, è fisicamente e, in un certo senso, sostanzialmente divinizzato; poiché, senza diventare una stessa sostanza e una stessa persona con Dio, egli possiede in sé la sostanza di Dio e riceve la comunicazione della sua vita.

Dottrina di altri santi Dottori.

Abbiamo già visto i Padri cercare nella vera divinizzazione del Cristiano un argomento inconfutabile per dimostrare la divinità dello Spirito Santo, l’Autore di essa. Per corroborarla, essi studiano la natura di questa azione dello Spirito Santo nelle anime e sollevano il velo del grande mistero. Si servono per questo di diversi confronti per chiarire i due punti che abbiamo appena stabilito: l’unione, non solo morale ma anche fisica, dello Spirito Santo con l’anima del Cristiano e la somiglianza divina che ne risulta per l’anima di questa unione. – Ascoltiamo la comparazione proposta da San Basilio e ripresa da San Tommaso: « Come il ferro posto al centro di un braciere non cessa di essere ferro, ma quando viene bruciato e ignificato dalla forza della sua unione con il fuoco, assume il suo colore, la sua virtù e la sua natura: così gli spiriti santificati acquisiscono, mediante la loro unione con lo Spirito Santo per essenza, una santità che penetra nella loro sostanza e diventa la loro seconda natura. La differenza tra loro e lo Spirito Santo è che quest’ultimo è Santo per natura, mentre gli altri sono santi solo attraverso la comunicazione. (S. Basil. L. III, adv. Eunom. Max. MG: 29, 654). E qual è la santità che nello Spirito Santo è per natura e nella nostra anima lo è per comunicazione? È la vita divina – risponde San Basilio – che lo Spirito Santo possiede come sua propria, e che i Cristiani ricevono da Lui: « Perché la vita che lo Spirito Santo riversa nelle anime, distinte da Esso nella sostanza, non si separa da Lui; ma nella stesso modo  che – citando il fuoco che riscalda l’acqua o un altro corpo – lo stesso calore è parte del fuoco e parte dell’acqua, così lo Spirito Santo possiede in sé la vita divina, e chi la riceve giunge, proprio per questo, a questa vita divina e celestiale come conviene agli dei » (Ibid. p. 710). – Sant’Atanasio usa altri due paragoni: quello del balsamo che consacra re e sacerdoti, e quello del sigillo che incide la sua immagine nella cera: « Lo Spirito Santo – egli dice – è il balsamo con cui il Verbo consacra le anime, il sigillo con cui le segna: coloro che hanno ricevuto l’impressione di quel sigillo partecipano alla natura divina, come afferma San Pietro. Siamo fatti, per mezzo dello Spirito, associati di Dio, come ci insegna San Giovanni, da parte sua, quando scrive: “Sappiamo che abitiamo in Dio e Dio in noi, a causa del sigillo che ci ha dato dal suo Spirito.” Ma se la partecipazione dello Spirito Santo ci rende partecipi della natura divina, sarebbe una sciocchezza affermare che lo Spirito Santo non possieda quella natura e che è del numero degli esseri creati. Se ci rende divinità è evidente che la sua natura debba essere la natura di Dio » (S. Atanasio, MG: 26, 530). – San Cirillo di Alessandria ragiona allo stesso modo, e spiega il suo pensiero commentando le parole di San Paolo: “Siete segnati dal sigillo dello Spirito” (Efes. 1, 14). « Se il sigillo dello Spirito Santo ristabilisce la forma divina in noi, come può essere creato se attraverso di Esso, l’immagine dell’essenza increata si imprime nelle nostre anime? Lo Spirito Santo, infatti, non deve essere rappresentato come un pittore che traccia in noi l’immagine dell’essenza divina come qualcosa di diverso da Lui; ma, essendo Dio stesso e procedendo da Dio, Egli si imprime invisibilmente nel cuore di chi lo riceve, come un sigillo si imprime sulla cera; e da questa materia l’immagine di Dio si riforma nella natura umana in quanto entra per partecipare di Dio ». – Possiamo già vedere con quale cura questi santi Dottori distinguano la vera divinizzazione, prodotta nell’anima del Cristiano dalla sua unione fisica con lo Spirito Santo, dalla divinizzazione puramente figurativa che risulta da una semplice conformità di sentimenti. « Non basta – dice san Cirillo – la semplice conformità della nostra volontà con quella di Dio per formare in noi quell’immagine e somiglianza fisica; sono richieste la similitudine di natura e la perfetta conformità che viene dall’essenza stessa di Dio, presente in noi … Per essere veramente conformi a Dio, è necessario che la forma suprema, che è il Verbo di Dio, sia impressa dal suo Spirito sulle nostre anime » (S. Cirillo di Ales.: Dial. V. de Trinitate, MG: 75, 950). Questi sono i tesori che il Figlio di Dio è venuto a portarci e che sono stati la causa delle umiliazioni della sua incarnazione e della sua morte. Ora capiamo che se Dio si fosse fatto uomo e avesse versato il suo sangue per dare agli uomini una perfezione umana, sarebbe stato come abdicare alla sua sapienza, alla sua dignità e alla sua divinità; ma che un Dio si faccia uomo per divinizzare gli uomini, è un piano degno della sua sapienza oltre che del suo amore.

Capitolo IX

LA PARTE SPECIALE DELLO SPIRITO SANTO NELL’OPERA DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Cosa significa che « la nostra santificazione è l’opera dello Spirito Santo »?

Negli insegnamenti della Scrittura e dei Dottori sulla divinizzazione del Cristiano, c’è una formula che si ripete ad ogni passo e che potrebbe essere fraintesa, se non ne determiniamo con precisione il significato: quest’opera infatti è sempre attribuita allo Spirito Santo come sua opera speciale. La tradizione divide, tra le tre Persone della Trinità, le operazioni per mezzo delle quali siamo tratti dal nulla e condotti alla felicità eterna: la Creazione è attribuita al Padre, la Redenzione al Figlio e la Santificazione allo Spirito Santo. Questo significa che la nostra santificazione è veramente opera dello Spirito Santo, o che quest’opera gli si addice? Il lettore comprenderà presto il significato di queste due parole confrontando la parte attribuita allo Spirito Santo con quella delle altre Persone divine. Attribuiamo la Creazione a Dio Padre e la Redenzione a Dio Figlio. La differenza è così grande che chi sostiene che solo il Padre ci abbia creato o che nega che solo il Figlio ci abbia redenti merita di essere condannato come eretico. La fede cristiana ci insegna che l’onnipotenza, come gli altri attributi della divinità, è comune a tutte e tre le Persone. Tutti sono diventati parti uguali della creazione, ma poiché il Padre è in relazione alle altre due Persone della Trinità, il principio della Potenza e dell’Essere, gli attribuiamo soprattutto l’operazione per cui tutta la divinità è per gli esseri creati il principio di esistenza. Così attribuiamo a Dio Padre la Creazione, anche se non è esclusivamente sua. Nella Redenzione, al contrario, la fede ci dice che, se le tre Persone hanno lavorato insieme in quest’opera, creando la natura umana del Salvatore, una sola Persona, quella del Figlio, si è unita a quella natura, comunicandole la sua sussistenza, natura nella quale è nato, ha sofferto ed è morto, e con la sua morte ci ha salvati. Alcuni novatori dei primi secoli avevano negato questa verità. Dall’errata comprensione dell’unità della natura divina deducevano che Dio Padre avesse sofferto come Dio Figlio. Sono stati anatematizzati con il nome di patripasiani. – Cosa dobbiamo pensare allora dell’opera di santificazione? In che senso essa viene attribuita allo Spirito Santo? Deve questa essere paragonata all’opera della Creazione, o deve essere considerata come opera della terza Persona, allo stesso titolo per cui il riscatto è opera della seconda Persona? Non troveremo qui le stesse prove, né nella materia in sé, né nei monumenti della tradizione. Ci sono però cose che tutti ammettono e che non possiamo rifiutare senza separarci dalla fede.

Dottrina da tutti ammessa

Il cardinale Franzelin, nel suo Trattato De Trinitate, riassume in questo modo i punti che non danno adito al minimo dubbio: « la dottrina della Scrittura e dei Padri riguardo all’unione dello Spirito Santo con i giusti, dimostra con evidenza che, per quanto riguarda questa unione e la inabitazione santificante, c’è qualcosa di proprio e di personale dello Spirito Santo. Ma, d’altra parte, questa proprietà dello Spirito Divino non deve in alcun modo compromettere l’unità delle tre Persone nelle loro operazioni e nei loro rapporti con le creature. Alcune spiegazioni ci faranno sentire il senso e la verità di questa doppia affermazione. – Apriamo il Nuovo Testamento. Ovunque è attribuita allo Spirito Santo la stessa funzione: santificare le anime. È vero non di meno che il Padre e il Figlio non sono estranei a quest’opera. Il Sacramento che ci rigenera ci viene conferito a nome delle tre Persone. Tutte e tre vanno all’anima giusta e vi stabiliscono la loro dimora. Non si può negare, tuttavia, che una parte speciale sia costantemente riservata allo Spirito Santo. Come il Figlio di Dio fu inviato dal Padre per salvare il mondo, una volta terminata la sua missione, Egli promette di inviare il suo Spirito per completarla con la santificazione delle anime. Il Paraclito consolerà i discepoli addolorati per la partenza del loro amato Maestro. Egli li istruirà su tutto, ricorderà e farà loro capire ciò che Gesù Cristo ha insegnato loro. Non una volta, ma ben quattro volte, il Salvatore annuncia ai suoi discepoli questa invisibile missione dello Spirito Santo, destinata a succedergli nella sua missione visibile ed a completarla con successo. Infatti deve essere così reale e produrre così tanti frutti che, per goderne appieno, è opportuno che gli Apostoli siano privati delle gioie che danno i rapporti visibili con il loro Maestro. Non è forse questa l’espressione di un ruolo speciale affidato allo Spirito Santo nell’opera di santificazione delle anime? Dieci giorni dopo l’Ascensione del Signore, le promesse fatte agli Apostoli furono visibilmente mantenute. Lo Spirito Santo scende dal cielo sotto forma di lingue di fuoco, e non appena la Sua fiamma tocca la fronte degli Apostoli, questi si trasformano in uomini nuovi. La loro intelligenza è illuminata da luci sconosciute; il loro cuore brucia di ardore che non sarà mai spento. Una volta santificati, essi esercitano immediatamente il potere di santificare gli uomini. È impossibile non vedere in questo un intervento speciale dello Spirito Santo. Allo stesso modo San Paolo lo attribuirà costantemente allo Spirito di Dio. La sua teologia non è altro che la magnifica esposizione dell’unione dello Spirito Divino con l’anima del Cristiano. Ce lo mostra come abitante in essa come nel suo tempio, facendole vivere di una vita divina, le dà la forza di lottare contro le inclinazioni della carne, le comunica una sapienza infinitamente superiore alla sapienza di questo mondo, le ispira i sentimenti di Gesù Cristo, la brucia nelle fiamme della carità divina, prega in lei e le insegna a invocare Dio con amore filiale, deposita in lei il seme della vita eterna ed è per essa il pegno della felicità divina.

La Scrittura e la dottrina comune sono conformi alla tradizione.

Tutto ciò è ammesso dalla Tradizione e dalla Sacra Scrittura. Il nome stesso dello Spirito Santo, che la Chiesa ha dato alla terza Persona della Trinità, è la prova della sua azione santificante. Infatti, quel nome, perché è caratteristico e distingue esattamente la terza Persona dal Padre e dal Figlio, deve riferirsi ad una proprietà che è nello Spirito Santo in modo diverso rispetto alle altre due Persone. Ora, lo Spirito Santo non possiede in sé la santità in modo diverso dal Padre e dal Figlio. Questo nome può essergli particolarmente conveniente solo nella misura in cui ha una parte speciale nell’opera della nostra santificazione; poiché, come dice il Catechismo romano, « … Egli riversa in noi la vita spirituale e ci mette in condizione, attraverso le sue sante ispirazioni, di fare opere degne della vita eterna ». Egli è, secondo l’Apostolo, « lo Spirito di santificazione », e i Dottori della Chiesa gli attribuiscono « la virtù santificante ». Ci dicono, inoltre, che la sua caratteristica distintiva è quella di essere “il dono” per eccellenza. Come il Figlio procede dal Padre per mezzo della nascita – dice sant’Agostino – lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio per mezzo del dono. Non che sia essenzialmente dato alle creature, perché l’opera di santificazione delle anime è libera come quella della Redenzione e, di conseguenza, l’esistenza dello Spirito Santo è indipendente da essa. Ma poiché l’amore del Padre e del Figlio è il primo dono che fanno a se stessi coloro che si amano, è nella natura dello Spirito Santo essere dato a tutti coloro che sono oggetto dell’Amore divino. I Santi Dottori deducono la realtà della missione dello Spirito Santo dal fatto che Egli abiti in noi e che per mezzo di Lui il Padre e il Figlio dimorino ugualmente, come inseparabili da Lui. Essi ci dicono che, incidendo in noi la sua immagine, ci rende simili al Figlio che ce lo manda, e attraverso il Figlio al Padre; che unendoci a Sé, ci unisce al Padre e al Figlio. Da tutti gli insegnamenti dei Padri possiamo dedurre questa speciale partecipazione dello Spirito Santo all’opera della nostra divinizzazione. Il cardinale Franzelin ha quindi ragione nel presentare questo punto come indubbio. Non meno vera è la seconda affermazione dell’eminente teologo: « La parte propria e personale dello Spirito Santo nell’opera della nostra santificazione non può nuocere all’unità delle tre Persone in tutte le operazioni e relazioni esterne. – A volte ci lasciamo ingannare dal significato della parola “persona” applicata alle creature. Questo significato viene trasferito alla divinità e le tre Persone divine sono concepite come tre nature distinte, anche se simili. Rappresentiamo così il Padre come mandante del Figlio e il Figlio come obbediente al Padre. Quando i predicatori parlano del concilio della Divina Trinità, nel quale è stata decretata l’Incarnazione del Verbo, queste espressioni figurative sono prese alla lettera, e in quell’augusto concilio ogni Persona ha un ruolo diverso. Questo modo di concepire la Trinità non è altro che l’errore del “triteismo”; perché, se il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo potessero dialogare tra loro, domandare e rispondersi, comandarsi e obbedirsi a vicenda, avrebbero tre intelligenze, tre volontà, tre nature distinte; sarebbero davvero tre dei. La loro unità non sarebbe altro che specifica, come quella di tre uomini che potrebbero essere simili in tutto e per tutto. Affinché le tre Persone non siano che un solo Dio, è necessario che siano non solo simili, ma anche identiche nelle loro proprietà naturali; che abbiano una sola e medesima intelligenza, una sola e medesima volontà e una sola e medesima operazione. Come possono quindi essere Persone diverse e in cosa consiste questa distinzione? Solo nel fatto che questa natura viene comunicata da una delle tre Persone e ricevuta dalle altre. Il Padre produce il Figlio, il Padre e il Figlio producono lo Spirito Santo. Produrre ed esser prodotto, sono due relazioni non solo diverse, ma anche opposte: in questa relativa opposizione, e solo in questo, consiste la distinzione delle Persone. Non cerchiamo di capire questo mistero, ammettiamolo con fede, come una verità innegabile. La teologia lo esprime con questo assioma: « in Dio tutte le cose sono una cosa sola, tranne i rapporti opposti delle Persone. »

Le opere delle tre Persone sono comuni a tutte e tre.

Da questa verità, ne scaturisce un’altra non meno vera. Poiché le relazioni delle Persone divine appartengono alla vita intima di Dio, la distinzione di cui esse sono causa, non può essere applicata alle opere che Dio vuole fare al di fuori di sé. Perché saranno necessariamente comuni a tutte e tre le Persone. Per questo motivo, abbiamo avvertito sopra dell’errore in cui saremmo caduti se avessimo attribuito la Creazione esclusivamente a Dio Padre. Tutti i teologi cattolici sono d’accordo nel sostenere questo assioma: tutte le operazioni esterne di Dio sono comuni a tutte e tre le Persone. Ma, stando così le cose, come può la Redenzione essere propria di Dio Figlio? Non è un’opera esterna di Dio? No, la Redenzione non è puramente e semplicemente esterna, perché, in un certo senso, è legata alla vita intima di Dio. La creazione dell’umanità del Salvatore, la sua conservazione, i suoi movimenti spirituali e corporei, appartengono all’ordine esterno della creazione ed è opera comune delle tre Persone. Ma ciò che è proprio del Verbo di Dio è l’unione, in virtù della quale Egli comunica a quella natura umana la sussistenza che riceve dal Padre suo, che lo rende Figlio di Dio. Attraverso questa unione la natura umana di Gesù Cristo penetra, in qualche modo, nella vita intima di Dio e partecipa alle relazioni delle Persone divine.

Applicazione della suddetta dottrina.

Nella divinizzazione del Cristiano possiamo considerare tre cose: la presenza di Dio nell’anima; l’unione dell’anima con Dio presente in essa, e il modo di essere che risulta per l’anima da questa unione. Che cosa può esserci in questo che sia esclusivo dello Spirito Santo? Non la prima delle tre condizioni, cioè la presenza di Dio nell’anima giusta; poiché essendo lo Spirito Santo inseparabile dal Padre e dal Figlio, non poteva abitare in un’anima senza le altre due Persone divine che coabitano con Lui. Questo è ciò che Gesù Cristo ci insegna quando promette di inviare il suo Spirito nelle anime dei suoi discepoli; poiché nello stesso tempo promette loro che, se osservano i suoi comandamenti, andrà da loro con il Padre suo e vi farà la sua dimora. Né si può attribuire allo Spirito Santo, come opera sua, il modo di essere soprannaturale che per l’anima deriva dalla sua unione con la Divinità, perché questa qualità, che abbiamo chiamato grazia creata, così come è stata creata, è opera delle tre Persone. Tutte le relazioni e le operazioni dell’ordine divino che sono, tuttavia, in essa, modificando le sue facoltà, sono il frutto della sua libera attività e hanno per loro causa primaria l’azione divina, comune al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo che produce, conserva, muove e governa l’intero universo. – Sia che la grazia sia considerata come la presenza di Dio nell’anima, o il modo soprannaturale di essere che distingue l’anima divinizzata, nessuno di questi effetti può essere attribuito allo Spirito Santo ad esclusione delle altre due Persone. Non c’è dubbio, però, che la grazia, considerata in questi due aspetti, è costantemente attribuita allo Spirito Santo dalla Sacra Scrittura e dai Santi Dottori. Per quale motivo? Due sono le ragioni addotte dal Cardinale Franzelin. In primo luogo, la divinizzazione delle anime è, tra tutte le opere di Dio, quella in cui il suo Amore si mostra più magnificamente e con più energia un’opera. Ora, lo Spirito Santo è l’Amore sussistente del Padre e del Figlio; è il termine sostanziale dell’atto, per mezzo del quale Dio ama la sua infinita bontà e in essa le sue creature. Perciò, per mezzo dello Spirito Divino, il Padre e il Figlio sono mossi ad operare la divinizzazione delle anime; Egli è, a titolo speciale, il principio della grazia. In secondo luogo, l’unione delle anime con Dio attraverso la grazia non è solo un principio ma anche un legame con l’Amore Divino; perché attraverso il suo amore Dio si unisce alla sua creatura e rispondendo a quell’amore, con un amore reciproco, la creatura accetta e consuma la sua unione con il suo Creatore. Poi, supponendo che il Padre e il Figlio si amino l’un l’altro per mezzo dello Spirito Santo, anche da Esso sono uniti alle anime. Egli è il legame sostanziale che li unisce a Dio e tra loro, così come in Dio si consuma l’unità delle Persone divine: « Il Padre e il Figlio – dice sant’Agostino – ci fanno comunicare con loro e tra di noi per ciò che è comune, cioè per lo Spirito Santo, Dio e dono di Dio » (Serm. XI, del Verbo Dom.).

L’unione dello Spirito Santo con le anime è personale.

Tutto quello che abbiamo appena stabilito è vero, ma è tutta la verità? Queste spiegazioni sono sufficienti a giustificare le affermazioni molto espressive della Sacra Scrittura e dei Dottori della Chiesa? L’unione dell’anima giusta con lo Spirito Santo non è forse più vicina e più reale? I due teologi moderni che più di tutti si sono applicati allo studio e all’esposizione della tradizione ecclesiastica, Petau e Tomassin, hanno accumulato numerose testimonianze dei Santi Padri, dalle quali sembra si possa dedurre che la santificazione delle anime sia veramente l’opera propria dello Spirito Santo, non nel senso che le altre Persone non cooperino a quest’opera, come cooperano all’Incarnazione, ma che, come tutta la Trinità divinizza sostanzialmente l’umanità di Gesù Cristo unendola alla Persona del Verbo, così tutta la Trinità divinizza accidentalmente l’anima giusta unendola alla Persona dello Spirito Santo. Come potrebbe lo Spirito Santo essere inviato dal Padre e dal Figlio, se non fosse stata una Persona diversa dall’altra? Una vera missione implica la reale distinzione tra chi invia e chi è inviato. Tutta la forza di questa argomentazione, come si vede, poggia sulla realtà della missione dello Spirito Santo alle anime che Egli santifica. Ma questa stessa missione presuppone che lo Spirito Santo abbia una parte speciale nella santificazione delle anime; che vi contribuisca in modo diverso dalle altre Persone. Supponiamo che non sia stato veramente inviato, e che questa missione non lo distingua veramente dal Padre e dal Figlio, ma nella misura in cui l’operazione per la quale è inviato sia reale in sé e diversa. – Il cardinale Franzelin distingue due tipi di missione quando parla delle Persone divine: quella visibile, che consiste nella manifestazione della loro presenza, e quella invisibile, che consiste in una speciale unione che Esse contraggono con le creature. Da questa nozione provata si può dedurre un argomento che ci sembra del tutto dimostrativo: la missione invisibile dello Spirito Santo verso le anime giuste è personale, posto  che serva a dimostrare la sua esistenza personale. Ecco allora, che se questa missione consiste nell’unione speciale della Spirito Santo con l’anima, allora questa unione è personale.

Come possiamo ammettere questa speciale unione dello Spirito Santo con l’anima giusta senza contraddire quanto detto sopra?

La difficoltà ci sembra irrisolvibile. Ricordiamo quanto è stato detto sull’Incarnazione che è anche, in un certo senso, l’opera esteriore di Dio e che non cessa di essere propria della Persona del Verbo. Non succede qualcosa di simile nell’opera di santificazione delle anime? In quest’opera abbiamo distinto tre cose: la presenza di Dio nell’anima, l’unione dell’anima con Dio e il modo di essere soprannaturale che deriva da questa unione. Abbiamo riconosciuto e dimostrato che il Padre e il Figlio sono veramente presenti, nell’anima giusta, con lo Spirito Santo; che cooperano ugualmente nelle abitudini e negli atti soprannaturali dell’anima; ma rimane un terzo punto che la maggior parte dei teologi perde di vista e dove si trova la soluzione alla difficoltà attuale. Tutti ammettono, nell’anima giusta, la grazia increata e la grazia creata. Ma si parla di santificazione delle anime come se consistesse solo nella grazia creata. Come se, tra il modo di essere dell’anima divinizzata e la presenza della Divinità in essa, non ci fosse unione. Tuttavia, gli insegnamenti della Scrittura e dei Santi Padri ci presentano la grazia creata come il risultato dell’unione dell’anima con lo Spirito Santo, che è una grazia increata: « La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm V, 5); « Da questo sappiamo che siamo in Lui e Lui in noi: perché ci ha dato il suo Spirito » (1 Gv IV, 13). Questi testi sembrano considerare l’anima giusta come accidentalmente unita alla divinità dallo Spirito Santo, come l’umanità del Salvatore è sostanzialmente unita alla divinità dalla Persona del Verbo. Questo non per attribuire allo Spirito Santo e al Verbo un’opera esterna che non tocca le altre due Persone allo stesso modo. Perché la prima di questa unione non è un’opera esterna più di quanto non lo sia la seconda.

Un’altra difficoltà.

Come può lo Spirito Santo comunicare all’anima giusta ciò che gli è proprio, senza comunicare la sua personalità? Questa difficoltà è più grave della prima, ma non è nemmeno essa irrisolvibile. È vero che lo Spirito Santo non ha altro che la sua personalità. Ma esercita nella divinità una doppia funzione, per mezzo della quale, fatta salva la sua intrinseca semplicità, può avere con le creature due relazioni diverse: è il termine della natura e della volontà divina; perché la terza Persona procede dalle altre due per volontà, come la seconda dalla prima per l’intelligenza. – Lo Spirito Santo è carità sussistente. Perché non ammettere allora che lo Spirito Santo si comunichi all’anima come carità, senza farne parte della sua sostanza? Perché la volontà del Cristiano non potrebbe essere fisicamente unita alla volontà di Dio per il termine sostanziale del suo atto, senza che la natura del Cristiano riceva la comunicazione della personalità divina? Non è questo da ammettere nel caso degli Angeli e dei Santi del cielo? Vedendo Dio così com’è, conoscendolo come Egli conosce se stesso, amandolo come Egli ama se stesso, ammessi alla partecipazione della sua vita intima, la loro intelligenza è immediatamente unita al Verbo, fine dell’intelligenza divina, e la loro volontà allo Spirito Santo, fine della volontà divina. – In questo mondo non vediamo il Verbo, lo possediamo solo per fede. Ma la carità della terra è della stessa natura di quella del cielo. Da ciò sembrerebbe che sia la prima che la seconda stabiliscano, tra la volontà del Cristiano e lo Spirito di Dio, un’unione speciale. Con questa unione, l’anima sarebbe divinamente santificata, posto che la santità consista essenzialmente nella carità, e la carità di cui essa sarebbe illuminata, sarebbe il risultato della sua  unione con la carità sussistente di Dio. Così, le parole di San Paolo sarebbero fedeli alla lettera: « La carità di Dio è stata riversata sull’anima giusta dallo Spirito Santo che le è stato donato. » La parte speciale attribuita allo Spirito Santo in quest’opera non danneggerebbe minimamente quindi l’azione comune delle tre Persone.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/05/26/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-9/

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (7)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (7)

[ chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

SECONDA PARTE

MEZZI GENERALI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Capitolo VI

IL CUORE DI GESÙ, SANTUARIO DELLO SPIRITO SANTO

Testimonianza di San Giovanni Battista sulla comunicazione dello Spirito Santo, fatta dal Padre al Figlio.

San Giovanni ci dice che i discepoli di Giovanni Battista, stupiti dal successo di Gesù e gelosi della sua gloria, andarono ad incontrarlo e gli dissero: « Maestro, Colui che era con te dall’altra parte del Giordano, al quale hai reso testimonianza, ecco sta battezzando e tutti vanno a Lui » (Giovanni III, 26). – L’umile Precursore rispose loro con una grandezza d’animo che servirà sempre da modello per tutti gli uomini: « Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stato dato dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a Lui. Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire. Chi viene dall’alto è al di sopra di tutti; ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra. Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti. Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza; chi però ne accetta la testimonianza, certifica che Dio è veritiero. Infatti colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio e dà lo Spirito senza misura. Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. » (Joan. III, 27-35). Fermiamoci allora a sviluppare tutto ciò che questa ammirevole testimonianza contiene. Ci concentreremo su una sola parola, per far conoscere il rapporto del Cuore di Gesù con lo Spirito Santo – che è il suo Santuario – e con Dio Padre, che effonde il suo Spirito Divino in Lui senza misura. Senza dubbio tutti i Cristiani conoscono bene il nome di questa adorabile Persona della Trinità. La invocano ogni volta che si fanno il segno della croce, ne confessano l’esistenza ogni volta che recitano il Credo. Ma molti limitano a questo tutta la loro devozione allo Spirito Santo. Tuttavia, se sono figli di Dio, lo devono all’intima dimora dello Spirito Santo nella loro anima. È grazie a Lui che vivono la vita divina. Egli deve essere il loro maestro e guida, e l’intima unione tra loro e Lui è la norma che indica il grado del loro avanzamento nella santità.

Chi è lo Spirito Santo?

Lo Spirito Santo è l’amore sostanziale del Padre e del Figlio; e poiché il cuore è l’espressione dell’amore, lo Spirito Santo potrebbe essere chiamato il cuore della divinità. In Lui la vita divina raggiunge la sua pienezza, perché consiste nella conoscenza infinita della Sua infinita verità e nell’amore assoluto della Sua sovrana bontà. Conoscendo se stesso come Dio, Egli produce un’immagine di sé esattamente uguale a quella di Colui da cui essa è prodotta, il Verbo, la seconda Persona della Santa Trinità. Ma non basta che Dio conosca se stesso. La sua vita non sarebbe né perfetta né felice, se al pensiero della conoscenza della verità non si unisse quello dell’amore per la sua bontà. E come potrebbe non amare se stesso citando la sua infinita amabilità che gli è così perfettamente nota? – Egli ama se stesso, e nell’amare se stesso, ama in sé tutto ciò che sia amabile, poiché ciò che esiste al di fuori di Lui non ha maggior bene di quello che sia disposto a concedere come donazione puramente gratuita. Fin dall’eternità, quando non eravamo ancora nulla in noi stessi, Dio ha visto in noi una bontà che gli ha permesso di amarci come ha amato se stesso; ma questa bontà non è stata trovata in noi, se non come ricevuta da Lui. – Lo Spirito Santo è il fine eterno di quell’amore eterno per mezzo del quale Dio ama se stesso, e per mezzo del quale ama in sé tutto ciò che è amabile. È proprio nella sua produzione che si raggiunge la pienezza della vita di Dio: perché è impossibile concepire qualcosa al di fuori di quell’amore perfetto del Bene sovrano. È attraverso di Lui che Dio gode della sua perfezione; è attraverso di Lui che è assolutamente perfetto. Perché – secondo sant’Agostino – essere felici è possedere ciò che si ama, quando si ama ciò che sia veramente amabile. Per quanto infinita possa essere la perfezione e l’intelligenza di Dio, se non si amasse come si conosce, l’Infinito mancherebbe nella sua vita, alla sua felicità. Lo Spirito Santo è come il sigillo della perfezione divina. Esso è il legame ineffabile che unisce il Padre e il Figlio nello stesso amore. Distinte queste due Persone divine per la conoscenza, Esse sono unite dall’amore, e lo Spirito Santo è il nodo che le unisce.

Dio è amore

Quando San Giovanni ha voluto definire Dio con una sola parola ha detto: Dio è amore! Gli altri nomi di Dio possono esprimere il suo Essere, la sua maestà, il suo potere; ma se si può dare un’idea chiara della sua vita, c’è solo questa parola: Amore. Quando vogliamo sapere come possiamo perfezionare l’immagine di Dio in noi, essere iniziati alla sua vita e condividere la sua felicità, dobbiamo rivolgerci allo Spirito Santo che ci insegni ad amare come Dio ama. Perché siamo fatti ad immagine di Dio, e quindi non possiamo acquisire la perfezione e la felicità in nessun altro modo che non sia Dio stesso. – Comprendiamo allora questo: se l’amore del bene non è in noi pari alla conoscenza della verità, se nel perfezionare la nostra intelligenza dimentichiamo la perfezione del cuore, vivremo solo per metà strada, e saremo senza paragoni più sfortunati che se il nostro spirito fosse meno coltivato, poiché la nostra conoscenza più perfetta avrà creato in noi bisogni che il disordine delle nostre affezioni non ci permetterà di soddisfare. Dio stesso, pur essendo Dio, cesserebbe di esserlo se, cosa impossibile, lo Spirito Santo, che è come il suo cuore, non fosse del tutto uguale al Padre e al Verbo. Come ci aspetteremmo di essere felici se, permettendo agli affetti del nostro cuore di essere in opposizione alle luci del nostro spirito, mutilassimo in noi stessi l’immagine della Divina Trinità?

La fecondità dello Spirito Santo.

Sappiamo già che cosa sia lo Spirito Santo in sé. Si differenzia dalle altre due Persone divine per il fatto che solo Lui, nella Santissima Trinità, sia prodotto e non produca. Dio Padre non è prodotto e produce il Figlio e lo Spirito Santo; Dio Figlio è prodotto dal Padre e produce con Lui lo Spirito Santo; ma Dio Spirito Santo, prodotto dal Padre e dal Figlio, non produce nessun’altra persona. Ma i santi Dottori avvertono che lo Spirito Santo sembra rivalersi con la sua fecondità al di fuori di Dio, per quella sorta di sterilità che è il suo stesso carattere nel seno della natura divina. A Lui, infatti, sono attribuite in modo speciale le opere più eccellenti di Dio, quelle soprannaturali. La Sacra Scrittura ci mostra lo Spirito Santo, nei primi giorni del mondo, che feconda il mondo dandogli la virtù di produrre la vita. Ma la sua virtù è molto più manifesta quando si tratta di produrre una nuova creazione e di comunicare la vita di Dio alle creature razionali. – Questa è l’opera dello Spirito Santo, e si chiama “grazia”. Senza di essa, la nostra vita avrebbe potuto avere una lontana somiglianza con la vita di Dio; ma il nostro Creatore ha voluto stabilire una parentela più stretta con noi. È Sua volontà che noi venissimo un giorno a conoscerlo come Egli stesso si conosce, ad amarlo come Egli ama se stesso e ad essere felici della sua stessa felicità. E poiché non era nelle nostre forze naturali raggiungere questo fine soprannaturale, Egli ci ha dato il Suo Spirito.

Il fine della Provvidenza di Dio è di comunicarci il suo Spirito.

Tutta la provvidenza di Dio sull’umanità ha avuto come fine la comunicazione, sempre più perfetta, dello Spirito Divino ai figli di Adamo. Molti Dottori vedono il principio di questa comunicazione nell’atto stesso con cui Dio ha creato l’uomo. Dopo aver formato il suo corpo dal limo della terra, la Sacra Scrittura ci dice che gli soffiò in faccia un soffio di vita. – Questo soffio può riferirsi all’anima che anima il corpo e gli fa vivere una vita animale e razionale. Ma possiamo anche comprenderlo come vero Spirito di Dio, il principio della vita soprannaturale che Adamo ricevette contemporaneamente a quella naturale, e che trasmise con esso a tutti i suoi discendenti. Ma questa prima comunicazione dello Spirito di Dio all’umanità era ancora molto superficiale. Molti secoli dovevano passare prima che la grazia dello Spirito Santo, che fino ad allora non aveva attraversato la terra se non nello stato di un insignificante rivolo d’acqua, la inondasse come un nuovo diluvio. Finalmente arrivò il momento predetto dai Profeti. – Uno stelo uscì dal ramo di Jesse, e da quello stelo un fiore su cui riposava lo Spirito di Dio. Lo stelo che è uscito dalla radice di Jesse è la Vergine Maria, figlia di Davide, e il fiore benedetto che è uscito da quello stelo è il Salvatore Gesù. Lo Spirito di Dio riposava su quel fiore. Lo Spirito Santo ha unito l’anima del Salvatore con un’unione più completa di quella dei Patriarchi e dei Profeti. A quest’anima santa lo Spirito Santo non è stato dato con misura, come agli altri uomini, ma in tutta la sua pienezza. Dio Padre ama suo Figlio e ha messo tutto nelle sue mani. Non può, quindi, avergli dato il suo Spirito con misura. – C’è un’altra ragione però per aver comunicato la vita dello Spirito Santo all’anima del Salvatore: il suo Cuore Divino deve essere la fonte che distribuisce questa vita in tutto il mondo. Quel Cuore è l’oceano dove le onde di questa vita divina devono essere riversate senza misura. Se l’umanità è la tempesta che lo Spirito Santo costruisce per se stesso nel susseguirsi dei tempi, il Cuore di Gesù è il santuario di quella tempesta. Diciamo il Cuore e non solo l’umanità del Salvatore, perché il cuore, l’organo dell’amore umano, è anche la sede speciale dell’amore divino. – Nel Cuore di Gesù, lo Spirito di Dio ha posto la sua dimora, e da essa dirige tutti i movimenti dell’umanità: « Il mio amore è un peso che mi trascina – dice sant’Agostino – che mi porta ovunque io vada. Il nostro Maestro non era diverso dagli altri uomini sotto questo aspetto. Anche Lui era governato, trascinato dal suo amore. Ma il suo amore era governato dall’amore divino, lo Spirito Santo. « Tutte le azioni del Nostro Salvatore – dice San Basilio – sono state compiute sotto l’influenza dello Spirito di Dio ». Questo Spirito Divino lo condusse nel deserto, dove sarebbe stato tentato da satana. Per mezzo di Lui ha fatto miracoli, come Egli stesso ha testimoniato, quando ha detto: « Se per lo Spirito di Dio scaccio i demoni … » Allo Spirito Santo anche la Sacra Scrittura attribuisce le virtù del Cuore di Gesù, anche quelle che sembrano appartenere allo Spirito, come l’intelletto, il consiglio, la sapienza.

Il Cuore di Gesù ci comunicalo Spirito Santo e quindi la Vita Divina. –

Anche lo Spirito Santo, che fa del Cuore di Gesù il suo tempio privilegiato, vuole venire da noi. Ma è il Cuore di Gesù che ce lo comunica. E da chi potremmo riceverlo se non da Colui che, possedendo in precedenza quello Spirito della vita, è sceso dal cielo per comunicarcelo? – È vero che Dio Padre comunica con il suo Figlio unigenito il possesso dello Spirito Divino: lo producono insieme con un unico atto e lo danno a chi vogliono. Inoltre, abbiamo sentito Gesù dire che ci avrebbe dato lo Spirito della verità e che questo Spirito ci sarebbe stato dato da suo Padre. Ma come il Figlio lo dà solo per volontà del Padre (Gv XV, 26), il Padre lo dà solo nel Nome di Gesù Cristo (Gv XV, 26). Mandando suo Figlio nel mondo e unendolo ad una natura simile alla nostra, Dio Padre ha in qualche modo trasferito a questo Uomo-Dio tutti i suoi diritti sull’umanità e su tutto il creato. Soprattutto, gli ha conferito il potere assoluto (Sal. II, 6) di governare, giudicare, resuscitare e vivificare, non solo come Figlio di Dio, ma come Figlio dell’uomo (Gv. V, 21 segg.). Non solo il Figlio di Dio, ma anche il Figlio dell’uomo, che nell’Apocalisse è chiamato l’Alfa e l’Omega, l’Inizio e la Fine (Apoc. XXII, 13). « Del Verbo fatto carne si dice che Egli si è mostrato pieno di grazia e di verità, e che dalla sua pienezza tutti abbiamo ricevuto » (Gv. I, 14-16). Quando Gesù Cristo afferma che Egli è la vite e noi siamo i tralci, che senza di Lui non possiamo fare nulla, mentre uniti a Lui produrremo molto frutto (Gv XV, 1 sec.), parla direttamente – secondo Sant’Agostino – della sua umanità (S. Agostino, tract. 80 in Io.) Ora, la linfa che la vite divina trasmette ai suoi tralci, l’influenza costante attraverso la quale il Cuore di Gesù vuole comunicare la sua vita e la sua fecondità, è la grazia dello Spirito Divino. – La grazia ci viene dal Cuore dell’Uomo-Dio. Come lo Spirito di Dio è la nostra vita in quanto dona alla nostra anima la vita di Dio, così il Cuore di Gesù è la nostra vita in quanto solo Lui può comunicarci lo Spirito di Dio, è l’unica fonte da cui lo Spirito Divino può essere riversato nelle anime. Non appena si rompe il canale che li unisce ad esso, essi partecipano solo alla sterilità e alla morte. – Non è senza ragione che attribuiamo questa prerogativa di essere la vita delle nostre anime al Cuore Divino di Gesù. Perché il cuore, come sappiamo, è l’organo dell’amore. Lo Spirito di Dio, che è l’amore sostanziale del Padre e del Figlio, abita nel Cuore di Gesù come in un santuario privilegiato. E da Lui si distribuisce nelle nostre anime. Ma per venire da noi deve aspettare di essere mandato di nuovo dal Cuore di Gesù, perché nessun uomo può possederlo se non nella misura in cui l’Uomo-Dio glielo dona con un atto libero del suo amore e con un movimento spontaneo del suo Cuore. – Come il nostro cuore invia a tutte le membra il sangue che le riscalda e le ravviva, così il Cuore di Gesù, attraverso palpitazioni molto più continue e forti, distribuisce a tutti i membri della Sua Chiesa lo Spirito Santo che li fa vivere divinamente. Un membro che non riceve alcuna influenza dal cuore è un membro morto. Il Cristiano che non riceve l’influenza del Cuore di Gesù ha perso la vita di Dio; è paralizzato e se non si sottomette nuovamente alla sua influenza vivificante, non può sfuggire alla morte eterna.

Il Cuore di Gesù è la fonte della grazia.

Tali sono i nostri rapporti con il Cuore di Gesù, che è per tutti gli uomini la fonte della grazia. La grazia, infatti, non è altro che la vita soprannaturale prodotta nelle anime dalla loro unione con lo Spirito Santo. Come la vita del nostro corpo deriva dalla sua unione con l’anima, così la vita della nostra anima, risulta dalla sua unione con lo Spirito di Dio. Ma, come l’anima rimane unita alle membra del corpo solo nella misura in cui le membra stesse rimangono unite al cuore, così lo Spirito di Dio rimane unito al Cristiano solo nella misura in cui il Cristiano rimane unito al Cuore di Gesù. Cosa succede se uno strumento tagliente recide le vene e le arterie che mettono in comunicazione il cuore con la mano? Questa perderà la vita e si decomporrà. La stessa cosa accade all’anima che non è unita al Cuore di Gesù attraverso la preghiera e i Sacramenti, i canali della grazia: perde tutto il calore, tutta la forza. Presto la vedrete in potere della morte del peccato e del putridume dei vizi. – Il Maestro stesso ci inculca questa verità quando dice: « Rimanete in me e Io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. » (Jn. XV, 4-6)

Il Cuore di Gesù è il Cuore della Chiesa e del Cristiano.

Possiamo affermare che ogni volta che compiamo un atto soprannaturale siamo sotto l’effettiva influenza del Cuore di Gesù. Se il Cuore Divino non toccasse i nostri cuori, noi non saremmo in grado di credere, né di sperare, né di amare, né di fare il minimo sacrificio soprannaturale, né di guadagnare il più insignificante dei meriti. Come il movimento delle arterie alle estremità del corpo non è altro che la ripercussione del battito del cuore, così il più piccolo atto soprannaturale nell’ultimo dei Cristiani non è altro che la ripercussione dei movimenti del Cuore di Gesù. – Questo Cuore Divino è veramente il Cuore della Chiesa. Come dà vita fisica al corpo naturale di Cristo, come organo dell’amore del Salvatore, dà vita soprannaturale al suo Corpo mistico. Ed è per questo che la Chiesa è chiamata Corpo di Cristo, perché in realtà non riceve meno la vita del suo Spirito di quanto il nostro corpo non riceva la vita della nostra anima. Lo Spirito di Dio che il Cuore di Gesù ci comunica, non è unito a noi in modo tale da formare una persona con noi. La sua unione con la nostra anima è meno stretta dell’unione della nostra anima con il nostro corpo. Ma, a seconda di come la si guarda, è molto più intima, poiché lo Spirito Santo penetra molto meglio tutte le facoltà della nostra anima, penetrando nelle membra del nostro corpo. L’unione della nostra anima con il nostro corpo è così fragile che si dissolve continuamente. In ogni istante perdiamo alcune parti della nostra sostanza, finché tutto il nostro corpo non viene portato via dall’irresistibile potere della morte. Ma lo stesso non accade con il Corpo di Gesù Cristo. Quando il Cuore del Divin Salvatore ha preso un’anima ed è stato unito ad essa dai beni dell’amore, non c’è alcun potere, sulla terra o all’inferno, in grado di strappargliela. Solo essa stessa può distruggere la vita divina con il più orribile dei suicidi. – Possiamo fare opere divine, se lo vogliamo. E cosa facciamo per questo? Imitare il Cuore di Gesù e lavorare sotto l’influenza dello Spirito di Dio. In questo modo la devozione allo Spirito Santo si confonde in noi con la devozione al Sacro Cuore e ci riempie, secondo l’espressione di San Paolo, della pienezza di Dio.

Capitolo VII

LA PRESENZA REALE DELLO SPIRITO SANTO NELLE NOSTRE ANIME, CAUSA PROSSIMA DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

In cosa consista la nostra divinizzazione

Il vescovo di Tulle, mons. Berteaud, ha detto dei giovani Cristiani che erano “dei in fiore”. Espressione poetica ma interamente conforme agli insegnamenti della sana teologia. Se, come ci insegna San Pietro, siamo stati Ammessi da Gesù Cristo alla partecipazione della natura divina, siamo divinità, ma divinità per partecipazione. – La divinità non è in noi come in Gesù Cristo che la possiede per diritto proprio, piena e perfetta fin dall’inizio. La nostra divinizzazione sta aumentando come la pianta che all’inizio non è altro che un germe è impercettibile e poi cresce, fiorisce e finisce per dare i suoi frutti. Così il Cristiano, inizialmente ha solo il germe della sostanza divina (Eb III, 14), e gli viene dato il tempo della vita presente per coltivare e sviluppare questo germe, per crescere in Dio e far crescere Dio in se stesso, finché la pianta divina, pienamente sviluppata, non produca in cielo il suo frutto, che è la felicità divina. Ma non basta credere a queste cose: bisogna sforzarsi di capirle. A questi titoli della nostra eredità divina si applicano infatti le parole di sant’Anselmo: « Chi non si sforza di capire ciò che la fede gli rivela è colpevole di negligenza ».

Lo Spirito Santo dimora nell’anima giusta.

San Bonaventura, ci espone: « Quando si vuole spiegare in cosa consista il dono della grazia, che rende l’uomo simile a Dio, i savi propongono visioni diverse. Ci sono, infatti, alcuni punti determinati dalla fede e altri lasciati alla ricerca della ragione. Ciò che la fede e la Sacra Scrittura stabiliscono, tuttavia, con certezza è che senza il dono della grazia è impossibile piacere a Dio; in secondo luogo, che l’uomo non può essere gradito a Dio se non riceva lo Spirito Santo, un dono increato. Pertanto, tutti coloro che hanno un concetto preciso di questo mistero riconoscono che, in tutte le anime giustificate dalla grazia, risiede realmente lo Spirito Santo, “Dono increato”. E se qualcuno la pensasse diversamente, è da considerare come un eretico. (S. Bonav., in II Sent., q. 2: vol. III, p.241). Abbiamo in noi una perfezione di questo tipo, ma non c’è dubbio, secondo il Serafico Dottore, che l’anima in stato di grazia possiede veramente lo Spirito Santo e con Lui tutta la Trinità. – San Bonaventura non esita a chiamare eretico chi nega questo dogma. Il più autorevole dei maestri della dottrina cattolica – San Tommaso – afferma che sarebbe un errore contrario alla fede dire che il Cristiano, nello stato di grazia, possieda solo i doni dello Spirito Santo e non la sua Persona (S. Th. I q. XLIII, a. 3). Non c’è verità più frequentemente affermata nelle Scritture che il dogma della reale presenza dello Spirito Santo nell’anima del Cristiano. Il Maestro, che l’aveva spesso inculcata nei suoi Apostoli durante i tre anni della sua vita pubblica, la ricordava con particolare insistenza alla vigilia della sua morte. Nella persuasione di questa presenza reale, intima, perpetua dello Spirito Santo nei loro cuori, Egli vuole far loro trovare non solo consolazione nella tristezza causata dalla sua imminente separazione, ma anche un sovrabbondante compenso per l’immensa perdita che avranno quando li lascerà: « Non vi lascerò orfani – dice loro – pregherò per voi il Padre mio; ed Egli vi darà un altro Paraclito, un consolatore che rimarrà con voi per sempre ». Poiché vi ho detto queste cose, il dolore ha riempito i vostri cuori; ma vi ho detto la verità: è a vostro vantaggio che Io me ne vada, perché se Io non me ne vado, il Paraclito non verrà da voi; ma se me ne vado, ve lo manderò. » Sentendo promesse così chiare, come potevano gli Apostoli dubitare che sarebbe stato realmente dato loro lo Spirito Santo e che Egli avrebbe veramente dimorato nelle loro anime? Se non avesse dovuto unirsi a loro se non moralmente, se non avessero dovuto possederlo se non in figura, come avrebbe potuto questo possesso metaforico e questa unione morale supplire e con vantaggio la presenza sostanziale del Figlio di Dio e la sua così intima unione con Lui? – Gesù Cristo ha voluto promettere il vero dono del suo Spirito e ha usato i termini più precisi per spiegarlo. Se avesse voluto esprimere una semplice somiglianza con la santità divina, avrebbe usato un linguaggio più improprio e fuorviante per chi lo ascoltava.

Il dogma della presenza reale dello Spirito Santo nelle anime giuste è uno dei fondamentali maggiori da essere creduto.

Le promesse del Salvatore non sono rivolte solo agli Apostoli, ma a tutti i Cristiani che saranno santificati dai successori degli Apostoli fino alla fine dei secoli. Ciò che è stato visibilmente realizzato in loro il giorno di Pentecoste è invisibilmente realizzato in tutti coloro che sono rigenerati dal Battesimo ed unti con l’olio santo della Cresima. Lo Spirito Santo non è dato a tutti nella stessa misura, ma tutti lo ricevono con la stessa realtà. San Paolo si rivolge a tutti i Cristiani e ricorda loro questo dogma come uno dei primi della loro fede che a nessuno è permesso di ignorare o dimenticare: « Non sapete che i vostri membri sono tempio, che quello che avete da Dio è in voi, e che non siete voi? » (1 Cor. VI, 19). Per San Paolo, la presenza o l’assenza dello Spirito Santo fa la differenza tra le anime. Chi possiede lo Spirito Santo è vivo, come è vivo il nostro corpo quando l’anima è presente in esso. Le anime in cui lo Spirito Santo non abita sono cadaveri. È vero che ci sono dei gradi nella vita, come ce ne sono nella morte; infatti le anime vive possono essere più o meno intimamente unite allo Spirito Santo, mentre le anime morte più o meno sono separate da Esso. Ma per tutti questa unione è il principio della vita, ed è quindi reale come lo è la vita stessa.

I primi Cristiani vivevano la presenza realedello Spirito Santo nelle loro anime.

Illuminati dagli insegnamenti delle Scritture, i primi Cristiani si nutrivano della meditazione di questo dogma. In essa cercavano conforto nelle persecuzioni e la forza nella lotta contro i tiranni. Quando sant’Ignazio di Antiochia fu portato davanti al giudice, quest’ultimo gli chiese il suo nome: « Mi chiamo Teoforo, Portatore di Dio », rispose il santo Vescovo. Aveva dimenticato il suo nome umano, perché aveva smesso di vivere una vita puramente umana e non era più consapevole di nulla se non della presenza del Dio che abitava in lui. – Santa Lucia, quando il tiranno la minacciò per farla tacere condannandola ai flagelli, rispose: « Le parole non possono mancare ai servi di Gesù Cristo perché il loro Maestro ha promesso che quando saranno davanti ai giudici, il suo Spirito parlerà attraverso le loro bocche. » – Allora lo Spirito Santo è in te, chiese il tiranno? -« Sì – rispose la vergine – coloro che vivono con castità e pietà sono tempio dello Spirito Santo. » Non le ci volle molto tempo per dimostrare la verità della sua affermazione con un miracolo. Il giudice miscredente le ordinò di essere portata in un luogo di dissolutezza, ma non poterono spostarla: la potenza dello Spirito Santo la rese una colonna incrollabile. Qui c’è un fatto notevolissimo che dimostra quanto i primi Cristiani fossero profondamente convinti della reale presenza dello Spirito Santo nelle loro anime. Quando Eunomio e Macedonio, degni successori di Ario, osarono insegnare che lo Spirito Santo non era come il Verbo di Dio, se non una creatura, ecco cosa risposero i Santi Dottori: « Non c’è se non un solo Dio che possa essere presente ovunque contemporaneamente, penetrare tutte le anime, riempirle di sé e divinizzarle per mezzo della sua unione con esse; ora, lo Spirito Santo fa tutto questo; allora lo Spirito Santo non è una creatura, ma un vero Dio ». I Santi Dottori hanno dimostrato che lo Spirito Santo è Dio presente nelle anime giuste divinizzandole; hanno supposto che coloro che negavano la sua divinità erano costretti a confessare la realtà della Sua presenza e della divinizzazione che ne derivava. San Cirillo d’Alessandria è colui che meglio di tutti ha forse evidenziato questo mistero: « Chiederò ai miei avversari se una natura creata può fare, di coloro che non lo sono, degli dei. Si  può concepire una creatura deificante? Ovviamente, questo potere può essere attribuito solo a Dio, che, donando il suo Spirito alle anime giuste, le rende partecipi di ciò che Egli possiede per natura. – Per mezzo di questo Spirito diventiamo simili all’unico Figlio per natura, e meritiamo di essere chiamati come Lui dei e figli di Dio… Quindi, poiché il potere di divinizzare da se stesso è superiore alla condizione di una creatura, qualunque essa sia, lo Spirito Santo non può essere collocato tra le creature » (Dial. VII, De Trinitate, MG. 75, 1075). – E continua: « Siamo chiamati templi di Dio e ci viene dato persino il titolo di divinità. Chiedete la ragione di questo ai nostri avversari, secondo i quali la grazia della quale partecipiamo, sia una realtà non sostanziale, ma una pura qualità. Dio non voglia che succeda! Noi siamo i templi dello Spirito Santo esistente e sussistente; e il nome di dei ci è ben dato, poiché con la nostra unione con questo Spirito Divino partecipiamo alla sua natura divina ». – Sant’Atanasio usa un argomento simile nella sua epistola a Serapione: « Lo Spirito Santo è il balsamo ed il sigillo con cui il Verbo di Dio consacra e segna coloro che gli appartengono; e tutti coloro che sono stati segnati con il suo sigillo sono, secondo San Pietro, associati alla natura divina… Ma questa intima unione non avrebbe realtà se lo Spirito Santo fosse una creatura. Poiché se siamo veramente associati a Gesù Cristo e a Dio, è chiaro che questa unzione non appartiene alla natura creata, ma alla natura del Figlio che, donandoci il suo Spirito, ci unisce al Padre suo » (S. Agostino, in Joan. Tract. 80 ML.: 35, 1839). – San Giovanni insegna la stessa cosa quando scrive: « Siamo certi di abitare in Dio e che Dio abiti in noi, poiché ci dona il suo Spirito. Se poi la nostra unione con lo Spirito Santo ci fa partecipare alla natura divina, sarebbe sciocco dire che Egli non possieda questa natura in sé, ma che sia del numero degli esseri creati. Perché, con la nostra unione con lo Spirito Santo ci fa partecipare alla natura divina, sarebbe insensato dire che Esso non possieda questa Natura in sé, ma sia uno degli esseri creati. Perché solo essendo Dio, Esso può essere in noi e farci divinità. » – Didimo di Alessandria, nel suo Trattato sullo Spirito Santo, presenta la stessa prova sotto un altro aspetto: « Si dice di certi uomini che siano pieni di Spirito Santo; ma mai, né nella Sacra Scrittura, né nel linguaggio comune, si dice di un uomo che sia pieno di una creatura …. Una tale proprietà può solo adattarsi alla natura divina. Si può benissimo dire di un uomo che sia pieno di virtù e di scienza. Ma lo Spirito Santo non riempie le anime allo stesso modo di queste qualità, perché si comunica alle anime attraverso la sua sostanza. Egli, bontà sussistente, riempie con la sua natura santificante ciò che è veramente buono, ed in tal modo alcune persone giuste sono piene di Spirito Santo (Didimo di A. Lib. 1 MG: 39, 1033). – C’è una differenza essenziale tra la presenza reale dello Spirito Santo nelle anime che Egli santifica e la presenza degli Angeli nelle anime che assistono. Questa, come gli Angeli stessi, è necessariamente limitata, quella è infinita. Ascoltiamo ancora Didimo: « L’Angelo che si è preso cura dell’Apostolo quando stava in Asia, non poteva allo stesso tempo prendersi cura degli altri Apostoli sparsi per il mondo; mentre lo Spirito Santo è presente non solo negli uomini più lontani tra loro, ma in tutti gli Angeli, in tutti i principati, in tutti i troni, in tutte le dominazioni, ed Esso non solo li assiste, ma vi abita » (Ibidem).

La presenza dello Spirito Santo nell’anima dei giustiè diversa da quella che risulta dall’immensità divina.

Va notato che questa presenza dello Spirito Santo nell’anima dell’uomo giusto è molto diversa da quella che risulta dall’immensità divina, per mezzo della quale le tre Persone divine della Santissima Trinità sono ovunque, anche nell’inferno. Anche il Figlio di Dio è immenso ed è presente ovunque, ma questo non ci impedisce di adorarlo soprattutto nell’Eucaristia, perché sappiamo che Egli è lì in un modo particolare. Così, per grazia, lo Spirito Santo è in noi per unirci, per donarsi a noi e santificarci. È questa una presenza particolare, indipendente in un certo senso dalla prima. Suàrez lo spiega dicendo che se, per un caso impossibile, l’immensità divina non rendesse presente lo Spirito Santo in noi, lo farebbe la grazia. Possiamo immaginare un uomo molto povero accanto ad un immenso tesoro, senza che per questo diventi ricco standogli vicino, perché ciò che fa la ricchezza non è la vicinanza, ma il possesso del tesoro. Tale è la differenza tra l’anima giusta e l’anima del peccatore. Il peccatore e il condannato hanno al loro fianco e in se stessi il bene infinito, eppure rimangono nella loro miseria, perché questo tesoro non appartiene a loro. Il Cristiano nello stato di grazia invece ha in sé lo Spirito Santo e, con Lui, la pienezza delle grazie celesti come un tesoro in suo possesso. (Ibidem).

Conseguenze pratiche.

Quanto potere avrebbe questa verità per allargare i nostri cuori! Che influenza avrebbe sulla nostra vita se la tenessimo presente! La persuasione che abbiamo la presenza reale del corpo di Gesù Cristo nel ciborio, ispira in noi l’orrore più profondo della profanazione del calice. Quale orrore non avremmo della profanazione del nostro corpo, se non avessimo dimenticato il dogma della reale presenza in noi dello Spirito Santo! Lo Spirito Santo è per caso meno santo della sacra carne dell’Uomo-Dio? Pensiamo che Egli dia più importanza alla santità di quei calici che ai loro templi viventi e ai tabernacoli spirituali? Impossibile dubitarne: la facilità con cui tanti Cristiani cadono nelle colpe più vergognose nasce soprattutto dalla dimenticanza di questa verità.  – La devozione al Cuore di Gesù, destinata a rigenerare la società cristiana, raggiungerà questo obiettivo dando a tutti, Sacerdoti, religiosi e semplici Cristiani, una perfetta comprensione di questo dogma. Se vogliamo che questa devozione produca in noi tutti i suoi frutti; se vogliamo cooperare alla realizzazione delle promesse che hanno accompagnato la sua rivelazione, abituiamoci a considerarla sotto questo aspetto; sforziamoci di divulgare questa dottrina, con la quale, come con una leva divina, solleveremo sulla terra le anime che il naturalismo del nostro secolo ha così miseramente schiavizzate.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/05/21/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-8/

LO SCUDO DELLA FEDE (112)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA vol. I

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XXII.

Si risponde alle accuse date alla provvidenza, perché ella tribola i buoni.

1. I naviganti mentre sono in tempesta, ansanti, agitati, non sono abili ad osservare l’arte di quel pilota, che fra tanti turbini regge la nave a stupore. Qual meraviglia è però, se il medesimo accade nel caso nostro? Non conosciamo la provvidenza attentissima di quel Dio che ci regge fra tanti mali, perché i mali ci sopraffanno, Ma però dunque dovrà da noi negarsi la Provvidenza, perché noi non la conosciamo? se non la conosciamo noi, l’hanno saputo conoscere tanti e tanti, di noi pratici in quella carta di navigare, che sola ha da rimirarsi in un mar sì alto. Che se nessuno l’avesse mai finita di conoscere, che rileva? Bella cosa in vero sarebbe che i naviganti volessero saperne al par del pilota. Venga però quel temerario, il qual disse:Cura rapiant mala fata bonos, ignoscite fasso, Sollicitor nullos esse putare Deos.

Che è ciò che egli non capisce? Perché tribolati i buoni? perché poveri? perché perseguitati? Perché depressi? Le cagioni sono le medesime a proporzione, per cui prosperati i cattivi.

II. Se non che prima di ripeterlo, io chieggo. Dove sono questi buoni così perfetti, che non abbiano mescolata con l’oro delle virtù veruna mondiglia? Nelle miniere nostrali mai non incontrasi un metallo sì eletto. Per quanto benignamente qualunque nuvola sia rimirata dal sole, non giunge a compire mai tutto il cerchio nell’imitarlo: finisce in arco. E per quanto l’anima sia favorita da Dio, mai non arriva ad esprimere tutte in sé lo divine fattezze perfettamente. Ogni sanità ha qualche intemperie, ogni sereno ha qualche intorbidamento, ogni beltà ha qualche neo, che la fa men cara. E questo mancamento è quello che Dio prende di mira con l’avversità, volendo Egli con questo fuoco avvedutamente distruggere quella ruggine.

III. Ma quando pure sì fatti buoni vi fossero, questa medesima avversità, come io dissi, è richiesta in essi per paragone della loro virtù. Non si conosce il soldato bravo tra l’ombre de’ padiglioni, né la spada nel suo fodero, né lo scudo ne’ suoi forzieri, né la saetta nel molle de’ suoi turcassi. Convien venire alla prova. Questa è che fa discernere il buono dal reo. Talora vi diamo a credere di essere dabbene, perché i mali tutti ci lasciano stare in pace. Eppure mentre poi non reggiamo al primo cimento di pochi che sopravvengono, diamo a vedere di quale tempera si fosse in quel medesimo tempo la virtù nostra, da noi riputata sì fina. Ora, perché la cognizione dello proprie infermità è un ingrediente richiesto, di necessità indispensabile, a quel medicamento che deve sanarci, per questo ordina Dio che i mali facciano sperimento di noi, e così ci diano a conoscere chi noi siamo: ponendoci questi nelle tenebre della infamia, della povertà, delle persecuzioni, de’ morbi, come i gioiellieri pongono il carbonchio nel buio di qualche stanza, perché si vegga, allo splendore che ivi fa, se egli sia verace, o sia falso.

IV. Né solo vale la tribolazione di prova a manifestarci quelli che siamo; ma anche di mezzo a farcì divenire quei che non siamo: più umili, più forti, più fervorosi, più veramente conformi ai voler divino. Che virtù effeminata sarebbe quella de’ giusti, se ella si vedesse sposata sempre al piacere? Sarebbe una virtù epicurea, in cui mai non distinguerebbesi l’amor dell’onesto dall’amato dall’amore del dilettevole: e come lama temperata nell’olio non farebbe giammai colpi di valore. AMfcque apparteneva alla provvidenza l’esercitare duramente i suoi servi, per dar loro capitale da trafficarsi una stabile e sempiterna felicità, la quale non fosse mero dono, ma premio e perciò rendesse duplicati i suoi frutti di onorevolezza congiunta al gaudio. Frattanto     visibilmente ci assiste Dio co’ suoi potentissimi aiuti al principio, al progresso, al fine delle nostre calamità: né solamente a guisa di attento medico tiene la mano al polso dell’ammalato, finché gli si cava sangue, per saper quanto possa reggere; ma di più gl’infonde vigore. Che però se noi non vogliamo vilmente cedere il campo, nostra sempre fia la vittoria. E ciò ridonda ancora in gloria del medesimo Dio, a cui finalmente il tutto va indirizzato, mentre si trovano tanti, che solamente per aggradirgli combattano alla gagliarda, e tengono in tutti gli avvenimenti, o prosperi o avversi fissi in Lui solo i lor occhi, come una fiaccola, che, comunque si volga, o di su, o di giù, mira tuttavia sempre ad un modo la sfera altissima.

V. Ecco dunque come tra i mille giri delle umane vicende non ve n’ó pur uno, il quale non abbia per contro una infinita sapienza. Ma noi sprovveduti di lume a scorgere intimamente questi misteri, non vogliamo né anche dar tempo che la divina provvidenza in faccia a tutto il mondo spieghi il suo arazzo compito per ogni verso: ma vogliamo darne giudizio, mentre esso tuttosta avvolto in ordine a quella parte che resta da lavorarsi, o mentre in ordine a quella che si va lavorando su gli occhi nostri noi possiam mirare fuorché a rovescio. Noi possiamo mirare in ordine a questa che si lavora, fuorché a rovescio, perché noi ordiniamo l’eterno al temporale, e bramando che il cielo serva alla terra, facciamo del fine mezzi, e de’ mezzi fine: ciò che Dio non può mai volere: onde non è meraviglia, se i suoi giudizi sieno si diversi da’ nostri, E noi possiamo vedere in ordine a quella che resti, da lavorare, se non avvolto, perché nulla al presente ci è noto dall’avvenire, che pure è tanto: Totum vide, totum lauda, scrisse prudentemente sant’Agostino. Non ti dar fretta a giudicare su ciò chi! ora tu rimiri: aspetta che, terminato il resto dell’opera, tu possa con un guardo conoscere tutta la corrispondenza, tutta la disposizione, tutto il disegno, e tutto il ripartimento di tante fila, quante sono quelle che unitamente concorrono a questa mirabilissima tessitura: e allor ne giudicherai. Frattanto dove non arrivi a capire ti basti il credere. Di tanti fiumi quanti son quei che si sprofondan sotterra, noi non sappiamo le vie: e nondimeno sappiamo che vanno al mare. Cosi degli occulti giudizi della provvidenza non sappiamo, è ver, gli andamenti; ma sappiamo che tutti termineranno una volta in gloria della divina sapienza, onde sono usciti: Ad locum, unde exeunt flumina, revertuntur (Eccl. 1. 7).

VI. Al fine dunque de’ secoli, quando Iddio verrà in forma di giudice a sciogliere il nodo di questa sì gran tragedia, vedremo chiaro quell’ordito e quell’ordine che ora ci nasconde. Vedremo che le nostre colpe potean recare lode al Signore, non biasimo: dacché, quanto più disordinate eran le scelleraggini, tanto migliore era Dio che le divietava; e che, mentre gli uomini eran sì empi, che si valevano male de’ beni, Egli era sì buono, che si valeva all’incontro bene de’ mali. Vedremo quanto momentanea si fosse quella perturbazione di cose, per cui il vizio prevalse all’innocenza, dopo cui seguirà una calma perpetua; e i colpevoli, quasi spighe vuote, che sollevate dalla loro medesima vanità hanno il capo sopra delle altre, saranno gettati al fuoco in vista degli innocenti, che quasi grano eletto saranno riposti in cielo. Vedremo che le tribolazioni venivano tutte a legge: e che benché fossero più tempestose di un mare irato, non passavano però mai punto i confini prescritti ai loro flutti da Dio. Vedremo che sebbene talora per questi mali sì accusava la provvidenza, non doveva ella però desistere dal suo modo di governare; come non è dovere che desista il suonatore dal tirare la corda al suo giusto tuono, per toma che non reggendo ella vada in pezzi. Queste e mille altre verità più stupende, più segnalate vedremo allora con gran chiarezza, se per impazienza di aspettare a vederle non ce ne verremo a rendere immeritevoli. – Fu recata già nel senato di Atene una causa sì difficile a definirsi, che i giudici convennero in dare alle parti questa risposta: Tornate por la sentenza di qua a cent’anni. Ancora noi, quando i nostri pensieri ci muovano fiera lite sopra i mali da Dio permessi, ed i beni distribuiti, diamo loro questa risposta, che solamente è la saggia: Tornate, non in capo ad un secolo, ma in capo a tutti quelli che ha Dio prefissi allo scoprimento del vero, e vi sarà fatta ragione, e ragion si aperta, che non vi rimarrà neppure animo a cavillare.

VII. Per ora sappiasi, che tutto l’error degli uomini in questo punto è non voler distinguere il termine dalla via. Appartiene alla provvidenza il far che nel termine dove sì sta eternamente, tutti i buoni abbian bene, i mali abbian male. Ma nella via non così. Nella via le vicissitudini hanno da intervenire comuni a tutti, per ciò medesimo, perché siam tutti in via. Vuol che la via non si distingua dal termine, chi vuole che alcuno qui sia sempre beato, o alcun sempre misero (1)

(1) La provvidenza divina si estende a tutto, quanto è ampio, l’indefinito universo papperò mala si giudica della medesima riguardando alcune minime parti del creato in se stesso, staccate da tutte le altre, con cui formano un unico, immenso disegno. Chi se’ tu. Che chiami la provvidenza divina al tribunale di tua ragione e la misuri colla veduta corta d’una spanna? Abbraccia prima, se puoi, e di un solo sguardo tutta l’immensa tela degli umani eventi, e riferisci i tempi tutti all’eternità, e poi levati giudice del provvedere divino. 

FINE DEL PRIMO VOLUME