L’IDEA RIPARATRICE (3)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (3)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO I

Perché riparare?

CAPO TERZO

LA RIPARAZIONE NECESSITÀ CHE S’IMPONE NELLE CIRCOSTANZE PRESENTI.

Ove il terreno non rende convien portar del nostro. Noi preghiamo e mattino e sera: « Padre celeste, venga il tuo regno » . E che il nostro augurio rimanga continuamente vano è pur troppo verità a tutti manifesta. Oh! chi oserà dire che il regno di Dio sta per giungere? Non è forse vero invece che egli non giunge punto, che neppure lo si vede venire da lontano verso di noi? Ai nostri giorni anche noi possiamo ripetere, senza timore di sbagliare, quelle parole che Peguy mette sulle labbra di Giovanna  d’Arco, parole che dipingono così bene la triste epoca degli inizi del regno di Carlo VI. « 0 Padre nostro! Padre nostro che sei quanto siam lontani dal vedere che il tuo Nome sia santificato, quanto siam lontani dal momento che il tuo regno arrivi tra noi… Si va di male in peggio. Vedessimo almeno spuntare il sole di tua giustizia; invece, si direbbe, o mio Dio, mio Dio, perdona! si direbbe che il tuo regno se ne va lontano da noi. Mai prima d’ora si è tanto bestemmiato il tuo Nome; mai si è tanto disprezzata la tua volontà. Mai si è disobbedito con tanto orgoglio… Se i Santi e le Sante vissute finora tra noi non furono sufficienti, ne manda ancora quanti se ne richiedono, ne manda in modo che il nemico si stanchi e ci abbandoni… ». – Nella magnifica introduzione alla vita di S. Liduina, la dolorosa riparatrice di Schiedam, Huysmans descrive a larghi tratti lo stato del mondo nell’epoca in cui Dio si prepara ad eleggere l’elegante pattinatrice di quel canto di Olanda per inchiodarla in un letto per 38 anni, in preda ai più atroci dolori di corpo e di spirito, e così mandar sconfitto satana il cui regno maledetto si va espandendo ogni giorno più. Il mondo non si è mutato di molto dopo S. Liduina. Ai suoi giorni i popoli si massacravano l’un l’altro. Oggi noi abbiamo nulla da invidiare a quei barbari di allora. Le nazioni si sfasciavano per decrepitezza e decadenza, fattesi volontariamente schiave di sofisti prezzolati e di falsi pastori senza scienza. E noi abbiamo visto tutto questo anche al presente. Non mancava allora il denaro per assoldare i traditori. E a questo fine del denaro non ne mancherà mai. Ora come pel passato abbondano quei filosofastri che trovano sempre delle ragioni per scusare i più nefandi delitti. La sete del piacere dappertutto e sempre. « Fra 23 giorni compirò i miei vent’un anno, è tempo di darmi al piacere », e questo motto di Beyle è l’ideale di intere generazioni. Il peccato si diffonde con una profusione ed un cinismo che fa spavento. Non ci sentiamo il coraggio di portarne qualche esempio poiché non si troverebbe più il modo di terminare [chissà cosa scriverebbe oggi p. Plus, epoca infinitamente peggiore della sua .. –ndr.-]. A qualche anima più generosa nella riparazione il divin Salvatore non di rado ha fatto delle confidenze, in cui il buon Maestro viene a particolari di peccati più enormi che attirano sulla terra castighi più terribili se non v’ha chi si offra per riparare. – E per primi i peccati di bestemmia. Gesù comparve tutto in lacrime e sfigurato in volto ad una Clarissa del XVIII secolo, Veronica Giuliani, e le disse: « Contempla come sono maltrattato dagli uomini e in che stato sono ridotto. Tutto questo per le orribili bestemmie che vomitano continuamente contro di me le creature delle mie mani ». E noi abbiamo riferito più sopra a questo proposito le parole della Vergine Santissima alla Salette. – Poi vengono i peccati di impurità. Mentre Caterina da Siena piangeva sui mali della Chiesa: « Ricorda, le disse il divin Salvatore, che ben prima della peste ti avevo fatto comprendere l’orrore ch’io sento del vizio impuro, e come ne era purtroppo guasto il mondo intero. Io ti ho messo innanzi agli occhi tutte le nazioni e vi hai scorto un po’ per tutto questo maledetto peccato. Questa lebbra aveva contaminato l’universo… la maggior parte degli uomini era macchiata da questo vizio infame nell’anima e nel corpo. « Tuttavia in mezzo a tanti prevaricatori ti ho mostrato un certo numero di anime immuni da simili colpe, poiché in mezzo ai perversi si danno sempre degli eletti le cui buone opere mi trattengono dal comandare alle montagne di schiacciare i colpevoli, alla terra di ingoiarli nei suoi abissi, alle belve feroci di divorarli, o ai demoni di portarseli in anima e corpo all’inferno. E allora io cerco modo di poter far loro misericordia col trarli a mutamento di vita e mi servo a questo fine degli stessi miei servi fedeli e puri da siffatta lebbra e li muovo a pregare per essi » (Dialoghi, c. 124. – — Nostro Signore già altra volta le aveva detto: « Mia dolce figliuola, le tue lacrime sono onnipotenti perché sparse per amor mio. Non posso resistere ai tuoi desideri. Ma guarda un po’ le brutture che disonoranoil volto della mia sposa. Essa è guasta come da una lebbra dall’impurità, dall’amor proprio, dall’orgoglio e dall’avarizia » – Dial., c. 14].- Specialmente a certe epoche questi peccati riboccano, è allora che in modo particolare convien riparare. – La Domenica di Quinquagesima al cominciar della Messa N. S. Gesù Cristo compare a S. Geltrude stanco, desolato per le persecuzioni di cui lo fanno oggetto da ogni parte e le domanda di rifugiarsi nel suo cuore: « E da quel momento durante i tre giorni di Carnevale, ogni volta che io rientravo nel mio cuore io vi scorgevo, mio Gesù, appoggiato sul mio petto, languido, spossato e io non potevo allora recare migliore sollievo ai vostri mali che coll’applicarmi per amor vostro all’orazione e agli altri esercizi di mortificazione per la conversione di quelli che vivono nei disordini del mondo » (Insinuations, L. 2, c. 14). – Così non accadesse che gli stessi « eletti » non uscissero mai dalla retta via! Con quanti singhiozzi non esprimeva le sue lagnanze il Signore a S. Margherita-Maria e ad altre simili anime privilegiate più vicine a noi! » Io voglio mostrarti la ferita più dolorosa che si faccia al mio Cuore… ne sono causa le anime religiose e sacerdotali che mancano di fedeltà alla loro vocazione o che non vi corrispondono secondo i miei disegni ». Ritorniamo ai semplici fedeli. Là dove essi dovrebbero trovarsi più spesso per amare chi li ama, essi non vi si trovano mai. « Nelle Chiese io mi resto quasi continuamente solo e derelitto, confida Nostro Signore a Gemma Galgani (Serva di Dio morta a Lucca nel 1903 dopo una vita di austerità meravigliosa e di mistici favori), e quelle poche ore in cui vi si accorre in folla, altri motivi dall’amore mio vi spingono la maggior parte, ed io soffro nel veder la mia Chiesa, mia propria dimora, mutata in un teatro ed in luogo di piacere ». E siccome Gesù continuava lamentando certe comunioni infami, Gemma lo supplicò di non andar più innanzi: « Gesù, Gesù, io vengo meno… ! ». Oltre le colpe di quelli che ancor hanno fede abbiamo l’incredulità di quelli che vivono lontani dal Dio della Verità! « O Signore! Venga, venga presto il tuo regno! ». Ahimè! quanto esso è ancor lontano! Di un miliardo e mezzo di uomini che abitano la terra appena cinquecento venti milioni sono Cristiani e fra questi i Cattolici contano per soli duecentosessanta milioni. Tutto il resto scismatici, protestanti, mussulmani, Giudei o pagani idolatri. Povero Gesù, che per redimere le anime ha versato tutto il suo sangue adorabile! Ahimè! Gli Apostoli non sono sufficienti… Ventisette secoli or sono. Amos profeta, sotto i sicomori di Béthel usciva in queste strane parole: Ecco si avvicinano quei tempi in cui manderò la fame e la sete sulla terra, non la fame e la sete dell’acqua, ma la fame e la sete della parola di Dio… ed essi andranno cercando per tutte le parti la parola di Dio… e non la troveranno ». Dopo ventisette secoli non ci troviamo forse nelle medesime condizioni? Nazioni e popoli in gran numero, anche dopo la venuta di Cristo, noi li vediamo tuttora seduti all’ombra della morte. « Quale sciagura, Padre mio, per i figli dei Tanali! », scrive una tribù del Madagascar centrale domandando il ritorno del missionario che per la penuria di sacerdoti era stato tolto da quella stazione. « Noi eravamo nella notte profonda come un uomo rischiarato da una fiaccola tra le tenebre: la luce della preghiera cattolica ci aveva illuminati. Ora la grande luce da noi veduta ci è stata rapita. Ahimè! quale disgrazia 0terribile. Salvateci. Padre mio!Quel grido del nostro dolore. Eccoci ridotti quali pecore orfane del loro pastore, la preda dei lupi ». – Il mondo desolato domanda aiuto, ma non è facile trovar molti che si vogliano dedicare a questa impresa che converrebbe intraprendere non soltanto con tutta la mente e l’energia possibile ma soprattutto e prima d’ogni altra cosa con tutto il cuore: dedicarvisi, cioè amare l’ideale che si vuol fare trionfare, siffattamente da sacrificare per esso non solo qualche parte di sé, dei propri gusti, delle proprie preferenze, delle proprie abitudini, ma tutto sé, tutte le proprie abitudini, preferenze, tutti i propri gusti: dedicarvisi, cioè amare quelli che si vogliono guadagnare siffattamente da andare verso di essi senza attender che vengano da sé, senza aspettarsi un compenso di affetto o di gratitudine, puramente per amore, amore di Dio, amore delle anime: dedicarsi ad una siffatta impresa e specialmente il farlo nel modo che si è detto, no, non è cosa facile. Quindi la grazia divina la vedete là sempre pronta a zampillare, a scorrere, a lavare le colpe, a purificare le coscienze, ad illuminare i ciechi, a guarire la lebbra e la paralisia. Ma come per il povero paralitico della piscina probatica non c’è chi metta alla portata dell’infermità il rimedio che è preparato. « È necessario lo spirito di sacrifizio? Eccomi pronta! ». Così diceva Valentina Riant, e di gran cuore accettò di consacrare la propria vita riparatrice al riscatto delle abbominazioni e delle turpitudini dei nostri giorni. Ma quanti vi sono che si sentono il coraggio di imitarla? – Dopo il 1871 Renan e i suoi amici fecero coniare una medaglia doro per commemorare un fatto strano riportato sulla medaglia colle seguenti parole: « Durante l’assedio un gruppo di persone, che solevano riunirsi a pranzo ogni quindici giorni da Brebant. non si sono avvedute neppure una volta che esse pranzavano in una città di due milioni d’abitanti circondata dai nemici ». Questo è quanto accade quaggiù. L’universo contiene due sorta di anime: le une, in piccolo numero, sul modello della generosa Riparatrice e sono quelle che vedono, comprendono e a tal vista soffrono troppo per non gettarsi allo sbaraglio; le altre, sul modello dell’odioso egoista e della sua truppa — truppa che è legione — i quali nulla vedono, o vedendo nulla comprendono, o vedendo e comprendendo nulla vogliono sacrificare e in mezzo ad una generazione che trasportata dal vortice delle passioni precipita verso l’abisso, non pensano che a banchettare presso i diversi Brebant dei nostri tempi, o almeno non pensano che a dimenticare i milioni di disgraziati che stanno ai loro fianchi, poveri assediati e prigionieri del dubbio, della miseria e della lontananza da Dio. « Tre milioni d’anime, computa con ironia un contemporaneo, sono uguali a una ventina di Anime colla lettera maiuscola ». L’abitudine di vivere sempre in mezzo a questo egoismo che tutto domina ci impedisce di vedere quanto vi sia in esso di odioso. Ma coloro che nelle tenebre di una vita passata fin allora fuori della Chiesa, da una grazia straordinaria tutto ad un tratto sono « colpiti di chiaroveggenza » e condotti all’Evangelo, non possono nascondere la loro meraviglia e simulare il disprezzo loro per queste ce anime vuote » di cui è popolato il mondo, le quali non aspirano che al nulla di cui continuamente si pascono.

L’artista olandese. Pietro Van der Meer, confessa nel suo Journal, il grande stupore che gli recava la prodigiosa incoscienza di certe persone — il più gran numero degli uomini — mentre egli stava cercando la fede. Egli attraversa in Londra la « vecchia città, lurido quartiere del commercio, del denaro e degli affari… Da tutte le porte, da tutte le vie, da tutti gli angoli, ripostigli e andirivieni io vidi uscire delle persone vestite in nero e senza cappello in testa che si precipitavano tutte nella stessa direzione, si sarebbe detto con un medesimo scopo. Era annunziata la sottoscrizione ad un Prestito giapponese, dunque v’era un guadagno assicurato e tutti si precipitavano come selvaggi sulla loro preda ». Un altro giorno è a Parigi ove giunge col diretto delle 6 del mattino. « Sui boulevards Rocheckouart et Clichy mi si presenta lo spettacolo dei piaceri e dei dolori della notte. In una sala al primo piano di

un caffè… i lampadari erano ancora accesi. Tutto ad un tratto mi giungono all’orecchio le risa sguaiate d’una ragazza. Poi mi imbatto in vari uomini e diverse donne in abito da serata col volto stanco, gli occhi infossati che si affrettano lungo le case o  cercano una vettura ». – Altrove abbiamo quelli il cui Dio è un buono stomaco, quorum Deus venter est: « Questo Gargantua si può ben dire che non conosce affatto il timore della morte e neppure si preoccupa troppo del mistero della vita. Che cosa può mai esser la vita dell’anima per chi non è altro che materia? ».Nel nostro albergo ha preso stanza una vecchia signora americana che si vanta di non aver né parenti, né amici. — O meglio — essa aggiunge — ho un amico e quello è l’unico! » e traendo di tasca il portamonete lo pone solennemente sul tavolo: « Il mio amico unico, eccolo! ». E il pensiero va a quella fanciulla troppo mondana che sul punto di morire confessa alla religiosa che l’assiste: «Mia buona suora, le mie mani sono vuote! »; o a quel gentiluomo austriaco, parente del conte Czerain. che diceva: « Quando il Signore mi domanderà conto della mia vita, sarò obbligato a rispondere: — 0 Signore, sono stato alla caccia ed ho preso lepri, lepri, lepri … — e questo è veramente troppo poco ». – Sì, certo, troppo poco. E non siamo con questo dei giansenisti, non condanniamo il piacere legittimo: noi qui intendiamo flagellare la mostruosa usanza di non vedere nella vita altro che il piacere che essa può procurare.

C’è ben ancora dell’altro. Fortunatamente v’ha chi lo comprende.

Ed uno di questi scrive: «Perché è sì poco conosciuto, così poco amato? Perché la sete del piacere più o meno sanodivora l’umanità? Ahimè! quand’io getto lo sguardo sulla nostra società, io mi sentopreso da profonda compassione e da unvivo desiderio di amare Gesù per tutti quelli che lo disprezzano ».In queste parole noi troviamo appunto il programma formulato con vera riuscitada un certo personaggio d’una operettamoderna. « Noi ci sottomettiamo a privazioni, amortificazioni alla vista delle sofferenze altrui per un sentimento profondo di simpatia, per un bisogno, un desiderio di soffrire insieme con essi: altre volte ci imponiamodelle privazioni anche perché altritroppo si abbandonano al godimento; alloraè per un desiderio di riscatto, un sentimentodi compensazione: ciascuno secondola sua condizione e la sua capacitàprocura di mantener un certo livello nell’umanità».

La festa dell’Ascensione, 11 maggio 1899,Nostro Signore, ad un’anima che si erascelta già altre volte per confidarle i desideridel suo Cuore, rivolse la seguentedomanda:— Mia figliuola, posso io contare sopradi te e richiedere da te quello che non mivogliono concedere le anime molli e sensualidel mondo e nemmeno la maggiorparte delle anime devote che se mi amanoe mi servono lo fanno solo perché nell’amarmie servirmi trovano una qualche soddisfazionepropria?

— Oh! sì, mio Dio.

— Accetti la tua parte della mia vita di pene per la continua espiazione dei peccati che di continuo si commettono? E poiché così io vivo nelle anime che volentieri si danno a me per soffrire e per espiare, vuoi tu esser una di queste anime abbandonate al mio volere?

— Oh! si, mio Gesù.

— Acconsenti a soffrire tutte le pene che mi piacerà inviarti sia nel tuo cuore, sia nel tuo spirito, sia nel tuo corpo? Mi resterai fedele? avrai tu sempre fiducia nella mia sapienza, nella mia misericordia, nel mio amore?

— Oh! sì. mio Dio.

— Consenti a lasciarti ridurre, in conseguenza delle infermità che ti invierò, alla completa impotenza? E fra siffatte tribolazioni resterai tu sempre calma, servizievole, pronta a tutto? Mi prometti di non mai dubitare del mio amore per te. di non accoglier mai volontariamente nel tuo cuore pensiero alcuno di diffidenza e di moltiplicare, col moltiplicarsi delle prove, gli atti di abbandono alla mia Provvidenza, di adesione alla mia volontà, di riconoscenza per la parte che io ti dono della mia vita d’espiazione?

— Oh! sì, mio Dio, colla vostra grazia io ve lo prometto – (Questi particolari li abbiamo avuti qualche anno fa da un eminente direttore di anime, il cui nome è ben conosciuto, il R. P. Foch).

Quanti cuori generosi nel secreto della orazione si sono così offerti a Dio con la stessa generosità! Compiacetevi, Signore, di mandarcene molte di queste anime giuste per la riparazione compensatrice! Mandatecene di queste anime non solo fedeli ma risolute a pagare colla loro fedeltà il debito contratto dagli uomini colla vostra giustizia! Una generosità ordinaria non basta, fa d’uopo di una generosità senza riserve a disposizione d’un amore riparatore e penitente. Se altre opere sono necessarie, questa va innanzi a tutte. – Meglio ancora, o Signore, fate spuntare delle anime che non solo accettino il sacrifizio, ma gli vadano incontro generose, lo amino, lo desiderino per sconfiggere le potenze del male. Avremo così le anime riparatrici in grado massimo: « massimaliste ». – Il cardinal Manning scriveva: « Questa nostra non è un’epoca di martiri (chi sa?) ma un’epoca in cui ciascuno deve possedere una volontà robusta come quella dei martiri ». In un libro pubblicato ancor prima della guerra, Daniele, protagonista di quel libro, dà una risposta ben meritata ad un giovine ecclesiastico un po’ mondano, il quale con compiacenza ricordava il detto d’un vescovo della Cina che, testimone di molti massacri avvenuti colà, aveva confessato: ce Giovane ancora io avevo desiderato il martirio … ma ora mi sono affatto ricreduto ». « Lasciate che io ve lo dica — risponde dunque Daniele — sevi hanno in mezzo a noi mille fedeli, se ve n’hanno cento o anche solo venti i quali sieno preparati a portare sul loro corpo le stimmate della Passione di Gesù Cristo, questi ne sono i veri e i soli discepoli e si riconosceranno nel versare che faranno lietamente il loro sangue! Questo sangue la terra che noi calpestiamo già lo conosce, già in altri tempi ne fu imbevuta abbondantemente, era il sangue dei nostri martiri; per la patria che deve risorgere noi siam pronti a dare anche il nostro ». « Sì, daremo anche il nostro sangue ». Non già sul campo di battaglia o nelle arene dei gladiatori versato forse tutto quanto in una volta, ma a goccia a goccia nello sforzo di ogni giorno per la santità, per la ristorazione in Cristo di tutto il genere umano: versato a goccia a goccia nelle immolazioni che si direbbero da nulla ma sono di grande efficacia, in una vita tutta per Dio fino al sacrifizio, per le anime più elette, d’ogni riserva dell’amor proprio, al sacrifizio degli affetti più intimi men che ordinati, dei gusti anche leciti e di tutte le soddisfazioni per aver la soddisfazione — certo più nobile e più gradita — di vedere Dio finalmente conosciuto, amato e servito come si deve e si merita.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/08/03/lidea-riparatrice-4/

L’IDEA RIPARATRICE (2)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (2)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO I

Perché riparare?

CAPO SECONDO

LA RIPARAZIONE: DESIDERIO ESPLICITO DI NOSTRO SIGNORE.

La necessità della riparazione s’impone a ciascuno di noi non soltanto, come abbiamo visto fin qui, quale conseguenza legittima dei più saldi principii della nostra fede cattolica e in particolare della dottrina del Corpo Mistico di Gesù e del dogma della Redenzione, ma ancora per un obbligo esplicitamente inculcato e ripetuto dallo stesso nostro Divin Redentore. Apriamo il Santo Vangelo, consultiamo gli altri libri divinamente inspirati, ad ogni tratto noi troviamo che il Salvatore si mostra desideroso di trovare delle anime che sappiano rinnegare se stesse e mettere a profitto della gran causa della gloria divina e della salvezza di molti la propria abnegazione. – Incominciamo dai Santi Vangeli. La legge che più di ogni altra vi si ricorda è il dovere della penitenza riparatrice: e i testi sovrabbondano. Il divin Maestro manda innanzi a sé il Battista; quale la sua predicazione? — « Un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati » . — Sulle rive del Giordano, ove verrà a lui lo stesso divin Salvatore per incominciare la sua missione, che ripete nelle sue lunghe giornate? — « Fate penitenza, perché si avvicina il Regno di Dio ». Ed egli stesso colla sua vita precede dandone l’esempio: poiché le sue vesti sono un rozzo cilicio, suo cibo le locuste del campo, suo compagno il silenzio del deserto. Vengono a lui le turbe e l’interrogano: « Tu chi sei? ». Ed egli risponde loro: « Chi io mi sia, lo volete sapere? Sono la voce che grida nel deserto: Raddrizzate le vie del Signore ». Voi siete fuori di strada, avete sbagliato il cammino, convien ritornare sulla buona via — riparare. E quando gli si accostano degli ipocriti, poco desiderosi certo di cambiar vita, e mostrano di voler esser purificati col suo battesimo, Giovanni li accoglie colle ben meritate invettive: « Razza di vipere, ipocriti! il vostro pentimento non è sincero. Il Signore esige frutti di penitenza proporzionati alla gravità delle vostre colpe. La scure è alla radice dell’albero. Quella pianta che non porta buoni frutti sarà tagliata e gittata al fuoco. Non tardate più oltre. V’ha chi deve venire — anzi Egli è già in mezzo a voi — e voi nol conoscete ancora. Avete presso di voi del buon grano? Egli lo raccoglierà per i suoi granai: non avete che della paglia? egli la butterà tra le fiamme che mai non si estingueranno ». Può darsi forse parola più decisa e più vibrata per inculcare la necessità della pena compensatrice, l’obbligo di ritornare sulla retta via, di riparare i propri errori, di sollecitare il perdono coll’offerta di una penitenza proporzionata ai propri falli? Ed ora sottentra lo stesso divin Salvatore ed incomincia la sua predicazione col digiuno di quaranta giorni nel deserto. Agli Apostoli che chiama alla sua sequela più intima Egli dice: « Abbandonate ogni cosa »; e alle turbe che si affollano intorno a Lui: Rinnegate voi stessi » . S. Matteo ce lo fa notare appositamente: « Da quel punto incominciò a predicare dicendo: Fate penitenza »; quasi per farci comprendere che tale insegnamento, molto frequente poi in appresso, Egli lo proponeva fin dal principio come un pensiero che gli era caro ed un tema che preferiva ad ogni altro. Anzi Egli passerà tutta la sua vita pubblica nello sviluppare questo tema: la rinunzia di sé stessi e la penitenza dei peccati. « Se voi avete due tuniche, vendetene una. Non vi turbate in vita vostra pel cibo e vestito necessario. Che importa il denaro? Quel che conta è il tesoro ammassato pel Cielo » . Lo sentirete continuamente fulminare di anatema quanti battono la via larga e invitare i pellegrini di quaggiù a preferire la via stretta. « Guai a voi, o ricchi! Guai a voi, o ipocriti, guai a voi! E chi sarà beato? Quelli che non posseggono nulla, i mansueti, quelli che piangono, gli assetati della giustizia, i misericordiosi, i puri, i pacifici, i perseguitati! Ecco: seriamente, volete voi impegnarvi al mio servizio, venire dietro di me? Un passo s’impone: Risolvete di rinnegare voi stessi e prendete a due mani la vostra croce. Altrimenti tutto è inutile ». E il Salvatore non ha sole parole. Se Iddio avesse tracciato soltanto delle formole, pochi avrebbero compreso. Ma la parola si mutò in atto, la parola ha preso corpo: Et Verbum caro factum est, il Verbo si è fatto carne. Così quanto poteva giungere soltanto agli orecchi nostri diventò visibile agli occhi di tutti. Il consiglio si cambiò in esempio. Il Salvatore farà consistere l’intera sua vita in una continua ostia per insegnare a noi l’immolazione. Fin dal suo primo ingresso nel mondo — ingrediens mundum — dichiara la natura della sua impresa. — Dicit: hostiam et oblationem noluisti. Tunc dixi: ecce venio. Poiché le vittime offerte fino a questo giorno non vi sono gradite, o Padre Celeste, ecco da questo momento, accettatemi, sarò io stesso la vittima. Nel seno di Maria, Gesù non fa altro che le prime prove di quella vita di ostia che Egli poi continuerà attraverso ai secoli nei chiusi tabernacoli sparsi sulla faccia della terra. Egli viene alla luce: il presepio, Betlemme, la stalla. Egli è ostia. A parto virgineo effectus hostia, dirà Tertulliano. E dopo la nascita da Maria SS. la serie dei sacrifizi si continua: la circoncisione, la fuga in Egitto, l’esilio; nulla manca. Il Saldatore doveva dire più tardi: « Beati quelli che soffrono, beati quelli che sono spogliati di ogni cosa ». Se Egli possedesse qualche cosa, se fosse nato in mezzo alle comodità, gliel’avrebbero rinfacciato. Oh! no, Egli sarà più di tutti noi povero e disgraziato. A Nazareth la vita nascosta. Senza di essa, predicando Egli più tardi l’umiltà, noi non avremmo accolte le sue parole: sono così pochi quelli che lo fanno anche dopo il suo esempio così eloquente! Noi amiamo tanto comparire… ed Egli si nasconde per trent’anni. Per ogni sorta di orgoglio, è conveniente un’ammenda speciale. Egli si nasconde e lavora ed il suo lavoro è faticoso. Holman Hunt, pittore inglese, in un quadro intitolato « L’ombra della morte nella bottega di Nazareth », ha dipinto il Cristo operaio che sospende per un istante il lavoro, si rizza sulla persona e stende le sue braccia per riposarsi dalla fatica. L’ombra della sua persona si proietta sul muro bianco attraversato orizzontalmente da un asse a cui sono appesi gli utensili da falegname. L’illusione è perfetta. Si direbbe un uomo che spicca in rilievo sopra una croce. Poi viene la vita pubblica colle sue faticose peregrinazioni in cerca di anime, il Cristo assetato domanda un po’ d’acqua alla Samaritana, le notti passate in preghiera, l’Apostolato infaticabile. Le volpi hanno una tana, gli uccelli un nido, il Figlio dell’uomo, nulla. Non un tetto per ricoverarsi. Egli sconta per tutti quelli che si perdono dietro alle vanità, per gli adoratori del vitello d’oro, per i figli di Dio che dimenticano o trascurano di ricorrere a Lui, per i seminatori di zizzania, e per quanti non accolgono o ricevono invano il seme divino. Al cominciar del suo ministero Giovanni Battista lo addita alle turbe chiamandolo semplicemente : « L’Agnello di Dio che porta i peccati degli uomini ». Comprendiamo bene: Ecco la vittima universale e silenziosa per cui il mondo avrà salvezza. Con pazienza veramente divina, per ben tre anni il Cristo cercherà di far comprendere ai suoi Apostoli che Egli dovrà sacrificarsi alla morte. Essi non ne saranno persuasi finché dai nascondigli in cui avranno potuto rifugiarsi ben dentro alla città di Gerusalemme, non lo scorgeranno lontano sulla vetta del Calvario confitto sopra la Croce. Finalmente ecco la Passione di Gesù: in essa specialmente il divin Salvatore si mostra l’ostia per eccellenza. Egli accetta di essere tradito, rinnegato, insultato, battuto, oltraggiato, inchiodato e sospeso al patibolo della Croce per insegnare a noi di soffrire com’Egli fece, nel nostro onore, nella nostra riputazione, nella nostra carne, nelle nostre affezioni e poi — perché necessaria la riparazione alla giustizia divina — per tutti quelli che se la godono e che si divertono, per tutti quelli che tradiscono il loro battesimo e la loro fede, pei rinnegati e quanti insultano il Crocefisso e perseguitano la religione, per quelli che schiaffeggiano la Chiesa, il suo capo e i suoi ministri, per tutti quelli insomma che per il loro svergognato egoismo non sanno sostenere la vista della Croce del Signore. È sì grande l’amore di Cristo per la riparazione che la glorifica nella Maddalena, la pubblica peccatrice, la quale in virtù del suo pentimento sincero e del suo grande amore è diventata la Maddalena di Betania — « Il Maestro è là che ti cerca — e la Maddalena del Golgota… Ai piedi della Croce sul Calvario scorgiamo tre persone — come avviene sempre quando c’è da soffrire — un uomo e due donne. Maria SS., S. Giovanni, la Maddalena: tra due innocenze intatte, un’innocenza ricostruita… », ricostruita a prezzo di riparazione così cenerosa, col doppio spezzarsi dell’alabastro dei profumi e del suo proprio cuore— ricostruita di maniera che la peccatrice di una volta ora sarà la prima creatura a cui, dopo che alla Vergine SS., Gesù si mostri risorto — la Maddalena del mattino di Pasqua. Per conoscere meglio il pensiero di Cristo sulla riparazione dopo averlo studiato nei Santi Vangeli, vediamolo illustrato nelle grandi rivelazioni della Storia. Paray le Monial, Lourdes, La Salette, Pellevoisin, Pontmain… sono eloquenti. Si direbbe che Nostro Signore nelle sue apparizioni a Santa Margherita-Maria Alacoque non avesse altro scopo che mendicare delle immolazioni riparatrici. « Ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini e in compenso non riceve che ingratitudini e amarezze. Io domando quindi da te riparazione » (Autobiografia, p. 365). « Il S. Cuore — dice la Santa — cerca delle anime riparatrici che gli rendano amore per amore e che con profonda umiltà domandino perdono a Dio per tutte le ingiurie che gli si fanno ». – « È un fatto, mia diletta figlia, che il mio Cuore mi ha spinto a sacrificare tutto me stesso per gli uomini senza che ne avessi da parte loro corrispondenza alcuna. E questa una pena che mi addolora più di ogni altra da me sofferta nella mia Passione; essi non hanno che freddezza e ripulsa per quanto mi adoperi a far loro del bene… tu almeno recami questo piacere di supplire per la loro ingratitudine… » (Lettere 44, 30, 126). Verso il termine del febbraio 1669, nei giorni del Carnevale, la Santa scrive alla Madre De Saumaise: « Questo Cuore amabilissimo, se non erro, mi rivolse la seguente domanda: Vuoi tu farmi compagnia sulla Croce in questi giorni in cui sono cotanto afflitto per la sete del piacere che inebria il mondo? Io ti farò provare tali amarezze che tu potrai in qualche modo raddolcire quelle che i peccatori versano abbondanti nel mio Cuore: e tu coi tuoi gemiti incessanti uniti alle mie pene otterrai misericordia perché i peccati degli uomini non passino oltre l a misura » (M. Gathey: Vita ed opera della B. Margh. T. 2, p. 425). Allo stesso fine, la riparazione. Nostro Signore domanda l’istituzione di una festa speciale in onore del suo Cuore divino, la Comunione dei primi venerdì del mese. anzi la Comunione anche più frequente coll’approvazione dell’obbedienza, la pratica dell’Ora Santa, ecc. Quasi sempre nelle sue comunicazioni colla diletta discepola del suo Cuore, Gesù ha di mira il formare essa — e per mezzo di essa, ciascuno di noi — allo spirito della riparazione. Per l’Ora Santa, a mo’ d’esempio, il Signore domanda: « Ogni notte dal giovedì al venerdì io ti metterò a parte di quella tristezza mortale che io ho provato nell’Orto di Getsemani. Tu ti leverai dalle undici ore a mezzanotte: ti prostrerai per quell’ora vicino a me, la faccia a terra, sia per placare la giustizia divina domandando misericordia pei peccatori, sia per addolcire in qualche modo l’amarezza ch’io provai per l’abbandono dei miei apostoli che non avevano potuto vegliare un’ora vicino a me » (Autob. N. 57). – E sulle intenzioni del divin Maestro non è possibile andar errati. La prima volta che il divin Cuore si manifesta alla Santa, il 27 dicembre 1673, le si mostra sull’altare, luogo del sacrifizio, e con sembiante afflitto. L’immagine che suggerisce alla Santa perché venga disegnata ed esposta alla venerazione, deve rappresentare un cuore ferito, sormontato da una croce, e circondato da una corona di spine. Si spiegano quindi le parole piene di ardore nella Santa: « Se voi sapeste — scriveva essa — quanto il mio Sovrano mi spinge perché lo ami d’un amore di conformità alla sua vita dolorosa! Io non vedo che possa addolcire la lunghezza della vita fuorché il soffrire sempre per amore. Soffriamo dunque amando senza lamentarci mai, e riputiamo come perduti quei momenti passati senza dolore » . La vita della Santa si compendia in un inno alla Riparazione, un ardente invito ad amare Gesù « con un amore di conformità alla sua vita dolorosa ». È inutile continuare le citazioni della sua vita e delle sue opere: conviene scorrerle tutte quante. – Il P. Terrien, nell’opera piena di dottrina sulla Divozione al S. Cuore (L. 3, cap. 3), si esprime categoricamente così: « Riparare è la stessa cosa che amare, ma è soprattutto soffrire sacrificarsi interamente amando » (2).

(2) [Il che non toglie affatto l’orrore che si ha istintivo pel dolore. Nostro Signore diceva a S. Teresa: « Mia figlia, tu chiedi il dolore e poi ti lamenti quando te lo concedo ». Ma poi aggiungeva: « Tuttavia io non lascio di esaudirti assecondando così non già le ripugnanze della tua natura, ma i desiderii della tua volontà » (Autobiografia di S. Teresa, p. 169). Insistiamo sulle parole Ttua volontà. La vera pietà non è fatta di sentimento, specialmente la pietà riparatrice. I nostri lettori non dimentichino mai questa osservazione mentre continuano scorrere le pagine seguenti]. – E altrove aggiunge: « Conviene attingere nel Cuore di Gesù quella preziosa perfezione della Carità che sola può rendere a Lui pienamente gradite le nostre riparazioni ». Gesù batte alla porta dei nostri cuori per averne le nostre riparazioni, ma quel po’ di elemosina che noi gli possiamo dare non ha valore alcuno se non passa come attraverso al suo Cuore divino. È come un flusso e riflusso di benedizione. Il suo amore ci chiama partendo da quel centro e il nostro amore non può efficacemente rispondere senza ritornare a quello stesso centro. – Davide diceva: « Ho trovato il mio cuore per pregare il Signore » . Noi abbiamo di meglio: lo stesso Cuore di Dio. S. Bonaventura non desiderava di meglio che di prendere in esso stabile dimora e rimpiangeva la cecità degli uomini che non sanno penetrare nel loro Gesù attraverso alle sue ferite, specialmente a quella del suo Costato. Diciamo dunque ancor noi: « Umile sì. ma risoluto, andrò fino all’altare del Signore. Introibo ad altare Dei ».

Nell’inno alle Lodi per la festa del Sacro Cuore si canta: « O Cuore, altare sul quale il Cristo Sacerdote ha offerto e offre ogni giorno il Sacrifizio cruento e mistico, chi non vi adorerà, chi non vi amerà, chi non vi sceglierà come dimora per abitar in esso eternamente? ». Questo suo Cuore, in cui Gesù di continuo rinnova il suo sacrifizio, sarà il mio asilo benedetto, in esso io offrirò la mia modesta partecipazione all’opera della Redenzione. E come il farò.” Cercando di unire i miei sentimenti a quelli di questo Cuore adorabile, seguendo, per esempio, l’indirizzo dell’Apostolato della Preghiera — non è questo l’unico modo di farlo, ma è certo uno dei migliori.

Quali sono questi sentimenti del Cuor di Gesù?

« Ecce venio: eccomi. Signore, io mi offro, mi dono a voi » . La vita di Gesù è un ecce perpetuo, una continua conferma dell’immolazione del primo giorno. Ecce rex, ecco le Palme: Ecce homo, ecco la Passione; Ecce Agnus, ecco Gesù del Giordano e dell’Eucaristia. Maria SS., fedele imitatrice di Gesù, anch’essa nella sua lunga vita non fece che ripetere quel suo: « Ecce, ecce ancilla Domini. Eccomi, io mi abbandono al vostro volere ».

Dal Cuore di Gesù erompe di continuo un duplice desiderio: — una fame divorante di compiere la volontà del Padre; — una sete ardente d’esser battezzato nel proprio sangue per strapparci dalla morte. Orbene, questo doppio desiderio pervade in Gesù tutto quello che gli appartiene. Di fatto, al presente, Gesù anche nella Umanità sua propria non è più passibile di umiliazione né di patimento; ma gli restiamo noi, suo Corpo mistico. Ed è per ciascuno di noi in particolare che Egli desidera l’abbandono totale ai voleri divini, per ciascuno di noi ha sete di quelle immolazioni che debbono unirci al suo Sacrifizio. Gesù non può più umiliarsi in se stesso, lo può fare in noi: non può più in se stesso soffrire, soffre in noi. Noi siamo in qualche modo Lui stesso: questa è la ragione per la quale aspetta la nostra partecipazione e le nostre offerte. Ahimè! troppo pochi son quelli che s’accorgono dei desideri di Gesù, meno ancora quelli che vi corrispondono. Tuttavia a questo tende la divozione al S. Cuore di Gesù: meglio, questo appunto ne costituisce l’essenza. Chi la giudica altrimenti la diminuisce o la falsa del tutto. Inoltre per farci comprender meglio le sue intenzioni, il divin Salvatore ha voluto rimanere in mezzo a noi sotto la figura di ostia. Sotto i veli eucaristici Gesù non può di fatto soffrire pei sacrilegi e per l’indifferenza, per la ribellione e per l’orgoglio, per la sensualità e le immodestie degli uomini. Ma un tempo, mentre viveva mortale quaggiù, per tutti questi oltraggi alla sua Maestà divina e per così crudele dimenticanza della sua legge, Egli ha già provato nel suo cuore e nel suo corpo indicibili tormenti. Egli tutto ha previsto, scoperto e penetrato fino al fondo e per ciascun delitto in particolare ha sofferto la corrispondente pena. Egli ci domanda un po’ di compassione che lo compensi, che lo conforti in quella sue agonie di Cuore, e poiché ha scelto di perpetuare nell’Eucaristia il Sacrifizio compiuto già sulla Croce, non potremo fare di meglio che perpetuare ancor noi insieme con; mesto suo sacrifizio, il che vuol dire diventare con Lui altrettante ostie viventi. Ancora: poiché nel Sacramento di amore si prolunga misticamente la fame divorante che il Salvatore prova di compiere in tutto la volontà del Padre e la sete ardente che ha di soffrire per nostra salvezza, non potremo fare di meglio che entrare ancor noi in quei sentimenti che animano di continuo il Prigioniero dei nostri tabernacoli. – Più innanzi, quando dimostreremo come un’anima riparatrice deve amare l’Eucaristia, ritorneremo sull’argomento. Per ora fermiamoci qui. Chi comprende bene il S. Cuore fa consistere la vita eucaristica nell’unione di due ostie in un solo perfetto abbandono al volere divino; chi comprende bene la vita eucaristica, cioè l’unione con Gesù Ostia, mette praticamente l’amore al Cuore di Gesù in uno sforzo energico per spogliarsi di se medesimo, e diventare come una « specie sensibile » sotto la quale solo vivrà Gesù. Una « specie sensibile » che nelle mani di Gesù, sarà come uno strumento per continuare a compiere la sua opera, una « specie sensibile » che Egli sacrifica incessantemente con se stesso, nell’unità di un medesimo sacrifizio, alla gloria dell’Adorabile Trinità e alla salute delle anime. Noi ci siamo un po’ dilungati, e se ne comprende facilmente la ragione, su Paray e sulla divozione al S. Cuore di Gesù. Ma anche nelle grandi apparizioni della S. Vergine in Francia, nel secolo XIX, per non dir che di quelle, noi troviamo sempre l’intento divino di richiamarci al nostro dovere della vita di riparazione. – A Bernardetta si rivolge Maria lamentando che gli uomini si abbandonino sempre più al peccato e le domanda una doppia compensazione: Si preghi e si faccia penitenza. Ella fa recitare alla fanciulla il Santo Rosario, vuole si edifichi un tempio ove il Signore sia glorificato, si promuovano pellegrinaggi per cui le folle vengano a portare in un’epoca fredda e blasfema, l’omaggio delle loro pubbliche adorazioni, delle loro infuocate acclamazioni, della loro fede vendicatrice. Ma sovra ogni altra cosa Maria insiste domandando: ce Penitenza! Penitenza! Penitenza! » (24 febbr. 1858). – A Pellevoisin, a Pontmain, alla Salette la Vergine benedetta non domanderà niente di più, ma ancora una volta domanderà appunto quello stesso: La preghiera e la penitenza, in espiazione di tutti i delitti che si commettono. « Pregate, pregate, ragazzi miei! ». « Fate penitenza!…  Ai due pastorelli della Salette la Regina del Cielo fa sapere che ormai non può più trattenere il braccio vendicatore del suo divin Figliuolo. I peccati si moltiplicano, la bilancia sta per dare il tracollo: « Se il mio popolo non vuole sottomettersi io finirò per dover lasciar libera la mano di mio Figlio. Essa è sì grave e sì pesante ch’io non la posso più sostenere. È già lungo tempo ch’io soffro per voi; se voglio ottenere che Gesù non vi abbandoni io debbo continuamente rivolgergli la mia preghiera. E voi? e voi non ci badate punto ». E la Santa Vergine versava calde lacrime. – E poi continuò: « Io vi ho lasciato sei giorni pei vostri lavori e mi sono riserbato soltanto il settimo e voi non volete accordarmelo ». Qui la Vergine parla la persona di suo Figlio, e Melania racconta che a queste parole apparve, come vivente, sul petto di Maria SS. tutta in lagrime, Gesù Crocifisso, il quale in segno di approvazione inclinò il suo capo. – Dopo aver richieste riparazioni per la violazione delle feste di precetto, la Madonna aggiunge nuove domande riguardo al vizio della bestemmia: « I mulattieri, i carrettieri non sanno più parlare senza frammettere ai loro detti il nome del mio divin Figliuolo. La bestemmia e la violazione della festa sono le due iniquità che rendono così pesante il braccio del mio Figliuolo ». – È necessario un contrappeso sulla bilancia altrimenti la giustizia divina, che francamente non può più esser trattenuta, scatterà. – Quale lezione per noi! Anime, anime ci vogliono che si dedichino alla riparazione. Iddio è irritato. Guai a noi se sull’altro piatto della bilancia divina non vi gettano le loro immolazioni compensatoci delle anime generose.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/07/31/lidea-riparatrice-3/

L’IDEA RIPARATRICE (1)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (1)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO I

Perché riparare?

DUE PAROLE DI PRESENTAZIONE AI LETTORI ITALIANI

L’opuscolo che offriamo a pascolo delle anime pie della nostra Italia, fu scritto più che dalla penna dal cuore di un apostolo infiammato di amore verso Dio e verso il prossimo, mentre Cappellano militare dell’armata francese nell’ultima guerra, seguiva i suoi amati poilus sui diversi campi di battaglia della Francia. Non è a stupire quindi se la trattazione di un soggetto così simpatico all’autore si presenti con un apparato di guerra: tutto è fiamma e fuoco; quindi anche il successo incontrato in patria… la prima edizione del 1918 fu esaurita in poche settimane; nel 1921, ( « nel breve giro di due anni, l’opuscolo ha raggiunto la nona edizione » (Civ. Catt.,1921.  Vol. I . p. 156). La nostra versione italiana è fatta sulla 25a francese del 1923.

 Questa rapida diffusione è senza dubbio un elogio assai lusinghiero e significativo, – contìnua l’autorevole periodico citato – per un libro che svolge un argomento a cui le passioni non possono fare buon viso. L‘idea riparatrice è la negazione più recisa dell’amor proprio. Ma le anime accese di carità sono irresistibilmente condotte alla riparazione. Dirigere queste anime, stimolarle, accenderle, dopo averle solidamente istruite intorno alle basi teologiche e dogmatiche della riparazione, è l’intento di questa operetta. Il che fa l’autore con sana e profondadottrina, con doviziosa messe di esempi e di testimonianze. – Siamo certi che anche in Italia non mancano « anime accese di carità », vere devote del SS. Cuore di Gesù, desiderose di praticare intensamente la riparazione. Leggano, meditino queste pagine ardenti; le facciano leggere e meditare anche da altre, da molte anime. Crescano in fervore e si moltiplichino le anime riparatrici ce n’è tanto bisogno nel mondo e il S. Cuore di Gesù non aspetta altro per versare sulla terra le sue benedizioni sempre più abbondanti.

L’EDITORE.

NOTA DELL’AUTORE ALLA 3a EDIZIONE FRANCESE

Quest’opuscolo, scritto durante la guerra, a sbalzi, in fondo alle trincee o nei posti avanzati della fronte nei brevi tempi liberi dalle funzioni di cappellano militare, si risente qualche poco dell’agitazione dell’armi. Male, si dirà? — Potrebbe essere.  Ce ne spiace, ma un pensiero viene a consolarci. Se la vita d’ogni Cristiano già per se stessa viene detta un combattimento, quanto più lo dovrà essere quando l’Idea Riparatrice la pervada tutta quanta. Vogliamo quindi sperare che l’andatura un po’ marziale di questo scritto non ne diminuisca per nulla la desiderata unzione, anzi vi aggiunga ancora qualche po’ di forza e di persuasione che ci auguriamo irresistibile, vittoriosa.

PREFAZIONE

Chi vuole riparare?

Quest’invito, come le pagine che seguono, è per quelli che hanno due occhi aperti in fronte e un cuore ardente in petto. Per essi soli e non per altri. Chi non si sentisse di esser generoso è meglio chiuda il libro, non legga più innanzi. Noi parliamo a quelli che hanno visto mettere in croce Gesù Cristo, la sua Chiesa, anzi le stesse nazioni nostre; non già a quelli che di questa triplice crocifissione non si sono accorti per nulla. A quelli che dinanzi ad una simile scena di morte hanno compreso la necessità di uno sforzo per tornare alla vita; non già a quelli che dinanzi a questo spettacolo, al cadavere di un Dio, ai milioni di cadaveri di anime, a tutta una distesa di cadaveri non hanno sentito una voce che li interrogava, che li rimproverava, come già un tempo Elia: « Quid hic agis, Elia? Elia, versogna!che fai tu là?… Tanta desolazione…e tu rimani inerte, indifferente, immobile?Et vos, hic sedebitis? ».Van der Meer de Walcheren, nel suo Journal d’un Converti, così descrive un Revival a Londra: Due missionari giunti dall’America per parlare a grandi masse di popolo, hanno preso in affitto l’immenso Albert-hall. Più di quindici mila persone si affollano colà per ascoltarli. Uno dei predicatori, dopo aver spiegato come chiunque sentisse il desiderio di venir a Dio avrebbe dovuto scender nel bel mezzo dell’arena, con voce altissima rivolge a tutti il grande invito: « Who will come to theLord? Chi vuol venire a Dio? ». A tutta prima un lungo, ansioso e impressionante silenzio domina tutto lo sterminato uditorio; poi un primo grido echeggia tra la folla: « I will. Io lo voglio ». E immediatamente da ogni banda si ripete il medesimo grido: « I will, I will, I will. Io lo voglio, io lo voglio, io lo voglio ». E mentre discendono lentamente verso l’arena quelli che già avevano risposto, i missionari vanno ripetendo a gran voce il loro invito e protendendo le loro braccia ai mille e mille che rispondono senza interruzione: « I will, I will, I will. Io lo voglio, io lo voglio, io lo voglio ».

Siffatte arti più o meno teatrali non fanno per noi. Abbiamo l’invito di Gesù Cristo: « Si quis vult. Se il volete » . . . e ci basta. Si cercano dei « volontari ». Vogliam dire delle anime che scendano spontaneamente in campo e sul campo della lotta non sappiano indietreggiare. O Gesù, fatene spuntar molte di queste anime illuminate dalla fede sì che comprendano la natura e la necessità della Riparazione, e nobili di cuore tanto da dedicarsi ad essa interamente, ciascuna secondo il suo potere. – Ve n’hanno già di queste anime e non poche. Ma il loro numero deve raddoppiarsi, triplicarsi, moltiplicarsi al possibile. Allora il mondo avrà pace quando in mezzo a noi sia proporzionato al bisogno il numero delle anime riparatrici. Prima, non è possibile. V’ha dunque chi si presenta?… Rifletta che se v’hanno imprese meno nobili di questa a cui dedicarsi, non ve n’ha certo che sia più oscuramente gloriosa e più imperiosamente necessaria.

« Si quis vult venire… Se alcuno vuol venire… ». C’è chi veramente il voglia? — « Eccomi, o Signore. I will! Io lo voglio! Datemi luce, datemi forza. Fin d’ora io sono ai vostri cenni. Io lo voglio! ».

Dal campo, nella festa nell’Addolorata.

22 marzo 1918.

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INTRODUZIONE

Riparare vuol dire rimettere in buono stato; un edilizio cade in rovina e diventa inabitabile: ripararlo vorrà dire ricostruirlo. Accade talora che la cosa danneggiata per ciò stesso sia ridotta al nulla: riparare in tal caso ha il senso di compensare, restituire una cosa equivalente. – Nell’ordine morale, per riparare un’ingiustizia fatta, l’equivalente non potrà darsi dall’offensore che per mezzo della sua stessa persona. Nessun oggetto materiale può compensare un danno morale: come si ristabilirà l’ordine? con una pena che subirà o che s’imporrà chi ha recato il danno. Egli si era procurata una soddisfazione indebita, anormale, ingiusta. È giusto — come ognuno può comprendere anche senzaentrare nella questione teorica sollevata dal problema della giustizia vendicativa — che come castigo gli si infligga una pena proporzionata che ristabilisca l’equilibrio. Questo equivalente verrà detto espiazione e potrà esser offerta dal delinquente stesso, come nel caso precedente, o da altri che, innocente del delitto, accetta di mettersi al posto del colpevole.

Riparare nel senso cristiano della parola, significato nel quale noi sempre l’adopreremo, comprende le tre suddette applicazioni: ristorare, compensare, espiare.

Ricordate così queste nozioni generali, noi vorremmo dimostrare brevemente:

1° Perché dobbiamo riparare;

2° Chi deve riparare;

3° Come si debba riparare.

LIBRO I

Perché riparare?

Per tre ragioni:

— è un obbligo fondamentale per ogni Cristiano;

— è un desiderio espresso di N. S. Gesù Cristo;

— è una necessità ineluttabile nelle presenti circostanze.

CAPO PRIMO

LA RIPARAZIONE, OBBLIGO FONDAMENTALE PER OGNI CRISTIANO.

Perché venne sulla terra Cristo Nostro Signore? Per riparare, non per altro. Per rimettere la sua opera divina in quello stato dacui era decaduta pel peccato dell’uomo; per restituire all’uomo la vita soprannaturale ch’egli aveva perduta; per compensare per mezzo dei suoi meriti infiniti l’ingiuria recata al Padre nel Paradiso terrestre e le altre ingiurie che la malizia degli uominiva ripetendo e moltiplicando ogni giorno; espiare colle sue sofferenze — il presepio, la vita nascosta, la Croce — l’amore disordinato di se stessi che domina fra gli uomini fin da principio attraverso ai secoli.Nostro Signore poteva compiere quest’opera di Riparazione senza di noi: i suoi meriti hanno valore infinito. Invece volleavere dei cooperatori e questi sono tutti gli uomini senza eccezione, prima d’ogni altro ciascun Cristiano, ciascuno di noi. Questo è il punto che noi dobbiamo ben comprendere, la base di tutta la dottrina della Riparazione.S. Paolo, spiegando ai primi Cristiani la loro dignità sovreminente per esser fatti partecipi della stessa vita del Figlio di Dio, diceva loro: « Una stessa vita, la vita del Padre celeste passa in Gesù ed in voi, in Gesù per natura poiché Egli è il capo, invoi per adozione poiché voi siete, le membra

che dal capo ricevono la vita, dal capo il quale in virtù del suo sacrifizio vi ha divinizzati ». Non vi ha perfetta unione senza la continuità tra le membra ed il capo, tra il capo e le membra. La Persona di Gesù Cristo, ecco il capo; ciascuno di voi le membra, il suo corpo mistico. Questa è la dottrina cattolica secondo le parole dell’Apostolo — e dello stesso divin Salvatore: Io sono la vite e voi i tralci… — Il Cristo personale, cioè la Persona adorabile di N. S. Gesù Cristo che visse un tempo a Betlemme, a Nazaret, a Gerusalemme, che ora è nei santi tabernacoli sotto i veli eucaristici, e in cielo nella gloria dei suoi eletti alla destra del Padre, non forma, così volendo Egli stesso, un Cristo completo. Il Cristo completo risulta dall’unione della sua Umanità, il Cristo personale, il capo, con ciascuno di noi, sue membra, suo corpo mistico. -Da una stretta unione della nostra vita con quella di Gesù Cristo viene per legittima conseguenza la nostra intima collaborazione con Lui nella sua impresa, unico scopo della sua venuta fra noi, la Redenzione. Diciamolo ancora una volta: il Salvatore tutto avrebbe potuto fare senza di noi. Egli non ha bisogno di noi per aggiunger forza ai suoi propri meriti, ma vuol servirsi di noi per aumentare i meriti nostri. Egli è il Cristo e noi Cristiani — come altrettante ripetizioni di Lui — alter Christus. Convien che lavoriamo uniti. La Redenzione non si compirà che per il volere del Salvatore, il Cristo principale, preso insieme al volere di ciascuno dei Cristiani, gli altri Cristi. Certo il valore delle parti spettanti a Lui e a ciascuno di noi è ben lungi dall’esser uguale: la sua ha per se stessa un peso infinito, quindi più che sufficiente allo scopo. La nostra non era affatto necessaria. Egli ce la domanda soltanto perché ci ama. – All’offertorio della S. Messa il celebrante, dopo aver posto nel Calice il vino da consacrarsi, deve aggiungere, sotto pena di colpa grave, qualche goccia di acqua. Ecco un simbolo che ci può far meglio comprenderela relazione che passa tra le parti nostre e quelle di N. Signore nella riparazione, il valore relativo del nostro concorso al suo fianco. Il solo vino per sé è la materia della Consacrazione: è obbligato però il Sacerdote ad aggiungervi le gocce d’acqua che con tutto il resto, in forza delle parole divine, saranno poi mutate nel Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo. La parte che ci spetta nella redenzione del mondo è certo infinitesimale — che volete che valga una goccia d’acqua? — ma il Signore la vuole, e questo piccolo atomo, unito all’offerta infinita di Cristo, Egli lo transustanzierà. Questo « nulla » diventerà onnipotente, della potenza stessa che Dio gli comunica (Il paragone non va preso con rigore. La goccia d’acqua non è richiesta per la validità, ma solo per la liceità del Sacrifizio della Messa – però se non c’è liceità, si commette sacrilegio! Ndr.-). In virtù di questo « nulla » diventato qualche cosa, le anime sono riscattate dalla colpa. Senza di questo « nulla », insignificante per sé ma prezioso per la sua unione con Cristo, le anime, forse molte anime, andranno perdute. Il mondo ha bisogno di tutti i suoi salvatori, di Gesù che è il primo di tutti, il Salvatore per eccellenza, e di ciascuno di noi chiamati a collaborare con Lui nel riscatto del genere umano: « Il quale — dice Lacordaire (Conf. 66 sulla riparazione) — non si era perduto che per ragione di solidarietà, per effetto cioè di comunanza sostanziale e morale con Adamo suo capostipite: era dunque conveniente che potetesse esser salvato nella misura e nella maniera della sua rovina, cioè per ragione di solidarietà… Là dove la solidarietà del male aveva recato la rovina, la solidarietà del bene apporti il rimedio, la ristorazione ». Chi non conosca questo nostro dovere di partecipare all’opera redentrice per renderla efficace, si può ben dire che ignora il meglio della grandezza del Cristiano. Chi conoscendolo cerca di sfuggire dall’obbligo, vien meno ad un suo dovere non meno nobile che indispensabile. – Ma conviene entrare ancor più addentro nella nostra considerazione. Qual è il mezzo scelto da Cristo per compiere la riparazione?

Il dolore, il sacrifizio.

Ma questo è un mistero! Il Figlio di Dio per riparar le rovine del peccato — instaurare omnia — non era tenuto ad imporsi una vita stentata, disprezzata, afflitta da ogni sorta di dolori. Eppure Egli quella ha voluto scegliere per sé e non altra. Riparare col soffrire. Tenuti a partecipare alla sua missione per la nostra solidarietà con Lui nell’unità del Corpo mistico, eccoci tenuti a partecipare alla sua passione, e cosi si spiega perché l’Apostolo nell’inculcarci la necessità di collaborare all’opera redentrice di Gesù Cristo, non dice « compiere la missione », ma « la passione sua: adimpleo ea quæ desunt passioni Jesu Christi ». L’una cosa è impossibile senza dell’altra; le due cose si confondono in una stessa. Noi dobbiamo riparare unitamente a Gesù Cristo, e non dobbiamo credere di poterlo fare altrimenti che col nostro sacrifizio unito al suo. « Gesù Cristo — dice Bossuet (Serm. Per la Purific. della V. SS.) — per salvare gli uomini ha voluto esserne la vittima. Or per l’unità del Corpo mistico col Capo che si è immolato, tutte le membra debbono esser “ostie viventi” ».

Abbiamo quindi la progressione — si direbbe più esattamente l’equazione —: esser Cristiani, esser salvatori, esser « ostie ». E non sembri nuova o strana la parola « ostia ». È questa una dottrina antica quanto il Vangelo, che costituisce la sostanza stessa della predicazione di S. Paolo, dei primi Padri e di tutta la Chiesa attraverso ai secoli, predicazione che l’Apostolo riassumeva in questa frase abbastanza chiara ai Cristiani di Roma: « Obsecro vos, io vi scongiuro; fate dei vostri corpi altrettante ostie viventi, sante, gradite a Dio, ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem» (Rom. XII, 1) (Pratt: Théol. de St. Paul, passim). Dirsi Cristiano e cercar di condurre una vita di comodità al termine della quale si passi tranquillamente e senza urti dalla terra, ove si ebbe felice dimora, al cielo ove si troverà una condizione perfettamente beata, ad un cielo meritato con una vita in cuila principale cura fu di lasciare ad altri il pensiero laborioso di faticare con Gesù Cristo alla redenzione del mondo, è cosa che non può darsi. Col Vangelo del Maestro non si concilia un siffatto programma ed è ben altro quello che Bossuet definisce: « Terribile serietà della vita umana ». – « È un fatto purtroppo — scrive nel consueto suo tono amaro, e questa volta ben giustificato, l’autore dell’introduzione Journal d’un Converti, da noi già citato nella Prefazione -— è un fatto noto il trovarsi in gran numero certi animali detti ragionevoli che hanno tutta l’apparenza di vivere sessanta e anche ottant’anni e poi si portano al cimitero prima che mai siano usciti dal loro nulla… Si contentano delle cose sensibili, tutto il resto non esiste per essi ». Per fortuna — aggiunge poi — abbiamo anche dei « veri uomini, veri viventi, quelli che non hanno ricevuto invano l’anima propria ». E il convertito alla sua volta — egli era allora in cammino verso il bene — : « Io sono sempre più meravigliato nel vedere che quasi tutti gli uomini continuino a vivere tranquilli, senza inquietarsi, senza spaventarsi di nulla, un bel sorriso brilla sui loro volti paffuti e non s’accorgono degli abissi che ci stanno ai fianchi » (J. d’un converti, di P. Van der Meer de Walcheren). Si, abbiamo presso di noi degli abissi, l’abisso del peccato dell’uomo e l’abisso dell’amore del Salvatore: questo secondo collocato da Dio vicino al primo. E noi posti in mezzo all’uno e all’altro con un incarico imperioso, urgente e del tutto preciso. Il vero discepolo di Gesù Cristo si riconosce a questo segno: che egli si è accorto di questi abissi e in conseguenza vive agitato sotto l’impero d’una inquietudine che non sa frenare, l’inquietudine della salvezza del mondo, dell’efficacia del sangue di Cristo frustrata, e della propria parte di responsabilità nella storia della vita divina in mezzo agli uomini.

Necessità di riparare insieme con Nostro Signore venuto sulla terra unicamente a questo fine, poiché con Lui noi formiamo una cosa sola. Necessità di riparare nel modo che Egli stesso ha preferito, cioè nel dolore. Son purtroppo numerosi i Cristiani che di questa duplice necessità pare neppure sospettino l’esistenza e si direbbero convinti — almeno nella pratica — che propriamente due sono le maniere di comprendere la sua legge: l’una che accetta la sofferenza,l’altra che fa di tutto per evitarla;l’una che si organizza per lasciarsi mortificare,l’altra che si mette in posizione di difesa contro ogni sorta di pena. In unaparola, un Cristianesimo facile, comodo ealla buona per la moltitudine; e un Cristianesimo grave ed austero pei pochi, per le anime di carattere più cupo o guadagnate da un’attrattiva speciale, per altro strana, di perfezione. Che un Sacerdote santo come il Curato d’Ars scriva: « Tutto ci parla della Croce. Noi stessi siamo fatti a forma di croce. La croce trasuda balsamo e traspira dolcezze: più ci uniamo ad essa, più la stringiamo tra le mani e contro il petto e più ne spremeremo l’unzione di cui è colma; essa è il libro più dotto che noi possiamo leggere; quelli che non lo conoscono questo libro sono degli ignoranti quand’anche conoscessero tutti gli altri libri; non sarà veramente dotto se non chi lo ami, lo consulti, lo studi a fondo. Benché amaro, questo libro, non v’ha maggior gaudio che nell’immergersi nelle sue amarezze; quanto più si va alla sua scuola, tanto più a lungo vi si vorrebbe trattenere: il tempo passa senza noia alcuna ». — Che in siffatta maniera parli un Curato d’Ars, non c’è a stupirne, è un santo! – Nel noviziato delle Suore Francescane di Maria SS. al Canada si cercano sei religiose per la cura dei lebbrosi in Cina. Quaranta sono le novizie e quaranta rispondono desiderose di partire. — Oh! si dice, questa è la loro vocazione! E questi esempi che dovrebbero muovere i Cristiani e far loro comprendere che, se non si domanda loro un siffatto eroismo, almeno qualche cosa di simile anch’essi sono tenuti a fare, questi esempi diventano per loro un futile pretesto per credersi liberi da ogni obbligazione. – V’hammo monaci e religiose che passano la notte a’ pie’ degli altari o si alzano alle due del mattino?… Ecco una buona ragione per restar essi tranquillamente e a lungo tra le coltri d’un letto ben soffice. — Quelli danno molto tempo alla preghiera?… questo appunto li dispensa da un obbligo noioso sovra ogni altro. — Quelli si privano del cibo?… così sarà loro concesso di godersi ogni sorta di ghiottoneria nei loro pasti.

— Quelli si contentano d’una cella povera, disadorna, i cui mobili, come al Carmelo, si riducono ad un Crocifisso, un acquasantino, un teschio e una disciplina?… tutto questo perché essi possano adornare i loro appartamenti con mille oggetti superflui e procurarsi tutte le comodità moderne. — Quelli si privano del necessario riscaldamento?… si è per concedere ad essi una dolce temperatura procurata con ingegnosi metodi di riscaldamento delle camere e dei corridoi. — Quelli dormono sugli assi o sopra un duro saccone?… per questo essi dovranno negarsi le molli coperte di seta e le soffici trapunte ricamate? — Quelli posseggono un solo gioiello, la Croce?… essi potranno quindi portare ciondoli, collane di perle preziose a profusione. È vero che alla vita religiosa si addice un lusso di austerità a cui non è tenuta la vita ordinaria del Cristiano. Ma come si potrà supporre che questa vita anche ordinaria, quando sia illuminata e sincera, si concili con la …a ricercatezza irrequieta e del tutto pagana delle comodità della vita, quali un tristo materialismo moderno cerca di imporre — e riesce pur troppo e con gran facilità ad imporre — a tanti discepoli del Salvatore? – E che? forse il Cristo non è per tutti il medesimo? Nonne divisus est Christus? Ve ne sarebbero forse due. L’uno crocifisso, che non si può seguire senza crocifiggere se stessi; l’altro tutto comodità, che si seguirà facilmente anche senza negarci delizia e piacere alcuno? S. Paolo diceva di non conoscere che un solo Cristo, il Crocifisso. Christum et hunc crucifixum. Da S. Paolo a noi ci fu tempo a cambiare. Ora se ne conoscono due. Il primo, il vero, non era più sufficiente e se n’è inventato un secondo. Un Cristo senza Croce, senza teorie austere, senza quelle due traverse di legno che gettano un’ombra che atterrisce, che impressiona; un Cristo le cui massime si risolvono finalmente nel motto: venite pure a vostro piacimento io vi prometto l’intera eternità a questa sola condizione, che nell’ultimo istante della vostra esistenza mi concediate « l’adesione di un « pensiero incerto, il pentimento d’una volontà illanguidita e la carità del vostro ultimo respiro »  (1).

(1) [Quanti Cristiani abbiamo noi purtroppo che seguono praticamente un siffatto programma di vita! Claudio Lefilleul (alias: Filippo Gonnard, professore al Liceo di Lione, caduto poi in guerra), nelle sue Réflexions et Lectures, p. 204, con fine ironia bolla a fuoco una simile condotta: « All’ultimo istante anche voi vi convertirete come tanti altri; voi speculerete sulla bontà di Dio eDio è sì buono che forse la vostra speculazione riuscirà ed Egli vi riceverà, in quell’estremo momento, in compenso d’una povera lagrima di pentimento, per una lagrimetta, come disse già il nostro antico Dante. Ma siete ben certi che il colpo riuscirà? E poi, io vi domando,dov’è la vostra generosità la vostra fierezza… scroccare così a buon prezzo la vostra eternità? A Dio che vi ha concesso anche qui in terra tante profonde soddisfazioni (anche più profonde se voi avete fede), a Dio chese voi non vi frapponete ostacolo vuol ricolmarvi di felicità per tutta una eternità, è forse generoso il dare incompenso per parte vostra non altro che l’adesione diun vago pensiero, il pentimento di una volontà illanguiditae la carità del vostro ultimo respiro? »]. Un siffatto Cristo, ad uso dei Cristiani che rifuggono dal dolore, non esiste. Il discepolo non è più grande del Maestro. Il divin Salvatore ha tanto sofferto. Se non vuol rinnegare il proprio nome di Cristiano, venire meno ai suoi impegni, ogni battezzato non potrà non essere in una qualunque maniera — che noi meglio diremo in seguito — un amico del dolore necessariamente e per sempre.Un celebre uomo di Stato del Belgio aveva preso come suo monito : Riposo? Non qui, ma più innanzi. Verrà il giorno della felicità, e un tal giorno, che forse non è lontano, non avrà più fine. Il tempo che ci separa da un tal giorno ci è dato per meritare « il gaudio del Signore — Intra in gaudium Domini tui ». Entrerà nel gaudio del Signore solo chi avrà avuto il coraggio di mettersi quaggiù a parte dell’olocausto del Signore. Gesù Cristo pel primo ha voluto soffrire per entrar poi nella gloria. « Il Golgota non è soltanto una figura di retorica ». Per noi è la legge che non transige. Oportuit… pati, et ita intrare in gloriam.[è necessario patire, e così entrare nella gloria]. Vogliamo essere con Lui nel trionfo? Siamo prima con Lui nel combattimento.

Laborare mecum, fa dire a Gesù S. Ignazio nella « Contemplazione del Regno di Cristo ». Pizzarro, uno dei conquistatori dell’America del Sud, presa terra, getta la sua

spada sul terreno e grida ai suoi soldati: « Se alcuno di voi ha paura, resti al di qua di questa spada, i coraggiosi vengano con me! » Queste parole sono dure e benché la teoria sia chiarissima, di fatto alla presenza di una vita di rinunzia, che si impone come un’obbligazione sacra per ogni Cristiano, molti dànno indietro.

— « Oh! quanto spavento m’incutono quelle due traverse in croce che si drizzano sul Calvario! Vorrei piuttosto nascondermi dietro di esse che lasciarmi configgere sopra di esse ».

— « Oh sì! il legno è duro. Ma oltre il legno che non vedete? Su quelle traverse voi scorgete confitto un uomo. Il legno non sa che di morte, ma chi è confitto sul legno è ben vivo. Guardate attentamente — come si conviene — e le due traverse svaniscono, scompaiono, non si veggono più, e vi resta sotto il vostro sguardo unicamente quel corpo sospeso e nel bel mezzo di esso raggiante di luce attraverso ad una ferita il Cuore. Lo dicono: Il Crocifisso. Non è esatto; par si voglia indicare un oggetto. Conviene dire: Colui che è confitto in Croce, così si indica un uomo ».

« Un uomo?… Sì, un uomo e nello stesso tempo un Dio. Oh! mio Dio, e siete voi ch’io vedo su questa Croce? ».

— Sì, son io, il tuo Dio ».

—  Mi pare d’incominciare a comprendere meglio… anzi comprendo quasi consuetamente… io soffrirò insieme con Voi, Signore, ma Voi soffrirete con me. Con Voi non avrò paura, andrò innanzi risolutamente ».

— « Per animarti a maggior coraggio ancora, mettiti ai piedi della Croce e getta uno sguardo sul mondo. Mira questa gente che scende dalla vetta del Calvario, sono i miei carnefici; e a Gerusalemme, sepolta nel sonno, le turbe che non s’accorgono di nulla. Ho bisogno dei tuoi sacrifizi per far giungere fino a loro la mia Redenzione. Così io voglio aver bisogno di te: ti chiamo in mio aiuto e con te posso tutto, come posso nulla senza di te. Vuoi tu che insieme uniti salviamo il mondo? o preferisci andartene e passare anche tu tra quelle turbe, coi miei carnefici? ».

— « E voi parlate così a me, Signore? Non sapete voi chi sono io? ».

— Tu sei uno dei miei cari. Non basta forse perché io ti inviti a faticare con me, a soffrire con me? Tu lo vedi, l’impresa è immensa. Credilo, val la spesa per essa incontrare qualche sacrifizio, fosse pure questo sacrifizio — nella condizione e stato di vita in cui ti ha posta la mia Provvidenza — una intera oblazione di te quale ostia vivente… con me ».

— « Se voi credete che io lo possa fare… Con voi, Signore, in ostia vivente oh! sì, con tutta l’anima eccomi, prendetemi ».

https://www.exsurgatdeus.org/2020/07/29/lidea-riparatrice-2/

LO SCUDO DELLA FEDE (121)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXXIII.

Della necessità di una vera religione, e del modo di scorgerla tra le false.

I . Se vi ha un Dio nell’universo, v’ha provvidenza. Se v’ha provvidenza, l’anima dunque è immortale. E se l’anima è immortale, forza è che vi sia qualche religione, e religion vera, la quale da tale anima si professi. Eccovi una bella catena d’oro tratta da ciò che si è discorso finora per arrestare i pensieri insolenti degli ateisti.

I.

II. Rimane solo di mostrar loro quest’ultima verità, cioè a dire, la necessità di una vera religione da professarsi (È un fatto di esperienza, che di religioni se ne danno parecchie, diverse ed opposte, come è un pronunciato di ragione, che fra le contrarie religioni dall’umanità professate, una sola può essere la vera e questa necessaria). Ma questo è facile. Conciossiachè, se quella divinità che riconosciamo, non è addormentata, ma provvida, conviene che ella abbia qualche bersaglio a cui ordini l’universo, non intendendosi altro per provvidenza, che una ragione d’indirizzar saggiamente i suoi mezzi al fine. Or questo bersaglio dove ha rimirato Dio nella formazion delle cose non può essere altro che Egli medesimo, il quale, com’è il primo principio di tutte loro, così debb’esserne ancora l’ultimo fine. Non già perché da ciò mai risulti alla sua natura divina alcun pregio intrinseco (non potendo Egli, che è abisso di perfezione, né crescere, né calare dentro di sè), ma perché gliene ridondi bensì qualche onor estrinseco, in virtù di cui soddisfaccia a quella soave inclinazione che Egli ha di essere amato dalle sue creature, e riconosciuto quale lor benevolo autore. Sicché il formar questo mondo non fu altro alla fine, che l’alzare un tempio sontuoso al suo Nome: ed il moltiplicarvi lo creature ragionevoli, non altro fu, che un moltiplicarvi gli adoratori. Ma se è così, fu conseguentemente di espressa necessità, che manifestasse anche agli uomini in qual maniera Egli amasse più di venir da loro adorato in così bel tempio; e con qual culto, con quali cerimonie, con quali riti si dovesse procedere in dargli omaggio. Stabilire ciò fu appunto stabilire la religione di cui si cerca: mentre la religione altro non è che una virtù, che ci tiene legati a Dio con quell’ossequio speciale, che Egli da noi chiede, qual principio dell’esser nostro, e qual fine (S. Th. 2. 2. q. 31. a 1).

III. Che se la bontà divina ha per costume di accoppiare continuamente alla gloria propria l’utilità delle creature, e massimamente di quelle che son capaci di conoscere il loro Autore, e di amarlo, quali sono le ragionevoli; anche per questo capo non potea non esservi qualche vera religione, in virtù di cui divenissero gli uomini più perfetti (Ib. a. 7. in e). E chi non sa che la perfezione di qualunque cosa inferiore consiste in soggettarsi del tutto alla superiore, come si scorge nell’aria, che allora diventa più sincera e più splendida quando si lascia più dominare dal sole? Convenne adunque che a voler essere gli uomini più perfetti si sottoponessero bene a Dio, sì con l’anima, sì col corpo: il che allora accade, quando il corpo co’ riti esterni accompagni l’anima nelle protestazioni interne che tra sé rende alla divina maestà: protestazioni sempre di nuovo merito per la fede, che l’uomo sempre rinnova in esercitarle.

IV. Questa religione poi, che è un beato composto, e d’insegnamenti ad onorar Dio, e di mezzi da guadagnarselo, era parimente di somma necessità al vivere scambievole delle genti in tranquilla unione. Perché, quantunque la giustizia terrena, qualor armata ella va di pene e di premi, sia qualche poco abile a raffrenarle, non è abbastanza; mentre chi occultamente sapesse condurre a fine i suoi disegni perversi di rubare, di ammazzare, di adulterare, si riderebbe di tutte le leggi umane, le quali possono strepitare bensì contra falli noti, ma che possono fare contra i nascosti? Al perfetto governo della repubblica era pertanto necessario anche più il timore di leggi non disprezzabili quali sono le divine. E queste appunto son quelle che intuona al cuor di ciascuno la religione, armata anch’essa e di premi e di pene, ma di altro peso, da compartirsi nella vita di là, che non ha mai fine.

V. Quindi è che la religione parve ad alcuni invenzione sagace della politica, tanto vale al ben governare: Nulla res multitudinem efficacius regit, quam superstitio (Curtius). Ma non considerarono questi sciocchi che la politica non può a veruno fare mai credere fermamente sopra ogni cosa ciò che non gli può dimostrare. Vi vuole a tanto quella grazia interiore, la quale non è potere della politica. Questa al più al più potrà fare tenere per verisimili quegli articoli, che ella va ordinando a capriccio, ma non potrà mai farli indubitatamente tener per veri. E l’opinione ben può fino a certo segno contenere i popoli in freno, ma debolmente, mentre a lei vacilla la mano. Piuttosto da ciò mi giova ritorcere l’argomento in sì fatta guisa. Se affìn di contenere i popoli a freno, è buona una religione anche immaginata, quanto migliore dunque sarà una reale? E se la reale è migliore, chi potrà per questo medesimo dubitar ch’ella non vi sia? Ne ha da sapere un uomo più che Dio stesso ad architettarla? E pur sarebbe così, quando non Dio, ma l’uomo fosse colui il quale avesse inventato un morso sì forte al vizio, e un incentivo sì nobile alla virtù; e ad un tal uomo più dovrebbe il genere umano per lo conseguimento del suo ben vivere, di quello che dovesse al medesimo Creatore per lo conseguimento del puro vivere.

VI. Di poi chi avrebbe potuto la prima volta fingere al mondo una religione non vera, se non a similitudine di una vera che già vi fosse? La copia presuppone l’originale. Il corpo è più antico dell’ombra. Né mai fu prima il ladro a formar la moneta falsa: fu prima il principe a fabbricarne la vera.

VII. Finalmente come potrebbe mai la natura umana, ch’è ragionevole, cavare il suo prò maggiore dalla bugia, che è il maggior nimico ch’ella abbia? La ruggine non perfeziona il ferro, ma lo consuma. E così veggiamo che le religioni bugiarde, non solamente non hanno aiutata mai la natura umana ad operar da quella che ella è, cioè a dire da ragionevole: ma l’hanno fatta degenerare in brutale, come chiaramente si scorge dai tanti vizi, e di alterigia e di senso e di spietatezza che sotto quelle hanno sempre in lei dominato, più che tiranni. Quella religione che riesce giovevole al buon governo è la vera sola, cioè quella la quale fa che l’uomo in terra conosca il suo primo principio, e per conseguente anche il suo ultimo fine, e che a lui si unisca. Onde come i tempi più sontuosi valgono molto ad adornar le città, benché non siano di primaria intenzione eretti per adornarle, ma siano eretti per rendere culto al cielo; così la religione, benché di sua natura sia stabilita ad omaggio del Creatore, giova di riflesso alla vita civile incredibilmente.

VIII. Ripigliando dunque da capo: se Dio v’è, e v’è provvido, e v’è possente, tocca dunque a Lui di vedere come gli piaccia di rimanere onorato dagli uomini in su la terra, non tocca agli uomini di determinare come abbiano ad onorarlo (S. Th. 2. 2. q. 81. art. 2. ad 3). E posto ciò, non vi può esser religìon sussistente, la qual non sia da Dio rivelata di bocca propria (Suarez de fide disp. 4. sect. 1): non già ad ogni uomo il quale a mano a mano entri al mondo, che saria troppo; ma solo da principio ad alcun di loro che l’abbia poi con le sue debite prove trasmesse ai posteri. Che però tutto il nostro studio ha da consistere in questo, in ravvisare la religion da Dio rivelata. Fatto ciò non altro più ci rimane, che andare incontro a quell’unica, e genuflessi baciarle i piedi con intimo sentimento di cattivare ogni nostro orgoglio a’ suoi detti, come a’ divini.

II.

IX. Dove son però quegli audaci, i quali arrivano a dire per loro gloria che non veggono ancora terreno fermo su cui fondare la loro instabil credenza: e perciò riposandosi agiatamente sopra una tale ignoranza, benché supina, come sopra una coltrice di saviezza giacciono in alta notte d’infedeltà, ostentando ancora ad altrui questo loro tenebre, assai più di quegli abissini, tra cui si vanta, quasi più chiaro di volto, chi l’ha più nero? Ah che troppo è bestiale cotesto loro riposo, e troppo ancora è mortale! È bestiale, perché è da bestia non volersi chiarir di una verità così rilevante, che non si può non trovare da chi la cerchi con animo disappassionato, tante sono le faci acceso a scoprirla. Ed è mortale, perché siccome la vera Religione si regge su la vera fede, così la vera speranza della salute si regge su la vera Religione. Dove manchi un tal fondamento, non si può alzare altra molo che rovinosa.

X. Chi però ebbe sorte di nascere in grembo alla vera fede ne ringrazi Dio giornalmente. Chi non ebbela, che ha da fare? Vadane in cerca: né si dia pace finché non giunga a trovarla. Quel Dio, che come prima verità ha manifestati all’uomo gli articoli che egli ha da tenere, e che come prima santità gli ha palesate le virtù parimente che egli ha da esercitare, se vuol salvarsi, non ha favellato di modo che non si possa il suo linguaggio capire da chiunque, sciolto da qualunque perversa anticipazione, cerchi con piena sincerità, non di convincere altri, ma sé medesimo; non di cavillare, ma di credere; non di contendere, ma di capacitarsi. Un panno inzuppato nell’acqua non è atto a imbevere la grana; ma si asciughi ben bene, e la imbeverà.

XI. Oltre a ciò il medesimo Dio sta sempre pronto ad aggiungere nuovi lumi alla fiacca mente, nuovo calore alla fiacca volontà, per cui più soavemente ci affezioniamo allo sue voci, come a veridiche, e alle sue leggi, come a vitali; purché riconoscendo la legittima fede qual dono sommo di Lui, ci forziamo con umilissime suppliche di ottenerlo dalle sue mani, con intenzione di volergliene vivere sempre grati. Non lasciò mai di trovar Dio chi cercollo sinceramente: giacché quanto Egli si nasconde a’ superbi, amatori di se medesimi, tanto si scopre agli umili amatori non di sé ma del vero, il quale alla fine altro non è che Dio stesso: Abscondisti hæc a sapientibus et a prudentibus: et revelasti ea parvulis.

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (4)

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (4)

[E. Hugon: Le mérite dans la vie spirituelle, – LES ÉDITIONS DU CERF JUVISY — SEINE-ET-OISE – 1935]

VII.

L’ENTITÀ DEL MERITO

San Tommaso (Ia, IIa, q. 114, a. 8) stabilisce il principio che il merito si estenda anche oltre la nozione soprannaturale che Dio usa per condurci al nostro fine. Ora, l’ “impulso” del motore celeste ci è dato non solo per il fine supremo, ma per tutta la marcia, per tutta la durata e tutto il progresso del movimento: il fine è la gloria; la marcia ed il progresso sono l’aumento della grazia. In altre parole, il merito dà il diritto alla gloria ed all’incremento di gloria per la patria, alla grazia e all’incremento di grazia anche quaggiù. Il Concilio di Trento ha definito che il merito dell’uomo giusto si estenda a tutto questo: “L’aumento della grazia, la vita eterna, il possesso di quella felicità se si muore in amicizia divina, e l’aumento della gloria” (Sess. VI, can. 32). Nel dichiarare che il merito cresce attraverso ciascuno degli atti che si ripetono sotto l’influenza della grazia, bonis operibus quæ per Dei gratiam fiunt, il Concilio indica sia che è richiesta la grazia, sia che il merito cresce tanto più spesso quanto noi facciamo il bene. Pensiamo, dunque, che ogni nostra buona azione ci dà diritto ad un nuovo grado di gloria per l’eternità e, quaggiù sulla terra, ad un nuovo grado di grazia per la nostra anima. Meravigliosa fertilità della vita spirituale! Ma, d’altra parte, la dottrina cattolica predica la vigilanza: se cadiamo, le nostre giustizie saranno dimenticate: «  Ma se il giusto si allontana dalla giustizia e commette l’iniquità e agisce secondo tutti gli abomini che l’empio commette, potrà egli vivere? Tutte le opere giuste da lui fatte saranno dimenticate; a causa della prevaricazione in cui è caduto e del peccato che ha commesso, egli morirà » (Ezechiele, XVIII, 24), e non potremo meritare che Dio ci ripari dopo la nostra caduta, poiché la mozione divina, indispensabile al merito, viene fatalmente interrotta e fermata dall’atto stesso del peccato (S. Tommaso, 1a, IIa, q. 114, a. 7). Ciò che dobbiamo chiedere a Dio in ciascuna delle nostre preghiere è di tenerci per mano, di non lasciarci mai separare da Lui dall’offesa mortale e, se questa sventura estrema dovesse colpirci, di sollevarci subito per la sua misericordia. Ne consegue anche che la perseveranza finale non rientra nel merito proprio (cfr Concilio di Trento, sess. VI, can. 16 e 32, e cap. 16). Perseverare è unire lo stato di grazia con la morte; solo questo, quindi, può assicurarci questo successo definitivo, che è del sovrano Padrone della morte e della grazia, il nostro Creatore e Redentore divino. Non possiamo, con le nostre azioni, assicurarci che la nostra morte arrivi esattamente nel momento in cui godiamo dell’amicizia divina: tutto questo va al di là della portata dei nostri sforzi. Poiché la perseveranza è l’effetto proprio della predestinazione, è ovvio che essa sfugge, come quella, alla sfera del merito; ma, d’altra parte, cade in qualche modo nell’ambito dell’impetrazione, perché Nostro Signore l’ha promessa a tutti coloro che la chiedono nel suo Nome con le necessarie disposizioni, con umili e costanti suppliche: supplicibus precibus emerci, come dice Sant’Agostino (De dono persever…), c. V, n. 10, P. L., XLV, 999). – È in questo modo di impetrazione, che sembra bisogni ricondurre la grande promessa fatta dal Sacro Cuore a Santa Margherita Maria. La pratica della Comunione consecutiva durante i primi nove venerdì del mese non dà diritto alla perseveranza finale, in quanto abbiamo diritto a ciò che rientra nel merito propriamente detto; ma Nostro Signore, per l’eccessiva misericordia del suo Cuore e per puro amore, promette questo immenso favore a coloro che degnamente soddisfano le condizioni prescritte. L’efficienza viene dalla promessa divina; non siamo più nell’ambito del merito e della giustizia, ma in quello dell’impetrazione e della bontà (a questo proposito, vedi P. Bainvel, La dévotion au Sacré-Coeur, Paris, Beauchesne, e art. du Dict. Théol. P. Vermeersch, S. J., Pratique et doctrine de la dévotion au Sacré-Coeur, Casterman, Tournai, 1908; Van der Meersch, De gratia, p. 377). – Qualunque siano le spiegazioni, è sovranamente opportuno meditare sulle belle parole di San Bernardo: « La perseveranza è la figlia del Re sovrano, la fine delle virtù e la loro incoronazione, la sintesi di tutti i beni, la virtù senza la quale nessuno vedrà Dio » (San Bernardo, Serm. de diversis, XLI, P. L. CLXXXIII, 658). Senza di essa, né il combattente otterrà la vittoria, né il vincitore avrà la palma. Essa è la sorella della pazienza, la figlia della costanza, l’amica della pace, il nodo delle amicizie, il vincolo della concordia, il baluardo della santità (Idem., epist. 129 (al. 35a), P. L. CLXXXII, 283- 284). È ad essa che viene restituita l’eternità, ed è essa sola che restituisce l’eternità all’uomo (Idem., De considera, I, V. v. XIV, n. 31, P. L. CLXXXII, 806). – Le altre grazie sono l’effetto della Provvidenza ordinaria e sono distribuite alla folla; procedono da una Provvidenza molto speciale e sono riservate all’amato, allo scelto, all’eletto. – Chiediamo al Sacro Cuore quando lo possediamo al momento della Comunione; che non ci permetta mai di separarci da Lui: numquam me a te separari permittas!

VIII.

IL PAGAMENTO DEL MERITO

È ovvio che la gloria sarà pagata solo in cielo. L’aumento della grazia potrebbe essere conferito qui sulla terra, se le nostre disposizioni fossero abbastanza perfette e se i nostri atti superassero in intensità l’abitudine stessa. Così si ammette che nella Beata Vergine l’impulso iniziale sia stato trasmesso con una forza tale che Ella lo moltiplicava ogni volta; la prodigiosa somma dell’origine è stata raddoppiata nel secondo atto e così via all’infinito, senza limiti e senza sosta. Ma nei giusti ordinari, è così? San Tommaso dice molto chiaramente: « La grazia non viene aumentata immediatamente, ma a suo tempo, cioè quando l’uomo è sufficientemente disposto a riceverne l’aumento: Nec gratia statim augetur, sed suo tempore, cum scilicet aliquis fuerit dispositus ad gratiæ augmentum. (Vedi, per la teoria di San Tommaso, i commentatori in Ia, IIæ, q. 114, a. 8, i Salmanticenses, disp. VI, n. 81; Billuart, De caritate, diss. 1, 3; per l’altro opinione: Suarez, lib. IX, n. 232; Began, III P., tr. Io, Cap. XXII, q. III). – (Ia, IIæ q. 114, a. 8, ad 3). Al contrario, Suarez e i suoi discepoli credono che tutti i gradi di grazia che ci meritiamo, anche con i nostri atti più deboli, siano conferiti all’anima senza indugio. – Non è questo il luogo per affrontare in profondità una questione metafisica molto interessante, ma le anime pie trarranno beneficio dal conoscere i sentimenti di San Tommaso, in modo che possano scegliere il modo più sicuro di comportarsi e dare più fervore e più slancio alla loro vita. – Il principio tomistico che regola tutte le questioni è questo: una qualità, una perfezione, non può essere introdotta in un soggetto se il soggetto non è portato a suo livello, cioè sufficientemente disposto, degnamente preparato. Se, nell’ordine fisico, per aumentare di un grado il calore dell’acqua, è necessario una nuova attività, allo stesso modo, nell’ordine spirituale, per elevare la vita soprannaturale ad un livello superiore, è necessaria un’energia che superi in intensità l’ordine precedente. Altrimenti la grazia, anche se dovuta alle nostre buone opere, non sarà conferita immediatamente; ciò che la ferma e la tiene in sospeso è l’imperfezione dell’atto o la sua mancanza di intensità. La grazia sacramentale è certamente immediatamente riversata nell’anima dall’efficacia stessa del rito sacro, ex opere operato; ma l’incremento che si fa per via del merito, richiede un atto più vigoroso che l’abitudine preesistente. Quando l’ostacolo cade, quando l’anima, per esempio, lasciando il suo corpo compie l’atto di carità perfetta, il pagamento ritardato si completa in un istante, la grazia finora sospesa e trattenuta come da una barriera si riversa nell’anima a fiotti sospinti. – La conclusione che emerge molto chiaramente e che sarà accettata da tutte le scuole è che uno dei più formidabili nemici del merito è la tiepidezza e che uno dei nostri migliori titoli nell’aumento della grazia è il fervore e la generosità. Questo è il vero modo di imitare la Santa Vergine in cui si realizza la perfezione del merito: continuità delle azioni, dignità della persona, eccellenza delle opere, rese ancora più grande dall’influsso dei doni e dal tocco divino dello Spirito Santo. Grazie a Maria, c’è stata nell’umanità una creatura  che ha praticato alla lettera il consiglio dell’Apostolo: «Tutto ciò che fate sia a gloria di Dio ». – Il nostro modesto studio avrà dimostrato ai nostri lettori che il merito è la vera corona del libero arbitrio, l’apice dell’attività umana ed angelica, la vera vita spirituale, la vita feconda, la vita intensa, poiché è vita piena di immortalità e di eternità.

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (3)

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (3)

[E. Hugon: Le mérite dans la vie spirituelle, – LES ÉDITIONS DU CERF JUVISY — SEINE-ET-OISE – 1935]

V.

IL RUOLO DELL’IMPERFEZIONE NELLA VITA SPIRITUALE

Un’obiezione viene spontanea alla mente; se nei giusti tutti gli atti sono meriti o peccati veniali, non c’è più spazio per l’imperfezione! Su questo tema dell’imperfezione sono state costruite molte teorie che eviteremo qui di discutere. Ecco come i nostri principi tomistici ci autorizzano a concepire l’imperfezione. È lecito innanzitutto definire indeliberati gli atti di imperfezione che non siano né cattivi né meritori, e di cui potremmo diminuire la quantità se fossimo più attenti. Quanti atti ogni giorno ci sfuggono, ed impediscono la nostra riflessione, la nostra deliberazione, la nostra libertà! Ma proprio perché non sono umani, non sono degni di alcuna sanzione, punizione o ricompensa, e non contano nella nostra storia. Tuttavia, fermano o interrompono la trama della perfezione, impediscono che la nostra vita sia completamente piena, mettono il vuoto nei nostri giorni… – L’anima di Nostro Signore non ha mai conosciuto un atto indeliberato, non più di quanto non sia stato sottoposto all’ignoranza (vedi il nostro libro Il mistero dell’Incarnazione, p. 265 ss.; e il decreto del Sant’Uffizio, Acta Apostolicæ sedis, 1° luglio 1918). Allo stesso modo, molti teologi considerano certo che non c’è mai stata nella Beata Vergine alcuna azione indeliberata, almeno durante il tempo di veglia. Perché, allora, i nostri atti impediscono il controllo dell’intelligenza e dell’impero della volontà? È grazie all’ignoranza, alla concupiscenza. Niente del genere in Maria. La sua scienza infusa la garantisce contro ogni imprevedibilità, e la sua Immacolata Concezione, con il privilegio dell’integrità assoluta, le assicura l’immunità dalla concupiscenza e dalle tempeste dei sensi (cf. Maria piena di grazia, p. 117.). I Santi, senza riuscire a sopprimere tutti gli atti indeliberati, avanzano nella perfezione nella misura in cui li diminuiscono. Sono quelle che si possono chiamare imperfezioni, né colpevoli né meritorie, ma che la santità si sforza di rendere sempre più rare, quando geme di non poterle eliminare completamente. – La nostra dottrina si applica ad atti che sono veramente umani; per questi, nei giusti, non esiste una via di mezzo: o il merito o il peccato veniale. L’imperfezione può quindi essere intesa come un atto buono, onesto, persino lodevole in sé, ma che rimane un po’ non coronato perché avrebbe potuto essere migliore. Gli esempi qui sono numerosi e familiari; si accetta una soddisfazione consentita, come rinfrancarsi al di fuori dai pasti, fumare o prendere il tabacco da fiuto per puro piacere e senza necessità; si prolungano conversazioni utili ma che avrebbero potuto essere accorciate; si permette agli occhi di vedere, alle orecchie di sentire, quando sarebbe opportuno mortificare la curiosità, ecc. ecc. Tutto questo, pur rimanendo nella cerchia di ciò che è lecito, rimane anche nella cerchia di ciò che è meritorio; ma quanto più velocemente si sarebbero compiuti progressi e quanto più intenso sarebbe stato il merito se fosse stata scelta l’altra alternativa! Questo non obbliga, tranne forse in alcune circostanze particolari, dove il rifiuto sarebbe resistenza alla grazia e ingratitudine a Dio; facendo uso della propria libertà, si fa ancora del bene: ma non si sale fino alle regioni dell’ideale soprannaturale. Possiamo dire di questi atti che siano poco coronati, e quindi, delle imperfezioni che i Santi si rifiutano di concedersi (anche senza aver fatto il voto del perfetto o del più perfetto), ma che non sono private di alcuna ricompensa. – Così il tomismo evita ogni esagerazione: pur facendo risuonare il più spesso possibile il sursum corda nelle orecchie dei giusti, non scoraggia nessuno; dice alle buone volontà che ciò che non è peccato veniale, anche se rimane imperfetto, è comunque degno dell’eternità: Habentibus caritatem omnis actus est meritorius vel demeritorius.

VI.

IMPORTANZA DI QUESTA DOTTRINA DI SAN TOMMASO PER LA VITA SPIRITUALE

Si vedrà ancora una volta come la vera spiritualità debba essere basata su una sana teologia. Questo insegnamento del Dottore Angelico non ha lo scopo di promuovere il quietismo o l’indolenza spirituale. Al pensiero che uno dei propri atti non sia diretto all’ultimo fine, o sia disordinato, guastato dal demerito, l’uomo giusto si sforzerà di rivolgersi a Dio molto spesso, di orientare tutta la sua giornata verso di Lui fin dal mattino con una sorta di patto che intende fare tutto per la gloria divina, e con ogni sua azione, dolore o gioia procurare al Signore tutta la lode che gli Angeli e i Santi gli procurano nell’eternità benedetta. E poiché il grado dell’amore è il grado del merito, egli rinnoverà frequentemente gli atti di carità con il dolce patto che ha già dato l’impulso e lo slancio soprannaturale alle opere ed ai doveri di stato. Egli rimarrà anche molto attento a diminuire la somma degli atti indeliberati o imperfetti e a dare alla sua esistenza quella pienezza di merito che è, in senso pieno, la vita feconda, la vita intensa. – D’altra parte, quanto è consolante dire a se stessi che la giornata non è sprecata, che una carriera è riempita nella misura in cui è tenuta libera dal peccato veniale! Tutte le azioni sono allora piene di eternità e le parole di San Paolo si realizzano in tutta la loro portata: « … il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria » (II Cor., IV, 17). Guardate come l’Apostolo ricorre ad antitesi e superlativi per darci un’idea del valore meritorio: ciò che è momentaneo quaggiù, produce l’eterno; ciò che è leggero vale una quantità immensa; ciò che è tribolazione nella vita presente produce gloria per l’aldilà; e tutto questo senza limiti, in una sublimità che sfida il nostro linguaggio e le nostre concezioni. – Ma cerchiamo di capire ancora meglio e consideriamo i tre principali capi che moltiplicano i nostri titoli per la ricompensa. Prima di tutto la carità; poiché è essa il principio del merito, la ricompensa dovuta ad atti di carità supera incomparabilmente la ricompensa dovuta all’oggetto (“Præmium respondens merito ratione caritatis, quantum cumque sit parvum, est majus quolibet prœmio respondente actui ratione sui generis“. (S, Tommaso, IV Sent, dist. 49, q. 5, ad 5). Perciò, in cielo, il giusto che ha più carità è posto più in alto, qualunque sia il numero di anni trascorsi quaggiù. – In secondo luogo, l’eccellenza delle opere. Così come c’è una gerarchia nelle virtù, c’è un ordine nelle azioni, e quando la carità è uguale da entrambe le parti, la preminenza appartiene indiscutibilmente all’opera il cui oggetto è più nobile, così come la verginità supera la continenza coniugale e la contemplazione attiva prevale sulla mera vita attiva. San Tommaso (San Tommaso, Quodlib. VI, a. n; Comm. in I Cor., c. II, Lezione II) dà altri esempi più suggestivi: come l’architetto è meglio pagato del semplice operaio, anche se l’operaio soffre di più, così nell’ordine soprannaturale chi lavora ad opere più alte, più nobili, più squisite, come Vescovi, i Dottori, se la carità non ne è inferiore, ha diritto ad una ricompensa migliore. Ecco perché le opere della Beata Vergine erano più meritorie dei tormenti dei martiri, non solo per la maggiore carità eroica, ma anche per l’oggetto e il termine più alto e perfetto a cui erano dirette. L’unico consenso dato al messaggio di Gabriele: Fiat mihi secundum verbum tuum, aveva più valore, dice San Bernardino da Siena (San Bernardino, Œuvres, t. II, sermone 51, cap. 12), che gli atti più meravigliosi degli Angeli e dei Santi. – In terzo luogo, la difficoltà o la quantità delle opere. È ovvio che se il lavoro è costato più fatica, è durato più a lungo, debba essere ripagato più abbondantemente. Tuttavia, questo punto di vista è solo secondario e guarda solo alla ricompensa accidentale, mentre la ricompensa essenziale viene sempre dal lato della carità. Supponiamo che due uomini giusti in cielo abbiano lo stesso grado di carità, ma uno di loro abbia faticato più a lungo, ha sofferto tormenti maggiori, è passato attraverso il martirio: la ricompensa essenziale, la visione beatifica e l’amore, saranno uguali, ma il martirio avrà in aggiunta questa aureola, maggiori gioie e glorie accidentali. – Si ricava da questo una conclusione molto chiara per la vita spirituale: occorre sviluppare sempre più la carità, cercare delle opere squisite, affrontare le lotte del dovere, superare le difficoltà, per avere un’eternità più piena e dare a Dio più gloria.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/07/22/il-merito-nella-vita-spirituale-4/

LO SCUDO DELLA FEDE (120)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXXII.

Si risponde alle opposizioni addotte cantro l’immortalità dell’anima.

I . Non rileverebbe i pregio dell’opera trattenersi a ribattere i colpi degli avversari nella questione intrapresa con esso loro, se nel ribatterne i colpi non ci dovesse riuscir ancor di ferirli più gravemente, come c’insegnano le buone leggi di scherma. Addurremo qui pertanto quel più che essi oppongono alla immortalità dell’anima umana, perché da questo medesimo si chiarisca quanto essi vadano non solo fuor di ragione, ma infino contra, quasi ribelli alla luce.

I .

II. La prima loro istanza si è dire, con un tal fasto di derisione, che se l’anima fosse immortale, non par possibile che non ne ritornasse più d’una a ripatriare sopra la terra, o farsi vedere, per darci almeno contezza dell’altro mondo (Questa obbiezione suppone, che l’anima umana non possa altrimenti esistere e manifestarsi che involta nell’organismo corporeo. Il che non è. Per altra parte se i morti tornassero al mondo, il mondo non sarebbe più mondo, ma apparirebbero nuovi cieli e nuova terra, come appunto avverrà nel risorgimento universale della morta umanità). E pur chi è, che possa tra noi gloriarsi di una tal visita 1 Non est agnitus qui sit reversus ab inferis (Sap. II. 1).

III. Ma quale scipidezza maggiore! Volere i sensi per testimonii di ciò che trascende i sensi! Iddio non ha commessa questa causa alla camera bassa della esperienza; l’ha commessa al parlamento supremo della ragione, o (dove questa non operi) della fede. Vero è, che non mancano ancora di tali prove sperimentali: mentre più volte l’anime de’ defunti sono tornate a dar di sè conto ai vivi. E siccome il prestar credenza a ciascuna di simili narrazioni sarebbe al certo debolezza di spirito: così il negarla a tutte, è perversità, ripugnando a ciò che più d’uno scrittore illustre ha testificato in qualunque secolo. Quanto è stolto quel gioielliere il quale tenga per diamante ogni berillo, tanto si e quello il quale per berillo giudichi ogni diamante.

IV. Senonchè, chi può dubitare, che tali apparizioni non hanno ad essere sì frequenti, come le vorrebbono alcuni, mentre non sono conformi alle leggi della natura, ma contrarissime, onde han bisogno di espressa derogazione? Siccome i cadaveri non debbono ad ogni tratto levarsi dalle lor tombe, e tornare a vivere; così non debbono l’anime, separate da ‘quei cadaveri, uscir da’ luoghi assegnati loro da Dio, e tornare a discorrere co’ viventi. Se stanno in luogo di miseria, vi stiano incessantemente, portando tutte da sé le loro pene senza sollievo; e se sono in luogo di felicità, si riposino, godendo quivi lietamente il lor premio, senza più tornare in iscena dopo gli applausi che riportarono tanto gloriosamente, terminata che v’ebbero la lor parte. Lasciare che un recitante rimonti in palco dappoiché egli, soddisfatto al suo debito, ne calò, è un volere apportare disturbo all’opera. Il nodo non lo comporta. E ciò singolarmente nel caso nostro. Perciocché, essendo la futura beatitudine il premio della virtù, conviene che resti oscura, affinché questa medesima oscurità accresca il pregio dell’istessa virtù, e stabilisca meglio la proporzion convenevole che va sempre tra il merito e la mercede.

II.

V. L’altra obbiezione ha un poco più di apparenza, e cosi parimente di serietà. Ed è l’affermare che l’anima, dipendendo nell’operare dagli organi corporali, non può sussistere separata dal corpo. E di fatti si vede che qualor per qualche accidente gli spiriti animali non possano più salire e scendere come prima dal cerebro per li nervi, rimane impedito all’uomo ogni uso, quantunque minimo, di ragione. Ma ciò come accadrebbe, se ogni operazione sua ragionevole non dipendesse per forza da quegli spiriti? Oltre a che ciascuno prova in sé che non può concepire alcuna verità, senza che egli nella sua fantasia se ne formi un simulacro, e quasi un ritratto figurandosi gli angeli e fin Dio stesso in sembianti umani: Nihil sine phantasmate intelligit anima (Arist. 3. de anim. tex. 30). Dal che si rende manifesto altresì che quanto le operazioni della fantasia dipendono dalla materia, altrettanto ne dipenda ancor l’intelletto, che senza la fantasia rimane quasi un dipintore svaligiato, senza colori, senza tavola, senza tela, senza pennelli.

VI. Per non prendere errore in questo discorso, che ha fatto abbagliar più d’uno, adulatore eccessivo del proprio corpo, convien distinguere due guise di dipendenze, una essenziale, e sempre necessaria all’operazione, e l’altra accidentale, e solo necessaria per alcun tempo. Il vedere dipende essenzialmente dall’occhio: ma dagli occhiali dipende per accidente; ond’è che veder senza occhiali tuttora accade, ma non accade che mai si vegga senza occhio. Ora la dipendenza, che nell’intendere ha l’anima da’ fantasmi, non è del primo genere, è del secondo: ch’è accidentale; cioè fino a tanto che l’anima unita al corpo nello stato presente vivo in mezzo a quella nebbia, che le cose corporee d’ogni intorno sollevano contra il vero. Ma sciolta che ella ne sia, non è più così. Perché allora, separata da ogni materia, ella può operare in un modo molto diverso, cioè contemplando le cose intelligibili direttamente in se stesse, e non di riflesso nelle immagini grossolane, colorite ad essa dai sensi (S. Th. 2. p. q.89. art. 1).

VII. Che poi l’anima di verità non dipenda assolutamente dagli organi materiali nel suo operare, né da’ fantasmi, si è da noi già dimostrato abbastanza con più ragioni. Ma oltre a quelle, confermasi di vantaggio con altro ancora. Prima, perchè nessun’altra cosa brama l’anima d’intendere maggiormente, che le spirituali, le sublimissime, le divine, le quali non sono, per alcun modo, oggetto della fantasia. Segno dunque è che l’anima nel suo intendere non dipende essenzialmente dai sensi, altrimenti non bramerebbe ella tanto di sollevarsi di là dai sensi.

VIII. Oltre a ciò l’operazione più propria dell’intelletto consiste singolarmente, non nell’intendere ciò che se gli rappresenta, ma in giudicarne. E pure ad un tal giudizio non solamente non è giovevole il voto della immaginativa, ma spesso è pregiudiziale, porgendo ella all’intelletto frequente occasion di errare, se questo non sia molto avveduto nel correggere da se stesso le apparenze fallaci di quei fantasmi. Che segno è dunque, senonchè egli non è loro soggetto, ma che li domina? Comparisce il sole sull’orizzonte, e gli occhi recandone tosto all’anima le novelle, gliele dipingono per alto poco più di due palmi, per piano affatto, e per abbandonato da tutte quelle stelle festose, che in tanto numero già popolavano il cielo. Ma tacete pure, tacete, o semplici messaggeri, ripiglia l’anima. Voi siete in ciò tanto lontani dal vero, quanto lontani da quel corpo solare da voi descritto. Quello che a voi sembra sì angusto, supera nella mole sino a trentottomila seicento volte tutta la terra. Quello che voi stimate sì piano è un globo perfetto altrettanto luminoso, quanto egli è immenso [purtroppo anche il Segneri era imbevuto di eliocentrismo cabalistico, contro tutte le rappresentazioni bibliche contenute nelle sacre Scritture che il Concilio di Trento definisce inerrabili, senza errore, perché ispirate direttamente da Dio. Era diventato anch’egli un eretico, pensando che Dio avesse sbagliato nell’ispirare i libri della Genesi, di Giobbe, dei Salmi, etc.?]. E quello stelle che voi credeste sì tosto da lui fuggite por non parere a lui serve, non si sono rimosse neppure un’orma dalla loro ordinanza: tutte gli assistono, benché da noi non vedute. Or come l’anima sarebbe mai si contraria alle deposizioni dei sensi nel giudicare, se ella dipendesse essenzialmente da’ sensi? È vero che ella, come padrona, sa valersi a tempo e luogo de’ loro riporti; ma sa ancora sprezzarli, dove è mestieri, sa screditarli. Come dunque è loro affissa tanto altamente? Non potrebbe ella posseder mai quell’amplissima libertà di giudicare in un modo più che in un altro, a dispetto di tutti loro, se tal libertà non fosse a lei derivata da quella sublime origine che la fa superiore al corpo di modo, che sappia un dì ancora starsene senza il corpo: Conditio domini melior fieri potest per servos, deterior fieri non potest (L. Melior. ff. de reg. iur.).

IX. Quindi è che l’anima quanto va più innanzi negli anni, tanto più si rinvigorisce; al contrario de’ sensi, che più invecchiano, più diventano deboli e disadatti. Questa ragione facea gran forza alla mente di quel sagace re Alfonso, come racconta l’istorico suo fedele (Panor. l. 4. de gestis Alphonsi); e la fa parimente in tutti coloro i quali considerano che ne’ senati si sogliono prima udire i vecchi che i giovani: Ut quisque ætate antecellìt, sententiæ principatum tenet (Cic. de senectute). Ma come ciò, se l’anima non crescesse di abilità? Né perché ne’ vecchi decrepiti torni talora a rimbambire il discorso, perde punto di forza un tale argomento: atteso che non è l’intelletto quel che in essi s’infievolì, sono gl’istrumenti di cui l’intelletto legato al corpo si serve nelle sue operazioni. Ad un cerusico, cui por l’età cadente tremi la mano, non manca l’arte, manca soltanto l’istrumento dell’arte , che è il braccio saldo. Nel rimanente l’arte ogni dì più si raffina con lo studiare. Rinvigorite il braccio, e vedrete se l’arte v’è. Così interviene anche all’anima. Donde appare che le suo operazioni non dipendono essenzialmente dagli organi corporei, ma solo accidentalmente, cioè secondo lo stato di questa vita: mercecchè essendo l’anima in tale stato forma del corpo, convien che al corpo si accomodi in modo tale, che concepisca tutte le cose come corporee, o ciò per mezzo di potenze sensibili, che sono tutte soggette a logoramento. Verrà ben quel tempo, che rotti sì duri lacci potrà ella vagare liberamente per gl’immensi spazi del vero, e fissare il guardo immediatamente nel sole delle beltà intelligibili, senza abbagliarsi la vista: Cum venerit dies ille, qui mixtum hoc divini humanique secernat, corpus hoc ubi inveni relinquam: ipse me Diis reddam, diceva Seneca. (Ep. 102).

III.

X. Ma perché, ripiglierete voi, questo parentado infelice tra il corpo e l’anima? Non era meglio che l’anima si rimanesse fin da principio lungi dal consorzio de’ sensi, mentre dalla lor compagnia non doveva apprendere altro che il tralignare dalla sua nobiltà? E facile il farvi pago.

XI. In una perfetta armonia i semitoni sono richiesti, non sono esclusi. Conveniva pertanto che in questa grande armonia che vien formata dalla simmetria delle cose, siccome si trovava un ordine di viventi puramente spirituali quali sono le intelligenze celesti, e si trovava un ordino puramente materiale, quali sono i bruti, animali non ragionevoli (Suarez de anim. 1. 2 . e. 6. n. 16); così venisse a trovarsi un ordine parimente di mezzo, che unisse il supremo e l’infimo in un confine; fosse l’infimo del supremo, fosse il supremo dell’infimo; fosse come un passaggio contenente il bello de’ puri spiriti, cioè l’anima, e il bello delle pure materie, cioè il corpo: e fosse (come molti il chiamarono) un orizzonte, dove si congiungessero due emisferi tra lor sì opposti, quello dell’eternità e quello del tempo (Ci piace riferire qui un brano di G . Tiberghien, dove saggiamente e bellamente si chiarisce la ragione metafisica dell’esistenza dell’uomo: « Perché lo spirito si congiunge col corpo? Perché l’universo deve realizzare tutte le possibilità dell’esistenza. La pura materia ed il puro spirito sono esseri incompiuti, esclusivi, e meramente costituiti sotto un punto di vista determinato. Perché siavi equilibrio nella creazione, occorre che scompaia l’antagonismo tra il mondo spirituale ed il fisico. Quest’equilibrio si avvera per appunto nell’umanità – Psicolog. pag. 14 ».) (S.Th. contra gentes 1. 1. c. 81).

XII. Inoltre succede all’anima come ad un mercante mandato in paesi poveri, dove, se egli vuole arricchire, fa di mestieri che aiutisi con l’industria. Gli angeli sono nati in paese doviziosissimo, e però a locupletare di operazioni sublimi la loro mente non ha bisogno di accettare fuori di sé le spezie dello cose: hanno l’emporio in sé stessi: mercecchè con quelle furono già prodotti dal loro fattore nel primo istante. Ma l’anima (creata povera affatto di tali specie) per fornirsene, conviene che le cerchi fuori di sé, e così vagliasi del ministero de’ sensi, entrando, quasi dissi, in lor compagnia, affine di stabilire per mezzo loro questo negozio, da cui dipende tutto il suo capitale (S. Th. 1. p. q. 89. art. 1. in c.). Ecco dunque ove stia fondata la necessità che ha l’anima di unirsi da principio col corpo; sta fondata sulla necessità che ella ha di pigliare in prestito dalla immaginativa i fantasmi su i quali traffichi, giusta l’abilità che possiede, a divenir ricca di splendide intelligenze. Ma un tal contratto di società fra l’intelletto e i sensi, non è d’uopo che duri sempre (Questa proposizione dell’autore, che pone tra l’anima ed il corpo nell’uomo una unione meramente contingente e temporanea, anziché necessaria ed eterna, non bene si concorda con quanto venne enunciato nel numero precedente, e nemmeno mi pare conciliabile col dogma cristiano del risorgimento dei corpi e del perenne loro ricongiungimento coll’anima). Ove l’anima sia bastevolmente provvista, può lietamente sciogliere un tal contratto, e negoziar da sé sola, separandosi dal corpo, e operando senza di lui nella contemplazione di tutto il vero da lei bramato, e di tutto il buono, a somiglianza degli spiriti puramente intellettuali, coi quali ella è confinante (S. Th. 1. p. q. 88. art. 6 ) . Anzi da questi potrà ella venire vieppiù arricchita, e massimamente quando per la poca dimora che fece in terra poco tempo ancor ebbe da trafficare. Vero è che l’anima non può capir bene al presento quello stato più alto che sortirà divisa dal corpo; o però tanto s’inorridisce al pensiero di morte prossima (s. Th. c. gent. 1.2.c. 81. et 1. p. q.89.a. 1. ad 2).

IV.

XIII. E questa è l’altra obbiezione che adducono certi contra l’immortalità dell’anima umana: l’orror dell’uomo alla morte, non considerando essi tra sé che quell’orror naturale è più nell’apprensione e nell’appetito, a cui di verità toccherà perire, che non è nella ragione, a cui tocca restare eterna. Questa negl’intendenti sa piuttosto reprimere un tal orrore. Tanto che talor li fa giungere, non già a darsi audacemente la morte da sé medesimi; mentre è noto che senza la permissione del generale non può un soldato voltare al campo le spalle (Cic. Tusc. q. 1. 1), ma a sospirarla, come facea chi già disse: Cunctis diebus, quibus nunc milito, expecto donec veniat immutatici mea (aspetterei tutti i giorni della mia milizia finché arrivi per me l’ora del cambio! Iob. XIV. 14). Senzachè, qual mEraviglia, se all’anima, per l’amore che ha preso al corpo, dispiaccia di abbandonarlo fin in pascolo ai vermi? Basti di risapere che le fu compagno in un traffico, qual si disse, di tanto lucro più a lei, che a lui. Ma soprattutto non è ciò quel che rende la morte così terribile ai più degli uomini. È non saper qual sorte debba lor finalmente toccar di là, se beata, o misera. Ma se è così, tal orrore dunque conforma l’immortalità dell’anima umana, non la sconfìgge, mentre ciò mostra, che niuno sa svellersi, benché voglia, dal cuore quest’alta aspettazion di premio o di pena che duri sempre.

XIV. Finalmente l’ultima opposizione è una fuga vergognosissima, sotto nome di ritirata. Dicono che le ragioni addotte a favor della combattuta immortalità non sono evidenti, ma che vi si può rispondere molte cose. Però che posso io qui dire? se le mentovate ragioni non compariscono di buon aspetto allo menti de’ libertini così stravolte, non è discredito della verità, n’è trionfo. Come poteano risplendere fedelmente sì belli oggetti in tali specchi tutti imbrattati di fango? Ma frattanto se le ragioni addotte non sono evidenti a loro, sono evidenti all’ingegno di maestri eccelsissimi, che per tali, almeno in gran parte le definirono (V. Suar. de anim. 1. 1. c. 20. Et Gregor. de Valent. 1. p. disp. 6. q. 1. p. 3. S. Th. contra gentes 1. 2. c. 79. sub. init.). E singolarmente sono evidenti a due gran luminari nel cielo della sapienza, ad Agostino, e all’Angelico, ciascun de’ quali sarebbe da se solo bastevole a far di chiaro. Che se qualche scolastico, ancor sottile, si studiò di annobiliare tal evidenza, riducendo il tutto alla fede (Che la spiritualità e quindi l’immortalità dell’anima umana non sia un mero oggetto di fede sovrannaturale, ma altresì una verità dimostrabile dalla ragione, è questa una proposizione sancita dalla Santa Sede romana con decreto 11 giugno 1855, dove si legge: « Ratiocinatio Dei existentiam, animæ spiritualitatem, hominis libertatem cum certitudine probare potest. »), già si scorgo che ciò egli fece piùper vaghezza di contenzione, che di vittoria,come osservossi anche da’ suoi più devoti commentatori: onde in ciò godé poco applauso e pochi aderenti.

XV. Finalmente quando anche si dovesse concedere in cortesia che le prove addotte per l’immortalità dell’anima umana non fossero evidentissime, rimane evidentissimo almeno che sono degne di esser preferite alle prove opposte: sicché nessuno intelletto, senza nota di somma temerità, si possa mai sposar più a queste, che a quelle. Pertanto a fingere parimente che tale immortalità fosse una causa tuttor pendente al gran foro della ragione, converrebbe pure, ad operar con senno, che ciascun giuocasse al sicuro: Spem ac metum examina (scrive Seneca (Ep. 5) al suo Lucilio), et quoties incerta erunt omnia, tibi fave. Che perderete voi dunque , se vi atteniate al partito di riputare la vostr’anima eterna; e per contrario che non perderete in riputarla mortale? Eccoci giunti al dì ultimo, voi ed io: voi , cui l’opinion di morir tutto abbia consigliato il vagare liberamente per ogni campo di piacere interdetto; io, cui la fede di non dover mai morir secondo il meglio di me, mi sia stata alquanto di freno. Che vi par ora? Per ciò che si appartiene al passato siam già del pari. E per voi finito ogni spasso, per me ogni stento. Ma da ora innanzi, oh che alta diversità! Se l’indovinate voi, godeste, è vero, per breve corso di anni, ma non godete ora più, come nemmen io. Ma se io sono quegli che l’indovini, io regnerò fortunato per tutti i secoli co’ seguaci della provvidenza divina già trionfante, e voi per tutti i secoli gemerete co’ suoi ribelli, oppresso dal peso d’una sterminata miseria, che sempre vi aggraverà più spietatamente, né mai però finirà di schiacciarvi il capo. Qual senno dunque sarebbe, quando le cose nel pellegrinaggio di questa vita restassero ancora dubbio, non voler pendere dalla banda del monte, piuttosto che dalla banda del precipizio? E nondimeno da questa pendete voi.

XVI. Se l’anima è caduca, dicea quel savio (Cato apud Tull., de senect.) non vi sarà chi dopo la morte nostra ci possa rimproverare l’abbaglio tolto in riputarla immortale. E se immortale, oh come a noi toccherà di rimproverare con piacer sommo chi se la finse caduca! Ma io non vi dico nulla di ciò, perché voglia quasi permettere al vostro cuore un piccolo dubbio in cosa che è tanto certa. Vel dico a soprabbondanza di verità: mentre quest’istesso vedere quanto più operi prudentemente chi tiene l’immortalità dell’anima umana, che chi la nega, dimostra evidentemente qual sia la sentenza vera.

XVII. Lasciamo dunque di voler disputare contra noi stessi e contra tutti i lumi della natura, la quale da tanti versi ci fa apparire la nobiltà del nostro essere sempiterno, affinché ci andiam disponendo, dopo una breve fatica, a goderne i frutti. Muoiano pure queste membra lotose che sono sottoposte alla morte: rovinino le pareti di questo carcere che ci tien ristretto lo spirito nato al soglio: usciamo dallo squallore di queste sì nere tenebre a quella luce che sopra noi dovrà subito folgorare nell’istantaneo tragitto da un mondo all’altro. Che temer tanto? Dies iste, quem tamquam extremum reformidas, æterni natalis est; depone onus, etc. Quid, ista sic dìligis quasi tua? Istix opertus es. Veniet qui te revelet dies, et ex contubernio fœdi atque olidi eentris educat. Aliquando naturæ arcana tibi retegentur: discutietur ista caligo, et lux undique ciana percutiet etc. (Senec. ep. 100). Credete forse che la fede sola sia quella che faccia parlar così? Così ancor fece, che favellasse un filosofo, la natura.

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (2)

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (2)

[E. Hugon: Le mérite dans la vie spirituelle, – LES ÉDITIONS DU CERF JUVISY — SEINE-ET-OISE – 1935]

III.

IL PRINCIPIO DEL MERITO

La grazia è il primo e radicale principio dal quale procede il merito: così come la nostra anima è la fonte delle nostre azioni, così come il tronco dell’albero è la causa dei fiori e dei frutti; così come l’albero porta frutto attraverso i suoi rami, e l’anima opera attraverso le sue facoltà, così la grazia produce l’opera salutare e meritoria attraverso l’intermediazione delle abitudini infuse, cioè: le virtù teologali, che hanno Dio come oggetto e sono radicate nella vita divina; le virtù morali, con le loro innumerevoli ramificazioni; i doni dello Spirito Santo, che ci dispongono a ricevere il tocco del divino Paraclito in modo docile e sono in noi come dei germi di eroismo, come una pianta il cui eroismo è il fiore o una lira il cui eroismo è il suono. Ora è in virtù della carità che la grazia è il principio del merito, cosicché gli atti delle altre virtù diventano meritevoli nella misura in cui sono informati dalla carità. Certamente la carità non è l’unica ad essere incoronata, l’unica virtù che onori Dio (cfr. Concilio di Trento, cap. X e XVI del sess. VI, e le prop. 55 e 56 condannate in Quesnel, – apud Denzinger, 1405, 1406). L’impulso e il motivo delle altre virtù sono lodevoli; possono tutte ascendere a Dio; ma è essa che le dirige, che le informa, che le rende gradevoli al supremo Remuneratore. Allo stesso modo, infatti, che la volontà è la potenza maestra che comanda tutte le altre, la carità è la regina che impone i suoi ordini a tutte le virtù (cf. S. Tommaso, Ia, IIa, q. 114, art. 4); essa è anche l’organo della vita attraverso il quale la grazia fa giungere il merito ai vari atti, così come il cuore irrora sangue in ogni parte del nostro corpo. La Scrittura indica soprattutto il motivo della carità nelle opere che Dio benedice: è perché esse sono fatte per amore, nel nome di Gesù, per la gloria di Dio: « In nomine meo, quia Christi estis… omnia in gloriam Dei facite » (S. Marco IX, 40; I Cor. XI; Colos., III, 17). San Paolo dichiara che gli atti, per quanto squisiti, della fede più convinta, come trasportare montagne, subire le torture del fuoco, hanno valore per la vita della carne solo se ispirati dalla carità (I Cor. XIII, 1-3). Le nostre opere, infatti, per essere degne di merito, devono essere degne di Dio, devono essere dirette verso il nostro fine ultimo; ed è la carità che le dirige verso questo destino. Poiché la carità è la virtù sovrana, essa governa tutte le altre virtù; poiché ha per oggetto il fine universale, deve comandare a dei fini particolari, dirigere tutte le abitudini con i loro atti verso la meta unica e suprema. Poiché nessun mezzo è messo in atto se non per il desiderio del fine ultimo, nessuna opera sale effettivamente a Dio se non attraverso la carità (cf. “Fuori dalla Chiesa nessuna salvezza”, 2a ed., pp. 186-7). Ma in cosa consiste questo impero della carità senza il quale le nostre opere sarebbero sterili? Qui alcuni teologi si allontanano da San Tommaso; secondo alcuni è sufficiente un’influenza abituale che deriva dall’esistenza stessa della carità nell’anima (cf. Vasquez, Disp. CXXVII, CCXVII); secondo altri, l’influenza abituale è sufficiente per gli atti di virtù soprannaturali, ma l’influenza abituale è necessaria per gli atti di virtù acquisite (cf. Vasquez, Disp. CXXVII, CCXVII;. Suarez, de Gratia, XII, c. VIII-X; Mazzella, De virtutibus infusis, n. 134.); secondo San Tommaso e la sua scuola, non è richiesta l’influenza attuale, ma è necessaria per tutti i casi almeno l’influenza virtuale (molti altri teologi concordano qui con il Dottore Angelico, v. g. San Bonaventura, II Sent, diss. 4; Bellarmino, De Justif., cap. XV.2). – Non vogliamo entrare in discussioni scolastiche; basterà qui esporre la dottrina del Dottore Angelico. – L’influenza abituale è insufficiente, perché, come osserva il santo Dottore, nessuno opera finché le sue energie rimangono nello stato abituale (S. Tommaso, Il Sent., dist. 40, q. I, a. 5, ad 6.). Non è necessario, invece, che l’intenzione attuale intervenga in ogni azione per indirizzarla verso l’ultimo fine; ma deve esserci un’intenzione virtuale, una scossa efficace che continui anche dopo la cessazione dell’ordine. Ora tutto ciò presuppone un precedente atto di pensiero e di volontà, che ha ordinato tutti i seguenti atti e continua in essi, come impulso dell’inizio, nel movimento che ha provocato: Sed oportet quod prius fuerit cogitatio de fine, qui est caritas, et quod ratio actionnes sequentes in finem ordinaverit (S. Thom., II Sent., dist. 38, q. I, art. I, ad 4). La nozione stessa di merito richiede che le opere siano soprannaturali e si riferiscano al fine ultimo. Ora gli atti delle virtù acquisite non sono essenzialmente soprannaturali, ma lo sono nella misura in cui l’intenzione della carità le ha diretti e fecondati. Quanto agli atti delle virtù infuse, pur essendo di per sé soprannaturali, essi sono effettivamente legati al fine ultimo ed alla gloria di Dio solo se sono informati dalla virtù che ne ha per oggetto il fine ultimo, cioè quella carità divina alla quale appartiene il muovere le altre virtù e dirigere i loro atti, così come nell’ordine naturale la volontà mette in moto tutte le altre facoltà e le applica ai rispettivi atti. Questa direzione, questo orientamento, questo scossone, implica necessariamente un atto la cui energia si mantiene in tutta la serie di movimenti che ne derivano. E questo è proprio quello che chiamiamo l’influenza virtuale della carità.

IV.

IN PRATICA, TUTTI GLI ATTI DEL GIUSTO CHE NON SONO PECCATI VENIALI SONO MERITORI.

San Tommaso afferma molto categoricamente che, nell’uomo in stato di grazia, non può esserci atto di indifferenza: se l’atto è buono, è meritorio; se non è buono, è demeritorio. Peccatori e miscredenti possono certamente nascondere certi atti che non sono meritori, non ancora vivificati dalla grazia, ma che, d’altra parte, conservano la loro naturale bontà (Spieghiamo a suo lungo questa dottrina in Fuori dalla Chiesa Nessuna salvezza, 2a ed., pp. 59 e segg.), come onorare i genitori, pagare i debiti, rispettare la fede dei giuramenti e dei trattati. Nel giusto, invece, l’atto che è buono nell’ordine naturale assume anche, per l’influsso della carità, il carattere del merito: Habentibus caritatem omnis actus est meritorius vel demeritorius (S. Thomas, Quæst. Disp., de Malo, q. 2, a. 5, ad 7). Abbiamo esposto altrove questo insegnamento del Maestro Angelico (Marie pleine de grâce, pp. 114-116, Parigi, Lethielleux). Lo stato di giustizia, infatti, richiede la carità, e la carità è attiva: non può non provocare, eccitare le nostre energie, inclinarle verso Dio. Essa orienta la nostra intenzione originaria verso il fine ultimo, e con questo primitivo movimento comunica la sua influenza a tutte le virtù, così come la volontà impone il suo comando a tutte le potenze: questo impulso continua anche dopo che l’ordine sia cessato; rimane ancora nelle virtù e nelle opere, e in questo modo tutte le nostre opere sono vivificate dalla carità e diventano meritorie. – Stimolata dalle sue forze native ad agire, la carità rinnova il suo impulso abbastanza spesso affinché la nostra intenzione sia sufficientemente diretta verso Dio, affinché tutti i nostri buoni atti siano coinvolti da questo impulso generale e trasportati nell’eternità. Ecco come tutte le azioni del giusto vengono trascinate nella corrente che santifica, come in virtù dell’impressione ricevuta rimangono sempre orientate verso il fine della carità e si relazionano con Dio, senza che noi, attualmente, ci pensiamo. Nel bere e mangiare secondo la misura della temperanza, avere una onesta ricreazione, in tutto quanto è fuori dal cerchio della volgarità, non c’è più nulla della banalità: tutto è grande, tutto è nobile, perché queste azioni hanno come misura l’eternità che ne è in gioco. Riassumiamo questa bella e consolante dottrina in un unico argomento: ogni buona azione si riduce alla fine ad una virtù, ogni virtù converge verso il fine della carità, perché la carità è la regina che comanda tutte le virtù, così come la volontà comanda tutte le potenze. Tutti gli atti buoni sono quindi legati al fine della carità, sono soggetti alla sua influenza, e diventano meritori. Le azioni che sfuggono a questo impero universale sono necessariamente al di fuori del fine ultimo, squilibrate, macchiate dal demerito. Questo, in una parola, è lo scopo di questo insegnamento tomistico: nel giusto, ogni atto ragionevole e deliberato deve essere o all’interno del cerchio dell’ultimo fine e, così vivificato dalla carità, è meritorio; o al di fuori di questo cerchio, e così è disordinato e peccato veniale: Habentibus caritatem omnis actus est meritorius vel demeritorius.

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IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (1)

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (1)

[E. Hugon: Le mérite dans la vie spirituelle, – LES ÉDITIONS DU CERF JUVISY — SEINE-ET-OISE – 1935]

Il merito nella vita spirituale

NIHIL OBSTAT

Fr. ÉT. LAJEUNIE Fi. P. BOISSELOT

Lecteur en théologie. Lecteur en théologie.

Fr. J. PADÉ Pr. Prov.

Parisiis, 15 Sept. 1935.

NIHIL OBSTAT

F. MAINIL, cens. libr.

IMPRIMATUR

Tornaci, die 11 Octobri 1935

J. LECOUVET, vic, gen

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE

La vita spirituale non è altro che la vita del merito; perché se la vita dell’anima è grazia. Patto di questa vita è l’atto meritorio. Camminare sulla via della perfezione significa avanzare nel merito; c’è quindi progresso o regresso, a seconda che il merito cresca o si fermi. Questo è ciò che dovrebbe essere l’esame di coscienza nei giusti. Fare l’equilibrio nella vita spirituale significa determinare in che misura la somma dei nostri meriti superi quella dei nostri demeriti. È quindi importante spiegare la dottrina cattolica su questo tema e ricordare i principi teologici che sono alla base della vera spiritualità. Il nostro studio prenderà in esame questi punti essenziali, evidenziando come si proceda lungo le applicazioni dell’ordine pratico: la nozione di merito, le condizioni di merito, il principio del merito, l’entità del merito, la ricompensa del merito.

I.

LA NOZIONE DEL MERITO

Questa deriva dalla nozione stessa della grazia, di cui il merito è il germoglìo, la fioritura, il frutto e la corona. La Grazia è chiamata dalle Sacre Lettere una seconda nascita immacolata, incorruttibile, che ci dà il titolo e la qualità di figli di Dio: Sono nati da Dio, dice San Giovanni (S. Giovanni I, 13: “ex Deo nati sunt“). E San Pietro: Tu sei rigenerato non da un seme corruttibile ma incorruttibile (I Pietro, I, 23: “renati non ex semine corruptibili, sed incorruptibili“.2). Chiamati figli di Dio, noi lo siamo in effetti (I Giovanni, III, 1: “ut filii Dei nominemur et simus“). Dopo il nostro Battesimo, nostro padre e nostra madre, contemplandoci con amore nella nostra culla, hanno detto di noi in un dolce trasporto: « Rallegriamoci, ci è nato un figlio! » La famiglia celeste, l’adorabile Trinità, che si china ancora più teneramente su quella stessa culla, ha detto di noi: Ci è nato un Dio, un uomo è nato da Dio, ex Deo nati sunt. Ma cosa ci dà la nascita? La caratteristica della generazione è quella di comunicare un Essere fisico simile al principio che genera: nascere è ricevere da un vivente qualcosa di lui che passa in noi, e che rimane sempre come suo specchio e sua immagine; in una parola, è una nuova natura che sboccia al sole di una nuova vita. Nascendo dall’uomo, noi riceviamo una natura umana e riproduciamo la figura dei nostri genitori; nel nascere da Dio, noi dobbiamo partecipare alla natura divina per riflettere il volto divino. Questo è ciò che ci insegna la scrittura. Dopo aver detto che la grazia è la nostra seconda creazione, una seconda nascita, nova creatura, renati, la si chiama comunione all’Essere di Dio, una partecipazione della sua natura: Divinæ consortes naturæ (II Pietro 1,4: – Vedi il nostro libro: Fuori dalla Chiesa Nessuna salvezza, 2a edizione, p. 128). – Se abbiamo ricevuto per grazia una natura divina, dobbiamo avere operazioni dello stesso suo ordine. Secondo la bella espressione di un Padre della Chiesa, il Cristiano è un “Dio in fiore”; esso deve portare frutti divini, cioè operazioni degne di Dio.  Da quel momento in poi, c’è un triplice valore soprannaturale nelle opere del giusto:

Il valore meritorio è la proprietà che possiede l’opera del giusto, in tanto che divina, di essere accettata da Dio come degno di ricompensa;

il valore soddisfattorio è la proprietà che possiede l’opera del giusto, in tanto che divina, di essere accettata da Dio come riparazione per l’offesa fatta all’infinita Maestà;

il valore impetratorio è la proprietà che possiede la preghiera del giusto, come divina, di ottenere da Dio i beni necessari o utili alla salvezza.

Il merito è come la radice ed il fondamento degli altri due valori, e si potrebbe anche dire che la soddisfazione e l’impetrazione sono una sorta di merito, perché l’opera santa è degna o meritevole dell’accettazione di Dio come riparazione, e la preghiera fatta in stato di grazia e nel nome di Cristo è degna di essere ascoltata da Dio. Ma, prese nello stretto senso, queste nozioni devono essere accuratamente distinte. Il merito si riferisce soprattutto al diritto alla ricompensa, che è l’aumento della grazia in questo mondo, la gloria e l’aumento di gloria nell’altro; la soddisfazione si riferisce alla riparazione dell’offesa; l’impetrazione implica l’efficacia della preghiera in relazione ai beni della salvezza, e l’anima in stato di peccato mortale, non potendo ancora meritare, può pregare. – Il merito è personale, nel senso che l’uomo giusto non può meritare de condigno per gli altri, a meno che non sia costituito il capo morale dell’umanità; la soddisfazione può essere ceduta agli altri; l’impetrazione si estende al di là del merito, perché la perseveranza finale cade al di fuori della sfera del merito, mentre rientra in qualche modo nell’ambito dell’impetrazione, essendo stata promessa da Cristo alla preghiera perseverante fatta nel suo nome. La soddisfazione ha diversi aspetti: dal momento che l’opera del giusto calma l’ira di Dio, essa è propiziatoria; dal momento che inclina Dio a cancellare la colpa del peccatore, è espiatoria; poiché paga il debito dovuto alla giustizia divina, è propriamente soddisfattoria. La propiziazione agisce prima della remissione del peccato, rendendo propizio il Dio irritato dalla colpa; l’espiazione mira alla remissione stessa del peccato, che si fa mediante la grazia santificante; la soddisfazione viene dopo la giustificazione e mira alla soluzione della pena, una volta cancellata la colpa. (cf. “Il Mistero della redenzione” – 2a ed., pp. 262-3). – È soprattutto questo primo valore che consideriamo qui. C’è il merito propriamente detto, il merito della condegnità de condigno, quando l’opera è veramente degna della sua ricompensa, quando c’è una sorta di uguaglianza o proporzione tra le due, in modo che la ricompensa sia dovuta a titolo di giustizia; il merito di convenienza, “de congruo”, è quello che si basa non sulla stretta giustizia, ma su certe esigenze morali che il Remuneratore misericordioso non manca mai di soddisfare: è il diritto dell’amicizia alla ricompensa, jus amicabile ad præmium. – La Chiesa ha definito, contro i protestanti, l’esistenza del merito propriamente detto nei giusti. « Una volta che gli uomini sono giustificati – dice il Concilio di Trento – bisogna loro proporre le parole dell’Apostolo, promettendo alle opere meritorie la corona della giustizia. Come la testa influenza gli arti e la vite influenza i germogli, così Cristo comunica ai giusti la virtù che precede sempre le loro opere buone, li accompagna e li segue, e senza la quale questi atti non potrebbero essere graditi. (Sess. VI, c. 16, can. 32).

II.

LE CONDIZIONI DEL MERITO

Esse devono essere considerate dal lato dell’opera, dalla parte di chi agisce, dalla parte del Remuneratore supremo. L’opera deve essere libera, buona e soprannaturale. Come perfezione della nostra attività, il merito non può che coronare l’Atto veramente umano, che proceda cioè da entrambe le nostre due facoltà principali, l’intelligenza e la volontà; l’atto che è in nostro potere, di cui abbiamo il pieno controllo, e non quello che ci viene imposto da una costrizione esterna o da un impulso fatale della nostra natura (La Chiesa ha dichiarato, contro Giansenio, che il merito richiede questa doppia esenzione, sia della violenza esterna, e sia dalla necessità naturale – Cfr. Denzinger, n. 1094).  Così, gli atti puramente naturali o irriflessivi o involontari, esulano dalla sfera del merito. La conclusione che si deve trarre per la vita spirituale è che le persone che desiderano la perfezione devono stare continuamente in guardia, per diminuire gli atti indeliberati ed accrescere così il tesoro dei loro meriti. – L’opera deve essere buona e soprannaturale, perché è evidente che il movimento non può avvicinarci efficacemente al termine supremo, la gloria, se non sia dello stesso suo ordine e, per così dire, dello stesso grado. Ciò che è essenzialmente richiesto dal canto della persona è lo stato di viatore, perché il merito, come abbiamo appena notato, è un movimento e il movimento si ferma non appena si arrivi al termine. Nostro Signore afferma chiaramente questa verità quando dice: « Devo compiere le opere di Colui che mi ha mandato, fintantoché è giorno. Ecco, viene la notte, quando non si può più lavorare: venit nox, quando nemo potest operari » (Giov. IX, 4). Il giorno è la vita presente; la notte è la morte. Questa è l’interpretazione comune dei Padri, da Origene a Sant’Agostino. Molti teologi protestanti del XIX secolo hanno pervertito questo punto dell’insegnamento tradizionale sostenendo che non tutto è immutabilmente fissato dopo la morte, che la salvezza continua negli inferi, nell’intervallo tra la prima e la seconda venuta, presso quei settori dell’umanità che non sono stati messi in condizione nell’esistenza terrena di decidersi a favore o contro Cristo (A. Grétillat, “Exposé de théologie systém.”, vol. IV, p. 949, Parigi, 1900). La minima esitazione è impossibile su questo argomento. L’anima, uscendo dal corpo, compare alla barra  di Dio per subire un giudizio irreformabile, e, se è in stato di peccato mortale, scende immediatamente all’inferno, mox post mortem, dove subisce un castigo che non avrà fine (Benedetto XII, Constit. Benedictus Deus del 29 gennaio 1336; – Concilio di Firenze, Decreto, pro Græcis; cf. Denzinger, 531, 693). Uno degli schemi del Concilio Vaticano, pur non avendo valore giuridico, traduce fedelmente la credenza certa ed infallibile della Chiesa: « Dopo la morte, che è la fine della nostra vita, l’anima appare immediatamente davanti al tribunale di Dio per rendere conto di ciò che ha fatto nel corpo, sia nel bene che nel male; e dopo questa vita mortale non c’è più spazio per il pentimento ed il ritorno alla penitenza » (cf. Granderath, Acta et Decreta Conc. Città del Vaticano, Friburgo, Brisgou, 1892, p. 564, col. 2). Si potrebbe pensare, di rigore, che il merito accidentale possa accrescersi nell’aldilà; perché seppur la beatitudine essenziale è immutabile, le anime sono capaci di provare nuove gioie accidentali che completano la loro felicità. Ma la dottrina comune in teologia è che anche il merito accidentale si fermi alla morte, e che le glorie accidentali, aggiunte successivamente, sono dovute ai meriti della vita presente, quelli cioè che l’uomo giusto ha meritato quaggiù, e che gli siano conferite nuove gioie in cielo, secondo il suo stato o la sua condizione. La ragione di questo insegnamento è la ragione stessa dell’unione dell’anima con il corpo: l’uomo deve acquisire la sua perfezione nello stato di unione e finché duri l’unione. Per questo San Paolo attribuisce il merito o il demerito solo alle opere che sono state compiute nel mentre l’uomo aveva il suo corpo: « Noi tutti, dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva nel suo corpo ciò che ha meritato stando nel suo corpo, secondo le sue opere, buone o cattive che siano” (II Cor.., V, 10: “Ut referat unusquisque propria corporis prout gessit, sive bonum, sive malum“. Cfr. come da S. Tommaso e P. Cornely, in h. 1). – Un’altra condizione altrettanto indispensabile è lo stato di grazia e di carità. Nostro Signore dichiara che possiamo portare frutti soprannaturali solo se rimaniamo uniti a Lui; così come il tralcio è fecondo solo se attinge la sua linfa dal tronco nutritizio della vite (Giovanni, XV, 4). Ora è la grazia santificante che ci fa vivere e abitare in Cristo.  San Paolo ha proclamato la necessità e l’eccellenza della carità e della grazia, dalla quale essa è inseparabile, in una famosa pagina che è stata definita una delle più eloquenti e sublimi di tutti i linguaggi umani, e che può essere riassunta come segue: « Senza la carità non sono niente, tutte le cose non mi servono a niente, e con essa posso tutto » (I Cor. XIII). – Basti ricordare alcune dichiarazioni del Magistero infallibile. Il Secondo Concilio di Orange definisce: « La ricompensa è dovuta alle opere buone se esse hanno luogo, ma la grazia, che non è dovuta, precede perché esse abbiano luogo” (Can. t8, cfr. Denzinger, 191). – I Padri di Trento concludono precisando: questa grazia che precede l’opera meritoria è la grazia della giustificazione o la grazia santificante, ed è per questo che il Concilio attribuisce il merito solo alle opere dell’uomo giustificato (Sess. V, cap. 16, can. 32). La ragione teologica è abbastanza evidente. Poiché la ricompensa è l’eredità stessa di Dio, la persona capace di meritare è quella che ha il diritto di ereditare da Dio, cioè colui che è suo figlio; poiché il figlio è l’erede di diritto: Si filii et hæredes (Rom., VIII, 17). Solo la grazia santificante può infonderci questa ineffabile filiazione, renderci degli dei e permetterci di portare questa particella della più sublime nobiltà: di Dio, genus sumus Dei – di Lui stirpe noi siamo. (At XVII, 28). È, quindi, questo il primo ed indispensabile principio di ogni merito: una vita che non sia stata feconda è persa in cielo. – Dal canto del supremo Remuneratore, ci deve essere una promessa di ricompensa, perché le nostre opere non potrebbero essere un titolo di giustizia per l’eredità di Dio, a meno che Egli stesso non le abbia ordinate a questo scopo ed abbia promesso di coronarle. Per questo motivo la Sacra Scrittura indica espressamente la promessa divina: « Beato l’uomo che sopporta la prova!….. Egli riceverà la corona della vita che Dio ha promesso a coloro che lo amano » (Giac., I, 12: “Accipiet coronam vitæ quam repromisit Deus diligentibus se“). Si può dire che questa promessa si comprende nel fatto stesso della nostra elevazione soprannaturale e che la volontà di conferirci la grazia in vista del fine ultimo equivale ad una promessa: come colui che sparge il seme della pianta vuole i fiori e i frutti che ne sono la corona, così Dio, nell’infonderci la grazia, che è il seme della gloria, ci offre la vita eterna. Concludiamo con il Concilio di Trento: « A coloro che lavorano bene fino alla fine e sperano in Dio, bisogna proporre la vita eterna, sia come grazia misericordiosamente promessa ai figli di Dio da Nostro Signore, sia come ricompensa che sarà fedelmente data, in virtù della promessa divina, alle loro buone opere e ai loro meriti” (Sess. VI, cap. 16). Incoronando i nostri meriti, Dio incorona certamente i suoi doni; ma poiché si è impegnato nei nostri riguardi con le sue promesse, i nostri meriti ci danno diritto alla corona, e questa corona ci viene conferita a titolo di giustizia dal giusto Giudice: San Paolo la chiamava: La corona della giustizia che il Giudice giusto mi darà (« Corona Justitiæ, quam reddet mihi Dominus, in illa die, justus Judex » – II Tim. IV, 8). Da queste poche nozioni teologiche scaturiscono importanti applicazioni per la vita spirituale. Le anime che ci tengono alla loro santificazione dovrebbero spesso ricordare che sono diventate, per grazia, partecipi della natura divina che le pone al livello di Dio, e di conseguenza di operazioni divine di valore inestimabile. Supponiamo che, nella bilancia della giustizia eterna, la preghiera di un uomo giusto, il sospiro di un innocente, la lacrima di una povera madre, da un lato, e tutte le meraviglie del genio e dell’energia umana, dall’altro, siano poste sulla bilancia della giustizia eterna: questa preghiera, questo sospiro e questa lacrima pesano più di tutti i beni della natura insieme… Ma, d’altra parte, quanto dobbiamo essere vigili per rimanere a questo livello soprannaturale, per evitare la dissipazione, per diminuire sempre più gli atti indeliberati, per non perdere nulla del tempo che ci è stato dato nella vita presente, periodo unico per meritare, e per orientare tutte le nostre azioni verso l’eternità e verso la gloria di Dio! Ci resta da esporre una bella dottrina di San Tommaso: siccome nei giusti tutte le azioni che non sono peccati veniali rimangono meritorie, ci resta da spiegare, nello stesso tempo, la natura dell’imperfezione nella vita spirituale. Ciò che è stato appena detto basterà già a farci apprezzare una riflessione del Dottore Angelico: il più piccolo merito o « il bene di una sola grazia vale più del bene della natura intera » (S. Thom., Ia IIæ, q. 113, a. 9, ad 2.). « O parole d’oro – esclama il Cajetano, – parole che dovrebbero essere meditate giorno e notte! Una sola grazia vale più dell’intero universo! Considerate, quindi, l’immensa perdita di coloro che non sanno apprezzare un tale tesoro » (Cajet., Comm. in hunc loc.).

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LO SCUDO DELLA FEDE (119)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXXI.

Si mostra che se l’anima non fosse immortale, la virtù sarebbe vizio, il vizio virtù.

I. Fu già tempo, che il mondo mal noto fino a se stesso, non sapeva d’essere, se non secondo la metà sola di sé. Quindi è, che gli antipodi furono lungamente tenuti non pur dal volgo, ma ancora da’ gran maestri, per popoli favolosi (Tract. inst. 1. 3. c. 34): quasiché gli abitatori di un paese opposto, nel pianeta mondiale, ai pie nostri, dovessero per necessità stabilire capovolti: gli alberi dovessero quivi tener le radiche, dove anderebbero le cime; e le rugiade e le piogge e le procelle e le grandini strepitose non dovessero colà portarsi all’ingiù (quando volevano beneficare le campagne, o spiantarle), ma portarsi all’insù, come fanno le esalazioni; ho dovessero scendere, ma salire. Tanto dilungasi dal sentiero della verità ne’ discorsi chi prende per sua guida la fantasia, più che la ragione; non riflettendo che il giù e il su sono termini relativi, che non hanno la loro denominazione, se non dal centro che è situato fra gli antipodi e noi. Ma vaglia il vero, quanto andava già errata tal conseguenza di stravolgimento ridicoloso, (come appunto ridicola è la teoria eliocentrica e la forma sferica della terra – ndr-) posti gli antipodi, tanto or sarebbe accertata, posto che l’anima dovesse anch’ella sortire i suoi funerali come i giumenti. Conciossiachè rimarrebbe allora stravolto nell’universo tutto il sistema, non fisico, ma morale, che è un disordine molto più luttuoso: mentre la virtù verrebbe a tenere il grado del vizio, e il vizio a tenere il grado della virtù: anzi non solo si confonderebbero i posti, ma si cambierebbero ancora l’essenze loro, tanto che la virtù diverrebbe vizio, il vizio virtù. Mostriamolo con chiarezza: giacché questo argomento è così robusto, che solo vale ad abbattere ogni intelletto non pervicace.

I.

II. Tutte le genti, benché sì diverse d’istinti e d’istituzioni, si sono continuamente accordate in ciò di fare una stima somma della fortezza. Un guerrier prode da chi non è riverito? Vien posto a conto, per dir così, di un esercito: e sembra che ciascuno in vederlo gli dia quel vanto che ricevette in Roma un leon famoso per le gran prove fatte colà da lui nell’anfiteatro, pugnando coll’altre fiere: Quis non esse gregem crederet? Unus erat (Mart. 1. 8. epig. 32). Ora questa virtù così luminosa, la quale ha per oggetto suo principale il disprezzare i pericoli, e massimamente i pericoli più tremendi, quali sono quei della morte (Ethic. 6. 1. 3): questa virtù, dico, non sarebbe oro, ma scoria, qualunque volta l’anima fosso caduca (S. Th. 2. 2. q. 123. art. 4). Ve lo dimostro. La virtù non è altro che una disposizione a conseguire il suo fine, mediante l’opera che ella imprende. Virtus est dispositio perfecti ad optimum (Arist. 1. 7. phys. toxt. 17. et 18): e si dice ad optimum: perciocché l’ottimo ad ogni natura si è quello ch’ella ha per fine, siccome il pessimo è quello che più si oppone all’ultimo fine dell’istessa natura (S. Th. 1. 2. q. 110. a. 3. in c. et 2. 2. q. 23. a. 7. in c); come scorgerà chiaramente tra se medesimo chiunque ha fior di discernimento. Pertanto, se l’anima fosse mortale, il suo fine ultimo sarebbe al certo il durare più che le fosse possibile unita al corpo, senza di cui perduto avrebbe ogni bene. Onde l’operazione più perfetta della fortezza, che è il morire per difender l’amico, il padrone, la patria, la Religione, si opporrebbe allor per diametro all’ultimo fine dell’uomo: e posto ciò, una tal operazion virtuosa, per verità non sarebbe virtù, ma vizio, e sulle bilance d’una retta ragione non passerebbe por moneta legittima, ma falsata (Gregor. de Valent. in 1. p. dis. 6. q. 1. p. 3 § 2. prob.).

III. Direte subito che dovendo il ben pubblico preponderare al privato, non sarebbe in tal caso all’uomo disconvenevole non curare il suo fine, per sacrificarlo alla pubblica utilità. Ma non vi apponete. Conciossiachè, essendo l’uomo fatto in grazia di se medesimo, e non d’altrui, come sono fatte le bestie, non poteva dalla virtù venire obbligato ad amare il proprio disfacimento, né ad incontrarlo, in grazia di verun altro simile a lui, mentre ciò sarebbe stato obbligarlo ad amare il suo prossimo più di sé, contro di ciò che vuole ogni legge: Amicabilia enim, quæ sunt ad alterum, veniunt ex amicabilibus. quæ sunt ad se ipsum, come il filosofo insegna (Arist. 1. 9. eth. c. 8): infino a tanto, che presuppongasi l’anima non perire insieme col corpo, cammina bene: perché restando ella immortale, una morte onesta del corpo non è per lei funerale odioso, ma nascita a miglior

vita. E cosi, quando al presente noi moriamo per altri, niun altro amiamo in tal atto, se guardasi intimamente, più di noi stessi; mercecché con un tal atto ad altrui vogliamo un bene caduco, qual è la difesa delle loro sostanze, o proli, o persone, ed a noi ne vogliamo un eterno, qual è quel che ci viene dalla virtù, mezzo unico a farci diventare beati per tutti i secoli. Ma non così quando perisse l’anima in un col corpo. Allora ella non avrebbe più che sperare per tutta l’eternità. E però, come può stare, che la virtù la quale è il bene sommo dell’uomo, abbia a divenire per lui la somma miseria, privandolo d’ogni bene? Non sarebbe allor la virtù una perfezione nella natura umana, a tutti amorevole, ne sarebbe un di struggimento; e così non sarebbe virtù, ma vizio.

IV. Ne vale il ripigliare che l’uomo forte potrebbe allora per nobile ricompensa del suo morire sperar la gloria, che è un’altra spezie di vita, per cui sopravanzerebbe alle proprie ceneri, nell’immortalità della fama. Bellissime vanità! Se alla virtù volesse darsi per mercede la gloria, sarebbe un voler pagarla, o piuttosto beffarla col suon dell’oro.

V. Primieramente la gloria che si dà all’uomo non è altro che un segno della virtù la quale lo adorna. Conviene adunque che ella sia un bene inferiore al significato. Ma se è bene inferiore della virtù, come dunque può essere tutto il premio?

VI. Di più la gloria viene talora attribuita largamente anche al vizio; onde se ella è segno di virtù, non è segno certo; non discernendo il popolo così bene la via di mezzo, ma confondendo il temerario col prode, come confonde il prodigo col liberale, il timido col sensato, il tetro col serio, il giusto col rigoroso. Adunque non può la gloria dirsi mai la corona della virtù, mentre bene spesso si vede in fronte anche al vizio, che n’è sì indegno.

VII. Senza Dio l’operare per gloria umana non perfeziona giammai l’atto virtuoso, ma lo distrugge, e con lasciargli l’apparenza di bello gli toglie la realtà. Onde è che un atto di fortezza anche sommo, il qual procedesse, non da motivo di onestà, ma di vanto, sarebbe quasi un cadavere di virtù, tanto sarebbe insensato. Si aggiunge, che la virtù più consiste negli atti interni, i quali perfezionano l’uomo quasi un tesoro nascosto, che negli esterni (Arist. eth. 1. 4. c. 8 ) . Onde come può ella mai dalla gloria riportar premio compito di sé? Al più lo può riportare di quella poca parte di sé che apparisce agli occhi de’ riguardanti, or lividi, or loschi.

VIII. E se è così, qual bene è mai questa gloria, che l’uomo forte abbiala da comperar volentieri a sì grave costo, quale è quello del proprio annichilamento? Sicuramente, annichilato che fosse, non potrebbe egli ascoltar già quelle lodi che a lui si dessero dai posteri ammiratori del suo coraggio. E però qual frutto il meschino ne ritrarrebbe, morto al piacer dell’immortal suo nome? Non si potrebbe neppure dir che riposasse all’ombra dell’umana felicità (quando anche di tal nome vogliamo onorar la gloria), non che dir, che gustassene un puro saggio: Quœ post fata venit gloria, sera venit (Mart.). Dal che, per concludere, finalmente avverrebbe, che il supremo atto della fortezza, virtù di eroi, non solamente fosse incapace di premio, ma recasse in dote al virtuoso il sommo de’ mali, che è farlo ricader nell’antico nulla. E una virtù cosi barbara, potrebbesi allora dir che fosse virtù? Virtù allora sarebbe piuttosto i1 vizio: che è l’altra proposizion che io dovea provare, ed or ve la proverò.

II.

IX. Un intemperante a gran ragione vien riputato tra gli uomini quasi un porco. Ma se all’intemperanza si congiunga in lui la ingiustizia, sarà un cignale, non solo deforme in sé, ma dannoso ad altri, disertatore d’ogni giardino più bello che trovi aperto. Tuttavia se l’anima avesse i limiti del viver suo non più ampli, che gli abbia il corpo, l’intemperanza e l’ingiustizia sarebbero non più colpa nell’uomo, ma abbellimento, siccome quelle che non dovrebbero partorirgli più biasimo, ma splendore.

X. E quanto alla intemperanza, è manifesto, che se l’anima dovesse restare oppressa dalle rovine delle sue membra, il sommo bene che a lei fosse possibile, sarebbe tenerle in piedi, e il sommo male dar loro occasione alcuna di cedere, di crollare, di indebolirsi. E però siccome la più laudevol cosa che sia nell’uomo è cercare il suo bene sommo: così allora la più laudevole cosa che fosse in lui sarebbe nutrir bene il suo corpo vile, ingrassarlo, invigorirlo e saziarlo di tutti quei godimenti che fosser atti a tenerlo più consolato. Sicché quell’epitaffio brutale, che già Sardanapalo fé incidere alla sua tomba: Hæc habui, quæ edi, quæque exsaturata voluptas hausit; laddoveè una iscrizione degna di porsi alla sepolturad’un asino, sarebbe allora quasi un compendio di arcana filosofia. E diffatto per qual ragioneè degna di lode la temperanza, se non perché fa ubbidire il corpo allo spirito, noncurante di ciò che passa, per meritarsi quel ben che non passa mai?Ma se, mancando il corpo, mancasse ancora lo spirito, dovrebbe lo spirito, tutto da lui dipendente, ubbidire al corpo, senza cui nulla avrebbe mai che sperare di utilità. Adunque la temperanza non sarebbe allora laudevole, ma viziosa. È lode forse a un cavallo proposto in vendita, dir che egli è un cavallo astinente? Anzi è il suo biasimo sommo. La maggior lode che sulla fiera a lui porgasi, è dire che ha buona bocca;mercecchè non essendo quella bestia capacedi fin più alto, che di vivere un pezzo gaia e gagliarda, sarebbe vizio per lei quella continenzala qual si oppone a un tal fine, ed havirtù quella voracità che più che altro la aiutaad esso, volendo che ella non resti d’empire il ventre fintantoché il calor naturale, mal soddisfatto, le dice, mangia.

XI. All’istessa maniera sarebbe virtù nell’uomo anche l’ingiustizia. Figuratevi un uomo, che non conosca altra regola che il suo senno, né altra ragione che la sua spada. Un uomo, che non si stimi venuto al mondo, senonchè solo, qual luccio in acqua, per nuocere a quanti può. Un uomo, il quale per pompa di maggioranza vanti le soverchierie da lui fatte ad ogni suo prossimo, e ne derida con egual fasto le accuse e le approvazioni; questi dico (se il corpo avesse un dì a divenir sepolcro dell’anima, come ora n’è abitazione), questi è colui che si dovrebbe riputare il più degno di dominare su tutti gli uomini, come il più virtuoso che tra lor fosse: questi più d’ogni altro sarebbesi incamminato per via diritta all’ultimo fine, che sarebbe allora di farsi apprezzar da tutti; e questi parimente darebbe allor più nel segno di conservarsi, di contentarsi, di vivere a modo suo. In un tal caso sarebbe lecito il rompere ogni amicizia, il mentire, il malignare, il negare la fede data, quando tutto ciò fosse mezzo il più compendioso ad evitare la morte, o a migliorare la condizione di quella vita mortale che sarebbe allora il sostegno di ogni altro bene. Che stare allora a vantar più quell’onorato Demetrio, che tentato da Cesare a tradir la giustizia, colla promessa di magnificentissimo donativo, rispose acceso di sdegno, che l’imperio tutto di Roma non era prezzo bastevole a subornarlo: Si tentare me Cæsar constituerat, toto illi fui experiendus imperio. Invano Seneca si aiuterebbe allora tanto a esaltare fino alle stelle una tal risposta; mentre, quanto più savio è quell’elefante il quale, a salvar la vita, getta a’ cacciatori l’avorio che tiene in bocca, tanto più stolto sarebbe allor quel Demetrio che non accettasse ogni acquisto, ogni avanzamento, ma stimasse più la parola, che la disgrazia di Cesare, provocato da quel contegno. Che parola? che lealtà? che giustizia? che gratitudine? che costanza, se muore l’anima? Niun bene dee più stimarsi del sommo bene. Niun male dee più scansarsi del sommo male. Ora, se l’anima fosse mortale anch’essa, il suo sommo bene sarebbe vivere lungamente, il suo sommo male il morire. E però ogni ragione vorrebbe allora, che l’uomo, per allungare la vita, o per migliorarla, desse da sé bando espresso ad ogni altro affetto: né sarebbe in tal atto più biasimevole di ciò che sia quel mercante, il quale, a salvar la nave, getta in mare ogni cassa, che già non gli è nella tempesta più d’utile, ma di danno.

III.

XII. Ed eccovi come nello sconvolgimento morale di cui trattiamo la virtù sarebbe vizio, il vizio virtù. E vi par questo disordine da passarsi per tollerabile? Se fosse ciò, dunque ne seguirebbe, che in questo mondo Iddio trattasse da famigliari e domestici i suoi nemici, e da nemici i suoi famigliari e domestici. Uno degli effetti propri dell’amicizia è la manifestazione dei segreti. Ora questo sì grande arcano, che colla morte finisca il tutto, finiscano tutte le pene, finiscano tutti i premi, sarebbe nascostissimo a tutti i buoni, che con tanto lor costo vanno dietro le insegne della onestà; e per l’opposito sarebbe noto a quegli empi, che più dissolutamente si danno al male. Onde gli empi sarebbero quei domestici ammessi nel gabinetto a sapore il vero; e i buoni sarebbero gli stranieri tenuti all’uscio.

XIII. Anzi di vantaggio, il mezzo per arrivare a questa familiarità sì stretta con Dio sarebbe lo strapazzarlo solennemente; mentre vediamo, che quanto uno diventa nel suo vivere più sacrilego, o più sfrenato, tanto più facilmente egli inclina sempre a persuadersi, che l’anima sia mortale. Onde, come avviene colla pianta del balsamo, così avverrebbe parimente con Dio. Chi più attendesse a ferirlo, più ne spremerebbe di sugo di verità.

XIV. Che so lo sparviere, quando è pasciuto troppo, non sa volare bene in alto a raggiungere la sua preda, nel caso nostro succederebbe il contrario. La mente umana non si solleverebbe mai più speditamente ad arrivare queste verità sublimissime, e ad arrestarle, che quand’ella fosse gravata più d’ogni laida scelleratezza. E la coscienza di un empio così perduto sarebbe quella che dovesse posar più pacatamente: mentre a lei sarebbe toccato in sorte d’apporsi nei suoi giudizi, allora che si propose voler di qua tutta la felicità immaginabile, lasciando a chi la volesse quella che si potrebbe sognar di là.

XV. Sapete voi pertanto mai figurarvi stravolgimento di cose più sregolate? Questo sì che sarebbe un vero tenere i piedi dove va il capo, e un vero tenere il capo ove vanno i piedi: mentre questo sarebbe un camminare al rovescio di quanto detta, non la fantasia solamente, ma la ragione. E a voi piace seguir opinion si bella? Oh che stolidezza! Fate ciò che volete. Il vostro intelletto conviene che provi spasimi intollerabili, quando abbia da inchinarsi a tali spropositi, e dirvi: Sì. i buoni in questo mondo hanno ad essere ingannati? Gli scellerati hanno ad essere gli intendenti? – Nol dirà mai.