L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (2)

R. P. CHAUTARD D . G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (2)

TRADUZIONE

del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.

8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALETORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

3.

Che cosa è la vita interiore?

Le espressioni vita di orazione, vita contemplativa, adoperate in questo libro, si riferiscono, come nell’Imitazione di Gesù Cristo, allo stato delle anime le quali si danno sul serio a una vita cristiana non comune, eppure accessibile a tutti e, in sostanza, obbligatoria per tutti (Pure, prescindendo sempre dai fenomeni che accompagnano certi stati straordinari di unione con Dio, siamo persuasi che Dio spesso concede, all’infuori di tali fenomeni, grazie speciali di orazione alle anime generose che bramano di vivere in intimità con Lui). Non è nostra intenzione fermarci qui in uno studio di ascetismo, ma ci limiteremo a ricordare in breve quello che CIASCUNO è obbligato ad accettare come assolutamente certo, per il governo intimo dell’anima sua.

I. VERITÀ. La vita soprannaturale è in me, la Vita di Gesù Cristo medesimo, per mezzo della Fede, della Speranza e della Carità, perché Gesù è la causa meritoria esemplare e finale e, come Verbo, è col Padre e con lo Spirito Santo la causa efficiente della grazia santificante nell’anima nostra.  La presenza di Gesù per mezzo di questa vita soprannaturale non è la presenza reale propria della santa Comunione, ma una presenza di AZIONE VITALE, come l’azione della testa o del cuore sulle altre membra; azione intima che Dio per lo più nasconde all’anima mia, per accrescere il merito della mia fede; dunque azione abitualmente insensibile alle mie facoltà naturali, che soltanto la fede mi obbliga a credere formalmente; azione divina che non distrugge il mio libero arbitrio e che si serve di tutte le cause seconde, fatti, persone e cose, per farmi conoscere la volontà di Dio e per darmi occasione di acquistare o di accrescere la mia partecipazione alla vita divina.  – Questa vita cominciata col Battesimo con lo stato di grazia, perfezionata con la Cresima, ricuperata con la Penitenza, mantenuta e arricchita con l’Eucarestia, è la mia VITA CRISTIANA.

II. VERITÀ. Per mezzo di questa vita, Gesù Cristo mi comunica il suo Spirito; così Egli diventa un principio di attività superiore il quale, se non vi metto ostacolo, mi fa pensare, giudicare, amare, volere, soffrire e lavorare con Lui, in Lui, per mezzo di Lui, come Lui. Le mie azioni esteriori diventano la manifestazione di questa vita di Gesù in me, e così io tendo ad effettuare l’ideale della VITA INTERIORE formulato da san Paolo: Non sono più io che vivo, ma è Gesù che vive in me. – Vita cristiana, Pietà, Vita interiore, Santità non sono cose essenzialmente diverse, ma sono i gradi diversi di un medesimo amore: sono il crepuscolo, l’aurora, la luce, lo splendore di un medesimo sole.  – Quando in questo libro adoperiamo l’espressione Vita interiore, non intendiamo tanto la vita interiore abituale, cioè, se così possiamo esprimerci, « il capitale di vita divina » che possediamo per la grazia santificante, quanto piuttosto la Vita interiore attuale, ossia il buon uso di questo capitale per mezzo dell’attività dell’anima e della fedeltà alle grazie attuali. Possiamo dunque definirla lo stato di attività di unanima che REAGISCE per DOMINARE le sue inclinazioni naturali e si sforza di acquistare L’ABITUDINE di giudicare e di regolarsi IN TUTTO secondo la luce del Vangelo e gli esempi di Gesù Cristo.  Vi sono dunque due movimenti: col primo, l’anima si ritrae da ciò che il creato può avere di contrario alla vita soprannaturale, e cerca di essere sempre presente a se stessa: Aversio a creaturis; col secondo, l’anima si porta verso Dio e si unisce a Lui: Conversio ad Deum.  – Quest’anima vuole perciò essere fedele alla grazia che Nostro Signore le offre in ogni momento; insomma, essa vive unita a Gesù e avvera in se stessa la parola di Lui: Qui manet in Me et Ego in eo Me fert fructum multum – Chi si tiene in me, e in chi io mi tengo, questi porta gran frutto (Giov. XV, 5).

III. VERITÀ. Mi priverei di uno dei mezzi migliori per acquistare questa vita interiore, se non mi sforzassi di avere una fede PRECISA E CERTA di questa presenza attiva di Gesù in me e soprattutto di ottenere che tale presenza sia per me una realtà viva, ANZI VIVISSIMA, la quale penetri sempre più nella cerchia delle mie facoltà. Così, divenendo Gesù la mia luce, il mio ideale, il mio consiglio, il mio appoggio, il mio rifugio, la mia forza, il mio medico, il mio conforto, la mia gioia, il mio amore, insomma la mia vita, io acquisterò tutte le virtù. Soltanto allora potrò recitare con sincerità la bella preghiera di san Bonaventura, che la Chiesa mi propone come ringraziamento dopo la Messa: Transfige, etnicissime Domine Jesu..,

IV.VERITÀ. In proporzione dell’intensità del mio amore per Dio, la mia vita soprannaturale può crescere ogni momento per una nuova infusione della grazia della presenza attiva di Gesù in me, e questa infusione è prodotta:

1° Da ATTI MERITORI (virtù, lavoro, patimenti nelle loro varie forme, privazione di creature, dolore fisico o morale, umiliazione, abnegazione: preghiera, Messa, atti devoti verso Maria santissima ecc.) —

2° Dai SACRAMENTI e soprattutto dall’Eucaristia.

Dunque è cosa certa — e questa conseguenza mi schiaccia con la sua sublimità e con la sua profondità, ma più ancora mi rallegra e m’incoraggia — è dunque cosa certa che in ogni avvenimento, persona o cosa, siete Voi, o Gesù, proprio Voi che vi presentate a me e in ogni minuto! Sotto quelle apparenze Voi nascondete la vostra sapienza e il vostro amore e sollecitate la mia cooperazione, per accrescere in me la vostra vita! – O anima mia, è sempre Gesù che ti si presenta per mezzo della GRAZIA DEL MOMENTO PRESENTE, della preghiera che devi dire, della Messa che devi celebrare o ascoltare, della lettura che devi fare, degli atti di pazienza, di zelo, di rinuncia, di lotta, di confidenza, di amore che devi fare, e tu oseresti voltare la faccia o nasconderti?

V. VERITÀ. La triplice concupiscenza causata dal peccato originale e accresciuta da ciascuno dei miei peccati attuali, produce in me ELEMENTI DI MORTE, opposti alla vita di Gesù. Ora nella stessa misura con cui tali elementi si sviluppano, diminuiscono l’esercizio di tale vita e possono purtroppo anche arrivare a sopprimerla.  Tuttavia né inclinazioni, né sentimenti contrari a tale vita, né tentazioni anche violente e prolungate, non le possono nuocere finché la mia volontà vi si oppone; e in tal caso — oh! verità consolante! — essi contribuiscono anzi ad aumentarla,in proporzione del mio zelo, come qualunque elemento di lotta spirituale.

VI.VERITÀ. Se non faccio uso continuo di certi mezzi, la mia intelligenza si accecherà, e la mia volontà diventerà troppo debole per cooperare con Gesù ad accrescere ed anche a mantenere la sua vita in me; allora avviene una diminuzione progressiva di questa vita in me e io cammino verso la TEPIDEZZA DELLA VOLONTÀ (Questa tepidezza è ben diversa dall’aridità e anche dal disgusto che provano talvolta, loro malgrado, i fervorosi. Le colpe veniali che sfuggono alla fragilità e che sono combattute e subito detestate appena commesse, non rivelano neppur esse la tepidezza della volontà. L’anima che ha questa tepidezza, ha due volontà opposte, una buona e l’altra cattiva; una calda e l’altra fredda. Da una parte vuole la salute e perciò evita i peccati mortali e manifesti; d’altra parte non vuole le esigenze dell’amor di Dio, vuole invece le comodità di una vita libera e facile e perciò si permette peccati veniali deliberati… Quando questa tepidezza non è combattuta, per ciò stesso vi è nell’anima cattiva volontà, non totale, ma parziale; vi è cioè una parte della volontà che dice a Dio: « Su questo o su quel punto, non voglio cessare di dispiacervi » – P. DESURMONT, C. SS. R., Le Retour continuel à Dieu). Per dissipazione, per vigliaccheria, per illusione o per accecamento, vengo a patti col peccato veniale e per conseguenza divento incerto della mia salute, essendo quella una disposizione facile al peccato MORTALE.  – Se avessi la disgrazia di cadere in questa tepidezza, e tanto più se avessi la disgrazia di cadere anche più in basso, dovrei tentare ogni mezzo per uscirne, 1° con ravvivare il mio timor di Dio, rappresentandomi al vivo il mio fine, la morte, i giudizi di Dio, l’inferno, l’eternità, la malizia del peccato ecc.; 2° col ravvivare la mia compunzione per mezzo della scienza amorosa delle vostre Piaghe, o misericordioso Redentore, e portandomi in ispirito al Calvario, mi prostrerò ai vostri piedi santi, affinché il vostro Sangue vivo, scorrendo sulla mia testa e sul mio cuore, dissipi il mio accecamento, sciolga il ghiaccio dell’anima mia e desti dal torpore la mia volontà.

VII. VERITÀ. Devo seriamente temere di non avere il grado di vita interiore che Gesù esige da me:

1° Se tralascio di accrescere in me la SETE di vivere di Gesù, sete che mi dà il desiderio di piacere in ogni cosa a Dio e il timore di dispiacergli in qualche cosa; ora questo avviene necessariamente se non adopero più i mezzi che sono le preghiere del mattino, la Messa, i Sacramenti e l’Uffizio, gli esami particolare e generale, la lettura spirituale; oppure se per colpa mia tali mezzi non hanno effetto.

2° Se non ho almeno il puro necessario del RACCOGLIMENTO che mi permetta, durante le mie occupazioni, di custodire il mio cuore in una purezza e in una generosità sufficienti perché non venga soffocata la voce di Gesù che mi avverte degli elementi di morte che si presentano, e m’invita a combatterli. Ora quel tanto di raccoglimento mi mancherà, se trascuro i mezzi che me lo possono assicurare, cioè Vita liturgica, giaculatorie soprattutto in forma di suppliche, comunioni spirituali, esercizio della presenza di Dio ecc.  – Senza quel raccoglimento, i peccati veniali verranno a pullulare nella mia vita, e io non potrò forse neppure dubitarne; per nasconderli e anche per non lasciarmi vedere uno stato più deplorevole, l’illusione si gioverà dell’apparenza di pietà più speculativa che pratica, di zelo per l’azione ecc. Ma intanto il mio accecamento sarà colpevole, perché ne avrò messa o mantenuta la causa, con la mancanza di quel raccoglimento indispensabile.

 VIII. VERITÀ. La mia vita interiore sarà quale è la mia Custodia del cuore: Omni custodia serva cor tuum, quia ex ipso vita procedit (Prima di tutto custodisci il tuo cuore, perché da esso viene la vita (Prov. IV, 23).  La custodia del cuore altro non è che la sollecitudine ABITUALE o almeno frequente per preservare tutte le mie azioni, man mano che si presentano, da tutto ciò che potrebbe viziarle o nel loro MOTIVO o nella loro ESECUZIONE.  

Sollecitudine calma, tranquilla, senza sforzo, ma però forte, perché fondata sul filiale ricorso a Dio. È questo un lavoro del cuore e della volontà più che della mente la quale deve restare libera per compiere i suoi doveri. La custodia del cuore non solo non disturba l’azione, ma la perfeziona, perché la regola secondo lo spirito di Dio e l’aiuta nei doveri del proprio stato.  – Questo esercizio si può fare ogni momento; è come uno sguardo del cuore sulle azioni presenti a un’attenzione tranquilla sulle diverse parti di un’azione che si sta facendo; è la perfetta osservanza dell’Age quod agis. L’anima come una sentinella attenta esercita la sua vigilanza su tutti i movimenti del cuore, su tutto ciò che avviene nel suo interno, intenzioni, impressioni, passioni, inclinazioni, insomma su tutti i suoi atti interni ed esterni, pensieri, parole e azioni.  Per la custodia del cuore si richiede un certo raccoglimento, e un’anima dissipata non ne è capace. – Con la frequenza di questo esercizio, a poco a poco se ne acquista l’abitudine.

Quo vadam et ad quid? Che cosa farebbe Gesù, come si comporterebbe al mio posto! Che cosa mi consiglierebbe? Che cosa chiede da me in questo momento? Ecco le domande spontanee che vengono all’anima avida di vita interiore.  Per l’anima che va a Gesù per mezzo di Maria, la custodia del cuore prende un carattere ancora più facilmente affettivo, e per il suo cuore diventa un continuo bisogno il ricorrere a questa buona Madre.

IX. VERITÀ. Gesù Cristo regna nell’anima quando questa vuole imitarlo sul serio, in tutto e con affetto. In questa imitazione vi sono due gradi:

1° L’anima si sforza di divenire indifferente alle creature considerate in se stesse, siano esse conformi oppure contrarie ai suoi gusti. Come Gesù, non accetta altra legge che la Volontà di Dio in tutte le cose: Descendi de cœlo non ut faciam voluntatem meam, sed voluntatem eius qui misit me (Sono disceso dal Cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato  – Giov. VI, 38).  —

Christus non sibi placuit (Rom. XV, 3. Il Cristo non ebbe compiacenza per se. ). L’anima tende più volentieri a ciò che è contrario e ripugna alla natura. Essa allora mette in pratica l’Agendo contra di cui parla sant’Ignazio nella sua celebre meditazione del Regno di Gesù Cristo; è l’azione contro la natura per dare la preferenza a ciò che imita la povertà del Salvatore e il suo amore dei patimenti e delle umiliazioni. Allora l’anima, secondo l’espressione di san Paolo, conosce davvero il Cristo: Didicistis Christum (Efes. IV, 20.).

X. VERITÀ. Qualunque sia il mio stato, se  voglio pregare ed essere fedele alla grazia, Gesù mi offre tutti i mezzi per ritornare ad una vita interiore che mi restituisce la sua intimità e mi permette di sviluppare in me la sua vita. Allora, nel suo progredire, l’anima possederà la gioia, anche in mezzo alle prove, e si avvereranno per lei le parole d’Isaia: Allora splenderà la tua luce come l’aurora, e la guarigione presto verrà; la tua giustizia camminerà dinanzi a te; la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai il Signore, ed Egli ti esaudirà; tu griderai, ed Egli dirà: Eccomi… E il Signore sarà la tua guida; sazierà l’anima tua nei luoghi aridi e darà vigore alle tue ossa; tu sarai come un giardino bene irrigato, come una sorgente le cui acque non vengono mai meno (Is. LVIII, 8, 9).

XI. VERITÀ. Se Dio vuole da me che io esplichi la mia attività non soltanto per la mia santificazione, ma anche per le opere di zelo, devo anzitutto formare nell’anima mia questa convinzione ferma: Gesù deve e vuole essere la vita di queste opere. – I miei sforzi da soli non sono nulla, assolutamente nulla: Sine me nihil potesti facete (Senza di me, voi non potete fare nulla  – Giov. XV, 5); non saranno né utili né benedetti da Dio, se non li unisco continuamente all’azione vivificatrice di Gesù, con una vera vita interiore; saranno invece onnipotenti, se così farò: OMNIA possum in eo qui me confortat (Io posso tutto in Colui che mi conforta – Filipp. IV, 13). Ma se derivassero da presunzione orgogliosa, dalla fiducia nella mia capacità, dal desiderio di una bella riuscita, i miei sforzi sarebbero rigettati da Dio: non sarebbe infatti una stoltezza sacrilega la mia, se volessi rubare qualche cosa alla gloria di Dio, per farmene bello? Tale convinzione non solo non mi renderà pusillanime, ma sarà la mia forza. Come mi farà sentire il bisogno della preghiera per ottenere questa umiltà che è tesoro per l’anima mia, assicurazione dell’aiuto di Dio e pegno di buona riuscita per le mie opere! – Ben convinto dell’importanza di questo principio, mi esaminerò seriamente nei giorni di ritiro, per vedere – se la mia convinzione della nullità delle mie azioni quando è sola, e della sua forza quando è unita all’azione di Gesù, non si è indebolita; – se escludo inesorabilmente la compiacenza, la vanità e la personalità nella mia vita di apostolo; – se conservo un’assoluta diffidenza di me stesso; – se prego Dio di dare vita alle opere e di difendermi dall’orgoglio, che è l’ostacolo principale al suo aiuto.  – Questo CREDO della vita interiore, quando è per l’anima la base della sua esistenza, le assicura fino di quaggiù una partecipazione alla felicità del cielo. 

La vita interiore è la vita dei predestinati.

Essa corrisponde al fine propostosi da Dio nel crearci (Ad contemplandum quippe Creatorem suum homo conditus fuerat eius semper speciem quæreret atque in noi idi tate amorfa illius habitaret (S. GREG., Moral. VIII, cap. XII). Essa corrisponde al fine dell’Incarnazione: Filium suum Unigenitum misit Deus in mundum ut vivanvus per eum (Dio mandò il suo Figlio Unigenito nel mondo, affinché noi viriamo per Lui  – I Giov. IV, 9).  È uno stato felice: Finis humanæ creaturæ est adhærere Deo: in hoc enim felicitas eius consistit (Il fine della creatura umana è di unirsi a Dìo; qui sta tutta la felicità (S. Tommaso). All’opposto delle gioie del mondo, se fuori vi sono spine, dentro vi sono rose. Come sono da compiangere i poveri mondani! dice il santo Curato d’Ars; essi portano su le spalle un mantello foderato di spine e non si possono muovere senza pungersi; invece i veri Cristiani portano un martello foderato di pellicce. Crucem vident, unctionem non vident (Si vede la croce, ma non se ne vede l’unzione – S. Bernardo).  – È uno stato celeste: l’anima diventa un cielo vivente (Semper memineris Dei, et cœlum mens tua evadit (S. Efrem). — Mens animæ paradisus est, in qua, dum cœlestia meditatur, quasi in paradiso voluptatis delectatur (Ugo da San Vittore). – Come santa Margherita Maria, essa canta: « Io posseggo in ogni tempo e porto in ogni luogo il Dio del mio cuore e il cuore del mio Dio ». – È il principio della beatitudine: Inchoatio quœdam beatitudinis (S. TOMM., 2a 2æ, q. 180, a. 4): la grazia è il Cielo in germe.

4.

Come è conosciuta male questa vita interiore

San Gregorio Magno, il quale fu esperto amministratore e apostolo zelante e nel tempo stesso un gran contemplativo, con questa semplice espressione Secum vivebat (Egli viveva con se stesso), caratterizza lo stato d’animo di san Benedetto il quale a Subiaco gettava le fondamenta della sua Regola, divenuta poi una delle più potenti leve di apostolato, di cui Dio si sia servito sulla terra. Della maggior parte dei nostri contemporanei bisognainvece dire il contrario; vivere con se stesso, in se stesso, voler governare se stesso e non lasciarsi governare dalle cose esteriori, obbligare la fantasia, la sensibilità, e anche l’intelligenza e la memoria a fare la parte di serve della volontà e conformare sempre la propria volontà a quella di Dio, è un programma che si accetta sempre di meno in questo secolo di agitazione, il quale vide nascere un ideale nuovo, cioè l’amore dell’azione per l’azione.  Per evitare questa disciplina delle facoltà, si prende per buono ogni pretesto; gli affari, le cure della famiglia, l’igiene, la buona fama, lo spirito di corpo, la pretesa gloria di Dio vanno a gara per non lasciarci vivere in noi stessi; questa specie di delirio della vita esteriore arriva anche ad attrarci irresistibilmente.Allora che meraviglia se la vita interiore è mal conosciuta? Dire che è mal conosciuta è anzi troppo poco; essa è spesso disprezzata e messa in ridicolo proprio da quelli che dovrebbero stimarne di più i vantaggi e la necessità. Per protestare contro le funeste conseguenze di un’ammirazione esclusiva per l’azione, ci voleva la memorabile lettera di Leone XIII al Cardinale Gibbons, Arcivescovo di Baltimora.  – L’ecclesiastico, per schivare la fatica della vita interiore, arriva al punto di non riconoscere l’eccellenza della vita con Gesù, in Gesù, per mezzo di Gesù,, di dimenticare che, nel disegno della Redenzione, tutto si fonda sulla vita eucaristica, come tutto è costruito sulla rocca di Pietro. Mettere in second’ordine quello che è ESSENZIALE, è appunto quello a cui tendono inconsciamente i partigiani di quella spiritualità moderna detta AMERICANISMO; per costoro la Chiesa non è ancora un tempio protestante, il santo tabernacolo non è ancora vuoto, ma la vita eucaristica, a loro giudizio, non può adattarsi né, molto meno, bastare alle esigenze della civiltà moderna, e la vita interiore la quale deriva necessariamente dalla vita eucaristica, ha fatto il suo tempo. Per le persone, purtroppo assai numerose, le quali sono imbevute di queste teorie, la Comunione non ha più il vero significato che in essa trovavano i primi Cristiani; esse credono all’Eucaristia, ma non vedono in essa un elemento di vita così necessario, tanto per loro che per le loro opere. Non fa perciò meraviglia che, non esistendo quasi più per loro l’intimità con Gesù, la vita interiore venga considerata come un ricordo del Medioevo.  – Davvero che al sentire questi uomini di azione a parlare delle loro imprese, sembrerebbe che il Creatore, il quale creò i mondi scherzando e per il quale l’universo è polvere e nulla, non possa fare a meno del loro concorso! Molti fedeli, e persino sacerdoti e religiosi, arrivano insensibilmente, con il culto dell’azione, a farsene una specie di dogma che ispira la loro condotta, le loro azioni, e li spinge ad abbandonarsi sfrenatamente alla vita esteriore. La Chiesa, la diocesi, la parrocchia, la congregazione, l’Azione Cattolica hanno bisogno di me; volentieri si vorrebbe poter dire… Io sono molto utile a Dio!… E se non si osa dire simile sciocchezza, stanno però nascoste in fondo al cuore la presunzione, che ne è la base, e la diminuzione di fede, che l’ha prodotta. Spesso si prescrive al nevrastenico di astenersi, talvolta anche per molto tempo, da qualunque lavoro; ma è questo un rimedio per lui insopportabile, perché appunto la sua malattia lo mette in una agitazione febbrile che diventa come una seconda natura e lo spinge a cercare continuamente nuovi sperperi di forze e nuove emozioni che aggravano il suo male.  Lo stesso avviene spesso all’uomo di azione, riguardo alla vita interiore; egli la sdegna, anzi sente di essa tanto maggiore ripugnanza appunto perché nella sua pratica soltanto si trova il rimedio al suo stato morboso; peggio ancora, cercando di stordirsi sempre più in un cumulo di lavori nuovi e non bene diretti, perde ogni possibilità di guarire. La nave corre a tutto vapore; ma mentre chi la guida ne ammira la velocità, Dio giudica che, per mancanza di un saggio pilota, quel bastimento va alla ventura e corre pericolo di perdersi. Dio vuole prima di tutto adoratori in ispirito e verità: l’americanismo invece pensa di dare grande gloria a Dio, mirando principalmente ai risultati esteriori.  Questo modo di pensare ci spiega come ai nostri giorni, se si fa un gran conto delle scuole, dei dispensari per i poveri, delle missioni, degli ospedali, sia invece sempre meno compresa l’abnegazione nella sua forma intima, cioè nella penitenza e nella preghiera. Chi non sa più credere al valore dell’immolazione nascosta, non si accontenta di trattare da vili e da illusi coloro che la praticano nella solitudine del chiostro, senza cederla, nell’ardore per la salute delle anime, ai più infaticabili missionari, ma metterà anche in ridicolo le persone di azione le quali credono cosa indispensabile il rubare qualche momento alle occupazioni più utili, per andare a purificare e a riscaldare il loro zelo dinanzi al Tabernacolo, per ottenere dall’Ospite divino migliori risultati alle loro fatiche.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/08/21/lanima-dellapostolato-3/

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (1)

R. P. CHAUTARD D. G. B.

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (1)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B. 8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALETORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PREPAZIONE

Perché la versione di questo libro?

Datomi all’Azione Cattolica fin dai primi anni della mia vita ecclesiastica, notai ben presto che il piò, valido aiuto mi veniva da coloro che, sebbene laicierano stati formati nello spirito da un vecchio Sacerdote, il quale non aveva molta coltura, ma aveva però molta pietà, e passava tutto il suo tempo in una piccola chiesa, ove, con istruzioni sacre in forma molto semplice, e col promuovere la frequenza dei Sacramenti, lavorava con zelo in prò delle anime. Alla scuola di quel pio Sacerdote imparai anch’io la necessità che avevo di ritemprare spesso lo spirito con gli Esercizi Spirituali, e di ricorrere frequentemente air orazione per raccogliere dall’operosità quel frutto che ardentemente bramavo. Capii quindi fin d’allora che l’Azione Cattolica, mentre è commendevole sotto molti rispetti, può tuttavia divenire facilmente per tutti (anche pei Sacerdoti) sorgente di dissipazione, se chi la esercita non attende seriamente a coltivare anzitutto lo spirito in sé e negli altri.  Divenuto poi Vescovo, nel governo della Diocesi questa verità mi apparve sempre più evidente, e deplorai che, per non avere tenuto nel debito conto un principio così essenziale, fossero le tante volte e in tanti luoghi riuscite sterili le fatiche ed inutili i vari mezzi adoperati per dar vita o incremento all’Azione Cattolica. Mi provai quindi a manifestare questa mia convinzione desiderosissimo di rimuovere la causa di sì funesta sterilità, ma mi parve die pochi mi volessero dare ascolto, ed i più avessero invece una specie di compatimento per me, quasi che io non conoscessi le anime moderne e l’azione che deve spiegarsi ai giorni nostri dai cattolici. Avrei desiderato che su tale argomento vi fosse qualche libro per diffonderlo largamente, e dissipare con siffatto  mezzo i pregiudizi che offuscano le menti, ma non ne conoscevo alcuno.  Gesù buono seppe rimediare a tutto, ed un bel giorno, per le mani di uno zelante Religioso della Società di Maria, mi fece capitare il libro che da tanto tempo sospiravo.  Io non sto a lodare il libro presente, perché le cose belle come le cose buone, bisogna gustarle per apprezzarle convenientemente. Dirò soltanto che in Francia è giunto in breve alla settima edizione, e se ne sono già pubblicati 70.000 esemplari, e spero che in Italia sì diffonderà così da emulare anche in questo la Francia cattolica. Per conto mio, faccio voti che vada in mano a tutti i Parroci ed a tutti i Sacerdoti della mia Diocesi, né manchi a nessuno di quelli che fanno parte delle Associazioni Cattoliche della Diocesi di Arezzo.

All’ardente ed umile solitario, che tra i rigori della troppa scrisse, pregando, questo libro, in cui si rispecchia al vivo il suo animo di apostolo, conceda il Maestro Divino copiose benedizioni e quell’approvazione che Egli già fece sentire ad altri, i quali coi loro libri dettero a Lui gloria ed alle anime luce e pascolo salutare.

Arezzo, dall’Episcopato, 7 giugno 1918, festa del Sacro Cuore di Gesù.

GIOVANNI VOLPI, Vescovo d’Arezzo

INTRODUZIONE

Ex quo omnia, per quem omnia, in quo omnia.

O Dio infinitamente grande e buono, le verità che la Fede ci rivela sulla nostra vita intima, sono ammirabili e stupende.  O Padre santo, Voi vi contemplate eternamente nel Verbo, vostra perfetta immagine; il vostro Verbo trasalisce rapito dalla vostra Bellezza; e dalla vostra comune estasi divampa un fuoco di amore, lo Spirito Santo.  O adorabile Trinità, voi sola siete la vita interiore perfetta, sovrabbondante e infinita.  Voi, bontà infinita, volete diffondere fuori di voi la vostra vita intima; Voi parlate, e le vostre opere si slanciano dal nulla, per manifestare le vostre perfezioni, per cantare la vostra gloria.  Tra Voi e la polvere animata dal vostro soffio, corre un abisso che il vostro Spirito di amore vuole colmare: così potrà soddisfare l’immenso suo bisogno di amare e di darsi.  Egli dunque, nel vostro Seno, provoca il Decreto della nostra divinizzazione, e questo fango plasmato dalle vostre mani potrà, o meraviglia!, essere deificato e partecipare alla vostra eterna felicità!  Per compiere quest’opera, si offre il vostro Verbo: Egli si fa carne, affinché noi diventiamo Dèi (Factus est homo, ut homo fieret deus – S. AGOSTINO, Serm. 9 de Nativ.). Voi intanto, o Verbo, non lasciate il Seno di vostro Padre: là è la vostra vita essenziale, e da quella sorgente sgorgheranno le meraviglie del vostro Apostolato.  O Gesù, Emanuele, Voi affidate ai vostri Apostoli il vostro Vangelo, la vostra Croce, la vostra Eucaristia, e date loro la missione di andare a generare figli di adozione al Padre vostro. – Poi risalite al Padre. O Spirito divino, ora tocca a Voi il compito di santificare e dì governare il Corpo mistico dell’Uomo-Dio (Deus cujus Spiritu totum corpus sanctificatnr et regitur… – Liturgia). Perché dal Capo scenda nelle membra la vita divina, Voi vi degnate di scegliere dei collaboratori all’Opera Vostra; accesi del fuoco della Pentecoste, essi andranno per tutto il mondo a seminare nelle intelligenze il verbo che illumina, e nei cuori la grazia che infiamma, e a comunicare cosi agli uomini quella vita divina di cui Voi siete la Pienezza.  O fuoco divino, destate in tutti coloro che partecipano al vostro Apostolato, quegli ardori che trasformarono i felici congregati del Cenacolo: essi saranno allora non più semplici predicatori del dogma e della morale, ma organi viventi della trasfusione del Sangue divino nelle anime.  O Spirito di luce, scolpite a caratteri indelebili nelle loro intelligenze questa verità, che cioè il loro apostolato sarà efficace soltanto in quella misura in cui essi stessi vivranno di quella vita intima soprannaturale di cui Voi siete il primo PRINCIPIO e di cui Gesù Cristo è la SORGENTE.  O Carità infinita, accendete nella loro volontà una sete ardente della vita interiore: penetrate il loro cuore con i vostri soavi e potenti effluvi, fate sentire loro che anche quaggiù non vi è vera felicità fuori di quella vita che è imitazione e partecipazione della vostra e di quella del Cuore di Gesù nel seno del Padre di tutte le misericordie e di tutte le tenerezze. O Maria Immacolata, Regina degli Apostoli, degnatevi di benedire questo modesto libro. A tutti quelli che lo leggeranno, ottenete la grazia di comprendere bene che, se Dio si vuole servire della loro attività come di uno strumento ordinario della Provvidenza, per diffondere nelle anime i suoi beni celesti, tale attività, per dare buoni risultati dovrà partecipare in qualche modo della natura dell’Uomo divino, quale Voi lo contemplavate nel Seno di Dio, quando nelle vostre viscere verginali s’incarnò Colui al quale dobbiamo la fortuna di potervi chiamare nostra Madre.

PARTE PRIMA

Dio vuole le opere e la vita interiore

1.

Le opere, e perciò anche lo zelo sono voluti da Dio

È proprio della natura divina l’essere sommamente liberale. Dio è Bontà infinita, e la bontà tende a diffondersi e a comunicare il bene di cui essa gode.  La vita mortale di Gesù Cristo non fu altro che una continua manifestazione di questa inesauribile liberalità: il Vangelo ci presenta il Redentore che sparge a piene mani i tesori di amore di un Cuore avido di attirare gli uomini alla verità e alla vita.  Gesù Cristo comunicò quella fiamma di Apostolato alla Chiesa che è dono del suo amore, diffusione della sua vita, manifestazione della sua verità, splendore della sua santità; e la Sposa mistica di Gesù, animata dello stesso ardore, continua attraverso i secoli l’opera di apostolato del suo divino Modello.  – È un magnifico disegno, una legge della Provvidenza, che per mezzo dell’uomo, l’uomo debba conoscere la via della salute (Ad communem legem id pertinet qua Deus Providentissimus, ut homines plerumque fere por homines salvandos decrerlt… ut nlmirum, quemadmodum Chrysostomus ait, per homines a Deo discamus – Lettera di LEONE XIII, 22 gennaio 1899, al Card. Gibbons). Soltanto Gesù versò il sangue che redime il mondo, perciò Egli solo ne potrà applicare la virtù e agire direttamente sulle anime, come fa per mezzo dell’Eucarestia. Egli però volle avere dei cooperatori nel distribuire i suoi benefizi; e perché! Certamente cosi voleva la Maestà divina, ma ve lo spingevano anche le sue tenerezze per l’uomo. Se è conveniente per il più grande dei monarchi, che in via ordinaria governi per mezzo di ministri, quale condiscendenza da parte di un Dio, che egli si degni di associare povere creature al suo lavoro e alla sua gloria! La Chiesa, nata sulla Croce, uscita dal fianco ferito del Salvatore, continua col ministero apostolico l’azione benefica e redentrice dell’Uomo-Dio; e tale ministero voluto da Gesù, diventa il fattore essenziale della diffusione della Chiesa in mezzo alle nazioni e lo strumento più ordinario delle sue conquiste.  Per tale apostolato vi è in prima fila il clero, la cui gerarchia forma i quadri dell’esercito di Gesù Cristo; clero illustrato da tanti Vescovi e Sacerdoti santi e pieni di zelo, e onorato gloriosamente dalla recente beatificazione del Curato d’Ars. – Accanto al clero ufficiale, fin dall’origine del Cristianesimo, sorsero compagnie di volontari, veri corpi scelti la cui continua e rigogliosa vegetazione sarà sempre uno dei fenomeni più manifesti della vitalità della Chiesa. Sono anzitutto, nei primi secoli, gli Ordini contemplativi la cui preghiera continua e le dure macerazioni contribuirono tanto alla conversione del mondo pagano. Nel Medioevo sorgono gli Ordini predicatori, gli Ordini mendicanti, gli Ordini militari, gli Ordini dedicati all’eroica missione della redenzione dei prigionieri in potere degli infedeli. Finalmente i tempi moderni vedono nascere una moltitudine di Milizie insegnanti, Istituti, Società di missionari, Congregazioni di ogni specie, la cui missione è quella di diffondere il bene spirituale e corporale sotto tutte le forme. La Chiesa inoltre, in ogni epoca della sua storia, ha trovato preziosi collaboratori nei semplici fedeli, come quei ferventi Cattolici che oggi sono legione, persone di azione — secondo l’espressione di uso — cuori ardenti che sanno unire le loro forze e mettono interamente a servizio della nostra Madre comune, tempo, capacità, averi, sacrificando spesso la loro libertà e talora il loro sangue.  – È davvero uno spettacolo ammirabile e confortante questa provvidenziale fioritura di opere che spuntano a tempo opportuno e così adatte alle circostanze. La storia della Chiesa dimostra che ogni nuovo bisogno, ogni pericolo da scongiurare, vide sempre apparire l’istituzione richiesta dalle necessità del momento. Così vediamo ai nostri giorni opporsi a mali di particolare gravità, una moltitudine di opere che prima appena si conoscevano: Catechismi di preparazione alla prima comunione, Catechismi di perseveranza, Catechismo per i fanciulli abbandonati, Congregazioni, Confraternite, Riunioni e Ritiri per uomini e per giovani, per signore e per fanciulle, Apostolato della Preghiera, Apostolato della carità, Leghe per il riposo festivo, Patronati, Circoli cattolici, Opere di assistenza per i soldati, Scuole private, Buona stampa ecc., forme tutte di apostolato suscitate da quello spirito che infiamma l’anima di un san Paolo: Ego autem libentissime impendam et superimpendar ipse prò animabus vestris(Assai volentieri spenderò il mio e spenderò di più me stesso per le anime vostre – II Cor. XII, 15), e che vuol diffondere dappertutto i benefizi del sangue di Gesù Cristo.  Vadano queste umili pagine ai soldati che, tutto zelo e ardore per la loro nobile missione, si espongono, appunto per la loro attività, al pericolo di non essere prima di tutto uomini di vita interiore e che, se un giorno venissero puniti con insuccessi in apparenza inesplicabili, come pure da gravi danni spirituali, si sentirebbero tentati di abbandonare la lotta e di rientrare scoraggiati sotto la tenda.  I pensieri sviluppati in questo libro hanno aiutato anche me a lottare contro la dissipazione prodotta dalle opere esteriori. Possano essi evitare a qualcuno le delusioni e guidare meglio il loro coraggio, mostrando loro che il Dio delle opere non deve mai essere abbandonato per le opere di Dio e che il Væ mihi si non evangelizavero (Guai a me se non evangelizzerò – 1 Cor. I X , 16). non ci dà il diritto di dimenticare il Quid prodest Uomini si mundum universum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur (Che giova all’uomo il guadagnare tutto il mondo, se poi perde l’anima? – MATT. XVI, 26).  – I padri e le madri di famiglia, a cui non sembra ancora un libro troppo vecchio l’Introduzione alla vita divota, gli sposi Cristiani che si credono obbligati vicendevolmente ad un apostolato che essi esercitano nel tempo stesso verso i loro figli per formarli all’amore e all’imitazione del Salvatore, possono anche essi applicare a sé medesimi l’insegnamento di queste modeste pagine. Possano essi meglio comprendere la necessità di una vita non solo pia, ma interiore, per rendere efficace il loro zelo e per imbalsamare la loro casa con lo spirito di Gesù Cristo e con quella pace inalterabile che, nonostante le prove, sarà sempre il retaggio delle famiglie profondamente cristiane.

2.

Dio vuole che Gesù sia la vita delle opere

La scienza, e non a torto, va superba dei suoi immensi risultati; però una cosa le fu fino a oggi e le sarà sempre impossibile, cioè il creare la vita, il far uscire dal laboratorio di un chimico un chicco di grano, una larva. Le clamorose sconfitte dei difensori della generazione spontanea ci dicono qualche cosa su tale pretesa. Dio riserva per sé il potere dì creare la vita. Nel regno vegetale e animale, gli esseri viventi possono crescere e moltiplicarsi, ma la loro fecondità si esplica soltanto nelle condizioni stabilite dal Creatore. Quando però si tratta della vita intellettuale, Dio la riserva a sè, ed è lui che crea direttamente l’anima ragionevole. Vi è tuttavia un dominio di cui è ancora più. geloso, quello della Vita soprannaturale, perché questa è un’emanazione della vita divina comunicata alla Umanità del Verbo incarnato.  L’Incarnazione e la Redenzione stabiliscono Gesù Cria io Sorgente, e Sorgente unica, di quella vita divina alla cui partecipazione sono chiamati tutti gli uomini. Per Dominum nostrum Jesum Christum; Per ipsum, et curri ipso et in ipso (Per mezzo di Nostro Signor Gesù Cristo. — Per mezzo di Lui, con Lui e in Lui – Liturgia). L’azione essenziale della Chiesa consiste nel diffonderla per mezzo dei Sacramenti, della Preghiera, della Predicazione e di tutte le opere che vi si riferiscono.  Dio fa tutte le cose per mezzo di suo Figlio: Omnia per Ipsum facta sunt et sine Ipso factum est nihil – Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e non fu fatto niente senza dì Lui  – Giov. I, 3). Questo è vero nell’ordine naturale, ma quanto più nell’ordine soprannaturale, dove si tratta di comunicare la sua vita intima e di fare gli uomini partecipi della sua natura, per renderli figli di Dio! Veni ut vitam habeant; — In Ipso vita erat;— Ego sum vita (Io sono venuto affinché abbiano la vita (Giov. X, 10). — In Lui era la vita (Giov. I, 4). — Io sono la vita (Giov. XIV» 6). Quanta precisione in queste parole! Quanta luce nella parabola della vite e dei tralci, nella quale il Maestro svolge questa verità! Con quanta insistenza Egli vuole scolpire nella mente dei suoi Apostoli questo principio fondamentale, che Egli solo, Gesù, è la Vita, e questa conseguenza che, per partecipare a tale Vita e per comunicarla agli altri, essi debbono essere innestati su l’Uomo-Dio! – Gli uomini chiamati all’onore di collaborare col Salvatore per trasmettere alle anime questa Vita divina, debbono dunque considerare se stessi come modesti canali incaricati di attingere a questa unica Sorgente.  L’uomo apostolico il quale non riconoscesse questi princìpi e credesse di poter produrre la più lieve traccia di vita spirituale senza attingerla totalmente da Gesù, ci farebbe credere che la sua ignoranza di teologia è uguale alla sua sciocca presunzione. Se pure riconoscendo teoricamente, che il Redentore è la causa prima di ogni vita divina, l’apostolo, nella sua azione, dimenticasse tale verità e, accecato da una stolta presunzione che è ingiuriosa per Gesù Cristo, non facesse assegnamento che sulle sue forze, sarebbe questo un disordine meno grave dell’altro, ma però sempre insopportabile agli occhi di Dio. Il respingere la verità o il fare astrazione da essa nell’azione, è sempre un disordine intellettuale, o dottrinale o pratico; è la negazione di un principio che deve informare la nostra condotta. Il disordine sarà ancora più grave se la verità, invece di risplendere, trova nell’uomo di azione un cuore che per il peccato o per la tepidezza abituale sia in opposizione col Dio della luce.  Ora la condotta pratica di chi si occupa delle opere come se Gesù non fosse il solo principio di vita, è chiamata dal cardinale Mermillod ERESIA DELL’AZIONE. Con tale espressione egli condanna l’aberrazione di un apostolo il quale dimenticando che la parte sua è secondaria e subordinata, attendesse la buona riuscita del suo apostolato unicamente dalla sua attività personale e dalla sua capacità. E non è forse, praticamente, la negazione di una gran parte del Trattato della Grazia? È vero che tale conseguenza a prima vista ripugna, ma se vi si pensa un poco, essa è purtroppo vera.

Eresia dell’Azione! L’attività febbrile che si sostituisce alla azione di Dio; la grazia disconosciuta; l’orgoglio umano che vuole detronizzare Gesù; la vita soprannaturale, la potenza della preghiera, l’Economia della Redenzione collocate, almeno praticamente, nel numero delle astrazioni, sono un caso tutt’altro che immaginario, che lo studio delle anime mostra anzi come assai frequente, benché in gradi diversi, in questo secolo di naturalismo, in cui l’uomo giudica soprattutto dalle apparenze e agisce come se il risultato di un’opera dipendesse principalmente da una buona organizzazione. Anche prescindendo dalla Rivelazione, alla sola luce della sana filosofia, ci farebbe pietà la vista di un uomo fornito di belle doti, il quale non volesse riconoscere Dio come il principio delle buone qualità che si vedono in lui.  Che cosa deve dire un Cattolico istruito nella Religione, alla vista di un apostolo il quale mostrasse, almeno implicitamente, la pretesa di fare a meno di Dio, per comunicare alle anime anche solo il minimo grado di vita divina? Noi chiameremmo insensato l’operaio evangelico che osasse dire: «Mio Dio, non mettete ostacoli alle mie imprese, non venite a intralciarle e io m’incarico di condurle a buon termine! ».  – Il nostro sentimento non sarebbe che un riflesso dell’avversione che prova Dio alla vista di un simile disordine, alla vista di un presuntuoso il quale spinge il suo orgoglio fino alla pretesa di dare la vita soprannaturale, di produrre la fede, di far cessare il peccato, di spingere alla virtù, di infervorare le anime con le sole sue forze e senza attribuire tali effetti all’azione diretta, costante, universale e sovrabbondante del Sangue divino il quale è il prezzo, la causa e il mezzo di ogni grazia e di ogni vita spirituale. – Perciò, per riguardo all’Umanità di suo Figlio, Dio deve confondere questi pseudocristi col paralizzare le loro opere di superbia o col permettere che esse non producano altro che un miraggio effimero.  Eccetto quello che agisce sulle anime ex opere operato, Dio, per riguardo dovuto al Redentore, deve privare l’apostolo presuntuoso delle sue migliori benedizioni, per darle al tralcio che umilmente riconosce di trarre dalla Vite divina ogni suo vigore. Ma se Dio benedicesse con risultati seri e durevoli un’attività infetta dal veleno chiamato Eresia dell’Azione, sembrerebbe incoraggiare quel disordine con permetterne il contagio.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/08/19/lanima-dellapostolato-2/

L’IDEA RIPARATRICE (9)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (9)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO III

CAPO SECONDO (2)

LA VITA PERFETTA E LA RIPARAZIONE.

Che nel mondo si diano delle anime che hanno l’ambizione di « star male » collo stesso ardore con cui la massa degli uomini si mostra avida di « star bene », ecco il più bel trionfo della Provvidenza divina. Non è a stupire quindi se, quando gli vien fatto di scoprire qualcuna di queste anime, il Signore, per così dire, esulti in cuor suo e non possa resistere alla voglia di rendersi complice dei loro desideri di immolazione. Tuttavia quella sete è già il Signore che l’ha messa in cuor loro. Quando il Maestro divino vuole ricolmare le anime, prima incomincia a vuotarle Egli stesso direttamente. E così mentre tutto all’intorno la maggior parte degli uomini restano senza aspirazioni e desiderio alcuno, esse sono come torturate da esigenze infinite. E primieramente un bisogno di non lasciar che il Signor nostro soffra così come fa in Croce, di alleggerirne i dolori, di alleggerirli prendendone per sé una parte, di asciugare il sangue che sgorga dalla corona che gli trafigge le tempia, di espiare i colpi di martello delle mani e dei piedi, i solchi lividi della flagellazione, con altrettanti sacrifizi ricercati con ardente amore. Dall’altra parte della Croce c’è ancor un posto vuoto, esse vi si inchioderanno, avide di una cosa sola, di diventare così come una seconda copia, una ripetizione di Gesù Crocifisso. Esse prenderanno alla lettera il consiglio di S. Caterina da Siena: « Che l’albero della Croce sia piantato nel nostro cuore e nell’anima nostra! Fatevi simili a Gesù Cristo Crocifisso; nascondetevi nelle piaghe di Gesù Cristo Crocifisso; bagnatevi nel sangue di Gesù Cristo Crocifisso; inebriatevi e rivestitevi di Gesù Cristo Crocifisso: saziatevi di obbrobrii soffrendo per amore di Gesù Cristo Crocifisso ». In una lettera al suo direttore spirituale « Consummata » si lascia sfuggire questo lamento: « Talora si vorrebbe cantare qualche poco le misericordie del Signore; ma questa povera cetra è troppo vibrante per la durezza della materia di cui è formata; è quasi impossibile servirsi di essa. Giorni sono aveva incominciato a scriverle ma non ho potuto continuare; la prima nota che ne venne fuori fu cosi forte che una seconda avrebbe spezzate le corde. Il mio corpo è troppo piccolo per l’anima mia, e il mio cuore non può contenere l’amore con cui io Lo amo, il mio Gesù… È ben raro che io possa scriverle così come ho fatto sta sera, ma se ho voluto farlo, ho dovuto trattenere il mio sguardo perché non si fissasse in Lui … ». Si narra di una Suora che per grazia speciale del Signore, nella considerazione dei dolori di Gesù Cristo in Croce, provava una tale fitta al cuore, sentiva una tale scossa in tutta la persona, che aveva dovuto fare il proposito di non guardare più il Crocifisso. Siccome per discendere al refettorio comune era necessario passare dinanzi ad un grande Crocifisso appeso al muro, avvenne che un giorno ebbe l’imprudenza di alzare gli occhi; il suo sguardo incontrò la immagine sanguinolente del suo Salvatore ed essa cadde al suolo svenuta. Si dirà: testa esaltata, sensibilità esagerata. Sia pure. Ma tutto ben considerato, ove troviamo maggior ragione di meraviglia? Che si dia una persona che non può mirare il Crocifisso senza soffrirne, ovvero che se ne diano tante che possono benissimo guardarlo anche a lungo senza provarne alcun dolore? Se v’ha dello strano, dite pur voi da quale parte si trovi. – I santi non posseggono come noi la facoltà dì restare indifferenti alla presenza della immolazione di un Dio umanato: i santi, cosa singolare! non possono non soffrire quando vedono il loro Dio a soffrire. « Mi pare che, se questo sentimento di compassione dovesse prolungarsi, non saprei a quale tortura anche crudelissima paragonare quest’intima pena dell’anima, perché essa è ben simile a quella che Nostro Signore sostenne in cuore nel Getsemani quando uscì nel lamento: « L’anima mia è contristata fino a doverne morire » e dopo lunga preghiera prostrato a terra agonizzò e sudò sangue ». Così lasciò scritto il buon S. Alfonso Rodriguez, umile fratello coadiutore della Compagnia di Gesù, portinaio al Collegio di Maiorca, il quale soleva poi offrirsi al Signore per ogni sorta di patimenti (anche quelli dell’inferno, pena del senso) per ottenere che il Signore non fosse più offeso e più nessun uomo andasse dannato. Negli Acta Sanctorum (Vita Sanctæ Birgittæ) al giorno 8 ottobre si narra di S. Brigida di Svezia il fatto seguente: « Giovanetta ancora, nell’ascoltare un sermone sulla Passione di Gesù Cristo, fu tanto commossa che le dolorose scene di essa le rimasero profondamente impresse nel cuore. E subito la notte seguente essa vide Nostro Signore Crocifisso che si lamentava: Ecco in quale stato mi hanno ridotto! — Essa, semplicetta, domanda al Signore: E chi vi ha trattato così? — Quelli che mi offendono e che sono insensibili al mio amore —, rispose Gesù. Da quel momento Brigida fu tanto sensibile al pensiero della Passione del Salvatore che non poteva trattenersi in essa senza piangere teneramente ». Un’afflizione che si manifesta così in maniera sensibile suppone una grazia speciale e un amore particolare da parte di Dio. Questo però non contraddice punto quanto abbiamo sopra riferito, che cioè il restar del tutto insensibili alle pene del Signore, come fa un troppo grande numero di Cristiani, manifesta un’incoscienza ovvero una ingratitudine che non si può concepire. Oh! a che giova la crocifissione di questo nostro povero Salvatore? Egli è là sospeso tra cielo e terra, mediatore tra Dio e gli uomini, così afflitto, così addolorato!… e intanto così prodigiosamente « inutile »! Che si può fare per compensare tutta questa gloria che dovrebbe risultare al Signore e che gli uomini così ostinati gli rifiutano? — Amare? Ahimè! la meschina parola e soprattutto la povera cosa! Amare! E con che cosa, o grande Iddio? Amare con un sì miserabile cuore quale noi abbiamo in petto. Un cuore umano! Amare Iddio con un cuore sì meschino! Quale derisione, quale ironia! Con quanto vi ha di più debole amare Colui che è infinito; con quanto vi ha di meno generoso amare Colui che si è sacrificato per noi com’Egli solo ha saputo fare: il presepio, la Croce, la Santa Messa, i Sacramenti, la Chiesa; con una facoltà che è gretta quanto mai, amare Colui che si è dato senza misura; con delle piccolezze d’amore, amare Colui che è lo stesso Amore… No, Signore, non è possibile!… – Quale lotta! Dover competere con chi può brandire come arma di combattimento l’infinito è cosa che getta l’anima nello strazio e nella tortura. Voler dare e non poterlo fare; voler dare molto e non possedere nulla; a Colui che è tutto non offrire di continuo che così poco! È vero che non è necessario aver molto per dare molto, perché dà sempre molto chi dà tutto quello che ha, pur avendo poco. Ma… ahimè! anche qui, quale affanno per l’anima, quale angoscia di tutti i giorni. Quel poco che essa possiede, così fosse vero che lo offrisse senza riserva alcuna! Essa invece si conosce intimamente e sa benissimo quante mancanze vadano segnando il cammino di ciascun giorno: difetti leggeri, sì, ma per un cuore che ama queste indelicatezze hanno sempre alcun che di odioso. E quello che dovrebbe servire a calmare la pena non fa che aumentarla. Si consolerebbe il Maestro divino nel suo abbandono col donarsi interamente a Lui; ma si ha coscienza di procedere con raggiri, con grettezza e che l’amor proprio non disarma. « Egli non cesserà di molestarci che un quarto d’ora dopo la nostra morte », ci dice S. Francesco di Sales argutamente. E questo ci accora: vedersi forzati a servire Colui che merita tutto per mezzo di un «nonnulla » che pur non riesce a darsi interamente (Si confronti quanto abbiamo detto più sopra di Suor Geltrude-Maria la quale si rimproverava delle sue indelicatezze nell’amare il Signore. Cosa naturalissima quando si pensi a chi è Dio). – Il Signore tortura i santi con siffatte angosce continue. Non v’ha cosa che tanto sollevi l’animo al di sopra di se stesso quanto il desiderio di cose grandi, e il divin Maestro mette in cuore ai suoi cari questi ardenti ideali appunto per il piacere che prova nel contemplare queste anime grandi, anime veramente magnifiche in mezzo a tante piccolezze che loro sono ripugnanti. « Per vivere in atto di perfetto amore — dirà S. Teresa del Bambino Gesù — io mi offro come vittima di olocausto al vostro Amore misericordioso, supplicandovi di consumarmi incessantemente e di lasciar riversare nell’anima mia i torrenti della vostra tenerezza infinita così che io diventi martire del vostro amore, o mio Dio!… « … Io intendo rinnovarvi, o Gesù caro, ad ogni battito del mio cuore, infinite volte questa offerta finche, svanite le ombre, io possa di presenza colassù dirvi il mio amore in eterno ». – S. Maria Maddalena de’ Pazzi al termine di una sua orazione in cui ricevette grazie speciali da Dio, così si esprime di San Luigi Gonzaga: « Chi potrà mai apprezzare il valore degli atti interiori e la ricompensa che essi meritano! Non v’ha paragone tra quanto appare al di fuori e quanto avviene nell’intimo dell’anima. E Luigi, durante tutta la sua vita fu costantemente affamato delle ispirazioni interne che il Verbo eterno gli insinuava in cuore. Luigi fu un martire sconosciuto; perché chi vi ama, o Signore, vi vede sì grande e sì infinitamente amabile che per lui è un grande martirio il vedersi incapace di amarvi quanto egli vorrebbe e lo scorgere le creature che invece di amarvi teneramente vi offendono sempre più » (LYONARD: L’apostolat de la souffrance, p. 200). Così almeno l’anima assetata e in cerca di Dio potesse finalmente raggiungerlo, impadronirsene e tenerlo stretto fra le sue braccia… Ma, ahimè! sovente quanto più lo si cerca, tanto più Dio si allontana e si nasconde. Noi abbiamo l’Eucaristia, ma la presenza reale non dura che brevissimo tempo e poi anch’essa è tutta avviluppata di mistero: visus, tactus, gustus in te fallitur. Abbiamo la grazia santificante: ma quella presenza continua di Dio in noi che essa produce, non è la stessa cosa che la presenza continua di noi in noi medesimi. Avviene troppo spesso che noi siamo assenti da noi stessi. Le nulle e mille occupazioni quotidiane ci portano lontano da questo centro prezioso ove. per lo stato di grazia « i Tre », il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo, fanno continuamente la loro dimora. Iddio è dunque in noi: e noi non vi ci troviamo — o molto di rado’ — Abbiamo inoltre la preghiera: ma: lì nella preghiera non troviamo che la fede ove vorremmo il possesso reale: l’ombra, ove vorremmo il dono; la immagine, ove vorremmo la realtà presente. Si vorrebbe un Gesù così com’è naturalmente, e non si può avere che un Gesù « mascherato ». che sfugge continuamente e non si lascia raggiungere. E non dico nulla delle prove terribili dell’aridità in cui il Signore non si scorge più se non a grande distanza, sfumatura appena percettibile e così confusa che ci si domanda se veramente è Lui e si è quasi tentati a dire come gli Apostoli sul lago di Genezareth: « Phantasma est… un fantasma! ». – Eppure Gesù non ignora che noi abbiamo abbandonato tutto per poterlo seguire! Maria de la Bouillerie, poi religiosa del S. Cuore, parlando di sua madre diceva: « Io non l’abbandonerò mai per seguire un uomo! » . Ma abbiamo accettato di abbandonare anche la nostra madre perché sapevamo che seguire Gesù non è seguire un uomo, e con forza di volontà abbiamo detto a Nostro Signore: « Io verrò, dove abitate voi? ». — « Sei deciso?… Vieni! … ». — E ci siamo messi in cammino verso la terra promessa anche sapendo che prima di arrivare fino ad essa avremmo dovuto attraversare il deserto. Che importa? Si cammina per un buon tratto… e un bel giorno si crede di esser finalmente al termine del viaggio, alla casa del Maestro — l’abitazione del Re —. Invece, come quel fanciullo che montato sopra una sedia dinanzi all’altare batteva alla porta del Tabernacolo chiamando Colui che vi si è rinchiuso per amor nostro, anche noi battiamo: « Signore, ci siete voi? ». E come per quel fanciullo la porta del Tabernacolo non si apre e il Signore non dà segno alcuno della sua presenza. Deus absconditus! O Dio che martirizzi le tue anime care restando nascosto, misterioso sempre e inaccessibile. E noi ci fermiamo in faccia a Lui certi ch’Egli è presente, che potrebbe mostrarsi se il volesse, ma preferisce aspettare… e farsi aspettare. Una pena simile a quella della Maddalena al Sepolcro, la mattina della risurrezione. Fin dall’alba si era partita di casa portando con sé come unico tesoro dei poveri aromi — tutto quello che possedeva di utile in quella circostanza — e camminava in tutta fretta. Arriva finalmente… entra… e vede il Sepolcro vuoto… un Angelo, il sudario ripiegato da un lato, qualche cosa che appartenne a Lui, ma Egli non è là. Ed essa cercava Gesù, non soltanto la parola dell’Angelo, ma quella di Gesù. Non soltanto una reliquia di Lui, un documento della dimora sua in quel luogo fino a qualche momento prima, ma Lui, presente nel Sepolcro, che si lasciasse vedere… « Signore, ci siete voi? ». Il divin Maestro però non era lontano: anzi Egli è sempre vicinissimo ad un cuore che lo cerca. « Tu non mi cercheresti se tu non mi avessi già trovato »; parole poste sul labbro di Gesù Cristo da Pascal; e nulla di più vero. Chi cerca sinceramente Gesù e gli dice: « Signore, ove siete voi? » , non è più in cammino ma è giunto al termine della sua via. Nel momento stesso che ha formulata la sua domanda il Maestro gli si fa innanzi presente. Sì, il divin Maestro, ma sempre, secondo la sua abitudine, in modo più o meno velato. – Per la Maddalena Gesù Cristo è in sembianze d’un giardiniere e la poveretta non lo riconosce: ce Ditemi, dov’Egli si trova? Oh! ve ne scongiuro, non mi lasciate più a lungo in pena; io andrò a cercarlo fin là dov’Egli si trova… ». Se Egli si manifestasse interamente colmerebbe il desiderio dell’anima ma non già il proprio. Egli gode nel vedersi così desiderato dalle anime ardenti: imita in ciò la madre che si nasconde per provare il gusto di vedersi ricercata dal proprio bambino. Iddio, dice S. Agostino, non desidera di meglio che vedersi desiderato. Questa è la ragione di questi suoi abili raggiri che danno a noi tanta pena e a Lui procurano tanta gioia. Deus absconditus. Il Signore si nasconde: quindi le anime veramente accese d’amore per Lui soffrono a dismisura. Tutto hanno abbandonato solo per poterlo avere, possederlo e unirsi a Lui: e non giungono mai ad averlo, possederlo e unirsi a Lui come esse vorrebbero. Quindi il lamento della sposa dei Cantici: « Fasciculus myrrhæ dilectus meus. Il mio diletto è come un fascio di amarezza. In queste amarezze Iddio trova una soave dolcezza perché sono una prova certa di un amor grande per parte nostra. – Ma Egli non resiste a lungo e chiama la Maddalena col suo nome: « Maria! ». Così come in un baleno talora Egli si lascia quasi intravedere, e allora ci pare poter gettare ai suoi piedi e tendere le mani a Lui: finalmente lo si possederà e per sempre!. Ahimè! « No, non mi toccare», e questa noli me tangere pone il colmo al nostro martirio. Oh! che vale dunque l’amore se non si può procedere più innanzi? « Signore, sradicate del tutto quanto voi stesso mi avete posto in cuore, altrimenti abbiate pietà di me! ». Anche allora — anzi specialmente allora — il Maestro divino non cambia per nulla la sua tattica. Egli vuole scavare nell’anima degli abissi ancor più profondi, ed esce in quella risposta che sì direbbe crudele, ma in realtà è piena di misericordia: « Non è ancora venuta l’ora. Abbi pazienza ancora un po’ di tempo e poi mi vedrai » . « Che dite voi, o Signore — esclamava a questo proposito Paolina Reynolds — e parlate cosi ad un cuore che vi ama? ». « Sì — potrebbe rispondere Nostro Signore — così parlo ad un cuore che mi ama appunto perché anch’io lo amo. E voi fidatevi di me ». È in mezzo a questi patimenti interiori — che noi ci accorgiamo di non esser riusciti a descrivere, come avremmo voluto (Si legga a proposito il 2° Sermone di Bossuet per la festa dell’Assunzione…: « Egli vuole che si distrugga, si devasti, si annienti tutto quello che non è Lui: e per parte sua Egli si nasconde, e si rende quasi inaccessibile,sì che l’anima per l’una parte distaccata da ogni cosa, per l’altra non trovando modo di arrivare a Dio fuorché colla fede… cade in languori inconcepibili.«O sposo di sangue, date alle vostre spose queste armi che devastano e distruggono affinché esse si uniscano a Voi nel mistero della Croce, e vi portino come dote a voi cara il loro totale spogliamento. – « Questo è il mistero di unità che ogni giorno si opera con un martirio inesplicabile e che si terminerà con una pace che è Dio stesso. – « Oh! qual rovesciamento di cose, quale violenza e qual terribile lavoro, poiché Dio non scioglie dolcemente ma strappa; non piega ma rompe; non separa ma spezza e devasta tutto. Gesù, quando sarà che voi distruggerete interamente quanto ci distrugge?… Ah!come voi siete crudele! ») —patimenti nutriti soprattutto di desideri, che mai si giunge ad appagare, di sacrificarsi in qualche cosa, di sacrificarsi in tutte le cose: che il Signore darà alle anime occasione di mostrarsi un po’ meno inferiori al compito intravisto e alle ambizioni sognate.Offrirsi al Signore, già da lungo tempo si è capito che equivale a soffrire. E per questo appunto si è addolorati perché nell’offerta di se stessi pare che non ci sia abbastanza di penoso.È allora che Iddio invia a quell’animadelle pesanti croci: le aridità, le malattie,il lutto, il tradimento nell’amicizia, la persecuzione, l’insuccesso, le tribolazioni più varie e più dolorose. Nostro Signore in ciò non si trova mai imbarazzato, la sua provvista è abbondante, ha di che scegliere:si direbbe che a Nazareth abbia impiegato il suo tempo a preparare in gran copia delle croci, non abbia fatto altro; e se ne vedono di ogni sorta di legno e di tutte le dimensioni. Ed ecco come procede il Signore: per calmare l’angoscia di chi si lamenta di non soffrire abbastanza, Egli si decide di inviare una buona dose di patimento. Così Egli colma un martirio saziando di dolore, e il risultato di questa singolare interferenza di pene è un’immensa gioia. Si soffre; il Signore moltiplica la sofferenza: come risultato finale, ecco la felicità.Se non fossimo già avvezzi a trovare nelle cose divine di che strabiliare, quale non sarebbe il nostro stupore alla vista di questo strano e divino « circolo vizioso »nel quale l’Altissimo rinchiude le anime che sono tanto generose da consacrarsi senza riserva all’opera riparatrice dell’olocausto? (l’anima mia si nutre di tutti gli « Alleluja ». « Laudate ». • Cantate… », il che non toglie, è vero, la sofferenza, ma mi fa trovare in essa la mia pace, o se preferite: la pena è in me, ma io non sono in pena » – Consummata, 1. c .1).Noi abbiamo già udita l’esclamazione di S. Liduina e delle altre anime consimili ad essa. Al più profondo dei suoi più crudeli martirii un forte grido : « Io non sono da compatire, io sono felice! », il che suggerisce all’autore della sua Vita un commento veramente degno di nota, forse quanto di meglio sia stato scritto sul patimento. Le vittime — dice egli in sostanza — le più offerenti fra le creature, sono nello stesso tempo di tutte le creature le più felici. Offrirsi per l’olocausto è offrirsi per la felicità; perché Gesù si fa onore nel restituire con altrettanta pace e altrettanto gaudio, quanto a Lui si sacrifica con generosità. Per tutti i grandi « immolati » è avvenuto così. Iddio ha compensato la loro donazione con una tale pienezza da farli esclamare: « Ma Signore! questo non è il mio conto: io mi sono offerto per il sacrifizio e non ne ho che felicità!». Sì, quando un’anima s’è offerta a Gesù: « Voglio per me stessa mettermi,o Signore, sulla vostra Croce voglio che Voi siate colui che mi crocifigge ». Gesù accetta questa parte di carnefice e incomincia battere; ma alla vista del sangue che cola, dell’anima che si strugge, il suo cuore si spezza: non ha più il coraggio di continuare e si arresta. Allora si accosta e in un attimo colma l’abisso scavato dal patimento e l’anima allora rimane talmente trasportata che sente il bisogno di pregare il Signore a risparmiarle la gioia, come altri supplica il Signore a risparmiargli il dolore. Essa continua ad offrirsi ma la sua immolazione diventa la sua felicità, o meglio la sua immolazione, che continua ad esser in qualche modo dolorosa, è accompagnata da un tale gaudio divino che l’anima per nessuna cosa al mondo vorrebbe vedersene priva. Questo gaudio le è necessario per mantenere vive le fiamme dell’amore e attizzare il rogo permanente del Sacrifizio; e così con sapiente arte il Signore, per tener l’anima in continuo esercizio, alternale allegrezze e i dolori; le dolcezze sono il battistrada delle tribolazioni e le prove non precedono che di poco le gioie spirituali; ma, a conto fatto, il patimento è come affogato nel gaudio; non si può reprimere il singhiozzo, ma, come felicemente si esprime il Buathier, questi singhiozzi si risolvono in altrettanti cantici di allegrezza.L’abate Perreyve, uno di quelli che hanno meglio compreso e meglio spiegato il sacrifizio incontrato per amore, nell’analizzare questa contraddizione o, se vogliamo, questo equilibrio, lasciò scritto: « Donde viene, o Signore, che appena incamminato sulla via della Croce, io sento dalle vostre labbra parole d’ineffabile dolcezza? ». Infatti non appena Nostro Signore ha pronunziata la prima frase: « Se altri vuol venire dietro di me prenda la sua croce », Egli continua dicendo: «Il mio giogo è soave, il mio peso è leggero ». — « Appena ho incominciato a soffrire — soggiunge l’abate Perreyve— e già voi mi portate la consolazione;appena ho posto sulle mie spalle la croce e già la vostra mano divina me la rende leggera…« O Gesù! che imponete dei sacrifizi necessari ma che ne diminuite subito la pena col vostro tenero amore: o Gesù! che comandate la rinunzia a tutte le cose ma che fate poi trovare all’anima distaccata da se stessa un cumulo di tesori più grandi di quelli che potrebbe possedere: o Gesù! che ci obbligate a portare ogni giorno la nostra croce se vogliamo veramente seguirvi, ma che mutate poi questa croce in un giogo soave e in un peso leggero; o Gesù! Che spesso vi contentate della più piccola buona volontà dei nostri cuori e che ricambiate con sovrabbondanti consolazioni i nostri più deboli sforzi, no, non ho più paura di voi! Non mi spavento più del vostro Vangelo, io non tremo più al solo nome della Croce! Ormai ho capito che in essa sta il segreto delle grandi consolazioni e del vero appoggio nel cammino della vita, ove, anche contro il volere nostro, conviene soffrire. Io mi accosto quindi alla Croce con tutta confidenza e vengo a cercare ai suoi piedi, nel ricordo della vostra Passione, nuove grazie di forza e di pazienza. Non me le rifiutate, o generoso mio Maestro; e ricevetemi nel vostro corteo, fra quelle anime che trovano, venendo dietro di voi al Calvario, la forza di trar profitto dalle loro pene e di mutare in ricchezze senza fine tutte le amarezze della vita ». E con questa preghiera così bella, così ardente, così confidente, così umile poniamo termine al nostro lavoro. Quest’ultimo carattere di umiltà manifesta e consacra il vero spirito della Riparazione. – Quanti si vogliono dedicare, in unione di Gesù, alla Redenzione del mondo per mezzo del patimento, non possono farlo senza tremare conoscendo in modo evidente la loro assoluta incapacità. Essi comprendono che. lasciati a sé, al primo contatto del dolore essi fuggirebbero ben lontani. – Nessuno sa meglio di loro che essi non sono che la goccia d’acqua che si lascia versare nel vino del calice pel Sacrificio cruento: cosicché quelli che dànno di più sono quelli che sono convinti del « nessun valore » di quanto danno.

CONCLUSIONE

Non era nostra intenzione di scrivere un trattato completo sulla Riparazione: tanto meno un trattato scientifico di molta dottrina. Noi abbiamo semplicemente tentato di mostrare, ricordando brevemente su quali basi teologiche e dogmatiche si appoggi la Riparazione, quale posto dovrebbe avere l’idea riparatrice nel pensiero e nelle opere del buon Cristiano. Ai nostri giorni molti si sentono attirati da questa parte, ma restano esitanti, vanno a tentoni, poi indietreggiano o cambiano rotta perché mancano loro spesso i concetti chiari intorno alla riparazione. Queste nostre pagine vorrebbero risvegliare molti per metterli sull’avviso e ad altri già in guardia e desiderosi di luce, fornire le prime indicazioni. – In siffatta materia certamente una monografia o il contatto vivente d’un’anima riparatrice sono più efficaci che tutto un manuale; perciò abbiamo spesso rinviato il lettore a consultare diverse « Vite » . Tuttavia un breve schizzo della teoria non è inutile; è un allettamento e una prima indicazione. La lettura di opere più complete, il consiglio d’un savio direttore, e la grazia dello Spirito Santo finiranno d’illuminare, di convincere e di stimolare all’impresa. Durante la guerra sulle vie che andavano alla fronte si scorgevano di tratto in tratto degli avvisi a caratteri grossolani con qualche nome e una freccia: « Per il tal posto, seguite questa direzione ». Queste pagine non hanno altra ambizione; esse dicono: « Per andare al sacrifizio mettetevi sulla via della riparazione: non c’è passo più sicuro ». Cioè abbiamo voluto indicare da lungi la strada e non guidare fino alla linea di combattimento e ancora meno descrivere minutamente quanto si trova al termine della via… E come quelli soltanto che vissero nelle trincee della grande guerra hanno « sentito la realtà » della vita che vi si passava e possono parlarne — anche con pericolo di non esser compresi o neppur ascoltati — così solo quelli hanno i dati necessari a descrivere la vita di riparazione, cui il signore ha concesso di conoscere per esperienza propria e per il contatto delle anime altrui le regioni del completo devastamento dell’amor proprio, dello schiacciamento totale, della festa sanguinosa nel dono assoluto di tutto se stesso. Quindi si spiegano qua e colà i diversi punti in cui ci contentiamo di dare idee schematiche, incomplete e anche solo accennate. Non è da noi il penetrare nei domini riservati all’azione del Signore, lo scoprire « i segreti del Re », il far comprendere il modo che tiene nel comunicarsi alle anime privilegiate. Per questo è necessaria un’autorità, una pratica di ascetica e di mistica… e qualche altra cosa ancora, che noi non abbiamo. Un cieco non parlerà mai di luce o di colori. Dunque meglio d’ogni altro noi sappiamo quanto sia lontano questo nostro opuscolo da quello che si potrebbe desiderare. Anche così imperfetto, questo nostro lavoro potrà il Signore adoperarlo come strumento di sua gloria se il vorrà fare. Talora i mezzi in apparenza meno idonei sono quelli di cui Egli si serve per ottenere il risultato che ha di mira. Ci sia lecito aggiungere ancora una parola prima di terminare: un ricordo dell’ultima campagna. – Nel settembre 1917 due soldati di Liévin, in licenza a Hersin-Coupigny presso Pas de-Calais, pensarono di recarsi al villaggio natio per ricercare il loro piccolo peculio che avevano nascosto sotterra al momento dell’invasione. Essi vanno, ma l’uno di essi purtroppo non trova più nulla del suo. Prima di ritornarsene si portano all’antica chiesa del villaggio e la trovano tutta abbattuta al suolo. Solo una pesante croce in ferro fuso non è caduta, ma sta in piedi contro un resto di muro. E il soldato si avanza, la prende e, al cospetto d’un gruppo di Canadesi che applaudiscono, egli la stringe fra le sue braccia dicendo al suo compagno: « T u hai trovato il tuo tesoro, ecco il mio, io lo porto con me ». E in mezzo ai rottami e alle fosse scavate dalle bombe, a stento e gocciolanti sudore e coperti di fango i due amici portano fino ad Hersin la Croce della loro chiesa, Ritrovare la Croce, non già quella d’una chiesa distrutta, in mezzo ai rottami, ma quella del Salvatore del mondo rizzata sulla cima del Calvario si direbbe cosa facile. Ebbene, no! Meditando sulla festa dell’Invenzione di S. Croce, Mgr. d’Hulst ha potuto scrivere: « È una bella invenzione. Già da molto tempo abbiamo la croce dei due ladroni, la croce che disonora, ma la gran novità, essa è la Croce di Gesù… la quale per tante anime non è ancor stata trovata ». Oh! sì, essa è ancora da ritrovare per molte anime. E poi quando sia stata scoperta non convien fermarsi a contemplarla soltanto, ma bisogna prenderla e abbracciarla. I Canadesi applaudirono… il mondo, lui, non comprenderà nulla… e che importa? La croce afferrata a due mani poniamocela risolutamente sulle spalle. I rottami, le buche, le occasioni di cadute non mancheranno; la strada sarà difficile a percorrersi, il cammino un po’ lungo. Verrà spesso la tentazione di liberarsi da un tal peso, di gettare a terra queste due traverse che opprimono le spalle. « Come? — mormora allora Gesù — vorrai tu abbandonarmi?… Non vi sarà qualche Cireneo e qualche Veronica che vogliano aiutarmi a custodire intatta la mia Croce preziosa? ». Non vi sarà nessuno? È forse vero? Un giorno, durante la S. Messa, il Signore comunicò a S. Angela da Foligno una molto viva cognizione delle pene sofferte in Croce; ed essa così narra il fatto: — Sentii la sua voce a benedire i devoti che imitano la sua Passione e che hanno pietà di Lui: « Siate benedetti dalla mano del Padre, voi che avete partecipato e pianto la mia Passione; voi che ricomprati dall’Inferno cogli immensi dolori della mia Croce, avete sentito compassione di me. Siate benedette, fedeli memorie! voi che conservate nel vostro cuore il ricordo della mia Passione. Poiché voi avete offerta ad un Dio desolato la sacra ospitalità del vostro amore. Io era nudo sulla Croce, ero affamato, assetato, e voi aveste pietà di me. Siate benedetti, voi che avete usato misericordia. Al momento terribile di vostra morte io vi dirò: Venite benedetti dal Padre mio, io avevo fame e voi m’avete offerto il pane della vostra compassione… sospeso in Croce, ho pregato per i miei carnefici; che dovrò dire per voi che mi siete cosìdevoti quando verrò nella gloria per giudicare il mondo?». E mi è assolutamente impossibile esprimere l’amore che brillava sopra coloro che hanno pietà. — Al presente, più che in ogni altro tempo, Nostro Signore cerca dei « devoti che imitano la sua Passione ed abbiano compassione di Lui » . – Conceda il Signore a molti dei lettori e delle lettrici di queste pagine il desiderio di arruolarsi nella squadra dei « devoti » e la volontà generosa di fare parte di «quelli che hanno compassione ».

Chi vuole?

— « Oh! Signore, io lo voglio ».

FINE

L’IDEA RIPARATRICE (8)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (8)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale; Torino-Roma – Casa Editrice MARIETTI 1926]

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO III

CAPO SECONDO (1)

LA VITA PERFETTA E LA RIPARAZIONE.

Simona Denniel, la suora di Maria Riparatrice, che noi abbiamo testè citata, morta ancor giovane dopo un lunga e dolorosa infermità ottenuta da Dio come ricompensa dei suoi ardenti desideri, il 4 novembre 1910 scriveva: « Questa mattina, protraendo il ringraziamento alla S. Comunione per ripetere a Gesù che io desideravo ardentemente essere la sua piccola ostia, mi venne in mente ch’Egli forse andava cercando molte ostie… e che sarebbe certo una grande cosa il gettare nelle anime il germe del desiderio di diventare ostie. Pregherò dunque e soffrirò a questo fine che Dio moltiplichi le sue ostie, quelle vere, pure, generose e sante ». – Vi sono infatti delle anime che non si contentano del sacrifizio « a piccole dosi ». Sì sono trattenute troppo a mirare il loro Gesù sulla Croce, hanno misurato con troppa esattezza la profonda miseria del prossimo per non sentire ambizione di diventare anch’esse con Gesù per il bene delle anime come un « riscatto » e ciò nel massimo grado posatale, cioè vittime ». – Questa parola nel linguaggio ordinario ha un certo qual significato che umilia, che spiace. Si dirà più volentieri «sacrificarsi » che « esser vittima »; quest’ultima espressione non si circonda come la prima di una aureola di gloria. Se si dice: « Il sacrifizio dei nostri soldati in guerra », noi intendiamo qualche cosa di eroico: se parliamo delle vittime della guerra non si vede la gloria dell’impresa ma soltanto il dolore provato nel compierla. Tuttavia in sostanza le due espressioni si riferiscono alla medesima realtà di cose; non vi ha sacrifizio senza vittima. Ma sacrificarsi dice anzitutto slancio di affetto, dono di sé, immolazione volontaria, o almeno volontariamente accettata; mentre « esser vittima » lascia supporre facilmente che la pena si subisce un po’ per forza, si sopporta con malanimo, vedendo in essa più che un castigo meritato, una ingiustizia e una persecuzione. È da deplorare che questa parola si prenda spesso in così cattivo senso, e noi non la useremo che escludendo del tutto questo significato indegno del Cristiano. Nella nostra trattazione non significherà «ricevere a malincuore » ma piuttosto « darsi a cuor contento ». Per certe anime, l’abbiamo già detto, non basta rassegnarsi, sottomettersi, esse cercano, vogliono trovare la Croce, e quando finalmente l’hanno trovata, fuor di sé per la gioia esclamano con Andrea l’Apostolo: « O bona Crux! » e la abbracciano e se la stringono al seno e con risoluzione, nonostante lo scricchiolare delle ossa e il ripugnare di tutta la natura, come Gesù, per amore e per la Redenzione del mondo, si stendono sulle due traverse nodose e si offrono al martello che le configgerà, liete nel soffrire, sul legno infame insieme e glorioso. – Noi troviamo fra gli scritti intimi di una giovine (Morta nel 1918 a 29 anni. Essa verso la fine di sua vita dava a sé il nome di « consummata ») ricolma da Dio di grazie, elette, la seguente confidenza: « Una volta Nostro Signore mostrandomi i suoi dolori mi fece comprendere che me lì avrebbe dati tutti a soffrire. Io sapevo bene che non avrei potuto contenerli tutti come aveva fatto Egli stesso, ma compresi che ne sarei rimasta sempre ricolma. Se il mio patimento non avrebbe potuto essere grande come Lui. certo sarebbe stato almeno grande come me ». E aggiungeva: « il mio calice è pieno ma vorrei averne uno più grande ». Esser « ostia », che bel sogno! Sogno strano che non riescono a spiegare quelli che non comprendono le grandi cose, che cioè hanno il cuore piccino. Esser « ostia ». Sogno folle? No, ma sapienza sublime! Sogno forse alla portata di poche anime se per viverlo questo sogno fa d’uopo di grandi virtù e di copiose grazie? No. questo sogno può esser raggiunto da molti più che non si pensi; non tutti sanno parlare, scrivere, insegnare, ma chi non potrà imparare l’arte di soffrire e di sacrificarsi? Già altrove (Ames réparatrices, p, 10), abbiamo fatto notare questo doppio carattere apparentemente contraddittorio della riparazione: Vocazione per l’una parte « difficilissima fra tutte », perché esige assolutamente una rinunzia totale; vocazione per l’altra parte « accessibile a molti » meglio che non si possa immaginare, perché assicurata quest’intima e completa rinunzia, tutto il resto non conta per nulla. In altre parole: È vero che per sacrificarsi come « ostie » nel senso che abbiamo spiegato è necessaria una grazia speciale che il Signore non fa a tutti, ma è certo pure che il Signore tale grazia speciale la concede alle anime sue care ben più spesso che noi non supponiamo. – E qui specialmente va ricordato quanto già abbiamo detto dell’obbligo di consultare non soltanto le ispirazioni della grazia, ma ancora i doveri del proprio stato e il consiglio di un buon direttore spirituale. Offrirsi come vittime è cosa che deve durare a lungo, e per impegnarsi così per l’avvenire in cosa di tanta importanza non basta un fervore sensibile passeggero, uno slancio di divozione, una parola data in istato di consolazione spirituale. Il patimento, quando non è che immaginato, non fa ancora soffrire; quando invece è vissuto allora sì che grava sulle nostre spalle. Ai piedi del Crocifisso e da lontano la parola: « Vittima » sembra scritta a lettere d’oro; da vicino, nella realtà, è scritta a lettere di sangue. Non che domandi sempre il martirio della carne, ma comprende sempre, in tutte le ipotesi, una buona dose di tribolazioni, che quando ci vengano a colpire sconcertano una troppo semplice presunzione. – Fatta questa osservazione, diceva il vero Mgr. D’Hulst scrivendo ad una persona un po’ mondana : « La dottrina delia riparazione noi la troviamo sempre al fondo di ogni vera vita interiore. Ogni vita interiore quando sia vera conterrà implicitamente in ogni caso normale il desideri più o meno sentito di esser ostia ». Ogni vita interiore vera dunque, non solamente nei chiostri, ma anche nel mondo. Certamente la vita religiosa — e noi l’abbiamo già notato — specialmente negli Istituti che della Riparazione fanno un oggetto primario della loro attività, è come il campo più appropriato, ma non unico, allo sviluppo della vocazione speciale di « ostia » . Ma. la Dio mercé, può darsi benissimo, e si dà veramente, come già abbiamo constatato, che nel mondo e sotto le apparenze d’una vita di mondo vivano molte anime profondamente riparatrici. La persona a cui scriveva Mgr. D’Hulst era allora una di queste anime. Nelle tre lettere del 19 novembre 1880, 18 gennaio e 4 ottobre 1895, egli le spiegava meglio il suo pensiero: « Molto vi ha da riparare nel mondo e, diciamolo pur anche e soprattutto nel Santuario e nei chiostri. Nostro Signore aspetta un compenso dalla parte di quelle anime che non hanno abusato di certe sue grazie più scelte… Quale afflizione alla vista di tanti scandali! Solo il pensiero che possiamo riparare ce ne può diminuire l’amarezza. Prendere sopra di sé l’espiazione è rassomigliare a Colui di cui fu detto: Vere languores nostros ipse tulit. Se noi fossimo ben penetrati di questo pensiero, senza cercar grandi penitenze, non faremmo noi ben altra accoglienza alle contrarietà e alle amarezze della vita? ». Poi indica più chiaramente il modo di riparare: « Bisogna riparare per mezzo delle lagrime del nostro cuore, della fedeltà, della pazienza, per mezzo d’una profonda religione, e dell’amore. Bisogna riparare ricorrendo a Maria Santissima ed ai Santi, coll’offerta dei loro meriti, della loro virtù e del loro amore. Bisogna riparare colle nostre pene, colle nostre impotenze rassegnate, colle nostre oscurità, colle nostre angosce, colle nostre debolezze, coi nostri abbattimenti e dire: tutto questo va bene, io lo voglio, non c’è nulla di troppo fin qui: è meglio che sia così, e che io serva come le legna da bruciare per l’olocausto: se io non sono capace a fare da sacrificatore, se non so esser vittima, che io sia almeno quel pezzo inerte che altri abbrucia e consuma alla gloria di Dio » (Vie, t. II, p. 523). Olocausto, ecco il motto finale. Olocausto cioè sacrifizio, non sacrifizio qualunque, ma sacrifizio completo, ove tutta la vittima è sacrificata, nulla è risparmiato; sacrifizio totale. Fra gli atti di culto, di religione, il sacrifizio costituisce il più perfetto, il più glorioso a Dio, il più meritorio per l’uomo perché è la testimonianza più significativa che l’uomo possa rendere alla Sovrana Maestà di Dio, la protesta più solenne che egli possa fare della sua completa dipendenza al cospetto della potenza assoluta dell’Altissimo. – « Le parole — osserva il P. Ramière — non sono che un rumore che passa, che spesso rimane a fior di labbra. I sentimenti del cuore non sono intesi che da Dio e benché il loro linguaggio sia più sincero che quello delle labbra, non è tuttavia a riparo dall’illusione. Ma quando la creatura dà mano alla propria distruzione per onorare il Creatore, allora riconosce in modo efficace che Egli è il principio della sua vita e l’arbitro supremo dei suoi destini. E in questa distruzione di sé consiste propriamente il Sacrifizio. « Il Sacrifizio non è soltanto la testimonianza delle parole, o dei sentimenti, o delle azioni; è la testimonianza di tutta la vita, cioè della morte » (La Divinisation du Chrétien, p. 369). Quando il sacrifizio diventa olocausto raggiunge i limiti estremi di quanto l’uomo può dare: al di là di una simile immolazione radicale non c’è più nulla. Però la difficoltà non è propriamente nel darsi così senza riserve una volta e come in blocco, ma piuttosto, quando già ci si è dati cosi tutto in una volta e in blocco, nel non riprendere in diverse volte e a poco a poco quello che in un fascio era stato gettato sul rogo. La storia delle continuate « rapine nell’olocausto » è talmente umana anche in mezzo a quelli che hanno una virtù solida e una volontà risoluta! E il Signore permette che l’amor proprio tenti sempre qualche offensiva perché non manchino mai le occasioni di acquistarsi qualche merito. Se bastasse l’aver fatta l’offerta una volta sola la cosa sarebbe veramente troppo comoda. Ripetere l’offerta ogni giorno e molte volte al giorno — e sempre l’offerta totale — questo è propriamente offrirsi in olocausto. In pratica, cercando in tutto e sempre il beneplacito del Signore, come faceva Gesù Cristo, il cui cibo era appunto il compiere incessantemente la volontà del Padre (« … Fatemi trovare, o mio Dio, quell’atto si comprensivo e sì semplice che dia totalmente a Voi quello che io sono, che mi unisca a tutto quello che voi siete… « Tu lo senti già, anima cristiana, Gesù te lo dice in cuore che quest’atto non è altro che l’atto di abbandono con cui l’uomo lascia nelle mani di Dio tutto quello che ha e che è: anima e corpo, in generale ed in particolare Tutto abbandono in Voi, o Signore, fatene quello che volete. Mio Dio, io vi abbandono la mia vita e non soltanto questa che conduco nell’esilio a nella cattività sulla terra ma anche quella dell’eternità. Io rimetto nelle vostre mani la mia volontà, vi rimetto pure il dominio che voi mi avete concesso sulle mie azioni… Tutto vi ho dato; non mi resta più nulla, tutto l’uomo è nelle mani vostre. « Quest’atto si riferisce a tutto quanto è nell’uomo e nello stesso tempo anche a tutto quanto è in Dio. Io m’abbandono in voi, mio Dio! Alla vostra unità per esser una cosa sola con voi, alla vostra infinità, ecc. – « Con quest’abbandono non si cade punto nell’inazione; al contrario noi tanto più diventeremo attivi quanto più saremo guidati dallo Spirito Santo; quest’atto con cui noi ci diamo a Lui e alla sua azione in noi ci mette per così dire i n piena attività per Dio » (BOSSUET: Discorso dell’abbandono in Dio). – Così si vede che « l’abbandono in Dio » ben compreso, sfugge a qualsiasi taccia di quietismo. Sovente siamo ricorsi alle parole di Bossuet nel nostro presente scritto appositamente per evitare ogni ragione a dubitare della sicurezza di dottrina nel soggetto trattato); quello che ci piace non farlo mai « per questo solo » che ci piace; fra due azioni indifferenti eleggere quella che più è contraria al nostro gusto (Quest’impegno, sotto forma di voto, vien detto « Voto del più perfetto ». Come facilmente si può capire, chi voglia pronunziare un tal voto conviene che ne richieda l’approvazione dal Padre suo spirituale, che non la concederà se non a persona di virtù soda, di buon senso ed equilibrata; diversamente è una porta aperta a lutti gli scrupoli e a mille stranezze. In sostanza anche qui, come sempre altrove, « una mente che calcola e un cuore che rifugge da ogni calcolo »; ci vogliono le due cose. Con un cuore generoso, uno spirito saggio e ponderato, questo soprattutto.); nulla tenere per sé delle opere buone che possiamo fare, ma metter tutto a disposizione del Signore, sia per lo scopo particolare di suffragare le anime del Purgatorio (pratica dell’ « Atto eroico ») sia in generale per quelle intenzioni che gli sono più care; dare come in prestito a Gesù che non può più soffrire le nostre immolazioni come l’ostia gli dà in prestito la sua forma e le altre sue esteriorità; lasciare che Egli prenda in noi i patimenti che tanto desidera offrire al Padre per la gloria dell’Adorabile Trinità e per la salute delle anime, tendere a diventare Lui sotto le « apparenze » nostre (Nessuno meglio che Huysmans ha esposto questo pensiero con cui si arriva alle più intime profondità dell’Idea riparatrice: « Il Salvatore non può più soffrire in sé stesso; se vuole patire quaggiù noi può fare che nella Chiesa i cui figli formano il suo Corpo mistico. Queste anime riparatrici che ricominciano gli spasimi del Calvario, che si pongono in Croce nel posto lasciato vuoto da Gesù sono quindi in certo modo le sosie del Figlio di Dio; esse riflettono in uno specchio sanguinante il suo povero Volto; esse fanno di più: esse sole danno al Dio Onnipotente qualche cosa che ora a Lui manca, cioè la possibilità di soffrire ancora per noi: che appagano questo desiderio che è sopravvissuto alla sua morte, desiderio infinito come è infinito l’amore che l’ispira ». Esse possono « fare l’elemosina a questo misterioso Mendicante delle loro lacrime e rimetterlo nella gioia dell’olocausto, gioia che non può più provare altrimenti » – S. Liduina, p. 101): domandare umilmente a Dio. desiderare e cercare, sempre nei limiti della discrezione prima e poi dell’ubbidienza, le più minute occasioni che si presentano per sacrificarsi, aspettando di meglio se così piaccia al divin Maestro: — questo è l’incredibile programma che noi vediamo adottato da certe anime le quali seguono con gioia ardente i diversi impulsi della grazia e le varie sfumature della divozione propria di ciascuna di esse. V’ha chi giunge fino ad impegnarsi con voto di vivere come Vittima. Nelle Costituzioni delle Suore Benedettine dell’Adorazione perpetua — costituzioni approvate in forma speciale dalla S. Sede — al c. 58, § 23, si legge: « Voveo et promitto omni studio servare perpetuam SS. Sacramenti altaris adorationem et cultum, uti victima gloriæ ipsius immolata ». Così abbiamo una conferma autentica da Roma di questa qualità di vittima immolata alla gloria di Nostro Signore (Cf. Vita della fondatrice Mechtilde du Saint-Sacrement di M. HERVIN – Bray. Retaux, 1883). – Sua Santità il Papa Pio X, con rescritto del 16 dicembre 1908 e con breve del 9 luglio 1909, ha concessa l’indulgenza plenaria una volta al mese ai Sacerdoti che in date condizioni facessero un tale voto per la riparazione sacerdotale. Ma voti di questo genere — non meno ardui che quello del « più perfetto » che la Chiesa dichiara esser « arduum » (Oremus di S. Andrea Avellino e lezioni del Breviario nella festa di S. Teresa), ed anche « arduissimum » (lezioni del Breviario nella festa di S. Giovanna di Chantal) — tali voti non si possono, come ben si comprende, né fare né consigliare fuorché alle condizioni già indicate di sapienza, di discrezione, di prudenza e di soggezione al Padre Spirituale. Non è quindi nostro intento discorrerne più a lungo, poiché non abbiamo né competenza né mandato per trattare una questione che riguarda esclusivamente i maestri di vita spirituale di lunga esperienza. Ci contenteremo di aggiungere ancora qualche osservazione generale. A nostro parere la prima condizione in questa materia è di determinare in modo ben chiaro quello che noi intendiamo obbligarci a fare. Le promesse possono passare attraverso ad una gamma variabilissima, ma tutte si possono tuttavia ridurre in pratica a due tipi: Accettare giorno per giorno — con atto previo di rassegnazione — insieme col divin Riparatore, quei patimenti che il Signore nell’ordinaria sua Provvidenza ha previsti per noi nella sua eternità. Questa è una prima maniera di costituirsi « vittima » nelle mani di Dio, e di grande perfezione. Domandare a Dio, per soddisfare ad un desiderio di immolazione più completa, che Egli mandi all’infuori delle disposizioni ordinarie di sua Provvidenza una dose supplementare di patimenti (di corpo, di spirito, di cuore, e anche la morte anticipata). – In quale misura questa seconda maniera di costituirsi « vittima » possa dirsi: 1° possibile; 2° lodevole, sono punti da esaminarsi nei casi singoli con un’attenzione tanto più minuziosa e accurata quanto più la materia è fuori dell’ordinario, quindi più soggetta all’illusione; e con una prudenza tanto più ritenuta, con un « discernimento degli spiriti » tanto più illuminato e più severo, quanto più è prossimo il pericolo che la generosità del cuore confini colla temerità (Il ben noto autore di Jesus intime nell’Introduzione alla Vita della M. Maria Veronica del Cuor di Gesù, fondatrice dell’Istituto delle Suore Vittime del Cuor di Gesù (P. PRÉVOST, S. C. J.), lasciò scritto: « Circa il voto di desiderare i patimenti… converrà mostrarsi severi all’estremo. Difficilmente troverete un tale voto nella vita dei Santi. Alle anime generose che si perdono dietro a tali finezze, alle anime meno generose che le cercano per entusiasmo momentaneo, per Trasporto passeggero noi diremo: Voi farete cosa più utile nel nutrirvi prima di tutto di soda dottrina… studiata non soltanto in simili sottigliezze che turbano e snervano, ma nella distesa della sua ampiezza e nelle ricchezze delle sue cognizioni » – Introduction doctrinale sur l’idée, l’état et le voeu de victime, p. XXVII e XXX, par M. Charles SAUVÉ). – Non si creda però che la Vita di riparazione includa necessariamente o l’uno o l’altro di questi voti: essi tutt’al più in determinati casi possono costituirne come il perfezionamento, la corona: ma non ne sono mai il carattere fondamentale. Essi sono come un maximum, un grado estremo, e nella seconda ipotesi lo diremo un « maximum inedito, fuori quadro ». In che consista propriamente l’essenza della vita di riparazione noi l’abbiamo già detto abbastanza fin qui ((« Talora avviene che Nostro Signore si unisce più intimamente a qualche anima privilegiata e la chiama ad una vita più misticamente intensa, confidandole una missione riparatrice ancor più commovente… Queste sono belle ma rare eccezioni. Possiamo esser felici anche se l’invito del Signore ci chiama soltanto per una strada più umile e più accessibile». DE BRETAGNE: La vie réparatrice, p. 7). – 

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L’IDEA RIPARATRICE (7)

L’IDEA RIPARATRICE (7)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO III

Come riparare?

Tutti quanti i Cristiani sono tenuti alla riparazione, noi l’abbiamo visto fin qui: non tutti però debbono riparare allo stesso modo. Una madre di famiglia potrà essere una  « riparatrice », ma non come lo dovrà essere una Suora Carmelitana. – I doveri dello Stato, l’attraimento della grazia divina, l’indirizzo di un buon direttore, sono tre fattori che concorrono a formare lo spirito e la pratica della riparazione in ciascuno di quelli che volonterosi si mettono sulla « Via Regale della Croce ». Premessa questa distinzione del tutto elementare, possiamo determinare due gradi nell’offerta di sé all’idea riparatrice, secondo la parte più o meno grande che si vorrà dare alla Croce nella propria vita. Noi l’abbiamo detto: l’elemento principale in questa materia non è altro che la generosità d’animo: tutti dovranno riparare con una vita ordinaria, i più generosi tenderanno invece ad una vita perfetta.

CAPO PRIMO

COME RIPARARE NELLA VITA CRISTIANA ORDINARIA.

Troppo spesso si crede che per darsi alla Riparazione sia necessario ritirarsi nel silenzio d’un chiostro e nelle austerità della vita monastica, e praticare gli esercizi più duri della penitenza cristiana. Questo è un errore. La Riparazione non consiste in un insieme di pratiche presentate con programma determinato, è piuttosto un indirizzo spirituale che facilmente si adatta alle varie condizioni di vita, supponendo però che questa sia sinceramente cristiana. Un indirizzo spirituale. Quindi prima di ogni altra cosa convien porre per base una chiara conoscenza e un intimo sentimento della verità di un Dio Crocifisso e Crocifisso per noi, ma che aspetta la nostra cooperazione, mentre intorno a noi v’hanno delle anime, e purtroppo sono in gran numero, che vanno perdute. Questa Conoscenza è di somma importanza: eppure quanti Cristiani ne sono totalmente privi! Or bene è appunto nel viver animati intimamente da queste due grandi idee che consiste l’indirizzo spirituale o se si vuole lo spirito di riparazione (Il Can. LEROUX di Bretagna dice molto bene: « La vita riparatrice non è per sé una forma speciale di vita cristiana, ma neppure si può dire che sia una vita comune, poiché non si trova purtroppo presso tutti i fedeli ». E la ragione si è che per l’una parte conviene sforzarsi a menare una vita veramente cristiana, il che è più raro di quanto si creda; e dall’altra parte « le attrattive che sente l’anima che pur cerca di santificarsi non sono sempre verso questo ideale particolare. Può provar desideri anche forti della santità in genere senza fissarsi esplicitamente nella pratica della riparazione ». “La vie reparatrice”). E questo ce spirito » manifesta subito le sue esigenze. Un’anima cristiana dominata dall’idea riparatrice comprende che prima di tutto essa dev’esser fedele alle promesse fatte nel S. Battesimo, ai comandamenti di Dio e della Chiesa, e non solo con una fedeltà trasandata come per lo più accade a molti, ma interamente, rigorosamente, senza scuse, senza transazioni, sia nella vita individuale che in quella sociale e famigliare. L’orizzonte si delinea fin dal principio nella sua vastità. Un romanziere americano prese come tema delle sue opere la seguente storia: Un pastore dovendo preparare il suo sermone scelse come testo: « Ecco la vostra vocazione. Gesù Cristo ha sofferto per voi, questo esempio dev’esser seguito da voi passo a passo fino alla perfezione ». Venuta la domenica egli recita il suo discorso dinanzi ad un uditorio mondano che l’ascolta colla solita attenzione. D’un tratto un vecchio mendicante entra precipitoso e grida: « Come non sentite voi vergogna? Voi che osate cantare: Gesù io presi la mia croce pesante E per seguirti tutto abbandonai? e poi vivete così come fate? ». Al termine della sua sfuriata egli cade morto. Impressione enorme tra gli uditori, anche maggior impressione nell’animo del Pastore. Venuta la domenica seguente egli propone alle sue pecorelle di fondare una lega in cui ciascun membro si obblighi a interrogare se stesso al cominciare di ogni azione: « Che farebbe Gesù se fosse qui in questo momento? ». Molti vi danno il loro nome: degli uomini politici, dei commercianti, dei giornalisti… e tosto in conseguenza della parola data s’accorgono di dover mutar completamente la loro vita. Il sig. E. Norman, direttore del Raymond Daily News, è uno dei segnatari: gli si presenta un lungo articolo sulle corse, tre colonne e mezza. Egli s’interroga: « Se Gesù Cristo avesse la responsabilità del giornale lascerebbe Egli uscire queste tre colonne di scritto così com’è…? …No ». E l’articolo è cestinato. E queste notizie politiche?… E gli annunzi di quarta pagina?… ». E il giornale muore. È questo un romanzo — e portato all’esagerazione; — però l’idea non è cattiva, tutt’altro. Quanta perfezione di vita cristiana si potrebbe facilmente avere se, come gli ascritti alla lega del romanzo americano, noi ci proponessimo di riflettere al cominciare delle nostre azioni: « Qui. a mio posto, in questa circostanza, che farebbe Gesù Cristo? ». E chi non vede che d’un tratto noi avremmo certamente una profonda mutazione nella condotta dei singoli individui, nelle relazioni tra i popoli, nella vita delle famiglie e della società? Studiando la questione, delicata insieme e importantissima ai nostri giorni, del ripopolamento della famiglia, materia in cui purtroppo molti Cristiani mancano ad un preciso loro dovere, un autore diede all’opera sua questo titolo : « La Francia ripopolata dai Cristiani praticanti », titolo con cui si formula tutto un programma mentre si esprime ancora unacondanna. – Come in siffatta materia così in tutte le altre di dominio della morale pubblica nulla si potrà « riparare » senza l’intervento efficace dei veri Cristiani: e ancora conviene che non vengano meno al loro compito ma siano Cristiani intrepidi, tutti d’un pezzo, come si esprimeva L. Veuillot, anche « sfrontati ». Le occasioni di praticar la propria fede fino al sacrifizio non mancano mai per le anime generose. Noi abbiamo già combattuta la tendenza che hanno molti Cristiani a farsi una Religione che non li disturbi troppo. Il Card. Manning scriveva: « Noi viviamo in tempi facili. Chi digiuna ancora ai nostri giorni? ». E vero che la Chiesa si mostra indulgente, tuttavia « riflettiamo che anche ai nostri giorni gli israeliti tre volte nell’anno non prendono cibo alcuno dal levare al tramontar del sole: amaro rimprovero per noi che siamo discepoli di Gesù Crocifisso ». Quali sofferenze non hanno dovuto sostenere durante l’ultima guerra certi nostri soldati, ad esempio quei fucilieri di marina dell’epopea di Dixmude, che dovettero rimanere coi piedi nell’acqua per ventisei giorni senz’altro nutrimento che qualche scatola di conserva? La causa che difendevano ne valeva certo la pena. Ma la causa di Gesù Cristo non è forse più nobile ancora? Perché noi vorremmo limitare i nostri sacrifizi? Intorno a noi che non si fa per seguire il mondo, per adattarsi alla moda del giorno! E per le anime? — Per Gesù Cristo? Noi amiamo piuttosto i crocifissi di lusso, non troppo sofferenti, d’avorio su fondo vellutato. Lasciatecelo ripetere: non son quelli i « veri » crocifissi. I veri sono meno fini e sopra di essi non vi si sta troppo comodamente. Quando Eraclio poté ricuperare la Croce, rimasta per quattordici anni bottino di guerra nelle mani dei persiani di Cosroe, volle portarla egli stesso fino alla sommità del Calvario ed a questo fine rivestì gli abiti regali più sfarzosi, colle perle preziose e la sua corona da imperatore. « Non così, Maestà, gli disse il Vescovo di Gerusalemme, non così! C’è troppo contrasto tra il lusso del vostro abbigliamento e la povertà della Croce ». E l’imperatore cambiò il suo oro e le sue perle con un povero cilicio. La Croce del Salvatore è una croce che crocifigge. Infatti è una vera contraddizione quella che vediamo praticare da molti Cristiani, che pretendono seguire Gesù Cristo e poi mettono ogni cura per evitare le penitenze più semplici e più ordinarie imposte per legge dalla Chiesa. Scherzando il Cardinale Manning si rivolge ad essi: « Permettetemi ch’io vi domandi se voi stessi credete al vostro prossimo quando lo sentite dire che non può digiunare, fare le astinenze del venerdì, che queste cose nuocciono alla sua salute, ecc.? » E poi aggiunge: «Se io pervenissi a turbare qualche poco la vostra coscienza non ne proverei dispiacere, poiché io son convinto di vivere in un tempo in cui la mollezza dei costumi tende a far «comparire la dolce severità delle leggi ecclesiastiche ». – Così si vede che senza andar troppo lontano, col solo praticare la lettera — o almeno lo spirito — dei comandamenti di Dio, si presentano a mille a mille le occasioni di offrire al Signore dei sacrifizi ben meritorii per la riparazione. Accettiamo dunque per prima cosa le mortificazioni che ci vengono imposte dalla Chiesa e poi in secondo luogo quelle che ci si presentano nelle diverse circostanze della nostra vita. Anche queste abbondano: rovesci di fortuna, malattie, lutti, disgrazie, dispiaceri d’ogni sorta. La vita ne è colma e può esser paragonata ad una lira con sette corde, sei dedicate al dolore e una alla gioia. Bossuet comparava i minuti di vera felicità nella nostra vita a quei chiodi d’oro che adornano una porta; visti di lontano sembrano migliaia; strappateli, appena riempiono il cavo d’una mano. Le nostre gioie sono come le pietre di un torrente, instabili, e lontane l’una dall’altra, che se volete passarlo appena ponete il piede sopra l’una di esse, subito dovete saltare ad un’altra e così di seguito senza potervi arrestare. Ma tu chi se’ che sì se’ fatto brutto? domanda Dante (Inf. C. 8, v. 35) a un dannato mentre questi lo vede passare nella barca di Virgilio. Rispose: « Vedi che son un che piango ». « Uno che piange!». Ecco quella che può dirsi la definizione di ogni uomo quaggiù, specialmente in certi giorni. E allora come fa pena il vedere che non si sa trarre profitto da quelle lagrime che pur non si può non versare! Ciascuno di noi colla somma dei patimenti di cui è formata la vita, come con un capitale, avrebbe modo di guadagnare dei meriti immensi. E la maggior parte non ne fa nulla, non ci pensa: invece di utilizzare le proprie croci per il Cielo e per le anime, le sciupa, non ne ritrae nulla… peggio, ribellandosi, trova in esse un’occasione di nuovi peccati. Che si direbbe di un uomo che possedendo una fortuna in tutte monete d’oro, invece di portarle alla banca per la « ristorazione nazionale » le andasse gettando ad una ad una dall’alto di un ponte in un profondo abisso?… – Appena siam raggiunti da un qualche patimento la prima cosa che facciamo è per lo più il lamentarci, il prendercela con Dio: « Io vorrei, diceva Nostro Signore a S. Geltrude, che almeno i miei amici non mi giudicassero tanto crudele. Dovrebbero farmi l’onore di pensare che se talvolta li obbligo a servirmi con fatica, e quasi con loro sacrifizio, io lo faccio pel loro bene, anzi pel loro maggior bene. Io vorrei che invece di irritarsi contro i loro dolori, vedessero in essi uno strumento del mio amore di Padre… ». I Cristiani ferventi lo comprendono benissimo. Ai piedi del letto di morte di un loro figlio, giovane religioso, loro rapito da un morbo fulminante, il padre e la madre si scambiano le seguenti parole: « Vuoi che recitiamo il Te Deum? — Oh sì, di tutto Cuore! ». Ampère si era da poco sposato. La vita gli si affacciava tutta in festa: quand’ecco una malattia colpisce la sposa e minaccia di rapirgliela. Ampère, benché tutto immerso nella trepidazione, ha la forza di scrivere: «Mio Dio, io vi ringrazio… Io vedo che voi volete che io viva solo per voi, che tutti i miei istanti vi siano dedicati. Volete voi togliermi tutta la felicità che io posseggo quaggiù? Voi ne siete il padrone, o mio Dio! le mie colpe meritano bene questa punizione. Ma io spero che voi ascolterete ancora una volta la voce della vostra misericordia ». Qual meravigliosa forza può dare al povero cuore di un uomo una fede veramente profonda! – Una madre riceve la notizia che il figliuolo suo è ferito da un obice e spaventosamente mutilato, ma non ha perduto per nulla il suo coraggio eroico. Essa scrive di lui : « Egli soffre una vera passione in unione col nostro caro Gesù e fa meraviglia il veder questo mio figlio felice, crocifisso, steso sulla croce sanguinolente, rimanersene tranquillo e sorridente nel suo martirio di ogni momento… Io ringrazio il Signore… che l’ha messo a parte dei patimenti redentori del Calvario. Noi non possiamo comprendere, così afflitti come siamo, i misteri di misericordia che rimangono nascosti sotto queste prove, ma io credo che in cielo ci saranno svelate le ricchezze di queste sanguinose immolazioni e che intanto questi poveri feriti sono ben potenti presso Dio ». Il povero mutilato si preparava pel sacerdozio, quindi la madre continua: « Poco importa il modo con cui vien fatto il sacrifizio, purché il Signore prenda quanto Egli crede bene e ritragga dalla sua creatura quella gloria che gli è gradita… Se L . . . non potrà più essere sacerdote, sarà certamente Ostia e questo è l’Ufficio di Gesù Cristo: chi dunque potrà lamentarsi nel vedersi trattato come lo fu il Figlio di Dio? ». Poco tempo dopo anche il fratello del povero mutilato cade gloriosamente sul campo; e la madre, forte sempre, esce in questi accenti di rassegnazione: « Povera piccola vittima che si aggiunge a tante altre! Ci fu dato da Dio perché lo conducessimo al Cielo; egli vi è arrivato. Ringraziamo il Signore. Tuttavia per noi che abbiamo una fede ancora debole è cosa dolorosa ». Quante madri, quante sorelle, quante spose che per ragione della grande guerra sono ormai destinate ad essere altrettanto « dolorose »! Così tutte avessero il coraggio di trasformare il sacrifizio che venne loro « imposto » in sacrifizio « volontario » e dicessero al Signore: « Gesù, grazie per avermi associata in questo modo alla vostra Croce. Voi avete voluto il sangue di chi era come una parte di me stessa, voi volete le mie lagrime., io ve le offro tutte quante. Forse in me stessa non troverei la forza di dirvi: prendete… Ma ormai voi avete preso quanto avete voluto, io voglio almeno aver il coraggio di dirvi che voi avete fatto bene… che ho capito… che io mi rassegno… – Io non mi sento ancora di pronunziare l’Alleluja, mormorerò per ora sommessamente: Amen, così sia ». Parlando del proprio figliuolo, vittima come tanti altri nella gloriosa ma sanguinosa guerra, una persona diceva in confidenza ad una sua amica: « Voi lo sapete benissimo, già prima io l’avevo offerto al Signore, quindi al presente rimetto nelle mani sue il mio olocausto non soltanto accettando ma volendo quanto Egli ha disposto ». Si noti che le parole furono sottolineate dalla madre stessa. « II mio povero cuore, scrive una delle sì numerose e sì valorose nostre vedove di guerra, i l mio povero cuore che non può abituarsi alla solitudine prova un’ardente sete di darsi ancor più completamente a Dio, di offrirsi totalmente senza riserva ». — Sete avventurata, così il Divin Maestro la comunicasse questa sete ad un grande numero di anime. — Essa riconosce che « il suo amore era forse troppo umano, diventerà ora più sovrannaturale » . — Questo è appunto il desiderio del Signore, quello che forse Egli aveva di mira nel permettere la tribolazione. — Ed essa prega per « avere il grande coraggio di offrirsi sempre più al Signore ». – Le ammirabili suore che dirigono la Casa di salute di Villepinte hanno fondato fra le loro ammalate un’associazione detta « della riconoscenza ». Una delle ragazze esitava nel darvi il suo nome: « Io temo, diceva, di non saper dire grazie al Signore, quando io soffro ». per riuscire a trionfare di un siffatto timore, ecco un eccellente mezzo e molto pratico per tanti poveri cuori che sanguinano disorientati per gli ultimi avvenimenti: offrirsi a Dio in « ostia » di amore e di riparazione. « Questa è la più grande ricchezza dell’anima, diceva S. Giovanna Francesca dì Chantal, soffrire molto per amore ». I veri Cristiani non lo ignorano e lo mettono in pratica. « L’anima si può unire a Dio colla preghiera, come pure lo può fare col lavoro: ma il patimento accettato per piacere a Dio, il patimento offerto a Dio, il patimento diventato caro per amore di Dio unisce l’anima al suo Signore ben più intimamente. Un patimento simile è la migliore delle preghiere, è la più fruttuosa delle fatiche ». Son queste parole del P. Ramière, ed il P. Ponlevoy rincalza: « La più dolce consolazione di questa vita e la più grande fortuna dell’anima nostra è certamente quella li unirci a Gesù Cristo. Ma non si può negare che v’ha ancora di meglio: ed è di conformarci alla volontà di Dio e di esser confitti in croce insieme a Gesù Cristo, o, che è la stessa cosa, attaccati a Gesù Cristo per mezzo della sua Croce ». – È nota l’ammirabile « Preghiera di Pascal per il tempo delle infermità. » In essa, meglio che altrove, si manifesta l’intenzione di trarre grande profitto dalle malattie tanto penose e così facilmente riparatrici. « Non permettete, Signore, che io possa ricordare l’anima vostra contristata fino alla morte e il vostro corpo pesto dai flagelli e dissanguato per i miei peccati senza sentirmi contento di patir qualche cosa anch’io nel mio corpo e nella mia anima. Difatti che v’ha di più vergognoso e tuttavia anche più frequente nei Cristiani e in me stesso, che mentre voi agonizzate e trasudate sangue noi viviamo tra le delizie? Liberatemi, o Signore, dalla tristezza che l’amor sregolato di me stesso mi potrebbe suggerire… ma infondete nell’anima mia una tristezza conforme alla vostra. Che i miei patimenti servano a dissipare la vostra collera… Io non vi domando né sanità, né malattia, né vita, né morte: ma che voi disponiate della mia sanità e della mia infermità, della mia vita e della mia morte per vostra gloria, per mia salvezza eterna, e per l’utilità della Chiesa e dei vostri Santi ». Degne d’esser citate a fianco della Preghiera di Pascal riferiamo alcune frasi di un’anima che pur visse nel mondo e che aveva per divisa preferita « adoratrice, riparatrice e consolatrice » : « Mio Dio, diceva Elisabetta Leseur (dal suo diario), io sono e voglio esser sempre tutta vostra nella pena e nella gioia, nell’aridità e nella consolazione, nella sanità e nella malattia, nella vita e nella morte. Io non desidero che una cosa sola: che la vostra volontà sia fatta in me e per mezzo mio. Io non ho altra mira e sempre più desidero di non averne mai altra che questa: raggiungere la vostra maggior gloria corrispondendo il meglio che posso ai vostri disegni sopra di me. Io mi offro a voi in un’intima e completa immolazione e vi supplico di servirvi di me come di un vile ed inutile strumento in favore delle anime che vi sono care per vostro servizio ». Secondo il parere di tutti gli autori ascetici le « croci » che ci vengono imposte sono le migliori, « Le migliori croci sono le più pesanti, e sono più pesanti quelle che vanno contro il nostro gusto, quelle che non sono sottoposte al nostro arbitrio: le croci che incontriamo per via. e anche meglio quelle che troviamo in casa nostra… Queste sono più utili che i cilici, le discipline, i digiuni e quante altre austerità si possano inventare. Le croci che sono oggetto di nostra scelta hanno sempre alcun che di amabile e di gradito, perché in esse c’è del nostro, quindi sono meno atte a crocifiggerci. Umiliatevi dunque e ricevete con gaudio quelle croci che vi vengono imposte contro il vostro genio ». Abbiamo riconosciuto in queste parole S. Francesco di Sales. Dobbiamo dunque conchiudere, come per lo più si fa coi Cristiani ordinari, che le penitenze volontarie sono da lasciarsi esclusivamente ai religiosi ed ai claustrali? No, certamente. Ascoltiamo a questo proposito il Card. Manning il quale dopo aver raccomandato la fedeltà alle mortificazioni raccomandate per legge dalla Chiesa come il meno che siamo tenuti a fare, aggiunge: « Andrò più innanzi. V’ha ancora ai nostri tempi chi abbia il coraggio di condurre la vita dei santi? Noi ne leggiamo la vita e li ammiriamo: conosciamo le austerità con cui si affliggevano e la povertà in cui vivevano e ne facciamo oggetto delle nostre lodi, intanto però ci sentiamo i brividi nelle ossa. Che sappiamo noi fare? Quali sono le nostre penitenze? Dov’è per noi la livrea di Gesù Cristo?… Noi cerchiamo… che il mondo ci ponga nelle file di quelli che gli appartengono. E noi ci crediamo Cristiani!». Egli parlava ai suoi compatrioti, gli inglesi, grandi amatori, come tutti sanno, del « comfort »; ma il consiglio non è inopportuno anche al di qua della Manica. Quanti Cristiani in punto di morte non dovranno rivolgere a sé stessi quello stesso rimprovero che in tempo di Esercizi Spirituali e per umiltà Paolina Reynolds (Entrata in convento tra le Carmelitane di Avranches in età di 57 anni) faceva a se stessa: « Non trovo più modo di dilatare questo povero mio cuore destinato ad esser ricolmo di vita divina. Non c’è più tempo. Avrei potuto dispormi con una più fedele corrispondenza a riceverne centomila volte più nell’eternità e non l’ho voluto fare, lo non mi sono voluta disturbare che con “misura” ». Se invece di una fedeltà qualsiasi, d’una fedeltà « dosata abilmente » ci decidessimo ad esser generosi senza alcuna misura, quale cumulo di meriti noi non potremmo versare nel tesoro della Comunione dei santi! Ecco in quale maniera, secondo l’autore della Mission du Saint-Esprit dans les àmes (Card. Manning, p. 450)), noi dovremmo riparare: « Anzitutto colla nostra prontezza nel seguire le inspirazioni dello Spirito divino, poi con una fedeltà proporzionata alla sua grazia e nella stessa misura dei suoi doni e non già con un gesto gretto nascondendo sotterra il talento ricevuto: conviene farlo fruttificare e di mille talenti riprodurne diecimila… Finalmente bisognerebbe servirlo con grande purità di cuore, e con questo intendo due cose: non soltanto l’evitare tutto quanto potrebbe macchiare il nostro cuore, ma ancora il rinunziare a tutto quello che lo potrebbe dividere… ». Come si vede non manca modo di riparare: ma una cosa manca purtroppo! E queste sono le anime che diano mano a questi diversi modi, le anime che accettino di combattere non solo contro il peccato ma contro i minuti difetti; le anime che si consacrino risolute non già a pratiche straordinarie ma al perfetto compimento dei piccoli doveri per riparare. Noi spesso sogniamo imprese impossibili. « È invece nelle piccole cose che si rivela un grande amore; per le cose grandi siamo come portati e non ne sentiamo la difficoltà, ma per le ordinarie, le meschine, le noiose è necessaria una dimenticanza di sé che supera le forze comuni » (Vallery-Radot: Le vase d’albatre, nella Revue des Jeunes del 25 settembre 1917). Mgr. De Ségur diceva colla solita sua finezza e col suo buon senso: « La nostra santificazione è come un edifizio fatto di grani di sabbia e gocce d’acqua; un’occhiata repressa, una parola trattenuta, un sorriso interrotto, una linea incompiuta, un ricordo soffocato; una lettera cara percorsa rapidamente e poi riposta; un piccolo movimento naturale coraggiosamente frenato: un importuno, un noioso dolcemente sopportato: una scappata, un ghiribizzo immediatamente compresso: la privazione di una spesa inutile; una nube di tristezza dolcemente dissipata; una gioia naturale temperata con uno sguardo all’Ospite divino del proprio cuore; una ripugnanza vinta; che so io? cose da nulla, impercettibili all’occhio degli uomini ma ammirabilmente visibili allo sguardo interiore di Gesù Cristo; su queste cose fissiamo tutta la nostra attenzione, esse sono nello stesso tempo piccolissime e grandissime fedeltà che attirano sulle anime nostre veri torrenti di grazie… ». – Oh! i poveretti che siamo noi se queste minuzie di rinunzie bastano a misurare le nostre forze. Ma questo è un fatto e nessuno che abbia provato a praticare di cotali piccole immolazioni, potrà contradire all’osservazione che l’abate Perreyve deduce dall’esperienza: « Quando si è ancor fanciulli sembra cosa del tutto facile e naturale l’essere degli eroi o dei martiri. Ma coll’avanzarsi nella vita si viene a scoprire il prezzo d’un semplice atto di virtù e Dio solo può darci la forza di esercitarlo ». Siamo dunque i fedeli operai delle umili fatiche. Chi potrà dire se durante la guerra la salvezza di più d’uno, caduto nelle trincee o mentre marciava all’assalto non fu il frutto di una povera preghiera d’una umile vecchierella che offriva i suoi dolori pel nipote lontano? Chi sa dove va a colpire durante la mischia la palla tirata dal più umile fantaccino? E non si dica: « Con che cosa e come riparare? Io sono sì miserabile; io non posso che dire col Profeta : A, a, a et nescio locui, io non posso che dare un gemito inarticolato e confessare la mia impotenza. Che potessero riparare i Santi, si comprende., ma io? ». — Voi il potete fare, così quale voi siete, colla vostra fedeltà, compensando per le vostre miserie e facendo un’opera di giustizia. Voi potete fare ancor più: per le vostre miserie lasciate fare al Signore, e i vostri meriti offriteli a Lui per compensare le colpe e i peccati altrui. Noi presi da soli per la riparazione nulla possiamo, è verissimo; ma insieme colla grazia di Dio, che non manca agli umili e ai volonterosi, siamo una forza, siamo un valore più grande di quello che possiamo immaginarci. Gesù Cristo quando tolse la fame ai cinque mila uomini nel deserto, di che si volle servire? Di soli cinque pani e due pesci. Anche allora i mezzi furono per se stessi insufficienti al fine. Per finire di convincerci di questa verità ascoltiamo ancora una « professionista » della Riparazione (Simona Denniel: Une ame réparatrice, p. 75): « Per fare un’ostia il Signore non volle servirsi dell’oro, dell’argento o di pietre preziose, ma di un misero pezzetto di pane, cosa del tutto volgare e di nessun valore ». Chi si faceva coraggio in questa maniera dimostrava pure la sua umiltà, ma per noi le sue parole sono principalmente una verità sicura che deve infonderci lena e coraggio nel praticare la riparazione.

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LO SCUDO DELLA FEDE (123)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE SECONDA

CAPO II.

La necessità dì una scuola per la vera fede.

I. Vi ha una fede al mondo? Dunque havvi parimente una scuola dov’ella insegnisi dai mortali. Altrimenti non volendo Iddio farsi a tutti, come ad alcuni, immediato maestro di verità soprannaturali, avverrebbe di leggieri nelle cose udite quello che avviene nell’udito medesimo, che tra i sensi è il più difficile a perfezionarsi, ed è il più facile a perdersi (Arist. Probl., sec. 11. n . 11). 0 non si conseguirebbe mai la dottrina celeste, o si perderebbe di breve per lo mescolamento di vari errori su lei trascorsi. E pure chi può dire quanto rilevi serbarla intatta? Senza di essa qualunque scienza è una totale ignoranza: Et si quis erit consummatus inter filios hominum, si ab illo abfuerit sapientia tua, Domine, in nihilum computabitur (Se anche uno fosse il più perfetto tra gli uomini, mancandogli la tua sapienza, sarebbe stimato un nulla.- Sap. VIII. 6). Ora questa scuola, con termine più usuale è detta Chiesa: e quei che apprendono in essa la verità sono intitolati fedeli, tanto più scelti, quanto più disposti ad apprenderla facilmente: Erunt omnes docibiles Dei (Iob. VI. 45). E perché il maestro primario di questa scuola è l’istesso Dio, conviene che ella abbia in sé di legittima conseguenza questi tre pregi: che sia antichissima di tempo: infallibilissima d’insegnamenti: apertissima a chi che sia che desideri quivi luogo.

I.

II. E primieramente, antichissima ella è di tempo. Il paradiso terrestre, avanti ch’egli servisse, con una specie di antiperistasi tormentosa a rincrudelire le nostre piaghe, qual più nobile uso ebbe in terra, che l’essere la prima scuola apertasi dall’Altissimo per addottrinare in Adamo tutti i mortali? Non prima Adamo ebbe l’essere, che comparvegli quivi Dio a manifestargli i suoi disegni segreti, fermando quasi con esso lui questo patto da tramandarsi a’ suoi posteri: Che Dio all’uomo desse l’aiuto della sua grazia bastevole ad operare, e la rimunerazione della sua gloria: l’uomo a Dio rendesse vicendevolmente l’ossequio del culto impostogli, e l’ubbidienza alle leggi che a tempo a tempo ne venisse a ricevere. Tale fu la prima lezione necessarissima. Altrimenti come avrebbe l’uomo potuto mai indovinare quelle verità che sono sopra di lui, e singolarmente la norma di una religione vera e valevole, se Dio stesso non gliele avesse amorevolmente date a sapere? Può forse vedersi il sole, senza il sole medesimo che apparisca, o possono scoprirsi i suoi raggi, senza che la sua luce benefica sia la prima, la quale venga ad incontrar le pupille di lei mancanti?

III. E quindi e l’antichità della fede (L’uomo primo fu creato intelligente e credente ad un tempo, ed il suo Creatore gli apparve insiememente oggetto della sua intelligenza e della sua fede, nel duplice ordine della ragione e della rivelazione, della natura e della grazia) che, coetanea del mondo, nacque con esso ad un parto: in quanto Quegli che fu il creator delle cose, con fabbricar l’universo, intese di fabbricare ancora un liceo, dov’Egli fosse maestro di verità: non potendo avvenir di meno, che se la sua somma bontà lo aveva indotto a formare l’uomo, così la sua somma sapienza non lo inducesse ancora ad ammaestrarlo. Tanto è vaga la sapienza di diffondere se medesima, quanto ne sia la bontà. Onde, siccome a questa par che disdica lo starsene sempre oziosa, senza operare mai nulla in altrui servizio; così a quella par che disdica lo starsene sempre muta senza dir nulla.

IV. È dunque un discorrere da ignorante distinguere tre vere religioni, corrispondenti alle tre leggi di natura, di Mosè, del Vangelo. Un medesimo sole non può mai fare, salvo che un medesimo giorno, quantunque in esso distinguansi rettamente i chiarori dell’alba dagli splendori del sol nascente, e gli splendori del sol nascente dalla luce perfetta del mezzodì.

V. Dopo le tenebre della prima colpa sorsero quei crepuscoli fortunati della promessa di un redentore, ristoratore a suo tempo delle umane rovine, e ristoratore vantaggiosissimo: nella fede di cui si compiacque Dio che Adamo rimanesse giustificato dalla sua colpa, conforme a quello: Eduxit illum a delicto suo (Sap. X. 2). E il credere in questo Redentore il desiderarlo, il domandarlo, il valersi de’ suoi meriti con offerta sì anticipata a salute propria, fu la religione de’ primi secoli.

VI. Seguì Mosè con bell’ordine di profeti, i quali, a guisa degli altissimi monti, scorgendo dalle lor vette i primi raggi del venturo Messia, prima che egli spuntato al nostro emispero si facesse universalmente vedere anche ai piani bassi della gente più comunale, l’additarono con l’ombra delle figure e con l’oscurità delle forme, come si fa nel favellar delle cose che son da lungi.

VII. Finalmente giunta la pienezza de’ tempi comparve il Redentore stesso in persona, compiendo tutti i presagi e tutte le promesse del suo venire, fece di chiaro, e colmò tutto il mondo a un’ora di luce (Così Cristo appare l’alfa e l’omega della vera religione, la pienezza dei tempi, il centro in cui s’appunta ogni “ubi”, ed ogni quando della credente umanità: Ipso res. Quæ nunc religio Christiana nuncupatur, erat et apud antiquos, dice sant’Agostino (L. 1. Retr., c. 12): Nec defiut uti ab initio generis humani, quousque ipse veniret in carne; unde vera religio, quæ itimi erat, cœpit appellavi Christiana. Ecco dunque dal principio de’ secoli sino ad oggi una medesima religione insegnata da un sol maestro. Ecco una medesima verità, ma sempre più dichiarata: ecco una medesima scuola, ma sempre più alta (S. Th. 2. 2. q. 1. art. 7). La distinzione è solo ne’ tempi, nella dottrina è la connessione: Divina eloquia, etiamsi temporibus distincta. sunt tamen sensibus unita. Così anche egli il pontefice s. Gregorio ce lo conferma (In Ezech. hom. 6).

II.

VIII. Che poi questa scuola sia nelle sue dottrine infallibile, non sarà punto malagevole a credere, se si miri, che per maestro ell’ha Dio: Ponam universos filios tuos doctos a Domino (Is. LIV, 13). Pertanto la sapienza di tutte le scuole aperte dai Platoni, dai Socrati, dai Senofonti, dagli Aristoteli e da qualunque altro sia de’ savi terreni, è sottoposta ad errare. L’acque loro sono come l’acque che scorrono sulla terra: tutte però capaci d’intorbidarsi. Ma la sapienza di sì nobile scuola, qual è la chiesa, non erra mai. Le sue acque sono come l’acque riposte sul firmamento, tutte purissime, come son purissimi i cieli dove hanno il letto: Principium verborum tuoruni veritas (Ps. XVIII). La prima Verità, non soggetta né a macchinare inganno né a riportarlo, è il fondamento di ciò che insegna la Chiesa: e però come volete che ella sia soggetta ad errore? Questo è quel padiglione fortunatissimo dove Dio per gran sorte nostra promette di custodirci dalle contraddizioni delle varie lingue che ci assaliscono a guisa di tanti dardi: Protege eos in tabernaculo tuo a contradictione linguarum. I maestri della terra ci pongono tutto in lite, fino se ci moviamo, come Zenone; e fino se vegliamo o se vaneggiamo in guisa di addormentati, come gli scettici. E quel che è più, non fanno altro che dirci cose contrarie, senza convenire neppure in un punto massimo, qual è quel dell’ultimo fine. Chi potrà pertanto sperare d’imparar mai nulla di vero fra le contraddizioni di tante lingue? (Come al di sopra della molteplicità delle dissi leali e fallaci sette filosofiche sta immutabile e sempre vero il lume di ragione, fonte del senso comune, cosi sopra delle molteplici ed erronee religioni umane sta la vera religione, figlia del cielo, e madre della retta umanità). Eccovi chi, ripiglia sant’Agostino. Chiunque se n’entri in questa scuola autorevole della chiesa, dove Dio parla, e ponga mente a ciò che si approvi in essa, o che si ripruovi: Diversæ doctrinæ personant, d.iversæ hæreses oriuntur. Curre ad tabernaculum Dei, id est ccclesiam catholicam, ibi protegeris a contradictione linguarum (S. Aug. conc. 1. in Ps. XXIX).

IX. Ha poscia Iddio, per giunta de’ suoi favori, dato a questa scuola un tal libro, presso cui gli altri libri possano dirsi tante fiaccole spente, se alla fiamma di quello non piglian lume. Tal è la divina scrittura, compresa ne’ due testamenti, vecchio e nuovo, che si riguardano insieme, come i due cherubini su l’istess’arca. concorrendo ambo d’accordo a beneficarci. Mentre noi diveniamo dal vecchio dotti, dal nuovo anche doviziosi. Erudimur prædictis. et ditamur impletis (S. Leo ser. 11): possedendo in virtù del nuovo, ciò che in virtù del vecchio ci fu annunziato. Leggansi ambedue di proposito: e si vedrà, che il testamento vecchio promette il nuovo, il testamento nuovo dichiara il vecchio (S. Greg. hom. 6. in Ez.).

X. So non esser mancati, singolarmente tra’ maomettani, certi uomini di mezza testa, che questo divin volume hanno detto di ripudiare, perché egli falsificato da’ Cristiani, non sia più quello (Chi dice falsificato col tempo il divino volume, suppone di necessità, che esso fosse verace e degno di fede nella sua prima origine; e per di più deve riconoscerne anche di presente l’esistenza, a fine di paragonarne il vero col falsificato): ma sia quel rio che dal lungo correre l’atto sopra la terra abbia a poco a poco perduta la limpidezza donata a lui dalla vena.

XI. Ma io dico in prima, secondo tutte le leggi (Bal. in rub. de fide instrum.), che per togliere fede ad un istrumento ricevuto per vero da lungo tempo, non basta l’asserire animosamente che sia falsato, convien provarlo. Potranno gli avversari provare ne’ libri sacri il falsificamento da loro opposto? Su quali autori lo fondano? su che testi? Su che tradizioni, o di qual maniera possono i meschini affermar che egli succedesse?

XII. Anzi, ripiglio io, che da’ nostri non solamente non è stato adulterato mai questo libro dalla prima sua dettatura, ma che nemmeno era possibile adulterarlo.

XIII. Pruovo che non fu adulterato: altrimenti quella parte in cui fosse avvenuto un tale adulteramento non corrisponderebbe più con l’altre, come era innanzi, ma ne discorderebbe. E pure tutte le corde di un istrumento, il più armonico che si trovi, non concordano mai tra sé tanto giustamente, quanto giustamente concordano tutte le pagine e tutte le proposizioni di questo gran volume, puro affatto da ogni contraddizione, benché lievissima: di modo che questo solo argomento dovria bastare a qualunque sano intelletto. Per fargli credere, che se de’ vari libri, onde vien formata la bibbia sacra, furon diversi i secoli e gli scrittori, l’autore nondimeno ne fu sempre uno, cioè Colui che è sopra tutti i tempi o tutte le teste, né mai si muta.

XIV. Pruovo che non fu né anche possibile adulterarlo: attesoché gli esemplari, tanto del vecchio testamento, quanto del nuovo, furono fin dai principii della Chiesa divulgati per tutto il mondo, per l’Europa, per l’Asia, per l’Africa, e in ogni parte allor conosciuta. Furono trasportati in tutte 1e lingue, nella caldaica, nella greca, nella latina, nell’arabica, nell’armena, nell’etiopica, nella schiavona. nella siriaca. Furono del continuo letti pubblicamente, nelle occasioni che i Cristiani concorrevano insieme alle lor vigilie devote, a stazioni, a salmeggiamenti. Come sarebbe però potuto riuscire, né ad un uomo privato, né ad una setta falsificare tutte le copie di ciò ch’era in man di tanti?Non fiorirono sempre tra’ Cristiani uomini eminentissimi, che non avrebbero mai, come dotti ignorato un tale adulteramento, né mai, come zelanti dissimulatolo? per non ricorrere ora alla provvidenza, la quale, se in tante vicende di questo basso mondo non ha lasciato mai perire una specie di creature, per minima ch’ella fosse, come poteva lasciar perire la verità di quei libri, nei quali ella ci aveva dettata di bocca propria la via che dovevamo tenere nel venerare il nostro padron Sovrano sopra la terra, e nell’incamminarci a goderlo in cielo? Possiamo noi sospettare, ch’ella sia vaga di un culto falsificato, e che s’ella è curante de’ nostri affari minori, trascuri il sommo, sino al permettere che tante migliaia di persone piissime, le quali giorno e notte meditano la legge divina attentissimamente su questo libro, abbiano ad abbracciare una vana larva, invece di una solida verità? Non possono queste cose cadere in capo, se non a chi vi falsifichi il suo cervello, per poter con più libertà tener chi gli piace in conto di falsatore (Che non fosse possibile adulterare il divino volume, io ne scorgo un nuovo argomento in questo che Dio non può fallire al suo scopo provvidenziale: e fallito avrebbe, se, dopo di avere largito all’uomo il libro delle verità religiose, avesse poi permesso, che venisse adulterato a segno da non potersi più riconoscere la sua divina impronta).

XV. Ma ciò che ha più da stimarsi, è che Iddio insieme col libro ha data alla sua Chiesa la mente sì per intenderlo e sì per interpretarlo. Altrimenti a che gioverebbe quello, senonché a rendere gli errori più perniciosi? Come non v’è cicuta la più nocevole di quella che si beve nella malvagia; così non vi sarebbe inganno più pestilente di quello che si bevesse nella parola divina intesa a capriccio. E pure chi può dire per altro quanto sia facile, ora il cavar da esso gli errori, ora il confermarli, all’usanza di tanti eretici abusatori del sacro testo, sol perché ciascuno si arroga una stessa miniera si cava e terra e metallo e medicamenti e veleni. Ora su questo affare è così protetta e così privilegiata da Dio la Chiesa, che un Agostino protestò ad alta voce che non crederebbe neppure al Vangelo stesso, se l’autorità della Chiesa Cattolica non fosse quella che glielo porgesse in mano, con accertarlo, che quella è dettatura di Dio. Ego evangelio non crederem, nisi me catholicæ ecclesiæ eommoveret auctoritas (Cont. ep. fond. c. 5. 6). E perché ciò, se non perché ad essa da Dio fu conferito lo spirito necessario a discerner bene qual sia la parola di Dio, e quale non sia? Per questa prerogativa si mostra ella degna del titolo più sublime di cui l’ornò l’Apostolo, ove chiamolla colonna e fermamento di verità: Ecclesia Dei vivi, columna et firmamentum veritatis (1. Tim. III. 13. s. Th. ib.) Colonna per la saldezza ch’ella ha in se stessa: fermamento per lo sostegno che dà ad altrui. Non è adunque la interpretazione delle scritture quella che rende ferma la Chiesa, ma è la Chiesa quella che rende ferma la interpretazione delle scritture, come non è l’edifizio quello che rende stabile la colonna, ma la colonna quella che rende stabile l’edifizio. Né da ciò ne vien che la Chiesa si arroghi superbamente d’esser da più delle scritture divine (come i suoi calunniatori tentarono fin di apporle), ma d’ essere bensì da più di quegli uomini particolari e privati, i quali espongono le scritture divine.

III.

XVI. E pur tutti questi pregi sarebbero, per dir così, un tesoro nascosto, e conseguentemente di nessun prò, so con essi non andasse congiunto l’essere questa scuola una scuola pubblica che sta sempre aperta a ciascuno. Se ella fosse scuola ignota, o invisibile, ne seguirebbero que’ medesimi sconci i quali avverrebbero, se o non fosse al mondo questa comunanza di uomini da Dio retta con certezza infallibile nel suo culto; o se, essendovi, non fosse discernevole agevolmente dalle altre comunanze che non son tali. Rileverebbe per ventura gran fatto, che non mancasse al mondo il vero sentiero dì andare a Dio, quando questo fosse sì inospito o sì intralciato, che non si potesse discernere dai sentieri al tutto contrari? In tal caso quella provvidenza medesima che si stende a fornire i vermicciuoli più vili di conoscimento bastevole a rintracciare con sicurezza i mezzi proporzionati a trovar i lor cari pascoli, avrebbe poi lasciati gli uomini in una ragionevole dubbietà di ciò che sia d’uopo al conseguimento del loro ultimo fine. Proposizione che da nessuna bocca può vomitarsi senza appestar tutta l’aria. Il che per più forte ragione hanno da concedere ancora lo tanto sette de’ Cristiani, che, o per l’eresie o per lo scisma, si son divise dalla comunione cattolica. Conciossiaché, avendo il Figliuolo di Dio comandato sì espressamente a’ propri seguaci, che ne’ loro dubbi faccian ricorso alla chiesa, die ecclesiæ, sotto pena che sia contato tra gl’infedeli chi contumace ricusi di accertarne le decisioni: Si ecclesiam non audierit. sit tibi sicut ethnicus et publicanus (Matt. XVIII); qual dubbio c’è che evidentemente si debba poter discernere quale sia questa Chiesa ornata da Dio di tanto incontrastabile autorità? da che più d’una (come sopra mostrammo) non può mai essere: onde chi da lei si diparte, non può non perdersi, quasi fuori dell’arca, in un generale diluvio che non ha scampo.

XVII. Oltre a che, se tutti i Cristiani hanno un precetto sì rigoroso di amarsi scambievolmente, con un amore più nobile e più notabile di quello che regni in altri: In hoc cognoscent omnes, quia discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad invicem (Io. XIII, 35): come potrebbero essi adempire sì bel precetto, se non si distinguessero apertamente i fratelli dagli inimici, i fedeli dagli increduli, e i confederati dagli stranieri?

XVIII. Finalmente questa Chiesa, che in riguardo agli uomini è scuola di verità, in riguardo a Cristo è suo regno. E però quale onore, o quale ossequio ritrarrebbe egli mai da questo suo dominio sopra la terra, se fosse, dirò così, una terra incognita, e non avesse altri vassalli, che alcuni uomini, o smarriti o sepolti? Infino la sinagoga da lui distrutta lo potrebbe insultare di miserabile, con dimostrarsi ella più nota nelle sue sconfitte medesime che non sarebbe il reame di Cristo nei suoi trionfi.

XIX. Però la Chiesa non è invisibile ad altri, che a chi (come disse sant’Agostino) vuol chiudere apposta gli occhi per non vederla: Hanc ignorare nulli licet (Tr. 2. in ep. Io). E Chiesa? Dunque è congregazione, mentre tal è la forza del suo vocabolo. E s’ella è congregazione, come almanco non è ella visibile ai congregati? Né poteva da Cristo venire paragonata, or ad aia, or a cena, or a convito, ora greggia, se uno che è quivi non sapesse nulla dell’altro. Che più? Non è ella quella città, non posta al piano, ma posta sulla montagna? Civitas super montem posita (Is. XVI. 18). Adunque non solo è nota a chi dentro v’abita, ma ancora a chi ne sta fuori. Ben ha da stimarsi cieco chi non arriva a scorgerla fin da lungi. Tanto più che Isaia la chiamò la città del sole, civitas solis vocabitur; e però niun potrà dire che non la scorse, perché egli si abbatté a passarvi di notte.

IV.

XX. Tale adunque è la scuola, maestra di fede alle genti, antichissima di tempo, infallibilissima negl’insegnamenti, apertissima a chi brami di entrarvi qual suo scolaro. Solo qui si vuole avvertire, com’ella ha una porta bassa per cui non è permessa l’entrata che a capo chino (Qui ci soccorrono alla mente quei versi manzoniani del Cinque maggio: » Che più superba altezza » Al disonor del Golgota » Giammai non si chinò). Certe menti orgogliose non v’hanno luogo: Non est fides ruperborum, sed humilium (S. Aug. ser. 36. de verb. Dom.). Iddio è un sole, ma non già un sole simile al materiale, il quale illumina di necessità da per tutto: Sol iliuminans per omnia (Eccli. 42. 15): né è mai padrone di ritirare i suoi raggi quando a lui piaccia. E sol volontario, che se diffonde la luce, la diffonde per elezione. Onde, invece d’illustrar maggiormente le cime più rilevate, ritira da esse i suoi splendori ad un tratto e le lascia nelle tenebre folte da loro elette. Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam (Iac. 1. 21).

L’IDEA RIPARATRICE (6)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (6)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO II

Chi deve riparare?

CAPO TERZO

IL SACERDOZIO E LA RIPARAZIONE.

Nell’annunciare un volume di Lettres des Prètres aux armées. G. Goyau definisce la S. Messa « il più grande avvenimento della Storia umana ». poi soggiunse: « Ogni giorno il Sacerdote introduce nei destini della famiglia umana l’azione efficace del Dio Redentore: con un gesto sovrano fa entrare nella trama dei nostri peccati quotidiani il riscatto divino: al disopra del caos delle colpe pubbliche e delle colpe private egli solleva in alto la vittima di espiazione. Per alcuni, e diciamo pure per molti, questo compenetrarsi della storia umana per mezzo del moltiplicato sacrifizio di un Dio — moltiplicato e nello stesso tempo sempre unico — non è che una cerimonia priva di valore. Eppure sotto i loro occhi per opera del sacerdote si ripete l’ora decisiva in cui il genere umano, tutto insieme peccatore e giustamente diseredato, fu d’un tratto rimesso sulla via della pienezza della vita soprannaturale per mezzo di due portenti inauditi: l’Incarnazione e la Redenzione. « Operaio scelto da Dio per continuare attraverso ai secoli questi stessi portenti, il Sacerdote non si lascerà distogliere, avvengano pure le più rovinose catastrofi, da un tale impegno, il quale dal giorno della sua ordinazione si è come identificato colla stessa vita dell’anima sua per l’eternità ». Non si saprebbero condensare in più breve giro di parole la grandezza e la responsabilità del sacerdozio. Che fa il Sacerdote? Egli continua la vita di Gesù Cristo. Orbene Gesù Cristo .è venuto sulla terra per dare al Padre in se stesso un Pontefice, un Sacerdote capace di adorare e di espiare in modo conveniente. Il Sacerdote, destinato a continuare Gesù sulla terra, dovrà imitarlo offrendosi con Lui in testimonianza di adorazione e di espiazione. Come è consecrante con Gesù, il Sacerdote sarà anche « ostia » con Gesù. Egli non comprende che la metà del suo ministero se, mentre accetta la parte attiva di distributore del Corpo SS., della parola e del perdono di Gesù Cristo non accetta pure insieme la parte passiva di vittima del suo Maestro, di Colui di cui fa le veci e perpetua le funzioni. In tutto il tempo di sua vita quaggiù il divin Salvatore fu « ostia ». Non contento, volle, prima di morire, prolungare il suo sacrifizio, e nell’ultima Cena ne diede l’incarico ed il potere all’uomo. Così noi abbiamo la Messa che riproduce con rito incruento l’immolazione cruenta del Calvario. Sul Golgota Gesù Cristo, sospeso tra cielo e terra, faceva da schermo tra la giustizia di Dio e il peccato dell’uomo. E la sua mediazione era accetta al Padre per causa delle sue piaghe aperte e del suo sangue sparso. Nella Messa Gesù Cristo, posto sull’altare tra cielo e terra, ancora una volta fa da schermo tra la giustizia di Dio e il peccato dell’uomo: ciascuna « elevazione » compensa per le molte nostre bassezze, per le nostre cadute nel peccato e questo perché  la medesima virtù del sangue e delle piaghe divine estende la sua efficacia attraverso ai tempi; non vi hanno due sacrifizi, ma quello stesso della Croce che si manifesta in maniera diversa. Su questo punto le parole del Concilio di Trento sono chiare (La stessa vittima e lo stesso offerente ora per ministero dei sacerdoti, Colui che offrì se stesso in Croce, ma il modo di offrirsi è diverso (Conc. Trid., Sess. XXII, c, 2 –  Nel divin sacrifizio della Messa è presente lo stesso Cristo e viene immolato in modo incruento Colui che in Croce si offrì in modo cruento (ibid). – Non è nostro compito lo svolgere questa tesi e tantomeno l’entrare in discussioni teologiche sulla maniera di spiegare l’immolazione mistica. Nessuno meglio di Bossuet – Meditaz. sul Vangelo, la parte, « La Cena » – presenta quanto dobbiamo sapere su questo punto. Altri si potrà servire anche dei Metodi e formole per ben ascoltare la S. Messa, che ha scritto l’autore della Pratica progressiva della Confessione. Potremmo citare dei trattati speciali, ci basti indicare come eccellenti: CONDREN, Le Sacerdoce et le Sacrifice de Jéau-Christ. — GIRAUD, Jesus Prétre et victime é Prètre et Hostie. Non è questa tuttavia una bibliografia completa. ma la citazione di qualche opera di polso che non si può ignorare del tutto senza inconveniente. – opere di prossima pubblicazione tradotte sul blog – ndr. -): Quanti purtroppo assistono alla Messa senza dar segno di pur sospettare un così adorabile mistero! Quanti, se pregano, si valgono di formole adatte a tutt’altra circostanza. Quanti sanno a memoria le parole: « Santo Sacrifizio della Messa » , ma non comprendono a quale realtà precisa e terribile esse corrispondono. Si cita il caso di quel buon contadino che durante la Messa della domenica se ne stava colle spalle volte all’altare pregando ai piedi d’un gran Crocifisso di un’antica Missione collocato ad un pilastro. Un cotale gli fece osservare che il Signore era presente sull’altare, si voltasse per adorarlo: ed egli rispose tranquillamente: « Il vostro Signore sarà come voi dite sull’altare, il mio eccolo qui », e indicò il Crocifisso. Ignoranza più comune di quanto si creda. Ma di quelli stessi che credono fermamente l’identità del sacrifizio dell’altare con quello della Croce, non tutti conoscono il preciso loro dovere di offrire se stessi insieme coll’ostia santa che si offre a Dio. Se vogliono assistere alla Messa secondo lo spirito della Chiesa e l’intenzione di Nostro Signore. – Eppure questa necessità di unire nella S. Messa la propria all’immolazione del divin Salvatore è provata da molti argomenti: dalla nozione stessa di sacrifizio e dall’uso fattone fin dai tempi più antichi; dalla tradizione cattolica fin dalle origini; dalla dottrina comune dei SS. Padri sull’Eucaristia; dalla liturgia della Messa; da certi riti particolari, come dalla composizione delle specie sacramentali… ecc…. Per quanto andiamo indietro nella storia del Sacrifizio, si trova sempre che la vittima sostituisce quelli che assistono alla sua distruzione per esprimere a Dio i loro sentimenti di adorazione e di riparazione. Questa sostituzione diventerebbe un atto farisaico e puramente materiale quando per mezzo del Sacerdote e insieme con lui i fedeli non offrissero a Dio l’omaggio della loro religione e del loro pentimento, omaggio di cui nell’immolazione dell’Ostia abbiamo come un simbolo. Nell’antica Legge ciascuno posava la mano sulla vittima per dimostrare che si univa ad essa. La stessa cosa fa al presente il Sacerdote quando prega colle parole: « Noi vi scongiuriamo, Signore, ricevete quest’oblazione della nostra servitù e di tutta la vostra famiglia » (« Oblationem servitutis nostræ sed et cunctæ familiæ tuæ ». Molte preghiere della Messa esprimonol’unione del Sacerdote e dei fedeli con Nostro Signore — delle piccole ostie colla Grande. — servi tui sed et plebs tua. Noi tuoi servi e tutto il tuo popolo ..). Nei primi tempi del Cristianesimo ciascun fedele presentava la sua offerta, una parte del pane e del vino che doveva esser consacrato simbolo della sua partecipazione spirituale al S. Sacrifizio. Per formare le oblata — notano i Santi Padri — fa d’uopo unire insieme molti chicchi di grano e molti acini d’uva: questo prova che tutti i fedeli riuniti in un solo corpo si debbono offrire a Dio. Sempre la stessa dottrina veramente magnifica e fondamentale: Gesù Cristo non è « completo » se non unito al suo corpo mistico; la sua oblazione non sarà intera che per l’unione della nostra alla sua. Bossuet nella sua Exposition de la doctrine catholique, libro scritto per i protestanti, così spiega il modo con cui i fedeli assistono alla Santa Messa: « Presentando Gesù Cristo a Dio noi impariamo nello stesso tempo ad offrire noi stessi alla Maestà divina, in Lui e per mezzo di Lui quasi altrettante ostie viventi ». E S. Agostino: « Nell’offerta che la Chiesa fa al Signore del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, essa offre ed immola se stessa… Il vero sacrifizio del Cristiano consiste nel non fare che un corpo solo in Gesù Cristo » (De Civ. Dei, 1. 10, c. 6). Ahimè! Troppo spesso i fedeli son ben lontani da questo ideale che pur dovrebbe esser la regola comune. La regola comune per ogni Cristiano, quanto più per ogni Sacerdote! « Che bello spettacolo presenterebbe la Chiesa se tutti i Cristiani — e noi aggiungiamo: se tutti i Sacerdoti — comprendessero così la legge del proprio Sacrifizio! Tutti intorno a Gesù, che si posa come morto sull’altare, i Cristiani spiritualmente immolati dovrebbero formare una sola Ostia di adorazione riparatrice. Fate, o mio Dio, che così sia di noi tutti; dateci di esser delle ostie immolate con Gesù-Eucaristia » (GRIMAL: Le sacerdoce et le Sacrifice de Jesus-Christ. p. 277. Libro utilissimo ai sacerdoti per comprendere la necessità che hanno di vivere come «Ostie ». Noi l’abbiamo consultato spesso nello scrivere il presente capitolo.). Un Sacerdote che comprenda appieno la Messa che celebra e per così dire la viva integralmente, tutto opera colla sua « Ostia » e nulla senza essere unito ad Essa. Per Ipsum et cum Ipso et in Ipso. Tutto per per mezzo di Gesù « Ostia » , insieme con Gesù « Ostia », in Gesù « Ostia » . Vivere senza esser crocifisso dovrebbe essere per lui una contraddizione. Victima Sacerdotii

sui et sacerdos suæ victimæ, diceva San Paolino: « Vittima del proprio Sacerdozio e sacerdote della propria vittima ». Certo, debole e fiacco, avrà sovente delle manchevolezze, ma il suo ideale sarà questo: Esser l’uomo del Santo Sacrifizio, l’uomo del Sacrifizio. – La sorella di Mgr. d’Hulst, dietro ad una immagine che gli mandava in occasione dei suo suddiaconato, aveva scritto: « Non essere mai Sacerdote senza essere ostia » . — Bel motto che fa per noi tutti. Non soltanto la vera e completa intelligenza della S. Messa dovrebbe condurre naturalmente ogni fedele — e a più forte ragione ogni Sacerdote — ad offrirsi a Dio in immolazione ogni qual volta gli è concesso assistere al divin Sacrifizio o celebrare, ma anche la vera e completa intelligenza della S. Comunione dovrebbe spingere ugualmente ogni fedele — e a più forte ragione ogni Sacerdote — ad una offerta analoga ogni volta che ha la buona sorte di ricevere Gesù « Ostia ». Possiamo considerare la S. Comunione sotto due aspetti, ambedue essenziali, ambedue dogmatici, che possono ad ugual misura influire nella pietà cristiana: la Comunione, incorporazione alla vita di Nostro Signore; la Comunione, incorporazione alla sua morte. Praticamente però, questi due diversi aspetti della Comunione non trovano nelle anime uguale accoglienza. Quanti si accostano alla S. Comunione conoscono e vi cercano l’unione colla vita del Salvatore. Forse pochi conoscono e vi cercano la partecipazione al suo Sacrifizio, alla sua immolazione, alla sua morte, che pure è il tema obbligato della predicazione eucaristica di S. Paolo. « Poiché la morte di Gesù è sempre presente nell’Eucaristia — dice Bossuet (Meditazioni sul Vangelo, ll parte, «La Cena», 46° giorno.) — l’impressione della morte di Gesù Cristo dev’essere sentita in ogni fedele che deve rendersi vittima anch’esso ad imitazione del Figliuolo di Dio. Questa è la virtù della Croce, virtù sempre vivente nell’Eucaristia ». « Non dimenticate — scriveva S. Paolo ai Corinti — che nel comunicarvi voi “annunziate la morte del Signore ” ( I Cor., XI). Voi dovete dunque, tale è la mente di S. Paolo, unirvi alla sua immolazione, comunicare colla sua morte » (Id., ibid., 19° giorno). La stessa dottrina troviamo neWImitazione di Cristo (lib. IV, c. 8): « Nella stessa maniera che io mi sono offerto spontaneamente al Padre pei suoi peccati, le mani stese sulla Croce e il corpo tutto impiagato, nulla risparmiando che mi appartenesse, ma tutto offrendo in sacrifizio per la divina riconciliazione, così anche tu devi spontaneamente offrire te stesso a me in oblazione pura e santa, ogni giorno nella S. Messa, quanto più intimamente puoi con tutte le tue forze e con tutti gli affetti tuoi ». S. Paolo dice ancora: « Quelli che mangiano le carni immolate forse che non partecipano al Sacrifizio? » ( I Cor.. X, 18). Parole che non si possono comprendere che ricordando i riti e il simbolismo dei sacrifizi offerti nel tempio di Gerusalemme. Mangiare delle carni offerte voleva dire collocare se stessi sull’altare e domandare di esser considerati come parte della vittima: e questo sapevano benissimo i Corinti. Sempre il cibarsi dell’oblazione fatta fu considerato come una intima unione con la stessa oblazione. L’Apostolo quindi colle sue parole altro non fa che ricordare come nella nuova legge si continua lo spirito dell’antica, e l’effetto della nostra partecipazione all’« Ostia » è ancor sempre di unirci strettamente al Cristo immolato, di metterci in « comunione » con Lui. Comunione vuol dire appunto unirsi, diventare una cosa sola con l’Ostia — quindi offrirsi in ispirito con essa — dunque « offrire la propria carne ad esser crocifissa coi suoi vizi e colle sue concupiscenze » (Gal., V, 24), abbandonare nelle mani di Nostro Signore la propria vita, le fatiche, le pene, le preghiere affinché Egli le pervada tutte dello spirito di sacrifizio. Al IV secolo era di consuetudine, appena comunicati, di posar il dito sulle labbra ancor umide del Preziosissimo Sangue e segnarsi poi con esso sugli occhi, sulla fronte e sulla bocca. Al contatto dell’Ostia impariamo ancor noi a purificare e santificare le nostre affezioni e i nostri pensieri, il nostro cuore e i neutri occhi, tutte le nostre membra, tutta l’anima nostra e imporci a questo fine i sacrifizi necessari. – « Voler ricavare profitto dal S. Sacrifizio  nella S. Comunione senza fare dei sacrifizi, volerci divinizzare per mezzo dell’Ostia senza immolarci con Essa. è pretendere di vivere come “parassita dell’Altare”. è cercare la salvezza fuori della Croce » (GRIMAL: Ibid., pag. 329). La Comunione ben intesa non è soltanto divinizzante, ma deve esser pure immolante. anzi perché divinizzi conviene che immoli. – L a Comunione ben intesa non è soltanto un tesoro che ci viene dato, non consiste solo nel ricevere un’ostia, ma anche nell’offrire, nel darne un’altra. Non si può ricevere degnamente la Vittima dell’altare se non a condizione che noi pure ci offriamo sull’altare come vittima in ispirito di adorazione e di espiazione (« La doppia funzione dei fedeli alla S. Messa, li costituisce offerenti e offerti nello stesso tempo, è così vera che la liturgia del S. Sacrifizio non si può intendere altrimenti, se non vogliamo avere delle contraddizioni in termini » . DOM VANDEUR O. S. B., La Sainte Messe,  p. 135). Mgr. Batiffol ha lasciato scritto: « Il concetto di S. Paolo della comunione al Sacrifizio è destinato a rimaner sempre oscuro per la pietà cristiana, la quale sarà sempre più attirata dal concetto di S. Giovanni: che cioè la S. Comunione è una partecipazione alla vita divina » . Noi non crediamo questo giudizio definitivo, anzi vogliamo sperare invece che quando ciascun Sacerdote sarà meglio penetrato egli stesso della dottrina di S. Paolo sulla « Comunione che immola » , egli si troverà in grado di insegnare pure ai fedeli la necessità in cui sono di offrirsi con Gesù in Sacrifizio ogni volta che si accostano a riceverlo nell’Ostia santa. È un fatto che le anime riparatrici sono in piccolo numero: esse si moltiplicheranno certamente quando molti siano i Sacerdoti che posseggono a fondo la dottrina della Riparazione. Come possono sapere i semplici fedeli se coloro che li istruiscono non sanno, o se possedendo in teoria la grande idea paolina sulla comunione o partecipazione al Sacrifizio di Gesù Cristo, essi poi in pratica non la vivono e non si danno attorno con tutte le loro forze per farla vivere nel gregge di Cristo? Molto a proposito dice l’autore di Sacerdoce et Sacrifice de Jésus-Christ: « Lo spirito di sacrifizio è la grande lezione che cidà l’Ostia. L’Eucaristia riproduce la Croce…L’effetto immediato e necessario dellaS. Comunione è unirci all’’Ostia come tale,cioè a Gesù che è immolato e che immola.« Riceve la S. Comunione con vero spirito chi vede nell’Ostia Gesù Crocifisso ed entra nelle sue intenzioni di Ostia. Chi non si comunica con questo spirito di sacrifizio, benché sia in istato di grazia e provi certi sentimenti di divozione, si potrebbe dire che non si comunica che per metà (Si noti il « si potrebbe dire ». Non intendiamo affatto negare il valore dell’opus operatum). Egli non comprende che voglia dire Ostia, forse perché nelle spiegazioni, che gliene vennero fatte, troppo si è indugiato sulla virtù eucaristica secondaria o metaforica a danno di quanto v’ha di più importante. Egli non scorge sui nostri altari sempre presente e operante la Croce, forse perché  chi doveva farlo non gliel’ha mostrata coll’insistenza dovuta ». E poi continua: Nella nostra predicazione eucaristica noi avremo di mira sovratutto il far vedere sui nostri altari il Memoriale vivente della Morte di Nostro Signore per istillare nelle anime questo spirito d’immolazione che le renderà Ostie insieme con Gesù nella loro vita quotidiana… (Grimal, ibid. p. 357). Non temiamo d’incorrere nel rimprovero di troppo insistere sul lato doloroso del Cristianesimo, di presentare tanto la Passione di Nostro Signore, quanto la vita e la morte di ogni Cristiano come un’immolazione espiatrice. Potremmo noi fare altrimenti… attenuare o nascondere il dogma fondamentale di nostra fede, di nostra salute? Predichiamo questo dogma sempre e tutto intero: L a Croce che si continua nell’Eucaristia e ci porta al Cielo; — la Croce retaggio del credente che si comunica immolandosi per mezzo di Essa ma per vivere in eterno; — la Croce che sempre attraverso ai secoli, ed oggi più che mai, attira le anime privilegiate, le anime più pure, le più nobili che s’innamorano dei patimenti per continuare e completare la Passione di Gesù. Chi potrà dire la bellezza, la fecondità della Croce quando domini tutto l’orbe cristiano? Chi potrà dire la bellezza, la fecondità di queste anime elette  che attingono nell’Ostia lo spirito di vittima, che immolate con Gesù sono il profumo e la salvezza del nostro povero mondo? « Concedeteci, o Gesù, d’esser nel bel numero di queste anime, concedeteci di moltiplicarlo questo numero col nostro insegnamento e colla nostra direzione » (Grimal, l. cit.). Ai nostri giorni poi, mentre si propaga ognor più la divozione alla S. Eucaristia e Roma favorisce in tutte le maniere e incoraggia la Comunione frequente e quotidiana, sforziamoci ancor noi affinché quanti si accostano di frequente alla S. Mensa lo facciano collo spirito di cui abbiamo ragionato: quali « Ostie ». Praticare la mortificazione è cosa buona ma non basta; bisogna « vivere » mortificati abbracciando con ardore tutte quelle mille occasioni di vincersi che si presentano ad ogni istante lungo il giorno. E si può fare meglio ancora: nei SS. Tabernacoli, sugli altari, Gesù benché vivo vuol stare in sembianza di morto; Egli si abbandona nelle mani del Sacerdote che lo muove e lo distribuisce a sua volontà: « A me pare, scrive un’anima santa, che il rimetterci totalmente al volere di Dio, l’abbandonare nelle sue mani quanto possiamo fare, soffrire e meritare perché Egli ne disponga come gli piace, anche senza che noi ne possiamo saper nulla, quest’atto, dico, di abbandono completo, a me pare che sia il più grande sacrifizio possibile per un’anima, quello che più glorifica Gesù-Ostia perché spoglia l’anima di quello che ha, di quello che è, per farne un omaggio all’Ostia divina e arricchirne la povertà volontaria con tutto quello che una creatura può dare e possedere » Essa aggiunge e a proposito: «Questo dovrebbe essere lo stato ordinario delle anime che si uniscono spesso a Lui nel suo Sacramento di amore perché un tale abbandono si può dire la condizione richiesta per la unione eucaristica come ne è il frutto e la conseguenza necessaria … Quello che rende più amara la tristezza del Cuore di Gesù si è che le sue più care anime sono per lo più dominate dallo spirito egoistico che loro fa dimenticare quello che sono per ufficio e per dovere, cioè un supplemento di espiazione e di intercessione per tutto il genere umano e quindi esse non appartengono più a sé stesse ma a Gesù ». Molte anime, vogliam dire di quelle che frequentano la S. Comunione, certo procederebbero più innanzi nella santità se invece di badare quasi esclusivamente ai propri interessi anche spirituali, cercassero prima di tutto quello di Dio, e invece di comunicarsi a proprio profitto, si comunicassero a « profitto di Gesù ». La divozione eucaristica di un’anima riparatrice deve tendere a questo ideale. Sul cominciare, il sentimento che domina un amore di compassione: il disprezzo, l’indifferenza, gli oltraggi: alcuni non sanno, altri non se ne curano, altri, ancor peggio, perseguitano; delitti degli empii, colpe dei buoni, peccati dei migliori, di quelli cioè che Gesù Cristo chiama « suoi », che si è particolarmente eletti — pur troppo ve n’ha anche di questi! — e si cerca di riparare. Il Maestro è troppo spesso lasciato solo; e si va a visitarlo. Durante la S. Messa le chiese sono purtroppo vuote; e il più spesso possibile si assiste al S. Sacrifizio. Nelle chiese vuote, le Sacre Pissidi restano colme; e ogni giorno si va alla Sacra Mensa. La Riparazione porta così all’Eucaristia. Or ecco a sua volta l’Eucaristia che conduce alla Riparazione; l’Eucaristia non considerata tanto dal suo lato, se si può dire così, esteriore (il poco valore attribuito dagli uomini alla « moneta » troppo comune dei tabernacoli), ma piuttosto nella sua realtà intima; l’Eucaristia che dà al mondo Gesù, la Vita eterna nello stato di vittima espiatrice. Il pane ed il vino sono « apparenze morte »; il Cristiano che si comunica « apparenza vivente » del Salvatore; quanto tutto questo supponga di immolazione l’abbiamo già visto (si rilegga ove furono ricordati i desideri eucaristici del Cuore del Divin Salvatore). L’altare del Sacrifizio sarà sempre la miglior scuola del Sacrifizio. Tocca al Sacerdote di acquistare per sé e trasfondere in altri una intelligenza netta e profonda di quello che è il Sacramento per eccellenza dell’amore reciproco fra Dio e l’uomo. – Del resto, se pur non si è perduta la memoria e non si sono dimenticati anche i desideri della giovinezza e le aspirazioni della propria ordinazione, il Sacerdote deve riconoscere che le aspirazioni al Sacerdozio sentite in cuor suo allora si confondevano con dei sogni ardenti di sacrifizio, che le sue risoluzioni d’esser fedele sempre ai doveri del Sacerdozio nel giorno dei suoi impegni definitivi coincidevano nel suo cuore colla promessa di una donazione completa e di una cosciente immolazione. I desideri di un giovane che si prepara al Sacerdozio! Chi potrà dire le ambizioni che spuntano in un cuor di fanciullo alla lettura della vita d’un S. Francesco Zaverio. d’un S. Damiano apostolo dei lebbrosi, d’un missionario qualunque dell’Alaska o dello Zambese, o del Santo Curato d’Ars? « Si isti et illi curnon et ego? Quello che hanno operato costoro per Gesù Cristo, perché noi potrò anch’io? ». Ancor piccini hanno imparato alla scuola d’una santa donna, la madre loro, a fissar lungamente il Crocifisso. Certe cose facilmente si comprendono quando si ha la fortuna d’aver una santa per madre. Il loro cuore di fanciullo ha intuito nel Crocifisso qualche cosa di misterioso e di straordinario che l’invita ad una impresa che ancora non comprende troppo, pel presente e per l’avvenire. Gesù si è sacrificato per loro, è ben giusto che essi si sacrifichino per Gesù. E in una maniera od in un’altra avranno anch’essi imitato il gesto di quel bambino a cui essendo stata narrata la storia della Passione di Gesù, si stende subito lungo il muro colle braccia in croce domandando alla sua serva che gli pianti dei chiodi nelle mani e nei piedi … Come si può « star bene » quando Gesù « soffre tanto? ». Questi sentimenti naturali e profondi il fanciullo li prova certamente se tra le mura domestiche si ha cura di sviluppare in lui l’educazione del Sacrifizio. Ma si danno dei genitori che su questo punto sono completamente nulli; altri all’opposto fanno di questo « particolare » l’oggetto essenziale delle loro cure e avvezzano i loro figliuoli a punirsi per sé stessi nei loro falli, ad essere austeri nella loro vita, e spiegano loro non solo la Passione che Gesù Cristo dovette soffrire un tempo andato, ma anche la sua presente Passione nella Chiesa di Dio e fanno loro capire, anche senza dirlo in modo esplicito, che il Signore aspetta da loro più tardi qualche prova d’amore in compenso. Così quel padre di famiglia che, in occasione degli Inventari, va alla Chiesa per fare il suo atto di protesta col suo figlio per mano, e al momento in cui si forzano le porte per 1’entrata degli inviati dal governo persecutore egli alza il proprio figlio al disopra del proprio capo perché veda meglio come si difendono le libertà di Dio. Così pure quella donna, madre di Mgr. de Quélen, la quale durante la grande Rivoluzione del 1789 conduce il proprio figlio alle prigioni dei Carmelitani perché sappia come sono trattati i sacerdoti di Gesù Cristo e non si spaventi. Così ancora quest’altra, la madre del P. Varin, che spesso vuole che i suoi piccini si mettano in ginocchio dicendo: « Recitiamo un’Ave Maria per Giuseppe (altro suo figlio) perché egli non è ove la vocazione del Signore lo vuole »: e poi morrà sul patibolo offrendo la propria vita affinché quel suo figlio non resista più a lungo al volere di Dio che lo chiama al sacerdozio. Dopo i desideri della giovinezza ecco le aspirazioni verso il sacerdozio. Il sacerdote non potrà mai dimenticare che dedicandosi al sacerdozio aveva già ben compreso fin d’allora che si dedicava ad una vita di sacrifizio. Il giorno di sua ordinazione — giorno forse già lontano ma sempre dinanzi agli occhi come presente — quando prostrato sul pavimento davanti all’altare, uno degli avventurati della bianca schiera palpitante, egli si offriva a Dio. non comprendeva forse che da quel momento unico suo «mestiere», o meglio unico suo « sogno » sarebbe stato il vivere in Croce col suo Maestro? « Ricevi la potestà di offrire il divin Sacrifizio » ha detto il Vescovo ordinante, e poi ha continuato : « Quello che tu tocchi, la patena, il Calice e gli altri strumenti dell’olocausto, pensa che sono pure gli strumenti del suo sacrificio. Imitamini quod tractatis. Tu avrai tra le tue dita l’Ostia. Pensa che dovrai imitare quello che ogni giorno avrai da trattare ed essere Ostia anche tu nella tua vita. Quatenus mortis dominicæ mysterium celebrantes, mortificare membra vestra a vitiis et concupiscentiis procuretis. Gesù Cristo è morto, converrà vivere mortificandosi, ostia colla tua Ostia, vittima colla tua Vittima. Altrimenti non sarai un vero sacerdote, « procuretis ». Questa dev’esser la tua principale cura, accordare, intonare la tua vita sopra quella di Gesù Cristo per farne due vite sincrone, due oblazioni, due immolazioni anch’esse sincrone ». « Io mi prendevo gusto — così parla il Sig. Olier — di guardar nelle chiese attraverso alle fessure e vedendo le lampade accese: Ah! io dicevo, come voi siete felici nel consumarvi completamente alla gloria di Dio e nell’ardere continuamente per onorarlo! È l’ufficio dei sacerdoti il consumarsi così, poiché essi debbono essere insieme come Nostro Signore e sacrificatori e ostie. Se dei Cristiani tutti è detto: Fate dei vostri corpi un’ostia vivente: con più forte ragione va detta questa parola dei sacerdoti i quali ogni giorno ripetono: Hoc est corpus meum ». I veri sacerdoti ci danno esempio magnifico nella pratica di questo spirito di vittima, in cui sanno bene che consiste la parte essenziale del loro ministero. – L’Abate Perreyve nel giorno della sua ordinazione domanda al Signore queste tre grazie: « Non cadere mai in colpa grave: restar sempre un semplice sacerdote; dare il proprio sangue per Gesù Cristo » . E celebra con paramenti di color rosso, color di sangue, per dar maggior forza alla sua ultima preghiera con un segno simbolico del sacrifizio. Prima di restituire a Dio la sua anima generosa aveva scritto sulla morte del Sacerdote una meditazione ove faceva notare che « il sacerdote deve riguardare la morte come una delle funzioni del suo ministero. Dev’esser per lui come la sua ultima Messa ». Imitando il Maestro divino egli deve servirsi essenzialmente del proprio corpo non per altro che per immolarlo. Egli deve incominciare questa morte nella castità, continuarla nella mortificazione, terminarla finalmente nella vera morte, che è la sua oblazione finale, il suo ultimo sacrifizio. Essi, come avete fatto voi, Signore, debbono incominciare ben da lontano a morire… ». – Un giovane chierico del Seminario Maggiore di Nevers, morto il 6 aprile 1907, non ancora suddiacono, aveva lasciato scritto nel suo testamento spirituale: « Io rimetto la mia anima nelle mani di Dio in unione di Nostro Signore Gesù Cristo che muore, desideroso di morire, vittima come Lui, con Lui ed in Lui. Questo che dovrebbe essere il carattere dell’intera mia vita per vocazione e per dovere, lo sia almeno dei miei ultimi istanti … Volendomi distaccare sempre meglio da me stesso in Dio perché  Egli regni totalmente sul mio cuore, io godo nell’offrir a questo divin Maestro i dolori benefici della mia agonia e il sacrificio della mia vita in riparazione della sollecitudine con cui troppo sovente ho cercato di evitare i patimenti e le mortificazioni. Io vi offro pure la mia vita per la Chiesa, per la patria, per la mia famiglia… » (Grimal, in op. cit. p. 385). Durante l’ultima guerra, molti prevedendo che il Signore poteva loro domandare il sacrifizio della vita si sono offerti di gran cuore all’immolazione totale. – « Oh! quanto è bello, scrive il P. Gilbert de Gironde, morire giovane… morire sacerdote sotto le armi, attaccando il nemico, correndo all’assalto, in pieno esercizio del ministero sacerdotale, forse impartendo un’ultima assoluzione… versare il mio sangue per la Chiesa, per la patria, per i miei amici, per tutti quelli che hanno in cuore la stessa mia fede e per gli altri ancora, affinché possano godere la gioia di credere… Oh! quanto è bello …! ». E l’Ab. Liégeard, del Gran Seminario di Lione, caporale nel 28° battaglione dei cacciatori alpini: « Io offro la mia vita perché siano dissipati i malintesi tra il popolo di Francia e i suoi sacerdoti ». –  E il P. Federico Bouvier, della Compagnia di Gesù, uno dei più eruditi nella Storia delle religioni: « Io do volentieri la mia vita, egli dice, per i miei commilitoni dell’ 86° Reggimento, affinché questi uomini retti e onesti a cui non manca altro che il vivere in Dio e secondo la loro fede, ritornino sinceramente a Lui ». Un seminarista, caporale del 90° di Fanteria, l’Ab. Chevolleau, che abbiamo già citato, scriveva in una sua lettera: « Pregate perché il mio abbandono in Dio sia perfetto. Che vale la vita, l’altare visto in lontananza, le anime da salvare in tempi che non verranno per me, se al presente il Signore mi vuole per sua vittima? ». Come non ricordare qui due valorosi a cui mi legano memorie personali troppo forti perché possa lasciarli da parte: il P. Gabriele Raymond e l’Ab. de Chabrol, l’uno e l’altro cappellani militari? Il primo — che già conoscevo da lungo tempo — venne a prendere il mio posto in fondo alla mia tana di prima linea nell’Artois, di fronte alle famose costruzioni bianche del «Plateau d’Angres » fra Loos e Souchez. Al secondo io a mia volta succedetti a Tracy-le-Val nell’agosto 1916: e tutti e due furono uccisi poco appresso. E soldati e ufficiali erano concordi a magnificare il loro coraggio e una cosa appariva evidente, che essi erano troppo facili ad esporsi, quindi la loro affrettata morte. Nessuno mai potrà sapere quale fu l’eroismo di tali uomini, sempre calmi e dimentichi di sé stessi. Il P. Raymond fu schiacciato sotto un riparo. Dell’Ab. de Chabrol così parla un « ordine del giorno » commemorando un attacco e attestando il suo coraggio: « Le ondate dei nostri uomini che si succedevano, si sono inchinate dinanzi al rappresentante di Dio, il cappellano della Divisione, de Chabrol, che sotto la mitraglia tracciava colla sua mano il segno della redenzione e della vittoria ». In un attacco il cappellano fu colpito dalla mitraglia e cadde, avendo egli da lungo tempo fatto l’offerta della sua vita, come il P. Raymond – e « come mille e mille altri – per la Redenzione del mondo e per la vittoria. – Un ultimo esempio, quello del P. Lenoir, anch’egli cappellano militare, morto sul campo dell’onore il 9 maggio 1917, vittima della sua carità verso i feriti. Dopo la sua morte fu trovato sulla sua persona il seguente scritto che il Luogotenente Colonnello volle comunicare al Reggimento per cui il glorioso caduto dopo trenta mesi di fatiche aveva sacrificato la propria vita: « In caso di mia morte, Io rivolgo la mia parola a tutti i miei figliuoli del caro reggimento 4° Coloniali e dico loro — arrivederci —.  Con tutto l’affetto di sacerdote e di amico io li supplico a volere assicurare la salvezza eterna dell’anima loro restando fedeli a Nostro Signore Gesù Cristo e alla sua legge, facendo penitenza delle loro colpe e unendosi a Lui nella S. Comunione il più spesso che sarà loro possibile. A tutti io do appuntamento in cielo; per loro a quest’intenzione io offro, ben contento, se sarò esaudito, il sacrifizio della mia vita nelle mani del Divin Maestro Gesù Cristo. Viva Gesù! Viva la Francia! Viva il 4° Coloniali! P. LENOIR S. J. » .

L’Ab. Buathier, nel suo libro Le Sacrifice, ha tracciato questa bella pagina:« Un’anima sconosciuta abbandona questo esilio, a cento passi da essa il fatto è ignorato e nessuno si turba. Tutt’al più qualche vicino dirà senza dare nessuna importanza alle sue parole: “il tale è morto”, e tutto finirà lì, tutti gli altri han visto nulla.« Ma nella sua umiltà quest’anima oscura è unita alla Vittima del Calvario, essa conosce intimamente il valore dell’atto che compie: essa comprende che non solo paga il debito dei propri peccati ma che può ancora pagare per altri, moltiplicare i propri meriti e rifonderli nel tesoro di Santa Chiesa, far vivere colla sua morte molte anime e darle a Gesù: essa conosce tutto questo, lo vuole, lo desidera e si offre. La sua offerta sale verso il Cielo e nel breve giro delle sue ultime ore il suo sacrifizio si termina in una gioia raggiante pace e gloria celeste. Per essa come per Gesù sulla Croce la morte non è altro che il supremo slancio dell’amore. Gli uomini nulla possono scorgere di tutto questo, ma gli Angeli ne restano ammirati ed il Signore premia colla gloria del Paradiso » . — Qualche cosa di simile noi troviamo nei poveri morti di cui abbiamo parlato. – Son pochi anni che si andava dicendo: « La Chiesa di Francia ha bisogno di Santi ». E la Chiesa di Francia ebbe i suoi Santi, come ne ha pure al presente. Gli esempi recati fin qui ce l’attestano e noi potremmo moltiplicarli (« Che diremo del nostro Clero? … V’ha chi dice che al presente non abbiamo più dei santi. Oh! Se la Chiesa mel permettesse io direi che ce ne sono ancora e saprei dire pure ove si trovano! ». Lettera inedita di E. Psichari all’abate Tournebize.). Verrà giorno, si può sperare, in cui ci sarà dato conoscerli tutti e ciascuno in particolare. Ma non dimentichiamo che se avvenimenti straordinari, come fu la guerra ultima, ci rivelano tanto la santità come l’eroismo, essi non hanno potuto crearli di sana pianta: già esistevano. La morte di quelli che così generosamente si danno come vittima riparatrice col Maestro Divino, non è cosa impensata, che avviene per caso, ma suppone una lunga preparazione, un proposito chiaramente voluto. Nessuna improvvisazione; al contrario: conclusione necessaria di premesse. Immolarsi ogni giorno nell’oscurità della vita ordinaria colla mortificazione, colla castità, coll’umiltà, collo zelo… questo solo può render capaci a mostrarsi poi nell’ultimo sanguinoso istante, che chiude la vita, così spontanei, così generosi, nel darsi totalmente come « ostia » alla riparazione. Questi valorosi sono morti così come noi abbiamo ricordato, sol perché ben « alla lunga si sono avvezzati a morire ».

L’IDEA RIPARATRICE (5)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (5)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO II

Chi deve riparare?

CAPO SECONDO

L’ANIMA RELIGIOSA E LA RIPARAZIONE.

« V’hanno al mondo delle strade il cui nome non può esser dimenticato » . La prima ha nome Regina delle strade. Regina viarum; passando per Capua, Benevento, Brindisi e il mar Jonio metteva in comunicazione Roma colla Grecia ed era come un legame tra i due poli del mondo. Era la via battuta dagli artisti e dai poeti. La seconda viene chiamata Via sacra. Passava a fianco del colle Palatino e attraversando il Foro romano saliva al Campidoglio. Era la via percorsa dai trionfatori. Ve n’ha una terza ancora: la Via dolorosa. Parte dalla torre Antonia, abitazione di Pilato in Gerusalemme, e ci mena, passando per la casa di Anna e quella di Caifa, fino alla sommità del Calvario. Questa fu la via battuta dal divin Salvatore ed è ancora quella per la quale si mettono tutti i giorni i suoi discepoli avidi di seguire le orme del Dio Crocifisso… la via dolorosa o, come si esprime l’Imitazione di Cristo, la via regia, la via regia della Croce. Il fondo stesso di ogni vocazione religiosa forse che non consiste in un invito ad unirsi più strettamente a Gesù? È vero, anche solo per la grazia santificante, Iddio ci permette un’ammirabile intimità con Lui che diventa così nostro Padre e che rimane ad abitare dentro di noi. Ne abbiamo trattato in un opuscolo a parte (v. Dio in noi, pubblicato su questo blog). Ma se lo stesso nome di Sposo conviene a “rigore per un Dio che vive intimamente con ciascun uomo battezzato, qual significato prenderà quando si tratti non più soltanto d’un’anima che batte la via della legge divina, ma di un’anima che Dio si è scelta da tutta l’eternità per il suo servizio particolare, ch’Egli da tutti i tempi si è eletta, separata dalle altre, attirata a sé e consacrata interamente ai suoi divini voleri? L’anello nuziale è offerto e accettato; gli impegni contratti. Un vero matrimonio di spiriti, l’unione tra Dio e il Cristiano, effetto del rito battesimale: che dire dell’unione di Dio colle anime di predilezione, conseguenza del voto di castità e delle altre promesse religiose? Orbene è proprio della sposa il partecipare intimamente collo sposo alle sue gioie, alle sue sofferenze, alle sue inquietudini, ai suoi dolori, alle sue perplessità, alle sue angosce e ai suoi desideri. I loro due cuori si uniscono ora in un solo cuore. Se l’anima è sincera deve dire a Nostro Signore: « Amore per amore, vita per vita, sangue per sangue, ostia per ostia, tutto deve essere comune fra noi. Voi ora non siete più in grado di soffrire, ma la vostra missione Voi l’avete affidata a me e mi consacrerò ad essa senza riserva alcuna. Per consolarvi e per salvare insieme con Voi questi poveri peccatori per cui vi siete sacrificato, io voglio soffrire per quelli che godono, io voglio amarsi per quelli che vi bestemmiano, io voglio umiliarmi per quelli che si esaltano, io voglio piangere per quelli che ridono, io voglio conservarvi ben dentro al mio cuore per quelli che vi scacciano da loro col peccato. « Io ascolto il vostro lamento: “il mio amore perseguitato e disprezzato cerca un luogo di riposo ed è il tuo cuore che io mi sono scelto per dimora”. Ed io pure come la vostra serva carmelitana, Elisabetta della Trinità, voglio “offrirvi una dimora, un rifugio nell’anima mia ove col mio amore cercherò farvi dimenticare tutte le abbominazioni dei malvagi”. Ben lo comprendo, è in me, in questo tempio, che per ragione della grazia santificante voi abitate, è in questo tempio che voi volete vedere rizzato l’altare del sacrifizio sul quale si compiranno i misteri di misericordia e di perdono. Io vi offrirò la materia da sacrificare, voi la trasformerete, la divinizzerete con la vostra presenza, con l’opera vostra. Voi stesso in me farete l’offerta al Padre, e offrirete tutto senza eccezione. Non badate alle mie resistenze e ripugnanze. Strappate tutto quello che vuol opporsi ai vostri desideri. Non è forse necessario che io sia consumato nell’unità per poter lavorare efficacemente affinché tutti sieno una cosa sola? Se voi non siete perfettamente in me, come potrò io fare che vai siate tutto in tutti? « Maestro divino, voi siete già in me per la vostra grazia ch’io ho ricevuta nel santo Battesimo: da questo momento per i miei voti religiosi Voi sarete anche più profondamente in me. Voi distruggerete in questo mio cuore, da Voi scelto per il sacrifizio, tutto quello che non vi è gradito. Io rassegno nelle vostre mani tutte le mie potenze dell’anima, e il mio compito per l’avvenire mi è ben chiaro avanti alla mente: non avrò più altra mira che riparare gli oltraggi che tanti ingrati vi fanno continuamente, e povera infermiera inesperta sì, ma che vuol essere tutta sacrificata, povera Veronica la quale non possiede che un misero pannolino e un misero cuore, io passerò la mia vita a consolare le vostre tristezze, e a curare le vostre ferite. Io stringo tra le mani il Crocifisso dei miei santi voti, delle nostre reciproche promesse, e mi faccio ardita — voi me lo concederete — di posar le mie labbra sopra le vostre piaghe divine. Io bacio la piaga delle mani affine di riparare per quelli che operano il male; io bacio la fronte trapassata dalle spine affine di riparare per quelli che non pensano a Voi, per quelli che ci pensano solo per insultarvi: io bacio la piaga del Costato affine di riparare per quelli che non amano, per quelli che amano disordinatamente. E vorrei procedere ancor più innanzi: Non sono quelli che dicono: Signore, Signore! che si mostrano sinceramente sacrificati. Io vorrei potervi dimostrare col fatto la mia generosità e imprimere nella mia vita, se non posso farlo sul mio corpo, le sacre stimmate della vostra Passione. « Certo l’offerta che io vi prego di gradire sarà ai vostri occhi ben miserabile: ma mi consola il pensare che per formare un‘ostia basta unpo’ di frumento, alcuni grani ben stritolati sotto la macina. E dell’ostia voglio imitare tutte le qualità: la sua piccolezza, e nell’esercizio di una vita umile e povera sarà mio motto: che io diminuisca perché Egli cresca; il suo candore, e il mio ideale sarà la purezza degli Angeli: la sua immobilità, l’ostia si lascia portare per ogni dove senza resistenza, ed io obbedirò senza alcuna difficoltà ». – Molti poi cercano di venire a cose più determinate e al di fuori e al disopra dei voti religiosi, i quali già contendono una completa oblazione di sé in una vita di crocifissione continua, si prendono come intenzione che domini ogni loro azione il sacrifizio senza tregua e a dose massima possibile, l’immolazione costante, radicale, perpetua                                                                                       insieme con Gesù Cristo per il bene delle anime. Noi stessi abbiamo avuto occasione di descrivere altrove la genesi di simili offerte in cui s’insiste presso il Signore per ottenere come un favore di partecipare non più con una approssimazione alquanto mitigata, ma rigorosamente alla lettera e il più intimamente possibile tra le mura d’un chiostro o anche in mezzo al mondo all’immolazione redentrice di Gesù Cristo.(Ames Réparatrices. Articolo del « Messager du Coeur de Jesus », poi pubblicato i n volumetto separato). Ma basti delle vocazioni particolari: ritornando alla vocazione religiosa in genere noi ripetiamo ancor una volta: essa può e deve essere una vocazione riparatrice. Essa lo è per sé stessa e noi possiamo più o meno esplicitamente riconoscerlo praticamente (Lo spirito della vita di sacrificio nello stato religioso  prit et de la vie de sacrifice dans l’état religieux, del P. Giraud, già superiore dei PP. de la Salette).Alla vista delle rovine che si accumulanoe del bisogno di lavoratori che ponganomano a ristorarle, a ripararle, molti vannomormorando entro di sé: ce Certo converrebbeche qualcuno si mettesse all’opera …ma perché dovrò farlo io? ». Altri, in piccolo,anzi troppo piccolo numero, umilmente ma con volontà risoluta, dicono senz’altro: « Certo converrà che qualcuno si ponga all’opera… perché non mi ci metterò io stesso? » . E incominciano subito; ecco la vocazione religiosa mossa dal desiderio della riparazione. Anime energiche, non si arrestano dinanzi agli ostacoli, esse camminano per la loro strada. V’ha chi le voglia trattenere? Esse non ci badano. « Magister adest, vocat te ». Ecco il Maestro che ti chiama ed esse partono. Converrà spezzare i vincoli più cari. Che importa? Coll’aiuto del Signore tutto si sacrifica. — « Quand’anche avessi avuto cento padri e cento madri — diceva Giovanna d’Arco — io sarei partita ». E si ripetono le sue parole: Cento madri! In quelle circostanze è già ben doloroso l’averne anche soltanto una. Con tutto ciò, si parte. La fermezza di proposito non toglie però il dolore. « Che portate con voi entrando in convento? ». — « Nulla, o piuttosto una dozzina di fazzoletti per asciugarmi le lacrime ». In quei momenti anche un nonnulla si fa sentire intimamente: ma si parte lo stesso (La psicologia di questi momenti ci vien descritta con mano maestra nell’Isolée da RENÉ BAZIN, quando la figlia del canuto lionese abbandona il proprio padre e dà l’ultimo addio alla casa e a tutti gli oggetti famigliari.) . -— « Io debbo andare incontro al Re ». Questa è l’ultima parola di tutte le anime a cui si è fatto sentire l’invito: « Vieni, figlia di Dio, vieni, vieni », e fu concesso dallo stesso Dio il coraggio di corrispondervi. Il mondo non comprende queste cose, non comprende nulla. Alla vista di siffatte scene di generosità va mormorando: « Follie, stoltezze! », se pur si degna di fermarsi a considerarle. Follìe? Sì, sieno pur follìe. Un giorno alla Camera francese l’abate Gayraud, allora deputato di Finisterre, prendendo la difesa delle Congregazioni religiose che si volevano cacciare di Francia, segnalava la grandezza d’animo di tutte queste anime generose che si separano dal mondo e fanno da parafulmini al mondo stesso vivendo crocifisse con Gesù Cristo. E l’oratore ricordava i Fratelli di S. Giovanni di Dio che passano la loro vita al servizio dei mentecatti, le piccole Suore dei Poveri che serbano per sé non altro che gli avanzi dei pasti dei loro « poveri vecchi » e non hanno per campare esse e i loro infermi fuorché quanto raccolgono mendicando di porta in porta… — Ma tutti costoro convien dire che sono dei pazzi! — gridò una voce dall’estrema sinistra. — Sì, sono dei pazzi, signor Allentane — riprese l’abate drizzandosi ancora qualche poco, quasi per misurare la grettezza morale dell’interruttore — , essi sono posseduti da una follìa che da secoli è conosciuta in mezzo ai Cristiani e S. Paolo già ai suoi giorni la definiva: « La follìa della Croce ». Nei punti estremi la logica della ragione e quella della Fede, confondendosi colla logica del cuore, ci dà quel che il mondo definisce una follìa! Sì, questa follìa esiste ma non già da quella parte che si vuol immaginare.

La follìa della Croce!

Oh! Ecco Gesù, il povero Gesù Crocifisso! Costoro, tutti quelli dominati da siffatta follìa, l’hanno visto passare un giorno dinanzi a loro per la via; l’hanno visto col sembiante tutto mesto e l’hanno udito mormorare sommesso: « Sequere me, vieni dietro di me! ». In quel momento in cuor loro spuntò un non so qual desiderio, non solo di non darsi ad altri che a Lui, di porgere a Lui in tutta la sua freschezza tutto il proprio cuore, tutto il proprio amore, ma ancora di abbandonarsi completamente a Lui, definitivamente, con tutto il proprio essere, di darsi a Lui per soffrire con Lui, di offrirsi per accompagnarlo sempre e per tutto, fino a Betlemme, al Tabor, al Cenacolo, non solo, ma anche fino al Getsemani, fino al palazzo di Pilato ov’è motrato alla folla: Ecce Homo!, fino alla colonna della flagellazione ove lo si batte e s’insulta, fino alla Croce ov’Egli muore coperto di ferite e dissanguato per espiare i nostri peccati. – La Croce! Fino a quel momento, spesso si era fatta oggetto di contemplazione, ma non l’avevano compresa. L’abitudine di vedere per lo più ci impedisce di scorgere bene quello che ci sta dinanzi agli occhi. Ed ecco che questa volta la Croce si mostrò tutt’altra dal grossolano Crocifisso al crocicchio della strada o dall’elegante Crocifisso della camera da letto. Per la prima volte le parole di Nostro Signore a S. Angela da Foligno penetrarono in fondo al cuore: « Non è per ischerzo che io ti ho amato! » . — Per ischerzo… oh! no, si è detto in cuore suo: « Una Croce un giorno fu adoperata, una vera croce di legno fu adoperata sulla sommità di un monte una volta quale giorno! Accanto a tutte quelle croci da cui non pendono che dei Gesù morti, un giorno vi fu una croce a cui hanno confitto un Gesù vivo ancora, un Gesù inchiodato, un Gesù sanguinante, morto per me, per tutti gli uomini… » E mirando da una parte Gerusalemme che bestemmia e ignora il mistero compiuto, dall’altra il mondo sempre indifferente od ostile: « Se Nostro Signore ritornasse in questo mondo certo Egli sarebbe nuovamente posto in croce e più presto ancora di quella prima volta ». Quando si è rimasti colpiti da questo doppio spettacolo di luce sinistra, qualche cosa noi troviamo di cambiato nella nostra vita e ripetiamo con Pascal: « Gesù Cristo sarà agonizzante fino al terminar dei secoli: in tutto questo tempo noi non dobbiamo dormire ». – Dormire! Come si può dormire mentre il Maestro, Gesù, è là sulla Croce sospeso e soffre, ahimè!, per molti anche invano. « Oh! no — diceva Uria a David — , mentre Gioab, mio generale, è sul campo e dorme

sotto la tenda sul nudo terreno, io non andrò a riposare comodamente nel mio palazzo! no, non accetto questo indegno privilegio! ». Contemplando Gesù sulla Croce si perde il coraggio di vivere senza Croce. Ad una futura Carmelitana si fa la descrizione della vita austera che le toccherà quando veramente si decida di chiudersi nel monastero: « Nella cella troverò almeno un Crocifisso? », risponde essa. — « Oh! sì », le si aggiunge. — ce Ebbene — conchiude essa — non parlate più oltre, lasciatemi andare che nulla più mi sarà difficile vicino a Gesù Crocifisso ». Così e non altrimenti dicevano i Santi. S. Filippo Neri se ne moriva sfinito di forze; per fortificarlo il dottore gli ordina un buon brodo. Gli si porta il brodo ed egli già incominciava a prenderne qualche sorso, quando s’interrompe bruscamente esclamando: « Oh! mio Gesù! Quanta differenza tra me e voi! Voi foste inchiodato sopra il duro legno della Croce ed io mi riposo in un comodo letto! Voi foste abbeverato di aceto e di fiele ed a me si prodigano delizie d’ogni fatta! Intorno a voi nemici che v’insultano, intorno a me tanti amici che si studiano di porgermi consolazione! ». E un tale contrasto gli strappò le lacrime in tanta copia che non poté continuare a bere il brodo di cui aveva tanto bisogno. Ecco il gran segreto delle vocazioni riparatrici!: Gesù fu povero, lo sarò anch’io; Gesù ha sofferto, soffrirò anch’io; Gesù Cristo è stato preso a schiaffi, anch’io accetterò i dispregi, l’oscurità, l’abbandono di tutti, la persecuzione. Gesù Cristo, in una parola, fu posto in Croce, ben venga anche per me la Croce. – Nostro Signore compare un giorno a S. Margherita Maria e le presenta due quadri, l’uno lo rappresenta in Croce, l’altro nella gloria della sua Risurrezione, e le dice: « Scegli a tuo piacere ». La Santa, senza esitare, stende le braccia verso Gesù sofferente (Al cominciar della sua carriera Margherita Maria avrebbe preferito una santità meno dolorosa. Confessa di sé che percorse le vite dei santi per trovarne uno che non avesse sofferto e non lo trovò e dovette rendersi all’evidenza che non v’ha Santo senza Croce). – Qualche cosa di somigliante troviamo nella vita della contessa d’Hoogworst. Emilia d’Oultremont. fondatrice dell’Istituto di Maria Riparatore. (La Société de Marie Riparatrice, par le P. DE LAPORTE S. J.). Era a Roma nel 1843, quando Nostro Signore le rivelò il suo Cuore, « Egli mi si presentò — così essa lasciò scritto — con due corone tra le mani, l’ima di rose, l’altra di spine ». Senza lasciargli proferire parola. Emilia afferrò la corona di spine « con tutto l’affetto del proprio cuore » , e da quel momento, essa lo confessa sinceramente, « la corona di spine mi fu sempre carissima » (Emile d’Oultremont (La Mère Marie de Jesus) — par le P. SUAU, S. J., Casterman, Tournai). – Donde queste inclinazioni e gusti ben singolari, questo attraimento anormale; donde queste preferenze che hanno qualche cosa di strano? (L’Istituto delle Figlie del S. Cuore di Gesù ha fondato nel 1904 per le persone secolari che desiderassero menar vita di riparazione una Associazione detta delle Anime Vittime del Cuor di Gesù, di cui il nome non è a tutti gradito, ma lo spirito è da tutti ben accolto. Pio X nel benedirne l’istituzione si degnò farne parte iscrivendosi come membro. Per altra parte è noto quanto Egli amasselo spirito di riparazione.). La ragione si è che l’anima ha scoperto più o meno esplicitamente che soltanto il dolore può unirla intimamente a Colui che ha voluto esser l’uomo dei dolori — Vir dolorum ». In tutto il resto tra noi e Gesù la distanza è enorme: dall’una parte il nulla, dall’ altra 1’infinito; la povertà estrema, la ricchezza senza limiti. La gara è impossibile; dove trovare un punto di rassomiglianza?… Oh! Eccolo… addolorato Gesù… addolorata l’anima mia. In tutto il resto Egli mi sfugge; Egli è lo stesso Dio. Col dolore io lo raggiungo perché anch’Egli ce soffre ». Su questo terreno posso tentare d’imitarlo. La strada che Egli batte per venire fino a me posso tentar di percorrerla anch’io per arrivare fino a Lui. Così sparisce la distanza fra noi due. Il nostro comune procedere ha qualche cosa di identico e i nostri due esseri, differenti in tutto il resto, in questo diventano simili. Colla sua sofferenza l’anima ce afflitta » diviene per Dio 1′ « adiutorium simile sibi », degna perciò delle carezze divine. Si può ammettere come tesi generale — fa notare l’autore della Vita di S. Liduina — che tutti i servi generosi di Gesù Cristo sono da Lui adoperati per l’espiazione Oltre la loro particolare missione, che non sempre coincide colla riparazione, poiché altri sono più particolarmente destinati o per fare delle conversioni, o per riformare dei monasteri, o per predicare al popolo, o per altro ancora spesso noto a Dio solo; a tutti nondimeno vien rivolto l’invito di arricchire il tesoro comune della Chiesa con le loro sofferenze, tutti si trovano in grado di presentare al loro divin Maestro quella autentica prova del vero amore che è il sacrifizio di sé. Però anche tra questa schiera eletta si trovano delle anime più particolarmente segnate per servire di vittima propiziatrice, quelle che il Signore destina alla nobiltà speciale del « suo proprio blasone ». Non vi mancano gli uomini, « Ancora, ancora sofferenze », mormorerà agonizzando in vista della Cina un S. Francesco Zavério. — « Soffrire ed essere disprezzato », dirà un S. Giovanni della Croce; e noi vedremo nel capitolo seguente degli esempi eloquenti, fra i sacerdoti, di vocazione riparatrice, ai quali possiamo aggiungere quelli del Ven. P. De la Colombière (Ecco il testo della sua oblazione: « O Cuore dei mio Gesù…, acceso dal desiderio di riparare e di espiare tante e si grandi offese che vi si fanno… io vi offro e vi abbandono interamente il mio cuore e tutto il mio essere, ecc ».), del signor Olier (egli si era offerto come « ostia » a Montmartre. « Io godevo, Mio Dio, nel venire alla vostra presenza in qualità di ostia e pregare: O Dio del mio cuore, non mi risparmiate, tagliate, spezzate, riducete a brani questa vostra vittima ». Nella sua Vita.), del P. Surin e del P. Ginhac (vita scritta dal P. CALVET — Un altro maestro di vita spirituale, autore di due stimati scritti sulla « Orazione », il P . de Maumigny, morendo ringraziava il Signore specialmente « per avergli concesso trentacinque anni di dolori ».)Fra i laici, ben innanzi inprima fila, il sig. Dupont. « il santo di Tours » (Vita, di Léon Aubinau, 1878).Però non si può negare, come osservaHuysmans, che il desiderio di ripararespunta ancor più frequente nel cuore delladonna, e ne porta la ragione:« Il Signore si direbbe aver riservato piùparticolarmente alla donna il compito diumile e nascosta pagatrice. I Santi invecehanno un mandato che si estende tra lemasse e si impone ai popoli: essi percorronola terra predicando, fondano o riformanoOrdini religiosi, convertono gli idolatri, insegnano la verità coll’eloquenza delpulpito, mentre più passiva la donna, cheper altro non può esser insignita del caratteresacerdotale, si contorce in silenzio sopraun letto di dolori. È un fatto che l’animadella donna e il suo temperamentosono più affettuosi, più sacrificati, menoegoisti che quelli dell’uomo. Così pure ladonna è più impressionabile e più facilealla commozione. Quindi Gesù presso ladonna trova accoglienza più premurosa; ladonna per istinto ha delle attenzioni, delledelicatezze, delle cure minute verso di Lui,quali non sa trovare un uomo quando nonsia un altro Francesco d’Assisi. Inoltre leverginelle, per aver rinunziato alle caste gioie dell’amor materno verso le creature,hanno tutto un tesoro di affetti che viene arinforzare l’amore per lo Sposo celeste, ilquale, quando esse lo desiderano, diventaper loro il Santo Bambino; le sante allegrezzedi Betlemme saranno sempre più accessibilialla donna che all’uomo, e allorafacilmente si capisce come la donna nonpossa più nulla negare al suo diletto Gesù…Nonostante il loro carattere incostante e facileall’illusione, sarà sempre tra le donneche lo Sposo divino troverà le sue vittimepiù generose ». – « O patire o morire! » , esclama S. Teresa.— « No », corregge Maria Maddalena de’ Pazzi, « non morire, ma sempre continuarea patire ».Marcellina Pauper, Suora di Carità chesi era offerta al Signore come vittima perriparare soprattutto le profanazioni del SantissimoSacramento e i furti di sacre Ostie,confessava di sé: « La mia vita è un delizioso Purgatorio: il corpo soffre, ma l’anima gode ».Veronica Giuliani diceva: « viva, vivala Croce tutta sola e tutta nuda, viva la sofferenza! ». E la M. Maria De Bourg: « Se le sofferenze fossero in vendita al mercato, mi farei ben premura d’andare a provvedermene ».

S. Liduina anch’essa, in mezzo ai suoi più atroci dolori, esclamava: « Non compatitemi, io sono felice, e se con una sola Ave Maria potessi ottenere la mia guarigione, io non la reciterei mai ». E non si dica: « Queste scene sono di altri tempi, ora di anime simili non ne esistono più ». Ascoltatene una proprio dei nostri giorni: « Io ho bisogno di soffrire, io voglio soffrire perché Gesù ha sofferto per me, perché il Signore lo desidera per l’espiazione dei delitti del mondo. Io voglio soffrire perché il dolore è la più potente delle preghiere… perché il dolore purifica, perché il dolore c’innalza … Io voglio soffrire perché nel dolore si trova la felicità e l’anima è assetata della vera felicità. Non mori, sed pati. Patire, patire per cent’anni se è necessario, per salvare le anime e glorificare il Signore. Ho bisogno di preghiera continua, robustezza dell’anima, chiave dei tesori celesti. La preghiera unisce a Gesù, aiuta a sopportare tutto per la sua gloria. La preghiera è sorella del patimento, l’uno e l’altra si uniscono per offrirsi a Dio e salvare il mondo. Gesù non li ha mai separati nella sua vita nascosta, nella sua Passione, sulla Croce ». Così scrive Hervé Bazin (Une Religieuse réparatrice. Perrin, 1903. (Préface de R. Bazin). Notiamo però che se gli esempi recati fin ora mettono in mostra specialmente il « dolore », rimane sempre vero che il criterio della Riparazione dev’esser l’ « Amore» di cui il dolore non è che la prova più sicura), il quale ebbe una sorella, Simona Denniel, anch’essa religiosa di Maria Riparatrice. Eccone i sentimenti: « Le rose per Lui, per me le spine. Ostia coll’Ostia… ossia per l’Ostia, questa mi pare la sostanza di tutta la mia vita » (Une àme réparatrice. Simone Denniel. Vittel,  Lyon, 1916).Si possono consultare a questo propositomolte altre biografie di contemporanei oltrea quelle da noi ricordate: Zaveria DeMaistre, Teodolinda Dubouché,Maddalena Ulrich, Teresa Durnerin,la M. Maria del Divin Cuore, CatterinaClement e molte altre ancora.E non convien dimenticare che oltre aquesti pochi nomi che la storia può registraree il Signore manifesta a tutti per confortoinsieme e confusione degli uomini,molto più numerose sono certamente quelleanime che si offrono alla riparazione nelsilenzio e nell’oscurità, si consacrano congrande slancio all’opera riparatrice e nonsono conosciute fuorché dal Signore.Oh! sieno benedette queste anime, equelle che rimangono ignorate, sia per lagloria che esse procurano al Sovrano Signoredi tutte le cose, sia per la protezione di cui, anche a nostra insaputa, ci vannoricoprendo. Certi saputi di quaggiù, scrisseRoberto Vallery-Radot, ce si credono invincibili perché ben forniti di cannoni e di munizioni da guerra; essi non si accorgono che sotto la trama degli avvenimenti mostruosi e riboccanti di sangue si svolge tutto un dramma spirituale ineluttabile, il sacrifizio dei più puri … È l’Agnello e non il lupo che scancella i peccati del mondo… Quando i retori dell’antica Roma vedevano nel circo, fra due rappresentazioni degli istrioni, i Cristiani dati in pascolo alle fiere, non vi scorgevano altro che un numero di un trattenimento secondo il gusto di quei giorni. Si sarebbero ben meravigliati quando loro si fosse predetto che quell’oscuro sangue assorbito dalla terra avrebbe germinato un nuovo mondo; e non sarebbe stato preso come un pazzo quel magistrato che dichiarasse le catacombe ben più forti del Foro romano? ». – Anche al presente, come sempre, quelli che soffrono e che espiano « nelle catacombe » sono i principali e più operosi autori della ristorazione soprannaturale. [Tra questi il Santo Padre Gregorio XVIII – ndr.]

https://www.exsurgatdeus.org/2020/08/07/lidea-riparatrice-6/

L’IDEA RIPARATRICE (4)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (4)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO II

Chi deve riparare?

CAPO PRIMO

L’ANIMA CRISTIANA E LA RIPARAZIONE.

L’incarico di condurre a termine la missione — quindi anche la Passione — di Gesù Cristo, spetta in modo eminente e particolare a quelli che vi furono eletti e consacrati.

Non ne viene però che e la Missione e la Passione di Gesù Cristo non interessino punto l’anima cristiana. Ciascuno dei Cristiani può e deve occupare un posto, secondo

la misura della propria generosità, tra le file di quelli che vogliono riparare. A questo li spinga anzitutto un motivo che dovrebbe stimolare anche le anime tiepide: il loro proprio interesse. – Le leggi della giustizia divina sono note a tutti. Noi tutti sappiamo che, se il Signore non vuol far contro sé stesso, ad ogni peccato conviene che infligga, ora o più tardi ma necessariamente, un proporzionato castigo: così pure conviene che il delitto non rimanga fino al termine trionfante. Per gli individui la giustizia di Dio incomincia quaggiù ma sovente vi rimane incompiuta; nella sua misericordia il Signore temporeggia; che se l’uomo si ostina Egli ha nelle sue mani tutta l’eternità. Ma i popoli, le nazioni, che come tali non altra esistenza possono avere che quaggiù, debbono in una maniera o in un’altra espiare i loro falli assolutamente sopra la terra. – Nell’Antico Patto la dimostrazione d’un tale principio è evidente nella storia del popolo di Dio. Ascoltiamo le parole di Jehova riportate dal profeta Geremia al popolo ebreo prevaricatore: « Io chiamerò i popoli dal regno dell’aquilone ed essi verranno a rizzare i loro troni all’ingresso delle porte di Gerusalemme, tutt”attorno alle sue mura, ed in tutte le città di Giuda. E per causa di tutta la loro malizia pronunzierò una severa condanna contro Giuda, perché essi mi hanno abbandonato, ed hanno adorato le fatture delle loro mani » (I. 13). E altra volta: … « Io farò venire dai paesi più lontani un popolo, un popolo potente, un popolo la cui lingua vi sarà talmente nuova che voi non comprenderete nulla di quanto vi dirà. Il suo turcasso ingoierà gli uomini come un sepolcro spalancato; i suoi soldati saranno valorosi. Egli mangerà il vostro grano e il vostro pane e divorerà i vostri figliuoli, saccheggerà i vostri armenti e i vostri buoi, spoglierà le vostre vigne e verrà colla spada in pugno a distruggere le vostre più forti città in cui voi mettete la vostra sicurezza » (v. 15-18). – Nella storia contemporanea non abbiamo bisogno di andar tanto lontano per trovare dei casi consimili a quelli succitati… somiglianze singolari! (Non sarà fuor di proposito far notare che il Signore può benissimo — tutto l’Antico Testamento ce lo prova — servirsi di popoli anche corrotti per dare ad un altro popolo, anche eletto per una missione gloriosa, qualche lezione salutare. Quante volte noi leggiamo nella S. Scrittura: « Io mi servirò del flagello per sceverare il buon grano dalla paglia… e poi lo spezzerò »). Altri prende scandalo perché il Signore segue siffatta legge compensatrice; questo però non prova che tal legge sia ingiusta. Nei casi particolari non sarà sempre lecito a noi il giudizio categorico: questo doloroso caso è l’espiazione di questa piuttosto che di quella colpa; S. Elena, a cagion di esempio, espiazione di Savona e di Fontainebleau. Non così per la legge generale, la quale non è altra: ogni delitto ha la sua pena e Dio, non può esser altrimenti, avrà sempre per sé l’ultima parola. Noi abbiamo altrove affermato che gli avvenimenti così tragici degli anni testé passati possono sotto un certo aspetto, senza timore di paradosso, esser considerati come un’opera di misericordia dalla parte di Dio. Ma nessuno può negare che se vogliamo spiegarci ogni cosa dobbiamo deciderci a scorger in essi un’opera di giustizia divina Soltanto un cieco orgoglio può ostinarsi a negarlo. – « Qua e là giacciono a terra rugginosi e crivellati dalle palle gli strumenti del lavoro. In mezzo al cortile, nel frutteto sotto gli alberi, presso le siepi, un po’ per tutto si aprono le tombe, sorgono le croci. Oh! ditemi, quanto è terribile questa rivincita delle croci! Fino a quando ci ostineremo a non voler comprendere? ». Così ha parlato un soldato (Notice sur l’Abbé Chevolleau, séminariste, caporal au 90° d’inf., mort à Verdun, par EMILE BAUMANN). Quanti hanno visto questo numero senza numero di cimiteri della fronte, questi reggimenti di tombe, si sentirono prepotente spuntare in cuore: « Oh! l’hanno bandita la Croce dai monumenti pubblici, dai tribunali, dalle scuole, dalle pubbliche vie… ed eccola la piccola Croce che compare un po’ per tutto in mezzo ai boschi, lungo le vie e nei giardini ». – Che si andava cercando finora -— e ancora al presente forse troppo spesso — fuorché il piacere, la soddisfazione propria? Anche in seno alle famiglie cristiane quante libertà, quale noncuranza delle leggi anche più rigorose, doveri del matrimonio, osservanza del riposo festivo, santificazione delle feste, rispetto alla roba altrui! Tutta la vita è organizzata contro la sofferenza, non eccettuata quella che è semplice conseguenza di fedeltà ai comandamenti più imperiosi di Dio e della Chiesa… – E il « dolore » aspettava la sua ora, preparava la sua rivincita. La chiamata sotto le armi del 2 agosto 1914 fu ben l’opera sua. E allora s’imposero la separazione, l’ultimo addio, le ansie senza fine… e poi le notizie dolorose… : il caro lontano è ferito, prigioniero, scomparso, … forse più e peggio di tutto questo… è morto! Poveri afflitti! Quanto grande comparve la capacità di soffrire del cuore umano! E fra quanti furono spettatori degli orrori della guerra nessuno potrà mai descrivere la quantità prodigiosa di sacrifizio che in certi momenti, in certi giorni — e furono anche dei mesi interi — hanno saputo dare i nostri soldati alla fronte. Ora tutto questo è finito… e per l’avvenire? Che resterà delle famiglie, delle fortune, del benessere materiale accumulato con tante pene? Come resteremo insensibili alla vista delle angosce e dei dolori che si preparano? Forse che noi potremo far nulla? Noi possiamo molto. Durante la guerra noiabbiamo fatto assegnamento su tre sorta di combattenti. Quelli che in campo lottavano col nemico, quelli che curavano i feriti e quelli che pregavano. I soldati che si sono battuti hanno pagato più che largamente il loro tributo di sangue alla patria. Quanti si sono dedicati alla cura dei feriti l’hanno fatto con uno spirito di sacrifizio senza limiti. Ma la parte che meglio contribuì per la vittoria fu certamente quella sostenuta da quanti perseverarono nella preghiera e nel1’abnegazione propria — e nel numero di costoro dobbiam contare molti che appartennero pure alle due prime schiere di combattenti. Anche questa volta si avverarono le parole di Giovanna d”Arco: « Le mani levate al Cielo ci danno !a vittoria meglio di quelle che impugnano le armi ». – « La misteriosa vittoria della Marna, ha scritto un autore di vedute spesso profonde, forse fu opera della preghiera ben umile di una qualche bambina ». – Di più: « Ecco una povera giovane che prega in una oscura chiesetta devastata. Essa tutto ignora fuorché la forza della preghiera, poiché il Signore ha promesso di concedere quello che noi con semplice confidenza gli domandiamo. …Tendete l’orecchio, sentite nella notte quel rumore assordante di soldati, di cavalli, di carri in marcia …? Questo rumore è il movimento delle labbra di quella semplicetta a cui il Signore non saprà nulla negare ». È un fatto certissimo; l’influsso del soprannaturale ebbe una parte grandissima nella storia degli ultimi anni dal 1914 al 1919. Da noi dipende il far sì che nella storia degli eventi che seguono quegli anni dolorosi questo stesso influsso del soprannaturale vi abbia parte copiosa e sovrabbondante. Noi vediamo pur troppo che la calma stenta a ristabilirsi nelle nazioni e che i popoli hanno bisogno di parafulmini forse più ancora che pel passato. Un po’ per tutto l’agitazione, il malessere: rumori che si fanno sentire, convulsioni che si preparano. Così noi sapessimo capire quanto di azione divina noi possiamo introdurre nella storia degli uomini! Non è che si debba rinunziare all’uso dei mezzi naturali, ma vorremmo poter persuadere a molti — fra i quali non mancano anche dei Cristiani che non credono abbastanza all’efficacia dei mezzi soprannaturali — che appunto servendoci di essi noi potremmo recare molti miglioramenti nei fatti che si svolgono dinanzi a noi. Colui che può influire sopra la Causa prima di ogni cosa può ben dirsi onnipotente: ora la Causa prima d’ogni cosa ha una parte non indifferente nella storia del mondo. Durante una tempesta che infuriava contro le navi di S. Luigi in rotta per la Crociata, si vide il re, dopo aver recitata una breve preghiera, alzarsi pieno di confidenza assicurando che alla flotta non sarebbe accaduto nulla di sinistro. « Donde ricavate questa vostra fiducia? » gli domandarono i suoi, « Laggiù – rispose egli – nel mio monastero di Chiaravalle «i offrono a Dio per noi preghiere e penitenza. Tutto andrà a seconda ». – Pochi anni or sono un Vescovo di Cina fu interrogato quale credesse egli il mezzo più efficace per condurre a Cristo tutto quell’immenso Impero: « Avremmo bisogno, egli rispose, di qualche Carmelitana di più e di qualche Trappista ». Questo vi potrà sembrare mezzo ben sproporzionato per il fine che si vuol ottenere. Ma nulla può contrastare all’evidenza della verità. E la verità è questa: Chi rovina le nazioni? il peccato. Quod evertit nationes, peccatum. Verrà dunque la salvezza dei popoli dalla santità — la santità per mezzo dei due elementi che la costituiscono: la penitenza e la preghiera. – Ne derivano necessariamente due conseguenze. La prima: Interroghiamo noi stessi per conoscere se mai colla nostra vita abbiamo potuto esser causa anche solo in piccola parte dei fatti che deploriamo. V’hanno regioni dell’Oriente in cui, quando si trova il cadavere di un qualche assassinato per via, lo si porta sulla piazza pubblica e tutti gli abitanti del paese debbono giurare di non aver avuto parte alcuna nell’uccisione di quel disgraziato. Dinanzi alla rovina della propria patria ci resta da fare qualche cosa di meglio che il gesto di Pilato e una fredda dichiarazione: « Io sono del tutto innocente di quanto è avvenuto ». Come potremmo sapere fino a qual punto vi hanno contribuito ciascuna delle nostre colpe? Non è forse vero che se il Signore trovava nelle città di Sodoma e di Gomorra qualche giusto di più non le avrebbe incenerite sotto una pioggia di fuoco? Stiamo lontani dal peccato. Quod evertit nationes, peccatum (Prov.. XIV. 31). È il peccato dei singoli uomini che attira, più spesso che noi crediamo, il castigo sulle nazioni. – Anche un solo peccato mortale, per sé stesso, è sufficiente per attirare sulla terra calamità immense. E vero che pochi possono comprender ciò, ma convien pur dire chiara la verità. Difatti il peccato mortale consiste in ciò che. potendo scegliere fra una creatura qualunque e Dio. si preferisce la creatura e si ripudia Dio come se si tentasse di sopprimere il Creatore quando ciò potesse farsi. Di qui ne viene che l’ingiuria fatta all’essere Infinito che è Dio non potrà mai esser compensata quand’anche si annientassero tutte le creature dell’Universo, che son cosa limitata e finita. Questi sono i termini netti del problema e il ricorrere ai brevetti decretati a dotti e scienziati, e il moltiplicare le accuse di barbarie lanciate contro Dio non mutano affatto la sostanza del fatto. – Quanti esempi noi troviamo ancora nella storia del popoli di Dio — se le nostre generazioni potessero ancora interessarsi qualche poco della vita del popolo di Dio — esempi che meditati ci farebbero del bene. Tra i soldati che marciano contro Gerico uno ven’ha che commette un grave fallo. Il Signore aveva comandato che dal bottino nulla fosse passato nelle mani dei soldati, ma tutto fosse riservato pel tempio di Gerusalemme. Quel soldato s’era impadronito d’una verga d’oro e d’un mantello di porpora e li aveva nascosti nella sua tenda, il che era evidentemente contro il volere di Dio. Il popolo di Israele si batte contro i suoi nemici e ne è sconfitto… Un soldato ha disobbedito a Dio e Dio abbandona il popolo d’Israele. Si cerchi il colpevole e paghi il fio della sua colpa. Ciò fatto, Dio dice ad Israele: « Fin da questo momento hai la vittoria in pugno: va pure, combatti nuovamente, io sono con te ». Israele ritorna sul campo, si batte contro il nemico e lo sbaraglia completamente (Jos, 7 e 8). Non vogliamo dire con questo che il Signore abbia l’abitudine di punire sempre con castighi generali le colpe private dei singoli; ciò non avviene specialmente — per nostra buona sorte — nella legge di grazia. Ma non si può negare che il Signore ha il diritto di farlo e che quando lo faccia noi non possiamo tacciarlo d’ingiustizia: e tutti i castighi temporali riuniti insieme non valgono per sé a compensare un solo peccato, perché tra l’infinito e il finito non vi ha proporzione alcuna. Sottentra allora la misericordia di Dio e coll’offerta di una nostra sofferenza domandata e accettata da Dio si possono espiare anche molti peccati, e diremo colle parole stesse di Gesù Cristo a S. Margherita Maria: « un’anima giusta può ottenere il perdono per mille peccatori ». Cosi soltanto, senza rinunziare per nulla ai diritti della sua giustizia, il Signore trova modo di esercitare le sue grandi misericordie. Ma vuole che nella misura più larga che ci è possibile noi gli porgiamo il nostro concorso e che noi concediamo a questa misericordia infinita l’occasione — vorrei dire: il permesso — di mostrarsi per quella che è. Quindi non dobbiamo mostrarci scandalizzati e tanto meno uscire in bestemmie esecrande, come fanno i nostri moderni pagani, per gli avvenimenti che ci sconvolgono o ci fanno soffrire; non dobbiamo prenderci la libertà di criticare tutte le interpretazioni della Storia, ove la sciagura si presenta come l’espiazione delle colpe sociali, come fanno i nostri odierni farisei dalla vita, dicono essi, senza macchia alcuna. Noi dobbiamo invece apprezzare il peccato secondo verità e cercare di evitarlo come il più gran male che possa darsi e per i singoli individui e per le nazioni. Non diremo già che di due nazioni sia la più santa o la meno colpevole quella a cui il Signore concede o permette maggior prosperità; ma è fuor di dubbio che se non di fatto, certo di diritt o un grave delitto può attirare sulla terra le più terribili rovine, e che, se abbiam a cuore il bene degli uomini, il nostro primo pensiero dev’essere di vivere bene, cioè fare ogni sforzo per evitare tutte quelle colpe che l’Altissimo nella sua giustizia non può non punire o nel tempo o nell’eternità. Meditiamo qualche volta le parole seguenti del Newman, parole le quali dopo quanto abbiamo detto fin qui non v’ha pericolo che restino incomprese: « Non immaginiamoci che il Signore usi con noi al presente, perché siamo spettatori delle opere sue, altro modo di punire che pel passato. La principale differenza fra il contegno tenuto da Dio verso i Giudei e quello che ora tiene verso i Cristiani certamente non è altro che questa: pei Giudei il modo era esteriore e visibile, pei Cristiani è intimo e invisibile. Noi non vediamo oggi come in quei tempi gli effetti della collera di Dio. Perché  Egli non si dà la pena di venircelo a dichiarare in persona come faceva coi Giudei o per sé stesso o per mezzo dei Profeti, ma questi effetti non sono perciò meno palpabili, sono anzi più terribili perché proporzionati alle maggiori grazie a noi concesse, e di cui noi purtroppo abusiamo ». Ma la parte che vi deve prendere il Cristiano non deve restare puramente negativa. A ciascuno di noi, se abbiamo desiderio di guarire e prevenire il male, spetta la missione di collocare sulla bilancia divina come contrappeso delle colpe, di cui pur troppo siamo spettatori, una buona misura di fedeltà alla preghiera, di accettazione della sofferenza e di pratica d ogni virtù. E così un motivo d’interesse proprio deve spingere ogni Cristiano alla riparazione. Se egli manca alla parte sua, i suoi fratelli, l’intera comunità, la Società, la Nazione vanno a rischio di espiare la sua noncuranza o il suo colpevole oblio. – Ma ci resta un secondo motivo più nobile, non più di interesse ma di amore. E che? Si può forse veder il Signore trattato così come lo si tratta e non sentire il bisogno di recargli qualche sollievo? Gesù Cristo, il nostro re, il nostro duce è oltraggiato, posto fuori della legge e noi non proviamo un sussulto, uno slancio, un dispiacere, un desiderio? È vero che dopo il giardino degli Olivi, dopo la Croce oramai è avvezzo a vedersi quasi abbandonato da tutti. Ma vorremo abbandonarlo anche noi e non esser invece di quei pochi che gli rimangono fedeli? Dov’è la nostra fede, dove i nobili sentimenti d’un cuore Cristiano? Nessuno vorrà accostarsi per consolar le pene del Maestro? Nessuno vorrà offrirsi per lenire il duolo della Chiesa? Sono forse i soli Sacerdoti e i religiosi che possono comprendere la croce e la miseria delle anime? « Guardatevi tutti intorno, scriveva Manning, e poi ditemi se il mondo è retto dallo Spirito di Dio che ne è il creatore o dallo spirito di satana che ne è l’idolo e la ruina! Noi dovremmo riparare per tutti quelli che furono rigenerati nel Battesimo coll’acqua e collo Spirito Santo e che pure hanno peccato contro di Lui » . E aggiungeva con tristezza: « Ma noi invece restiamo tutto il giorno inoperosi! ». Lo Spirito Santo è tradito ad ogni istante, e non si troverà alcuno per riparare? La Chiesa è presa di mira continuamente dall’una parte senza vergogna alcuna, dall’altra con armi subdole. E noi rimarremo sempre inerti? Alla battaglia di Eylau vedendosi incalzato troppo da vicino dal nemico, Napoleone gridò, se non erro, a Murat: « Non li vedi che ci stanno addosso? Ci lascerai dunque mangiare da quella gente? ». Dunque non abbiamo in cuore qualche po’ di amore? La Madre nostra, la Chiesa, sono parole vuote, senza valore? V’ha chi insulta la Madre nostra e noi lo lasciamo andare impunito? Un tempo se altri avesse recato dispiacere a colei che ci diede la vita, non ci saremmo affrettati intorno ad essa per compensarla tosto colla nostra tenerezza? – « Nel mondo sono necessarie, scriveva Mgr. d’Hulst, delle anime che amando e soffrendo riparino senza far mostra di sé per non spaventare o recar disturbo ad alcuno ». La Dio mercé di tali anime se ne trovano ancora, e certamente anche più di quello che si crede. Una madre, una contadina, è al letto del figlio che muore. Ad un tratto il ragazzo apre gli occhi a stento e: « Madre, geme, un po’ d’acqua, io muoio di sete! » Al pendolo della camera suonano in quell’istante le tre del pomeriggio; la madre prende il Crocefisso e nel metterlo tra le mani scarne del moribondo gli dice con voce interrotta dai singhiozzi: « Mio caro, è l’ora in cui Gesù è morto per te; per conformarti sempre meglio al tuo modello non vorrai trattenerti per qualche istante dal bere? » — « Oh sì. mamma » , risponde il giovane; e accostando alle labbra il divin Crocefisso vi stampa sopra un lungo bacio. Senza pensarci questa donna e il figliuolo suo facevano proprie le parole del Serafino d’Assisi: « Come mai! Voi mio Salvatore, voi siete sulla Croce ed io non mi ci trovo anch’io? ». Col loro eroismo e madre e figlio si collocavano tra le file di quei « buoni Cristiani » di cui parlava il Santo Curato d’Ars quando diceva: « Le persone del mondo si affliggono quando hanno delle croci e i buoni Cristiani invece piangono quando non ne possono avere »  — tra le file dei veri credenti, di quelli che hanno compreso ciò che Fénelon ha definito « il gran mistero del Cristianesimo » . cioè « la crocifissione dell’uomo » in unione colla Crocifissione di Dio. Il vero amore non ha altro modo di mostrarsi che non lasci dubbio della sua sincerità: spinge all’imitazione della persona amata. – Eugenio Courtois. socio della Gioventù Cattolica di Francia, il quale cadde valorosamente durante l’offensiva del 25 settembre 1915, era un bravo operaio convertitosi alla morte del fratello suo. Gli erano familiari le più rigorose penitenze: levarsi di buon mattino per potersi comunicare ogni giorno, assistenza di malati ributtanti, dormire steso sopra una gran croce di legno che egli ponevasi nel letto, e tutto questo mentre aveva al piede una piaga infettiva che per lungo tempo non volle curare per aumentare le sue mortificazioni. Egli si sentiva infelice quando non aveva da soffrire: « Io sono troppo ben trattato a tavola, le privazioni mi mancano… ». Lucilla X … legge, giovanetta ancora, la vita di Maria Celina della Presentazione, morta a diciannove anni nel Convento dell’ave Maria di Talenza, e si decide di consacrarsi anch’essa alla vita di riparazione. Segue gli Esercizi di una Missione predicata a Maubeuge e si conferma sempre più nel suo proposito. Ha fatto la sua prima Comunione nel 1902, e nel 1906, il giorno 2 dicembre, scrive nelle sue note intime: a Gesù, io vi offro il sacrificio della mia vita per la salvezza della mia cara patria. Prendetemi, se vi piace, come vittima per essa ». E il 13 dello stesso mese: « Fatemi soffrire per i delitti commessi dalla Francia ». E il suo ardore porta tutti i segni d’una soda pietà: « Rinnegare me stessa vuol dir compiere il mio dovere a qualunque costo senza badare alla mia soddisfazione. Quando possa scegliere liberamente fra due cose, preferirò quella che meno mi piace. Sacrificherò le mie inclinazioni per seguire piuttosto il gusto altrui … Non darò segno di preferir l’una cosa all’altra, non dirò mai: ” Questo a me piace di più … ». Quanta sapienza in questa fanciulla e che retta intelligenza dello spirito di sacrifizio! Essa non si sbaglia quando rivolgendosi a Dio prega: « Mandatemi da soffrire… E quando avrete incominciato non badate a quello che io vi posso dire allora, o Gesù, ma continuate sempre. Io mi rimetto interamente a voi! » E Gesù non si arrestò più finche il giorno 29 maggio 1907 venne a prendersela per condurla in cielo con Lui. – « Il Cristiano, diceva ancora il Santo Curato d’Ars, vive in mezzo alle croci come il pesce nell’acqua » . S’intende, il Cristiano che ha preso sul serio la dottrina e l’esempio del divin Maestro. È nota la preghiera veramente bella che

Madama Elisabetta compose nelle prigioni del Tempio (Io voglio tutto, tutto accetto e di tutto faccio un sacrificio a voi, mio Dio, e unisco questo mio sacrifizio a quello che vi fece di sé Gesù Cristo, ecc. …. ) e quella del Generale De Sonis: « … O mio Dio, che io sia crocifisso ma per mano vostra! ». Tra le rovine del « Bazar de la Charité », dopo il famoso incendio, sul cadavere d’una giovane di vent’anni furono trovate queste parole tracciate sopra un taccuino, mezzo distrutto dalle fiamme: « O Gesù! io offro la mia vita come vittima in espiazione per amor vostro ». La piccola Bernardetta Dupont nel giorno della sua prima Comunione domanda al Signore di potersi fare poi « religiosa e poi di morire ce martire ». Da Gesù non le fu concessa la prima grazia perché la chiamò a sé nei suoi quindici anni: essa fu esaudita invece nella seconda perché la sua morte fu preceduta da trentadue mesi di penose sofferenze. – Vediamo ora un ufficiale dell’esercito, il Comandante De Robien. Gentiluomo bretone, egli è di buona stirpe: già prima d’ora per ragione della sua fede aveva preferito spezzare la sua spada: sopravviene la guerra, egli vuol partire contro il nemico. Non gli basta un battaglione di territoriali, vuole il servizio di guerra. Di passaggio a Domremy, si getta ai piedi di Giovanna d’Arco e nella sua preghiera ragiona tra sé: « E se mi offrissi per salvare tanti di questi giovani, innocenti dei falli dei padri loro? … », e una voce interna mifa comprendere che il Signore accetta la sua offerta. Ecco arriva l’ordine di partire col 3° degli Zuavi. « Io mi reputo a grande onore di poter soffrire per la mia patria, egli esclama accomiatandosi dai suoi vecchi amici. Poche settimane dopo, in un contrattacco, il Signore accettava di fatto il sacrificio della sua vita. La domenica dopo la sua morte, il sacerdote della parrocchia, suo confidente, poteva dar pubblica lettura ai fedeli di questo ammirabile tratto di lettera: « … Per soddisfare pienamente la giustizia divina, per riscattare la nostra cara patria non è forse necessario che si offrano spontanee in olocausto molte vittime? « Ah! se il Signore mi volesse accettare et me vittima di espiazione per la liberazione della nostra cara patria, con quanta gioia io darei la mia vita per la santa causa della riparazione! « Dopo aver pregato a lungo e sofferto crudelmente al pensiero della mia indegnità, ho creduto bene formulare timidamente questo voto… « Non so se il Signore mi riputerà degno, nonostante i miei gravi difetti, d’un simile onore… Ma se fosse nella mente di Dio di esaudirmi, come potrei trattenermi dal ringraziarlo fin d’ora per la sua indulgenza e per la sua bontà a mio riguardo? ». Ammiriamo quanto Dio solo sa ricavare da quel pugno di fango che è il cuor umano. Mirabilis Deus in sanctis suis. Ammiriamo e procuriamo di comprendere. Molti ignorano siffatti eroismi: gli stessi eroi non sanno di esserlo, per lo più. Chi li conosce ben può dire che ben più numerosa di quanto s’immagina è la schiera di questi eroi: a cominciar da quelli le cui gesta riscuotono il nostro plauso, fino ai più nascosti agli occhi degli uomini, è tutta una gamma e i più umili non sono sempre quelli che meritano meno al cospetto della storia. Sarà però sempre vero che la parte scelta non formerà grande schiera: tuttavia abbiamo potuto vedere che anche nel mondo e in mezzo a quelli che nel mondo vivono, il Signore trova i suoi eletti. – Il R. P. Matteo Crawley, il noto missionario peruviano che ha visitato minutamente varie nazioni, parlando della Francia, ha potuto dire — senza intendere di escludere per ciò le altre nazioni — : « A ciascun delitto sociale ho trovato corrispondere non soltanto un’opera di riparazione, ma tutta una serie di opere riforatrici. « E non si creda spenta questa generosità (di anime cristiane fino al sacrifizio, e talvolta al sacrifizio completo oh! no. Io stesso ho scoperto, e nelle grandi citta e nei piccoli villaggi, qualche milite di questa schiera eletta e di una bellezza morale sfolgorante. – Ma non è troppo facile lo scoprirlo, perché essi sono come quei corsi d’acqua nascosti, causa silenziosa e segreta del bel verde fiorito che si espande tutto attorno ad essi… Anime elette che si trovano un po’ d’ogni parte tra gli alti personaggi e gli uomini influenti tanto quanto tra le persone modeste, umili e piccine. Donde vengono queste anime preziose? « Esse sono le gocce del sangue di una stirpe, la voce delle tradizioni che vivono di un antico succo cristiano, la ricchezza morale d’un organismo tutto impregnato del più puro e più forte Cristianesimo… Ed è con questo frumento che il Cielo ha preparato le ostie redentrici della Francia » (Riprodotto da Les nouvelles religieuses, 1° febbraio 1918, p. 81). – Tocca a noi il custodire con ogni cura i grani scelti di questo puro frumento e, se Dio ci ha posto in cuore il germe di affetti generosi, il ripararci dal gelo dell’indifferenza che domina intorno a noi. Per soffrir volentieri è necessario amare: forse che è cosa difficile l’amare? Il giorno 25 Ventoso 1794, in Parigi, il giudice inquisitore del tribunale rivoluzionario domanda ad una santa fanciulla, Margherita De Pons: « Quali sono le tue opinioni religiose? » . La fanciulla con tutta semplicità risponde: « Io amo con tutto il cuore il mio Dio ». Chi non può ripetere con essa le stesse parole? E questo basta come condizione preliminare per incominciare l’opera riparatrice, e anche nel continuare il lavoro non c’è bisogno di più per condurlo a buon termine: – Amare Iddio con tuttoil proprio cuore.

LO SCUDO DELLA FEDE (122)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE SECONDA

CAPO I .

Quanto convenga che Dio ci guidi per via di fede.

I . Troppo delicata convien che sia di verità quella sposa cui pesano insin le gioie. E tali son l’anime di molti Cristiani, cui sembra di grave incarico la credenza di tanti loro eccelsi misteri. Come? Si stimerà favor sommo, se un re terreno notifichi ad un suo suddito alcun segreto del gabinetto, e poi si stimerà sommo aggravio, se lo notifichi il Re celeste? Io dico, che per tutti capi fu convenevolissimo, che il Signore ci guidasse per via di fede. Convenevolissimo in riguardo suo, convenevolissimo in riguardo nostro, o convenevolissimo in riguardo ancor delle cose che porge a credere.

I.

II. In riguardo suo, non era forse il dovere che qual sovrano venisse Iddio riconosciuto da noi con qualche ossequio proporzionato a quella bella natura che ci donò nel formarci liberi? Ma il più proporzionato appunto era questo: che soggettassimo ai pie di lui con vigore non solamente la volontà, dove ripugnasse, ma l’intelletto. Come poteva però questo eseguirsi, se non in cose difficili di credenza? Perciò sta scritto: Plurima super sensum hominum ostensa sunt tibi(Eccli. 3. 25), perché a queste ancora chinassimo il capo altero.

III. Quindi quale onore sarebbe quello di Dio, se si contentasse, che di Lui non facessimo altro giudizio, che quale a noi vien dettato dal nostro senno? Ecce Deus magnus vincens scientiam nostram (Iob. XXXVI. 36). Convien che tutti, in guisa di abbarbagliati, al fissarci in lui, noi caliamo di subito le palpebre; anzi le chiudiamo, confessando con umiltà, che ci basta il credere quel che non ci è possibile di capire. Il maggior onore che il maestro riceva da’ suoi discepoli ecco qual è: che quegli stiano al suo detto: Discantem oportet credere. E ben tal onore ci venne chiesto da Dio con giustizia grande. Conciossiachè, avendo il primo uomo voluto sì facilmente nel paradiso terrestre stare al detto dell’inimico, benché fosse detto oppostissimo alla ragione; come non era giusto, che dovesse egli stare al detto di Dio? (L’intelligenza divina trascende per infinito eccesso 1’intelligenza umana. Di qui s’intende ragione per cui era conveniente, che il Signore ci guidasse per via di fede. La sapienza di Dio, siccome infinita, fa adeguazione perfetta colla Verità infinita, la quale non potendo perciò essere tutta appresa dalla nostra finita intelligenza, ragion vuole, che sia in parte oggetto di fede).

II.

IV. In riguardo nostro poi, di qual modo potevasi istituire un commercio stabile fra l’uomo e Dio senza la fede? mentre senza la fede né anche può stabilirsi tra uomo e uomo? (S. Aug. de utilit. credend. c. 2). Tuttodì fa d’uopo il fidarsi delle altrui relazioni in affari sommi: e se si crede ad un fantaccino, a un famiglio, come non dovrà darsi fede all’istesso principe? Anzi per abilitarci alla divina amicizia non rimanevaci altra via che la fede, la quale è già come un principio dell’istessa amicizia (mentre è una comunicazione de’ consigli divini ad altrui nascosti), o almanco n’è il fondamento. La visione beatifica è il fondamento di quell’amore, che portano in cielo a Dio tutti i comprensori; e la fede sostituita alla visione beatifica ha da essere il fondamento di quell’amore che in sulla terra parimente gli portano i viatori (S. Th. contra gentes 1. 1. c. 3). Così noi siamo certi di amare Dio, secondo ch’Egli è: che è il solo amor giusto. I beati ne sono certi, perché tale lo veggono qual Egli è: noi, perché tale il crediamo.

V. Ma per procedere in ciò più distintamente, di due generi sono le verità concernenti a Dio. Alcune, che eccedono di gran lunga il vigore della ragione naturale. E tale è l’essere nella sostanza Dio trino ed uno. E certe sì fatte, cui la ragion naturale non pure è losca, ma cieca dal nascimento. Altre, che non lo eccedono in simil modo, ma pure hanno bisogno di molto aiuto a capirsi bene, come sono l’esservi un Autore dell’universo, e questo incorporeo, potente, provvido, giusto, e varie non dissimili verità, che molti filosofi sono arrivati ad investigar con la face pigliata in prestito dal loro attento discorso (S. Th. c. gent. 1. 1. C. 3).

VI. Se noi guardiamo alle prime, qual dubbio v’è, che non fu di bisogno andare per via di fede, ma fu di necessità, mentre la sola fede aveva quivi da fare il tutto? Queste sono quelle verità di cui specialmente disse sant’Agostino, che se noi le volessimo prima conoscere e di poi credere, non le potremmo né credere, né conoscere: Si prius cognoscere et postea credere vellemus, nec credere, nec cognoscere veleremus (Tr. 27. in Io). E però solo potrebbesi da qualcuno qui dubitare, come fosse mai convenevole questo caso, che l’uomo avesse a seguire la fede sola, mentre esser uomo è l’istesso che essere ragionevole? Ma come no, se anzi a perfezionarlo tal è la via? Questa, se si considera, è l’eccellenza d’ogni natura inferiore, e conseguentemente subordinata alla superiore, che, oltre al moto proprio, che è men perfetto, partecipi il moto ancor della superiore, lasciandosi da lei trarre ad operazioni più rilevate della sua nascita (S. T h . 2. 2. q. 2. art. 3. in c.). Così in quei pianeti, che mai non sono atti ad andare da se medesimi senonchè dall’occaso all’orto, acquistano una virtù molto più eccedente, mentre nel tempo stesso, co’ moti del primo mobile, si lasciano rapir dall’orto all’occaso. E tali in noi sono i moti di quella fede che diamo a Dio, non curando di saper altro: moti che ci sollevano ad operar sopra quei che siamo.

VII. E vaglia la verità, mentre era l’uomo stato da Dio sublimato ad un fin sì eccelso, qual è la vision beatifica, visione totalmente spirituale, troppo era giusto, che si andasse prima a ciò disponendo col puro credere quel che poi dovea contemplare: mentre così egli va sollevandosi a poco a poco da’ sensi vili incapaci di veder Dio, alle operazioni totalmente astratte da’ sensi (S. Th. contra gentes 1. 1).

VIII. Che se guardiamo a quelle altre verità divine, cui può il nostro discorso arrivar da sé, fu dì uopo, che queste ancora dovesse l’uomo non solamente indagare , ma ancora credere.

IX. Prima, perché così le dovesse arrivar piuttosto, non si potendo in altra guisa ottenere sopra la terra perfetta scienza della divinità, senza il fondamento di molte scienze anche umane, non conseguibili, senonchè in decorso di tempo (S. Th. 2. 2. q. 2. a. 4. In c. cont. gent. 1. 1. c. 1).

X. Poi, perché cosi tale scienza fosse più agevolmente comune a tutti: ritrovandosi molti rozzi d’ingegno, e molti, se non rozzi, almeno distratti necessariamente in diverse cure, o famigliari, o mercantili, o meccaniche, o militari, che non danno luogo agli studi più sollevati. E questi non hanno anch’essi a sapere ciò che sia Dio?

XI. All’ultimo, perché tale scienza fosse per via di fede anche più infallibile, attesoché nelle verità conseguite per via di puro discorso benché acutissimo, si possono pigliare non pochi abbagli, come li pigliarono tanti filosofi grandi, che di Dio favellarono da bambini: Cui assimilastis me et adæquastis? dicit sanctus (Is. XL. 25).

XII. Qual più bell’onore poteva dunque a noi fare Iddio, che supplire Egli alla nostra incapacità, con fare a noi fin l’interprete di se stesso ? Veggiamo, che a ben intendere la formazione. l’indole, l’industria di una formica, non basterebbero tutti gl’intelletti di questa misera terra congiunti insieme, dopo gli studi di un secolo. Che dunque mai con sicurezza potrebbero supere gli uomini di quella natura increata, la quale è un abisso di luce, se non si fosse ella da se compiaciuta benignamente di dir che sia?

XIII. Aggiungete negli uomini la passione che spesso, benché dotti, fa travederli, come benché dotti, traveggono gli ubbriachi. E se traveggono nelle cose ancor chiare, quanto più travederebbero nelle oscure, quali sono le cose di là da’ sensi? Non era dunque possibile, che gl’intelletti umani per altra via aderissero immobilmente alle notizie del sommo vero, che per via di fede divina, la quale, a guisa di scorta amorevolissima, desse loro anche il braccio fra tanti inciampi, dove altrimenti verrebbero a tracollare di notte folta.

III.

XIV. E qui, per far passaggio al terzo riguardo che ebbe Iddio nel guidarci per via di fede (riguardo appartenente alle cose che diede a credere), ben apparisce subito, quanto sia intollerabile quel linguaggio di certi audaci, i quali, trattando della fede, ne parlano come appunto d’una ignoranza, di una violenza della ragione, di una viltà della mente (Tanto varrebbe tacciare di ignoranza, di violenza della ragione, di viltà di mente la fede, che noi uomini del secolo decimonono prestiamo ai fatti storici avvenuti nei secoli passati, fatti, cui la nostra ragione non avrebbe mai discoperti di per se sola senza l’autorità altrui.). Chi discorre così, merita il titolo dato a lui dall’apostolo dove dice: Superbus est nihil sciens (1. Tim. VI. 4). Egli è un otre vile, tanto più gonfio di sé. quanto più vuoto. La fede è una nobiltà dell’intelletto, che lo rende come di vino: ed è una fortezza, o per dir meglio, una generosità della mente, che per tal via solleva sé sopra sé: Generositas nostri intellectus. come giustamente chiamata fu dal gran vescovo di Parigi (Gal. Paris, de fide c. 1). E queste putride lucciole che ieri non distinguevansi dal letame, per un poco di splendore vacillante che la natura accese loro sul capo, vogliono avanzarsi a motteggiare di semplice quel fedele che crede a Dio? Non credono essi, perché non sanno comandare al loro intelletto, tanto, che si alzi un dito sopra la sfera dei sensi ignobili: Non capiunt fidei magnitudinem angusta impiorum pectora, disse Ambrogio (L. 3. de spir. c. 18), e disse divinamente. Si ravvolgono sempre d’intorno a qualche esperienza sensibile; e nel restante quæcumque ignorant blasphemant. amando per loro guida in ogni giudizio più la fantasia, che la fede, a guisa di quei nobili sventurati, che, allevati da piccoli tra’ bifolchi, non sanno poi concepire sentimenti mai degni de’ loro natali.

XV. Che favellare è cotesto, chiamar la fede una violenza della ragione? La fede non contraddice alla ragione giammai (Non contraddice, né può contraddire alla ragione la fede, perché entrambe illuminate dal medesimo Sole di verità), ma la perfeziona, come di sopra fu scorto: ond’è, che quod mens humana rationis investigatione comprehendere non potest, fidei plenitudo complectitur (Ambr. 1. 4. in Luc.. 5). E così nello verità divine, non indagabili dalla ragion naturale, a noi basta di far palese, che non si oppongono alla ragion dianzi detta (Non ciò, che sta al di sopra della ragione, ossia il mistero, bensì ciò, che va contro di essa, cioè l’assurdo, va rigettato), ma la trapassano, calpestandola solo quando è superba. Nelle indagabili, dimostriamo di più quanto bella lega esse facciano con la ragion naturale, avvalorata da esse, non altrimenti che l’occhio dal cannocchiale. Chi dipinge sull’alabastro, non vi scancella mai le sue vene, ma le promove, e se ne vale a vantaggio. Chi smalta l’oro, nol guasta. Chi ricama sull’ostro, non lo scolora. Come può una luce fare giammai contrasto ad un’altra luce? La fede è una ragion superiore, cioè un raggio diretto del divin volto: e però, come può ella far pregiudizio alla ragione inferiore, la quale è un raggio di quel volto medesimo, ma riflesso? È al certo da cervello sediziosissimo il mettere dissensione tra due luci tanto conformi, quali sono luce riflessa e luce diretta. Sono le scienze confederate alla fede, anzi confinanti. Dove finisce la terra, comincia l’aria. Dove finiscono gli elementi, comincia il cielo. E dove finiscono i lumi dell’intelletto o s’indeboliscono, cominciano i lumi di fede; lumi che sono incomparabilmente più nobili d’ogni scienza, si per l’oggetto conosciuto che è Dio, e le verità promulgate dalla sua bocca; sì per lo modo di conoscere, che è soprannaturale, cioè dipendente da un conforto che avanza tutte le forze della natura: e sì per la certezza di detto conoscimento: certezza tale, che maggiore non truovasi in paradiso, se non quanto quivi vien da cognizione intuitiva, come si accennò da principio, e qui da astrattiva. Nel rimanente ogni atto di fede ha una connessione tanto essenziale con la prima verità, quanto ve l’abbia quello che è di visione.

XVI. Che importa poi, che una tale certezza non sia chiarezza? In due maniere gli orologi solari ci additano il viaggio del sole sull’emispero: alcuni ce lo additano con la luce, altri con l’ombra: e pure amendue sono sicuri a una forma. Sia pur ombra la fede: ciò non rileva, mentre ella ‘tanto accertatamente scopre a’ viatori i disegni eccelsi di Dio, quanto la visione medesima ai comprensori. Oltre a che, il credere è di merito incomparabile: il che non conseguirebbesi nel vedere. Onde se Rachele vince Lia di bellezza, le cede in fecondità.

XVII. Finalmente né anche manca alla fede la sua evidenza, so non nelle cose credute, almeno nelle ragioni induttive a crederle, essendo sì patente aver Dio parlato, che il dubitarne è una ribellion manifesta alla verità: e il biasimare la fede è un arrolarsi nel numero di coloro i quali maledicono il dì comparso a destarli: Qui maledicunt diei (Iob. III. 8).

XVIII. Si concluda pur dunque, che fu giustissimo, che Iddio ci guidasse per via di fede. Fu giusto in riguardo suo, fu giusto in riguardo nostro, e fu giusto ancora in riguardo alle cose che porge a credere. E perciò, se abbiamo fior di saviezza, disponiamoci ad abbracciare ossequiosi questa sì degna fede, non a calunniarla astiosi. Udiamo ciò che da lei ci vien detto al cuore. Ma per udirla, sediamo prima il rumore delle passioni tumultuanti. Se l’aere interno non posa, l’orecchio non ode, a modo o non sente quel suono che è nell’ambiente prossimo, o trasente quel che non v’è.