-LA SEDE IMPEDITA-

-LA SEDE IMPEDITA-

Fr. Jean-Marie Charles-Roux afferma:

Siri fu Eletto Papa nel Conclave del 1958

… e non ha mai Abdicato!

Il ben noto Fr. Jean-Marie Charles-Roux (m. 2014) racconta:

Le baruffe intorno alla stufa!!

 Jean-Marie Charles-Roux è nato a Marsiglia in una famiglia diplomatica francese il 12 dicembre, 1914. I suoi primi ricordi di Roma sono motivati dal fatto che il padre era un membro dell’ambasciata francese al Re d’Italia.

Fr. Jean-Marie Charles-Roux, un ex ufficiale effettivo in forza all’intelligence del Vaticano sostiene che il cardinale Siri di Genova fosse stato eletto ed avesse anche accettato l’Ufficio Papale (1), ma fu poi subito deposto, senza che ci fosse la sua volontà di abdicare (2). Secondo P. Charles-Roux, una minaccia molto grave fu rivolta a Siri dai Cardinali riuniti, attraverso il cardinale Tisserant, decano del Sacro Collegio dei Cardinali, poco dopo l’accettazione della carica da parte del nuovo Papa. I ministri del Conclave avevano già cominciato a bruciare le schede con la paglia secca nella stufa della Cappella Sistina, per produrre il fumo bianco che annunciasse l’elezione del nuovo Papa. Benché gli applausi fragorosi del pubblico dall’esterno cominciassero a farsi sentire da coloro che erano all’interno del conclave, un gruppo di cardinali in accordo con Tisserant [l’infiltrato nel Conclave, agente massonico 33° liv. –ndr.-] comandava ai ministri di modificare la miscela di paglia nella stufa in modo da bagnarla affinché producesse fumo nero.Quando i funzionari del Conclave si rifiutarono di eseguire l’ordine di inviare un falso segnale che potesse indicare risultati elettorali fasulli, un gruppo di cardinali si è avvicinato ai monsignori in disparte cominciando a scaricare paglia bagnata nella stufa. Charles-Roux riporta il curioso episodio che ne seguì: “Successivamente iniziava una “partita di spintoni” per conseguire il controllo della stufa, e le miscele di paglia secca ed umida che venivano scaricate nella stufa stessa da parte dei due gruppi di contendenti, producevano alternativamente un fumo che variava dal bianco al nero, al bianco di nuovo, e, infine, al grigio“.

.(1) La persona che è stata eletta [Papa] acquisisce la piena giurisdizione sulla Chiesa Universale immediatemente e acconsentendo, diventa il Vicario di Cristo in terra. [Cost. Vacante Sede Apostolica, 25 dic. 1904]

(2) In vari incontri clandestini alla fine del 1980 con un sacerdote fidato, il Papa in ostaggio, Gregorio XVII, ha confermato le reali minacce illegali che aveva ricevuto al Conclave del 26 Ottobre 1958.


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La Chiesa perfetta di Cristo ha una “barriera in atto a sua salvaguardia” [legge] per proteggerla contro questo tipo di aggressioni illegali, e che provvidenzialmente fornisce anche il rimedio contro la possibile fragilità umana di uno dei suoi minacciati legali titolari dell’Ufficio. Così, nello stato di timore grave che è stato ingiustamente inflitto a Papa Gregorio XVII (che è durato tutto il suo pontificato), egli non poteva (per legge) dimettersi dal suo ufficio di Papa – anche se lui lo avesse desiderato – come decreta il Codice di diritto canonico della Chiesa: (Codice di Diritto Canonico – 1917:

Canone 185)

Renuntiatio ex metu gravi, iniuste incusso, dolo aut errore substantiali vel simoniace facta, irrita est ipso iure.

[La rinuncia non vale se fatta per timore grave, ingiusto, dolo, errore sostanziale, simonia …”.

Pertanto al posto di Siri, GREGORIO XVII,  sono arrivati gli usurpatori, illegittimi, invalidi, che hanno prodotto atti invalidi ed illegittimi perché ANTIPAPI … e non c’è titolo colorato che tenga …

TEMPO DI QUARESIMA [3]

Capitolo III

PRATICA DELLA QUARESIMA

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, vol. I

Il timore salutare.

Dopo avere impiegato tre intere settimane a riconoscere le malattie della nostra anima e ad approfondire le ferite che ci ha fatte il peccato, ora dobbiamo sentirci preparati alla penitenza. Conosciamo meglio la giustizia e la santità di Dio ed i pericoli ai quali s’espone l’anima impenitente; per operare nella nostra anima un ritorno sincero e durevole, abbiamo abbandonato le vane gioie e le futilità del mondo; fu cosparsa di cenere la nostra testa, ed il nostro orgoglio si dovette umiliare sotto la sentenza di morte che si compirà in ciascuno di noi. Ma nel corso della prova che durerà quaranta giorni, così lunghi alla nostra debolezza, non saremo privati della presenza del nostro Salvatore. Sembrava ch’egli si fosse nascosto ai nostri occhi durante queste settimane, che risuonavano delle maledizioni pronunciate contro l’uomo peccatore; ma la sua assenza ci era salutare: era bene, per noi, imparare a tremare al tuono delle vendette divine. – « Principio della sapienza è il timor di Dio » (Sal. CX, 10); ed è perché siamo stati presi dal timore, che s’è risvegliato nelle nostre anime il sentimento della penitenza.

L’esempio affascinante di Cristo.

Ora, apriamo gli occhi e vediamo. È lo stesso Emmanuele che, raggiunta l’età dell’uomo, si mostra di nuovo a noi, non più sotto le sembianze del dolce bambino che adorammo nella culla, ma simile a un peccatore, tremante e umiliato dinanzi alla suprema maestà che noi abbiamo offesa, ed ai piedi della quale egli s’è offerto in nostra cauzione. Nell’amore fraterno che ci porta, è venuto ad incoraggiarci con la sua presenza ed i suoi esempi. Noi ci dedicheremo per lo spazio di quaranta giorni al digiuno ed all’astinenza: e Lui, l’innocente, consacrerà lo stesso tempo ad affliggere il suo corpo. Ci allontaneremo per un po’ di tempo dai rumorosi piaceri e dalle riunioni mondane: ed Egli si apparterà dalla compagnia e dalla vista degli uomini. Vorremo frequentare con più assiduità la casa di Dio e darci con più ardore alla preghiera: ed egli passerà quaranta giorni e quaranta notti a conversare col Padre, nell’atteggiamento d’un supplicante. Penseremo agli anni trascorsi, nell’amarezza del nostro cuore, e gemeremo a causa delle nostre iniquità: ed Egli le espierà con la sofferenza e le piangerà nel silenzio del deserto, come se le avesse commesse Lui. – È appena uscito dalle acque del Giordano, or ora da Lui santificate e rese feconde, e lo Spirito Santo Lo conduce verso la solitudine. – È giunta l’ora, per Lui, di manifestarsi al mondo; ma prima ha un grande esempio da darci: sottraendosi alla vista del Precursore e della folla, che vide la divina Colomba posarsi sopra di Lui e intese la voce del Padre celeste, si dirige là, verso il deserto. A breve distanza dal fiume s’eleva un’aspra e selvaggia montagna, chiamata in seguito dalle età cristiane la montagna della Quarantena. – Dalla sua ripida cresta si domina la pianura di Gerico, il corso del Giordano e il Mar Morto, che ricorda la collera di Dio. Là, nel fondo d’una grotta naturale approfondita nella roccia, si viene a stabilire il Figlio dell’Eterno, senz’altra compagnia che le bestie, che hanno scelta in quei luoghi la loro tana. Gesù vi penetra senz’alcun alimento per sostenere le sue forze umane; in quello scosceso ridotto manca perfino l’acqua per dissetarlo; solo la nuda pietra si offre a dar riposo alle sue membra spossate. Non prima di quaranta giorni gli Angeli s’avvicineranno e verranno a porgergli il nutrimento. – È così che il Salvatore ci precede e sorpassa nella via della santa Quaresima: provandola e adempiendola prima di noi, per far tacere col suo esempio tutti i nostri pretesti, tutti i nostri ragionamenti, e tutte le ripugnanze della nostra mollezza e della nostra superbia. Accettiamo quest’insegnamento in tutta la sua estensione e comprendiamo finalmente la legge dell’espiazione. Il Figlio di Dio, disceso da quell’austera montagna, apre la sua predicazione con questa sentenza, che indirizza a tutti gli uomini: «Fate penitenza, che il regno dei cieli è vicino » (Mt. IV, 17). Apriamo i nostri cuori a quest’invito del Redentore, affinché non sia obbligato a destarci dal nostro sonno con quella terribile minaccia che fece intendere in altra circostanza: « Se non farete penitenza, perirete tutti » (Lc. XIII, 3).

La vera penitenza.

Ora, la penitenza consiste nella contrizione del cuore e nella mortificazione del corpo: due parti che le sono essenziali. È stato il cuore dell’uomo a volere il male, e spesso il corpo l’ha aiutato a commetterlo. D’altra parte, essendo l’uomo composto dell’uno e dell’altro egli li deve unire entrambi nell’omaggio che rende a Dio. Il corpo avrà parte o alle delizie dell’eternità o ai tormenti dell’inferno; non c’è, dunque, vita cristiana completa, e neppure valida espiazione, se nell’una e nell’altra esso non si associa all’anima.

La conversione del cuore.

Ma il principio della vera penitenza sta nel cuore: lo impariamo dal Vangelo negli esempi del figliuol prodigo, della peccatrice, di Zaccheo il pubblicano e di S. Pietro. Perciò bisogna che il cuore abbandoni per sempre il peccato, che se ne dolga amaramente, che lo detesti e ne fugga le occasioni. A significare tale disposizione la Sacra Scrittura si serve di un’espressione ch’è passata nel linguaggio cristiano, e ritrae mirabilmente lo stato dell’anima sinceramente ravveduta dal peccato: essa lo chiama Conversione. Il cristiano, durante la Quaresima, deve esercitarsi nella penitenza del cuore e considerarla come il fondamento essenziale di tutti gli atti propri di questo santo tempo. Ma sarebbe sempre illusoria, se non aggiungesse l’omaggio del corpo ai sentimenti interni ch’essa ispira. Il Salvatore, sulla montagna non s’accontenta di gemere e di piangere sui nostri peccati: li espia con la sofferenza del proprio corpo; e la Chiesa, ch’è la sua infallibile interprete, ci ammonisce che non sarà accolta la penitenza del nostro cuore, se non l’uniremo all’esatta osservanza dell’astinenza e del digiuno.

Necessità dell’espiazione.

Come s’illudono, dunque, tanti onesti cristiani che si credono irreprensibili, specialmente quando dimenticano il loro passato e si paragonano agli altri, e, pienamente soddisfatti di se stessi, non riflettono mai ai pericoli d’una vita comoda ch’essi contano di condurre fino all’ultimo momento! A volte essi credono di non dover più pensare ai loro peccati: non li hanno confessati sinceramente? La regolarità con la quale conducono ormai la vita non è prova della loro solida virtù? Che hanno ancora da fare con la giustizia di Dio? E li vediamo puntualmente sollecitare tutte le dispense possibili, nella Quaresima: perché l’astinenza sarebbe loro d’incomodo, e il digiuno non è più conciliabile con la salute, con le occupazioni e le abitudini di oggi. Non pretendono affatto di essere migliori di questi e quelli che non digiunano e non fanno astinenza; e siccome non sono neppure capaci di avere il pensiero di supplire con altre pratiche di penitenza, quelle prescritte dalla Chiesa, è chiaro che, senza accorgersi e insensibilmente, finiranno col non essere più cristiani. – La Chiesa, testimone di questa spaventevole decadenza del senso soprannaturale, temendo una resistenza che accelererebbe ancora di più le ultime pulsazioni d’una vita moribonda, continua ad allargare la via delle mitigazioni; nella speranza di conservare una scintilla di cristianesimo, in un avvenire migliore, essa preferisce affidare alla giustizia di Dio i figli che non l’ascoltano più, quando indica loro i mezzi di propiziarsi quella giustizia fin da questo mondo. – E quei cristiani s’abbandonano alla massima sicurezza, senza darsi mai il pensiero di paragonare la loro vita con gli esempi di Gesù Cristo e dei Santi, e con le norme secolari della penitenza cristiana.

Dispense e tiepidezza.

Vi sono senza dubbio delle eccezioni ad un simile pericoloso rilassamento, ma quanto sono rare, specialmente nelle nostre città! Quali pregiudizi, quali vani pretesti e quali infausti esempi contribuiscono a guastare le anime! Quante volte, dalla bocca di quegli stessi che si gloriano della prerogativa di cattolici, si sente pronunciare l’ingenua scusa che non fanno astinenza e non digiunano, perché l’astinenza e il digiuno li mettono a disagio e li affaticano troppo! come se l’astinenza e il digiuno non avessero precisamente lo scopo d’imporre su questo corpo di peccato (Rom. VI, 6) un giogo penoso! Veramente costoro sembrano aver perduto il senno. Ma quanto sarà grande la loro meraviglia quando il Signore, nel giorno del suo giudizio li metterà a confronto con tanti poveri musulmani che, in seno ad una religione tanto sensuale e depravata, pure sanno trovare in sé ogni anno, il coraggio d’adempiere le due privazioni dei trenta giorni del loro Ramadan! – Ma è proprio necessario confrontarli con altri quelli che si dicono incapaci di sopportare le astinenze e i digiuni così ridotti di una Quaresima, quando Dio li vede ogni giorno sovraccaricarsi di tante e ben più penose fatiche nella ricerca degli interessi e dei godimenti di questo mondo? Quanta salute sciupata nei piaceri, almeno frivoli, e sempre pericolosi! l’avessero invece mantenuta in tutto il suo vigore, e fosse stata la loro vita regolata e dominata dalla legge cristiana, piuttosto che dal desiderio di piacere al mondo! Ma la rilassatezza è tale, che non si concepisce nessun turbamento e nessun rimorso; si rimandala Quaresima al Medio Evo, senza osservare che la remissività della Chiesa ha sempre proporzionato le osservanze alla nostra debolezza fisica e morale. S’è conservata o riconquistata, per la misericordia divina, la fede dei padri; e non ci si è ancora ricordati che la pratica della Quaresima è un indice essenziale di cattolicesimo, e che la Riforma protestante del XVI secolo ebbe come una delle sue principali finalità, scritta pure sulla sua bandiera, l’abolizione dell’astinenza e del digiuno.

Dispensa legittima e necessità del pentimento.

Ma, si dirà, non vi possono essere delle legittime dispense? Sicuramente ve ne sono, e, in questo secolo di svigorimento generale, ben di più che nei secoli precedenti. Però stiamo bene attenti a non equivocare. Se tu hai forze per tollerare altre fatiche, perché non ne avrai per compiere il dovere dell’astinenza? Che se ti arresta il timore d’un lieve incomodo, hai dimenticato che i peccati non saranno rimessi senza espiazione? L’opinione dei medici che presagiscono un indebolimento delle tue forze, in seguito al digiuno, può avere una fondata ragione; ma la questione è di sapere, se questa mortificazione della carne, la Chiesa non te la prescrive. appunto nell’interesse della tua anima. Ma ammettiamo pure che la dispensa sia legittima, che la tua salute incorrerebbe un vero pericolo, e che, se osservassi alla lettera le prescrizioni della Chiesa, ne soffrirebbero i tuoi doveri essenziali; in questo caso, pensi di sostituire con altre opere di penitenza quelle che le tue forze non ti permettono di praticare? chiedi a Dio la grazia di potere, un altr’anno, partecipare ai meriti dei tuoi fratelli, adempiendo con essi quelle sante pratiche che devono essere il motivo della misericordia e del perdono? Se è così, la dispensa non ti nuocerà; e quando la festa di Pasqua inviterà i figli fedeli della Chiesa alle sue ineffabili gioie, anche tu potrai unirti fiducioso a quelli che avranno digiunato; perché, se la debolezza del tuo corpo non t’avrà permesso di seguirli esteriormente, il tuo cuore sarà rimasto fedele allo spirito della Quaresima.

Beneficio dell’istituzione del digiuno.

Scrivendo queste pagine, abbiamo di mira solo i lettori cristiani che ci hanno seguiti fino a questo punto; ma che sarebbe, se dovessimo considerare il risultato della sospensione delle sante leggi della Quaresima sopra la massa delle popolazioni, specialmente delle città? Perché i nostri scrittori cattolici, i quali hanno illustrate tante questioni, non hanno insistito sui tristi effetti che produce nella società la cessazione d’una pratica che, mentre ricorda ogni anno il bisogno dell’espiazione, conserverebbe più d’ogni altra istituzione il sentimento del bene e del male? Non occorre riflettere a lungo, per comprendere la superiorità di un popolo che s’impone, per quaranta giorni all’anno, una serie di privazioni, allo scopo di riparare le violazioni da esso commesse nell’ordine morale, sopra un altro che in nessun periodo dell’anno pensa alla riparazione ed all’emendaménto

Coraggio e confidenza.

Si rianimino di coraggio, dunque, i figli della Chiesa, ed aspirino a quella pace della coscienza ch’è solo assicurata all’anima veramente penitente. L’innocenza perduta si riacquista con l’umile confessione della colpa, quando è accompagnata dall’assoluzione del sacerdote; ma il fedele si guarderà bene dal pericoloso pregiudizio, che non ha più niente da fare dopo il perdono. Ricordiamo l’avvertimento così grave dello Spirito Santo nella Scrittura : « Del peccato perdonato non essere senza timore » (Eccli. V, 5). La certezza del perdono è in ragione del mutamento del cuore; e tanto più uno si può abbandonare alla confidenza, quanto più costante ha in sé il dispiacere dei peccati e la premura di espiarli per tutta la vita. « L’uomo non sa se sia degno di amore o di odio » (Eccli. IX, 1), aggiunge la Scrittura; e può sperare d’essere degno di amore colui che sente in sé di non essere abbandonato dallo spirito di penitenza.

La preghiera.

Entriamo dunque risoluti nella santa via che la Chiesa apre davanti a noi, e fecondiamo il nostro digiuno con gli altri due mezzi che. Dio ci indica nei Libri sacri: la Preghiera e l’Elemosina. Come con la parola digiuno la Chiesa intende tutte le opere della mortificazione cristiana, così con quella della preghiera essa comprende tutti quei pii esercizi, per mezzo dei quali l’anima s’indirizza a Dio. – La frequenza più assidua alla chiesa, l’assistenza quotidiana al santo Sacrificio, le devote letture, la meditazione sulle verità della salvezza e sui patimenti del Redentore, l’esame di coscienza, la recita dei Salmi, l’assistenza alla predicazione particolare di questo santo tempo, e soprattutto il ricevere i Sacramenti della Penitenza e della Eucaristia, sono i principali mezzi coi quali i fedeli possono offrire al Signore l’omaggio della loro Preghiera.

L’elemosina.

L’elemosina contiene tutte le opere di misericordia verso il prossimo; e i santi Dottori della Chiesa l’hanno all’unanimità raccomandata, come il complemento necessario del Digiuno e della Preghiera durante la Quaresima. È una legge stabilita da Dio, alla quale Egli stesso ha voluto assoggettarsi, che la carità esercitata verso i nostri fratelli, con l’intenzione di piacere a Lui, ottiene sul suo cuore paterno lo stesso effetto che se fosse esercitata direttamente verso Lui; tale è la forza e la santità del legame col quale ha voluto unire gli uomini fra di loro. E, come Egli non accetta l’amore di un cuore chiuso alla misericordia, così riconosce per vera, e come diretta a sé, la carità del cristiano che, sollevando il proprio fratello, onora quel vincolo sublime, per mezzo del quale tutti gli uomini sono uniti a formare una sola famiglia, il cui Padre è Dio. Appunto in virtù di questo sentimento, l’elemosina non è semplicemente un atto di umanità, ma s’innalza alla dignità d’un atto di religione, che sale direttamente a Dio e ne placa la giustizia. – Ricordiamo l’ultima raccomandazione che fece l’Arcangelo San Raffaele alla famiglia di Tobia, prima di risalire al cielo : « Buona cosa è la preghiera col digiuno, e l’elemosina val più dei monti di tesori d’oro, perché l’elemosina libera dalla morte, purifica dai peccati, fa trovare la misericordia e la vita eterna » (Tob. XII, 8-9). Non è meno precisa la dottrina dei Libri Sapienziali: « L’acqua spegne la fiamma, e l’elemosina resiste ai peccati » (Eccli. III, 33). « Nascondi l’elemosina nel seno del povero, ed essa pregherà per te contro ogni male » (Ibid. XXIX, 15). Che tali consolanti promesse siano sempre presenti alla mente del cristiano, e ancor più nel corso di questa santa Quarantena; e che il povero, il quale digiuna per tutto l’anno, s’accorga che questo è un tempo in cui anche il ricco s’impone delle privazioni. Di solito una vita frugale genera il superfluo, relativamente agli altri tempi dell’anno; che questo superfluo vada a sollievo dei Lazzari. Niente sarebbe più contrario allo spirito della Quaresima, che gareggiare in lusso e in spese di mensa con le stagioni in cui Dio ci permette di vivere nell’agiatezza che ci ha data. È bello che, in questi giorni di penitenza e di misericordia, la vita del povero si addolcisca, a misura che quella del ricco partecipa di più a quella frugalità ed astinenza, che sono la sorte ordinaria della maggior parte degli uomini. Allora, sia poveri che ricchi, si presenteranno con sentimento veramente fraterno a quel solenne banchetto della Pasqua che Cristo risorto ci offrirà fra quaranta giorni.

Lo spirito di raccoglimento.

Finalmente, v’è un ultimo mezzo per assicurare in noi i frutti della Quaresima, ed è lo spirito di raccoglimento e di separazione dal mondo. Le abitudini di questo santo tempo devono distinguersi sotto ogni rapporto da quelle del resto dell’anno; altrimenti l’impressione salutare che abbiamo ricevuta nel momento che la Chiesa c’imponeva la cenere sulla fronte, svanirà in pochi giorni. Perciò il cristiano deve far tregua coi vani divertimenti del secolo, con le feste mondane e coi trattenimenti profani. Quanto agli spettacoli perversi e svenevoli, o alle veglie di piacere, che sogliono essere lo scoglio della virtù e il trionfo dello spirito del mondo, se in nessun tempo è lecito al discepolo di Gesù Cristo comparirvi, se non per una situazione particolare o per pura necessità, come potrebbe intervenirvi in questi giorni di penitenza e di raccoglimento, senza rinnegare in qualche maniera il suo nome di cristiano, e senza rinunciare a tutti i sentimenti di un’anima penetrata del pensiero delle sue colpe e del timore dei giudizi di Dio? La società cristiana oggi, purtroppo, non ha più, durante la Quaresima, quella gravità esteriore di austera tristezza che abbiamo ammirato nei secoli di fede; ma fra Dio e e l’uomo, e l’uomo e Dio, nulla è mutato; e rimane sempre la grande parola: «Se non farete penitenza, perirete tutti». Oggi sono molto pochi a dare ascolto a quella parola, e per questo molti periscono.Ma coloro nei quali essa cade, devono ricordarsi degli ammonimenti che dava il Salvatore nella Domenica di Sessagesima: egli diceva che parte della semente viene calpestata dai passanti, o divorata dagli uccelli dell’aria; parte è seccata dall’aridità dei sassi che la ricevono; e parte, infine, è soffocata dalle spine. Perciò, non risparmiamo cure, affinché diventiamo quella buona terra, che non solo riceve la semente, ma ne centuplica i frutti per la raccolta del Signore che s’avvicina.

L’attraente austerità della Quaresima.

Leggendo queste pagine, nelle quali ci siamo sforzati d’esprimere il pensiero della Chiesa così come ci viene significato, oltre che nella Liturgia, anche nei santi canoni dei Concili e negli scritti dei santi Dottori, forse più d’uno dei nostri lettori avrà rimpianto la dolce e graziosa poesia, di cui si mostrava ricco l’anno liturgico nei quaranta giorni che celebrammo la nascita dell’Emmanuele. Già il Tempo della Settuagesima venne a stendere un mesto velo su quelle sorridenti immagini; ed ora siamo entrati in un deserto arido, irto di spine e privo d’acque zampillanti. Ma non dobbiamo dolercene, perché la Chiesa conosce i nostri veri bisogni e li vuole appagare. – Per avvicinarci al Bambino Gesù, essa non ci chiese che una leggera preparazione, con l’Avvento, perché i misteri dell’Uomo-Dio erano ancora all’inizio. Molti vennero al presepio con la semplicità dei pastori betlemiti, non conoscendo ancora abbastanza né la santità del Dio incarnato, né la precaria e colpevole condizione della loro anima; ma oggi che il Figlio dell’Eterno è entrato nella via della penitenza, e fra poco Lo vedremo in preda a tutte le umiliazioni e a tutti i dolori, sull’albero della croce, la Chiesa ci fa uscire dalla nostra sciocca sicurezza, e vuole che ci percotiamo il petto, che affliggiamo le nostre anime e mortifichiamo i nostri corpi, perché siamo peccatori. La penitenza dovrebbe essere il retaggio dell’intera nostra vita; le anime ferventi non l’interrompono mai; è quindi giusto e salutare per noi, che una buona volta ne facciamo almeno la prova, in questi giorni che il Salvatore soffre nel deserto, in attesa del momento in cui spirerà sul Calvario. Raccogliamo ancora dalle sue labbra le parole che rivolse alle donne di Gerusalemme che piangevano al suo passaggio, il giorno della sua Passione: « Ché se si tratta così il legno verde, che sarà del secco?» (Lc. XXIII, 31). Ma, per la misericordia del Redentore, il legno secco può riprendere la linfa e sfuggire al fuoco. Tale è la speranza e il desiderio della santa Chiesa, ed è per questo che ci impone il giogo della Quaresima. Percorrendo costantemente questa via faticosa, i nostri occhi a poco a poco vedranno brillare la luce. Se eravamo lontani da Dio col peccato, questo santo tempo sarà la nostra via purgativa, come dicono i mistici dottori; e i nostri occhi si purificheranno, perché arrivino a contemplare il Dio vincitore della morte. Se poi camminiamo già nei sentieri della via illuminativa, dopo aver approfondito così vantaggiosamente la bassezza dalle nostre miserie, nel Tempo della Settuagesima, ritroveremo ora Colui ch’è la nostra Luce; infatti, se abbiamo saputo vederlo sotto le sembianze del Bambino di Betlem, Lo riconosceremo anche, senza fatica, nel divino Penitente del deserto e presto nella vittima sanguinante del Calvario.

TEMPO DI QUARESIMA [2]

Capitolo II

MISTICA DELLA QUARESIMA

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico vol I]

Non ci si deve meravigliare se un tempo così sacro come quello della Quaresima sia così pieno di misteri. La Chiesa, che la considera come la preparazione alla più gloriosa delle sue feste, ha voluto che questo periodo di raccoglimento e di penitenza fosse caratterizzato dalle circostanze più idonee a risvegliare la fede dei cristiani ed a sostenere la loro costanza nell’opera dell’espiazione annuale. – Nel Tempo della Settuagesima riscontrammo il numero settuagenario, che ci richiamava i settant’anni della cattività in Babilonia, dopo i quali il popolo di Dio, purificato dalla sua idolatria, doveva rivedere Gerusalemme e celebrarvi la Pasqua. Ora è il numero quaranta che la santa Chiesa presenta alla nostra religiosa attenzione, il numero che, al dire di S. Girolamo, è sempre quello della pena e dell’afflizione (Comm. d’Ezechiele, c. XX).

Il numero 40 e il suo significato.

Ricordiamo la pioggia dei quaranta giorni e delle quaranta notti, causata dai tesori della collera di Dio, quando si pentì d’aver creato l’uomo (Gen. VII, 12) e sommerse nei flutti il genere umano, ad eccezione d’una sola famiglia. Pensiamo al popolo ebreo che errò quaranta anni nel deserto, in punizione della sua ingratitudine, prima di poter entrare nella terra promessa (Num. XIV, 33). Ascoltiamo il Signore, che ordina al profeta Ezechiele (IV, 6) di starsene coricato quaranta giorni sul suo lato destro, per indicare la durata d’un regno al quale doveva seguire la rovina di Gerusalemme. Due uomini, nell’Antico Testamento, hanno la missione di raffigurare nella propria persona le due manifestazioni di Dio: Mosè, che rappresenta la Legge, ed Elia, nel quale è simboleggiata la profezia. L’uno e l’altro s’avvicinano a Dio; il primo sul Sinai (Es. XXIV,18), il secondo sull’Oreb (III Re XIX, 8); ma sia l’uno che l’altro non possono accostarsi alla divinità, se non dopo essersi purificati con l’espiazione in un digiuno di quaranta giorni. – Rifacendoci a questi grandi avvenimenti, riusciremo a capire perché mai il Figlio di Dio incarnato per la salvezza degli uomini, avendo deciso di sottoporre la sua divina carne ai rigori del digiuno, volle scegliere il numero di quaranta giorni per quest’atto solenne. – L’istituzione della Quaresima ci apparirà allora in tutta la sua maestosa severità, e quale mezzo efficace per placare la collera di Dio e purificare le nostre anime. Eleviamo dunque i nostri pensieri al di sopra dello stretto orizzonte che ci circonda, e vedremo lo spettacolo di tutte le nazioni cristiane del mondo, offrire in questi giorni al Signore sdegnato quest’immenso quadragenario dell’espiazione; e nutriamo la speranza che, come al tempo di Giona, egli si degnerà anche quest’anno fare misericordia al suo popolo.

L’esercito di Dio.

Dopo queste considerazioni relative alla durata del tempo che dobbiamo passare, apprendiamo ora dalla Chiesa sotto quale simbolo essa considera i suoi figli durante la santa Quarantena. La Chiesa vede in essi un immenso esercito, che combatte giorno e notte contro il nemico di Dio. Per questa ragione il Mercoledì delle Ceneri essa ha chiamato la Quaresima la carriera della milizia cristiana. – Per ottenere infatti quella rigenerazione che ci farà degni di ritrovare le sante allegrezze dell’Alleluia, noi dobbiamo aver trionfato dei nostri tre nemici: il demonio, la carne e il mondo. Insieme al Redentore che lotta sulla montagna contro la triplice tentazione e lo stesso Satana, dobbiamo essere armati e vegliare senza stancarci. Per sostenerci con la speranza della vittoria ed animarci a confidare nel divino soccorso, la Chiesa ci presenta il Salmo XC, che colloca fra le preghiere della Messa nella prima Domenica di Quaresima, e del quale attinge quotidianamente molti versetti per le diverse Ore dell’Ufficio. Con la meditazione di quel Salmo vuole che contiamo sulla protezione che Dio stende sopra di noi come uno scudo; che attendiamo all’ombra delle sue ali; che abbiamo fiducia in lui, perché Egli ci strapperà dal laccio del cacciatore infernale, che ci aveva rapita la santa libertà dei figli di Dio; che siamo assicurati del soccorso dei santi Angeli, nostri fratelli, ai quali il Signore ha dato ordine di custodirci in tutte le nostre vie, e che, testimoni riverenti della lotta sostenuta dal Salvatore contro Satana, s’avvicinarono a Lui dopo la vittoria per servirLo e rendere i loro omaggi. Entriamo nei sentimenti che la santa Chiesa ci vuole ispirare, e durante questi giorni che dovremo lottare ricorriamo spesso al bel canto che essa ci indica come l’espressione più completa dei sentimenti che devono animare, in questa santa campagna, i soldati della milizia cristiana.

La pedagogia della Chiesa.

Ma la Chiesa non si limita a darci una semplice parola d’ordine contro le sorprese del nemico; per occupare tutta la nostra mente ci mette davanti tre grandi spettacoli, che si svolgeranno giorno per giorno fino alla festa di Pasqua, e ciascuno dei quali ci procurerà delle pie emozioni insieme alla più solida istruzione. Gesù Cristo perseguitato e mandato a morte. Prima assisteremo alla fine della congiura dei Giudei contro il Redentore: congiura che si inizia ora per esplodere il Venerdì Santo, quando vedremo il Figlio di Dio inchiodato sull’albero della Croce. Le passioni che si agitano in seno alla Sinagoga si manifesteranno di settimana in settimana, e noi le potremo seguire in tutto il loro svolgersi. La dignità, la pazienza e la mansuetudine dell’augusta vittima ci appariranno sempre più sublimi e più degne di un Dio. Il dramma divino che vedemmo aprirsi nella grotta di Betlem continuerà fino al Calvario; e per seguirlo, non abbiamo che da meditare le letture del Vangelo che la Chiesa ci presenterà giorno per giorno.

La preparazione al Battesimo.

In secondo luogo, ricordandoci che la festa di Pasqua è per i Catecumeni il giorno della nuova nascita, riandremo col pensiero a quei primi secoli del Cristianesimo, quando la Quaresima era l’ultima preparazione dei candidati al Battesimo. La sacra Liturgia ha conservata la traccia di quell’antica disciplina, di modo che, mentre ascolteremo le splendide letture dei due Testamenti, con le quali terminava l’ultima iniziazione, ringrazieremo Dio, che si degnò di farci nascere in tempi, nei quali il bambino non deve più attendere l’età dell’uomo per esperimentare le divine misericordie. Penseremo pure a quei nuovi Catecumeni che, anche ai nostri giorni, nei paesi evangelizzati dai nostri moderni apostoli, aspettano, come nei tempi antichi, la grande solennità del Salvatore che vince la morte, per discendere nella sacra piscina ed attingervi un nuovo essere.

La pubblica penitenza.

Finalmente durante la Quaresima dobbiamo richiamare alla memoria quei pubblici Penitenti che, espulsi solennemente dall’assemblea dei fedeli il Mercoledì delle Ceneri, formavano in tutto il corso della santa Quarantena un oggetto di materna preoccupazione per la Chiesa, che doveva ammetterli, se lo meritavano, alla riconciliazione, il Giovedì Santo. Una serie ammirabile di letture destinata alla loro istruzione e ad interessare i fedeli a loro favore, scorrerà sotto ai nostri occhi; poiché la Liturgia non ha perduto niente di quelle solide tradizioni. Ci ricorderemo allora con quale facilità sono state a noi perdonate le iniquità, che forse nei secoli passati non ci sarebbero state rimesse, se non dopo dure e solenni espiazioni; e, pensando alla giustizia del Signore, che non muta mai, qualunque siano i cambiamenti che l’accondiscendenza della Chiesa introdusse nella sacra disciplina, ci sentiremo tanto più portati ad offrire a Dio il sacrificio d’un cuore veramente contrito e ad animare con un sincero spirito di penitenza, le piccole soddisfazioni che presenteremo alla sua divina Maestà.

Riti e Usanze Liturgiche.

Per conservare al sacro tempo della Quaresima il carattere di austerità che gli conviene la Chiesa, per moltissimi secoli, si mostrò molto riservata nell’ammettere feste in questo periodo dell’anno, perché esse recano sempre con sé dei motivi di gioia. Nel IV secolo, il Concilio di Laodicea già mostrava tale disposizione nel suo Canone, là dove permetteva di celebrare la festa dei Santi solo i sabati e le domeniche. La Chiesa greca si mantenne in questo rigore, e solo parecchi secoli dopo il Concilio di Laodicea permise, per il 25 marzo, la festa dell’Annunciazione. – La Chiesa Romana conservò per lungo tempo questa disciplina, almeno all’inizio; però ammise molto presto la festa dell’Annunciazione, ed in seguito quella dell’Apostolo S. Mattia, il 24 febbraio e in questi ultimi secoli aprì il suo calendario a diverse altre feste nella parte corrispondente alla Quaresima, ma sempre però con limitata misura, per rispettare lo spirito dell’antichità. – La ragione per cui la Chiesa Romana ammise più facilmente le feste dei Santi nella Quaresima è che gli Occidentali non ritengono la celebrazione delle feste incompatibile col digiuno; mentre i Greci sono persuasi del contrario, tanto che il sabato, considerato sempre dagli Orientali un giorno solenne, non è mai per loro, giorno di digiuno, a meno che sia il Sabato Santo. Per lo stesso motivo essi non digiunano il giorno dell’Annunciazione, per riguardo alla solennità di tale festa. – Questo modo di pensare degli Orientali diede origine, verso il VII secolo, ad un’istituzione ch’è loro particolare, chiamata da essi la Messa dei Presantificati, cioè delle cose consacrate in un Sacrificio precedente. Ogni domenica di Quaresima il celebrante consacra sei ostie, di cui una la consuma nel Sacrificio, le altre cinque sono riservate per una semplice comunione da farsi in ciascuno dei cinque giorni seguenti, senza Sacrificio. La Chiesa latina pratica questo rito una sola volta l’anno, il Venerdì Santo, e per una ragione profonda che spiegheremo a suo tempo. – Il principio di tale usanza presso i Greci è scaturito evidentemente dal 49.0 Canone del Concilio di Laodicea, che prescrive di non offrire il pane del Sacrificio in Quaresima, se non il sabato e la domenica. Nei secoli seguenti i Greci conclusero da questo canone che la celebrazione del Sacrificio non si poteva conciliare col digiuno; e da una loro controversia avuta nell’XI secolo col legato Umberto (Contro Niceta, t. IV), sappiamo, che la Messa dei Presantificati, che ha in suo favore un canone del famosissimo concilio chiamato in Trullo, tenuto nel 692, era giustificata dai Greci da ciò che in quel Canone si affermava e cioè che la comunione del corpo e del sangue del Signore rompeva il digiuno quaresimale. – I Greci celebrano detta cerimonia la sera, dopo l’Ufficio dei Vespri; in essa il solo celebrante si comunica, come da noi il Venerdì Santo. Però da molti secoli, fanno eccezione per il giorno dell’Annunciazione, nella quale solennità, siccome è sospeso il digiuno, celebrano il Sacrificio e i fedeli si comunicano. La norma del Concilio di Laodicea pare non sia stata mai accolta dalla Chiesa d’Occidente, e non troviamo, a Roma, nessuna traccia della sospensione del Sacrificio in Quaresima. – La mancanza di spazio ci obbliga a non accennare che leggermente a tutti i dettagli di questo capitolo. Se non che ci resta ancora da dire qualche cosa circa le consuetudini della Quaresima in Occidente. – Già ne abbiamo fatte conoscere e spiegate parecchie del Tempo della Settuagesima. La sospensione dell’Alleluia, l’uso del colore violaceo nei paramenti sacri, la soppressione della dalmatica del diacono e della tunica del suddiacono; i due inni gioiosi “Gloria in excelsis” e “Te Deum laudamus”, entrambi proibiti; il Tratto, che supplisce nella Messa il versetto alleluiatico; l’ “ite, Missa est”, sostituito da un’altra formula; l’Oremus della penitenza che si recita sul popolo a fine Messa, nei giorni della settimana in cui non si celebra la festa d’un Santo; i Vespri sempre anticipati prima di mezzogiorno, eccetto le Domeniche: sono diversi riti già noti ai nostri lettori. Quanto alle cerimonie attualmente in uso, rimangono da notare le preghiere che si fanno in ginocchio alla fine d’ogni Ora dell’Ufficio, nei giorni feriali, ed anche la consuetudine in virtù della quale nei medesimi giorni, tutto il Coro rimane genuflesso durante l’intero Canone della Messa. – Ma le nostre Chiese d’Occidente praticavano ancora in Quaresima altri riti, che da parecchi secoli sono caduti in disuso, sebbene alcuni di essi si siano conservati, in talune località, fino ai nostri giorni. Il più imponente di tutti era quello di stendere un gran velo, ordinariamente di colore violaceo, chiamato cortina, fra il coro e l’altare, così che né il clero né il popolo potevano più vedere i santi Misteri che vi si celebravano dietro. Il velo simboleggiava il dolore della penitenza, al quale si deve sottoporre il peccatore, per meritare di contemplare di nuovo la maestà di Dio, il cui sguardo fu oltraggiato dalle sue iniquità [«Sappiamo dall’antica disciplina della Chiesa, che i pubblici penitenti erano sottoposti, durante la santa Quarantena, ad un regime speciale di penitenza, che cominciava in Quaresima con l’imposizione delle ceneri e l’espulsione dalla chiesa, e terminava il Giovedì Santo con la pubblica riconciliazione. Ora, a mano a mano che lo stretto regime della penitenza pubblica andò scemando, l’idea della pubblica penitenza si estese alla generalità dei fedeli. Cosi noi vediamo il clero e i fedeli chiedere ben presto spontaneamente l’imposizioni delle ceneri e, con ciò stesso, riconoscersi, in qualche maniera, pubblici penitenti: è come se l’intera comunità dei fedeli passasse la Quaresima nella pubblica penitenza. « Ma. benché considerati come peccatori e penitenti, non potevano evidentemente tutti i fedeli esser cacciati fuori dalla chiesa; si doveva, allora, assolutamente rinunciare a ricordar loro alcune grandi verità che la Liturgia inculcava ai pubblici penitenti? I peccatori meritavano d’essere esclusi dalla Chiesa, come Adamo era stato cacciato dal paradiso a causa della sua colpa; senza penitenza non era possibile raggiungere il regno del cielo e la visione di Dio. Quindi, non ha forse cercato la Liturgia di ribadire questa verità in una maniera sensibile, nascondendo alla loro vista l’altare, il santuario, l’immagine di Dio e quella dei Santi uniti a lui nella gloria celeste? » – C. Callewaert, Sacris erudit., p. 699]. – Esso significava anche le umiliazioni di Cristo, che furono scandalo alla superbia della Sinagoga, ma poi scomparvero tutto ad un tratto, come un velo che in un attimo si toglie, per dar luogo agli splendori della Risurrezione (Onorio d’Autun, Gemma animæ, 1. III, c. XVI). La medesima usanza, fra gli altri luoghi, è rimasta anche nella Chiesa metropolitana di Parigi. In molte Chiese c’era anche la consuetudine di velare la croce e le immagini dei santi fin dall’inizio della Quaresima, per ispirare una più viva compunzione ai fedeli, i quali si vedevano così privati della consolazione di posare lo sguardo sopra gli oggetti cari alla loro pietà. Però questa pratica, che s’è pure conservata in alcuni luoghi (come nel Rito Ambrosiano) è meno giustificata di quella della Chiesa Romana, la quale copre i crocifissi e le immagini solo nel tempo di Passione, come a suo luogo spiegheremo. Apprendiamo dagli antichi cerimoniali del Medio Evo, che si solevano fare durante la Quaresima numerose processioni da una chiesa all’altra, particolarmente i mercoledì e i venerdì; nei monasteri queste processioni si facevano attraverso i chiostri, ed a piedi nudi (Martène, De antiquis Ecclesiae ritibus, t. III, c. XVIII). Erano un’imitazione delle stazioni di Roma, che in Quaresima sono giornaliere, e che, per molti secoli, cominciavano con una processione solenne alla chiesa stazionale. – Finalmente, la Chiesa ha sempre moltiplicato le sue preghiere durante la Quaresima. Fino a questi ultimi tempi la disciplina voleva che nelle chiese cattedrali e collegiali, purché non esenti da una consuetudine contraria, si doveva aggiungere alle Ore Canoniche: il lunedì l’Ufficio dei Morti, il mercoledì i Salmi Graduali, e il venerdì i Salmi Penitenziali. Nelle Chiese di Francia, nel Medio Evo, si doveva aggiungere un Salterio intero, ogni settimana, all’Ufficio ordinario (Martène, ivi, t. III, c. XVII

Calendario Liturgico della vera Chiesa cattolica: MARZO

MARZO è il mese che la Chiesa dedica a SAN GIUSEPPE.

[TEMPO DI QUARESIMA]

Il tempo di Quaresima inizia il 1 marzo 2017 e si protrae fino al 15 Aprile 2017 (Sabato santo). Questo è un periodo di digiuno ed astinenza. – Siamo obbligati al digiuno ed all’astinenza durante questo periodo. Tale periodo di astinenza dura 40 giorni in commemorazione dei quaranta giorni di digiuno trascorsi da Gesù nel deserto. Escluse le domeniche della Quaresima, si hanno esattamente 40 giorni dal Mercoledì delle Ceneri fino al Sabato Santo.

Il mercoledì delle ceneri ed il Sabato santo: giorni di digiuno e completa astinenza.

Tutti i venerdì di Quaresima: Giorno di digiuno ed astinenza completa

Tutti i giorni di Quaresima (eccetto la domenica): digiuno e astinenza parziale.

Di seguito, la lista delle feste di Marzo 2017

1 Marzo: Mercoledì delle ceneri.

3 Marzo: Primo VENERDI’ – Sacra corona di spine.

4 Marzo: Primo SABATO – S. Casimiro confessore, semplice, Comm. S. Lucio Papa e Martire.

5 Marzo: I Domenica di Quaresima, Doppio di I Classe. 

6 Marzo: Ss. Perpetua e Felicita Martiri, Doppio.

7 Marzo: S. Tommaso d’Aquino, Confessore e Dottore della Chiesa, doppio.

8 Marzo 8: MERCOLEDI’ DI QUATEMPORA / S. Giovanni di Dio Confessore, Doppio.

9 Marzo: S. Francesca Romana Vedova, Doppio.

10 Marzo 10: VENERDI’ DI QUATEMPORA /I 40 Santi Martiri. Semplice. Ven. dopo la I Dom. di Quar.: Sacra lancia e Chiodi di Nostro Signore

11 Marzo: SABATO DI QUATEMPORA

12 Marzo: II Domenica di Quaresima, Doppio di I Classe. 

17 Marzo: S. Patrizio Vescovo e Confessore. Doppio; Ven. dopo la II Dom. di

Quar.: Santo Sudario di nostro Signore.

18 Marzo: S. Cirillo Vescovo di Gerusalemme, Confessore e dottore della Chiesa, Doppio

Marzo 19: III Domenica di Quaresima, Doppio di I Classe. 

Marzo 20: San GIUSEPPE, Sposo della Santa Vergine Maria, Confessore e Patrono universale della Chiesa. Doppio di I Classe.

21 Marzo: S. Benedetto Abate, Doppio maggiore.

24 Marzo: S. Gabriele Arcangelo, Doppio Maggiore; Ved. Dopo la III Dom. di Quar.: le cinque sante piaghe di Nostro Signore.

25 Marzo: Annunciazione della Santa Vergine Maria, Doppio di I Classe.

26 Marzo: IV Domenica di Quaresima, Doppio di I Classe. 

27 Marzo: S. Giovanni Damasceno, Confessore e Dottore della Chiesa. Doppio.

28 Marzo: S. Giovanni Capistrano, confessore, Doppio.

31 Marzo 31: Ven. Dopo la IV Dom. Di Quar.: Il prezioso Sangue di Nostro Signore.

 

TEMPO DI QUARESIMA [I]

 

TEMPO DI QUARESIMA [I]

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, vol I]

 

Capitolo I

STORIA DELLA QUARESIMA

Chiamiamo Quaresima quel periodo di preghiera e di penitenza, durante il quale la Chiesa prepara le anime a celebrare degnamente il mistero della Redenzione.

La preghiera.

A tutti i fedeli, anche i più ferventi, essa offre questo tempo come ritiro annuale, che loro offre l’occasione di riparare le negligenze passate e ravvivare la fiamma del loro zelo. Offre ai catecumeni, come nei primi secoli, l’istruzione e la preparazione alla fede battesimale; richiama ai penitenti la gravità del peccato, per eccitarli al pentimento ed ai buoni propositi, e promette loro il perdono del Cuore di Nostro Signore. – Nel 490 capitolo della sua Regola, S. Benedetto raccomanda ai suoi monaci che si applichino, durante questo santo tempo, ad una preghiera « accompagnata da lacrime », siano esse del pentimento o dell’amore.

Nella Messa di ciascun giorno il cristiano, a qualsiasi stato appartenga, troverà le più belle formule di preghiere, con le quali si rivolgerà a Dio. Antiche spesso di quindici e più secoli, s’adattano sempre alle aspirazioni d’ognuno ed ai bisogni di tutti i tempi.

La penitenza.

La penitenza s’esercita, o meglio s’esercitava, principalmente mediante la pratica del digiuno. Le temporanee dispense concesse dal Sovrano Pontefice alcuni anni fa non costituiscono per noi una ragione sufficiente di sottacere un dovere così importante, al quale fanno incessante allusione le Orazioni d’ogni Messa di Quaresima, e di cui tutti devono almeno conservare lo spirito, qualora la durezza dei tempi che si attraversano o la gracilità della salute non ne permetterà l’osservanza in tutta la sua estensione e il suo rigore. Essa risale ai primi tempi del cristianesimo, ed è anche anteriore. La pratica del digiuno fu osservata dai Profeti Mosè ed Elia, i cui esempi ci saranno esposti il mercoledì della prima settimana di Quaresima; per quaranta giorni e quaranta notti fu osservata da Nostro Signore in modo assoluto, senza prendere il minimo alimento; e sebbene egli non abbia voluto farne un precetto, che non sarebbe stato più suscettibile di dispense, pure tenne a dichiarare che il digiuno, spesso comandato da Dio nell’Antica Legge, sarebbe stato anche osservato dai figli della Nuova Legge. – Un giorno i discepoli di Giovanni s’avvicinarono a Gesù e gli dissero: « Per qual motivo, mentre noi e i Farisei digiuniamo spesso, i tuoi discepoli non digiunano ? E Gesù rispose loro: Com’è possibile che gli amici dello sposo possano fare lutto finché lo sposo è con loro? Verranno poi i giorni in cui lo sposo sarà loro tolto, ed allora digiuneranno » (Mt. 9, 14-15). – I primi cristiani si ricordarono di quelle parole di Gesù, e cominciarono molto presto a passare nel digiuno assoluto i tre giorni (che per loro era uno solo) del mistero della Redenzione, cioè dal giovedì Santo al mattino di Pasqua. Fin dal II e III secolo abbiamo la prova che in parecchie Chiese si digiunava il Venerdì e il Sabato Santo e S. Ireneo, nella Lettera al Papa S. Vittore, afferma che molte Chiese d’Oriente facevano la stessa cosa durante l’intera Settimana Santa. Il digiuno pasquale si estese poi nel IV secolo, fino a che la preparazione alla festa di Pasqua, attraverso un periodo di crescente aumento, divenne di quaranta giorni, cioè Quadragesima o Quaresima. – La più antica menzione della « Quarantena », in Oriente, si riscontra nel V can. del Concilio di Nicea (325). Il Vescovo di Tmuis, Serapione, attesta a sua volta, nel 331, che la « Quaresima » era al suo tempo una pratica universale, sia in Oriente che in Occidente. I Padri, come S. Agostino (Discorso 210) dicono antichissima tale pratica; e S. Leone (Discorso 6) arriva a pensare, però a torto, che risaliva ai tempi apostolici. I primi a parlarci del digiuno quaresimale furono i Padri, e tra loro S. Ambrogio e S. Girolamo. I Sermoni di S. Agostino dimostrano che la Quaresima cominciava sei domeniche prima di Pasqua. Siccome la domenica non si digiunava, non rimanevano che 34 giorni, 36 col Venerdì e il Sabato Santo; tuttavia la Quaresima restava sempre una « quarantena » di preparazione alla solennità della Pasqua. Difatti anche allora, e come adesso, non era il digiuno l’unico mezzo per prepararsi alla Pasqua. – S. Agostino insiste che al digiuno vada aggiunto: il fervore della preghiera, l’umiltà, la rinuncia dei desideri meno buoni, la generosità nell’elemosina, il perdono delle offese e la pratica d’ogni opera di pietà e di carità. – Della medesima durata consta in Ispagna nel VII secolo, nella Gallia e a Milano. Per S. Ambrogio il Venerdì Santo è la grande solennità del mondo: la stessa festa di Pasqua, comprende il triduo della morte, della sepoltura e della Risurrezione di Cristo (Lettera 23.a). La domenica s’interrompeva il digiuno, ma non s’abbandonava mai, grazie alla Liturgia, il colore penitenziale. – Anche S. Leone afferma che la Quaresima è un periodo di quaranta giorni che termina il Giovedì Santo sera; e, come S. Agostino, dopo aver insistito sui vantaggi del digiuno corporale, raccomanda energicamente l’esercizio della mortificazione e della penitenza, e sopra tutto l’aborrimento del peccato e la pratica fervente delle opere buone e di tutte le virtù.

Necessità della penitenza.

La necessità della penitenza è sempre attuale. Nell’epoca nostra di sensualità, in cui sembra caduta in disuso la mortificazione corporale, non crediamo sia inutile spiegare ai cristiani l’importanza e l’utilità del digiuno. A favore di questa santa pratica stanno le divine Scritture, sia del Vecchio che del Nuovo Testamento; anzi si può dire che vi si raggiunge la testimonianza della tradizione di tutti i popoli; infatti, l’idea che l’uomo possa placare la divinità con opere di espiazione del suo corpo, è costante presso tutti i popoli della terra e la troviamo in tutte le religioni, anche le più lontane dalla purezza delle tradizioni patriarcali.

Il precetto dell’astinenza.

Il precetto cui furono sottoposti i nostri progenitori nel paradiso terrestre, osservano S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo, S. Girolamo e S. Gregorio Magno, era un precetto di astinenza, e per non aver essi rispettata questa virtù precipitarono nell’abisso del male, trascinando seco tutta la discendenza. La vita di privazioni, alla quale il re decaduto della creazione si vide condannato sulla terra, che doveva produrgli solo triboli e spine, giorno per giorno giustificò tale legge d’espiazione, che il Creatore impose alle membra ribelli dell’uomo peccatore. – Fino all’epoca del diluvio i nostri antenati si sostentarono unicamente dei frutti della terra, che ricavavano con sudato lavoro. In seguito, per supplire in qualche maniera all’indebolimento delle forze della natura. Dio permise che si nutrissero della carne degli animali. – Ugualmente Noè, forse per ispirazione di Dio, cominciò a spremere il succo della vite; e così un altro alimento venne a soccorrere la debolezza dell’uomo.

Astinenza dalla carne e dal vino.

La natura del digiuno fu quindi determinata in base ai diversi elementi che servivano al sostentamento dell’uomo. A principio dovette solo consistere nell’astinenza dalla carne degli animali, essendo meno indispensabile alla vita tale alimento, dono dell’accondiscendenza di Dio. Per molti secoli, come anche oggi nelle Chiese d’Oriente, erano proibite le uova e tutti i latticini, per essere sostanze ricavate dagli animali; ed anche nelle Chiese latine non erano permesse, fino al XIX secolo, se non in virtù di un’annuale dispensa più o meno generale. Il rigore dell’astinenza dalla carne era tale, che a principio non veniva sospesa neppure la domenica di Quaresima, quando invece s’interrompeva il digiuno; e quelli che erano dispensati dal digiunare durante la settimana, rimanevano sempre tenuti a detta astinenza, salvo una dispensa particolare. – Nei primi secoli del cristianesimo il digiuno comprendeva anche l’astinenza dal vino: lo afferma S. Cirillo di Gerusalemme (IV Catechesi), S. Basilio (X Omelia sul Digiuno), S. Giovanni Crisostomo (IV Omelia al popolo d’Antiochia), Teofilo d’Alessandria, ecc. Ma questo rigore scomparve ben presto fra gli Occidentali, mentre durò più a lungo fra i cristiani d’Oriente.

Unico pasto.

Da ultimo, per essere completo, il digiuno doveva limitare anche la misura dei cibi, fino alla privazione dell’alimentazione ordinaria: in tal senso non tollera che un solo pasto quotidiano. Ciò si deduce e risulta da tutta la pratica della Chiesa, sebbene molteplici modifiche vennero a prodursi, di secolo di secolo, nella disciplina della Quaresima.

Il pasto dopo i Vespri.

La costumanza giudaica, che nel Vecchio Testamento era di posticipare al tramonto del sole l’unico pasto consentito nei giorni di digiuno, passò nella Chiesa cristiana e fu seguita anche dai paesi occidentali, ove venne conservata a lungo immutabile. Però dal IX secolo essa cominciò a mitigarsi lentamente nella Chiesa latina, come risulta, a quell’epoca, da un Capitolare di Teodolfo, Vescovo d’Orléans, nel quale il prelato protesta contro coloro che si credono in diritto di pranzare all’ora di Nona, cioè tre ore dopo mezzogiorno. Ma il rilassamento, a poco a poco, insensibilmente, si estese; infatti nel secolo successivo abbiamo la testimonianza del celebre Rathier, Vescovo di Verona, il quale, in un Discorso sulla Quaresima, riconosceva ai fedeli la facoltà di rompere il digiuno dopo Nona. Si trovano ancora tracce di richiami e contestazioni dell’XI secolo, in un Concilio di Rouen, che proibiva ai fedeli di pranzare prima che non fosse cominciato in chiesa l’Ufficio dei Vespri, terminata l’Ora di Nona: ma si trova qui già l’uso di anticipare l’ora dei Vespri, per dar modo ai fedeli di consumare prima i loro pasti. Fino quasi a quest’epoca era infatti rimasta in vigore la costumanza di non celebrare la Messa, nei giorni di digiuno, se non dopo aver cantato l’Ufficio di Nona, che aveva inizio alle tre pomeridiane, e di non cantare i Vespri se non dopo il tramonto del sole. – Ma se andava sempre più mitigandosi la disciplina del digiuno, mai la Chiesa credette giusto d’invertire l’ordine delle Ore, che risaliva alla più remota antichità. Successivamente, essa anticipò prima i Vespri, poi la Messa, infine Nona, per far sì che i Vespri terminassero prima di mezzogiorno, dato che l’uso aveva autorizzati i fedeli a fare i loro pasti a metà del giorno.

Il pasto dopo Nona.

Sappiamo da un passo di Ugo di S. Vittore, che nel XII secolo l’uso di rompere il digiuno all’ora di Nona era divenuto generale (Della Regola di S. Agostino, c. 3); pratica che fu consacrata nel XIII secolo dall’insegnamento dei teologi scolastici. Alessandro di Ales, nella sua Somma, lo insegna formalmente (P. 4, Quest. 28, art. 2), e S. Tommaso d’Aquino non è meno esplicito (2, 2, Quest. 147, art. 7).

Il pasto a mezzogiorno.

Ma questa mitigazione doveva ancora allargarsi, perchè sappiamo che alla fine del medesimo XII secolo il teologo Riccardo di Middleton, celebre francescano, insegnava non doversi considerare violatore del digiuno chi pranzava all’ora di Sesta, cioè a mezzogiorno perché, dice, quest’uso è ormai prevalso in moltissimi luoghi, e l’ora nella quale si può mangiare non è così essenziale al digiuno quanto l’unicità del pasto (Nella 4.3 Dist. 15, art. 3, quest. 8). Il XIV secolo sancì con una pratica ed un insegnamento formale l’opinione di Riccardo di Middleton. Citeremo a testimonianza il famoso teologo Durando di Saint-Pourcain, domenicano e Vescovo di Meaux, il quale senz’alcuna difficoltà fissa all’ora di mezzogiorno il pasto dei giorni di digiuno; perché questa è, dice, la pratica del Papa, dei Cardinali e anche dei Religiosi (Nella 4.a Dist. 15, quest. 9, art. 7). Non ci sorprenderà più, quindi, di vedere tale insegnamento sostenuto nel XV secolo dai più gravi autori, come S. Antonino, Stefano Poncher, Vescovo di Parigi, il Card. Gaetano, ecc. Invano Alessandro di Ales e S. Tommaso cercarono di riportare all’ora di Nona la cessazione del digiuno; furono gli ultimi scogli da superare; poi l’attuale disciplina s’impose, per così dire, fin dai loro tempi.

La « colazione ».

A causa d’essere stata anticipata l’ora del pranzo, il digiuno, che consiste essenzialmente nel mangiare un unico pasto, era divenuto difficile a praticarsi, a motivo del lungo intervallo di tempo fra un mezzogiorno e l’altro. Per cui bisognò venire incontro ancora una volta all’umana debolezza, autorizzando la cosidetta « colazione ». – L’origine di questo uso è pure antichissima e deriva dalle costumanze monastiche. La Regola di S. Benedetto prescriveva una quantità di altri digiuni, oltre a quello della Quaresima ecclesiastica; ma ne temperava il rigore permettendo un pasto all’ora di Nona: il che rendeva quei digiuni meno penosi di quello della Quaresima, perché a questo erano tenuti tutti i fedeli, secolari e religiosi, fino al tramonto del sole. Per altro, siccome i monaci dovevano sostenere le dure fatiche dei campi, nell’estate e nell’autunno, quando i digiuni fino all’ora di Nona erano così frequenti da diventare giornalieri, a partire dal 14 settembre, gli Abati, usando d’una facoltà contemplata nella Regola, permisero ai religiosi di bere verso sera un bicchiere di vino prima di Compieta, per ristorare le forze stanche delle fatiche del giorno. Tale ristoro si prendeva in comune, mentre si faceva la lettura della sera chiamata Conferenza, in latino Collatio, e che consisteva per lo più nel leggere le famose Conferenze (Collationes) di Cassiano: da qui derivò la parola colazione data a quel piccolo sollievo del digiuno monastico. – Nel IX secolo l’Assemblea d’Aquisgrana (817 – Labbe, Conciles t. VII) estende ugualmente tale facoltà al digiuno della Quaresima, per la straordinaria fatica che sostenevano i monaci nell’assolvere ai divini Uffici di questo sacro tempo. Ma in seguito si accorsero che il solo uso di quella bevanda poteva nuocere alla salute, se non vi si aggiungeva qualche cosa di solido; e dal XIV al XV secolo s’introdusse la consuetudine di distribuire ai religiosi un pezzettino di pane, che mangiavano nella « colazione » della sera quando bevevano quel bicchiere di vino. – Naturalmente, introdottesi nei chiostri mitigazioni del genere sul digiuno primitivo, si estesero ben presto anche a vantaggio dei secolari; il che avvenne a poco a poco, con la facoltà di bere fuori dell’unico pasto; e nel XIII secolo S. Tommaso stesso, studiando il caso se il bere rompesse il digiuno, concluse negativamente (4.a Quest. 147, art. 6); ma continuò ad ammettere che invece lo rompeva l’aggiunta di qualsiasi nutrimento solido. Quando alla fine del XIII secolo e durante il XIV fu, definitivamente, anticipato il pranzo a mezzogiorno, non poteva più bastare, alla sera, una semplice bevuta di vino, a reggere le forze del corpo; di conseguenza s’introdusse, prima nei chiostri, e poi fuori, la consuetudine di prendere, oltre quella bevanda, pane, verdura e frutta, sempre a condizione d’usare di quegli alimenti con tale moderazione da non trasformare mai la « colazione » in un secondo pasto.

Astinenza dai latticini.

Tali furono le conquiste che ottennero sull’antica osservanza del digiuno, sia il rilassamento del primitivo fervore, sia l’indebolimento generale delle forze fisiche, presso i popoli occidentali. Ma non sono questi gli unici temperamenti che dobbiamo rilevare. Per molti secoli l’astinenza dalla carne comprendeva la proibizione di tutto ciò che proveniva dal regno animale, escluso il pesce, per diverse misteriose ragioni fondate sulle sacre Scritture. I latticini d’ogni sorta furono per molto tempo proibiti; a Roma fino a pochi anni fa erano proibiti il cacio e il burro tutti i giorni nei quali non si poteva mangiar carne. – L’uso dei latticini in Quaresima si andò affermando dal ix secolo in poi nell’Europa occidentale, specialmente in Germania e nelle regioni settentrionali. Invano cercò di eliminarlo, nell’xi secolo, il Concilio di Kedlimbourg, (Labbe, Conciles, t. x) di modo che, dopo aver legittimata la pratica mediante dispense temporanee che ottenevano dai Sommi Pontefici, quelle Chiese finirono per usufruirne pacificamente per l’inveterata consuetudine. Le Chiese di Francia mantennero l’antico rigore fino al xvi secolo, anzi sembrò non cedere del tutto fino al xvu secolo; tanto che, per riparare alla breccia fatta all’antica disciplina, e quasi a compensare con un atto pio e solenne il rilassamento circa l’articolo dei latticini, d’allora in poi tutte le parrocchie di Parigi, alle quali si univano i Domenicani, i Francescani, i Carmelitani e gli Agostiniani, si recavano in processione alla Chiesa di Notre-Dame la Domenica di Quinquagesima; nello stesso giorno il Capitolo Metropolitano, col clero delle quattro parrocchie dipendenti, andava a fare una stazione nel cortile della Curia e a cantare un’Antifona davanti alla Reliquia della vera Croce, che si esponeva nella Cappella Santa. Queste belle tradizioni, aventi Io scopo di tenere impressa nella memoria l’antica disciplina, durarono fino alla Rivoluzione.

Astinenza dalle uova.

La facoltà di usare dei latticini non comprendeva l’uso delle uova in Quaresima. Su questo punto rimase per molto tempo in vigore l’antica norma di concedere questo cibo solo se compreso nella dispensa che si soleva dare annualmente. Fino al XIX secolo a Roma non si potevano mangiare le uova nei giorni in cui non era stata concessa la dispensa dell’uso della carne; altrove, le uova in certi giorni erano permesse, in altri no, specie durante la Settimana Santa; mentre l’attuale disciplina non conosce più tali restrizioni.- Se non che la Chiesa, sempre preoccupata del bene spirituale dei suoi figli, e nel loro interesse, ha cercato di mantenere in vigore tutto ciò ch’è stato possibile delle osservanze salutari che li devono aiutare a soddisfare la giustizia divina. In virtù di questo principio Benedetto XIV, allarmato fin dal suo tempo dell’estrema facilità con cui si moltiplicavano da per tutto le dispense circa l’astinenza, con una solenne Costituzione, in data io giugno 1745, rinnovò la proibizione, oggi nuovamente abolita, di mangiare nello stesso pasto pesce e carne nei giorni di digiuno.

Enciclica di Benedetto XIV.

Fin dal primo anno del suo pontificato, il 30 maggio 1741, lo stesso Pontefice indirizzò una Lettera Enciclica a tutti i Vescovi del mondo Cattolico, esprimendo il suo vivo dolore nel costatare rilassamento che s’introduceva ovunque con indiscrete e ingiustificate dispense. – « L’osservanza della Quaresima, diceva il Pontefice, è il vincolo della nostra milizia; con quella ci distinguiamo dai nemici della Croce di Gesù Cristo; con quella allontaniamo i flagelli dell’ira divina; con quella, protetti dal soccorso celeste durante il giorno, ci fortifichiamo contro i prìncipi delle tenebre. Se ci abbandoniamo a tale rilassamento, è tutto a detrimento della gloria di Dio, a disonore della religione cattolica, a pericolo per le anime cristiane; né si deve dubitare che tale negligenza non possa divenire sorgente di sventure per i popoli, di rovine nei pubblici affari e di disgrazie nelle cose private » (Costituzione « Non ambigimus »). Sono passati due secoli dal solenne monito del Pontefice, ma purtroppo quel rilassamento che egli volle frenare andò sempre più crescendo. Nelle nostre città, quanti cristiani si possono contare fedeli all’osservanza quaresimale? Ora dove ci condurrà questa mollezza che aumenta senza limiti, se non al decadimento universale dei costumi e perciò allo sconvolgimento della società ? Già le dolorose predizioni di Benedetto XIV si sono visibilmente avverate. Le nazioni che conobbero l’idea della espiazione sfidano la collera di Dio; per loro non resta altra sorte che la dissoluzione o la conquista. Per ristabilire l’osservanza domenicale in seno alle popolazioni cristiane asservite all’amore del danaro e degli affari sono stati compiuti coraggiosi sforzi, coronati da insperati successi. Chissà che il braccio del Signore, alzato a percuoterci, non s’arresti alla vista d’un popolo che comincia a ricordarsi della casa di Dio e del suo culto! Dobbiamo sperarlo: ma questa speranza sarà più solida quando vedremo i cristiani della nostra società rammollita e degenerata rientrare, come gli abitanti di Ninive, nella via da tempo abbandonata dell’espiazione e della penitenza.

Le prime dispense.

Riprendiamo ora la narrazione storica e segnaliamo ancora alcuni tratti della fedeltà degli antichi cristiani alle sante osservanze della Quaresima. Non sarà qui fuori proposito richiamare la formalità delle prime dispense il cui ricordo è conservato negli Annali della Chiesa; vi si attingerà un salutare insegnamento.

Ai fedeli di Braga (Portogallo).

Nel XIII secolo l’Arcivescovo di Braga fece ricorso al Romano Pontefice, allora Innocenzo III, per fargli presente che la maggior parte del suo popolo era stato costretto a mangiar carne durante la Quaresima a causa d’una carestia che aveva privata la provincia di tutte le ordinarie provvigioni; il prelato chiedeva al Papa quale riparazione poteva imporre ai fedeli per questa violazione forzata dell’astinenza quaresimale. Inoltre consultava il Pontefice sulla condotta da tenere riguardo ai malati, che chiedevano la dispensa per l’uso degli alimenti grassi. La risposta d’Innocenzo III, ch’è inserita nel Corpo del Diritto (Decretali, 1. 3 sul digiuno, tit. xlvi), è piena di moderazione e di carità, com’era da attendersi. Ma da questo fatto noi comprendiamo ch’era tale allora il rispetto della legge generale della Quaresima, da riconoscere che solo l’autorità del Sommo Pontefice poteva sciogliere i fedeli. I secoli successivi non intesero diversamente il caso delle dispense.

Al re Venceslao.

Venceslao, re di Boemia colpito da un’infermità che gli rendeva nociva alla salute l’alimentazione quaresimale, si rivolse nel 1297 a Bonifacio VIII, per ottenere il permesso di mangiare carne. Il Papa incaricò due Abati dell’Ordine dei Cistercensi per informarlo sullo stato reale della salute del monarca; e dietro loro favorevole rapporto, accordò la dispensa richiesta, ma ingiungendo le seguenti condizioni: si sincerassero che il re non si fosse imposto con voto di digiunare a vita durante la Quaresima; i venerdì, i sabati e la vigilia di S. Mattia erano esclusi dalla dispensa; finalmente il re doveva prender cibo privatamente, e farlo con sobrietà.

Ai re di Francia.

Nel secolo xiv abbiamo due Brevi di dispensa, indirizzati da Clemente VI, nel 1351, a Giovanni re di Francia ed alla regina sua sposa. Nel primo il Papa, avuto riguardo al fatto che il re, durante le guerre di cui si occupa, si trova spesso in luoghi dov’è raro il pesce, concede al suo confessore il potere di permettere a lui ed al suo seguito l’uso della carne, fatta riserva, però, dell’intera Quaresima, dei venerdì e di certe Vigilie dell’anno; assodato inoltre, che né il re né i suoi si fossero legati con voto all’astinenza per tutta la vita (D’Achery, Spicilegium, t. iv). Col secondo Breve Clemente VI, rispondendo alla domanda che gli era stata presentata dal re Giovanni per essere esentato dal digiuno, incarica ancora il confessore del monarca e coloro che gli succederanno in quell’ufficio, di dispensarlo insieme alla regina, dall’obbligo del digiuno, dopo aver consultato i medici (Ibid.). – Alcuni anni più tardi, nel 1376, Gregorio XI emanava un altro Breve in favore del re di Francia Carlo V e della regina Giovanna sua sposa, col quale delegava al loro confessore il potere d’accordare l’uso delle uova e dei latticini durante la Quaresima, sentito il parere dei medici e gravatane la loro coscienza, come anche quella del confessore che ne avrebbe risposto davanti a Dio. Il permesso si estendeva ai cuochi ed ai camerieri, ma solo per assaggiare le vivande.

A Giacomo III re di Scozia.

Il XV secolo continua a fornirci esempi di simili ricorsi alla Sede Apostolica per la dispensa dalle osservanze quaresimali. Citiamo particolarmente il Breve che Sisto IV, nel 1483, indirizzò a Giacomo re di Scozia, col quale permette a questo principe di fare uso della carne nei giorni d’astinenza, sempre col consiglio del confessore. – Nel XVI secolo vediamo Giulio II accordare una simile facoltà a Giovanni, re di Danimarca, ed alla regina Cristina sua consorte; e qualche anno più tardi. Clemente VII elargiva il medesimo privilegio all’imperatore Carlo V, e poi in seguito anche ad Enrico II di Navarra ed alla regina Margherita sua sposa. – Tale era la gravità, con la quale si procedeva, ancora qualche secolo fa, a sciogliere gli stessi prìncipi da un obbligo, che è quanto di più universale e di più sacro ha il Cristianesimo. Da questo si può giudicare il cammino seguito dalla moderna società nella via del rilassamento e della indifferenza. Si paragonino quelle popolazioni, che per il timore di Dio e la nobile idea dell’espiazione si imponevano tutti gli anni così lunghe e rigide privazioni, con la nostra tiepida e rammollita generazione, il cui sensualismo della vita va sempre più estinguendo il senso del male, che si commette così facilmente, che così prontamente viene perdonato e così debolmente riparato. Dove sono ora le gioie dei nostri padri nella festa di Pasqua, quando, dopo una privazione di quaranta giorni, riprendevano i cibi più nutrienti e graditi che s’erano interdetti durante questo lungo periodo? Con quale attrattiva e con quale serenità di coscienza essi tornavano alle abitudini d’una vita più facile, che avevano sospesa per affliggere l’anima nel raccoglimento, nella separazione dal mondo e nella penitenza! Ciò c’induce ad aggiungere ancora una parola, con l’intento d’aiutare il lettore cattolico a ben rilevare l’aspetto della cristianità nei periodi della fede, durante il tempo della Quaresima.

Vacanza dei tribunali.

Immaginiamoci dunque un tempo in cui, non solo erano interdetti dalle pubbliche autorità [Secondo Pozio, Giustiniano aveva introdotto una simile legge – Nomocanone. tit. VII, c. 1], i divertimenti e gli spettacoli, ma rimanevano vacanti anche i tribunali, affinché non fosse turbata quella pace e quel silenzio delle passioni così favorevoli al peccatore per approfondire le piaghe della sua anima e prepararla a riconciliarsi con Dio. Fin dal 380, Graziano e Teodosio avevano dettata una legge che ordinava ai giudici di soprassedere a tutte le procedure ed istanze quaranta giorni prima di Pasqua (Cod. Teodos. 1. ix, tit. xxxv, l. 4). Il Codice Teodisiano contiene parecchie altre disposizioni analoghe; e sappiamo che i Concili di Francia, ancora nel IX secolo, si rivolsero ai re Carolingi per reclamare l’applicazione di quella misura ch’era stata sanzionata dai canoni e raccomandata dai Padri della Chiesa (Concilio di Meaux, dell’845. Labbe, / Concili, t. VII. Concilio di Tribur, dell’895, Ivi, t. ix). La legislazione d’Occidente ha lasciato cadere da molto tempo quelle cristianissime tradizioni; mentre costatiamo, a nostra umiliazione, ch’esse sono tuttora rispettate dai Turchi, i quali sospendono ogni azione giudiziaria durante i trenta giorni del Ramadan.

Divieto della caccia.

La Quaresima fu per molto tempo considerata incompatibile con l’esercizio della caccia, a motivo della dissipazione e del tumulto che porta con sé. Nel IX secolo, durante questo sacro tempo, fu interdetta dal Papa S. Nicolò I ai Bulgari (Ad consultat. Bulgarorum Ivi, t. VIII), che s’erano riconvertiti al cristianesimo. E anche nel XIII secolo S. Raimondo di Pennafort, nella sua Somma dei casi penitenziali, insegna che non si può durante la Quaresima, senza commettere peccato, esercitare la caccia rumorosa e col concorso dei cani e dei falchi (Summ. cas. Poenit., I, III, tit. XXIX, De laps. Et disp. § 1). Tale ordinanza è fra quelle cadute in disuso; ma S. Carlo la riportò in vigore nella provincia di Milano in uno dei suoi concili. – Dal resto non avremo più da meravigliarci nel vedere interdetta la caccia durante la Quaresima, quando sappiamo che nei secoli passati del cristianesimo anche la guerra cessava le sue ostilità, s’era necessaria al sollievo ed al legittimo interesse delle nazioni. Nel IV secolo Costantino aveva ordinato la cessazione delle operazioni militari i venerdì e le domeniche, in segno di omaggio a Gesù Cristo, che in tali giorni patì e risuscitò, e per non distogliere i cristiani dal raccoglimento che si richiede per celebrare quei misteri. Nel IX secolo la disciplina ecclesiastica d’Occidente esigeva universalmente la sospensione delle armi durante l’intera Quaresima, eccetto il caso di necessità, come risulta dagli atti dell’assemblea di Compiègne, nel1’833, e dai concili di Meaux e d’Aquisgrana, della stessa epoca. – Le istruzioni del Papa S. Nicolò I ai Bulgari esprimono lo stesso pensiero; e da una lettera di S. Gregorio VII a Desiderio, Abate di Montecassino, consta che tale norma era ancora rispettata nell’XI secolo (Labbe, / Concili, t. VII, VIII e x). La vediamo ancora osservata fino al XII secolo in Inghilterra, come c’informa Guglielmo di Malmesbury, da due armate schierate di fronte: l’una dell’imperatrice Matilde, contessa d’Angiò, figlia del re Enrico; l’altra del re Stefano conte di Boulogne, che nel 1143 stavano per cozzare a causa della successione alla corona.

La tregua di Dio.

È nota a tutti i nostri lettori la mirabile istituzione della Tregua di Dio, per mezzo della quale la Chiesa, nell’XI secolo, riuscì ad arrestare in tutta l’Europa lo spargimento del sangue col sospendere l’uso delle armi quattro giorni ogni settimana, dal mercoledì sera fino al lunedì mattina, per tutta la durata dell’anno. Tale regolamento, sanzionato dall’autorità dei Papi e dei Concili con concorso di tutti i prìncipi cristiani, non era che l’estensione ad ogni settimana dell’anno di quella disciplina, in virtù della quale rimaneva sospesa in Quaresima ogni azione militare. Il santo re d’Inghilterra Edoardo il Confessore migliorò ancora questa sì preziosa istituzione, emanando una legge che fu confermata dal suo successore Guglielmo il Conquistatore, e in merito alla quale la Tregua di Dio doveva essere inviolabilmente osservata dall’apertura dell’Avvento fino all’ottava dell’Epifania, dalla Settuagesima fino all’ottava di Pasqua e dall’Ascensione fino all’ottava di Pentecoste; in più, tutti i giorni delle Quattro Tempora, le Vigilie di tutte le Feste, e finalmente ogni settimana nell’intervallo fra il sabato dopo Nona e il lunedì mattina (Labbe, I Concili, t. ix). – Urbano II, nel Concilio di Clermont (1095), dopo aver regolato tutto ciò che concerneva la spedizione della Crociata, intervenne anche con la sua apostolica autorità ad estendere la Tregua di Dio, prendendo a base la sospensione delle armi osservata durante la Quaresima, e stabilì, con un decreto che fu rinnovato nel Concilio tenuto a Rouen l’anno appresso, che dovevano rimanere interdette tutte le azioni di guerra dal mercoledì delle Ceneri fino al lunedì successivo all’ottava di Pentecoste, e in tutte le Vigilie e Feste della S. Vergine e degli Apostoli: tutto senza pregiudicare quanto stabilito in precedenza per ogni settimana, cioè dal mercoledì sera fino al lunedì mattina (Orderico Vitale, Storia della Chiesa, 1. ix).

Il precetto della continenza.

Così la società cristiana testimoniava il suo rispetto verso le tante osservanze della Quaresima e prendeva dall’anno liturgico le sue stagioni e le sue feste per inserirvi le sue più preziose istituzioni. Anche la vita privata ne risentiva la salutare influenza, e l’uomo v’attingeva ogni anno un rinnovamento di forze per combattere gl’istinti sensuali e risollevare la dignità della propria anima mettendo a freno l’attrattiva del piacere. Per molti secoli si richiese dagli sposi la continenza in tutto il corso della santa Quarantena; e la Chiesa, nel Messale (Missa prò sponso et sponsa), ha conservato la raccomandazione di questa salutare pratica.

Usanza delle Chiese d’Oriente.

Interrompiamo qui l’esposizione storica della disciplina quaresimale, col dispiacere d’avere appena sfiorata una materia così interessante (1). Avremmo voluto fra l’altro dilungarci sulle usanze delle Chiese d’Oriente, che meglio di noi hanno conservato il rigore dei primi secoli del cristianesimo; ma ce ne manca assolutamente lo spazio. Ci limiteremo, perciò, ad alcuni sommari dettagli. (1) Quanto alla storia, alla durata, al carattere dell’antica Quaresima, si potranno consultare gli studi di Mons. Callewaert, Sacris erudlrl, p. 449-533: «Il significato della Quaresima» l’opuscolo del Rev. Flicoteaux (Bloud et Gay, 1946). – In altra parte della nostra opera il lettore ha potuto osservare, che la Domenica che noi chiamiamo di Settuagesima, presso i Greci è chiamata Prosfonesima, per annunciare imminente l’apertura del digiuno quaresimale. Il lunedì appresso viene contato per il primo giorno della seguente settimana, chiamata Apocreos, dal nome della Domenica con la quale essa termina e che corrisponde alla nostra di Sessagesima; la parola Apocreos è un avvertimento per la Chiesa greca, che fra poco si dovrà sospendere l’uso della carne. Il lunedì seguente apre la settimana chiamata Tirofagia, la quale termina con la Domenica che ha questo nome, cioè la nostra Quinquagesima; durante questa intera settimana sono ancora permessi i latticini. Finalmente, il lunedì che segue è il primo giorno della prima settimana di Quaresima, il cui digiuno comincia fin da questo lunedì in tutto il suo rigore, a differenza dei Latini che lo aprono il mercoledì. Durante tutto il periodo della Quaresima propriamente detta, i latticini, le uova e anche il pesce sono proibiti; l’unico nutrimento possibile col pane sono i legumi, il miele e, per chi abita vicino al mare, le diverse conchiglie ch’esso fornisce loro. L’uso dei vini, per tanto tempo proibito nei giorni di digiuno, ha finito per introdursi anche in Oriente, come pure la dispensa di mangiare il pesce il giorno dell’Annunciazione e la Domenica delle Palme. – Oltre poi la Quaresima di preparazione alla festa di Pasqua, i Greci ne celebrano ancora altre tre nel resto dell’anno: quella che chiamano degli Apostoli che va dall’ottava di Pentecoste fino alla festa dei Ss. Pietro e Paolo; quella della Vergine Maria, che comincia col primo agosto e finisce con la vigilia dell’Assunta; e finalmente la Quaresima di preparazione al Natale, che dura quaranta giorni interi. Le privazioni che i Greci osservano durante queste tre Quaresime sono simili a quelle della grande Quaresima, però non così rigorose. – Le altre nazioni cristiane dell’Oriente pure celebrano diverse Quaresime e con un’austerità anche maggiore di quella osservata dai Greci. Ma tutti questi particolari ci porterebbero troppo lontani. Perciò concludiamo qui tutto quello che dovevamo dire della Quaresima dal punto di vista storico, per passare ad esporre i misteri che questo sacro tempo contiene. [contin.]

MERCOLEDI’ delle CENERI

Benedictio cinerum

Exáudi nos, Dómine, quóniam benígna est misericórdia tua: secúndum multitúdinem miseratiónum tuárum réspice nos, Dómine.

Salvum me fac, Deus: quóniam intravérunt aquæ usque ad ánimam meam.

Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.

Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen

Exáudi nos, Dómine, quóniam benígna est misericórdia tua: secúndum multitúdinem miseratiónum tuárum réspice nos, Dómine.

Dóminus vobíscum. – Et cum spíritu tuo.

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, parce pæniténtibus, propitiáre supplicántibus: et míttere dignéris sanctum Angelum tuum de coelis, qui bene dícat et sanctíficet hos cíneres, ut sint remédium salúbre ómnibus nomen sanctum tuum humilíter implorántibus, ac semetípsos pro consciéntia delictórum suórum accusántibus, ante conspéctum divínæ cleméntiæ tuæ facínora sua deplorántibus, vel sereníssimam pietátem tuam supplíciter obnixéque flagitántibus: et præsta per invocatiónem sanctíssimi nóminis tui; ut, quicúmque per eos aspérsi fúerint, pro redemptióne peccatórum suórum, córporis sanitátem et ánimæ tutélam percípiant. Per Christum, Dóminum nostrum. R. Amen.

[Onnipotente sempiterno Iddio, perdona ai penitenti, sii propizio ai supplicanti: e dégnati di mandare dal cielo il tuo santo Angelo, che bene†dica, e santi†fichi queste ceneri, onde siano rimedio salutare a quanti Ti invocano umilmente, si confessano rei dei loro peccati, li deplorano innanzi alla tua divina clemenza e con, vero dolore e làcrime implorano la tua serenissima pietà: e per l’invocazione del Tuo Santissimo Nome: fa che tutti quelli che saranno cosparsi di queste ceneri in remissione dei loro peccati, ricevano la sanità del corpo e la protezione dell’ànima. Per Cristo, nostro Signore. R. Amen.]

Orémus.

Deus, qui non mortem, sed pæniténtiam desíderas peccatórum: fragilitátem condiciónis humánæ benigníssime réspice; et hos cíneres, quos, causa proferéndæ humilitátis atque promeréndæ véniæ, capítibus nostris impóni decérnimus, bene dícere pro tua pietáte dignáre: ut, qui nos cínerem esse, et ob pravitátis nostræ deméritum in púlverem reversúros cognóscimus; peccatórum ómnium véniam, et praemia pæniténtibus repromíssa, misericórditer cónsequi mereámur. Per Christum, Dóminum nostrum. R. Amen.

[O Dio, che non desideri la morte dei peccatori, ma il loro pentimento: guarda benignamente alla fragilità della natura umana; e queste ceneri, che intendiamo imporre sul nostro capo per umiliarci e meritarci il perdono, Tu dégnati, nella tua pietà, di bene†dirle, affinché noi, riconoscendo di essere cenere e di dover ritornare polvere per colpa della nostra malvagità, meritiamo di ottenere misericordiosamente il perdono di tutti i peccati e il premio promesso ai penitenti. Per Cristo nostro Signore.]

Orémus.

Deus, qui humiliatióne flécteris, et satisfactióne placáris: aurem tuæ pietátis inclína précibus nostris; et capítibus servórum tuórum, horum cínerum aspersióne contáctis, effúnde propítius grátiam tuæ benedictiónis: ut eos et spíritu compunctiónis répleas et, quæ juste postuláverint, efficáciter tríbuas; et concéssa perpétuo stabilíta et intácta manére decérnas. Per Christum, Dóminum nostrum. R. Amen.

[O Dio, che Ti lasci piegare dall’umiltà e placare dalla penitenza, porgi pietoso orecchio alle nostre preghiere, e sui tuoi servi, cosparsi di queste ceneri, effondi propizio la grazia della tua benedizione; riémpili dello spirito di compunzione, esaudisci efficacemente le giuste domande, e le grazie loro concesse réndile in perpetuo confermate e stabili. Per Cristo nostro Signore.]

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui Ninivítis, in cínere et cilício pæniténtibus, indulgéntiæ tuæ remédia præstitísti: concéde propítius; ut sic eos imitémur hábitu, quaténus véniæ prosequámur obténtu.

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Preghiamo. Onnipotente sempiterno Iddio, che ai Niniviti attestasti il loro pentimento con la cenere e col cilicio, e accordasti il: rimedio del tuo perdono, concédici propizio di imitarne gli atti, così da meritare anche noi gli effetti del tuo perdono.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. – Amen.

Vangelo del giorno

[S. Matt VI:16-21]

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Cum jejunátis, nolíte fíeri, sicut hypócritæ, tristes. Extérminant enim fácies suas, ut appáreant homínibus jejunántes. Amen, dico vobis, quia recepérunt mercédem suam. Tu autem, cum jejúnas, unge caput tuum, et fáciem tuam lava, ne videáris homínibus jejúnans, sed Patri tuo, qui est in abscóndito: et Pater tuus, qui videt in abscóndito, reddet tibi. Nolíte thesaurizáre vobis thesáuros in terra: ubi ærúgo et tínea demólitur: et ubi fures effódiunt et furántur. Thesaurizáte autem vobis thesáuros in coelo: ubi neque ærúgo neque tínea demólitur; et ubi fures non effódiunt nec furántur. Ubi enim est thesáurus tuus, ibi est et cor tuum.” – R. Laus tibi, Christe!

[In quel tempo: Disse Gesù ai suoi discepoli: Quando digiunate non fate i malinconici, come gli ipocriti, che sfigurano il proprio volto per far vedere agli uomini che digiunano. In verità, vi dico che hanno già ricevuta la loro ricompensa. Ma tu, quando digiuni, profumati la testa e lavati la faccia: che il tuo digiuno sia noto, non agli uomini, ma al Padre tuo celeste, il quale sta nel segreto: e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa. Non cercate di accumulare tesori sopra la terra, dove la ruggine e la tignola consumano, e dove i ladri disotterrano e rubano. Procurate di accumulare tesori nel cielo, dove la ruggine e la tignola non consumano, e dove i ladri non disotterrano e non rubano. Poiché dov’è il tuo tesoro, lì è il tuo cuore.]

Omelia del Santo Padre Gregorio XVII

[–nella cattedrale di Genova, 1974-]

Si compirà tra qualche istante la cerimonia sacra della benedizione e imposizione delle Ceneri. Dobbiamo parlarne. Non possiamo dimenticare il Vangelo che ora è stato letto, traendolo dal cap. VI di S. Matteo. – La cerimonia delle Ceneri che senso ha? Lo indicano esattamente le parole che vengono dette mentre si impongono le Ceneri. Il richiamo della morte dobbiamo farlo; non è gustoso, non è divertente, non è allegro, ed è umano che sia così, ma è doveroso. Il concetto della morte resta davanti a noi, ed è necessario distinguere i due piani nei quali ci può apparire: il piano meramente naturale e il piano soprannaturale. Vedeteli per scegliere. – Sul piano naturale, anche se la fiamma di spirito che portiamo dentro di noi garantisce di per se stessa, al di fuori d’ogni rivelazione divina, la sopravvivenza e l’immortalità dell’anima, sul piano naturale la morte è una barriera, è un terribile mistero, è una fine, si direbbe un brutto scherzo della vita. E quando la si vede su questo piano naturale, la morte può oscurare anche i giorni più belli, anche le più profumate stagioni della nostra esistenza. Ed è per questo che molti non ne vogliono sentire parlare. – Ma vediamola dal punto di vista soprannaturale, cioè come ce l’ha indicata la Rivelazione divina. Il concetto della morte allora è spiegato, perché così ci insegna la Rivelazione divina: con la morte finisce il tempo della prova, cioè la morte è la maturazione finita e immutabile di quello che si è realizzato nella vita, la morte è il momento ultimo nel quale la libertà nostra può essere esercitata sul bene e sul male, nel quale si può peccare, ma nel quale si può meritare. E siccome il peccato è negativo e il merito è positivo, resta della vita soltanto il merito, e allora si capisce che nella vita una sola cosa vale ai fini della nostra persona: il nostro merito personale. Ma questo proietta la felicità, la gloria, la pace nella stessa eternità. – Ecco i due piani. Chi si rassegna o si degrada al primo, soffre di vivere e ha paura di morire. Chi sale veramente al secondo soffrirà, ma meritoriamente, e avrà ragione di aspettarsi una grazia per morire senza paure. Ecco la morte. – La morte è la compagna della nostra vita, la vera compagna, per questo semplice motivo: che si verifica ogni giorno per noi, perché ogni giorno si spegne una particella della nostra capacità biologica e, pertanto, come diceva il poeta latino, “noi moriamo ogni giorno” (Seneca, Lettere a Lucilio). Ogni giorno una foglia cade dall’albero, ogni giorno cade qualche poco della neve dai monti, ogni giorno qualche cosa passa per non ritornare mai più in questa vita. I fiori, che sono l’esplosione della vitalità più bella in natura, sono i più caduchi di tutti. La morte accompagna la vita, ma quando la si vede sul primo piano naturale è odiosa; quando la si vede sul secondo piano soprannaturale – e per vederla bisogna meritarlo: non è un atto semplicemente intellettuale, ma un atto morale -, allora la vita può essere gaudiosa. Ho davanti a me anche molti bambini che per la loro età sono lontani, credono di essere lontani, bambini che si preparano alla prima comunione. Ma il ragionamento fatto per gli anziani vale anche per i bimbi, vale per tutti. Il tempo è quello che è quando è passato, e, nel momento stesso in cui si dice “ora”, il momento presente è passato. Ed è da questo punto che si acquista la serietà su tutta la vita, su tutti gli oggetti che vengono disposti a scelta davanti a noi dalla nostra esperienza; è solo da questo punto che si ragiona bene. Vogliate ricordarlo. – Ora veniamo al Vangelo che abbiamo letto. Dà una delle profonde ragioni per cui si può vivere, e vivere come in vigilia (le vigilie sono migliori delle feste talvolta; qui non è migliore della festa, ma è bella la vigilia; noi viviamo in vigilia del gaudio eterno). Sentite questo Vangelo. Che cosa dice? Gesù parla e parla della rettitudine d’intenzione. A proposito di che? Di tutte le opere buone, e segnatamente a proposito dell’orazione e del digiuno, perché l’ambiente nel quale parlava esigeva un riferimento a questi oggetti. Ma parla della rettitudine d’intenzione; dice: “Sia retta!” Che cosa è l’intenzione? È l’atto della nostra volontà e intelligenza, col quale diamo uno scopo a quello che facciamo: questa è l’intenzione. C’è molta gente per la quale non si può parlare di rettitudine d’intenzione, perché non ha intenzione di niente, non pensa a niente, va avanti con la testa nel sacco; qualche volta pensa che deve superare gli esami a scuola, che deve ottenere questo o quel risultato, che deve pensare ai propri figli. – Ma l’intenzione come organizzazione fondamentale della nostra vita, cioè dare a tutto quello che si fa uno scopo, è faccenda molto dimenticata e che deve essere fortemente ricordata per la ragione che dirò far poco. – Ho detto intenzione, ma quand’è che l’intenzione è retta? Perché si richiede la retta intenzione; Gesù parla per inculcare la retta intenzione. L’intenzione è retta, quando nei nostri scopi non si deforma la finalità naturale di quello che si compie. Se io faccio una cortesia, sarà una cortesia, e la mia intenzione è retta se io intendo essere cortese. Ma se io mi allontano da questo naturale scopo dell’atto di cortesia, e faccio la cortesia per ingannare qualcuno, per prenderlo nella mia rete, io non ho più la retta intenzione. – Ma non basta, non basta perché l’intenzione sia retta; Gesù ce lo dice qui: l’intenzione è retta quando tutte le nostre azioni sono finalizzate verso Dio: allora la vita vale, tutta. Avete l’abitudine di dire le orazioni tutte le mattine e tutte le sere? E nelle orazioni del mattino avete l’abitudine di dare una finalità eterna a tutto quello che farete? Badate che gli uomini di quello che facciamo non si curano; il più di quello che passa nella nostra vita non interessa. – L’unico è Dio al quale interessa quello che facciamo noi. Sappiamolo e non dimentichiamolo mai! Lui solo, il Padre che ci ha creato, si curva sulle azioni anche le minime, anche le più domestiche, le più semplici, le più trite, le più evanescenti. Avete l’abitudine al mattino di offrire tutto quello che farete e tutto quello che soffrirete, sopporterete, protestando che lo farete per amore di Dio? Gesù in questo Vangelo dice che l’intenzione è realmente retta, quando le cose si fanno per Dio, perché le veda Iddio. Non sopprime l’intenzione che è connaturata alle azioni in sé buone, ma questa fondamentale rettitudine deve essere innalzata e completata solo da questa. Viviamo, operiamo perché dobbiamo tornare a Dio, e restituire a Lui la vita, il tempo, le possibilità che nel tempo ha dispiegato dinnanzi alla nostra libera scelta. Ecco cosa ha detto Gesù nel Vangelo: la rettitudine d’intenzione. – Tutti gli insinceri, tutti i bugiardi, tutti gli ipocriti, tutti i manovratori è difficile che riescano a salvare questa rettitudine di intenzione. Ma avete qui la risposta alla morte: quando tutta la vita è dominata da una rettitudine d’intenzione, la morte è soltanto il tempo del raccolto gioioso, nient’altro, è il tempo del premio, è il giorno della vita. E così si vedono le cose dal punto di vista del Vangelo.

Suicidio ed eutanasia: telepass garantito per l’eterno fuoco!

Quinto comandamento.

[E. Ione: compendio di teologia morale – Marietti ed. ]

Il quinto comandamento proibisce, in primo luogo, ogni ingiusta uccisione, tanto di se stessi quanto di altri. In secondo luogo, proibisce ogni ingiusto ferimento o mutilazione.

E poiché la morte può venire anche per trascuratezza della propria salute, v’è pure un obbligo correlativo di curare la propria sanità.

CAPITOLO I .

Obblighi verso la propria vita.

I. Il suicidio diretto è peccato grave, quando si faccia di propria autorità. – È pure vietato il tentativo di suicidio, ponendo un atto da cui « per accidens » segua la morte, per abbreviarsi la vita, per es. bere eccessivamente, fumare troppo. — I suicidi vengono puniti con la privazione della sepoltura ecclesiastica, se prima di spirare non abbiano dato segni di pentimento (can. 1240), ovvero non possano essere scusati per mancanza di grave imputabilità (cfr. can. 2218, § 2) . — Probabilmente è lecito eseguire contro se stessi, per incarico dell’autorità pubblica, la sentenza di morte pronunziata legittimamente dalla stessa autorità. –

II. È pure proibito per sé uccidersi indirettamente; tuttavia è lecito, per un motivo proporzionatamente molto grave. – Si uccide indirettamente chi, in realtà non ha lo scopo di sopprimere la vita, ma sapendo e volendo, pone un’azione da cui non solo segue un buon effetto inteso e voluto, ma anche la morte. In ciò si presuppone che l’effetto buono abbia a seguire immediatamente da quell’azione, almeno nello stesso tempo della morte. – Pertanto è lecito gettarsi giù da un punto alto per sfuggire la morte nel fuoco, specialmente quando v’è ancora speranza di salvare la vita. Allo stesso modo può agire una donna per liberarsi dalle mani di un male intenzionato, che voglia afferrarla e violentarla. — Similmente è lecito in guerra far saltare una fortezza, una nave ecc. per danneggiare il nemico, anche se si prevede che si incontrerà la morte.

III. Solo per un motivo proporzionato, è lecito esporsi ad un pericolo di morte. Il motivo deve essere tanto più grande quanto più prossimo è il pericolo di morte. Esporsi a un pericolo remoto di morte, senza un motivo sufficiente, costituisce soltanto peccato veniale. — È lecito curare gli appestati, anche con pericolo di incontrarvi la morte. — I carpentieri edili possono lecitamente esporsi ai pericoli propri della loro professione. Ai prigionieri è lecito tentare l’evasione, sia pure con pericolo della vita, per sfuggire alla esecuzione capitale o alla prigionia perpetua. – È illecito eseguire giochi da saltimbanco pericolosi o giochi da circo per la sola brama di guadagno. Qualora, data l’abilità personale acquisita, il pericolo sia divenuto remoto, non vi è peccato, almeno mortale. Sotto tale categoria di azioni illecite, devono porsi pure le irragionevoli scommesse di prendere eccessive quantità di cibi o di bevande. –

IV. Abbreviare il tempo della vita anche di parecchi anni o danneggiare la salute a causa di una professione o genere di vita o di lavori pesanti, è lecito per motivi proporzionati. È perciò permesso il lavoro negli altiforni, nelle miniere, nelle vetrerie, in certi stabilimenti chimici. Similmente sono leciti ragionevoli esercizi di penitenza. Chi scientemente abbrevia al quanto la vita con l’abuso dei cibi e delle bevande, commette peccato veniale; ma abbreviare notevolmente la vita o rovinare la salute con l’abuso, per es. di morfina o di cocaina, è peccato grave.

V. La mutilazione del proprio corpo è permessa soltanto per salvare la vita. – La mutilazione di solito è peccato grave. L’amputazione di una parte insignificante e che non ha importanti funzioni fisiologiche, per es. il lobo dell’orecchio, è solo veniale. – L’evirazione e la sterilizzazione diretta sono gravemente colpevoli, sia che si abbia lo scopo di diminuire le tentazioni, sia che lo si faccia per conservare la voce di soprano, oppure per motivi di eugenetica sociale (S. U f f . 24 febb. 1940, AAS, XXXII, 1940, p. 73; cfr. pure il discorso di Pio XII alle ostetriche, 29 ott. 1951, AAS, XLIII, 1951, p. 835-854; XLVI, 1954, p. 587 ss.). Sembra lecita, per motivi proporzionatamente gravi di salute, la sospensione temporanea delle facoltà generative. — La vasectomia, l’estirpazione dell’utero e delle ovaie sono colpe gravi, se si fanno per impedire la procreazione. — In casi di cancro, di avvelenamenti ecc. è lecita l’amputazione di un membro.

VI . È lecito per motivo proporzionato desiderare la morte [ma non metterla in atto!! -ndr.-], sottomettendosi però alla divina volontà. – Motivo buono è il desiderio dell’eterna beatitudine, la preservazione da un infortunio o dolore terreno oltremodo grande (per es. una malattia molto penosa e diuturna). — Per i soliti incomodi della vita, desiderare seriamente la morte è peccato grave.

VII. La conservazione della vita e della sanità esige l’uso dei mezzi ordinari indispensabili. Fra i mezzi ordinari viene in primo luogo una adeguata nutrizione. Pertanto lo sciopero della fame, quando sia fatto realmente con la decisa intenzione di morire di fame piuttosto che rinunziare al raggiungimento del proprio scopo, è peccato grave. Ai mezzi ordinari appartengono pure un conveniente vestiario, abitazione, sollievo fisico moderato; l’uso di relative medicine e di rimedi sanitari, supposto che non siano eccessivamente costosi per l’ammalato; la visita o chiamata del medico. Si suppone, in tali casi, che non si tratti di malattia o di incomodi piuttosto leggeri, che passino da sé, e che vi sia fondata speranza che il medico o la medicina possa giovare. – L’uso di mezzi straordinari per la conservazione della vita non è di solito obbligatorio. Quindi, anche le persone ricchissime non sono obbligate a ricercare soggiorni climatici o bagni distanti, a chiamare celebrità della medicina, neppure nel caso che, altrimenti, dovessero morire. Similmente, nessuno è per sé obbligato a sottoporsi a una operazione difficile. — Si fa solo eccezione quando qualcuno sia moralmente necessario alla famiglia o alla società e il successo sia moralmente certo; solo, in tale ipotesi, il padre o il superiore può anche comandare di sottoporsi all’operazione chirurgica.

Due campioni dell’empietà: Voltaire e Rousseau

Due campioni dell’empietà: Voltaire e Rousseau

[J. –J. Gaume: Catechismo di perseveranza, vol. III, Torino, 1881]

Sdegnato dalle conquiste che il Cristianesimo faceva alle estremità del mondo, l’inferno raddoppiò i suoi sforzi per spegnere la fede in Europa e specialmente in Francia. Una congiura di letterati conosciuti sotto il nome di filosofi formò l’orribil trama di schiacciare la Religione di Cristo. Grandi e piccoli si accingono all’opera; gli uni scavano le viscere della terra, gli altri interrogano gli astri: questi consultano gli annali degli antichi popoli, quelli fanno dei calcoli; tutti si sforzano di dare una smentita alla Religione, e di metterla in contraddizione colle scienze naturali, colle tradizioni dei popoli e coi monumenti della storia. Si spande una farragine di libelli, si predica su tutti i tuoni l’incredulità ed il libertinaggio, l’uomo si fa carnale, e come al tempo che precedette il diluvio, lo spirito di Dio più non potendo in esso riposare sta per ritirarsi. – Fra questi uomini il cui nome non si può pronunziare senza orrore avendo colla loro malizia attirato sul nostro capo innumerevoli flagelli, ve ne sono due specialmente che debbono essere conosciuti affinché persino i fanciulli imparino a temere il veleno delle loro dottrine: Voltaire e Rousseau, doppiamente colpevoli, perché furono apostati della fede, e profanatori del genio. Del resto la loro vita doveva formarne co’ suoi scandali gli avversari della Religione e gli apostoli della incredulità: poiché, non bisogna dimenticarcene mai, l’incredulità nasce sempre dalla corruzione, e non è mai patrocinata che dal libertinaggio: vergogna eterna dell’incredulità! Ma onore a Te, o Religione cattolica che mai non avesti altri nemici che quegli uomini a cui niuno vorrebbe rassomigliare! – Giovani, voi che giurate sulla parola di Voltaire e di Rousseau, uomini di età matura che ne serbate a gran cura le opere nelle vostre librerie, venite, io vi svelerò le ignominie dei vostri maestri, le vergogne dei vostri idoli! Francesco Maria Arouel, detto di

Voltaire,

nacque a Chàtenay presso Parigi, nel 1694. Suo padre era un antico notaio. Venne educato a Parigi nel collegio dei Gesuiti. La temerità de’ suoi giudizi spaventò ben tosto i suoi maestri; ed uno di loro disse un giorno che sarebbe stato in Francia il gonfaloniere dell’empietà; gli eventi giustificarono pur troppo questa predizione. All’età di sedici anni il giovane Arouet uscì di collegio, e visse, giusta le sue inclinazioni in mezzo alle compagnie più eleganti e più corrotte della capitale. – Le molte contese ch’egli ebbe con suo padre lo decisero a passare in Olanda in qualità di segretario d’ambasciata; giunto appena alla Haye, il dabben giovane si fece rimandare a casa pel suo libertinaggio. – Esso non poté riconciliarsi col padre che mettendosi a lavorare presso un procuratore; ma la sua negligenza, e la sua avversione per le scienze legali non tardarono guari a farlo rimandare. – Voltaire fu cattivo cittadino del pari che cattivo figlio. Nel 1715 egli si attirò coi suoi motteggi più che leggieri uno schiaffo da un vecchio autore nelle stanze di un teatro; qualche tempo dopo si ebbe uno sfregio da un ufficiale da lui calunniato: cattivo figlio, malvagio cittadino, Voltaire fu ancora un tristo suddito. Dopo la morte di Luigi XIV si videro comparire a varie riprese delle vili e sconcie satire contro questo monarca: essendo il sospetto caduto sopra Voltaire, fu chiuso nella Bastiglia; appena uscito di prigione, si vide forzato a lasciar Parigi, perché, essendosi collegato cogli autori di una congiura che si era scoperta, venne accusato di avervi preso parte; quindi si ritirò al castello di Sully, ove ben presto si manifestò il suo libertinaggio. – Partito poscia per l’Olanda, e dimoratovi qualche tempo il torbido suo genio lo ricondusse alla capitale. I motti pungenti che si permise contro un giovane signore gli meritarono da parte dei domestici una buona dose di bastonate, e dalla parte delle autorità sei mesi di Bastiglia, con ordine di lasciar la Francia, scontata la sua pena. – Per tal modo Voltaire all’età di trentun anno era stato cacciato di casa paterna, dall’uffizio del procuratore, rimandato dall’Olanda, schiaffeggiato da un comico, castigato anche più severamente da un ufficiale, messo alla Bastiglia, esiliato di Parigi, battuto dai domestici per aver insultato il loro padrone, rinchiuso di bel nuovo nella Bastiglia e sbandito dalla Francia. Filosofi, ammirate la santa vita del vostro Apostolo. – Uscito dalla Bastiglia, Voltaire passò in Inghilterra popolata allora di liberi pensatori, che lavoravano di concerto per scalzare le basi del cristianesimo. A Londra, esso pubblicò l’Enriade ed ingannò il suo libraio, il quale rinnovò sulle spalle del poeta la correzione amministrata tre anni prima dai servitori del cavaliere di Bohan. – Questo spiacevole accidente fece sollecitare a Voltaire la permissione di ritornare in Francia, e l’ottenne. Alloggiato in un sobborgo di Parigi, vi condusse per qualche tempo una vita oscura e quasi nascosta occupandosi ora di lavori letterari, ed ora di faccende finanziarie. Essendosi associato ai provveditori dell’armata d’Italia, il filosofo si fece una rendita di cento sessanta mila lire: il poveretto! – Essendo poi stato denunziato al guardasigilli in proposito di una commediante di cui aveva fatto l’apoteosi, la quale altro non è che una serie di attacchi contro la Religione ed i suoi ministri, e contro la nazione in generale, Voltaire si rifugiò a Rouen, ove visse sette mesi nascosto in casa di uno stampatore, che ridusse poco tempo dopo in rovina con una truffa degna della galera. A questi principi corrisponde il restante della sua vita, la quale non offre altro che un lungo tessuto di libertinaggio, d’empietà, di basse adulazioni pei grandi, d’ipocrisia e di sacrilegio, e termina con una morte spaventevole. Il colpevole scrittore erasi ritirato a Ferney vicino a Ginevra; di là esso lanciava contro i suoi nemici, contro la Religione ed il Governo una quantità di libelli e di diatribe, nelle quali non sapresti ciò che riesca più odioso tra il fanatismo furibondo del patriarca della moderna filosofia, e la sua impudenza cinica e ributtante. – « Mentite, mentite arditamente, scriveva esso a’ suoi accoliti, qualche cosa vi resta sempre… m’importa assai di esser letto, e pochissimo di essere creduto». – Nel 1778 Voltaire ottenne il permesso di venire a Parigi. La sua entrata in questa città fu un vero trionfo. Il trionfo di Voltaire! Queste due parole fanno tremare ed arrossire; il trionfo di Voltaire vuol dire il trionfo del cinismo, dell’empietà e di tutti i vizi personificati, e ci dà un’idea della società francese di quel tempo; mentre presagiva la inaudita catastrofe che quindici anni più tardi doveva insanguinare la nostra patria, e quella degradazione senza esempio che doveva mostrare al mondo la prima delle nazioni in atto di prostituire i suoi incensi al rifiuto degli scellerati, ad un Marat,!!! Ma il Dio vivente oltraggiato per settant’anni dal più ingrato fra gli uomini, doveva ben tosto pigliar le sue vendette. – Era Voltaire giunto all’anno ottantesimo quarto del viver suo, quando pochi giorni dopo il suo ingresso nella capitale, fu assalito da un vomito di sangue; il che però non gl’impediva di farsi aggregare alla frammassoneria. Ma la misura era alla fine ricolma, e stava per suonare l’ora della divina giustizia. Osservisi primamente come la fine del corifeo dell’empietà è tanto più singolare, in quanto che lo colpiva precisamente una mortal malattia nel tempo in cui egli si prometteva il trionfo dell’ateismo. I suoi stessi partigiani hanno pubblicato la lettera nella quale egli scriveva al d’Alembert in questi termini : « Fra vent’anni, Dio sarà spacciato». Questa predizione blasfema porta la data del 25 febbraio 1758; ora il giorno appunto del 25 febbraio 1778 esso venne colpito dal vomito di sangue che lo condusse al sepolcro; a vent’anni d’intervallo il giorno preciso! La violenza del male gli fece ben tosto smentire la sua professione d’incredulità: esso fa chiamare uno di quei sacerdoti che aveva cotanto oltraggiato e calunniato nei suoi scritti, ed era questi l’Abbate Gauthier vicario di San Sulpizio. – Dinanzi a lui confessa in ginocchio le sue colpe, e gli consegna in mano la ritrattazione autentica delle sue empietà e dei suoi scandali. – In essa dichiarava di morire in seno della cattolica Religione. Questa professione di fede parendo molto sospetta da parte di un uomo che ne aveva già fatto delle somiglianti, il curato di San Sulpizio volle presentarsi in casa di Voltaire; ma i suoi amici avevano preso le loro precauzioni per impedirgli, come si esprime uno di loro, di fare un altro capitombolo. Costoro non lo abbandonarono un solo istante, e resero cosi inutile lo zelo e la carità del curato di San Sulpizio. – Intanto il vecchio peccatore si avvicinava alla sua eternità! Forse si era lusingato di recare a compimento la grande opera della sua riconciliazione con Dio, ma la morte prevenne gli estremi soccorsi. – Ecco che il filosofo si trova assalito da orrenda paura, e grida con voce spaventevole: « Io sono abbandonato da Dio e dagli uomini ». Esso invoca il Signore che aveva bestemmiato, ma un mezzo secolo di sarcasmi vomitati contro la Religione pare che abbia stancato la pazienza dell’Eterno; il sacerdote non giunge, ed il malato entra nelle convulsioni e nei furori della disperazione. Torbido il guardo, smorto e tremante dallo spavento egli si agita e si volge da tutti i lati, squarcia le sue carni, e divora…. i suoi escrementi: esso vede aprirsi dinanzi a sé quell’inferno di cui si era cotanto beffato, freme d’orrore a questa vista, ed il suo ultimo sospiro era quello di un riprovato. “Io sono abbandonato da Dio e dagli uomini”. Queste parole tremende, l’aria, l’accento onde furono pronunziate agghiacciarono di spavento il celebre Tronchin, che aveva curato Voltaire nella sua ultima malattia. « Immaginatevi tutta la rabbia ed il furore di Oreste, dice questo medico protestante testimonio dell’orribile morte, voi non avrete che una languida idea della rabbia e del furore di Voltaire nella sua ultima malattia. Sarebbe a desiderare, ripeteva esso sovente, che i nostri filosofi fossero stati testimoni dei rimorsi e dei furori di Voltaire, è questa la lezione più salutare che avrebbero potuto ricevere coloro ch’egli aveva corrotto coi suoi scritti. Il Maresciallo di Richelieu aveva veduto con i suoi occhi questo spettacolo spaventoso e non aveva potuto fare a meno di esclamare: «In verità, questo è troppo forte, è impossibile di resistere ». Cosi moriva il patriarca dell’incredulità i l 30 maggio 1778. Mentre Voltaire corrompeva la gioventù e parlava agli spiriti superficiali,

Gian Giacomo Rousseau

si volgeva agli uomini che si piccano di riflessione, e che allora s’intitolavano pensatori o spiriti forti. Rousseau, essendo protestante, sviluppò ed applicò alla società i pericolosi principii della Riforma. Empio, incredulo e vizioso, esso era degno di figurare tra i nemici di una religione che condanna tutti i vizi, e prescrive tutte le virtù. Gian-Giacomo Rousseau nacque a Ginevra nel 1712. Egli passò la prima sua infanzia nella lettura dei romanzi. Suo padre, di professione orologiere, lo mise in pensione da un ministro protestante; ma tutto il frutto che ne ricavò l’allievo, si fu d’imparare un po’ di latino, e di contrarre delle tristissime abitudini. Collocato in qualità di scrivano presso il Cancelliere di Ginevra fu trovato inetto, e rimandato. Dopo qualche mese di tirocinio in casa di un incisore, dove l’ozio, la menzogna ed il furto divennero i suoi vizi favoriti, come confessa egli stesso, passò in Savoia; un caritatevole ecclesiastico di questo paese gli forni i mezzi per recarsi a Torino, dove si fece ammaestrare intorno alla Religione cattolica, e due mesi di poi abiurò il protestantismo. Non avendo ricavato che venti franchi della sua pretesa conversione, entrò in qualità di lacchè nella casa della Contessa di Vercelli; ma messo ben tosto alla porta per un furto commessovi, e di cui aveva ingiustamente accusato una giovane fantesca, passò al servizio del Conte di Govone primo scudiere del Re di Sardegna. Alle amorevolezze del nuovo suo padrone Rousseau corrispose con una condotta ed un’insolenza che lo fecero congedare. – Senza mezzi, senza protezione, egli si mette a simular la pietà, si volge ad una gentildonna che lo accoglie e gli prodiga tutte le cure di una madre. Dietro i suoi consigli esso entra in un seminario per abbracciare la carriera ecclesiastica, ma ne vien rimosso non essendo buono a nulla. Più non sapendo che far di sé stesso, si mette a percorrere la Svizzera con un preteso vescovo greco che faceva delle collette pel Santo Sepolcro; questi due onesti viaggiatori si fecero arrestare a Solura e mettere in prigione. – L’ambasciatore di Francia mosso a pietà del giovane vagabondo, gli dà i mezzi di tornare a Parigi, dove prova tutti gli orrori della miseria. Finalmente venuto a Lione entra in qualità di precettore nella casa del signor di Mably gran rettore di questa città; gli ruba il suo vino d’Arbois, e se lo beve deliziosamente leggendo dei romanzi. Dopo vari fatti del pari onorevoli, ai quali tenne dietro un viaggio in Italia, Rousseau ritorna a Parigi nel 1745, e si abbandona ad un pubblico libertinaggio e mena una tal vita scandalosa per bene venticinque anni agli occhi di tutta Europa. Al libertinaggio egli unisce l’empietà, e se già aveva abiurato la setta di Calvino per abbracciare la Religione cattolica, eccolo ben tosto, tornato a Ginevra, abiurar la Religione cattolica per la setta di Calvino. La principale sua opera intitolata l’Emilio fu censurata dalla Sorbona, condannata dall’Arcivescovo e dal Parlamento di Parigi, poi arsa pubblicamente a Ginevra per mano del boia. Inseguito dalle autorità di Francia e di Svizzera Rousseau passa in Inghilterra; ma essendovi male accolto, ed abbeverato di amarezze domanda ed ottiene a forza d’i stanze il permesso di fissarsi a Parigi a condizione che non iscrivesse più nulla né sulla Religione né sulla politica. Un ultimo tratto farà conoscere appieno questo patriarca della filosofia. forza sulla tenerezza materna e sui doveri dei genitori verso dei loro figli, metteva con fredda crudeltà i proprii suoi figli all’ospedale dei trovatelli. – Qual vita, tal morte; secondo ogni probabilità, Rousseau si tirò un colpo di pistola, ed avendo preso il veleno mori nel 1778.

  • Voltaire e Rousseau i più abbietti fra gli uomini, tranne coloro che li stimano, tali sono, o filosofi del giorno, uomini irreligiosi di tutti i colori e di tutte le condizioni, i vostri due apostoli, i vostri due evangelisti, i vostri due santi, gli autori di quanto noi abbiam veduto, e di quanto veggiamo. [Voltaire non ha veduto tutto ciò che ha fatto, ma ha fatto quanto noi veggiamo; cosi scriveva il filosofo Condorcet, ammiratore e discepolo di Voltaire frammezzo alle insanguinate rovine dei troni e degli altari. Qualche mese dopo egli avrebbe potuto scrivere questa frase dall’alto del patibolo, dove le dottrine del suo maestro lo avevano condotto con molti altri].

– Imitate pur dunque i vostri padri, prostratevi dinanzi a codesti dati uomini, e poi, se osate, dite pure: io vorrei essere simile a loro!!! Del resto, prima di pronunziare, è bene che li conosciate non dietro quanto si dice di loro, ma dietro le stesse loro parole. Venite dunque a Ferney ed a Ginevra, ascoltate le gentilezze che si dicono a vicenda, e regolate la vostra stima per loro su quella che l’uno professa per l’altro. Voltaire scrive a Rousseau ch’è uno scappato di Ginevra; un certo messere che ne ha fatto delle sue; un mariuolo, un furfante, un ciarlatano selvaggio che raduna i passeggeri sul Ponte Nuovo; un matto villano che scrive delle impertinenze degne di Bicétre: un giovinastro di una ciarla insopportabile che le donnicciuole scambiano per eloquenza: un ipocrita, un nemico del genere umano, un botolo ringhioso e stizzoso: un cupo energumeno impastato di orgoglio e pieno di fiele, un vile, un empio, un ateo, un miserabile che potrebbe assai bene arrampicarsi sopra una scala, che avrebbe meritato di essere appeso per aver fatto dei libri abominevoli, un uomo senza fede, senza religione. – Ecco Rousseau; la sua moglie poi è una vecchia infame, le cui mani adunche furono morsicate dai cani dell’inferno. – Bravo, signor Voltaire! Ecco un bel panegirico: ma intanto non siete voi, o illustre scrittore, modello di civiltà e di gusto, che dicevate: « Nella conversazione » delle persone dabbene ciascuno dice il suo parere, ma niuno ingiuria la sua brigata; si discute, ma non s’insulta? – Ora voi ingiuriate, voi insultate, voi non siete dunque un…. Dispensatemi dal terminar la frase. – Meno abile nell’arte d’ingiuriare, Rousseau risponde a Voltaire attaccandone gli scritti; anima abbietta, tu cerchi invano di avvilirla; è solo la tua trista filosofia che ti rende simile alle bestie, ma il tuo genio è una protesta contro i tuoi principii, e lo stesso abuso delle tue facoltà prova la loro eccellenza a tuo dispetto. – Se voi dunque chiedete a Voltaire chi è Rousseau, vi dice ch’esso è « un mascalzone, un furfante, un cane, un ciarlatano selvaggio ». – Se domandate a Rousseau chi è Voltaire, vi dice ch’è « un’anima abbietta, simile alle bestie ». – Ma eccovi qualche cosa di meglio e di meno sospetto; si è lo stesso Voltaire, lo stesso Rousseau che rendono giustizia a se stessi ed ai loro scritti: volete voi sentirli? – Ascoltate Voltaire : Io sprecai il tempo della mia esistenza a comporre guazzabuglia di cui la metà non avrebbe mai dovuto veder la luce. – Ascoltate Rousseau: Dire e provare del pari il prò ed il contro, persuader tutto e non credere a nulla, è stato sempre mai il favorito trastullo del mio ingegno, io non osservo alcuno de’ miei libri senza fremere; invece d’istruire, io corrompo; invece di nutrire, io avveleno: ma la passione mi trascina, e con tutti i miei bei discorsi io non sono che uno scellerato. Io non desidero altro che un angolo di terra per poter morire in pace senza toccare né carta né penna. – Voltaire e Rousseau, ecco dunque quanto la filosofia ha di meglio da opporci. Gran Dio! Dio di santità, Dio di purità, Dio di tutte le virtù! sarebbero mai costoro quelli che voi sceglieste per vostri rappresentanti sulla terra, gl’interpreti delle vostre sante verità, i maestri del genere umano, mentre avete condannato all’errore tutto ciò che v’ebbe tra gli uomini di più virtuoso, di più illuminato, di più somigliante a Voi stesso! Ed ora a chi mi domandasse come si possano spiegare gli elogi e l’ammirazione fanatica di cui Voltaire e Rousseau furono obbietto, sarebbe agevole il rispondere: « Essi dicevano ad alta voce ciò che il loro secolo pensava in segreto: l’impura loro voce era l’eco di tutti i loro cuori corrotti di cui era pieno il mondo ».

 

LE ALLEGRE CONSACRAZIONI “FAIDATE” DI MONS. Thuc

LE ALLEGRE CONSACRAZIONI “FAIDATE” DI MONS. Thuc.

Molti lettori ci chiedono notizie di questo discusso prelato estremo-orientale; a tal proposito riportiamo quanto pensa un membro della Gerarchia della Chiesa cattolica in eclissi che, parlando con due membri dello staff di Papal Restoration Campaign, ha tenuto a precisare che il Santo Padre, Papa Gregorio XVIII,  considera le cosiddette “consacrazioni” di Ngo Dinh Thuc, come minimo, dubbiose. Per semplificare, diciamo che nelle intenzioni della Chiesa tal genere di consacrazioni non si sono mai verificate, poiché il monsignore venuto dall’oriente Thuc, in queste “consacrazioni”, diciamo azzardate, agiva con un proprio mandato (procuratogli dal demonio?). Questo è incontrovertibile, così come quando, ad un certo momento, chiese perdono all’antipapa Montini, il sedicente Paolo VI, per aver tentato di consacrare un gruppo di Alumbrados (Illuminati) in Palmar de Troya, Spagna [quelli che hanno poi fondato la barzelletta della “chiesa”c. d. palmariana], come vescovi senza mandato papale!

Ma i fatti gettano gravi dubbi circa la validità delle “consacrazioni” di Thuc. Ne diamo alcuni motivi:

  • Partecipa al falso concilio Vaticano II e ne firma i decreti.
  • Ha rimproverato pubblicamente l’intero Concilio per non essere abbastanza ecumenico;
  • ha cercato di ottenere che il Concilio accettasse l’uguaglianza con le donne nella Chiesa;
  • con la possibile eccezione del Sacramento dell’Eucaristia, non ha mai affermato che i sacramenti della Chiesa del Vaticano II fossero invalidi, ma solo che essi sono respinti da Dio;
  • ha sempre firmato i documenti con i titoli a lui “conferiti” dalla Chiesa del  Vaticano II;
  • fatto riferimento a Giovanni XXIII come ad un papa santo;
  • riconosciuto il marrano Paolo VI come Santo Padre;
  • ha “ordinato” / “consacrato” un gran numero di uomini, sacerdoti e vescovi senza missione e giurisdizione, senza chiedere loro di rinunciare alle loro false sette, anzi creandone di nuove. [tra questi il “grande” teologo Gerard des Lauriers, sacrilego pseudo-vescovo senza giurisdizione, l’inventore della stravagante antitomistica c. s. “tesi cassiciacum”, nonché i fondatori della barzelletta palmariana, e diversi personaggi riciclatisi nella setta C.M.R. I.];
  • ha “ordinato” / “consacrato” uomini del tutto inadatti ad essere ministri;
  • Ha regolarmente servito come accolito la nuova “messa”, quando era in Francia;
  • ha concelebrato la nuova “messa” con un vescovo del Vaticano II in tante e diverse occasioni;
  • ha ascoltato confessioni da settari del Vaticano II con il permesso di un vescovo del Vaticano II;
  • prima della sua morte, ha esortato alcuni collaboratori discendenti dalla sua “linea” a tornare alla chiesa del Vaticano II;
  • si è lamentato che alcune abitudini alimentari orientali fossero state escluse dalla Santa Messa.
  • E’ stato detto che fosse fisicamente e psicologicamente esaurito;
  • La sua sanità mentale era stata pubblicamente messa in dubbio dai suoi contemporanei;
  • Il guadagno monetario è stato riconosciuto dai suoi amici, essere un fattore motivante nel “conferimento” dell’Ordine sacro; • Nella sua autobiografia ha ammesso ad un prete del Vaticano II, di aver mentito.
  • Una sua amica ha detto che spesso parlava con doppi sensi;
  • Si comportava da tradizionalista solo quando intorno aveva altri tradizionalisti;
  • ha ammesso di simulare la “messa”;
  • ha ammesso di aver trattenuto la sua intenzione sacramentale nel conferimento dell’Ordine sacro. Nota: questo in almeno 10 diverse occasioni, vale a dire in 10 cerimonie false!

Il requisito minimo della Chiesa per accettare la validità di un sacramento è la “certezza morale.” La certezza morale “esclude ogni prudente timore di errori, in modo tale che l’opposto è reputato come del tutto improbabile.” Ora, sulla base delle evidenze sopra riportate si impone la seguente domanda: “Abbiamo la certezza che le c.d. consacrazioni del Vescovo Thuc raggiungessero un livello tale da escludere ogni prudente timore di errore?” – C’è la possibilità che egli non abbia validamente consacrato? … è del tutto improbabile che i riti non siano validi? – Mi sembra che nessuna persona obiettiva che possieda l’uso della retta ragione possa in coscienza concludere che le consacrazioni del Vescovo Thuc siano certe nella misura in cui si possa escludere ogni prudente timore di errori, in modo tale che l’opposto sia reputato come del tutto improbabile. – I Cattolici, quindi, devono indubbiamente respingere la validità delle consacrazioni del Vescovo Thuc. E se dobbiamo rifiutare le consacrazioni del Vescovo Thuc, ovviamente dobbiamo anche respingere tutte le ordinazioni e (pseudo-) consacrazioni provenienti dalla progenie Thuc, dalla linea episcopale Thuc, che non può fornire il Sacramento dell’Ordine, originariamente incerto, per cui non si può dare ad altri ciò che non si possiede da se stessi. Così la mancanza di certezza morale con il quale i Cattolici devono respingere la validità degli ordini del Vescovo Thuc, deve essere applicata anche alla progenie del Vescovo Thuc.

 Fotografia del vescovo Thuc che pubblicamente simula il Sacramento dell’Ordine Sacro su un Alumbrados, l’eretico venditore di assicurazioni, il Sig. Gomez, in Spagna nel gennaio del 1976.

La foto riportata sopra è l’esempio di una consacrazione episcopale FALSA al 100% D.O.C. garantita, come ha ammesso lo stesso vescovo Thuc che l’ha “eseguita”. (egli avrebbe poi formalmente affermato che stava trattenendo la sua intenzione sacramentale – un sacrilegio! -) “consacrando” il sig. Gomez senza un mandato papale – un altro sacrilegio!- anche se lo stesso vescovo Thuc aveva scritto e firmato un documento ufficiale [completamente fuori luogo] dichiarando di aver “consacrato” Clemente Dominguez y Gomez il 1° gennaio 1976) ??? Ecco il testo del documento, memoriale di tanta nefandezza sacrilega, attestante la perfetta malafede di questo, a dir poco “strano”, prelato vietnamita.

* “Io Peter Martin Ngo-Dinh Thuc, Arcivescovo titolare di Bulla Regia certifico che, il primo giorno del mese di gennaio 1976 ho conferito la tonsura e gli minori ordini, così come gli ordini maggiori (cioè suddiaconato, diaconato e sacerdozio) sulla seguenti persone: …. Clemente Domínguez, nato a Siviglia, National Identity Number 28279369 … […] Ho inoltre attestato che i Vescovi ed i Sacerdoti appartengono all’Ordine dei Carmelitani del Santo Volto, fondata a Siviglia il 23 dicembre 1975. – La Casa Madre di questo Ordine è al n 20 di via Redes a Siviglia. Il Fondatore e Padre Generale è Sua Eccellenza Clemente Domínguez, vescovo. – Di mia mano e di mia penna firmo questo documento perché abbia tutti gli effetti ecclesiastici e civili. – Dato il mio sigillo, il giorno dodici di gennaio dell’anno del Signore 1976   Firmato + Peter Martin Ngi-Dinh Thuc, Arcivescono di Bulla Regia.

A suo dire egli avrebbe avuto un mandato da S.S. Pio XII di consacrare dei Vescovi nella sua nazione, martoriata dalla guerra, anche senza l’autorizzazione di Roma. Di questo documento non c’è traccia, ed anche se fosse stato così, con prassi mai attuata in alcun tempo dalla Chiesa Cattolica anche in analoghe e ben più gravi situazioni, questo valeva per la sua terra durante il tempo di guerra, non certo si trattava di un permesso “speciale” per non-consacrare cani e p… in ogni angolo del pianeta creando il presupposto per sette e “chiesette” scismatiche ed eretiche, chiedendo una lauta ricompensa per “coprire le spese”.

(I Cattolici romani riconoscono che il sacro sacerdozio viene solo da Dio che chiama l’anima prescelta, mentre la Chiesa di San Pietro conferma il mandato dal Cielo. … E questi sedevacantisti patetici cercano di deridere pubblicamente i cattolici [della Chiesa in Eclisse perché non frequentano i loro servizi sacrileghi?!?).

Tra gli altri, anche il sacerdote vietnamita Peter Khoat Van Tran, ha avuto nel 1983 la “fortuna” di incontrare il Vescovo suo conterraneo a Tolone in Francia in Rue Garibaldi 22. Durante quelle lunghe riunioni, dove c’erano gatti che saltavano intorno, dentro e fuori dai mobili, Bp. Thuc e P. Tran hanno parlato tra loro nella lingua nativa Vietnamita, circa la crisi della Chiesa. – Thuc, espose gli insegnamenti di Cum ex apostolatus officio a P. Tran, che conosceva bene la bolla pontificia. Il vescovo Thuc parlava del documento di Paolo IV applicandolo all’usurpatore antipapa Giovanni Paolo II, per cui egli riteneva che al momento, la sede pietrina fosse vacante.- Fr. Tran, che ha avuto il più grande rispetto per il Vescovo Thuc, ha potuto notare, registrandolo, che il suo connazionale “variava i suoi stati di lucidità durante i loro incontri”. La cosa più scioccante, secondo la testimonianza scritta e firmata di p. Tran, fu che durante il loro ultimo incontro a Tolone, Thuc sottolineava il fatto che Giovanni Paolo II fosse un cattivo antipapa (cosa che P. Tran già sapeva), ma quando p. Tran poi si alzò per andarsene, anche il Vescovo Thuc si alzò e lo guardò dritto negli occhi dicendo: “E come è buono il nostro papa Giovanni Paolo II!” – – Così tragicamente Bp. Thuc non ha mai avuto la sua “testa a posto”, cosa di nuovo ulteriormente evidenziata (oltre ai punti elencati sopra) dal fatto di consigliare ai suoi conoscenti di tornare alla massonica setta del Vat. 2°, poco prima di morire nel 1984. Abbiamo poi la testimonianza giurata della consacrazione di Guerard des Lauriers, che continuamente dovette intervenire durante la cerimonia perché Thuc citava continuamente Giovanni Paolo II, nonostante che avesse detto due settimane prima che lo stesso non fosse il Papa. Anche altri sacerdoti (ad es. il noto padre Noel Barbara e padre Barthe nel 1981), hanno incontrato il vescovo vietnamita che serviva nella cattedrale la messa del N. O. e confessava i fedeli conterranei autorizzato dall’arcivescovo locale), riportandone analoghe impressioni circa la sua salute mentale. Il padre Barbara, in particolare lo rimproverava, e gli consigliava di non seguire la via del non-monsignor Lefebvre, che a parole diceva di riconoscere la legittimità della gerarchia post-conciliare [egli che sapeva bene come fossero andate le cose nei conclavi dal 58 in poi, perché informato dettagliatamente dagli infiltrati massoni Tisserant e Lienart, suoi amici e confratelli di merenda …-ndr-], e poi pubblicamente li disubbidiva secondo il suo mutevole umore giornaliero. Ci sono tante altre testimonianze giurate di sacerdoti sedicenti tradizionalisti (es. W. Jenkins, A. Cekada, il già citato G. des Lauriers, etc.) che testimoniano delle infelici condizioni mentali del nostro vescovo vietnamita; secondo alcuni osservatori pare che le sue “pittoresche” consacrazioni fossero motivate da un disperato bisogno di denaro! –

D’altra parte il Signore ci aveva ampiamente avvertito e con largo anticipo: “… dai frutti li riconoscerete” … e qui i frutti marci sono proprio evidenti!

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Le consacrazioni senza mandato sono anatemizzate, cioè colpite da scomunica “ipso facto”; ricordiamo a proposito cosa ci dice il Dottore Angelico: Art.1,4 Chi col battesimo è inserito nella Chiesa è reso capace di due cose: di costituire il ceto dei fedeli e di partecipare ai sacramenti. E questa seconda cosa presuppone la prima, poiché mediante la partecipazione ai sacramenti i fedeli sono anche in comunione tra loro. Perciò si può essere posti fuori della Chiesa con la scomunica in due modi. Primo, con la sola esclusione dai sacramenti: e questa è la scomunica minore. Secondo, con l‘esclusione da entrambe le cose: e questa è la scomunica maggiore definita in questo articolo…. «Chi è colpito di anatema per un delitto, è escluso dalla bocca, dalla preghiera, dal saluto, dalla comunione e dalla mensa». «Dalla bocca», cioè dal bacio, «dalla preghiera», poiché non si può pregare con gli scomunicati, «dal saluto», poiché essi non vanno salutati, «dalla comunione», cioè da ogni rapporto sacramentale, «dalla mensa», poiché non si può mangiare con essi. Ora, la definizione data implica l‘esclusione dai sacramenti con le parole «quanto al frutto», e dalla comunione dei fedeli quanto alle realtà spirituali con il riferimento ai «suffragi comuni della Chiesa». [suppl. III, arg. 21, art.3]. In altro luogo:

Articolo 2,2 – In S. Matteo [XVIII, 17], di chi si rifiuta di ascoltare la Chiesa, sta scritto: «Sia per te come un pagano e un pubblicano». Ora, i pagani sono fuori della Chiesa. Perciò è giusto che la Chiesa, con la scomunica, escluda dalla sua comunione coloro che non vogliono ascoltarla.

Parte III, Questione 36, artic. 5, in contrario:

-. 1) Dionigi [Epist. 8, 2] ha scritto: «Costui», ossia chi non è illuminato [dalla grazia], «sembra molto presuntuoso, mettendo mano alle funzioni sacerdotali; e non sente timore e vergogna nel trattare le cose divine senza dignità, pensando che Dio ignori i segreti della sua coscienza; e pensa di poter ingannare colui che egli falsamente chiama Padre; e osa servirsi delle parole di Cristo per pronunziare sui segni divini, non oso dire delle preghiere, ma delle immonde bestemmie». Perciò il sacerdote che indegnamente esercita il proprio ordine è come un bestemmiatore, o un ipocrita. Quindi pecca mortalmente. E per lo stesso motivo peccano in caso analogo tutti gli altri ordinati. 2. La santità è richiesta negli ordinandi in quanto indispensabile per esercitare le loro funzioni. Ora, chi si presenta agli ordini in peccato mortale pecca mortalmente. A maggior ragione quindi pecca chiunque esercita in stato di peccato il proprio ordine.

-.2) Dimostrazione: La legge [Dt 16, 20] comanda di «compiere santamente le cose sante». Perciò chi esegue le funzioni del proprio ordine in modo indegno compie le cose sante in maniera non santa, e quindi agisce contro la legge, per cui pecca mortalmente. Chi infatti esercita un ufficio sacro in peccato mortale, senza dubbio lo esercita indegnamente. Perciò è evidente che fa peccato mortale.

           Punto chiave della teologia morale è: “In caso di dubbio, ASTENERSI”.

Henry Davis, S.J.: “Teologia morale e pastorale”; Londra: Sheed & Ward, 1935 Volume III, pag. 27

L’UTILIZZO DEI PARERI PROBABILI [CAPO VII, SEZIONE I: Opinioni probabili di Validità]

Nel conferire i Sacramenti (così come anche nella consacrazione nella Messa) non è mai permesso adottare una probabile linea di condotta per la validità, ed abbandonare il corso più sicuro. Il contrario è stato esplicitamente condannato da Papa Innocenzo XI.  Fare ciò sarebbe un grave peccato contro la religione, cioè un atto di irriverenza verso ciò che Cristo nostro Signore ha istituito, sarebbe un grave peccato contro la carità, quindi il destinatario sarebbe probabilmente privato delle grazie e dell’effetto del Sacramento; sarebbe un grave peccato contro la giustizia, poiché il destinatario ha diritto a Sacramenti validi, ogni volta che il ministro, sia d’ufficio o no, si impegna a conferire un Sacramento. Nei Sacramenti necessari non vi è alcun dubbio circa il triplo peccato; nei Sacramenti che non sono indispensabili ci sarà comunque sempre il sacrilegio grave contro la religione!

“E’ una grave responsabilità di tutti i cattolici dimostrare a se stessi che i sacramenti che frequentano siano leciti [legali] agli occhi della Chiesa di Cristo, perché se i cattolici si avvicinano ai Sacramenti senza sapere per certo che i ministri hanno sia validi ordini sacri, sia ordini che sono stati dati con approvazione canonica [autorizzazioni alla pratica], si mettono fuori della Chiesa. ”

Il Magistero espressamente dichiara: che [Il seguente errore è] condannato da un decreto del Sant’Uffizio, del 4 marzo 1679:Non è lecito nel conferire sacramenti seguire un parere probabile per quanto riguarda il valore del sacramento, abbandonando il parere più sicuro, a meno che non lo vieti la legge, le convenzioni o il pericolo di incorrere in danni gravi. Pertanto non si dovrebbe fare uso di pareri probabili nel conferimento del battesimo, degli ordini sacerdotali, o episcopali.” (Denzinger n.1151). Innocenzo XI (1676-1689).

[P. s. Qui non si tratta di distinguere il potere d’ordine dal potere di giurisdizione, perché gli ordini sacri in realtà non sono mai stati conferiti, come nel caso del cavaliere Kadosh Lienart, il mai-prete e mai-vescovo che non ha trasmesso mai alcun ordine a nessuno, così come pure la sua “progenie”.]

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MOSERNISTA-APOSTATA DI TORNO: “APPETENTE SACRO”

Con l’approssimarsi della Quaresima è giusto rileggere la lettera enciclica di S. S. Clemente XIII “Appetente sacro”, un breve scritto che ricorda l’importanza fondamentale della penitenza quaresimale nella vita del Cristiano, in espiazione delle proprie colpe e di quelle della intera società. Oggi purtroppo questa pratica è diventata pressoché inusitata, inutile per la contro-Chiesa della falsa misericordia, quella dell’orgoglioso modernismo che, pretendendo la propria autosufficienza, secondo il costume massonico ben assorbito, rifugge dal soprannaturale, a detrimento della vita dell’anima e pure del corpo. Oggi si propongono le diete più strampalate, menù dettati dalla fantasia più stupida e pericolosa per la salute, sotto il pretesto dell’esotismo e di un salutismo mai provato, mentre l’unica pratica, veramente salutare e vantaggiosa per la vita del corpo e dell’anima, viene neghittosamente rigettata, con i risultati che tutti purtroppo vediamo in ogni ambito, da quello medico a quello mentale, sociale, morale e spirituale, solo per citarne alcuni. In questa enciclica, che dimostra come i Santi (veri) Pontefici siano preoccupati e dediti alla cura delle anime loro affidate, suggerendo ogni accortezza che possa esser loro di vantaggio per la vita attuale, ma soprattutto in vista della salvezza eterna dell’anima. Qui si richiama la pratica del digiuno che il Cristiano deve offrire al Signore senza sotterfugi o inganni, anzi con gioia e gratitudine per avere l’occasione di intraprendere questa pia opera espiatrice, apportatrice di benessere materiale e spirituale senza pari.

Clemente XIII

Appetente sacro [20 dic. 1759]

1.- Avvicinandosi il sacro tempo Quaresimale che, ricco di dottrina misteriosa, non senza alcunché di arcano, precede la grande solennità di Pasqua, nella quale trovano compimento e dignità tutte le solennità, vi esortiamo, Venerabili Fratelli, affinché il santissimo digiuno sia scrupolosamente e inviolabilmente praticato dai fedeli, come raccomandato dalla Legge e dai Profeti, santificato da Cristo Signore, tramandato dagli Apostoli così come la Chiesa Cattolica sempre ritenne, affinché attraverso la mortificazione della carne e l’umiliazione dello spirito ci accostassimo più preparati ai misteri della Passione del Signore e dei Sacramenti Pasquali, e potessimo risorgere nella sua risurrezione; dopo essere morti con lui nella passione, avendo deposto l’uomo vecchio. Per il desiderio di difendere tanto religiosa e salubre istituzione il nostro predecessore Benedetto XIV di felice memoria, anche se inviandovi due lettere in forma di Breve eccitò lo zelo esimio delle Vostre Fraternità perché la disciplina del digiuno quaresimale, minacciata da molte depravazioni, per merito e zelo vostro fosse riportata alla primitiva osservanza, tolse di mezzo alcuni cavilli, dai quali ogni validità dei sacri digiuni veniva infranta. Tuttavia dal tremendo e odiosissimo nemico del genere umano sono state fatte così numerose e continue insidie al gregge del Signore, che c’è da temere che successivamente quella vecchia volpe suggerisca agli animi dei più deboli nuove motivazioni e cattive consuetudini, dalle quali la severità del digiuno venga svigorita, e donde dianzi era stata revocata, colà nuovamente torni indietro. Giudicammo perciò necessario mandarvi questa lettera per significare alle vostre Fraternità in quanto grande timore Ci troviamo che rimanga alcunché della precedente corruzione, oppure nuovo danno venga inferto a questo riguardo alla disciplina ecclesiastica, con nocumento delle anime dei fedeli.

2. – Abbiamo capito che questo Nostro timore di tanto sarebbe diminuito di quanto fosse stata sollecitata la Vostra personale vigilanza. Per mezzo di essa, con l’aiuto di Dio, impegnatevi affinché tutti gli errori siano eliminati dalle fondamenta: sia ciò che possa essere rimasto dell’antica corruttela dopo le ricordate Lettere del suddetto Nostro Predecessore, sia le nuove opinioni dirette ad infrangere le leggi del digiuno, sia le consuetudini aborrenti dal vero significato e dalla natura del digiuno recentemente introdotte dalla cattiveria dell’ingegno umano. – Tra questi errori certamente pensiamo si debba includere quell’abuso, che una certa voce ha fatto giungere fino a Noi. Alcuni, ai quali per giuste e legittime motivazioni si è concessa la dispensa dall’astinenza delle carni, credono sia loro lecito assumere bevande miste con latte, contrariamente a quanto è stato previsto dal predetto Nostro Predecessore, il quale pensò che tanto i dispensati dall’astinenza delle carni quanto i digiunanti in qualsiasi modo, eccettuata l’unica commestione, devono essere in tutto da equiparare a coloro che non hanno alcuna dispensa, e perciò possano servirsi di carne oppure di ciò che deriva dalla carne soltanto relativamente all’unica commestione.

3. – In verità, né più convenientemente né con maggiore speranza di profitto giungerete a richiamare gli uomini alla sacrosanta legge del Digiuno se non insegnando ciò ai popoli. La Penitenza del cristiano, oltre alla cessazione dal peccato, la detestazione della vita passata trascorsa male e la Confessione Sacramentale dei medesimi peccati, chiede anche che, per mezzo di digiuni, elemosine, preghiere e altre opere di vita spirituale rendiamo soddisfazione alla giustizia divina; infatti ogni iniquità, piccola o grande che sia, deve essere punita o dal penitente stesso o da Dio vendicante. Se dunque non vogliamo essere puniti da Dio, non possiamo fare diversamente che punirci da noi stessi. Se tale dottrina sarà costantemente inculcata negli animi dei fedeli, e dai fedeli profondamente recepita, evidentemente si dovrà temere di meno che coloro che avranno rigettato i costumi vinti, e lavato per mezzo della Confessione Sacramentale i loro peccati, non vogliano espiare i medesimi peccati per mezzo del digiuno, frenando la concupiscenza della carne. Inoltre coloro che saranno persuasi di pentirsi in maniera meno dubbia dei loro peccati, non permettendo a se stessi di restare impuniti, presi dal desiderio della penitenza, certamente si rallegreranno nel tempo di Quaresima (ed in certi altri giorni, quando la Santa Madre Chiesa ordina ai fedeli il digiuno) che sia offerta loro l’occasione di produrre frutti degni di penitenza. Poiché è sempre opportuno tenere domata la concupiscenza (è scritto infatti: “Non andare al seguito della concupiscenza, e allontanati da essa“), facilmente indurranno il loro animo, specialmente durante il tempo più sacro di tutto l’anno, a temperare l’intemperanza del corpo col digiuno; di modo che l’anima, ripresa conoscenza di se stessa, comprenda con quale compunzione si debba preparare a ricordare i Santissimi Misteri della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo. Pertanto, sospinti dagli stimoli della penitenza, cerchino di meno le soavità nei pasti, seguano di meno le delizie delle ghiottonerie che, benché non sembrino discordare con l’astinenza dai cibi proibiti, tuttavia potrai dire giustamente che colui che le pone sulla sua mensa non tanto ha allontanato le solite dolcezze, quanto ha trasferito la sua cupidigia verso inusitate attrattive, o quanto meno, infine, cerca motivi di scampo con i quali sottrarsi al Digiuno, oppure si appresta ad infrangere la legge Ecclesiastica.

4. – È dunque compito vostro, Venerabili Fratelli, precedendo i fedeli con l’esempio egualmente che con la parola, infondere nel loro animo tanto zelo e amore di penitenza in modo che, affrontando decisamente il Digiuno, lo osservino secondo le leggi prescritte dalla Chiesa Cattolica e lo santifichino anche con elemosine e con la preghiera; tenendo presente soprattutto ciò a cui guarda la Chiesa, possano infine ottenere che, mortificati nel corpo e consepolti con Cristo, chiamati alla nuova vita del nuovo uomo nella solennità di Pasqua, con grande fiducia possano andare incontro a Cristo Signore risorto. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi tutti, ai quali con grande affetto impartiamo l’Apostolica Benedizione, pegno della nostra benevolenza e carità verso di voi.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 20 dicembre 1759, nell’anno secondo del Nostro Pontificato.