IGNORANZA DELLA RELIGIONE

Ignoranza.

[G. Bertetti: Il Sacerdote Predicatore. S.E.I. Ed. Torino, 1919]

— 1. Ignoranza colpevole. — 2. Ignoranza inescusabile. — 3. Ignoranza funestissima nelle sue conseguenze.

1. IGNORANZA COLPEVOLE. — Non è colpa l’ignorare l’astronomia, la geometria,… e tutte le altre scienze umane… Son tutte cose bell’e buone, se si apprendono col retto intento d’aiutarci per mezzo di esse alla conoscenza di Dio:… ma Dio non ci fa nessun obbligo di studiarle, e alla conoscenza di Dio si perviene molto più facilmente con la semplicità del cuore che con la sublimità dell’intelletto: « Io ti ringrazio, o Padre, o Signore del cielo e della terra, perché hai tenute occulte queste cose ai saggi e ai prudenti, e le hai rivelate ai piccolini: così è, o Padre, perché così a te piacque» (MATTH., XI, 25, 26):…. È colpa ignorare ciò che siamo obbligati a sapere;… è colpa ignorare ciò che s’appartiene alla fede e alla morale cattolica, e quest’è obbligo per tutti indistintamente d’apprendere e sapere: « la vita eterna si è che conoscano te, solo vero Dio, e Gesù Cristo mandato da te». (JOAN., XVII , 3) . .. Ed è obbligo di ciascuno in particolare d’apprendere e conoscere ciò che s’appartiene al proprio stato e al proprio officio;… è perciò colpa ignorare quel ch’è necessario sapere in particolare per esercitare coscienziosamente la missione che a ciascun di noi il Signore ha affidato… «È cosa manifesta che chiunque tralascia d’avere o di fare ciò ch’è tenuto ad avere o a fare, fa un peccato d’omissione: perciò è peccato l’ignorare per negligenza quelle cose che s’è in obbligo di sapere ». (S. TH., 2A 2AE , q. 76, a. 2 ) … Eppure, mentre una vera frenesia assale gli uomini d’acquistare la scienza profana, ben pochi si curano della scienza che solo può condurre alla vita eterna… Molti vanno avidamente in cerca di ciò che non sono obbligati a sapere;… pochi sanno le cose che si devono assolutamente sapere… Le tenebre della più profonda ignoranza della religione avvolgono il mondo… Provatevi a interrogare sulle questioni più elementari del dogma e della morale gli artigiani, i mercanti, gl’industriali;… interrogate i dotti e i letterati.

2. IGNORANZA INESCUSABILE . — Quest’ignoranza non ammette scusa… « L’ignoranza della verità non iscusa dalla condanna coloro, ai quali era facile trovarla, se l’avessero voluta cercare: tocca a noi cercare la verità la salvezza, la vita; non alla verità, alla salvezza, alla vita tocca cercare, noi » (S. GIOV. CRIS. , homil. 78 in Matth.);… « altra cosa è non aver saputo, altra cosa non aver voluto sapere; ignorante scusabile è chi vorrebbe imparare e non può; ma chi per non sapere si tura le orecchie alla voce della verità non è solo un ignorante, ma un dispregiatore della verità » (S. BEDA, in 12 Luc.). Potranno scusare la loro ignoranza quegl’infedeli che non sentirono mai parlare di Gesù Cristo,… quei protestanti che furono educati nella persuasione di trovarsi nella vera Chiesa;… ma come potranno scusarsi i cattolici che con tanta comodità d’istruirsi nella religione dicono col fatto, e fors’anche con le parole, al Signore: «Va via da noi; non ne vogliamo sapere de’ tuoi insegnamenti? » (JOB, 21, 14) … — «La regina del mezzogiorno insorgerà nel dì del giudizio contro questa razza d’uomini, e la condannerà, perché venne dall’estremità della terra a udire la sapienza di Salomone: ed ecco qui uno che è da più di Salomone » (MATTH., XII, 42)… Si condanneranno e si renderanno inescusabili da se stessi, poiché non badarono a sacrifici per imparare le cose della terra, e non mossero un dito per imparare le cose del Cielo!

3. IGNORANZA FUNESTISSIMA NELLE SUE CONSEGUENZE. — Chi non conosce Dio, non può amarlo, non può servirlo, non può aspirare alla celeste patria… L’ignoranza colpevole conduce direttamente alla perdizione eterna… Il trascurare la parola di Dio è segno evidente di riprovazione: « Chi è da Dio, ascolta la parola di Dio; voi non lo ascoltate, appunto perché non siete da Dio » (JOAN., VIII, 47) L’ignoranza apre inevitabilmente la via all’errore,… all’eresia,… all’apostasia:… non si vuol più sapere dell’Evangelo, e si presta cieca fede a ogni follia;… non si vuol più sapere di Gesù Cristo, «luce del mondo » (JOAN., VIII, 13), e si perdono dietro a uomini, che sono «nuvoli senz’acqua trasportati qua e là dai venti; alberi d’autunno, infruttiferi, morti due volte, da essere sradicati; flutti del mare infierito, che spumano le proprie turpitudini; stelle erranti, per le quali è riservata tenebrosa caligine in eterno » (Luc., XII, 13). – L’ignoranza della religione conduce alla più sfacciata immoralità:… senza l’Evangelo, si ripiomba in pieno paganesimo;… si perde l’esatta nozione dell’onestà, del diritto, della giustizia, della carità, della santità coniugale, della dignità umana… — É vero che conoscere la religione non significa ancor praticarla;… ma è pur vero che soltanto con la conoscenza di Dio si può avere la virtù… Conoscendo Dio, l’uomo si trova spinto al bene da impulsi più forti di quelli che lo spingono al male;… e anche quando avesse fatto il male, l’uomo trova la forza di rialzarsi, trova almeno un resto di pudore che lo protegge contro l’estremo cinismo dell’immoralità… Quando invece l’ignoranza nelle cose di religione è assoluta, i disordini raggiungono le più immonde e le più sfacciate turpitudini, conducendo tutto un popolo allo sfacelo e alla maledizione di Dio.

G. FRASSINETTI: CATECHISMO DOGMATICO (X)

Catechismo dogmatico (X) 

[Giuseppe Frassinetti, priore di S. Sabina di Genova:

Ed. Quinta, P. Piccadori, Parma, 1860]

CAP. VII
DEI SACRAMENTI.

§ IV.

 Della Ss. Eucaristia. 

— La Ss. Eucaristia è un Sacramento della nuova Legge?

È  un vero Sacramento della nuova Legge, e che sia tale è un espresso articolo di Fede (Conc. Trid. sess. VII, c. 1).

È pure un vero Sacrificio?

È similmente un espresso articolo di Fede che sia un vero Sacrifizio ( Conc. Trid. sess. XXII, cap. 1).

— Come si definisce la Ss. Eucaristia in quanto è Sacramento?

Un Sacramento della nuova legge, che contiene realmente il corpo e il sangue di Gesù Cristo sotto le specie del pane e del vino istituito a spirituale refezione dei fedeli. »

— Qual è  la materia di questo Sacramento?

Il pane fatto di frumento e il vino fatto di uva.

— Quale ne è la forma?

Sono le parole della consacrazione che proferisce il Sacerdote sopra il pane e il vino nella S. Messa.

— Proferite le parole della consacrazione, quale cangiamento si fa nel pane e nel vino?

È articolo di Fede che tutta la sostanza del pane si cambia nel corpo di Gesù Cristo, e tutta la sostanza del vino si cambia nel suo sangue.

— Perché si dice: tutta la sostanza?

Perché è articolo di Fede dichiarato dalla Chiesa contro alcuni eretici, che fatta la Consacrazione non vi resta più nulla della sostanza del pane e del vino, ma si cangia tutta nel Corpo e Sangue di Cristo; e per denotare che restano le specie, cioè il colore, l’odore, il sapore e la quantità tanto del pane quanto del vino; e perciò cangiandosi quelle sostanze nel Corpo e Sangue di Cristo, restano le apparenze del pane e del vino.

— Dunque nell’ostia consacrata vi è solo il corpo, e nel calice consacrato vi è solo il sangue di Cristo?

Questa sarebbe una eresia ( Conc. Trid. Sess. XIII, c. 3); giacché è di Fede che tanto sotto le specie del pane, quanto sotto le specie del vino, vi è Cristo intero, e perciò vi è anche la sua anima e la sua Divinità. Si dice che il pane si cambia nel corpo di Cristo, e il vino nel sangue di Lui, perché in virtù delle parole della Consacrazione il pane si cambia nel suo corpo, che come corpo vivo ha il suo sangue, e perché in virtù delle parole della Consacrazione del calice il vino si cambia nel sangue di Cristo, che come sangue vivo è unito al suo corpo; perciò per concomitanza insieme al corpo vi è il sangue, insieme al sangue vi è il corpo.

— Dunque tanto sotto le specie del pane quanto sotto le specie del vino si riceve Cristo vivo ed intero?

Certamente, e questo è un articolo di Fede.

— Quale sorta di pane si deve consacrare?

Qualunque pane: purché sia fatto di farina di frumento si consacra validamente; perciò sia pane fatto con lievito o senza lievito, con le parole della Consacrazione si cambia nel corpo del Signore; bisogna però avvertire, che la Chiesa ci comanda di usare il pane senza lievito, e ci è proibito di consacrare il pane fatto col lievito. Notate per altro che molti Greci, avendo l’uso antichissimo di consacrare il pane fatto col lievito, la Chiesa loro permette quest’uso; anzi non solo lo permette, ma vuole che lo mantengano (vedi Antoine, in opere morali de Euch. Append. De Orient. Ecc. etc. § 1).

— Non sarebbe cosa ben fatta che anche i secolari si comunicassero ricevendo il Ss. Sacramento sotto le specie del pane e insieme sotto le specie del vino?

Per molte savie ragioni ha proibito la Chiesa che si amministri ai secolari il Ss. Sacramento sotto le specie del vino; anzi sotto le specie del vino non si possono comunicare né meno i sacerdoti, quando non celebrano la S. Messa. Di più sarebbe eresia, condannata dal S. Concilio di Trento (sess. XXI, c. 1), il dire che i Cristiani siano obbligati a comunicarsi anche sotto le specie del vino. Si noti inoltre che, ricevendosi Cristo vivo e intero tanto sotto le specie del pane, quanto sotto le specie del vino, chi lo riceve soltanto sotto le specie del pane non può restare defraudato del frutto intero del Sacramento.

— Dividendosi un’ostia consacrata che cosa succede del corpo di Cristo?

Non avviene alcuna alterazione o cambiamento nel corpo di Cristo; ma è di fede che divisa quell’ostia anche in minute particelle tutto Cristo vivo e intero è in ciascuna delle particelle medesime (Conc. Trid. sess. XIII, can. 3); e lo stesso avviene se si dividono le specie del vino nel calice anche in minute gocce.

— Per quanto tempo resta realmente presente nel Ss. Sacramento il corpo e il sangue di Cristo?

È articolo di fede che Vi resta presente finché le specie non si consumino o non si corrompano; perciò se lasciate le specie del vino nel calice, svaporassero o si cangiassero in aceto, in quel calice non vi sarebbe più il sangue di Cristo.

— Quando ci comunichiamo, per quanto tempo resta in noi la reale presenza di Cristo?

Resta in noi finché il calore dello stomaco non cambia le specie sacramentali; perciò secondo la maggiore o minore forza degli stomachi resta per più o per meno tempo Cristo in noi realmente presente.

— Quale è il ministro del Sacramento dell’Eucaristia?

Il solo Sacerdote può consacrare il pane e il vino, cosicché né meno in caso di necessità chi non è Sacerdote può consacrare validamente. Perciò se, per esempio, un Diacono dicesse Messa non consacrerebbe, e quel pane resterebbe sempre pane, quel vino sempre vino, e ciò è di fede (C. Trid. sess. XXI, c. 2). L’amministrazione poi di questo Sacramento spetta pure ai soli Sacerdoti, sicché nessun altro può comunicare, ordinariamente parlando; e si dice ordinariamente parlando, perché in caso di necessità può comunicare anche il Diacono, e perciò è ministro straordinario di questo Sacramento, non per la consacrazione, ma per l’amministrazione (Hubert de Euch. c.  IV).

— Chi è il soggetto di questo Sacramento?

Ciascun uomo battezzato è il soggetto, ossia è capace di ricevere questo Sacramento; per altro per riceverlo con frutto, si richiedono le necessarie disposizioni negli adulti.

— I fanciulli adunque si possono anche essi comunicare?

Per molti secoli la Chiesa costumò di comunicare anche i fanciulli prima dell’uso della ragione; ma adesso questa consuetudine è cessata, sicché secondo l’odierna disciplina non è più lecito comunicarli. Anzi si avverta che il S. Concilio di Trento scomunicò chiunque asserisse essere necessaria la Comunione ai fanciulli prima che arrivino all’uso della ragione (Sess. XXI cap. 4).

— Quali disposizioni si richiedono negli adulti?

La grazia santificante; la cognizione del Sacramento, che cioè conoscano ciò che ricevono; tolto il caso di pericolo di morte, il digiuno da ogni sorta di cibo, e di bevanda ancorché fosse per medicamento. Queste sono le disposizioni più essenziali, ve ne sono altre che conferiscono a far ricevere questo Sacramento con maggior frutto; ma di quelle parlano i maestri di spirito.

— Chi fosse in peccato mortale e dovesse comunicarsi, basterebbe che si mettesse in istato di grazia con un atto di contrizione perfetta?

Nella risposta alla D. 14 del presente Capitolo § 1, abbiamo detto che no, essendovi il precetto di S. Paolo, il quale obbliga a premettere la Confessione ogni qualvolta chi vuole comunicarsi, è reo di qualche peccato mortale. Ciò però s’intende generalmente parlando; giacché se vi fosse urgente necessità di comunicarsi, e mancasse il Confessore, si potrebbe ricevere la S. Comunione col solo atto di contrizione perfetta; ma dei casi di tale necessità ne ragionano i moralisti, come dell’obbligo che quindi resta di confessare il peccato.

— Quali sono gli effetti di questo Sacramento?

Il primo effetto è lo spirituale nutrimento dell’anima mediante l’aumento della grazia santificante, il secondo effetto è la liberazione dai peccati veniali, il terzo il preservamento dai peccati mortali: questi effetti assegna il Sacrosanto Concilio di Trento (sess.XIII, c. 2). I Concili Fiorentino e Viennense, aggiungono il quarto effetto della dilettazione spirituale, il quale però come osserva San Bernardo (serm. de Ascens.) non si conferisce se non a quelli che sono bene staccati dagli  affetti terreni, e molto fervorosi di spirito. Questi sono quelli che comunicandosi provano sensibilmente quanto soave sia il Signore (Antoine de Euch. cap. IV art. 1, q. 2).

— Quale necessità vi è di ricevere la Ss. Comunione?

Tutti gli adulti per precetto Divino, ed Ecclesiastico sono obbligati a comunicarsi, e la Chiesa ha stabilito che questo obbligo vi è una volta all’anno; perciò chi non adempisse a quest’obbligo non si potrebbe salvare: vi è pure obbligo di comunicarsi avvicinandosi il termine di morte; ma di queste obbligazioni parlano i teologi moralisti. Si osservi però che questa necessità è solo di precetto, sicché qualora un adulto si trovasse impossibilitato a ricevere la S. Comunione potrebbe, ciò non ostante, salvarsi.

— Mi ha detto che la Ss. Eucaristia non solo è un Sacramento, ma che è pure un vero Sacrifizio: vorrei in primo luogo imparare che cosa sia sacrifizio?

Il Sacrifizio si definisce « Un’oblazione, ossia offerta, di una cosa sensibile fatta a Dio dal suo legittimo ministro in ricognizione del suo supremo dominio sopra tutte le creature, e questa offerta deve importare una qualche distruzione della cosa, ossia della vittima che si offerisce; altrimenti mancando questa distruzione non è più Sacrifizio ma una semplice oblazione. Questa definizione conviene pure ai sacrifizi dell’antica legge, nei quali si offrivano a Dio gli animali per mezzo dei legittimi Sacerdoti in ricognizione della sua suprema autorità e si offrivano dando loro la morte.

— Come si può appropriare questa definizione alla Ss. Eucaristia?

Nella S. Messa vi è l’oblazione di una cosa sensibile, cioè del Corpo e Sangue di Gesù Cristo sotto le specie dei pane e del vino. Vi è il legittimo ministro che è il Sacerdote, e vi è l’immolazione ossia distruzione della vittima la quale fu fatta realmente nel Sacrifizio della Croce, quando Gesù Cristo realmente versò il suo sangue e realmente morì; questa immolazione si fa misticamente nella S. Messa, in cui Gesù Cristo non versa più il suo sangue e non muore più realmente, ma misticamente, in quanto che in forza delle parole della consacrazione il corpo di Cristo vien soltanto sotto le specie del pane, e il sangue di Cristo soltanto sotto le specie del vino, e se insieme al corpo vi è pure il sangue e insieme al sangue vi è pure il corpo, questo succede per concomitanza, non potendo più separarsi realmente il sangue di Cristo dal suo corpo; ma non succede in forza delle parole della Consacrazione. Perciò nella Messa, stanti le specie diverse del pane e del vino, si offerisce come separato il corpo e il sangue del Signore, e questo basta perché si abbia una mistica distruzione, ossia immolazione della vittima (vedi Hubert de Euch. Antoine de Sacrif. Missæ e gli altri Teologi).

— Quale Sacrifizio si dovrà dire che sia la S. Messa?

È definito dal Sacrosanto Concilio di Trento (sess. XXII cap. 2), che la santa Messa è lo stesso Sacrifizio della Croce, solo diverso da quello nel modo in cui viene offerto, perché la stessa vittima che si offrì allora si offre adesso sugli altari, cioè Gesù Cristo che si è fatto vittima per i nostri peccati e lo stesso Sacerdote, offre questa vittima perché Gesù Cristo è il principale offerente, il Quale si offre come sul Calvario, mediante però il ministero dei Sacerdoti: quando dunque si celebra la S. Messa, si rinnova il Sacrifizio della Croce che allora fu cruento, cioè con vera effusione di sangue, e adesso è incruento, cioè con mistica e non reale effusione di sangue.

— Quali sono le qualità del Sacrifizio della Santa Messa?

È Lateutrico, cioè Sacrifizio di lode, che dà a Dio una lode infinita.  – È Eucaristico cioè Sacrifizio di ringraziamento, che vale a ringraziarlo di tutti i possibili benefizi. – È Propiziatorio, che cioè vale a placarlo per tutti i peccati. – É Impetratorio, che cioè vale ad impetrarci ogni grazia.

— Il Sacrifizio della Croce non ebbe tutte queste doti, e non bastò per tutto? Perché dunque si dovrà riconoscere per vero Sacrifizio la S. Messa?

In primo luogo bisogna osservare che come dimostra S. Tommaso [S. Th. 2. 2. q. 86, art. 1], la vera Religione deve avere un Sacrifizio che possa offrire a Dio; or noi non abbiamo altro Sacrificio, perché gli antichi sono stati abrogati e perciò, se non vi fosse la S. Messa, la Religione Cristiana non potrebbe offrire a Dio nessun Sacrifizio. Bisogna osservare in secondo luogo che, quantunque il Sacrifizio della Croce sia stato bastante e più che bastante per tutto, per altro con la S. Messa si rinnova a Dio l’onore che ebbe dal Sacrifizio della Croce, ed ella è un mezzo potentissimo perché ci siano applicati i meriti del Sacrifizio medesimo che offrì sulla Croce il nostro Salvatore (Antoin. pars 2 de Sacrif. Missæ q. l § 3).

— Il Sacrifizio della S. Messa giova soltanto ai vivi?

È articolo di fede definito dal S. Concilio di Trento (sess. XXII, c. 2), che il Sacrifizio della S. Messa non solo giova ai vivi ma anche ai defunti che sono nel Purgatorio.

— Si possono celebrare le Messe in onore dei Santi?

È similmente articolo di Fede, definito nella stessa sessione citata, che è cosa ben fatta celebrare le Messe ad onore dei Santi; intendesi però che il S. Sacrifizio si deve solo offrire a Dio per ringraziarlo delle grandi grazie concesse ai Santi, e per ottenere il loro patrocinio; perciò a nessun Santo si può offrire la Santa Messa, ma solo a Dio in ringraziamento delle grazie loro accordate e affinché si degni farci partecipi della loro intercessione; frattanto siccome tutto ciò ridonda ad onore dei Santi, si dice giustamente che si celebrano Messe in onore dei Santi.

— Chi può offrire il Sacrifizio della Santa Messa?

Gesù Cristo che lo istituì nell’ultima cena, e che fin d’allora, offrì in tal modo un vero Sacrifizio del suo corpo, e del suo Sangue sotto le specie del pane e del vino, è veramente e propriamente il principale offerente della Santa Messa. In secondo luogo il Sacerdote, immediatamente e propriamente come ministro, può egli soltanto offrire questo sacrifizio, come già abbiamo detto, e la S. Messa non si potrebbe celebrare validamente da qualunque altra persona che non fosse Sacerdote. In terzo luogo tutti i fedeli come membri della Chiesa quando ascoltano convenientemente la S. Messa offrono anche insieme col Sacerdote il S. Sacrifizio come consta dalle orazioni del canone (Antoin. de Sacrif. Missæ cap. ult. q. 6).

— Se anche tutti i fedeli offeriscono il Sacrifizio insieme col Sacerdote, dovranno tutti comunicarsi nella Messa che ascoltano?

É bene che tutti quelli che sono disposti si comunichino; ma non vi è alcuna necessità; anzi sarebbe scomunicato dal Concilio di Trento chi asserisse non potersi celebrare la S. Messa, senza che si comunichino i circostanti.

— É necessario nella S. Messa mettere nel vino da consacrarsi un poco di acqua?

Non è necessario per la validità, giacché per le parole della consacrazione il vino si cambierebbe nel sangue di Cristo ancorché nel calice non vi fosse stata posta quell’acqua: ma è necessario il mettervela perché, come dicono i ss. Padri, così fece Cristo nell’ultima cena, così la Chiesa ha sempre costumato, e severissimamente comanda che così si costumi. Anzi sarebbe scomunicato dal S. Concilio di Trento (sess. XXII can. 9) chi asserisse non doversi mettere nel vino quel poco di acqua. Bisogna però osservare di non mettere nel calice acqua in troppa quantità, perché il vino mescolato con tanta acqua non resterebbe materia adattata per la consacrazione.

— Non sarebbe cosa meglio fatta se la Santa Messa si celebrasse in lingua volgare e tutta a voce alta, affinché il popolo potesse intenderne tutte le preghiere?

Chi dicesse che la Messa si deve celebrare solo in lingua volgare, e tutta a voce alta, compreso il canone, e le parole della consacrazione, incorrerebbe la scomunica fulminata dal Concilio di Trento (sess. XXI can. 9). Similmente incorrerebbe la scomunica fulminata dallo stesso Concilio chi disprezzasse le cerimonie, i riti, o le vesti che si usano nel celebrare la S. Messa.

[Ogni pseudo-Messa del “Novus Ordo” ricade, oltre che in diverse altre, in questa terribile scomunica che coinvolge non solo il celebrante (oggi quasi tutti falsi preti mai validamente consacrati), ma pure i laici partecipanti, che da quella sacrilega cerimonia uscirebbero scomunicati eternamente, salvo remissione operata da un Sacerdote Cattolico con Giurisdizione e facoltà di rimozione delle censure – ndr. -]

NELLA FESTA DELLA SS. TRINITA’

NELLA FESTA SANTISSIMA TRINITA’

2° DISCORSO PER LA DOM. DELLA SS. TRINITÀ’.

Sopra la santificazione delle domeniche e delle feste.

[Mons. Billot, Discorsi Parrocchiali; S. Cioffi Ed. Napoli, 1840]

“Euntes docete omnes gentes, baptizantes

eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti” (Matth. XXVIII)

Un solo Dio in tre Persone, Padre, Figliuolo e Spinto Santo, le quali, sebbene distinte l’una dall’altra, pure non hanno che una medesima natura e le medesime perfezioni, si è, fratelli miei, ciò che noi chiamiamo il mistero della ss. Trinità, di cui la Chiesa celebra in questo giorno una festa particolare. Il Padre non era prima del Figliuolo, né il Figliuolo prima dello Spirito Santo; ma il Padre, Figliuolo e lo Spirito Santo sono tutti e tre da tutta l’eternità; sono tutti e tre dappertutto, tutti e tre sono egualmente buoni, egualmente sapienti, egualmente potenti, egualmente degni delle nostre adorazioni e del nostro amore. Questo mistero ineffabile è superiore alla nostra cognizione, e i nostri lumi sono troppo limitati per penetrarne la profondità; non v’è che Dio medesimo che possa comprendersi, perché è infinito. Non sarebbe tale, se noi medesimi potessimo comprenderlo. Ma se non ci è permesso di giungere alla cognizione di questo mistero incomprensibile, noi possiamo e dobbiamo crederlo, rendergli omaggio delle nostre menti e dei nostri cuori. Si è per eccitare la nostra fede ed il nostro amore che la Chiesa si propone oggi questo mistero ineffabile da onorar nella festa particolare che essa ne celebra: entriamo nei disegni di questa tenera madre, e siccome il santo giorno di domenica, chiamato il giorno del Signore, è consecrato alla gloria della santissima Trinità, noi non possiamo far meglio per onorare un Dio in tre Persone che passare santamente le domeniche e le feste: il che m’induce a parlarvi dell’obbligo e del modo di santificare cosi fatti giorni, che la maggior parte dei cristiani profanano. I giorni delle domeniche e delle feste, sono santi di loro istituzione : primo punto. Come dovete voi santificarli: secondo punto.

I. Punto. Benché Dio meriti d’essere servito in tutto il tempo della vita, e l’uomo debba effettivamente tutti i giorni adempiere verso di lui questo dovere; vi sono nulladimeno certi giorni ch’Egli si è riserbati perché fossero specialmente consacrati al suo servizio: tali sono i giorni di domenica e delle feste, giorni santi nella loro istituzione, perché sono particolarmente destinati a glorificare Dio e a santificare l’uomo; due circostanze che ne provano la santità. Che deve far l’uomo per glorificare Dio suo creatore? Egli deve riconoscerlo pel primo principio da cui in ogni cosa dipende; deve ringraziarlo per i beni che ne ha ricevuti; ed è per questi due fini particolari che i giorni delle domeniche e delle feste sono stati istituiti. Andiamo subito all’origine di questa verità, e ne saremo ben presto convinti. Se noi apriamo i libri santi, vi leggiamo che Dio impiegò sei giorni a creare questo vasto universo; che durante quei sei giorni s’occupò a formare il cielo, la terra, gli astri, le piante, gli animali e tutte le creature; ma che santificò il settimo giorno, in cui si riposò. Dio aveva forse bisogno di riposo dopo aver creato il mondo, Egli che non è suscettibile di alcuna noia, d’alcuna fatica? No, senza dubbio, fratelli miei: che cosa vuole dunque insegnarci la Scrittura quando si dice che Dio si riposò nel settimo giorno? Volle far conoscere all’uomo che se Dio accordavagli sei giorni nella settimana per lavorare, Egli voleva che il settimo gli fosse specialmente consacrato con un santo riposo, in cui l’uomo avesse il tempo di riconoscere la sua dipendenza dal Creatore e i benefìzi che ne ha ricevuti. Quindi quelle precauzioni che Dio prese così spesso di richiamare al suo popolo la memoria del giorno del sabato; quindi quei precetti reiterati che gli fece di santificare quel giorno: Memento ut diem sabbati sanctifices (Ex.20.). E per qual ragione Dio fa al suo popolo un comando sì formale? Lo spiega egli stesso nel libro dell’Esodo e del Deuteronomio: Voi lavorerete (disse il Signore agli Ebrei) durante i sei giorni della settimana; nel settimo giorno, che è il sabato, non farete alcun lavoro né voi né vostro figlio né vostra figlia né il vostro servo né la vostra serva né gli animali che vi appartengono, né gli stranieri che si ritroveranno nei recinti delle vostre mura» E perchè? Perchè il Signore ha fatto in sei giorni le sue opere e si è riposato il settimo; e questa è la ragione per cui Egli ha benedetto questo giorno e vi comanda di santificarlo: Septimo autem die sabbatum Domini tui est, non facies omne opus in eo (Ibid.).. Voi vedete, fratelli miei, da queste parole che dei sette giorni della settimana Dio se n’è riserbato uno per essergli consacrato con un santo riposo. E perché questo giorno di riposo? Per richiamarci la memoria del riposo che ha preso Egli medesimo dopo di averci creati. Perché finalmente fa ricordarci di quel riposo, se non per metterci avanti agli occhi il benefìcio della nostra creazione, e per conseguenza farci riconoscere la nostra dipendenza dal Creatore? Ecco il primo motivo dell’istituzione del giorno del sabato. – Il Signore ne propone ancora un altro al suo popolo nel libro del Deuteronomio. Egli trae questo motivo dalla libertà che gli accordò liberandolo dalla schiavitù d’Egitto. Ricordatevi, disse Mosè al popolo per parte di Dio, che voi avete servito nell’Egitto, donde il Signore nostro Dio vi ha cavati con la forza del suo braccio. Sappiate altresì che questa è la ragione per cui Egli ha stabilito il suo sabato e vi ha comandato di osservarlo: Ideo præcepit. tibi ut observares diem sabbati (Deut. III). Fu ancora in memoria di questa famosa liberazione che il popolo ebreo celebrò sì religiosamente ogni anno la festa di pasqua ed osservò sì regolarmente in ogni settimana il giorno di sabato, per ringraziare Dio dei benefizi che ne aveva ricevuti. Quindi i terribili castighi con cui si punivano coloro che non osservavano questo precetto. Testimonio quell’uomo che fu colto un giorno di sabato ad ammassare legna e fu condannato ad essere lapidato da tutto il popolo fuori del campo, perché Dio aveva proibito sotto pena di morte il trasgredire quel santo giorno: Qui polluerit illud, morte moriatur (Exod. XXXI). Quindi anche la precauzione che fu intimata agli Ebrei, per parte di Dio medesimo, di preparare il giorno innanzi del sabato tutte le provvisioni necessarie per vivere, affinché alcuno non si occupasse in quel giorno che di ciò che riguardava il suo culto. Si è per questa ragione che, allora quando Iddio nutrì quel popolo d’una manna miracolosa che cadeva dal cielo, volle che il giorno precedente al sabato ne raccogliesse tutto ciò ch’era necessario per vivere in quel giorno, mentre questa manna non potevasi conservare gli altri giorni oltre quello in cui si raccoglieva, ed il soprappiù che radunavano si corrompeva; accadeva per un altro miracolo che quella che era raccolta pel giorno del sabato si conservava molto tempo per profittarne. Non era questa forse, fratelli miei, una prova molto sensibile che il giorno del sabato era un giorno santo, un giorno in cui nulla dovevasi fare di servile, un giorno che doveva essere specialmente consacrato al culto del Signore ed impiegato a riconoscere la sua grandezza e i suoi benefizi? – Ora quel che era il giorno del sabato agli Ebrei è la domenica per rapporto ai Cristiani: mentre due cose vi sono nel comandamento che Dio fece altre volte di osservare il giorno del sabato: l’una che era il diritto naturale; l’altra che era di precetto cerimoniale. Che si debba specialmente consacrare  qualche giorno al servizio di Dio; è di diritto naturale; ma che questo giorno fosse il giorno del sabato piuttosto che un altro, era un’osservanza cerimoniale, da cui Gesù Cristo e la  Chiesa sua sposa, in virtù del potere ch’ella ne ha ricevuto, ha potuto dispensare i suoi figliuoli; il che essa ha fatto per buone ragioni, dice s. Agostino sostituendo la domenica al giorno del sabato, perché nel giorno di domenica si sono operati i più grandi misteri della nostra religione. Si è in questo santo giorno che tiensi Gesù Cristo venuto al mondo, che le stelle ne abbiano annunziata la nascita ai magi. Si è nel giorno di domenica che Gesù Cristo è risuscitato, ch’Egli ha inviato lo Spirito Santo ai suoi Apostoli. E perciò questo giorno è chiamato, a preferenza di tutti, il giorno del Signore: dies dominica. E da ciò che ne segue? Ne siegue che l’osservanza del santo giorno di domenica è per noi d’un obbligo così stretto come il giorno di sabato presso gli Ebrei; che i lavori ci sono in esso altrettanto vietati quanto agli Ebrei il giorno di sabato; che questo giorno deve essere unicamente ed interamente impiegato a servire e a glorificar Dio, a riconoscere il suo sapremo dominio su di noi, a ringraziarlo dei beni che ne abbiamo ricevuti. Ed invero, se il giorno di domenica ci rammenta il beneficio della nostra creazione, noi dobbiamo più particolarmente in quel giorno che in tutt’altro fare a Dio una protesta solenne della dipendenza in cui siamo del suo supremo dominio. Se il santo giorno di domenica ci mette avanti gli occhi le vittorie che Gesù Cristo ha riportate sulla morte con la sua risurrezione noi dobbiamo riguardare questo giorno, come un giorno di libertà, poiché Gesù Cristo, risuscitando, ci ha data la vita e ci ha liberati dalla schiavitù del demonio, più funesta per noi che quella in cui erano gl’Israeliti tra gli Egiziani. Noi dobbiamo, per conseguenza, ringraziare Dio solennemente di questa felice liberazione e di tutti i beni ch’ella ci ha procurati. Al che dovete, fratelli miei, particolarmente impiegare quei santi giorni; ed è per questo che la Chiesa ci obbliga in quei giorni al santo Sacrificio della Messa, perché non evvi azione alcuna che renda maggior gloria a Dio e che gli dimostri meglio la nostra riconoscenza che questo adorabile sacrifizio. Per questo medesimo fine la santa Chiesa, in quei giorni uffizi ha instituiti, ove i fedeli radunati insieme uniscono le loro voci per lodare le perfezioni di Dio e ringraziarlo dei suoi benefizi. Entrate, fratelli miei, nei sentimenti della Chiesa ; rispettate il santo giorno di domenica ed impiegatelo secondo la sua istituzione. Iddio, che merita d’essere servito tutti i giorni e tutti i momenti di vostra vita, poteva riserbarsene di più, per essere specialmente consacrati al suo culto. Di sette giorni ve ne dà sei per attendere ai vostri affari temporali e ai vostri lavori; è forse troppo riserbarsene uno per sé? E non sarebbe una grande ingiustizia il ricusarglielo? Al santo giorno di domenica aggiungiamo le feste che la Chiesa ha istituite, sia per richiamarci la memoria dei misteri della nostra santa religione, sia per onorare la santa Vergine Madre di Dio, gli Apostoli, i Martiri ed altri Santi, i cui esempli la Chiesa ci propone ad imitare; giorni di feste che noi dobbiamo celebrare secondo la sua intenzione, astenendoci dalle medesime cose che ci sono vietate nelle domeniche e praticando quelle che ci sono comandate; con questa differenza che la domenica essendo d’istituzione divina e le altre feste d’istituzione ecclesiastica, quel giorno ha qualche cosa di più rispettabile e soffre meno dispense che questi. Ma gli uni e gli altri debbono essere impiegati a glorificare Dio e a santificare noi medesimi: secondo motivo della loro istituzione. Egli è vero che l’uomo deve tutti i giorni della sua vita attendere alla propria santificazione. In qualunque stato egli sia, da qualsivoglia affare sia occupato, non deve giammai perdere di vista l’unico necessario che abbia in questo mondo, il quale è di salvare l’anima sua. Tutti gli altri affari debbono riferirsi a quello della salute, e nulla deve farsi che con la mira della propria salute. Ma quanto è egli facile, fratelli miei, perdere di vista questo grande affare tra gli impacci del mondo, nei diversi imbarazzi che dividono la vita degli uomini! mentre per faticare alla propria salute, si richiede raccoglimento, riflessione, attenzione continua sopra se stesso. Or questo raccoglimento, quest’attenzione sono forse compatibili con la moltitudine degli affari, con le occupazioni d’uno stato che dissipano lo spirito e conturbano il cuore? L’anima ripiena delle cure d’una vita tumultuosa è quasi sempre fuori di se stessa; or occupata dai diversi bisogni cui convien provvedere, ora oppressa sotto il peso della fatica o dell’applicazione inseparabili da una professione, in cui è taluno impegnato, ella si abbandona a mille oggetti che fissano successivamente la sua attenzione e non le lascian tempo di pensare a Dio né  alla sua salute. Ne chiamo qui in testimonio la quotidiana esperienza. Un uomo di giustizia non è forse occupato dalla mattina sino alla sera dei diversi affari che si presentano e non è egli obbligato di privarsi spesso del necessario riposo per soddisfare i suoi clienti? Un uomo di negozio non impiega forse tutta la sua giornata nei traffici? Un contadino, un artigiano, sempre piegati verso la terra, sopportano il freddo ed il caldo per soccorrere ai bisogni della loro famiglia; ed appena in tutta la settimana gli uni e gli altri prendono alcuni momenti per pensare a Dio e alla loro salute; appena si presentano avanti a Dio la mattina e la sera per rendergli quegli omaggi che una creatura deve al suo Creatore. – Saggiamente adunque e per nostro interesse particolare ci ha Iddio fissati alcuni giorni di riposo, in cui, sciolti dalla cura e dall’impaccio degli affari stranieri, noi abbiamo ad occuparci unicamente del grande affare della salute. Si è in questi giorni che rientrando in noi medesimi con un santo raccoglimento, ripariamo i danni che le occupazioni della settimana han recato al nostro spirito e al nostro cuore. Si è allora che noi abbiamo maggior comodo di chiederci in particolare: perché sono io al mondo? Io ho faticato molto durante questa settimana, io mi sono molto applicato, molto stancato per gli altri; ma nulla ho fatto per me. Io ho fatto avanzi, ho accumulati beni temporali; ma ho trascurata la mia fortuna eterna. Convien dunque che adesso io pensi a me, che io lavori per me. Ringrazio la misericordia del mio Dio di avermi posto in questa fortunata necessità col precetto che mi ha fatto di santificare questo giorno, e con ciò di santificare me stesso. – Si è anche per questa ragione, fratelli miei, che la Chiesa vi comanda nei giorni di domenica e delle feste la pratica di certe opere di pietà alle quali questa non vi obbliga negli altri giorni, come sono l’assistenza al santo Sacrificio della Messa, ai divini uffici, l’assiduità ad ascoltare la divina parola, perché tutte queste azioni sono altrettanti mezzi efficaci ch’ella vi presenta per operare la vostra salute. Mezzi di salute nel sacrificio della Messa, che vi ottiene il perdono dei peccati e le grazie necessarie per perseverare nella virtù. Mezzi di salute nei divini uffici, che v’innalzano a Dio, v’inspirano santi desideri e vi rammentano la bella sorte che avrete un giorno di cantare nel cielo le sue lodi, con una maniera molto più perfetta ancora che non si cantano sulla terra. Mezzi di salute nella parola di Dio che voi dovete ascoltare o meditare o leggere nei libri di pietà, perché questa divina parola v’insegna ciò che dovete fuggire e praticare per meritare la felicità eterna. Finalmente, mezzi di salute che la Chiesa vi propone nell’esempio dei santi di cui ella fa la festa, mettendovi innanzi agli occhi le virtù che eglino han praticate nel medesimo stato che voi, quantunque soggetti alle medesime debolezze e alle medesime tentazioni che voi. Rammentandovi le virtù di quei santi, la loro umiltà, la loro povertà, il loro distacco dai beni, dagli onori, dai piaceri del mondo, la loro pazienza nel sopportare ogni sorta d’afflizioni, d’ingiurie e di dispregi, vi dice la Chiesa ciò che s. Agostino diceva altre fiate a se stesso: Come! non potete voi fare quel che questi e quegli hanno fatto? Non poteris quod isti et istæ? Siete voi forse meno interessati che essi a seguire lo stesso genere di vita che hanno essi seguito? Non avete voi forse altrettanto a temere e a sperare che avevan essi? Perché non farete voi dunque ciò che essi facevano? Non poteris quod isti et istæ? Non è egli vero, fratelli miei, che udendo voi raccontare le azioni eroiche dei santi, vi siete sentiti qualche volta animati dal desiderio d’imitarli, soprattutto allorché vi hanno rappresentate le magnifiche ricompense di cui godono nel cielo? Voi avete risoluto di fare ogni vostro potere per arrivare alla medesima felicità, avete anche praticate alcune opere buone per questo fine; il che non avreste fatto in altri giorni. Convenite dunque che questi sono giorni a proposito stabiliti per santificarvi. Ma come dovete voi santificare questo giorno? Secondo punto.

II. Punto. Per santificare i giorni delle domeniche e delle feste, due cose sono necessarie: astenersi dalle opere servili e praticare opere di pietà: questi sono i propri termini della legge, come ve li ho di già riferiti al principio di questo discorso. Il settimo giorno, che è il giorno di sabato, voi non lavorerete, dice il Signore, nè i vostri figliuoli , né i vostri servi, né i vostri animali, perché Dio ha benedetto questo giorno e l’ha santificato. Voi non farete in esso alcun’opera servile: Omne opus servile non facietis in eo ( Lev. XXIII). Ora che intendiamo noi per le opere servili che sono vietate nei giorni delle domeniche e delle feste? Noi intendiamo quelle a cui le persone d’arte e di lavoro sono solite applicarsi: come coltivare la terra, esercitare un’arte meccanica, negoziare, far mercati, contratti di vendita e di compra o altri di questa specie, fare atti di giustizia che riguardano qualche lite; come piatire, esaminare testimoni, dare sentenze. In una parola, opere servili sono tutte le azioni che di loro natura si riferiscono a qualche profitto, qualche utilità temporale. Perché mai queste opere servili sono, esse proibite nei giorni delle domeniche e delle feste? Perché allontanano lo spirito ed il cuore dal servigio di Dio, in cui si debbono impiegare questi santi giorni, non essendo possibile che lo spirito occupato ed immerso negli affari temporali possa occuparsi del suo Dio e della sua salute. Ma oimè! Fratelli miei, quanti vediamo noi al giorno d’oggi cristiani sedotti dall’allettamento di un sordido interesse che violano impunemente la santa legge del Signore? Gli uni sotto pretesto d’una necessità che non sussiste che nella loro immaginazione, non si fanno scrupolo di occuparsi in certi lavori che essi credono permessi secondo le massime d’una coscienza, che si fanno a modo loro e conformemente ai loro interessi. Gli altri si asterranno per verità da un lavoro vietato dalle leggi civili per tema d’incorrere le pene da queste leggi portate, ma non si fanno veruno scrupolo d’impiegare i giorni delle domeniche e delle feste a fare viaggi pei loro affari, dopo avere udito una Messa in fretta, ovvero anche di mettersi in istrada prima di avervi assistito. Passeranno essi tutto il giorno ad andare da una parte e dall’altra cercando quel che loro è dovuto, faranno mercati con questi e conti con quelli, passando cosi tutto il giorno in una dissipazione continua che li distoglie dal servigio di Dio e dall’affare della loro salute. Ed è questo, fratelli miei, soddisfare al precetto di santificare le feste? No, senza dubbio: questo è rendersi egualmente colpevole che con l’attendere alle opere servili, poiché il tumulto degli affari è così incompatibile col raccoglimento necessario per bene santificare le feste, come lo sono le opere servili. Io so benissimo che tutti quelli di cui vi ho ora parlato non mancano di trovare scuse e pretesti per giustificare la loro condotta. Non posso, dirà uno, differire quest’opera servile, questo lavoro ad un altro giorno, senza risentirne grave danno. Io non trovo, dirà l’altro, che nei giorni delle domeniche e delle feste coloro con cui ho da trattare: bisogna dunque ch’io mi metta in viaggio in quei giorni per incontrarli e finire le bisogne con essi. Io convengo primieramente che una urgente necessità può mitigare la legge che proibisce le opere servili nei giorni di festa; che vi sono certe occasioni in cui non si possono differire queste opere senza risentirne del danno, come sono i tempi della ricolta pei terreni, od altri casi simili di necessità, di pietà, per cui è sempre a proposito di consultare i parrochi e di chiedere loro permissione, principalmente quando la cosa è dubbiosa. Ma non bisogna confondere la necessità con la cupidigia. Si può moltissime volte differire un lavoro che si crede necessario un giorno di festa ad un altro giorno senza risentirne del danno. Bisogna che l’interesse cede alla legge di Dio, e non già la legge di Dio all’interesse. Ora l’interesse, che accieca la maggior parte degli uomini fa loro fare molte cose nei giorni di festa che potrebbero rimettere ad altri giorni. E perché s’impiega un giorno di festa per fare certi lavori lucrosi? Gli è perché ve ne sono altri nella settimana che non si avrebbe il tempo di fare; gli è che si vuol guadagnare nei giorni di festa come negli altri giorni della settimana: ed ecco i pretesi danni che servono di velo alla cupidigia, cioè un interesse meno considerevole di quello che si avrebbe, se si lavorasse nei giorni vietati. Eh! se un profitto fosse una ragione di trasgredire la legge, sarebbe sempre permesso di violarla. Falso principio, falsa conseguenza. Perché mai viaggia taluno nei giorni domeniche e di festa? Perché non vuol togliere dal suo lavoro un giorno della settimana per vacare ai suoi affari. Dunque è la cupidigia e non la necessità che fa aprire a quel mercante la sua bottega o che gli fa vendere in segreto; che occupa quell’uomo di giustizia dalla mattina sino alla sera in affari che può differire ad un altro giorno. È la cupidigia e non la necessità che fa lavorar quell’artigiano che teme di perdere i suoi avventori, quell’agricoltore che teme un cattivo tempo che non accadrà. È la cupidigia e non la necessità che induce quel padrone a mettere i servi alla fatica, sotto pretesto che niente hanno a fare; come se Dio non avesse proibito ad ogni uomo di lavorare da se stesso nei giorni di festa o di far lavorare coloro che gli appartengono. – Ah! fratelli miei, quanto mal capite vostri veri interessi! Sapete voi pure che i lavori che fate nei giorni di festa vi sono molto più nocevoli. Voi vi perdete più che non vi guadagnate. Chi ve lo assicura? Dio medesimo: Se voi non osservate i miei santi giorni, io vi visiterò con la miseria; voi avrete bel seminare, niente raccoglierete; il cielo sarà di bronzo, la terra di ferro; la siccità brucerà le vostre raccolte, o la tempesta le porterà via; le malattie, le pestilenze, la fame vi opprimeranno; si metterà fuoco nelle vostre case è consumerà tutto ciò che avrete ammassato (Levit. XXVI). E non è ciò, fratelli miei, che noi vediamo spesso accadere: vediamo con istupore alcuni che non possono mai prosperare, malgrado la loro assiduità al lavoro; ne vediamo altri afflitti da perdite di beni, di bestiami, oppressi da sinistri accidenti. Donde le vengono queste disgrazie? Dal non essere il loro lavoro secondo Dio. Più premurosi di acquistare i beni della terra che quei del cielo, intraprendono cose incompatibili col servizio di Dio, lavorano nei giorni in cui non dovrebbero pensare che a glorificare Dio: ecco perché Dio non li benedice, ma li affligge. Felici ancora, se non fossero puniti che in questa vita, ma lo saranno molto più severamente nell’altra. Laddove ogni cosa viene in abbondanza e prospera a coloro che cercano in primo luogo il regno di Dio; quelli che santificano, le domeniche e le feste attraggono su di essi le benedizioni del Signore, come lo ha loro promesso: Se voi osservate i giorni ch’io mi sono consacrato, io vi darò nelle pioggie nei loro tempi; la terra produrrà in abbondanza, gli alberi saranno carichi di frutti, io benedirò voi e i vostri figliuoli (Levit.XXVI).- E certamente, fratelli miei, Dio non è Egli il padrone dei tempi e delle stagioni? É la sua provvidenza che il tutto governa. Se voi ubbidite alla sua legge non può Egli forse rendere fertili le vostre terre, ed arrestare le tempeste che potrebbero disertarle? Laddove se voi trasgredite questa santa legge, Egli vi toglierà i vostri beni, vi affliggerà con funesti accidenti. Il miglior partito che avete dunque a prendere è di fare la sua volontà, ed Egli stesso farà la vostra, rendendosi favorevole ai vostri desideri: Voluntatem timentium se faciet (Levit. XVI). Oltre le opere servili, che sono vietate nei giorni di festa e permesse in altri tempi, ve ne ha di proibite in ogni tempo e particolarmente nei giorni di festa. Queste sono le opere di peccato, i divertimenti colpevoli, le dissolutezze, cui molti si abbandonano, in quei giorni più che negli altri della settimana. Noi le chiamiamo con s. Tommaso, opere servili, perché chi commette il peccato è schiavo del peccato, ndice Gesù Cristo: Qui facit peccatum servus est peccati (Jo. VIII). Queste opere sono particolarmente proibite nei giorni di festa, perché sono formalmente opposte al fine per cui sono istituiti i giorni di festa, che è di glorificar Dio e santificar l’uomo. Non è forse fare una grande ingiuria a Dio, dice s. Cirillo, ed una specie di sacrilegio, lo impiegare nelle follie del mondo, nei divertimenti profani, giorni che sono consacrati al Signore. in una maniera speciale? Non è forse anche portare a se stesso un gran pregiudizio, dei giorni di salute farne giorni di riprovazione con i peccati che in essi si commettono? Sembra contuttociò ad un gran numero di cristiani che i giorni di festa non siano loro accordati che per divertirsi e per risarcirsi con piaceri vietati dalle fatiche che hanno sopportato nella settimana. E quando è, infatti, che le osterie sono più frequentate? Nei giorni delle domeniche e delle feste. Quando si vede il libertinaggio regnare più sfrenato? Quando si odono più risse ed alterazioni, si vedono più disordini in una parrocchia? Nei giorni delle domeniche e delle feste. Quando è che la gioventù si abbandona maggiormente alla dissolutezza, forma brigate di spettacoli, di danze, di bagordi ed altri divertimenti peccaminosi? Nei giorni delle domeniche e delle feste. Questi sono i giorni che si scelgono per mantenere commerci pericolosi, per vedersi, per abboccarsi nei luoghi assegnati, nei passeggi, in siti solitari ed anche ad ore indebite. Questi sono i giorni in cui si fa servire la divozione medesima al libertinaggio, allorché,, sotto pretesto, di andare a qualche convegno di pietà, di fare viaggi in onore de’ santi, si trova il mezzo d’incontrarsi e trattenersi con persone che non si debbono in verun modo frequentare. Gli è finalmente ne’ giorni delle domeniche e delle feste che le passioni, che sono state nel riposo e come sopite dalle fatiche della settimana, sembrano risvegliarsi per abbandonarsi a tutti gli eccessi: di modo che si può dire che nel giorno di domenica o di festa Iddio è sovente più offeso che non è stato in tutta la settimana. Ah! dovran dunque , o mio Dio, i giorni destinati a servirvi e glorificarvi impiegarsi ad offendervi? I giorni che voi avete dato all’uomo per pensare e adoperarsi alla sua salute, diverranno per lui giorni di riprovazione per il cattivo uso ch’Egli ne fa? Sarebbe meglio in qualche modo che non vi fosse alcuna festa, o per lo meno sarebbe meglio, dice sant’Agostino, che si passasser quei giorni o a lavorar la terra o ad esercitare qualche altro mestiere che profanarli, come si fa, con i disordini che in essi si commettono; almeno il Signore non sarebbe cotanto offeso. L’uomo nel suo lavoro, nella sua professione, non pensa che a ciò che lo occupa; e perché nei giorni di festa non lavora, perciò, lo ripeto, non pensa che ad offendere Dio. Sarebbe dunque meglio che quell’intemperante lavorasse la terra nelle domeniche e nelle feste, che frequentare in questi santi giorni le osterie, ove perde con ciò che ha guadagnato nella settimana, la sanità. Almeno non si vedrebbe al ritorno dal lavoro, portar in casa sua il disordine, bestemmiare, maltrattare la moglie e i figliuoli, come fa. Sarebbe meglio per quella donna ch’ella fosse occupata nel governo domestico: che passare le ore intere e gran parte della feste a dir male del suo prossimo. Sarebbe meglio che quella figlia fosse occupata al fuso nei giorni di festa, e che quel giovine coltivasse la terra, che mantenere ree corrispondenze, che andare in quei balli, in quelle conventicole profane, donde non si esce giammai così puri come quando vi si è entrato: danze e conventicole che sono miseri avanzi del paganesimo: mentre si è in tal modo che gli idolatri onoravano le loro false divinità. Convien forse stupirne? Quei falsi Dei che essi onoravano, erano soggetti essi medesimi alle dissolutezze, alle impurità ed ai medesimi delitti di quelli che loro rendevano omaggi. Ma non è forse un’indegnità, che Cristiani, che adorano un Dio crocifisso, che onorano santi umili, penitenti, mortificati, santi che hanno tutto sacrificato; beni, piaceri, la vita medesima per la loro religione, che questi Cristiani, dico, celebrino le loro feste come i pagani celebravano quelle dei loro falsi Dei? Questo è ciò che è capace di fare stupire gl’idolatri medesimi e che fa mettere in derisione le nostre feste dai nostri nemici: viderunt hostes sabbata eius et deriserunt [Thren.1]. Ecco, fratelli miei, ciò che attrae la maledizione di Dio sopra i suoi popoli: la profanazione delle feste è la cagione delle tempeste che disertano le vostre campagne, degli incendi che consumano le vostre case, delle infezioni che distruggono i vostri bestiami, delle malattie che vi riducono alla miseria, perché voi cangiate i giorni santi in giorni di dissolutezza, invece di rendervi un Dio propizio, voi ne fate un Dio vendicatore; invece di procurarvi protettori nel Cielo col ben celebrare le feste dei santi, voi ve ne fate dei nemici, i quali ben lungi di domandare grazie per voi, domandano a Dio vendetta della profanazione che voi fate dei giorni del loro trionfo. Non basta dunque astenervi dalle opere servili nei giorni di festa; bisogna ancora astenervi dai divertimenti peccaminosi, che sono sì comuni in quei giorni. Se voi prendete qualche riposo, come non vi è proibito, sia esso in qualche ricreazione onesta, e non dì lunga durata. La vostra allegrezza, dice s. Paolo, sia secondo Dio, la vostra modestia sia conosciuta da tutto il mondo: Gaudete in Domino, modestia vestra nota sit omnibus; ma non prendete ricreazione alcuna che dopo aver adempito alle opere che vi sono comandate. – Imperciocché non bisogna fratelli miei, che il riposo prescritto nei giorni di festa sia una cessazione da ogni opera, da ogni azione anche corporale. Se Dio ci proibisce le opere servili, si è per darci tempo di attendere alle opere di pietà, cioè alle opere che riguardano Dio e la nostra salute; mentre se noi dobbiamo impiegare i giorni di festa per glorificare Dio e santificare noi stessi, non già riposandoci corrisponderemo ai disegni di Dio, ma bensì operando e adempiendo ciò che Dio comanda di fare e ciò che la Chiesa ci comanda da parte sua.

Pratiche. Ora che cosa ci comanda la Chiesa in quei giorni? Di assistere al santo Sacrificio con tutta la modestia del corpo e l’attenzione della mente che convengono a quella grande azione. Ci invita particolarmente, questa santa madre, ad assistere alla Messa parrocchiale, perché ivi i fedeli tutti, uniti insieme per far la loro preghiera, attraggono su di sé una più grande abbondanza di grazie; ivi i medesimi fedeli ascoltano la voce del loro pastore, cui Dio ispira quel che convien dire alle sue pecorelle; ivi apprendono le verità necessarie alla salute, la loro anima ne è nutrita, e così fortificata ella compatte fedelmente il resto della settimana e trionfa costantemente de’ suoi nemici.

. La Chiesa esorta e comanda anche ai fedeli, per santificare le feste, di assistere ai divini uffizi. Mentre perché mai incarica ella i suoi ministri di celebrare in quei giorni le lodi del Signore con maggiore solennità che gli altri giorni, se non affinché i fedeli vengano a unire le loro voci, o per lo meno unirsi di cuore ai canti devoti onde risonano le nostre chiese? Non è forse un abuso intollerabile, nel mentre si cantano i divini uffizi, vedere gran numero di persone ai pubblici passeggi, ai giuochi, agli spettacoli, o passare una gran parte di giornata alla caccia o in banchetti o in combriccole di divertimenti? Contente di una Messa udita la mattina, si dispensano senza difficoltà degli altri esercizi di religione, come se una mezz’ora passata a pie degli altari fosse bastante per santificare tutto il giorno. Come? Non trovarsi ad alcuna delle adunanze di pietà che si fanno nei giorni di festa, passar tutto il restante del giorno nella mollezza e nell’ozio, egli è questo santificare come si deve quei santi giorni? No, è un abusarsene, è un profanarli, come i Giudei carnali, che, contenti d’astenersi dalle opere corporali, proibite nei giorni delle loro feste, profittavano di quei giorni per abbandonarsi alla mollezza e ai piaceri vietati.

3°. Per santificare le domeniche e le feste convien ascoltare la parola di Dio o, se ciò non si può, leggerla e meditarla in buoni libri. La Chiesa obbliga i suoi ministri a distribuire il pane della parola ai suoi figliuoli: ora e qual fine gl’incaricherebbe essa di quell’obbligo, se i fedeli non fossero altresì obbligati ad ascoltarli? L’obbligazione per gli uni porta seco necessariamente un dovere per gli altri. Siate dunque assidui, fratelli miei, alla parola di Dio che vi si predica in quei giorni di salute, principalmente alle spiegazioni del Vangelo, e ai catechismi dei vostri pastori, dove voi profitterete più che in tutte le altre istruzioni; sia perché Dio sparge una benedizione particolare su quella dei pastori, sia perché questa sorta d’istruzioni sono più adattate alla capacità di tutti. É una santa pratica nei giorni di festa l’assistere alle congregazioni, alle adunanze di pietà, dove si ricevono grazie maggiori per le orazioni che si fanno in comune, e dove si ritrovano anime giuste, che attraggono sulle altri doni celesti. E anche una santa pratica il visitare il ss. Sacramento nei giorni di festa; poiché da questo si ricevono molte grazie; niuno esce dalla sua casa senza riportare qualche favore. – Finalmente, fratelli miei, per ben santificare le domeniche e le feste, sarebbe a proposito accostarsi ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, mentre non potete meglio santificar voi medesimi che purificandovi dei vostri peccati al tribunale della penitenza ed unendovi a Gesù Cristo, autore d’ogni santità. Era questa la pratica dei primi fedeli, che cornunicavansi ogni qualvolta assistevano al divin sacrificio. La Chiesa bramerebbe che questa santa pratica fosse ancora in vigore tra i suoi figliuoli: ma, il fervore dei Cristiani essendosi

rallentato su questo punto, bisogna per lo meno nei giorni di festa purificare le vostre coscienze fin dal principio del giorno con vivo dolore dei vostri peccati, comunicarvi spiritualmente con un desiderio ardente di unirvi a Gesù Cristo, visitarlo nel suo santo tempio, oltre il tempo della messa e degli uffizi; visitarlo anche nella persona dei poveri e degl’infermi; in una parola, praticare tutte le opere di pietà che la religione sarà per ispirarvi, Perché non posso io, fratelli miei, per animarvi alla pratica di queste buone opere, rappresentarvi qui il modo con cui i primi Cristiani celebravano le feste! Voi vedreste quei primi discepoli della religione astenersi non solamente da ogni opera servile, da ogni peccato, da ogni divertimento profano, ma ancora occuparsi durante quei santi giorni, ed anche durante la notte, nell’orazione, nel cantar le lodi di Dio e fare tutte le azioni di virtù che il fervore del Cristianesimo nascente loro ispirava. Celebrate nello stesso modo le vostre feste, fratelli miei, questo è il mezzo di partecipare un giorno alle allegrezze della festa eterna che si farà nel cielo. Così sia.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: ETSI MINIME

La lettera enciclica Etsi Minime, è uno dei tanti documenti della Chiesa Cattolica che sottolineano l’importanza fondamentale della istruzione dottrinale che i religiosi devono impartire al popolo, ai piccoli come agli adulti, al gregge loro affidato. Questo è un compito primario a cui devono assolvere parroci e Vescovi in particolare, ed è un aspetto al quale il Santo Padre Benedetto XIV, teneva in modo particolare, come è giusto che sia, e come era stato già sottolineato varie volte per il passato; basti ricordare il solo San Tommaso per il quale “ … i cattolici sono obbligati ad imparare e conoscere la loro fede, … il peccato contro la fede (spesso causato dall’ignoranza volontaria) è il più grave di tutti i peccati. – Ed oggi, purtroppo, è proprio questa ignoranza che non ci fa conoscere l’essenza del Cattolicesimo e molti aderiscono al modernismo del Novus Ordo, pestilenza immonda, con il proprio catechismo taroccato, senza comprendere veramente quel che fanno, quanti peccati contro la fede commettono, e a quante eresie aderiscono senza ravvedersi né pentirsi, mettendo in tal modo in serio dubbio la salvezza eterna della propria anima destinata così alla perdizione, secondo il desiderio e gli auspici di “coloro che odiano Dio e tutti gli uomini”, i cabalisti servi del baphomet-lucifero, che hanno infiltrato e reso cloache verminose i sacri palazzi e le istituzioni un tempo cattoliche, rendendole schiave di una vergognosa apostasia.

ENCICLICA

ETSI MINIME

DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XIV

Ai Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi.

Il Papa Benedetto XIV.

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Seppure non nutriamo alcun dubbio che tutti coloro a cui è stata affidata la cura delle anime e Voi soprattutto, Venerabili Fratelli, elevati all’ufficio dell’Apostolato e costituiti da Dio nella dignità prelatizia, rivolgiate la vostra prima preoccupazione a che il popolo cristiano, nutrito in modo salutare con i rudimenti della Fede al pascolo della celeste dottrina, sia felicemente indirizzato sulla via dei precetti del Signore, dietro voi che portate alta la fiaccola, non possiamo tuttavia esimerci dall’incitarvi, con le esortazioni della Nostra autorità e del Nostro paterno amore, a promuovere con più forte sollecitudine l’opera così sacrosanta e salutare della Dottrina Cristiana, eliminando gli ostacoli che avversano la salute delle anime.

1. Ma poiché ci rivolgiamo a persone che conoscono la legge ed esortiamo gli accorti Vescovi delle Chiese, a cui non fanno difetto né la pietà né le risorse dei Sacri Scritti, riteniamo superfluo ribadire con molteplici argomenti che non è sufficiente, per raggiungere la celeste felicità, credere in modo confuso ed indistinto i Misteri rivelati da Dio e insegnati dalla Chiesa Cattolica. – Questa celeste dottrina trasmessa da Dio, e che viene accolta con l’ascolto, deve essere ricevuta dalla voce di un maestro legittimo e fedele, in modo tale che ne vengano spiegate singolarmente le verità basilari e siano proposte ai fedeli come verità da credere, alcune per necessità di mezzo e altre per necessità di precetto. – Anche se affermiamo che si viene giustificati per mezzo della Fede, essendo questa principio e fondamento della salvezza per poter giungere alfine alla bramata futura Città, è parimenti chiaro che la sola Fede non è sufficiente. Occorre conoscere la strada e mantenersi costantemente su di essa, cioè i precetti di Dio e della Chiesa, le virtù da coltivare e i vizi da evitare con cura.

2. Essendo tutto ciò racchiuso nei primi rudimenti della Fede Cattolica o, come si suol dire, nella Dottrina Cristiana, è compito specifico dei Vescovi che questa venga illustrata in tutte le Diocesi e in ogni luogo in modo chiaro e metodico, né possono, senza tacito biasimo della coscienza, trascurarla; debbono anzi consacrare a questo lavoro, sommamente necessario, tutta la cura e la diligenza. – Non pensiamo che questo incarico sia assegnato al Vescovo in modo a tal punto esclusivo da pretendere la sua continua presenza all’insegnamento della Dottrina Cristiana, per interrogare di persona i bambini e illustrare i Misteri della Fede che professiamo. Sappiamo bene che l’onere del servizio apostolico incide pesantemente sull’impegno della cura pastorale. Abbiamo capito a fondo, quando reggevamo prima la Chiesa di Ancona e poi quella di Bologna, come il Presule, che vuole adempiere compiutamente il proprio lavoro, sia agitato da infinite e difformi preoccupazioni, come flutti. – Assolverà questo incarico il Vescovo che, anche in tempo diverso da quello della Visita Pastorale, sarà qualche volta presente dove viene trasmessa la sana dottrina al cristiano, interrogherà ragazzi e fanciulle sulle cose ascoltate e illustrerà con le sue parole i Misteri della nostra Religione. Un impegno del Pastore che risulterà grandemente utile al gregge a lui affidato, e il suo esempio stimolerà gli altri a coltivare con tutte le forze la vigna del Signore degli eserciti.

3. Questo modo di occuparsi della Chiesa fu definito quasi una legge, non solo dagli antichi ma anche dai più recenti Presuli iscritti nell’albo dei Beati, come Carlo Borromeo, Francesco di Sales, Turibio e Alessandro Sauli. Alcuni di essi (come attestano gli scritti), trovandosi impegnati e ostacolati da compiti più gravi, non potendo assolverlo di persona, destinavano a questo loro grave dovere un Vicario scelto fra i Canonici o tra i Sacerdoti perché, fattosi carico di questo ministero pastorale, educasse gli adolescenti, con le verità basilari della Fede, ai doveri della Religione.

4. Importantissimo dunque e sommamente utile alla crescita spirituale delle anime sarà l’esempio del Vescovo, se, come abbiamo detto sopra, lo assolverà in tutte le parrocchie, in ogni tempo e specialmente mentre percorrerà la Diocesi. Ma come ognuno può immaginare, non possono soccorrerlo forze bastanti. Pertanto, per raggiungere l’intento, è necessario che con la massima diligenza procuri che, in coloro che ha scelto come suoi Vicari in una fatica così lodevole e così meritoria, non venga meno lo zelo e la sollecitudine.

5. Due anzitutto sono gli obblighi che dal Concilio Tridentino sono imposti a chi ha cura delle anime. Il primo comporta che nei giorni festivi tengano il sermone sulle cose divine; il secondo che istruiscano, con i rudimenti della Fede, i bambini e chiunque ignori la Legge Divina. – Se nei giorni stabiliti i parroci svolgeranno la doverosa omelia, che non assordi le orecchie con suasive parole di umana sapienza, ma con parole adatte alla capacità degli ascoltatori infonda lo Spirito nel loro cuore; se annunzieranno un Mistero, specie nel tempo in cui la Chiesa lo ricorda, seminando ciò che è di incitamento alla virtù e di ricusazione dei vizi, soprattutto dei più gravi che con più disdoro infieriscono nel popolo; se in questi stessi giorni nutriranno, come bambini appena nati, i fanciulli con il latte della Dottrina, interrogando or l’uno or l’altro, sciogliendo i dubbi e le incertezze; se infine, con l’Apostolo, si dedicheranno alla lettura, all’esortazione e alla dottrina, perché il credente diventi perfetto e istruito in ogni buona opera, è lecito credere che il risultato risponda alle attese e possa sorgere agevolmente un popolo gradito a Dio e operatore di bene.

6. È pure ampiamente dimostrato dall’esperienza che la fatica del solo parroco non è sufficiente, non potendo uno solo insegnare a tutti, dove il numero la vince sulla disponibilità dell’insegnante. Tuttavia non sarà mai privo degli opportuni rimedi il Vescovo che si dedicherà con tutto il cuore e tutto lo zelo al bene della Chiesa che gli è stata affidata. Potrà infatti fare ricorso a chi si accosta alla Tonsura, a chi si avvia alla dignità del Sacerdozio salendo i gradini degli Ordini Minori e Maggiori, a chi, infine, si dà da fare per trovare il modo di accaparrarsi i benefici ecclesiastici. Il Vescovo ricorderà loro, con autorevoli e dure parole (e alle parole rispondano i fatti), che non acconsentirà mai alla Tonsura, raggiunta la debita età, o al conferimento degli Ordini Minori, ma soprattutto di quelli Maggiori, di chi abbia trascurato di assicurare la propria disponibilità ai parroci per insegnare la Dottrina Cristiana. – Distribuisca dunque tutti questi chierici nelle singole parrocchie della sua Città e della Diocesi, assegnandone pure alcuni a determinate Chiese. Faccia inoltre sapere, garantendone la promessa, che nel conferimento delle parrocchie e degli altri benefici a norma di diritto, avranno peso ed importanza lo zelo e la diligenza impegnati dai chierici in questo lavoro; in questo modo sarà per sé evidente che il compito di insegnare non è stato assegnato al solo responsabile della Diocesi, ma che molti devono esservi disponibili, perché tutti insieme concorrano a dar compimento al suo incarico.

7. A tutto questo è da aggiungere che, con le Sacre Costituzioni Apostoliche, e soprattutto con la settima di Leone X Nostro predecessore di felice memoria, sono state date opportune disposizioni perché, sia i maestri di scuola insegnando ai propri alunni, sia le pie donne alle ragazze (sotto il pressante incalzare del Vescovo), li nutrano e li rafforzino con la sana e pura dottrina, quasi cibo vitale. – È anche assodato come lo stesso Vescovo possa e debba raccomandare con grande fermezza ai sacri oratori perché, durante il sermone, immettano negli orecchi e negli animi dei genitori l’importanza di ammaestrare con le verità della nostra Religione i propri figli; se non saranno all’altezza del compito, sarà necessario che i figli vengano portati in Chiesa dove sono illustrati i Precetti della Legge Divina. In molti luoghi (e dove non esistevi sia introdotta) ha preso pure piede la pia e lodevole consuetudine di dare una mano al parroco, teso a realizzare questo compito, ad opera di laici, sia uomini che donne, che, premurandosi di offrire il loro servizio per l’insegnamento cristiano, ascoltano i fanciulli e le ragazze che recitano a memoria il Padre Nostro, la Salutazione Angelica, il Simbolo degli Apostoli e tutte le altre preghiere. – In altre località sono state costituite Congregazioni con lo scopo di insegnare la Dottrina Cristiana, la cui istituzione è colmata, a buon diritto, di meritate lodi da Pio V di santa memoria nella sua Costituzione che inizia: “Ex debito”, ed esorta a propagarle con ogni premura in tutte le Diocesi. – Tutte queste realtà indirizzate allo stesso scopo, se saranno attentamente valorizzate, daranno a tutti la consapevole certezza che, pur essendo esiguo il numero degli operai dove abbondante è la messe, non mancherà chi spezzerà il pane ai bambini che lo implorano.

8. È anche risaputo che non solo i fanciulli e coloro che si trovano in età più matura giacciono nell’ignoranza delle cose divine, ma anche gli uomini e gli stessi anziani risultano assai ignari della salutare dottrina, perché mai l’appresero, o avendola imparata in tempi lontani la smemoratezza la cancellò gradatamente. Pure a questo male potrà riparare la provvida diligenza dei Vescovi, se i loro cooperatori si imporranno di impiegare con cura i rimedi approntati.

9. Si riporti il discorso a quelli che si trovano nella prima infanzia: molti chiedono di essere ammessi alla Sacra Eucaristia e alla Confermazione. Pochi, per la verità, non ostentano questa decisa volontà, quasi fosse un irresistibile desiderio. Ammonisca dunque il Vescovo i parroci ed ordini loro con vigore che non ammettano al Sacramento dell’Eucaristia e non consegnino la cosiddetta Scheda della Confermazione a chi non conosce i fondamenti della Fede e della Dottrina e il valore e la forza del Sacramento. In questo modo sembra si possa ben provvedere alla prima infanzia.

10. Se invece parliamo degli adolescenti, poiché ciascuno riceve da Dio il proprio dono, è ben noto dall’esperienza che alcuni si avviano sulla strada della vita ecclesiastica, altri su quella della vita secolare. Dei primi già ci siamo occupati quando abbiamo parlato di coloro che desiderano essere ammessi agli Ordini Sacri. Sembra possa essere aggiunta una sola cosa: sarebbe opportuno e di grande utilità che, a quanti si presentano per l’esame, il Presule chiedesse in primo luogo l’essenza racchiusa nella scienza del cristiano. Infatti l’esperienza, maestra di verità, ha reso evidente che alcuni di essi, pur adorni di un elegante e puro linguaggio latino e abbondantemente istruiti nella molteplicità delle scienze e buoni conoscitori di tutto ciò che riguarda gli Ordini, interrogati sulla Dottrina Cristiana, risposero in maniera insoddisfacente e per nulla pertinente.

11. Se poi rivolgiamo la Nostra attenzione a chi passa la vita nel mondo, risulta evidente che la maggior parte di essi si indirizza al matrimonio. Veramente non potranno essere congiunti con il matrimonio se il parroco, com’è suo dovere, avrà scoperto, ponendo precise domande, che l’uomo e la donna ignorano ciò che è necessario alla salvezza. – Difficilmente il Vescovo potrà lasciare spazio a così grande e funesta ignoranza; richiami i pastori di anime al loro compito e, nel caso non vi ottemperassero, punisca la loro negligenza.

12. Tutti gli uomini, di ogni età e condizione sociale, sono soliti nettare le sozzure dell’anima con il Sacramento della Penitenza. Il Vescovo farà dunque in modo che il Sacerdote, che accoglie le Confessioni, tenga come certo e immutabile che non è valida l’assoluzione sacramentale impartita a chi non conosce ciò che è indispensabile per necessità di mezzo e che gli uomini non possono essere riconciliati con Dio con questo Sacramento se prima, scossa la caligine dell’ignoranza, non saranno condotti alla conoscenza della Fede. Sappia anche il Confessore che deve essere rimandata ad altro tempo l’assoluzione di chi, per sua colpa, non conosce ciò che è indispensabile per necessità di precetto. In questo caso il penitente può anche essere assolto, qualora si riconosca colpevole di questa sua non insuperabile ignoranza, ne chieda perdono a Dio e prometta sinceramente al Confessore di darsi da fare per apprendere, con l’aiuto di Dio, anche ciò che è necessario per necessità di precetto.

13. Se dunque i Pastori si proporranno questo metodo di formazione del popolo cristiano, se penseranno che i loro consigli, le fatiche e gli intenti dovranno essere ricondotti al metodo proposto, è lecito sperare che il gregge, con la Fede e con le opere, potrà progredire nel tempo a tal punto da essere trasformato in abitazione di Dio nello Spirito Santo. – Ma poiché si tratta di una cosa di somma importanza e nessun’altra è stata istituita più utile alla gloria di Dio e alla salvezza delle anime, nessuno deve meravigliarsi se vengono continuamente interposti numerosissimi ostacoli.

14. A volte si trovano dislocate nella campagna piccole ed umili Chiese, alcune vicine, altre assai lontane dalla Parrocchiale, dove, nei giorni festivi, si dirigono i padri di famiglia con i loro figli per ascoltare il Sacerdote mentre celebra i Sacri Misteri. Questo comporta che non siano quasi mai presenti nella loro Parrocchia e non possano ascoltare alcuna parola sui Misteri della Fede, sui Precetti e sui Sacramenti. A questo male deve provvedere il Vescovo con tutto il peso della sua autorità. Per prima cosa, in ordine alle piccole Chiese vicine alla Parrocchiale, con una precisa legge deve impedire che vi sia celebrata Messa prima che il Parroco abbia a sua volta celebrato, abbia tenuto il sermone e abbia provveduto ai rimanenti impegni del suo ufficio. In questo modo la Chiesa parrocchiale sarà frequentata da una moltitudine di fedeli che vi accorrerà. Per quanto riguarda invece le piccole Chiese situate lontano dalla Parrocchiale, risultando assai difficile, per la distanza dei luoghi, che i parrocchiani, scartata la Chiesa più vicina, possano affrontare un lungo ed aspro cammino, specie durante l’inverno quando i fiumi straripano, per raggiungere la Parrocchiale e qui assistere agli Uffici divini, il Vescovo decreti, con l’aggiunta di gravi pene, che i Sacerdoti addetti a quelle Chiese trasmettano al popolo i punti fondamentali della Dottrina Cristiana e illustrino la Legge Divina. Tuttavia il parroco deve essere ammonito perché non si fidi troppo dell’operato altrui, ma si renda conto di persona di come stiano le cose quando si richiederà che ai bambini siano amministrati i Sacramenti dell’Eucaristia e della Confermazione e altri chiederanno il Sacramento del Matrimonio.

15. Anche le città presentano specifici inconvenienti. Accade spesso infatti che in certe Chiese, specialmente di Regolari, vengano celebrate festività con rito solenne e grande concorso di popolo. Per questo, se nella Chiesa parrocchiale si tiene il catechismo al mattino presto o subito dopo il pranzo, nessuno o ben pochi saranno i presenti e accamperanno come scusa l’orario fissato. Se non verranno scelte ore più comode alla popolazione, è confermato dall’esperienza che il popolo accorrerà alla Chiesa dove viene solennizzato il giorno festivo e, attratto dall’apparato liturgico, diserterà la Dottrina Cristiana non senza grave danno dell’anima. Poiché non è possibile fissare al riguardo una norma sicura e generale, vogliamo che questo compito sia lasciato al solerte Antistite della Chiesa, il quale, tenendo conto della natura del luogo, delle circostanze e delle persone, e soppesata la portata dell’insieme dei fatti, trovi il modo di comporre la celebrazione del giorno festivo con la Dottrina Cristiana, perché una non sia di inciampo all’altra. Se i Regolari e gli Ordini esenti si opporranno e, sebbene ammoniti dai Vescovi, si sentiranno autorizzati a compromettere lo svolgimento della Dottrina Cristiana, offriamo agli Ordinari dei luoghi la Nostra autorità che abbraccia gli Esenti, e non mancheranno alla sollecitudine Apostolica altri mezzi per evitare che le Chiese parrocchiali siano defraudate della dovuta considerazione.

16. Potrebbe risultare sommamente vantaggioso per l’educazione del popolo cristiano scegliere dei visitatori, alcuni dei quali girando per la città e altri percorrendo la Diocesi, facciano accurate indagini su ogni cosa per permettere che il Vescovo, informato sui meriti di ciascun Pastore, possa decretare premi o punizioni.

17. Seguendo le orme di Papa Clemente VIII e degli altri nostri predecessori, esortiamo nel Signore e raccomandiamo con forza che, nel trasmettere la Dottrina Cristiana, sia impiegato il libretto scritto dal Cardinal Bellarmino per mandato dello stesso Clemente. Esaminato attentamente nell’apposita Congregazione a ciò deputata ed approvato, dallo stesso Papa Clemente fu ordinato che venisse pubblicato, con il validissimo intento che tutti in seguito si attenessero allo stesso e unico metodo di insegnare e di apprendere la Dottrina Cristiana. – Niente vi è di più auspicabile di questa uniformità, niente di più opportuno e di più utile per impedire che nella molteplice varietà dei catechismi possano furtivamente introdursi degli errori. Se in qualche luogo si rendesse necessario, per specifiche esigenze del posto, di servirsi di un altro opuscolo, occorrerà prestare grande attenzione che non contenga e non vi si insinui niente di discordante dalla Verità cattolica. Occorre anche prestare attenzione che i dogmi della Fede vi siano spiegati in modo semplice e chiaro, con l’aggiunta di parti necessarie eventualmente omesse e l’eliminazione del superfluo. – Un conciso e univoco metodo di insegnamento risulta solitamente di grande utilità per una più semplice interrogazione, quando si esaminano i progressi dei bambini.

18. Questo libretto deve anche contenere gli Atti di Fede, di Speranza e di Carità, sicuramente composti in modo retto e competente. Se ciò non corrispondesse al vero, una volta perfezionati, siano stampati in forma corretta. Questi Atti trovano più conveniente essere divulgati piuttosto con contenute che con abbondanti parole, purché per mezzo loro si riveli tutta la forza e la natura della virtù. – Poiché per chi professa la Religione cristiana sono sommamente necessarie l’abitudine e la pratica di proferire spesso questi Atti, affinché il loro uso non sia contenuto in limiti angusti e non sia ristretto da qualcuno ad un modesto numero per ogni anno, il Vescovo, preoccupato della propria non meno che dell’altrui salvezza, emani provvide disposizioni perché nelle parrocchie della città e della diocesi i rettori di anime, subito dopo la celebrazione della Messa festiva, inginocchiati davanti all’altare, recitino con voce chiara ed intelligibile i ricordati Atti delle virtù, cercando di precedere il popolo che dovrà ripetere le parole da loro pronunziate. In questo modo i fedeli, senza quasi accorgersene, li impareranno a memoria e prenderanno l’abitudine di attendere a questa pia pratica non solo in quelli festivi, ma anche nei giorni rimanenti.

19. Queste salutari indicazioni di ammaestrare il gregge che abbiamo voluto farvi conoscere, Venerabili Fratelli, per mezzo di questa Nostra Lettera Apostolica, possono essere riconosciute da ciascuno di voi come conformi ai Nostri moniti pastorali, già dati alle stampe quando, con paterno amore, circondavamo di cure la Chiesa bolognese, nostra sposa. – Indicazioni desunte peraltro dalle Costituzioni Pontificie, riconosciute valide dalla testimonianza e dall’esempio di rinomati Vescovi. Poiché sappiamo per esperienza che ne deriverà una grandissima utilità, Vi esortiamo e Vi incitiamo con tutto l’ardore possibile e Vi scongiuriamo, per le Viscere di misericordia del Nostro Dio, di attendere con deciso e fermo animo, in forza del compito affidato al vostro Ministero pastorale, all’attuazione di quanto premesso, considerando attentamente che tutta la fatica, l’impegno e l’attenzione profusi a questo scopo, saranno ricompensati da Dio, datore di ogni bene. – Vi impartiamo di cuore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 7 febbraio 1742, nel secondo anno del nostro Pontificato.

FESTA DELLA SS. TRINITA’ (2018)

FESTA DELLA SANTISSIMA TRINITA’ (2018)

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O Dio, uno nella natura e trino nelle persone, Padre, Figlio e Spirito Santo, causa prima e fine ultimo di tutte le creature, Bene infinito, incomprensibile e ineffabile, mio Creatore, mio Redentore e mio Santifìcatore, io credo in Voi, spero in Voi e vi amo con tutto il cuore.

Voi nella vostra felicità infinita, preferendo, senza alcun mio merito, ad innumerevoli altre creature, che meglio di me avrebbero corrisposto ai vostri benefìci, aveste per me un palpito d’amore fin dall’eternità e, suonata la mia ora nel tempo, mi traeste dal nulla all’esistenza terrena e mi donaste la grazia, pegno della vita eterna.

Dall’abisso della mia miseria vi adoro e vi ringrazio. Sulla mia culla fu invocato il vostro Nome come professione di fede, come programma di azione, come meta unica del mio pellegrinaggio quaggiù; fate, o Trinità Santissima, che io mi ispiri sempre a questa fede e attui costantemente questo programma, affinché, giunto al termine del mio cammino, possa fissare le mie pupille nei fulgori beati della vostra gloria.

[Fidelibus, qui festo Ss.mæ Trinitatis supra relatam

orationem pie recitaverint, conceditur:

Indulgentia trium annorum;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus (S. Pæn. Ap.,

10 maii 1941).

[Nel giorno della festa della Ss. TRINITA’, si concede indulgenza plenaria con le solite condizioni: Confessione [se impediti Atti di contrizione perfetta], Comunione sacramentale [se impediti, Comunione Spirituale], Preghiera secondo le intenzioni del S. Padre, S. S. GREGORIO XVIII]

Incipit 
In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus 
Tob XII:6.
Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam. [Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.]
Ps VIII:2
Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in univérsa terra!
[O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!]

 Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam. [Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.]

Oratio

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui dedísti fámulis tuis in confessióne veræ fídei, ætérnæ Trinitátis glóriam agnóscere, et in poténtia majestátis adoráre Unitátem: quaesumus; ut, ejúsdem fídei firmitáte, ab ómnibus semper muniámur advérsis. [O Dio onnipotente e sempiterno, che concedesti ai tuoi servi, mediante la vera fede, di conoscere la gloria dell’eterna Trinità e di adorarne l’Unità nella sovrana potenza, Ti preghiamo, affinché rimanendo fermi nella stessa fede, siamo tetragoni contro ogni avversità.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom XI:33-36.

“O altitúdo divitiárum sapiéntiæ et sciéntiæ Dei: quam incomprehensibília sunt judícia ejus, et investigábiles viæ ejus! Quis enim cognovit sensum Dómini? Aut quis consiliárius ejus fuit? Aut quis prior dedit illi, et retribuétur ei? Quóniam ex ipso et per ipsum et in ipso sunt ómnia: ipsi glória in sæcula. Amen”. [O incommensurabile ricchezza della sapienza e della scienza di Dio: come imperscrutabili sono i suoi giudizii e come nascoste le sue vie! Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi gli fu mai consigliere? O chi per primo dette a lui, sí da meritarne ricompensa? Poiché da Lui, per mezzo di Lui e in Lui sono tutte le cose: a Lui gloria nei secoli. Amen.]

 Graduale 

Dan III:55-56. Benedíctus es, Dómine, qui intuéris abýssos, et sedes super Chérubim, [Tu, o Signore, che scruti gli abissi e hai per trono i Cherubini.]

Alleluja

Benedíctus es, Dómine, in firmaménto cæli, et laudábilis in sæcula. Allelúja, [V.Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, alleluia.]

Dan III:52 V. Benedíctus es, Dómine, Deus patrum nostrórum, et laudábilis in sæcula. Allelúja. . [ Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, allelúia]

Evangelium

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum Matthæum. 

Matt XXVIII:18-20

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Data est mihi omnis potéstas in coelo et in terra. Eúntes ergo docéte omnes gentes, baptizántes eos in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti: docéntes eos serváre ómnia, quæcúmque mandávi vobis. Et ecce, ego vobíscum sum ómnibus diébus usque ad consummatiónem sæculi”. 

OMELIA

 [Mons. G. Bonomelli, Misteri Cristiani: vol. IV, Queriniana ed. Brescia, 1896]

« Gesù disse a’ suoi discepoli: Ogni potere mi fu dato in cielo ed in terra: andate adunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, insegnando loro di osservare tutte le cose, che io vi ho comandate: ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino al termine del secolo » (S. Matteo, XXVIII, 18-20).

Dio, uno nella sua essenza o natura, si svolge nella Trinità delle Persone: ecco il mistero primo e massimo della Religione, l’oggetto e il termine supremo della nostra fede. Tutti i simboli o compendi della nostra fede cominciano col professare che un solo è Dio, il Principio sovrano d’ogni cosa: « Credo in unum Deum »; poi considerano l’una dopo l’altra le tre Persone, che nell’unica natura sussistono, distinte ed eguali tra loro, e l’una dall’altra procedente con atto semplicissimo ed eterno: poi di ciascuna Persona toccano le opere compiute fuori della essenza divina, opere che sono come il pallido riflesso e l’aureola caratteristica di ciascuna. – La liturgia della Chiesa, che rispecchia nel corso dell’anno la serie ordinata delle opere singolarmente del Figlio e dello Spirito Santo, il primo Redentore, il secondo Santificatore delle anime, si chiude con la Pentecoste, cioè con lo stabilimento del regno di Cristo e dello Spirito da Lui mandato sulla terra e che deve continuare l’opera sua fino alla consumazione dei tempi. Qual cosa più naturale per la Chiesa quanto il riassumere in una festa la storia tutta della divina rivelazione e invitare tutti i suoi figli a fissare gli occhi illuminati dalla fede nel Principio Uno e Trino, da cui tutto si deriva e si squaderna ciò che esiste in cielo, in terra e nell’inferno? Dopo di aver loro additato Dio, principio senza principio, uno, eterno: dopo aver loro mostrato in quel pelago immensurabile della essenza divina la Persona del Padre, che non emana da altri, che è da sé: dopo aver loro mostrato, che questo Padre genera di sé un Figlio unico, a sé eguale e ricordate le opere sue dopo fatto uomo: dopo aver loro mostrato lo Spirito Santo, che procede come Amore eterno dal Padre e dal Figlio e che spande nella Chiesa l’onda della vita divina, dopo tutto questo la Chiesa grida a tutti i credenti: – Figli miei! ora dalle cose tutte create, dalle cose tutte compiute dal Figlio fatto uomo e dallo Spirito Santificatore, sollevate gli occhi, risalite il fiume che dal cielo si versa sulla terra; ficcate lo sguardo nella fonte, nell’origine prima di tutte le cose e riconoscete Dio, che è uno nella essenza e trino nelle Persone, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Ecco la radice, il punto, da cui tutto si irradia, ecco la sintesi suprema della vostra fede. – La festa della Santa Trinità non si poteva meglio collocare che in questa Domenica che segue la Pentecoste, la manifestazione prodigiosa della terza divina Persona. La Festa odierna, o dilettissimi, è la degna corona dei misteri tutti della fede celebrati lungo l’anno e ci riconduce là donde siamo partiti, a Dio Uno e Trino. In questo primo Ragionamento io mi restringerò a commentare il Vangelo, che la Chiesa oggi ci propone a meditare e che esprime in tutta la sua chiarezza e concisione il mistero dell’Unità e Trinità di Dio. I tre versetti, che dobbiamo chiosare, sono gli ultimi dell’ultimo capo del Vangelo di S. Matteo e per intenderli a dovere è forza vedere il nesso con gli antecedenti. In quest’ultimo capo del suo Vangelo, S. Matteo narra la risurrezione di Gesù Cristo e lo fa in modo sì succinto, che più non avrebbe potuto fare. Narra la sua apparizione alle donne e il comando loro fatto di annunziarla agli Apostoli e che si recassero in Galilea, sopra un monte, sul quale die loro la posta, e dove essi lo videro e lo adorarono. E fu là in Galilea, su quel monte, che Gesù rivolse agli undici Apostoli le parole che ho riportate, che sono come l’ultimo suo ricordo, il compendio delle sue raccomandazioni e che ora dobbiamo spiegare. – « Ogni potere mi è dato in cielo ed in terra ». È Gesù che parla. Vi prego di ponderare questa sentenza semplicissima e chiarissima e pronunciata con una sicurezza, che ci deve riempire di stupore. Chi la pronuncia è un uomo, pochi giorni prima confìtto alla croce come un malfattore e mortovi sopra tra due ladroni, oggetto di pietà profonda per alcuni pochi, di abbominio per la nazione intera. È vero: Egli è uscito dal sepolcro poc’anzi con un miracolo, che non ha, ne avrà mai l’eguale. Ma contemplatelo bene: in Lui non vedete che un uomo: un uomo che non ha un solo soldato, che non cinge corona, né la vuole: che non ha un palmo di terra dove posare il capo. Eppure quest’uomo osa dire con una asseveranza, che non ammette dubbio: « Ogni potere mi è dato in cielo ed in terra ». O quest’uomo è pazzo, o questo uomo è Dio: non c’è via di mezzo, giacché sulla terra non vi ebbe mai un solo uomo anche nella ebbrezza d’una potenza sconfinata, nel delirio dell’orgoglio, a cui bastasse l’animo di dire: « Io ho ogni potere in cielo ed in terra ». Qualcuno potè dire: – Io posso tutto sulla terra: chi potrà sottrarsi al mio braccio? – ma aggiungere: – Io ho ogni potere in cielo -, questo non si udì mai. Ora chi potrà dire: Cristo è pazzo? La sua vita, la sua dottrina lo mostrano il sapientissimo degli uomini e per tale lo salutano e riconoscono gli Apostoli stessi del libero pensiero; e se non foss’altro la sua creazione, che dopo quasi 2000 anni ci sta sotto gli occhi e ogni dì grandeggia, la Chiesa, ci prova che pari alla sapienza è la sua potenza. Dunque in questa frase d’una audacia inaudita, e che la storia ha suggellato con i fatti, Gesù Cristo si mostra Dio. « Ogni potere mi è dato in cielo e in terra ». Qual potere? Nelle parole di Cristo non si esclude potere alcuno e dove Cristo tutto afferma chi vorrebbe anche solo sospettare una eccezione? A Lui dunque spetta qualunque potere nell’ordine della natura e della grazia, il potere sacerdotale e regale, il potere di ammaestrare e di reggere, il potere di giudicare, di premiare e punire, sempre, dovunque, in cielo ed in terra : « Omnis, omnis potestas data est mihi in cœlo et in terra ». E ponete mente a questa parola: « Mihi » a me! A me solo, quale mi vedete qui, né può avervi parte alcuna qualsiasi uomo, o creatura celeste, a cui Io non la comunichi in quella misura che mi piace. – Ma come, o divin Salvatore? Voi dite che avete ogni potere senza limiti di tempo e di spazio e che questo potere vi è dato ? Ma se siete Dio, e noi lo crediamo fermamente, come potete ricevere questo potere da altri? E chi ve lo può dare? Gesù Cristo è Dio e insieme è uomo. Come Dio da chi riceve Egli con la generazione la natura ed ogni cosa? Da Dio Padre. In quanto uomo da chi riceve Egli, come da principio attivo, la natura umana e tutto ciò che con essa è congiunto? Tutto riceve da Dio Padre, da Dio Figlio, da Dio Spirito Santo, unico Dio, Creatore, Conservatore e Santificatore, da Dio-Trinità, che fuori di sé opera con un solo e semplicissimo atto. A ragione adunque Gesù Cristo poteva dire, e come Dio e come uomo, che ogni potere in cielo ed in terra gli era dato e a Lui veniva da Dio. Nondimeno è da credere che Gesù Cristo ciò affermasse di sé specialmente in quanto uomo, perché in quanto uomo con la sua passione e con la sua morte redense l’umana natura e qui parla del potere, che conferisce agli Apostoli e ai loro successori di ammaestrare e governare la Chiesa, che è il suo regno, il suo corpo, la sua sposa secondo il linguaggio dei Libri Santi. Proseguiamo il commento. Io tengo ogni potere in cielo e in terra, dice Cristo: Io lo posso comunicare a chi voglio e in quella forma che voglio: ora lo comunico a voi, miei Apostoli, e a quelli che continueranno l’opera vostra; dacché questo e non altro importa la parola di Cristo, che segue: «Dunque andate, ammaestrate tutte le genti ». Poiché (così e non altrimenti suona il linguaggio di Cristo) poiché ora siete investiti del mio potere istesso, andate ed esercitatelo come Io l’ho esercitato. E qui è prezzo dell’opera fermare la nostra attenzione sopra una verità gravissima e non mai abbastanza inculcata. Il potere stesso di Cristo passa e si travasa da Lui negli Apostoli, ossia nei reggitori della Chiesa. Si muta il soggetto, ma non il potere [Non fa d’uopo avvertire che il potere di Cristo non ha limite, perché è Dio-Uomo e gli è proprio: il potere degli Apostoli e di Pietro, ha quei limiti, che a Cristo è piaciuto porre: essi non sono che suoi Vicari e debbono esercitare il potere ricevuto secondo le norme stabilite da Cristo stesso, come è chiaro per la natura stessa delle cose.]; si mutano le mani, che ricevono il tesoro, ma non il tesoro istesso: è sempre la stessa acqua quella che sgorga dalla fonte e quella che scorre nel letto del fiume, fosse pure a mille miglia dalla fonte. Per noi ascoltare e ubbidire l’Episcopato presente e Gregorio XVIII è ascoltare e ubbidire agli Apostoli ed a Pietro, ai quali Cristo disse: « Andate e ammaestrate ». Noi, illuminati dalla fede, nei Vescovi e nei successori di Pietro, quali che siano le loro doti e i loro difetti, non vediamo che gli Apostoli e Pietro, dirò meglio, non vediamo che Cristo, che ammaestra e regge la sua Chiesa e attraverso ai secoli continua l’opera sua riparatrice. Due cose Gesù Cristo impone agli Apostoli nelle parole che seguono: « Andate e ammaestrate – Euntes docete ». Scopo immediato della venuta di Cristo sulla terra fu la fondazione di della Chiesa e per essa la salvezza di tutti gli uomini. Questa Chiesa doveva essere universale secondo la condizione dei tempi e perciò gli Apostoli, destinati a fondare la Chiesa, dovevano spargersi dovunque per far udire dovunque la parola del Maestro: ecco perché dice loro: « Andate e ammaestrate tutte le genti ». Io, così Cristo, ho posto nelle vostre mani il seme della verità: spargetelo sulla terra: ho accesa la face del Vangelo: voi portatela dovunque e illuminate tutto il mondo: Io non vi mando a questa o a quella provincia: a questo o quel regno: a questo o quel continente: io vi mando per tutto il mondo, a tutte indistintamente le nazioni. Docete omnes gentes. Tutti gli uomini sono creature di Dio: Dio di tutti gli uomini è Padre e Maestro: dunque a tutti annunziate la verità e la salute, a tutti comunicate i suoi doni senza distinzione – Docete omnes gentes -. Dio, che vi manda, è Creatore di tutti gli uomini e di tutti vuol essere Salvatore -. E qui non è da lasciare un’altra osservazione della più alta importanza. Uditela e ponderatela. Il popolo ebraico in fatto specialmente di religione era d’uno spirito esclusivo senza esempio. Esso rinchiudevasi in sé medesimo e respingeva fieramente tutto ciò che veniva dagli stranieri e considerava come un sacrilegio comunicare ad essi le sue cose sacre, fuorché nel caso che abbracciassero la sua religione, ed anche allora quali difficoltà! Quante precauzioni – La legge mosaica l’aveva informato a questo spirito per isolarlo dagli altri popoli e così impedire il suo pervertimento. Questo rigidissimo esclusivismo religioso era penetrato nelle fibre del popolo, era la sua forza, la sua vita e dopo tanti secoli è quello che lo conserva separato benché disperso. Dio era Dio degli Ebrei: le promesse di Dio ai soli Ebrei: essi il popolo eletto: dagli Ebrei il Messia, che avrebbe soggiogato l’universo per metterlo a loro piedi. Da qui l’odio feroce, il furore degli Ebrei contro S. Paolo, che francamente predica la salute annunziata agli Ebrei dover essere comune a tutte le genti. È questo un fatto storico, che non ha bisogno d’essere dimostrato. – Ebbene: Gesù Cristo è nato in mezzo a questo popolo; è cresciuto ed educato nell’ultimo angolo della terra d’Israele, dove era ancora più tenace che altrove questo spirito di isolamento e di egoismo religioso nazionale: Gesù Cristo non era mai uscito dagli angusti confini di Israele anche per non offendere questo sentimento estremamente geloso de’ suoi connazionali. Eppure, eccolo comandare ai suoi discepoli, tutti profondamente imbevuti dello spirito giudaico, di annunziare a tutti i popoli le promesse di Abramo e di Giacobbe, le promesse fatte a Davide e ai Profeti. Gesù Cristo con questo comando formale « Andate, ammaestrate tutte le genti » atterra il muro di bronzo, che separa Israele da tutti gli altri popoli, sfata il pregiudizio comune e antichissimo, che della verità e della vita divina faceva il patrimonio d’una piccola nazione e inizia un’era novella, che nessun uomo mai aveva neppure immaginato. Perché dovete sapere che se l’egoismo religioso nazionale aveva radici sì profonde in Israele, ch’era quasi impossibile divellere, un altro egoismo non meno tenace appariva nei popoli gentili stessi più colti: Le più alte intelligenze, il fiore dei filosofi di Grecia e di Roma (basta ricordare Marco Tullio), erano persuasi, essere stoltezza credere di poter ridurre tutti gli uomini a professare le stesse dottrine e la scienza del retto vivere, il conoscimento delle verità più elevate essere riservato alle menti superiori, spettare alla sola aristocrazia dei maggiori ingegni. E non è difficile comprendere come questo errore dovesse naturalmente entrare e radicarsi nelle menti stesse dei più dotti tra gentili. Il perché se gli Ebrei nel loro orgoglio nazionale delle verità divine fecero un monopolio a proprio vantaggio, i gentili lo facevano a profitto d’un numero ancor più scarso di uomini, la classe privilegiata dei dotti e dei filosofi. E Gesù Cristo, questo povero operaio di Nazaret, quest’umile Maestro di umili pescatori, questo crocifisso risorto, sopra un colle di Galilea, ad undici uomini, rozzi, ignari del mondo, impigliati ancora in tutti i pregiudizi giudaici, senza protezioni, sforniti d’ogni scienza umana, che vivono di pesca e di elemosina, senza mostrare la più lieve esitanza, dice: « Andate, ammaestrate tutte le genti! ». Egli, il primo e l’unico, che sulla terra abbia concepito il disegno di raccogliere tutti i popoli in una sola religione, di imporre loro le stesse identiche dottrine dogmatiche e morali, sotto il governo d’un solo capo, e di imporre tutto questo, non con la forza, ma con la sola persuasione, usando della sola parola di uomini i più inetti, che fosse possibile immaginare. L’assurda impresa, lo stoltissimo disegno in gran parte è compiuto e va compiendosi sotto i nostri occhi. Permettete che ora vi domandi: Considerato attentamente e senza pregiudizi tutto questo, che dobbiamo dire di quest’uomo? È Egli un pazzo? I pazzi non sanno concepire e attuare senza mezzi il più audace e il più impossibile disegno che sia caduto in mente umana: i pazzi non possono insegnare la più santa e la più sublime dottrina teorica e pratica che siasi udita sulla terra: i pazzi non possono offrire al mondo lo spettacolo della virtù più perfetta possibile, quale veneriamo in Gesù Cristo. Dunque chi è desso Gesù Cristo, che con quelle quattro parole « Andate e ammaestrate tutte le genti » rovescia tutti i pregiudizi giudaici e gentili e fonda la Chiesa universale e signoreggia il tempo e lo spazio e prosegue oggi ancora l’opera immane cominciata duemila anni or sono? Chi è desso? S’Egli non è un pazzo fortunato, non è un uomo. Chi è dunque? Lo dissero gli Apostoli, che vissero con Lui é lo conobbero: – il Figlio di Dio, il Verbo fatto uomo -. Lo disse Egli stesso: « Io e il Padre siamo una cosa sola. Io sono uscito dal Padre, son venuto sulla terra e ritorno al Padre ». Adoriamolo. – Ma è da ritornare al testo evangelico, che stiamo chiosando. Allorché un uomo qualunque dà il suo nome ad una società, accetta un ufficio, riceve una dignità, fa parte d’un corpo sociale, accorre sotto le bandiere d’un esercito, ha bisogno d’un segno esterno, che mostri a lui e agli altri tutti il nuovo stato per esso abbracciato, i nuovi doveri assunti e i nuovi diritti od onori acquistati. È ciò che si è sempre fatto e si fa e si farà costantemente, perché l’uomo non può far conoscere i suoi pensieri e i suoi voleri e conoscere gli altrui che per mezzo dei sensi e per conseguenza per mezzo della parola e dei segni. Con parole e segni adunque si dovevano conoscere e distinguere tutti quegli uomini che avrebbero dato il loro nome a Cristo, che sarebbero entrati nel suo esercito, che sarebbero diventati cittadini del suo regno. A chi spettava determinare queste parole, questa formola sacra, questo segno, al quale riconoscere i suoi discepoli, i membri della novella Società? Non v’è dubbio alcuno: il diritto di determinare questo segno e questa formola sacra non poteva spettare ad altri fuorché al Capo e al Fondatore della Società stessa, Gesù Cristo. E l’una e l’altra cosa Egli determinò e prescrisse con una chiarezza e precisione, che mai la maggiore. Udite: « Andate e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. [Dire battezzare e lavare è la stessa cosa: ora lavare necessariamente richiama l’idea dell’acqua, che è l’elemento necessario del Battesimo, onde la parola Battesimo indica per se stessa la materia del Sacramento, come la parola ungere indica l’olio]. Ecco, o carissimi, il segno, ecco le parole, con le quali l’uomo è accolto nel regno di Cristo; ecco quel Sacramento, che è la porta della Chiesa e che si compie nel nome augusto di quella Trinità, che oggi adoriamo.L’acqua tra le terrene cose è la più comune e copre ben due terzi della superficie mondiale. Essa stilla dagli eterni ghiacciai, che coronano tutte le più superbe vette dei monti; zampilla perenne dai loro fianchi, scorre pei ruscelli, per i torrenti, per i fiumi, si raccoglie negli ampi bacini dei laghi, si raduna e si agita nella immensità degli oceani, penetra nelle viscere della terra, dilatata in nubi passa sui nostri capi e riempie gli sterminati campi dell’ atmosfera e irriga e feconda i colli e le pianure e porta dovunque la vita agli alberi e agli animali tutti. Fate che nel deserto o sulle rocce scorra un filo d’acqua e voi vedete sopra di esse verdeggiare l’erba, crescere i fiori e gli alberi e gli uccelli e gli animali accorrervi per dissetarsi. E Gesù Cristo volle che quest’acqua sì comune, sì facile ad aversi, fosse il segno materiale dei suoi seguaci, lo strumento per comunicare loro la vita divina nel Sacramento più necessario. L’acqua! Essa deterge i corpi, li monda, li fa belli e non avendo colore alcuno tutti li cancella e tutti li suscita, scrive S. Cirillo di Gerusalemme, perché spandendosi sui campi e sui prati, li copre di fiori variopinti. Ciò che 1’acqua fa nei corpi, mondandoli d’ogni macchia, e sulla terra coprendola di verzura e di fiori, per virtù divina fa nelle anime, nettandole dalla macchia originale e deponendovi i germi della fede, della speranza e della carità, d’onde più tardi germoglieranno tutte le virtù. Ecco perché Gesù Cristo nell’immenso campo della materia diede la preferenza all’acqua, e con essa e per essa volle rigenerare gli uomini e ad essi dischiudere le porte della Chiesa e quelle del cielo. Se non che la materia per se stessa è muta e come è indifferente a ricevere qualunque forma, così è indifferente a significare qualunque cosa: spetta all’uomo determinarne il significato e il valore e ciò esso suol fare con la parola. Perciò, additandovi un agnello, vi dice: Ecco Gesù Cristo; additandovi una colomba, vi dice: Ecco lo Spirito Santo; additandovi una bilancia, vi dice: Ecco la giustizia. La parola circoscrive e determina il senso delle cose e ciò fece Gesù Cristo. Voi, così Egli, laverete l’uomo e per esprimere come quella lavanda produce nell’anima sua, aggiungerete queste parole: « Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito ». Quell’acqua congiunta con le parole sante, quasi corpo congiunto all’anima, cancellerà il peccato, rimetterà ogni pena per esso dovuta, infonderà la grazia santificatrice e stamperà nello spirito un carattere, un segno indistruttibile, attestante il pieno dominio di Lui. E poiché questo rito sì semplice e sì augusto è a tutti necessario, come è necessaria la vita della grazia, a tutti è dato di amministrarlo. Tanta è la bontà e la larghezza del divino Istitutore! Ed ora, o dilettissimi, studiamoci di penetrare il senso profondissimo di questa formula caduta dalle labbra di Gesù Cristo: « Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo ».E primieramente giova comprendere la forza di quella parola: Nel nome. Presso gli antichi come presso i moderni, nell’uso sacro come profano, dire: – Nel nome – è dire nel potere, nella autorità, nel diritto di chi si nomina poi: su ciò non è mestieri insistere. Ora dopo la parola: – Nel nome – nel testo sacro vengono nominate distintamente le tre divine Persone. Ponete che quelle tre Persone non fossero eguali, ma diverse per potere e per natura; poteva Egli Gesù Cristo collocarle sulla stessa linea e pareggiarle, dicendo: – Nel nome – cioè nella autorità o nella potestà? Come attribuire a tutte e a ciascuna la stessa dignità, la stessa potenza e quindi la stessa natura? Quando mai un Monarca intima una legge a’ suoi sudditi, dicendo: – Nel nome nostro e del nostro ministro? – Come poteva Gesù agguagliare a Dio altre Persone, che se non sono Dio, sono necessariamente creature e perciò per infinito intervallo a Dio inferiori? Come confondere insieme Dio e le creature, il Padrone d’ogni cosa e i suoi servi? Sarebbe stata una empietà enorme anche per un’altra ragione. Per il rito sacro del Battesimo l’uomo è consacrato a Dio, diviene suo figlio per adozione, ne riceve in sé l’immagine ed il carattere. E volete voi che l’uomo si consacri a creature e creature sarebbero almeno la seconda e la terza Persona nominate quando non fossero Dio? E non sarebbe empietà consacrarsi egualmente a Dio e alle creature, pareggiando queste a quello? Dunque quelle tre Persone, Padre, Figliuolo e Spirito Santo,, poste nello stesso ordine, con la stessa autorità o podestà in forza della parola: – Nel nome – e non nei nomi, sono eguali: se eguali nella autorità e podestà, debbono essere eguali nella natura o nella essenza, perché autorità e podestà, natura e essenza sono inseparabili. È questa l’argomentazione comune dei Padri affermanti la Santa Trinità contro l’eresia Ariana. [La parola Trinità, se bene mi ricordo, fu introdotta per la prima volta da Tertulliano, quasi ter unitas vel trium unitas, tre volte unità od unità dei tre. Essa esprime sì felicemente il dogma, che la Chiesa la fece sua e ne consacrò l’uso.]. Il dogma della Santa Trinità consta di due termini distintissimi, l’unità della essenza o natura. e la Trinità delle Persone: nella parola: nome – abbiamo visto il primo termine: nelle voci distinte di Padre, Piglio e Spirito Santo, brilla chiaramente la Trinità delle Persone. E come dubitarne? Ogni parola racchiude in sé il proprio significato, che non può essere quello di un’altra parola se non vogliamo ingannare o giuocare. Ora la parola Padre che significa essa? Certamente significa una persona, che dà principio per via di generazione ad un’altra e che necessariamente non può essere quella che è generata, se non vogliamo dire che generante e generato sono una sola persona. E la parola Figlio che significa essa? Certamente significa una persona, che riceve la vita e tutto l’essere suo per via di generazione dal padre e che per conseguenza necessaria non è il Padre stesso, ma un’altra persona da esso distinta. Chi mai potrebbe confondere in una sola persona il padre e il figlio? Che significa essa la parola Spirito Santo? Certamente significa alcun che di emanante dalla natura stessa di Colui che lo spira od alita verso un altro, che lo riceve e che perciò è distinto dall’uno e dall’altro e poiché in Dio trattasi di un soffio, od alito o spirito infinito, debb’esser’Egli pure infinito e perciò Persona, tanto più che posto in ordine perfetto ed eguale dopo le Persone del Padre e del Figlio, non può essere che Persona. In questi tre nomi pertanto di Padre, di Figlio e di Spirito Santo non possiamo riconoscere tre attributi o tre perfezioni divine ma sì tre divine Persone, aventi la stessa natura e perfettamente eguali, ma distinte per le proprietà singolari di ciascuna, che non permettono di confonderle tra loro. – Ma forse a taluno di voi si affacceranno alcune difficoltà, che derivano naturalmente dalle voci di Padre, di Piglio e di Spirito Santo usate dal Vangelo, che per se stesse sembrano stabilire una disuguaglianza tra le Persone e quindi sembrano rovesciare il dogma cattolico. Il Padre deve precedere il Figlio e il Padre e il Figlio devono precedere lo Spirito Santo e per ragione della precedenza di origine debbono avere eziandio una precedenza di dignità e di potere. Non è egli così? No, dilettissimi: seguitemi e ve ne persuaderete facilmente. Noi non possiamo né ragionare, né parlare di Dio, della sua essenza, delle Persone divine, dei loro rapporti e delle loro perfezioni se non movendo da noi stessi e dalle cose tutte finite, che ci circondano: da ciò conseguita che qualunque nostro concetto, qualunque nostra idea e parola non possono mai adeguare ciò che pensiamo e diciamo di Dio: tutte le nostre idee e le nostre parole sono e saranno sempre imperfettissime e al tutto inette ad esprimere la verità. Che fare? Non pensare, non parlare mai di Dio e delle cose divine? Tanto varrebbe negare Dio stesso e fare alla ragione e al sentimento umano il massimo degli oltraggi. Pensiamo e parliamo di Dio e delle cose suo meglio che possiamo, correggendo secondo le forze nostre l’imperfezione dei nostri concetti e la povertà del nostro linguaggio. Dalla parola e dall’ idea del padre comune e terreno, che conosciamo, assorgiamo alla parola e all’idea del Padre divino, che genera il Figliuol suo unigenito e rimuoviamone tutte quelle imperfezioni, che alla maestà e perfezione infinita di Dio ripugnano. L’uomo è un composto di anima e di corpo e nessuno dei suoi atti è sciolto perfettamente dall’impaccio corporeo: allorché dunque diciamo che in Dio vi è una Persona, che si chiama ed è, vero Padre, via ogni immagine o concetto corporeo, perché in Dio non v’ha ombra o mistura qualsiasi di corpo. Per noi sulla terra, soggetti alla legge inesorabile del tempo, il padre esiste necessariamente prima del figlio: via questa precedenza di tempo in Dio, in cui tutto è eterno: il Padre fu sempre Padre e perciò ebbe sempre il Figlio, da Lui generato, ma eternamente generato. Vedeste mai il sole senza la luce, che è sua figlia, sua emanazione? No per fermo: così il Padre per ragione della origine è prima del Figlio, non mai in ordine di tempo, che non esiste: eterno il Padre, eterno il Figlio, cantiamo nel simbolo atanasiano. – Per noi uomini sulla terra la persona del padre è separata dalla persona del figlio: hanno la stessa natura, ma diversamente posseduta: in Dio via questa separazione delle Persone del Padre e del Figlio, perché la loro natura essendo unica e indivisibile e sovranamente spirituale, non può scindersi: essa è tutta ed identica nel Padre e tutta ed identica egualmente nel Figlio, come, o uomo, la tua anima è tutta nella tua mente, nella tua memoria e nella tua volontà. – L’uomo può essere padre di molti figli: via questa idea da Dio Padre, che ha un solo Figlio e non può averne altri. L’uomo, limitato nel tempo e nello spazio e nella natura, svolge gradatamente e con atti successivi e perciò molteplici la sua forza generatrice: Dio Padre, infinito nella sua essenza ed eterno, con un solo, eterno e semplicissimo atto esaurisce la infinita sua fecondità e perciò non può generare che un solo Figlio. L’uomo è libero d’essere e di non essere padre: la sua paternità dipende dalla sua libera volontà: via questo concetto da Dio Padre, che genera il Figliuol suo per natura e perciò necessariamente, ancorché poi lo voglia e vi trovi tutte le infinite compiacenze. – Rimosse tutte queste imperfezioni dalla divina paternità, voi vedete che Dio Padre è vero Padre e più Padre che non lo siano i padri terreni. Sì, il Padre è più Padre che non lo siano i padri terreni; è il Padre de’ padri, il Padre per eccellenza, dal quale, come da fonte prima e da archetipo sovrano, deriva ogni paternità. Egli è Padre per sola sua virtù e per attuare l’infinita sua fecondità non chiede l’aiuto di qualsiasi altro essere, né con altri divide la gloria della sua paternità, come avviene in tutte le creature che sole non possono generare. Egli è Padre da solo, vero e perfettissimo Padre, Padre senza esse figlio, sempre Padre, non altro che Padre, eternamente Padre. O mistero, nel quale chi ficca gli occhi della mente, si perde in un mare di luce! – Lo stesso si dica dello Spirito Santo, la terza Persona della augusta Trinità. Essa è una emanazione semplicissima, sempiterna dal Padre nel Figlio e dal Figlio nel Padre, un alito amoroso dell’uno nell’altro, che non divide l’uno dall’altro, che non cessa mai e nell’unica essenza compie e consuma l’ineffabile loro amplesso. Ma come ciò avvenga e come l’una Persona dall’altra si distingua, una e medesima rimanendo la natura, come in Dio non possono essere che tre Persone e come la mente umana, non può comprendere ma può concepire questo sommo dei misteri e trovarvi tanta luce da vederlo non pure ripugnante, ma conforme alla stessa ragione, lo vedremo nei due Ragionamenti che seguono. Ed ora ritorniamo al nostro commento, giacché ci rimangono ancora da spiegare due magnifiche sentenze. « Voi, diceva Cristo agli Apostoli, colla vostra predicazione e col Battesimo nel nome della Santa Trinità formerete i miei discepoli: ma perché giungano a salvezza basterà egli credere ed essere battezzati? No: la fede e il Battesimo sono necessari, sono il fondamento della giustizia: ma su questo fondamento bisogna innalzare l’edificio delle opere conformi alla fede e perciò Gesù Cristo continua e dice: Voi loro insegnerete ancora che bisogna osservare tutto ciò ch’Io vi ho prescritto ». Intendeste, dilettissimi? La fede e il Battesimo sono il seme della vita eterna; l’osservanza dei precetti, le opere sono i frutti e senza i frutti l’albero è tagliato e gettato ad ardere nel fuoco eterno. Purtroppo certi Cristiani dicono: – Noi siamo Cristiani: abbiamola fede: la teniamo salda come il più prezioso dei tesori -. Ottimamente! Ma e l’opere della fede dove sono? Dove 1’osservanza della legge? Chi non ama Dio non si salva, e non ama Dio chi non adempie la sua legge, lo disse Gesù Cristo medesimo. Non ingannatevi: la sola fede non salva, anzi, scompagnata dalle opere, essa è la vostra condanna. Gesù Cristo chiude il suo discorso con una sentenza, che è il suggello di tutte le altre, che è come il suo testamento, che è il sostegno e il conforto della Chiesa in tutte le sue prove. Eccola: « Ed ecco ch’Io sono con voi fino al termine del secolo » . O promessa consolante! O supremo conforto della Chiesa e di ogni anima cristiana! – Voi andrete, ecco il senso delle parole di Cristo, voi andrete per tutto il mondo: voi predicherete, voi battezzerete, voi continuerete l’opera mia ed altri dopo di voi la continueranno. L’opera, vel dissi, è grande, ardua, affatto superiore alle vostre forze: ma non temete: con voi quando predicherete, quando battezzerete. quando adempirete il vostro ufficio in mezzo alle più terribili lotte, Io, vostro Maestro, vostra guida, Io, Dio-Uomo, Signore d’ogni cosa, sarò con voi. Fin quando? Fino all’ultimo giorno, fino al termine dei tempi. E dove sono Io, vincitore della morte e dell’inferno, ivi è la vittoria -. E come Gesù Cristo sarà Egli sempre con la sua Chiesa? Nella Santa Eucaristia, in cui vive realmente e sostanzialmente presente, qual cibo delle anime, qual vittima espiatrice? Sì: Egli resterà sempre nella sua Chiesa per il Sacramento eucaristico, centro della sua vita. Ma rimarrà solo nella Santa Eucaristia? No: Egli per la sua grazia rimarrà nelle anime giuste, che crederanno in Lui, che spereranno in Lui, che lo ameranno. E non basta. Egli rimarrà sempre nella sua Chiesa, come uno sposo vive con la sua sposa: Egli la reggerà, la difenderà, la illustrerà col lume indefettibile della verità: Egli non permetterà giammai ch’Essa nel suo insegnamento esca dalla dritta via e si faccia banditrice dell’errore. Un giorno Gesù Cristo disse agli Apostoli: « Chi ascolta voi ascolta me ». E questa la sentenza che in altri termini ripete loro prima di lasciare la terra, allorché dice loro: « Ecco Io sono con voi fino al termine del secolo ». Carissimi! Vogliamo essere con Gesù Cristo per i secoli eterni? Siamo con la sua Chiesa nel tempo, con la Chiesa che ammaestra, che governa, che dispensa i Sacramenti e saremo con Gesù per tutta la eternità!

Credo …

Offertorium

Orémus

 Tob XII:6. Benedíctus sit Deus Pater, unigenitúsque Dei Fílius, Sanctus quoque Spíritus: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. [Benedetto sia Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Secreta

Sanctífica, quæsumus, Dómine, Deus noster, per tui sancti nóminis invocatiónem, hujus oblatiónis hóstiam: et per eam nosmetípsos tibi pérfice munus ætérnum. [Santífica, Te ne preghiamo, o Signore Dio nostro, per l’invocazione del tuo santo nome, l’ostia che Ti offriamo: e per mezzo di essa fai che noi stessi Ti siamo eterna oblazione.]

Communio

Tob XII:6. Benedícimus Deum coeli et coram ómnibus vivéntibus confitébimur ei: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. [Benediciamo il Dio dei cieli e confessiamolo davanti a tutti i viventi: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Postcommunio 

Orémus.

Profíciat nobis ad salútem córporis et ánimæ, Dómine, Deus noster, hujus sacraménti suscéptio: et sempitérnæ sanctæ Trinitátis ejusdémque indivíduæ Unitátis conféssio.
[O Signore Dio nostro, giòvino alla salute del corpo e dell’ànima il sacramento ricevuto e la professione
della tua Santa Trinità e Unità.]

INFEDELI

INFEDELI

[G. Bertetti: Il Sacerdote predicatore; S.E.I. Ed. Torino, 1919]
1. Varie specie d’infedeli. — 2. Una grave questione. –
3. Relazioni nostre con gl’infedeli.

1. VARIE SPECIE D’INFEDELI. — Sono infedeli coloro che non hanno la fede di Gesù Cristo;… sia che non l’abbiamo mai avuta (pagani);… sia che, dopo averla avuta, l’abbiano respinta (ebrei ed eretici). Di costoro, i pagani son quelli che errano maggiormente dalla fede, ma sono meno colpevoli, perché « pecca più gravemente contro la fede chi s’oppone alla fede già ricevuta, che chi s’oppone alla fede non mai ricevuta; come pecca più gravemente chi non adempie ciò che ha promesso, che chi non adempie quello che non ha mai promesso » (S. TH., 2a 2a e, q. 10, a. 6)… I pagani non conobbero la via della giustizia; la conobbero i giudei e gli eretici, e l’abbandonarono: « Meglio era per essi il non conoscere la via della giustizia, che, conosciutala, rivolgersi indietro dal comandamento santo che ad essi è stato dato » (2a PETR., 2, 21) . A loro volta gli ebrei, benché in confronto degli eretici professino un maggior numero d’errori contro la fede, tuttavia sono meno colpevoli degli eretici;… perché gli ebrei respingono la fede cristiana ch’essi ricevettero soltanto in figura, gli eretici la respingono dopo averla ricevuta in tutta la manifestazione della realtà;… gli ebrei non ricevettero mai la fede dell’Evangelo, gli eretici l’hanno ricevuta e la respingono guastandola… [Tanto è ancor certo per i modernisti del “Novus Ordo”, per i fallibilisti gallicani lefebvriani, i tesisti materialiter, tutte le sette sedevacantiste attuali (tutti quelli che si dicono cattolici, ma … non lo sono) – ndr.-]
2. UNA GRAVE QUESTIONE si fa intorno a quegl’infedeli che nacquero e furono allevati senza lor colpa nell’infedeltà. – Se costoro, sapendo di poter istruirsi nella fede di Gesù Cristo, trascurano di farlo, sono colpevoli d’infedeltà e non possono sperare di salvarsi. Se invece non hanno alcuna possibilità d’istruirsi nella fede, ma profitteranno di quelle grazie medicinali che Dio lor concede per osservar la legge naturale, e così non opporranno l’ostacolo del peccato, otterranno da Dio la grazia della fede o con mezzi ordinari, o anche, in mancanza di questi, con mezzi straordinari che Dio solo conosce: quel Dio che ci vuol tutti salvi e che a ciascuno dà la grazia necessaria e sufficiente per salvarsi… Ma se non osserveranno la legge naturale, «si danneranno non già per causa del peccato d’infedeltà da loro non commesso, ma per causa degli altri peccati, che non si possono rimettere senza la fede » (S. Th., ib., a. 1)
3. LE RELAZIONI NOSTRE CON GL’INFEDELI s’hanno a fondare su quel principio: che dobbiamo salvare anzitutto l’anima nostra e poi quella degli altri, perciò, evitare per noi ogni pericolo di perversione o di perdita della fede,… e procurare nello stesso tempo la conversione degli infedeli. A evitare ogni pericolo di perversione e di perdita della fede, asteniamoci
assolutamente da ogni partecipazione ai riti religiosi degli eretici,… asteniamoci da ogni disputa con loro circa la fede… Limitiamo al puro necessario le nostre relazioni con loro… trattiamoli caritatevolmente, ma senza soverchia familiarità… Non leggiamo i loro libri… non frequentiamo le loro adunanze [Attenti soprattutto ad evitare qualsiasi contaminazione con il “Novus Ordo”, da evitare come peste velenosa mortalissima –ndr. -]. – A procurare la conversione degl’infedeli, aiutiamo l’opera dei missionari cattolici, con l’obolo della nostra carità e con la preghiera… concorriamo secondo le nostre forze alla redenzione delle anime, pensando qual immenso beneficio sia la fede e in qual pericolo d’eterna dannazione si trovino quei che vivono nelle tenebre e nell’ombra della morte…
— Quanto agl’infedeli che vivono vicino a noi, badiamo anzitutto a non renderli più ostinati nel loro errore, per causa del nostro modo di vivere non sempre conforme all’Evangelo… « Gl’infedeli disprezzano la fede, quando vengono a scoprire le mancanze dei fedeli » (S. TH., ib., a. 10);… addossano alla fede ciò che è colpa nostra,… non si curano dei nostri santi, tengono conto solamente dei cattivi, e mettendoci tutti in un fascio conchiudono che nella loro setta c’è più virtù che nella nostra… La predica più efficace per la conversione delle anime sia quella del buon esempio: « Risplenda la vostra luce innanzi agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone, e glorifichino il vostro Padre ch’è nei cieli » (MATTH., V, 16);… «in tutte le cose fa vedere te stesso modello del ben fare, nella dottrina, nella purità, nei costumi, nella gravità: il discorrere sano, irreprensibile, talmente che chi ci sta di contro abbia rossore, non avendo nulla da dir male di noi» (Tit., 2, 7, 8)…..

LO SCUDO DELLA FEDE (XII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

PRATICA DELLA RELIGIONE.

Dovere della, religione. — Non basta essere galantuomini. — La vera onestà. — Il culto esterno. — La religione è buona solo per il popolo, per le donne e pei bambini?

— È proprio indispensabile il praticare la religione?

Indispensabilissimo. La religione è un dovere assoluto che l’uomo ha verso di Dio quale primo principio di tutte le cose. Poiché Dio esiste, e ha dato l’esistenza a noi, e noi, sue creature ragionevoli, siamo in dovere di onorarlo con quel culto, che Egli si merita.

— Ma che cosa può importare a Dio che noi l’onoriamo o no?

Gli importa moltissimo. Essendo Egli infinitamente giusto, deve volere come tale ciò che è conforme alla ragione e all’ordine, e l’ordine e la ragione esigono che l’uomo, creatura ragionevole, onori il suo Creatore con la pratica degli omaggi della Religione.

— Ma Iddio non è forse infinitamente beato in se stesso? Dunque che bisogno ha egli dei nostri omaggi!

Certamente Dio si trova in una beatitudine perfetta, ed Egli non ha bisogno alcuno della nostra Religione. Tutti quanti gli omaggi, non solo degli Angeli e degli uomini esistiti, esistenti, e che esisteranno, ma di miliardi e miliardi di altri Angeli e di altri uomini, che Dio potrebbe far esistere, non accrescerebbero di un etto solo la beatitudine interiore, che Dio gode da tutta l’eternità, perché Egli è l’Essere pienamente perfetto, in cui non v’è, a nostro modo di dire, un atomo solo né da togliere né da aggiungere. Ma siamo noi che abbiamo bisogno di Dio; noi, che abbisogniamo di essere da Lui conservati, benedetti, protetti, difesi, perdonati, aiutati. E pretenderemmo noi che Egli ci usasse tutti questi riguardi senza che noi ci curassimo di Lui, senza che lo onorassimo e gli rendessimo gli omaggi della religione?

— Pure ho inteso dire le tante volte che basta essere galantuomini, gente onesta, e che ciò costituisce la miglior religione del mondo.

Ed è questo propriamente uno dei più grossi strafalcioni che si dicano. E primieramente, che s’intende dai più per galantuomo? per gente onesta? Credilo? amico mio, qui ci troviamo di fronte a termini di significato molto elastico nella realtà dei fatti. Ed invero anche i libertini, gli scialacquatori, i truffatori, gli usurai, gli avari, i poltroni, ed altra simile genia, tutti si vantano di essere galantuomini, tutti pretendono di essere gente onesta. Forse ci saranno appena i galeotti, che non avranno tale pretesa. E dico forse, perché non ci sarebbe poi troppo da meravigliare, se vi fossero dei galeotti che dicessero : « I ladri e gli assassini sono i carabinieri che ci hanno arrestati, e i giudici che ci hanno condannati, ma noi siamo galantuomini ». Lo sai bene il fatto di quel re, che visitando le prigioni, s’intese a dire da tutti i carcerati, che tutti erano innocenti? Ci fu un solo che si confessò colpevole, sicché il re, voltosi a lui disse: Or se è così, tu stai male fra tutti questi innocenti: esci fuori di qui; e diede ordine che fosse rimesso in libertà. Pare dunque a te che sia questa l’onestà, questo il galantomismo da sostituire alla religione?

— Ma no. Per galantuomo si intende chi compie i suoi doveri, fa il bene ed evita il male.

E allora se un uomo riesce ad essere tale senza l’aiuto della Religione è l’ottava meraviglia del mondo. Anche quelli, che praticano la Religione, trovano difficoltà ad essere buoni ed onesti, tanto sono terribili gli assalti del demonio, del mondo e delle nostre passioni, e vuoi che un uomo riesca di per sé, senza l’aiuto della Religione a vincerli sempre?

— Ma quando un uomo sia ben compenetrato dall’idea del dovere, e da quella dell’onore, quando un uomo si imponga di non la sciarsi guidare che dalla sua ragione, perché non potrà riuscire ad essere un vero galantuomo?

L’idea del dovere, caro mio, si fonda sopra la Religione. Togli il pensiero di Dio, nostro padrone, di Dio che vede anche i nostri più reconditi pensieri, che premia i buoni e castiga i cattivi, e l’idea del dovere svanisce, e questa parola dovere diventa una parola vuota, o talmente vaga da non avere la forza di indurti a compiere il bene ed evitare il male. – In quanto all’idea dell’onore, devi comprendere che molto facilmente si può apparire nel mondo come uomini d’onore anche allora che si commettono dei gravissimi delitti. Tutto sta nel farla franca, nel coprire con destrezza e fina ipocrisia il male che si fa. E in quanto poi all’impero della ragione, devi pure ammettere che è un impero assai poco efficace, perciocché quante volte la passione piglia alla ragione il sopravvento! No, no, mantenersi buoni, onesti, galantuomini senza l’aiuto della Religione è impossibile. Chi pensasse di riuscirvi, e peggio ancora di esserlo, o è un povero illuso, o è un solenne bugiardo, che mentisce contro la voce della sua coscienza.

— Eppure, a me pare che si diano nel mondo uomini, che anche senza la Religione, abbiano un’onestà naturale a tutta prova.

Ebbene dato pure che vi siano gli uomini che tu dici, non perciò meritano di essere chiamati onesti. Ti reco qua in proposito una bella pagina del Bougaud: « L’uomo onesto onora il proprio padre e la propria madre. E Dio non ci tien luogo di padre e di madre? – L’uomo onesto è riconoscente dei beni, che ha ricevuti. E Dio non glie ne ha elargiti a piene mani? – L’uomo onesto obbedisce alle leggi del proprio paese, anche alle più onerose. E Dio non gli ha data alcuna legge da osservare? – L’uomo onesto è fedele alla propria parola. Non l’ha mai impegnata con Dio? Non si è mai legato con Lui con alcuna promessa? – L’uomo onesto rende a ciascuno ciò che gli si deve. E a Dio non è dovuta l’adorazione, la preghiera, l’azione di grazia, il culto, essendo Egli il nostro sovrano, il nostro benefattore, il nostro tutto? Dunque non corriamo dietro a chimere. Finché non si prega, non si adora, non si rende a Dio l’omaggio della Religione, diciamo pure che non si è uomo onesto nel vero senso della parola ».

— Questa pagina è d’una chiarezza ed evidenza incantevole. Sì, lo ammetto il praticare la Religione è un dovere assoluto.

E tanto più che Dio lo comanda. È sì, o no, in diritto Iddio di imporci dei precetti? Chi mai lo potrebbe negare? Or bene fra gli altri, anzi in capo agli altri, ci ha imposto anche questo in quelle parole: Io sono il Signore Iddio tuo: vale a dire: « Uomo, riconoscimi per quello che sono e rendimi l’onore, il culto, che mi è dovuto ».

— Benissimo. Ma in confidenza, coloro i quali praticano la Religione non sono alla fin fine come tutti gli altri? non commettono anch’essi le loro marachelle?

Ammetto che anche tra gli uomini di Religione ve ne siano di quelli, che non fan bene, perché anch’essi come tutti gli altri uomini hanno di quel d’Adamo. Ma anche in questo caso non avranno sempre costoro un aiuto per reagire contro se stessi? Eppoi se anche costoro, uomini di Religione, fan male, è forse per colpa della Religione, oppure di quel mondo miscredente e irreligioso, tra cui vivono, e di cui subiscono una perniciosa influenza? Del resto considera un po’ bene le cose: confronta un po’ a fondo gli uomini di Religione con quelli che non ne vogliono sapere, e poi vedrai se i primi possono stare alla pari coi secondi nel fare d’ogni erba fascio! Riconoscerai che sì ancor essi, gli uomini religiosi, cadranno in qualche disordine, ma che i delitti più neri, più esecrandi, più orribili sono la privativa pressoché esclusiva di coloro, che non credono e non hanno Religione.

— Non ho difficoltà ad ammettere che la cosa stia così. Ma dacché bisogna proprio praticar la Religione non basta forse praticarla col cuore? Che bisogno c’è di manifestarla esteriormente in pubblico con riti, con preghiere, con cerimonie esteriori?

Che bisogno? Per Iddio nessuno certo, per noi moltissimo. Prima di tutto perché  Dio ce lo comanda; poi perché, anche non ce lo comandasse, dovremmo renderglielo egualmente, essendoché noi siamo anima e corpo, e dobbiamo perciò con l’anima e col corpo manifestare a Dio la nostra sudditanza; e da ultimo perché il culto esteriore serve efficacemente a farci rendere a Dio anche quello interiore.

— Come? questo non lo capisco.

Hai mai provato qualche effetto nel tuo cuore prendendo parte a qualche pubblica manifestazione di fede? I cantici della Chiesa, il suono degli organi, i riti compiuti con solenne maestà dai sacerdoti non ti hanno mai interiormente colpito?

— Oh! sì. Debbo dire la verità. Molte volte mi hanno commosso, ed anche senza che io ci avessi pensato prima, mi sono sentito attratto da una forza per me inesplicabile a stare raccolto, a pregare, e persino a piangere.

Vedi adunque di qual maniera il culto esteriore ci giova per rendere a Dio anche quello interiore. Aggiungi poi che il culto esteriore torna sommamente utile alla società. La sola esperienza del passato è sufficiente a provarlo; la stessa ragione poi ce lo assicura, giacché per mezzo del culto esterno è predicato del continuo e all’individuo e alla società l’esistenza di un Dio sommamente giusto, che premia i buoni e castiga i cattivi, verità questa fondamentale del dovere e dell’ordine; per mezzo del culto esterno è mantenuto più vivo il sentimento dell’universale fratellanza; per mezzo del culto esterno viene esercitata la più forte influenza sopra le arti e sopra la civiltà, per mezzo del culto esterno infine, per tacere di altro, il sentimento della patria si fa grande e gagliardo.

— A dir il vero non aveva mai riflettuto a tutto ciò, e sono contentissimo di averlo appreso. – Nondimeno lo spendere tanti denari come si fa alle volte per certe feste religiose non è troppo? Non sarebbe meglio farne delle elemosine?

Questa osservazione non è tua certamente, ma di coloro che vogliono rivaleggiare con Giuda, il quale vedendo la Maddalena versare unguento sui piedi di Gesù diceva: « Non era meglio venderlo, e il denaro ricavato darlo ai poveri? » Ma per rispondere a questa osservazione potrei domandare a te: E non sarebbe meglio che in occasione di visite reali, imperiali, di feste civili e carnevalesche, anziché spendere tanti denari negli apparati esteriori si facessero delle elemosine? Del resto forsechè non si possa far l’una cosa e l’altra? E alla fin fine a questi apparati esteriori non ci tengono gli stessi poveri, i quali alle volte anche con maggior sacrificio dei ricchi ci concorrono con le loro spontanee oblazioni? E poi quegli apparati esteriori in certe speciali solennità non ci parlano con maggior efficacia della grandezza di nostra Religione e non ci spronano più efficacemente a praticarla?

— Sì, è verissimo. Ma ora vorrei un po’ sapere perché vi sono molti che dicono la Religione essere buona per il popolo, per le donne…

È facile a spiegarsi. In questi motti escono coloro che son dominati dalla superbia, che credono di abbassarsi a praticare quella Religione, che specialmente praticano il popolo e le donne. Ma appunto perciò devi capire come costoro non dicano la verità. La Religione o è vera, o è falsa. Se è vera, e per conseguenza buona, lo è tanto per gli uomini elevati come per il popolo e per le donne, e se è falsa, lo è parimenti per tutti. Certamente la religione è di un conforto e vantaggio inestimabile al povero popolo ed alle donne, che sembrano specialmente destinati a soffrire. Ma qui si tratta non solo di vantaggio e conforto, ma anche, e specialmente, di dovere. Ora l’uomo, e particolarmente l’uomo di classe elevata o per natali, o per censo, o per scienza, o per qualsiasi altra condizione, non si trova ad essere anch’egli suddito di Dio? Del resto se si guarda bene che gli uomini, e specialmente i giovani, corrono più gravi i pericoli, sentono più vive le passioni e sono più proclivi ai cattivi costumi, ben si conosce che la Religione si manifesta anche più indispensabile nell’uomo. No, la Religione non è buona soltanto pel popolo e per le donne, ma è buona per tutti.

— E che devo pensare di coloro che dicono che è vero che un po’ di Religione ci vuole, ma non troppa per non cadere nel fanatismo?

Devi pensare che costoro la sbagliano Il fanatismo, ossia l’immaginazione riscaldata che induce a fare pratiche religiose o che sembrano tali in modo eccessivo, disordinato, inopportuno, è certamente un male, dal quale dobbiamo sperare di essere da Dio liberati. Ma se questo è un male per eccesso, il « po’ di religione », di cui costoro vorrebbero accontentarsi, è un male per difetto. – La Religione non è già una specie di pepe, di cui si debba solo metterne un po’ nelle vivande per farle più saporite, ma è la vivanda, il cibo istesso dell’anima nostra, che perciò deve essere sostanzioso, tale quale ce lo ha preparato Iddio medesimo. Un po’ di Religione anziché la Religione nella sua integrità, è una contraddizione manifesta. È lo stesso che dire che Dio sì, bisogna ma onorarlo, non troppo, ma non sempre, ma non a quel modo che Egli vuole esser onorato.

— Ciò è chiaro. E che dire di quelli che, capi di famiglia, si vantano magari di non praticare essi la Religione, ma asseriscono di volerla per i loro bimbi, perché è utile?

Costoro fanno male per due riguardi. Prima di tutto perché, se sono convinti che la Religione è utile, dovrebbero praticarla anch’essi dandone l’esempio ai propri figliuoli; in secondo luogo perché essi considerano la Religione come uno spediente e non già come un dovere. Essi vanno precisamente d’accordo con quei politici, che riguardando nel prete un alleato del carabiniere, un gendarme in sottana, e nella Religione da lui predicata un aiuto a tenere a freno la società, la vorrebbero unicamente per questo motivo, disposti però a farne a meno, se dalla Religione non ridondasse tale utilità. La Religione, caro mio, si deve volere per noi, per tutti, siccome sacrosanto obbligo, che ci incombe verso di Dio.

I PAPI DELLE CATACOMBE (10)

I Papi delle Catacombe [10]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]


San Ponziano (230-235), successore di Urbano, esiliato dapprima nell’isola di Buccina, una delle più selvagge della costa meridionale della Sardegna, ebbe in seguito la testa tagliata nel primo anno della persecuzione di Massimiano.

San Antero (235-236), eletto in dicembre, fu martirizzato il 3 gennaio seguente, dopo un mese di Pontificato, consacrato a raccogliere gli atti dei martiri, comprovati da notai o scrivani deputati a questo scopo dopo il pontificato di San Clemente. –

Un avvenimento meraviglioso decise l’elezione di San Fabiano (236-250). I confratelli erano riuniti per l’elezione, e si proposero diversi personaggi considerevoli, senza pensare a Fabiano, che era presente, ma che non ancora apparteneva al clero. Tutto ad un tratto una colomba, volando sopra l’assemblea, venne a posarsi sul capo di Fabiano. Si considerò questo fatto straordinario come un’indicazione del cielo, e Fabiano fu acclamato ad una voce. Fu durante questo Pontificato che San Gregorio, soprannominato Taumaturgo, o fautore di miracoli, per i numerosi prodigi che operò, cominciò ad essere conosciuto in tutta la Chiesa. Questo Santo nacque a Cesarea, nel Ponto. I suoi genitori erano pagani; ancora giovane si recò a Cesarea in Palestina, e vi incontrò Origene, al tempo nel pieno fulgore della sua rinomanza. Le lezioni di questo grande maestro lo attrassero talmente, che non volle più lasciarlo. Egli abbracciò il Cristianesimo e fu battezzato. Essendo Origene obbligato a nascondersi a causa della persecuzione, Gregorio si recò ad Alessandria dove un prodigio venne ad attestare la castità dei suoi costumi, che aveva eccitato la gelosia di qualcuno dei suoi compagni di studi. Egli tornò a Cesarea, quando Origene poté ricominciare le sue lezioni, e dopo essersi rafforzato nella fede, tornò nella sua patria. Ci si aspettava di vedere un oratore abile ed un eminente giureconsulto; egli si mostrò ai suoi concittadini come un fervente neofito. Ben presto Fedimo, Vescovo di Amasea, lo giudicò degno dell’episcopato, e lo mise a capo della Chiesa di Neocesarea, che all’epoca non contava che diciassette cristiani. Neocesarea era una città ricca, grande e popolosa, ma i costumi erano corrotti e l’idolatria vi regnava senza ostacoli. La fede di Gregorio si infiammò e gli fece operare dei miracoli. La sua vita, a partire da questo momento, non fu che una serie di prodigi che attestavano alla lettera queste parole del Signore Gesù-Cristo. « La fede trasporta le montagne … voi farete miracoli più grandi dei miei. » Un sacerdote pagano gli disse un giorno: « comandate a questa roccia di andare in quel posto, ed io crederò a Gesù. » Gregorio comandò alla roccia che si spostò fino al punto designato. Le sue prime predicazioni ed i suoi miracoli operarono numerose conversioni a Neocesarea. Il Lycus, fiume che scorre vicino a questa città, straripava spesso devastando le campagne circostanti; il Santo piantò il suo bastone in un punto vietando al fiume di oltrepassarlo. San Gregorio di Nissa scriveva, più di cento anni dopo, che da allora non si erano più avuti straripamenti. Durante un viaggio che il Santo fece, due giudei, che conoscevano la sua carità, fecero ricorso ad uno stratagemma per ingannarlo. Uno dei due si stese a terra fingendosi morto; l’altro si lamentava pregando il Vescovo di dargli qualcosa per sotterrare il compagno. Il santo prese il suo mantello e lo pose sul preteso morto. Quando fu ben distante, l’impostore corse dal compagno dicendogli di alzarsi, ma costui era realmente morto. I miracoli, la saggezza, la carità e lo zelo di Gregorio furono ampiamente ricompensati. Sentendo approssimarsi la sua ultima ora (verso il 270) si informò se ci fossero ancora molti pagani nella sua città episcopale; non se ne trovarono che diciassette. Egli allora alzò le mani al cielo, sospirando del fatto che la vera religione non era la sola della sua diocesi; ma nello stesso tempo ringraziò il Signore che, come quando era arrivato, non si erano trovati che diciassette cristiani, nel lasciarla alla sua morte, non si erano trovati che diciassette infedeli. Il Pontificato di Fabiano fu illustrato dalla pietà e dallo zelo profuso contro l’eresia dal Santo Pontefice. Egli raccomandò il culto dei martiri, fece distribuire in maniera regolare le risorse che la carità dei fedeli metteva tra le sue mani, e morì gloriosamente per Gesù-Cristo nel primo anno della persecuzione di Decio. Qualche storico gli attribuisce la conversione dell’imperatore Filippo. La sede di Roma restò vacante per diciotto mesi, dopodiché fu eletto San Cornelio, che governò la Chiesa solo per quindici mesi (251-252). « È stato necessario, dice S. Cipriano, costringere il nuovo Pontefice per fargli accettare questa dignità. In lui non si vide che la tranquillità, la modestia connaturale a coloro che Dio sceglie come Vescovi. È così che egli giunse al supremo grado del sacerdozio, dopo essere passato attraverso tutti i ministeri della gerarchia, ed essersi mostrato in ciascuno di essi lo strumento della grazia divina. » Tuttavia questa elezione fu contestata, ed è all’epoca che si vide il primo Antipapa: Novaziano, che accusò Cornelio di essere un “libellatico”, cioè di avere comprato la propria vita con il denaro durante la persecuzione. Cinque sacerdoti di Roma seguirono Novaziano. L’antipapa si fece ordinare da tre vescovi italiani, dei quali carpì grossolanamente la buona fede facendoli piombare in uno stato quasi di ebrezza. Allo scisma, Novaziano aggiunse ben presto l’eresia; egli pretendeva che la Chiesa non avesse il potere di assolvere coloro che erano caduti nella persecuzione, qualunque penitenza venisse fissata; egli condannò assolutamente le secondo nozze, e sedusse un gran numero di persone con le sue apparenze di austerità e severità. San Dionigi di Alessandria combatté vigorosamente lo scisma; egli rispose in questi termini alla notifica dell’antipapa: « Se vi si è ordinato vostro malgrado, come pretendete, datene una prova abdicando dal vostro pieno grado, perché bisogna soffrire tutto, piuttosto che dividere la Chiesa di Dio. Il martirio che avreste da sopportare per evitare uno scisma, non sarebbe meno grave dell’altro. » San Cipriano radunò a Cartagine un Concilio di settanta vescovi, che anatemizzarono Novaziano e riconobbero il Papa legittimo. San Cornelio radunò da parte sua a Roma un Concilio si sessanta vescovi: Novaziano fu condannato; i cinque sacerdoti che lo avevano seguito, si sottomisero, come uno dei Vescovi che avevano consacrato Novaziano, e lo scisma finì per risolversi con la riprovazione di tutte le Chiese. San Cornelio fu messo in prigione per ordine dell’imperatore Gallo, che era succeduto a Decio, e fu in seguito esiliato a Civitavecchia, ove la gloriosa morte giunse il 14 settembre 252. Egli meritava, ha detto San Cipriano, la palma dei Confessori, perché aveva sfidato il furore dei tiranni, osando accettare un titolo che in questi tempi era una sentenza di morte. » Si è lodata in lui una purezza veramente verginale, una moderazione ed una fermezza singolare. Gli si attribuisce il decreto che vietava di ammettere alcun fedele a prestare un giuramento o a pronunciare dei voti, prima dei quattordici anni. [L’abbé Darras, Histoire de l’Église,].

San Luce, o Lucio, successore di San Cornelio, e che era stato esiliato con lui, non governò la Chiesa che per cinque mesi (25 settembre-4 marzo 253). La sua elevazione al Pontificato supremo, lo espose alla collera di Gallo, che lo esiliò quasi subito. Egli potette tornare a Roma dove lavorò febbrilmente a distruggere i resti dello scisma; ma catturato nuovamente, fu decapitato.

Santo Stefano I 253-257) ebbe fin dall’inizio a segnalarsi per la sua carità durante una orribile peste che devastò tuto l’impero e che fece a Roma in un solo giorno quasi cinquemila vittime. Egli si dimostrò degno Pastore di questo gregge desolato, ed inviò soccorsi fin nelle città più sperdute dell’impero. Una grave questione venne ad affliggere il suo cuore e minacciò di dividere la Chiesa. Si trattava di decidere se il Battesimo, conferito dagli eretici, fosse valido o meno. La dottrina della Chiesa, fuor di contestazione oggi, è che ogni Battesimo conferito nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito-Santo, è valido, fosse anche amministrato da un eretico o un pagano, ma che invece è nullo, fosse anche conferito da un Cattolico o un sacerdote, se mancano le condizioni che ne costituiscono l’essenza: l’acqua ed il Nome delle tre Persone della Santissima Trinità. La sede di Pietro non ha mai variato su questo punto, ed è la dottrina che sostenne il Papa Stefano. Ma San Cipriano fu di opposto parere; egli sostenne che bisognava battezzare di nuovo gli eretici e gli scismatici che si convertivano, e lo sostenne con tenacia tale che stava per condurre ad uno scisma. Santo Stefano si mostrò pieno di longanimità; contento di aver proclamato la legge, lasciò che il tempo portasse alla riflessione per ricondurre gli uomini che si ostinavano per un eccesso di zelo perché credevano essere quella la verità. San Cipriano espiò ben presto con un glorioso martirio ciò che gli si poteva rimproverare in questa diatriba; Santo Stefano avrebbe poi conquistato la medesima corona  qualche tempo prima di lui. Si è scritto di Santo Stefano che avrebbe contraddetto San Cornelio facendo reintegrare nella loro sede due vescovi di Spagna che Cornelio avrebbe destituito, e che avesse errato nella questione del Battesimo degli eretici. Ciò che è stato già detto, confuta la seconda accusa. Quanto ai Vescovi spagnoli di cui si tratta, è stato dimostrato che Cornelio né il suo successore Lucio, avessero mai avuto a che fare con loro, e che solo Santo Stefano ebbe a riformare un primo giudizio che aveva espresso sulla base di false informazioni. Ma si trattava in ogni caso di una questione disciplinare, che non tocca l’infallibilità della sede di Roma [Vedi in: l’abbé Constant, l’Histoire et l’infaillibilité des Papes.].

San Sisto II (257-258) successe a Santo Stefano; si è già parlato in precedenza del suo martirio e di quello del suo diacono San Lorenzo. Il suo Pontificato fu seguito dalla vacanza di un anno.

San Dioniso, che infine fu eletto, governò la Chiesa per dieci anni, (259-269). La persecuzione di Valeriano e le eresie di Sabellio e Paolo di Samosata turbarono il suo Pontificato. Il Martirologio dice di lui: « Egli si rese celebre per i grandi lavori che intraprese per la difesa della Chiesa, e per le istruzioni salutari che ha lasciato alla posterità. » San Basilio lo chiama un Papa illustre per l’integrità della sua fede e lo splendore delle sue virtù. Questi elogi mostrano che il santo Papa fosse degno dei suoi predecessori.

San Felice I fu eletto all’indomani della morte di San Dioniso. In capo a cinque anni (269-274), conquistò tra i tormenti la corona del martirio, durante la persecuzione di Aureliano.

San Eutichiano governò la Chiesa per quasi nove anni (275-283). I Cristiani godevano allora di grande libertà. Eutichiano si dimostrò pieno di sollecitudine per la conservazione delle reliquie dei martiri, e dichiarò che i fedeli che avevano sposato una donna non battezzata, godevano del diritto di ripudiarla o tenerla, a loro piacere. Qui ancora entra in gioco la disciplina della Chiesa, che non è contraria all’indissolubilità del matrimonio, poiché il Sacramento non può esistere che tra Cristiani.

Il Papa San Caio (283-296) vide ricominciare le persecuzioni. Cosa rimarchevole, egli era della Dalmazia, come l’imperatore Diocleziano, ed anche parente dell’imperatore, e fu dapprima schiavo di un senatore romano. La Provvidenza, dice uno storico della Chiesa (l’abbé Darras), destinava a due membri della stessa famiglia due sovranità ben diverse: l’uno assumeva con l’omicidio una corona che doveva ancora tingere con il sangue di migliaia di Cristiani; l’altro otteneva con le sue virtù una regalità spirituale che tanti dei suoi predecessori avevano pagato con il loro sangue. Era la differenza tre l’impero pagano e l’impero cristiano; essa indica tutto ciò che l’umanità aveva da guadagnare nella sostituzione del secondo al primo. Caio fu all’altezza delle terribili prove che si abbattevano sulla Chiesa: egli fu, dicono gli storici, un Pontefice di rara prudenza e di una virtù coraggiosa. Le sue sofferenze per la fede gli meritarono il titolo di martire.

San Marcellino, che gli successe (296-304), si dimostrò, dice Teodoreto, tanto forte per la persecuzione venuta ai suoi tempi. Non si poteva fare un elogio più bello ad un Papa che vide aprirsi l’era dei martiri. I donatisti, scismatici dell’Africa, osarono tuttavia, più di un secolo dopo, offuscare la memoria di questo coraggioso Pontefice, producendo gli atti supposti di un falso concilio di Sinuessa, che accusavano Marcellino di aver consegnato le Scritture sante ai persecutori e di avere, in un momento di debolezza, offerto incenso agli idoli. I lavori della moderna erudizione, in accordo con le testimonianze contemporanee più autentiche, hanno vendicato il Santo Papa di una calunnia che si appoggiava falsamente su di una leggenda inserita nel breviario romano. Sant’Agostino aveva già risolto la questione, rispondendo a Petiliano, capo e difensore dei donatisti: « Ed ora c’è dunque bisogno di rifiutare le accuse portate da Petiliano contro i Vescovi di Roma, che egli perseguitava con le sue imposture e calunnie con un accanimento incredibile? Egli accusa Marcellino, Melchiade, Marcello, Silvestro di aver consegnato i libri santi e presentato dell’incenso agli idoli;  ma un rimprovero che non è fondato su niente, può dunque da se stesso solo, stabilire la loro colpevolezza? Petiliano assicura che essi sono stati dei sacrileghi, ma io rispondo che essi sono innocenti: perché mettermi in pena di sviluppare mezzi di difesa, quando l’accusa non è sostenuta da alcuna prova? » Dopo il martirio di San Marcellino, la Santa Sede restò vacante per quasi quattro anni (304-308), tanto la persecuzione infuriava con violenza. Infine poté essere eletto San Marcello.

San Marcello. Il nuovo Papa doveva attendersi il martirio. Massenzio, figlio di Massimiano Ercole, essendo divenuto padrone di Roma, lo fece imprigionare, e gli ordinò di rinunciare al titolo di Vescovo e di sacrificare agli idoli. Marcello resistette: fu condannato a servire tra gli schiavi che prestavano cura alle scuderie imperiali. « Stravolto dalle fatiche e dalle umiliazioni di questa miserevole condizione, morì tra i rifiuti e le deiezioni. » È così che una pretesa Storia dei Papi, racconta la fine di San Marcello!  Quel che è vero però, è che dopo nove mesi dall’odioso supplizio che gli si inflisse, Marcello fu liberato nella notte dal suo clero, accolto nella casa ospitale di una dama romana, di nome Lucilla, che lo nascose con estrema cura. La polizia di Massenzio finì per scoprire il suo rifugio, ed il tiranno condannò il Santo Papa all’ultimo supplizio. San Marcello, eletto nel 308, morì nel 310.

San Eusebio,  che gli successe, governò la Chiesa solo per pochi mesi, durante i quali mostrò un grande zelo per la disciplina e la fede. Massenzio, che l’autorità del Sovrano-Pontefice, metteva in grande imbarazzo per la sua tirannia, volle mescolarsi agli affari della Chiesa, come d’altra parte fecero tanti imperatori e re dopo di lui. Eusebio conservò l’indipendenza del potere spirituale, ma fu esiliato in Sicilia, ove morì il 26 settembre del 310. La Santa Sede restò vacante quasi per un anno: i persecutori dovettero credere che avevano soffocato nel sangue questa Religione che perseguitavano così violentemente da sette interi anni. Si sono trovate delle iscrizioni nelle quali Diocleziano ed i suoi colleghi si vantavano di questa vittoria: « Diocleziano Giove, Massimiano Ercole, cesari augusti, dopo aver esteso l’impero romano in Oriente ed Occidente, ed aver abolito il nome di Cristiani che destabilizzavano lo Stato. » Triste trionfo! Diocleziano moriva a Salone, Massimiano Ercole moriva qualche mese dopo San Eusebio, la punizione di Massenzio era in preparazione, e dall’anno seguente, Galero doveva firmare, nel suo letto di dolore, l’editto che rendeva la pace alla maggior parte dell’impero. Questi sono i trionfi che si riportano sulla Chiesa. Lo stesso successore di San Eusebio,  San Melchiade, vide Costantino entrare a Roma; con questo grande imperatore, il Cristianesimo prendeva possesso del mondo.

San Melchiade, era il trentunesimo successore di San Pietro. Quale magnifica serie di santi e di martiri! Hanno tutti brillato per magnificenza di santità, di fede e di dottrina; tutti i Vescovi hanno reso loro omaggio, ed essi hanno dimostrato di condividere la sollecitudine di tutte le Chiese. L’eresia ha trovato in essi i più intrepidi avversari, la disciplina i suoi più decisi sostenitori; essi erano veramente i Vescovi dei Vescovi; era certamente la Chiesa Romana la madre e maestra di tutte le altre; era certamente là la sede di Pietro e queste porte contro le quali l’inferno non può prevalere. I fatti sono là; la storia, seriamente studiata, dissipa tutte le nubi che potrebbero restare negli spiriti: la falsa scienza, la blasfemia ed il sarcasmo non possono nulla contro la travolgente testimonianza di tutti i secoli.

FINE

 

 

I PAPI DELLE CATACOMBE (9)

I Papi delle Catacombe [9]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

V

Successione dei Papi.

I Papi meritavano di essere i generali di queste armate di martiri, di queste legioni di dottori, di santi, di vergini? Quasi tutti coloro che si succedettero sulla cattedra di San Pietro, nei due secoli che vennero ad attraversare la storia, morirono martiri, e tutti furono modello di ogni virtù, tutti si mostrarono intrepidi difensori della fede e della dottrina; nelle difficoltà gli occhi erano voltati a loro, ad essi venivano indirizzati. Tutte le Chiese li riconoscevano come i Vescovi dei Vescovi: il loro primato brilla, da questi primi secoli, di un bagliore sul quale la sola empietà può tentare di ammassare nubi. Non li si vede indubbiamente produrre delle opere così magnifiche come quelle conosciute di diversi dottori; ma essi, quasi continuamente nascosti nelle catacombe, regnano spesso solo qualche anno o qualche mese, sostenendo le fatiche delle persecuzioni, affaticati dalle sollecitudini di una Chiesa tormentata più vivamente di tutte le altre, e dalla sollecitudine di tutte le Chiese del mondo, avrebbero mai potuto avere il tempo di scrivere magnifiche opere come quelle dei dottori che tutti i secoli hanno studiato ed ammirato? L’autorità ha generalmente un’azione meno eclatante, ma non meno utile e spesso più efficace della discussione, e questo lo si vede precisamente nell’oscurità relativa che circonda i primi Papi, una prova in più dell’universalità della loro azione e dell’autorità generale di cui essi godevano. Un rapido colpo d’occhio sulla loro successione fa vedere quale posto importante occupino nella Chiesa. Il Primato di san Pietro nel collegio apostolico non può essere contestato. Avendo Gesù-Cristo promesso alla Chiesa di essere con essa fino alla fine dei secoli, è ai successori di San Pietro che doveva passare questo Primato, con tutti i privilegi del Principe degli Apostoli, il potere supremo delle chiavi, e l’infallibilità che gli permetteva di confermare i suoi fratelli, secondo le stesse parole del Salvatore. Avendo San Pietro occupato successivamente due sedi, quella di Antiochia e quella di Roma, non potevano aversi dubbi che su queste due sedi. Ora non è ad Antiochia che Pietro è morto; il suo successore ad Antiochia, non potendo essere il capo della Chiesa quando S. Pietro viveva, non poteva trasmettere al suo successore se non i suoi privilegi, cioè quelli di un semplice Vescovo. Infatti mai Antiochia ha reclamato il primato; e si è visto sant’Ignazio, scrivendo ai romani, distinguere la loro Chiesa tra tutte le altre. Tutto si riduce dunque nel constatare che San Pietro è morto Vescovo di Roma e, fatto stabilito nel modo più incontestabile, a constatare la successione legittima degli altri Vescovi di Roma. Ora se c’è qualche difficoltà nell’ordine della successione dei due o tre Pontefici e sulla data precisa della loro nomina e della loro morte, queste difficoltà si spiegano perfettamente con lo stato di violenta persecuzione in cui essi si trovavano, e per le differenze di cronologia che esistono anche per i fatti più universalmente ammessi nella storia di tutti i tempi. Così, nel primo secolo, esistono delle difficoltà per i primi tre o quattro primi successori di San Pietro: alcuni dànno i nomi di Lino, Cleto, Clemente e Anacleto, altri non ammettono che tre Pontefici: Lino, Cleto e Clemente. Questo proverebbe solo che ci sono stati recenti dubbi su questa successione, e non certo che ai tempi dei Papi i Cristiani ignorassero in quale ordine questi si fossero succeduti. L’erudizione moderna è venuta poi a risolvere la difficoltà: si riconosce oggi generalmente che Cleto ed Anacleto non formano che un solo Papa. Cleto, eletto come successore a San Lino, l’anno 78, fu compreso in un ordine di esilio contro i Cristiani reso, sotto Vespasiano, dal prefetto di Roma; al suo ritorno, sotto il regno di Tito, egli prese il nome di Anacleto, che in greco significa “richiamato”.

San Lino successe dunque a San Pietro, nell’anno 65 dopo Gesù-Cristo.

San Cleto o Anacleto successe a San Lino nel 76.

San Clemente successe a San Anacleto nel 91.

San Evaristo successe a San Clemente, nell’anno 100.

Il Pontificato di San Evaristo (dal 100 al 109), vide la terza persecuzione, quella di Traiano. Si attribuisce a questo Papa, che fu una delle vittime della persecuzione, l’istituzione dei Cardinali-Preti, poiché fu il primo che divise Roma in titoli o parrocchie, assegnandovi a ciascuna un sacerdote; egli ordinò pure che sette diaconi accompagnassero il Vescovo quando predicava.

Sant’Alessandro I (109-119), morto pure martire, ordinò ai preti di richiamare nella Messa il ricordo della Passione; egli ordinò la mescolanza dell’acqua e del vino nel calice, ed introdusse tra i Cristiani l’avere acqua benedetta nelle loro case. Gli si attribuisce pure l’uso del pane senza lievito per il santo sacrificio. « Così, sottolinea in questa occasione il cardinale Baronio, le pie tradizioni venute dagli Apostoli venivano confermate e ricevevano una sanzione regolare dai loro immediati successori. »

San Sisto I (119-128), che fu martirizzato sotto Adriano, emanò un decreto per riservare ai soli ministri il potere di toccare le cose sante, e completò la liturgia della Messa con il canto del Sanctus. Egli ordinò pure che i Vescovi che erano stati inviati alla Cattedra apostolica, non potessero essere ricevuti nel luogo della loro giurisdizione, se non con lettera della Santa-Sede, indirizzata in forma di saluto al loro popolo. La gerarchia si costituiva dunque nell’unità di governo, nell’autorità dei successori di San Pietro, e nessuno vi resisteva perché si riconosceva che il Vescovo di Roma non faceva che uso di un legittimo diritto.

San Telesforo, che governò la Chiesa dal 128 al 139, confermò l’istituzione apostolica della quaresima, ordinando un digiuno di sette settimane prima di Pasqua, mantenendo così l’uso di non celebrar Messa prima dell’ora terza (le nove del mattino), eccetto per la Messa di mezzanotte di Natale, ed introdusse nella liturgia il canto del Gloria in excelsis. Un glorioso martirio pose fine alla sua vita come a quella dei suoi predecessori.

San Igino (139-142), era nato ad Atene, e si era convertito dalla filosofia pagana alla fede. Egli scomunicò l’eresiarca Cerdone, che era venuto a predicare i suoi errori a Roma; tentò di ricondurre all’ovile con la dolcezza un altro eresiarca, Valentino; ma costui continuò a propagare le sue dottrine gnostiche, ed il successore di Igino dovette allontanarlo dalla comunione con la Chiesa. Igino morì martire, gli si attribuisce il costume di prendere un padrino ed una madrina per il Battesimo dei bambini.

San Pio I (142-157) morì martire. Uno dei suoi decreti mostra che il Battesimo dato dagli eretici è stato in ogni tempo considerato valido, quando le condizioni richieste per la somministrazione di questo Sacramento, fossero state adempiute.

Sotto il pontificato di Sant’Aniceto (157-158), cominciò ad agitarsi una questione che preoccupò per lungo tempo la Chiesa: quella della celebrazione della Pasqua. Siccome si era trasferita la celebrazione del sabato alla domenica, San Pietro aveva trasferito ugualmente in questo giorno la celebrazione della festa di Pasqua, ma non ne aveva fatto un obbligo, ed i Pontefici romani tollerarono in Oriente la celebrazione del sabato. Ben presto si ebbero delle discussioni tra i Cristiani sul soggetto di questa differenza. San Policarpo venne a Roma per conferire con Sant’Aniceto: il venerabile discepolo di San Giovanni aveva lavorato con successo a sradicare diversi usi introdotti nella Chiesa dai giudei convertiti; egli non credeva di dover sradicare questo uso, al quale egli stesso teneva perché lo aveva sempre visto seguito dall’Apostolo suo maestro. Aniceto pensò che non fosse ancora venuto il momento di cambiare su questo punto la disciplina della Chiesa orientale; egli permise anche agli asiatici che si trovavano a Roma di seguire l’usanza dei loro paesi. Policarpo fu trattato con grandi onori;  Aniceto gli fece celebrare i santi misteri in sua presenza; molti eretici si convertirono alla predicazione del Vescovi di Smirne, e l’insolenza di Marcione fu confusa da queste parole, che sono state già riportate: « Io ti conoscono come il figlio primogenito di satana. » I due santi Pontefici si diedero il bacio di pace prima di separarsi; essi non dovevano più rivedersi che nel cielo, ove il martirio li condusse entrambi. Il viaggio di San Policarpo a Roma è una preziosa testimonianza del primato della Cattedra apostolica e romana. Sant’Aniceto proibì ai chierici di lasciarsi crescere i capelli, secondo il precetto dell’Apostolo, ciò che si deve senza dubbio intendere della tonsura.

San Sotero gli successe (168-177); egli ebbe a sostenere la persecuzione di Marco Aurelio: i gloriosi martîri di Santa Felicita, di San Policarpo, dell’apologista San Giustino e di migliaia altri, precedettero il suo. Egli mostrò un grande zelo contro l’eresia, principalmente contro quella dei montanisti che allora si moltiplicavano, ed una grande carità per le chiese che soffrivano della persecuzione. Una lettera di San Dionigi di Corinto richiama l’antica e toccante carità di questi Pontefici romani, la cui sollecitudine paterna si estendeva ai bisogni di tutte le chiese dell’universo, e sovveniva all’indigenza ed alle necessità dei fedeli esiliati per la fede, o condannati dai persecutori alle cave ed alle miniere: « il vostro beato Vescovo Sotero, diceva San Dionigi ai romani, non soltanto ha conservato questo costume, ma ha fatto ancor più, distribuendo delle elemosine più abbondanti agli indigenti delle provincie, accogliendo con affettuosa carità i fratelli che si recano a Roma, prodigando loro le consolazioni della fede, con la tenerezza di un padre che riceve dei figli nelle proprie braccia. »

Il Pontificato di San Eleuterio (177-186) è celebre per il martirio di San Potino, di Santa Blandina, si San Sinforiano e altri migliaia in Gallia. La persecuzione non impediva che la fede si estendesse. Mentre essa infuriava, un piccolo re della Bretagna (Inghilterra), chiamato Lucio, inviò al Papa Eleuterio una lettera in cui lo pregava di procurargli la conoscenza della Religione cristiana. Eleuterio inviò in Bretagna dei sacerdoti che battezzarono Lucio con un grande numero dei suoi sottoposti. La luce della fede era penetrata nelle isole britanniche fin dal primo secolo; una tradizione vuole  che San Paolo sia stato a predicare il Vangelo fino a queste isole lontane; la conversione di Lucio rianimò la fede e ne estese l’impero. Era senza dubbio un re tributario dei Romani, forse anche di origine romana; checché ne sia, si può considerarlo come il primo re cristiano dell’Europa. Qualche storico moderno, fondandosi su dei testi non compresi degli antichi Padri, ha accusato San Eleuterio di avere ad un certo punto tollerato e condivisa l’eresia dei montanisti. [tra gli altri, M. Amédée Thierry, nella sua Histoire de la Gauli sous l’administration romaine.]. Alcuni di questi testi, come ha dimostrato il sapiente abbate Gorini, [Défense de l’Église contre les erreurs historiques.], non prova ciò che si sostiene; ce n’è uno di Tertulliano che si cita, che non prova niente, mentre ce n’è un altro che prova il contrario. Tertulliano dice: « Prassea denunciava i montanisti e le loro assemblee e, per farli condannare, si appoggiava sull’autorità dei predecessori del Papa a cui parlava. » Ora questo Papa, a cui parlava Prassea, era San Vittore, i cui predecessori sono San Sotero e san Eleuterio »; questi ultimi non si erano però mai mostrati favorevoli a Montano. San Ireneo, del quale si invoca l’autorità contro Eleuterio, dice, dopo aver dato la lista dei Pontefici che si sono succeduti sulla sede di Roma, da San Pietro fino ad S. Eleuterio, dice inclusivamente: «  È da essi che la tradizione e la predicazione apostolica è stata conservata nella Chiesa, ed è arrivata fino a ni. È di tutta evidenza che la fede vivificante di questi Vescovi è la medesima di quella degli Apostoli conservata e trasmessa in tutta purezza fino a questo momento ». [S. Ireneo: Contra Hæres.]. –  Una terza testimonianza si legge nel libro dei Pontefici [L’abbé Constant, l’Histoire et l’infaillibilité des Papes.]: « San Eleuterio, vi si dice, rinnovò e confermò con decreto la proibizione, fatta ai Cristiani, di respingere, adducendo motivi superstiziosi, alcun genere di nutrimento di cui gli uomini hanno costume di servirsi. » Questa privazione di certi alimenti era evidentemente una pratica della nuova setta. A San Eleuterio, morto martire per questa fede che lo si accusa falsamente di aver abbandonato, successe San Vittore I (186-200), sotto il cui Pontificato cominciò la persecuzione di Settimo Severo. La questione della Pasqua si ripropose: gli orientali celebravano sempre questa festa il quattordicesimo giorno della luna, come i Giudei; gli Occidentali la rinviavano alla Domenica seguente. I Papi avevano tollerato questa divergenza disciplinare, ma gli orientali, e soprattutto il metropolita di Efeso e le Chiese che erano sotto la sua dipendenza, se ne prevalsero per dire che la Chiesa latina aveva torto, e portarono una tal vivacità nei loro attacchi, che divenne urgente adottare una decisione definitiva. Il Papa decise che l’uso della Chiesa romana dovesse essere seguito dappertutto. Un Concilio dei Vescovi italiani, riuniti a Roma, era di questo avviso. I concili provinciali, riuniti in Oriente, accettarono la decisione venuta da Roma; solo il Concilio di Efeso rifiutò di accettarle: Vittore minacciò di scomunicare gli Asiatici che vi resistessero. Sant’Ireneo intervenne per consigliare misure di conciliazione; il Papa giudicò che si potesse attendere ancora qualche tempo prima di imporre la sua decisione e la diatriba si quietò. Quasi tutte le Chiese d’Oriente adottarono l’uso di Roma, che alcuni del resto già seguivano; gli altri si videro sempre più isolati nel loro sentimento, ed il Concilio di Nicea poté chiudere interamente questo affare che aveva fatto brillare l’autorità della Sede di Roma. A coloro che continuarono nella pratica dei Giudei, si diede il nome di Quartodecimani, o uomini del quattordicesimo giorno. Alcuni autori moderni hanno accusato San Vittore di durezza e di ira eccessiva in questa questione della Pasqua; lo studio serio dei fatti però ridimensiona questa accusa, come quella di montanismo che pure si è intentata nei suoi riguardi, appoggiandosi senza ragione su di un testo di Tertulliano già caduto in questa eresia. [Si veda in: l’abbé Constant, l’Histoire et l’infaillibilité des Papes.]. San Vittore aveva, in effetti, inviato in un primo tempo delle lettere di comunione a Montano, Ma questo avvenne su di un esposto che non mostrava alcun errore nella dottrina dell’eresiarca; quando il Papa si informò meglio circa questa dottrina, revocò le sue lettere. San Vittore confessò la fede nei tormenti; egli ha ricevuto il titolo di martire, ma si ignorano i particolari della sua morte. Egli emise un decreto con il quale dichiarava che l’acqua comune della fontana, di stagno, di fiume o di mare, potesse servire, in caso di necessità, per l’amministrazione del Battesimo. Questo decreto mostra che fino ad allora ci si serviva di acqua benedetta per amministrare questo Sacramento. San Zefirino (200-217), successore di San Vittore, ebbe a sopportare tutto il peso della persecuzione di Settimo Severo; ebbe il dolore di vedere la caduta di Tertulliano; vide elevarsi, al posto del dottore caduto, il sapiente Origene, la cui dottrina non fu sempre irreprensibile, ma i cui immensi lavori hanno reso onore alla Chiesa. Origene aveva per padre San Leonida, che morì martire. San Zefirino mostrò un grande zelo contro le eresie che andavano allora moltiplicandosi, ed ebbe la gloria di soffrire per la fede; ma non si sa se egli morisse tra i tormenti; qualche storico nota che fosse il primo Papa che non terminasse la sua vita da martire. Gli si deve qualche decreto importante, come quello che ordina di consacrare d’ora innanzi, il prezioso Sangue di Gesù-Cristo in coppe di vetro o di cristallo, e non in vasi di legno. San Callisto, o Callisto I (217-222), morì martire sotto Eliogabalo dopo aver fatto ingrandire considerevolmente il cimitero che porta il suo nome. Regolò l’istituzione del digiuno delle quatempora. La scoperta fatta, in questi ultimi tempi, di un libro intitolato “Philosophumena”, attribuito falsamente a San Ippolito, vescovo di Porto, e che è l’opera di un eretico del terzo secolo, ha fatto nascere delle gravi controversie sull’ortodossia e sulle legittimità di questo Papa, indegnamente calunniato dallo scrittore sconosciuto. Ecco come questo scrittore racconta la storia di Callisto: « Callisto era schiavo di un cristiano di nome Carpoforo, che faceva parte della casa dell’imperatore. Poiché professava la medesima fede del suo padrone, questi gli affidò una somma considerevole per fargli fare delle operazioni di banca. Callisto stabilì il suo “banco” in un luogo che si chiamava la “piscina publica”, e in qualità di incaricato degli affari di Carpoforo, ricevette da un certo numero di vedove e di fedeli, dei depositi importanti. Egli perse tutto e cadde nel più grande imbarazzo. Si ebbero delle persone che avvertirono il padrone dei disordini nei suoi affari, e Carpoforo annunciò l’intenzione di chiederne conto. A questa nuova, Callisto tentò di nuocere chi lo minacciava, e prese la fuga verso il mare. Trovò ad Ostia un vascello pronto a partire e vi si imbarcò; ma quanto avvenuto venne risaputo da Carpoforo che, sulla base delle indicazioni ricevute, si diresse verso il porto e si dispose a salire su di un naviglio che stazionava in mezzo alla rada. La lentezza del pilota fece sì che Callisto, che era nel bastimento, scorgesse da lontano il suo padrone; vedendo che stava per essere preso, e non badando alla sua vita in questa triste estremità, si gettò in mare; ma i marinai, gettandosi a loro volta dalla barca, lo salvarono, malgrado lui e, tra i clamori che spingevano coloro che erano sulla riva, lo consegnarono al suo padrone, che lo riportò e lo mise a girare la macina. Dopo qualche tempo, come di solito succede, alcuni Cristiani vennero a trovare Carpoforo per pregarlo di perdonare al suo schiavo, assicurando che dichiarava di aver affidato a certe persone una somma considerevole. Carpoforo, che era un uomo pio, rispose che egli faceva poco caso a ciò che gli apparteneva, ma attribuiva importanza ai depositi, perché molte persone venivano a lamentarsi da lui lamentandosi del fatto che si erano affidati a Callisto sulla sua raccomandazione. [Il sapiente abbate Doellinger, in Germania, e Mgr. Cruice, vescovo di Marsiglia, hanno fatto giustizia di tutte le calunnie lanciate dall’autore delle Philosophumena contro San Callisto. – L’Histoire della Chiesa di Roma, dall’anno 192 all’anno 224, di Mgr. Cruice, allora direttore della scuola ecclesiastica degli studi superiori. Parigi, 1856]. Tuttavia Carpoforo si lasciò persuadere ed ordinò di liberare lo schiavo; ma costui che non aveva nulla da rendere, e che si trovava nell’impossibilità di fuggire di nuovo, perché sorvegliato, immaginò un mezzo per esporsi alla morte. Un sabato, fingendo di andare a trovare dei creditori, si recò alla sinagoga, ove i Giudei erano radunati, e cercò di eccitare una turba durante la loro riunione. Essendosi i Giudei sollevati contro di lui, lo insultarono e lo caricarono di colpi; poi lo trascinarono davanti a Fusciano, prefetto della città, e deposero contro di lui in questi termini: “i Romani ci hanno permesso di esercitare pubblicamente il culto dei nostri padri, ed ecco, quest’uomo viene ad impedirlo e disturba le nostre cerimonie, dicendo che egli è Cristiano”.  Fusciano si indignò della condotta che i giudei rimproveravano a Callisto, e riferì a Carpoforo ciò che succedeva. Costui si affrettò ad andare dal prefetto e gli disse: “vi prego, signor Fusciano, non crediate che questo uomo sia Cristiano, perché egli cerca un’occasione per morire avendo dissipato grosse somme di denaro, come vi proverò”. I giudei credendo di vedere in ciò un sotterfugio usato da Carpoforo per liberare il suo servo, e ne reclamarono immediatamente le sentenza dal pretore. Egli cedette alle loro sollecitazioni, fece frustare Callisto e l’inviò alle miniere in Sardegna. Qualche tempo dopo, siccome altri martiri erano esiliato in quest’isola, la concubina di Commodo, Marcia, che aveva qualche sentimento religioso, volle fare una buona azione; fece venire il beato Vittore, Vescovo della Chiesa in questa epoca, e gli domandò chi fossero i martiri di Sardegna. Vittore le diede i nomi di tutti, eccetto quello di Callisto, di cui conosceva la condotta colpevole. Marcia, che godeva di grande favore presso Commodo, ne ottenne le lettere di liberazione che affidò ad un vecchio eunuco chiamato Giacinto. Costui si recò in Sardegna, ed avendo portato l’ordine al governatore di questo paese, liberò i martiri ad eccezione di Callisto. Ma Callisto, gettandosi alle ginocchia e versando lacrime, lo pregò di non escluderlo. Giacinto si lasciò commuovere e consentì a chiedere al governatore la libertà del prigioniero, dicendo che aveva egli stesso allevato Marcia, che si assumeva la responsabilità della decisione favorevole che sollecitava. Il governatore, cedendo a questa preghiera, liberò Callisto con gli altri. Essendo questi tornato a Roma, Vittore fu vivamente afflitto da ciò che era successo; ma poiché aveva buon cuore, mantenne il silenzio. Tuttavia, per evitare i rimproveri di un gran numero di persone (perché i crimini di Callisto erano recenti, e per soddisfare Carpoforo, che non cessava dal reclamare), ordinò a Callisto di ritirarsi ad Antium [Anzio] assegnandogli una pensione per il suo sostentamento. Dopo la morte di Vittore, Zefirino, suo successore, avendo scelto Callisto come amministratore degli affari ecclesiastici, gli fece un onore che divenne funesto a se stesso; lo richiamò da Antium e gli conferì la sorveglianza dei cimiteri dei Cristiani. Callisto, trovandosi sempre con Zefirino, gli rendeva delle cure ipocrite, giungendo ad affossarlo completamente. Il Vescovo divenne incapace di discernere ciò che si diceva e di sorprendere il disegno segreto di Callisto, che si accomodava a tutto ciò che facesse piacere al suo protettore. Dopo la morte di Zefirino, Callisto, credendo di essere pervenuto allo scopo che si era prefisso da tempo, cacciò Sabellio come eretico. » – Questa recita, disseminata da inverosimiglianze e contraddizioni, è come il modello di tutti coloro che si sono dati da fare per calunniare altri Papi. Non è difficile infatti dare giustificazioni a Callisto. Innanzitutto nulla prova che Callisto abbia commesso delle frodi: da ciò che si vede, egli fece delle speculazioni maldestre, che si lasciò ingannare, che mancò di abilità; ma quando si vedono i Cristiani intercedere per lui presso Carpoforo che lo aveva condannato a girar la mola, non si può essere impediti dal pensare che Callisto non demeritasse la stima dei suoi confratelli. Carpoforo stesso non mostra egli stesso la stima e l’affetto che ha conservato per Callisto tentando di sottrarlo alla sentenza provocata dai giudei? Quanto al dolore che provò il Papa San Vittore al suo ritorno, il calunniatore ha cura di dire che il Pontefice non testimoniò nulla; aggiungendo poi che San Vittore gli assegnò una pensione per farlo vivere ad Antium, egli dimostra che il Papa non lo considerasse con tanta pena e gli affidasse poi un impiego importante. Infine quest’uomo che si pretende essere così disprezzato e spregevole, diventa sacerdote, cosa che prova, essendo egli schiavo, che Carpoforo lo stimasse sempre e lo considerasse veramente come un martire che aveva sofferto per la fede. La fiducia che gli assegnò poi San Zefirino nel corso di un Pontificato di diciannove anni, ci completa la giustifica che rende sovrabbondante l’ultimo tratto della recita: San Callisto scaccia da Roma l’eretico Sabellius; il suo odio per l’eresia, le misure che aveva indubbiamente suggerito a San Zefirino contro gli eretici: ecco la spiegazione delle calunnie che lo perseguitano. L’autore dei “Philosophumena” fa tre rimproveri principali a San Callisto dopo l’elevazione all’Episcopato: secondo lui il Papa errava sul dogma della Trinità, nella disciplina relativa alla penitenza, e nella disciplina relativa al matrimonio ed al celibato imposto agli ecclesiastici. Sul primo punto c’è la testimonianza anche dall’autore dei Philosophumena stessi, che la dottrina di Callisto era perfettamente ortodossa, e quando dice che la parte di Callisto, componente la maggioranza, conservò anche dopo la morte la sua dottrina, egli confessa implicitamente che la fede del Papa era quella di tutta la Chiesa. I rimproveri relativi alla disciplina della penitenza provano semplicemente che Callisto mostra grade dolcezza nei riguardi dei settari che tornano alla Chiesa Cattolica, e che rendendo facile il ritorno degli apostati pentiti, agisse con una carità ed una saggezza che trovano imitatori tra i suoi più illustri successori. San Callisto pretendeva di rendere la legislazione ecclesiastica relativa al matrimonio affatto indipendente dalla legislazione romana. Egli dichiarava validi, contrariamente alla legge romana, i matrimoni contratti dalle giovani libere o nobili con gli schiavi o con gli uomini liberi, ma poveri. Così la Chiesa migliorava sempre più la condizione della schiavitù, ed elevava la dignità dell’uomo; non è certo ai nostri giorni che si possono rimproverare al santi Papa le misure adottate a questo riguardo. – Quanto alla legge del celibato ecclesiastico, l’autore del “Philosophumena” dice solamente che S. Callisto aveva ammesso nel clero degli uomini sposati; ma non fa intendere se non che fossero membri del basso clero, che allora erano molto numerosi. – Così nessuna delle calunnie lanciate contro Callisto sussiste, anzi molte tornano a sua gloria, ed il libro, recentemente ripubblicato, serve come tanti altri, scritti per ben altro scopo, alla glorificazione della Chiesa romana e del Papato. Noi lo constateremo più di una volta nel corso della storia della Chiesa.

Sant’Urbano I (222-230), trascorse quasi tutto il suo Pontificato nelle catacombe; abbiamo già visto come il suo martirio seguì di poco quello di Santa Cecilia. Questo grande Papa si distinse per un grande zelo per la fede, ed operò numerose conversioni tra i pagani. Nello stesso tempo provvide alla dignità ed allo splendore del culto. Rinnovò i vasi dell’altare in argento, e fece fare venticinque patene per le diverse parrocchie della città.

G. FRASSINETTI: CATECHISMO DOGMATICO (IX)

Catechismo dogmatico (IX) 

[Giuseppe Frassinetti, priore di S. Sabina di Genova:

[Ed. Quinta, P. Piccadori, Parma, 1860]

CAP. VII
DEI SACRAMENTI.

§ II

Del Battesimo.

— Come si definisce il Sacramento del Battesimo?

«Un Sacramento della nuova legge Istituito da Cristo per la spirituale rigenerazione dell’Uomo. »

— Che cosa significano queste parole: per la spirituale rigenerazione dell’uomo?

L’uomo è morto alla grazia di Dio per il peccato, mediante il Battesimo rinasce a questa grazia, che è la vita soprannaturale dell’anima. In questa spirituale rigenerazione, entra a fare parte dei fedeli di Cristo, diviene cioè membro della sua Chiesa, e acquista il diritto di essere ammesso agli altri Sacramenti.

— Quale è la materia di questo Sacramento?

L’acqua naturale, sia del pozzo, sia della fontana, sia del mare. Però nel Battesimo solenne, cioè nel Battesimo che si conferisce con le solite cerimonie, si deve adoprare l’acqua santa benedetta nel fonte del Sabato Santo.

— Altro liquido come vino, olio, ecc. non basterebbe per amministrare il Battesimo in caso di necessità?

É di Fede che solo l’acqua vera e naturale sia necessaria per dare validamente il Battesimo (Conc. Trìd. sess. VII c. 2 ), e perciò se si adoprasse qualunque altro liquido il Battesimo sarebbe invalido.

— Se si adoprasse acqua vera e naturale, ma vi si mischiasse altro liquido o materia, sarebbe parimente invalido il Battesimo?

Se si mischiasse in poca quantità, non sarebbe invalido; vediamo infatti che nell’acqua benedetta del fonte del Sabbato Santo si mischia alquanto di Olio e di Crisma, e non solo si può, ma si deve battezzare con quell’acqua, tolto il caso di necessità. Se poi il liquido, o altra materia mischiata con l’acqua, fosse in tale quantità che essa non si potesse dire più acqua, come se ci si mischiasse tanta terra che quell’acqua divenisse fango, in questo caso il Battesimo resterebbe invalido, cioè non avrebbe alcun effetto.

— Quale è la forma del Sacramento del Battesimo.

« Io ti battezzo in nome del Padre, e del Figliuolo, e dello Spirito Santo. »

— Chi cangiasse o tralasciasse di esprimere qualcuna di queste parole, il Battesimo resterebbe invalido?

Se la mutazione non fosse essenziale, e l’omissione nè meno, il Battesimo sarebbe valido, altrimenti non avrebbe più alcun valore. A cagione di esempio se si tralasciasse la parola io, il Battesimo avrebbe il suo valore, se si tralasciasse la parola battezzo non avrebbe più valore alcuno (vedi la prop. condann. da Aless. VIII n. 27).

— Quale attenzione si deve avere nel battezzare?

Di versare l’acqua sopra la testa del fanciullo in quantità che scorra sopra la medesima, e frattanto di proferire le parole della forma con tutta precisione.

— Perché si deve avvertire a versare l’acqua sopra la testa?

Perché versandola sopra altra parte del corpo, quantunque probabilmente il Battesimo sia valido, specialmente se si versasse sopra una parte delle primarie, come sopra il petto e sopra le spalle, non è però certissimo il suo valore come allorché si versa sopra la testa. È per questo che se un fanciullo fosse stato battezzato sopra altra parte del corpo, si dovrebbe ribattezzare sotto condizione, come prescrive il Rituale Romano. Versando l’acqua sopra la testa, si deve anche avere l’avvertenza di non farla scorrere soltanto sopra i capelli quando il battezzando li avesse folti, perché alcuni dubitano che l’acqua, non toccando la pelle, resti il Battesimo senza valore. Questo dubbio ha pochissimo fondamento, ma trattandosi di un Sacramento di tanta necessità, bisogna usare di tutta la sicurezza; perciò in quel caso si dovrebbe avvertire che l’acqua scorresse alquanto sopra la fronte, o le tempia.

— Perché richiedesi che l’acqua si versi in quantità che scorra?

Perché il Battesimo dovendo essere una lavanda, non si potrebbe dir tale qualora l’acqua non scorresse, e certo non si dice che una cosa si lavi se gli si lasciano cader sopra alcune gocce di acqua che si fermano dove cadono.

— É necessario che l’acqua si versi in tre volte sopra il capo del battezzando?

La Chiesa comanda così, e perciò si deve osservare questo rito; per altro il Battesimo sarebbe certamente valido anche versandola in una volta sola.

— Perché si vuole che tutto in un tratto, chi versa l’acqua proferisca insieme la forma?

Perché si deve sempre applicare la forma alla materia in tutti i Sacramenti, e quando vi fosse notabile interruzione tra il profferire la forma e l’applicare la materia, il Sacramento sarebbe invalido.

— Chi è il ministro del Sacramento del Battesimo?

Il ministro ordinario è il Sacerdote, lo straordinario è il Diacono, il quale può essere delegato ad amministrare questo Sacramento con le debite cerimonie, quando vi sia giusta causa. Avvenendo però qualche caso in cui non si possa avere né Sacerdote, né Diacono, qualunque persona, anche un fanciullo, purché abbia l’uso della ragione, e anche un infedele, può amministrare il Battesimo: questo è definito dal concilio IV Lateranese (Antoin. de Rap. c. 3 a. 1).

— Se un Chierico non ancora ordinato Diacono, o pure un laico battezzasse un fanciullo fuori del caso di necessità, tale Battesimo sarebbe valido?

Sarebbe valido certamente; per altro chi si arrogasse di battezzare fuori del caso di necessità peccherebbe gravemente (Antoine ibid.).

— Il Battesimo è necessario per tutti?

Il Battesimo è necessario a tutti perché conseguiscano l’eterna salute, ed è articolo di Fede definito dal Sacrosanto Concilio di Trento (Sess. VII, c. 5), però i Teologi distinguono tre sorta di Battesimo: il Battesimo di sangue, il Battesimo di desiderio e il Battesimo di acqua, il quale solo è propriamente Sacramento; gli altri due fanno le sue veci, ma non sono Sacramenti.

— Che cosa è il Battesimo di sangue?

Il Battesimo di sangue è il martirio. Se un bambino fosse ucciso in odio della fede prima di essere battezzato si salverebbe. Quando però nelle persecuzioni uccidevano i Cristiani adulti, e anche i loro bambini, se alcuno di tali bambini non era ancor battezzato, andava salvo.

— Che cosa è il Battesimo di desiderio?

Il desiderio di ricevere il Battesimo: se un turco trovandosi in punto di morte e non avendo chi volesse battezzarlo, desiderasse il Battesimo, si salverebbe.

— Che cosa si richiede per il martirio?

Nei fanciulli si richiede che siano uccisi in odio di Cristo o della sua Fede, né altro si richiede di più. In tal modo furono veramente martiri i ss. Innocenti fatti uccidere da Erode. – Negli adulti poi si richiede: 1. Che accettino la morte per un motivo onesto e soprannaturale; se uno accettasse il martirio per fine della vanagloria di essere onorato qual martire, la sua morte non avrebbe il merito del martirio; se un altro l’accettasse per levarsi dal condurre una vita angustiata nell’indigenza, né meno egli sarebbe martire. 2. Che non abbiamo volontà di difendersi; perché il morire in guerra per la Fede non è propriamente martirio. 3. In chi fosse reo di peccato mortale, si richiederebbe il pentimento del peccato almeno di attrizione. Si noti poi che il martirio deve essere volontario, essendo un atto della virtù della fortezza; per altro non è necessaria la volontà attuale e nemmeno virtuale d’incontrare la morte per attestare la Fede; basta la volontà abituale. Per esempio, in tempo di persecuzione un Cristiano è già risoluto di piuttosto morire che rinunziare alla Fede, un giorno mentre dorme è sorpreso dal persecutore ed è ucciso: egli è vero martire per la sua disposizione abituale in cui si trova. Si noti di più che il martirio non libera da tutte le altre obbligazioni che può aver l’uomo in punto di morte, se però può aver tempo a soddisfarvi. Se non avesse ancora preso il Battesimo, potendo sarebbe obbligato a prenderlo, se avesse qualche peccato mortale non ancor confessato, sarebbe obbligato a confessarlo, qualora avesse pronto il Sacerdote che lo potesse assolvere (Antoine ut sup. art. 5).

— Chi soffrisse la morte per non offendere un’altra virtù p. es. la castità, sarebbe martire?

Certamente; e le vergini che vollero morire piuttosto che cedere alle lusinghe dei tentatori della loro pudicizia, sono venerate per martiri (Antoine ut sup. art. 4).

— Chi soffre la morte per motivo di carità, servendo agli appestati, si può dire vero martire?

Egli non è martire in tutto il rigore del termine, perché il martirio è un atto della virtù della fortezza in difesa della Fede, o di qualche altra virtù cristiana; nell’esporsi al pericolo di morte servendo agli appestati, v’interviene un atto di fortezza non in difesa, ma soltanto in esercizio della virtù della carità; egli per altro potrebbe avere innanzi a Dio un merito uguale a quello del reale martirio: la Chiesa nel suo martirologio al 28 di febbraio venera come martiri quelli che morirono in servigio degli appestati (« Quos velat martyres religiosa fides venerare consuevit.») – (Antoine ibid.).

— Il martirio supplisce per tutti gli effetti del Battesimo?

Supplisce soltanto per l’infusione della grazia e per la remissione dei peccati, né può supplire per gli altri effetti, dei quali si dirà dopo, e per cui si richiede il Battesimo di acqua, cioè il Sacramento. È però da notare, circa la remissione dei peccati, che nel martirio restano rimessi in quella pienezza che si rimettono nel Battesimo, sicché al martire nulla resta a scontare di pena temporale nell’altra vita, e appena consumato il martirio è ammesso nella beatitudine eterna (Antoin. ibid. art. 4).

— In caso di necessità il semplice desiderio del Battesimo vale per conseguire l’eterna salute?

Il semplice desiderio non vale se non è accompagnato dall’atto di contrizione o di carità; perché i peccati non si rimettono fuori del Sacramento, e fuori del caso del martirio, senza la contrizione dei medesimi, cioè senza che l’uomo li detesti per motivo di perfetto amor di Dio (Antoin. ibid. art. 3).

— È poi certo che si possano battezzare validamente i fanciulli?

É articolo di Fede definito dal Sacrosanto Concilio di Trento (sess. VII, C. 13), e chi dicesse che non sono veri fedeli i fanciulli così battezzati o che si devono ribattezzare arrivati all’uso della ragione, o che è meglio aspettare per battezzarli che arrivino al suddetto uso, sarebbe eretico, e dallo stesso Concilio scomunicato.

— Se arrivati all’uso della ragione fossero malcontenti di essere stati battezzati, si potrebbero obbligare a vivere da Cristiani?

Il Battesimo li costituisce sudditi della Chiesa; si dovrebbero obbligare a vivere da Cristiani, e in nulla si dovrebbe attendere al loro malcontento, come irragionevole, ed ingiustissimo.

— Non sarebbe questo un violentar la coscienza.

Non si può dire che si violenti la coscienza ad alcuno quando si obbliga a fare ciò che è di suo preciso dovere. Se gli uomini costituiti sudditi della Chiesa mediante il Battesimo, potessero ricusare di restarle soggetti arrivati all’uso della ragione, tanto più potrebbero, arrivati a quest’uso, ricusare di sottomettersi all’autorità del legittimo governo di quello stato in cui nascono. Dico tanto più, perché è più sacra ed inviolabile l’autorità che ha la Chiesa sopra i battezzati, di quella che hanno i Sovrani sopra i loro popoli. Infatti non siamo fatti sudditi da alcun Sacramento, e non abbiamo alcun carattere indelebile che in perpetuo ci costituisca tali a riguardo del legittimo Sovrano nel cui stato nasciamo; se mutiamo stato non siamo più sudditi di lui; non vi ha frattanto alcuna parte di mondo in cui andando ci possiamo sottrarre dalla sudditanza della Chiesa dopo di essere stati battezzati (Con questo non si vuol dire che non sia anche sacra ed inviolabile l’autorità che ha il Sovrano sopra i suoi sudditi. È sacra perché i principi hanno la loro autorità da Dio; è inviolabile, perché tolto il caso in cui il principe comandasse il delitto, caso che non formerebbe uso di autorità, ma abuso di prepotenza, non può mai accadere che il suddito abbia il diritto di disubbidire al Sovrano).

— Quali sono gli effetti del Battesimo?

Si assegnano sei effetti del Sacramento del Battesimo:

1) Rimette il peccato originale ed ogni peccato attuale, tanto circa la colpa quanto circa la pena anche temporale dovuta al peccato attuale: cosicché se un adulto subito dopo ricevuto il Battesimo passasse all’altra vita, nulla avrebbe da scontare in Purgatorio; e perciò, se si battezzasse un adulto moribondo, non se gli potrebbe dare alcuna indulgenza.

2. Conferisce la grazia santificante, le virtù infuse e gli altri doni soprannaturali con cui l’uomo resta santificato e rinnovato interiormente.

3. Da un certo diritto ad ottenere le grazie attuali necessarie al conseguimento del suo fine, cioè necessarie all’uomo, affinché possa vivere cristianamente e santamente. Qui consiste la grazia sacramentale di cui si parlò nel § antecedente D. 15.

4. Imprime nell’anima un carattere indelebile per cui non si può ricevere che una volta sola.

5. Ci costituisce membri della Chiesa, e ci sottomette alla sua giurisdizione.

6. Ci dà la capacità e il diritto a ricevere gli altri Sacramenti, e ci fa partecipi dei beni comuni della Chiesa, come sono le Indulgenze, i frutti del Sacrificio della Messa ecc. (Antoine de Bapt. cap. 4, art. 1).

— Gli adulti che ricevono il Battesimo, devono avere il dolore dei peccati?

Del peccato originale non ne devono aver dolore, perchè non ci possiamo pentire se non dei peccati commessi con la propria individua personale malizia. È certo poi che devono essere pentiti dei peccati mortali attuali, almeno con dolore di attrizione, giacché questi non si perdonano mai senza che la persona ne abbia sincero dolore (Antoin. loc. cit. art. 2).

III.

Della Confermazione.

— Come si definisce il Sacramento della Confermazione?

« Un Sacramento della nuova Legge col quale si dà ai battezzati la fortezza dello Spirito Santo perché restino fermi nella Fede e la professino intrepidamente » (Habert).

— Chi è il ministro di questo Sacramento?

É articolo di Fede, dichiarato dal sacrosanto Concilio di Trento (sess. VII, can. 3) che il solo Vescovo è il ministro ordinario di questo Sacramento. Per altro il Sommo Pontefice può delegare anche un semplice Sacerdote a conferire la Confermazione; in tal caso il semplice Sacerdote, ne è ministro straordinario.

— Quale è la materia della Confermazione?

L’imposizione delle mani e l’unzione del Sacro Crisma.

— Quale ne è la forma?

Sono quelle parole « Io ti segno col segno della Croce, ti confermo col Crisma della salute. »

— Chi è il soggetto di questo Sacramento?

Ogni uomo battezzato; e per ciò, sebbene fuori il caso di necessità, secondo l’odierna disciplina non si debba dare se non dopo il settennio, anticamente si dava anche ai bambini immediatamente dopo il Battesimo (Hubert, cap. 2).

— Quali disposizioni si richiedono in quelli che ricevono questo Sacramento?

Quando il Vescovo crede di avere bastanti motivi per conferire questo Sacramento ai fanciulli prima dell’uso di ragione, si richiede soltanto che siano battezzati; conferendosi questo Sacramento agli adulti e ai fanciulli che hanno già l’uso della ragione, si richiede lo stato di grazia, e una conveniente istruzione circa le cose della Fede e la natura e gli effetti di questo Sacramento.

— Questo Sacramento è necessario per conseguire la salute eterna?

Non è necessario assolutamente parlando; e diversamente ne sarebbero ministri i semplici Sacerdoti affinché a tutti fosse cosa facile il riceverlo; per altro ciascuno potendo, è obbligato a ricevere questo Sacramento sotto pena di peccato mortale; come Benedetto XIV comanda ai Vescovi d’insegnare a quelli che non lo hanno ancora ricevuto .(Bulla Etsi pastoralis de rit. et dogm. Græcor. 1742, § 3, n. 4).

— Quali sono gli effetti di questo Sacramento?

Sono due: 1. Il carattere indelebile, come si disse nel § 1 alla D. 17. 2. È la pienezza dello Spirito Santo che dà all’anima una particolare fortezza onde si vincano facilmente le tentazioni contro la Fede, e si sopportino con invitta costanza le persecuzioni che si dovessero incontrare per causa della medesima. Questa pienezza dello Spirito Santo include anche l’aumento della grazia santificante (Hubert cap. 3).