CONOSCERE SAN PAOLO (20)

CONOSCERE SAN PAOLO (20)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LIBRO QUINTO

Le pastorali.

CAPO II

Dottrina delle Pastorali.

I . GLI ERRORI COMBATTUTI.

  1. ERRORI SEGNALATI A TITO. — 2. ERRORI SEGNALATI A TIMOTEO. — 3. CARATTERI COMUNI.

1 . La sollecitudine di conservare intatto il deposito della fede è, insieme con le disposizioni relative alla scelta dei sacri ministri, l’argomento principale di questo gruppo di lettere. L’Apostolo sente il bisogno di assicurare la parola di Dio contro gli assalti malsani di una fantasia senza freno e di una scienza senza regola. La verità sana e forte servirà di antidoto contro le dottrine perniciose che, come la cancrena, minacciano d’invadere il corpo della Chiesa (II Tim. II, 17). – Il pericolo del contagio ha prodotto in lui un’impressione così viva, che quasi ad ogni pagina ripete queste metafore di medicina, come gli avviene ordinariamente per tutte le idee che sono profondamente penetrate nella sua mente. – Prima di venire a conclusioni, lasciamo parlare il testo. Con Tito, l’Apostolo si esprime in questi termini: “Vi sono, specialmente tra i circoncisi, molti spiriti turbolenti, vani, ciarloni e seduttori, ai quali bisogna chiudere la bocca. Essi sconvolgono intere famiglie, insegnando per un vile interesse quello che non si deve insegnare… Riprendili severamente, affinché abbiano una fede sana e non si attacchino a favole giudaiche e a prescrizioni di uomini che respingono la verità. Tutto è puro per coloro che sono puri, ma niente è puro per gl’impuri e gl’increduli, la cui intelligenza e la cui coscienza sono macchiate. Essi fanno professione di conoscere Dio ma lo rinnegano con le loro azioni: essi sono abbominevoli, ribelli e incapaci di ogni opera buona (It. I, 10-11, 13-16). Evita le questioni stolte, le genealogie, le querele, le dispute intorno alla Legge, perché sono inutili e vane. Dopo uno o due avvisi, allontanati dal fautore delle discordie, sapendo che un uomo di questa specie è pervertito e che peccando si condanna da se stesso” (Tit. III, 9-11). – Gli errori messi in vista hanno questi caratteri: Si tratta di dottrine sparse tra i fedeli, poiché Paolo ingiunge a Tito di chiudere la bocca a quelli che le propagano, di riprenderli severamente e, in caso di ostinazione, di separarsi da loro; ma non intendiamo di escludere le influenze esterne, e coloro che « facendo professione di conoscere Dio lo rinnegano con le loro azioni », sono certamente Ebrei infedeli, e non giudaizzanti. Queste dottrine sono rivolte di preferenza ai convertiti dal giudaismo; sono dispute intorno la Legge, le quali non possono avere per autori o per fautori altri che Ebrei oppure giudaizzanti; esse dispongono a dare ascolto agli spacciatori di favole giudaiche e di prescrizioni arbitrarie che riguardano le purificazioni rituali e la distinzione degli alimenti puri e impuri. – Quello che più colpisce l’Apostolo, non è tanto la falsità di quelle dottrine, quanto la loro vanità e la loro inutilità. I loro propagandisti hanno per motivo un vile interesse; sono vani ciarloni che ingannano i semplici col ciarlatanesimo delle loro stolte questioni e delle loro strane genealogie. Invece di discutere con loro, bisogna imporre loro di tacere e se resistono, scacciarli dalla Chiesa.

2. Vediamo ora gli errori ricordati nelle due lettere a Timoteo: “Partendo dalla Macedonia, ti ho pregato di restare a Efeso per imporre a certuni di non insegnare altre dottrine e di non andar dietro a favole ed a genealogie senza fine, le quali suscitano discussioni, anziché far progredire l’opera di Dio nella fede. Il fine di questa prescrizione è la carità che viene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. Alcuni essendosene allontanati, si sono traviati in vani discorsi: pretendono di essere dottori della Legge e non capiscono quello che dicono nè quello che affermano con sicurezza” (I Tim. I, 3-7).“Lo Spirito dice chiaramente che negli ultimi tempi alcuni abbandoneranno la fede, attaccandosi a spiriti di errore e a dottrine diaboliche, sedotti dall’ipocrisia d’impostori dalla coscienza macchiata che proscriveranno il matrimonio e l’uso di alimenti che Dio h a creato affinché siano presi con rendimento di grazie dai fedeli e dai seguaci della verità. Ora ogni creatura di Dio è buona e nulla si deve respingere, purché si prenda con rendimento di grazie; poiché la parola di Dio e la preghiera lo santificano” (I Tim. IV. 1-4). – Se qualcuno dà un altro insegnamento e non aderisce alle salutari parole del Nostro Signor Gesù Cristo e alla dottrina conforme alla pietà, è un superbo, un ignorante, un uomo preso dalla malattia delle questioni  oziose e delle dispute di parole: di qui nascono l’invidia, le querele, le calunnie, i cattivi sospetti, le discussioni ^terminabili di uomini che hanno l a mente pervertita e che, privi della verità, s’immaginano che la pietà sia un mezzo di guadagno” (I Tim. VI, 3-5). – “Scongiurali in nome di Dio, di evitare le dispute di parole che servono alla rovina degli uditori. Sforzati di diportarti dinanzi a Dio da uomo provato, da operaio che non ha da arrossire, dispensando con rettitudine la parola di verità. Fuggi i discorsi vani e profani; perché i loro autori affondano sempre di più nell’empietà e la loro parola si propagherà come una cancrena. Di questo numero sono Imeneo e Fileto che hanno abbandonato la fede, dicendo che la risurrezione è già avvenuta, ed hanno sovvertita la fede di alcuni” (II. Tim. 14-18). – “Sappi che alla fine dei tempi sorgeranno giorni difficili. Gli uomini saranno egoisti, cupidi, gonfi… con l’esteriore della pietà, senza averne la realtà. Fuggi anche costoro. Tra loro ve ne sono che s’insinuano nelle case e seducono femminucce cariche di peccati, agitate da passioni di ogni sorta. Imparando sempre, essi non possono arrivare mai alla conoscenza della verità. Come Gianne e Giambre si opposero a Mosè, costoro si oppongono alla verità, corrotti di mente, pervertiti nella fede. Ma essi non faranno più progresso, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quei due” (II Tim. III, 1-9).  – “Verrà un tempo in cui gli uomini non sopporteranno più la sana dottrina. Abbandonati al desiderio di udire quello che accarezza le loro orecchie, si prenderanno una turba di maestri e, distogliendo il loro udito dalla verità, si volgeranno verso le favole” (II Tim. IV, 3-3).Tre di questi testi riguardano il presente, e gli altri tre — il secondo e gli ultimi due — l’avvenire (I Tim. IV, 1; II Tim. III, 1; II Tim. IV, 3). Gli errori attualmente in corso hanno precisamente i caratteri che abbiamo veduto nell’Epistola a Tito. Sono dottrine sparse tra i fedeli, poiché Timoteo riceve la missione d’imporre silenzio a coloro che le vanno spacciando. Costoro sono evidentemente Ebrei di nazionalità, perché si spacciano per dottori della Legge. Le dottrine stesse non sono tanto eresie, quanto questioni oziose atte a suscitare querele: dispute di parole che non concludono nulla, vane ciarle e pettegolezzi. Le espressioni incontrate nell’Epistola a Tito, si ritrovano costantemente anche qui: la situazione è dunque la stessa.Ma l’errore non può vivere se non a condizione di crescere; esso si propaga come la cancrena. L’Apostolo prevede per l’avvenire un traboccare di false dottrine,, che andrà di pari passo con la corruzione dei costumi: saranno le aberrazioni presenti portate alla loro più alta potenza; già si vanno agitando nell’ombra. A forza di dominare, lo spirito di contesa arriverà fino allo scisma; non si sopporterà più la verità; si abbandonerà la fede; si farà ressa intorno a falsi dottori e a falsi profeti che apertamente predicheranno dottrine diaboliche. Non si tratterà più soltanto di fiabe e di genealogie, di dispute di parole e di querele riguardo la Legge, di pratiche arbitrarie e senza frutto; si proscriverà il matrimonio, si condanneranno come cattive certe creature, o per l’influenza del dualismo o per un malinteso ascetismo. Finalmente l’amore del lucro cagionerà mille abusi detestabili, e si copriranno con la maschera dell’ipocrisia i peggiori eccessi.

3. Riunendo in un quadro generale tutti i caratteri, senza distinguere troppo il futuro dal presente, ci possiamo fare un’idea precisa dei predicatori, dei loro motivi e delle loro dottrine. I predicatori sono Ebrei o giudaizzanti. Soprattutto appartengono alla circoncisione (Tit. I, 10): si chiamano dottori della Legge (I Tim. I, 17); vanno dietro a favole giudaiche (Tit. I, 14); si abbandonano a dispute intorno alla Legge (Tit. III, 9); resistono alla verità come i due celebri impostori resistevano a Mosè (Tit. III, 8). Essi sono seduttori (Tit. I, 10), ipocriti (II Tim. III, 5), spiriti turbolenti (Tit. I 10), vani ciarloni (I Tim. I, 6), uomini di mente pervertita (II Tim. III, 8), ai quali prudono le orecchie (II Tim. IV, 3), incapaci di intendere la verità (II Tim. III, 7), gente avida di guadagno (I Tim. VI, 5; Tit. I, 11) e di popolarità, che getta la divisione nella Chiesa e nelle famiglie (I Tim. III, 6), che fa combriccole e prepara scismi. Le dottrine che essi propagano, non sono tanto eresie, quanto novità, pericolose per la loro stessa inutilità, perché coltivano una curiosità malsana, pascolano la mente di fiabe e l’avvezzano al falso e all’irreale. Una parola difficile a tradursi (I Tim. I, 3) riassume bene l’insegnamento di questi dottori senza missione. Essi generalmente non insegnano cose contrarie alla dottrina dell’Apostolo, ma insegnano cose che egli ha giudicato mutile e pericoloso insegnare, e insegnano diversamente da lui gli articoli del suo vangelo. Paolo spiega la natura di quelle novità con proibire di « andar dietro a favole ed a genealogie interminabili ». Si sarebbe tentati di pensare ai mitografì greci, a quegli storici delle origini i quali raccoglievano le favole riguardanti gli dei e le liste genealogiche a cui si riduceva quasi tutta la storia primitiva (Polibio). Ma le parole di San Paolo non permettono di pensare né alle leggende della mitologia pagana né alle genealogie degli dei e degli eroi. Difatti quelle favole di cui parla l’Apostolo sono dette giudaiche e il passo parallelo dimostra che sono spacciate da persone che si chiamano dottori della Legge. Del resto possiamo credere che fossero insulsaggini o pettegolezzi simili a quelli di cui sono zeppi i libri talmudici. In quanto alle genealogie interminabili e soprattutto senza profitto, gli apocrifi dell’Antico Testamento, composti in tempi poco lontani dall’era cristiana, ce ne danno più di un esempio. Lo spirito amante di novità si lascia abbagliare dal falso splendore dei sofismi: « O Timoteo, custodisci il deposito, evitando le parole profane e vuote di senso come pure le contradizioni di una falsa scienza di cui fanno pompa certuni che hanno deviato dalla fede (I Tim. VI, 20) ». Prima questioni oziose, poi obiezioni sciocche e arguzie sterili, finalmente la perdita della fede: tale è la via dell’errore.

II. I DIGNITARI ECCLESIASTICI.

1 . SACERDOTI E DIACONI. — 2. QUALITÀ RICHIESTE NEI CANDIDATI. — 3. VEDOVE E DIACONESSE.

1 . Nelle lettere autentiche di Sant’Ignazio, all’alba del secondo secolo, la terminologia e le attribuzioni della gerarchia ecclesiastica sono già completamente fissate. Vi sono tre ordini distinti: il Vescovo sempre unico (Ephes. I, 3), i sacerdoti strettamente associati al vescovo e così intimamente uniti tra loro, che si chiamano ordinariamente col nome collettivo di πρεσβυτέριον (=presbuterion) o collegio sacerdotale (Ephes. II, 2; IV, 1, etc.), finalmente, nell’ultimo grado, i diaconi che devono obbedienza ai sacerdoti e al Vescovo, come a loro stessi devono obbedienza i fedeli. Il Vescovo, il presbiterato e i diaconi costituiscono il clero; il clero e i laici costituiscono la Chiesa. L’episcopato è monarchico e residenziale: Ignazio è Vescovo di Antiochia, Policarpo di Smirne, Onesimo di Efeso, Polibio di Traile, Damaso di Magnesia. Il vescovo compie o dirige la cerimonia del Battesimo e dell’agape, la celebrazione dei matrimoni e soprattutto la consacrazione dell’eucaristia; ma gli è sempre lecito delegare ad altri la sua autorità. I sacerdoti e i diaconi non devono esercitare nessuna funzione, se non lo sa o se non vi assiste il Vescovo. I laici poi non hanno nessuna parte nel governo della Chiesa: il loro compito è di obbedire al Vescovo, oppure al Vescovo e al presbiterato, oppure al Vescovo, al presbiterato e ai diaconi (Ephes. IV, 1), poiché i due ordini inferiori sono uniti al Vescovo come le corde alla lira (Ephes. IV, 1): non vi è che un’eucaristia, una carne del Cristo, un calice del suo sangue, un altare un Vescovo col presbiterato e con i diaconi. – Le Pastorali presentano un ordinamento assai più primitivo, il che distrugge il paradosso dei critici i quali vogliono che siano state scritte in pieno secolo secondo, da un falsario desideroso di promuovere la gerarchia in via di formazione. Però l’evoluzione ulteriore che avvenne molto in fretta e dappertutto nella stessa maniera, con tutti i caratteri di uno sviluppo legittimo, dimostra che le linee generali erano state tracciate in precedenza dagli Apostoli, dietro, le indicazioni del Maestro e sotto l’impulso sempre vigile dello Spirito Santo. Essa dunque ci può servire per interpretare i dati oscuri dell’età apostolica; ma vi sarebbe paralogismo se si trasportassero a quei tempi remoti le funzioni e le denominazioni di un tempo più recente. Ciascun autore va studiato da parte, e non si ha il diritto di supporre a priori che tutti parlino delle medesime cose con gli stessi termini. – In San Paolo, la terminologia ecclesiastica è incerta. Se ἐπίσκοπος (=episcopos) indica sempre un sacro ministro, πρεσβυτέριον (=presbuterion), prende spesso il significato di « vegliardo », e διάκονος (= diakonos) quasi sempre non significa altro che « servo od aiutante ». Invece i capi della Chiesa ricevono talora altri titoli: quelli di Tessalonica, per esempio, sono chiamati presidenti. Il linguaggio è ancora incerto, ma vi è piuttosto da meravigliarsi che le incertezze siano finite così presto. Di comune accordo, per i ministri inferiori del culto si tenne il nome diacono, a preferenza di tutti i sinonimi. Forse “doulos” fu lasciato da parte per il significato troppo servile, “uperetes”, perché ricordava il sacrestano delle sinagoghe ebree, “terapon” perché ricordava il custode di certi santuari idolatrici. Comunque sia, “diaconos” fu tosto scelto ad esclusione di ogni altro titolo, e fa stupire il vedere che San Luca, il quale ci racconta l’elezione dei primi sette diaconi ellenisti, non adoperi questo termine. Per San Paolo, la parola diacono ha già ricevuto la sua impronta gerarchica; l’Apostolo saluta in particolare i diaconoi di Filippi ed enumera le qualità che si devono esigere dal “diaconos” per imporgli le mani. Non è possibile alcun dubbio: si tratta proprio del diaconato e dei diaconi. – Per le funzioni superiori, i termini più generici, spogliati per la loro stessa indeterminatezza da ogni associazione di idee compromettenti, erano anche i più convenienti. Di questo numero è la parola πρεσβυτέρος (=presbuteros). Quasi tutte le società antiche, almeno dove non regnava l’autocrazia pura, erano governate da un consiglio o senato di anziani. In origine era il privilegio dell’età; più tardi divenne un titolo ereditario. In tutte le epoche della storia sacra, sotto Mosè, sotto i Giudici, sotto la monarchia, al ritorno dalla schiavitù, dappertutto constatiamo la presenza di questi anziani. Durante il periodo del giudaismo propriamente detto, essi erano a capo delle sinagoghe, esercitavano nelle città e nei villaggi un’autorità simile a quella dei nostri municipi ed entravano in parte notevole nel gran sinedrio di Gerusalemme; perciò sono continuamente nominati nel Nuovo Testamento insieme con gli scribi e con i principi dei sacerdoti. Per indicare i direttori spirituali delle chiese cristiane, si lasciò da parte la parola ἱερεύς (=iereus); che faceva pensare al sacerdote levitico e al sacerdos o sacrificulus pagano, ma si accettò la parola πρεσβύτερος (=presbuteros), che aveva il vantaggio di essere compresa dagli Ebrei governati dappertutto, civilmente e religiosamente, da un consiglio di anziani, ed era familiare ai Greci ai quali ricordava, fuori delle attribuzioni politiche e municipali, i membri di certi comitati istituiti per la celebrazione delle feste, per il servizio dei tempi e per la sepoltura dei soci. Ma mentre la comunità di Gerusalemme la adoperava ad esclusione di ogni altro nome, le chiese della gentilità la adottarono soltanto gradualmente e insieme con ἐπίσκοπος (=episcopos). – Questo terzo titolo è ancora più indeterminato che gli altri due. Esso significa, nella Scrittura, «custode, sorvegliante, ispettore. commissario ». Ad Atene significava certi delegati speciali, simili agli armosti di Sparta, che la metropoli mandava ad ordinare le nuove colonie o i paesi di conquista. Nella Batanea e nella Decapoli, era il titolo di ufficiali incaricati di amministrare le proprietà di un tempio. Altrove le funzioni erano diverse; ma la brevità dei testi ci permette raramente di precisarle. Perciò non sapremmo dire con certezza perché, nella gerarchia ecclesiastica, l’ἐπίσκοπος (=episcopos) ebbe il più alto grado, sopra il πρεσβύτερος (=presbuteros). Sarebbe forse perché la parola πρεσβύτερος (=presbuteros) richiamava naturalmente l’idea di una pluralità di persone riunite in collegio, per l’esercizio di una medesima carica, mentre la funzione di ἐπίσκοπος (=episcopos) era spesso conferita unicamente ad una persona? Ci affrettiamo però ad aggiungere che, per San Paolo, le due parole sono sinonimi. Nel saluto che egli rivolge al clero di Filippi, distingue soltanto due classi: gli l’ἐπίσκοποι (=episcopoi) e i diaconi (Fil. I, 1). I primi, per la stessa ragione della loro pluralità, non possono essere che gli anziani della chiesa, poiché è cosa inaudita che una sola città avesse più vescovi. Supposto che gli ἐπίσκοποι (=episcopoi) fossero vescovi, non si potrebbe spiegare l’omissione del secondo grado. – La cosa è ancora più chiara nel passo in cui San Paolo ordina a Tito di stabilire dei πρεσβύτεροι (=presbuteroi) in ciascuna città; egli esige che siano di una virtù e di una riputazione senza macchia, perché, soggiunge, bisogna che l’ἐπίσκοπος (=episcopos), sia irreprensibile (Tit. I, 5-7). Il suo ragionamento sarebbe un sofisma, se i due termini non fossero sinonimi. E poi, se si trattava del più alto grado della gerarchia, egli non metteva il plurale, perché ogni città aveva soltanto un Vescovo. – Un’altra prova è questa: avendo egli mandato a Mileto i πρεσβύτεροι (=presbuteroi) di Efeso, cioè i capi di questa chiesa particolare, i quali non erano certamente vescovi, poiché dovrà più tardi lasciare Timoteo a Efeso per esercitarvi le funzioni episcopali, parla a loro in questi termini: « Vigilate su voi stessi e su tutto il gregge in cui lo Spirito Santo vi ha stabiliti ἐπίσκοποι (=episcopoi) (40) ». Non si può dunque dubitare che questi due termini indicassero indifferentemente le stesse persone e si applicassero ai membri del secondo grado della gerarchia, ossia ai sacerdoti.Converrà ricordarlo nel solo testo che dà luogo a discussione: « Chiunque desidera la carica di ἐπίσκοπος (=episcopos), desidera una cosa buona; bisogna dunque che l’ἐπίσκοπος (=episcopos), sia irreprensibile (I Tim. III, 1-2) ». Il parallelismo e la lista delle qualità richieste in questo dignitario, dimostrano a sufficienza che l’ἐπίσκοπος (=episcopos) dell’Epistola a Timoteo è il medesimo dell’Epistola a Tito; ora quest’ultimo, come abbiamo veduto, non è un vescovo, ma un sacerdote.

  1. 2. Non sappiamo quali virtù Paolo avrebbe richiesto dal futuro Vescovo, se l’episcopato monarchico fosse già esistito nelle sue chiese. Possiamo farcene un’idea da quelle doti che egli loda in Tito e in Timoteo, Vescovi missionari, che gli servivano da coadiutori. Sono soprattutto lo zelo, la pietà, la fedeltà, il coraggio nella prova, la fermezza nell’adempimento del dovere, lo spirito di fede e una vita di abnegazione e di sacrificio. Ma la lista delle doti richieste negli anziani, si trova due volte nelle Pastorali, con certe varianti che non sono prive di interesse: “Bisogna che l’ἐπίσκοπος (=episcopos) sia irreprensibile, ammogliato una volta sola, sobrio, prudente, degno (nel suo esteriore), ospitale, capace d’insegnare, non bevitore, né violento, ma dolce, pacifico, disinteressato, che governi bene la casa, che abbia figli sottomessi con ogni onestà — perché se uno non sa guidare la sua casa, come governerà la Chiesa di Dio? — non neofito, per timore che gonfiato di superbia non incorra nel giudizio del diavolo. Bisogna pure che abbia buona testimonianza delle persone estranee, affinché non cada nell’obbrobrio e nei tranelli del diavolo. Ti ho lasciato in Creta… per stabilire in ciascuna città degli anziani, come ti ho ordinato: Se alcuno è irreprensibile, ammogliato una volta sola, con figli fedeli che non siano accusati di cattiva condotta e d’insubordinazione — poiché bisogna che l’ἐπίσκοπος (=episcopos), sia irreprensibile come intendente di Dio — non arrogante, né collerico, né bevitore, né violento, né avaro, ma ospitale, amico del bene, prudente, giusto, pio, continente, attaccato alla vera dottrina quale è stata insegnata, affine di essere capace di esortare secondo la sana dottrina e di confutare i contradittori” (I Tim. III, 3-7). – San Paolo vuole che un candidato giudicato degno del sacerdozio risponda a tre condizioni principali: che sia atto all’insegnamento, che abbia una casa bene regolata e che si sia ammogliato una sola volta. I protestanti facevano una volta sforzi sovrumani per togliere alle parole μιᾶς γυναικὸς ἄνηρ (= mias gunaikos aner) il loro significato naturale. Parecchi, trovandosi in caso disperato, adottarono la spiegazione proposta da Vigilanzio e così vigorosamente combattuta da San Gerolamo: « bisogna che egli sia ammogliato, che abbia una moglie ». Ma è evidente che non è inetto alle funzioni ecclesiastiche chi segue l’esempio e il consiglio dello stesso Apostolo. I più sostengono dunque che San Paolo intende soltanto di escludere il bigamo e il poligamo, colui che avesse ancora o che avesse avuto più di una moglie contemporaneamente. La loro ragione più forte è che San Paolo non chiede ai chierici nulla di più che ai laici e che egli permette formalmente ai laici di passare a seconde nozze. Ora la prima asserzione è una pura petizione di principio; la seconda è giusta, ma allora l’uomo che passa a seconde nozze, rinunzia al chiericato. Non è che gli si rimproveri una colpa, ma egli manca di una delle condizioni richieste, come il neofìto, l’ignorante o l’incapace. L’esegesi razionalista ha questo di buono, che non teme di romperla apertamente con l’ortodossia protestante; essa ritorna dunque risolutamente al senso sostenuto dai Cattolici, e molti protestanti oggi le tengono dietro. Difatti è impossibile spiegare diversamente l’espressione ἑνὸς ἀνδρὸς γυνῆ (= enos andros gune) « maritata una volta sola », che qualifica la vedova ammessa al servizio della Chiesa,. Il desiderio di legittimare una situazione personale e poi lo spirito di setta soltanto, poterono far prevalere una deformazione così manifesta del pensiero di San Paolo.Nel fare della fedeltà al primo vincolo coniugale una condizione assoluta per l’elevazione al sacerdozio, l’Apostolo era certamente guidato da ragioni simboliche, ma è certo che essa era, soprattutto in quel tempo, un pegno di onorabilità. Per lo stesso motivo, San Paolo domanda con insistenza che il candidato al sacerdozio, se è ammogliato, abbia una famiglia esemplare e una casa bene regolata (I Tom. III, 4). La condotta equivoca della moglie o dei figli diminuirebbe la sua influenza e intralcerebbe la sua azione, come l’impotenza di mantenere il buon ordine nella famiglia e negli affari, dimostrerebbe che egli è incapace al governo della Chiesa. Le raccomandazioni riguardo alla buona fama del candidato, così nella comunità cristiana come tra i pagani, sono del medesimo ordine. Come potrebbe il nuovo sacerdote conciliarsi il rispetto e la simpatia degli infedeli, se la sua condotta, dopo il battesimo, fosse stata scandalosa o poco conforme alla severa morale del Vangelo? Il suo apostolato tra loro sarebbe già in precedenza destinato a non riuscire, perché difficilmente si dà ascolto ad un predicatore del quale non si ha Nelle cristianità di recente fondazione, qualche volta si erano dovuti prendere i sacri ministri tra i nuovi convertiti; ma l’esperienza aveva mostrato gl’inconvenienti di tale provvedimento.Perciò Paolo proibisce a Timoteo d’imporre le mani troppo presto al primo venuto e specialmente di ordinare un neofìto (I Tim. V, 22), per timore che, gonfiato di superbia per un’elevazione così rapida, non faccia la fine di lucifero. L’ingiunzione era opportuna per la chiesa di Efeso che già contava dieci o dodici anni di vita; ma non poteva applicarsi altrettanto in quella di Creta che, a quanto pare, era allora appena nata: ecco perché la lettera a Tito non contiene questo divieto.Le disposizioni interne di colui che dev’essere onorato del sacerdozio, sono riassunte in una parola energica: bisogna che sia irreprensibile, per la sua eminente dignità e perché è rappresentante di Dio su la terra. Questa parola dice tutto: richiede l’esenzione di vizi grossolani che rovinerebbero la sua autorità — come l’avarizia, la collera, l’arroganza, la brutalità, l’ubriachezza — e il possesso delle virtù che la mantengono: sobrietà, prudenza, modestia, animo ospitale, giustizia, purezza di costumi. Le qualità richieste nei diaconi sono le stesse, fatta la debita proporzione:

“Anche i diaconi siano onorevoli, esenti da doppiezza, non dediti al vino, non avidi di guadagno, che portino il mistero della fede in una coscienza pura.

E siano messi prima alla prova, affinché esercitino poi senza rimproveri l’ufficio del diaconato.

Le loro mogli siano anch’esse onorevoli, non maldicenti, sobrie, fedeli in tutte le cose.

Essi poi abbiano contratto un solo matrimonio e governino bene i figli e la casa. Poiché quelli che esercitano bene il diaconato si acquistano un buon posto e una grande sicurezza nella fede in Gesù Cristo” (I Tim. VIII, 3). – I diaconi devono essere esenti da tre vizi che li screditerebbero completamente agli occhi del pubblico: la doppiezza, l’intemperanza e l’avarizia. Per le loro molteplici e delicate relazioni con i laici, essi dovevano premunirsi specialmente contro il pericolo della doppiezza. Essi dunque eviteranno di « dire bianco e nero, di parlare ora in un modo ora in un altro », per piacere ai loro uditori o per non dispiacere loro.Le visite frequenti che entravano nelle loro attribuzioni, imponevano a loro più che agli altri il dovere della sobrietà. Gli eccessi di questo genere, o anche una mancanza generale di contegno, sarebbero state dannose al loro ministero e contrarie all’edificazione. Finalmente la cupidigia li avrebbe screditati del tutto. L’Apostolo non allude certamente alle possibili malversazioni nell’amministrazione dei beni temporali di cui erano incaricati i diaconi, ma piuttosto alla tentazione di valersi del loro ministero per il proprio vantaggio personale, accettando, per esempio, dei doni spontaneamente offerti. Questo sfruttamento indiretto del Vangelo sarebbe evidentemente la ricerca di un guadagno sordido.Paolo vuole che il diacono goda anche dell’autorità che deriva dalla gravità delle maniere e dalla dignità dei costumi; finalmente richiede che egli porti « il mistero della fede in una coscienza pura ». Che cosa vuol dire questa ingiunzione disparata? Che cosa significa il mistero della fede e che relazione ha con la coscienza pura? Noi pensiamo che non si tratti della fede soggettiva dei diaconi, ma dei misteri del Vangelo di cui essi sono, in una certa misura, i dispensatori. Qualunque sia il senso preciso di questa locuzione enigmatica, si domanda al diacono una vita esemplare e non soltanto l’assenza dei gravi difetti che lo renderebbero inetto al suo ufficio. Perciò egli dev’essere prima messo alla prova per un certo tempo e non può essere definitivamente promosso se non quando la prova riesce a suo onore ed a soddisfazione comune.

3. Accanto e sotto la gerarchia ecclesiastica, vi erano allora delle vergini e delle diaconesse regolarmente costituite? Nel passo dell’Epistola ai Colossesi, in cui l’Apostolo consiglia ai due sessi la continenza e la verginità, egli appoggia il suo consiglio sulla maggiore libertà che avranno nel servizio di Dio, senza allusimi ad una speciale attitudine per servire la Chiesa. Il voto di verginità è presentato come un atto di perfezione individuale (I Cor. VII, 8-9). Vi sono già delle vergini, ma l’ordine delle vergini non esiste ancora e soprattutto non ha ancora preso posto accanto alla gerarchia.La pia Febe era « serva » (diaconos) della chiesa di Cenere e patronessa » (prostatis) dei Cristiani che avevano affari a Corinto, e dello stesso Paolo (Rom. XVI, 1-2). Questo vuol dire che essa si era volontariamente consacrata al servizio della chiesa e che si valeva della sua influenza a vantaggio dei suoi correligionari. Nella terminologia di San Paolo, essa aveva ricevuto dallo Spirito Santo i carismi della diaconia (διακονία = diaconia) e dei soccorsi (ἀντίληψις = antilepèsis). Febe è chiamata διάκονος (= diakonos), come Epafra, come Tichico, come i predicatori del Vangelo, come tutti quelli che servono la causa della fede; essa non è diaconessa nel senso ecclesiastico della parola. Le mogli dei diaconi, delle quali si fa menzione nella prima a Timoteo e che sono tenute a maggiore modestia, regolarità e pietà, per non compromettere il ministero dei loro mariti, non sono neppur esse diaconesse (I Tim. III, 8-10). Le diaconesse che i costumi dell’Oriente obbligarono a stabilire in certe province asiatiche, vennero soltanto più tardi, e di esse non vi è nessuna traccia in San Paolo. L’istituzione delle vedove invece risale al secolo apostolico. Esse avevano il loro prototipo nelle pie donne che accompagnavano Gesù Cristo da una città all’altra, e forse in quelle dalle quali certi apostoli, come Pietro e i fratelli del Signore, si facevano seguire (I Cor. IX, 5; Luc. XXIII, 40).Paolo riconosce alla vedova la piena libertà di passare a seconde nozze, benché le consigli generalmente di rimanere nello stato di vedovanza (I Cor, VII, 39-40). Questo consiglio alquanto vago può dare luogo a inconvenienti, e l’Apostolo, istruito dall’esperienza, si vede obbligato a precisarlo. Egli fa un dovere alle persone agiate di accogliere le vedove della loro famiglia, le quali vogliano rimanere vedove, affinché non siano di peso alla Chiesa. Paolo ci lascia capire che certe donne generose accettavano spontaneamente di mantenere a loro spese delle vedove, affinché non gravassero sul bilancio comune. Alle vedove giovani poi che restassero prive di mezzi, consiglia di passare a seconde nozze (I Tim. V 3-16). Vi erano certamente stati abusi; certe vedove attratte dalla prospettiva dell’ozio e dell’indipendenza, si erano fatte inscrivere nei ruoli della Chiesa facendo professione di vedovanza; ma ben presto, disgustate del Cristo e sotto l’impulso di desideri sensuali, esse davano triste spettacolo della loro leggerezza e del loro ozio, occupate in nulla, girando da una casa all’altra e scandalizzando tutti con i loro sfacciati pettegolezzi. Esse sono colpevoli di aver violata la fede giurata e di aver dato ai malevoli un pretesto per calunniare il Vangelo. Paolo vuole che d’allora in poi non si inscrivano nei ruoli della Chiesa se non le vedove di almeno sessant’anni, di condotta provata e di vita esemplare, le quali non facciano temere né lo scandalo né l’incostanza. Alle vere vedove che fanno professione di vedovanza sotto la sanzione della Chiesa, si renderanno gli onori che meritano il loro stato, le loro virtù e i servizi che prestano. Erano esse certamente che con le loro lezioni e col loro esempio formavano alla pietà le giovani cristiane; erano forse anch’esse che catechizzavano i catecumeni del loro sesso. Lavorando indirettamente per l’altare, esse avevano diritto di vivere dell’altare. L’Apostolo non dà a loro altre prerogative; egli che proibiva alle donne di prendere la parola in chiesa, non era disposto ad assegnare loro una parte nell’esercizio delle sacre funzioni. riesce a suo onore ed a soddisfazione comune.

CONOSCERE SAN PAOLO (19)

CONOSCERE SAN PAOLO (19)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LIBRO QUINTO

Le pastorali.

CAPO I.

La mano e lo spirito di Paolo.

I . QUESTIONE DI AUTENTICITÀ.

1 . TRADIZIONE E VEROSIMIGLIANZE. — 2. STILE E IDEE.

1. Il nome di Pastorali che serve a indicare le tre lettere di San Paolo ai suoi discepoli Timoteo e Tito, risale soltanto al secolo XVIII e non è un nome dei più indovinati; però siccome ora è consacrato dall’uso e abbrevia il discorso, non ci pare che ci sia nessun inconveniente a conservarlo per indicare con una parola questo gruppo di Epistole che sono molto affini per la data, per lo stile e per l’argomento. – Senza discutere qui minutamente i testi di San Barnaba, di San Clemente di Poma, di Sant’Ignazio, di San Policarpo, di San Giustino, di Egesippo, che già suppongono l’esistenza e l’uso delle Pastorali, si può affermare che la testimonianza della tradizione è in loro favore, altrettanto esplicita ed unanime quanto per le Epistole più certe, poiché nel caso presente le questioni di autenticità e di canonicità si confondono insieme: se queste lettere non sono autentiche, sono opera di un falsario, e i Padri non avrebbero mai ammesso scientemente una falsificazione nel canone dei Libri ispirati. Le due o tre voci discordi, di Marcione, di Basilide e di Taziano, che respingono degli scritti i quali già in precedenza stigmatizzavano i loro errori, non furono tenute in nessun conto, ed Eusebio non esitava a mettere le Pastorali tra i Libri incontestati. Dopo Schleiermacher che nel 1807 dichiarava apocrifa la prima a Timoteo, molti critici estesero a tutte e tre le lettere il verdetto negativo, e la reazione del buon senso, che a poco a poco ha restituito all’Apostolo la maggior parte degli scritti dei quali la scuola di Tubinga gli negava la paternità, non è riuscita ancora a dissipare tutti i dubbi su questo punto. Però molti eruditi contemporanei hanno di nuovo guadagnata metà della distanza che li separava dalla tradizione, con dichiarare che nelle Pastorali vi sono larghi frammenti autentici, amplificati più tardi da un incognito desideroso di mettere sotto il sicuro riparo dell’egida di Paolo le sue idee o la sua polemica. Parecchi si sono ingegnati di fare la scelta; ma i loro sistemi, molto divergenti tra loro, ove si vede subito il giudizio arbitrario, possono appena soddisfare i loro autori. I partigiani della falsificazione pura e semplice, se non erano meglio fondati su la ragione, erano almeno più logici. È cosa strana che le due ragioni che ordinariamente si portano per non attribuire a San Paolo le Pastorali, fatta eccezione dello stile di cui parleremo in seguito, si risolvono in prove positive dell’autenticità: esse sono la natura degli errori combattuti e le condizioni gerarchiche delle chiese. – Qualche volta si argomenta in questo modo: « Le Pastorali, essendo del secondo secolo, devono combattere il gnosticismo, la grande eresia di quel tempo ». Oppure si dice: « Le Pastorali, essendo dirette contro il gnosticismo, non sono anteriori al secondo secolo ». I due argomenti si equivalgono: l’uno e l’altro contiene una chiara petizione di principio, e uniti insieme formano un bell’esempio di circolo vizioso. Il gnosticismo è un Proteo a mille forme: di quali gnostici s’intende di parlare? Baur nominava Marcione; Hilgenfeld, Saturnino, altri Valentino o un precursore del valentinismo. Holtzmann, più prudente, si astiene dal precisare, credendo senza dubbio che tra i sistemi innumerevoli compresi col nome generico di gnosticismo se ne troverà pure qualcuno per verificare le indicazioni delle Pastorali. Tuttavia non se ne fa nulla: le diverse sette gnostiche, nel secondo secolo, sono tutte ostili al giudaismo e, se conservano dei brani del Nuovo Testamento, lo fanno per combattere meglio l’Antico. Ora le persone alle quali si allude nelle Pastorali, hanno tendenze giudaizzanti che non si possono affatto negare. – Oggi noi chiamiamo gnostici tutti quei sognatori, infetti di filosofia greca od orientale, i quali cercavano nel dualismo una soluzione al problema del male; ma nel secolo secondo non era così. Il titolo di gnostico aveva ancora un significato buono, tanto che Clemente di Alessandria voleva prenderlo per indicare il perfetto cristiano. Quel nome era stato rivendicato soltanto da un gruppo di sètte oscure, ofiti o naasseni, setiani, perati e cainiti, tutti adoratori del Serpente infernale o ammiratori del primo omicida, ma che non avevano nulla di comune con i giudaizzanti delle Pastorali. Né Marcione, né Valentino, né Basilide, né la turba di eretici contemporanei — encratiti, ebioniti, doceti ed altri — non erano allora considerati come gnostici. Del resto il nome importa poco; quello invece che è capitale, è questo fatto: le persone alle quali alludono le Pastorali, non sono eretici propriamente detti; a due riprese, alcuni individui sono denunziati come apostati (I Tim. I, 20; II Tim. II, 17-18): altrove si tratta di Ebrei infedeli (Tit. I, 15-16); ma verso costoro Tito e Timoteo non hanno ricevuto nessuna missione: essi non hanno da comandare a loro né da fare assegnamento su la loro obbedienza; devono – soltanto evitarli e farli evitare dai discepoli. Il loro vero mandato riguarda altre persone ed altre dottrine. Quali sono queste dottrine? Questioni strane il cui solo effetto è di riscaldare gli animi e di accendere le discussioni (II Tim. II, 2-3), logomachie (I Tim. IV, 4), discorsi vuoti di senso (I Tom. VI, 20; II Tim. II, 16), fiabe da vecchierella (I Tim. IV, 7), vani pettegolezzi (Tit. III, 9). Gli spacciatori di tali sciocchezze non sono pertanto eretici, non si sono separati dalla legittima autorità, frequentano le assemblee cristiane e sono in continuo contatto con gli altri fedeli. Timoteo rimane appunto a Efeso per imporre a loro di finirla con le loro chiacchere (I Tim. I, 3); Tito poi è incaricato di chiudere loro la bocca (Tit. I, 11). Saranno avvertiti una Volta o due con carità (Tit. III, 10) e soltanto se deporranno la maschera e si rifiuteranno di obbedire, si procederà contro di loro con tutto il rigore. Che differenza tra questo atteggiamento benigno e l’intransigenza ordinaria verso i gnostici di ogni setta e di ogni nome! Che contrasto tra la presente mansuetudine di San Paolo e i fulmini di cui minaccia i giudaizzanti della Galazia, o la severità dimostrata contro i falsi dottori di Colossi! Il motivo è che le condizioni sono affatto diverse: i predicatori di Creta e di Efeso non scalzano le fondamenta del Vangelo e non ne compromettono la solidità; essi non fanno altro che offuscarne lo splendore. Per non averci riflettuto, i critici vanno cercando in tutti i sistemi gnostici dei termini di confronto dei quali essi medesimi riconoscono la poca consistenza. Non era necessario andare tanto lontano: il Libro dei Giubilei, opera di poco anteriore all’èra cristiana, presenta un bellissimo saggio delle scempiaggini che incantavano i novatori di Efeso e di Creta. Non ci manca nulla: né le genealogie senza fine, né le favole giudaiche, né le fiabe da vecchierella, né le dispute senili intorno alla Thorà. Ecco quanto poteva ancora piacere a neofiti i quali erano stati in altri tempi in contatto con i dottori della Sinagoga. La seconda mira del falsario, che si tradirebbe nonostante tutte le precauzioni prese per ingannare, sarebbe la sollecitudine di favorire la trasformazione monarchica dell’episcopato. – Nel secondo secolo, si afferma, si produsse una rivoluzione nel governo della Chiesa. Dal seno dei collegi sacerdotali che presiedevano insieme alle assemblee cristiane, sorse un individuo più autorevole, più ambizioso o più capace, il quale si arrogò il primato sopra gli altri. Da principio, come si può ben immaginare, questo non avvenne senza qualche opposizione dei colleghi spodestati; ma il concentramento del potere nelle mani di un solo offriva tali vantaggi per il bene comune, che non si tenne conto delle proteste individuali, e il nuovo sistema si generalizzò rapidamente. Trovato il principio dell’episcopato monarchico, si trattava di promuoverlo, di farlo accettare dappertutto, di rompere tutte le resistenze: questo, si dice, è lo scopo dell’autore delle Pastorali; per questo egli prende la maschera dell’Apostolo e si arma della sua autorità. Quanti errori e quanti sofismi in così poche righe! Tra le altro ipotesi senza prove e senza fondamento, si suppone che Tito e Timoteo sono vescovi, eccetto il nome, e che hanno l’incarico di stabilire altri vescovi. Niente di più contrario ad una sana esegesi e alla realtà storica. L’essenza dell’episcopato monarchico è di essere sedentario, autonomo e permanente: colui che lo occupa è fisso in una diocesi che egli governa con autorità propria, senz’altro limite di tempo, che quello della sua vita. Ora Tito e Timoteo esercitano soltanto ima specie di sovrintendenza sopra un gruppo di chiese; la esercitano in nome di Paolo, come suoi rappresentanti e delegati, a titolo puramente temporaneo, pronti a lasciare il loro posto e le loro funzioni al primo cenno dell’Apostolo. Essi possono aver ricevuto — e certamente hanno ricevuto — la consacrazione episcopale, ma non sono vescovi nel senso monarchico della parola, perché non hanno nessuna diocesi da governare. Le diocesi primitive coincidevano praticamente con la città greca; comprendevano la città con i sobborghi ed un territorio di mediocre estensione. Ci furono vescovi di Efeso, di Smirne, di Pergamo, di Gortina, di Gnosso e di località molto più piccole; non vi furono mai, almeno in Oriente, vescovi incaricati di province intere. Eppure è proprio l’isola di Creta, senza nessuna localizzazione più speciale, che viene affidata a Tito. Egli vi deve stabilire dei sacerdoti in ciascuna città: prova questa che l’episcopato non vi è ancora stabilito. – La giurisdizione di Timoteo sembra che oltrepassi i confini di Efeso e dei suoi dintorni immediati, perché Paolo nel lasciarvelo per un tempo che suppone debba essere breve, gli dà la missione di ordinare sacerdoti e diaconi: missione questa poco urgente e poco necessaria, se si trattasse soltanto della piccola minoranza cristiana di una sola città. Per altri due punti ancora Tito e Timoteo differiscono dai vescovi residenziali ed autonomi: essi non hanno autorità propria e non l’anno neppure a titolo permanente la loro autorità delegata. Essi sostituiscono Paolo durante la sua assenza, con un mandato ben determinato: dare alle chiese ministri degni, vigilare sul buon ordine e chiudere la bocca ai dottori imprudenti (I Tim. I, 3; Tit. I, 5). Tale mandato è di una durata relativamente breve; Tito non lo conserverà neppure fino al ritorno dell’Apostolo: ha l’ordine formale di raggiungere il suo maestro quando Tichico o Artema verrà a sostituirlo (Tit. III, 12); e infatti l’anno seguente lo vediamo partire per la Dalmazia (II Tim. IV, 10). E questi sono forse vescovi quali si concepivano al principio del secondo secolo, quando Sant’Ignazio scriveva le sue lettere? Allora vi era in ciascuna città un pastore unico, creato a vita, nelle cui mani si concentravano tutti i poteri nella misura in cui egli credeva bene di esercitarli da sé: governo della chiesa, amministrazione di tutti i sacramenti, amministrazione dei beni ecclesiastici e delle istituzioni di carità. Un contemporaneo di Sant’Ignazio, specialmente nell’Asia Minore dove i critici radicali mettono volentieri la fabbricazione delle Pastorali, sarebbe stato affatto incapace di immaginare condizioni simili a quelle che ci sono presentate dalle nostre Epistole. Ma supposto anche che avesse avuto la capacità di compiere simile prodezza archeologica, invece di contribuire all’evoluzione della gerarchia, egli l’avrebbe ricondotta violentemente indietro di un mezzo secolo: l’opera sua non segnerebbe un progresso, ma un regresso. Che le Pastorali e le lettere di Sant’Ignazio siano prodotti dello stesso ambiente sociale, è cosa che oltrepassa tutti i limiti della credibilità. Tra gli altri, lo comprese perfettamente Hesse: « Le lettere di Sant’Ignazio, egli dice, sono senza alcun dubbio posteriori alle Pastorali (Die Entsthehung der Hirtenbriefe, Halle, 1889) ». È  necessario un intervallo di una cinquantina di anni per spiegare i cambiamenti avvenuti nell’organizzazione delle comunità cristiane; ma siccome Hesse, nonostante tutto, si ostina a mettere le Pastorali al principio del secondo secolo, si trova costretto a mandare le lettere di Sant’Ignazio fino al regno di Marco Aurelio (161-180). L’assurdo della conseguenza avrebbe dovuto illuminarlo su la falsità del suo punto di partenza. – Tutto invece diventa semplice e naturale, se nelle Pastorali vediamo l’opera di San Paolo. Le condizioni delle chiese di Efeso e di Creta sono esattamente quelle che constatiamo in tutte le cristianità fondate mentre era ancora in vita l’Apostolo, con questa sola differenza, che la chiesa di Efeso, la quale contava una dozzina di anni di vita, era già arrivata ad una fase alquanto più avanzata del suo sviluppo.

2. Assai più speciosa è la difficoltà dello stile. Per stile, noi qui intendiamo soprattutto il lessico, poiché lo stile propriamente detto, benché meno serrato, meno eloquente, meno vigoroso di quello dei brani polemici delle Epistole maggiori, non differisce sensibilmente da quello delle parti morali. La sintassi, cioè quello che vi è nello stile di più personale e di meno imitabile, è la stessa. Perciò i filologi, i giudici migliori in questa materia, non hanno alcun dubbio intorno all’autenticità: prova evidente che le difficoltà non nascono tanto dallo stile stesso, quanto da una prevenzione al cui appoggio s’invoca troppo tardi l’argomento della lingua. Certamente la proporzione dei termini nuovi è considerevole; non vi si trovano certe locuzioni familiari a Paolo, mancano affatto certe particelle di cui sembra che egli non sappia fare a meno; si trovano invece ad ogni pagina espressioni che non sono della sua lingua, giri di frase che gli sono estranei. Siccome gli argomenti di questo genere provano soltanto con l’accumulazione degli esempi, si è fatta una lista delle parole paoline che non si trovano nelle Pastorali e, come controprova, un’altra lista dei modi di dire frequenti nelle Pastorali e che non si trovano negli altri scritti di Paolo. Ma l’esame attento di queste liste non dà un risultato decisivo. La pietra di paragone dello stile dev’essere maneggiata con molta circospezione. Se ne fece la prova con Platone, con Dante, con Shakespeare, con Bossuet, e si arrivò sempre alle conclusioni meno previste. Il fatto è che il vocabolario degli scrittori si modifica e si trasforma con l’età; si arricchisce o s’impoverisce in modo assai curioso; certe parole preferite vengono poi abbandonate affatto, e altre le sostituiscono per un certo tempo fino a che certi termini i quali parevano dimenticati, ritornano nuovamente in favore. Qui ci sarebbe un interessante problema di psicologia che sarebbe bene studiare a fondo prima di formulare aforismi. – Il problema diventa più complicato quando si tratti di un autore il quale non abbia per il suo linguaggio le attenzioni di un purista. La lingua materna di Paolo era l’ebraica e la greca e, senza tener conto della parte che possono aver avuto i suoi diversi segretari nella redazione delle lettere, il suo vocabolario subì certamente l’influenza dei molti dialetti e idiomi che intese lungo la via. I nuovi argomenti trattati nelle Pastorali esigevano pure una maggiore estensione del lessico. Più della metà dei vocaboli speciali di questo gruppo di Epistole, riguardano i falsi dottori e le false dottrine, oppure la morale che conviene loro opporre, oppure le qualità richieste nei sacerdoti e nei diaconi. La maggior parte degli altri vocaboli è puramente accidentale, e a chi si stupisce di trovare soltanto nelle Pastorali le parole « mantello, pergamena, stomaco, fabbro ferraio, pudore, timore, antenati, favola », bisogna domandare perché mai certe cose tanto rare come l’acqua e il vento, si trovino ricordate soltanto nell’Epistola agli Efesini. Queste ricerche minuziose sono giochi di pazienza, che possono dar luogo ad utili osservazioni filologiche, ma che troppo spesso degenerano in puerilità. Più significativa che la lingua è la dottrina. I critici più ostili all’autenticità, sono costretti ad ammettere che le Pastorali portano lo stampo di uno stesso autore, e che questo autore, chiunque sia, è assai familiare con l’insegnamento di San Paolo. Osservando più da vicino, si vedrà che la maggior parte delle idee particolari di queste Epistole hanno il loro punto di congiunzione con le lettere della prigionia. Queste ultime occupano manifestamente un posto intermedio e sono come il punto di congiunzione tra le Epistole maggiori e le Pastorali. Limitiamoci a due o tre esempi. “Quando apparve la bontà di Dio nostro Salvatore e i l suo amore per gli uomini, allora, non in virtù di opere che non avremmo fatto in uno Stato di giustizia, ma secondo la sua misericordia, egli ci salvò col bagno di rigenerazione e di rinnovamento dello Spirito Santo. Questo Spirito egli lo diffuse m abbondanza per mezzo di Gesù Cristo nostro Salvatore, affinché, giustificati dalla sua grazia, diventiamo nella speranza eredi della vita eterna” (Tit. III, 4-6). – Non vi è quasi nessuna di queste espressioni che non riveli la mano di Paolo. Il « bagno di rigenerazione e di rinnovamento », che è evidentemente il Battesimo, riceve già il nome di bagno nell’Epistola agli Efesini, e questo nome non si trova in nessun altro passo del Nuovo Testamento. L’idea, se non lo stesso nome di « rigenerazione », si trova frequentemente negli scritti canonici, particolarmente in San Paolo. Propriamente parlando, il Battesimo non è la rigenerazione, ma lo strumento della rigenerazione: è il seno materno che ci partorisce e che ci riveste del Cristo, non come di un abito esterno, ma come di una forma vitale la quale cambia le nostre più intime relazioni e fa di noi una nuova creatura. La parola, come pure l’idea di « rinnovamento », è propria di San Paolo, come pure la maniera con cui questo rinnovamento si produce per l’intervento dello Spirito Santo, diffuso nei nostri cuori dal Padre o dal Figlio. Anche il compito della grazia è affatto paolino: l’ipotesi di una giustizia propria è respinta, l’influenza delle opere è negata, è tutto è lasciato alla misericordia. Lo stato di giustizia ci costituisce eredi della vita eterna e, come in San Paolo, noi siamo salvi già in questa vita in effetto e in speranza. È vero che l’antica antitesi « opera e fede » è qui sostituita dall’antitesi « opere e grazia », ma la tendenza a questa sostituzione si nota già nelle Epistole della prigionia, come se Paolo volesse finirla con lo spiacevole equivoco di cui la sua dottrina era stato il pretesto, cioè che le opere sono inutili e che la fede tiene il posto di tutto. Può darsi anche che, di mano in mano che la Chiesa si allontanava dalle origini, l’atto di fede sembrasse meno indissolubilmente legato al Battesimo e alla giustificazione. I bambini delle famiglie cristiane nascevano candidati al Battesimo ed a poco a poco si veniva prendendo l’abitudine di considerare la fede come un abito soprannaturale, anziché un atto subitaneo il quale sconvolgeva tutto l’essere morale. – Altrove Paolo esorta Timoteo ad osare e soffrire tutto per il Vangelo di Dio « che ci ha salvati e chiamati con la sua vocazione santa, non secondo le opere, ma secondo la grazia e il suo beneplacito. Questa grazia che ci fu data nel Cristo prima dei tempi eterni, si è manifestata ora con l’apparizione del nostro Salvatore Gesù Cristo il quale ha infranto il potere della morte ed ha fatto risplendere la vita e l’incorruzione per mezzo del Vangelo (16) ». Non vi è quasi espressione che non sia propria di Paolo: il proponimento o beneplacito di Dio, l’incorruzione, la distruzione della morte, la strana locuzione dei tempi eterni opposta all’oggi evangelico in cui si manifesta la grazia decretata prima dei secoli. Paolo, secondo il suo solito, non considera la gloria celeste come il termine diretto ed esclusivo del proponimento o decreto divino. Il beneplacito di Dio, sommamente libero e indipendente, guidato dalla sua misericordia e non dalla vista delle opere e dei meriti preesistenti, finisce nella vocazione, nella salute iniziale che con essa si confonde. Tuttavia questa decisione graziosa è subordinata alla redenzione del Cristo Gesù, fuori del quale non vi è né grazia né salute. – È cosa che soddisfa il ritrovare queste dottrine del paolinismo più puro, con la loro terminologia precisa e le loro formule consacrate, in un gruppo di Epistole in cui certi teologi eterodossi si lamentano di cercare invano le teorie di Paolo su la grazia e la giustificazione. Queste teorie non avevano più la forma polemica richiesta dalle controversie delle Epistole maggiori; non con queste ultime bisogna confrontare le Pastorali, ma piuttosto con le lettere indirizzate ai Tessalonicesi, o meglio ancora con quelle della prigionia.

II.  QUADRO STORICO.

1. DATA TARDIVA DI QUESTE LETTERE. — 2. PROVA DI AUTENTICITÀ.

1. Bisogna ridurre quanto più è possibile l’intervallo che separa le due Epistole a Timoteo, tra le quali s’intercala la lettera a Tito. Difatti noi vediamo l’Apostolo, in preda alle stesse sollecitudini e agli stessi timori, combattere i medesimi errori e mettere in guardia contro i medesimi pericoli. L’uniformità del suo linguaggio manifesta lo stesso stato d’animo e dimostra che circostanze simili danno la stessa direzione ai suoi pensieri. Se le nostre congetture sono fondate, le Pastorali sarebbero state scritte nell’intervallo di un anno, l’ultimo della vita di Paolo. Nella primavera del 66, l’Apostolo fa un viaggio d’ispezione generale in Oriente. Egli si dirige da sud a nord, lungo la costa asiatica; lascia Timoteo a Efeso per reprimere i falsi dottori, e si spinge fino in Macedonia. Di là, a quanto pare, scrive la prima a Timoteo, nel timore che un ostacolo imprevisto si opponga al suo ritorno in Asia, forse anche per rispondere ai dubbi di un discepolo spaventato dalla sua giovinezza e dalla sua responsabilità. In quel momento andava egli a fondare a Creta quella chiesa che poi affida a Tito, perché ne completi l’ordinamento? Non lo possiamo dire. Dopo questa rapida visita, lo troviamo su la via di Nicopoli dove ha stabilito di passare l’inverno (Tit. III, 12). Là infatti ha ordinato a Tito di venirlo a raggiungere, appena che Tichico oppure Artema sarà sbarcato in Creta per sostituirlo. Più tardi egli ridiscende la costa del mediterraneo; a Troade egli è ospite di Carpo, in casa del quale lascia un mantello e dei libri; a Mileto fa sbarcare Trofimo ammalato; approda a Corinto e vi lascia un altro dei suoi compagni, Erasto (II Tim. IV, 13, 20). Ma non abbiamo nessun mezzo di districare l’episodio oscuro del suo arresto. La seconda a Timoteo ce lo mostra prigioniero a Roma. Un abitante di Efeso ha avuto il tempo di essere informato della sua prigionia e di trovarlo dopo molte ricerche (II Tim. I, 16-17). L’Apostolo sente vivamente il peso della solitudine: Demade lo ha abbandonato vilmente; egli stesso ha dovuto mandare Tito in Dalmazia, Crescente nella Galazia o nella Gallia, Tichico a Efeso. Soltanto Luca è con lui (II Tim. IV, 10-12). Non vi è più speranza per lui su la terra: « Il mio sangue sarà sparso come una libazione, e l’ora della mia partenza arriva. Ho combattuto il buon combattimento, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede; mi resta da ricevere la corona di giustizia con cui il Signore, giusto giudice, mi ricompenserà in quel giorno, e non soltanto me, ma tutti quelli che hanno amato la sua gloriosa venuta (II Tim. IV, 6-8) ». L a lettera è un invito supremo al discepolo prediletto; Paolo vuole rivederlo prima di morire e teme già che sia troppo tardi, tanto gli sembra imminente la fine. – Il fatto che la composizione delle Pastorali cade fuori del quadro storico degli Atti, ben lungi dall’infirmare l’autenticità, le da un nuovo appoggio. Non è possibile uscire da questo dilemma: « O la carriera di Paolo non si fermò al punto in cui si fermano gli Atti, oppure le lettere Pastorali non sono autentiche ». Tutti gli sforzi tentati per distribuirle nella vita conosciuta dell’Apostolo, nonostante veri prodigi d’ingegnosità, sono restati vani. Per spiegare la loro rassomiglianza reciproca e la loro dissomiglianza dalle altre, bisogna farne un ciclo a parte, chiuso in un lasso di tempo assai breve, e metterle al termine della vita di Paolo – Questo periodo è per noi molto oscuro, come sarebbe oscura tutta la storia apostolica senza il racconto degli Atti; ma la difficoltà di conciliare le allusioni delle Pastorali con fatti avverati, è precisamente un indice di più in favore dell’autenticità. Un falsario familiare con lo stile e con gli scritti di Paolo, non disseminerebbe a capriccio le antilogie in una imitazione ingegnosa che egli vuol far passare come lavoro dello stesso suo maestro. Egli collegherebbe la sua finta corrispondenza con circostanze storiche, metterebbe in scena gli stessi personaggi e conserverebbe a loro la loro parte e il loro carattere. L’autore delle Pastorali, se è diverso da Paolo, va contro il buon senso: ci presenta per la prima volta una moltitudine di sconosciuti, Imeneo e Fileto, Figelo ed Ermogene, Loide ed Eunice, Crescente, Carpo, Eubolo, Pudente, Lino, Claudia, Onesiforo, Alessandro, Artema e Zena. I particolari che li riguardano sono brevi e precisi, come conviene al genere epistolare in cui non si ha da istruire il pubblico. La maggior parte dei personaggi devono sostenere una parte alla quale non sembravano preparati: come prevedere la defezione di Demade e perché farlo andare e Tessalonica? Che cosa avevano da fare a Creta Tichico e lo stesso Tito? Erasto, Apollo e Trofimo non sono dove si penserebbe che dovessero trovarsi. Un falsario che stima abbastanza Timoteo per fargli indirizzare due lettere apocrife, ne avrebbe abbellito idealmente il ritratto, o per lo meno non avrebbe per nulla diminuito gli elogi che Paolo, nelle sue lettere pubbliche, fa al suo discepolo prediletto; non lo avrebbe rappresentato timido, irresoluto, diffidente delle sue forze e della sua giovane età. Vi sono cose che non si possono inventare. La raccomandazione fatta a Timoteo, di bere un po’ di vino per causa del suo stomaco debole e di portare all’Apostolo i libri e le pergamene lasciate in casa di Carpo, incantevole come espressione della vita reale ritratta al vivo, sarebbe fredda e puerile sotto la penna di un imitatore.

IL SANTO ROSARIO

IL SANTO ROSARIO

[Padre V. STOCCHI: DISCORSI SACRI; Tipogr. Befani Ed. – ROMA, 1884, imprim.]

DISCORSO XXIII.

SANTO ROSARIO

Flores mei fructus honoris et honestatis.

ECCLI. XXIV, 23

La vita del cristiano che vuol salvare l’anima sua conviene che si consumi nel doppio esercizio di fuggire il male e di fare il bene. Declina a malo et fac bonum. (Ps. XXXVI, 27) Ecco in compendio tutta l’economia secondo la quale deve svolgersi la téla dei nostri giorni in questo corso di pellegrinaggio mortale. Or questo doppio esercizio che in apparenza sembra dover essere all’uomo ragionevole sì soave e sì facile, in pratica si trova oltre natura. Onde chi predica la parola del Signore conviene che dia opera assidua ad avvalorare col presidio della fede le umane volontà, sicché vincendo le fiacchezze della natura, si diano all’esercizio di ogni maniera di opere lodate e sante. E questo ho procacciato di fare tutte le volte che sono asceso quassù, e farò oggi con affetto particolare: perciocché ho in animo di accreditare, quanto mi basteranno le forze, una pratica santa, la quale possiede una efficacia veramente celeste per ritrarre dal male e condurre al bene. Questa pratica santa è quella che ieri chiamai un caro regalo fatto da Maria agli individui non meno che alle famiglie cristiane, ed è la devozione del santo Rosario. O quanti individui, o quante famiglie debbono al santo Rosario tutto il bene che hanno, e lo confessano a voce alta e lo predicano e lo proclamano. Questo li ha colmati di ogni benedizione di Dio. Benedizione nella salute che li rallegra vegeti e prosperosi; benedizione nelle sostanze che non solo sono al bisogno sufficienti ma soprabbondano: benedizione nei figli e nelle figliuole che crescono negli anni e consolano il cuore dei genitori con la obbedienza, con la integrità della vita: benedizione nell’anima, benedizione nell’onore, benedizione nella reputazione, benedizione in tutto quello che si può onestamente e santamente desiderare. E queste benedizioni sono quelle che avevano operato, che questa pratica sì cara alla Regina del Cielo nelle famiglie cristiane si stabilisse; e non sono molti anni che a malo stento una famiglia avreste trovato nella quale ogni giorno non si pagasse questo tributo a Maria. Ora il diavolo è riuscito a sbandirlo da molte case, e il danno è stato enorme, e l’abbandono del santo Rosario cresce ogni giorno. Io che amo questa devozione con tutto il cuore voglio stamane levar la voce per commendarla e lo farò con quanto di lena e di affetto mi sarà possibile. Forse chi sa? Riuscirò a confermare in sì santa devozione chi ancora la pratica, e ridurre a ripigliarla chi infelicemente l’avesse dismessa.

1. Tutti quanti siamo Cristiani conveniamo in questo, che è necessaria per salvarsi l’anima la devozione a Maria, e che questa devozione non deve consistere solo in parole ma deve mostrarsi con le opere. Le parole sono foglie, le opere frutti: e però ogni Cristiano deve avere un numero stabile di onoranze e di ossequi da pagare alla Vergine, giornaliero tributo di amore filiale, e argomento e via per conseguirne il patrocinio e il favore. Ora di questi ossequi da tributare a Maria ce ne sono infiniti, che quasi messe e portate di sapore diverso a commensali svogliati, reca in mezzo tutto dì lo zelo e la pietà di coloro, che danno opera di mantenere e di accendere nel mondo la pietà e l’affetto verso la Madre di Dio. Praticarle quindi tutte non è possibile, e conviene che si scelga, e che in questa varietà e copia quasi infinita di devozioni ciascuno si appigli a quella che fa per lui. Qui è dove io mi fo innanzi, e non temo di intromettermi consigliere. Voi dunque volete scegliere un ossequio da tributare ogni giorno a Maria? Ce ne sono infiniti, ma dite a me: se fra tanta moltitudine di devozioni e varietà di omaggi antichi e moderni e forse più moderni che antichi, uno se ne trovasse che avesse Maria medesima istituito, né istituito solamente ma commendato, né commendato solamente ma inculcato come carissimo a sé, e come efficacissimo e fruttuosissimo, di promesse singolari a nome suo e del suo Figliuolo arricchito e privilegiato, non pare a voi che sarebbe giusto che a questo si desse sovra ogni altro il primato? Certo sì, rispondete voi subito: noi vogliamo fare cosa cara a Maria, e se Maria ci dice: mi è cara questa, non esitiamo un momento a darle la preferenza. Ora tale è il santo Rosario. Maria lo ha istituito, Maria lo ha commendato, Maria lo ha inculcato, Maria di promesse e di privilegi incomparabili lo ha arricchito: sentite come. Se ne stava il santo patriarca Domenico pettoreggiando in campo aperto gli Albigesi, ribaldaglia oscena di eretici, che, rinnovellando non meno le empietà nella dottrina che le abbominazioni nella vita degli Gnostici e dei Manichei, dopo avere con le arsioni e con le stragi, coi tumulti e con le rapine sconvolta la Spagna, desolavano la Francia e minacciavano l’Italia. Quelle sette scellerate che, non più coperte e soppiatte e furiose, imperversano oggidì e sono le furie che armate di serpi e di fiaccole flagellano il mondo [le sette massonche – ndr. -], ci porgono un adeguato concetto della setta degli Albigesi, con la quale hanno attraenze più strette che il volgo non crede, ne discendono per dritta linea, hanno comune con essa il padre infernale che è il diavolo, e col padre i princîpi, i riti, lo scopo, le empietà, i sacrilegi, le mire bieche, le lordure nefande, e se questo fosse il luogo ed il tempo potrei mostrarvi senza fatica che i nostri settari sono gli Albigesi del secolo decimonono. A questa peste e cancrena che aveva fatto capo nella Linguadoca e nella Provenza, contrastava come dicemmo gagliardamente Domenico, ma né la fiamma dello zelo, né la luce della dottrina, né la possanza della santità valevane a conquidere quest’idra, il trionfo della quale era serbato al piede invitto di Colei che nata a schiacciare la testa del diavolo si appella per antonomasia la domatrice di tutte le eresie nell’universo mondo. Se ne stava dunque Domenico mesto e scorato, quando gli apparve, celeste visione, Maria, e “fa cuore o figlio, gli disse, e istituisci il Rosario. Non alla scienza né all’opera dell’uomo, ma a questo modo di orazione è serbata la vittoria del nemico che tu combatti. Esso è gratissimo al mio Figliuolo ed a me, istituiscilo dunque e bandisci per l’universo mondo che da ora in poi per sbaragliare le eresie, per sterminare i vizi, per promuovere le virtù, per implorare le divine misericordie sarà nella Chiesa un presidio validissimo e potentissimo”. Cosi Maria. Maria dunque è la vera istitutrice del santo Rosario, e i sommi Pontefici di quel secolo ne autenticarono le origini gloriose. Ma quando pure ogni autorevole conferma mancasse, per ogni conferma varrebbero gli effetti e i prodigi: imperocché predicando Domenico il Rosario in breve ora si distese e mise radici per l’universo mondo: armato di questo il gran Patriarca, negli sterpi eretici percosse, dice divinamente l’Alighieri, come torrente che alta vena preme; cadde infranta sotto i suoi colpi l’eresia albigese; scomparve quella coorte di vizi che inselvatichiva e contaminava il santuario, e innestandosi in quelle spine le rose di Maria, ne presero il luogo i fiori di ogni eletta virtù: stupendi effetti, di cagione agli occhi della prudenza umana non solo sproporzionata ma contennenda, ma che non fanno meraviglia nessuna a chi conosce chi sii tu e che possi, o Maria. Conchiudiamo adunque. Volete una devozione carissima a Maria? Recitate il santo Rosario. La volete non solo cara a Maria ma da Maria medesima istituita? Recitate il santo Rosario. La volete potentissima, efficacissima per frastornare ogni male e fruttificare ogni bene? Recitate il santo Rosario.

2. E che cercare di vantaggio se, quando pure tanta gloria di origine e ubertà di promesse al Rosario mancasse, basterebbe la eccellenza intrinseca che possiede come orazione perché si vendicasse sopra ogni altra orazione privata la preferenza? E di verità: due maniere sogliono distinguere di orazione i maestri della vita spirituale, come è notissimo. Chiamano l’una vocale, ed è quella nella quale si pronunziano con la voce le parole della orazione; chiamano l’altra mentale e in questa pregano la mente e il cuore, senza che il labbro sensibilmente pronunzi sillaba. Ambedue eccellenti, ambedue perfette se siano fatte a dovere, ma perfettissime allora, che l’una con l’altra si intrecciano e a vicenda si aiutano e perfezionano, infiammandosi il cuore di sani affetti ed esprimendo la lingua i sensi dell’animo. Ora il santo Rosario è opera di magistero semplice sì, ma così bello ad un tempo e così compiuto che nessuna desidera delle perfezioni che nobilitano e fecondano la orazione. È infatti il santo Rosario orazione vocale, ma di tutte le orazioni vocali coglie per adornarsene il fiore e la cima. Gesù Cristo nostro Signore fece scrivere nel Vangelo una orazione, che Egli stesso compose e insegnò agli Apostoli, onde orazione domenicale si appella, ed è tanto perfetta, dice Agostino, che quando preghiamo, se preghiamo a dovere, non possiamo domandare cosa che in essa non si contenga. E questa orazione coglie prima di ogni altra il santo Rosario, e ben quindici volte la innesta nella sua corona. Dopo il Pater che è la orazione della quale parlato abbiamo, non ha la Chiesa orazione o più saputa o più cara dell’Ave Maria, saluto angelico alla Regina del Cielo, che la Chiesa stessa compose intrecciando insieme le parole di Gabriele e di Elisabetta e legandole con le proprie quasi gemme in collana: e questa cara orazione è la più gran parte del santo Rosario che tutto passa in salutare e risalutare Maria, e il dolce saluto altro non interrompe che il trisagio celeste al Padre, al Figliuolo e allo Spirito Santo che ce la diedero e la fecero sì bella. Ti piace dunque di fare omaggio alla Vergine con orazioni vocali? Recitate il santo Rosario, perché molte e belle orazioni trovare potrete, ma nessuna nella quale si intreccino o si congiungano orazioni o più eccellenti o più sante. Ma voi per avventura di sole orazioni vocali non vi appagate, e alle vocali vi piace congiungere la mentale, siccome quella che onora Dio con la parte più nobile di noi l’intelletto e la volontà. E avete ragione, perché se nella orazione, come non di rado avviene, la lingua sola parli con Dio, e la mente volontariamente svolazzi nelle brighe e futilità della terra, non è veramente orazione ma ludibrio di orazione, e non può essere, dice Agostino, udita da Dio quando non è udita neppure da chi la fa. Or bene, se una orazione si ritrovasse nella quale mentre prega la lingua si offerisse alla mente la contemplazione di oggetti tali, che fossero capacissimi di tenerla a sé medesimi afferrata ed avvinta, tarpando le ali ai voli e agli errori della fantasia, non pare a voi che opportunissima sarebbe questa orazione alle vostre brame? Tale è il santo Rosario. Prega in esso la lingua e fa onore a Dio con le orazioni più sublimi e più sante che abbia la Chiesa; ma al tempo medesimo non rimane vuota la mente, quasi teatro abbandonato ai fantasmi che vagano nella parte inferiore, ma occupazione degnissima di sé le si offeriscono a contemplare i misteri più augusti del Cristianesimo. O santo Rosario, o giardino eletto, o vago teatro di spettacoli incomparabili: Ecco io veggo la cara Verginella di Nazaret, e un Arcangelo a colloquio con essa, e odo il saluto angelico e le proposte magnifiche e le prudenti risposte, e il fiat taumaturgo e adoro il Verbo di Dio fatto carne. Voglio anch’io salutare questa creatura Madre già del Creatore: ma che? La veggo volare agile e snella quasi cavrioletta leggera per le montagne di Galilea, che si smaltano di fiori sotto i suoi passi, ed ecco, ecco entra apportatrice di gaudio nella casa di Lisabetta e scioglie la cara voce al saluto. Sente Lisabetta il suono di quella voce, esulta nel materno seno il Battista, lo Spirito Santo l’empie di sé, e cantano insieme, Lisabetta le grandezze di Maria, Maria le magnificenze di Dio. Da questo dolce spettacolo mi ritrae soavemente il santo Rosario, ma un altro più bello me ne appresenta. Ecco questa è Betlemme, questa è la grotta, entro, vedo Maria, vedo Giuseppe, vedo il Pargoletto che è nato, lo adoro coi pastori e canto con gli Angeli, gloria in excelsis Deo: e poi accompagno Maria col Pargoletto al tempio, ascolto inorridito la profezia di Simeone, e poi piango al pianto di Maria e di Giuseppe che piangono Gesù perduto e con loro lo cerco, ed esulto poi vedendolo nel tempio giovinetto dodicenne in mezzo ai dottori che stupiscono di sì eccelsa sapienza in membra infantili. Qui si cambia spettacolo, e o Dio che veggo? Veggo Gesù che prega e suda sangue nell’orto: ecco un fracasso di arme e di armati, ecco un chiarore di fiaccole e di lanterne, mettono le mani addosso al Figlio di Dio, lo legano, lo flagellano, lo coronano di spine, lo configgono in croce. Ahimè, ecco Maria madre desolata e crocifissa nel cuore assiste spettatrice immobile alle agonie del Figliuolo, e ne contempla gli ultimi aneliti e ne ode l’ultime voci. Deh? Chi vide mai più atroce spettacolo? Ma viva Dio ogni cosa è mutato: alleluia alleluia, cantano gli Angeli del Paradiso, io veggo Gesù risorto più luminoso del sole, che prima appare alla Madre, poi sale al Cielo, ma ecco scende tra il fuoco e il turbine lo Spirito Santo. Chi lo manda? Gesù. Chi lo impetra? Maria. Ma o Dio la terra non è più degna di tenere Maria, il Cielo la vuole, e io la vedo tra i cori degli Angeli salire al trono di Dio: o che festa o che giubilo, o che trionfo! Entro in Paradiso con Essa, la vedo vestita di sole, coronata di stelle, tutto è festa, tutto esultanza in quella gloria beata: qui mi ferma il santo Rosario e mi dice: se vuoi davvero, questa gloria è per te. Ecco gli spettacoli che alla nostra contemplazione offerisce il santo Rosario. Prega così la lingua e prega la mente, e lingua e mente esercitano se medesime a onore di Maria, e l’una ripete e l’altra contempla quanto in Cielo e in terra vi ha di più nobile e più sovrano. Recitate dunque il santo Rosario perché se ogni orazione fatta a dovere espugna il Cielo e fa forza al trono di Dio, che non potrà presentata a Dio per le tue mani o Maria una orazione da te composta di tanta eccellenza?

3. Né dalla bellezza e dalla eccellenza si scompagna la facilità e il diletto, e appare manifesto nel santo Rosario il magisterio di Maria, che volendo che questo ossequio fosse nella Chiesa di Dio universale, lo architettò sublimissimo e facilissimo. Ora uditori, se inculcate a molti Cristiani che pensino un poco all’anima, che preghino, che non tengano il capo sempre volto alla terra come le bestie, vi rispondono che non possono, che non sanno, che non hanno voglia né tempo. Dite una ragione sola: dite che non avete voglia e direte vero: ma che non sapete, che non avete tempo deh! non lo dite. Non sapete pregare? Ma come? Non sapete a memoria il Pater e l’Ave? Non vi sono noti i principali misteri della nostra fede? Non avete mai udito contare chi sono e che fecero in terra Gesù e Maria? Sapete queste cose o non le sapete? Se non le sapete imparatele subito, perché un Cristiano non può ignorarle senza colpa e senza vergogna. Ma voi le sapete e le sapete benissimo, e come le ignorereste voi, voi nato allevato e cresciuto nella Chiesa Cattolica? Ma se queste cose sapete non dite più di non saper pregare perché Basta sapere il Pater e l’Ave, e chi è Gesù e chi è Maria per recitare il santo Rosario, e il santo Rosario è l’ottima delle orazioni. Né miglior scusa dell’ ignoranza è l’altra del difetto del tempo. Voi allegate il difetto del tempo voi? Ma se tanto ne gettate ogni giorno: ma se vi consuma la noia tra le dissipazioni, l’ozio e le chiacchiere: ma se dite voi medesimi di non sapere come ammazzare il tempo. D’altra parte ogni tempo è buono per recitare il santo Rosario, ogni luogo è propizio. Dimorate nella Chiesa ascoltando la Messa? Invece di star lì spensierato, divagato, curioso con offesa di Dio, pericolo vostro e scandalo altrui, recitate il santo Rosario. Vi trovate in isciopero e sentite voglia di andare a mettervi in quei convegni, in quei crocchi, in quei caffè, in quelle bettole, dove regnano le bestemmie, gli osceni parlari, i giuochi e le gozzoviglie? Sequestratevi per breve ora e recitate il santo Rosario. È il santo Rosario dolce e comodo compagno nei passeggi, sale con noi sui cocchi delle ferrovie, ci sta a fianco nei viaggi, soli o in brigata, di giorno o di notte, alla luce o tra le tenebre, sempre sempre il santo Rosario ci sarà, se vogliamo, dolce compagno. Il Rosario condisce il lavoro, il Rosario fiorisce la veglia, i sollazzi e i favellari amichevoli dopo il Rosario tornano più graditi, il Rosario fa soave al contadino il travaglio, al tribolato l’angoscia, all’ infermo l’ingrato letto del dolore. Recitiamo dunque, recitiamo il santo Rosario. Per quanto gli affari ci assedino, le occupazioni ci stringano, ci incalzino le faccende, troviamo il tempo per offrire le sue rose a Maria: chi vuole lo trova, chi lo trova si accorge tosto che il tempo del Rosario è tempo bene impiegato, e benedicendolo Maria ne sta bene l’anima e il corpo. O beato e mille volte beato chi ama il santo Rosario! L’amarlo è segno di predestinazione perché come la respirazione è segno insieme e causa di vita, così dice S. Germano, il nome di Maria devotamente pronunziato non solo è segno che l’anima vive alla grazia ma produce di vantaggio questa medesima e la conserva. Quemadmodum respirano non solum signum est vitæ sed etiam causa; sic sanctissimum Mariæ nomen simul argumentum est quod vera vita vivitur, simul etiam hanc ipsam vitam efficit et conservat.

4. Ma crescerà senza misura nel nostro concetto la stima del santo Rosario se porremo mente alle promesse singolarissime, onde sopra ogni altra orazione Gesù privilegiò quella fatta non da un solo in particolare ma da molti in comune. Tertulliano con la sua consueta efficacia chiamò questa orazione un assalto dato al trono di Dio. Coimus in cœlum congregationemque,ut ad Deum quasi manu facta precationibus misericordiam ambiamus orantes. Hæc Deo grata vis est. Rendeva il grande apologista ragione agli imperatori della nostra Religione santissima, e a chi incolpava ai Cristiani perché di notte si radunassero molti insieme, noi ci raduniamo, rispondeva, e facciamo colletta e congregazione per irromper quasi fatta violenza al trono di Dio ed espugnare misericordia. Violenza se volete, ma violenza gratissima a Dio. Così egli: e aveva imparato questa dottrina da Gesù Cristo che così parla. Si duo ex vobis consenserint super terram de omni re, quamcumque petierint, flet illis a Patre meo. (Matth. XVIII, 19) Volete una grazia e la volete davvero? Unitevi due o tre insieme e dimandatela. Io vi dò parola che qualunque grazia chiediate, mio Padre ve la farà: così Gesù, che ne allega altresì la cagione, ubi duo vel tres congregati fuerint in nomine meo, ibi sum in medio eorum: (Matt. XVIII, 20.) dove due o tre si trovano radunati nel nome mio, ivi sono anch’Io che prego nel mezzo a loro. Essendo così, si direbbe essere il santo Rosario un presente bellissimo e preziosissimo fatto alle famiglie cristiane dalla gentile cortesia di Maria. Opportunissima infatti è questa santa orazione alla preghiera comune, e per essa i genitori e i figliuoli colrimanente della famiglia e la servitù, dimenticata la diversità della condizione e della fortuna, e soppressa la distinzione degli uffici e dei gradi, e divenuti tutti figliuoli del medesimo Padre celeste e in Gesù Cristo fratelli, fatti quasi due cori cantano le lodi di Dio, e supplicano all’Altissimo interponendo il nome e la mediazione di Maria. O caro spettacolo che alla maggior parte di noi ricorda la inviolabile consuetudine che la pietà degli avi dei padri e delle madri nostre manteneva con tanto amore e nei dolci anni della nostra fanciullezza che furono gli anni della nostra innocenza! Fra la letizia della veglia domestica un’ora, nella quale al cenno materno si interrompevano i femminili lavori, i dolci colloqui e i sollazzevoli favellari. e tutta la famiglia si prostrava davanti alla avita immagine della Vergine benedetta, ed era il santo Rosario stabile tributo che le si pagava ogni giorno. Così le famiglie cristiane rendevano somiglianza di un drappello di figlioletti amorosi che si stringevano intorno alla falda materna, e per patrocinio e conforto la supplicavano, e quasi per vezzo e per blandizia filiale di mille dolci nomi e saluti a muta a muta la molcevano e carezzavano. E ti salutiamo, Maria piena di grazia, l’una schiera diceva, e santa Maria Madre di Dio, rispondeva l’altra schiera, prega per noi peccatori. Vi ricordate? Passava allora appena per cristiana quella famiglia nella quale il santo Rosario si trasandasse, e chi a notte ferma si aggirava per le nostre città, pei castelli, per le borgate, sentiva da ogni casa venirsi alle orecchie un dolce sussurro. Era il sussurro del santo Rosario: le voci argentine dei fanciulli si mescevano con le soavi delle donne, con le ferme degli uomini maturi e con le tremule dei vecchi, e donne e uomini, vecchi e fanciulli Maria chiamavano … Maria. E Maria supplicata scendeva e il manto materno distendeva sopra le famiglie, sopra le case, sopra le città, sopra i regni, e vegliava e proteggeva come figliuoli quelli che la amavano e riverivano per madre. E allora erano docili ed obbedienti i giovani, erano allora le fanciulle intemerate e pie, erano sollecite e illibate le madri, attendevano i padri ai negozi della famiglia, ma senza scordarsi che oltre la vita temporale ci è anche l’eterna, molcevano i vecchi con le consolazioni di Dio gli affanni e le cure della vita cadente. Era insomma nelle famiglie il timore santo di Dio, e Maria vegliava alla guardia del prezioso tesoro, e col timore santo di Dio fioriva la salute, abbondavano le cose necessarie alla vita, erano benedetti i matrimoni e la prole, e i popoli si giocondavano in una prosperità e in una pace, che a noi ricordandola sembra un sogno. Che se talora entrava in casa la tribolazione e la croce l’amore a Maria e la cognizione di Gesù Cristo faceva quel peso tollerabile, e talora soave la trafittura di quelle spine che avevano perduto la punta nelle tempie del Crocifisso. O soavità di memorie che inteneriscono l’anima! O tempi che pur troppo passarono! O venerate e care anime degli avi, dei padri e delle madri nostre, se nella pace e nel gaudio che vi inebria nel seno di Dio foste capaci di dolore, non ne sarebbe ultima cagione il vedere i figliuoli e i nipoti degeneri avere escluso dalle ammodernate case quella devozione che voi riputavate l’arma della protezione, la torre della difesa e il pegno della gloria celeste.

5. Che giova dissimularlo? Non mancano no tra noi un buon numero di famiglie che mantengono fede al santo Rosario e ne colgono gli antichi frutti di benedizione: ma sono anche in gran numero quelle dalle quali la moderna civiltà lo ha cacciato in bando, e questo numero ahi pur troppo cresce l’un dì più che l’altro. Vi pare? Case ammodernate e Rosario, possono darsi cose che più si ripugnino e si escludano l’una con l’altra? Il Rosario è un vecchiume morto e sepolto, e appena qualche languida reliquia ne resta in quelle famiglie che si incaponiscono a tener ferme le consuetudini del medio evo. Ma oggidì se parlate in società di Rosario vi fate deridere. Oibò, il padre e la madre non debbono più passare la serata in famiglia favoleggiando dei Troiani, di Fiesole e di Roma, direbbe l’Alighieri. Conviene andare alla conversazione, al ballo, al teatro, e intanto i figli e le figlie abbandonati dalla madre sollazzevole impareranno il pudore, la pietà, il galateo da un servo sboccato e da una fantesca impudente. Andando così le cose che meraviglia se il santo Rosario ha dovuto sloggiare e Maria con esso, da queste case prostituite alla vanità, alla dissipazione, al vagabondaggio, e a tutte le corruttele di questa vita godente, voluttuosa, carnale, dissoluta, animalesca che quasi vortice e gorgo di inferno assorbe e travolge nella sua rapina le sostanze non meno che la pietà, e col patrimonio avito il buon nome e la pace? Il santo Rosario è sloggiato: ma corrono certe voci delle quali il bottegaio, la trecca e l’artigianello del vicinato si risciacquano la bocca. Si dicono male cose della padrona, pessime della figlia: il figlio si è assicurato la riputazione di libertino: gli affari vanno in precipizio, il giudeo usuraio adocchia già la villa e il palazzo: ahimè non ne va più bene una: fra poco si sentirà uno scroscio da rintronarne l’Italia. Signori miei, voi sapete che non esagero: guardate quanti nobili casati che mantenuti si erano per secoli e secoli, congiungendo insieme la nobiltà e l’opulenza; e ora? e ora ammodernati e degeneri dall’antica pietà o sono precipitati o precipitano affogati quasi in pelago nelle usure e nei debiti. Io non dirò che sia unica causa di tanto male il Rosario sbandito; dirò solo questo, che quando in casa si recitava il Rosario e si viveva all’ antica non accadeva così. E veramente, anche lasciando stare 1′ efficacia del Rosario come orazione che chiama sulle famiglie la benedizione di Maria, chi non vede anche a colpo d’ occhio quanta efficacia deve avere per se medesimo a bene ordinare una casa e a disciplinare una famiglia cristianamente? Quel raccogliersi tutti insieme alla preghiera ad un’ora posta, quel prostrarsi ginocchione davanti all’immagine di Maria, quell’anteporsi ad ogni altra occupazione questo omaggio alla Madre di Dio, mantiene vivo nelle menti mature degli adulti e stampa profondamente nelle tenere dei giovinetti, che Dio è Padre e Signore, che conviene adorarlo, pregarlo, obbedirgli, che questo è il primo tra i doveri dell’uomo e che chi ha Dio amico avrà bene in questa vita e nell’altra, sarà infelice nel tempo e nella eternità chi ha Dio nemico. Nei misteri che si contemplano è un compendio prezioso dei dommi di nostra fede, e si riduce a memoria Gesù Cristo, Maria, la redenzione, il Paradiso, l’inferno. La necessità dell’orazione, i debiti che ci corrono verso Maria e la devozione a Lei come a Madre si raccomandano con raccomandazione di fatto. Applicando il Rosario pei nostri poveri morti mentre suffraghiamo quelle anime benedette, ammoniamo noi stessi che deve fuggirsi il male, deve farsi il bene e che dopo questa vita un tribunale ci aspetta dove il bene e il male sarà pagato da Gesù Cristo a rigore di giustizia. Che andare in tante parole? Il santo Rosario è nato fatto per radicare e mantenere nelle famiglie la fede, la quale se si perde in molte famiglie la colpa è dei genitori. Se non si prega mai in casa vostra, se i nomi di Gesù Cristo e di Maria mai non si odono sul vostro labbro, vi meravigliate poi che i figliuoli crescano senza fede? Padri e madri che mi ascoltate rispondete a me: al tempo dei vostri genitori si recitava in casa vostra il santo Rosario? Si recita al presente in casa vostra? Se si recita ancora badate bene, non lasciate cadere la santa usanza: a dismetterla si fa presto ma a ripigliarla o quanto è diffìcile! Se non si recita…. Ahimè che vi ha fatto Maria, perché sbandiste una devozione a Lei sì cara e a voi medesimi sì fruttuosa?

6. E finora non ho parlato di un altro tesoro che porta in dono il santo Rosario a quelli che devotamente lo recitano, il tesoro delle sante indulgenze: le quali sono tante e di tal prestanza che il giorno mi verrebbe meno se tutte le volessi o noverare o ammendare. Indulgenze plenarie e indulgenze parziali; indulgenze che ogni giorno si lucrano, indulgenze che si guadagnano al cadere di ogni mese, indulgenze per le solennità della Vergine, di Gesù Cristo, dei Santi, indulgenze per la remissione dei peccati dei vivi, e indulgenze che si applicano ai nostri cari defunti, indulgenze che mentre siamo in vita distruggono nel libro di Dio le partite del nostro debito, indulgenze che le distruggono in morte. Imperocché la santa Chiesa ha col santo Rosario obbligazioni grandi e ne conosce alla prova la efficacia per placare Dio irato ai peccati degli uomini, per prodigare i nemici di Gesù Cristo, per conseguire ogni maniera di misericordie. E se io volessi qui convertire il discorso in panegirico, o qual campo mi si aprirebbe davanti opportunissimo alla pompa dell’eloquenza! Vi potrei spalancare infatti davanti agli occhi il pelago delle Cursolari e il golfo di Lepanto, e metterei innanzi la flotta mussulmana annichilita, trascinata nel fango la mezza luna, battuta di tal colpo la potenza turchesca dal quale non si è riavuta mai più. Potrei da Lepanto condurvi sotto le mura di Vienna, e di là in Ungheria e sotto i baluardi di Buda e farvi spettatori di vittorie miracolose; opera e merito del santo Rosario. Ma io non mi sono prefisso di dilettarvi con le glorie del santo Rosario ma di mettervi in altissima stima sì gran presidio che ha il Cristiano per conseguire il suo ultimo fine la eterna salute; alla quale mirando soprattutto la Chiesa commenda il santo Rosario e vorrebbe vederlo regnare nel mondo, sicché non ci fosse individuo non famiglia, non società che non fosse dal Rosario santificata. Le quali cose essendo così uditori carissimi, lasciamo noi andare il mondo per la sua via, e noi imitiamo i Santi di Gesù Cristo, imitiamo le anime cristiane e pie. che hanno sempre amato e trovato tempo pel santo Rosario. Mirabil cosa, un S. Francesco di Sales recitò ogni giorno fino che visse intero il santo Rosario, e trovò sempre tempo: S. Carlo Borromeo era Vescovo di immensa diocesi ed ebbe tempo, tempo trovarono re. principi, regine delle quali e dei quali ci contano le fedeli storie che ogni giorno con le loro famiglie congiunti insieme pagavano questo tributo a Maria. E noi siamo costretti a sentire gente che passa tutto giorno o nell’ozio o in futilità che equivalgono all’ozio, dirci che non ci è tempo, che non ci è comodo! Eh! basterebbe che ci fosse la voglia, il tempo e il comodo si troverebbe. Si trova per tante altre cose. Ma dei sacrifizi se ne fanno pel mondo quanti si vuole, e solo allora che si tratta dell’anima non se ne vuol fare nessuno. Si sa, anche a quei Santi che ho nominato, anche ai nostri antichi portava qualche disagio il santo Rosario recitato in comune, ma essi intendevano che quel disagio era lieve cosa verso i frutti preziosi che ne venivano, e si sarebbero vergognati di non saper fare per Maria un sacrificio che si fa sì facilmente pel mondo. Signori miei, badiamo bene, non viviamo troppo alla moda perché si muore all’antica. Allora quando avremo spirato quest’anima che c’informa, e il nostro corpo freddo, inerte, squallido, contraffatto giacerà sulla bara, porteremo in queste gelide mani fra queste dita intirizzite intrecciata la corona della Vergine. Ma varrà poco la corona sepolta col corpo, se il santo Rosario non infiorerà l’anima davanti a Dio. Ma, o che consolazione in quel punto se potremo dire guardando la corona: giorno non è passato che io non pagassi il caro tributo del Rosario a Maria! Con che affetto con che fiducia baciando la tua corona ti domanderemo o Maria, e tu chiamata verrai e ci tergerai con le tue mani benedette il sudore dell’agonia, e molcerai i terrori e gli affanni dell’anima conturbata. No, non perirà di mala morte chi avrà tenuto fede al santo Rosario. O non sia dunque mai che il santo Rosario da me si scompagni: per quel giorno che non pagherò questo tributo a Maria, si inaridisca il braccio e irrigidisca la lingua pria che la corona dalle mani mi cada e sul labro ammutisca la prece. Sia il Rosario il mio conforto in vita, e in mortemi tocchi la sorte che ti fece beato, o gemma della Compagnia di Gesù, soavissimo giovinetto Giovanni Berchmans. Giaceva questo caro imitatore di S. Luigi Gonzaga nel letticciuolo di morte, e sentiva l’anima presso a sciogliersi dai lacci del corpo che ansava nell’agonia. Strinse allora con le tremule mani il Crocifìsso, al Crocifisso appressò il libricciuolo delle sue regole, e fra l’uno e l’altro intrecciò la corona, e composto il sembiante in un’ aria di paradiso, questi, disse, sono stati i miei amori in vita, con questi morrò volentieri. Disse ed esalò lo spirito e parve non una creatura umana che muore ma un Angelo che si addormenta. Questa fu morte all’ antica: beato chi la farà somigliante.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: “SUPERIORE ANNO” DI S. S. LEONE XIII

Il Santo Rosario della Vergine Maria costituisce ancora una volta il tema di questa Enciclica del 1884, scritta un anno dopo la “Supremi Apostolatus Officio”, sua “gemella”, se ci è permesso usare questo termine, altro documento di esortazione nella pratica del Rosario da recitarsi in particolare nel mese di ottobre. Questo tema è una costante in diverse lettere ed esortazioni di S. S. Leone XIII, che reputa questa devozione e forma di preghiera mariana, l’arma essenziale nella lotta contro il “nemico infernale” che utilizza tutti gli stratagemmi possibili ed umanamente inimmaginabili, per attaccare la Santa Chiesa Cattolica ed i suoi fedeli. Ma per quanto potenti possano essere le armi in mano al “nemico” di Dio, che gestisce alla meglio i suoi adepti, comunisti, satanisti, mondialisti, liberisti, massoni di obbedienza varia, illuminati, palladiani, usurai kazari talmudisti e cabalisti, pseudo scienziati atei, astrologi-occultisti eliocentristi dediti al culto di Mitra, teologi e chierici modernisti e sedevacantisti, marrani, etc., etc., l’arma più efficace, per prova provata, è la piccola “fionda” della Fanciulla di Nazaret, che ha già abbattuto con semplici sassolini, numerosi Golia del passato, e altri e più agguerriti si appresta ad abbattere … il mio Cuore Immacolato trionferà (messaggio di Fatima). Il Sommo e Santo Pontefice si è sempre sforzato, nel corso del suo burrascoso Pontificato, di indicare a tutti i Cristiani questo mezzo sicuro di vittoria sul serpente primordiale, esortandoli assiduamente alla pratica speciale nel mese di ottobre, ed annettendovi, onde impreziosirlo ancor più spiritualmente, numerose ed ampie indulgenze. Oggi, naturalmente, tali appelli ed esortazioni, sono ancora più necessari ed impellenti, visto che il “nemico” sembra padrone assoluto di tutto il campo di battaglia, compresi i sacri edifici un tempo cattolici, essendosi infiltrato in tutte le istituzioni ed attività umane, in particolare nella Chiesa di Cristo che, eclissata ed esiliata in anfratti e catacombe di fortuna, è stata in apparenza sostituita da una nuova conventicola del baphomet, con l’intronizzazione addirittura del loro padrone: satana, avvenuta il 29 giugno del 1963 con doppia messa nera dal prossimo “dan. gay Gianbatty”, (dan. sta per dannato, come San. sta per Santo). Non ci resta dunque che seguire gli accorati consigli del Santo Padre, restare sereni e tranquilli con la corona tra le dita, aspettando il momento di raccogliere la testa di Oloferne, di Golia, del patriarca e dell’imperatore universale della blasfema trinità luciferina. Il Signore lo ha promesso solennemente … “non prævalebunt”, la Vergine lo ha ribadito a Fatima, e Leone XIII ce lo ricorda opportunamente in questa enciclica, “… ut cognóscant quia non est álius qui pugnet pro nobis, nisi tu, Deus noster” [Affinché conoscano che non c’è altri che combatta per noi se non tu, o Dio nostro] … et IPSA conteret caput tuum …

Superiore anno

S. Leone XIII

Lettera Enciclica

Lo scorso anno, come tutti sapete, con una Nostra lettera Enciclica abbiamo decretato che in ogni parte del mondo cattolico, per ottenere il soccorso celeste a favore della Chiesa messa a così dure prove, si onorasse la possente Madre di Dio secondo il santissimo rito del Rosario durante tutto il mese di ottobre. Ciò facendo, abbiamo seguito una Nostra ispirazione e l’esempio dei Nostri Predecessori che nei tempi più difficili della Chiesa, con uno zelo di pietà sempre crescente, ebbero la consuetudine di cercare un rifugio presso l’Augusta Vergine e implorare il suo aiuto con fervide preghiere. – La Nostra volontà è stata dovunque assecondata con un tal fervore ed una tale concordia degli animi che ne è risultata una prova luminosa dell’ardore per la religione e per la pietà che esiste nel popolo cristiano, e della speranza che tutti ripongono nella protezione celeste della Vergine Maria. Questo fervore di pietà e di fede dichiarata ha recato un sollievo ed una grande consolazione al Nostro cuore, oppresso da tante gravi preoccupazioni e da tanti mali, e Ci ha dato la forza per sopportare, se così vorrà Iddio, mali anche peggiori. Infatti, mentre lo spirito di preghiera si spande sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme, Noi siamo portati a sperare che certamente un giorno Iddio Ci esaudirà: sentendo pietà per le vicissitudini della sua Chiesa, Egli ascolterà infine le preghiere di coloro che Lo implorano per mezzo di Colei, che ha voluto fosse la dispensatrice delle grazie celesti. – Per la qual cosa, dinanzi alla permanenza delle cause che Ci hanno portato a stimolare la pietà pubblica nell’anno passato, Noi, come abbiamo detto, abbiamo ritenuto Nostro dovere, Venerabili Fratelli, di esortare anche nel corrente anno i popoli cristiani a perseverare in questo modo di preghiere e in queste formule dette del Rosario di Maria, e a meritare così l’efficace protezione della possente Madre di Dio. Poiché i nemici del nome cristiano mettono così grande ostinazione nei loro disegni, i difensori non debbono avere una volontà meno costante, quando specialmente il soccorso celeste e i benefici che Dio ci reca sono spesso il frutto della nostra perseveranza. – È opportuno rievocare qui l’esempio di quella grande Giuditta, immagine della Vergine benefattrice, che represse l’impazienza stolta dei Giudei che volevano stabilire a loro giudizio il giorno in cui Dio doveva soccorrere la città oppressa. Giova ancora ricordare l’esempio degli Apostoli, che hanno aspettato il dono immenso dello Spirito Santo a loro promesso, perseverando unanimemente nella preghiera con Maria, Madre di Gesù. – Anche ora, veramente, si tratta di un’impresa ardua e di grande importanza, quella di umiliare la potenza dell’antico astuto nemico, tracotante nella sua forza, e di restituire la libertà alla Chiesa ed al suo Capo; di conservare e di proteggere i baluardi sui quali riposano la sicurezza e la salvezza della società umana. Pertanto conviene vigilare perché, in questi giorni di lutto per la Chiesa, il santo costume del Rosario di Maria sia osservato con zelo e pietà, tanto più che queste preghiere, essendo composte in modo da rievocare nel loro ordine tutti i misteri della nostra salute, sono essenzialmente appropriate a suscitare lo spirito di pietà. – Per ciò che riguarda l’Italia è oggi soprattutto necessario implorare con la preghiera del Rosario l’aiuto della potentissima Vergine, poiché una calamità impensata non solo incombe, ma è già presente tra noi. Si tratta della peste asiatica che, passando i limiti che la natura, seguendo la volontà di Dio, pareva assegnarle, ha invaso i porti più frequentati della Francia e di là le regioni limitrofe dell’Italia. Dobbiamo dunque cercare un rifugio presso Maria, presso Colei che la Chiesa chiama, a giusto titolo e a buon diritto, la salutare, l’ausiliatrice, la protettrice, affinché, propizia alle preghiere che Le sono gradite, Ella si degni di apportarci il soccorso implorato di cacciare lontano da noi l’impuro flagello. – Pertanto all’avvicinarsi del mese di ottobre, mese in cui si compiono nel mondo cattolico le solennità consacrate a Maria Vergine del Rosario, Noi abbiamo deciso di rinnovare, anche quest’anno, tutte le prescrizioni stabilite per lo scorso anno. Decretiamo quindi e ordiniamo che dal primo giorno di ottobre al secondo giorno di novembre in tutte le Chiese parrocchiali, in tutti gli Oratori pubblici dedicati alla Madre di Dio, o anche in altri a scelta dell’Ordinario, si recitino quotidianamente le cinque decine del Rosario aggiungendovi le Litanie: se il Rosario si recita la mattina, si celebri contemporaneamente la Santa Messa; se nelle ore pomeridiane, si esponga all’adorazione il Santissimo Sacramento e in seguito i presenti siano purificati secondo il rito. Noi desideriamo inoltre che le Confraternite del Santissimo Rosario, dovunque, dove le leggi civili lo permettono, facciano una solenne processione per le vie ad incremento della pubblica pietà. – Per aprire alla pietà cristiana i tesori celesti della Chiesa, rinnoviamo tutte le Indulgenze concesse nel passato anno. A tutti coloro che nei giorni prescritti avranno assistito alla recita pubblica del Rosario e che avranno pregato secondo la Nostra intenzione, e pure a coloro che, impediti da una causa legittima, avranno fatto questo in privato, concediamo per ciascuna volta una Indulgenza presso Dio di sette anni e di sette quarantene. A coloro poi che nel tempo predetto avranno compiuto questi esercizi almeno dieci volte, sia pubblicamente nelle Chiese, sia per giusti motivi nell’interno delle loro case, e che si saranno confessati e comunicati, concediamo dal tesoro della Chiesa la grazia plenaria dei loro peccati. Concediamo pure questa grazia plenaria dei peccati e la remissione delle pene a tutti coloro che, sia nel giorno stesso della Beata Vergine del Rosario, sia in un giorno qualunque dell’ottava seguente, parteciperanno con l’anima purificata al divino banchetto, e avranno supplicato Dio e la Sua Madre Santissima secondo la Nostra intenzione in un edificio sacro al Signore. – Volendo infine provvedere a coloro che vivono in campagna e che, specialmente nel mese di ottobre, sono impegnati nel lavoro dei campi, concediamo che tutto ciò che abbiamo qui sopra decretato, come pure le sacre Indulgenze da guadagnarsi nel mese di ottobre, possa essere differito ai mesi successivi di novembre e di dicembre, secondo la decisione prudente degli Ordinari. – Non dubitiamo, Venerabili Fratelli, che i Nostri sforzi saranno coronati da frutti ricchi ed abbondanti, soprattutto se ciò che Noi abbiamo piantato e che la Vostra sollecitudine avrà irrigato, riceverà dal cielo l’abbondanza della grazia di Dio per il suo sviluppo. – Teniamo per certo che il popolo cristiano si mostrerà obbediente alla Nostra parola ed alla Nostra autorità Apostolica con quella fede e quel fervore di pietà di cui diede splendida testimonianza lo scorso anno. – Voglia la Patrona celeste, invocata con la preghiera del Rosario, assisterci propizia, e far sì che, rimosso ogni contrasto di opinioni, e restaurato il cristianesimo in tutte le parti del mondo, Noi otteniamo da Dio la tranquillità desiderata per la Chiesa. – Come pegno di questo beneficio a Voi, al Vostro Clero e ai popoli affidati alle Vostre cure, impartiamo con amore la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 agosto 1884, anno settimo del Nostro Pontificato.

 

DOMENICA XX DOPO PENTECOSTE (2018)

.

DOMENICA XX DOPO PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Dan III:31; 31:29; 31:35
Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non obœdívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ.
[In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]
Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.
[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non oboedívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ. [In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]

Oratio

Orémus.
Largíre, quǽsumus, Dómine, fidélibus tuis indulgéntiam placátus et pacem: ut páriter ab ómnibus mundéntur offénsis, et secúra tibi mente desérviant.
[Largisci placato, Te ne preghiamo, o Signore, il perdono e la pace ai tuoi fedeli: affinché siano mondati da tutti i peccati e Ti servano con tranquilla coscienza.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes V: 15-21
Fratres: Vidéte, quómodo caute ambulétis: non quasi insipiéntes, sed ut sapiéntes, rediméntes tempus, quóniam dies mali sunt. Proptérea nolíte fíeri imprudéntes, sed intellegéntes, quae sit volúntas Dei. Et nolíte inebriári vino, in quo est luxúria: sed implémini Spíritu Sancto, loquéntes vobismetípsis in psalmis et hymnis et cánticis spirituálibus, cantántes et psalléntes in córdibus vestris Dómino: grátias agéntes semper pro ómnibus, in nómine Dómini nostri Jesu Christi, Deo et Patri. Subjecti ínvicem in timóre Christi.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV – Omelia XV.– Torino 1899]

 “Badate adunque, o fratelli, come procediate circospetti, non da stolti, ma come saggi, ricomperando il tempo, perché corrono giorni tristi. Il perché non siate imprudenti, ma studiatevi di conoscere qual sia la volontà del Signore. Non vi inebriate di vino, nel quale è dissolutezza, ma riempitevi di Spirito Santo, parlando a voi stessi con salmi ed inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando nei vostri cuori al Signore; rendendo grazie del continuo, per ogni cosa al Dio e Padre, nel nome del nostro Signore Gesù Cristo, sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo „ (Agli Efesini, V, 15-21).

La Chiesa in questa Domenica ci chiama nuovamente a meditare alcune sentenze della lettera di S. Paolo scritta ai fedeli di Efeso. Io non so quante volte, lungo l’anno, ci si proponga a considerare qualche tratto di questa lettera, ma certo sono moltissime, benché la lettera sia tra le più brevi, e ciò a ragione. Nell’ultima parte di questa lettera l’Apostolo ha condensato tante e sì mirabili massime di morale evangelica, che nulla di meglio; è una miniera ricchissima di verità pratiche, che tornano acconce ad ogni stato e ad ogni classe di persone. Era dunque ben naturale che la Chiesa ci conducesse frequentemente in questa miniera, e ci invitasse a cavarne l’oro purissimo delle più sante verità. Io mi studierò di aprirvi questa miniera, di scavarvi l’oro delle verità che vi si nascondono, sceverarlo dalla terra e dalla scoria che lo copre, e voi studiatevi di riceverlo e custodirlo gelosamente. – Nei versetti precedenti, S. Paolo, sull’esempio di Cristo, ha caldamente esortato i fedeli a guardarsi da ogni cupidigia, a non lasciarsi sedurre, a separarsi, essi, figli della luce, dai figli delle tenebre e a rendere frutti a Cristo, ruggendo e riprendendo le male opere, ch’Egli chiama opere di tenebre, e, continuando sempre il suo metodo, che è quello d’indicare il male da fuggire e poi suggerire il bene da praticare, per via di sentenze concise e chiarissime, dice: “Badate, fratelli, come procediate circospetti. „ La nostra vita è un cammino, che comincia dalla culla e termina sull’orlo della tomba; è un cammino alcuna volta piano e netto, più spesso ripido, seminato di sterpi e di spine, infestato da ladroni e assassini, costeggiato da dirupi e precipizi; le insidie e i pericoli sono senza numero. Per correre questo cammino sì aspro e sì pieno di lacci, senza cadere, si richiede aver sempre l’occhio aperto, e badar bene dove mettiamo il piede, affine di non inciampare: “Videte quomodo caute ambuletis — Badate come procediate circospetti. „ Sicuramente i nemici interni ed esterni e la naturale nostra debolezza ci creano tante difficoltà e pericoli, che è assai difficile non cadere; ma che sarà poi se cammineremo senza cautela e quasi a caso? Se noi terremo sempre gli occhi sopra noi stessi, se veglieremo sui nostri pensieri e sui nostri affetti; se peseremo le nostre parole e porremo ben mente ad ogni nostro atto; se staremo in guardia quanto alle compagnie, alle amicizie, alle letture, insomma a tutto ciò che ne circonda, noi eviteremo moltissime colpe e acquisteremo la perfetta signoria sopra noi stessi, e opereremo non da stolti, ma sì da prudenti, come vuole l’Apostolo: Videte quomodo caute ambuletis, non quasi insipientes. – Allorché una cosa ci sta molto a cuore, noi la ripetiamo, e S. Paolo ripete qui la sua raccomandazione, cioè di camminare od operare circospetti, non da stolti, ma da saggi, sed ut sapiente», dove la parola saggi è il contrapposto di stolti, ed è la ripetizione di circospetti. Questa circospezione e saggezza, sì efficacemente inculcata dall’Apostolo, deve manifestarsi in particolar modo in una cosa, che tosto si accenna. Uditela: ” Redimentes tempus — Ricomperando il tempo. „ Il cielo è una mercede, che si dà soltanto a chi lavora: è la mietitura che si fa soltanto da chi ha seminato. Ma dove si lavora? dove si semina? Qui sulla terra! Quando si lavora e quando si semina? In questa giornata della vita presente, nel tempo. Allorché cala la notte, e le tenebre coprono la faccia della terra, nessuno può lavorare, e allora comincia il riposo. Similmente allorché la morte stende sopra di noi il nero suo velo, si chiude lo stadio del tempo e comincia la eternità interminabile, non possiamo più lavorare, e cessa il periodo di vita, in cui possiamo meritare. Ora può accadere (e troppo frequentemente accade) che molti si trovino già presso alle porte della eternità, sul finire della vita, dopo avere malamente sciupato il loro tempo e con le mani quasi vuote di meriti. Costoro che devono fare se hanno senno? Ciò che fa il viaggiatore, il quale, avendo perduto gran parte del suo tempo in discorsi inutili e in sonno non necessario, studia il passo e procura di riguadagnare il tempo inutilmente speso. Gli Efesini, ai quali l’Apostolo scriveva, per la maggior parte dovevano essere stati Gentili, ed erano entrati nella Chiesa già molto innanzi negli anni. Il tempo per loro perduto nella idolatria e nelle brutture del paganesimo era molto: quello che rimaneva era breve. Qual cosa più naturale quanto l’esortarli ad affrettarsi, e con la frequenza e col fervore delle buone opere ricuperare il tempo perduto, e così in qualche modo mettersi a pari con quelli che avevano speso santamente tutta la loro vita? – Dilettissimi! Uno sguardo alla nostra vita. Ben è vero che noi abbiamo ricevuta la fede col santo Battesimo prima ancora che ne potessimo avere coscienza; ma (siamo sinceri) nella nostra vita qua e là non vi sono molti intervalli, e fors’anche lunghi, nei quali ci arrestammo sulla via e facemmo getto d’un tempo prezioso? Non è egli vero che vivemmo mesi e mesi (e a Dio non piaccia), anni e lustri in peccato? Quello, o cari, è tutto tempo miseramente perduto per il cielo, e Dio stesso nella sua onnipotenza non potrebbe fare che non sia perduto. Eppure possiamo ripararne la perdita, non già col far sì che ritorni il tempo perduto, ma col far uso migliore di quello che ci resta, simili all’operaio, che nelle due ultime ore del giorno può fornire il lavoro che altri fornisce appena in quattro. È questo il ricomperare il tempo, che S. Paolo predica agli Efesini. E perché avessero nuovo e più forte sprone a ricomprare ciò che per negligenza avevano perduto, l’Apostolo aggiunge una ragione speciale, dicendo: ” Perché ì tempi volgono tristi Quoniam dies mali sunt. „ I tempi tutti sono cattivi, perché brevi per ciascun uomo, incerti, pieni di lotte, di pericoli, di tentazioni, di dolori, di mali d’ogni guisa; è vero, essi hanno anche la loro porzione di beni, che si alternano; ma la misura dei mali quasi sempre soverchia quella dei beni. I tempi poi, nei quali l’Apostolo scriveva la sua lettera, erano miserrimi sopra tutti: persecuzioni sanguinose, tirannie, delle quali non abbiamo nemmeno l’idea; basti sapere che imperava Nerone; corruzione spaventosa, schiavitù, ignoranza dei primi principi della morale, guerre atrocissime e continue. Aveva ben dunque ragione S. Paolo di esclamare: ” I tempi corrono tristi! „ Quale la conseguenza? L’ha detto sopra: quella di usare a bene di tempi sì cattivi. Come? Soffrendo con pazienza, con costanza e con rassegnazione tanti mali, e così volgendo in guadagno pel cielo le calamità della terra. — “In questo, continua l’Apostolo, voi mostrerete il vostro senno — Propterea nolite fieri imprudente» — se farete di conoscere qual sia la volontà del Signore — Intelligentes quæ voluntas Dei.  I mali che ci travagliano, così sembra ragionare il nostro Apostolo, sono grandi, e i tempi sono infelici; io vi dico di farne tesoro e con il soffrirli generosamente, riguadagnare quelli malamente perduti. Ma voi direte: Questi mali, che si aggravano sopra di noi, vengono dalla malizia degli uomini. No, risponde Paolo: se avrete la vera sapienza dei figli di Dio, comprenderete che è Dio quegli che così vuole. Come ciò? domanderete voi. Ve lo spiego. Tutto ciò che accade sulla terra è voluto da Dio o da Lui permesso: ciò che è bene è certamente voluto da Dio, che è la stessa bontà, e non è mestieri provarlo; ciò che non è bene, ma è male, e al male conduce, non è voluto da Dio, ma da Dio permesso e tollerato. E poiché è cosa manifesta che Dio potrebbe, nella sua onnipotenza, impedire il male, ne segue che se avviene, avviene perché lo permette, e lo permette perché anch’esso entra nei grandi disegni della sua sapienza e della sua misericordia. Lo permette per farci conoscere e sentire la nostra debolezza, per fiaccare il nostro orgoglio, per obbligarci a levare a Lui supplichevoli le nostre mani e invocare il suo aiuto, per staccarci dall’amore di questo mondo, per darci modo di esercitare la pazienza, la carità, la prudenza, la fortezza, per acquistare meriti, per renderci simili al Figliuol suo, fatto uomo, Gesù Cristo. Allorché dunque i mali della vita presente si addensano sopra di te, o fratel mio, e ti senti per poco schiacciato, non lagnarti, non far ingiuria a Dio e alla sua provvidenza, dicendo: Perché mi abbandonate, o Signore? Nei mali che ti opprimono, e in quelli che ne sono strumenti e ministri, vedi la mano paterna di Dio, che opera o che lascia fare, e sappi che tutto è volto a tuo bene. Non fermare l’occhio sulla mano del tristo che ti percuote, ma in Dio che, potendo arrestare questa mano, la lascia percuotere. L’infermo che geme e si dimena dolorosamente sotto il ferro del chirurgo, che recide il membro cancrenoso, non si sdegna col medico pietosamente crudele, ma lo ringrazia. Ecco ciò che voleva insegnare l’Apostolo allorché esclamava: “Sono giorni tristi, ma non vogliamo essere dissennati, anzi riconosciamo che anch’essi sono voluti da Dio, e volgiamoli a nostro vantaggio. „ – S. Paolo, continuando la sua esortazione morale, scrive: “Non vi inebriate di vino, nel quale è dissolutezza — Nolite inebriavi vino, in quo est luxuria. „ Ubriachezza! Questa parola sì brutta e sì vergognosa per l’uomo ragionevole, e più brutta e più vergognosa assai per il Cristiano, come quella di lussuria, non si dovrebbe nemmeno pronunciare. Eppure più volte comparisce sotto la penna del grande Apostolo! “Non vi ubriacate. — Gli ubriachi non possederanno il regno dei cieli. — L’uno ha fame e l’altro è ubriaco. „ Sono sentenze dell’Apostolo, e provano come anche nei primi giorni della Chiesa, tra gli stessi discepoli degli Apostoli, il turpissimo vizio della ubriachezza non fosse ignoto. E ai nostri giorni, o carissimi? Che avviene sotto i nostri occhi? Qual vituperoso spettacolo vediamo noi quasi ogni giorno, e particolarmente nei giorni consacrati a Dio? Uomini, giovani, vecchi, e perfino talvolta donne, avvinazzati per le vie, barcollanti, schiamazzanti, presentare in se stessi il miserando spettacolo del più schifoso degradamento morale! Genitori ubriachi e i bambini senza pane, coperti di luridi cenci, piangenti per la fame e per il freddo! E sono uomini, e sono Cristiani costoro? L’ubriachezza toglie all’uomo ciò che lo differenza dalla bestia: la ragione. Vedetelo, il miserabile, mal reggersi in piedi, barcollare e cadere! La lingua va articolando parole e accenti che nessuno intende; guarda e non vede; or ride stupidamente ed or minaccia; or prega ed ora insulta e bestemmia; attacca brighe con tutti, provoca risse e peggio, oggetto di compatimento e di orrore, di scherno e di disprezzo, disonore della famiglia, tormentatore di chi è costretto a vivere con lui, scialacquatore, distruggitore d’ogni cosa, finisce anzi tempo una vita di scandalo; eccovi l’ubriaco! – Ma l’Apostolo, in questo luogo, da conoscitore profondo della natura umana, col vizio detestabile dell’ubriachezza ne congiunge un altro come conseguenza naturale, ed è la dissolutezza: “Non vi ubriacate di vino, nel quale è dissolutezza — In quo est luxuria. „ Dissolutezza e ubriachezza sono inseparabili; lo videro gli stessi pagani, e ne sono autorevolissimi testimoni Cicerone, Seneca ed altri. Ma noi non abbiamo bisogno dell’autorità di sapienti pagani; udite S. Girolamo: “Dove è intemperanza e ubriachezza, ivi signoreggia la libidine… Io non riputerò giammai casto l’ubriaco… Dica chiunque ciò che vuole, io parlo secondo la mia coscienza: io so che a me fece danno l’interrompere l’astinenza, e mi giovò il ripigliarla.” (Ep. Tit.) — L’ubriachezza è propria dei buffoni e dei mangiatori, ed un ventre pieno di vino ci lascia veder tosto la spuma della libidine. „ Bando adunque, o cari, all’intemperanza, bando all’ubriachezza che ci fa meno che uomini, che è il flagello della famiglia e della società: Nolite inebriari vino, in quo est luxuria. – Non è pago l’Apostolo di ciò che ha detto per tenere lontani i suoi cari dal vizio detestabile dell’ubriachezza: dopo il vizio da fuggire, suggerisce il bene da fare, come è suo costume: “Non inebriatevi di vino, ma siate ripieni di Spirito Santo — Sed implemini Spiritu Sancto. „ Cioè fate in modo che la grazia di Dio, che è il dono per eccellenza dello Spirito Santo, riempia le vostre menti e i vostri cuori e ridondi anche nei vostri corpi. Il vino riscalda i corpi, esalta gli spiriti, annebbia la ragione, porta l’uomo ai piaceri sensuali, lo fa simile ai bruti; la grazia divina riempie l’anima d’un fuoco puro e sacro, la eleva sopra se stessa, rischiara la sua mente, le fa gustare le caste delizie del cielo, la fa simile agli Angeli. Ecco il vino sacro, di cui potete inebriarvi: Implemini Spiritu Sancto. E quando sarete ripieni di questo vino sacro della grazia divina, le vostre anime gioiranno, i vostri cuori esulteranno, sarete inondati d’una santa letizia, e sentirete il bisogno di sfogarla tra voi stessi e nelle vostre radunanze, “cantando salmi ed inni e cantici spirituali, salmeggiando nei vostri cuori al Signore. „ – Allorché l’uomo è compreso da sublimi verità, da gagliardi sentimenti umani, e più ancora se divini, sente il bisogno irresistibile di sfogarli col canto e con la musica: il canto e la musica sono naturali all’uomo, come lo sono il pianto ed il riso (S. Girolamo distingue gli inni e i salmi e i cantici, e dice, che negli inni si celebrano la grandezza, la bontà e le perfezioni di Dio, e mette nel numero degli inni quei salmi ai quali è premesso o aggiunto l’alleluja: i salmi, secondo lui, sono quelli che si riferiscono alla morale; i cantici poi celebrano le bellezze e le armonie dell’universo). Il canto è uno sfogo naturale degli affetti interni, e in pari tempo giova mirabilmente ad alimentarli ed a crescerli. S. Agostino narra che, allorquando, dopo la sua conversione, entrava in chiesa e udiva il popolo cantare a pieno coro i salmi, si sentiva tutto commuovere e versava copiose lacrime. E chi di noi non si sente fortemente commosso e intenerito allorché ode la gran voce del popolo, che canta le litanie della Vergine, il Miserere od il Pange lingua? S. Paolo esortava i suoi cari Efesini ad innalzare a Dio inni e salmi e cantici spirituali: e perché non faremo altrettanto noi pure? E qui un mesto pensiero, o carissimi, si affaccia alla mia mente. Alle nostre orecchie giungono, e spessissimo, i cantici degli operai nelle loro officine e lungo le vie, e dei contadini sparsi pei campi. Che canti son questi? Ah! certo non sono cantici spirituali, come li voleva S. Paolo: Canticis spiritualibus — ; non sono le lodi di Dio o della Vergine benedetta; sono cantici profani, forse liberi, fors’anche osceni, che rivelano un cuore abbietto o corrotto, che accendono e dilatano una fiamma impura. Che le vostre labbra non si imbrattino mai di queste canzoni che, come e forse più dei discorsi cattivi, corrompono i costumi: Corrumpunt bonos mores colloquia prava. Come starebbe bene che nelle nostre campagne ritornasse il costume che S. Girolamo ricorda usato nella villetta dov’egli viveva! “In questa villetta di Cristo, così il Santo, tutto è semplicità, tutto è silenzio, fuorché il canto dei salmi. Dovunque ti volgi, il contadino che ara, tenendo l’aratro, canta alleluja (La parola Alleluia è composta di Allelu- e –ia, abbreviazione di Jehovah, e vuol dire Vìva Jehovah, viva Dio.); il mietitore che suda, si richiama coi salmi, e il vignaiuolo che con la curva falce pota la vite, canta qualche strofa di Davide. Questi sono i canti nella campagna; queste, come suol dirsi, le canzoni d’amore, questo il fischio dei pastori, queste le armi dell’agricoltura (Epist. 17 ad Marcellam). „ Né vi sfugga, o cari, quella espressione di S. Paolo riguardante il modo d’innalzare a Dio gli inni, i salmi ed i cantici: “Salmeggiando e cantando nei vostri cuori al Signore. „ Con queste parole egli ci ricorda che le nostre preghiere, le nostre lodi, i nostri ringraziamenti a Dio, non devono risuonare soltanto sulle nostre labbra, ma devono sgorgare dai nostri cuori, cosa che troppo facilmente per molti si dimentica. Gesù Cristo, ammaestrando la povera Samaritana, tra le altre cose, le disse: “I veri adoratori adoreranno in spirito e verità… Dio è spirito, e perciò conviene che quelli che l’adorano, l’adorino in spirito e verità, cioè spirito vero „ (S. Giov. IV, 23, 24). Come è l’anima tua, o Cristiano, quella che fa vivere e muovere il tuo corpo, cosi dev’essere l’anima tua che fa cantare la lingua e lodare Iddio. Se la mente ed il cuore non accompagnano la tua lingua, che valore possono avere le tue preghiere e le tue lodi? Nessuno, perché manca ciò che le fa degne di Dio e di te, la mente e il cuore: sarebbero come le preghiere e le lodi di chi sogna o delira. Tu incontri un uomo che ti saluta ed inchina cortesemente, e ne va lieto. Se tu leggessi nel suo cuore e vedessi ch’egli ha ciò fatto senza saperlo, senza porvi mente, te ne terresti tu onorato? Non credo. Come vuoi tu dunque che torni accettevole a Dio la tua preghiera, la tua lode, se vede ch’essa si riduce ad un movimento di lingua, ad un suono materiale, e che il tuo cuore non vi ha parte alcuna? Il tuo canto non differisce da quello dell’augelletto che saluta il nuovo giorno. “Non è la voce, ti dice S. Agostino, quella che Iddio vuole, non è la corda della cetra, ma il tuo cuore. „ Allorché pertanto pregate e lodate Iddio, almeno a principio, con la voce levate a Lui il vostro cuore, secondoché vuole lo stesso Apostolo in altro luogo, scrivendo: “Io salmeggerò con lo spirito, salmeggerò con la mente „ (I. Cor. XIV, vers. 15). “Rendendo grazie del continuo, per ogni cosa, a Dio e Padre, nel nome del Signor nostro Gesù Cristo. „ La nostra vita, ad ogni istante è un continuo beneficio di Dio: ogni respiro, ogni battito del nostro cuore è suo dono; suo dono il cibo che ci nutre; suo dono la bevanda che ci disseta; suo dono il sole che ci illumina e ci riscalda; suo dono l’aria che respiriamo, tutto il nostro essere, tutto ciò che è in noi e fuori di noi, è suo dono, puro suo dono. È dunque dover nostro, essere grati a tanto donatore, ringraziarlo di tanti benefici. Ma come farlo debitamente noi che siamo creature sì miserabili? Abbiamo Gesù Cristo; come Dio Egli è uguale al Padre e al Santo Spirito; come uomo è fratello nostro; Egli è il nostro capo, il nostro mediatore: il nostro ringraziamento presentato per le sue mani è degno di Dio: ringraziamolo adunque per suo mezzo: In nomine Domini nostri Jesu Christi. – La nostra Epistola si chiude con questa raccomandazione bellissima, che esprime a meraviglia l’indole della legge evangelica: “Siate soggetti tra voi nel timore di Cristo. „ Ogni società, sia grande, sia piccola, intanto può conservarsi e prosperare, in quanto è bene ordinata, ed è bene ordinata in quanto ogni membro rimane al suo posto, e rimane al suo posto osservando l’ubbidienza. Togliete l’ubbidienza, ed ogni cosa è turbata: le famiglie si dividono, la società va in rovina. Ed è questa ubbidienza che S. Paolo raccomanda, dicendo: “Siate soggetti tra voi — Subditi invicem. „ L’ubbidienza, perché sia secondo verità e giustizia, deve prestarsi dagli inferiori ai superiori, e così senza dubbio ha da intendersi la sentenza apostolica. Ma perché dire: “Siate soggetti tra voi, ad invicem, „ come se il dovere dell’ubbidienza fosse imposto a vicenda, cioè in guisa che ciascuno debba ubbidire a ciascun altro, senza badare a chi tiene l’autorità? Certamente il comando dell’Apostolo: “Siate soggetti, „ importa che si debba ubbidire dagli inferiori ai superiori, ed è questa la vera ubbidienza; ma io penso che l’Apostolo volesse insinuare in bel modo ciò che forma una cotale appendice dell’ubbidienza, e ch’egli in altro luogo espresse felicemente in questa frase: “Reputandovi gli uni agli altri superiori nella umiltà. „ Ai superiori noi dobbiamo l’ubbidienza; agli eguali ed agli inferiori dobbiamo rispetto, piacevolezza, cortesia e condiscendenza, che sono alcunché di simile alla ubbidienza. E perché dobbiamo ubbidire ad altri, che infine sono uomini come noi, e, può essere, anche inferiori a noi? Perché così vuole Iddio, perché così comanda Gesù Cristo, e ubbidendo a quelli che tengono il suo luogo, ubbidiamo a Lui stesso: a disubbidendo loro, a Lui disubbidiamo. E come non temere di rifiutare l’ubbidienza a Gesù Cristo? Ecco perché S. Paolo, dopo aver detto: “Siate soggetti, „ soggiunge: “nel timore di Cristo. „ Così si eleva l’autorità che comanda, e con l’autorità si eleva e si nobilita l’ubbidienza, e tutto si riporta a Gesù Cristo, a Dio, al quale sia onore e gloria per tutti i secoli.

Graduale
Ps CXLIV:15-16
Oculi ómnium in te sperant, Dómine: et tu das illis escam in témpore opportúno.

Aperis tu manum tuam: et imples omne ánimal benedictióne. [Tutti rivolgono gli sguardi a Te, o Signore: dà loro il cibo al momento opportuno. V. Apri la tua mano e colmi di ogni benedizione ogni vivente.]

Allelúja.

Ps CVII:2
Allelúja, allelúja
Parátum cor meum, Deus, parátum cor meum: cantábo, et psallam tibi, glória mea. Allelúja.
[Il mio cuore è pronto, o Dio, il mio cuore è pronto: canterò e inneggerò a Te, che sei la mia gloria. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia   sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.
R. Gloria tibi, Domine!
Joannes IV: 46-53
In illo témpore: Erat quidam régulus, cujus fílius infirmabátur Caphárnaum. Hic cum audísset, quia Jesus adveníret a Judaea in Galilæam, ábiit ad eum, et rogábat eum, ut descénderet et sanáret fílium ejus: incipiébat enim mori. Dixit ergo Jesus ad eum: Nisi signa et prodígia vidéritis, non créditis. Dicit ad eum régulus: Dómine, descénde, priúsquam moriátur fílius meus. Dicit ei Jesus: Vade, fílius tuus vivit. Crédidit homo sermóni, quem dixit ei Jesus, et ibat. Jam autem eo descendénte, servi occurrérunt ei et nuntiavérunt, dicéntes, quia fílius ejus víveret. Interrogábat ergo horam ab eis, in qua mélius habúerit. Et dixérunt ei: Quia heri hora séptima relíquit eum febris. Cognóvit ergo pater, quia illa hora erat, in qua dixit ei Jesus: Fílius tuus vivit: et crédidit ipse et domus ejus tota.

Omelia II

[Mons. BONOMELLI, Saggio di Omelie, ut supra, Omelia XVI]

“Vi era un certo ufficiale regio, il cui figliuolo era infermo in Cafarnao. Questi avendo inteso che Gesù dalla Giudea era venuto nella Galilea, lo pregava perché scendesse e gli risanasse il figlio, che era presso a morire. Ma Gesù gli disse: Se voi non vedete segni e miracoli, voi non credete. L’ufficiale gli disse: Signore, scendi prima che il figliuol mio si muoia. Gesù gli disse: “va, il figliuol tuo vive”. Colui credette alla parola che Gesù Cristo gli aveva detto, e se ne andava. Ma, scendendo egli, i servi gli vennero incontro ad annunziargli che il figliuolo viveva. Ed egli domandò loro a che ora si era sentito meglio: e gli risposero: Ieri all’ora settima lo lasciò la febbre. Quindi il padre conobbe che quella era l’ora che Gesù gli aveva detto: Il figliuol tuo vive: e credette egli e tutta la sua famiglia. ,, – (S. Giov., IV, 46-53).

Gesù, ritornando dal suo primo viaggio in Gerusalemme, dove aveva celebrato la Pasqua, accompagnato da alcuni dei suoi discepoli, passò attraverso alla Samaria, incamminandosi verso la sua Galilea. In questo viaggio Egli si fermò presso la città di Sichem, al pozzo detto di Giacobbe, e convertì la celebre peccatrice e buon numero di Samaritani, come sappiamo dal Vangelo. Poi riprese la via della Galilea e recossi a Cana, dove aveva operato il primo miracolo, mutando l’acqua in vino e dove, secondo ogni verosimiglianza, trovavasi ancora la Madre sua. Sembra che in quei giorni gli Apostoli, che l’avevano seguito a Gerusalemme, fossero ritornati alle loro case ed alle loro occupazioni a Betsaida o a Cafarnao, giacché solo alcuni giorni dopo, vi sta la pesca prodigiosa, lo seguirono definitivamente. Gesù adunque era a Cana; ma la fama dei suoi miracoli e della sua dottrina erasi largamente sparsa per tutta la Galilea, e più ancora a Cafarnao e nei luoghi vicini, dove erano ritornati gli Apostoli dopo il loro viaggio a Gerusalemme. – Tutto questo dovevo dirvi per venire alla esposizione del fatto che avete udito e che deve formare il soggetto della nostra omelia. Esso avvenne adunque, poco dopo la prima Pasqua celebrata a Gerusalemme, nei primi mesi della predicazione di Gesù, ed è narrato dal solo Giovanni. — Ed ora a noi, carissimi. – “Vi era un certo ufficiale regio, che aveva un figliuolo infermo in Cafarnao. „ Chi era questo ufficiale regio? Ne ignoriamo il nome, e non importa gran fatto il saperlo. Dove dimorava? Evidentemente a Cafarnao, città allora non senza importanza, dove aveva stanza una guarnigione romana. Che ufficio teneva a Cafarnao? Il Vangelo non lo dice. Di qual re era egli ufficiale? Senza dubbio di Erode Antipa, figlio di quell’Erode che mise a morte i bambini e Giovanni Battista, e tre anni più tardi si vedrà condotto innanzi Gesù Cristo in Gerusalemme per essere giudicato come suo suddito. Erode era tetrarca, o re della Galilea, ma tributario dei  Romani. – Questo ufficiale aveva un figliuolo infermo a morte. Ogni speranza nei medici era perduta. Immaginate il dolore del povero padre, che si vedeva il caro figliuolo venir meno sotto gli occhi! Tolta ogni speranza nei rimedi umani, il buon padre si volse ai rimedi sovraumani. Aveva udito parlare di Gesù e dei suoi miracoli; aveva saputo ch’era poc’anzi ritornato da Gerusalemme in Galilea, e che trovavasi a Cana, distante da Cafarnao circa quindici chilometri. Che fa egli? Gli spunta nell’animo il pensiero di andare a Lui, di pregarlo e scongiurarlo a salvargli il figliuol suo. – Che idea, quale concetto aveva egli della persona di Gesù Cristo? Credeva in Lui? Sarebbe difficile il rispondere: probabilmente lo credeva un uomo di Dio, un profeta, forse anche soltanto un medico valentissimo. Ad ogni modo, che non può l’amore di un padre? Egli lascia Cafarnao, che giace sulla riva del lago, sale le colline che stanno a ridosso e giunge a Cana, dov’era Gesù, gli si presenta e lo prega di scendere con lui fino a Cafarnao, perché gli salvi il figlio ormai morente. Non vi sia grave far meco una considerazione non inutile a voi, o genitori. Voi, padri, e specialmente voi, o madri, amate teneramente i vostri figli, massime ancora fanciulletti. Che non fate per loro se cadono infermi? Voi li vegliate dì e notte: trepidate sulla loro vita: non badate a spese per riaverli sani; per loro pregate, chiamate i medici, porgete loro le medicine, non vi è cosa, per quanto grave e molesta, che non siate pronti a fare nella speranza che possa loro giovare. Voi non sareste da meno, al bisogno, di questo buon padre del quale parla il Vangelo. Sta bene, ed io non posso che ammirare e commendare altamente l’amore che avete per i vostri figliuoli: è vostro dovere. Ma vi domando: I vostri figli, oltre il corpo, non hanno essi altresì l’anima? — Sì; lo teniamo per ragione e per fede. — E l’anima non è da più del corpo? — E chi ne può dubitare? — E dunque giusto, o genitori, che voi siate solleciti, sì, del corpo, ma più assai dell’anima? — Certamente. — Eppure, che cosa vediamo noi, o cari genitori? Noi vi vediamo pieni di sollecitudine e di cure le più amorose, allorché trattasi del corpo dei vostri figliuoli, dei loro interessi temporali, ma non raramente trascurati e quasi dimentichi dei vostri doveri, allorché si tratta dell’anima loro, degli interessi loro eterni. Dove sono quei genitori che insegnano ai loro piccoli figliuoli le orazioni del Cristiano e i misteri della fede? Dove sono quei genitori che sorveglino debitamente i loro figliuoli, che li tengano lontani dalle amicizie e compagnie pericolose, che rammentino loro il dovere di santificare le feste, di ascoltare la parola di Dio, di usare ai sacramenti, di vivere cristianamente? Voi ne troverete molti che li scandalizzano coi loro discorsi, con le loro maldicenze, con le loro bestemmie, col porre nelle loro mani libri perversi e condurli a spettacoli teatrali osceni od irreligiosi! Ah! genitori! Tanto amore per il corpo dei vostri cari figliuoli, e sì poco amore, anzi odio sì feroce per le loro anime innocenti! Tanta sollecitudine per la loro felicità nel tempo, sì poca o nessuna per quella dell’eternità! Quale contraddizione! Esaminate e risolvete. Il buon padre del Vangelo pregava Gesù che volesse scendere fino a Cafarnao e guarirgli il figlio. — Voi vedete come era imperfetta la fede di questo uomo. Se l’avesse creduto fermamente Figliuolo di Dio, gli avrebbe detto, come poco dopo il Centurione: “Signore, non son degno che entriate nella casa mia: ditelo con la parola e il figliuol mio sarà salvo. „ Egli lo doveva credere un profeta, un uomo santo e nulla più; egli credeva che non potesse risanare il suo figliuolo che con la presenza materiale, ponendo le mani sul capo di lui, pregando per  lui o applicando qualche rimedio. Né fa punto meraviglia questa fede sì debole ed imperfetta in un uomo laico, ufficiale regio, in quei primordi della vita pubblica di Cristo: era la fede di parecchi altri, e forse di alcuni dei suoi stessi discepoli. — Udiamo la risposta di Gesù. “Se voi non vedete segni e miracoli, voi non credete. „ La risposta è rivolta al padre, ma insieme a tutti i Giudei, e parecchi dovevano essere presenti. Essa contiene un lamento ed insieme un ammaestramento. Gesù vuol dire: “Voi, o Giudei, volete vedere soprattutto dei miracoli; voi chiedete con i miracoli vantaggi materiali; la curiosità e l’interesse per voi tengono il primo luogo, e vanno innanzi alla fede; più che il regno di Dio e la  verità, voi cercate le cose della terra. Levate più alto il vostro sguardo: prima la fede, prima i beni eterni e poi le cose di quaggiù. „ – Queste parole di Gesù Cristo potrebbero essere rivolte anche ad alcuni Cristiani, i quali mostrano di tenere la religione più per gli interessi e i vantaggi materiali, che talora ne traggono o sperano di ritrarne, che per il sentimento del dovere e pei beni della vita avvenire. Essi domandano a Dio la salute dei corpi, la liberazione di danni o mali temporali, i frutti copiosi della campagna, la prosperità dei negozi, più spesso e con maggior fervore, che la salvezza dell’anima. Che nessuno di noi si renda meritevole del rimprovero di Cristo, ricordandoci, che se possiamo domandare a Dio i beni della terra, dobbiamo anche essere pronti a rinunciare a questi quando a Dio piaccia altrimenti, o possano tornare dannosi o pericolosi alla nostra santificazione. Il buon padre ascoltò umilmente l’ammonimento del divino Maestro, e credo che ne facesse suo prò e ravvivasse la sua fede, ripetendo con maggiore istanza la sua preghiera: “Signore, scendi prima che il figliuol mio muoia — Domine, descende priusquam moriatur filius meus. „ In queste parole dell’afflitto padre sentiamo tutta la grandezza dell’amor suo e l’angoscia che l’opprimeva. Presto, par che dica a Gesù, presto, te ne prego, te ne scongiuro, vieni meco, salvami il figlio prima che muoia. — Egli è ancor fermo nella sua povera idea che sia necessaria la presenza materiale di Gesù per guarire il figlio morente, come se Gesù non sapesse ogni cosa, dice S. Giovanni Crisostomo, e non lo potesse risuscitare anche morto. Gesù, alla vista di quel padre sconsolato, che con tanto affetto e sì viva speranza lo pregava, s’intenerì, e con sicuro accento gli disse: “Va, il figliuol tuo vive — Vade, filius tuus vivit. „ Egli dovette pronunciare queste parole con tanta autorità e sicurezza, da togliere ogni dubbio nel padre, infondendogli nell’anima quella fede a cui tutto è possibile, e che in qualche modo lo rendeva meritevole del miracolo. “Con le stesse parole, dice un Padre, il Salvatore curò l’anima dell’ufficiale, donandogli la fede e risanando il corpo del fanciullo. „ Voi vedete come Gesù opera da Dio. Il fanciullo è lontano, in termini di morte; non dice: Confida, o uomo, il figliuolo guarirà, non gli addita nessun rimedio umano, anzi non prega nemmeno: “Va, il figliuol tuo vive”; è una promessa assoluta, anzi un comando perentorio, e noi vedremo subito come ebbe in quel punto stesso pieno adempimento. – Figliuoli carissimi! In qual modo quel buon padre ottenne la guarigione temporale del figliuol suo? Con la preghiera, e preghiera ripetuta. Ecco il gran mezzo a tutti presto e facile per ottenere le grazie divine: la preghiera. Usatene voi pure e ne sperimenterete la potenza. Può essere che tra voi, che mi ascoltate, vi siano padri e madri che hanno i loro figliuoli infermi, non del corpo, ma dell’anima, che è troppo maggior male; figliuoli riottosi, insolenti, dissoluti, miscredenti, che corrono per le vie della perdizione, che fanno versare lacrime amare ai poveri genitori. Voi forse li avete corretti le cento volte inutilmente. Che vi resta a fare ? Correte a Gesù, pregatelo, come lo pregava il padre di cui parla l’odierno Evangelo; non stancatevi, ripetete un giorno, due, venti, cento, un anno la vostra preghiera, e vincerete la prova. La preghiera d’un padre, d’una madre desolata per la conversione del figlio traviato ha una forza meravigliosa sul cuore di Dio. Quanti giovani gettati sulla mala via si ravvidero, si convertirono per le preghiere dei genitori, e specialmente delle madri! La storia di Agostino e di Monica è la storia di molte madri e di molti figli. — Ma ritorniamo al nostro Vangelo. – Udite quelle parole consolanti, il padre si rasserenò, sentì infondersi in cuore una tranquilla e dolce speranza, ringraziò Gesù Cristo, “credette — credidit, „ e se ne ritornava frettoloso alla volta di Cafarnao, ansioso di rivedere il figliuol suo e l’effetto della affermazione solenne: “Il figliuol tuo vive. „ ” Scendendo egli, i servi gli mossero incontro ad annunziargli che il fanciullo viveva, „ forma di dire che significava essere guarito perfettamente, come vuole il contesto. Questo correre dei servi incontro al padre, per portargli la felice novella, è cosa naturalissima. Egli era partito per Cana, in cerca di Gesù, lasciando il fanciullo in fine di vita: immaginavano facilmente le ansie del povero padre: vedono ad un tratto ritornato da morte a vita il fanciullo: pieni di gioia, gli corrono incontro per anticipargli il faustissimo avvenimento, del quale non conoscevano la causa, o tutt’al più la potevano confusamente sospettare. Appena lo videro da lontano, dovettero alzare la voce e gridargli che il fanciullo viveva ed era guarito. Il buon padre, al colmo della gioia, ricordando la promessa di Gesù ed a Lui attribuendo la salvezza del figlio, domandò loro: A qual ora s’era riavuto. — E quelli: Ieri all’ora settima lo lasciò la febbre. — Il padre conobbe che quella era l’ora che Gesù gli aveva detto: “Il figlio tuo vive. ,, – Voi vedete semplicità e candore di narrazione che non ha l’uguale. L’Evangelista di suo non vi mette una parola: racconta il fatto in guisa che voi lo vedete: non una osservazione, non una applicazione, non una parola di meraviglia o di stupore per mettere in maggior luce la potenza divina di Gesù Cristo. Quale guarentigia, qual carattere di veracità! Gli Ebrei dividevano il giorno, come la notte, in dodici ore; onde, dicendo Giovanni che il fanciullo fu risanato alle ore sette del giorno, e che precisamente a quell’ora Gesù pronunciò le parole: “Il figliuol tuo vive, „ siamo certi che l’una e l’altra cosa ebbe luogo ad un’ora circa dopo il mezzodì. – È vero: i servi dissero che la guarigione era avvenuta il giorno innanzi, “ieri all’ora settima, „ e non è credibile che il padre, sì desideroso di rivedere il figliuolo, impiegasse un giorno a percorrere meno di cinque chilometri; ma la cosa si spiega agevolmente, allorché si pensi al modo con cui gli Ebrei determinavano il principio e la fine del giorno. Noi contiamo il giorno da una mezzanotte all’altra, doveché per gli Ebrei il nuovo giorno cominciava col tramonto del sole; il perché se l’incontro dei servi avvenne dopo il tramonto del sole, questi potevano e dovevano dire ieri e non oggi. E qui torna acconcio fare due osservazioni, che mi sono suggerite dal racconto evangelico. Gesù, stando lontano, con un atto della sua volontà onnipotente, aveva in un istante risanato un fanciullo: era un miracolo. Il padre, che l’aveva domandato e ne godeva il beneficio, vuole accertarsene, e perciò interroga i servi intorno all’ora in cui si era compiuto. Non era questo un mettere in dubbio la promessa di Gesù Cristo? No: l’accertarsi del miracolo era un diritto ed un dovere di quel buon padre, ed in ciò merita lode. E ciò che fa la Chiesa e dobbiamo far noi pure ogni qual volta  il bisogno lo richieda. Si parla di fatti straordinari? di profezie? di miracoli? di apparizioni, insomma di cose soprannaturali? Qual è il nostro diritto e il nostro dovere? Quello di esaminare con la ragione, e a tutto rigore di ragione, i fatti che si narrano o che si vedono: chi crede senza esaminarli mostra d’essere leggero, dice la Scrittura, e facilmente può essere ingannato. Dio ci ha data la ragione, e secondo essa dobbiamo operare e regolarci, e allorché sottoponiamo alla ragione i fatti che si dicono miracolosi, noi non facciamo torto a Dio, anzi gli rendiamo onore, usando del suo dono, che è la ragione, per conoscere se quei fatti sono veramente opere sue o della natura, o frutto dell’ignoranza, o inganni dell’astuzia. La fede ha i suoi diritti senza dubbio, ed inviolabili; ma anche la ragione ha pur essa i suoi non meno inviolabili, perché anch’essa è dono di Dio, e disse bene S. Tommaso, che: “L’uomo non crederebbe se non conoscesse essere dover suo il credere. „ La seconda osservazione è questa: Il padre, poiché ebbe conosciuta la coincidenza delle parole di Cristo con la guarigione del figlio, sgombrò ogni dubbio: comprese ch’Egli era padrone della natura, e che a Lui doveva aggiustare ogni fede, e di fatto credette egli e tutta la sua famiglia. Due volte si dice nel Vangelo che il padre credette: la prima volta quando Gesù gli disse: “Va, il figliuol tuo vive, „ e se ne andò; la seconda, qui, allorché intese l’adempimento delle parole di Cristo: Credidit. Qual differenza corre tra il credette della prima volta ed il credette della seconda? Grande, ed è questa. Dapprima credette che gli avrebbe guarito il figlio; dappoi credette ch’egli era il Messia; quella prima fede fu il primo passo che lo condusse alla seconda. Una fede imperfetta, confusa, lo fece andare da Cafarnao a Cana, ai piedi di Gesù, egli pose sulle labbra la preghiera per il figlio; la parola di Gesù rinvigorì quella fede, e pieno di speranza lo fece ritornare a casa; il conoscimento del miracolo compì l’opera, gli fece conoscere Gesù per quel che era veramente, e credette in Lui. – Io vo pensando tra me stesso: Quanti padri, a quel tempo, in quel giorno stesso avranno avuto i loro figliuoli gravemente infermi! Quanti in Cafarnao e nelle vicine borgate avranno veduto od udito parlare della guarigione di quel fanciullo fatta da Gesù Cristo? E quanti avranno imitato quell’ufficiale regio, correndo a Gesù e domandandogli la guarigione dei figli loro ? Non lo so, e dal Vangelo nulla si rileva, ma, secondo ogni probabilità, si può affermare che quel buon padre non trovò imitatori, o ben pochi. E perché? Mistero della umana libertà, e, aggiungo anche, della umana cecità! Così è, o carissimi. Gesù Cristo, per mezzo della sua Chiesa, continuamente ammaestra, rimette i peccati, salva le anime: è l’opera per la quale è venuto sulla terra, e per la quale vive perennemente nella Chiesa stessa. Accoglie tutti quelli che vanno a Lui, concede il perdono dei peccati a tutti quelli che lo chiedono, salva tutti quelli che vogliono essere salvati. E quanti sono quelli che vanno a Lui? Un certo numero: e gli altri? Non se ne curano. E perché? Ripeterò ancora: Mistero dell’umana libertà e dell’umana cecità!

Credo

Offertorium
Orémus
Ps CXXXVI: 1
Super flúmina Babylónis illic sédimus et flévimus: dum recordarémur tui, Sion.
[Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti e abbiamo pianto: ricordandoci di te, o Sion.]

Secreta
Cœléstem nobis præbeant hæc mystéria, quǽsumus, Dómine, medicínam: et vítia nostri cordis expúrgent. [O Signore, Te ne preghiamo, fa che questi misteri ci siano come rimedio celeste e purífichino il nostro cuore dai suoi vizii.]

Communio
Ps CXVIII:49-50
Meménto verbi tui servo tuo, Dómine, in quo mihi spem dedísti: hæc me consoláta est in humilitáte mea.
[Ricordati della tua parola detta al servo tuo, o Signore, nella quale mi hai dato speranza: essa è stata il mio conforto nella umiliazione.]

Postcommunio

Orémus.
Ut sacris, Dómine, reddámur digni munéribus: fac nos, quǽsumus, tuis semper oboedíre mandátis.
[O Signore, onde siamo degni dei sacri doni, fa’, Te ne preghiamo, che obbediamo sempre ai tuoi precetti].

 

LO SCUDO DELLA FEDE (XXXI)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

 XXXI

ALCUNI PRECETTI EVANGELICI.

Il precetto del perdono non è troppo duro? — Quello della continenza, non è contro natura? — Quello dell’umiltà,  non è avvilente? E quello della preghiera non è inutile? — La preghiera non umilia che serve pregare se non si ottiene? — Perché  dobbiamo recarci anche in chiesa a pregare? — Io pregherei, ma mi manca il tempo e sono assalito dalla noia.

— Ma nel Vangelo di Gesù Cristo non vi sono forse dei precetti impossibili a praticarsi?

L’asserire ciò è parlare da eretico. Santo Agostino dice chiaro che Dio (epperò Gesù Cristo) non domanda cose impossibili; ma comandando ti anima a fare quello che tu puoi e a domandare a Dio quello che da te non puoi.

— Ma, ad esempio, quel precetto di presentare la guancia sinistra a chi ci ha percosso nella destra, di cedere anche il mantello a chi ci ha tolta la tonaca, di correre altre due miglia a chi ci ha già trascinati a correre con lui per un miglio …

Anzi tutto devi ritenere che il praticare tali cose letteralmente, per ispirito di mortificazione e di umiltà, è solo consiglio. Come precetto poi Gesù Cristo intende di dire che non dobbiamo cercare o desiderare la vendetta, che piuttosto che vendicarci dobbiamo essere disposti a ricevere un’altra ingiuria, e che interiormente dobbiamo essere disposti a rinunziare a quello che ci sarebbe dovuto, ogni volta che la carità e la gloria di Dio lo richieda. D’altronde combattendo Egli la passione della vendetta, non intende di togliere per tal guisa ai magistrati la libertà di reprimere l’ingiusto offensore e nemmeno perciò all’offeso la facoltà di ricorrere ai medesimi per avere riparazione o giustizia.

— Ad ogni modo però il mondo reputa melenso e vile colui, che sopporta in pace l’ingiuria e perdona l’offensore.

Così fa il mondo degli uomini stravolti di cervello, il mondo dei malvagi e dei viziosi; ma non già il mondo dei savi, dei buoni, dei ben pensanti, perciocché questo mondo ha sempre riguardato come vile colui che si vendica. Ed in vero non è proprio da vile l’adirarsi, il vendicarsi, facendo così quello che fanno le bestie, quello che fa la vespa, che punge chi la stuzzica, quello che fa la vipera che morde chi la calpesta, quello, che fa il mulo che spranga calci contro chi lo percuote? – Sì, lo diceva già Aristotile, filosofo pagano: L’ira e la vendetta sono appetiti bestiali.

— Eppure è cosa dura certe volte il perdonare!

Anzi è duro tutto il contrario. Capisco che l’amor proprio deve fare un sacrificio, ma non è mille volte meglio per la tranquillità di nostra vita che lo faccia? E come può vivere tranquillo chi ha in cuore l’amarezza, l’odio, il livore, la brama di vendicarsi! È ancora per lui la pace, la gioia, la felicità? No, affatto. Più non dorme quieto la notte; di giorno, anche in mezzo agli affari, lo tormenta un pensiero funesto, tra gli stessi divertimenti una larva, che conturba, gli si para dinanzi, la larva della sua inimicizia. E poi ha da sacrificare le compagnie, le adunanze, le ricreazioni dove pratica l’avversario; deve evitare quelle strade per dove egli passa, deve star pronto a voltare la faccia quando lo incontra; e quando pure è riuscito a umiliarlo, a vendicarsi di lui, più che mai deve temere, che o egli, o i suoi parenti, o i suoi amici preparino di ripicco un’altra vendetta. E questa condizione di vita non è un inferno anticipato? E non è dunque meglio perdonare, e per tal guisa compiere il precetto di Gesù Cristo, e assicurarsi di essere così da Dio perdonati, avendo detto lo stesso Gesù: « Perdonate e vi sarà perdonato? »

— Queste considerazioni mi persuadono assai, non solo della convenienza, ma persino della facilità del perdonare. Un altro precetto tuttavia che nella morale di Gesù Cristo mi pare molto difficile ad eseguirsi è quello che riguarda la continenza. A me pare che l’obbligo di questa virtù sia cosa contro natura, superiore alle forze umane, epperò impraticabile.

Il dire ciò seriamente sarebbe una gravissima bugia ed una esecranda bestemmia contro la sapienza di Gesù Cristo, che non comanda nulla che non si possa praticare. L’uomo coll’aiuto del Signore può vincere qualsiasi più terribile passione, epperò anche quella contraria alla continenza, la quale, se fosse contro natura, non verrebbe certamente comandata da Colui, che è Autore stesso della natura. D’altronde gli stessi filosofi pagani hanno riconosciuta la necessità e l’importanza di tale virtù. Talete ha detto; « Temi la voluttà, che è madre del dolore ». Cicerone lasciò scritto: « L’impudicizia impedisce il consiglio, è nemica della ragione, né tiene alcun commercio colla virtù. Non vi è peste più esiziale della lussuria ». Aristotile ha sentenziato: « Con le laidezze della libidine si logora il corpo ». E Quintiliano insegnò: « Essendo divina l’origine dell’anime nostre, conviene aspirare alla virtù, e non servire ai turpi piaceri del senso ».

— Ma pure non vi ha nell’uomo una tendenza naturale contro siffatta continenza?

Anche le tendenze a mangiare e a bere sono naturali; ma se si soddisfano entro i limiti della natura e della fede non c’è male, se invece si fa ciò fuori dei giusti limiti, si fa cosa cattiva, dannosa e condannevole. Così è di quest’altra tendenza. Se essa è contenuta nei limiti del matrimonio cristiano, secondo le leggi di Dio, non è cattiva, e l’obbedirvi giusta i sentimenti della ragione e della fede non è male, anzi può essere un dovere. Ma il soddisfarla fuori dell’ordine e dei limiti voluti e fissati da Dio per il bene della società, è e sarà sempre un gran male. E lo è e sarà non solo perché violazione d’un precetto divino e causa di una serie di danni spirituali per l’anima, ma ancora perché fonte funesta di tanti mali morali e corporali per gl’individui e per la società. Se noi entrassimo in certe famiglie e domandassimo la cagione di tante discordie, di tanti disordini, di tanti patrimoni mandati a fondo, di tanta miseria, di tanti scandali, e persino di tante violenze e di tanti delitti, molte sarebbero costrette a risponderci che non fu altra, se non l’abbominevole vizio della disonestà. E se domandassimo ai medici, che frequentano le case dei privati e i pubblici ospedali, ben ci saprebbero dire, che la causa principalissirna di tante schifose infermità e di tanti morti sul fior della vita si è purtroppo questo detestabile vizio. Così pure quelle nazioni dove il brutto vizio trionfa sia per la immoralità dei privati individui, sia anche per la connivenza dei reggitori della cosa pubblica, per la libertà orribile che essi concedono a tutto ciò che lo fomenta, alla letteratura, alla pittura, alla scultura, ai teatri, ai balli, ai divertimenti pubblici, ai trafficanti della disonestà ed alle case del peccato, quelle nazioni, dico, benché (come una nazione a noi vicina), siano ricche, piene di lusso e di civiltà raffinata, sono tuttavia nazioni, che precipitano alla rovina. In conclusione se nella dottrina di Gesù Cristo vi hanno dei precetti, come questo, alquanto difficili, a praticarsi tutt’altro che inferirne qualche cosa contro il pregio di tale dottrina, se n’ha piuttosto a riconoscere la somma perfezione. Con tali precetti Gesù Cristo mostrò di avere grande stima di noi; ci fa conoscere che vuole anche l’opera nostra nell’affare di nostra salvezza, che non dobbiamo pretendere di andare in Paradiso in carrozza, senza superare difficoltà, senza far opposizione alle proprie inclinazioni, che il regno dei cieli insomma, come Egli ha detto, patisce forza e lo guadagnano coloro che si fanno violenza.

— Sì, lo credo. Non mi negherà tuttavia che nella dottrina di Gesù Cristo vi siano precetti strani ed avvilenti l’umana dignità. Quel comando ad esempio di non fare le nostre buone opere per essere veduti e lodati dagli altri, di dichiararsi servi inutili, quando si è fatto bene qualche cosa, di non cercare i primi posti, di farsi l’ultimo e il servo altrui, di fuggire gli onori e le lodi e persino la compiacenza delle medesime, di essere umili insomma, mi sembra troppo vero che, se venga da noi praticato, offenda il sentimento della nostra dignità!

Così pur troppo si pensa da coloro che parlano contro le virtù cristiane, senza sapere neppure che cosa esse siano; ma del resto è tutto il contrario. Se c’è cosa che rispetti il vero sentimento della nostra condizione è l’umiltà, e se c’è cosa che l’offenda è la brutta superbia. L’umiltà non è mica un inganno, per cui uno si sforzi di riputarsi quello che non è e di rinunziare ad ogni merito. L’umiltà è in fondo in fondo purissima verità; è una luce dell’intelletto che ci discopre quello che noi siamo, e nell’ordine della natura e in quello della grazia, ed una sincera disposizione del cuore di trattarci e lasciarci trattare in conformità di ciò. Laonde il vero umile non disconosce alcuno dei doni, che possiede. Se ha ingegno, virtù, prerogative speciali di natura o grazia, non gli è vietato di riconoscerle, perché come farebbe a ringraziarne Iddio, se non riconoscesse quello che da Lui gli fu donato? Ma a questa cognizione egli aggiunge per l’appunto l’intima persuasione che i beni che ha, non li ha da sé, ma da Dio: che perciò non ha il diritto per essi di cercare le lodi altrui, di vantarsi abile a questo e a quello, di volere dagli altri essere onorato, applaudito e collocato al primo posto, e di vanamente compiacersi; ma che in quella vece ha il dovere di offrire a Dio ogni bene che ha. Ora che cosa vi è in tutto ciò, che offenda menomamente il sentimento dell’umana dignità? Al contrario veramente l’offende la superbia, che è la falsa stima e il falso amore di se stesso spinto fino al punto di voler essere al di sopra di tutti gli altri, da non volere degli uguali, e da disprezzare ben anche gli inferiori. E l’offende altresì per i mezzi, dei quali induce l’uomo a valersi per riuscire nel suo intento di primeggiare su tutti; giacché a raggiungere tale scopo non lo induce forse talvolta a strisciare cortigianescamente ai piedi altrui, a far mercato di se stesso, a ricorrere ad arti abiette, a transazioni vigliacche, a bugiarde promesse? Ed ecco perché il mondo stesso mentre ammira chi è umile, e facendo il bene, ed essendo valente non cerca la lode altrui, beffa e irride chi è superbo; tanto che chi non è umile finge di esserlo e fa sembiante di rifiutare gli onori per non incorrere l’altrui biasimo.

— Anche in questo ella dice bene, e godo che togliendomi dalla mente certe strane idee, mi faccia ammirare la giustizia e la sapienza dei precetti del Vangelo. Tuttavia non le pare che Gesù Cristo abbia pure fatto dei precetti inutili?

Precetti inutili? E quale per esempio?

— Quello della preghiera.

Come? il più utile, il più necessario anzi dei precetti, tu lo chiami inutile?

— E sì. Che bisogno ha Iddio, che noi lo preghiamo?

Egli certamente bisogno non ne ha affatto, ma non lascia di avere il diritto, che noi con la nostra preghiera lo glorifichiamo, lo adoriamo, lo ringraziamo. Non è Egli il nostro Dio, il nostro Sovrano, il nostro Benefattore supremo? E noi vorremmo da non avere ad aprire la bocca per confessare tutto ciò? Non arriveremmo al massimo della ingratitudine e della malvagità? E poi non dobbiamo noi pregare Iddio, perché ci conceda gli aiuti d’ogni maniera, di cui abbisogniamo?

— Ma Iddio, con la sua onniscienza, non conosce tutto quello che ci è necessario, e non può Egli darcelo, senza che noi glie lo domandiamo?

Senza dubbio che ei lo potrebbe: ma se Egli non lo vuole, non è padrone di fare come gli piace? E non siamo noi tenuti di obbedire ai suoi comandi? Non sono già moltissimi i doni, che Dio ci ha fatto del tutto gratuitamente, non solo senza alcuna nostro merito, ma senza che pure glieli chiedessimo? Se per tanto ve ne sono ancora moltissimi altri, di cui abbiamo assolutamente bisogno, e che Egli non ci vuol dare senza che glieli domandiamo, non avremo noi l’obbligo assoluto di pregarlo?

— Ma Iddio è un essere immutabile: ciò che Egli vuole, lo vuole eternamente. Egli perciò ha dato al mondo delle leggi, che sono invariabili e le quali fanno fare alle cose tutte il corso loro segnato. Perchè adunque pregare? Perché Iddio cangi quello che dall’eternità ha stabilito? E allora come credere all’immutabilità della sua natura?

Caro mio, questa obbiezione non è altro che un pretto giuoco intellettuale. Difatti, tra queste leggi invariabili, di cui tu parli, non tiene un primo posto la preghiera? Se Dio ha stabilito da tutta l’eternità di rendere feconda la terra, di guarire degli ammalati, di consolare degli afflitti, di convertire dei peccatori, di rassodare dei virtuosi, di salvare dal flagello un popolo alla tale e tale altra ora dei secoli, perché a questa e a quell’altra ora dei secoli sarà pregato dagli uomini, forseché egli muta perciò le sue leggi? o non ne mantiene piuttosto immutabile il corso ? Noi adunque preghiamo, noi dobbiamo pregare « non già, come nota San Tommaso, per mutare le divine disposizioni, ma per impetrare ciò che Egli ha stabilito doversi adempiere per ragione della preghiera, per meritare cioè per mezzo della preghiera quei beni, che Egli innanzi ai secoli ha disposto di donarci per essa »

— Non mi potrà tuttavia negare che la preghiera umilii l’uomo e lo avvilisca.

Oh sì! Certe preghiere avviliscono e sono al tutto indegne dell’uomo. Coloro ad esempio che si pongono in ginocchio davanti alle divinità carnali dei loro cuori, davanti ai potenti della terra, e si fanno a domandar loro in grazia o uno sguardo o una piccola croce da cavaliere, costoro sì che si avviliscono prodigiosamente nelle loro preghiere! ma non già colui, che s’inginocchia avanti a Dio e Lui prega, e pregandolo riconosce la sua grandezza, la sua sovranità, la sua bontà, le sue perfezioni, e in tal guisa non si spinge alla ridicolaggine superba di credersi senza bisogno del suo aiuto e di voler essere da Lui indipendente.

— Eppure a che serve pregare, se non si ottiene da Dio quel che si vuole?

Ma bisogna un po’ vedere se si vuole ciò che è bene, oppure ciò che è male. A che si prega da molti? Si prega per ottenere una buona fortuna, si prega perché sia prosperata nelle ricchezze la famiglia, si prega per vincere quella lite ed abbattere quell’avversario, si prega sembra strano, ma pur è vero, si prega talvolta anche per riuscire a fare una vendetta, o per altri scopi somiglianti. E come mai il Signore, che è pieno di bontà, esaudirà queste nostre insensate preghiere? Inoltre anche allora che si domandano cose buone, si prega come si deve, con divozione, con fede, con umiltà, con perseveranza? – Sii certo che Gesù Cristo, come nella sua dottrina ci ha comandato di pregare, così nella stessa avendoci assicurato l’esito della preghiera, farà sempre onore alla sua parola, purché noi facciamo del tutto per parte nostra il nostro dovere.

— Benissimo. Ma perché dobbiamo recarci anche in chiesa a pregare? Non possiamo noi pregare Dio da per tutto? E Gesù Cristo nel suo Vangelo ci ha forse fatto alcun precetto a questo riguardo? Mi sembra anzi che Egli abbia detto di chiudersi perciò nella propria stanza. Dunque?

Dunque è verissimo che noi possiamo pregare Iddio da per tutto, in casa, fuori di casa, nelle campagne, sul lavoro, in viaggio, eccetera, e facciamo benissimo a pregarlo in ogni dove. È vero ancora che Gesù Cristo fa grande elogio dell’orazione privata e da solo, e ce ne diede Egli più volte l’esempio ritirandosi sul monte, nel deserto, presso il Getsemani a pregare Dio da sé solo. Tuttavia ci vuole altresì l’orazione pubblica, fatta in comune e in chiesa. Nel suo Vangelo ha ricordato che la chiesa nelle Scritture, si chiama per eccellenza Casa di orazione. Ed in vero nell’antica legge, quando Iddio ordinò la costruzione del tempio, a questo fine particolarmente l’ordinò, e nella sua consacrazione assicurò in modo esplicito e preciso, che chiunque si fosse recato nel tempio a pregarlo l’avrebbe esaudito. – Per di più aggiunse che « se due si fossero uniti insieme a chiedere a Dio qualunque cosa, sarebbe stata loro accordato dal suo Padre celeste, perché dove fossero due o tre congregati nel suo nome, Egli sarebbe stato là in mezzo a loro ». Le quali parole si riferiscono alla preghiera fatta in comune e specialmente in chiesa, dove i fedeli formano nel pregare un cuor solo ed un’anima sola. – D’altronde la stessa ragione ci mostra la convenienza e l’utilità della preghiera fatta altresì nella Casa di Dio. Non è per mezzo di questa preghiera, che si rende a Dio il culto pubblico della società? Non è per questa preghiera che si stringe vieppiù fra gli uomini la fraternità? Non è per essa che ci andiamo animando meglio gli uni gli altri a compiere i nostri doveri verso Dio?

— Sì, ciò è verissimo. Ma è vero altresì che la preghiera sia tanto utile come si dice?

Utilissima. La conservazione della fede, la volontà risoluta di fare il bene, la forza di vincere le tentazioni, la luce per dissipare i dubbi, la consolazione in mezzo alle tribolazioni della vita, l’energia, gli slanci generosi, i magnanimi propositi di renderci sempre migliori, e infine la nostra eterna salvezza, tutto proviene dalla preghiera. E invece quei languori, quelle debolezze, quelle irritabilità, quei disgusti della vita al tutto singolari, quelle angosce così cocenti e quelle disperazioni così gravi, che talora si provano, sono causa dell’assenza della preghiera. Prega, amico mio, prega, e ti troverai contento e felice.

— Io pregherei, ma mi manca il tempo; ho molte altre cose da fare. E poi chi lavora, prega.

Tu dici una gran bugia. Trovi tanto tempo non solo pe’ tuoi affari, pe’ tuoi lavori e pe’ tuoi studi, ma anche per i tuoi divertimenti e per tante chiacchere inutili, e forse anche dannose, e non trovi tempo per un po’ di preghiera? Tu dici: Chi lavora, prega. Sì, anche il lavoro indirizzato a Dio può servire di bella preghiera. Ma appunto perciò bisogna offrirlo e consacrarlo a Lui col mandargli innanzi un po’ di preghiera. Alla fin fine credi tu che sia necessario che tu passi delle ore intere nel pregare? Alcuni minuti al mattino, alcuni altri alla sera, in cui tu dica le orazioni indicate dal Catechismo pel buon cristiano, ordinariamente bastano. Vedi adunque che non puoi dire che ti manchi il tempo per pregare. Che se poi realmente ti mancasse, dovresti trovarlo. Non lo trovi forse per mangiare, per dare al tuo corpo il necessario sostentamento? Quanto più adunque devi trovarlo per dare il necessario sostentamento all’anima.

— Sì, ha ragione. Ma che vuole mai? Quando mi metto a pregare mi piglia tale noia, oppure mi assalgono tali distrazioni, che mi par proprio inutile il pregare.

Se ti assale la noia, è perché non ti studi di pregare con fede, con amore, con raccoglimento. Se poi durante la preghiera ci assalgono delle distrazioni, e allora noi facciamo il possibile per allontanarle. Ma se non ci avvediamo delle medesime, non dobbiamo credere perciò che il Signore non accetti le nostre preghiere. Egli è infinitamente buono, e sa benissimo compatire alla nostra debolezza.

— Ebbene sia certo che d’ora innanzi praticherò colla massima esattezza questo precetto della preghiera.

Bravo? Mi rallegro di cuore con te per questo buon proposito.

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (9): Modello di purezza.

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (9)

DISCORSO IX.

[A. Carmignola: il Sacro Cuore di Gesù; S.E.I. Ed. Torino, 1930]

Il Sacro Cuore di Gesù modello di purità.

Nella divozione al Sacratissimo Cuore di Gesù, oltre al ricambiarlo di amore e al risarcirlo delle tante offese che riceve nel SS. Sacramento dell’Altare, devesi pure attendere ad imitarlo nelle sue speciali virtù. E le virtù speciali, che Gesù Cristo stesso ci propose a ricopiare in noi nel suo adorabile Cuore, sono la mansuetudine e l’umiltà. Ed oh! Quanto era importante che il divino Maestro ci proponesse l’imitazione di tali virtù a preferenza di tante altre. Tuttavia restando sempre ferma tutta la loro eccellenza e necessità, e pure riconoscendo che Gesù Cristo non ci disse esplicitamente di impararne altre dal suo Santissimo Cuore, è certo che ve n’è ancora qualcuna, che del suo Cuore non è meno caratteristica della mansuetudine e dell’umiltà, e nella quale, a voler essere suoi veri devoti, dobbiamo pure studiarci di imitarlo quanto più ci è possibile. Tale ad esempio è la santa purità. Ed in vero la purità per attestazione dello stesso Gesù Cristo è per eccellenza una virtù del cuore, avendoci egli insegnato che come dal cuore escono quei cattivi pensieri e quelle opere malvagie, che massimamente contrariano la santa purità, così è nel cuore, che risiede quella mondezza, che ci renderà beati nella visione di Dio. Sì, il cuore e la purità sono tra di loro in una così stretta e vicendevole dipendenza, che nell’uomo puro il cuore è di una delicatezza meravigliosa, e benché di carne vive di una vita quasi spirituale; laddove nell’uomo privo di purità il cuore si fa grossolano ed abbietto, e non batte più che per dare corso al sangue e segnare le ore di una vita inonorata. Gesù Cristo adunque è nel suo Cuore così delicato, così tenero, così sensibile e così santo, che mantenne l a più illibata mondezza, come è nel suo Cuore, che nutrì un sovrano amore per la santa purità, dal suo Cuore, che fece uscire quelle parole sublimi, che insieme col suo esempio crearono le immense generazioni di anime pure e caste, ed è al suo Cuore, che appressò ad attingervi inenarrabili delizie quei suoi amici, ch’Egli predilesse per ragione della loro purità. Per tanto nella divozione al Sacro Cuore di Gesù, a voler rendere il cuor nostro simile ad esso, non importerà sommamente che ci animiamo ad amare e praticare ancor noi una tanta virtù? Sì, senza dubbio. E ciò tanto più importa in quanto che anche oggidì questa virtù è vituperosamente oltraggiata. Ah purtroppo! dopo diciannove secoli di virtù e di perfezione cristiana la miseria più spaventosa dei nostri tempi si è la corruzione dei costumi, tanto che se anche ai tempi nostri vivesse quella fiera anima di Tacito, potrebbe pur con ragione ripetere quel suo famoso detto: Corrumpere et corrumpi sæculum vocatur: corrompere ed essere corrotti, questo si chiama il secolo. A riparare adunque un tanto disordine, e a impedirlo anzi tutto in noi, quanto ci sarà giovevole levare i nostri sguardi al Cuore Sacratissimo di Gesù, modello di purità! E questo faremo oggi; epperò, dopo di aver rilevata la bellezza della virtù della purità, considereremo come abbia amata e praticata la purità il Sacro Cuore di Gesù e con quali mezzi riusciremo ad amarla e praticarla anche noi.

I. — Come in un quadro, ciò che dà maggior risalto ad una bella e chiara figura, sono le tinte oscure, che ne formano il fondo, così ciò che servirà a far meglio risplendere la bellezza della santa purità, si è il mettere innanzi qualche poco la bruttezza e la gravità dell’orrendo peccato, che la contraria. È bensì vero che l’apostolo Paolo vorrebbe, che tal peccato non si avesse neppure a nominare tra i Cristiani. Ma perché esso è pur troppo una delle cause principalissime, per cui l’inferno si riempie di dannati, mi si conceda di farne almeno qualche cenno fuggitivo. – Il santo Re Davide ha detto ripetutamente, che l’uomo che si abbandona alle sue brutali concupiscenze, ha misconosciuto la sua grande dignità, e si è fatto simile ai giumenti privi di ragione. Ed in vero, l’uomo solamente allora riconosce la dignità di sua natura e serba fede ad essa, quando vive conforme alla ragione, che è la divina scintilla, che lo differenzia dai bruti. Ma la ragione, come hanno riconosciuto gli stessi gentili, detta all’anima di comandare e al corpo di servire. Ora, che cosa fa colui che si abbandona al brutto peccato dell’impurità? Contro il dettame della ragione lascia, che signoreggi in lui la carne, e alla tirannia della carne fa servire qual misera schiava l’anima sua. Così adunque in quest’uomo infelice l’anima perde la corona e lo scettro, rinunzia ai suoi privilegi, scade dall’altezza, a cui fu da Dio sollevata, e scende nella più profonda abbiezione, nell’abbiezione del giumento: Homo cum in honore esset, non intellexit; comparatus est iumentis insipientibus, et similis factus est illis. (Ps.. XLVIII) Difatti, ponendovi innanzi l’uomo impudico, in che altro, se non nelle forme, potrete scorgerlo diverso dagli animali più abbietti? Egli non ravvolge nella sua mente che pensieri immondi, nella sua immaginazione non si diletta che di voluttuosi fantasmi, e nel suo cuore non nutre che turpi affetti. – Anche al di fuori mostra l’orribile guasto dell’anima, giacche i suoi occhi spirano libidine, i suoi orecchi vanno in cerca di discorsi e di armonie sensuali, la sua lingua schizza il veleno dell’oscenità, il suo volto è inverecondo, il suo tratto licenzioso, e tutto il suo portamento pieno di petulanza. Preoccupato unicamente della sua passione, propriamente come il giumento, che spinto dall’invincibile istinto che lo domina, nel vedere da lungi ciò che può soddisfarlo, vi corre appresso e vi si precipita sopra, senza che nulla valga a rattenerlo, così l’impudico dominato dall’istinto brutale con un despotismo atroce ed ignobile, cui non ha più forza di resistere, perché troppo lo ha assecondato, corre appresso e si precipita con furore sopra tutto ciò, che gli promette un sensuale diletto. E per riuscire nell’intento di ottenerlo, che gl’importa, se padre, di trasandare l’educazione dei figli, se sposo, mancar fede ai sacri giuramenti, se figlio, di gettare il tempo, il denaro, la vita, e far la rovina e il disonore dei genitori. Oh se noi entrassimo in certe famiglie e domandassimo la cagione di tante discordie, di tanti disordini, di tanti patrimoni mandati a fondo, di tanta miseria, di tanti scandali, e persino di tante violenze e di tanti delitti, molte sarebbero costrette a risponderci che non ne fu altra, se non l’abbominevole vizio della disonestà. L’impudico adunque nelle sue tendenze, nelle sue voglie, ne’ suoi costumi si avvilisce veramente al punto da rendersi somigliante al bruto. Sì, dice S. Bernardo, se l’uomo pecca. di ambizione, pecca come l’angelo, commettendo una colpa affatto spirituale; se pecca d’avarizia, pecca quale uomo, perché questo disordine all’uomo soltanto conviene; ma se pecca di impurità, egli pecca da bruto, perché segue l’impulso di una passione, che predomina nei bruti, e che ai bruti lo assomiglia. – Ma vi ha di peggio ancora, perciocché se questo peccato si considera non solo nell’uomo come uomo, ma nel Cristiano come Cristiano, non si tarda a riconoscerlo quale orribile sacrilegio. L’apostolo S. Paolo nella sua prima lettera ai Corinti (VI, 15-20) bellamente ci insegna come il Cristiano per opera della grazia, che gli comunica il frutto della divina redenzione, si unisce tutto intero, anima e corpo, così intimamente al Verbo incarnato e al Divino Spirito, da diventare, non solo nell’anima, ma anche nel corpo, membro di Gesù Cristo e tempio dello Spirito Santo: « Oh! non. sapete, esclama egli rivolto a quei primitivi Cristiani, non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? … che le vostre membra sono tempio dello Spirito Santo? » E quello, che l’Apostolo insegna, è dai santi Padri così esplicitamente spiegato, che se non fosse ad esempio un S. Leone Papa quegli che ci dice, che il corpo del battezzato è diventato la carne del Crocifisso, noi peneremmo a prestarvi fede. Or dunque, se nell’uomo che vive fuori della vera religione il peccato dell’impurità è pur sempre una colpa, che tanto lo avvilisce, nel Cristiano, membro di Gesù Cristo e tempio dello Spirito Santo è per soprappiù una profanazione sacrilega del corpo stesso del divin Redentore e del Santuario della Divinità. Ed ora qual meraviglia, se un cristiano, che giunge a disonorare in questo modo il suo carattere, non tarda a perdere ogni avanzo di fede e a diventare, come ne insegnano le Sacre Scritture, miserabile apostata? L’uomo, che si abbandona al brutto vizio, rimane così presto acciecato di mente e indurito di cuore, che più non vede e non sente né il pregio dell’anima sua, né il tesoro della divina grazia, né l’importanza dell’eterna salute, né la bellezza della pietà, né la necessità della religione; abborre dalla preghiera, e lascia i Sacramenti, e schiva la chiesa, e diventa insomma quell’uomo « animale » di cui parla S. Paolo, che più nulla capisce, e più nulla gusta delle cose di Dio. E perché, nello sbramare le sue immonde voglie, non vorrebbe sentire alcun rimorso di coscienza, e ciò non può essere finché crede a Dio, alla sua legge, alla sua terribile giustizia, perciò comincia egli dal dubitare prima occultamente e poi manifestamente, e finisce per negare e Dio e Vangelo, e eternità, e cadere nella più spaventosa incredulità, Oh! l’incredulità è un guanciale assai comodo per la disonestà; e la storia è lì per provare, che la cagione più universale dell’apostasia dalla fede è l’apostasia dalla purità. Salomone non arse profani incensi alle false divinità, se non dopo aver ceduto alle lusinghe delle donne di Sidone e di Moab. Lutero, che strappò la Germania dal seno della Chiesa, prima di rapire a Gesù Cristo la greggia, gli aveva rapito una sposa. Un Arrigo VIII sterminò il Cattolicismo dalla terra dei Santi, dopo che si era abbandonato ad amori adulteri. E nella Francia si chiusero i sacri templi, si scannarono i sacerdoti, si abbatterono gli altari e si gettarono nel fango le sacre Pissidi, allora che si prese ad adorare la carne vivente d’una pubblica peccatrice. Ma anche oggidì, se tanti Cristiani vi hanno, massime tra la gioventù, che deridano la fede e la sprezzino, non è già, come si dice, che i ritrovati moderni non vadano con essa d’accordo, ma la realtà dolorosa è questa, che costoro son divenuti miseri schiavi della turpe passione e ne sono crudelmente signoreggiati. Tale adunque è l’enormità del brutto peccato, tali sono i suoi funestissimi effetti. Qual meraviglia pertanto se Iddio lo ha punito sempre anche in questa vita coi più terribili castighi ? Perciocché non è per questo peccato, che Egli mandò il diluvio sopra la terra, fece piover fuoco ed incenerire Sodoma e Gomorra? Non è per questo peccato, che sfasciò gli imperi più potenti e le nazioni più grandi? Non è per questo peccato, che tuttodì manda tra gli uomini le più spaventose calamità, le più tragiche morti, le più vergognose malattie? Oh! se è vero che Iddio oltrecché con altri castighi, punisce ancora il peccatore col suo stesso peccato, in questo massimamente è dove si verifica terribilmente una tal legge. No, Iddio non lascia che l’uomo impudico faccia impunemente trionfare i suoi sensi deprimendo lo spirito. Il trionfo non è che apparente, perciocché in realtà è seguito dalla dissoluzione. E se domandassimo ai medici, che frequentano le case private e i pubblici ospedali, ben ci saprebbero dire, che la causa principalissima di tante schifose infermità e di tante morti sul fior dell’età si è pur troppo questo detestabile vizio. Ma basti ormai della bruttezza di questo peccato, e, sollevando ora a più elevati pensieri il nostro cuore, su questo oscuro fondo vediamo raggiare la figura bellissima della santa purità. Questa virtù è di tanta bellezza, che come il peccato d’impurità è chiamato senz’altro il brutto peccato, così essa è chiamata per eccellenza la bella virtù. I santi Padri nelle loro considerazioni ne furono talmente rapiti, che tutti andarono a gara per farne i più profondi elogi; e chi la chiamò radice della vera sapienza, chi ornamento e decoro della Chiesa, sposa di Cristo, chi virtù celeste ed angelica, chi regina di tutte le virtù, chi giglio candidissimo, chi preziosissima gemma, al cui splendore si eclissa quella d’ogni altra. E in tutte queste grandi espressioni non fecero altro che commentare la parola dello Spirito Santo, il quale disse, che per quanto si esalti la purità, non si arriverà mai ad esaltarla degnamente: Omnis ponderatio non est digna continentis animæ. (Eccl. XXVI, 20) I n questa virtù, secondo l’attestazione di S. Paolo, allorché ci dice essere di volontà di Dio, che ci facciamo santi, astenendoci da ogni immondezza (I IV, 4), sta la santificazione

delle anime nostre, giacché come si legge nel libro della Sapienza, la purità ci avvicina nel modo più prossimo a Dio: Incorruptio facit esse proximum Deo (VI, 20), ed è a questa virtù che fanno naturalmente corona tutte le altre virtù. L’umiltà, la modestia, il raccoglimento, il disprezzo del mondo, la povertà volontaria, l’abnegazione, l’obbedienza, la mortificazione, la vivezza della fede e della carità si raggruppano tutte intorno alla purità, perché colui che è puro, quanto toglie alla vita del senso altrettanto mette a profitto delle cristiane virtù, e può applicarsi con tutta ragione le parole dello Spirito Santo: E insieme con la purità vennero a me tutti gli altri beni: Venerunt autem mihi omnia bona pariter cum illa. (Sap. VII, 11). O purità, quanto sei bella, quanto sei splendida, quanto sei amabile! E poteva essere, che il Cuore Santissimo di Gesù Cristo non si mostrasse di te magnificamente adorno?

II — Ah! poiché Gesù Cristo venne sulla terra a curare le piaghe della inferma umanità, qual medico celeste, come dice S. Gregorio Magno, ai vizi nostri contrappose contrari medicanti, epperò alla turpe malattia dell’incontinenza oppose la bellissima virtù della purità. E ciò Egli fece massimamente per mezzo del suo Sacratissimo Cuore; giacché è nel suo Cuore, che ebbe palpiti di predilezione per la purità; è dal suo Cuore, che fece scaturire quelle sublimi parole, che ne mostrano tutto lo splendore; è nel suo Cuore, che la praticò nel modo più eccellente. Ed anzi tutto è nel suo Cuore che ebbe per la purità un amore di predilezione, facendosi in realtà, quale fu profeticamente chiamato, agnello che si pasce tra i gigli. Difatti il mistero della divina incarnazione si può per eccellenza chiamare un mistero di purità. Il verbo eterno volendo per la salute del genere umano prendere la nostra carne, avrebbe potuto crearsi in cielo un corpo perfetto e adorno di doti soprannaturali, quale quello di Adamo nello stato di innocenza. Ma invece volle discendere dal suo celeste regal trono e prendere un piccolo corpo nel seno di una donna. Or chi sarà questa fortunatissima figliuola di Eva? Maria, la più pura fra tutte quante le umane creature. Ed in vero, poiché per illustrazione dello Spirito Santo, Ella conobbe la preziosità di questa splendida margarita, rinunziò ad ogni affetto terreno per conservarla immacolata nel suo cuore, e a tal fine, ancor tenera d’anni, nel tempio la consacrò interamente a Dio. E per tal modo si tenne ferma nel suo proposito, che, come osserva S. Girolamo, le parole dell’Arcangelo Gabriele, con le quali le si prometteva per figlio un Dio, non valsero a farla titubare un istante dal medesimo; e solamente «allora accetta l’altissima dignità di Madre di Dio. quando è fatta certa dall’Angelo, che resterà pur sempre purissima vergine. Oh purità incomparabile! Oh specchio vivissimo della stessa eterna purità! Ben a ragione la Chiesa la esalta in mille guise, ed esclama, che per questo appunto, per la sua grande purità Maria meritò di essere fatta Madre del Signore : Beata Maria tantæ exstitit puritatis, ut Mater Domini esse mereretur. (In off. purit. B. M. V.) Ma oltreché una madre, volendo Gesù Cristo avere quaggiù e per sé e per la Madre sua un custode, a chi mai diede questo gran previlegio, questa eccelsa dignità? A S. Giuseppe, il più puro fra gli uomini, perciocché come insegna S. Francesco di Sales, la purità dello Sposo di Maria e del custode di Gesù fu si grande da sorpassare quella di tutti gli Angeli, compresi pure quelli della più alta gerarchia. E così si elesse a precursore un altro angelo di purità, S. Giovanni Battista, anzi un martire di purità, giacché per questo propriamente egli dovette perdere la vita, per il grande amore, che portava alla purità, amore, che lo spronava fortemente a redarguire con la massima severità chi con tanta spudoratezza andava oltraggiando una tale virtù. – E tra gli Apostoli chi fu il prediletto di Gesù? S. Giovanni. E quante prove gli diede di sua predilezione! Oltre all’averlo voluto presente ai suoi più stupendi miracoli ed alla sua trasfigurazione sul Tabor, a lui concesse nell’ultima cena di posare la testa sopra del suo Sacratissimo Cuore e di sentirne con ineffabile delizia i palpiti affettuosi; a lui sul Calvario, dalla Croce dove pendeva agonizzante, affidò per Madre Maria; a lui concesse la vita più lunga che a tutti gli altri Apostoli, e lasciandolo morire di morte naturale, nel tempo stesso lo laureò della palma del martirio; a lui infine, ancor vivente quaggiù, aperse i cieli e ve lo rapì a contemplarne le bellezze, e fra le altre lo spettacolo, che presentano le anime pure nel seguire l’agnello ovunque si reca, e nel cantare un inno, che a nessun altro è concesso di cantare. E perché mai una predilezione sì grande? Tutti i Santi Padri lo dicono: per ragione della sua specialissima purità; giacché ritrovato puro e vergine quando il Signore lo chiamò all’apostolato, si mantenne in tutta la vita vergine e puro. – E che dire poi della singolare benevolenza che il Cuore di Gesù mostrava ai fanciulletti? Egli voleva, che a lui si lasciassero appressare perché, diceva, di essi è il regno dei cieli. E li stringeva teneramente al seno, e li accarezzava, e li benediceva con amore immenso, e ne prendeva le parti, minacciando terribili guai a chi li avesse posti sulla via del male. E tutto ciò non faceva Egli perché i fanciulletti sono anime pure? Ma oltre all’avere avuto per tal guisa nel suo Cuore un amore di predilezione alla santa purità, egli ne fece ancora uscir fuori quelle sublimi parole, che tutta ne mostrano l’eccellenza. Ed in vero nel celebre discorso delle otto beatitudini disse pure: Beati i mondi di cuore, perché essi vedranno Dio : Beati mundi corde, quoniam ipsi Deum videbunt; ( MATTH. V, 8). vale a dire non solo lo vedranno un giorno in paradiso, in premio della purità, ma lo vedranno ancor qui sulla terra per mezzo di una fede più viva, di una cognizione più profonda, di una contemplazione più alta. Altra volta parlando degli amatori di questa virtù, li paragonò agli Angeli, dicendo: Saranno come gli Angeli di Dio in cielo: Et erunt sicut Angeli Dei in cœlo, ( MATTH. XXII, 30) espressione questa, che fece così esclamare, tra gli altri, un S. Giovanni Grisostomo: O santa purità, quanto sei degna della stima degli uomini, tu che dell’uomo, polvere e cenere, fai uno spirito celeste! anzi un essere superiore agli spiriti celesti, perché gli Angeli sono puri per la loro natura, mentre negli uomini, oppressi dal peso del corpo, la purità è robustezza di virtù! Infine Gesù Cristo praticò Egli stesso la purità nel modo più eccellente. Difatti Egli permise, che nel deserto il demonio si facesse a tentarlo in varie guise, ma non già contro la purità. Durante la sua vita pubblica, lasciò che i suoi nemici lo chiamassero indemoniato, sovvertitore di popolo, amico dei peccatori, mangione e bevone, ma non permise mai, che gli facessero la minima accusa contro la purità. Il suo Cuore fu continuamente un santuario immacolato, e sebbene peccatrici spregiate vi trovassero rifugio nell’ora del pentimento, tuttavia neppure il sospetto in venti secoli di una posterità, intenta a ricercarne le colpe, ha osato di profanarne minimamente la purità. Or dunque, che altro mai poteva far Gesù Cristo a dimostrare la bellezza della purità, e l’amore singolarissimo, che nutrì nel Cuor suo per una tale virtù! E come poteva Egli con maggior efficacia spronare ancor noi alla pratica della stessa? Di certo adunque, se noi vogliamo essere veri devoti del Sacro Cuore di Gesù, se intendiamo di conformare il cuor nostro al suo, se desideriamo goderne ancor noi l’amore di predilezione, dobbiamo sul suo esempio amare e praticare una sì grande virtù: Qui diligit cor dia munditiam habebit amicum Regem. (Prov. XXII, 11) Ma poiché si tratta di una virtù, la quale valendo più d’ogni altra ad operare la nostra santità, è pure la più insidiata dal demonio, non basta perciò, o miei cari, che risolviamo in genere di praticarla, ma bisogna ancora che ci appigliamo in ispecie a quei mezzi, che valgono a tenerci lontani dai pericoli contro di essa, od a farceli superare.

III. — Questi mezzi si riducono a due principali: mortificazione e preghiera. È lo stesso Divin Maestro, che ce li ha insegnati. Mentre Egli sul Tabor si trasfigurava alla presenza dei suoi discepoli prediletti, Pietro, Giacomo e Giovanni, alle falde del monte era stato condotto presso gli altri Apostoli un giovane indemoniato, perché lo liberassero; ma indarno. Buon per lui, che Gesù, cessata la trasfigurazione e disceso dal monte, comandò Egli al demonio di uscire da quell’ossesso, e tosto fu risanato. Allora gli Apostoli, avendo preso in disparte Gesù, interrogatolo perché non avevano potuto cacciare quel demonio, avendone pure cacciati altri, il divin Redentore rispose loro: Il demonio dell’impurità non può altrimenti esser vinto e sbandito, che con la mortificazione e colla preghiera: Hoc genus (demoniorum) non eiicitur nisi per orationem et ieiunium. (MATTH. XVII, 20). – Alla conservazione adunque della purità è indispensabile anzitutto la mortificazione. È bensì vero che il mondo a questa

parola inorridisce; ma dice chiaro l’apostolo Paolo, che coloro, che anziché appartenere al mondo vogliono appartenere a Cristo, crocifiggono la loro carne cou le sue concupiscenze: Qui sunt Christi, carnem suam crucifiocerunt cum vitiis et concupiscentiis, (Gal, V, 2 4 ) Mortifichiamoci adunque. Ed anzi tutto mortifichiamo i nostri occhi, evitando qualsiasi sguardo sopra oggetti e persone, che possano commovere i nostri sensi. Giobbe diceva di aver fatto un patto cogli occhi suoi di non pensare mai malamente: pepigi fœdus cum oculis meis, ne cogitarem quidem de virgine. (XXXI, 1) E perché mai ha fatto patto con gli occhi di non pensare? È forse con gli occhi che si pensa? No, certamente, ma sono gli occhi, che trasmettendo alla mente gli oggetti, che essi vedono, fanno dalla mente pensare agli stessi. Epperò se alla mente si trasmette la figura di persona o cosa che la colpisce malamente, come non vi penserà sopra? E pensandovi sopra, come non se ne accenderà di impura fiamma il cuore? Ecco perché uno sguardo bastò a far prevaricare Davide, l’uomo fatto secondo il cuor di Dio. Ma nel raccomandare la mortificazione degli occhi non si intende solo di raccomandarla per ciò che è vivo e reale, ma eziandio per ciò che può offendere l’occhio cristiano anche solo in figura. Epperciò via assolutamente dalle case nostre quei gessi, quelle statue, quelle immagini rappresentanti nudità scandalose; via quei giornali, quelle strenne, quei libri, ove le illustrazioni umoristiche non consistono in altro che in un intreccio di irreligione e di immoralità; e poiché per le strade e per le piazze non possiamo quasi più dare un passo senza temere che i nostri occhi siano contaminati da indecenti affissi, ritratti e figure, non fermiamo mai sopra di ciò il nostro sguardo, anzi volgiamolo prontamente altrove. Tutti poi, ma i giovani specialmente, mortifichino i loro occhi evitando col massimo impegno ogni cattiva lettura. Per certo non vi ha nulla, che maggiormente esalti la loro immaginazione, li allontani dalla pratica della pietà cristiana e li precipiti nella corruzione quanto la lettura di cattivi libri, la lettura dei romanzi. Lo stesso Gian Giacomo Rousseau, sebbene tristo, non esitò a sentenziare crudamente ogni fanciulla così: È ella casta? Dunque non ha letto romanzi. Donde ne segue qual legittima deduzione: È ella lettrice di romanzi? Dunque non è più casta. – In secondo luogo con la mortificazione degli occhi, esercitiamo la mortificazione della lingua. Corrumpunt bonos mores colloquia prava, (I Cor. XV, 33) diceva già S. Paolo. I cattivi discorsi corrompono i buoni costumi. E perciò evitiamo noi anzi tutto di parlare male e poi foggiamo come la peste quelle compagnie, ove si dicano parole indecente, si tengano cattivi discorsi; e, se ci troviamo in condizione di poterlo fare, intimiamo il silenzio a chi in nostra presenza osasse venir fuori con motti inverecondi. Così agivano i Santi, tanto che al loro avvicinarsi, le compagnie, a cui si presentavano, si ponevano tosto in guardia da ogni mala parola. Insieme con la lingua,, mortifichiamo ancora la nostra gola, guardandoci bene dalla crapula e dall’ubriachezza. È ciò che raccomandava lo stesso apostolo S. Paolo, il quale soggiungeva che nel vino sta la lussuria. Di fatti non è allora che si fanno più gagliarde le tentazioni del demonio? Non è allora che certi uomini sono più sboccati e senza più alcun ritegno e pudore si abbandonano a motti, a discorsi, ad atti di gravissimo scandalo? Mortifichiamo poi il senso del tatto, evitando ogni confidenza e famigliarità specialmente con persone di altro sesso, guai a colui, dice lo Spirito Santo, che si mette a trattare domesticamente con persona indebita; molti sono andati perciò in perdizione, (Eccl. IX, 11) Ed è pure perciò, che va alla perdizione tanta povera gioventù. Con pretesti più o meno speciosi si trovano insieme giovani e fanciulle, insieme a passeggio, insieme al divertimento, insieme alle conversazioni, insieme persino alle scuole, e come non brucerà la paglia unita al fuoco? Infine mortifichiamo il nostro cuore col tenerlo mondo da ogni cattivo affetto, mortifichiamo tutto il nostro corpo col fuggire l’ozio, padre di tutti i vizi, i balli, i teatri, i divertimenti mondani, dove la santa purità è del tutto conculcata. – Mortifichiamoci e siamo pronti a sottostare a qualsiasi sacrificio, piuttostoché venir meno nella pratica di una virtù così gradita al Cuore di Gesù Cristo. Così appunto fecero i Santi. Nei primi secoli della Chiesa eccoli sfidare impavidi tutte le insidie dei tiranni e soffrire piuttosto le tenaglie infuocate, gli uncini di ferro, i tori arroventati, i carboni accesi, lo strappo delle carni a brandelli, anziché offendere pur da lontano la santa virtù. Mirate in seguito nell’Africa, nell’Asia, nell’Europa, i deserti riempirsi di animi puri, che fuggono le insidie del mondo, e nella macerazione della carne, nelle veglie, nei digiuni, vanno assicurandosi contro i più tremendi assalti del demonio. Ecco un S. Antonio, che con la penitenza doma mille impuri fantasmi. Ecco un S. Benedetto, che piuttosto di restar vittima della tentazione si getta tra le spine ed in esse si ravvolge. Ecco un S. Bernardo, che per vincere il demonio dell’impurità nella stagione invernale si slancia in uno stagno di acqua ghiacciata; ecco un Casimiro di Polonia, che preferisce di morire al suggerimento di violare la purità per guarire da una malattia; ecco un S. Tommaso d’Aquino, un S. Filippo Neri, un S. Luigi Gonzaga, un S. Stanislao Kostka, un S. Francesco di Sales, una S. Chiara, una santa Caterina da Siena, una S . Rosa da Lima e mille altri, che nella costante mortificazione si mantennero veri Angeli di purità, anche in mezzo ai più gravi pericoli. Deh! Imitiamo i loro esempi. – Ma infine per essere puri bisogna pregare il Signore, che ci aiuti ad esserlo. Ben a ragione ha detto il Savio, Conoscendo di non poter essere puro senza l’aiuto di Dio, a Lui mi sono rivolto e l’ho pregato: quoniam scivi, quod aliter non possem esse continens… adii Dominum et deprecatus sum illum. (Sap. VIII, 21) Senza alcun dubbio la purità sta in noi in ragione del nostro spirito di preghiera. Pregando non ci mancherà la forza necessaria per resistere agli assalti anche più impetuosi, ma lasciando la preghiera si diventerà fiacchi e deboli e si cadrà facilmente al primo urto. Preghiamo adunque, massimamente in mezzo alle tentazioni, preghiamo la Regina delle anime pure, Maria, e preghiamo sopra tutto il Sacro Cuore di Gesù, con la preghiera più eccellente, più completa, più perfetta, vale a dire con la Santa Comunione, per cui quel Sacratissimo Cuore di Gesù, che è pregato, risiede realmente nel cuore dell’uomo pregante, e non tarda a produrre l’ammirabile effetto di calmare le prepotenti esigenze della carne e di accrescerne la purità; perciocché è la Comunione eucaristica per l’appunto, che nelle Sacre Scritture è chiamata il frumento degli eletti, e il vino, che produce le anime pure: frumentum electorum et vinum germinans virgines. (ZAC. I X , 11) Oh noi beati, se valendoci di questi mezzi, per amore ed imitazione del Sacro Cuore di Gesù, praticheremo la santa purità! Noi faremo per tal guisa quella generazione bella e splendida, nella quale il Cuore immacolato di Gesù troverà le sue compiacenze, e sulla quale spanderà mai sempre tutte le più elette benedizioni. Ma intanto gettandoci ai piedi del divin Redentore diciamogli col sentimento della più profonda confusione: O nostro caro Gesù, noi non osiamo alzare la fronte dinnanzi al vostro Cuore così puro ed immacolato. Il nostro volto è ricoperto di rossore per la rincresciosa memoria dei nostri peccati. Ah! che purtroppo vi abbiamo offeso in mille maniere! vi abbiamo offeso con cattive immaginazioni, con cattivi desideri, con cattive parole, con cattivi sguardi, con cattive azioni; vi abbiamo offeso con la mente, col cuore e col corpo. Oh quante volte avremmo meritato di essere da Voi puniti! Ma Voi, col Cuor vostro, pieno di misericordia, ci avete risparmiato. Deh! che non abusiamo più mai della vostra bontà! Che d’ora innanzi per amor vostro viviamo una vita tutta santa, tutta pura! che d’ora innanzi nella penitenza e nelle lagrime laviamo le nostre passate iniquità, perché ci sia dato, non ostante i peccati della passata vita, di potere un giorno mettere il piede in quel beato regno, dove non vi può entrare se non chi è mondo e senza macchia.

BATTAGLIA DI LEPANTO

BATTAGLIA DI LEPANTO

[Sac. V. Stocchi: DISCORSI SACRI, Tipogr. Befani ed. Roma, 1884, – impr.]

DISCORSO LI.

PER LA VITTORIA DI LEPANTO

“Dies autem victoriæ huius in numero sanctorum dierum accipitur et colitur exilio tempore usque in præsentem diem.” (JUDITH. XVI, 31)

Accingendomi a celebrare la gran vittoria per la quale andrà eternamente famoso il pelago delle Curzolari e il golfo di Lepanto, mi si para davanti una domanda, che molti di voi, sono certissimo, avranno mosso a se stessi, e vorrebbero, potendo, muovere a me. Perché mai si commemora della vittoria di Lepanto il terzo centenario con una solennità che il primo centenario e il secondo non videro? Ecco signori. Non appena, volgono appunto tre secoli, volò per la attonita Europa la gran novella, che la mezza luna insolente per lungo corso di formidabili vittorie, aveva nelle acque di Lepanto abbassato le corna in faccia al segno trionfale della croce, ed era profligato e vinto il nemico del nome cristiano, smisurata fu l’allegrezza che commosse i cristiani popoli, smisurate le feste che se ne fecero per tutta la cattolica Chiesa. Si resero  grazie immortali a Dio onnipotente, guiderdoni e trionfi, emulatori degli antichi premiarono il valore dei vincitori, solennità, monumenti e templi votivi si decretarono ad eternare la memoria di un conflitto che aveva salvato la Chiesa dall’eccidio e la società dalla barbarie. E con tutto ciò il primo secolo che corse dopo tanto trionfo, si chiuse senza secolari feste, e senza secolari feste si chiuse il secondo. Oggi solamente dopo tre secoli, rimenando la ruota degli anni il giorno anniversario del gran conflitto, la rimembranza della cristiana vittoria ha commosso il mondo cristiano, e la festeggiano i cristiani popoli con disusata pompa di secolare solennità. Perché noi nipoti di ben tre secoli scuote una rimembranza che non iscosse i padri nostri, che del trionfo Lepanteo avevano recente la memoria e godevano il frutto? Questo perché o signori, che voi mi chiedete qui sulle mosse io vi dirò sulla fine della orazione raccogliendolo quasi frutto e corona della orazione medesima. Nella quale come apparecchio proporzionato a tanta risposta vi mostrerò: che la vittoria di Lepanto è vittoria comune del Romano Pontefice, della flotta cristiana e di Maria ausiliatrice del cristiano popolo. Il Romano Pontefice strinse la lega cristiana, congiunse la cristiana flotta, e la sospinse al conflitto. La cristiana flotta combattendo prostrò il nemico, Maria condusse a lieto fine i consigli del Pontefice e diede la vittoria alle armi dei combattenti. Onde a Maria nel gran successo le prime parti si debbono, le seconde al Pontefice, il cristiano stuolo proclama esso medesimo che a lui si debbono le terze. Questa conclusione raccoglierete nettissima dal mio discorso, il quale mentre nulla detrarrà al valore guerresco dei prodi di Lepanto, riferirà la gloria al principio d’ogni bene Dio onnipotente e alla guerriera della Chiesa, Maria, e in secolo ribelle a Dio e a Gesù Cristo tornerà alle anime cristiane vieppiù gradito per questo, che le rose di Maria s’intrecceranno alle palme guerresche; e il suono del nome benedetto e santo tempererà il rimbombo delle artiglierie e il fremito delle ire marziali.

1. Né fa mestiere di molta indagine per accertarsi che nell’impresa coronata dal trionfo di Lepanto, Maria prima e poi il Romano Pontefice vendicarono le prime parti, basta che altri ponderi con animo sincero il successo. A che potenza fosse salita nella seconda metà del secolo decimo sesto la mezza luna lo sanno tutti. Infranti da più di un secolo i confini dell’Asia, distrutto l’impero orientale e recata in sua mano Costantinopoli, si era il terribile ed insolente Mussulmano assiso sul Bosforo, e da quella formidabile rocca teneva il piede sul collo all’Oriente: e soggiogato l’Egitto e la Siria, espugnata Rodi, occupava per terra con formidabile esercito l’Ungheria, s’insignoriva per mare di quasi tutta la Grecia, assaliva Malta, e risospinto dal prodigioso sforzo di pochi cavalieri di Gesù Cristo, per rabbia di vendetta piombava sul regno di Cipro, e dopo i macelli di Nicosia e le perfide e invendicate carneficine di Famagosta, armata una flotta di ben trecento vascelli correva da padrone i mari, tentava la Sicilia e minacciava Italia. Gemeva la cristianità desolata alle novelle di tante rovine, Venezia soprattutto tremava di tanto apparecchio, e più del danno presente impauriva tutti il terrore delle desolazioni future. Si chiamava aiuto da ogni parte, ma niuno muoveva piede né mano. Come il villano dalla porta del suo casolare mirando torpido e spensierato il temporale che desola i campi del suo vicino, si consola pensando che mentre gli altrui flagella risparmia i propri; così i monarchi della cristianità divisi da una bieca politica e da una forsennata gelosia di stato, o non si curavano, o dissimulavano, o godevano che il turchesco turbine si rovesciasse sulle province altrui purché risparmiasse le proprie: di che il barbaro insolentiva, e impotente contro tutti ma inespugnabile contro ciascuno, crescendo della inerzia universale, uno dopo l’altro assaltandoli li conquideva. Solo il Romano Pontefice pieno il petto di quella carità che mancava altrui, levava la voce e chiamava alle armi. Sorgessero finalmente, e falange confederata e terribile piombassero che era tempo, sul nemico del nome Cristiano. Il Pontefice era Pio quinto, santissimo e costantissimo petto. Ma che poteva fare in tanta cecità delle menti e frenesia dei consigli? Né l’autorità della persona, né la santità della vita, né l’altezza del grado, né la presenza del pericolo valevano a scuotere gl’infingardi petti. Chiamava Cesare? Ma l’impero romano col Turco aveva pace. Invitava Francia? Ma il Cristianissimo nonché pace, col nemico del nome cristiano aveva, obbrobrio sempiterno, alleanza. Spronava Spagna? Ma il Cattolico sollecito delle costiere sicule ed africane, godeva che il turchesco artiglio ghermisse i possessi marittimi dell’emula Venezia. I mesi passavano, passavano gli anni, si negoziava sempre non si operava mai, e nell’inerzia cristiana il furore del barbaro non aveva fine né modo. Ogni costanza si sarebbe fiaccata, ogni pazienza avrebbe dato vinte le mani, e protestando la propria impotenza davanti agli uomini e a Dio si sarebbe rimasta. Ma non venne meno la costanza santa di Pio. Non pigliavano i suoi consigli l’impulso o dalla ambizione o dall’interesse, o dalla politica, sì dalla carità e dallo zelo dell’onore di Gesù Cristo: onde deluso non disperò, respinto non si rimase, e quando vide che i presidi e gli accorgimenti umani non profittavano, non perde la fiducia, perché intatti ed infallibili gli rimanevano i presidi divini. A Maria si rivolse, a Maria presidio e difesa del cristiano popolo: nelle mani onnipotenti della benedetta fra le donne commise la causa e la difesa del nome cristiano, e ordinò che la guerra che i potenti fare non volevano con la spada facessero i popoli con le orazioni, e si collegassero a supplicare Maria col Rosario.

2. La quale arte e maniera disusata di guerra ordinata contro il Mussulmano dal condottiere santissimo dell’esercito di Gesù Cristo, mi rivoca al pensiero Giosuè e la espugnazione di Gerico. Forte per sito e per munizione levava Gerico la fronte nei campi di Palestina, e colle brune mura, colle torri, coi baluardi attraversava la via al popolo del Signore, e sembrava sfidare l’esercito di Giosuè che risoluto di averla in pugno la circondava. Ma credereste? Chi dalle mura e dagli spalti della assediata piazza avesse speculando osservato il campo nemico, tutt’altro veduto avrebbe fuori che macchine, terrori ed apparati di guerra. Tutto era silenzio e quiete in quei singolari accampamenti, nulla che desse sentore di battaglia o di assalto. Solamente allora che il sole illustrava l’Oriente col primo raggio si vedeva uscire dalle trincee in ordinanza tutto il popolo ebreo. Precedeva l’esercito in tutto punto di arme, all’esercito succedevano sette sacerdoti che tenevano in pugno le sette trombe del giubileo, alto portata sugli omeri dei leviti veniva appresso l’Arca del Testamento, e appresso all’arca il popolo alla confusa, turba mista di donne, di fanciulli e di vecchi. Così ogni mattina per sette giorni uscivano dal campo, così lenti e gravi senza far motto giravano intorno alle mura di Gerico, così fornito il giro senza dar fiato a una tromba, senza brandire una lancia, senza ferire un colpo, di cheto e in silenzio alle tende si riducevano. Che dovettero dire di quest’arte singolare di guerra gli abitanti di Gerico? Forse il primo giorno sbalordirono non sapendo dove la cosa andasse a parare, forse osservarono trepidando il secondo, stettero forse sull’avviso anche il terzo; ma quando il quarto il quinto giorno ed il sesto andando in arme alle mura per ributtare un assalto si trovarono spettatori di una tacita processione, chi ne avrà contenuto le risa, gli scherni, i motteggiamenti? Così dunque, dovevano dire, si fa la guerra? Così si espugnano le città? Abbatterete le torri con le processioni e con le trombe, coi sacerdoti e con l’arca intorpidirete alle armi le mani dei combattenti? Così forse dissero, ma se lo dissero il quinto giorno ed il sesto, certo non lo dissero il settimo. Uscì infatti allo spuntare del settimo giorno col consueto ordine dalle tende il popolo d’Israele e intraprese il viaggio. Ma che? Pervenuta l’arca santa di Dio al cospetto della città i sacerdoti dettero fiato alle trombe, il popolo mise un grido. Stupenda cosa! A quel clangore a quel grido ecco crollare i baluardi, ecco precipitare le torri, ecco fendersi le muraglie, e irrompendo con le sguainate spade per le ruine 1’esercito di Giosuè, fu Gerico in breve ora un vasto campo di strage dove tra il sangue e i cadaveri imperversava il ferro ed il fuoco. Bestemmie simili a quelle dei Gericuntini udiamo noi ogni giorno dagli empi, e perché la Chiesa angariata ed oppressa, alla ferocia e alla rabbia dei figliuoli del diavolo oppone l’orazione e invoca il braccio e il piede infrangitore di Maria, ci deridono, ci scherniscono, ci domandano se le processioni sono eserciti, le orazioni e i rosari artiglierie. Ridevano anch’essi i Mussulmani, mentre correndo i mari col formidabile naviglio non si abbattevano in una vela, in una sola vela cristiana che accennasse di fronteggiarli, e solo udivano dagli esploratori novelle di processioni e di suppliche, che recitando il rosario per le meste contrade e circondando l’Arca del nuovo patto Maria, facevano i cristiani popoli. Ridevano, si fingevano con l’animo la vittoria, e immaginando dividevano le prede che riportato avrebbero sopra un nemico inerte e discorde, e vinto già col terrore dell’apparato e del nome. Ma ecco a un tratto subitaneo rivolgimento di cose. Una formidabile armata cristiana già tiene il mare e si appresta a piombare sul nemico. Ha mosso da Messina, è volata di lancio a Corfù, e bramosa di venire al cozzo s’inoltra. Dugento dieci vascelli, trenta navi, sei galeazze, mille e più di ottocento cannoni, ventotto mila soldati, marinari quasi dodici mila, quarantatremila validi rematori. Cento cinque galere manda Venezia e le conduce Sebastiano Veniero; dodici il Papa e le comanda Marcantonio Colonna, Spagna ottantuna tutte italiane e cavate da italiani porti, Napoli, Genova, Malta e Livorno, e le guida gran nome ma poco fido, Gian’Andrea Doria. Duce Supremo di tutti Giovanni d’Austria, luogotenente il Colonna, tremila nobili italiani d’inclito nome d’ogni italica provincia d’ogni città militano per Gesù Cristo, nel cristiano naviglio. Forse non vide mai il mare flotta più bella, non vide mai certamente né più infocato zelo né causa più santa. Ardono capitani e soldati di incontrare il nemico, di piombare sopra di esso, di vendicare in un giorno più secoli di onta e di danni inflitti al nome cristiano. Come mai tanto miracolo in termine sì disperato di cose? Chi ha raccolta questa flotta? Chi l’ha armata? Chi l’ha congiunta? Come tanta consensione è succeduta a tanta discordia? Come tante gelosie e tante ombre di bieca politica hanno dato luogo, e Gesù Cristo vede una flotta cristiana volare col suo vessillo alla vendetta della sua causa e alla gloria del suo nome? È tutta opera di Pio e della Vergine nata a schiacciare il capo di satana. O carità sviscerata del santo Pontefice, o veglie notturne, o diurne angosce, o ardenti preghiere, o lacrime sparse con larga vena, o speranze deluse, o disinganni crudeli! Vide più volte le pratiche oggi condotte a termine, rompersi duramente domani, vide la concordia conciliata con grande stento, per un’ombra di gelosia interessata disfarsi, vide ipocrite mostre, fatti ingannevoli, promesse non mantenute, imprese fallite, vide ahi dolore, espugnate città, province invase, regni perduti mentre la infingardaggine e la politica legava le cristiane mani, vide pianse e gemé, e l’eco notturna del Vaticano ripeté più volte i gemiti e i lai del desolato petto. Eppure non disperò Celeste visione comparendogli col rosario Maria, lo rincuorava, e confida, dicevagli, confida o Pio. Vedi: son io quella stessa che per mano di Domenico col mio rosario prostrai gli Albigesi, e sappi non ho abdicato il patrocinio di S. Chiesa, né perduta la mia possanza. E Pio confidava, e vinse; e quei medesimi che più ripugnavano, tirati dal rosario di Maria quasi da potente macchina, vennero tergiversanti sì, ma pur vennero, e fu stretta la lega, ed eccovi la flotta cristiana correre a fare le Curzolari famose per un turchesco eccidio e per una cristiana vittoria. Capitani e soldati, rematori e ciurma, hanno espiato le loro colpe nel Sacramento di Penitenza, e reficiati del corpo di Gesù Cristo, al coraggio che dà la natura hanno congiunto quello che infonde la pace della coscienza e la grazia. Uno è di tutti l’animo, combattere per Gesù Cristo, vincere o morire: beato chi vedrà la vittoria: ma più beato chi per sì nobile causa profonderà il sangue e la vita. Il mondo moderno non è capace di intendere questo linguaggio troppo nobile per tanta bassezza. Ma voi andate o anime generose piene il petto di quella fede che vince il mondo, e tu vola o naviglio che porti le speranze del nome cristiano, vola e ti sia propizio il mare, placido il vento, sicuro il viaggio, accelerato e trionfale il ritorno. Venga la vittoria sulle tue prue, semina dovunque vai lo spavento, fugga innanzi a te sbaragliato il nemico. Gesù Cristo ti ha radunato dal cielo, Pio dalla tomba di Pietro ti benedice, ti mira con benigno riguardo la Stella del mare Maria, vola con la tua scorta e combatti, e precipitato per te nei gorghi del mare il Faraone del Bosforo, intuoni il mondo cattolico il cantico che sulle rive dell’Eritreo cantò Israele mentre l’onda fremente spingeva al lido i corpi, i carri e i cavalli del sommerso Egiziano.

3. E qui potrei convertire la orazione contro quegli ingrati codardi, che pieni il petto di livore e di rabbia contro il Pontificato cattolico lo accusano di nimicare quella civiltà che ha salvato, e quella Italia di cui è stato ed è la gloria ed il vanto: e contrapponendo opere ad opere ed imprese ad imprese, gettare loro in faccia ignominie non inventate ma vere, e non antiche ma recenti, non insuccessi no, ma sconfitte; ma non voglio turbare con tanta lordura, tanta bellezza e nobiltà di argomento. Torniamo signori alla flotta cristiana spettatori oramai di cristiana vittoria. Ecco qua: questo è il famoso golfo di Corinto oggi detto di Lepanto, che chiuso quasi steccato all’intorno per uso di conflitti navali, fu già teatro di battaglie per cui si volsero le sorti del mondo, ma oggi vedrà l’affrontata più formidabile che abbia visto o sia per vedere giammai. Correva l’anno mille cinquecento settantuno, spuntava l’alba del memorando giorno settimo di ottobre, e le due flotte Turca e Cristiana certe di combattere, muovevano l’una da Lepanto l’altra dalla contrapposta spiaggia di Cefalonia e si scontravano sulla bocca del golfo. Forte era la flotta Mussulmana di dugento venti vascelli e sessanta fuste: novanta mila uomini e settecento cinquanta cannoni gonfiavano la baldanza turchesca. Condottiero supremo era Ali che feroce per indole, e per vittorie insolente teneva il centro, il destro corno comandava Maometto Scirocco pascià di Alessandria, il sinistro il re di Algeri Lacciali. La Turca armata scopre dalla lunga la flotta Cristiana, la Cristiana si avvede della Turchesca. Ali con un colpo di artiglieria provoca il cristiano stuolo alla pugna, Giovanni d’Austria rispondendo con altro colpo accetta la sfida; succede una sosta e un quietare repentino quale è quello che precede la tempesta. Quinci si ordina in battaglia lo suolo turchesco, quindi il cristiano. Al centro contro Ali Giovanni d’Austria con Marco Antonio Colonna e Sebastiano Veniero, a destra Gian Andrea D’Oria contro Lacciali, a sinistra Agostino Barbarigo contro Scirocco. Alì fermo ed eretto sulla capitana col grido, col cenno, col lampo della scimitarra e degli occhi infiamma le squadre, Giovanni con una nobile corona di duci scorrendo sur un legno leggiero la fronte della battaglia, questi accende, quelli saluta, rincuora tutti. Veduto avresti nell’uno stuolo e nell’altro un ardore, un impeto, una faccenda, una ressa, e un chiamare, e un rispondere, e un rincuorarsi ed un fremere, e l’imperio di chi comanda e il moto di chi obbedisce. Quand’ecco a un tratto squillano con giulivo suono le cristiane trombe: a questo squillo quasi in atto di ossequio tutte le bandiere si abbassano e danno luogo a una sola. È il santo vessillo della lega che Pio pontefice pel giorno della battaglia donò alla flotta, che sale maestosamente sull’albero della capitana, e in nobile drappo dispiega al vento l’immagine gigantesca di Cristo crocifisso, e ai lati del Crocifisso le sembianze di Pietro e di Paolo guerrieri di santa Chiesa. Parve che Gesù Cristo medesimo si presentasse alla flotta condottiero e combattente divino, quando al calare degli altri stendardi volteggiò all’aura tra cielo e mare la maestosa sembianza del Figlio di Dio. Un grido pieno ed universale dei prodi salutò il santo segno, si piegarono davanti ad esso tutte le ginocchia, ad esso si conversero tutti gli occhi e tutte le mani, chi batteva palma a palma, chi percotevasi il petto, chi intuonava cantici, chi domandava mercé, e intanto i sacerdoti d’alto luogo espiavano novellamente col cristiano rito e benedicevano pontificalmente i guerrieri. Sembrò a questo spettacolo scolorarsi la mezza luna, corse ai mussulmani un gelo per l’ossa, impallidì il truculento ceffo di Ali, e Gesù Cristo parve affidasse i campioni col motto che fregia il vessillo, e come già a Costantino dicesse loro “Εν τούτῳ νικᾰ” (= en touto nika) vinci con questo. Ma già di mezzo alle flotte sparito è il mare, già fulminano orribilmente le artiglierie, un nembo di frecce stridenti nasconde il sole, vola quinci e quindi apportatore di morte il fuoco ed il piombo, e le navi con orribile affrontata vengono al cozzo. Quinci i legni cristiani nei turcheschi percotono, quindi i turcheschi nei cristiani; sembra che alla percossa si schianti il cielo, e il mare ne vada alle stelle. I cristiani coi raffi, coi rampiconi, con le catene alle navi turche si afferrano, i turchi alle cristiane. I Cristiani fatto nodo con le spade, con le picche, coi moschetti sui turchi si avventano, i turchi con le nude scimitarre si precipitano sui cristiani. Di qua si assalta, di là si resiste, questi cedono, incalzano quelli, nave con nave combatte, schiera con schiera, soldato con soldato: i bronzi tonanti vomitano senza posa strage e sterminio, il fuoco dall’un naviglio all’altro si rovescia a torrenti, un denso fumo ravvolge l’aria di fitta tenebra. Infuriano intanto disfrenate le fiamme, ardono le navi: e quali stridono con cigolio ferale, e quali scoppiano con orrendo fracasso, quali si fiaccano, quali si fendono: sembra che avvampi il mare, che il cielo precipiti, le grida dei Cristiani, le bestemmie dei turchi, gli urli dei feriti, i gemiti dei moribondi, le voci dei naufraghi che domandano mercé si confondono insieme con inenarrabile frastuono, mentre vola inesorabile fra schiera e schiera la morte, e l’onda tinta in vermiglio tranghiotte nei suoi gorghi le infrante navi, e dibatte col flutto o corpi semivivi di prodi che chiedono mercé, o membra e brani di lacerati cadaveri. Torciamo l’esterrefatto sguardo da tanta atrocità di spettacolo, lasciamo per poco i campi sanguinolenti del mare, e lungi dal fragore delle armi riduciamoci altrove spettatori di più miti battaglie e di più mansueti guerrieri. Vedete voi quel simulacro di soave sembianza, che portato alto sotto nobile padiglione percorre quasi in trionfo le vie popolose di tutte le italiche città? È la immagine benedetta di Maria che supplicata col rosario dai cristiani popoli combatte con la cristiana flotta intercedendo vittoria presso il Dio degli eserciti. La precedono in bella ordinanza supplici schiere di uomini coperti di sacco, di matrone in gramaglia, e di vergini bianco vestite, la circondano devoti drappelli di sacerdoti, la seguono innumerevoli turbe di popolo confuso e misto, le voci argentine dei fanciulli, le soavi delle donne, le tremule dei vecchi fanno echeggiare l’aria con vario concento. Dio ti salvi o Maria piena di grazia, il Signore è teco, intuona una schiera, Santa Maria Madre di Dio prega per noi peccatori, l’altra schiera risponde, e il dolce suono della cara prece molce soavemente i cuori e chiama sul ciglio le lacrime. Che vogliono queste turbe devote? Che si fa qui con questa pompa solenne? Si combatte qui come a Lepanto, ma la maniera della battaglia è diversa. Qui si combatte con le preghiere, a Lepanto con le artiglierie, qui con gl’inni di pace, là col fremito e con le ire guerresche, qui col saluto angelico a Maria ripetuto cento volte e cento, là con le ferite e col ferro. A Lepanto operano le mani dei combattenti, qui s’invoca Maria perché ai combattenti soccorra. E Maria invocata nelle cristiane città, a Lepanto combatteva, e battagliera terribile avventava sui mussulmani il terrore, la paura, lo scompiglio, la fuga, lo spavento, la strage. Quam pulchri gressus fui in calceamentis filia principis. O che belle orme stampavi nella pompa leggiadra del calzamento o figlia del principe! O quanto era formidabile nella battaglia il tuo incesso o Maria! Eri ai Cristiani bella come la luna, eletta come il sole, eri al mussulmano terribile, come esercito schierato in battaglia. In questo atto, in questo sembiante la vide dalla specola pacifica del Vaticano il santissimo Pio, e rapito con lo spirito nel teatro sanguinoso di guerra corse a un balcone, ed ecco, gridò, ecco è vinta la gran battaglia e l’ha vinta Maria, vedo la mezza luna abbattuta, e spiegato al vento sulla capitana nemica il trionfale vessillo di Cristo. Pio così in Roma esclamava: e in Lepanto in quell’istante medesimo una palla cristiana percoteva nella fronte Ali condottiero, che cadendo al suolo ingombrava nuovo Golia col trucidato corpo la nave. Lo vede un prode cristiano e detto fatto; si precipita nella capitana nemica ratto così che non più ratta la folgore, recide al condottiero ucciso la testa, la infigge su di una picca e, orrendo spettacolo, la ostenta levata in alto agli – Un grido di spavento e di orrore si leva tra i turchi, i Cristiani rispondono con un grido di gioia, ed ecco tosto un nodo di valorosi Cristiani irrompe nella spaventata nave, urta, rovescia, trabocca in mare ogni ostacolo, e se ne fa padrone. Fu allora che calò, veggenti tutti, dal più sublime albero il turchesco stendardo, e salì trionfando a pigliarne il luogo il vessillo di Gesù Cristo. Vittoria vittoria si grida al centro della cristiana flotta, al sinistro e al destro si ripete vittoria. D’allora in poi non fu più battaglia fu strage, la disfatta dei turchi fu piena, universale, terribile, la carneficina e la preda non ebbero fine né modo. Cento sette navigli arsi, cento trenta presi, trucidati quaranta mila turchi, prigionieri ottomila, liberati diecimila schiavi Cristiani, il bottino inestimabile, le bandiere, i cannoni, le armi, l’argento, l’oro, le gemme senza numero e senza peso, mentre le recise teste di Alì e di Scirocco infitte sulle picche e portate in col pallore della morte, col sangue, con lo spettacolo, seminavano il terrore e lo sgomento in quei petti che testé infiammavano col lampo degli occhi e col grido. O si abbiano pure e lodi e trionfo nella gran giornata e combattenti e duci; e più che le armi dei combattenti e le prodezze dei duci siano nel trionfo di Lepanto esaltati i consigli del Pontefice Romano Pio quinto. Ma e Pio e combattenti e duci cedano a Maria le prime lodi e il vanto della vittoria, che bene sta. Taccia la lingua del cane che in laide e invereconde pagine invidia e contende il gran trionfo a Maria. – Ascolti i prodi di Lepanto che a gran voce proclamano, che Ella fu veramente che prostrò il nemico e ne conquise l’orgoglio. A Lei dunque sciolga il voto la Cristianità tutta quanta, al suo tempio si appendano le opime spoglie, le armi, le bandiere e i trofei del nemico, a Lei vincitrice sorga sul Quirinale il memore tempio, una solennità perpetua ricordando la gran vittoria intrecci alle palme di Lepanto le rose di Maria, e ringraziamento dei passati e presagio dei trionfi futuri si avvezzi la Chiesa a salutare la Vergine benedetta: Ausilìatrice del popolo Cristiano, prega per noi.

4. E se celebrassi il trionfo di Lepanto in qualunque altra parte del mondo fuorché in Italia, e in qualunque altro tempo fuori che in questo, avrei finito e liberata la mia parola, potrei fra brevi istanti tacere. Ma in Italia, i n questi tempi che corrono, la gloria di Dio e di Maria chieggono quasi per proprio diritto che anche questo soggiunga, che la vittoria di Lepanto fu vittoria italiana. Lasciate o signori che fra tante vergogne che la rivoluzione accumula sul capo di questa misera Italia, una gloria vera le rivendichi che la religione le partorì, la gloria della giornata di Lepanto. Le imprese infatti e le vittorie guerresche si attribuiscono ad una gente, quando in essa si agitarono della impresa i consigli, in essa se ne fermò il partito, da essa venne l’impulso, essa fornì le armi, le macchine, gli strumenti marziali, essa e i soldati e i condottieri, e ciò che è il nerbo nelle cose di guerra, essa con l’oro dei suoi erari diede vita e movimento a ogni cosa. Ora o signori, con gli incorrotti monumenti della storia alla mano io potrei senza fatica, discorrendo uno per uno i capi proposti, mostrare che tutto fu Italiano nella impresa di Lepanto. Un italiano principe infatti, Pio quinto pontefice, concepì il disegno della lega, e col consiglio, con l’autorità, con le legazioni, con l’oro le dette vita, mossa ed impulso: italiane tutte non una eccettuata, furono le navi che fecero in Lepanto le mirabili prove, italiane le artiglierie e le armi: le munizioni e gli arredi o da battaglia o da corso italiani: italiani da non molti spagnuoli infuori, i soldati: i rematori italiani, italiani i marinari e le ciurme. Italiano veramente non fosti o Giovanni d’Austria supremo duce della cristiana flotta, ma tutti italiani furono gli altri duci, e confessasti tu stesso o giovane egregio, e nessuno al detto tuo ripugnò, che la gloria della giornata di Lepanto appartenne al grande italiano che ha legato ad essa perennemente il suo nome, Marco Antonio Colonna. E mi metterei volentieri per questa via, anche perché fosse aperto che noi uomini di chiostro e di chiesa amiamo la patria e ne vendichiamo la gloria, ma la gloria vera non la falsa, la cristiana non la pagana, quella che partoriscono i consigli generosi e le opere egregie, non quella che fruttificano le tirannie e le vessazioni contro gli inermi ed i deboli, e le vigliacche connivenze verso i potenti. Ma io parlo nel cattolico tempio, tra la pompa di cattolica solennità, però sollevo l’orazione ad altezza più augusta, e dico che la impresa di Lepanto e la vittoria, fu impresa e vittoria Italiana perché fu impresa e vittoria pontificale. Gesù Cristo figliuolo di Dio, volendo congiungere tutti gli uomini da se redenti col sangue, nella carità di una sola famiglia, costituì centro e padre di questa famiglia, il Pontefice Vicario suo, e ordinò che la sede di questo Pontefice fosse Roma e l’Italia. Di qua come da rocca e specola divinamente costituita prospettasse l’universo mondo, di qua desse i responsi, di qua dettasse la legge, di qua confermasse i fratelli, di qua partisse, qua ritornasse il capo di quella catena che allaccia 1’universo mondo in unità di comunione e di fede. D’allora in poi si stabilì quasi una reciprocanza di uffici tra il Pontificato e l’Italia per modo tale, che il Pontefice illustrasse della sua gloria, corroborasse colla sua potenza, e della sua grandezza ingrandisse l’Italia, e la Italia grata e riverente vendicasse a sé le prime parti nell’ossequio al Pontefice, e nel grande ufficio di reggere la Chiesa, con ogni sua opera negli ordini naturali ed umani gli soccorresse. Si ricordò Pio quinto pontefice massimo di questa gran missione dell’Italia, allora quando il terribile nemico del nome Cristiano, rotte oramai le barriere dell’oriente rovesciava sull’Europa sbigottita e divisa, e la chiamò alla difesa della società e della Chiesa, si ricordò l’Italia dell’ufficio suo e prese nella grande impresa il posto di onore. Non una città, uno stato, non una provincia, non una terra, non un castello italiano, e per poco non dissi non una nobile ed insigne famiglia del patriziato che non avesse a Lepanto o navi o soldati condottieri e non comprasse la vittoria col sangue o con l’oro: e il Pontefice con l’Italia e l’Italia col Pontefice presso che soli, rovesciandosi sul mussulmano nelle acque di Lepanto, lo percossero di tal colpo dal quale non si è più rilevato. Vittoria italiana fu dunque la vittoria di Lepanto, e Pio lo sentì, e cuore veramente italiano, insieme col debito tributo di azioni di grazie a Dio O. M. e alla Vergine vincitrice, apparecchiò al Romano vincitore un romano trionfo, nel quale con Marco Antonio Colonna trionfasse l’Italia. Correva il giorno quarto di dicembre di questo anno medesimo che fece insigne la gran vittoria, e tutta Roma era in arredo di solennità, di giubilo, di trionfo. Brillava il sole quasi fosse di primavera, le strade erano cosperse di fiori, archi di trionfo e festoni di verzura adornavano la via trionfale, tuonavano le artiglierie, i popoli, i magistrati, le arti raccolto sotto i loro stendardi si versavano alla porta Capena. O nobile spettacolo. In arnese di gala precedono le milizie pontificali sotto le loro bandiere, presso ogni bandiera cori e armonie di musiche bellicose, succedono le arti sotto i loro vessilli, alle arti le accademie, alle accademie i collegi, ai collegi il patriziato e le corti. Chi ha parole per ridire cotanta festa? Chi può ritrarre narrando e le pittoresche divise del cinquecento, e le pompe e l’arredo dei cavalieri e delle dame e i cocchi e i cavalli e i drappi e l’oro argento e i popoli senza fine né numero e una gioia e un tripudio e un’esultanza sì piena, sì universale, quale noi in questi tempi di divisioni, di rabbie e di rancori settari neppure possiamo con l’animo escogitare? Che festa è mai questa? E tanta solennità di apparato e di concorso, perché? Leggete il titolo che alla porta soprastà. A Marco Antonio Colonna ammiraglio pontificio, perché ottimamente meritò dell’Apostolica sede, della salute degli alleati e della dignità del popolo romano. Questo titolo fregia la fronte della porta Capena e dice a tutti, che questa pompa trionfale è il premio onde Pio pontefice onora il vincitore di Lepanto. Espugnatori di Roma, incidete un titolo come questo sulla breccia di porta Pia. Ma ecco a un tratto le trombe guerriere raddoppiano il loro squillo, le armi agitate scintillano, le bandiere volteggiano al vento, le artiglierie tuonano più universali e frequenti, un moto vivo e ardente commuove il popolo, tutte le cervici si tendono, si affissano tutti gli occhi, palpitano tutti i cuori, nessuno quasi ardisce fiatare, ecco è Marco Antonio che viene. Procede il nobile guerriero seduto sur un bianco cavallo dono di Pio, porta sul maestoso sembiante mista alla gioia marziale una nobile modestia, con atto di signorile decoro saluta i popoli, e circondato da nobile drappello di prodi che con esso pugnarono in Lepanto entra nella eterna Città. Lo precedono il Leone di S. Marco, e il vessillo di Spagna, insegne delle parti confederate, in mezzo ad esse sventola colle somme chiavi, il gonfalone di santa Chiesa, succede con le corna riversate a terra lo stendardo della mezza luna, e trascinate nel fango le bandiere nemiche, vengono appresso incatenati a due con le ciglia rase di ogni baldanza i prigioni mussulmani. Circondano il duce i magistrati, i guerrieri, le accademie, i patrizi, lo segue turba innumerabile ed esultante. Applaudono le genti, al plauso delle genti rispondono le artiglierie, all’un plauso e all’altro fa tenore il suono dei musicali stromenti. Fra tanto corteggio percorre Marco Antonio la via Sacra. La via medesima, e gli archi di Costantino, di Tito e di Severo, e le colonne, i portici, i monumenti parvero dilatarsi ed esultare ringiovaniti, al non più visto da tanti secoli spettacolo di romano trionfo, e si eclissò la gloria dei trionfatori pagani quando Marco Antonio trionfatore cristiano prima ascese in Campidoglio a ricevere dal Senato la corona del meritato alloro, poi sulla vicina rocca a deporre a pie di Maria il dono votivo e i conquistati trofei, e cavalcando quindi al Vaticano, pianse prima e pregò sulla tomba di Pietro, poi nelle tue braccia o Pio che lo aspettavi, sfogò, figlio nel seno del Padre, la piena del petto. Questo fu trionfo italiano e papale! Mostrate voi, qualche cosa che gli somigli o bastardi della rivoluzione!

5. E qui è tempo che liberi la mia parola e deducendo dalla orazione il perché le feste secolari del Trionfo di Lepanto non si celebrarono al chiudersi del primo secolo né del secondo, e si celebrano in tanta angustia dei tempi al consumarsi del terzo. La rivoluzione celebra senza posa gli anniversari secolari o no, dei suoi non trionfi no, ma delitti, e degli eroi che li consumarono: è giusto e degno che i Cristiani oppongano commemorazioni a commemorazioni, le commemorazioni delle glorie del Pontefice di Maria, di Gesù Cristo, dei Santi, alle commemorazioni dei plebisciti e dei fatti compiuti. Corrono tempi nei quali il Pontificato cattolico è odiato, bestemiato, oppresso, deriso da una fazione di italiani degeneri, nati all’onta e al flagello dei popoli. La commemorazione del trionfo di Lepanto ricorda a questa fazione parricida, che il Romano Pontefice salvò l’Occidente dalla barbarie, e illustrò l’Italia di gloria immortale. Perché l’empietà si allieta di un effimero ed infelice trionfo, insolentiscono i cattivi e portano alta la testa come avessero abbattuto dal trono Dio e Gesù Cristo; noi festeggiando la vittoria di Lepanto ricordiamo a costoro, che è in cielo quel medesimo Dio giusto e potente, che percosse una superbia più solida della loro, la superbia turchesca. I buoni cadono di animo e inviliscono, perché ai cattivi che manomettono oggi cosa umana e divina tutto succede a disegno. Con la memoria del trionfo di Lepanto noi ci argomentiamo di sostentarne il coraggio; e ricordiamo loro che quando Gesù Cristo dice basta, quietano l’onde frementi del pelago e la bonaccia consola in un momento tutte le angosce e i terrori della tempesta. La Chiesa tribolata e oppressa ha converso a Maria le mani e la voce, ma sembra che Maria non abbia udito le preci della sposa del suo Figliuolo. Noi celebriamo il trionfo di Lepanto per ricordare che Maria indugia talora, ma viene a suo tempo, e viene tanto più mirabile, quanto più lungamente aspettata, e guerriera nata della Chiesa fa mirabili prove, schiacciando i figli del diavolo col pie esercitato a schiacciare il teschio del padre. Ecco perché le feste secolari del trionfo di Lepanto, che i nostri padri non celebrarono in tempi lieti e felici, celebriamo noi nella tribolazione di questi tempi che corrono. Sono feste ordinate a commemorare le glorie passate, a consolare le desolazioni presenti, a presagire trionfi futuri. E gli empì lo sentono e si dirompono e bestemmiano e fremono e sfogano in opere ed esalazioni immonde il livore e la rabbia del petto. E questo è un altro motivo perché noi celebriamo le secolari feste delle glorie cristiane; per svergognare la rivoluzione, per confonderne la protervia e sbugiardarne i vanti, per dimostrare con la prova del fatto che il popolo italiano è col pontefice Vicario di Gesù Cristo, che ama la sua religione e il suo Dio, che mentiscono gli empì quando con velenoso oltraggio lo accusano di connivenza con quei delitti che esecra e con quelle opere che condanna. Ecco o signori! Una voce cattolica si è levata in Piacenza e ha chiamato il popolo a celebrare la vittoria di Lepanto. E il popolo alla voce nota dei suoi sacerdoti si è commosso, e questa pompa, e lo splendore di tanta solennità si deve all’obolo volontario del popolo piacentino, e con chi stia questo popolo dice chiaro questa festiva esultanza e questa folla e questa frequenza, alla quale è angusto il recinto del vastissimo tempio. Furibonda per tanto smacco la empietà settaria ha mostrato se stessa con opere degne di sé. E che ha fatto? Ha bestemmiato in lerci giornali, ha contaminato l’immagine sacrosanta del Salvatore; ma il popolo piacentino spregiando i latrati di questi cani, e le opere, e l’immondezza sacrilega di questi ciacchi, è concorso al tempio di Dio, e celebrando il cristiano trionfo, ha ostentato uno splendore e una pompa, e un fervore ed una pietà, quale noi medesimi a stento avremmo osato prometterci. E quello che Piacenza ha fatto, tutte hanno fatto le italiche città, e tanto consenso in fare onore a Maria è pegno e presagio dolcissimo di consolazioni future. E con queste speranze finisco ed esulto nel desiderio e nella espettazione dell’esaltamento della Chiesa del trionfo di Maria. Si io spero questo trionfo, e tanto fidatamente lo spero che quasi il veggo. Veggo, sì veggo un inaspettato raggio di luce rompere finalmente sì fitta tenebra, e fra questa luce veggo ma splendido, ma sereno lampeggiare il tuo bel volto o Maria. Veggo al lampo delle tue pupille sgominate le falangi di satana, e i nemici di Gesù Cristo convertire per più smacco le proprie armi contro se stessi. Veggo te o glorificatore di Maria, padre del cattolico mondo, fortissimo Pio, cingere alla canuta chioma intrecciato alla palma di martire l’alloro della vittoria, veggo umiliati i tuoi nemici, veggo consolati i tuoi figli, e rigettata nell’inferno onde emerse l’idra settaria, veggo turbe di pellegrini da tutto il mondo muovere alla tomba di Pietro a vedere il miracolo, e a sciogliere il voto all’ara di Maria vincitrice. Queste e mille altre cose io veggo, e veggendole esulto, e mi sollevo per gaudio sopra di me. Saranno sogni e lusinghe sterili e vane? No, perché in Maria si fondano: e non ha Maria no, né abdicato il patrocinio della Chiesa, né perduto la sua possanza.

 

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (III)

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO 

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I. , Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO I.

Lo Spirito del bene e lo Spirito del male.

Due Spiriti opposti, dominatori del mondo — Prove della loro esistenza: la fede universale, il dualismo — L’esistenza di questi due Spiriti suppone quella di un mondo superiore al nostro — Necessità di dimostrarla — La negazione del soprannaturale, grande eresia del nostro tempo — Che cosa è il mondo soprannaturale — Prove della sua esistenza: la religione, la storia, la ragione — Passi del signor Gruizot.

Due Spiriti opposti si contrastano l’impero del mondo. (Questa espressione, il cui equivalente si trova quasi ad ogni pagina dell’Antico e Nuovo Testamento, sarà spiegata nel corso del capitolo). – La storia non è altro che il racconto dell’eterno loro combattimento. Questo gran fatto suppone: l’esistenza di un mondo superiore al nostro, e la divisione di questo in buono e in cattivo, che vuol dire la duplice influenza del mondo superiore sulla creatura inferiore. Innanzi tutto bisogna porre al di sopra di questa contesa quattro verità fondamentali. Che i due Spiriti contrari si disputano l’impero dell’uomo e della creazione, domma scritto in testa della teologia di tutti i popoli e nella biografìa di ciascuno individuo, ce lo insegna la rivelazione. L’antico paganesimo lo mostra nel culto universale dei geni, buoni e malvagi: il buddismo dell’Indiano, del Chinese e del Tibetano, il feticismo del negro dell’Affrica, come la sanguinosa idolatria dell’Oceanico, continuano a fornircene la più incontrovertibile prova. Nel cuore della civiltà, non meno che nel centro della barbarie, l’esperienza lo rende sensibile in un fatto sempre antico e sempre nuovo, il Dualismo. Ancorché si neghi ogni distinzione tra la verità e l’errore, tra il bene ed il male, tra l’uccidere il proprio padre ed il rispettarlo, e ancorché si faccia dell’uman genere un armento, si è costretti però a riconoscere sulla terra la coesistenza e la perpetua lotta del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto, degli atti buoni e dei malvagi. Ora questo fenomeno è un mistero inesplicabile, altrimenti che per l’esistenza dei due Spiriti opposti, superiori all’uomo. – Per non ne citare che una prova, il sacrificio umano ha fatto il giro del mondo; e continua al presente presso tutti quei popoli che non adorano lo Spirito del bene, quello Spirito Santo, quale la rivelazione ce lo dimostra. Ma l’idea del sacrificio umano è tanto straniera ai lumi della ragione, quanto ella è opposta ai sentimenti della natura. Qualunque cosa ella faccia la ragione resterà eternamente impotente a trovare una relazione qualsiasi tra l’uccisione del mio simile, e l’espiazione del mio peccato. Lungi dal seguire l’istinto della natura, il padre, per quanto egli sia degradato, ha inorridito sempre e sempre inorridirà, nel recare egli stesso il suo figlio sotto il coltello del sacrificatore. Con tutto ciò il sacrificio dell’uomo per mano dell’uomo, del figlio per mano del padre, è un fatto [oggi l’omicidio dei fili è perpetrato dalle madri attraverso l’aborto volontario, nuova forma di infanticidio rituale!], ma ha però una cagione. Se è un fatto universale e permanente, esso ha dunque una causa universale permanente; se questo fatto è inesplicabile, ha per conseguenza una causa sovrumana. Fatto che si produce da per tutto, dove non regna lo Spirito del bene; adunque è inspirato e comandato dallo spirito del male. Nello spiegare il dualismo, questi due Spiriti sono i veri dominatori del mondo. Non vuol dir certamente che essi siano, affrettiamoci a dirlo, uguali tra loro; poiché il pretenderlo sarebbe cadere nel manicheismo; errore mostruoso che la ragione respinge e che la fede condanna. Ma la verità è che questi due Spiriti sono ineguali e di una ineguaglianza infinita. Uno è Dio, potenza eterna; l’altro, una semplice creatura, essere effimero che un alito potrebbe annientare. Solamente per un consiglio della sua infallibile sapienza, ma della quale l’uomo terreno non potrà mai scandagliare la profondità, Dio ha lasciato a satana il terribile potere di combattere contro di Lui; e, nel possesso dell’uman genere di tenere indecisa la vittoria. Noi tenteremo bentosto di sollevare un lembo del velo, che copre questo irrepugnabile mistero. Frattanto l’esistenza di due Spiriti opposti, suppone l’esistenza di un mondo superiore al nostro. Quindi intendiamo un mondo composto di esseri più perfetti e più potenti di noi, sciolti dalla materia, e puramente spirituali: Dio, gli Angeli buoni e malvagi in numero incalcolabile; mondo delle cause e delle leggi, senza il quale il nostro non esisterebbe o camminerebbe a caso, come la nave senza bussola e senza piloto; mondo pel quale l’uomo è fatto e verso cui aspira; mondo che ci circonda da tutte le parti, e con cui siamo incessantemente in rapporti; al quale noi parliamo, che ci vede, ci intende, che opera su di noi e sulle creature materiali, realmente, efficacemente, come l’anima opera sul corpo. – Lungi dall’essere una chimera, l’esistenza di questo mondo superiore è la prima delle realtà. La Religione, la storia e la ragione .si riuniscono per farne l’articolo fondamentale della fede del genere umano. Oggi più che mai è necessario il dimostrarlo; imperocché la negazione del soprannaturale è la grande eresia del nostro tempo. Poco fa lo stesso sig. Guizot ce lo faceva avvertire scrivendo: « Tutti gli assalti di cui il Cristianesimo è oggi l’oggetto, per quanto essi siano diversi nella loro natura o nella misura loro, partono da uno stesso punto, e tendono ad uno stesso fine, cioè la negazione del soprannaturale nei destini dell’ uomo e del mondo, e l’abolizione dell’elemento soprannaturale nella Religione Cristiana, nella sua storia come nei suoi domini. Materialisti, panteisti, razionalisti, scettici; critici, eruditi, parte di questi altamente, altri discretissimamente, tutti pensano e parlano sotto l’impero di questa idea, che il mondo e l’uomo, la natura morale come la natura fisica, sono unicamente governati da leggi generali, permanenti e necessarie, di cui nessuna volontà speciale è mai venuta né mai viene a sospendere o modificare il corso. 1 » (La Chiesa e la Società Cristiana nel 1861; Cap. IV, pag. 19-20) Nulla di più esatto: ma aggiungeremo soltanto che l’indicare il male, non basta a guarirlo. A fine di porre sulla via del rimedio, sarebbe stato necessario dire come, dopo diciotto secoli di soprannaturalismo cristiano, l’Europa attuale si trova popolata di naturalisti di tutte le gradazioni, la cui razza, fiorente nell’antichità pagana, era scomparsa dopo la predicazione del Vangelo. Comunque siasi, le negazioni individuali svaniscono dinanzi ad affermazioni generali. Per conseguenza il genere umano ha, sempre affermato l’esistenza di un mondo soprannaturale. L’esistenza di una religione presso tutti i popoli è un fatto, il quale è inseparabile dalla credenza in un mondo soprannaturale. Il signor Guizot continua: « Ogni religione si fonda sopra una fede naturale nel soprannaturale, e sopra un istinto innato del soprannaturale. In tutti i luoghi, in tutti i climi, in tutte le epoche della storia, in tutti i gradi della civiltà l’uomo porta in sé questo sentimento, o meglio direi, questo presentimento, che il mondo che egli vede, l’ordine in seno al quale vive, e i fatti che regolarmente e costantemente si succedono intorno a lui, non sono ogni cosa. « Invano egli fa ogni giorno in questo vasto insieme scoperte e conquiste; invano egli osserva ed accerta sapientemente le leggi permanenti che vi presiedono; il suo pensiero non si racchiude punto in quell’universo lasciato alla scienza. Questo spettacolo non basta alla sua anima, essa si slancia altrove; essa cerca, intravede altra cosa; essa aspira per l’universo e per se medesima ad altri destini, a un altro padrone. Il Dio dei cieli risiede al di là di tutti i cieli, ha detto Voltaire; e questo Dio non è la natura personificata, ma è il soprannaturale in persona. A lui s’indirizzano le religioni; e si fondano per porre l’uomo in comunicazione con lui. Senza la fede istintiva dell’uomo nel soprannaturale, senza il suo slancio spontaneo e invincibile verso il soprannaturale, la religione non sarebbe. » (La Chiesa e la Società Cristiana, nel 1861. Cap. IV, pag. 21)Il genere umano non crede soltanto all’esistenza isolata di un mondo soprannaturale, crede bensì all’azione libera e permanente, immediata e reale de’ suoi abitanti sul mondo inferiore. Di questa fede costante noi troviamo la prova in un fatto non meno splendido della stessa religione, vuol dir la preghiera. « Solo tra tutti gli esseri terreni, l’uomo prega. Fra gli istinti morali non ve ne ha di più naturale, di più universale, nè di più invincibile fuorché la preghiera. » Il figlio vi si volge con una docilità premurosa; il vecchio vi si ripiega come in un rifugio contro la decadenza e l’isolamento: la preghiera sale da se medesima sulle giovani labbra che appena balbettano il nome di Dio, e sulle labbra morenti che non hanno più la forza di pronunziarlo.« Ad ogni passo incontransi presso tutti i popoli celebri od oscuri, inciviliti o barbari, atti e formule di invocazione. Dappertutto dove vivono uomini, in certe circostanze, in certe, ore, sotto l’impero di certe impressioni dell’anima, gli occhi si innalzano, le mani si congiungono, piegansi i ginocchi, per implorare o per rendere grazie, per adorare o per pacificare. L’uomo si rivolge per ultimo rifugio, alla preghiera con trasporto e con tremore, pubblicamente, o nell’intimo del suo cuore, per riempiere i vuoti della sua anima, o per portare i pesi del suo destino. Quando tutto gli manca, egli cerca nella preghiera appoggio per la sua debolezza, consolazione nei suoi dolori, speranza nella virtù. (Ibid., pag. 22) » Non si creda che questa fiducia nel potere e nella bontà degli esseri soprannaturali sia una chimera. Prima di tutto vorrei che mi si mostrasse una chimera universale: quindi niuno disconosce il valore morale e interno della preghiera. L’anima per il solo motivo che ella prega si solleva, si rialza, si addolcisce, si fortifica: ella prova, nel rivolgersi verso Dio, quel sentimento di ritornare a salute ed a riposo che si diffonde nel corpo, allorché passa da un’aria tempestosa e pesante in una atmosfera pura e serena. Dio viene in aiuto a coloro che lo implorano, innanziché sappiano se saranno da Lui esauditi. Se avvi un solo uomo che consideri come chimerici questi felici effetti della preghiera, perché non gli ha mai provati, egli è degno di compianto, ma non è rifiutato. – La preghiera ha una forma più elevata della parola, ed è il sacrificio. Questa seconda forma più facile a chiarirsi, essendo ella sempre palpabile, non è meno universale della prima. Essendo il sacrificio in uso presso tutti i popoli, in tutti i tempi e sotto tutte le latitudini, esso si è offerto ad esseri buoni o malvagi, ma sempre stranieri al mondo inferiore. Il sangue di un toro non ha mai scorso sugli altari in onore di un toro o di un altro essere materiale, neppure di un uomo. Il diritto al sacrificio non comincia che allorquando l’adulazione vede in lui un genio personificato, ed è a questo genio che si volge il sacrificio; o quando ritraendolo dal mondo inferiore, la morte ha fatto di lui l’abitatore del mondo soprannaturale. Ora, nel pensiero dell’uman genere, il sacrificio ha la stessa significazione della preghiera. Offerto perpetuamente, egli è dunque la prova perpetua della fede, dell’umanità nell’influenza permanente del mondo superiore su quello inferiore. – L’uomo non si è mai contentato d’ammettere un’azione generale e indeterminata degli agenti soprannaturali sul mondo e su lui. Interrogato in qualunque momento che vi piaccia, sulla sua lunga esistenza, egli vi dirà: Io credo nel governo del mondo materiale, a motivo del mondo spirituale, come io credo al governo del mio corpo pel bene dell’anima mia; io credo che ciascuna parte del mondo inferiore sia diretta da un agente speciale del mondo soprannaturale, incaricato a conservarla ed a mantenerla nell’ordine. Io credo a queste verità, come credo che nei governi visibili (pallido riflesso di quel governo invisibile), l’autorità sovrana personificata nei suoi funzionari è presente in ogni parte dell’ impero, ad oggetto di proteggerla, e di farla concorrere all’armonia generale. – Niuno ignora che i popoli dell’antichità pagana, senza alcuna eccezione, hanno ammessa l’esistenza di eroi, semidei, ai quali attribuiscono i fatti meravigliosi della loro storia, le loro legislazioni, e lo stabilimento de’ loro imperi. Niuno ignora che essi hanno creduto, scritto, cantato che ogni parte del mondo materiale è animata da uno spirito che presiede alla sua esistenza ed ai suoi movimenti; che questo spirito è un essere soprannaturale, degno degli omaggi dell’uomo, e potente abbastanza per fare della creatura, la cui conservazione gli è affidata, un istrumento di bene o un istrumento di male. La stessa credenza è anche oggidì in pieno vigore presso tutti i popoli idolatri delle cinque parti del mondo. – In questa unanime credenza, base della religione e della poesia, come altresì della vita pubblica e privata del genere umano, non v’è nessuna particella di vero? A meno che non si sia dementi, chi oserebbe sostenerlo? Il mondo dei corpi è governato dal mondo degli spiriti: tale è, benché l’abbiano alterato in alcuni punti secondari, il domma fondamentale che l’uman genere ha sempre posseduto. Vogliamo noi averlo in tutta la sua purità? Rileggiamo i divini oracoli. Sino dalla prima pagina dell’antico Testamento, noi vediamo lo Spirito del male farsi sensibile sotto la forma del serpente, e questo seduttore soprannaturale esercitare sull’uomo e sul mondo un dominio che non ha mai perduto. Vediamo da un altro lato gli Spiriti del bene governare il popolo di Dio, come i ministri di un re governano il suo regno. Da Abramo, padre della eletta nazione, sino ai Maccabei, ultimi campioni della sua indipendenza, tutti gli uomini della Bibbia, sono diretti, soccorsi, protetti da agenti soprannaturali, la cui autorità determina i grandi eventi registrati nella storia di questo popolo, tipo di tutti gli altri. – Il popolo cristiano successore, o meglio, svolgimento del popolo giudaico, ci offre lo stesso spettacolo. Ma, se le società le più perfette sono state sempre, e sono tuttora poste sotto la direzione del mondo angelico, con più potente ragione quelle meno perfette, si trovano, a causa altresì della loro inferiorità, sottoposte allo stesso governo. Quanto alle creature puramente materiali, ascoltiamo la testimonianza dei più grandi geni che hanno illustrato il mondo: « Gli Angeli, dice Origène, soprintendono a tutte le cose, alla terra, all’acqua, all’aria, al fuoco, vale a dire, agli elementi principali; e secondo quest’ordine, pervengono a tutti gli animali, a tutti i germi e perfino agli astri del firmamento. [Omnibus rebus angeli praesident, tam terræ et aquæ, quam aeri et igni, id est præcipuis elementis, et hoc ordine perveniunt ad omnia animalia, ad omne germen, ad ipsa quoque astra cœli. Homil. VIII, in Jerem. » Sant’Agostino non è meno esplicito: « In questo mondo, egli dice, ogni creatura visibile è affidata ad una angelica potenza secondo la testimonianza, più volte ripetuta, delle sante Scritture. » [Lib. De diversis quæst. LXXXIII-LXXIX, n° 1, opp. t. IV, pag. 125]. Lo stesso linguaggio udiamo in bocca di san Girolamo, di san Gregorio Nazianzeno e degli organi più autentici della fede dell’uman genere rigenerato. Di questa fede universale ed invincibile, la vera filosofìa porge due perentorie ragioni: l’armonia dell’universo, e la natura della materia.

L’armonia dell’universo. Nella natura non v’è salto; Natura non facit saltum. Tutte le creature visibili agli occhi nostri si sovrappongono, si incastrano, si incatenano le une con le altre con misteriosi legami, la cui successiva scoperta è il trionfo della scienza. Di scalino in scalino, tutte vanno a far capo all’uomo: come spirito e materia, l’uomo è la saldatura dei due mondi. Se per il suo corpo egli è al gradino più alto della scala degli esseri materiali; per la sua anima è ai piè della scala degli esseri spirituali. La ragione si è che la perfezione degli esseri, per conseguenza la loro superiorità gerarchica, si calcola sulla loro rassomiglianza più o meno completa con Dio, l’Essere degli esseri, lo spirito increato, la perfezione per eccellenza. – Ora, la creatura puramente materiale è meno perfetta della creatura materiale e spirituale nello stesso tempo. All’inverso, questa è meno perfetta della creatura puramente spirituale. Poiché non vi ha nessun salto nelle opere del Creatore, al disopra degli esseri puramente materiali, perciò vi sono degli esseri misti; sopra a questi, esseri puramente spirituali, al di sopra dell’uomo, gli Angeli. Come puri spiriti, quelle brillanti creature, gerarchicamente disposte, continuano la lunga catena degli esseri e sono, rispetto all’uomo, ciò ch’è egli stesso rispetto alle creature puramente materiali; esse lo rannodano a Dio, come l’uomo stesso congiunge la materia allo spirito. [La perfezione dell’universo esigeva questa gradazione degli esseri: quest’è l’osservazione di san Tommaso: « Necesse est ponere aliquas creaturas incorporeas. Id enim quod praecipue in rebus creatis Deus intendit, est bonum quod consistit in assimilatione ad Deum. Perfecta autem assimilation effectus ad causam attenditur, quando effectus imitato causam secundum illud per quod causa producit effectum; sicut calidum facit calidum. Deùs autem creaturam producit per intellectum et voluntatem. Unde ad perfectionem universi requiritur quod sint aliquæ creaturæ intellectuales. I p. q. 50. art. 1. Cor.]. Tutto ciò è fondato sopra due grandi leggi che la ragione non saprebbe contrariare, senza cadere nell’assurdo. La prima, che tutta la creazione discesa da Dio tende di continuo a risalire a Dio; imperocché ogni essere gravita verso il suo centro. La seconda, che gli esseri inferiori non possono ritornare a Dio, se non per l’intermezzo degli esseri superiori. Ora abbiamo visto, che l’essere puramente materiale essendo per la sua stessa natura, inferiore all’essere misto, soltanto per mezzo di questo può ritornare a Dio. La teologia cattolica formula dunque un’assioma di alta filosofìa, allorché essa dice: « Tutti gli esseri corporei sono governati e mantenuti nell’ordine da esseri spirituali; tutte le creature visibili da creature invisibili. » La natura della materia. Questa è inerte di sua natura, nessuno lo può negare: « Purtuttavia, dice san Tommaso, vediamo da tutte le parti la materia in moto: questo non le può essere comunicato che da esseri naturalmente operosi; e questi esseri sono, né possono essere che potenze spirituali, le quali sovrapponendosi le une sulle altre, vanno a terminare negli Angeli, e a Dio stesso, principio di ogni moto. Di qui derivano quelle parole di sant’Agostino: Tutti i corpi sono retti da uno spirito di vita dotato d’intelligenza; e quest’altre di san Gregorio: In questo mondo visibile nulla può esser messo in ordine ed in movimento fuor che mediante una creatura invisibile. Così il mondo dei corpi tutto quanto, è fatto per esser retto dal mondo degli spiriti.1 » — [Vi sono dunque tante anime quante sono vite: vita e anima vegetativa, vita e anima sensitiva, vita e anima intellettiva. Inutile dire che le due prime anime non sono della stessa natura della nostra, niente più della vita di cui esse sono il principio.]. –  A questa prova tratta dal moto della materia si aggiunge un fatto « che merita, dice ancora il Guizot, tutta l’attenzione degli avversari del soprannaturale. È riconosciuto ed accertato dalla scienza, che il nostro globo è anteriore all’uomo: ma in che maniera e con qual potenza il genere umano ha incominciato sulla terra? Non vi possono essere che due spiegazioni intorno alla sua origine: v’è stato il lavoro proprio e intimo delle forze naturali della materia, o pure è stata l’opera di un potere soprannaturale, esteriore e superiore alla materia. Per la comparsa dell’uomo sulla terra è necessario: la creazione spontanea o la creazione libera, o l’una o l’altra di queste cause.« Ma ammesse, il che per mio conto io non ammetto, le generazioni spontanee, questo mondo di produzione non potrebbe, non avrebbe mai potuto produrre che esseri infantili, e di pochi istanti, e nel primo stato della vita nascente. Niuno, io credo, ha mai detto né mai dirà, che per virtù di una spontanea generazione, l’uomo, vale a dire l’uomo e la donna, la coppia umana, sien potuti uscire, e che un giorno siano usciti, dal seno della materia, già formati, già grandi, in pieno possesso della loro statura, della loro forza, di tutte le facoltà loro, come il paganesimo greco ha fatto uscire Minerva dal cervello di Giove. « Però soltanto a questa condizione l’uomo, comparendo per la prima volta sulla terra, avrebbe potuto vivervi, perpetuarvi e fondarvi il genere umano.Immaginiamoci il primo uomo che nasca nella prima età infantile, vivente ma inerte, privo d’intelligenza, impotente, incapace di bastare per un istante a sé stesso, tremolante e gemebondo, senza madre che lo intenda e che lo nutra. Quest’è frattanto il solo primo uomo che la generazione spontanea possa dare. Evidentemente, l’altra origine dell’uomo è la sola ammissibile, la sola possibile. Il fatto soprannaturale della creazione spiega solo l’apparizione dell’uomo quaggiù …. E i razionalisti sono costretti a fermarsi dinanzi alla cuna soprannaturale dell’umanità, impotenti a farne uscire l’uomo senza la mano di Dio. » Riassumendo; il genere umano, interrogato sul mondo soprannaturale, risponde con tre atti di fede: Io credo e ho sempre creduto all’esistenza di un mondo superiore: credo e ho sempre creduto al governo del mondo inferiore, non per le leggi immutabili, ma per l’azione libera di agenti superiori; io credo e ho sempre creduto che in certi casi, Dio interviene da se medesimo, o per via dei suoi agenti, in un modo eccezionale, nel governo del mondo inferiore, cioè dire ch’egli sospende, o modifica le leggi delle quali egli è autore, e che fa miracoli; Io credo in particolare, aggiunge il mondo moderno, nell’eletta dell’umanità, cioè che io son nato per virtù di un miracolo. La mia esistenza tutta quanta riposa sulla fede nella risurrezione di un morto, e la mia civiltà ha per piedistallo un sepolcro. Per tacciare d’errore questa fede costante, universale, invincibile, occorre provare che il genere umano, dalla sua origine sino ai dì nostri, è colpito da una triplice follia. Follia l’aver creduto all’esistenza d’un mondo soprannaturale; follia 1’aver creduto all’influenza degli esseri superiori sugli inferiori; follia l’aver creduto che il Legislatore supremo è libero di modificare le sue leggi, o di sospenderne il corso. Queste tre operazioni di pietà filiale, compite religiosamente, e l’uman genere debitamente convinto di essere stato sempre colpito di demenza; ne rimane una quarta: chi nega il soprannaturale dovrà provare, che egli medesimo non è pazzo.

 

CONOSCERE SAN PAOLO (18)

CONOSCERE SAN PAOLO (18)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

CAPO IV.

L’Epistola ai Filippesi.

I. IL CELEBRE TESTO CRISTOLOGICO.

1. QUADRO STORICO. — 2. LA FORMA DI DIO E LA FORMA DI SCHIAVO.

1. Filippi, la prima conquista di Paolo sul suolo europeo (Act. XVI, 12), fu sempre la sua chiesa prediletta. In quella popolazione rozza e semplice di coloni romani, aveva trovato spiriti docili e cuori affettuosi. In loro favore egli derogò alla regola impostasi di non accettare dai suoi neofiti né doni né sussidi (Fil. IV, 15-16; I Cor. IX, 12-15): egli conosceva troppo bene la sincerità e la profondità del loro affetto e non temeva di restare loro obbligato. I Filippesi si mostrarono degni di quella fiducia. Tra loro non vi erano né eresie, né scismi, né fazioni, ma tutto si riduceva a qualche rivalità personale, e la faccenda più grave era di comporre un dissidio tra due donne Fil. IV, 2-3). La sua terribile invettiva contro i giudaizzanti si spiega abbastanza con la notorietà delle loro aggressioni e con le preoccupazioni che queste non cessavano di cagionare all’Apostolo, e non è punto necessario supporre la loro presenza o la loro propaganda a Filippi (Fil. III, 3-4). Non si dovrà cercare in questa conversazione, fatta col cuore alla mano tra un padre e i suoi figli prediletti, un ordine perfetto né un nesso rigoroso. Nessuna lettera somiglia meno di questa ad un trattato di morale o di teologia; Paolo esorta, incoraggia, consola e soprattutto si sfoga liberamente. Il suo sentimento predominante è la gioia spirituale. Egli ripete continuamente: « Mi rallegro nelle mie tribolazioni, rallegratevi con me », tanto che sente il bisogno di scusarsi della sua insistenza (Fil. II, 18; III, 1;IV, 4). Un primo motivo di rallegrarsi è la buona piega che va prendendo il suo processo al tribunale di Cesare. Paolo manderà Timoteo a Filippi non appena avrà al riguardo notizie migliori, ma soggiunge: « Confido nel Signore che verrò io stesso senza ritardo ». Non già che vada in giubilo al pensiero di una prossima liberazione, ma il solo suo desiderio è che il Cristo trionfi, o con la sua vita o con la sua morte: nobile indifferenza che lo tiene sospeso tra il desiderio naturale di vivere per lavorare ancora, per far fruttificare il Vangelo, per servire il prossimo e dare gloria al Maestro, e la felicità di morire per essere unito al Cristo suo amore e sua vita. Ma il cielo decide che egli viva ancora: « Io so che sopravvivrò, che resterò con voi per il vostro avanzamento e per colmare di gioia la vostra fede ». Il contegno degli Ebrei verso di lui, le benevole disposizioni del pretorio, le stesse lungaggini di un processo che si andava trascinando da più di quattro anni, tutto gli fa prevedere uno scioglimento favorevole. – E poi — ed è questo un secondo motivo di gioia — la sua prigionia non ostacola il progresso della predicazione: i custodi che si alternano accanto a lui, lo sentono parlare di Gesù Cristo; le sue condizioni lo mettono in vista e destano la curiosità, ed è questo un primo passo verso la diffusione del Vangelo. Il buon esito della sua difesa e la sua liberazione già quasi sicura infiammano lo zelo e l’intrepidezza dei Cristiani. Se alcuni vanno seminando la parola di Dio stimolati da un sentimento d’invidia, se raddoppiano di attività per rinforzare il loro partito e per rendere più amara la prigionia dell’Apostolo, poco gl’importa, purché il Cristo sia predicato e il Vangelo prosegua nelle sue conquiste: « Io me ne rallegro, dice Paolo dimentico di se stesso, e me ne rallegrerò sempre ». – Ma il suo motivo più grande di gioia — o almeno il più intimo — è l’affetto inalterabile dei Filippesi, il quale aspettava soltanto un’occasione per « rifiorire » splendidamente. Le cure, la devozione, l’abnegazione di Epafrodito che egli chiama suo fratello, suo collaboratore, suo compagno di armi, sua provvidenza visibile, lo hanno commosso profondamente. Dopo le angosce di una lunga malattia da cui si è appena riavuto, quest’uomo generoso ha manifestato il suo desiderio di rivedere la patria: Paolo lo incarica di rappresentarlo presso i suoi cari neofiti, lieto di poter dare a lui questa consolazione e a tutti questo piacere.

2. In mezzo a questa effusione di tenerezza paterna, in una lettera piena di abbandono, di sentimenti delicati, di allusioni affettuose, proprio nel momento in cui meno si aspetterebbe, compare la formola più precisa e più completa della cristologia paolina. Fa stupire il trovare questa dottrina sublime gettata come di passaggio in un brano parenetico, senza nessun proposito di controversia, come se si trattasse di un dogma volgare, da molto tempo conosciuto e creduto da tutti e che basta ricordare per farne la base di un’esortazione morale: fatto davvero sconcertante e affatto inesplicabile, se non si suppone che la preesistenza del Cristo e l’unione della divinità e dell’umanità nella persona di Lui, facessero parte della catechesi apostolica e appartenessero a quegli articoli elementari che nessun Cristiano doveva ignorare. Paolo eccita i fedeli all’unione fraterna, all’umiltà, a quell’abnegazione generosa che ci fa preferire agli interessi nostri quelli degli altri, secondo l’esempio di Colui che è il nostro modello perfetto: “Abbiate in voi i sentimenti che furono nel Cristo Gesù. Sussistendo nella forma di Dio, non considerò come una rapina l’eguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso prendendo la forma dello schiavo e diventando simile agli uomini. – E, riconosciuto uomo dal suo esteriore, si abbassò (ancora), facendosi obbediente fino alla morte e fino alla morte di croce. Perciò anche Dio lo ha esaltato senza misura e gli ha dato un nome che è sopra ogni nome, affinché al nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo e su la terra e negli inferni, e ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è entrato nella gloria di Dio Padre” (Fil. II, 5-11). – Chi domandasse se qui Paolo parla del Cristo preesistente oppure del Cristo storico, proporrebbe male la questione. Paolo parla della Persona di Gesù Cristo e, secondo il suo solito, attribuisce a questo unico soggetto predicati che possono convenire alla preesistenza, allo stato di umiliazione o alla vita glorificata. Tocca all’esegesi distinguerli e classificarli secondo il senso ed il contesto. Quando si conosce per esperienza, che cosa diventi molte volte il testo più semplice tra le mani dei commentatori che lo stiracchiano in senso contrario, riesce una gradita sorpresa il constatare qui l’accordo quasi unanime della tradizione patristica. A dire il vero, i Padri greci e latini non sembrano qui avere il sospetto di reali difficoltà; dopo un breve commento, e qualche volta senza nessuna spiegazione, si affrettano a correre in giostra contro le eresie dei loro tempi. Bisogna udire San Giovanni Crisostomo, in uno slancio di magnifico lirismo, invitare i suoi uditori allo spettacolo degli eresiarchi — Ario, Sabellio, Marcione, Valentino, Manete, Paolo di Samosata, Apollinare di Laodicea, Marcello di Ancira, come le comparse Sofronio e Potino — abbattuti insieme sotto i colpi impetuosi di Paolo. « Se nei combattimenti del circo non c’è nulla che uguagli il piacere di vedere uno dei concorrenti urtare con violenza i cocchi dei rivali, rovesciare insieme quadrighe e guidatori, poi, mentre da ogni parte echeggiano gli applausi e le acclamazioni, volare solo alla mèta come trasportato nello spazio dall’ebbrezza del trionfo e dal delirio degli spettatori, quale non sarà la nostra gioia quando vedremo l’Apostolo del Cristo gettare a terra, insieme e con un colpo solo, tutte le costruzioni dell’errore e tutti gli arsenali del diavolo con i loro architetti! » Eccetto l’entusiasmo, gli altri Padri hanno un linguaggio simile. Le difficoltà rilevate da molti esegeti moderni non dipenderebbero dunque piuttosto da un difetto di metodo, da quella mania troppo comune di trascurare quello che è chiaro e che deve rischiarare il resto, per attaccarsi ai termini oscuri o ambigui, senza neppure accorgersi che i punti dubbi stanno alla periferia estrema della questione e non toccano per nulla il valore generale dell’insieme? Il punto capitale sta nel sapere a quale volontà del Cristo si riferisca lo spogliamento proposto ai Filippesi come esempio di abnegazione. L’esegesi tradizionale non esita affatto: essa trova l’annientamento nel fatto stesso dell’incarnazione e la considera perciò come effetto della volontà divina. Tuttavia certi interpreti, pochi ma risoluti, sono di un altro parere (7). Per loro lo spogliamento, sia pure simultaneo con l’incarnazione, viene logicamente dopo di essa e dipende perciò dalla volontà umana. Le loro ragioni sono speciose, ma non provano. Un atto che precedesse logicamente l’incarnazione, dicono essi, sarebbe comune alle tre Persone divine e non sarebbe proprio del Cristo preesistente. Non sarebbe per noi un esempio di umiltà e di abnegazione, virtù incompatibili con la perfezione della divinità. Finalmente non sarebbe meritorio, e il Cristo non gli sarebbe debitore della sua esaltazione. Ma queste ragioni, ripetiamo, non tengono. L’atto del Verbo il quale accetta l’incarnazione, è un atto di volontà nozionale e per conseguenza proprio del solo Figlio; si può dire anche che l’incarnazione è considerata come funzione ipostatica e non come atto di volontà o di potenza. Si noti che San Paolo non dice: « Abbiate i sentimenti che aveva il Cristo Gesù », ma dice: « Abbiate sentimenti conformi a quello che avvenne nel Cristo Gesù ». Ora il senso cristiano ha sempre considerato il fatto dell’incarnazione come un eccitamento all’abnegazione e alla rinunzia, ed a ciò è autorizzato dallo stesso Apostolo che non teme di proporre alla nostra imitazione colui che « essendo ricco » di tutte le ricchezze del cielo, « è stato povero per causa nostra, per arricchirci con la sua povertà ». Se si oppone che l’incarnazione, e come atto divino e come funzione ipostatica, non è meritoria, la risposta è facile. Nel periodo di Paolo vi sono parecchie azioni delle quali almeno una, espressa per l’ultima — l’obbedienza della croce — qualifica la volontà umana del Cristo e chiede come ricompensa la sua esaltazione gloriosa: « Egli si è fatto obbediente fino alla morte e fino alla morte di croce; perciò Dio lo ha esaltato ». Se assolutamente si vuole far riferire il « perciò » a tutto quello che precede, bisognerà dire allora che esso significa tanto la convenienza quanto il merito. Non vi è dunque nulla che ci obblighi ad abbandonare l’opinione tradizionale; anzi, anche indipendentemente dalle ragioni di autorità, tutto c’invita a conservarla. È tuttavia giusto il notare che la nuova opinione di Velasquez e dei suoi seguaci, non intaccando la divinità di Gesù Cristo, è respinta piuttosto per l’esegesi che non per l’ortodossia. Che cosa significa la forma di Dio? Questa parola forma indica, nel Nuovo Testamento, qualche cosa di profondo e di intimo, ben distinto dall’esteriore e dalle apparenze, che tocca l’essenza stessa dell’essere e ne è inseparabile. Questo medesimo significato lo ritroviamo nei contemporanei dell’Apostolo, Giuseppe e Filone. Quest’ultimo dice che la forma di Dio non può ricevere, come una medaglia, un’aggiunta o una nuova impronta; l’altro afferma che Dio, invisibile per la sua forma e la sua maestà, si manifesta a noi con le sue opere e con i suoi favori. Così si spiega perché i Padri greci, col sentimento vivo che essi hanno del valore dei termini della loro lingua, identificano senz’altro la forma di Dio e la divinità. Ora essi danno come sinonimo di forma, o la natura o la sostanza, o l’essenza, benché non ignorino certamente la differenza metafisica di questi concetti; ora per forma intendono il carattere specifico, ma facendo notare che nell’Assoluto, dove non vi può essere mescolanza di atto e di potenza, il carattere specifico è lo stesso essere. E poi, essendo la forma di Dio l’opposto della forma di schiavo, e non potendo questa, in ultima analisi, significare altro che la natura umana, « essere nella forma di Dio » ed « essere Dio » sono necessariamente due formule equivalenti. Il Verbo non poteva prendere la forma di schiavo senza diventare veramente uomo e non può neppure essere nella forma di Dio senza essere veramente Dio. Quest’ultima espressione sembrava ai Padri ancora più chiara e meno discutibile dell’altra, e parecchi se ne servirono per stabilire contro i doceti la realtà della natura umana del Cristo. Non è dunque necessario, per il rigore della nostra conclusione, intendere la forma nel senso dell’ ἐντελέχεια (= entelekeia) di Aristotele, benché questo significato filosofico, noto ai contemporanei dell’Apostolo, potesse benissimo essere divenuto di uso comune (8). Un punto troppo dimenticato, eppure capitale, è che il Verbo esisteva nella forma di Dio anteriormente agli atti della volontà umana e agli effetti della volontà divina. Il participio presente (ὑπάρχων=uparkon) messo in correlazione con aoristi, prende il significato dell’imperfetto e indica l’esistenza senza limite di tempo. Esso coincide col momento preciso della durata espresso con l’aoristo, ma lo sorpassa da una parte e dall’altra, poiché precede logicamente quell’istante indivisibile e non finisce necessariamente con esso.Inoltre qui è, come è ordinariamente, causativo — essendo il senso avversativo soltanto eccezionale in queste specie di costruzioni — e si deve tradurre: « Perché era nella forma di Dio ». La parafrasi di Estio è dunque ottima: Cum esset ac sit in natura Dei, id est cum esset ac sit verus Deus.

II. LO SPOGLIAMENTO DEL CRISTO

1. EXINANIVIT SEMETIPSUM. — 2. LA CHENOSI.

1. Finora abbiamo a bello studio trascurato l’inciso molto discusso non rapinam arbitratus est esse se æqualem Deo sed emnanivit In realtà esso non aggiunge nulla di essenziale all’insegnamento dell’Apostolo, benché lo precisi e lo circoscriva. Non c’è dunque da stupire se i Padri v’insistono poco e se ci lasciano indovinare il loro pensiero più che non lo esprimano formalmente. Essi hanno ragione, perché le differenze di esegesi nella spiegazione di questo particolare non toccano seriamente il significato dell’insieme. – Anzitutto che cosa vuol dire precisamente l’eguaglianza con Dio? È l’eguaglianza di sostanza, oppure l’eguaglianza di grado e di trattamento? Certamente l’eguaglianza di condizioni suppone l’eguaglianza di natura, e nessuno ha diritto agli onori divini se non è realmente Dio. I Padri hanno dunque potuto conchiudere legittimamente da questa frase la consostanzialità delle Persone divine; ma la questione sta nel sapere se hanno fatto ciò per via di ragionamento e come teologi, oppure per via di analisi e come esegeti. È certo che l’espressione greca (εἶναι ἴσα Θεῷ = einai isa Teo) non significa direttamente « essere eguale a Dio », ma « essere alla pari di Dio, nello stesso grado di lui ». E parecchi Padri intendono infatti così l’eguaglianza con Dio, poiché dicono che il Verbo, incarnandosi, vi rinunzia per la sua natura umana. – Un altro dubbio è questo: il greco (ἐκένωσεν ἑαυτόν = ekénosen eauton), come il latino exinanivit semetipsum, può avere un senso assoluto o un senso relativo. Preso assolutamente, si deve tradurre con « si annientò »; preso relativamente, sarebbe « si spogliò ». Il secondo significato è senza dubbio il più naturale; ma i commentatori domandano di che cosa si è potuto spogliare il Verbo. Non certamente della forma di Dio, poiché in qualunque ipotesi la forma è inerente alla natura e virtualmente identica ad essa; si sarà dunque spogliato dell’eguaglianza di trattamento e di onori? Non si rinunzia alla propria natura, ma si può rinunziare ai diritti che la natura conferisce. Conservando a queste due espressioni il loro valore preciso, noi otteniamo un senso di facile interpretazione e teologicamente esatto. – Insomma, la sola difficoltà seria consiste nello stabilire il rapporto dei due membri: Non rapinam arbitratus est esse se æqualem Deo: sed exinanivit semetipsum. La parola grecaρπαγμός (= arpagmos), come anche il latino rapina, può essere attiva o passiva; in altri termini, può significare latrocinio o preda. Generalmente i commentatori latini stanno al senso suggerito dalla Volgata: « Perché era nella forma di Dio, non considerò come u n furto l’eguaglianza con Dio; tuttavia si spogliò prendendo la forma di schiavo ». Il Verbo non poteva considerare come un’usurpazione l’essere uguale al Padre poiché, essendo nella forma di Dio, è consostanziale al Padre; tuttavia il giusto sentimento della sua grandezza non gl’impedì di spogliarsi. – La maggior parte dei greci, quelli almeno che espressero più chiaramente il loro pensiero, espongono in modo diverso il senso dei termini: « Perché Egli era nella forma di Dio, il Verbo non considerò l’eguaglianza divina come una preda o un bottino che si vuole serbare avidamente, per timore di venirne privato se si abbandona per un momento, ma al contrario se ne spogliò prendendo la forma di schiavo ». Come si vede, la differenza di punteggiatura esprime in modo sensibile la diversità delle due interpretazioni: nell’una vi è soltanto una frase subordinata il cui senso non è completo se non dopo l’ultimo membro; nell’altra gli incisi sono coordinati, e il primo membro dà un senso compiuto. Ma tutte e due affermano con la stessa precisione, che l’eguaglianza divina appartiene al Verbo per diritto naturale, e che Egli può rivendicarsela senza ingiustizia. Quando Ario insinuava che se il Cristo non si era abrogata l’eguaglianza divina, riconosceva di non averne diritto, tutti i Cattolici insorsero sdegnosamente contro quella perversa esegesi, ripresa ai nostri giorni da alcuni scrittori non ortodossi. – Dunque, sotto l’aspetto teologico, le due interpretazioni sono quasi equivalenti. Ma quattro ragioni principali ci fanno preferire quella di San Giovanni Crisostomo e del suo secolo: l’autorità dei Padri greci assai più in grado di apprezzare le esigenze della loro lingua; il contesto che ci fa aspettare una lezione di umiltà, anziché l’asserzione diretta della dignità del Cristo; il lessico che sembra imporre alla locuzione ρπαγμόν ἡγεῖσθαι (=arpagmon egheistai) questo senso determinato; finalmente la grammatica che viene meglio rispettata se si traduce ἀλλά (= alla) per « ma » anziché per « tuttavia ». In questa ipotesi, noi scomponiamo il pensiero di Paolo nei suoi momenti successivi: il Cristo preesistente nella forma di Dio, e perciò Dio, quando meditava di farsi uomo, non considerava gli onori divini ai quali aveva diritto, come un bene che dovesse conservare gelosamente. Al contrario, se ne spogliò volontariamente facendosi uomo, nascondendo la forma di Dio sotto la forma di schiavo. L’esempio di umiltà e di abnegazione non è tanto nella volontà del Verbo che decreta gli abbassamenti della vita mortale (poiché tale volontà è comune alle tre Persone divine) quanto nel fatto stesso dell’unione ipostatica. Dopo l’incarnazione, la volontà umana compie lo spogliamente, accetta la morte di croce con la vita di obbedienza e di rinunzia che la prepara e che da quella morte viene incoronata. Per questo — per tale atto di obbedienza e di umiliazione — Dio. proporzionando la ricompensa al merito, lo esalta senza misura e lo fa sedere alla sua destra.

2. Dal nostro testo mal compreso nacque la stravagante teoria della chenosi o spogliamento del Verbo fatto uomo. In fondo, la chenosi deve la sua prima origine alla difficoltà di concepire due nature complete unite in una sola e medesima Persona; o l’una delle due nature era assorbita dall’altra, oppure esse erano mescolate in modo da produrre una natura nuova, oppure una delle due era diminuita affinché, completata dall’altra, potesse formare con essa un tutto unico. A dire il vero, l’inventore è Ario, benché la parola non sia sua. Egli ammetteva nel Cristo tre parti: un corpo, un’anima irrazionale e il Verbo o Logos che suppliva l’anima ragionevole degli altri uomini. La natura umana del Cristo era dunque incompleta, e il Logos il quale non era né eterno né infinito né Dio nel vero senso della parola, non poteva diventare parte integrante di una natura finita, senza subire egli stesso qualche cambiamento. Così gli Ariani ammettevano che il Logos non era fisicamente immutabile, benché tale fosse moralmente, come incapace di peccare. Al contrario di Ario, Apollinare di Laodicea sostiene la piena divinità del Logos, ma, come Ario, fa del Logos il terzo elemento dell’unica natura del Cristo il quale dunque si compone di un corpo, di un’anima sensibile o principio vitale e del Logos che fa le funzioni di un’anima ragionevole. Per quanto egli protesti che in questa fusione il Verbo rimane immutabile, tutto il suo insegnamento e i paragoni che adopera, confutano la sua asserzione: il Cristo infatti, secondo lui, non è né interamente Dio né interamente uomo, ma una mescolanza di uomo e di Dio; come il mulo e qualche cosa tra il cavallo e l’asino, come il colore grigio è una mescolanza di bianco e di nero. Tutti i monofisiti, ammettendo la fusione delle due nature, dovevano fatalmente finire nello stesso errore, se non volevano cadere nel docetismo. – Due idee di Lutero contribuirono grandemente a stabilire la chenosi in seno al protestantesimo. Lutero sosteneva, contro l’opinione comune, che lo spogliamento di cui parla San Paolo, non doveva essere stato compiuto dalla volontà divina del Verbo, perché, diceva, il Verbo incarnandosi non si era potuto spogliare di se stesso. Egli inoltre intendeva la comunicazione degli idiomi in questo strano senso, che la natura umana del Cristo possiede realmente gli attributi della natura divina e, reciprocamente, la natura divina possiede gli attributi della natura umana. Gesù Cristo, in quanto nomo, sarebbe dunque onnisciente, onnipotente, immenso. I luterani ritornarono più tardi all’esegesi ordinaria e intesero il testo di San Paolo del Verbo medesimo; ma parecchi accettarono la conclusione che Lutero temeva — però a torto — cioè che il Verbo, spogliandosi, aveva dunque perduto qualche cosa della sua divinità. Non si tardò neppure a vedere che la comunicazione degli idiomi, nel senso di Lutero, era inammissibile, poiché l’umanità del Cristo non si può trovare dappertutto. Alcuni cercarono di salvare la dottrina del maestro, dicendo che l’umanità del Cristo possedeva bensì in diritto gli attributi della divinità, ma che li aveva nascosti facendone soltanto un uso occulto, oppure che se ne era volontariamente spogliata non volendosene servire. La maggior parte poi aggiungevano che gli attributi della natura divina si possono benissimo comunicare alla natura umana, ma non reciprocamente; facevano anche le loro riserve per l’ubiquità dell’umanità del Cristo, che è infatti inintelligibile. – I difensori moderni della chenosi stanno di preferenza sul terreno filosofico. Una certa filosofia identifica la Persona con la coscienza; la perdita della coscienza (del sentimento dell’io) equivarrebbe all’annientamento della persona. Due coscienze in un medesimo soggetto, sarebbero due persone. Non vi sono dunque nel Cristo una coscienza divina e una coscienza umana, ma vi è soltanto o una coscienza divina o una coscienza umana. Con questo principio è impossibile sfuggire alla chenosi, eccetto che si dica che l’umanità del Cristo è assorbita nella divinità. Tomasio, il teorico del sistema, vuole che la coscienza del Verbo sia divenuta una coscienza umana, capace di evoluzione e di progresso. Altri pensano che l’incarnazione consiste nel prendere il predicato uomo invece del predicato Dio, cessando di essere Dio (Hofmann). Oppure il Cristo ha cambiato l’io divino con un io umano, e vi è una cessazione momentanea della vita intima del Verbo, e così il Padre cessa di generare il Figlio e lo Spirito Santo non procede più che dal solo Padre (Gess). Parecchi, fermandosi all’eresia di Ario e di Apollinare, fanno fare al Verbo, nel composto umano, la parte dello spirito o principio intellettuale (Gaupp). In tutti questi casi, l’incarnazione per il Verbo si riduce alla perdita o alla diminuzione della forma divina. Se ai fautori di questo singolare sistema si oppone l’immutabilità di Dio, essi rispondono o che noi non sappiamo in che cosa consista l’immutabilità divina, oppure che Dio può fare tutto ciò che non è incompatibile col suo carattere morale, ossia con la sua santità. – Noi abbiamo detto in che cosa consiste, per il Figlio di Dio, lo spogliamento dell’incarnazione. Egli volle liberamente unirsi ad una natura sottoposta a limitazioni di ogni sorta. Vi sono anzitutto le limitazioni L’umanità del Cristo è creata, e per conseguenza è finita: infinita in dignità, come unita ipostaticamente ad una Persona divina, ma finita nella sua essenza e dotata di una perfezione che non esaurisce tutta la potenza divina; senza contare che essa non occupa neppure il grado più elevato nella scala degli esseri attuali. Vi sono pure le limitazioni di ordine economico, le quali si riferiscono al compito e all’uffizio di Redentore, nel disegno presente della Provvidenza: il Cristo doveva soffrire e morire prima di entrare nella gloria, e di conquistare con i suoi meriti un’esaltazione che gli apparteneva per diritto naturale. Vi sono ancora, ma non sappiamo in quale misura, le limitazioni volontarie. Non dimentichiamo che l’unione ipostatica, non influendo direttamente su la natura umana del Cristo, potrebbe non apportare nessun cambiamento fisico al corpo, all’anima, alle facoltà intellettuali della santa umanità; ed ecco qui un vasto campo lasciato alla rinunzia volontaria. Il Cristo volle nascere povero; si caricò spontaneamente dei nostri dolori e delle nostre infermità; conobbe le tentazioni e le angosce dell’agonia; si fece servo dei suoi fratelli adottivi; rinunziò soprattutto, per la sua esistenza terrena, agli onori divini che per diritto gli spettavano. Con questo spogliamento volontario operato nella sua santa umanità, il Verbo ha spogliato se stesso, poiché forma con l’umanità una sola Persona.