SALMI BIBLICI: “AD TE LEVAVI OCULOS MEOS” (CXXII)

SALMO 122: “AD TE LEVAVI OCULOS MEOS

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 122:

[1] Canticum graduum.

 [1] Ad te levavi oculos meos,

qui habitas in cœlis.

[2] Ecce sicut oculi servorum in manibus dominorum suorum; sicut oculi ancillae in manibus dominæ suæ: ita oculi nostri ad Dominum Deum nostrum, donec misereatur nostri.

[3] Miserere nostri, Domine, miserere nostri, quia multum repleti sumus despectione;

[4] quia multum repleta est anima nostra opprobrium abundantibus, et despectio superbis.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXII.

Preghiera dell’uomo viatore, che nell’esilio soffre travaglio, principalmente per dispregio.

Cantico dei gradi.

1. Alzai gli occhi miei a te, che fai tuo soggiorno nei cieli. Ecco che, come gli occhi dei servi son fissamente rivolti alle mani dei padroni;

2. Come gli occhi dell’ancella son fissamente rivolti alle mani della padrona; così gli occhi nostri al Signore Dio nostro, in aspettando ch’egli abbia di noi pietà.

3. Abbi pietà di noi, o Signore, abbi di noi pietà; perocché siam satolli di disprezzo oltremodo;

4. Perché molto ne è satolla l’anima nostra: ella oggetto di obbrobrio ai facoltosi e di scherno ai superbi.

Sommario analitico

Il salmista, personificando in sé il popolo esiliato e prigioniero, gemente sotto il giogo dei loro nemici,

I. Indirizza a Dio la sua preghiera:

1° pia e sublime (1)

2° umile e perseverante (2).

II – Egli espone i motivi che devono portarlo ad aver pietà di loro:

1° essi sono nella estrema confusione (3);

2° non solo numerosi sono gli oltraggi dei quali sono oggetto, ma eccessivi e penetrano fino al fondo della loro anima;

3° sono un soggetto di obbrobrio per i ricchi e di disprezzo per i superbi (4).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1, 2.

ff. 1, 2. – C’è una gradazione in ciascuno di questi salmi, chiamati appunto graduali. Nel primo il salmista grida verso il Signore dal mezzo della tribolazione; nel secondo, alza gli occhi verso le alte montagne; nel terzo, di rallegra alla promessa che gli viene fatta di entrare ben presto nella casa del Signore. Qui, egli va più oltre, ed è verso Dio che eleva gli occhi (S. Girol.). – Non è più verso un oggetto creato, verso una delle creature intelligenti, chiunque sia, ma è verso Dio stesso che eleva, non solo gli occhi del corpo, ma soprattutto gli occhi interiori dell’anima, l’affezione e l’intenzione. (Hug. Card.). –  È durante il loro soggiorno presso i popoli barbari che i Giudei ricevettero le lezioni più sublimi e che furono, in questa privazione assoluta di tutte le risorse vitali. Essi imparano che Dio, in qualsiasi luogo invocato, esaudisce prontamente alle nostre preghiere. Le prime ragioni di una vita tutta nuova andranno ben presto ad illuminare i loro sguardi, e così il profeta prelude a questo grande cambiamento, e sotto il velo della comparazione, annunzia che l’osservanza dei luoghi prescritti per la legge, cesseranno di essere obbligatori (S. Cris.).- Tutta la scienza della salvezza è il saper alzare gli occhi verso Colui che abita nel cielo. Si esercita così una grandissima virtù della religione: la fede, la speranza e la carità … il Profeta non nomina Dio, lo caratterizza per la sua dimora che è il cielo; non più il cielo che noi vediamo – dice Sant’Agostino – non solo il cielo dove sono gli Angeli ed i Santi, ma il cielo che è in Dio stesso, il cielo che è l’essenza propria di Dio (Berthier). – « Come gli occhi dei servi sono attenti alle mani dei loro padroni. » Se fosse questione di servi e padroni terreni, il Profeta avrebbe dovuto dire che gli occhi dei servi erano fissi sugli occhi, sulle labbra dei loro padroni, perché è con la parola o con un segno degli occhi che i loro padroni intimano i loro ordini; ma nella Scrittura, le mani significano sovente le opere … il Profeta si esprime dunque in tal modo per farci conoscere che i desideri dei servi dei quali parla, sono interamente portati sulle opere. (S. Hilar.). –  Quanti Cristiani tengono sempre, per partito preso, gli occhi rivolti verso terra, (Ps. XVI, 11), e non hanno nulla da sperare da Dio! Colui che al contrario li alza verso il cielo, ha diritto di sperare tutto; nulla lo sorprende, nulla lo stupisce, perché egli ha sempre i suoi occhi fissati a Colui che sempre ha gli occhi aperti su di lui. Che significa questo paragone: « come i servi, etc. » Essi non sperano e non attendono altro soccorso e protezione; perché da chi, il servo e la serva attendono il nutrimento, il vestito e le altre cose necessarie alla vita? Dai loro padroni soltanto; essi anche non si ritirano, ma restano in loro presenza fino a quando non abbiano ricevuto ciò che sia loro necessario (S. Cris.). Orbene, il Profeta alza gli occhi verso il Signore, affinché fermando il suo sguardo su Dio, nel momento in cui esercita la sua giustizia, Dio, mosso a pietà sotto questo aspetto, ascolti la voce della sua misericordia e cessi di colpire. Supponete che un padrone abbia ordinato che si colpisca un servo; lo si batte, egli sente dolore del corpo, fissa uno sguardo doloroso sulla mano del suo padrone, fino a quando questi non faccia segno che si cessi. (S. Agost.). – « … Affinché abbia pietà di noi. » Egli non si stanca, non cessa di fissare i suoi occhi sul Signore, benché Dio, per provare la sua fede, differisca l’esercizio della sua misericordia, perché la fede fa attendere con piena fiducia ed una santa sicurezza l’effetto della sua preghiera. Egli non dubita della misericordia di Dio, perché i suoi occhi restano fissati su di Lui fino a che Dio abbia pietà di lui. A questa attesa perseverante, egli aggiunge la preghiera: «Abbiate pietà di noi, Signore, abbiate pietà di noi. » Egli parla fissando gli occhi su Dio, prega in questa attitudine con quella perseveranza che gli schiavi dei vizi mettono in opera nelle inclinazioni perverse che li dominano. Ma lui, pieno di una ferma speranza nei beni eterni, persevera nella fiducia che la misericordia di Dio avrà per lui il suo pieno effetto (S. Hil.). 

II. — 3, 4.

3, 4. – « Noi siamo saturi di disprezzo e di obbrobrio. » Ecco ciò che deve attendersi quaggiù quella ferma speranza dei fedeli: gli oltraggi degli empi e la persecuzione da parte dei malvagi. In effetti, se predichiamo la giustizia, incorriamo nell’odio dell’uomo iniquo; se lodiamo la castità, l’impudico si irrita; l’intemperante ha in orrore le nostre mortificazioni e i nostri digiuni; se esortiamo i fedeli alla liberalità, l’avaro ci accusa di follia; se predichiamo Gesù-Cristo, Dio crocifisso, il Giudei si aggiungono ai pagani per perseguitare la nostra Religione e la nostra fede. Quando facciamo professione di attendere il giudizio di Dio, i re della terra si offendono, perché essi vogliono ad ogni costo togliere a Dio il potere di esaminare e giudicare la nostra vita. Se insegniamo la resurrezione dai morti, subiremo le contraddizioni degli infedeli, i cui corpi sono come già sepolti sotto tutti i vizi. Infine, la nostra fede, appoggiata sulla Legge, sui Profeti, sui Vangeli e sugli Apostoli, è attaccata e sfigurata da tutte le menzogne degli eretici. Noi siamo battuti, maledetti, esiliati, proscritti, messi a morte con il ferro, con le fiamme, o precipitati in mare; si sevizia la nostra timidezza, nel nostro corpo risentiamo un vivo dolore di tutte queste ingiustizie (S. Hilar.). – Perché, in effetti, in questa valle di lacrime, l’uomo giusto e santo, non è oggetto di disprezzo? Ma il disprezzo di cui parla qui il Profeta è soprattutto quello che soffrono i buoni da parte dei malvagi, i giusti da parte degli empi. Tutti coloro che vogliono vivere piamente secondo il Cristo, soffriranno inevitabilmente degli obbrobri, e saranno inevitabilmente disprezzati da coloro che non vogliono vivere piamente e il cui benessere è solo terreno. (I Tim. III). Si scherniscono coloro che chiamano felicità ciò che gli occhi non possono vedere, e si dice loro: cosa credi tu, cose insensate? Vedi forse ciò che credi? Qualcuno è mai ritornato dagli inferi per riferire cosa gli accade? Io ciò che amo, lo vedo e ne gioisco! Vi si disdegna, vi si disprezza, perché voi sperate delle cose che non vedete; e colui che vi disdegna si vanta di possedere ciò che vede (S. Agost.). – « La nostra anima è stata tutta ripiena di confusione. » Qui, per maggior chiarezza, il Profeta nomina l’anima; perché l’idea del disprezzo affligge soprattutto l’anima intelligente, gli esseri che sono privi di questo dono prezioso, possono conoscere il dolore, ma non il disprezzo … L’obbrobrio ed il disprezzo dicono la stessa cosa, tanto da poter confondere qui gli orgogliosi e gli uomini nell’abbondanza. L’abbondanza è, d’ordinario, seguita dall’orgoglio, ed infatti tutti gli uomini orgogliosi sono come rigonfi e di conseguenza, nell’abbondanza; ma questa è una cattiva abbondanza, una pienezza fittizia e non un bene reale; essi sono saturi di amor proprio e di autostima, si considerano come legittimi proprietari delle ricchezze terrestri che possiedono, e non sognano affatto che essi dovranno rendere severo conto a Dio dell’impiego che ne hanno fatto. (Bellarm.).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XIV – “QUOD PROVINCIALE”

« … se la Vostra giustizia non supererà quella degli Scismatici ed Eretici, nessuno dei quali osa prendere un nome Maomettano, non entrerete nel Regno dei Cieli…» Questa è la sentenza del Sommo Pontefice Benedetto XIV, nei riguardi di coloro che nella regione balcanica, a forte presenza musulmana, assumevano nomi non Cristiani per non incorrere in sanzioni economiche o nella perdita di benefici materiali. Erano in effetti dei marrani all’inverso, ugualmente odiosi anche da un punto di vista umano, esattamente come i marrani storici, o ipocriti, di ogni tempo, marrani che persistono attualmente soprattutto fingendo di appartenere alla “Chiesa Cattolica”, alimentando però vigorosamente la sinagoga di satana. Non a caso, ad esempio nella falsa chiesa dell’uomo, il c. d. “Novus ordo”, ma pure tra tanti scismatici pseudo-tradizionalisti, ci sono tanti marrani appositamente addestrati, fin da giovanissimi, a dissimulare fedi eretiche e pagane, pratiche abominevoli sataniche, gnostiche, esoteriche, sotto la compiacente gestione o favoritismi dei servi di lucifero collocati nei “seggi” ecclesiastici che contano. Ma se i marrani, finti maomettani, hanno ricevuto una condanna così pesante dal parte della massima Autorità della Chiesa, non possiamo nemmeno immaginare quale sia la posizione spirituale nei riguardi del sommo Giudice dei marrani infiltrati nella Chiesa Cattolica, e che tante anime trascinano negli inferi insieme a loro. Per ciò che riguarda poi i nomi dei Cristiani, o presunti tali, mentre gli abitanti dei Balcani potevano accampare qualche motivo, oggi si impongono a bella posta a bambini di aree un tempo cattoliche, nomi che nulla hanno a che vedere con gli usi cristiani, e si preferisce appioppar loro nomi di matrice pagana, di divinità (cioè di demoni) orientali o nordiche, di personaggi fittizi mutuati da fumettoni, cartoni animati e perfino da culti esoterici. Non andiamo oltre. preghiamo per questi sventurati perché non siano tra coloro che  “non entreranno nel regno dei cieli”, e leggiamo la lettera Enciclica del Santo Padre.

Benedetto XIV

Quod provinciale

Il Concilio Provinciale della vostra Provincia di Albania, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, celebrato l’anno 1703 sotto il Papa Clemente XI di felice memoria, nostro Predecessore, aveva santissimamente stabilito, fra le altre cose, al canone terzo, che nel Battesimo non fossero imposti né ai bambini né agli adulti nomi Turchi o Maomettani, e che i Cristiani non tollerassero di essere chiamati con nomi Turchi o Maomettani che mai erano stati loro imposti, per qualunque esenzione da tributi o immunità, o per facilitazioni nel commerciare liberamente, o per evitare pene. Raccomandando anche Noi le stesse cose, le confermammo, e comandammo di osservarle nella nostra Lettera Enciclica che inizia con le parole Inter omnigenas, edita per il Regno di Serbia e regioni vicine, su diversi punti di Religione e di disciplina, il giorno 11 febbraio 1744, anno quarto del Nostro Pontificato. – Quanto fu stabilito con sapienza e religione dai vostri Predecessori fu veramente provvidenziale e salutare, esempio luminoso della Fede Cattolica e della Vostra sincera pietà Cristiana, da essere indicato ad esempio agli altri e da Noi prescritto perché sia rigorosamente osservato, a maggior gloria e prestigio della Vostra Provincia e a maggiore utilità per conseguire l’eterna salvezza delle anime: tanto che se per caso capitasse che venisse trascurato, ridonderebbe a maggior disonore della vostra stessa Provincia e ad aperto danno delle anime.

1. Quindi Noi, che nella predetta nostra Lettera proclamammo quell’abuso una turpe occultazione della Fede cristiana, somigliante all’infedeltà, abbiamo appreso, col più grande dolore del nostro animo Pontificale, che moltissimi di codesta Provincia, trascurato il pensiero dell’eterna salvezza, continuano ad adoperare i medesimi nomi Turchi o Maomettani, non solo per essere considerati immuni e liberi da quei tributi e oneri che furono imposti ai Cristiani, ma anche con lo scopo che non si creda che essi stessi o i loro parenti abbiano apostatato dalla religione Maomettana, e non siano puniti con le pene inflitte in questi casi. Infatti tutte queste cose, anche se la Fede di Cristo viene conservata nel cuore, non si possono fare, senza la simulazione degli errori di Maometto, contraria alla sincerità Cristiana; questa simulazione comporta una menzogna in materia gravissima, e comprende una virtuale negazione della Fede con grandissima offesa a Dio e scandalo al prossimo: per cui si offre ai Turchi stessi l’occasione propizia di considerare tutti i Cristiani ipocriti e ingannatori, tali che vanno a buon diritto e giustamente perseguitati.

2. Si aggiunge inoltre ad aumentare sempre più il nostro dispiacere e dolore, che alcuni di Voi stessi, Venerabili Fratelli, e anche alcuni di Voi, diletti figli Parroci e Missionari, non badando affatto ad una simulazione tanto malvagia e detestabile, ma anzi conniventi, e spinti da motivazioni che non sono sufficienti a scusare i peccati, non hanno timore di ammettere alla partecipazione ai Sacramenti, senza nessun travaglio di coscienza e con pubblica offesa dei buoni Cristiani, quei fedeli affidati alle vostre cure che assumono i suddetti nomi Turchi o Maomettani e procurano di farsi chiamare così.

3. Ne consegue che Noi, che (per la sollecitudine di tutte le Chiese a Noi imposta, e per la soprintendenza suprema del Sacrosanto Apostolato), siamo obbligati a ricondurre tutti i Cristiani sulla via della salvezza e a presentarli a Dio puri, sinceri, procedenti in spirito e verità e senza macchia, dopo avere ascoltato su questo argomento i nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa Inquisitori generali contro la malvagità eretica, col loro consiglio, rinnovando dapprima il lodato Canone del Concilio Albanese della vostra Provincia, colla nostra Apostolica autorità, a tenore della presente Lettera lo confermiamo, e comandiamo che sia osservato rigorosamente. Colla stessa autorità e tenore estendiamo anche alla Vostra Provincia, e comandiamo che siano ugualmente osservati, i decreti della ricordata nostra Lettera. Quindi proibiamo rigorosamente che qualunque Cristiano, per qualunque motivo o pretesto o in qualsivoglia immaginabile circostanza, osi assumere i medesimi nomi Turchi o Maomettani per farsi credere Maomettano.

4. Inoltre, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, vi preghiamo ed esortiamo nel Signore affinché, considerando seriamente il vostro ministero e i conti severi che dovrete rendere al Supremo Principe dei Pastori ed Eterno Giudice Gesù Cristo sulle pecore affidate a ciascuno di Voi, Voi stessi curiate di assicurare la vostra elezione colle vostre buone opere, e non omettiate (la qual cosa non può avvenire senza gravissima Vostra colpa di incuria e negligenza) di rimproverare, scongiurare e sgridare con ogni pazienza e dottrina i medesimi Cristiani della vostra Provincia affinché, tenendo un buon comportamento fra i Pagani, in ogni cosa si mostrino esempio di buone opere, perché coloro che sono avversari, si vergognino, non avendo niente di male da dire su di loro, quasi fossero malfattori: essi, che per turpe guadagno parlano diversamente da come pensano. Se alcuni poi non ubbidiscono alle vostre esortazioni e ai nostri ordini, secondo la norma della disciplina Apostolica, devono essere obbligati con le maniere forti: su di loro devono essere applicate interamente le sanzioni e le pene del vostro Sinodo Albanese e della suddetta nostra Lettera, e sia loro dichiarato che non potranno ricevere, in vita, i Sacramenti, e dopo la morte, se saranno deceduti senza ravvedersi, i suffragi. Quelle pene Noi rinnoviamo e infliggiamo di nuovo, per quanto ce n’è bisogno, e vogliamo e ordiniamo che siano mandate a debita esecuzione da Voi. Questo poi non deve sembrare odioso a nessuno di voi, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, poiché se la Vostra giustizia non supererà quella degli Scismatici ed Eretici, nessuno dei quali osa prendere un nome Maomettano, non entrerete nel Regno dei Cieli.

5. Infine, coloro che si sono fatti Cristiani dal Maomettanesimo, o che sono figli di convertiti, nel caso in cui diffidino della propria costanza nella Fede e abbiano timore di incorrere nelle pene dei loro Governanti se lasciano i nomi Turchi, e abbiano paura di subirle, esortateli seriamente ad abbandonare di nascosto quelle regioni e a venire a rifugiarsi nelle terre dei Cristiani, nelle quali non mancheranno ad essi né Dio che dà il cibo ad ogni vivente, né la carità dei fedeli, specialmente se saranno muniti di lettere di raccomandazione dei Vescovi.

Frattanto a Voi, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, doniamo affettuosamente la Benedizione Apostolica, la quale vogliamo che sia data a Nostro nome ai Cristiani di retta fede da ogni Venerabile Fratello Vescovo nella sua Diocesi.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 1° agosto 1754, anno quattordicesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA I DOPO PASQUA (2020)

DOMENICA IN ALBIS (2020)

DOMENICA IN ALBIS o OTTAVA DI PASQUA.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Pancrazio.

Privilegiata di 1 classe. – Doppio maggiore. – Paramenti bianchi.

Questa Domenica è detta Quasimodo (dalle prime parole dell’Introito) o in Albis (anticamente anche post Albas), perché i neofiti avevano appena la sera precedente deposte le vesti bianche, oppure anche Pasqua chiusa, poiché in questo giorno termina l’ottava di Pasqua (Or.). Per insegnare ai neofiti (Intr.) con quale generosità debbano rendere testimonianza a Gesù, la Chiesa li conduceva alla Basilica di S. Pancrazio, che all’età di quattordici anni rese a Gesù Cristo la testimonianza dei sangue. Cosi devono fare i  battezzati davanti alla persecuzione a colpi di spillo cui sono continuamente fatti segno; devono cioè resistere, appoggiandosi sulla fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, risorto. In questa fede, dice S. Giovanni, vinciamo il mondo, poiché per essa resistiamo a tutti i tentativi  di farci cadere (Ep.). È quindi di somma importanza che questa fede abbia una solida base e la Chiesa ce la dà nella Messa di questo giorno. Base di questa fede è, secondo quanto dice S. Giovanni nell’Epistola, la testimonianza del Padre che, al Battesimo del Cristo (acqua), lo ha proclamato Suo Figliuolo, del Figlio che sulla croce (sangue) si è rivelato Figlio di Dio, dello Spirito Santo che, scendendo sugli Apostoli nel giorno della Pentecoste, secondo la promessa di Gesù, ha confermato quello che il Redentore aveva detto della propria risurrezione e della propria divinità. Nel Vangelo vediamo infatti come Gesù Cristo, apparendo due volte nel Cenacolo, dissipa l’incredulità di San Tommaso e loda quelli che han creduto in Lui senza averlo veduto.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

1 Pet II, 2. Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja.

[Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia,]

Ps LXXX: 2. Exsultáte Deo, adjutóri nostro: jubiláte Deo Jacob. [Inneggiate a Dio nostro aiuto; acclamate il Dio di Giacobbe.]

– Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja.

[Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia.]

Oratio

Orémus.

Præsta, quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui paschália festa perégimus, hæc, te largiénte, móribus et vita teneámus.

[Concedi, Dio onnipotente, che, terminate le feste pasquali, noi, con la tua grazia, ne conserviamo il frutto nella vita e nella condotta.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joannis Apóstoli. – 1 Giov. V: 4-10.

“Caríssimi: Omne, quod natum est ex Deo, vincit mundum: et hæc est victoria, quæ vincit mundum, fides nostra. Quis est, qui vincit mundum, nisi qui credit, quóniam Jesus est Fílius Dei? Hic est, qui venit per aquam et sánguinem, Jesus Christus: non in aqua solum, sed in aqua et sánguine. Et Spíritus est, qui testificátur, quóniam Christus est véritas. Quóniam tres sunt, qui testimónium dant in coelo: Pater, Verbum, et Spíritus Sanctus: et hi tres unum sunt. Et tres sunt, qui testimónium dant in terra: Spíritus, et aqua, et sanguis: et hi tres unum sunt. Si testimónium hóminum accípimus, testimónium Dei majus est: quóniam hoc est testimónium Dei, quod majus est: quóniam testificátus est de Fílio suo. Qui credit in Fílium Dei, habet testimónium Dei in se”.  – Deo gratias.

Omelia I.

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

LA FEDE

“Carissimi: Tutto quello che è nato da Dio vince il mondo: e questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede. Chi è che vince il mondo, se non colui che crede che, Gesù Cristo è figlio di Dio? Questi è Colui che coll’acqua e col sangue, Gesù Cristo: non con l’acqua solamente, ma con l’acqua e col sangue. E lo Spirito è quello che attesta che Cristo è verità. Poiché sono tre che rendono testimonianza in cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo: e questi tre sono una cosa sola. E sono tre che rendono testimonianza in terra: lo spirito, l’acqua e il sangue: e questi tre sono una cosa sola. Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è maggiore. Ora, la testimonianza di Dio che è maggiore è questa, che egli ha reso al Figlio suo. Chi crede al Figlio di Dio, ha in sé la testimonianza di Dio” (1 Giov. V, 4-10).

S. Giovanni, oltre il Vangelo e l’Apocalisse, scrisse tre lettere. La prima di queste è indirizzata ai fedeli dell’Asia minore, di cui Efeso, ove l’Apostolo dimorava, erane la capitale. Si potrebbe chiamare lettera accompagnatoria o introduzione del quarto Vangelo. Vi si fa risaltare la divinità di Gesù Cristo, e vi si danno prescrizioni per la pratica della vita cristiana, specialmente in relazione all’amor di Dio e all’amor del prossimo. L’epistola odierna è tolta da questa lettera. Per vincere il mondo con le sue concupiscenze, con i suoi errori, con le sue lusinghe, con le sue persecuzioni bisogna essere appoggiati a una fede viva nella divinità di Gesù Cristo. Fede che ha una base incrollabile, perché fondata sulla testimonianza del Padre, che proclama Gesù Cristo suo Figlio, quando è battezzato nelle acque del Giordano; dalla testimonianza del Figlio, che dimostra la sua divinità quando versa il sangue sulla croce; dalla testimonianza dello Spirito Santo, che, discendendo sopra gli Apostoli il giorno di Pentecoste, conferma la predizione di Gesù Cristo e quanto egli aveva insegnato sulla propria divinità. Accogliendo la testimonianza di Dio relativamente a Gesù Cristo, abbiam ben di più che la testimonianza degli uomini. Questo celebre passo di S. Giovanni ci suggerisce di parlar della Fede. Essa:

1. Ci fa trionfare delle passioni,

2. Ci preserva dall’errore,

3. Ci fa rendere il dovuto omaggio a Dio.

1.

Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede. Chi crede che Gesù Cristo è Dio, e vive in conformità di questa credenza, trova la forza necessaria per trionfare del mondo. Le lusinghe, l’esempio del male che dilaga, la concupiscenza esercitano sull’uomo una forza a cui ben difficilmente si resiste con considerazioni umane. Ci vuole una forza superiore, e questa forza è la fede. I due discepoli che il giorno di Pasqua ritornano scoraggiati al castello di Emaus, sono accompagnati, nel cammino, da uno sconosciuto, che spiega loro parecchi luoghi della Sacra Scrittura. Rimasti soli, si dichiarano a vicenda: «Non ci ardeva forse il cuore in petto mentre per istrada ci parlava e ci interpretava le Scritture?» (Luc. XXIV, 32). Quella parola accendeva i loro cuori, perché chi parlava era Gesù. La parola di Dio avvince i cuori con le sublimi verità che rivela, e gli infiamma a compiere con entusiasmo i più grandi sacrifici, con l’assicurazione che non mancherà mai l’aiuto della grazia divina. La fede parla di Dio e dei suoi attributi. Credere che Dio è santo, e illudersi che non abbiano a dispiacergli i peccati, è cosa impossibile. Credere che è sapientissimo, e lusingarsi che gli sfuggano le azioni degli uomini, è inconciliabile. Credere che è giusto, e aspettarsi che non punisca le colpe e non premi la virtù è pretesa assurda. L’uomo che crede con fede viva nella parola di Dio, cerca di conformare a essa la propria vita, e con la grazia che viene da Dio, vi riesce. « I precetti di lui non sono gravosi, — dice l’Evangelista — perché tutto ciò che viene da Dio vince il mondo » (I Giov. V, 3-4). I beni che ci offre il mondo perdono ogni attrattiva quando consideriamo seriamente l’ammonimento di Gesù Cristo: « Che giova mai all’uomo guadagnar tutto il mondo se poi perde l’anima? » (Matt. XVI, 26). Nessuno potrà mai arrivare a contare il numero di coloro, che, meditando questa massima della nostra fede, si son guardati dal commettere ingiustizie a danno degli altri, hanno moderato il loro desiderio di possedere, hanno, magari, rinunciato alle ricchezze, ottenendo una vittoria completa sulla cupidigia dei beni di questa terra, « radice di tutti i mali » (I Tim. VI, 10). Contro chi possiede una fede viva perdono la loro forza anche le minacce del mondo. «Non temete — leggiamo nel Vangelo — coloro che uccidono il corpo e non possono uccider l’anima; temete piuttosto chi può mandare in perdizione all’inferno e l’anima e il corpo» (Matt. X, 28). Queste parole, ricordate nel tempo della prova, producono i forti, che disprezzano qualunque tormento, piuttosto che venir meno alla voce della coscienza. E fanno sorgere i martiri che accettano la morte più straziante, ma non si stancano di dare a Dio l’onore e l’omaggio che gli si deve. « L’operaio è degno della sua mercede » (I Tim. V, 18.). E la fede ci dice che chi lavora nel combattimento contro il mondo avrà la sua mercede. Una gloria, in confronto della quale « le sofferenze del tempo presente non hanno proporzione » (Rom. VIII, 18). In vista di questa gloria, chi non è spinto a combattere costantemente il mondo fino alla vittoria, dicendo col Poverello d’Assisi: « Tanto è il bene che m’aspetto che ogni pena mi è diletto »?

2.

E lo Spirito è quello che attesta che Cristo è verità. La testimonianza dello Spirito Santo esclude ogni dubbio, perché è proprio di Lui il dire la verità. E quanto c’insegna la fede è appunto testimonianza dello Spirito Santo. Felice l’uomo che ha la fede, perché egli trova la luce vera fra le tenebre che coprono la faccia della terra. Ci sono delle verità che anche l’intelletto dell’uomo può scoprire: come, l’esistenza di Dio, la sua unità, la sua provvidenza, la spiritualità e immortalità dell’anima, la distinzione tra il bene e il male ecc. Abbandonato però l’uomo alla sola ragione, non può venire alla conoscenza di queste verità e alle conseguenze che ne derivano, senza molta riflessione e ragionamento. Ma la gran massa degli uomini non è portata al ragionamento. Basa le sue convinzioni non sul ragionamento, ma sulla fede. E anche coloro che, dotati di ingegno superiore agli altri, cercano di penetrare le verità naturali, non sempre arrivano a conoscerle come si deve; e, frequentemente, arrivano a conclusioni diverse. Che dire poi se c’entrano le passioni? Quanti errori intorno a Dio e ad altre verità fondamentali, anche tra i popoli più colti, come quelli della Grecia e di Roma! Se conobbero Dio, non ne conobbero bene né la natura né gli attribuiti. Si formarono molti dei, e si crearono degli idoli. Se conobbero Dio non gli prestarono il culto dovuto. Accecati dalla loro superbia, e seguendo le inclinazioni della corrotta natura, precipitarono in errori d’ogni sorta. « S’invanirono nei loro ragionamenti, e fu avvolto di tenebre il loro stolto cuore. Dicendo di essere sapienti divennero stolti, e scambiarono la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine, rappresentante l’uomo corruttibile e uccelli e quadrupedi e rettili » (Rom. I, 21-23). Questa constatazione che l’Apostolo fa parlando del mondo greco-romano, ci dice di quanta importanza può essere la rivelazione, anche rispetto a quelle verità, che l’intelletto umano può conoscere da sé. Io mi avvio lungo una strada maestra, al valico d’una catena di monti. Ma le ore passano e il valico è ancor lontano. Quel continuo serpeggiar della strada comincia ad annoiarmi; il continuo salire, per quanto lento, mi fa sudare e mi stanca. Sarei ben felice se una veloce vettura si fermasse al mio fianco, e io fossi invitato a salirvi. In brevissimo tempo, senza sudore e logorio di forze, arriverei alla meta. La fede, anche nel campo delle verità naturali, mi porta con prontezza, senza fatica, là dove con le sole forze della ragione non si potrebbe arrivare che tardi, a stento, e non sempre felicemente. Se poi veniamo a parlare delle verità soprannaturali, come sono i misteri della nostra Religione, sarebbe da insensati pretendere di conoscerle con le forze della nostra ragione. «Non può esserci alcun dubbio che nella cognizione delle cose divine dobbiamo usare dell’insegnamento divino » (S. Ilario: De Trinitate L. 4, 14.). Noi che non conosciamo bene questa terra sulla quale siamo nati, abitiamo, ci nutriamo; che non siamo capaci di contare le arene del mare, né le gocce dell’oceano, né i giorni del mondo, non possiamo pretendere di arrivare con la nostra ragione a penetrare la profondità di Dio, a comprender cose che sono tanto al di sopra di noi, senza esservi guidati dal lume della fede.

3.

Se ammettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è maggiore. S. Giovanni intende parlare della testimonianza, che le tre Persone della SS. Trinità hanno fatto della divinità di Gesù Cristo; e si può applicare, in generale, a qualsiasi verità da Dio rivelata. Si dice: Chi crede facilmente, è facilmente ingannato. D’accordo; ma quando si crede con la testa nel sacco. Se io credo facilmente a un uomo che è degno di fede, non mi passa neppur per la mente il dubbio di essere ingannato. E questa mia sicurezza non è affatto irragionevole. « L’autorità — osserva S. Agostino — non è destituita di ragione quando si osserva a chi si presta fede » (De Vera Relig. c. 24, 45). È quello che possiamo constatare continuamente. In fatto di scienza, di arte, di cognizioni in genere, noi ci affidiamo alla autorità degli altri, e nessuno per questo ci accusa di essere irragionevoli. Gli ammalati credono alla parola del medico, perché sono persuasi che egli, che ha studio e pratica in proposito, conosce la malattia e i rimedi, e non vuole ingannarli. Gli scolari credono al maestro che ha l’ufficio e l’obbligo di insegnar loro la verità. Lo studioso di geografia conosce il nome dei continenti e dei vari Stati, in cui si dividono, e molto probabilmente in questi luoghi egli non è mai stato. Conosce l’altezza e l’estensione delle più importanti catene di monti, e forse non le ha mai valicate, né viste da lontano. Sa quali sono i fiumi principali, vi dice dove hanno la sorgente e dove la foce, vi annuncia esattamente la lunghezza del loro percorso; eppure non li ha mai visti né misurati. Egli crede a coloro che si occupano di questa materia. Si conoscono tanti fatti della storia antica e moderna; si precisa il tempo e il luogo dove avvennero, il nome delle persone che vi presero parte; eppure questa conoscenza non è diretta. Si crede alla parola di chi ne fu testimonio o agli scrittori che narrarono gli avvenimenti. Se è ragionevole che si creda alla testimonianza dei maestri e degli scrittori, perché li stimiamo seri e degni di fede, è molto più ragionevole che si creda alla testimonianza di Dio il quale, dopo aver parlato ai nostri padri per mezzo dei Profeti, « parlò a noi per mezzo del suo Figliuolo » (Ebr. 1, 2). Sarebbe inesplicabile credere agli uomini, che possono andar soggetti a errori, e non credere a Dio, che non può né errare, né ingannare. « Egli sa tutto lo scibile… annunzia le cose passate e quelle che accadranno, e segue la traccia di quelle occulte » (Eccl. XLII: 19). Se si considera l’indiscussa autorità di Dio, bisogna conchiudere con S. Gregorio Nazianzeno: « Per noi la fede è la perfezione del ragionare » (Or. theol. 3, 21). In fondo, noi rendiamo omaggio all’uomo, quando, sulla sua autorità, crediamo quanto egli dice. E credendo alla parola di Dio, gli rendiamo l’omaggio che ogni uomo è tenuto a rendergli. Per richiamare il popolo d’Israele, ritornato dalla schiavitù, a una vita più fervorosa, il Sacerdote Esdra legge il volume che contiene la parola di Dio. Egli legge in una piazza di Gerusalemme dall’alto di una tribuna. Appena apre il libro tutto il popolo si alza in piedi in segno di rispetto alla parola del Signore, e in piedi e in silenzio ascolta la lunga lettura (2 Esdrea VIII, 2-7). Piace certamente al Signore questo omaggio esterno reso alla sua parola, ma indubbiamente gli piace di più l’omaggio interno, l’omaggio della intelligenza, che gli si rende quando si crede fermamente alle verità da Lui rivelate.

Alleluja

Alleluia, alleluia – Matt XXVIII: 7. In die resurrectiónis meæ, dicit Dóminus, præcédam vos in Galilæam. [Il giorno della mia risurrezione, dice il Signore, mi seguirete in Galilea.]

Joannes XX:26. Post dies octo, jánuis clausis, stetit Jesus in médio discipulórum suórum, et dixit: Pax vobis. Allelúja. [Otto giorni dopo, a porte chiuse, Gesù si fece vedere in mezzo ai suoi discepoli, e disse: pace a voi.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XX: 19-31.

“In illo témpore: Cum sero esset die illo, una sabbatórum, et fores essent clausæ, ubi erant discípuli congregáti propter metum Judæórum: venit Jesus, et stetit in médio, et dixit eis: Pax vobis. Et cum hoc dixísset, osténdit eis manus et latus. Gavísi sunt ergo discípuli, viso Dómino. Dixit ergo eis íterum: Pax vobis. Sicut misit me Pater, et ego mitto vos. Hæc cum dixísset, insufflávit, et dixit eis: Accípite Spíritum Sanctum: quorum remiseritis peccáta, remittúntur eis; et quorum retinuéritis, reténta sunt. Thomas autem unus ex duódecim, qui dícitur Dídymus, non erat cum eis, quando venit Jesus. Dixérunt ergo ei alii discípuli: Vídimus Dóminum. Ille autem dixit eis: Nisi vídero in mánibus ejus fixúram clavórum, et mittam dígitum meum in locum clavórum, et mittam manum meam in latus ejus, non credam. Et post dies octo, íterum erant discípuli ejus intus, et Thomas cum eis. Venit Jesus, jánuis clausis, et stetit in médio, et dixit: Pax vobis. Deinde dicit Thomæ: Infer dígitum tuum huc et vide manus meas, et affer manum tuam et mitte in latus meum: et noli esse incrédulus, sed fidélis. Respóndit Thomas et dixit ei: Dóminus meus et Deus meus. Dixit ei Jesus: Quia vidísti me, Thoma, credidísti: beáti, qui non vidérunt, et credidérunt. Multa quidem et alia signa fecit Jesus in conspéctu discipulórum suórum, quæ non sunt scripta in libro hoc. Hæc autem scripta sunt, ut credátis, quia Jesus est Christus, Fílius Dei: et ut credéntes vitam habeátis in nómine ejus.” – 

OMELIA II

 “In quel tempo giunta la sera di quel giorno, il primo della settimana, ed essendo chiuso le porte, dove erano congregati i discepoli per paura de’ Giudei, venne Gesù, e si stette in mezzo, e disse loro: Pace a voi. E detto questo, mostrò loro le sue mani e il costato. Si rallegrarono pertanto i discepoli al vedere il Signore. Disse loro di nuovo Gesù: Pace a voi: come mandò me il Padre, anch’io mando voi. E detto questo, soffiò sopra di essi, e disse: Ricevete lo Spirito Santo: saran rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saran ritenuti a chi li riterrete. Ma Tommaso, uno dei dodici, soprannominato Didimo, non si trovò con essi al venire di Gesù. Gli dissero però gli altri discepoli: Abbiam veduto il Signore. Ma egli disse loro: se non veggo nello mani di lui la fessura de’ chiodi, e non metto il mio dito nel luogo de’ chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non credo. Otto giorni dopo, di nuovo erano i discepoli in casa, e Tommaso con essi. Viene Gesù, essendo chiuse le porte, e si pose in mezzo, o disse loro: Pace a voi. Quindi dice a Tommaso: Metti qua il dito, e osserva le mani mie, e accosta la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma fedele. Rispose Tommaso, e dissegli: Signor mio, o Dio mio. Gli disse Gesù: Perché  hai veduto, o Tommaso, hai creduto: beati coloro che non hanno veduto, e hanno creduto. Vi sono anche molti altri segni fatti da Gesù in presenza de’ suoi discepoli, che non sono registrati in questo libro. Questi poi sono stati registrati, affinché crediate che Gesù ò il Cristo Figliuolo di Dio, ed affinché credendo otteniate la vita nel nome di Lui” (Jov. XX, 19-31).

[Billot: “Discorsi parrocchiali” IIa Ed. S. Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la perseveranza.

Pax vobis. Jo. XX.

Quanto queste parole, fratelli miei, che Gesù Cristo indirizza ai suoi Apostoli dopo la sua Resurrezione, sono consolanti per essi e per noi! Esse ci annunziano il più gran bene che l’uomo possa desiderare sulla terra, la pace cioè del Signore, dono prezioso ed inestimabile che supera, dice l’Apostolo, tutto ciò che si può immaginare. Si è questa pace ineffabile che vengo in quest’oggi, fratelli miei, a desiderarvi con tanto più di ragione quanto che avete voi fatto ogni vostro potere per procurarvela in questo santo tempo della Pasqua, con la premura che vi siete presa di riconciliarvi con Dio, accostandovi ai sacramenti della penitenza e dell’Eucaristia. Come il figliuol prodigo, voi avevate abbandonata la casa del migliore di tutti i padri, ma con un sincero pentimento siete rientrati in grazia con lui, avete lasciato il vecchio uomo per rivestirvi del nuovo e diventare nuove creature in Gesù Cristo. Liberati dalla schiavitù del peccato, voi siete ristabiliti nei diritti che avevate perduti. La pace del Signore, ripeto, sia dunque con voi! Possiate voi gustarla lungo tempo questa beata pace che fa la felicità dell’uomo in questo mondo, e non perderla giammai! Questo tesoro è adesso nelle vostre mani, e da voi dipende il sempre conservarlo: non v’è che il peccato il qual possa rapirvelo: avvertite dunque a non ricadere nel peccato, mentre se voi fate di nuovo la guerra al vostro Dio, non avete a sperare pace alcuna con Lui. Non v’ha pace per gli empi, dice lo Spirito Santo: non est pax impiis (Isai. XXVIII). La pace del Signore non è che per le anime che sono a Lui unite per la santità della loro vita. Ah! se voi conosceste bene, fratelli miei, il dono di Dio, il prezzo inestimabile della pace di cui godono le anime sante, quali precauzioni non prendereste voi per conservarla? Con qual diligenza non evitereste tutto ciò che può farvela perdere? Per indurvi dunque a conservare questa beata pace del Signore voglio quest’oggi esortarvi alla perseveranza nelle buone risoluzioni che avete prese in questo santo tempo di evitare il peccato e di servire fedelmente il Signore Dio vostro. Io potrei persuadervela pei motivi di riconoscenza e di fedeltà che dovete a Dio; ma voglio prendervi per li vostri propri interessi e farvi riguardare i vantaggi della perseveranza, come altrettanti potenti motivi per animarvi ad attendervi seriamente; voglio istruirvi sopra i mezzi i più efficaci che dovete impiegare: il che mi fornisce le due seguenti riflessioni. Egli è importante per voi perseverare nella grazia: primo punto. Quali sono i mezzi di cui dovete servirvi per perseverare? secondo punto.

I. Punto. Quantunque il peccatore giustificato sia libero dai legami del peccato ed abbia ricevuto nella grazia della giustificazione un pegno della vita eterna, non è però ancora giunto al porto della salute; il gran numero dei nemici che ha a combattere, le occasioni di peccato da cui è attorniato, il mondo che cerca di sedurlo; i cattivi esempi che lo strascinano, le fragilità cui egli è soggetto, tutto cospira a dargli giusti timori sul pericolo in cui è di far naufragio perdendo la grazia di Dio.  – Il demonio, nostro nemico comune, ben lungi di essere indebolito e disanimato dalle sue prime sconfitte, ci assale con nuove forze, contro i giusti principalmente se la prende, perché riguarda il peccatore come una piazza di cui si tien sicuro. Gira continuamente intorno di noi, come un leone che rugge, che cerca divorarci; non avvi  né astuzia né artifizio che non impieghi per ritornare nella casa donde è uscito – revertar in domum meam [Matth. XII]. Ecco, ripeto, ciò che deve far tremare l’uomo, benché potesse esser assicurato in questa vita del perdono de’ suoi peccati. Or il mezzo di rassicurarsi in questo timore si è di perseverare, fino al fine: è la perseveranza dice s. Bernardo, che sostiene i nostri meriti: nutriæ ad meritum. Essa è che assicura la nostra corona: mediatrix ad præmium. Due qualità che ce ne fanno conoscere il prezzo. – Felice, mille volte felice l’anima che possiede la grazia del suo Dio! Essa è l’oggetto delle sue compiacenze; erede del regno, ha un diritto incontrastabile su questa celeste eredità, e le sue pretensioni sono sì certe che all’uscir da questa vita glien’è assicurato il possesso. Tutto, ciò ch’ella fa in questo avventuroso stato le serve pel cielo.  Un bicchier d’acqua dato nel nome di Gesù Cristo, una parola di compassione detta ad un afflitto, una breve orazione, tutto sarà ricompensato nel cielo; e perciò, fratelli miei, può dirsi con verità che ad ogni momento noi possiamo meritare un’eternità di gloria. E come questo? Eccolo: ella è una verità di fede, fondata sulla testimonianza dei libri santi, che Dio ricompenserà i giusti secondo i loro meriti; che la gloria di cui godranno nel cielo, sarà proporzionata alla grazia che avranno all’uscire da questa vita, secondo l’oracolo di Gesù Cristo, il quale ci assicura che nella, la casa di suo Padre vi sono molte dimore; In domo Patris mei mansiones multæ sunt (Jo. XIV); vale a dire che le ricompense saranno più o meno grandi nel cielo, secondo i gradi dei meriti dei santi. Or ad ogni momento che voi possedete la grazia di Dio durante questa vita, voi potete, fratelli miei, accrescere i vostri meriti con altrettante buone azioni. Oh se voi conosceste, giusti che mi ascoltate, il ricco fondo di meriti che possedete nella grazia di Dio, qual cura non avreste voi di conservare, di far fruttificare questo fondo con la vostra perseveranza nella pratica del bene? Voi rassomigliate, dice il profeta, a quegli alberi che piantati lungo le acque, portano sempre frutti nella stagione, e conservano la loro verzura e la loro bellezza; Erit tamquam lignum secus decursus aquarum, quod fructum suum dabit in tempore suo (Ps. 1) Tutto ciò che voi fate, tutto ciò che soffrite, ritorna a vostro vantaggio: Omnia quæcumque faciet prosperabuntur. E per servirmi del paragone di Gesù Cristo medesimo, voi siete come il tralcio, che, essendo unito alla vite, dà sempre del frutto; sintantoché voi sarete uniti a Gesù Cristo, che è la vera vite, sarete fertili in buone opere, andrete di virtù in virtù, e tutti i vostri giorni al fine saranno ritrovati pieni avanti a Dio: Dies pieni invenientur in eis ( Psal. LXVII.) Ma se per disgrazia venite a separarvi col peccato da questa divina vite, voi non sarete più che un tralcio secco ed arido; tutte le opere che farete dopo la vostra caduta, benché buone sieno d’altra parte per il loro motivo, saranno opere morte, che non saranno di alcun valore pel cielo; perché esse non saranno animate dal principio di vita, che è la grazia santificante, senza la quale, dice l’Apostolo, noi non siamo che una campana che risuona, ed un cembalo che fa strepito: velut aes sonans aut cymbalum tinniens (1 Cor. XIII). E se voi morite nel peccato, qual sarà la vostra sorte? La stessa che quella del tralcio separato dalla vite, che si getta nel fuoco senza aver riguardo all’abbondanza dei frutti che ha portati. Vale a dire, che le buone opere ancora che voi avete fatte in stato di grazia, sebbene praticate ne aveste altrettante che tutti i Santi, saranno contati per nulla né vi preserveranno dagli orrori della morte eterna. Mentre in quella guisa che il Signore, siccome lo dice per un dei suoi profeti, dimentica tutto le iniquità del peccatore che ritorna a Lui con la penitenza, così dimentica tutte le virtù del giusto che se ne separa col peccato: Si averterti se iustus a via sua, omnes iustitiae eius non recordabuntur (Ezech. XVIII). Qual perdita! Qual disgrazia! la comprendete voi? E se la comprendete, come il timore di provarla non v’impegnerà a mantenere a Dio una fedeltà inviolabile? – Ma l’avete compreso, o peccatori, voi che con la vostra incostanza avete di già perduto il dono prezioso dello Spirito Santo, di cui siete stati fatti partecipi alcuni giorni sono; che dopo essere stati illuminati dalla luce della grazia, siete già rientrati nelle tenebre del peccato? A che paragonare si può lo stato miserabile cui siete ridotti? Voi rassomigliate ad un albero che era carico di frutti, di cui altri ha scosso i rami per farli cadere a terra, e che non ha più che foglie. Allorché eravate in grazia di Dio, voi eravate fertili in buone opere; ma da poi che il peccato ha fatto cadere questi frutti, non vi resta più che foglie, cioè apparenza di meriti, che possono bensì far credere a coloro che giudicano sol dall’esteriore che voi siete del numero dei viventi, ma che non vi tolgono dal numero dei morti: nomen habes quod vivas, et mortuus es (Apoc. III). – Poveri agricoltori, voi avevate gettata molta semente nel terreno che avete innaffiato coi vostri sudori, coltivato a forza di fatica: ma è venuta una tempesta che ha rovinata tutta la vostra messe, voi non farete alcun raccolto. – Voi peccatori, avevate fatti molti passi per rientrare in grazia con Dio; un serio esame dei vostri peccati, il dolore che avete concepito, le lagrime che avete versate, la violenza a superare il rossore di dichiararli, ecco le fatiche che vi promettevano una messe abbondante; voi avete anche già prodotto frutti di buone opere durante il tempo che eravate in grazia di Dio: ma, come fragile canna, avete ceduto al vento della tentazione, non avete avuta la fermezza di resistere alla lusinga di un sozzo piacere, di un vile interesse: invano dunque voi avete tanto faticato, tanto sofferto, poiché avete perduti tutti i frutti di benedizione che avevate accumulati. Ed in vero chi è colui che sarà salvo? È quegli, dice Gesù Cristo, che persevererà sino al fine: qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit (Matth. XXIV) Non basta dunque, fratelli miei, cominciar bene; ma bisogna ben finire. Non basta passare qualche giorno, qualche anno, nè anche la più gran parte di nostra vita negli esercizi della vita cristiana; bisogna essere fedele sino alla morte per meritare la corona d’immortalità; bisogna che la morte ci trovi coll’arme alla mano, senza di che tutti i nostri combattimenti a nulla ci serviranno. Molti corrono alla lizza; ma non ve ne è che un solo, dice l’Apostolo, che riporti il premio: unas accipit bravium (1. Cor. IX); ed è colui che va diritto al segno: correte dunque in tal maniera, conchiude l’Apostolo, che voi lo vogliate ancora: sic currite ut comprehendatis. – Quand’anche aveste terminata con successo una parte di vostra carriera, ed aveste avuto bastante coraggio per superare tutti gli ostacoli che s’incontrano nella via della salute, se vi arrestate in questa via e non andate sino al termine, voi non ottenete la corona di giustizia. Invano avrete combattuto durante qualche tempo le vostre passioni; invano avrete trionfato della vostra superbia con l’umiltà, dell’avarizia con la liberalità, dell’ira con la mansuetudine e colla pazienza; invano avrete domata la vostra carne coi rigori della mortificazione cristiana. Tutte queste virtù sono per verità molto stimabili, ma non saranno giammai ricompensate senza la perseveranza; è la perseveranza che deve coronarle: qui perseveraverit etc. Qualunque progresso abbiate dunque fatto nella virtù, guardate ben dall’arrestarvi: se dopo aver messa la mano all’aratro voi riguardate all’indietro, non siete più degni del regno di Dio, dice Gesù Cristo. “se siete usciti da Sodoma, non rimirate più da quella parte, dice s. Girolamo, per tema di essere infetti dalla contagione, mentre se aveste tanta debolezza da riguardare indietro per ritornare su i vostri passi, voi vedreste non una, città abbruciata dal fuoco del cielo, non case ridotte in cenere: ma vedreste l’edificio spirituale di vostra salute, che avete innalzato con tanta diligenza e fatica, rovesciato e distrutto; vedreste tutti i vostri stenti senza profitto, tutte le vostre preghiere, le vostre limosine, le vostre mortificazioni, le vostre buone opere, le vostre virtù, i vostri meriti senza ricompensa. Da qual dolore sareste voi colpiti alla vista di un tale spettacolo! Giudicatene, fratelli miei, dice s. Basilio, da quella di un mercante che, dopo una lunga navigazione, dove ha evitati i rischi e gli scogli del mare, viene sgraziatamente a far naufragio nel porto con una nave carica di preziose merci. Tale e mille volte più trista sarebbe ancora la vostra sorte, se, dopo aver camminato per qualche tempo nei sentieri della salute, dopo essere scampato ai pericoli che s’incontrano sul mare procelloso del mondo, voi veniste miseramente a rompere il vostro vascello contro lo scoglio di una tentazione, cui soccombeste; ahi voi perdereste in quel momento, come già vi ho detto, tutti i tesori di meriti e di virtù che avreste acquistati; e se la morte vi sorprende in questo stato, eccovi privati della corona immortale che vi era preparata nel cielo. – Quanti reprobi son nell’inferno che sarebbero stati gran santi se avessero finito come avevano incominciato! Ce ne dà il Vangelo un esempio ben chiaro nella persona del perfido Giuda. Quest’uomo, eletto da Gesù Cristo medesimo, per essere del numero dei suoi Apostoli, aveva avuto felici principi; testimonio delle meraviglie che il Salvatore operava, ne aveva egli provato tutte le finezze; beato se, come gli altri Apostoli, avesse corrisposto alla grazia di sua vocazione! Ma perché fu ad essa infedele, e si lasciò accecare della passione del danaro, egli è riprovato: laddove Paolo, che aveva cominciato col perseguitare i Cristiani, è un gran santo, tanto è vero fratelli miei, la perseveranza esser quella che dà la corona. – Chi è in piedi, badi adunque di non cadere, dice l’Apostolo. Temete, chiunque voi siate, che non vi accada questa disgrazia; conservate con diligenza il tesoro che possedete, per tema che un altro non ve lo rapisca. Forse nel momento ch’io vi parlo voi vi sentite spinti, sollecitati a ritornare al mondo, alle vostre partite di piaceri, alle vostre ree passioni; forse credete aver fatto abbastanza per la vostra salute, e contenti di voi medesimi, rimirate di già la vostra ricompensa del tutto pronta nel cielo; forse vi perdete di coraggio per qualche violenza che convien farsi per arrivarvi; ma ricordatevi che non basta di avere bene incominciato, bisogna finir bene; qualunque progresso abbiate fatto nella virtù convien sempre avanzare senza giammai disanimarsi per gli ostacoli che si presentano; ricordatevi che la conversione più sincera, la penitenza più esatta, le virtù più eroiche a nulla vi serviranno senza la perseveranza: voi ne avete veduta la necessità, vediamone i mezzi.

II. Punto. Benché la perseveranza finale nel felice stato della grazia sia un favore speciale che dipende dalla pura misericordia di Dio, possiamo nulla di meno domandarla ed ottenerla; come dice S. Agostino; ma i giusti medesimi non possono meritarla in rigore di giustizia: accade sempre, egli è vero, per colpa nostra che ne siamo privi; la nostra riprovazione è nostra unica opera, e non vi sarà alcun reprobo il quale non abbia potuto essere un predestinato. Ed in vero, siccome è proprio della bontà di Dio il rendersi favorevole ai nostri desideri e secondare i nostri sforzi, noi possiamo non solamente non renderci indegni del dono della perseveranza, ma ancor meritarla, di un merito che i teologi chiamano merito di congruenza; cioè impegnar Dio con la nostra fedeltà alle sue grazie ad accordarci quella che deve coronare tutte le altre: così si può dire che la grazia finale sebbene dipendente dalla misericordia di Dio del tutto gratuita, è in qualche modo a nostra disposizione. Imperciocché se noi siamo tanto fortunati di possedere la grazia di Dio, non dipende che da noi il perseverarvi con gli aiuti che Dio ci dà, e che non ci mancano al bisogno; e se perseveriamo sino alla morte, noi avremo la grazia finale che deve coronare tutte le  nostre opere. – Ma come lusingarvi, fratelli miei, di ottenere questo dono della perseveranza, questa grazia finale, se voi perdete con i vostri peccati la grazia che possedete, in vece di servirvene per mettere in pratica i mezzi che assicurar possono la vostra perseveranza? Quali sono questi mezzi? Eccone alcuni principali, che vi prego di ben ritenere a memoria: la fuga delle occasioni, la fedeltà nell’adempiere i vostri più piccoli doveri, la diffidenza di voi medesimi, la confidenza in Dio, un uso frequente dell’orazione e dei sacramenti, sono mezzi molto idonei per perseverare, e nello stesso tempo i segni più certi che si possono avere in questa vita della perseveranza: rinnovate la nostra attenzione per metterli in pratica. Si, fratelli miei, se voi siete risuscitati alla vita della grazia con una sincera conversione, uno dei mezzi più efficaci per conservarla è di fuggire le occasioni che ve l’hanno fatta perdere altre volte; la vittoria è annessa alla vostra fuga: fuge et vicisti. Mentre indarno pretendereste salvarvi del naufragio esponendovi ai medesimi scogli ove avete già naufragato: indarno vorreste conservare la sanità della vostr’anima in un’aria corrotta, che sì spesso vi ha infetti della sua contagione. Non sapete voi che chi ama il pericolo vi perirà? Qui amat periculum, in illo peribit [Eccl. III). Voi accusereste di temerità un convalescente che, uscendo da una pericolosa malattia vivesse senza circospezione, volesse usar cose che gli sono nocevoli, seguisse in tutto il suo appetito, si esponesse ad un’aria fredda e contagiosa: ora se v’è della temerità nello esporsi ai rischi di perdere la sanità del corpo, non ve ne ha forse altrettanta, quando altri si espone a perdere la grazia, che è la vita dell’anima? Si biasima con ragione l’imprudenza di un convalescente che non toglie le cagioni del suo male; e si scuserà la facilità del peccatore ad esporsi nelle occasioni in cui è mille volte caduto? No, no, fratelli miei, non vi lasciate sedurre; la medesima causa produce i medesimi effetti; se non evitate con diligenza ciò che è stato per voi una pietra d’inciampo, voi ricadrete infallibilmente nel vostro peccato. Invano mi direte voi che quando sarete nell’occasione del peccato, in quelle compagnie, in quelle case ove avete perduta la vostra innocenza, voi sarete più circospetti che non lo siete stati per il passato, voi veglierete sui vostri sensi, sarete più guardinghi e prenderete tutte le precauzioni possibili per non lasciarvi strascinare al male; ah! quanto andate errati con questa pretesa risoluzione, in cui credete essere! Pretendere di stare nell’occasione e non soccombervi, egli è voler dimorare tra le fiamme e non bruciarsi, cacciarsi un pugnale nel petto e non darsi la morte. – Mentre per non offender Dio nell’occasione si ricercan due cose: una dalla parte di Dio, e l’altra dalla parte dell’uomo. Dalla parte di Dio bisognerebbe un aiuto straordinario della sua grazia per sostenere la fragilità dell’uomo in un passo pericoloso, in cui è sì difficile il non cadere. Ora come potrete voi, fratelli miei, promettervi questo aiuto straordinario dalla parte di Dio, poiché la vostra temerità ed il vostro nessun timore di dispiacergli ve ne rendono cotanto indegni? Ma quand’anche Iddio per un effetto della sua gran misericordia vi accordasse questa grazia, essa non vi salverebbe dal pericolo che per quanto voi gli sareste fedeli. Or io pretendo che voi manchereste di questa fedeltà. Datemi la persona più regolata e meglio rassodata; la sua virtù, benché soda quanto possa esserlo, non si sosterrà nell’occasione. Gli oggetti fanno molto più impressione quando sono presenti che quando sono lontani. La loro presenza infiamma le passioni e fa svanire i migliori proponimenti, i tizzoni che ancora fumano, si riaccendono subito che si avvicinano al fuoco. Lo stesso è delle passioni; è cosa facile contenerle in assenza degli oggetti che le irritano: ma quando questi oggetti sono presenti, producono nell’anima temeraria incendi che è quasi impossibile di ammorzare: così si cade nel precipizio e vi si perisce senza quasi accorgersene. – Quanti esempi non potrei io addurre per confermare questa verità? Non si sono forse veduti i più grandi uomini, i Sansoni, i Davidi; i Salomoni e tanti altri perdere la loro forza e la loro virtù per essersi temerariamente esposti al pericolo? Ma senza ricorrere ad esempi stranieri, non avete voi medesimi che mi ascoltate fatta la trista esperienza di quel che dico, e non ne vediamo noi ogni giorno delle prove convincenti? Si domandi a quella giovine perché sia ricaduta in quei disordini che aveva detestati nel tribunale di penitenza. Si è, dirà essa la conversazione che ha avuta con quel libertino, cui ha permesso certe libertà vietate; laddove se non l’avesse frequentato, avrebbe conservata le grazie della sua riconciliazione. S’interroghi quel dissoluto perché siasi di bel nuovo abbandonato alla crapula. Si è, dirà egli, per essere stato nelle osterie con altri intemperanti che l’hanno indotto nelle loro dissolutezze. Non finirei mai. fratelli miei, se volessi rapportarvi tutti gli esempi i quali provano che è l’occasione che perverte i costumi più innocenti, che distrugge le migliori risoluzioni, che impedisce la conversione dei peccatori e che cagiona la caduta dei giusti. Finalmente voglio supporre ancora per un momento ciò che non accade quasi giammai, che chi si espone nell’occasione di commettere un peccato, effettivamente non lo commetta; per questo appunto che si mette nell’occasione prossima di offender Dio egli si rende reo di peccato, perché Dio gli proibisce di mettersi in pericolo di offenderlo. Or io vi domando, fratelli miei come lusingarsi di perseverare nella grazia e nell’amicizia di Dio con sì grandi ostacoli a questa perseveranza? –  Ah! se voi avete un pò di zelo per la salute della vostr’anima, prendete almeno le medesime precauzioni di cui vi servite per la sanità del corpo e per il buon successo dei vostri affari temporali. Quale attenzione non avete voi di allontanare tutto ciò che può alterare la vostra sanità o impedire la riuscita dei vostri affari? Perché non farete voi lo stesso per la vostr’anima allontanandovi da tutto ciò che può perderla eternamente? Osereste voi a bella posta esporvi in mezzo d’un incendio? E se vi foste, non ne uscireste ben preso, per tema di essere involti nel fuoco? Uscite nello stesso modo dall’occasione del peccato, allontanatevene come da un incendio, per tema di perdere la grazia di Dio, che è la vita della vostr’anima. Uscite da quella Babilonia avvelenata, ove non potete respirare che un’aria infetta, abbandonate quella casa che vi perde, qualunque diletto possiate voi trovarvi; benché cara vi sia quella persona il cui commercio è si fatale alla vostr’innocenza, benché lusinghiere sieno quelle partite di piacere, benché lucroso sia quell’impiego, quel giuoco che vi rende colpevoli di tanti peccati, allontanatevi da tutti questi oggetti. Mentre se il vostr’occhio, il vostro piede, la vostra mano vi scandalizzano, dice Gesù Cristo, voi dovete disfarvene e gettarli lungi da voi; perché è meglio entrare nella vita eterna con un occhio, un piede, una mano, che essere precipitati nell’abisso con tutti i vostri membri. Vale a dire, fratelli miei, che quando ciò che è per voi occasione di peccato vi fosse tanto caro, quanto uno di quei membri, è meglio rinunziarvi che rinunziare alla felicità eterna. Poiché, per arrivare a questa felicità, bisogna perseverare nella grazia; e voi non vi persevererete giammai, se non fuggite l’occasione del peccato. Ma alla fuga delle occasioni aggiungete una somma diffidenza di voi medesimi ed una gran confidenza in Dio. – Infatti, qualunque protesta abbiate voi fatta a Dio di servirlo costantemente, benché avanzati già siate nel sentiero della virtù, voi non dovete contare sulle vostre proprie forze: voi portate la grazia di Dio, dice l’Apostolo, in vaso fragile che può rompersi ad ogni passo che fate: dovete sempre temere, sempre star in guardia contro di voi medesimi; dovete ancora risentirvi dei colpi dei vostri nemici, e la trista esperienza sì spesso da voi fatta della vostra debolezza deve sempre farvi temere. State dunque in guardia, gettate gli occhi da ogni lato per osservare i luoghi per cui possono assalirvi; voi camminate tra i precipizi, voi siete attorniati da lacci che vi sono tesi da ogni parte, ed è tanto più pericoloso per voi di cadervi, quanto che voi non li vedete. Vegliate dunque continuamente su voi medesimi, vegliate sopra i vostri sentimenti: questi sono le porte per cui la morte può entrare in voi: mors ascendit per fenestras (Jerem. IX). Tenete con diligenza queste porte chiuse per tema che non vi si rapisca la grazia preziosa che dentro di voi possedete. Se aveste trovato un tesoro, voi lo custodireste attentamente, voi lo riporreste nel luogo più nascosto di vostra casa, ne chiudereste tutti gli aditi, affinché i ladri non potessero penetrarvi, fate voi nello stesso modo per conservare la grazia di Dio? Custoditela come la pupilla del vostr’occhio, per metterla al coperto da tutti i colpi dei vostri nemici. Diffidate ancora vieppiù di quelli che sono dentro di voi medesimi; questi sono le vostre passioni, nemici tanto più a temere, quanto che vi lusingano davvantaggio; reprimete, mortificate queste passioni, sempre pronte a sollevarsi contro la legge di Dio. – Temete specialmente le astuzie dell’amor proprio, che vi farà prendere sbaglio in mille occasioni, ricoprendo il vizio del nome di virtù, persuadendovi, se voi volete ascoltarlo, che non vi è alcun male a tenere certi discorsi, a fare certe azioni, perché sono autorizzate dal costume e dall’esempio degli altri. Guardatevi bene dal seguire queste guide cieche che vi condurrebbero infallibilmente al precipizio. Abbandonate piuttosto questa cura di vostra condotta ad un saggio ed illuminato direttore, il quale come un altro Raffaele, vi condurrà nelle vie della salute. Questo è un mezzo sicuro di premunirvi contro la vostra debolezza: ma quanto dovete voi diffidare di voi medesimi, altrettanto dovete mettere la vostra confidenza in Dio; Egli è che con la sua grazia ha cominciato l’opera della vostra predestinazione, egli è che la condurrà a fine: qui cœpit bonum opus ipse perficiet (Philip. 1). Possiamo noi, o mio Dio, cercar altrove che presso di Voi 1’aiuto che ci è necessario per riuscire in un affare di tanta importanza? Giacché la perseveranza finale è un dono, che dipende, dalla vostra misericordia, come non ve la chiederemo noi ogni giorno con le preghiere le più ferventi, quali appunto ve le indirizzava il reale profeta? Illuminatemi, Signore, per tema ch’io non m’addormenti nella morte del peccato: Illumina oculos meos, ne unquam obdormiam in mortem (Psal. XII). Sostenetemi nei miei combattimenti, affinché il nemico di mia salute non possa prevalere contro di me: ne quando dicat inimicus meus, prævalui adversus eum (ibid.). Non è già di me stesso che io spero trionfare, ma sulla forza del vostro braccio onnipotente; io non sono capace da me stesso che di tradirvi; ma appoggiato sulla vostra grazia nulla avvi di cui non possa venire a capo: io vi chiedo adunque, o mio Dio, questa santa grazia e soprattutto quella della perseveranza, grazia finale che deve coronare tutte quelle che voi mi avete di già fatte. Tale è, Cristiani l’orazione che far dovete a Dio; a tutte le grazie che domanderete, aggiungete sempre quella della perseveranza e quella d’una santa morte: non potremmo troppo chiederle, non sapremmo troppo fare per ottenere un favore da cui dipende la nostra felicità eterna; ma bisogna che la vostra orazione sia accompagnata da una condotta regolata e da una perseveranza attuale dal canto vostro nella pratica del bene. – Voi avete bisogno per questo dell’aiuto della grazia, ma essa non vi mancherà se la chiedete a Dio, e se avete cura d’andare ad attingere quest’acqua salutevole nei fonti del Salvatore, cioè nei Sacramenti; le stesse cause che vi han data la sanità dell’anima, ve la conserveranno. Se il profeta Elia ricevette altre fiate forza bastante da un pane miracoloso recatogli da un Angelo per continuare il suo viaggio sino al monte Oreb, quante non ne riceverete voi dal pane di vita, dal pane dei forti, che vi presentano nella santa Eucaristia, per giungere al santo monte di Sion, l’abitazione degli eletti? Prendete dunque e mangiate questo pane, posso io dirvi, come disse l’Angelo al Profeta; poiché vi resta ancora molta strada a fare: Surge, comede, grandis enim tibi restat via (III Reg. XIX).

Pratiche. Senza esaminare ciò che avete fatto per la vostra salute, non pensate che alla strada che vi resta, come se nulla ancora aveste fatto. Faticate sempre come se non faceste che cominciare a servir Dio. Mentre lo stesso è, fratelli miei, della salute dell’anima come di una vigna, di una terra, che si deve sempre coltivare per cavarne frutto. Dopo aver fatto la raccolta in quel campo, in quella vigna, bisogna, per farne delle nuove, lavorarvi di bel nuovo. Cosi è della salute; qualunque fatica abbiate voi sopportato per il cielo, non conviene mai riposarsi, conviene sempre lavorare, come se nulla ancora fatto si fosse, sempre avanzare nella strada che conduce all’eternità; poiché non avanzare si è ritornare indietro , dice S. Bernardo: non progredi regredì est. Ritenete bene questa massima per metterla in pratica; ella è un eccellente mezzo di perseveranza: servitevi di quelli che vi ho insegnati: temete il peccato, come il più gran male che possa accadervi; pensate sovente a quanto vi ho già detto, che il primo che voi commetterete sarà forse l’ultimo e che non avrete forse più il tempo di farne penitenza. Fuggitene le occasioni, diffidate di voi medesimi, mettete la vostra confidenza in Dio, ricorrete a Lui con l’orazione, frequentate i sacramenti. Confessatevi per lo meno una volta al mese; meditate le grandi verità della salute, riempitene la vostra mente leggendo spesso buoni libri; siate fedeli a seguire un regolamento di vita, e costanti nelle pratiche di pietà che vi sarete prescritte; tenetevi sempre pronti come le Vergini prudenti, abbiate sempre dell’olio nelle vostre lampade, cioè, occupatevi continuamente in buone opere, affinché all’arrivo dello sposo voi siate introdotti nel convito eterno che Dio prepara ai suoi eletti.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Matt XXVIII:2; XXVIII:5-6. Angelus Dómini descéndit de coelo, et dixit muliéribus: Quem quaeritis, surréxit, sicut dixit, allelúja. [Un Angelo del Signore discese dal cielo e disse alle donne: Quegli che voi cercate è risuscitato come aveva detto, alleluia.]

Secreta

Suscipe múnera, Dómine, quaesumus, exsultántis Ecclésiæ: et, cui causam tanti gáudii præstitísti, perpétuæ fructum concéde lætítiæ.

[Signore, ricevi i doni della Chiesa esultante; e, a chi hai dato causa di tanta gioia, concedi il frutto di eterna letizia.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

[Joannes XX: 27] Mitte manum tuam, et cognósce loca clavórum, allelúja: et noli esse incrédulus, sed fidélis, allelúja, allelúja.

[Metti la tua mano, e riconosci il posto dei chiodi, alleluia; e non essere incredulo, ma fedele, alleluia, alleluia.]

Postcommunio

Orémus.

 Quæsumus, Dómine, Deus noster: ut sacrosáncta mystéria, quæ pro reparatiónis nostræ munímine contulísti; et præsens nobis remédium esse fácias et futúrum. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

[Ti preghiamo, Signore Dio nostro, che i sacrosanti misteri, che tu hai dato a presidio del nostro rinnovamento, ci siano rimedio nel presente e nell’avvenire]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (2)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (2)

[chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa – 1891]

PRIMA PARTE

CONSIDERAZIONI GENERALI

Capitolo I.

DIO CHIEDE DI ESSER GLORIFICATO MEDIANTE LA DIVINIZZAZIONE DELL’UOMO

Dio vuol far felici gli uomini comunicandosi ad essi.

Dio ha fatto tutto per la sua gloria: è questala verità fondamentale che dobbiamo porre come base della dottrina che andremo ad esporre. Nessun’altra ragione avrebbe potuto far sì che Dio, infinitamente ricco e felice, lasciasse il suo riposo per creare il mondo. Chi esiste da solo deve avere in sé tutto ciò che è necessario per la sua perfezione e felicità. La sua infinita bontà, essenzialmente comunicativa, potrà creare dal nulla migliaia di creature, ma ciò che cercherà in esse e ciò che troverà in esse, sarà se stesso e sempre se stesso. La sua facoltà di amare è certamente infinita. Ma, per quanto infinita possa essere, è completamente soddisfatta della sua infinita amabilità. Egli aveva la libertà di creare o di non creare; ma, una volta determinatosi a produrre qualcosa di sé, non era in suo potere dargli un fine diverso da se stesso, poiché solo Lui può essere il fine delle sue azioni. Non poteva, senza distruggersi, che desiderare di condurre tutto a se stesso. È la legge del suo Essere; legge gloriosa imposta dalla sovrana perfezione della sua Essenza alla sua onnipotente volontà, per cui, essendo il primo inizio di tutte le cose, Egli ne è anche l’ultimo fine. Dal momento in cui ha creato il mondo, l’unico fine della sua saggezza poteva essere solo quello di compiacersi ed amarsi nelle sue opere. È impossibile respingere questa prima legge senza negare le prove e senza distruggere la nozione di Dio e la nozione di creatura. – Considerata questa verità, possiamo affermare che Dio vuole essere glorificato dalla divinizzazione dell’uomo. Le creature razionali, come gli Angeli e gli uomini, sono tra tutte, quelle che meglio rappresentano la perfezione divina. Sono i meglio disposti a ricevere la felicità di Dio. Pertanto, Dio si glorificherà specialmente in loro, realizzando i piani amorosi che lo hanno spinto a trarre le cose dal nulla. Dio realizzerà la gloria attraverso la creazione dell’anima, sostanza spirituale ed immortale, come Lui, la cui semplicità, immagine della sua ineffabile semplicità, racchiude in sé stessa una tanto meravigliosa fecondità di atti e di potenze. Ma questa gloria non è se non il principio che Egli intendeva darle ad essere, perché il suo fine è quello di essere glorificato principalmente attraverso la felicità della creatura razionale, attraverso lo sviluppo delle sue facoltà, attraverso l’amicizia che Egli desidera con essa.

La natura di questa felicità.

L’uomo non poteva che aspirare alla perfezione e alla felicità naturale. La pienezza della conoscenza, dell’amore, la gioia di Dio nelle creature, uniti all’assenza di dolore e alla certezza dell’immortalità, avrebbero formato lo sviluppo delle facoltà dell’uomo e la sua naturale beatitudine. Questa felicità gli sarebbe bastata. Dio non doveva più nulla alla sua creatura. Anche se non le avesse concesso nessun’altra perfezione, questo solo sarebbe stato sufficiente a costringerla a legarsi a Lui con i vincoli della riconoscenza. La sua giustizia sarebbe stata del tutto soddisfatta e nient’altro avrebbe preteso la sua saggezza. – Ma quello che sarebbe bastato alla sua saggezza e giustizia, non accontentava la sua bontà. La felicità naturale non poteva sembrare sufficiente al bisogno che Dio prova nel comunicarsi. Con un atto di grande comunicazione, Egli si è dato all’uomo. Lo ha reso partecipe della sua natura, della sua luce e del suo amore. Si è costituito oggetto della nostra felicità, ammettendoci alla visione della sua bellezza ed al godimento della sua infinita bontà. Guardate l’uomo, argilla viva, posto a perfezione della sua natura come capo della creazione, un tempo perso negli abissi del nulla, ora è elevato da Dio ad un’altezza incommensurabile, ad un mondo che è in cima della creazione. Per questo viene giustamente chiamato “ordine soprannaturale” il destino dato alla creatura razionale, quello di godere per tutta l’eternità della stessa felicità di Dio, dopo aver avuto a sua disposizione, sulla terra, i mezzi per raggiungere un fine tanto eccelso.

L’Ordine soprannaturale.

Questo ordine soprannaturale è al di sopra della natura malata e contaminata dell’uomo e della più pura natura angelica. Il minore degli atti che appartengono a quest’ordine è più eccellente dei più ammirevoli prodigi dell’ordine naturale! In verità, questi atti sono atti divini, Intendo atti divini per comunicazione, come gli atti di Dio. sono divini per natura. Preghiamo il Cuore di Gesù che ci dia la grazia di contemplare alcune delle sue magnifiche funzioni racchiuse nelle loro gloriose oscurità. Ma qual è il fine soprannaturale? Il fine naturale è la conoscenza, l’amore e il possesso di Dio, in quanto si manifesta a noi e dona Se stesso alle sue creature. Molto diverso e più alto è il fine il cui oggetto è la conoscenza di Dio contemplato in Se stesso e con la sua stessa luce; la gioia di Dio amato con il suo stesso amore; il possesso della sua stessa felicità. Il fine soprannaturale consiste nella comunicazione della propria felicità da parte di Dio. L’anima che ha raggiunto questo fine beato, non vede Dio nella creazione come in uno specchio, ma lo vede faccia a faccia; dirige i suoi sguardi al centro stesso della Luce eterna; annega nell’oceano che riempie di infinita pienezza l’infinita capacità di Dio stesso; entra nella gioia del suo Signore; si inebria nel torrente delle divine delizie. Come l’intelligenza riprodurrà in se stessa l’immagine degli oggetti a cui è applicata, l’anima, penetrata dai bagliori della chiarezza divina, e dagli ardori della carità divina, diventa interamente come Dio.  E si unisce a Lui con i legami di un amore così delizioso ed irresistibile, tanto che essa stessa diventa spirito. Il fine naturale dell’uomo è la sua divinizzazione. Il fine soprannaturale dell’uomo è la sua deificazione. Tuttavia, tra questa divinizzazione e il panteismo, c’è una distanza come quella che separa la divinità dal nulla. Il panteismo, cercando di assorbire l’anima nell’infinito, raggiunge invero solo il suo annientamento. Al contrario, nel fine soprannaturale, l’anima conserva il suo essere, la sua personalità, le sue facoltà, sa, ama e gode. Ma essa conosce mediante il Verbo  di Dio, ama per mezzo dello Spirito di Dio e gode della felicità di Dio. Tutte le cose rimangono distinte, anche se in Dio tutte le cose sono fatte per questa felicità. Essa [l’anima] è tutta in Lui, ed Egli è tutto in essa. Essa non è Dio, ma è divinizzata. Essa è davvero ammessa a partecipare della natura divina; di modo che unendosi intimamente all’anima, Dio la trasforma in Se stesso. – Tale dignità concessa alla creatura è soprannaturale. È soprannaturale per l’uomo, ma lo è anche per il più perfetto degli spiriti puri, per il più elevato dei serafini. Era per Adamo innocente, come lo è anche per i suoi discendenti decaduti. Era soprannaturale in quanto le nostre forze naturali non potevano ottenerla, né il nostro spirito concepirla se non in maniera molto vaga, né i desideri naturali potevano orientarsi verso di essa: « Perché né l’occhio vide – dice San Paolo – né l’orecchio udì, né il cuore umano poteva immaginare ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano ».  Dio non ci doveva l’elevazione a questo fine, né il farci assaporare questa felicità. Se lo ha fatto, è stato per il libero esercizio della sua bontà. Egli ha agito liberamente sia quando ci ha dato l’essere limitato e sia anche quando ci ha destinato, per mezzo della elevazione, all’ordine soprannaturale, a possedere il suo Essere infinito. Il secondo di questi doni è, se possibile, ancor più gratuiti del primo.

La grazia, principio e mezzo della nostra divinizzazione.

Il nostro destino verso il fine soprannaturale è gratuito, ma non la sua retribuzione. Non avevamo alcun diritto a che Dio ce lo proponesse; ma dal momento che Egli lo ha voluto, noi abbiamo l’obbligo di ottenerlo. La creatura libera deve essere, insieme a Dio, l’Autore della propria felicità: essa non può essere glorificata dal suo Creatore nell’eternità se essa stessa non lo glorifica nel tempo. Ma, qual è il mezzi per meritare la partecipazione della felicità di Dio? Se il merito deve essere proporzionato alla ricompensa, non dovrebbe l’uomo disporre di mezzi divini per meritare un fine divino? Certo che si! Questo spiega perché la divinizzazione dell’uomo, che deve avere il suo coronamento in cielo, inizi quaggiù per mezzo della grazia. La grazia è il seme della gloria. L’unione con Dio implica la visione di Dio nella sua luce propria, l’unione con Dio attraverso il suo proprio amore, e il godimento della felicità propria di Dio. Anche nella grazia troveremo questi tre tipi di unione: la fede ci farà conoscere Dio con la sua luce; la carità ci farà amare Dio con il suo stesso amore, e la speranza ci farà tendere alla felicità di Dio. Ma la luce della gloria è il sentire Dio presente, che si scopre a noi completamente, quella della fede è il sentire Dio assente e solo manifesto nel suo Verbo. La gioia del cielo deriva dalla sete sempre viva di un piacere che sazia sempre. La speranza della terra sospira per questa felicità, senza essere ancora in grado di raggiungerla. La carità del cielo abbraccia la bellezza infinita che ama, e quella della terra l’ama senza poterla ancora abbracciare.

La gloria, coronamento della nostra divinizzazione.

Gli atti delle virtù teologali, che sono le principali forme della grazia, non differiscono dagli atti con cui l’anima beata gode della gloria, se non nella misura in cui i primi hanno assente l’Oggetto che i secondi hanno presente. Per quanto riguarda l’anima, il movimento è lo stesso. Nel cielo essa si immerge nell’oceano della beatitudine divina in virtù dell’impulso che ha ricevuto quaggiù con l’esercizio della virtù. Lo stesso amore che spinge il martire sul patibolo, lo rende capace di gustare le delizie ineffabili, una volta che la morte gli ha aperto le porte della patria. Dio si dona a tutti gli eletti secondo le loro capacità, che sono maggiori o minori a seconda dello sviluppo ottenuto sulla terra dall’esercizio delle virtù. Più sono cresciuti nella loro anima, sulla terra, la fame e la sete di Dio, più essi saranno saziati in cielo. – La grazia non è solo il seme della gloria, ma anche il suo principio e la sua misura. Sia per grazia che per gloria, l’anima è comunicata alla divinità. Infatti, ci sono due relazioni distinte nella vita intima di Dio: l’una è insieme l’intelligenza infinita e la bontà infinita, l’attività assoluta e il completo riposo. Questi due elementi sono ugualmente necessari alla sua felicità. Non sarebbe essa infinita, se non consistesse nella soddisfazione infinita di un tendenza infinita. – La vita divina, depositata in principio nell’anima come un seme, si va sviluppando durante tutto il periodo della crescita, fino a quando, giunta a piena maturazione, non produca il suo frutto, che non è altro che la beatitudine del Paradiso. Se la grazia non fosse una vera partecipazione alla natura divina, ci sarebbe una sproporzione tra il fine ed i mezzi. Il merito soprannaturale non sarebbe in alcun modo merito, e nell’ordine soprannaturale sarebbe solo un disordine. – Le Sacre Scritture attribuiscono questa qualità alla grazia. Il giusto della terra, come il beato del cielo, è un essere divinizzato. La sua divinizzazione è così reale che i santi Dottori si affidano ad essa per dimostrare la divinità dello Spirito Santo, che ne è l’Autore: « Non è forse necessario – chiede San Cirillo agli ariani – avere un potere maggiore di quello di una creatura semplice per divinizzare gli esseri che non hanno nulla di divino nella loro natura? Si può mai concepire una creatura divinizzante? Solo Dio ha questo potere, e lo esercita, attraverso il suo Spirito, comunicandolo alle anime sante, Egli che solo possiede questa proprietà »; in virtù di questa comunicazione, l’uomo, che fino ad allora ha vissuto solo una vita animale e razionale, inizia a vivere una vita superiore, la vita divina. – Si tratta certamente di una seconda nascita! La prima esistenza risale al giorno in cui un’anima spirituale venne ad animare il suo corpo. si nasce la seconda volta, quando lo Spirito di Dio viene a vivificare la sua anima! Da quel momento ci sono in lui due uomini che si combattono, così come Giacobbe ed Esaù già si combattevano nel seno di Rebecca. Quello, il figlio dell’uomo – Esaù – è più vecchio d’età. L’altro – Giacobbe -, figlio di Dio, erede della promessa, si sforza di soppiantare suo fratello. Come tutti i figli di Adamo, il Cristiano trova in sé gli istinti carnali che lo inclinano alla terra. Queste ispirazioni sono combattute dalle ineffabili aspirazioni che lo allontanano nel mondo e gli fanno disprezzare tutto quello che lo circonda. L’uomo raccoglie in se stesso, con meravigliosa armonia, come in un piccolo cosmo, tutte le forze che muovono l’universo: le fisiche, le chimiche, le vitali, le spirituali. Dio completa il suo capolavoro donandogli, con il suo Spirito, le forze divine. Questo Spirito, nell’abitare l’anima del Cristiano, comunica all’intelligenza la mente di Dio! Diffonde nel suo cuore, la carità di Dio, che diventa il principio di tutte le sue tendenze ed il filo conduttore di tutte le sue azioni. L’animale è guidato dall’istinto, l’uomo è guidato dallo Spirito di Dio!

Dottrina della nostra divinizzazione.

Non dubitiamo che la vita soprannaturale sia una vita veramente divina. Vita che non risulta dall’identificazione dell’Essere creato con l’increato; che non suppone che l’uomo sussista per una personalità divina, ma solo che operi divinamente. Egli conserva in tutta la sua integrità il suo essere, la sua personalità, le sue facoltà. Ma a loro si aggiungono le virtù, che sono come delle facoltà soprannaturali. Con queste virtù Dio stesso si unisce sostanzialmente al Cristiano e lo rende parte della sua natura. – Nella grazia c’è qualcosa di creato e qualcosa di non creato. Come in cielo i più Beati, illuminati dalla luce della Parola di Dio, ricevono in se stessi una chiarezza che li rende simili a questo Sole divino e capaci di unirsi a Lui; così sulla terra, l’anima, unita dalla grazia allo Spirito Santo, riceve, sia con movimenti passeggeri, sia per mezzo di qualità permanenti, l’influenza dello Spirito Divino. Così come nel cielo il lumen gloriæ non impedisce che l’unione dell’anima con il Verbo di Dio sia immediato, così, sulla terra, la grazia creata non impedisce che l’anima sia unita allo Spirito Santo immediatamente.

La nostra divinizzazione consiste nel possesso della Persona stessa dello Spirito Santo.

La divinizzazione dell’uomo non è una metafora vana. È la più reale di tutte le realtà. I Santi Dottori che hanno ricevuto da Dio la missione speciale di combattere gli errori sullo Spirito Santo, sembrano non trovare un’espressione abbastanza energica per farci palpare l’intimità dell’unione, per mezzo della quale Esso viene a comunicarsi all’anima del giusto: una volta si esprimono con il paragonare l’unione del profumo con l’abito completamente penetrato del suo profumo (S. Cirillo di A. l. IX, in lo. MG: 74, 447); altra volta con l’unione dell’oro al metallo meno nobile, che assume per suo mezzo il medesimo splendore (S. Cirillo di A. Dial.. VIII, de Trinitate et l. V in lo. MG:75, 1075 e 73, 705) ; o ancora all’azione con cui il fuoco trasforma il ferro, comunicandogli tutte le sue proprietà ignificandolo in un certo modo, senza per questo sottrargli la propria natura o, in fine, alla comunicazione delle proprietà dal vino alla goccia d’acqua in esso introdotta (S. Bas. I. V.  adv. Eunomium Max. M.G.: 29, 700). Se questa unione non fosse sostanziale, non potrebbe produrre gli effetti che le vengono attribuiti: il liberarci dalla morte riempire di vita il nostro spirito; restaurare il nostro spirito; restaurare in noi l’immagine divina; cancellare il peccato, e fare di noi stessi dei figli adottivi di Dio. Questi santi Dottori, affermano che l’unione dello Spirito Santo con la nostra anima, produce in essa atti e abitudini inerenti all’anima, per il bene dell’anima stessa, e perché sia costituita in uno stato soprannaturale. Solo i luterani hanno osato dire che la giustificazione consistesse nella semplice applicazione della santità di Dio, e non in un dono insito nell’anima e creato come essa. I Dottori cattolici non hanno mai dubitato che ci sia nell’anima una luce soprannaturale creata, che è la fede, e un amore soprannaturale creato, che è la carità. Inoltre, ciò che insegnano i Santi Padri è che l’alta dignità e l’esaltazione della natura umana non consista tanto nella ricezione di questi doni creati, ma piuttosto nel possesso de della Persona dello stesso Spirito Santo, che si unisce ai suoi doni, e per mezzo di essi abita in noi, ci vivifica, ci adotta, ci divinizza e ci incita a compiere ogni sorta di buone azioni. (Corn. Alapide, in Oseam, l. 10). Abbiamo visto quindi il fine elevato a cui sono ordinati tutti i piani della Provvidenza: la divinizzazione dell’uomo e delle creature razionali. Per raggiungere l’anima, Dio per suo aiuto alla creazione malata, manda i suoi Angeli, il cui mistero più glorioso è quello di educare le anime per prepararle alla loro celeste eredità. Le creature materiali contribuiscono con tutta le loro forze a questa grande opera. « Gemono – dice San Paolo – e soffrono i dolori di un parto doloroso, e sono chiamate a collaborare alla produzione dei figli di Dio ». Qual giorno sì felice in cui culminerà di questa grande opera dell’Altissimo! Allora la creazione malata tornerà, attraverso l’uomo, all’inizio, donde proviene. L’Infinito, che in qualche modo è uscito da sé stesso per il desiderio della creazione, tornerà a se stesso per riposare, per l’eternità, con le anime che avranno collaborato ai suoi progetti. Il cerchio divino sarà così chiuso. Tutta la creazione spirituale vivrà della vita divina e la comunicherà alla creazione materiale, ad essa unita mediante l’uomo come un prezioso anello. Il Creatore, pienamente glorificato dalla sua creatura, rifletterà in essa la sua gloria: Dio sarà tutto in tutte le cose!

Capitolo II

DIO CHIEDE DI ESSERE GLORIFICATO PER MEZZO DI GESÙ CRISTO

Il Verbo incarnato, Mediatore tra Dio e gli uomini

Il principio fondamentale della Divina Provvidenza è che tutte le creature tendono alla gloria di Dio, riproducendo in misura finita le sue infinite perfezioni. Poiché Dio è una beltà assoluta, non può dare alle opere delle sue mani altro modello che non sia Se stesso. Il suo amore infinito non può creare delle volontà razionali, che non siano felici di possedere la sua infinita bontà. Corrisponde in Sé, come primo Principio di tutte le cose, per esserne l’ultimo fine. Un fine che l’uomo deve raggiungere non come egli vuole, ma che sia conforme al decreto di Dio, attraverso la sua divinizzazione. Dio potrebbe, senza alcun intermediario, comunicare all’uomo la sua grazia, elevarlo all’ordine soprannaturale e riportarne la gloria che ha il diritto di aspettarsi da lui. Ma Dio ha dato al suo lavoro una bellezza ed una perfezione che nessuna intelligenza creata avrebbe potuto immaginare. Per colmare la distanza che lo separava dall’uomo, Egli istituì un Mediatore, il Verbo incarnato, Gesù Cristo nostro Signore, nel quale sono raccolte, senza confusione, tutte le perfezioni della natura umana e della natura divina. Secondo un’opinione teologica, difesa da grandi teologi e i cui fondamenti si trovano in San Paolo, l’Incarnazione del Verbo fu decretata prima della caduta di Adamo (non parliamo della priorità temporis sed signi), come manifestazione suprema della gloria divina. Se è così, ci viene presentato Gesù Cristo come fine ultimo e Signore di tutta la creazione e come oggetto principale ed eterno nella mente del Creatore. Un’altra dottrina insegna che non solo la Redenzione, ma anche l’Incarnazione sia stata decretata come conseguenza in previsione del peccato originale. Questo la mette in evidenza molto meno è vero, perché forse fa pensare che la più grande opera di Dio sia un rimedio a cui, senza la colpa originale, non si sarebbe posto mano (Curci, La Nature et la Grâce). Anche i difensori di quest’ultima opinione sostengono però che il Verbo Incarnato sia davvero il fine di tutte le creature.

Il Verbo incarnato è il fine di tutta la creazione.

I teologi di entrambe le opinioni concordano nell’affermare che il Verbo incarnato è il fine di tutto ciò che esista, e questo è sufficiente per la presente questione: « Dio – dice l’erudito Ruperto, – si è comportato con il suo amatissimo Figlio, come un grande e potente monarca si comporta con l’erede alla sua corona. Costruì per lui un magnifico palazzo, riccamente arredato, e lo circondò di una corte che era in relazione alla sua dignità. Poi per lui creò la terra, per lui accese migliaia di fiaccole scintillanti, al suo servizio creò dal nulla una quantità innumerevole di angeli, e noi non siamo così schietti – dice il pio Dottore – da pensare che Egli non avesse alcuna intenzione di creare l’uomo prima della caduta degli Angeli. La verità è che non sono stati gli uomini ad essere creati per gli Angeli ma, sia gli Angeli che tutte le creature, abbiano ricevuto il loro essere in previsione di un uomo, che è Nostro Signore. Crediamo dunque e confessiamo con la bocca e con il cuore che tutto sia stato creato per formare come una corona di gloria al Verbo incarnato (lib. Lib. XIII in Math. Lib. III de Glorificatione Trinitatis). – Pure in questo senso, diversi Padri della Chiesa interpretano le parole del libro dei Proverbi: Il Signore mi ha posseduto, ha fatto di me l’inizio delle sue vie prima di ogni altra cosa. Le sue vie sono le creature che procedono verso Dio, come un sentiero conduce alla fine del cammino; ma, prima di tutte quelle creature, Dio mi ha visto e mi ha destinato già allora ad essere la fine di tutta la creazione. – Allo stesso modo, sono spiegate nell’Apocalisse, le parole di Nostro Signore: Ego sum alpha et omega, principium et finis. Io sono il principio, perché io do l’essere a tutte le cose della natura, della grazia e della gloria a titolo di causa prima, esemplare e meritoria. Io sono il fine, perché tutto è fatto per la mia gloria, affinché tutto venga da me come dal suo principio primo, e tutto ritorni a Me come all’ultimo fine. « L’intero universo – ci avverte San Bernardino da Siena – è come una sfera intellegibile, il cui centro è il Figlio di Dio ». Infatti, questo amabile Maestro è, per il mondo, ciò che il centro è per la circonferenza. Tutti i raggi, convien sapere, tutte le creature partono da quel punto e vi convergono contemporaneamente ».

Gesù Cristo è la causa dell’unità armonica della natura umana, della sua perfezione e felicità.

Al di fuori di Gesù Cristo, la natura non può trovare un’unità armoniosa che debba essere la sua perfezione e la sua felicità; fuori dal quale si trova solo divisione, lacerazione, lotta, debolezza, fiacchezza, irrequietezza, disperazione. In Gesù Cristo, le lotte si placano, le contraddizioni cessano, le parti opposte si riconciliano. Si ammira il volto del Divin Salvatore e si vedono i Santi che, come specchi viventi, hanno riflesso i suoi tratti benedetti. Nella serenità di quelle fronti, nel brillare di quegli occhi, nella dolcezza di quelle labbra, non si scoprono forse i sentimenti che costituiscono la grandezza dell’animo umano? Le potenze spirituali sono state trasformati in strumenti docili della ragione. Le passioni, dirette ai loro veri fini, collaborano affinché la virtù possa raggiungere una vera ricchezza, la vera grandezza, le vere gioie. L’intelligenza, trovando nella verità assoluta il sommo Bene, la sicurezza di possedere eternamente l’unico obiettivo di tutte le aspirazioni dell’anima e di godere di Esso, secondo i sacrifici fatti per lo stesso nel tempo, unisce indissolubilmente l’interesse e il dovere, e non permette di separare la felicità della vita presente da quella della futura. – Il Cuore di Gesù Cristo è l’unità divina del cuore umano che, al di fuori da Esso, rimane lacerato. In Lui e attraverso di Lui, l’umiltà, allontanandosi dalla ricerca della grandezza nel nulla, ce la fa trovare in Dio. In Lui la forza, appoggiata a Dio, e non avendo bisogno di sforzi violenti per sostenersi, si unisce alla dolcezza più ammaliante. In Lui il cuore affettuoso trova il nutrimento che gli evita di correre dietro a piaceri vergognosi e diventa tanto più capace di amare tutto ciò che è amabile, tanto più acquista padronanza dei suoi appetiti. In Lui, l’amore della verità incoraggia l’intelligenza a raggiungere il suo scopo, tanto più umile e docile è l’abbracciarla, quando più si lancia spontaneamente sulle ali della fede alla sua ricerca.

Cristo è il nostro fine perfezionante

Questo è l’uomo come lo ha fatto Gesù Cristo: uno, perfetto, sereno e immutabilmente pacifico. Prima di Gesù Cristo, l’uomo era un edificio crollato le cui pietre, violentemente separate l’una dall’altra, sembravano non riuscire mai a ricongiungersi. La pianta di quell’edificio era andata perduta e gli architetti che avevano cercato di ricostruirlo, l’avevano ancor più mutilato. Gesù Cristo è venuto e ci ha mostrato in sé l’edificio divino ricostruito con una grandezza che non aveva mai avuto. Sta a noi trovare in Lui l’unità che cercheremmo invano al di fuori di Lui. Gesù Cristo è l’uomo perfetto, l’uomo esemplare, l’uomo per eccellenza. Quando Dio Padre lo ha dato al mondo, ci ha detto: questo è l’ideale che ho concepito fin dall’eternità, e che invito tutti voi a realizzare al meglio delle vostre capacità. Lo scopo dei nostri sforzi deve essere quello di tendere verso Gesù Cristo. A proposito di ciò Sant’Agostino scrive: « Dovete mirare a Gesù Cristo, perché Egli è il vostro fine. Ma non un fine che consuma, ma un fine che conclude; perché consumare è distruggere; concludere è finire e perfezionare una cosa: Gesù Cristo è il nostro fine, perché siamo perfezionati in Lui e da Lui; la nostra perfezione è in Lui che giunge; e quando lo raggiungeremo, avremo trovato la felicità. »

Gesù Cristo è il nostro fine, perché glorifichiamo Dio Padre, glorificando suo Figlio.

Questa è la mirabile dottrina di San Paolo. Per l’Apostolo delle genti, Gesù: « è il primogenito di tutte le creature, perché tutte le cose del cielo e la terra sono state create in Lui: le cose visibili e invisibili, i troni, le dominazioni, i principati, le potenze, tutto è stato creato da Lui. Egli esiste prima di tutte le cose, e tutte le cose sussistono in Lui. Egli è la testa e il capo del corpo della Chiesa; è il principio assoluto ed il primogenito tra i morti; affinché Egli possa avere il dominio su tutto. » Dio ha fatto di Gesù Cristo il fine a cui l’umanità deve tendere, e ci fa capire che vuole che l’umanità lo glorifichi, glorificando il suo amato Figlio in cui ha posto tutto le sue compiacenze, ed in cui abita corporalmente la divinità. Gesù Cristo, venendo sulla terra, non aveva altro scopo se non quello di glorificare Dio Padre, restituendogli l’onore che il peccato gli aveva tolto: « Tutti hanno peccato – dice San Paolo – tutti hanno bisogno della gloria di Dio ». Il Verbo incarnato, dice San Cirillo, è la gloria di Dio che si manifesta agli uomini. Così capiamo perché, nella culla del Bambino di Betlemme, gli Angeli annunciano che la gloria di Dio si manifesta anche in cielo: Gloria in excelsis Deo. – Gesù Cristo, per glorificare Dio Padre, trascorre i primi trent’anni della sua vita in una oscura bottega, impegnato in un umile lavoro. Non c’è nessun altro motivo principale nelle sue azioni durante la sua vita pubblica. Al fine della sua stessa gloria, non dà alcuna importanza: Honorifico Patrem. Non quæro gloriam meam. Non sono da considerare – sembra dire – se non come vittima di espiazione del peccato. La mia gloria non è nulla, come un nulla è la gloria degli uomini: Gloria mea nihil est.

L’umiliazione e la croce furono i prodromi del Regno di Cristo

Così come Dio Padre ha accettato che Cristo soffrisse per entrare nel regno dei cieli, è giusto che sia vestito con la veste della vergogna prima di essere circondato dall’alone della gloria. Le umiliazioni e la croce sono i preamboli obbligatori del regno glorioso che suo Padre invita a condividere con Lui. Mentre la passione si avvicina, Nostro Signore parla più volentieri della propria gloria ai discepoli. Predice poi loro che, quando sarà inchiodato al legno, il suo potere cambierà questo luogo di ignominia in un trono di gloria, al quale attirerà ogni cosa: Cum exaltatus fuero, omnia traham ad me ipsum. Nel suo ultimo discorso, che è come il canto del cigno, il testamento dell’amore, ricorda a suo Padre che è arrivata l’ora di glorificarlo: « Ho compiuto la missione che mi hai affidato; ora, Padre mio, è tempo di glorificarmi, di far risplendere la gloria che avevo in te, prima ancora della creazione del mondo. » Dio Padre ha ascoltato la voce del Figlio suo: al torrente di umiliazioni fa seguito un’esuberante manifestazione di gloria. – Dio fa uscire trionfalmente suo Figlio dal sepolcro. Lo fa sedere alla sua destra in cielo, al di sopra di tutti i principati e di tutte le potenze. Pone tutto sotto i suoi piedi e fa di Lui il Capo della Chiesa. Egli ordina che nel suo Nome ogni ginocchio sia piegato in cielo, in terra e negli inferi. Gli Apostoli fanno risuonare il nome di Gesù in tutte le regioni e la potenza del suo Nome fa meraviglie ovunque. – Così Dio Padre ha glorificato e glorificherà il Figlio suo e, come predice l’Apostolo San Pietro, per la gloria di suo Figlio, sarà Egli stesso glorificato. Così il magnifico piano che l’Apostolo ci indica si realizzerà, quando ci annuncia che tutta la creazione è stata fatta per noi, noi per Cristo e Cristo per Dio! Ammirevole è questa Gerarchia, in cui l’Uomo-Dio, ricapitolando e riassumendo in sé le perfezioni degli spiriti e dei corpi, costituisce il Mediatore tra la creatura ed il Creatore! Non possiamo concludere meglio questo capitolo se non citando la magnifica conclusione dei decreti promulgati dal Consiglio provinciale di Le Puy nel 1873. – « Se cerchiamo l’origine comune degli errori che abbiamo appena condannato, sarà facile vedere che provengono tutti dalla stessa fonte, cioè l’ignoranza ed il disprezzo per l’ordine soprannaturale. Quanti di coloro che hanno indossato Cristo nel Battesimo non lo conoscono! Quanti dimenticano la nobiltà divina che Egli ha conferito loro! I ministri della Santa Chiesa devono quindi fare ogni sforzo affinché i fedeli abbiano una conoscenza esatta dell’ordine soprannaturale, in modo che possano ammirare la sua meravigliosa unità e assaporarne l’ineffabile soavità. Perché le testimonianze di Dio offrono alla nostra intelligenza le luci più vivide, e sono per il nostro cuore più dolci del miele e del nettare. – Infatti, la verità che dobbiamo credere di cuore e confessare con la bocca non è altro che Cristo, il Verbo del Padre, di quel Padre che, dopo aver posto tutti le sue compiacenze nel suo Figlio prediletto da tutta l’eternità, ce lo ha mostrato nella pienezza dei tempi, non solo per farcelo conoscere, ma anche per renderci partecipi della sua divinità. Il grande sacramento dell’amore, il piano della bontà divina, è infatti quello di restaurare in Cristo tutto ciò che è in cielo e sulla terra; di unire a Lui, come al suo comune Signore, il mondo materiale e quello spirituale; di fare degli Angeli e degli uomini un corpo unico che vive della vita di Cristo e gode eternamente della sua gloria. Cristo è tutto in tutte le cose, perché tutto è da Lui, per Lui ed in Lui. Egli è l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine. Solo Lui insegna Dio agli uomini, e li unisce a Dio, perché solo Lui è il mediatore tra Dio e l’uomo. Da Lui, come al suo principio, e in Lui, come suo fine, tutti sono stati creati. Esisteva prima della creazione, e nulla sussiste se non in Lui. Cristo è tutto in ogni uomo, a cui comunica la sua perfezione divina. Innestati in Lui mediante il Battesimo, gli uomini vengono elevati all’ordine soprannaturale, animati dallo Spirito di Cristo, che li rende figli di Dio, non solo in parole, ma anche in verità. Gesù non si vergogna di chiamarli suoi fratelli, perché è veramente unito a loro con un doppio vincolo: si è fatto partecipe della loro carne e del loro sangue, quando nel seno della Vergine Immacolata, che è insieme la Madre di Cristo e degli uomini tutti, è stato formato il corpo che a sua volta ha dato loro attraverso la santa Eucaristia, e volendo che partecipassero del suo Spirito, lo ha mandato alle loro anime, per mezzo del quale essi gridano: Abba Padre! Tale, dunque, è il destino della loro vita mortale: per crescere in Cristo, basta che, raggiunta l’età della maturità e raggiunto l’apice del merito, entrino a parte della gloria del loro divino Capo, così come saranno entrati in quella delle loro sofferenze. Cristo è tutto nella Chiesa, di cui è il corpo ed il suo complemento; vivendo dello Spirito di Gesù Cristo, si fanno opere simili alle sue, in proporzione ancora maggiore. Egli ha insegnato a tutte le nazioni la stessa dottrina che predicava in un altro tempo agli Ebrei; esercita ora la stessa autorità per mezzo del Vicario di Cristo e dei Vescovi, successori degli Apostoli; Egli non cessa di instillare che la stessa virtù; amministra la stessa grazia; cura le stesse malattie, e chiunque segue l’esempio di Gesù Cristo, suo Maestro, passando e facendo del bene, sarà oggetto di odio e di persecuzione. Ma la virtù del suo Capo divino lo rafforza; e nonostante sia continuamente combattuto, è sempre vittorioso, cura le nazioni con il sangue che sgorga dalle sue ferite e non cessa di vivificare il mondo, anche quando è permesso di godersi per un momento la vita. Cristo è tutto nelle famiglie e nella società. Infatti: se le famiglie devono dare a Cristo nuovo membri e proteggere la loro formazione, i popoli sono destinati ad unirsi al corpo di Cristo, che è la Chiesa, per promuovere la sua azione, per difendere la sua libertà, per contribuire al suo sviluppo. Solo realizzando questo fine, che si ha con la subordinazione a Cristo e alla Chiesa, i popoli e le famiglie possono trovare la loro stabilità, riposo e vera felicità. In effetti nessun altro Nome è stato dato agli uomini sotto il cielo nel quale possano trovare la salvezza; e nessuno può dare alla società altro fondamento di quello già stabilito: Gesù Cristo. – Infatti, Gesù Cristo è tutto in terra, alla quale ha fatto l’insigne beneficio di prendere in prestito il corpo che lo doveva trasportare molto presto verso le altezze del cielo. È il mondo il sublime laboratorio in cui lo scalpello del Salvatore scolpisce le pietre vive che saranno poste successivamente sulle mura del tempio divino. Citando quest’opera, in cui la saggezza di Dio opera da tutta l’eternità, cioè citando la produzione dei Santi per la formazione del Corpo di Gesù Cristo, se questi cessano di esistere, cessa la propagazione del genere umano, la cui unica ragione di esistenza è Cristo; e la natura che ora partorisce nel dolore e attende la manifestazione del Figlio di Dio, entrerà nella sua gloria alla completa rivelazione. Allora verrà la fine, perché tutto sarà stato sottomesso a Cristo e il Figlio stesso, con le sue membra, sarà completamente sottomesso a Colui che ha sottomesso tutto alla sua obbedienza; poi, entrambi, sia i suoi nemici, con i giusti supplizi che puniranno la loro ribellione, sia i suoi amici con la loro beatitudine, glorificheranno eternamente il suo potere, perché questo è eterno e non gli sarà portato via, e il suo  regno non cadrà mai in preda alla rovina. – Piacesse al cielo che tutti i maestri della dottrina cristiana, attraverso l’assidua contemplazione della sua magnifica unità, fossero bruciati nel suo amore e riempissero tutti i cuori cristiani di questo stesso amore! Piacesse al Cielo che i fedeli, fissando costantemente lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede, e vedendo in Lui la loro grandezza divina, si abituino a disprezzare il nulla delle cose visibili e temporali, ed a desiderare solo i tesori della gloria, che un giorno saranno la loro eredità in mezzo ai Santi! Piacesse al Cielo che gli occhi della loro anima, illuminati dalla luce, possano cogliere in un solo sguardo la longitudine, la latitudine, la sublimità e la profondità di questa eredità; per comprendere la carità di Gesù Cristo che è al di sopra di ogni scienza, ed essere pienamente ricolmi di Dio! »

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/15/tutta-la-messa-lunica-vera-cattolica-romana-momento-per-momento-3/

LO SCUDO DELLA FEDE (108)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XVIII.

S’inferisce, da quanto si è dimostrato l’unità di Dio, semplicissima in tanti suoi diversi attributi.

I . Due specie di cecità può temer l’occhio: l’una, per cui egli non vegga ciò che è delle cose: l’altra, per cui egli vegga ciò che non è. Ed eccovi ambedue questi morbi offuscar la mente dell’uomo. V’ha chi non vede il sole della divinità, e v’ha chi ne vede più d’uno, adorando quali sorgenti di luce quei che neppure sono pareli, ma nuvole affatto oscure. Pertanto noi, che finora abbiamo rimproverata agli ateisti la prima cecità, di non conoscere la divinità regnatrice, conviene che agli idolatri rimproveriamo ora l’altra, che è di riconoscerne molte: massimamente giudicandosi reo di fellonia non dissimile chi ardisce scacciare il suo monarca dal soglio, e chi ardisce nel soglio dargli collega. Né molto avremo a stancarci in dilucidare sì nobile verità: mentre quanto siamo certi di avere padrone in cielo, tanto siamo certi di non avervene parimente più d’uno. Deus, si non est unus, non est (Tert. in Marc. 1. 2. c. 13). Veggiamolo con provar tre proposizioni: che la grandezza di Dio richiede per se stessa tale unità; che questa in lui vogliono tutte le creature; e che questa tutte similmente ci predicano ad una voce.

I.

II. Saggiamente Tertulliano ci fè avvisati, che chiunque brami d’intendere se si truovi più di un Dio solo, chiegga innanzi, che cosa è Dio: Deum ut scias unum esse debere, quære quid sit Deus(Tert. ib.). Già di sopra vedemmo, come per Dio vien significato quel sommo bene, sufficiente a se stesso, che accoglie in sé qualunque bene possibile, con pienezza di perfezione: e posto ciò, non si può dubitare che non sia solo.

III. Conciossiachè rappresentatevi al pensiero questo impossibile, che si trovasser più Dei: per qual via dovrebbon distinguersi l’un dall’altro? Per via di qualche perfezione diversa che in loro fosse, o d’imperfezione. Per via d’imperfezione non è possibile, perché il bene sommo debbe essere bene esente d’ogni difetto. Dunque converrebbe che si distinguessero a forza di perfezioni. Ma come ciò, se il bene sommo non può non accorle tutte? Niun di loro in tal caso sarebbe Dio, mentre a ciascuno mancherebbe quel pregio che fosse il proprio e il preciso del suo consorte (Il ragionamento potrebbe assumere quest’altra forma. Gli Dei non possono essere molti, se non a condizione che si distinguano l’uno dall’altro, né possono distinguersi se non a patto che ciascuno possegga in proprio doti e prerogative, che mancano ad ogni altro. Adunque tutti e singoli sono limitati e finiti, perché manchevoli di qualche dote e nessuno perciò merita nome di Dio, il qual è di sua natura infinito). Dunque Iddio non può essere mai più d’ uno: Porro nihil summum bonum, nisi plenis viribus unum (Prudent.).

IV. Di poi chi non vede, che l’essere il supremo di tutti gli enti possibili, senza eguale, senza equivalente, è di sicuro un vanto il più riguardevole che si trovi? Adunque non si può contrastare a Dio, cui conviene ogni preminenza. Una gioia unica al mondo, quanto ha di stima! un fiore unico! un frutto unico! un libro unico! Anche i figliuoli restano commendati da una tal dote, più forse che da alcun’altra, perché li fa in loro genere senza pari.

V. Oltre a che: o questa pluralità sarebbe dispiacevole a ciascun Dio, e ne seguirebbe che ciascuno di loro fosse infelice mentre dovrebbe fra’ suoi contenti divorare questa amarezza di aver collega, senza poterla mai digerire: o non sarebbe dispiacevole punto, e ne seguirebbe, che ciascuno fosse insensato, mentre non sentirebbe un diletto, inevitabile al pari ed interminabile, che non potrebbe dargli altro che confusione: tanto più, che da quelle ingiurie che Dio riporta ogni giorno dai peccatori può cavar qualche gloria che le compensi. Ma quale gloria potrebbe un Dio ricavare da quei discapiti che riportasse dall’altro, di monarchia? Sarebbero di lor genere incompensabili. Adunque tanto è volere moltiplicar la divinità, quanto è volere annullarla.

II.

VI. Questa unità poi del loro fattore desiderano di accordo tutte le cose. Che sarebbe mai del genere umano, se egli avesse per disgrazia più d’un padrone? Avremmo più di un principio da riconoscere, e più di un fine. E però ditemi: ove allor prima ci volgeremmo, ove poi? Quale ci eleggeremmo noi di servire? qual di disprezzare? qual di sopportare? Quale di scuotere? Come una nave, combattuta da più venti al pari gagliardi, non sa qual di loro assecondare, a quale si rompere; così il nostro cuore, combattuto da forze al pari possenti, non saprebbe a quale inchinarsi: ma incerto, fievole, fluttuante, agitato, riputerebbe migliore la condizione di chi non si dilungò mai dal lido, venendo a vivere. Ne ci varrebbe in un tal caso tenersela ben con tutti: conciossiachè lo volontà di quegli Dei, come libere, o sarebbero discordanti fra loro o potrebbero essere. E in tal discordia, quale sarebbe la confusione di noi, poveri di partito pari al bisogno? Senzachè, quando ancora fosse possibile tenersela ben con tutti, secondando i loro voleri; ad ogni modo il nostro cuore qual fiume diviso in vari ruscelli, correrebbe sempre più languido: né potrebbe con tutto l’impeto dello spirito portarsi, come pure è di necessità, ad amare l’ultimo fino sopra ogni cosa.

VII. I medesimi disordini succederebbero poi nel resto di tutto l’ordine naturale. Primieramente l’universo sarebbe in sé mostruoso, come mostruoso sarebbe ogni animale, il quale avesse più capi. Né potrebbero tali capi ordinarsi in una stabilita repubblica di ottimati, a governare di accordo, attesoché possono bene in una somigliante repubblica unirsi gli uomini, convenendo in un fin comune; ma più Dei non possono unirsi, avendo ciascun di loro per fine sé. Onde l’amministrazione della natura non si distinguerebbe da un caos di confusione, odioso in sommo alle cose da lei prodotte. Entia nolunt male gubernari, dice il filosofo (Arist. metaph. 12). Non est bona multitudo principium. Unus ergo princeps.

VIII. Dipoi chi non sa, che qualsisia moltitudine, quanto più va riducendosi all’unità, tanto più nel suo genere ha di perfetto? Un esercito, quanto sta più serrato, tanto è più forte. Un concerto, quanto è più consonante, tanto è più armonico. Una conversazione, quanto è più concorde, tanto è più allegra. Un remigamento, quanto è più di tutti i galeotti ad un’ora, tanto è più celere. Ma il ridurre la moltitudine all’unità, molto più è connaturale di uno che non di molti (S. Th. 1. p. q. 12. art. 3. in c.). Quale dubbio dunque, che il governo del mondo stia meglio in uno?

III.

IX. Per ultimi, non solo l’essere di Dio richiede questa unità di principio, non solo la desiderano tutte le creature, ma tutte le creature ancor ce la scoprono ad una voce: tanto quelle che muovonsi per arbitrio, quanto quelle che sono mosse. E a voler dire in prima delle seconde.

X. Quella bellezza ammirabile che fu da noi lungamente considerata nelle parti dell’universo, quella proporzione, quell’orditura, quell’ordine, quella costanza perpetua nell’operare, troppo altamente ci dichiarano al cuore, che non può si grande opera provenire da altri, che da una cagione infinitamente perfetta. Altrimenti, se storpiata in sé fosse la genitrice, come potrebbe dare ella sempre alla luce partì sì belli? Ora qual maggiore storpio potrebbesi figurare in questa prima cagione, che l’essere costituita in un modo stolto? E pure di siffatto modo sarebbe costituita, se ella consistesse in più Dei. Volete che io vel dimostri? Certo è, che ciascuno di tali Dei come sufficientissimo ad ogni bene, e per sé e per altri, renderebbe tutti i suoi colleghi affatto superflui. Onde l’unione di più divinità che sarebbe? Non sarebbe un collegamento di perfezioni, ma un mucchio casuale di parti non importanti, di cui è proprio l’essere disadatto, disordinato, e senza disegno (Anton. Perez, de Deo disp. 1. c. 4). Pertanto chi potrà giammai darsi a credere, che se il mondo (il quale finalmente ha un esser creato) sussiste nondimeno in una ragion perfettissima, l’Essere increato, che ha per ragion;, anzi per necessità, solamente se stesso, sussista sì pazzamente in ciò che è contra d’ogni regola di ragione, cioè nel superfluo, tanto abborrito dalla natura medesima, che dappertutto altro non fa, che respingerlo, e ributtarlo? Guardate pertanto ciò che succederebbe tra quei più Dei, se diffatto si ritrovassero. Ciascun sarebbe più contentibile all’altro di una formica, perché una formica è bensì inutile a Dio, ma non è superflua, mentre Dio può essere utile alla formica; ed infatti l’è, amandola però anche, come capace di riportare da Lui e vita e vitto e piaceri a lei convenevoli. Ma tra quegli Dei non così: né l’uno potrebbe recare all’altro alcun prò (mentre sarebbero tutti sufficienti a se stessi), né l’un dall’altro lo potrebbe ricevere: onde, se tra loro fosse possibile alcun commercio, altro non farebbero insieme, che vilipendersi come numi da soprappiù. E potete voi divisarvi maggior disordine? Sufficiens est et unum, dice Aristotile (8. phys.tex. 48). Girate per tutto l’ordine naturale, voi non vedrete, che ciò che nel suo genere è sufficiente, sia mai più di uno: che però all’uomo fu determinato un sol cuore, un sol cerebro, un sol collo, perché uno basta al suo fine. E poi volete che più di uno sia Dio, che è il sufficientissimo?

XI. Né state a oppormi, che all’inconveniente ora detto dobbiamo dunque rispondere ancora noi, i quali ammettiamo tre Persone divine, tutte sufficienti a se stesse (mentre nessuna è tra esse che non sia Dio), e pure non ammettiamo veruna superfluità che loro passi, né veruna indigenza. La disparità è manifesta. Le tre persone sono tre Persone si bene, ma un solo Dio: che però in esse la sufficienza è una sola, non essendo la sufficienza di beni ch’esse posseggono fondata nelle personalità, ma fondata nella natura, la quale è unica in tutte. Non così avverrebbe in più Dei. Questi sarebbero ciascun da sé Dio diverso, Dio differente (altrimenti è certo che non sarebbero più): onde, siccome ciascun da sé sarebbe sufficiente a formare un Dio, quando ancora mancassero tutti gli altri; così ciascuno di verità sarebbe agli altri superfluo, e superflui li renderebbe.

XII. E pure notate di peggio. Ciascuno con tutto ciò avrebbe a un’ora degli altri, benché cogli altri un bisogno estremo, mentre nessun potrebbe essere senza gli altri, benché cogli altri non fosse una essenza sola. Ed eccovi però fra più Dii questa più mostruosa contraddizione, che vicendevolmente fossero beni, insieme necessari, insieme superflui. Superflui, perché ciascuno basterebbe a sé da se solo; necessari, perché nessuno potrebbe discacciare via l’altro, qual Dio d’avanzo; onde avrebbesi questo eminente sproposito, che la somma superfluità possibile a figurarsi fosse insieme la somma necessità. Lungi da noi tali insanie. Noi Cristiani intendiamo ciò che sia Dio, e per questo siam paghi di uno. Gli idolatri non lo intendevano, e però ne ammettevano innumerabili: Deus, si non est unus, non est.

XIII. Senonchè gl’idolatri stessi ne’ casi subiti davano a divedere ciò che notò Tertulliano con acutezza, cioè che l’uomo di sua natura è Cristiano, non è idolatra. Quindi è, che non solo colti da un improvviso pericolo, invece di rivoltare i lor occhi in atto di supplichevoli al campidoglio, chiedendo scampo, li sollevavano al cielo, come fu da noi già notato: ma di più nell’istesso Panteon, domicilio di tutti gli Dei bugiardi, se avevano ad asseverare una cosa, a protestare, a promettere, a minacciare, dicevano: Dio sa, Dio vede, Dio vuole, Dio mi castighi, chiamando per loro giudice un solo Dio, nell’atto stesso che d’ogni intorno sacrificavasi a tanti: 0 testimonium animæ naturaliter Christiana, gridò però Tertulliano con gran ragione (In apol. c. 11):mercecchè tutte le creature anche libere, non che le regolate dal puro istinto, hanno in sé  viva questa gran verità, notatavi altresì da Lattanzio, da Atanasio, da Arnobio, da Cipriano, che la cagione prima è una sola (Lattan. 1. 1. c. 2. Athan. c. idolol. Arnob. 1.2.Cypr. de idol. vanit.). Né è meraviglia. Come ella è perfettissima nell’operare, così conviene,che perfettissima sia parimente nell’essere,che è la norma dell’operare: e se ella è perfettissima,dunque è una, perché è quale torna a lei meglio dì essere (Come in aritmetica l’unità precede i numeri, così nell’universo l’uno precede il molteplice, epperò l’unità è la grande, la suprema legge dell’umana ragione. Il pensiero non può dare un passo senza trovarsi di fronte ad un molteplice nell’uno; e come nel mondo ideale tutti i concetti si radicano in un concetto supremo ed in esso hanno la loro ragione ed unità, così nel mondo reale tutti gli esseri sussistenti puntano in un Essere unico dominatore).

XIV. Vero è, che quando di Dio si dice esser uno, non dovete mai divisare che Egli uno sia di quel modo che uno è il sole per verità, e che una stimasi la fenice per favola. Imperocché unico è il sole di fatto, ma pure potrebbe moltiplicarsi dal Creatore al par delle stelle, divenendo il cuore di altrettanti universi che gli fossero dati a vivificare. E così parimente, quando fosse anch’ella unica la fenice, si potrebbe tosto vedere moltiplicata al par di tutti i volatili, perché né il sole, né la fenice hanno l’unità per essenza, come l’ha Dio, il quale non può essere se non quell’uno che Egli è (S. Th. 1. 2. q. 11. art. 4): tanto che il volerlo moltiplicare è l’istesso, che volerlo distruggere, multitudo numinum, nullitas numinum (Athan. c. idolol.). Riman dunque fermo, che Dio non solamente è unico, ma è lo stesso uno, come fu pure conosciuto dal Trismegisto, ipsum unum: ed in questa sua propria, pura, ed unissima unicità, quasi in un abisso senza fondo, contiene in atto tutte le perfezioni possibili. Ma perché noi, a guisa di struzzoli, tanto battiamo l’ale per aria, quanto posiamo ad un’ora i pie sulla terra, cioè tanto conosciamo delle cose divine, quanto ce ne rappresentano le immagini tolte dagli oggetti corporei; però ci figuriamo l’infinito alla foggia delle cose finite, e senza avvedercene veniamo a ritrarre il sole con un tizzone. Quinci è il distinguere che facciamo in questa semplicissima essenza, un numero grande di attributi, di proprietà, e di prerogative che l’accompagnino, benché tutti gli attributi, tutte le proprietà, e tutte le prerogative non sian altro che un solo bene, contenitore di tutti per eminenza. Chiamiamo il mare ora oceano, ora maggiore, ora mediterraneo, ora adriatico, ora icario, ora ionio, ora caspio, ora boreale, ora baltico, ora britannico, ora pacifico, ora getico, ora gelato, ora rosso: eppure ell’è tutta un’acqua. Così, con qualche proporzione, noi possiam dire che nominiamo Dio, ora giusto, ora misericordioso, ora adirato, ora placato, ora avverso, ora propizio, ora operante, ora quieto: benché l’idea che ne dobbiamo formare, sia di un sommo Essere indivisibile, in cui per verità non si distingue una perfezione dall’altra; ma quella essenza medesima che è giustizia, quella è misericordia; quella che è potenza, quella è sapienza; quella che è provvidenza, quella è santità; quella, che è immensità per occupare tutti gli spazi possibili, quella è eternità per accogliere tutte le durazioni. E la ragione di tanta semplicità si è parimente, perché qualunque composto ha la sua cagione (S. Th. contra gentes l. 1 c. 48.n. 4): non potendo parti diverse adunarsi in un tutto, massimamente non casuale, ma saggio, senza cagione adunante, la quale intenda la convenienza che han quelle parti tra loro, a far lega insieme. Ma a Dio non può assegnarsi cagione di alcuna guisa, mentre Egli è la cagion prima. Dunque nemmeno in Dio può trovarsi composizione. Egli è da sé. Dunque Egli possiede anche un essere semplicissimo, che contiene ogni grado di perfezione, ma di perfezione non mista d’imperfezione: come la luce, la quale ha in sé qualunque grado possibile di, colore senza l’opaco (Sotto questo riguardo Iddio potrebbe venir definito l’Essere dotato di infiniti attributi infinitamente perfetti e ridotti a semplicissima unità).

XV. Che se è così, non dobbiam neanche meravigliarci, se sulla terra mai non possiamo conoscer Dio degnamente o almeno adeguatamente. A conoscer Dio di tal modo converrebbe conoscere il bene in sé. Ma ciò non fu mai possibile, dove ogni bene che mirisi, è limitato dentro qualche spezie di bene, non è il ben tutto: Bona domus, bona animalia, bonus aér, etc. (dicea il grande Agostino (De Trin. 8. c. 3) bonum hoc, et bonum illud. Tolle hoc et lolle illud, et vide ipsum bonum si potes: ita Deum videbis; non alio bono bonum, sed bonum omnis boni.

SALMI BIBLICI: “LÆTATUS SUM IN HIS QUÆ DICTA SUNT MIHI” (CXXI)

SALMO 121: “Lætatus sum in his quæ dicta sunt mihi”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 121

Canticum graduum.

[1]  Lætatus sum in his quae dicta sunt mihi:

In domum Domini ibimus.

[2] Stantes erant pedes nostri in atriis tuis, Jerusalem.

[3] Jerusalem, quae ædificatur ut civitas, cujus participatio ejus in idipsum.

[4] Illuc enim ascenderunt tribus, tribus Domini, testimonium Israel, ad confitendum nomini Domini.

[5] Quia illic sederunt sedes in judicio, sedes super domum David.

[6] Rogate quæ ad pacem sunt Jerusalem, et abundantia diligentibus te.

[7] Fiat pax in virtute tua, et abundantia in turribus tuis.

[8] Propter fratres meos et proximos meos, loquebar pacem de te.

[9] Propter domum Domini Dei nostri, quæsivi bona tibi.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXI.

Il Salmo è della Gerusalemme terrena, figura della celeste; e degli Ebrei che bramano il ritorno da Babilonia in Gerusalemme, figura dei viatori che aspirano alla celeste.

Cantico dei gradi.

1. Mi son rallegrato di quel che è stato a me detto: Noi anderemo alla casa del Signore. [1]

2. I nostri piedi si so posati negli atrii tuoi, o Gerusalemme: [2]

3. Gerusalemme, che si edifica come una città. a cui per la concordia si ha parte. [3]

4. Perocché là salirono le tribù, le tribù del Signore, al testimonio d’Israele, a lodare il nome del Signore. [4]

5. Perocché ivi furon collocati i troni per giudicare, i troni sopra la casa di David. [5]

6. Domandate voi quelle cose che sono utili alla pace di Gerusalemme ; e (dite): Sieno nell’abbondanza coloro che ti amano.

7. Sia la pace nella tua moltitudine; e nelle tue torri sia l’abbondanza.

8. Per amore dei miei fratelli e dei miei propinqui, ho io domandata la pace per te.

9. Per amor della casa del Signore Dio nostro, ho desiderato il tuo bene.

(1) In ebraico, cantico dei gradi di Davide, cioè per coloro che a ragione retrodatano molto più dietro la composizione di questo salmo, cantico ad imitazione dei salmi di Davide.

(2)  Aspettando questa felice nuova, i nostri piedi si trovano già sul pavimento con i nostri pensieri con l’ardente desiderio di rientrare nella nostra patria.

(3) La traduzione letterale di questo versetto, secondo l’ebraico, sarebbe: Gerusalemme che fu costruita come una città, per cui tutte le case sono riunite e formano un mirabile insieme. Sant’Agostino qui e soprattutto ove si incontra l’espressione “in idipsum”, lo traduce sempre come se si avesse Dio, cioè Colui che è sempre lo stesso, che non cambia mai, e che tutti i Santi del cielo possiedono egualmente.

(4) Secondo il precetto fatto ad Israele di radunarsi tre volte all’anno presso il Santo tabernacolo; la testimonianza designa la legge.

(5) Là vi sono le sedi supreme della giustizia e del governo: « … i troni della casa di Davide, » vi

Sommario analitico

Il salmista qui esprime la gioia del popolo di Dio alla felice notizia del suo ritorno nella sua patria. Egli parla anche a nome della Chiesa, per la prosperità dei voti che augura, come pure a nome di ogni anima fedele che si sente vicina al termine del suo pellegrinaggio su questa terra.

I. – Egli gioisce:

1° a causa della certezza che gli viene data di giungere alla casa di Dio (1);

2° a causa della prossimità in cui si trova della città santa (2),

II. – Egli descrive e celebra l’eccellenza di questa città, eccellenza che proviene:

1° dalla bellezza dei suoi edifici,

2° dalla concordia e dall’unione dei suoi abitanti (3);

3° dal concorso del popolo di Dio che vi si reca da ogni parte (4);

4° dal potere giudiziario che vi esercita Gesù-Cristo e gli Apostoli (6);

5° dalla pace e dall’abbondanza che regnano nelle sue mura (6);

6° dalla solidità e dalla struttura dei suoi muri, e delle sue torri che nessun nemico può abbattere né distruggere.

III. Egli dichiara che questi desideri che forma per essa, hanno come principio:

1° L’amore che porta ai suoi fratelli (8);

2° lo zelo che ha per la Chiesa (9).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1, 2.

ff. 1, 2. – Noi sospiriamo nell’esilio; noi gioiremo nella città. Ma noi incontriamo nel nostro esilio dei compagni che hanno già visto questa città e che ci invitano a correre verso di essa. È in essa che gioisce il Profeta quando dice: « Ho gioito quando mi hanno detto: andremo nella casa del Signore. » Fratelli miei, la vostra carità porti il vostro pensiero su ciò che accade quando si parla di una festa di martirio, e di qualche luogo santo in cui la folla, in certi giorni, affluisce per la celebrazione di una solennità, e di come queste masse popolari si eccitino mutualmente! Come si esortano al desiderio con queste parole: Andremo, vi andremo, ma… dove? In quale posto? Dicono gli uni; e gli altri rispondono: in tal luogo, in tale luogo santo. Se ne parla, ci si scalda e l’ardore dell’uno particolare forma una medesima fiamma; e questa fiamma unica, prodotta dai discorsi di uomini che si sono mutualmente abbracciati, li conduce verso questo luogo santo, se ne parla, ci si riscalda, e dall’ardore particolare di ciascuno forma una medesima fiamma, e questa fiamma unica, prodotta dai discorsi di uomini che sono tra di loro accomunati, li introduce verso questi luoghi santi, e questo pensiero li santifica. Se dunque un santo amore fa così correre gli uomini verso qualche luogo di questo mondo, cosa deve essere l’amore che introduce verso il cielo delle anime riempite di uno stesso desiderio, e che dicono: « Noi andremo nella casa del Signore! » Corriamo dunque, corriamo poiché arriveremo alla casa del Signore; corriamo senza affaticarci, perché perverremo in un luogo che non conosce la fatica. Corriamo alla casa del Signore! La nostra anima gioisca in coloro che ci dicono tali parole. In effetti, coloro che ci parlano così hanno visto prima di noi questa patria, e gioiscano da lontano coloro che vengono dopo di essi: « Noi andremo alla casa del Signore. » E cosa risponde ciascuno di noi? « Ho gioito in coloro che mi hanno detto: noi andremo alla casa del Signore. » Io ho gioito nel profeta, ho gioito negli Apostoli; perché tutti loro ci hanno detto: « Noi andremo nella casa del Signore. » (S. Agost.). – Quali sono i divini messaggeri a cui Dio ha incaricato di annunciare questa buona novella? È Gesù-Cristo, che ci ha dichiarato che vi sono più dimore nella casa di suo Padre; che Egli andava a prepararci un posto, e che voleva che noi fossimo con Lui; (Joan. XIV); è l’Apostolo san Paolo che ci ha detto che per qualche momento di tribolazione sulla terra, un carico immenso di gloria ci è riservato in cielo; (II Cor. IV, 47); è il Principe degli Apostoli, san Pietro, che ci parla dell’eredità incorruttibile, immutabile ed imprescrittibile che dobbiamo attenderci dopo i giorni del nostro esilio; (I Pietr. I, 4); è l’Apostolo diletto, davanti al quale tutte le porte del cielo sembrano essere aperte perché possa contemplarne gli splendori, e che ce ne descrive le magnificenze con un linguaggio incomparabile; (Apoc.); è questo nugolo di testimoni che la Chiesa onora, queste schiere innumerevoli di Santi che ha visto intorno al trono dell’Agnello, e che dispongono tutto in favore di questa santa patria, in cui tutte le nostre lacrime devono essere asciugate. – Quanto diversi sono i sentimenti nel peccatore e nel giusto, quando bisogna dire che è arrivata per loro la fine della vita. La morte è per l’uno la notizia più triste che si possa annunciare, perché non avendo durante la propria vita regolate le aspirazioni celesti nel suo cuore, egli non può sperare di salire verso la casa del Signore, e non gli si osa portare questa notizia se non con la precauzione più grande. Per l’altro è invece la notizia più gradita che egli possa ricevere, e lo si colma di gioia quando gli si viene a dire che è sul punto di andare nella casa del Signore. –  « I nostri piedi si sono fermati nei tuoi atri, o Gerusalemme. » Coloro che ci hanno annunciato che noi andremo nella casa del Signore non sono nell’ignoranza di ciò che sia questa città verso la quale camminiamo; essi non hanno annunciato delle cose incerte, essi non ci hanno promesso ciò che non conoscono … Questa casa, oggetto di tutti i nostri desideri, abbiamo appreso con gioia che essa ha come fondamento, dodici pietre preziose, che essa è costruita con pietre viventi, tagliate dapprima per l’edificio elevato da Mosè sotto la legge, poi continuata con la sofferenza dei Profeti, dal Signore, nel suo corpo, con il martirio degli Apostoli, con la forza e la virtù dello Spirito Santo. Ecco gli architetti ed i costruttori, ecco l’edificio e la città. Essi si son fermati nei suoi atri, essi che ne sono i guardiani, ai quali sono state rimesse le chiavi di questa città: «Io vi darò le chiavi del regno dei cieli. » (S. Hilar.) – I nostri piedi si sono altre volte fissati nei tuoi atrii. » Sì, noi abbiamo affollato gli atri della celeste Gerusalemme, quando noi abitavamo il Paradiso celeste nella persona di Adamo, nostro progenitore, « ma il paradiso terrestre era come il vestibolo del Paradiso celeste, e questo stato di innocenza era come la soglia e la porta dello stato di gloria. Forse è anche a causa di questo che lo Spirito-Santo non ha voluto scrivere: « i nostri piedi si sono stabiliti nelle tue piazze, ma nei tuoi atri, o sotto le tue porte, » affin di farci comprendere che si tratti, in questo salmo, della Gerusalemme celeste (Bellarm.) – È vero anche il dire, in un altro senso, che dopo la nuova della nostra redenzione, cioè dopo l’Annunciazione del Vangelo, i veri Cristiani si considerano come già negli atri della celeste Gerusalemme. I loro piedi, cioè i loro pensieri e le loro affezioni, sono già fissate nel cielo. « La nostra conversazione è nel cielo, dice l’Apostolo; noi siamo i concittadini dei Santi, e noi apparteniamo alla casa di Dio. Noi non dobbiamo più gustare le cose della terra, ma unicamente quelle che sono sopra di noi. (Filip. III, 20; Colos. III, 2). –  Quale deve essere la disposizione di coloro che camminano verso questa casa? Voi sapete ora quale sia la casa del Signore. Nella casa del Signore, si glorifica con le lodi Colui che ha fondato questa casa; si costituisce Egli stesso come delizie di tutti coloro che abitano la sua casa; Egli è la loro unica speranza quaggiù, il loro unico Bene lassù. Quale deve essere la disposizione di coloro che corrono verso questa casa? Credere di esservi di già. Pensare alla felicità di cui un giorno dovrete gioire; e benché siate ancora lungo il cammino, figuratevi già di esservi insediato, che già possediate, nella società degli Angeli, una gioia imperitura, e che si compia in voi questa parola: « Felici coloro che abitano nella vostra casa, essi vi glorificheranno nei secoli dei secoli. (Ps. LXXXIII, 5). » – « I nostri piedi si sono fissati negli atri di Gerusalemme. » Di quale Gerusalemme? In effetti c’è sulla terra una città con questo nome, ma essa non è che l’ombra dell’altra Gerusalemme. E qual grande felicità sarebbe il restare in questa Gerusalemme dei Giudei, che essi non hanno potuto conservare, e che è caduta in rovina? … A Dio non piace che siano tali, per questa Gerusalemme terrestre, i sentimenti di colui che ha tanto amore, tanto ardore, tanto desiderio di giungere a questa Gerusalemme, nostra madre (Galat. IV, 26), che l’Apostolo dice essere «terna nei cieli. » (S. Agost.). 

II. — 3-7.

ff. 3. – « Gerusalemme che è costruita come una città. » Queste parole possono intendersi del tempo successivo alla cattività. Gerusalemme non era allora che un vasto deserto ed un ammasso di rovine; le sue torri erano abbattute, le sue mura rovinate; triste retaggio di un’antica patria. Alla vista di questa solitudine, i Giudei reduci dalla cattività richiamano il ricordo della sua antica prosperità e del suo antico splendore … il testo stesso del salmista, viene in appoggio a questa spiegazione: « Gerusalemme che è costruita come una città; » perché allora non era ancora una città (S. Giov. Chrys.). – Questa città di Gerusalemme non è ancora completamente costruita; essa si costruisce tutti i giorni con pietre viventi, sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, di cui Gesù-Cristo è Egli stesso la principale pietra d’angolo (S. Girol.). – Il salmista sembra rispondere a questa domanda: Di quale Gerusalemme parlate? Di Gerusalemme che si costruisce come una città. Quando parlava così, la città di Gerusalemme era interamente costruita, non la si costruiva. Egli parla di non so quale città si costruisce al presente, e verso la quale corrono le pietre viventi, di cui l’Apostolo S. Pietro ha detto: « E voi siate assemblati come pietre viventi in un tempio spirituale. » (I Piet. II, 5), che è il tempio santo di Dio. Che significano queste parole: « Siate uniti come pietre viventi? » Voi siete viventi, se credete; e se credete, diventate il tempio di Dio; perché l’Apostolo S. Paolo ha detto: « il tempio di Dio è santo, e siete voi questo tempio. » (I Cor. III, 47). La città è dunque presentemente in costruzione; le pietre sono tagliate nelle montagne dalle mani dei predicatori della verità, esse sono squadrate per entrare nell’edificio eterno. Ecco dunque questa « Gerusalemme che si costruisce come una città; » il suo fondamento è Gesù-Cristo, perché l’Apostolo San Paolo ha detto: « Nessuno può porre un altro fondamento che quello che è stato posto, il quale è il Cristo Gesù. » (Ibid. 11). Dopo aver gettato le fondamenta, si elevano le mura al di sopra, ed il peso delle muraglie tende verso il basso, per cui il fondamento è posto in basso; ma se il nostro fondamento è in cielo, è in cielo che bisogna costruire l’edificio del quale facciamo parte … Noi siamo un edificio spirituale, il nostro fondamento è in alto. Corriamo dunque verso questo fondamento, per far parte della costruzione; perché della Gerusalemme celeste è stato detto: « I nostri piedi sono fissi negli atri di Gerusalemme. » Ma di quale Gerusalemme? « Della Gerusalemme che si costruisce come una città. » Perché non dice: Gerusalemme, città che si costruisce, ma: « che si costruisce come una città, » se non è perché questo assemblaggio di mura che formava, Gerusalemme era una città visibile, o secondo la proprietà volgare del termine, una città; ma la Gerusalemme del Profeta non è costruita come una città, perché coloro che entrano nella sua costruzione non sono che « come pietre viventi, » perché essi non sono realmente delle pietre. E così come essi sono come delle pietre e non delle pietre, così Gerusalemme è “come” una città, perché essa si costruisce, e non è una città (S. Agost.). – Gerusalemme celeste, in cui regna questa pace felice, in cui tutti i cuori sono legati ed uniti insieme; come nella Gerusalemme terrestre, i suoi numerosi edifici sono strettamente collegati tra di loro, senza la minima interruzione, e si prestavano una mutua protezione. La Chiesa della terra è ora privata di questa felicità di cui gioiva altre volte quando « la moltitudine di coloro che credevano non aveva che un cuore ed un’anima, e nessuno considerava ciò che possedeva come proprietà personale, ma in cui tutte le cose erano in comune. » (Act. IV, 32). – Questa partecipazione dello stesso bene, come traduceva Sant’Agostino, trasportava di ammirazione il santo dottore. Egli considerava questo bene nella sua immutabilità e nella sua eternità: ciò non può essere che l’essenza stessa di Colui che è sempre ciò che è; partecipazione che sorpassa tutti gli sforzi del nostro spirito, ma che eleva nello stesso tempo le nostre idee ed infiamma i nostri desideri.

ff. 4. –  « È là che sono salite le tribù, le tribù del Signore. » Nel popolo di Israele c’erano dodici tribù; ma esso conteneva buoni e malvagi … Così il Profeta dicendo: « là sono salite le tribù, » ha aggiunto: «le tribù del Signore. » Quali sono le tribù del Signore? Quelle che hanno conosciuto il Signore. In effetti, tra le dodici tribù perverse, vi erano dei giusti che facevano parte delle buone tribù che hanno conosciuto l’Architetto della città, ed esse erano, in mezzo a queste tribù, come il buon grano mescolato alla paglia. Tra esse sono salite, non mescolate alla paglia, ma purificate, poste nel rango degli eletti, e come appartenenti al Signore (S. Agost.). – « Ecco – diceva Gesù-Cristo – che noi saliamo a Gerusalemme, ed il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai principi dei sacerdoti ed agli scribi, che lo condanneranno a morte. » (Matth. XX, 18). Questa Gerusalemme era riprovata, ed Egli aveva pianto su di essa; questa Gerusalemme non era più la figura della Gerusalemme celeste, ma la figura del mondo corrotto, che perseguiterà sempre Gesù-Cristo e coloro che vogliono essere suoi discepoli. Le tribù del Signore che aspirano alla vera Gerusalemme non salgono verso questa Gerusalemme omicida: esse se ne allontanano per osservare la legge e cantare le lodi del Signore in quella Gerusalemme che gli Apostoli chiamano la nuova, la santa Gerusalemme, la Gerusalemme che è sopra di noi (Berthier). – Queste tribù del Signore, non sono le tribù di Israele o di Giuda. Siamo noi stessi queste tribù del Signore, ed è a noi che il Profeta fa questo invito: « Venite e salite alla montagna del Signore, ed Egli ci insegnerà le sue vie e noi cammineremo nei suoi sentieri, perché è da Sion che uscirà la legge, e la parola del Signore da Gerusalemme. » (Isai. XI, 3) – È da Gerusalemme che è uscita la parola del Signore per arrivare fino ai Gentili. Essi entrano nella città santa come testimonianza per Israele (S. Hilar.).

ff. 5. – « Là sono stabilite le sedi della giustizia. » È notevole che ciò su cui batte il Re-Profeta nel ritorno del popolo alla città santa ed al tempio del Signore, sia il vantaggio di possedervi dei tribunali, dei tribunali ove siedono degli uomini considerevoli che fanno parte della casa di Davide, e che esercitano in nome del principe, questa nobile parte della potenza reale: la distribuzione della giustizia. Nelle nostre chiese cattoliche, due cose soprattutto incutono, fin dall’entrata nel tempio, un profondo rispetto: il Tabernacolo, in cui il Dio che ha fatto il cielo e la terra si degna di riposare solitario e nascosto, ed il confessionale, ove il Cristiano viene spontaneamente ad autoaccusarsi, ed è giudicato sulle proprie confessioni e, con un sincero pentimento, merita un giudizio favorevole. A questo duplice aspetto, è impossibile dispensarsi da una emozione profonda: sì, si dice a se stesso, è certo qui la casa di Dio e la porta del cielo (Rendu). – Potere di rendere la giustizia appartenente a Colui che è il Messia, uscito dalla casa di Davide. – Egli ha comunicato ai Vescovi ed ai Sacerdoti, suoi ministri, il suo potere per conoscere e giudicare delle cose che riguardano le coscienze. È letteralmente nella celeste Gerusalemme che sono stati stabiliti i troni di giustizia, sia perché il trono di Gesù-Cristo e quello degli eletti che regnano con Lui sono stati posti nel cielo in maniera immutabile, sia perché i Santi stessi, regnando e giudicando con Gesù-Cristo, sono i troni di Dio. E questi troni sono fondati sulla casa di Davide, perché tutta la potenza reale e giudiziaria dei Santi proviene da Gesù-Cristo che, secondo il Vangelo, è Figlio di Davide, ha ricevuto il trono di Davide suo padre, e regnerà eternamente sulla casa di Giacobbe (Bellarm.).

ff. 6. – « Chiedete tutto ciò che può contribuire alla pace di Gerusalemme. » Il Profeta esorta gli esiliati che tornano a Gerusalemme a salutare da lontano la città santa, chiedendo per essa la pace e l’abbondanza, questi due beni, i più grandi di tutti, e che fanno il benessere delle città, perché la pace senza l’abbondanza non è che il possesso tranquillo della miseria, e l’abbondanza senza la pace è una felicità dubbia ed incerta. (Bellarm.). – Così, non è solo la liberazione da tutti i mali che egli ha predetto, ma il felice sommarsi di tutti i beni: la pace, l’abbondanza, la fertilità. In effetti a cosa servirebbe la pace a coloro che soffrono la povertà, l’indigenza e la fame, e di quale utilità sarebbe l’abbondanza in mezzo agli orrori della guerra? (S. Crys.). – Domandate la pace, come la intendono e la desiderano i figli di Dio: e la pace ancora, ma certo meglio, di come la desiderano i figli di questo secolo. Pregate per ciò che si riferisce alla pace di Gerusalemme, cioè alla città che si chiama con il nome stesso della pace, perché ne contiene tutti gli elementi e tutte le garanzie; e, come il Profeta Geremia raccomandava ai Giudei che dimoravano in Babilonia: « Cercate la pace della città temporale nella quale siete destinati a vivere, benché il suo nome esprima agitazione e confusione, non omettete di pregare il Signore per essa, perché la sua pace, sarà la nostra pace. » (Jerem XXIV, 7). – In mezzo a questa pace esteriore, il bene spirituale si opera in larghe proporzioni, il regno di Dio vi trova il suo progresso, e dal canto loro, le cose umane hanno tanto da guadagnare; di modo che se la pace esteriore profitta alla casa di Dio, la prosperità di essa serve egualmente gli interessi dei nostri fratelli e dei nostri prossimi. (Mgr. Pie, T. V, 321).

ff. 7. – « Che la pace sia nella forza. » O Gerusalemme! O città costruita come una città! « che la pace sia nella tua forza, » che la pace sia nella tua carità; perché la tua forza, è la carità. Ascoltate il Cantico dei cantici: « l’amore è forte come la morte. » (Cant. VIII, 6). Grande parola, fratelli miei: « l’amore è forte come la morte. » La forza della carità non poteva essere descritta in termini più magnifici: « L’amore è forte come la morte. » In effetti, fratelli miei, chi può resistere alla morte? Mi si presti attenzione con la vostra carità: si resiste al fuoco, all’acqua, al ferro; si resiste alle potenze, ai re; la morte si presenta sola, chi le resiste? Nulla di più forte c’è di essa. Ecco perché le è stata comparata la carità, ed è stato detto: « L’amore è forte come la morte … » Se dunque esso è forte, è potente, di gran forza, anzi è la forza stessa; ed è con l’aiuto di questa forza che i deboli sono retti dai robusti, la terra dal cielo, il popolo dalle autorità; che la pace sia dunque nella tua forza, o Gerusalemme, che la pace sia nella tua carità; e che con questa forza, con questa carità, con questa pace, « l’abbondanza sia nelle tue torri, », cioè in ciò che hai di più elevato. Saranno pochi in effetti coloro che saranno seduti come giudici; ma molti saranno posti alla destra e formeranno il popolo di questa città. Molti si saranno legati a ciascuna di queste sedi sì elevate, e saranno ricevuti da essi nei tabernacoli eterni, e l’abbondanza regnerà nelle torri della città. Ora, Dio stesso, Colui che è, al quale partecipano tutti gli abitanti della città, è Egli stesso la pienezza delle delizie e l’abbondanza delle ricchezze di Gerusalemme e, con Lui, l’abbondanza regnerà nelle sue torri. Ma come? Per mezzo della carità che è essa stessa la forza della città. (S. Agost.). – Il Profeta desidera e domanda l’abbondanza dei beni celesti su coloro sui quali è sicuramente il merito e che, come torri forti, difendono la città con la loro solidità e servono da ornamento con la loro altezza. (S. Gerol.).

ff. 8, 9. – « Io ho parlato di pace, a causa dei miei fratelli e dei miei vicini. » Si vedono in questi due versetti i due caratteri dell’amore. Il Profeta desidera la pace di Gerusalemme, non per se stesso, ma per i suoi fratelli ed i suoi vicini, o per i suoi amici; egli desidera per Gerusalemme tutti i beni, non ancora per se stessa, ma per l’onore della casa di Dio. (Berthier.) – « A causa dei miei fratelli e dei miei prossimi, io ti auguro la pace. » O Gerusalemme, città in cui gli abitanti sono partecipi di Colui che è, che sono ancora in questa vita e su questa terra; io, povero, esiliato, gemente, che non godo ancora della tua pace e che predico tuttavia la pace, io non la predico in vista di me, come fanno gli eretici, che cercano la loro gloria quando dicono: la pace sia con voi, e che non possiedono la pace che predicano ai popoli. Se, in effetti, essi avevano la pace, non avrebbero distrutto l’unità, « Io d’altra parte – egli dice – ho parlato di pace a tuo vantaggio; » ma perché? « A causa dei miei fratelli e dei miei vicini, » e non per il mio onore, non per la mia fortuna, non per la mia vita; « perché, per me, vivere è il Cristo, e morire è un guadagno. » – « A causa della casa del Signore, mio Dio, io ho cercato i beni per te. » Non è a causa mia che ho cercato i beni, perché allora li avrei cercati, non per te, ma per me; ma io li ho cercati «a causa della casa del Signore mio Dio, » a causa della Chiesa, a causa dei Santi, a causa degli esiliati, a causa degli indigenti, affinché possano salire verso questa casa, mentre noi diciamo loro: « Noi andremo alla casa del Signore. » È a causa di questa casa del Signore mio Dio che ho cercato i beni per te! » (S. Agost.). 

TUTTA LA MESSA (L’UNICA “VERA” CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (5)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (5)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

6 — La purificazione delle mani

155 — Perché il Sacerdote si lava le dita?

La cerimonia della lavanda delle mani ricorda l’antica pratica di offrire doni all’altare. Il ricevimento di questi doni – pane, vino, cera, olio, frutta, ecc. – ed il maneggio dell’incensiere sporcavano le mani del celebrante. In passato, quindi, la lavanda delle mani era un rito di utilità; oggi rimane un rito simbolico.

156 — Cosa figura la lavanda delle mani?

La lavanda delle mani è la purificazione da tutte le contaminazioni: contaminazioni delle mani che presto toccheranno l’Ostia consacrata, contaminazioni dell’anima che sta per ricevere Gesù in sé.

La rubrica prescrive, nella Messa privata, il lavaggio della punta delle dita per marcare la cura che il Sacerdote deve prendere di purificare il suo cuore anche dalle colpe più leggere, dall’ombra stessa del peccato.

157 — Quale preghiera recita il Sacerdote purificandosi le mani?

Il Sacerdote recita una parte del salmo XXV che racchiude il voto di celebrare il sacrificio immacolato dell’Agnello di Dio con la più gran purezza, con il più grande fervore possibile.

Preghiera:

Lavábo inter innocéntes manus meas: et circúmdabo altáre tuum. Dómine: Ut áudiam vocem laudis, et enárrem univérsa mirabília tua. Dómine, diléxi decórem domus tuæ et locum habitatiónis glóriæ tuæ. Ne perdas cum ímpiis, Deus, ánimam meam, et cum viris sánguinum vitam meam: In quorum mánibus iniquitátes sunt: déxtera eórum repléta est munéribus. Ego autem in innocéntia mea ingréssus sum: rédime me et miserére mei. Pes meus stetit in dirécto: in ecclésiis benedícam te, Dómine.

[Laverò fra gli innocenti le mie mani: ed andrò attorno al tuo altare, o Signore: Per udire voci di lode, e per narrare tutte quante le tue meraviglie. O Signore, ho amato lo splendore della tua casa, e il luogo ove abita la tua gloria. Non perdere insieme con gli empi, o Dio, l’anima mia, né la mia vita con gli uomini sanguinari: Nelle cui mani stanno le iniquità: e la cui destra è piena di regali. Io invece ho camminato nella mia innocenza: riscattami e abbi pietà di me. Il mio piede è rimasto sul retto sentiero: ti benedirò nelle adunanze, o Signore.]

7 — La preghiera alla Santa Trinità

158 — Cosa fa il Sacerdote dopo la lavanda delle mani?

Il Sacerdote ritorna al centro dell’altare, alza gli occhi verso il crocifisso e subito li abbassa, mette le mani giunte sull’altare, e poi, in questo atteggiamento, recita una preghiera alla Santissima Trinità.

Preghiera:

Súscipe, sancta Trinitas, hanc oblatiónem, quam tibi offérimus ob memóriam passiónis, resurrectiónis, et ascensiónis Jesu Christi, Dómini nostri: et in honórem beátæ Maríæ semper Vírginis, et beáti Joannis Baptistæ, et sanctórum Apostolórum Petri et Pauli, et istórum et ómnium Sanctórum: ut illis profíciat ad honórem, nobis autem ad salútem: et illi pro nobis intercédere dignéntur in coelis, quorum memóriam ágimus in terris. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Accetta, o Santissima Trinità, questa offerta che ti facciamo in memoria della passione, risurrezione e ascensione di nostro Signore Gesù Cristo, e in onore della beata sempre Vergine Maria, di san Giovanni Battista, dei santi Apostoli Pietro e Paolo, di questi [martiri le cui reliquie sono nell’Altare], e di tutti i Santi, affinché ad essi sia d’onore e a noi di salvezza, e si degnino d’intercedere per noi in Cielo, mentre noi facciamo memoria di loro in terra. Per il medesimo Cristo nostro Signore. Amen.]

159 — La preghiera alla Santa Trinità riassume tutti gli elementi dell’offerta?

Questa preghiera riassume tutti gli elementi dell’offerta, perché dice a chi si rivolge l’offerta, la parte che il cielo deve prendere in essa, e l’aiuto che la Chiesa sulla terra può aspettarsi da essa.

È a Dio solo che viene offerto il santo Sacrificio. Tuttavia, può essere offerto a Lui in onore di un Santo – cioè per ringraziare il Signore per il trionfo concesso al suo servo – per assicurarci la protezione di un amico di Dio.

Il Concilio di Trento, infatti, citando proprio questa preghiera, afferma: « E sebbene la Chiesa sia stata abituata a volte a celebrare alcune messe in onore e in memoria dei Santi, essa insegna tuttavia che non è a loro che si offre il Sacrificio, ma solo a Dio che li ha incoronati. Per questo il Sacerdote non ha l’abitudine di dire: “Io offro il sacrificio a voi, … Pietro o Paolo; ma, nel rendere grazie a Dio per le loro vittorie, egli implora il loro patrocinio affinché gli stessi di cui ricordiamo la memoria sulla terra, si degnino di intercedere per noi in cielo. »

160 — Perché il Sacerdote menziona i misteri della Passione, della resurrezione e dell’Ascensione di Nostro Signore?

La Messa viene celebrata in memoria della Redenzione le cui parti principali sono: la Passione, la Risurrezione e l’Ascensione di Nostro Signore. Nella Passione, l’Agnello Immacolato è stato immolato; nella Risurrezione, è glorificato; nell’Ascensione, viene a sedersi alla destra del Padre per completare la nostra redenzione e salvezza.

161 — Quali sono i Santi menzionati in questa preghiera?

In questa preghiera, il Sacerdote fa menzione speciale agli stessi Santi che ha invocato nel Confiteor e ai Santi le cui reliquie sono poste nella pietra dell’altare.

162 — Perchè il Sacerdote chiede a Dio per mezzo del Cristo che i Santi preghino per noi?

Chiediamo a Dio per mezzo del Cristo non solo l’effetto delle preghiere che i Santi fanno, ma anche l’ispirazione e il desiderio di farle, perché possiamo chiedergli tutti i mezzi che gli piace usare per manifestare la sua gloria. Dobbiamo chiederlo per mezzo di Gesù Cristo, attraverso il quale solamente, ci deve venire tutto il bene.

« Ci sono intercessori in cielo – dice Bossuet – che pregano con noi: ma essi stessi sono ascoltati solo dal Grande Intercessore e Mediatore Gesù Cristo attraverso il quale tutti hanno accesso, sia gli Angeli che gli uomini, sia i Santi che vi regnano che quelli che combattono ».

163— Quale onore procura ai Santi la menzione del loro nome alla Messa?

La Messa, Sacrificio impetratorio, ottiene da Dio un aumento della gloria accidentale dei Santi, cioè un aumento del loro culto sulla terra. Inoltre, la menzione dei loro nomi nella Messa li associa più strettamente al trionfo dell’Agnello Immacolato in cielo.

8 — Orate Fratres

164— Cosa fa il Sacerdote dopo aver recitato la preghiera alla Santissima Trinità?

Il Sacerdote bacia l’altare, si rivolge ai fedeli, poi, stendendo mani e braccia, invita i presenti alla preghiera.

Preghiera:

Oráte, fratres: ut meum ac vestrum sacrifícium acceptábile fiat apud Deum Patrem omnipoténtem.

[Pregate, fratelli, affinché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre onnipotente.]

Il popolo risponde immediatamente all’invito del Sacerdote, attraverso la voce del servente:

Suscípiat Dóminus sacrifícium de mánibus tuis ad laudem et glóriam nominis sui, ad utilitátem quoque nostram, totiúsque Ecclésiæ suæ sanctæ.

[Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio, a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua Santa Chiesa.]

Il sacerdote aggiunge a bassa voce: Amen, esprimendo così la sua adesione al pio desiderio degli astanti.

165 —Perché il Sacerdote bacia l’altare prima dell’Orate Fratres?

Il sacerdote bacia l’altare in questo momento, perché è nel Nome di Gesù, che l’altare rappresenta, che inviterà i fedeli a pregare.

Le parole Orate Fratres qui prendono il posto della formula ordinaria Oremus e servono come introduzione all’orazione successiva chiamata secreta. In passato, la cerimonia dell’offertorio durava a lungo e poteva distrarre l’attenzione dei fedeli; da qui il richiamo alla preghiera.

Oráte, fratres: ut meum ac vestrum sacrifícium acceptábile fiat apud Deum Patrem omnipoténtem.
M. Suscípiat Dóminus sacrifícium de mánibus tuis ad laudem et glóriam nominis sui, ad utilitátem quoque nostram, totiúsque Ecclésiæ suæ sanctæ.

[Pregate, fratelli, affinché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre onnipotente.
M. Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio, a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua Santa Chiesa.]

166 — A chi si indirizza questa parola “Fratelli”?

Questa parola “fratelli” si rivolge a tutti i fedeli, senza distinzione di condizione o di sesso. Nelle parole degli Apostoli e dei Padri, questo termine designa i membri della Chiesa, rigenerati dallo stesso Sacramento (il Battesimo), nutriti per la vita eterna alla stessa mensa (l’Eucaristia), e uniti gli uni agli altri dai comuni vincoli della stessa fede, speranza e carità.

167— Spiegate questa espressione: “questo mio e vostro sacrificio”.

Nei Sacrifici della croce e nella Messa, è lo stesso Sacerdote che offre; è la vittima stessa che viene offerta, Nostro Signore Gesù Cristo. Ma Cristo si è creato con il Battesimo dei membri che la Cresima ha perfezionato. « Voi siete tutti insieme il corpo di Cristo e singolarmente le sue membra », dice San Paolo. « Non immaginiamoci che Cristo – osserva sant’Agostino – sia nella testa e assente dalle membra. No, è interamente nella testa e nel corpo ». Ecco perché, rinnovando in modo non cruento sui nostri altari il Sacrificio della croce, Cristo non è e non può essere separato da noi, prima di tutto dai suoi Sacerdoti, che ha fatto partecipi del suo Sacerdozio attraverso il Sacramento dell’Ordine, poi dai suoi fedeli intimamente associati a questo Sacerdozio come membri del suo Corpo, «… razza eletta, un sacerdozio regale, un sacerdozio santo, incaricato di offrire le ostie spirituali, gradite a Dio », come li chiama San Pietro. Benché i membri, uniti alla testa, come il ramo al tronco, partecipano all’altare in vari gradi, essi celebrano con Cristo, potendo ciascuno dire, in tutta verità, la MIA Messa, perché Cristo ha voluto che fosse la NOSTRA, dal momento in cui si è unito ai fedeli come membri del Suo Corpo Mistico.

9 — Secreta

168 — Perché questa orazione è chiamata secreta?

Questa preghiera, recitata a bassa voce, si chiama da tempo Secreta, o preghiera silenziosa.

Secondo diversi liturgisti, la parola stessa non significa a “bassa voce”, perché ancora oggi nel rito ambrosiano la preghiera corrispondente viene pronunciata ad alta voce. Secondo essi, la parola “secreta” viene dal latino secernere, che ha il participio secretum e significa “separare”, essendo questa preghiera recitata, alla separazione dei catecumeni dai fedeli, sul pane e sul vino destinati al sacrificio e separati dalle offerte destinate alla distribuzione. Secondo altri liturgisti, la parola “secreta” significa “segreta” o “misterioso”! Costoro considerano la secreta come appartenente al gruppo successivo di preghiere, in cui si trova il “Mistero della fede” per eccellenza: la Consacrazione.

169 — La secreta somiglia alla colletta?

Per quanto riguarda la forma, il numero, l’ordine e la conclusione, valgono le stesse regole che per le collette. Ma il soggetto delle une e delle altre è diverso: nelle collette, in generale, non si fa menzione del Sacrificio; le secrete, al contrario, hanno come obiettivo l’oblazione e contengono più o meno gli stessi pensieri dell’intero offertorio.

170 —Come terminano le secrete?

Il Sacerdote termina la secreta con le parole: per omnia sæcula sæculorum, [per tutti i secoli dei secoli], alle quali il servente risponde Amen. Questo Amen conclude tutta questa parte della Messa. Così sia! un atto di fede, sublime nella sua semplicità, di tutto il popolo cristiano, che approva ciò che è stato fatto, preparato e detto, e si costituisce nel tempo stesso, nell’amore che si offre, ostia con Cristo.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/20/tutta-le-messa-lunica-vera-cattolica-romana-momento-per-momento-6/

TUTTA LA MESSA (L’UNICA “VERA” CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (4)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (4)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

5 — Le predica

119 — Di quante parti si compone la predica?

La predica, come si fa oggi alle grandi Messe, si svolge in tre parti:

a) gli annunci delle feste, dei digiuni e dell astinenze che si verificheranno durante la settimana:

b) gli annunzi di nozze, le funzioni settimanali, le preghiere per i bisogni  temporali e spirituali, per la parrocchia e per i fedeli defunti;

c) l’istruzione dei fedeli.

120 — Che cos’è la predica od omelia?

L’omelia è un discorso familiare sul Vangelo.

6 — Il Credo

121— Quali verità contiene il Credo?

Il Credo contiene le principali verità che la Chiesa ci insegna.

Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente che ha fatto il cielo e la terra, tutte le cose visibili e invisibili. E in un solo Signore Gesù Cristo, unico Figlio di Dio, che nacque dal Padre prima di tutte i secoli, Dio da Dio, luce da luce, vero Dio da vero Dio; non fatto ma generato; consustanziale al Padre e per mezzo del quale tutto è stato fatto. Che, per noi uomini e per la nostra salvezza, scese dal cielo (qui ci inginocchiamo). E si è incarnato per opera dello Spirito Santo nel grembo della Vergine Maria E SI È FATTO UOMO. Che fu crocifisso per noi, soffrì sotto Ponzio Pilato e fu sepolto; è risorto il terzo giorno secondo le Scritture. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre e verrà di nuovo nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il cui regno non avrà fine. Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, che procede dal Padre e dal Figlio, che con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato; ed ha parlato per mezzo dei profeti. Credo alla Chiesa; una, santa, cattolica e apostolica. Confesso un solo Battesimo per la remissione dei peccati; Aspetto la resurrezione dei morti e la vita del secolo a venire. Così sia.

122 — Perché il Credo viene detto un symbolo?

La parola simbolo significa marchio, segno e ancora stendardo. Diamo il nome di simbolo al Credo perché un tempo era un marchio o un segno che veniva usato per distinguere i Cristiani dagli infedeli: da signum, da symbolum, dà il segno, recita il simbolo, nella Chiesa primitiva si diceva di quelli che si presentavano alle riunioni. Il Credo è in qualche modo lo stendardo dei Cristiani, vale a dire il loro segnale di battaglia, quando la loro fede viene attaccata e quando si uniscono per difenderla, come i soldati attorno alla loro bandiera.

123— Quanti simboli si contano?

La liturgia reconosce tre symboli di fede:

a) Il symbolo degli Apostoli: la Chiesa lo recita nell’officio del breviario, il padrino e la madrina lo formulano a nome del bambino che sta per essere battezzato.

b) Il symbolo di sant’Athanasio: lo si recita all’Ufficio di certe domeniche.

c) Il symbolo di Nicea: lo si recita alla Messa.

124 — Quando si dice  il Credo alla Messa?

Due motivi in ​​particolare hanno determinato l’introduzione del Credo nella Messa: la speciale solennità del giorno e il rapporto che il simbolo ha con la festa celebrata.

Per la prima ragione, il Credo è recitato nelle feste del titolare della chiesa, ad esempio nella festa di Santa Caterina, San Luigi di Francia, ecc., nelle chiese che sono rispettivamente dedicate a loro; nelle feste del patrono del luogo, vale a dire il Santo che è solennemente onorato come il protettore particolare di una parrocchia, una città, una diocesi, una provincia, per esempio alla festa di Sant’Anna, alle due feste di San Giuseppe; alla festa di un Santo di cui è custodita una reliquia emblematica; alle solenni Messe votive, celebrate per una causa grave e generale, su ordine o con il permesso del Vescovo. L’ottava è la continuazione della festa: se questa ha il Credo, ce l’ha anche l’ottava.

Per la seconda ragione, si dice che il Credo sia presente alle Messe di tutte le domeniche, perché la Domenica è soprattutto dedicata all’adorazione della Santissima Trinità; nelle Messe di Nostro Signore, ad esempio: del Preziosissimo Sangue, del Corpus Christi; dello Spirito Santo; della Beata Vergine; degli Angeli, a causa delle parole: Creatore del cielo … e cose invisibili; degli Apostoli, per via delle parole: credo nella Chiesa che è … apostolica; i due evangelisti Luca e Marco, che si collegano agli Apostoli, e Santa Maria Maddalena, che annunciò la risurrezione di Cristo agli Apostoli; del giorno di Ognissanti, della Dedicazione e del suo anniversario, per via delle parole: credo nella Chiesa che è una; dei Dottori della Chiesa, che hanno magistralmente esposto la dottrina del simbolo.

125 — Perché il Sacerdote fa un segno di croce terminando il Credo?

Un tempo i fedeli pronunciando le parole “la risurrezione dalla carne”, solevano mettere le mani sulla fronte per affermare con questo gesto che è nella loro carne che resusciteranno. In seguito questo gesto è stato prolungato nel segno di croce.

TERZA PARTE

La Messa dei fedeli

OFFERTA:

Offertorio

Offerta del pane

Miscela dell’acqua e del vino

Offerta del vino

Invocazione allo Spirito Santo

Lavaggio delle mani

Preghiera alla santa Trinità

Orate Fratres

Secreta

CONSACRAZIONE:

Prefazio

Sanctus

Canone

Te igitur

Memento dei vivi

Communicantes

Hanc igitur

Quam oblationem

Consacrazione del pane e del vino

Unde et memores

Supra quæ

Supplices

Memento dei morti

Nobis quoque peccatoribus

La conclusione del Canono

COMUNIONE

Pater

Libéra nos

Frazione del pane

Agnus Dei

Preghiera per la pace

Preghiere prima della Comunione

La Santa Comunione

Le abluzioni

L’Antifona della Comunione

Il Postcommunio

La Preghiera sul popolo

La dimissione dei fedeli

Il Placeat

La benedizione

L’ultimo Evangelio

Le preghiere dopo la Messa

CAPITOLO IV

126 — Come si divide la Messa dei fedeli?

La Messa dei fedeli è divisa in tre parti: offerta, consacrazione e comunione (preparazione e ringraziamento).

Questa divisione è indicata dalle sante parole che precedono la consacrazione del pane e del vino: “Egli prese il pane… e anche questo prezioso calice” (offerta); “rese grazie, benedisse” (consacrazione); “spezzò e diede” (comunione).

OFFERTA

127 — Qual è lo scopo dell’Offerta?

Attraverso le preghiere e le cerimonie dell’Offerta, i fedeli, prima di offrire il santo Sacrificio dell’altare, affidano al Sacerdote di Dio le loro intenzioni di offerta e di domanda.

1 — Offertorio

128 — Perché il Sacerdote dice il “Dominus vobiscum” dopo il Credo?

Il sacerdote dice Dominus vobiscum dopo il Credo, perché è lì che inizia la Messa dei fedeli. Il sacerdote saluta il gruppo dei battezzati che parteciperanno al Sacrificio della Messa e li invita alla preghiera con questa parola: oremus, preghiamo.

129 — Come si faceva un tempo l’offerta dei doni all’altare?

In passato, i presenti venivano in processione per offrire al sacerdote i doni per il sacrificio, – pane e vino, – o per il fabbisogno personale del celebrante, – pane, vino, latte, miele, – o per il servizio pubblico della Chiesa, – olio, candele, incenso e altri doni.

Ascoltare la Messa o offrire il proprio pane era allora tuttuno per i fedeli. Chi non si è offerto non doveva associarsi al Sacrificio del Vescovo o del Sacerdote. San Cipriano (= 258) rimprovera una donna ricca che, per avarizia, si è astenuta dall’offrire, ma non ha esitato a fare la comunione: “Osi – diceva – partecipare al sacrificio offerto da un povero”.

130 — Donde deriva l’antifona chiamata offertorio?

Fintanto che la durava cerimonia di offerta, due cori eseguivano un canto composto da un’antifona ed alcuni versi. Questo canto processionale, come l’introito, non aveva nulla a che fare con l’offerta fatta all’altare; esprimeva un’idea in linea con la solennità del giorno. Questo carattere è stato generalmente preservato abbreviandolo.

131— Quando oggi i fedeli fanno i loro doni per il santo sacrificio?

Per ragioni pratiche, i fedeli sostituirono le oblazioni in natura richieste per il santo sacrificio – pane e vino – con il loro equivalente in forma di monete o di altri valori materiali. Per le stesse ragioni, i fedeli provvedevano al mantenimento personale dei loro Sacerdoti e al servizio pubblico della Chiesa con contributi in denaro. Questa è l’origine degli onorari per le Messe, delle questue, ecc.

Sant’Epifanio (+ 403) cita il caso di un ebreo che era stato battezzato segretamente sul letto di morte dal Vescovo di Tiberiade e iniziato ai sacri misteri dell’Eucaristia. Terminata la cerimonia, consegnò al Vescovo una quantità d’oro molto importante e gli disse: “Offri per me”. Santa Matilde ( + 968), alla morte del marito, l’imperatore Enrico l’uccellatore, fu sorpresa dagli eventi. Al posto delle normali oblazioni, offrì al sacerdote due braccialetti d’oro, chiedendogli di celebrare la Messa per il defunto.

132 — Con quale spirito i fedeli devono fare le loro offerte?

La nostra vita è legata al nostro pane, chi si aliena il suo pane, dona la sua vita, si dona vivente, si dona da se stesso. Nel portare il pane e il vino all’altare, i fedeli non solo offrivano. ma si offrivano da se stessi con Cristo. Nonostante le nuove modalità, il rito dell’oblazione e il suo significato profondo rimangono ancora oggi. Offrendo oggi le loro monete, i fedeli continuano ad offrire se stessi. Quanto più santo sarà questo atto di oblazione, tanto più sarà gradito a Dio, tanto più agirà sul suo cuore, tanto meglio assicurerà l’abbondanza delle sue grazie, tanto più sarà fecondo.

2 — Offerta del pane

133 — Cosa fa il Sacerdote dopo aver letto l’offertorio?

Il Sacerdote scopre il calice, prende tra le mani la patena su cui poggia l’ostia, la solleva davanti ai suoi occhi, che guardano per un attimo la croce sull’altare e subito ritornano all’ostia; pronuncia la preghiera Suscipe, “Ricevi, Santo Padre” … poi pone l’ostia sul corporale, facendosi il segno della croce con la patena.

Preghiera:

Suscipe, sancte Pater, omnipotens ætérne Deus, hanc immaculátam hóstiam, quam ego indígnus fámulus tuus óffero tibi Deo meo vivo et vero, pro innumerabílibus peccátis, et offensiónibus, et neglegéntiis meis, et pro ómnibus circumstántibus, sed et pro ómnibus fidélibus christiánis vivis atque defúnctis: ut mihi, et illis profíciat ad salútem in vitam ætérnam. Amen.

[Accetta, Padre santo, onnipotente eterno Iddio, questa ostia immacolata, che io, indegno servo tuo, offro a Te Dio mio vivo e vero, per gli innumerevoli peccati, offese e negligenze mie, e per tutti i circostanti, come pure per tutti i fedeli cristiani vivi e defunti, affinché a me ed a loro torni di salvezza per la vita eterna. Amen.]

134 — Perché il pane disposto sulla patena si chiama ostia?

Il pane depositato sulla patena diventerà presto il corpo di Cristo, la vera vittima o ostia reale del sacrificio. Attraverso questo pane materiale, la Chiesa contempla già in anticipo la vittima immacolata, l’ostia immacolata, Cristo Gesù.

135 — Di qual tipo di pane ci si serve per il santo Sacrificio della Messa?

I primi Cristiani offrivano al Sacerdote il pane delle loro case, pane fermentato. A partire dal settimo secolo, si è cominciato a preferire sempre più il pane azzimo. Nell’XI secolo le chiese d’Occidente usavano il pane azzimo e quelle d’Oriente il pane fermentato. Il Concilio di Firenze (1439) dichiarò la perfetta legittimità dell’usanza stabilita. Oggi  « nella celebrazione della Messa il sacerdote deve, secondo il proprio rito, usare pane azzimo o fermentato ovunque si trovi ». Questa è la regola stabilita dal Codice di Diritto Canonico.

136 — Cosa simbolizza il pane senza lievito?

Il lievito rappresenta la malizia e la malvagità. Poiché il pane eucaristico è azzimo, per mangiarlo con dignità, bisogna togliere dal cuore ogni lievito di peccato.

137 — Perché il Sacerdote leva gli occhi al momento dell’offerta?

Quando compieva atti particolarmente solenni, Gesù alzava gli occhi al cielo: per esempio, alla risurrezione di Lazzaro, alla moltiplicazione dei pani. Il sacerdote imita questo gesto durante la Messa, prima dell’oblazione del calice, durante l’invocazione allo Spirito Santo, prima della preghiera alla Santissima Trinità e anche prima della consacrazione.

138 — A chi il Sacerdote indirizza la sua preghiera?

Come farà spesso alla Messa, qui il Sacerdote si rivolge soprattutto a Dio  Padre, in unione con il Salvatore che si immola Egli stesso sull’altare al suo Padre celeste.

139 — Per chi il Sacerdote offre  il Sacrificio?

Prima per se stesso, poi per tutti i presenti, e infine per tutti i Cristiani, vivi e morti.

È normale che gli offerenti – un tempo offrendo in natura, oggi con un’offerta pecuniaria – siano presenti al Sacrificio, poiché è il loro sacrificio. Possono essere materialmente assenti, ma anche in loro assenza sono veramente offerenti; il Sacerdote offre a Dio il sacrificio in loro favore e da parte loro.

140 — Perchè è offerto il santo Sacrificio?

Il santo Sacrificio è offerto per la remissione dei peccati e per la salvezza di tutti nella vita eterna.

La Messa è infatti un Sacrificio propiziatorio, cioè rende Dio propizio, clemente e misericordioso onde perdonarci le nostre miserie, i nostri peccati e così riconciliarci con Lui.

La salvezza è la totalità di tutti i beni portati da Gesù Cristo; possederli significa essere salvati. Per noi qui sulla terra inizia con la grazia e si consuma dopo la morte nella gloria.

3 — Mescolanza dell’acqua e del vino

141 — Cosa fa il Sacerdote dopo aver deposto l’ostia sul corporale?

Il sacerdote si reca al lato dell’Epistola e versa nel calice il vino e qualche goccia d’acqua.

“Il Santo Concilio (di Trento) avverte che la Chiesa impone ai Sacerdoti di mescolare l’acqua con il vino da offrire nel calice, sia perché Cristo Nostro Signore, si crede, lo abbia fatto, sia perché l’acqua sgorga dal suo fianco insieme al sangue; è questo mistero che viene commemorato da questa mescolanza; e come le acque nell’Apocalisse di San Giovanni significano i popoli, così è qui rappresentata l’unione del popolo fedele stesso con il suo capo, Cristo. (Conc. Trid. Sess. XXII, c. VII).

142 — Come la mescolanza dell’acqua al vino rapresenti la nostra unione al Cristo?

Come l’acqua mescolata al vino partecipa alla natura del vino e diventa in qualche modo il vino stesso, così per grazia partecipiamo alla natura divina e diventiamo in qualche modo Dio stesso. Il Sacerdote, attraverso la preghiera che recita in quel momento, chiede a Dio di concederci di essere partecipi della natura divina:

Preghiera:

Deus, qui humánæ substántiæ dignitátem mirabíliter condidísti, et mirabílius reformásti: da nobis per hujus aquæ et vini mystérium, ejus divinitátis esse consórtes, qui humanitátis nostræ fíeri dignátus est párticeps, Jesus Christus, Fílius tuus, Dóminus noster: Qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus: per ómnia sæcula sæculórum. Amen

O Dio, che in modo meraviglioso creasti la nobile natura dell’uomo, e più meravigliosamente ancora l’hai riformata, concedici di diventare, mediante il mistero di quest’acqua e di questo vino, consorti della divinità di Colui che si degnò farsi partecipe della nostra umanità, Gesù Cristo tuo Figlio, Nostro Signore, che è Dio e vive e regna con Te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

143 — Quale è alla Messa la conseguenza dell’unione dei fedeli al Cristo?

Come Cristo, il capo del Corpo mistico della Chiesa, guida i suoi membri nella sua offerta, così i fedeli non sono più semplici trasgressori, sono veramente trasgressori. Ogni mattina, partecipando all’oblazione della Messa, versano nel calice del sacrificio di Cristo – come la piccola goccia d’acqua persa nel vino del calice – la somma dei sacrifici che la loro fedeltà alla sua legge richiede a ciascuno di loro, nel corso della giornata.

« Io sono – dice il Cardinale Mercier – la piccola goccia d’acqua che il vino della Messa assorbe, e il vino della Messa diventa il sangue dell’Uomo-Dio ». E il Dio-Uomo è sostanzialmente unito alla Santissima Trinità. La piccola goccia d’acqua viene portata nel fiume della vita della Santissima Trinità. Sarà mai abbastanza pura, abbastanza chiara, la piccola goccia d’acqua destinata a partecipare al santo Sacrificio della Messa?

144 — Perché il Sacerdote benedice l’acqua prima di mescolarla al vino?

L’acqua è l’immagine dei Cristiani, che hanno sempre bisogno di grazia e che traggono il massimo beneficio dalla loro unione con Gesù Cristo.

Nelle Messe dei Morti questa benedizione viene omessa. Tutte le cerimonie di questo ufficio hanno lo scopo di ottenere il maggior numero possibile di grazie per il defunto; pertanto, tutto ciò che può indicare il frutto che va ai presenti o ai vivi viene omesso.

4 — Offerta del vino

145 — Che fa il Sacerdote dopo aver mescolato l’acqua al vino?

Il sacerdote ritorna al centro dell’altare, solleva il calice per presentarlo a Dio e allo stesso tempo recita la preghiera: Offerimus,

Preghiera:

Offérimus tibi, Dómine, cálicem salutáris, tuam deprecántes cleméntiam: ut in conspéctu divínæ majestátis tuæ, pro nostra et totíus mundi salute, cum odóre suavitátis ascéndat. Amen.

[Ti offriamo, o Signore, questo calice di salvezza, e scongiuriamo la tua clemenza, affinché esso salga come odore soave al cospetto della tua divina maestà, per la salvezza nostra e del mondo intero. Così sia.]

146 — Perché il Sacerdote dice questa preghiera al plurale?

Il sacerdote è l’ambasciatore della Chiesa all’altare; perciò egli offre a nome di tutti i fedeli, e questi, specialmente gli assistenti, offrono in unione con il Sacerdote. Con il loro Amen, fanno proprie in qualche modo le parole del sacerdote.

Ci riuniamo in comune – dice San Cipriano – e celebriamo i sacrifici divini con il Sacerdote di Dio. San Paolo ha già scritto (1 Cor., X, 16): « Il calice di benedizione che noi benediciamo », cioè che consacriamo. Con queste parole si intendono i fedeli presenti al Sacrificio.

147 — Perché il Sacerdote chiama il vino offerto a Dio il calice della salvezza?

Presto questo vino sarà trasformato nel sangue di Nostro Signore; questo sangue è stato versato per la nostra salvezza e per la salvezza del mondo intero. È per noi uomini e per la nostra salvezza che il Verbo è sceso dai cieli, come cantiamo nel Credo.

148 — Spiegate l’espressione “salire come un profumo soave”.

Questa espressione allude agli antichi sacrifici, come quelli di Abele. Si bruciava allora una vittima e, vedendo il fumo salire verso il cielo, si stimava che Dio accettasse questo sacrificio odorando con soddisfazione il fumo odoroso.

149 — Quali disposizioni devono avere il Sacerdote ed i fedeli offrendo il santo Sacrificio?

Queste disposizioni sono riassunte nella preghiera che il sacerdote recita con le mani giunte e poste sul bordo dell’altare:

Preghiera:

In spíritu humilitátis et in ánimo contríto suscipiámur a te, Dómine: et sic fiat sacrifícium nostrum in conspéctu tuo hódie, ut pláceat tibi, Dómine Deus.

[Con spirito di umiltà e con animo contrito, possiamo noi, o Signore, esserti accetti, e il nostro sacrificio si compia oggi alla tua presenza in modo da piacere a Te, o Signore Dio.]

150 — Qual è il senso di questa preghiera?

Questa preghiera si trova per la prima volta sulle labbra dei tre giovani israeliti nella fornace di Babilonia. Poiché questi giovani non potevano più offrire a Dio i sacrifici prescritti dalla Legge, si sono offerti come vittime espiatrici, per ottenere misericordia per i loro peccati e per quelli del popolo. Seguendo il loro esempio, in spirito di umiltà e con cuore contrito, dobbiamo offrirci a Dio come olocausti graditi al Signore. Queste sono le migliori disposizioni che possiamo portare all’altare.

151 — Perché questa espressione “Possiamo esserti accetti”?

Le oblazioni – pane e vino – rappresentano gli offerenti stessi, il Sacerdote e i fedeli, esseri imperfetti che devono quindi presentarsi al Signore battendosi il petto.

5 — L’invocazione allo Spirito-Santo

152 — Quale rubrica osserva il Sacerdote recitando la preghiera allo Spirito-Santo?

Il sacerdote, in piedi, alzando e tendendo le mani, inizia l’invocazione allo Spirito Santo, poi, con le parole benedice questo sacrificio, fa il segno della croce sia sull’ostia che sul calice.

Preghiera:

Veni, sanctificátor omnípotens ætérne Deus: et bene dic hoc sacrifícium, tuo sancto nómini præparátum.

[Vieni, Onnipotente Santificatore, Dio Eterno, benedici questo sacrificio preparato per la gloria del tuo Santo Nome.]

153 — Perché questa invocazione allo Spirito Santo?

La liturgia unisce a più riprese i misteri dell’Incarnazione e dell’Eucaristia. Pur essendo prodotte dalla potenza divina delle tre Persone, tuttavia, come opere d’amore, l’Incarnazione e la consacrazione sono attribuite soprattutto allo Spirito Santo. La benedizione a cui si fa riferimento in questa preghiera è la consacrazione.

Senza sosta, la Chiesa tiene gli occhi fissi sulla transubstanziazione delle Oblate, sul corpo e sul sangue di Gesù Cristo. È attraverso la consacrazione e per essa che tutte queste cerimonie preparatorie di offerta hanno il loro significato.

154 — Perché il Sacerdote traccia un segno di croce sui doni deposti sull’altare?

Questo segno della croce rappresenta la benedizione dello Spirito Santo, che viene implorato sui doni offerti; l’alzare gli occhi, che lo precede, e il movimento delle mani mostrano il forte desiderio della discesa dello Spirito Santo e delle sue benedizioni.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/17/tutta-la-messa-lunica-vera-cattolica-romana-momento-per-momento-5/

SALMI BIBLICI: “LEVAVI OCULOS MEOS IN MONTES” (CXX)

SALMO 120: “LEVAVI OCULOS MEOS in montes”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 120

Canticum graduum.

[1] Levavi oculos meos in montes,

unde veniet auxilium mihi.

[2] Auxilium meum a Domino, qui fecit cœlum et terram.

[3] Non det in commotionem pedem tuum, neque dormitet qui custodit te.

[4] Ecce non dormitabit neque dormiet qui custodit Israel.

[5] Dominus custodit te, Dominus protectio tua super manum dexteram tuam.

[6] Per diem sol non uret te, neque luna per noctem.

[7] Dominus custodit te ab omni malo; custodiat animam tuam Dominus.

[8] Dominus custodiat introitum tuum et exitum tuum, ex hoc nunc et usque in sæculum.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXX.

Consola il Salmo i pellegrini che ascendono verso la Gerusalemme celeste, promettendo loro la perpetua custodia di Dio. Parla il profeta dapprima in persona del pellegrino, poi in persona propria, a consolar il pellegrino

Cantico dei gradi.

1. Alzai gli occhi miei verso dei monti, donde verrà a me soccorso?

2. Il mio aiuto vien dal Signore, che fece il cielo e la terra.

3. Non permetta egli che vacilli il tuo piede e non assonni colui che è tuo custode.

4. Ecco che non assonnerà, né dormirà colui che custodisce Israele.

5. Il Signore ti custodisce; il Signore è tua difesa al tuo destro fianco.

6. Non ti brucerà il sole di giorno, né la luna di notte.

7. Il Signore ti custodisce da ogni male; custodisca il Signore l’anima tua.

8. Il Signore ti custodisca all’entrare e all’uscire, da questo punto e per sempre.

Sommario analitico

Il salmista personifica qui i pellegrini di Gerusalemme affrancati dai legami dell’esilio, il popolo cristiano entrato nella via della salvezza, e la Chiesa trionfante nella Gerusalemme celeste.

I. – Egli dichiara che mette tutta la sua speranza in Dio:

1° Con l’elevazione dei suoi occhi verso il cielo (1),

2° con la fede del suo cuore nella potenza di Dio 82).

II. – Mostra che ha ottenuto da Dio tutto ciò che è necessario al viaggiatore:

1° È necessario al viaggiatore che il suo piede non traballi; è il vantaggio che gli procura la vigilante sollecitudine di Dio, fedele guardiano suo e di tutto il popolo di Israele (3, 4);

2° la mano del viaggiatore deve raffermarsi appoggiandosi su di un sostegno; è ancora ciò che fa Dio coprendola con la sua ombra protettrice (5);

3° occorre difendere il proprio corpo dagli ardori del sole e dal freddo della notte: « Il sole non vi brucerà, etc. » (6);

4° bisogna che la propria vita sia protetta da ogni danni: « Dio lo preserva da ogni pericolo. »  

5° bisogna arrivare al termine del viaggio, alla patria, al riposo eterno: « Che il Signore custodisca la vostra via. » (8).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-2.

ff. 1, 2. – Se le sofferenze della cattività hanno reso migliori i Giudei, e fatto loro alzare gli sguardi al cielo, malgrado le loro grossolane inclinazioni ed il loro attaccamento alla terra. Ma è giusto che imitiamo la loro condotta, ricorrendo a Dio in mezzo ai nostri guai, noi che siamo tenuti ad una più grande perfezione? Essi erano allora in mezzo ai loro nemici, senza città, senza fortezze, senza alcun soccorso umano, senza denaro, senza alcuna risorsa; essi vivevano come prigionieri, come schiavi in mezzo ai loro padroni e loro nemici. È allora, che schiacciati sotto i piedi dei loro infortuni, riconoscevano la mano invincibile di Dio e che, privi di ogni soccorso umano, trovavano in questo universale abbandono un motivo per elevarsi alla più alta saggezza. Ecco ciò che loro dettava questa preghiera. Tutto ciò che possiamo attendere dagli uomini svanisce, tutto ci manca, tutto ci sfugge, non abbiamo che un’unica speranza: quella che viene da Dio (S. Chrys.). – Tale è la natura dello spirito umano, se assorbito nel pensiero, nella contemplazione di un oggetto qualunque: questo oggetto ci appare sotto la forma che il nostro pensiero gli ha dato. Così, in un giorno d’inverno, se pensiamo alla primavera ed il nostro pensiero si rappresenta tutti i suoi ricchi ornamenti, dimentichiamo la stagione rigorosa che fa tremare dal freddo, per non pensare che alla primavera con tutte le magnificenze che con sé comporta. È  in questo che gli occhi dello spirito hanno un vantaggio sugli occhi del corpo, perché ci fanno dimenticare le cose presenti, per assorbirci interamente nel pensiero delle cose passate o future. Il Profeta leva dunque gli occhi verso le montagne. Quali occhi? Gli occhi dei quali egli dice: « Togliete il velo che copre i miei occhi, perché io consideri le meraviglie della vostra legge » (Ps. CXVIII, 9), ed ancora: « Il precetto del Signore è luminoso, rischiara gli occhi. » (Ps. XVIII, 9). Gli occhi del nostro corpo non sono stati disposti come illuminati da una luce corporea per vedere gli oggetti esteriori? Qual bisogno di togliere il velo che li copre? … Sono dunque gli occhi dello spirito che il Profeta eleva verso i monti (S. Hil.). – Un viaggiatore leva continuamente gli occhi verso il luogo verso il quale è diretto, per vedere se potrà scorgerlo, o verso le montagne che sono vicine. Questo sguarda allevia la sua fatica e gli dà nuova forza per completare il suo viaggio. Il cielo deve essere l’oggetto continuo dello sguardo del Cristiano durante il pellegrinaggio di questa vita, ed è da li che deve attendere tutto il suo soccorso. (Duguet). – Nel linguaggio della Scrittura, la montagna, presa al singolare, figura abitualmente Gesù-Cristo o la Chiesa, mentre le montagne, quando nominate al plurale, sono piuttosto l’emblema delle creature più elevate nell’ordine della religione, come gli Angeli, gli Apostoli, i Profeti, i predicatori, etc. (S. Greg., S Agost.). – Queste montagne sono quelle delle quali è descritto che sono illuminate da Dio; Dio le illumina perché dall’alto delle loro cime, la luce scenda fino al fondo della valle. È attraverso di loro che effettivamente ci arriva la divina parola, quando ci viene dal ministero dei Profeti o degli Apostoli. – Ma non è in esse che termina la nostra speranza, esse ci soccorrono quando Dio viene dapprima in loro aiuto, ed esse non si illuminano se non quando Dio invia loro per primo la sua luce, ed è per questo che il salmista, dopo aver detto: « Io ho alzato gli occhi verso i monti, da dove mi verrà il soccorso, » subito si appresta a dire: « Il mio soccorso viene da Dio che ha creato cielo e terra. » (S. Agos.). – Ecco il ragionamento che racchiudono queste parole: se Dio ha fatto il cielo e la terra, può venir dunque in nostro aiuto in terra straniera, e fin in questi paesi barbari, può tenderci una mano in soccorso e salvare dei poveri esiliati. Una sola parola gli è sufficiente per creare gli elementi, Egli potrà dunque a maggior ragione, liberarci da questo popolo che ci tiene prigionieri. (S. Chrys.). – Si è dappertutto nel territorio che appartiene a Dio, si è dappertutto sotto I suoi occhi e sotto la sua protezione, ed è una malattia del nostro spirito legare il nostro benessere ad un clima piuttosto che ad un altro (Berthier).

II. — 3-8.

 ff. 3, 4. – Il Profeta sviluppa nel prosieguo del salmo qual sia questo soccorso che attende da Dio, e qual sia l’oggetto della sua speranza: 1° Dio non permetterà che la sua volontà, che è come il piede dell’anima, sia lacerata, che essa cada per una caduta mortale. – Il piede è una parte, un membro del corpo che porta il corpo ovunque debba agire. E come la Chiesa si serve di cose corporali e visibili per insegnare cose spirituali ed invisibili, sotto il nome di piede essa intende i movimenti della nostra anima, che sono come i piedi dell’anima … che hanno in se stessi sia la vista dell’intelligenza, sia la determinazione della volontà … Ora, non cerchiamo di intendere queste parole in questo senso: che Dio ci consegni ai vizi nei quali introdurremo i piedi di un’anima corrotta. Non è Lui che ci introduce e ci abbandona, siamo noi che ci separiamo da Lui con il peccato, e che cadiamo allora nei precipizi e negli abissi di tutti i crimini. (S. Hil.). – Si vorrebbero avere nel mondo dei protettori che non fossero soggetti né a dimenticare, né a perderci, che fossero sempre attenti ai nostri interessi e che la morte non possa prenderli. Questo è impossibile; così siamo tutti ingannati in ogni istante nelle nostre speranze. Il Profeta dà al suo popolo un protettore sempre attento e sempre sussistente: è Dio, il Padre di tutti gli uomini, e l’Essere immortale; è Lui che custodisce il vero Israele, cioè l’uomo rivestito dalla forza di Dio (Berthier). – Dal momento che dimoriamo con Dio e che Dio dimora in noi, abbiamo un guardiano dei più vigilanti ed un appoggio che non si stanca mai. Ma se noi veniamo ad addormentarci con l’intiepidire della fede, si addormenta anche Egli stesso in noi. Non è che il sonno né il riposo possano esistere in questa Potenza eterna, di cui gli Angeli mantengono questa vigilanza conforme al loro nome ed alla loro natura … ma, a seconda che la nostra fede vegli o dorma, il soccorso di Dio veglia in nostro favore o cade nel sonno (S. Hil.). – Dio veglia continuamente su di noi, e la conoscenza che ha di noi e dei nostri bisogni non è una conoscenza semplicemente abituale che si possa comparare alla disposizione di un uomo a metà addormentato, ma una conoscenza sempre attuale. (S. Tommaso, – lib. I cont. Gent. 56). – Non temiamo quindi da Lui né abbandono, né isolamento, Egli non vi lascerà alla mercé dei vostri nemici. È questo punto che vuole insegnarci quando aggiunge: « Colui che custodisce Israele? » Che significano queste parole? Se dopo tanti secoli e dai tempi dei vostri ancestri, tutto il suo oggetto è stato il vegliare alla vostra sicurezza, non temete di vederlo mai mancare a questo dovere. (S. Chrys.).  

ff. 5, 6. – 2° Non soltanto Dio non vi abbandonerà, ma vi assicura una protezione che vi metterà al riparo da ogni pericolo: Egli sarà vostro difensore, vostro alleato, vostro soccorso. Notate che Dio esige ancora i vostri sforzi. Prendendo a prestito questa figura dai combattenti, il Salmista vi rappresenta Dio che si tiene alla vostra destra per rendervi invincibile, raddoppiare la vostra azione, la vostra forza, la vostra potenza, assicurarvi la vittoria e farvi riportare uno splendido trionfo, perché la mano destra è lo strumento di tutte le azioni incisive che noi facciamo. Non contenti di difendervi e portarvi soccorso, vi coprirà ancora con la sua protezione (S. Chrys.). – « Il sole non vi brucerà durante il giorno, né la luna durante la notte. » 3° Giorno della prosperità e notte dell’avversità di cui si è ugualmente bruciati, ci si acceca nella prosperità, come ci si abbatte nell’estremo dell’infortunio; ma come sottolineano i santi, è più facile soffrire l’avversità senza lasciarsi abbattere che avere prosperità senza lasciarsi corrompere (Dug.). – Coloro che si consacrano al servizio di Dio devono combattere due tipi di nemici: la fuga dalle loro passioni e l’inerzia della loro tiepidezza. È difficile dire quale di essi sia più pericoloso. Le passioni possono generare grandi traversie, e la tiepidezza può arrestare il progresso delle virtù più grandi (Berthier).

ff. 7, 8. – 4° Il potere dei principi e dei re, anche i più potenti, è estremamente limitato. Se hanno talvolta qualche potere di liberare altri uomini, questo potere non si intende che per qualche male particolare, come la fame, la calunnia, la vessazione, l’infamia, la violenza. Gli uomini vi liberano da una prova, ma non possono salvarvi da un’altra, oppure se possono, non lo vogliono. Non c’è che l’Onnipotente che abbia il potere di preservare i sensi da ogni male, e quando permette che siano afflitti da qualche male, Egli li preserva, se sono veramente fedeli, dal turbamento e dall’amarezza che ne sarebbero il seguito. Egli fa ancora di più: custodisce letteralmente la nostra anima, contro la quale soprattutto si scatena il demonio, e gli dà la forza di sopportare questi mali, ed anche di amarli e preferirli alle delizie della terra; Egli la protegge da ogni male, principalmente dai più grandi, che è poi il solo male propriamente detto, cioè il peccato. « Voi siete custoditi, diceva l’Apostolo San Pietro (I Piet. V. 1, 5), dalla virtù di Dio, e a causa della vostra fede, dalla salvezza che vi sarà manifestata negli ultimi tempi. » (S. Chrys., Dug., Berthier). – .5° Le espressioni di cui si serve il Salmista si estendono a tutta la vita, per cui i due termini abbracciano l’entrata e l’uscita; e per esprimere più chiaramente questa verità, egli aggiunge. « Ora e per sempre. » Egli non vi custodirà solo uno, due, tre, venti o cento giorni, ma per sempre. Questa perseveranza non si riscontra negli uomini, soggetti a tanti ritorni, a tante vicissitudini, Colui che è sempre vostro amico, diviene domani vostro nemico, e colui che vi presta soccorso in questo momento, vi abbandona l’istante successivo, e si dichiara contro di voi; ma al contrario, i doni di Dio sono immutabili, senza interruzione, immortali, stabili, e non hanno limite che nell’eternità. (S. Chrys.). –  Dio ci protegge all’inizio ed alla fine delle nostre azioni, quando entriamo nell’occupazione alla quale la sua Provvidenza ci chiama, e quando ne usciamo, alla fine della nostra vita. (Dug.). – Questa guardia fedele non è limitata ai tempi presenti e non è durante questa vita che possiamo sperare di essere interamente al riparo dal calore del giorno e dal freddo della notte, come pure di essere preservati da ogni male; ma è una grazia riservata al secolo futuro … il Signore proteggerà dunque la nostra uscita, quando lasciando il nostro corpo, andremo a riposarci nel seno di Abramo, separati dagli empi da un caos insormontabile. Il Signore proteggerà la nostra entrata, introducendoci nell’eterno e felice reame, Egli che ha detto: « Io sono la porta. » (Giov. X, 7) e: « Nessuno va al Padre, se non per me. » (Giov. XIV, 6). – Non c’è una gradazione evidente nei versetti di questo salmo. Il Profeta dice che Dio custodisce il suo popolo, perché non abbia più cadute; che lo custodisce perché stia al riparo dalle insidie dei suoi nemici; che lo custodisce perché non sia esposto né al calore del giorno, né al freddo della notte; che lo  custodisce perché sia preservato da ogni male ed anche da ogni peccato, perché custodisce la sua anima; è l’oggetto del 7° versetto; Egli lo custodisce nel corso della sua vita; infine che lo custodisce sempre, sia nel tempo, che per l’eternità (Berthier).

TUTTA LA MESSA (L’UNICA “VERA” CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (3)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (3)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

7 — L’Introito

63 — Cosa fa il Sacerdote dopo aver baciato l’altare nella direzione ove si trovano le reliquie?

Il Sacerdote, dopo aver baciato l’altare in direzione delle reliquie, va al lato dell’Epistola per leggere l’introito.

64 — Cosa significa la parola Introito?

La parola introito significa entrata; l’introito era un tempo un canto processionale che veniva eseguito mentre il Sacerdote si avvicinava all’altare.

65— Di quanti parti si compone l’introito?

L’Introito è composto da quattro parti: l’antifona, il versetto, la dossologia o Gloria Patri, l’antifona.

Nella formula normale e probabilmente la più antica, l’antifona è presa in prestito da un salmo, e il versetto che segue è il primo del salmo stesso. Spesso il testo dell’antifona è fornito da un passo biblico adattato, e talvolta da altre composizioni. Così, nella domenica di Quasimodo, l’antifona è tratta dalla prima epistola di San Pietro e dal versetto del Salmo LXXX.

66 — Qual è lo scopo dell’Introito?

L’Introito annuncia e commenta brevemente il mistero o la festa che il Santo Sacrificio solennizza. A volte esprime gioia o dolore, altre volte speranza o gratitudine, oppure è un pianto dolorosa o una preghiera, – I nostri antenati vivevano nella fede così uniti alla Chiesa nella celebrazione del suo culto, che chiamavano le domeniche come l’antifona degli Introiti. Si dice infatti: la domenica “Gaudete”, le domeniche “Lætare”, “Quasimodo”; si dice anche la Messa votiva “Rorate” della Beata Vergine, la Messa di Requiem”.

Notiamo qui l’espressione: “Noi ti rendiamo grazie per la tua grande gloria”, La Chiesa non dice: ti ringraziamo per le tue benedizioni e le tue misericordie. Essa usa un modo di dire molto più bello e profondo, dicendo: “Vi ringraziamo per la vostra grande gloria”. Questo modo di parlare esprime l’amore più puro dell’autoindulgenza, un amore che dimentica se stesso, non pensa al proprio vantaggio, ma solo alla gloria del suo amato Signore.

67 — Perché il Sacerdote fa il segno della croce cominciando la lettura dell’introito?

L’Introito costituisce veramente l’inizio del fatto liturgico per eccellenza: la Santa Messa. È abitudine dei Cristiani segnarsi prima degli atti importanti.

68 — Perché il Sacerote fa il segno della croce sul Messale alla Messa da requiem?

Alla Messa dei morti, le prime parole dell’Introito si applicano in modo molto speciale ai morti. È per loro che il Sacerdote, attraverso il frutto del suo Sacrificio, chiede il riposo eterno e la luce infinita. Invece di segnare se stesso per attribuirsi questa benedizione, segna il Messale e attribuisce la benedizione al defunto.

8 — Le Kyrie

69 — Che significa l’invocazione Kyrie eleison?

Questa invocazione, Kyrie eleison, composta da due parole greche, significa: Signore, abbiate pietà di noi.

70Quali suppliche richiama il Kyrie eleison?

Il Kyrie eleison ricorda le suppliche del cieco di Gerico, della donna Cananea, dei dieci lebbrosi.

71 — Perché si dice il Kyrie eleison in greco?

In passato, in Oriente, all’inizio della Messa, il diacono raccomandava ai fedeli i bisogni della Chiesa, dei Vescovi, dei Sacerdoti, dei Cristiani, dei catecumeni, dei malati, ecc… Ad ognuna di queste richieste, i fedeli rispondevano nella loro lingua: Kyrie eleison, Signore, abbi pietà di noi. Queste parole, che si ripetono frequentemente, sono diventate popolari e sono state accettate così com’erano dalla Chiesa latina senza preoccuparsi di tradurle.

La liturgia ha anche le espressioni ebraiche Amen, Alleluta, Sabaoth, Osanna: così troviamo nella Messa le tre lingue che, già sulla croce, proclamavano al mondo la regalità di Gesù Cristo (Giovanni, XIX, 20).

72 — A chi viene indirizzata l’invocazione Kyrie eleison?

I primi tre Kyrie sono rivolti a Dio Padre, i tre Christe a Dio Figlio, gli ultimi tre Kyrie a Dio Spirito Santo.

9 — Il Gloria

Gloria
Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex coeléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

[Gloria a Dio nell’alto dei cieli. E pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi Ti lodiamo. Ti benediciamo. Ti adoriamo. Ti glorifichiamo. Ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa. Signore Iddio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente. Signore, Figlio unigenito, Gesù Cristo. Signore Iddio, Agnello di Dio, Figlio del Padre. Tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi. Tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica. Tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. Poiché Tu solo il Santo. Tu solo il Signore. Tu solo l’Altissimo, Gesù Cristo. Con lo Spirito Santo ✠ nella gloria di Dio Padre. Amen.]

73 — Quando sono state pronunciate per la prima volta le parole “Gloria in excelsis”?

Queste parole: « Gloria in excelsis » sono state pronunciate per la prima volta dagli Angeli che annunciano ai pastori la nascita di Gesù a Betlemme. Per questo motivo si chiama Inno degli Angeli.

74 — Quante parti si distinguono nel Gloria?

Nel Gloria si possono distinguere tre parti: la prima è a gloria del Padre, la seconda è una supplica al Figlio, la terza è rivolta allo Spirito Santo.

75 — Mostrate come il Gloria esprima i quattro fini del santo Sacrificio della Messa.

Il Santo Sacrificio della Messa è offerto per:

glorificare Dio (adorazione) – « Noi vi lodiamo, vi benediciamo, vi adoriamo »;

ringraziarlo (ringraziamento) – « Noi vi rendiamo grazie »;

espiare i peccati degli uomini (propiziazione) – « Voi che cancellate il peccato del mondo, abbiate pietà di noi »;

ottenere grazie (impetrazione) – « Accettate la nostra preghiera ».

[Notiamo qui l’espressione: « Noi ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa » – La Chiesa non dice: ti ringraziamo per le tue benedizioni e le tue misericordie. Essa usa un modo di dire molto più bello e profondo, dicendo: “Vi ringraziamo per la vostra gloria immensa”. Questo modo di parlare esprime l’amore più puro dell’indulgenza, un amore che dimentica se stesso, non pensa al proprio vantaggio, ma solo alla gloria del suo amato Signore.]

76 — In quali Messe è omesso il  Gloria e perché?

Il Gloria è un inno di gioia. Viene quindi soppresso nei giorni di lutto e di digiuno: nelle Messe per i defunti, nei giorni di Avvento e di Quaresima, e nella veglia di alcune feste.

Ecco la regola da seguire: ogni volta che il Te Deum viene recitato la mattina dell’ufficio quotidiano, il Gloria viene detto alla Messa in accordo con quell’ufficio; quando il Te Deum viene omesso dall’ufficio, viene omesso anche il Gloria. Ci sono due eccezioni: il Giovedì Santo e il Sabato Santo, dove si dice il Gloria nella Messa, anche se il Te Deum viene omesso dall’Ufficio, perché la Messa di questi due giorni ha un carattere gioioso che contrasta con la tristezza che regna nell’Ufficio.

Il Gloria non si dice nelle Messe votive, se non in quella della Beata Vergine, il sabato, in quella degli Angeli, e nella solenne Messa votiva per un serio interesse.

CAPITOLO III – ISTRUZIONI

77 — Qual è lo scopo dell’Instruzione?

Le preghiere, gli inni e le lezioni di cui si compone l’Istruzione hanno come scopo principale l’illuminazione dello spirito: servono a risvegliare la fede e ad accendere la devozione, affinché il sacerdote e i presenti siano preparati per il grande atto che deve essere compiuto sull’altare.

1 — Colletta e orazione

78  Perché il Sacerdote dice il Dominus vobiscum dopo il Gloria?

Finito il Gloria, il Sacerdote dice il Dominus vobiscum per invitare al raccoglimento il popolo in nome del quale va a pregare.

79 — Qual è il senso della parola colletta?

La parola “colletta” un tempo si usava per designare gli incontri dei fedeli per la preghiera, e soprattutto per la celebrazione della Santa Eucaristia. L’invito a pregare “Oremus”, [preghiamo], era immediatamente seguito dall’enumerazione di varie intenzioni. Il diacono diceva dopo ognuna di esse: “inginocchiamoci”, e l’assemblea pregava in ginocchio con queste intenzioni fino al momento in cui si diceva “levate”, cioè alzatevi in piedi. Il Sacerdote cantava poi una preghiera che riassumeva le preghiere dette in silenzio dai presenti. Il nome di “colletta”, che dapprima designava gli assistenti, ha ben presto designato la preghiera fatta a nome degli assistenti.

80 — Il Sacerdote può recitare più di una colletta

Nelle grandi feste, il Sacerdote dice una sola colletta. Nelle feste minori, il sacerdote può dirne diverse. Queste orazioni aggiunte alla prima, sono o memoriali di Santi la cui festa coincide con quella del giorno, o delle preghiere devozionali che il Sacerdote può aggiungere quando le rubriche glielo permettono, o un’orazione speciale ordinata dal Vescovo della diocesi per una particolare necessità.

81 — Da quante parti è composta la colletta?

La colletta è composta da quattro parti: l’elevazione dell’anima a Dio, il ringraziamento o la glorificazione, la petizione e la conclusione.

a) La preghiera è un’elevazione dell’anima a Dio.

b) Glorifichiamo Dio: o per i suoi attributi, o per i privilegi che ha concesso ai Santi, o per il mistero che celebriamo.

c) Dopo aver spiegato le ragioni della nostra fiducia e il motivo per cui ci rivolgiamo a Dio in un determinato giorno, chiediamo un favore che corrisponda alle qualità così sottolineate.

Questa parte centrale della colletta è di solito introdotta dalle parole: “concedete, accordate, proteggete, noi vi domandiamo”, etc…

d) Infine, poiché è Gesù Cristo il grande intermediario tra Dio e gli uomini, il Sacerdote termina la sua preghiera affidandosi ai meriti di Gesù Cristo per ottenere la grazia richiesta.

Tutte le collette contengono queste quattro parti. Per esempio, la preghiera della Domenica delle Palme:

a) Dio onnipotente ed eterno,

b) che, per dare al genere umano un modello di umiltà, avete voluto che il nostro Salvatore si rivestisse della nostra carne e si sottomettesse al tormento della croce;

c) concedeteci, nella vostra bontà, di meritare che riteniamo la lezione della sua pazienza e di partecipare alla sua risurrezione.

d) dallo stesso Nostro Signore Gesù Cristo. Così sia.

82 — Perché il Sacerdote stende le mani durante la colletta?

Questo rito risale a tempi antichi. Anche prima del Cristianesimo, gli Ebrei e i gentili alzavano le mani al cielo per pregare. Sant’Agostino esorta i fedeli a riprodurre, pregando, il segno di Cristo sulla croce.

83— Quale rubrica osserva il Sacerdote nel terminanre la colletta?

Al termine della colletta, il Sacerdote unisce le mani e si inchina al crocifisso dell’altare.

84 — Perché i fedeli rispondono “amen” alla fine della colletta?

I fedeli rispondono “amen” alla fine della colletta per unirsi alla preghiera che il Sacerdote ha fatto per loro.

2 — Epistola

85 — Quale preghiera fa il Sacerdote dopo aver letto o cantato le orazioni?

Dopo aver letto o cantato le orazioni, il Sacerdote, ponendo le mani sulla base del messale, legge l’epistola. E il servente risponde Deo gratias.

In passato, il chierico incaricato di questo ufficio leggeva gli scritti degli Apostoli e dei Profeti fino a quando la cerimonia lo consentiva, riprendendo da dove si era interrotto la domenica precedente. Per fermare la lettura, chi presiedeva diceva Deo Gratias.

86 — Perché il Sacerdote mette le mani sul messale leggendo l’Epistola?

Il sacerdote pone le mani sul messale mentre legge l’Epistola, per imitare il suddiacono che, durante le Messe solenni, tiene il libro tra le sue mani durante questa lettura.

87 — Donde viene questo nome di Epistola?

I primi Cristiani, riuniti per l’offerta del Sacrificio, leggevano i Libri Sacri. Questa lettura era presa dall’Antico Testamento, secondo l’usanza delle sinagoghe ebraiche, e anche dal Nuovo Testamento, di solito dalle Epistole degli Apostoli, specialmente da quelle di San Paolo. Da qui l’abitudine di chiamare questa lettura Epistola, anche quando è presa dagli Atti degli Apostoli o dall’Antico Testamento.

88— Perchè questi Cristiani leggevano di preferenza le Epistole degli Apostoli?

I primi Cristiani furono Ebrei o Gentili recentemente convertiti dagli Apostoli. Le Epistole loro rivolte dagli Apostoli continuavano l’insegnamento già ricevuto e correggevano gli errori di interpretazione delle loro parole. Così San Paolo raccomanda ai Tessalonicesi, « a tutti i santi fratelli », di leggere la sua lettera.

89— Quali sono gli Apostoli che hanno scritto delle Epistole?

San Pietro, San Giovanni, San Paolo, San Giuda e San Giacomo.

90— Quali parole introducono la lettura dell’Epistola?

L’epistola si intitola lectio, cioè lettura. Le parole Fratres, fratelli miei, e Carissimi, miei cari, ricordano in quali termini San Paolo e gli altri Apostoli si rivolgevano ai loro fedeli.

L’attuale Messale contiene 135 diverse letture dell’Antico Testamento di cui 25 tratte da Isaia; 106 letture dalle Epistole di San Paolo; 22 dal Libro degli Atti; 12 dalle due epistole di San Pietro; 12 dall’Apocalisse.

91 — L’epistola comprende diverse letture?

L’epistola di solito ha una sola lettura. In alcune Messe, come nei quatuor Tempora, ci sono diverse letture.

92 — Che significa la formula Deo gratias?

La formula Deo gratias significa: rendere grazie a Dio; è un’espressione di gratitudine al Signore, Autore di ogni bene. Gesù, fonte di grazia e di santità, è anche la fonte di luce e di verità. È doveroso ringraziarlo per gli insegnamenti che elargisce mediante la bocca dei suoi inviati.

3 — Graduale, Alleluia, Tratto, Sequenza

93 — Quali preghiere dice il Sacerdote dopo l’epistola?

Dopo l’Epistola. Il Sacerdote dice il Graduale e l’Alleluia.

94 — Di quante parti si compone il Graduale?

Il Graduale è composto da due parti, un responsoriale e un versetto preso dai salmi. In passato, dopo la lettura dell’epistola, un cantore cantava un salmo e il coro rispondeva: la parte del cantore era chiamata responsorio, la parte del coro versetto.

Il cantore che intonava il salmo stava su un grado dell’ambone, cioè il pulpito, dove si leggeva l’epistola. Dalla parola latina gradus, che significa gradino, è nata la parola Graduale per designare il canto un tempo eseguito sul gradino dell’ambone.

95 — Che significa la parola Alléluia?

La parola Alleluia significa: lodate il Signore.

96 — L’Alleluia si dice in tutte le Messe?

L’Alléluia è un canto gioioso: lo si sopprime in Quaresima, nelle Messe dei morti, e nei giorni di penitenza.

97 — Cosa si chiama Tratto?

Il Tratto era un salmo eseguito un tempo tutto d’un tratto da un solo cantore nell’ambone, senza essere interrotto da un responsoriale o da un’antifona; il nome Tratto indica quindi il modo in cui questo salmo viene cantato. In seguito, il Tratto, come il Graduale, è stato ridotto al canto di alcuni versetti.

98 — Quando si dice  il Tratto alla Messa?

Si dice il Tratto nella Messa al posto dell’Alleuja, durante la Settuagesima fino al termine della Quaresima.

99 — Cosa si chiama Sequenza?

Si chiama Sequenza dei canti, in prosa o in versi, delle aggiunte all’Alleluia o al Tratto.

100 — Qual è l’origine delle Sequenze?

Era consuetudine in passato prolungarere il canto sull’ultima lettera dell’Alleluia senza aggiungervi nuove parole. Ben presto cominciarono a essere poste delle parole sotto queste note: a questi canti fu dato il nome di Sequenze, cioè canti che seguono l’Alleluia o il tratto.

101 — Perché si dà il nome di Prosa alle Sequenze?

Le Sequenze sono chiamate Prosa perché originariamente erano composte in prosa.

102— Quali sono attualmente le Prose o Sequenze accettate alla Messa?

Quattro antiche Sequenze sono state accettate alla Messa da Papa San Pio V: la Victimæ paschali, a Pasqua; il Veni Sancte Spiritus, a Pentecoste; il Lauda Sion, al Corpus Domini; e il Dies iræ, alle Messe dei Morti. Più tardi è stato aggiunto lo Stabat Mater, per la festa della Madonna dei Sette Dolori.

4 — Evangelio

103— Che significa la parola Evangelio?

La parola Evangelo significa “buona notizia”. La predicazione del Salvatore e le sue opere costituiscono questa buona notizia.

104— Cosa fa il Sacerdote prima della lettura dell’Evangelio?

In piedi al centro dell’altare, il sacerdote alza gli occhi alla croce, poi li abbassa immediatamente e, con il corpo profondamente chinato e le mani unite, chiede a Dio di purificarlo e di benedirlo per la lettura che sta per fare.

Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.

Jube, Dómine, benedícere.

Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen.

[Preghiera:

Purificate il mio cuore e le mie labbra, Dio onnipotente, che avete “purificato le labbra del profeta Jsaia, con un carbone ardente; degnatevi, con la vostra benevola misericordia, di purificarmi affinché io possa annunciare dignamente il vostro santo Vangelo. Per mezzo di Gesù Cristo Nostro Signore. E così sia.

Degnatevi, Signore, di benedirmi.

Che il Signore sia nel mio cuore e sulle mie labbra, affinché io possa annunciare degnamente e convenientemente il Suo santo Vangelo. Così sia.]

105 — Raccontate la visione di Isaia.

In una visione, il profeta Isaia vide il Signore seduto su un alto trono e udì gli Angeli dire più e più volte: « Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti, tutta la terra è piena della sua gloria ». Isaia, ricordando le sue colpe e pieno di sacro timore, gridò: « Guai a me! Mi sono perso! Io, uomo dalle labbra impure, ho visto il Signore delle schiere celesti! » Poi un Serafino prese un carbone ardente dall’altare e volò verso Isaia e gli toccò le labbra, dicendo: « Il fuoco ha toccato le tue labbra; la tua iniquità è stata tolta, il tuo peccato è stato espiato ». E Isaia proclamò al suo popolo gli oracoli divini. (Isaia, VI, 1 ss.)

106 — Perché il Sacerdote demanda a Dio di purificarlo?

Secondo un pensiero frequente negli scritti dei Santi Padri, l’anima deve ricevere la parola di Dio con una purezza pari a quella richiesta per la ricezione della Santa Eucaristia.

107 — Come si posiziona il Messa sull’Altare per la lettura dell’Evangelio?

Per la lettura del Vangelo, il Messale è posto di sbieco, in modo che il retro del libro guardi l’angolo dell’altare. Questo orientamento del Messale permette al celebrante di volgersi leggermente verso il popolo.

108 — Cosa simbolizza l’orientamento del Sacerdote durante la lettura dell’Evangilio?

Ogni altare dovrebbe essere rivolto ad est. Nel Vangelo, il celebrante, volgendosi alla sua sinistra, guarda a nord, la regione del freddo e delle tenebre, che simboleggia la dimora del principe delle tenebre, la cui venuta oscura le menti e raffredda i cuori. Rivolto a nord, il sacerdote legge il Vangelo, la parola stessa di Dio, che illumina gli spiriti e riscalda i cuori.

Inoltre, volgendosi alla sua sinistra, il sacerdote un tempo si faceva sentire meglio dagli uomini che occupavano questa parte della chiesa. Essi dovevano ascoltare bene le parole del Santo Vangelo per poterle poi spiegare con cura alle loro mogli e ai loro figli quando tornavano a casa.

109 — Perchè i fedeli restano in piedi durante la lettura dell’Evangelio?

Questo è l’atteggiamento di un servo alla presenza del suo padrone: designa il rispetto e l’attenzione dovuti alla parola del Salvatore, e la docilità nell’eseguire i suoi ordini.

110— Nominate i quattro Evangelisti.

San Matteo, san Luca, san Marco et san Giovanni.

111— Perché il Sacerdote dice “Dominus vobiscum” prima di cominciare la lettura dell’Evangelio?

Nelle Messe cantate, la lettura del Vangelo è fatta dal Diacono che si rivolge all’assemblea per la prima volta e lo fa con questo saluto.

112 — Come indica il Sacerdote il passaggio dell’Evangelio che sta per leggere?

Le parole: “inizio del Santo Vangelo…” e “sequenza del Vangelo “… indicano da quale evangelista e da quale parte del libro è tratto il brano da leggere. E a queste parole segue l’espressione: “In quel tempo” … , a meno che il Vangelo non inizi con la designazione del tempo in cui si sia verificato l’evento di cui si parla.

113 — Come il Sacerdote segna il Messale e si segna egli stesso all’inizio dell’Evangelio?

Il sacerdote pone la mano sinistra sul libro e, con il pollice della mano destra, fa il segno della croce all’inizio del testo che sta per leggere; e poi, mettendo la mano sinistra sotto il petto, fa il segno della croce sulla fronte, sulla bocca e sul petto con il pollice della mano destra.

114 — Perchè il celebrante traccia tutte queste croci?

Il Vangelo è la parola di Cristo, la bocca di Cristo, secondo l’espressione di sant’Agostino. Il libro dei Vangeli o Testo, come lo chiamavano semplicemente gli antichi, rappresenta la Persona stessa del Salvatore, che con la sua croce ha meritato per noi ogni grazia di illuminazione e di santificazione. Segnando il Libro dei Vangeli, il celebrante prende in prestito da Cristo stesso le grazie d’illuminazione e di santificazione che applica a se stesso segnandosi successivamente:

a) sulla fronte, per illuminare e affinare la sua fede e non arrossire mai nell’apparire Cristiano, cioè come discepolo di Cristo:

b) sulle labbra, per professare coraggiosamente la dottrina del Maestro;

c) sul petto, per conservare gli insegnamenti di Cristo come un tesoro nel proprio cuore e per meditarli con amore.

Tutti i fedeli devono imitare, in comunione di pensiero con il Sacerdote, questi stessi segni della croce sulla fronte, sulle labbra e sul cuore.

115 — Quali passaggi dei santi Evangeli si leggono alla Messa?

Durante l’anno, durante la Messa, leggiamo i passi dei Santi Vangeli che ci manifestano i grandi eventi della vita di Cristo, dalla sua nascita all’Ascensione, e ripetiamo i punti principali della sua dottrina.

Il nostro Messale contiene 198 diversi Vangeli, tra cui 65 da San Matteo, 12 da San Marco, 58 da San Luca, 63 da San Giovanni.

116 — Cosa risponde il servente dopo la lettura dell’Evangelio?

Il servente risponde a nome dell’assemblea: Lode a te, o Cristo! Egli testimonia così la profonda gratitudine dei fedeli che stanno per ricevere la verità e le sue grazie.

117 — Perché il Sacerdote bacia all’inizio l’Evangelio che sta per leggere?

Questo bacio non è solo un segno di venerazione per la parola di Cristo e di comunione con la dottrina evangelica, ma anche un segno di adorazione. Nel baciare il libro dei Vangeli, noi adoriamo Cristo stesso.

L’adorazione con cui onoriamo l’immagine di Cristo, la croce e i santi Vangeli non è rivolta al legno, all’oro, alla pergamena, ecc… ma alla Persona di Cristo, rappresentata da queste immagini o simboli materiali.

118 — Quale preghiera fa il Sacerdote baciando il santo Evangelio?

Nel baciare il Santo Vangelo, il sacerdote dice: « Per Evangélica dicta, deleántur nostra delícta »[Per queste parole evangeliche siano cancellati i nostri peccati]

Il Vangelo – le opere e le parole di Gesù – è stato ispirato dallo Spirito Santo agli evangelisti; la sua lettura, ascoltata con pietà, ha la virtù di produrre le disposizioni che ci ottengono la remissione dei peccati veniali, se abbiamo il fermo desiderio di vivere secondo questa dottrina insegnata.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/16/tutta-la-messa-lunica-vera-cattolica-romana-momento-per-momento-4/