DOMENICA II DOPO PASQUA (2020)

DOMENICA II DOPO PASQUA (2020)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

Questa Domenica è chiamata la Domenica del Buon Pastore (Questa parabola fu da Gesù pronunziata il terzo anno del suo ministero pubblico allorché, alla festa dei Tabernacoli, aveva guarito a Gerusalemme il cieco nato. Questi è dagli Ebrei cacciato dalla Sinagoga, ma Gesù gli offre la sua Chiesa come asilo e paragona i farisei ai falsi pastori che abbandonano il loro gregge). Infatti, San Pietro, che Gesù risuscitato ha costituito capo e pastore della sua Chiesa, ci dice nell’Epistola che Gesù Cristo è il pastore delle anime, che erano come pecore erranti. Egli è venuto per dare la propria vita per esse ed esse gli si sono strette intorno. Il Vangelo ci narra la parabola del Buon Pastore che difende le pecore contro gli assalti del lupo e le preserva dalla morte (Or.), e annunzia pure che i pagani si uniranno agli Ebrei dell’Antica Legge e formeranno una sola Chiesa e un solo gregge sotto un medesimo Pastore. Gesù le riconosce per sue pecorelle ed esse, come i discepoli di Emmaus « i cui occhi si aprirono alla frazione del pane » (Vang., 1° All., S. Leone, lezione V), riconoscono a loro volta, all’altare ove il Sacerdote consacra l’Ostia, memoriale della passione, che Gesù « il Buon Pastore che ha dato la sua vita per pascer le pecorelle col suo Corpo e col suo Sangue » (S. Gregorio, lezione VII). Levando allora il loro sguardo su Lui (Off.), esse gli esprimono la loro riconoscenza per la sua grande misericordia (Intr.). « In questi giorni, dice S. Leone, lo Spirito si è diffuso su tutti gli Apostoli per l’insufflazione del Signore e in questi giorni il Beato Apostolo Pietro, innalzato sopra tutti gli altri, si è sentito affidare, dopo le chiavi del regno, la cura del gregge del Signore » (2° Notturno). È questo il preludio alla fondazione della Chiesa. Stringiamoci dunque intorno al divino Pastore delle anime nostre, nascosto nell’Eucarestia, e di cui il Papa, Pastore della Chiesa universale, è il rappresentante visibile.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXXII: 5-6. Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Ps XXXII: 1. Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio. [Esultate, o giusti, nel Signore: ai buoni si addice il lodarlo.]

Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja. [Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui in Filii tui humilitate jacéntem mundum erexísti: fidelibus tuis perpétuam concéde lætítiam; ut, quos perpétuæ mortis eripuísti casibus, gaudiis fácias perfrui sempitérnis.

[O Dio, che per mezzo dell’umiltà del tuo Figlio rialzasti il mondo caduto, concedi ai tuoi fedeli perpetua letizia, e coloro che strappasti al pericolo di una morte eterna fa che fruiscano dei gàudii sempiterni].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. [1 Petri II: 21-25]

Caríssimi: Christus passus est pro nobis, vobis relínquens exémplum, ut sequámini vestígia ejus. Qui peccátum non fecit, nec invéntus est dolus in ore ejus: qui cum male dicerétur, non maledicébat: cum paterétur, non comminabátur: tradébat autem judicánti se injúste: qui peccáta nostra ipse pértulit in córpore suo super lignum: ut, peccátis mórtui, justítiæ vivámus: cujus livóre sanáti estis. Erátis enim sicut oves errántes, sed convérsi estis nunc ad pastórem et epíscopum animárum vestrárum. [Caríssimi: Cristo ha sofferto per noi, lasciandovi un esempio, affinché camminiate sulle sue tracce. Infatti Egli mai commise peccato e sulla sua bocca non fu trovata giammai frode: maledetto non malediceva, maltrattato non minacciava, ma si abbandonava nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava; Egli nel suo corpo ha portato sulla croce i nostri peccati, affinché, morti al peccato, viviamo per la giustizia. Mediante le sue piaghe voi siete stati sanati. Poiché eravate come pecore disperse, ma adesso siete ritornati al Pastore, custode delle anime vostre].

Omelia I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

SEGUIAMO GESÙ CRISTO.

“Carissimi: Cristo patì per noi lasciandovi l’esempio, perché abbiate a seguire le sue orme. Egli non commise peccato, e sulle sue labbra non fu trovato inganno. Egli, maledetto, non rispondeva con maledizioni, e, maltrattato non minacciava, ma si rimetteva a chi lo giudicava ingiustamente. Portò egli stesso i nostri peccati nel suo corpo sul legno, affinché, morti al peccato viviamo per la giustizia: per le piaghe di Lui siete stati guariti. Infatti eravate come pecore sbandate, ma ora siete ritornate al pastore e al vescovo delle anime vostre”. (1 Piet. II, 21-25).I cristiani dispersi nell’Asia minore, e precisamente nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia proconsolare e nella Bitinia, erano esposti a varie e dure persecuzioni da parte dei Giudei e dei pagani. S. Pietro, venuto a conoscenza di questo, scrive loro una lettera da Roma, per consolarli nelle loro afflizioni, e renderli costanti nella fede, esposta a tanti pericoli. Da questa lettera è tratta l’Epistola di quest’oggi. Dopo aver parlato, precedentemente, dei doveri verso il potere civile, viene a parlare della soggezione dei servi ai loro padroni. Devono star loro soggetti volentieri, seguendo l’esempio di Gesù Cristo, che non malediva quelli che lo maledivano, non minacciava quelli che lo facevano soffrire, ma si rimetteva al Padre, giudice supremo. Egli si caricò dei nostri peccati per procurarci la giustificazione. E così, da pecore erranti quali eravamo, siamo stati condotti al Pastore delle anime nostre. L’imitazione di Gesù Cristo, inculcata da S. Pietro, è necessaria a ogni Cristiano.

1. Gesù Cristo è il nostro Pastore,

2 Che dobbiamo seguire sempre,

3 Anche sotto la croce.

1.

Cristo patì per noi lasciandovi l’esempio, perché abbiatea seguire le sue orme. Niente s’impara senza una guida, e nessuna istituzione si regge senza chi la governa. È necessario uno che guidi nello stato, nella famiglia, in una nave. È necessario un pastore che diriga e sorvegli il gregge. È facile immaginare che cosa avverrebbe d’un gregge, che abbandonasse le orme del pastore. Si sbanderebbe qua e là, prenderebbe sentieri pericolosi; e, nell’ora del pericolo, le povere pecore, rimaste senza guida, invece di ritrovare la via dell’ovile, andrebbero a finire nelle fauci di qualche fiera o nelle mani di qualche ladro. La famiglia cristiana, è, nella Sacra Scrittura, paragonata a un gregge. Chi ne è il pastore? «Io sono il buon Pastore», dice Gesù Cristo (Giov. X, 11). Un giorno vede due fratelli, Pietro ed Andrea, che gettano una rete, e dice loro: « Venite dietro me e vi farò pescatori d’uomini. Ed essi, tosto lasciate le reti lo seguirono » (Matt. IV, 19-20). Sono, a cosi dire, le primizie del gregge di Cristo. Più tardi rivolgerà il suo invito a un pubblicano. «Seguimi», dirà a Matteo, e questi; rizzatosi dal banco lo segue (Matt. IX, 9). Ripeterà questo invito ad altri, alle turbe, a tutti gli uomini di buona volontà. « Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi consolerò » (Matt. XI, 28). Quando gli Ebrei partono dall’Egitto, il Signore li guida in colonna di fumo di giorno, e in colonna di fuoco durante la notte, per illuminare il loro cammino. Gesù Cristo è la luce che guida il suo gregge nei sentieri di questa vita. Egli è «la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Giov. I, 9). Egli ci è luce con gli insegnamenti che uscirono dal suo labbro, Egli ci è luce con le sue azioni. « Poiché quando Egli fa qualche cosa in silenzio, si fa conoscere quello che noi dobbiam fare » ( S. Gregorio M. Hom. 17, 1). Ed è principalmente alle sue azioni che ci richiama S. Pietro, quando ci dice di seguire le sue orme. Della virtù si è parlato molto dai sapienti di questo mondo, anche prima che venisse sulla terra Gesù Cristo. Ma tutte le loro discussioni portarono ben poco frutto. Quegli insegnamenti, oltre non essere esenti da errori, non erano confortati dall’esempio. Non da loro, ma da Gesù s’impara l’umiltà, la pazienza, l’ubbidienza, il vero amor del prossimo, il perdono delle offese, la purità e tante altre virtù, che formano uno splendido ornamento e una irrefragabile apologia del Cristianesimo. Chi vuol sapere, sappia Cristo. Da lui solo impareremo a camminare nella via di ogni virtù.

2.

Egli non commise mai peccato, e sulle sue labbra non fu trovato inganno, ecc. Queste parole, che S. Pietro riporta da Isaia, c’insegnano quanto fosse perfetta la vita diGesù Cristo, alla quale, per quanto ci è possibile, dobbiamo conformare la nostra. Forse, non è tanto l’eroismo degli esempi datici da Gesù Cristo, che trattiene il Cristiano dall’imitarlo; quanto la forza che esercitano ancora su di lui gli esempi del mondo. Si seguirebbe Gesù Cristo, quando il mondo non seducesse più: si seguirebbe Gesù Cristo, se si potesse seguirlo di nascosto. Fin che si è fanciulli si sente parlar volentieri degli splendidi esempi di virtù che il Salvatore ci ha dato. Ci si accosta frequentemente al sacramento della Penitenza per poter ricevere Gesù nel proprio cuore, e chiedergli la grazia di seguire le sue orme. Ma quando si sono lasciati i banchi della scuola primaria, si trova già un po’ pesante il seguire Gesù. Quando si è avviati alla bottega, allo stabilimento, all’ufficio, invece di seguire Gesù, si seguono coloro che ci circondano, e si prendono le loro abitudini di vita, che, quasi sempre, non sono proprio conformi agli esempi datici da Gesù. Come una lampada brilla sempre meno al nostro sguardo man mano che il giorno si avanza; così, man mano che crescono gli anni, si affievolisce la luce che viene dagli esempi di Gesù, e ci lasciamo abbagliare da altre luci false e nocive. Dobbiamo seguir Gesù non solamente quando siamo soli, ma anche quando siamo in compagnia: non solamente nella vita domestica, ma anche nella vita pubblica. Quando uno è ascritto a una associazione, ma si accontenta di avervi dato solamente il nome, tutt’al più legge al proprio tavolo la relazione di qualche adunanza, a cui non ha partecipato, possiam chiamarlo un cattivo socio. Se tutti fossero come lui, l’associazione dovrebbe sciogliersi. Questo sistema è proprio quello di tanti Cristiani. Seguir Gesù, ma senza disturbarsi, senza dar nell’occhio, senza urtare i sentimenti di coloro che non vogliono sapere di seguirlo. Alla festa dei tabernacoli, i Giudei domandano alle turbe dove si trova Gesù. Tra le turbe è un gran sussurro. «Nessuno, però, parlava di Lui con libertà per paura dei Giudei» (Giov. VII, 13). Tanti Cristiani si trovano indecisi a seguir pubblicamente Gesù con franchezza, per paura di qualche opposizione o di qualche frase. Come sono lontani dalla generosità di S. Ignazio martire, che dichiarava a quei di Efeso: « Nulla vi sia conveniente senza Gesù Cristo, per Lui io porto in giro le mie catene, perle spirituali » (Ep. ad Eph.). Non pensano questi seguaci di Gesù Cristo a metà, che, rifiutandosi di seguirlo apertamente, si rifiutano di seguire un pastore che un giorno potrebbe rinnegarli a sua volta, ed escluderli dal celeste ovile? Se vogliamo seguire Gesù sul serio, non dobbiamo distinguere tra età ed età, tra vita pubblica e vita privata. Dobbiamo seguirlo ovunque, con fermo proponimento, facendo nostre le parole di Rut a Noemi: «Dovunque andrai tu andrò anch’io, e dove starai tu, ivi io pure starò » (Rut. 1, 16).

3.

Per le piaghe di lui siete stati guariti. Qui ci vengono ricordati i dolori di Gesù. I dolori furono il suo retaggio, dalla culla alla croce. E la sorte dei discepoli non dovrà esser diversa da quella del maestro. Le pecore docili seguono il pastore anche pei sentieri stretti e sassosi; e i buoni Cristiani seguono Gesù anche quando c’è da insanguinarsi i piedi. Sarebbe troppo comodo star con Gesù nei momenti della gloria, come durante la trasfigurazione sul Tabor; abbandonarlo nei momenti della tristezza, come durante l’agonia nell’orto. Che giudizio si dovrebbe dare di quei soldati che seguono il loro comandante, che è in testa, quando si tratta di passeggiate piacevoli, e si rifiutano di seguirlo quando si tratta di marce o, peggio ancora, quando si tratta di combattere? Il giudizio è presto dato: sono dei vili che disonorano la loro divisa. I Cristiani sono pure dei soldati. « Sopporta i travagli da buon soldato di Cristo » (2 Tim. II, 3), dice S. Paolo a Timoteo. Quando Gesù Cristo saliva il Calvario, non portava un manto, ma uno straccio di porpora: aveva una corona, ma di spine. Non saliva sopra un carro di trionfo, ma sotto il peso della croce. E la croce è divenuta la divisa del Cristiano. Non è cosa che si possa accettare o respingere a piacimento. Fu assegnata da Gesù Cristo stesso: « Chi vuol venire dietro a me… prenda ogni giorno la sua croce e mi segua » (Luc. IX, 23.). Chi rifiuta di seguir Gesù Cristo sotto la croce, è un soldato vile, che disonora la sua divisa. Il monaco benedettino Maria Gachet, durante la rivoluzione francese, è condotto innanzi alla Commissione rivoluzionaria di Lione. I giudici, che s’intendevano ben poco di carattere sacerdotale, gli chiesero che consegnasse loro gli attestati di sacerdozio. Alla domanda dei giudici repubblicani Gachet risponde francamente: «Che fareste d’un soldato repubblicano, che consegnasse la sua spada la vigilia d’una battaglia? Sarebbe un vile. Non proponetemi una viltà, poiché anch’io sono soldato, soldato di Gesù Cristo, capite?». E il tribunale lo trattò da soldato, condannandolo alla fucilazione, invece che alla ghigliottina (Franc. Rousseau, Moines Bénédictins martyrs et confesseurs de la foi pendant la Révoluction, Paris, 1926, p. 131). Siamo soldati di Gesù Cristo. Ci teniamo a non esser soldati vili? Seguiamolo sempre, seguiamolo ovunque. Seguiamolo se siamo fanciulli, se siamo giovani maturi, se siamo adulti, se siamo vecchi. Seguiamolo soprattutto nelle croci e nelle difficoltà. «Egli camminò per vie aspre — osserva S. Agostino — ma promise grandi cose. Seguilo. Non voler badar unicamente alla via che devi percorrere; ma bada anche al luogo cui devi arrivare; sopporterai gravezze temporali, ma perverrai ai godimenti eterni » (En. 2 in Ps. XXXVI, 16). Tutti abbiam bisogno della misericordia del Signore e « il Signore usa misericordia coi servi suoi, i quali con tutto il cuore seguono le sue vie » (In Paral. VI, 14).

Alleluja

Allelúja, allelúja Luc XXIV: 35.

Cognovérunt discípuli Dóminum Jesum in fractióne panis. Allelúja [I discepoli riconobbero il Signore Gesú alla frazione del pane. Allelúia].

Joannes X: 14. Ego sum pastor bonus: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ. Allelúja. [Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.

Joann X: 11-16.

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis: Ego sum pastor bonus. Bonus pastor ánimam suam dat pro óvibus suis. Mercennárius autem et qui non est pastor, cujus non sunt oves própriæ, videt lupum veniéntem, et dimíttit oves et fugit: et lupus rapit et dispérgit oves: mercennárius autem fugit, quia mercennárius est et non pértinet ad eum de óvibus. Ego sum pastor bonus: et cognósco meas et cognóscunt me meæ. Sicut novit me Pater, et ego agnósco Patrem, et ánimam meam pono pro óvibus meis. Et alias oves hábeo, quæ non sunt ex hoc ovili: et illas opórtet me addúcere, et vocem meam áudient, et fiet unum ovíle et unus pastor”.

(“In quel tempo Gesù disse ai Farisei: Io sono il buon Pastore. Il buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle. Il mercenario poi, o quei che non è pastore, di cui proprie non sono le pecorelle, vede venire il lupo, e lascia lo pecorelle, e fugge; e il lupo rapisce, e disperde le pecorelle: il mercenario fugge, perché è mercenario, e non gli cale delle pecorelle. Io sono il buon Pastore; e conosco le mie, e le mie conoscono me. Come il Padre conosce me, anch’io conosco il Padre: e do la mia vita per le mie pecorelle. E ho dell’altre pecorelle, le quali non sono di questa greggia: anche queste fa d’uopo che io raduni: e ascolteranno la mia voce, e sarà un solo gregge e un solo pastore”.)

OMELIA II

[M. Billot, Discorsi parrocchiali, II ediz. S. Cioffi ed. Napoli, 1840 – impr. ]

Omelìa sul buon pastore.

“Ego sum pastor bonus”. S. Joan.. c. X.

Questo è il titolo amabile che prende Gesù Cristo per farci conoscere la sua bontà verso gli uomini e principalmente verso gli uomini peccatori. Non fa più udir la sua voce sotto i nomi di Dio di maestà, di Dio di grandezza; non più come altre volte ad un popolo che governava colle minacce, a noi si mostra fra tuoni e folgori, ama Egli piuttosto di guadagnare il nostro cuore con tratti d’amore che il nostro rispetto coi segni di sua possanza; Egli si manifesta sotto le tenere immagini consolanti or di padre affettuoso che ci riguarda come suoi figliuoli, ora di pastore sollecito che ha cura delle sue pecorelle, e a tal segno le ama che la sua vita vuol dare per esse: Ego sum pastor bonus; bonus pastor animam suam dat prò ovìbus suis. Sì, fratelli miei, Egli è il nostro buon pastore, e noi siamo le sue pecorelle; Egli ha fatto per noi ciò che mai non fece altro pastore per la sua greggia, poiché ha sacrificato per nostra salute se stesso; Egli veglia continuamente su di noi, ci porta nel cuore, ci alimenta, ci sostiene in questa misera vita, e apertaci con la sua morte la strada alla gloria, al beato soggiorno ci conduce. Quanta gratitudine e quanto amore esigono da noi questi tratti di bontà dalla parte d’un Dio! Quanto debbono impegnarci ad essere docili pecorelle a Lui fedeli! Perché poco ci gioverebbe il sapere ch’Egli è il buon Pastore, e che fece quanto ad un buon pastore appartiene; anzi questa conoscenza servirebbe piuttosto alla nostra condannazione, se fossimo ingrati e non meritassimo con la docilità di pecorelle fedeli l’affetto di sì buon Pastore. Vediamo dunque in che maniera Gesù Cristo ha adempiuti tutti doveri d’un buon pastore, e sarà il primo punto: vediamo ancora quel che dobbiamo far noi per essere pecore fedeli: secondo punto. Quel che Egli ha fatto per noi quel che noi dobbiamo fare per Lui, ecco quanto ho intenzione di dimostrarvi.

I. Punto. Conoscere le sue pecore, guidarle ad abbondanti pascoli, vegliar su d’esse per difenderle dal furore dei lupi, metter cura che alcuna dal gregge non si allontani, ricondurre le traviate e finalmente non perdonare a fatica veruna e dare ancora per esse la vita sono per testimonianza di Gesù Cristo medesimo, le qualità d’un buon pastore, qualità ch’Egli ha messe in pratica per noi in maniera da renderci certissimi del suo pastorale affetto per l’uomo. Infatti chi conosce meglio le sue pecore che Gesù Cristo? Chi ha dato più generosamente la vita per esse? Chi meglio le alimenta? Chi finalmente quelle che traviavano ha ricercato con maggiore ardore di Lui? Ben può dunque giustamente attribuirsi la qualità di buon Pastore: ego sum pastor bonus. – La conoscenza che Gesù Cristo ha delle sue pecore non l’ha acquistata della esperienza, ma è propria della sua natura; imperciocché essendo il Verbo di Dio, generato ab eterno per via di cognizione nel seno di Dio, Dio Egli stesso, non solamente conosce tutto ciò che è, ma tutto ciò che sarà, ogni cosa è a Lui presente anche prima ch’ella sia, Egli vede con egual chiarezza quel che ha da essere come ciò che è presentemente. Può dunque dirsi con ragione ch’Egli conosce le sue pecore, che ne sa il numero e le discerne le une dalle altre e per nome le chiama. Egli vi ha conosciuti, fratelli miei, prima che foste; ha pensato a voi sin dalla eternità e, a voi mirando, aveva disegni di pace e di salute: affidatevi a questo divino Pastore: a Lui son note le vostre necessità, la debolezza della vostra natura, le tenebre della vostra mente, L’incostanza del vostro cuore, la violenza delle passioni e i pericoli che vi circondano, ed è sempre pronto a stendervi il braccio, a soccorrervi; imperciocché la conoscenza che Gesù Cristo ha avuto ed ha delle sue pecore non è una conoscenza sterile e speculativa, che altro non fa fuorché vederne il numero, il che può farsi ancora da un pastore malvagio; ma è una conoscenza di amore e di compiacenza, da lui paragonata alla conoscenza che Egli ha del Padre, e che il Padre ha di Lui: Sicut novit me Pater, et ego agnosco Patrem, et animam meam pono prò ovibus meis (Jo. X). Ora dall’amore che passa tra Dio Padre e il Figliuolo che ne proviene? L’amore più perfetto, più vivo, più efficace che immaginar si possa. Amore così perfetto e fecondo che produce una Persona simile al Padre e al Figliuolo, cioè lo Spirito Santo, ch’è il termine di questo amore. Noi siamo dunque l’oggetto eziandio di questa conoscenza di questo amore che passa tra le tre Persone della Trinità sacrosanta! E di questo amore ci fa sentire il divin pastore la profusione e la tenerezza. E in fatti non è egli questo amore che l’ha spinto a discendere dal cielo in terra per venire al soccorso di quelle sfortunate pecorelle che erano divenute preda del lupo infernale? E per liberarci dalle fauci di quello, non si è Egli rivestito pur anche delle spoglie di pecorella, avendo assunta la nostra natura nel mistero dell’incarnazione per essere immolato a nostra salute? Questa innocente Vittima è stata piuttosto dal suo amore immolata che dalle mani dei suoi crocifissori. Ha sparso questo divin Pastore il suo sangue sulle nostre piaghe per guarirle, è morto per darci la vita, è risuscitato per la nostra giustificazione, ci ha aperta l’entrata alla celeste eredità che avevamo perduta. O carità veramente pastorale! Andò Egli mai tant’oltre amor di verun pastore che per le sue pecorelle, come Gesù Cristo ha fatto per noi, desse la vita? Animam meam pono prò ovibus meis (Jo.X). – Non contento questo buon Pastore di aver sacrificata per le sue pecore la propria vita, procura loro ogni giorno per conservarle vegete, sane, i necessari sussidi, le guida a grassi e fecondi pascoli che le sostengono, le nutriscono, le ingrassano. Quali sono, fratelli miei, questi sì buoni pascoli? Sono la dottrina di Gesù Cristo, le sue grazie, i suoi Sacramenti. Con la dottrina c’istruisce, con i Sacramenti ci santifica. Dottrina santa e salutevole che dall’errore ci preserva e dalla menzogna, grazie abbondanti che ci ritraggono dal male, e a ben operare ci spingono; sacramenti augusti che sono la sorgente di quell’acqua salutare che scaturisce per la vita eterna, Sacramenti che i mezzi ci somministrano di conservare la vita della grazia e ricuperarla qualora la perdiamo. Onde possiamo dire con il profeta che sotto la condotta di sì buon Pastore nulla ci manca. Dominus regit me, et nihil mihi deerit (Psal. XXII). Dopo averci liberati dal naufragio e fatti nascere alla vita della grazia con le acque salutevoli del Battesimo, che la macchia dell’originale peccato in noi cancellarono, super aquam refectionis educavit me (Ibid.). Ci conduce nei sentieri della giustizia, rischiarando la nostra mente con vivi lumi e infiammando la nostra volontà con santi ardori, istruendoci con la voce degli altri pastori che ha stabiliti e lasciati sulla terra per aver cura della sua greggia, deduxit me super semitas iustitiæ (Ibid.). Rompe ogni ostacolo che potrebbe dal nostro ultimo fine allontanarci; ci difende con la possanza della sua croce dagli artigli del drago infernale che ognor s’aggira intorno a noi per divorarci, e sorregge la nostra debolezza e ci consola nell’afflizione. Sempre accanto di noi si sta per impedirci di cadere negli orrori d’una eterna morte: Si ambulavero in medio umbræ mortis, non timebo mala quoniam tu mecum (Ibid). Siamo noi per avventura stimolati dalla fame, abbiam noi bisogno di nutrimento per non svenire nel penoso viaggio che dobbiam fare per giungere al porto della salute? Egli ci ha preparato un alimento il più squisito che mai pastore abbia procacciato al suo gregge: Parasti in conspectu meo mensam adversus eos qui tribulant me (Ibid). E qual è questo alimento fratelli miei? Il suo corpo adorabile, il suo prezioso sangue, che Egli presenta per cibo nell’augusto Sacramento dell’altare. Oh meraviglia da fare stupire il cielo e la terra! Qual è quel pastore, osserva a questo proposito s. Giovanni Crisostomo, che nutrisca le sue pecore della propria sostanza? E non vediamo noi per lo contrario gli altri pastori nutrirsi delle proprie pecore e delle loro lane rivestirsi? E Gesù Cristo, il supremo Pastore, alle sue pecore dà in cibo se stesso; della sua propria sostanza lo ingrassa, e tutto al lor profitto e al volere s’abbandona; e non è questo spingere l’amore all’eccesso? Che poteva far egli di più per guadagnare il rostro cuore? E quanto questo divino Pastore ha operato non sarà capace di  ispirarci un ardente desiderio per questo celeste cibo che nella sacra mensa ci offre e che dee servirci di difesa contro gli assalti dei nostri nemici? Parasti in conspectu meo mensam adversus eos cui tribulant me. Terminiamo di rappresentare col re profeta le cure del buon Pastore per le sue pecore. Dopo di averle guidate nel tempo della vita loro, in morte ancor le accompagna, tempo in cui hanno maggior bisogno della sua assistenza, perché hanno da combattere allora col nemico della salute, che raddoppia i suoi sforzi per perderle; allora Egli le fortifica con le sante unzioni della sua grazia e dei suoi Sacramenti per disporle a pugnare come generosi atleti e metterle in stato di riportar vittoria sulle potenze infernali: Impinguasti, in oleo caput meum (Ibid.). Finalmente, dopo di averle condotte e fortificate in quegli estremi istanti, mette il colmo alle sue misericordie e le fa passare con una santa morte nei suoi tabernacoli per goder la soavità d’un eterno riposo: et ut inhabitem in domo Domini in longitudinem dierum (Ibid.). Fortunate dunque e mille volte fortunate quelle pecore che sono sotto la condotta del buon pastore! Ma infelici quelle che se ne allontanano! Elle divengono ben presto la preda del lupo infernale, se il buon Pastore non viene in loro aiuto per ricondurle all’ovile! E in questo appunto ci prova ancora più specialmente Gesù Cristo la sua pastorale carità per gli uomini; le pecore traviate, al par che le fedeli, sono oggetto della sua vigilanza e delle sue cure; Egli conserva le altre, e le richiama. È veramente il buon Pastore: Ego sum etc. – Io ho, dice Gesù Cristo, altre pecore che non sono in quest’ovile; bisogna ch’Io le adduca e non facciano che un solo ovile, ciò vuol dire che Gesù Cristo è venuto non solamente per il popolo ebreo, ma pei gentili ancora; che oltre le pecore della sua nazione le quali per origine a Lui già appartenevano, altre ve n’aveva che si sarebbero convertite, e un solo popolo avrebbero formato nel seno della medesima Chiesa sotto lo stesso Pastore. Noi siamo, fratelli miei, del numero di queste pecore conquistate e convertite. Noi eravamo in prima pecore erranti, camminavamo nelle tenebre, giacevamo nelle ombre di morte: eratis sicut oves errantes (1 Petr. 2). Ma il supremo Pastore delle anime nostre, toccato dalla nostra miseria, ha gettato sopra di noi uno sguardo di compassione e ci ha chiamati alla luce del suo Vangelo. Grazie dunque gli siano rese eternamente! Eccovi ora un popolo santo, popolo di acquisizione: gens sancta, populus acquisitionis (ibid.). Felici noi, se, fedeli alla grazia della nostra vocazione, profittiamo del dono di Dio. Ma egli accade, ahi quanto soventi volte! Che indocili alla voce del buon Pastore, abbandoniamo l’ovile e le pure sorgenti d’acqua viva per bere nelle avvelenate cisterne di questo secolo sciagurato. Pur troppo noi abbandoniamo spesso, come il figliuol prodigo un ottimo padre per dissipare in lontan paese i beni da lui datici, e vivere a grado delle nostre passioni. Che fa allora il buon Pastore? Ogni altro fuori di Lui si disgusterebbe alla vista della nostra capricciosa infedeltà; se non fosse buono come Egli è, ci abbandonerebbe alla nostra trista sorte. Ma no, questo affettuoso Pastore, che non ha voluto rattenere violentemente questa pecora perché a Lui non piace servitù forzata, non può soffrirla lontana. Geme al vederla esposta alla voracità delle bestie feroci. Ama piuttosto di lasciar le pecore fedeli per andare in cerca di quella che sì è smarrita. Ma quanto gli costa per ricondurla, quante corse, quante fatiche ha dovuto soffrire! Io qui lo vedo alla sponda del pozzo di Giacobbe, stanco dal viaggio, aspettar premuroso che una donna peccatrice venga a ricevere il perdono delle sue colpe e gli chieda l’acqua che sorge per la vita eterna. Là io lo miro ricevere benignamente e prender anche la difesa di un’altra peccatrice, che era dall’orgoglioso fariseo con eccessiva severità disprezzata e condannata spietatamente. Dappertutto io l’ascolto chiamare i peccatori a penitenza, e invitarli a sé per deporre l’enorme peso delle colpe loro: Venite ad me omnes (Matth. XI). Non contento di chiamarli, Egli va loro incontro, come se avesse bisogno del peccatore; lo cerca e lo segue per tutto: qui lo illumina con una viva luce, là con una buona inspirazione lo sollecita; e se inutil vede la sua clemenza, si serve della forza della sua grazia; fa udire a questo peccatore quella voce al cui suono vivi sorgono dal sepolcro i morti, lo percuote con qualche terribile colpo non per sua rovina, ma per ricondurlo all’ovile; e se finalmente questa traviata pecorella, questo peccatore tante volte da Lui sollecitato, alla sua voce si arrende, quanto amorosamente viene accolto dal suo Pastore! Non solamente non lo maltratta, come avrebbe meritato, ma lo accarezza e lo conforta; e non contento di accogliere questa errante pecora, vuole ancora sulle proprie spalle riportarla, affinché per la via non si stanchi; e come se avesse riacquistato un prezioso tesoro, invita gli amici a seco rallegrarsi: Congratulamini mihi, quia inveni ovem quæ perierat ( Luc. XV). – Per nulla conta gli affanni, la fatica, la fame, la sete, i rigori delle stagioni, le sofferenze e la morte; purché riabbia la sua pecorella, ben ricompensato si stima; pare che in qualche maniera dimentichi l’affetto che ha per le pecore fedeli, e solo pensi al piacere che prova nel possedere di nuovo quella che si era smarrita. Vi sarà in cielo, dice Egli, allegrezza maggiore per la conversione d’un peccatore che non per la perseveranza di novantanove giusti. Poteva forse Gesù Cristo mostrarci più chiaramente la sua pastorale sollecitudine per la pecorella perduta? Potrassi egli dire che se alcuna si perde, ciò sia per colpa di Lui? Non ha Egli fatto tutto ciò che ha potuto per conservare quelle che dal Padre celeste aveva ricevute, e recuperare quelle che si erano sviate? A sé stesso dovrà dunque imputare il peccatore la sua riprovazione se non si converte. Per non incorrere in questa disgrazia, vediamo ciò che abbiamo a fare per essere pecorelle fedeli.

II. Punto. Conoscere il buon Pastore, ascoltare la sua voce, camminare sulle sue tracce, sono doveri, come c’insegna Gesù Cristo medesimo, d’una pecora buona e fedele. Io conosco, dice Egli, le mie pecore, ed esse conoscono me; cognoscunt me meæ. Le pecore ascoltano la voce del pastore: vocem eius audiunt: lo seguitano in ogni luogo: illum sequuntur (Jo. X). – La prima cosa necessaria per entrare nell’ovile di Gesù Cristo si è il conoscerlo. In questa conoscenza consiste la vita eterna, come Egli ce ne assicura. Hæc est vita æterna, ut cognoscunt te solum Deum rerum et quem misisti Jesum Christum. Ogni altra scienza, ogni altra cognizione, senza di questa non potrà scorgerci al porto di salute giammai. A che ci servirebbe l’aver penetrato tutti i segreti della natura, il conoscer come i filosofi il moto degli astri, il possedere tutte le umane scienze, se non avessimo la scienza della salute che è la conoscenza di Gesù Cristo? Che han giovata agli antichi sapienti e che giovano oggigiorno ai nostri pretesi saggi le scoperte che han fatto, le scienze che hanno acquistato, se ignorano la dottrina di Gesù Cristo e son ribelli al Vangelo? Tutti i loro lumi non son che tenebre, la loro scienza vanità ed errore. L’uomo più semplice, più rozzo che conosca la religione di Gesù-Cristo e ne adempia i doveri, che abbia il timore di Dio e lo serva fedelmente, è molto più da pregiarsi (dice l’autore dell’imitazione di Gesù Cristo) che quei superbi filosofi, che tutti quei saggi i quali a tutt’altro attendono fuorché alla scienza della salute. Applichiamoci dunque, fratelli miei, a ben conoscere Gesù-Cristo e il suo Vangelo, all’esempio del grande Apostolo, che altro non si gloriava di sapere fuorché Gesù Cristo crocifisso. Ma in che consiste il conoscere Gesù Cristo come Egli vuole essere conosciuto? Sarà egli il sapere ciò che Egli è, ciò che può e ciò ha fatto per la nostra salute? Sarà il sapere ch’Egli è insieme Dio generato fin dalla eternità nel seno del Padre, ed uomo nato nel tempo da una Vergine; che questo Dio fatto uomo è morto per darci la vita, ch’Egli è assoluto padrone della nostra eterna sorte? Tutto questo è necessario a sapersi, ma pur non basta. In questa maniera lo conoscono i reprobi, lo conoscono i demoni, che hanno pure renduta testimonianza alla sua divinità, ma questa conoscenza ad altro loro non serve che a farli tremare sotto i colpi della sua giustizia: Dæmones credunt et contremiscunt (Ja. 2). Noi dobbiamo dunque conoscere Gesù Cristo. Ma non sia sterile e infruttuosa la nostra conoscenza; ella sia pratica, sia conoscenza d’amore; come Gesù Cristo conosce le sue pecore per beneficarle, così la conoscenza di Gesù Cristo deve produrre nei nostri cuori un amore sincero, un inviolabile affetto. Amore sincero che a Lui consacri tutti i moti del nostro cuore, che ne sbandisca ogni oggetto il quale possa contendergliene il possesso, amore che ci porti ad osservare i suoi divini comandamenti esattamente; affetto inviolabile che, come il grande Apostolo faceva ci porti a sfidare le creature tutte, a separarci da Gesù Cristo. Quis ergo nos separabit a charitate Christi (Rom. VIII). Chi avrà forza di separarci dall’amore di Gesù Cristo? Non la morte, non la vita, non la grandezza, non l’umiliazione o la povertà, non le ricchezze, non altra creatura veruna: Neque mors neque vita neque creatura alia poterit nos separare a charitate Dei (Ibid). Questi sono i sentimenti, questa è la condotta che deve avere una pecora fedele che conosce il suo pastore, ella deve esser pronta a tutto sacrificare per Lui, da tutto staccarsi per suo amore, a tutto fare, tutto soffrire per Lui, talmenteché niente vi sia sulla terra il cui desiderio, timore o passione possa farlo incorrere nella disgrazia del suo Dio. Ecco, fratelli miei, che cosa è conoscere Gesù Cristo come Egli vuole esser conosciuto. Ecco quel che Egli Esige da una pecora fedele, in contraccambio di quanto Egli ha fatto per sua salute; se Egli non chiede vita per vita, vuole per certo almeno amore per amore. Se voi siete, fratelli miei, in queste diposizioni, sarete docili alla voce del buon Pastore: vocem eius audiunt (Jo.X). – Seconda qualità d’una pecora fedele. Gesù Cristo, il buon Pastore, fa udire la sua voce agli uomini in varie maniere; ora per mezzo di grazie interne che lor dà per guadagnarli, ora con la voce dei suoi ministri che lor manda per istruirli; qui con la lettura di un buon libro che fa lor cadere nelle mani; là per mezzo di buoni esempi che lor mette innanzi agli occhi; ora ricolmandoli di benefizi, ora affliggendoli con disgrazie per farli ravvedere. Testimonio me ne sia ascoltatori, la vostra propria esperienza. Quante volte avete intesa ed intendete eziandio ogni giorno la voce di Dio che vi chiama, vi esorta caldamente e vi sollecita a ritornare a Lui e a servirlo con maggior fervore! Quante Volte una viva illustrazione nell’animo vi ha fatto conoscere la vanità e il nulla delle cose create! Quante salutevoli compunzioni vi hanno toccato il cuore per staccarvi dal mondo e dai suoi piaceri! E malgrado le tenere cure di questo affettuoso Pastore non vi saran forse qui molti che indurito serbano alla voce di Lui il loro cuore? Ah! pecorelle infedeli, e sino a quando resisterete voi alle finezze della divina misericordia che batte alla porta del vostro cuore, che vi cerca, che vi segue in mezzo ai vostri disordini? Non è egli vostro vantaggio l’arrendervi alle sue istanze? Imperciocché se voi resistete, qual sarà la sorte vostra? Con lo sviarvi cotanto nei sentieri dell’iniquità, diverrete finalmente preda delle fiere voraci e cadrete in un abisso di mali. Se il buon Pastore vi cerca, se la sua misericordia vi stende le braccia ed è sempre pronta a ricevervi, non dovete voi corrispondere alle sue mire e fare ogni sforzo per uscire dal fango onde vuol trarvi? Imperciocché voler credere che Iddio farà tutto dal canto suo per salvarvi, mentre voi nulla volete fare dal vostro; voler credere che il buon pastore porterà la pecora all’ovile a malgrado di lei e senza ch’ella faccia alcun passo per ritornarvi, questo sarebbe, o peccatori, un oltraggiare la misericordia di Dio e farla servire alle vostre iniquità. No, peccatori, non è così che si deve pensare della misericordia di Dio; quando la sua bontà non serve a nulla, quando la sua pazienza nello aspettare il peccatore altro non ha fatto che renderlo più colpevole ancora, allora questa pazienza si cangia in furore e domanda vendetta. Allora il peccatore che ha sprezzate le istanze del suo Dio e ha resistito alle sue grazie sarà disprezzato egli pure, sarà abbandonato; quanto grande è stato l’affetto con cui lo cercava, tanto maggiore sarà il rigore con cui lo punirà. Evitate, fratelli miei, sì gran disgrazia colla vostra docilità ad ascoltar la voce del buon Pastore che vi chiama. Aprite la porta dei vostri cuori ai raggi della grazia che v’illumina per farvi uscire dai vostri disordini. Profittate del tempo della misericordia del Signore, e ditegli col re profeta: Sì, ho risoluto, Signore, in questo giorno, in questo istante, voglio far ritorno a voi, Dixi: Nunc cœpi (Psal. LXXVI). Già troppo lungamente mi chiamaste, non voglio più oltre stancarvi col mio fuggirvi, e col resistere alla vostra grazia. Traviai qual pecora errante e vagabonda: Erravi sicut ovis (Psal. CXVIII), ma se nel tempo ancora che vi fuggiva, tanta bontà aveste per questa pecorella, che non farete Voi allorché a Voi ritornerà? Si, questo è il partito che io prendo; risoluto di non dipartirmi mai più dal servizio di sì buon padrone come Voi siete, sarò docile alla vostra voce, in qualunque maniera me la facciate sentire;parliate Voi medesimo, parlino i vostri ministri, seguirò fedele la via che mi additerete. Tali, sono, fratelli miei, i sentimenti di un’anima che riconosce i suoi falli. Come un altro Saule, ella è pronta a fare in tutto la volontà di Dio; per esser istruito va a trovare Anania, vale a dire, essa ascolta la voce dei pastori che Gesù Cristo ha posti per istruirla. E di fatti per mezzo loro la ora intendere Iddio la voce alle sue pecore; siccome non è più con noi sulla terra per istruirci Egli stesso, ha posti altri in sua vece per aver cura del suo gregge; Pascite qui in vobis est gregem Dei(1 Petr. 5). Ascoltar la voce dei Pastori che governano la Chiesa è lo stesso che ascoltare Gesù Cristo medesimo; il disprezzarli è lo stesso che disprezzar Gesù Cristo: Qui vos audit, me audit; qui vos spernit, me spernit [Luc. X). Siate dunque, fratelli miei, ubbidienti alla voce dei pastori che Dio ha inviati come ambasciatori per farvi conoscere i suoi voleri; siate assidui alle istruzioni ch’essi vi faranno nella chiesa, principalmente alla messa parrocchiale: ivi imparerete molte cose che non udireste altrove; forse la vostra salute dipende da una istruzione che vi riguarda particolarmente e che non udirete più se la perdete. – Ascoltate eziandio la voce dei vostri confessori, che tengono il luogo di Gesù Cristo per intimarvi i suoi comandi. Il vostro spirituale direttore vi fa intendere che quella vita dissipata che menate è pregiudizievole all’anima vostra, e che non basta, per salvarsi, evitare il male, ma che è necessario ancora di praticare il bene; e conseguentemente vi dà un regolamento di vita per procacciare alle vostre azioni il merito dell’ubbidienza! Sottomettetevi ed ubbidite senza ragionare; questo è il carattere della pecorella; essa va per tutto ove il suo pastore vuol condurla, e tale deve essere la disposizione di un’anima verso chi la dirige nella via della salute. Ascoltate, figliuoli, la voce dei vostri genitori; essi sono altrettanti pastori nelle loro case, che debbono vegliare sul gregge che Dio ha loro affidato, che debbono con le istruzioni nutrirlo e col buon esempio. – Finalmente per essere pecore fedeli, fa d’uopo seguir le tracce del buon Pastore, cioè imitarlo: oves ìllum sequuntur (Jo. X). Lontana dal pastore la pecora è esposta a mille pericoli: ella deve essere sempre intorno lui e mai non lasciarlo per essere difesa dal furore delle bestie feroci. Seguitiamo noi pure nella stessa guisa Gesù Cristo, fratelli miei, non ci allontaniamo dalla sua compagnia, camminiamo fedelmente sulle sue pedate, e saremo sicuri di non perire. Egli è la via che dobbiamo seguire, è la vita che dobbiamo ricercare; non possiamo giungere a questa vita che con l’imitazione delle sue virtù e dei suoi esempi. Chiunque segue un’altra via è sicuro di errare. Or quale strada ci ha additata Gesù-Cristo? Quali esempi ci ha dati? Una strada difficile, piena di triboli e di spine; povertà volontaria, annegazione della propria volontà, mortificazione dei sensi e delle passioni, distacco dai piaceri, pazienza nei travagli; ecco la via che ci mostra. Ora ciò che deve muoverci a seguirlo si è che Egli l’ha calcata avanti di noi per darcene esempio: ante eos vadit (ibid.). Egli ne ha spianate le difficoltà e nulla da noi chiede che non abbia praticato egli stesso. Gesù Cristo ha sofferto per noi, dice s. Pietro, ci ha lasciato l’esempio affinché seguitiamo le sue tracce: Christus passus est prò nobis etc. (1 Petr. 2). Sarebbe egli giusto che l’innocente fosse entrato nella gloria per mezzo delle tribolazioni e per una strada difficile, e che i colpevoli vi entrassero per una strada fiorita e tra i piaceri? No, non vi saranno altri predestinati, fuorché coloro che dal celeste Padre saranno trovati conformi all’immagine del suo Figliuolo.

Pratiche. Mirate dunque, fratelli miei, l’esemplare che vi è presentato nella vita di Gesù Cristo per conformarvi la vostra. Considerate che cosa è stato questo uomo divino nel tempo di sua vita mortale sulla terra. Voi vedrete in Lui un uomo mansueto ed umile di cuore, sobrio, casto, paziente, un uomo sì staccato dai beni della terra e sì povero che non aveva luogo ove posare il capo; così misericordioso che pregava per i suoi crudeli nemici, così amante delle croci e dei patimenti che non solamente li soffriva con pazienza, ma li ricercava con ardore. Ecco il modello che dovete imitare: Inspice et fac secundum exemplar – (Guarda ed eseguisci secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte. – Exod. XXV 40). Alla vista di questo esemplare, arrossite della vita molle delicata che menate, della vostra sensualità ne’ banchetti, della vostra sensibilità sul punto d’onore, della vostra avversione ai patimenti, a tutto quello che può contrariare la natura; ma la confusione che proverete a questo confronto, vi faccia risolvere di riformare la vostra condotta, farvi una santa violenza, domar le vostre passioni, tenere in schiavitù i vostri sensi, privarvi dei piaceri vietati e moderar l’uso dei piaceri permessi. La vista degli esempi di Gesù-Cristo, vi renda più mansueti e più umili di prima, vi stacchi dai beni del mondo o dei suoi piaceri, vi renda più assidui alla preghiera, più compassionevoli verso dei poveri, più nemici delle massime del mondo, più regolati nella vostra condotta: Inspice et fac etc. Dopo aver seguito e imitato Gesù Cristo sulla terra come fedeli pecorelle, voi sarete poi uniti all’eletto gregge dei predestinati che godono della felicità di vederlo nel cielo. Cosi sia.

Credo

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Offertorium

Orémus

Ps LXII:2; LXII:5  Deus, Deus meus, ad te de luce vígilo: et in nómine tuo levábo manus meas, allelúja.

Secreta

Benedictiónem nobis, Dómine, cónferat salutárem sacra semper oblátio: ut, quod agit mystério, virtúte perfíciat. [O Signore, questa sacra offerta ci ottenga sempre una salutare benedizione, affinché quanto essa misticamente compie, effettivamente lo produca].

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Communio

Joannes X: 14. Ego sum pastor bonus, allelúja: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ, allelúja, allelúja [Io sono il buon pastore, allelúia: conosco le mie pecore ed esse conoscono me, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Præsta nobis, quaesumus, omnípotens Deus: ut, vivificatiónis tuæ grátiam consequéntes, in tuo semper múnere gloriémur. [Concédici, o Dio onnipotente, che avendo noi conseguito la grazia del tuo alimento vivificante, ci gloriamo sempre del tuo dono.]

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LO SCUDO DELLA FEDE (109)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XIX.

Si dimostra che in Dio vi è provvidenzadelle opere umane.

I. L’esservi Dio nel mondo è una verità sì sonora, che penetra nelle orecchie della medesima ostinazione che sono le più ingrossate. Quante creature, tante voci, le quali, ora ciascuna da per sé, ora tutte in un coro pieno, ci fan palese quel maestro eminente che diede da principio le leggi di sì vaga armonia, e che ognora va sostenendole col suo braccio: Undique Ubi omnia resonant conditorem, dice Agostino (In Is. 26). Pertanto radi sono quegli aspidi che possano maliziosamente rendersi sordi da se medesimi a tante voci, sicché senza udire i richiami altissimi e assiduissimi che han d’intorno, pronunzino nella sala del loro cuore, col voto segreto di tutte le passioni ribelli, quella sentenza tante volte già da noi dichiarata per detestabile: Non est Deus. Quei medesimi che al cieco loro intelletto danno per guida la più cieca lor volontà, pare che ora mai non sappiano arrivare più avanti nella scelleratezza, che a negare al loro Dio. non più l’essere, ma sì bene la provvidenza: imitando quei malcontenti, che, per dare migliore aspetto a’ loro tumulti, protestano a piena bocca, che non impugnano l’armi contro del principe, ritirato nel gabinetto, ma contro del mal governo. Quid enim novit Deus? dicono essi: Nubes latibulum eius, et nostra non considerat (Le nubi gli fanno velo e non vede) (Iob. 22-14).

II. Qui dunque si fanno forti più gli ateisti. Consentono a Dio il trattenersi ozioso nella sua reggia, ma gli negano il pensiero delle cose umane: sicché, quando pur egli sia vago di governare, vogliono che a lui basti il governo naturale del mondo (quale appunto ad un principe saria quello de’ suoi giardini, o delle sue gallerie), purché il civile rimangasi tatto in mano della fortuna. Né mancano a questa divisione iniquissima i suoi colori. La virtù non aver più tra gli uomini pregio alcuno, se non quello della sua rarità: il vizio aver tutto il seguito universale: e nondimeno le pene e i premi distribuirsi così alla cieca, che sembra oltraggio, e non ossequio, figurarsene Dio per distributore. Quinci, dal governo avanzandosi al governante: Se presupponiamo, seguono a dire, Dio pago tanto altamente di se medesimo, a che finger poi, che gli piaccia o lordarsi la mente col pensiero delle nostre bassissime operazioni, o intorbidarsi la felicità colla cura degli operanti? Irridendum vero agere curam rerum fiumanarum istud, quicquid est, sumraum. Anne tam tristi atque multiplici ministerio, non pollui credamus, dubitemusve? (Plin. 1. 3. c. 3). Qual monarca degnò mai di applicarsi a ciò che succeda nelle capanne de’ pastori, anzi fin a ciò che si aggiri nelle cave delle talpe, o nelle conventicole de’ tafani? E noi, che in riguardo a Dio siamo tanto meno di quel che sieno quei miseri animaluzzi al confronto di un Alessandro, saremo poi o sì stolidi, o sì superbi che ci figuriamo questo gran nume sollecito a qualunque ora de’ fatti nostri? Scilicet is superis labor est : ea cura quietos sollicitat. Tanto più, che se in lui risiede la sorgente medesima di ogni bene, nulla gliene aggiungono i nostri ossequi, nulla gliene diminuiscono le nostre trasgressioni. Onde a che riputare che Egli sia vago delle nostre virtù, sia schivo de’ nostri vizi? Il sole non si altera né per nebbia di monti, né per nettezza; ma segue di qualunque tempo il suo corso tranquillissimamente su le lor cime.

III. Eccovi qua l’ultima ritirata degli ateisti. Convien pertanto scacciarli a forza ancor da questo recinto, fino a rapir loro di mano quella bandiera, in cui, come già quell’empio capitano, portano scritto un bel motto sotto un’abbominevole spiegazione: Cœlum cœli Domino, terram autem dedit filiis hominum. Il cielo resti al padrone del cielo, purché Egli a noilasci in arbitrio la terra.

IV. Ora, per cominciare da quelle opposizioni che assaltano il governante: Se, come tra gli antichi fenici vi fu chi giunse a tale stupidità, di adorare per Dio fino un sasso quadro (Arnob. contra gentes 1. 5), così ci fosse chi vi giungesse al presente, se gli potrebbe condonare tanta follia, di credere il suo Dio non curante de’ fatti umani. Ma mentre Dio è un essere perfettissimo, di cui non si può figurare il più commendabile, o il più compito, come se gli può mai negare la provvidenza, dote sì necessaria, senza annullarlo? (Hugo de s. Vict. 1. 1. de sacram. p . 5 . c. 13). Veggiamolo apertamente, discorrendo al solito per quei tre divini attributi, sotto cui si riducono tutti gli altri, di sommo potere, di sommo sapere, di somma bontà; giacche tutti e tre questi a Dio toglie subito chi gli toglie la provvidenza (La divina Provvidenza fu fra gli antichi negata dagli Epicurei e dagli Stoici, fra i moderni dai deisti ed in generale da coloro, che in mano alla cieca fortuna pongono le redini dell’universo.).

I.

V. E per ciò che attiensi al potere, quel che più si considera ne1 monarchi si è la giurisdizione, cioè a dire la forza di dar leggi ai popoli, guiderdonando chi le osservi tra loro più attentamente, castigando chi le travalichi. Or come dunque negare una tal possanza al monarca massimo, qual è quegli del cielo, dai cui decreti alla fine prendono ogni loro vigore tutte le leggi che si promulgano in terra? Il fingersi che questo Signor sovrano non provvegga, se non al mantenimento della natura, è farlo al più al più maestro di casa nel gran palagio dell’universo, ma non è giàfarlo principe, a cui propriamente spettasi il comandare ai magnati del suo reame. E diffatto noi proviamo dentro noi stessi che egli è veramente legislatore. Conciossiachè di quale altro sono voci i rimproveri della coscienza, da noi sentiti dopo ogni azione malfatta, se non di un intimo luogotenente di Dio, che comincia il giudizio dal dimostrare al reo che lo ha colto in fallo? onde quando anche tutte le leggi umane perdonino al delinquente, non gli perdona il cuor proprio, con fargli noto, che sono subito scritti in cielo i delitti da lui commessi.

VI. Quanto indegno però della divina natura è quel concetto che ne formano gli empi, quando essi dicono, che ella cadrebbe di grado, se si occupasse nel governare le creature, nell’attendere ai loro bisogni, nell’ascoltare le loro brame, o nell’esaminare i loro andamenti? Attesoché, se egli non cade dal suo grado, quando le cavò già dal nulla, come ne cadrà poi quando le governi? Si iniuria est regere, possiamo dir con Ambrogio, multo magis iniuria est fecisse(L. 1. off. c. 76). Se Dio fatorto alla sua maestà con dar leggi a noi sue creature, e con esigerne l’osservanza: come non le fe’ maggior torto con darci l’essere? Però,seil non aver bisogno di altrui non distolse quel supremo architetto dal produrre tante opere grandi epiccole di ogni guisa e dall’impiegare un’arte somma in ciascuna, per minima, che ella fosse, come potrà distoglierlo dal pensarvi, dappoiché le mira prodotte?

VII. Non avere in sé lui mancanza di bene alcuno, fa solo che Dio non possa operare con intenzione di provvedete a se parimenti, come fan gli agenti imperfetti, che dal giovare ad altri ricavano sempre mai qualche frutto ancor a se stessi di perfezione; ma non fa ch’egli assolutamente non operi in prò di altrui, tanto nell’ordine naturale a cui si riducono tutti gli effetti necessari, quanto nel morale, a cui si riducono tutti i liberi.

VIII. Né l’uomo, benché distante infinitamente dalla divina grandezza, è però indegno di essere oggetto speziale alla provvidenza di lei, mentre pure egli nel suo grado ha capacità di conoscere Dio, di aggradirgli, di amarlo, di tenere con esso lui commerzio di suppliche, di obbedienza, di ossequio, di adorazioni, come pur conobbe Aristotile (Eth. 1. 10. c. 8. n. 12): il quale però non temè dire, che se gli Dei avevano provvidenza, dovevano averla sopra di ogni altro dell’uomo, come di quello che più si avvicinava ad assomigliarli.

IX. Aggiungete, che Dio, creandoci, non ci creò come a caso, ma ci creò per un fine altissimo, quale appunto fu questo, di abilitarci alla somma felicità di cui siam capaci, che è piacere a Lui, glorificarlo, goderlo. Ditemi dunque: Che sarebbe di Dio, crearci tutti ad un fine, e ad un fine tale, e poi lasciarci, per dir così, in abbandono, quasi impotente a proseguir la grand’opera incominciata? Se ci die il fine, debbe anche porgerci i mezzi da conseguirlo, quali sono le leggi da lui prescritte, le ammonizioni, gli aiuti, e tuttociò che appartiene al vivere onesto. E tale è la provvidenza di cui parliamo: è la ragione di ordinare le cose al debito fine con mezzi acconci: Providentia est ars ordinans res ad suos finesper media convenientia (Boet. 1. 4. de consol. pros. 6). L’ordinare questi mezzi s’intitolaprovvedere: il somministrarli s’intitolagovernare: e l’uno e l’altro si dee concederea Dio, se non si vuole fare un altissimo tortoalla sua potenza infinita. Anzi se non si vuolepiù fare alla sua sapienza, di cui più propria si èl’una e l’altra cura (S. Th. p. q. art. 1. ad 2 ) .

II.

X. Volete voi per avventura negarmi, che Dio non conosca bene tutte le cose? Ma come può non conoscerle, se Egli le ha sempre tutte dinanzi agli occhi? Il re di Persia, risedendo nella città di Susa, per risapere quanto succedeva nell’imperio, aveva disposte frequenti sentinelle per ogni via, che colle fiamme di notte, econ le fumate di giorno, dessero segno degli avvenimenti di maggiore importanza dalle lor torri (Auctor. 1. de mundo c 7. apud Arist.). Non crediate però, che Dio sia necessitato fare altrettanto per risapere di subito tutto ciò che succeda nel nostro mondo. No, no; non ha Egli mestieri di messaggi veloci, i quali gliel rapportino sulle poste. Basta che fissi i guardi in se stesso. Quivi Egli, come in in un tersissimo specchio, rimira qualunque evento: onde, come non può Egli distogliersi un sol momento dal conoscere semedesimo, così non può distogliersi un sol momento dal conoscere ancor tutte l’altre cose. E sele conosce, perché volete voi che non le indirizzi tutte, come pur anzi io diceva, al debito fine? Può bene un savio principe, per motivi non penetrati dal volgo, restarsi di porre in mare un’armata; ma non può già, se ve la pose, lasciarla alla discrezione de’ venti, senza timoni, senz’antenne, senz’ancore, senza pilota, senza marinaresca, con intenzione che vada fluttuando qua e là con incerto corso, finché perisca, rimasta nelle secche, o rotta agli scogli. Questo sarebbe un operare da stolto, indegno della mente di un uomo, non che di un Dio.

XI. Né la viltà propria delle cose create trasfonde nulla della sua imperfezione nel divino intelletto, contemplandole Egli secondo l’essere perfettissimo che hanno dentro la sua increata virtù, per cui, quanto sono elleno basse in sé, tanto sono nobili in lui, che con arte sublime le divisò secondo i lor vari gradi. Quod factum est in ipso vita erat. Pertanto degno è di restar sepolto nella bocca di questi iniqui, quasi in un fetido avello, quel dir che Dio non cura le azioni umane, perché le azioni umane sono minuzie dianzi alla sua grandezza: non considerando i meschini, che in noi la cognizion delle cose minori talor si danna, perché non lascia luogo alla cognizion delle maggiori. Ma ciò, che ha a fare in Dio, che con un guardo semplice mira il tutto? Nel rimanente non fu già gloria somma di Salomone, l’essere lui sceso da’ cedri eccelsi del Libano a disputare fin dell’isopo più vile che spunti dalle pareti?

XII. Chi dirà poi, che conoscere il male sia mai lordarsi? Lordarsi è amarlo. Che se il male non è alfin altro, che privazione di bene, come le tenebre sono privazione di luce; basta a Dio che conosca sé, per sapere ciò che sia quel male che gli si oppone; come a noi basta che conosciamo la luce, por sapere ciò che sian tenebre.

XIII. Ne manco degna di restare ivi sepolta è l’altra non meno folle proposizione, che la numerosità degli umani affari possa a Dio turbare la quiete coll’imbarazzo, tristi atque multiplici ministeri. Costoro, dice Agostino (De Civit. Dei 1. 21. c. 27), vogliono ritrarre Dio da se stessi, semetipsos prò illo cogitantes. E come a toccare il fondo della loro mente basta uno scandaglio da fosso, tanto ella è corta; così figuransi, che basti parimente a toccarlo in Dio, che è quell’altissimo mare che non ha fondo. E se non ha fondo, come può soggiacere a sconvolgimento? Di Ciro racconta Plinio ( L . 7. c. 24 ) (quanto buono stimatore delle eccellenze umane, tanto mal saggiatore delle divine), che nel suo numerosissimo campo conosceva ciascun soldato di faccia, ciascun di nome. Eppure una tal vastità di memoria, come era per quel capitano un gran vanto, così nulla diminuiva a lui di sua quiete. Or quale giudizio dovrem noi dunque formare della sapienza divina, che non ha limite? Resterà ella sopraffatta da un numero di cose, che se a noi sembra un esercito smisurato, ad essa è meno che una pura decuria, che un povero drappelletto: Multi nobis videmur, dicea Minuzio (In Octav.), sed Deo pauci sumus. Paragonate, se aggradavi, il nulla al tutto; cioè a dire, paragonate una mente creata e carcerata tra gli organi corporei, inabili ad operare senza fantasmi, qual era quella di Ciro, con una mente increata e incircoscritta, che fa da sé; e poi sappiatemi dire, se a lei si adatti quel triste ministerium, con cui definiscono questi la Provvidenza, travestendo le bestemmie da ossequio, mentre sotto colore di formare un Dio di perfetta felicità, si fingono un Dio di benevole intendimento. Tanto più che Egli, nel tempo in cui contempla i disordini delle cose umane, e gli abborre, nel medesimo contempla la bellezza delle divine, e ne gode, suggendo da quella vena di contentezza, senza divertimento, infinito gaudio. Sicché quello sdegnarsi che fanno i grandi tra noi di pensare alle cose lievi e di favellarne; de minimis non curar Prætor; non è lode loro, se ben si guarda, è tumore, è tedio, è timore di non poter reggere a tutto senza annoiarsi: altrimenti qual dubbio vi è, che se lo recherebbero a gloria, come gloria è del mare l’accogliere tutti i rivi, e maggiori e minori, senza commuoversi?

XIV. E poi mirate sciocchezza! Quando anche nella mente divina potesse fingersi questa incapacità, che non è possibile, di tante cure ad un’ora; perché dunque volere piuttosto levare a lei la cura delle cose maggiori, assegnandole quella delle minori, che levarle la cura delle minori, assegnandole quella delle maggiori? Eppure così fanno questi empi, che dalla Provvidenza divina vogliono, più che altro, sottrarre le azioni umane, che sono le più eminenti. Le leggi tutte ( L’unica qui numero liberorum) scusano dal pigliare la tutela degli altrui figliuoli quel padre, il qual ne abbia cinque dei propri, mercecchè essendo la cura de’ propri parti il fine di un padre saggio, debbe una cura tal prevalere ad ogni altra cura non compossibile. Ora è certissimo, che il governo morale degli uomini è il fine del naturale, da che vediam, che gli effetti della natura tendono tutti a benefizio dell’uomo. E però, quando la provvidenza divina non fosse da tanto, che potesse saggiamente ordinare gli affari dell’umana felicità, se nel tempo medesimo pensi ad altro; dovrebbe porre in non cale gli affari della natura, per attendere a quelli della virtù, lasciando scorrere qualche difetto ne’ mezzi meno importanti, per tener saldo il fine, in grazia di cui furono amati que’ mezzi

XV. E però intollerabile la stolidità di chi confessa, che la natura nelle opere sue minute spende un incomparabile accorgimento: Natura nusquam magis quam in minimis tota est (Plin. 1. 11. c. 2), come un’altra volta fu ponderato; e poi nega un’attenzione, eziandio mediocre, della medesima natura, alle azioni buone, o ree, de’ mortali, quasi che queste non fossero sempre il fine a cui l’altre mirano. E il riputare diversamente è il tacciare Dio di milenso, o di mentecatto, e porre al reggimento del mondo un governatore, che non istarebbe né anche bene per padre di famiglia in una bottega. Quid absurdius, dice Agostino (L. 5. Gen. ad lit. c. 2), quid insulsius audiri potest, quam eam mundi partem totam esse vacuam nutu ac regimine Providentiæ, cuius extrema et exigua videat tanta dispositione formari? E però dalla sapienza che Dio mostra nella disposizion delle cose naturali, spettanti a’ bruti più vili, conviene argomentare quella che adopera nella disposizione delle morali, spettanti agli uomini, e persuadersi, che se egli vuole sì bella sino una chiocciola, molto più bello dovrà volere il cuore di ognun di noi. Chi vuole bello il convito delle sue nozze, bella la sala, belle le stanze, belli gli arazzi, belli i vasi, belle le vesti, molto più vorrà certamente bella la sposa, che è il fine di tutto il resto.

III.

XVI. Ed una tale considerazione medesima a vederci il torto parimente che arrecano alla divina bontà questi temerari che la spacciano priva di provvidenza. Imperocché ciò che è L’ottimo nell’universo, si è il bene dell’ordine, siccome quello che più contiene delle perfezioni divine, e più le notifica; onde conviene, che questo bene più ancor sia caro alla divina bontà, e più sia da lei sempre inteso, che qualunque altro. Pertanto può bene Iddio, senza diminuire la bontà sua, lasciar di comunicare alle creature la propria felicità, rattenendola tutta dentro se stesso; ma posto che egli risolvasi a diramarla punto in altrui, non può lasciar poi di volere in queste benevole comunicazioni ciò che è il loro fine, cioè mostrare l’ordine che evvi tra le creature e la divina bontà, come tra i rivi e la fonte; e però non può lasciar di esercitare verso tutti coloro, a cui si comunica, la sua provvidenza indefessa, non solo perché è potente, non solo perché è sapiente, ma perché è buono, che è quanto dire diffonditor di se stesso.

XVII. E per una pari ragione non può lasciare di provvedere con cura anche più speziale alle sostanze ragionevoli, che, come libere, più si avvicinano al fine inteso da lui, che è la sua glorificazione: onde queste si debbono regolare dalla provvidenza divina con cura tale, che al paragone di essa, la cura amministrata intorno agli effetti naturali abbia faccia di negligenza: Numquid de bobus cura est Deo?(forse Dio si prende cura dei buoi?)disse l’Apostolo (1. Cor. IX. 9). Non Perché Iddio non invigili ancora sui bisogni degli animali; ma perché a fronte dell’attenzione che pone al genere umano può dirsi, che li trascuri, se non da canto dell’atto di provvedere, che di certo è unico in tutti, almen da canto dei beni che somministra con un tal atto.

XVIII. Ma chi ne può dubitare? Non veggiam noi quanto ciascuna cagione mostri di amore al suo effetto (Natura commendat tigridi catulos suos, et immitem feram materno mollit affectu, disse un Ambrogio (Hexamer.16. c. 4). Or come Dio vorrebbe senza amoreesser padre, se non ha voluto che senza amoresia madre neppure la più cruda di tuttele fiere alpestri? Dall’altro lato, l’amore è incontanentecagione di provvidenza. E lo scornotuttora nell’amore stesso profano, il quale, quanto abbaglia gli occhi al conoscere giustamente i diletti della persona amata, tanto gli aguzza a vedere i bisogni in cui si ritrovi, ed a provvedervi, senza mai tenere in conto di lieve ciò che a lei spetti. Pertanto Iddio, che non solamente non ci ha prodotti alla cieca, come genera il padre la propria prole senza conoscerla, ma ci ha prodotti giusta l’idea della sua mente divina, conoscendoci appieno prima di farci; come potrà di poi, formati che ci abbia, dimenticarsi di noi, lasciandoci in mano al caso? Sono tacciate di poco amorevoli quelle madri che dopo avere generati i loro parti, li danno a balia, privandoli del vantaggio del proprio latte, quando loro diedero il sangue, quasi sdegnose di essere madri intere: Quod enìm est hoc contra, naturam imperfectum atque dimidiatum matris genus, peperisse, ac statim a se abiecisse (Favorinus apud Gell. 1. 13. c. 7)? Eppure tali madri cercano almen tra le balie la più opportuna a sostituirsi. Ora Dio, tenero inesplicabilmente di tutti noi, più che non fu madre alcuna dei suoi portati, non solo lascerà di assisterci Egli immediatamente poi che ci fece, ma ci darà in cura ad un caso stolto, capriccioso, insolente, cioè a dire ad una nutrice la più inetta di quante se ne divisino ad allevarci? Massimamente che i genitori potrebbero allegar qualche scusa della loro trascuratezza, fondata o nelle poche forze ch’essi posseggano, o nella minore capacità. Ma come potrebbe al pari scusarsi Dio, mentre la sua potenza infinita non gli permette stancarsi nel farci bene, e la sua infinita sapienza non gli permette ignorare di quale bene più ci sia d’uopo? Tutto il mancamento sarebbe nella bontà.

XIX. Che se pure alcuni stoltamente volessero recare in Dio, non a biasimo, ma a prodezza, questa non curanza spietata de’ propri parti; contuttociò l’amor che egli ebbe a sé, come a tanto buono, lo costringerebbe ad aver provvidenza delle azioni umane, se non in riguardo nostro, in riguardo suo. Di qual lode reputeremmo degno il cuore divino, se Egli non apprezzasse la virtù, e non abborrisse il vizio? Una tale divinità non sarebbe neppur di riputazione a un padron di villa in ordine a’ suoi garzoni. Giudicate poi se ella possa giammai convenire all’ottima di tutte le nature possibili, qual è Dio. Dall’altro lato, se Egli apprezza la virtù, se Egli abborre il vizio, come potremo noi persuaderci che egli non dichiarisi ben servito dalle azioni oneste, ed offeso dalle malvage? Stupidissimus est, qui non offenditur facto, quod non amat fieri (Tertull. in Marc. 1. 1. c. 19); specialmente che tutto ciò succede sugli occhi di lui medesimo, senza ch’Egli possa mai chiudergli un solo momento, o distorli altrove. Non sarebbe però come un Dio di stucco, quel che non si risentisse né di ciò che gli torna ad onore, né di ciò che gli torna ad onta; o che avendo in sua balìa pene e premi, patiboli e principati, procedesse nel ripartimento di ciò senza alcuna cura, non distinguendo né i buoni dai tristi, né i ben costumati dai turbolenti? Un tale Iddio sarebbe certamente più biasimevole di qualunque giudice iniquo, mentre egli verrebbe ad approvare in se medesimo quelle ingiustizie che dappertutto proibisce coll’universale consentimento di tutti i popoli, e biasima coll’universale condannamento.

XX. E dunque manifestissimo non potersi negare a Dio provvidenza, senza ferirlo altamente nel suo braccio, nella sua mente, nel suo cuore, cioè nella potenza, nella sapienza e nella bontà (Dio, come onnisciente, conosce il fine, cui tendono tutte e singole le creature, ed i mezzi necessari per arrivarlo; come onnipotente, ha in sua mano sicura tutti questi mezzi; come infinitamente buono, li fornisce alle creature tutte. Adunque nel concetto stesso di Dio, cioè di questi tre supremi suoi attributi, si rinviene il concetto della Provvidenza, la quale rimane così dimostrata a priori , e ben disse Lattanzio: « Si Deus est, utique providens est, alterum sine altero nec esse, nec intelligi potest. » Esiste Dio; dunque è provvido. O un Dio provvido, o nessun Dio.). Ingratissimi però noi, se, invece di adorare, pieni di fiducia, e di assecondare lo disposizioni di lui, lo calunniamo ogni tratto! In tal caso non è la Provvidenza che manchi a noi, siamo noi che manchiamo alla Provvidenza. Il sole è presente al cieco; eppure il cieco non è vicendevolmente presente al sole. Cæcus in sole præsentem habet solem, sed absens est ipse soli (S. Aug. in Ev. Io. tr. 3).

SALMI BIBLICI: “QUI CONFIDUNT IN DOMINO, SICUT MONS SION” (CXXIV)

SALMO 124: Qui confidunt in Domino, sicut mons Sion

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.  

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS -LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 124:

Canticum graduum.

[1] Qui confidunt in Domino, sicut mons Sion:

non commovebitur in æternum, qui habitat

[2] in Jerusalem. Montes in circuitu ejus; et Dominus in circuitu populi sui, ex hoc nunc et usque in sæculum.

[3] Quia non relinquet Dominus virgam peccatorum super sortem justorum; ut non extendant justi ad iniquitatem manus suas,

[4] benefac, Domine, bonis, et rectis corde.

[5] Declinantes autem in obligationes, adducet Dominus cum operantibus iniquitatem. Pax super Israel! [1]

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXIV.

Anima il profeta i viatori alla patria, a gran fiducia in Dio, che è potentissimo e fedelissimo.

Cantico dei gradi.

1. Coloro che confidano nel Signore sono come il monte di Sion; non sarà vacillante in eterno chi abita in Gerusalemme.

2. Ella è cinta dai monti; e il Signore cinge il suo popolo, e adesso e per sempre.

3 Perocché il Signore non lascerà che io salirò dei peccatori (domini) sopra l’eredità

dei giusti; affinché non istendano i giusti le loro mani all’iniquità.

4. Sii tu benefico, o Signore, coi buoni e con quelli di cuore retto.

5. Quelli poi che a storti sentieri si volgono, li porrà insieme il Signore con quelli che operan l’iniquità: pace sopra Israele. [1]

(1) La parola “obligationes” ha dato luogo a differenti interpretazioni. Noi ci contentiamo di fare osservare, per giustificare il senso che abbiamo adottato nella traduzione del testo e nelle spiegazioni che seguono, senso che è il più generalmente adottato, che questo versetto non fa che uno con il precedente, del quale è come il complemento, e se si vuol conciliare il testo latino, greco ed ebraico, non si può dubitare che questo termini non significhi l’obliquità e la tortuosità che prende la corda contrariata nella sua direzione, nell’avvolgersi in numerosi anelli. Questi nodi, queste tortuosità sono messi là per opposizione alla rettitudine di cui sta per parlare il salmista, e così c’è legame per sequela di idee. Se al contrario, si vuole intendere con questa parola, l’obbligo di fare qualche cosa, come sono i voti, i giuramenti, le promesse, i patti, ed altri impegni simili, non si potrà che indovinare appena ciò che ha voluto dire il Profeta. 

Sommario analitico.

In questo salmo il Profeta, giunto dopo l’esilio al termine del suo viaggio nella città santa, proclama la felicità di coloro che confidano nel Signore.

I. – Egli afferma la stabilità e la sicurezza di coloro che confidano in Dio, e che egli compara alla montagna di Sion:

1° essi saranno indistruttibili (1) ;

2° saranno in una sicurezza perfetta e durevole (2).

II. – Descrive la loro felicità che sarà il seguito:

1° della fine prossima delle persecuzioni dei loro nemici, di cui dà la ragione (3);

2° dei benefici che Dio spande sui giusti e su coloro che hanno il cuore retto (4);

3° del severo castigo che esercita sugli ipocriti e su coloro che seguono le vie tortuose;

4° della pace che farà regnare su Israele (5).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1.- 2.

ff. 1, 2. – « Coloro che confidano veramente in Dio sono come la montagna di Sion. Questa è il simbolo di una ferma speranza, invincibile, indistruttibile: avrete bene da moltiplicare le macchine, ma non riuscirete mai a rovesciare o distruggere una montagna. Così colui che attacca l’uomo, la cui speranza è in Dio, vedrà inutile tutti i suoi sforzi, perché la speranza in Dio, è un appoggio più sicuro di quanto possa essere una montagna (S. Chrys.) – « … come la montagna di Sion, » a causa della sua immobilità, della sua elevazione, della sua stabilità e soprattutto perché è una montagna cara e consacrata a Dio. La santa montagna di Sion, indistruttibile per la Potenza che Dio vi afferma, comunica la sua immobilità e la sua tranquillità ai suoi abitanti. – « Colà, non saranno mai abbattuti coloro che abitano in Gerusalemme. » Se noi qui intendiamo la Gerusalemme terrestre, tutti coloro che l’abitavano sono stati cacciati dalle guerre e dalla distruzione di questa città. Perché dunque coloro che abitano in essa non saranno mai distrutti, se non perché c’è un’altra Gerusalemme che è la madre nostra e verso la quale noi sospiriamo e gemiamo nel viaggio di questa vita, per avere la felicità di entravi? Noi erriamo lontano da essa e non abbiamo alcun cammino che ci conduca ad essa: il suo Re è venuto e si è fatto nostra via, affinché potessimo ritornare ad essa (S. Agost.) – Rappresentatevi la felicità della città dei cieli: coloro che vi sono entrati sono al riparo da ogni prova, e nulla oramai potrà distruggerli, né le passioni, né i piaceri, né le occasioni di peccato, né il dolore, né le sofferenze, né i pericoli, tutto ciò non esiste che nel passato (S. Chrys.). – La necessità di un senso superiore in senso letterale, appare qui in tutta la sua evidenza. Il nome della montagna di Sion, l’abitazione in Gerusalemme, le montagne che la circondano, tutto ciò richiede un senso spirituale, interiore se si vuole, ebbene questo salmo sia senza oggetto, ed il Profeta, attraverso il quale noi crediamo che lo Spirito Santo abbia parlato, potrebbe essere accusato di menzogna. Qual frutto, in effetti, riporterà colui che mette la sua fiducia nel Signore, di essere come la montagna di Sion, cioè che un uomo ragionevole diventi una pietra, una roccia, un albero, o altro, e di discendere dalla natura animata alla natura inanimata? Come sarebbe vero, allora che colui che abita in Gerusalemme non sarà mai abbattuto? E Gerusalemme ha potuto santificare e difendere i suoi abitanti e dare loro eterno rifugio, essa che ha visto compiersi in mezzo ad essa il massacro dei Profeti, il giudizio che condannò il Signore a morte, la fuga degli Apostoli e lo scandalo della croce? Quante volte i suoi abitanti sono stati condotti in cattività? Quante volte messi a morte? Infine questa città è stata distrutta da cima a fondo, e coloro che sono sopravvissuti alla sua distruzione, sono stati dispersi ai quattro venti del cielo … Questa montagna di Sion, è dunque la Chiesa, che ha per fondamento Gesù Cristo, dunque il Signore ha detto con il suo Profeta: « Io stabilirò per fondamento in Sion, una pietra solida, scelta, preziosa, angolare ed immutabile, e colui che crederà in questa pietra non sarà confuso » (Isai. XXVIII, 16). Nessun dubbio che l’Apostolo non abbia inteso questo fondamento se non in Gesù Cristo, sul quale si appoggia la Chiesa figurata con questa montagna. Questa Chiesa è la Gerusalemme, di cui l’Apostolo dice: « La Gerusalemme dell’alto è libera, ed essa è la madre nostra. » (Gal. IV, 25, 26). Noi dunque abbiamo qui, tutte insieme, Sion, la montagna del Signore, e Gerusalemme, la vera città di Dio (S. Hilar.) – Ed aspettando, coloro che abitano con il desiderio e la speranza questa Gerusalemme celeste, che non aspirano che al possesso di Dio, partecipano a questa felice immutabilità e non perdono mai, loro malgrado, l’oggetto della loro speranza e del loro amore. – « Delle montagne la circondano. » Per noi è gran cosa essere in una città circondata da montagne? È nostra suprema felicità possedere una città circondata da montagne da ogni parte? Non abbiamo dunque mai visto montagne? E cosa sono le montagne se non porzioni di terra elevate? Ma ci sono altre montagne, montagne amabili, montagne sublimi: i predicatori della verità, gli Angeli, gli Apostoli, i Profeti. Essi circondano Gerusalemme da ogni lato, e la circondano come una cinta di mura … Queste montagne sono illuminate da Dio; esse sono le prime a ricevere la luce, che da esse discende nelle valli e sulle colline; con queste montagne, noi riceviamo il dono della santa Scrittura, sia nei Profeti, sia nelle lettere apostoliche, sia nel Vangelo … Ma siccome le montagne stesse non sono difese dalle proprie forze, nè esse ci proteggono con la loro possanza, e non dobbiamo porre la nostra speranza in esse, … il Profeta aggiunge immediatamente: « ed il Signore è intorno al suo popolo, » affinché la vostra speranza non riposi sulle montagne, ma in Colui che rischiara le montagne. In effetti, poiché Dio abita nelle montagne, cioè nei Santi, è Egli stesso intorno al suo popolo come una muraglia di fortezza spirituale, perché non sia mai abbattuta. (S. Agost.) – È ciò che cantava il Profeta Isaia: « Sion è una città forte, il Salvatore ne è Egli stesso muraglia e la ripara. Aprite le sue porte, riceva nel suo seno un popolo che ama la verità. » (Isai. XXVI, 1). È ciò che Nostro Signore Gesù Cristo promette alla sua Chiesa, che è la vera Sion: « … ecco che io sono con voi fino alla consumazione dei secoli. » (Matth. XXVIII, 20).

II. — 3-5

ff. 3 – 5. –  « Dio non lascerà riposare la verga dell’empio sull’eredità dei giusti. » La “verga” nella Scrittura è l’insieme della potenza. Mosè ricevette da Dio una verga per operare i suoi prodigi; Aronne ricevette ugualmente una verga, simbolo della sua preminenza sugli altri sacerdoti. Noi vediamo nella Scrittura la verga del Faraone, la verga di Nabucodonosor, appesantirsi sul popolo di Dio. Il Signore è dunque intorno al suo popolo, perché la verga dei peccatori non riposi sull’eredità dei giusti. Le tribolazioni vengono, ma non durano; le persecuzioni ci assalgono, ma sono di breve durata. Vi sono molti che vogliono ridurre in cattività la libertà della nostra fede, ma nessuno giunge a dominare su questa fede che abbiamo in Cristo; perché il Signore resta eternamente intorno al suo popolo, per paura che stanco e soccombente sotto il peso di questa verga, non stendiamo le nostre mani verso l’iniquità. Tutto ciò che soffriamo dai nostri nemici è breve e, benché la battaglia sia di breve durata, il prezzo della vittoria è eterno. (S. Hilar.) Benché Dio permetta che i peccatori dominino sui giusti con l’autorità, che non servano, nella maggior parte del tempo, che ad opprimere coloro che sono loro soggetti, non permette che i loro dominatori si affermino e sussistano per sempre, né che la loro autorità si estenda ai beni spirituali ed interiori, che sono la sorte, la porzione e le vere ricchezze dei veri Cristiani. Dio pure lo vuole perché, benché giusti che siano, sarebbe da temere che, per debolezza o per partecipare alla prosperità temporale degli empi, le loro mani non servano a commettere delle azioni inique (Duguet.) – Ora, in effetti, i giusti sono talvolta nella sofferenza, e gli ingiusti hanno talvolta autorità sui giusti. Come mai? Accade, ad esempio, che i malvagi pervengano alle dignità del mondo; e quando sono giunti a diventare giudici o re, Dio permettendo, per formare il suo popolo al bene, non si possono loro rifiutare gli onori dovuti al loro rango. In effetti, Dio ha organizzato la sua Chiesa in modo tale che ogni potenza stabilita in questo mondo debba essere onorata, anche in uomini che meritano tutt’altro. Ma sarà sempre così, e gli ingiusti avranno sempre autorità sugli ingiusti? No, certo, la verga dei peccatori fa sentire il suo peso per un tempo, sulla sorte dei giusti, ma non per l’eternità, non per sempre. Verrà un tempo in cui il Cristo, apparendo nella sua gloria, radunerà intorno a sé tutte le nazioni, le separerà, come un pastore separa i capri dalle pecore, e metterà le pecore a destra ed i capri alla sinistra (Matth. XXV, 33). Allora voi constaterete un buon numero di servi tra le pecore, ed un buon numero di padroni tra i capri; e di contro un buon numero di padroni tra le pecore, e un certo numero di servi tra i caproni; poiché se noi consoliamo i servi, non tutti i servi sono buoni, o per il fatto che reprimiamo l’orgoglio dei padroni, tutti i padroni sono cattivi: ci sono dei padroni buoni e fedeli e ce ne sono altri di cattivi: vi sono dei buoni e fedeli servitori, e ve ne sono di cattivi. Ma, intanto che buoni servi si sono ridotti a servire cattivi padroni, che essi sopportino, per un tempo questa necessità: « … perché Dio non lascerà sempre la verga dei peccatori pesare sulla sorte dei giusti. » Perché? « per timore che i giusti non tendano le mani verso l’iniquità. » I giusti, dunque sopportino per qualche tempo, la dominazione degli ingiusti, comprendano che essa non durerà per sempre, e si preparino a possedere l’eterna eredità. Quale eredità? Quella in cui essendo abolita ogni dominazione, ogni potenza, Dio sarà in tutti. (II Cor. XV, 28). Conservandosi per questa eredità, e contemplandola con gli occhi del cuore, possedendola già con la fede, preservandola in modo da raggiungerla, essi non stendono la mano verso l’iniquità; perché se essi vedessero che la verga dei peccatori pesasse per sempre sulla sorte dei giusti, essi non direbbero a se stessi nei loro pensieri: « a cosa mi serve essere giusto? Il malvagio dominerà sempre su di me ed io resterò sempre schiavo? Io anche commetterò l’ingiustizia, perché non mi serve a nulla conservare la giustizia. » È per prevenire un tale linguaggio che è data l’assicurazione che la verga dei peccatori non si poserà che per un tempo sulla sorte dei giusti (S. Agost.). – In ogni circostanza dipende da noi, di principio, ottenere i favori di Dio o incorrere nei suoi castighi. Tuttavia, malgrado la parte che Dio ci lascia prendere, la sua bontà non brilla con meno splendore, e la sua liberalità nei nostri riguardi è ben superiore a tutto ciò che possiamo fare … i cuori retti di cui parla il salmista, sono i cuori nemici della dissimulazione e dell’artificio, le anime senza trucco e senza inganno. Tale è anche la virtù, semplice e retta, mentre il vizio ama servirsi di vie deviate, sempre diverse e senza uscita. (S. Chrys.) – I cuori retti sono soprattutto quelli che conformano il loro giudizio e la loro volontà alla regola rettissima del giudizio e della volontà di Dio, benché non sappiano perché Dio permetta questo e non quello. Essi acconsentono a Dio in ogni cosa: Dio piace a loro e loro piacciono a Dio. –  Ci sono due tipi di persone che non sono affatto di Dio: – 1) coloro la cui via è manifestamente sregolata e ammantata di crimini; – 2) coloro che, pur facendo professione di osservare la sua legge, abbandonano la via retta per le vie tortuose, per seguire le devianze e le false massime del secolo, che approvano spesso ciò che è cattivo e degno di biasimo. Dio li tratterà come i primi, e li aggiungerà a coloro che commettono l’iniquità. (Dug.) –  Il salmista termina con una preghiera; tale è la condotta ordinaria dei Santi: all’esortazione, ai consigli, essi aggiungono la preghiera, per far discendere su coloro che essi hanno istruito i potenti soccorsi del cielo. Ora, la pace che si augura loro, non è la pace esteriore, ma una pace di ordine più elevato. Egli ne indica l’origine, e domanda a Dio che l’anima non si divida contro se stessa, favorendo la guerra interiore che gli fanno le passioni. (S. Chrys.) – Questa pace è la prerogativa dei soli figli della Chiesa, che sono l’Israele di Dio. Israele significa “chi vede Dio”, e Gerusalemme significa “visione della pace”. Chi sono coloro che non saranno mai abbattuti? Coloro che abitano in Gerusalemme. coloro, di conseguenza, che abitano la visione della pace non saranno mai abbattuti, e « … che la pace sia su Israele. » Israele è colui che vede Dio, è dunque anche colui che vede la pace; Israele è dunque anche Gerusalemme, perché è il popolo di Dio, come Gerusalemme è la città di Dio (S. Agost.)

TUTTA LA MESSA (LA “VERA” UNICA CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (10)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (10)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

5 — La preghiera per la pace

268 — Per chi il Sacerdote chiede il prezioso dono della pace?

Il Sacerdote, umilmente inchinato, con le mani giunte ed appoggiate all’altare e gli occhi fissi sull’ostia, chiede il prezioso dono della pace per sé e per tutta la Chiesa.

Preghiera:

« Dómine Jesu Christe, qui dixísti Apóstolis tuis: Pacem relínquo vobis, pacem meam do vobis: ne respícias peccáta mea, sed fidem Ecclésiæ tuæ; eámque secúndum voluntátem tuam pacificáre et coadunáre dignéris: Qui vivis et regnas Deus per ómnia sæcula sæculórum. Amen. »

[Signore Gesú Cristo, che dicesti ai tuoi Apostoli: Vi lascio la pace, vi do la mia pace, non guardare ai miei peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e degnati di pacificarla e di riunirla secondo la tua volontà. Tu che sei Dio e vivi e regni per tutti i secoli dei secoli. Amen.]

269 — Quando Nostro Signore ha pronunciato queste parole?

Fu durante la celebrazione della prima Messa nel Cenacolo che Nostro Signore disse: Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace.

Tutta la preparazione alla Santa Comunione è organizzata nel segno della pace: la pace interiore attraverso il regno della grazia e dell’amore di Dio, la pace esteriore in armonia e in unione con il prossimo.

270 — Cosa simbolizza il bacio della pace scambiato dai Chierici nella gran Messa?

Il bacio della pace scambiato dai chierici che assistono alle Messe cantate simboleggia la carità che deve unire tutti coloro che riceveranno Nostro Signore nella Santa Comunione … perciò, quando presenti la tua offerta all’altare, e ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te – disse Nostro Signore – lascia lì la tua offerta davanti all’altare, e vai prima a riconciliarti con tuo fratello, poi vieni a presentare la tua offerta.

Nella Chiesa primitiva, sia nella vita quotidiana che nelle assemblee liturgiche, i fedeli si scambiavano il bacio della pace come segno di carità e di unione.

6 — Le preghiere avanti la Comunione

271 — Cosa domandiamo a Dio con la prima preghiera avanti la Comunione?

Attraverso questa preghiera chiediamo a Dio la liberazione da tutte le nostre iniquità, da tutti i nostri mali, e l’aiuto che ci permette di essere sempre attaccati ai comandamenti di Dio e di non essere mai separati dal nostro Redentore.

Preghiera:

« Dómine Jesu Christe, Fili Dei vivi, qui ex voluntáte Patris, cooperánte Spíritu Sancto, per mortem tuam mundum vivificásti: líbera me per hoc sacrosánctum Corpus et Sánguinem tuum ab ómnibus iniquitátibus meis, et univérsis malis: et fac me tuis semper inhærére mandátis, et a te numquam separári permíttas: Qui cum eódem Deo Patre et Spíritu Sancto vivis et regnas Deus in saecula sæculórum. Amen.»

[Signore Gesú Cristo, Figlio del Dio vivente, Tu che per volontà del Padre, con la cooperazione dello Spirito Santo, con la tua morte hai restituito al mondo la vita, liberami, mediante questo sacrosanto Corpo e Sangue tuo, da tutte le mie iniquità, e da tutti i mali: e rendimi sempre fedele ai tuoi comandamenti, e non permettere che io mai mi separi da Te, che sei Dio e vivi e regni con lo stesso Dio Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.]

272— Chi per primo ha chiamato Nostro Signore il Figlio di Dio vivente?

Gesù era in Galilea. Interrogando i suoi discepoli, dicendo: « Cosa dicono gli uomini toccando il Figlio dell’uomo? Essi Gli risposero: Alcuni dicono che è Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia, o uno dei profeti. Gesù dice loro: « E voi chi dite che io sia? » Simon Pietro rispose e disse: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. » Gesù gli rispose e gli disse: « Tu sei benedetto, Simone, figlio di Giona, perché la carne e il sangue non ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli. » (S. Matth XVI, 13-17).

273 — Cosa domandiamo a Dio nell’ultima preghiera prima della Comunione?

Con questa preghiera chiediamo a Nostro Signore di salvarci dalla disgrazia di una cattiva Comunione e di concederci in abbondanza i benefici di una buona Comunione.

Preghiera:

« Percéptio Córporis tui, Dómine Jesu Christe, quod ego indígnus súmere præsúmo, non mihi provéniat in judícium et condemnatiónem: sed pro tua pietáte prosit mihi ad tutaméntum mentis et córporis, et ad medélam percipiéndam: Qui vivis et regnas cum Deo Patre in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia saecula sæculórum. Amen. »

[La comunione del tuo Corpo, Signore Gesú Cristo, ch’io indegno ardisco ricevere, non mi torni a delitto e condanna; ma per la tua bontà mi giovi a difesa dell’anima e del corpo e come spirituale medicina, Tu che sei Dio e vivi e regni con Dio Padre nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.]

274— Quale si chiama una cattiva Comunione?

Per fare una buona Comunione, bisogna essere in stato di grazia, avere una giusta intenzione e digiunare dalla mezzanotte.

Chi fa la Comunione in stato di peccato mortale fa una cattiva comunione, commette un grande sacrilegio; è colpevole del corpo e del sangue del Signore e mangia e beve la propria condanna, secondo l’espressione di san Paolo.

Ma non basta essere liberi dal peccato mortale per ricevere la Santa Comunione con dignità. La voluta mancanza di una maggiore purezza di intenzione, di rispetto, di carità e di devozione, che assicura al comunicante l’abbondanza delle grazie divine, rende la Comunione meno buona e lo dispone gradualmente alla comunione indegna.

Confidando nella bontà paterna del Salvatore, il sScerdote chiede che questa comunione sia per lui una fonte di bene.

275 — Come la Comunione è protezione e rimedio per la nostra anima?

Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue – disse Nostro Signore – avrà la vita per mezzo mio, e vivrà per sempre. La Comunione è per l’anima ciò che il pane e il vino sono per il corpo: aumenta la vita spirituale aumentando la grazia santificante, rafforzando le virtù soprannaturali; ci eccita a tutte le opere buone; ci arma di zelo e di coraggio per consacrarci interamente al servizio di Dio.

276 — Com’è che la comunione è profittevole per la nostra anima?

Solo l’anima è depositaria della grazia, ma l’aumento dell’amore di Dio nell’anima, il rafforzamento delle virtù e la forza di resistere alle tentazioni, effetti felici della Comunione fervente, producono un indebolimento delle inclinazioni al male e delle passioni della carne e, di conseguenza, diventano fonte di spiritualità. E così il corpo liberato dalle sue schiavitù, troverà il suo bene nell’ordine stabilita da Dio fin dall’inizio.

277 — Come termina la preparazione alla comunione?

Il Cacerdote adora Nostro Signore con la genuflessione. Alzandosi dice:

« Panem cœléstem accipiam, et nomen Dómini invocábo.»

[Prenderò questo pari celeste, invocherò il Nome del Signore].

Poi prende l’Ostia consacrata, che tiene tra il pollice e l’indice della mano sinistra; pone la patena tra questo indice ed il resto della mano; inchinandosi, dice tre volte di fila, a metà strada, con devozione e umiltà, battendosi il petto;

«Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.»

[Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ solo una parola e la mia anima sarà guarita.]

Riconosciamo qui la risposta del centurione di Cafarnao a Nostro-Signore, quando gli disse che sarebbe andato a casa sua per guarire il suo servo.

7 — La santa Comunione

278 Quali gesti e quali preghiere fa il Sacerdote nel comunicarsi?

Il Sacerdote prende tra le dita della mano destra le due metà della Sacra Ostia e traccia il segno della croce davanti a sé, dicendo:

«Corpus Dómini nostri Iesu Christi custódiat ánimam meam in vitam ætérnam. Amen.»

[Possa il corpo di nostro Signore Gesù Cristo preservare la mia anima per la vita. Così sia.]

Poi, inchinandosi profondamente, si comunica con rispetto al Corpo di Nostro Signore.

Subito dopo, il Sacerdote mette la patena da un lato, unisce le mani e rimane per qualche istante in raccoglimento nella meditazione dei misteri divini. Poi purifica la patena e il caporale dai frammenti più piccoli, che mescola con il calice, mentre recita i seguenti versetti del Salmo CXV:

«Quid retríbuam Dómino pro ómnibus, quæ retríbuit mihi? Cálicem salutáris accípiam, et nomen Dómini invocábo. Laudans invocábo Dóminum, et ab inimícis meis salvus ero.»

[Che cosa restituirò al Signore per tutto il bene che mi ha dato? Prenderò il Calice della Salvezza e invocherò il Nome del Signore. Nella lode invocherò il Signore e sarò salvato dai miei nemici.]

Alle parole « Prenderò il Calice … », il Sacerdote prende il calice e, a formula completata, si segna con il segno della croce, dicendo:

« Sanguis Dómini nostri Iesu Christi custódiat ánimam meam in vitam ætérnam. Amen. »

[Possa il Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo custodire la mia anima fino alla vita eterna. Così sia.]

Poi, tenendo la patena sotto il mento con la mano sinistra, fa la Comunione nel Sangue di Nostro Signore.

279 — Quando devono comunicarsi i fedeli?

I fedeli dovrebbero comunicarsi preferibilmente alla Comunione del Sacerdote, perché le preghiere della Messa che precedono la Comunione preparano le anime a un atto così sublime e le preghiere della Messa che seguono la Comunione esprimono i migliori sentimenti di gratitudine a Nostro Signore. Tuttavia, la pratica della Comunione frequente, aumentando il numero dei comunicanti ha reso piuttosto difficile la realizzazione di questo ideale liturgico.

280 — Quali preghiere si recitano prima di distribuire la comunione ai  fedeli?

Mentre il Sacerdote apre il tabernacolo, il servente recita il Confiteor. Il Sacerdote recita, rivolto verso il popolo, il Misereatur e l’Indulgentiam. Poi prende un’ostia dal ciborio e, tenendola un po’ alta, dice, rivolgendosi all’uditorio:

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
[Agnello di Dio che togli i peccati dal mondo, abbi pietà di me], e tre volte:

«Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.»

[Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ solo una parola e la mia anima sarà guarita.]

281 — Quale preghiere dice il Sacerdote comunicando ogni fedele?

Depositanto l’Ostia santa sulla lingua di ogni fedele, il Sacerdote dice:

Corpus Dómini nostri Iesu Christi custódiat ánimam tuam in vitam ætérnam. Amen.

[Il Corpo di nostro Signore Gesú Cristo custodisca l’anima mia per la vita eterna. Amen.]

282— Cosa devono fare i fedeli che non possono comunicare?

I fedeli che non possono fare la comunione sacramentalmente  devono unirsi a Gesù-Ostia attraverso la comunione spirituale.

Per poter comunicare spiritualmente si deve:

a) fare un atto di fede viva nella presenza reale di Nostro Signore nella Santa Eucaristia, accompagnato da un atto d’amore;

b) desiderare sinceramente di ricevere la Santa Eucaristia in modo sacramentale, se possibile, e quindi di essere intimamente uniti a Nostro Signore.

8 — Le abluzioni

283 — Cosa si intende per abluzioni?

Le abluzioni si riferiscono alla purificazione delle labbra, delle dita, del calice e talvolta anche del ciborio da parte del Sacerdote.

Questo nome viene dato anche al vino e all’acqua con cui il sacerdote toglie le piccole particelle che potrebbero rimanere attaccate alle dita, così come il vino consacrato che bagna le pareti del calice.

284 — Quali sono le cerimonie e le preghiere delle abluzioni?

Mentre l’accolito versa un po’ di vino nel calice, il Sacerdote, in piedi al centro dell’altare, fa la seguente preghiera:

« Quod ore súmpsimus, Dómine, pura mente capiámus: et de munere temporáli fiat nobis remédium sempitérnum. »

[Ciò che con la bocca abbiamo ricevuto, fa, o Signore, che l’accogliamo con anima pura, e da dono temporaneo ci diventi rimedio sempiterno.]

Questa è la prima abluzione.

Dopo aver consumato il vino, il sacerdote si mette dal lato dell’Epistola e purifica con il vino e l’acqua i pollici e gli indici sopra il calice, dicendo:

« Corpus tuum, Dómine, quod sumpsi, et Sanguis, quem potávi, adhaereat viscéribus meis: et præsta; ut in me non remáneat scélerum mácula, quem pura et sancta refecérunt sacraménta: Qui vivis et regnas in sæcula sæculórum. Amen.»

[O Signore, il tuo Corpo che ho ricevuto e il tuo Sangue che ho bevuto, aderiscano all’intimo dell’ànima mia; e fa che non rimanga macchia alcuna di peccato in me, che questi puri e santi sacramenti hanno rinnovato, o Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.]

9 — L’antifona della Comunione

285 — Cosa richiama la preghera intitolata Communio?

Dopo aver preso le abluzioni il sacerdote asciuga il calice, lo rimette al centro dell’altare, come all’inizio della Messa, e va, dalla parte dell’Epistola, a leggere la Communio. Questa preghiera ricorda il canto di un salmo eseguito un tempo dal coro durante la distribuzione della Comunione al clero e ai fedeli.

La Communio si riferisce quasi sempre alla festa del giorno e dimostra che la Comunione, se ricevuta con le dovute disposizioni, ci fa partecipare in modo speciale al beneficio del mistero che si celebra.

10 — Il Postcommunio

286 — Perché il Sacerdote dice il Dominus vobiscum prima del Postcommunio?

Il Sacerdote dice: Dominus vobiscum peima del Postcommunio per augurare ai fedeli che insieme, celebrando e assistendo, possano essere una cosa sola nel Signore Gesù per rendere infinite grazie a Dio Padre, con Lui e per mezzo di Lui.

287 — Cosa chiediamo a Dio nel Postcommunio?

Nel Postcommunio chiediamo a Dio che l’Eucaristia operi in noi tutti i suoi effetti affinché, uniti a Cristo, facciamo nostri i suoi sentimenti di ringraziamento.

288 — Quali effetti l’Eucaristia produce in noi?

L’Eucaristia cementa la nostra unione con Cristo, realizza l’unione dei fedeli tra di loro ed effre un pegno della gloriosa risurrezione.

289 — Si mostri come l’Eucaristia cementi la nostra unione al Cristo.

Nostro Signore ha istituito la Santa Comunione sotto forma di cibo per nutrirci e dissetarci con la sua vita divina e per incorporarci sempre più intimamente a Lui (Giovanni, VI, 53-58). L’Eucaristia, principio di vita, è anche « sacramento della carità »; essa infonde nel comunicante la consueta carità (virtù): « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui », dice il Signore, e S. Giovanni scrive: « Dio è amore e chi dimora nell’Amore dimora in Dio e Dio in lui ». E questa virtù della carità fiorisce attraverso l’Eucaristia in una meravigliosa efflorescenza di atti. “Dandoci se stesso nell’Eucaristia, Cristo espande la nostra carità, ci guarisce dal nostro egoismo, rafforza la tendenza della nostra volontà verso il Bene sovrano e ci dispone a sacrificare la nostra vita per i nostri fratelli, come ha fatto Egli stesso sulla croce. Le specie sacramentali possono sparire, ma l’effetto spirituale, operato dalla venuta di Cristo nell’anima, rimane: ogni Comunione ci lascia più profondamente uniti a Lui.

Il Concilio di Firenze (1438-1445) afferma in modo conciso: « L’effetto di questo Sacramento è l’unione dell’uomo con Cristo », e nel Decreto agli Armeni è scritto: « E poiché è per grazia che l’uomo è incorporato in Cristo e unito alle sue membra, ne consegue che con questo Sacramento la grazia è accresciuta in coloro che lo ricevono degnamente: e ogni effetto che il cibo e le bevande materiali hanno sulla vita corporea, sostenendola, sviluppandola, riparandola, questo sacramento lo produce nella vita spirituale ».

290 — Si mostri come l’Eucaristia realizzi l’unione dei fedeli tra di loro..

San Cirillo di Gerusalemme (+ 356) scrive nel suo commento al Vangelo di San Giovanni: « Il Figlio unigenito, Sapienza e Consiglio del Padre, ha inventato un  un mezzo meraviglioso con il quale per i Cristiani diventa possibile formare un’unità tra di loro e con Dio, per unirci gli uni con gli altri, anche se ognuno di noi ha un corpo e un’anima distinti. Quando Egli dà ai Cristiani il suo corpo da mangiare nell’Eucaristia, li rende concorporei con se stesso e gli uni con gli altri. Essi sono fisicamente uniti, poiché sono legati insieme nell’unità di Cristo attraverso la partecipazione al suo Corpo Sacro. Tutti noi che condividiamo lo stesso pane, formiamo un solo corpo, perché Cristo non può essere diviso ».

291 — Si mostri que l’Eucaristia ci dà come un pegno della Resurrezione gloriosa.

Questa è la promessa stessa di Nostro Signore: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, e Io lo resusciterò nell’ultimo giorno” (Giovanni, VI, 54-55). – E papa Leone XIII, nella sua enciclica Miræ Caritatis del 28 maggio 1902, commenta così questa promessa: « L’augusto Sacramento dell’Eucaristia è insieme causa e pegno di felicità e di gloria, non solo per l’anima, ma anche per il corpo ».

292 — Di quante orazioni si compone il Postcommunio?

Il Postcommunio è costituito da una o più orazioni, così come la Colletta e la Secreta. Le stesse prescrizioni liturgiche, relative alla Colletta ed alla Secreta, per quanto riguarda il numero, l’ordine, l’inizio e la conclusione, si applicano interamente al Postcommunio.

11 — La preghiera sul popolo

293 — Quando si dice la Preghiera sul popolo?

Dopo il Post-communio delle Messe quaresimali, il nostro Messale menziona una preghiera chiamata Preghiera sul popolo.

Prima dell’introduzione dell’attuale rito di benedizione di fine Messa, la Preghiera sul Popolo serviva a chiedere la protezione di Dio sui presenti prima che fossero licenziati con l’“Ite Missa est”. Essa aveva come scopo l’implorazione della misericordia di Dio, così come indicano la preghiera stessa ed il rito che l’accompagna: essa è introdotta dall’invito: « Umiliate il vostro capo davanti a Dio », che si fa sempre quando si implora la benedizione di Dio o la si dà nel suo Nome.

12 — Il congedo dei fedeli

294 — Cosa fa il Sacerdote dopo il Postcommunio?

Dopo il Postcommunio, il Sacerdote chiude il Messale, si reca al centro dell’altare che bacia, saluta il popolo dicendo: Dominus vobiscum e aggiunge, secondo l’ufficio celebrato, Ite, missa est, Benedicamus Domino o Requiescant in pace. All’Ite missa est e Benedicamus Domino i fedeli, attraverso la voce del servoente rispondono: Deo gratias e al Requiescant in pace, Amen

295— Che significa l’espressione « Ite, missa est » ?

L’espressione « Ite, missa est » significa: andate, è il congedo.

Nell’antichità era consuetudine tra i Cristiani congedare il popolo alla fine del Sacrificio; i catecumeni venivano licenziati alla fine della cosiddetta Messa dei catecumeni, e i fedeli alla fine della cosiddetta Messa dei fedeli. Il congedo finale era così solenne e impressionava talmente i presenti, che esso ha dato gradualmente il suo nome al Sacrificio stesso, che così si chiama Messa.

296 — Perché il Sacerdote in certi giorni dice: « Benedicamus Domino »?

Il Sacerdote sostituisce l’« Ite Missa est » con il « Benedicamus Domino » ogni volta che non c’è « Gloria in excelsis », come nei giorni di penitenza e nelle festività semplici. In questi giorni i fedeli restavano in chiesa per dire altre preghiere e non c’era un congedo  solenne.

Alle Messe del Requiem non c’è il congedo, perché di solito gli astanti rimangono in preghiera fino all’assoluzione. Il Sacerdote sostituisce: ite missa est con la formula Requiescant in pace, [riposino in pace]; in questo modo egli desidera il luogo della pace, cioè il cielo, per le anime dei defunti che beneficiano del Sacrificio.

297 — Si spieghi la risposta dei fedeli.

Gli assistenti rispondono « Deo gratias » dopo l’ Ite missa est e il Benedicamus Domino per imitare gli Apostoli, che, dopo la benedizione di Gesù sul Monte dell’Ascensione, sono tornati, pieni di gioia, lodando, benedicendo e ringraziando Dio incessantemente. È il ringraziamento che continua. “Niente di più breve, niente di più grande – diceva sant’Agostino – di questo ringraziamento: Deo gratias“.

13 — Il Placeat

298 — Quale rubrica osserva il Sacerdote recitando il Placeat?

Dopo la risposta dei fedeli, il Sacerdote unisce le mani e le preme sull’altare, poi, con il capo chinato, recita il Placeat. Questa preghiera contiene una sintesi precisa dei quattro fini del Santo Sacrificio: l’adorazione, il ringraziamento, la propiziazione e l’impetrazione.

Preghiera:

Pláceat tibi, sancta Trínitas, obséquium servitútis meæ: et præsta; ut sacrifícium, quod óculis tuæ majestátis indígnus óbtuli, tibi sit acceptábile, mihíque et ómnibus, pro quibus illud óbtuli, sit, te miseránte, propitiábile. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[O santa Trinità, Ti piaccia l’omaggio della mia servitù, e concedi che questo sacrificio, offerto da me, indegno, agli occhi della tua Maestà, sia a Te accetto, ed a me e a quelli per i quali l’ho offerto, torni giovevole, per tua misericordia. Per Cristo nostro Signore. Amen].

14 — La Benedizione

299  Qual è l’origine della benedizione?

Quando Gesù lasciò i suoi discepoli durante l’Ascensione, alzò le mani e li benedisse. Allo stesso modo, lasciando il Vescovo l’assemblea, benediceva il clero officiante, dicendo: Che il Signore vi benedica. Anche il popolo voleva essere benedetto dal Pontefice al suo passaggio. Questa benedizione è diventata così una cerimonia ufficiale e il Vescovo la impartiva a tutti prima di lasciare l’altare. Più tardi i Sacerdoti hanno imitato questo gesto del Vescovo al termine della loro Messa.

Recitato il Placeat, il Sacerdote bacia l’altare che rappresenta Cristo stesso, alza gli occhi verso la croce, fonte di benedizione, si rivolge ai fedeli e li benedice dicendo:

Benedícat vos omnípotens Deus,  Pater, et Fílius, et Spíritus Sanctus.
R. Amen.

[Vi benedica Dio onnipotente. Padre, Figlio ✠ e Spirito Santo.
R. Amen.]

Non si benedice chi è presente alle Messe dei morti per dimostrare che tutti i frutti del Sacrificio sono da applicare ai defunti.

15 — L’ultimo Evangelio

300 — Quale Evangelio si legge alla fine della Messa?

Come regola generale, alla fine della Messa si legge l’inizio del Vangelo secondo San Giovanni. Ci sono alcune eccezioni: le Messe private della Domenica delle Palme, dove si prende il Vangelo della Benedizione delle Palme, la terza Messa di Mezzanotte, dove si prende il Vangelo dell’Epifania, le Messe delle feste dette la Domenica, i giorni festivi e le veglie che hanno il loro Vangelo, che viene letto alla fine di queste Messe.

In princípio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum. Hoc erat in princípio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt: et sine ipso factum est nihil, quod factum est: in ipso vita erat, et vita erat lux hóminum: et lux in ténebris lucet, et ténebræ eam non comprehendérunt.

Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Joánnes. Hic venit in testimónium, ut testimónium perhibéret de lúmine, ut omnes créderent per illum. Non erat ille lux, sed ut testimónium perhibéret de lúmine.

 Erat lux vera, quæ illúminat omnem hóminem veniéntem in hunc mundum. In mundo erat, et mundus per ipsum factus est, et mundus eum non cognóvit. In própria venit, et sui eum non recepérunt. Quotquot autem recepérunt eum, dedit eis potestátem fílios Dei fíeri, his, qui credunt in nómine ejus: qui non ex sanguínibus, neque ex voluntáte carnis, neque ex voluntáte viri, sed ex Deo nati sunt. Genuflectit dicens: Et Verbum caro factum est, Et surgens prosequitur: et habitávit in nobis: et vídimus glóriam ejus, glóriam quasi Unigéniti a Patre, plenum grátiæ et veritatis. Deo gratias.

[In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui nulla è stato fatto di tutto ciò che è stato creato. in Lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini. e la luce splende tra le tenebre, e le tenebre non la compresero. Ci fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. Questi venne in testimonio, per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era egli la luce, ma per rendere testimonianza alla luce. Era la luce vera, che illumina tutti gli uomini che vengono in questo mondo. Era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di Lui, ma il mondo non lo conobbe. Venne nella sua casa e i suoi non lo accolsero. Ma a quanti lo accolsero diede il potere di diventare figli di Dio, essi che credono nel suo nome: i quali non da sangue, né da voler di carne, né da voler di uomo, ma da Dio sono nati. ci inginocchiamo E il Verbo si fece carne ci alziamo e abitò fra noi; e abbiamo contemplato la sua gloria: gloria come dal Padre al suo Unigénito, pieno di grazia e di verità. Rendiamo grazie a Dio.]

[Il Vangelo di San Giovanni – scrive padre Marco – è sempre stato oggetto di una venerazione speciale e straordinaria nella Chiesa Cattolica. I primi Cristiani lo portavano appeso al collo, o scritto nel cuore, come il simbolo più espressivo della loro fede, e il preservativo più potente contro i malefici incantesimi del diavolo; lo facevano recitare sopra di loro nelle loro malattie, e spesso venivano visti chiedere che fosse deposto con i loro resti nella tomba. È stato questo vivace senso di devozione che ha portato alcuni Sacerdoti a recitarlo per la prima volta alla fine della Messa, o all’altare stesso, o al ritorno in sacrestia, o allo svestirsi dai paramenti sacri. Anche i fedeli vollero ascoltarlo prima di lasciare l’altare e Pio V sancì questa usanza, che divenne generale.]

16 — Le preghiere dopo la Messa

301 — Che fa il Sacerdote dopo la lettura dell’ultimo Evangelio?

Dopo la lettura dell’ultimo Vangelo, il Sacerdote ritorna al centro dell’altare, saluta la croce e scende in fondo alla scalinata dove, in ginocchio, dice, in latino o in lingua volgare, le preghiere prescritte dal Papa.

Queste preghiere non vengono recitate durante la Messa alta, e vengono omesse durante le Messe basse dove c’è una certa solennità: predica, matrimonio, ecc.

Il Sacerdote prende quindi il calice, si genuflette ai piedi dell’altare, si copre con la beretta e torna in sacrestia per recitare il Canto Benedettino.

302 — Come bisogna fare la sua azione di grazie?

Le preghiere che il celebrante e i fedeli che offrono con lui il Santo Sacrificio, hanno appena recitato, costituiscono l’azione ufficiale di grazia della Chiesa. Non se ne potrebbero far di migliori. Ognuno, secondo la sua particolare attrattiva, vorrà prolungarla per qualche tempo, sia ispirandosi a qualche preghiera della Messa, sia utilizzando altre formule, soprattutto quelle suggerite dal Messale. Quella di San Bonaventura è notevole per la sua elevazione:

« Di te, a cui gli Angeli desiderano guardare, la mia anima è costantemente affamata, il mio cuore è nutrito, e possa la dolcezza delle tue delizie riempire le profondità della mia anima. Che abbia sete di Voi senza esitazione: Voi siete la fonte della vita, la fonte della sapienza e della conoscenza, il focolaio della Luce eterna, il torrente delle delizie, l’abbondanza della casa di Dio. A Te essa aspiri costantemente, ti cerchi, ti trovi, ti raggiunga; te contempli, de te parli, che operi ogni cosa a lode e gloria del tuo Nome, con umiltà e discernimento, con devozione e delizia, con facilità e affetto, con perseveranza fino alla fine; Tu solo sia sempre la mia speranza, la mia gioia, il mio riposo e la mia tranquillità, la mia pace e la mia dolcezza, il mio profumo e la mia dolcezza, il mio cibo, il mio sostentamento, il mio rifugio, il mio aiuto, la mia saggezza, la mia condivisione, il mio tesoro in cui la mia mente e il mio cuore siano fissi e incrollabili per sempre. Amen ».

SALMI BIBLICI: “NISI QUIA DOMINUS ERAT IN NOBIS” (CXXIII)

SALMO 123: “NISI QUIA DOMINUS erat in nobis”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 123

Canticum graduum.

[1]   Nisi quia Dominus erat in nobis,

dicat nunc Israel,

[2] nisi quia Dominus erat in nobis: cum exsurgerent homines in nos,

[3] forte vivos deglutissent nos; cum irasceretur furor eorum in nos,

[4] forsitan aqua absorbuisset nos;

[5] torrentem pertransivit anima nostra; forsitan pertransisset anima nostra aquam intolerabilem.

[6] Benedictus Dominus, qui non dedit nos in captionem dentibus eorum.

[7] Anima nostra sicut passer erepta est de laqueo venantium; laqueus contritus est, et nos liberati sumus.

[8] Adjutorium nostrum in nomine Domini, qui fecit cœlum et terram.

 [Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXIII.

Esultanza di quei che vennero liberati da gravi tribolazioni: degli Ebrei liberati dalla cattività di Babilonia alla volta di Gerusalemme; dei Cristi liberati dalle persecuzioni degli empii, di viaggio al cielo.

Cantico dei gradi.

1. Se il Signore non fosse stato con noi,  dica adesso Israele: Se il Signore non fosse stato con noi,

2. allorché gli uomini si levaron su contro di noi, ci avrebber forse ingoiati vivi;

3. Allorché il loro furore infuriava contro di noi, forse l’acqua ci avrebbe assorti;

4. L’anima nostra ha valicato il torrente; forse l’anima nostra avrebbe dovuto valicare un’acqua insuperabile.

5. Benedetto Dio, che non ci ha fatti preda loro denti.

6. L’anima nostra è stata sciolta qual passera dal lacciuolo dei cacciatori;

7. Il laccio è stato spezzato, e noi siamo stati liberati.

8. Il nostro aiuto è nel nome del Signore che fece il cielo e la terra.

Sommario analitico

Solo a Dio si deve la liberazione dalla cattività di Babilonia; è a Dio solo che l’anima, affrancata dai legami del peccato e dell’esilio di questa vita, riconosce dovere la sua liberazione.

I. Il Profeta ricorda la grandezza del pericolo che ha corso.

1° Senza il soccorso di Dio, la sua perdita sarebbe stata certa (1);

2° essa era tanto più inevitabile quanto più numerosi erano i suoi nemici, che si avventavano su di lui – a) come delle bestie feroci pronte a divorarlo, – b) come un torrente che minacciava di inghiottirlo (2-4).

II. Egli benedice Dio per la sua liberazione, che descrive in tre figure diverse:

1° Sotto la comparazione di un torrente che ha attraversato contro ogni speranza (5);

2° sotto la comparazione di bestie feroci, dai denti delle quali Dio lo ha strappato (6);

3° sotto la comparazione di una rete che Dio ha rotto per liberare il suo popolo (7);

4° egli termina con il riconoscere, in termini espressi, che solo Dio è l’autore della sua liberazione (8).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-4.

ff. 1-4. – Questo discorso, imperfetto ed interrotto dall’inizio di questo salmo, indica una sovrabbondanza di gioia sì viva e debordante che non permette al salmista di completare il suo pensiero.- « Che lo dica ora, Israele, » perché Israele può dirlo con certezza: « Se il Signore non fosse stato con noi ». E quando? « Quando uomini si sono levati contro di noi. » Non siamo stati sorpresi, essi sono stati vinti; perché essi erano degli uomini, mentre il Signore era con noi. Gli uomini si erano levati contro di noi, ma non era un uomo che era in noi, perché degli uomini avrebbero potuto opprimere degli uomini se, in coloro che essi non hanno potuto opprimere, non si fosse trovato non un uomo, ma il Signore. (S. Agost.) – Vedete sotto quali tratti egli dipinge la crudeltà dei suoi nemici? Che uomini, in effetti, tanto crudeli, più crudeli delle stesse bestie feroci nei riguardi dei loro simili! Quando la bestia selvaggia è caduta sulla sua preda, la sua furia si calma ed essa si ritira o, se è spossata, non torna più alla carica. Gli uomini al contrario, quando hanno realizzato i loro disegni, raddoppiano i loro attacchi, e giungono fino a desiderare di nutrirsi della carne dei propri simili (S. Chrys.). – Dio è con noi in un modo ben più eccellente che non lo fosse con i giusti stessi della Nazione santa L’Emmanuele o il Dio con noi, è venuto, ed è per Lui che noi siamo fortificati contro tutti gli attacchi dei demoni, del mondo e dei nostri nemici. Non è senza ragione che il Profeta dice: « Se il Signore non fosse stato con noi, o tra noi ». Egli vedeva in spirito questo momento prezioso in cui il Verbo di Dio si sarebbe rivestito della nostra natura ed avrebbe trionfato di tutti i nostri nemici. Noi siamo forti ed invincibili con Lui, come osserva S. Agostino, spiegandoci i caratteri del Cristiano. I tiranni – aggiunge il santo dottore – hanno divorato i martiri, ma erano degli uomini morti, e la persecuzione non ha loro procurato il possesso della eterna felicità, che è la vera vita. Coloro che hanno rinunciato alla fede, hanno divorato ogni vivente; essi non avevano in loro la morte spirituale, la morte alle passioni, che costituisce l’essenza del Cristiano (Berthier). –  « Quando il loro furore si è avventato contro di noi, » noi corriamo il pericolo di essere condotti alla nostra perdita, come con il furore dei flutti del mare o di un fiume che inghiottisce vive le infelici vittime che cadono nelle loro onde in un vortice rapido e profondo. – Le agitazioni e gli attacchi dei malvagi che cercano di inghiottire i Santi di Dio, sono comparate alle acque torrenziali; ma, grazie al Signore che abita nei suoi Santi, queste acque scorrono e passano con rapidità (S. Gerol.). – Sull’esempio del Profeta, diciamo a noi stessi: « Se il Signore non fosse stato con noi quando uomini si levarono contro di noi, essi avrebbero potuto divorarci vivi. » In effetti, quando soffriamo le persecuzioni degli uomini, le empie costituzioni delle potenze del secolo, le seducenti esortazioni dei perfidi consiglieri, e tuttavia restiamo fermi nella fede, noi perseveriamo nel timore di Dio, restiamo attaccati alla speranza dei beni eterni, riconosciamo che dobbiamo questa grazia alla misericordia di Dio, alla fedeltà con la quale ha compiuto questa promessa. « … ecco che io sono con voi fino alla fine dei secoli. » (Matth. XXVIII, 20). Riportiamo a questo Ospite divino che abita in mezzo a noi, tutta la gioia, tutta la gloria del successo; perché è a Lui che noi dobbiamo tutto ciò che è in noi: « … cos’è che non abbiate ricevuto? » dice l’Apostolo San Paolo (I Cor. IV, 7) (S. Hilar.).

II. – 5-8

ff. 5-8. – Il torrente, nelle Sacre Scritture, è il simbolo della persecuzione e delle afflizioni. L’acqua, in effetti, si precipita senza misura, con una forza ed un’impetuosità che trascina tutto ciò che incontra sul suo cammino. – Si salva dal torrente colui che, fermo nella sua fede, non cede alla violenza dei persecutori o della tribolazione; è invece ingoiato dal torrente, chi soccombe davanti alla loro collera ed alla loro violenza. Ma, se noi non confidiamo che in noi stessi, non possiamo sperare di lottare contro l’acqua del torrente. – Queste espressioni metaforiche non raffigurano solamente la violenta irruzione, ma la breve durata di queste prove. Badiamo dunque di non scoraggiarci quando si abatte su di noi la malasorte. Quale che sia, essa è un torrente che passa, una nube chi si dissipa. Sì, qualunque sia il vostro infortunio, non durerà per sempre; benché amaro sia il vostro calice, non durerà per sempre; se dovesse durare per sempre, la natura non potrebbe resistere. Ma gran numero sono trascinati in questo torrente e la causa non è nella violenza del male, ma dalla debolezza di coloro che si lasciano tanto facilmente abbattere. Vogliamo non essere coinvolti? Discendiamo nelle profondità di questo torrente, consideriamone tutte i luoghi, afferriamoci all’ancora divina per avere ad essere trascinati in alcun naufragio. (S. Chrys.). –  « Benedetto sia il Signore che ci ha liberato dai loro denti come una preda da caccia ». In effetti i cacciatori inseguono la preda, ed hanno posto un’esca nella loro trappola. Quale esca? La dolcezza della vita, affinché attirati dalla dolcezza di questa vita, ciascuno si getti, a testa in giù, nell’iniquità, e la trappola scatti su di lui. Ma coloro in cui era il Signore non sono stati presi in trappola, essi hanno detto: « Benedetto il Signore, etc. » – Quali sono i denti? Sono i denti forti e potenti per afferrare e sbranare la preda; è la collera, la cupidigia, l’impurità, l’odio, l’intemperanza, l’avarizia; è con questi denti, che non mollano facilmente ciò che hanno afferrato, che esercitano la loro dannazione su di noi, volendoci rendere ministri o complici dei loro crimini. (S. Hilar.). – Sì, è perché il Signore era in quest’anima, che essa è stata liberata, come un passero dalla trappola dei cacciatori. Perché questa è comparata ad un passero? Perché essa era caduta nella trappola sconsideratamente come un passero, e poteva dire in seguito: Dio non perdonerà. O passero vagabondo, faresti meglio a piantare i tuoi piedi sulla pietra; bada a non farti prendere in trappola! Tu sarai preso, sarai catturato, sarai ucciso! Che il Signore sia in voi, ed Egli vi libererà dai pericoli più grandi, e dalla trappola dei cacciatori (S. Agost.). – Il mondo intero è pieno di insidie e di reti che tende alle anime per perderle. Ciò che costituisce il pericolo di queste trappole, è l’esca che ricopre: sono i piaceri, gli onori, le ricchezze, che ci incantano fino al momento in cui dobbiamo lasciarle; allora il fascino sparisce, ma non è più tempo di rompere i legami, e noi cadiamo nell’abisso carichi delle catene dell’inferno. È una maledizione, il non riconoscere la nostra schiavitù se non per caderne in un’altra che non avrà mai fine. (Berthier). – Ma affinché non attribuiate la vostra liberazione alla vostre forze, considerate di chi sia l’opera (perché se vi convincete di orgoglio, cadete nella trappola), e dite: « il nostro soccorso è nel Nome del Signore » (S. Agost.). – Considerate non solo la debolezza del Vostro nemico ma la grandezza del soccorso che vi viene dato, e chi sia Colui che presta il suo aiuto. È Colui che ha tratto dal nulla tutto l’universo. Per mezzo di Lui, le ribellioni della carne, sono state contenute, siete stati scaricati dai pesi del peccato, avete ricevuto la grazia dello Spirito-Santo come un’unzione fortificante. Dio vi ha reso padroni della vostra cerne, vi ha dato come armi la corazza della giustizia, la cintura della verità, l’elmo della salvezza, lo scudo della fede, la spade dello Spirito; Egli vi ha dato le armi della vittoria, vi ha nutrito con la sua carne, dissetato con il suo sangue, vi ha messo tra le mani la sua croce come una lancia che non si spezza mai; infine ha incatenato il vostro nemico, lo ha atterrato. Voi non avrete scusanti se sarete vinto, se lasciate al demonio la gloria del trionfo. (S. Chrys.).

TUTTA LA MESSA (LA “VERA” UNICA CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (9)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (9)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

13 — Il Memento dei morti

237— Perchè si è separato il Memento dei morti dal Memento dei viventi?

I membri della Chiesa militante, i vivi possono e devono unirsi al Sacerdote per offrire il santo Sacrificio e allo stesso tempo offrire se stessi a Dio: questo viene fatto in modo più adeguato prima della consacrazione. I morti non possono più partecipare all’oblazione del Sacrificio, ma solo partecipare ai suoi frutti, che noi applichiamo loro; è meglio quindi menzionarli alla presenza dell’Agnello sacrificato sull’altare.

Preghiera:

Meménto étiam, Dómine, famulórum famularúmque tuárum N. et N., qui nos præcessérunt cum signo fídei, et dórmiunt in somno pacis. Ipsis, Dómine, et ómnibus in Christo quiescéntibus locum refrigérii, lucis pacis ut indúlgeas, deprecámur. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Ricordati anche, o Signore, dei tuoi servi e delle tue serve N. e N. che ci hanno preceduto col segno della fede e dormono il sonno di pace. Ad essi, o Signore, e a tutti quelli che riposano in Cristo, noi ti supplichiamo di concedere, benigno, il luogo del refrigerio, della luce e della pace. Per il medesimo Cristo nostro Signore. Amen.]

238 — Cosa bisogna intendere con questa espressione: “Il segno della fede”?

Con l’espressione “segno della fede” si intende prima di tutto il carattere indelebile del Battesimo, che distingue i fedeli dagli infedeli, e poi la professione della fede in parole ed in atti con una vita cristiana, con le opere di carità, l’attaccamento alla Chiesa, la ricezione dei Sacramenti.

239 — Perché la Chiesa dice che i defunti dormono il sonno della pace?

La morte nella grazia e nella carità, nella comunione vivente con Gesù Cristo e la sua Chiesa, può essere chiamata un sonno di pace, un sonno piacevole, perché si attende un lieto risveglio, la gloriosa risurrezione della carne.

Il cimitero cristiano è infatti, secondo il significato primario di questo termine, il dormitorio dove riposano coloro che sono morti nel Signore.

240 — Cosa domanda la Chiesa per le anime del Purgatorio?

La Chiesa chiede, per coloro che dormono il sonno della giustizia, un luogo di ristoro, di luce e di pace. Le anime sofferenti del Purgatorio possiedono la tranquillità e il riposo, essendo sfuggite alle turbe di questo mondo peccaminoso e seduttre, ma finché non godono della vista di Dio e sono trattenute nel luogo del dolore, la loro pace non è perfetta; sono divorate dalle fiamme del desiderio di vedere Dio e dal tormento del fuoco; gemono nell’oscurità di quella notte in cui nessuno può più lavorare.

241— Quale rubrica osserva il prete al termina del Memento?

Il sacerdote unisce le mani e china il capo alle parole: “Per lo stesso Gesù Cristo”, che concludono questa preghiera, poi, un po’ inchinato, guarda Gesù che è presente davanti a lui nell’ostia.

Mentre Cristo moriva sulla croce, chinò il capo e immediatamente scese nel Limbo per annunciare alle anime dei giusti la loro liberazione. Così il sacerdote china il capo e prega per coloro che dormono in Cristo, affinché la grazia dell’espiazione del Santo Sacrificio scenda in Purgatorio per alleviare e abbreviare le loro sofferenze.

242 — Per chi prega la Chiesa al Memento dei morti?

Nel Memento dei morti la Chiesa prega nominatamente, e soprattutto « per coloro che ci hanno preceduto nel segno della fede e dormono il sonno della pace », cioè per chi è morto in comunione con Essa. Prega in generale per tutti coloro che « riposano in Cristo ».

Riposano in Cristo coloro che morti nel Signore (Ap XIV, 13), cioè nella grazia di Dio.

Le due lettere N. e N. ricordano al Sacerdote che deve raccomandare a Dio soprattutto il o i defunti per cui offre il santo Sacrificio, i suoi parenti, i suoi amici, i suoi benefattori defunti che possono soffrire in Purgatorio.

243 — In qual misura la Messa è profittevole alle anime del Purgatorio?

Quando il Sacerdote celebra, dà riposo ai morti. Il Concilio di Trento ha formalmente condannato coloro che avrebbero negato questa verità. (Sess. XXII, can. 3). – Ma fino a che punto questo riposo è loro concesso? Non lo sappiamo. Certo, se Nostro Signore volesse, basterebbe una sola Messa per svuotare tutto il Purgatorio, ma la pratica della Chiesa, fin dai tempi apostolici, ci fa ripetere il santo Sacrificio per i nostri defunti il più spesso possibile, e ci avverte così che la Vittima divina in genere non distribuisce i meriti della sua immolazione alle anime tutte in una volta, ma li misura più o meno abbondantemente secondo le opinioni della sua saggezza. Il santo Curato d’Ars ha detto di un convertito: « Si è salvato, ma è molto basso… pregate molto per lui! »

244 — È meglio far celebrare Messe per noi nella nostra vita?

È certamente più vantaggioso e prudente far celebrare Messe per noi nella nostra vita.

QUI GIÙ:

– Collaboriamo all’offerta del Santo Sacrificio partecipando alla Messa e offrendo un onorario. Questa collaborazione è una fonte di merito.

– Noi soddisfiamo in pieno per la pena dovuta ai nostri peccati.

– Versando l’offerta della Messa, ci priviamo attualmente da noi stessi e compiamo un atto di rinuncia che spesso è molto meritorio.

– Siamo sicuri che le Messe che facciamo dire vengano celebrate.

IN PURGATORIO:

– La nostra collaborazione nell’offerta del Santo Sacrificio sarà limitata all’assistenza a distanza fornita dal pagamento di un onorario prima della nostra morte.

– Non possiamo più meritare.

– La Messa consegnerà i frutti della Passione a Dio che ce li distribuirà, tenendo conto delle esigenze dell’espiazione.

– Certamente è più vantaggioso e più prudente far celebrare delle messe per noi in vita.

– Priveremo i nostri eredi del denaro che avremo conservato fino alla fine. Saranno gli eredi a fare la mortificazione.

– Quando i nostri eredi eseguiranno le nostre ultime volontà e il nostro testamento?

14 — Il Nobis quoque peccatoribus

245—Perché il Sacerdote alza la voce nel dire: Nobis quoque peccatoribus

Il sacerdote alza la voce dicendo le prime parole del Nobis quoque peccatoribus per chiedere ai fedeli più attenzione e per invitarli a battere i loro pettS come fa lui stesso. Tutti, sacerdoti e assistenti, dopo aver chiesto a Dio il Paradiso per le anime del Purgatorio, chiederanno per loro lo stesso favore, pur riconoscendosi come poveri peccatori.

Preghiera:

Nobis quoque peccatóribus fámulis tuis, de multitúdine miseratiónum tuárum sperántibus, partem áliquam et societátem donáre dignéris, cum tuis sanctis Apóstolis et Martýribus: cum Ioánne, Stéphano, Matthía, Bárnaba, Ignátio, Alexándro, Marcellíno, Petro, Felicitáte, Perpétua, Agatha, Lúcia, Agnéte, Cæcília, Anastásia, et ómnibus Sanctis tuis: intra quorum nos consórtium, non æstimátor mériti, sed véniæ, quaesumus, largítor admítte. Per Christum, Dóminum nostrum.

[E anche a noi peccatori servi tuoi, che speriamo nella moltitudine delle tue misericordie, dégnati di dare qualche parte e società coi tuoi santi Apostoli e Martiri: con Giovanni, Stefano, Mattia, Bárnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino, Pietro, Felícita, Perpetua, Ágata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia, e con tutti i tuoi Santi; nel cui consorzio ti preghiamo di accoglierci, non guardando al merito, ma elargendoci la tua grazia. Per Cristo nostro Signore.]

246 — Quali santi invoca il Nobis quoque peccatoribus?

I Santi Martiri i cui nomi sono menzionati in questa preghiera sono:

San Giovanni Battista.precursore di Nostro Signore.

S. Stefano, primo diacono e primo martire della Nuova Legge.

S. Mattia, l’Apostolo che rimpiazzò Giuda il traditore.

S. Barnaba, compagno d’apostolato di S. Paolo.

S. Ignazio di Antiochia, che fu esposto alle bestie nell’anfiteatro di Roma.

S. Alessandro, quinto Papa dopo S. Pietro.

S. Marcellino, prete e S. Pietro, esorcista, entrambi decapitati sotto Diocleziano.

Santa Félicita et santa Perpetua, martirizzata a Cartagine.

Santa Agata, invocata contri i danni del fuoco, martirizzata in Sicilia.

Santa Lucia, morta colpita da un colpo di spada alla gola.

Santa Agnese, il cui nome significa purezza, martire a 13 anni per conservare l’innocenza.

Santa Cecilia, vergine e martire romana.

« Essa è onorata come patrona della musica religiosa, perché, si dice, che ella stessa conoscesse quest’arte ed intendesse spesso melodie celesti. »

Santa Anastasia, vedova e martire, originaria di Roma.

15 — La conclusione del Canone

247Come termina il Canone?

Il Canone si conclude con una breve e precisa sintesi dell’efficacia della Santa Messa. Nella prima parte riconosciamo che l’Eucaristia ci viene preparata e donata da Dio per mezzo di Gesù Cristo; nella seconda parte riconosciamo che il Santo Sacrificio conferisce all’adorabile Trinità un onore e una gloria incomparabili.

Preghiera:

Per quem hæc ómnia, Dómine, semper bona creas, sancti ficas, viví ficas, bene dícis et præstas nobis. Per ip sum, et cum ip so, et in ip so, est tibi Deo Patri omnipotenti, in unitáte Spíritus Sancti,  omnis honor, et glória. Per omnia saecula saecolorum.
R. Amen.

[Per mezzo del quale, o Signore, Tu crei sempre tutti questi beni li santi ✠ fichi, vivi ✠ fichi, bene ✠ dici e li procuri a noi.  – Per mezzo di ✠ Lui e con ✠ Lui e in ✠ Lui, viene a Te, Dio Padre ✠ onnipotente, nell’unità dello Spirito ✠ Santo ogni onore e gloria. Per tutti i secoli dei secoli.
R. Amen].

248 — Si spieghi la prima parte di questa preghiera.

Il pane e il vino per la consacrazione eucaristica sono i primi frutti di tutta la creazione che essi rappresentano. Per mezzo di Cristo, il Padre li ha creati. In virtù delle parole consacratorie, queste oblazioni sono state santificate e trasformate in Corpo vivo e Sangue di Cristo. E questa Vittima eucaristica è anche un cibo divino che sarà fornito a coloro che, attraverso la Comunione, parteciperanno pienamente al sacrificio.

249 — Quale rubrica osserva il Sacerdote dicendo questa preghiera?

Alle parole “santificare, vivificare, benedire”, il Sacerdote fa ogni volta il segno della croce sul Calice e sull’Ostia. Questi tre segni sottolineano il significato delle parole: le parole hanno dato origine al gesto.

Ad ogni parola da Lui, con Lui, in Lui, il sacerdote fa con l’Ostia Santa sul Calice, da un bordo all’altro, il segno della croce. Nominando il Padre e lo Spirito Santo, fa il segno della croce con l’ostia tra il petto e il Calice. Alle parole “ogni onore e gloria”, tiene l’Ostia sopra il Calice e li solleva leggermente.

250 — Cosa indicano i tre segni di croce fatti con l’ostia al di sopra del calice?

Questi tre segni della croce e le parole che li accompagnano vogliono indicare che l’adorazione più alta che possiamo dare a Dio, con Gesù Cristo e in Gesù Cristo, viene dal Sacrificio cruento della croce rappresentato e rinnovato sui nostri altari in modo incruento. L’adorazione di tutte le creature può essere gradita al Padre solo attraverso Gesù Cristo, l’unico Mediatore.

La piccola elevazione dell’Ostia e del Calice in questo momento della Messa è il simbolo della gloria che sale ogni giorno dai nostri altari al cielo con la vittima salutare.

251— Perché i fedeli rispondono amen alla fine di questa cette preghiera?

I fedeli dicono amen alla fine di questa preghiera per sottolineare la loro adesione a tutto ciò che il Sacerdote ha fatto pregando in silenzio durante questa parte della Messa.

CAPITOLO VI

COMUNIONE

252 — Quale è la terza parte della Messa dei fedeli?

La Comunione è l’ultima delle tre parti principali della Messa dei fedeli ed è la conclusione della Messa.

L’Eucaristia è insieme Sacramento e Sacrificio, ed è soprattutto partecipando alla vittima che si partecipa ai frutti della sua immolazione. Questa parte della Messa inizia con il Pater; la Comunione ne è il punto centrale.

1 — Il Pater

253 — Cosa richiama l’introduzione al Pater?

L’introduzione al Padre Nostro ci ricorda che Nostro Signore stesso ci ha insegnato questa preghiera e ci ha ordinato di recitarla.

Preghiera:

Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutione formati audemus dicere:

[Preghiamo Esortati da salutari precetti e ammaestrati da un’istruzione divina, Osiamo dire: Padre nostro.– Pater noster: infatti, ci vuole tutta la sicurezza e l’audacia della nostra fede per chiamare Dio nostro Padre. Non è mai venuto in mente ad un pagano di chiamare Giove o Apollo “mio padre”. I nomi: Nostro Dio, Nostro Maestro, sembrerebbe più conforme alla nostra condizione di creature e a tutta la tradizione ebraica, ma « … il Verbo, è venuto sulla terra, a darci il potere di diventare figli di Dio; abbiamo ricevuto lo spirito dell’adozione dei bambini, per cui gridiamo: “Abba, Padre mio”, ed è questo spirito che testimonia al nostro spirito che siamo i figli di Dio ». (Rom. VIII, 15-16)]

254 — Perchè si dice Padre Nostro, e non Padre mio?

Noi diciamo Padre Nostro e non Padre mio, perché Dio è il Creatore o il Padre di tutti gli uomini e quindi noi [battezzati] siamo tutti figli della stessa famiglia.

255 — Perché nostro Signore ha aggiunto: che siete nei cieli?

Nostro Signore ha aggiunto « che è nei cieli » per elevare i nostri cuori al cielo dove Dio regna nella sua gloria e dove speriamo di possederlo un giorno.

256 — In quanti parti si divide il Pater noster?

Il Pater è diviso in due parti: nella prima chiediamo a Dio tutto ciò che possa contribuire alla sua gloria; nella seconda, ciò di cui abbiamo bisogno noi per la vita dell’anima e del corpo.

Perché la vera carità ci fa amare Dio più di noi stessi, prima di chiedergli il pane del nostro corpo e la salvezza delle nostre anime, dobbiamo preoccuparci, da buoni figli, degli interessi del Padre Nostro: « servi Dio per primo », ripeteva santa Giovanna d’Arco.

257 — I fedeli devono recitare il Pater con il Sacerdote?

Seguendo la rubrica, il sacerdote recita il Pater a voce abbastanza alta perché i fedeli lo ascoltino e si associno ad esso nel pensiero: la parola oremus, preghiamo, posta all’inizio dell’introduzione, invita i fedeli a pregare con il Sacerdote.

La settima richiesta del Padre Nostro è formulata dal servente a nome dei fedeli. Il sacerdote risponde: Amen. Questo Amen ha un significato particolare: è come la risposta di Dio, che fa sapere che i desideri del popolo sono accettati e esauditi.

258 — Quale rubrica osserva il Sacerdote dicendo il Pater?

Iniziando l’introduzione al Pater, il Sacerdote unisce le mani in umiltà e le alza in atteggiamento di preghiera. Dicendo il Pater egli stesso, tiene le braccia tese: questo è l’atteggiamento della preghiera,

2 — Il Libera nos

259 — Cosa fa il Sacerdote cominciando il Libera nos?

Iniziando il “Libera nos”, il Sacerdote toglie da sotto il corporale la patena sulla quale vi aveva posto l’Offertorio; la pulisce con il purificatoio, poi, prendendola tra il dito indice e il medio, per non separare il pollice e l’indice che hanno toccato l’Ostia sacra, fa con essa un segno della croce su di sé nel momento in cui dice: dateci la vostra pace, e, dopo averla baciata, la pone sul caporale.

Preghiera;

« Líbera nos, quæsumus, Dómine, ab ómnibus malis, prætéritis, præséntibus et futúris: et intercedénte beáta et gloriósa semper Vírgine Dei Genetríce María, cum beátis Apóstolis tuis Petro et Paulo, atque Andréa, et ómnibus Sanctis, da propítius pacem in diébus nostris: ut, ope misericórdiæ tuæ adiúti, et a peccáto simus semper líberi et ab omni perturbatióne secúri. Per eúndem Dóminum nostrum Iesum Christum, Fílium tuum. – Qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus.
V. Per omnia sæcula sæculorum. R. Amen. »

[Liberaci, te ne preghiamo, o Signore, da tutti i mali passati, presenti e futuri: e per intercessione della beata e gloriosa sempre Vergine Maria, Madre di Dio, e dei tuoi beati Apostoli Pietro e Paolo, e Andrea, e di tutti i Santi concedi benigno la pace nei nostri giorni: affinché, sostenuti dalla tua misericordia, noi siamo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento. Per il medesimo Gesù Cristo nostro Signore, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo
V. Per tutti i secoli dei secoli. R. Amen.]

260 — Si spieghi il segno della croce con la patena.

Il sacerdote fa il segno della croce con la patena nel momento in cui dice di darci la pace per ottolineare che attraverso la croce viene la pace.

Il sacerdote bacia la patena prima di posarla sul caporale per rispetto a questo sacro vaso dove riposerà Gesù Cristo. Questo bacio simboleggia l’unione con Cristo che è la nostra pace. Essa segna anche l’unione di tutti i fedeli in Cristo.

261 —Di quali mali domandiamo di esser liberati da questa preghiera?

Chiediamo di essere liberati da ogni male, dal peccato, che è il male più grande, e dalle sue conseguenze, dai mali presenti, passati e futuri: dai mali presenti (cioè dai peccati) che agitano le passioni; dai peccati passati a causa delle loro pene non espiate e delle funeste impressioni che hanno lasciato nella nostra immaginazione e nei nostri sensi; dai peccati futuri, cioè da tutto ciò che potrebbe compromettere la nostra salvezza.

3 — La frazione del pane

262 — Quale rubrica osserva il Sacerdote alla frazione del pane?

Mentre pronuncia le ultime parole della preghiera Libera nos, il Sacerdote fa scorrere la patena sotto l’Ostia, poi scopre il Calice e fa una genuflessione per adorare il Sangue divino. Egli rompe l’Ostia Sacra sopra il Calice, in modo che i frammenti che ne cadono possano mescolarsi al prezioso Sangue: Prima divide l’ostia santa in direzione dell’altezza in due parti uguali, di cui colloca quella destra sulla patena; poi stacca in fondo all’altra metà un piccolo pezzo triangolare che tiene nella mano di destra, mentre depone la parte principale sulla patena; dicendo CHE LA PACE + DEL SIGNORE + SIA SEMPRE + CON TE, fa con il pezzo di Ostia, che ha tenuto tra le dita, tre segni di croce da un bordo all’altro del Calice, e i fedeli, attraverso la bocca del servo, rispondono e CON IL TUO SPIRITO. Infine lascia cadere questo frammento nel Calice dicendo a bassa voce:

« Hæc commíxtio, et consecrátio Córporis et Sánguinis Dómini nostri Jesu Christi, fiat accipiéntibus nobis in vitam ætérnam. Amen. »

[Questa mescolanza e consacrazione del Corpo e del Sangue di nostro Signore Gesú Cristo giovi per la vita eterna a noi che la riceviamo. Amen.]

263 — Cosa ricorda la frazione del pane?

La frazione dell’ostia ci ricorda che Nostro Signore, nell’Ultima Cena, spezzò il pane prima di distribuirlo agli Apostoli. I discepoli di Emmaus riconobbero il Maestro allo spezzare il pane. Nei primi tempi della Chiesa, la celebrazione del Santo Sacrificio e della comunione era chiamata la frazione del pane.

La frazione dell’ostia in tre parti ci ricorda che in passato il pane consacrato era diviso in questo modo: Il Sacerdote di comunicava egli stesso con la prima; i diaconi rompevano la seconda e la distribuivano agli assistenti o la portavano ai malati; la terza, che il celebrante attualmente mette nel calice, veniva sia conservata per essere mescolata al prezioso Sangue alla Messa dell’indomani, sia inviata dal Vescovo ai sacerdoti che celebrano in altre chiese, per essere posto nel calice, affermando così l’unità e la continuità del Sacrificio Eucaristico.

264 — Cosa simbolizza la frazione dell’Ostia?

La frazione dell’Ostia simboleggia la morte violenta di Gesù Cristo sulla croce; essa ricorda le sue ferite e le lacerazioni prodotte dalla separazione dell’anima dal corpo (S. Th., q. 77, a. 7). Cristo vi si mostra come un agnello schiacciato a causa dei nostri crimini (Isaia, LIII, 5).

Le tre parti rappresentano sia le tre Persone della Santissima Trinità, sia la vita, la morte e la gloria del Salvatore, sia la Chiesa militante, la Chiesa sofferente e la Chiesa trionfante.

265 — Perché il Sacerdote mette una particella dell’ostia nel prezioso Sangue?

La consacrazione separata del pane e del vino e la frazione dell’Ostia in più parti rappresentano la passione e la morte di Nostro Signore. La commistione di un pezzo dell’Ostia nel calice rappresenta l’unione del Suo Corpo e del Suo Sangue al momento della risurrezione.

4 — L’Agnus Dei

266 — Quale rubrica osserva il Sacerdote dicendo l’Agnus Dei?

Dopo aver coperto il calice con la palla, il Sacerdote si genuflette, unisce le mani e, inchinandosi profondamente, si batte il petto per tre volte, dicendo:

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

[Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi.
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi.
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona noi la pace.]

Alla Messa dei defunti, le ultime parole delle tre invocazioni sono sostituite da: date loro riposo, e alla terza si aggiunge la parola eterna. E il prete non si batte il petto.

267 — Da dove viene a Gesù il Nome Agnello di Dio?

Isaia ci presenta il Messia come un agnello che soffre volontariamente e senza lamentarsi. Sotto questo nome fu promesso e raffigurato nell’Antica Alleanza, e sotto questo simbolo fu mostrato da San Giovanni Battista e lodato dagli Apostoli nel Nuovo Testamento.

La Chiesa ha sempre amato rappresentare il Salvatore nei tratti del Buon Pastore e nella figura dell’Agnello. Conclude quasi tutte le sue litanie con una solenne invocazione all’Agnello di Dio, chiedendogli di perdonarci, di ascoltarci, di avere pietà di noi.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/24/tutta-la-messa-la-vera-unica-cattolica-romana-momento-per-momento-10/

TUTTA LA MESSA (LA “VERA” UNICA CATTLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (8)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (8)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

9 — La Consacrazione

214 — Qual è la formula della Consacrazione?

Le parole della Consacrazione si enunciano come segue:

« Qui prídie quam paterétur, accépit panem in sanctas ac venerábiles manus suas, elevátis óculis in coelum ad te Deum, Patrem suum omnipoténtem, tibi grátias agens, bene dixit, fregit, dedítque discípulis suis, dicens: Accípite, et manducáte ex hoc omnes. HOC EST ENIM CORPUS MEUM.

Símili modo postquam cœnátum est, accípiens et hunc præclárum Cálicem in sanctas ac venerábiles manus suas: item tibi grátias agens, bene dixit, dedítque discípulis suis, dicens: Accípite, et bíbite ex eo omnes.
HIC EST ENIM CALIX SANGUINIS MEI, NOVI ET AETERNI TESTAMENTI: MYSTERIUM FIDEI: QUI PRO VOBIS ET PRO MULTIS EFFUNDETUR IN REMISSIONEM PECCATORUM.

Hæc quotiescúmque fecéritis, in mei memóriam faciétis»

[Il Il quale nella vigilia della Passione preso del pane nelle sue sante e venerabili mani, alzati gli occhi al cielo, a Te Dio Padre suo onnipotente rendendoti grazie, lo bene ✠ disse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli, dicendo: Prendete e mangiatene tutti: QUESTO È IL MIO CORPO.

Nello stesso modo, dopo aver cenato, preso nelle sue sante e venerabili mani anche questo glorioso calice: di nuovo rendendoti grazie, lo bene ✠ disse, e lo diede ai suoi discepoli, dicendo: Prendete e bevetene tutti:

QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE, DELLA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA: MISTERO DI FEDE: IL QUALE PER VOI E PER MOLTI SARÀ SPARSO IN REMISSIONE DEI PECCATI.

Ogni qual volta farete questo, lo fate in memoria di me.]

215 — Quando Gesù-Cristo ha instituito la santa Eucarestia?

Gesù Cristo ha istituito la Santa Eucaristia nell’Ultima Cena, il Giovedì Santo, alla vigilia della sua morte.

Tre evangelisti, San Matteo, Santa Marco, San Luca e l’apostolo San Paolo ci hanno trasmesso la recita dell’istituzione della Santa Eucaristia. (S. Matteo, cap. XXVI; S. Marco, cap. XIV; S. Luca, cap. XXII; I Cor., cap. XI).

216 — Cosa fece Nostro Signore nell’istituire la santa Eucarestia?

Nell’istituire la Santa Eucaristia, Nostro Signore prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi Apostoli, dicendo: Questo è il mio corpo. Poi prese il calice di vino, lo benedisse e lo diede loro, dicendo: Bevetene tutti. Questo è il mio sangue che sarà sparso per la remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me.

Confrontando la formula liturgica per la consacrazione del pane e del vino con il testo degli Evangelisti e quello di San Paolo, è facile riconoscere, fuso in un testo che ha una fisionomia propria, i tratti che presi in prestito dalla Sacra Scrittura e i tratti che attingono dalla Tradizione. Le aggiunte al testo sacro – nelle sue mani sante e venerabili e … avendo alzato gli occhi verso di te, Dio, suo Padre Onnipotente; – l’eterna alleanza; – il mistero della fede – provengono dalla tradizione apostolica e sono indubbiamente autentiche e certe come le parole della Sacra Scrittura (S. Tommaso, III, Q. 78, a. 3, ad 9). Questa formula ci dice cosa abbia fatto Nostro Signore nell’Ultima Cena e cosa i sacerdoti debbano continuare nel suo Nome ed in sua memoria fino alla fine dei secoli.

217 — Si commenti lo sguardo di Nostro Signore verso il Padre.

Lo sguardo di Nostro-Signore verso il Padre è un gesto spontaneo di preghiera. Gli evangelisti ci dicono che al momento della risurrezione di Lazzaro « Gesù, alzando gli occhi, disse: Padre, ti ringrazio perché mi hai ascoltato » (Giovanni, XI, 41) e che alla moltiplicazione dei pani nel deserto, « alzando gli occhi al cielo, Gesù disse la benedizione e spezzò i pani » (Marco, VI, 41). Chi potrebbe dubitare che Gesù abbia alzato gli occhi al Padre nel momento in cui si compì pienamente la moltiplicazione figurativa del pane materiale, nell’offerta del suo corpo e del suo sangue al Padre prima di presentarli ai suoi discepoli come cibo e bevanda?

218 — Si spieghi l’espressione “Nuova ed eterna alleanza

È nel quadro pasquale dell’Antica Alleanza che Nostro Signore nell’Ultima Cena dichiara la concludere la Nuova Alleanza, che è anche eterna. Ai piedi del Sinai,  l’antica alleanza fu conclusa con il sangue degli animali; ma allora le promesse erano puramente terrene e dovevano durare solo per un certo tempo. Con il sangue di Nostro Signore è stata stabilita una nuova alleanza tra Dio e gli uomini: è nuova perché la realtà che essa costituisce soppianta l’antica figura, ormai vecchia; è eterna perché i beni terreni e passeggeri dell’alleanza del Sinai lasciano il posto alle meraviglie celesti ed eterne della Nuova Alleanza, che durerà fino alla fine dei tempi.

219 — Donde viene l’espressione “Mistero di fede”?

In passato, quando il Vescovo pronunciava le parole di Nostro Signore sul calice, il diacono annunciava nel silenzio dell’assemblea, invitando i fedeli all’adorazione: Mysterium fidei, mistero della fede. I sacerdoti, cominciando a dire la Messa senza diacono, hanno pronunciato essi stessi queste parole, che sono entrate, tra parentesi, nel testo della Consacrazione.

Questa espressione è registrata nei più antichi sacramentari; sembra avere origine in Gallia ed è presa in prestito da San Paolo che insegna che « i diaconi conservano il mistero della fede in una coscienza pura » (1Tim., III, 9). Molti esegeti interpretano questa espressione della Santa Eucaristia, che è appunto il mistero della fede per eccellenza. San Tommaso, nel suo Adoro te, lo afferma con semplicità e profondità:

Visus, tactus, gustus in te fallitur, Sed auditu solo tuto creditur. Credo quidquid dixit Dei Filius: Nil hoc verbo Veritatis verius. In cruce latebat sola Deitas, At hic latet simul et humanitas …

[La vista, il tatto e il gusto si ingannano su di te.

È solo attraverso l’ascolto che si esercita la fede nella sicurezza.

Credo a tutto ciò che ha detto il Figlio di Dio.

Nulla è più vero della parola della Verità:

Sulla croce si nascondeva la sola divinità.

Ma qui anche l’umanità è nascosta.]

220 — Cosa successe quando Nostro Signore disse: Questi è il mio corpo; questo è il mio sangue?

Quando Nostro Signore ebbe detto: “Questo è il mio corpo”, la sostanza del pane è stata trasformata nella sostanza del suo corpo; e quando disse: “Questo è il mio sangue”, la sostanza del vino è stata trasformata nella sostanza del suo sangue.

Istituendo la santa Eucaristia, Gesù Cristo disse: Questo è il mio corpo, QUESTO, cioè ciò che vi presento, QUESTO è il mio corpo. Se, in virtù di queste divine parole, non si fosse verificato un cambiamento di sostanza, ma solo un’unione di due sostanze, Gesù Cristo si sarebbe espresso falsamente e avrebbe indotto in errore i Suoi Apostoli. In questo caso avrebbe dovuto dire, e certamente avrebbe detto: Questo è il mio corpo e il mio pane tutti insieme. Ma poiché Egli disse semplicemente ed espressamente: Questo è il mio corpo, dobbiamo credere che ciò che Egli presentava ai suoi Apostoli, che all’inizio era stato pane, fosse diventato il suo stesso corpo, con un cambiamento di sostanza.

221 — Gesù Cristo è tutto intero sotto le specie del pane e tutto intero sotto le specie del vino?

Sì, Gesù Cristo è tutto intero sotto la specie del pane e tutto intero sotto la specie del vino; è tutto intero anche sotto ogni parte dell’una o dell’altra specie.

In Gesù glorioso, il corpo, il sangue, l’anima e la divinità non possono essere separati. Perciò, quando la sostanza del pane si trasforma nella sostanza del corpo di Cristo, in virtù delle parole “QUESTO È IL MIO CORPO”, il sangue, l’anima e la divinità di Cristo diventano presenti contemporaneamente sotto la specie del pane. Allo stesso modo, quando la sostanza del vino si trasforma nella sostanza del sangue di Gesù Cristo, in virtù delle parole QUESTO È IL MIO Sangue, anche il corpo, l’anima e la divinità di Gesù Cristo si trovano sotto le specie del vino. Questo è l’insegnamento del Concilio di Trento.

Secondo il racconto degli Evangelisti, Nostro Signore ha dato il suo corpo e il suo sangue agli Apostoli, dicendo loro: « Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, prendete e bevete, questo è il mio sangue. » Ora nonc’è stata che una sola consacrazione del pane e una sola consacrazione del vino. Ma gli Apostoli, dividendo tra loro questo pane consacrato e questo vino consacrato, ricevettero ciascuno Gesù Cristo intero. È quindi necessario che la condivisione delle specie sacramentali non porti alla divisione di Gesù Cristo, altrimenti gli Apostoli avrebbero avuto ciascuno solo un frammento del loro divino Maestro.

222 — Il cambiamento del pane e del vino nel corpo e sangue di Gesù Cristo continua a farsi nella  Chiesa?

Sì, il cambiamento dal pane e dal vino nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo continua ad avvenire nella Chiesa, sui nostri altari, attraverso Gesù Cristo che usa il ministero dei suoi Sacerdoti. – Gesù Cristo ha dato ai suoi Sacerdoti il potere di cambiare il pane ed il vino nel suo Corpo e nel suo Sangue quando disse ai suoi Apostoli: « Fate questo in memoria di me ». Fate questo, cioè tutto ciò che è stato fatto prima, tutto ciò che Cristo ha fatto e detto, riti e parole; … in ricordo di me, cioè in ricordo della mia morte, perché Nostro Signore sottolinea nell’Ultima Cena che il suo corpo sarà dato offerto, che il suo sangue sarà versato per molti per la remissione dei peccati. – Con queste parole Nostro Signore ha istituito il Sacerdozio e il santo Sacrificio della Messa. Ai Sacerdoti, e solo ai Sacerdoti, Nostro Signore ha conferito il potere di celebrare la Messa. È una verità di fede definita dai Concili. – In tempi di persecuzione, ai confessori della fede, ai semplici fedeli, era permesso di portare con sé l’Eucaristia, di conservarla, per fortificarsi con essa, prima di comparire davanti ai giudici e disporsi, con questo cibo divino, a sacrificare generosamente la propria vita a testimonianza della propria fede. Sarebbe stato loro affidato questo prezioso deposito se avessero avuto il potere di consacrare? Se è stata loro affidata, è perché, vedendo raramente i Sacerdoti, non avrebbero potuto altrimenti avere la felicità di ricevere la Santa Eucaristia.

223 — Come è reppresentata nella messa la morte di Gesù Cristo sulla croce?

La morte di Gesù Cristo sulla croce è rappresentata nella Messa dal corpo del Salvatore sotto la specie del pane e il suo sangue sotto la specie del vino.

La morte di Nostro Signore non può essere rinnovata nella Messa, perché Cristo risorto non muore più.

La separazione materiale del Corpo dal Sangue di Nostro Signore, attraverso lo spargimento materiale di questo sangue, esprime l’immolazione. E questa immolazione liberamente accettata e offerta a Dio diventa un’oblazione. Ora, all’altare, Nostro Signore, con la stesso potere del Calvario, offre il suo Sacrificio a Dio suo Padre, il suo Corpo e il suo Sangue, separati sacramentalmente e misticamente dalla consacrazione del pane e del vino. All’altare, come sul Calvario, si trovano i due elementi di tutta l’immolazione vera e propria: la vittima immolata e la sua oblazione.

224 — Si mostri come l’atto della Consacrazione sia la riproduzione dell’ultima Cena.

Nel Cenacolo, Gesù Cristo era l’unico Sacerdote. All’altare, Egli è il Sacerdote capo, ma Egli si immola attraverso il ministero del suo sacerdote. Per questo il Sacerdote riproduce, il più fedelmente possibile, le parole e le azioni di Gesù Cristo.

Nel Cenacolo, Gesù prese il pane (nelle sue mani) e, (avendo alzato gli occhi al cielo):  avendo reso grazie, lo benedisse, lo spezzò, e lo distribuì dicendo: Questo è il mio corpo”.

Allo stesso modo, dopo la Cena … prendendo questo prezioso calice… e ringraziando parimenti grazie, lo benedisse e lo diede ai suoi discepoli, dicendo:

Prendetene e bevetene tutti, perché questo è il calice del mio sangue…..

All’altare, il sacerdote prende l’ostia tra le mani e alza gli occhi alla croce dell’altare, fa un cenno con la testa e fa il segno della croce sull’ostia (farà la frazione e la distribuzione delle specie sante alla Comunione), e dice: « Questo è il mio corpo ».

Prende poi il calice e chinato il capo, benedice il vino contenuto nel calice (l’usanza di comunicare dei fedeli sotto le due specie si conserva solo nelle chiese di rito orientale), e dice le stesse parole.

225— Si spieghi il rito dell’elevazione.

Subito dopo aver pronunciato le parole della Consacrazione, il sacerdote solleva rispettosamente prima l’ostia, poi il calice, per offrire ai fedeli il Corpo e il Sangue di Nostro Signore in adorazione.

I fedeli inginocchiati devono:

a) chinare il capo profondamente ad ogni genuflessione del sacerdote;

b) alzare la testa per guardare e adorare l’Ostia e il Calice ad ogni elevazione.

Il 12 giugno 1907, Pio X concesse un’indulgenza di 7 anni a tutti coloro che, durante l’elevazione, avessero guardato all’Ostia Santa con fede, pietà e amore e avessero detto: Mio Signore e mio Dio.

226 — Cosa si sa dello scampanellio all’elevazione?

La campana della chiesa dovrebbe essere suonata all’elevazione durante le Messe alte per ricordare ai fedeli, trattenuti a casa dalla malattia o dalle loro occupazioni, che Cristo scende sull’altare, e per invitarli a unirsi all’intenzione con il Sacerdote, che offre al Padre la Vittima divina.

All’interno della chiesa, l’accolito suona la campanella tre volte all’elavazione dell’ostia e tre volte all’elevazione del Calice, anche se la Messa viene celebrata in un oratorio privato.

L’uso di una campanella all’interno della chiesa fu stabilito verso la fine del XII secolo. Il suono della campanellaa, al Sanctus, all’Elevazione e alla Comunione, annuncia i momenti principali della Messa ai presenti e li invita ad un maggiore raccoglimento e fervore.

10 — L’Unde et memores

227 — Qali misteri ricorda la preghiera: “Unde et memores”?

Nostro Signore non solo aveva detto “fate questo”, ma aveva specificato “in memoria di me”. Così la Chiesa, appena fatta la consacrazione, riprende: “Noi ricordiamo – da qui il nome di memoria applicato a questa preghiera – ed enuncia i misteri della Redenzione: la passione, la risurrezione e l’ascensione, che si devono ricordare per ordine di Nostro Signore.

Preghiera:

Unde et mémores, Dómine, nos servi tui, sed et plebs tua sancta, eiusdem Christi Fílii tui, Dómini nostri, tam beátæ passiónis, nec non et ab ínferis resurrectiónis, sed et in cœlos gloriósæ ascensiónis: offérimus præcláræ maiestáti tuæ de tuis donis ac datis, hóstiam puram, hóstiam sanctam, hóstiam immaculátam, Panem sanctum vitæ ætérnæ, et Calicem salútis perpétuæ.

[Onde anche noi tuoi servi, o Signore, come pure il tuo santo popolo, ricordando la beata Passione del medesimo Cristo tuo Figlio, nostro Signore, e certo anche la sua Risurrezione dagli inferi e la sua gloriosa Ascensione in cielo: offriamo all’eccelsa tua maestà, delle cose che ci hai donate e date l’Ostia ✠ pura, l’Ostia ✠ santa, l’Ostia ✠ immacolata, il Pane ✠ santo della vita eterna e il Calice ✠ della perpetua salvezza.]

228—Si spieghi l’espressione “come pure il tuo popolo santo”

Il Battesimo imprime all’anima un carattere indelebile e la infonde una grazia santificante: ecco perché normalmente un Cristiano è un santo. Ecco perché San Paolo chiama i battezzati dei santi e Sant’Agostino si rivolge alla comunità cristiana chiamandola vostra santità. La Chiesa mette la stessa espressione sulle labbra del Sacerdote durante la Messa: noi tuoi servi, e con noi il tuo popolo santo, offriamo …

Non c’è dubbio che i fedeli non sono mediatori tra Dio e gli uomini; non sono deputati da Dio in modo speciale per offrire il santo Sacrificio; ma poiché sono battezzati, appartengono a Cristo e partecipano in modo misterioso ma reale al suo sacerdozio: sono un popolo santo, un Sacerdozio regale.

229—Si spieghi l’espressione “Noi offriamo a vostra Maestà delle cose donate e date”.

I Sacerdoti sono sia ministri di Gesù Cristo che ministri della Chiesa. Come ministri della Chiesa, essi procedono alla maniera dei Sacerdoti dell’Antica Legge: ricevono dai fedeli la materia da offrire alla divina Maestà, come Melchisedec e come Cristo stesso, il pane di grano e il vino della vite, che sono prodotti della terra. Li offrono prima di tutto come beni ricevuti dal Creatore a gloria del Padre, Autore di ogni dono perfetto. Ma offrono queste sostanze come destinate a far posto al Corpo e al Sangue di Cristo, che la consacrazione metterà nelle mani della Chiesa come un dono perfetto, un’Ostia santa, un’Ostia senza macchia, il Calice della salvezza eterna da offrire alla gloria del Padre.

230 — Perché il Sacerdote traccia cinque segni di croce alla fine di questa preghiera?

Secondo il Messale, il Sacerdote fa tre segni della croce sopra il Calice e l’Ostia, uno sopra l’Ostia da sola e uno sopra il Calice.

Questi cinque Segni della Croce dopo la Consacrazione corrispondono ai cinque Segni della Croce del Quam oblationem. Il Sacerdote – dice San Tommaso – dopo la consacrazione, non si serve più del segno della croce per benedire e consacrare, ma solo per ricordare la virtù della croce e il modo in cui si è compiuta la Passione di Cristo. (III, q. 83 a. 5 ad 4).

11 — Il Supra quæ

231 — Perché la Chiesa fa menzione dei sacrifici antichi alla Messa?

L’orazione Supra quæ parla dei sacrifici di Abele, di Abramo e di Melchisédech. La Chiesa ne fa menzione perché essi annunciano e rappresentano, meglio di tutti gli altri, il Sacrificio del Calvario ed il Sacrificio della Cena.

Preghiera:

Supra quæ propítio ac seréno vultu respícere dignéris: et accépta habére, sicúti accépta habére dignátus es múnera púeri tui iusti Abel, et sacrifícium Patriárchæ nostri Abrahæ: et quod tibi óbtulit summus sacérdos tuus Melchísedech, sanctum sacrifícium, immaculátam hóstiam.

[Su questi doni, con propizio e sereno volto, dégnati di guardare e di gradirli, come ti degnasti gradire i doni del tuo giusto servo Abele e il sacrificio del nostro Patriarca Abramo e quello che ti offrì il tuo sommo sacerdote Melchisedech, santo sacrificio, immacolata ostia.]

232 — Come i sacrifici antichi figurano il sacrificio di Gesù-Cristo?

Abele offrì agnelli a Dio, i primi frutti delle sue greggi e figura dell’Agnello di Dio, il primogenito del Padre. Come l’innocente, Abele fu messo a morte per mano di suo fratello, l’innocente Gesù veniva sacrificato dall’invidia degli ebrei, suoi fratelli.

Abramo che si prepara a sacrificare suo figlio Isacco è l’immagine di Dio Padre che consegna alla morte il suo unico Figlio. Melchisedek offrì pane e vino.

Un mosaico della metà del VI secolo perpetua il ricordo di queste tre oblazioni figurative: al centro, di fronte a un tavolo coperto da una tovaglia bianca, appare Melchisedek che tiene in mano il pane, e sul tavolo stesso un calice d’oro e due Pani eucaristici; a sinistra, Abele offre il suo agnello; a destra, Abramo conduce Isacco all’immolazione.

Il sacrificio di Abramo è molto spesso riprodotto nelle catacombe, insieme ad altri eventi biblici che rappresentano il sacerdozio e il sacrificio della nuova Alleanza, come emblema dell’Eucaristia.

12 — Il Supplices

233 — Quale rubrica osserva il Sacerdote recitando il “Supplices”?

Non appena il sacerdote inizia questa preghiera, si inchina profondamente e appoggia le sue mani unite contro l’altare. Questi gesti segnano l’atteggiamento di un supplicante. Il Sacerdote si appoggia sull’altare, figura di Gesù Cristo, per sottolineare che tutto ciò che fa, lo fa con Gesù Cristo, al quale si appoggia.

Preghiera:

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: iube hæc perférri per manus sancti Angeli tui in sublíme altáre tuum, in conspéctu divínæ maiestátis tuæ: ut, quotquot ex hac altáris participatióne sacrosánctum Fílii tui Cor pus, et Sán guinem sumpsérimus, omni benedictióne coelésti et grátia repleámur. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Supplici ti preghiamo, o Dio onnipotente: comanda che questi doni, per le mani dell’Angelo tuo santo, vengano portati sul tuo sublime altare, al cospetto della tua divina maestà, affinché quanti, partecipando a questo altare, riceveremo il sacrosanto Cor ✠ po e San ✠ gue del Figlio tuo, veniamo ricolmi d’ogni celeste benedizione e grazia. Per lo stesso Cristo nostro Signore. Amen.]

234 — Qual è questo sublime altare ove sono portate le nostre preghiere?

Questo sublime altare ove sono portate le nostre preghiere, è Dio stesso, quando riceve e accetta il Sacrificio del Calvario e quello della Messa riprodotto nel ricordarlo.

235 — Quale offerta l’Angelo del Signore porta sull’altare sublime?

Poiché il sacrificio consiste non solo in un’ostia offerta, ma anche nell’oblazione di questa ostia (vittima), il rito consacratorio rende presente non solo il corpo e il sangue immolati sulla croce da Cristo, ma anche l’oblazione, l’atto oblatorio con cui Egli li offriva alla gloria di suo Padre per la salvezza del mondo. Poiché, d’altra parte, Cristo come uomo rimane permanentemente in cielo, non chiediamo nei Supplices che l’Angelo del Signore porti il suo corpo e il suo sangue sul sublime altare del cielo, ma piuttosto l’atto rituale (liturgico), l’oblazione che ne facciamo sul nostro altare terreno attraverso la nostra preghiera.

236 — Qual è questo Angelo che porta le nostre offerte sull’altare sublime?

L’angelo che porta le nostre offerte sul sublime altare del cielo è l’Angelo della preghiera, l’Angelo incaricato da Dio di presentare le nostre preghiere e i nostri sacrifici davanti al suo trono. È ragionevole credere che questa funzione sia assolta o dall’Angelo protettore della chiesa e dell’altare dove si celebra la Messa, o dall’angelo custode del sacerdote, o da San Michele, onorato come difensore dell’Eucaristia e della Chiesa militante.

Questa preghiera è ispirata da un passo dell’Apocalisse: « E venne un altro Angelo, e  stava vicino all’altare con un incensiere dorato nella sua mano, e gli fu dato molto incenso, affinché offrisse le preghiere di tutti i Santi sull’altare dorato che è davanti al trono » (Apoc., VIII, 3).

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/23/tutta-la-messa-la-vera-unica-cattolica-romana-momento-per-momento-9/

TRADIZIONE DIVINA E SANTA SCRITTURA

Istruzione sulla Tradizione divina e sulla Santa Scrittura.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, Tip. Calas. da A. Ferroni – 1869).

La tradizione divina è la parola di Dio non scritta ma uscita dalla bocca stessa di Gesù Cristo, o rivelata agli Apostoli dallo Spirito Santo, e comunicata dagli stessi Apostoli ai primi Fedeli, che l’hanno trasmessa si loro successori, da cui noi successivamente e come di mano in mano l’abbiamo ricevuta. Quando si dice che la tradizione è la parola di Dio non scritta, s’intende dire che non è stata scritta subito dagli autori sacri, come i libri canonici dei due Testamenti, quantunque sia stata scritta in séguito o dai Concili, o nelle opere de’ santi Padri e degli altri autori ecclesiastici, o nei decreti dei Sommi Pontefici etc. La tradizione divina è assolutamente necessaria: la sua necessità e la sua autorità sono fondate sulla Scrittura e sui Padri. La santa Scrittura è la parola di Dio scritta sotto la ispirazione di Lui: non si dice santa precisamente perché mira a Dio, né perché è stata scritta col soccorso e con l’assistenza di Dio, ma perché ha Dio per autore, che 1’ha ispirata e dettata ai sacri scrittori. La Scrittura si divide in Antico e Nuovo Testamento : l’antico Testamento contiene i libri santi scritti avanti Gesù Cristo, che sono in numero di quarantacinque. Il nuovo Testamento contiene i libri che riguardano la legge evangelica, e sono stati scritti da Gesù Cristo in poi: sono ventisette. Si chiama la Scrittura Testamento, perché racchiude l’alleanza che Dio ha fatta con gli uomini, e la sua ultima volontà, con la quale lascia loro i suoi beni, come avviene nei testamenti che si fanno tra gli uomini. – Ecco l’ordine e il catalogo dei libri della Scrittura, secondo il decreto del Concilio di Trento, Sess. IV. cap. I. – I libri dell’antico Testamento sono la Genesi, l’Esodo, il Levitico, i Numeri, il Deuteronomio, Giosuè, i Giudici, Ruth, i quattro libri dei Re, i due libri dei Paralipomeni. i due libri d’Esdra, Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe, i Salmi, i Proverbi, l’Ecclesiaste, il Cantico dei cantici, la Sapienza, l’Ecclesiastico, Isaia, Geremia, Baruch, Ezechiele, Daniele, i dodici Profeti minori, cioè: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Nahum, Habacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia; i due libri dei Maccabei.

I libri del Nuovo Testamento sono: il Vangelo di s. Matteo, il Vangelo di s. Marco, il Vangelo di s. Luca, il Vangelo di s. Giovanni, gli Atti degli Apostoli, le quattordici Lettere di s. Paolo: una ai Romani, due ai Corinti, una ai Galati, una agli Efesini, una ai Filippesi, una ai Colossesi, due ai Tessalonicesi, due a Timoteo, una a Tito, una a Filemone, una agli Ebrei; le due Lettere di s. Pietro, le tre di s. Giovanni, una di s. Giacomo, una di s. Giuda, e l’Apocalisse di s. Giovanni.

Alla sola Chiesa appartiene di determinare infallibilmente il senso e i libri della Scrittura.

Della lettura della Bibbia in volgare.

(Dell’Abate Glaire)

La lettura della Bibbia in volgare è stata il tema di vive discussioni. Così i Protestanti e i Giansenisti hanno accusato la Chiesa Cattolica:

1.° di non leggere la santa Scrittura in volgare nella celebrazione della sua liturgia;

2° di non permettere generalmente a tutti i Fedeli di leggerla;

3.° di abusare della sua autorità col proibirne la lettura.

Ma non ci sembra difficile il difender la Chiesa su questi differenti appunti.

1.° Quando la religione cristiana si stabiliva, la sinagoga celebrava i suoi uffizi pubblici in ebraico, lingua che non era più l’usuale; e Gesù Cristo e gli Apostoli, che rimproverarono ai Giudei tante loro costumanze, non condannaron mai, per quanto si sa, quest’uso. Ora abbiam noi più ragione di condannarlo? Aggiungiamo, che se vi fosse un obbligo rigoroso per la Chiesa di leggere la Scrittura in volgare, gli Apostoli non avrebbero mancato di farla tradurre nella lingua di tutti i popoli che essi convertirono alla fede. Qual monumento istorico vi è, che comprovi un simil fatto? e qual critico oserebbe sostenerlo?

Vi sono ben altri motivi ancora che possono giustificare la Chiesa Cattolica. In primo luogo vi è la grande difficoltà del tradurre i libri liturgici, senza alterarne il senso, e senza porre in pericolo la forma dei sacramenti: cosa che può dare motivo ad errori ed eresie. In secondo luogo la diversità delle lingue usate negli uffizi pubblici, non nocerebbe alla comunicazione delle varie chiese della cristianità? Un prete italiano, per esempio, non potrebbe offrire il santo sacrifizio della Messa che nel suo Paese; poiché, secondo i principj dei nostri avversari, i semplici Fedeli debbono intender la lingua usata nel pubblico esercizio del culto religioso, e principalmente per questa ragione essi vogliono imporre alla Chiesa l’obbligo di leggere la Scrittura in volgare. In terzo luogo finalmente la maestà e la dignità dei nostri divini Misteri sono tali, che non si potrebbero senza abbassarli ed avvilirli volgere in certe lingue rozze ed imperfette.

2.° Ma almeno, dicono gli avversari, perché la Chiesa non ne permette la lettura senza distinzione a tutti i suoi figli? Perché ella sa, come insegna l’Apostolo s. Pietro, che vi sono nella santa Scrittura dei passi che gli uomini ignoranti e di fede non salda potrebbero intender male a danno della loro salute. Pensano inoltre i Padri, e molti lo hanno notato, che vi siano nella Scrittura molte cose, le quali invece di edificare certi lettori gli scandalizzerebbero. In fatti quanti giovani non sarebbero posti al pericolo di guastarsi, se loro si mettesse in mano l’intera raccolta dei nostri santi libri? Quanti Cristiani d’ogni età, se leggessero un libro ove incontrassero ad ogni pagina cose di cui non intendessero il senso, correrebbero rischio di far naufragio nella fede! Bisogna prima aver fatto uno studio particolare del linguaggio familiare agli scrittori sacri, per non cadere a ogni momento in qualche sbaglio. Quante cose a prima giunta urtano, e quando sono spiegate appariscono naturali, buone e lodevoli! Aggiungi che permessa una volta a tutti indistintamente la lettura della Bibbia, un gran numero di persone la leggerebbero senza fede, senza umiltà, senza purità d’intenzione, come confessano che avviene gli stessi Protestanti più dotti, e come l’esperienza d’ogni giorno dimostra chiaro: e allora essa diverrà senza dubbio una cagione di scandalo e di caduta. Che se i nostri avversari ci dicano ancora, che i santi Padri esortano tutte quante le persone a legger la Scrittura, risponderemo: « Dateci dei cristiani così istruiti, così docili e così sottomessi come eran quelli a cui son dirette le loro esortazioni, e noi terremo loro il medesimo linguaggio. »

3.° Queste avvertenze sono più che sufficienti per giustificare la Chiesa dalla terza accusa lanciatale contro, di abusar cioè della sua autorità vietando la lettura della Bibbia ai Fedeli: poiché, se si è dimostrato che ci è pericolo per una certa classe di persone a leggere la santa Scrittura, non si vede come potrebbe contrastarsi alla Chiesa il diritto di proibire in certe circostanze questa lettura. Se la sinagoga ha esercitata questa autorità vietando la lettura dei primi capitoli della Genesi, di Ezechiello e del Cantico de’ Cantici, alle persone che non erano arrivate a una certa età, perché negare il medesimo diritto ai pastori della Chiesa cristiana; mentre sta ad essi il proibire ai Fedeli a loro affidati ciò che può nuocere? Così ne hanno usato in più Concilj, senza che mai alcun cattolico gli abbia accusati di usurpazione (Concilio di Tolosa, 1229; terzo di Milano sotto s. Carlo Borromeo; Concilio di’ Cambrai, 1586; concilio di Trento).

Dopo testimonianze sì autorevoli, non fa meraviglia :he i più gravi autori e i più rinomati teologi, come gli addetti alla facoltà teologica di Parigi, Gersone, Alfonso di Castro, il Soto, il Catarina, i Cardinali Du Pirron e Bellarmino, il Fromont e l’Ertius, abbiano riconosciuto il diritto che la Chiesa ha di una tal proibizione. Ma non sarà cosa inutile il dimostrare la falsità del principio, su cui i nostri avversari fondano le loro accuse. Il principio sta nel considerare come cosa necessaria, o almeno sempre vantaggiosa a tutti i Fedeli, il leggere la santa Scrittura. Or nulla vi è di più falso. Primieramente, non si verrà mai a provare la necessità di questa lettura per i semplici fedeli; non essendovi nessun testo della Scrittura ove questa verità sia asserita, e dall’altra parte la tradizione prova il contrario. (V. Iren., adv. hæres. 1. III, c. IV.; Tertull., de Præscript, c. XIV.; Clem. Alex., Pedagog., 1. III, c. II; s. August., de Doct. Christ.).

Dopo tutto ciò e perché la lettura della Bibbia sarà assolutamente necessaria ai semplici Fedeli? forse per conoscere le verità della fede? ma non possono apprenderle nei Catechismi e nelle predicazioni dei loro Pastori? Forse per credere? ma la fede è il frutto della sommissione alle verità insegnate dalla Chiesa, e non dell’esame. O finalmente per santificare il giorno del Signore? Ma dopo l’assistenza al santo Sacrifizio, e alle istruzioni cristiane, a quante altre opere di pietà non ci possiamo applicare? In secondo luogo, la lettura della santa Scrittura non è sempre utile ai Fedeli. Abbiamo provato di sopra che potrebbe anche esser loro dannosa. Il principio da cui si partono i nostri avversari è dunque falso, e per conseguenza i capi d’accusa che ne deducono sono senza fondamento. Per riassumere adunque ciò che avevamo da dire in quest’ultimo articolo concernente la Bibbia, diciamo:

1.° Che le versioni in volgare non sono proibite in modo assoluto dalla Chiesa Universale;

2.° Che le Chiese particolari, le quali le hanno proibite, non lo hanno fatto assolutamente e per tutti i Fedeli, ma solamente per quelli a cui questa lettura potrebbe recar danno;

3.° Che queste versioni non sono state proibite se non per certe circostanze, talché se tali circostanze cessassero, queste Chiese cesserebbero di proibir l’uso di quelle versioni;

4.° Che sebbene non sia generalmente proibito di leggere le versioni della Scrittura in volgare, quando sono state approvate dai Vescovi, nondimeno vi è del pericolo per i semplici Fedeli a farne uso senza averne chiesto consiglio al proprio parroco o al Confessore.

TUTTA LA MESSA (LA “VERA” UNICA CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (7)

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[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

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Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

3 — Canone della Messa

192 — Cosa significa la parola Canone.

Canone è una parola greca che significa regola, una cosa fissa; in questo senso, le decisioni dei Concili si chiamano canoni e il diritto canonico si chiama legislazione della Chiesa. Il nostro Messale inscrive in capo alle preghiere che seguono il Sanctus le parole Canone missæ, Canone della Messa. Questa iscrizione indica la regola che si segue per consacrare il pane e il vino.

193 — Donde provengono le preghiere del Canone della Messa?

Il Canone della Messa è composto « dalle parole stesse di Nostro Signore, dalle tradizioni degli Apostoli e dalle pie istituzioni dei santi Pontefici » (Trid. sess. XXII, cap. IV).

Mancano alcune testimonianze storiche per determinare esattamente e dettagliatamente ciò che, nel Canone, provenga dagli Apostoli e ciò che sia stato poi aggiunto dai Papi. Tuttavia, sappiamo con certezza che San Gregorio Magno (+604) è l’ultimo che abbia fatto alcune aggiunte.

194 — Quali nomi si sono dati al Canon?

Al Canone sono stati dati vari nomi:

Preghiera per eccellenza, perché chiede il “dono” supremo, Gesù Cristo.

L’unzione, il mistero dell’Azione Santissima, da un’espressione latina agere causam, perorare una causa, o semplicemente agere nel senso di sacrificare, perché il Sacerdote che si sacrificherà perorerà, nella persona di Cristo e davanti al Padre suo, la causa della sua Chiesa universale.

Secretum Missæ, il segreto della Messa, per il mistero che nasconde, e soprattutto perché un tempo veniva recitato a bassa voce.

Anafora, dal greco “oblazione” che significa oblazione che si eleva a Dio.

195 — Quali sono i limiti del Canone?

Oggi il Canone della Messa inizia dopo il Sanctus e termina prima del Pater.

196 — Perché il sacerdote recita le preghiere del Canone a voce bassa?

È certo che nell’antichità il Canone veniva cantato in modo che potesse essere ascoltato da coloro che si trovavano attorno all’altare. Tuttavia, già nel IX secolo, la recita del Canone a bassa voce è un fatto compiuto e per molto tempo la rubrica ha prescritto la recita silenziosa del Canone: « il Sacerdote inizia il Canone a bassa voce dicendo… ».

Diverse sono le ragioni che spiegano la regola stabilita: l’immolazione del corpo e del sangue di Gesù Cristo è un privilegio sacerdotale e il popolo non può in alcun modo partecipare al suo esercizio; questo sacro silenzio è adatto a significare e a richiamare l’incomprensibile profondità dell’augusto mistero dell’altare; questo silenzio favorisce il raccoglimento ed esprime l’umiltà e il rispetto con cui la Chiesa compie il terribile Sacrificio.

Le preoccupazioni pratiche hanno indubbiamente favorito la scelta della preghiera silenziosa. È certo che il canto integrale del Ringraziamento ha richiesto uno sforzo da parte del celebrante che è stato tanto più laborioso quanto più sono state incorporate in esso diverse formule, estranee al testo primitivo, come i due Memento, le liste dei Santi nel Communicantes e Nobis quoque peccatoribus e le altre. In queste condizioni, la recita completa del Canone a bassa voce ha notevolmente sollevato il celebrante dal compito materiale.

197 — Spiegate la presenza dell’immagine di Gesù crocifisso davanti alle preghiere del Canone.

Gesù fu crocifisso su una croce che aveva la forma di una T maiuscola con cui inizia la prima parola latina del Canone. Fin dall’inizio, si è cominciato a decorare questa prima lettera nei messali e persino a metterci l’immagine di Nostro Signore. Questa immagine si è presto staccata dal testo e ha occupato una pagina speciale, come nei nostri moderni Messali.

4 — Te igitur

198 — Come si divide la preghiera Te igitur.

La preghiera Te igitur è divisa in due parti distinte.

a) Nella prima, il sacerdote raccomanda le oblazioni al Padre:

Te igitur, clementíssime Pater, per Jesum Christum, Fílium tuum, Dóminum nostrum, súpplices rogámus, ac pétimus, uti accepta habeas et benedícas, hæc dona, hæc múnera, hæc sancta sacrifícia illibáta, in primis, quæ tibi offérimus…

[Te dunque, o clementissimo Padre, per Gesù Cristo tuo Figlio nostro Signore, noi supplichiamo e preghiamo di aver grati e di benedire questi ✠ doni, questi ✠ regali, questi ✠ santi ed illibati sacrifici che noi ti offriamo …]

b) Nella seconda, il sacerdote ricorda la Chiesa militante universale, il Papa e il Vescovo:

«… pro Ecclésia tua sancta cathólica: quam pacificáre, custodíre, adunáre et régere dignéris toto orbe terrárum: una cum fámulo tuo Papa nostro et Antístite nostro et ómnibus orthodóxis, atque cathólicæ et apostólicæ fídei cultóribus

[… anzitutto per la tua santa Chiesa Cattolica, affinché ti degni pacificarla, custodirla, riunirla e governarla in tutto il mondo, insieme con il tuo servo e Papa nostro N., e col nostro Vescovo N., e con tutti i veri credenti e seguaci della cattolica ed apostolica fede.]

199 — Commentate la preghiera: noi ve le offriamo per la vostra Chiesa santa Cattolica.

« È necessario che io abbia nel mio pensiero la Chiesa Cattolica diffusa da Oriente ad Occidente », rispondeva il vescovo Fructuosus (+358) andando al rogo, a quel Cristiano che gli chiedeva di ricordarsi di lui nel suo martirio. Pregare per la Santa Chiesa è la grande devozione della liturgia, la devozione delle grandi anime, di coloro che, lasciando in secondo piano i loro piccoli interessi quotidiani, hanno come prima preoccupazione di vedere la Santa Chiesa bella con tutta la bellezza di Dio, potente nella sua azione e vittoriosa nelle sue lotte perpetue.

Tutti i sacerdoti pregano all’altare per la pace e l’unione di tutti i Cattolici sotto il governo dei loro legittimi pastori e per ciascuno dei membri che compongono la Chiesa. I fedeli in stato di grazia partecipano così all’influenza salutare delle migliaia di Messe celebrate ogni giorno nell’universo.

200 — Commentate l’intercessione a favore del Papa.

Pregare per il Papa è testimoniare che viviamo in comunione con il Capo della vera Chiesa. Il nome del Papa è formulato in tutte le Messe celebrate nell’universo.

L’omissione del nome del Papa nella Messa era considerata un errore enorme già nel V secolo; i Concili ne fecero un precetto rigoroso. Papa Pelagio X (+561) ha espresso ai Vescovi della Toscana il suo stupore per il fatto che il suo nome non fosse stato commemorato al Santo Sacrificio: « Come potete non considerarvi separati dalla comunione con l’universo – ha detto – se, durante i santi misteri e contro le consuetudini, passate sotto silenzio il ricordo del mio nome »?

201 — Commentate l’intercessione in favore del Vescovo.

La liturgia non solo coltiva l’attaccamento a Roma, ma rafforza anche l’unione con la Gerarchia episcopale. È attraverso i vescovi uniti a lui che il Papa diffonde in tutto il mondo il flusso di verità e di grazia di cui è fonte per mezzo di Gesù Cristo. Al Papa e al nostro Vescovo, la nostra venerazione e le nostre preghiere.

La menzione dei nomi dei Vescovi durante la Messa è una testimonianza della loro ortodossia. Al Concilio di Calcedonia (451) papa S. Leone M. (461) dichiarò che i nomi di Dioscoro di Alessandria e Giovenale di Gerusalemme e altri non potevano essere menzionati all’altare finché non avessero ritrattato i loro errori.

202 — Quali cerimonie accompagnano il Te igitur?

Il sacerdote alza gli occhi e le mani e subito le abbassa; si inchina profondamente e pone le mani unite sull’altare: è in questo atteggiamento che inizia il Canone. Bacia l’altare e con questi doni, regali e sacrifici fa tre segni di croce sul pane e sul vino.

Capo e interprete della comunità dei fedeli, il Sacerdote è consapevole della sua indegnità a mediare tra essa e il Padre (profonda inclinazione). Da Lui solo può venire tutto l’aiuto: per questo, implorando, alza gli occhi, le braccia e il cuore al cielo e lo prega con l’esortazione: “vi preghiamo e vi domandiamo”, affidandosi alla mediazione sacerdotale e ai meriti di Gesù Cristo (rappresentati dall’altare che sta baciando) per avere questi doni come graditi.

La parola “benedire” ha dato origine al triplice segno o benedizione dei doni offerti.

5 — Il Memento dei viventi

203 — Cosa significa la parola Memento?

La parola Memento significa “ricordatevi”. Qui il Sacerdote chiede a Dio di ricordarsi dei suoi servi e delle sue ancelle per metterli nello splendore del Sacrificio della Croce che la Messa prolunga, e di comunicare loro i suoi frutti.

Preghiera:

Meménto, Dómine, famulórum famularúmque tuarum N. et N. et ómnium circumstántium, quorum tibi fides cógnita est et nota devótio, pro quibus tibi offérimus: vel qui tibi ófferunt hoc sacrifícium laudis, pro se suísque ómnibus: pro redemptióne animárum suárum, pro spe salútis et incolumitátis suæ: tibíque reddunt vota sua ætérno Deo, vivo et vero.

[Ricordati, o Signore, dei tuoi servi e delle tue serve N. e N. e di tutti i circostanti, di cui conosci la fede e la devozione, pei quali ti offriamo questo sacrificio di lode, per sé e per tutti i loro cari, a redenzione delle loro ànime, per la sperata salute e incolumità; e rendono i loro voti a Te, o eterno Iddio vivo e vero]

204 — Cosa chiamate i frutti della Messa?

Il Sacrificio della Messa è sostanzialmente lo stesso del Sacrificio della croce. Non ha solo lo stesso valore del Sacrificio della Croce, ma anche la stessa efficacia del Sacrificio della Croce, con la differenza che ciò che è stato guadagnato per tutti gli uomini in modo globale dal Sacrificio della Croce, deve ora essere distribuito a ciascuno in particolare con la preghiera, i Sacramenti e, soprattutto, con il Santo Sacrificio della Messa. Questa efficace distribuzione attraverso ogni Messa celebrata, la chiamiamo il “frutto della Messa”.

Affinché l’oblazione dell’altare possa realizzare pienamente questa distribuzione dei meriti del Capo ai suoi membri, Dio doveva rendere la sua celebrazione alla portata di ciascuno dei fedeli. Quindi, era necessario non avere una sola Messa in un solo tempio, a Gerusalemme o a Roma, ma Messe ovunque e sempre.

205 — In quale misura si partecipa ai frutti della Messe?

Sull’altare, Cristo, Sommo Sacerdote, offre a Dio il suo vero corpo e il suo vero sangue. Non gli offre questi doni infiniti senza di noi, Sacerdoti e fedeli, membri del suo Corpo Mistico. Ovviamente i membri, che offrono tutti con Cristo, non hanno nell’oblazione lo stesso ruolo del Capo, che vi svolge la funzione principale, né dei Sacerdoti, che hanno il meraviglioso potere di essere sacrificatori. Noi collaboriamo all’offerta solo nella misura della nostra importanza nel Corpo Mistico. Ecco perché la partecipazione ai frutti della Messa è tanto più abbondante: a) quanto più sono perfette le disposizioni dell’Anima, b) quanto più è attiva la cooperazione nell’Atto del Sacrificio, c) quanto più intimo è il grado di unione con il ministro del Sacrificio, d) quanto il Sacerdote raccomanda un’anima più specialmente all’Attenzione Divina.

Con l’aiuto di questo principio è facile comprendere le seguenti verità: l’assistenza alla Messa che il Cristiano procura per la celebrazione, si aggiunge ai frutti che si è già assicurato con l’elemosina; i chierici o i laici, che assistono il Sacerdote, ricevono, secondo le loro disposizioni, la ricompensa della loro preziosa e così stretta collaborazione; Le persone pie che hanno ricamato gli ornamenti, fatto il lino dell’altare, gli impiegati della chiesa, i sacristani o altri, i Cristiani generosi che, con le loro elemosine alla colletta, le missioni o altro, contribuiscono a rendere i templi più belli e accoglienti, hanno diritto ai frutti delle Messe di cui contribuiscono a procurare la degna celebrazione.

206 — Per chi prega il Sacerdote al Memento dei viventi?

Le due lettere N. e N., all’inizio del Memento, avvertono il Sacerdote di menzionare qui per nome, secondo le prescrizioni della rubrica, alcune persone che desidera interessare più particolarmente al Santo Sacrificio.

Il Sacerdote raccomanda poi, a nome della Chiesa, gli assistenti e, con loro, tutti quelli a loro cari.

La scelta delle persone citate nel Memento è lasciata alla libertà del celebrante. Pregherà prima di tutto per colui per il quale sta celebrando la Messa. A questa intenzione ne aggiungerà altre secondarie e ricorderà i suoi parenti, gli amici, i benefattori spirituali e temporali, coloro che sono particolarmente affidati alle sue cure, le anime consacrate a Dio, i moribondi, ecc…

Sono piene di fede e di saggezza soprannaturale, le parole di un Cristiano generoso al seminarista di cui pagava la pensione: « Oh, non ringraziate me; sarò troppo ben ricompensato quando diventerete Sacerdote, se solo una volta pronunciato il mio nome al Santo Sacrificio ».

6 — Il Communicantes

207 — Quale dogma richiama il “Communicantes”?

Il Communicantes ricorda il dogma della Comunione dei Santi. Infatti, il Sacerdote e i fedeli hanno appena pregato in comunione con il Papa, con il Vescovo, con tutti i fedeli; ora egli prega in comunione con i Santi del cielo.

Preghiera:

Communicántes, et memóriam venerántes, in primis gloriósæ semper Vírginis Maríæ, Genetrícis Dei et Dómini nostri Jesu Christi: sed
et beatórum Apostolórum ac Mártyrum tuórum, Petri et Pauli, Andréæ, Jacóbi, Joánnis, Thomæ, Jacóbi, Philíppi, Bartholomæi, Matthæi, Simónis et Thaddæi: Lini, Cleti, Cleméntis, Xysti, Cornélii, Cypriáni, Lauréntii, Chrysógoni, Joánnis et Pauli, Cosmæ et Damiáni: et ómnium Sanctórum tuórum; quorum méritis precibúsque concédas, ut in ómnibus protectiónis tuæ muniámur auxílio. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Uniti in una stessa comunione veneriamo anzitutto la memoria della gloriosa sempre Vergine Maria, Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo:
e di quella dei tuoi beati Apostoli e Martiri: Pietro e Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni, Tommaso, Giacomo, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Simone e Taddeo, Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio, Cipriano, Lorenzo, Crisógono, Giovanni e Paolo, Cosma e Damiano, e di tutti i tuoi Santi; per i meriti e per le preghiere dei quali concedi che in ogni cosa siamo assistiti dall’aiuto della tua protezione. Per il medesimo Cristo nostro Signore. Amen.]

208 — Si fa memoria della festa del giorno al Communicantes?

Si fa menzione della festa del giorno al Communicantes solo nelle grandi feste di Natale, Epifania, Pasqua, Ascensione, Pentecoste, con le loro ottave, e nel Giovedì Santo.

Per la comodità dell’uso quotidiano, queste preghiere, di eccezionale utilità, sono inserite nel messale non nel corpo del Canone, ma nei “prefatio” propri delle suddette feste.

209 — Quali sono i santi che il Sacerdote nomina al Communicantes?

Al Communicantes, il sacerdote nomina la Beata Vergine, i dodici Apostoli e i dodici martiri romani (cioè nati a Roma o popolari in quella città, o perché le loro reliquie riposano e sono venerate nelle basiliche di Roma).

a) L’elenco evoca prima di tutto il nome di Maria con il suo titolo glorioso di Madre di Dio, che il Concilio Ecumenico di Efeso (431) le ha conferito. Come in ogni altro luogo, la Beata Vergine, Regina degli Apostoli, dei Martiri e di tutti i Santi, viene nominata qui per prima.

b) La vocazione, la vita e la morte degli Apostoli spiegano facilmente la menzione dei loro nomi nella liturgia.

c) Ai dodici Apostoli rispondono simmetricamente i dodici Martiri. Prima di tutto, i tre Papi che sono succeduti a San Pietro, ovvero S. Lino, S. Cleto e S. Clemente; poi altri due Papi: S. Sisto II e S. Cornelio. A questi Sovrani Pontefici, di cui in passato è si leggeva tutta la lista, il Canone aggiunge i nomi di altri sette martiri, di cui ha scelto di citare solo i più importanti. Questi sono S. Cipriano, vescovo di Cartagine, che visse e lottò per l’unità della Chiesa, S, Lorenzo, il grande diacono di Roma, e cinque laici: S. Chrysogone, un illustre romano, i due SS. Giovanni e Paolo, messi a morte per ordine di Giuliano l’Apostata, e i due SS. Cosma e Damiano, medici, decapitati dopo lunghe torture.

7 —  L’Hanc igitur

210 — Cosa domanda la preghiera Hanc igitur?

Questa preghiera insiste affinché Dio accetti con compiacimento l’oblazione dei suoi Sacerdoti e dei suoi fedeli e conceda loro la pace, la preservazione dall’inferno e le gioie del cielo.

Preghiera:

Hanc igitur oblatiónem servitutis nostræ, sed et cunctae famíliæ tuæ,
quaesumus, Dómine, ut placátus accípias: diésque nostros in tua pace dispónas, atque ab ætérna damnatióne nos éripi, et in electórum tuórum júbeas grege numerári. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Ti preghiamo, dunque, o Signore, di accettare placato questa offerta di noi tuoi servi e di tutta la tua famiglia; fa che i nostri giorni scorrano nella tua pace e che noi veniamo liberati dall’eterna dannazione e annoverati nel gregge dei tuoi eletti.
Per Cristo nostro Signore. Amen.]

211 — Perché l’imposizione delle mani sulle oblazioni?

Il sacerdote stende entrambe le mani sull’ostia e sul calice, mentre recita la preghiera Hanc igitur, per mostrare che Gesù, che sta per scendere all’altare, è stato la vittima incaricata di espiare le nostre colpe. Questo gesto ricorda il Sommo Sacerdote che carica il capro espiatorio di tutti i peccati di Israele.

L’imposizione delle mani nel rito eucaristico è già raffigurata in un affresco della catacomba di Callisto (III secolo) ed è espressamente menzionata nei Canoni di Ippolito (IV secolo).

8 — Il Quam Oblationem

212— Cosa domanda la preghiera Quam oblationem?

Questa preghiera chiede un’ultima volta di benedire il pane e il vino affinché diventino il Corpo e il Sangue di Gesù.

Preghiera:

Quam oblatiónem tu, Deus, in ómnibus, quaesumus, bene díctam, adscríp tam, ra tam, rationábilem, acceptabilémque fácere dignéris: ut nobis Cor pus, et San guis fiat dilectíssimi Fílii tui, Dómini nostri Jesu Christi.

[La quale offerta Tu, o Dio, dégnati, te ne supplichiamo, di rendere in tutto e per tutto bene ✠ detta, ascrit ✠ ta, ratifi ✠ cata, ragionevole e accettabile affinché diventi per noi il Cor ✠ po e il San ✠ gue del tuo dilettissimo Figlio nostro Signore Gesù Cristo.]

Gesù Cristo è un’oblazione, una vittima benedetta in ogni cosa, sotto ogni punto di vista. La benedizione in questione è la consacrazione. Chiediamo quindi a Dio di benedire l’oblazione del pane e del vino, cioè di farne, attraverso la consacrazione, una fonte inesauribile di grazie e di benedizioni.

Chiediamo che questa offerta sia legittima, cioè conforme alla prescrizione e all’istituzione di Gesù Cristo.

Se l’oblazione è conforme alla volontà di Gesù Cristo e al suo comando: “Fatelo in memoria di me”, allora sarà ratificata, cioè vera e valida.

Il Sacrificio eucaristico è un’oblazione ragionevole, perché sull’altare viene sacrificato l’Agnello vivente di Dio, Gesù Cristo, l’Uomo-Dio, la ragione eterna, la Sapienza personale e increata.

Dotato di queste quattro qualità, questo Sacrificio è infallibilmente gradito a Dio, caro al suo cuore e degno di Lui.

La conclusion, che diventa per noi il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, esprime e sollecita il cambiamento essenziale della materia di Sacrificio. Ed è per noi, che il Salvatore si immola sull’altare.

213 — Perché cinque segni di croce sulle oblazioni?

Ogni volta che viene pronunciata nella Messa la parola “benedire”, è accompagnata da un segno della croce, per dimostrare che è in virtù dei meriti di Gesù sulla croce che Dio concede le sue benedizioni. Considerati in sé, i primi tre segni della croce sono una chiara immagine dell’adorabile Trinità, dalla quale scaturisce il potere di santificare gli elementi terreni e di trasformarli nel sacrificio eucaristico. Le parole Corpo e Sangue richiamano il segno della croce come un gesto, designando solennemente la materia da cambiare nel Corpo e nel Sangue del Signore, e come una preghiera, perché il cambiamento delle sostanze rappresenterà, nel modo più vivamente possibile, l’immolazione del Golgota.

TUTTA LE MESSA (LA “VERA” UNICA CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (6)

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CAPITOLO V

CONSACRAZIONE

171 — Quale è la seconda parte della Messe dei fedeli?

La seconda parte della Messa dei fedeli si estende dal Prefazio al Pater: comprende le preghiere e gli atti che accompagnano la consacrazione.

I riti dell’offerta sono terminati: la materia del sacrificio viene preparata, offerta, santificata e, insieme all’Ostia, ci presentiamo anche noi a Dio per essere immolati con il suo Figlio Divino.

1 — Il Prefazio.

172 — Qual è il senso della parola prefazio?

Il termine “prefazio” è composta da due parole latine, præ-fatio, prefazione. La prefazione è un’introduzione e una preparazione all’atto del Sacrificio.

San Cipriano ( + 258) usa già questo termine, ma con questo nome si riferisce solo al dialogo introduttivo. Egli chiama il testo che segue “oratio”, preghiera. Oggi la parola prefazione, insieme a questo dialogo, indica la preghiera che termina al Sanctus.

173 — Quanti prefazi si contano nel Messale?

Il nostro Messale ha quindici prefazi: quelle del Natale, dell’Epifania, della Quaresima, della Santa Croce, della Pasqua, dell’Ascensione, del Sacro Cuore, di Gesù Cristo Re, della Pentecoste, della Santissima Trinità, della Vergine, di San Giuseppe, degli Apostoli, dei defunti ed il comune prefazio.

Immolando l’Agnello Pasquale, gli Ebrei ringraziavano Dio per tutte le benedizioni che aveva concesso al suo popolo: la creazione, la salvezza concessa a Noè, l’elezione di Abramo, la rivelazione fatta a Mosè, la liberazione dall’Egitto, ecc. Nostro Signore nell’Ultima Cena ha fatto lo stesso sostituendo il pane e il vino all’agnello. Gli Apostoli e i loro successori hanno reso grazie celebrando di nuovo la Cena del Signore, come il Maestro ha comandato. « Chi presiede – dice san Giustino nel II secolo – dopo aver ricevuto i doni (pane, vino), rende gloria a Dio per mezzo del Figlio e dello Spirito Santo, e procede con lunghe preghiere all’Eucaristia o azione di grazia ». La Chiesa ha sostituito la lunga nomenclatura dei benefici concessi da Dio nella Vecchia Legge, con il ricordo dei benefici che Dio ci ha concesso sotto la Nuova Legge nella persona di Gesù Cristo. Il comune prefazio, essendo una formula schematica piuttosto che regolare, menziona che  è degno … il rendere grazie; ognuna degli altri prefazi indica il particolare beneficio di cui la Chiesa ringrazia: a Natale, per esempio, « perché, attraverso il mistero del Verbo incarnato, una nuova luce della vostra chiarezza ha brillato nella nostra mente, così che ora, conoscendo Dio in modo visibile, attraverso di Lui ci rallegriamo nell’amore delle cose invisibili… ».

174 — Come si divide il prefazio?

Il prefazio si compone di tre parti: l’introduzione o dialogo, il corpo e la conclusione o  transizione al Sanctus,

175 — Di quanti versetti si compone il dialogo introduttivo?

L’introduzione si compone di tre versetti e della loro riposta:

v. — Dominus vobiscum.

Il Signore sia con voi.

r. — Et cum spiritu tuo.

E con il tuo spirito.

v. — Sursum corda!

In alto i cuori!

r. —. Habemus ad Dominum.

Li abbiamo verso il Signore.

v. — Gratias agamus Domino Deo nostro.

Rendiamo grazie a Dio.

r. — Dignum et justum est.

Questo è degno giusto.

Con le sue pressanti esortazioni, il Sacerdote vuol fissare l’attenzione dei fedeli, prepararli al rito centrale dell’oblazione eucaristica, renderli partecipi attivi del suo sacrificio che è anche il loro sacrificio.

176 — Perché il Sacerdote non si volta a salutare il popolo?

Il sacerdote si è congedato dal popolo con Orate Fratres. D’ora in poi, come Mosè sul Sinai, egli conversa con il Signore, la sua attenzione è tutta sulla sacra fazione del sacrificio.

Inoltre, in alcune chiese, come tra gli armeni, i russi, i copti e altri orientali, sarebbe stato superfluo rivolgersi al popolo; perché subito prima del prefatio le porte del santuario erano chiuse e le tende tirate, in modo che il Sacerdote non sia più visto dai presenti.

177 — Si spieghi l’esclamazione Sursum corda.

Il Sacerdote – dice S. Cipriano ( + 258) – prima di iniziare la preghiera (canone), prepara lo spirito dei fratelli con questa prefazione, Sursam corda, affinché il popolo sia avvertito dalla sua risposta, habemus ad Dominum, lo teniamo elevato al Signore, dell’obbligo di prendersi cura di Dio solo. Chiudiamo dunque il nostro cuore a tutti tranne che al Signore, e non lasciamo che il suo nemico si avvicini a noi, mentre gli chiediamo grazie ». – A sua volta, sant’Agostino ( + 430) spiega questa preghiera: « Ricordatevi bene – dice – dell’ordine della liturgia ». Prima di tutto, dopo l’orazione (la preghiera dei fedeli), siete invitati a tenere in alto i vostri cuori, cosa che è adatto alle membra di Cristo (che voi siete) … perché il nostro Capo è in cielo. Ecco perché quando si dice; Sursum corda, si risponde: Habemus ad Dominum“.  La nostra conversazione è in cielo (Filipp., III, 20): pensare e tendere a ciò che è in alto, tale è la filosofia cristiana. Il sursum corda, durante il santo Sacrificio, ce lo ricorda e ci dispone ad esso.

178 — Quale rubrica osserva il Sacerdote dicendo: Sursum corda?

Il sacerdote alza le mani per testimoniare, con questo gesto, il suo ardente desiderio di unirsi e donarsi totalmente a Dio. – Ai Vespri dell’Ascensione cantiamo: Sii, o Gesù, la meta a cui sono diretti i nostri cuori! E l’inno dell’ufficio festivo del mercoledì, al Mattutino, indica con questo slancio dell’anima, il gesto che significa: Alziamo gli animi e le mani, facendo eco all’invito del profeta Geremia: Alziamo i nostri cuori e le nostre mani al Signore nei cieli (Lam., III, 41).

Si solleva il cuore oltre che le mani – dice San Gregorio Magno – quando si dà forza alla preghiera attraverso le opere buone. Pregare senza fare buone azioni è alzare il cuore senza le mani, e agire senza preghiera è alzare le mani senza il cuore.

179 — Quale rubrica osserva il Sacerdote nel dire il versetto: “Rendiamo grazie al Signore”?

Mentre il Sacerdote pronuncia queste parole, unisce le mani sul petto, alza gli occhi, e poi china rispettosamente il capo davanti alla Croce dell’altare.

Più l’anima si eleva al di sopra di se stessa e di tutte le creature, più vede che Dio è carità eterna e fonte di ogni bene. Questa considerazione porta al ringraziamento. Questo sentimento si manifesta nel Sacerdote quando dice Rendiamo grazie a Dio, e nei fedeli quando rispondono, attraverso la bocca del servente della Messa o dei cantori: “Questo è degno e giusto”.

180 — Da cosa è composto il corpo del prefatio?

Il corpo del prefatio è composto da due parti: l’inizio e il proprio.

L’inizio è sempre lo stesso: è veramente degno e giusto, equo e salutare rendervi grazie in ogni momento e in ogni luogo, o Signore santo, Padre onnipotente, Dio onnipotente, per Cristo nostro Signore.

Adattato ai Misteri o alle Feste, il proprio sviluppa il perché del Ringraziamento: a Natale, perché attraverso il mistero della Iincarnazione conosciamo Dio in forma visibile; all’Epifania, perché il suo Figlio unigenito, vedendosi rivestito della nostra carne mortale, ha riparato la nostra natura comunicandogli il nuovo splendore della sua immortalità; durante la Quaresima, perché attraverso il digiuno corporeo reprime i vizi ed eleva l’Anima; alla Passione, perché ha posto la salvezza del mondo sull’albero della Croce, dove Gesù ha sconfitto nel legno colui che una volta aveva trionfato nel legnoo dell’albero (del paradiso terrestre); a Pasqua, perché Cristo è il vero Agnello che è stato immolato per togliere i nostri peccati dal mondo e risorto per restituirci la nostra vita; e così via…

181 — Mostrate che è degno rendere grazie a Dio:

È degno in relazione a Dio e in relazione a noi stessi:

a) Nel ringraziare Dio, lo riconosciamo come l’Autore di tutti i nostri beni; esaltiamo la sua maestà, l’amore paterno, la grandezza e la bontà, e così diamo a Dio ciò che la sua dignità esige.

b) La gratitudine è il segno di un cuore sollevato. Il fervido ringraziamento appartiene alla perfezione cristiana: perciò i Santi non si stancano mai di ringraziare Dio in terra, e il loro infinito ringraziamento è la loro occupazione più dolce dell’eternità.

182 — Mostrate che è giusto rendere grazie a Dio.

Dio esige da noi il ringraziamento come tributo obbligatorio. San Paolo ricorda ai suoi Cristiani questo dovere: Rendiamo grazie a Dio in tutte le cose: questa è la volontà di Dio in Gesù Cristo (1 Tess. v, 18).

183 — Mostrate che è equo rendere grazie a Dio.

Se consideriamo l’immensità della bontà di Dio e l’abbondanza delle sue misericordie riversate su di noi ogni giorno, il nostro cuore traboccerà di amore e gratitudine, la nostra bocca proclamerà le meraviglie della sua bontà divina, daremo a Dio più di quanto siamo vincolati da una legge severa e rigorosa.

184 — Mostrate che è salutare rendere grazie a Dio.

Ascoltiamo l’autore dell’Imitazione di Gesù Cristo: « Se la grazia non scorre abbondantemente su di noi, è perché siamo ingrati verso il suo Autore e non risaliamo alla sua fonte originaria: perché la grazia non è mai negata a chi la riceve con gratitudine….. Siate grati, dunque, per le più piccole grazie, e meriterete di riceverne di più grandi. (De Imit. Ch., 1. II. c. X, n. 2, 5).

185 — Mostrate che bisogna rendere grazie a Dio in ogni tempo.

Benedirò Dio in ogni tempo – canta il Salmista – la sua lode sarà sempre sulla mia bocca (Sal XXXIII). E altrove: È bene lodare il Signore e cantare a gloria del tuo nome, o Altissimo, per proclamare la tua misericordia al mattino e la tua verità nella notte (Sal. XCI, 1 e 2).

Sant’Agostino commenta così questi ultimi versetti: « Noi non siamo Cristiani che per la vita futura; nessuno si prometta il bene di questa vita e la felicità del mondo perché è Cristiano; che usi la felicità di questo mondo come può, quando può e quanto può. Quando la possiede, ringrazi Dio che lo consola; quando ne è privato, renda grazie per la sua giustizia; sia sempre grato, mai ingrato; riceva con gratitudine i favori di un Padre che lo consola e riceva con la stessa gratitudine le punizioni di un Padre che lo sottomette al giogo della disciplina, perché è sempre per amore che Dio ci elargisce i suoi favori o le sue minacce, e il Cristiano ripeta queste parole del Salmista: « È bene benedire il Signore e cantare i suoi inni nel vostro nome, o Dio Altissimo. » (S. Aug., Dnar. in ps. XCI, n. 1).

186 — Come termina il Prefatio?

Il Prefatio termina con la menzione che in cielo tutti i cori degli Angeli rendono grazie a Dio per mezzo di Cristo e la domanda che sulla terra possiamo unire le nostre voci alle loro per annunciare la gloria dell’augusta Trinità e del nostro Salvatore, dicendo il Sanctus con profonda umiltà.

2 — Il Sanctus

187 — Di quante parti ci compone il Sanctus?

Il Sanctus è composto da due parti: la prima

Santo, santo, santo è il Signore, il Dio degli eserciti. I cieli e la terra sono pieni della vostra gloria.

– comprende la glorificazione dell’adorabile Trinità; la seconda – Osanna al più alto dei cieli. Benedetto sia Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei cieli – è il saluto al Salvatore dai fedeli della terra.

L’enumerazione di tutti i benefici per i quali dobbiamo rendere grazie a Dio, dalla creazione, attraverso tutto l’Antico Testamento, fino al passaggio di Isaia (Is., VL 3), dove è fatta menzione degli Angeli, riporta al Sanctus: “I Serafini si rallegravano l’un l’altro e dicevano Santo, Santo, Santo è il Signore, il Dio degli eserciti; tutta la terra è piena della sua gloria….. La triplice ripetizione di questa parola santa non solo vuole insistere più fortemente sulla santità di Dio, ma indica la Trinità delle Persone in un unico Dio che è santo.

188 — Spiegate l’espressione: Benedetto colui che viene nel nome del Signore.

Questa espressione è mutuata dal canto del trionfo con cui il Salvatore, principe della pace e vincitore della morte, è stato accolto dalle folle al suo solenne ingresso a Gerusalemme. È una formula di omaggio e di lode al Salvatore, in questo momento in cui, come Agnello divino, si prepara ad apparire in mezzo a noi, come un tempo a Gerusalemme, per consumarvi il suo Sacrificio.

189 — Cosa significa la parola Osanna?

La parola Osanna è un’acclamazione ebraica; è presa a volte come un grido di angoscia, che significa aiuto o salvezza (Sal. CXVIII, 26), a volte come un grido di gioia e di trionfo, che significa: egli viva (Math. XXL 9). San Luca spiega questa parola già in questo senso (di gioia) con una circonlocuzione; invece di dire: “Osanna nell’alto, dice: “Pace nel cielo e gloria nell’alto”. (Luca, XIX, 38).

190 — Quali nomi si danno al Sanctus?

A causa della prima parte, questo canto è chiamato trisagio, inno serafico o angelico; per la seconda parte lo si chiama inno trionfale.

La parola “trisagion” – da due parole greche che significano tre e santo – indica un inno in cui la parola santo viene ripetuta tre volte.

191 — Quali regole osservano il Sacerdore ed il servente al Sanctus?

Al Sanctus, il Sacerdote si inchina e unisce le mani nel rispetto della santità dell’Altissimo e per le ultime parole del Prefatio: « vi diciamo umilmente »; si segna alle parole: « benedetto colui che viene…. » secondo l’antica usanza di segnarsi quando si recitano testi presi dal Vangelo. Il servente fa suonare la campanella all’inizio del Sanctus: questo suono « costituisce un segnale per attirare l’attenzione dei fedeli sulla prossima consacrazione, una manifestazione di gioia, una professione di fede nell’imminente presenza eucaristica del Cristo, un segno di unione con i cori angelici, nella lode e nell’adorazione comune », secondo l’espressione stessa di un decreto della Sacra Congregazione dei Riti (n. 4377) del 25 ottobre 1922.

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