LO SCUDO DELLA FEDE (140)

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (7)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE VII

Anche i Papi cattivi sono veri Papi.

43. Prot. Quanto fin qui ho accordato riguardo al Papa, intendo sia detto dei buoni Papi, non già dei cattivi, dei quali certamente ne ha avuti la Chiesa Romana, poiché questi non solo non possono riguardarsi come infallibili etc., ma neppure come veri Papi: onde fu interrotta per essi la linea di successione. Che però tengo per certo che non potrete in ciò contraddirmi, e condannerete il Cattolicismo che diversamente la pensa e mi condanna.

Bibbia. « Questo dice il Signore: Guai a’ pastori d’Israele i quali pascon se stessi, etc. » (Ezec. XXXIV, 2).

« Venne poi un uomo di Dio ad Heli, e dissegli: Queste cose dice il Signore:… Per qual motivo avete dato de’ calci alle mie vittime, e a’ miei doni, che io ordinai che mi fossero offerti nel tempio: e hai avuto maggior rispetto pei tuoi figliuoli che per me, col mangiarvi le primizie di tutti i sacrifizj d’Israele mio popolo? Per questo, dice il Signore Dio d’Israele :… Ecco che viene il tempo quando io troncherò il. tuo braccio, etc. » (I Reg. II, 27 segg.). Ecco dunque che Dio stesso riguarda come veri pastori i cattivi pastori d’Israele, riconosce Heli per vero Sommo Pontefice, quantunque traditore del suo ministro per la sua iniqua connivenza alle scelleratezze dei propri figli. A questi potrei aggiungerti un Menelao, un Giasone, un Lisimaco, ed altri ancora, (II Macc. IX, 7, etc.) uomini grandemente facinorosi, e persino ladri sacrileghi, simoniaci, assassini, sanguinari e favoreggianti l’idolatria; i quali, ciò nonostante, sempre considerati furono come veri Sommi Pontefici, né alcuno mai ne ha dubitato.

Prot. Dice il Redentore : « Chi non entra per la porta nell’ovile, ma vi sale per altra parte è un ladrone e assassino. Ma a quegli che vi entra per la porta è il pastore delle pecore.  » (Giov. X, 1 segg.).

Bibbia. Nel caso nostro, cioè quanto alla validità della elezione e istituzione, il non entrar per la porta altro non significa che l’essere innalzati a tal dignità da coloro a cui ciò non si compete. Li altri entrano senza dubbio per la porta (quando non ostino valide leggi irritanti), sebbene vi entrino illecitamente, iniquamente, se per vie inique vi entrano. Che però sta scritto: « State soggetti a’ (vostri) padroni, non solo ai buoni e modesti, ma anche a’ discoli. » (I Piet. II, 18). E poi riconosciuti furono anche da Gesù per veri Pontefici Anna, e Caifa, i più scellerati che abbiano mai esistito.

44. Prot. Ciò sia pur vero; ma non sarà mai vero che tali Pontefici abbian da Dio nelle lor decisioni il dono dell’infallibilità, etc.

Bibbia. « Gesù parlò alle turbee ai suoi discepoli, dicendo: Sulla cattedra di Mosè si assisero gli Scribi e i Farisei; tutto quello, pertanto, che vi diranno osservatelo e fatelo; ma non fate secondo le opere loro. » (Matt. XXIII, 1, 2). – « Ma uno di essi per nome Caifa, che era in quell’anno Pontefice, disse loro: voi non sapete nulla, né riflettete che torna conto a noi che un uomo muoia pel popolo, e non perisca tutta la gente. E questo (N. B.) non disse egli di suo capo, ma essendo Pontefice di quell’anno profetò che Gesù morrebbe per la nazione »  (Giov. XI, 49, 50). Vedi adunque che l’infallibilità non è annessa ai costumi, ma bensì alla dignità, all’officio dei designati da Dio, e che Egli stesso permette talvolta che abbiano tal dignità uomini indegni, onde tutti conoscano tal verità, e niuno dubitar possa della sicurezza di lor decisioni e insegnamenti.

43. Prot. Niente ho più che ridire. « Nulla vi è di più ingiusto che biasimar la dottrina a causa delle colpe in cui cadono i Dottori.(Melantone, Epist. ad Camerarium, de matriin. Lutherì.)

« Il Papa nulla insegna di opposto alla dottrina di Gesù Cristo. » (Grozio, presso Bossuet: Dissert. prelim. intorno la dottrina, e critica di Grozio.)

« In Roma esistono i mausolei di presso che tutti i Papi. L’anima del Cristiano resta straordinariamente commossa in veder riuniti, in questo santuario dei più profondi misterj, gli inviluppi terrestri di tanti grandi spiriti, che han regolato, diretto, rappresentato l’elemento supremo della vita delle passate generazioni, e i quali si sono distinti come altrettante colonne della verità » (Hurter, Storia di Innocenzo III, T. 2. lib. 13. p, 346). – « La lunga serie de’ Papi, senza interruzione di sorta, da colui che nel secolo XIX ha unto Napoleone, rimonta e si riunisce con quel Pontefice che consacrò Pipino…. Essa va più oltre e la vediamo forte e fiorente, coetanea coi vecchi secoli del mondo. » (La Rivista Protestante, di Edimbuigo riportata dal Genio Cattolico di Friburgo: 1845. p. 172.). Se a questi miei sentimenti unite quanto, poco fa, vi ho dichiarato, cioè che « Roma mai è venuta a patti coll’errore: » che « La Religione quale ella fu ed è al presente si conserva tutta bella e maestosa pel sublime ministero de’ Papi, » conoscerete che anche su questo punto siamo interamente d’accordo.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (56) LA VERA E LA FALSA FEDE -XI. –

LA VERA E LA FALSA FEDE – XI.-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

PARTE SECONDA.

SI CONFERMA ULTERIORMENTE LA VERITÀ DELLE ESPOSTE DOTTRINE

§ XIX. – Si tratta in fine degli effetti funesti del sistema dell’INQUISIZIONE PRIVATA in materia di religione per rispetto alla pace dell’intelligenza. Come il cattolico che non ama il SOMMO BENE, ma sé stesso, non ha pace del Cuore, così non ha pace nell’intelligenza l’eretico che non crede al SOMMO VERO, ma solo a se stesso. Condizione degli eretici INQUISITORI. Quadro spaventevole della miseria e dell’infelicità di una intelligenza priva della fede divina comparata alla miseria ed alla infelicità del cuore privo della divina carità. Quest’infelicità è la causa più possente della demenza e del suicidio sì frequenti presso gli eretici. Conclusione delle due precedenti letture.

Dal sistema però di vita epicurea che abbiamo descritto, e che vedesi posto in azione per lo più presso dei grandi e dei ricchi protestanti, bisogna fare moltissime eccezioni in favor di coloro che, non avendo abjurato siffattamente all’essere di uomini che non si ricordino a quando a quando. di essere immortali, consacrano una parte della loro vita a ritrovare, a forza d’inquisizioni e d’indagini, un sistema. certo, un’opinione sicura in materia di religione, che, contentando. la loro ragione, metta in calma il loro cuore sulle apprensioni del loro eterno avvenire. Ma l’uomo, creato da Dio per Iddio, non può trovare che in Dio la tranquillità e la pace: Creatis nos, Domine, ad te,diceva S. Agostino, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te (Confess.). Accade perciò all’intelligenza ciò che accade al cuore: poiché la fede è l’amor dell’intelligenza, come l’amore è la fede del cuore. Come dunque non vi è calma pel cuore se non nel partecipare al sommo BENE per mezzo della divina carità; così non vi è tranquillità per la intelligenza, se non nel partecipare al sommo VERO per mezzo della fede divina. Nessuno che non ha la fede divina può in materia di religione, dire con sicurezza: sono istruito;come nessuno che non ha la divina carità può dire senza mentire a sé stesso: sono felice. Ora, noi lo abbiamo di già dimostrato (§ 45), l’eretico, l’incredulo che si prende pel guida i proprj pensieri e non crede che a sé stesso, non ha. fede divina; come non ha la divina carità il peccatore che si abbandona alle proprie passioni e non ama che se stesso!Ogni bene creato che non si è ancora goduto si presenta al cuore come un non so che d’infinitamente buono, capace di tenergli luogo del bene increato; e quindi la smania, il. furore del cuore che non ama Dio a variare i piaceri e diletti, a cercarne sempre dei nuovi, sulla lusinga di trovarvi  quella sicurezza, quella felicità che non gli hanno apprestata gli antichi. Così ogni opinione umana, in materia di religione, che non si è ancora apprezzata si presenta all’intelligenza come un non so che d’infinitamente vero, capace di tenerle luogo della verità infinita; e quindi l’impegno, lo sforzo di chi non crede alla parola di Dio di variare opinioni e sistemi, di cercarsene dei nuovi a forza di letture, di dispute, di confronti, sulla lusinga di trovarvi quella sicurezza, quella certezza che negli antichi non ha trovata giammai. – Oh di quanto siam noi obbligati all’insegnamento della cattolica fede! Possediamo le verità divine come certissimi dommi, non come incerte opinioni. Il cattolico adunque, con un accento di sicurezza dice: io credo: e la sua intelligenza è perfettamente tranquilla e soddisfatta della sua fede. Il catechismo che la Chiesa, depositaria della parola divina, gli ha messo nelle mani gli basta. Non cerea di più perché di più non ha bisogno. Quindi quando mai noi Cattolici ci mettiamo a studiare, a disputare, a far ricerche sulla religione, se non è per conoscerne sempre meglio la grandezza, la bellezza e le obbligazioni, onde edificare noi stessi e le fondamenta e le prove per farla conoscere od amare dagli altri? Ma non è Io stesso dei protestanti, degli eretici che pur non sono ancora caduti nel baratro dell’indifferenza per ogni religiosa verità. Come colla loro lettura della Bibbia non han potuto formarsi sopra alcuna cosa un convincimento profondo e non hanno raccolte ed accozzate meschinamente insieme che opinioni più o meno probabili, altre opinioni ben presto distruggono, o scoperte provvisorie, che nuove scoperte rendono vane ed insussistenti: così non possono esser certi di nulla, appagarci di nulla, in nulla appagarsi di nulla, in nulla riposarsi. E quindi studj, dispute e ricerche continue e sempre nuove sulla religione. Simili agli antichi filosofi inquisitori, non istudiano, non leggono e non viaggiano che per discoprire una religione certa e sicura; e, come ho avuto occasione di osservarlo io stesso, tutti i loro discorsi si raggirano sempre sulla religione. Felici quelli fra loro che in queste ricerche hanno veramente la buona fede per principio, e la verità per iscopo, l’umiltà per compagna! Questi sinceri della vera religione finiscono sempre per conoscerla ed abbracciarla. Negli stati protestanti d’America, come testimonj oculari ci han riferito, frequentissimo si è il vedere di questi inquisitori, che fanno il giro di tutte le sette religiose, onde è lacerata la religione in quelle contrade, ma senza arrestarsi che mesi o giorni in ciascuna; perché mutar setta non è che mutare opinione, e ciascuna opinione non vai più dell’altra per produrre certezza. E come mai opinioni umane, che sono di ogni setta la base, possono contentare chi cerca una fede divina? Sicché, malcontenti di tutte, perché nessuna li appaga, finiscono col farsi Cattolici, ed in seno alla fede cattolica confessano di aver trovata solamente quella certezza, quella tranquillità di mente e di cuore, che fuori di essa, per anni molti e con stenti e studj immensi, cercarono invano. Ma coloro che non hanno né il cuore così sincero e così generoso da abbracciare la verità dovunque si ritrova, e che, dominati dai pregiudizi anticattolici e da un odio cieco e irragionevole contro il Cattolicismo, lo mettono fuori di legge, lo escludono dalle loro vedute, e ristringono le loro ricerche nel circolo delle sette fuori della vera Chiesa, invano mutano opinioni e sistemi: poiché chiedono essi sempre alla ragione la certezza e la fede che la ragion non può dare; ed i nuovi sistemi e le opinioni novelle, nulla delle antiche più solide e più efficaci, lungi dall’appagare la loro intelligenze non fanno che svegliare più viva la brama e il bisogno di credere. Come invano, dice S. Bernardo, l’anima che non ha la carità divina varia i piaceri e i diletti: poiché chiedendo sempre alla passione la felicità e il bene che la passione non può dare, i nuovi piaceri e i diletti novelli, lungi dal confortare il cuore, vi eccitano sempre più violenta la fame ed il bisogno che esso ha di godere e di amare: Famem magis excitant quam extinguunt. – Ma a forza di ragionarvi sopra a siffatti sistemi, a siffatte opinioni, se ne conosce infine l’incoerenza, la contradizione, la bizzarria, e si finisce per riguardarle con indifferenza e con disprezzo; come appunto il cuore, a forza di gustare nuovi beni e nuovi diletti, scoprendone il vuoto, la fralezza, il nulla, li prende a vile: Possessa vilescunt. Ah! S. Paolo lo ha detto: l’inquisizione umana non trova che stoltezza e follia, invece di certe e solide verità: Sapientiam quærunt, et stulti facti sunt. E mentre l’orgogliosa scienza si applaude di avere raggiunta la verità e di averla già conquistata, la verità si è scostata in modo da non farsi trovare giammai: Semper dicentes et nunquam ad scientiam veritatis pervenientes, come Salomone ha detto di coloro che cercano il riposo e la pace fuori di Dio che non trovano nel loro penoso cammino che l’infelicità e l’amarezza: Contritio et infelicitas in viis eorum; e la pace,che si credevano di avere già stretta in pugno, è ita lungi da loro, ed essi ne hanno smarrita per sempre persinla via: Pax pax, et non erat paxj et viam pacis non cognoverunt!Or quali colori, quali espressioni possono mai rappresentare e al vivo l’alta miseria di queste intelligenze che cercandola verità nelle tenebre dell’intelletto, come i viziosi cercano. nella corruzione del cuore la felicità, cioè fuori del solo paese che la possiede, non incontrano che il dubbio e l’errore? Come il vizio nel cuore, così l’errore e il dubbio porta il disordine e lo scompiglio nella mente e la rende profondamente infelice; giacché ogni intelligenza, come ogni cuore in disordine, dice S. Agostino, è pena e carnefice di sé stessa: Pœna sua sibi est omnis animus inordinatus. Se non che i rimorsi della mente sono più angosciosi di quelli del cuore, le agitazioni della ragione più tormentose di quelle della coscienza; e se è insopportabile la pena interiore di chi non ama Iddio, più insopportabile si è quella di chi non lo conosce e non gli. crede come egli vuol essere conosciuto e. creduto: e se sta scritto che non vi è pace per colui che gli resiste, Quii resistit ei et pacem habuit? (Job. IX) siccome più resiste a Dio chi oppone il suo giudizio alla parola di Dio e ne ripudia la fede che chi oppone la sua passione alla volontà di Dio e ne viola la legge, cosi una ribellione più colpevole deve aspettarsi un più grande castigo; e se non vi è pace pel peccatore, molto meno ve ne sarà per l’eretico, per l’incredulo, per l’empio: Non est pax impiis.Grande perciò è senza dubbio l’infelicità di un cuore in preda al vizio: e chi può mai contarne le interne noje, le amarezze, i disgusti, i rimorsi, i palpiti secreti in cui passa giorni e notti peggiori? Ma quando si ha il vantaggio di essere nella vera fede, questa infelicità non è separata dalla speranza, e perciò non è senza conforto. Il peccatore, che ha la vera fede, spera un giorno di riconciliarsi col suo Dio e di trovare in seno al pentimento la pace della vita,la tranquillità della morte e l’eterna salute, di cui la vera fede lo rende sicuro: e benché questa speranza spesso sia renduta vana da una morte prematura, improvvisa, che previene il momento di una penitenza sincera, pure non è lieve compenso per un cuore che il peccato ha separato da Dio il sapere che nella vera fede ha sicuro il mezzo di riunirsi con Dio. Il rimorso stesso che lo cruccia, lo consola: perché sa che il rimorso è una delle voci onde Iddio chiama; è una delle industrie della divina misericordia, che amareggia le vie del disordine per obbligar l’uomo ad abbandonarle, e che dal peccato stesso fa nascere le spine che uccidono il peccato e salvano il peccatore. Perciò il rimorso stesso lo avvalora nella speranza del ritorno e della sicurezza del perdono.Ma non si può però dire altrettanto dell’eretico, che è privo allo stesso tempo dei tranquilli splendori della fede divina e degli incanti soavi della divina carità; che, non redendo nulla come parola di Dio, né nulla amando in ordine a Dio, non può appagarsi né di quello che ama, né di quello che crede; e le cui pene, pene del cuore che non trova la felicità nei beni creati, sono accresciute dalle agitazioni della mente che nelle opinioni umane non trova certezza. Quindi un continuo flusso e riflusso di desiderj sempre sterili, di tentativi sempre infruttuosi, d’idee sempre strane, di sentimenti sempre molesti, di opinioni sempre vaghe, di noje sempre fastidiose, di giudizj sempre incerti di illusioni sempre funeste, di trasporti sempre ciechi, sistemi sempre incoerenti, di dubbj sempre angosciosa, di rimorsi sempre pungenti, che nascono e muojono per rinascere di nuovo, e s’urtano e si mescolano e si confondono e finiscono per creare in questa intelligenza senza lume, in questo cuore senza dilezione, una notte profonda ed una profonda infelicità.  – Ora questo stato dell’anima è troppo penoso, questo aculeo è troppo crudele, perché possa sostenersi a lungo, dissimularsi in silenzio, soffrire con tranquillità. L’umana debolezza non può reggere a sì gran peso, e vi rimane schiacciata e oppressa. Che accadrà adunque a queste anime doppiamente infelici? La ragione e l’esperienza abbastanza ce lo dicono.Una gran parte di queste intelligenze, così scompigliate dall’incredulità o dall’eresia, cadono in demenza: poiché è impossibile che alla lunga il cerebro non si risenta dall’orrendo disordine dell’intelletto di cui è l’organo. Per poco adunque che quest’organo vi è disposto, lo sconcerto, il contrasto delle idee, di una mente vedova di fede, alterandone le disposizioni fisiologiche, vi produce di necessità la pazzia. E perché non resti alcun dubbio che questa orribile malattia della nostra specie è in moltissimi l’effetto funesto dell’assenza della fede, le statistiche di questa degradante infermità e attestano che il numero dei mentecatti nei paesi  dominati dall’eresia, rispetto al numero dei mentecatti delle contrade cattoliche, è nella proporzione di cento a dieci; e nelle stesse contrade il numero dei matti è ito crescendo a misura che vi si è introdotto lo spirito d’incredulità e vi si è indebolita la fede. Oltreché non è giusto e corrispondente castigo che nella ragione sia punito chi più peccò colla ragione, e che la perdita della religione faccia discendere sino al bruto colui che colla ragione osò di farsi giudice della. parola di Dio?Nulla perciò di più naturale quanto che, a misura che cresce il numero degli increduli, si slarghino, come oggi si fa. gli ospedali de’ matti: e lo zelo dei moderni filantropia migliorare il trattamento di siffatti infermi non è puro da ogni calcolo egoista. E interesse loro il rendere più confortativa una condizione in cui essi pure possono facilmente trovarsi, giacché dal delirio delle religiose opinioni al delirio degli organi corporei non vi è che un passo, e questo molto sdruccioloso. – In altri moltissimi però la situazione che abbiamo descritta,nata dalla licenza di opinare e dall’incertezza di credere produce effetti ben differenti. Vedonsi ogni giorno, anche fra noi, uomini i quali (poiché il vizio è in essi passato in natura, e le ree abitudini son divenute troppo forti e troppo debole il coraggio e la volontà di trionfarne) si riducono ad una morale impossibilità di correggersi, e che, spinti perciò alla disperazione di salvarsi, ne depongono ogni pensiero dicendo: « Per me è finita. Andrà come deve andare; seppure alla morte un qualche santo non ajuterà. »Intanto però, per sottrarsi ai latrati della coscienza, evitano di trovarsi un solo istante da solo a solo con se stessi; ne escon fuori e vanno negli oggetti esteriori vagando sempre lungi dal proprio cuore, come un marito intollerante, dice S. Agostino, se la passa sempre fuori di casa per sottrarsi alle furie di una consorte inquieta: Mulier rixosa, conscientia mala. Ora se ciò accade al cattolico, che dalla licenza de’ suoi vizj è stato condotto alla disperazione di amare, molto più accade agli eretici, condotti ancora dalla licenza delle loro opinioni alla disperazione di credere. Ad esempio adunque di Lutero che orrendamente straziato dalla memoria delle sue turpitudini e delle sue bestemmie, s’involava allo sguardo minaccioso della sua anima, avvolgendo nel fango della lascivia e seppelliva i rimorsi nell’ubriachezza,degni figliuoli di sì egregio padre, gli eretici inquisitori cercano essi pure di dissipare le agitazioni della loro mente coll’abbandonarsi a tutte le delizie dei sensi, e di obbliare le apprensioni funeste della vita avvenire coll’uscire fuori di se stessi e spandersi o perdersi nel più turpe epicureismo della vita presente. Quindi lo studio di fuggire tutto ciò che può richiamare alla loro mente ogni idea di religione, di virtù, dell’anima, di Dio, della morte, dell’eternità; ed al contrario la smania di trastullarsi coi bruti, colle scimmie, coi pappagalli, coi cani, coi cavalli; di prenderli a compagni, di preferirli agli uomini nelle loro affezioni, sino a procurar loro, a costo di grandi spese,ogni specie di comodità e di delizie, e farli eredi della propria fortuna; sicché direbbesi che ne invidiano la condizione, tanto procurano d’imitarne la natura! Ma questa smania orribile, in uomini sì orgogliosi della ragione, di degradarsi fin sotto agli esseri irragionevoli e di far vita comune con loro, questo studio funesto di appagare l’intelligenza, creato pel sommo bene e per la somma verità, coi miseri avanzi della felicità dei bruti, non sempre riesce. L’invincibile natura ripiglia a quando a quando il suo impero, e dall’abisso tenebroso del vizio in cui si è chiuso il cuore, e da sotto alle orribili rovine degli errori in cui l’intelligenza si è sepolta, escono voci tremende, minaccevoli grida, che gli strepiti di tutte le passioni in delirio non possono estinguere. Allora l’uomo si sveglia adirato, perché gli si rompe il sonno di una vita tutta corporea; perché l’ebbrezza del piacere non dura: perché il mondo esteriore si. dilegua, perché, abbassandosi un istante il velo delle volontarie illusioni, si trova a viso scoperto in faccia all’orrendo spettro della sua anima senza fede, senza speranza, senza amore. Allora, simili a quegli umori bizzarri che, oppressi dalla malinconia, negli spettacoli malinconici cercali conforto, povere d’ogni bene, cerca di farsi un vanto della sua povertà; avvilito agli occhi propri, si sprofonda sempre più nel suo avvilimento e nella sua ignominia; addolorato e infelice,si pasce della sua infelicità e del suo dolore: finché,divenendo odioso a sé stesso ed impotente al peso della vita,corre a cercare nel suicidio la fine di una esistenza che dispera di rendere migliore e che non ha coraggio di sopportare. E difatti presso gli antichi filosofi di Atene e di Roma i veri eretici del genere umano) il suicidio, il più orribile attentato contro la natura, era riputato un dovere ed una virtù per l’uomo saggio nelle ambasce che gli rendevano la vita più amara della morte. E nei tempi moderni questo stesso delitto, quasi ignoto affatto in Europa nei secoli di fede, ed anche oggi, che la fede si è illanguidita, rarissimo nei paesi cattolici, è rinato col rinascer dell’antica scienza del dubbio, che l’eresia luterana ha sostituito alla fede.Quindi nei paesi protestanti e presso gli allievi dell’orgoglio,che altra religione non hanno che quella di un vago ed assurdo filosofismo, sono frequentissimi gli esempi, non solo di uomini ma ancora di donne e di fanciulli che attentano alla loro vita con un orribile sangue freddo, e quest’atto di disperazione e di folli  a si reputa eroismo o una cosa affatto indifferente. Deh che la fredda ragione non apporta alcun solido conforto contro le noje della vita, i dolori delle infermità,le perdite della fortuna, le miserie della famiglia, i dispetti della gelosia, il peso del disonore, e molto meno contro i rimorsi del cuore e le angosce dell’intelligenza dubbio! L’uomo abbandonato alle sole sue forze e senza appoggio per parte della fede che non ha, della grazia che non implora, della provvidenza che non crede, della vita futura che non attende, è troppo debole per rassegnarsi a prolungare un’esistenza che per qualcuna delle indicate cause gli è divenuta pesante ed amara, ed il suicidio diviene per lui una specie di necessità fatale ed una conseguenza, funesta sì ma naturale, della sua morale indigenza e del suo desolamento. Oh profonda miseria! oh condizione orribiledell’uomo ribelle alla Chiesa ed alla vera fede! Tutto è perlui tenebre, dubbio, incertezza, rimorso, affanno, dolore,disperazione, delitto: e la sua profonda infelicità nel tempo non è che il funesto preludio di quella dell’eternità.Concludiamo adunque l’importantissima e per noi Cattolici consolantissima discussione che ci ha occupati in queste due ultime lunghe letture. Noi abbiamo veduto che l’insegnamento della Cattolica Chiesa é facile, accessibile a tutti, veridico, certo, uniforme, immutabile: che solo contiene tutte le verità, solo ispira tutte le virtù, solo appresta tutte le consolazioni. solo fornisce tutte le speranze, solo solleva l’uomo e Io santifica e Io perfeziona e Io salva: e però che esso è il solo insegnamento sincero, legittimo, santo, celeste, divino. Abbiamo pure veduto, al contrario, che il metodo inquisitorio ossia della ragione privata che, disprezzando l’autorità della Chiesa, pretende di formarsi da sé la religione, consultando, come essa dice, la natura e la Scrittura, in verità però non seguendo che il proprio orgoglio ed il proprio capriccio; che questo metodo, dico, che è il fondamento comune di tutte le false religioni, di tutti gli scismi e di tutte le eresie, oltre che domanda molto tempo, molti studi e molti sforzi, non conduce in fine che all’errore, al dubbio assoluto, alla indifferenza, al disprezzo, alla distruzione completa di ogni religione, cioè alla degradazione dell’intelligenza, alla depravazione dei cuori, alla disperazione dell’individuo, alla ruina della società; e perciò è un metodo vizioso, erroneo, detestabile, diabolico, infernale. – Oh se, con un occhio all’orribile quadro di miserie, di devastazioni, di rovine di tutti i dommi e dì tutte le leggi, di tutte le verità e di tutte le virtù, di tutte le credenze e di tutti i sentimenti, di tutte le speranze e di tutte le consolazioni del Cristianesimo, miserie, devastazioni, rovine  cui vanno di necessità a terminare tutti i sistemi di errore; oh se con un occhio, dico, a  quest’orribile quadro che noi abbiam tracciato, il miscredente e l’eretico volessero coll’altro occhio contemplare i grandi e giocondi prodigi che pur hanno di continuo presenti, e che la grazia della fede opera nelle coscienze cattoliche; oh come apprezzerebbero la condizione dei figli della vera Chiesa, che, dispensati dall’ingrato e sterile lavoro di ricercare, di esaminare, di disputare, di discutere, trovano nell’insegnamento della cattolica fede una dottrina pura, santa, uniforme, costante, bella, preparata e ridotta a formole chiare, precise, certe, immutabili, ed accessibili a tutti! Oh come rimarrebbero sorpresi e incantati dal bello spettacolo delle virtù solide, dei sentimenti sublimi della vera santità, che questa dottrina divinamente feconda fa germogliare nel cuore che le è fedele! Oh come non si sazierebbero mai di ammirare la perfetta tranquillità con cui la cattolica intelligenza si riposa in seno alla sua fede, l’adesione fermissima con cui ne ritiene le verità sante, il gaudio segreto, l’immensa gioja con cui ne vagheggia la chiara luce! Oh come invidierebbero la sorte avventurosa dell’anima veramente cattolica che, confermando la sua condotta con la sua credenza e senza tema alcuna d’ingannarsi nella sua fede presente, né di essere delusa nelle sue speranze dell’avvenire, tenendo fedelmente dietro alla vera stella miracolosa della fede che, come la stella dei Magi, la precede e l’accompagna, la guida e la sostiene, la illumina e la conforta, la istruisce e la colma di gioja; traversa questa terra d’esilio, colla sicurezza di giungere alla patria dell’eterno riposo e dell’eterna felicità! Ma se i miscredenti e gli eretici non vogliono e non possono conoscere questa condizione felice, invidiabile di noi cattolici, procuriamo di sempre meglio conoscerla noi stessi che, per un tratto della divina misericordia, ne siamo in possesso; affine di conservare in noi con maggior gelosia il prezioso deposito della vera fede, di riconoscerne con sensi di gratitudine sempre maggiore dalla bontà di Dio l’immenso beneficio, di amarne con maggiori trasporti le bellezze, di compierne con maggior diligenza le opere sante; unica condizione per goderne più copioso qui in terra il fruito ed ottenerne più ricco il guiderdone nei cieli.

FINE DELLA LETTURA VI.

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (21)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (21)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

TESTIMONIANZE DEI CONCILI ECUMENICI DEI ROMANI PONTEFICI, DEI SANTI PADRI

DOMANDA 39a

Concilio Lateranense IV (1215), cap. 2:

« Ebbene, noi, coll’approvazione del sacro universale Concilio, crediamo e affermiamo con Pietro (Lombardo) che esiste un essere unico e supremo, incomprensibile a dir vero e ineffabile ed è in verità il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo: tre Persone unite e insieme distinte ognuna delle medesime: e perciò c’è in Dio soltanto una Trinità, non una Quaternità, in quanto che ciascuna delle tre Persone è quell’essere, ossia sostanza, essenza o natura divina, che sola è il principio di tutte le cose e al di fuori di esso niente si può trovare; e quell’essere non è generante, né generato, né procedente, ma è il Padre che genera e il Figlio che è generato e lo Spirito Santo che procede, dimodoché c’è distinzione nelle Persone e unità nella natura. Altro è dunque il Padre, altro il Figlio, altro lo Spirito Santo, non però altra cosa; ma l’essere, che è Padre, è il Figlio è lo Spirito Santo perfettamente identico, com’è da credere, secondo la ortodossa dottrina cattolica, che sono consostanziali. Difatti il Padre, generando dall’eternità il Figlio, a Lui diede la sua sostanza, secondo quanto Egli stesso attesta: Più grande di tutto è ciò che diede a me il Padre (Jo., X , 29). Né si può dire che gli abbia dato una parte della sua sostanza, ritenendone una parte per sé, in quanto la sostanza del Padre è indivisibile, perché semplicissima: né che l’abbia trasferita, per generazione, al Figlio, rimanendone privo, che avrebbe cessato Esso stesso d’essere una sostanza. È chiaro dunque che il Figlio, nascendo, ricevette la sostanza del Padre senza diminuzione di sorta, cosicché Padre e Figlio hanno la medesima sostanza e identico essere sono il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, che ne procede. Orbene, quando la Verità prega il Padre pe’ suoi fedeli, dicendo: Voglio che siano un’unica cosa in noi, come un’unica cosa siamo anche noi (Jo., XVII, 22): questa parola « unica cosa » s’ha da intendere, riguardo a’ fedeli, per unità d’amore nella grazia, mentre per le Persone divine s’ha da intendere per identità di natura, come afferma pure la Verità in altro luogo: Siate perfetti com’è perfetto anche il Padre celeste (Matth., V, 48); quasi dicesse più chiaramente: Siate perfetti nella perfezione di grazia, com’è perfetto il Padre vostro del Cielo nella perfezione di natura, l’una e l’altra cioè a modo proprio ». (Mansi, XXII, 983 s.).

II. Concilio di Lione (1274) De processione Spiritus Sancti:

«Affermiamo con fedele e riverente professione che lo Spirito Santo procede eternamente dal Padre e dal Figlio non come da due principii, ma come da un solo, non per due, ma per unica spirazione. Così ha finora affermato, predicato e insegnato, così fermamente pensa, predica, afferma e insegna la sacrosanta Chiesa Romana, madre e maestra di tutti i fedeli; tal’è il pensiero immutabile e verace de’ Padri e Dottori ortodossi tanto Latini quanto Greci. Ma siccome parecchi caddero in errori vari per ignoranza della predetta irrefragabile verità, noi, per desiderio di precludere la via a siffatti errori, condanniamo, col consenso del sacro Concilio, e riproviamo quelli che oseranno negare l’eterna processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, oppure temerariamente asserire che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio come da due principii e non come da unico ». (Mansi, XXIV, 81).

Concilio Fiorentino, Decretum prò Graecis:

« Nel nome della S. Trinità, Padre Figlio e Spirito Santo, col consenso di questo sacro universale Concilio Fiorentino definiamo che sia creduta e accolta questa verità di fede da tutti i Cristiani e tutti professino allo stesso modo che lo Spirito Santo è eternamente dal Padre e dal Figlio e ha la sua essenza e il suo essere sussistente unitamente dal Padre e dal Figlio e che procede eternamente dall’uno e dall’altro come da unico principio e per unica spirazione; dichiarando il pensiero de’ santi Dottori e Padri, che dicono lo Spirito Santo procedere dal Padre per mezzo del Figlio, nel senso che anche il Figlio è, secondo i Greci causa, secondo i Latini principio alla sussistenza dello Spirito Santo alla pari del Padre. E poiché il Padre, generando, diede al Figlio suo unigenito tutte quelle cose che son del Padre, tranne l’esser Padre, il Figlio dall’eternità riceve la stessa processione dello Spirito Santo da parte del Padre, che pure lo ha generato dall’eternità. Inoltre definiamo che, per chiarezza della verità e per una necessità allora urgente, fu lecitamente e ragionevolmente aggiunta al Simbolo l a spiegazione di quelle parole « Filioque ». (Mansi, XXXI, 1030).

S. Agostino, De Trinitate, I, 7:

« Gl’interpreti cattolici de libri divini vecchi e nuovi, che prima di me scrissero a proposito della Trinità che è Dio, tutti, quanti ne ho potuti leggere, intesero insegnare a norma delle Sacre Scritture che il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo coll’eguaglianza dell’unica e identica sostanza, che non ammette separazione, affermano la divina unità; sicché non sono tre dei, ma un Dio solo, benché il Padre abbia generato il Figlio e perciò non sia il Figlio chi è il Padre; e il Figlio sia stato generato dal Padre; perciò il Padre non sia chi è il Figlio; e lo Spirito Santo non sia né il Padre, né il Figlio, ma soltanto lo Spirito del Padre e del Figlio, anch’Egli uguale al Padre e al Figlio e appartenente all’unità della Trinità ». (P. L., 42, 824).

S. Epifanio, Ancoratus, 8:

« Ciascuna di queste denominazioni è singolare, né ha nulla che dall’altra sia significato. Difatti il Padre è padre e non ha nulla che gli sia stato posto a confronto, o congiunto con altro padre, per non essere eventualmente due gli dei. Il Figlio unigenito, Dio vero da Dio vero, senz’appropriarsi il nome di Padre, né tuttavia estraneo al Padre, ma nell’unica sussistenza del Padre, è l’Unigenito per esser Figlio di singolare e propria denominazione; ed è Dio da Dio affinché l’unico Dio si chiami Padre e Figlio. E lo Spirito Santo unico, senza usurpare né il nome del Figlio né quello del Padre, ha nome Spirito Santo, senza essere estraneo al Padre. Difatti lo stesso Figlio unigenito così parla: Lo Spirito del Padre (Jo., XV, 26); e ancora: Che procede dal Padre (ib.), e ancora: dal mio riceverà (ib., XVI, 14 s.); dimodoché non lo si ritenesse estraneo né al Padre né al Figlio, ma della stessa sostanza e divinità, Spirito divino, Spirito di verità, Spirito di Dio…. Dunque c’è Dio nel Padre, c’è Dio nel Figlio, c’è Dio nello Spirito Santo, che è egualmente da Dio ed è Dio. Difatti lo Spirito di Dio è lo Spirito del Padre e lo Spirito del Figlio, non in forza d’una qualsiasi composizione, com’è in noi dell’anima e del corpo, ma perché medio tra Padre e Figlio, procedente dal Padre e dal Figlio, terzo nella denominazione ». (P. G., 43, 29).

S. Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, I , 12:

« Il Padre è sorgente e autore tanto del Figlio quanto dello Spirito Santo, però del solo Figlio è padre e produttore dello Spirito Santo. Il Figlio a sua volta è figlio, Verbo, sapienza, potenza, immagine, splendore, figura del Padre, e dal Padre. Ma lo Spirito Santo non è figlio del Padre, ma Spirito del Padre in quanto ne procede; difatti non vi è impulso senza lo Spirito. Anzi è detto pure Spirito del Figlio, in quanto procede non da esso direttamente, ma per suo mezzo dal Padre. Difatti soltanto il Padre è autore ». (P. G., 94, 850).

DOMANDA 41a.

Concilio di Laterano (649) sotto S. Martino I , can. I , Contra Monothelitas:

« Chi non ammette, secondo il pensiero de’ santi Padri, propriamente e veracemente il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, Trinità nell’unità, e unità nella Trinità, cioè un unico Dio in tre sussistenze consostanziali e di pari gloria, l’unica e medesima divinità dei tre, natura, sostanza, virtù, potenza, regno, impero, volontà, operazione increata, senza principio, incomprensibile, immutabile, creatrice d’ogni cosa e protettrice, sia condannato ». (Mansi, X, 1151).

S. Fulgenzio, De Fide, 4:

« Poiché in quell’unico vero Dio trino è per natura vero non soltanto ciò ch’è Dio uno, ma pure ciò ch’è Trinità, perciò lo stesso vero Dio è Trinità nelle Persone e unico nell’unica natura. Per quest’unità di natura tutto il Padre è nel Figlio e nello Spirito Santo, e tutto il Figlio è nel Padre e nello Spirito Santo, e tutto lo Spirito Santo è nel Padre e nel Figlio. Nessuno di essi è estraneo a qualsivoglia di essi, perché nessuno precede l’altro nell’eternità o l’eccede in grandezza o lo supera di potenza ». (P. L., 65, 673-74).

S. Efrem, Hymnus de dejunctis e Trinitate, 11-12 :

« Il Padre genitore, il Figlio generato dal suo seno, lo Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio; il Padre creatore che fece il mondo dal nulla; il Figlio creatore che creò tutte le cose insieme al suo genitore. « Lo Spirito Santo paraclito e consolatore, per opera del quale viene compiuto tutto ciò che fu e sarà ed è; mente il Padre, verbo il Figlio, voce lo Spirito Santo: tre nomi un’unica volontà, un’unica potenza ». (Lamy, S. Ephr. hymni et serm., III, 2421).

S. Gregorio Nazianzeno, Oratio, XXXIII, 16:

« Essi (i fedeli) adorano come unica divinità il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: Dio il Padre, Dio il Figlio, Dio… lo Spirito Santo, unica natura in tre proprietà intelligenti, perfette, sussistenti per sé stesse, distinte sì di numero, ma non di divinità ». (P. G., 36, 235).

DOMANDA 46a.

IV Concilio di Laterano e Concilio Vaticano: Vedi D. 36.

DOMANDA 47a.

Concilio Vaticano: Vedi D. 36.

DOMANDA 48a.

S. Giovanni Crisostomo, Contra Anomeos, XII, 4:

« Non soltanto (Dio) creò la creatura, ma dopo averla creata la protegge e sostenta, angeli o arcangeli che tu voglia, o potestà superiori, o tutte quante le cose che cadono e non cadono sotto la vista: tutte usufruiscono della sua provvidenza e, supposto che siano private dell’influsso efficace di Lui, dileguano, rovinano, periscono ». (P. G., 48, 810).

DOMANDA 49a.

S. Agostino, De spiritu et littera, 58:

« Orbene, Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla cognizione della verità (I Tim., II, 4); in modo però da non toglier loro il libero arbitrio, dal cui buono o cattivo uso saranno con somma giustizia giudicati. Ciò posto, gl’infedeli operano bensì contro la volontà di Dio, se non credono al suo vangelo; ma con ciò non la spuntano, piuttosto privano sé stessi d’un grande e sommo bene e s’irretiscono in castighi punitivi e sperimenteranno tra i tormenti il potere di Colui, di cui mentre godevano i doni, disprezzarono la misericordia ». (P. L., 44, 238).

DOMANDA 50a.

S. Efrem Siro, Carmina Nisibena, III, 8 e 10:

« È noto che il buon Dio non volle i mali che in ogni tempo affliggono gli uomini, pur avendoli mandati lui; e che la causa delle nostre afflizioni sono i nostri peccati. Nessuno può lagnarsi del nostro Creatore, bensì Lui di noi, perché, peccando, l’abbiam costretto contro sua volontà a sdegnarsi con noi e a percuoterci a malincuore…. E l’uomo pure infligge castighi allo scopo di cavarne un utile. Perché ognuno castiga i suoi servi, per tenerseli soggetti; ma il buon Dio castiga i suoi servi perché essi stessi di sé siano padroni. I tuoi mali sieno altrettante ammonizioni per te ». (Ed. G. Bickell, p. 80).

DOMANDA 52a.

S. Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, II, 3:

« Dunque l’Angelo è una sostanza intelligente, fornita di perpetuo movimento e di libero arbitrio, incorporea, a Dio ministra, immortale in sua natura per munificenza di Dio. Soltanto il Creatore ne conosce la precisa sostanza e definizione. È detta incorporea e immateriale per rapporto a noi; perché, in confronto di Dio il solo a niuno paragonabile, tutto si scopre grossolano e materiale. Soltanto la natura divina è davvero immateriale e incorporea ». (P. G., 94, 866 s.).

DOMANDA 53a.

S. Atanasio, De virginitate, 5 :

« Gran rimedio per la salvezza dell’anima è l’umiltà; satana infatti non fu precipitato dal cielo per colpa d’impudicizia o di adulterio o di furto, ma per la sua superbia finì in fondo agli abissi. Difatti queste furono sue parole: Salirò e pianterò il mio trono fuor dal paese di Dio e sarò simile all’Altissimo (Isa., XIV, 14). Per esse fu abbattuto e il fuoco eterno diventò sua porzione ed eredità ». (P. G., 28, 258).

S. Gregorio Magno, In Evangelia, I I , 34, 7, 8, 9:

« Ho detto nove le schiere degli Angeli, perché sulla testimonianza del sacro testo sappiamo che ci sono gli Angeli, gli Arcangeli, le Virtù, le Potestà, i Principati, le Dominazioni, i Troni, i Cherubini e i Serafini. « Bisogna pur sapere che il vocabolo « Angeli » è denominazione dell’ufficio, non della natura. Difatti que’ santi spiriti della patria celeste sempre sono spiriti, ma non sempre si possono chiamar Angeli, inquantochè sono Angeli soltanto allor che annunziano qualche cosa… E quelli che annunziano le cose meno importanti, Angeli, mentre Arcangeli sono quelli che annunziano le più importanti… Perciò a Maria Vergine fu mandato non un Angelo qualsiasi, ma l’Arcangelo Gabriele. Era giusto che questo incarico fosse affidato all’Angelo più nobile, perché recava il più nobile de’ messaggi. Essi poi sono enumerati anche con nomi propri allo scopo d’indicare anche col nome la loro importanza nell’opera. Difatti Michele è detto: Chi come Dio?; e Gabriele: Fortezza di Dio; e Raffaele: Medicina di Dio ». (P. L., 76, 1249 ss.).

DOMANDA 54a.

S. Girolamo, In Matthæum, lib. III, ad cap. XVIII:

« Grande è la dignità delle anime, tale che fin dall’origine per loro custodia hanno delegato un Angelo ». (P. L., 26, 130).

DOMANDA 58a

S. Ireneo, Adv. haereses, V, 24, 3 e 4:

« Il diavolo dunque, in quanto è un Angelo ribelle, può unicamente… sedurre e traviare l’anima dell’uomo a trasgredire i precetti di Dio e a poco a poco accecare il cuore di coloro, che avrebbero disposizione a servirlo, affinché dimentichino proprio il vero Dio e adorino invece lui come dio…. Si è schierato sempre più contro l’uomo, per invidia di esso e per volerlo vincolare alla sua tirannia di ribelle ». (P. G., 7, 1188).

DOMANDA 60a.

V Concilio di Laterano (1512-1517) sess. VIII De anima humana:

« A di’ nostri (e ci duole constatarlo) il seminator di zizzania, vecchio nemico del genere umano, ha osato sovrasseminare ed aumentare nel campo del Signore taluni disastrosi errori, sempre ributtati da’ fedeli, specialmente circa la natura dell’anima razionale, che cioè sia mortale oppure unica in tutti e singoli gli uomini; e taluni avventati filosofastri affermano che, almeno in linea filosofica, ciò è vero. Desiderando prendere adatti rimedii contro siffatta epidemia, col consenso di questo sacro Concilio, condanniamo e riproviamo quanti asseriscono che l’anima intellettiva sia mortale oppure unica in tutti e singoli gli uomini, o almeno ne dubitano. Quella infatti non soltanto è davvero e per sé  stessa ed essenzialmente la forma del corpo umano, com’è detto in un canone del Papa Clemente V di f. m. nostro predecessore, canone pubblicato nel (generale) Concilio di Vienna; ma è immortale e in proporzione al numero de’ corpi, cui s’infonde, volta per volta moltiplicabile e moltiplicata e da moltiplicarsi… Ora, siccome verità non può contraddire a verità, definiamo che sia affatto falsa qualunque asserzione contraria alla verità della fede illuminata; energicamente vietiamo come non lecito d’inventar dogmi differenti; e decretiamo che coloro che si ostinano ad affermare siffatto errore, sono da evitare e punire come detestabili e abbominevoli eretici ed infedeli che seminan dappertutto pessime eresie, a grave danno della cattolica fede ». (Mansi, XXXII, 842).

Pio IX, Lett. Dolore haud mediocri, 30 apr. 1860, al Vescovo di Breslavia:

« Inoltre s’è avvertito che il Baltzerin quel suo opuscolo, riducendo qui tutta la controversia, cioè se per il corpo esista un principio proprio di vita separato nella realtà dall’anima razionale, osò spingersi a tal punto di temerità da proclamar persino eretica la sentenza contraria e sostenere con un mar di parole che per tale deve ritenersi. Ciò noi non possiamo non riprovare considerando che nella Chiesa di Dio è affatto comune la sentenza di ammetter nell’uomo un unico principio della vita, cioè l’anima razionale, dalla quale il corpo riceve anche il movimento e tutta la vitalità e sensibilità; inoltre essa pare a molti dottori tra i più autorevoli indissolubilmente congiunta col dogma della Chiesa, sicché ne costituisce la legittima e sola vera interpretazione né si può rifiutare senza errore nella fede ».

(Acta Pii IX, donde fu estratto il Sillabo, Roma, 1865, p. 178).

S. Giovanni Damasceno, De fide ortodoxa, II, 12:

« Orbene l’anima è vivente, semplice e incorporea sostanza, che sfugge per sua propria natura alla percezione della vista corporea, immortale, fornita di ragione e d’intelletto, che fa uso del corpo fornito di organi al quale corpo conferisce la vita, lo sviluppo, la sensibilità e la potenza di generare; e non ha una mente diversa da sé e separata, dal momento che la mente altro non è che una parte sottilissima di essa: ciò che rappresentano gli occhi nel corpo, ciò è la mente nell’anima; possiede il libero arbitrio e potenza di volontà e d’azione ». (P. G., 94, 923, s.).

DOMANDA 62a.

Benedetto XII, Costit. Benedictus Deus, 29 giugno 1336:

« Per mezzo di questa costituzione, valevole per sempre, definiamo con autorità apostolica: secondo l’universale disposizione di Dio, le anime de’ Santi tutti, morti prima della passione del Signor nostro Gesù Cristo, e similmente le anime de’ santi Apostoli, martiri, confessori, vergini e altri fedeli defunti dopo ricevuto il sacro battesimo di Cristo, se in punto di morte non ebbero nulla da purgare, o non ci sarà quando, anche in avvenire, morissero, oppure — se allora ci fu o ci sarà — quando si siano, dopo morte, purgate; inoltre le anime de’ fanciulli rinati pel medesimo battesimo di Cristo e da battezzarsi, che muoiono, una volta battezzati, prima dell’uso del libero arbitrio, tutte quante furono sono e saranno in cielo subito dopo la loro morte e subito dopo la purificazione accennata per quelle, che di siffatta purificazione avevan bisogno, anche prima di ricongiungersi al loro corpo, cioè prima del giudizio generale, dall’Ascensione in qua del Salvatore e Signor nostro Gesù Cristo; e furono sono e saranno associate in compagnia de’ santi Angeli al regno de’ cieli e al celeste paradiso con Cristo; e dopo la passione e morte del Signore Gesù Cristo, videro e vedono la essenza divina per via d’intuizione e anche faccia a faccia, esclusa ogni intermedia creatura in linea e in ufficio di oggetto della visione, ma per immediata e nuda e chiara e scoperta manifestazione ad esse della divina essenza; e le anime così veggenti godono della divina essenza; e per effetto di tal visione e godimento le anime de’ defunti son davvero felici e hanno vita e riposo in eterno; e anche le anime di quelli che moriranno in futuro, contempleranno la medesima divina essenza e ne godranno prima del giudizio generale; e la visione e il godimento dell’essenza divina renderà superflui per esse gli atti di fede e di speranza, in quanto fede e speranza son propriamente virtù teologiche; e dacché sarà stata o sarà incominciata la detta intuitiva visione e il detto godimento in quell’anime medesime, la medesima visione e godimento perdura di continuo, senz’alcuna interruzione, o attenuazione di detta visione e godimento, e continuerà sino alfin al giudizio e da quel momento in perpetuo. – « Inoltre definiamo che, secondo l’universale disposizione di Dio, l’anima di chi muore in peccato mortale attuale subito dopo la sua morte discende all’inferno, dov’è tormentata dalle pene infernali, e che nondimeno nel giorno del giudizio tutti gli uomini compariranno coi loro corpi dinanzi al tribunale di Cristo per render ragione del fatto loro, affinché ciascuno manifesti di sé stesso come operò, sia bene sia male (II ai Cor., V , 10) » .

(Bullarium Romanum, ed. Torino, IV, 346 a.).

S. Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, IV, 27 :

« Quelli che avranno ben operato, rifulgeranno come il sole cogli angeli nella vita eterna, col nostro Signore Gesù Cristo per veder sempre e sempre esser veduti e per godere gioia indefettibile, lodandolo per secoli interminabili col Padre e con lo Spirito Santo » .

DOMANDA 63a.

S. Pio V, Costit. Ex omnibus afflictionibus, 1 ott. 1567, nella quale si condannano i seguenti errori di Baio:

« 1. Non si chiamano rettamente grazia i meriti né degli angeli né del primo uomo ancora innocente.

« 2. Come l’opera cattiva per natura sua è meritoria di morte eterna, così per natura sua l’opera buona è meritoria di vita eterna.

« 3. La felicità sia per gli angeli buoni, sia per il primo uomo, se avesse perseverato in quella condizione, era una ricompensa, non una grazia.

« 4. La vita eterna fu promessa all’uomo, in istato d’integrità, e all’angelo in vista delle opere buone; e le opere buone, secondo legge di natura, bastano per sé stesse a conseguirla.

« 5. Nella promessa fatta sia all’angelo sia al primo uomo è osservata e implicita la disposizione di giustizia naturale, in forza della quale la vita eterna è promessa ai giusti in ricompensa delle buone opere senz’altro riguardo.

« 6. Per legge di natura fu stabilito all’uomo che, se perseverava nell’obbedienza, sarebbe giunto alla vita immortale.

« 7. I meriti del primo uomo non decaduto furono doni della prima creazione; ma, secondo il linguaggio della S. Scrittura, non giustamente si chiaman grazia; perciò devon chiamarsi soltanto meriti, non anche grazia.

« 8. Nei redenti per la grazia di Cristo non può riscontrarsi alcun merito buono che non sia conferito gratuitamente a un immeritevole.

« 9. I doni concessi all’uomo non decaduto e all’angelo forse con qualche ragione posson dirsi grazia; ma poiché, secondo il linguaggio usuale della S. Scrittura, col nome di grazia s’intendono soltanto que’ doni, che son conferiti per merito di Gesù Cristo agl’immeritevoli e agl’indegni, perciò né i meriti, né la ricompensa, che loro è conferita, si deve dir grazia.

« 11. Il fatto che, per aver vissuto piamente e da giusti in questa vita mortale sino alla fine della vita, conseguiamo la vita eterna, non si deve propriamente ascrivere alla grazia di Dio, bensì a naturale disposizione, da Dio con giusto giudizio stabilita fin dal primo momento della creazione; e in questa ricompensa de’ buoni non si guarda al merito di Cristo, ma solamente alla prima costituzione del genere umano, nella quale fu stabilito per legge naturale che la vita eterna giusto giudizio di Dio sia conferita all’osservanza de’ precetti ». (Du Plessis, Collectio Judiciorum, III, II, 110 ss.).

Clemente XI, Costit. Unigenitus, contro gli errori di Quesnel, 8 settembre 1713, prop. 35 tra le condannate:

« La grazia in Adamo è conseguenza della creazione ed era dovuta alla natura sana e integra ».

(Id., ibid. III, I I, 462).

Pio VI, Costit. Auctorem fidei contro gli errori del Sinodo di Pistoia, 20 Ag. 1794, 16a . tra le proposizioni condannate:

« La dottrina del sinodo circa lo stato di fortunata innocenza, qual è presentato in Adamo prima del peccato, cioè in guisa da comprendere non soltanto l’integrità, ma pure la santità interiore con islancio a Dio per amor di carità, e inoltre una specie di ricostituzione, dopo la caduta, della primitiva santità; tal dottrina presa nel suo complesso insinua che quello stato fosse un corollario della creazione, dovuto per natural esigenza e condizione della natura umana, non un beneficio gratuito di Dio: è falsa, già condannata in Bajo e Quesnell, erronea, favorevole all’eresia pelagiana ».

(Bullarii Romani Continuatio, ed. Prati, t. VI, p. III, 2710).

DOMANDA 65a.

S. Giovanni Crisostomo, In Genesim, XIII, 1 :

« Hai visto come in grazia della parola ogni cosa è stata formata? Ma vediamo che cosa dica poi a proposito della creazione dell’uomo. E Dio formò l’uomo. Bada come, col temperar le parole, di cui si serve per adattarsi alla nostra insufficienza insegna tanto il modo quanto la diversità della creazione, in virtù della quale, per esprimermi umanamente, lo addita formato, a così dire, dalle mani di Dio, come s’esprime il profeta: Le tue mani m’hanno fatto e plasmato (Giobbe, X, 8) ». (P. G., 53, 106).

DOMANDA 66a.

S. Efrem, In Genesim, cap. 2:

« Veniamo a intendere che Adamo per tre capi fu creato a immagine e somiglianza di Dio. Ma non credere che sia chiamata immagine di Dio la esterna apparenza di Adamo, bensì l’anima formata del libero arbitrio, di potenza e d’impero sopra le altre creature; ossia, come ogni cosa è in mano e in potere di Dio, così ad Adamo fu soggettato il mondo. Anche ricevette pura e integra l’anima, quindi capace d’ogni virtù e divino carisma; finalmente l’intelletto e la ragione, colla quale capisce, distribuisce e ordina tutte le cose e talmente riesce a svolgersi in ogni senso e a formarsi d’ogni cosa l’immagine da sembrare che tutto sia come contenuto in lui solo ».

( S . Ephrem, Opera omnia, ed. Romana, I, syriace et latine, 128).

S. Basilio, Sermo asceticus, I:

« L’uomo fu fatto a immagine e somiglianza di Dio, (Gen., I, 26), ma il peccato, derivato da un trasporto dell’anima verso viziosi desiderii, deturpò la bellezza di quell’immagine. Orbene, Dio, che creò l’uomo, è vera vita. Pertanto colui che ha perduto la somiglianza di Dio, ha perduto anche la partecipazione della vita; chi poi è lontano da Dio non può vivere una vita felice. E allora ritorniamo allo stato primitivo di grazia, donde per il peccato siam decaduti; e di nuovo abbelliamoci a immagine di Dio ». (P. G., 31, 870, ss.).

S. Agostino, Enarratio in Ps. 49, 2:

« È chiaro, dunque, se li ha chiamati dei, che sono stati deificati dalla sua grazia e non generati dalla sua sostanza. Come difatti è atto a giustificare soltanto chi è giusto per se stesso e non per dono altrui, così a deificare è in grado solo colui che per sé stesso è Dio, non per partecipazione altrui. Ora chi giustifica anche deifica perché colla giustificazione rende figli di Dio. Diede infatti a loro la possibilità di diventar figli di Dio (Giov., I , 12). Se siam divenuti figli di Dio, siamo anche divenuti dei, ma per grazia dell’adottante, non della natura generatrice ». (P. L., 36, 565).

DOMANDA 74a.

Il Concilio Cartaginese ( 418) approvato da Zosimo, can. 2 contro i Pelagiani:

« Così pure fu decretato che sia scomunicato chiunque sostiene che i neonati non devono esser battezzati, oppure che sono bensì battezzati per la remissione dei peccati, ma che da Adamo non derivano pur l’ombra di colpa originale da espiarsi col lavacro di rigenerazione, sicché logicamente per essi la forma del battesimo « per la remissione de’ peccati » , s’intende non vera, ma falsa. Dacché il detto dell’Apostolo: Per via d’un solo uomo entrò nel mondo il peccato e per via del peccato la morte e così passò di uomo in uomo a tutti, perché in esso tutti peccarono (Ai Rom., V, 12) non ha da intendersi se non come l’intese sempre la Chiesa universale diffusa dappertutto. Di fatto per questa regola di fede anche i bambini, che in sé stessi nemmeno hanno ancor potuto commettere peccato di sorta, perciò son battezzati per la remissione, de’ peccati in quanto che in essi vien purificato per mezzo della rigenerazione ciò che contrassero per generazione ». (Mansi, III, 811).

II° Concilio di Orange (529) confermato da Bonifacio II, contro i Semipelagiani:

« Can. I. Chi afferma che per il peccato di prevaricazione d’Adamo non fu cangiato in peggio tutto l’uomo, cioè anima e corpo, ma, rimanendo invulnerata la libertà dell’anima, ammette soggetto a corruzione soltanto il corpo, contraddice, ingannato dall’errore di Pelagio, alla S. Scrittura, che dice: Perirà proprio l’anima che ha peccato (Ez., XVIII, 20); e: Non  sapete che, se ad uno vi rendete schiavi in obbedienza, schiavi rimanete di lui, al quale obbedite? (ai Rom., VI, 16); e ancora: Uno è dichiarato schiavo di colui, dal quale è vinto (I P di Piet., II, 19).

« Can. 2. Se alcuno afferma che soltanto ad Adamo, non alla sua discendenza, recò danno la sua prevaricazione, o almeno confessa che soltanto la morte del corpo, pena del peccato, non però anche il peccato, morte dell’anima, si sia propagato dal primo uomo al genere umano tutto, fa ingiustizia a Dio, perché contraddice all’Apostolo, il quale afferma: Per via d’un sol uomo entrò il peccato nel mondo e, per il peccato, la morte, e così la morte si propagò a tutti gli uomini, perché in quello tutti peccarono. (Ai Rom., V, 12) ». (Mansi, VIII, 712).

Concilio Fiorentino, Decretum prò Jacobitis:

« Crede fermamente, professa e insegna che nessuno mai, concepito di uomo e di donna, fu liberato dal dominio del demonio, se non per merito del mediatore fra Dio e gli uomini, Gesù Cristo Signor nostro, il quale, concepito senza peccato, nato e morto, da solo colla sua morte abbatté il nemico del genere umano, distruggendo i nostri peccati e dischiuse l’ingresso al regno de’ cieli, che il primo uomo con tutta la discendenza per cagione del proprio peccato aveva perduto. E tutte le sacre espressioni del Vecchio Testamento, i sacrifici, i sacramenti, le cerimonie additarono in antecedenza che un giorno sarebbe venuto ». (Mansi, XXXI, 1738).

Concilio di Trento, sess. V, Decretum de peccato originali:

« 1. Chi non professa che il primo uomo Adamo, dopo aver trasgredito nel Paradiso il comando di Dio, perdette all’istante la santità e giustizia, nella quale era stato stabilito, e che per tale colpa di prevaricazione incorse nell’ira e nello sdegno di Dio e perciò anche nella morte, che già prima Dio gli aveva minacciata, e insieme colla morte nella schiavitù del tiranno, che poi ebbe dominio di morte, cioè il Diavolo; e che tutto Adamo, anima e corpo, per quella colpa di prevaricazione fu cangiato in peggio, sia scomunicato.

« 2. Chi asserisce che la prevaricazione d’Adamo abbia soltanto a lui nociuto, non alla sua discendenza; che per sé  soltanto e non anche per noi abbia perduto la santità e la giustizia da Dio ricevuta e poi perduta; o che, infettatosi egli per il peccato di disobbedienza, abbia trasfuso per tutto il genere umano soltanto la morte e le pene corporali, non invece il peccato, che è morte dell’anima, sia scomunicato, perché  contraddice al detto dell’Apostolo: Per via d’un sol uomo entrò il peccato nel mondo e, per il peccato, la morte, e così la morte si propagò a tutti gli uomini, perché in quello peccarono tutti (Ai Rom., V, 12).

« 3. Chi asserisce che il suddetto peccato di Adamo, che è unico quanto all’origine e trasmesso a tutti per propagazione, non per imitazione, vale a dire proprio a ciascuno, si tolga o con le forze dell’umana natura, o con altro rimedio, che non siano i meriti del mediatore unico, Signor nostro Gesù Cristo, che nel suo sangue ci riconciliò con Dio, divenuto per noi giustizia, santificazione, redenzione (Ia ai Cor., I , 30); oppure nega che proprio il merito di Gesù Cristo si applica tanto ai bambini quanto agli adulti, per mezzo del Sacramento del Battesimo ritualmente conferito nella forma della Chiesa, sia scomunicato; difatti non c’è altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale possiamo noi salvarci (Atti, IV, 12). Quindi quel grido: Ecco l’agnello di Dio, ecco chi toglie i peccati del mondo (Giov., I, 29). E quell’altro: Tutti voi, che siete stati battezzati, vi siete rivestiti di Cristo (Ai Gal., III, 27).

« 4. Chi afferma che i neonati, fossero pure quelli di genitori già battezzati, non si devono battezzare; oppure che si battezzano sì per la remissione dei peccati, ma non contraggono da Adamo ombra di peccato originale, da doversi espiare nel lavacro di rigenerazione per ottenere la vita eterna; sicché logicamente la formola del Battesimo « in remissione de’ peccati » per essi ha da intendersi non vera, ma falsa, sia scomunicato; di fatti non altrimenti deve intendersi quel detto dell’Apostolo: Per via di un sol uomo entrò nel mondo il peccato e per il peccato la morte, e così la morte si propagò a tutti gli uomini, perché in quello tutti peccarono (Rom., V, 12), se non come sempre lo ha inteso la Chiesa universale diffusa dappertutto. Difatti in forza di questa norma di fede, secondo la tradizione degli Apostoli, anche i bambini, che nemmeno furono in grado mai di commettere da sé stessi peccato, perciò sono battezzati per la remissione de’ peccati in quanto che si purifica per rigenerazione in essi ciò che contrassero per generazione. Infatti se uno non rinasce nell’acqua e nello Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio (Gio., III, 5).

« 5. Chi sostiene che la colpa del peccato originale non viene rimessa, per la grazia di Gesù Cristo nostro Signore, la quale vien conferita nel Battesimo; oppure asserisce anche che non vien tolto tutto ciò, che ha vera e propria ragion di peccato, dicendo invece che semplicemente vien cancellato, o non imputato: sia scomunicato. Difatti in chi è rinato pel Battesimo Dio non ha nulla da odiare, perché in essi non vi è più causa di dannazione, dal momento che davvero sono stati sepolti insieme con Cristo a morte per virtù del Battesimo (Rom., VI, 4); che non vivono più secondo la carne (Rom., VIII, 1), ma smesso l’uomo vecchio e rivestito il nuovo, che fu creato secondo il disegno di Dio (Ef., IV, 22) son divenuti innocenti, immacolati, puri, senza colpa e cari a Dio, eredi di Dio e coeredi di Cristo (Rom., VIII, 17); sicché niente più impedisce loro l’ingresso al cielo. Questo santo Sinodo invece professa e pensa che ne’ battezzati rimane la concupiscenza, ossia fomite, la quale, siccome rimane per il combattimento, non può nuocere a chi non consente, ma virilmente s’oppone per la grazia di Gesù Cristo; che anzi chi combatterà lealmente, sarà coronato (II Tim., II, 5). Questa concupiscenza l’Apostolo qualche volta la chiama peccato; orbene il sacro Sinodo dichiara che mai la Chiesa Cattolica intese chiamarla peccato perché davvero e propriamente sia un peccato, ma perché deriva dal peccato e al peccato induce. Che se alcuno pensa il contrario, sia scomunicato.

« 6. Tuttavia questo sacro Sinodo dichiara che non intende di comprendere in questo decreto, dove si parla del peccato originale, la beata e immacolata Vergine Maria, madre di Dio; ma che siano osservate le Costituzioni di Papa Sisto IV di f. m., sotto le pene che vi si contengono e che ora rinnova ».

Pio IX, Allocuz. Singulari quadam, 9 die. 1854:

« E questi seguaci, o meglio idolatri, della ragione umana, che se la propongono come una vera maestra e sotto la sua guida si ripromettono ogni prosperità, hanno certamente dimenticato quanto grave e dolorosa ferita sia stata inflitta all’umana natura dalla colpa del progenitore, in quanto la mente fu ottenebrata e la volontà divenne proclive al male. Perciò anche i più famosi filosofi fin da’ tempi più antichi, pure scrivendo di cose eccellenti, tuttavia contaminarono i loro insegnamenti con errori gravissimi; e di qui quell’incessante lotta, che sperimentiamo dentro di noi, così rappresentata dall’Apostolo: Sento nelle mie membra una legge che ripugna alla legge della mia coscienza (Rom,, VII, 23) ».

(Acta Pii IX, p. I, I, 624).

S. Cirillo Alessandrino, In Epist. ad Rom., al V, 18 :

« Ma noi siam divenuti peccatori per la disobbedienza di Adamo in questo modo preciso: egli era stato creato sì per la vita incorruttibile, e innocenti erano i suoi costumi nel paradiso delle delizie, intenta sempre alla contemplazione di Dio la mente, intatto e calmo il corpo, scevro d’ogni turpe piacere, perché non vi ribollivano passioni. Ma, poiché cadde in peccato e fu soggetto a corruzione, subito irruppero nella corporal natura le impure compiacenze e scaturì dentro noi la fiera legge delle membra. Dunque la natura per la disobbedienza d’un solo, cioè d’Adamo, contrasse il morbo del peccato, e così molti furono i costituiti nella condizione di peccatori, non perché abbian peccato in compagnia di Adamo, dal momento che ancor non esistevano, ma perché son della stessa natura di Adamo, caduta sotto la legge del peccato ». (P. G., 74, 790).

DOMANDA 75a.

Concilio di Trento: V. Dom. 74a.

Sisto IV, Costit. Cam præexcelsa, 28 febbr. 1476:

« Riteniamo giusto, anzi un dovere d’invitare con le indulgenze e col perdono de’ peccati tutti quanti i fedeli di Cristo, affinché ringrazino e lodino il Signore Dio onnipotente…. per la mirabile concezione dell’Immacolata Vergine e offrano le Messe e gli altri divini uffici a questo fine stabiliti e vi prendano parte ».

(Extra comm., III, 12, 1 e 2).

Pio IX, Costit. Ineffabilis Deus, 8 dic. 1854:

« A onore della santa e individua Trinità, a decoro e splendore della Vergine Madre di Dio, per l’esaltazione della fede cattolica e l’accrescimento della cristiana religione, coll’autorità del Signor nostro Gesù Cristo, de’ beati Apostoli Pietro e Paolo e Nostra, dichiariamo, proclamiamo e definiamo che la dottrina secondo la quale la beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua concezione fu, per singolar grazia e privilegio di Dio onnipotente, in vista de’ meriti di Cristo Gesù Salvatore del genere umano, preservata immune da ogni macchia di colpa originale, è dottrina rivelata da Dio e perciò i fedeli tutti la devono credere fermamente e costantemente. Quindi coloro che presumeranno (Dio non voglia) pensare diversamente da quanto Noi abbiam definito, conoscano e sappiano bene che, condannati dal loro stesso giudizio, essi hanno fatto naufragio circa la fede e si sono separati dall’unità della Chiesa e inoltre, con ciò, da sé stessi vanno soggetti alle pene stabilite dal diritto, se a parole o per iscritto o con qualsiasi mezzo esteriore oseranno significare quel che pensano in cuor loro ». (Acta Pii IX, p. I, I, 616).

S. Efrem, Carmina Nisibena, XXVII, 8:

« Davvero tu (Signore) e la madre tua siete i soli belli in tutto; difatti non c’è ombra in te, Signore, e nessuna macchia nella madre tua ».

(Ed. G. Biekell, p. 122-123).

S. Agostino, De natura et gratia, 42:

« Eccettuata dunque la santa Vergine Maria, della quale per onor di Dio non voglio nemmeno discutere, quando si parla di peccati (e difatti donde possiam sapere che maggior grazia le sia stata concessa per vincere in ogni parte il peccato, dal momento che meritò di concepire e generare Chi sappiam bene che non ebbe peccato?) dunque, eccettuata la Vergine, se potessimo radunare e interrogare tutti que’ santi e sante se fossero o no senza peccato, quando vivevano in terra, che cosa crediamo che risponderebbero? Forse quel che afferma costui (Pelagio) oppure l’apostolo Giovanni? Di grazia, non esclamerebbero a una voce, per quanto grande sia stata in questa vita l’eccellenza di santità: Se dicessimo che non abbiam peccato, c’inganniamo da noi stessi e non è in noi la verità ( I Giov., I , 8) ». (P. L., 44, 267).

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (22)

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (55) LA VERA E LA FALSA FEDE -X.-

LA VERA E LA FALSA FEDE –IX.-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

PARTE SECONDA.

S I CONFERMA ULTERIORMENTE LA VERITÀ DELLE ESPOSTE DOTTRINE

§ XVII. – I protestanti sono pure obbligati dai loro principj a riguardare, come riguardano difatti, ogni religione buona per salvarsi. Quanto questa opinione è empia ed assurda. Devono altresì essere, come sono, indifferenti per la pretesa loro religione. Questa loro indifferenza è manifesta dal loro sistema di educazione, di predicazione e d’insegnamento: più che mai però apparisce chiara dal loro culto pubblico e dal disprezzo in che lo tengono. 1 protestanti di Amburgo.

Parto mostruoso di questa tolleranza dottrinale e teologica degli eretici sono le due orribili massime uscite dall’abisso del protestantismo cioè: 1.° Ogni uomo si può salvarsi nella sua religione. 2.° Un uomo onesto non cambia mai religione; quanto dire che, a giudizio dei protestanti, tutte le religioni sono egualmente buone. Ed in verità che l’eretico infatti non può pensare altrimenti. Subito che non vi è, né per lui né per gli altri, alcuna certezza di essere nel vero, subito che parte egli dalla dottrina che fa dipendere dalla privata ragione di ognuno l’esame e la decisione della bontà di una setta o di una religione; è di tutta necessità obbligato a riconoscere per buona ogni religione che ognuno sulla testimonianza della propria ragione tiene per buona, come egli stesso sulla stessa testimonianza tiene per buona la propria. Né ha il diritto di dire che nella propria religione si trova la salute e la dannazione in quella degli altri. Forse dirà che gli altri per mancanza d’ingegno non ragionano bene? ma la mancanza d’ingegno è una disgrazia e non già una colpa; non può dunque egli ragionevolmente escludere dall’eterna salute colui che si è arrestato ad una religione che la scarsezza del suo ingegno non gli ha permesso di conoscere che è cattiva. Quindi l’eresia sotto pena di contradizione e d’ingiustizia, è obbligata ad allargare le vie della salute agli uomini di tutte le religioni, di tutte le sette; è obbligata a proclamare che ogni religione è buona per andar salvo. E poiché in quantunque religione in cui l’uomo si trova si può salvare, e non vi è alcuna necessità di cambiar religione per assicurare l’eterna salute, ha dovuto altresì proclamare quest’altra massima, di cui abbiamo di già notata e l’empietà e la follia, cioè che un uomo onesto non cambia mai religione. E di fatti i libri dei protestanti inglesi sono ripieni di queste massime; né fanno un mistero di questa loro opinione, che discende come una conseguenza necessaria dei loro principi: Che non solo gli eretici di tutte le comunioni e di tulle le sette, ma anche i maomettani e gl’idolatri si salvano, restando nelle rispettive loro religioni. E mirate generosità di questi eretici: spingono essi la loro carità, onde abbracciano i popoli e le nazioni, sino a noi Cattolici; e concedono pure a noi, di potere, nella nostra religione, conseguir la salute!!! – Ma se queste strane massime non sono contrarie alla logica degli eretici, lo sono però al senso comune degli uomini; e di più sono tanto orribilmente empie quanto manifestamente assurde. Imperciocché dire che ogni uomo si può salvare nella propria religione è lo stesso che dire che ogni religione è egualmente buona. Dire che ogni religione è egualmente buona è lo stesso che dire che ogni religione è egualmente vera; giacché non può essere buona una religione che non è vera. Ma la maggior parte delle religioni sono non solo diverse, ma ancora contradittorie fra loro. Il giudaismo è contrario dell’idolatria, il Cristianesimo del giudaismo e del maomettanismo; lo scisma greco del protestantismo; il Cattolicismo, di tutte l’eresie. Dire adunque che tutte queste religioni sono egualmente vero è lo stesso che dire che è vero che vi è un Dio, è vero che vi sono più dei; che è vero che Gesù Cristo è Dio, e vero che non è se non  uomo; che è vero che il Cristianesimo è una religione divina, e vero che è una religione umana; che è vero che l’autorità legittima di spiegar la Scrittura appartiene alla Chiesa, e vero che quest’autorità appartiene solo alla ragione. È insomma lo stesso che ammettere che una stessa cosa è allo stesso tempo vera e non vera: è un ammettere la più manifesta assurdità. – Che se si dice che, senza esser tutte vere le religioni, sono però tutte egualmente buone per la salute, non si sfugge l’assurdità che per cadere nella bestemmia. Perché, ciò vuol dire che Dio, avendo fatta una rivelazione, avendo pubblicata una legge, avendo compiuta una redenzione, è poi indifferente  che l’uomo creda a questa rivelazione, o la impugni: abbia fede a questa redenzione, o lametta in ridicolo; adempia a questa legge, o la calpesti; che Dio riceve un culto degno di Lui tanto dalle superstizioni idolatre, dalle turpitudini maomettane, dalla perfidia giudaica, e dall’orgoglio dell’eresia, quanto dalla fede santa e pura della Chiesa Cattolica; in una parola, che Dio apre le porte del suo paradiso egualmente alla santità e al delitto, e ricompensa egualmente la virtù e il vizio, chi l’onora e chi lo bestemmia. – Ora non è più ragionevole il non ammettere alcuna rivelazione celeste di quello che ammetterne una che non è affatto necessaria il credere? Non è più ragionevole il non ammettere alcuna legge, alcuna religione divina, di quello che ammetterne una che non è necessario affatto il praticare, ed a cui senza alcun inconveniente, senza alcun pericolo per l’eterna salute si può sostituirne un’altra ispirata dal capriccio e dalle passioni umane? Non è più ragionevole il non ammettere alcun paradiso di quello che ammetterne uno aperto egualmente all’errore e alla verità, al vizio ed alla virtù? Finalmente, lo dirò io?… Non è più ragionevole il non ammettere alcun Dio di quello che ammetterne uno, alla foggia di quello di Epicuro, che non si cura affatto degli uomini: che né gradisce i loro omaggi sinceri, né si offende dei loro oltraggi; e che guarda collo stesso occhio d’indifferenza ogni specie di sacrificio ed ogni specie di delitto, e l’anima generosa che per Lui s’immola e l’anima idolatra di se stessa che si ride di Lui? Perciò tollerare teologicamente come fanno i protestanti, tutte le religioni, ammetterne indistintamente tutti i seguaci a partecipare all’eterna salute è lo stesso che negare l’esistenza di ogni rivelazione divina di ogni religione vera, di ogni legge, di ogni culto, di ogni ricompensa, di ogni divinità. Avea dunque ben ragione Fénélon di dire che « tra la Religione Cattolica, unica, vera, e l’ateismo puro, non vi è alcun mezzo ragionevole. « Imperciocché, disprezzando l’autorità divina, su cui la vera Religione è fondata, e riportandosi alla sola ragion privata in materia di religione, uno spirito veramente logico di conseguenza in conseguenza si vedrà trascinato a negar tutto fino Dio stesso. Quindi ancora la fredda indifferenza in cui sono caduti i protestanti di Germania e d’Inghilterra intorno al protestantismo considerato come dottrina religiosa, mentre che sono tenaci sino all’ostinazione, zelanti sino al fanatismo del protestantismo in quanto è istituzione politica e religione dello stato. La ragione di ciò si è che, in quanto è religione dello stato, l’eresia assicura a quelli che ne hanno il monopolio grandi dignità, grandi ricchezze e grandi privilegi. Il clero ammogliato dell’Inghilterra non è infatti esso solo più riccamente retribuito del clero cattolico, preso insieme, di tutto l’universo? Ma in quanto è dottrina teologica, non essendo l’eresia che un affare di pura opinione, che non apporta nulla di utile per la vita presente e non promette nulla di sicuro per la futura, non può destare e non desta che indifferenza. – Perciò, eccettuato il popolo , che anche nei paesi protestanti o scismatici è sempre più o meno religioso, giacché non può e non sa formarsi un’opinione sulla religione, ma la riceve dagli egregi apostoli della ragione che gliela pongono per le vie della forza e dell’autorità; i grandi poi, i ricchi, gli scienziati non hanno per lo più altra religione fuorché la indifferenza sulla religione, che non è in sostanza che un ateismo mascherato. E sebbene questo spirito di ateismo pratico, che si trova nel fondo di tutti i sistemi di errore, per un avanzo ben piccolo di verecondia, non osa che tremando di prodursi alla luce del giorno colle parole, si manifesta abbastanza però nel linguaggio ancora più eloquente dei fatti e della condotta. – Penetrate nell’interno delle famiglie protestanti, e vedrete la poca e nessuna importanza che vi si attacca alla religione cristiana. Lo zelo e la premura che le madri veramente cristiane hanno fra noi che i loro figliuoletti consacrino a Dio che li ha creati, le primizie della loro intelligenza, del loro cuore, della loro lingua; e perciò additano loro Iddio nel cielo, li avvezzano a pronunziare pria di tutto i nomi dolcissimi di Gesù e di Maria, ed insegnano loro l’Ave Maria, il Pater, il Credo e gli atti cristiani; queste sante industrie della vera fede sono ignote affatto nel seno delle famiglie protestanti. Le prime lezioni che vi si danno ai fanciulli riguardano il corpo, la terra, il tempo: nulla desta nella 1oro mente di bambina idee di Dio, dell’anima, del ciclo, dell’eternità. Tutta l’istruzione morale che si dà alle fanciulle in particolare si riduce al precetto di essere sagge, colla glossa che essere sagge significa non mentire, non nominare la coscia, e dire gamba di pollo e non mai coscia di pollo, e sapersi tener ritte colla vita e mantenersi pulite nella persona… I pagani insegnano qualche cosa di più alle loro figliuole. Quando poi il fanciullo è giunto all’età della ragione e sa sufficientemente leggere, gli si dà in mano la Bibbia tradotta in volgare e si lascia che la intenda come gli pare, che ne creda quanto e come gli pare; onde più tardi, tra le tante sette da cui si vedrà circondato al metter piede fuori di casa o nella casa sua propria, si determini per quella che più gli pare confacente ai suoi gusti e ai suoi capricci, o non si determini per nessuna, salvo il giurare o più presto spergiurare la confessione di Augusta, o i trentanove articoli, e il dirsi protestante o anglicano. Oh educazione che non è se non indifferenza assoluta ed il più profondo disprezzo del Cristianesimo! Ora siffatti uomini chiamateli. se vi dà l’animo, cristiani. – Ma qual meraviglia che i laici siano indifferenti quando e molto più lo sono i sacerdoti, i pontefici dell’eresia? Considerate la predicazione protestante. I dommi ne sono sbanditi. Ed a che parlarne, subito che essi non sono più che semplici opinioni per chi parla non meno che per chi ascolta? ed opinioni intorno alle quali chi parla non è d’accordo con chi ascolta, e sulle quali, tra quei due che ascoltano, non si trovano nemmen due soli che opinino allo stesso modo? Le prediche protestanti non sono adunque sermoni cristiani, ma dissertazioni accademiche, fredde e fastidiose dicerie sopra un qualche punto di morale evangelica, esposto colla stessa indifferenza, colla stessa freddezza, come se si trattasse di una morale puramente filosofica ed umana, e che non distruggono alcun vizio, non persuadono alcuna virtù e non migliorano alcuno. Né è raro l’udire dalla bocca di questi egregi cristiani lo stesso Gesù Cristo messo a confronto e trattato collo stesso rispetto o piuttosto collo stesso disprezzo di Socrate e di Marco Aurelio. Lo stesso sintomo d’indifferenza si manifesta nell’insegnamento teologico delle università. A questo insegnamento si concorre da prima per ispirito di mero interesse, per acquistarvi un requisito, un titolo onde fare il ministro o il pastore evangelico, come si studia la medicina per fare il medico, e la legge per fare l’avvocato: giacché in questi paesi il ministro ecclesiastico non è altrimenti una vocazione, ma una professione, un mestiere come ogni altro, e men nobile di ogni altro. In quanto poi alla scienza teologica, vi si attacca minore importanza che alla scienza della chimica o della medicina. Simili agli antichi accademici che, formati alla dottrina di Socrate e di Platone, proponevano ai loro uditori il prò ed il contra sopra ciascuna delle grandi tesi della religione primitiva, i professori della teologia protestante non fanno per lo più altro che mettere sotto gli occhi dei loro uditori il prò ed il contra sulle grandi tesi della religione cristiana, lasciando ad ognuno la libertà di ritenere ciò che gli è sembrato, ragionevole. Non insegnano a credere, ma a dubitare. Non spiegano misteri, ma propongono enimmi. Maestri senza convincimento formano discepoli senza scienza. Ed è singolare il contrasto che offrono, l’indifferenza che traspira da tutte le parole del maestro e la noja che si manifesta da tutti i movimenti de’ suoi discepoli. – Quest’indifferenza si manifesta più chiaramente ancora nel culto protestante. Il culto religioso è l’espressione o la manifestazione pubblica e solenne delle credenze di un popolo. Ora dove non vi sono credenze comuni, ma tante opinioni religiose quanti sono individui, non vi può esser un culto comune: e volendolo assolutamente stabilire, per dare ad intendere alla moltitudine che un culto comune sussiste, deve essere un culto negativo, non già che esprima l’orribile anarchia di tutte le opinioni, ma che tutte le tolleri, le approvi, le sanzioni, e che non ne offenda veruna: cioè a dire un culto che non è culto; un culto che annunzj la distruzione di ogni culto, come la opinione indica la distruzione di ogni fede. Ora tale appunto si è il culto protestante. – Nessuna cerimonia vi è in esso, nessun segno che esprima un domma qualunque. Ma tutto vi si riduce ad un freddo sermone, pronunciato senza convincimento ed ascoltato con indifferenza, o alla lettura di un qualche capitolo della Bibbia, che ognuno intende a suo modo, ed alla recita di preghiere e di cantici senza unzione, senza sentimento, in cui nulla si chiede, e con cui non si spera di ottener nulla. – I luterani ammettono è vero la presenza reale; siccome però chi l’ammette col pane, chi nel pane e chi sotto il pane, e le opinioni anche su questo punto variano all’infinito: così hanno esse lo stesso valore dell’opinione dei calvinisti e degli anglicani, che presenza reale non ammettono affatto: e l’affermazione degli uni e la negazione degli altri, non essendo un domina, ma un’opinione, e questa, a giudizio comune, né fondamentale né importante: la verità si è che è spenta egualmente tra tutti ogni credenza effettiva, ogni fede formale teologica nella presenza di Gesù Cristo nell’Eucaristia. Or senza l’Eucaristia non vi è sacrificio, senza sacrificio non vi è culto, senza culto non vi è religione. Difatti ciò che colpisce di più il Cristiano che crede e che sente, si è l’assenza assolata di ogni segno di religione nei templi dei protestanti e nelle loro cerimonie religiose. Poiché un magazzino non è una chiesa: un tavolino non è un altare; il mangiare un pezzetto di azimo insieme non è un sacrificio; un discorso accademico non è una predica; un pover uomo togato non è un sacerdote. Qual differenza tra questo culto, freddo come la ragione di cui è l’espressione, e la maestà e il sentimento sublime del culto cattolico, espressione della vera fede, che parla sì altamente all’intelligenza, che commuove profondamente il cuore e lo solleva e lo innalza e lo divinizza? Perciò gli stessi protestanti, in cui il filosofismo e il raziocinio non hanno estinto ogni sentimento religioso, assistono con piacere e con meraviglia alle nostre feste, e moltissimi ogni giorno ritornano alla nostra fede soggiogati dalla grandezza del nostro culto. In quanto al culto loro, non vi attaccano la minima importanza. – Perciò nessuno di quelli cui ciò incomberebbe si dà il minimo pensiero per promuoverne la frequenza. In molte citta dell’Inghilterra di nuova data, per una popolazione di sessanta o ottantamila anime, non vi è che uno o due templi incapaci tutti e due di contenere più di tremila posti; e questi tremila posti sono affittati alle ricche famiglie, e nessuno può occuparli. Or siccome il così detto servizio religioso non si fa che una volta sola nelle domeniche, così è chiaro che la totalità dei cittadini è fisicamente esclusa dall’assistere al culto della sua religione: e le autorità protestanti, ecclesiastiche e civili, vedono con indifferenza questo disordine che allontana la massa del popolo da ogni pratica religiosa. È l’eresia, che si è arricchita delle opime spoglie del Cattolicesimo, e che retribuisce i suoi ministri sì strabocchevolmente che ce ne hanno per mantenere palazzi spiranti lusso e mollezza profana, copiosa servitù, ricche carrozze, cacce clamorose, deliziose campagne, non solo per sé ma per le loro mogli e per i loro figliuoli, per le loro nuore, per i loro generi, per le loro sorelle, pei loro nipoti: l’eresia, dico, che profonde tante ricchezze a ricompensare la servitù abbietta de’ suoi ministri, non trova poi un obolo per edificare templi dove il popolo possa raccogliersi e ricordarsi almeno una volta la settimana che vi è Iddio. Ah! questi bravi uomini rendono essi stessi giustizia al loro culto e alla loro fede. Sanno pur troppo che un sì povero culto, figlio di una sì povera fede, non è né grato a Dio, né necessario, né utile agli uomini. Il denaro che s’impiegasse a dilatarlo, a promuoverlo, sarebbe buttato; ed è meglio adoperarlo a fabbricare officine mercantili che almeno rendono, o teatri che almeno divertono. Intervengono, è vero, i protestanti a questo culto sì meschino, vi assistono: ma più come ad una cerimonia umana che come ad una funzione divina; la riguardano più come un affare di mera convenienza sociale che come un obbligo morale di religione. – Questo sentimento di noncuranza e di disprezzo del culto protestante, i protestanti di Amburgo Io manifestano in una maniera pubblica e solenne, e che sarebbe ridicola, se non fosse sacrilega. Un testimonio oculare ci ha riferito che, di passaggio nell’indicata città, in giorno di domenica, vide ingombra di carrozze tutta la gran piazza dirimpetto all’antica cattedrale cattolica, cambiata dall’eresia in tempio protestante. Credendo adunque che i padroni di quelle carrozze fossero in Chiesa ad assistere il servizio divino, qual fu perciò la sua sorpresa allorché, entrato nel tempio, lo trovò affatto deserto? ed avendo ricercato « che stavano dunque a fare sulla piazza quelle carrozze? » ne ebbe in risposta: « Che i ricchi ed i signori protestanti, non usando più di andare in chiesa nei dì festivi, vi mandavano le loro carrozze ad onorarne la piazza. « Oh uomini veramente religiosi e pii! che, non potendo andare di persona in chiesa a render culto al Signore, ed essendo troppo lusso di religione il farsi rappresentare in chiesa dai loro domestici, si fanno rappresentare sulla piazza dai loro cavalli! Ora può mai immaginarsi, dalla parte dei protestanti medesimi, atto non dico di maggiore indifferenza, ma di maggior insulto e di maggior disprezzo pel culto protestante? Ecco frattanto a che miseria, a che degradazione il protestantismo ha fatto discendere la religione!

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (20)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (20)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

TESTIMONIANZE DEI CONCILI ECUMENICI DEI ROMANI PONTEFICI, DEI SANTI PADRI E DELLE SACRE CONGREGAZIONI ROMANE CHE SI CITANO NEL CATECHISMO

DOMANDA 2°

Concilio di Firenze: Vedi la Domanda 349; Concilio di Trento: D. 532.

Benedetto XV, Encicl. Ad Beatissimi, 1 nov. 1914:

« L’essenza e la natura della fede cattolica è siffatta, che nulla le si può aggiungere, nulla togliere: o si ritiene per intero, o per intero si respinge: « Tale è la fede cattolica, che nessuno, senza averla creduta con fedeltà e fermezza, potrà andar salvo (Simb. Atanas.). Non v’ha dunque necessità di aggiungere epiteti alla professione del Cattolicismo; basti a ciascuno di dire così: « Cristiano il mio nome e cattolico il mio cognome » (S. Paciano, Epist. prima; P. L., 13, 1055); soltanto si studi essere veramente tale, quale si denomina ». (Aeta Apostolicæ Sedis, VI, 577).

DOMANDA 4°

S. Agostino: In Joannem, CXVIII, 5:

« Qual è quel segno di Cristo che tutti conoscono se non la croce di Cristo? E se questo non è applicato o sulle fronti dei credenti, o all’acqua stessa con la quale sono rigenerati, o all’olio col quale sono unti per crisma, o al sacrificio dal quale son nutriti, nulla si compie secondo il rito ». ( P. L., 35, 1950).

DOMANDA 5°.

Innocenzo III, De sacro Altaris mysterio, I I , 45:

« Il segno poi della Croce si deve far con tre dita, giacché lo si compie invocando la Trinità…. così che discenda dall’alto in basso e dalla destra passi alla sinistra…. Alcuni tuttavia fanno il segno di Croce da sinistra a destra…. specialmente per segnare in un solo e identico modo se stessi ed altri ». (P. L., 217, 825).

DOMANDA 7°.

Concilio Vaticano, Constit. Dei Fìlius, cap. 4:

« Oltre quelle verità, che la ragione umana può raggiungere, ci si propongono da credere misteri nascosti in Dio, che, senza la divina rivelazione, non si possono conoscere…. I divini misteri, per loro stessa natura, superano talmente l’intelletto creato che, anche conosciuti per la rivelazione e creduti per la fede, rimangono tuttavia nascosti nel velo della fede stessa, e avvolti quasi come in una nebbia, fino a che in questa vita mortale siam pellegrini lontani da Dio ».

Pio IX, Epist. Tuas libenter, 21 dic. 1863, agli arcivescovi di Monaco e di Frisinga:

« Non vogliamo perciò nemmeno dubitare che i membri dell’Assemblea stessa, conoscendo e professando la ricordata verità, non abbian voluto a un tempo respingere e riprovare apertamente quello strano filosofar moderno che, pur ammettendo la divina rivelazione come fatto storico, tuttavia sottopone alle indagini della ragione umana le misteriose verità, dalla stessa divina rivelazione proposte, come se quelle verità fossero soggette alla ragione, o quasi che la ragione potesse, in forza de’ suoi principi, studiare e comprendere tutte le verità e i misteri soprannaturali della nostra santissima fede, i quali trascendono l’umana ragione talmente, che questa non potrà mai né comprenderli né dimostrarli colle sue sole forze e in base a principi meramente naturali ».

(Acta Pii IX, I, III, 641).

DOMANDA 12°.

Concilio Vaticano, Constit. Dei Filius, cap. 2:

« La stessa santa madre Chiesa crede e insegna che Dio, come principio e fine di tutte le cose, può certamente esser conosciuto col lume naturale dell’umana ragione dalle cose create; perché le cose invisibili di lui, da dopo la creazione del mondo, si sono rese, per mezzo delle creature, palesi all’intelligenza (Rom., I, 20); tuttavia piacque alla sapienza e alla bontà di Dio di rivelare, per altra via, cioè soprannaturale, se stesso e i decreti eterni della sua volontà, come dice l’Apostolo: – Dopo aver molte volte e in molti modi parlato anticamente ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi tempi Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio » (ad Hebr., I, I e segg.). 1

Idem., 1. c., canone I, De revelatione: 1

« Se alcuno dirà che il Dio uno e vero, Creatore e Signore nostro, non si può certamente conoscere col lume naturale della ragione umana, per mezzo delle creature, sia scomunicato ».

Pio X, Dal Motu proprio Sacrorum Antistitum, 1 settembre 1910, Giuramento contro gli errori del modernismo:

« Io…. accolgo e accetto fermamente tutte e singole le verità che furono definite, affermate, dichiarate dall’infallibile magistero della Chiesa, specialmente quei punti di dottrina, che direttamente s’oppongono agli errori contemporanei. E in primo luogo professo che Dio, come principio e fine di tutta le cose, può essere con certezza conosciuto e perciò anche dimostrato, col lume naturale della ragione per mezzo delle cose create, cioè delle opere visibili della creazione ».

(Acta Apost. Sedis, II, 669).

S. Ireneo, Adversus haereses, II, 9, 1:

« La stessa condizione (del mondo) mostra chi l’ha creato; e la creatura il suo Creatore; e il mondo proclama chi l’ha ordinato. Orbene, la Chiesa universale ricevette questa tradizione dagli Apostoli ».

(P. G., 7, 734).

S. Agostino, Sermo 141, 2:

« Donde questi empi (Rom., I , 18) appresero la verità? Iddio forse parlò a qualcuno di loro? Ricevettero forse la legge, come il popolo Israelita, per mezzo di Mosè? Donde dunque appresero il vero persino vivendo in mezzo all’iniquità? – Udite quel che segue ed è chiaro: « Perché ciò che può conoscersi di Dio, dice, è manifesto in essi: avendolo Dio loro manifestato » (ibid., 19). Lo manifestò a loro, ai quali non diede la legge? Senti come lo manifestò: « Perché le cose invisibili di Lui sono rese visibili all’intelligenza per mezzo delle creature » (ibid., 20). Interroga il mondo, la bellezza del cielo, lo splendore e l’ordine delle stelle…. interroga tutte le cose e rifletti se non ti rispondono con un loro linguaggio: ci ha fatto Iddio. Interrogarono tutto ciò anche celebri filosofi e dall’arte conobbero l’artefice ».

(P. L., 38, 776).

DOMANDA 13°

Concilio Vaticano: Vedi Domanda 12.

DOMANDA 17°.

Concilio Vaticano, 1. c., capo 2:

« È merito di questa divina rivelazione se le verità divine, che per sé non trascendono la umana ragione, anche nello stato presente del genere umano, da tutti si possono conoscere senza difficoltà, sicuramente, senza alcun errore ».

DOMANDA 18°.

Concilio Vaticano, 1. c, capo 3.

« Nondimeno, affinché l’ossequio della nostra fede fosse consentaneo alla ragione, Dio volle agli aiuti interni dello Spirito santo, aggiungere gli argomenti della sua rivelazione, cioè i fatti divini, e soprattutto i miracoli e le profezie che, siccome dimostrano magnificamente l’onnipotenza di Dio e la sua infinita sapienza, sono segni certissimi della divina rivelazione, e adatti all’intelligenza di tutti».

Origene, Contra Celsum, VI, 10:

« È una caratteristica propria della divinità predire il futuro in modo che la ragione della profezia superi le forze urnane e, dall’essersi avverata, si debba giudicare che l’autore è lo Spirito Santo ».

(P. G., II, 1306).

DOMANDA 21a.

S. Teofilo Antiocheno, Ad Autolycum, I I I , 12 :

« Le sentenze dei Profeti e degli Evangelisti sono concordi, perché tutti hanno parlato ispirati dall’unico Spirito di Dio ».

(P. G., 1138).

S. Epifanio, Adversus hæreses, Hær. 61, 6:

« Ma è necessaria anche la tradizione: perché non si può attinger tutto alle Scritture. Perciò i santissimi Apostoli consegnarono alcune cose allo scritto, altre alla tradizione ».

DOMANDA 23a.

Concilio Tridentino, sess. IV, Decretum de Canonicis Scripturis:

« Il sacrosanto ecumenico e generale Sinodo Tridentino… proponendosi continuamente di conservare nella Chiesa, tolti via gli errori, la purezza stessa del Vangelo, che, già promesso dai Profeti nelle Sacre Scritture, nostro Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, dapprima promulgò di propria bocca, poi, per mezzo degli Apostoli, fece predicare a ogni creatura (Matth., XXVIII, 19 ss.; Marc. XVI, 15) come sorgente d’ogni verità salutare e della disciplina morale: osservando inoltre che tale verità e disciplina sono contenute ne’ libri santi, nelle tradizioni non scritte, le quali direttamente comunicate da Cristo agli Apostoli o da questi tramandate, per così dire, a mano sotto dettatura dello Spirito Santo, son giunte fino a noi; seguendo l’esempio de’ Padri ortodossi, accoglie e venera con pari amore e riverenza tutti i libri tanto del Vecchio quanto del Nuovo Testamento, essendone autore l’unico Dio, e le tradizioni stesse, riguardanti la fede e i costumi, come ricevute per bocca da Cristo, o per dettatura dallo Spirito Santo, e conservatesi con perpetua successione nella Chiesa Cattolica. Inoltre crede bene inserire a questo decreto un indice de’ libri sacri, affinché nessun dubbio possa sorgere quali sieno i libri che dal Sinodo stesso sono accettati. E precisamente: Del Vecchio Testamento i cinque di Mosè, vale a dire Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio; il libro di Giosuè, de’ Giudici, di Ruth, i quattro dei Re, i due dei Paralipomeni, il primo di Esdra e il secondo detto Neemia, quel di Tobia, di Giuditta, di Esther, di Giobbe, il Salterio Davidico di 150 Salmi, le Parabole, l’Ecclesiaste, il Cantico dei Cantici, la Sapienza, l’Ecclesiastico, Isaia, Geremia con Baruch, Ezechiele, Daniele, i 12 Profeti minori, cioè Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Nahum, Habacuc, Sofonia, Aggeo, Zacharia, Malachia; due de’ Maccabei, primo e secondo; del Nuovo Testamento i quattro Vangeli, secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni; gli Atti degli Apostoli compilati dall’Evangelista Luca; 14 Lettere di Paolo Apostolo, quella ai Romani, 2 ai Corinti, quella ai Galati, agli Efesini, ai Filippesi, ai Colossesi, due ai Tessalonicesi, due a Timoteo, quella a Tito, a Filemone, agli Ebrei; dell’Apostolo Pietro due, di Giovanni Apostolo tre, una di Giacomo apostolo, una di Giuda Apostolo e l’Apocalisse di Giovanni Apostolo. – Anatema a chi non accoglierà come sacri e canonici que’ libri per intero con ogni lor parte, secondo che si soglion leggere nella Chiesa Cattolica e quali si hanno nell’antica edizione volgata latina; e a chi disprezzerà scientemente e a bello studio le predette tradizioni ».

Concilio Vaticano, Costit. Dei Filius, cap. 2:

« Orbene questa rivelazione soprannaturale, secondo la fede della Chiesa universale dichiarata dal santo Sinodo Tridentino, è contenuta « ne’ libri scritti e nelle tradizioni non scritte quali pervennero a noi, o accolte dagli Apostoli dalla bocca di Cristo stesso o comunicate quasi per mano agli Apostoli stessi per dettatura dello Spirito Santo » . Ora questi libri del Vecchio e Nuovo Testamento, per intero colle loro parti tutte, secondo che sono enumerati nel decreto del medesimo Concilio e si hanno nell’edizione antica volgata latina, sono da accogliersi come sacri e canonici non perché, messi insieme per solo studio umano, siano stati poi approvati autorevolmente da lei; e nemmeno soltanto perché contengono la rivelazione senza errore; ma perché, scritti sotto ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali furono consegnati alla Chiesa stessa ».

Leone XIII, Encicl. Providentissimus Deus, 18 nov. 1893:

« E difatti i libri tutti e per intero, raccolti dalla Chiesa come sacri e canonici, con ogni loro parte, furono scritti per ispirazione dello Spirito Santo; ed è talmente assurdo che nella divina ispirazione possa nascondersi un qualsiasi errore che non soltanto di per se stessa esclude ogni errore ma lo esclude e rifiuta per quella necessità stessa onde Dio, somma Verità, non può esser per nulla imputabile di qualsivoglia errore. Questa è l’antica e costante credenza della Chiesa, definita nei Concilii Fiorentino e Tridentino, anche con dichiarazione solenne, e confermata finalmente nel Concilio Vaticano, che dice perentoriamente: « I libri del Vecchio e del Nuovo Testamento…. hanno per autore Dio…. ». Non ha dunque importanza che lo Spirito Santo abbia adoperato uomini come strumento dello scrivere, quasi che qualche falsità sia potuta sfuggire, non dico all’autore primario, ma agli scrittori ispirati. Difatti Esso in persona con soprannalural potenza in tal modo li eccitò e mosse a scrivere, in tal modo li assistette mentre scrivevano che nella loro mente concepivano proprio e soltanto quelle cose, ch’Egli comandava, e intendevano di scriverle fedelmente e l’esprimevano esattamente con infallibile verità: altrimenti non Egli sarebbe l’autore di tutta la S. Scrittura…. E questa persuasione de’ Padri tutti e de’ Dottori che, cioè, le sacre Scritture, quali furon compilate dagli scrittori sacri, erano affatto scevre da qualsiasi errore, fu così perfetta che dedicarono tutto il loro acume e scrupolo a concordare e conciliare i non pochi passi, che parevano offrire qualche contrasto o dissomiglianza (que’ passi stessi che sono obiettati dalla cosidetta scienza moderna); dichiarando unanimemente che que’ libri per intero non meno che nelle parti derivano dalla divina ispirazione e che Dio, parlando in persona per mezzo degli scrittori sacri, non poteva lasciar correre o dire nulla assolutamente di diverso dalla verità ».

(Acta Leonis XIII, XIII, 357-59).

DOMANDA 25a.

Concilio Tridentino e Concilio Vaticano: Vedi Dom. 23.

DOMANDA 27a

Concilio Vaticano, Costit. Dei Filius, cap. 4:

« Né la dottrina della fede rivelata da Dio è stata, come un qualsiasi pensamento filosofico, offerta per essere perfezionata dall’ingegno degli uomini, ma consegnata come divino deposito alla Sposa di Cristo, per esser fedelmente custodita e infallibilmente interpretata, Perciò anche de’ sacri dogmi si deve sempre ritenere quel senso, una volta spiegato dalla santa Madre Chiesa, né si deve staccarsene mai sotto colore e a titolo di più alta comprensione. Cresca bensì e faccia molti e grandi progressi la comprensione, la scienza e la sapienza tanto di ciascuno quanto di tutti, tanto d’un sol individuo quanto di tutta la Chiesa col progredire del tempo e delle generazioni; ma unicamente nel suo genere, cioè nel medesimo dogma, secondo il medesimo senso e il medesimo pensiero ».

Idem, Costit. Pastor æternus, cap. 4 :

« Per adempiere a questo compito pastorale, i Nostri predecessori s’adoperarono indefessamente affinché la salutare dottrina di Cristo fosse propagata presso tutti i popoli della terra e con pari sollecitudine vigilarono a conservarla sincera e pura dov’era stata accolta. Perciò, seguendo una lunga consuetudine delle chiese e osservando la prescrizione d’un’antica regola, i prelati di tutto il mondo, sia singolarmente sia radunati ne’ Sinodi, riferirono a questa Sede Apostolica quei pericoli, soprattutto, che pullulavano in materia di fede, affinché i danni alla fede fossero riparati specialmente là dove la fede non può subir difetto (S. Bernardo, Epist. CXC). Dal canto loro i Pontefici romani, a norma de’ tempi e delle contingenze, ora colla convocazione di Concili ecumenici o diligentemente rilevato il pensiero della Chiesa sparsa per il mondo, ora per mezzo di Sinodi particolari, ora con altri mezzi offerti dalla divina Provvidenza, definirono doversi ritenere quelle verità che avevano, coll’aiuto di Dio, riconosciuto consentanee alle sacre Scritture e alla tradizione apostolica. E difatti ai successori di Pietro lo Spirito Santo fu promesso non perché proponessero, per sua rivelazione, una nuova dottrina, ma perché custodissero religiosamente e fedelmente dichiarassero, grazie alla sua assistenza, la rivelazione tramandata per mezzo degli Apostoli, ossia il deposito della fede. Orbene, tutti i venerabili Padri abbracciarono e i santi Dottori ortodossi venerarono e seguirono di quelli la dottrina apostolica, colla piena consapevolezza che questa Sede di S. Pietro rimane sempre intatta e immune da ogni errore, secondo la virtù, divina promessa del Signor nostro Salvatore, fatta alla persona del capo de’ suoi discepoli: Io ho pregato per te che non venga meno la tua fede; e tu convertito un giorno, conferma i tuoi fratelli (Luc., XXII, 32) » .

S. Ireneo, Adversus hæreses, III, 3, 1 s :

« Per chi vuole veder la verità, in ogni Chiesa è dato riconoscere la tradizione degli Apostoli predicata in tutto il mondo: e possiamo noverare quelli, che furono costituiti dagli Apostoli come Vescovi e loro successori fino a noi Ma, poiché sarebbe lungo enumerare in questo libro le successioni d’ogni Chiesa, ci basta indicare la tradizione ricevuta dagli Apostoli e la fede predicata della Chiesa più grande e antica e a tutti ben nota, fondata e stabilita in Roma dagli Apostoli Pietro e Paolo: fede e tradizione che, per ininterrotta successione di Vescovi, arriva fino a noi. Basta, dico, per confutare e confondere quelli tutti che razzolano in tutti i modi…. salvo che come conviene. — Difatti con questa Chiesa (la Romana), per il suo primato, bisogna pur che s’accordi ogni chiesa, vale a dire tutti e dappertutto i fedeli, se in essa è stata sempre conservata da parte de’ fedeli la tradizione apostolica (P. G., 7, 849) ».

DOMANDA 36a.

Concilio IV di Laterano (1215), cap. I:

« Crediamo fermamente e schiettamente affermiamo che unico e solo è il vero Dio, eterno, immenso e immutabile, incomprensibile, onnipotente e ineffabile, Padre, Figlio e Spirito Santo; tre Persone sì, ma unica essenza, sostanza ossia natura semplicissima; da nessuno il Padre, il Figlio soltanto dal Padre e da entrambi lo Spirito Santo: senza principio, sempre, e senza fine: generante il Padre, nascente il Figlio e pròcedente lo Spirito Santo; consustanziali e tra loro eguali nella onnipotenza e nell’eternità; unico principio d’ogni cosa; creatore d’ogni cosa visibile o invisibile, spirituale e corporale; che immediatamente dal principio del tempo, per sua onnipotente virtù, fece dal nulla la duplice creatura, la spirituale e la corporale, cioè l’angelica e la terrestre; e di poi la umana, commista, per così dire, di spirito e di corpo. Satana infatti e gli altri demonii furono ben creati buoni per natura da Dio, ma essi da sé stessi divennero cattivi. A sua volta l’uomo, per suggestione del diavolo, peccò.

« Questa santa Trinità, indivisa quanto alla comune essenza, distinta quanto alle proprietà personali, comunicò per la prima volta, osservando un ordine perfetto nella successione del tempo, la dottrina di salvezza al genere umano, servendosi di Mosè e de’ santi Profeti ».

(Mansi, XXII, 981 s.).

Concilio Vaticano, Costit. Dei Filius, cap. 1:

« La Chiesa Romana santa, cattolica, apostolica crede e professa che unico è il Dio vero e vivo, creatore e Signore del cielo e della terra, onnipotente, eterno, immenso, incomprensibile, infinito d’intelligenza, di volontà, d’ogni perfezione. E siccome Egli è unica sostanza spirituale semplicissima e immutabile, dev’essere proclamato distinto di fatto e per natura dal mondo, felicissimo in sé e da sé stesso e in modo ineffabile sovrastante a tutte le cose, che sono e possono pensarsi al di fuori di lui.

« Quest’unico vero Dio, per sua bontà e virtù onnipotente, con liberissima decisione e non per aumentare la sua felicità, né per acquistarne, bensì per manifestare ne’ beni, che compartisce alle creature, la sua perfezione, creò subito al principio del tempo, l’una e l’altra creatura, la spirituale e la corporale, cioè l’angelica e la terrestre e di poi l’umana, commista, per così dire, di spirito e di corpo.

« Orbene, Dio colla sua provvidenza protegge e governa tutte quante le cose create, giungendo energicamente da limite a limite e tutto disponendo con soavità (Sap. VIII, I). Tutto infatti è nudo e scoperto alla sua vista (Hebr., IV, 13), anche ciò ch’è per accadere in dipendenza del libero agire delle creature ».

S. Cirillo di Gerusalemme, Catecheses, IV, 5 :

« Questo Padre del Signor nostro Gesù Cristo non è circoscritto in qualche luogo, né è minor del cielo; anzi son fattura delle sue mani appunto i cieli e tiene in pugno tutta quanta la terra; Egli è in tutte le cose e fuor da tutte;…. conosce il futuro ed è potente più di chicchessia, tutto sa e tutto fa secondo che vuole, non soggetto a qualsivoglia vicenda, né categoria di esseri, né sorte, né destino ineluttabile. È perfetto in tutto e possiede lo splendore d’ogni virtù parimenti. Non scema né  cresce, ma riman sempre il medesimo e al medesimo modo; e tien preparato per i peccatori il castigo e la corona per i giusti ».

( P . G , 33, 459).

DOMANDA 37a

Concilio Vaticano: V. Dom. 36.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (54) LA VERA E LA FALSA FEDE -IX.-

LA VERA E LA FALSA FEDE – X-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

PARTE SECONDA.

S I CONFERMA ULTERIORMENTE LA VERITÀ DELLE ESPOSTE DOTTRINE

§ XVIII. – Applicazione delle esposte dottrine alla morale cristiana. Che cosa sono i SANTI; essi nella Chiesa cattolica solo si trovano. I principi del protestantismo diruttori di ogni virtù. Orribile corruzione di costumi ch’essi hanno prodotta. L’abolizione del celibato ecclesiastico vi ha potentemente contribuito. Necessità ed importanza di questa sublime istituzione pel sacramento della confessione. Che cosa è divenuto questo sacramento presso gli scismatici? 1 vizj che regnano fra i cattolici! Effetto della secreta influenza dell’eresie, come un avanzo di probità che si trova presso gli eretici è dovuto all’influenza segreta della cattolica verità, che sola genera la virtù.

Colla fede però e col culto l’eresia ha distrutto ancora e renduta impossibile la santità e la virtù. Uomo veracemente santo vuol dire uomo che quasi più non ritien nulla delle debolezze della corrotta umanità; che per la pratica dell’annegazione continua di tutto sé stesso ha soggiogata interamente la concupiscenza corporea, i sintomi della cupidigia e la febbre dell’orgoglio: che ha dato, dirò così, un nuovo corso, una nuova direzione alle sue inclinazioni carnali e terrestri per non averne altre che celesti e spirituali; ha rifuso interamente se stesso, e per mezzo della carità più disinteressata, più generosa, più pura e più perfetta non vive che in Dio, di Dio e con Dio. Ora questo prodigio, più grande, piò splendido di quello della risurrezione di un morto, giacche è più difficile, è più al disopra di tutte le leggi naturali che un uomo corrotto e terrestre viva una vita tutta spirituale, angelica, celeste e divina, di quello che un cadavere umano ritorni alla vita dell’umanità; questo prodigio, dico. non può essere l’opera delle fredde teoriche della ragione, ma dei sublimi sentimenti della fede; non può essere l’opera del fanatismo, ma della grazia; non può essere l’opera degli sforzi dell’uomo, ma dell’onnipotenza di Dio; giacché solamente il Dio che formò l’uomo può riformarlo, e sulle rovine dell’uomo, vecchio, che si confonde con Adamo peccatore, ristabilir l’uomo nuovo, che si confonde, si identifica e diventa una cosa sola con Gesù Cristo. Ora Iddio non può contraddire a se stesso; non opera perciò e non può operare miracoli se non in conferma della sua religione, della sua parola, né far servire la sua onnipotenza se non in difesa della sua verità. Perciò nella sola Chiesa cattolica si sono perpetuati i miracoli, non solo nell’ordine della natura, ma ancora nell’ordine della grazia, ed in essa sola coi taumaturghi si trovano i santi. Dimodoché, quando anche ogni altro argomento mancasse, dal vedere ch’essa sola forma i veri santi, che i santi in essa sola s trovano, e perciò dal vedere ch’essa sola è santa non pure nel suo capo invisibile e nelle sue leggi, ma ancora in moltissime delle sue membra, questa unica testimonianza basterebbe a dimostrare invincibilmente ch’essa sola è vera. Al contrario dove sono i santi che ha formati il protestantismo? Ci si nominino, ci si mostrino. Sul principio della riforma, turpi discepoli di maestri peggiori non arrossirono! (e di che mai arrossì l’eresia?) d’inserire nelle litanie dei santi i nomi di mostri di libidine, di orgoglio e di crudeltà! e i templi profanati echeggiarono dell’invocazione sacrilega di S. Lutero, S. Calvino, S. Swinglio, S. Arrigo VIII, Santa Elisabetta! Ma non è dato lungamente all’orgoglio d’insultare sì sfacciatamente al pudor pubblico e prendersi, questo segno, scherno del senso comune; oltredichè la commedia era non solo empia, ma ancora ridicola. Si rinunziò dunque a questa invocazione, e non mai più gli eretici delle diverse sette hanno avuta la stolida pretensione di vantarci dei SANTI, contentandosi solo d’indicarci degli ONESTI UOMINI. Noi al contrario mostriamo agli eretici con confidenza l’immenso catalogo de’ santi che fino ai dì nostri ha formati la grazia della vera fede. Noi ne abbandoniamo con .sicurezza la vita all’esame il più rigoroso dei nostri nemici. La considerino pure coll’attenzione di un occhio anatomico, che spiando i più reconditi recessi, le fibre più sottili del corpo umano.  Ci additino, se loro riesce, in questi eroi della vera virtù, in questi prodigi della grazia, una sola azione, un sol sentimento, un solo pensiero, un solo affetto che non sia in armonia perfetta colla sublime perfezione del Vangelo. Ma gli eretici si guarderebbero bene di farci la stessa esibizione e la stessa disfida intorno ai loro onesti uomini. Se noi ci mettiamo col Vangelo alla mano, ad esaminarne la vita, troveremo che molti di questi santi della ragione sarebbero stati men degni dell’altare che del capestro. Sono sepolcri imbiancati che, scoperti all’occhio puro della vera fede, non esibiscono che tutta la miseria, l’egoismo, l’orgoglio dell’uomo corrotto, sotto il velo ben trasparente per altro di una probità bugiarda. – Del rimanente. mirate bene come in questa materia l’errore è conseguente, e come dalla sua bocca esce la verità. Citandoci solo onesti uomini, gli eretici si danno per vinti e confessano di non poterci esibire dei santi. Deh! che la santità cristiana non si ritrova che nel terreno della cristiana verità. Essa è un fiore che non germoglia che dalla vera fede; non spunta che colla rugiada della grazia dei sacramenti; non viene a perfezione che all’ombra della cattedra di S. Pietro; non ispiega l’incanto della sua bellezza che sotto il clima del Cattolicismo; non si raccoglie che nell’orto chiuso della vera Chiesa. In quanto poi alle persone notabili dell’eresia, S. Giuda apostolo le ha ben dipinte dicendole « alberi infruttuosi, senza radice, morti due volte, alla verità del credere ed alla santità dell’operare; stelle fatue che non hanno né luce durevole né vivificante calore: Arbores infruttuosæ, bis mortuæ, eradicatæ, sidera errantia (Jud. 12). » Non può fare un intero sacrifizio del cuore alla pratica del bene chi non comincia dal sacrificar l’intelletto alla credenza del vero. La matta indipendenza, l’orgoglio insensato della ragione è un mezzo efficace, come insegna S. Paolo, da corrompere tutto l’uomo anziché santificarlo. La santità non può adunque nascere nel terreno dell’errore che non produce che spine. Umane opinioni non possono produrre virtù divine. Come le credenze degli eretici non si sollevano alla dignità di domini, così non mai all’eroismo della santità s’innalzano le loro azioni. Il filosofismo e l’eresia sono egualmente impotenti a formare un vero credente ed un uomo veramente virtuoso. Essi han formato una volta tutto al più dei savj in apparenza secondo il mondo; non vi è che la vera fede che forma i s|anti secondo Dio. – Ma che dico io mai? La santità? Anche la virtù cristiana la più volgare si è diseccata ed è quasi interamente scomparsa sotto l’aura pestilenziale dello scisma e dell’ eresia. Quando si è scosso il giogo della fede, quello della legge diviene affatto insopportabile ed odioso. Perciò Lutero, mentre con una mano abbatteva i dommi più sacri, fu visto distruggere coll’altra i più gravi precetti, autorizzando il langravio di Assia a sposare altra moglie, vivente ancora la  prima, e concedendo licenze ad ogni marito di servirsi ancor dell’ancella; accordando in una parola, non solo il divorzio ma l’adulterio ancora, ma la pluralità delle donne ed introducendo in Europa i costumi dell’Asia. E tutto ciò non ostante che l’unità e l’indissolubilità delle nozze sia  stabilita, e l’adulterio chiaramente condannato nella Scrittura, che pure, per Lutero, è l’unica regola di morale e di fede che bisogna seguire. Ma la muta Bibbia, senza un’autorità che la interpreti, come dà luogo a diverse interpretazioni dommatiche,  così dà luogo a diverse interpretazioni morali, e rende la regola dei costumi cosi arbitraria ed incerta come quella della fede. Subito che si è ammesso che ognuno deve formarsi da sé il suo simbolo, leggendo la Scrittura; si è dovuto pure ammettere che ognuno, leggendo pure la Scrittura, deve formarsi il suo decalogo, e tutti i nuovi decaloghi devono essere tollerati, come tutti i simboli novelli. La tolleranza di tutti gli errori rende necessaria quella di tutti i vizj. Non si può negar la licenza di tutto fare a chi si è conceduta quella di tutto credere. – Ma siccome ogni principio morale deve in un principio il suo appoggio, così i capi della riforma, come se avessero temuto che la logica delle passioni non sarebbe stata abbastanza forte per dedurre la più intemperante licenza del vivere dalla più sfrenata licenza dell’opinione, vollero dare una garanzia dommatica al vizio. Calvino coll’avere insegnato che la grazia del Battesimo, per qualunque eccesso che si commetta, non si perde giammai, eresse in domma l’indifferenza di tutti i vizj; e Lutero avendo insegnato che la sola fede è più che bastevole, che le opere buone, lungi dall’essere necessarie, sono anzi un ostacolo per conseguire l’eterna salute, fece un articolo di fede che tutti i vizj sona virtù. Val però senza dirlo che i buoni discepoli di sì buoni maestri si affrettarono di levare tatti gli ostacoli dalle opere buone che potevano contrastar loro l’acquisto dell’eterna salate; e si cominciarono a fare scrupolo di viver bene per non indebolire il merito e l’efficacia della fede. Perciò alla voce dell’eresia un torrente di vizj videsi venire appresso ad un torrente di errori. La vera probità cristiana scomparve colla vera fede, e ad eccezione del popolo particolarmente delle campagne, in cui le tradizioni cattoliche, con un avanzo di verità cristiana, mantennero tuttavia un’ombra di cristiana virtù, in generale però, nei paesi tiranneggiati dall’eresie e dallo scisma, la depravazione dei costumi divenne sì profonda e sì universale che in alcuni luoghi parve che la morale di Epicuro e di Petronio fosse sottentrata alla morale di Gesù Cristo. Ma qual meraviglia di ciò? la morale cristiana si mantiene tra i popoli per l’azione, e l’ascendente del clero. Ora quale azione, qual ascendente può mai avere sui popoli il clero eterodosso, i cui membri, prima di prendere una chiesa ossia di avere una sposa spirituale, ne prendono una carnale, e non si fan sacerdoti se non dopo esser divenuti mariti? La consacrazione, di cui si è conservato l’uso in Russia ed in Inghilterra, non obbligando alla continenza, non dà al sacerdote alcun carattere esteriore e visibile che gli concilii la venerazione e il rispetto. Non vi è che la castità, virtù sublime, caratteristica augusta dei cattolico clero, che, sollevando l’uomo al di sopra dell’umanità, lo fa riguardare come un essere angelico e divino, e gli dà quella superiorità di grado, quella forza morale sui cuori, di che gode il sacerdote cattolico. Tolto il celibato, è difficilissimo l’ottenere che il popolo riguardi come divina la parola di colui di cui lo stato del matrimonio rende umana e simile a quella degli altri la persona e la vita. Una toga nera ed un berretto rotondo forma, fuori della vera Chiesa, tutto il distintivo esteriore tra il laico ed il sacerdote. Ma il proverbio dice: Abito non fa il monaco. Ci vuole qualche cosa di più del semplice abito per dare all’uomo l’impero sul cuore umano. Oltre a che, quali sollecitudini può avere per gl’interessi della religione chi pria di tutto è obbligato a fare gl’interessi della sua famiglia? Quale affezione, qual zelo pastorale può avere pel suo gregge chi è posseduto dall’affezioni della consorte e dei figli? – Che diremo poi di quei prebendati ricchissimi dell’eresia che si dicono vescovi anglicani, che, affittando, per mezzo dei pubblici avvisi, al miglior offerente le cure subalterne, consumano immense rendite ecclesiastiche ad ingrassare figli e nipoti, cani e cavalli, e menano nel lusso e nella mollezza. nella dissipazione, nel libertinaggio del mondo, sotto un titolo ecclesiastico, una vita tutta profana? che diremo del popolo greco e del ministro protestante? quegli che dall’altare e dal confessionale, dove ha venduta a tanto a testa l’assoluzione, passa alla bottega o alla bettola ad esercitare per vivere esso e la famiglia, i più vili mestieri, i traffici più vergognosi; questi che. come ha osservato il conte de Maistre, avendo spesso in casa visite di nobili lordi, mentre forse parla in chiesa contro l’adulterio, non arrossisce l’indomani, alla fine di una vergognosa querela, di ricevere per decisione del magistrato il prezzo del suo disonore. Nulla perciò eguaglia la disistima, il disprezzo che circonda un siffatto clero. Nulla l’impotenza e la nullità della sua azione sui costumi dei popoli. Lord Fitz Williams, scrittore  protestante, in un’opera famosa pubblicata al principio di questo secolo (Lettere ad Attico) e che fu come un tardo omaggio solenne del protestantismo ai dommi consolatori della Chiesa, che esso ha tentato di distruggere ha dimostrato che è impossibile di stabilire la virtù, la giustizia, la morale fra gli uomini sopra una base alquanto solida, senza il tribunale della Penitenza, come è impossibile lo stabilire il tribunale della Penitenza senza la fede della presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia. Ora la confessione, dice benissimo il citato de Maistre, la confessione domanda il celibato. Non mai un marito, e molto meno una moglie aprirà tutto intero il suo cuore ad un sacerdote ammogliato. O venerabili colleghi nel grande ministero della riconciliazione e del perdono dei peccatori, quando voi con tanta vostra edificazione udite l’uomo, e molto più la donna, svelati profondi austeri di un cuore corrotto, falli che la coscienza appena osò di affidar palpitando alle tenebre, cadute le più umilianti, disegni, intrighi i più tenebrosi, affetti, pensieri i più turpi; quando insomma voi vedete un’anima che si dà a voi ad essere giudicata come Dio la giudicherà, e che perciò, scasa nasconder nulla, senza nulla scusare, si scopre a voi in tutto l’aspetto della sua turpitudine com’è innanzi agli occhi di Dio che tutto penetra e tutto conosce; ricordatevi che ciò che ispira ai penitenti una siffatta sincerità, una siffatta fiducia, cotanto al disopra delle abitudini umane, si è principalmente perché il celibato vi fa riguardare uomini al disopra degli altri uomini. O castità, o virtù sublime, o ornamento magnifico, o giojello prezioso della Chiesa Cattolica, sci tu che ci sollevi, che ci divinizzi, che ci rendi venerabili agli occhi dei popoli, che c’imprimi sulla fronte un segno divino e ci dai quella superiorità in faccia a cui tremano umiliate e si arrendono vinte le passioni. – Per la ragione contraria però la confessione, tra gli scismatici, si riduce ad un affare di pura cerimonia: Ho bestemmiato, ho rubalo, ho fornicato; ed il prete risponde: ego te absolvo; ed ecco tutto. Perciò in poche ore un solo prete greco ascolta la confessione di un intero reggimento. E se qualche centinajo di uomini rimangono non confessati nel tempo che è al sacerdote dalla ordinanza prescritto sotto pena della bastonata, il buon uomo li fa confessare ad alta voce tutti insieme, e tutti insieme li assolve. Ora dov’è in questi confessori il giudice che decide con una perfetta cognizione di causa, il maestro che insegna, il direttore che guida, il medico che suggerisce gli opportuni rimedj a sanare le piaghe del cuore, uffici di cui Gesù Cristo stesso ha incaricato il ministro del sacramento, e che solo si esercitano dai sacerdoti della vera Chiesa? Essi soli perciò riescono a distruggere i peccati, a riformare i peccatori, a guidare le anime nelle vie della più sincera pietà e della più alta perfezione: cose tutte ignote ed, oso dirlo, impossibili ad ottenersi nello scisma e nell’eresia, in cui la più profonda ignoranza delle cose dell’anima, unita alla privazione assoluta dei costumi ecclesiastici, degrada il ministro ed annulla l’azione del ministero. E che sa e che può dire agli altri uomini un uomo che non ha nulla che lo sollevi al di sopra sopra dell’umano? Immerso in tutte le cure della terra, come parlerà il linguaggio dei cieli! Il sacerdote scismatico è dunque una specie di macchina animata dal vapore dell’interesse, destinata ad assolvere, come la macchina di Pascal era stata inventata per fare le quattro operazioni aritmetiche; incapace di correggere i passati eccessi e di garantire l’anima dai nuovi. Nulla perciò vi si richiede di quella scienza della teologia morale, di quella cognizione profonda del cuore umano, di quella prudenza, di quel discernimento, di quel vanto spirituale che nella Chiesa Cattolica si domandano ad un idoneo ministro di sì gran sacramento. Il confessare fuori della vera Chiesa, è un mestiere come tutti gli altri, e che si può esercitare con minori talenti che si ricercano per gli altri: è un’usanza di convenienza, una conferenza puramente umana, che ha perduto ogni carattere, ogni azione ogni effetto divino. Oh amara derisione, oh profanazione sacrilega del più importante dei sacramenti dopo il Battesimo. Quindi fra questi cristiani il cui ministero ecclesiastico è sì impotente, in cui perciò esercita un’azione sì meschina il Cristianesimo, i costumi particolarmente nelle città, sono detestabili. Lo spirito di avarizia, di traffico e di furto nei privati; il libertinaggio nei grandi, la inverecondie e la facilità del divorzio nelle donne, ed i più turpi delitti che, per sentenza di S. Paolo, escludono dal regno di Dio sono divenuti cose affatto indifferenti presso questi popoli, che lo scisma ha sottratti alla vigilanza, all’autorità del supremo gerarca della vera Chiesa, il custode efficace della vera morale, come l’interprete infallibile della vera fede. – Che se tali sono i costumi degli scismatici, dove pure una larva dì confessione e molte pratiche religiose, benché grossolane, sono pur buone a qualche cosa presso popoli naturalmente buoni: quali saranno presso i protestanti, dove Lutero e Calvino, per facilitare la propagazione della loro teologia per meno del rilassamento della morale, abiurarono la sola base solida della virtù della giustizia, la confessione, disapprovati perciò dallo stesso Melantone; che da questa abolizione previde la rovina intera dei costumi? La lettura di un qualche capitolo della Bibbia, che ognuno spiega a suo modo, e la presenza ad un qualche insipido discorso di morale vaga ed inconcludente in cui pochissimi credono, a cui nessuno fa attenzione: ecco i soli soccorsi che il protestante ha lasciato all’uomo per correggere per le sue abitudini, per riformare i suoi vizi, per domare l’impeto delle passioni, per acquistare la giustizia che forma il Cristiano in terra e il candidato dei cieli. Perciò, eccettuate le campagne, dove un avanzo di religione conserva un avanzo di moralità, nelle grandi citta, particolarmente dedite all’industria ed alle manifatture, la plebaglia in materia di morale sembra discesa alla dissolutezza, al cinismo, alla degradazione, alla brutalità dei costumi pagani. I grandi, i ricchi, gl’industriali, intenti a moltiplicare i vantaggi del traffico e tutte le delizie della vita, pare che altro Dio non abbiano che l’oro e il piacere. Li diresti uomini che, avendo perduta l’intelligenza, coltivano ciò che loro rimane, la carne. Il materialismo più abbietto e più inverecondo traspira dalle loro maniere e dalla loro condotta. Hanno diviso il giorno in modo che una terza parte ne danno agli affari, ed il rimanente alla crapula, al sonno, ai giuochi, agli spettacoli, al libertinaggio. Queste cose si avvicendano e si succedono in modo che non lasciano il più piccolo spazio da pensare alla religione, all’anima, all’eternità. Tutto l’essere morale ed intelligente di questi Cristiani degradati rimane interamente assorbito dalle cure temporali e dalle delizie corporee. Così essi riescono ad evitare le noje della vita, a reprimere il rimorso, ad istupidirsi, ad assonnarsi intorno al loro eterno destino, cui vanno intrepidamente incontro dopo una vita che poco ha dell’uomo, nulla del cristiano. O cieche vittime di tutti i vizj e di tutti gli errori, coronate dal demonio di fiori, e che per un sentiero di delizie siete strascinate all’altare della eterna giustizia per esservi in eterno sacrificate! – Ma che? forse che le contrade cattoliche sono incorrotte? forse che l’oblio sistematico abituale di ogni pensiero e di ogni sentimento, non che di ogni pratica religiosa; forse che lo studio di accrescere i godimenti della vita e di procacciarsi l’oro anche per le vie più turpi, perché coll’oro ogni cosa si compra; forse con la smania di tormentare la natura corporea per obbligarla a fornire ai sensi nuove lusinghe e nuove delizie; forse che il furore per gli spettacoli voluttuosi, per li piaceri sensuali, per le oscene letture, pel lusso il più immoderato e il più inverecondo; in una parola, forse che il materialismo, ultima conseguenza dell’errore e primo preludio infallibile della ruina degli stati e delle nazioni, non regna ancora in qualche paese cattolico coll’infame corteggio di tutti i vizj? non vi ha quasi distrutto ogni traccia esteriore di Cattolicismo? non vi si gonfia ogni dì più, non vi si dilata siccome un torrente, minacciando di assorbire nelle fangose sue acque ogni principio di onore, di probità, di fede, e di far retrocedere il popolo cristiano sino alla corruzione idolatra? Tutto ciò è vero pur troppo. Se Africa piange, Roma non ride. I disordini di Gerusalemme eguagliano qualche volta quelli di Samaria; e il fedele Giuda sembra divenuto tanto colpevole! quanto lo scismatico Israello! Si osservi però che questa corruzione di costumi, che si ha pur troppo a deplorare anche in molte contrade cattoliche, vi è venuta da fuori. Essa è cresciuta all’ombra e sotto l’alito dell’eresia, come l’eresia ne prese i germi funesti dalle contrade idolatre; e dai paesi degli eretici, coi loro libri, coi loro costumi. Coi loro usi, colle lor mode, col loro linguaggio si è ita filtrando e si è segretamente propagata in varie cattoliche nazioni. – l.a civiltà è cosa sacra; giacché la civiltà vera è una pianta che non germoglia, non fruttifica che nel terreno della vera religione. Oggi però il sacro vocabolo di civiltà si è profanato e si fa servir di velo al materialismo più abbietto, come si è fatto servire di velo alla più matta anarchia e al dispotismo più crudele il vocabolo di libertà. E non è egli vero che nell’idea, nel linguaggio di certi stupidi economisti, di certi politici da collegio e da caffè, una città passa per incivilita se ha profumieri e modiste, sale di ballo e sale di giuoco, accademie e teatri, romanzi e giornali, la borsa mercantile ed un luogo di prostituzione? Cioè a dire che la civiltà, che consiste nella verità della religione, nella giustizia delle leggi, nella probità e nella mansuetudine dei costumi, si fa oggi consistere in tutto ciò che può depravare i costumi, rendere inique le leggi e nulla la religione; in tutto ciò che serve ad ingentilire e variare il vizio, a procurargli nuovi incentivi ed un’ampia impunità; in tutto ciò, insomma, che tende a ristabilire sulle rovine delle dottrine dello spirito il regno della materia, e l’idolatria del corpo e la religione del piacere sulla speranza del nulla. – Ora questo abuso detestabile di idee e di vocaboli, che ben presto si è riprodotto nei costumi, è venuto esso pure dalle contrade ereticali; ed ecco, fra tante altre, la bella merce di che l’Europa cristiana va debitrice all’eresia! Non dico io già che, prima della riforma luterana, non vi fossero scandali in Europa. Sì, ve ne erano e ben grandi e in quella parte onde si aveva meno motivo d’aspettarli. Fu anzi la depravazione dei costumi di Germania e d’Inghilterra che apri le vie e formò il letto al torrente dell’errore. Ma il vizio allora era vizio; l’eresia luterana ne ha fatto un dovere e lo ha eretto in virtù. Quindi, ove in quei secoli di fede con una lunga penitenza espiava per lo più l’età matura i disordini della gioventù, ed a questo spirito di penitenza si devono i grandi monumenti consacrati alla gloria della religione ed al sollievo dell’umanità che abbelliscono la superficie dell’Europa: oggi poi si vedono uomini che si dicono Cristiani prolungare sino nel gelo della vecchiaja la licenza di corrotti costumi, e lungi dal fondare nuovi stabilimenti di religione e di carità, la civiltà moderna non fa che distruggere gli antichi. Neppure intendo dire che tutti gli eretici siano viziosi e che tutti i Cattolici son santi. Vi hanno fra i protestanti uomini da bene, a ciascuno dei quali potrebbe dirsi: Talis cum sis utinam noster esses! come si trovan dei pessimi uomini fra i Cattolici, di cui siamo obbligati ad arrossire. Vi è però anche qui questa immensa differenza, che l’eresia conducendo per una necessità logica alla estinzione di ogni virtù perché distrugge ogni fede, l’eretico per operar bene bisogna che dimentichi se stesso, che si sollevi al di sopra e si metta in opposizione de’ suoi stessi principj di errore. – Al contrario, la fede cattolica conducendo, pure per una necessità logica, alla vera virtù, il Cattolico, per operar male, bisogna che dimentichi sé medesimo, che si metta al di sotto ed in opposizione della sua religione di verità: e l’una e l’altra cosa accade di frequente; giacché l’uomo non è sempre conseguente a sé stesso. Ma come il Cattolico che conforma esattamente la sua condotta colla sua fede è santo, giacché la santità non è che la verità della fede posta in azione col soccorso della divina carità, così l’eretico che conformasse esattamente la sua vita alla sua dottrina, per esempio luterana o calvinista, diventerebbe un mostro: giacche la perversità non è che l’errore ereticale realizzato nelle opere coll’ajuto dell’ispirazione diabolica. Di più. coloro fra gli eretici che conservano alcun che di cristiana probità lo devono alle tradizioni cattoliche che in molte contrade, in molte famiglie sono rimaste superstiti alle cattoliche istituzioni che vi sono state distrutte. Lo devono al nostro esempio, al nostro tratto, ai nostri scrittori; giacché sappiamo che in molte famiglie protestanti in Inghilterra non si leggono che Bourdaloue e Massillon e i grandi ascetici ed i grandi maestri della morale cattolica. Al contrario, il rilassamento nei costumi, l’indifferenza per la fede, che si scorge in molte contrade cattoliche, vi sono stati trasportati dai lidi protestanti; e tutto questo è il risultato funesto dei loro esempj, del loro tratto, dei loro libri, come accade al presente in Ispagna. Perciò come non si è virtuoso fra gli eretici se non per una partecipazione segreta dello spirito cattolico, e non si è pessimo fra i cattolici se non per l’influenza segreta dello spirito ereticale: così le stesse virtù degli eretici, come gli stessi vizj dei Cattolici servono a provare che è sempre l’errore che fa germogliare il vizio, che la virtù nasce dalla verità, e che la sola Chiesa Cattolica, colla vera luce che forma i credenti, conserva e porge la grazia che forma i santi.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (55) LA VERA E LA FALSA FEDE -X.-

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. Leone XII – “AD PLURIMAS”

Questa breve lettera di S. S. Leone XII, annunzia la volontà di intraprendere l’opera colossale della ricostruzione della Chiesa romana di S. Paolo fuori le mura, distrutta da un violento incendio. La Chiesa è una delle principali quattro chiese che devono visitarsi in occasione dei Giubilei della Chiesa Cattolica e le cui porte si aprono appunto in tale occasione, onde acquisire le indulgenze relative. Si chiedeva naturalmente anche un sostegno economico, visto che i mezzi finanziari della Santa Sede, erano ridotti all’epoca ai minimi storici per gli attacchi di ogni genere che le erano portati da ambienti anticlericali legati alle sette di perdizione ed ai banchieri usurai già allora in piena attività. Ci fu, come sappiamo, una gara di solidarietà e di messa a disposizione di risorse economiche private, piccole o grandi secondo la disponibilità, che resero possibile il miracolo della ricostruzione del venerabile tempio dedicato all’Apostolo delle genti che portò il Cristianesimo tra i popoli pagani ed i gentili fino a conquistare tutto l’orbe terrestre. Vedere oggi questo tempio usurpato da chierici falsi – oltre che indegni – al servizio dell’errore e dell’apocalittica « bestia uccisa risorta », che è parte del corpo del diavolo insieme ai fasi profeti modernisti del Vaticano attuale, e alle bestie del mare e della terra, è cosa che rende tristi e sbigottiti i fedeli della vera Chiesa Cattolica, la Chiesa di Cristo – l’unica che garantisca la salvezza eterna dell’anima – quella “Donna” alla quale sono state date ali per volare nel deserto onde sfuggire al dragone che vorrebbe distruggerla … si fieri potest (Apoc. XII.). Ma una speranza sostiene il pusillus grex – il resto dei fedeli a Cristo – anzi la certezza della venuta dall’Oriente come un baleno del Signore Gesù Cristo che distruggerà – secondo le parole profeticamente ispirate dallo Spirito Santo a S. Paolo – con il soffio della sua bocca, l’anticristo ed i suoi adepti … laici, politici asserviti, banchieri kazari mondialisti, falsi chierici in talari vario cromate e clargyman di alta sartoria, modernisti, apostati, scismatici, eretici … et IPSA conteret …

S. S. LEONE XII

Ad plurimas

Lettera Enciclica

Roma, 25 gennaio 1825

Ai Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi.

Il Papa Leone XII.

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Alle molteplici e terribili calamità che hanno angustiato il memorabile Pontificato del gloriosissimo Nostro Predecessore, Noi abbiamo veduto, con il più grande dolore di questa città e di tutti i popoli cattolici, aggiungersi l’incendio per il quale una Basilica così antica, portento di valore, di solennità, d’arte, eretta ad onore dell’Apostolo dottore delle genti, monumento insigne della pietà e della magnificenza di Costantino il Grande, dal quale era stata fondata, degli imperatori Valentiniano, Teodosio, Arcadio ed Onorio dai quali era stata ampliata ed ornata con nuove opere, infine dei Pontefici Romani, dai quali era stata restaurata, bruciò in poche ore, una notte, per un improvviso incendio. Lo stesso Nostro Predecessore [Pio VII] aveva mostrato la sua pietà verso il santo Apostolo, comandando che si facessero le riparazioni necessarie alla Basilica, ma si vide che occorrevano grandi mezzi in quanto l’incredibile violenza delle fiamme aveva distrutto quasi tutto. – Pochi giorni dopo seguì per Noi e per tutta la Chiesa un altro acerbissimo dolore: la morte dello stesso Pontefice. Per volontà di Dio, Noi fummo messi al suo posto, sebbene con meriti tanto ineguali. Dolenti per quel funesto sinistro che privò Roma di un sì magnifico ornamento, venerando gli augusti misteri della divina Provvidenza, in mezzo alle altre onerose cure del Nostro ministero, Noi abbiamo rivolto il pensiero a quelle rovine, e abbiamo invocato tutti i soccorsi dell’arte e dell’industria affinché potesse rimanere in piedi quel poco che era sfuggito alle fiamme. Così, mediante il Nostro zelo, speravamo di far aprire nel prossimo Anno Santo la porta d’oro di quella Basilica, come al solito. Questa speranza Ci ha fatto nominare la Basilica Ostiense nella Nostra lettera di indizione del Giubileo universale insieme alle altre Basiliche patriarcali che si dovevano visitare per ottenere l’indulgenza. Se non che, dopo le prime rovine, se ne scopersero tante altre e così grandi che abbiamo chiaramente riconosciuto che non vi si potevano celebrare le sacre cerimonie del Giubileo, com’era Nostro desiderio, senza grave pericolo. Abbiamo pertanto dovuto abbandonare il Nostro pensiero, ed ordinare che la Chiesa venisse completamente riedificata. Ma trovammo un ostacolo nella tenuità delle Nostre rendite; il che a nessuno parrà strano dopo tante perdite sofferte da questo Stato. Ciò nondimeno, Noi non Ci siamo perduti d’animo ed abbiamo intrapreso l’opera, non dubitando punto che i fedeli non solo avrebbero lodato il Nostro proposito, ma anzi Ci avrebbero aiutato a gara con i loro mezzi per portare a compimento l’opera. – Infatti, chi sarà colui che non vorrà fare tutto quello che potrà per assecondare i Nostri voti, se soltanto considera che Noi li abbiamo formulati per la gloria e per il culto di un uomo di cui lo stesso Cristo disse: “Codesto è il mio vaso d’elezione, destinato a portare il mio nome alle nazioni ed ai Re”? Di lui, che da quell’istante, infiammato dalla forza della divina carità, “essendosi fatto tutto a tutti, per guadagnare tutti a Cristo”, percorse tanti paesi in viaggi asperrimi, si espose a tutti i pericoli di terra e di mare, sostenne con coraggio indicibile la povertà, le veglie, la fame, i naufragi, le piaghe, le lapidazioni, i tradimenti, le miserie d’ogni genere, tanto che, a dispetto della sua modestia, fu, dall’ispirazione dello Spirito Santo, costretto a dire che egli “aveva faticato più di qualunque altro discepolo di Cristo”? Di lui, infine, che, donando il suo sangue e la sua vita, confermò con un glorioso martirio quella verità che aveva insegnato con le parole e con l’esempio, e che Ci permette di affermare che, particolarmente per opera sua, i nostri padri furono chiamati da Cristo “dalle tenebre all’ammirabile sua luce”? Paolo respira e vive ancora nelle sue lettere che, quand’anche mancassero altri argomenti, basterebbero esse sole a convincere gli uomini al Vangelo, tanto è presente in esse la parola di Dio, “viva ed efficace, più penetrante di qualunque lama a due tagli, che giunge fino alla divisione del cuore e dello spirito”. E dopo che noi gli dobbiamo tanto, che di più non potremmo, ci sarà un uomo così ingrato che non si ritenga obbligato a contribuire, per quanto può, alla gloria dell’Apostolo? – L’Apostolo è stato animato da un amore tanto grande per Cristo, tanto ha sofferto per Lui e con tanto frutto, che dovremmo stimare grandissima l’efficacia della sua protezione presso Dio e grandissimi il merito e la venerazione di cui gode presso tutti. Egli ha il suo posto presso quel supremo Principe a cui sono state consegnate le chiavi del Paradiso. Ora si trova davanti a Dio, intercessore per la Chiesa; ed alla fine del mondo giudicherà con Cristo le “dodici tribù d’Israele”. E come quelle due luci della Chiesa, uguali l’una all’altra, avendo ambedue ricevuto “le primizie dello Spirito”, hanno i primi seggi nel cielo, egualmente ad ambedue sulla terra si sono sempre resi i primi onori. Dio ha concesso a ciascuno la sua ricompensa, in modo che in coloro che particolarmente si sforzarono di diffondere la gloria divina, si compie l’oracolo di Dio: “Chiunque mi glorifica, sarà da me glorificato”. Così è accaduto che per le esortazioni dei Nostri Predecessori Bonifacio IX, Martino V, Eugenio IV, molti cittadini e stranieri contribuirono abbondantemente al restauro di ambedue le Basiliche; così per i doni generosi di Giulio II e dei suoi Successori, congiunti alle spontanee offerte di altre persone, sorse la Chiesa del Vaticano, una delle più ampie e più belle di tutto l’universo. Così per gli stessi motivi Noi abbiamo fiducia che si mostreranno pii e liberali tutti quelli che sono fedeli a Cristo e a questa Santa Sede mentre, nel nome di Paolo, chiediamo loro un aiuto per le Nostre necessità. Noi dobbiamo aspettarci questo soccorso dal popolo devoto, tanto più che Ci sembra essere pervenuto a Noi, da Dio stesso, questo pensiero, questo desiderio di mantenere viva fra noi la gloria dell’Apostolo, in quanto, in mezzo all’orrore della volta crollata sulle rovine delle grandi colonne di marmo ridotte in cenere, intera si è conservata la tomba dell’Apostolo, così come, in Babilonia, i tre giovinetti restarono illesi nell’ardente fornace. – Si ergerà dunque sullo stesso suolo, non lungi dal luogo in cui ha dato la vita per Cristo; si ergerà di nuovo una Chiesa a Paolo, al compagno dei meriti e della gloria di Pietro. Se non avrà più quelle colonne e quegli altri ornamenti d’inestimabile valore che un giorno aveva, la chiesa sarà costruita con quella magnificenza che le offerte raccolte permetteranno; di nuovo si onorerà doverosamente quella tomba alla quale secondo la testimonianza del grande Crisostomo (che per essa desiderava principalmente vedere Roma) accorrevano ossequiosi gli imperatori, i consoli, i condottieri, ed a cui non cessavano di portarsi in folla, come ad una fonte perenne di celesti beneficenze, uomini d’ogni età e ordine, che a tale scopo intraprendevano lunghi pellegrinaggi. – Dio volesse, Venerabili Fratelli, che la forza e la nobiltà delle parole che uscivano dalla bocca di Crisostomo nel parlare dei meriti di San Paolo, fossero possedute anche da Noi per eccitare il cuore dei fedeli. Voi, investendovi del suo spirito, saprete trarre dai suoi meravigliosi sermoni gli argomenti più validi a far sì che i vostri fedeli si infiammino di venerazione e di amore per l’Apostolo delle genti, per il loro Apostolo, e facciano tutto il possibile per cooperare con i Nostri sforzi. Noi sappiamo ciò che San Paolo ha fatto per i fedeli; non esitiamo a farlo per lui. Egli raccolse ovunque elemosine e le portò a Gerusalemme per alleviare la povertà materiale dei fedeli. Voi raccoglierete elemosine per mezzo delle quali davanti a Dio, con l’intercessione dell’Apostolo, potrete soccorrere ai bisogni spirituali dei fedeli. In una parola, Noi vi eleggiamo Nostri coadiutori in un’impresa così religiosa. Tutto quello che avrete ricevuto dalla pietà dei fedeli, procurate che sia inviato a Noi. Noi vi scriviamo con tanta fiducia nella vostra pietà e nel vostro buon volere, che speriamo vedere persino superata la Nostra attesa. Vi sarà un numero considerevole di imitatori di quella felicissima vedova che fu degna di un particolare encomio da parte di Cristo Signore: “Ella era povera, e, malgrado la sua povertà, depose nel tesoro più di quello che vi deposero coloro che nuotavano nell’abbondanza”. Noi speriamo pertanto che la Basilica risorga dalle macerie con quella magnificenza che conviene al nome e alla memoria del Dottore delle genti. Pervasi da questa speranza, Ci sentiamo consolati nel Nostro dolore; vi auguriamo i beni più salutari, Venerabili Fratelli, e vi impartiamo con sincero affetto la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 gennaio 1825, anno secondo del Nostro Pontificato.

DOMENICA III DI AVVENTO (2020)

III DOMENICA DI AVVENTO (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Pietro

Semid. Dom. privil. di II cl. – Paramenti rosacei o violacei.

Il Signore è già vicino, venite, adoriamolo (Invitatorio). 1° Avvento. È Maria che ci dà Gesù: « Tu sei felice, o Maria, perché tutto quello che è stato detto dal Signore, si compirà in te » (Ant. Magn.). « Da Bethlem verrà il Re dominatore, che porterà la pace a tutte le Nazioni » (2° resp.) « e che libererà il suo popolo dal dominio dei suoi nemici » (4° resp.). Le nostre anime parteciperanno in un modo speciale a questa liberazione nelle feste di Natale, che sono l’anniversario della venuta in questo mondo del vincitore di satana.« Fa, chiede la Chiesa, che la nascita secondo la carne del tuo unico Figlio ci liberi dall’antica schiavitù che ci tiene sotto il giogo del peccato ». (Messa del giorno, 25 dic.). S. Giovanni Battista prepara i Giudei alla venuta del Messia: egli ci prepara anche all’unione, ogni anno più intima, che Gesù contrae con le nostre anime a Natale.« Appianate la via del Signore » dice il Precursore. Appianiamo dunque le vie del nostro cuore, e Gesù Salvatore vi entrerà per darci le sue grazie liberatrici.

Avvento. S. Gregorio fa allusione alla venuta di Gesù alla fine del mondo allorché, spiegando il Vangelo, dice: «Giovanni, il Precursore del Redentore, precede Gesù nello spirito e nella virtù d’Elia, che sarà il precursore del Giudice » (9a Lezione). Dell’avvento di Gesù come Giudice parlano l’Epistola e l’Introito. Se proviamo gran gioia nell’avvicinarsi alle feste del Natale, che ci ricordano la venuta dell’umile bambino della mangiatoia, quanto più il pensiero della sua venuta in tutto lo splendore della sua potenza e della sua maestà, non deve empirci di santa esultanza, perché  allora soltanto la nostra redenzione sarà compiuta. S. Paolo scrive ai Cristiani: « Godete, rallegratevi nel Signore, ve lo ripeto ancora, perché il Signore è vicino ». E come nella Domenica Lætare (Questa pia pratica in uso per la benedizione della rosa a Roma, nella Domenica Lætare, si è estesa a tutti i sacerdoti che ne hanno desiderio per la celebrazione della Messa ed è passata alla Domenica Gaudete, perché queste due domeniche cantano la nostra liberazione dalla schiavitù del peccato per opera di Cristo), i sacerdoti che lo desiderano celebrano oggi con paramenti rosa, colore che simboleggia la gioia della Gerusalemme celeste, dove Gesù ci introdurrà alla fine dei tempi. « Gerusalemme, sii piena di gioia, perché il tuo Salvatore sta per venire » (2a Ant. vesp.). Desideriamo dunque questo avvento, che l’Apostolo dice vicino, e, invece di temerlo, auguriamoci con santa impazienza che si realizzi presto. « Muovi, o Signore, la tua potenza, e vieni a soccorrerci » [« Ecco — dice l’Apocalisse — il Signore apparirà e con Lui milioni di Santi e sulla sua veste porterà scritto: Re dei Re e Signore dei Signori » (1° resp.). « Il Signore degli eserciti verrà con grande potenza » (4° resp.). « Il Suo Regno sarà eterno e tutte le Nazioni Lo serviranno » (6° resp.). (All). « Vieni, o Signore, non tardare » (Ant. delle Lodi). « Per adventum tuum libera nos, Domine »].

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Phil IV:4-6
Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus enim prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne petitiónes vestræ innotéscant apud Deum.

[Godete sempre nel Signore: ve lo ripeto: godete. La vostra modestia sia manifesta a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi per alcuna cosa, ma in ogni circostanza fate conoscere a Dio i vostri bisogni]

Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.

[Hai benedetto, o Signore, la tua terra: hai liberato Giacobbe dalla schiavitù].

Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus enim prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne petitiónes vestræ innotéscant apud Deum.

[Godete sempre nel Signore: ve lo ripeto: godete. La vostra modestia sia manifesta a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi per alcuna cosa, ma in ogni circostanza fate conoscere a Dio i vostri bisogni.]

Oratio

Orémus.
Aurem tuam, quǽsumus, Dómine, précibus nostris accómmoda: et mentis nostræ ténebras, grátia tuæ visitatiónis illústra:

[O Signore, Te ne preghiamo, porgi benigno ascolto alle nostre preghiere e illumina le tenebre della nostra mente con la grazia della tua venuta.]

Lectio

Lectio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses

Philipp IV: 4-7
Fratres: Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. Modéstia vestra nota sit ómnibus homínibus: Dóminus prope est. Nihil sollíciti sitis: sed in omni oratióne et obsecratióne, cum gratiárum actióne, petitiónes vestræ innotéscant apud Deum. Et pax Dei, quæ exsúperat omnem sensum, custódiat corda vestra et intellegéntias vestras, in Christo Jesu, Dómino nostro.
R. Deo gratias.

[“Rallegratevi sempre nel Signore: da capo ve lo dico, rallegratevi. La vostra benignità sia nota a tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non siate ansiosi di nulla: ma in ogni cosa le vostre domande siano manifestate a Dio nell’orazione, nella preghiera e nel rendimento di grazie. E la pace di Dio, che supera ogni mente, custodisca i vostri cuori e le vostre menti in Gesù Cristo „ (Ai Pilipp. IV, 4-7]

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Che significa rallegrarsi nel Signore?

Significa ringraziare Dio del benefizio che ci ha dato di una felice eternità, e della continua protezione che ci presta: e rallegrarsi dei mali e delle persecuzioni che si possono avere a sopportare per il Signore, come se ne rallegrarono gli Apostoli, e specialmente s. Paolo. – Docili all’esortazione di s. Paolo, la nostra vita sia esemplare, e mai la nostra sollecitudine per i beni temporali sia eccessiva; confidiamoci nella Provvidenza: gratissimi a Dio per i suoi benefizi esponiamo a Lui le nostre necessità. E può questo Dio di bontà, che ha cura dei più piccoli animali abbandonare i suoi figli, se ricorrono a Lui come al migliore dei padri?

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

SERVITE DOMINO IN LÆTITIA!

Ecco un testo latino, biblico, molto popolare, forse troppo, nel senso che forse c’è chi, malignamente o ingenuamente (non importa), lo fraintende. Però, a parte gli equivoci e i malintesi, il testo in sé è bello ed è di indubbia marca religiosa, giudeo-cristiana. Un’onda di letizia corre dal Vecchio al Nuovo Testamento, dalla Legge al Vangelo di Gesù Cristo. Nostro Signore non è il maestro arcigno e burbero, non è l’asceta truce o il filosofo altero. No. Di fronte ai discepoli del Battista, che digiunano troppo, i suoi discepoli digiunano meno, poco. Di fronte ai Farisei accigliati per ostentazione di virtù o per piccineria di spirito, il volto del Maestro, Gesù, e dei suoi discepoli è non solo sereno; addirittura ilare. E San Paolo riprende questa tradizione evangelica, come Egli suole, quando grida nell’Epistola che oggi leggiamo, ai Filippesi: allegri, allegri in Dio. « Gaudete, iterum dico gaudete. » Il quale cristiano gaudio non è — sarebbe quasi superfluo il dirlo se io non volessi circoscrivere bene questa gioia cristiana di fronte ad altri stati spirituali affini ma non da confondersi con essa — l’incomposta rumorosa sfrenata ilarità del mondo: una ilarità fatta di incoscienza e di voluttà più o meno accentuata. La gioia cristiana sta molto più in qua, sta molto più in su della follia pagana. Quella è divina, questa è brutale. Quella si esprime nel sorriso, nel riso magari; questa nella sghignazzata. Paolo la descrive benissimo con due tratti contrastanti: la letizia nostra è: divina; in Domino e composta, « modestia vestra nota sit omnibus hominibus. » Ma come la gioia cristiana si oppone alle accigliatezze o tristezze farisaiche e alla gioia pagana, così non va confusa colla serenità pura e semplice, colla imperturbabilità — per usare la frase precisa — del filosofo stoico, greco. Non turbarsi mai. Nell’alto cielo non arrivano i turbamenti atmosferici della terra. Ma questa imperturbabilità oltreché tutta umana, oscilla, nello stoicismo, tra l’egoismo e l’orgoglio; egoista la imperturbabilità se nutrita dal desiderio di non soffrire; orgogliosa se ispirata da desiderio di parere; è qualcosa di negativo, di freddo; anche il marmo non si turba mai, nella sua glaciale, marmorea freddezza e durezza. Il Cristianesimo ha portato al mondo l’attività di fronte alla passività, la possibilità di fronte alla negabilità. Quello che è la carità attiva e calda del Cristianesimo di fronte alla inerte compassione buddistica, questo è la gioia cristiana di fronte alla stoica imperturbabilità. Il Cristianesimo ci vuole, sì, sereni, della serenità di un bel viso terso, ma ci vuole anche lieti, giocondi, allegri, positivamente contenti. Non gli basta che noi non si maledica; vuole che benediciamo, e molto, la vita. Non solo non dobbiamo essere corrucciati coi nostri fratelli, ma dobbiamo verso di loro nutrire la nostra benevolenza. Il nostro non deve essere un viso olimpico, serenamente olimpico per disprezzo di tutti e di tutto, disprezzo altezzoso e quasi corrucciato, o disprezzo umoristico, disprezzo sempre…: Noi non dobbiamo disprezzare nulla e nessuno. Dobbiamo amar tutti e tutto, meno il male. – Una luce divina deve nutrire questa nostra gioia: la luce della bontà di Dio. Il mondo, per noi che lo vediamo in quella luce divina del Dio Creatore, Creatore buono, il mondo è bello. – Per noi che vediamo la storia nella luce di Dio, il Dio Redentore, caritatevole, l’avvenire è santo. Non siamo dei fatui che non vedono le ombre nel quadro, nel mondo e nella vita: ma su quella ombra grandeggia la luce di Dio. La luce trionfa. Lietamente noi abbracciamo la vita — non dice l’accettiamo, che è di nuovo una espressione di passività: l’abbracciamo, che vuol dire attività — colle sue lotte e coi suoi sacrifici e dolori. Alla lotta andiamo giocondi, sicuri della vittoria; i sacrifici li accettiamo lieti, sicuri della ricompensa. « Servite Domino in Lætitia: » ripetiamolo pure il vecchio ritornello, con nuova e più lucida coscienza, e, soprattutto, applichiamolo

Graduale

Ps LXXIX: 2; 3; 79:2

Qui sedes, Dómine, super Chérubim, éxcita poténtiam tuam, et veni.

[O Signore, Tu che hai per trono i Cherubini, súscita la tua potenza e vieni.]

Qui regis Israël, inténde: qui dedúcis, velut ovem, Joseph.

[Ascolta, Tu che reggi Israele: che guidi Giuseppe come un gregge. Allelúia, allelúia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja,

Excita, Dómine, potentiam tuam, et veni, ut salvos fácias nos. Allelúja.

[Suscita, o Signore, la tua potenza e vieni, affinché ci salvi. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem

Gloria tibi, Domine!

Joann l: XIX-28

“In illo tempore: Misérunt Judæi ab Jerosólymis sacerdótes et levítas ad Joánnem, ut interrogárent eum: Tu quis es? Et conféssus est, et non negávit: et conféssus est: Quia non sum ego Christus. Et interrogavérunt eum: Quid ergo? Elías es tu? Et dixit: Non sum. Prophéta es tu? Et respondit: Non. Dixérunt ergo ei: Quis es, ut respónsum demus his, qui misérunt nos? Quid dicis de te ipso? Ait: Ego vox clamántis in desérto: Dirígite viam Dómini, sicut dixit Isaías Prophéta. Et qui missi fúerant, erant ex pharisæis. Et interrogavérunt eum, et dixérunt ei: Quid ergo baptízas, si tu non es Christus, neque Elías, neque Prophéta? Respóndit eis Joánnes, dicens: Ego baptízo in aqua: médius autem vestrum stetit, quem vos nescítis. Ipse est, qui post me ventúrus est, qui ante me factus est: cujus ego non sum dignus ut solvam ejus corrígiam calceaménti. Hæc in Bethánia facta sunt trans Jordánem, ubi erat Joánnes baptízans.”

“In quel tempo i Giudei mandarono da Gerusalemme a Giovanni i sacerdoti ed i leviti, per domandargli: Chi sei tu? Ed ei confessò, e non negò, e confessò: Non son io il Cristo. Ed essi gli domandarono: E che adunque? Se’ tu Elia. Ed ei rispose: Noi sono. Se’ tu il profeta? Ed ei rispose: No. Gli dissero pertanto: Chi se’ tu, affinché possiamo render risposta a chi ci ha mandato? Che dici di te stesso? Io sono, disse, la voce di colui che grida nel deserto: Raddrizzate la via del Signore, come ha detto il profeta Isaia. E questi messi erano della setta de’ Farisei. E lo interrogarono, dicendogli: Come adunque battezzi tu, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta? Giovanni rispose loro, e disse: Io battezzo nell’acqua; ma v’ha in mezzo a voi uno, che voi non conoscete: questi è quegli che verrà dopo di me, il quale è prima di me; a cui io non son degno di sciogliere i legaccioli delle scarpe. Queste cose successero a Betania di là dal Giordano, dove Giovanni stava battezzando”.

(Jo. I, 19-28).

Omelia

[I Sermoni del B. GIOVANNI B. M. VANNEY,

trad. It. di Giuseppe D’Isengrad P. d. M. – vol. IV, Torino, Libreria del Sacro Cuore – 1908- imprim. Can. Ezio Gastaldi-Santi, Provic. Gen., Torino, 8  apr. 1908].

Mirabilis Deus in sanctis suis.

(Mirabile è Dio ne’ suoi santi.)

– Psalm. LXVII, 36 -.

Tale fu il linguaggio del Re-Profeta nel considerare la grandezza de’ beni e delle grazie che Dio concede a quelli che lo amano. Sì, certamente, fratelli miei, tutto quello che Dio ha fatto è mirabile: tutto ci rivela un Dio d’infinita sapienza, potenza e misericordia, infinito in ogni maniera di perfezioni. Ma possiamo pur dire che ne’ suoi santi ha fatto qualche cosa di più singolare, o, piuttosto, ha voluto mostrarci in essi ritratte tutte le virtù che Gesù Cristo, suo Figliuolo, ha praticato nel tempo della sua vita mortale. Vogliamo infatti conoscere quale sia stata la vita nascosta di Gesù? Andiamo a visitar quei solitari, i cui capelli incanutirono nelle foreste, e vedremo in essi le virtù di Lui. Vogliam conoscere, almeno in parte, la bellezza ch’ebbe ai suoi occhi e la stima in cui tenne la più bella delle virtù, la purità? Entriamo nei monasteri e vedremo persone dell’un sesso e dell’altro crocifiggere senza posa la loro carne, per conservare in sé così bella virtù. Vogliamo conoscere la sua vita apostolica? Consideriamo tutti quegli apostoli e quei missionari che varcano i mari per annunziare il Vangelo agli idolatri, e sacrificano sanità e vita per salvare quelle povere anime. Desideriamo avere un’idea della vita sofferente di Gesù Cristo? Andiamo in traccia delle numerose schiere dei martiri, consideriamo i supplizi a cui sono sottoposti: gli uni muoiono sull’eculeo o sulle brace ardenti; altri sotto i denti dei leoni, altri muoiono tra i più terribili tormenti. Sì, miei fratelli, in tutti codesti Santi ci par di rivedere la vita stessa di Gesù Cristo. Ciò appunto fa dire anticipatamente al santo Re-Profeta: « O mio Dio, quanto siete ammirabile nei vostri santi! ». Tuttavia, fratelli miei, possiam dire che san Giovanni Battista (…) racchiude in sé solo tutte le virtù degli altri Santi. La vita del Salvatore fu tutta spesa nel piacere al Padre suo, salvare le anime e far penitenza; e tale fu pure la vita di S. Giovanni Battista. La vita di Gesù Cristo fu pura; e pura fu quella di S. Giovanni Battista. Fin dagli anni più teneri si ritirò nel deserto e non ne uscì che per combattere il vizio, e morir pel suo Dio, prima che il suo Dio morisse per lui. Gesù Cristo è morto per risarcire la gloria del Padre suo; S. Giovanni è morto per sostenere i diritti del suo Dio. Oh! miei fratelli, quante virtù si scoprono in questo gran santo! Certo Maria tiene il primo posto dopo il suo divino Figliuolo; ma possiamo dire che, dopo Maria, tiene il primo posto san Giovanni Battista. Per animarvi, fratelli miei, ad aver grande fiducia in questo incomparabile santo, vi farò conoscere alcune delle grazie che Dio gli ha fatto a preferenza di tutti gli altri eletti. Se vogliamo far l’elogio di certi santi, cominciamo col ricordare i vizi a cui sulle prime si abbandonarono; poi cerchiamo di seppellir questi nelle lor lacrime e coprirli con le penitenze che praticarono in tutto il resto della vita. Vediamo da una parte la debolezza umana, dall’altra la potenza della grazia. Vogliamo parlare di S. Maddalena? Raccontiamo prima la sua vita peccatrice, poi le lacrime che ha versato e le penitenze che ha fatto per placare la giustizia divina. Parliamo di S. Pietro? Vi diciamo che, dopo avere sgraziatamente rinnegato il divino Maestro, pianse amaramente, e la sua penitenza durò tutto il tempo della sua vita. Le loro lacrime e la loro penitenza ci consolano; ma tuttavia ci affliggono i loro peccati, perché hanno offeso un Dio così buono e sì degno d’essere amato! Ma, miei fratelli, nel nostro buono e grande S. Giovanni Battista non troviamo nulla che possa rattristarci. Tutto invece ci deve rallegrare, perché in lui vediamo bene soltanto e nulla di male: solo virtù e nessun peccato. Degli altri santi si cominciano a contare le virtù e le penitenze a partir da una certa età: ma di S. Giovanni Battista possiamo cominciare a dir meraviglie anche prima della sua nascita. Oh! miei fratelli, è pur buona cosa lodare un santo in cui non vediamo che le virtù più sublimi! Ma la gran difficoltà che incontriamo nel far l’elogio di S . Giovanni Battista è che le sue virtù son condotte a sì alto grado di perfezione, e così al di sopra dell’umana conoscenza, che ci par cosa temeraria il volerci provare a dime qualche cosa. Non dovremmo contentarci di lodare e benedire il Signore che in maniera così straordinaria lo ha innalzato sugli altri santi? S. Giovanni Battista è tra gli uomini il solo che sia rimasto così poco tempo sotto la tirannia del peccato; aveva sei mesi appena quando Gesù Cristo venne in persona a santificarlo nel seno della madre: grazia concessa a lui solo. Si dice, sì, che il profeta Geremia sia stato santificato nel seno della madre; ma i santi Padri dubitano che sia stato nell’istessa maniera. Per darvi un’idea della grandezza del nostro santo, vi dirò che fu ambasciatore dell’Eterno Padre, il quale lo mandò ad annunziare la venuta del suo Figliuolo sulla terra. Sì, miei fratelli, questo gran santo fu come quella bella stella del mattino che annunzia il levarsi del sole, che deve riscaldare la terra e ravvivare la natura. Il cielo fece sì gran conto di S. Giovanni Battista, che, per annunziarne la venuta, si valse di quanto aveva di più grande nella sua corte. L’Angelo istesso annunziò la concezione del Salvatore e quella di S. Giovanni. Fu (possiamo dirlo) un bambino tutto celeste: fu formato nel seno d’una madre, dopo la B. Vergine, la più santa che sia stata al mondo. Egli fu opera piuttosto della grazia che della natura, perché i suoi parenti erano molto avanzati in età e non più in condizione d’aver prole. S. Agostino (In parecchi sermoni In natali Joannis Baptistæ), domanda perché di S. Giovanni Battista si festeggia la nascita, mentre di tutti gli altri santi si celebra la festa nel giorno della morte.« Perché, risponde il santo, gli altri santi non furono eletti da Dio prima di nascere, e neppure nell’atto del loro nascimento, ma soltanto nel corso della lor vita dopo molti combattimenti e penitenze; S. Giovanni Battista invece fu eletto da Dio non solo nel nascere, ma prima ancor che nascesse; prima di vederla luce è profeta; ancor nel seno della madre riconosce già il Salvatore del mondo, pur esso chiuso ancora nel seno della S S . Vergine » . Sì, diciamolo, fratelli miei, prima che i suoi occhi si aprissero, già contemplava il suo Dio e il suo Salvatore promesso da tanti secoli. E vediamo poi che fu pure un continuo prodigio tutta la sua vita. La sua nascita fu simile a quello splendido sole che sorge ogni giorno a portar in ogni parte gioia e fecondità. La sua culla fu come un monte di balsamo, che spande i suoi profumi fino alle estremità della terra. Infatti, quando S. Giovanni venne al mondo, tutti i suoi parenti e tutti quei dei dintorni erano pieni di ammirazione; si udivano dirsi a vicenda: « Che sarà un giorno codesto fanciullo? Veramente è sopra di esso la mano onnipotente di Dio » (S. Luc. I, 66). Sì, miei fratelli, da qualunque parte consideriamo questo Santo, nulla vediamo in lui che non sia grande. 1° È grande pel nome di Giovanni che gli fu dato; 2° è grande per le grazie di cui il cielo lo ricolmò; 3° è grande per la missione affidatagli da Dio; 4° è grande per le sublimi virtù che praticò; 5° è grande dinanzi a Dio; 6° è grande dinanzi agli uomini; 7° finalmente è grande nella sua morte. Non è un abisso di grandezze? Non ho ragione di dirvi che sarebbe guadagno il serbare il silenzio, anziché voler tentar l’elogio di sì gran Santo: tanto le sue virtù sono superiori all’umana conoscenza? Oh! quante grazie, fratelli miei, possiamo ottener dal cielo per la sua protezione!

Dico adunque: 1° che S. Giovanni è grande pel nome che l’Angelo gli ha dato. L’Eterno Padre scelse per lui questo nome per farci intendere che quel fanciullo sarebbe tutto celeste. Il nome « Giovanni » significa « grazia, benedizione, privilegio singolare ».

2° Dico che è grande pei favori concessigli dal cielo. Dio infatti per cancellare in lui il peccato originale, non seguì le leggi ordinarie: fu santificato nel seno della madre. S. Ambrogio dice che la grazia di Dio l’animò anche prima che avesse vita; e S. Pier Crisologo, che Dio lo mise in cielo prima che i suoi piedi toccassero la terra; gli diede lo spirito divino prima dell’umano, e gli fece dono della sua grazia prima che la natura avesse formato il suo corpo. Sì, aggiunge questo gran santo, Dio lo fece vivere in Sé prima che vivesse della vita naturale. Ma se vogliamo avere un’idea anche più sublime di questa grandezza, convien considerare che Gesù Cristo stesso, in quanto uomo, gli ha meritato queste grazie, e che la SS. Vergine fu eletta dall’eterno Padre per esserne depositaria. Oh! miei fratelli, quante grazie, quante virtù, quante grandezze rinchiuse in un solo santo! Appena Gesù Cristo è concepito nel seno della sua SS. Madre, parte, o meglio comanda a Lei d’andare prontamente a visitare sua cugina Elisabetta per santificare il suo precursore. « Pare, dice S. Pier Damiani, che il Salvatore sia venuto al mondo per lui  solo: lascia tutti gli altri da parte per cercar solo S. Giovanni » . Dà a sua Madre forza straordinaria per varcare le montagne della Giudea, il che Ella fa con incredibile prestezza. Al giungere di Maria S. Elisabetta e S. Giovanni Battista son presi da un dolce rapimento: Elisabetta apre la bocca per manifestare i favori che Dio le ha fatto con la visita di Maria; Giovanni Battista esulta di gioia, e adora il suo Dio e Salvatore, anche prima di vederlo con gli occhi del corpo. Ah! felice santificazione, che fu fatta da Gesù Cristo in persona con tanta benevolenza e sollecitudine! Ma a quest’amore premuroso di Gesù Cristo aggiungiamo, miei fratelli, le sollecitudini di Maria, dispensatrice delle sue grazie. Oh! qual felicità fu quella di S. Giovanni Battista che, uscendo dal seno della madre, fu posto tra le braccia della SS. Vergine! – Oh! miei fratelli, quale effusione di grazie nei tre mesi che rimase presso Elisabetta sua cugina! Quante volte prese tra le braccia il fanciullo! Quante volte lo portò e lo baciò! S. Ambrogio ci dice che la SS. Vergine aveva tale purezza e santità, soprattutto dopo aver concepito e poi dato alla luce il Figliuol di Dio, che a chiunque la vedesse comunicava la purità. Impossibile, dice questo Padre, mirarla e non sentirsi accesi d’amore per sì bella e preziosa virtù. S. Dionisio Areopagita dice che, anche dopo l’Ascensione di Nostro Signore, Ella aveva tali grazie, tal fascino, tali attrattive, tale santità, e si vedevano in Ella tanta maestà e tali raggi di divinità che, se la fede non l’avesse vietato, tutti l’avrebbero adorata come una dea. Se dunque chiunque soltanto la rimirasse, si sentiva pieno di sì grande purità, qual purezza non dovette comunicare a S. Giovanni Battista carezzandolo, abbracciandolo, effondendo sulle sue labbra lo spirito della grazia col suo alito verginale; poiché in quel momento Gesù e Maria erano, per così dire, una cosa sola? Gesù, in quel tempo felice per Maria, respirava per la bocca di Lei; il soffio e l’alito di Maria non erano altro che il respiro di Gesù. Se Maria dopo l’Ascensione di Gesù Cristo aveva sì grande impero sulle anime, qual torrente di grazia non dovette spandere su S. Giovanni quando Gesù era nel suo seno? O avventurato fanciullo! O madre felice! Quante grazie vi ha recato la visita di Maria! E non dovremo credere che, in quei momenti beati, il cuoricino di S. Giovanni fosse una fornace ardente delle fiamme dell’amor divino? Ma se tante grazie si accompagnarono alla sua nascita, che sarà del corso della sua vita? Ad ogni tratto Iddio gli concede nuovi favori; comincia a darglieli fin dal seno della madre e non cesserà che quando Erode gli farà troncare il capo per consegnarlo all’infame Erodiade.

3° S. Giovanni Battista è grande per la missione da tutta l’eternità assegnatagli da Dio Padre. Lo Spirito Santo ne parla con effusione d’ammirazione: ci fa sapere che l’eterno Padre l’ha scelto per annunziare agli uomini la venuta del Salvatore. I profeti e le figure l’avevano prenunziato molto tempo prima; ma Giovanni Battista è veramente la voce di Dio che grida nel deserto annunziando al popolo che il regno de’ cieli è vicino, che il Salvatore è già sulla terra. Vedendo venire a sé il Figliuolo di Dio, Giovanni, pieno di gioia, si volge verso il popolo e dice: « Ecco l’Agnello di Dio, ecco Colui che cancella i peccati del mondo » – (S. Giov. I, 29). Ecco il Redentore del mondo promesso ed aspettato da quattromila anni: è desso, e viene a redimere gli uomini… « Fate dunque frutti degni di penitenza! » (S. Matt. III, 8). Sì, miei fratelli, quest’ufficio di precursore è sì nobile che non abbiamo termini per parlarne degnamente. L’eterno Padre volle che S. Giovanni Battista sostenesse le parti del suo Figliuolo; a lui par che voglia affidata la cura della sua causa, come a cuore più puro d’ogni altro e più degno. Ma accresce poi quasi all’infinito la grandezza di S. Giovanni Battista l’aver avuto l’alto onore di battezzare il suo Dio: questa missione è ultimo compimento che mette interamente il colmo alla sua gloria. « O mio Dio! esclama S. Agostino con effusione di meraviglia, qual gloria maggiore pel servo che quella di battezzare il suo Salvatore e il suo Padrone? Qual onore per una creatura vedere a’ suoi piedi il Creatore! » (Sermo VI in Natali S. Joannis Baptistæ c. IV, 4). « Figliuoli miei, ci dice Tertulliano, per toccare il corpo adorabile di Gesù Cristo era necessario che S. Giovanni Battista avesse purità proporzionata a quella della S. S. Vergine », la qual cosa par che lo inetta quasi al pari di Lei.

4° S. Giovanni Battista è grande per le virtù sublimi che ha praticato. Non vi parlerò, miei fratelli, delle sue virtù interiori: è un abisso senza fondo, cui Dio solo poté scandagliare: tutt’al più possiamo parlare di quelle che apparvero agli occhi degli uomini, e li riempirono di stupore. Se consideriamo la sua penitenza, il suo zelo infaticabile, il suo distacco e la sua grande umiltà, non sapremo di quale convenga parlar per la prima. Dico innanzi tutto che uscì, ancor fanciullo, dalla casa paterna per andare in un deserto, ove visse solo in compagnia delle fiere selvagge: per veste aveva una tunica grossolana fatta di pelo di cammello: suo nutrimento erano un po’ di miele selvatico e qualche locusta (S. Matt. III, 4). Per bevanda aveva acqua soltanto, e in sì piccola quantità che Gesù Cristo disse di lui « che non mangiava né beveva » (Ibid. X I , 18), facendoci intender con ciò che prendeva scarsissimo alimento, tanto per sostentare la vita. Vediamo, sì, molti santi andare a passar nelle foreste parte dei loro giorni; ma avevano come alloggiare e provvedere alle loro necessità. San Giovanni solo, possiamo assicurarlo, entrò sì giovane nella solitudine. Infatti aveva diciotto mesi appena quando il re Erode ebbe il barbaro pensiero di far morire tutti i bambini dai due anni in giù. Zaccaria, padre di S. Giovanni, consigliò ad Elisabetta, sua consorte, di prender il fanciullo e fuggire per scampare al macello. Infatti dopo tutte le meraviglie che si eran vedute alla sua nascita, v’era motivo di temere che fosse preso pel Messia. Per salvar da morte il suo figliuolo Elisabetta fuggì frettolosamente nei boschi abbandonandosi nelle mani della Provvidenza; ma (ohimè!) quaranta giorni dopo morì (Vedi in Ribadeneira al 24 di Giugno i particolari qui riferiti). Gli ufficiali del re, andati da Zaccaria, gli chiesero ove fossero la madre e il figliuolo. Il padre rispose che non poteva dirlo. Sbuffando di collera, lo uccisero tra il vestibolo e l’altare; perché era allora a pregare nel tempio. Ma che sarà di S. Giovanni che non ha ancora due anni, in mezzo ad un bosco, senza padre, senza madre, senza speranza d’alcun d’aiuto umano? Ciò vi fa forse meraviglia; ma non temete: tutto accade per ordine preciso della Provvidenza. Sebbene i suoi parenti fossero gran santi, pur non erano degni d’aver cura di questo incomparabile fanciullo: questo onore era riservato agli Angeli. Morta appena Elisabetta, l’eterno Padre mandò, non solo un Angelo, ma uno stuolo d’Angeli che vegliarono alla conservazione di questo celeste fanciullo fino al tempo in cui fu capace di provvedere a se stesso. Sappiamo bene che il Signore mandò parecchie volte ai santi con che provvedere alle loro necessità: agli uni mandò corvi, come a S. Paolo primo eremita; ad altri cani, come a S. Rocco; o cervi come a S. Gille; comandò una volta ad un Angelo di recare il nutrimento al profeta Elia, mentre era perseguitato dalla regina Gezabele (III Re, XIX, 5). Ma quanto a S. Giovanni gli animali non avrebbero osato di accostarsi all’ambasciatore dell’eterno Padre. Neppur bastava un Angelo, era necessario che di lui s’occupasse tutto il Paradiso. Il nostro santo è dunque privo delle braccia materne, ma tosto scendono gli Angeli e lo circondano. « O mio Dio! esclama l’illustre Cardinal Baronio, qual prodigio di meraviglie è questo fanciullo che, anche nascendo, fa stupire cielo e terra! ». La sua penitenza comincia quasi con la vita. Ah! povero bambino, perché fai tu penitenza? Certo non è il solo che abbia fatto penitenza. Se scorriamo le vite dei santi, vi incontriamo rigori che riempiono di confusione la nostra mollezza. Gli uni passano sette od otto giorni senza mangiare e bere; altri, quale S. Simeone Stilita (Vite dei Padri del deserto T. VII), giungono a quaranta giorni; oppure tollerano tormenti la cui pittura fa morire di spavento, come un S. Venanzio, una S. Regina e molti altri. Vediamo però che tutti avevano peccato, e tutti perciò avevano bisogno di far penitenza per soddisfare alla divina giustizia. Ma S. Giovanni perché fa penitenza? La sua vita, dopo quella della SS. Vergine, non è la vita più pura e più santa di tutte? Eccone la ragione. Essendo ambasciatore dell’eterno Padre per annunziare la venuta del suo Figliuolo, doveva essere adorno delle più sublimi virtù, e la sua sola presenza doveva cominciare a scuotere e commuovere i cuori con l’esempio d’una vita sì innocente e insieme così penitente. Suo nutrimento e sua occupazione son lacrime e gemiti; non v’è virtù ch’egli non pratichi nel più alto grado di perfezione. Dopo tanti anni di lacrime e di penitenze lascia il deserto; ma per annunziare al popolo la venuta del Messia e prepararvelo; mostrò tanto coraggio perché sperava di dar la vita pel suo Salvatore, prima che il Salvatore la desse per lui. – Fu grande pel suo zelo. Parlava con tanto ardore, con zelo così acceso, che faceva tutti stupire. Si credeva vedere in lui il profeta Elia tornato sulla terra e salito sul suo carro di fuoco per convertire i peccatori più induriti. Nulla lo trattiene; dovunque trova il vizio lo combatte con zelo inaudito. Rimprovera ai peccatori la loro vita vergognosa, e li minaccia della collera di Dio, se non fanno penitenza: « Razza di vipere, dice loro, chi vi ha insegnato a fuggire la collera del Signore, vicina a cadere su voi? Fate dunque frutti degni di penitenza, non ritardate più la vostra conversione, poiché la scure è ai piedi dell’albero, e ogni albero che non porta buon frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco » (S. Matt. III, 7, 10). « Sì, esclama S. Bernardo, era talmente acceso d’amor di Dio, che le sue parole erano a guisa di ardenti carboni, capaci d’accendere i cuori più ghiacciati e convertire i più ostinati peccatori ». Se gli si chiedeva che cosa dovesse farsi per prepararsi alla venuta del Messia, rispondeva: « Chi ha due vesti ne dia una ai poveri. Chi ha pane ne dia a chi non ne ha » (S. Luc. III, 11). Finalmente nell’ardore del suo zelo, saputo che il re si abbandonava al vizio infame dell’impurità, va alla corte ed arditamente gli rimprovera una vita sì ignominiosa ed indegna. Eppur sapeva certo che questo passo gli costerebbe la vita! Non importa: la gloria di Dio è assalita, e ciò basta perché né minacce, né tormenti valgano a trattenerlo; si mette ogni altro riguardo sotto i piedi; crede d’essere al mondo solo per difendere la causa del suo Dio, e, dacché se ne presenta l’occasione, la coglie. Ah! piacesse a Dio che i suoi ministri ai dì nostri fossero tutti in eguali disposizioni, e né promesse, né minacce potassero indurli a tradire la loro coscienza! Sì, fratelli miei, questo santo ardeva di desiderio di dar la vita pel suo Salvatore. Oh! se avessimo tutti questa sorte felice, e facessimo a tal fine tutto ciò che possiamo, quanti peccati di meno, e quante opere virtuose e buone di più! – Egli è grande pel suo distacco dai beni di questo mondo e pel suo dispregio pur della vita. Nella povertà ha, in certo modo, superato Gesù Cristo. Se Gesù non volle nascere in una casa che appartenesse ai suoi parenti, tuttavia qualche tempo dopo venne a Nazareth, in casa di sua Madre. Invece S. Giovanni Battista abbandonò la casa paterna in età di circa diciotto mesi e non vi tornò più. Il Figliuolo di Dio fu assai povero nelle vesti e nell’alimento; S. Giovanni Battista lo fu, per così dire, anche di più. Il Figliuol di Dio aveva vesti ordinarie; egli ha soltanto una pelle di cammello irta di peli. L’alimento del Figliuol di Dio è un po’ di pane comune; quello di S. Giovanni Battista un po’ di miele selvatico e qualche locusta. Il Figlio di Dio riposava sopra un letto disagiato; S. Giovanni aveva per letto la nuda terra. Perciò Gesù Cristo medesimo ha detto che Giovanni Battista non mangiava né beveva per farci intendere la grandezza della sua penitenza. Il Salvatore del mondo aveva la compagnia dei suoi parenti; S. Giovanni Battista non ebbe altra compagnia che le bestie selvagge. Non è vero, fratelli miei, (e dobbiamo pur confessarlo) che di quest’oceano di virtù non può trovarsi il fondo, e quanto possiamo dirne, di fronte alla realtà, è nulla! – È grande per la sua umiltà. La terra, miei fratelli, non ebbe mai la sorte avventurata di vedere un santo umile del pari. Dopo la SS. Vergine egli è quanto v’ha di più grande, e si paragona a quanto v’è di più vile e di più debole sulla terra. Agli occhi del mondo gode la più alta stima: chi lo riguarda come un Angelo sceso dal cielo, chi lo crede il Messia. Invero i Pontefici e i capi del popolo giudaico avevano concepito di lui sì grande idea, che gli mandarono i più ragguardevoli della loro nazione, i sacerdoti e i leviti, per saper da lui, dalla sua propria bocca chi fosse. Gli domandarono prima s’era il Messia, perché una vita accompagnata da tanti prodigi, così ritirata e penitente, ai loro occhi, conveniva solo al Messia. Quell’abisso d’umiltà risponde loro senza rigiri: « No ». Non potendo persuadersi che fosse un uomo ordinario, gli domandano se è Elia, sapendo che questo profeta era operator di miracoli. Risponde di nuovo: « No: non sono » . — « Ma, gli dicono allora, se non sei né il Messia, né un profeta, dicci chi sei, perché possiamo dar risposta a quelli che ci han mandato » . — « Ebbene, risponde questo prodigio d’umiltà, io son la voce di colui che grida nel deserto: preparate le vie del Signore, fate penitenza » (S. Giov. I). Poteva mostrare in miglior modo la sua umiltà che dicendo d’essere un mero suono di voce risuonante nel deserto? Può trovarsi cosa più debole e di minor valore che il suono della voce? « Colui che viene dopo di me è infinitamente più grande di me, e io non son degno neppure di sciogliere il legacciolo delle sue scarpe ». Oh! umiltà incomparabile! Poteva a buon dritto attribuirsi la qualità di profeta,» perché mandato da Dio per annunziar la venuta del suo Figliuolo; ma, per distruggere la buona opinione che si aveva di lui, si serve delle parole più adatte a farlo confondere con la, comune degli uomini. « È facile, fratelli miei, dice S. Agostino, non desiderar lodi, quando niuno vuol darcene; ma è difficile non godere nell’udirle quando pubblicamente ci si danno ».

5° S. Giovanni Battista è grande dinanzi a Dio, perché Gesù di sua bocca ne ha fatto l’elogio, e ha lodato le sue belle virtù. Vi è certo gran differenza tra le lodi che danno gli uomini e quelle che Dio medesimo dà. Tutti gli uomini possono ingannarsi; ma Dio stima e loda soltanto ciò che merita d’essere stimato o lodato. Oh! qual gloria pel nostro santo essere stato grande dinanzi a Dio! È il maggior di tutti gli onori. Gesù Cristo ebbe di lui tanta stima, che non volle lasciarne far l’elogio da un uomo qualsiasi e neppur da un Angelo; volle farlo Egli in persona, facendo conoscer così che nessuna creatura, in cielo ed in terra, era capace di farlo degnamente. Leggiamo, sì, nella santa Scrittura che Dio, parlando di Mosè, di Giuseppe, di Nathan profeta e del profeta Elia, dice che furono grandi dinanzi ai re della terra; ma, quanto all’esser grande dinanzi a Dio, ciò è detto di S. Giovanni Battista soltanto. Se mi fosse lecito parlar così, direi che Dio pare volerlo eguagliare a se stesso. L’Angelo, nunzio dell’Incarnazione, usò le medesime parole parlando a Maria e ad Elisabetta: « Il Figliuolo vostro sarà grande dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini ». Ciò posto, fratelli miei, non ho ragione di dire che niuna creatura era capace di far l’elogio di quest’angelo vivente sulla terra? Gesù Cristo, è vero, ha lodato Maddalena per avere abbracciato i suoi piedi; ha lodato il centurione e la Cananea, dicendo che in tutto Israele non aveva trovato fede sì grande; mai ha parlato di qualche virtù in particolare; ma quanto al nostro santo si compiace singolarmente di parlar di ciascuna delle sue perfezioni. Uditelo quando, rivolgendosi ai Giudei, parla ad essi della grandezza di S. Giovanni: « Che cosa siete andati a veder nel deserto? Una canna agitata dal vento? » cioè un uomo ordinario, che abbia per sua porzione l’incostanza e la debolezza, e pieghi ad ogni vento? No, no, è un uomo incrollabile e inviolabilmente attaccato alla legge divina. Uditelo parlar della sua penitenza. « Chi siete andati a vedere? Forse un uomo delicatamente vestito come i mondani? No, uomini di tal fatta sono nelle case dei grandi ». Finalmente per estenderne la lode quasi all’infinito, dice « che tra i nati di donna niuno può superarlo » (S. Matteo XI, 11). Può forse dirsi di più, miei fratelli? Gesù Cristo nel lodare qualche virtù non la mise mai al di sopra di quella d’altri santi; ma nel dar lodi a Giovanni Battista ne esalta la santità al di sopra di quella di tutti gli altri uomini. Inoltre asserisce infine ch’esso « è profeta e più che profeta ». Oh! miei fratelli, quante grazie e quante benedizioni otterremmo se avessimo la bella sorte d’avere vera confidenza in questo gran Santo!…

6° S. Giovanni è grande dinanzi agli uomini. Parecchi secoli innanzi i profeti ne annunziarono la nascita e, parlando della sua venuta, usarono di tutta l’eloquenza che aveva dato loro lo Spirito santo. Il profeta Isaia lo dipinge sotto la figura d’una voce risuonante che si farà sentire per tutti i deserti della Giudea (Isai. XL, 3). Geremia lo paragona ad un muro di bronzo e ad una saetta infocata, per farcene conoscere la costanza e lo zelo per la gloria di Dio (Gerem. I, 18). Malachia lo chiama un angelo per mostrarci la bellezza e la grandezza della sua purità (Malac. III, 1). « Sì grande stima si aveva di lui, dice S. Giovanni Damasceno, che tutto il popolo lo seguiva credendolo il Messia. Quand’ebbe la bella sorte di battezzare Gesù Cristo, gli si sarebbero attribuite quelle parole che si udirono scender dal cielo: « È questi il mio Figliuolo diletto », se lo Spirito Santo, che apparve allora sotto forma di colomba, non avesse fatto conoscere il Figliuolo di Dio posandosi sul suo capo » . Dopo la sua morte si credette vedere nella persona di Gesù Cristo S. Giovanni Battista risorto. I Padri della Chiesa non sanno in quali termini parlare di lui; tanto al di sopra della loro scienza riconoscono essere i suoi meriti! S. Pier Crisologo lo chiama scuola di virtù, modello di santità, regola di giustizia, martire della verginità, esempio di castità, predicatore della penitenza, voce degli apostoli, luce del mondo, testimonio di Dio e santuario della SS. Trinità. Per darvi una prova della stima, in cui la Chiesa del cielo e della terra tiene il nostro Santo, vi dirò che Dio aveva ispirato alla sua Chiesa il pensiero di celebrar tre Messe nel giorno della sua nascita, come in quello della nascita del Salvatore: tanto conforme è la sua vita con quella del divino Maestro! Ebbene, fratelli miei, avevate voi tale idea della grandezza, della dignità e della santità di S. Giovanni Battista? Ah! perché, amici miei, abbiamo si poca devozione verso i Santi e sì poca fiducia in essi? Perché non ci siam mai dati pensiero di conoscere le virtù e le penitenze che han praticato e il potere che hanno presso Dio.

7° Finalmente S. Giovanni Battista è grande per la sua morte. Essa è pienamente conforme a quella di Gesù Cristo. Gesù Cristo ha tracciato la via del cielo; ma quanto a S. Giovanni Battista, l’ha fatto camminare innanzi a sé. S. Giovanni lo ha preceduto nel deserto, ha abbracciato prima di Lui la penitenza esteriore, prima di Lui ha predicato, prima di Lui è morto. Il Salvatore fu abbandonato da tutti i suoi amici, eccetto la sua SS. Madre; S. Giovanni pare lo sia stato anche di più. Gesù Cristo, nella sua Passione, fu seguito da alcune pie donne che piangevano; S. Giovanni non ebbe chi lo consolasse: ad esempio del divino Maestro moriva fra i tormenti e nell’abbandono universale. Quando il beato S. Stefano fu lapidato da’ Giudei, ebbe la sorte felice d’essere incoraggiato dal Signore medesimo, che schiuse i cieli, e per questa apertura gli si mostrò. S. Giovanni soffre una morte anche più amara che S. Stefano; perché, se Gesù avesse voluto consolare S. Giovanni, non avrebbe avuto bisogno d’aprire i cieli; ma solo di far pochi passi per venire dalla Galilea in Giudea. Avrebbe potuto almeno mandargli un angelo per consolarlo, come lo mandò a S. Pietro che, imprigionato nella città stessa di Gerusalemme per ordine di Erode, fu visitato da un Angelo che spezzò le sue catene e lo restituì sano e salvo ai fedeli (Atti degli Ap. XII). Perché dunque, fratelli miei, Gesù Cristo non fece così a riguardo del suo congiunto, ch’era di tutti i santi il più innocente, il più austero tra tutti i confessori ne’ rigori della penitenza, il più casto tra i vergini, il più mortificato e il più tormentato tra i martiri nella sua passione e nella sua morte? Non vi meravigliate, fratelli miei, di vedere un santo sì grande, di cui Dio medesimo ha fatto tanti elogi, morire senza consolazione e nell’ultima sua ora abbandonato; dopo essere stato in tutto il corso della sua vita immagine vivente di Gesù Cristo, doveva esserlo anche nella sua morte. Come il Figliuol di Dio ne’ suoi ultimi momenti dovette essere abbandonato dal Padre suo, così il nostro santo dovette essere abbandonato da Gesù, suo congiunto. Lo zelo che Gesù Cristo mostrò per la gloria del Padre suo, la sua libertà nel riprendere il vizio, gli attirarono accusatori e falsi testimoni. L’istesso fu di S. Giovanni Battista (S. Marc. VI). Erode, vedendo la sua libertà nel riprenderlo, lo fece imprigionare per richiesta dell’adultera Erodiade. Quelli che resero falsa testimonianza contro Gesù erano persone di niun conto; quei che fecero condannare S. Giovanni Battista erano quanto può darsi d’infame sulla terra: un re impudico, una donna adultera e la figliuola di lei non meno spregevole. Mentre il re e tutta la sua corte s’abbandonavano alla crapula e all’impudicizia, questa ballò con tanta grazia che il re promise di darle qualunque cosa volesse, foss’anche la metà del suo regno. L’infame fanciulla si rivolse alla madre per sapere che cosa dovesse chiedere al re. La madre adultera, nemica del più santo tra gli uomini, le disse: « Va, prendi questo piatto e recami il capo di Giovanni ». La sciagurata figlia, degna di tal madre, torna subito dal re e gli dice: « Dammi subito su questo piatto la testa di Giovanni Battista ». Parve che a tal domanda il re inorridisse; ma, non volendo aver nome d’incostante, comandò ad un manigoldo di andar a decapitare Giovanni. La rea fanciulla, lieta d’aver quella testa più che se avesse avuto la metà del regno d’Erode, andò tutta in festa a portarla alla madre, la quale, sbuffando di collera, osò afferrare con le sue mani impure la lingua del più santo tra i figliuoli degli uomini, e preso lo spillo con cui teneva ferme le trecce, la trafisse in mille punti, per vendicarsi della libertà con cui le aveva rimproverato i suoi delitti. Ohimè! miei fratelli, chi non sarà pieno di confusione alla vista di tanta crudeltà? Gesù Cristo fu bagnato del suo sangue nella flagellazione; ma non meno lo fu S. Giovanni Battista nella sua passione, poiché par che il suo sangue gli abbia fatto come un secondo vestimento. Gesù Cristo dopo morte non fu più perseguitato; ma il nostro santo provò anche dopo morte il furore dei suoi nemici. Chi non si meraviglierà di vedere così gran santo soffrir tanti tormenti senza che Gesù ne prenda la difesa? Ah! miei fratelli, fu perché Dio voleva innalzare Giovanni al più alto grado di perfezione e di gloria. Volle che la sua vita e la sua morte fossero un continuo martirio. Dio poi non tardò a punire gli autori della morte di Giovanni. La fanciulla impudica, un giorno passando un fiume, fu presa, dicesi, tra due massi di ghiaccio, che le troncarono il capo. Erode poi e l’adultera Erodiade, accusati da Agrippa d’aver macchinato una sedizione e costretti ad andar esuli in Ispagna, morirono entrambi per via oppressi da ogni sorta di mali. Quanto abbiam detto ci mostra che i patimenti e le persecuzioni furono e saranno sempre il retaggio dei santi e dei buoni Cristiani, e che, quando siam spregiati e perseguitati dai seguaci del mondo, dobbiamo rallegrarcene. Chiediamo a Dio, miei fratelli, nell’ottava di questa bella festa, che voglia concederci, per l’intercessione di questo gran santo, le virtù ch’egli praticò nel corso della sua vita, e soprattutto la sua umiltà ch’egli spinse a così alto grado; la sua purità che difese a costo della vita; il suo distacco dai beni terreni e il suo disprezzo della morte; finalmente la sua perfetta unione con Dio. Sì, rivolgiamoci con fiducia a S. Giovanni Battista; ricordiamo che in cielo è assai più potente che sopra la terra, e ci otterrà grazie nel tempo e gloria nell’eternità. Questa felicità vi desidero.

CREDO …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps LXXXIV:2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob: remisísti iniquitatem plebis tuæ. [Hai benedetto, o Signore, la tua terra: liberasti Giacobbe dalla schiavitù: perdonasti l’iniquità del tuo popolo.]

Secreta

Devotiónis nostræ tibi, quǽsumus, Dómine, hóstia iúgiter immolétur: quæ et sacri péragat institúta mystérii, et salutáre tuum in nobis mirabíliter operétur.

[Ti sia sempre immolata, o Signore, quest’ostia offerta dalla nostra devozione, e serva sia al compimento del sacro mistero, sia ad operare in noi mirabilmente la tua salvezza.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Is XXXV: 4.
Dícite: pusillánimes, confortámini et nolíte timére: ecce, Deus noster véniet et salvábit nos.

[Dite: Pusillànimi, confortatevi e non temete: ecco che viene il nostro Dio e ci salverà.]

Postcommunio

Orémus.
Implorámus, Dómine, cleméntiam tuam: ut hæc divína subsídia, a vítiis expiátos, ad festa ventúra nos præparent.

[Imploriamo, o Signore, la tua clemenza, affinché questi divini soccorsi, liberandoci dai nostri vizii, ci preparino alla prossima festa.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

Ite, Missa est.
R. Deo gratias.

LO SCUDO DELLA FEDE (139)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (6)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE VI.

L’ infallibilità del Papa, e de’ Generali Concili..

36. Prot. Se dunque il Papa di Roma si contentasse di esser riconosciuto qual vero successor di S. Pietro nella suprema dignità e potestà di ordine e di giurisdizione sopra tutta la Chiesa, nulla vi sarebbe più che ridire. Ma egli oltre a questo, pretende di avere il dono dell’infallibilità in tutte le sue decisioni, ex Cathedra, come sogliono i Papisti appellarle; cosicché i fedeli debbono riguardarle come tante infallibili verità! Oh; questo è troppo! Tal detestabile errore in verun modo deve tollerarsi nella Chiesa di Dio. Non è egli vero?

Bibbia. Sempre che il Papa succede a S. Pietro nella Supremazia su tutta la Chiesa, nella dignità di Sommo Pastore, succede anche, per conseguenza, in tutte quelle prerogative che come tale ebbe S. Pietro. Ora è fuor di dubbio che unitamente alle altre prerogative del Primato ebbe da Gesù Cristo S. Pietro il gran dono dell’infallibilità nel suo magistero. Ascoltane di nuovo le divine parole. « E Gesù rispondendo disse a lui…. Ed io dico a te che tu sei Pietro (pietra), e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’ inferno non prevarranno contro di lei. » (Matth. XVI, 18 e segg.). Ora poi essendo certo che l’inferno non può. prevalere contro la Chiesa che per via dell’errore, è certo parimente che questa divina promessa « le porle dell’inferno, etc. » equivale ad una manifesta dichiarazione dell’infallibilità di S. Pietro. Imperocché, essendo stata tutta la Chiesa affidata al supremo governo e direzione di lui, è manifesto che, se egli nel suo magistero fosse stato soggetto ad errare, e quindi ad insegnare l’errore, a sanzionarlo colle sue decisioni, alle quali, per di più, è obbligato ciascuno assolutamente ad obbedire, ben presto l’inferno prevalso avrebbe contro la Chiesa. Né sono men decisive le parole che seguono: « Tutto ciò a che avrai legato sopra la terra, sarà legato anche ne’ cieli: e tutto ciò che avrai sciolto sopra la terra, sarà sciolto anche ne’ cieli. » Imperocché con tal promessa Gesù Cristo solennemente si obbliga di ratificare in cielo quanto avesse Pietro ordinato, deciso, etc. sopra la terra. Dunque, se non vuoi dire che siasi Gesù Cristo impegnato di ratificare anche l’errore; ti è forza convenire aver Egli concesso a S. Pietro l’infallibilità. Qui non si dà via di mezzo.

37. Parimente Gesù disse a S. Pietro: Pasci i miei agnelli: Pasci le mie pecore (Giov. XXI, 15-17) cioè i fedeli tutti, senza eccezione, Laici e Pastori; i quali spiritualmente non si pascono che colla scienza e colla dottrina, siccome è scritto: « Darò a voi pastori secondo il cuor mio, e vi pasceranno colla scienza e colla dottrina? » (Gerem. III, 13.). Posto ciò, è cosa evidente che Gesù Cristo concesse a S. Pietro l’.infallibilità, perché in caso diverso ne sarebbe avvenuto: 1° Che Egli avrebbe assegnato alla sua Chiesa una guida erronea, collo obbligo a tutti di seguirla; cosa impossibile, e che non può immaginarsi senza empietà. 2.° Che neppure avrebbe potuto sussistere lo stesso Primato di S. Pietro; poiché consistendo questo principalmente nella potestà, e potestà inappellabile, di farsi obbedire in materia d’insegnamento, di dottrina, di fede; è chiaro che nessuno sarebbe stato tenuto a obbedirgli, se nelle sue ordinazioni e decisioni fosse stato soggetto all’errore; e quindi in ambedue questi casi la Chiesa stessa non avrebbe potuto, almeno per lungo tempo, sussistere, perché, mancando di un punto sicuro di appoggio, l’inferno prevalso avrebbe contro di essa. Onde nelle attuali disposizioni della Provvidenza Divina, non può negarsi l’infallibilità di S. Pietro senza negarsi nel tempo stesso il suo Primato, e tanto essa è necessaria quanto è necessaria la esistenza della Chiesa, la salute del genere umano, l’onore stesso di Gesù Cristo.

38. Finalmente Gesù disse a Pietro: « Simone, Simone, ecco che satana va in cerca di voi per vagliarvi come si vaglia il grano: ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno: e tu una volta ravveduto conferma i tuoi fratelli. » (Luc. XXII, 57). Ora dal testo è chiaro che le insidie di satana erano dirette contro tutti gli Apostoli, che il pericolo era a tutti comune. Perché dunque questa singolarissima preghiera per la fede del solo Pietro? Il perché ti è dichiarato in quelle ultime parole: « E tu una volta ravveduto conferma i tuoi fratelli. » Dalle quali è manifesto che tal preghiera non ebbe per oggetto quella fede che riguardava Pietro come persona privata, ma come Sommo Pastore, quella che a tutti i fedeli servir doveva di norma, ossia l’infallibilità di S. Pietro in materia di fede, di dottrina, che è la fede necessaria al Capo Supremo visibile di tutta la Chiesa, e la sola che può esser atta a confermare i fratelli.

39. Prot. Mi persuaderebbero le vostre ragioni, se smentite non fossero dagli eventi; imperocché: 1.° S. Pietro dopo questa preghiera negò Gesù Cristo. « Ma egli lo negò, dicendo : etc. » (Luc. XXII, 57). 2.° S. Paolo riprese S. Pietro: « perché era riprensibile? » (Gal. II, 11. )Ecco dunque svanita col fatto l’infallibilità di S. Pietro.

Bibbia. Rispondo al I.° che la caduta di Pietro non avvenne per mancanza di fede, ma per timore, per puro effetto di umana fragilità, come è chiaro dal testo: poiché appena caduto, «uscì fuori e pianse amaramente. » (Luc. XXII, 62) Che se anche caduto fosse per mancanza di fede, ciò nulla varrebbe pel caso nostro; essendo certissimo che la sua missione di Capo della Chiesa, e quindi la necessaria sua infallibilità, non cominciava che dopo l’ascensione al cielo del Redentore. Quanto al 2.° è noto dal contesto che fu ripreso da S. Paolo non per cose riguardanti la fede, né la dottrina, o la disciplina universale, ma perché privatamente usava verso i Giudei de’ rispetti umani non convenienti; né allora operava come Capo della Chiesa, ma come privata persona: nei quali casi nessuno ti dirà che il Sommo Pastore sia infallibile.

40. Prot. Concedo che S. Pietro fosse infallibile, ma non ne segue da ciò che sia infallibile il Papa, quantunque suo successore; imperocché anche agli altri Apostoli fu concessa l’infallibilità, eppure è certo che non passa ne’ Vescovi lor successori.

Bibbia. Non vi è parità di ragione: perché l’infallibilità concessa agli altri Apostoli era una prerogativa straordinaria, e quindi puramente personale: la quale perciò finiva con essi, né ad altri passar doveva. Ma l’infallibilità concessa a S. Pietro come a Capo della Chiesa e pel governo di essa è una prerogativa ordinaria, di officio, essenzialmente annessa al Primato; onde passa insieme con lo stesso Primato ai suoi successori. Infatti, osserva che, unitisi gli Apostoli in Concilio per decider la controversia delle osservanze legali, S. Pietro disse loro: « Uomini fratelli, voi sapete come fin da principio Dio fra noi elesse che per bocca mia udissero le genti la parola del Vangelo e credessero » (Act. XV, 7) S. Paolo poi dice: « Io sono stato costituito predicatore, e Apostolo dottor delle Genti. » (I Tim. II, 7) E Gesù aveva detto a tutti gli Apostoli: « Come il Padre mandò me; anch’io mando voi. » (Giov. XX, 21) Come dunque può intendersi che Dio abbia eletto che non dalla bocca di Paolo, o degli altri Apostoli (mentre essi pure erano infallibili, ed a ciò erano eletti), ma dalla bocca di Pietro debbano le genti udire la parola del Vangelo e credere, se non che in tutti i dubbi e controversie in materia di fede e di dottrina la Chiesa tutta ricorrer deve in ogni tempo alla Sede di Pietro per udirne le infallibili decisioni, gli oracoli di verità? Trovane un’altra ragione, se puoi.

41. Prot. Questo è troppo! Imperocché Gesù disse pure agli Apostoli: « Ecco che io sono con voi per tutti i giorni sino alla consumazione de’ secoli. »(Matt. XVIII, 20)  — « Dove sono due o tre congregati nel nome mio, quivi son’io in mezzo di essi. » (ivi, XVIII. 20).  Di più, gli Apostoli stessi, terminato il Concilio da voi citato, cosi scrissero ai fedeli: E paruto allo Spirito Santo ed a noi, etc. » – V. 28. – Dunque non è vero che per le decisioni in materia di fede, di dottrina sempre ricorrere si debba alla Sede di Pietro, agli oracoli del Papa: anzi ciò si appartiene al corpo dei Pastori e dei fedeli insieme riuniti, siccome sta scritto: « la Chiesa (non il Papa) è colonna e sostegno della verità. » (I. Tim. III, 15)

Bibbia. È innegabile che anche al corpo dei principali Pastori riuniti in Concilio rappresentante tutta la Chiesa (non già al corpo dei fedeli in generale. Perché non a questi, ma ai soli Apostoli eran dirette quelle divine parole) è promessa l’infallibilità: ma vi è apposta la condizione che siano congregati in nome o per autorità di Gesù Cristo: Nel nome mio. Ora è fuor di dubbio che verun concilio può esser congregato in nome o per autorità di Gesù Cristo, se non da colui nelle mani del quale Gesù Cristo ha depositato la divina sua autorità su tutta la Chiesae al quale disse: « Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore. » È vero che gli Apostoli dissero: « È paruto allo Spirito Santo ed a noi: » ma è vero ancora che in quel Concilio presedevail solo Pietro, che egli e non altri pronunziò la dogmatica decisione, dicendo: « Perché tantate voi Dio per imporre sul collo dei discepoli un giogo, che né i Padri nostri, né noi abbiamo potuto portare? Ma per la grazia di Gesù Cristo CREDIAMO esser salvati nello stesso modo che essi. » (Act. XV, 10-11.) Onde in questo senso soltantotal decisione fu decisione di tutto il Concilio, in quanto che fu da Pietro tutti per divino impulso convennero nello stesso punto di verità; e però dissero: « È paruto allo Spirito ed a noi. » Quello che più monta si è che S. Pietro pronunciò quella solenne decisione non solo senza aspettare il parere degli altri, ma interrompendoli improvvisamente nel fervor della disputa. « Mentre ferveva la disputa, alzatosi Pietro, disse, etc. » Da tutte queste cose insieme considerate risulta chiaramente, 1° che il Capo Supremo della Chiesa può decidere anche senza il Concilio, ma non viceversa: 2.° che non vi è Concilio legittimo atto a rappresentare la Chiesa per decidere, se non è congregato dal Santo Padre, o almeno di suo consenso: 3.° esser necessario che sia da lui presieduto immediatamente, o mediatamente: 4° che a lui solo appartiene pronunziare definitivamente, o almeno ratificare le decisioni, onde abbiano forza di obbligare; tanto più che a lui solo fu detto : « Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno: … e tu conferma i tuoi fratelli. » Onde ben vedi che alla fin fine tutti ricorrer debbono alla Sede di Pietro. Siccome poi tanto il Capo Sapremo, o Papa, quanto il Concilio unito al Capo Sapremo rappresentano veramente tutta la Chiesa, perciò la loro infallibilità e decisioni si dicono e sono decisioni e infallibilità della Chiesa, e quindi all’uno, ed all’altro si riferisce quella divina sentenza: « La Chiesa è colonna e sostegno della verità. » La qual sentenza è pure una prova di più della continuazione della infallibilità di Pietro nei Successori suoi; senza della quale non potrebbe tal sentenza verificarsi.

42. Prot. « Io ho mancato di rispetto al Papa. Io me ne pento. Degnatevi riferire al Santo Padre, che io non domando che di ascoltare la voce della Chiesa. » (Lutero, in Disput. Lipsica, Opp. T. 4, p. 213.) « Io non pretendo di dubitare né del Primato e dall’autorità della Santa Sede, né di cos’alcuna che sia contraria alla potestà del Papa. » (il medes. Appellat. In Conc. Dominic. 28 Novemb. 1518, Opp. T. 1) « Gesù Cristo disse: Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, ec. Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore. Tutto il mondo confessa che in questi passi è asserita l’autorità del Papa, che la fede di tutto il mondo dee conformarsi a quella che professa la Chiesa Romana. Io rendo grazie a Gesù Cristo di questo, che ha conservato sulla terra con grande miracolo questa unica Chiesa, che sola può mostrare che vera è la nostra fede; di sorte che Ella mai in alcun decreto si è allontanata dalla vera fede » (Lutero, Opp. T. 1, p. 178-188). « La Chiesa vien dichiarata: il grande e speciale sostegno della verità. – e i suoi vari ministri si dicono mezzi ad aggiustare ogni differenza ed incertezza di dottrina, e sicurare l’unità della fede: e si fa a lei una diretta promessa, che la parola di verità a lei affidata non mai si perderà, e ciò in conseguenza della sempre presente assistenza dello Spirito Santo. Come i settarii protestanti intendano questi passi io noi so: come, per esempio, è inteso in alcun modo il primo citato da quelli che negano una Chiesa visibile. Dall’altro canto se sola una Chiesa visibile può esser sostegno e mantenimento della verità, e se perciò si parla quivi di Chiesa visibile, si vede bene quanto alto debba esser l’officio, quanto augusto e magnifico il privilegio a lei qui assegnato. Forse che S. Paolo non parla in queste parole di qualche cosa esistente al tempo suo?… Sicuramente, dunque, lo Spirito dell’Onnipossente Dio si è impegnato a lei pel mantenimento della fede da generazione in generazione sino alla fine del mondo. » (il celebre Newman quando era protestante, nell’Opera Romanism and Protestantism.). « A meno che non si volesse rinunziare di esser conseguenteseco medesimo, certa cosa ella è esservi un solo sovrintelligibile, o come altri dicono, soprannaturalismo, cioè il Romano-Cattolico.Questo dilungandosi dalle usanze de’ protestanti,… si giova della Scrittura e della Tradizione, e si attiene a quella esposizione che ne dà la Chiesa. Per la qual cosa non può andare errato, essendo tutto preveduto e provveduto. Se qualche dubbiezza in alcun membro della Chiesa pur rimanesse, vi ha un fonte di luce, al cui raggio sottoponendosi, comparisce vera e chiarissima la decisione di lei. » (Krug, Parere filosofico in materia di Cattolicesimo). – « È dannoso e terribile credere qualche cosa contro la fede della Chiesa…. Il Salvatore disse in S. Matteo – XVIII. 20. – Io sono con voi sino alla consumazione de’ secoli. – E S. Paolo – I. a Tim. III. 15. – La Chiesa-è la colonna ed il sostegno della verità. – Per conseguenza, se Dio non può mentire, la Chiesa non può errare. » (Lutero, Lettera ad Alberto di Prussia) « Il consenso di tutti i fedeli mi ritiene nella riverenza all’autorità del Papa. » (Il medes. In Disput. X. Lipsica, Opp. T, 1, p. 251) « Il Papa ha il diritto di convocare il Concilio. » (Melantone, Lib. 4, Epist. 196). « La religione qual’ella fu, ed è al presente, si conserva tutta bella e maestosa pel sublime ministero de’ Papi. » (Giov. Moller, Op. T. III, p. 156, ediz. di Stuttgart). « Roma non è mai venuta a’ patti coll’errore, per farsene un amico tirandolo dalla sua parte. Lungi da ogni sorta di viltà, ma generosa e forte, non ha mai inchinalo il suo capo, né abbassate le sue pupille in faccia ad una sola eresia. Senza punto riguardare a cosa alcuna, per difesa della più piccola delle dottrine sue, recise e ributtò da sé la Chiesa Greca datasi a seguir l’errore, sebbene questa costituisse a que’ tempi la metà del mondo cristiano. » (Herder, Idee sulla Storia, dell’Umanità. T. 2, p. 200).

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (53) – LA VERA E LA FALSA FEDE (VIII.)

LA VERA E LA FALSA FEDE –VIII.

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

PARTE SECONDA.

SI CONFERMA ULTERIORMENTE LA VERITÀ DELLE ESPOSTE DOTTRINE

§ XV. – L’effetto che deve necessariamente produrre la discordia delle opinioni si è di renderle tutte incerte. Osservazione sopra di ciò di Cicerone applicabile a lutti gli eretici. Quale è il loro più ordinario modo di avere una opinione. Senza l’autorità o il consenso non si può esser certo della verità dei proprj raziocinj. Testimonianze di Cicerone sopra questa materia. Col leggere solo la Scrittura, l’eretico si forma opinioni e non credenze intorno alla religione. Perciò tra i protestanti non vi sono dommi, ma sterili e vane opinioni.

Or qual sarà mai l’effetto di questa infinita discrepanza di opinioni, onde fra gli eretici le sette sono ostili alle sette, e gl’individui in guerra cogl’individui? L’incertezza e il dubbio. S. Tomaso lo ha detto: « Quando si vede che diversi fra coloro che si stimano sapienti opinano diversamente fra loro sopra di una cosa stessa, per altro dimostrata come verissima, e diversamente la insegnano, questa stessa cosa diviene dubbiosa ed incerta: Apud multos in dubitatone permanent ea quæ sunt verissime demonstrata, cum videant a diversis, qui sapientes dicuntur, diversa doceri. Cicerone aveva fatto di già tanti secoli prima la stessa osservazione, e citava l’esempio dei filosofi per prova della sua verità. Imperciocché, nel secondo degli accademici, dopo di avere enumerate le diverse opinioni dei filosofi intorno a Dio, e messi in contraddizione fra loro Zenone e Cleante, il maestro e il discepolo; dei quali il primo sosteneva che l’etere è il sommo Dio, e l’altro che il Dio supremo regolatore dell’universo si è il sole: Tullio conchiude appunto così: « Questa dissensione che vediamo regnare tra i capiscuola della filosofia intorno a Dio ci obbliga ad ignorare il Signor nostro; ed ormai non possiamo più saper con certezza se dobbiamo prestare l’omaggio della nostra servitù all’etere, ovvero al sole: ltaque cogimur, dissensione sapientum, dominum nostrum ignorare: quippe qui nesciamus, soli an etheri serviamus. Così pure, dopo aver fatto il quadro delle sentenze contraddittorie dei filosofi, sull’anima umana, dice: « Di queste contrarie sentenze, presentate tutte come vere, quale però sia la vera in realtà, ormai non può altri saperlo fuorché un Dio. In quanto a noi uomini, i filosofi colle loro dissensioni ci lasciano nell’incertezza: e nemmeno ci permettono  di decidere quale sia la vera: Harum sententiarum qua vera sit, Deus aliquis viderit: qua verosimilis, magna quæstio est. » – Ora allo stesso modo è obbligato a discorrerla 1’eretico intorno alle verità cristiane. Le opinioni diverse, i contrari sistemi, che tante migliaia di sette professano intorno a queste medesime verità, devono rendergliele necessariamente dubbiose ed incerte. Ed incerto pure diverrà per lui se il vero Cristianesimo sia fra i ruteni o fra i Greci, fra i luterani o fra i calvinisti, fra i metodisti o fra i quaccheri, fra presbiteriani o fra gli anglicani, fra i sociniani o fra gli anabattisti. Né là testimonianza della sacra Scrittura, in cui queste sette si vantano di aver trovata la loro fede, può rassicurarlo: perché è impossibile che la stessa Scrittura contenga, sopra uno stesso articolo, opinioni cosi contraddittorie come sono quelle onde una setta dall’altra discorda. Immaginate ancora che le sette nate dalla ribellione alla vera Chiesa non siano più di cento (quando si contano per migliaja). L’individuo di una di queste sette, per poco che ragioni, come potrà mai essere certo che la dottrina della sua setta sia la vera quando vede che le altre novantanove la condannano come eretica e come falsa? Con qual dritto dirà che tutte queste sette (che pur assicurano di aver seguite le stesse guide, la Scrittura e la ragione) sono nel falso, e la sua sola setta è nel vero? Sopra qual titolo accorderà il privilegio dell’infallibilità alla setta propria, e lo negherà a tutte le altre? Che sarà poi se, come si è notato, consideri l’infelice settario che anche nella setta propria degl’individui che la compongono non intendono poi allo stesso modo le dottrine che vi si processano? Non può dunque l’eretico appoggiarsi fuori di sé, sopra una fede comune, dove comun fede non vi è. Non può prendere almeno come in imprestito la certezza degli altri, se gli manca la propria; e lungi dal ritrovare fuori sé quell’appoggio possente alla sua credenza che i Cattolici, per sempre meglio confermarsi nella loro, ritrovan nella perfetta conformità del credere di tutta la Chiesa; non trova nella varietà delle opinioni di tante sette contrarie alla sua e degli stessi individui della sua medesima setta che motivi di dubbio e d’incertezza. Privo adunque ad un tempo e del sostegno dell’ autorità della Chiesa, che non riconosce, e del soccorso della grazia della fede, che non implora, e dell’appoggio della conformità delle altrui credenze colle sue, che non ritrova, rimane l’eretico perfettamente isolato dal cielo e dalla terra, dagli uomini e da Dio. Rimane abbandonato unicamente ai suoi lumi individuali e privati, in mano del suo consiglio e del suo giudizio, e non può contare che sopra sé stesso per indovinare la vera religione. Ora è egli facile che un viandante, lasciato solo in un immenso deserto, dove non vi è né sentiero né guida, ritrovi la sua strada per arrivare alla patria? Perciò la maggior parte degli eretici che ragionano, evitano di ragionare per accertarsi della vera religione. Non han coraggio d’intraprendere un lavoro, di cui l’immensa difficoltà è certa, incertissimo il risultato. – Accade dei settarj della religione ciò che Cicerone dice dei settarj della filosofia: nella età ancor tenera, o per compiacenza verso di un parente e di un amico, o abbagliati dall’eloquenza di un maestro da cui hanno ricevute le prime lezioni, pronunziano giudizio di cose che ancora non intendono, e si attaccano tenacemente al primo sistema che loro si è offerto, come chi ha fatto naufragio ed è sbattuto dalla tempesta si afferra al primo sasso che gli viene incontro: firmissimo tempore ætatis, aut obsecuti amico cuidam, aut una alicuius, quam primum audierint, oratione capti de rebus incognitis judicant; et ad quamcumque sunt disciplinam, tamquam tempestate delati, ad eam tamquam ad saxum adhærescunt. Hanno poi un bel dire che hanno  dato a tal sistema la preferenza perché insegnato da un uomo di maggior sapienza e di maggiore dottrina degli altri. Essi  mentiscono a se stessi. E come mai uomini ancora rozzi ed ignoranti potevano da per se stessi sopra ciò formare giudizio? E non si ricerca di fatti una consumata sapienza per decidere chi è più sapiente? Nam quod dicunt, se credere ei quem  indicant fuisse sapientem, probarem si idipsum rudes et indocti indicare potuissent. Statuere enim quis sit sapiens, vel maxime videtur esse sapientis. I più dei filosofi adunque non è già che credan vere le loro dottrine, ne conoscono anzi la falsità e l’errore. Ma siccome, per una incomprensibile frenesia, quest’errore, adottato da essi una volta, è loro amabile e caro; così ostinatamente lo diffondono, amando meglio di errare di quello che ricercare con animo imparziale la verità, che consiste in quello che SEMPRE E DA TUTTI si crede, e sì dice: Sed nescio quomodo plerique errare malunt, eamque sententiam, quam adamaverunt, pugnacissime defendere quam sine pertinacia quid COMSTANTISSIME dicatur exquirere (Àcad., lib. 1). –  Or ecco la storia altresì di quasi tutti gli eretici; sono pure essi pure lontanissimi dal credere, in faccia a tante contrarie testimonianze, che la loro setta o la loro dottrina è certamente la vera. Ma, o perché l’adottarono una volta nell’interesse di qualche passione, o perché vi sono natie cresciuti, vi si ostinano; e preferiscono le stravaganze e le turpitudini di un eresiarca privato alle credenze della Chiesa universale. – Molto più dopo che l’eresia, rivoltasi ad arrestare, per le vie del rispetto umano, le continue conversioni alla fede cattolica. che non può più arrestare per le vie della discussione o della tirannia, è giunta ad accreditare in Europa la massima che un uomo onesto non cambia mai religione: massima orribile., infernale, perché significa o che tutte le religioni sono egualmente buone per salvarsi, ciò che, come qui appresso vedrassi, è un’assurdità ed una bestemmia: o che, non essendovene se non una sola che conduca alla salute, l’uomo onesto che se ne trova fuori non deve abbracciarla, ma sacrificare ad un misero puntiglio Dio. l’anima, l’eternità, ciò che è il cumulo del delirio. Non sono però mancati, né mancano pur tuttavia degli eretici che, colla Scrittura alla mano, che leggono e rileggono di continuo, cercano di formarsi una religione. Infelici però! essi coi privati loro sforzi non arrivano, né possono mai arrivare a nulla di certo e di sicuro. Imperciocché egli è fuor di dubbio che l’uomo isolato e ridotto ai mezzi individuali di conoscere non è certo se non delle verità per sé note e immediatamente evidenti, cioè delle verità di semplice percezione; sia che le conosca immediatamente coll’intelletto (lnlellectus simpliciter percipiens semper est verus, S. Thomas); sia che le riceva per mezzo dei sensi, il cui giudizio, circa le cose di loro particolar competenza, è certo e sicuro (Sensus circa sensibile proprium sempre est vena, idem). E la ragione di ciò si è che, fino a tanto che si tratta di semplici percezioni, sì l’intelletto come il senso è sempre passivo, e quindi, dice lo stesso S. Tomaso, riporta fedelmente l’impronta della verità da cui è stato informato, come la cera riceve e ritiene l’impronta del sigillo che vi si è impresso. Ma quando trattasi di verità, di deduzione e di raziocinio, in cui l’intelletto divide e compone e diviene attivo e vi mette qualche cosa del proprio, nulla di più facile che l’ingannarsi (Error est in intellectu componente rei dividente, idem). E perciò ha detto pure S. Tomaso:« Troppo sovente accade che la ragione umana, camminandoper la via dell’inquisizione privata, incontri l’errore mentre crede di abbracciare la verità; attesa la debolezza del nostro intelletto nel ben giudicar delle cose, e la facilità che vi è da prendere per una verità un’illusione della fantasia (lnvestigationi rationis humanæ plerumque falsitas admiscetur, propter debilitatem intellectus nostri et phantasmatum admixtionem). » E perciò accade che anche le cose di cui la privata ragione è riuscita a persuaderai sulla testimonianza di una dimostrazione ben fatta rimangono incerte per l’uomo isolato; perché non può mai, finché è solo:  assicurarsi di avere tutti evitati i tredici scogli delle fallacie; un solo dei quali in cui s’intoppi basta a distruggere la rettitudine della dimostrazione: Et ideo apud multos indubitazione permanent ea quæ sunt verissime demonstrata dum vim demonstrationis ignorant. Inter multa etiam vera quæ demonstratur, immiscetur aliquando aliquid falsum, quod non demonstratur, sed aliqua probabili vel sophistica ratione asseritur. Se dunque l’autorità di persona che non può e non vuole ingannarlo, o il senso comune dei periti o dei dotti nella materia di che si tratta, non viene ad assicurar l’uomo che ha ragionato della rettitudine dei suoi raziocinj, egli è obbligato a diffidarne, a temer sempre che l’opposto di ciò che gli sembra vero sia falso; e la propria esperienza e quella dei più grandi ingegni che, ingannati da false evidenze, sono caduti in turpissimi errori, non può che confermarlo in questo timore. Quanto dire che l’uomo che conta solo, che solo ragiona, discute, dimostra, e che si fonda sul terreno vacillante della sua privata ragione,non può formarsi che opinioni più o meno probabili, più o meno vaghe, ma non già dommi certi ed immutabili; può giungere ad una certezza provvisoria, che altro non è se non la probabilità; ma non già ad una certezza assoluta,che comandi un’adesione dell’intelletto ferma, intera, costante, immutabile. – La storia della filosofia antica e moderna conferma la verità di questa dottrina. Gli antichi filosofi, con tutti i loro studi, con tutti i loro sforzi, con tutte le loro dispute sulle più importanti verità, sopra Dio e l’anima, non arrivarono a formarsi, come si è veduto, che opinioni più o meno incomplete, incerte, assurde, turpi, inette e ridicole; ma non poterono mai stabilire nulla come assolutamente certo e sicuro.Udiamo per tutti Cicerone idoneo testimonio di tutta la pagana antichità. Nei tre libri Sulla natura degli dei, introducendo egli Vellejo a sostenere la dottrina epicurea, Balbo la stoica, Cotta l’accademica intorno a Dio; nell’esame profondo che fa di queste tre dottrine delle tre scuole o sette principali della filosofia, passa in rivista, mette a fronte e pesa con pari eloquenza ed erudizione tutte le opinioni. dei filosofi sopra Dio. Or ecco come conchiude egli questo lungo ed interessante trattato sopra la prima e la più importante di tutte le verità: «Dopo questa discussione ci separammo, ritenendo presso a poco ciascuno la sua antica opinione, giacché a Vellejo parve più vera l’argomentazione di Cotta; a me poi parve più verosimile quella diBalbo: Hac cum essent dicta, ita discessimus ut Vellejo Cottæ disputatio verior, mihi Balbi, ad veritatis similitudinem, videretur esse propinquior. »Oh parole! oh confessione! Chi non si sente stringere il cuore?chi non arrossisce della debolezza della ragione umana al vedere un ingegno sì grande, anzi i più grandi ingegni dell’antichità altro frutto non ritrarre da sì lunghe discussioni che quello di concetti vaghi, di opinioni più o meno probabili, più o meno incerte intorno a Dio? oh miseria! disputare tanto per ottenere sì poco! Né meno debole, vacillante ed incerta era l’opinione di Tullio sull’immortalità dell’anima: verità la più importante dopo quella dell’esistenza di Dio, colla quale è legata e dalla quale discende. È vero che in diversi luoghi delle sue opere dichiara di ammetterla e volerla sempre ritenere, ma senza esserne né certo né sicuro; e il suo linguaggio problematico sopra questa materia indica più la sua inclinazione e il suo gusto di quello che il suo convincimento di essere immortale. Poiché dice: « Se erro nel credere all’immortalità dell’anima, erro volentieri; e finché vivo, non soffro che nessuno mi levi dalla mente questo errore che tanto mi piace. Se poi, come poveri e meschini filosofi opinano, la mia anima morrà col corpo, non ho a temere che le anime di questi filosofi, che periranno come la mia, mi befferanno per questo mio errore: Quod si in hoc erro, libenter erro, nec mihi hunc errorem, quo delector, extorqueri volo. Sin mortuus, ut quidam minuti philosophi censent, nihil sentiam; non rereor ne hunc errorem meum philosophi mortui irrideant. » Altrove poi, avendo esortato il suo uditore a leggere il celebre libro di Platone, in cui Tullio dice trovarsi ciò che può desiderarsi di più eloquente e di più solido in favore dell’immortalità, introduce lo stesso uditore a fare una dolentissima confessione intorno all’insufficienza dei raziocinj degli uomini più grandi per far credere con ferma certezza una qualunque verità. Poiché gli fa dire: « ho fatto più volte, tel giuro, ciò che mi suggerisci (di leggere il citato libro di Platone): ma, non so come, mentre leggo un tal libro mi pare di rimanere convinto; quando poi lo chiudo e comincio a ripensar meco stesso sull’immortalità, tutta la mia persuasione svanisce, e mi trovo incerto siccome pria: MARC. Num eloquentia Platonem superare possumus? Evolve diligentur ejus librum de animo. Amplius quod desideres nihil erit. AUDIT. Feci mehercule sæpius; sed nescio quomodo, dum lego, assentior: cum posui librum et mecum ipse de immortalitate cœpi cogitare, assentio omnis illa dilabitur. » – Or, se ciò accade delle verità primitive, cui pur la ragione può giungere; che sarà mai delle verità cristiane, che di sì gran lunga superano la ragione? Se l’uomo isolato non può generalmente elevarsi che a concetti più o meno probabili nelle cose che può a sé stesso dimostrare ed intendere; come può mai innalzarsi a dommi certi ed indubitabili di cose che non può né intendere né dimostrare? Il  simbolo adunque che l’eretico, usando del principio del libero esame e del giudizio privato, è ito accozzandosi con sommo stento leggendo  la Scrittura, non sarà che una faragine rozza e sconnessa d’incerte nozioni, di vaghe congetture, dì mal fondati giudizj sulla religione cristiana: parto mostruoso sovente più che della ragione, dell’immaginazione, della passione, del capriccio, e che non avendo infatti altra autorità, altra forza che quella della ragione che se li ha formati. Non potranno trasformarsi in verità certe che riscuotano un’adesione completa dell’intelletto e comandin la fede. Potrà opinare più o meno leggermente, ma non già credere nel senso che noi Cattolici attribuiamo a questa parola. – Egli è perciò che questi infelici. Che l’eresia ha trascinati si lungi dalle vie della certezza della fede, non si odono mai parlar di dommi, ma di opinioni. E di opinioni religiose, e non già di domini parlano i genitori nelle famiglie, i maestri nelle scuole, e perfino i teologi nelle cattedre e i predicanti nei templi. Ora il linguaggio è l’interprete fedele dei giudizj e delle idee di un popolo. Come dunque noi Cattolici colle parole dommi sacri, articoli di fede, che abbiamo sempre in bocca nel nostro linguaggio religioso, diamo chiaramente a conoscere che per la conoscenza cattolica, il Cristianesimo è un affare di damma e di certezza; così gli eretici colle parole opinione propria, opinione religiosa, che pare ripetano ad ogni istante nei loro discorsi e nei loro scritti quando trattasi di religione, danno evidentemente a vedere, loro malgrado  che nelle loro menti il Cristianesimo è un affare di probabilità e di opinione. – Badino perciò certi Cattolici che, come ho avuto occasione di notarlo io stesso, chiamano la religione l’opinione religiosa. Sebbene questa espressione, che ripetono con aria di grande pretensione e di grande importanza, come per farsi credere all’altezza del linguaggio del tempo, l’abbiano imparata da qualche libro anticristiano e la ripetano senza intenderla: badino però, io lo ripeto, che potrebbero farsi prendere, così parlando, per empj, quando i poverini non sono più che leggieri, stolidi e ridicoli. Poiché questa espressione, « opinione religiosa,» che, trattandosi del Cristianesimo quale il protestantismo lo ha ridotto, e sotto una penna ed in una bocca protestante, ha un senso rigorosamente filosofico e vero, nella bocca però di un Cattolico, trattandosi della cattolica Religione dommaticamente ed immutabilmente certa e sicura, è insieme un’assurdità ed una bestemmia. – Ritornando però al proposito, osserviamo che solamente il domma (parola greca che vuol dire decreto) può riscuotere l’assenso della mente e imporre e comandare alle affezioni del cuore: poiché esso solo si annunzia come necessario e circondato della forza, della certezza e dell’autorità. Ma in quanto all’opinione, non essendo nulla più che un concepimento vago, indeterminato, ed incerto della privata ragione, non può ottenere alcun assenso fermo ed immutabile, molto meno può esigere il menomo sacrificio dalle passioni. L’individuo perciò, come la società, si dirige co’ dommi e non già colle opinioni; e le opinioni allora comandano l’azione quando sono passati in dommi, o in certe ed importanti credenze. Ogni religione che non può presentarsi come dommatica, ma sol come opinabile, non può riscuotere che un’adesione momentanea, incostante, interessata, ovvero una completa indifferenza. E le opinioni religiose, appunto perché opinioni, non giovano per la vita presente e non presentano alcuna sicurezza per la vita presente, e non presentano alcuna sicurezza per la vita avvenire, non hanno maggiore importanza di quello che le opinioni di filosofia, di politica e di letteratura. Quando perciò nello scorso secolo il protestante Neker, ministro dell’infelice Luigi XVI, intitolò un suo libro: dell’importanza delle opinioni religiose, fu come se avesse detto: dell’ importanza delle cose che non importano né all’individuo ne alla società; perciò il libro sull’Importanza delle opinioni religiose non fece il minimo senso nella opinione e non produsse il menomo vantaggio alla religione. – Lo stesso è accaduto di tutti i libri apologetici del Cristianesimo scritti contro gli increduli da penne protestanti. Simili a chi per combattere non ha che armi logore, senza punta e senza taglio nelle mani, ed un terreno vacillante sotto dei piedi, e che, lungi dall’offendere il suo avversario, non deve sudar poco per difendersi e tenersi fermo in piedi esso stesso; simil, dico, a questo misero guerriero, gli eretici apologisti del Cristianesimo, incertissimi essi stessi di ciò che difendono, non potendo opporre che opinioni ad opinioni, non fanno il minimo timore ai loro avversarj, non recano il minimo danno al vizio o all’errore; e il più sovente non ne riscuotono che risa, disprezzo ed urti terribili che li fanno vacillare nella trista posizione in cui si trovano collocati. Il dottor protestante Beatty combattè il materialismo di Lokio. I grandi atei inglesi Hume, Bollinbroke, Collins, Gibbon trovarono dei confutatori in molti devoti dottori dello scisma anglicano. Ma chi fece mai attenzione a siffatte confutazioni? Gli scrittori contro di cui erano dirette se ne fecero beffe; il pubblico vi rimase così indifferente come se si fosse trattato di una controversia grammaticale: ed esse non impedirono che la storia di Hume in particolare, che contiene una chiara confessione di ateismo, non fosse dedicata al re d’Inghilterra, che pure porta ancora il titolo di difensor della fede. Perciò è un pezzo che questi inermi combattenti han deposto ogni pensiero di combattere l’incredulità ed han preso il saggio partito di lasciare in pace il deismo, l’idealismo, il materialismo, l’ateismo stesso che rompe ai loro fiaschi da tutte le parti: affinché queste opinioni filosofiche li lascino in pace nelle loro opinioni cristiane si comode e sopra tatto sì lucrose! – Deh che non è dato all’eresia il combattere l’incredulità con successo. I ribelli del senso comune della Chiesa universale non faranno mai paura ai ribelli del senso comune degli uomini, ma. rei del medesimo delitto, sono obbligati a perdonarselo a vicenda. Quindi la sì vantata tolleranza degli eretici per tutti gli errori non è se non l’effetto e l’indizio insieme della perdita intera di ogni fede e di ogni verità. Non è adunque fuori del nostro proposito che ne diciamo qui due parole.

§ XVI. – Digressione sulla tolleranza. Nessuno eretico ha diritto di accusare gli altri di eresia. La sola Chiesa cattolica può e deve condannare tutti gli errori, perché essa è verità; e compatisce gli erranti, perché  è carità. La tolleranza che gli eretici vantano di avere per tutte le altrui opinioni è una conseguenza necessaria dell’incertezza in cui sono della verità delle proprie. Questa tolleranza sono costretti ad estenderla persino all’ateismo. Uniti tutti coloro che sono fuori della Chiesa, qualunque religione professino, sono figli dello stesso padre, il demonio; formano una stessa famiglia; e l’istinto che hanno di ciò, li porla a tollerarsi a vicenda e ad essere intolleranti pei soli Cattolici. Questa coalizione di tutti gli erranti contro la Chiesa Cattolica è una bella prova che essa sola è vera e divina.

Ammesso una volta il principio del libero esame e del giudizio privato in materia di religione, ognuno rimane affatto indipendente in faccia all’altro nella sua religiosa opinione. Nessuno ha il diritto di dire all’altro: « La vostra opinione è falsa: la mia è la vera. » Nessuno ha autorità di obbligar l’altro ad opinare come esso opina, ad operare come esso opera. Chi osasse di arrogarsi una tale autorità e un  tale diritto, sarebbe giustamente reo in faccia alla ragione protestante, di usurpazione e di tirannia; sarebbe anzi il più iniquo degli usurpatori, il più odioso dei tiranni, poiché di tutte le usurpazioni e di tutte le tirannie la più ingiusta e la più oppressiva è quella che si esercita sulle coscienze e che dispone a capriccio della religione. Perciò il protestante è dai suoi stessi principj condotto a rispettare in tutti gli altri non solo il diritto di formarsi ciascuno la propria opinione, ma ancora l’opinione stessa che si è formata. E per quanto questa opinione sia evidentemente sconcia ed assurda, nessuno può farne ragionevolmente un rimprovero, subito che a questi così ne pare; ed ognuno ha egual diritto di ammettere ciò che gli pare e come gli pare. Perciò se un protestante dicesse all’altro: «Voi errate; voi siete eretico ammettendo tal e tal altra opinione, negando per esempio, la divinità di Gesù Cristo, questi potrà benissimo rispondere, come presso Cicerone Cotta rispondeva a Balbo che lo accusava di negare Dio : « Amico mio, ricordatevi che voi, al par di me, avete rigettata ogni specie di autorità, e che avete fissato per principio che ognuno deve appoggiarsi sulla propria ragione. Non abbiate dunque a male ch’io opponga la mia ragione alla vostra, e che usi dello stesso diritto che reclamate per voi stesso, di ritenere per vero ciò che alla mia ragione sembra vero: Tu auctoritate omnes contemnis, ratione pugnas. Patere igitur rationem meam cum tua conferre (De nat. Deor.). Non vi è che il domma o decreto che, supponendo un’autorità legittima che lo pubblica è obbligatorio. In quanto all’opinione privata di uno, esso non ha diritto che all’esame e non si può imporre alla credenza degli altri. Ora dovunque non vi è un’autorità comune, che ha diritto all’udienza comune, e perciò non vi sono dommi comuni, ma private opinioni; ognuno come ha diritto di tenere e di aver perdonata la propria, così ha un dovere di perdonare, di rispettare quella degli altri. – Da ciò si scorge quanto è assurdo ed ingiusto il rimprovero che gli eretici fanno a noi Cattolici di essere intolleranti verso di loro. Ingiusto, perché i Cattolici, generalmente parlando, compiangendo la miseria e la cecità degli eretici e degli infedeli non hanno alcun odio contro le loro persone. E difatti ove i Cattolici, soggetti politicamente ai protestanti o agli scismatici, sono più o meno palesemente tiranneggiati ed oppressi; al contrario gli eretici e gl’infedeli, soggetti politicamente pure ai Cattolici, godono di tutte le libertà che loro assicura la legge politica degli stati, e non soffrono alcuna oppressione. Di più la Chiesa cattolica, lungi dal nutrire odio per le vittime infelici dell’errore, spedisce ogni giorno i più generosi dei suoi figli, perché a costo ancora della propria vita del corpo, assicurino loro la vita dell’anima, portando loro la grazia colla verità. – Aggiungo che il rimprovero d’intolleranza che si fa alla Chiesa Cattolica è assurdo: perché l’errore può e deve essere tollerante per l’errore, ma non può e non deve essere tollerante la verità. Ora la Religione Cattolica è verità, è sola verità. è certa di essere tutta la verità. Come dunque la luce non può accomunarsi colle tenebre, né Gesù Cristo con Belial, non può la Cattolica Religione e non deve affratellarsi coll’errore, né vederne con occhio freddamente tranquillo gli orribili guasti che cagiona fra i popoli, e le tante anime che acceca nel tempo e perde per l’eternità. Se essa imitasse in ciò la condotta dell’eresia e si mostrasse indifferente per le dottrine che le son contrarie, darebbe a credere che errore è essa pure e che non è certa della sua verità. Tutta compassione per gli eretici e per gli infedeli, non può aver che odio e orrore per le dottrine dell’eresia e dell’infedeltà. E come l’odio infinito di Dio verso il peccato è una necessaria conseguenza ed una prova insieme che esso è santità, così quest’odio implacabile, quest’orrore costante della Chiesa Cattolica verso ogni sorta di errore, è una conseguenza necessaria ed insieme uno de’ più splendidi argomenti estrinseci che essa è verità, e che la verità in essa sola si ritrova, mentre è la sola che condanna tutti gli errori. La divisa dunque della Chiesa Cattolica è in queste belle parole di S. Agostino: «Guerra a morte all’errore, e perdono e carità verso gli erranti: Diligite homines, interficite errores. » Cioè a dire che la Chiesa Cattolica è e deve essere teologicamente intollerante verso le false dottrine; ma è tollerantissima verso gl’infelici che ne sono le vittime. Non così però l’eresia. Siccome la diversità delle opinioni religiose nuoce agl’interessi della sua politica; quando ne ha il potere, perseguita ed opprime politicamente gli uomini che le professano. Ma siccome non può decidere con certezza quale sia la vera religione, teologicamente è obbligata a scusarle e tollerarle tutte: cioè a dire che, intollerante per le persone, è, e deve essere tollerantissima per tutti gli errori; e questa tolleranza teologica di tutti gli errori è una legge, dalla quale l’eresia, non può sottrarsi senza smentirsi, senza contraddirsi, senza distruggersi. – Ecco dunque il fondamento, la ragione, la necessità logica della tolleranza reciproca dei protestanti, della quale essi menano sì gran vanto, e di cui invece dovrebbero arrossire e confondersi: giacché essa è la conseguenza e la prova insieme dell’assenza di ogni certezza, di ogni fede, di ogni religione fra loro. Siccome però il principio protestante, Che non bisogna riconoscere altra autorità che la Scrittura interpretata dalla ragione, non ammette restrizione e non può ammetterne alcuna, così non solo questa tolleranza si deve estendere e si estende difatti a tutti gli eretici, ma a quelli ancora fra gli eretici che negano la Trinità, la divinità di Gesù Cristo, l’eternità delle pene; perché essi ancora appoggiano queste negazioni sulla Scrittura, Si deve estendere e si estende difatti a tutti i maomettani, a tutti gl’idolatri fra i quali si è dai protestanti disseminata la Scrittura perché ognuno se la spieghi a suo modo, ed ai quali però non si può fare alcun rimprovero, se non vi trovano nemmeno un solo dei dommi cristiani che l’eretico dice loro di avervi trovati. Si deve estendere e si estende difatti a tutti i deisti, i quali, affermando che la ragione non ha loro dimostrata con bastevole chiarezza l’ispirazione divina delle Scritture si credono in diritto di negarla, e con essa di negare tutto il Cristianesimo. – Si deve estendere infine anche agli atei; giacché anche l’ateo dice di usare della sua ragione per negare Dio, che la sua ragione non comprende. E poiché la ragione, stabilita come unico giudice della Scrittura, diviene, come si è veduto, l’ultimo fondamento della credenza religiosa; sarebbe, dice un autore tristamente celebre non meno pe’ suoi talenti che per la sua caduta. sarebbe assurdo, contraddittorio, empio, l’obbligarlo a credere ciò che ripugna alla sua ragione. L’ateo ha in comune coll’eretico il principio di non riconoscere alcuna autorità, di non ammettere che ciò che sembra ammissibile alla propria ragione, rigettando tutto il rimanente. Or con lo stesso diritto onde il luterano rigetta le buone opere, il zwingliano la presenza reale, il calvinista il purgatorio, il sociniano la Trinità, il deista la rivelazione tutta intera, perché questi misteri sembrano inammissibili alla loro ragione, l’ateo potrà in faccia al protestante negare Dio stesso, affermando che l’esistenza di un Dio, puro spirito, immenso, eterno, immutabile, Creatore del tutto, è il più impenetrabile dei misteri, è il più inammissibile alla sua ragione. Si dirà che esso abusa della sua ragione? Verissimo: ma non è l’eretico che ha diritto di fargli un tal rimprovero. Subito che per esso pure tutto si riduce alla ragione, si deve ammettere come egualmente legittimo ogni parto della ragione. – Non può dunque l’eretico negare all’ateo la tolleranza. Sicché la tolleranza degli eretici non è che la confessione, il riconoscimento di tutti gli errori, fondato sopra la distruzione di tutte le verità. – Una sola eccezione iniqua fanno gli eretici dalla legge della tolleranza che estendono a tutti gli uomini di tutte le sette e di tutte le religioni, e questa eccezione è contro i figli della Chiesa Cattolica. In oriente i greci scismatici, i nestoriani, gli eutichiani tollerano e la perfidia giudaica e il sensualismo maomettano, e la superstizione idolatra. In occidente i luterani, i calvinisti, gli anglicani, tollerano anch’essi il socinianismo che non riconosce la Trinità, il deismo che rigetta ogni rivelazione, e perfino l’ateismo che nega ogni divinità. Chi mai oggi più tra gli eretici alza una voce, muove un dito, per impugnare questi errori che perdono le anime e degradano l’umana società? Solo contro i Cattolici si armano di uno zelo diabolico, invocano una crociata infernale, riuniscono i loro sforzi, il loro odio, il loro furore: e declamano e scrivono ed intrigano. Solo contro i Cattolici l’impostura e la calunnia, l’ingiustizia e l’oppressione, l’anarchia e il dispotismo, tutte le vie insomma sono buone, tutti i mezzi sono legittimi, tutti i delitti sono permessi. Che anzi non arrossiscono di far causa comune coi più dichiarati nemici del Cristianesimo per abbattere e distruggere dappertutto il Cattolicismo. Così questi generosi filantropi, che si perdonano fra loro e perdonano a tutti gli altri settari le opinioni le più empie, le più assurde e più scandalose, non perdonano al Cattolico la sua fede sì costante, sì ragionevole, sì santa e sì pia. Mentre riconoscono in ognuno il diritto funesto di delirare, seguendo le dottrine di qualunque impostore o le stravaganze della propria ragione ispirata dalle passioni: puniscono, come un delitto, il diritto che il Cattolico crede d’avere e d’esercitare, di umiliare, cioè, la propria ragione e di credere al Cristianesimo come lo intende e lo insegna la Chiesa; segno manifesto che la verità nella sola Chiesa Cattolica si trova, e che fuori di essa, sotto forme variate all’infinito, vi è l’errore più o meno esplicito, più o meno esteso, più o meno assurdo: giacché la religione contro la quale si coalizzano in una fratellanza, in un odio comune tutti gli errori, non può essere che verità.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (54) LA VERA E LA FALSA FEDE -IX.-