I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULL’INFERNO DEI CRISTIANI

[Discorsi di S. G. B. M. VIANNEY, curato d’Ars – Vol. I, ed. Ed. Marietti, Torino-Roma, 1933]

Sull’inferno dei Cristiani.

Ibi erit fletus et stridor dentium.

E lì sarà pianto e stridor di denti

(MATTH. VIII, 12).

Noi leggiamo nel Vangelo che, entrato il Salvatore in Cafarnao, un centurione si recò a trovarlo, dicendogli: “Signore, il mio servo è ammalato nella mia casa, d’una paralisi della quale soffre molto. „ — “Or bene! gli disse questo buon Salvatore, verrò e lo guarirò. „ — “Ah! mio Signore, gli disse il centurione, io non son degno che Voi entriate nella mia casa; ma dite solamente una parola, e il mio servo sarà guarito. Perché io che sono soggetto ad altri, tuttavia ho sotto di me dei soldati, io dico all’uno: Andate là, ed egli va; ad un altro: Venite qui, ed egli viene; e al mio servo: Fate questo, ed egli lo fa. „ – Gesù avendolo sentito a parlare in tal modo fu vinto di ammirazione, e disse a coloro che lo seguivano: « In verità io vi dico che non ho trovato una fede così viva in tutto Israele. Per questo io vi dichiaro che molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente e saranno collocati con Abramo e Giacobbe, nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori, dove è pianto e stridor di denti. „ – Chi è di noi, M. F., il quale per poco penetrasse il senso di queste parole non si sentirebbe costretto da spavento, pensando che sono veramente i cattivi Cristiani, che sono quegli infelici che saranno scacciati dal regno dei cieli e gettati nelle tenebre esteriori, con altre parole, nell’inferno, dove vi sarà pianto e stridor di denti; mentre che idolatri e pagani, che non hanno mai avuto la sorte di conoscere Gesù Cristo apriranno gli occhi dell’anima, abbandoneranno la via della perdizione, verranno a schierarsi nel seno della Chiesa, e ad occupare il posto che quei cattivi Cristiani hanno perduto col disprezzo delle grazie che hanno ricevute? Non è tutto. I Cristiani dannati soffriranno nell’inferno tormenti infinitamente più rigorosi degli infedeli. Perché questi stranieri in parte saranno dannati perché non hanno mai udito parlare di Gesù Cristo e della sua religione; essi sono vissuti e sono morti nell’ignoranza; mentre i Cristiani hanno veduto dall’età della ragione, la face della fede brillare dinanzi a loro come uno splendido sole ed hanno ricevuto dei lumi più che bastevoli per conoscere quello di cui erano tenuti verso Dio, verso il prossimo e verso se medesimi. O inferno dei Cristiani, quanto sarai terribile e rigoroso! Ma io vi dico, e potrete udirlo senza fremere? Che quanto il cielo è lontano dalla terra, altrettanto l’inferno degli infedeli sarà lontano da quello dei Cristiani. Se bramate saperne la ragione, eccola. Se Dio è giusto, come non possiamo dubitarne, Egli deve punire un’anima nell’inferno in proporzione delle grazie che ha ricevute e disprezzate, delle conoscenze che aveva per servir Dio. Posto ciò, è dunque giusto che un Cristiano dannato soffra infinitamente più di un infedele nell’inferno, perché  le grazie, i mezzi per salvarsi erano infinitamente più grandi. Per farci sentire, M. F., la necessità di approfittare delle grazie che riceviamo nella nostra santa religione, io imprendo a dimostrarvi quanto un Cristiano dannato sarà più tormentato di un infedele. Per farvi comprendere, M. F., la grandezza dei tormenti che sono riservati ai cattivi Cristiani, sarebbe necessario essere Dio medesimo, perché Egli solo lo comprende, e i dannati soli lo sentono, perché Dio è infinito nelle sue punizioni come nelle sue ricompense. Quando il buon Dio mi concedesse il potere di trascinare qui, al mio posto, un infame Giuda il quale ha commesso un orribile sacrilegio comunicandosi indegnamente e vendendo il suo divin Maestro, ciò che fanno spesse volte i cattivi Cristiani colle loro confessioni e comunioni indegne, il solo suo grido sarebbe: Oh! io soffro! Triste linguaggio che non può esprimere né la grandezza, né la lunghezza dei loro patimenti! O inferno dei Cristiani quanto sarai terribile! poiché Gesù Cristo sembra esaurire la sua potenza, la sua collera e il suo furore per far soffrire questi cattivi Cristiani. O mio Dio, si può mai pensarvi, sentirsi di questo numero e vivere tranquilli! Mio Dio, quale sciagura può paragonarsi con quella di questi Cristiani! — Ma, mi direte voi, ammesso ciò sembrerebbe che vi sieno parecchi inferni. — Ora, io vi dirò che, se i patimenti e le pene dei dannati fossero le medesime, Dio non sarebbe giusto. Dico di più, che vi sono altrettanti inferni quanti sono i dannati, e che i loro patimenti sono grandi in proporzione della grandezza e del numero dei peccati che hanno commessi e delle grazie che hanno disprezzate. Dio, che è onnipotente, ci rende sensibili alle nostre sventure, a grado che il male che abbiamo commesso è grave. Accade dei dannati come dei santi. Questi sono felici, è vero; tuttavia ne occorrono alcuni che sono maggiormente elevati in gloria, e questo, giusta le penitenze e le altre buone opere che hanno praticato nel corso della loro vita. Corre la stessa cosa dei dannati: essi sono tutti infelici, tutti privi della vista di Dio, ciò che costituisce la più grande di tutte le sciagure; perché se un dannato avesse la sorte di vedere il buon Dio, una volta, ogni mille anni, e ciò per cinque minuti, il suo inferno cesserebbe di essere un inferno. Sì, M. F., il buon Dio ci renderà sensibili a questa privazione ed agli altri tormenti, giusta il numero, la grandezza e la malizia dei peccati che avremo commessi. Ditemi, M. F., possiamo noi udire senza fremere il linguaggio di quegli empi che vi dicono che essi amano di essere dannati tanto per molto come per poco? Ah! infelici, voi non avete mai posto mente che maggiormente i vostri peccati saranno moltiplicati e saranno commessi con più grande malizia, maggiormente soffrirete nell’inferno? Da ciò io inferisco, M. F., che i Cristiani che hanno peccato con maggior conoscenza, che sono stati tante volte obbligati di fare violenza a se stessi per soffocare i rimorsi della loro coscienza, che hanno disprezzato tutte queste sante inspirazioni e tutti questi buoni desideri che Dio ha loro dato, sono maggiormente colpevoli; dunque è ben giusto, io dico, che la giustizia di Dio si faccia sentire più rigorosamente sopra di essi che non su quei poveri infedeli che hanno peccato, in parte, senza conoscere il male che commettevano e Colui che essi oltraggiavano, senza conoscere la bontà e l’amore di un Dio verso le creature sue. Se gli idolatri, ci dicono i santi, sono dannati per aver trasgredito le leggi di Dio che non conoscevano, delle leggi che non hanno conosciute, (S. Paolo – Rom. II, 14, 15 – scrive che i gentili che non hanno altra legge che la legge naturale, sono legge a se medesimi; essi non sono adunque senza legge, né scusabili quando la trasgrediscono, commettendo il male, quale sarà dunque la punizione dei Cristiani i quali conoscono il male che commettono, i doveri che devono compiere? Che comprendono quanto oltraggiano Dio, che non ignorano i mali che si preparano per l’eternità; e che nonostante ciò, non omettono di peccare? No, no, M. F., la potenza e la collera di Dio, sembrano non essere abbastanza grandi né l’eternità abbastanza lunga per punire questi infelici. Sì, M. F., parmi vedere quelle fiamme accese dalla giustizia di Dio rifiutarsi di far soffrire queste pene agli idolatri e lanciarsi con un furore spaventevole sopra questi infelici Cristiani riprovati. Infatti, chi non sarebbe tocco di compassione vedendo ardere queste nazioni straniere? Ah! devono esse esclamare dal mezzo delle fiamme che le divorano: Mio Dio, perché ci avete gettati in questi abissi di fuoco? Noi ignoravamo quello che bisognava fare per amarvi. Se noi vi abbiamo oltraggiato, è perché non vi conoscevamo. Ah! Signore, se a noi fosse stato  detto, come ai Cristiani, tutto quello che avete operato per noi, come ci avete amati, ah! no, mai non avremmo avuto la sventura di offendervi. – Ah! parmi di vedere Gesù Cristo turarsi le orecchie per non udire le grida di quegli infelici. No, M. F., Gesù Cristo è troppo buono per non lasciarsi commuovere. Se non ci avesse detto, senza il battesimo e fuori della Chiesa, non possiamo sperare il cielo, potremmo credere che queste povere anime siano dannate senza aver saputo quello che bisognavo fare per salvarsi? No, M. F., parmi che Gesù Cristo non può volgere gli occhi su questi sventurati senza essere tocco di compassione. Ma che si consolino nella loro sventura; i mali che soffriranno saranno infinitamente meno rigorosi che quelli dei Cristiani. Mio Dio! potrà dire ciascuna di esse, perché mi avete gettata in questo fuoco? – Ma, dall’altra parte, ascoltate le grida, gli urli dei Cristiani dannati. Ah! quanto io soffro! Io non veggo, io non tocco, io non sento che fuoco. Ah! se io sono dannato è per colpa mia, io non ignoravo tutto ciò che bisognava operare per salvarmi, e aveva tutti i mezzi più che necessari per ciò. Ah! peccando, io sapeva benissimo, che perdeva il mio Dio, la mia anima e il cielo, e che mi condannava per sempre ad ardere nell’inferno! Ah! sciagurato! Io sono punito perché l’ho voluto. Il buon Dio che tante volte mi ha offerto il suo perdono e tutte le grazie che mi abbisognavano per questo, il buon Dio che mi incalzava coi rimorsi di coscienza che mi straziavano e che sembravano costringermi a uscire dal peccato, ed io non l’ho voluto e sono dannato! Io non mi sono giovato di tutti i lumi che questa bella religione mi forniva, che per peccare con maggior malizia. Sì, mio Dio, dirà quel Cristiano per tutta l’eternità, punitemi, è giusto, perché se voi vi siete incarnato, se voi avete sofferto tante umiliazioni, tanti tormenti, una morte così dolorosa e ignominiosa, non era che per muovermi ad operare il salvamento dell’ anima mia. Tutta questa bella religione che avete stabilito, nella quale versate con tanta copia le vostre grazie per i peccatori, non era che per il mio salvamento; sì, mio Dio, io non ignorava tutto ciò. – Sì, M. F., un Cristiano dannato avrà, per il volgere dell’eternità, dinanzi agli occhi, tutti i buoni pensieri, tutti i buoni desideri, tutte le buone opere che avrebbe potuto praticare e che ha omesso, tutti i sacramenti che non ha ricevuto e che poteva ricevere, tutte le preghiere tralasciate, tutte le Messe che ha mal ascoltate e alle quali avrebbe potuto assistere come si conviene, ciò che lo avrebbe grandemente aiutato a salvare l’anima sua. Sì, M. F., questo cattivo Cristiano si ricorderà tutte le istruzioni che non ha ascoltate o che ha disprezzate, e colle quali avrebbe potuto conoscere i doveri suoi. Ah! diciamo meglio, M. F., tutti questi ricordi saranno come altrettanti carnefici che lo strazieranno. – Or bene, M. F., di tutto ciò, il buon Dio avrà nulla da rimproverare ai poveri idolatri. No, essi non sapevano che volesse significare pensare al buon Dio, amarlo, né i mezzi a cui appigliarsi per andare al cielo; ciò che ha fatto dire a parecchi santi che tutto ciò che il buon Dio poteva inventare per far soffrire i Cristiani dannati non sarà troppo rigoroso per essi, perché conoscevano quello che bisognava fare per andare al cielo e piacere a Dio. Vedete, M. F , se non è giusto che noi soffriamo nell’altra vita più dei pagani. Ascoltate con quale malizia il Cristiano pecca sopra la terra, con quale audacia si ribella contro Dio. Sì, o Signore – egli dice – io so che voi siete il mio Dio, il mio creatore, che avete sofferto, che siete morto per me, che mi avete amato più di voi stesso, che non cessate di chiamarmi a voi colla grazia vostra, coi rimorsi di coscienza e colla voce dei miei pastori; or bene! io mi rido di voi e di tutte le vostre grazie. Voi mi avete imposto dei comandamenti che intendete sieno osservati colla minaccia dei castighi più rigorosi: io mi rido di voi e dei comandamenti vostri, e delle vostre minacce. Voi mi avete dato tutti i lumi necessari per comprendere tutta la bellezza della nostra santa religione e la felicità che ci procura: or bene! io farò tutto l’opposto di quello che essa mi comanda. Voi mi minacciate che se resto nel peccato perirò in esso: io è precisamente per questo che non voglio uscirne. Io so benissimo che voi avete istituito dei sacramenti coi quali noi possiamo francarci dalla sua tirannia: e non solamente io non voglio approfittarne, ma io voglio di giunta disprezzare e schernire coloro che vi ricorreranno, per muoverli ad operare come io opero. Io so che voi siete realmente presente nel sacramento adorabile dell’Eucaristia, ciò che dovrebbe indurmi a non presentarmi davanti a Voi che con un grande rispetto e un santo tremore, segnatamente essendo un peccatore quale sono: non ostante ciò, io voglio recarmi nelle vostre chiese e ai piedi dei vostri altari per disprezzarvi e ridermi di voi col mio poco rispetto e la mia poca modestia. – Sì, dirà quella giovane mondana e perduta, io voglio co’ miei abbigliamenti e col mio fare seducente rapirvi l’onore che vi si tributa: io prenderò tutti i mezzi per rapirvi i cuori; io mi studierò di accendere nei cuori, coi miei modi infornali, i fuochi impuri che ve li renderanno un oggetto di orrore. Voi volete amarmi? Io farò quanto potrò per disprezzarvi. Voi mi dite che io sarò felice, se lo voglio, per tutta l’eternità, se vi servo fedelmente; ma che se faccio l’opposto, voi mi getterete negli abissi, nei quali mi farete patire mali senza fine: io mi rido dell’uno e dell’altro. Ma, pensate voi, noi non diciamo ciò peccando; noi pecchiamo, è vero, ma non teniamo questo linguaggio. — Mio amico, le vostre azioni lo dicono, tutte le volte che voi peccate, conoscendo il male che commettete. Ne dubitate forse? Ditemi, quando lavorate il santo giorno della domenica, o che mangiate di grasso noi giorni proibiti, quando giurate, o quando pronunciate parole sconce, voi sapete benissimo che oltraggiate il buon Dio, che voi perdete l’anima vostra e il cielo, e che vi preparate un inferno. Voi sapete benissimo che essendo nel peccato, se voi non avete ricorso al sacramento della penitenza, voi non sarete giammai salvi. Andate, peccatori inveterati, indurati, andate, fango d’iniquità, le nazioni straniere vi aspettano per mostrarvi che, se voi avete commesso il male, voi lo sapevate benissimo. Posto ciò, è dunque giusto che un Cristiano che pecca con tanta conoscenza e con tanta malizia, sia punito più rigorosamente nell’altra vita d’un infedele il quale ha peccato, per così dire, senza sapere che commetteva il male. Ditemi, M. P., tenete voi in nessun conto tutti questi benefizi dei quali il buon Dio vi ha favoriti a preferenza dei pagani, e che voi avete disprezzati? Ah! M. P., quanto i tormenti che il buon Dio prepara ai cattivi Cristiani sono spaventosi! Possiamo noi udire senza fremere quello che ci dice S. Agostino, che occorrono dei Cristiani i quali, soli, nell’inferno, soffriranno più che nazioni intere di pagani, perché, così egli, occorrono dei Cristiani che hanno ricevuto soli delle grazie che non nazioni intere di idolatri. No, miei figli, ci dice S. Giovanni Crisostomo, i peccati dei Cristiani non sono più peccati, ma sacrilegi dei più orribili, in confronto dei peccati degli idolatri. No, no, cattivi Cristiani, dice loro, non è più questione di peccati, per voi, ma di sacrilegi i più orribili. – Ma, voi pensate, ciò è molto grave! — M. F., ne bramate la prova? Eccola: che cos’è un sacrilegio? — È, mi direte voi, la profanazione di una cosa santa, consacrata a Dio, come sono le nostre chiese, le quali sono destinate alla preghiera; è una profanazione, quando ci rechiamo senza rispetto, senza modestia, che parliamo, ridiamo o dormiamo. È, mi direte voi, la profanazione d’un ciborio destinato a contenere Gesù Cristo sotto le specie del pane, o d’un calice, che è santificato dal contatto del corpo adorabile di Gesù Cristo e del suo sangue prezioso. — Ora, ci dice S. Giovanni Crisostomo, i nostri corpi sono tutto questo per il santo battesimo. Lo Spirito Santo ne fa il suo tempio colla santa comunione; i nostri cuori sono somiglianti ad un ciborio che contiene Gesù Cristo: “Le nostre membra non sono le membra di Gesù Cristo? „ (I Cor. VI, 15) La carne di Gesù Cristo non si mescola alla nostra carne? Il suo sangue adorabile non fluisce nelle nostre vene? Ah! sventurati, abbiamo noi mai fatto queste riflessioni, che, ogni volta che pecchiamo, commettiamo una profanazione ed un sacrilegio orribile? No, no, mai vi abbiamo posto mente, e se prima di peccare ne fossimo stati convinti, ci sarebbe stato impossibile il peccare. Ah! mio Dio, come il Cristiano conosce poco quello che fa peccando! Ma, mi direte voi, se tutti questi peccati i quali sono così comuni nel mondo, sono profanazioni e sacrilegi così ingiuriosi al buon Dio, qual nome dare a quello che chiamiamo sacrilegio, e che commettiamo quando nascondiamo i nostri peccati o li camuffiamo per timore o per vergogna confessandoci? — Ah! M. F., possiamo noi fermarci, senza venir meno di orrore, al pensiero di un tal peccato, che getta la desolazione nel cielo e sopra la terra! Ah! un Cristiano può spingere il furore suo sino ad un tale eccesso, contro il suo buon Dio e il Salvatore suo? Un Cristiano che avesse commesso un solo sacrilegio in vita sua, potrebbe ancor vivere? Ah! no, non vi sono parole, né espressioni per rappresentarci la grandezza, la laidezza d’un tal mostro. Un Cristiano, io dico, il quale, nel tribunale della penitenza, in cui un Dio ha spinto la grandezza della sua misericordia oltre i limiti che gli angeli stessi non potranno mai comprendere: ah! che dico? un Cristiano il quale, tante volte ha sperimentato l’amore del suo Dio, potrebbe rendersi colpevole d’una tale atrocità verso un Dio così buono? Un Cristiano, io dico, alla sacra mensa, avrà il cuore, il coraggio di strappare il suo Dio dalle mani del sacerdote per consegnarlo al demonio? Ah! sciagura spaventevole! Ah! disgrazia incomprensibile! un Cristiano avrà il barbaro coraggio di trucidare il suo Dio, il suo Salvatore, e il suo padre il più amabile! Ah! no, no, l’inferno, con tutto il furore suo, non ha mai potuto inventare alcuna cosa di simile! O angeli del cielo, venite, venite in soccorso del vostro Dio, che è contuso e trucidato dai suoi propri figli! Ah! no, no, mai l’inferno ha potuto spingere il suo furore ad un tale eccesso! Ah! Padre eterno, come potete soffrire tali orrori contro il vostro divin Figlio, il quale ci ha tanto amati, e che ha sacrificato così di buon grado la propria vita per riparare la gloria che il peccato ci aveva rapita! – Un Cristiano che fosse colpevole di un tal peccato, potrebbe egli camminare, senza che gli sembri che la terra, ad ogni istante si apra sotto i suoi piedi per seppellirlo nell’inferno? Ah! M. P., se il pensiero di un tal peccato non vi fa fremere d’orrore e non agghiaccia il sangue nelle vostre vene, ah! voi siete perduti! ah! no, no, non più cielo per voi, il cielo vi ha rigettati! No, no, non occorre castigo abbastanza grave per punirvi di un tal peccato, il quale eccita la meraviglia degli stessi demoni! Venite, sciagurati, venite, vecchiardi infami, così S. Bernardo, venite, carnefici di Gesù Cristo. E che! sciagurati! Voi avete commesso un sacrilegio, voi sopra il quale si è fatto scorrere il sangue adorabile di Gesù Cristo nel tribunale della penitenza! Sciagurati, così egli, voi avete nascosto i vostri peccati, voi avete avuto la barbarie di assidervi alla sacra mensa per ricevervi il vostro Dio! Fermatevi! fermatevi! ah! mostro d’iniquità, ah! di grazia, risparmia il tuo Dio! ah! no, no, mai l’inferno può spingere il suo furore fino ad un tale eccesso. Ah! M. F., se nazioni straniere soffrono già tormenti così spaventosi nell’inferno, quale sarà dunque la gravezza dei tormenti dei Cristiani e delle cristiane che, tante volte nel corso della loro vita, hanno commesso dei sacrilegi. Ah! no, no, l’inferno non sarà mai abbastanza rigoroso per punire questi mostri di crudeltà. Oh! quale spettacolo, così il grande Salviano, vedere dei Cristiani nell’inferno! Ah! ci dice, che cosa sono diventate tutte quelle splendide e tutte quelle belle qualità, che sembravano rendere i Cristiani quasi somiglievoli agli angeli? O mio Dio, puossi mai concepire qualche cosa di più spaventevole! un Cristiano nell’inferno! un battezzato trovato fra i demoni! un membro di Gesù Cristo nelle fiamme! Divorato dagli spiriti infernali, un figlio di Dio tra i denti di Lucifero! Venite, nazioni straniere, venite, popoli sventurati, che non avete mai conosciuto Colui che avete offeso e che vi ha gettati nelle fiamme, venite; è cosa giusta che siate i carnefici di quei Cristiani riprovati, i quali avevano tanti mezzi di amar Dio, di piacergli, e di acquistare il cielo, e che non hanno passato la loro vita che a far soffrire Gesù Cristo, lui che ha tanto desiderato di salvarli! Venite ad udire Gesù Cristo medesimo, il quale ci dice che al giudizio, i Niniviti che erano una nazione infedele, sì, dice egli, i Niniviti si leveranno contro questi popoli ingrati e li condanneranno. Questi Niniviti, alla sola predicazione di Giona, il quale era loro sconosciuto, fanno penitenza e abbandonano il peccato (Matt. XII, 41); e dei Cristiani ai quali questa santa parola è stata tante volte prodigata; sì, questa parola divina, la quale non ha cessato di risuonare alle loro orecchie, ma ah! non ha colpito il loro cuore indurato, questi Cristiani non si sono convertiti. Ah! M. F., se tante grazie, tante istruzioni, tanti sacramenti fossero stati concessi ai poveri idolatri, quanti santi, quanti penitenti avrebbero popolato il cielo! mentre tutti questi beni non serviranno che a indurarvi sempre più nel peccato. – Ah! terribile momento nel quale Gesù Cristo determina i diversi gradi di patimenti che noi soffriremo nell’inferno! Ah! ciò si farà in proporzione delle grazie che abbiamo ricevute e disprezzate. Sì, una sola grazia avrebbe bastato ad un Cristiano per salvarlo, se avesse voluto approfittarne, e ne avrà ricevute e disprezzate migliaia e migliaia! Ah! se ciascuna grazia disprezzata sarà un inferno per un Cristiano, ah! mio Dio, quale sciagura eterna per questi cattivi Cristiani! Ah! sarebbe necessario poter udire questi Cristiani riprovati dal mezzo delle fiamme nelle quali la giustizia di Dio li ha precipitati! Ah! se almeno, dicono essi, non fossimo mai stati Cristiani, benché fossimo dannati come quegli infedeli, almeno potremmo consolarci, perché non avremmo saputo quello che bisognava fare per salvarci! Quante grazie di meno ricevute e che non avremmo disprezzate. Ma, noi sciagurati, noi siamo stati Cristiani, circondati di lumi e inondati di grazie per condurci ed aiutarci a salvarci. Ah! dirà ciascuno di essi, questi tristi quadri saranno continuamente dinanzi ai miei occhi per tutto il volgere dell’eternità! Io, il cui nome è stato scritto nel libro dei santi, io che sono stato nel battesimo bagnato del sangue prezioso di Gesù Cristo, io che poteva ad ogni istante uscire dal peccato e assicurarmi il cielo, io al quale tante volte si è fatto udire la grandezza della giustizia di Dio verso i peccatori e segnatamente verso i Cristiani riprovati. Ah! se almeno mi fosse stata tolta la vita prima di nascere, non sarei mai stato in cielo, è vero; ma almeno non soffrirei tanto nell’inferno. Ah! se Dio non fosse stato così buono e mi avesse punito al mio primo peccato, io sarei nell’inferno è vero; ma sarei meno al fondo e i miei tormenti sarebbero meno rigorosi. Ah! in questo memento io riconosco che tutta la mia sventura proviene da me. Sì, M. F., ogni riprovato ed ogni nazione avrà il suo quadro dinanzi agli occhi, e ciò per il volgere dell’eternità tutta quanta, senza mai potere disfarsene, né volgere altrove lo sguardo. Ah! queste povere nazioni idolatre vedranno per tutta l’eternità che la loro ignoranza è stata in parte la causa della loro perdita. Ah! diranno gli uni agli altri, oh! se il buon Dio ci avesse concesso tante grazie e tanti lumi quanto a quei Cristiani! Ah! se noi avessimo avuto la ventura di essere istruiti come essi. Ah! se noi avessimo avuto dei pastori per insegnarci a conoscere e ad amare il buon Dio il quale tanto ci ha amati e che ha tanto patito per noi! Ah! se ci fosse stato detto quanto il peccato oltraggi Gesù Cristo e quanto la virtù è di un gran prezzo agli occhi di Dio, avremmo potuto commettere il peccato, avremmo potuto disprezzare un Dio così buono? Non avremmo mille volte preferito morire che recargli dispiacere? Ma ah! noi non avevamo la sorte di conoscerlo; se noi siamo dannati, ah! è perché ignoravamo quello che bisognava fare per salvarci. Sì, noi abbiamo avuto la sventura di nascere e di morire nell’idolatria. Ah! se avessimo avuto la fortuna di avere dei genitori Cristiani che ci avessero fatto conoscere la vera religione, avremmo potuto non amare il buon Dio? Se, come i Cristiani, fossimo stati testimoni di tanti prodigi che ha operato nel volgere della sua vita mortale, e che continua fino al chiudersi dei secoli, lui, che morendo, ha lasciato loro tanti mozzi per rilevarsi dalle loro cadute, quando avevano avuto la sventura di commettere il peccato; se noi avessimo avuto il sangue adorabile di Gesù Cristo che fluiva ogni giorno sopra il loro altare per impetrar grazie per essi! Oh! questi felici Cristiani ai quali si era tante volte raccontato la misericordia di Dio, la quale è infinita! Oh! Signore, perché ci avete gettati nell’inferno? Di grazia, frenate la vostra giustizia, mio Dio, se vi abbiamo offeso, è perché non vi conoscevamo. Ditemi, M. F., possiamo non essere commossi dei tormenti di quei poveri idolatri? Poveri infelici, è vero che voi sofferto e siete separati da Dio, il quale avrebbe formato tutta la felicità vostra; ma consolatevi in quanto i tormenti vostri saranno infinitamente meno rigorosi che quelli dei Cristiani. Ma che penseranno e diventeranno questi Cristiani considerando il loro quadro nel quale saranno notate tutto le grazie che avranno ricevuto o disprezzato? Ahi che dico, dei cristiani che si vedranno arrossire e contristarsi per tanti peccati e por tanti sacrilegi; ah! ciò basta per servir loro d’inferno. Essi vorrebbero poter volgere il loro volto da un’altra parte per essere meno divorati dal rammarico; ma Gesù Cristo li forzerà per sempre, di guisa che questa sola vista basterebbe per servir loro d’inferno e di carnefice. Che cosa potranno dire per scusarsi e addolcire un poco i loro tormenti? Ah! nulla del tutto; all’opposto, tutto contribuirà ad accrescere la loro disperazione; essi vedranno che né le grazie né gli altri mezzi di salvamento non sono loro mancati, che all’opposto, tutto è loro stato prodigato; e vedranno che tutti questi beni, che avrebbero salvato tanti poveri selvaggi, non hanno servito che a dannarli. Ah! diranno a se medesimi, se almeno fossimo restati nel nulla. Ah! quale sventura per noi d’essere stati Cristiani! No, M. F., noi non possiamo pensare a quello che è arrivato a quei poveri Egiziani senza essere mossi di compassione. Essi perirono tutti passando il mar Rosso, rigurgitarono l’acqua di bocca e furono tutti inghiottiti; questo mare che tante volte li aveva portati sopra le sue onde con sì felici navigazioni, questo mare diventò il mezzo del loro supplizio e li espose alle risa dei loro nemici, ai quali apriva un libero passaggio per salvarli dalle loro mani. Ma, ahi lo spettacolo che ci presenta un Cristiano riprovato è assai più desolante. Per il volgere dell’eternità tutta quanta, si vedranno questi Cristiani dannati, si vedranno rendere per la bocca tutte le grazie che hanno ricevute e disprezzate nel corso della loro vita. Ah! si vedranno uscire da quei cuori sacrileghi quei torrenti del sangue divino che hanno ricevuto e orribilmente profanato. Ma, così S. Bernardo, ciò che aggiungerà un nuovo grado di tormenti a questi Cristiani dannati, è che, per tutta la eternità, essi avranno dinanzi agli occhi quello che Gesù Cristo ha sofferto per salvarli, e rifletteranno che non ostante ciò essi si sono dannati. Sì, così questo santo, essi avranno innanzi agli occhi tutte le lagrime che questo divin Salvatore ha sparso, tutte le penitenze che ha fatte, tutti i suoi passi e tutti i suoi sospiri, e tutto ciò per renderli migliori. Essi vedranno Gesù Cristo quale era in quella mangiatoia quando è nato, e che è stato adagiato sopra un manipolo di paglia; quale egli era nel giardino degli Ulivi, dove ha tanto pianto i loro peccati, perfino con lagrime di sangue. Egli si mostrerà come nella sua agonia, e quando lo si trascinava per le vie di Gerusalemme. Essi crederanno di udire appenderlo alla croce,

implorare misericordia per essi: e con ciò egli mostrerà loro quanto il loro salvamento gli ora costato caro, e quanto ha patito per meritar loro il cielo, che hanno perduto con

gioia e con malizia. Ah! M. F., quali rammarichi! ah! quale disperazione per questi Cristiani riprovati! Ah! grideranno dal fondo delle fiamme, addio, bel cielo, è per noi che siete stato creato, e che noi non vedremo mai! Addio, bella città che dovevate essere il nostro soggiorno eterno e formare la nostra felicità! Ah! se noi vi abbiamo perduta, è per nostra colpa e per nostra malizia. – Sì, M. F., ecco la triste meditazione d’un Cristiano per tutta quanta l’eternità nell’inferno. No, i pagani non avranno quasi nulla di tutto ciò da rimproverarsi; essi non avranno da rimpiangere il cielo perché non lo conoscevano; essi non hanno rifiutato né disprezzato i mezzi che si presentavano loro per salvarsi, perché ignoravano quello che bisognava fare per arrivare a questa felicità. Ma Cristiani, che non si è cessato d’istruire, di stringere ai panni e di sollecitare a non perdersi, ed ai quali si sono presentati tutti i mezzi i più facili per arrivare alla vita felice per la quale erano creati! Sì, M. F., un Cristiano dirà a se stesso per tutta l’eternità: Chi è dunque che mi ha gettato nell’inferno? Forse Dio? No, no. Non Gesù Cristo; all’opposto Egli voleva assolutamente salvarmi. Forse il demonio? No, no, io poteva non obbedirgli, come hanno fatto tanti altri. Sono dunque le mie inclinazioni? Ah! no, no, non sono le mie inclinazioni; Gesù Cristo mi aveva conferito l’impero sopra di esse, io poteva domarle colla grazia di Dio la quale non mi sarebbe mai venuta meno. Dunque donde può procedere la mia perdita e la mia sventura? Ah! tutto ciò non deriva che da me stesso, e non da Dio, né dal demonio, né dalle inclinazioni mie. Sì, io stesso mi sono attirato sul capo tutte queste sventure; sì, sono io che mi sono perduto e riprovato di mia propria volontà; se avessi voluto mi sarei salvato. Ma io mi sono dannato! Non c’è più mezzo e non più speranza; sì, è la mia malizia, la mia empietà e il mio libertinaggio che mi hanno gettato in questi torrenti di fiamme dalle quali più non uscirò. Sì, M. F., se la parola di Dio merita qualche credenza, io vi scongiuro di pensare seriamente a questa verità che ha convertito tante anime. E perché non produrrebbe gli effetti medesimi sopra di noi? Perché non sarebbe rivolta alla nostra felicità piuttosto che alla nostra sventura, se vogliamo approfittarne? Sì, M. F., o cangiamo vita, o noi saremo dannati; perché sappiamo benissimo che il nostro modo di vivere non può condurci al cielo. Ah! M.

F., ci accadrà come al povero Joab, il quale per evitare la morte, si rifugiò nel tempio e abbracciò l’altare nella speranza che lo si risparmierebbe, perché altra volta era stato il favorito di Davide; fu tuttavia per ordine suo che fu mandato a morte. Colui che era incaricato di ucciderlo gli gridò: Esci di là. — No, risponde il povero Joab; se è necessario morire, preferisco morir qui. Il soldato, vedendo che non poteva strapparlo dall’altare, trasse il suo pugnale, glielo immerse nel seno, e il povero Joab, baciando l’altare, ricevette il colpo della morte, e cadde ai piedi del tabernacolo, che aveva preso per sua difesa e per suo asilo (III Reg. II). Ecco, M. F., quello che ci accadrà un giorno, se non approfittiamo, o piuttosto se continuiamo a disprezzare le grazie del salvamento che ci sono copiosamente prodigate. Ora, noi siamo come Joab, che era il favorito e l’amico di Davide. Non sorgeva quasi un giorno, senza che ricevesse qualche nuovo beneficio dalla parte del principe. Egli era preferito a tutti gli altri sudditi; ma ebbe la sventura di non saperne approfittare e fu punito senza misericordia da quel medesimo dal quale era stato ricolmo di tanti benefizi. Si, M. F., accadrà la stessa cosa di noi che siamo stati preferiti a tante nazioni infedeli le quali vivono nelle tenebre e che non hanno mai avuto la ventura di conoscere la verità, vo’ dire la vera Religione e che periscono in questo triste e miserando stato. Ma di giunta, M. F., qual castigo non ci dobbiamo aspettare dalla parte di Colui che ci ha tanto amati e ricolmi di tanti benefizi, se, come Joab, abbiamo avuto la sventura di temprare le nostre mani nel sangue di Abner, vo’ dire di Gesù Cristo, ciò che noi facciamo ogni volta che pecchiamo; ma molto più orribilmente quando abbiamo la sventura di profanare i Sacramenti. O mio Dio, vi si può mai pensare e non morire di spavento? O mio Dio, come può avvenire che un Cristiano osi spingere sì innanzi la sua crudeltà e la ingratitudine sua? Ah! infelice, così S. Agostino, tu cadi di colpa in colpa, sempre nella speranza che ti fermerai ! Ma non temerai di mettere il suggello alla tua sventura? Oh! che gli ultimi sacramenti e tutti i soccorsi della Chiesa giovano poco a questi peccatori i quali sono vissuti disprezzando le grazie che ci procura la nostra santa religione! Sì, suonerà l’ora nella quale voi riceverete gli ultimi sacramenti colle migliori disposizioni agli occhi del mondo; ma ricevendoli v’accadrà come a Joab. Gesù Cristo che è nostro principe e nostro Signore, pronuncerà la vostra sentenza di riprovazione. Invece di servirvi di viatico per il cielo, la comunione non sarà per voi altra cosa che una massa di piombo per precipitarvi con maggior velocità negli abissi; voi stringerete come Joab è stato detto tante volte che, se lo volessi, potrei amare il buon Dio e salvare l’anima mia e rendermi felice per tutta quanta l’eternità; io al quale sono state offerte tutte le grazie per uscire dal peccato! Ah! se almeno non fossi stato Cristiano. Ah! se almeno non mi si fosse mai parlato del servizio di Dio e della sua religione. Ma no, nulla mi è mancato, avevo ogni cosa, e di nulla ho saputo approfittare. Tutto doveva essere diretto a procurarmi la mia felicità, e, per il nessun conto che ne ho fatto, tutto si è ritorto a mia sventura; addio, bel cielo!… addio, eternità di delizie !… addio, felici abitatori del cielo! … tutto è finito per me!… Non Dio, non cielo, non felicità!… Oh! quante lagrime ho da versare!… Quante grida da mandare in queste fiamme!… Non più speranza!… Ah! triste pensiero che strazierà un cristiano per l’eternità tutta quanta!… Ah! non perdiamo un momento per evitare questa sventura. E la sorte felice che vi desidero.

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (8)

F. CAYRÉ:

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (8)

Trad. M. T. Garutti Ed. Paoline – Catania

Nulla osta per la stampa

Catania, 7 Marzo 1957 P. Ambrogio Gullo O. P. Rev. Eccl.

Imprimatur

Catanæ die 11 Martii 1957 Can. Nicolaus Ciancio Vic. Gen.

CAPITOLO VIII

ALTRE TENDENZE SPIRITUALI

Le analisi che abbiamo fatto, anche se sommarie, hanno mostrato nella Chiesa antica una forte vitalità spirituale. I molteplici rami e gli abbondanti frutti testimoniano del vigore della radice, come pure della sua origine trascendente, divina, poiché la stessa storia sacra lo dichiara espressamente e le opere confermano le sue rivelazioni. Ci resta da gettare un colpo d’occhio generale su questo insieme di fatti spirituali, evocati in queste brevi pagine, per individuarvi i punti di contatto. Li troveremo nelle tendenze profonde dei gruppi spirituali che abbiamo incontrato dovunque in queste evocazioni, per rapide che siano state. Per tenerci tuttavia a ciò che vi è di più caratteristico, collegheremo tali tendenze alle grandi Scuole dottrinali della Chiesa antica, seguendoli d’altronde nel loro adattamento, relativo ma reale e fecondo, alle nuove condizioni che si imposero alla cristianità fin dalla metà del I secolo.

Scuola di Alessandria

Alessandria fu chiaramente un punto d’incontro provvidenziale fra lo spirito cristiano, fondato sulla fede, e lo spirito greco fondato sulla ragione. L’origenismo, che è il frutto più evidente di tale incontro, restava fondamentalmente cristiano di animo e di cuore, a dispetto di certe audacie degli iniziatori, audacie che i migliori Vescovi di Alessandria seppero temperare,  nel III e soprattutto nel IV secolo, poi nel V; basti citare Sant’Atanasio e San Cirillo, due nomi dalla gloria sfolgorante. Non tutti i dottori alessandrini furono origenisti, tutt’altro; ma tutti i Cattolici di questa scuola ebbero in eredità, come caratteristica, un gusto molto accentuato per le cose di Dio. Le cose divine erano veramente il punto di partenza di tutte le loro speculazioni e il termine diretto del loro sforzo ascetico, quando si davano all’ascesi come Sant’Antonio, o l’incoraggiavano a fondo, come fece efficacemente Sant’Atanasio. Questi monaci, che osservavano digiuni prolungati ed erano sempre in lotta con il demonio, erano d’altronde avidi di silenzio e di preghiera, e le consacravano lunghe ore del giorno e della notte. Il patriarca di Alessandria che ne testimonia con ammirazione merita di essere preso alla lettera (v. sopra). – Un celebre rappresentante della pietà alessandrina di spirito origenista fu Evagno il Pontico (+ 399), monaco di Nitria, dove Origene fu lungamente in onore. Lui stesso veniva dal Ponto, beneficiava di una grande cultura, aveva frequentato San Gregorio a Costantinopoli, e godeva di un alto prestigio. San Massimo il Confessore gli deve il meglio del suo pensiero: i tre gradi dell’ascesa spirituale; la dottrina dell’apatheia nell’esercizio delle virtù e la funzione dell’amore nella preparazione alla contemplazione; la teoria della preghiera pura, contemplazione da cui è esclusa ogni immagine. Egli dovette usare, nella sua opera abbastanza vasta e complessa, formule pericolose che lo compromisero gravemente e lo fecero condannare come origenista, due secoli più tardi. San Cirillo di Alessandria (+ 444) doveva essere, nel V secolo, la grande autorità spirituale dell’Egitto. Egli ha meglio di chiunque altro messo in luce la funzione dello Spirito Santo come principio santificatore in ogni Cristiano. Senza dubbio tutta la Trinità ci santifica, ma lo fa per mezzo dello Spirito « che è il suo profumo e la sua qualità o la sua virtù che fortifica », la « fonte d’acqua viva che feconda per la vita eterna », il « sigillo che si imprime (nelle anime) per restituire loro la somiglianza divina ». È pure su questa azione dello Spirito Santo che Cirillo, come tutti i Padri del IV secolo, si basa per provarne la divinità. Lo Spirito Santo deifica, dunque è Dio; per comunicare il fuoco ci vuole del fuoco; bisogna essere Dio per rendere partecipi della divinità. Lo Spirito Santo, che è Dio, si unisce all’anima che Egli santifica in una semplice unione morale, relativa ma vera, strettissima e fecondissima, come si era unito al primo uomo, ed è così che l’uomo è « deificato ». – Le formule che abbiamo citate, le immagini usate per tradurre una realtà profonda, esprimono a meraviglia il carattere realistico della pietà alessandrina. Lungi dal negare la grazia santificante, come si è creduto a torto, Cirillo l’attribuisce in proprio allo Spirito Santo; tale appropriazione spiega tutto, a patto di appoggiarsi bene sulla concezione greca della Trinità: si possono allora ricercare le analogie esistenti fra la giustificazione e gli attributi personali dello Spirito Santo, analogie che sono il vero fondamento dell’appropriazione. Tale realismo della fede, portata così fino al misticismo, è la caratteristica più saliente della tradizione alessandrina, preoccupata di mettere in tutto l’accento su Dio e l’azione divina nelle anime.

Scuola di Antiochia

La scuola di Antiochia, soprattutto a partire dal IV secolo, praticava particolarmente una specie di alto moralismo cristiano, divino sotto molti aspetti, ma più vicino alla realtà umana. Il suo modello migliore ci è dato da San Giovanni Crisostomo. A torto lo si è accusato di origenismo; Sant’Epifanio, ingannato dapprima dalle perfide calunnie di Teofilo di Alessandria, ha riconosciuto il suo errore, e Teofilo stesso non ha invocato nessuna delle sue accuse al conciliabolo della Quercia. Infatti Crisostomo si ricollega piuttosto alla scuola anti-origenista, quella di Antiochia. D’altronde, un solido senso tradizionale gli fece evitare i pericoli cui potevano condurre le tendenze di quella scuola, alla quale doveva tutta la sua formazione religiosa scientifica. Specialmente in cristologia, egli ha mantenuto con cura l’unità personale del Salvatore, evitando le formule dualistiche troppo recise del suo maestro Diodoro; afferma che il Cristo è uno, pur paragonando la sua umanità a un tempio in cui Egli abita. Si astiene, del resto, dallo scrutare il mistero. In che modo Cristo è uno? Non cercatelo, dice; Cristo lo sa. Aveva agito egualmente per la questione trinitaria. Uno dei grandi rimproveri che rivolge agli anomei è di voler « comprendere » Dio. Egli aveva il senso del mistero e questa umiltà, come la sua docilità alla tradizione, lo preservò dagli scogli. I pelagiani pretesero che egli negasse il peccato originale; Sant’Agostino li confutò e con ragione. Malgrado non si trovi nella sua opera una teoria del peccato originale così precisa come presso il Vescovo di Ippona, la dottrina di una caduta dell’umanità vi è chiaramente affermata. Sant’Efrem Siro, creatore di una celebre scuola ad Edessa, dove si ritirò quando i Persiani invasero Nisibi dopo il 360, si ricollega, fin nel suo misticismo, ai maestri di Antiochia, e con il meglio delle sue tendenze spirituali prepara le vie a San Giovanni Crisostomo. È nei monasteri che egli ha esercitano la maggiore influenza ed essa è di ordine ascetico e morale, fondata sulla fede più salda, sostenuta da una vera devozione verso la Vergine Maria. – Alla, base di questa dottrina troviamo l’affermazione molto esplicita della libertà. L’uomo è stato fatto a immagine di Dio, per mezzo della libertà e del dominio che ha su tutta la creazione; per mezzo della sua attitudine a ricevere i doni di Dio; per mezzo della facilità con cui il suo spirito può tutto concepire e applicarsi a tutto. Nei progenitori, tale immagine naturale di Dio era accompagnata da preziosi doni soprannaturali, comportanti una certa luce esteriore, che velava ai loro sguardi la loro nudità e non era che un riflesso dei doni spirituali della loro anima. Tutto questo è stato perduto col peccato, ma la libertà, per quanto indebolita e malata, sussiste: Sant’Efrem è molto categorico su questo punto. L’uomo decaduto ha bisogno della grazia, ma questa l’aiuta senza violenza, senza distruggere la libertà. Sant’Efrem considera volentieri la vita cristiana come un combattimento spirituale. Egli fornisce armi contro tutti i vizi, soprattutto contro i vizi capitali: raccomanda in modo particolare il digiuno, la temperanze, la preghiera, la lettura dei Libri Santi. Fra le virtù che sembra preferire, segnaliamo la carità, la verginità, la pazienza, l’umiltà, la penitenza, di cui tratta spesso. Insegna con forza la vanità dei beni di questo mondo e spinge le anime ferventi al ritiro. Innumerevoli sono le istruzioni che ha indirizzato ai monaci; segnaliamo soltanto un piccolo trattato « sulla vita spirituale », un altro sulla formazione dei monaci e due opuscoli « sulla virtù, a un novizio ». Esiste infine di lui, semplice diacono, un piccolo scritto che esalta la dignità dello stato sacerdotale e la santità che esso esige. È ancora alle tendenze ascetiche di Antiochia, sembra, più che alla teologia alessandrina, che bisogna collegare l’opera del vescovo di Fotikè, in Epiro, Diadoco, « Cento capitoli sulla perfezione spirituale », che è un capolavoro. L’autore visse nel V secolo e non è conosciuto se non per la sua attività spirituale, specialmente contro gli euchiti, falsi mistici dell’Asia Minore (condannati ad Efeso nel 431), che spiegavano le tentazioni per mezzo della coabitazione nell’uomo di Dio e del demonio. La sua opera molto saggia contiene eccellenti consigli, per la lotta contro le passioni e il diavolo; raccomanda le virtù morali più comuni, continenza, temperanza, povertà, obbedienza, umiltà, ma con insistenza particolare sulla vita interiore: preghiera, raccoglimento, silenzio, pace del cuore. Tuttavia il fondo della dottrina esposta da Diadoco è soprattutto mistica ed è quanto vogliamo qui presentare a grandi linee. I primi capitoli, I e II, pongono le basi: le virtù teologali tendenti a dare un gusto spirituale di Dio che è una vera sapienza; essa si manifesta in esortazioni apostoliche, quando la sua abbondanza stessa non toglie la parola. L’essenza della sua dottrina è questo « gusto spirituale » di Dio che riempie l’anima di dolcezza, frutto della presenza divina. Il « gusto di Dio » è un vero senso interiore con cui lo Spirito Santo forma le anime a immagine del Creatore. È con tocchi successivi che l’artefice divino realizza la sua opera nelle anime. In questa formazione progressiva, Diadoco distingue tre tappe: un periodo di dolcezze, all’inizio della vita spirituale; poi un lungo periodo di lotte contro gli assalti del demonio e dei sensi, con cui l’anima si purifica e tende al perfetto possesso del senso per mezzo dello spirito; quando tale senso le è accordato, essa ne è tutta trasformata. In una simile anima si sviluppa spesso una attività infusa, molto profonda, della carità che « oltrepassa la fede » (supra fidem consistere), poiché « colui che si lega a Dio con un’ardente carità è allora ben più grande della sua fede; egli è tutto intero nel suo desiderio ». Questo desiderio, atto di una carità arricchita dal senso dello spirito, la stabilisce in uno stato più elevato della semplice fede imperfetta.

Scuola d’Occidente

Nella stessa epoca, agli inizi del V secolo, finiva  di formarsi e di maturare nell’Africa latina un’opera dottrinale che doveva, provvidenzialmente, sintetizzare i migliori elementi spirituali delle antiche scuole e trasmetterli all’Occidente prima dell’invasione barbarica. Da Cartagine e da Ippona, che erano i suoi grandi centri di azione, Sant’Agostino poteva, di fatto, irradiare sull’Europa e sull’Oriente, dopo aver lui stesso beneficiato dei nuovi apporti della vastissima cultura spirituale che rispondeva al suo genio, tutto rivolto verso i grandi problemi del pensiero e della vita. Si ricollegherebbe già con la sua filosofia alla scuola di Alessandria, se non fosse necessario guardarsi da ogni eccesso. Il genio di Platone l’aveva conquistato fin dall’età di diciannove anni, ma in realtà non lo conobbe a fondo che a trent’anni, attraverso testi di Plotino recentemente tradotti che l’entusiasmarono, a dispetto delle riserve sempre più gravi che la sua fede rinascente, ravvivata dall’influenza di Sant’Ambrogio a Milano, sollevava e di cui le Confessioni conservano il ricordo. Al di là di Plotino, è a Platone che egli va istintivamente, sempre più, fino a non vedere più altro che lui, come farà trent’anni dopo nella Città di Dio. È infatti in un Dio puro Spirito che troverà il vero centro delle idee, centro tutto trascendente, e tuttavia agente sul capolavoro clic è lo spirito umano, certo sostanzialmente unito al corpo, ma ben superiore al corpo, essendo chiamato alla vita immortale, e avendo, malgrado le sue cadute, alti destini. – Questa profonda filosofia dello spirito, d’altronde non è che un’ancella per Agostino, un’ancella meno osservata in se stessa che nella sua attività ausiliaria, al servizio della teologia vivente, per mezzo della quale si ricollega, più ancora che ai filosofi, ai grandi Dottori cristiani di Alessandria, provvidenzialmente conosciuti a Milano attraverso Sant’Ambrogio, che trovava in essi le fonti inesauribili della sua vita cristiana e della sua predicazione. – Al tempo stesso poneva le sicure basi dottrinali di una morale viva, cristiana di ispirazione. La nota essenziale di tale sintesi è il senso di Dio e sono le Confessioni che ne danno lo spirito. L’opera descrive la presenza e l’opera di Dio vivente nell’autore — i libri IX e X sono tra i migliori in questo senso — compiuta e fissata in lineamenti decisivi nel XIII, secondo un metodo che si appoggia meno sulla Scrittura che su quell’altissima esperienza mistica orientata verso l’azione e verso la preghiera. I libri XI e XII sono un saggio di applicazione di tali principi ai primi capitoli del Genesi, secondo un metodo di superiore ricerca dottrinale, attratta dai grandi problemi, e specialmente da quello del Tempo, che l’autore ritiene essere uno di quelli in cui meglio si manifesta la differenza fra il Creatore, che vive fuori del tempo, nell’eternità, come nel suo centro di azione e di riposo, e la creatura che vi si trova sempre rinchiusa, qualunque cosa faccia. Questi e altri analoghi problemi furono ripresi nei dodici libri su lì Genesi alla lettera, vera Summa di domande e di profonde risposte sui punti più elevati della scienza naturale e soprannaturale dell’epoca. Anche se l’opera è scientifica, non si può dimenticare il quadro spirituale in cui è nata e il tempo in cui è stata realizzata. – Negli stessi anni infatti Sant’Agostino affrontava il suo capolavoro sulla Trinità, che spinge a fondo le indagini sulla divinità stessa, considerata specialmente nelle sue Persone. Evidentemente la Scrittura darà il suo contributo, ma la ragione ne raggrupperà i dati e li arricchirà con una serie di analisi e di sintesi che prepareranno da lontano i lavori delle università medievali. Le pagine sulla relazione, fondamento della personalità in Dio, sono geniali. Ma più importanti ancora e più nuovi sono gli otto ultimi libri di quest’opera (VIII-XV), in cui l’autore, con una penetrazione e una sottigliezza ineguagliate, osserva l’anima umana da molteplici punti di vista, per trovarvi un’immagine della vita trinitaria più rassomigliante possibile. – Gli alti voli della Scuola di Alessandria, le rigorose ricerche scritturali e morali della Scuola di Antiochia trovano così, nell’opera di Sant’Agostino, una vera sintesi vivente. Vi trovano anche il loro compimento, poiché durante gli ultimi vent’anni della sua vita egli dovette scrutare un altro aspetto del Cristianesimo, quello che è concentrato nella Città di Dio, opera di teologia più che di storia, nonostante il grande posto che vi occupa la storia. Di fronte alle rovine sociali di cui egli intravede l’imminenza, il suo pensiero si eleva alla sola città immutabile, alla vita celeste in cui gli eletti formeranno una vera società imperitura; i tempi che la precedono non hanno significato e valore duraturo per gli uomini che nella misura in cui questi possono volgergli verso tale fine e li orientano, di fatto, verso di esso. – Tali sono gli elementi generali della sintesi dottrinale che Sant’Agostino lasciava, morendo, in eredità all’Occidente di cui doveva essere il maestro per eccellenza sul piano dottrinale. Non è sicuro che le loro vere linee di forza siano state bene osservate e mantenute. – Le controversie pelagiane hanno obbligato il Santo a prendere posizioni di resistenza irrigidite dalla lotta e che la visione d’insieme potrebbe e dovrebbe attenuare, specialmente l’importanza di una profonda sapienza soprannaturale, fondata su una vera vita dello spirito, senza detrimento per l’unità sostanziale dell’uomo o per l’universalità dell’appello degli uomini alla salvezza. Le restrizioni su questi punti furono il risultato di diverse riduzioni del vasto piano spirituale costruito da Agostino ad altezze cui ci si eleva troppo raramente, per il rischio di comprometterlo. – Fra quelli che esposero con maggiore autorità e ampiezza la sua dottrina spirituale, bisogna segnalare soprattutto San Gregorio Magno, che l’aveva presa per guida e ispiratrice fin da prima del suo pontificato, e che approfittò dell’autorità che gli veniva dalla sua carica, durante quattordici anni (590-604), per applicarne i principi alla vita cristiana universale. Prima di lui, ad Arles, un monaco prete, Fornero, aveva esposto i suoi principi in un volume spirituale consacrato alla vita pastorale, sotto questo pio titolo « Vita contemplativa ». San Gregorio riprende questo tema e lo applica specialmente ai monaci nei suoi « Moralia », e con essi è tutta la Chiesa che ne ha beneficiato. In realtà, l’opera non è così nettamente morale, né pastorale, ma piuttosto spirituale, nel senso stretto e attuale del termine, spingendo la spiritualità fino al misticismo, poiché il pensiero del Papa si spinge fin là sulla linea agostiniana. SantAgostino pone, nell’ordine spirituale, dei principi: essi sintetizzano alti valori che erano già riconosciuti, almeno sostanzialmente, fin dall’antichità cristiana, specialmente in Oriente, e che dovevano essere apprezzati e realizzati soprattutto nella vita cristiana in Occidente. – L’influenza di San Gregorio doveva segnare d’altronde molto efficacemente queste realizzazioni nelle cristianità occidentali per mezzo del posto effettivo, preponderante, che poté mantenervi il Papato, erede del potere delle chiavi affidato a San Pietro e centro gerarchico indispensabile all’unità vera per l’intera Chiesa. Tale autorità si fece particolarmente attenta nell’istituzione monastica, di cui la Chiesa d’Occidente ebbe tanto bisogno e da cui trasse tanti vantaggi nelle epoche più tormentate della sua storia. Tali sostegni dottrinali e pratici dovevano essere eminentemente benefici, anche se gli effetti non si manifestarono che più tardi in tutta la loro ampiezza.

Scuola bizantina

In Oriente la Chiesa era allora molto provata, in numerose località, anche se il centro creato da Costantino restava inviolato e raggruppava intorno a sé, almeno di nome, gli antichi patriarcati del IV secolo. Costantinopoli ridivenne sempre più Bisanzio, a partire dal IV secolo, a dispetto delle sue grandezze, non soltanto politiche, ma religiose, le sole che qui ci interessano. Con le secessioni prodotte dalle eresie, che divennero vere piaghe nazionali (nestorianesimo, soprattutto in Siria; monofisismo, predominante in Egitto), secessioni aggravate dalla spinta dei Persiani e degli Arabi al sud, e degli Slavi al nord, Bisanzio divenne un bastione superbo ma isolato, nonostante la magnifica ripresa di influenza al sud e all’ovest. Tale bastione almeno era cristiano, se si intende con ciò l’intervento ufficiale della religione in tutti gli ingranaggi dello Stato e in tutte le branche della società. Quanto al fondo spirituale, bisogna esaminare più da vicino. – Costateremo anzitutto nella Chiesa di Bisanzio l’esistenza di ciò che si potrebbe chiamare « la scuola bizantina », titolo che giustifica il mantenimento, almeno nominale, di una influenza dottrinale esercitata da questa Chiesa sui Cristiani detti « ortodossi », parola che designa le Chiese orientali formate da Costantinopoli e rimaste fedeli al suo spirito. Ma il suo territorio a partire dal VI secolo si era molto ristretto, poiché, malgrado tutto il prestigio di Giustiniano e i suoi effimeri trionfi in Occidente, l’impero si infranse nell’Oriente meridionale. Ripiegato su se stesso, si mantenne e fece più tardi conquiste spirituali presso gli Slavi che avevano ricevuto la fede cristiana. Da ciò l’interesse che si accorda a questo gruppo religioso e al suo spirito. – La Chiesa bizantina restò saldamente cattolica fino al IX secolo e oltre, nonostante le crisi che la lacerarono. Chiusa in se stessa e dominata dalla Corte, non ebbe veri pensatori paragonabili ai maestri delle antiche scuole di Oriente. Ne ha conservato, un po’ coagulato, il ricordo grazie ai tre gerarchi cui essa si rifaceva, San Basilio e San Gregorio Nazianzeno, questi neoalessandrini del IV secolo, e San Giovanni Crisostomo, gloria di Antiochia, aureolato dal martirio, poiché il suo esilio e la sua morte tragica servirono molto alla sua causa. Questi nomi sono infatti ricordi di gloria più che forze ispiratrici di vita. La stessa eloquenza che domina in questa Chiesa fu più formale di quella di tali antichi maestri. Essa avrà almeno il merito di trasmettere alla Chiesa la testimonianza di una ardente pietà mariale, poiché è nelle sue omelie che si sono trovati gli omaggi più belli all’Immacolata Concezione di Maria e alla sua Assunzione. – Fra i maestri che caratterizzarono il pensiero e la spiritualità bizantina, bisogna segnalare « Dionigi l’Aeropagita », questo teologo che scriveva indubbiamente ai confini della Siria e dell’Egitto, probabilmente alla fine del V secolo, che fu introdotto a Costantinopoli sotto Giustiniano, nel IV secolo, e vi fu chi si acclimatò definitivamente nel, VII secolo per opera di San Massimo il Confessore. L’Aeropagita metteva al servizio di una sicura fede cristiana una filosofia neoplatonica molto accentuata, benché la sua utilizzazione in teologia fosse abbastanza superficiale, più verbale che profonda, a differenza dell’uso che ne aveva fatto Sant’Agostino in Occidente. Tuttavia questo incontro aveva il suo valore e può segnare veri accostamenti dottrinali. Quanto alla sua mistica, essa è più formale che potentemente realizzata. – Il vero maestro spirituale della Chiesa bizantina è San Massimo il Confessore, teologo profondo, morto martire per difendere l’umanità di Cristo contro i monoteliti, nel VII secolo. La sua teologia, difatti, si accompagnava con una ardente devozione verso l’Uomo-Dio, di cui raccomandava con fervore l’imitazione, fin dalle prime pagine di uno scritto ascetico; e del resto la sua mistica, strettamente legata alla carità, si espandeva in contemplazione. Egli temperava così l’intellettualismo di Dionigi in questo campo, pur utilizzando le sue vedute sulle « gerarchie » in una « Mistagogia » che si ispira a tale autore. Massimo è uno dei migliori maestri spirituali dell’antichità, il più sicuro della Scuola che egli rappresenta per noi perfettamente. Tempera felicemente, in profondità, ciò che questa Scuola, sotto l’influenza molto brillante della Corte imperiale, aveva di splendente all’esterno, nella liturgia e nell’arte come nell’eloquenza un po’ fittizia anche dei migliori oratori religiosi. San Massimo era monaco. Per questo titolo si ricollegava a quella élite cristiana che aveva prima fuggito le città per trovare la pace di Dio, e le aveva poi invase per portarla alle anime esposte a pervertirsi. Di fronte ai richiami al lusso e al fasto mondano che la corte di Bisanzio incarnava agli occhi delle masse, di fronte al sontuoso palazzo del basileo, i monaci presentavano l’esempio vivente di una vita di raccoglimento, di penitenza e di preghiera. Gli imperatori iconoclasti soprattutto soffrirono di tale contrasto nell’VIII secolo e tentarono con ogni mezzo di spezzare tale resistenza distruggendo il monachesimo, poiché i monasteri erano il luogo di asilo preferito dei difensori delle icone. Gli studiti brillarono per la loro energia in questa lotta, da cui uscirono definitivamente vincitori dopo cento anni e più di lotte. Quasi sempre i Vescovi cedettero davanti alla volontà imperiale; i monaci fecero invece fronte unico, sostenuti dal Papa, la cui autorità era riconosciuta dalla Chiesa bizantina (le Novelle stesse, inserite da Giustiniano nel Codice, ne sono testimonianza), finirono per trionfare definitivamente nel IX secolo. – La festa dell’« ortodossia », stabilita nell’843, evoca questa epopea religiosa in un senso storicamente cattolicissimo, benché le interpretazioni che ne sono state date in seguito le diano un ben diverso significato. L’ortodossia autentica si appoggia sulle caratteristiche della Chiesa che il simbolo di Costantinopoli, nel 381, riconduce a quattro e che la liturgia bizantina stessa fa ripetere ogni domenica: « Unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam ». Un orientale, Sant’Ireneo, nel II secolo, venne a ricordare all’Occidente chequesta cattolicità e questa apostolicità delle Chiese erano,di fatto, realizzate per mezzo dell’unione con laChiesa di Pietro che è a Roma. La Chiesa bizantina,di cui abbiamo parlato, lo sapeva, specialmente nelle sueélites spirituali, e ciò fu la sua forza. L’ortodossia,lungi dall’essere un criterio di verità, ne richiama uno,chiaro e netto. La Chiesa bizantina può trovarlo, sempreparlante nella sua storia e nella sua liturgia, perpoco che lo si liberi dalle scorie depositate dalle passioni su un fondo storico glorioso e fondamentalmente cristiano. La Scuola bizantina, ben capita, può trarre dal loro « isolamento » funesto tutte le Chiese che si rifanno ad essa e che spesso vegetano spiritualmente per mancanza del sostegno della cattolicità. E quale vasto campo di irradiamento per lei!

LE INDULGENZE

LE INDULGENZE

(Enciclopedia Cattolica – C. d. VATICANO, 1951, vol. VI coll.1901-1910)

INDULGENZE. – Indulgentia, indulgere, in senso proprio indica condiscendenza, e condiscendere, nelle varie sfumature dell’idea. Gli storiografi imperiali-romani usano la parola nel senso tecnico di remissio tributi o remissio pœnæ, concessioni che gli imperatori solevano fare in certe occasioni. Valeva anche per indicare la abolitio, una specie di amnistia, decretata in occasione di lieti eventi pubblici. Nell’epoca carolingia era adoperato ancora come termine tecnico per per indicare condono di pene o di tributi (così nei Capitularia). Nel Codice Teodosiano (l. IX, tit. 38, De indulgentiis criminum) designa i condoni elargiti dagli imperatori cristiani specialmente a Pasqua; tanto è vero che la Domenica delle Palme, in molti testi dell’alto medioevo (calendari, sacramentari, vari Comes [cerimoniali], ecc.), viene detta dominica indulgentia. Quanto alla materia del condono delle pene, si riscontrano diversi termini che possono indicare anche l’indulgenza nel senso stretto attuale, ma che possono indicare e indicano di fatto anche altre idee simili o affini, in  quei tempi nei quali incominciò a svilupparsi la vera indulgenza. Da questa imprecisione di termini è nata tanta confusione fra gli studiosi meno cauti nelle loro ricerche. P. es., le parole absolutio, relaxatio, remissio, venia, condonatio e indulgentia, che possono indicare, nei secc. XI – XIII sia la indulgenza propriamente detta, sia, e più spesso, le varie forme di remissione, sacramentale e penitenziale, e anche extrasacramentale. Quest’ultima è la vera indulgenza, come oggi si intende. – Secondo la dottrina cattolica indulgenza è « la remissione dinanzi a Dio della pena temporale dovuta per i peccati, già perdonati riguardo alla colpa, che l’autorità ecclesiastica concede dal tesoro della Chiesa a modo di assoluzione per i vivi e a modo di suffragio per i defunti » (can. 911).

Sommario: I . Storia. – II. Natura. – III. Potestà di concedere indulgenza – IV. Divisione. – V . Requisiti per la concessione e l’acquisto delle indulgenze

I. STORIA

(1-7 omissis)

8. Legislazione tridentina e post-tridentina. — Il Concilio di Trento, dopo quelli di Lione e di Vienna, tornò ad occuparsi delle indulgenze, soprattutto in vista della spietata guerra  spiegata dai riformatori contro di esse. Nella Sess. XXI, cap. 9, soppresse l’istituzione dei « questori », cioè dei raccoglitori di denaro per le indulgenze, che fece tanto male a causa degli abusi che vi si inserirono, e riservò la pubblicazione di indulgenze ai soli Ordinari; essi possono anche, se occorre raccogliere, senza compenso alcuno, eventuali elemosine. Finalmente, nella sess. XXV, si emanò il celebre decreto de indulgentiis, nel quale, dopo aver definito che la Chiesa ha il diritto di concedere indulgenze da Cristo Signore, si approva di nuovo l’uso delle indulgenze come christiano populo maxime salutarem, abolendo nuovamente ogni specie diquestua in vista di indulgenze, e ordina che i Vescovi vigilino seriamentenelle proprie diocesi sopra ogni possibile abuso, denunziandolo nei sinodi provinciali, e al Sommo Pontefice.Dopo il Concilio di Trento Clemente VIII eresseuna commissione cardinalizia per occuparsi delle indulgenze secondola mente del Concilio, la quale continuò sottoPaolo V i suoi lavori, preparando varie bolle e decretiin materia. Ma soltanto Clemente IX creò una vera Congregazioneper le indulgenze (e le reliquie), con breve del 6 luglio1669; nell’apr. 1668 uscirono i primi decreti della medesima. Pio X, con motu proprio del 28 genn. 1904,unì la Congregazione delle I. con quella dei Riti, ma nel1908, con il nuovo ordinamento della Curia, tutta lamateria delle indulgenze passò al S. Uffizio. Benedetto XV però,con motu proprio del 25 marzo 1915, trasferì la sezionedelle indulgenze dal S. Uffìzio alla Penitenzieria Apostolica, rimandandoal S . Uffizio tutto ciò che riguarda la dottrina sulleindulgenze. Così fu confermato dal Codice, can. 238 § 2.

BIBL.: 1. Letteratura storica: la storia delle indulgenze è stata diligentemente studiata non solo dai cattolici, ma anche dai protestanti, anche perché le questioni riguardanti le indulgenze, furono l’occasione per lo scoppio della tremenda rivoluzione religiosa-sociale, che va sotto il nome di riforma. È stato intuito fin dal sec. XVIII che le indulgenze, nel senso stretto della parola, risalgono soltanto al sec. XI e non sono che il frutto di una lunga evoluzione che si basa sulla storia e sullo sviluppo della penitenza ecclesiastica. Si può dire che l’opera storico-critica più antica sulle indulgenze, fu quella di E. Amort, De origine, progressu, valore ac fructu indulgentiarum accurata notitia historica, dogmatica, polemica, crìtica (Augusta 1735). Ma soltanto durante il secolo passato e nel presente gli studi sull’indulgenza, sono arrivati a tale punto da rendere chiara e sicura la storia dell’evoluzione genetica delle indulgenze. Il merito va in prima linea a N. Paulus, il quale, sin dal 1899, in una serie quasi innumerevole di articoli e studi particolari, ha raccolto un immenso materiale, soprattutto documentario, che gli permise finalmente di scrivere l’opera fondamentale sulle indulgenze: Geschichte des Ablasses im Mittelalter, 2 voll. Paderborn 1922-23. Chiarita soprattutto la nozione precisa dell’indulgenza, nel senso teologico-canonistico attuale, egli poteva ben discernere, fra le discordanti opinioni dei dotti, i presupposti storici, e la effettiva origine dell’i.: poteva eliminare molti documenti falsi e incerti, e chiarire, inserendole nel loro tempo, le diciture ambigue o malamente interpretate. Un altro studioso, B. Poschmann, fondandosi sopra il materiale storico del Paulus, continuò l’investigazione soprattutto dal punto di vista della penitenza cattolica e della sua prassi attraverso i secoli, per meglio chiarire ancora la natura dell’indulgenza e la sua, per dir così, legittimità, dimostrando che non è nata da elementi estranei alla prassi e dottrina della Chiesa sulla penitenza, ma che è conforme ad essa, anche se in apparenza si discostava da certe forme usuali nel suo tempo. Si citano subito le sue principali opere: Die abendlàndische Kirchenbusse am Ausgang des christlichen Altertums, Bonn 1928; Die abendlàndische Kirchenbusse im frulien Mittelalter, ivi 1930; Pœnitentia secunda, ivi 1940; Der Ablass im Lichte der Bussgéschichte, ivi 1948. Nella trattazione dell’argomento si inserì nel 1932  I. A. lungmann, con la sua poderosa opera: Die lateinischen Bussriten in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Paderborn 1932. Altre opere interessanti di una certa importanza sono: A. Gottlob, Kreuzablasse und Alniosenablass. Eine Studie tiber die Frùhzeit des Ablasswesen, Stoccarda 1906; E. Goller, Der Ausbruch der Reformation und die spàtmittelalterliche Ablasspraxis, Friburgo 1917; H. Delehaye, op. cit. (5 articoli estratti dagli Anal. Boll., 44 [1926], 45 [1927], 46 [1928]). L’opera fondamentale pratica sulle indulgenze è: Die Abldsse, ihr Wesen und Gebrauch, pubblicata la prima volta dal p. F. Beringer, Paderborn l86 c, continuata da I. Hilgers e finalmente da P. A . Steinen (5a ed., 2 voll., I vl 1921 – 22). Lo Hilgers aveva anche pubblicato un suo studio: Die katholìsche Lehre von den Ablàssen und deren geschichtliche Entwicklung, ivi 1914, nel quale volle riportare l’origine delle indulgenze, quanto più indietro possibile, ma fu fortemente contrastato da Paulus. Nelle grandi enciclopedie francesi: E. Magnin, Indulgences, in DThC, VII, coll. 1594-1636; P. Galtier, Indulgerne, in DFC, II, coll. 718 – 52; H. Leclercq. Indulgence, in DACL, VII, coll. 535 – 40; gli stessi autori confessano candidamente di aver attinto il materiale per le loro esposizioni dalle opere e dagli articoli di N. Paulus. ( …. )

II. NATURA. –

Secondo l’insegnamento della Chiesa ogni peccato, anche veniale, lascia nell’anima non solo lo stato di colpa ma anche lo stato di pena. Ora il fedele, che confessa i suoi peccati o emette un atto perfetto di contrizione con il proposito di confessarsi, ottiene sicuramente la remissione della colpa e il condono della pena eterna, che segue ogni colpa grave, ma non sempre o almeno non del tutto consegue la remissione della pena temporale, la quale può essere rimessa in questa vita per mezzo delle opere satisfattorie e delle indulgenze, oppure dovrà essere rimessa nell’altra vita, in Purgatorio. L’indulgenza pertanto non è remissione della pena eterna, la quale viene condonata unitamente alla colpa, né remissione di colpa sia mortale sia veniale. Né molto meno può dirsi che l’indulgenza sia la remissione dei peccati futuri, come hanno insegnato alcuni protestanti: lo ha dichiarato espressamente Papa Eugenio IV in una concessione d’indulgenza a favore della Congregazione di S. Giustina (E. Amort, De origine indidgentiarum, Augusta 1735, p. 136). L’indulgenza invece è un atto di giurisdizione, che suppone lo stato di Grazia e che viene esercitato, pur in diverso modo, sui fedeli vivi e sui defunti. Per i vivi l’indulgenza è concessa per modo di assoluzione, ossia di remissione per un atto di potestà giudiziale, che porta con sé una soluzione, ossia  un pagamento operato con i beni comuni della famiglia cristiana. Ai defunti l’indulgenza è applicata per modo di suffragio: e defunti non sono più sottoposti alla giurisdizione della Chiesa, quindi non si può parlare di assoluzione giudiziale, ma solo di suffragio, nel senso che i fedeli pellegrini in questa terra (homines viatores) pongono un’opera buona e mediante l’autorità della Chiesa offrono i meriti satisfattori di Gesù Cristo al Sognore pregandolo che voglia accettarli in remissione delle pene, che le anime purganti debbono ancora scontare. Tale remissione di pena opera non solo in foro esterno, davanti alla Chiesa, ma anche in fòro interno, davanti a Dio. L’autorità ecclesiastica nel concedere le indulgenze, attinge al tesoro della Chiesa, costituito dai meriti satisfattori di Gesù Cristo, ai quali vanno aggiunti quelli della Vergine e dei santi. Ogni opera buona, fatta in stato di Grazia, oltre la parte meritoria, ch’è inalienabile e che dà diritto alla ricompensa, porta con sé la parte satisfattoria, per mezzo della quale si può scontare il debito temporale contratto con il peccato e che può esse ceduta anche agli altri. Tale tesoro viene applicato mediante la Comunione dei santi, in forza della quale la Chiesa trionfante, la purgante e la militante non costituiscono tre società, ma formano un solo corpo, di cui Cristo è il capo ed i fedeli le membra, le sono talmente unite dal vincolo dell’amore che i beni della comunità sono come propri di ciascuno e vanno a beneficio dei singoli (I Cor. XII, 12-26).

III. POTESTÀ DI CONCEDERE INDULGENZE

Risiede nella Chiesa, in coloro ai quali è stata commessa la potestà delle chiavi e che perciò per diritto divino hanno il governo della Chiesa. Tale verità, definita dal Concilio di Trento (Denz.-U, 989), si deduce dalle parole di Gesù Cristo dirette a s. Pietro: « Ti darò le chiavi del Regno dei cieli … Qualunque cosa scioglierai in terra, sarà sciolta in cielo » (Mt. XVI, 19). Se la Chiesa può, nel Sacramento della Penitenza, lavare l’anima dalla macchia della colpa, può certamente liberarla anche da un male più leggero, ossia dallo stato di pena.

IV. DIVISIONE. –

Le indulgenze si dividono in: a) plenarie, e parziali. È plenaria quella che, secondo la mente del concedente, rimette tutta la pena temporale: può essere però plenaria totaliter o relative secondo le disposizioni di chi l’acquista (can. 926). L’indulgenza plenaria, se non è detto espressamente il contrario, può acquistarsi una sola volta al giorno, anche se le opere prescritte vengono compiute più volte (can. 928 § 1); se può acquistarsi più volte al giorno vien detta toties quoties. Tra le indulgenze plenarie toties quoties è ben nota quella della Porziuncola concessa per il 2 di ag. L’indulgenza plenaria quotidiana, che suol concedersi per la visita ad una chiesa, va intesa nel senso che  può guadagnarsi in qualsiasi giorno, ma una volta soltanto nell’anno (can. 921 § 3). Il Giubileo è una indulgenza plenaria arricchita di particolari privilegi dal Romano Pontefice, e differisce dalle altre indulgenze plenarie per le solennità con cui è concesso e per i privilegi da cui è seguita. Queste circostanze estrinseche sono ordinate a rendere più profonde le disposizioni dei fedeli, e perciò stesso più sicura, soggettivamente, la remissione di tutte le pene temporali. Si deve pertanto ritenere il Giubileo non è superiore alle altre indulgenze plenarie quod effectum, ma soltanto quoad affectum (cf. F. L. Ferraris, Prompta bibliotheca canonica, IV, Montecassino 1848, p. 280). Parziale è l’indulgenza che rimette soltanto parte della pena temporale: se non è detto espressamente il contrario, essa può lucrarsi tante volte al giorno quante volte vien compiuta l’opera  prescritta (can. 928 § 2); b) personali, reali e locali, secondo che vengono concesse direttamente alle persone o ceto di persone, p. es., a religiosi; oppure sono annesse all’uso di particolari oggetti sacri, p. es., medaglie, corone, ovvero sono concesse la visita ad un determinato luogo sacro; c) perpetue o temporanee, secondo che sono accordate senza restrizione di tempo oppure sono limitate ad un certo numero di anni; d) indulgenze per i vivi o per defunti oppure per vivi e defunti. Per alcune indulgenze  personali, annesse all’appartenenza all’Azione Cattolica, alle Confraternite ed ai  Terz’ordini, v. alle rispettive voci. Così pure per alcune principali indulgenze: (ad es., Via Crucis, altare privilegiato, Porziuncola e reali, quelle annesse alle varie Corone,  agli Scapolari; alle medaglie o simili ecc.).

V.  REQUISITI PER LA CONCESSIONE E L’ACQUISTO DELLE INDULGENZE

Da parte del concedente si richiede che abbia la legittima potestà: distribuire infatti i beni di una società, quali sono le indulgenze rispetto alla famiglia cristiana, spetta a coloro che presiedono alla società medesima. Si richiede inoltre una causa giusta e legittima: chi è infatti preposto alla concessione delle indulgenze, non è dissipatore ma dispensatore del tesoro della Chiesa. Da parte dell’acquirente si richiede (can. 925):

a) che sia battezzato. Possono partecipare dei beni di società soltanto coloro che ne sono membri: si diviene membri della Chiesa per mezzo del Battesimo;

b) che sia in stato di Grazia, almeno quando pone l’ultima opera ingiunta: fino a che vi è la colpa, non vi può essere remissione alcuna di pena;

c) che sia suddito del concedente (ma se il concedente è il Vescovo di una diocesi, possono lucrare l’indulgenza anche tutti coloro che si trovino nel suo territorio: can. 927);

d) che abbia l’intenzione, almeno generale, di lucrare l’indulgenza; non è necessario che tale intenzione sia attuale o virtuale: è sufficiente l’abituale;

e) che adempia a tutte le condizioni. Quelle che comunemente sogliono imporsi per l’acquisto delle indulgenze plenarie sono: la Confessione, la Comunione, la recita di qualche preghiera secondo l’intenzione del Sommo Pontefice e la visita di una chiesa o di un oratorio pubblico, ovvero, per coloro che legittimamente ne usano, di un oratorio pubblico. – Quando è prescritta la Confessione, questa va fatta anche da coloro che non hanno coscienza di alcun peccato mortale; essa però può farsi entro gli otto giorni immediatamente  precedenti a quello, cui è annessa l’indulgenza, o entro gli otto giorni seguenti. Quando, poi, si tratta di indulgenze annesse a pii esercizi (tridui, settenari, novene), la Confessione può farsi anche entro gli otto giorni che seguono immediatamente il compimento dell’esercizio. Inoltre: non è obbligatoria in quest’ultimo caso la Confessione per chi si comunica quasi tutti i giorni con retta intenzione, anche se se ne astenesse una o due volte la settimana; né per chi si confessa abitualmente almeno due volte al mese. È eccettuata da questo privilegio la Confessione prescritta per l’acquisto del Giubileo o di indulgenze concesse a modo di Giubileo (can. 931). La Comunione deve essere sacramentale e non basta la spirituale; vale quella ricevuta per Viatico e anche quella pasquale (eccettuato il caso del Giubileo o di indulgenza a modo di Giubileo). Basta sia fatta la vigilia del giorno a cui è annessa l’indulgenza; o nell’ottava che lo segue. Nel caso di indulgenze concesse per tridui etc., vale per la Comunione quanto fu detto per la Confessione. Non è necessario che la Comunione sia fatta in chiesa, di cui è prescritta la visita per l’acquisto dell’indulgenza.  Con una sola Comunione si possono lucrare parecchie indulgenze plenarie concesse per il medesimo giorno, purché si adempiano le altre condizioni prescritte per ciascuna delle indulgenze che si vogliono acquistare (can. 931). La visita ad una chiesa, quando è prescritta, può farsi dal mezzogiorno della vigilia sino alla mezzanotte del giorno stabilito per l’indulgenza. (can. 923). Si richiede di accedere al luogo prescritto con l’intenzione generale o implicita di onorare Dio. Se il luogo delle visite non è prescritto in modo determinato, le persone viventi in una casa religiosa, collegi, convitti, ospedali, ecc., e le persone addette loro assistenza o servizio, possono lucrare le indulgenze visitando la cappella dell’Istituto, nella quale soddisfano al precetto festivo (decr. della S. Penitenzieria Apostolica del 20 sett. 1933, A. A. S. , 25 [1933], p. 446). La preghiera deve essere vocale almeno in parte e non solo mentale (can. 934 § 1), ed è libera a scelta, se non vi sono p r e scrizioni speciali. Per soddisfare alla clausola « secondo l’intenzione del Sommo Pontefice » basta la recita di un Pater, Ave e Gloria (decr. cit., ibid., p. 446); però trattandosi della indulgenza del « Perdono di Assisi » o di indulgenza toties quoties, per cui si richiede la visita di una chiesa, si dovranno recitare 6 Pater, Ave e Gloria, senza poter sostituire altra preghiera, anche più lunga (decr. della S. Penit. Apost. del 5 luglio 1930, A A S, 22 [1930], p. 363). Da notare, che le preghiere possono essere recitate alternativamente con un compagno, o seguite mentalmente quando sono recitate da un altro (can. 934 § 2); i muti possono acquistare le indulgenze unendosi coi fedeli che pregano e innalzando il cuore a Dio; e le preghiere possono recitarle mentalmente, espresse con i gesti loro propri percorse sul libro con gli occhi (can. 936). Infine, le indulgenze annesse alle invocazioni e giaculatorie si possono da tutti acquistare con la sola recita mentale (decr. della S. Penit. del 7 dic. 1933; A A S , 26 [1934], p. 35). Quando per causa ragionevole non si può tenere in mano il Rosario o il Crocifisso indulgenziati, si possono acquistare le indulgenze, se si porta indosso l’oggetto indulgenziato (decr. S. Penit. del 9 nov. 1933; A.A.S., 25 [1933], PP- 502 -13).

BIBL.: E. Amort, De orìgine, progressu ac fructu indulgentiarum, Augusta 1735; I. B. Bouvier, Traìté dogmatique et pratique des indulgences, des confrérìes et du jubìlé, X ed., Parigi 1855; P. Moccheggiani, Collectio indulgenti arimi theologice, canonice et historice digesta, Quaracchi 1897; G. Grimaud, Ordo des ìndulgences plénìères apprativo par la S. C. des Indulgences, Parigi 1904; L. Fanfani, De indulgentiis, Torino 1926; A. Lépicier, Le indulgenze: loro orìgine, natura e svolgimento, Vicenza 1931; J. Lacau, Précieux trésors des indulgences, 10a ed., Torino-Roma 1932; 1Theologia Mechliniensis, Tractatus de indulgentiis, 5a ed., Malines 1933; G. Demaret. Indulgences à l’usage de tous les fidèles suìvìes d’une manuel de piété, Parigi 1940; A. Legrand, Florilegium seu fasciculus precum et indidgentiarum, 3a ed., Bruges 1941; V. Heylen, Tractatus de indulgentiis, 6a ed., Alalines 1948; S. De Angelis, De indulgentiis. Tractatus quoad earum naturam et usum, 2a ed., Città del Vaticano 1950.

Serafino De Angelis

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (61) – LA CITTÀ ANTICRISTIANA (1)

LA CITTÀ ANTICRISTIANA (1)

DI P. BENOIT

DOTTORE IN FILOSOFIA E TEOLOGIA DIRETTORE EMERITO DEL SEMINARIO DI PARIGI

SOCIÉTÉ GÉNÉRALE DE LIBRAIRIE CATHOLIQUE VICTOR PALMÉ, DIRECTEUR GÉNÉRAL

rue des Saints-Pères, 76

BRUXELLES

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12, rue des Paroissiens, 12

GENEVE

HENRI THEMBLEY, ÉDITEUR’

4, rue Corraterîe, 4

-1886 –

II

LA FRANCO-MASSONERIA

O LE SOCIETÀ SEGRETE

ТОМO PRIMO

PREAMBOLO

1. Su questa terra, sono presenti due Città che si combattono l’una contro l’altra: la Città di Dio o la Città dei Cristiani, presieduta dal suo Capo Gesù Cristo, e la Città del Mondo o la Città degli Antichicristi, governata dal suo capo “il serpente antico”, “il principe di questo mondo”, “il dio di questo secolo”. La Città di Dio si oppone alla Città del mondo con una dottrina ed un esercito. Questa dottrina è “il Vangelo della salvezza”. Questo esercito è la Gerarchia Cattolica, composta dal Papa, i Vescovi ed i sacerdoti, predica in tutto l’universo “la parola della verità”, e governa con autorità divina l’umanità rigenerata.

– A sua volta, la Città del Mondo si oppone alla Città di Dio con gli errori e con le milizie. Gli errori oggi sono il Razionalismo e il Semi-razionalismo. – Le milizie sono le società segrete o la massoneria. « Lo scopo supremo della Massoneria – dice Leone XIII in un’incomparabile Enciclica, che sarà la nostra luce principale in tutta quest’opera, – è di rovinare da cima a fondo l’intera disciplina religiosa e sociale che è nata dalle istituzioni cristiane, e di sostituirla con una nuova, modellata sulle loro idee, e i cui principi e leggi fondamentali sono mutuati dal naturalismo. » Abbiamo parlato degli errori moderni. [Nella prima parte di quest’opera]. Non ci resta ora che di occuparci delle società segrete o della Franco-massoneria.

2. Divideremo questo nuovo studio in tre parti. Indagheremo prima di tutto su quale sia lo scopo della Massoneria; poi passeremo in rassegna le società massoniche stesse; e infine vedremo come le sette lavorano per raggiungere l’obiettivo proposto.

In altre parole, prenderemo in considerazione:

1° Il piano del tempio massonico;

2° I lavoratori impiegati per costruirlo;

3° Il lavoro di costruzione.

3. Si potrebbe dire che la Massoneria porti la sua definizione nello stesso suo nome; è un’associazione di franchi o liberi muratori. I muratori costruiscono un edificio: qual è l’edificio costruito da questi muratori liberi? Costruiscono – dicono – « il tempio della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità », « la chiesa della ragione e della natura », « il santuario della verità e della virtù”. Costruiscono – diciamo noi – il tempio di satana ».

4. Gesù Cristo si è paragonato ad un architetto, ed ha paragonato la sua Chiesa ad un edificio: “Tu sei Pietro”, ha detto al capo dei suoi Apostoli, “e su questa roccia edificherò la mia Chiesa”. (Matt. XVI, 18) Anche satana, il rivale ed “avversario” di Gesù Cristo, pretende di essere un architetto; anche lui vuole costruire un tempio.

5. Il tempio di Gesù Cristo è il tempio della perfetta obbedienza a Dio, il tempio della fede e della carità. Il tempio di satana è il tempio della rivolta universale contro il Signore ed il suo Cristo, il tempio dell’empietà e della diffamazione. Il primo tempio è ogni uomo soggetto a Gesù Cristo, divenuto così “primogenito” dei figli di Dio, in una parola, si è fatto Cristiano: « Non sapete – disse San Paolo ai fedeli – che voi siete i templi di Dio, e che lo Spirito Santo abita in voi? » (I Cor. III, 16) « Il tempio di Dio è santo -, diceva – e questo tempio siete voi stessi » . (ibid. 17). Ed ancora: « voi siete l’edificio di Dio, il tempio del Dio vivente: Dei ædificatio, templum Dei vivi.

Il primo tempio è anche la Chiesa considerata nel suo insieme, tutta l’umanità l’intera rigenerata, che lo Spirito anima con il suo soffio e sulla quale regna Gesù Cristo: « questo è il vero tabernacolo di Dio con gli uomini »; (Apoc. XX, 2, 3) questo è il tempio le cui vaste proporzioni sono state misurate da Ezechiele e San Giovanni, (Ez. XL.— Ap. XI.) la cui magnificenza è stata celebrata da tutti i profeti ( Ps. XXVI, 4. — Is. VI, 1. — Jer. XXX, 18. — Dan. III, 53, etc.). –  Il secondo tempio è ogni uomo che si è ribellato contro Dio ed il suo Cristo, si è reso conforme al primo dei rivoltati ed è diventato con lui e sotto di lui un anticristo. È anche l’insieme di tutti coloro che anima lo spirito di rivolta, la riunione di tutti quegli orgogliosi e libertini sui quali regna l’Arcangelo decaduto.

6. Ora Gesù Cristo, per edificare la sua Chiesa, impiega degli operai: questi sono il Papa, i Vescovi, sono i sacerdoti, è la Gerarchia cattolica. Satana, da parte sua, nella costruzione del tempio della rivolta, si avvale di operai organizzati in gerarchie: oggi questi sono i franco-massoni. – Gli operai di Gesù Cristo prendono « quelle pietre – umane – che giacciono sparse (Dispersi sunt lapides sanctuarii in capite omnium viarum. Thren. IV, 1.) dalla rovina originaria: le tagliano, le puliscono (Fabri polita malleo, Hanc saxa molem construunt. Hymn. in Dedic. Eccles.), sul modello della « pietra angolare posta da Dio stesso in Sion (I Petr. II 4-7,) », e le fanno entrare nella magnifica struttura « del tempio vivente, dove abita Dio ». I settari si impadroniscono di uomini imprudenti o perversi, li formano sul modello dell’Arcangelo della rivolta e li collocano nel tempio dell’empietà e della corruzione. La Gerarchia cattolica è la voce di Gesù Cristo nel mondo, la sua mano, il suo organo, il suo strumento per operare la salvezza delle anime: essa prega, parla ed agisce nel suo Nome; nella sua potenza e virtù essa dà “verità e grazia” a tutti gli “uomini di buona volontà”; in Lui e con Lui opera per fare entrare nel « regno di Dio, tutte le nazioni della terra ». –

La gerarchia o le gerarchie massoniche sono « la cattedra di pestilenza » dove siede l’ « avversario » di Gesù Cristo, laddove « chiama bene il male e il male bene », laddove « insegna la menzogna » e combatte contro il regno di Dio; esse sono l’organo e lo strumento che egli usa per condurre gli uomini alla sua rivolta; in essi e attraverso di essi egli conduce la guerra più grande mai vista alla Città di Dio; con il loro aiuto si illude per far sparire il soprannaturale da tutta la terra per condurre il genere umano ad un’apostasia universale. In una parola, esattamente come il sacerdozio cattolico fa l’opera di Gesù Cristo nel mondo, così la Massoneria fa l’opera di satana. Come l’uno milita con Gesù Cristo contro satana, così l’altro combatte per satana contro Gesù Cristo. Mentre il primo eleva il tempio della carità, il secondo costruisce il tempio dell’apostasia.

7. Come tutta la Gerarchia cattolica dice a Gesù Cristo con uno dei suoi membri: « Mio Signore e mio Dio, ti consacro la mia libertà, la mia memoria, la mia intelligenza e la mia volontà. Tutto ciò che possiedo viene da Voi; lo metto nelle vostre mani e lo pongo solo al vostro servizio. »  – Da parte sua, tutta la gerarchia massonica potrebbe dire a Satana con uno dei suoi più famosi seguaci: « Vieni, satana; vieni, calunniatore di sacerdoti e di re: lascia che ti abbracci, lascia che ti stringa al mio petto! Ti conosco da molto tempo, e anche tu mi conosci. Le tue opere, o benedetto del mio cuore, non sono sempre belle né buone: ma solo esse danno senso all’universo, impedendogli di essere assurdo ». Cosa sarebbe la giustizia senza di te? un istinto. La ragione? Una routine. Un uomo? Una bestia. Tu solo animi e fecondi il lavoro; nobiliti la ricchezza; servi come scusa all’autorità; metti il sigillo alla virtù. Ancora spera, proscritto! Io non ho che una penna almio servizio; ma essa vale milioni di bollettini. E giuro di non metterla giù finché non saranno ritornati i giorni cantati dal poeta: Ah, restituitemi i giorni della mia infanzia, o Dea della libertà (Proudhon) ! »

8. Questa è l’essenza della Massoneria. Sì, per dirla in una parola, i settari del nostro tempo sono in effetti gli operai che procedono su tutti i lati della costruzione del tempio o della città di satana. Ci convinceremo di questo nel corso di questo lavoro. D’ora in poi, ascoltiamo la solenne dichiarazione che la grande voce incaricata di indicare tutti i pericoli della Città di Dio sta facendo in faccia all’universo cristiano: « Da quando, per invidia del diavolo – dice Leone XIII nella sua famosa Enciclica sulle società segrete – il genere umano si è miseramente separato da Dio, al quale era debitore per la sua chiamata dalla inesistenza e dei doni soprannaturali, si è diviso in due campi nemici, uno dei quali combatte incessantemente per la verità e la virtù, e l’altro per tutto ciò che è contrario alla verità e alla virtù ». Il primo è il regno di Dio sulla terra, cioè la vera Chiesa di Gesù Cristo, le cui membra, se vogliono farne parte dal profondo del cuore e in modo tale da ottenere la salvezza, devono necessariamente servire Dio ed il suo Figlio Unigenito con tutta l’anima e con tutta la volontà; il secondo è il regno di satana, al quale appartengono tutti quegli sventurati che, seguendo gli esempi fatali del loro capo e dei nostri progenitori, rifiutano di sottomettersi alla legge divina e, nella loro condotta, si allontanano da Dio o addirittura si lasciano trascinare da lui. Sant’Agostino vide questi due regni e li descrisse abilmente sotto forma di due Città, governate da leggi contrarie e tendenti ad un fine contrario; e, con notevole brevità, segnò con le seguenti parole il principio costitutivo di ciascuno di essi: « DUE AMORI SONO NATI IN DUE CITTA’: L’AMOR-PROPRIO SPINTO FINO AL DISPREZZO DI DIO E’ NATO NELLA CITTA’  TERRESTRE; L’AMORE DI DIO PORTATO FINO AL DISPREZZO DI SE STESSI, E’ NATO NELLA CITTA’ CELESTE » (De Civit. Dei, lib. XIV, c. XXVII). In tutta la successione dei secoli, queste due città non hanno smesso di combattere l’una contro l’altra, con ogni sorta di tattica e con le armi più diverse, anche se non sempre con lo stesso ardore e la stessa impetuosità. Ora, nel nostro tempo, i fautori del male sembrano essersi coalizzati in uno sforzo immenso, sotto l’impulso e con l’aiuto di una società diffusa in ogni parte e fortemente costituita, la società dei franco-massoni (Hoc autem tempore, qui delerioribus favenl partibus videntur simul conspiraro vehementissimeque cuncti contendere, auctore et adjutrice ea quam Massonum appellant, longe latequo diffusa et firmilor constitula hominum societate. – Encyc. Humanum genus 20 apr. 1881.). »  – Entriamo ora nei dettagli e cominciamo a cercare lo scopo delle società segrete.

LA CITTÀ ANTICRISTIANA (2)

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (7)

F. CAYRÉ:

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (7)

Trad. M. T. Garutti Ed. Paoline – Catania

Nulla osta per la stampa

Catania, 7 Marzo 1957 P. Ambrogio Gullo O. P. Rev. Eccl.

Imprimatur

Catanæ die 11 Martii 1957 Can. Nicolaus Ciancio Vic. Gen.

CAPITOLO VII.

GLI ASCETI CRISTIANI

Iniziatori nel IV secolo

L’ascetismo che prenderemo qui in considerazione, è una via di perfezione organizzata su un piano dottrinale e sociale ad un tempo. Bisogna quindi aspettare il IV secolo per trovare i suoi veri promotori nell’antichità. Vi furono certamente principi di perfezione per tutti nella Chiesa, sin dall’origine, semplici echi d’altronde dei precetti evangelici. Vi furono altresì ferventi Cristiani, uomini o donne, che si votarono alla ricerca di questo ideale; vissero per lo più isolati nel loro ambiente cristiano o familiare, senza formare un gruppo particolare orientato verso questo scopo. Le vergini erano, una élite delle antiche comunità « parrocchiali » piuttosto che un gruppo separato. Bisogna aspettare il IV secolo per trovare l’ascetismo organizzato che doveva caratterizzare così fortemente la vita cristiana, prima orientale, poi occidentale. Sant’Antonio è, a buon diritto, ritenuto un iniziatore e non è il caso di contestargli questo titolo. Il San Paolo eremita, descritto da San Girolamo, è in parte una edificante creazione del narratore. Ben diversa è la narrazione di Sant’Atanasio, dalla quale soprattutto conosciamo il grande monaco egiziano, morto centenario nel 356. Fin dal 360, Sant’Antonio ebbe la propria vita descritta dallo stesso patriarca di Alessandria, suo amico, e questo libro fu ad un tempo una rivelazione e un incitamento per l’intera Chiesa. Ma già tutto l’Oriente cristiano conosceva il monachesimo egiziano al principio del secolo. Fin dal 275, verso i 25 anni, Antonio aveva preso alla lettera l’invito di Cristo alla rinunzia totale, e si esercitava alla vita di preghiera nella solitudine, prima vicino al suo villaggio natio, nel medio Egitto, non lontano dal Nilo, più tardi nel deserto, in direzione del mar Rosso. Lo raggiunsero assai presto centinaia di discepoli, dei quali egli divenne il maestro e il consigliere circa i mezzi per tendere alla perfezione evangelica. – L’idea fondamentale è il disprezzo dei beni creati, che sono nulla davanti a Dio. Il principio ispiratore del movimento è il contrasto del finito e dell’infinito. Ma si sbaglierebbe riportando tutto ad una concezione filosofica. È la parola di Cristo e il suo esempio che decidevano le anime, illuminate dallo Spirito Santo: il dono della scienza, diranno più tardi i maestri, ha precisamente il compito di far comprendere la vanità del creato, mentre l’intelligenza penetra in profondità il messaggio del Salvatore. La dottrina specifica dei solitari è un’ascetica a due facce. La lotta contro il diavolo vi è in onore fin dagli inizi e questo aspetto è particolarmente illustrato sia dalla vita stessa di Sant’Antonio, sia dal discorso in cui Sant’Atanasio ha riassunto l’insegnamento del padre del monachesimo. Un vigore morale straordinario si manifesta dovunque: sia nella fermezza della fede nel Cristo e nella sua opera redentrice, che si afferma nel trionfo sul demonio; sia in una attesa della vita futura che dà un carattere escatologico molto spiccato alla dottrina, se non al senso di imminenza della venuta del Cristo — forse si esagera questo aspetto — almeno al senso di valore predominante; sia nella fiducia nella vittoria finale sulle forze infernali; sia nelle leggi piene di saggezza del discernimento degli spiriti, Sant’Antonio ebbe, nella stessa Africa, imitatori di grande levatura: nel basso Egitto, Nitiia vide migliaia di monaci raggrupparsi intorno a Sant’Ammonio verso il 325; e a Scetea, all’imbocco del deserto di Libia, San Macario il Grande ne attirò ben presto altrettanti con la sua reputazione di austerità. Una pia emulazione, a volte ardente, regnava nei due gruppi, che restavano chiaramente fedeli alla formula eremitica di Antonio. È nell’Alto Egitto, risalendo il Nilo verso l’Etiopia, che si trovano i primi grandi centri cenobitici, creati verso il 320 da San Pacomio (+ 346) a Tabenna, su un’isola del Nilo. Un’organizzazione più rigida si riscontra poco dopo, ad Atrepa, non lontano da Tabenna, ispirata dall’austero Schenudi ( + 450), mentre a qualche distanza si costituivano centri cenobitici femminili, sotto la stessa ispirazione. L’istituzione monastica doveva uscire dall’Egitto verso la metà del IV secolo e stabilirsi soprattutto in Oriente, in luoghi dal clima meno favorevole. La si vede abbastanza rapidamente prosperare in Siria, nella regione di Antiochia, dove San Giovanni Crisostomo e San Girolamo verranno a formarsi alle ardue lotte dell’ascesi. Essa era già stabilita a quell’epoca in Cappadocia e nel Ponto, ad opera di San Basilio. L’Occidente, fu raggiunto dalle rivelazioni di Sant’Atanasio, provvidenzialmente esiliato a Treviri; ma i grandi sviluppi tarderanno un poco. Nella Gallia, alla metà del IV secolo, San Martino fonda Ligugé vicino a Poitiers, poi Marmoutier, vicino a Tours, da cui derivano numerose fondazioni. Il Sud del paese seguirà ben presto il movimento, sotto questo impulso, e quello di Sant’Onorato e di Cassiano, mentre Sant’Agostino lo lancia nell’Africa latina ove raggiunge un particolare splendore. Tali fondazioni, precedendo l’arrivo dei Barbari in Occidente, furono provvidenziali: posero le basi di una formazione cristiana in profondità, che le rovine dell’impero rendevano più che mai necessaria, e prepararono da lungi quel rinnovamento cristiano che si imparò ovunque dopo il duro urto con i barbari.

I monaci, maestri spirituali per eccellenza

Il monachesimo portava in germe troppe ricchezze spirituali perché non diventasse un fuoco capace di irradiarsi. La Chiesa intera doveva ben presto beneficiarne, poiché le meditazioni solitarie avevano permesso agli spiriti migliori di penetrare a fondo il cristianesimo. Se tutte le verità rivelate ne furono approfondite, all’occorrenza, quelle che maggiormente attrassero l’interesse degli asceti furono le leggi della vita interiore: è qui senza dubbio che bisogna ricercare il migliore apporto delle loro ricerche e delle loro esperienze religiose. San Basilio, l’iniziatore del monachesimo al centro dell’Asia Minore, Ponto e Cappadocia, ha lasciato opere spirituali di prima qualità, che oltrepassano il quadro di una regola nel senso giuridico della parola. Le « Grandi Regole » fanno eco alle Piccole Regole, sul piano delle applicazioni, ma sempre collegandosi alla dottrina più che alle pratiche particolari della vita religiosa. Non c’è nel IV secolo — né in seguito, nell’epoca antica — un Ordine basiliano, come non ci sarà un Ordine benedettino. I Moralia del santo indicano, meglio che la parola Regole, il suo vero campo di osservazione e di influenza. Tutti i Cristiani potranno trarre largo profitto da questi testi tratti dalla Scrittura e commentati su un piano di perfezione evangelica universale. È chiaro tuttavia che i monaci, che ne erano i veri destinatari, ne furono anche i principali beneficiari. – L’Asia Minore, grazie a San Basilio, divenne uno dei centri di irradiamento del monachesimo in Oriente sul piano dottrinale. Il Santo trovò seguaci nella sua famiglia stessa: oltre che dalla sorella maggiore, Santa Macrina, che aveva fondato un monastero di religiose nel Ponto, sull’Iris, fu seguito dal fratello minore San Gregorio, futuro vescovo di Nissa, che scriverà, insieme con la vita di Santa Macrina, un trattato sulla Verginità particolarmente celebre e quattro altri opuscoli sulla perfezione nel mondo o nei monasteri. In altri ambienti, sempre in Asia Minore, troviamo monaci scrittori, notevolissimi per la loro dottrina ascetica. Evagro ( + verso il 399), detto il Pontico (cioè nato nel Ponto), illustrerà il grande monastero egiziano di Nitria, dove egli incarnerà un origenismo prudente e sobrio; San Nilo, l’asceta (+ verso il 430) del Sinai, veniva pure dall’Asia Minore ed era stato discepolo di San Giovanni Crisostomo, come probabilmente Marco l’Eremita, suo contemporaneo: tutti e due furono scrittori spirituali molto fecondi, e la loro influenza durò molto a lungo. – Tuttavia, nessuno di questi autori eguagliò in prestigio San Giovanni Crisostomo che, prima di essere prete di Antiochia e grande predicatore, aveva vissuto come monaco sulle montagne circostanti e si era dato ad una vita di intensa preghiera, di cui beneficiò tutta la sua opera, poiché la profondità della sua eloquenza è proporzionata al fervore della sua vita cristiana. È alla vita monacale che consacrò le sue prime opere scritte; la difese contro i detrattori che la calunniavano; l’esaltò come una vera filosofia, sul piano della sapienza, e come una condizione superiore a quella dei re sul piano umano; vi spinse i suoi migliori amici, e vi sarebbe rimasto o ritornato se l’obbedienza non l’avesse costretto ad accettare il sacerdozio e più tardi l’episcopato. Durante il suo esilio nella Tauride, abbastanza vicino ad Antiochia, continuava ad agire e vivere come monaco e fu questa fama di austerità uno dei motivi che lo fecero allontanare da una corte sospettosa, decisa a perderlo. La voce maggiore del Cristianesimo orientale si era formata alla scuola di Libanio e Demostene, ma più ancora a quella di San Paolo, letto e meditato nelle solitudini dell’alta Siria. All’epoca dei trionfi oratori di Crisostomo ad Antiochia, ritornava a Dio colui che doveva essere la voce cristiana dell’Occidente, Sant’Agostino, più giovane di lui di qualche anno e convertito nella epoca in cui l’oratore orientale cominciava la sua predicazione. Agostino stesso salì sulla cattedra episcopale nel 391 e, durante quasi 40 anni, non cessò di parlare al suo popolo, e all’intera Chiesa di Occidente, poiché la sua parola è così ricca e così cattolica che riecheggerà di secolo in secolo nel mondo latino fino ai nostri giorni. – La profondità deriva senza dubbio dal suo genio, ma anche manifestamente dalla profonda fonte cui attingeva il meglio della sua ispirazione, la solitudine monacale. Fin dalla sua conversione egli realizzava un sogno di vita contemplativa che accarezzava da lungo tempo e di cui maturò il piano nel suo lungo ritiro di Cassiciaco. Mise in esecuzione tale piano a Tagaste, poi ad Ippona, come prete, infine come Vescovo, conducendo, con tutti i suoi preti, una vita comune che era una lontana anticipazione delle forme migliori del monachesimo sacerdotale ulteriore. Egli ha scritto poco in questo campo, rispetto alla sua immensa produzione letteraria. Ma questa stessa produzione testimonia della fecondità dell’istituzione. La sua Regola è il primo codice conservato del cenobitismo occidentale: codice più spirituale che giuridico che ebbe una immensa diffusione in ambienti diversissimi. Essa serve tutt’oggi come legame efficacissimo fra comunità, del resto molto differenziate, sia di uomini che di donne. Egli stesso sapeva aggiungervi le opportune precisazioni a seconda degli ambienti: nel suo trattato sul « lavoro dei monaci » impone ad alcuni le occupazioni manuali; nei sermoni (355-356) espone come era regolata la vita comune dei chierici di Ippona raggruppati nel monastero attorno al loro Vescovo. La preghiera è l’anima di questa vita religiosa. Egli raccomandava, ad esempio, la parola e la penna, per lodare degnamente Iddio e le sue « Confessioni » sono un modello immortale. – San Girolamo non fu così segnato dal monachesimo, ma vi partecipò un poco, in Oriente all’epoca in cui San Giovanni Crisostomo si allenava nell’ascesi. Restò sempre fervente fautore dell’ascetismo e lo propagò con fervore a Roma prima, fra le matrone e le vergini, e più tardi a Betlemme. Le sue lettere ascetiche sono celebri ed ebbero un’influenza decisiva in taluni ambienti. Egli fu, nella sua azione, il legame fra l’Oriente e l’Occidente. – Nella stessa epoca, ma in senso inverso Cassiano (+ 435), antico discepolo di San Giovanni Crisostomo, venne a stabilire il monachesimo a Marsiglia. Fece conoscere al mondo latino il segreto, delle solitudini egiziane nelle sue famose « Conferenze » (Collationes Patrum), raccolta di conversazioni con i maestri spirituali più in vista in Egitto, alla fine del IV secolo. L’insieme della sua opera è eccellente, benché occorra attenuare alcune pagine della conferenza 13, in cui la necessità della grazia non è abbastanza chiaramente riconosciuta. Un’altra opera di ascesi orientale, un poco posteriore, può venir qui segnalata, poiché condensa a meraviglia l’insieme della spiritualità monastica di quei tempi : è « La scala del Paradiso » di San Giovanni Climaco, monaco del VI e VII secolo, siriano di origine e senza dubbio abate del Sinai. Il suo scritto è un vero codice spirituale, perfettamente ordinato verso l’esercizio perfetto delle tre virtù teologali e particolarmente della carità. L’opera è una bella sintesi delle direttive spirituali date alle giovani reclute della solitudine da parte dei migliori e più sicuri maestri.

Organizzatori della vita monastica a partire dal VI secolo

Il monachesimo non attese il VI secolo per organizzarsi, come abbiamo visto. Tuttavia, in quest’epoca ha fatto un particolare sforzo sotto questo punto di vista, soprattutto in Occidente. Trascuriamo le questioni dottrinali che agitarono a volte i monasteri, come l’origenismo in Oriente, o il semi-pelagianesimo in Occidente, per limitarci alle forme stesse della vita religiosa, in cui si verificò una certa evoluzione, un reale progresso. San Cesario d’Arles, senza essere monaco, ebbe sul monachesimo un’influenza considerevole per la sua posizione di primato nella vasta regione occupata dai Visigoti prima, poi dagli Ostrogoti, nel sud della Gallia, fino alla conquista franca da parte di Childeberto, il quale, nel 536, cambiò la situazione senza compromettere i vantaggi acquisiti dalla Chiesa. Egli legiferò soprattutto per i monaci e le monache, ispirandosi alla Regola detta di Sant’Agostino; ne adattò una ai monaci, l’altra alle monache, con qualche leggero ritocco che, rispetta il fondo primitivo e l’ispirazione generale, in un quadro di austerità molto accentuata. Venivano moltiplicati i digiuni e i lunghi uffici, senza riguardo per gli usi più correnti nella liturgia monacale. Questa nota di austerità si ritrova molto più accentuata nelle fondazioni derivate dal monachesimo irlandese. Il Cristianesimo si stabilì tardi nell’isola, che doveva divenire l’isola dei Santi, dopo la sua evangelizzazione da parte di San Patrizio (+ 461). La critica ha messo in discussione molti punti della sua attività, ma la sostanza resta intatta: nessuno gli contesta il suo grande apostolato come Vescovo, dal 432; i primi tentativi di un’organizzazione gerarchica, con Armagh come sede episcopale e numerosi monasteri come centri ausiliari. I neofiti si precipitarono in massa verso i conventi, che divennero ben presto fiorenti, frementi di generosità apostolica; il paese, appena conquistato alla fede, divenne un focolaio di apostoli e inviò numerosi missionari sul continente stesso che lo aveva appena evangelizzato. – Il centro principale di questa fioritura cristiana, dopo Armagh, fu Bangor sulla costa nord-orientale, di fronte alla Scozia. I monaci vi si raggrupparono a migliaia, senza detrimento per altri centri religiosi molto fiorenti. La fede irlandese sbocciò in un fervore tutto spontaneo, con le caratteristiche proprie al paese. La fiducia nel valore umano, lo slancio eccessivo verso l’ascesi spiegano la posizione di Pelagio, campione e predicatore di una austerità che giunse fino all’eresia. Tuttavia molti si mantennero immuni da tali estremismi condannati dalla Chiesa e diedero prova di una esemplare generosità nell’assoggettarsi alle più rigide pratiche di austerità. Essi furono, in questo campo, coraggiosi fino all’imprudenza e praticarono l’eroismo quasi istintivamente, stando alle tradizioni meglio affermate. La regola d’altronde vegliava alla conservazione di tale fervore, e le violazioni venivano represse molto duramente. Come in Oriente, la preghiera c il lavoro riempivano la giornata del monaco. Ma vi si aggiungeva un elemento nuovo, molto caratteristico:  lo spirito missionario. – Questa « peregrinazione per Dio » è molto diversa dai viaggi di informazione e di edificazione che i monaci d’Oriente intraprendevano spesso, da eremo a eremo, in cerca di lezioni e di buoni esempi. Se vi furono talvolta degli abusi, vi furono anche veri successi, come testimoniano le « conferenze spirituali » di Cassiano. Era un apostolato dottrinale e spirituale che i migliori di tali « visitatori » avevano in vista. I monaci viaggiatori irlandesi furono, nel significato attuale della i parola, veri missionari, senza detrimento per la vita monastica. La loro azione si esercitava per mezzo della formazione di gruppi religiosi, capaci di condurre i pagani alla fede e i Cristiani a una vita più perfetta. Tutta l’Europa occidentale, specialmente le due sponde del Reno, e i fianchi del Giura e delle Alpi, beneficiò ampiamente di tale afflusso apostolico. San Colombano resta il tipo classico del monaco missionario irlandese. Trascinato dallo spirito di zelo, a cinquant’anni creò in Gallia, intorno a Luxeuil, una vera colonia monacale, di cui fu capo e che armò di un saldo spirito apostolico.. Cacciato di là dopo trent’anni, riprese il suo peregrinare e partì verso l’Oriente, fondando ancora monasteri in Germania, Svizzera, L’Italia. La sua ultima fondazione fu quella del celebre Momonastero di Bobbio, nella valle del Po. Era il 614, un anno.prima della sua morte. Egli resta celebre, oltre che per il suo zelo infaticabile, per la sua austerità che più tardi verrà felicemente temperata dallo spirito benedettino. È a San Benedetto infatti (+ fra il 543 e il 553) che si ricollega lo sforzo più importante nell’organizzazione del monachesimo nell’antichità. L’abate di Monte Cassino attinse alle regole precedenti più conosciute, in Oriente e in Occidente; quelle di San Pacomio, di San Basilio, di Sant’Agostino, di Cassiano, come pure alle vite dei Padri. Ciò che meglio caratterizza la sua regola, è l’istituzione di una salda gerarchia, la stabilità di vita e la moderazione delle pratiche imposte, sia nella preghiera che nel lavoro; moderazione del resto relativa, perché le sue esigenze sono ancora gravi ed impongono un autentico sforzo. Il tutto è sostenuto da una spiritualità sobria, accessibile a tutti, proporzionata sapientemente al carattere e alla cultura dei monaci aggregati. L’introduzione del sacerdozio, sotto l’impulso di San Gregorio Magno, contribuì molto allo sviluppo di una spiritualità adatta ai bisogni interiori delle anime, senza attentare ai quadri stabiliti dal fondatore. Questo insieme di elementi gerarchici e dottrinali fece della Regola di San Benedetto una delle forze maggiori della Chiesa, in un’epoca in cui le élites spirituali non potevano formarsi e resistere fuori dei monasteri. – San Gregorio diede anche un forte impulso all’organizzazione liturgica, e rafforzò notevolmente su questo punto la vita monastica, specialmente nell’ordine benedettino, che ha sempre trovato nella liturgia uno dei maggiori punti di appoggio. La salmodia e il canto sono stati regolamentati, nelle loro grandi linee, sulla base dei principi posti o precisati al tempo di San Gregorio e sotto la sua ispirazione. La Chiesa ha vissuto della liturgia benedettina per dei secoli ed è ancor oggi una riserva di impareggiabili ricchezze a cui si attinge a larghe mani. – Costantinopoli, brillante capitale dell’impero d’Oriente, divenne anch’essa un vero centro monastico: i conventi, soprattutto maschili, si moltiplicarono nella città stessa, nei suoi dintorni e sulle due sponde del Bosforo. Fra di essi vi era soltanto un legame spirituale, basato specialmente sugli scritti di San Basilio, le Grandi e le Piccole Regole. Bisogna tuttavia segnalare una creazione originale che prelude da lontano a molte istituzioni posteriori del Medioevo occidentale: quella degli Acemiti, letteralmente i « non dormienti ». Si tratta infatti di una specie di adorazione perpetua fondata su un’organizzazione degli uffici liturgici tale da assicurare un canto ininterrotto. L’iniziatore in questo campo fu Sant’Alessandro il Siriano, che aveva creato un monastero del genere nel suo paese, vicino all’Eufrate. Egli tentò invano di fondarne un altro ad Antiochia, e più tardi a Costantinopoli, verso il 430, ma vi riuscì pienamente sulla costa dell’Asia, a poca distanza dal Bosforo. Raggruppò parecchie centinaia di monaci, fino a quattrocento, di diverse lingue, che furono ripartiti in gruppi che si succedevano al coro per assicurarvi la laus perennis. Per quanto interessante, tale istituzione non costituiva che una forma ausiliaria del monachesimo bizantino. L’istituzione acemita soffrì molto dell’interminabile guerra iconoclastica che, durante più di un secolo, decimò i più ferventi monasteri bizantini. Vi fu una bella ripresa con gli Studiti, i quali, fin dalla fine del VIII secolo, poterono riorganizzarla in piena capitale, precisamente allo Studion. San Teodoro vi raggruppò i monaci a centinaia, ed essi ripresero il meglio delle antiche tradizioni, aggiungendovi ora l’iconografia, di stile ieratico, caro alla pietà bizantina. Il concilio di Nicea ne aveva riconosciuto la legittimità. Questo culto si è perpetuato fino ai nostri giorni, con grande profitto della pietà monacale e di tutta la pietà cristiana. Resta ancora una delle caratteristiche della vita religiosa in Oriente, specialmente a Bisanzio.

SPIRITUALI E MISTICI DEI PRIMI TEMPI (8)

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (60)

GNOSI TEOLOGIA DI SATANA (60)

[Augusto Nicolas: L’ARTE DI CREDERE, Parma, P. Fiaccadori, 1868- vol. II]

CAPO V.

Ateismo, Teismo, Deismo, Cristianesimo. (4)

§ IV.

Abbiamo detto in quarto luogo, che le dottrine del Teismo e del Deismo, opinioni unicamente fondate sui dati della ragione umana, mancano di base, e che la conoscenza e la certezza sono il privilegio esclusivo del Cristianesimo.

I. Il ben credere è il fondamento del ben vivete, ha detto Bossuet, traducendo la frase di Quintiliano: Brevis est itstitutio vitæ honestæ, beatæque si credas. Questo fondamento dovendo sostenere il peso di tutta la vita umana, e sopportare un edificio di doveri, di virtù, di sacrifici, di meriti, il cui complemento è necessariamente superiore a tutti gli interessi terreni, deve essere lutto ciò che v’ha di più incrollabile e di più tenace. « È impossibile, « dice Cicerone, senza cedere a ragioni chiare, « stabili, certe, evidenti… senza credere a cose che non possono essere false, lo stimare la rettitudine e la buona fede al punto di affrontare i più orribili supplizi… Come ardirà mai la stessa sapienza formare un’impresa, od eseguirla con confidenza, se manca d’una. Guida sicura per seguirne le orme? … E dunque necessario un Principio, che la sapienza possa seguire quando comincia ad agire, ed una conoscenza del fine, a cui devono tendere le sue azioni. Senza questa sicurezza tutta la vita umana è rovesciata …

« Però, soggiunge Cicerone con un tatto squisito, tradire il domma è delitto: Scelus est dogma prodere. » – Cicerone, con tutta 1’antichità filosofica (noi lo vedremo fra poco), non poteva evitare quel delitto. Egli professava, e subiva pur troppo l’insufficienza dello spirito umano a trovare il domma, ed arrendervisi. Non è già che fosse meno sollecito della verità: « Noi adopriamo, diceva egli nel ricercarla, tutte le nostre cure e tutto il nostro zelo … ma le cose sono talmente oscure in sé stesse, ed il nostro giudizio è tanto debole, che i filosofi più sapienti dell’antichità disperarono con ragione di riuscire nelle loro investigazioni. – O Lucullo! tutti questi segreti si celano agli occhi nostri in mezzo a fitte tenebre, nè v’ha genio umano che penetrare li possa… — Tuttavia, soggiunge ancora, se mi viene indirizzato il discreto rimprovero, che non sto contento ad alcun ragionamento, allora vincerò me medesimo, e sceglierò una Guida. Ma quale? Imperocché non se ne può avere che una sola, e trovata questa, tutte le altre, per quanto siano numerose e gloriose, andranno perdute e condannate. La nostra filosofia, mi direte voi, è la sola vera; ed io vi rispondo, che essendo vera, è sola, appunto perché la verità è unica … » (Academique, I liv. II) – In mancanza di questa guida unica, di questa verità unica fornita d’un carattere determinante per lo spirito umano, ecco la conclusione di Cicerone: « Io credo che non possiamo essere assicurati di niente; che il savio può tuttavia prestar fede a cose di cui non è punto sicuro, vale a dire opinare, ma senza perdere di vista che si tratta di semplici opinioni, e che non si danno comprensioni e percezioni esatte. Quanto all’arresto filosofico (sospensione d’ogni giudizio, espressione tolta all’arte del maneggio) vi aderisco di tutto cuore; coll’ammetterlo si rigetta la certezza. — Conosco ora la vostra opinione, o Catulo, e non può spiacermi. Ma qual è Ortensio, la vostra? — Egli rispose ridendo: Io sono per la sospensione (Académique, I . liv. II, édit, Victor le Clerc,  Pag. 271.). » – Ho anticipato su questa esposizione, che avrebbe trovato il suo posto, e troverà la sua conferma in una rapida rivista dell’antichità che noi faremo fra poco. Era opportuno o dimostrare sin d’ora il bisogno naturale dello spirito umano, e la sua insufficienza rispetto a quella certezza dommatica, che è il fondamento della vita umana. – Io sono per la sospensione: ecco a qual punto si trovava l’umana sapienza dopo quaranta secoli di ricerca. Essa  era in arresto al momento, in cui compariva quella Guida unica, Verità unica, a cui faceva appello, e che venne a dirle con una celeste autorità: Ego sum via, veritas, et vita… qui sequitur me, non ambulat in tenebris.

II. Noi sappiamo ornai, a chi noi crediamo: noi abbiamo cognizione e certezza, perché abbiamo Rivelazione. Abbiamo quel domma senza del quale tutta la vita umana è rovesciata, ondeggiante a seconda di tutte le opinioni; ed è a questo punto che è un gran delitto di tradire il domma. La dottrina cattolica non è tale soltanto per la bellezza, la sublimità, la santità, la fecondità morale dei suoi dommi e della meravigliosa loro economia. Tutto ciò, per quanto sia perfetto, non costituirebbe ancora il riposo dello spirito umano ed il fondamento della sapienza, se fosse stato il semplice trovato d’un savio. Di fatti la ragione umana acquisterebbe allora un diritto sull’opera sua propria, e potrebbe disfarla quando l’avesse fatta, mentre nessun uomo può farsi schiavo dei propri pensieri, né essere lo schiavo dei pensieri altrui. Rousseau in un trasporto segreto ha vergato queste rimarchevoli parole: « Se fossi nato cattolico resterei cattolico, sapendo benissimo che la vostra Chiesa mette un freno molto salutare agli errori della ragione umana, la quale non trova né fondo né sponda, quando vuole scandagliare l’abisso delle cose; e sono talmente convinto dell’utilità di quel freno, che me ne imposi io stesso uno simile, prescrivendomi pel resto della mia vita delle regole di fede, dalle quali non mi permetto di deviare. Però vi giuro, che da quel momento soltanto mi sento tranquillo stante la mia convinzione, che senza così fatta precauzione non lo sarei stato mai… Vi parlo, signore, con effusione di cuore, e come parlerebbe un padre al suo figliuolo ». – Vana precauzione! Rousseau non fu più tranquillo dopo, che prima; e fu sempre veduto a passare dall’ateismo al battesimo delle campane, come diceva Diderot. – Gli è con ben maggior tatto, che osservava Montaigne; « Sono gli scolari che propongono e discutono le questioni, ed è il Cattedrante che le risolve. Il mio Cattedrante è l’Autorità della volontà divina, che ci regola indubbiamente al disopra di quelle umane e vane contestazioni (Essais lib. II, c. 3). » –

Allo spirito umano è dunque necessaria la Fede; e la Fede divina.

Ammettere una cosa che non si comprende, è certamente una specie di fede; ma in tutte le dottrine, che non sono il Cristianesimo, qualunque ne sia il valore, e fossero anche (cosa impossibile) altrettanto perfette quanto quella di Gesù Cristo, è sempre una fede umana, la fede in se stesso, od in un altro se stesso, che non impone, né assicura alcuna vera autorità. Il fondamento sta nella cosa medesima, che ha bisogno d’essere fondata, in quella mobilità dello spirito umano, che non può stare senza una autorità, anche per conservare le sue conquiste, e difenderle contro la propria mutabilità. D’altronde non è soltanto a questa incostanza dello spirito umano, che è affidata la dottrina, ma a tutte le burrasche delle passioni che se ne fanno giuoco, allorquando questa dottrina ha per oggetto di padroneggiarle. – Si richiedeva dunque per la fede un fondamento esteriore, e superiore all’ente umano, che ne è il soggetto. Era necessaria la Parola di Dio raccomandata ad una Istituzione che avesse la giurisdizione e l’assistenza spirituale per interpretarla. Ci volevano Gesù Cristo e la sua Chiesa.

III. Allora, solamente allora la dottrina della verità diventa per l’uomo cognizione e certezza. È cognizione, e non più congettura, né opinione; dappoiché ci viene da Dio medesimo che si rivela a noi, e ci insegna ciò che Egli è con quella scienza certa che ha di Sé stesso. È certezza per un motivo perfettamente eguale; certezza cioè permanente ed invariabile in quanto che sta sul proprio fondamento sovrannaturale e divino, vi si mantiene coll’autorità della Istituzione della Chiesa, che ne è l’emanazione, e si spiega, s’interpreta e si applica all’umanità la quale altro non fa che riceverla e aderirvi. – Gesù Cristo, autore di questa dottrina ne è in pari tempo l’oggetto, il principio e la fine, l’alfa e l’omega, la base ed il complemento. Quale dottrina più certa di quella dove si trova la Verità in persona, che insegna; la Vita in sostanza, che nutrisce; il Principio e la Fine, che sono il mezzo; il Verbo fatto carne per ritirarci dalla carne, e Dio stesso venuto a noi per ricondurci a Lui? Come perdersi, come ingannarsi, come esporsi al minimo pericolo in sì fatta dottrina? Ciò non si può immaginare.

IV. Tutto questo è ammirabile e decisivo, mi si dirà, se tutto questo è: Certo che !a dottrina insegnata da un tal maestro è di fede, ma anche il maestro è di fede; ed allora, tutto essendo di fede, quale impressione può fare sulla ragione? La dottrina si sostiene sulla fede nel maestro, ed il maestro come si sostiene? Sempre sulla fede, sulla fede nella dottrina. No, ma sulla ragione; la quale non può disconoscerne la divina autorità a fronte delle testimonianze e delle prove che ne porge. – Allora (si oppone) è la ragione, che si fa giudice della questione, che verifica i titoli, che corregge la missione ed apprezza la persona. Non si fa più luogo alla fede, ed alla certezza che in lei si affidava, e tutta la vostra tesi è smentita. Questa si aggira necessariamente tutta intera o nella fede, o nella ragione. Nel primo caso la credenza è gratuita; nel secondo la dottrina è incerta.

Niente affatto.

Distinguiamo la Dottrina ed il Maestro; e nel Maestro, la persona e l’autorità. La Dottrina è di fede; e così deve essere, Maestro è la Verità in persona. – Il Maestro è di fede nella propria persona, in quanto forma questa una arte della sua dottrina, cioè in quanto Egli è insegnato nei misteri del suo ente, della sua generazione eterna come Verbo di Dio, e della sua Incarnazione umana. – Ma in quanto Egli è insegnante, la sua autorità, che ci fa credere alla sua persona ed alla sua dottrina, entra nella sfera della ragione, e si sostiene sovra prove e testimonianze eminentemente verificabili e discutibili; né questo ufficio della ragione altera in guisa alcuna la fede dovuta alla persona ed alla dottrina, posciaché la ragione non si esercita che sovra il fatto esteriore e storico, e non guarda che il sigillo riservando il piego. Ed è qui che torna opportuna la distinzione dianzi stabilita tra il carattere, e l’esistenza d’un fatto o d’una verità. – La Dottrina, tutta di fede, è per tal modo avviluppata in una autorità, i titoli della quale sensibili ed estrinseci, sono propri della ragione, e la obbligano alla fede. Essa è fondata sulla fede all’Autorità, mentre l’Autorità è fondata sovra testimoni razionali, e sovra prove storiche. Fra queste, le profezie, i miracoli, l’autenticità ed il carattere dei Vangeli, lo stabilimento, la propagazione, la perpetuità del Cristianesimo e della Chiesa ecc. ecc., sono come baluardi dell’edificio della fede, che ne sostengono la sommità. Si appoggiano sul suolo della ragione, mentre isolano quell’edificio e quella sommità della fede. – Quest’ ultima poi non ha per sé l’Autorità dell’evidenza, né potrebbe mai averla, suo oggetto essendo il mistero; ha però l’evidenza dell’Autorità, mediante la quale è eminentemente razionale senza cessare d’essere misteriosa. – Ecco l’economia logica del Cristianesimo.

V. Aggiungiamo cosa altrettanto importante che disconosciuta, vale a dire che se la dottrina è tutta di fede, nel senso che la ragione per se medesima non avrebbe mai potuto conoscerla, né saprebbe discuterla, diventa gradatamente una dottrina di ragione, nel senso che essendo vera, la ragione finisce per riconoscervisi, ammirarla ed arricchirsene. È questo un altro campo per la ragione, campo immenso, o piuttosto infinito, che vuol essere accuratamente distinto da quello che le appartiene in proprio, quando s’incontra nella fede. Qui la ragione va in cerca della fede, ed agisce da sola per apprezzarne i titoli; è la ragione quærens fidem. Là seguita la fede, agisce al di fuori, e sotto l’autorità della fede: è la fede medesima che cerca di appropriarsi l’intelligenza della dottrina, fìdes quærens intellectum. – È dunque un errore il credere che la ragione nulla abbia da vedere nella fede. Vi deve anzi tutto vedere i titoli, e sotto questo rapporto si trova nel proprio dominio, ed agisce da sola. Riconosciuti poi quei titoli, la fede si deve loro sottomettere, in questo senso, che qualunque cosa avvenga, comprenda o non comprenda, più o meno, deve sempre credere, certa qual è, a fronte di quei medesimi titoli che la determinarono una volta per tutte, di non correre alcun pericolo d’errore, e che laddove qualche credenza la molesti, non è quella credenza, ma essa stessa che si trova in fallo, essendo che Dio non può ingannare, né ingannarsi, e la Chiesa fa scomparire agli orchi di colui che ne vuole ascoltare l’alto ammaestramento, qualsiasi contraddizione per non lasciar sussistere che il mistero.  — Ora questa sommessione razionale della ragione, essendo ben definita e ben riconosciuta, la ragione non è punto colpita d’interdetto in quel dominio della fede. Essa può, anzi deve continuare ad esercitarsi in altre condizioni. Essa non diventa soggetta alla fede per esserne acciecata, ma illuminata. Non è già lo schiavo, ma l’allievo della fede, e questo allievo diventa un Sant’Agostino, un Sant’Anselmo, un S. Tommaso d’Aquino, un Bossuet, ed in ogni Cristiano un vero filosofo. Pensare altramente gli è avere per la fede un rispetto ingiurioso, un calunniarla, e privarla della più bella gemma della sua corona, di quel privilegio, che la costituisce, sola in mezzo a tutte le sue rivali, regina e madre dello spirito umano, che forma di noi altrettanti figli della luce. Sulla base di quel sentimento invochiamo una altissima autorità, ed uno stupendo esempio: Sant’Agostino, nella sua lettera CXX a Cosenzio; quel gran Dottore così si esprime: « La Chiesa esige la fede: ed è appunto perché noi abbiamo tante ragioni di credere, e tutte di sì grande valore ed urgenza, che richiede la fede, e l’umile sommessione a tutti i suoi divini insegnamenti. Non la si accusi pertanto di riehiedere una fede assolutamente cieca e senza ragione. Non le si imputi nemmeno di pretendere che coloro i quali credettero, ovvero che per credere hanno fatto quell’uso salutare della loro ragione, che noi abbiamo notato, non possano più continuare nell’uso della loro ragione per rendere la loro fede sempre più umile, e nello stesso tempo sempre più illuminata. Anche questa è una obiezione, o meglio una calunnia contro la Chiesa medesima, che rimane a distruggersi. Noi dunque crediamo, e siamo obbligati di credere; ma non ci è vietato di voler intendere ciò che crediamo; ed a chi ci dicesse: Credete, e non curatevi di voler intendere ciò che credete, noi risponderemo: Correggete il vostro principio, non già fino al punto di rigettare la via della fede, ma almeno fino al punto di riconoscere, che quanto la fede ci fa credere, può essere, in certa grado, compreso dal lume della ragione. Perocché Dio ci proibisce di pensare, che detesti in noi quella prerogativa, per la quale ci elevò al di sopra degli altri animali! A Dio non piaccia, che la sommersione nostra riguardo a tutto ciò che partecipa della fede, ci impedisca di cercare e domandare ragione di tutto ciò che crediamo, posciaché noi non potremmo manco credere, se non fossimo capaci di ragione! — Colui che giunse al punto di acquistare dalla vera ragione l’intelligenza di ciò che credeva dapprima senza intenderlo, è sinceramente in una miglior condizione di colui che è ancora nel desiderio di intendere ciò che crede. Che se non avesse questo desiderio, e s’immaginasse che bisogna affidarsi alla fede invece che noi dobbiamo aspirare all’intelligenza, sarebbe un ignorare qual è il fine e l’utilità della fede. Imperocché, siccome la Fede santa e salutare non sussiste senza senza la Speranza e senza la Carità, bisogna che l’uomo fedele non creda ciò che ancora non vede, ma che ami di vederlo, s’adopri, e speri di raggiungerlo. – Tutto questo è ammirabile, purché ben si comprenda. Ora, credo di doverlo ripetere, sarebbe non comprenderlo qualora se ne traesse la conclusione, che la fede, oltre alle ragioni di credere che la precedono, debba essere in ragione dell’intelligenza che la seguita; è invece l’intelligenza, che sarà in ragione della fede. Ma se la fede non deve essere in ragione dell’intelligenza, non deve quanto meno essere in ragione dell’accecamento! Essa deve, mantenendo pur sempre il suo carattere, adoprarsi nella calma e nella sicurezza del suo possesso, a fecondare il campo della dottrina, ed a convertirlo in intelligenza non meno che in sapienza, in ragione non meno che in virtù. – Tali sono i nobili e savi caratteri del Cristianesimo, del Cattolicismo. Tale è il cemento meraviglioso, ed impastato, se così posso esprimermi, di ragione e di fede in una ammirabile mistura, che lega i fondamenti, e costituisce la sede dommatica e morale della nostra credenza. Questa sola credenza può reggere alla prova della teoria e della esperienza, delle esigenze dello spirito e dei bisogni del cuore, delle agitazioni della vita e della catastrofe della morte, degli interessi del tempo e dei destini della eternità. Nessun’altra dottrina colma per tal modo tutte le condizioni di resistenza e d’impulso che reclamano in pari tempo la debolezza e ls forza, i doveri ed i diritti dello spirito umano. Nessun’altra presenta delle gaurentigie di certezza e di verità così esclusive d’ogni elemento di dubbio, d’ogni pericolo di errore; e la verità manifestandosi qui in Dio medesimo, la ragione di aderire non è che la ragione di credere, la ragione di adorare.

FINE DEL CAPITOLO

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. PIO XI – “QUINQUAGESIMO ANTE ANNO”

Il  Santo Padre Pio XI in questa lettera scrive con un animo traboccante di gioia e di gratitudine per il buon Dio per i frutti della devozione e della pacificazione auspicati dalla Chiesa Cattolica e dal Vicario di Cristo in particolare, che nell’anno trascorso si erano realizzati con piena umana soddisfazione di popoli ed autorità, in particolare i patti Lateranensi … « Spetta a Dio Onnipotente e misericordioso far sì che suoni finalmente questa lieta ora, feconda di tanto bene, sia per la restaurazione del Regno di Cristo, sia per un più giusto riordinamento delle cose d’Italia e di tutto il mondo; ma tocca agli uomini di buona volontà far sì che essa non suoni invano … ». – Tutto sembrava procedere verso un’era tranquilla e spiritualmente protesa alla glorificazione di Dio e della sua Chiesa che riuniva tutti i popoli in unico gregge sotto un solo Pastore. Ma il nemico di Dio e del genere umano non dormiva, anzi approfittava di qualche naturale momento di rilassatezza e di abbandono della guardia alta – secondo il gergo pugilistico – per seminare zizzania nel campo del paterfamilias e spargere i veleni dell’eresia modernista e delle mortifere dottrine razionaliste degli increduli settari o il naturalismo pestifero degli aderenti alle logge di perdizione che andavano progressivamente prendendo le leve di comando in ogni settore della vita pubblica, sociale, economica, politica, culturale ed infine anche negli edifici sacri fino all’esplosione dell’apostasia conciliare e postconciliare e del colpo di stato del Conclave del 1958. A quel punto la società è stata facilmente addomesticata e condotta ad una corruzione ed un paganesimo tale da fare impallidire quello dell’antica Roma, scardinato dal sangue di martiri e dalle invasioni barbariche. Una volta soffocata la vera fede nei paesi cristiani, sostituita da un simulacro di falso Cristianesimo panteista aperto a tutti gli influssi cosiddetti ecumenici – in realtà al masso-protestantesimo ed alle demoniache superstizioni orientali … omnes dii gentium dœmonia … avvertiva già il Re- Profeta nel salmo XCV. Oggi siamo giunti all’imposizione di un nuovo modo di pensare ed agire totalmente opposto a quello della società cristiana, cosa che ci porterà a breve ad una dittatura mondiale, al cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale che imporrà la religione noachide unica obbligatoria controllata dal marchio della bestia che coprirà il chip quantico che mostrerà gli aderenti al regno dell’anticristo adoranti la statua della bestia posta nel tempio santo … parola di S. Giovanni che ha visto il tutto nelle sue profetiche visioni descritte nell’Apocalisse.

LETTERA ENCICLICA

QUINQUAGESIMO ANTE ANNO

AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI, PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI, NONCHÈ A TUTTI I DILETTI FIGLI CRISTIANI DEL MONDO CATTOLICO:

IN OCCASIONE DELLA CHIUSURA

DELL’ANNO GIUBILARE.

PIO PP. XI

VENERABILI FRATELLI

SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

Quando, or sono cinquant’anni, nel fiore dell’età fummo ordinati sacerdoti nella Basilica Lateranense, madre e centro di tutte le Chiese — ed in questi giorni specialmente il ricordo Ci commuove e soavemente Ci conforta — nessuno certamente avrebbe immaginato, e tanto meno Noi, che per arcano disegno della divina Provvidenza la Nostra umile persona sarebbe stata elevata a così alto fastigio, e che quel medesimo tempio sarebbe diventato un giorno la cattedrale del Nostro Episcopato romano. – A questo proposito, mentre ammiriamo con animo dimesso la somma degnazione del Signor Nostro Gesù Cristo, Principe dei Pastori, verso di Noi, non potremo mai abbastanza degnamente esaltare i grandi benefìci con i quali Egli ha voluto confortare il suo Vicario in terra, quantunque immeritevole, durante il corso del suo Pontificato; tanto più che, quasi a coronamento di questi benefìci, Egli ha voluto che l’anno del Nostro giubileo sacerdotale fosse rallegrato da molti avvenimenti lieti e consolanti. Pertanto affinché quest’anno non trascorresse privo di frutti salutari — cioè, allo scopo di richiamare i fedeli alla santità dei costumi e la stessa società ad un più giusto apprezzamento dei beni spirituali, e conciliare con questi mezzi la misericordia divina verso la Chiesa militante — fin dal principio dell’anno, mossi da un sentimento di amore paterno, indicemmo per tutto l’Orbe cattolico un altro Anno Santo « extra ordinem » in forma di grande Giubileo. Ed oggi possiamo dire, che, con la grazia di Dio, le speranze che Noi riponevamo in questa santa crociata di preghiere, non solo non vennero deluse, ma anzi sono state pienamente soddisfatte. Ripensando infatti ai molti attestati di pietà e di gratitudine filiale, all’incremento che ha avuto la causa cattolica, ai celebri avvenimenti che si sono potuti compiere durante il corso di un solo anno, Ci sembra di poter dire ben a ragione che il benignissimo Iddio, dal quale « deriva ogni cosa ottima e ogni dono perfetto » [1], ha voluto che questo breve periodo di tempo apparisse a tutti veramente provvidenziale. Ci piace quindi oggi, quasi facendo il bilancio di questi dodici mesi, più diffusamente ricordare i grandi benefìci da Dio derivati al popolo cristiano, e ciò allo scopo di invitarvi tutti, Venerabili Fratelli, diletti figli, a ringraziare insieme con Noi l’Onnipotente, il quale, muovendo gli animi dei mortali con fortezza e soavità, dirige ai suoi scopi i tempi e gli avvenimenti. – E per cominciare da quelle cose, che appunto perché toccano più da vicino la Santa Sede e lo stesso governo della Chiesa affidato, per divina disposizione, al Sommo Pontefice, sembrano avere maggiore importanza delle altre, crediamo anzitutto opportuno ricordare alcuni tratti della Nostra prima Enciclica « Ubi arcano ». In essa Noi uscivamo in questo lamento: « Appena occorre dire con quanta pena all’amichevole convegno di tanti Stati vediamo mancare l’Italia, la carissima patria Nostra, il paese nel quale la mano di Dio, che regge il corso della storia, poneva e fissava la sede del suo Vicario in terra, in questa Roma che, da capitale del meraviglioso ma pur ristretto romano impero, veniva fatta da Lui la capitale del mondo intero, perché sede di una sovranità divina che, sorpassando ogni confine di nazioni e di Stati, tutti gli uomini e tutti i popoli abbraccia. Richiedono però l’origine e la natura divina di tale sovranità, richiede l’inviolabile diritto delle coscienze di milioni di fedeli di tutto il mondo, che questa stessa sovranità sacra sia ed appaia manifestamente indipendente e libera da ogni umana autorità o legge, sia pure una legge che annunci guarentigie ».  – Dopo avere poi rinnovato da parte Nostra quelle proteste che i Nostri Predecessori, dopo l’occupazione dell’Urbe, onde tutelare ed affermare i diritti e la dignità della Sede Apostolica avevano successivamente fatto, e dopo aver proclamato l’impossibilità di restaurare la pace trascurando le ragioni della giustizia, aggiungevamo: « Spetta a Dio Onnipotente e misericordioso far sì che suoni finalmente questa lieta ora, feconda di tanto bene, sia per la restaurazione del Regno di Cristo, sia per un più giusto riordinamento delle cose d’Italia e di tutto il mondo; ma tocca agli uomini di buona volontà far sì che essa non suoni invano … ». – Orbene, questo lietissimo giorno è finalmente spuntato ed è giunto prima di quanto comunemente si pensava, giacché le molte e gravi difficoltà, che lo impedivano, facevano credere quasi a tutti che fosse ancora molto lontano: è giunto, diciamo, con quelle Convenzioni che il Romano Pontefice e il Re d’Italia, per mezzo dei loro ministri plenipotenziari, stipularono nel Palazzo Lateranense — donde presero il nome — e quindi ratificarono in Vaticano. – In tal modo abbiamo veduto finalmente terminare quell’intollerabile e ingiusta condizione di cose, in cui si trovava fino allora la Sede Apostolica, dato che, negata e contrastata con ogni mezzo la necessità del Principato civile, la continuità di questo era stata interrotta di fatto in maniera che il Romano Pontefice non appariva più nella sua legittima indipendenza. Non è qui il luogo di trattare in particolare le ragioni che Noi Ci siamo proposti nell’accingerCi a questa grave impresa, nello svolgere le   trattative e nel condurle in porto; più di una volta infatti e non oscuramente, anzi con parole chiarissime, abbiamo esposto a quale unico scopo tendessero i Nostri propositi e i Nostri desideri, e cioè quali beni desiderassimo e sperassimo ardentemente, mentre, innalzate le Nostre assidue e fervide preghiere all’Altissimo, portavamo tutte le forze dell’animo Nostro alla soluzione dell’arduo problema. Questo però vogliamo, sia pure brevemente, accennare, e cioè che, assicurata la piena sovranità del Romano Pontefice, riconosciuti e solennemente sanciti i suoi diritti, e resa in tal modo all’Italia la pace di Cristo, nelle altre cose Noi Ci mostrammo paternamente benevoli e condiscendenti fin dove il dovere Ce lo permetteva. Apparve così anche più chiaramente, seppure ve ne era bisogno, come Noi, nel rivendicare i sacrosanti diritti della Sede Apostolica, conforme a quanto avevamo affermato nella surricordata Enciclica, mai eravamo stati mossi da vana cupidigia di un regno terreno, ma avevamo sempre avuto « pensieri di pace e non di afflizione ». Quanto poi al Concordato, che abbiamo parimenti stipulato e ratificato, come espressamente proclamammo, così oggi di nuovo affermiamo e proclamiamo che esso non si deve considerare come una tal quale garanzia del Trattato con cui si è definita la cosiddetta Questione Romana, ma sì bene devesi ritenere che ambedue — Trattato e Concordato — per l’identico principio fondamentale da cui derivano, formano un insieme talmente inscindibile e inseparabile, che o tutti e due restano, o ambedue necessariamente vengono meno. Pertanto, tutti i Cattolici del mondo, che tanto si preoccupavano della libertà del Romano Pontefice, accolsero questo memorabile avvenimento con un concorde plebiscito che si espresse ovunque in inni di ringraziamento a Dio e in attestati di congratulazioni a Noi rivolti. Ma grandissima soprattutto fu la gioia degli Italiani, alcuni dei quali, dopo la felice composizione dell’antico dissidio, deposero i vecchi pregiudizi verso la Sede Apostolica e riconciliarono la loro anima a Dio; e molti altri si rallegrarono perché non si poteva più ormai dubitare del loro amore di patria, come si faceva in passato quando i nemici della Chiesa non volevano credere a questo loro amore, per il fatto che essi si dichiaravano figli devoti del Pontefice. Tutti poi i Cattolici, italiani e stranieri, compresero che stavano per sorgere felicemente una nuova era ed un nuovo ordine di cose, soprattutto perché pensavano che, essendo state quelle convenzioni concluse nel 75° anno della definizione del dogma dell’Immacolata Concezione e precisamente firmate nel giorno in cui, pochi anni dopo, la Vergine Immacolata apparve nella Grotta di Lourdes, sembravano essere prese sotto il particolare patrocinio della Madre di Dio; e così pure essendo state ratificate nella festa del Sacro Cuore di Gesù Cristo pareva quasi che portassero il contrassegno della sua approvazione. E ciò ben a ragione; giacché se tutte le cose di comune consenso pattuite saranno coscienziosamente e con fedeltà portate ad effetto, come del resto è giusto sperare, non v’è dubbio che gli accordi stabiliti recheranno il massimo bene alla causa cattolica, alla patria nostra e a tutta l’umana famiglia. – Pertanto, dopo avere illustrato questo fausto avvenimento più diffusamente per la sua singolare importanza, crediamo che sia opportuno aggiungere almeno brevemente che per disposizione della divina Provvidenza abbiamo pure, durante quest’anno, potuto stipulare e ratificare con altre Nazioni altre convenzioni e trattati, che, mentre provvedono alla libertà della Chiesa, allo stesso tempo conferiscono non poco al bene degli Stati medesimi. Infatti, oltre la convenzione pattuita con la Repubblica del Portogallo (la quale consiste nello stabilire i confini e le prerogative della Diocesi di Meliapor) siamo venuti alla conclusione di un Concordato prima con la Romania, poi con la Prussia, in modo da evitare per l’avvenire ogni ragione di conflitto, ed in modo altresì da far convergere ambedue le potestà, civile e religiosa, in mutuo accordo verso il maggior bene del popolo cristiano. Certamente nella trattazione di queste convenzioni concordatarie non mancarono molte e gravi difficoltà, per il fatto che si trattava di stabilire secondo legge il regime della Chiesa Cattolica presso popoli in maggioranza acattolici; tuttavia riconosciamo volentieri che per superare queste difficoltà le pubbliche autorità di quelle Nazioni prestarono volonterosamente la loro opera. Se dunque, giunti al termine dell’anno, rivolgiamo all’intorno il Nostro sguardo, Ci rallegriamo sommamente nel vedere che molte Nazioni hanno già stretto, con una pubblica convenzione, relazioni di amicizia con questa Sede Apostolica, oppure si accingono alla trattazione o al rinnovo di un Concordato. E mentre proviamo profondo dolore al pensare che nelle vaste regioni dell’Europa Orientale ancor oggi infierisce la più terribile guerra non solo contro la Religione cristiana, ma altresì contro ogni diritto divino ed umano, Ci sentiamo d’altra parte grandemente confortati per il fatto che l’orribile persecuzione inflitta al clero e al popolo cattolico del Messico sembra ormai placata, in maniera da far fin da ora in qualche modo sperare che la sospirata pace non sarà molto lontana. – Né minor diletto e consolazione Ci ha recato il vedere che, durante il corso di questo fausto anno giubilare, la Chiesa Orientale ha voluto mostrare ancora più stretti i vincoli di attaccamento con la Sede Apostolica, prendendo questa occasione per darCi aperta e pubblica testimonianza del suo ardente amore per l’unità della Chiesa; e in far ciò, i Nostri figli della Chiesa Orientale Ci hanno certamente voluto rendere un tributo di gratitudine, giacché Noi, dietro l’esempio dei Nostri Predecessori, abbiamo sempre nutrito per i popoli orientali grande benevolenza e carità. Ci hanno infatti inviato lettere piene di affetto e di venerazione, ed hanno manifestato con attestati pubblici e solenni la loro gioia e i loro rallegramenti; i Patriarchi ed i Vescovi di quelle Chiese, o personalmente o per mezzo di loro rappresentanti, si sono recati a farCi visita per testimoniare più chiaramente, anche a nome del gregge loro affidato, l’amore verso il supremo Pastore delle anime. Seguendo l’esempio dei Vescovi Armeni, che lo scorso anno tennero in Roma il loro convegno per discutere qui, presso la Cattedra di Pietro, circa gli opportuni provvedimenti con cui mitigare i mali che affliggono la loro Nazione, poco tempo fa i Vescovi Ruteni, che mai tutti insieme erano convenuti a Roma, hanno deciso di tenere le loro adunanze qui presso di Noi, quasi per dimostrare con la stessa scelta del luogo e del tempo, l’affettuoso attaccamento dell’intera Chiesa Rutena verso il Successore del Principe degli Apostoli. E il risultato delle loro adunanze fu veramente tale da soddisfare pienamente le Nostre speranze. Infatti trattarono in esse di questioni importantissime, sottoponendo a Noi, come si conviene, le loro deliberazioni; e cioè del corso degli studi per il giovane clero, dell’istituzione di Seminari Minori, dell’istruzione catechistica del popolo da svolgersi in un certo periodo di anni, del modo di concorrere alla codificazione del Diritto Canonico Orientale, e nei mezzi opportuni per promuovere fra i loro fedeli l’Azione Cattolica secondo le Nostre direttive; ed in tutte queste cose riconosciamo che essi non potevano prendere determinazioni più salutari per il loro clero e per il loro popolo. – Benché le cose di cui abbiamo fin qui parlato sembrino di maggiore importanza e attirino più facilmente l’attenzione e l’ammirazione del pubblico, tuttavia pensiamo che non conferiscano meno al bene della Chiesa quelle opere e istituzioni che il Signore, quasi per colmare la Nostra letizia, Ci ha permesso, dandocene i mezzi, o di condurre a termine o almeno di cominciare durante quest’anno. E infatti, oltre le molte case canoniche fatte costruire in varie parrocchie per provvedere ad un più decoroso disimpegno dell’ufficio parrocchiale, ed oltre i Collegi Internazionali, che per i loro giovani alunni hanno edificato le Congregazioni religiose dei Servi di Maria e di San Francesco di Paola — Collegi che già si sono inaugurati ed hanno aperto i corsi scolastici — è certo che i Collegi fondati qui in Roma per la formazione culturale e religiosa del giovane clero in questo breve spazio di tempo sono stati tanti, che appena altrettanti si sarebbero potuti veder sorgere in un lungo periodo di anni: tali sono il nuovo Collegio di Propaganda Fide, quello Lombardo, quello Russo e quello per la Nazione Cecoslovacca, già finiti e completamente arredati. E non vogliamo tralasciare di accennare né alla nuova sede del Seminario Etiopico, che abbiamo voluto appositamente fosse edificata qui presso il Vaticano — né agli altri due di cui già si è posta la prima pietra — cioè al Collegio Ruteno e al Brasiliano — né infine alla nuova sede del Seminario Romano Vaticano, di cui saranno prossimamente iniziati i lavori. E a proposito di queste numerose e crescenti istituzioni, le quali tanto da vicino interessano la salvezza delle anime, che Cristo Redentore ha procurato con la effusione del suo sangue, Noi abbiamo la più grande fiducia che, col divino aiuto, esse otterranno questo salutare risultato, e cioè che avremo schiere più addestrate e più numerose di leviti per l’evangelizzazione dei popoli. E parimenti non v’è dubbio che questi nuovi leviti, i quali qui nel centro dell’orbe cattolico vengono educati alla purezza della dottrina di Cristo e si esercitano all’acquisto delle virtù sacerdotali, un giorno, divenuti sacerdoti e tornati ai loro paesi, si adopereranno validamente a rendere ancora più stretti i vincoli d’unione dei loro concittadini con la Sede Apostolica, oppure, se questi sono separati dalla Chiesa di Roma, a richiamarli a poco a poco all’antica unione con essa o, se ancora si trovano involti nelle tenebre e nell’ombra di morte, procureranno con ogni sforzo di recare loro la luce dell’evangelica verità, allargando sempre più i confini del regno di Cristo. E veramente la speranza di questi lieti frutti è per Noi di tanto conforto, che non possiamo abbastanza esaltare Colui che Ci ha dato tanta consolazione e Ci ha concesso di portare a compimento queste grandi cose per il bene della Chiesa. – Vogliamo poi anche, Venerabili Fratelli e diletti figli, ricordare insieme a voi altri avvenimenti, che per divina disposizione hanno reso quest’anno ancor più memorabile; abbiamo detto per divina disposizione, giacché niente può avvenire a caso, essendo tutte queste cose da Dio ordinate e regolate. Poiché infatti gli uomini, per la loro stessa natura, al compiersi di certi periodi di anni più volentieri si soffermano a ricordare benefìci già da Dio destinati alla cristiana società, e ne traggono incitamento a proseguire con alacrità maggiore la via intrapresa, così è avvenuto che i fedeli durante questi dodici mesi hanno preso tutte le occasioni di quel genere che loro si presentarono per indirizzare l’espressione della loro gratitudine e del loro amore verso Iddio Ottimo Massimo e verso il Padre comune in queste particolari circostanze. E da parte Nostra, per ricambiare con paterno animo tali attestati di filiale pietà, volemmo essere presenti a queste solenni celebrazioni e renderle ancor più splendide, inviando a questo scopo le Nostre Lettere e i Nostri Legati. – Così questa Apostolica Sede non poteva non favorire la insigne famiglia del Padre e Legislatore San Benedetto, mentre essa si preparava a commemorare il secolo decimo quarto dalla fondazione dell’Archicenobio Cassinese « principale palestra della regola monastica » e tanto benemerito e da sì lungo tempo verso la stessa Santa Sede non meno che verso la umana civiltà. E ciò dicendo e ripetendo, diciamo cosa non soltanto conosciutissima dai dotti e dagli eruditi, ma divulgata oggi anche in mezzo al popolo che si è ormai formato di tali meriti un giusto concetto. Infatti, non solamente al popolo, in particolare nella nostra Italia, si suole ripetere in esempi la massima del santissimo Patriarca, « ora et labora », ma non v’è chi ignori che i monaci dell’Archicenobio, e con essi tutti gli altri della famiglia di San Benedetto, promossero le belle arti e trasmisero in perpetuo alla posterità i monumenti della umana non meno che della divina sapienza, e inviarono predicatori del Vangelo in regioni anche lontanissime con tale vantaggio della Fede cristiana e della civiltà che il Nostro Predecessore Pio X, di felice memoria, volendo brevemente sì, ma efficacemente insieme esprimere i meriti acquistatisi dal monastero Cassinese, poté dire con giusta ragione « che i suoi fasti sono in gran parte la storia stessa della Chiesa Romana ». Per la qual cosa non è da meravigliarsi se, in occasione delle feste celebrate nella vetustissima Arciabbazia, tanti visitatori da ogni parte facessero a gara per salire a quel sacro monte e venerarvi le memorie del Santo Padre Benedetto e purificare con la penitenza le anime loro. – Alquanto meno lontano nella storia della Chiesa è l’avvenimento celebrato a Stoccolma, città capitale della Svezia, con insolito splendore per quanto era concesso, dato il numero dei cattolici: la venuta di Sant’Ansgario, che mille e cento anni or sono approdò nella Svezia, dopo avere con instancabile zelo evangelizzato la Danimarca. – Fu celebrato un triduo solenne; vi assistevano, rappresentanti, se così può dirsi, di quattordici nazioni diverse, due Cardinali, alcuni Vescovi e Abbati dell’Ordine di San Benedetto e più di mille fedeli; vi furono tenuti discorsi sulle opere compiute da Ansgario e sul suo mirabile apostolato secondo le più recenti ricerche: vi furono lette, fra il comune plauso, le lettere che avevamo mandate con la Nostra benedizione; tutti i convenuti furono ricevuti con grande onore nella stessa sede municipale di Stoccolma; a Noi e al Re di Svezia furono inviati messaggi con ossequi ed auguri. E questa commemorazione centenaria non deve parere di poca importanza, se si pensa che fino a settanta anni addietro le cose procedevano nella Svezia così contrarie alla religione Cattolica che il passaggio alla Chiesa Romana era ancora punito con l’esilio e con la perdita dello stesso diritto di eredità. A tale proposito giova qui ricordare che in quei paesi, recentemente, abbracciarono la Religione Cattolica diversi fra donne e uomini dei più colti, e in Islanda, che dipende dalla Danimarca, quest’anno medesimo l’E.mo Cardinale Prefetto della Congregazione di Propaganda Fide felicemente dedicò la nuova Chiesa Cattedrale. Pertanto fra i benefìci divini di quest’anno annoveriamo pure la lieta speranza da Noi nutrita che, auspice Sant’Ansgario, da qui innanzi molto più copiosa sarà la messe che raccoglieranno i Vicari Apostolici, i sacerdoti, i religiosi dell’uno e dell’altro sesso che spargono i loro sudori in quella sì ampia parte della vigna del Signore. – Come poi avevamo inviato a Montecassino, quale nostro rappresentante, un Eminentissimo Cardinale che assistesse alle solennità ivi celebrate, così anche ordinammo che un Nostro legato « a latere », scelto pure nel Sacro Collegio, si recasse in Francia dove si commemorava l’anniversario cinque volte secolare del giorno in cui Giovanna d’Arco, vergine santissima e tanto benemerita della sua nazione, era entrata trionfalmente nella città d’Orléans. E perché la memoria e il ricordo di tale trionfo riuscissero a tutti i cittadini più graditi e ai Cattolici più fruttuosi, dovette certamente giovare la quasi presenza Nostra nella persona del legato. – Credemmo pure dovere del Nostro ufficio intervenire per mezzo del Nostro Nunzio Apostolico alle feste con cui i sudditi della repubblica Cecoslovacca celebrarono il secondo centenario della canonizzazione di San Giovanni Nepomuceno e specialmente il millenario dalla morte di San Venceslao, inclito duca di Boemia e Patrono celeste della stessa Repubblica, ucciso per mano del fratello. Come poi abbiamo detto nella recente Allocuzione Concistoriale, apprendemmo con grande letizia che alle feste celebrate in onore del Martire Venceslao presero parte non solamente cittadini e forestieri in grandissimo numero, ma gli uomini stessi del Governo e i principali della Repubblica. Ora di un così comune fervore di animi come non dovevamo Noi rallegrarCi? Infatti ai pubblici sconvolgimenti che, dopo cessata la guerra immane, avevano condotto ad estremo pericolo l’unità e l’azione cattolica, susseguivano in quei giorni una grande pace e serenità, ed una tale condizione di vita pubblica sembrava incominciata, quale, al sopraggiungere delle feste, Noi avevamo supplicato da Dio che di fatto incominciasse, e col patrocinio e intercessione di San Venceslao si mantenesse in avvenire. Oh! se gli eventi rispondessero a questi Nostri desideri! perché non v’è chi non intenda quanto gioverebbe alla vera prosperità di quella nazione l’opera concorde delle due potestà, ecclesiastica e civile. – Mirabile poi Ci è parso il modo col quale i figli a Noi carissimi d’Inghilterra, di Scozia e d’Irlanda, a nessuno secondi nell’attaccamento fervido alla propria fede e nell’ardore della pietà, hanno fatto onore al cinquantesimo anno del Nostro sacerdozio. Con un apparato quanto mai splendido e un concorso, che ha dell’incredibile, di popolo venuto da ogni parte, si è commemorato il compimento di un secolo da che i Cattolici, che in altri tempi erano perseguitati e ferocemente maltrattati e che ancor più tardi, in tempi un poco migliori, rimasero esclusi dai diritti civili, finalmente per pubblico riconoscimento, rientrarono in quei diritti e riebbero la libertà di professare la propria religione. E con molto piacere abbiamo visto che gl’Inglesi, gli Scozzesi e gl’Irlandesi hanno celebrato tali solennità, non come se, col ricordare antichi fatti, accusassero qualcuno delle passate ingiustizie, ma studiando piuttosto come dirigere la libertà ricuperata, prima in parte e poi in più ampia misura, sia nell’osservanza più fedele e nella più larga dilatazione della legge di Cristo, sia nel bene della pubblica cosa, naturalmente con la debita sottomissione al potere civile. Né fu una sola la causa che Ci indusse a voler per Noi una parte non piccola nella celebrazione centenaria dell’evento; poiché se è sempre conveniente che il Vicario di Gesù Cristo si associ alla letizia santa dei figli, molto più ciò lo era in questa congiuntura, ricorrendo la memoria del termine finalmente posto alle pene che i generosi e nobilissimi avi di quei cattolici avevano con costanza e valore sostenute per la difesa della propria fede e della loro unione alla Chiesa Romana. Anzi, per bontà di Dio Ci toccò in sorte di accrescere la letizia dei Nostri figli d’Inghilterra, di Scozia e d’Irlanda con solennità rispondenti a quelle da essi celebrate. Infatti, dopo avere con rigore esaminato ogni cosa conforme alle regole, inserimmo, non è molto, nell’albo dei Beati quella valorosa schiera di uomini che nella ricordata lunga persecuzione contro i Cattolici avevano qui combattuto, non in uno stesso tempo, ma per la stessa causa di Cristo e della Chiesa, e ciò in virtù di quella medesima autorità Pontificia, per difendere la quale essi avevano incontrato l’illustre martirio. E così avvenne che il cinquantesimo anno del Nostro sacerdozio, a cui erano già stati di tanto ornamento gli onori decretati al beato martire Cosma da Carbognano, Armeno zelantissimo dell’unità ecclesiastica sino allo spargimento del sangue, s’affrettasse al suo termine ancor più adorno per la riconosciuta palma del martirio a così numerose vittime e per il culto ad esse tributato. – Che una forza e una virtù perenne dello Spirito Santo s’insinuino e scorrano per le vene, diciamo così, della Chiesa, appare manifesto dalla stessa compiuta vittoria di questi martiri. Ma non fu ciò chiaro anche quando nel mese di giugno proponemmo al culto e all’imitazione dei fedeli altri eroi di santità? – Basta poi appena accennare a quanta moltitudine di cittadini e di forestieri hanno venerato con Noi, nella maestà della Basilica Vaticana, i recentemente beatificati: cioè Claudio de la Colombière, quell’illustre figlio della Compagnia di Gesù, che Gesù stesso non solo chiamò « servo fedele » e lo destinò consigliere di Margherita Maria Alacoque, ma anche gli affidò l’incarico di propagare il culto verso il suo Cuore in mezzo al popolo cristiano; Teresa Margherita Redi, Carmelitana, di famiglia Fiorentina e fiore di gioventù e d’innocenza; Francesco Maria da Camporosso, quel religioso Cappuccino, il quale, può dirsi del tempo nostro, avendo per quaranta anni fatto l’ufficio di questuante, con l’esempio della sua vita intemerata, con consigli pieni di una celeste prudenza e con esortazioni soavissime alla santità, parve sia al popolo sia agli ottimati così somigliante a San Francesco d’Assisi che i Genovesi, dopo averlo amato e onorato vivo, anche morto l’hanno fatto segno sin qui di grato ricordo e di venerazione. In qual modo potremmo poi descrivere la consolazione di cui fummo inondati, quando, dopo aver ascritto Giovanni Bosco tra i beati, lo venerammo pubblicamente nella medesima Basilica Vaticana? Giacché richiamando la cara memoria di quegli anni nei quali, all’alba del sacerdozio, godemmo della sapiente conversazione di tanto uomo, ammiravamo la misericordia di Dio veramente « mirabile nei Santi suoi » per aver opposto il beato così a lungo e così provvidenzialmente ad uomini settari e nefasti, tutti intesi a scalzare la Religione Cristiana e a deprimere con accuse e contumelie la suprema autorità del Romano Pontefice. Egli infatti, che da giovinetto era solito convocare altri della sua età per pregare insieme e per ammaestrarli negli elementi della dottrina cristiana, dopo che divenne sacerdote prese a rivolgere tutti i suoi pensieri e sollecitudini alla salvezza della gioventù che più era esposta agli inganni dei malvagi; ad attrarre a sé i giovani, tenendoli lontani dai pericoli, istruendoli nei precetti della legge evangelica e formandoli alla integrità dei costumi; ad associarsi compagni per ampliare tanta opera e ciò con sì lieto successo, da procacciare alla Chiesa una nuova e foltissima schiera di militi di Cristo; a fondare collegi ed officine per istruire i giovani negli studi e nelle arti fra noi e all’estero; e infine a mandare gran numero di missionari a propagare tra gl’infedeli il regno di Cristo. Ripensando Noi a queste cose durante quella visita alla basilica di San Pietro, non solo riflettevamo con quali opportuni aiuti il Signore, specialmente nelle avversità, sia solito soccorrere e rinvigorire la sua Chiesa, ma anche Ci veniva in mente come per una speciale provvidenza dell’Autore di tutti i beni fosse avvenuto che il primo a cui decretammo gli onori celesti, dopo che avevamo concluso il patto della desideratissima pace con il Regno d’Italia, fosse Giovanni Bosco, il quale, deplorando fortemente i violati diritti della Sede Apostolica, più volte si era adoperato perché, reintegrati tali diritti, si componesse amichevolmente il dolorosissimo dissidio per il quale l’Italia era stata strappata al paterno amplesso del Pontefice. – Ed ora, Venerabili Fratelli e figli carissimi, dobbiamo pure accennare qualche cosa dello stragrande numero di Cattolici che, pellegrini, vennero a Roma nel corso dell’anno, benché quasi non vi sia ragione di chiamarli pellegrini o stranieri, poiché nessuno può considerarsi estraneo nella casa del Padre comune. Avemmo davvero innanzi agli occhi uno spettacolo a Noi graditissimo per vari titoli. Infatti, proprio il consenso di tante nazioni, pur fra loro divise per indole, sentimenti, costumi, nella stessa fede e nella stessa venerazione al supremo Pastore delle anime, non proclamava pubblicamente e apertamente l’unità e l’universalità, che il divino Fondatore volle impresse nella sua Chiesa, come note a lei proprie? Ma si può dire che in alcuni tempi dell’anno non sorse giorno in cui Roma non vedesse affluire e piamente visitare i suoi più illustri templi, schiere di fedeli accorsi dalle diocesi d’Italia, dalle altre nazioni di Europa e persino dalle regioni separate dalla quasi infinita distesa dell’Oceano. Né si deve tacere che i cittadini di Roma, i quali sono più vicini al Romano Pontefice, loro Vescovo, non si lasciarono vincere dai pellegrini e dagli stranieri in questa gara, come nelle frequenti processioni per la visita delle Basiliche, al fine di acquistare il giubileo offerto al mondo cattolico. Di questi figli della Nostra diocesi convenne così grande numero, il primo dicembre, nella basilica di San Pietro, per ottenervi il perdono giubilare, che forse Noi non vedemmo mai tanto gremito il vastissimo tempio. – E ad essi tutti, che supplicavano in folla di venire a Noi, ben volentieri accondiscendendo, molto fummo allietati della loro presenza; le parecchie migliaia di uomini, e specialmente di giovani, che ammettemmo, gli uni dopo gli altri, prestarono orecchio alle Nostre parole con tale attenzione e, per così dire, impeto di affetto, manifestarono l’amore ardentissimo, che a Noi li portava, con tali grida di plauso, che Noi tenemmo per certo di avere realmente ottenuto quanto Ci eravamo proposto nell’indire un nuovo anno santo. Infatti, come in principio notammo, non ad altro miravamo Noi, che ad aprire felicemente la via ad una più profonda emendazione dei costumi privati e pubblici, risvegliando a maggior fervore la fede e la pietà nel popolo cristiano, poiché, secondo la sentenza del Nostro predecessore Leone XIII di f. m., «Quanto più gli individui cresceranno nella perfezione, tanto maggiore onestà e virtù dovrà necessariamente risplendere nei pubblici costumi e nella vita sociale ». Orbene, quanti splendidi esempi di pietà e di virtù non vedemmo dati nel corso dell’anno, con la nobile gara sorta ovunque tra i fedeli per attingere le ricchezze, che durano eterne, dal sacro deposito a Noi affidato e da Noi aperto con paterna generosità, mentre pure intorno non mancava chi faceva mostra di leggerezza e di cupidigia dei beni terreni? Tutti costoro, e primi quelli che, sebbene potessero più facilmente valersi in patria dei mezzi di salvezza loro offerti, preferirono invece sopportare gl’incomodi e le spese del viaggio, non proclamavano essi col fatto che vi sono dei beni superiori assai a questi beni vani e passeggeri del mondo e più degni di un’anima immortale, all’acquisto dei quali dobbiamo perciò tendere con più intenso desiderio? A questa consolazione se ne aggiunse un’altra: cioè, dai quasi quotidiani Nostri colloqui con tanta moltitudine di figli potemmo constatare che essi molto generosamente oggi si adoperano con ogni mezzo per consolidare il regno di Cristo nelle nazioni cattoliche o per introdurlo tra i popoli ignari della dottrina e della civiltà nostra. Ne seguirono in quest’anno nuovi incrementi dell’Azione Cattolica, diretta ad aiutare e sostenere l’apostolato del clero, e si ebbero più abbondanti offerte per l’opera dei missionari: e qui diamo ogni lode alla pia liberalità di coloro che, a ricordo di questo Nostro fausto giubileo, offrirono a Noi in gran copia suppellettile varia e vasi e ornamenti sacri ad uso delle Missioni. – Infine, il desiderio che manifestammo nell’esordire, Venerabili Fratelli e figli carissimi, ve lo ripetiamo nel terminare la Nostra lettera: cioè che insieme con Noi ringraziate assai Iddio, perché, avendoCi concesso tanto lungo decorso di vita sacerdotale, Ci sostenne con efficacissimi aiuti e Ci sollevò con ogni genere di conforti, specialmente in quest’anno. Ma, dopo avere attribuito a Dio, come è giusto, un così grande cumulo di benefìci ringraziamo vivamente anche coloro che Egli adoperò, nella sua benigna provvidenza, quali strumenti per colmarCi di tanti favori: diciamo i capi di governo, che manifestarono la loro deferente benevolenza verso di noi, regalandoCi doni preziosi e rendendo più facile la venuta a Noi dei loro concittadini; diciamo tutta la grande famiglia dei cattolici, che l’offerta indulgenza plenaria lucrarono sia in patria sia in Roma, dando splendide testimonianze della loro fede e pietà non solo al Padre comune, ma anche a tutti gli altri fedeli. E questi frutti di virtù, come potrebbero venire meno ed affievolirsi con il passare del tempo? Ché anzi, mentre supplichiamo a tale scopo il divino Fondatore e reggitore del genere umano, speriamo che, mitigati dalla cristiana carità dappertutto i dissidi dei partiti e regolati secondo i precetti evangelici i costumi privati e pubblici, i cittadini conserveranno intatta tale concordia tra di loro e con la potestà civile, e si mostreranno allo sguardo di tutti ornati di tali virtù da compiere felicemente il corso del terreno pellegrinaggio alla patria celeste. – Quanti da varie parti e più volte Ci pregarono nei mesi scorsi di prolungare alquanto la letizia di tali frutti spirituali, chiesero una cosa che non si suole normalmente concedere, ma che siamo spinti a consentire, indotti dalla Nostra sollecitudine per il bene comune e dal desiderio di manifestare più ampiamente la Nostra gratitudine. Perciò, con la Nostra autorità apostolica proroghiamo, nonostante qualunque cosa in contrario, a tutto il mese di giugno del prossimo anno 1930, quello stesso pienissimo perdono dei peccati, da lucrarsi alle stesse condizioni, che largimmo il 6 gennaio, indicendo un secondo anno santo « extra ordinem » con la Costituzione Apostolica « Auspicantibus Nobis ». – Frattanto, auspice di quella pace che Gesù Cristo nascendo portò agli uomini, ed insieme quale testimone della paterna Nostra benevolenza, a voi, Venerabili Fratelli e figli carissimi, impartiamo di cuore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 23 dicembre 1929, anno ottavo del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

DOMENICA II DOPO L’EPIFANIA (2021)

DOMENICA II DOPO L’EPIFANIA (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani,

comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio – Paramenti verdi.

Fedele alla promessa che aveva fatta ad Abramo ed ai suoi discendenti, Dio inviò il Figlio suo per salvare il suo popolo. E nella sua misericordia, Egli volle anche riscattare tutti i pagani. Gesù è il Re che tutta la terra deve adorare e celebrare come suo Redentore (Intr., Grad.). Morendo sulla croce Gesù è diventato il nostro Re, e col S. Sacrifizio – ricordo del Calvario – applica alle nostre anime i meriti della sua redenzione ed esercita quindi la sua regalità su di noi. Cosi col miracolo delle Nozze di Cana – simbolo dell’Eucaristia – Gesù manifesta per la prima volta in modo aperto ai suoi Apostoli la sua divinità, cioè il suo carattere divino e regale, ed è allora che « i suoi discepoli credono in Lui ». – La trasformazione dell’acqua in vino è il simbolo della transustanziazione, che S. Tommaso chiama il più grande di tutti i miracoli, e in virtù del quale il vino Eucaristico diviene il Sangue dell’Alleanza di Pace (Or.) che Dio ha stabilito con la sua Chiesa. E poiché il Re divino vuole sposare le nostre anime, è con l’Eucaristia che si celebra questo sposalizio mistico, poiché essa aumenta la fede e l’amore che ci fanno membri viventi di Gesù nostro Capo. (« L’unità del corpo mistico è prodotta dal vero corpo ricevuto sacramentalmente » – S. Tommaso). Le nozze di Cana raffigurano anche l’unione del Verbo con la Chiesa sua sposa. « Invitato alle nozze – dice S. Agostino – Gesù vi andò per confermare la castità coniugale e per mostrare che Egli è l’autore del Sacramento del Matrimonio e per rivelarci il significato simbolico di queste nozze, cioè l’unione del Cristo con la sua Chiesa. In tal modo anche quelle anime che hanno votato a Dio la loro verginità, non sono senza nozze, partecipando esse con tutta la Chiesa a quelle nozze in cui lo Sposo è Cristo».

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXV: 4

Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime.

[Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Ps LXV: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus.[Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: canta salmi al suo nome e gloria alla sua lode.]

Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime.

[Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Oratio

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui coeléstia simul et terréna moderáris: supplicatiónes pópuli tui cleménter exáudi; et pacem tuam nostris concéde tempóribus.

[O Dio onnipotente ed eterno, che governi cielo e terra, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo e concedi ai nostri giorni la tua pace.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom XII: 6-16

“Fratres: Habéntes donatiónes secúndum grátiam, quæ data est nobis, differéntes: sive prophétiam secúndum ratiónem fídei, sive ministérium in ministrándo, sive qui docet in doctrína, qui exhortátur in exhortándo, qui tríbuit in simplicitáte, qui præest in sollicitúdine, qui miserétur in hilaritáte. Diléctio sine simulatióne. Odiéntes malum, adhæréntes bono: Caritáte fraternitátis ínvicem diligéntes: Honóre ínvicem præveniéntes: Sollicitúdine non pigri: Spíritu fervéntes: Dómino serviéntes: Spe gaudéntes: In tribulatióne patiéntes: Oratióni instántes: Necessitátibus sanctórum communicántes: Hospitalitátem sectántes. Benedícite persequéntibus vos: benedícite, et nolíte maledícere. Gaudére cum gaudéntibus, flere cum fléntibus: Idípsum ínvicem sentiéntes: Non alta sapiéntes, sed humílibus consentiéntes.

[Fratelli, avendo noi dei doni differenti secondo la grazia che ci è stata donata, chi ha la profezia (l’eserciti) secondo la regola della fede; chi il ministero, amministri, chi l’insegnamento, insegni; chi ha l’esortazione, esorti; chi distribuisce (lo faccia) con semplicità; che fa opere di misericordia, con ilarità. La vostra carità non sia finta. Odiate il male; affezionatevi al bene. Amatevi scambievolmente con amore fraterno, prevenendovi gli uni gli altri nel rendervi onore. Non pigri nello zelo, ferventi nello spirito, servite al Signore. Siate allegri per la speranza, pazienti nella tribolazione, assidui nella preghiera. Provvedete ai bisogni dei santi; praticate l’ospitalità. Benedite quelli che vi perseguitano: benedite e non vogliate maledire. Rallegratevi con chi gioisce; piangete con chi piange, avendo gli stessi sentimenti l’uno per l’altro. Non aspirate alle cose alte, ma adattatevi alle umili.]

 P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

LA CARITÀ PIÙ DIFFICILE.

San Paolo in materia di carità è un Maestro straordinario; grande in tutto, è grandissimo in questo. Assurge al grido più sublime, discende alle considerazioni più pratiche e in questo terreno pratico che pare umile, spiega un’abilità, una finezza che lo mette in contrasto, vittorioso da parte sua, con le. idee che hanno più facile e maggior voga nella società. Ecco qua un binomio nel quale si riassume l’esercizio pratico della carità: « gaudere curri gaudentibus, flere cura flentibus ». Dove il consiglio o precetto di piangere con chi piange appare a tutti un precetto caritatevolissimo. Non è egli giusto e bello compiangere chi soffre? aiutarlo, per stimolo di compassione sincera a non soffrire più? a superare il suo dolore? È così bella e caritatevole questa funzione del piangere coi dolenti che per molti la carità predicata da Cristo si riduce lì. La carità per lo meno più autentica, più meritevole è questa. Gli altri, quelli che non soffrono né punto né poco anzi godono, se la scialano, se la ridono, che bisogno hanno di carità? O come la possiamo esercitare verso di loro? Come possiamo essere con loro e verso di loro caritatevoli? Domanda che S. Paolo non ammette in quanto tendono a rimpicciolire l’esercizio della carità nel campo della miseria umana. La. carità spazia in termini più vasti. È possibile anche coi felici, solo che è più difficile. È molto difficile. Impietosirsi cogli infermi è più facile. Strano, ma vero. E neanche strano. Il nostro egoismo in fondo è carezzato, vellicato, soddisfatto quando vede soffrire gli altri, quando incontra il dolore. E assumiamo volentieri l’attitudine della pietà perché è un’attitudine universalmente apprezzata, facciamo il gesto del soccorso perché esso pare a tutti un bel gesto. Ci dà una doppia superiorità, la superiorità di chi non soffre e quella di chi benefica. Impalcatura psicologica che crolla quando il nostro prossimo è fortunato; quando invece di passare lagrimando dalla gioia al dolore, dalla ricchezza alla povertà, dalla salute alla malattia, passa allegramente, ridendo, cantando dal dolore alla gioia, e per esempio dalla povertà alla ricchezza. Quando una famiglia ricca per un rovescio diventa povera, quanti dicono, e abbastanza sinceramente: povera gente! e piangono e aiutano. Ma quando accade il rovescio, quando il povero diventa ricco sono molti che si rallegrano sinceramente? Attenti a questo sinceramente! Perché la commedia delle congratulazioni la recitano molti, troppi: ma è una commedia. Sotto sotto, dentro di sé, in realtà crepano d’invidia. Il buon Cristiano, il vero caritatevole si rivela in quel « gaudere cura gaudentibus » prima e più che nel « flere cura flentibus », nel partecipare alle altrui gioie prima e più che nel dividere gli altrui dolori.

Graduale

Ps CVI: 20-21

Misit Dóminus verbum suum, et sanávit eos: et erípuit eos de intéritu eórum.

[Il Signore mandò la sua parola e li risanò: li salvò dalla distruzione.]

V. Confiteántur Dómino misericórdiæ ejus: et mirabília ejus fíliis hóminum. 

[V. Diano lode al Signore le sue misericordie e le sue meraviglie in favore degli uomini. ]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXLVIII: 2

Laudáte Dóminum, omnes Angeli ejus: laudáte eum, omnes virtútes ejus. Allelúja.

[Lodate il Signore, voi tutti suoi Angeli: lodatelo, voi tutte milizie sue. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem. [Joann II: 1-11]

In illo témpore: Núptiæ factæ sunt in Cana Galilaeæ: et erat Mater Jesu ibi. Vocátus est autem et Jesus, et discípuli ejus ad núptias. Et deficiénte vino, dicit Mater Jesu ad eum: Vinum non habent. Et dicit ei Jesus: Quid mihi et tibi est, mulier? nondum venit hora mea. Dicit Mater ejus minístris: Quodcúmque díxerit vobis, fácite. Erant autem ibi lapídeæ hýdriæ sex pósitæ secúndum purificatiónem Judæórum, capiéntes síngulæ metrétas binas vel ternas. Dicit eis Jesus: Implete hýdrias aqua. Et implevérunt eas usque ad summum. Et dicit eis Jesus: Hauríte nunc, et ferte architriclíno. Et tulérunt. Ut autem gustávit architriclínus aquam vinum fáctam, et non sciébat unde esset, minístri autem sciébant, qui háuserant aquam: vocat sponsum architriclínus, et dicit ei: Omnis homo primum bonum vinum ponit: et cum inebriáti fúerint, tunc id, quod detérius est. Tu autem servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc fecit inítium signórum Jesus in Cana Galilaeæ: et manifestávit glóriam suam, et credidérunt in eum discípuli ejus.

[In quel tempo: Vi furono delle nozze in Cana di Galilea, e li vi era la Madre di Gesù. E alle nozze fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la Madre di Gesù disse a Lui: Non hanno più vino. E Gesù rispose: Che ho a che fare con te, o donna? La mia ora non è ancora venuta. Disse sua Madre ai domestici: Fate tutto quello che vi dirà. Orbene, vi erano lì sei pile di pietra, preparate per la purificazione dei Giudei, ciascuna contenente due o tre metrete. Gesù disse loro: Empite d’acqua le pile. E le empirono fino all’orlo. Gesù disse: Adesso attingete e portate al maestro di tavola. E portarono. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino, non sapeva donde l’avessero attinta, ma i domestici lo sapevano; chiamato lo sposo gli disse: Tutti servono da principio il vino migliore, e danno il meno buono quando sono brilli, ma tu hai conservato il vino migliore fino ad ora. Così Gesù, in Cana di Galilea dette inizio ai miracoli, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui.]

OMELIA II

[Discorsi di S. G. B. M. VIANNEY, curato d’Ars – Vol. I, Quarta ed. – Ed. Marietti, Torino-Roma, 1933]

Sul Matrimonio.

Quanto i Cristiani sarebbero felici, se avessero la sorte come questi due sposi fedeli che si recarono a pregare Gesù Cristo di assistere alle loro nozze per benedirle e per conceder loro le grazie necessarie alla loro santificazione! Ma no, pochissimi fanno quello che devono fare per impegnare Gesù Cristo a recarsi alle loro nozze per benedirle; all’opposto, sembra che si impieghino tutti i mezzi per impedirlo. Ah! quante persone dannate per non aver invitato Gesù Cristo alle loro nozze, quante persone che cominciano il loro inferno in questo mondo! Ah! quanti Cristiani che abbracciano questo stato colle stesse disposizioni dei pagani e forse son più colpevoli! Diciamo, gemendo, che, di tutti i sacramenti non ve ne è alcun altro che sia tanto profanato. Sembra che non si riceva questo gran sacramento che per commettere un sacrilegio. Ah! se noi vediamo molti contrarre dei cattivi matrimoni, molti infelici, molti che colla maledizioni che si vomitano l’uno contro l’altro, veramente cominciano il loro inferno in questo mondo, non cerchiamone altra causa se non nella profanazione di questo sacramento. Ah! se di tutti i trenta matrimoni, ne occorressero tre soli che avessero ricevute tutte le grazie, sarebbe già molto. Ma che cosa ne conseguita da queste profanazioni, se non una generazione di riprovati? Mio Dio, possiamo noi pensarvi e non tremare, vedendo tante povere persone le quali non entrano in questo stato che per cadere nell’inferno? Qual è il mio disegno, M. F.? Eccolo. Dapprima di mostrare a coloro che hanno abbracciato questo stato, le colpe che vi hanno commesse, e poscia a coloro che pensano di abbracciarlo, le disposizioni che vi devono recare.

I. — Nessuno dubita che noi possiamo salvarci in tutti gli stati che Dio ha creati, ciascuno in quello che Dio ci ha destinato, se noi vi rechiamo le disposizioni che Dio domanda da noi: di guisa che, se noi ci perdiamo nel nostro stato, segno è che non l’abbiamo abbracciato con buone disposizioni. Ma è vero che ve ne sono i quali presentano maggiori difficoltà degli altri. Noi sappiamo qual è quello che ne presenta di maggiori, è quello del matrimonio; e tuttavolta noi vediamo che è quello che si riceve con più cattive disposizioni. Quando si vuol ricevere il sacramento della confermazione, si premette un ritiro, si procura di farsi bene istruire, per rendersi degni delle grazie che vi sono annesse; ma per quello del matrimonio, dal quale dipende ordinariamente la felicità o l’infelicità di colui che lo riceve, lontano dal prepararvisi con un ritiro o con qualche altra buona azione, sembra che non si saranno mai accumulati abbastanza peccati sopra peccati per riceverlo, sembra che non si avrà mai commesso tanto male per meritare la maledizione del buon Dio, affine di essere infelici per il volgere di tutta la vita preparandosi un inferno per l’eternità. Quando si vuol abbracciare lo stato ecclesiastico, od entrare in un monastero, o restare nel celibato, si consulta, si prega, si compiono delle buone opere, affine di domandare a Dio la grazia di conoscere la propria vocazione; benché nell’ordine religioso tutto converga a Dio, tutto ci allontani dal male, nonostante ciò, si prendono molte precauzioni; ma per il matrimonio, nel quale è così difficile il salvarsi, o per meglio dire, nel quale tanti si dannano, dove sono le preparazioni che si premettono per domandare a Dio la grazia di meritare il soccorso del cielo che ci è così necessario per potere santificarci? Quasi nessuno vi si prepara, o vi si prepara in un modo così debole che il cuore non vi ha alcuna parte. Quando un giovane od una giovane cominciano a voler pensare a collocarsi, prendono le messe dall’allontanarsi da Dio, abbandonando la religione, la preghiera, i sacramenti. Gli abbigliamenti ed i piaceri prendono il posto della religione, e i peccati più vergognosi prendono il posto dei sacramenti. Essi battono questa via fino al momento di contrarre il matrimonio, nel quale la maggior parte consumano tre sacrilegi in due o tre giorni; vo’ dire profanando il sacramento della penitenza, quello dell’Eucaristia e quello del matrimonio, se il prete è tanto infelice da amministrar loro i due primi; io dico almeno la maggior parte, se non di tutti. Il più gran numero di Cristiani, vi recano un cuore mille volte più corrotto dal vizio infame dell’impurità, che un gran numero di pagani non oserebbero di commettere. Una giovane che desidera impalmarsi con un giovane, non ha più alcuna riservatezza. Ah! ella abbandona il buon Dio, e il buon Dio alla sua volta la abbandona; ella si getta a corpo perduto in tutto ciò che è più infame. Ah! che possono essere e che possono diventare queste povere persone che ricevono il sacramento del matrimonio in un simile stato, e quanti di questi infelici non lo rivelano neppure in confessione? O mio Dio, con qual orrore il cielo può e deve riguardare tali matrimoni! Ma che avviene di queste persone infelici? Ah! lo scandalo d’una parrocchia ed una sorgente di sventure per i poveri figli che nasceranno da essi! Che cosa si ascolta in questa casa? Nient’altro, se non giuramenti, bestemmie, imprecazioni e maledizioni. Quella giovane credeva che se poteva avere quell’uomo, o quell’uomo quella giovane, nulla sarebbe loro mancato; ma ah! dopo aver fondata la famiglia, quale cangiamento, quante lagrime, quanti patimenti, quanti gemiti! Ma tutto ciò a nulla giova. La sventura li ha incolti, ed è necessario restarvi fino alla morte, è necessario vivere con una persona che il più spesso non si può né vedere né udire; diciamo meglio, essi cominciano il loro inferno in questo mondo per continuarlo per tutta l’eternità. Ah! che il numero di questi matrimoni infelici, è grande! Tuttavolta, tutto ciò proviene dalla profanazione di questo sacramento. Ah! se si ponesse mente a quello che si fa abbracciando il matrimonio, i doveri da adempire e le difficoltà che vi si incontreranno per salvarsi, o mio Dio, più savia sarebbe la loro condotta! Ma la sventura del gran numero, è che hanno già perduto la fede quando lo abbracciano. D’altra parte, il demonio nulla omette per renderli indegni delle grazie che Dio loro concederebbe se fossero ben preparati. Il demonio, non solamente spera di averli nel suo potere, ma che anche i figli che nasceranno da essi saranno le sue vittime. Oh! che coloro che Dio non chiama a questo stato sono felici! Oh! quali azioni di grazie devono rendere a Dio di preservarli da tanti pericoli di perdersi! senza contar che saranno più vicini a Dio in cielo, che tutte le loro azioni saranno più accettevoli a Dio, e che la loro vita sarà più dolce, e la loro eternità più felice. Mio Dio, chi potrà ben comprendere ciò? Ah! quasi nessuno, perché ciascuno segue, non la propria vocazione, ma la tendenza delle proprie passioni. – Tuttavia, per quanto sia difficile salvarsi nello stato del matrimonio, e che il più gran numero, senza porvi mente un sol momento, saranno dannati, coloro che Dio vi chiama possono salvarvisi, se hanno la ventura di recarvi le disposizioni che Dio domanda da essi; Egli loro concederà coi sacramenti suoi le grazie che loro sono promesse. Ciascuno deve entrare dove Dio lo chiama, e noi possiamo dire che il più gran numero dei Cristiani si perdono perché non seguono la loro vocazione, ossia non domandandola a Dio o rendendosi indegni di conoscerla colla loro cattiva vita. Per mostrarvi che si può salvarsi nel matrimonio, se è Dio che chiama, ascoltate quello che ci dice S. Francesco di Sales, il quale essendo in collegio, si intratteneva un giorno con uno dei suoi compagni intorno lo stato nel quale entrerebbero. S. Francesco gli disse: io credo che il buon Dio mi chiami ad essere prete, io vi trovo tanti mezzi di santificarmi e di guadagnare delle anime a Dio, che al solo pensarvi mi sento il cuore ripieno di gioia; quanto mi troverei felice, se potessi convertire dei peccatori a Dio! Per tutto il volgere dell’eternità, io li sentirei cantare le lodi di Dio, li vedrei in cielo. L’altro gli disse: Io credo che Dio mi chiami nello stato del matrimonio e che avrò dei figli e che ne formerò dei buoni Cristiani e che io medesimo mi santificherò. Tutti e due seguirono una vocazione diversa, perché l’uno fu prete e Vescovo, e l’altro abbracciò il matrimonio, tuttavolta tutti due sono santi. Colui che contrasse il matrimonio ebbe dei figli e delle figlie; uno dei figli fu arcivescovo, ed è stato santo; un secondo religioso; un altro, presidente in una camera, il quale fece della propria casa quasi un monastero. Si levava di letto ogni giorno alle quattro ore del mattino, a cinque ore recitava la preghiera con tutti i suoi domestici, li istruiva ogni giorno. Parecchie delle sue figlie furono religiose; di guisa che, dice S. Francesco di Sales, che tutti, in quella famiglia, furono modelli di virtù nel paese dove soggiornavano. Voi vedete che, benché sia molto difficile di salvarsi nello stato del matrimonio, coloro che vi sono chiamati da Dio, se vi recano delle buone disposizioni, possono sperare di santificarvisi. Ma trattiamo in modo più diretto quello che riguarda questo sacramento.

II — Se io domandassi ad un fanciullo che cos’è il sacramento del matrimonio, egli mi risponderebbe: è un sacramento istituito da nostro Signor Gesù Cristo e che conferisce le grazie necessarie per santificare coloro che abbracciano il matrimonio secondo le leggi della Chiesa e dello Stato. Ma quali sono le disposizioni per ricevere le grazie che Dio comunica con questo sacramento? Eccole:

1° Di essere sufficientemente istruito dei doveri del proprio stato e delle miserie che in esso si provano; 2° di essere in stato di grazia, vo’ dire di avere premessa una buona confessione di tutti i propri peccati, con un vivo desiderio di non più commetterli. Se mi domandate perché è necessario essere in istato di grazia per ricevere questo sacramento, io vi risponderò: 1° Perché è un sacramento dei vivi; è necessario adunque che l’anima nostra sia esente da peccati; 2° Non essendo in istato di grazia, si commette un sacrilegio, eccetto che non siasi sufficientemente istruito. Coloro che vogliono ricevere degnamente questo sacramento devono essere istruiti sufficientemente per conoscere i loro doveri, e per insegnare ai loro figli quello che devono fare per vivere cristianamente. Se una persona che contrae il matrimonio non sa che cos’è il sacramento che riceve, chi l’ha istituito, quali grazie ci conferisce, e quali sono le disposizioni che dobbiamo recarvi, egli è certo che commette un sacrilegio. Ah! quanti sacrilegi nel ricevere questo gran sacramento, e quanti che abbracciano questo stato senza neppure sapere i principali misteri; vo’ dire, quale delle tre Persone divine si è fatta uomo! Essi non saprebbero solamente rispondervi che è la seconda Persona che ha preso un corpo ed un’anima nel seno della Ss. Vergine per l’opera dello Spirito Santo, e che fu il 25 marzo; che il 25 dicembre questo Gesù è venuto al mondo. Quanti che non sanno che è nato come uomo e non come Dio, perché come Dio è da tutta l’eternità. Quanti che non sanno che è il Giovedì santo che Gesù Cristo ha istituito il sacramento adorabile dell’Eucaristia, prendendo del pane, benedicendolo e cangiandolo nel suo corpo; e che poscia prese del vino e lo cangiò nel suo sangue, e che disse a’ suoi Apostoli: “Tutte le volte che voi pronuncerete queste medesime parole, voi opererete lo stesso miracolo.„ Quanti che non sanno che fu il Giovedì santo che Gesù Cristo ha istituito i sacerdoti, dicendo loro queste parole: “Fate questo in memoria di me. Tutte le volte che voi pronuncerete le medesime parole, voi cangerete il pane nel mio corpo, il vino nel mio sangue.„ (I Cor. XI, 23-26). Forse alcuni ignorano il giorno che il buon Dio è morto, che è risuscitato e che è salito al cielo. Ciò vi meraviglia? Ah! ne occorrono più di due che non sanno quanto e come Dio ha sofferto, e come è morto; vo’ dire che non sanno che Dio ha sofferto ed è morto come uomo e non come Dio, perché come Dio non poteva né patire, né morire. Quanti che credono che le tre Persone della Ss. Trinità hanno sofferto e sono morte. Quanti non sanno che Gesù Cristo, come uomo, è più giovane della Ss. Vergine, e che, come Dio, è da tutta l’eternità! Quanti sarebbero stati bene impacciati, se, prima di maritarsi, si avesse loro domandato: Chi ha istituito i sacramenti, e quali sono gli effetti di ciascun sacramento in particolare, e quali sono le disposizioni che domanda ciascun sacramento? Quanti credono che è la Ss. Vergine e gli Apostoli che hanno istituiti i sacramenti, e che non sanno veramente che è Gesù Cristo, e che Lui solo poteva istituirli e comunicar loro le grazie che vi riceviamo: vo’ dire, che il battesimo ci purifica dal peccato che noi rechiamo, nascendo, che è il primo sacramento che un Cristiano può ricevere, e che le acque per il battesimo sono state santificate quando S. Giovanni battezzò Gesù Cristo nel Giordano, che Gesù Cristo l’ha istituito, dicendo ai suoi apostoli: “Andate, istruite tutte le nazioni battezzandole nel nome del Padre, ecc. „ (Matth. XXVIII, 19). Quanti non sanno che sia lo Spirito Santo ch’essi ricevono nel sacramento della Confermazione, e che questo sacramento non può essere pconferito che dai Vescovi, e che è necessario essere in istato di grazia per riceverlo! Quanti non sanno in qual momento essi ricevono il sacramento di Penitenza e non sanno che è quando si confessano e che loro si imparte l’assoluzione, e non tutte le volte che si confessano! Quanti non sanno che, nel sacramento dell’Eucaristia, essi ricevono il corpo, il sangue e l’anima di nostro Signore Gesù Cristo, e non ricevono né gli angeli né i santi! Quanti non sanno far la differenza tra il sacramento dell’Eucaristia e gli altri, vale a dire, che non sanno che, nel sacramento dell’Eucaristia, essi ricevono il corpo adorabile e il sangue prezioso di Gesù Cristo, invece che negli altri non riceviamo che l’applicazione dei meriti del suo sangue prezioso! Quanti non sanno conoscere, quali sono i sacramenti dei vivi e i sacramenti dei morti, e perché si danno loro questi nomi; essi non sanno che il Battesimo, la Penitenza e qualche volta l’Estrema-Unzione, sono i sacramenti dei morti, perché ci restituiscono la vita della grazia che abbiamo perduta col peccato, e gli altri sono chiamati sacramenti dei vivi, perché è necessario che non abbiamo nessun peccato sopra la coscienza quando vogliamo riceverli. Quanti altri non sanno quello che ricevono quando si fanno le unzioni sopra i loro sensi, e quale grazia questo sacramento dell’Estrema Unzione conferisce agli ammalati che lo ricevono degnamente, vo’ dire che essi non sanno che questo sacramento li purifica da tutti i peccati che hanno commesso coi loro sensi. Finalmente quanti altri hanno ignorato la grazia che conferiva il sacramento del matrimonio! Quanti altri che non sanno che i sacramenti non hanno avuto il loro effetto che dopo la Pentecoste. Ah! quanti sacrilegi! ah! quante persone maritate miseramente perdute! Tuttavia se voi ignorate queste cose, voi potete essere certi che tutti i sacramenti che avete ricevuti sono, vorrei dire, dei sacrilegi. – Una seconda ragione che deve persuaderci a ben prepararsi per ricevere tutte le grazie che conferisce questo gran sacramento, è che vi sono molte miserie da sopportare. Quante povere mogli che sono costrette di passare la loro vita con dei mariti di cui gli uni sono irascibili, i quali un nulla li fa montar in collera; somiglievoli a leoni, essi sono sempre ai loro fianchi, sono sempre a contese e spesse volte le maltrattano; essi non possono vederle a mangiare. Esse muoiono di crepacuore; è ben raro che passino un giorno senza versare delle lagrime; altre hanno dei mariti che mangiano tutto quello che hanno nelle bettole, mentre che una povera moglie perisce di miseria coi suoi figli nella casa. Quello che io dico dei mariti, lo dico parimente delle mogli. Quanti mariti che hanno delle mogli che non dicono loro mai una parola con dolcezza, che li disprezzano, che trascurano tutto ciò che vi è nella casa, che non fanno che contendere da mane a sera. Voi sarete d’accordo con me che per soffrire tutto ciò senza lagnarsi, in modo da renderlo meritorio per il cielo, occorre una grazia straordinaria. Ora, se voi aveste ricevuto tutte le grazie che vi conferisce questo sacramento, voi ne avreste un tesoro infinito per il cielo; le grazie che Dio vi ha preparato per salvarvi, che ha annesso alla vostra vocazione, vi renderebbero ciò sopportabile senza mandare alcun lamento. Ma donde proviene che l’uomo non può tollerare i difetti che egli scopre nella propria moglie, e che la moglie maledice ad ogni istante il proprio marito perché è un ubbriacone? Gli è perché queste persone non hanno ricevuto le grazie del sacramento del matrimonio; esse non possono essere che infelici nel volgere della loro vita e dannate dopo la loro morte. Ma una più grave sventura è che i loro figli loro rassomigliano. Ah! chi potrà dire a virtù di parole lo stato deplorevole dei figli che nascono da tali matrimoni? Voi li vedete quasi vivere come le bestie. Dapprima, i genitori non hanno mai saputo la loro religione, quindi non possono insegnarla ai loro figli. Ah! dei figli che hanno dieci o undici anni, e non sanno non solamente la loro preghiera, né una parola della loro religione; essi non hanno che giuramenti e cattivi discorsi in bocca. Ah! quante persone maritate e quanti figli perduti! almeno se non fossero maritate, si sarebbero perdute sole! Come la profanazione di questo sacramento popola l’inferno! Ma, mi direte voi, che cosa bisogna fare per abbracciare santamente questo stato? — Eccolo. Ascoltatelo attentamente, fortunati se ne approfittate! È necessario che il vostro matrimonio non sia contratto al modo dei pagani. Ecco i matrimoni dei pagani. Quando vogliono collocarsi, gli uni prendono una donna per averne dei figli ai quali lasciare il loro nome e i loro beni; altri perché hanno bisogno di una compagna per aiutarli nelle sollecitudini della vita; questi per la bellezza e le attrattive, ma pochissimi per la virtù. Dopo ciò, si prendono le debite cautele da una parte e dall’altra, si stipula il contratto, e si celebra il matrimonio, che è accompagnato da qualche cerimonia religiosa al loro modo; si imbandisce un gran banchetto, e si lascia un libero freno ad ogni sorta di gioie e di eccessi. Ecco il modo col quale procedono i pagani, vo’ dire coloro che non hanno come noi la ventura di conoscere il vero Dio. Se i vostri matrimoni non hanno niente di meglio, state sicuri che voi avete profanato questo sacramento; e, dopo ciò, risolvetevi a passare la vostra eternità nell’inferno. Non è dunque veramente che lo spirito di pietà che forma il matrimonio cristiano: è necessario dunque farlo in nome di Gesù Cristo, nell’intendimento di piacere a Lui e di seguire la propria vocazione, proporsi il salvamento dell’anima propria e null’altro. Non è dunque né l’interesse, né il desiderio di seguire l’inclinazione del proprio cuore che deve muovere un Cristiano a contrarre il matrimonio; ma quello di seguire la voce di Dio che vi chiama in questo stato, di educare cristianamente i figliuoli che piacerà a Dio concedervi. Ma in un affare così importante, nulla si deve fare con precipitazione, né mai omettere di consultare i propri genitori, e nulla conchiudere senza il loro consentimento. I genitori, non occorre dirlo, non devono costringere i loro figli ad unirsi con persone che non amano, perché non possono essere che infelici l’uno e l’altra. È necessario sempre scegliere persone che abbiano della pietà: voi dovete preferirle, quand’anche avessero poche ricchezze, perché voi siete sicuri che Dio benedirà il vostro matrimonio; invece che per coloro che non hanno religione, i loro beni periranno in breve tempo. Non conviene fare come molte che impalmano un uomo ubbriacone e cattivo soggetto, dicendo che, quando sarà maritato si correggerà; è vero l’opposto, e non diventerà che più cattivo, e voi passerete la vostra vita in una specie d’inferno. Ah! questi matrimoni sono numerosi È colla preghiera e colle buone opere che voi dovete domandare a Dio di farvi conoscere colui o colei che Dio vi destina. Si dice che affinché un matrimonio sia ben fatto, vo’ dire felice, è necessario sia fatto in cielo prima di esserlo sopra la terra. Dapprima i giovani che vogliono meritare le grazie del matrimonio che Dio prepara a coloro che sperano di santificarvisi, non devono parlarsi da soli né il giorno né la notte, senza la presenza dei loro genitori, e non permettersi mai la più piccola famigliarità, né la più piccola parola indecente, senza di che sono sicuri di allontanare Dio dalle loro nozze, e se Dio non vi assiste, sarà il demonio. Ah! non ne occorre uno sopra duecento che osservi ciò. Si può egualmente dire che non occorre un matrimonio sopra duecento che sia veramente tale e nel quale la pace e la religione vi regnino, in modo che si possa dire che è una casa del buon Dio. All’opposto, ne occorrono che si trascinano per tre o quattro anni nelle danze, nei balli, nelle commedie, nelle bettole, che passano i tre quarti delle loro notti soli, a permettersi tutto ciò che il demone dell’impurità può loro inspirare. Mio Dio! sono costoro Cristiani che devono portare sotto il velo del sacramento un cuore puro e libero da ogni peccato? Ah! chi potrà contare il numero dei peccati dei quali è coperto il loro cuore e la loro anima imputridita? Ah! come poter sperare che il buon Dio potrà, onnipotente quale Egli è, benedire tali matrimoni di persone che vivono nella impurità più infame chi sa da quanti anni? che non recitano forse le preghiere né il mattino né la sera? che hanno abbandonato i sacramenti da parecchi anni, o, se li hanno frequentati, non l’hanno fatto che per profanarli? Ah! come pretendere che il sangue adorabile di Gesù Cristo possa discendere sopra queste nozze per santificarle, e rendere le pene del matrimonio dolci e meritorie per il cielo? Ah! quanti sacrilegi, e quante persone maritate che andranno ad ardere negli abissi! Mio Dio, come i Cristiani conoscono poco la loro sventura e la loro perdita eterna! Ah! essi non abbandoneranno i loro delitti infami dopo le loro nozze; sempre le stesse infamie, e sempre battendo la via dell’inferno, nel quale ben presto cadranno. No, non entriamo nel particolare degli orrori che si commettono nel matrimonio, tutto ciò fa morire d’orrore. Abbassiamo il velo, che non si alzerà che nel gran giorno della vendetta, nel quale vedremo tutte queste turpitudini senza temere di contaminare la nostra immaginazione. Gente maritata, non perdete mai di vista che tutto si vedrà nel giorno del giudizio; ma ciò che ecciterà la meraviglia di una infinità di persone, è che Cristiani si sieno permessi infamie simili. Facciamo punto.

III. — Se voi ora mi domandate quali sono le condizioni richieste perché un matrimonio sia buono davanti a Dio e davanti agli uomini, ecco, due cose: che il matrimonio sia contratto secondo le leggi della Chiesa, senza di che il matrimonio sarebbe nullo, vo’ dire che le persone vivrebbero nel peccato; come due persone che convivono insieme senza maritarsi davanti alla Chiesa. La Chiesa ha promulgato le sue leggi, assistita, diretta dallo Spirito Santo. Se voi mi domandate che cosa sono gli sponsali: è la promessa che si fanno due persone d’impalmarsi. Dal momento che due persone si sono fidanzate, esse non devono restare nella stessa casa, senza commettere un grave peccato, per causa dei pericoli e delle tentazioni alle quali saranno esposte; perché il demonio tutto mette in opera per renderle indegne della benedizione del buon Dio che loro è promessa nel sacramento del matrimonio. – Per questo la Chiesa proibisce loro di abitare sotto il medesimo tetto nel tempo degli sponsali. Vi ho detto che non occorre sacramento per il quale si prendano tante precauzioni esterne, che si riceva con tanto apparato come quello del matrimonio. Dopo che il contratto è stipulato, per tre domeniche di seguito si pubblicano le persone che vogliono maritarsi, e ciò per due ragioni: la prima, per invitare i fedeli a pregare per loro, affinché Dio conceda loro le grazie che sono loro necessarie per abbracciare santamente questo stato. La seconda ragione, per scoprire gli impedimenti che potrebbero mettere ostacolo a questo matrimonio. I casi nei quali la Chiesa proibisce il matrimonio si chiamano impedimenti; di questi impedimenti ve ne sono che rendono le nozze nulle, di guisa che persone che si fossero maritate con alcuno di questi impedimenti, e vedremo quali, non sarebbero maritate, la loro vita non sarebbe che una fornicazione continua. Ah! occorrono di questi infelici matrimoni, che fanno cadere le maledizioni del cielo con delle pene dovunque si trovano! Non occorre dire che la profanazione di questo sacramento e le colpe che si commettono nel matrimonio, non sieno la causa dei grandi mali coi quali Dio ci colpisce, e noi lo riconosceremo nel giorno del giudizio! – Noi diciamo dunque che vi sono degli impedimenti che si chiamano dirimenti; ecco quelli che si incontrano il più spesso. Il primo è la parentela, detta consanguineità, fino al quarto grado inclusivamente, vo’ dire che comprende il quarto grado e non il quinto; ciò si intende agevolmente. Quando si annuncia il matrimonio, se voi pensate che colui che lo pubblica non sappia ciò che i fidanzati gli nascondono, voi siete obbligati di manifestarlo a colui che l’ha pubblicato, altrimenti commettereste un grave peccato mortale, perché  ne occorrono molti che lo nascondono per quanto lo possono, per timore di domandare la dispensa e che costi loro qualche cosa. Il secondo, è l’affinità, cioè che un vedovo non può sposare i parenti della defunta sino al quarto grado, né la vedova i parenti del defunto. Il terzo è la parentela spirituale, cioè che non si può contrarre matrimonio col figlio che si è levato al fonte battesimale, né col padre, né colla madre di questo figlio. Il quarto è l’onestà pubblica, vale a dire che, quando una persona è stata fidanzata con una persona, ella non può maritarsi né colla madre, né colla figlia, né colla sorella della persona colla quale era stata fidanzata. Ecco gli impedimenti che i fedeli possono conoscere facilmente, e quando si pubblica un matrimonio che si conoscesse essere in alcuno di questi casi, si è obbligati di manifestarlo, per non commettere un peccato mortale, e si mette nel caso di essere scomunicato, cioè rimosso dal seno della Chiesa. Ne occorrono alcuni altri che sono meno comuni, alcuni che sono segreti e infamanti, come l’adulterio e l’omicidio; coloro che ne sono colpevoli devono avvertire il loro confessore. Le leggi della Chiesa che proibiscono questi matrimoni sono sapientissime, sono tutte state dettate dallo Spirito Santo. Vi è ancora il voto semplice di castità, di sei mesi, di un anno, che sono impedimenti impedienti. Tuttavolta la Chiesa concede delle dispense imponendo qualche limosina a coloro che le domandano, ma non dimenticate mai che tutte le dispense che si domandano, e nelle quali non si espongono le cose quali sono, nulla valgono. Il Santo Padre non concede che alla condizione che ciò che si espone sia vero; di guisa che se ciò che noi esponiamo non è vero, cioè se voi recate delle ragioni che non sussistono o le amplificate, le vostre dispense nulla valgono, quindi il vostro matrimonio è nullo; vale a dire che non siete maritati e che avete commesso un sacrilegio ricevendo il sacramento del matrimonio, come tutti i sacramenti che poscia ricevete. Ah! quanto è grande il numero di questi infelici, e che dormono tranquilli, mentre il demonio loro scava un inferno eterno! Voi non dovete dunque mai recare delle ragioni che non sussistono, e se i vostri pastori non le trovano di peso guardatevi dal pressarli, dicendo che voi egualmente vivrete insieme. Ah! quante persone maritate miseramente perdute. Ma, mi direte voi, in qual modo si deve passare il tempo degli sponsali? — Ecco: Questo tempo è un tempo sacro che si deve passare nel ritiro, nella preghiera e nel praticare ogni sorta di buone opere per meritare che Gesù Cristo vi conceda, come agli sposi di Cana in Galilea, la grazia di assistere alle vostre nozze per benedirvi, concedendovi i soccorsi necessari per potervi santificare. È cosa buona e spesse volte necessaria il premettere una confessione generale, sia per riparare le cattive che fossero state fatte nel corso della vita, sia per rendersi maggiormente degni di ricevere questo sacramento, perché le grazie vi sono copiose, in proporzione delle disposizioni che vi si recano. Ditemi, M. F., è codesto il modo col quale si passa un tempo così prezioso come quello degli sponsali? Ah! non prendete per modello i pagani, i quali neppur fanno tutto ciò che il più gran numero dei Cristiani dei giorni nostri si permettono! Questi infelici Cristiani non sono contenti di aver trascinato quasi tutta la loro vita o almeno una parte notevole nel delitto e nell’infamia più nera! Sembra che non siasi fatto abbastanza il primo giorno dei loro sponsali: le danze, i balli, le bettole o la carne, se è giorno di magro. Non contenti di commettere il male soli, quasi temessero di non irritare abbastanza la giusta collera di Dio sopra di essi, affinché invece di benedirli li maledica, saranno tre o cinque persone; vale a dire secondo i loro mezzi: coloro che hanno da spendere ne invitano un numero maggiore, e coloro che ne hanno meno ne invitano un numero minore; ma sempre in proporzione di quanto hanno. Ne occorrono forse che perderanno le loro anime, contrarranno dei debiti passando i tre quarti della notte, senza contare il giorno, nelle bettole, ad abbandonarsi ad ogni sorta di eccessi; una parte trascinandosi per le vie, e fors’anco la sposa. — Ma, mi direte voi, ciò non vi riguarda, non è il vostro denaro che noi spendiamo; di nulla vi siamo tenuti. — No, certamente il vostro denaro non mi riguarda, ma mi riguardano le anime vostre delle quali Dio mi ha dato l’incarico. Or bene, ecco il principio del santo ritiro dei giovani che si sono fidanzati; ecco la loro preparazione per ricevere il sacramento del matrimonio. Non è tutto; il demonio non è ancora contento. Dopo di aver trascorsi alcuni giorni nello stravizio essi passeranno tutto il resto del tempo a correre le case per annunciare gli sponsali. In ciascuna casa, essi, commetteranno, forse, tre o quattro gravi peccati per gli abbracciamenti che fanno o che permettono. — Ma, mi direte voi, è il costume. — Ah! i vostri costumi sono quelli dei pagani; come avete seguito fino a quest’ora l’andazzo dei pagani, è necessario continuare! Non ostante quello che voi direte, ciò non impedirà che, quando comparirete al tribunale di Dio per rendervi conto della vostra sciagurata vita, tutti gli abbracciamenti che avrete dati e ricevuti in questo tempo degli sponsali, non sieno peccati e la maggior parte, peccati mortali. — Oh! io non ne credo nulla. — Voi non ne credete nulla? È perché i vostri occhi sono un po’ turbati; ma non vi inquietate, il grande giudice li illuminerà! Il tempo degli sponsali si passa in questa dissipazione o piuttosto in questa catena di peccati, senza contare di ciò che avviene tra le donne. Mio Dio, sono costoro Cristiani o pagani? Ah! io non ne so nulla; solo io so che sono delle povere anime che il demonio trascina e divora fino a che le precipiti nelle fiamme. Arriva il tempo del matrimonio, non mancano più che tre o quattro giorni; si presentano al tribunale della penitenza senza pentimento e senza neppure il desiderio di condursi meglio. La prova ne è ben chiara: essi corrono ai piaceri, alle stesse danze, agli eccessi nel mangiare e nel bere; essi fondano le famiglie abbandonandosi a tutto ciò che il demonio può loro inspirare il giorno delle loro nozze, e ancor peggio se lo possono. Essi hanno ricevuto questo gran sacramento; ah! io m’inganno, essi hanno commesso un orribile sacrilegio, e mettono il suggello alla loro riprovazione passando, forse, un giorno o due in stravizzi. – Mio Dio, qual cosa pensare di questi poveri Cristiani? Che sarà di loro? Ah! voi li avete già abbandonati, perché nulla hanno omesso per costringervi a maledirli e a riprovarli. Ma, mi direte voi, non è permesso lo stare allegri in quel giorno? — Sì, certamente, ma rallegrarsi nel Signore. Voi direte quello che vorrete, non lascerete di render conto fino dell’ultimo soldo speso inutilmente; voi potete ridervene, ma la cosa è quale ve la dico. Un giorno noi lo vedremo, badate che non sia troppo tardi per voi. — Tutto ciò è molto difficile da credere, perché se noi operassimo male, il buon Dio ci punirebbe; tuttavolta noi vediamo molti i quali si divertono e gli affari dei quali prosperano. — Tutto ciò, invece di essere un buon segno, è la più grande di tutte le sventure. Sapete voi perché il buon Dio si conduce in tal modo? È perché Egli è giusto. Egli vi ricompensa di tutto il bene che avete operato, affinché dopo la vostra morte, non abbia che a gettarvi nell’inferno. Ecco la ragione per la quale sembra che vi benedica nonostante tutti gli orrori che avete commesso nei vostri sponsali e nelle vostre nozze, senza contare che tutti i peccati che coloro che avete invitati hanno commessi saranno a voi imputati, senza che essi medesimi sieno innocenti. Ah! la morte farà scoprire dei peccati là dove molti credevano non esistessero punto. Che cosa dovrebbe fare un Cristiano per ricevere degnamente questo sacramento? Sarebbe di prepararvisi con tutto il suo cuore, d’avere premessa una buona confessione, e di aver passato santamente il giorno dei suoi sponsali; e, quello che avrebbe potuto spendere, distribuirlo ai poveri, per attrarre sopra di lui le divine benedizioni. Il giorno delle loro nozze, che si rechino di buon mattino alla chiesa per implorare il soccorso e i lumi dello Spirito Santo, ricevendo la benedizione nuziale. Che il sangue di Gesù Cristo fluisca sopra le loro anime. Il giorno nel quale si saranno impalmati lo passino nella presenza di Dio, pensando quale sciagura sarebbe se profanassero questo giorno così santo. Dopo il loro matrimonio, essi devono recarsi da un confessore per farsi istruire, per non perdersi senza saperlo, o piuttosto affinché possano condursi come veri figli di Dio. Ah! dove sono i Cristiani che si conducano in questo modo? Ah! dove sono i coniugi che saranno salvi? Quanti che andranno perduti! Di coloro che vi rechino buone disposizioni, è esiguo il numero. Che cosa inferire da ciò? Che la maggior parte dei Cristiani abbracciano il matrimonio senza domandare a Dio le grazie che sono loro necessarie, vi recano un cuore ed un’anima contaminata di mille e mille peccati, e profanano questo sacramento; ciò che è la sorgente di sventure in questo mondo e nell’altro. Avventurati i Cristiani i quali entrano in queste buone disposizioni e vi perseverano fino alla fine! È quello che io vi desidero…

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps LXV: 1-2; 16

Jubiláte Deo, univérsa terra: psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja.

[Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: cantate un salmo al suo nome: venite, e ascoltate, voi tutti che temete Iddio, e vi racconterò quanto Egli ha fatto per l’anima mia. Allelúia.]

Secreta

Oblata, Dómine, múnera sanctífica: nosque a peccatórum nostrórum máculis emúnda.

[Santifica, o Signore, i doni offerti, e mondaci dalle macchie dei nostri peccati.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann II: 7; 8; 9; 10-11

Dicit Dóminus: Implete hýdrias aqua et ferte architriclíno. Cum gustásset architriclínus aquam vinum factam, dicit sponso: Servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc signum fecit Jesus primum coram discípulis suis.

[Dice il Signore: Empite d’acqua le pile e portate al maestro di tavola. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino disse allo sposo: Hai conservato il vino migliore fino ad ora. Questo fu il primo miracolo che Gesù fece davanti ai suoi discepoli.]

Postcommunio

Oremus.

Augeátur in nobis, quǽsumus, Dómine, tuæ virtútis operatio: ut divínis vegetáti sacraméntis, ad eórum promíssa capiénda, tuo múnere præparémur.

[Cresca in noi, o Signore, Te ne preghiamo, l’opera della tua potenza: affinché, nutriti dai divini sacramenti, possiamo divenire degni, per tua grazia, di raccoglierne i frutti promessi.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (143)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (11)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE XII

La Tradizione divina.

60. Prot. Per verità, Santa Bibbia, la mia causa, fin qui contro il Cattolicismo non poteva andar peggio; poiché egli in tutto ha vinto e splendidamente trionfato!… Adesso però passo, per dover di coscienza, ad accusarlo di tale un delitto, per cui sono ben certo sarà anche da voi condannato e per sempre esecrato. Voi ben sapete che Iddio ha dato alla sua Chiesa per regola della fede e dei costumi la Santa Scrittura, e non altro che la Santa Scrittura, ossia Voi stessa. Ora egli, pel suo tornaconto, insegna e sostiene che oltre la Santa Scrittura vi è e deve seguirsi come norma ugualmente sicura non so quale…. Tradizione divina! Oh iniquità! Questa sua pretesa Tradizione « è propriamente precipua origine e causa di quella mostruosità che è il Papismo nella deteriore sua forma. » (Shutteworth: Not tradition but Scripture. Lond. ediz. 2. 1839). Ma prima di passar oltre debbo spiegarmi anche meglio. « I Romanisti sostenendo la Tradizione, non rigettano perciò la Scrittura, anzi vi sono forse attaccati più di qualunque protestante, ma tengono che non è soltanto essa la parola di Dio. Quindi sostengono che il sistema della loro dottrina tradizionale deriva dagli Apostoli egualmente che la Scrittura; cosicché se questa perisse, non perirebbe perciò la rivelazione. Ora per confutare i Romanisti è necessario intenderli perfettamente. Per Tradizione intendono essi tutto il sistema della fede, e le regole che riceveranno dalla precedente generazione, e questa dall’altra precedente, e cosi di seguito…. Quindi, quando i Romanisti asseriscono di aderire alla Tradizione, altro non significano che di credere e operare nel modo che sempre crederono e operarono i Cristiani.» (Newman: (quando era protestante) Lezioni del Romanismo, e del Protestantesimo: London 1837).

Bibbia. Come mai osi asserire che Dio ha dato alla Chiesa per regola della fede e de’ costumi la sola Divina Scrittura: che deve riprovarsi la Tradizione? A buon conto, dal principio del mondo sino a Mosè, ossia per oltre duemila seicento anni, la Chiesa di Dio non ebbe altra regola, altro appoggio che la Tradizione, perché in tutto quel tempo nulla fu scritto di quanto aveva Iddio rivelato. Mosè fu il primo à scriver la Parola di Dio, e dopo di lui non pochi altri la scrissero. Ma forse scrissero tutto? No certamente ; perché se tutto avessero scritto non avrebbero raccomandato con tanta premura nei loro scritti di ricorrere anche alla Tradizione, e di custodirla e tramandarla gelosamente. Ascolta. « Narrerai al tuo figliuolo, e dirai: Questo e questo fece per me il Signore, quando io uscii dall’ Egitto, e ciò sarà quasi un sigillo nella tua mano, e come un monumento davanti a’ tuoi occhi » (Esod. XIII, 8,9).

« Informati de’ tempi antichi che furon prima di te, dal giorno in cui Dio creò l’uomo sopra la terra,… se mai cosa tale sia avvenuta, o siasi intesa, che un popolo abbia udito la voce di Dio. » (Deut. IV, 32, 33)

« Interroga il padre tuo e te ne darà novella, i tuoi avi e te lo diranno, quando l’Altissimo fece la divisione delle nazioni, etc. » (Ivi, XXXII, 7, 8).

« Dove sono le meraviglie raccontateci da’ padri nostri? (Giud. VI, 13)

« Noi, o Dio, con le nostre orecchie udimmo: i padri nostri annunziarono a noi quello che tu facesti ne’ giorni antichi. »  (Psal. XLIII, 1, 2).

« Quante cose furon da noi udite e intese, e a noi le narrarono i padri nostri, e questi non le tennero ascose ai loro figliuoli e alla seguente generazione…. Quante cose comandò egli [il Signore) ai padri nostri che le facessero sapere ai loro figliuoli; affinché la seguente generazione le sappia (e i figliuoli che nasceranno e verranno alla luce le racconteranno ai propri figliuoli » (Psal. LXXVII, 3, segg.).

Anuunzierà il padre ai figliuoli come verace sei tu (o Signore) » (Isa. XXVIII, 19) – « Udite, o vecchi, etc… discorretene co’ vostri figliuoli, e i vostri figliuoli co’ loro figliuoli, e i figliuoli di questi colla generazione che verrà dopo. » (Joel. 1, 2, 3)

« Frequenta le adunanze de’ seniori prudenti, e unisciti di cuore alla loro saviezza, affin di potere ascoltare quello che di Dio si ragiona, e non siano ignote a te le sentenze degne di lode. ». (Eccl. VI, 35)

« Non trascurare il discorrer de’ vecchi, poiché eglino hanno imparato dai padri loro. » (Ivi, VIII, 11)

61. Se poi passiamo al Nuovo Testamento, si vedrà esser tanto falso che Gesù Cristo abbia dato alla sua Chiesa la solaSanta Scrittura per regola della fede e dei costumi, che anzi Egli nulla scrisse di quanto operò ed insegnò, né fece agli Apostoli verun comando di scriverlo. Egli non fece agli Apostoli altro ornando che questo: « Andate adunque, istruite tutte le genti…. insegnando loro di osservare tutto quello che vi ho comandato. » (Matt. XXVIII, 19, 20). Onde ne avvenne che anche la Chiesa Cristiana non solamente fu stabilita, ma si governò per parecchi anni colla Tradizione, senza scrittura di sorta del Nuovo Testamento. – Scrissero dipoi gli Apostoli ed altri ispirati santi la divina parola. ma eglino pure dichiarano di non avere scritto tutto, e quindi altamente raccomandano e inculcano la Tradizione. Ascoltali.

« Or Gesù fece ancora in presenza dei suoi discepoli molti altri miracoli che non sono scritti in questo libro. » (Giov. XX, 30).

« Or vi sono ancora molte altre cose che fece Gesù, le quali se fossero scritte, credo che nemmen tutto il mondo capir potrebbe i libri che se ne scriverebbero. » (Ivi, XXI, 25).

« Io ho parlato in primo luogo, o Teofìlo, di tutto quello che sprincipiò Gesù a fare e ad insegnare sino al giorno in cui, dati per mezzo dello Spirito Santo i suoi ordini agli Apostoli che aveva eletti, fu assunto. A’ quali ancora si diede a veder vivo dopo la passione, con molte riprove, apparendo ad essi per quaranta giorni, e parlando del regno di Dio. » (Att. I, 1, e seg.). – Quanto disse loro Gesù in questi quaranta giorni, che certamente fu molto, ove mai sta scritto? Ascolta ancora.

« E poi ho apparato dal Signore quello che ho anche insegato [non l’ha scritto) A voi…. Le altre cose le disporrò quando sarò venuto. » (I Cor. XI, 23, 24). Anche queste non le scrive.

« Dì e notte lo preghiamo (il Signore) di vedere la vostra faccia, e di supplire a quello che manca alla vostra fede, » (I. Tess. IV, 1, 2) cioè, di supplire a voce alle istruzioni che non mette in iscritto, o riguardanti la fede.

« Nessuno vi seduca in tal modo; imperocché (ciò non sarà) se prima non sia seguita la ribellione, e non sia manifestato l’uomo del peccato, il figliuolo di perdizione…. Non vi ricordate voi come, quando io era tuttora presso di voi, vi diceva tali cose? » (II. Tess. II, 2 e seg.). Queste accennate istruzioni dove sono scritte?

« Quello che fu da principio, quello che udimmo, quello che vedemmo con gli occhi nostri e contemplammo, e colle nostre mani palpammo di quel Verbo di vita…. lo annunziamo a voi » (II Giov. v. 12).

« Molte cose avendo ancora da scrivervi, non ho voluto (farlo)  con carta e inchiostro, ma spero di venire a voi e parlarvi a bocca a bocca! » (III Giov. v. 13).

« Vi do lode, o fratelli, perché in ogni cosa vi rammentiate di me; e quali ve le ho date ritenete le tradizioni (I. Cor. XI, 2).

« O fratelli, vi preghiamo, vi scongiuriamo pel Signore Gesù, che conforme avete apparato da noi, in qual modo camminar dobbiate e piacere a Dio, così pure camminiate, onde siate viepiù doviziosi. Imperocché voi sapete, quali precetti io vi diedi da parte del Signore Gesù. » (I Tess. IV, 1,2).

« State dunque costanti, o fratelli, e ritenete le tradizioni che avete apparate o per le nostre parole, o per la nostra Lettera. » (II Tess. II, 14).

« Abbi dunque in memoria quel che ricevesti e udisti, e osservalo. » (Apoc. II, 14). Che te ne pare? Di più, sta scritto:

62. « Le prime e le ultime gesta di Davidde re sono scritte nel libro di Samuele profeta, e nel libro di Nathan profeta, e in’ quello di Gad profeta.» (I Paral. XXIX, 29) — « Il rimanente poi dei fatti di Salomone primi ed ultimi, sono scritti ne’ libri di Nathan profeta, nei libri di Ahìa Silonite, e anche nella visione di Addo. » (2 Paral. IX, 19).

« Salomone pronunziò tre mila parabole, e le sue canzoni sono mille e cinque. » (III dei Re, IV, 32). – Ora di queste mille e cinque canzoni non resta che la Cantica divisa in otto capitoli, onde al più, può contenere otto canzoni; tutto il resto è perduto. Delle tre mila parabole non ne resta che una piccola parte nel libro de’ Proverbi, cioè dal Capo X, alla fine: il resto è perduto. I libri dei Profeti Nathan, Gad, Ahìa e Addo sono affatto perduti. Sono egualmente perdute due Lettere di S. Paolo, una a’ Corinti, l’altra ai Laodicesi, delle quali fa menzione il medesimo Apostolo. (I Cor. V, 9) Come dunque supplire a tanta perdita senza la Tradizione? È dunque necessario ammettere la Tradizione non solo per conoscere la parola di Dio non scritta; ma anche per non subire l’intera perdita della Scrittura Santa smarrita.

63. Prot. È scritto; « Or io, fratelli, ho rivolte queste cose, per una cotal maniera di parlare, in me ed in Apollo, per amor nostro: acciocché impariate in noi a non esser savi sopra ciò che è scritto; affine di non gloriarvi l’uno per l’altro contro ad altrui.» (I Cor. IV, 6 – Traduzione del prot. Diodati).

Bibbia. L’originale dice così: Acciocché impariate in noi a non sentire (voi) di sé sopra quello che è scritto. La Versione Siriaca così si esprime: « Acciocché impariate per mezzo di noi a non sentire di voi più di quello che è scritto. » Lo stesso è il senso della Volgata, spiegato nei versetti che seguono. Che però questo testo non è a proposito; mentre dal medesimo è chiaro, ed anche più dal contesto, che ivi l’Apostolo non parla affatto di Scrittura per rapporto alla Tradizione; ma unicamente rintuzza l’orgoglio di certi sacerdoti, che si gloriavano l’uno per l’altro contro ad altrui, cioè, si credeva ciascuno ad ogni altro superiore per la diversa qualità del maestro che aveva avuto; onde dicevano: io sono di Paolo: e io di Apollo: e io di Cefa, etc. Quindi l’Apostolo li richiama al dovere, dicendo loro che imparino dall’esempio di lui e di Apollo a non sentire di sé più dì quello che è scritto, cioè a non credersi più di quello che di essi è scritto nel principio dello stesso Capitolo, ove ai medesimi dirette sono le seguenti parole. « Così noi consideri ognuno come ministri di Cristo e dispensatori de’ misteri dì Dio. »

Prot. Sta scritto: « Non aggiugnerete né toglierete alla parola che io vi annunzio. » (Deut. IV, 2) « Fa’ in onor del Signore solamente quello che io ti prescrivo, non aggiungere, e non levare. » (Ivi, XII, 32).

« Protesto a chiunque ascolta le parole dì profezia di questo libro, che se alcuno aggiungerà a queste cose, porrà Dio sopra di lui le piaghe scritte in questo libro. E se alcuno torrà qualche cosa dalle parole di profezia di questo libro, torrà Dio la porzione di lui dal libro della vita. » (Apoc. XXII, 18, 19). Questi passi furon sempre da me riguardati come decisivi in favore della mia causa: ma ora confessar debbo che a nulla mi giovano; imperocché « Questo detto (aggiugnere, ec.) non ripugna né alle tradizioni che interpretano la Scrittura, né ai precetti umani conformi alla legge. Diminuire altro non è che non fare ciò che è comandato: Aggiungere altro non che è fare altrimenti di quello che è comandato. » (Ugone Crozio: Critici sacri, T, 2, Annt. Super hæc Loc.).

Opponevo ancora i seguenti, l.° « Perché trasgredite il comando di Dio per la vostra tradizione? » (Matt. XV, 3)

« 2.° È paruto anche a me, dopo aver diligentemente rinvergato dall’origine il tutto, di scriverlo a te a parte a parte. » (Luc. I, 3).

Ma questi pure a nulla mi giovano; perché nel primo, « Si parla di usi umani, di tradizioni contrarie alla legge divina. » (Kuinoel: Comm. in Matt. In hunc Loc.). – Il secondo, « non deve prendersi in senso stretto, essendo nolo che molte cose sono negli altri Evangelisti, le quali non sono in S. Luca. » (Il medes. Comm. in libros hist.)

64. Bibbia. Cessa dunque di combattere la Tradizione, altrimenti, oltre quanto ti ho detto circa i danni che te ne avverrebbero, perderai affatto tutta la Santa Scrittura; poiché non puoi avere altro mezzo per conoscere che la Scrittura è parola di Dio, se non che la Tradizione.

Prot. Non sono in questo pericolo; perchè la Tradìzione riguardante l’autenticità dei libri Divini, l’ammetto ancor io. (Così i Protestanti detti Credenti.)

Bibbia. Ma o credi tu che la Chiesa nel proporre le divine verità è infallibile, ovvero che essa può ingannare. Nel primo caso obbligato sei ad ammettere tutte le tradizioni che ella propone e tiene per divine. Nel secondo obbligato sei a rigettarle tutte senza eccezione ed insieme con esse tutta la Santa Scrittura: perché non hai più sicurezza veruna che questa sia la parola di Dio.

Prot. Ammetto ancora altre tradizioni, ma non già delle verità primarie, ossia necessarie alla salute; perché queste sono tutte registrate nella S. Scrittura. (Così vari autori dei medesimi).

Bibbia. Di ciò ti smentiscono i testi che ti ho citati: che se non ti bastano, ascolta ancora S. Paolo. « Ed io, o fratelli, non potei parlare a voi come a spirituali, ma come carnali. Come a pargoletti in Cristo, vi nutrii con latte, non con cibo; imperocciocché non ne eravate capaci: ansi nol siete neppure adesso. » (I Cor, III, 1, 2). – Capisci il significato di queste parole? Se nol capisci, lo capirai dalle seguenti.

« Tu dunque, figliuol mio…. le cose che hai udite da me con molti testimoni, confidale ad uomini fedeli, i quali saranno idonei ad insegnarle anche ad altri. » (II Tim. I, 1, 2) Hai capito?

65. Prot. Stringenti sono le vostre ragioni: ma come ha potuto mantenersi nella Chiesa per tanti secoli, ed essere a noi trasmessa illibata, incorrotta una Tradizione tanto estesa, quale è la cristiana? Ciò è cosa impossibile. (Ultimò rifugio a cui si appigliano i protestanti).

Bibbia. Come ciò abbia potuto avvenire, te lo dice S. Paolo. Ascolta.

« Tieni (o Timoteo) la forma delle sane parole che hai udite da me con la fede e la carità in Gesù Cristo. Custodisci il buon deposito PER MEZZO DELLO SPIRITO SANTO CHE È IN TE. » (II Tim. I, 13, 14) Hai capito? Ha potuto mantenersi e si manterrà sempre illibata, incorrotta, per l’assistenza dello Spirito Santo che non abbandona mai la sua Chiesa.

66. Prot. « La Riforma (protestante), considerata nella sua pienezza, riconobbe ed ammesse l’appello alla Tradizione; quantunque non abbia riconosciuto l’infallibilità di singoli i Padri, e dei Concilj. Se si rigetta l’autorità degli antichi si apre la porta al deismo; perché la ragione, emancipata da ogni freno, passa a considerare la Bibbia come un’umana produzione, e a rigettare, o adottare ciò che le piace. Quindi, siccome la facoltà di raziocinare varia nei diversi individui, alcuni aggiungono, altri tolgono al Canone della Scrittura. Si porta fuori il testo come pieno d’interpolazioni, di errori, di assurdità. Si accusano i Sacri Scrittori d’ignoranza, di contraddizione e di fraudolenza: e ne segue la legittima inevitabile conclusione, che la Cristiana Religione non sia rivelazione: che Cristo non sia stato che un filosofo: e che l’uomo abbandonato sia alla sua ragione, ed a’ suoi meriti quanto alle sue speranze, alla salute!… Insomma, se si rigetta in questo fatto la testimonianza dei primitivi Dottori cristiani, si distruggono tutte le prove esteriori della Religione Cristiana. Cercano alcuni confondere la Tradizione col mezzo che a noi la fa pervenire; ma a tutti i loro argomenti noi rispondiamo che non ci appelliamo a’ Padri come a scrittori ispirati, ma come a idonei testimoni della fede che professavano i Cristiani di quell’età. » (Palmer. Tratt. della Chiesa, vol. 2, part. 3 Pref. p. 20). – La storia di Gesù Cristo non solo era conosciuta prima che scritta fosse nel Vangelo, ma tutta la Cristiana Religione era già creduta e praticata, quando ancora scritto non era alcun Vangelo. Si recitava il – Pater – prima che si leggesse nel Vangelo di S. Matteo; si usavano nel Battesimo le parole prescritte da Gesù Cristo, prima che gli Apostoli l’avessero scritte. » (Lessing, op. postuma teologica).

« I maestri dei primitivi Cristiani erano gli Apostoli, e uomini apostolici, e dalla loro bocca ammaestrati, si avevano essi assai presto procacciata la scienza de’ precetti della dottrina cristiana, e mentre non avevan forse neppure incominciato a leggere i libri divini. » (Griesbach, Curæ in historicam testus græci N. Test. P. 42)

« Il pensiero degli Apostoli, scrivendo e indirizzando le Epistole, non fu quello di manifestare a parte a parte tutti i dogmi necessari. Scrivendone, non facevan per altro modo che per via d’incidenza presentandosene loro il destro favorevole. E sebbene parlassero, come di passaggio, qualche poco dei dogmi fondamentali della fede; nientedimeno essi sapevano bene che il rimanente dei dogmi sarebbe stato di leggieri appreso per l’usanza delle Chiese da esso loro fondate. » (Grozio, Epist. 582, edict. 1763). Gli Apostoli, dunque, non insegnarono soltanto in iscritto, ma anche  a voce, e prima a voce che in iscritto, siccome la religione ne’ primi secoli fu propagata colla sola Tradizione: e Gesù Cristo medesimo né scrisse, né comandò di scrivere, ma di predicare. E narrano gli antichi presso gli Indiani, che le Chiese del1’Asia furono senza Scrittura per anni cento. » (Il medes.. Ad Consult. Cassandri. Opp. T 3, p. 688)

« Vivente Ignazio, il discepolo degli apostoli, con si buone salde credenze si vivevano i Cristiani, che orano già troppo per loro le semplici parole dei Vescovi;  né mi penso che fosse mai lecito di prendere in mano la Scrittura, e ricercarvi delle prove sopra quello che avevano udito. Tanto si stimavano i Vescovi, che ognuno gli avrebbe presi in iscambio degli Apostoli. » (Lessing, Opera postuma cit. p. 55).

« Falsa cosa ella è, e a torto intesa, il ricevere i libri biblici e la Sacra Scrittura, quasi contenessero e gli uni e l’altra completamente la Religione Cristiana. Frammenti venerandi essi sono e degni di ogni stima, i quali ci presentano alcune maniere d’insegnare adattate a quei tempi, non che parecchi punti della medesima Religione, ma nulla più. » (Tiestrunk, Critica del dogma cristiano protestante. 1799. T. I . Pref.). La Bibbia non è sufficiente a comporre e ordinare un sistema di religione, e chi ciò volesse tentare farebbe opera vana, o per lo meno di effetto dubbioso. E che ciò sia vero l’han ben dimostrato da ogni lato i Biblici [protestanti), i quali han cavato dalla Bibbia i loro dogmi pressoché sempre contraddittorii; perseguitandosi poi tra loro di continuo, e dandosi scambievolmente la taccia di eretici, e l’un l’altro offendendosi colle armi dell’autorità della Bibbia. (La Gazzetta Letteraria (protestante) di Iena, 1821, N. 48). Si aggiunga che i primi i quali statuirono un tal principio furono i nemici detta divinità di Cristo, ovvero, che è il medesimo, gli Ariani » (Il Foglio periodico –protestante- La Concordia, 1828, N. 48.)

« Non posso non udir di buon grado le voci concordi dell’intera antichità, le quali mi ripetono all’orecchio, come già i novatori giovandosi del nome di tradizione caduto in tanto odio tra loro, abbian voluto troppo assai cose gettare a terra. A questa tolsero eziandio quella divina autorità che pure si gode, secondo estima Ireneo, quella divinità, dico, che essi attribuiscono alla sola Scrittura. » (Lessing, Risposta agli errori del tempo).

« I principii d’Ireneo senza più stabiliscono si avesse la Tradizione vocale dogmatica per fonte autorevole ed autentica del conoscimento della verità; questo e non altro ne fosse il senso, come tale i fedeli ne usassero, e stessero pure agli scritti degli Apostoli. Conciossaché Ireneo, confutando la dottrina degli eretici, la dimostra contraria alla tradizione dogmatica vocale, che nata a’ tempi degli Apostoli, da quel tempo in poi nelle Chiese Apostoliche si era purissimamente conservata. » (Feder Muenter, Vescovo Luterano di Selanda in Danimarca: Compendio istorico de’ più antichi dogmi della Chiesa, 1802.). – « È fuor di dubbio che aver debbono eguale autorità tanto quelle cose che gli Apostoli scrissero, quanto quelle che dissero. Agostino ed altri credono istituite, o approvate dagli Apostoli quelle cose che in tutta la Chiesa furon sempre ricevute senza l’autorità de’ Concilj Generali…. Del resto anche quelle cose che credono i protestanti non sono tutte letteralmente nella Scrittura. Dicono che non debbono ammettersi le conseguenze, ma essi spesso le ammettono secondo il privato sentimento di ciascuno; onde le tante e tanto grandi discordie tra essi, e le quotidiane separazioni…. I Cattolici poi ammettono quelle conseguenze che ammesse furono dall’antica Chiesa con antico universale consenso, e cosi ogni parola è confermata da due testimoni – dalla Bibbia e dalla Tradizione – che con mutua face s’illuminano. Imperocché alle Scritture crediamo per testimonianza della Chiesa, come rettamente disse Agostino, cioè in forza delle tradizioni: e la Scrittura comanda le apostoliche tradizioni,… e la Tradizione interpreta la Scrittura. » (Ugone Grozio, Ad consultationem Cassandri, I . 3, p. 688.)

« Arbitrando e giudicando a sua posta Lutero, si affaticò dattorno al Cristianesimo, e malamente ne conobbe lo spirito. Gittò in mezzo un’altra religione, un’altra lettera, che vuol dire, la sacra autorità, o meglio, l’autorità universale della Bibbia, per le quali s’intramise nelle faccende, e negli officii di religione un’altra scienza, avvegnaché sommamente estranea e terrena, cioè la filosofia, la quale, come ben si pare, ha una potenza di distruzione maravigliosa. I Riformatori han messo del tutto in non cale le difficoltà che sono state loro fatte, e ne han dimenticato le necessarie conseguenze. » (Novalis, Opere varie, 1826).

« Ricercando ora questa ora quell’altra cosa, come insino adesso si è fatto, ne segue che i protestanti, perché contrari alla Tradizione, hanno una mentita dalla storia pura e libera da falsità. Mal non si appone la Chiesa Cattolica dicendo essere stata la Tradizione in grande onoranza presso i primitivi Cristiani » (Muescher, Compendio istorico della. Religione, T. I , p. 344)

« Ricever la testimonianza della Tradizione in un caso, secondo che piaccia, e rigettarla in un’altra congiuntura, come che ugualmente chiara e universale, egli è questo un rinnegare tutti i principii, e dare altresì un segno d’incostanza e malizia senza pari. » (Reeve, Les Apologies: T. I. Sul vero uso de’ Padri della Chiesa, p. 48.).

« Se insistiamo noi sulla incertezza della Tradizione in generale, ciò può produrre conseguenze assai serie, perché, l’autorità e genuinità dei libri della Scrittura riposano in grado non poco considerabile sulla testimonianza della Tradizione primitiva. » (Palmer Op. cit.p. 20).

« Quegli, il quale per niuna guisa vuol ricevere la conforme testimonianza delle antiche Liturgie, né de’ Padri della Chiesa, né dei Concilj, può egualmente rigettare l’autorità degli Scritti rivelati, il battesimo dei bambini, ed altrettanti cose, non che la natura divina di quel Signore e Redentore Nostro, che è Gesù Cristo, e gittare siffattamente di un colpo la fede e la Chiesa. » (Hibes il Sacerdote Cristiano, T 1)

« Negata la Tradizione, non vi ha più strada, per difficile che sì voglia, a dichiarare parola di Dio il Vecchio ed il Nuovo Testamento. » (Collier, Giustificazione de’ motivi, e difesa delta rivelazione, T. 1)

Bibbia. Perché mai, con tali persuasioni, osi combatter si alacremente la Tradizione divina?

Prot. « Perché, se si fa valere la Tradizione, non vi ha dubbio che la Chiesa Cattolica, la quale a lei si appella, abbia vinto la causa. » (Tzschirner, Lettere teologiche: 1820, p. 29).

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (59)

GNOSI TEOLOGIA DI SATANA (59)

[Augusto Nicolas: L’ARTE DI CREDERE, Parma, P. Fiaccadori, 1868- vol. II]

CAPO V. (3)

§. III.

Ho detto, in terzo luogo: all’incomprensibile il Teismo ed il Deismo aggiungono l’inconcepibile, al vero il falso; e la lotta che ferve tra il vero ed il falso, tra l’incomprensibile e l’inconcepibile non permette di arrestarvisi; bisogna retrocedere all’Ateismo, od inoltrarsi fino al Cristianesimo.

I . Il Teismo accoppia due cose, che si escludono: Dio presente nella natura, ed assente nell’ umanità: Dio Provvidenza infinita nel meccanismo dell’universo a principiare dai mondi fino all’ ultimo insetto, e formante delle creature per tormentarle nell’ordine umano, il solo che abbia la coscienza di Lui, e che lo glorifichi. Questo concetto è orribile ed assurdo, dice Voltaire, ma cosa volete? « Se vi si porge la prova d’una verità, forse che queste vien meno, perché trae dopo di sé delle conseguenze inquietanti »? La massima è buona, ma non se ne deve abusare; sarebbe un oltrepassare i limiti della fede, e mai noi Cristiani immetteremmo dei dommi, che riuscissero a ributtanti conseguenze. Ce lo vieta la nostra fede medesima. Osservate infatti, dove si giunge per quella via. La stessa ragione, che afferra la prova d’ una verità, disgustata dall’assurdità delle conseguenze, non ha maggiori cause di credere a queste, che non ne abbia per credere a quella. Voi credete in Dio, perché l’universo vi imbarazza; ma l’idea di questo stesso Dio carnefice dell’umanità vi rivolta; il che equivale a dire, che voi siete posti fra un’assurdità da evitarsi, ed un’assurdità da accogliersi. Diciamolo schiettamente, l’alternativa è difficile; qualunque partito voi prendiate non può che essere falso, e temo assai che non sia guari durevole. Il Teista si decide per assurdità dell’umanità senza Provvidenza, o piuttosto vittima della Provvidenza. che regge l’universo. – Almeno Voltaire, che qui considero siccome capo di si fatta dottrina, avesse lottato contro tale mostruosità Ma no: egli invece se ne diletta e se ne fa il campione. Sotto ogni aspetto, romanzo, teatro, storia, poesia, dizionario, corrispondenza, scritti anonimi, egli fu il detrattore ostinato della Provvidenza. Egli si compiacque di rappresentare, raccontare, cantare, fischiare, schernire l’umanità giuoco d’ogni follia e d’ogni delitto, in un orribile e satanico miscuglio di disordine e d’impunità. Certo che la sua immoralità giustifica il suo giudizio, ma non si può negare che questo era proprio il servitore di quella. Figuratevi un tale, che assista ad una rappresentazione di Rodoguna o di Andromaca, e che non vi distingua altro che portici, palagi, appartamenti, lumiere, i mobili insomma che servono alla decorazione, e riguardo all’azione altro non veda che gente intenta ad entrare, ad uscire, ad ingiuriarsi, a battersi, e ad uccidersi senza ragione e senza scopo. Così suole il Teista ravvisare le cose umane. Dio non è per lui che il meccanico decoratore del teatro di questo mondo. Quanto alla rappresentazione che vi si dà, siccome non ne afferra l’intreccio, egli ne contesta il disegno; non vedendo che l’orribile e l’assurdo se ne accontenta. Quello stesso buon senso, che lo fa concludere dall’oriuolo meccanico all’oriuolajo, dovrebbe pure farlo concludere dall’oriuolajo all’ oriuolo morale, c farlo passare dal Teismo al Deismo. Dovrebbe pure comprendere la divina ragione, e la bellezza di questa parola: Avvisate, come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; e pure io vi dico che Salomone stesso, con tutta la sua gloria, non fu vestito al pari dell’un di loro. Or se Dio riveste in questa maniera l’erba dei campi, non vestirà egli molto più voi, o uomini di poca fede? (Matt. VI, (28, 29) » — « Cinque passeri non si vendono elle due quattrini? e pur niuna di esse è dimenticata appo Iddio. Anzi eziandio i capelli del vostro capo sono tutti annoverati. Non temiate adunque: Voi siete da più di molte passere (Luc. XII, 6, 7). »

Ma no. Il Teista non si solleva fino a questa fede, fino a quest’altra ragione. Egli resta nell’assurdo del Dio-Carnefice; e così io dico che ricade nell’Ateismo, anzi al dissotto dell’Ateismo, dappoiché nega Dio nella più bella parte dell’opera sua. È l’Ateismo nel secondo grado; ancora più inconcepibile in un certo senso dell’Ateismo nel primo. Né può sfuggire a questa conseguenza salvo passando al Deismo, che è la fede in Dio-Provvidenza.

II. Assicuriamo questo secondo passo verso il Cristianesimo. Ogni uomo porta con sé un testimonio vivente della Divinità: la coscienza: anche questo è un oriuolo che rivela ma oriuolajo; tanto poi che, in uomini, ond’è che esiste una coscienza generale ed universale nell’umanità. Essa parla cosi altamente, che lo stesso Voltaire fu costretto a darle retta:

La morale uniforme en tout temps; en lout lieu,

A des sìècles sans fin parle au nom de ce Dieu.

C est la loi de Trojan, de Socrate, et la vótre,

De ce culte éternel la nature est l’apòtre.

Le bon sens la recoit: et les remords vengeurs,

Nés de la conscience, en sont les défenseurs;

Leur redoutable voix partout se fait entendre. (1)  

(1) Voltaire, Poema sulla Legge naturale;

L’uniforme moral, per tutto, sempre,

Agl’infiniti secoli favella

D’Iddio nel nome. È di Trajan la legge.

Di Socrate, di voi. Eterno culto,

A cui natura è apostolo, s’accoglie

Dal retto senso; e i vindici rimorsi

Da coscienza nati, in sua difesa

Alzan dovunque la terribil voce.

Questo oriuolo, è vero, si guasta sovente, e pochi uomini si danno, nei quali sia ben regolato. Ma donde ciò? Da due distinte cagioni: l’una delle quali basta a confondere il Teista, mentre mi riservo di adoprar l’altra contro il Deista. La prima, che trovo qui sufficiente, consiste nella apparizione nella sfera umana d’un elemento superiore, totalmente estraneo al meccanismo dell’ universo: la libertà, o piuttosto il libero arbitrio, che nel suo esempio può avere per conseguenza il disordine nel generare un ordine sovreminente. Quindi è che il disordine stesso nell’umanità si riferisce a un principio di superiorità nell’universo: alla moralità. Se d’altronde quel disordine, in ogni uomo, non impedisce di sentire il testimonio della coscienza, come non vedremo noi lo stesso testimonio nell’umanità, che altro non è se non l’uomo collettivo? Come non ci eleveremo noi da quel testimonio al suo oggetto: Dio, Provvidenza dell’umanità? – Quindi è che in ogni tempo l’umanità ne fu profondamente penetrata. Udite quei religiosi accenti, che rimbombavano nel teatro d’Atene! — « Dentro di me si trova un gran Santuario, dove la legge della giustizia pronuncia i suoi oracoli (Euripide, Elettra) ». — « Su via, coraggio, mia figlia, nel cielo vi è quel Dio supremo, che considera tutte le cose, e le governa; affidati in Lui per ciò che infiamma la tua collera (Id. Elettra) ». — « Non ne dubitate, la Divinità ha degli occhi sull’uomo pio; quindi gli empi non si sottraggono al suo sguardo, e niuno di loro potrà scampare al celeste castigo (Sofocle). » — « Le prosperità non hanno la loro sorgente in noi; Dio le ripartisce, qui elevando gli uni, là riconducendo gli altri sotto la misura delle sue mani sovrane (Pindaro, Pitiche; ode 8) ».

III. Lo stesso disordine che si produce quaggiù deve riportarci all’idea della Provvidenza. Partendo infatti dalla coscienza, che si direbbe il freno dell’anima, c’è luogo a vedere, nelle leggi della giustizia e della verità, che vi si acconciano così bene, e vi si fanno sentire certe redini, che risalgono ad una mano sovrana, che le sostiene e le modera a suo grado. A suo grado no, perché sono fluttuanti, e la nostra libertà ci permette di scuoterle, così che ne deriva poi quel disordine apparente, ed in un dato senso anche reale. Ma se in quel disordine vi sono dei delitti, vi sono pure delle virtù, le quali non sussisterebbero senza la libertà che quei delitti permette. In secondo luogo il delitto, anche quaggiù, non va interamente impunito. La pena lo seguita, in distanza è vero, e con pie’ zoppicante; ma finisce per raggiungerlo tosto o tardi, o dentro o fuori: non è che una questione di indugio; e se il delitto è disordine a suo riguardo, la pena è ordine rispetto al delitto. Oltracciò Dio si serve dei delitti sia per mettere alla prova la virtù, sia per punire i delitti medesimi. Egli fa il suo ordine col nostro disordine; e chi avesse lo sguardo vasto abbastanza e penetrante, per seguitare e comprendere tra mezzo alle innumerevoli implicazioni dell’azione umana, quell’azione divina che opera nella nostra e per mezzo della nostra, sarebbe compreso da grata meraviglia per l’ordine profondo ed immenso che ricupera e produce lo stesso disordine. Quel soldato che si perde nella mischia, e lotta nello stretto limite d’un lembo di terra, altro non vede che confusione nella battaglia, mentre il generale dall’altura dove domina e dirige tutti i movimenti, li scioglie da quella confusione apparente, li combina, e li riferisce ad un piano di campagna, che la vittoria finale non tarda a giustificare.

IV. Queste spiegazioni sono tuttavia incomplete, ed il Deista deve elevarsi più in alto. Dato infatti, che il disordine sia soltanto apparente, questa medesima apparenza diventa un disordine, il quale, almeno in parte, è realmente tale. L’ordine, considerato

come giustizia completa, in relazione al merito od al demerito, è sospeso dall’azione della libertà che li produce. L’ultima parola delle cose non può dunque proferirsi quaggiù. Lo scioglimento dell’intrigo di questo mondo deve esistere altrove. Anche tutte quante le spiegazioni da noi emesse svanirebbero in quel caos di disordine, che provoca tanto lo scandalo dell’empio, se non spuntasse anche il giorno della Giustizia sovrana ed assoluta dopo quello della nostra libertà. L’ordine temporario non esiste anzi che relativamente a quel giorno, il quale nella voce della coscienza trova soltanto dei preludj e delle dilazioni; quel gran giorno, in cui la Giustizia raccorciando le redini della nostra libertà, e restituendo definitivamente il mondo alle sue leggi, si convertirà in giudizio. La fede in questo giudizio, e nella vita futura, dove si compirà, è il corollario obbligato della fede nella Provvidenza, e nella Giustizia medesima. Cosi si chiarisce per mezzo della fede l’inevitabile mistero della natura delle cose. Questo mistero, abisso di tenebre e di contraddizioni per l’Ateo, si chiarisce di già per opera della fede in Dio, intelligenza ordinatrice dell’universo; ma si chiarisce più ancora per opera della fede in quello stesso Dio Provvidenza degli uomini, e Giudice delle opere nostre in un ordine superiore. Progredendo nella fede noi progrediamo pure nella luce.

V. Facciamo un passo ancora, un passo che è necessario, se non vogliamo ricadere nelle tenebre; ed allora invece di essere deisti diventeremo Cristiani sotto pena di tornare atei, e di esclamare col più fervente deista: « L’Ente incomprensibile non è né visibile ai nostri occhi, né palpabile a alle nostre mani; opera si manifesta, ma l’artefice si nasconde: Non è un piccolo affare di conoscere finalmente che esiste (G. G. Rousseau, Emilio, lib. III). » – Imprigionato nella natura, Dio lo è parimente nella umanità, dove maggiormente si rivela per quella Provvidenza che lo mette in relazione col nostro destino, ma in altro senso è più oscurato dal disordine risultante dalla stessa libertà, che è l’anima di quella relazione, di guisa che ne deriva un’accusa contro di lui, che non si trova al suo posto. Il Deista crede in Lui, ma credendovi agisce come se non vi credesse. Non gli rende un culto effettivo, capitale, assoluto, e quale conviensi ad un Ente cosi grande; il perché Egli è più inconseguente del Teista, che è più inconseguente dell’Ateo. Ci va dell’Ateismo al terzo grado. – Ed invero che cosa è mai un Dio, che non si riconosce che speculativamente; che si calcola per niente nella nostra vita mentre dovrebbe costituirne l’essenza? Un Dio, verso del quale noi non proviamo né riconoscenza, né rispetto, né amore, né timore? Un Dio, lungi dal quale i nostri pensieri, i nostri desideri, i nostri affetti, le nostre volontà corrono alla ventura, senza che Egli le ispiri, le diriga e le accolga; un Dio, che non occupando il primo posto non può averne alcuno nel nostri spiriti e nei nostri cuori? Questo Dio non è che un sole, cui si tolsero i raggi, lo splendore, il calore, ed ogni influenza, sicché non manda nelle alte sfere del cielo che uno spettro di luce, il quale meglio della presenza dell’astro, ne dimostra l’inanità. Nello stato normale delle cose noi dovremmo amar Dio, come amiamo le creature, i beni, i piaceri, noi stessi; e se non transigessi, direi anzi, che noi dovremmo amarlo sopra tutto, sino al dispregio di noi medesimi e di tutte le cose. L’umanità dovrebbe offrire lo stesso spettacolo dell’universo, conformandosi alla ispirazione divina altrettanto perfetta di quella che lega la natura all’azione del suo Autore, il quale non è meno Padrone di noi, che della natura. Dio dovrebbe stare nel centro del mondo morale come il Sole d’un sistema, dove le nostre volontà, ottemperando all’attrazione del suo amore, girerebbero nell’orbita della sua giustizia, siccome gli astri in quella della loro gravitazione; ma con una libertà di allontanarsene, che non hanno gli astri, e che sarebbe una armoniosa fedeltà quando vi soggiacesse. Tale era lo stato dell’uomo primitivo. A fronte di questo ideale, che la ragione concepisce logicamente, che debba essere il vero dell’ordine delle cose, bisogna convenire che il mondo umano presenta un disordine orribile, una assenza di Dio spaventevole, una diminuzione di libertà pericolosa, una impotenza di riabilitazione disperata; e ciò che è più lamentevole, una ignoranza ed una insensibilità, riguardo a questo stato, che ne svela tutta la profondità. – Ciò solo dovrebbe farci supporre una grande deviazione originale, e farci concepire il bisogno d’una grande riparazione; da una parte l’invasione del male, possibile in ragione dell’imperfezione della nostra natura creata, e permessa come conseguenza eventuale della nostra libertà; dall’altra un intervento di Dio interessato dalla sua giustizia alla ripartizione dell’ordine, e disposto per la sua bontà a soccorrere la sua creatura caduta nel disordine. Questa soluzione si presterebbe per liberare l’anima da quel tremendo enimma del male, che Voltaire qualificava come orribile ed assurdo, e del quale si faceva scudo contro il domma della Provvidenza, che lo risolve soltanto in modo imperfetto. Quel gran domma. per sostenersi, chiama a sé  qual corollario un intervento di quella stessa Provvidenza più adattato al nostro stato presente. La Provvidenza infatti ha potuto togliere il disordine, ma non potendo mai agire senza la nostra libertà, non ha impedito, che alla fin fine prevalesse a) punto di indiarsi da sé. – A fronte di tale rovescio, due partiti s’offrono dunque all’anima umana: o quello di accusare la Provvidenza, e per conseguenza Iddio, di cui è dessa l’attributo essenziale; oppure quello di credere al suo intervento sovrannaturale, ad una religione riparatrice del disordine umano. Da una parte si indietreggia nell’assurdo: dall’altra si avanza nella tace. Il primo partito ci piomba ancora nel caos d’impossibilità tenebrose e desolanti; il secondo ci disvela il piano raggiante e consolatore del nostro destino.

VI . E come si fa a non abbracciare questa credenza, allorquando, indipendentemente dalle prove innumerevoli che la giustificano, si regge da sola sulla base universale del genere umano! infatti il genere amano ha sempre portato nel suo sena i peso ereditario d’una caduta primitiva, derivante dall’uso funesto di quella grande libertà di merito e di demerito, che ogni giorno fa ancora cadere ognuno di noi. Ma in pari tempo ne ha sempre trovato il contrappeso nella espettazione d’un Redentore divino, che sarebbe venuto a sollevarlo, e sarebbe disceso nell’arena della nostra libertà per ripararne il disordine, e per dedicarsi alla nostra aalvezza con un amore infinito, al pari della sapienza che si rivela nell’ ordine generale dell’universo. – Siffatta credenza s’incontra dovunque nel mondo, e risale alla culla del genere umano. Noi ne abbiamo prodotto delle imponenti testimonianze nei nostri Studi. Eccone una affatto nuova, né mai stata dianzi enunciata. È la storia, è la profezia della credenza cristiana tracciate non da Mosè, ma da Platone. Raccomando questa pagina all’intera attenzione del lettore.

« Nella prima età tutto nasceva da sé per gli uomini. Dio medesimo posto a capo dell’umanità la guidava. Quando questa prima età ebbe a finire, colui che regge questo universo lo abbandonò alla sua libertà, e si ritrasse come in un luogo d’osservazione. Ma il mondo secondando una inclinazione innata, traviò sempre più, e fino al punto di esporsi al pericolo d’una intera distruzione. Allora colui che lo ha formato vedendolo in quella estremità, e non volendo, che assalito e disciolto dal disordine s’inabissasse nello spazio infinito della dissimiglianza (Espressione ammirabile, dappoiché l’umanità venne creata ad immagine e rassomiglianza di Dio. Dio tornando al timone, ripara ciò che si alterò e si distrusse, imprimendo di bel nuovo quel movimento, che si era dapprima compiuto sotto la sua direzione, ordina il mondo, e lo salva dalla morte. — È questa, soggiunge Platone, una delle antiche tradizioni (La Politica o Regalità,  t. XI. p. 337). » – Certo che questa tradizione è incompleta e logora, anche per causa di quel disordine al quale si riferisce; e lo stesso Platone lo confessa ingenuamente. « Quei prodigi, egli aggiunge, si riferiscono ad uno stato identico di cose, e sono con mille altri ancora più sorprendenti. Ma a cagione del lungo trascorso del tempo gli uni caddero nell’oblio, e gli altri staccati dal nesso che formavano si raccontano separatamente; » come sarebbe il ricordo della caduta originale sotto l’allegoria di Pandora e di Prometeo. Sta sempre in fatto, che noi abbiamo in quel passo di Platone un prezioso testimonio della credenza del genere umano in una prima ed in una seconda rivelazione, in un intervento sovrannaturale di Dio per riformare, ordinare il mondo, ed affrancarlo dalla morte.

VII. Tutto il genere umano visse di questa credenza senza sapere nel suo traviamento dove collocarne l’oggetto, e se ne figurò mille immagini fantastiche sino al giorno, in cui correndo verso la fine il pericolo di una intera distruzione, il mondo vide comparire al tempo prefisso il suo Salvatore. Nella sua corruzione, e nella sua follia lo disconobbe, e si sollevò anzi contro di Lui in ragione della sublimità dei caratteri, che dovevano ben tosto rivelare in Lui il Principio d’una perfezione morale paragonabile a quella che rivela Dio nella natura; perfezione questa tanto prodigiosamente mantenuta, che introdotta nel disordine di questo mondo per restarvi sempre quale fonte inesausta di risorgimenti morali, qual tipo inalterabile del Bene, qual regolatore infallibile di Giustizia, qual centro d’ispirazioni eroiche, qual punto immutabile di verità, e finalmente qual Principio d’ordine, che non solamente vieta al disordine di prevalere, ma non permette mai che si produca senza stimmatizzarlo in fronte. – Il Cristianesimo ha precisamente avverato, nella nostra condizione scaduta, quell’ideale d’ordine che noi tracciammo poc’anzi. Gesù Cristo nel mondo è il Sole di giustizia e di verità, i raggi del quale già sparsi e rotti in mille pezzi e mille riflessi, derivando oramai dal loro unico centro, illuminano e vivificano tutta la natura spirituale. Esiste un centro d’azione rigeneratrice per mezzo d’una forza sovrannaturale, la quale non agisce sulla nostra libertà che per attrattiva: la Grazia. Bilanciando esso colla sua forza centrale le forze centrifughe delle nostre volontà trascinate dalla concupiscenza, ne fa gravitare un gran numero nella sfera della sua santità, con una fedeltà ed un progresso ammirabili; le fa ravvedere dei più lontani traviamenti; ravvicina, o trattiene una moltitudine d’anime sollecitate dalle lusinghe del male; agita con un salutare turbamento quelle medesime che non gli obbediscono; obbliga il disordine a rovinarsi da sé per mezzo d’un odio disastroso del bene, che ne provoca la reazione; finalmente trionfando del male nelle sue più scatenate rivolte, ed esercitando la sua azione sulla massa intera dell’umanità sino alle sue estremità le più remote, non le permette più di ritornare indietro, e la spinge innanzi nelle vie della vera civiltà. Esso giustifica per tal modo quei titoli, pei quali si è Egli stesso posto nel mondo nello entrarvi:

« Io sono il Principio; Io sono la Luce del Mondo; Io sono la Via; Io sono la Verità; Io sono la VITA ».

VII. Ecco il Cristianesimo, effezione sovreminente della relazione dell’uomo con Dio: Religione unica nella sua verità. – Ripigliamo la via ascendente, che là ci conduce. La Natura sensibile non stabilisce tra l’uomo e Dio che una relazione muta, cieca, fatale, indistinta, dove l’uomo è parificato a tutti gli altri esseri, sui quali si stende la Provvidenza universale, la sola che agisce. Se da questa Provvidenza della natura, alla quale si limita il Teista, si ascende a quella Provvidenza morale che regge l’umanità, si entra in una relazione più distinta con Dio, relazione di coscienza e di condotta, dove comparisce un nuovo elemento: la libertà umana, che viene a combinarsi coll’azione divina; relazione che costituisce il Deismo. Ma questa seconda relazione, per quanto superi la prima, è ancora insufficiente. Essa racchiude anzi un vizio di soluzione, dove il Teismo rifiuta di impegnarsi preferendo lo stesso enimma. È questo il gran disordine, dove Dio scompare dietro l’azione umana, e sembra esserne assorbito, nella stessa guisa che nell’ordine immutabile della natura l’uomo sparisce, ed è assorbito dall’azione divina: disordine che non spiega punto la libertà umana da sola; che accusa una grande deviazione in quella libertà; e fa appello ad una Restaurazione. – Il solo Cristianesimo intervenendo con un nuovo elemento, la Grazia, realizza completamente la relazione dell’anima con Dio. Accorda a quella relazione un punto d’appoggio, che senza assorbire l’uomo per mezzo di Dio come nella natura, senza assorbire Dio per mezzo dell’uomo come nell’azione divina e l’azione umana, una giusta proporzione di grazia costituisce la vera Religione nel suo tipo assoluto: l’Uomo-Dio. – In Lui unicamente tutte le verità del Teismo e del Deismo si risolvono, vanno al loro fine, e si giustificano completandosi. Il mistero che le copriva, e che metteva l’anima alle prese coll’inconcepibile, si chiarisce, socchiude i suoi veli, si spoglia di tutte le sue contraddizioni, e non conserva altro che l’incomprensibile. Questa nube medesima dell’incomprensibile dietro la quale Dio si mostra e si nasconde, tenta la ragione senza disanimarla, cede alla fede, rapisce l’anima colle celesti prospettive che essa vi scopre, la illumina coi raggi che ne derivano, e la rigenera coi tratti di grazia e cogli effetti di virtù che ne riceve. – Coroniamo questa rapida esposizione delle armonie razionali della nostra fede con un ultimo pensiero che basterebbe da sé solo ad esimerla da qualsiasi paragone con ogni altra dottrina, e con ogni altro concetto religioso. Mediante quella fede Dio riceve il solo omaggio, che sia a rigore degno di Lui per essere a Lui adeguato; un omaggio che non gli è reso né dai mondi, né dagli stessi Spiriti celesti, e che ogni adorazione umana sarebbe perciò impotente di rendergli, dappoiché tutto ciò è finito, e tale omaggio è infinito al pari di Lui, perché gli è reso da suo Figlio, e suo Eguale, da Gesù Cristo capo di tutto il culto, Pontefice – Dio di tutta la creazione. Il quale concetto è tanto sublime, che porta in sé l’impronta della propria divinità, e realizzato nella Chiesa giustifica questo detto già citato d’ un gran empio: « La Chiesa crede in Dio meglio d’ogni altra setta: essa è la più pura, la più completa, la più splendida manifestazione dell’Essenza divina; ed è la sola che la sappia adorare. »

Per colui che non è ateo, né panteista, per colui che crede in Dio non havvi dunque altro partito da prendere, come diceva ancora Proudhon, tranne quello d’essere Cristiano, e Cristiano Cattolico.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (60)