LO SCUDO DELLA FEDE (153)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (22)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE XVIII

Le Indulgenze.

118. Prot. Ammetto dunque ancor io, nel senso cattolico, la Sacramental Confessione, e se di questa si contentasse la Chiesa Cattolica per rimettere a nome di Dio gli umani reati, nulla avrei più che dire, saremmo interamente d’accordo. Se non che avida di temporali guadagni, ha tolto qualche cosa alla virtù del Sacramento della Penitenza, per formare un altro mezzo di perdonare, o per dir meglio, una bottega di traffico, che chiama indulgenza. Per arrivar poi al suo intento, professa ed insegna i seguenti errori: 1.° Che Dio perdonando le colpe, non sempre perdona tutta la pena temporale, ma esige dai peccatori una qualche temporale soddisfazione. 2.° Che essa ha in deposito un tesoro inesauribile composto dei meriti infiniti di Gesù Cristo e dei Santi, i quali meriti sono (dice) applicabili a’ peccatori riconciliati con Dio, a sconto di quella pena. 3.° Che a lei ha dato Gesù Cristo amplissima potestà di applicar tali meriti a’ fedeli per modo d’Indulgenza, a sconto totale, o parziale (secondo che le piace) della medesima pena! Ed ecco stabilite le Indulgenze: « le quali altro neon sono che sordidezze, imposture, furti, rapacità, una profanazione del Sangue di Cristo, un ludibrio di Satanasso, pel cui mezzo ritirano il popol cristiano dalla grazia di Dio, dalla vita che è in Gesù Cristo, e lo fanno traviare dal retto sentiero della salute. » (Calvino, lib. 4, Instit. cap. 5. §.2).

Bibbia. È scritto: « E Mosè disse al Signore:… Perdona, ti prego, secondo la misericordia tua grande, il peccato di questo popolo…. E disse il Signore: Ho perdonato secondo la tua parola. Coututtociò tutti quelli che hanno veduto la mia maestà… e non hanno obbedito alla mia voce, non vedranno la terra promessa da me con giuramento ai padri loro » (Nim. XIV, 11 e segg.) – Ecco dunque che Iddio perdona bensì agli Israeliti la colpa commessa, ma non perdona loro tutta la pena temporale dovuta per quella colpa. Tralascio per brevità altri chiarissimi esempj. Dipoi è scritto:

« Basta questo tale questa riprensione fatta da molti: onde al contrario voi usiate piuttosto indulgenza, e lo consoliate, affinché non sia per disgrazia assorto da eccessiva tristezza questo tale…. Or con chi avete usato indulgenza, la uso ancor io: imperocché io pure dove ho usato indulgenza, se qualcuna ne ho usata, per amor vostro l’ho usata IN PERSONA DI CRISTO (II Cor. II, 2 e segg.). In questo fatto espressamente dichiarato si vede quanto crede ed insegna la Cattolica Chiesa in ordine alle Indulgenze. Imperocché, l.° Qui vedi un peccatore già riconciliato con Dio, quanto alla colpa sua, e talmente pentito del fallo commesso, che ha bisogno di esser consolato per non essere oppresso da eccessiva tristezza. 2.° Un peccatore a cui restava ancora da scontare una parte della pena temporale dovutagli per quella colpa. 3° Un peccatore a cui S. Paolo rimette quel resto di pena per via d’indulgenza; e dichiara che la rimette IN PERSONA DI CRISTO – ἐν προσὼπῳ  Χριςου (en prosopo Xrisou-Vi ho aggiunto l’originale perché i protestanti non potendo rispondere a questo passo, lo hanno corrotto traducendo – AL COSPETTO DI CRISTO – invece d’ – IN PERSONA DI CRISTO). Con le quali parole, due cose espressamente dichiara, cioè: I. che gli rimette non già la soddisfazione dovuta alla Chiesa, (a cui avea già soddisfatto, come è chiaro dalla supplica fatta per lui, ma bensì quella dovuta a Dio; II. che gli concede quella Indulgenza per l’autorità ricevuta da Gesù Cristo, dicendo – IN PERSONA DI CRISTO, – indica una potestà più assoluta, più grande che se avesse detto – a nome o per autorità di Cristo. Indica insomma una potestà pienissima, amplissima, illimitata. Avendo di più premesso che altre volte concessa aveva simile indulgenza, con ciò apertamente dichiara che tal potestà non è straordinaria, ma è assolutamente ordinaria nella Chiesa di Dio, e perciò può farne uso ogni qual volta le piace.  – Ora essendo di fede che davanti a Dio non può rimettersi né colpa, né pena senza l’applicazione dei meriti, ossia soddisfazioni di Gesù Cristo, è parimente di fede che avendo Egli dato alla sua Chiesa tal potestà, le ha dato per conseguenza in deposito l’infinito tesoro delle sue medesime inesauribili soddisfazioni.

Prot. Se qui terminasse la cosa, nulla avrei più che ridire. Ma che vi hanno che fare le soddisfazioni dei Santi? I Santi hanno bisogno di soddisfare per sé: nulla loro avanza da dare agli altri.

119. Bibbia. Ascolta il Santo Giobbe.

« Volesse Dio che si pesassero sulla bilancia i miei peccati, pei quali ho meritato l’ira, e la miseria che sopporto! si vedrebbe questa più pesante che l’arena del mare. » (Giob. IV, 2) – Vedi dunque che i Santi soddisfano assai più di quello che han di bisogno; che per conseguenza molte soddisfazioni loro avanzano, singolarmente poi alla Madre Divina che tanto ha patito senza avere alcun bisogno di soddisfare per sé.

Prot. Sia pur vero; ma è vero ancora che le soddisfazioni de’ Santi giovano unicamente ad essi, né possono ad altri applicarsi. Questa è la mia ferma credenza.

Bibbia. Se questa è la tua ferma credenza, affrettati, condanna il Santo Giobbe, il quale

« alzandosi innanzi giorno offeriva olocausti per ciascuno di essi (dei suoi figliuoli). Perocché diceva: Chi sa che i miei figliuoli non abbian fatto del male? » (I, 5). Condanna S. Paolo, che dice:

« Ogni cosa sopporto per amor degli eletti, affinchè eglino pure conseguiscano la salute » (II Tim. II, 2 – Col. I, 24). Condanna finalmente Dio stesso, il quale disse a Salomone: « Perché questo (peccato) è stato in te…. io squarcerò e spezzerò il tuo regno, e darollo al tuo servo. Ma nol farò, vivente te, per amor di Davide tuo padre » (3 Reg. IX, 11, 12) Ma per venire più da vicino al caso nostro, sta scritto:

« E tu (disse il Signore al Profeta Ezechiele) dormirai sul tuo fianco sinistro, e porterai su di questo le iniquità della casa d’Israele per quel numero di giorni, nei quali dormirai su di quello, e porterai le loro iniquità. Or io ti ho’ dato il numero di trecento novanta giorni per tanti anni della loro iniquità … un dì per anno; perché ho assegnato a te un dì per un anno » (Ezech. IV: 4, 5, 6). Ecco, dunque che Dio dichiara di applicare al popolo d’Israele le soddisfazioni del Profeta Ezechiele, il quale colla penitenza di trecento novanta giorni soddisfa tutta la pena temporale che quel popolo subir doveva per il lungo spazio di trecento novant’anni.

Prot. Non so che rispondere a questo testo; ma so esser fuor di dubbio che i Santi ricevon per sé in Paradiso l’intera mercede dei meriti delle buone opere loro.

Bibbia. È scritto: « La limosina libera dalla morte, ed essa è che purga i peccati. » (Tob. XII, 9).

«Prendete possesso del regno a voi preparato,… imperocché ebbi fame e mi deste da mangiare, etc. » (Matth. XXV, 34-35). – Or vedi che in ambedue questi testi si parla della limosina: nel primo è dichiarata soddisfattoria delle colpe, nel secondo, meritoria di vita eterna. Dal che resta deciso che le opere buone sono meritorie e soddisfattorie. Ora in quanto sono meritorie è certo che i Santi ne ricevono per sé l’intera mercede; ma in quanto sono soddisfattorie, cosa possibile, perché, quando hanno soddisfatto per sé quanto basta, il di più non può esser loro applicabile a titolo di soddisfazione.

Prot. a Anche qui non ho che rispondere, ma contuttociò non mi arrendo: poiché è sempre certo che tali soddisfazioni non possono unirsi, nel tesoro delle indulgenze, a quelle di Gesù Cristo, senza fare a Lui gravissima ingiuria, quasiché le sue non siano di valore infinito, non siano sufficienti, se unite non vi sono anche quelle dei Santi.

Bibbia. Dopo averti fatto conoscere che Dio medesimo è questo che fa tale unione, avresti dovuto almeno tacere, e non contradire.  Sappi pertanto, che le soddisfazioni de’ Santi unite sono a quelle di Gesù Cristo non perché ve ne sia di bisogno, ma, 1° perché Dio vuole anche in esse onorati i suoi Santi: « Dice il Signore,  Io glorifico chiunque mi avrà glorificato » (3 Reg. II, 30). 2° perché tali soddisfazioni hanno il loro valore dai meriti infiniti di Gesù Cristo: « Senza, di me nulla potete fare:» (Giov. XV, 5). 3° finalmente, danno maggior risalto agli stessi meriti di Gesù Cristo: come quelli che sono di tanta efficacia, che anche alle soddisfazioni dei Santi possono conferire la forza, la virtù di soddisfare per altri. Onde tali soddisfazioni unite alle sue, anzi che essergli d’ingiuria gli sono piuttosto di gloria, di onore grandissimo.

Hai ben capito?

120 Prot. « Sull’anima mia vi assicuro, che quando intrapresi a contrastar le Indulgenze, io non sapeva cosa fosse un’indulgenza più di coloro che venivano a consultarmi su tal materia » (Lutero: Ved. Audin, Storia della vita di Lutero; Milano 1812, T. 1. P. 30). Promisi ancora di ritrattanni; ma poi me ne tirai fuori dicendo: « Le mie dottrine hanno penetrato troppo profondarne ne’ cuori, perché sia possibile cancellarne le tracce. La Germania fiorisce in giornata di uomini d’ingegno, di erudizione, di criterio. Se voglio onorare la Chiesa Romana, è meglio nulla rivocare. (Il medes. Epist, ad Albert. Mogunt, 1518)

« Mai ho disprezzato, né insegnato che debbano disprezzarsi le indulgenze. » (Lutero, Disput. Lipsica, Thes. T. 3. 1318)

« Se alcuno vi ha che neghi la verità delle Indulgenze del Papa, sia ANATEMA. » (Il medes. Epist. ad Albert. Mogunt. an. 1518.)

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (4)

G Dom. Jean de MONLÉON

Monaco Benedettino

Il Senso Mistico

dell’APOCALYSSE (4)

Commentario testuale secondo la Tradizione dei Padri della Chiesa

LES ÉDITIONS NOUVELLES 97, Boulevard Arago – PARIS XIVe

Nihil Obstat Elie Maire Can. Cens. ex. off.

Imprimi potest: t Fr. Jean OLPHE-GALLIARD Abbé de Sainte-Marie

Imprimatur: A. LECLERC. Lutetiæ Parisiorum die II nov. 194

Copyright by Les Editions Nouvelles, Paris 1948

Seconda Visione

LA CORTE CELESTE

PRIMA PARTE

IL TRONO DI DIO

Capitolo IV- 1-11

“Dopo di ciò vidi, ed ecco una porta aperta nel cielo, e quella prima voce che udii come di tromba che parlava con me, dice: Sali qua, e ti farò vedere le cose che debbono accadere in appresso. E subito fui rapito in ispirito: ed ecco che un trono era alzato nel cielo, e sopra del trono uno stava a sedere. E colui che stava a sedere era nell’aspetto simile a una pietra di diaspro e di sardio e intorno al trono era un’iride, simile d’aspetto a uno smeraldo. E intorno al trono ventiquattro sedie: e sopra le sedie sedevano ventiquattro seniori, vestiti di bianche vesti, e sulle loro teste corone di oro: e dal trono partivano folgori, e voci, e tuoni: e dinanzi al trono sette lampade ardenti, le quali sono i sette spiriti di Dio. E in faccia al trono come un mare di vetro somigliante al cristallo: e in mezzo al trono, e d’intorno al trono, quattro animali pieni di occhi davanti e di dietro. E il primo animale (era) simile a un leone, e il secondo animale simile a un vitello, e il terzo animale aveva la faccia come di uomo, ed il quarto animale simile a un’aquila volante. E i quattro animali avevano ciascuno sei ale: e all’intorno e di dentro sono pieni d’occhi: e giorno e notte senza posa, dicono: Santo, santo, santo il Signore Dio onnipotente, che era, che è, e che sta per venire. E mentre quegli animali rendevano gloria, e onore, e grazia a colui che sedeva sul trono, e che vive nei secoli dei secoli, i ventiquattro seniori si prostravano dinanzi a colui che sedeva sul trono, e adoravano colui, che vive nei secoli dei secoli, e gettavano le loro corone dinanzi al trono, dicendo: Degno sei, o Signore Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore, e la virtù: poiché tu creasti tutte le cose, e per tuo volere esse sussistono, e furono create.”

§ 1. — Dio è comparato ad una pietra preziosa.

Dopo aver invitato i suoi ascoltatori a riformare la loro condotta, in modo da poter penetrare i segreti di Dio, San Giovanni inizia a rivelare loro i misteri ai quali è stato iniziato nella sua estasi a Patmos. Egli dice loro: « Ecco, una porta è stata aperta nel cielo. » Questa porta rappresenta la Passione di Gesù Cristo, attraverso di essa, e solo attraverso di essa, gli uomini possono di nuovo entrare nel recinto del regno dei cieli, dal quale il peccato di Adamo li aveva esclusi. Ma questa Passione divina è allo stesso tempo la chiave delle Scritture; è essa che dà il loro vero significato alle figure ed alle profezie dell’Antico Testamento, e che sola ce le rende intelligibili. Ecco perché, la sera della sua uscita dal sepolcro, Nostro Signore cominciò a spiegare ai discepoli sulla strada di Emmaus i libri di Mosè e dei Profeti (Lc, XXIV, 27). E quando, poche ore dopo, apparve ai fedeli riuniti nel Cenacolo, una delle sue prime cure fu quella di aprire le loro menti, ci dice San Luca, affinché comprendessero le Scritture (Id., 45.). Non c’è dunque contraddizione da ammettere con certi commentatori (Cfr. per esempio Riccardo di San Vittore, In Apoc. libri septem. L., II, cap. I. Pat. Lat. t. CXCVI, col. 744 C) che la porta aperta intravista da San Giovanni indica, contemporaneamente alla Passione del Salvatore, il significato spirituale dei Libri Santi, attraverso i quali è possibile per lo spirito umano intravedere qualcosa delle realtà celesti. – Mentre questo spettacolo era davanti a lui, San Giovanni sentì di nuovo la voce che aveva già risuonato nelle sue orecchie nella prima visione, dirgli: « Vieni su. Sali qui, cioè elevati alla comprensione delle cose divine – non si tratta di un movimento del corpo, ma di un’ascesa dello spirito – separati dalle cose della terra, rivolgiti alla vita contemplativa, e io ti mostrerò ciò che dovrà presto accadere, cioè le tribolazioni che la Chiesa dovrà affrontare alla fine del mondo, ma anche le consolazioni che riceverà ed i progressi che non cesserà di realizzare. » – La parola ben presto abbraccia tutta la durata del tempo che trascorrerà fino alla fine del mondo, e ne sottolinea la brevità, se la paragoniamo all’eternità che deve seguire. L’apostolo continua: « Subito fui rapito in spirito, ed ecco, un trono era posto nel cielo, e sul trono c’era uno seduto. E Colui che sedeva sul trono aveva uno splendore come lo splendore della pietra di diaspro e della cornalina. In senso anagogico, San Giovanni vuole, con questa immagine folgorante, designare Dio stesso. Poiché Dio non ha una figura o forma corporea, non lo paragona da un uomo o a qualsiasi altra creatura; ma dice, in termini meravigliosamente espressivi, che era come lo splendore che scaturisce da una gigantesca pietra preziosa, avendo sia il tono del diaspro che quello della cornalina (la corniola, sardix, o pietra di Sardis, è una varietà di calcedonio, che varia dal rosso sangue al rosso carne tenue). Il diaspro è verde, la cornalina è rossa. Attribuendo a Dio il colore verde, l’autore ci fa capire che Egli è il Vivente per eccellenza, perché questo è il segno della vita nella natura: quando la terra rinasce, alla fine dell’inverno, essa lo mostra adornandosene nei prati, nei campi, nei boschi, con tutta la gamma dei toni verdi. Ora Dio è la Vita da cui tutta la vita procede. «Tutta la vita, ogni movimento vitale – scrive San Dionigi – emana da questo focolare posto al di là di ogni vita e di ogni principio vitale… È da questa vita originale che gli animali e le piante ricevono la loro vita ed il loro sviluppo. Ogni vita, sia puramente intellettuale (come quella degli Angeli), razionale (come quella dell’uomo), animale o vegetativa; ogni principio di vita, ogni essere vivente, prende in prestito la sua vita e la sua attività da questa vita sovreminente e preesistente nella sua feconda semplicità. Essa è la vita suprema, primitiva, la causa potente che produce, perfeziona e distingue tutti i germi della vita. Ed a causa dei suoi molti e vivi effetti, può essere chiamata vita multipla ed universale, e può essere considerata e lodata in ogni vita particolare; perché non manca nulla ad Essa, anzi, possiede la pienezza della vita; vive di per se stessa e d’una vita trascendente, ha un sublime potere di vivificare, e possiede tutto ciò che l’uomo può dire di glorioso riguardo a questa vita inesprimibile (De divinis nominibus, cap. VI).  Questa verità fu in parte scoperta dai filosofi pagani. Aristotele, per esempio, ha scritto: l’atto dell’intelligenza è una vita. Ora Dio è questo stesso atto allo stato puro. Egli è dunque la sua stessa vita: questo atto sussistente in se stesso, tale è la sua vita eterna e sovrana. Per questo si dice che è un Vivente eterno e perfetto, perché la vita che dura eternamente, esiste in Dio, poiché Egli è questo: la vita stessa (Metafisica, I. XII, cap. IX.1). – Tuttavia, questi saggi erano arrivati solo ad una nozione molto incompleta di Dio; non conoscevano la grande verità rivelata dalla Parola, il Deus caritas est, di San Giovanni. Non avevano capito che Dio è carità. Ecco perché l’autore ha mescolato la brillantezza della cornalina con quella del diaspro: la cornalina è rossa, e come tale simboleggia la carità. In questo modo, vuole farci capire che Dio non è solo la Vita per eccellenza, ma che è anche, ed essenzialmente, l’Amore. In senso allegorico, Colui che siede sul trono è Cristo. Nostro Signore è paragonato ad una pietra preziosa, cioè ad una pietra brillante e durissima, a causa della brillantezza della sua divinità, e anche per l’invincibile fermezza che gli permise di sopportare senza vacillare le terribili torture della sua Passione. È nel Suo nome ed in questo senso che il profeta Isaia ha detto: Ho posto la mia faccia come una pietra durissima (L, 7). – Questa pietra è sia verde che rossa. Il verde simboleggia qui la vita divina, sempre fiorente in Lui, mentre il rosso evoca il ricordo di quel sangue di cui fu ricoperto da capo a piedi nell’ora della Sua Passione, e la cui vista suscitò negli Angeli questo grido di stupore: Perché la tua veste è rossa come quella dei vignaioli quando pigiano il torchio? (Is. LXIII, 2). I due colori brillano simultaneamente nella stessa pietra, come le due nature, quella divina e quella umana, nell’unica persona di Gesù Cristo. E un arcobaleno circondò il trono, come una visione di smeraldo. L’arcobaleno, che fu dato agli uomini dopo il diluvio come segno di pace, è il simbolo della misericordia di Dio, che avvolge la Chiesa, rappresentata dal trono. I sette colori di cui è formato, e che procedono dalla luce bianca del sole, sono una graziosa immagine dei sette sacramenti, che scompongono in varie sfumature il raggio del Sole di Giustizia, la virtù redentrice del Cristo. L’autore aggiunge che questo arcobaleno era simile ad una visione di smeraldo, il che può sembrare, a prima vista, molto strano. Ecco cosa intende: lo smeraldo era considerato dagli antichi la più bella di tutte le pietre verdi. La sua brillantezza ha qualcosa di morbido e caldo allo stesso tempo, penetrante e calmante, che incanta l’occhio. Ecco perché Nerone, si dice, amava osservare gli spettacoli che lo interessavano attraverso uno smeraldo (S. Isidoro di Siviglia, Originum Lib., XVI, VII,1). Dicendo che l’arcobaleno era come una visione di smeraldo, San Giovanni lascia intendere che nulla è così dolce e così riposante da vedere, per gli occhi della nostra anima, come la misericordia di Dio che si manifesta a noi attraverso l’opera redentrice di Cristo. E tutto intorno al trono c’erano ventiquattro posti. E sui sedili sedevano ventiquattro anziani. Questi anziani rappresentano tutti i Santi che assisteranno Cristo al Giudizio Universale. Nostro Signore, infatti, ha promesso ai Suoi Apostoli di farli sedere su dodici seggi intorno a Lui in quel giorno. Ma questo numero non può, naturalmente, essere preso alla lettera, perché allora, secondo l’osservazione di Sant’Agostino, non ci sarebbe posto nemmeno per San Paolo, che non è annoverato nel collegio dei Dodici (Enarrat super Ps. LXXXVI, 4). Le parole del Maestro Divino indicano chiaramente che tutti coloro che hanno seguito Cristo, ad imitazione degli Apostoli, avranno una parte in questo privilegio e verranno al Giudizio, non come accusati, ma come assessori. Se San Giovanni ha raddoppiato il numero dato nel Vangelo, è per farci capire che i giusti dell’Antico Testamento non saranno esclusi da questo favore, e che siederanno davanti al Giudice Sovrano con i dodici Profeti, come i Santi del Nuovo Testamento con i dodici Apostoli. – Questi uomini sono chiamati vegliardi, perché i Santi sono pieni di prudenza e di saggezza; sono seduti, perché godono del riposo e della stabilità eterna; le loro vesti bianche segnano l’innocenza di cui sono adornati, e le corone d’oro che portano sul capo sono la ricompensa che hanno ricevuto da Cristo per le loro fatiche e lotte. – L’autore descrive poi l’apparato terrificante di questo trono, dal quale provenivano, dice, lampi, voci e tuoni. Cosa significa questo? Il trono, come abbiamo appena detto, è la figura della Chiesa, in mezzo alla quale Dio siede sulla terra. I lampi sono i miracoli con cui questa Chiesa non cessa di proclamare al mondo il suo carattere divino. Come è impossibile, a meno che uno non sia cieco, non vedere il fulmine che taglia improvvisamente l’ombra della notte, così non è possibile, a meno che uno non sia murato nei suoi pregiudizi, non vedere il carattere trascendente della Chiesa e lo splendore luminoso che essa proietta in mezzo alle tenebre del mondo presente. Le voci sono gli appelli che essa fa costantemente attraverso i suoi Pontefici, Dottori, Santi e predicatori, invitando gli uomini a seguire Cristo. I tuoni sono gli avvertimenti che essa dà ai peccatori e gli anatemi che pronuncia senza paura, senza temere alcun potere umano, contro tutti coloro che mettono in pericolo la salvezza delle anime. Quanto alle sette lampade che brillano davanti al trono, San Giovanni stesso spiega il loro simbolismo, dicendo che sono i sette spiriti di Dio, cioè i sette doni dello Spirito Santo, che illuminano la Chiesa, e aggiunge che sono ardenti, perché questi doni hanno l’effetto non solo di dare luce alle anime, ma anche di infiammarle con il fuoco dell’amore. Il narratore continua: Alla presenza del trono c’era un mare di vetro come cristallo, e intorno al trono c’erano quattro bestie piene di occhi davanti e dietro. In senso allegorico, il mare di vetro rappresenta il sacramento del Battesimo e, per estensione, le anime purificate in questo sacramento. Il Battesimo è paragonato ad un mare perché distrugge la massa dei nostri peccati, senza lasciarne uno solo, come il Mar Rosso inghiottì l’ultimo soldato dell’esercito di Faraone. Si dice: di vetro, perché rende l’anima trasparente, permettendo così alla luce divina di raggiungerla e penetrarla; e si dice ancora: come il cristallo, per la purezza e la limpidezza che le dà. Le anime così lavate nel sangue di Cristo sono alla presenza del trono, perché sono l’oggetto costante della sollecitudine della Chiesa, che non perde di vista per un momento gli interessi della loro salvezza. I quattro animali designano i quattro Evangelisti, e con loro l’insieme dei Santi, che sono tutti, in un certo senso, “evangelisti”, perché tutti hanno lavorato per far conoscere Gesù Cristo e la sua dottrina. La posizione occupata da questi animali, sia al centro che intorno al trono, è straordinaria: è abbastanza inutile scervellarsi per cercare di tradurla sulla carta, come cercano di fare alcuni commentatori. Come abbiamo già detto, San Giovanni usa deliberatamente immagini irrealizzabili affinché, andando oltre il significato letterale delle parole, possiamo cercare il loro significato misterioso. I quattro Evangelisti sono allo stesso tempo al centro del trono, cioè della Chiesa, come torce per illuminarla; e tutto intorno, come un muro per difenderla. Sono pieni di occhi davanti e dietro, perché le insegnano a guardare attentamente sia il passato che il futuro, per regolare la sua condotta. Il primo assomiglia ad un leone, il secondo ad un bue, il terzo ad un uomo, l’ultimo ad un’aquila. Il leone è solitamente attribuito a San Marco, per aver sottolineato, più degli altri, la vittoria riportata da Gesù sui suoi nemici e sulla morte. Il bue, figura del sacrificio, è attribuito a San Luca, che pose particolare enfasi sulle sofferenze del Salvatore; l’uomo, a San Matteo, per aver redatto la genealogia umana di Cristo; e l’aquila, a San Giovanni, che rivelò i più alti misteri della sua divinità. Queste attribuzioni, tuttavia, non sono né assolute né esclusive: come ciascuno dei quattro Vangeli contiene in sé la dottrina degli altri tre, così si può dire qui che ciascuno dei quattro animali possiede sia la propria forma, sia quella degli altri tre (Questa considerazione ci farà capire perché troviamo talvolta delle variazioni nell’attribuzione dei quattro animali ai diversi Evangelisti: Così, per esempio, Sant’Agostino e San Beda attribuiscono il leone a San Matteo, l’uomo a San Marco. Ma la distribuzione fatta sopra è di gran lunga la più comune). Ciò diventa chiaro se confrontiamo questo passo con quello in cui il profeta Ezechiele descrive i quattro animali fantastici che gli furono mostrati, e ognuno dei quali ricordava insieme il volto dell’uomo, il volto del leone, il volto del bue e il volto dell’aquila (Ez. I, 6, 10). Ma prima di essere quelli degli Evangelisti, questi attributi sono quelli di Cristo stesso, che è nato come un vero uomo, che ha combattuto come un leone, che si è lasciato offrire come vittima come un bue, e che è salito al cielo più alto come un’aquila. A sua volta, ogni Cristiano deve cercare di farli suoi: sarà un uomo obbedendo alla sua ragione piuttosto che alle sue passioni, e mostrandosi “umano” verso i suoi simili; un leone, attaccando risolutamente i nemici della sua salvezza; un bue, accettando l’immolazione; un’aquila, vivendo in cielo piuttosto che in terra, con la costanza della sua preghiera.

§ 3. — Liturgia celeste.

E ognuno dei sei animali aveva sei ali. Le ali, che sollevano l’uccello sopra la terra, sono la figura delle virtù, che sollevano l’anima sopra le contingenze del mondo presente. Il numero sei è quello dei gradi successivi che si devono attraversare per raggiungere il possesso della pace. Forse nessuno ha espresso il simbolismo meglio di San Bonaventura nel meraviglioso trattato intitolato Itinerario dall’anima a Dio. Come Dio dedicò sei giorni alla creazione dell’universo e si riposò nel settimo, così il mondo inferiore deve essere condotto al riposo perfetto della contemplazione passando attraverso sei gradi successivi di illuminazione. Questo ordine era rappresentato dai sei gradi che portavano al trono di Salomone. Allo stesso modo, i Serafini che Isaia vide avevano sei ali; allo stesso modo, Dio non chiamò Mosè dal mezzo della nuvola se non dopo sei giorni; e fu anche sei giorni dopo averli avvertiti che Gesù Cristo condusse i suoi discepoli sul monte, dove fu trasfigurato in loro presenza. Secondo questi sei gradi di elevazione a Dio, la nostra anima possiede sei gradi o poteri per ascendere dalle cose più basse a quelle più alte, dalle cose esterne a quelle interne, dalle cose temporali a quelle della eternità. Questi sono: i sensi, l’immaginazione, la ragione, l’intelletto, l’intelligenza, il vertice dello spirito… Chi vuole ascendere a Dio deve, dopo aver rinunciato al peccato che sfigura la sua natura, esercitare le potenze di cui abbiamo appena parlato, per acquisire con la preghiera la grazia che riforma, con una vita santa la giustizia che purifica, con la meditazione la conoscenza che illumina e con la contemplazione la sapienza che rende perfetti. (Op. cit. c. 1). Dicendo che ognuno degli animali aveva sei ali, l’autore implica che in ogni Vangelo o anche nelle opere di ogni Santo, si trova tutto ciò che è necessario sapere per elevarsi alla più alta virtù. Questo è il pensiero espresso da San Benedetto alla fine della sua Regola, quando dice: Quale pagina, o quale parola dell’autorità divina, nell’Antico o nel Nuovo Testamento, non è una regola rettissima per la vita umana? O qual è il libro dei santi Padri ortodossi che non ci insegna a raggiungere il nostro Creatore con un percorso retto? (Cap. LXXIII). Gli animali sono pieni di occhi sia fuori che dentro, perché i Santi si osservano con grande attenzione, sia nelle loro azioni esterne che nei loro pensieri. Non si riposano giorno e notte, perché la loro vita è una lode continua al loro Creatore. Tutto ciò che fanno, ed anche il riposo che si concedono di notte, lo ordinano alla gloria di Dio, penetrati come sono dal desiderio di compiere la sua volontà e di piacergli in ogni cosa. Ecco perché la sposa del Cantico diceva: Io dormo, ma il mio cuore veglia (V. 2.), mostrando così che anche durante il tempo del sonno non cessava di cercare Dio. In senso mistico, la notte rappresenta le prove e le sofferenze, in opposizione al giorno, che simboleggia la prosperità. I Santi, dunque, non cessano di lodare Dio né di giorno né di notte, perché cantano la sua gloria nella buona e nella cattiva sorte. Come Giobbe, ringraziano per tutto quello che loro succede, sia buono che cattivo. Proclamano la sua infinita perfezione, la sua sovrana bontà, ripetendo il canto dei Serafini, già ascoltato da Isaia: Santo, santo, santo è il Signore, il Dio onnipotente, che era da tutta l’eternità, che rimane sempre uguale a se stesso, e che verrà a giudicare i vivi e i morti. E mentre gli animali, cioè la moltitudine dei Santi, davano così gloria a Dio, i ventiquattro anziani, che rappresentavano i dottori dei due Testamenti, si prostrarono in umiltà; e adorando Colui che sedeva sul trono, deposero ai suoi piedi le loro corone, cioè i meriti delle loro opere, dicendo: « La gloria non è nostra, ma solo tua, Signore nostro Dio…. ». Notate che essi dicono: il nostro Dio. Sebbene Dio sia il padrone di tutte le creature, Egli è in modo speciale il padrone di coloro che si sono dati a Lui con la rinuncia, e che fanno di Lui l’unico oggetto del loro amore: « A Te solo, dunque – cantavano – è giusto attribuire gloria, onore e potenza, poiché Voi avete creato tutte le cose. È per la Vostra volontà che sono esistiti nella vostra intelligenza prima di essere realizzati in atto, così come un’opera esiste nella mente dell’artigiano prima di essere portata alla luce nella materia. È dunque liberamente, volontariamente, senza essere pressato da alcuna necessità, che li avete concepiti, ed è ancora volontariamente che li avete creati, cioè: che li avete fatti passare da questo essere ideale alla loro esistenza materiale. Così è giusto che tutto ciò che c’è di bello e di buono sulla terra sia attribuito a Voi e rivolto alla vostra gloria, poiché tutte le cose sono uscite da Voi, e Voi siete allo stesso tempo il Principio e la Fine di tutto ciò che esiste. »

SECONDA PARTE

IL LIBRO SIGILLATO

Capitolo V. (1-14)

“E vidi nella mano destra di colui, che sedeva sul trono, un libro scritto dentro e di fuori, sigillato con sette sigilli. ‘E vidi un Angelo forte, che con gran voce gridava: Chi è degno di aprire il libro, e di sciogliere i suoi sigilli? E nessuno né in cielo, né in terra né sottoterra, poteva aprire il libro, né guardarlo. E io piangeva molto, perché non si trovò chi fosse degno di aprire il libro, né di guardarlo. ‘E uno dei seniori mi disse: Non piangere: ecco il leone della tribù di Giuda, la radice di David, ha vinto di aprire il libro, e sciogliere i suoi sette sigilli. E mirai: ed ecco in mezzo al trono, e ai quattro animali, e ai seniori, un Agnello sui suoi piedi, come scannato, che ha sette corna e sette occhi: che sono sette spiriti di Dio spediti per tutta la terra. E venne: e ricevette il libro dalla mano destra di colui che sedeva sul trono. E aperto che ebbe il libro, i quattro animali, e i ventiquattro seniori si prostrarono dinanzi all’Agnello, avendo ciascuno cetre e coppe d’oro piene di profumi, che sono le orazioni dei santi: E cantavano un nuovo cantico, dicendo: Degno sei tu, o Signore, di ricevere il libro, e di aprire i suoi sigilli: dappoiché sei stato scannato, e ci hai ricomperati a Dio col sangue tuo di tutte le tribù, e linguaggi, e popoli, e nazioni: E ci hai fatti pel nostro Dio re e sacerdoti: e regneremo sopra la terra. E mirai, e udii la voce di molti Angeli intorno al trono, e agli animali, e ai seniori: ed era il numero di essi migliaia di migliaia, I quali ad alta voce dicevano: È degno l’Agnello, che è stato scannato, di ricevere la virtù, e la divinità, e la sapienza, e la fortezza, e l’onore, e la gloria, e la benedizione. E tutte le creature che sono nel cielo, e sulla terra, e sotto la terra, e nel mare, e quante in questi (luoghi) si trovano: tutte le udii che dicevano: A colui che siede sul trono e all’Agnello la benedizione, e l’onore, e la gloria, e la potestà pei secoli dei secoli. E i quattro animali dicevano: Amen. E i ventiquattro seniori si prostrarono bocconi, e adorarono colui, che vive pei secoli dei secoli.”

§ 1. — Apparizione del libro.

Il libro che appare in primo piano in questa descrizione rappresenta prima di tutto, in senso letterale, la profezia che San Giovanni dettaglierà nelle scene seguenti, ed i cui sette sigilli saranno successivamente enumerati. Ma simboleggia anche, in un senso più ampio, la Bibbia, il « libro » per eccellenza, di cui Dio stesso è l’autore; un libro scritto fuori, perché tutti possono decifrare il suo significato letterale; un libro scritto dentro, perché gli occhi dei profani non possono discernere il suo significato mistico. I sette sigilli, che rinchiudono l’intelligenza di ogni mente non iniziata, sono i sette misteri fondamentali della missione redentrice di Cristo, che troviamo enumerati nel Credo: la concezione miracolosa del Salvatore, la sua nascita, la sua passione, la sua discesa agli inferi, la sua resurrezione, la sua ascensione, la sua venuta nell’ultimo giorno per giudicare i vivi e i morti. Nessuno può capire il vero significato della Scrittura se la fede non ha rotto i sigilli che Dio ha posto sul decreto della nostra redenzione e che lo rendono impenetrabile agli sforzi della ragione umana lasciata a se stessa. In senso allegorico, il « libro » designa la santa Umanità di Gesù Cristo Nostro Signore, che contiene in sé tutti i tesori della sapienza e della conoscenza divina. C’è forse un’opera più eloquente, più capace di farci conoscere Dio come è, del Salvatore sulla croce? San Tommaso d’Aquino, la cui erudizione era prodigiosa, diceva che aveva imparato più nella contemplazione del suo Crocifisso che in tutti i trattati che aveva letto. Questo libro è scritto all’esterno: tutti coloro che lo vedono non hanno difficoltà, se sono disposti a considerarlo per un momento, a decifrare la parola Amore, scritta a grandi lettere nelle ferite dei piedi e delle mani, nella testa teneramente inclinata, nella ferita aperta del fianco. Ma sarà un’altra cosa per coloro che, illuminati dalla sua grazia e guidati dallo Spirito settimo, saranno in grado di leggere dentro e penetrare i segreti del suo Cuore. – « E vidi – continua l’Apostolo – un Angelo potente che proclamava a gran voce: Chi è degno di aprire il libro e di romperne i sigilli? » – Questo Angelo, che alcuni autori hanno voluto identificare con San Gabriele, a causa del titolo di Angelum fortem, che la liturgia attribuisce a quest’ultimo, rappresenta in realtà tutti i Dottori della Legge antica. Questi sono chiamati “forti” perché hanno sopportato con coraggio la lunga attesa del Messia, invocando all’unanimità la sua venuta con tutti i loro desideri. « Chi dunque –  chiedevano – è degno di aprire il libro, cioè di renderlo intelligibile? Chi è degno di adempiere le misteriose promesse della Legge? Chi potrà offrire a Dio la vittima pura, la vittima santa, la vittima senza macchia che i Profeti hanno predetto, che i Patriarchi hanno sacrificato come figura nei loro sacrifici, e che sola potrà assicurare la salvezza del genere umano? » – Notiamo che l’autore dice: aprire il libro e rompere i sigilli, il che è contrario all’ordine naturale: perché è evidentemente necessario rompere i sigilli prima, per aprire il libro dopo. Ma la Scrittura eccelle nel moltiplicare le improbabilità apparenti in questo modo, per costringerci ad ascendere al significato spirituale che nasconde sotto la lettera. Cristo, infatti, ha aperto il libro prima, quando ha adempiuto nella sua Persona le profezie della vecchia Legge; poi ha rotto i sigilli, quando ha dato la comprensione di questi misteri ai suoi discepoli, inviando loro lo Spirito Santo. – Tuttavia, alla domanda angosciosa dell’umanità, che aspettava il suo liberatore, nessuno poteva rispondere finché non fosse venuto Lui stesso, né tra gli Angeli, né tra i vivi, né tra i morti, né tra i Patriarchi e i Profeti che erano scesi nel Limbo; Nessuno, nemmeno San Giovanni Battista, il più grande dei profeti; nemmeno la Beata Vergine, la più saggia di tutte le creature, che resterà meravigliata davanti all’annuncio dell’Incarnazione, non vedendo come questa si possa fare, poiché non conosce nessun uomo (Lc. I). Nessuno, come aveva dichiarato il profeta Isaia, potrà spiegare la sua generazione (LIII, 8) e scoprire i modi segreti in cui Dio aveva deciso di operare la salvezza del mondo! Nessuno poteva capire come Dio, che è uno Spirito, e uno spirito senza limiti, potesse racchiudersi interamente nel grembo di una Vergine. E di fronte a questo mistero inesorabilmente sigillato, di fronte a questi ritardi che si prolungavano senza mai realizzare la speranza del genere umano, San Giovanni cominciò a scoppiare in lacrime. Io piangevo abbondantemente, egli dice. Parla in prima persona, perché il suo cuore, pieno di carità, lo rende partecipe, immediatamente e profondamente, di tutte le sofferenze di cui è testimone. E lui conosceva il segreto del libro e la chiave del suo linguaggio misterioso; aveva visto il Salvatore morto, lo aveva visto risorto; aveva ricevuto, nella sua pienezza, nel giorno di Pentecoste, l’effusione dello Spirito. Ma, trasportato dalla sua estasi, San Giovanni dimentica se stesso; si incorpora a quella moltitudine di uomini che vissero e morirono prima che il Messia fosse venuto; si associa a quei re e profeti dell’Antico Testamento, che tanto desideravano vedere ciò che gli Apostoli vedevano, e che non lo vissero (Lc., X, 24); piange con Davide, che fece delle sue lacrime il suo pane quotidiano, gemendo giorno e notte per non vedere il suo Dio (Ps. XLI, 4). Davanti a questo dolore gli anziani si lasciarono toccare, ed uno di loro, parlando a nome di tutti, venne a ripetere a San Giovanni la promessa che ciascuno dei Profeti, in forma differente, aveva portato agli uomini in forma diversa: Non piangere. Ecco, il leone di Giuda viene come un conquistatore, per aprire il libro e rompere i suoi sigilli. Il leone è il simbolo del coraggio: tra gli altri segni della sua imtrepidezza, dà questo che, quando ha scelto la sua preda, le salta addosso e la porta via senza lasciarsi spaventare o fermare da nulla. È così che Cristo agirà con l’umanità: vuole strapparla al diavolo, vuole introdurla in cielo con sé, e niente potrà spezzare il suo slancio. Isaia aveva già usato questa immagine quando diceva: Come il leone e il leoncello, quando salta con un ruggito sulla sua preda e la moltitudine dei pastori gli corre incontro, non sono spaventati dalle loro grida, né intimiditi dal loro numero, così il Signore degli eserciti scenderà a combattere sul monte Sion e sul suo colle (Is. XXXI, 4).

§ 2 – Apparizione dell’Agnello.

Mentre il vegliardo annunciava a San Giovanni l’arrivo prossimo dell’eroe, che sarebbe nato nella tribù di Giuda e nella famiglia di Davide, l’Apostolo, guardando in alto, vide un agnello in piedi in mezzo al gruppo che circondava il trono. In questo animale innocente non abbiamo difficoltà a riconoscere Cristo, pieno di dolcezza e di mitezza, in piedi in mezzo alla sua Chiesa. Ma anche qui, quale apparente incoerenza è presentata dalla narrazione ispirata: è annunciato un leone, ed è un agnello che appare! Ci viene promessa la bestia impavida come nostro Salvatore, che fa tremare tutti gli altri, e vediamo arrivare una bestiolina indifesa, destinata a finire sul banco di un macellaio! Perché? Perché queste incongruenze, se non sempre per farci pensare e condurci a verità più profonde? Se non per farci capire che Cristo, il leone di Giuda, ha sconfitto i suoi nemici, non con la forza e la violenza, ma con la pazienza e la dolcezza! I Giudei si aspettavano un Messia conquistatore, un monarca la cui gloria avrebbe eclissato quella di Davide e Salomone: e Dio mandò il figlio di un falegname, che fu condannato a morte e morì su un patibolo. Troppo spesso, come loro, è al genio, al potere, alla fortuna, che chiediamo il trionfo del Cristianesimo: e dimentichiamo l’Agnello che sta in piedi, come ucciso … Notate che l’antinomia continua tra queste due espressioni, perché non è usuale che coloro che vengono uccisi stiano in piedi. Ma se l’Agnello è visto in piedi, è per farci sapere che opera e combatte; e se sta in piedi come ucciso, è per farci capire che è con la sua morte che ha ottenuto la vittoria. Dicendo che è: “come ucciso”, e non: ucciso, l’autore non intende implicare che la morte di Cristo sia stata solo una morte apparente. Il nostro Salvatore è effettivamente morto sulla croce, e questo è uno degli articoli fondamentali della fede cattolica. Ma si dice “come ucciso” perché, nella sua morte, è rimasto padrone della morte: la morte non poteva tenerlo in pugno. Si è arreso ad essa quando ha voluto, ma è anche sfuggito quando ha voluto. Nessuno – aveva detto [Gesù] ai suoi Apostoli – può togliermi la vita: Io la depongo da me stesso e ho il potere di deporla e di riprenderla (Jo., X, 18). – L’Agnello aveva sette corna e sette occhi. San Giovanni aggiunge subito la spiegazione di questo fenomeno: Questi, dice, sono i sette spiriti di Dio inviati sulla terra, cioè i sette doni dello Spirito Santo, che l’Agnello ha meritato per il mondo con la sua morte. Questi doni sono paragonati a delle corna perché si drizzano sopra l’anima come armi formidabili contro i sette peccati capitali; ed essi rendono lo stesso servizio che gli occhi, perché permettono di discernere i sentieri che portano alle diverse virtù. – Ed egli venne – continua l’Apostolo – e ricevette il libro dalla mano destra di Colui che sedeva sul trono. Così l’Agnello predetto dai Profeti, atteso così a lungo dalla razza umana, finalmente venne. E prese carne nel grembo della Beata Vergine Maria, e la Sua Umanità ricevette da Dio la piena conoscenza del mistero della nostra salvezza. Egli ha aperto il Libro, adempiendo, con la sua sofferenza e morte, tutte le profezie riguardanti l’opera della redenzione. Questo è ciò che ha espresso sulla croce quando ha detto: Tutto è consumato. – Allora gli animali ed i ventiquattro anziani, che rappresentavano la moltitudine dei Santi, caddero ai suoi piedi e scoppiarono in azioni di grazia. Ognuno di loro gli offriva le cetre e le coppe d’oro piene di profumi, che tenevano in mano. Questo doppio simbolo rappresenta i due strumenti essenziali usati dai Santi per avanzare nella virtù, cioè: la mortificazione e la preghiera. I loro cuori, largamente aperti dalla carità, come le coppe d’oro a cui si fa riferimento qui, sono costantemente traboccanti di suppliche, adorazioni e ringraziamenti; e queste salgono verso Dio come profumi di un odore piacevole, come spiega San Giovanni stesso. Per quanto riguarda le cetre, non se ne dà il suo significato mistico, ma questa figura è così comune nei Libri Sacri che non ci possono essere dubbi sul pensiero dell’autore. Quando si mostra Davide che canta i salmi con uno strumento a corda, arpa, cetra o salterio, la tradizione cattolica vuole farci capire che l’anima che canta le lodi di Dio deve accompagnare i suoi canti con una vita mortificata. Le corde rigorosamente tese sul legno della cetra, e che vibrano armoniosamente sotto i colpi con cui vengono percosse, ricordano la carne del Verbo disteso sulla croce, e rispondono ai soprusi, agli affronti, agli insulti con cui lo si carica con le parole dell’amore più sublime. A sua immagine, il discepolo fedele deve cercare di inchiodare la sua sensibilità, i suoi desideri, i suoi affetti, le sue apprensioni sulla croce che la Volontà divina ha preparato per lui, e pronunciare, sotto la pressione della sofferenza, solo parole di gratitudine, sottomissione ed adorazione.

§ 3 – Il cantico nuovo.

E cantavano un cantico nuovo, quello del rinnovamento del mondo per mezzo del Vangelo: « Voi siete degno – dicevano – Signore Gesù Cristo, Voi siete degno, per la vostra incomparabile innocenza, di ricevere il libro e di scioglierne i sigilli. Nessuno avrebbe potuto realizzare, come Voi, gli scopi segreti di Dio e assicurare l’adempimento delle profezie. Perché Voi avete mostrato una virtù incredibile: avete accettato di essere messo a morte a dispetto di ogni giustizia, di sopportare sofferenze indicibili, e così ci avete riscattato; Voi ci avete restituito a Dio a prezzo del vostro sangue, noi che il nostro peccato aveva reso schiavi del diavolo. E non avete posto limiti alla vostra generosità: avete pagato il prezzo della salvezza per tutti gli uomini, per tutte le razze, tutte le lingue, tutti i popoli, tutte le nazioni. Avete così permesso a Dio di regnare su di noi, fin d’ora per la sua grazia e più tardi, nell’eternità, per la sua gloria. Voi ci avete resi sacerdoti al suo servizio, capaci di offrirgli i sacrifici che Egli ama; e, grazie ai meriti che avete acquisito per noi, ci avete permesso di disprezzare i beni di questo mondo, di dominare le inclinazioni della carne, e così di regnare al di sopra di questo mondo. » A questo punto, una moltitudine di Angeli apparve intorno al trono e unì le sue voci a quelle dei Santi. Il loro numero era al di là di ogni stima: ce n’erano miriadi di miriadi. Poiché l’intelligenza umana non è in grado di contare tutti gli spiriti beati; cosa che Giobbe espresse in termini lapidari, quando disse: “C’è dunque un numero ai suoi soldati? (Giob. XXV, 3). Ce n’è, senza dubbio, per la Divina Intelligenza, che ha concepito ciascuno di questi spiriti distinti l’uno dagli altri, con la propria specie, il suo peso e la sua misura (Sap. XI, 21): ma questo numero supera la mente umana. Ce ne sono – scrive San Dionigi (Gerarchia Celeste, cap. XIV), – mille volte mille e diecimila volte diecimila », la Scrittura raddoppia e moltiplica così l’una per l’altra le cifre più alte che abbiamo, e fa così capire che è impossibile per noi esprimere il numero di queste creature beate. Perché le file delle schiere celesti sono foltissime, e sfuggono al debole e limitato apprezzamento dei nostri calcoli materiali; e l’enumerazione di esse può essere fatta abilmente solo in virtù di quella conoscenza sovrumana e trascendente che il Signore comunica loro così liberalmente, sapienza increata, conoscenza infinita, principio superessenziale e causa potente di tutte le cose, forza misteriosa che governa gli esseri e li limita abbracciandoli. – Tutti questi Angeli, dunque, cantando ora con i Santi, dicevano a gran voce: Egli è degno, l’Agnello che è stato messo a morte, di ricevere dagli uomini la lode, la virtù, la divinità, saggezza, forza, onore, gloria e benedizione. (Il testo greco riporta qui: ricchezza, invece di: divinità. Allo stesso modo alcuni manoscritti latini dicono: divitias. Dobbiamo seguire questa lezione se vogliamo tradurre, senza errore teologico, accipere, in: ricevere da Dio. Ma, se si vuole rimanere fedeli al testo della Vulgata, che riporta: divinità, bisogna seguire i commentatori che intendono: ricevere dalla lode degli uomini). Ora che il Suo sacrificio è stato compiuto e ne vediamo i meravigliosi effetti per l’umanità, l’odiosa ingiustizia di cui fu oggetto deve essere riparata. È Egli degno di far proclamare la sua virtù, Lui che fu messo a morte come bestemmiatore e rivoluzionario; la sua divinità, Lui che i Giudei condannarono per essersi chiamato Figlio di Dio; la sua sapienza, lui che fu vestito con la veste degli stolti; la sua forza, lui che si lasciò schiacciare come un verme. Egli è degno di onore, per gli insulti da cui fu investito, gli schiaffi e i colpi che ricevette, gli sputi di cui fu ricoperto; di gloria, per essere stato trascinato al patibolo come l’ultimo dei malfattori; di benedizione di tutti i popoli, per colui che i Giudei respinsero da loro come un essere maledetto. E tutte le creature, quelle del cielo, quelle della terra e quelle del sottosuolo, i flutti del mare e le creature che vi si trovano, le sentii dire: A Colui che siede sul trono (cioè a Dio Onnipotente, Uno e Trino) e all’Agnello (cioè all’Umanità di Cristo), benedizione, onore, gloria e potenza nei secoli dei secoli. (Queste ultime parole sono molto difficili da tradurre. La Vulgata dice: et quæ sunt in mari, et quæ sunt in eo, cioè letteralmente: le cose che sono nel mare, e quelle che sono in esso…. I migliori commentatori pensano che la prima espressione si riferisca al mare stesso; la seconda, agli esseri animati che contiene. Altre versioni dicono anche: mare, et quæ sunt in eo. – Il testo greco è appena più chiaro: ogni creatura che è nel cielo, e sulla terra, e sotto la terra, e sul mare, e tutti gli esseri che sono in esso, li ho sentiti, ecc. (R. P. Âllo.). – Così gli esseri privi di ragione, e quelli stessi che sono inanimati, benedicono il loro Creatore a modo loro. Non lo fanno con una voce articolata, come la nostra. Ma dalla loro bellezza, dalla loro varietà, dalla loro gerarchia, dall’ordine che presiede a tutti i loro movimenti, sorge un magnifico concerto che canta la gloria di Dio. Fu questa voce che Sant’Agostino percepì quando, spinto dal fuoco di cui era infiammato il suo cuore, andò a chiedere al sole, alla terra, alla luna, alle stelle e a tutti gli esseri che incontrava, a turno, di parlargli di Dio, e li sentì esclamare tutti insieme: « È lui che ci ha fatti (Solil. Cap. 3). » E i quattro animali dicevano: Amen, riconoscendo così la validità di questa lode universale. E i ventiquattro anziani caddero con la faccia a terra e adorarono Colui che vive nei secoli dei secoli.

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (5)

LA SITUAZIONE (11)

LA SITUAZIONE (11):

DOLORI, PERICOLI, DOVERI E CONSOLAZIONI DEI CATTOLICI DEI TEMPI PRESENTI

OPERA DI MONSIGNORE G. G. GAUME PROTONOTARIO APOSTOLICO

Custos, quid nocte?

Sentinella: che è della notte?

DOVERI

Lettera Undecima

Caro Amico.

I doveri dei Cattolici derivano dalla nozione medesima della Chiesa; e si misurano dalla gravità delle circostanze in atto, che ne determinano la natura. Or che cosa è la Chiesa? In tutto rigore della parola, la Chiesa val quanto madre nostra, madre delle nazioni civili. Che essa in effetto è quella che ci ha generati alla vita soprannaturale, e come conseguenza, ai lumi, alla libertà, al ben essere, che innalzano grandemente i popoli cristiani sopra dei pagani antichi, e degl’idolatri dei nostri giorni. Profferite pure arditamente un premio, un brevetto d’invenzione, una statua a sua scelta nel Pantheon, all’uomo che scoprirà una libertà vera, un raggio di pura luce, un progresso reale, una instituzione completamente utile, una cosa veramente grande e bella, che non venga dalla Chiesa. La Chiesa è quella che ha tratto il mondo dalla barbarie, e gl’impedisce che vi ricada. Conciossiachè per tenere lontana una novella caduta dell’umanità, ella da diciotto secoli in qua ha versato a torrenti il suo sangue più puro. Veglie, lagrime, preghiere, fatiche, umiliazioni, lotte incessantemente rinascenti; a tutto si è ella sacrificata per il bene dei suoi figli. Ed è ben poca cosa all’amor suo il tutelarci i beni del tempo, se non ci conduce ancora al possesso dei beni futuri. Or questa madre, tante volte nostra madre, geme tutta oggidì nel dolore. Sicché dal primo tempo che essa viaggia nella valle di lagrime, non ha mai potuto dire con più di verità: O voi tutti che passate pel cammino della vita, Cattolici del secolo XIX, cercate nella storia del passato, e vedete , se v’ha un dolore che sia paragonabile al mio! Di faccia a questo nuovo Calvario, come dobbiamo noi diportarci? Un figlio vede oltraggiare la propria madre; la vede ingiuriata, schiaffeggiata, spogliata, cacciata brutalmente dalla sua dimora: qual è il suo primo sentimento, il suo primo dovere? Il suo cuore parla, il suo sangue ribolle. Meglio che una metà, e più ancora che se stesso, egli ama cotesta sua madre in que’ suoi patimenti; onde tutto quello che può fare per difenderla, tutto egli fa. Consociarci ai mali della Chiesa, difendere la Chiesa; ecco, o Cattolici, i due primi nostri doveri. La natura ciò detta, la fede ciò comanda. Ma che vuol dire consociarsi ai mali della Chiesa? Vuol dire riguardare, risentire come fatto a noi stessi quello che si fa a Lei. I suoi dolori devono esser nostri; occupare i nostri pensieri, alimentare le nostre conversazioni, inspirare le nostre preghiere. Il nostro cuore deve vivamente commuoversi alle ferite che a Lei si fanno; le nostre guance arrossire agli schiaffi che le si danno; la nostra anima indegnarsi alle calunnie colle quali si perseguita; i nostri occhi piangere alle umiliazioni colle quali viene abbeverata, ed alle lagrime che le si fanno versare: opprobria exprobrantium tibi ceciderunt super me. Se avvenisse altrimenti, ove sarebbe la nostra pietà filiale verso la Chiesa? Vergogna a colui, il quale può leggere con indifferenza il racconto giornaliero delle sue angosce; a colui, la cui vita non si covre di un velo di tristezza; a colui, il quale in questi momenti di dolore supremo non ha in orrore le feste e i piaceri mondani. Il figlio che ride e canta vicino a sua madre addolorata, fu egli mai un buon figlio? Questa compassione nondimeno non vuole essere sterile. Se finisce sulle labbra, chi la prenderà per verace? L’albero si conosce ai frutti; la realità di un sentimento si conosce solo agli atti. Gli atti inoltre di nostra compassione verso la Chiesa devono variare secondo le persone, e le circostanze. La Chiesa è povera: voi siete ricco; datele del vostro oro. Siete povero voi stesso? dividete con lei il vostro pane. La Chiesa è attaccata colle armi alla mano? un sangue generoso scorre nelle vostre vene: offritele adunque il vostro sangue. La Chiesa è indegnamente calunniata: voi avete una voce; parlate: avete una penna; scrivete per la di lei difesa. La Chiesa è abbandonata, tradita da coloro che si dicevano suoi figli devoti; la di lei confidenza è in Dio solo: affrettatele colle vostre preghiere il soccorso dall’alto. La nostra divisa in somma sia il motto di Tertulliano: « Oggidì ogni Cattolico dev’essere soldato: in his omnis homo miles. » – In questa lotta obbligata, inevitabile, se la spada dello zelo deve armare il braccio al Cattolico; lo scudo della fede deve covrire il suo capo. È questo un nuovo dovere che gli incombe. Che voglio dire con ciò, mio caro amico? Voglio dire che il Cattolico deve prima di tutto provvedere alla propria sicurezza in modo da non mai contristare la Chiesa col divenire egli stesso la vittima dell’errore e del sofisma. Per questo, che cosa deve egli fare? Conoscere con precisione ciò che è vero e ciò che è falso nella questione attuale; per conseguenza ciò che deve sostenere, o pur combattere, di maniera che non faccia mai concessioni sospette, triste preludio di deplorabili defezioni. Per ciò che la rivoluzione attacca egualmente la società e la Chiesa, essa ha sofismi pronti al servizio di questa doppia iniquità: tanti che volumi interi non basterebbero a contenerli, né, che è più, a confutarli partitamente. Sicché il cattolico, se vuole preservarsi dai tratti veementi del nemico, deve prendere per regola immutabile di sua condotta e dei suoi discorsi queste massime eterne:

1° Chi si espone volontariamente al pericolo, vi perisce. I cattivi discorsi divorano come la cangrena.

Il cattolico deve dunque con somma cura evitare le conversazioni, e le letture capaci di falsare il suospirito sopra gli avvenimenti del giorno. Che egli si diffidi soprattutto dei giornali, che sono grandi corruttori del senso morale e della coscienza pubblica. L’uomo èfiglio della sua educazione, si diceva in altri tempi; e ciò era vero. L’uomo èfiglio del suo giornale, può dirsi oggi giorno; e in cento lettori, questo si avvera almeno di ottanta.

2. ° In fatto di politica, dovere del Cattolico è il sapere e il dire:

« La forza non costituisce il diritto,

« Il successo non giustifica niente.

« Il sagrificarsi e soccombere in causa giusta, èvera gloria;

« Il tradimento che trionfa, èvera vergogna.

« Dio si ride dei consigli degli uomini.

« La giustizia di Dio rende il contraccambio con solennità!

« Aderirsi a Pietro è attaccarsi all’IMMUTABILE. I Re che fanno ciò, al dire degli oracoli divini, si armano di chiodi i loro occhi e di spade le reni.

3. ° In materia poi religiosa, ogni Cattolico, sia uomo, sia donna, sia fanciullo deve sapere a mente, e sostenere questi assiomi della fede, e del senso comune:

a) Spogliare il Santo Padre dei suoi Stati, non è una questione puramente temporale, e moralmente indifferente: chespogliare ingiustamente alcuno, fosse egli anche Papa, èrubare. Or rubare èquestione totalmente morale e religiosa.

b) Togliere alla Santa Sede la sua indipendenza materiale èmenare la Chiesa a scisma, ed il Papa al martirio. A Colui, la cui parola deve comandar le prescrizioni della fede all’universo, non sono possibili che due posti in questo mondo; il trono, o il patibolo.

c) Dire che si ha diritto di spogliare il Papa per causa di utilità pubblica, èun gridare la legittimità del diritto della forza, inaugurare i l comunismo , e prepararne il trionfo.

d) Negare la necessità, l’utilità delle possessioni temporali della Chiesa, approvare lo spogliamento, di cui essa è la vittima, biasimare la resistenza che ella oppone ai consigli degli uni, alle violenze degli altri, non turbarsi affatto dei suoi anatemi, anzi pensare che i suoi fulmini non colpiscano in cosiffatte materie; è lo stesso che volersi rendere colpevolissimo dinanzi a Dio, e degnissimo delle pene più severe: essendo un approvare quello che la Chiesa riprova, sostenere le dottrine che ella condanna, dichiarare incolpevoli quegli atti che ella vitupera. »

Presumere che il Papa spogliato del suo temporale venga più rispettato e meglio ubbidito; è un far la parte dell’assassino di strada, il quale dice al viandante: amico, se io ti svaligio, ciò è nel tuo migliore; camminando a piedi nudi, sarai più stimato; e da me alleviato di tutto quello che porti, ti sentirai molto più libero. Se non che si darà una pensione al Papa! — Pane di pensione, pane di munizione; pane di munizione, pane di sommissione; pane di sommissione, pane di lagrime e di dolore. Credere che le concessioni e le riforme avrebbero salvato il Papa, questo è pascolo di sciocchi. La rivoluzione ha già detto: « Solo una concessione, solo una riforma può appagarmi; ed è la piena ed intera cessazione del governo temporale della Chiesa ». (Parole dei rivoluzionari italiani – v. cit. Cardinal Antonelli). Il Papa in difendere i suoi stati, non difende già un pezzo di terra; ma difende il diritto da qualsivoglia punto si riguardi; diritto sociale, diritto di sovranità, diritto di proprietà! Questi grandi principii basteranno al Cattolico a fare giustizia dei tanti sofismi, al certo inetti, onde siamo assaliti come da uno sciame di vespe in furore. Contrassegnammo un secondo pericolo, che è lo scisma. – Or vi ha due mezzi da poterne campare, l’uno negativo, e l’altro positivo. Il primo consiste in ripudiare, qualunque sia il suo titolo o il suo patrono, ogni opinione contraria alla spirito della Sede Apostolica, alle dottrine romane, all’infallibilità personale del Vicario di Gesù Cristo, ed alla sua suprema autorità in tutta la Chiesa; in una parola, rinnegare ogni opinione che tenda a legittimare l’insubordinazione al Santo Padre insino ad un certo grado o punto, o, come molti non arrossiscono di dire, l’emancipazione dalle esigenze della corte di Roma. Il secondo consiste in prendere per guida invariabile le parole di S. Ambrogio: Ubi Petrus, ibi Ecclesia: Ove è il Papa, ivi è la Chiesa. Innalzare i suoi sguardi di sopra a tutte le teste, ed anche a tutte le mitre, per fissarli alla Tiara: sapere quello che pensa il S. Padre, e pensare come lui né più, né meno; approvare ciò che egli approva; condannare ciò che egli condanna; fare ciò che egli ordina, con una docilità da fanciulli, questo, amico mio, è l’infallibile secreto per tenersi nel cammino della verità, e dentro il girone della Chiesa.

Parlerò ora della persecuzione, che è l’altra prova, cui noi possiamo essere chiamati? Rilegga il Cattolico gli annali dei suoi eroici avi, o la storia contemporanea dei suoi fratelli dell’estremo Oriente. E quindi apprenderà in una, e le precauzioni a cui attenersi per sfuggire ai suoi nemici, la rassegnazione onde soffrire la perdita dei suoi beni, e la sublime calma colla quale deve rendere omaggio alla verità, vivere nelle prigioni o nell’esilio, portare le catene del confessore, o soffrire i tormenti del martire. Questi nobili esempi dati da uomini di ogni età e condizione, da donne deboli, e da timide verginelle, infiammeranno il suo coraggio, e gli faranno dire: Perché non potrò io quello che tanti altri? cur non potero, quod isti et istæ? – Soprappreso da tanto eroismo in nature fragili, come lui, ben comprenderà essere il martirio una grazia, la più grande di tutte, ricompensa a lunga fedeltà! Se accade, riconciliarsi seriamente con Dio, mettere in regola i suoi affari temporali, mostrarsi scrupolosamente fedele nelle piccole cose, affine di meritare di essere fedele nelle grandi; soprattutto cibarsi sovente dell’Eucaristia, pane dei forti, vino che feconda le vergini; senza la quale, a giudizio dei primitivi Cristiani, il martirio è impossibile. E tali sono pei Cattolici i mezzi d’esser sempre, come diceva Tertulliano, di stirpe generosa, pronta al morire, expeditum morii genus. Se noi non siamo degni di fornire il sanguinoso arringo della persecuzione, altre prove ci aspettano. Le calamità pubbliche, gli sconvolgimenti sociali, le angosce di più sorte non possono mancare. Per renderle meritorie al cattolico, due virtù saranno la sua armatura; la pazienza e la carità. – Paziente, egli dirà a se stesso: Io ho bisogno di espiazione. E che sono le pene di questa vita al confronto delle gioie e delle ricompense dell’altra? Gittando ad ogni patimento i suoi sguardi sull’antico patriarca del dolore, ei dirà come Giobbe: « Il Signore me l’aveva dato, il Signore me l’ha tolto; Egli ha fatto ciò che ha trovato buono; sia benedetto il suo santo nome »; e sulla gran Vittima del mondo, dirà col Divino Modello: » Padre, se può essere, questo calice si allontani dalle mie labbra; intanto si faccia la volontà vostra, e non la mia». Caritatevole poi, riguarderà le creature non come causa delle sue sofferenze, si come strumenti della Providenza, la quale percuote per purificare, o per abbellire. Ed alla sua memoria s’appresenterà il precetto evangelico: « Pregate per coloro, che vi perseguitano: » Anzi sulle sue labbra saranno le parole del Divino Maestro spirante: » Padre, perdonateli, poiché essi non sanno quello che si fanno ». Onde degno figlio dei suoi avi, egli imiterà i primitivi Cristiani, i quali lungi dall’odiare i loro persecutori, pregavano notte e giorno per essi, e loro ubbidivano in tutto quello che Dio non proibisce. Tuttavolta egli saprà vituperare il male con energia, e chiamare gli empii col loro nome, come anche quelli facevano. – Il Divino Maestro, di cui poco fa abbiamo letta la tenera preghiera, non ha Egli forse chiamato i suoi persecutori lupi rapaci, lupi rapaces, sepolcri imbiancati, sepulcra dealbata, figli di satana, a patre diabolo? Il di lui Precursore non ha qualificati i Giudei increduli per razza di vipere, genimina viperarum? Per Tertulliano, il nome di Nerone non significa forse tutti i delitti? E da Lattanzio, Decio era un esecrabile animale, execrabile animal Decius! Per quanto siano dure, queste qualifiche non possono offendere, se non coloro che le meritano, o coloro che sconoscono i diritti dello zelo, perché ignorano quelli della verità. Usando di queste necessarie cautele, il Cattolico provvede alla propria sicurezza. Imperocché così egli combatte il male nelle sue manifestazioni e nei suoi effetti. Ma ciò non basta: chebisogna attaccarlo anche nella sua causa, che è un altro dovere di cui vi ragionerò fra  breve.

Tutto vostro etc.

LA SITUAZIONE (12)

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (3)

G.  Dom. Jean de MONLÉON

Monaco Benedettino

Il Senso Mistico

dell’APOCALYSSE (3)

Commentario testuale secondo la Tradizione dei Padri della Chiesa

LES ÉDITIONS NOUVELLES 97, Boulevard Arago – PARIS XIVe

Nihil Obstat: Elie Maire Can. Cens. ex. off.

Imprimi potest: t Fr. Jean OLPHE-GALLIARD Abbé de Sainte-Marie

Imprimatur: A. LECLERC. Lutetiæ Parisiorum die II nov. 1947

Copyright by Les Editions Nouvelles, Paris 1948

Prima Visione

LA REFORME DELLE CHIESE

TERZA PARTE

LA LETTERA ALLE SETTE CHIESE (Seguito)

Capitolo III, 1- 22

“E all’Angelo della Chiesa di Sardi scrivi: Queste cose dice colui che ha i sette Spiriti di Dio e le sette stelle: Mi sono note le tue opere, e come hai il nome di vivo, e sei morto. Sii vigilante, e rafferma il resto che sta per morire. Poiché non ho trovato le tue opere perfette dinanzi al mio Dio. Abbi adunque in memoria quel che ricevesti, e udisti, e osservalo, e fa penitenza. Che se non veglierà! verrò a te come un ladro, né saprai in qual ora verrò a te. Hai però in Sardi alcune poche persone, le quali non hanno macchiate le loro vesti: e cammineranno con me vestiti di bianco, perché ne sono degni. Chi sarà vincitore, sarà così rivestito di bianche vesti, né cancellerò il suo nome dal libro della vita, e confesserò il suo nome dinanzi al Padre mio e dinanzi ai suoi Angeli. Chi ha orecchio, oda quello che dice lo Spirito alle Chiese.

E all’Angelo della Chiesa di Filadelfia scrivi: Così dice il Santo e il Verace, che ha la chiave di David: che apre, e nessuno chiude: che chiude, e nessuno apre: Mi sono note le tue opere. Ecco io ti ho messo davanti una porta aperta, che nessuno può chiudere: perché hai poco di forza, ed hai osservata la mia parola e non hai negato il mio nome. Ecco io (ti) darò di quelli della sinagoga di satana, che dicono d’essere Giudei, e non lo sono, ma dicono il falso: ecco io farò sì che vengano e s’incurvino dinanzi ai tuoi piedi: e sapranno che io ti ho amato. “Poiché hai osservato la parola della mia pazienza, io ancora ti salverò dall’ora della tentazione, che sta per sopravvenire a tutto il mondo per provare gli abitatori della terra. Ecco che io vengo tosto: conserva quello che hai, affinché niuno prenda la tua corona. Chi sarà vincitore, lo farò una colonna nel tempio del mio Dio, e non ne uscirà più fuori: e scriverò sopra di lui il nome del mio Dio, e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme, la quale discende dal cielo dal mio Dio, e il mio nuovo nome. Chi ha orecchio, oda quel che lo Spirito dice alle Chiese. –

E all’Angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: Queste cose dice l’amen, il testimone fedele e verace, il principio delle cose create da Dio. “Mi sono note le tue opere, come non sei né freddo, né caldo : oh fossi tu freddo, o caldo: ma perché sei tiepido, e né freddo, né caldo, comincerò a vomitarti dalla mia bocca. Perciocché vai dicendo: Sono ricco, e dovizioso, e non mi manca niente: e non sai che tu sei un meschino, e miserabile, e povero e cieco, e nudo. Ti consiglio a comperare da me dell’oro passato e provato nel fuoco, onde tu arricchisca, e sia vestito delle vesti bianche, affinché non comparisca la vergogna della tua nudità, e ungi con un collirio i tuoi occhi acciò tu vegga. Io, quelli che amo, li riprendo e li castigo. Abbi adunque zelo, e fa penitenza. Ecco che io sto alla porta, e picchio: se alcuno udirà la mia voce, e mi aprirà la porta, entrerò a lui, e cenerò con lui, ed egli con me. Chi sarà vincitore, gli darò di sedere con me sul mio trono: come io ancora fui vincitore, e sedei col Padre mio sul trono. Chi ha orecchio, oda quel che lo Spirito dice alle Chiese.”

§ 1. — Lettera alla Chiesa di Sardi.

E all’Angelo della Chiesa di Sardi, scrivi: Questo è ciò che dice Colui che ha i sette Spiriti di Dio e le sette stelle: il Cristo, che dispone a suo piacimento dei doni dello Spirito Santo e che tiene sotto la sua autorità i prelati delle sette chiese, che rappresentano tutta la gerarchia ecclesiastica: « Io conosco le tue opere; so che hai un nome, – cioè un’apparenza esteriore, – che lascia credere agli uomini che vivete, profondamente, intensamente, la vostra vita cristiana; mentre in realtà siete morti, perché siete privi della vera vita, quella della mia grazia. »  Il tono di questa lettera, come potete vedere, prende immediatamente la forma di un rimprovero. Cristo non fa qui uso di argomentazioni preliminari, come ha fatto nelle precedenti ammonizioni. È perché il peccato di cui vuole occuparsi con il Vescovo di Sardi è più grave, perché è segreto e difficile da scoprire. Forse questo prelato, senza saperlo, si dà l’apparenza della santità; compie le opere esterne della santità: ma il motivo segreto a cui obbedisce è la vanagloria, non l’amore di Dio. Lo spirito che ispira questa quinta epistola è lo spirito di Consiglio: perché il vizio dell’ipocrisia, che qui si tratta di riprendere, sfugge alla perspicacia degli uomini comuni. Essi, come dice la Scrittura, vedono la faccia; ma Dio legge nelle profondità del cuore, (Cf. I Reg., XVI, 7.1) e lo spirito di consiglio ha precisamente come primo effetto il comunicare all’uomo qualcosa di questa penetrazione divina; di rendere più acuto lo sguardo della sua ragione, e di permettergli di vedere ciò che non vedrebbe con le sue sole luci naturali, nell’ordine morale. – Forse c’è un certo parallelismo tra il caso del vescovo di Sardi e la storia di quella città. « Il sito di Sardi – scrive il P. Allô – su una collina che si staglia dal Tmolus verso l’Hermus, ed è accessibile solo da sud, sembrava renderlo un luogo inespugnabile; tuttavia, poiché contava troppo sulla sua forza naturale, era stato sorpreso due volte: da Ciro, nella sua guerra contro Creso, e tre secoli dopo, da Antioco il Grande; il nemico era salito come un ladro nella notte, il suo bastione di rocce ripide ma fatiscenti. La chiesa di Sardi, che manca di zelo e di vigilanza, è in pericolo di essere sorpresa allo stesso modo, ma questa volta da Cristo, il giudice. » – In ogni caso, il peccato di questo Vescovo è certamente grave, poiché Nostro Signore non ha paura di dirgli: Sei morto. Egli è morto, eppure, grazie al ministero che esercita, grazie alle buone azioni che compie per abitudine, rimane in lui una scintilla di vita che può essere riaccesa: lo stoppino è ancora fumante. Egli è morto, ma può risorgere, come Lazzaro, come il figlio della vedova di Naim, come la figlia di Giairo, che sono, in gradi diversi, peccatori per cui non dobbiamo disperare. Ecco perché Nostro Signore parla ai morti come ad un vivo: « Esci dal tuo sonno, diventa vigilante, impara a custodire sia il tuo cuore che il tuo gregge. D’ora in poi, preserva dal vento della vana gloria, tutte le opere che ancora farai; altrimenti andranno perdute, come sono andate perdute quelle che hai fatto finora; perché agli occhi del mio Dio non sono piene. Possono apparire tali agli occhi degli uomini, che si lasciano facilmente ingannare dalle apparenze; ma davanti al Dio, davanti a quel Dio che Io stesso ho avuto tanta cura di compiacere, quando ero tra voi, sono vuote: mancano della purezza dell’intenzione, mancano di quell’impulso d’amore che solo darebbe loro valore ai suoi occhi. – Ricordati poi di ciò che hai, ricevuto, di ciò che hai compreso. Ricordati degli esempi che hai ricevuto dagli Apostoli: San Paolo scriveva al suo discepolo Tito: “Il Vescovo deve essere irreprensibile, come si addice a colui che è dispensatore di Dio, che non deve essere né orgoglioso, né collerico, né incline al bere, né brutale, né avido di guadagni vergognosi; ma che sia ospitale, buono, sobrio, retto, santo, continente, fortemente attaccato nelle verità della fede, che sono secondo la dottrina (degli Apostoli), affinché possa esortare secondo la sana dottrina e confondere coloro che la contraddicono (Tit. I, 7). Ricordati di ciò che hai imparato nella Legge di Mosè: Chiunque della stirpe sacerdotale di Aronne sarà contaminato, non si avvicinerà all’altare per offrire ostie al Signore, né pane al suo Dio. E ancora: Ogni uomo della vostra razza che si avvicina alle cose sante… ma in cui c’è contaminazione, perirà davanti al Signore. (Lévit., XXI, 21; XXII, 3). Questo è ciò che dovete ricordare e osservare. Se non vegli, se non ti applichi a correggere te stesso e a raddrizzare la tua intenzione verso Dio, Io verrò da te, non come un amico o come lo sposo della tua anima, ma come un giudice, per chiamarti a rispondere e punirti di conseguenza. Io apparirò all’improvviso come un ladro, e tu non avrai il tempo di metterti in regola, perché non saprai a che ora apparirò, se alla sera, o al mattino, o al canto del gallo, o in pieno giorno (Marc. XIII, 35). – Tuttavia, voglio aspettare ancora un po’. C’è un argomento che depone a tuo favore e che ferma il corso della mia giustizia: è che tu hai in Sardi alcune anime fedeli, di cui conosco i nomi. » Quest’ultima espressione sulla bocca di Dio significa che egli conta tra i suoi amici coloro di cui parla. In questo senso disse a Mosè: Io ti conosco per nome (Es., XXXIII, 17); e nel Vangelo: Io conosco le mie pecore ed esse conoscono me (Jo., X, 14). « Questi – continua – non hanno contaminato le loro vesti; hanno saputo mantenere intatta la veste della loro innocenza, evitando le colpe gravi, purificandosi attentamente dalle colpe leggere, praticando le virtù. Anche loro cammineranno con me in vesti bianche, mi seguiranno ovunque io vada, Io che sono l’Agnello senza macchia, il giglio delle valli e la corona delle vergini; saliranno sulle mie tracce di virtù in virtù, finché non li introduca nel Paradiso. Perché ne sono degni: perché la fedeltà di cui fanno prova, avrà meritato loro la grazia di avanzare nella virtù. » Le vesti bianche rappresentano sia l’innocenza conservata qui sulla terra che la gloria promessa ai corpi risorti. « Prendili come modello. Colui che saprà vincere le vanità del mondo, i desideri della carne, le suggestioni del diavolo, sarà rivestito di vesti bianche come loro, e Io non cancellerò il suo nome dal libro della vita, non lo cancellerò dalla lista degli eletti. E confesserò il suo nome davanti al Padre mio e ai suoi Angeli. Nell’ora del suo giudizio particolare, come nel giorno del giudizio universale, lo reclamerò per uno dei miei; lo porrò tra coloro ai quali dirò: Venite, benedetti del Padre mio… perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere, ecc…. (Mt. XXV, 34, 35). » E questo riconoscimento ufficiale fatto da Cristo, davanti alla Sovrana Maestà di Dio, davanti alla Santissima Vergine, davanti all’assemblea universale degli Angeli e degli uomini, è l’onore supremo al quale possiamo aspirare, e per il quale dobbiamo disprezzare tutte le glorie di questo mondo. – « Chi ha un orecchio attento, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese; non faccia nulla senza ascoltare lo spirito di consiglio, che gli parlerà o per ispirazione interiore o per bocca dei saggi; e torni a Dio con la penitenza, se ha avuto la sventura di cadere. »

§ 2. – Lettera alla Chiesa di Filadelfia.

E all’Angelo della Chiesa di Filadelfia, scrivi: Lo spirito che sta per parlare ora è lo spirito di Intelletto. La virtù propria è quella di rivelare ai piccoli, agli umili di cuore, i misteri della Sapienza divina e le profondità della Scrittura, che i sapienti e i prudenti di questo mondo non possono penetrare. (Mt., XI, 25). Esso sarà diffuso in abbondanza sulla Chiesa di Filadelfia, perché la Chiesa di Filadelfia, se crediamo all’etimologia del suo nome, si distingueva per la sua carità fraterna, che riassume tutta la perfezione del Vangelo. Questo è ciò che dice il Santo e il Veritiero: Colui che ha la chiave di Davide, che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre. Questi epiteti designano chiaramente il Cristo. È Lui il Santo per eccellenza: è l’unico, per essenza, ed è allo stesso tempo l’unica fonte da cui procede la santità di tutti gli altri; è Lui il Veritiero: tutto ciò che ha detto, tutto ciò che ha promesso si realizzerà infallibilmente; Egli ha la chiave di Davide, perché è la sua vita e la sua morte che ci permette di decifrare il significato misterioso dei Salmi, e di tutta la Scrittura. È Lui che apre la mente alla comprensione di questi Libri santi ed il cuore alla grazia: e nessuno chiude, nessun argomento, nessun artificio può sviare coloro che aderiscono a Lui per fede e amore; è anche Lui che chiude, che rende questi Libri impenetrabili alle luci della ragione umana lasciata a se stessa: e nessuno può aprire, perché nessuno, per quanto paziente possa essere nel suo lavoro, per quanto erudito possa essere nelle scienze umane, può capire qualcosa del significato profondo della Scrittura senza il Suo aiuto. « Conosco le tue opere, le approvo, le amo ». Queste sono opere di carità, fatte in umiltà e pazienza, come dirà tra poco. Ma prima di tutto si affretta a mostrare la ricompensa che intende destinare al Vescovo di Filadelfia: Ecco, io ti ho concesso, – cioè ho deciso di concederti, – una porta aperta davanti a te, cioè la comprensione del significato delle Scritture, che di per sé aprirà la porta dei cuori alla verità, e inoltre ti introdurrà personalmente nella mia intimità. E nessuno potrà chiuderti questa porta, nessuno potrà portarti via questo dono. Te lo concedo, perché sei umile: conosci la tua debolezza, sai di avere poca virtù, eppure hai conservato fedelmente la mia parola, hai osservato la dottrina del Vangelo, soprattutto sul punto della carità, e quando è arrivata la prova, non hai rinnegato il mio nome. Per questo motivo, ecco, io ti darò la grazia di convertire alcuni di quelli che appartengono alla sinagoga di satana, che si dicono Giudei e mentono, perché non lo sono: sono circoncisi, è vero, ma solo secondo la carne. Perciò non tormentarti, visto che molti sono insorti contro di te per il modo in cui causa insegni la Scrittura. La stessa cosa è successa a me; quando ho spiegato le profezie ai miei concittadini, essi dicevano: « Come fa costui a conoscere le lettere? Dove le ha imparate? In cosa si mischia il figlio del carpentiere? » – (Jo., VII, 15; — Matt., XIII, 55). Anche quelli erano della sinagoga di satana, sostenevano di essere discendenti di Abramo, mentre in realtà non erano che figli del diavolo. (Jo., VII, 33, 34).  Non lasciarti smuovere dal loro atteggiamento ostile. Io farò in modo che essi vengano a te; un giorno riconosceranno il loro errore, si prostreranno ai tuoi piedi e sapranno che Io ti ho amato e per questo ho permesso che tu fossi perseguitato. – Perché avete osservato fedelmente la parola della mia pazienza… cioè, perché hai cercato di imitare l’esempio che ho dato sulla croce, quando, lungi dall’irritarmi con loro che mi facevano sottoponevano a sofferenze così terribili, ho pregato per loro ed ho detto: « Padre, perdona loro, non sanno quello che fanno. (Luc. XXIII, 34). Poiché dunque tu hai osservato questa parola, Io ti preserverò dall’ora della tentazione che deve venire su tutto l’universo, per provare quelli che abitano sulla terra. » – Qual è la tentazione di cui il Salvatore vuole parlare qui? I commentatori hanno pensato a volte alla persecuzione di Nerone, a volte a tutti quelli che hanno insanguinato i primi secoli, e a volte a quella che dovrà accompagnare il regno dell’Anticristo. Queste spiegazioni possono essere accettate e contengono senza dubbio una parte di verità; tuttavia, in modo più generale, dobbiamo vedere in questa parola un’allusione alle prove di ogni genere che non cessano mai nella Chiesa, e che affliggono specialmente i giusti, avendo Dio voluto così perché si manifestassero le loro virtù. Perciò non è detto qui che la Chiesa di Filadelfia sarà preservata dalla persecuzione esterna, perché ciò sarebbe privarla di un’abbondante fonte di merito e di gloria: il Figlio di Dio le promette solo un aiuto speciale per evitare che venga meno sotto questa prova. Il Figlio di Dio promette solo un aiuto speciale per impedirle di fallire in questa prova: « Ecco, Io vengo presto; ecco, presto farò conoscere la mia assistenza a coloro che combattono, a coloro che soffrono, che meritano.  Tenete fermo ciò che hai, perseverate nelle tue attuali disposizioni ed opere, affinché nessuno riceva la corona che ti è destinata. Non fare come Giuda, che per il suo crimine e la sua disperazione ha perso le insegne di Apostolo di Cristo, di cui era rivestito e che San Mattia ha ereditato (Cf. Ps. CVIII, 8. et episcopatum ejus accipiat alter.). – Né come il quarantesimo martire di Sebaste, che non ebbe il coraggio di sopportare fino alla fine il tormento del lago ghiacciato: rinunciò alla lotta, ma uno dei suoi guardiani, vedendo brillare in cielo quaranta corone, quando erano rimasti nella lizza solo trentanove atleti di Cristo, si affrettò a prendere il posto del disertore ed ereditò la ricompensa (Bollandisti, 10 Marzo). « Colui che avrà riportato la vittoria, Io lo farò diventare una colonna nel tempio del mio Dio. » Questa comparazione è rivolta ai Santi ed ai perfetti, a causa del solido fondamento della loro fede e della loro pazienza; essi sopportano senza vacillare tutti gli assalti del diavolo e del mondo e, lungi dal vacillare davanti alle colpe dei loro fratelli, li sostengono con le loro esortazioni ed i loro esempi. È in questo senso che San Paolo ha paragonato Giacomo, Cefa e Giovanni a delle colonne (Gal., II, 9), e che Dio ha chiamato Geremia una colonna di ferro (Ez., II, 18). « Quest’uomo dunque non uscirà più fuori », non si allontanerà più dalla retta via, ma continuerà nelle opere buone, senza essere sviato da alcuna tentazione o minaccia. « E scriverò su di lui in modo indelebile il nome del mio Dio, quel nome che era inciso sulla tiara del sommo sacerdote (Ex. XXVIII, 36); cioè: lo farò figlio di Dio per adozione, come Io stesso lo sono per natura. E scriverò anche il nome della città del mio Dio, la Nuova Gerusalemme: lo contrassegnerò con il titolo di cittadino della Gerusalemme celeste, e ne farò un uomo di pace – perché il nome di Gerusalemme significa: Visione di pace – e un uomo nuovo, rigenerato nella grazia. Stabilirò in lui il regno della carità, e tutti potranno vedere che egli non è più della terra, che appartiene a questa meravigliosa Città che non è opera dell’uomo, ma che scende dal cielo, perché, venendo con Cristo, porta quaggiù i costumi della corte celeste, e perché trae tutta la sua vitalità, tutta la sua organizzazione, tutta la sua bellezza, dal mio Dio, e scriverò su di lui il mio nuovo nome, questo nome di Cristo che ho preso quando sono venuto sulla terra e che significa: Unto; Io verserò su di lui questo olio misterioso che lo farà a mia immagine, sacerdote e re. Chi ha orecchio, comprenda ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Che si avvicini al fiume della dottrina della vita e ne beva; che applichi il suo spirito, come Maria, per ascoltare la voce del Maestro, affinché l’occhio della sua intelligenza possa scoprire la verità nascosta sotto le figure. »

§ 3.  – Lettera alla Chiesa di Laodicea.

E all’Angelo della chiesa di Laodicea scrivi. Lo spirito che ascolteremo in questa lettera è lo spirito della sapienza. È indirizzata ad un’anima piena di auto-illusione, e impantanata da essa nella tiepidezza, nemico mortale dell’avanzamento spirituale: così Egli sarà particolarmente severo, ricordando al suo corrispondente l’umiltà, e predicandogli la necessità di conoscere se stesso per elevarsi alla vera saggezza. Tuttavia, non dimentica i diritti della misericordia e incalza il colpevole con sollecitazioni in cui si tradisce la tenerezza del suo Cuore e la costanza del suo Amore. « Questo è ciò che dice l’Amen, il testimone fedele e vero, il principio della creazione di Dio. » La parola Amen, usata qui come sostantivo, esprime la Verità assoluta, infallibile, immutabile, che si identifica con l’Essere, e alla quale si deve aderire ad occhi chiusi, senza discussioni o riserve. Questa Verità è personificata in Gesù Cristo Nostro Signore, testimone fedele perché compie tutto ciò che promette; testimone veritiero perché le sue affermazioni non possono essere messe in dubbio, sia quando parla delle realtà divine che è venuto ad annunciare al mondo, sia quando accusa i peccati degli uomini o proclama i loro meriti. Egli è il principio della creazione di Dio, in quanto tutte le cose sono state create da Lui, e nulla è stato fatto senza di Lui (Jo, I, 3); soprattutto in questo senso, qui, che è per mezzo di Lui che si opera il nostro rinnovamento in Dio: tutti noi abbiamo cominciato, con San Paolo, come figli dell’ira, vivendo nei desideri della carne, facendo la volontà della carne, sepolti nella morte del peccato: ma Dio, che è ricco di misericordia, a causa dell’eccessiva carità con cui ci ha amati, ci ha risuscitato e stabilito nelle cose celesti con il suo Figlio Gesù. Questo è puro dono della Sua grazia, e non saremo mai abbastanza persuasi che noi non siamo « frutto delle nostre opere, ma opera Sua, creati di nuovo in Cristo Gesù » (Ephes., II, 1-11, passim.). « Conosco le tue opere. So che non sei né freddo né caldo: non sei completamente freddo, perché la tua fede non è morta; perché, come il fariseo del Vangelo, che digiunava due volte alla settimana e distribuiva ai poveri la decima dei suoi beni, rimani attaccato a certe pratiche esteriori. Ma tu non sei nemmeno caldo: non hai nessuna preoccupazione di imparare ad amare Dio ed il tuo prossimo, non hai zelo per la salvezza delle anime, né per il tuo avanzamento nella virtù. Vorrei tanto che tu fossi freddo, che non avessi questa osservanza esteriore, che ti dà l’impressione di essere giusto, perché allora sarebbe facile farti capire la tua miseria e condurti alla conversione. – O se tu fossi caldo, se tu avessi davvero la carità, che ti porterebbe alla pratica del bene e alla ricerca della perfezione! Ma poiché sei tiepido, poiché siete inerte e languido nelle vie del bene, comincerò a vomitarvi dalla mia bocca. » Il Signore procede, come sempre, con moderazione e dolcezza. Non colpisce subito il colpevole: semplicemente lo minaccia, se non cambia la sua condotta, di cominciare a ritirare la sua grazia, il che lo getterà gradualmente fuori dalla comunione dei Santi, e cioè, come se fosse fuori da Dio. La parola “vomito” che è usata qui per rappresentare la scomunica, ha lo scopo con la sua stessa eccessività di farci capire il dolore che Dio prova nell’usare questa punizione, e tuttavia questo è l’unico mezzo che può usare per eliminare dal suo Corpo mistico gli elementi che sono resistenti ad ogni assimilazione. Questa espressione segna anche il disgusto che Dio ispira a coloro che pretendono di tenere una giusta via di mezzo tra il servizio a Lui, e quello del mondo. E qual è la causa di questa tiepidezza? – È la buona opinione che il Vescovo di Laodicea ha di se stesso; egli si dice nel segreto del suo cuore: « Sono ricco di vantaggi temporali e spirituali, e sono ancora più ricco per tutte le opere buone che ho fatto; non ho bisogno dell’insegnamento o dell’aiuto di nessuno. – « E tu ignori – gli risponde Dio – e di un’ignoranza colpevole, un’ignoranza che proviene dalla cecità in cui ti immerge il tuo orgoglio; tu ignori di essere un miserabile, un infelice nato nel peccato e del tutto incapace di uscirne con le tue forze; sei un povero uomo, non hai alcun merito dal tuo fondo; un cieco, perché non ti conosci; e sei nudo, avendo perso la veste della tua innocenza. » Il testo greco accentua la forza di queste espressioni aggiungendo l’articolo prima di esse: tu non sai di essere lo che sventurato, il povero, ecc. … Ti invito dunque a comprare da me l’oro di una carità ardente di fervore e sincera, purificata da ogni ricerca di sé, attraverso la prova e la tribolazione. Io voglio che tu lo compri da me, perché non lo troverai nei libri, né nel commercio delle creature, né nell’azione esterna: lo troverai solo chiedendomelo nella preghiera. Ma sebbene questo sia un dono gratuito della mia misericordia, voglio che tu lo compri con i tuoi sforzi, le tue buone opere e le tue penitenze. Allora diventerai veramente ricco di beni spirituali; ti rivestirai delle bianche vesti di una vita pura, e la confusione della tua nudità, delle tue deformità, sarà cancellata dalla mia presenza. – « E ungi i tuoi occhi con il collirio, perché tu possa recuperare la vista ». Questo meraviglioso collirio, che restituisce così la vista ai ciechi, è la Passione di Cristo, che apre gli occhi dell’anima, cioè l’intelletto e la volontà, alla comprensione e all’amore di ciò che è il vero bene dell’uomo. Esso getta la luce della verità su tutte le cose e rende manifesto l’errore e la follia di coloro che corrono dietro alle soddisfazioni della carne o all’amor proprio, mostra il percorso che Cristo ha fatto per tornare in cielo, e che noi dobbiamo fare dopo di Lui. Come il collirio punge gli occhi, facendoli piangere ed espellendo così le impurità che li accecavano, così punge l’anima – questo è il significato originale della parola: compunzione – facendole sentire il dolore dei peccati commessi, il senso di ingratitudine che ha mostrato verso Dio, e così purificandola. Lo stesso simbolismo si trova nel libro di Tobia, quando l’Arcangelo Raffaele ordina al suo giovane protetto di strofinare gli occhi del padre con il fiele del pesce, per ridargli la vista: il pesce, come sappiamo, è la figura di Cristo, ed il fiele rappresenta la parte amara della sua vita, cioè la sua Passione. Dopo questo severo avvertimento, il divin Maestro, unendo come sempre la giustizia e la misericordia, lascia spazio alla tenerezza del suo Cuore: « Sono coloro che amo che Io castigo, aggiunge, cioè, non ribellarti, non prendere i miei ammonimenti nel modo sbagliato. Io non faccio come i servi del mondo, che lusingano solo i loro amici e riservano tutto il loro rigore a coloro che li dispiacciono; al contrario, Io rimprovero e colpisco coloro che amo. Con questo desidero mantenerli sulla strada giusta ed insegnare loro a conoscere se stessi. Esci dal tuo torpore, rispondi al mio amore con l’amore, imita i miei Santi e fa’ penitenza. Se questo sforzo sembra al di sopra delle tue forze, non scoraggiarti; Io sono qui per aiutarti. Ecco, Io sto alla porta del tuo cuore, faccio appello al tuo libero arbitrio – perché questa è l’unica porta attraverso la quale Cristo entra nelle nostre anime – e busso. Cerco di provocare in te dei sentimenti di compunzione, a volte con ispirazioni interiori, a volte per mezzo di circostanze esterne, affinché tu ti apra a Me. Vorrei entrare e sedermi alla tua tavola, a quella tavola interiore dove il tuo spirito banchetta solitamente di vana gloria; vorrei sedermi lì con te, e condividere insieme ciò che ognuno ha portato: tu mi daresti le tue opere, e Io darei la mia gloria. Se qualcuno ascolta la mia voce ed apre la porta del suo cuore con la sua fede, con l’acquiescenza della sua volontà, Io entrerò in lui con la mia grazia e le mie consolazioni; penetrerò nel suo profondo, lo trasformerò, e cenerò con lui e lui con Me: Io gli farò gustare la dolcezza del mio amore, in attesa che venga a sua volta a cenare con Me, nel mio Paradiso. » Si noti che l’autore dice “cena” e non “pranzo” perché dopo la cena, la giornata è finita: non c’è più bisogno di tornare al lavoro, e la conversazione intima può continuare finché gli amici lo desiderano. “Colui che riporterà la vittoria sui nemici della sua salvezza, sul diavolo, sulla carne e sul mondo, gli darò di sedere con me sul mio trono, come ho promesso ai miei dodici Apostoli. Ma questi posti si conquistano solo con una dura lotta; ed Io stesso, solo dopo aver combattuto e vinto, dopo essermi fatto obbediente fino alla morte ed alla morte di croce, ho preso posto con il Padre mio sul mio trono. Chi ha l’orecchio del cuore attento, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese. »

LA SITUAZIONE (10)

LA SITUAZIONE (10):

DOLORI, PERICOLI, DOVERI E CONSOLAZIONI DEI CATTOLICI DEI TEMPI PRESENTI

OPERA DI MONSIGNORE G. G. GAUME PROTONOTARIO APOSTOLICO

Custos, quid nocte?

Sentinella: che è della notte?

Lettera Decima

Caro Amico,

Se nei consigli della Providenza non sarà a noi concesso di salvare il mondo attuale, come non fu dato ai padri nostri di Roma e di Gerusalemme di sottrarre i Giudei ed i Romani al castigo sì giustamente meritato; a che metterà mai la grande insurrezione presente contro Dio? Come finirà questa guerra senza esempio negli annali dei popoli battezzati? Al certo come finirono tutte le grandi lotte del male contro il bene. Dopo che Iddio ha fatto risuonare la sua parola paterna, e tuonò indarno; Egli fa parlare ai suoi fulmini. Se al figlio ostinatamente riottoso fa bisogno della correzione; se i peccati dei primi Cristiani, sì veramente Cristiani, furono, al dire dei Padri, la cagione delle spaventevoli tempeste, notissime già tanto col nome di persecuzioni: come sarà da credere, che l’Europa attuale si rimetterà nel diritto cammino per un sentiero cosperso di rose? L’uomo indurato non grida misericordia, se non si trova alle dure strette dell’avversità. Or dunque a salvare una società ostinata nel male, che rimedio è necessario? È necessario quel che a punto gli uni temono, gli altri sperano, e che tutti presentono; è necessaria la pruova. E che sarà essa mai? Ogni prova chiude in sé doppio mistero; mistero di espiazione, mistero di rinnovazione. Il fuoco del crogiuolo consuma la lega: l’oro solo n’esce puro e lucente. Ora avviene il medesimo del fuoco della tribolazione. E così ebbero sempre fine, mercè d’un’azione diretta e sovrana della giustizia di Dio, le grandi epoche del male, il mondo antidiluviano, il mondo pagano. E similmente mercè d’un’azione diretta e sovrana della misericordia di Dio, ebbero cominciamento le due grandi epoche del bene, il mondo patriarcale, il mondo cristiano. Tale è la prova in sua natura. Ma che sarà, in rispetto a noi, quella che ci si prepara? La fede e la ragione, e le analogie della storia ci porgono la medesima risposta. L’avvenire riservato all’Europa è senza meno una catastrofe proporzionata al male che ne è la causa, di cui essa sarà il castigo. Politica, filosofia, letteratura, arti, educazione, industria, danza, musica, ogni cosa fu invasa dal male sotto il nome di lumi e di civilizzazione. Esso è dappertutto, è inveterato, ha resistito a tutti i rimedii. Sicché portando oggidì sveltamente in faccia del sole una mano sacrilega sopra il Padre del mondo cristiano, esso tocca al suo ultimo confine. La società, in cui, come a dire, incarnossi, facendone l’anima della sua anima, osso delle sue ossa, carne della sua carne, si è da sé sottoscritto il suo decreto di morte: e la catastrofe sarà la sua tomba; scritta ne è la sorte nella storia. Non mai avvenne che una società si ringiovanisse, e molto meno un mondo. Così la catastrofe del diluvio non ringiovanì il mondo antidiluviano, ma lo inghiottì; né l’invasione dei barbari ringiovanì il mondo romano, anzi lo fece scomparire dalla faccia della terra. – Una grande rovina; questo apparisce in sul primo piano del quadro: e per vederlo, non fa bisogno del telescopio: basta l’occhio nudo. Ma dietro da sì grande rovina che altro vedete voi? Oh! mio caro amico, già ben vel dicevo in sul cominciare: l’amicizia vi accieca. Voi per fermo male v’indirizzate a me: che io non sono profeta, né figliuol di profeta: ed a rispondervi sicuramente, e’ bisognerebbe essere tale. L’avvenire è in mano di Dio; ed allorché ci facciamo a scandagliarlo, entriamo di necessità nel dominio delle congetture. Non attendete dunque da me né profezie, né quasi-profezie: sì qualche semplici congetture; ed ecco quel che io posso darvi. E perciocché ve ne tenete contento, io ve ne porgo qualcheduna; attendendo in questa lume più alto e sicuro, possano frattanto le mie parole illuminare un lato di quell’avvenire che domani forse sarà il presente; di quell’avvenire pieno di speranza agli uni, di terrore agli altri, a tutti di mistero! L’un dei due: o l’elemento cattolico, che nell’Europa intera sopravviverà alla catastrofe, basterà solo a comporre nuovo ordine di cose; ed in tal caso, alla prova conseguiterà un’epoca di pace sociale e di trionfo della Chiesa. L’occhio dell’uomo vedrà allora il più consolante dei miracoli: compita che avrà l’opera sua la rivoluzione, spezzato, bruciato, scannato, saccheggiato tutto quello che bisogna, e i suoi figli medesimi, l’un dopo l’altro, secondo l’usato, divorati; quindi il timore diverrà l’inizio della saggezza. Meno colpevoli delle altre le Classi popolari, che, ad onta dei loro disordini e la indifferenza, conservarono i principii della fede, si rivolgeranno verso la Chiesa, scongiurandola di salvarle. E questa sarà come l’aurora di un mondo novello; e si vedrassi che la Providenza non va mai a tentoni. Si saprà che migliaia di chiese sono state riparate, ingrandite o di nuovo edificate da cinquant’anni in qua , non per rimanere deserte, né per venir convertite in luoghi profani. A tutti gli occhi brillerà intanto la ragione perché  tanti corpi religiosi uscirono come per miracolo dal seno di una società profondamente corrotta. Allora l’attività disconosciuta dello zelo cattolico e le sue meravigliose creazioni si spiegheranno da per se stesse; e le lagrime amare della Chiesa saranno asciugate, ed i suoi lunghi dolori compensati da gioie materne di sopra ad ogni maniera di gioie. – E Maria giustificherà tutte le speranze del mondo cattolico. Vittoriosa di bel nuovo, fra tante volte, del serpente infernale, dirà ben ella perché fu riservato al nostro secolo, e non ad altro l’aggiungere alla di Lei corona 1’ultima e la più vaga gemma. In tal modo si compiranno in tutta loro estensione i magnifici oracoli dei profeti dell’antico e nuovo Testamento; oracoli, che a giudizio di molti, non si avverarono sin qui se non in maniera incompleta. Allora Dio solo sarà grande sulla terra. Allora il suo Cristo regnerà dall’Oriente all’Occidente, come Salomone, nella pienezza della pace. Allora non vi sarà che un solo ovile ed un solo pastore: unum ovile et unus pastor. – O per contrario l’elemento cattolico che rimarrà in Europa sarà troppo debole da non poter comporre esso solo una novella società; ed allora, posto che l’Occidente non debba divenire una terra maledetta e solitaria, come la Giudea dopo il passaggio di Nabuccodonosorre, un nuovo sangue sarà infuso nelle vene dei suoi rari abitanti. L’Europa sarà per vedere quel che diceva Napoleone I. Sbucati non si sa donde, e condotti da alcuni capi improvvisati, di cui la Previdenza fa eroi, che la storia poi chiama Attila, Genserico, Tamerlano, e da se stessi si appellano il flagello di Dio, la verga dei re, ed il terrore del mondo, questi figli del deserto verranno, come i loro avi, a curvare la loro testa sotto alla mano del Cattolicismo: e da quest’elemento cristiano verrà una novella Europa. Per quanto strana possa ad alcuni parere cotale soluzione a primo colpo d’occhio, essa nondimeno non moverà il sorriso alle labbra di alcuno spirito serio. – In Oriente, alcuni misteriosi presentimenti ciò appunto annunziano; e in Occidente, la è questa preoccupazione dei più profondi pensatori da più di ottant’anni in qua. La mancanza di spazio non mi dà di citarvene le prove. Nell’una e nell’altra delle sue parti, la disgiuntiva che io ho sinora dichiarata, presuppone che 1’umanità è ben lontana dall’aver compiti i suoi destini sopra la terra. Se si ammette secondo alcuni, che la fine dei tempi si avvicina, ecco quel che ci attende. – Malgrado la prova, l’Europa non si convertirà. La rivoluzione trionfante continuerà ad estendere le sue conquiste ed a consolidare il suo regno. La dissoluzione sociale fatta più profonda che ai tempi del Basso-Impero, compirà di fare del mondo moderno un cadavere vivente. E perché si mantengano in stato di aggregazione gli elementi sociali, pur sempre pronti a disciogliersi, il dispotismo più duro che mai si fosse veduto, graverà sopra il mondo. La guerra dell’uomo contro Dio si allargherà in proporzioni di più in più generali: e questa guerra sarà governata da un nuovo impero anticristiano più terribile di quelli che lo hanno preceduto. Se l’ipotesi, ov’io ragiono, è vera, questo impero è già fuori dalla culla: e consentite, mio caro amico, ch’io vi spieghi il mio pensiero. Sapete che è nei destini della Chiesa l’aver sempre di fronte un grande impero nemico. La ragione è tutta nell’esistenza delle due Città; la Città del bene, e la Città del male, ambedue non periture. Discendendo dal Cenacolo, la Chiesa, o la Città del bene, trovò l’impero romano, contro il quale ebbe a combattere per cinque o sei secoli. Caduto l’impero romano, la lotta non finì. I brani ancor sanguinanti del colosso si giacciono tuttavia sul suolo dell’Occidente, e già all’estremo Oriente si innalza un nuovo impero anticristiano, non meno esteso, non men crudele, e certo più durevole di quello dei Cesari. L’impero di Maometto perseguita la Chiesa; e per fermo la tiene in scacco già quasi mille e dugento anni. Al di d’oggi si ritrova nelle convulsioni dell’agonia. Se noi entriamo nel periodo delle ultime lotte, la Chiesa, secondo quel che è stato predetto divinamente, deve attendersi, e noi con essa, nuovi e più terribili combattimenti. Eccettuata forse qualche tregua di breve durata, e più apparente che reale, la guerra si continuerà su tutti i punti del pianeta; poiché la Chiesa non cesserà mai di essere Cattolica. Questa guerra poi diverrà ognora più accanita, sino all’apparizione di colui, che personificandola, sarà la più alta espressione del male, l’anticristo per eccellenza. E il suo regno sarà l’epoca di quelle lotte formidabili che metteranno in pericolo la salute medesima dei predestinati. Ma come tutte le grandi epoche del male, finirà anch’esso mediante un’azione diretta e sovrana di Dio. Colui, al quale è stato dato ogni potere nel cielo e sulla terra, verrà in soccorso della verità; e dopo aver ucciso l’uomo del peccato col soffio della sua bocca, Egli porterà seco la Chiesa sua sposa nel soggiorno dell’eterna pace. E in tal guisa finirà il mondo. Checché sia di codeste vicende, ciò solo rimane incontrastabile. – In mezzo alle perplessità del presente, ed alle incertezze dell’avvenire, ben gravi doveri incombono ai cattolici. Ed io ve ne parlerò nella mia prossima lettera.

Tutto vostro, etc.

LA SITUAZIONE (11)

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (2)

G Dom. Jean de MONLÉON

Monaco Benedettino

Il Senso Mistico

dell’APOCALYSSE (2)

Commentario testuale secondo la Tradizione dei Padri della Chiesa

LES ÉDITIONS NOUVELLES 97, Boulevard Arago – PARIS XIVe

Nihil Obstat Elie Maire Can. Cens. ex. off.

Imprimi potest: t Fr. Jean OLPHE-GALLIARD Abbé de Sainte-Marie

Imprimatur A. LECLERC.

Lutetiæ Parisiorum die II nov. 1947

Copyright by Les Editions Nouvelles, Paris 1948

Prima visione

PRIMA PARTE

APPARIZIONE DEL CRISTO A SAN GIOVANNI

Capitolo I, 9-20

“Io Giovanni vostro fratello, e compagno nella tribolazione, e nel regno, e nella pazienza in Gesù Cristo, mi trovai nell’isola che si chiama Patmos, a causa della parola di Dio, e della testimonianza di Gesù. Fui in ispirito in giorno, di domenica, e udii dietro a me una grande voce come di tromba, che diceva: Scrivi ciò, che vedi, in un libro: e mandalo alle sette Chiese che sono nell’Asia, a Efeso, e a Smirne, e a Pergamo, e a Tiatira, e a Sardi, e a Filadelfia, e a Laodicea. E mi rivolsi per vedere la voce che parlava con me: e rivoltomi vidi sette candelieri d’oro: e in mezzo ai sette candelieri d’oro uno simile al Figliuolo dell’uomo, vestito di abito talare, e cinto il petto con fascia d’oro: e il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca, e c0ome neve, e i suoi occhi come una fiamma di fuoco, e i suoi piedi simili all’oricalco, qual è in un’ardente fornace, e la sua voce come la voce di molte acque: e aveva nella sua destra sette stelle: e dalla sua bocca usciva una spada a due tagli: e la sua faccia come il sole (quando) risplende nella sua forza. E veduto che io l’ebbi, caddi ai suoi piedi come morto. Ed egli pose la sua destra sopra di me, dicendo: Non temere: io sono il primo e l’ultimo, e il vivente, e fui morto, ed ecco che sono vivente pei secoli dei secoli, ed ho le chiavi della morte e dell’inferno. Scrivi adunque le cose che hai vedute, e quelle che sono, e quelle che debbono accadere dopo di queste: il mistero delle sette stelle, che hai vedute nella mia destra, e i sette candelieri d’oro: le sette stelle sono gli Angeli delle sette Chiese: e i sette candelieri sono le sette Chiese”.

San Giovanni passa ora al racconto delle straordinarie visioni che ebbe sull’isola di Patmos dove l’imperatore Diocleziano lo aveva relegato. Abbiamo appena letto il racconto della prima. L’Apostolo racconta come una domenica si trovò improvvisamente in estasi, mentre si sentiva dietro di lui una voce, brillante come il suono di una tromba, dicendo: “Quello che stai per vedere, scrivilo in un libro e portalo alle sette Chiese d’Asia”, cioè alle sette sedi episcopali dell’Asia Minore, che sono elencate nel resto del racconto. Allora San Giovanni si voltò per vedere chi gli stava parlando in questo modo, e questa è la vista inaspettata che si presentò ai suoi occhi: “Vidi sette candelabri d’oro, e in mezzo ad essi stava uno simile al Figlio dell’Uomo, vestito con la veste sacerdotale e cinto di una fascia d’oro sulla parte superiore del petto. E il suo capo e i suoi capelli erano bianchi come lana bianca e come neve; e i suoi occhi erano come una fiamma di fuoco; e i suoi piedi erano come l’auricalco in una fornace ardente, e la sua voce era come la voce delle grandi acque. E aveva nella sua mano destra sette stelle; e dalla sua bocca usciva una spada affilata da entrambi i lati; e la sua faccia era come il sole, quando brilla nella sua potenza. È ovvio che l’autore non accumulerebbe dettagli così strani come quelli appena ascoltati se non avessero un significato profondo, e cercassero di tradurre in linguaggio immaginario delle realtà di ordine trascendentale. L’Apostolo, inoltre, nel corso del suo racconto, avrà cura di togliere ogni dubbio che possa rimanere a questo riguardo, esponendo lui stesso, qua e là, il significato mistico delle descrizioni che ha appena fatto. Così dirà, per esempio, un po’ più avanti: Le sette stelle sono gli Angeli delle sette chiese, e i sette candelabri sono le sette chiese. Ma egli solleva solo in alcuni punti il velo che nasconde ai nostri occhi il vero significato di ciò che dice: lascia alla profezia la sua forma misteriosa, per colpire più profondamente gli spiriti ed invitare coloro che lo ascoltano a cercare il campo che egli dà loro. Per scoprire i tesori di verità e di saggezza nascosti sotto queste apparenze sconcertanti, seguiamo le orme dei Padri della Chiesa: solo loro sono in grado di darci qualche luce su questi misteri. Impareremo da loro che i sette candelabri indicano senza dubbio la Chiesa stessa. La Chiesa è, infatti, il candelabro che porta Cristo, la luce del mondo. Il suo numero è “sette” perché vive dei sette sacramenti e dei sette doni dello Spirito Santo; perché possiede sette virtù fondamentali: le tre teologali e le quattro cardinali; perché ordina tutta la sua attività alla pratica delle sette opere di misericordia corporale e delle sette opere di misericordia spirituale. Si dice che sia fatta d’oro massiccio, per mostrare che la sua sostanza si identifica con la carità, di cui l’oro è il simbolo; mentre, invece, le sette dissidenti hanno solo la brillantezza esterna e lo scintillio dorato delle loro seducenti ma false teorie. Fu in mezzo ai sette candelabri che San Giovanni riconobbe il Figlio dell’Uomo, perché Cristo sta in mezzo alla Chiesa ed è impossibile trovarlo fuori di essa. Notiamo qui che l’apostolo dice di aver visto non il Figlio dell’uomo, ma qualcuno che era come il Figlio dell’uomo. In senso letterale, questa restrizione indica che durante tutto il corso di questa visione fu in realtà un Angelo che prese il posto di Cristo. In senso mistico, suggerisce che il Salvatore risorto non porta più nella gloria il peso che durante la sua vita terrena dedicò la sua carne di Figlio dell’Uomo alla sofferenza e alla morte. E San Giovanni, pur riconoscendo molto bene Colui che aveva così spesso visto con i suoi occhi e toccato con le sue mani (I Ep., I, 1), lo trovò tuttavia molto diverso da quello che era al tempo in cui si affannava a viaggiare per la Palestina e a predicare tutto il giorno. Il Salvatore indossava una veste che arrivava fino ai talloni, del modello chiamato poderis, e simile a quella usata dal Sommo Sacerdote sotto l’Antica Alleanza: questa veste simboleggia sia la carità di Cristo, che lo avvolge dalla testa ai piedi, sia il suo sacerdozio, poiché Egli è il sacerdote per eccellenza, il Sommo Sacerdote, e l’unico vero Sacerdote. Ed era stretto sul petto con una cintura dorata. In una visione molto simile a questa, un Angelo apparve a Daniele, anch’esso con le sembianze del Figlio dell’Uomo, e anche lui con una cintura d’oro: ma questo era posto più in basso, all’altezza dei lombi, perché l’Antico Testamento prescriveva solo la mortificazione della carne; la visione di San Giovanni era cinta sulla parte superiore del petto, perché il Nuovo Testamento ordina anche la mortificazione dei desideri, e chiede non solo la purezza del corpo, ma anche la purezza del cuore, Ecco perché Nostro Signore disse agli Giudei: « Avete sentito che fu detto agli anziani: Non commetterai adulterio ». Questa è la cintura che si mette intorno ai lombi, la proibizione del peccato di lussuria. Per me, io vi dico che chi guarda una donna con lussuria ha già commesso adulterio: questa è la cintura da serrare sul proprio cuore. (Matt. V, 27). La sua testa e i suoi capelli, continua l’Apostolo, erano bianchi come lana bianca e come neve. Attribuendo a Cristo una testa bianca, l’autore afferma implicitamente la sua natura divina: perché era già sotto questo simbolo che lo Spirito Santo, per bocca dello stesso profeta Daniele, aveva espresso l’eterna sapienza di Dio: l’Antico dei giorni si sedette, disse; i capelli della sua testa erano come lana bianca (VII, 9). Sul suo esempio, ci invita ad avere anche noi capo bianco, cioè uno spirito pieno di prudenza e di saggezza; bianco come la lana, perché la lana è qualcosa di morbido, bianco, caldo: per assomigliargli, i nostri pensieri dovrebbero essere tutti di indulgenza, immacolati nella loro innocenza, ardenti dello zelo della carità; il che non impedirebbe loro di essere allo stesso tempo come la neve, cioè di rimanere gelidi di fronte alle suggestioni della carne, del mondo e del diavolo. – I suoi occhi erano come una fiamma di fuoco: gli occhi del Verbo non sono, come i nostri, recettori di luce, ma sono piuttosto creatori di luce; quando si posano su un’anima, la purificano dalle contaminazioni da cui è infetta, la illuminano con i raggi della Verità eterna, la infiammano con l’ardore dell’Amore divino, di quell’amore di cui Nostro Signore disse: Sono venuto ad accendere un fuoco sulla terra (Lc. XII, 49). E i suoi piedi erano come l’auricalco che esce da una fornace ardente. L’auricalco è una specie di bronzo che viene portato al colore dell’oro dall’azione del fuoco e da varie operazioni. I piedi di Cristo, immersi in una fornace ardente, rappresentano la sua Passione. I piedi, poiché sostengono, continuamente e senza indebolirsi, tutto il peso del corpo, rappresentano la forza dell’anima, che sostiene l’uomo in tutte le sue prove e difficoltà: e la forza dell’anima di Cristo fu messa alla prova al momento della Passione, che è rappresentata dalla fornace ardente. E lì, lungi dallo sciogliersi e dal dissolversi, si dimostrò duro come il bronzo, poiché la sofferenza non poteva strappare alla vittima divina il minimo mormorio; al contrario, non aveva altro effetto che fargli prendere il colore dell’oro, cioè far apparire la sua carità in una luce radiosa. E la sua voce era come il suono di grandi acque. La voce di Cristo, portata dagli Apostoli, fu udita in tutto l’universo. È paragonato alle grandi acque perché ha coperto tutto il mondo come un nuovo diluvio; ma questo diluvio non era più, come ai tempi di Noè, lo straripamento dell’ira divina che spargeva ovunque terrore e morte: questa volta era un diluvio di misericordia, un diluvio di grazia, un diluvio di vita, che doveva ripulire la terra dall’infezione del peccato e renderla integra. Più sopra la parola di Cristo è stata paragonata al suono di una tromba, perché eccita i Cristiani in battaglia, riempiendoli del timore di Dio, mostrando loro la ricompensa promessa al vincitore; ora l’autore la paragona all’acqua, perché eccelle nell’ammorbidire la durezza del cuore umano e nel renderci teneri. – E teneva nella sua mano destra sette stelle. San Giovanni stesso spiegherà poco più avanti il significato di questa figura: le sette stelle rappresentano i prelati che sono incaricati di governare la Chiesa. Come stelle spirituali, infatti, devono brillare nella notte di questo mondo per guidare gli uomini verso la Gerusalemme celeste. Devono lanciare sia la luminosità della dottrina che quella dei loro buoni esempi. Ma essi sono nella mano di Cristo, come lo strumento è nella mano dell’operaio, o il segnale nella mano del guardiano. Quando un uomo vuole chiamare i suoi compagni smarriti in una notte buia, non ha niente di meglio da fare che accendere una luce e agitarla, per mostrare loro la direzione da seguire. Gli altri non vedono il loro amico, ma vedono il segnale che dà loro, vedono la luce che brilla nell’oscurità, e camminano verso di essa, e così tornano da colui che li sta aspettando. Allo stesso modo il Salvatore innalza i pastori della Chiesa come segni di luce nella notte del mondo presente: gli uomini devono solo seguire i loro insegnamenti, e sono sicuri di camminare nella retta via, nella via che li condurrà direttamente a Cristo. Per questo ha detto, parlando di coloro che Lo rappresentano sulla terra: Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me. (Lc. X, 16). – E dalla sua bocca uscì una spada affilata su entrambi i lati. La parola di Nostro Signore è rappresentata da una spada, per mostrare che è dotata di un potere irresistibile e che può trionfare sulla resistenza più tenace. Essa è affilata da entrambe le parti, perché il suo potere si esercita con lo stesso rigore, anche se con risultati molto diversi, su quelli di destra e su quelli di sinistra, sui buoni e sui cattivi. Separa i primi dalla carne e dal mondo; taglia senza indebolire i loro affetti più legittimi, quello del figlio per suo padre, della figlia per sua madre (Luc. XII, 53); arriva a dividere in loro l’anima e lo spirito, le giunture e il midollo (Hebr. IV. 12). Quanto ai malvagi, al contrario, verrà il giorno in cui li separerà impietosamente dal corpo di Cristo, li scaccerà dalla società degli eletti, li rigetterà senza appello nell’inferno. Chiunque avrà lasciato la sua casa, i suoi fratelli, le sue sorelle, suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli e i suoi campi per amore del mio nome, riceverà il centuplo e avrà la vita eterna. (Matt. XIX, 29). – Questo è il primo fil della spada, quello della mano destra; e questo è l’altro, quello della mano sinistra: « Partite da me, maledetti, e andate al fuoco eterno, che è preparato per il diavolo e i suoi angeli. » (Id. XXV, 41). E il suo viso brillava come il sole nella sua potenza. Questo paragone è lo stesso usato dagli evangelisti per esprimere lo straordinario splendore con cui il volto di Cristo fu illuminato sul monte Tabor. Il Libro della Sapienza dice allo stesso modo che nel giorno del giudizio, i giusti brilleranno come il sole (III, 7). L’immagine è ulteriormente rafforzata dall’espressione: nella sua potenza, segna per il sole l’ora del mezzogiorno, l’ora in cui è in tutto il suo splendore. In senso allegorico, il volto di Cristo designa qui la sua santa umanità, che è sorta sul mondo come un sole di giustizia, e che ha gettato la sua luce più brillante quando ha dispiegato tutta la sua virtù, cioè nell’ora della sua passione. E quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Così San Giovanni, che per anni ha vissuto nella più stretta familiarità con Nostro Signore, che ha spinto la fiduciosa semplicità fino al punto di appoggiare il suo capo sul cuore del suo Maestro nell’Ultima Cena; San Giovanni, vedendolo ora di nuovo nello splendore della sua gloria celeste, cade come morto. Daniele, nella visione di cui abbiamo già parlato, dice, per esprimere il terrore con cui si sentiva penetrato, che il volto del Figlio dell’Uomo era come un fulmine. Alla sua vista, aggiunse, tutte le mie forze vennero meno, divenni « un altro uomo, mi inaridii e non rimase più alcuna forza in me. » (X, 6-8). – Tale è l’effetto che produce sull’essere umano la visione della Maestà divina. Improvvisamente intravede l’abisso della sua immensa debolezza, e sente un bisogno irresistibile di annientarsi, di dissolversi e di sparire. Ecco perché Abramo, quando fu portato davanti a Dio, si prostrò con la faccia contro il sole e si dichiarò cenere e polvere. (Gen. XVII. 3) Ecco perché ancora una volta la Sacra Scrittura mostra Ester che cade in priva di sensi alla vista di Assuero (XV, 10); e ci insegna altrove che nessuno può vedere Dio senza morire (Es. XXXIII, 20). Dicendo che è caduto come morto, San Giovanni ci fa inoltre capire che la contemplazione di Dio ci fa morire al mondo e ci rende insensibili alle sue attrattive e alla sua inquietudine. Prendendolo come meta della nostra ricerca, anche noi saremo come morti, ma non morti; vivremo una vita interiore molto più intensa, la vita di Dio stesso. San Paolo aveva detto allo stesso modo: Mostriamoci come moribondi, ed ecco che siamo vivi (II Cor. 9). – E posò la sua mano destra su di me come segno della grazia che Dio dà a coloro che si umiliano. E disse: « Non abbiate paura. » Cosa c’è da temere? Chi può farci del male, quando siamo ai piedi del Signore del mondo, colui che ha tutto il potere in cielo, in terra e negli inferi? Non temere, perché io sono il primo e sono l’ultimo. « Io sono l’unico Figlio di Dio, il primogenito di tutte le creature, il Re degli Angeli e degli uomini; e sono l’ultimo; nessuno è stato trattato con più ignominia di me, nessuno è stato abbeverato dagli oltraggi e dagli affronti simili a quelli come ho ricevuto io. » Già Isaia, prevedendo in una visione profetica lo stato pietoso in cui sarebbe stato ridotto il glorioso Messia atteso da Israele, lo aveva chiamato: l’ultimo degli uomini (LIII, 3). Per quanto miserabili possiamo essere, non saremo mai più abbandonati di Lui; per quanto crudeli siano le persecuzioni scatenate contro di noi, non raggiungeranno mai la violenza di quelle che si abbatterono su di lui. « Io sono – continua – colui che vive di una vita senza inizio e senza fine. Non temere, dunque nulla, anima che ho scelto, anima che amo, anima che voglio condurre al banchetto di nozze eterno, ma per la via che Io stesso ho seguito, che è la via della croce. Perché sono stato morto: la mia anima ed il mio corpo si sono veramente separati sul Calvario. Ma poi sono risorto, ed ecco, sono vivo nei secoli, una vita che nulla può togliermi. E io ho le chiavi della morte e dell’inferno. Posso resuscitare chi voglio, posso strappare chi voglio dall’inferno, così come dalla morte del peccato. E affinché la verità di ciò che dico sia intesa, ascoltata, scrivi ciò che hai visto. Scrivi quello che hai visto tu, Giovanni, quando ero sulla terra con te, e quello che hai visto con i tuoi occhi, quando mi hanno catturato nell’orto del Getsemani, quando mi hanno trascinato da tribunale in tribunale, quando mi hanno schiaffeggiato, picchiato, coperto di sputi, coronato di spine; quando mi hanno trafitto i piedi e le mani con i chiodi, quando mi hanno aperto il costato con la lancia; ma scrivi anche quello che hai visto la domenica mattina, quando sei corso al sepolcro con Pietro, e poi la sera, nel cenacolo, e i giorni seguenti. .. Racconta i misteri della mia Passione e della mia Resurrezione, di cui sei stato testimone. Poi scrivi ciò che sta accadendo ora, cioè le sofferenze che stanno sopportando quotidianamente la Chiesa e le anime giuste; scrivi ciò che accadrà dopo, la persecuzione dell’Anticristo, e la fine dei tempi. Scrivi il mistero delle sette stelle che hai visto nella mia mano: mostra il significato nascosto di questi simboli, e spiega che le sette stelle sono gli Angeli – cioè i Vescovi – delle sette Chiese, e che i sette candelabri sono le sette Chiese.

Prima Visione

LA RIFORMA DELLE CHIESE

(SECONDA PARTE)

LA LETTERA ALLE SETTE CHIESE

Capitolo II, 1-29

“All’Angelo della Chiesa d’Efeso scrivi: Queste cose dice colui che tiene nella sua destra le sette stelle, e cammina in mezzo ai sette candelieri d’oro: So le tue opere, e le tue fatiche, e la tua pazienza, e come non puoi sopportare i cattivi: e hai messo alla prova coloro che dicono di essere Apostoli, e non lo sono: e li hai trovati bugiardi: e sei paziente, e hai patito per il mio nome, e non ti sei stancato. Ma ho contro di te, che hai abbandonata la tua primiera carità. Ricordati per tanto donde tu sei caduto: e fa penitenza, e opera come prima: altrimenti vengo a te, e torrò dal suo posto il tuo candeliere, se non farai penitenza. Hai però questo, che odii le azioni dei Nicolaiti, le quali io pure ho in odio. Chi ha orecchio, oda quel che lo Spirito dica alle Chiese: Al vincente darò a mangiare dell’albero della vita, che è in mezzo al Paradiso del mio Dio.

‘E all’Angelo della Chiesa di Smirne scrivi: Queste cose dice il primo e l’ultimo, il quale fu morto, e vive: So la tua tribolazione e la tua povertà, ma sei ricco: e sei bestemmiato da quelli che si dicono Giudei, e non lo sono, ma sono una sinagoga di satana. Non temere nulla di ciò che sei per patire. Ecco che il diavolo caccerà in prigione alcuni di voi, perché siate provati: e sarete tribolati per dieci giorni. Sii fedele sino alla morte, e ti darò la corona della vita. Chi ha orecchio, ascolti quel che lo Spirito dica alle Chiese: Chi sarà vincitore, non sarà offeso dalla seconda morte. –

E all’Angelo della Chiesa di Pergamo scrivi: Queste cose dice colui che tiene la spada a due tagli: So in qual luogo tu abiti, dove satana ha il trono: e ritieni il mio nome, e non hai negata la mia fede anche in quei giorni, quando Antipa, martire mio fedele, fu ucciso presso di voi, dove abita satana. Ma ho contro di te alcune poche cose: attesoché hai costì di quelli che tengono la dottrina di Balaam, il quale insegnava a Balac a mettere scandalo davanti ai figliuoli d’Israele, perché mangiassero e fornicassero: Così anche tu hai di quelli che tengono la dottrina dei Nicolaiti. Fa parimenti penitenza: altrimenti verrò tosto a te, e combatterò con essi colla spada della mia bocca. Chi ha orecchio, oda quel che dica lo Spirito alle Chiese: A chi sarà vincitore, darò la manna nascosta, e gli darò una pietra bianca: e sulla pietra scritto un nome nuovo non saputo da nessuno, fuorché da chi lo riceve.

E all’Angelo della Chiesa di Tiatira scrivi: Queste cose dice il Figliuolo di Dio, che ha gli occhi come fiamma di fuoco ed i piedi del quale sono simili all’oricalco: So le tue opere, e la fede, e la tua carità, e il ministero, e la pazienza, e le tue ultime opere più numerose che le prime. Ma ho contro di te poche cose, poiché permetti alla donna Jezabele, che si dice profetessa, di insegnare e sedurre i miei servi, perché cadano in fornicazione, e mangino carni immolate agli idoli. E le ho dato tempo di far penitenza: e non vuol pentirsi della sua fornicazione. Ecco che io la stenderò in un letto: e quelli che fanno con essa aduterio, saranno in grandissima tribolazione, se non faranno penitenza delle opere loro: e colpirò di morte i suoi figliuoli e tutte le Chiese sapranno che io sono lo scrutatore delle reni e dei cuori: e darò a ciascuno di voi secondo le sue azioni. Ma a voi, io dico, e a tutti gli altri dì Tiatira, che non hanno questa dottrina, e non hanno conosciuto le profondità, come le chiamano, di satana, non porrò sopra dì voi altro peso: Ritenete però quello che avete, sino a tanto che io venga. E chi sarà vincitore, e praticherà sino alla fine le mie opere, gli darò potestà sopra le nazioni, e le reggerà con verga di ferro, e saranno stritolate come vasi dì terra, come anch’io ottenni dal Padre mio: e gli darò la stella del mattino. Chi ha orecchio, oda quello che lo Spirito dica alle Chiese.”

Questo capitolo II e il seguente contengono le lettere alle chiese dell’Asia che appena annunciate. Il Figlio di Dio ordina all’amato Apostolo di scrivere successivamente a ciascuno dei sette Vescovi che occupano le sedi in Asia Minore. Queste lettere sono un modello di correzione fraterna: l’autore mescola abilmente lodi e rimproveri per incoraggiare e stimolare i suoi lettori, indicando loro i punti in cui sono in difetto e i pericoli a cui si espongono. Al di là dei Vescovi che ne sono i destinatari, esse si rivolgono a tutte le anime cristiane che si preoccupano del loro progresso spirituale: ed è a loro che San Benedetto allude nel Prologo della sua Regola quando ci esorta ad ascoltare ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Essi richiamano i punti essenziali della perfezione evangelica e ci offrono un esatto adempimento di questa profezia del Salvatore ai suoi discepoli: Quando lo Spirito Santo verrà, rimprovererà il mondo sul peccato, sulla giustizia e sul giudizio (Jo., XVI, 8.). Infatti, esse rimproverano ciascuno per i peccati in cui cade, gli mostrano la rettitudine che deve praticare, gli ricordano il giudizio che dovrà subire un giorno. Il loro numero sette evoca chiaramente i doni dello Spirito Santo, che in ognuno di loro possiamo riconoscerne a turno, in modo più particolare, seguendo Ruperto di Deutz, la voce di uno dei sette spiriti che stanno davanti al trono di Dio. È lo spirito di timore che apre la lista, insieme alla Chiesa di Efeso, perché è esso l’inizio della via che conduce a Dio. Perché tutti sanno che il timore di Dio è l’inizio della sapienza. Dopo di questo  sentiremo successivamente quello della pietà, quello della scienza, quello della fortezza, quello del consiglio, quello dell’intelletto comprensione, quello della sapienza.

§ 1 Lettera alla Chiesa di Efeso.

All’Angelo della Chiesa di Efeso scrivi: Queste cose dice colui che tiene nella sua mano destra le sette stelle, che cammina tra i sette candelabri d’oro. Le sette stelle rappresentano, come abbiamo detto prima, i prelati delle sette chiese. Dio li tiene in mano, per dirigerli e per dirigere gli altri per mezzo di loro; e anche per evitare che cadano, come cadde quella stella del mattino, quel Lucifero che, nel primo giorno del mondo, era apparso sfavillante di gloria e di bellezza, poi improvvisamente cadde sulla terra, e divenne un demone, perché si gloriò nel suo cuore, e dimenticò che doveva tutto a Dio (Isa. XIV, 12 e segg.). Si ricordino dunque, le sette stelle, si ricordino bene, i prelati della Chiesa, che tutta la loro autorità, tutto il loro prestigio, tutta la considerazione di cui godono sono opera della mano di Dio che li tiene, e non lascino che l’orgoglio si impossessi dei loro cuori! – Non solo Dio porta così le stelle che governano il suo popolo, ma cammina anche tra i candelabri d’oro. Questi rappresentano le Chiese, cioè la massa dei fedeli, in opposizione ai prelati, come ci ha insegnato San Giovanni poco più in alto. Dio cammina in mezzo a loro, nel senso che abita con loro, secondo la promessa fatta ai suoi discepoli: Ecco, io sono con voi fino alla fine dei secoli (Matt. XXVIII, 20). Egli abita nei loro cuori. Egli li visita con la sua grazia. Li circonda con la sua sollecitudine. Segue le loro orme. Egli accompagna tutti i loro passi. Ma allo stesso tempo Egli vigila attentamente su questi candelabri, per vedere se la loro luce non è fumosa, se non è in pericolo di spegnersi, se non emana il bagliore della carità. “Io conosco le tue opere”: Dio, è vero, conosce tutte le cose in virtù della sua conoscenza infinita. Ma Egli conosce i suoi, come dice San Paolo (II Tim. II, 19), in quanto li approva e li considera con benevolenza, mentre al contrario ignora i malvagi. (Matt. VII, 23). – « Conosco dunque le vostre opere di carità e la fatica che fate per salvaguardare l’integrità della fede; conosco la pazienza che dimostrate in mezzo alle prove, con gli occhi fissi sul premio eterno; conosco la vostra avversione ai vizi e lo zelo con cui perseguite i malfattori. » Non ti sei lasciato ingannare dai bei discorsi di coloro che pretendono di essere inviati da Dio, come Ebione, Marcione, Cerinto, ecc. Tu li hai messi alla prova, come sta scritto: “Mettete alla prova gli spiriti, per vedere se sono da Dio”,(I Giov. IV, 1) e hai riconosciuto dai loro frutti, come vuole il Vangelo, cioè dalle loro opere, che erano bugiardi. Sei stato paziente con gli eretici; hai sopportato coraggiosamente i loro attacchi, preoccupandoti più dell’onore del mio nome che del tuo interesse; e non hai ceduto alla collera. Tutto questo è molto buono: tuttavia, non è sufficiente per la perfezione che mi aspetto da te, e ho alcuni avvertimenti da farvi intendere: vi rimprovero di aver abbandonato la vostra prima carità. Non vegli più su quella perfetta unione di cuori che era il segno distintivo della Chiesa nascente, e che aveva come corollario la messa in comune di tutti i beni (Act. IV, 32). Non pratichi più le opere di misericordia con il fervore di una volta, ti lasci conquistare dalla tiepidezza. Ora, non dimenticare che la carità è e rimane il segno dal quale i miei veri discepoli si riconoscono; anche se aveste fede per trasportare le montagne, anche se consegnaste il vostro corpo alle fiamme, se non avete questa carità, tutto il resto non vi serve a niente. Riconosci, allora, la tua colpa: ricorda da dove sei caduto, ricorda la generosità che ti ha animato all’inizio della tua conversione, e fai penitenza. Non accontentarti di desideri o promesse: agisci, comportati come facevi allora (Alcuni commentatori, confrontando queste parole con un passo della Seconda Lettera a Timoteo, in cui l’Apostolo invita Timoteo a far risorgere la grazia di Dio in lui (I, 6), hanno pensato che il destinatario della lettera all’Angelo della Chiesa di Efeso non fosse altri che il famoso discepolo di San Paolo, che era in effetti Vescovo di quella città, e che si sarebbe lasciato per un momento sopraffare dalla moltitudine di prove che doveva affrontare.). – Altrimenti verrò da te e sentirai il peso della mia ira. Toglierò il tuo candelabro dal suo posto, cioè darò il tuo posto ad un altro; o ancora spegnerò la luce che brilla nella tua Chiesa e che fa di essa un faro di verità, come è spesso accaduto durante le grandi eresie, quando la caduta di un Vescovo trascina con sé tutto il suo gregge. – « Tuttavia, hai dalla tua, che odi le azioni dei Nicolaiti, che anch’io odio. » Dio non dice che odia i Nicolaiti; parla solo delle loro opere, per farci capire che non dobbiamo mai odiare gli uomini, per quanto malvagi essi siano; sono le loro imprese che dobbiamo avere come un abominio in quanto sono contrarie alla legge di Dio e al bene delle loro anime. San Benedetto rimarca questa discriminazione quando dice nella sua Regola che dobbiamo odiare i vizi e amare i fratelli. Chi erano esattamente questi Nicolaiti di cui stiamo parlando? Alcuni degli antichi Padri concordano che la loro origine può essere fatta risalire al diacono Nicolas, uno dei sette diaconi scelti dagli Apostoli per assisterli nel loro ministero, tra i quali dobbiamo annoverare anche Santo Stefano. D’altra parte, questi stessi Padri differiscono nel modo in cui raccontano come sia successo. Se crediamo a San Clemente di Alessandria, questo Nicolas, che aveva sposato una donna di rara bellezza, sarebbe stato rimproverato dai discepoli per la sua gelosia nei suoi confronti. Pieno di indignazione l’avrebbe poi condotta dagli apostoli, dicendo: « Ecco mia moglie. Che sia di chiunque! » Ma egli ha continuato a vivere una vita santa. Ma alcuni Cristiani malintenzionati si sono impadroniti di questa parola poco saggia e hanno affermato che le donne, come tutti gli altri beni, devono essere messe in comune. (1 Stromatæ, L. III, cap. IV – Patr. Gr., T. 8, col. 1130. – Rufino e Theodoreto danno versioni simili). – Secondo Sant’Epifanio, al contrario, la cui alta autorità è nota come testimone della tradizione, Nicolas, dopo aver preteso la continenza assoluta, ad imitazione degli Apostoli, non ebbe il coraggio di perseverare in questo sforzo, e « ritornò al suo vomito ». Ma per rimediare alla sua sconfitta, immaginò di insegnare che chi vuole assicurarsi la salvezza deve compiere ogni giorno l’opera della carne, e, mettendo in pratica la propria dottrina, sprofondò in vergognosi disordini (Adversus Hæreses, L. I, vol. 2, heres. 25. – Patr. Gr. T. 41, col. 322). Questa seconda versione era molto più diffusa della prima; se giudichiamo dall’autorità di San Tommaso, possiamo dire che essa ha prevalso nella tradizione. (Contra gentes, c. 24) « Chi ha orecchio, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese ». Questa formula, che sarà ripetuta alla fine di ogni lettera, ricorda quella che Nostro Signore stesso usava quando predicava: Chi ha orecchio, ascolti (Mt. XIII, 9). Notiamo che ogni volta lo Spirito si rivolgerà alle Chiese, e non alla Chiesa di Efeso, o alla Chiesa di Sardi, ecc., per mostrare la portata generale dei suoi avvertimenti, che interessano tutti i Cristiani. – « Al vincitore, cioè a colui che saprà trionfare sulle tentazioni del demonio, sulle sollecitazioni del mondo, sulle proprie passioni: Darò da mangiare dall’albero della vita, che è nel paradiso del mio Dio ». Quest’albero è Cristo stesso, che fu emendato duramente e potato nelle sofferenze che precedettero la sua morte, ma che portò un magnifico rigoglio dopo la sua risurrezione. Il suo frutto ci è dato nel sacramento dell’Eucaristia. Cresce solo nel paradiso del mio Dio, cioè nella santa Chiesa, al di fuori della quale non c’è cibo sostanziale, non c’è vita per l’anima. Il nostro Signore dice: del mio Dio, perché parla come un uomo. Vuole mostrare l’ardente amore che la sua Santissima Umanità porta a Dio, insieme alla perfetta obbedienza che gli mostra. Queste parole ci fanno sentire che dobbiamo prepararci a ricevere la Santa Eucaristia con una vita pura. Anche se tutti i Cristiani possono avvicinarsi alla Santa Tavola, Nostro Signore dà questo frutto di vita solo a coloro che sanno superare se stessi. Notiamo, inoltre, che non dice: questo frutto, ma … di questo frutto, per indicare che la partecipazione di ciascuno alla grazia di questo sacramento sarà maggiore o minore, secondo le sue disposizioni. Questa prima lettera ha lo scopo di ispirarci soprattutto, come detto, lo spirito di timore. Per non aver dato ascolto a questo spirito, Adamo ed Eva erano stati cacciati dal paradiso terrestre e condannati a morte; coloro che saranno docili alle sue sollecitazioni meriteranno di ricevere il frutto del nuovo Eden e, in esso, il valore della vita eterna.

§ 2 – Lettera alla Chiesa di Smirne.

« E all’angelo della Chiesa di Smirne, scrivi. » Ora è lo spirito di pietà a parlare. Poiché si rivolge ad una Chiesa già coinvolta nella persecuzione e che il sangue dei martiri arrosserà; non gli fa alcun rimprovero, mostrandoci così come noi stessi dobbiamo comportarci nei confronti di coloro che soffrono; al contrario, la esorta con dolcezza ed indulgenza; e per darle coraggio, inizia offrendole l’esempio del Salvatore: « Questo è ciò che dice il primo e l’ultimo, colui che è morto e colui che è vivo morti. » Il primo, perché è il Figlio di Dio, il più bello dei figli degli uomini; e l’ultimo, perché è stato ridotto all’ultimo grado dell’angoscia e del disprezzo.  Egli è passato attraverso la morte per mostrarci la via; ma è risorto e ora vive una vita che non avrà fine; e quelli che lo seguono nella morte lo seguiranno nella vita. « Conosco le tue prove, e non ignoro nulla di quello che devi soffrire. E se non lo impedisco, è per il tuo bene; perché ti ricompenserò più tardi. Conosco la povertà alla quale ti sei ridotto volontariamente, distribuendo ai poveri, per amore mio, tutto quello che avevi. Ma sta tranquillo: ci sono ben altri beni che l’oro e l’argento, e se ti mancano questi, sappi che sei ricco di beni spirituali, ricco di virtù, ricco di meriti, ricco di cielo. So che sei calunniato, come io stesso sono stato calunniato da coloro che si dicono Giudei. Essi mi rimproveravano di non rispettare il sabato, di essere un agente di Belzebù, un posseduto dai demoni. Essi, al contrario, si lusingano di mantenere la fede alla lettera; si definiscono il popolo santo, il popolo di Dio, si vantano di essere gli autentici figli di Abramo: ma si sbagliano. Se, secondo la carne, essi discendono effettivamente dai Patriarchi, hanno perso completamente lo spirito di questi santi personaggi; non sono più il mio popolo, sono solo un’accozzaglia, una sinagoga che esegue la volontà di satana. Non cedere alla paura, non temere nessuna delle prove che dovrai attraversare, non paventare la povertà, gli insulti, le sofferenze, le tentazioni. Io so in anticipo che tutto questo deve venire, e lo permetto per il tuo bene. Tra non molto il diavolo farà mettere alcuni di voi in prigione dai suoi adepti, affinché siate messi alla prova, affinché abbiate l’opportunità di mostrare la vostra pazienza, e perché siate purificati dalla ruggine dei vostri peccati. Voi sarete perseguitati per dieci giorni, cioè: limitata e di breve durata (Per la maggior parte dei commentatori antichi, il numero dieci è qui un’allusione al Decalogo, e i dieci giorni rappresentano tutto il tempo che l’uomo vive sotto il suo giogo, cioè tutta la vita presente). Sii fedele fino alla morte, resta attaccato al tuo Dio come una moglie a suo marito, come un soldato al suo capo, come l’amico al suo amico; non abbandonarmi lungo il cammino, non lasciare la mano che ti tiene, e riceverai la corona della vita, cioè il possesso di Me stesso, nella beatitudine essenziale (Cf. Isaia, XXVIII, 5). – Chi ha orecchio, ascolti, non quello che dice il diavolo, non quello che dicono la carne, né il mondo, i tre che ci invitano al rilassamento; ma quello che lo Spirito dice alle chiese, esortandole a combattere: chi vince i tre nemici di cui abbiamo appena parlato, non subirà la seconda morte. Chi saprà accettare per il suo Maestro la prima morte, cioè la separazione dell’anima e del corpo, alla quale ogni uomo è condannato dal peccato di Adamo, sfuggirà alla seconda, la separazione definitiva dell’anima da Dio, cioè la dannazione. »

§ 3 – Lettera alla Chiesa di Pergamo.

E all’Angelo della Chiesa di Pergamo scrivi: Queste cose dice Colui che ha la spada a due taglienti. Ecco lo spirito della scienza che parla: rivolgendosi ad una città particolarmente infestata dall’idolatria, una Chiesa minacciata da molteplici e perfide eresie, Egli predica sopra ogni cosa la virtù della discrezione, che insegna come riconoscere e mantenere la vera dottrina in mezzo agli errori. Si illumina con l’insegnamento di Cristo che penetra, ci dice San Paolo, fino alla divisione dell’anima e dello spirito (Hebr. IV, 12), evocata qui da una spada che esce dalla bocca dell’apparizione (Cfr. supra I, 16). Distingue, sotto le apparenze di cui si avvolgono l’amor proprio e le passioni, ciò che nei nostri desideri, nelle nostre intenzioni, nelle nostre imprese, è la parte dell’uomo animale e la parte dell’uomo spirituale. Perché il primo eccelle nel mascherarsi ed essere preso per il secondo. « Io so dove abiti: la tua dimora è tra i malvagi, dove è più difficile e più meritevole mantenere la giustizia che tra i buoni; in una città così malvagia che può essere chiamata il trono di satana. » – [È infatti a Pergamo, scrive il P. Allô, che fu eretto il primo tempio del culto imperiale provinciale, già nel 29 a.C.; un secondo ed un terzo [vi] furono consacrati in onore di Traiano e Settimio-Severo. Le quattro grandi divinità poliadiche erano Zeus Soter, Atena, Niceforo, Asklepios Soter e Dioniso Kathegemon. Il pellegrinaggio dei malati al santuario di Asklepiade, dove si praticava l’incubazione e si credevano miracolose le guarigioni, i misteri di Dyonisio con la confraternita dei Boûxoloi, soprattutto il colossale altare a cielo aperto di Zeus con la sua Gigantomachia, un grandioso fregio dove i greci avevano eternizzato il glorioso ricordo della loro resistenza all’invasione celtica del III secolo… tutto questo gli assicurava un incomparabile splendore religioso. Questi vari culti erano alleati e più o meno fusi insieme, e si armonizzavano molto bene con quello dei Cesari. Il sacerdote di Zeus Soter era anche un sacerdote del “divino Augusto”. Dioniso-toro fraternizzava con Asklepios-serpente… E tutto questo fece di Pergamo il trono di satana, poiché in nessun luogo il paganesimo mostrò la sua forza con più orgoglio (Apoc. di San Giovanni, Exc. VI, P. 30.)]. – « Tuttavia – continua San Giovanni – nonostante questo, tu esalti il mio nome, ti dimostri degno del tuo titolo di Cristiano, e la paura non ti ha fatto rinnegare la fede che mi hai dato. Siete rimasti fedeli a Me anche quando infuriava la persecuzione, anche quando Antipa fu martirizzato in mezzo a voi, in questo regno di satana, per aver testimoniato il Mio Nome ». La tradizione riferisce che Antipas fu il predecessore del destinatario di questa lettera alla sede di Pergamo, e che fu bruciato in un toro di bronzo, durante il regno di Domiziano. (R. P. Allô, op. cit., p. CCIX, nota.).  – « Ma ho alcune mancanze da rimproverarvi: perché ci sono in voi alcuni che conservano la dottrina di Balaam, che insegnò a Balac a mandare davanti ai figli d’Israele occasioni di caduta – cioè: donne di vita malvagia, – per indurli al peccato, per incitarli a mangiare carne consacrata agli idoli, e per far loro rendere ai falsi dei un onore adulterino. » – Balaam era un indovino che viveva sulle rive dell’Eufrate al tempo dell’Esodo. Quando Balac, re dei Moabiti, vide avanzare verso il suo paese, sulla via della Terra Promessa, il popolo ebreo che aveva appena schiacciato successivamente l’armata degli Amorrei e quella del re di Bashan, gli ordinò di avvicinarsi e lo pregò di invocare la maledizione del cielo su questo nemico che nulla sembrava poter fermare. Balaam, dopo molte esitazioni, perché non ignorava che Dio fosse con Israele, cominciò ad obbedirgli; ma, per permesso divino, le sue labbra potevano solo pronunciare parole di benedizione invece delle maledizioni che avrebbe voluto pronunciare. – Il libro dei Numeri, che riporta questa storia, (XXII, XXIV) non parla esplicitamente della doppiezza a cui allude l’Apocalisse. Ma si può facilmente indovinare sotto il resto della storia. Desideroso di compiacere Balac e di assecondare i suoi disegni, malgrado il miracolo con cui Dio gli aveva appena notificato la sua volontà, Balaam consigliò a questo principe di inviare agli ebrei, di cui conosceva gli istinti passionali, delle donne armate di tutti i loro mezzi di seduzione. Queste donne riuscirono a conquistare il cuore dei figli d’Israele; li condussero alle loro feste religiose, fecero loro mangiare carne consacrata agli idoli, e li iniziarono persino al culto di Beelphegor, il più turpe di tutti gli dei (XXV, I, 3). S, Gregorio ci riporta nei suoi Dialoghi un episodio simile. Il diacono Florenzio era violentemente geloso di San Benedetto, e cercò di avvelenarlo. Non essendoci riuscito, decise almeno di perdere le anime dei suoi discepoli. « Allora mandò nel giardino del monastero sette fanciulle nude che, tenendosi per mano e danzando a lungo davanti ai loro occhi, dovevano accendere nelle loro anime la perversione del piacere. ». – I sostenitori della dottrina di Balaam di cui Nostro Signore parla qui sono da identificare con i Nicolaiti. « Tu hai dunque anche nella loro persona, come il Vescovo di Efeso, dei sostenitori dell’eresia di Nicolas, cioè persone che si permettono le più grandi libertà, sia per quanto riguarda la partecipazione ai sacrifici pagani che nelle loro relazioni con l’altro sesso. Te lo dico come a lui: fate penitenza. Altrimenti verrò da te all’improvviso e farò sentire a te e al tuo popolo tutto il peso della mia ira. Combatterò contro questi eretici con la spada della mia parola, cioè li convincerò del peccato, ridurrò a nulla i loro propositi, anche con le parole penetranti, irresistibili come una spada. Io li punirò come un tempo ho punito Balaam e i Madianiti; tutti gli uomini furono messi a fil di spada, compreso questo falso profeta, le città e villaggi furono dati al fuoco, le donne ed i bambini furono condotti in schiavitù (Num., XXI, 7 e seguenti).mMa se, al contrario, saprai correggerti, ti mostrerò la mitezza della mia misericordia. Chi ha orecchio, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: A colui che sa trionfare sulle perfide sollecitazioni della setta di Nicolas, darò la manna nascosta e gli darò una pietruzza bianca. E riceverà il pane di vita, il Cristo velato sotto le specie sacramentali, una volta rappresentato dalla manna; e avrà in sé le primizie della vita futura, quando gusterà le dolcezze segrete, quelle ineffabili delizie di cui il Signore rende partecipi solo i suoi amici prediletti. E per aver conservato il suo corpo puro dal peccato della carne, gli darò, nel giorno della risurrezione, una pietra bianca, cioè un corpo scintillante ed impassibile. ». Il corpo glorioso che sarà quello degli eletti è paragonato qui ad una pietra, perché la corruzione e la sofferenza non avranno più alcuna presa su di esso; a una pietra bianca, o meglio ancora, a una pietra scintillante (candidum), a causa dello splendore luminoso di cui sarà dotato. E su questa pietra è scritto un nome nuovo, che nessuno conosce tranne colui che lo riceve. Questo nuovo nome designa la nuova personalità che gli eletti godranno dopo la risurrezione. Infatti, in questo stato glorioso, la carne non congiurerà più contro lo spirito, la lussuria sarà completamente placata, l’uomo non sarà più soggetto all’ira, né ad alcuna passione, né ad alcun disordine: il corpo sarà perfettamente sottomesso all’anima, e tutto l’essere vivrà in un sentimento di pace, d’armonia ed equilibrio impossibile da descrivere. Per questo l’autore aggiunge che nessuno conosce questo nome se non colui che lo riceverà, perché, come dice San Paolo, ciò che occhio d’uomo non ha visto, il suo orecchio non ha sentito, il suo cuore non ha immaginato ciò che Dio ha in serbo per coloro che ama. Nessuno può avere un’idea di questa felicità se non chi l’ha già assaggiata.

§ 4 Lettera alla Chiesa di Thyatira,

E scrivi all’Angelo della Chiesa di Thyatira. È lo spirito di fortezza che parlerà ora per riprendere un Vescovo, colpevole di aver mancato di energia nella pratica della correzione fraterna. Quest’opera di carità spirituale è infatti uno dei primi doveri dei prelati verso il loro gregge, e la loro negligenza in questo compito è per le loro chiese la fonte dei mali più gravi: la Scrittura ce lo mostra con l’esempio di Eli, il sommo sacerdote di Shiloh, che, per non aver saputo reprimere la cattiva condotta dei suoi figli, vide l’ira di Dio cadere con estremo rigore sulla sua famiglia e su tutto il popolo (cf. I Reg., II-IV). « Scrivi dunque all’Angelo della Chiesa di Thyatira: Queste cose dice il Figlio di Dio, Egli che ha gli occhi simili ad una fiamma di fuoco, perché il suo Cuore è divorato da uno zelo ardente, perché lo sguardo dei suoi occhi penetra i segreti più profondi: illumina le intelligenze ed infiamma le volontà che si lasciano toccare da Lui. E i suoi piedi assomigliano al bronzo dorato: pronti per tutti i percorsi, per tutte le fatiche per salvare le anime, hanno allo stesso tempo la brillantezza dell’oro per la carità che li sospinge, e la resistenza del bronzo per la loro sopportazione. Conosco le tue opere, la tua fede e la tua carità; conosco lo zelo che effondi nel tuo ministero e la pazienza che dimostri in esso; io non ignoro che le tue opere sono più numerose oggi di quanto lo fossero in passato. Ti hai fatto progressi, la cosa è evidente, ma questo non mi impedisce di avere qualche rimostranza contro di te: mentre ti dedichi alla tua santificazione, trascuri i tuoi doveri di pastore. Tu permetti ad una donna, questa Jezebel, che si fa chiamare profetessa, di insegnare e sedurre i miei servi. Ella insegna loro a commettere adulterio e a mangiare carne consacrata agli idoli, come fanno i Nicolaiti. E tu la lasci fare, invece di armarti contro di lei con lo zelo e la santa indignazione del profeta Elia! » – Cos’era quella Jezebel? È una personalità concreta o è solo una figura simbolica? Alcuni commentatori sostengono che il rimprovero era diretto alla moglie del vescovo di Thyatira, che in realtà si chiamava Jezebel, e la loro testimonianza è corroborata dal fatto che diverse versioni dicono, invece di “ad una donna”, “la tua donna”, cioè tua moglie. Altri vogliono vedere in lei qualche profetessa, qualche donna Nicolaïta che si ispiraba ad un personaggio ispirato, per rivaleggiare con la Sibilla di un tempio clialdeo eretto in città, il Samba-theion. È più probabile che il nome abbia qui un valore simbolico: evoca il ricordo della moglie del re Achab, una delle donne più criminali della storia dell’umanità. È lei che introdusse il culto di Baal tra i Giudei; fece uccidere Naboth perché non voleva cedere la sua casa; ingaggiò un’aspra lotta contro Elia ed i servi del vero Dio, durante la quale ne massacrò un gran numero (III Reg, XVIII, 4; XIX, 2; XXI, 5 e seguenti). In quest’ultima veste, è la figura degli eretici, che introducono l’errore tra i fedeli, per sedurli e scatenare le loro passioni contro la Chiesa. – In senso morale, Jezebel rappresenta la mollezza sensuale che si insinua tra i Cristiani come risultato della mancanza di vigilanza e di fermezza dei loro pastori. Si definisce una profetessa, perché pretende di saperne di più su Dio dei maestri di teologia. Dice, per esempio, che Dio è troppo buono per dannare qualcuno e che non c’è fuoco all’inferno; che il digiuno è una pratica obsoleta e la vita di clausura un detestabile egoismo. « Gli ho dato il tempo di fare penitenza – continua il Salvatore – perché non voglio che il peccatore muoia; al contrario, voglio che si converta e viva; ma ella non vuole rinunciare alla sua dissolutezza. » – L’espressione: non vult, non vuole, deve essere sottolineata. Segna l’ostinazione della volontà umana, che rifiuta di inchinarsi di fronte alla volontà divina e rende inefficaci tutti i suoi sforzi. “Ecco, io sto per ridurla nel suo letto, cioè: colpirla con una malattia grave, che la porterà all’inferno. Lì troverà il luogo del suo riposo, perché lì non avrà più i mezzi per scuotere il mondo: lì incontrerà lo sposo che ha liberamente scelto per la sua anima, il principe delle tenebre. E tutti coloro che partecipano ai suoi disordini, se non fanno penitenza per le loro azioni malvagie, saranno precipitati giù con lei nella peggiore delle tribolazioni, cioè nell’inferno. Ed Io distruggerò i suoi figli, intendete: quelli che lei ha generato, con i suoi esempi ad una vita di lascivia e di empietà; e li piomberò con lei alla morte eterna, come ho distrutto i figli della vera Jezebel al seguito della madre per mano di Jehu. (IV Reg., X 7). Questo esempio servirà da lezione alle varie chiese: tutti sapranno che io sono Colui che è, e che scruta i reni ed i cuori. Non mi accontento di segni esteriori di penitenza; non ho accettato il pentimento di Achab né quello di Giuda, perché questi empi, nel manifestarlo, obbedivano solo a motivi puramente umani; ma ho spalancato le braccia a Davide, quando ho visto il suo profondo dolore per avermi offeso; perché in tutto ciò che gli uomini fanno, è alla loro intenzione che Io guardo. Darò a ciascuno di voi secondo le sue opere: non lascerò nessuna azione meritoria senza ricompensa, nessuna colpa senza punizione. Perciò, miei fedeli, non temete. Io vi dico a voi, a voi e a tutti i membri della Chiesa di Thyatira che sono rimasti fedeli alla fede: Tutti coloro che non sono stati sviati dall’empia dottrina di questa donna, ma che mi sono rimasti fedeli, come i settemila che rifiutarono di piegare il ginocchio davanti a Baal e di cui rivelai l’esistenza a Elia (II Reg., XX, 18).Tutti coloro che non hanno conosciuto i misteri di satana, che essi chiamano loro abominazioni; Io non metterò nessun altro peso sulle loro teste, non imporrò loro il giogo delle osservanze legali, non esigerò da loro nessuna pratica supplementare, come pretendono questi eretici. Vi chiedo solo di essere fedeli ai precetti del Vangelo che voi conoscete. Quelli almeno, conservateli fedelmente, finché non verrò a ricompensare ciascuno secondo i suoi meriti. Colui che saprà vincere le sue passioni e praticare fino alla fine le virtù che mi sono gradite, come la carità, la povertà, la dolcezza, l’umiltà, ecc. gli darò potere sulle nazioni. » Perché Dio assicura ai suoi servi, anche qui sulla terra, una grande autorità sui loro simili, perché chi è capace di autocontrollo può governare a buon diritto anche gli altri. « Essi giudicheranno gli uomini con una regola di ferro », non nel senso che la loro giustizia sarà esercitata in modo spietato e brutale, ma perché né le simpatie né le antipatie, né alcuna influenza o pressione potranno farli deviare dalla loro rettitudine. E li frantumeranno come il vaso del vasaio: avranno una grazia meravigliosa nel toccare i cuori dei loro ascoltatori e trasformarli in uomini nuovi, proprio come il vasaio cambia la forma del blocco di argilla che tiene tra le sue mani a suo piacimento. E coloro che non vorranno ascoltarli saranno frantumati in un altro modo: porteranno all’inferno i cocci del loro essere, privati per sempre della loro unità. Il loro potere sarà come quello che Io, come uomo, ho ricevuto dal Padre mio. E io darò loro come ricompensa, la stella del mattino. » Quest’ultima figura si riferisce essenzialmente a Cristo. È Lui che è la prima ricompensa di tutti gli eletti; è Lui che il frutto dell’albero della vita e la manna nascosta già evocavano misticamente poc’anzi; è Lui che ora è chiamato la stella del mattino. Questo astro, infatti, quando appare nel cielo, annuncia l’alba: allo stesso modo Cristo, sorgendo all’alba, ha annunciato al mondo il grande giorno dell’immortalità, che cominciava con Lui e che non avrà fine. Per la Sua Santissima Umanità, i corpi di tutti gli eletti, divenuti puri e radiosi come stelle, andranno ad illuminare il cielo con il loro splendore. – La stella del mattino designa anche la Santissima Vergine, come mostrano le sue Litanie, e questo per molte ragioni: perché la sua apparizione sulla terra pose fine alla notte del peccato; perché il suo corpo risorto partecipa in modo molto speciale allo splendore della Santissima Umanità del Figlio; perché Ella fu radiosa, serena e pura fin dal principio della sua esistenza: comparati a Lei, gli altri Santi sono stelle della sera: si sono liberati delle ombre del peccato solo con sforzi laboriosi, e hanno brillato di uno splendore assolutamente puro solo alla fine della loro esistenza: la Santissima Vergine, invece, preservata dal peccato originale, piena di grazia nel suo stesso concepimento, ha brillato, fin dal mattino della sua vita, di uno splendore incomparabile. – Inoltre, promettendo di dare ai suoi fedeli la stella del mattino, Nostro Signore vuole far capire che concederà loro la luce interiore della contemplazione, e quindi li eleverà ad un modo di conoscenza trascendente. Questo è anche ciò che San Pietro intende quando ci invita ad aspettare che i vespri del mattino appaiano nei nostri cuori (I Piet. II, 19). Questa conoscenza è detta mattutina, perché è precedente ad ogni studio, in opposizione alla conoscenza ordinaria, che si acquisisce attraverso il lavoro, e che costituisce la luce della sera. – Chi ha orecchio, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.

IL SENSO MISTICO DELL’APOCALISSE (3)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. PIO VI – “IN GRAVISSIMIS”.

In tempi funestissimi per la Chiesa francese, il S. Padre Pio VI, dà facoltà straordinarie a Vescovi e amministratori di Diocesi, onde concedere dispense, assolvere da censure riservate, in atti vari compiuti in forza di indulti, etc. etc. La situazione per quella Chiesa primogenita era allora particolarmente complicata ed aveva dovuto registrare numerose defezioni, alle quali si voleva rimediare procedendo in tal modo. Oggi siamo in una situazione per certi versi analoga, anche se più grave, perché le defezioni e lo scisma dalla vera Chiesa, sono praticamente totali, vista la adesione, cosciente (Dio non voglia) o meno alla falsa eretica antichiesa dell’uomo, parto distocico della sinagoga di satanasso, operante in modo sempre più violento ed oramai occupante usurpandoli, tutti i posti dell’orbe cattolico, in particolare il colle Vaticano. Quando il vero Pontefice tornerà – liberato per intervento del Cristo (2 Tess. II) dall’oppressione della setta di perdizione che lo tiene occultato ed impedito come all’epoca lo fu l’eroico Pio VI – ad occupare il posto al quale ha diritto per mandato divino, si troverà a gestire una situazione analoga, naturalmente centuplicata e planetaria, e dovrà servirsi dei pochi prelati rimasti a lui fedeli che ne hanno seguito tutte le disposizioni nonché i canoni della Sede Apostolica contenuti nel Codice di Diritto Canonico (quello vero cattolico del 1917) e che detengono legittimamente il proprio mandato e la giurisdizione validamente ottenuta dal Santo Padre regnante. Questa lettera, quindi, potrebbe costituire un precedente da prendere come modello, anche se probabilmente la situazione sarà molto diversa, come le Sacre Scritture ci profetizzano in Daniele, San Paolo, nel Vangelo e nell’Apocalisse. Ma noi del pusillus grex ci contenteremo per il momento di leggere e studiare questa breve lettera pregustando il momento gioioso in cui il nostro giusto Giudice, come baleno dall’Oriente, farà trionfare la vera Giustizia, anche se sappiamo di dovere attraversare momenti terribili di fughe, persecuzioni, martirio. Ma una certezza ci spinge a tutto sopportare con pazienza: la nostra fede in Gesù, il Cristo, vero Dio e vero Uomo, il trionfo certo della Chiesa Cattolica, del Corpo mistico di Cristo e del Cuore immacolato di Maria … et Ipsa conteret caput tuum

S. S. PIO VI

In gravissimis


Roma, 19 marzo 1792

1. Nelle gravissime e molteplici preoccupazioni che dobbiamo continuamente sostenere, per quella sollecitudine a favore di tutte le Chiese che Ci è stata affidata dal supremo Principe dei Pastori, Gesù Cristo, in questi tempi pericolosi, nei quali molti, anzi troppi, figurano nel numero di coloro di cui parla profeticamente l’Apostolo, di coloro cioè che “non sopportano più la sana dottrina e si circondano di maestri che corrispondano ai loro desideri, rifiutando di dare ascolto alla verità, Noi non troviamo maggiore e più dolce conforto che comunicare con i Nostri Fratelli Vescovi che, chiamati a far parte della Nostra stessa sollecitudine, si dedicano con animo alacre e coraggioso ad eseguire i doveri del loro ufficio e a provvedere alla salvezza del gregge loro affidato con grande diligenza e nel migliore modo possibile.

2. Abbiamo provato recentemente una grande consolazione quando abbiamo letto e riletto la lettera piena di zelo che Ci avete inviato il 16 dicembre dello scorso anno voi che vi trovate a Parigi, e quella che Ci hanno scritto l’8 gennaio del corrente anno i vostri Fratelli Vescovi che risiedono a Roma. Da queste lettere abbiamo appreso che Ci chiedevate di investire con un indulto generale tutti i singoli Vescovi del Regno di Francia e gli amministratori delle Diocesi (per il tempo in cui sono vacanti le Sedi Episcopali) di alcune più ampie facoltà, onde possano pascere e governare più facilmente il gregge affidato.

3. Non abbiamo trovato alcuna difficoltà a riconoscere quanto giusta fosse questa richiesta, così corrispondente alla malvagità dei nostri tempi e così degna dei sacri Presuli che riconoscono i doveri del loro ufficio e intendono compierli con tutte le loro forze.

Alla fine delle lettere di cui abbiamo parlato, essi testimoniano l’ossequio che le Chiese Gallicane professano verso l’autorità della Sede Apostolica mediante alcune dichiarazioni, due delle quali vogliamo riportare.

La prima dichiarazione è: “Non si deve esercitare nessuna facoltà proveniente dalla Santa Sede o in proprio o da usare attraverso delegati subalterni senza una previa dichiarazione da iscriversi nello stesso corpo dell’atto, cioè che si proceda in virtù del potere delegato dalla Sede Apostolica, annotando anche la data della concessione.

La seconda dichiarazione è: “Si osserveranno rigorosamente i decreti e le disposizioni dei Sommi Pontefici, dei Concilii, nonché le consuetudini della Chiesa di Roma verso la Chiesa Gallicana nel concedere dispense, nell’assolvere da censure e in tutti gli altri atti compiuti in forza di indulti.

4. Pertanto su consiglio di una speciale Congregazione di Venerabili Nostri Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa tenuta in Nostra presenza il 19 gennaio scorso, concediamo alle vostre Fraternità e a voi diletti Figli amministratori delle Diocesi, per mezzo della presente lettera, per il tempo e nel modo precisati nel presente indulto, le facoltà qui descritte e delle quali devono valersi alcune Sedi Episcopali più di altre.

5. Pertanto confortatevi, Venerabili Fratelli nel Signore, e per la potenza del suo braccio, indossando l’armatura di Dio contro i dominatori di questo mondo di tenebre, combattete come già avete fatto, quali valorosi militi di Cristo. Più che mai in tempo di tribolazione è necessario che i sacri Presuli mostrino quella solida virtù cristiana e quella sacerdotale costanza della quale devono essere dotati, secondo le parole dell’Apostolo, “al fine di essere in grado di esortare i potenti nella sana dottrina e di richiamare coloro che la combattono.

Vi assicuriamo pertanto, sempre, ogni miglior difesa da parte della Nostra autorità pontificia, e la testimonianza della Nostra paterna benevolenza. Come pegno di entrambe impartiamo a voi, diletti Figli, Venerabili Fratelli, con tanto affetto la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 19 marzo 1792, anno diciottesimo del Nostro Pontificato.

* * *

FACOLTÀ CONCESSE DALLA SEDE APOSTOLICA

Ai singoli Arcivescovi e Vescovi e Amministratori delle Diocesi del Regno di Francia, che hanno comunione e grazia con la Sede Apostolica.

6. I. Facoltà di assolvere da tutti i casi in qualsiasi modo riservati alla Santa Sede, e particolarmente di assolvere da tutte le censure ecclesiastiche qualsiasi laico ed ecclesiastico, sia secolare, sia regolare, di ambedue i sessi; e anche coloro che aderirono allo scisma e prestarono giuramento civile e perseverarono in esso oltre i quaranta giorni stabiliti nella lettera apostolica del 13 aprile dello scorso anno per la sospensione a divinis, purché tuttavia abbiano ritrattato pubblicamente e palesemente tale giuramento, e abbiano riparato nel miglior modo possibile allo scandalo dato ai fedeli.

7. II. Facoltà di dispensare coloro che, già iniziati allo stato ecclesiastico, devono essere promossi agli Ordini minori o anche agli Ordini sacri, dalle irregolarità contratte in qualsiasi modo; anche da quella che hanno contratto i violatori della sospensione latae sententiae comminata con la stessa lettera del 13 aprile, purché essi, prima di essere dispensati, ritrattino il giuramento civile, prestato in modo puro e semplice, con una ritrattazione pubblica e palese. Si eccettuano tuttavia quelle irregolarità che provengono da bigamia accertata o da omicidio volontario: ma anche in questi due casi si concede la facoltà di dispensare se ci fu una precisa necessità o costrizione di lavoratori buoni e probi, purché, riguardo all’omicidio volontario, non sorga scandalo da una tale dispensa.

8. III. Facoltà di dispensare e commutare anche i voti semplici di castità, per una causa ragionevole, in altre pie opere; e questo per quelle Congregazioni di uomini e donne che sono stretti da questi vincoli, ma non dal voto (solenne e perpetuo) di religione.

9. IV. Facoltà di dispensare nei matrimoni già contratti o da celebrare sull’impedimento di pubblica onestà derivante da legittimi sponsali.

Di dispensare sull’impedimentum criminis se nessuno dei due coniugi ha collaborato, e di restituire il diritto di risarcimento del debito perduto in conseguenza dell’impedimento.

Di dispensare negli impedimenti di cognazione spirituale fuorché tra il padrino e il figlioccio.

Di dispensare nel terzo e quarto grado di consanguineità e di affinità semplice e anche mista, tanto nei matrimoni già contratti quanto in quelli da contrarsi, e non solo tra i poveri, ma anche tra i ricchi.

Di dispensare anche nel secondo grado di consanguineità semplice e mista, purché in nessun modo si tocchi il primo grado, sia nei matrimoni già contratti, sia in quelli da contrarsi, e non solo tra i poveri, ma anche tra i ricchi.

Tutte queste dispense matrimoniali non devono essere concesse se non con la clausola: “Purché la donna non sia stata rapita, e, qualora fosse stata rapita, finché resta in potere del suo rapitore.

Inoltre gli Arcivescovi, i Vescovi e anche gli Amministratori delle Diocesi (onerata con somma gravità la loro coscienza) sono tenuti a trascrivere tutte e singole le dispense matrimoniali concesse o da concedersi in un registro autenticato, che deve essere conservato presso di loro accuratamente e occultamente, con i nomi di tutti coloro che hanno ottenuto la dispensa.

10. V. La facoltà di dispensare, in caso di minore età, di tre mesi per ricevere gli Ordini sacri, salvi gli indulti di dispensare di tredici mesi, in caso di minore età, già concessi dalla Sede Apostolica ad alcuni Vescovi e Amministratori di Diocesi.

11. VI. La facoltà di conferire gli Ordini al di fuori dei tempi stabiliti in caso di utilità o di necessità, se si tratta di Vescovi; e di dispensare a favore di chi deve ricevere gli Ordini fuori dei tempi stabiliti, se si tratta di Amministratori delle Diocesi vacanti.

12. VII. Facoltà di disporre dei benefici parrocchiali e di altri titoli ecclesiastici ai quali è connessa la cura d’anime, in favore di sacerdoti secolari oppure di regolari, di qualsiasi Istituto, senza tener conto della secolarità o della appartenenza religiosa di tali titoli, in mancanza di sacerdoti secolari ai quali conferire i predetti benefici secolari, o in mancanza di sacerdoti religiosi ai quali conferire i benefici degli Ordini religiosi. Si concede pure facoltà di conferire questi benefici, nonostante la regola dei mesi e l’usanza di alternare, per quelle Diocesi nelle quali si osservano la predetta regola dei mesi e l’usanza di alternare.

13. VIII. Facoltà di concedere ai religiosi di qualsiasi Ordine o Congregazione la possibilità di passare in altro Istituto, anche se la regola vigente in quest’ultimo fosse meno austera di quella dell’Istituto nel quale fecero la loro prima professione.

14. IX. La facoltà di concedere ai religiosi regolari esenti e anche non esenti, di qualsiasi Ordine o Istituto, che furono costretti a vivere fuori del convento e a deporre l’abito religioso, di indossare abiti secolari, purché convenienti ad un ecclesiastico; e di continuare a vestire tali abiti sotto l’obbedienza del Vescovo, qualora manchino i relativi Superiori regolari oppure non siano in grado di esercitare qualsiasi giurisdizione sui loro sussidi, fermo sempre restando l’obbligo di osservare i voti solenni.

15. X. La facoltà di presiedere alle elezioni e di confermarle e di dare le obbedienze e di esercitare tutti gli uffici dei superiori immediati nelle case delle fanciulle soggette alla direzione di religiosi, ogni qualvolta questi siano assenti o impediti o negligenti nell’esercizio del loro ufficio. I Vescovi possono procedere come delegati della Sede Apostolica, salvo tuttavia i diritti notoriamente esistenti per qualsiasi titolo nei confronti delle stesse case e delle persone, a norma di speciali clausole canoniche. Parimenti ai medesimi, come delegati della Sede Apostolica, è data facoltà di concedere ai religiosi di ambedue i sessi, anche esenti, sia a tutti collettivamente, sia in particolare ai singoli, la dispensa dall’osservare quella parte di regole e costituzioni che nella presente situazione non può essere osservata senza grave pregiudizio.

16. XI. Facoltà di impartire l’indulgenza plenaria in articulo mortis nella forma prescritta dal Sommo Pontefice Pio VI nella sua costituzione del 7 aprile 1747.

17. XII. Facoltà di rinnovare e prorogare le indulgenze concesse ad tempus dai Sommi Pontefici alle case religiose e alle congregazioni, secondo che sarà richiesto dalle necessità dei tempi e delle circostanze. Inoltre, la facoltà di trasferire tutte le indulgenze (concesse e assegnate per qualsiasi titolo alle Chiese cattedrali o parrocchiali che sono state invase e occupate da pseudo-pastori) a quelle Chiese nelle quali i cattolici possono convenire per celebrare i divini misteri.

18. XIII. Facoltà di estendere e comunicare tali facoltà – eccetto quelle che richiedono l’Ordine episcopale – in toto o in parte, come la loro coscienza avrà suggerito, anche ai sacerdoti idonei, sia per tutti i luoghi, sia per alcuni delle loro Diocesi, per il tempo che riterranno più opportuno, come meglio giudicheranno in Domino; non solo, ma anche facoltà di revocare tali concessioni e anche di moderarne l’uso, sia in relazione al luogo, sia al tempo di esercitarle.

19. XIV. Concediamo il potere di subdelegare ai singoli presbiteri quelle facoltà che non richiedono la consacrazione episcopale e che furono concesse agli Arcivescovi e ai Vescovi di Francia in forza dell’indulto generale del 10 maggio dello scorso anno. Agli Arcivescovi e Vescovi di Parigi e di Lione, e ai Vescovi delle Diocesi più antiche di ogni provincia del regno di Francia, concediamo il potere di subdelegare anche quelle facoltà che in forza delle risoluzioni del 18 agosto furono concesse loro in modo speciale in data 26 settembre dello scorso anno. Queste facoltà vengono prorogate per tutto il tempo di questo indulto.

20. Tutte le predette facoltà vengono concesse per un anno, cominciando da questo giorno, se così a lungo durerà la calamità di questi tempi. Vengono concesse pertanto a condizione che per nessuna ragione si possa usarne fuori delle Diocesi di competenza e neppure nei luoghi non soggetti al Re cristianissimo.

Infine, vengono concesse sotto la precisa condizione che gli Arcivescovi, i Vescovi e gli Amministratori delle Diocesi, nell’esercizio di tali facoltà, espressamente dichiarino che le stesse vengono concesse da loro come delegati dalla Sede Apostolica; tale dichiarazione deve essere inserita nel corpo stesso dell’Atto.


DOMENICA PRIMA DOPO PASQUA (2021)

DOMENICA PRIMA DOPO PASQUA (2021)

DOMENICA IN ALBIS o OTTAVA DI PASQUA.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Pancrazio.

Privilegiata di 1 classe. – Doppio maggiore. – Paramenti bianchi.

Questa Domenica è detta Quasimodo (dalle prime parole dell’Introito) o in Albis (anticamente anche post Albas), perché i neofiti avevano appena la sera precedente deposte le vesti bianche, oppure anche Pasqua chiusa, poiché in questo giorno termina l’ottava di Pasqua (Or.). Per insegnare ai neofiti (Intr.) con quale generosità debbano rendere testimonianza a Gesù, la Chiesa li conduceva alla Basilica di S. Pancrazio, che all’età di quattordici anni rese a Gesù Cristo la testimonianza dei sangue. Così devono fare i battezzati davanti alla persecuzione a colpi di spillo cui sono continuamente fatti segno; devono cioè resistere, appoggiandosi sulla fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, risorto. In questa fede, dice S. Giovanni, vinciamo il mondo, poiché per essa resistiamo a tutti i tentativi di farci cadere (Ep.). È quindi di somma importanza che questa fede abbia una solida base e la Chiesa ce la dà nella Messa di questo giorno. Base di questa fede è, secondo quanto dice S. Giovanni nell’Epistola, la testimonianza del Padre, che, al Battesimo del Cristo (acqua), lo ha proclamato Suo Figliuolo, del Figlio che sulla croce (sangue) si è rivelato Figlio di Dio, dello Spirito Santo che, scendendo sugli Apostoli nel giorno della Pentecoste, secondo la promessa di Gesù, ha confermato quello che il Redentore aveva detto della propria risurrezione e della propria divinità. Nel Vangelo vediamo infatti come Gesù Cristo, apparendo due volte nel Cenacolo, dissipa l’incredulità di San Tommaso e loda quelli che han creduto in Lui senza averlo veduto.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

1 Pet II, 2. Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja.

[Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia,]

Ps LXXX: 2. Exsultáte Deo, adjutóri nostro: jubiláte Deo Jacob. [Inneggiate a Dio nostro aiuto; acclamate il Dio di Giacobbe.]

– Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja.

[Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia.]

Oratio

Orémus.

Præsta, quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui paschália festa perégimus, hæc, te largiénte, móribus et vita teneámus.

[Concedi, Dio onnipotente, che, terminate le feste pasquali, noi, con la tua grazia, ne conserviamo il frutto nella vita e nella condotta.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joannis Apóstoli. – 1 Giov. V: 4-10.

“Caríssimi: Omne, quod natum est ex Deo, vincit mundum: et hæc est victoria, quæ vincit mundum, fides nostra. Quis est, qui vincit mundum, nisi qui credit, quóniam Jesus est Fílius Dei? Hic est, qui venit per aquam et sánguinem, Jesus Christus: non in aqua solum, sed in aqua et sánguine. Et Spíritus est, qui testificátur, quóniam Christus est véritas. Quóniam tres sunt, qui testimónium dant in coelo: Pater, Verbum, et Spíritus Sanctus: et hi tres unum sunt. Et tres sunt, qui testimónium dant in terra: Spíritus, et aqua, et sanguis: et hi tres unum sunt. Si testimónium hóminum accípimus, testimónium Dei majus est: quóniam hoc est testimónium Dei, quod majus est: quóniam testificátus est de Fílio suo. Qui credit in Fílium Dei, habet testimónium Dei in se”.  – Deo gratias.

“Carissimi: Tutto quello che è nato da Dio vince il mondo: e questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede. Chi è che vince il mondo, se non colui che crede che, Gesù Cristo è figlio di Dio? Questi è Colui che è venuto coll’acqua e col sangue, Gesù Cristo: non con l’acqua solamente, ma con l’acqua e col sangue. E lo Spirito è quello che attesta che Cristo è verità. Poiché sono tre che rendono testimonianza in cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo: e questi tre sono una cosa sola. E sono tre che rendono testimonianza in terra: lo spirito, l’acqua e il sangue: e questi tre sono una cosa sola. Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è maggiore. Ora, la testimonianza di Dio che è maggiore è questa, che egli ha reso al Figlio suo. Chi crede al Figlio di Dio, ha in sé la testimonianza di Dio” (1 Giov. V, 4-10).

Il Vangelo ci presenta la storia come una grande lotta del bene contro il male, della verità contro l’errore, e viceversa. A chi la vittoria? Ai figli di Dio, risponde la Epistola di quest’oggi, dovuta a San Giovanni, l’autore del quarto Vangelo. L’insieme delle forze del male, le negative forze dell’errore, delle tenebre e del gelo, ha un nome classico: si chiama il mondo; l’antitesi, l’antagonista di Dio, l’anti-Dio. Un anti-Dio in carne ed ossa, realissimo a suo modo, d’una realtà empirica e grossolana. Gente che c’è, che parla, che si agita, che si dà delle grandi arie e del gran daffare, che assume volentieri pose trionfatrici. Apparenza e menzogna nota, proclama l’Apostolo. La Vittoria non è del mondo, il mondo è l’eterno sconfitto. Vince Dio e chi nasce da Dio: i figli di Dio. Un altro termine prediletto del quarto Vangelo, che qui riappare: i nati di Dio. E chi è che nasce da Dio? A chi è perciò riservata la vittoria? Potremmo adoperare una frase del quarto Vangelo: « Hi qui credunt in nomine eius: » i credenti in Lui. C’è la frase precisa anch’essa nella nostra Epistola: « gli uomini di fede ». La Vittoria che vince, abbatte, schiaccia il mondo, è la nostra fede: « Hæc est Victoria quæ vincit mundum, fides nostra! – La nostra fede! Fede, badate, non credulità. C’è l’abisso fra le due cose, per quanto molti le scambino. La credulità è una debolezza di mente. Il credenzone è un vinto, vinto dalle illusioni a cui (stolto!) egli dà una consistenza che non hanno. Perché anche senza essere credenzoni o troppo creduli, si può avere una fede non, davvero religiosa o punto religiosa. Si può aver fede in un uomo; si può aver fede in un’idea, non divina. La fede di cui parla il Vangelo è sempre e sola fede religiosa, sanamente, profondamente religiosa: la fede, grazie alla quale noi siamo i figli di Dio, è qualcosa che viene da Lui e va a Lui. Fede buona nella Bontà; una fede, certezza immota, assoluta, profonda. – Il mondo non ha questa fede. Il mondo è scettico. Ha della fede, non la fede; degli idoli; non Iddio, il mondo. Non crede nella bontà amorosa e trionfatrice. Crede alle passioni, non alla ragionevolezza. Crede ai ciarlatani, non agli Apostoli. Crede all’astuzia, non alla verità. Noi siamo invece uomini di fede, gli uomini della fede, noi Cristiani. Noi crediamo alla carità, alla bontà di Dio, della Realtà più profonda, più vera, più alta: Dio! È la formula che adopera per altre volte lo stesso Apostolo: « nos credidimus charitati. » Sono tutte formule che si equivalgono: siamo figli di Dio, crediamo nel Suo nome, abbiamo fede nella Sua bontà. Questa fede è la nostra forza. Chi crede davvero alla Bontà sovrana, dominatrice, divina, è buono; comincia dall’essere o per essere buono. Egli stesso combatte, lotta per bontà, lotta fiduciosamente, colla fiducia della vittoria. Perché sa di essere dalla parte di Dio e di avere Iddio dalla parte propria. « Si Deus prò nobis quies contra nos? » Credere alla vittoria è il segreto per conseguirla. E infatti nella storia, chi l’abbracci nel suo meraviglioso complesso, trionfa la bontà, trionfa Dio. Lo scettico ha dei trionfi apparenti e momentanei… ì minuti. La fede ha per sé i secoli: trionfa con infinito stupore di chi credeva superbamente di aver potuto costruire un edificio sulla mobile arena dello scetticismo. Teniamo alta come segnacolo di vittoria la bandiera della nostra fede.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Alleluja

Alleluia, alleluia – Matt XXVIII: 7. In die resurrectiónis meæ, dicit Dóminus, præcédam vos in Galilæam.

[Il giorno della mia risurrezione, dice il Signore, mi seguirete in Galilea.]

Joannes XX:26. Post dies octo, jánuis clausis, stetit Jesus in médio discipulórum suórum, et dixit: Pax vobis. Allelúja.

[Otto giorni dopo, a porte chiuse, Gesù si fece vedere in mezzo ai suoi discepoli, e disse: pace a voi.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XX: 19-31.

“In illo témpore: Cum sero esset die illo, una sabbatórum, et fores essent clausæ, ubi erant discípuli congregáti propter metum Judæórum: venit Jesus, et stetit in médio, et dixit eis: Pax vobis. Et cum hoc dixísset, osténdit eis manus et latus. Gavísi sunt ergo discípuli, viso Dómino. Dixit ergo eis íterum: Pax vobis. Sicut misit me Pater, et ego mitto vos. Hæc cum dixísset, insufflávit, et dixit eis: Accípite Spíritum Sanctum: quorum remiseritis peccáta, remittúntur eis; et quorum retinuéritis, reténta sunt. Thomas autem unus ex duódecim, qui dícitur Dídymus, non erat cum eis, quando venit Jesus. Dixérunt ergo ei alii discípuli: Vídimus Dóminum. Ille autem dixit eis: Nisi vídero in mánibus ejus fixúram clavórum, et mittam dígitum meum in locum clavórum, et mittam manum meam in latus ejus, non credam. Et post dies octo, íterum erant discípuli ejus intus, et Thomas cum eis. Venit Jesus, jánuis clausis, et stetit in médio, et dixit: Pax vobis. Deinde dicit Thomæ: Infer dígitum tuum huc et vide manus meas, et affer manum tuam et mitte in latus meum: et noli esse incrédulus, sed fidélis. Respóndit Thomas et dixit ei: Dóminus meus et Deus meus. Dixit ei Jesus: Quia vidísti me, Thoma, credidísti: beáti, qui non vidérunt, et credidérunt. Multa quidem et alia signa fecit Jesus in conspéctu discipulórum suórum, quæ non sunt scripta in libro hoc. Hæc autem scripta sunt, ut credátis, quia Jesus est Christus, Fílius Dei: et ut credéntes vitam habeátis in nómine ejus.” – 

 “In quel tempo giunta la sera di quel giorno, il primo della settimana, ed essendo chiuse le porte, dove erano congregati i discepoli per paura de’ Giudei, venne Gesù, e si stette in mezzo, e disse loro: Pace a voi. E detto questo, mostrò loro le sue mani e il costato. Si rallegrarono pertanto i discepoli al vedere il Signore. Disse loro di nuovo Gesù: Pace a voi: come mandò me il Padre, anch’io mando voi. E detto questo, soffiò sopra di essi, e disse: Ricevete lo Spirito Santo: saran rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saran ritenuti a chi li riterrete. Ma Tommaso, uno dei dodici, soprannominato Didimo, non si trovò con essi al venire di Gesù. Gli dissero però gli altri discepoli: Abbiam veduto il Signore. Ma egli disse loro: se non veggo nelle mani di lui la fessura de’ chiodi, e non metto il mio dito nel luogo de’ chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non credo. Otto giorni dopo, di nuovo erano i discepoli in casa, e Tommaso con essi. Viene Gesù, essendo chiuse le porte, e si pose in mezzo, o disse loro: Pace a voi. Quindi dice a Tommaso: Metti qua il dito, e osserva le mani mie, e accosta la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma fedele. Rispose Tommaso, e dissegli: Signor mio, o Dio mio. Gli disse Gesù: Perché  hai veduto, o Tommaso, hai creduto: beati coloro che non hanno veduto, e hanno creduto. Vi sono anche molti altri segni fatti da Gesù in presenza de’ suoi discepoli, che non sono registrati in questo libro. Questi poi sono stati registrati, affinché crediate che Gesù ò il Cristo Figliuolo di Dio, ed affinché credendo otteniate la vita nel nome di Lui” (Jov. XX, 19-31). »

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla Confessione pasquale.

“Erat autem proximum

Pascha, dies festus Judæorum”.

(JOAN. VI, 4).

Sì, Fratelli miei, ecco giunto e trascorso questo tempo fortunato in cui tanti Cristiani hanno abbandonato il peccato, ed hanno strappate le loro povere anime dagli artigli del demonio per rimettersi sotto l’amabile giogo del Salvatore. Ah! avesse Iddio voluto che fossimo nati nel bel tempo dei primitivi Cristiani, che con santa allegrezza vedevano giungere questo momento! O giorno beato! Giorno di salute e di grazia, che cosa sei diventato ora? Dove sono quelle gioie sante e celesti che formano la felicità dei figli di Dio? Sì, M. F., questo tempo di grazia riuscirà a noi di vantaggio o di danno: sarà la causa della nostra felicità, se corrispondiamo alle grazie che ci vengono prodigate in questo prezioso momento; oppure sarà la nostra perdita, se non ne approfittiamo o ne abusiamo. — Ma, mi direte, che vuol dire questa parola Pasqua? — Non lo sapete? Ebbene! Ascoltate e lo saprete. Pasqua significa passaggio, cioè il passaggio dalla morte del peccato alla vita della grazia. Vedrete poi se le vostre Pasque sono buone, e se potete star tranquilli, massime voi, brava gente, che vi accontentate di adempiere il precetto della Chiesa, cioè di fare una sola confessione e comunione per Pasqua.

I. — Perché, F. M., la Chiesa ha stabilito il santo tempo della Quaresima? — Per prepararci a degnamente celebrare la santa Pasqua, mi rispondete; la Pasqua è il tempo in cui Dio sembra raddoppiare le sue grazie, ed eccitare i rimorsi delle nostre coscienze per farci uscire dal peccato. — Va benissimo, è ciò che vi insegna il Catechismo; ma se domandassi ad un fanciullo, qual è il peccato di coloro che non fanno Pasqua? mi risponderebbe semplicemente che è un grave peccato mortale; e se gli chiedessi: Quanti peccati mortali bastano per andare all’inferno? Mi soggiungerebbe: Basta un solo; se si muore senza averne ottenuto il perdono. Ebbene! che ne dite? Non avete fatto Pasqua? — No! mi rispondete. — Ma, poiché non avete fatto Pasqua, ed il non farla è un peccato mortale, dunque vi dannerete. Che ne pensate? Ciò non v’importa nulla? — Ah! avete ragione, dite tra voi, ma se io son dannato, non sarò solo. — Evvia! se ciò non v’importa, se v’è indifferente il salvarvi ed il perdervi, bisognerà proprio che vi consoliate, sperando che nella vostra disgrazia non sarete solo; e perciò non vi importuno più a lungo. Povera anima! che ne dite del linguaggio che tiene questo vostro corpo di peccato in cui avete la disgrazia di abitare? Oh! quante lagrime spargerete per tutta l’eternità! Oh! quanti lamenti! Oh! quanti urli manderete, là in mezzo alle fiamme senza speranza di uscirne! Oh! quanto siete disgraziata d’essere tanto costata a Gesù Cristo e d’essere da Lui separata per sempre! Perché, F. M., non avete fatto Pasqua? — Perché non l’ho voluto, mi direte. — Ma se morite in questo stato vi dannerete. — Tanto peggio! — Ebbene! ditemi, credete d’aver un’anima? — Ah! so bene che ho un’anima. — Ma, forse, credete che dopo la morte tutto sarà finito? — Ah! pensate tra voi: so che la nostra anima sarà felice od infelice, secondoché avrà fatto bene o male. — E che cosa può renderla infelice? — Il peccato, mi direte. — Vi sentite colpevole di peccato, dunque concludo che siete dannato. Non è vero, amico? Siete venuto una volta o due a confessarvi; ma siete sempre stato lo stesso. Perché? Perché non avete voluto correggervi, e vi è indifferente tanto il vivere nel peccato e dannarvi, quanto l’abbandonarlo per salvarvi. Volete dannarvi? Ebbene! non inquietatevi, lo sarete. — Non è vero, sorella mia, che avete lasciato passare Pasqua senza confessarvi? avete vissuto la Quaresima e la Pasqua, in peccato; e perché? Eccone la ragione: perché non avete più religione, avete perduta la fede, non pensate che a divertirvi un poco nel mondo, aspettando di esser gettata tra le fiamme. Vi vedremo, sorella mia, sì, un giorno vi vedremo; vedremo le vostre lagrime, la vostra disperazione; vi riconoscerò, almeno, lo credo; voi vi sarete dannata e ne eravate padrona. Ma tiriamo un velo; lasciamo nascoste nelle tenebre tutte queste sozzure fino al giorno del giudizio. Esaminiamo ora qual è la confessione e la comunione di coloro che si accontentano di accostarvisi una volta all’anno, e vedremo se essi possono esser tranquilli o no. Se per fare una buona confessione, bastasse domandar perdono a Dio, accusare i propri peccati e far qualche penitenza, il peccato, che la religione ci dipinge come una mostruosità, non avrebbe nulla di spaventevole; nulla sarebbe più facile che riparare la perdita della grazia di Dio e seguire la via che conduce al cielo, la quale invece, secondo Gesù Cristo stesso, è così difficile. Sentite ciò che Egli disse ad un giovane che gli domandava se sarebbero stati molti gli eletti, e se la via che conduce al cielo è difficile a seguirsi: Oh! come è stretta questa via! Quanto pochi sono quelli che la seguono! Oh! come sono pochi coloro che la cominciano e giungono alla fine (Matt. VII, 14)! Infatti, F. M., dopo aver vissuto per un anno intero senza fastidi, senza noie, non occupandovi che dei vostri affari temporali, delle vostre ricchezze od anche dei vostri piaceri, senza darvi pensiero di correggervi, né di lavorare per acquistare le virtù che vi mancano; verrete solo nella quindicina di Pasqua, più tardi che potrete, a raccontare i vostri peccati, come narrereste una storia: leggerete in un libro qualche preghiera, o ne farete qualche altra per un certo tempo. E con questo, tutto sarà fatto, e seguirete la vostra vita ordinaria; farete ciò che avete sempre fatto, vivrete come il solito; siete stati veduti ai giuochi e nelle osterie e vi ci si rivedrà: siete stato trovato nei balli e nei festini e vi sarete ritrovato: e così si dica del resto. Alla prossima Pasqua vi ripentirete della stessa cosa. E continuerete così fino alla morte: cioè il sacramento della Penitenza, in cui Dio sembra dimenticare la sua giustizia per non manifestare che la sua misericordia, non sarà più per voi che un gioco od un passatempo! Capite benissimo, che se nelle vostre confessioni non vi è nulla di meglio, potete giustamente concludere che esse non valgono nulla, per non dir di peggio.

II. — Ma per meglio convincervi, esaminiamo la cosa più davvicino. Per fare una buona confessione che possa riconciliarci con Dio, dobbiamo detestare i nostri peccati con tutto il nostro cuore; non perché siamo obbligati a dire al prete cose che vorremmo poter nascondere a noi stessi; ma bisogna pentirsi d’aver offeso un Dio così buono, d’esser restati sì lungo tempo nel peccato, d’aver disprezzato tutte le grazie colle quali ci sollecitava ad uscirne. Ecco, F. M., ciò che deve fare scorrere le nostre lagrime e spezzare il nostro cuore. Ditemi, se aveste questo vero dolore, non vi affrettereste a riparare il male che ne è la causa e a mettervi subito in grazia di Dio? Che direste di un uomo che guastatosi ingiustamente col suo amico e che poi, riconoscendo il suo torto se ne pente e non cerea il modo di riconciliarsi? Se l’amico suo fa qualche passo in proposito, non approfitterà egli dell’occasione? Ma se invece, non facesse conto di tutto ciò, non avreste ragione di dire che gli è indifferente d’essere in buona o cattiva relazione con quella persona? Il paragone è giusto. Chi ha la disgrazia di cadere nel peccato, o per debolezza od inavvertenza od anche per malizia, se ne ha un vero dolore, potrà restare lungamente in questo stato? Non ricorrerà subito al sacramento della Penitenza? Ma, se resta un anno nel peccato e vede con fastidio avvicinarsi il tempo della Pasqua, perché bisogna confessarsi; se, invece di presentarsi in principio di Quaresima al tribunale di Penitenza, per aver qualche tempo in cui potersi mortificare e non passare subito dal peccato alla sacra Mensa; se non vuol sentire parlare che a Pasqua della confessione, che cerca di ritardare per quanto gli è possibile presentandosi poi colle disposizioni di un condannato che vien condotto al supplizio; che cosa significa tutto questo? Eccovelo, che se la Pasqua fosse prolungata fino a Pentecoste, voi non vi confessereste che a Pentecoste: o se non venisse che ogni dieci anni, non vi confessereste che ogni dieci anni; e finalmente, se la Chiesa non ve lo comandasse, vi confessereste soltanto all’ora della morte. Che ne dite? Non è vero, che non è né il rimorso d’aver offeso Dio ciò che vi fa confessare; né l’amor di Dio, ciò che vi fa fare la Pasqua? — Ah! mi soggiungerete, è già qualche cosa, fare la S. Pasqua; e poi noi non la facciamo senza sapere il perché. — Ah! voi non sapete nulla; fate Pasqua per abitudine, per dire che l’avete fatta e, se voleste dire la verità, direste che ai vostri antichi peccati ne avete aggiunto uno nuovo. Non è dunque l’amor di Dio, né il rimorso di averlo offeso, che vi fa confessare e fare la Pasqua, e nemmeno il desiderio di condurre una vita più cristiana. Eccone la prova: se amaste il buon Dio, potreste acconsentire a commettere il peccato con tanta facilità, anzi con tanto piacere? Se aveste orrore del peccato, come dovreste averlo, potreste conservarlo per un anno intero sulla coscienza? Se aveste un vero desiderio di condurre una vita più cristiana, non si vedrebbe almeno qualche piccolo cambiamento nel vostro modo di vivere? No, M. F., non voglio parlarvi oggi di quei disgraziati, i quali non accusano che a metà i loro peccati per timore di non poter fare la Pasqua o d’essere rimandati; o forse per coprire col velo della virtù la loro vita vergognosa; e che, in questo stato s’avvicinano alla sacra Mensa e consumano la loro riprovazione, abbandonano il loro Dio al demonio, per esalare la loro anima dannata nell’inferno. No, voglio sperare che questo non vi riguardi; ma pure continuerò a dirvi che le vostre confessioni annuali non hanno nulla che possa tranquillizzare. — Ma, mi direte, che cosa bisogna fare perché la confessione sia buona? — Se volete saperlo, eccovelo: ascoltate bene, e vedrete se potete star sicuri. Affinché la vostra confessione meriti il perdono, bisogna ch’essa sia umile e sincera, accompagnata da un vero dolore causato dal rimorso d’aver offeso Dio, e non per i castighi che merita il peccato, ed un fermo proposito di non più peccare per l’avvenire. Ciò premesso, dico che è ben difficile che tutte queste disposizioni si trovino in coloro che non si confessano che una volta all’anno: lo vedrete. Cos’è un cristiano ai piedi del prete, al quale fa la confessione dei suoi peccati? È un peccatore che viene col dolore nel cuore, e si getta ai piedi del suo Dio come un reo davanti al giudice, per accusarsi lui stesso e domandare la grazia. Come s’accuserà? Ecco: Io sono un colpevole indegno del nome di figlio: ho vissuto finora in un modo tutto opposto a ciò che mi comandava la mia religione; non ho avuto che disgusto per ciò che si riferisce al servizio di Dio; i santi giorni della domenica e quelli di festa non sono stati per me che giorni di piaceri e di gozzoviglie; o, per dir meglio, non ho fatto nulla di bene fino ad ora; sono perduto e dannato se Dio non ha pietà di me. Ecco, F. M., i sentimenti di un Cristiano che ha in orrore il peccato. Ma, ditemi, si accusano così quelli che trovano non essere abbastanza il restare dodici mesi nel peccato, e trovano che le Pasque si avvicinano troppo veloci? Ahimè! Dio mio! voi vedete le confessioni annue che fanno questi poveri disgraziati, e vedete che le fanno con una noia mortale. Oh! no, no, costui, non è più un reo, coperto di vergogna e penetrato di dolore d’aver offeso Dio, che s’umilia, s’accusa lui stesso, e domanda un perdono di cui si riconosce infinitamente indegno: ma ahimè! oserò dirlo? è un uomo che sembra raccontare una storia, e la racconta male, cerca di mascherarsi e di comparire colpevole il meno che può. Ascoltatelo: non è lui che ha commesso quel peccato d’impurità, è un altro che ve l’ha sollecitato, come se non fosse stato padrone di non seguire quel consigliere. Non è lui che s’è incollerito: è colpa del suo vicino che gli ha detto una parola pungente. Ha mancato alla Messa, sì, ma la compagnia ne fu la causa. Una volta mangiò di grasso in un giorno proibito; se non vi fosse stato spinto non l’avrebbe fatto. Egli ha parlato male, ma fu quello ch’era vicino a lui che l’ha fatto peccare. Diciamo meglio: il marito accusa la moglie, la moglie accusa il marito; il fratello la sorella e la sorella il fratello; il padrone il servo ed il servo cerca, per quanto può, di scaricarsi sul suo padrone. Dicendo il Confiteor, accusano se stessi, dicendo: E mia colpa: due minuti dopo si scusano ed accusano gli altri. Niente umiltà, niente sincerità, niente dolore: ecco le disposizioni di quelli che non si confessano che una volta all’anno. Un parroco dal modo con cui s’accusano, s’accorgerà ch’essi non hanno affatto le disposizioni necessarie per ricevere l’assoluzione. Se dà loro un po’ di tempo per non far loro commettere un sacrilegio, che cosa fanno essi? Ascoltateli: mormorano dicendo che non hanno il tempo di ritornare e che un’altra volta non saranno meglio disposti; e finiscono col dirvi che se non si vuol riceverli, andranno da un altro, che non sarà così scrupoloso, e che li assolverà… Come se Dio non potesse vivere senza di essi! Poveri ciechi!… Vedete da questo quali siano le loro disposizioni. Il sacerdote, dal modo con cui s’accusano, vede ch’essi non dicono tutto; è obbligato di far loro mille domande; essi non dicono né il numero, né le circostanze che cambiano la specie. Vi sono certi peccati ch’essi non vorrebbero dire e neppur nascondere. Che fanno? Li dicono per metà, come se il prete potesse sapere ciò che avviene nel loro cuore. Si accontentano di raccontare in blocco i peccati, senza nemmeno distinguerne i pensieri dai desideri. Il sacerdote chiederà: Non avete mai avuto pensieri di superbia, di vanità, di vendetta o d’impurità? Sapete che quando ci si fermiamo su volontariamente essi sono peccato. Avete commesso qualcheduna di queste mancanze? — Può darsi, risponderà, ma non me ne ricordo. — Ma bisogna dire approssimativamente il numero, altrimenti le confessioni non valgono nulla. — Ah! reverendo, come volete che mi ricordi di tutti i pensieri che ho avuti in un anno? ciò m’è impossibile. — Ah! Dio mio, che confessioni, o piuttosto che sacrilegi! … E neppure, F. M., si occupano delle circostanze che aggravano il peccato e che possono renderlo mortale. Ascoltate come si confessano: mi sono ubbriacato, ho calunniato il mio prossimo, ho peccato contro la santa virtù della purità, ho altercato, mi sono vendicato; e se il confessore non fa domande, basta. — Ma, gli dirà il confessore, quante volte avete fatto questo? Avete commesso di questi peccati in chiesa? Era un giorno di domenica? L’avete fatto in presenza dei vostri figli, dei vostri servi? V’era molta gente? L’onore del vostro prossimo ha sofferto qualche danno? Questi pensieri di superbia vi sono venuti in chiesa, durante la santa Messa? Vi ci siete fermati su per molto tempo? Questi pensieri, contrari alla santa virtù della purità, sono stati accompagnati da cattivi desideri? Quest’altro peccato è stato per inavvertenza o per malizia? Non avete aggiunto peccato a peccato, pensando che vi costerebbe lo stesso confessarvi di molti come di pochi? Vi sono di quelli che escludono affatto il dovere di farvi alcun dettaglio dei loro peccati e vi dicono francamente che essi non hanno nulla da rimproverarsi, che non hanno tempo, che bisogna che se ne vadano. Non avete tempo, ebbene! andatevene. Andare o restare per voi è la stessa cosa. Dio mio! che disposizioni! Dio mio! Sono questi peccatori che vengono a piangere i loro peccati? Bisogna però convenire che vi sono alcuni i quali fanno il possibile per ben esaminarsi, e che dicono i loro peccati meglio che possono; ma con tale indifferenza, freddezza ed insensibilità che strazia il cuore d’un povero sacerdote. Non sospiri, non gemiti, non lagrime! non un segno che annunci il dolore dei loro peccati. Bisogna che il prete, per dar loro l’assoluzione, sia persuaso che essi hanno migliori disposizioni di quelle che mostrano. So bene che le lacrime ed i sospiri non sono segni infallibili di conversione né di contrizione. Succede troppo spesso che quelli che piangono non sono per questo più Cristiani degli altri. Ma è pure cosa impressionante sentir raccontare con tanta freddezza ed indifferenza ciò che deve necessariamente attristarci ed eccitare le nostre lagrime. Se un reo fosse sicuro che, confessando i suoi delitti, riceverà la grazia; vi lascio immaginare se potrebbe manifestarli senza lagrime, nella speranza di commuovere il cuore del giudice e meritarsi il perdono. Osservate un ammalato quando scopre le sue piaghe al medico; udite i suoi sospiri e vedete le sue lagrime. Vedete un amico che vi racconta le sue pene: i suoi atti, il tono della sua voce, il suo modo d’esprimersi, tutto in luì vi rivela il suo affanno ed il suo dolore. Perché, F. M., nulla appare di tutto questo, quando confessiamo i nostri peccati? Non lo sapete? Ebbene! ve l’insegnerò: il vostro cuore non è più commosso delle vostre parole, ed il vostro interno è simile al vostro esterno: i vostri peccati non vi danno più dolore di quello che ne dimostrate. Ecco perché, dopo le vostre Pasque, siete sì poco Cristiano, e non siete né più buono né meno peccatore di prima.

III. Ho detto che il rimorso d’aver offeso Dio, se è vero, deve necessariamente rinchiudere una sincera volontà di non voler più peccare: che se questa volontà è sincera ci porterà altresì a stare in guardia; a cacciare tutti i pensieri cattivi di vendetta, d’impurità, non appena ce ne accorgiamo; a fuggire le occasioni che ci avevan portato al peccato; a nulla trascurare per correggerci delle nostre cattive abitudini. Ebbene! amico, il vostro proposito di non più offendere il buon Dio non è dunque stato sincero, poiché vi si vedeva nelle osterie e vi ci si vede ancora; eravate stato visto in quella compagnia dove avete commesso quel peccato e vi comparite ancor oggi. Converrete con me che non avete fatto alcuno sforzo per viver meglio, che nel corso dell’anno passato. Perché questo, amico mio? Perché? Ecco: perché non desiderate affatto di correggervi, la vostra confessione non è stata che una menzogna e la vostra contrizione una larva di penitenza. Ne volete una seconda prova? Eccola. Di che vi accusavate l’anno scorso? Di ubriachezza, d’impurità, di superbia, di collera, di negligenza nel servizio di Dio? E di che vi accusate quest’anno? Delle stesse cose. E di che vi accuserete l’anno venturo se sarete ancora in vita? Ancora delle stesse cose. E perché, F. M., perché non desiderate affatto di condurre una vita più cristiana; ma vi confessate solo per sdebitarvi e per dire che avete fatto Pasqua; o, se voleste attestare la verità, direste che vi confessate ogni anno per aggiungere un nuovo peccato agli antichi; dicendo così, direste quello che veramente fate. Voi, dunque, non vi accorgete che il demonio vi inganna. S’egli a voi proponesse di abbandonar tutto, a voi che avete l’abitudine di confessarvi una volta l’anno, ne avreste orrore, non vorreste crederlo. Ma egli per avervi un giorno in suo potere, si accontenta di tenervi sempre nelle vostre cattive abitudini. Dubitate di quello che dico? Esaminate la vostra condotta, e vedete se vi siete corretto di qualche peccato dopo tanti anni che vi confessate solo a Pasqua; o per meglio dire, se ogni anno non vi affondate sempre più nell’abisso del peccato.  Ma, mi direte, tutto questo non ci spinge troppo a farci fare la Pasqua. — È vero, ma perché ingannarvi? Vi inganna già abbastanza il demonio; non c’è bisogno che anch’io mi unisca a lui. Io vi dico la pura verità; voi poi farete ciò che più vi aggrada. Io mi comporto in mezzo a voi come un medico in mezzo ad un gran numero di ammalati: egli propone a ciascuno i rimedi convenienti per ristabilirsi in salute; di quelli che disprezzano questi rimedi, egli non si cura; ma a quelli che vogliono usarne dice il gran bene che ne avranno stando alle prescrizioni, e nel medesimo tempo ricorda il male che ne verrà loro se non osserveranno i suoi ordini. Sì, F. M., io faccio lo stesso: vi faccio considerare quanto sono grandi i vantaggi che ci promettono i Sacramenti: o per dir meglio, che se non frequentiamo i Sacramenti, non vedremo mai la faccia di Dio, e siamo sicuri d’esser dannati. Quanto a quelli che, o per ignoranza, o per empietà, disprezzano questi salutari rimedi, i quali soli possono riconciliarli con Dio, faccio come quel medico che lascia da una parte coloro che non vogliono i suoi rimedi. Ma a quelli che mostrano desiderio di prenderli, bisogna assolutamente far conoscere le disposizioni che bisogna portarvi. Io penso, F. M., che forse tutto quello che vi ho detto, vi darà qualche inquietudine sulle vostre confessioni passate; lo desidero con tutto il mio cuore, affinché tocchi dalla grazia del buon Dio e dai rimorsi della coscienza usiate i mezzi che Dio vi offre oggi per uscire dal peccato. Ma, mi direte, cosa bisogna fare per riparare a tutto? — Volete saperlo e farlo? Ecco. Dovete ricominciare le vostre confessioni da quando credete d’averle fatte senza dolore; accuserete il numero delle confessioni e delle comunioni; e direte anche se avete taciuto qualche peccato, e se avete fatto qualche sforzo per non più ricadervi. Bisogna, perché le vostre confessioni possano consolarvi, che ogni confessione abbia operato in voi qualche cambiamento; bisogna che facciate, come dice S. Paolo parlando di Gesù Cristo, che uscì dalla tomba per non rientrarvi mai più (Rom. VI, 9); così voi, confessati i vostri peccati, non dovete tornare a commetterli mai più. Dovete nel vostro cuore, al posto di quella collera, di quell’aria di disprezzo che traspariva ad ogni menoma ingiuria che vi si faceva, far nascere la dolcezza, la bontà e la carità. Voi alla mattina ed alla sera mancavate di recitare le vostre orazioni, vi si vedeva farle senza attenzione e senza rispetto; ora, se siete veramente usciti dal peccato, vi si vedrà ogni mattina e sera fare le vostre preghiere con quel rispetto ed attenzione che il pensiero della presenza di Dio deve ispirarvi. Nei santi giorni di domenica vi si vedeva spesso entrare in chiesa quando le funzioni eran già molto avanzate; ora se avete ben fatto la Pasqua vi si vedrà di buon’ora prepararvi per santamente assistere a questa grande azione. Si vedrà quella madre, invece di correre di casa in casa ad osservare la condotta dell’una e dell’altra, la si vedrà occupata nelle sue faccende, ad istruire i suoi figli o, per meglio dire, la virtù trasparirà da ogni sua azione. Essa farà come quella giovane che da qualche tempo s’era data ai piaceri, anche ai più vergognosi; ma avendo riflesso sul suo spaventevole stato, e sentendo orrore di se stessa, si convertì. Qualche tempo dopo incontrò un giovane col quale spesso aveva trescato: questi cominciò a tenerle il solito linguaggio. Essa lo guardò con un’aria di disprezzo e d’indignazione, ricordandosi che questo disgraziato era stato la causa ch’ella offendesse il buon Dio. Stupito, le disse ch’essa senza dubbio non lo conosceva più. “Ah! disgraziato, t’ho conosciuto troppo! Vedo che tu sei sempre lo stesso, sepolto nel fango della colpa; ma, quanto a me, grazie a Dio, non son più la medesima; ho abbandonato quel maledetto peccato che aveva tanto sfigurata la povera anima mia. Ah! no, mille volte morire piuttosto che ricadere negli antichi peccati! „ Oh! bel modello per un Cristiano che ha avuto la disgrazia di peccare! Che dobbiamo dunque concludere? Eccolo, F. M.. Se non volete dannarvi, non dovete accontentarvi di confessarvi una volta all’anno; perché, ogni volta che vi trovate in peccato, correrete rischio di morirvi e di perdervi per tutta l’eternità. Se siete stati così disgraziati d’aver taciuto qualche peccato, o per timore o per vergogna, o se li avete confessati senza dolore, senza il desiderio di correggervene; od anche, se dopo tanti anni che vi confessate, non avete conosciuto alcun cambiamento nella vostra vita: concludete che tutte le vostre confessioni non valgono nulla e, per conseguenza, non sono state che sacrilegi ed abbominazioni che vi getteranno nell’inferno. Per quelli che non fanno Pasqua non ho nulla da dire; giacché vogliono assolutamente dannarsi, essi ne sono i padroni. Piangiamo la loro disgrazia, preghiamo per essi: la scambievole carità che dobbiamo avere vi ci obbliga. Domandiamo a Dio di non mai cadere in tale accecamento! Resistiamo coraggiosamente al mondo ed al demonio! Sospiriamo incessantemente la nostra vera patria che è il cielo, nostra gloria, nostra ricompensa e nostra felicità. È ciò che vi auguro…

Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Matt XXVIII:2; XXVIII:5-6.

Angelus Dómini descéndit de coelo, et dixit muliéribus: Quem quaeritis, surréxit, sicut dixit, allelúja.

[Un Angelo del Signore discese dal cielo e disse alle donne: Quegli che voi cercate è risuscitato come aveva detto, alleluia.]

Secreta

Suscipe múnera, Dómine, quaesumus, exsultántis Ecclésiæ: et, cui causam tanti gáudii præstitísti, perpétuæ fructum concéde lætítiæ.

[Signore, ricevi i doni della Chiesa esultante; e, a chi hai dato causa di tanta gioia, concedi il frutto di eterna letizia.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

[Joannes XX: 27] Mitte manum tuam, et cognósce loca clavórum, allelúja: et noli esse incrédulus, sed fidélis, allelúja, allelúja.

[Metti la tua mano, e riconosci il posto dei chiodi, alleluia; e non essere incredulo, ma fedele, alleluia, alleluia.]

Postcommunio

Orémus.

 Quæsumus, Dómine, Deus noster: ut sacrosáncta mystéria, quæ pro reparatiónis nostræ munímine contulísti; et præsens nobis remédium esse fácias et futúrum.

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA CONFESSIONE PASQUALE

I SERMONI DEL CURATO D’ARS

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla Confessione pasquale.

“Erat autem proximum

Pascha, dies festus Judæorum”.

(JOAN. VI, 4).

Sì, Fratelli miei, ecco giunto e trascorso questo tempo fortunato in cui tanti Cristiani hanno abbandonato il peccato, ed hanno strappate le loro povere anime dagli artigli del demonio per rimettersi sotto l’amabile giogo del Salvatore. Ah! avesse Iddio voluto che fossimo nati nel bel tempo dei primitivi Cristiani, che con santa allegrezza vedevano giungere questo momento! O giorno beato! Giorno di salute e di grazia, che cosa sei diventato ora? Dove sono quelle gioie sante e celesti che formano la felicità dei figli di Dio? Sì, M. F., questo tempo di grazia riuscirà a noi di vantaggio o di danno: sarà la causa della nostra felicità, se corrispondiamo alle grazie che ci vengono prodigate in questo prezioso momento; oppure sarà la nostra perdita, se non ne approfittiamo o ne abusiamo.

— Ma, mi direte, che vuol dire questa parola Pasqua? — Non lo sapete? Ebbene! Ascoltate e lo saprete. Pasqua significa passaggio, cioè il passaggio dalla morte del peccato alla vita della grazia. Vedrete poi se le vostre Pasque sono buone, e se potete star tranquilli, massime voi, brava gente, che vi accontentate di adempiere il precetto della Chiesa, cioè di fare una sola confessione e comunione per Pasqua.

I. — Perché, F. M., la Chiesa ha stabilito il santo tempo della Quaresima? — Per prepararci a degnamente celebrare la santa Pasqua, mi rispondete; la Pasqua è il tempo in cui Dio sembra raddoppiare le sue grazie, ed eccitare i rimorsi delle nostre coscienze per farci uscire dal peccato. — Va benissimo, è ciò che vi insegna il Catechismo; ma se domandassi ad un fanciullo, qual è il peccato di coloro che non fanno Pasqua? mi risponderebbe semplicemente che è un grave peccato mortale; e se gli chiedessi: Quanti peccati mortali bastano per andare all’inferno? Mi soggiungerebbe: Basta un solo; se si muore senza averne ottenuto il perdono. Ebbene! che ne dite? Non avete fatto Pasqua? — No! mi rispondete. — Ma, poiché non avete fatto Pasqua, ed il non farla è un peccato mortale, dunque vi dannerete. Che ne pensate? Ciò non v’importa nulla? — Ah! avete ragione, dite tra voi, ma se io son dannato, non sarò solo. — Evvia! se ciò non v’importa, se v’è indifferente il salvarvi ed il perdervi, bisognerà proprio che vi consoliate, sperando che nella vostra disgrazia non sarete solo; e perciò non vi importuno più a lungo. Povera anima! che ne dite del linguaggio che tiene questo vostro corpo di peccato in cui avete la disgrazia di abitare? Oh! quante lagrime spargerete per tutta l’eternità! Oh! quanti lamenti! Oh! quanti urli manderete, là in mezzo alle fiamme senza speranza di uscirne! Oh! quanto siete disgraziata d’essere tanto costata a Gesù Cristo e d’essere da Lui separata per sempre! Perché, F. M., non avete fatto Pasqua? — Perché non l’ho voluto, mi direte. — Ma se morite in questo stato vi dannerete. — Tanto peggio! — Ebbene! ditemi, credete d’aver un’anima? — Ah! so bene che ho un’anima. — Ma, forse, credete che dopo la morte tutto sarà finito? — Ah! pensate tra voi: so che la nostra anima sarà felice od infelice, secondoché avrà fatto bene o male. — E che cosa può renderla infelice? — Il peccato, mi direte. — Vi sentite colpevole di peccato, dunque concludo che siete dannato. Non è vero, amico? Siete venuto una volta o due a confessarvi; ma siete sempre stato lo stesso. Perché? Perché non avete voluto correggervi, e vi è indifferente tanto il vivere nel peccato e dannarvi, quanto l’abbandonarlo per salvarvi. Volete dannarvi? Ebbene! non inquietatevi, lo sarete. — Non è vero, sorella mia, che avete lasciato passare Pasqua senza confessarvi? avete vissuto la Quaresima e la Pasqua, in peccato; e perché? Eccone la ragione: perché non avete più religione, avete perduta la fede, non pensate che a divertirvi un poco nel mondo, aspettando di esser gettata tra le fiamme. Vi vedremo, sorella mia, sì, un giorno vi vedremo; vedremo le vostre lagrime, la vostra disperazione; vi riconoscerò, almeno, lo credo; voi vi sarete dannata e ne eravate padrona. Ma tiriamo un velo; lasciamo nascoste nelle tenebre tutte queste sozzure fino al giorno del giudizio. Esaminiamo ora qual è la confessione e la comunione di coloro che si accontentano di accostarvisi una volta all’anno, e vedremo se essi possono esser tranquilli o no. Se per fare una buona confessione, bastasse domandar perdono a Dio, accusare i propri peccati e far qualche penitenza, il peccato, che la religione ci dipinge come una mostruosità, non avrebbe nulla di spaventevole; nulla sarebbe più facile che riparare la perdita della grazia di Dio e seguire la via che conduce al cielo, la quale invece, secondo Gesù Cristo stesso, è così difficile. Sentite ciò che Egli disse ad un giovane che gli domandava se sarebbero stati molti gli eletti, e se la via che conduce al cielo è difficile a seguirsi: Oh! come è stretta questa via! Quanto pochi sono quelli che la seguono! Oh! come sono pochi coloro che la cominciano e giungono alla fine (Matt. VII, 14)! Infatti, F. M., dopo aver vissuto per un anno intero senza fastidi, senza noie, non occupandovi che dei vostri affari temporali, delle vostre ricchezze od anche dei vostri piaceri, senza darvi pensiero di correggervi, né di lavorare per acquistare le virtù che vi mancano; verrete solo nella quindicina di Pasqua, più tardi che potrete, a raccontare i vostri peccati, come narrereste una storia: leggerete in un libro qualche preghiera, o ne farete qualche altra per un certo tempo. E con questo, tutto sarà fatto, e seguirete la vostra vita ordinaria; farete ciò che avete sempre fatto, vivrete come il solito; siete stati veduti ai giuochi e nelle osterie e vi ci si rivedrà: siete stato trovato nei balli e nei festini e vi sarete ritrovato: e così si dica del resto. Alla prossima Pasqua vi ripentirete della stessa cosa. E continuerete così fino alla morte: cioè il sacramento della Penitenza, in cui Dio sembra dimenticare la sua giustizia per non manifestare che la sua misericordia, non sarà più per voi che un gioco od un passatempo! Capite benissimo, che se nelle vostre confessioni non vi è nulla di meglio, potete giustamente concludere che esse non valgono nulla, per non dir di peggio.

II. — Ma per meglio convincervi, esaminiamo la cosa più davvicino. Per fare una buona confessione che possa riconciliarci con Dio, dobbiamo detestare i nostri peccati con tutto il nostro cuore; non perché siamo obbligati a dire al prete cose che vorremmo poter nascondere a noi stessi; ma bisogna pentirsi d’aver offeso un Dio così buono, d’esser restati sì lungo tempo nel peccato, d’aver disprezzato tutte le grazie colle quali ci sollecitava ad uscirne. Ecco, F. M., ciò che deve fare scorrere le nostre lagrime e spezzare il nostro cuore. Ditemi, se aveste questo vero dolore, non vi affrettereste a riparare il male che ne è la causa e a mettervi subito in grazia di Dio? Che direste di un uomo che guastatosi ingiustamente col suo amico e che poi, riconoscendo il suo torto se ne pente e non cerea il modo di riconciliarsi? Se l’amico suo fa qualche passo in proposito, non approfitterà egli dell’occasione? Ma se invece, non facesse conto di tutto ciò, non avreste ragione di dire che gli è indifferente d’essere in buona o cattiva relazione con quella persona? Il paragone è giusto. Chi ha la disgrazia di cadere nel peccato, o per debolezza od inavvertenza od anche per malizia, se ne ha un vero dolore, potrà restare lungamente in questo stato? Non ricorrerà subito al sacramento della Penitenza? Ma, se resta un anno nel peccato e vede con fastidio avvicinarsi il tempo della Pasqua, perché bisogna confessarsi; se, invece di presentarsi in principio di Quaresima al tribunale di Penitenza, per aver qualche tempo in cui potersi mortificare e non passare subito dal peccato alla sacra Mensa; se non vuol sentire parlare che a Pasqua della confessione, che cerca di ritardare per quanto gli è possibile presentandosi poi colle disposizioni di un condannato che vien condotto al supplizio; che cosa significa tutto questo? Eccovelo, che se la Pasqua fosse prolungata fino a Pentecoste, voi non vi confessereste che a Pentecoste: o se non venisse che ogni dieci anni, non vi confessereste che ogni dieci anni; e finalmente, se la Chiesa non ve lo comandasse, vi confessereste soltanto all’ora della morte. Che ne dite? Non è vero, che non è né il rimorso d’aver offeso Dio ciò che vi fa confessare; né l’amor di Dio, ciò che vi fa fare la Pasqua? — Ah! mi soggiungerete, è già qualche cosa, fare la S. Pasqua; e poi noi non la facciamo senza sapere il perché. — Ah! voi non sapete nulla; fate Pasqua per abitudine, per dire che l’avete fatta e, se voleste dire la verità, direste che ai vostri antichi peccati ne avete aggiunto uno nuovo. Non è dunque l’amor di Dio, né il rimorso di averlo offeso, che vi fa confessare e fare la Pasqua, e nemmeno il desiderio di condurre una vita più cristiana. Eccone la prova: se amaste il buon Dio, potreste acconsentire a commettere il peccato con tanta facilità, anzi con tanto piacere? Se aveste orrore del peccato, come dovreste averlo, potreste conservarlo per un anno intero sulla coscienza? Se aveste un vero desiderio di condurre una vita più cristiana, non si vedrebbe almeno qualche piccolo cambiamento nel vostro modo di vivere? No, M. F., non voglio parlarvi oggi di quei disgraziati, i quali non accusano che a metà i loro peccati per timore di non poter fare la Pasqua o d’essere rimandati; o forse per coprire col velo della virtù la loro vita vergognosa; e che, in questo stato s’avvicinano alla sacra Mensa e consumano la loro riprovazione, abbandonano il loro Dio al demonio, per esalare la loro anima dannata nell’inferno. No, voglio sperare che questo non vi riguardi; ma pure continuerò a dirvi che le vostre confessioni annuali non hanno nulla che possa tranquillizzare. — Ma, mi direte, che cosa bisogna fare perché la confessione sia buona? — Se volete saperlo, eccovelo: ascoltate bene, e vedrete se potete star sicuri. Affinché la vostra confessione meriti il perdono, bisogna ch’essa sia umile esincera, accompagnata da un vero dolore causato dal rimorso d’aver offeso Dio, e non per i castighi che merita il peccato, ed un fermo proposito di non più peccare per l’avvenire. Ciò premesso, dico che è ben difficile che tutte queste disposizioni si trovino in coloro che non si confessano che una volta all’anno: lo vedrete. Cos’è un cristiano ai piedi del prete, al quale fa la confessione dei suoi peccati? È un peccatore che viene col dolore nel cuore, e si getta ai piedi del suo Dio come un reo davanti al giudice, per accusarsi lui stesso e domandare la grazia. Come s’accuserà? Ecco: Io sono un colpevole indegno del nome di figlio: ho vissuto finora in un modo tutto opposto a ciò che mi comandava la mia religione; non ho avuto che disgusto per ciò che si riferisce al servizio di Dio; i santi giorni della domenica e quelli di festa non sono stati per me che giorni di piaceri edi gozzoviglie; o, per dir meglio, non ho fatto nulla di bene fino ad ora; sono perduto edannato se Dio non ha pietà di me. Ecco, F. M., i sentimenti di un Cristiano che ha in orroreil peccato. Ma, ditemi, si accusano così quelli che trovano non essere abbastanza il restare dodici mesi nel peccato, etrovano che le Pasque si avvicinano troppo veloci? Ahimè! Dio mio! voi vedete le confessioni annue che fanno questi poveri disgraziati, evedete che lefanno con una noia mortale. Oh! no, no, costui, non è più un reo, coperto di vergogna e penetrato di dolore d’aver offeso Dio, che s’umilia, s’accusa lui stesso, e domanda un perdono di cui si riconosce infinitamente indegno: ma ahimè! oserò dirlo? è un uomo che sembra raccontare una storia, e la racconta male, cerca di mascherarsi e di comparire colpevole il meno che può. Ascoltatelo: non è lui che ha commesso quel peccato d’impurità, è un altro che ve l’ha sollecitato, come se non fosse stato padrone di non seguire quel consigliere. Non è lui che s’è incollerito: è colpa del suo vicino che gli ha detto una parola pungente. Ha mancato alla Messa, sì, ma la compagnia ne fu la causa. Una volta mangiò di grasso in un giorno proibito; se non vi fosse stato spinto non l’avrebbe fatto. Egli ha parlato male, ma fu quello ch’era vicino a lui che l’ha fatto peccare. Diciamo meglio: il marito accusa la moglie, la moglie accusa il marito; il fratello la sorella e la sorella il fratello; il padrone il servo ed il servo cerca, per quanto può, di scaricarsi sul suo padrone. Dicendo il Confiteor, accusano se stessi, dicendo: E mia colpa: due minuti dopo si scusano ed accusano gli altri. Niente umiltà, niente sincerità, niente dolore: ecco le disposizioni di quelli che non si confessano che una volta all’anno. Un parroco dal modo con cui s’accusano, s’accorgerà ch’essi non hanno affatto le disposizioni necessarie per ricevere l’assoluzione. Se dà loro un po’ di tempo per non far loro commettere un sacrilegio, che cosa fanno essi? Ascoltateli: mormorano dicendo che non hanno il tempo di ritornare e che un’altra volta non saranno meglio disposti; e finiscono col dirvi che se non si vuol riceverli, andranno da un altro, che non sarà così scrupoloso, e che li assolverà… Come se Dio non potesse vivere senza di essi! Poveri ciechi!… Vedete da questo quali siano le loro disposizioni. Il sacerdote, dal modo con cui s’accusano, vede ch’essi non dicono tutto; è obbligato di far loro mille domande; essi non dicono né il numero, né le circostanze che cambiano la specie. Vi sono certi peccati ch’essi non vorrebbero dire e neppur nascondere. Che fanno? Li dicono per metà, come se il prete potesse sapere ciò che avviene nel loro cuore. Si accontentano di raccontare in blocco i peccati, senza nemmeno distinguerne i pensieri dai desideri. Il sacerdote chiederà: Non avete mai avuto pensieri di superbia, di vanità, di vendetta o d’impurità? Sapete che quando ci si fermiamo su volontariamente essi sono peccato. Avete commesso qualcheduna di queste mancanze? — Può darsi, risponderà, ma non me ne ricordo. — Ma bisogna dire approssimativamente il numero, altrimenti le confessioni non valgono nulla. — Ah! reverendo, come volete che mi ricordi di tutti i pensieri che ho avuti in un anno? ciò m’è impossibile. — Ah! Dio mio, che confessioni, o piuttosto che sacrilegi! … E neppure, F. M., si occupano delle circostanze che aggravano il peccato e che possono renderlo mortale. Ascoltate come si confessano: mi sono ubbriacato, ho calunniato il mio prossimo, ho peccato contro la santa virtù della purità, ho altercato, mi sono vendicato; e se il confessore non fa domande, basta. — Ma, gli dirà il confessore, quante volte avete fatto questo? Avete commesso di questi peccati in chiesa? Era un giorno di domenica? L’avete fatto in presenza dei vostri figli, dei vostri servi? V’era molta gente? L’onore del vostro prossimo ha sofferto qualche danno? Questi pensieri di superbia vi sono venuti in chiesa, durante la santa Messa? Vi ci siete fermati su per molto tempo? Questi pensieri, contrari alla santa virtù della purità, sono stati accompagnati da cattivi desideri? Quest’altro peccato è stato per inavvertenza o per malizia? Non avete aggiunto peccato a peccato, pensando che vi costerebbe lo stesso confessarvi di molti come di pochi? Vi sono di quelli che escludono affatto il dovere di farvi alcun dettaglio dei loro peccati e vi dicono francamente che essi non hanno nulla da rimproverarsi, che non hanno tempo, che bisogna che se ne vadano. Non avete tempo, ebbene! andatevene. Andare o restare per voi è la stessa cosa. Dio mio! che disposizioni! Dio mio! Sono questi peccatori che vengono a piangere i loro peccati? Bisogna però convenire che vi sono alcuni i quali fanno il possibile per ben esaminarsi, e che dicono i loro peccati meglio che possono; ma con tale indifferenza, freddezza ed insensibilità che strazia il cuore d’un povero sacerdote. Non sospiri, non gemiti, non lagrime! non un segno che annunci il dolore dei loro peccati. Bisogna che il prete, per dar loro l’assoluzione, sia persuaso che essi hanno migliori disposizioni di quelle che mostrano. So bene che le lacrime ed i sospiri non sono segni infallibili di conversione né di contrizione. Succede troppo spesso che quelli che piangono non sono per questo più Cristiani degli altri. Ma è pure cosa impressionante sentir raccontare con tanta freddezza ed indifferenza ciò che deve necessariamente attristarci ed eccitare le nostre lagrime. Se un reo fosse sicuro che, confessando i suoi delitti, riceverà la grazia; vi lascio immaginare se potrebbe manifestarli senza lagrime, nella speranza di commuovere il cuore del giudice e meritarsi il perdono. Osservate un ammalato quando scopre le sue piaghe al medico; udite i suoi sospiri e vedete le sue lagrime. Vedete un amico che vi racconta le sue pene: i suoi atti, il tono della sua voce, il suo modo d’esprimersi, tutto in luì vi rivela il suo affanno ed il suo dolore. Perché, F. M., nulla appare di tutto questo, quando confessiamo i nostri peccati? Non lo sapete? Ebbene! ve l’insegnerò: il vostro cuore non è più commosso delle vostre parole, ed il vostro interno è simile al vostro esterno: i vostri peccati non vi danno più dolore di quello che ne dimostrate. Ecco perché, dopo le vostre Pasque, siete sì poco Cristiano, e non siete né più buono né meno peccatore di prima.

III. Ho detto che il rimorso d’aver offeso Dio, se è vero, deve necessariamente rinchiudere una sincera volontà di non voler più peccare: che se questa volontà è sincera ci porterà altresì a stare in guardia; a cacciare tutti i pensieri cattivi di vendetta, d’impurità, non appena ce ne accorgiamo; a fuggire le occasioni che ci avevan portato al peccato; a nulla trascurare per correggerci delle nostre cattive abitudini. Ebbene! amico, il vostro proposito di non più offendere il buon Dio non è dunque stato sincero, poiché vi si vedeva nelle osterie e vi ci si vede ancora; eravate stato visto in quella compagnia dove avete commesso quel peccato e vi comparite ancor oggi. Converrete con me che non avete fatto alcuno sforzo per viver meglio, che nel corso dell’anno passato. Perché questo, amico mio? Perché? Ecco: perché non desiderate affatto di correggervi, la vostra confessione non è stata che una menzogna e la vostra contrizione una larva di penitenza. Ne volete una seconda prova? Eccola. Di che vi accusavate l’anno scorso? Di ubriachezza, d’impurità, di superbia, di collera, di negligenza nel servizio di Dio? E di che vi accusate quest’anno? Delle stesse cose. E di che vi accuserete l’anno venturo se sarete ancora in vita? Ancora delle stesse cose. E perché, F. M., perché non desiderate affatto di condurre una vita più cristiana; ma vi confessate solo per sdebitarvi e per dire che avete fatto Pasqua; o, se voleste attestare la verità, direste che vi confessate ogni anno per aggiungere un nuovo peccato agli antichi; dicendo così, direste quello che veramente fate. Voi, dunque, non vi accorgete che il demonio vi inganna. S’egli a voi proponesse di abbandonar tutto, a voi che avete l’abitudine di confessarvi una volta l’anno, ne avreste orrore, non vorreste crederlo. Ma egli per avervi un giorno in suo potere, si accontenta di tenervi sempre nelle vostre cattive abitudini. Dubitate di quello che dico? Esaminate la vostra condotta, e vedete se vi siete corretto di qualche peccato dopo tanti anni che vi confessate solo a Pasqua; o per meglio dire, se ogni anno non vi affondate sempre più nell’abisso del peccato.  Ma, mi direte, tutto questo non ci spinge troppo a farci fare la Pasqua. — È vero, ma perché ingannarvi? Vi inganna già abbastanza il demonio; non c’è bisogno che anch’io mi unisca a lui. Io vi dico la pura verità; voi poi farete ciò che più vi aggrada. Io mi comporto in mezzo a voi come un medico in mezzo ad un gran numero di ammalati: egli propone a ciascuno i rimedi convenienti per ristabilirsi in salute; di quelli che disprezzano questi rimedi, egli non si cura; ma a quelli che vogliono usarne dice il gran bene che ne avranno stando alle prescrizioni, e nel medesimo tempo ricorda il male che ne verrà loro se non osserveranno i suoi ordini. Sì, F. M., io faccio lo stesso: vi faccio considerare quanto sono grandi i vantaggi che ci promettono i Sacramenti: o per dir meglio, che se non frequentiamo i Sacramenti, non vedremo mai la faccia di Dio, e siamo sicuri d’esser dannati. Quanto a quelli che, o per ignoranza, o per empietà, disprezzano questi salutari rimedi, i quali soli possono riconciliarli con Dio, faccio come quel medico che lascia da una parte coloro che non vogliono i suoi rimedi. Ma a quelli che mostrano desiderio di prenderli, bisogna assolutamente far conoscere le disposizioni che bisogna portarvi. Io penso, F. M., che forse tutto quello che vi ho detto, vi darà qualche inquietudine sulle vostre confessioni passate; lo desidero con tutto il mio cuore, affinché tocchi dalla grazia del buon Dio e dai rimorsi della coscienza usiate i mezzi che Dio vi offre oggi per uscire dal peccato. Ma, mi direte, cosa bisogna fare per riparare a tutto? — Volete saperlo e farlo? Ecco. Dovete ricominciare le vostre confessioni da quando credete d’averle fatte senza dolore; accuserete il numero delle confessioni e delle comunioni; e direte anche se avete taciuto qualche peccato, e se avete fatto qualche sforzo per non più ricadervi. Bisogna, perché le vostre confessioni possano consolarvi, che ogni confessione abbia operato in voi qualche cambiamento; bisogna che facciate, come dice S. Paolo parlando di Gesù Cristo, che uscì dalla tomba per non rientrarvi mai più (Rom. VI, 9); così voi, confessati i vostri peccati, non dovete tornare a commetterli mai più. Dovete nel vostro cuore, al posto di quella collera, di quell’aria di disprezzo che traspariva ad ogni menoma ingiuria che vi si faceva, far nascere la dolcezza, la bontà e la carità. Voi alla mattina ed alla sera mancavate di recitare le vostre orazioni, vi si vedeva farle senza attenzione e senza rispetto; ora, se siete veramente usciti dal peccato, vi si vedrà ogni mattina e sera fare le vostre preghiere con quel rispetto ed attenzione che il pensiero della presenza di Dio deve ispirarvi. Nei santi giorni di domenica vi si vedeva spesso entrare in chiesa quando le funzioni eran già molto avanzate; ora se avete ben fatto la Pasqua vi si vedrà di buon’ora prepararvi per santamente assistere a questa grande azione. Si vedrà quella madre, invece di correre di casa in casa ad osservare la condotta dell’una e dell’altra, la si vedrà occupata nelle sue faccende, ad istruire i suoi figli o, per meglio dire, la virtù trasparirà da ogni sua azione. Essa farà come quella giovane che da qualche tempo s’era data ai piaceri, anche ai più vergognosi; ma avendo riflesso sul suo spaventevole stato, e sentendo orrore di se stessa, si convertì. Qualche tempo dopo incontrò un giovane col quale spesso aveva trescato: questi cominciò a tenerle il solito linguaggio. Essa lo guardò con un’aria di disprezzo e d’indignazione, ricordandosi che questo disgraziato era stato la causa ch’ella offendesse il buon Dio. Stupito, le disse ch’essa senza dubbio non lo conosceva più. “Ah! disgraziato, t’ho conosciuto troppo! Vedo che tu sei sempre lo stesso, sepolto nel fango della colpa; ma, quanto a me, grazie a Dio, non son più la medesima; ho abbandonato quel maledetto peccato che aveva tanto sfigurata la povera anima mia. Ah! no, mille volte morire piuttosto che ricadere negli antichi peccati! „ Oh! bel modello per un Cristiano che ha avuto la disgrazia di peccare! Che dobbiamo dunque concludere? Eccolo, F. M.. Se non volete dannarvi, non dovete accontentarvi di confessarvi una volta all’anno; perché, ogni volta che vi trovate in peccato, correrete rischio di morirvi e di perdervi per tutta l’eternità. Se siete stati così disgraziati d’aver taciuto qualche peccato, o per timore o per vergogna, o se li avete confessati senza dolore, senza il desiderio di correggervene; od anche, se dopo tanti anni che vi confessate, non avete conosciuto alcun cambiamento nella vostra vita: concludete che tutte le vostre confessioni non valgono nulla e, per conseguenza, non sono state che sacrilegi ed abbominazioni che vi getteranno nell’inferno. Per quelli che non fanno Pasqua non ho nulla da dire; giacché vogliono assolutamente dannarsi, essi ne sono i padroni. Piangiamo la loro disgrazia, preghiamo per essi: la scambievole carità che dobbiamo avere vi ci obbliga. Domandiamo a Dio dinon mai cadere in tale accecamento! Resistiamo coraggiosamente al mondo ed al demonio! Sospiriamo incessantemente la nostra vera patria che è il cielo, nostra gloria, nostra ricompensa e nostra felicità. È ciò che vi auguro…

LO SCUDO DELLA FEDE (152)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (21)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA

DISCUSSIONE XVIII

La Confessione Sacramentale.

116. Prot. Eccomi dunque vinto abbattuto, e per mia propria sentenza, dalla Cattolica Chiesa anche riguardo al culto dei Santi! Ma ora mi faccio ad accusarla al vostro gran tribunale di tale una enormità, che certamente ne sentirete orrore. Essa pertanto ha inventato pel suo tornaconto, un nuovo Sacramento, che appella – Sacramento della Penitenza, o Sacramental Confessione; – e quello che è peggio, asserisce che è d’istituzione divina, e quindi dichiara eternamente dannati tutti coloro che, potendo, non vogliono confessarsi, da un sacerdote approvato, dei loro peccati, almeno mortali, commessi dopo il battesimo, onde ricevere l’assoluzione, per la potestà che dice esserle conferita dal Redentore! «Ma sebbene antichissimo sia l’uso della Confessione, resto però maravigliato con qual fronte si osi sostenere che essa sia di diritto divino!…. La confessione auricolare (nel senso cattolico) è cosa sommamente pestilenziale e nociva per molti capi alla Chiesa; onde come tale la rigetto e condanno. » (Calvino, lib, 3, Instit. Cap. 4, § 7, 19)-

Bibbia. Sta scritto: « Gesù poi rispondendo disse a lui… E io dico a te che tu sei Pietro:… e a te darò le chiavi del regno de’ ieli, e tuttociò che avrai legato sopra la terra, sarà legato anche ne’ cieli: e tuttociò che avrai sciolto sopra la terra, sarà sciolto anche ne’ cieli. » (Matth. XVI, 17 segg.).

 Dipoi disse a tutti gli Apostoli: « In verità vi dico: Tutte quelle cose che avrete legate sulla terra, saranno legate anche nel cielo: e tutte quelle che avrete sciolte sulla terra, saranno sciolte anche nel cielo. » (ivi, XVIII, 18). Non facendosi qui eccezione di sorta, è fuor di dubbio che la gran potestà di sciogliere e di legare si estende incontrastabilmente anche ai peccati. Che se ancora ne dubiti, ascolta.

« Disse loro di nuovo Gesù: Pace a voi: Come il Padre mandò me, anch’io mando voi. E,detto questo, soffiò sopra di essi, e disse: Ricevete lo Spirito Santo: Saran rimessi i peccati a chi li rimetterete: e saran ritenuti a chi li riterrete. (Giov. XX, 21, 22, 23). Ecco dunque concessa da Gesù Cristo agli Apostoli, ed in essi ai Sacri Ministri della sua Chiesa, la divina potestà di perdonarci i peccati, e quindi, ecco la divina istituzione del Sacramento della Penitenza, e conseguentemente della Confessione; poiché ognun vede che non potendo né dovendo i Sacri Ministri operare a caso, alla cieca, ma dovendo assolutamente procedere con retto e maturo giudizio, e quindi con piena cognizione di causa nel rimettere o ritenere i peccati; ciò sarebbe loro impossibile senza la Confessione dei medesimi. Che poi questa sia auricolare, non è di necessità, e però se a te piace di farla pubblicamente, serviti pure, non cesserà per questo di esser valida: purché una Confessione vi sia. e sia fatta al sacerdote approvato, siccome è scritto: « Se confesseremo i nostri peccati: egli Dio, è fedele e giusto per rimettere i nostri peccati, e mondarci da ogni iniquità. » (I Giov. I, 9).

« Il tutto a Dio, il quale.,., ha dato a noi il ministero della riconciliazione. Dappoiché Iddio era, che seco riconciliava (nell’Antico Testamento) il mondo in Cristo, non imputando ad essi i loro peccati. » (II Cor. V, 18). « Tutti compresi furono da timore,… e molti di quelli che avevano creduto venivano (da Paolo) a confessare e manifestare le opere loro. » cioè i loro peccati. E qui devi avvertire che l’espressione del testo originale, cioè, – « αναγγέλλοντες » – significa manifestare, etc. dettagliatamente; onde potrebbe tradursi: venivano a confessare e manifestare ad una ad una le opere loro, ossia le loro colpe. Ora cosa ne dici, mentre vedi che la Confessione è praticata, dai fedeli presso gli Apostoli, e dagli Apostoli sì chiaramente asserita necessaria, e inculcata? Rispondi!

117. Prot. Non ho che rispondere in contrario, sono con voi: ascoltatemi. – S. Giacomo dice: – Confessate l’uno all’altro i vostri peccati –  perché non si dà remissione di peccati senza la Confessione, quando vi è luogo di potersi confessare; né basta condurre i preti all’infermo, se questi non si confessa. Dunque, – Confessate l’uno all’altro i vostri peccati – cioè, l’uomo all’uomo, non solamente a Dio. dice la Glossa. E così è manifesto che vi è il precetto di confessarsi. Il Signore comandò implicitamente la Confessione, dicendo: – Matt. IV. – Fate penitenza – Dipoi gli Apostoli la comandarono espressamente, e distintamente, come nel luogo sopraccitato. Parlandosi dunque di peccati mortali, quel – Confessate l’uno all’altro i vostri peccati – indica che la Confessione non è di consiglio, e deve farsi confessandosi al maggiore, cioè al Sacerdote. » (G. Hus, Comment in Epist. Jacob, cap. V).

« S. Paolo dice: – I Cor. XI. 28. – Provi perciò l’uomo sé stesso,  etc. cioè provi sé stesso nella contrizione, se cordialmente siduole dei commessi peccati: nella Confessione, se di tutti siasi confessato: nella soddisfazione, se fa o vuole o no compire la penitenza ». (Il medes. lib. De cœna Domini, in illudProbet autem seipsum homo.)

«Imperochè tre sono, come dicono i Dottori, le parti dellapenitenza perfetta (del Sacramento della penitenza), cioè, Contrizione, Confessione e Soddisfazione. Dunque la seconda parte della Confessione, la quale è una ricognizione dei peccatidavanti al sacerdote, e la quale deve esseree piana e intera: piana, affinché il sacerdote intenda: intera, cioè che il confitente non nasconda scientemente alcun peccato; imperocché sta scritto – Prov. XXVIII. 13. – Chi nasconde i suoi peccati non avrà bene. » (G. Hus, Tract, de pœnit. pro Jacobo.).

« Fra quello che di bello e di amabile ha la Religione cristiana, bellissima e amabilissima cosa è nel vero l’istituzione della Confessione in Sacramento, la quale attirava pure a sé gli sguardi de’ popoli della Cina e del Giappone. Conciosiachè quel dover dire di necessità i propri falli al sacerdote, ritiene molti dall’atto di peccare, e massime quei che non hanno ancora un cuor di macigno; oltreché molto consola quei che sono andati errati. Un Confessore savio, prudente e pio, a ragione da essi si reputa quale strumento potente mandato da Dio per la conquista delle anime. Quello che egli avvisa, e ci comunica co’ suoi consigli, oh! Quanto giova a porre ordine e modo nelle nostre inclinazioni, a conoscer per entro la bruttezza loro, le nostre mancanze, a fuggire da tutto ciò che ci potrebbe perdisavventura presentare occasione al peccato. Cifa rimediare altresì in qualche guisa aimali di cui fummo altrui cagione, ne fa restituire le cose messe a ruba, scioglie i dubbi e illumina l’intelletto: leva ad alti desii lo spirito venuto meno, e finalmente (che è tutto) cancella dall’anima tutti i segni del peccato, e ne medica le ferite. » (Leibniz, Teodicea, p. 265 e nel Sist. Teolog., p. 120 e segg.).

« La coscienza di un fallo commesso è già molto. Basta un appello solo di avere errato, perché l’anima se ne affligga, e ne senta il peso. Solo quando il peccato si trasforma, per così dire, in abitudine e natura di ogni ingiustizia, essa non ha più alcun tema né reminiscenza del mal fatto che la tormenti. In queste congiunture tristissime, gli uomini mossi da naturale istinto, (non senza impulso della grazia) sogliono esser presi da forte desio di liberarsi alla fine dal peso che gli affatica e gli opprime con tanto dolore, e di scemar la paura dell’anima propria, comunicandola in certa guisa nel seno di un’altra persona, la quale nel silenzio e nella segretezza ispiri loro fiducia. Bene avverrà che discorrendo in quella confessione le mancanze proprie, un improvviso rossore colorirà santamente le gote, il che pertanto non rimarrà senza un subito premio; imperocché una quiete soave s’ingenera soavemente nell’anima, e ne caccia la smania irrequieta, e sarà frutto, secondo che accade, della fiducia e della simpatia così di prima giunta nata nel cuore. Essi godono di quella consolazione che è una delle più forti dell’animo, di non aver perduto ad ogni guisa il diritto alla stima altrui, ben avvedendosi che se la loro vita fu manchevole e e degna di biasimo infino a quel punto, pure molto si commenda al presente, e si fa festa al sentimento dell’animo loro. » (Smith, Teoria de’ sensi umani, p. 562).

«Infatti a gran fatica ed appena si può narrare quanti uomini malvagi, e quante donne dissolute abbiano per siffatta istituzione riacquistata la speranza di salvezza, e conosciuti se stessi, e lo stato loro; e quel che è più, vennero sollevati, a così dire, con questa mano,  dall’orlo degli abissi, in cui altrimenti sarebbero una volta per sempre caduti. » (Plank, Opere varie di argomento teologico. T. 2, p, 176).

« Non voglio che alcuno mi tolga la Confessione, non la darei per il tesoro di tutto il mondo. Quanto essa possa, non lo conosce se non chi ha combattuto spesso e molto col diavolo. Tempo fa sarei stato ucciso dal diavolo, se la Confessione non mi avesse salvato (Lutero, presso Cocleo: Ad Joan. Abbat. Coloniens.).

«Oggimai è pienamente conosciuto che l’idea del perdono dei peccati, e della giustificazione (alla protestante), sebbene con tanto apparato di parole messe in campo da Lutero, in opposizione di quello che insegna la Chiesa Romana, pure è distrutta dall’antica dottrina di Cristo. E su di questo punto i Cattolici dettero nel segno, quando in mezzo ciò che di favorevole trovarono nella cristiana antichità » (W. Macuscher, Compendio storico della Religione. T, 2, p. 186).

« Una confessione pubblica (alla protestante) fatta così in generale non merita neppur questo nome. Essa è come non fosse. » (Steffens, Il tempo presente, T. 1, p. 176)

« Domandate ad un uomo di campagna, che cosa abbia mai tratto di buono dalla Confessione pubblica generale. A mala pena saprà dirvi cosa; e se pur gli vorrà fatto di rispondere, che ne udrete? Che essa si fa più presto. E bene sta. Perciocché questo è il solo utile che egli conosca, e se ne ripromette. » (Bretschneilder. Manuale di dogmatica, T. 2, p. 870).

« Mi duole al vivo, che ciò nonostante sia così piccolo il novero di quelli che desiderano di presente la Confessione privata (auricolare) troppo precipitosamente voluta togliere da noi Luterani. » (C. T . Nitzsh, Studii teologici, 1832, T. 2, p. 451).

« L’uso della Confessione fatta in segreto al sacerdoti oltre ad essere una cosa di gran vantaggio, esisteva altresì nella Chiesa antica. » (Montague, Appel., c. 32).

« È necessario che nella Confessione si ritenga V l’assoluzione particolare; il rigettarla è un errore condannato e proprio de’ novatori. Questa assoluzione è un vero Sacramento propriamente detto. Il poter delle chiavi rimette i peccati non solo davanti alla Chiesa, ma anche davanti a Dio » (Confess. Ausburg, Art. XI, p. 12, 22).