Omelia della Domenica XXII dopo Pentecoste
[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]
(Vangelo sec. S. Matteo XXII, 15-21)
Restituzione.
“Rendete a Cesare ciò ch’è di Cesare, ed a Dio ciò che è di Dio”. E’ questa la saggia, la divina risposta colla quale Cristo Signore confuse la malizia de’ Farisei. Si presentarono questi innanzi a Lui con meditata idea di perderLo in forza delle sue stesse parole, e così si fecero ad interrogarLo: “Maestro, noi sappiamo quanto siete veritiero, Voi non avete umani rispetti, non siete accettator di persone: diteci dunque: è lecito pagare a Cesare il tributo?” Se Gesù rispondeva di no, urtava gravemente con Cesare; se di sì, tiravasi addosso l’odio dei più zelanti della Sinagoga che, come popolo sotto l’immediato dominio di Dio, pretendevano non esser soggetti a tributo verso la secolare potestà. Gesù Cristo, che scopre la trama, “Mostratemi, dice, la moneta destinata a tributo”. “Al vederla: “di chi è quest’impronta?” soggiunge. Rispondono: “di Cesare”. “Rendete, adunque, conchiude, quel che è di Cesare a Cesare, e a Dio quel che è di Dio”. – “Reddite ergo quae sunt Caesaris Caesari, et quae sunt Dei Deo”. Un’opportuna riflessione è da farsi su queste parole del divin Redentore: perché nel suo rispondere antepone Cesare a Dio? Perché non disse piuttosto; rendete a Dio quel che è di Dio, e a Cesare quel che è di Cesare? Ecco, se mal non mi avviso il perché: Iddio non accetterà giammai l’omaggio che a Lui dobbiamo, se da noi non vengano prima adempiuti i nostri doveri col prossimo. Fra questi doveri i principali sono quel di giustizia, ed un fra questi de’ più essenziali è la restituzione dell’altrui roba. Di questa restituzione sono a tenervi ragionamento, e passo senza più a dimostrarvi due impossibilità in questo genere. Impossibilità di salvarsi per chi non restituisce, sarà la prima; impossibilità ordinariamente parlando di restituire, sarà la seconda. La prima è assoluta, la seconda è morale. Uditemi attentamente.
I . Che sia assolutamente impossibile il salvarsi per chi non restituisce la roba altrui è cosa definita nelle divine Scritture. Annovera l’apostolo quei che non entreranno al possesso del Regno dei Cieli, e fra questi i ladri, “neque fures Regnum Dei possidebunt” (1 Cor. VI, 10). Ora un ingiusto ritentore dell’altrui roba è un vero ladro, e per conseguenza è escluso dal Regno dei cieli. – In un sol caso ha eccezione questa saldissima regola; allora quando l’iniquo usurpatore dell’altrui sostanze si trovi in istato di stretta impotenza. Se costui abbia animo disposto e volontà decisa di restituire potendo, e in questa disposizione lo colga la morte, egli si salverà, come appunto si salvò il buon ladro, che nella fiducia in Gesù Crocifisso, e nella contrizione del suo cuore ebbe o espressa, o implicita volontà di risarcire, se avesse potuto, i danni delle sue ruberie. Fuor di questo unico caso, per chi non restituisce non v’è salvezza: “Non remittitur peccatum, nisi restituatur ablatum” (S. Agost.). – Ragioniamo per maggior chiarezza su questo proposito. Il suo voler restituire è lo stesso che chiudersi la porta del cielo. Quali sono i mezzi più validi ad entrar in cielo? Scegliamone alcuni de’ principali, vale a dire, la preghiera, la limosina, la confessione sacramentale. Or tutti questi mezzi per se stessi efficacissimi son resi inutili da chi far non vuole la debita restituzione. Inutile la preghiera. Servi del Signore, alzate pure le vostre mani in mezzo al Santuario, dice il Re Salmista (Ps. CXXXIII), e sarete benedetti dal Fattore del cielo e della terra. Tutto l’opposto a chi tiene fra le mani la roba d’altri. Con che coraggio, dice a costoro Iddìo sdegnato, stendete a me le vostre mani supplichevoli, e al tempo stesso grondanti di umano sangue? Toglietevi dinanzi al mio cospetto, Io non vi ascolto: “manus enim vestrae sanguine plenae sunt” (Is. I, 15), sangue di vedove spogliate, sangue di assassinati pupilli, sangue di poveri oppressi, sangue d’operai non soddisfatti, sangue di creditori traditi. Se seguiterete a pregarmi con queste mani piene di sangue, ben lontano dall’esaudirvi, non vi degnerò neppure d’uno sguardo: “avertam oculos meos a vobis, non exaudiam”. – Inutile la limosina. Ha tanta virtù e tanta forza la limosina, che giunge a liberarci dalla morte, non dalla temporal morte, ma dalla morte spirituale ed eterna: “elemosyna a morte liberat” (Tob. XII, 9); poiché da questa doppia morte ci preserva, se siam vivi alla grazia, e se siamo morti pel grave peccato è efficace a muovere il cuor di Dio ad accordarci quelle grazie che ci faccian rivivere, che ci conducano a vera penitenza, che ci portino all’eterna vita. Tutto ciò corre assai bene per tutta sorta di peccatori, ma non per quelli che ingiustamente ritengono la roba altrui. “A questi, dice il Signore, onora Iddio con dar in limosina quel che è tuo, ma non già quello che ad altri appartiene”: “Honora Dominum de tua substantia” (Prov. III, 9). Quel tanto che dai in limosina non è tuo; dallo a chi tu devi per titolo di rigorosa giustizia. Mi piace la limosina, ma più mi piace l’adempimento del mio dovere. La limosina alcuna volta è atto spontaneo di liberale elezione: la restituzione è sempre atto indispensabile di rigorosa giustizia. – Inutile infine la confessione. O voi, accostandovi al tribunale di Penitenza, manifestate l’obbligo che vi corre di restituire, o no. Se lo tacete, vi aggravate di un enorme sacrilegio; se lo confessate, il sacro ministro non può astenervi, se voi potendo non restituite. Il confessore in questo Sacramento ha la potestà o immediata o delegata d’assolvervi da ogni peccato, da ogni eresia, da ogni scomunica: ha la facoltà di sciogliervi da qualunque voto; così che se aveste a Dio promessa qualunque somma di denaro da distribuirsi ai poveri, o da applicarsi alla Chiesa, egli del tutto può dispensarvi da questo voto, o commutarlo in altra obbligazione; ma trattandosi d’obbligo di restituire, egli ha le mani legate, non può sciogliervi, non può disobbligarvi per alcun modo dalla medesima somma, bisogna restituire. – Dirò di più: Dio, Dio stesso, sebbene abbia di tutte le cose il supremo universale dominio, e possa trasferire da uno in altro il dominio d’ogni cosa, come già usò cogli Ebrei nell’uscir dall’ Egitto; pure di legge ordinaria e secondo la presente provvidenza non può dispensarvi da quella obbligazione, ch’Egli stesso v’impose; perché all’uso della sua padronanza si oppone la sua fedeltà e la veracità delle sue divine parole; onde convien conchiudere: o restituire, o dannarsi.
II. Dall’assoluta impossibilità di’ salvarsi senza la restituzione, passiamo a vedere l’impossibilità morale di restituire. Per morale impossibilità s’intende una somma difficoltà. A dimostrarvela notiamo una viva espressione del real Salmista. “Alcuni, dice egli (come sono i ladri, gli usurai, i prepotenti) si mangiano viva la povera gente, in guisa che divorano il pane: “Devorant plebem meam sicut escam panis” (Ps. XIII, 4). Il pane, o altro qualunque cibo, dalla mano portato alla bocca, e dalla bocca allo stomaco in forza del natural calore, si cangia in sangue, che si dirama in tutte le parti del corpo. Andate ora a cavar dalle vene quel cibo tramutato in sangue. Non altrimenti la roba tolta per furto o per usura, o posseduta di mala fede, si consuma in uso proprio, si confonde colle proprie sostanze, e passata così come in sangue e sostanza della persona e della famiglia, difficilmente si può estrarre, acciò ritorni alle mani del suo padrone. – Vediamolo in pratica. “So che devo restituire, dice colui, ma non già se restituendo io venga a decader dal mio stato”. Vi rispondono i Teologi: “se al vostro stato presente siete asceso per vie torte, per scale false, per frodi, per ingiustizie, voi siete tenuto a restituire anche col vostro decadimento. Come! siete innalzato sulle altrui rovine, e pretendete star sempre in alto calpestando le stesse rovine? No, no, dovete discender giù, la vostra altezza non è legittima, il vostro stato è affatto simile a quello di un assassino arricchito dell’altrui spoglie, ed è eguale in quello e in voi la necessità di restituire. – Se poi prima dei vostri latrocini eravate in possesso d’uno stato giustamente acquistato, consultate gli stessi Teologi, e vi diranno concordemente che se volete salvarvi conviene restringervi, bisogna con prudente risparmio e con studiosa economia troncare le spese superflue, giuochi, pompe, mode, cacce, conviti, splendidi trattamenti non sono più per voi finché con questa doverosa parsimonia non abbiate saldato i conti, e i debiti che avete col prossimo; poiché i vostri creditori, e tutti i da voi danneggi hanno diritto a tutto ciò che non è necessario al vostro onesto e discreto sostentamento. Ma qui sta appunto la difficoltà in adattarsi ad un restringimento economico per mettere da parte il superfluo al proprio stato, e restituire così il mal tolto, e riparare i cagionati danni. Eppure è indispensabile questa misura per chi si vuol salvare. Fingete che nei giorni del diluvio, quando Noè assegnava nell’arca il suo posto ad ogni specie d’animali, il leone, avvezzo ad aggirarsi per selve e per foreste, avesse rifiutato restringersi in una buca, e l’aquila, solita a spaziare nei vasti seni dell’aria, avesse ricusato racchiudersi in una gabbia, l’uno e l’altra sarebbero periti in quell’acque mortifere. È questa una figura di quel che a voi accadrà non restringendovi nel vostro trattamento, onde il superfluo vi porga un mezzo alla tanto necessaria restituzione. – “Io poi, dice un altro, voglio restituire, ma al presente non posso, restituirò alla prima raccolta”. Viene la raccolta, si toccan danari; ma questi abbisognano per farsi un abito, questi altri per coltivare quel terreno, per far un acquisto vantaggioso, e per cento altri bisogni in famiglia, e si ripete: per ora non posso. E così di tempo in tempo, di anno in anno si differisce, si prolunga or con uno, or con altro pretesto, e col dire restituirò, si palpa la coscienza, si fa tacere il rimorso, o si addormenta per modo che riduce tante anime al punto di morte col carico d’una restituzione non fatta, e per lo più impossibile a farsi. Di due obbligati alla restituzione fanno menzione le divine Scritture. Uno è Zaccheo, l’altro Antioco. Zaccheo pubblicano, visitato dal Salvatore e convertito davvero, dice a Gesù Cristo: “se qualcuno è stato da me defraudato, io restituisco sul momento”, – “si quid aliquem defraudati, reddo quadruplum” (Luc. XIX, 8). Non dice, renderò, darò, restituirò, dice “reddo”, restituisco subito, quel che dice lo manda ad effetto. Antioco per l’opposto, che aveva rubati i sacri vasi al tempio, promette che li renderà moltiplicati, ma queste promesse se le porta il vento (Macc. IX). Non si legge che desse alcun ordine o in voce o in iscritto, che si riparasse quel sacrilego spogliamento: si contentò abbondare di parole e di promesse, ma questa restituzione di lingua non bastò a salvarlo dalle mani dell’Onnipotente, non poté lo scellerato ottenere misericordia dal Signore. L’ottenne Zaccheo usuraio, e l’ottenne in tanta ampiezza, che egli e l’intera sua casa furono da Dio benedetti e salvati. Il perché già l’abbiamo veduto, perché pronto restituì sull’istante: “reddo quadruplum”. Si potrebbe qui domandare: “E perché Zaccheo restituì quattro volte tanto della roba tolta?” Ecco: Zaccheo da molti anni esercitava l’usura. In tanto tempo chi poteva calcolare i danni da lui cagionati a tante persone, a tante famiglie? Il danno primo della roba tolta, e l’ingiusta ritenzione della medesima, porta per l’ordinario dannosissime conseguenze, e perciò Zaccheo ravveduto volle restituire il quadruplo, “reddo guadruplum”. A queste conseguenze pochi fanno riflessione. Riflettete voi, se mai foste nel caso. Nel tempo che ingiustamente tenete roba o danaro del vostro prossimo, egli non può far uso del fatto suo: quel danaro, che sta in vostre mani, si potrebbe metterlo à traffico, potrebbe con quello coltivare la sua terra, ristorare la sua fabbrica, pagar i suoi debiti, comperare il necessario a prezzo più mite; e voi con restituire il puro capitale credete avere pienamente soddisfatto? Inganno, miei cari, inganno! Ma che dico, restituire il puro capitale? Con tanti danni cagionati per vostra colpa vi lusingate appagare la vostra sinderesi, soddisfare il prossimo, placar Dio, con dire e tornare a dire: restituirò. Oh “restituirò” infelice e seduttore, oh restituzione immaginaria, quant’anima porti all’impenitenza finale, all’eterna dannazione! – Deh per carità, fedeli amatissimi, rendete possibile almen per voi questa restituzione, che per gli altri è moralmente impossibile, attese le fallaci scuse, e i mendicati pretesti, coi quali l’uomo tenace studia ingannarsi, e perdersi per un fatale attacco alla roba, e per un più fatale accecamento differire la restituzione ad un incerto futuro. ”Reddite, dunque, se v’è cara la vostra salute, ve ne scongiuro colle parole dell’Apostolo, rendete a ciascuno, e senza dilazione, quel che di giustizia gli dovete”: “Reddite ergo omnibus debita” (Ad Tim. 1, IV,8). “Reddite”, vi ripeto colle parole di Gesù Cristo nell’odierno Vangelo, “Reddite ergo quae sunt Caesaris Caesari, et quae sunt Dei Deo”.