I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (II)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (II)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A  TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN; DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica – 1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

PRIMO PRINCIPIO FONDAMENTALE: LA PREGHIERA

La preghiera è il principio d’ogni bene nell’uomo. Cosicchè imparar a pregare, stimare, amare e praticare fervorosamente e come si deve la preghiera, è un tesoro inapprezzabile pel tempo e per l’eternità.

CAPITOLO I.

Che cosa è pregare.

1. Pregare è la cosa più semplice che si dia sulla terra e nella vita umana. Basterebbe a provarlo la necessità così grande che abbiamo della preghiera.

2. Per pregare non è necessario essere scienziato, eloquente, stimato, né ricco; e non è nemmeno necessaria una divozione sensibile. Questa ordinariamente non è che una compagna ed accessoria della preghiera. Dipende forse da noi la dolcezza? No, è Dio che la concede, e dobbiamo riceverla con riconoscenza, Essa rende soave il pregare; ma non è indispensabile, e ad ogni modo, vi sia o non vi sia dolcezza, si può e si deve sempre pregare.

3. Per pregare basta unicamente conoscere Dio e conoscere sé medesimi: sapere chi è Dio e chi siamo noi, quanto infinita è la bontà di Dio e quanto profonda la nostra miseria. Per pregare ci vuole la fede ed il catechismo; la necessità nostra dev’essere quella che incammina le nostre parole. L’unica cosa che si richiede è d’aver alcuni pensieri, il minor numero possibile, alcuni desiderî e finalmente alcune parole, che partano dal cuore, altrimenti non si ha preghiera. Potrà trovarsi un uomo che non sia capace di pensare e desiderare qualche cosa? Orbene, qui abbiamo quanto si richiede per questo nobile esercizio della preghiera: riguardo alla grazia, Iddio la concede profusamente a tutti ed a ciascuno in particolare.

4. Pregare non è altro che parlare con Dio, adorarlo, lodarlo, ringraziarlo. e chiedergli mercè e perdono delle proprie colpe. Vorrebbero alcuni maestri di perfezione che la preghiera fosse un discorso rivolto a Dio o una udienza che si ottiene da Lui. Ciò sembra una cosa troppo elevata. Non sanno molti preparare un discorso ordinato, e l’idea d’udienza apparisce come una specie d’etichetta. Nella preghiera dobbiamo comportarci come in una conversazione famigliare con un buon amico che amiamo sinceramente. ed a cui confidiamo con semplicità e candore quanto ci passa nell’interno: le nostre tribolazioni e dolcezze, i nostri timori e le nostre speranze, e dal medesimo riceviamo, per quanto gli è possibile, consigli ed incoraggiamenti, conforti ed aiuti. E quando non potremo far questo? Fra noi anche gli affari di maggiore importanza li trattiamo con semplicità, fossimo pur aridi e senza una scintilla di sentimento e d’emozione. e sempre riescono se lo facciamo con serietà e riflessione. Così dobbiamo comportarci con Dio nella preghiera: quanto più saremo semplici tanto meglio, a condizione che tutto esca dall’intimo dell’anima.

5. Spesso noi guastiamo la preghiera e la rendiamo difficile e scipita, perché non sappiamo farla come conviene, né formarci un retto concetto di essa. Diciamo a Dio quello che passa nel nostro cuore e tal com’è, e la preghiera sarà buona. Tutte le vie conducono a Roma, dice il proverbio; ora, allo stesso modo, mediante qualunque pensiero, si può arrivare a Dio. È buona quella preghiera che si fa con semplicità. Possiamo noi forse presentarci a Dio con concetti elevati e pieni di squisitezza? Se dunque non possiamo fare altrimenti, diciamogli che non sappiamo nulla e che nulla ci si presenta alla mente; poiché anche questa è una maniera di pregare e di onorar Dio: e conseguire le sue grazie.

CAPITOLO II.

Quanto grande ed eccellente è la preghiera.

1. I nostri pensieri sono il ritratto dell’anima nostra; quanto quelli sono più elevati e nobili, altrettanto e più nobile ed elevata è questa. Fintantoché lo spirito nostro s’occupa soltanto di ciò che è terreno, di ciò che entra per gli occhi, di ciò che è creato, l’anima nostra trovasi come relegata dentro i limiti del finito e perituro; avviene il contrario se pensa a Dio, in quanto che partecipa della grandezza della divinità. Solo l’Angelo e l’uomo possono pensare a Dio, e certamente che il pensar bene a Lui è ciò che di più eccellente possa fare lo spirito creato. Un essere superiore a Dio non può concepirsi. Orbene; è appunto nella preghiera che l’uomo co’ suoi pensieri si eleva sino a Dio e si occupa di Lui. A nessuna cosa l’uomo è tanto intimamente unito quanto all’immagine de’ suoi pensieri, e questa allora è precisamente Dio, massima grandezza, massima bellezza e massima nobiltà che siavi in cielo e sulla terra. Non v’è nulla. Eccettuata la S. Comunione, che sì strettamente ci unisca a Dio come la preghiera. Poter pensare a Dio è per l’uomo un onore singolarissimo: imperocché trattare con uomini che possono vedersi e udire, non è nessuna meraviglia; ma mettersi in rapporto con l’Essere purissimo e invisibile è qualche cosa di più; e mantenere questo rapporto convenientemente ed in modo opportuno, è, senza dubbio, una nobile ed elevata perfezione dell’anima, e quasi una specie di vita divina. L’umile servo di Dio che mediante la preghiera sa tenersi in comunicazione con la divina Maestà, ha diritto di presentarsi alla porte di tutti i regnanti ed imperatori del mondo. Il motivo per cui agli uomini generalmente suol riuscire pesante e dura la preghiera, è la noia; questa non deriva dalla preghiera, ma dall’uomo, che è terreno e non ha idee veramente elevate. L’annoiarsi, quindi, nella preghiera, non è per noi un buon segno; al contrario piuttosto, nella facilità e nel fervore trovasi la vera vittoria dello spirito sopra ciò che v’è di sensibile e terreno nel nostro essere. Per questo dobbiamo tenere fermamente fisso nella mente, ed essere pienamente convinti, che non possiamo fare qui sulla terra nulla di più elevato e sublime della preghiera.

2. È un onore per l’uomo poter elevare la sua mente a Dio mediante la preghiera; ma è ancor più onorifico per lui che Dio si abbassi graziosamente all’uomo. Noi siamo molto giù qui sulla terra; Iddio è molto più su in cielo; il ponte d’oro pel quale Ei discende sino a noi è la preghiera. Non si può dubitar che non sia un’ammirabile e commovente manifestazione della liberalità e dell’amore di Dio all’uomo, della sua bontà e degnazione il dirgli: « Domanda quanto desideri, vieni a me quando vuoi; appressati, annunziato o no, ché sarai sempre il ben venuto; tutto quello che ho ed Io stesso sono a tua disposizione ». – Questa confidenza senza limiti che ci offre Dio nella; preghiera, non è forse una vera prova che noi stiamo vicini a Lui, che siamo stati creati per metterci in comunicazione con Lui, che siamo famigliari e figli suoi? Quale degnazione! Che gran Signore è Dio, e tuttavia nessuna avarizia in Lui del suo tempo! E per rendersi vieppiù ammirabile, lo lascia tutto a nostra disposizione; nessuno ci offre un’accoglienza più pronta e più affettuosa e cordiale che Dio; Egli è veramente la prima e perpetua nostra patria; in nessun luogo ci troviamo nel nostro centro come in Lui.

3. Che prerogative eccelse quelle dell’uomo, e con tutto questo tenute in sì poco pregio! Se Iddio distribuisse pane e ricchezze, tutti correrebbero a Lui come gli Ebrei, dopo la moltiplicazione dei pani fatta loro dal Salvatore; ma poiché Egli ci facilita l’onore di avvicinarlo e parlare con Lui, molti non ne fan caso. E, peggio ancora, non pochi si vergognano di pregare. E non è questo per l’uomo un vergognarsi di Dio e rinunciare alle più alte sue prerogative? Oh! se sapesse colui che disprezza e trascura la preghiera, il danno e l’ignominia che si trae dietro!

CAPITOLO III.

Il precetto della preghiera.

1. Iddio ci ha concesso la preghiera, e il farne uso è in nostro diritto; ma ce la prescrisse inoltre, ed abbiamo l’obbligo di farla.

2. Questo precetto della preghiera trovasi inserito tra le leggi delle due tavole, che, per verità, sono così antiche quant’è antico l’uomo, nel cui cuore fu scolpito dalla legge naturale. La prima tavola contiene le leggi che riguardano la religione ed il culto di Dio. È un dovere questo che l’uomo porta con sé entrando nel mondo, dovere fondato nella subordinazione da lui dovuta a Dio qual suo Creatore, a Cui, come tale, deve riconoscenza e adorazione, e per questo il mondo non fu mai senza religione, fatto questo che ne dimostra realmente la soggezione e dipendenza.

3. Neppure ci fu mai religione senza preghiera. La preghiera è stata sempre essenzialmente un atto religioso, ed il suo fine è di tributare a Dio il culto dovutogli. Ma è più ancora: è l’esercizio principale della religione, è, quasi diremmo, l’anima sua; su di essa si basa tutta la religione. e per essa, sia pubblica, sia privata, vigoreggia e si conserva.

4. Regolare, quindi, la preghiera, vale quanto regolare la religione. Vi pensò anche il Redentore, e non contento di confermare l’antico precetto della preghiera, la insegnò, coll’esempio e colle parole, e ci lasciò un modello di essa. Dobbiamo essere riconoscenti alla sua Chiesa se ci è dato di sapere con esattezza come compiere questo grande precetto naturale, che c’impone un così stretto obbligo. Il nostro Dio è un Dio vivente, il quale, sostenendoci e conservandoci, rinnova continuamente in noi la sua potenza creatrice, ed esige che mediante la preghiera Gliene siamo riconoscenti. Per questo l’umanità ha sempre pregato, e ciò vale a scorgere quanto in essa vi sia di divino. Ed a misura che Iddio va estendendo la sua potenza creatrice, va dilatandosi altresì il circolo della preghiera.

5. Le ragioni che costituiscono la base di questo precetto divino della preghiera le troveremo sia da parte di Dio sia da parte nostra. Non è necessità da parte di Dio che Lo faccia esigere da noi il tributo della preghiera, poiché Egli non ha bisogno di nulla, ma lo richiedono la sua giustizia e santità. Egli è nostro Padrone, nostro Padre e Sorgente del nostro bene, e non può assolutamente rinunziare a questi titoli cedendo ad altri l’onor suo. – Ma nella creatura la trascuranza della preghiera corrisponde a una diserzione da Dio. Di modo che per quanto Lo riguarda, dovette Dio imporci la preghiera. – Per quello che Spetta a noi, la prescrisse, non tanto per ricevere da noi qualche cosa, quanto per darcene e potercene dare. Siccome non sempre siamo degni dei doni di Dio, né ci troviamo convenientemente preparati a riceverli dobbiamo disporci e metterci in istato di conseguirli, e questo appunto è quello che fa la preghiera, che, come s’è già detto, costituisce essenzialmente un atto proprio della virtù della religione. Consapevolmente o inconsapevolmente nella preghiera, noi ci proponiamo di riconoscere ed onorare Dio, come un dovere fondato nell’intima natura della preghiera che non possiamo cambiare. Orbene: questo riconoscimento che mediante la preghiera tributiamo a Dio è grande e nobile: pregando riconosciamo nello stesso tempo la nostra miseria, necessità e impotenza, il potere di Dio, la sua bontà e fedeltà alle sue promesse e ci mettiamo senza restrizioni nelle sue mani. Colla preghiera noi serviamo Dio in cuor nostro, ci santifichiamo, attiriamo su di noi il compiacimento del Signore e ci disponiamo a ricevere le sue grazie. Ciò che con esso propriamente conseguiamo non è il muovere Iddio a darci i suoi doni, quanto di disporre noi medesimi a riceverli. La differenza che esiste tra le suppliche che indirizziamo agli uomini e quelle che eleviamo a Dio è questa: che con quelle disponiamo gli uomini dai quali desideriamo qualche cosa; con le seconde disponiamo noi medesimi. È anche sommamente giusto ed a noi utilissimo esporre e manifestare con umiltà dinanzi a Dio le nostre miserie e necessità ed avere un’altissima stima de’ suoi doni. Ora, tutto questo ha luogo nella preghiera.

6. La preghiera come esercizio del culto e della religione è per noi non solo un mezzo onde ottenere da Dio ciò che domandiamo, ma anche un fine, ed il fine prossimo della nostra vita. Siamo stati creati da Dio per lodarlo, adorarlo e servirlo. Sotto questo aspetto, quindi, noi non potremo mai pregare abbastanza. Il fine nostro ed oggetto principale, per quanto è possibile raggiungere quaggiù, è riposto nella preghiera. Questa idea è quella che ha dato vita agli Ordini contemplativi, ed anche il Paradiso sarà una perpetua preghiera. Ciò che tien vivo il dominio di Dio nel mondo è la preghiera, e dove questa sparisce sparisce parimente il regno di Dio dal cuore degli uomini. Che danno enorme ha cagionato il distacco dalla Chiesa di certe Nazioni! Vi sono intere regioni nelle quali sparirono il divin Sacrificio e la Salmodia, che si offrivano e si elevavano a Dio nei chiostri. Un modo di più per noi cattolici di mantener viva la preghiera, alfine di compensare tale perdita nel regno di Dio.

7. Stando così le cose, chi si meraviglierà che tutti gli uomini di coscienza e quanti fra i Cattolici sanno apprezzare come si deve la Religione preghino, preghino con costante perseveranza? Per essi nessuna cosa è al di sopra della Religione, e per conseguenza nulla di più importante della preghiera. Noi Cattolici, come il popolo eletto, siamo un popolo di preghiera. L’antico patto possedette la vera preghiera, e con essa la vera cognizione e culto di Dio. La religione  nostra Cattolica ha avuto il suo principio colla preghiera nel cenacolo di Gerusalemme. I pagani facevano le meraviglie sul frequente pregare del popolo cristiano, le cui chiese, come lo sono ancora, erano i veri centri di preghiera, mentre essi non giunsero nemmeno a comprendere che cosa fosse pregare. – Questo è il primo e più elevato senso della preghiera. Si tratta della religione, bene il più nobile e degno di stima che vi sia nel mondo, Così fù riconosciuto sempre dal fiore dell’umanità; e contro questa  testimonianza nulla vale quella dei panteisti, i quali non pregano perché divinizzano se stessi, credendosi  porzione della divinità: né quella dei materialisti, le cui idee non vanno più su del fango della terra; né quella dei Kantiani, che si credono dispensati dalla preghiera perché non comprendono o non vogliono comprendere le prove dell’esistenza di Dio; né, finalmente, quella dei seguaci di Schleiermacher, i quali aspettano sempre per pregare non so quale sentimento solenne dell’anima. Ma che vale tutto questo, di fronte all’unanime testimonianza di tutti i tempi, della ragione e della fede che proclamano il dovere della preghiera?

CAPITOLO IV.

Il gran mezzo per conseguire la grazia.

Luce, calore, alimento. ecco le tre cose senza le quali è impossibile vivere. Lo stesso si deve dire della preghiera in relazione alla vita spirituale; poiché questa senza quella non esiste. La preghiera è l’indispensabile e gran mezzo per conseguire la grazia: se vogliamo salvarci bisogna che preghiamo.

1. È d’uopo ricordare qui alcuni principî indiscutibili e riconosciuti veri. Senza la grazia non c’è salvezza, e senza la preghiera, trattandosi dell’adulto, non c’è grazia. Dio ha istituito i Sacramenti quali mezzi per conseguire la grazia; ma sotto molti aspetti la preghiera è assai più importante dei Sacramenti. Questi comunicano certe e determinate grazie; la preghiera può, in date circostanze, ottenerle tutte; i Sacramenti non sempre sono alla mano, la preghiera sì. Per questo suol dirsi con molta verità: « sa ben vivere, chi sa ben pregare ». Mediante la preghiera l’uomo ottiene tutto quello che gli è necessario a ben vivere. Posto ciò, si possono stabilire le seguenti verità, che ne inchiudono molte altre: Nessuna cosa si deve sperare, se non è per la preghiera; tutta la fiducia che non è basata sulla preghiera è vana: Dio nulla ci deve, se non è mediante la preghiera, poiché è a questa; ch’Egli ha promesso tutto; ordinariamente, Dio non concede nessuna grazia se non Gli si domanda, e quando la concede è grazia della preghiera.

2. Queste sono verità generali; nella vita cristiana ci sono inoltre parecchie cose particolari, per le quali è indispensabile la preghiera. La prima di tutte, sono i Comandamenti, che fa d’uopo osservare, se vogliamo salvarci. Orbene, noi soli non li possiamo osservare tutti senza la grazia: più ancora, possiamo affermare che non Sempre abbiamo grazia sufficiente per poterli osservare con. sicurezza. « Dunque, mi dirai, non posso osservarli, né lasciare di osservarli ». No, perché può avvenire in realtà che tu non abbia ancora la grazia per osservare i Comandamenti, ma ben l’hai per chiederla; Per cui vedrai che Dio non comanda nulla d’impossibile poiché o ti concede direttamente la grazia, o per lo meno la preghiera con cui tu possa conseguirla. – Vengono in secondo luogo le tentazioni. che nemmeno possiamo sempre vincere naturalmente. Ma la tentazione non è mai così forte, che c’impedisca di pregare. Se siamo deboli, è perché non preghiamo; i santi riuscivano vittoriosi perché pregavano, altrimenti anch’essi avrebbero dovuto soccombere al pari di noi. Ciò che si è detto. Vale soprattutto contro le tentazioni impure, poiché sono quelle che più accecano tanto da non lasciar vedere le fatali conseguenze del peccato; ci fanno dimenticare i buoni propositi, e ci tolgono perfino il timore del castigo. Senza la preghiera non c’è altra via che soccombere. – Per ultimo, non possiamo salvarci senza la grazia della perseveranza finale: ed è un benefizio particolarissimo che Iddio ci mandi la morte quando ci troviamo in istato di grazia. E che la morte per tal modo ci sia un Messaggio dell’eterna beatitudine. In questo consiste la perseveranza finale, dono così grande e straordinario, che – al dire di S. Agostino – non possiamo noi meritare, ma ricevere mediante l’umile preghiera. Ma il non chiederla mai. manifesta che ne siamo indegni. Con ciò resta dimostrata l’assoluta necessità della preghiera. Risulta che dobbiamo pregare anche per le cose d’ordine temporale; quanto più dobbiamo farle per le eterne! Scegliamo: o pregare, o perire inesorabilmente.

3. Questa è la legge della vita. Ma, perchè volle Dio estendere a tutto la necessità della preghiera? Non potrebbe Egli versare su di noi i suoi doni senza obbligarci a pregare? Questa domanda è superflua. Non si tratta di sapere ciò che Dio avrebbe potuto fare, ma ciò che ha fatto; e ciò che ha fatto è di porre la preghiera come mezzo per conseguire la grazia. E con tutto diritto, poiché Egli è libero e padrone di essa e come tale può a sua volontà determinare la via ed i mezzi per conseguirla. Stabilì come mezzo la preghiera: dunque a noi non resta che di conformarvici. Tuttavia anche l’uomo è libero e deve provare la sua libertà con fatti, e cooperare alla propria salvezza. E la preghiera dimostra tutt’e due le cose: la libera cooperazione dell’uomo, e la libertà di Dio nel determinare i mezzi e le vie da tenersi per ciò. La libertà di Dio e quella dell’uomo entrano nel gran disegno della provvidenza; così Dio e l’uomo, ciascuno per par sua, al modo d’una potente causa, contribuiscono allo sviluppo e al buon esito di questo disegno generale: la felicità dell’uomo e la glorificazione di Dio. Solo per questa cooperazione l’uomo è degno e meritevole dell’eterna sua felicità, E la preghiera è il minimo che Dio poteva da lui esigere: colui che si rifiuta di farlo si chiude volontariamente le porte della grazia e del cielo.

4. Le sentenze della Sacra Scrittura e dei Santi Padri sulla necessità della preghiera sono così chiare e perentorie, che da esse si potrebbe dedurre esse questa l’unico mezzo per conseguire la grazia, non solo perché Dio ha voluto così, ma perché deriva necessariamente da una legge naturale. È certo che Gesù-Cristo non diede alcun precetto positivo all’infuori di quelli che hanno relazione colla fede, speranza, carità ed uso dei Sacramenti. Se prescrive, quindi, la preghiera apertamente e con tanta insistenza, non v’ha dubbio che bisogna dare a questo precetto un posto tra quelli che per legge naturale si richiedono all’eterna salute. Infatti, supposto che Dio voglia operare per quanto sia possibile col concorso delle cause seconde, e che l’uomo debba, giusta le sue forze, cooperare alla propria salvezza, certamente Dio non poté trovare un mezzo più naturale della preghiera per salvare gli uomini. È il caso, infatti, e non senza ragione, di domandare se vi sia qualche altro mezzo all’infuori della preghiera, ora che da un’estremo all’altro della terra non regna che lo spirito mondano, il dissipamento esteriore, la dimenticanza di Dio, un infievolimento e indifferentismo religioso senza precedenti, L’epoca nostra patisce un’infermità grave e mortale, ed è il raffreddamento del Cuore per ciò che riguarda Dio ed il Soprannaturale. Che inganno crudele quello dell’uomo mondano che va qua e là errando, finché colto dalla morte cade vittima del sonno eterno, come l’infelice viandante delle Alpi coperte di neve e di gelo! Chi scuoterà questo infelice dal suo mortale letargo? La preghiera; questa è il buon Angelo che lo fa ritornare in sé, gli restituisce la conoscenza, lo induce a riflettere ed esaminare le sue azioni, risveglia nel suo cuore la primitiva aspirazione ora assopita, la nostalgia di altra patria molto più felice di questa terra, la nostalgia di Dio, del Padre che abbandonava e dimenticava. La preghiera! Questa è l’Angelo che indica al figliuol prodigo la via alla Casa paterna. Così la preghiera cancella e distrugge il peccato e la dimenticanza che v’è di Dio nel suo regno. Vi sono inoltre in questo mondo tante avversità, inganni e disgrazie, che per non cadere in disperazione, l’uomo deve manifestare candidamente proprie pene ed i propri turbamenti. E qual miglior confidente per l’anima nostra che Dio? E dove lo troveremo se non nella preghiera, che è un intrattenimento e conversare con Lui? La preghiera è come un espirare le nostre necessità, le miserie nostre, e i nostri travagli, ed aspirare la grazia, la consolazione, e la luce. Benedetto sia Iddio, che non ha rigettato la mia preghiera, né allontanato da me la sua misericordia. (Sal. LXV, 20).

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (III)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (I)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (I)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN. DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA

Società Anonima Tipografica

1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

I. M, Viviani, Vic. Gen

A DON FILIPPO RINALDI

TERZO SUCCESSORE DEGNISSIMO DEL VEN. GIOVANNI BOSCO DI CUI È IL MOTTO

«DA MIHI ANIMAS CÆTERA TOLLE»

L’UMILE TRADUTTORE OFFRE QUESTO LIBRO TRIPLICE FUNICELLA CHE AVVINCE LE ANIME A DIO

INDICE

PRIMO PRINCIPIO FONDAMENTALE

 La Preghiera

I. Che cosa è pregare

II. Quanto grande ed eccellente è la preghiera

III. Il precetto della preghiera

IV. Il gran mezzo per conseguire la grazia

V. Efficacia illimitata della preghiera

VI. Come deve farsi la preghiera

VII. La preghiera vocale

VIII, Modelli di preghiera

TX. L’orazione mentale

X. Le divozioni della Chiesa

XI. Lo spirito di preghiera

SECONDO PRINCIPIO FONDAMENTALE

La vittoria di se stesso

I. Retta idea dell’uomo

II. Che cosa sia il rinnegare se stessi

III. Perché dobbiamo mortificarci

IV. Proprietà dell’abnegazione propria

V. Alcune obiezioni

VI. Mortificazione esterna

VII. Mortificazione interna

VIII. La mortificazione dell’intelletto

IX. La: mortificazione della volontà

X. Delle passioni

XI. La pigrizia

XII. La paura

XIII. L’ira e l’impazienza

XIV. La superbia

XV. Antipatia e simpatia

XVI. La passione dominante »

XVII. Ricapitolazione e fine »

TERZO PRINCIPIO FONDAMENTALE

L’amore a nostro Signor Gesù Cristo

I. L’amore.

II. Cristo-Dio.

III. Dio-Uomo.

IV. Dio-Bambino.

V. Il migliore Maestro e Direttore delle anime

VI. Il Figliuolo dell’Uomo.

VII. L’Operatore di meraviglie.

VIII. Il libro della vita.

IX. Era buono.

X. Passione e morte.

XI. Vita gloriosa.

XII. Il Santissimo Sacramento.

XIII. L’ultimo mandato.

PREFAZIONE

Un libro del P. Meschler non ha certamente bisogno di raccomandazione, mentre a tutti è nota la competenza di questo illustre Padre, in tutto ciò che risguarda l’ascetica cristiana, che per lui è stata arricchita di molti pregevolissimi libri. Ma poiché il valente traduttore dell’operetta presente ci ha gentilmente pregato di scrivere una parola in proposito, non possiamo fare a meno di encomiare altamente questo libro, ché si può ben definire un sugoso compendio di tutta l’ascetica cristiana. (Meschler: «Drei Grundlehren» – Herder, Freiburg.). Come dice molto sapientemente l’A. nel Prologo quanto più l’anima si accosta a Dio, suo Fine Supremo, tanto più sente il bisogno di ridurre tutto ad unità e semplicità, cioè a quella beata unità e semplicità che trovasi in Dio stesso e che, pregustata quaggiù dischiude, al dire del Kempis, il segreto della pace tranquillità perfetta. Perciò l’A. si è prefisso, in quest’Opera. di ridurre tutta l’ascetica cristiana a pochi e semplici principi che sono le basi fondamentali di ogni vera santità e perfezione. E la sapienza dell’A. illustre vegliardo ormai consumato nello studio e nella pratica della vera ascetica cristiana, si rivela appunto nella elezione, che Egli ha saputo fare, di questi principi fondamentali. Essi sono: La Preghiera, La vittoria di se stesso e L’Amore di N. S. Gesù Cristo. Che a questi principî veramente si riduca tutta l’ascetica cristiana, appare manifestamente dal S. Vangelo stesso, dagli insegnamenti dei Padri e dei Dottori della Chiesa, e finalmente dalla dottrina e dalla pratica di tutti i Santi. Chiunque, nella via della perfezione, si scostò anche solo menomamente da questi principi, incorse fatalmente nei più gravi errori e nelle depravazioni più funeste. Chi al contrario si attenne fedelmente a questi tre principi, raggiunse in breve la più alta santità, La Preghiera senza la vittoria di se stesso dà luogo alle fatue aberrazioni del sentimentalismo; la Vittoria di se stesso senza la preghiera è per sé stessa impossibile e può degenerare in quelle ipocrite e false austerità, che satana ha saputo e sa suggerire agli stessi pagani per meglio avvincerti nelle sue ignominiose catene. Finalmente tanto la Preghiera come la Mortificazione non è possibile senza un amore vero, sodo, generoso, costante a N. S. Gesù Cristo, il quale dalla Croce ha compendiato tutte le sublimi sue lezioni che risguardano il culto che l’uomo deve al suo Dio. – Mirabile è poi lo svolgimento delle singole parti. Là dove parla della Preghiera, l’A. ne mostra in brevissimi tratti l’eccellenza, l’efficacia, la pratica; con tocchi rapidi e magistrali insegna il modo di pregare così vocalmente come mentalmente. Nessuno che legga queste pagine potrà giustificare la propria ripugnanza alla preghiera, mentre l’A. ne mostra tutta la facilità e la soave bellezza. Là dove parla della mortificazione, ossia della vittoria di se stesso, l’A., senza perdersi nel campo delle astrazioni e della teoria, dopo di averne dimostrata la necessità, scende a mostrare praticamente il modo col quale si devono mortificare le varie potenze dell’anima e del corpo e le principali passioni che sono la ragione di ogni disordine nell’uomo. – Finalmente la parte più bella del libro, a nostro modesto giudizio, è quella in cui l’A. parla dell’amore di N.S. Gesù Cristo. La pittura che egli fa del nostro adorato Maestro, nei Misteri principali della sua vita, nei punti culminanti dei suoi insegnamenti e dei suoi atti è così bella nella sua semplicità, che non può non attrarre ogni anima ben fatta, ogni cuore che sente sete ardente di un ideale di purezza, di bellezza, di santità e di grazia infinita. Leggendo queste semplici pagine, non sì può fare a meno di conchiudere con quelle sublimi parole dell’Apostolo: « Chi non ama N. S. Gesù Cristo sia maledetto! » – Tale il disegno e l’orditura del libro. È un’ascetica da borsellino, come modestamente dice l’A. Ma felici le anime le quali sapranno fare acquisti di questa ascetica e sapranno tradurla nella vita pratica! Essi avranno trovato il segreto delle gioie più pure in questa vita, il pegno più bello della felicità e gioia eterna. Nel desiderio, dunque, della gloria di Dio e della salvezza di un gran numero di anime, noi auguriamo questo libro la più larga diffusione, mentre non possiamo trattenerci dal ringraziare il valente Traduttore, il quale con tanta maestria ha saputo renderlo nella nostra lingua, sì che non sembra traduzione, ma piuttosto un libro dettato da esperta penna italiana.

GIUSEPPE M. PETAZZI, S. J.

PROLOGO

Visse in Persia un Principe amantissimo delle scienze, il quale raccoglieva per la sua biblioteca ogni genere di scritti, e se li portava dietro ovunque andasse. Non andò guari che questo prese a riuscirgli grave incomodo; per cui diede l’incarico ad alcuni sapienti di compendiargli la scienza di tutti quei libri in un dato numero di volumi, da poterli comodamente trasportare ne’ suoi viaggi sopra un cammello. Ma, vedendo col tempo che nemmeno ciò era possibile, li fece riassumere in uno solo, e finì più innanzi di ridurre anche quest’unico in una massima fondamentale e pratica per la vita, conseguendo così di aver seco tutta la sua scienza senza nessuna fatica e disturbo, anzi con molta facilità e vantaggio. Ora, questa è altresì l’idea su cui si basa quest’operetta. Libri che trattano della vita spirituale ce n’è a josa e voluminosi. Chi potrebbe numerarli e trascriverne solo il titolo? Ma benedetto sia Dio per quest’abbondanza, poiché mai si potrà scrivere e leggere bastantemente intorno alla vita spirituale, essendo essa come lo è in realtà, ciò che v’ha di meglio e di più eccellente per l’uomo su questa terra. Però chi è che si metta a leggere tanti libri e tenerli a mente? Non v’è dubbio; è un guadagno e vantaggio grande conoscere e possedere la scienza dello spirito e dei santi in modo ristretto e breve, e ciò senza pregiudicare al tempo stesso la materia. – D’altra parte, questo è altresì lo spirito dell’epoca nostra: riunire e disporre in maniera semplice, ristretta e pratica tutto ciò che è necessario alla vita. È ciò si verifica pure in noi stessi, poiché coll’andar del tempo tendiamo ad unificare tutto straordinariamente, tanto che il nostro sapere si riduce ad un principio unico che domina nell’anima nostra e dirige tutte le nostre azioni. Quanto più andiamo avvicinandoci a Dio, nostro ultimo fine e mèta, vieppiù partecipiamo della sua divina semplicità, finché Egli sarà per noi l’unico e solo bene. Ora, lo stesso avviene della verità divina che è unica ed abbraccia tutto; e questa sola, compresa seriamente e messa in pratica, basta a farci santi. È così che si presenta in questa operetta la vita spirituale, semplificata e ridotta a tre punti principali, senza i quali non gioverebbe a nulla la più elevata e vasta ascetica, poiché le mancherebbe ciò che è più necessario e sostanziale, e non potrebbe conseguire il suo fine. Regolandoci invece secondo questi principî, e conformandovi la nostra condotta, coll’aiuto di Dio, arriveremo alla vera perfezione. E se nel corso della nostra vita spirituale dovessimo constatare che le cose non camminano bene, esaminiamoci alla luce di questi tre principî e vediamo se praticamente ci siamo attenuti alle loro conseguenze, certi che con questo mezzo troveremo dove siamo deficienti e non ci resterà, per giungere alla perfezione, che di rimetterci con costanza a subordinarvi la nostra condotta. – Scienza di borsellino chiamò i suoi insegnamenti circa la vita comune uno scrittore di spirito. Ascetica di borsellino potremmo chiamare noi questo libro, poiché in esso si contiene la quintessenza della vita spirituale ed è, come dire, l’ascetica in miniatura, compendiata in tre soli principî. Una cordicella a tre fila difficilmente si rompe, dice la Scrittura (Eccle. IV, 12): per questo si dànno qui tre massime fondamentali che, intrecciandosi, unificandosi e sostenendosi a vicenda. formano l’anello della sapienza, nel quale è incastonata la perla della perfezione cristiana, pel cui possesso il saggio mercatante, avido d’una merce così preziosa qual è la perla, reputa bene impiegati tutti i travagli e fatiche, e giunge persino a vendere quanto ha. (Matt. XIII, 46).

Lussemburgo, 8 Agosto 1919.

L’AUTORE

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (II)

LA PARUSIA (10)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (10)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE – Rue de Rennes, 117 – 1920

ARTICOLO DECIMO

Ci si può chiedere, così come sono state spiegate le cose nell’articolo precedente, da dove possa essere venuta l’opinione, così antica e così diffusa, che vedeva e vede ancora, nell’Apocalisse, solo un quadro profetico della fine del mondo e dei suoi prodromi. A questo risponderei che hanno avuto qui la loro influenza molte cause di vario genere, ma che se vogliamo risalire all’origine, troveremo due ragioni principali, alle quali le altre si possono facilmente ridurre. La prima aveva solo il valore di un pregiudizio. Consisteva nella persuasione per cui i destini del mondo erano legati a quelli di Roma; in altre parole, che l’Impero Romano non poteva avere altra fine che quella dell’universo. Ecco perché, essendo la rovina dell’Impero così chiaramente prevista nell’Apocalisse, si concluse naturalmente che i tempi apocalittici non potevano essere che quelli del declino definitivo, e dell’ultima fine delle cose (« Tutto ci mostra – scriveva Lattanzio, in De divin, instit. Lib., VII, c. 25 – che la rovina suprema non è lontana: e che non sembra essere da temere finché Roma è in piedi. Ma appena questa testa del mondo è caduta, chi può dubitare che essa non sia arrivata? Illa, illa est civitas quæ adhuc sustentat omnia. » E tale è anche il sentimento di Tertulliano, di Sant’Ottato, di San Girolamo e di molti altri. È perché lo splendore di Roma, la loro patria, si era imposto su di loro in tal modo da far loro credere che ci fosse un legame necessario tra il mantenimento della civiltà quaggiù e la conservazione dell’Impero; che la rovina dell’Impero non poteva che essere la distruzione dei quadri della società umana ed il segnale della decomposizione universale; e di conseguenza, che l’Impero che teneva il mondo sotto il suo potere, era precisamente il misterioso ostacolo alla venuta dell’Anticristo di cui parla San Paolo nella Seconda ai Tessalonicesi, quando dice (II, 6): Et nunc quid detineat scitis, ecc., Vedi Bossuet, Prefazione su l’Apocalisse, n. 22.). –  Ma a questa prima ragione se ne aggiunse una seconda, che, tratta dal testo stesso della profezia, doveva sopravvivere alla smentita che gli eventi hanno da tempo preso a dare alla prima. Dall’inizio alla fine delle predizioni di San Giovanni, troviamo, mescolati alle visioni che si svolgono una dopo l’altra come le varie scene di un unico dramma, quadri e descrizioni che sembrano riferirsi, volenti o nolenti, al giudizio finale ed al crollo totale del mondo. Così, per esempio, proprio all’inizio, subito dopo l’apertura dei primi sei sigilli (VI, 12-17), le grandi calamità, i cui dettagli saranno sviluppati nei capitoli seguenti, non appena sono mostrate in modo confuso e come a grandi linee, il sole diventa già nero come un sacco di crine, la luna come di sangue, le stelle cadono dal cielo come i fichi verdi cadono da un fico scosso da un forte vento; il cielo scompare come un libro arrotolato, e tutti i monti e le isole sono sradicati dai loro posti; i re della terra, i principi, gli ufficiali di guerra si nascondono nelle caverne e dicono ai monti: “Cadete su di noi e nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello”. – Più avanti (XI, 18), al suono della settima tromba, mentre, secondo noi, San Giovanni non farebbe che descrive solo le persecuzioni romane, quella di Diocleziano in particolare, che avrebbero portato su Roma i grandi castighi che abbiamo visto, sentiamo i ventiquattro anziani adorare Dio dicendo: Ti ringraziamo, Signore Dio Onnipotente, che sei e che eri, che ti sei rivestito della tua grande potenza… Le nazioni sono adirate ed è venuto il tempo della tua ira, il tempo di giudicare i morti, di dare la ricompensa ai profeti tuoi servi e a quelli che temono il tuo nome, e di distruggere coloro che hanno corrotto la terra. Più avanti (XVI, 18-21), quando, con la settima coppa, viene il tempo dell’esecuzione della grande Babilonia, tutte le isole fuggono, le montagne scompaiono, ed enormi massi di grandine del peso di un talento cadono dal cielo sugli uomini. Così è sempre e ovunquelo stesso cataclisma completo e universale: tutto perisce, tutto crolla, tutto va in rovina, e l’immagine funerea del grande giorno dell’ira che apre e chiude la prospettiva, si proietta anche da un capo all’altro, su tutto il quadro. Come non vedere chiaramente indicato da questo il vero soggetto delle predizioni dell’Apocalisse? Così, almeno, ne giudicheranno facilmente coloro che non sono molto versati nella lettura dei profeti, e che non hanno molta familiarità con il genere proprio della Scrittura, limitandosi alla pura e semplice materialità della lettera. Ma un’esegesi ben informata non avrà difficoltà a riformare questo giudizio, e per ridurre i testi citati al loro vero valore, basteranno alcune brevi osservazioni. – Bisogna considerare prima di tutto che le immagini più forti usate qui da San Giovanni sono prese dagli antichi profeti, specialmente da Isaia ed Osea, nelle loro descrizioni delle calamità, certamente ben distinte dalla suprema catastrofe mondiale, che Dio doveva scatenare contro i nemici di Israele, o contro Israele stesso. Così, nell’annuncio della futura devastazione di Babilonia da parte dei Medi e dei Persiani, noi leggiamo (Isaia, XIII, 10): « Ecco, il giorno del Signore è venuto a fare un deserto della terra e a sterminarne i peccatori; perché le stelle del cielo non brilleranno più, il sole si è oscurato al suo sorgere e la luna non darà più la sua luce… Ecco, io solleverò i Medi contro di loro… e Babilonia, la gloria dei superbi Caldei, sarà come Sodoma e Gomorra… » E più avanti, nel giudizio contro gli Idumei (Isaia, xxxiv, 4): « I loro morti saranno gettati via senza sepoltura e le montagne si scioglieranno nel loro sangue. I cieli saranno arrotolati come un libro, e tutto il loro esercito cadrà come cade la foglia appassita e avvizzita del fico; perché la mia spada si è ubriacata nei cieli, ed ecco, essa scende su Edom, che ho votato  allo sterminio per giudicarlo. E nell’annuncio del castigo che Israele si era procurato con le sue idolatrie (Osea, x, 8): « Gli alti luoghi dell’idolo di Bethel, il peccato d’Israele, saranno distrutti; allora diranno ai monti: Coprici, e alle colline: Cadici addosso. » La stessa cosa in Ezek. xxvi, 15-18, e XXXII, 7-8. Lo stesso in Gioele, II, 10-11, anche se sia nell’uno che nell’altro è sempre una questione di disastri particolari, come la rovina di Tiro, o dell’impero dei Faraoni, o del regno di Giuda sotto Nabucodonosor. Questi tipi di dipinti di grandi calamità pubbliche, per quanto sproporzionati al loro oggetto possano sembrarci, erano nel gusto e nel genio dell’Oriente, e quando San Giovanni, il profeta del Nuovo Testamento, dipinge con gli stessi colori le piaghe che dovevano preparare o accompagnare il ristabilimento del Cristianesimo nel mondo, non farà altro che continuare la maniera dei suoi predecessori, i profeti del Vecchio Testamento. – Ma ecco una seconda osservazione che deve essere aggiunta alla precedente per completarla e chiarirne meglio il significato. Dicendo che le descrizioni di cui sopra si riferivano direttamente e immediatamente a catastrofi che la storia ha registrato da tempo nei suoi annali, non intendiamo in alcun modo negare che esse si riferissero anche in qualche modo a quel grande giorno che porrà fine all’esistenza terrestre dell’umanità e a tutto l’attuale ordine dell’universo. La ragione di ciò risiede nell’abitudine costante della Scrittura, che è stata sottolineata più volte nel corso di questo studio, di unire le cose figurate alle loro figure: di tracciare, per esempio, schizzi del futuro giudizio del mondo attraverso il reticolo di eventi che, nel corso dei secoli, dovevano esserne le immagini; inoltre, e questo è qualcosa che non sarà mai sottolineato abbastanza, di vedere in questi stessi eventi una prima esecuzione del grande e terribile dramma rappresentato da essi e in essi. Non ci sarà dunque ragione di mettere in dubbio il significato, precedentemente stabilito su prove solide, della prima e principale parte delle predizioni apocalittiche, sotto il pretesto che vediamo qua e là, mescolate incidentalmente, allusioni più o meno trasparenti al giudizio finale, o addirittura, in uno dei tre passi citati sopra (XI, 18), la menzione formale ed espressa della sua venuta. Ma l’unica conclusione da trarre sarà quella a cui la maniera abituale della Scrittura conduce naturalmente, e che è confermata dall’accordo dei suoi interpreti più autorizzati: « San Giovanni – ci diranno – unisce l’ultimo giudizio a quello che doveva essere esercitato su Roma, come Gesù Cristo aveva fatto nel predire la rovina di Gerusalemme. È l’abitudine della Scrittura di unire le figure alla verità. » Infine, bisogna notare, come tesi ancora più generale, che una stessa profezia può avere diversi significati: uno, vicino e immediato, già realizzato; l’altro, lontano e mediato, ancora nascosto nelle profondità del futuro. Abbiamo visto esempi di questo sopra, sia nella profezia di Daniele sulla persecuzione di Antioco (Dan., XI, 30 segg.), o in quella di Nostro Signore stesso sull’abominio della desolazione posto nel luogo santo (Matth., XXIV, 15 segg.), e niente sarebbe più facile che estendere la lista all’infinito. Ma senza bisogno di fare qui un maggior dispendio di erudizione, chi non avrebbe presente nella sua memoria la risposta di Gesù ai suoi discepoli che lo interrogavano sulla venuta di Elia, predetta dal Signore, e chi non avrebbe potuto ricordare la risposta di Gesù ai suoi discepoli che lo interrogavano sulla venuta di Elia, predetto da Malachia nell’ultima pagina degli oracoli del Vecchio Testamento (IV, 5-6)? « È vero –  disse loro – che Elia deve venire e che ristabilirà tutte le cose; ma io vi dico che Elia è già venuto ed essi non lo hanno conosciuto. » Così, con l’adempimento di una stessa profezia, Elia era già venuto e … doveva ancora venire. Egli era già venuto nella persona di San Giovanni Battista: questo è il primo senso già adempiuto, come vediamo nel Vangelo di San Luca (Luca, I:17: « Egli (Giovanni Battista) convertirà molti dei figli d’Israele al Signore loro Dio, ed egli stesso lo precederà nello spirito e nella potenza di Elia…, per preparare al Signore un popolo perfetto »). Egli doveva venire ancora: questo è il secondo significato, il cui mistero solo gli ultimi giorni del mondo potranno chiarire (Vedi Bossuet, Prefazione sull’Apocalisse, n. 15, 2). Se, dunque, l’esistenza nella Scrittura di profezie con significati multipli è così ben provata, che meraviglia sarebbe se anche la profezia di San Giovanni appartenesse a questa categoria? Che meraviglia se, fermo restando il significato primordiale precedentemente stabilito, avesse anche un altro significato, strettamente escatologico, il cui compimento sarebbe riservato all’estrema fine dei secoli? Certamente, troverà in esso dei difetti solo chi non ha un’idea corretta della capacità di comprensione di un libro che i Padri ci danno come pieno di segreti ammirevoli, e molto più, come contenente, secondo la forte espressione di San Girolamo, infiniti misteri del futuro, infinita futurorum mysteria continentem (S. Gerolamo, L. I contr, Jovin., n, 26). Per questo Bossuet, il cui modo di vedere le predizioni apocalittiche è ben noto, non manca di aggiungere: « Tuttavia, Dio non voglia che qualcuno immagini che con questa spiegazione (quella che propone, e che noi stessi abbiamo seguito), abbiamo esaurito il significato di un libro così profondo. Non dubitiamo che lo Spirito di Dio abbia saputo rintracciare in una storia ammirevole (delle prime sofferenze della Chiesa), un’altra storia ancora più sorprendente (delle sue ultime lotte), e, in una predizione, un’altra predizione ancora più profonda. Ma lascio la spiegazione a coloro che vedranno più da vicino il regno di Dio, o a coloro ai quali Dio darà la grazia di scoprirne il mistero. » Questa è una riserva saggia e prudente, come possiamo vedere, e alla quale faremo bene ad attenerci, senza affermare nulla su questo significato futuro, ma senza nemmeno negare nulla, attaccandoci esclusivamente a ciò che è importante per i nostri scopi, cioè il primo significato, prossimo e immediato, che può essere considerato come dimostrato e acquisito, qualunque altra cosa possiamo pensare o congetturare sull’altro. – E questo senso ci presenta, dal capitolo VI al capitolo XIX compreso, tutta la successione dei giudizi di Dio sui primi persecutori: Giudei animati dall’odio di Colui che avevano crocifisso, o Gentili che sostenevano l’idolatria con cui Satana teneva il mondo soggetto alle sue leggi. Mette davanti ai nostri occhi la nascita lunga e dolorosa di questo figlio maschio del capitolo XII, che doveva governare tutte le nazioni con uno scettro di ferro, e non era altro che il Cristianesimo emergente e vigoroso, Un grande prodigio apparve in cielo: una donna (figura della Chiesa)… Era grassa e gridava per i dolori della morte. Un’altra meraviglia apparve in cielo: un grande drago rosso (figura del diavolo)… E questo drago stava davanti alla donna che stava per partorire, per divorare suo figlio appena partorito. Ed ella partorì un figlio maschio, ecc. “. Infine, ci offre il quadro degli eventi attraverso i quali Dio, per una provvidenza ammirevole, ha condotto la sua Chiesa ai suoi inizi, per farla trionfare, dopo la grande prova del battesimo di sangue, “non solo in cielo, dove ha dato gloria immortale ai suoi martiri, ma anche sulla terra, dove l’ha stabilita con tutto lo splendore che le era stato promesso dai profeti (Isaia, XIX, 2 3; LX, 1-6; Dan., n, Vi, ecc.) “Ed è di tutte queste cose che San Giovanni disse molto giustamente ed esattamente che sarebbero avvenute presto (i, i, e XXII, 6), perché in effetti la sequenza di eventi qui profetizzata, pur estendendosi molto nel futuro, avrebbe tuttavia cominciato a svolgersi dal giorno dopo, per così dire, la rivelazione apocalittica: cioè, come già detto, dal regno di Traiano, l’immediato successore di Domiziano, dal quale il santo Apostolo era stato condannato alla pentola di olio bollente, e dopo la sua miracolosa conservazione, all’esilio. Sulla vera data dell’Apocalisse, che i razionalisti, contro la testimonianza di tutta l’antichità, fanno risalire all’anno 69 della nostra era, prima della rovina di Gerusalemme, vedi Bossuet, Apoc, 1, versetto. 9). Da ciò consegue, infine, che l’argomento che i critici modernisti pretendevano di derivare da quæ oportet fieri cito, cade di per sé come partendo da un immaginario presunto, e andrà così ad ingrossare la lista delle ragioni precedentemente confutate, le cui apparenze speciose non potrebbero che far meglio emergere la vera inanità.

L’ultima difficoltà che rimane sono le ripetute assicurazioni di una prossima venuta, poste alla fine sulla bocca di Gesù o, il che equivale alla stessa cosa, sulla bocca dell’Angelo che parla in nome e nella persona di Gesù: “Ecco, io vengo presto” (XXII, 7); “Sì, io vengo presto” (XXII, 20); “Io vengo presto, e la mia ricompensa è con me per rendere ad ogni uomo secondo le sue opere” (XXII, 12). È vero che dopo tante spiegazioni già date sui due modi in cui la Scrittura è solita prevedere la parusia, o nel giudizio generale dell’umanità nell’ultimo giorno del mondo, o prima, nel giudizio particolare di ogni individuo nell’istante immediatamente successivo alla sua morte, la difficoltà dovrebbe essere considerata come ormai classificata, risolta, e definitivamente svuotato. Tuttavia, non ci dispiace riportare un’ultima precisazione che, presa in prestito dallo stesso libro dell’Apocalisse, avrà il doppio vantaggio di combattere l’obiezione con la fonte stessa da cui è tratta, e di distruggere sempre più radicalmente le fallacie dell’esegesi razionalista in materia escatologica.

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Il luogo principale, tornando al nostro argomento, è in questo capitolo XX, dove, dopo la caduta della grande Babilonia, i tempi della pace della Chiesa sono sommariamente descritti a grandi linee, come è stato detto prima, così come il regno dei suoi martiri, la cui gloria celeste non manca di essere prolungata sulla terra dagli onori che sono resi loro e dai miracoli che Dio opera per mezzo della loro intercessione. – San Giovanni ci ha appena mostrato un Angelo che scende dal cielo, afferra il dragone, il serpente antico che è il diavolo e satana, lo lega per mille anni e lo rinchiude nell’abisso, per togliergli il potere di sedurre le nazioni come era riuscito a fare ai tempi del dominio universale dell’idolatria. Dopo di che continua (XX, 4-6): Ho visto anche dei troni sui quali sedevano coloro ai quali era stato dato il potere di giudicare; ho visto le anime di coloro ai quali è stato tagliato il capo per aver reso testimonianza a Gesù e per la parola di Dio…, ed essi han vissuto e regnato mille anni con Gesù Cristo. Gli altri morti non hanno avuto vita fino al compimento dei mille anni. Questa è la prima resurrezione. Beato e santo è colui che partecipa alla prima risurrezione; la seconda morte non avrà potere su di loro, ma saranno sacerdoti di Dio e di Cristo, e regneranno con lui per mille anni. Tale è l’immagine che San Giovanni ci presenta della gloria e della felicità dei Santi, ancora allo stato di anime separate, durante il periodo ora in corso, intermedio tra la loro partenza da questo mondo e il giudizio finale. Ho detto, nello stato di anime separate. Infatti, ciò che è importante notare prima di ogni altra cosa in questo quadro è che sono le anime ad esserne il soggetto: anime senza corpo, le anime dei decapitati, ai quali sono attribuiti troni, e questo per significare che già da ora, dai giorni presenti, mentre i loro resti giacciono ancora nelle profondità dei loro sepolcri – e quindi, molto prima che sia giunta la consumazione dei tempi – essi sono associati alla beatitudine e alla gloria di Gesù Cristo, così come ai giudizi che nel corso dei secoli, Egli esercita sul mondo: et vidi sedes. …et animas decollatorum… et vixerunt et regnaverunt eum Christo mille annis – (Questo, per dirlo di sfuggita, è già sufficiente a distruggere l’errore dei millenaristi, i quali, basandosi su questo passo dell’Apocalisse, dove vediamo dal principio alla fine, regnare con Gesù Cristo, solo le anime, ammettevano prima della resurrezione generale della carne nell’ultimo giorno del mondo una resurrezione anticipata per i martiri, ed un regno visibile di Gesù Cristo con loro per mille anni sulla terra, in una Gerusalemme ricostruita con nuovo splendore, che essi credevano essere la Gerusalemme descritta da San Giovanni nel capitolo XXI; « Papias, un autore molto antico, ma di mente molto piccola, avendo considerato troppo grossolanamente certi discorsi degli Apostoli che i loro discepoli gli avevano riferito, introdusse nella Chiesa quel regno di Gesù Cristo per mille anni in una Gerusalemme terrena magnificamente ricostruita, dove la gloria di Dio avrebbe brillato in modo mirabile, dove Gesù Cristo avrebbe regnato visibilmente con i suoi martiri risorti, dove alla fine tuttavia i santi sarebbero stati attaccati, e i loro nemici consumati dal fuoco del cielo, dopo di che la resurrezione generale e l’ultimo giudizio avrebbero avuto luogo ». Così Bossuet parla di un opinione che Sant’Agostino dalla sua parte, nella sua Città di Dio. libro XX, c, 7, tratta giustamente come un equivoco scritturale, poi trasformato in ridicole favole: De duabus resurrectionibus, dice, Joannes in libro Âpocalynsis, eo modo locutus est, ut earum prima a quibusdam nostris non iniellecta, insuper etiam in quasdam ridicutus fabulas verieretur. Infatti, chiunque legga ciò che i migliori e più rispettabili dei suoi sostenitori hanno scritto, come per esempio Sant’Ireneo (liv. V, c. 33, P, G., t. VII, col. 1213 sqq.), e Lattanzio (liv. VII De divin. Instit. c, 24, 25, 26, P. L., t. vi, col. 808-814) dovrà concordare sull’intera correttezza della censura. Perciò la suddetta opinione non poté resistere a lungo alla critica illuminata, e scomparve così tanto « nella grande luce del quarto secolo » che non se ne vede quasi più traccia. Ma fu riservato ai protestanti del XVII secolo il compito di farla risorgere dalle sue ceneri, e fu l’odio della Chiesa romana che li determinò a farlo. Infatti, poiché nell’Apocalisse, il regno millenario viene dopo il giudizio e l’esecuzione della grande meretrice, che secondo loro non era altro che la Chiesa romana in persona, essi pensavano di fare una cosa meravigliosa resuscitando l’antica favola millenarista, per l’opportunità che dava loro di promettere ai loro aderenti il futuro più luminoso, dopo la caduta del Papato, che annunciavano come prossima. Che i cattolici, dunque, nei quali si è risvegliato ai nostri giorni il gusto per le prodigiose fantasie di Fapias, notino di sfuggita “in quale bottega” (ci si perdoni la parola che la bella lingua di Bossuet non ha ripudiato), sono stati raccolti e rimessi in onore i resti di essa. Inoltre, il millenarismo, comunque lo si spieghi, sia con Papias che con Cerinto, è un grave errore che è apertamente condannato dai dati più formali della Scrittura. Infatti la Scrittura ci insegna: primo, che il cielo debba contenere Gesù Cristo fino all’ultimo giudizio (Atti, III, 21); secondo, che il giorno della seconda venuta e quello della fine del mondo sono uno stesso giorno (Matth, XXIV, 29-31; Marco XIII, 24-26, ecc.); in terzo luogo, che tutti i morti, e specialmente tutti i Santi, tutti i giusti, tutti gli eletti, risorgeranno allo stesso tempo, cioè in novissimo die (Joan, VI, 39, 44, 55), al suono dell’ultima tromba (I Cor, XV, 51), al segnale dato, alla voce dell’Arcangelo, mentre il Signore stesso scende dal cielo (1 Thess., IV, 16), Così che sarebbe più che giusto lasciare agli interpreti protestanti, se ce ne sono rimasti, quei “resti delle opinioni giudaiche”, che la luce della Chiesa ha interamente dissipato negli ultimi sedici secoli.) – Di conseguenza, la prima resurrezione di cui è detto, hæc est resurrectio prima, deve anche essere intesa come una resurrezione che può essere adatta solo alle anime: cioè, la resurrezione che ha avuto inizio con la giustificazione, secondo le parole dell’apostolo agli Efesini: « Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti, e Cristo ti darà la luce », è completata, perfezionata e consumata alla fine di questa vita presente, dall’ingresso nella vita eterna nella visione di Dio. (Sulla resurrezione delle anime, vedi S. Agostino, Città di Dio, lib. XX, c. 10, dove mostra cosa si debba rispondere a coloro che pensano che la resurrezione è detta solo dei corpi, e non possa convenire alle anime). E questa risurrezione è chiamata la prima, perché deve essere seguita, ma solo nell’ultimo giorno del mondo, da una seconda risurrezione, quella della carne, secondo quanto è detto più avanti, nella tavola del giudizio generale che chiude tutta la serie delle predizioni apocalittiche (« La seconda risurrezione, cioè la risurrezione dei corpi che avrà luogo alla fine dei tempi », dice Sant’Agostino, loc. cit. c. 6, in accordo con Apocalisse XX, 12-13, dove si legge … poi vidi un grande trono pieno di luce e Colui che era seduto su di esso… E vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono. E i libri furono aperti, e fu aperto un altro libro, che è il libro della vita; e i morti furono giudicati secondo ciò che era scritto nei libri, secondo le loro opere. Il mare consegnò i suoi morti, la morte e l’inferno consegnarono i loro, e furono giudicati ciascuno secondo le proprie opere.). Per di più, i mille anni che il regno dei Santi deve durare prima che i loro corpi siano ripresi, non devono essere considerati come un numero preciso e determinato di anni. No – dice Sant’Agostino – il numero di mille è usato qui per esprimere la totalità del tempo che deve passare fino alla fine dei secoli, ed è preso nello stesso senso riportato in quel luogo del Salmo CIV, versetto 8, dove si dice che Dio si ricorda eternamente della sua alleanza e della parola che ha dato « per mille generazioni »; cioè, senza difficoltà, per tutte le generazioni che si succederanno nel futuro (Sant’Agostino, loc. cit., c., 7, n. 2). Se, infine, la prima risurrezione è particolarmente attribuita ai martiri, la ragione è, come osserva sempre Sant’Agostino, che i martiri che hanno combattuto per la verità fino allo spargimento del loro sangue ne hanno naturalmente la parte principale. Ma secondo la figura retorica che consiste nel prendere la parte, specialmente la parte più eccellente e riconosciuta, per il tutto, dobbiamo senza dubbio intendere nella persona dei martiri, l’universalità dei morti che la voce che scende dal cielo designava poco più sopra (XIV, 13), come « morenti nel Signore » (S. Agostino, loc. cit., c. 9, n, 2). Tutti, infatti, appartengono ugualmente a Cristo; tutti sono diventati la sua eredità e il suo regno per sempre; tutti anche, e allo stesso modo, sono separati dai caeteri mortuorum del versetto 5: i quali, esclusi dalla prima risurrezione, saranno di conseguenza esclusi anche dalla seconda, essendo la risurrezione dell’ultimo giorno per loro solo una risurrezione di condanna, aggiungendo la dannazione del corpo a quella dell’anima, e gettando così l’intero uomo in quella che qui è giustamente chiamata la seconda morte (Come la prima risurrezione è quella in cui i Santi sono glorificati nell’anima, e la seconda quella in cui sono glorificati sia nel corpo che nell’anima; così la prima morte è quella in cui le anime sono sepolte con il “malvagio ricco” nell’inferno, e la seconda, quella che seguirà la risurrezione, in cui l’uomo intero, in corpo e anima, andrà, come è detto in San Matteo, XXV, 46, al tormento eterno). – Perciò San Giovanni, dopo aver detto: « Beato e santo colui che partecipa alla prima risurrezione », aggiunge immediatamente: « La seconda morte non avrà alcun effetto su  di loro »: La seconda morte non avrà alcun potere su di loro, implicando che si sfugge alla seconda morte, che non è altro che la morte consumata ed eterna, solo a condizione di aver partecipato alla prima risurrezione, e che di conseguenza i partecipanti alla suddetta risurrezione sono tutti i giusti, tutti gli eletti di Dio, in quanto, avendo completato il loro cammino, entrano nella loro eternità – (In questa descrizione della prima risurrezione, si fa sempre astrazione dai ritardi che possono essere richiesti dalle espiazioni del purgatorio, per due ragioni principali: la prima è che sono i martiri l’obiettivo principale del testo di San Giovanni, e che solo loro sono esplicitamente designati in esso; ma per i martiri non si può parlare di purgatorio. La seconda è che la prima risurrezione deve essere considerata qui, non secondo le condizioni accidentali, contingenti, infinitamente variabili di persone particolari, ma solo secondo la regola stabilita dalla volontà antecedente di Dio, che afferma che dopo la consumazione della nostra redenzione mediante la passione di Gesù Cristo, le anime dei Giusti, sono ammesse alla vita eterna subito dopo la fuoriuscita dal corpo, salvo impedimento da parte loro, cosa che significa che è in questo momento che deve essere considerato, come tesi assoluta nel Nuovo Testamento, l’ingresso dei Santi nella beatitudine qualunque possano essere sia i ritardi più o meno lunghi imposti in casi particolari, per colpe che non sono state sufficientemente espiate nella vita presente da degni frutti di penitenza). – Perciò San Giovanni, dopo aver detto: « Beato e santo colui che partecipa alla prima risurrezione », aggiunge immediatamente: « La seconda morte non avrà alcun effetto su  di loro »: La seconda morte non avrà alcun potere su di loro, implicando che si sfugge alla seconda morte, che non è altro che la morte consumata ed eterna, solo a condizione di aver partecipato alla prima risurrezione, e che di conseguenza i partecipanti alla suddetta risurrezione sono tutti i giusti, tutti gli eletti di Dio, in quanto, avendo completato il loro cammino, entrano nella loro eternità – (In questa descrizione della prima risurrezione, si fa sempre astrazione dai ritardi che possono essere richiesti dalle espiazioni del purgatorio, per due ragioni principali: la prima è che sono i martiri l’obiettivo principale del testo di San Giovanni, e che solo loro sono esplicitamente designati in esso; ma per i martiri non si può parlare di purgatorio. La seconda è che la prima risurrezione deve essere considerata qui, non secondo le condizioni accidentali, contingenti, infinitamente variabili di persone particolari, ma solo secondo la regola stabilita dalla volontà antecedente di Dio, che afferma che dopo la consumazione della nostra redenzione mediante la passione di Gesù Cristo, le anime dei Giusti, sono ammesse alla vita eterna subito dopo la fuoriuscita dal corpo, salvo impedimento da parte loro, cosa che significa che è in questo momento che deve essere considerato,, come tesi assoluta nel Nuovo Testamento, l’ingresso dei santi nella beatitudine qualunque possano essere sia i ritardi più o meno lunghi imposti in casi particolari, per colpe che non sono state sufficientemente espiate nella vita presente da degni frutti di penitenza). – Questo, dunque, è ciò che l’Apocalisse ci insegna su questa fase di transizione in cui i Santi, e specialmente i martiri, morendo sulla terra, inizieranno prima una nuova vita in cielo come anime benedette. Qui abbiamo sollevato un angolo del velo che nascondeva le condizioni misteriose della loro esistenza postuma da questo momento fino alla resurrezione finale. Non si ragiona, dunque, come se non ci fosse altra venuta di Gesù con la sua ricompensa se non quella che avverrà nella gloria e maestà alla consumazione dei tempi, o come se fosse di questa venuta che la parola contestata sarebbe necessariamente da intendere: « Ecco, io vengo presto, e la mia ricompensa è con me, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. » Ma no! L’Apocalisse suppone una prima venuta di Gesù, segreta e invisibile, per il giudizio e la ricompensa delle anime secondo i meriti delle loro opere, appena lasciano il corpo. Il quadro che abbiamo appena visto, in cui i Santi sono già ammessi da Gesù a condividere il suo regno, già accolti per sedere sul suo trono, già messi in possesso della beatitudine celeste, testimonia apertamente questo, salvo il complemento finale della resurrezione del corpo ed una certa gloria accidentale, riservata all’ultimo giorno. Hæc est resurrectio prima. Questa è la prima resurrezione mostrata a San Giovanni nella famosa visione del regno dei mille anni.

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Ma questo non è l’unico posto nell’Apocalisse dove viene menzionata questa prima venuta di Gesù con la sua ricompensa. All’inizio del libro, tra gli avvertimenti che San Giovanni riceve l’ordine di scrivere alle chiese, Gesù dice all’Angelo della chiesa di Smirne, in previsione della persecuzione che doveva venire (II, 10): « Sii fedele fino alla morte, e senza indugio, appena sarà giunta la fine della tua prova, ti darò la corona della vita. » Dice ancora, poche righe più giù, nel passo parallelo dell’epistola alla chiesa di Tiatira (II, 26-28): « A colui che conserva le mie opere fino alla fine, io darò la stella del mattino. » E cos’è la stella del mattino? Apparentemente, la beatitudine della gloria eterna, anche se non ancora nella sua pienezza, dove sarebbe paragonata al sole di mezzogiorno, ma nella sua fase iniziale, e per così dire, mattutina, cioè prima del giudizio generale e dell’ultima risurrezione. E questa beatitudine iniziale prima del giudizio generale e della risurrezione finale, propria delle anime ancora separate dai loro corpi, San Giovanni non si stanca di portarla alla nostra attenzione. – Vi ritorna costantemente, e in così tanti modi diversi, che dobbiamo vedere in esso uno dei punti più salienti di questo libro divino dell’Apocalisse, e uno dei suoi tratti più caratteristici. Vi ritorna in particolare nel capitolo VI, ai versetti 9-11, dove ci si presentano le anime (e si noti che sono sempre anime), le anime dei martiri, animas interfectorum, alle quali, in attesa che sia fatta giustizia ai loro persecutori, vengono date vesti bianche, simbolo della gloria che già godono in cielo. «Vidi – dice – sotto l’altare le anime di coloro che erano stati sacrificati per la parola di Dio e per rendergli testimonianza…, e a ciascuno di loro fu data una veste bianca, dicendo loro che aspettassero il resto, finché fosse completato il numero di coloro che servivano Dio come loro, ed il numero dei loro fratelli che dovevano soffrire la morte come loro. » Vi ritorna di nuovo nel capitolo successivo (VII, 9-17), dove ci mostra questi … stessi martiri con le loro vesti bianche e le palme in mano, in piedi davanti al trono di Dio, servendolo giorno e notte nel suo tempio, senza più fame, sete o alcun tipo di disagio, perché l’Agnello che è in mezzo al trono sarà il loro pastore, e li condurrà alle fonti delle acque vive, e Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. – Torna su questo, e ancora più espressamente, ancora nel capitolo XIV, dove ci fa sentire la voce che lui stesso ha sentito, la voce dal cielo che dice: « Beati i morti che muoiono nel Signore: d’ora in poi, dice lo Spirito, si riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono. Amodo jam dicit Spiritus ut requiescant et laboribus suis. D’ora in poi, dice, come per combattere formalmente e direttamente l’idea che Gesù sarebbe venuto con la sua ricompensa solo alla fine dei secoli. No, no! amodo: già da ora, da subito dopo la morte, dal giudizio particolare: che già giustifica ampiamente la venio cito, venio velociter, dell’ultima pagina del libro, pur lasciando, come si vede, il campo assolutamente libero a tutte le ipotesi possibili circa il tempo dell’arrivo in gloria e maestà sulle nuvole del cielo, per la chiusura dei tempi e la resurrezione generale dei morti, per la solennità delle grandi assise dell’umanità, per il giudizio pubblico del mondo, per la consumazione finale dei castighi e delle ricompense, in breve … per il completamento ed il regolamento finale di tutte le cose e gli affari di quaggiù. Questo è detto senza pregiudicare un altro significato, dove il venio cito si riferirebbe anche all’ultima venuta che realizzerà, con l’ultimo giudizio, il rinnovamento universale del cielo e della terra di cui parla San Pietro nella sua seconda epistola c. III, 10-13. (Ma in questo caso, il termine cito sarebbe preso, ovviamente, non in relazione alla durata degli individui, ma alla durata totale del mondo dalle sue prime origini. E anche per questo motivo, si troverà facilmente che mille anni sono come un giorno). Questo, se non ci sbagliamo, è molto più di quanto sia necessario per mostrare quanto infondate, quanto contrarie ai dati più solidi della Scrittura, siano le famose posizioni dei modernisti sulla parusia, la pietra angolare di tutto il loro sistema di interpretazione del Vangelo. Questo era quello che volevamo dimostrare. E se, concludiamo con l’autore del secondo libro dei Maccabei, la presentazione degli argomenti è stata ciò che serviva per generare convinzione nella mente del popolo, avremo raggiunto lo scopo dei nostri sforzi. Se, invece, essa è rimasto imperfetta e difettosa, possiamo solo incolpare l’inabilità del dimostrante.

F I N E

LA PARUSIA (9)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (9)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE – Rue de Rennes, 117 – 1920

ARTICOLO NONO

LA PARUSIA NELL’APOCALYPSE. IL VERO SOGGETTO DELLA GRANDE PROFEZIA DEL NUOVO TESTAMENTO

“Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi servi le cose che devono presto accadere, e che egli manifestò inviando il suo angelo al suo servo Giovanni. Questi attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto. Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e mettono in pratica le cose che vi sono scritte. Perché il tempo è vicino”. È così che inizia l’Apocalisse. (I; 1-3). Ed ecco come termina (XXII, 5-20): « Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo Angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve. Ecco, io verrò presto e la mia retribuzione è con me per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io, Gesù, ho mandato il mio Angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese … Si, Io verrò presto, Amen: Venite Signore Gesù. » Come possiamo vedere, la dichiarazione della fine è solo una ripetizione di quella fatta all’inizio. E questa dichiarazione, che apre e chiude l’Apocalisse, che la inquadra nella sua totalità e abbraccia tutto il suo contenuto, che è la prima e l’ultima parola, l’alfa e l’omega, si presenta così come qualcosa di primaria importanza nell’economia del libro. Questa non è una caratteristica accidentale che può essere trascurata e messa da parte, un dettaglio aggiunto incidentalmente, un accessorio infine, senza connessione con l’argomento principale. Al contrario, essa è un punto essenziale tra tutti gli altri, che si riferisce a tutta la rivelazione che San Giovanni, attraverso il ministero dell’Angelo, ha ricevuto da Gesù Cristo: in cui, di conseguenza, siamo costretti a vedere un’indicazione data sul significato generale della profezia, una luce gettata sulle sue oscurità, e una chiave che dovrebbe servire ad aprirne gli arcani. D’altra parte, sono da rilevare due affermazioni molto chiare e categoriche: la prima è che gli eventi oggetto delle predizioni apocalittiche dovevano accadere presto, quæ oportet fieri cito; la seconda è che anche Gesù sarebbe venuto presto, portando con sé la sua ricompensa, per rendere a ciascuno secondo le sue azioni, (ecce venio cito, et merces mecum est reddere uninique secundum opéra sua). E queste due affermazioni, considerate soprattutto come completantesi ed illuminantesi l’un l’altra, sembreranno senza dubbio a molti giustificare le idee moderniste sull’annuncio, negli scritti del Nuovo Testamento, di una parusia molto prossima. Infatti, non dobbiamo pensare di discutere qui il significato della parola “presto” (ταχύ, ἐν τάχει – taku, en takei), che deve ovviamente essere presa nel suo senso ovvio e naturale, senza che ci sia motivo di appellarsi, per uscire dalla difficoltà, alle parole di San Pietro, che dice che “per il Signore, un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno”. Perché una cosa è stimare il tempo in relazione all’eternità di Dio, un’altra è valutarlo in relazione a noi altri che siamo soggetti ad esso. È abbastanza comprensibile che quando si parla di Dio, si dica che davanti a Lui, e in relazione all’eternità che gli è sempre presente, tutto è breve. Ma quello che certamente non capiremmo più è che Dio, parlando con noi, usasse la stessa misura, una misura che, riassumendo tutti i tempi allo stesso modo, eliminerebbe anche tutte le differenze; e se, per indicarci gli eventi che devono avvenire, per esempio, tra mille, diecimila, centomila anni da ora, ci assicurasse di arrivare presto, e che il tempo sia vicino. Molto meno capiremmo se insistesse sulla prossima data degli eventi annunciati, con quel lusso di espressioni che si notano negli ultimi versi dell’ultimo capitolo, dove la vicinanza è confermata, assicurata, inculcata una dopo l’altra, in tutti i modi possibili, fino a cinque volte consecutive: quæ oportet fieri cito (versetto, 6) ed ecce venio velociter (versetto 7); tempus prope est (versetto 10); ecce venio cito (versetto 12); etiam, venio cito (versetto 20). Abbiamo bisogno di altro? Bene, qui c’è ancora di più. Infatti, mentre a Daniele fu detto, quando ricevette l’annuncio profetico della persecuzione di Antioco, che era essa stessa il tipo e come l’abbozzo della suprema persecuzione dell’anticristo: Sigillate la profezia, perché il tempo è lontano (Dan., VIII, 26, confrontare con XII, 4, 9);  ora, al contrario, è detto a San Giovanni (Apoc, XII, 10): Non sigillate le parole della profezia di questo libro, come se questo libro dovesse rimanere chiuso per molto tempo. E la ragione di ciò gli viene subito data: perché il tempo in cui deve venire l’adempimento delle predizioni in esso contenute, è vicino … tempus enim prope est. Questo implicava, nel modo più formale e ovvio, che se le cose rivelate a Daniele gli erano state annunciate in un futuro lontano, non era così per quelle rivelate a San Giovanni, che avrebbero cominciato a svolgersi immediatamente dopo di lui. Ecco, dunque i due punti su cui si basa tutta la difficoltà dell’Apocalisse, e che dobbiamo ancora chiarire in questi ultimi articoli: primo, l’annuncio del prossimo compimento delle predizioni apocalittiche; secondo, l’annuncio della venuta di Gesù per rendere a ciascuno secondo le sue opere. E poiché entrambi questi punti richiedono una spiegazione separata, li esamineremo separatamente, uno dopo l’altro, cominciando dal primo, che è anche il principale, mentre il secondo ha bisogno solo dei principi precedentemente enunciati per essere illuminato, i quali, come vedremo, troveranno, nell’Apocalisse stessa. una nuova, formale e definitiva consacrazione.

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Tra i pregiudizi sui libri della Sacra Scrittura, non ce n’è uno più diffuso di quello che ritiene che l’Apocalisse sia, o esclusivamente, o almeno nella sua parte principale, la profezia della fine dei tempi, dei suoi precursori, degli eventi che la precederanno, delle catastrofi che la annunceranno. Infatti, chiedete alla maggior parte di coloro che si interessano di questioni religiose, e che ne hanno qualche conoscenza, e con pochissime eccezioni, vi diranno che, prima di tutto, l’Apocalisse è un libro sibillino che non si dovrebbe nemmeno tentare di decifrare, poiché tutti coloro che hanno tentato di farlo hanno fallito miseramente; che, inoltre, se la comprensione di esso è forse riservata al futuro, per il momento almeno, solo una cosa si sa vagamente di esso: Che sono predizioni riguardanti l’Anticristo, le ultime lotte della Chiesa, la persecuzione suprema, la venuta di Enoch ed Elia, l’apparizione del Giudice dei vivi e dei morti, le assise generali dell’umanità, con le pene e le ricompense eterne che seguiranno. Ma quanto strana, quanto incredibile, quanto soprattutto paradossale, apparirebbe loro l’opinione di chi, sostenuto anche dalla grande autorità di Bossuet, tenterebbe timidamente di sostenere che la parte dell’Apocalisse direttamente e immediatamente rivolta agli ultimi giorni, occupa nel libro il posto di soli dieci versetti, esattamente gli ultimi nove del capitolo XX! Sicuramente, come a San Paolo che pronunciava nell’Areopago la parola della resurrezione dei morti, gli sarebbe stato detto di tornare per farsi sentire un’altra volta, tanto grande e considerevole è il potere del pregiudizio comunemente ricevuto. Ora, la scuola modernista non poteva non sottolineare questo pregiudizio nella questione della parusia, e cercare in esso una base di argomentazione molto sicura. E infatti, è così se fosse vero che la fine del mondo è l’oggetto, o l’unico o almeno il principale, delle predizioni dell’Apocalisse; se invece, come abbiamo chiaramente dimostrato sopra, queste stesse predizioni vi sono state indiscutibilmente date come prossime a realizzarsi, ne consegue strettamente che, secondo le nostre Scritture, il mondo, al tempo di mondo, al tempo delle visioni di Patmos, era alla vigilia della sua fine e la grande rivelazione di Cristo stava per avere luogo. Così tutta la questione attuale si riduce ad un punto un punto: qual è il vero oggetto delle previsioni apocalittiche? È la fine del mondo? Allora non ci resta che chinare il capo e pronunciare la sentenza. È, al contrario, qualcos’altro? Allora la difficoltà crolla, come crolla un edificio quando crolla la sua base. La questione merita quindi di essere esaminata da vicino, e per circoscrivere meglio il campo su cui la discussione deve concentrarsi, cominciamo con un rapido sguardo sul piano e alla divisione della grande profezia del Nuovo Testamento.  – Come osserva Bossuet all’inizio del suo ammirevole commento, le funzioni del ministero profetico si riducono a tre principali, la prima delle quali era di rimproverare, ammonire ed esortare; la seconda, di predire e annunciare il futuro; la terza, di confortare e incoraggiare con la promessa delle ricompense. Quindi non cerchiamo altrove il piano e l’ordine dell’Apocalisse, questa incomparabile profezia, il culmine e il coronamento di tutta l’opera degli antichi profeti. E infatti, dopo il capitolo I, che occupa il posto di un prologo o di una prefazione, troviamo gli avvertimenti e le esortazioni. Questi riempiono i capitoli II e III, dove San Giovanni è incaricato di inviare ai sette Vescovi dell’Asia i rimproveri o gli elogi che le loro chiese meritavano, con le raccomandazioni appropriate alle condizioni di ciascuna di esse. Poi vengono in secondo luogo le predizioni, che sono di gran lunga la parte più considerevole dell’opera, e vanno dal capitolo IV al capitolo XX compreso. Tutti questi sono tratti da quel libro del futuro, chiuso e sigillato, che nessuno poteva aprire o guardare, ma che, quando fu dato nelle mani dell’Agnello per rompere i suoi sigilli (V, vv. 1-1.0), lasciò fuoriuscire i suoi misteriosi segreti. Infine, ecco, in terzo luogo, le promesse della felicità futura, di cui ci viene data un’immagine deliziosa negli ultimi due capitoli XXI e XXII, dove la Gerusalemme celeste appare « tutta bella e perfetta nella riunione di tutti i Santi, e la perfetta assemblea di tutto il Corpo mistico di Gesù Cristo ». Tale, dico, è la divisione molto naturale dell’Apocalisse, e si vedrà subito, da questa rapida esposizione, che non è né la prima né la terza parte, ma solo la seconda, quella delle predizioni, che è ora in questione. Bisognerà eliminare i capitoli iv e v, che non sono che un preludio dedicato a rappresentare la scena della visione, e a descrivere l’apparato della scena in cui l’Agnello, il protagonista divino, riceve dalle mani di colui che era seduto sul trono il libro misterioso, i cui sigilli stava per sciogliere. Così, alla fine, la serie di oracoli riguardanti gli eventi a venire inizia esattamente con il sesto capitolo, e termina definitivamente con il ventesimo. È dunque sui quindici capitoli inclusi e compresi in questi due termini estremi, che riguarda la questione posta sopra; voglio dire la questione di sapere se è vero, sì o no, che, secondo il pregiudizio volgare, le predizioni apocalittiche sono direttamente rivolte, o nella loro totalità, o nella loro parte maggiore e principale, alla catastrofe suprema e agli eventi precedenti. A questo rispondiamo senza esitazione con una negazione assoluta, che sarà giustificata, se non ci sbagliamo, dalle molte ragioni che saranno proposte alla considerazione e alla riflessione del lettore.

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E prima di tutto un’osservazione preliminare. Se mai c’è stata una profezia che, secondo i principi spiegati all’inizio di questo studio, possa essere ben compresa solo a posteriori, cioè alla luce dei fatti compiuti (almeno nella sua totalità e nella connessione delle sue varie parti), questa deve essere, prima di tutte le altre, quella dell’Apocalisse. Questo è evidente dal modo in cui è scritta, dallo stile enigmatico con cui essa è scritta, dai simboli, dalle immagini e dalle metafore che sono interamente sui generis, e con cui è avvolta e velata dal principio alla fine: in breve, da tutto ciò che fece dire a San Girolamo … che essa conteneva tanti misteri quante erano parole, tot sacramenta quot verba. E non ci sarebbe già qualcosa per escludere a priori l’ipotesi di un’Apocalisse che abbia per unico, o almeno principale oggetto, ciò che doveva accadere solo quando il mondo fosse giunto al punto stesso di finire? Perché, ci si chiede subito, quale utilità avrebbe potuto avere allora … ugualmente nessuna, come sembrerebbe, sia che ci collochiamo prima o dopo l’evento: se ci si colloca dopo, infatti, in tale ipotesi, il tempo successivo sarebbe solo quello della vita futura, per la quale non sono fatte, ovviamente, le profezie; ed ugualmente se ci mettiamo innanzi, poiché non sembra che, senza il filo conduttore dei fatti compiuti, arriveremo mai ad un’interpretazione, non dico congetturale e fantasiosa, di cui non sappiamo cosa farcene, ma certa e autentica, di tante figure misteriose che formano un labirinto ancora più complicato, e più oscuro di quello da cui Arianna tempo addietro, diede a Teseo il mezzo per uscire. – Inoltre, non è questa l’unica ragione dell’idea così generalmente diffusa, alla quale abbiamo accennato sopra? Dico di questa idea che ritiene l’Apocalisse una logografia incomprensibile e indecifrabile, per non dire altro, una specie di rebus che può servire tutt’al più ad esercitare l’immaginazione degli oziosi, i quali, non avendo nulla da fare nel mondo finché dura, pretendono almeno di insegnargli quando e come finirà: creatori chimerici di interpretazioni ancora più chimeriche. Ma ora chiedo a tutti coloro che credono nell’ispirazione delle nostre sacre Scritture: è possibile che questa fosse la vera e reale condizione di un libro di cui Dio stesso era l’autore, e che ha dato, come tutti gli altri, alla sua Chiesa come mezzo per insegnare, convincere, correggere e istruire, secondo le parole di San Paolo a Timoteo: Omnis scriptura utilis ad docendum, ad arguendum, ad erudiendum in justitia? Certamente, porre la questione in questi termini è già risolverla, e immagino che coloro che parlano dell’incomprensibilità senza speranza dell’Apocalisse, difficilmente potranno fare a meno di vedere qui tutto ciò che l’ipotesi conterrebbe di non plausibile, o meglio, inammissibile. Che questa sia la prima indicazione che essi possono sbagliarsi sul vero oggetto della profezia di San Giovanni, e che la collocano molto male in un futuro dove i fatti della storia non dovrebbero mai servire a trovare il filo di tanti oracoli, la maggior parte dei quali sono così disparati e oscuri, e dove non ci sarebbe spazio per nient’altro che interpretazioni oziose, appoggiate su nessun fondamento oggettivo fermo e sicuro. Ma, ripeto, questa è solo un’osservazione preliminare, e sarà valida solo, se si vuole, contro gli avversari, come pura e semplice presunzione. Veniamo ora ad argomenti più attuali, e cominciamo a stabilirne la base, quella base solida che, come è stato appena detto, mancherà sempre a chiunque si lanci nell’esegesi apocalittica sulla base del solo testo, indipendentemente da qualsiasi direzione o informazione tratta dalle fonti della storia.

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Se ripercorriamo i grandi eventi della storia dai tempi di San Giovanni a Patmos fino ai nostri tempi moderni, non ne troveremo certamente nessuno che eguagli in importanza e portata il crollo dell’Impero Romano, sotto i colpi duplici dei Barbari all’inizio del quinto secolo, e della decomposizione che, seguitane, portò infine, contro ogni aspettativa, alla formazione dei vari regni della cristianità, emersi uno dopo l’altro da questo immenso caos. Sia che si prenda il punto di vista dello storico, sia che si risalga con il teologo alle ragioni ultime delle cose, da entrambe le parti si arriva alla stessa conclusione, quella di un evento assolutamente ineguagliabile. Per lo storico, sarà la scomparsa definitiva della civiltà antica, che lascia il posto ad una civiltà completamente nuova, cioè ad uno stato sociale regolato d’ora in poi secondo i principi e le leggi del Vangelo. Per il teologo, sarà la sorprendente realizzazione delle linee principali del del piano divino, così a lungo segnato nelle antiche profezie, e specialmente in quella di Daniele, sulla successione degli imperi, quando il colosso che era apparso in sogno a Nabucodonosor, “fu ridotto alla polvere sottile che il vento estivo porta via“, e « la pietra che aveva colpito la statua divenne una grande montagna, e riempì tutta la terra. » Ebbene, è questo fatto, immenso, il più vasto, il più fecondo della storia, che, alla luce della storia stessa, la troveremo predetta nell’Apocalisse, e con tale chiarezza, tale abbondanza di prove, tale precisione di dettagli, che sarà impossibile per il più cieco non riconoscerla. È l’evento “maestro” che occupa il posto principale nella profezia di San Giovanni, che ne dà anche la chiave, ne indica il significato, e dal punto centrale in cui è collocato, getta luce su tutto il seguito, in modo sufficiente, almeno, che nessun dubbio possa rimanere sul vero e proprio oggetto delle predizioni apocalittiche. – Apriamo dunque questa misteriosa Apocalisse nei capitoli XVII e XVIII, che sono precisamente il punto centrale da cui abbiamo detto che la luce deve venire, e vediamo lì, in primissimo luogo, presentata sotto il nome mistico di Babilonia, Roma imperiale, la Roma dea della terra e delle nazioni, la madre dell’idolatria e la persecutrice dei santi. Siamo nel punto della visione in cui sette angeli hanno appena ricevuto sette coppe piene dell’ira di Dio, con l’ordine di versarle sulla terra (XVI, 1). Dio si è ricordato della grande Babilonia, che ha fatto bere a tutti i popoli il vino del furore della sua prostituzione (XVI, 8), e ora le darà da bere il vino dello sdegno della sua ira (XVI, 19). È allora che uno dei sette Angeli si avvicina a San Giovanni e gli dice (XVII, 1 sqq.): Vieni, ti mostrerò la condanna della grande prostituta che siede sulle grandi acque, con la quale si sono corrotti i re della terra… E vidi – continua San Giovanni – una donna seduta su una bestia di colore scarlatto, piena di nomi blasfemi, che aveva sette teste e dieci corna. E la donna era vestita di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle, e aveva in mano un vaso d’oro pieno dell’abominio e dell’impurità della sua fornicazione. E questo nome era scritto sulla sua fronte: Mistero: la grande Babilonia, la madre della fornicazione e delle abominazioni della terra. E vidi la donna inebriata del sangue dei Santi e del sangue dei martiri di Gesù… Allora l’Angelo mi disse: Ti svelerò il mistero della donna e della bestia che la porta, che ha sette teste e dieci corna… Le sette teste sono sette montagne (o colline) su cui la donna siede… E la donna che hai visto è la grande città che regna sui re della terra. Certamente, ecco ciò che sembrerebbe non dare adito ad equivoci, poiché in caratteristiche così marcate, chi non riconoscerebbe nella mistica Babilonia, la cui immagine ci viene qui presentata, la Roma del paganesimo? San Giovanni, osserva Bossuet nella sua prefazione, le dà due caratteri che non permettono di disconoscerla. Perché in primo luogo (XVII, versetto 9), è la città dei sette colli (una caratteristica topografica universalmente accettata come caratteristica di Roma); e in secondo luogo (versetto 18), è la grande città che comanda tutti i re della terra (un altro carattere, di natura politica, che al tempo di San Giovanni era ancora più evidente, e più certo). Se essa è rappresentata anche sotto la figura di una prostituta (verso 1), riconosciamo lo stile ordinario della Scrittura, che contrassegna l’idolatria con la prostituzione. Se si dice di questa superba città fosse la madre delle impurità e delle abominazioni della terra (verso 5), è il culto dei suoi falsi dei, che ha cercato di stabilire con tutta la potenza del suo impero, ad esserne la causa. La porpora di cui appare vestita (versetto) era il distintivo dei suoi imperatori e magistrati; l’oro e i gioielli di cui è ricoperta (ibid.) mostrano la sua immensa ricchezza. La parola Mistero che porta scritta sulla sua fronte (versetto 5), non ci indica nulla di più che gli empi misteri del paganesimo, di cui si era fatta la protettrice. Gli altri segni della bestia e della prostituta che essa porta sono visibilmente della stessa natura, e San Giovanni ci mostra molto chiaramente le persecuzioni che ha fatto subire alla Chiesa, quando dice che era ubriaca del sangue dei martiri di Gesù (versetto 6). » È quindi un enigma molto facile da decifrare, Roma sotto la figura di Babilonia (versetto 5). E sarà molto più facile ancora, quando si considererà che già da tempo si era stabilito nella Chiesa l’uso di riferirsi all’una con il nome dell’altra, come è perentoriamente provato dal noto passaggio di San Pietro nella sua prima Epistola: La Chiesa che è in Babilonia, cioè a Roma, ti saluta (l Petr., V, 13). Così vediamo i medesimi interpreti razionalisti, ed i più inflessibili, arrendersi a tanti segni così convergenti e così precisi; li vediamo, dico, presi in questo ambito, come per la gola, e costretti a pronunciare questo nome di Roma, che, se posso dirlo, dovrebbe strangolarli, perché equivale al riconoscimento di una delle profezie più splendide e sorprendenti dei nostri libri sacri. Infatti, qui, prima di tutto, la descrizione della grande Babilonia è seguita in San Giovanni dalla predizione del suo castigo e della sua caduta, che si è poi verificata di fronte all’universo. Questo è il soggetto del capitolo XVIII, dove troviamo i primi grandi tratti della profezia in questione e questo quando l’impero era nella sua piena fioritura, e non mostrava ancora alcun segno di decadenza, ma al contrario, la credenza nella sua perennità era così saldamente radicata nella mente degli uomini, che sia i Cristiani che i pagani, come vedremo in seguito, non le assegnavano meno che la durata del mondo: proprio allora, più di tre secoli prima dell’evento, fu rivelato a San Giovanni, e tramite lui alla Chiesa, che il colosso sarebbe caduto. – Poi, a Patmos, fu dipinto il quadro di ciò che realmente accadde sotto Alarico, quando, assediata, presa, saccheggiata, devastata dal ferro e dal fuoco, l’antica Roma ricevette il colpo fatale dal quale non si sarebbe più rialzata, e, come leggiamo in tutti gli autori contemporanei, San Girolamo, Sant’Agostino, Paolo Orose e tanti altri, il mondo intero fu terrorizzato alla vista della sua desolazione. Dopo questo – continua San Giovanni – vidi un altro Angelo che scendeva dal cielo con grande potenza. E gridò con tutta la sua forza, dicendo: La grande Babilonia è caduta, è caduta ed è diventata una dimora di demoni, una dimora di ogni spirito immondo, una dimora di ogni uccello immondo e ripugnante… E udii un’altra voce dal cielo, che diceva: “Uscite da Babilonia, popolo mio, cosicché non siate partecipi dei suoi peccati e non siate avvolti dalla sua calamità… E i re della terra, che si sono corrotti con essa, piangeranno su di lei e si batteranno il petto quando vedranno il fumo del suo incendio. Ed essi le staranno lontani, dicendo: Guai! Guai! Babilonia, grande città, potente città, la tua condanna è giunta in questo momento. E i mercanti della terra piangeranno e si lamenteranno per lei, perché nessuno comprerà più la loro merce, queste mercanzie d’oro e d’argento, di gioielli e di perle, di lino fine, di porpora, di seta, di scarlatto ed ogni sorta di legno profumato, e mobili d’avorio, di ottone, di ferro, di marmo, di cannella, di profumi, d’incenso, di vino, d’olio, di fior di farina, di frumento, di bestie da soma, di cavalli e di carri, schiavi, e di anime di uomini… Allora un Angelo forte alzò una pietra come una grande macina e la gettò nel mare, dicendo: “Babilonia, la grande città, sarà precipitata … E in quella città fu trovato il sangue dei profeti e dei Santi e di tutti quelli che furono uccisi sulla terra. Questo è l’annuncio profetico che fu ripreso trecento anni dopo dalle parole di San Girolamo, il quale, ricevendo a Betlemme la fulminante notizia dell’immenso disastro, scrisse che « la lucedell’universo si era spenta, la testa dell’impero romano tagliata, o, per parlare più precisamente, l’intero universo rovesciato in una sola città (Lib. 1 in Ezech., Proœm. 1) ».

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Ma questo non è ancora il punto forte della profezia; né, si noti, è il punto forte della nostra dimostrazione. Inoltre, non ignoriamo che, per quanto precisi siano i caratteri che ci sono appena serviti ad identificare la Babilonia apocalittica, e di conseguenza a riconoscere, nell’annuncio della sua rovina, l’annuncio del grande evento che ha segnato nella storia gli inizi del Medioevo, non mancano menti più esigenti, alle quali non possono ancora bastare i nostri precedenti argomenti, e che vogliono vedere nella detta Babilonia, piuttosto che la Roma dei Cesari, un’entità collettiva e morale senza alcuna particolare determinazione, come sarebbe la società anticristiana in generale, altrimenti detta « la città degli uomini contrapposta alla città di Dio », il cui definitivo rovesciamento non è che da attendersi se non solo alla fine dei tempi. Ecco perché ora dobbiamo andare oltre, e portare alla luce il luogo della profezia fatto per forzare la convinzione dei più ostinati, e allontanare i rimasugli delle loro esitazioni: il luogo, dico, dove le cose sono così determinate, talmente particolarizzate, talmente circostanziate, più che il nome stesso dell’antica Roma, e ove in tutte le sue lettere vi si vedrebbe scritto che non vi potrebbe essere un’indicazione più chiara, né un’informazione più sicura. Questo luogo è quello che si interpone tra i due passaggi riportati sopra, e che, seguendo la descrizione della grande prostituta, o Babilonia mistica, precede e prepara il quadro già presentato del suo rovesciamento e della sua caduta. – Un Angelo spiega a San Giovanni (XVII, 7) il mistero della prostituta e della bestia con sette teste e dieci corna su cui essa siede: simboli entrambi – come il contesto chiarisce – di una stessa cosa, che diciamo essere la Roma idolatra ed il suo impero (« … la bestia e la donna – osserva Bossuet nel commento al capitolo XVII – sono fondamentalmente una stessa cosa… Ecco perché la bestia è rappresentata come colei che ha sette colli (versetto 9), e la donna è la grande città che domina sui re della terra (versetto 18). L’una e l’altra è dunque Roma, ma la donna è più adatta a marcare la prostituzione, che è nelle Scritture il carattere dell’idolatria. » A questo possiamo aggiungere che ogni volta che appare nell’Apocalisse una figura cavalcante, il cavalcato e la figura insieme rappresentano la stessa cosa; come per esempio nel capitolo VI, il cavallo rosso, il cavallo nero ed il cavallo pallido, ciascuno con colui che lo cavalca, rappresentano rispettivamente la guerra, la carestia e la pestilenza. E nello stesso capitolo VI, come più avanti nel capitolo XIX, il cavallo bianco con il suo cavaliere rappresenta un oggetto unico, che è Gesù Cristo vittorioso. Unico quindi sarà anche l’oggetto del mistero della donna e della bestia su cui è seduta). Nella spiegazione che dà, l’Angelo istruttore  passa in rassegna successivamente le varie parti della misteriosa figura, e finalmente fermandosi sulle dieci corna della bestia, continua: « Le dieci corna che hai visto sono dieci re che non hanno ancora ricevuto il loro regno, ma che riceveranno come re, il potere nella stessa ora appresso alla bestia. Questi hanno uno stesso disegno, e daranno la loro forza e il loro potere alla bestia. Essi combatteranno contro l’Agnello, ma l’Agnello li vincerà, perché Egli è il Signore dei signori, e quelli che sono con Lui sono i chiamati, gli eletti e i fedeli. Ed egli (l’Angelo) mi disse ancora: “Le dieci corna che hai visto nella bestia, queste sono quelle che odieranno la prostituta; e la ridurranno all’estrema desolazione, la spoglieranno, ne divoreranno la carne, e la faranno bruciare al fuoco. Perché Dio ha messo nei loro cuori di fare ciò che a Lui piace, di dare la loro regalità alla bestia finché le parole di Dio non siano compiute. E la donna che hai visto è la grande città che domina sui re della terra” (XVII, 12-18) ». Ecco, ancora una volta, il passaggio essenziale in cui crediamo sia contenuto il chiaro epilogo della profezia, e sul quale dobbiamo quindi richiamare l’attenzione del lettore. E prima di tutto, ciò che appare a prima vista, è che i re in questione sono gli esecutori della vendetta divina contro la grande Babilonia rappresentata dalla prostituta e dalla bestia che la porta: esecutori che sono stati incaricati di distruggerla, e che la distruggeranno davvero, secondo quanto è scritto nella seconda metà del brano citato, ai versetti 16 e 17: odieranno la prostituta, la ridurranno all’ultima desolazione, divoreranno la sua carne, perché Dio ha messo nei loro cuori di eseguire ciò che gli piace. Certamente, non si può immaginare nulla di più esplicito, e qui certamente ogni commento sarebbe superfluo. – Ma notiamo ora le peculiarità di questi re distruttivi e i caratteri con cui ci vengono presentati. Quattro cose sono da notare. In primo luogo, la profezia li conta come dieci, decem reges sunt (versetto 12), e se questo deve essere inteso come un numero preciso, o piuttosto come un numero tondo e approssimativo, sarà sempre un numero considerevole per i re, specialmente per dei re che, sebbene indipendenti l’uno dall’altro, agiscono come se fossero in concerto, contro lo stesso nemico e nell’unità dello stesso scopo. In secondo luogo, una circostanza ancor più singolare e notevole: tutti e dieci sono dei re senza regno, qui regnum nondum acceperunt, e dovono entrare contemporaneamente, e solo dopo che la bestia sia abbattura, nel pieno possesso del potere reale, sed potestatem tamquam reges una hora accipient post bestiam (versetto 12). – In terzo luogo, e questo diventa un vero enigma di cui non si sa come accordare i dati, tanto sembrerebbero essere contraddittori; questi stessi re che ridurranno la bestia all’ultima desolazione, che divoreranno la sua carne, e sono quindi i suoi nemici implacabili, sono tuttavia presentati come essere le corna, e di conseguenza, le difese della bestia stessa; inoltre, secondo quanto è espressamente segnato, come dando ad essa, la bestia, la loro forza e la loro potenza, et virtutem et potestatem suam bestiæ tradent (versetto. 13). – In quarto ed ultimo luogo, come se tutto ciò non bastasse, questi re, ministri delle alte opere di Dio « che ha messo nei loro cuori di fare ciò che a Lui piace », si dice tuttavia che dovranno combattere contro Dio stesso, o, che è la stessa cosa, contro l’Agnello, che tuttavia li vincerà, perché Egli è il Re dei re ed il Signore dei signori, e quelli che sono con Lui sono i chiamati, gli eletti e i fedeli; cum Agno pugnabunt, et Agnus vincet illos, quoniam dominas dominorum est, el qui cum Me sunt, vocati, fidèles et electi (versetto. 14). Chi non vede che si cercherebbe invano di penetrare, con le sole risorse del testo, il mistero di una complicazione così straordinaria? Ma chi può non vedere che se la storia del passato ci presentasse da qualche parte un gruppo di eventi e di cose a cui il quadro che abbiamo appena visto è applicabile punto per punto, e in tutta l’ampiezza del quadro, non meno che nel dettaglio dei particolari più caratteristici, ci sarebbe in questo solo fatto, insieme alla prova dell’origine divina della profezia, l’indizio certo e indubitabile di quale sia il suo vero oggetto? Ebbene allora! Ecco ora, con la storia alla mano, la prova della piena realizzazione dell’ipotesi: ecco, io dico, il quadro che abbiamo appena visto, che si applica efficacemente, punto per punto, in tutta la sua estensione, fino al dettaglio delle particolarità più singolari, e con la precisione più sorprendente, a tutto quell’insieme di eventi e di cose che riempirono l’epoca notevole tra tutte le altre, della distruzione di Roma antica, dello smembramento del suo impero, e della posa delle prime fondamenta di quello che fu poi chiamato l’edificio politico della cristianità. Per giustificare questa affermazione, basterà presentare un riassunto della glossa di Bossuet sul passo che ci occupa, che unita a tutto ciò che ha già preceduto, costituirà, se non ci sbagliamo, la più convincente delle dimostrazioni (Bossuet, l’Apocalypse con una spiegazione, cap. XVII, spiegazione della seconda parte, 1).

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Si tratta dunque di dieci re, esecutori, ripetiamolo, delle alte opere di Dio contro la grande città, madre degli abomini della terra. Decem reges sunt. Dieci re! Questo è già molto suggestivo, perché a questo numero considerevole di capi di popoli venuti da vari punti per abbattere un grande impero e stabilirsi nelle sue terre, il pensiero si riferisce al tempo dell’invasione dei barbari, e che ci piaccia o no, pensiamo subito a coloro che hanno rovinato Roma e rovesciato il suo potere, soprattutto in Occidente. Allora, infatti, si sono visti apparire, quasi contemporaneamente, i Vandali, gli Unni, i Franchi, i Burgundi, i Suebi, gli Alani, gli Eruli, i Longobardi, i Germani, i Sassoni, e più di tutti questi, i Goti, che furono i principali distruttori dell’impero. Inoltre, non c’è nulla che forzi a tormentarci nel ridurli precisamente al numero di dieci, anche se potrebbero essere ridotti a quel numero in relazione ai regni fissi che essi vi stabilirono. Ma uno dei segreti dell’interpretazione dei profeti è di non cercare finezze dove non ce ne sono, e di non perdersi in minuzie quando si trovano grandi personaggi che colpiscono l’occhio fin dall’inizio. Qui, senza bisogno di ulteriori dettagli, c’è un carattere piuttosto notevole, che da un solo impero si formino tanti grandi regni, in varie province della Spagna, in Africa, nella Gallia celtica, nell’Aquitania, nella Sequania, nella Gran Britannia, nell’Italia e altrove, e che l’impero romano sia abbattuto alla sua fonte, cioè nell’Occidente dove è nato, non da un solo principe che comanda in capo, come accade di solito, ma dall’inondazione di tanti nemici che agiscono tutti indipendentemente gli uni dagli altri. Ma andiamo sempre avanti. Questi re, che smembrarono l’Impero romano, hanno nella storia caratteri ben marcati e ben determinati. Passiamo dunque in rassegna quelli che, da parte sua, la profezia di San Giovanni attribuisce ai dieci re distruttori della grande Babilonia, confrontiamoli e vediamo se corrispondono. In primo luogo, c’è un carattere per i dieci re di San Giovanni, che consiste, come abbiamo detto, nel fatto che al momento della loro prima apparizione non avevano ancora ricevuto il loro regno, qui regnum nondum acceperunt. Ora, apro la storia, e mi chiedo se sarebbe stato possibile caratterizzare meglio la condizione di questi avventurieri, di questi capi barbari, che vediamo arrivare nei secoli IV e V sulle terre dell’Impero. Certamente, quando sono arrivati lì, non avevano ancora alcun possesso. Così, il regno che dovevano stabilire lì, non era ancora dato loro, e doveva essere effettivamente dato solo dopo la sconfitta della bestia, secondo ciò che è segnato dalle parole che seguono in San Giovanni: sed potestatem tanquam reges accipient post besitam. Ma c’è di più, perché non solo non avevano ancora alcun possesso nell’Impero, ma né nell’Impero né altrove avevano un dominio fisso. Le regioni dove intendevano stabilirsi con il loro popolo dovevano essere conquistate, ed è con grande precisione che Bossuet osserva: « I re in questione non sono re come gli altri, che cercano di fare conquiste per allargare il loro regno. Sono tutti re senza regno, o almeno senza una sede determinata del loro dominio, che cercano di stabilirsi in un paese più conveniente di quello che hanno lasciato. Non ci sono mai stati tanti re di questo carattere come durante la decadenza dell’Impero Romano, e questo è già un carattere molto particolare di quell’epoca, ma gli altri sono molto più sorprendenti. » Molto più sorprendente, infatti, è quello che San Giovanni assegna al secondo posto, e che abbiamo detto prima essere completamente intellegibile: … ed essi metteranno la loro forza e la loro potenza al servizio della bestia: et virtutem et potentiam suam bestiæ tradent. Ma come? Al servizio della bestia, proprio coloro che la profezia ci dà come suscitati da Dio per farla a pezzi e divorarla? Cos’è dunque questo mistero, e chi potrebbe conciliare cose così contrastanti? Ebbene, anche qui non dobbiamo preoccuparci di cercare, perché la storia ci libera da questa preoccupazione e ci dà la chiave dell’enigma mostrandoci gli eserciti di questi re, ricevuti all’inizio al soldo di Roma e nell’alleanza dei suoi imperatori. … « È il secondo carattere di questi re distruttivi di Roma – continua Bossuet – ed il segno dell’avvicinarsi della decadenza di quella città, una volta così trionfante, per trovarsi infine ridotta a un tale punto di debolezza, che non essa non poteva più comporre eserciti se non da queste truppe di barbari, né sostenere il suo Impero se non arruolando coloro che venivano ad invaderlo. » Questo periodo di debolezza è molto ben descritto in queste parole di Procopio: Allora la maestà dei principi romani era così indebolita, che dopo aver sofferto molto dai barbari, non trovò modo migliore per coprire la sua vergogna, che allearsi con i suoi nemici, ed abbandonare a loro anche l’Italia, sotto il titolo specioso di confederazione e alleanza … Oltre agli Alani e ai Goti, Procopio elenca anche gli Eruli e i Longobardi, i futuri padroni di Roma e dell’Italia, tra gli alleati dei Romani. Sotto Teodosio il Grande e i suoi figli, vediamo i Franchi nostri antenati avere un rango considerevole nell’armata romana sotto Arbogasto il loro capo, che poteva fare tutto nell’Impero. Gli alani e gli unni servirono contro Radagasio nell’esercito di Onorio, sotto la guida di Stilicone… I Franchi, i Burgundi, i Sassoni, i Goti sono nell’esercito di Ezio, generale romano, al rango di truppe ausiliarie contro Attila. E per attaccarci ai Goti ai quali appartiene principalmente o la gloria o il disonore di aver sconfitto Roma, li vediamo negli eserciti di Costantino, di Giuliano l’Apostata, di Teodosio il Grande, di suo figlio Arcadio… – Era dunque verissimo che Roma, in un certo tempo segnato da Dio, doveva essere sostenuta da coloro che alla fine l’avrebbero distrutta. E tutto questo è l’adempimento della profezia di San Giovanni sui dieci re: Et virtutem et potentiam suam bestiæ tradent. – Ma ecco un ultimo carattere che, chiaramente marcato in San Giovanni, è anche il più evidente nella storia, e sempre nella persona di questi stessi barbari, nemici giurati di Roma, che venivano a saccheggiare, depredare e devastare, e che finivano per stabilirsi nelle terre dell’Impero distrutto. Combatteranno contro l’Agnello, ma l’Agnello li vincerà: cum Agno pugnabunt, et Agnus vincet eos. E come combatteranno contro l’Agnello? In quanto tutti loro saranno dapprima idolatri; poi, in parte, infettati dall’arianesimo; spesso anche crudeli persecutori. Come, al contrario, saranno superati da Lui? In quanto alla fine diventeranno tutti Cristiani, tutti Cattolici, come i Goti in Spagna, i Franchi e i Burgundi in Gallia e Germania, i Longobardi in Italia, i Sassoni in Inghilterra, gli Unni in Ungheria. Perché tale fu la bella, magnifica, splendida vittoria che era opportuno che l’Agnello riportasse su di loro: ben diversa da quella descritta più avanti (XIX, 11-21), dove vediamo il Fedele e Verace che cavalca sul cavallo bianco, con occhi come una fiamma di fuoco, vestito di una veste macchiata di sangue, avendo in bocca una spada a due tagli, armata per il giudizio, la sconfitta e lo sterminio degli empi. Qui, al contrario, è l’Agnello mite, che senza dubbio ha nella sua faretra frecce affilate per trafiggere i suoi nemici e far cadere i popoli ai suoi piedi (Sal. XLIV, 6), ma frecce d’amore che cambiano i nemici in amici, e ne fanno, come dice espressamente San Giovanni qui (versetto 14), i chiamati, gli eletti e i fedeli: et qui cum eo sunt, vocati, fidèles, et electi (Si veda, specialmente questo passo, la spiegazione di un Commento all’Apocalisse attribuito a Sant’Ambrogio. Migne P. L., t. XVII, col. 914 e 915). –  Concludiamo, dunque, che non c’è dubbio che l’oracolo di San Giovanni sulla grande Babilonia avesse davvero per oggetto la caduta dell’antica Roma, pagana e idolatra: dell’antica Roma, dico, che anche dopo che Costantino vi aveva eretto il vessillo della croce, nonostante la grande e gloriosa Chiesa cristiana che aveva in seno, nonostante l’esempio e le difese dei suoi ultimi imperatori, era tuttavia rimasta la prostituta che la profezia ci presenta: sempre attaccata ai suoi vecchi dei, sempre sospirando “dietro a questi amanti impuri“, sempre pronta a darsi a loro alla prima occasione, come apparve sotto Giuliano l’Apostata, sempre protestando contro l’interdetto lanciato sui templi dei suoi idoli, come si vide sotto Teodosio, per esempio, nelle sollecitazioni del Senato per il ripristino dell’altare della Vittoria. (Si vedi su questo argomento la lettera di Sant’Ambrogio all’imperatore Valentiniano. Migne, P, L., t. XVI, col. 961 sqq., e la risposta dello stesso al rapporto di Symmaco, prefetto di Roma, Ibid. 9 col. 971 sqq.), e fino al tempo stesso di Alarico, nelle violente recriminazioni di tutti diffuse e vigorosamente confutate da Sant’Agostino nella sua Città di Dio, che attribuivano all’abbandono dell’antico culto tutte le sventure dell’impero (Orosio, Hist., 1. VII, c. 37. Migne, P. L. xxxi, col. 1159).1). Concludiamo che questa caduta definitiva di Roma pagana, preludio necessario all’instaurazione del regno sociale di Gesù Cristo e della sua Chiesa nel mondo, è il grande e memorabile evento che San Giovanni aveva principalmente in vista: dal che segue, per naturale conseguenza, che è anche ciò che deve servire da chiave a tutto il resto della profezia, sia in ciò che precede che in ciò che segue.

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E prima di tutto in ciò che precede. Perché tutto ciò che precede, dal luogo in cui iniziano le predizioni apocalittiche, ha una stretta connessione con ciò che abbiamo appena visto riguardo alla condanna e all’esecuzione della grande Babilonia, ed è per questo grande fatto, secondo la felice comparazione di Bossuet, ciò che il corpo di un poema è per la catastrofe che lo finisce e lo dispiega. Di questo non vedrei altra prova, se ce ne fosse bisogno, che la visione che apre il capitolo VI, e che ritorna di nuovo alla fine del capitolo XIX, come per racchiudere nel contesto dello stesso quadro e nell’unità dello stesso dramma, tutta la serie di visioni interposte. All’inizio del capitolo VI, in capo a tutte le visioni del futuro, subito dopo l’apertura del primo sigillo, subito dopo l’apertura del primo sigillo, appare un misterioso cavaliere montato su un cavallo bianco, come quello che avevano i vincitori nel giorno del loro ingresso e trionfo: Guardai, dice San Giovanni (VI, 2), e vidi un cavallo bianco; e Colui che vi sedeva sopra aveva un arco, e gli fu data una corona, e se ne partì come un conquistatore che va a riportare vittorie su vittorie. Et exivit vincens ut, vinceret. Questo misterioso cavaliere è evidentemente Gesù Cristo stesso, che ha già vinto la morte nella sua gloriosa risurrezione, e che è qui rappresentato nell’atto di partire per nuove vittorie, che, naturalmente, non possono essere che vittorie sull’inferno ed i suoi sostenitori, che cospirano per impedire con tutti i mezzi in loro potere l’instaurazione definitiva ed universale del regno di Dio, cioè della Chiesa, nel mondo. Quali saranno allora le visioni che seguiranno, se non tante immagini profetiche dei mezzi provvidenziali da usare per questo stabilimento e trionfo del Cristianesimo, delle sanguinose persecuzioni da subire, dei formidabili ostacoli da superare prima che questo possa essere realizzato, dei vari tipi di avversari da ridurre, e anche dei terribili giudizi che Dio eserciterà sui suoi nemici per l’esecuzione del suo piano? Ecco, dunque, gli oracoli successivi dei sette sigilli, delle sette trombe, delle sette coppe, dei tre “vae” o guai. Ecco la bestia che appare dal capitolo XIII, e prima con le sue sette teste e dieci corna, più tardi (capitoli XIV, XVI) sotto il nome mistico di grande Babilonia; più tardi ancora (capitolo XVII) come un tutt’uno con la prostituta opulenta e crudele, madre degli abomini della terra. Ecco il suo giudizio, la sua condanna, il suo castigo, il suo rovesciamento, che getta il mondo intero, come è stato detto, nella costernazione. Ecco ora, a titolo di epilogo (XIX, 1-8), l’inno di lode che i Santi del cielo cantano a Dio per questa grande opera della sua giustizia, della sua potenza e della sua mirabile provvidenza sulla Chiesa. E infine, per chiudere l’insieme di queste grandiose e terribili scene, la riapparizione del cavaliere che era apparso per la prima volta al levarsi del sipario: “Poi vidi – aggiunge San Giovanni (XIX, 11-16) – il cielo aperto, e apparve un cavallo bianco; e colui che vi sedeva sopra era chiamato il Fedele e Verace che giudica e combatte con giustizia. I suoi occhi erano come una fiamma di fuoco… Era vestito con una veste tinta di sangue, ed è chiamato il Verbo di Dio. E gli eserciti che sono nei cieli lo seguivano su cavalli bianchi, vestiti di puro lino bianco. E dalla sua bocca uscì una spada a doppio taglio per colpire le nazioniE vidi la bestia e i re della terra e i loro eserciti riuniti per fare guerra contro Colui che sedeva sul cavallo e contro il suo esercito. Ma la bestia fu presa… e gettata nello stagno di fuoco e zolfo. Naturalmente, sarebbe superfluo preoccuparsi di dimostrare più a lungo l’identità del cavaliere presentato qui con quello di prima, poiché è ovvio che, in entrambi i casi, si tratta di uno stesso personaggio, e che questo personaggio è Gesù Cristo. Con questa differenza, però, che all’inizio fu mostrato nell’atto di intraprendere la spedizione, e come nell’abito del guerriero che va alla battaglia, invece ora riappare di nuovo, essendo ancora, se posso esprimermi così, in tutta la foga della lotta, e con i segni sanguinosi della carneficina, ma una volta finiti lotta e carneficina, e nell’atto di consumare la vittoria. In questo modo, tutta la parte dell’Apocalisse che si estende dal capitolo VI al capitolo XIX compreso, ci presenta una raccolta compatta di fatti, eventi e cose, che culmina infine nell’esecuzione della bestia, cioè nel rovesciamento dell’antica Roma, come il termine in cui si compie ciò che San Giovanni aveva in vista, cioè: Gesù Cristo vittorioso, la sua Religione trionfante sugli ostacoli umanamente insormontabili che si opponevano al suo solido e definitivo stabilimento, ormai in grado di prendere nel mondo l’alta direzione degli affari; in una parola, satana espropriato, gettato fuori, e l’idolatria abbattuta con l’impero che la sosteneva. Questo – conclude Bossuet – è ciò che San Giovanni celebra nell’Apocalisse; è qui che ci conduce attraverso una serie di eventi che durano più di trecento anni, ed è qui che finisce finalmente la parte principale della sua predizione – (Così, la prima e principale parte delle predizioni apocalittiche avrebbe già ricevuto, e per molto tempo, almeno per quanto riguarda il suo primo e immediato significato, un pieno e completo compimento. Questo assicurerebbe all’esegeta, nei dati della storia del secondo, terzo e quarto secolo, la più sicura regola di interpretazione. Per segnalare qui, a grandi linee, solo le cose più sorprendenti: in questa luce della storia possiamo vedere in primo luogo, nei capitoli VII e VIII, la vendetta divina, che cade prima sui Giudei, così come poi sui primi autori o istigatori delle persecuzioni contro la Chiesa; Questa vendetta fu sospesa per un momento a favore dei dodicimila segnati di ciascuna delle dodici tribù, che dovevano essere separati dal resto della nazione, ma fu presto nuovamente scatenata, terribile e inesorabile, sotto Traiano e soprattutto sotto Adriano, su quegli sfortunati resti di Israele che la rovina di Gerusalemme sotto Tito aveva risparmiato. Poi nel capitolo IX vediamo, nelle locuste mistiche che escono dal pozzo dell’abisso, un altro tipo di nemico infinitamente più pericoloso, dal quale anche la Chiesa ai suoi inizi doveva trionfare: cioè le prime eresie, la maggior parte delle quali nascevano da opinioni giudaiche, e per questo sono legate nella profezia alle persecuzioni esercitate dagli stessi Giudei. Poi, con il capitolo XI, arriviamo alle persecuzioni romane, che San Giovanni riassume in quella di Diocleziano, la più lunga, la più violenta, la più crudele, la più universale di tutte, e che descrive con caratteri così precisi e particolari che, una volta conosciuta la chiave, ci sembra di vedere svolgersi dei quadri tratti dalla vita degli eventi. Ma più si va avanti, più i soggetti di sorpresa si moltiplicano. Il capitolo XIII ci mostra la bestia, cioè l’idolatria romana, ferita a morte dalla vittoria di Costantino, poi riportata in vita sotto Giuliano e, in questa sorta di resurrezione, ammirata come miracolosa, ricevente i servizi di un’altra bestia, nella quale riconosciamo la filosofia pitagorica, « … che sostenuta dalla magia, faceva concorrere i suoi ragionamenti più speciosi e i suoi prodigi più sorprendenti alla difesa dell’idolatria. » Il resto (XIV-XIX) è finalizzato direttamente al rovesciamento dell’Impero Romano come detto e spiegato sopra).  

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Ed ora, essendo il significato di questa prima e principale parte ben determinato e ben stabilito, il resto non può più fare alcuna difficoltà, perché il resto non è che la continuazione ed il completamento di ciò che precede. Il resto è il capitolo XX, dove San Giovanni, riprendendo la continuazione della sua profezia dalla caduta dell’Impero Romano, srotola la trama fino alla fine dei secoli. E infatti era naturale che, dopo aver descritto profeticamente il primo periodo della Chiesa, le sue prime lotte, le sue prime prove e quella che si potrebbe chiamare la sua prima presa di possesso del mondo, egli descrivesse anche il suo destino  nel corso successivo delle epoche. Eppure egli lo fa solo in modo estremamente sommario e, per così dire, in due o tre pennellate. È come un pittore che, dopo aver dipinto con colori vivaci quello che è il soggetto principale del suo quadro, traccia ancora in modo distante e confuso altre cose più lontane da questo oggetto. Tuttavia, qualunque sia l’indeterminatezza con cui lo Spirito di Dio si è compiaciuto di lasciare quest’ultimo schizzo del futuro, noi vediamo molto chiaramente e distintamente segnati in esso altri due tempi della Chiesa che vengono dopo il tempo dei suoi primi inizi: prima, il tempo del suo regno sulla terra (versetti 1-6), e poi il tempo della sua prova suprema e più terribile (versetti 7-10), immediatamente seguito dal giudizio universale di cui San Giovanni, in conclusione, ci dà (versetti 11-15), un’immagine in riduzione. Del regno della Chiesa sulla terra (che sarà anche, come è detto al versetto 4, il regno dei santi martiri, a causa della gloria da cui saranno circondati, dei grandi onori che saranno resi loro, e dei miracoli abbaglianti con cui Dio autorizzerà il loro potere presso di lui), solo una cosa ci è rivelata qui, che sarà relativamente lungo e tranquillo. Relativamente lungo, come si vede dai mille anni attribuitigli dalla profezia, poiché questo numero, per quanto figurativo, non può ovviamente che rappresentare un periodo di durata considerevole. È anche relativamente tranquillo, come appare dall’incatenamento del drago, cioè di satana « … rinchiuso nell’abisso senza fondo, affinché non inganni più le nazioni, finché i mille anni siano compiuti. » Questo, però, deve essere inteso secondo l’ordine attuale della provvidenza, che non implica una totale esclusione dell’azione diabolica nel mondo, e tenendo conto di quel modo di parlare, frequente nella Scrittura, che consiste nel rappresentare una cosa, non tanto secondo ciò che è in sé, quanto secondo ciò che sembra essere in confronto ad un’altra. – Così ora dobbiamo vedere in questo incatenamento di satana un incatenamento relativo, cioè meritevole di questo nome solo in confronto alla libertà che gli era stata lasciata nei tempi antichi, e che gli aveva permesso di stabilire un’idolatria universalmente dominante, corrompendo tutta la terra, ovunque opprimendo e perseguitando i Cristiani. – Per quanto riguarda il tempo dell’ultima prova, che è il tempo dello scatenamento di satana e della persecuzione dell’anticristo, esso è descritto in meno di quattro versetti, ed in termini il cui significato sarebbe forse avventato, soprattutto riguardo a Gog e Magog, cercare di specificare ora. Lasciamo dunque al futuro il compito di sollevare qui il velo, e accontentiamoci di ciò che San Giovanni ha esplicitamente indicato, cioè che questa persecuzione suprema sarà breve (versetto 3), che sarà una persecuzione ancora più di seduzione che di violenza (versetto 7), e che sarà prontamente seguita dalla venuta del Giudice dei vivi e dei morti (versetto 11 e seguenti). Da tutto ciò che si è detto finora, dunque, risulta tutta la verità di ciò che dice Sant’Agostino nel libro XX della Città di Dio, cap. VIII, n. 1: che il tempo abbracciato dal libro dell’Apocalisse va dal primo avvento di Gesù Cristo alla fine del mondo, quando avrà luogo il secondo avvento. « Totum hoc tempus quod liber iste complectitur, a primo scilicet adventu Christi usque in sæculi finem quo erit secundus ejus adventus. » E da questo segue anche, per una necessaria conseguenza, la piena soluzione della prima delle due difficoltà proposte all’inizio di questo articolo, di quella che era presa da quæ oportet fieri cito: poiché si trattava di una lunga serie di eventi che si sarebbero susseguiti nel corso delle epoche, il significato di fieri cito non poteva essere che l’insieme delle predizioni si sarebbe presto realizzato, ma solo, come la natura delle cose indica abbondantemente, che l’inizio e il principio sarebbero presto arrivati. E infatti le predizioni apocalittiche riguardavano eventi che si sarebbero verificati dalla fine del regno di Domiziano – la data della rivelazione a San Giovanni – alla prima metà del quinto secolo, il tempo del crollo dell’Impero Romano, e più tardi, come è stato spiegato, alla fine dei tempi. Anche qui, dunque, l’esegesi modernista è sconfitta in tutte le sue pretese.

LA PARUSIA (10)

LA PARUSIA (8)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (8)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE Rue de Rennes, 117 – 1920 TOUS DROITS RÉSERVÉS

ARTICOLO OTTAVO

LA PAROUSIA NELLE EPISTOLE DEGLI APOSTOLI, GLI ULTIMI GIORNI, IL DECLINO DEI SECOLI.

Bossuet, nel libro IV della sua Storia delle Variazioni, dà un bell’esempio del modo in cui coloro che si impegnano nella lettura della Scrittura e dei Padri diventano confusi, privi di una sufficiente preparazione teologica, ignorando le regole dell’ermeneutica sacra e i suoi principi fondamentali, disdegnando qualsiasi guida dalla tradizione o dal magistero della Chiesa, e per dirlo in una parola, con le sole risorse delle loro belle menti e della comune critica letteraria. L’esempio ci viene offerto nella persona di Melantone, che fu al suo tempo il più rinomato degli umanisti tedeschi, e rappresenta, inoltre, tutto ciò che era più o meno rispettabile tra i grandi capi della Riforma. Questo Melantone, al quale non si poteva negare una certa dose di sincerità e di zelo per la religione senza ingiustizia, aveva iniziato sostenendo con forza la realtà della presenza di Gesù Cristo nel sacramento dell’Eucaristia. Aveva persino composto un libro del “Sentimento dei Santi Padri sulla Cena del Signore“, in cui aveva raccolto molti passaggi esplicitanti la verità del dogma cattolico. Solo che, nel corso del tempo, si era reso conto che, tra il gran numero di testi citati, molti erano falsamente attribuiti a coloro che non ne erano gli autori, e questa spiacevole scoperta era stata la causa della sua prima delusione. Ben presto sorse un altro motivo di imbarazzo, più serio e fondamentale, che Bossuet spiega in questi termini: « Ciò che lo imbarazzava di più era trovare negli antichi molti luoghi dove chiamavano l’Eucaristia una figura. Ha raccolto i passaggi e si è stupito, dicendo di vedere una grande diversità in essi. Egli era un debole teologo che non si rendeva conto che lo stato di fede e di questa vita non ci permetteva di godere di Gesù Cristo allo scoperto, per cui si è dato in una forma estranea, unendo necessariamente la verità con la figura, e la presenza reale con un segno esterno che ce la coprisse. È da ciò che viene nei Padri questa apparente diversità che stupiva Melantone. La stessa cosa gli sarebbe apparsa, se ne avesse preso atto, sul mistero dell’Incarnazione e sulla divinità del Figlio di Dio, prima che le dispute degli eretici avessero obbligato i Padri a definirli con maggior precisione . E in generale, ogni volta che è necessario accordare insieme due verità che sembrano contrarie, come nel mistero della Trinità e in quello dell’Incarnazione, essere uguale ed essere meno (uguale al Padre, e meno di Lui), e nel sacramento dell’Eucaristia – essere presente ed essere in figura (presente sostanzialmente, ma sotto specie estranee) -. L’uso rende naturalmente il linguaggio che sembra confuso, a meno che non si abbia, per così dire, la chiave della Chiesa, e la piena comprensione di tutto il mistero… Melantone non sapeva così tanto… Grande umanista, ma solo un umanista, aveva a malapena potuto imparare l’antichità ecclesiastica dal suo maestro Lutero, ed era tormentato da una strana specie di contrarietà che credeva di vedere nei santi Padri. »  Tale fu, secondo Bossuet, la storia dei dubbi di Melantone all’inizio, poi dei malintesi e infine delle palinodie sul dogma dell’Eucaristia. Ora, la storia è degna di nota, da ricordare, perché non è un caso isolato, né un incidente fortuito; è, al contrario, un caso che si ripete con la costanza e la regolarità di una legge, ovunque l’interpretazione delle Scritture sia lasciata, come qui, alle sole risorse della letteratura e della mente privata. È ripetuto, in particolare sul punto preciso della parusia, dai nostri modernisti attuali, che vediamo sconcertati, allo stesso modo e nelle stesse condizioni, dalle contraddizioni che credono di trovare negli scritti degli Apostoli. Infatti, non leggiamo forse in San Paolo, per esempio, per non parlare di altri, che la parusia era vicina, che era alle porte, che non poteva essere ritardata, e d’altra parte che non bisognava dare alcun credito alle voci diffuse sull’imminenza della sua venuta? Nessuno di essi doveva realizzarsi, dico, e per la buona ragione che prima del suo arrivo, dovevano essere realizzati molti degli eventi, ed i più considerevoli. E come possiamo conciliare insieme cose che sembrano così contrarie? … essere vicino ed essere lontano? Ancora nell’ignoto del futuro, e già in vista, già sul punto di essere realizzato? – Quindi ci sarà una doppia spiegazione. Per coloro che usano «la chiave della Chiesa », la chiave che dà « la piena comprensione di tutto il mistero » come previsto dalla Scrittura, riconosceranno senza difficoltà i due punti di vista che abbiamo spiegato a lungo negli articoli precedenti. Diranno che la parusia secondo San Paolo, per quanto remota possa essere stata in relazione all’universalità del mondo, era allo stesso tempo molto vicina in relazione ad ogni uomo in particolare, e a quelli in particolare, la maggior parte dei quali erano arrivati alla fine della loro carriera, che l’Apostolo esortava e aveva direttamente in vista. E questa spiegazione, così naturale e così semplice, finché si comprende il principio su cui poggia, ha il doppio vantaggio di dare da un lato, piena soddisfazione alla mente, e dall’altro, di essere in completo accord con i dati generali della fede, che non soffrono nei libri ispirati di errori di alcun tipo. Ma quanto diversa sarà la soluzione di coloro che, senza alcuna preoccupazione per la chiave di cui la Chiesa è custode, senza alcun riguardo per la regola della tradizione, senza essersi mai presi la briga di sapere che esista un glossario proprio degli Scrittori sacri, sono rimasti, come Melantone, “solo umanisti”! Essi non sapranno dire altro se non: … che le prime generazioni cristiane erano ossessionate dall’idea che il mondo stesse per finire, e che, nonostante certi tratti sparsi che ci mostrano San Paolo affrancato a volte da questa ossessione (Duchesne, Histoire ancienne de l’Eglise, tom. 1, cap. 4, pag. 41 – edizione 1900), bisogna ammettere che ha pesato nella mente degli stessi Apostoli, e anche nella scrittura delle loro lettere, che ogni Cristiano è tenuto a riverire come scritte sotto la dettatura o l’ispirazione dello Spirito di Dio. E questa è la loro spiegazione: una spiegazione che è apertamente contraria alla fede cattolica, ma alla quale li conduce fatalmente la loro ignoranza – in cui essi sono – degli idiotismi della Scrittura, e della maniera propria di alterare le cose.  Altrettanto si deve dire ora delle conclusioni che essi traggono da un’altra classe di testi, che la continuazione del nostro soggetto ci porta ad esaminare; intendo quelli in cui gli apostoli chiamano comunemente il tempo in cui vivevano, gli “ultimi giorni” (Act,, II, 16 segg.. ; II Tim,, III, 1 ; Piet. III, 3, etc.), “l’ultima ora” (I Joan., II 18), o “la fine e il declino dei secoli” (I Cor,, x, Hebr., IX, 26).

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Certamente, se c’è un punto in cui la Scrittura ha un modo di parlare che è interamente proprio, è quello che riguarda la cronologia del mondo. Per convincersene, basterebbe aprirla dalla primissima pagina, dove si racconta la formazione dell’universo in sei diversi periodi chiamati i sei giorni. È vero che si potrebbero riempire intere biblioteche con le diverse e contraddittorie opinioni che sono state espresse nel corso dei secoli riguardo ai giorni della Genesi. Cosa non è stato detto, cosa non è stato scritto?  Tuttavia, sembra che oggi, dopo tante scoperte nelle viscere della terra, dove si conservano intatte le registrazioni autentiche del processo della creazione (almeno dal momento in cui iniziò l’individualizzazione della terra con la sua separazione dalla massa primitiva), sia difficilmente possibile conservare il minimo dubbio sul loro vero significato. Lasciamo dunque da parte l’interpretazione di Sant’Agostino: un’interpretazione alla quale fu portato solo da una versione errata di un testo dell’Ecclesiastico (Ëccl., XVIII, 1 – Sant’Agostino leggeva con la Vutgata: Qui vivit in æternum creavit omnia simul, Colui che vive eternamente ha creato tutto nello stesso tempo. Invece il Greco recita: ha creato tutto, [κοινή = koine], communiter, cioè tutto senza eccezione, ed anche, e principalmente, come egli stesso spiega in varie occasioni, per la necessità di sfuggire a difficoltà di natura fisica, per le quali non vedeva, nello stato delle scienze naturali del suo tempo, alcun tipo di soluzione (De Gen. ad litt , liv. 1, c. 19; liv. IV, c. 28, et alibi passim). Non parliamo nemmeno dell’invenzione di alcuni moderni, per i quali la settimana della Genesi sarebbe stata solo una settimana comune e volgare, durante i sei giorni della quale Dio avrebbe presentato all’Adamo appena creato, in altrettanti quadri distinti, cioè in sei grandi visioni immaginarie, la storia dell’origine delle cose. Questa è una strana idea, perché ci permetterebbe ancora di dire che Dio abbia rivelato la creazione del cielo e della terra in sei giorni, ma non che li abbia fatti in sei giorni, come la Scrittura afferma formalmente in molti luoghi (Esodo, XX, 11; XXXI, 17, ecc.). Non impantaniamoci ulteriormente nella vecchia opinione classica che riteneva che questi giorni della creazione fossero giorni di ventiquattro ore: un’opinione che è stata smentita e dimostrata insostenibile, non tanto dagli scavi effettuati nelle viscere della terra, quanto dalle sorprendenti particolarità del testo di Mosè. Dico: “le particolarità del testo di Mosè”, tra le quali ce n’è una che, più delle altre, deve attirare qui la nostra attenzione. È questa è quella per cui i giorni dei quali si parla sono chiaramente giorni che, lungi dall’essere regolati dal corso uniforme del sole o di qualsiasi altra stella, non hanno altra misura della loro durata che la durata stessa delle opere a cui corrispondono, e secondo le quali si distinguono; essi cominciano con l’inizio di un’opera e finiscono con la fine di quella stessa opera; si dispiegano e si succedono secondo lo svolgimento e la successione delle grandi fasi dell’opera di formazione del mondo, e così si configurano come giorni di una condizione molto diversa da quelli che compongono le nostre settimane, mesi e anni (Dixitque Deus: fiat … et factum est ita. . et factum, est dies unus, dies secundus, dies tertius, etc.). – Restano dunque da considerare grandi epoche cosmiche, che la Scrittura, è vero, ci descrive solo nei loro tratti più generali e salienti; ma anche così, bisogna riconoscere, in tutte le cose almeno suscettibili di passare attraverso il nostro controllo, che in modo meraviglioso concordano con i dati più certi delle nostre scienze moderne, e specialmente della geologia. Infatti, una volta messo da parte l’opera dei primi due giorni, che è estranea alla geologia propriamente detta, « che comprende solo il tempo che va da quando la terra ha cominciato a depositarsi sul fondo dei mari e la vita poté nascere e svilupparsi sulla sua crosta sufficientemente raffreddata. » (A. de Lapparent, trattato di Geologia, Morfologia della Terra), non c’è nulla nella descrizione di Mosè che non sia sostenuto nel modo più chiaro, non dico da ipotesi o congetture, ma dalle conclusioni meglio fondate di questa scienza: sia che si tratti della prima formazione dei mari e dell’asciutto, o in altre parole, dei continenti, con cui inizia l’opera del terzo giorno, o della mirabile vegetazione che ebbe luogo in quel momento sulle terre appena emerse, e ci valse quegli immensi depositi di carbone in cui l’industria moderna ha trovato il principio della sua forza motrice; sia che si tratti della nuova ripartizione del calore e della luce che ebbe luogo al quarto giorno, con l’organizzazione definitiva del nostro attuale sistema solare, e con la quale è iniziata la differenza dei climi; o, infine e soprattutto, dell’ordine secondo il quale la vita animale ha preso gradualmente possesso del nostro pianeta, con la creazione prima degli animali acquatici, poi delle bestie terrestri, e infine dell’uomo (cf. de Lapparent, op. cit., passim). Tali, dunque, sono i giorni della Genesi: epoche di immensa durata, divise tra loro secondo i diversi progressi con cui è piaciuto a Dio di portare il mondo dallo stato informe e caotico in cui la fece nella prima creazione, allo stato di bellezza e perfezione in cui lo vediamo attualmente. Perché “colui che poteva fare tutte le cose, che poteva con un solo decreto della sua volontà creare e disporre tutte le cose, e con un solo tratto della sua mano, per così dire, mettere l’abbozzo e la finitura nel suo quadro, nello stesso tempo disegnarlo, progettarlo e perfezionarlo, ha tuttavia voluto… fare e segnare l’abbozzo della sua opera, prima di mostrare la sua perfezione; e dopo aver fatto prima come lo sfondo del mondo, ha volute poi farne l’ornamento con sei diverse progressioni che ha voluto chiamare sei giorni” (Bossuet, Elevazioni, terza settimana, V). Sei giorni! Certamente, nessuno negherà che c’è un modo di dire che non è simile alla maniera del discorso ordinario; che non comporta le convenzioni usuali, specialmente per quanto riguarda lo stile unitario della narrazione semplice, di cui si cercherebbe invano un altro esempio nella letteratura profana, e che, tuttavia, deve essere riconosciuto come appartenente al glossario proprio della Scrittura, agli occhi della quale, « mille  anni sono come il giorno di ieri che è passato, e come una guardia della notte » (Psal. LXXXIX, 4). Ora, ciò che ora richiede di essere ben considerato, è che questo modo così particolare di distinguere le epoche attraverso la durata dei tempi geologici, è stato poi esteso ai tempi della nostra storia, per quanto riguarda la continuazione della Religione, dal suo primo inizio dopo la caduta originale, al suo termine finale alla consumazione dei secoli. « Vedo – dice S. Agostino – nel testo delle Scritture divine, come sei età di opera che sono distinte l’una dall’altra da certe linee di demarcazione, e hanno un rapporto di somiglianza con i sei giorni nei quali si dice che Dio abbia fatto il cielo e la terra » (August., de Genes. contra Manichæos, liv, I c. 23). Pertanto: « In  principio Dio fece il cielo e la terra, e da allora, tempo fino al tempo presente compreso, ci sono sei età, come sapete per averlo spesse volte sentito dire: da Adamo al diluvio, dal diluvio ad Abramo, e secondo quanto continua e distingue San Matteo nel suo Vangelo, da Abramo a Davide, da Davide al ritorno dalla deportazione a Babilonia, dal ritorno dalla deportazione a Babilonia al primo avvento di Gesù Cristo, da lì alla fine del mondo (August, in Joan., tract. 9, n. 6. – Cfr. Contra Faustutn, lib. XII, c. 8; Contra Adimantum, c. 7, ecc.) » E queste diverse età sono divise tra loro, non da una lunghezza o misura fissa del tempo, come i nostri giorni, i nostri anni e i nostri secoli, ma solo – come i giorni della Genesi – secondo i diversi progressi che hanno segnato l’evoluzione della Religione sulla terra, la quale, sempre una e identica a se stessa, quanto alla sua sostanza, ha tuttavia subito varie fasi o stati successivi: « Sotto la legge di natura e sotto i Patriarchi, sotto Mosè e sotto la Legge scritta, sotto Davide e sotto i Profeti; dal ritorno dalla cattività fino a Gesù-Cristo, ed infine sotto Gesù-Cristo stesso, cioè sotto la Legge della grazia e sotto il Vangelo (questa distinzione delle diverse età della Religione dovrebbe essere annotata attentamente come una chiave per la soluzione di molte difficoltà. Quanti ci sono, per esempio, per i quali le cose dell’antica storia sacra sembrano al di là di ogni credenza, per la ragione che vogliono giudicarle solo secondo il criterio proprio dei tempi del Vangelo, simili in questo a persone che pretenderebbero di vedere in inverno ciò che appartiene solo alla stagione estiva, o viceversa. Questo è ciò che Sant’Agostino osserva spesso nei suoi libri contro Faustus il Manicheo, ed altri oppositori della Legge e dei Profeti). » – Innanzitutto c’è l’epoca patriarcale. Vediamo in essa l’inizio della rivelazione nei suoi due articoli fondamentali, riguardanti il fine soprannaturale, da una parte, e la provvidenza che ci conduce ad esso, dall’altra (Heb., VI); poi, non appena il peccato ebbe rovesciato la prima economia, la promessa del recupero da parte del Redentore (Gen., III, 15). Allora, la fede in questo Redentore a venire, unita all’osservanza della semplice legge naturale, formava la base della Religione, che, inoltre, non aveva altra forma sociale che la famiglia, né altro governo che l’antico governo della razza umana, in cui ogni padre di famiglia era un principe nella sua propria casa. Questo stato di cose durò fino al diluvio. – Dopo il diluvio essa fu ristabilita e rimessa in vigore, con le poche aggiunte richieste dalle nuove condizioni dell’umanità rinata. Solo che queste stesse condizioni dovevano peggiorare sempre di più, perché man mano che ci si allontanava dall’origine delle cose, gli uomini confondevano le idee che avevano ricevuto dai loro antenati; i figli ignoranti o non istruiti non volevano più credere ai loro decrepiti nonni che conoscevano appena dopo tante generazioni. D’altra parte, era sorto e già minacciava di infettare il mondo intero un nuovo male, il male dell’idolatria. – Fu allora che, con la vocazione di Abramo, si inaugurò una nuova e memorabile fase della Religione, dopo le due precedenti, l’ante e post diluviana, e l’era patriarcale (Bossuet, Hist. univ., IIe partie, c. 1, passim.). Nella persona di Abramo, dobbiamo vedere il popolo di cui era la sorgente, il popolo che Dio voleva riservare per sé separandolo dagli altri, per conservare le sue leggi e preparare l’avvento del Redentore. Ecco i suoi primi inizi nelle tende di Mamre, Socoth e Sichem; poi la sua emigrazione in Egitto, la sua prodigiosa moltiplicazione, la sua liberazione dalla schiavitù, le sue peregrinazioni nel deserto, il suo ingresso nella terra promessa, le sue lunghe guerre contro le popolazioni palestinesi, seguite infine dal possesso pacifico e tranquillo della terra che Dio aveva designato come sua dimora. Tutto questo per completare la terza età. E questa terza epoca sarà segnata da tre grandi fatti che sono caratteristici tra gli altri: in primis il rinnovo più volte ripetuto della promessa fatta quasi dopo la caduta sulla culla del mondo; in secondo luogo, con l’istituzione della circoncisione come segno e sigillo dell’alleanza stipulata da Dio con i discendenti di Abramo, dai quali doveva uscire il Messia promesso; e infine, e soprattutto, la promulgazione della legge di Mosè, le cui numerose osservanze, tutte figurative del Cristo a venire, dovevano essere innestate per i Giudei sullo sfondo immutabile e sempre presente della legge primitiva. E così alla Religione patriarcale successe la Religione mosaica, che tuttavia era ancora nella sua prima fase, non raggiunse il suo pieno e regolare esercizio fino all’inizio della quarta età, che si apre con l’avvento di Davide. Infatti, durante tutto il periodo dei Giudici ed il regno di Saul che lo seguì, il servizio del culto era stato stabilito solo provvisoriamente. Il tempio, che il Deuteronomio (XII, 5 e seguenti) designava come centro e fulcro della religione d’Israele, mancava sempre, e fu Davide per primo che, dopo aver stabilito il suo trono e completato la pacificazione di tutto il paese, ne decise la costruzione, ne designò il luogo,  ne raccolse i materiali, lasciando a suo figlio Salomone il compito di realizzare ciò che aveva solo preparato. La fondazione del tempio fu quindi un evento considerevole. Essa segnò l’inizio del regolare funzionamento dell’istituzione mosaica, e quindi il punto di partenza di una nuova era, che tuttavia doveva distinguersi dalle precedenti per un carattere ancora più rimarchevole ed ancor più nettamente caratterizzato.  – Infatti, mentre il culto della vecchia legge raggiungeva il suo pieno sviluppo, il sole pieno della profezia messianica stava anche sorgendo all’orizzonte di Israele. La quarta epoca sarà per eccellenza l’epoca dei profeti « a Samuel e deincepsda Samuele e da quanti parlarono in seguito » (Act., III, 24): dei grandi profeti, dico, la cui successione si svolge su un periodo di tempo di più di cinquecento anni, con annunci ammirevoli nei quali le caratteristiche del Messia atteso sono sempre più chiaramente definite e determinate diventano sempre. Si tratta di David, Isaia, Michea, Gioele, Osea, Geremia, Ezechiele, Daniele e altri. E che nomi sono questi! Che magnifici oracoli! Che aumento continuo delle luci della rivelazione! Che marcia progressiva verso quella pienezza dei tempi in cui, con tutte le promesse realizzate, la Religione raggiungerà finalmente il suo apogeo! Tuttavia, non siamo ancora arrivati a questo punto. – Rimane, a separarci da essa, tutta la quinta età, che comprenderà i tempi del secondo tempio costruito da Zorobabele dopo il ritorno dalla cattività. Questo è il periodo di attesa. Tre cose sono particolarmente evidenti: la chiusura della profezia dell’Antico Testamento (Mal., IV, 4-6); l’ultimo segnale dato dell’arrivo relativamente vicino del Desiderato da più di quaranta secoli (Agg., II, 7-10; Zach., IX, 9; Malach, III, 1); infine, la diffusione dei Giudei nelle principali parti del mondo, in Asia superiore, nell’Asia minore, nell’Egitto, Grecia, e persino nel centro stesso dell’impero di Roma, per diffondervi le Scritture, per far risplendere il Nome e la gloria del Dio d’Israele tra i gentili, per porvi le prime fondamenta e come il primo innesco della loro futura conversione al Messia che verrà. – Infine, Gesù Cristo è apparso al tempo predetto dai profeti, per adempiere tutto ciò che i profeti avevano predetto. Egli predica la Sua dottrina celeste, … fonda la sua Chiesa, istituisce i suoi sacramenti .., si offre sulla croce come vittima propiziatoria per i peccati di tutti noi, risorge, ascende al cielo, aprendoci le porte della vita eterna per la potenza del suo sangue. Non appena salito al cielo, promulga la sua legge attraverso i suoi Apostoli; per loro mezzo la stabilisce in tutto il mondo, ed ecco ora arriva la sesta età. – Questa è l’epoca della rivelazione ormai chiusa, del compimento di tutte le figure, dell’ultima fase della Religione sulla terra, dopo la quale non ne verranno altre, né potrebbero venirne altre. Infatti la legge evangelica, chiamata anche legge della grazia, portava con sé la pienezza delle ricchezze della redenzione, il dono di tutto ciò che le leggi precedenti rappresentavano in speranza, e contenendone le promesse. Di conseguenza, essa si sostituiva a tutte loro, le abrogava tutte, non per essere abrogata in seguito e sostituita da un’economia migliore, ma per durare in perpetuo, senza alcuna sottrazione, aggiunta o modifica, fino al giorno del Signore che viene a chiudere l’intera serie dei tempi ed inaugura il culmine di tutte le cose nelle glorie della beata eternità. Questo è ciò che San Paolo mostra e sviluppa così magnificamente nella splendida epistola agli Ebrei, che dovrebbe essere qui riportata e commentata dall’inizio alla fine (Heb. VII-XII). –  Questo è ciò che chiunque abbia praticato le nostre sacre lettere riconoscerà immediatamente come il carattere proprio della nuova legge e la differenza essenziale che la distingue da tutte le istituzioni delle epoche precedenti. Questa, infine, è la chiave per una chiara comprensione del vero significato di queste espressioni, “gli ultimi giorni“, “l’ultima ora“, “la fine o il completamento dei secoli“, nello stile degli scrittori sacri. Perché queste non erano locuzioni impiegate per significare un breve intervallo di tempo fino alla catastrofe suprema, ma per designare, secondo ciò che è stato appena esposto, l’ultimo e definitive stato della Religione quaggiù, e di conseguenza anche dal punto di vista che è quello della Scrittura, l’ultima età dell’umanità: ma si noti bene, l’ultima età di cui nulla però ne determina la durata, breve o lunga che sia, che fu sempre nascosta nel segreto impenetrabile in cui piacque a Dio di confinarla. Ciò che San Tommaso, seguendo Sant’Agostino, spiega paragonando la vecchiaia, che è l’ultima età della vita umana, e si distingue proprio per questa particolarità che non è come l’infanzia, o la giovinezza, o la maturità, comprese entro limiti precisi; ma essa non ha un termine prefissato, nessun limite definito, nessuna misura determinata che possa essere assegnata in anticipo. E così, possiamo dire, che è, con le debite proporzioni, per questi « ultimi giorni », questa « ultima ora », questa « fine dei tempi », che è così frequentemente menzionata negli scritti apostolici. Invano si vorrebbe vedere in essi un’indicazione che non c’è assolutamente, poiché sarà sempre vero dire che la vecchiaia è l’ultima ora e l’ultima fase della nostra vita; il che non impedisce che talvolta non solo eguagli, ma anche superi in durata ciascuna delle età che l’hanno preceduta. (« Dicendum quod ex hoc quod dicitur, novissima hora est, vel ex similibus locutionibus quæ in Scriptura leguntur non potest aliqua quantitas temporis sciri. Non enim est dictum ad significandum aliquam brevera horam temporis, sed ad significandum novissima ætas quæ quanto spatio duret, non est definitum, eum etiam nec senio quod est ultima ætas hominis, sit aliquis certus terminus definitus », S. Thom, Suppl, q. 88, a. 3 ad 3).

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Questa è dunque la solida spiegazione che ci fornisce, riguardo alla presente difficoltà, la tradizione patristica. E questa spiegazione, già così ben fondata in se stessa, riceverà ora una nuova e più ampia conferma dalla tradizione della Sinagoga: dalla Sinagoga, dico, la cui autorità, immagino, nessuno penserà di contestare, per quanto riguarda il significato da attribuire alle espressioni usate dagli antichi profeti. Ora, è un fatto ricepito e accettato senza dubbio da tutta l’esegesi rabbinica, che nel linguaggio dei profeti, la formula « gli ultimi giorni » designa puramente e semplicemente i tempi del Messia e della sua legge. « È nella tradizione degli antichi Ebrei – osserva Rosenmüller con la sua ben nota competenza –  che con la formula novissimi dies si designano i tempi messianici (Rosenmüller, in Isaia, II, 2; Gerem., XLVIII, 47; XLIX, 39, ecc.). Cosa si deve intendere per tempi messianici? Indubbiamente, come indica il nome stesso, tutto il periodo dalla venuta del Messia fino alla consumazione dei tempi, in altre parole, dal primo al secondo avvento del Signore. Vogliamo di più? Ebbene, ecco ciò che sarà ancora più conclusivo: è che questo stesso significato, come vedremo, è quello che emerge invariabilmente dalla detta formula o dai suoi equivalenti, in tutti i passi degli scritti apostolici che ci oppongono i nostri avversari i modernisti. Quando San Pietro, per esempio, nel discorso inaugurale rivolto alla moltitudine accorsa alle porte del cenacolo dopo il prodigio di della prima Pentecoste, iniziava dicendo: “Quello che vedete è ciò che è stato annunciato dal profeta Gioele: Negli ultimi giorni, dice il Signore, effonderò il mio Spirito su ogni carne, e i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, ecc., quale pensiamo possa essere il significato di queste parole, negli ultimi giorni? C’era forse nelle circostanze del momento, c’era nell’evento appena accaduto, c’era nella mentalità presente degli Apostoli o della folla riunita davanti a loro, qualcosa che giustificasse una dichiarazione sugli ultimi giorni come intesa dall’obiezione? Assolutamente niente. E chi allora poteva anche solo pensare alla prossima fine del mondo? Le preoccupazioni erano certamente alte. Essi riguardavano unicamente la questione che era stata lasciata in sospeso dal recente dramma del Calvario, e che era ancora alimentata dalle cose straordinarie che avevano avuto luogo nel cenacolo. Questa questione era quella che San Pietro aveva appena mostrato davanti a Gerusalemme, al suo popolo, ai suoi principi e al suo Sinedrio, proclamando due cose: primo, che i tempi messianici erano arrivati, come dimostrato dall’attuale adempimento della profezia di Gioele sull’effusione dello Spirito Santo negli ultimi giorni (vers. 14-21), e secondariamente, che il Messia era quel Gesù di Nazareth, che era stato da poco inchiodato alla croce e messo a morte per mano degli empi, come testimoniava il miracolo eclatante della sua risurrezione (versetti 22-36). Questo è tutto il discorso del Principe degli Apostoli in questa solenne promulgazione della nuova legge; dove è evidente che gli ultimi giorni da lui menzionati non avevano altro significato che quello che abbiamo dichiarato, stabilito e spiegato sopra. La stessa conclusione è ora da trarre dall’esame di testi simili che si trovano nelle epistole canoniche. Quando San Paolo nell’epistola agli Ebrei mostrò la differenza tra il sommo sacerdote dei Giudei, che entrava annualmente nel santuario con il sangue di capri e tori, con il quale era impossibile che i peccati fossero espiati, e Cristo venuto una sola volta nel compimento dei tempi, [ἐπὶ συντελείᾳ τῶν αἰώνωνepi … epi sunteleia ton aiononeri], per abolire finalmente il peccato con il Suo proprio sacrificio (Eb., IX, 26): che cosa, dunque, poteva designare con questa espressione, [συντελείᾳ τῶν αἰώνων] se non la suddetta età messianica, al momento vista come un necessario epilogo e culmine obbligato delle epoche che l’avevano preceduta, annunciata, preparata e prefigurata? Infatti, come dice subito dopo, all’inizio del capitolo successivo (Eb, X, 1), le epoche precedenti avevano avuto solo le ombre dei beni a venire, umbram enim habens lex futurorum bonorum, non ipsam imaginent rerum;  ed è solo nell’era messianica, che attraverso Gesù Cristo, con Gesù Cristo e in Gesù Cristo, le ombre hanno preso corpo, le figure sono diventate realtà. In questo senso, quindi, questa stessa epoca fu davvero, e letteralmente, il completamento (συντελείᾳ – sunteleia) di tutte le altre. Era la loro realizzazione, il loro complemento, il loro termine, io dico, qualunque dovesse essere allora l’estensione della sua durata, limitata al breve spazio di una o due generazioni, o al contrario estesa attraverso una serie indefinita di secoli. Questa è senza dubbio la dottrina più autentica e provata di San Paolo; è il tema che egli sviluppa a lungo, da un capo all’altro dell’epistola agli Ebrei in particolare. E come possiamo allora rifiutarsi di riconoscere il vero significato dell’espressione incriminata, proprio in un luogo dove la figura del sommo sacerdote della vecchia legge, come riportato sopra, è espressamente contrapposta alla realizzazione della figura in Gesù Cristo, dall’altro lato? Riflettiamo su questo, riguardiamolo da vicino, facciamo riferimento al contesto immediato, così come all’argomento generale di tutta la lettera, e si dovrà convenire che il significato suddetto è l’unico possibile, l’unico conforme al soggetto e alla sequenza del discorso, senza che si intravveda il minimo spazio per la questione della imminenza della parusia, anche qui considerate del tutto fuori luogo. Questo è anche il significato di un passaggio simile nel decimo capitolo della Prima Corinzi (X, 11), dove l’Apostolo, dopo aver raccontato i particolari dell’uscita dall’Egitto e del soggiorno degli antichi Israeliti nel deserto, dice che « tutte queste cose accaddero loro in figura e furono scritte per la nostra istruzione, noi che siamo giunti alla fine dei tempi « in quos fines sæculorum (τὰ τέλη τῶν αἰώνων – ta tele ton aionon) devenerunt ». Dove vediamo esattamente la stessa opposizione tra il tempo delle figure sotto Mosè, e quello del loro compimento sotto Gesù Cristo; così questa è ancora l’era messianica, concepita come la fine ed il culmine delle epoche antiche, che la formula “τὰ τέλη τῶν αἰώνων” designa, appena diversa, quanto alla forma, da quella usata da San Paolo nel passaggio precedente. – E quando a sua volta Giovanni scriverà, nella sua prima epistola (II, 18): È l’ultima ora; come avete sentito che l’anticristo sta per venire, così ora ci sono già molti anticristi; da questo sappiamo che è l’ultima ora: anche lui non farà ancora e sempre che designare questa stessa era messianica, sebbene ora con un’altra peculiarità che gli è propria. – Infatti, se, come dice poco più avanti (III, 8), è per distruggere le opere del diavolo che il Figlio di Dio è apparso, va da sé che ciò non poteva avvenire senza che il diavolo si ponesse, o nella sua persona o per mezzo dei suoi suppositi, come antagonista dichiarato di coloro che venivano a spogliarlo del suo impero. Quindi, per quanto riguarda i tempi messianici, c’è un nuovo carattere segnato qui da San Giovanni, che questi saranno i tempi degli anti-messia, cioè degli anticristi, e non solo dell’anticristo per eccellenza, annunciato nell’approssimarsi della catastrofe finale, ma anche degli anticristi precursori, gli anticristi eresiarchi, i capi di sette, i corifei dell’empietà, che sono venuti e verranno prima della lotta suprema e definitiva. – San Giovanni, dunque, non ha una concezione diversa da quella di San Paolo e di San Pietro, e se tutti e tre sono d’accordo nel parlare dell’ultima epoca del mondo come di un’epoca già attuale nel loro tempo, è sempre e ovunque, sia ben ricordato, in virtù di questo principio, che per loro l’ultima età, è l’età che abbiamo detto, che con un altro nome si chiama l’età della “legge Cristiana”, o, ciò che equivale alla stessa cosa, della legge evangelica sotto la quale abbiamo l’onore e la felicità di vivere.

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Ma ora sorge un’ultima difficoltà. Si obietta una cosa che basterebbe a rendere inutile tutto ciò che è stato detto fino ad ora. È che, qualunque sia il nome con cui può essere chiamata, quest’ultima epoca è stata positivamente ridotta da San Paolo alla pura e semplice durata della prima generazione cristiana, e questo in tre passaggi formali, espliciti e categorici, cioè nella prima ai Tessalonicesi (IV, 13-18), e in altri due luoghi paralleli (I Cor., XV, 51-52, e II Cor., V., 3), dove l’Apostolo, parlando dei viventi che l’ultimo giorno troverà ancora sulla terra, testimonia sufficientemente, con l’uso costante della prima persona plurale, che egli si considerava come personalmente nel loro numero loro, egli e coloro ai quali scriveva. – « Non vogliamo – scriveva ai Tessalonicesi –  poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui. Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’Arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole. » – Questo è il modo in cui San Paolo parlava, apparentemente a causa della sua ferma convinzione che nella sua vita, nella vita dei fedeli che lui istruiva, sarebbe venuto il grande giorno di Dio. Perché cos’altro avrebbe voluto dire con queste parole molto precise del versetto 15: Nos qui vivimus, qui résidui sumus in adventum Domini, che ripete di nuovo al versestto 17, come per sottolinearne il significato e per meglio focalizzare l’attenzione dei suoi lettori? Noi che siamo vivi, dice. E chi, noi, se non Paolo stesso, con coloro ai quali era indirizzata la sua lettera? È su questo che si basano gli avversari, che considerano una prova decisiva, un argomento senza risposta. Ma noi (c’è bisogno di dirlo?), vediamo qualcos’altro, e ci sentiamo molto sicuri agli occhi di chiunque vorrà pensarvici e guardarlo da vicino, che tutto qui si riduce a un semplice modo di parlare che il contesto mette pienamente in luce, e non senza fornire, inoltre, una nuova e molto positiva conferma di tutte le nostre precedenti conclusioni, come cercheremo di mostrare prima di concludere. Notiamo dapprima qual era l’errore che San Paolo si proponeva di correggere. Era l’errore di coloro che, ancora nuovi alla dottrina della fede, erano stati persuasi che i morti, già giacenti nei loro sepolcri, non avrebbero avuto alcuna parte nella gloria del giorno del Signore, ma che solo i vivi avrebbero dovuto ascoltare ciò che si legge nel Vangelo, che il Figlio dell’uomo, arrivando sulle nuvole del cielo, avrebbe mandato i suoi Angeli a raccogliere i suoi eletti dai quattro venti, da un capo all’altro del cielo, per renderli partecipi del suo trionfo (Matth., XXIV, 31). E in questa falsa persuasione, essi si affliggevano eccessivamente per i loro morti; essi li piangevano, o come temendo che non risorgessero affatto, o che quantomeno perdessero quella folgorante manifestazione di Cristo nella sua parusia, oggetto, come sappiamo, delle più ardenti aspirazioni dei Cristiani della prima ora. San Paolo li istruisce e li rassicura completamente sia sull’uno che sull’altro punto. La risurrezione gloriosa di coloro che si sono addormentati nella fede e nell’amore di Gesù è una conseguenza necessaria della risurrezione di Gesù stesso; non c’è quindi motivo di piangere per loro come se non dovessero risorgere, nella beata immortalità, dalla polvere delle loro tombe: questa è la prima cosa. La seconda cosa è che coloro che sono vivi nell’ultimo giorno, e che sono riservati per la venuta del Signore, non avranno nessun vantaggio sugli altri per quanto riguarda la partecipazione al trionfo della parusia. Perché i “dormienti” si sveglieranno dal loro sonno alla vita immortale, mentre i vivi, da parte loro, vi entreranno con un rapido cambiamento che non comporta alcuna pausa duratura nella morte, e tutti insieme, tutti nello stesso tempo, vivi e dormienti, saranno portati ad incontrare il Signore, dal quale non saranno mai più separati. Questo, dico, è il preciso insegnamento con cui San Paolo ha combattuto e distrutto la falsa idea che i suoi neofiti avevano sui morti, e non  abbiamo bisogno di entrare qui in sviluppi che sarebbero estranei al nostro tema. Ma dobbiamo soffermarci sull’unica cosa che è importante per la soluzione che cerchiamo, cioè il modo in cui l’Epistola designa ciascuna delle due categorie che ha appena esposto come aventi una parte uguale nel trionfo di Cristo al suo ultimo avvento. In primo luogo, qui ci sono i morti, e chi sono questi morti? Ovviamente, non possiamo parlare qui di tutti i morti, intendo di tutti quelli che indiscriminatamente giaceranno nelle tombe all’arrivo del Figlio dell’Uomo. Infatti, tra di loro, quanti sono riservati a quella che il Vangelo chiama la “resurrezione per la condanna”! Mentre qui sono ora in questione solo coloro che risorgeranno alla vita, e alla vita della gloria eterna. È quindi facile da capire perché, parlando di questi morti, San Paolo non dice mai i morti “tout court”, ma piuttosto, i morti in Cristo [v, 16 “οἱ νεκροὶ ἐν Χριστῷ” – oi necroi en Cristo], o coloro che si sono addormentati in Gesù, [v. 14 “κοιμηθέντας διὰ τοῦ Ἰησοῦ” – koimetentas dia tou Iesou]; con ciò egli designa i soli eletti, i soli predestinati. Del resto, questo è abbastanza chiaro in sé e non ha bisogno di spiegazioni, e se lo richiamiamo all’attenzione particolare del lettore, è perché servirà ora a chiarire ciò che si dice della seconda categoria, quella dei vivi, laddove sta tutta la difficoltà. I vivi che saranno sulla terra all’arrivo del grande giorno e che, in compagnia dei vivi di cui abbiamo appena parlato, ne condivideranno la gloria, sono designati dalla seguente formula nel versetto 15, ripetuta ancora nel 17: ἡμεῖς οἱ ζῶντες οἱ περιλειπόμενοι εἰς τὴν παρουσίαν τοῦ κυρίου – [emeis oi zontes oi perileipomenoi eis ten parousian tou kuriou], cioè, parola per parola: noi, i vivi, quelli che sono rimasti per la venuta del Signore. Esaminiamo tutti i termini con attenzione, e per maggiore chiarezza, nel seguente ordine: primo – οἱ ζῶντες [oi zontes]; secondo, ἡμεῖς [emeis]; terzo, οἱ περιλειπόμενοι [oi perileipomenoi]. E da questo esame emergerà forse un senso ben diverso da quello in cui trionfano i nostri modernisti, e che a prima vista avremmo potuto supporre noi stessi. Oi zontes [oi zontes] primariamente: i vivi, quelli dell’ultimo giorno, questo si capisce; ma quali? Forse l’universalità di coloro che popoleranno il mondo nel momento in cui cominceranno ad apparire i segni del giudizio? Ovviamente no, perché in quel numero, quanti peccatori impenitenti, quanti miscredenti, quanti reprobi, che, lungi dall’essere trasportati nella gloria per incontrare il Signore, saranno lasciati nella perdizione in mezzo alla distruzione universale! « Come accadde ai tempi di Noè – dice Nostro Signore nel Vangelo – così accadrà alla venuta del Figlio dell’uomo. Gli uomini mangiavano e bevevano, si maritavano e maritavano le loro figlie fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e il diluvio li sorprese. Allora, di due uomini che saranno nel campo, uno sarà preso, l’altro lasciato; di due donne che saranno a macinare al mulino, una sarà presa, l’altra lasciata. » Tale è la separazione che avverrà tra i viventi con i viventi, in quest’ultima ora del mondo! Così come prima non poteva trattarsi dell’universalità dei morti, così ora non può trattarsi dell’universalità dei vivi, e quindi era necessario un determinativo che limitasse la comprensione del termine οἱ ζῶντες [oi zontes] ai soli giusti, ai soli fedeli, ai soli amici di Gesù. E dove troveremo questo determinativo? Precisamente nel termine incriminato, in questo pronome di prima persona plurale, che l’Apostolo ha aggiunto qui e dice: ἡμεῖς οἱ ζῶντες [emeis oi zontes]- Noi, i vivi, nello stesso senso che aveva usato parlando dei morti, “οἱ νεκροὶ ἐν Χριστῷ” [oi necroi en Cristo] i morti in Cristo, o coloro che si sono addormentati in Gesù, “κοιμηθέντας διὰ τοῦ Ἰησοῦ” – koimetentas dia tou Iesou]. E, infatti, chi non sa che il detto pronome di prima persona plurale è comunemente usato nel linguaggio abituale per designare, confusamente, e senza altra determinazione particolare, quelli della classe, della categoria a cui appartiene colui che parla, soprattutto se alla stessa classe, alla stessa categoria, appartengono, con lui, coloro che ha di fronte e ai quali parla? Certamente, se io, un francese, dicessi che abbiamo appena vinto una seconda battaglia della Marna, nessuno penserebbe che io personalmente sia stato tra quelli che l’hanno vinta (queste righe sono state scritte nell’ottobre 1918). E se, parlando davanti ad un grande pubblico, aggiungessi che, secondo tutte le probabilità, saremo a Berlino in un futuro più o meno prossimo, nessuno di quelli tra il pubblico, si crederebbe personalmente incluso nell’ampiezza del noi collettivo di cui avrei usato. In verità, sarebbe abbastanza inutile, per una cosa così semplice, moltiplicare gli esempi che mi vengono in mente, e c’è solo da fare l’applicazione al caso che stiamo trattando. Infatti, non sarebbe forse, nel senso appena indicato, che San Paolo abbia usato ora questo noi, “ἡμεῖς”, che causa tante difficoltà per alcuni? Non è forse la categoria, la classe dei fedeli in quanto tali, che aveva in vista qui, piuttosto che il Tizio, il Caio, il Sempronio che la componeva al tempo in cui scriveva? Insomma, quando, per designare i vivi che nell’ultimo giorno si uniranno all’esercito trionfante dei gloriosi risorti, portati in aria per incontrare il Signore, l’Apostolo diceva, parlando ai suoi ferventi seguaci [i neofiti, noi, i viventi, ἡμεῖς οἱ ζῶντες – emeis oi zontes] non è come se avesse detto, senza altra precisazione o determinazione di persone, i nostri allora viventi? – I nostri, cioè quelli della nostra parte, del nostro partito, della nostra comunione, i credenti, gli amici di Gesù e del suo avvento, in contrasto con coloro che la seconda Tessalonicesi presenta (I, 8-10) come non conoscitori di Dio, non obbedienti al Vangelo, e quindi, nel giorno della parusia, sofferenti la pena della perdizione eterna, lontani dalla faccia del Signore e dallo splendore della sua potenza? Sì, senza il minimo dubbio, questo è il significato della lettera, che è confermato nel più espressivo, dall’intero contesto. Per quanto riguarda il contesto, non potremmo, senza esporci ad una noiosa ripetizione, esaminarne qui le angolazioni e le asperità. Quindi non lo faremo. È comunque un punto che non può assolutamente passare sotto silenzio, e che dobbiamo portare brevemente all’attenzione del lettore. È il passaggio finale con cui l’Apostolo designa gli ultimi fedeli che l’ultima ora del mondo avrebbe trovato vivi sulla terra: “οἱ περιλειπόμενοι εἰς τὴν παρουσίαν τοῦ κυρίου” [oi perileipomenoi ei sten parousian tou kuriou]. Infatti, quanto è significativo questo passo, e quanto bene si adatta al nostro caso, e quale nuova conferma porta alle nostre precedenti affermazioni, distruggendo sempre più a fondo l’affermazione degli avversari, che, con queste parole, “noi, i vivi”, con cui San Paolo avrebbe considerate personalmente se stesso, con coloro ai quali era indirizzata la sua lettera! Tutta l’osservazione riguarda il participio περιλειπόμενοι [perileipomenoi] dal verbo λείπω [leipo] che ovunque sia usato, ovunque entri, sia come radice che come componente, dà l’idea di un resto, un debole resto staccato dalla massa. Per esempio, nella Lettera ai Romani (IX, 27), San Paolo, citando Isaia, scrive: Quando il numero dei figli d’Israele sarà come la sabbia del mare, solo un piccolo resto sarà salvato, τὸ ὑπόλειμμα σωθήσεται [to upoleimma sotesetai. E più avanti (XI, 5), paragonando il piccolo numero di Giudei convertiti al Vangelo con i settemila uomini che non si erano inginocchiati a Baal: Anche oggi, dice, c’è un resto secondo una scelta di grazia, λεῖμμα κατ’ ἐκλογὴν χάριτος [leimma kat’ecloghen karitos]. Ma con quanta più forza questa stessa idea emerge nella frase del nostro testo: Noi che viviamo, lasciamo loro un resto per la venuta del Signore! Essi dovevano dunque essere solo un resto, un residuo; se è permesso parlare in questo modo, un residuo, qui residui sumus, secondo la traduzione  esattissima della Vulgata; qualcosa come una retroguardia che arriva all’ultimo luogo, dopo che l’esercito principale è già passato. Questo, in altre parole, significava che nell’idea di San Paolo i fedeli viventi dell’ultimo giorno sarebbero stati solo un numero molto ridotto, una piccolissima minoranza, rispetto alla massa dei Cristiani addormentati in Cristo: proprio il contrario, come è ovvio, di ciò che comportava l’ipotesi del giudizio che arrivava durante l’epoca apostolica. Così l’esegesi modernista è sconfitta nelle sue pretese, e perde una posizione dopo l’altra. Non c’è un solo passaggio nelle epistole degli Apostoli su cui possa stabilire un argomento che sia anche lontanamente fondato con raziocinio. – Rimane ora l’Apocalisse di San Giovanni, che richiede un esame separato, e questo esame sarà il soggetto dei prossimi due articoli.

LA PARUSIA (9)

LA PARUSIA (7)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (7)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE, Rue de Rennes, 117 – 1920

TOUS DROITS RÉSERVÉS

ARTICOLO SETTIMO

LA PARUSIA NELLE EPISTOLE DEGLI APOSTOLI. TESTI PARENETICI.

Era abbastanza naturale che dopo aver imputato a Gesù Cristo stesso l’errore che abbiamo visto sulla prossimità della fine del mondo, il razionalismo moderno lo imputasse anche agli Apostoli di Gesù-Cristo. Perché se l’errore del Maestro è come regola generale, e questo per la natura stessa delle cose, l’errore dei suoi discepoli, quanto più nel caso molto particolare di un errore che coinvolge tutta l’opera che Egli avrebbe lasciato loro, come ai confidenti del suo pensiero, la cura di continuare dopo di Lui. Questo era il terrore di Gesù, secondo i modernisti, poiché per loro il Vangelo era originariamente un’opera di riforma da promuovere all’interno del giudaismo, in vista dell’imminente crollo del mondo attuale, che doveva essere seguito dall’instaurazione del Regno di Dio in un mondo completamente nuovo, sotto la presidenza di Cristo nella sua parusia.  Pertanto, su un punto così caratteristico e fondamentale, qualsiasi dissenso tra il Maestro ed i discepoli non era verosimilmente sostenibile, e quindi occorreva bene che gli Apostoli fossero a loro volta convinti, volenti o nolenti, di avere avuto, sulla questione escatologica, esattamente le stesse opinioni, le stesse idee, la stessa credenza, diciamo la parola, gli stessi sogni chimerici e le stesse illusioni. Ecco, quindi, che ci troviamo di fronte ad una serie di testi tratti dai loro discorsi e dai loro scritti. Non è più qui il Vangelo ad essere posto in questione, sono gli Atti, le Epistole e soprattutto l’Apocalisse. Da qui una nuova serie di argomenti e di ragioni, al cui esame saranno dedicati questo e gli articoli successivi.

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Ma prima di entrare nei dettagli della discussione, è opportuno porre davanti agli occhi del lettore i passi in cui la questione del tempo della parusia è espressamente riferita e, come si usa dire, trattata ex professo. Non è, infatti, in questi luoghi che si cerca generalmente l’espressione corretta ed esatta del pensiero degli autori su un dato punto, e di conseguenza la norma di interpretazione, almeno negativa, per ciò che, nel resto dei loro scritti, potrebbe essere equivoco o ambiguo? Niente è quindi più appropriato che farne un inventario fin dall’inizio, se non altro come prima indicazione della mentalità degli scrittori, e un’indicazione generale del senso del loro pensiero. Ora, i passaggi in cui il pensiero apostolico si è pertinentemente e categoricamente espresso sull’epoca della parusia, sono in numero di tre, e tre solamente. Il primo si trova nella prima lettera ai Tessalonicesi, V., 1-3: « Quanto ai tempi e ai momenti – dice San Paolo – non c’è bisogno di scriverne. Perché voi stessi sapete molto bene che il giorno del Signore verrà come un ladro nella notte. Quando gli uomini diranno: ‘Pace e sicurezza!” allora una distruzione improvvisa si abbatterà su di loro, come un dolore sulla donna che sta per partorire, ed essi non potranno sfuggirvi. Ma voi, fratelli miei, non siete nelle tenebre, perché quel giorno vi colga come un ladro… Non dormiamo dunque come il resto degli uomini, ma vegliamo e siamo sobri, ecc. » – La seconda è sulla seconda ai medesimi Tessalonicesi, II, 1-9: « Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo – scrive l’Apostolo – vi preghiamo di non essere scossi nei vostri sentimenti, né di allarmarvi, né per alcuna profezia, né per alcuna parola o lettera che possa essere supposta venire da noi, come se il giorno del Signore fosse imminente. Nessuno vi tragga in inganno, perché quel giorno non verrà prima che sia giunta l’apostasia e sia apparso l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, l’avversario che si eleverà al di sopra di tutto ciò che è chiamato Dio, o onorato con un culto. Non vi ricordate che vi ho detto queste cose quando ero ancora tra voi? E ora sapete cosa lo trattiene …, perché il mistero dell’iniquità è già in opera, aspettando solo che sparisca colui che lo tiene. Poi sarà scoperto l’empio che il Signore Gesù sterminerà con il soffio della sua bocca e annienterà con lo splendore della sua venuta. » Infine il terzo passaggio è nella seconda epistola di San Pietro (III, 8-14), dove leggiamo: « Una cosa, fratelli miei, non dovete ignorare: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno solo. No, il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come alcuni immaginano; ma Egli è paziente con voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento. Il giorno del Signore verrà come un ladro. In quel giorno i cieli passeranno con un grande rumore, e gli elementi saranno dissolti con il fuoco, e la terra sarà bruciata con le opere che vi si trovano… Poiché tutte queste cose sono destinate a dissolversi, cosicché dovreste essere impegnati in una vita tutta santa e tutta dedita alla pietà, affrettandovi verso l’avvento del giorno di Dio, in cui tutte queste cose sono destinate a dissolversi e gli elementi infuocati si scioglieranno. Ma noi attendiamo, secondo la Sua promessa, un nuovo cielo ed una nuova terra dove abita la giustizia. In questa attesa, fate ogni sforzo per essere trovati da Lui senza macchia e irreprensibili nella pace. »  – E questo è il totale delle indicazioni date dagli Apostoli, nei luoghi in cui affrontano espressamente la questione che allora agitava tante menti ed era oggetto di tante conversazioni. Sarà difficile, immagino, trovare una traccia di ciò che Renan ha osato darci come la credenza più “profonda” e “costante” della prima generazione cristiana. C’è forse almeno una parola, un’insinuazione, un’allusione qualsiasi che tradisca la persuasione di un prossimo ritorno di Cristo sulle nuvole del cielo, o non sarebbe piuttosto il contrario? San Paolo ricorda che Gesù, lasciando la terra, aveva detto ai suoi: Non sta a voi conoscere i tempi e i momenti, “χρόνους ἢ καιρούς” [cronous e kairous] che il Padre ha fissato con la sua propria autorità », ed ispirandosi a questa parola, riferendosi a questo avvertimento, riprendendo il discorso, per non sbagliare, negli stessi termini, inizia dichiarando ai suoi Tessalonicesi che, sui tempi e i momenti, [περί δή τών χρόνων καί καίρών – peri de ton kronon kai ton kairon] non ha bisogno di scrivere a loro. E perché mai? Per il motivo che erano già informati di tutto ciò che se ne poteva sapere: che l’ora della parusia sarebbe stata l’ora del “ladro di notte”, che non è possibile prevederla in anticipo; che, inoltre, sarebbe stato inutile cercare di penetrare segreti la cui conoscenza è stata negata ai mortali, e che, di conseguenza, invece di cercare inutilmente di soddisfare una vana curiosità, bisognava pensare a non lasciarsi sorprendere impreparati, disponendosi con una vita santa al giudizio di Dio, in qualunque momento esso dovesse venire: « Non dormiamo dunque come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri, prendendo per corazza la fede e la carità, e per elmo la speranza della salvezza ». Questo è l’intero significato, l’intera portata, l’intera conclusione del primo passaggio. – Tuttavia, mentre le voci sull’imminenza della catastrofe continuavano a diffondersi, San Paolo torna alla carica in una seconda Epistola, e va ancora più avanti su ciò che aveva detto nella prima. Questa volta, corregge espressamente l’errore, non vuole che si dia credito alle voci messe in circolazione in modo così avventato, annunciando inoltre che prima che venga la parusia, dovranno aver luogo degli eventi, il cui corso e la cui sequenza egli spiega, è vero, per iscritto, solo in modo molto enigmatico, ma che, in ogni caso, sembrano richiedere, per svolgersi, un tempo piuttosto considerevole. Infatti questa apostasia di cui parla, questa defezione generale dalla fede di Gesù Cristo, questa elaborazione dell’opera d’iniquità, la cui manifestazione fu ritardata da qualche misterioso impedimento, questo avvento dell’”empio“, cioè, senza difficoltà, del grande e principale anticristo, di cui tanti altri dovevano essere i precursori (1 Giov. II, 18), tutto questo non fu evidentemente una di quelle cose che avvengono in un batter d’occhio, che iniziano, si sviluppano, si evolvono da un giorno all’altro. Qualunque sia dunque la vera interpretazione del famoso “καtέχον” [katechon], ciò che lega, ciò che ostacola, che si legge nel versetto 6, o dell’altra espressione “ό καtέχων” [o kathecon], ciò che tiene, o contiene, o occupa, che ritorna nel verso successivo (Vedi Bossuet: Avvertimento ai protestanti sul loro preteso adempimento delle profezie, n. 45 e segg.), resta vero che l’ipotesi di una venuta immediata o imminente del Signore fu chiaramente respinta dall’Apostolo, e che, se era già abbastanza chiaro per i suoi diretti corrispondenti, a maggior ragione lo è per noi, che tanti eventi ormai compiuti hanno messo in grado di penetrare meglio il significato della sua profezia, e di misurarne la portata. – E finalmente sentiamo San Pietro: San Pietro che non solo abbonda, ma sovrabbonda nello stesso senso, dichiarando che fa suo tutto ciò che è stato detto da colui che chiama un po’ più in basso, il suo diletto fratello Paolo. Anche lui è lontano mille leghe dal fissare, anche approssimativamente, qualsiasi misura del tempo. Anch’egli si attiene puramente e semplicemente all’unica cosa che ci è utile sapere, cioè che: come tutti, senza eccezione alcuna, devono vedere il giorno del Signore che verrà a giudicare i vivi e i morti (II Tim., IV, 1); tutti senza eccezione, che debbano morire o meno prima della sua venuta, hanno l’obbligo di prepararsi ad essa senza indugio, con l’esercizio delle buone opere ed una costante applicazione per purificarsi dall’amore delle cose deperibili, destinate a passare per sempre. Ma ciò che è particolarmente sottolineato è che la questione del ritardo di Dio nell’adempimento della sua promessa sarebbe, in ogni caso, del tutto priva di senso, perché Dio non ha fissato alcuna data, e inoltre, nessun tempo è lungo, o meglio, nessun tempo è abbastanza lungo. “Un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno”, e così il ritardo, per quanto lungo si possa immaginare essere nelle epoche a venire, sarebbe ancora chiamato con il suo vero nome, non un ritardo, ma un piano di misericordia e di salvezza da parte di Colui « che non vuole che nessuno perisca, ma che tutti giungano a penitenza ». – Questo è il cuore e l’anima del pensiero apostolico. Niente di più, niente di meno, e in mezzo a tutto questo cerco la cosiddetta mentalità che ci è stata rappresentata come confinata o circoscritta dall’idea fissa di una parusia che sta per scoppiare e di un mondo che sta per finire. Possiamo dunque già concludere che in tutti i passi in cui la questione del tempo della parusia è posta dagli Apostoli come oggetto proprio, diretto e categorico del loro discorso, non c’è nessun segno, nessuna traccia, nessuna vestigia della persuasione che il razionalismo contemporaneo presenta, ma piuttosto, per quanto lo permetteva il riserbo in cui Gesù stesso intendeva porsi, tutte le indicazioni di una persuasione diametralmente opposta. – Così, non è da questa parte che si volta il libero pensiero. Questi passaggi, senza dubbio i più importanti di tutti, e anche in un certo senso, gli unici veramente convincenti, non vengono nemmeno discussi, vengono lasciati nell’ombra, si vuole ignorarli, per ripiegare esclusivamente su testi che, a dir poco, sono fuori tema, e che tutte le indicazioni che si crede di trovarvi alla breve scadenza dell’ultimo giorno del mondo, non vi si vedono che attraverso il prisma di ragionamenti costruiti su falsi presupposti, provenienti, per la maggior parte, dall’ignoranza del linguaggio proprio della Scrittura, e del suo stesso modo di considerare le cose. Dobbiamo ora esaminare questi testi da vicino e, per ordine e chiarezza, li ridurremo ad alcune categorie principali.

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La prima categoria comprenderà testi che potrebbero essere chiamati parenetici, testi che esortano alla pratica di tutte le virtù cristiane, in vista della venuta del Signore che è vicina. Ecco gli esempi principali. « È tempo – dice San Paolo ai Romani – di svegliarci dal nostro sonno, che è la conseguenza della diminuzione del nostro primo fervore. Perché ora la salvezza è più vicina a noi di quando abbiamo abbracciato la fede. La notte è passata da un pezzo e il giorno si avvicina. Spogliamoci dunque delle opere delle tenebre e indossiamo l’armatura della luce. » (Rom., XIII, 11-12). E ai Filippesi: « Rallegratevi nel Signore in ogni tempo, ripeto, rallegratevi, che la vostra dolcezza sia nota a tutti gli uomini, perché il Signore è vicino. Non siate in ansia per nulla, ma in ogni circostanza esponete a Dio le vostre necessità con preghiere e suppliche, con ringraziamenti » (Filippo, IV, 4-6). E agli Ebrei: « La perseveranza vi è necessaria, affinché, avendo fatto la volontà di Dio, otteniate ciò che vi è stato promesso. Ancora un po’ e colui che deve venire verrà e non tarderà » (Eb., X, 36-37). E San Giacomo a sua volta: « Siate pazienti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Il contadino, nella speranza del prezioso frutto della terra, aspetta pazientemente finché non riceve le piogge autunnali e primaverili. Siate pazienti e rafforzate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. Non lamentatevi gli uni contro gli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alla porta » (Jacob., V, 7-9). Questi, dico, sono i testi della prima categoria. L’elenco potrebbe senza dubbio essere esteso, ma senza utilità o profitto; perché il resto consisterebbe solo in ripetizioni o varianti, che sarebbero più che altro una questione di parole, e non modificherebbero in alcun modo, né nel contenuto né nella forma, la difficoltà che si presenta, che consiste interamente in affermazioni come queste: Dominus prope est, adhuc modicum aliquantulum, ecce judex ante januam assistit, e se ci sono altri di uguale forza e portata. – Ma la soluzione di questa difficoltà è ancora da trovare, o non possiamo dire che  già la possediamo? In effetti, abbiamo qui una pura e semplice attuazione delle istruzioni date da Gesù ai suoi discepoli nelle pagine che sono state oggetto del nostro precedente studio. È chiaro che le esortazioni apostoliche a vegliare, a perseverare, ad essere pazienti, a rinunciare alle concupiscenze mondane, ad essere sempre pronti per l’arrivo del Signore, accompagnando l’attenzione e la diligenza con le preghiere, sono solo un’applicazione, adatta ai fedeli della prima ora, delle esortazioni che leggiamo in San Matteo, San Marco e San Luca, come conclusione del discorso escatologico. Dal che consegue chiaramente, se non mi sbaglio, che, per aiutarci a comprendere il legittimo e vero significato del pensiero degli Apostoli, tutti i punti precedentemente messi in luce dovrebbero ora servire, senza bisogno di ulteriori dimostrazioni, all’esatta comprensione delle parole di Gesù; e in particolare, il principale, il più eclatante e il più importante di tutti, che riguardava il doppio aspetto sotto il quale il Vangelo prevede la parousia: da un lato, nella sua sfolgorante realtà del grande giorno di Dio, quando verrà l’ultima ora del mondo, e dall’altro, nelle sue segrete anticipazioni di ogni giorno, quando arriverà l’ultima ora di ogni singolo uomo. Tutta la questione, quindi, è sotto quale di questi due aspetti la parusia è presa nei testi sopra menzionati. È sotto il primo? Allora sì, la difficoltà rimane. È sotto il secondo? Allora la difficoltà scompare per questo stesso fatto, e svanisce del tutto”. Ora, non ci possono essere dubbi sulla risposta. Dipenderà dalle osservazioni che metteremo davanti agli occhi del lettore. – Osserviamo dunque, in primo luogo, il contenuto dei passi in cui troviamo l’intimazione di una prossima parusia, a breve termine, alla vigilia del suo prodursi. Questi passaggi sono forse tra quelli che rappresentano lo scenario, l’apparato, la grande scena del giudizio universale? Niente affatto. Sono solo testi in cui la parusia è presentata come la venuta del Signore o del Giudice, senza alcuna altra precisazione o determinazione, senza alcuna aggiunta, senza alcuna menzione diretta o indiretta della gloria, della potenza e del potere in cui esploderà nell’ultimo giorno del mondo. Leggiamo solo che il Signore è vicino, che Colui che deve venire non tarderà, che il Giudice è già alla porta: da ciò possiamo dedurre la conclusione pratica che c’è motivo di entrare nei sentimenti, e di fare i preparativi necessari per questo arrivo. Non è dunque, come in tanti altri luoghi degli scritti apostolici, dove viene descritto l’avvento glorioso, adventus gloriæ (Tit., n. 13), del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo, come tale; dove la parousia diventa la rivelazione (άποκάλυψις – [apokalipsis]), l’apparizione (ἐπιφάνεια – [epifaneia]) di Gesù Cristo e della Sua gloria. – Come in San Paolo, per esempio, quando parla ai Tessalonicesi del giorno in cui il Signore Gesù apparirà dal cielo, con i messaggeri della sua potenza, in mezzo a una fiamma di fuoco, per fare giustizia a coloro che non obbediscono al Vangelo (II Tess., I; 7), e più giù, … del giorno in cui verrà per essere glorificato nei suoi santi e per essere ammirato in tutti coloro che credono (ibid., 10); e altrove, della manifestazione di Nostro Signore Gesù Cristo, … che apparirà a suo tempo il benedetto e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, (I Tim, VI, 15), e ancora nella Prima Corinzi, I, 7, e in quella ai Colossesi, III, 4, e nella Seconda ai Tessalonicesi, II, 8, e nella prima di Pietro, IV, 13, ecc. – Certamente, sono tutti testi che non si penserebbe mai di applicare a nessun altro giorno che quello della grande assise della consumazione dei secoli, e se fosse nei testi di questo tenore che si trovano gli annunci della prossima venuta e che sono oggetto della presente difficoltà, bisognerebbe riconoscere che i testi della presente difficoltà non rientrano nella suddetta distinzione dei due aspetti della parusia in cui avremmo trovato la soluzione, almeno adeguata e sufficiente. Ma no, per quanto cerchiamo nelle lettere degli Apostoli, dalla prima all’ultima pagina, non riusciremo mai a produrne un solo esempio. Se San Paolo, parlando dell’apparizione della gloria di Nostro Signore Gesù Cristo, menziona allo stesso tempo il tempo in cui sarà realizzata, sarà solo per insinuare ancora una volta il segreto impenetrabile in cui Dio ha voluto che rimanesse nascosto: … fino alla manifestazione di Nostro Signore Gesù Cristo – dice nel testo citato sopra – che nel suo tempo (ἣν καιροῖς ἰδίοις – en kairois idiois), il Re dei re e Signore dei signori (ὁ βασιλεὺς τῶν βασιλευόντων καὶ κύριος τῶν κυριευόντων – o basileus ton basileuonton kai kurios ton kurieuonton) renderà manifesta [μέχρι τῆς ἐπιφανείας τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ – mekri tes epifaneias tou kuriou emon Iesuou Kristou]. “A suo tempo” è tutto quello che l’Apostolo probabilmente sa su di esso; in ogni caso, è tutto quello che ci farà sapere su di questo. E altrove, riguardo alla venuta dell’anticristo, che il Signore Gesù distruggerà con lo splendore della sua venuta, [τῇ ἐπιφανείᾳ τῆς παρουσίας αὐτοῦ – te epifaneia tes parousias autou], farà uso della stassa modalità di linguaggio, che si sottrae ad ogni calcolo, e sfugge ad ogni valutazione: E ora sapete cosa che lo trattiene, in modo che possa manifestarsi nel suo tempo [εἰς τὸ ἀποκαλυφθῆναι αὐτὸν ἐν τῷ ἑαυτοῦ καιρῷ – eis to apokaluftenai auton en to autou kairo] (II Tess., II, 6.). – Perciò, in qualunque modo si prendano i passi degli scritti apostolici in cui la parusia è data come prossima (sia in modo assoluto o in modo comparativo, sia in se stessa o nei molteplici contrasti che ne fanno emergere più chiaramente il significato), tutto ci dice, tutto ci avverte che si tratta di questa venuta del Signore che si compie segretamente e invisibilmente, man mano che la morte raccoglie le anime umane, e che su ognuna di esse viene pronunciata la sentenza irrevocabile e definitiva, dopo la quale rimane solo la pubblicazione, la messa in luce, riservata alla parusia visibile e brillante della fine dei tempi (I Cor, IV, 5); … di questa venuta del Signore, che il Vangelo di San Luca, nel dodicesimo capitolo, ha precedentemente posto davanti ai nostri occhi, dove, indipendentemente da qualsiasi allusione alla catastrofe mondiale, ci è stato ingiunto di essere costantemente in attesa del ritorno del nostro Maestro, in modo che, non appena Egli verrà, sotto le spoglie della morte, o con il bussare alla porta con i colpi che annunciano l’avvicinarsi della morte, noi gli apriremo subito, ed apriremo per essere messi in seguito, se vigilanti, in possesso del suo regno, della sua eterna beatitudine, delle sue inestimabili ricchezze;  e infine, la venuta del Signore, che può essere sempre annunciata con fiducia come molto vicina, senza pretendere di penetrare il grande segreto che è chiuso a tutte le creature, e anche agli Angeli del cielo, il segreto di cui è scritto « Perché quel giorno e quell’ora (quando il Figlio dell’uomo verrà in maestà e potenza per giudicare il mondo), nessuno lo conosce tranne il Padre. » E quanto giustamente, quanto naturalmente, soprattutto, questa stessa venuta del Signore, quella molto vicina, quella che era già in vista e che non poteva più ritardare, non fu presentata dagli Apostoli a coloro di cui volevano ravvivare l’ardore o sollevare il coraggio! A questi primi fedeli, la maggior parte dei quali erano avanti nella vita, che avevano sofferto e stavano ancora soffrendo per la fede (Filipp., I, 29-30; Eb., X, 32-37; Giacomo, I, 2), che si avvicinavano alla corona, che erano tentati di vacillare, o sollecitati a disertare le assemblee cristiane (Eb., X, 25), aveva bisogno solo di un po’ di perseveranza per raccogliere il frutto di tanto lavoro e fatica! « Ricordate quei primi giorni in cui, dopo la vostra conversione, avete sostenuto una grande lotta di sofferenze, a volte esposti come in uno spettacolo all’obbrobrio e alla tribolazione, a volte prendendo parte nelle sofferenze di coloro che venivano trattati in questo modo. Infatti, avete convissuto con i prigionieri e avete accettato il saccheggio dei vostri beni, sapendo che avete una ricchezza migliore, che durerà per sempre. Perciò non abbandonate la vostra fiducia, perché c’è una grande ricompensa legata ad essa. Perché la perseveranza è necessaria per voi, affinché, avendo fatto la volontà di Dio, possiate ottenere ciò che vi è stato promesso. Ancora un poco, e Colui che deve venire verrà, non tarderà. Il mio giusto (dice la Scrittura) vivrà per fede, ma se si ritira, la mia anima non metterà compiacimento in lui. – Perché noi non siamo di quelli che si ritirano per la propria perdita, ma di quelli che conservano la fede per salvare le loro anime » (Eb. X, 32-39). E infine, la venuta del Signore, che può essere sempre annunciata con fiducia come molto vicina, senza pretendere di penetrare il grande segreto che è chiuso a tutte le creature, e anche agli Angeli del cielo, il segreto di cui è scritto « Perché quel giorno e quell’ora (quando il Figlio dell’uomo verrà in maestà e potenza per giudicare il mondo), nessuno lo conosce tranne il Padre. »

E quanto giustamente, quanto naturalmente, soprattutto, questa stessa venuta del Signore, quella molto vicina, quella che era già in vista e che non poteva più ritardare, non fu presentata dagli Apostoli a coloro di cui volevano ravvivare l’ardore o sollevare il coraggio! A questi primi fedeli, la maggior parte dei quali erano avanti nella vita, che avevano sofferto e stavano ancora soffrendo per la fede (Filipp., I, 29-30; Eb., X, 32-37; Giacomo, I, 2), che si avvicinavano alla corona, che erano tentati di vacillare, o sollecitati a disertare le assemblee cristiane (Eb., X, 25), aveva bisogno solo di un po’ di perseveranza per raccogliere il frutto di tanto lavoro e fatica! « Ricordate quei primi giorni in cui, dopo la vostra conversione, avete sostenuto una grande lotta di sofferenze, a volte esposti come in uno spettacolo all’obbrobrio e alla tribolazione, a volte prendendo parte nelle sofferenze di coloro che venivano trattati in questo modo. Infatti, avete convissuto con i prigionieri e avete accettato il saccheggio dei vostri beni, sapendo che avete una ricchezza migliore, che durerà per sempre. Perciò non abbandonate la vostra fiducia, perché c’è una grande ricompensa legata ad essa. Perché la perseveranza è necessaria per voi, affinché, avendo fatto la volontà di Dio, possiate ottenere ciò che vi è stato promesso. Ancora un poco, e Colui che deve venire verrà, non tarderà. Il mio giusto (dice la Scrittura) vivrà per fede, ma se si ritira, la mia anima non metterà compiacimento in lui. – Perché noi non siamo di quelli che si ritirano per la propria perdita, ma di quelli che conservano la fede per salvare le loro anime » (Eb. X, 32-39). Io chiedo, non è questo che potrebbe dire ancora oggi senza cambiare una sola parola, il più risoluto sostenitore di una durata indefinita del mondo, a coloro che vedrebbe nelle condizioni in cui si trovavano gli Ebrei che San Paolo esortava un tempo? E questi, nientemeno, sono i testi in cui la “sapienza” modernista vede l’ossessione dell’idea che erano giunti i tempi che il mondo stava per finire! Chi potrebbe immaginarlo? Ma se avessimo bisogno di confermare quanto appena detto con nuove prove, le troveremmo in abbondanza in ogni pagina in cui gli Apostoli, con le loro raccomandazioni, i loro consigli, le loro istruzioni pratiche, ci fanno vedere, e fino all’evidenza, che l’idea che avevano del futuro era in tutto conforme a quella che ne abbiamo noi stessi, ancora oggi. – Ascoltiamo San Paolo che or ora diceva che il Signore era vicino e che Colui che doveva venire non poteva tardare. Ascoltiamolo, dico, esortare ora i fedeli a vivere nel riposo, a badare ai propri affari (I Tess., IV, 11), a lavorare pacificamente, a mangiare il pane coscienziosamente guadagnato (II Tess., III, 12), a fare preghiere, suppliche, intercessioni, per i re e per quelli costituiti in dignità … affinché possiamo passare una vita tranquilla e pacifica in tutta pietà e onestà (I Tim., II, 1). Questo è dunque il linguaggio di chi si crede alla vigilia del crollo della macchina del mondo, e sente già le prime avvisaglie della terribile tempesta in cui l’universo sta per affondare? Ma, per l’amor di Dio, notiamo come la prospettiva dell’Apostolo era aperta solo ad uno stato di cose assolutamente normale, lasciando spazio ad una vita tranquilla e regolare, alla sola condizione di mantenere l’ordine sociale di cui sono incaricati i responsabili del potere pubblico, per i quali raccomandava di pregare proprio a questo scopo. – Ascoltiamo San Giacomo che, non contento di annunciare che la venuta del Signore si avvicinava, mostrava anche il giudice già sulla soglia della porta: ecce judex ante januam assistit! E ora, nel corso delle sue raccomandazioni, è portato a correggere la presunzione di quei Cristiani che, senza alcun riguardo per l’incertezza del domani, progettavano l’avanzamento e la fortuna, comportandosi in tutto come se il futuro appartenesse a loro e che fossero padroni di disporne come volevano. Certamente, per portare questi temerari alla realtà delle cose, era cosa giusta mettere davanti ai loro occhi la visione dell’imminente catastrofe mondiale, e mostrare loro che l’ultima base di tanti vani calcoli sarebbe presto svanita, poiché non ci sarebbe stato più un futuro terreno per loro o per nessuno. Quale argomento potrebbe essere più conclusivo di questo? Quale motivo potrebbe essere più appropriato, se si deve credere all’esegesi modernista, alla mentalità della prima generazione cristiana? E invece, cosa vediamo? Una pura e semplice ammonizione sulla brevità della vita, la sua fragilità, la sua mancanza di consistenza, la sua durata effimera ed essenzialmente casuale, tutte cose che non hanno nulla a che vedere con la fine del mondo, e che sono rimaste e rimarranno per sempre nei luoghi comuni della predicazione evangelica: voi che dite: « Oggi o domani andremo  in questa o quella città, ci resteremo per un anno, faremo affari e guadagneremo, voi che non sapete cosa succederà domani! Infatti, cosa è la vostra vita? Un vapore che appare per un momento e poi svanisce. Invece di dire: … se il Signore vuole o se siamo vivi faremo questo o quello. Ma ora vi vantate della vostra presunzione. » (Jac., IV, 13-16). Sicuramente non c’è nulla qui che prepari anche lontanamente ai terrori che la storia, o forse più precisamente la leggenda, attribuisce all’anno mille.

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La vita, un vapore che appare per un po’ e poi svanisce! Questo, dunque, è tutto ciò che San Giacomo sapeva del futuro, allorquando rimproverava la presunzione di coloro che facevano piani per il futuro, come se fossero stati i padroni del futuro. E questo, posso aggiungere, è il limite dell’orizzonte degli altri, quando si appellano alla brevità del tempo come motivo per staccarci dal mondo, dai suoi beni, dai suoi piaceri, anche dai suoi godimenti più legittimi, per attaccarci a Colui che solo rimane eternamente. È della breve durata della vita che sentono parlare, non della vicinanza della catastrofe suprema. – Così, ad esempio, è per San Paolo, in questo passaggio della Prima ai Corinzi (VII, 25-35), sul quale la fertile immaginazione degli storici della nuova scuola si è esercitata abbondantemente, e che, per questo, richiede qui una piccola spiegazione. L’Apostolo risponde alle domande che gli sono state poste sul soggetto della verginità ed egli inizia affermando categoricamente che la verginità non è un precetto, ma un puro e semplice consiglio; che è una via più alta e perfetta, che, come aveva già insinuato (vers. 2 e seguenti), non può essere, in ogni caso, la via comune, ma solo quella di un’élite, cioè di pochi (« Per evitare ogni impudicizia, ogni uomo abbia la propria moglie, e ogni donna il proprio marito, ecc. – Versetto 2 e seguenti). Tuttavia, egli è tanto più ansioso di impegnare in essa quelli e quelle ai quali Dio avrebbe concesso il dono di una vocazione così eccellente (« Io vorrei che tutti fossero come me, ma ognuno riceve da Dio il suo dono particolare, uno in un modo, l’altro in un altro » – vers. 7), ed il primo motivo per cui cerca di attirarli è l’esenzione  dalle preoccupazioni, dalle sollecitudini e dalle difficoltà di ogni genere che il vincolo del matrimonio porta con sé: « Per quanto riguarda le vergini – dice – non ho alcun comandamento dal Signore, ma do un consiglio, come per aver ricevuto dal Signore la grazia di essere fedele. Penso, quindi, che a causa della difficoltà inerente allo stato di matrimonio, è bene che un uomo resti così. Sei legato a una moglie? Non cercare di rompere questo legame; non sei legato a una moglie, non cercare una donna. Ma se ti sposi, non pecchi, e se una vergine si sposa, non pecca. Questa, dico, è la prima ragione addotta dall’Apostolo. Consiste nella libertà dai molti imbarazzi, dolori, tribolazioni e preoccupazioni che di solito accompagnano la vita matrimoniale, e che hanno fatto dire a San Francesco di Sales che … se Dio avesse istituito un noviziato per il matrimonio, come ha fatto per la vita religiosa, ci sarebbero ben pochi novizi che vorrebbero fare la professione. (Sul: διὰ τὴν ἐνεστῶσαν ἀνάγκην, [dia ten anestosan anaghketen] che la Vulgata traduce, propter instantem necessitatem (verso 26), e che si correla con il    θλῖψιν δὲ τῇ σαρκὶ ἕξουσιν, [tlipsin de te sarki exousin] tribulatianem carnis hahehunt del verso 28, vedi San Giovanni Crisostomo nel suo libro della Verginità, n. 43-58. Il santo Dottore si sofferma a lungo sulle tribolazioni della vita matrimoniale, mettendo in grande rilievo le condizioni imposte al matrimonio nella Nuova Legge, proprio quelle che avevano portato i discepoli a dire, Matth. xXIX, 10: « Se questa è la condizione di un uomo nei confronti di una donna, è meglio non sposarsi. » Al che Gesù rispose: « Non tutti capiscono questa parola, ma solo quelli a cui è stato dato. Perché ci sono eunuchi che lo sono per nascita…; e ci sono eunuchi che sono eunuchi per mano d’uomini; e ci sono eunuchi che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, che capisca. » Non c’è bisogno di sottolineare il perfetto parallelismo tra il Vangelo e San Paolo. Da entrambe le parti, l’esenzione dalla servitù del matrimonio serve come punto di partenza per condurre alle ragioni di un ordine completamente superiore, che raccomandano come più perfetto, lo stato di verginità). – Tuttavia, questa ragione, che di per sé è ancora solo di ordine temporale e umano, è anche solo una ragione per il primo impegno; prepara solo la strada, o se volete, presenta l’esca come un modo per sollecitare la natura, e ora dobbiamo salire più in alto. San Paolo continua quindi: Ma questo è ciò che io dico, fratelli. Il tempo è breve. Quel tempo? Senza difficoltà, il tempo (καιρός – kairos) che ci è dato per preparare la nostra eternità; il tempo di cui, nella seconda ai Corinzi, dice (VI, 2): « Ora è il tempo buono, ora sono i giorni della salvezza »; e ai Galati (VI, 10: « Mentre abbiamo tempo, facciamo il bene »; e agli Efesini (V, 16): « Sfruttiamo il tempo, perché i giorni sono cattivi. » Il tempo è breve, e un po’ più in basso: « La figura di questo mondo sta passando », non dice al futuro: passerà, o passerà presto (παράξει – paràxei.), come riferendosi a una catastrofe a venire, che secondo lui avrebbe portato via tutto. Ma dice: passa (παράγει – paraghei) al presente, come indicando la condizione propria della figura del mondo, che è sempre in atto di passare. Passa, infatti, e passa incessantemente, come passano le rive del fiume per coloro che sono trascinati dalla corrente (la corrente della vita), e che presto saranno arrivati all’abisso dal quale non c’è ritorno. E dal fatto che il tempo della vita è breve, dal fatto che la figura del mondo sta passando, l’Apostolo trae la conclusione che, se c’è motivo di usare del mondo ed i legittimi piaceri che può offrirci, almeno questo debba essere con moderazione, e senza mettervi o attacarvi il cuore;  inoltre, c’è un modo migliore e incomparabilmente migliore, che è proprio nella beata libertà indicata più sopra, dove, liberati dagli obblighi e dalle preoccupazioni del matrimonio, siamo in grado di darci interamente a Colui che solo non passa e non cambia, cioè a Dio e alle cose del suo servizio. – Ma ascoltiamo attentamente il resto delle parole dell’Apostolo: « Io dico questo, fratelli miei. Il tempo è breve; perciò, quelli che hanno mogli siano come se non ne avessero, e quelli che piangono come se non piangessero, e quelli che gioiscono come se non gioissero, e quelli che comprano come se non possedessero, e quelli che usano del mondo come se non ne usassero; perché la figura di questo mondo sta passando. E per quanto mi riguarda, vorrei che foste spensierati. Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore; cerca di piacere al Signore per compiacere il Signore; ma chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, cerca di compiacere sua moglie, ed è diviso. Allo stesso modo, la moglie: la donna non sposata e la vergine sono attente alle cose del Signore, per essere sante nel corpo e nello spirito; ma la donna sposata è attenta alle cose del mondo, cercando di piacere a suo marito. Ora lo dico per il vostro bene non per gettare una rete su di voi, affinché siate uniti a Dio senza lotte o divisioni. » – Questo è il pensiero di San Paolo sulla verginità. Potrebbe esserci qualcosa di più chiaro? Per riassumere, la verginità è buona, è da raccomandare, e questo per due motivi: in primo luogo, a causa degli imbarazzi che lo stato di matrimonio porta con sé, e in secondo luogo, a causa dell’eccellenza di una condizione in cui, liberati dalla sollecitudine della vita che è così breve, e che in ogni momento ci sfugge, possiamo con piena libertà occuparci degli affari della salvezza, servire Dio, e adempiere alla nostra preghiera. Queste ragioni, come possiamo vedere, non hanno alcuna connessione, nemmeno apparente, con l’ipotesi di una prossima fine del mondo; perché, sia che supponiamo che il mondo sia sul punto di finire o che gli diamo migliaia di anni di durata, esse conservano invariabilmente la stessa forza, lo stesso peso, lo stesso valore. Eppure il modernismo non si arrende. Con una sola voce predica e proclama che i consigli evangelici sulla continenza volontaria e la povertà procedono direttamente dalla previsione di un’imminente fine dei tempi, da quella preoccupazione costante, per non dire ossessione, che avrebbe pesato sui pensieri di Gesù Cristo e dei suoi Apostoli come un incubo. È incredibile, ho letto in una recente storia della Chiesa, che non è senza una grande reputazione di erudizione e di scienza, e precisamente nel capitolo che tratta dell’organizzazione e della vita delle prime comunità cristiane secondo le lettere di San Paolo, questa sorprendente frase: « La verginità assoluta era lodata, e persino raccomandata, in vista dell’imminenza dell’ultimo giorno » (L. Duchesne, Histoire ancienne de l’Église (Parigi, 1906) tom. I, cap. 4, pagina 47). Certamente, non è più confermativo questo in vista dell’ultimo giorno, ove l’avrebbe visto lo storico? Se San Paolo avesse taciuto sulle ragioni che gli facevano raccomandare la continenza, si poteva porgere a scusante che l’autore, desideroso di fornire  spiegazioni plausibili su un punto importante, si sarebbe ritenuto autorizzato a supplire al silenzio dell’Apostolo, secondo le proprie idee. Ma no, San Paolo si è spiegato, e nel modo più chiaro, più categorico e più intelligibile del mondo. Ha detto che raccomanda la verginità, vedendo prima instantem nécessitatem del versetto 26, che ovviamente porta alla tribulatio carnis del verso seguente; vedendo poi, eprincipalmente, e soprattutto, l’alta convenienza di ciò che facilitava præbet sine impedimenio Dominum obsecrandi [versetto. 35). Invece di questo, si scrive senza battere ciglio, senza glosse, né spiegazioni,né commento: “in vista dell’imminenza dell’ultimogiorno”. Ma in verità, è troppo un abusare della semplicità del lettore, se non lo si avverte, è dargli una ragione troppo buona per concludere che, finché l’ufficio dello storico non consiste nel sostituire le proprie fantasie all’autorità dei documenti, un libro così fatto mancherà sempre delle garanzie che la dignità e la serietà della storia richiedono.

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Ciò che abbiamo detto finora sembrerebbe quindi più che sufficiente per stabilire il vero significato dei passi in cui la venuta del Signore è data dagli Apostoli come prossima, e per mostrare chiaramente quanto questo significato sia diverso da quello dato loro dall’esegesi protestante e modernista. Tuttavia, per non tralasciare nulla che possa contribuire ad illuminare la religione del lettore su un punto di così grande importanza, aggiungiamo, a conferma delle precedenti conclusioni, alcune nuove considerazioni, che ora ci verranno fornite principalmente dalle epistole di San Pietro. Nel quarto capitolo della prima, il Principe degli Apostoli raccomanda ai Cristiani che aveva evangelizzato, che durante il breve tempo che rimaneva loro in questa vita mortale, vivessero non più secondo le concupiscenze degli uomini, ma secondo la volontà di Dio. « Basta – scriveva loro – col tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo, vivendo nelle dissolutezze, nelle passioni, nelle crapule, nei bagordi, nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli. Per questo trovano strano che voi non corriate insieme con loro verso questo torrente di perdizione e vi oltraggiano. Ma renderanno conto a Colui che è pronto a giudicare non solo i vivi ma anche i morti … ». E l’Apostolo mostra, nel contempo, con il fatto della discesa agli inferi (altrimenti detto Sheol, la dimora dei morti) che la sovranità di Cristo si estende anche ai morti; e che su di loro, e già ora, senza dover aspettare il giorno dell’ultima risurrezione, si esercita il suo giudizio. (Versetto 6: Propter hoc enim et mortuis evangelizatum est, da confrontare con il versetto 19 del capitolo precedente: His qui in carcere erant spiritibus veniens prædicavit). Ora – egli continuava – la fine di tutto è vicina: omnium autem finis appropinquavit. E cosa significa questo … “la fine di tutto”? Senza difficoltà: o la fine di ogni uomo in particolare, o, meglio ancora, la fine di tutti coloro che erano in questione, sia i pagani che bestemmiavano, sia di quelli che volevano riprendere i loro antichi disordini; per tutti loro la morte era vicino, e con la morte, il giudizio per il quale sono giudicati i morti. (È a torto che si traduce “Πάντων δὲ τὸ τέλος ἤγγικεν” – omnium autem finis  appropinquavit  con: la fine di tutte le cose è vicina, come se Πάντων [panton] fosse qui il genitivo del neutro “Πάντα”, e non invece  – come come lo indica il contesto e tutto il resto del ragionamento – il genitivo del maschile “Πάντες” [pantes]: dovrebbe quindi essere tradotto: “è vicina la fine di tutti”, cioè di tutti quelli di cui si parla nei quattro versetti precedenti, cioè i pagani blasfemi e i Cristiani convertiti). Da qui segue, infine, in modo del tutto naturale, l’esortazione a prepararsi che riempie il resto del capitolo, e che è diviso in due parti. Prima di tutto (versetti 7-11), la raccomandazione delle virtù che costituiscono la base comune e invariabile della vita cristiana in generale: … siate prudenti e sobri per dedicarvi nella preghiera, e soprattutto abbiate ardente carità gli uni per gli altri… Ognuno metta il dono che ha ricevuto da Dio al servizio del suo prossimo, ecc. Dopo (versetti 12-19) ci sono gli avvisi speciali dati in vista delle circostanze particolari che la Chiesa stava attraversando, ed è qui, come è naturale, che cercheremo le informazioni più affidabili e autorevoli sulle idee del prossimo futuro che preoccupavano l’Apostolo. Ma cosa troveremo lì? Niente di niente di qualsiasi cosa che vada nella direzione delle conclusioni della nuova scuola. Solo una cosa è stata messa in prospettiva, e non la conflagrazione generale che precederà l’arrivo del Giudice, né lo scuotimento delle potenze del cielo che metterà tutti gli abitanti della terra nel terrore, né lo schianto che accompagnerà la dissoluzione della macchina del mondo, ma semplicemente la persecuzione che aveva già cominciato ad abbattersi sulla Chiesa, e che doveva essere esercitata quasi senza sosta per circa tre secoli. San Pietro stava preparando i fedeli affidati alle sue cure a sopportare l’urto di questa prova, e qualunque cosa si dicesse o facesse, non si poteva trovare nelle sue parole alcun accenno a qualsiasi altra preoccupazione o timore di altro genere: « Miei cari – egli continuava – non stupitevi del fuoco della persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per mettervi alla prova, come se vi fosse successo qualcosa di straordinario. Ma nella misura in cui avete parte alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, in modo che quando la sua gloria sarà manifestata, anche voi possiate essere nella gioia ed esultare. Se siete oltraggiati per il nome di Cristo, siate lieti, perché lo Spirito di gloria, lo Spirito di Dio, riposa su di voi. Che nessuno tra voi soffra come assassino, come ladro, come malfattore, o come uno che è avido del bene degli altri. Ma se soffre come Cristiano, non si vergogni, anzi glorifichi Dio proprio per questo stesso Nome. Perché questo è il tempo in cui sta per iniziare il giudizio (per metterlo alla prova e purificarlo) dalla casa di Dio. » – La stessa osservazione può essere fatta sulla seconda Epistola, che fu, come tutti sanno, il testamento dell’Apostolo: l’epistola in cui, dopo aver annunciato la sua fine imminente, rivolgeva le sue ultime raccomandazioni ai fedeli, dicendo che credeva fosse suo dovere, finché era in questa vita mortale, tenerli svegli con i suoi avvertimenti, e fare in modo che dopo la sua morte se ne ricordassero sempre (I, 13-15). Ora, questi avvertimenti che riempiono tutto il corpo della lettera, dalla seconda metà del primo capitolo fino all’epilogo compreso, su cosa vertevano? Sempre e solo, sui pericoli che minacciavano la Chiesa, e questa volta, sulla persecuzione che è la più terribile di tutte, che sarebbe venuta da falsi maestri e predicatori di eresie. Proteggere i Cristiani che egli aveva generato a Gesù Cristo dalla seduzione delle molte eresie pronte a sorgere, questo era l’intero scopo del supremo addio di San Pietro a loro, al momento della sua partenza. E se, alla fine, menziona la parusia, non è per suggerire che sia imminente, ma per denunciare e screditare in anticipo gli schernitori che, a causa del presunto ritardo del Signore nell’adempimento della sua promessa, avrebbero argomentato contro la verità della promessa stessa, come è già stato detto. E ora, chiedo, come si può immaginare che, prendendo congedo da coloro che pensava stessero per essere sorpresi vivi dalla terribile catastrofe, egli avrebbe trascurato la singolarità di una situazione così tragica? Qual è l’apparenza, soprattutto, con la quale egli avesse voluto, in questa occasione, dissimulare i suoi pensieri sulla prossimità dell’evento, ricorrendo alla considerazione artificiale dei mille anni che davanti a Dio sono l’equivalente del giorno passato ieri? È quindi una nuova e manifesta negazione, che si aggiunge a tante altre, che nelle forme più varie, tutte le pagine del Nuovo Testamento si oppongono alla tesi modernista.

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Ma c’è un’ultima considerazione che domina tutto il resto, e che basterebbe da sola a mettere al suo posto (cioè la pattumiera -ndt.- ) l’affermazione degli avversari. È che, lungi dal suonare “a morto” la campana del mondo, le Epistole apostoliche hanno suonato piuttosto il rinnovamento di esso: questo magnifico rinnovamento che il Vangelo e la grazia di Gesù Cristo gli hanno portato. In esse vi vediamo la restaurazione di tutte le cose in Cristo, e non solo di quelle che riguardano la vita futura, ma anche di quelle che sono della terra e del buon ordine della vita presente. Restaurazione della società politicaState sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio. Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re. » (1 Petr. II, 13-17), – « Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. I governanti, infatti, non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo, dunque. dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi l’onore, l’onore. » (Rom., XIII, 1-7). Ripristino della società coniugaleUgualmente voi, mogli, state sottomesse ai vostri mariti perché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati considerando la vostra condotta casta e rispettosa. Il vostro ornamento non sia quello esteriore – capelli intrecciati, collane d’oro, sfoggio di vestiti -; cercate piuttosto di adornare l’interno del vostro cuore con un’anima incorruttibile piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio. Così una volta si ornavano le sante donne che speravano in Dio; esse stavano sottomesse ai loro mariti, come Sara che obbediva ad Abramo, chiamandolo signore. Di essa siete diventate figlie, se operate il bene e non vi lasciate sgomentare da alcuna minaccia. E ugualmente voi, mariti, trattate con riguardo le vostre mogli, perché il loro corpo è più debole, e rendete loro onore perché partecipano con voi della grazia della vita: così non saranno impedite le vostre preghiere. » – 1 Petr. III, 1-7). – « … Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore … il marito infatti è capo della moglie …, … così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso … » (Ef., v, 22-33). – Restaurazione della società domestica in tutte le sue parti e dipendenzeVoi servi, siate soggetti ai vostri padroni con ogni tipo di rispetto, non solo a chi è buono e gentile, ma anche a chi è difficile. Perché è gradito a Dio che per amor suo si sopporti una pena ingiustamente inflitta… Questo è ciò che siete stati chiamati a fare, poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un modello, affinché seguiate le sue orme. » (1 Petr. II, 18-23), – « Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto. Onora tuo padre e tua madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra. E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell’educazione e nella disciplina del Signore. Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo, e non servendo per essere visti, come per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, compiendo la volontà di Dio di cuore, prestando servizio di buona voglia come al Signore e non come a uomini. Voi sapete infatti che ciascuno, sia schiavo sia libero, riceverà dal Signore secondo quello che avrà fatto di bene. Anche voi, padroni, comportatevi allo stesso modo verso di loro, mettendo da parte le minacce, sapendo che per loro come per voi c’è un solo Signore nel cielo, e che non v’è preferenza di persone presso di lui. »  (Ef., VI. 1-9). – Cfr. Colossesi, III, 18-25; IV, 1, ecc.). – Restauro di tutta la società umana, nelle diverse classi che la compongono, e i doveri reciproci di giustizia e carità che li legano gli uni agli altri (Jacob., II, 1-17, e V, 1-6; 1 -Joan., III, 11-24, ecc.). Meditiamo su queste pagine meravigliose, e si dica pure che essi furono dominati dall’idea che il mondo stava per finire – coloro che le scrissero – che posero in esse con tanta lungimiranza le basi per la ricostruzione di tutto l’ordine sociale, sia pubblico che privato, che con mano così sicura stabilirono i principi di quella mirabile civiltà cristiana che i secoli a venire dovevano vedere sorgere sulle rovine della barbara civiltà del paganesimo! Che si sostenga questo, che si osi sostenerlo, … sarebbe un insulto alla ragione, una sfida al senso comune, il più paradossale delle impertinenze che sia mai apparsa nella lista, per quanto lunga, delle aberrazioni umane. – Eppure, qualcuno dirà qui, tutte le ragioni addotte finora non cancelleranno i numerosi passaggi in cui gli Apostoli dichiarano in termini espliciti che al loro tempo, gli ultimi giorni, l’ultima ora del mondo, la fine, la consumazione dei secoli era arrivata. Al che rispondiamo che, senza dubbio, non li sopprimono, ma che garantiscono già una spiegazione completa e soddisfacente; che, inoltre, questi passaggi costituiscono una nuova categoria di testi che richiedono chiarimenti particolari da riservare all’articolo seguente.

LA PARUSIA (8)

LA PARUSIA (6)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (6)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE, Rue de Rennes, 117 – 1920

TOUS DROITS RÉSERVÉS

ARTICOLO SESTO

LE PARABOLE CHE FANNO DA EPILOGO AL DISCORSO ESCATOLOGICO. TESTI CONSIDERATI IN CONTROSENSO DAI MODERNISTI

La nostra esegesi del discorso di Gesù sulla fine del mondo e la parusia non sarebbe completa se passassimo sotto silenzio le due parabole delle dieci vergini e dei talenti, che in Matteo (XXV, 1-30) servono da e pilogo. È, infatti, abbastanza evidente che queste parabole sono un tutt’uno con il contenuto del capitolo XXIV, e che non sono altro che una drammatizzazione, sotto immagini e figure appropriate, di ciò che l’oracolo escatologico annunciava come dover accadere in futuro. Ci offrono, quindi, un mezzo sicuro per controllare l’interpretazione dell’oracolo stesso, e allo stesso tempo ci forniscono un mezzo per fare una controprova della verità delle conclusioni a cui siamo arrivati finora. – In primo luogo, ecco la parabola delle dieci vergini. Il materiale è tratto dalla celebrazione delle nozze, come era praticata in Palestina al tempo di Nostro Signore, e così com’è ancora praticata oggi in tutto l’Oriente. Quando la sposa, a causa del suo matrimonio, doveva trasferirsi da una località all’altra, le ragazze della località che stava lasciando, le facevano  un corteggio d’onore e la conducevano in gran pompa davanti allo sposo, che a sua volta veniva incontro alla sposa per condurla a casa sua ed introdurla dapprima nella sala del banchetto dove si concludeva la cerimonia nuziale. (Un esempio ne vien dato nel primo libro dei Maccabei, c. IX, vv. 17 ss. « Fu annunciato a Giona e a suo fratello Simone che i figli di Jambri celebravano un matrimonio solenne e che portavano da Madaba, con grande sfarzo, la sposa, figlia di uno dei potenti principi di Chanaan…. Guardando in alto, essi osservarono, ed ecco, si udì un grande rumore ed apparve un grande corteo. Lo sposo, accompagnato dai suoi fratelli ed amici, si fece avanti per incontrarla, con tamburelli, strumenti musicali ed un notevole armamentario. » Solo che questa volta la festa fu terribilmente disturbata, e sappiamo come le nozze si trasformarono in lutto, ed i suoni gioiosi della loro musica in lamenti). Inoltre, era durante le prime ore della notte che l’intera cerimonia veniva solitamente eseguita. Da qui le torce, le fiaccole, le lampade accese nelle mani dei paraninfi. Da qui, anche, la metafora dell’essere gettati nelle tenebre esterne, o, ciò che equivale alla stessa cosa, dell’essere mandati fuori dalla sala del banchetto nelle tenebre esteriori, che è così spesso usata nel Vangelo per significare la dannazione dell’anima, esclusa da quel banchetto celeste che la gloria di Dio illumina, e di cui l’Agnello è la lampada, come dice San Giovanni nella sua Apocalisse (XXI, 23). Il mistero del regno dei cieli ci sarà descritto in termini di parusia, sotto forma di una di quelle solennità nuziali che si tenevano quotidianamente nei villaggi della Giudea e della Galilea. Lo sposo atteso è Gesù Cristo; Gesù Cristo nel Suo Secondo Avvento; Gesù Cristo che ritornerà, come Egli stesso ha annunciato, per risuscitare tutti i morti dalle loro tombe (Gv. V. 28) e, dopo la risurrezione generale, una volta completato il giudizio universale, per portare la Sua sposa, la Chiesa trionfante, ora senza macchia o ruga o contaminazione di qualsiasi tipo, alle nozze eterne. Le dieci vergini che vanno incontro allo sposo (si noti che mentre la Vulgata recita: “per incontrare lo sposo e la sposa“, il greco riporta semplicemente: “per incontrare lo sposo“) sono l’universalità dei fedeli, che, per il fatto stesso di professare il Cristianesimo, professano anche di credere nella seconda venuta di Cristo. Ora, aspettare qualcuno, cos’altro è se non andargli incontro in spirito e in pensiero? Per questo Sant’Agostino dice: Quid est ire obviam sponso? corde ire, exspectare ejus adventum (S. Agostino, Serm. 93 de verbis evang., n. 6.), da cui è chiaro che fare una professione di Cristianesimo è figurare come colui che sta per incontrare il Cristo immortale, nostro grande Dio e Salvatore, autore e consumatore della nostra fede, nel suo glorioso ritorno alla fine dei tempi. – Vediamo, tuttavia, che tra coloro che si definiscono Cristiani, molti non conformano la propria condotta al credo che professano. Da qui la distinzione tra le vergini sagge e le vergini stolte. Le cinque stolte, avendo preso le loro lampade, non presero l’olio con loro, ma le sagge presero l’olio nei loro vasi con le loro lampade. Ciò significa che le stolte trascurarono di fare i preparativi necessari, mentre le sagge ebbero cura di dotarsi, in ogni momento, di tutto ciò che il cerimoniale della festa poteva richiedere. E senza perderci qui nel dettaglio quasi infinito delle molteplici applicazioni del testo evangelico, diciamo in modo generale che mentre le lampade simboleggiano la legge, l’olio di cui furono private le vergini stolte, rappresenta la carità e le buone opere, senza le quali la lampada mistica della fede è come una lampada che fuma, si consuma e si spegne. Ma ancora c’è dell’altro. Il corteo, che era partito all’imbrunire, dovette fermarsi e fare una sosta perché lo sposo tardava ad arrivare. Era in ritardo, anzi, doveva ritardare fino a metà della notte. Certamente, questo era un ritardo straordinario, considerando i costumi dell’epoca; meglio ancora, era un ritardo oltre ogni misura. Non c’è quindi da stupirsi se durante un’attesa così lunga, le dieci vergini furono infine prese dal sonno una dopo l’altra: si assopirono tutte – dice il Vangelo – e si addormentarono. Dormitaverunt omnés et dormierunt. Questa caratteristica è degna di nota. È necessario, in particolare, notare questo “omnes”: tutte, cioè, sia le sagge che le stolte. Questo porta immediatamente alla conclusione che il sonno qui non è messo in cattiva luce, come il sonno della negligenza e della pigrizia, come quando fu detto in San Marco, XIII, 36: « Vegliate, perché il padrone di casa non vi trovi addormentati. » No, non è più il sonno della dimenticanza del dovere, non è più il sonno del peccato, non è più il sonno dell’incuria che si intende questa volta. Questo non può essere – dice Sant’Agostino – perché tra il numero delle vergini che si addormentarono c’erano anche le sagge, quelle che sono date modello, che rappresentano le elette, davanti alle quali, infine, si sarebbero aperte le porte del banchetto nuziale, figura del banchetto della gloria eterna, al quale si è ammessi solo a condizione di aver perseverato fino alla fine, secondo quanto è scritto: « Colui che avrà perseverato fino alla fine, costui sarà salvato. » Ma c’è un altro sonno da cui nessuno può fuggire, ed è il sonno della morte. Infatti, chi non sa che la morte è costantemente presentata come un sonno nelle scritture del Nuovo Testamento? … Che i morti sono comunemente chiamati dormienti, e quelli che muoiono, come quelli che sono dormienti? (Matth., XXVII, 52; Joan, XI, 11; I Cor., VII, 39; XV, 6, 18, 20; I Thess, IV, 12-1.4, ecc.) – Non c’è dunque da ingannarsi: il sonno che prende le dieci vergini che andarono davanti allo sposo rappresenta la morte, la morte che depone nel sepolcro le generazioni cristiane una dopo l’altra, finché l’ora tarda della parusia e la resurrezione non venga a suonare (Omnes dormitaverunt, id est mortuæ sunt, quia sanctorum mors somnus appellatur, – Hieron., in Matth. XXV, 5). – Subindicat mortem esse somnum. Dormierunt, inquit. (S. G. Crisostomo, Hom. 78 in Matth., n. 1). – Infine, nel cuore della notte, un grido risuonò improvvisamente: Ecco, lo Sposo sta arrivando; andate a incontrarlo! Questo è il grido di cui l’Apostolo ha detto: « Al segnale dato, alla voce dell’Arcangelo, al suono della tromba divina, il Signore stesso scenderà dal cielo e i morti risorgeranno. » (I Thess., IV, 15). –  Allora le dieci vergini si svegliarono, si alzarono e si misero a preparare e ad accendere le loro lampade per formare un corteo d’onore per seguire colui che, dopo tante ore, stava finalmente arrivando. Ma le donne stolte vedono le loro spegnersi per mancanza di olio. Nella loro angoscia, si rivolgono alle sagge che si ricusano, perché in quel momento ognuno risponderà per se stesso e non potrà dare del suo superfluo agli altri. « Non ne abbiamo abbastanza per noi e per voi  » – rispondono – « ma andate piuttosto da chi lo vende e compratelo per voi. » Un’ironia struggente che esprime l’irrimediabile infortunio in cui saranno gettati tutti coloro che non approfittano della vita presente per assicurarsi l’eternità. E conosciamo il resto …  Più tardi vennero anche le altre vergini, dicendo: Signore, Signore, apri a noi. Ed egli disse loro: “In verità vi dico che non vi conosco“. E questa è la morale della parabola: Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora. È sempre la stessa raccomandazione ad essere vigili, quella che suona come un serio ritornello nei supremi avvertimenti di Gesù. Se non fosse questa legge tale, potrebbe sembrare a molti abbastanza spropositata, venendo, come abbiamo osservato, dopo l’esempio di quelle vergini che, invece di vegliare, dormivano tutte, comprese le sagge, quando fu dato il segnale dell’arrivo dello sposo. Di fatto, non c’è via d’uscita alla difficoltà nell’esegesi modernista, che può solo offrire al Vangelo le contraddizioni più grossolane ed assurde. Ma la contraddizione scompare non appena ci riferiamo a ciò che abbiamo detto prima, e soprattutto a questi due punti capitali: in primo luogo, che è il sonno della morte, di cui si parla qui; e in secondo luogo, che il Vangelo è solito considerare l’ora della parusia ancora nell’impenetrabile ignoto del futuro, come risuonante per anticipazione per ciascuno in particolare, all’ora, altrettanto inconoscibile in anticipo, in cui la morte, cogliendolo, lo fissa nello stato, o di grazia o di dannazione, in cui lo troverà il giorno del Giudizio universale. Su questi due punti, infatti, una volta che le leggi siano ben stabilite, c’è piena armonia, perfetta corrispondenza, tra la similitudine proposta e la lezione che se ne trae. Infatti, da questo punto in poi, appare che la vigilanza raccomandata nella morale della parabola si riferisce al tempo che precede la venuta del Figlio dell’uomo, considerato, non tanto nella sua realtà di ultima ora del mondo, quanto in quella di ultima ora di ogni individuo: assolutamente come, nella parabola stessa, la lungimiranza richiesta alle dieci vergini morava non al tempo immediatamente precedente l’arrivo del pentimento, ma a quello che precedeva il momento in cui il sonno, cogliendole una dopo l’altra, toglieva loro allo stesso tempo, mentre procedevano, ogni potere di fare ulteriori preparativi, ogni mezzo per compensare ciò che mancava, ogni possibilità di aggiungere qualcosa alle provviste che avevano fatto prima di andare a dormire. Non è dunque ad un senso accommodatizio, ma al senso proprio, letterale e naturale, che San Crisostomo si è attaccato nell’Omelia LXXVIII su San Matteo, quando, in accordo con tutta la Tradizione, ha spiegato la parola alla fine, vigilate itaque, quia nescitis diem neque horam, dicendo: « Vedete come frequentemente termina con queste parole, mostrando che è utile per noi essere inconsapevoli del giorno della nostra partenza da questa vita: κρησίμην δεικνύς τήν ἄγνοιαν τῆς ἐζόδου τῆς ἐντεῠθεν… [kresimen deiknus ten agnoian tes ezodou tes enteuden] » (P. G. t. LVII, col. 713). – Questa, dunque, è la prima delle due parabole che seguono, in San Matteo, al discorso escatologico, e che raffigurano il regno dei cieli sulla terra, nella sua relazione con la seconda venuta di Gesù Cristo. Per essere ben compreso, questo aveva bisogno di qualche chiarimento, ed è per questo che abbiamo dovuto soffermarci un po’ su di esso. – Quanto al secondo, quello dei talenti, è troppo ovvio e troppo trasparente in sé, almeno nel suo senso generale, e dal punto di vista che qui ci interessa, per richiedere una spiegazione dettagliata. Si vede, infatti, che l’uomo che va all’estero per un viaggio è Gesù stesso, che presto sarebbe salito al cielo; che i servi sono gli stessi che prima erano rappresentati dalle dieci vergini; che i talenti loro affidati sono i doni della natura e della grazia, dati a ciascuno per essere usati; che il ritorno del padrone è il ritorno di Gesù alla fine dei secoli, e il resoconto dell’uso dei talenti ricevuti è quello che ci verrà chiesto, per servire da base al giudizio in cui saremo ricompensati secondo le nostre opere. Inoltre, la parabola dei talenti si riferisce allo stesso oggetto della prima, e la sola differenza è che la prima, insistendo sull’incertezza del giorno e dell’ora, concludeva con la necessità della vigilanza, mentre questa, insistendo sul rigore del conto da rendere, conclude con la necessità del lavoro, dello sforzo e di un’attività costante. Tutte queste cose sono evidenti e non soffrono di alcuna difficoltà, e resta solo da mettere in una luce adeguata ciò che le due parabole contengono di particolarmente adatto a distruggere la sciocca pretesa dei modernisti che, nella mente di Gesù, la catastrofe suprema fosse vicina, o che sarebbe venuta imminentemente, o che dovesse avvenire nel corso della generazione contemporanea. E a questo proposito, viene spontaneamente alla mente il già citato verso della parabola dei voti di Gesù. E a questo proposito, viene alla mente la caratteristica sottolineata prima nella parabola delle vergini, del ritardo dello sposo, moram autem faciente sponso. Lo sposo tardava a venire; tardava addirittura, osserviamo, in un modo che si potrebbe dire “esorbitante”, poiché far aspettare fino a mezzanotte una festa di nozze è qualcosa che non si vede, che non si è visto, che probabilmente non si vedrà mai. Era a mezzanotte che iniziava la terza veglia, e la terza veglia, lungi dall’essere considerata come l’ora possibile per l’inizio di una festa di nozze, era al contrario considerata come l’ora estrema in cui si ritornasse. Ne è testimone ciò che si dice del padrone che i servi aspettano al suo ritorno dalle nozze: et si venerit in secunda vigilia, et si in tertia vigilia venerit, et ita invenerit, ecc. (La seconda guardia era dalle nove di sera a mezzanotte, la terza da mezzanotte alle tre del mattino). D’altra parte, non credo che si tratti di una caratteristica puramente accessoria, aggiunta senza alcuna intenzione di significato, come un semplice ornamento alla narrazione della parabola. Non solo nulla autorizza una tale supposizione, ma tutto al contrario contribuisce ad escluderla, poiché se c’è una cosa che è evidente, è che la circostanza di un ritardo così straordinariamente prolungato è qui la circostanza principale; è quella che comanda tutte le altre, a cui viene dato il maggior risalto, e da cui dipende tutto ciò che è proprio, originale e caratteristico nel racconto. Bisogna quindi riconoscere, volenti o nolenti, una caratteristica appartenente alla sostanza stessa del racconto della parabola, e, di conseguenza, alla figura del mistero da rappresentare, formalmente presa come tale; di conseguenza, bisogna cercarne il senso, il significato e la portata. Ma il compito sarà facile, perché dal momento in cui lo sposo atteso rappresenta Gesù Cristo nella sua parusia, va da sé che il notevole ritardo nell’arrivo dello sposo rappresenta un proporzionale ritardo nell’arrivo di questa stessa parusia. Quindi non si discute più dell’imminenza o della vicinanza dell’avvento glorioso. Al contrario, la parabola lo presenta come un ritardo, e un ritardo, va notato, tanto notevole in relazione alla durata del mondo quanto quello dello sposo in relazione alla durata di una cerimonia nuziale. E pensiamo forse che sia una cosa da poco? Sembra piuttosto che la proporzione ben stabilita possa dare solo un periodo di tempo misurato da una lunga serie, non direi di giorni, né di anni, ma di secoli. Anche San Crisostomo, su queste parole, moram autem faciente sponso, dice: « Qui di nuovo mostra un intervallo di tempo non indifferente, dissuadendo i suoi discepoli dall’idea che il suo regno stesse per venire, poiché essi erano in questa speranza, e questa è la ragione per cui spesso li allontana da essa (Hom. 78, in Matth. n. 1.). » E San Girolamo commentando lo stesso passo, « Lo sposo fu lento a venire, perché non è un breve spazio di tempo, quello che si estende dal primo al secondo avvento del Signore (Moram autem faciente sponso, darmitaverunt omnes et dormierunt. Non enim parum temporis inter priorem et secundum adventum Domini prætergreditur. in Matth.,XXV, 5, P. L. XXVI, col. 184.) ». Ma c’è di più. La caratteristica del ritardo dello sposo apparirà molto più sorprendente e significativo se lo confrontiamo con quello che abbiamo letto poco prima (Matth., XXIV, 48), a proposito dei due servi, uno dei quali fu trovato, al ritorno del padrone, a compiere fedelmente i doveri del suo ufficio, l’altro, al contrario, a battere i suoi compagni, a mangiare e bere con gente dedita al vino. Infatti, parlando di quest’ultimo, Gesù gli aveva messo in bocca questa ragione della sua vita disordinata e dissoluta: Il mio padrone è lento a venire, moram facit dominus meus venire. Questa ragione è notevole, e non è stata messa qui a caso. Era la ragione di un miscredente che non si preoccupava affatto della parusia, ma la cui incredulità era avvolta dalla constatazione ironica del suo ritardo. Infatti questa parusia, che il fervore della prima epoca attendeva come se fosse vicina, non sarebbe venuta nel breve tempo che si supponeva. Da qui le delusioni contro le quali gli Apostoli dovevano custodire la fede dei fedeli; da qui anche, l’idea del ritardo che non poteva non cogliere l’umore beffardo dei miscredenti. Come quelli di cui parla San Pietro nella sua seconda epistola (III, 3-5): « Sappiate che negli ultimi giorni verranno degli schernitori che vivranno secondo le loro passioni, dicendo: Dov’è la promessa della sua venuta? Perché da quando i nostri padri sono morti, tutte le cose continuano come erano dal principio della creazione. » E tutto questo, insieme al resto, che è facile immaginare, era incluso nell’ironia di questa parola: moram facit dominus meus venire! Ma delle delusioni di alcuni, così come delle beffe di altri, Gesù si mostrò pienamente consapevole nel suo discorso escatologico, e si rivelò anche in pieno possesso della conoscenza del futuro; dico di tutto il futuro, del più vicino come del più remoto, e del tempo del giudizio come dello stato degli spiriti la mattina della sua ascensione al cielo. Perciò denunciò in anticipo il motivo del servo malvagio, con ciò che doveva essere la base del suo pretesto, e nel denunciarlo, diede già a intendere che la parusia avrebbe sì ritardato rispetto alla smania ed all’attesa della prima generazione, ma non sull’ora segnata nei suoi consigli; che il presunto ritardo avrebbe avuto luogo solo in esecuzione delle disposizioni eterne della Sua provvidenza, e che il movimento a ritroso dell’avvento glorioso nelle epoche lontane sarebbe stato il puro e semplice compimento di un disegno precedentemente formato e voluto, e, come tale, predetto e annunciato da Lui. Questo è il significato di moram facit dominus meus venire, come profeticamente messo da Gesù nella bocca del servo miscredente. Questo è lo stesso significato e la stessa portata di moram autem faciente sponso, che riceve così una nuova luce ed una nuova enfasi dal confronto, cosa che è molto importante notare. Eppure non è ancora tutto. Ecco ora la parabola dei talenti che completerà il punto in questione. E a proposito di questa seconda parabola, potremmo osservare prima di tutto che è molto simile a quella delle mine, che San Luca riporta come proposta qualche giorno prima o il giorno prima della Domenica delle Palme, e che ci presenta accompagnandola, o meglio facendola precedere da questa informazione (XIX, II): « Egli (Gesù) aggiunse una parabola, perché era vicino a Gerusalemme e la gente pensava che il regno di Dio sarebbe apparso presto. » Questo per indicarci la falsa opinione che la suddetta parabola intendeva confutare e distruggere. – Ed infatti, Gesù fu presentato in figura di un uomo di alto lignaggio che va in un paese lontano per essere investito della regalità; il quale, avendo chiamato dieci dei suoi servi, diede loro dieci mine, dicendo: “Usatele finché non torni“; e quando tornò, dopo aver ricevuto l’investitura del suo regno, nonostante l’opposizione dei suoi concittadini che lo odiavano e avevano mandato dei deputati a seguirlo per dire: “Non vogliamo che quest’uomo regni su di noi“, fece chiamare i dieci servi per sapere quale guadagno avesse fatto ciascuno di loro. E tutto questo per ribaltare il pregiudizio popolare di cui sopra. No, il regno di Dio, quello che avevano in vista, quello a cui anelavano, il regno della gloria e del trionfo, non stava per giungere. Era necessario che Gesù andasse prima in cielo e poi ritornasse, e che nel frattempo tutte le risorse di salvezza, sia individuali che sociali, che Egli avrebbe lasciato nelle nostre mani, fossero messe in opera. Così, non era una questione di pochi giorni, e giudicando a priori, secondo i calcoli basati sulla natura semplice delle cose, l’intervallo tra la partenza ed il ritorno non poteva essere di durata mediocre. Ma ciò che lasciava indovinare la parabola delle mine, il cui scopo diretto era solo quello di eliminare l’idea che i Giudei sognassero un regno temporale del Messia che stava per essere inaugurato nella città di Gerusalemme, la parabola dei talenti, il cui scopo era più alto e si estendeva a tutta la questione escatologica, avrebbe dato un’indicazione positiva attraverso una caratteristica significativa. Molto tempo dopo – è detto – il padrone che era andato all’estero tornò e chiese ai suoi servi un resoconto dei talenti che aveva affidato loro. Post multum vero temporis, venit dominus servorum Moram, et posuit rationem cum eis. Ovviamente, anche questo post multum temporis, μετά πολύν χρόνον [meta polun cronon], non è stato messo lì senza motivo. D’altra parte, non ne vediamo molto bene la ragione, se ci poniamo esclusivamente dal punto di vista della lezione morale che Nostro Signore intendeva dare. Infatti, dal punto di vista della lezione morale, bastava dire che il padrone tornava dal suo viaggio, che al suo ritorno chiedeva conto, e che poi rendeva a ciascuno dei servi secondo il lavoro svolto e l’attività da lui profusa. Inoltre, che il ritorno avvenisse o meno molto tempo dopo la partenza, dopo uno, due, dieci o cinquant’anni, era la cosa più indifferente del mondo e la meno degna di nota. Non dovremmo quindi trovare il significato del post multum temporis nell’aspetto profetico e figurativo della parabola, e riconoscere che se la partenza ed il ritorno del Maestro rappresentavano l’ascensione e la parusia del Signore, il lungo tempo trascorso prima del ritorno rappresentava anche una lunghezza proporzionale di tempo, che dovrebbe separare la grande scena sul Monte degli Ulivi quaranta giorni dopo la resurrezione, dalla scena ancora più grande nella valle di Giosafat alla fine dei tempi? Tutto farebbe pensare a questo, ed è così che San Girolamo lo ha giustamente inteso nel suo commento a San Matteo: «Molto tempo dopo – dice – il padrone di questi servi tornò… (per significare che) grande è il tempo tra l’ascensione del Salvatore e la sua seconda venuta. Grande tempus est inter ascensionem Salvatoris et secundum ejus adventum (P. L., vol. XXVI,  col. 187)  » Ecco, dunque, tre dei tratti più sorprendenti in cui si rivela il pensiero di Gesù sulla durata del mondo; tre tratti che, uno dopo l’altro, danno la più assoluta smentita alla tesi modernista. Il mio padrone tarda a venire, fa dire Gesù al servo cattivo. Siccome lo sposo tardava a venire, disse poco dopo, parlando di se stesso nella parabola delle vergini. Dopo molto tempo, il padrone tornò, dice poche righe dopo, nella parabola dei talenti. Questo porta alla mente il famoso passaggio del Salmo XXI, che promette alla Chiesa di Gesù Cristo un’ampia diffusione tra tutti i popoli della terra, che Sant’Agostino opponeva ai Donatisti, i quali, sebbene ridotti ad un piccolo canto dell’Africa, nondimeno avevano la pretesa di essere la vera Chiesa. « Pensate – diceva egli a questo riguardo un giorno di Venerdì santo – che abbiano ascoltato il loro lettore questa mattina quando ha letto dall’ambone questo annuncio profetico dei frutti della redenzione: Le estremità della terra si sovverranno e si convertiranno al Signore? Ma abbiate pazienza, è ancora solo un verso. Suvvia, avrete pensato a qualcos’altro, o stavate chiacchierando con il vostro vicino; ma ora fate attenzione, perché egli dice di nuovo, e colpisce le orecchie dei sordi: “E tutte le famiglie dei gentili si prostreranno davanti alla sua faccia“. Non avete ancora sentito? Poi si ripete una terza volta: Al Signore appartiene il dominio, ed egli dominerà su tutte le nazioni. Ricordatevi di questi tre versi, fratelli miei (Enarr. in Salmo XXI, 28-29, P. L., t. XXXVI, col. 179). Così dirò, a mia volta, dei tre incisi menzionati sopra, relativi a ciò che è stato chiamato la “mora finis“: Il mio padrone tarda a venire – Lo sposo tardava ad arrivare, – Dopo molto tempo, il padrone è tornato! Quale mente irata e prevenuta, a tale insistenza, proprio nella pagina in cui si tratta ex professo la questione del secondo avvento di Gesù Cristo, non rovescerebbe i pregiudizi e forzerebbe il suo ingresso? A meno che non si pretenda che la parusia sia stata ritardata, che sarebbe giunta dopo un lungo ritardo, dopo un tempo considerevole, dovendo arrivare, secondo quanto i modernisti vogliono trovarne la predizione nel Vangelo, durante la stessa generazione che aveva visto nascere e morire Gesù! Certamente, queste ragioni sembrano perentorie. Ma sorge subito una difficoltà. Si porrà di nuovo la questione di come conciliare quanto appena detto con l’opinione, così diffusa nel primo secolo, di un rapido ritorno del Signore, e l’obiezione viene a porsi da sola sulle labbra. I primi Cristiani non avevano letto il Vangelo? O forse non erano in grado di comprenderlo, essi che l’avevano ricevuto dalle mani degli Apostoli, e si trovavano presso la fonte originale da cui scaturisce tutta la tradizione cristiana? E quello che noi vediamo lì, o crediamo di vedere lì, inculcato con tanta insistenza, essi non l’avrebbero visto! Anzi, cosa dico? Essi avrebbero visto tutto il contrario, come attestano molti documenti dell’epoca apostolica, ai quali abbiamo già accennato sopra. E si contristavano per quelli del loro stesso numero che si addormentavano nell’ultimo loro sonno, come se questi cari morti fossero stati in tal modo privati dal partecipare, come essi avevano ardentemente desiderato, alla gloria ed al trionfo del giorno del Signore; e San Paolo fu costretto a consolarli, assicurando loro che la partecipazione a questo trionfo non sarebbe stato il privilegio esclusivo di coloro che il grande giorno avrebbe trovato ancora vivi sulla terra; (I Tess., IV, 13-18). Anche essi erano turbati dal ritardo, e San Pietro doveva rafforzarli con questa considerazione, che per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno; che, inoltre, Gesù non ritardò l’adempimento della sua promessa, ma fu paziente, non volendo che qualcuno perisse, ma che tutti venissero a pentimento; (II Petr., III, 8-9). No n si sapeva quindi nulla né del moram faciente sponso, né del post multum temporis venit dominus servorum illorum, né di nessuna delle caratteristiche che abbiamo menzionato prima, di natura tale da far entrare l’idea del ritardo nelle menti più ribelli. Questa è la ragione più plausibile che possano darci, e tuttavia non pensiamo di uscire dai limiti della più completa moderazione nel dire che essa non vale assolutamente nulla. È inutile, in primo luogo, perché qui si applica il principio così spesso invocato riguardo alle profezie, che, in generale, sono comprese correttamente solo dopo che l’evento ne abbia fornito la chiave. Invano, quindi, si sosterrà che i Cristiani dell’epoca apostolica, essendo più vicini alle fonti della rivelazione, erano anche in una posizione migliore della nostra per leggere e interpretare le profezie del Vangelo. È proprio il contrario, proprio l’opposto della verità. Potremmo infatti dire, per esempio, che le profezie di Daniele sui re di Siria e d’Egitto (Dan, XI, 2 segg.) – respinte come apocrife dai razionalisti, solo per la sorprendente precisione con cui vediamo ora designati, anche nei minimi dettagli, tutti gli eventi dei loro regni – che queste profezie, dico, erano più comprensibili ai contemporanei di Daniele stesso, che a noi che le decifriamo così facilmente con l’aiuto dei documenti forniti dai libri dei Maccabei e dagli altri monumenti della storia. – Essa non vale nulla, poi e soprattutto, perché la predizione del lungo tempo che doveva trascorrere fino al secondo avvento del Signore, non è presentata da nessuna parte ex professo, né in termini espliciti e formali, ma solo accidentalmente, e come per caso, in righe sparse, che a prima vista sembrano essere cadute qua e là per caso dal discorso, e tanto più indegne di attenzione, in quanto sono come perse nelle ombre delle parabole, e nascoste sotto i veli dell’allegoria. Quale meraviglia, allora, che siano passati inosservati alla prima generazione, le cui preoccupazioni erano ben altre? Quale meraviglia, inoltre, che quando gli eventi avevano una volta smentito le speranze di alcuni, gli allarmi di altri e le aspettative dei più, e avevano così costretto le menti a soffermarsi sull’idea di una parusia che era ancora lontana, ciò che era sfuggito ai lettori disinformati delle epoche precedenti fu scoperto in uno studio più profondo del Vangelo? E questo è precisamente ciò che Gesù aveva in mente; è stato in vista di questo risultato che Egli ha misurato le sue parole e, se posso usare l’espressione, ha misurato luci e ombre nella sua risposta alla domanda degli Apostoli: « Dicci quando avverranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo? » Senza dubbio il giorno del giudizio doveva rimanere completamente nascosto per quanto riguarda la sua data precisa né si doveva sapere in anticipo se fosse vicino o lontano. Tuttavia, ciò non poteva impedire che alcune indicazioni profetiche venissero discretamente inserite nella moratoria concessa al mondo: indicazioni che, portate alla luce col passare del tempo, sarebbero servite a rassicurare la fede delle epoche successive, che altrimenti sarebbe stata scoraggiata da un’attesa indefinitamente prolungata, non supportata dai dati concordanti della rivelazione. Li troviamo, come abbiamo appena detto, con la loro razione di ombra per i primi tempi, e di luce per quelli successivi, nelle due parabole in cui ha rappresentato, sotto immagini semplici e popolari, tutto il mistero della sua parusia. Questo è già stato sufficientemente dimostrato, senza che ci sia bisogno di ritornarci sopra. Aggiungerò solo ora, a titolo di epilogo, che la parabola delle dieci vergini, indipendentemente dall’indicazione data dalla circostanza precedentemente spiegata, ne contiene un’altra, ancora più velata e misteriosa, ma anche tanto più significativa perché emerge dall’intero quadro della narrazione allegorica, e sempre, sempre più, in una direzione diametralmente opposta al significato ed all’idea modernista. Ed infatti, è evidente che quando Gesù disse che il regno dei cieli sarebbe stato come (simile erit) dieci vergini che, prese le loro lampade, andarono incontro allo sposo: sotto il nome di “regno dei cieli”, Egli intendesse il regno di Dio che era venuto a fondare sulla terra, il regno alla cui instaurazione aveva dedicato i tre anni della sua predicazione, il regno che doveva essere costituito dalla moltitudine del popolo cristiano, dalla prima pubblicazione del Vangelo fino alla consumazione dei secoli. È dunque l’insieme dei fedeli del futuro che la parabola ci presenta. Ma perché ora, sotto l’immagine di queste vergini che, una dopo l’altra, si addormentano durante le lunghe ore di attesa dello sposo che tarda ad arrivare? Voleva forse significare che anche questi fedeli del futuro si addormenteranno, ma con il sonno della morte, prima che venga il giorno della parusia? … e che dormiranno nelle loro tombe nel momento in cui risuonerà il grido: “Ecco, lo sposo viene!” Forse. Una restrizione è tuttavia necessaria, e, per quanto fondato sia il senso che abbiamo appena esposto, sarà sempre necessario escludere coloro che saranno sorpresi dall’ultimo giorno del mondo, proprio come la catastrofe del diluvio sorprese gli uomini del tempo di Noè. (Matt. XXIV, 37 ss.; Luca, XXI, 35.) C’è ancora un problema da risolvere, se questi Cristiani dell’ultima generazione dovranno anch’essi pagare il loro tributo alla morte. – Diversi Padri, basandosi su vari passi della Scrittura, opinano in negativo, e pensano che saranno un’eccezione alla legge comune, passando immediatamente dallo stato di mortalità presente, alla vita incorruttibile del secolo avvenire (tra questi, San Crisostomo nella sua omelia 48° sulla prima ai Corinzi, n, 2; e San Girolamo nella sua lettera 59° ad Marcella. n. 3). Non importa per il momento, perché qualunque sia il caso di questa opinione, respinta peraltro, e con ragione, sembra, dal maggior numero di teologi (« È un’opinione più comune e più certa – dice San Tommaso – che tutti moriranno, e risorgeranno dai morti, e questo per tre ragioni, ecc. » – Suppl., q. 79, a. 1), una cosa è assolutamente certa, cioè che se passeranno attraverso la morte, la attraverseranno come se non la attraversassero, perché la attraverseranno senza rimanervi, senza fermarsi, in un pronto e rapido passaggio dalla vita alla morte, e dalla morte alla resurrezione (Sant’Agostino, 1. II Retract., c. 33, dice: De vita ista in mortem et de morte in aeternam vitam celerrima commutatione). – E questo è ciò che, in ogni caso, li metterà in una categoria del tutto diversa dagli altri morti che scendono nel sepolcro per rimanervi a dormire fino a quando suonerà l’ora del risveglio generale. Questo è anche ciò che basta a spiegare come e perché San Paolo, quando tratta della venuta del Signore nella sua prima Epistola ai Tessalonicesi (IV, 12-18), li distingue dai dormienti (vs. 12), da quelli che si sono addormentati in Gesù, (versetto 13); inoltre, li designa costantemente come viventi, in opposizione a quelli che chiama morti (vers. 15, 17), in conformità con l’articolo del Simbolo dove si dice che Gesù è seduto alla destra del Padre suo, da dove verrà a giudicare vivos et mortuos (« Questa distinzione tra i vivi e i morti non si riferisce al momento stesso del giudizio, quando tutti saranno vivi; né a tutto il tempo che precede il giudizio, poiché tutti saranno stati per un tempo vivi e per un tempo morti; ma si riferisce al tempo definito che precederà immediatamente la prima comparsa dei segni del giudizio. » San Tommaso, loc. cit. ad l).  Qui, dunque, siamo in presenza di due categorie ben distinte. Da un lato, i fedeli che devono addormentarsi, cioè morire prima del giorno della parusia, e dall’altro, quelli che il giorno supremo troverà vivi sulla terra: i primi, che la parabola ci presenta sotto la figura delle dieci vergini addormentate; i secondi, di cui la parabola non dice nulla, che passa sotto silenzio e ignora completamente. E subito sorge una domanda: da che parte stava, nella mente di Gesù, la generalità, la massa, il gran numero? Dico il gran numero di fedeli che compongono il regno dei due che sono qui in questione? Dalla parte dei primi o dalla parte dei secondi? Ma non è necessario formulare la risposta. Evidentemente, Gesù vedeva la generalità nella categoria che la sua parabola ritraeva. Quanto all’altra categoria che ha lasciato all’oscuro, quella dei contemporanei dell’ultimo giorno, di cui San Paolo, nel passo citato sopra, parla solo di un resto, una reliquia (Nos qui résidui sumus. Qui relinquimur, περιλειπόμενοι [perileipomenoi], egli dice, I Tess., iv, 11-13, parlando nella persona di coloro che l’ultimo giorno troveranno ancora vivi), evidentemente vedeva in essa solo una categoria di eccezione, una minuscola minoranza, che per questo non entrava nel quadro complessivo del regno dei cieli che la parabola aveva in vista. Ora, supponiamo con i modernisti che Gesù credesse che la parusia stesse per essere realizzata. Sarebbe stato proprio il contrario che si sarebbe presentato alla sua mente: la generalità, il grande numero, dalla parte dei fedeli che la parusia avrebbe trovato vivi; l’eccezione, il piccolo numero, dalla parte di coloro che la morte avrebbe già deposto nella tomba. Non è dunque da questi, ma da quelli che avrebbe preso la similitudine di quel regno dei cieli di cui ha detto: Simile erit regnum cæloram decem virginibus quæ, acceptes lampadibus, exierunt obviant sponso, e se la caratteristica del ritardo dello sposo non aveva più alcun tipo di ragione d’essere, come si è già detto, quella della sonnolenza e del sonno che coglie le dieci vergini, divenne più incoerente e più incomprensibile ancora. Da ogni parte, dunque, non vediamo altro che solenni smentite date dal Vangelo all’idea modernista, ed è un fatto che, giunti alla fine del nostro studio del discorso in cui tutta la questione della parusia è trattata ex professo e in modo approfondito, possiamo vedere che non c’è una sola delle loro interpretazioni che regga al vaglio, non uno solo dei testi di cui abusano che non li condanni, non uno solo dei loro tratti che non si rivolti contro di loro; è la piena verifica della parola del salmista: Et infirmatæ sunt contra eos linguæ eorum . Ma forse saranno in grado, rispetto all’errore del punto principale, di rivalersi con passaggi tratti da altre parti del Vangelo? Molto meno ancora, perché, per quelli, non sono più nemmeno ad rem, portano a falsità, sono fuori dal soggetto, non hanno alcun rapporto con la questione.  Tale è il passaggio che leggiamo in San Matteo, XVI, 28, in San Marco, VIII, 39, e in San Luca, IX, 27, dove Gesù dice: « Io vi dico in verità, molti di quelli che sono qui presenti non gusteranno la morte senza aver visto il Figlio dell’Uomo venire nella sua regalità. » È vero che a prima vista, così separato dal corpo della narrazione, questo testo sembrerebbe stabilire in termini espliciti e formali la tesi degli avversari. Ma un momento … Ricorriamo al contesto, e vedremo con piena evidenza che abbiamo a che fare qui, non con la parusia stessa, ma con un esempio della gloria della parusia, che Gesù si propose di dare a tre dei suoi discepoli nella sua trasfigurazione. « E dopo sei giorni – continua San Matteo – Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, li condusse su un alto monte e si trasfigurò davanti a loro. » La stessa cosa è detta in San Marco; stessa cosa è detta in San Luca, che è ancora più esplicito: E circa otto giorni dopo aver detto queste parole (quelle del testo in questione), Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, ecc. Factum est autem post hæc verba fere dies octo (San Matteo e San Mare dicono sei giorni; San Luca dice: circa otto giorni dopo. I primi due includono solo i giorni intermedi, mentre il terzo include il giorno della promessa e il giorno del compimento). Era impossibile sottolineare più chiaramente la connessione tra la promessa precedente e la visione dei tre apostoli sul Tabor. Perché Gesù aveva detto: « Chi vuole salvare la propria vita la perderà, e chi perderà la propria vita per causa mia la troverà. E che profitto ha l’uomo se guadagna il mondo intero e perde la sua anima? Perché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo con i suoi angeli, e allora renderà a ogni uomo secondo le sue opere. » Si appellava dunque all’avvento glorioso in cui presiederà alla distribuzione dei premi e delle punizioni eterne. Ma questa gloria del Padre suo, nella quale diceva che sarebbe ritornato, doveva apparire solo nella vita futura, al momento della risurrezione generale! E nel frattempo, chi lo testimonierà, chi lo renderà credibile soprattutto a coloro che lo scandalo della croce disturberebbe così profondamente? È per questo che Gesù promise subito di mostrarne ai testimoni privilegiati un esempio nella vita presente: promessa che adempì in questa meravigliosa trasfigurazione, di cui San Pietro, alla fine della sua carriera, proprio alla vigilia del suo martirio, fece il commovente ricordo nelle supreme raccomandazioni che lasciò alla Chiesa (II Petr., I, 16): « Non vi abbiamo fatto conoscere la potenza e l’avvento (parousia, παρουσίαν) del nostro Signore Gesù Cristo sulla base di favole ingegnose – scrisse – ma come testimoni oculari della sua maestà, quando ricevette onore e gloria da Dio Padre, e che d’una gloria magnifica, una voce dal cielo disse: Questi è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto. E abbiamo sentito questa voce dal cielo quando eravamo con Lui sul santo monte. » – Da tutto questo risulta apertamente, che il testo invocato dai nostri avversari (sunt quidam de hic stantibus, qui non gustabunt mortem donec videant Filium hominis venientem in regno suo), non è in alcun modo ad rem, che è falso, che è del tutto estraneo e fuori dal punto in discussione. A fortiori lo stesso deve essere detto di quello di quello che Renan ha portato fino all’estremo, per dimostrare che le affermazioni di Gesù sulla prossimità della catastrofe finale non lasciavano spazio ad equivoci: Quando si vede il rosso di sera, si prevedete che sarà bel tempo; quando si vede il rosso ombroso del mattino, si annuncia la tempesta. Come mai voi che giudicate l’aspetto del cielo non conoscete i segni dei tempi? Infatti, sarebbe impossibile per noi che abbiamo ricevuto la comprensione delle Scritture dalla Chiesa, vedere in questa risposta del Salvatore a coloro che, per tentarlo, gli chiedevano di mostrare loro un segno dal cielo, una qualsiasi allusione, anche remota, anche solo apparente, all’arrivo dei tempi segnati per la fine del mondo. Possiamo vedere, senza difficoltà, che Gesù rimprovera i giudei di non saper riconoscere i segni dati nelle profezie per questa venuta del Messia, che doveva compiersi in grande povertà ed umiltà per la redenzione del genere umano e l’espiazione del peccato. Ma non ci sarebbe mai venuto in mente di sminuire questo testo nel senso dell’ultimo avvento, che si riconoscerà da solo, senza bisogno di segni di alcun tipo. E se qualcuno vi dice: « Ecco, è nel deserto, ecco, è nei luoghi più interni della casa, non lo credete. » Non è più il tempo che Egli verrà in questo modo, in una casa particolare, una città oscura, un deserto, ma apparirà improvvisamente con una brillantezza sorprendente, come un lampo che si vede rapidamente andare da levante a ponente, da una parte all’altra del cielo, così il Figlio dell’uomo apparirà in tutta la terra. La causa dell’incomprensione dei razionalisti è, dunque, che essi hanno supposto che l’avvento messianico e la Parusia siano una stessa cosa, così che riferiscono indistintamente a quest’ultima tutto ciò che è detto nel Vangelo riguardo al primo. Inutile aggiungere che essi si guardano bene dal dimostrare il principio stesso, preferendo, piuttosto che tentare una tale impresa, assumerlo come una verità primaria che non richiede alcuna dimostrazione. Noi non li seguiremo su questo terreno, e li lasceremo in possesso della loro incrollabile certezza; però è certo che pregheremo il Padre delle luci di togliere il velo che è steso sui loro cuori, affinché possano finalmente riconoscere questo avvento di grazia e di misericordia, che li metterebbe sotto la copertura del futuro avvento della giustizia, secondo il voto della Chiesa nelle solennità del Natale: Ut quem Redemptorem læti suscipimus, venientem quoque Judicem securi videamus.

LA PARUSIA (7)


LA PARUSIA (5)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (5)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE – Rue de Rennes, 117; 1920

ARTICOLO QUINTO


ARGOMENTO PERENTORIO DEI MODERNISTI: « VEGLIATE E PREGATE, PERCH
É NON SAPETE QUANDO SARÀ IL MOMENTO. QUELLO CHE DICO A VOI LO DICO A TUTTI! VEGLIATE »

(Marc., XIII, 33-37).

Dopo aver esaminato separatamente il testo di San Luca da una parte, e quello di San Matteo e di San Marco, nella parte che è propria di questi due evangelisti, dall’altra, dobbiamo ora considerare le esortazioni alla vigilanza che, nei tre Sinottici indistintamente, seguono l’oracolo escatologico, e sono come la conclusione pratica, o, se volete, la lezione morale che Gesù ne trae. Perché anche se non sono parte integrante dell’oracolo stesso, queste raccomandazioni sono tuttavia, in relazione alla profezia stessa, un elemento di interpretazione di primaria importanza. Inoltre, esse costituiscono la base delle principali, più forti e più evidenti ragioni addotte dai nostri avversari. I modernisti, infatti, si domandano se erano davvero coloro che erano materialmente e fisicamente presenti, presenti nelle loro persone, presenti in carne e ossa, a cui erano rivolte le raccomandazioni di Gesù che leggiamo in San Matteo: « Vegliate dunque, poiché non sapete quando il vostro Signore verrà. E sappiate che se il padre di famiglia sapesse quando verrà il ladro, vigilerebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Siate dunque pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà in un’ora che non vi aspettate » (Matth. XXIV, 42-44). E in San Marco: « Fate attenzione, vegliate e pregate, perché non sapete quando sarà il momento. Così un uomo, lasciando la sua casa per andare in viaggio, assegna il suo compito a ciascuno dei suoi servi, e ordina al portinaio di vigilare. Vegliate dunque, perché non sapete quando il padrone di casa verrà, se alla sera, o a mezzanotte, o al canto del gallo, o al mattino; perché non venga all’improvviso e vi trovi addormentati. E quello che dico a voi lo dico a tutti, vegliate » (Marco, XIII, 33-37). E in San Luca: « Badate a voi stessi, che i vostri cuori non siano appesantiti dalla crapula, dall’ubriachezza e dalle preoccupazioni di questa vita, e che quel giorno vi piombi addosso all’improvviso; perché verrà come una rete su tutti coloro che abitano sulla faccia della terra intera. Vegliate dunque e pregate incessantemente, affinché siate trovati degni di sfuggire a tutti questi mali che stanno per venire, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo. » (Luc. XXI, 34-36).  Sì o no, ancora una volta: queste raccomandazioni erano dirette a Pietro, Giacomo, Giovanni, Andrea e gli altri che, alla vigilia della passione, circondarono Gesù sul Monte degli Ulivi e ascoltarono la risposta alle domande che essi stessi avevano posto, o … non erano dirette a loro? Ed essi pensano di tenerci qui in un dilemma senza speranza. Se infatti diciamo che le esortazioni alla vigilanza, alla preghiera, alla continua ed esatta preparazione per il possibile arrivo della parusia nel momento più imprevisto, riguardavano solo gli uomini del futuro, abbiamo contro di noi la dichiarazione esplicita e formale di Gesù stesso, che in San Marco concludeva con queste parole: Quod autem vobis dico, omnibus dico, vigilate: parole che, se hanno un significato, non possono averne altro che questo: E quello che dico a voi che mi ascoltate, lo dico anche a tutti: vegliate. Se, d’altra parte, non abbiamo difficoltà a riconoscere che queste esortazioni riguardavano, prima di tutti gli altri, coloro che Gesù aveva in persona presenti davanti a sé; allora qui viene la conseguenza, che è nel pensiero e nell’opinione di Gesù stesso, la parusia, sebbene incerta sul suo momento preciso, non doveva comunque arrivare entro i limiti della loro vita. Perché altrimenti, se li avesse visti per l’ultima ora del mondo giacere per secoli nelle loro tombe, e tornare alla polvere dalla quale tutti siamo venuti, avrebbe forse consigliato loro di essere vigili, per evitare che il loro Signore, venendo inaspettatamente, li trovasse addormentati? Li avrebbe forse paragonati, come vediamo in un altro luogo di San Luca (XII, 35 ss.), a dei servi che aspettano che il loro padrone torni dalle nozze, in modo che quando viene e bussa alla porta, gli aprano subito? Avrebbe messo nelle loro mani delle lampade accese e sui loro lombi la cintura che segna lo stato di un lavoratore nel pieno esercizio della sua attività? È questo il giusto atteggiamento dei morti nelle loro tombe? – A tutto ciò si può aggiungere che, affinché queste raccomandazioni avessero avuto, nei confronti della generazione contemporanea (e la stessa ragione varrà per le successive), la loro ragion d’essere e la loro utilità, non era affatto necessario che la parusia avvenisse effettivamente durante la vita di questa stessa generazione; che per essere tenuti all’erta, e per avere, secondo l’intenzione di Gesù, qualcosa che li addestrasse all’esercizio fervente delle buone opere, rappresentato qui dalle metafore delle lampade accese nelle mani e della cintura che stringe i lombi, era sufficiente che ne avessero solo l’apprensione; che, inoltre, per ispirare questa apprensione,  erano sufficienti gli avvisi così solennemente dati, e con una sì particolare insistenza sull’intera incertezza del giorno e dell’ora (Matth., XXIV, 36), dei tempi e dei momenti (Act, I, 7); e che così, grazie a questa incertezza, che era sempre presente, o come stimolo o come minaccia, le esortazioni alla vigilanza continua, alla preparazione esatta e attenta, dovessero avere sempre la stessa portata, sempre la stessa attualità, sempre la stessa presa su tutti i fedeli di tutti i tempi, e su quelli delle prime generazioni come su quelli delle ultime, per quanto remoto possa essere il punto di durata segnato nei consigli di Dio per la fine del mondo e la venuta del Giudice dei vivi e dei morti. Sì, tutto questo sarà detto, come altre cose, con la stessa forza, la stessa verosimiglianza e la stessa ingegnosità. Lo si dirà, ma chi lo crederà? Perché, dopo tutto, si dovrebbe essere molto saldamente radicati nella regione delle astrazioni dove la mente si esercita su entità puramente metafisiche, per immaginare che la possibilità di una cosa che si sa potrebbe accadere tra mille o duemila anni, così come tra cento, tra venti, tra dieci o tra cinquanta, avrà mai alcuna azione, alcuna influenza, alcuna presa su uomini reali di carne e ossa. Che se l’incertezza del giorno e dell’ora ebbe davvero sulla prima generazione cristiana l’effetto di tenerli sospesi fu proprio a causa della persuasione, o almeno, della viva apprensione in cui si trovavano di un prossimo, se non imminente arrivo. Lo stesso fenomeno, e per la stessa ragione, si è verificato al momento del crollo dell’Impero Romano, e più particolarmente ancora, all’avvicinarsi dell’anno 1000. Ma, lasciando da parte le circostanze molto speciali che allora contribuirono a sollevare gli spiriti sulla vicinanza della catastrofe, l’incertezza del tempo della parusia, confessiamolo francamente, non ha mai, in tempi ordinari, avuto alcuna influenza su niente e nessuno, né sui credenti né sui miscredenti: possiamo fare appello qui, con tutta sicurezza, all’esperienza costante. Credenti e non credenti possono dormire sonni tranquilli, senza temere che la macchina del mondo vada improvvisamente in rovina, o che ci si preoccupi altrimenti dei “tempi e dei momenti” di cui il Padre si è riservato il segreto; senza mai pensarci, a parte le congetture puramente platoniche che a volte ci piace fare sul futuro; soprattutto, senza fare della possibile vicinanza della fine dei secoli un motivo speciale, né per modificare la nostra vita né per avanzare nell’unione con Dio e distaccarci dai beni terreni. In effetti, l’incertezza del giorno e dell’ora può avere un’influenza pratica su di noi solo se è combinata con una previsione ragionata di una data prossima. Perché solo allora ci sentiamo colpiti dalla possibilità della scadenza stessa, e di conseguenza abbiamo fretta di allontanare le possibilità che, senza un’attenzione costante, l’incertezza farebbe nascere. Altrimenti non ci facciamo caso, e giustamente: non più di quanto ci preoccupiamo, uscendo di casa, dell’idea che una tegola, cadendo da un tetto, possa, mentre camminiamo per strada, venirci addosso e schiacciarci. Come allora, supponendo che nella loro mente la parusia dovesse venire solo dopo una lunga serie di secoli, Gesù avrebbe potuto fare dell’incertezza del giorno e dell’ora uno dei fondamenti del Vangelo, uno dei suoi pilastri, uno stimolo di primaria importanza per tutti i fedeli senza eccezione, di epoca in epoca e di generazione in generazione? Dicevo, per tutti i fedeli indistintamente, a cominciare da quelli che lo ascoltarono sul Monte degli Ulivi due giorni prima dell’ultima Pasqua, come lo fece capire, ripetiamolo ancora, alla fine della sua esortazione: Quod autem vobis dico, omnibus dico, vigilate? In una parola, chi non vede che era vano esortarli a vigilare per la precisa ragione che non conoscevano l’ora del suo ritorno, poiché l’ora di questo ritorno era prevista da Lui, come se fosse persa in un lontano futuro trascendente e inaccessibile? Chi, d’altra parte, non capirebbe che fare loro personalmente le raccomandazioni urgenti che abbiamo visto equivaleva ad avvertirli che la parusia li avrebbe trovati ancora vivi, ancora in grado di incontrare il loro Maestro, di aprirsi a Lui, di riceverlo, e allo stesso tempo di significare loro che gli altri a cui erano rivolte le stesse raccomandazioni e avvertimenti erano e potevano essere solo a loro contemporanei? Questo è ciò che ognuno dirà a se stesso quando leggerà il Vangelo. E se tutto questo non può essere contestato con qualche parvenza di irragionevolezza, se tutto questo è del più puro, del più elementare, del più semplice senso comune, se tutto questo finalmente salta agli occhi di chiunque che, per partito preso non li abbia chiusi, allora dobbiamo finire per accettare come conclusione, una delle due cose: o Gesù ingannava sul giorno e sull’ora della parusia, o si ingannava Egli stesso. La prima ipotesi è certamente fuori questione. Rimane poi la seconda, che siamo giustificati a considerare come ormai messa al di là di ogni discussione, e quindi, come così bene e debitamente provato, definitivamente acquisita alla critica. – Così ragionano i modernisti che cercano qua il loro punto di forza. Noi non crediamo di avere in nulla dissimulato le loro osservazioni, o indebolito la loro posizione, o indebolito la forza delle loro prove. Era nostro dovere di cronisti, presentare l’attacco con tutti i vantaggi che può reclamare, e l’abbiamo fatto fedelmente, senza però, diciamolo subito, che gli aspetti speciosi degli argomenti addotti ci abbiano fatto perdere la fiducia nel portare al lettore la risposta soddisfacente che senza dubbio si aspettava da noi. Tuttavia, poiché le ragioni che abbiamo appena esposto sono in sostanza eccessivamente vecchie, vecchie non dico come il mondo, ma come la stessa esegesi evangelica, ci sia permesso, prima di presentare modestamente le nostre riflessioni, di trascrivere qui la soluzione che è stata data loro, circa quindici secoli fa, da quello che Bossuet chiama da qualche parte, la grande luce del quarto secolo. Cominciamo, dunque, ad ascoltare Sant’Agostino nella lettera già citata ad Esichio, alla quale si riferisce nel ventesimo libro della Città di Dio, e che egli stesso ha intitolato: De fine sæculi, in altre parole: della fine del mondo. Tutto potrebbe essere riportato in questa splendida esposizione degli oracoli escatologici del Nuovo Testamento. Accontentiamoci, almeno, del passaggio essenziale, che tratta più direttamente la presente difficoltà e che metteremo qui davanti agli occhi del lettore. « Ciò che l’ultimo giorno del mondo dà motivo di temere, in quanto sorprenderà gli empi come un ladro, ognuno di noi deve temerlo nell’ultimo giorno della propria vita, e per la stessa ragione. Perché nello stato in cui ciascuno sarà trovato l’ultimo giorno della sua vita, in quello stesso stato sarà trovato l’ultimo giorno del mondo, e come muore in questo, così sarà giudicato in quello. Questo è ciò che è scritto nel Vangelo di San Marco: “Vegliate dunque, perché non sapete quando il padrone di casa tornerà, sia a sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, perché non venga all’improvviso e vi trovi addormentati. E quello che vi dico, lo dico a tutti voi, vegliate ”.  Infatti, chi sono questi “tutti” a cui diceva questo, se non tutti i suoi fedeli, tutti i membri del suo Corpo mistico che è la Chiesa, in una parola, tutti i Cristiani? Non lo diceva solo a coloro che lo ascoltavano in quel momento; lo diceva anche a noi che siamo venuti dopo di loro, così come lo diceva a quelli che verranno dopo di noi fino al giorno del suo ultimo avvento. Ma come? Potrebbe essere forse che il giorno dell’ultimo avvento li troverà tutti vivi su questa terra, o potrebbe essere che le parole: “Vegliate, affinché non venga il Signore all’improvviso e vi trovi addormentati”, erano intese per i morti che giacciono nelle loro tombe? Perché, allora, dire a tutti ciò che poteva evidentemente essere adatto solo a coloro che erano presenti all’ultimo giorno? Perché, ancora, perché, se non perché, come contemporanei dell’ultimo giorno, tutto dovesse essere effettivamente come nel modo detto? Perché allora l’ultimo giorno (della parusia e del giudizio) verrà veramente per ciascuno, quando verrà il momento di lasciare questo mondo, nello stato, ormai fisso e immutabile, in cui sarà giudicato in quel giorno. Perciò ogni Cristiano deve vegliare affinché la venuta del Signore non lo trovi impreparato; e impreparato sarà trovato nel giorno del Signore, chi sarà trovato impreparato nell’ultimo giorno della sua vita (Ma queste forti parole devono essere comprese nella loro forma originale, che una traduzione imperfetta potrebbe solo indebolire e diminuire: « In quo unumqumque invenerit suus novissimus dies, in hoc eum coraprehendet mundi novissimus dies, quoniam qualis in die isto quisque moritur, talis in die illo judicabitur. Ad hoc pertinet quod in evangelio secundum Marcum ita scriptum est: Vigilate ergo, quia nescitis quando Dominus domus veniet, sero, an média nocte, an galli cantu, an mane ne eum venerit repente inveniât vos dormientes. Quod autem vobis dico, omnibus dico, vigiiate. Quibus enim omnibus dicit, nisi electis et dilectis suis ad corpus ejus pertinentibus, quod est Ecclesia? Non solum ergo illis dixit quibus tunc audientibus loquebatur, sed etiam illis qui fuerunt post illos ante nos, et ad nos ipsos, et qui erunt post nos usque ad ejus novissimum adventum. Numquid autem omnes inventurus est dies ille in hac vita, aut quisquam dicturus est quod ad defunctos etiam pertineat quod ait: Vigilate ne cum repente venerit, inveniât vos dormientes? Cur itaquo omnibus dicit, quod ad eos solos pertineat qui tunc erunt, nisi quia eo modo ad omnes pertinet, quo modo dixi? Tunc enim unicuique veniet dies ille, cum venerit ei dies ut talæis hunc exeat, qualis judicandus est illo die. Ac per hoc, vigilare débet omnis christianus, ne imparatum inveniat eum Domini adventus. Imparatum autem invenîet ille dies, quem imparatum invenerit suæ vitæ hujus ultimus dies. » – Augut., Epistola 199, n. 2 e 3). – E questa è una chiara risoluzione della difficoltà, se ce ne fosse una. Questo è ciò che tutti abbiamo imparato sulle ginocchia delle nostre madri, ciò che tutti abbiamo ricevuto nell’insegnamento del catechismo, ciò che ci è stato dato non appena siamo entrati nella vita « come lampada per dirigere i nostri passi, e come una luce per illuminare il nostro cammino », come una verità da avere costantemente davanti agli occhi, e un avvertimento da non perdere mai di vista, come quel filatterio o memoriale che i Giudei mettevano sulla loro fronte, fissato alle loro braccia, e appeso fino alle porte delle loro case, cioè: che la strada dell’uomo finisce con la sua esistenza terrena; che dalla sua esistenza terrena dipende assolutamente tutta la sua eternità; … che come Jahel inchiodò Sisara nel luogo e nella posizione stessa in cui si era addormentato, così la morte ci fissa per sempre nello stato morale in cui ci trova, senza lasciarci alcuna possibilità di cambiare mai; che al tribunale di Gesù Cristo l’istruzione sarà solo su ciò che si è fatto, mentre si è nel corpo, bene o male; che nel momento preciso in cui l’anima si separa dal corpo, avviene il giudizio particolare, di cui l’ultimo sarà solo una ripetizione o una conferma solenne; che in questo senso tutto accade a ciascuno di noi, per quanto riguarda la salvezza dell’anima, come se l’intero l’intervallo tra l’ultimo giorno della propria vita ed il giorno della parusia potesse essere rimosso; come se, l’uno coincidesse puntualmente e matematicamente con l’altro, come se venissimo colti dalla morte, per poi essere gettati incontinentemente ai piedi del Giudice, davanti al Figlio dell’uomo che viene sulle nuvole del cielo in grande potenza e maestà come ci descrive il Vangelo. Questo è ciò che si è sempre creduto nella Chiesa, ciò che le Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento insegnano formalmente, che nessuno ha mai, dico “mai” confutato, ma solo tentato di confutare con ogni risorsa della critica, ed ancor più nella recente scuola modernista, che di tutte quelle ha raccolto l’eredità, e perfezionato i processi della demolizione. – Ora, da tutto questo, è più chiaro e più evidente che la stessa condizione di vigilanza e di attenta preparazione alla parusia fu stabilita per tutti gli uomini indistintamente, per quelli che v’erano ieri, per quelli che vi sono oggi, e per quelli che vi saranno domani; che le stesse raccomandazioni erano valide per tutti, le stesse precauzioni erano imposte a tutti; che alle orecchie di tutti, infine, il grave avvertimento doveva risuonare con la stessa vivacità: Vegliate dunque, e pregate senza posa, affinché siate trovati degni di sfuggire a tutti questi mali che stanno per venire, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo. È altrettanto evidente che la parusia, come ci è data dalla rivelazione del Nuovo Testamento, si presenta a noi sotto due aspetti molto diversi, che dobbiamo avere costantemente davanti agli occhi, altrimenti saremo completamente confusi nella nostra lettura del Vangelo e degli scritti apostolici: in primo luogo, nella sua realtà futura, nel giudizio generale, e in secondo luogo, nelle sue anticipazioni quotidiane nella morte di ogni uomo in particolare. Questo è espresso molto bene da San Girolamo quando dice: « Il giorno del Signore (o della parusia): con questo si intenda o il giorno del giudizio o il giorno dell’uscita dal corpo di ognuno di noi, poiché ciò che sarà fatto nel giorno del giudizio per tutti gli uomini presi nel loro insieme, si compie nel giorno della morte per ognuno di loro individualmente. Diem Domini, diem intellige judicii sive diem exitus uniuscujusque de corpore; quod enim in die judicii futurum est omnibus, hoc in singulis die mords impletur (Hierom. In Joel, II, 1 – P. L. t. XXV, col. 965). » Ma tutte queste distinzioni non sono di buon gusto per i nostri avversari; non lo sono nemmeno per la loro comprensione. Si ricorderà forse che al momento della fase più acuta della crisi modernista, circa quindici anni fa, un vescovo avendo dato in una Vita di Nostro Signore Gesù Cristo, a proposito dei testi di cui ci stiamo occupando, la spiegazione tradizionale che abbiamo appena menzionato, attirò da uno degli uomini del partito, che allora era il più ascoltato, questa risposta verde: Che Sua Grandezza avesse il diritto, quando predicava nella sua cattedrale, di interpretare i suddetti testi della preparazione alla morte, cioè di trarne la migliore spiegazione che essi contengono oggi; ma che era ovvio per qualsiasi uomo senza pregiudizi, che Cristo non aveva avuto in vista questa lezione puramente morale; che Egli aveva parlato del prossimo avvento messianico, che i discepoli non avrebbero potuto intenderlo diversamente, e che lo storico doveva capirlo così. Ma Dio lo perdoni, lo storico, l’esegeta, il critico che ha emesso una tale sentenza … , non conosceva il suo Vangelo. Apro il Vangelo di San Luca al dodicesimo capitolo, versetti 15 e seguenti, e vi leggo: « Gesù disse al popolo: Guardatevi da ogni avarizia, perché pur nell’abbondanza, la vita di un uomo non dipende dai beni che possiede. » Poi raccontò loro questa parabola: « C’era un uomo ricco la cui tenuta aveva dato frutti abbondanti. E pensava tra sé: Che cosa farò? Perché non ho un posto dove mettere il mio raccolto. Questo è quello che farò: Abbatterò i miei granai e ne costruirò di più grandi, raccoglierò tutti i miei beni e le mie entrate, e dirò alla mia anima: Anima mia, tu hai messo in serbo grandi beni per molti anni; riposati, mangia, bevi e goditi. Ma Dio gli disse: Insensato! Questa stessa notte l’anima tua ti sarà richiesta; e quello che hai messo da parte, per chi sarà? Così è l’uomo che accumula e non è ricco davanti a Dio. » Certamente, ci sarà concesso questa volta che “Sua Grandezza”, anche se non stava predicando nella sua cattedrale, era non solo nel diritto, ma anche nella necessità assoluta di interpretare questo testo, della morte e della preparazione alla morte: una preparazione che il ricco della parabola aveva trascurato, per sentirsi dire improvvisamente: Questa stessa notte! l’anima tua… ! Non si parla qui della fine del mondo, né dell’apparizione del Figlio dell’uomo sulle nuvole del cielo, né delle assemblee generali che seguiranno l’ultima risurrezione. È una scena quotidiana quella che Gesù ci mette davanti agli occhi, il caso troppo frequente, ahimè, di chi è preso in mezzo ai suoi calcoli di fortuna o di allargamento della fortuna, a cento leghe dal pensare al conto che dovrà renderne quando apparirà davanti a Dio. Non c’è alcun dubbio, nessuna possibilità di una parvenza di contestazione. –  Ora, stabilito questo, ascoltiamo il resto del discorso: Gesù disse allora ai suoi discepoli. « Perciò vi dico (IDEO DICO VOBIS): non siate in ansia per la vostra vita, né per cosa mangerete, né per il vostro corpo, per come lo vestirete … Fatevi delle borse che il tempo non logori e dei tesori che non possano mai venir meno, dove i ladri non abbiano accesso e dove le tarme non li divorino; perché dove è il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore. Siate cinti nei fianchi, e nelle vostre mani abbiate lampade accese. Siate come gli uomini che aspettano il ritorno del loro padrone dal banchetto di nozze, in modo che quando viene e bussa alla porta gli apriranno subito la porta. Beati quei servi che il padrone troverà a vegliare quando tornerà. Vi dico in verità, egli si cingerà e li farà sedere a tavola e verrà a servirli. Che venga alla seconda guardia, che venga alla terza, se li trova così, beati quei servi! Ma sappiate che se il padre di famiglia sapesse a che ora potrebbe arrivare il ladro, vigilerebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. E anche voi dovete essere pronti, perché il Figlio dell’Uomo verrà in un’ora che non pensate. » E tutto questo, ripetiamo, si legge non dopo l’oracolo escatologico del ventunesimo capitolo, ma dopo l’istruzione sul distacco dai beni della terra del dodicesimo capitolo, come morale della parabola dell’uomo ricco che fu sorpreso dalla morte quando pensava solo ad estendere i suoi domini, ad ampliare i suoi granai, a vivere in pace e a godersi il buon cibo. Ora, questo significa che la parusia non sia in gioco qui? Ovviamente no. Perché cos’è questa venuta, o piuttosto questo ritorno (versetto 36) del Figlio dell’uomo, che i Cristiani devono attendere in una veglia continua e laboriosa, se non è quest’altro avvento di cui tutte le pagine del Nuovo Testamento sono piene, quando il Figlio dell’uomo tornerà nella gloria del Padre suo per rendere a ciascuno secondo le sue opere? Senza dubbio, è la parusia di cui Gesù intende parlare, ed in effetti parla, ma la parusia considerata sotto il secondo aspetto che abbiamo menzionato sopra, la parusia considerata nelle anticipazioni segrete e quotidiane che ha alla morte di ognuno di noi, in attesa che esploda e si compia nel grande sole di quest’ultima scena del mondo, che sarà la chiusura del tempo, e l’inaugurazione del regno di Dio per l’eternità. E questo secondo aspetto, per il dispiacere dei modernisti, è presentato qui, non come un espediente inventato, in mancanza di qualcosa di meglio, dai teologi disperati (questi teologi sfortunati che non sono, però, colpevoli di tutti i misfatti di cui sono accusati), ma come un’informazione di prima importanza, e anche di prima mano, immediatamente, direttamente e più autenticamente al mondo, fornita dal Vangelo. E non servirà a nulla dire che l’esortazione alla vigilanza in vista della venuta del Figlio dell’uomo, il paragone del ladro che arriva di nascosto dal padre di famiglia, l’avvertimento di essere pronti a causa dell’incertezza dell’ora, l’apologo che ne segue, dell’amministratore fedele che il padrone al suo arrivo ricompensa stabilendolo su tutti i suoi beni e dell’infedele che egli punisce facendolo lacerare di colpi (Luca, XII, 35-46), si trovano anche in San Matteo, nello stesso ordine, e quasi negli stessi termini, ma messi dopo l’oracolo sulla fine del mondo, dopo la descrizione del glorioso avvento di Cristo, dopo la similitudine del diluvio che adombrò tutto il genere umano, eccetto Noè con la sua famiglia (Matth. XXIV, 42-51); che d’altra parte gli evangelisti non si attengono sempre all’ordine cronologico, che talvolta trasportano le parole di Gesù da un luogo all’altro, e allegano ad un discorso pronunciato in una data circostanza, ciò che tuttavia fu detto da Lui in una circostanza del tutto diversa; e così San Luca avrebbe potuto benissimo allegare alla parabola del ricco proprietario terriero colto dalla morte quando meno se lo aspettava, la lezione effettivamente data nell’unico discorso escatologico sul giudizio generale e la consumazione dei tempi. Tutto questo, dico, non servirà a nulla, perché, in primo luogo, la trasposizione attribuita a San Luca è una supposizione del tutto gratuita, che non solo nulla sostiene, ma che tutto, al contrario, contribuirebbe piuttosto a rovesciare, e che, in secondo luogo, ammessa pure questa stessa trasposizione, non modificherebbe in alcun modo né la forza del nostro argomento, né la legittimità della nostra conclusione. Dico, prima di tutto, che la trasposizione attribuita a San Luca è una supposizione puramente gratuita, una supposizione che nulla sostiene, che nulla nemmeno indica, né favorisce, certamente nulla nel contesto, dove, dalla repentinità dei colpi di morte che tolgono ai ricchi le loro ricchezze, Gesù coglie l’occasione per raccomandare la liberazione del cuore rispetto ai beni della terra; poi, da lì, passa alla necessità di farsi un tesoro in cielo, un tesoro inaccessibile e assolutamente indistruttibile; da lì, infine, alle precauzioni da prendere in vista dell’arrivo del ladro mistico che, dopo averci spogliato di tutto ciò che possedevamo quaggiù, ci chiederà ancora un resoconto esatto della gestione degli impieghi che ci aveva affidato. Non c’è traccia di un raccordo, né di alcun tipo di saldatura; tutto qui è in un unico flusso, pulito e franco. E poi, non abbiamo a che fare con uno degli evangelisti che, fin dall’inizio del suo libro, si è preso la briga di avvertirci che intendeva scrivere in ordine, cioè secondo l’ordine di successione e di eventi? (Luc. I, 3 – (Visum est et mihi ex ordine tibi scribere, optime Théophile; Ex ordine, καθεζῆς [katezes]; « La parola “καθεζῆς” più volte impiegata da San Luca, designa sempre la continuità, l’ordine, la sequenza regolare delle cose. » Crampon in h. l.), il racconto della vita, delle azioni, degli insegnamenti, della morte e della resurrezione di Gesù? D’altra parte, non vediamo forse che in più di un luogo del Vangelo l’ordine dei fatti o delle parole, certamente scambiati da San Matteo, è ristabilito da San Luca, che ovunque si mostra ansioso di far emergere la sequenza naturale e regolare della storia? » Se dunque ci fosse stata trasposizione da una parte all’altra, del passaggio in questione, sarebbe molto più razionale e conforme ai dati, attribuirla a San Matteo che avrebbe inserito nel discorso escatologico delle parole dette in realtà in un’altra circostanza, quella stessa che ci indica il terzo Vangelo. Inoltre, ci affrettiamo ad aggiungere che non c’è assolutamente alcuna ragione per sospettare una trasposizione, né da una parte né dall’altra, e questo per la ragione molto semplice che nulla impedisce a Gesù di ripetere una seconda volta, parlando del suo ultimo avvento, il consiglio precedentemente dato in relazione all’uomo ricco, la cui trama di felicità fu bruscamente interrotta dall’improvviso arrivo della morte. Che cosa – dice Sant’Agostino – impedisce a Gesù di ripetere in un luogo certe cose che aveva già detto altrove, o di rifare ciò che aveva già fatto prima? Quid enim prohiberet, Christum alibi quædam repetere quæ jam antea dixerat, aut iterum quædam facere quæ antea jam fecerat (August, De consensu evangelistarum, 1. II n. 45, Migne, P. L. t. XXXIV, col. 1092.)? “Non c’è nessuno, immagino, che non sottoscriva questo principio che è un principio di puro e semplice buon senso. Ma la solidità della nostra tesi non dipende in alcun modo da tutte queste considerazioni. Lasciamoli, se vogliamo, per il momento, e ammettiamo che l’esortazione alla vigilanza, illustrata dal confronto del ladro, e l’apologo dell’amministratore fedele premiato, dell’infedele punito, sia stata fatta una sola volta; che fu fatta proprio nel discorso agli apostoli sul Monte degli Ulivi, alla vigilia dell’ultima Pasqua; che San Luca la staccò da questo discorso per unirla alle lezioni sulla morte, nella parabola dell’uomo ricco di cui sopra. Ammettiamolo, dico, e senza ulteriori prove. Cosa ne seguirà ora? Se non mi sbaglio una sola cosa, cioè: Che San Luca, in assenza della cronologia, avrebbe considerato l’unico legame logico, l’unico collegamento, l’unica connessione delle cose; che, di conseguenza, nella sua idea, come nell’idea di coloro dai quali aveva ricevuto il Vangelo, “che erano stati da principio testimoni oculari e ministri della Parola (Luca, I, 2)”, i testi sulla preparazione alla parusia riguardavano in realtà la preparazione alla morte; che questi testi erano così interessati a questa preparazione che potevano essere collocati sia dopo l’intimazione del giorno sconosciuto in cui il Figlio dell’uomo ritornerà sulle ali del cielo in potenza e maestà, sia dopo quella del giorno incerto in cui ognuno di noi si sentirà dire: Ecco, la tua anima ti è richiesta di nuovo; così capirono i discepoli, così lo storico deve capire a sua volta; che, dunque, non siamo qui in presenza di un adattamento posteriore escogitato allo scopo di ricavare dai detti testi “la migliore applicazione che essi hanno oggi”, ma piuttosto in presenza del significato primo, nativo, originale, il significato che conferma nel modo più esplicito il doppio aspetto della parusia che abbiamo indicato sopra (La parusia nella sua realtà dell’ultimo giorno, e la parusia nelle sue anticipazioni di tutti i giorni …) come dare l’apice del Vangelo e degli scritti apostolici, riguardo all’articolo più importante della nostra Legge: Et iterum venturus est cum gloria judicare vivos et mortuos.

***

Vedo solo una cosa che possa essere ragionevolmente opposta a ciò che è stato appena detto. Il passo di San Luca in questione termina con queste parole: E anche voi dovete essere pronti, perché in un’ora che non vi aspettate, il Figlio dell’uomo verrà. Ma cosa? dirà qualcuno, ma la morte arriva sempre quando non è attesa? Sempre come un ladro che si nasconde, si dissimula, sorprende? No, senza dubbio, e se vediamo in ogni momento quei colpi inaspettati che giustificano fin troppo bene la similitudine evangelica del ladro che opera sotto le ombre della notte, vediamo anche altri casi, e più ordinari e più frequenti, dove le cose non accadono in modo così in sordina; dove la morte è un visitatore che non teme la luce del giorno, un visitatore che si fa conoscere, che presenta la sua carta, che finalmente arriva nelle condizioni regolari che le relazioni sociali comportano. Come dunque, allora, se la venuta del Figlio dell’Uomo di cui si parla qui è la venuta della morte per ognuno di noi, è possibile che ci venga detto in modo così assoluto: Verrà in un’ora che non vi aspettate! Ma il testo evangelico, ben interpretato, risponderà a questa difficoltà. Noto, infatti, che mentre nella Vulgata la venuta del Maestro, il motivo della preparazione così urgentemente raccomandata, è espressa al tempo futuro, qua hora non putatis, Filius hominis veniet, nel greco, invece (che è, come tutti sanno, l’originale), è costantemente espressa al tempo presente, sia in San Luca che nei passi paralleli di San Matteo e San Marco. (Ghineste oti e ora ou dokeite, o Uios to antropou erketai – ἒρχεται – Luca, XII, 40). Stessa cosa, Matth. XXIV, 42 e 44. Lo stesso, Marco, XIII, 35. Ovunque ἒρχεται, tempo presente, da nessuna parte ἐλεύσεται – eleusetai – tempo futuro. Parola per parola: Vegliate, state pronti, perché nell’ora che non pensate, il Figlio dell’uomo viene, perché non sapete in quale ora viene il vostro padrone. E questo non è senza importanza, questo è da notare; perché non si dica che nel Nuovo Testamento il tempo presente è talvolta usato per il futuro. Certamente, non lo contraddico, e tanto meno perché questa non è una peculiarità del Nuovo Testamento, ma una generalizzazione più o meno comune a tutte le lingue e a tutta la letteratura. Ma non credo di essere contraddetto se dico che il tempo presente, sebbene a volte sia preso per il futuro, è più spesso ancora preso per il tempo presente, e che questo è il modo in cui dovrebbe essere preso, quando il contesto non persuade positivamente al contrario. Ma qui sembrerebbe piuttosto, dall’indicazione del contesto, che il tempo presente sia messo di proposito, nel senso in cui è comunemente usato per esprimere un’azione o un modo di fare abituale. Come quando il centurione disse a Nostro Signore: “Ho dei soldati sotto il mio comando, e dico a uno: ‘Vai’, ed egli va, e a un altro: ‘Vieni’, ed egli viene, e al mio servo: ‘Fai questo’, ed egli lo fa. Come quando si risponde a chi chiede delle abitudini di un uomo: Esce a mezzogiorno e viene la sera; oppure, viene a tale e tal altra ora, e talvolta a tale e tal’altra. E così, sembra, dovremmo sentire il Vangelo che dice: “In un’ora impensata, il Figlio dell’uomo viene”. Questo non vuol dire che viene sempre in questo modo, ma che viene anche spesso in questo modo. E poiché, inoltre, è impossibile sapere per chi verrà, e per chi non verrà in questo modo, tutti senza eccezione devono considerarlo come capace di venire in questo modo. Da qui l’avvertimento: Et vos estate parati, quia qua hora non putatis Filius hominis venit. E ancora: Quod autem vobis dico, omnibus dico, vigilate.

LA PARUSIA (6)

LA PARUSIA (4)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (4)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE, Rue de Rennes, 117 – 1920

ARTICOLO QUARTO


PARTICOLARITÀ DI SAN MATTEO E DI SAN MARCO SULL’ABOMINIO DELLA DESOLAZIONE PREDETTA DAL PROFETA
DANIELE, CHE SAREBBE STATO PRESTO SEGUITO DALLA PARUSIA E DAL GIUDIZIO.

La lezione di San Luca, come abbiamo detto nell’articolo precedente, è particolare in quanto trascura completamente un punto al quale, nei primi due sinottici, è dato grande risalto ed occupa una parte considerevole del quadro. È il punto riguardante “l’abominio della desolazione predetto dal profeta Daniele“. E in effetti, questo punto, per essere compreso, presupponeva menti versate nella scienza delle Scritture, nella conoscenza della Legge, nella lettura dei Profeti, e del profeta Daniele in particolare: tante cose estranee ai Gentili, ai quali, come tutti sanno, il terzo Vangelo era specialmente destinato. L’omissione era quindi evidente o, per dirla meglio, era la spiegazione più naturale al mondo, ma non c’era da meno un’omissione. Per questo ci resta ora da completare lo studio fatto in precedenza sul testo di San Luca, esaminando il passo di San Matteo relativo a questo famoso abominio della desolazione, che, oltre al privilegio di suscitare la curiosità di un gran numero di persone, ha, cosa ancora più grave, la specialità di suscitare difficoltà di più di un tipo, che sarebbe importante approfondire una volta per tutte e, se possibile, chiarire definitivamente. Cominciamo a mettere il passo in questione davanti agli occhi del lettore, dopo una breve ricapitolazione del contesto in cui è inserito. Esso viene subito dopo il versetto già citato più volte: Et prædicabitur hoc Evangelium Regni in universo orbe in testimoninm omnibus gentibus et donec veniet consummatio. Gesù aveva detto che si sarebbero sentite guerre e voci di guerra, che ci sarebbero state pestilenze, carestie, ecc., che si sarebbero scatenate violente persecuzioni contro la Chiesa, che sarebbero venuti falsi profeti per ingannare molti, che la carità di molti si sarebbe raffreddata, e che solo coloro che persevereranno fino alla fine saranno salvati. Poi, dopo aver dichiarato che il Vangelo sarebbe stato prima predicato in tutto il mondo come testimonianza a tutte le nazioni, e che solo allora sarebbe arrivata la consumazione, continuò così: « Quando dunque vedrete l’abominio della desolazione, predetto dal profeta Daniele, eretto nel luogo santo – chi legge comprenda – allora quelli che sono in Giudea fuggano sui monti, e chi è sul tetto di casa non entri a prendere quello che ha in casa sua, né chi è nel campo a prendere il mantello. Guai alle donne incinte e a quelle che allattano in quei giorni! Pregate che la vostra fuga non avvenga in inverno, né in giorno di sabato, perché allora ci sarà una così grande angoscia come non c’è stata dall’inizio del mondo fino ad oggi, né ci sarà mai. E se quei giorni non fossero abbreviati, nessuno sfuggirebbe; ma per il bene degli eletti, quei giorni saranno abbreviati. Se qualcuno vi dice: “Cristo è qui” o “Egli è là”, non credetegli, perché sorgeranno falsi Cristi e falsi profeti, e faranno grandi prodigi e cose meravigliose, per ingannare, se possibile, gli stessi eletti. Questo vi ho predetto… E subito dopo la tribolazione di quei giorni (statim post tribulationem dierum illorum), il sole si oscurerà e la luna non darà la sua luce, e le potenze del cielo saranno scosse. Allora apparirà in cielo il segno del Figlio dell’uomo », … e il resto lo sappiamo. Questo è il quadro degli eventi di cui l’abominatio desolationis predetta dal profeta Daniele doveva essere il segnale, secondo l’oracolo evangelico. Vediamo in essa giorni di calamità senza esempio nella storia, seguiti a breve dall’oscuramento del sole, le convulsioni dell’universo, tutti i prodromi della parusia, e la parusia stessa. D’altra parte, ed è qui che inizia la difficoltà, il tempo della suddetta abominatio desolationis non è affatto lasciato alle nostre congetture. Sembra che sia indicato molto chiaramente proprio nel libro di Daniele a cui il Vangelo si riferisce, ed indicato come il momento preciso dell’assedio e della caduta di Gerusalemme. Infatti, chi non ha in mente la famosa profezia delle settanta settimane, che dice espressamente che dopo che Cristo sarà ucciso, verrà un popolo guidato da un capitano a distruggere la città e il santuario, e che ci sarà un abominio della desolazione nel tempio, e che la desolazione durerà fino alla fine? Così, avremmo qui due cose: primo, la parusia annunciata come strettamente successiva ai giorni di estrema tribolazione che l’abominio predetto dal profeta Daniele avrebbe portato con sé; e in secondo luogo, l’abominio predetto dal profeta Daniele, fissato da Daniele stesso al tempo dell’occupazione di Gerusalemme da parte degli eserciti di Tito. Da questo punto in poi, la conclusione sarebbe chiara, ovvia e ineludibile, cioè che, secondo i dati del Vangelo, la fine del mondo sarebbe dovuta arrivare diciotto secoli fa, cioè prima che la prima generazione cristiana fosse giunta al termine. È a questa difficoltà, dove tutte le altre convergono, e dove i lettori studiosi si lasciano più facilmente circuire, che il presente articolo intende rispondere, dimostrando che tutto qui poggia su un falso supposto. – E poiché questo falso presupposto dipende interamente dalle idee più che incomplete che si hanno comunemente degli oracoli di Daniele e del loro contenuto, dobbiamo prima passarli in rassegna, e indagare attentamente tutto ciò che si riferisce alla suddetta abominatio desolationis, che il grande profeta aveva la missione propria di predire e annunciare. Per la maggior parte di coloro che non sono stati portati da circostanze particolari a fare uno studio speciale dei profeti dell’Antico Testamento, il nome di Daniele difficilmente richiama alla memoria qualche profezia oltre a quella menzionata sopra, delle settanta settimane. La grande fama di questo oracolo, la sua grande importanza nella questione messianica, il posto considerevole che occupa nei manuali di teologia, esegesi e apologetica, tutto questo lo ha fatto diventare, per molti, la profezia di Daniele tout court, la profezia di Daniele, o almeno, l’oraculum princeps che lascia tutti gli altri in ombra e, per lo stesso motivo, nell’oblio. Così, quando il Vangelo parla dell’abominatio desolationis quæ dicta est a Daniele propheta, non verrà in mente a nessuno di cercare il necessario chiarimento al di fuori del versetto che abbiamo citato sopra. È a questa linea finale della profezia, ben nota a tutti, che ci riferiremo puramente e semplicemente, senza sospettare minimamente che, in termini di riferimenti, potrebbe esserci molto di più. Inoltre, in questo seguiremo solo le indicazioni date dalla maggior parte dei commentatori di San Matteo, che sembrano essersi presi la briga di riferire i loro lettori a Daniele IX, 24-27, come se fosse l’unico luogo del profeta dove viene menzionato l’abominio in questione. Ma questo è un errore, e un errore manifesto, perché la verità, che è facile da verificare, è che Daniele ha effettivamente predetto l’abominatio desolationis in loco sancto, per tre periodi molto diversi e lontani: prima, per il tempo della persecuzione di Antioco (VIII, vers. 13, e XI, verso 31); in secondo luogo, per il tempo dell’assedio e della rovina di Gerusalemme (IX, verso 27); in terzo luogo, per il tempo dell’anticristo, la fine del mondo e la resurrezione dei morti (XII, verso 11). Rivediamo brevemente ciascuna di queste tre previsioni, notando le singolarità che le distinguono. È da tutte le osservazioni da fare che emergerà la luce di cui abbiamo bisogno. – In primo luogo, ecco l’abominatio desolationis predetta per il tempo della persecuzione di Antioco. Si tratta, come tutti sanno, di Antioco Epifane, quella radice del peccato di cui si parla nel libro di Maccabei, che fu il primo re pagano che si impegnò non solo a conquistare la terra d’Israele, ma anche ad abolirvi con la più atroce persecuzione la religione del vero Dio, e che per questo è dato nella Scrittura come il primo re pagano. Daniele lo vede, nell’ottavo capitolo, uscire da una delle quattro dinastie che avrebbero condiviso l’impero di Alessandro. Lo vede elevarsi nella sua empietà ed esaltarsi al di sopra del Dio degli dei, di cui proibisce il culto e profana il tempio. E un Angelo chiede a un altro Angelo: Quanto durerà questa visione, che riguarda il sacrificio perpetuo, il peccato di desolazione e l’abbandono del santuario per essere calpestato? E si risponde: Fino a duemilatrecento giorni; dopo di che il santuario sarà purificato. E questa stessa profezia è ripresa con maggiori sviluppi nell’undicesimo capitolo, dove l’Angelo che istruisce Daniele dice, tra l’altro, in riferimento al persecutore: “Le truppe inviate da lui profaneranno il santuario, faranno cessare il sacrificio continuo ed innalzeranno l’abominio della desolazione. AUFERENT JUGE SACRIFICIUM, ET DABUNT ABOMINATIONEM IN DESOLATIONEM; e questo, fino al tempo prefissato quando, avendo il castigo portato alla purificazione di Israele, verranno giorni migliori di calma, tranquillità e riposo. (Dan., XI, 31 ss.). È quindi evidente che abbiamo qui un primo oracolo di Daniele sull’abominio della desolazione, oggetto della nostra ricerca.  Senza dubbio, non è quello che Nostro Signore poteva intendere quando disse: Cum ergo viderais abominationem desolationis quæ dicta est a Daniele propheta, visto che, al tempo di Nostro Signore, questo non doveva più essere realizzato nel futuro, ma aveva già ricevuto il suo compimento nel passato. Pertanto, non dovremmo occuparcene. Tuttavia, proprio questo adempimento, raccontato in tutti e due i libri dei Maccabei, servirà a stabilire, su passi autentici, qualcosa che è importante per noi chiarire prima: cioè, cosa significhi, almeno nella sua generalità, questa abominatio desolationis, nella quale molti sembrerebbero sospettare qualche arcano ancora inspiegabile, anche se certamente a torto, come sarà dimostrato perentoriamente dal racconto dei Maccabei, di cui i seguenti sono i passaggi principali: « Nel centoquarantacinquesimo anno del regno dei Greci, il re Antioco emanò un editto in tutto il suo regno affinché tutti diventassero un solo popolo e ciascuno rinunciasse alla propria legge… E mandò messaggeri a Gerusalemme e nelle altre città di Giuda, ordinando ai Giudei di cessare gli olocausti e i sacrifici nel tempio, di profanare i sabati e le feste, di contaminare il santuario e i santi, di costruire altari e boschetti sacri e templi di idoli, di lasciare incirconcisi i loro figli maschi e di contaminarsi con ogni sorta di impurità, perché la legge di Dio sia dimenticata per sempre e tutte le sue ordinanze siano abolite. E chiunque non obbedirà agli ordini del re, sarà messo a morte… E il quindicesimo giorno del mese di Casleu eressero un idolo abominevole della desolazione sull’altare dell’olocausto, e ne costruirono di simili in tutte le città di Giuda intorno. Bruciavano incenso e sacrificavano davanti alle porte delle case e nelle strade. Se trovavano i libri della legge da qualche parte, li bruciavano dopo averli strappati. Chiunque trovasse un libro dell’alleanza e chiunque mostrasse attaccamento alla legge, veniva messo a morte per editto del re. » Così si legge nel primo capitolo del primo libro di Maccabei, versetti 43 e seguenti. A questi sarà conveniente aggiungere gli altri dettagli dati nel secondo libro, dove si dice: « Poco dopo i massacri con cui cominciò la persecuzione, il re Antioco mandò un vecchio da Atene per costringere i Giudei ad abbandonare il culto dei loro padri e a profanare il tempio di Gerusalemme, dedicandolo a Giove Olimpico… L’invasione di questi mali era estremamente dolorosa da sopportare per tutto il popolo, perché il tempio era pieno di orge e dissolutezze; i gentili dissoluti facevano commercio con le prostitute anche nei cortili sacri, che essi trasformavano in luoghi di prostituzione… Non era più possibile celebrare i sabati o le feste, e nemmeno confessare semplicemente di essere Giudei. Un’amara necessità indusse i Giudei ai sacrifici che venivano fatti ogni mese nel giorno della nascita del re. Alle feste baccanali, erano costretti a camminare per le strade coronate di edera in onore di Bacco. Fu emesso un editto per far sì che le stesse misure fossero prese nelle città greche nelle vicinanze, con l’ordine di mettere a morte coloro che si rifiutavano di adottare i costumi pagani. Erano ovunque scene di desolazione » (II Mach., VI, 1 e segg.). Ecco dunque l'”abominio” che Daniele aveva predetto per il tempo della persecuzione di Àntioco, e che i libri dei Maccabei pongono davanti ai nostri occhi. Come si può vedere, non manca nulla al quadro che fornisce tutti i dati necessari per formare un’idea adeguata e completa. Si trattava in sostanza, con la proscrizione assoluta del culto di Dio, e specialmente del sacrificio perpetuo che ne è l’elemento principale, della profanazione della terra santa e del tempio, la sostituzione di un culto sacrilego e idolatrico, nonché la conversione del santuario stesso in un luogo di prostituzione e dissolutezza. Questo avvenne verso l’anno 160 a.C., ma durò solo tre o quattro anni, alla fine dei quali, cessata la persecuzione, il tempio fu purificato e il culto divino riportato alla sua condizione precedente (l Macc. IV, 36 sqq,; II Macch. , X, 1 sqq).

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Ma attraversiamo ora uno spazio di circa due secoli e mezzo, per arrivare all’abominatio desolationis segnata per il tempo degli ultime sventure di Gerusalemme. La predizione si trova nel noto oracolo di cui abbiamo parlato sopra, quello che annunciava l’avvento e la morte del Messia, la conclusione della nuova alleanza, l’abrogazione dell’antica legge, la riprovazione della Sinagoga ed i disastri che dovevano seguirne:  « Dopo sessantanove settimane – disse l’Angelo al profeta – il Cristo sarà messo a morte e il popolo che ti rinnegherà non sarà più il popolo di Dio. Ed un popolo guidato da un capo verrà a distruggere la città ed il santuario, ed infine ci saranno la guerra e la devastazione. E per lui (Cristo) si farà la nuova alleanza con molti per una settimana (l’ultima delle settanta), e in mezzo alla settimana cesseranno le oblazioni ed i sacrifici. E CI SARÀ NEL TEMPIO L’ABOMINIO DELLA DESOLAZIONE, E FINO ALLA FINE DURERÀ LA DESOLAZIONE. (Dan., IX, 24-27). Così, secondo i termini di quest’altro oracolo, qualcosa di simile a ciò che era accaduto al tempo dell’empio Antioco doveva accadere al momento della caduta di Gerusalemme. Come al tempo di Antioco, ecco la profanazione del luogo santo, la desolazione del santuario, la violazione sacrilega di tutto ciò che era più sacro nel tempio; ma questo ora, in condizioni del tutto diverse da quelle precedentemente menzionate, e con un insieme di circostanze che porteranno a questa seconda apparizione dell’abominatio desolationis sul teatro della storia, con colorazione propria ed un carattere molto particolare. E notiamo, prima di tutto, che il tempio la cui desolazione è qui annunciata, non era più, come ai tempi di Antioco, il tempio del vero Dio e della vera religione, ancora in pieno possesso delle sue prerogative. Da una quarantina d’anni esso aveva perso la sua gloria, l’aveva persa proprio nel momento in cui, tra la costernazione di tutta la natura, il grande velo che chiudeva l’ingresso al Santo dei Santi fu strappato da cima a fondo, come segno che, nel sangue di Cristo appena spirato sul Calvario, l’Antico Testamento era giunto alla fine, che la legge figurativa aveva lasciato il posto alla Verità figurata, che lo statuto mosaico con i suoi riti, i suoi sacramenti, il suo sacerdozio, il suo altare e le sue cerimonie era stato abrogato per sempre. Ormai queste stesse cerimonie avevano cessato di esistere nella legge, ed il tempio non era che una reliquia. Che se i sacrifici e le altre osservanze legali avevano comunque continuato ad essere legittimamente celebrati lì, non era più in forza di una legge ormai obsoleta e superata, ma unicamente per la riverenza dovuta a Dio, da cui derivavano: questa riverenza esigeva che fossero trattati non come i riti delle false religioni, che devono essere aboliti e sterminati al più presto possibile e senza il minimo ritardo, ma piuttosto, secondo il bel paragone di Sant’Agostino, « come un morto di qualità, che non ci affrettiamo a seppellire incontinente nella terra, ma che teniamo in casa ancora per qualche tempo, in attesa di compiere gli ultimi doveri. » Così era con le osservanze e le cerimonie dell’antica legge durante i pochi anni tra il sacrificio sul Calvario e l’inizio della guerra di Giudea, come i morti erano tenuti nella casa mortuaria fino al tempo stabilito per il funerale e la sepoltura. Solo che, a causa dei nuovi e terribili crimini della Sinagoga, il funerale e la sepoltura dovevano diventare tragici e finire in un disastro. E infatti, nello stesso momento in cui gli eserciti romani apparvero sul suolo della Palestina, l’abominio della desolazione prese possesso del tempio e vi si stabilì come se fosse sua residenza. Inoltre, doveva regnare supremo, e superare ogni misura, fino a provocare l’implacabile vendetta del cielo, e finire per attirare sul tempio stesso la furiosa tempesta che spazzò via gli ultimi resti, rovesciò fin l’ultima pietra, e allo stesso tempo annientò per sempre l’intera economia di cui era la sede, il centro e il simbolo. E in cosa diremo che consisteva l’abominatio desolationis questa volta? La risposta, naturalmente, è una questione storica, e la storia alla mano ci dirà che essa consisteva in niente meno che nelle profanazioni inaudite di cui il tempio fu teatro per quasi quattro anni consecutivi, prima e durante l’assedio, per mano dei cosiddetti zeloti, gli ultimi rappresentanti della Sinagoga, i suoi pontefici ed il suo Sinedrio. Infatti era nel tempio, nelle sue corti, nel suo santuario e persino nel Santo dei Santi, che essi si erano trincerati come nella loro ultima roccaforte; fu lì che, agitati da tutta la furia dell’inferno, commisero tali crimini che Giuseppe non esita a scrivere che se i Romani, esecutori della vendetta divina, avessero tardato ancora, la terra si sarebbe aperta per inghiottire il tempio con la città, altrimenti i fuochi che una volta caddero sulla Pentapoli sarebbero nuovamente scesi dal cielo per divorare una razza mille volte più malvagia, più criminale e più empia di quella che avevano portato via ai tempi di Sodoma e Gomorra (De bello Judaic. l. VI, c. 16 ). Da tutto questo, è molto chiaro che l’abominatio desolationis, predetta da Daniele per il tempo dell’assedio, contrasta singolarmente con il precedente in questo punto capitale, che non era più l’opera di un persecutore, ma l’opera degli stessi ministri del santuario profanato, i guardiani nativi della sua santità e maestà. E da questa differenza seguono tutte le altre. Che se non vediamo più questa volta, come sotto Antioco, l’abolizione da parte del tiranno del culto e delle osservanze della legge di Mosè, e molto meno ancora l’introduzione di idoli che gli stessi zeloti aborrivano e detestavano, non vediamo nemmeno un termine fisso per la cessazione di una così grande devastazione, né una prospettiva di restaurazione. Non leggiamo più, come prima, “fino a duemilatrecento giorni, e il tempio sarà purificato” (Dan. VIII:14), né “metteranno su l’abominio della desolazione“, ma il popolo che conosce il suo Dio resterà fermo e agirà… fino al tempo stabilito per essere provati, purificati e resi bianchi. (Dan. XI, 31-35.) Questa non era più una persecuzione che Dio aveva voluto o permesso per mettere alla prova e purificare il Suo popolo; era solo l’ultimo scoppio di furia con cui la Sinagoga in via di estinzione, completava una maledizione senza rimedio ed una desolazione a cui non si sarebbe posto rimedio e una desolazione che nulla poteva consolare, secondo quanto detto: Et erit in templo abominatio desolationis, et usque ad consummationem et finem perseverabit desolatio.

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 Ma è tempo di venire finalmente all’abominio della desolazione indicato sopra nel terzo ed ultimo luogo: quello che si vedrà alla fine dei tempi sotto il regno dell’anticristo, e che troviamo predetto nel dodicesimo capitolo di Daniele, come si dirà all’inizio di questo capitolo, ove la parola è data all’Angelo che completa la sua spiegazione al Profeta delle visioni che ha ricevuto precedentemente riguardo ai regni della terra e al regno di Dio. Già riprendendo e sviluppando ulteriormente la visione dell’ariete e del capro, del grande e del piccolo corno, che appare nell’ottavo capitolo, egli aveva, nell’undicesimo capitolo, abbozzato la storia futura dell’impero dei Persiani prima, e poi quello dei Greci, e poi si era soffermato a lungo e in modo molto speciale sul regno di Antioco Epifane, facendo del personaggio e delle sue gesta un quadro in cui tutta l’antichità cristiana ha riconosciuto una profezia con un doppio scopo, per cui, sotto i tratti del re senza Dio della Siria, vedeva l’uomo del peccato, l’empio per eccellenza, che sarà l’anticristo della fine dei tempi, e che, nella persecuzione del tempo dei Maccabei, tracciava il profilo della formidabile persecuzione che la Chiesa di Dio dovrà sopportare alla fine della sua carriera (S. Gerol. in Dan., c. XI). E ora, passando improvvisamente, alla maniera dei profeti, dalla figura alla cosa figurata, e attraversati tutti gli intermediari come con un salto, l’Angelo trasporta Daniele in quel futuro lontano che, nel quadro precedente, occupava ancora solo vagamente lo sfondo della prospettiva. Ora abbassa il sipario su Antioco e il suo tempo, per alzarlo su una nuova scena, una scena che tutto indica come quella della crisi suprema che precederà la consumazione dei tempi, la resurrezione dei morti, il giudizio universale, la ricompensa dei buoni, la punizione dei malvagi, in breve, la restaurazione di tutte le cose per l’eternità. Infatti,  riprendendo la parola, l’Angelo continuò: « In quel tempo si alzerà Michele, il grande dominatore, che legherà i figli del tuo popolo; e verrà un tempo come non c’è mai stato da quando esiste il mondo, fino a quell’ora. E in quel tempo saranno salvati, tra il tuo popolo, tutti coloro che si trovano scritti nel libro. E la moltitudine di coloro che dormono nella polvere si sveglierà, alcuni alla vita eterna, altri per un obbrobrio, da cui saranno coperti per sempre. E coloro che hanno avuto la conoscenza di Dio (che sono vissuti fedeli alla sua legge), brilleranno come lo splendore del firmamento, e coloro che hanno condotto molti alla giustizia saranno come le stelle, eternamente e per sempre. E tu, Daniele, conserva queste parole e sigilla questo libro fino al tempo della fine. Allora molti lo studieranno e la conoscenza si moltiplicherà. » Questo è certamente un inizio che non lascia spazio ad equivoci, e se, come osserva San Girolamo, coloro che pretendono di riferire le ultime pagine di Daniele al solo Antioco sono riusciti a cavarsela finora, e a sostenere il loro sentimento in modo tale da poterlo fare in questo capitolo, non saranno in grado di farlo in questo capitolo, dove è descritta la resurrezione dei morti alla vita o all’obbrobrio eterno e ci diranno con qualche probabilità chi erano sotto Antioco quelli che brillavano come lo splendore del firmamento, o come stelle per sempre (Jerol. in Dan. c. XII, P. L. t. XXV, col. 575)? – Notiamo attentamente, allora, questo assemblaggio in un unico quadro di tutti i tratti più salienti dell’escatologia classica, compresa la futura conversione dei resti di Israele, che tanti altri oracoli annunciano, per arrivare all’ultima ora del mondo. Ma notiamo soprattutto ciò che la profezia mette più in evidenza: questa persecuzione finale di cui quella di Antioco era solo una debole immagine, dove l’arcangelo Michele verrà in persona a combattere contro satana e l’anticristo suo complice; essa si distinguerà per questa caratteristica fra tutte, un tempo di angoscia che non ha mai avuto il suo uguale in tutta la storia, tempus quale non fuit ex quo gentes esse cœperunt usque ad illud! Ed è anche a questa tremenda persecuzione che il Profeta rivolge la sua attenzione, chiedendo: “Quando finiranno queste cose prodigiose? E gli si risponde: In un tempo, due tempi e metà del tempo; E quando la forza del popolo santo sarà completamente spezzata, allora tutto sarà consumato. Ma Daniele dice che ha sentito senza capire; desidera dettagli più espliciti, e allora gli viene data l’ultima risposta su cui si chiude tutto il libro: la risposta in cui si fa espressa menzione dell’abominio della desolazione che il mondo vedrà sotto il regno dell’anticristo, nello stesso tempo in cui viene mostrata la fine benedetta a cui questo tempo, essendo passato il tempo della terribile prova, la desolazione condurrà. « Va’, Daniele – disse l’Angelo – perché queste parole sono chiuse e sigillate fino al tempo finale ». E molti saranno purificati e resi bianchi e provati con il fuoco; e gli empi agiranno come empi, e nessuno di loro capirà, ma coloro che hanno la conoscenza della pietà capiranno. E DAL MOMENTO IN CUI IL SACRIFICIO CONTINUO SARÀ TOLTO E L’ABOMINIO DELLA DESOLAZIONE SARÀ ERETTO, CI SARANNO MILLEDUECENTONOVANTA GIORNI. Beato chi aspetta e arriva a milletrecento trentacinque giorni. Ma tu andrai alla tua fine e ti riposerai, e resterai per la tua eredità fino alla fine dei giorni. Questo è l’oracolo che chiude la serie delle predizioni di Daniele riguardanti l’abominatio desolationis, e, confrontandolo con i precedenti, ogni lettore attento deve convenire che differisce da essi in modo notevole, in quanto è avvolto in un velo più denso di ombra e di mistero. Già, per il fatto stesso di non aver ancora ricevuto il suo compimento, si presenterebbe a noi nelle condizioni che sono comuni a tutte le profezie che l’evento non è venuto a chiarire, e per così dire, a decifrare. Infatti il futuro è e rimane sempre più o meno chiuso per noi, e le stesse cose che Dio ci ha rivelato di solito accadono in un modo diverso da quello che abbiamo o avremmo immaginato: il che fa dire a Sant’Ireneo che le profezie, prima che si compiano, sono enigmi la cui chiave ci sfugge (Iren, Contra Hær. l. IV, cap. XXVI, P. G. t. VII, col. 1052). – Ma qui, a questa ragione generale se ne aggiunge un’altra molto particolare, che l’oracolo stesso porta con sé la prova più esplicita della sua stessa oscurità. Si tratta di parole chiuse, di previsioni sigillate (vers. 4, 9); Daniele stesso dichiara di non capire: audivi et non intellexi, e se chiede ulteriori informazioni, l’Angelo risponde che il sigillo del mistero non può essere tolto fino al tempo del compimento, usque ad præfinitum tempus. Inoltre, al tempo del compimento stesso, gli empi non capiranno, neque intelligent omnes impii; solo i dotti capiranno, porro docti intelligent: i dotti, cioè i fedeli istruiti nella scienza della pietà, che troveranno allora in questa comprensione, in mezzo alle loro prove, incoraggiamento e speranza. Tutto questo è da ricordare, tutto questo è da notare attentamente, in vista del confronto che dovremo presto fare dell’oracolo di Daniele con il brano del Vangelo, oggetto del nostro studio. Tuttavia, qualunque sia il velo di mistero in cui il suddetto oracolo deve rimanere avvolto fino al tempo della fine, ci sono alcune generalità che il testo porta alla luce da solo, o che l’analogia dei luoghi paralleli rivela. Così, per esempio, sappiamo che la crisi, annunciata in questo dodicesimo capitolo di Daniele, sarà appositamente predisposta da Dio come mezzo di purificazione per l’ultima generazione cristiana: quella generazione che deve vedere tutti i segni della grande catastrofe, e sentire i primi suoni della tromba che risveglia i morti dalle loro tombe: così che, provato come l’oro nella fornace, libero da ogni attaccamento ad un mondo sull’orlo della distruzione, si trova pronta per portarsi davanti al Signore tornato a cercare i suoi per condurli nel suo regno eterno. Ed questo ciò che è da intendere nelle parole del versetto dieci: Eligentur et dealbabuntur, et quasi ignis probabuntur multi. Sappiamo, inoltre, che nel tempo della terribile persecuzione, ogni esercizio della vera religione sarà proscritto, che di conseguenza il culto di Dio cesserà di essere celebrato, almeno pubblicamente e apparentemente alla luce del giorno, in faccia al sole. A tempore cum ablatum fuerit fuge sacrificium, si legge nell’undicesimo versetto: dal tempo in cui il sacrificio perpetuo sarà tolto. Si tratta di una ripetizione di quanto abbiamo letto in precedenza (VIII, 13 e XI, 31) a proposito della persecuzione di Antioco, con la notevole differenza, però, che non si parla più del tempio o del santuario, né di nulla che possa ricordare un passato ormai scomparso da tempo. Il sacrificio perpetuo in questione è dunque il Sacrificio della nuova alleanza, che è succeduto a quello che, secondo la legge di Mosè, si offriva sera e mattina nel tempio di Gerusalemme, e al quale, a maggior ragione, si addice il nome di juge sacrificium, offerto conformemente alla legge della sua istituzione senza interruzione di giorno o notte, dal levante al ponente su tutte le lande e sotto ogni cielo. Questo è, in una parola, il Sacrificio dei nostri altari, che allora, in quei terribili giorni, sarà ovunque proscritto, ovunque proibito, e tranne quello che si potrà, e si farà nelle ombre sotterranee delle catacombe, ovunque interrotto. Sappiamo, in terzo luogo, che nello stesso tempo sarà eretto l’abominio della desolazione: « A tempore cum ablatum fuerit juge sacrificium et posita fuerit abominatio in désolationem. » Ma quale sarà l’abominatio desolationis per questa legge? Ovviamente qualcosa di analogo a quello che apparve nella persecuzione di Antioco, quando il tempio di Gerusalemme fu dedicato a Giove Olimpico e contaminato da ogni sorta di impurità e profanazioni, come è stato riportato sopra. Qualcosa di analogo, diciamo noi, tenendo conto della differenza di tempo e di luogo, e della sproporzione tra una persecuzione locale, come quella del tempo dei Maccabei, e la persecuzione mondiale che sarà quella dell’Anticristo. Ma dunque, cosa? Qualche nuovo mostro di idolatria stabilito nei nostri templi diventati i templi del dio dell’umanità (la chiesa modernista dell’uomo del Vaticano II? – ndr. – ), del dio della ragione, del dio immanente nel mondo, trionfando infine, dopo tanti sforzi del libero pensiero, sul Dio trascendente della rivelazione cristiana? Qualche mistero luciferiano tratto dagli oscuri recessi delle conventicole massoniche e installato alla luce del sole (il baphomet “signore dell’universo”? – ndr. -) al posto dei tabernacoli rovesciati di Nostro Signore Gesù Cristo? Qualche culto impuro dato agli idoli di carne e sangue (le aberrazioni sessuali delle lobby? – ndr – ), come si è visto nei giorni peggiori della nostra grande rivoluzione? Tante ipotesi che una facile immaginazione costruita sui dati del passato può suggerirci. Ma qual è il valore dei dati passati per le congetture future? È con grande senso che Bossuet ha scritto: « Tremo mettendo le mani sul futuro » (Bossuet, L’Apocalisse, XX, 14). Sarà dunque più sicuro, lasciare da parte tutte le determinazioni particolari ed attenersi puramente e semplicemente alla parola della Scrittura, dove essa annuncia la manifestazione del grande anticristo, l’anticristo per eccellenza, che si solleverà contro tutto ciò che è chiamato Dio ed onorato da culto, fino al punto di sedersi nel santuario di Dio e presentarsi come se fosse Dio. (II Tess., n, 4). Questa è l’affermazione più autorevole che si possa fare sull’abominatio desolationis degli ultimi giorni, senza preoccuparsi ulteriormente del come.  E tutto ciò che si può dire con certezza è che nella sua apparizione, l’empio, l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, « sarà con la potenza di satana, accompagnato da ogni sorta di segni e prodigi ingannevoli, con tutte le seduzioni dell’iniquità » … questo ci promettono il progresso della magia, della negromanzia, dello spiritismo, del luciferianesimo, della teosofia e, in una parola, di tutte le cosiddette scienze occulte, con qualunque nome siano chiamate e sotto qualunque maschera si nascondano. (II Tess., II, 9-10). Quanto al resto, diciamolo ancora una volta, è un segreto del futuro, dove volenti o nolenti siamo obbligati a confessare che non vediamo nulla (fino al 2019! – ndr. – ). – Ma quanto più oscura ancora è la parte finale dell’oracolo di Daniele dove, dopo aver menzionato i milleduecentonovanta giorni che si contano dall’interruzione del sacrificio perpetuo e l’installazione dell’abominatio desolationis, si dice: « Beato chi aspetta e arriva a milletrecento trentacinque giorni! » Non è, senza dubbio, che anche qui tutto sia tenebra e oscurità, perché appare abbastanza chiaro che si tratti dell’aspettativa così spesso raccomandata di poi, nelle Scritture del Nuovo Testamento, « della beata speranza e venuta della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo » (Tit., II, 13; I Cor. 1, 17; Filipp., III, 20; I Tess. 1, 10; Eb. IX, 28; II Petr. III, 12, ecc.): che di conseguenza, come dice espressamente San Girolamo nel suo commento al presente versetto di Daniele, la fine dei 1335 giorni segna l’ora della parusia, « quando il Signore e Salvatore ritornerà nella sua maestà ». Questo, dico, sembra abbastanza chiaro, se ci riferiamo a ciò che l’Angelo ha detto poco prima sulla risurrezione dei morti e la ricompensa eterna dei giusti. Ma quante ombre ci sono ora, mescolate a questa luce! Cosa sono in particolare i 1290 giorni menzionati sopra? Quali sono i quarantacinque giorni che si aggiungono ad essi per completare la somma di 1335, e qual è la ragione per distinguerli dagli altri? Essi segnano l’intervallo tra la sconfitta dell’anticristo e l’arrivo del Giudice dei vivi e dei morti? E in questo caso, questo numero di 45, come quello di 1290 a cui si aggiunge, sarebbe un numero preciso, da prendere nel senso proprio e naturale della lettera, o non piuttosto uno di quei numeri mistici di cui i libri dei Profeti ci offrono tanti esempi? Tanti misteri che rimangono impenetrabili finché l’evento non porta qualcosa per decifrare l’enigma; tanti sigilli che saranno tolti solo al momento della fine, e solo per il bene per i fedeli servitori di Gesù Cristo, per quelli che, secondo la bella espressione dell’Apostolo “amano la sua venuta”, qui diligunt adveutum ejus. Perché gli altri, come è già stato detto, non capiranno, ma, ribelli a tutti gli avvertimenti come quelli della generazione di Noè, saranno sorpresi dalla catastrofe che cadrà su di loro all’insaputa, nel momento stesso in cui diranno: Pace e sicurezza. Cum dixerint pax et securitas, tunc repentinus eis superveniet intéritus, sicut dolor in utero habenti, et non effugient (I Tess. V, 3). – Finora abbiamo evidenziato, e, per quanto possibile, commentato e spiegato i vari oracoli di Daniele riguardanti l’abominazione della desolazione. Questa era l’indagine preliminare, spinta dalle difficoltà presentate dal passo di San Matteo, XXIV, 15 segg. , e in particolare dalla questione di ciò a cui mirava realmente la profezia del Vangelo, dove è detto: Quando vedrete l’abominio della desolazione, annunciato dal profeta Daniele, eretto nel luogo santo, chi legge intenda, ecc. Ora, dopo le spiegazioni precedenti, la risposta da cui dipende la soluzione desiderata sarà più facile; la daremo a titolo di conclusione, in un’esposizione semplice e rapida. – E prima di tutto, non avremo difficoltà a riconoscere che Gesù, riferendosi alla profezia di Daniele, si riferiva infatti all’oracolo del capitolo nove, riguardante il tempo e gli eventi dell’assedio. Ciò è perentoriamente dimostrato dal consiglio dato a coloro che si trovavano in Giudea di fuggire sui monti non appena si fosse visto l’abominio della desolazione nel tempio, che, secondo la collazione dei vari testi di San Matteo e San Luca, avrebbe cominciato ad apparire nello stesso momento in cui iniziava l’assedio di Gerusalemme da parte degli eserciti romani. Tutto questo è accettato dall’esegesi e dalla storia, ammesso senza dubbio da tutti gli interpreti, e noi non lo contraddiremo. Ma ciò che sembra più ovvio, se può esserlo, e più certo ancora, è che l’oracolo di Daniele a cui si fa principalmente riferimento era quello del dodicesimo capitolo, proprio quello che abbiamo appena citato, riguardante il tempo dell’anticristo e la grande persecuzione che verrà nel suo regno. E qui potrei osservare, prima di ogni altra cosa, che non c’è nulla nel testo evangelico che limiti l’ampiezza di questa espressione, abominationem desolationis quae dicta est a Daniele prophèta, all’unico abominio predetto per il tempo dell’assedio; nulla che determini la sua portata a Daniele IX, 27, ad esclusione di Daniele, XII, 11. Potrei aggiungere che nostro Signore non dice: “Quando vedrete l’abominio predetto da Daniele eretto nel tempio”, ma piuttosto: “eretto nel luogo santo, in loco sancto“, (èn topo aghio) che è un’espressione più generale, che va oltre l’orizzonte giudaico, e porta il pensiero oltre il tempio di Gerusalemme e gli eventi di cui doveva essere teatro. Potrei, dico, fare queste considerazioni, che non sono senza valore, e sarebbe utile mettere in fila, in mancanza di altre prove; ma non vi insisto, e preferisco affidarmi a due argomenti molto più perentori, il primo dei quali si legge nell’inciso: “Chi legge, intenda! Qui legit, intelligat“, subito dopo le parole “Quando vedrete l’abominio predetto dal profeta Daniele“. Infatti, questa inciso contiene un’evidente allusione a ciò che è stato notato sopra, dell’oscurità dell’oracolo del capitolo dodici. Inoltre, risponde direttamente al passaggio dove si dice che gli empi non l’avrebbero capito, che solo i fedeli avrebbero ricevuto l’intelligenza: Neque intelligent omnes impii… porro docti intelligent. Perciò, chi legge, ascolti.  Questa è un’indicazione tacita, ma tanto più significativa, del luogo preciso del profeta a cui ci si riferisce. Tanto per il primo argomento. Ma il secondo è ancora più decisivo. Deriva dalle parole che appaiono un po’ più in basso nel testo di San Matteo …ci sarà grande angoscia, come non si vedeva nulla di simile dai tempi dell’inizio del mondo, e non lo sarà mai più. È parola per parola ciò che è detto in Dan. XII, 1: Et veniet tempus quale non fuit ex quo gentes esse cœperunt usque ad, illud. Da tutto ciò risulta che, nel passo di San Matteo che è stato oggetto del presente studio, Nostro Signore si riferiva subito ai due oracoli di Daniele sopra menzionati, e univa nello stesso quadro profetico gli eventi corrispondenti, quelli dell’assedio e quelli della persecuzione dell’Anticristo. È perché in effetti, questi eventi, per quanto distanti l’uno dall’altro nell’ordine del tempo, rappresentavano situazioni del tutto analoghe, che di per sé si prestavano ad essere presentate e disposte in un’unica prospettiva di futuro prossimo e lontano. Da un lato, la crisi che segnalava la fine della religione giudaica, che stava lasciando il posto a quella del Nuovo Testamento; dall’altro, la crisi che segnalava la fine della religione della terra, che sarebbe stata abolita per far posto a quella dell’eternità. Da una parte come dall’altra, giorni come mai visti, né mai si vedranno, ma giorni di vendetta al tempo dell’assedio (emerai eikoikeseos – Luca, XXI, 22), perché mai fu, mai si vedrà una vendetta come quella che fu fatta allora contro Gerusalemme; ed i giorni di persecuzione al tempo dell’anticristo (Tlipsis emeron ekeinon – Matth., XXIV, 29), perché mai fu, mai si vedrà persecuzione paragonabile a quella in cui satana, più scatenato che mai, eserciterà la sua seduzione senza limiti con mezzi inauditi fino ad allora. Infine, da entrambe le parti, il finimondo alla fine dei giorni della tribolazione, statim post tribulationem dierum illorum. Ma dopo la tribolazione dei giorni dell’assedio, il finimondo in immagine ed in figura, di cui abbiamo parlato in un articolo precedente; dopo la tribolazione dei giorni dell’anticristo, il vero finimondo, dove apparirà in tutta verità il segno del Figlio dell’uomo, che tutte le tribù della terra vedranno venire in grande potenza e maestà. Con queste semplici osservazioni, il ragionamento dei modernisti va in fumo ancora una volta, anche se non lo danno per scontato. Rimane per loro il più invincibile di tutti gli argomenti, o almeno quello che considerano tale, e che dobbiamo esaminare prima di lasciare il discorso escatologico che ci ha occupato finora, e passare agli altri luoghi della Scrittura che essi alterano, secondo la parola di San Pietro (II Petr., III, 16), per la loro propria perdizione, e anche, ahimè! Per quella di coloro che li ascoltano.

LA PARUSIA (5)

LA PARUSIA (3)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (3)

PARIS GABRIEL BEAUCHESNE, Rue de Rennes, 117 – 1920

ARTICOLO TERZO

ESAME DELL’INSIEME DEL TESTO DI SAN LUCA

L’impenetrabile segreto in cui l’oracolo evangelico racchiude il tempo della parusia e del giudizio sarebbe già sufficiente per ribaltare completamente la tesi modernista sulla fine del mondo come direttamente intravista da Gesù, quando dichiarò Amen dico vobis, non præteribit generatio hæc donec omnia haec fiant. Inoltre, l’enormità dell’equivoco appare immediatamente, fin dall’inizio, e con piena evidenza, proprio leggendo questa stessa dichiarazione letta, come deve essere, nella sua interezza e nel suo vero contenuto: In verità vi dico che questa generazione non finirà finché tutte queste cose non saranno compiute (il cielo e la terra passeranno e le mie parole non passeranno); ma per quanto riguarda quel giorno e quell’ora (della parusia), nessuno ne sa nulla, nemmeno gli Angeli che sono in cielo,  né alcun altro che il Padre mio (Matth. XXIV, 34-36; Marc., XIII, 30-). Questo è fuor di dubbio, “inequivocabile”, per così dire, e a maggior ragione  questa volta. Chi potrebbe mai immaginare di unire nella stessa frase due cose così apertamente contraddittorie come: da un lato, l’annuncio dell’ultimo giorno che viene nella presente generazione, e dall’altro, l’affermazione solenne ed enfatica che nessuna creatura in cielo o in terra sapeva o doveva sapere l’ora e il momento di essa? Si può obiettare che il tempo è stato detto inconoscibile per la sola ragione che, pur sapendo con certezza che sarebbe stato nella seconda metà di questo secolo, non potevamo sapere esattamente l’anno, il mese e il giorno, l’anno, il mese e la settimana? Questa è una via d’uscita pietosa, rifiutata non solo dal semplice buon senso, per quanto accomodante possa essere, ma anche dalla lettera stessa del testo evangelico. Per questo motivo, infatti, gli avvenimenti riguardanti la rovina di Gerusalemme sarebbero stati identicamente nella stessa condizione del giorno della parusia; si era altrettanto poco o, se si vuole, altrettanto abbondantemente informati sul tempo del primo come su quello del secondo; di tutti loro indifferentemente, si potrebbe dire con lo stesso titolo e con la stessa verità: nemo scit nisi Pater; infine, l’opposizione tra omuia hæc e de die autem illo et hora cadeva subito e diveniva completamente vuota di significato. Siamo quindi pienamente in grado di avanzare che l’interpretazione che i modernisti danno a queste parole: “La presente generazione non passerà senza il compimento di tutte queste cose“, fa violenza alle regole più elementari dell’esegesi; che il termine “tutte queste cose”, omnia hæc, si riferiva alla rovina di Gerusalemme, e non alla rovina del mondo, se solo questo non è, come è stato detto, la rovina del mondo, nella misura in cui quest’ultima doveva apparire nella prima come nella sua figura, e inoltre, il tempo della consumazione dei secoli, considerato in sé, era chiaramente, formalmente, espressamente riservato e messo a parte, al di là di ogni indagine, ogni previsione, ogni determinazione, anche approssimativa, e l’unica cosa che si poteva sapere su di esso era proprio  l’impossibilità di sapere qualcosa su di esso. – Tutto questo sia detto una volta per tutte, in modo da scartare definitivamente, e mettere completamente fuori questione, il famoso verso, non præteribit generatio hæc, il cui vero significato sembra essere stato chiaramente spiegato, abbondantemente provato, e solidamente stabilito, in modo che nessuno abbia il diritto di opporvisi, o di riprendere la discussione in alcun modo. Ma tutte le difficoltà scompaiono, per tutto questo, dall’intero contenuto dell’oracolo evangelico? L’obiezione che è stata evitata su un punto non si ripeterà su un altro? E se l’annuncio della vicinanza della catastrofe suprema non è a chiare lettere, come vorrebbero i modernisti, nella dichiarazione finale, non sarebbe forse equivalentemente significato, e virtualmente contenuto in vari luoghi nel corpo della profezia stessa? Notiamo che questa non è una supposizione assolutamente gratuita. Diverse cose potrebbero suggerirlo, come certe espressioni, certi giri di parole, certi modi di parlare che si trovano qua e là, ma principalmente e specialmente il passaggio in San Matteo e San Marco dove la parusia è presentata come immediatamente successiva, immediate, ai giorni di estrema tribolazione, di cui l’abominazione della desolazione predetta dal profeta Daniele doveva essere il segnale. – E così una nuova questione ci si pone davanti: una questione dalla cui soluzione dipenderà la conferma, o, al contrario, la negazione, di tutto ciò che è stato detto sopra in risposta all’audace affermazione dei nemici della nostra fede: il che è sufficiente per dire che è importante, ed esige di essere trattata a fondo. Noi, con l’aiuto di Dio, possiamo portare su di essa tutta la luce desiderabile, in modo che alla fine non ci sia più spazio per alcun dubbio ragionevole. A tal fine, sarà opportuno dividere il lavoro, cioè distinguere tra San Luca e gli altri due sinottici, facendo di ogni testo l’oggetto di uno studio separato e di un esame approfondito.

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E per iniziare con il compito più facile ecco il testo di San Luca, che, per comodità del lettore trascriviamo qui per intero con la notazione delle tre parti che lo dividono, e che è della massima importanza rimarcare. – Così leggiamo in San Luca, XXI, 10 e seguenti. « Gesù disse allora ai suoi discepoli:

– A) Versetti 10-23: Si leverà Nazione contro nazione, e regno contro regno. Ci saranno grandi terremoti, pestilenze e carestie in vari luoghi, ed in cielo apparizioni spaventose e segni straordinari. Ma prima di tutto questo, vi metteranno le mani addosso e vi perseguiteranno, vi trascineranno nelle sinagoghe e nelle prigioni e vi porteranno davanti ai re e ai governatori a causa del mio nome… Ma quando vedrete gli eserciti investire Gerusalemme, allora sappiate che la sua desolazione è vicina. Allora quelli che sono in Giudea fuggano sui monti, e quelli che sono in città la lascino, e quelli che sono in campagna non entrino in città. Perché quei giorni saranno giorni di punizione, per l’adempimento di tutto ciò che è scritto. Guai alle donne che sono incinte o che allattano in quei giorni, perché ci sarà una grande angoscia sulla terra e una grande ira su questo popolo. Essi cadranno a fil di spada, saranno portati via in cattività tra tutte le nazioni.

– B) versetto 24. E Gerusalemme sarà calpestata dai Gentili, finché i tempi dei Gentili siano compiuti.

 – C) versetti 25-31. E ci saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e le nazioni saranno turbate e sconvolte sulla terra al rumore del mare e delle onde, e gli uomini avranno paura di ciò che accadrà al mondo, perché le potenze dei cieli saranno sconvolte. Allora il Figlio dell’Uomo sarà visto venire in una nuvola con grande potenza e gloria. Quando queste cose cominceranno ad accadere, raddrizzatevi e alzate la testa, perché la vostra liberazione è vicina. Guardate la ficaia e tutti gli alberi; appena cominciano a germogliare, voi sapete da voi, quando li vedete, che l’estate sta arrivando. Allo stesso modo, quando vedrete queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino. » . – Così parlò Gesù, secondo la lezione del terzo Vangelo. Era, come vediamo, un quadro abbreviato che abbracciava tutto il futuro e lo divideva in tre periodi distinti: un primo (versetti 10-23), fino alla prossima caduta di Gerusalemme compresa; un secondo [versetto 24], comprendente tutti i tempi tra la caduta di Gerusalemme e gli ultimi giorni del mondo; un terzo [versetti 25-31], che inizia con i precursori della catastrofe finale e termina all’evento supremo, cioè la parousia. E in questo quadro ogni cosa è stata messa al suo posto secondo l’ordine naturale della successione degli eventi; ogni parte è stata staccata dalle altre senza confusione di sorta, nel modo più chiaro e distinto del mondo; e infine, e soprattutto (perché questo è per noi il punto capitale della questione), è stato lasciato il più ampio margine per l’interposizione di tutta la serie di secoli prima dell’arrivo dell’ultimo giorno. In verità, questo testo di San Luca, se lo si sa leggere, è di per sé la più trionfante delle difese e la più convincente delle testimonianze. – Ci sono solo due piccoli passaggi in cui la critica modernista ha trovato qualcosa da ridire. È nel luogo in cui, dopo aver descritto i segni della parusia, Gesù, continuando a rivolgersi ai discepoli davanti a Lui, aggiunge: « Quando queste cose cominceranno ad accadere, allora guardate in alto e alzate il capo, perché la vostra liberazione si avvicina. » Ed un po’ più in basso: « Quando vedrete queste cose, sappiate che il regno di Dio non è lontano. » – E infatti, cosa vi sembra, amici lettori? Non pensate che anche voi potreste vedere qui l’equivalente di un annuncio della fine del mondo per il corso della presente generazione? Guardate, alzate la testa, quando vedrete queste cose! Queste cose, questo sconvolgimento di tutta la natura, questa agonia del mondo! Essi dovevano vederle, e vedere con i propri occhi, quelli di coloro ai quali Gesù stava parlando allora. E in questo caso, fu mentre erano ancora vivi, mentre lo erano Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea, che Lo avevano interrogato, e gli altri della loro compagnia, erano ancora vivi, che, nella mente del Maestro, doveva venire la consumazione dei tempi, la parusia, l’instaurazione definitiva del regno di Dio. Così, almeno, ragionano i nostri modernisti, che non si accuserà di deviare dalla lettera, stavo per dire dalla sua più grossolana materialità. Ma tutta la tradizione cristiana aveva ragionato molto diversamente fino ad ora. Ben altrimenti Sant’Agostino, quando si chiedeva se potesse esserci qualcuno che non capisse che ci sono molte cose nel Vangelo che sembrano essere dette solo agli Apostoli, e che in realtà erano dette a tutta la Chiesa, di generazione in generazione fino alla fine dei secoli: Quod tamen cura universæ Ecclesîæ promisisse, quæ aliis morientibus, aliis nascentibus, hic usque in sæculi consummationem futura est, quis non intelligat? (August, Epist. 199, ad Hesych., n. 49). Ben diversamente, San Leone, quando mostrava l’uditorio di Gesù Cristo formato dall’universalità dei fedeli di tutti i tempi, ascoltando e sentendo il loro Salvatore in coloro che allora, nei giorni della sua vita mortale, facevano parte del suo entourage (S. Leone M. Serm. 9 de Quadrig. c. 1). No, no, prima dell’avvento della nuova scuola, nessun Cristiano avrebbe pensato che ogni parola detta ai discepoli dovesse essere sempre intesa come detta solo a loro di persona. Non sarebbe mai venuto in mente a nessuno che, nelle predizioni riguardanti il futuro della Chiesa, la forma di discorso diretto più spesso usata da Gesù fosse un qualcosa che si rivolgeva solo a coloro che erano in quel momento materialmente e fisicamente presenti davanti a Lui. Non sarebbe mai venuto in mente a nessuno di mettere in dubbio questo principio di tale evidenza naturale, che in questi dodici di cui aveva fatto il nucleo del Suo regno, Egli considerava, istruiva, ammoniva, esortava e metteva in guardia tutti i Suoi fedeli, visti distintamente da Lui attraverso tutte le epoche; e che di conseguenza, nel dire nel discorso escatologico che stiamo qui analizzando a Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea, “Quando vedrete, quando vi sarà detto, quando sentirete, alzate il capo e guardate“, ecc., attraverso loro e in loro si stava rivolgendo in realtà a quelli dei suoi che sapeva sarebbero stati testimoni dei prodromi della catastrofe suprema, qualunque fosse il momento di essa, vicino o lontano, e sulla quale, come è già stato detto, non aveva bisogno di spiegarsi. – No, ripeto, non si sarebbe mai osato toccare, prima dei nostri tempi sfortunati, questo abc, questi principi elementari dell’esegesi evangelica, il cui rifiuto non porterebbe a niente di meno che alla distruzione dei primi fondamenti della religione cristiana, a cominciare dalla promessa fondamentale: ecce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consummationem sæculi. Ma anche allora, Gesù Cristo era considerato come dato in tutte le pagine della Scrittura, sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con la sua trascendenza sovrumana, la sua onniscienza del futuro come del passato, la sua qualità di Messia, di padre dell’epoca futura, il fondatore del regno di Dio per il tempo e per l’eternità. Invece, il modernismo ha cambiato tutto questo, e ci ha dato un Cristo che ora è solo un uomo, che sa, vede e dice solo quello che un uomo può vedere, sapere e dire, e si trova di fronte ai pochi discepoli che era riuscito a legare a sé, nello stesso rapporto, o più o meno, di un professore alla Sorbona o al Collège de France di fronte alla mezza dozzina di ascoltatori che assistono alle sue lezioni, seduti più in largo in queste lezioni, … che alle prediche di Gassagne o dell’Abbé Cotin. Ma lasciamo le violenze dei ciechi, conduttori dei ciechi, e torniamo al testo di san Luca, che, lungi dall’annunciare l’imminenza della parusia e l’avvicinarsi della fine dei tempi, al contrario, ha aperto i più ampi orizzonti per le congetture sul futuro, e ha lasciato spazio a tutti i giorni, anni, secoli e settimane di secoli che si possano immaginare. Il passo che deve essere al centro della nostra attenzione qui è quello che segna il secondo dei tre periodi indicati sopra, a metà strada tra il sacco di Gerusalemme e gli ultimi giorni del mondo: E Gerusalemme sarà calpestata dai Gentili, finché i tempi dei Gentili siano compiuti. Questo passaggio è estremamente rimarchevole sotto molti aspetti. Notevole, prima di tutto, perché separa nella profezia, con un intervallo ben demarcato, le due catastrofi che i discepoli nel loro interrogatorio avevano mescolato e confuso. Notevole, quindi, perché dipinge un quadro del futuro stato politico di Gerusalemme dopo la sua caduta che la storia non avrebbe certamente potuto dipingere più accuratamente. Infatti, Gerusalemme calpestata dai Gentili, cioè asservita alle varie nazioni di Gentili (prima ai Romani, poi ai Persiani, poi agli Arabi, poi ai Franchi, poi ai Musulmani d’Egitto, poi ai Turchi), non è forse l’esatto e completo riassunto dei suoi annali, dopo Tito fino ai giorni nostri?  Ma notevole soprattutto, poiché ci fa sapere fino a quando sarebbe durato questo stato di schiavitù e servitù, e quale grande rivoluzione avrebbe dovuto essere compiuta nel frattempo, come indicato da queste parole che, nella loro estrema concisione, dicono più di pagine intere: donec impleantur tempora, nationum: finché non si compiano i tempi delle nazioni, cioè i Gentili, che sono, come tutti sanno, nel linguaggio della Scrittura, i popoli estranei alla razza e alla religione giudaica. Tutta la sostanza del dibattito è in questa piccola frase, dove sorgono immediatamente due questioni. La prima: Cosa sono questi tempi dei Gentili, fino al cui compimento si sarebbe prolungata la sottomissione di Gerusalemme? La seconda: fino a quale durata potrebbero essere stimati? In altre parole: la loro realizzazione, per parlare il linguaggio della profezia, segnano una fine chiara e precisa sul breve termine (per cadere, per esempio, entro la vita dei contemporanei di Gesù), o non hanno piuttosto lasciato aperte tutte le prospettive su una lunga serie di secoli prima della venuta della catastrofe suprema? Rispondere a queste due domande particolari in modo pertinente, sarà per questo stesso fatto come risolvere la questione integralmente, e mettere in piena evidenza ciò che il testo di San Luca ha dato da pensare, da credere o da congetturare sulla futura durata del mondo e sul tempo della parusia. – La prima domanda, dunque, è cosa si debba intendere con questa espressione, tempora nationum, i tempi dei gentili? E la risposta non può essere minimamente dubbia. Senza dubbio, i tempi dei Gentili sono i tempi preparati da Dio per la conversione dei Gentili, per l’evangelizzazione dei popoli pagani, per l’entrata nella Chiesa e per l’istituzione della Chiesa, per l’evangelizzazione dei popoli pagani, per l’ingresso delle nazioni infedeli nell’ovile della Chiesa. Questo significato è chiaramente indicato, prima di tutto, dal testo stesso dell’evangelista: (akri ou plerotosis kairoi etnon). E qui Sant’Agostino, che è comunemente accusato di non conoscere il greco, ma che comunque ne sapeva abbastanza per districarsi a volte nelle difficoltà di esegesi che gli venivano proposte, ci farà notare, nella prima delle sue due lettere a Esichio (Epist. 197, n.2), che il termine di cui fa uso San Luca non ha un equivalente in latino: né, aggiungerei, ha un equivalente nella nostra lingua. Infatti, dove si legge tempora nationum, il greco porta, non kronoi, ma xairoi etnon. Ora tra le due parole kronoi e kairoi, che in latino e francese, hanno un solo termine corrispondente, c’è una notevole differenza. E la differenza consiste nel fatto che il primo evoca solo l’idea pura e semplice di tempo, mentre il secondo, come attestano tutti i lessici antichi e moderni, significa un tempo adatto, opportuno, lavorabile. Ecco perché questa espressione, xairoi etnon ove il termine kairos è usato in modo assoluto, senza alcuna aggiunta o determinazione di alcun tipo che limiti o modifichi il suo significato originale e naturale, non poteva che significare i tempi favorevoli ai Gentili: cioè, i giorni di benedizione, di salvezza e di grazia che sarebbero finalmente sorti su di loro, e che sarebbero stati un tempo di pace e prosperità, quell’epoca tanto celebrata dagli antichi oracoli, della loro chiamata alla mirabile luce della fede. Chi non ricorda ciò che i profeti avevano dichiarato, nei termini più magnifici, della benedizione che doveva essere riversata sui Gentili attraverso il Messia? Chi non ricorda, tra cento altri, quello splendido passo di Isaia che la liturgia propone alla nostra attenzione ogni volta che l’anno riporta la commemorazione dell’arrivo dei Magi, le primizie dei gentili, alla culla di Gesù Cristo; dove la gloria futura della nuova Gerusalemme, cioè della Chiesa cristiana, alla quale accorreranno tutte le nazioni della terra, portandovi le loro offerte, e portandovi innumerevoli figli? « Alzati e risplendi, o nuova Gerusalemme – gridava il profeta – perché la tua luce risplenda e la gloria del Signore si è levata su di te. Poiché le tenebre coprivano la terra e una cupa oscurità avvolgeva i popoli, ma su di voi il Signore sorgerà e la sua gloria risplenderà su di voi; le genti cammineranno verso la vostra luce e i vostri re verso la luminosità del tuo sorgere.Alza gli occhi intorno e vedi: sono tutti riuniti, vengono a te; i tuoi figli vengono da lontano e le tue figlie sono portate in braccio. Allora lo vedrai e sarai raggiante; il tuo cuore sussulterà e si espanderà, perché le ricchezze del mare verranno a te, i tesori delle nazioni verranno a te. I cammelli di Madian e di Efa ti copriranno in gran numero, e tutti i cammelli di Saba verranno, portando oro e incenso e declamando le lodi del Signore » (Isa. LX, 1-6)). Eccoli qui, annunciati con molti secoli di anticipo, quei tempi che in San Luca sono chiamati i tempi dei Gentili: un nome tratto, come si vede, dalla nota caratteristica che li distingue, e che doveva essere singolarmente sottolineata dal contrasto tra il popolo giudaico, che si era rifiutato, con una cecità inconcepibile, di riconoscere il Messia che era venuto a loro, ritirandosi così dalla benedizione promessa ai discendenti di Abramo, e abbandonandosi al loro senso reprobo fino alla fine dei tempi, quando anche per esso, alla fine del mondo, dopo che la moltitudine dei gentili sarà entrata nella Chiesa, suonerà l’ora favorevole, l’ora della riconciliazione e del ritorno. Tutto questo è nei dati più provati e autentici della Scrittura … « C’è un tempo per i Gentili, e dopo quel tempo i Giudei, che i Gentili hanno finora calpestato, ritorneranno, e dopo che la pienezza dei Gentili sarà entrata, tutto Israele, tutto ciò che è rimasto di loro, sarà salvato. » (Rom., XI). Ma se ci fosse ancora il minimo dubbio sul significato della frase: donec impleantur tempora nationum, ci sarebbe solo, per dissiparlo del tutto, da riferirsi al versetto parallelo di San Matteo (XXIV, vers. 14), che afferma che « il Vangelo sarebbe stato predicato in tutto il mondo, per essere una testimonianza a tutte le nazioni, e che poi sarebbe venuta la consumazione ». Et prædicabitur hoc evangelium regni in universo orbe, in testimonium omnibus gentibus, et tunc veniet consummatio. “Così, quelli che in San Luca sono chiamati i tempi dei Gentili, in San Matteo, son detti i tempi in cui il Vangelo sarebbe stato predicato loro, cioè, senza difficoltà, i tempi della loro chiamata alla fede, e della loro progressiva aggregazione a quell’unico ovile di cui Gesù Cristo aveva detto: « E ho altre pecore che non sono di questo ovile (della sinagoga), e devo condurle, ed esse ascolteranno la mia voce, e allora ci sarà un solo ovile e un solo pastore » (Giov. X, 16). Questo risolve categoricamente la prima delle due domande poste sopra. Sappiamo con la massima certezza cosa si intende per i tempora nationum che, nell’oracolo evangelico, separano la caduta di Gerusalemme dal periodo prima della consumazione dei secoli e della parusia. (Vedi sopra, versetti 24 e seguenti). Ma ora ci resta da sapere ed è la cosa più importante per noi: Che durata potrebbero rappresentare questi medesimi tempi dei gentili? Rappresentano un breve intervallo di pochi anni, cosa che sarebbe facilmente accettato da coloro che dicono che le dichiarazioni di Gesù sulla prossimità della catastrofe erano inequivocabili? O, al contrario, sono una lunga serie di secoli, come quella che è già trascorsa e come quella che potrebbe ancora trascorrere in un futuro indefinitamente prolungato? Qui è importante distinguere tra ciò che il testo implica in termini di una tesi assoluta, e ciò che implica in termini di congetture, supposizioni e ipotesi, in considerazione delle particolari circostanze o condizioni in cui le diverse generazioni cristiane si sono successivamente trovate dalle prime origini ad oggi. In termini assoluti, i tempi delle nazioni, rappresentavano il tempo necessario affinché la predicazione del Vangelo, iniziata a Gerusalemme il giorno della prima Pentecoste, si diffondesse man mano in tutto il pianeta, raggiungesse progressivamente tutte le tribù, tutte le razze, tutti i popoli della terra, e penetrasse così profondamente da suscitare in tutti i luoghi e in tutti i rami della comunità cristiana la semenza della fede. Tali sono i dati che fornisce il Vangelo che corrobora ancora i più famosi oracoli dell’Antico Testamento.  Cosa potrebbe essere più categorico a questo proposito del passo citato da San Matteo: “E questo vangelo del regno sarà predicato in tutto il mondo per testimoniare a tutte le nazioni, e allora verrà la consumazione? « In tutto il mondo », ecco la totalità dei luoghi; « a tutte le nazioni » è la totalità delle razze e delle lingue. Ma poiché è il testo di San Luca che è in questo momento l’oggetto speciale del nostro studio, concentriamoci più particolarmente su ciò che San Luca stesso riporta delle parole di Gesù ai suoi Apostoli nelle apparizioni che seguirono la sua risurrezione (Luca, xxiv, 44 ss.; Atti, I, 4 ss.): « Questo è ciò che vi ho detto, mentre ero ancora con voi, che si devono compiere tutte le cose che sono scritte di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi. … Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: Così sta scritto, e così era necessario che Cristo soffrisse e risuscitasse dai morti il terzo giorno, e che la penitenza e la remissione dei peccati fossero predicate nel suo nome a tutte le nazioni nel suo nome. » E aggiunse: « Cominciando da Gerusalemme », perché questo era l’ordine che era stato stabilito, l’ordine che la predicazione apostolica doveva cominciare a Gerusalemme e poi passare alla Giudea e alla Samaria, e non fermarsi finché non avesse raggiunto i più lontani confini del mondo abitato: usque ad ultimum terræ … – Questo è ciò che disse sul Monte degli Ulivi nel momento stesso della sua partenza; fu la sua ultima parola, la sua suprema raccomandazione, perché mentre lo diceva, si alzò da terra, scomparve nella nuvola e mandò i due Angeli come sappiamo, per attestare un’ultima volta la verità del suo ritorno alla fine dei tempi per giudicare i vivi e i morti. Ma non sarà fuori luogo insistere un po’ sulle testimonianze che ha portato dalla legge di Mosè, dai profeti e dai salmi, scripta in lege Moysis et prophetis et psalmis de me, per chiarire meglio il senso delle sue ultime istruzioni, e per far emergere ancora più chiaramente tutta la portata dell’opera di evangelizzazione che lasciava alla Chiesa. Ecco la legge di Mosè [il Pentateuco], in cui è scritta la promessa di Dio ad Abramo, … che nel suo seme, cioè nel Messia che sarebbe uscito da lui, sarebbero state benedette tutte le nazioni della terra. Ecco i Salmi, e specialmente il XXI, dove dopo l’immagine della passione di Cristo, delle sue mani e dei suoi piedi trafitti, delle sue ossa segnate sulla pelle da tutto il peso del suo corpo violentemente sospeso, delle sue vesti divise, della sua tunica data in sorte, dei suoi nemici che fremono intorno a lui e si saziano del suo sangue, vediamo le conseguenze e i frutti di un così grande sacrificio: tutte le estremità della terra si ricorderanno del Signore e si convertiranno a Lui; tutte le famiglie dei gentili, tratte dalle tenebre dell’idolatria, si prosterneranno adoranti davanti alla sua faccia, ed al Signore a cui appartiene l’impero, e governa su tutte le nazioni. Questi sono i Profeti, e tra questi Isaia, che, alzando il suo volo ancora più in alto di tutti gli altri, cantò le future glorie della nuova Sion: « Allarga lo spazio della tenda » esclamava. Che le tende della vostra casa siano aperte. Non risparmiate lo spazio, tendete le vostre corde e siate saldi nella vostra fede. Poiché tu penetrerai a destra e a sinistra, e la tua progenie possederà le nazioni e abiterà le città deserte. Non temere, perché non sarai confuso. Il tuo sposo è il tuo Creatore e il tuo Redentore è il Santo d’Israele. Egli sarà chiamato il Dio di tutta la terra (Isaia, LIV, 2-5). Questo è l’annuncio della presa di possesso del mondo da parte della Chiesa di Gesù Cristo, così come l’indicazione precisa del modo in cui questa immensa rivoluzione avrebbe avuto luogo: non subito, non con un cambiamento improvviso, non con un miracolo che sarebbe stato assolutamente al di fuori di tutto l’ordine della presente provvidenza, ma con una penetrazione progressiva, simile alla penetrazione del lievito della parabola, mescolato con le tre misure di farina che rappresentavano le tre principali razze dell’umanità, semitica, camitica e giafetica: una penetrazione, quindi, che avrebbe avuto luogo, con la benedizione della grazia di Dio, per mezzo di cause secondarie, con il lavoro di uomini apostolici, per mezzo degli sforzi dei missionari nel corso dei secoli e su tutti i punti del pianeta. Questo è ciò che è rappresentato da queste immagini, così spesso ripetute altrove, dell’allargamento dello spazio, dello spiegamento di tende, dell’allungamento di corde, per preparare un posto sempre, sempre più grande. Ecco cosa dicono queste parole esplicitamente: « Penetrerai a destra e a sinistra, a est e a ovest, in tutte le spiagge e in tutti gli orizzonti; e la posterità prenderà possesso delle nazioni, di quelle che si trovano alle estremità più remote, e che per questo, gli Apostoli delle prime epoche non poterono raggiungere; e popolerà le città deserte finora private della conoscenza del vero Dio e della vera Religione. E questo movimento di penetrazione in tutte le zone, in tutte le latitudini e i climi, quando si fermerà, quando avrà la sua fine? – Quando il Redentore della Chiesa, il Santo d’Israele, sarà chiamato il Dio di tutta la terra, cioè quando da un polo all’altro, dalla Cina al Perù, dal San Lorenzo allo Zambesi, dall’Alaska al Thibet, dai laghi ghiacciati degli Urali alle pianure bruciate della zona torrida, la religione cristiana sarà conosciuta, ricevuta e praticata tra le innumerevoli varietà della grande famiglia umana, senza distinzione delle loro varie costituzioni, capacità intellettuali, usi civili, istituzioni politiche, pregiudizi di razza e colore della pelle. Redemptor tuus, Sanctus Israel, Deus omnis terræ vocabitur! Tale fu l’immenso campo che si aprì per gli Apostoli quando Gesù Cristo, salendo al cielo, li mandò a conquistare la gentilità. Concludiamo, dunque, che « i tempi dei gentili » rappresentavano l’intero periodo necessario per realizzare questa conquista, conquista che doveva essere compiuta non con miracoli come quello che colpì e convertì San Paolo sulla via di Damasco, ma con i mezzi comuni e ordinari messi a disposizione dei ministri della Chiesa, con l’aiuto della grazia di Dio. Aggiungiamo, inoltre, che non temiamo di essere contraddetti da nessuno se diciamo che una tale opera non si sarebbe potuta realizzare in pochi anni, ma solo attraverso una lunga serie di secoli, come quella che è già passata, e che, nonostante l’intenso lavoro svolto in tutte le parti del pianeta dalle missioni cattoliche, non sembra essere ancora giunta alla sua conclusione. Infine, concludiamo che il testo di San Luca, una volta messo a fuoco – come deve essere – dall’inciso troppo poco notato che abbiamo cercato di mettere in luce (e Gerusalemme sarà calpestata dai Gentili fino al compimento dei tempi dei Gentili), è in piena, perfetta e completa conformità con l’intero schema degli eventi nella storia, dal giorno in cui la profezia cadde dalle labbra di Gesù, fino al tempo, diciannove secoli dopo, in cui siamo arrivati oggi.

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Tutto questo è evidente ora, tutto questo è perfettamente chiaro a noi, che, oltre al vantaggio di essere nelle migliori condizioni del mondo per ascoltare il vero significato di una profezia che si è già adempiuta in larga misura, siamo anche forniti di tutte le conoscenze, sia geografiche che etnografiche, richieste per valutare la durata dei “tempi delle nazioni“. Ma questo non era il caso degli antichi. Per gli antichi, questa conoscenza era assolutamente carente. Quindi era impossibile per loro formarsi un’idea corretta delle proporzioni del lavoro che la Chiesa doveva compiere prima dell’ora segnata per la consumazione dei tempi. Ed è questa la ragione per cui abbiamo distinto sopra tra il significato assoluto ed oggettivo delle parole di Gesù Cristo, di cui c’era riservata l’esatta comprensione, e il significato più o meno congetturale a cui potevano prestarsi, grazie all’ignoranza in cui eravamo, e in cui siamo rimasti fino ai tempi moderni, delle vere proporzioni della mappa del mondo. Prendiamo, per esempio, la prima generazione cristiana, nella quale durava ancora la straordinaria impressione prodotta dal passaggio sulla terra di Nostro Signore e il ricordo recente della promessa del suo ritorno. Questa generazione, che aveva ricevuto i primi frutti dello Spirito, che era stata inebriata dal vino nuovo della grazia con l’amore dei beni celesti, le cui aspirazioni erano tutte rivolte verso « i nuovi cieli e la nuova terra in cui abita la giustizia », e la cui impazienza gli Apostoli avevano trovato così difficile da calmare, perché non potevano vedere la venuta di questa parousia, così ardentemente amata e così unicamente desiderata. (II Petr., III 9; I Tess. IV, 12c e segg.) Per quella generazione il mondo intero era contenuto nei limiti dell’Impero Romano. Questo significava per questa generazione che, nei suoi calcoli e nelle congetture sulla vicinanza della parusia, difficilmente essa poteva essere fermata dal pensiero che il Vangelo doveva essere predicato in tutto il mondo prima che arrivasse la fine. E infatti San Paolo non scrisse ai Colossesi, appena trent’anni dopo l’Ascensione del Salvatore, che la predicazione della verità evangelica aveva raggiunto loro, come aveva raggiunto il mondo intero, e che stava portando frutto e guadagnando terreno giorno per giorno?  (Coloss., I, 6) . Non li ha esortati a rimanere saldi nella speranza data dal vangelo che avevano udito che avevano udito e che era stato predicato ad ogni creatura sotto il cielo?  (Coloss., I, 23). E quando disse ai romani del grande desiderio che aveva di trovare un’occasione favorevole per andare da loro, non lodò forse la loro fede come rinomata in tutto il mondo? (Rom., I, 8). – Va da sé che queste espressioni, “in tutto il mondo”, “a tutto il mondo”, “a ogni creatura sotto il cielo”, dovevano essere prese solo in un senso essenzialmente relativo, per l’universalità delle regioni o province in regolare comunicazione con il centro dove la predicazione del Vangelo era iniziata, e da cui si era diffusa. Va da sé, inoltre, che anche entro questi limiti c’era ancora molta strada da fare prima che la penetrazione potesse essere considerata sufficiente a soddisfare gli oracoli riguardanti la conversione della Gentilità. Ma non importa, non si è guardato così da vicino, e tutte le condizioni fatte dalla prima generazione cristiana, a capo delle quali va certamente posta l’assenza delle conoscenze geografiche ed etnografiche di cui abbiamo parlato sopra, e questo spiega come avvenne che la porta rimase sempre più o meno aperta all’idea o all’opinione, « che il  mondo stava per finire, e che la grande rivelazione di Cristo stava per avere luogo ». Ora questa stessa osservazione si applica, proporzionalmente, alle età seguenti. Quando, per esempio, San Leone nel quinto secolo, e San Gregorio alla fine del sesto, entrambi confondendo la fine ed il crollo di un mondo (il mondo romano) con la fine ed il crollo del mondo intero, non esitarono ad annunciare (San Leone, Serm, 8 de jejunio decimi mensis; San Gregorio, hom. 1 in evangel.), come prossima, imminente, la catastrofe suprema, non c’è dubbio che la loro persuasione fu condizionata dallo stato più che difettoso della scienza geografica del tempo. Perché se avessero saputo che, delle cinque parti del mondo, almeno due e mezzo erano ancora da scoprire, avrebbero forse anche solo pensato ad un rapido arrivo della fine delle cose, contro le dichiarazioni più formali ed esplicite della Scrittura? Ma Sant’Agostino, nelle due lettere a Esichio già citate, accenna appena all’esistenza di popoli barbari nell’Africa centrale, ai quali il Vangelo non era ancora stato predicato, secondo informazioni ricevute, aggiunge, da prigionieri provenienti da queste regioni a servizio dei Romani. (Sant’Agostino, Epist. 199, n. 46.). Dovevano passare mille anni prima della scoperta del Nuovo Mondo, scoperta che doveva essere il preludio necessario all’installazione, appena completata ai nostri giorni, di missioni cattoliche su tutta la superficie del pianeta. Questa, dunque, è la meraviglia della profezia che è l’oggetto di questo studio: che si riveli ora a noi, come in così esatta e completa conformità con ciò che gli eventi ci hanno insegnato del periodo relativamente tardivo della parusia, e che, tuttavia, abbia dato origine nei tempi antichi a così tante congetture o persuasioni circa la sua imminenza o vicinanza. Ma, come abbiamo già avuto modo di dire, Gesù ha deliberatamente parlato in modo da non chiudere la porta a ipotesi che potevano avere solo gli effetti più salutari, o come stimolo al fervore, o come richiamo alla penitenza, secondo le parole di San Pietro: « Verrà il giorno del Signore, e in quel giorno i cieli passeranno con un gran rumore, e gli elementi saranno dissolti, e la terra sarà consumata, con tutte le opere che sono in essa. Allora perciò, poiché tutte queste cose sono destinate a dissolversi, quale non dovrebbe essere la santità della vostra condotta e la vostra pietà, aspettando e affrettando la venuta del giorno del Signore, in cui i cieli infuocati si dissolveranno e gli elementi infuocati si scioglieranno? Ma stiamo aspettando, secondo la Sua promessa, nuovi cieli e una nuova terra dove abita la giustizia. In questa attesa, cari, fate ogni sforzo affinché siate trovati da lui senza macchia e in pace (II Piet. III, 10 e segg.). »Queste sono le osservazioni che abbiamo dovuto fare sul testo di San Luca. Queste stesse osservazioni sono valide per gli altri due sinottici, come è già evidente da ciò che è stato detto sul versetto parallelo di San Matteo: Et prædicabitur hoc Evangelium regni in universo orbe in testimonium omnibus gentihus, et tunc véniet consummatio. Tranne che in San Matteo e San Marco c’è una riga omessa da San Luca, riguardante l’abominio della desolazione predetto dal profeta Daniele, che dà luogo a una difficoltà molto particolare e speciale. Lo riserviamo per l’articolo seguente.

LA PARUSIA (4)