LA DOTTRNA SPIRITUALE TRINITARIA (17)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (17)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO OTTAVO

I doni dello Spirito Santo (1)

« Tutti gli atti dell’anima sono suoi e sono insieme di Dio »

1) L’azione dei doni dello Spirito Santo – 2) Spirito di timore – 3) Spirito di fortezza – 4) Spirito di pietà – 5) Spirito di consiglio – 6) Spirito di scienza – 7) Spirito d’intelletto – 8) Spirito di sapienza

.1) Lo studio dei doni dello Spirito Santo tratta delle operazioni più sublimi della vita spirituale e tocca i punti culminanti della teologia mistica. – Questa attività alla maniera deiforme che riveste le anime della « mores Trinitas » è il trionfo supremo della grazia e non si manifesta in tutta la sua magnificenza che nella luminosa sera della vita dei santi quando, essendo il loro proprio io, per dire, scomparso, pare che Dio solo si riserbi le iniziative tutte del loro agire. L’anima, introdotta in modo permanente nell’intimità delle divine Persone, partecipa alla vita trinitaria; e, secondo l’espressione di S. Giovanni, vive in « società » (S. Giov. I, 3) col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo « nell’unità » (S. Giov. XVII, 21). È la grazia del Battesimo nel suo pieno fiorire. – All’inizio non è così. Il Cristiano si muove  « in Dio » un po’ come un figlio adottivo che non ha preso ancora tutte le abitudini della sua nuova famiglia: il battezzato non possiede che imperfettamente questa vita essenzialmente deiforme e non sa ancora come condursi per vivere « alla maniera di Dio ». Bisogna dunque che le Persone divine gli insegnino a vivere in seno alla famiglia trinitaria come Dio stesso e, più specialmente « modo del Verbo », poiché la conformità al Figlio segna il culmine supremo della nostra predestinazione nel Cristo. – Il passaggio da questa maniera umana delle virtù cristiane alla maniera divina costituisce propriamente l’oggetto dell’attività dei doni dello Spirito Santo. Man mano che il battezzato procede nella vita divina e si sviluppa in lui la grazia del suo Battesimo, deve rendersi sempre più consapevole del mistero della sua filiazione divina che lo rende « estraneo » a tutto ciò che non è Dio; perché egli è divenuto veramente, secondo l’espressione di San Pietro, « partecipe della divina natura » (II Piet. I, 4) quale sussiste nella unità della Trinità. I predestinati dunque ricevono, per grazia di partecipazione, proprio la natura divina comunicata dal Padre al Verbo e da entrambi allo Spirito Santo. Il Cristiano è un altro Cristo la cui vita profonda è nascosta col Figlio primogenito nel seno del Padre per essere ivi « consumata nell’unità » di uno stesso Amore. – È di altissima, assoluta importanza, essere profondamente compresi in questa verità fondamentale. La definizione della grazia contiene, per via di rigorosa conseguenza, tutto il senso soprannaturale dell’attività delle virtù e dei doni dello Spirito Santo, che dalla grazia stessa derivano, come dall’essere la proprietà. In che modo renderci conto che la fede ci fa « partecipi del Verbo » (cfr. S. Tomm., I, q. 38, a. 1), se non si è compreso che, per la grazia della divina adozione, l’anima è divenuta, nella sua più intima essenza, conforme alla Trinità? Soltanto questa concezione della grazia, la più tradizionale ed insieme la più profonda, spiega come sotto la mozione speciale delle divine Persone, si possa vivere già sulla terra « con un’anima di eternità », « alla maniera del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo » almeno quanto lo consentono le oscurità della fede e le difficoltà della presente vita, ostacolo, questo, insormontabile all’esercizio pieno e sempre attuale della carità. La parola « partecipazione » (partecipazione formale, analogica, inadeguata) include e definisce tutte le sfumature che la vita deiforme può assumere nelle anime, dai primi passi del neobattezzato, fino agli atti più divini dei « rari perfetti della terra » (S. Tomm. III, q. 61, a. 5). Stabiliti definitivamente sulle vette dell’unione trasformante, preludio normale della vita del Cielo. La grazia, infatti, essendo, per sua legge più essenziale, ordinata alla maniera deiforme della gloria, avvia i predestinati con un progresso continuo, verso la vita perfetta ad immagine di Dio, vita della quale la Trinità beata costituisce, per ogni battezzato senza eccezione, il principio ed il modello. « Siate perfetti come il Padre » (Matt. V, 48), diceva Gesù; cioè vivete alla maniera di una Persona divina. Tutto il progresso della vita spirituale consiste nello spogliarsi sempre più di questa maniera umana di vivere virtuosamente, al fine di avvicinarsi, per via di imitazione, al movimento più intimo, più segreto, più divino, della vita trinitaria. È giungere a non più vedere le cose alla maniera umana e neppure nella luce della fede, ma solo nel lume del Verbo, e «  come Lui le vede »; è giungere ad amare divinamente senza potersi rivolgere ad un bene qualsiasi creato o increato, se non per Dio innanzitutto, per la sola sua gloria, un po’ come le Persone divine si amano tra loro e amano l’universo in uno stesso movimento d’amore. – Richiamare questi principii della più alta teologia mistica significa delineare l’azione dei doni dello Spirito Santo, il cui effetto proprio è di avviare le anime alla unione trasformante on di custodirlo in essa, rivestite dei « mores Trinitatis ». – Lo Spirito agisce dapprima lentamente, in crescendo e con delle pause; poi, se l’anima corrispomde fedelmente. Esso procede con una frequenza che si fa via via più rapida e viene a costituire alfine uno stato permanente. È il regime predominante dei doni dello Spirito Santo che trionfa nell’anime dei santi. Il modello perfetto lo abbiamo in Cristo Gesù, che in ciascuna delle sue azioni si muoveva a suo piacimento, sotto la mozione e l’influenza dello Spirito. Dopo di Lui, la « Virgo fidelis » ne costituisce il tipo ideale più accessibile alla nostra debolezza, poiché Cristo è Dio, e per questa ragione ci sorpasserà sempre all’infinito. – Questa vita mistica che è il normale sviluppo della grazia battesimale, diviene l’immediata preparazione alla vita deiforme dei beati. Anzi, la teologia osa definirla una « vita eterna incominciata ». L’anima, rivestita dai divinis moribus quanto può esserne capace una creatura della terra, se ne fa fin d’ora – come diceva suor Elisabetta –  « immobile e in pace, come se già fosse nell’eternità », vivendo in « società » col Padre, col suo Verbo e con il loro reciproco Amore. – Nella luce deiforme che le viene comunicata, l’anima vede Dio e le cose tutte « alla maniera del Verbo », come Dio, in quella Luce unica in cui il Padre contempla il Figlio e il suo Spirito, e in cui la creatura appare a ciascuna delle Persona della Trinità. Ama le Persone divine e il suo prossimo, come Dio ama Se stesso e tutto l’universo in un medesimo Spirito di Amore. Quindi, sotto l’attività deiforme delle virtù teologali, sotto la mozione dei doni, l’anima, secondo l’ardita espressione di San Tommaso, diviene « partecipe del Verbo e dell’Amore », « particeps Verbi, particeps Amoris » (S. Tomm. I, q. 38, a. 1). Si comporta veramente, fra le vicende della vita, « alla maniera di Dio » (S. Tomm., 3 Sent., d., q. 1, a. 3  « ut jam non humanitus, sed quasi Deus factus participatione operetur »), come Cristo Gesù, suoi modello, che sempre, anche nei minimi atti, era diretto dal soffio dello Spirito. – Questa « maniera deiforme », è l’effetto proprio dei doni dello Spirito Santo. Per l’anima, è la vita con Dio nell’unione trasformante, « non facendo che un medesimo spirito con Lui » (I Cor., VI, 17), non avendo né altra Luce, né altro Amore. Ma in partecipazione, bene inteso, con tutte le distinzioni che comporta la nostra individualità irriducibile di fronte all’increato. Nella coscienza del suo nulla, in cui tiene lo Spirito di Amore e di scienza, l’anima si riposa fidente nel soccorso onnipotente e salvatore che custodisce sicura la sua eterna eredità. – Le virtù cardinali, a loro volta, entrano in questa fase di trasformazione divina nella misura in cui si può scoprire in Dio il loro prototipo ideale. In Dio, la prudenza è quella provvidenza universale e tutelare che dirige il mondo, anche nei minimi avvenimenti, « con forza e con soavità » (Sap. VIII, 1). La temperanza non può esservi in Dio, perché le passioni sensitive sono assenti dalla divinità; vi è però una beata concentrazione nell’unità. Ed una misteriosa circumcessione delle Persone divine che riposano l’una nell’altra: il Padre nel Figlio, ed entrambi nel loro unico Amore, e gioiscono in comune della loro propria felicità. La forza di Dio è la tranquillità immutabile che mantiene la beata Trinità in una pace inalterabile, al di sopra delle nostre umane agitazioni. La giustizia poi, in Dio, consiste nell’osservanza benevola ma fedele delle leggi liberamente stabilite per la sua propria gloria e per il vero bene dei predestinati. – L’anima, indotta in questi « divini costumi », partecipa più o meno a questa vita deiforme che la rende così cara alle Persone divine. La « Trinità si compiace tanto di ritrovare nelle sue creature la propria immagine! ». (Lettera al canonico A … – Agosto 1902). E il Maestro che lo sapeva, ammoniva: « Siate perfetti come il Padre celeste ». – Tutte queste virtù « alla maniera deiforme » imprimono nell’anima la somiglianza con la vita stessa di Dio, mediante la grazia e le sue proprietà, l’anima entra veramente in partecipazione della Natura Increata e degli attributi divini. – La sua prudenza, disprezzando tutte le contingenze e le vanità di questo mondo, si rifugia nella contemplazione delle sole cose divine. La sua temperanza, nella misura in cui il corpo lo consente, lascia da parte tutte le gioie sensibili, anzi, non le conosce neppure più; è il « nescivi » (Cfr. « Ultimo ritiro » II) dell’anima che ha trovato il suo Dio e il cui possesso la tiene in un ardente e felice oblio di tutto il resto. La sua forza ha una certa somiglianza con l’immutabilità divina: più nulla ha il potere di distrarla o di agitarla, e tanto meno di allontanarla da Dio. la lotta non esiste più, per lei; è, nella sua vita, il trionfo pieno di Dio. tutte le sue potenze sono tese verso di Lui, per servirlo, ed adorarlo; ed essa rende a Dio, in tutte le cose, onore e gloria, vivendo con Lui nell’unità di un medesimo Spirito. L’anima, giunta a questa sommità entra definitivamente nell ciclo della vita trinitaria e sembra vivere, come Dio, « in eterno presente » (Ultimo ritiro, X). Suor Elisabetta della Trinità, lettrice assidua del « Cantico » e della « Viva fiamma », si è fermata a descrivere soltanto questi stati superiori. Non già che essa ignori o disprezzi il duro sentiero della salita del Monte Carmelo; al contrario, un ascetismo implacabile accompagna sempre, in lei, la descrizione degli stati mistici più elevati: l’anima che non è morta a tutto, che « asseconda un pensiero inutile, un desiderio qualsiasi » (Ultimo ritiro II), si preclude da se stessa la via delle alte cime, all’unione trasformante non giungono che « le anime risolute a partecipare effettivamente alla passione del loro Maestro e a rendersi conformi alla sua morte » (Ultimo ritiro, V). Bisogna tuttavia riconoscere che la tendenza del suo spirito rimane prevalentemente mistica. La sua dottrina dell’unione trasformante è quanto mai personale; e ne abbiamo l’espressione più evoluta nelle ultime sue lettere e nei due ritiri, proprio quando la sua vita era dominata da questa maniera deiforme dell’attività dei doni dello Spirito Santo. Questo carattere originale, assolutamente inconfondibile della dottrina mistica di suor Elisabetta della Trinità non deve sorprenderci; lo Spirito è essenzialmente multiforme e vi sono numerose dimore nell’unione trasformante; si potrebbe dire, anzi, di una varietà infinita, la quale costituisce una più stupenda manifestazione della gloria di Dio. ne fanno prova le descrizioni così varie che ce ne hanno lasciato i Padri e i Dottori della Chiesa, i quali hanno trattato soggetti mistici in modo diversissimi gli uni dagli altri, a seconda della propria indole, dei propri gusti, dell’educazione ricevuta, dell’ambiente. San Giovanni della Croce e santa Teresa ce ne hanno lasciato delle analisi in cui, malgrado un accordo fondamentale, si riscontrano notevoli differenze. San Tommaso d’Aquino, secondo la forma del proprio genio didattico per eccellenza, e utilizzando il pensiero di Plotino che era stato il più grande genio mistico dell’antichità, ha saputo concentrare in un articolo interessantissimo, tutto uno studio breve, ma profondo sulla somiglianza « cum divinis moribus », somiglianza che egli dice accessibile soltanto  « a qualche raro perfetto sulla terra »; in tale articolo, quasi piccola summa mistica, troviamo espresso con riassuntiva concisione il punto più elevato dell’unione trasformante. – Anche in questo punto, anzi qui soprattutto, sarebbe puerile voler chiedere a suor Elisabetta della Trinità, un insegnamento sistematico sull’esistenza, la necessità, la natura, le proprietà dei doni dello Spirito Santo, nella luce dell’unione trasformante. Compito della Carmelitana non è di insegnare in maniera dotta le vie dello spirito, ma di seguirle nel silenzio di una vita « tutta nascosta in Dio con Cristo » (Colos. III, 3). Al teologo poi, discernere il valore dottrinale di questa testimonianza e scoprirvi la realizzazione concreta dei principii della scienza mistica. . In suor Elisabetta della Trinità si verifica, sopra un fondo di anima Carmelitana, l’incarnazione vivente della dottrina classica sui doni dello Spirito Santo. – Troppo spesso ci si immagina, e a torto, che le mozioni dello Spirito Santo non siano che per i soli atti eroici e accompagnate da grazie straordinarie: puri carismi concessi talora da Dio ai suoi servi per l’utilità della Chiesa, e che importa grandemente distinguere dall’attività dei doni. Per sé, possono essere disgiunti. La Madre di Dio, che è il tipo ideale, assolutamente perfetto, dell’anima fedele, sempre docile allo Spirito Santo, non si legge che abbia mai avuto estasi, e probabilmente, durante la sua vita terrena, non compì alcun miracolo; passava, inavvertita tra le donne di Nazareth; eppure, il più semplice gesto, il minimo sguardo della Madre di Dio aveva un valore, un’importanza corredentrice superiore a tutte le sofferenze dei martiri unite insieme, superiore anche a tutti i meriti della Chiesa militante, sino alla fine del mondo. Le operazioni della grazia santificante appartengono ad un ordine infinitamente superiore, essenzialmente trinitario. Quanto più deiforme è il principio dell’agire, tanto più meritoria è l’attività; ecco perché il minimo atto di Cristo, emanando dalla Persona di un Dio, possedeva un valore meritorio, impetratorio e soddisfattorio infinito. In un sorriso e come trastullandosi, Gesù avrebbe potuto riscattare migliaia di mondi. – Questa dottrina è della massima importanza; ed è consolante vedere come i santi stessi vi insistano. Suor Elisabetta della Trinità, come già santa Teresa di Gesù Bambino, dichiara che la più elevata santità non consiste nelle rivelazioni e nei miracoli e nemmeno in una condotta straordinaria; ma nella pura fede, in una carità per quanto possibile divina ed insieme attuale, manifestata nella pratica costante e coraggiosa del dovere quotidiano. « Tutto consiste nell’intenzione; con essa, possiamo santificare le minime cose, trasformare le azioni più ordinarie della vita in azioni divine ». Non sogniamo né estasi né martirio: « Un’anima che vive unita a Dio, non può agire che soprannaturalmente e le azioni più ordinarie, invece di separarla da Lui, non fanno che avvicinarvela sempre più  » (Lettera alla mamma – 10 settembre 1906). – Parlando della Madonna, suor Elisabetta della Trinità ci ha lasciato una frase profonda che mostra fino a qual punto abbia intuita questa verità: « Le cose più ordinarie – scrive – erano da Lei divinizzate » (« il Paradiso sulla terra » – 12° orazione). E nell’atteggiamento della Vergine dell’Incarnazione, silenziosa e fedele, adoratrice del Verbo celato nel suo seno, Ella sapeva riconoscere il vero modello delle anime interiori che vogliono vivere in semplicità, docili sempre ai più lievi impulsi dello Spirito. Questo è, per lei, la santità autentica. Ma « quale raccoglimento, quale sguardo amoroso e costante a Dio, reclama quest’opera sublime! San Giovanni della Croce dice che l’anima deve starsene nel silenzio e in una solitudine assoluta, perché l’Altissimo possa realizzare i suoi disegni sopra di lei. Allora Egli la porta, per così dire, fra le braccia, come una madre porta la sua creaturina, e incaricandosi Egli stesso della sua intima direzione, regna in lei inondandola di pace serena » (Lettera a Don Ch… Primavera 1905). – « Tutti i suoi atti, pur derivando sa lei, vengono nello stesso tempo da Dio » (« Il paradiso sulla terra » 3° orazione). Essa è insieme passiva ed attiva: passava sotto la mozione divina, attiva in virtù del suo libero arbitrio. Dio non sopprime la sua attività personale, ma la dirige, la soprannaturalizza, in maniera tutta divina. Sono queste, ev0identemente, le note caratteristiche del regime mistico dei doni. – « L’anima che penetra e dimora nelle profondità di Dio cantate dal Re Profeta, e che tutto compie in Lui, con Lui e per Lui, con quella limpidezza di sguardo che le conferisce una certa somiglianza con l’Essere semplicissimo, quest’anima, con ciascuna delle sue azioni, per quanto ordinarie siano, si radica sempre più profondamente in Colui che ama. Tutta, in lei, rende omaggio a Dio tre volte santo; essa è, per così dire, un Sanctus ininterrotto, un’incessante lode di gloria ». (Ultimo ritiro, VIII). È la vita perfetta, nella docilità di tutti gli istanti al minimo soffio dello Spirito. – Un’osservazione ancora, di carattere generico. La grazia santificante reca nell’anima simultaneamente tutto l’organismo spirituale delle virtù e dei doni; ma la loro libera attività non prende lo stesso rilievo in tutti, in modo uniforme. Alcune anime sono eminenti in questo o in quella virtù particolare, mentre le altre virtù, che tuttavia sono presenti in esse ed attive non appena lo esigano le circostanze, restano di solito in seconda linea. Così, ad esempio, la forza si manifesta stupendamente nei martiri, la purità nelle vergini, la fede luminosa nella vita dei dottori, il puro amore di Dio nel silenzio contemplativo. Allo stesso modo, alcuni doni dello Spirito Santo predominano con particolare evidenza nella vita di alcuni santi: il dono del consiglio è più rilevante negli uomini di governo; il dono della scienza, accompagnato spesso dal dono delle lacrime, è più visibile negli Apostoli chiamati ad operare grandi conversioni e che si sentono profondamente commossi dallo spettacolo della miseria morale dei loro fratelli in Cristo; il dono della sapienza risplende nei grandi contemplativi i quali, elevandosi al di sopra di tutte le create cose, non vivono che per Dio solo, nella compagnia abituale delle Persone divine. Non deve sorprenderci, dunque, se nella vita e nella dottrina spirituale di suor Elisabetta della Trinità, i sette doni dello Spirito Santo non si presentano tutti con uguale rilievo: il dono del timore, ad esempio, sembra come attenuato; altrettanto il dono del consiglio; al contrario, il dono della fortezza si manifesta luminosamente in mezzo alle sofferenze che resero gli ultimi suoi giorni terreni uno straziante calvario. Sono in lei palesi soprattutto i grandi doni contemplativi della intelligenza e della sapienza, in virtù dei quali il movimento dell’anima sua è fortemente attratto verso gli abissi della vita trinitaria. – questa analisi dei doni dello Spirito Santo ci introdurrà nelle più segrete operazioni d’amore che la Trinità svolge in quest’anima così divinamente amata.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (18)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (16)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (16)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO SETTIMO

Suor Elisabetta della Trinità e le anime sacerdotali

« Il sacerdote è un altro Cristo che lavora per la gloria del Padre ».

1) Amicizie sacerdotali — 2) Il sacerdote della Messa — 3) Associata all’apostolato del sacerdote — 4) Il sacerdotE e la direzione delle anime.

Un’anima di contemplativa non si rinchiude negli stretti orizzonti delle mura del suo convento. La sua vita spirituale, slanciata nell’ampia corrente del pensiero della Chiesa, si muove seguendo le direttive e le mire stesse della redenzione. La sua preghiera corredentrice, ad ogni istante, copre l’universo. Così faceva la Vergine del Cenacolo. Mentre i primi Apostoli andavano all’azione ed al martirio, Maria li accompagnava, silenziosa orante, in tutti i loro combattimenti per Cristo. È chi oserebbe pensare che l’onnipotente intercessione della Madre di Dio non riuscisse più efficace, per l’estensione del regno di Cristo, delle stesse fatiche eroiche d’un san Pietro o di un san Paolo? La Chiesa di Gesù, in tutto il fluir dei secoli della sua storia militante non dimenticherà mai di essere uscita dalla preghiera contemplativa del Cenacolo; e la sua ina sulle anime serberà, come base costante, la preghiera dei suoi santi. – La maggior parte delle grandi famiglie religiose hanno fatto proprio, ed hanno attuato questo modo di concepire le cose, e gli Ordini più apostolici sostengono il ministero esteriore dei fratelli con la continua preghiera delle sorelle. San Domenico, prima ancora di fondare il suo Ordine, cominciò con lo stabilire le suore, contemplative ed apostoliche insieme, di Nostra Signora di Prouille, alle quali affidò la missione di sostenere, con la loro vita di preghiera e di sacrificio, le fatiche dei Predicatori. Riguardo a questo punto, suor Elisabetta della Trinità, si trovò, al Carmelo, dinanzi ad una delle tradizioni più care al suo Ordine, e più feconde per il bene spirituale della Chiesa: infatti, l’immolazione silenziosa delle figlie di santa Teresa è, prima di tutto, per i sacerdoti. Ed Elisabetta ebbe sempre una grande venerazione per il sacerdozio. Offrì per essi la sua vita? Non lo sappiamo con certezza; il suo parroco, che fu per molto tempo suo confessore, ne aveva la persuasione (ho avuto questo particolare da Lui direttamente.). Ad ogni modo, se nessun indizio positivo ci permette di affermarlo, abbiamo però numerosi documenti ad attestarci quale e quanta parte dedicò ad essi, nelle sue preghiere di Carmelitana. – Quando un sacerdote le aveva raccomandato il proprio ministero, prendeva molto sul serio la sua promessa di preghiera. « Dopo il nostro ultimo colloquio, sono unita a voi in modo particolare e un’intensa corrente di preghiera porta l’anima mia verso la vostra anima, specialmente durante la recita dell’Ufficio. Vi prometto che ogni giorno l’ora di Terza sarà per voi, per questa grande intenzione: che lo Spirito d’Amore, Colui che suggella e consuma l’Unità della Trinità, vi doni una supereffusione di Se stesso; e, alla luce della fede, vi porti in alto, su quelle vette dove, già irradiati dal sole divino, non si vive che di pace, di amore e di unione » (Lettera al sacerdote Don J… – 11 febbraio 1902) Suor Elisabetta della Trinità non si accosta ad un’anima sacerdotale — anche se della sua famiglia — se non con infinito rispetto: l’uomo scompare dinanzi a Cristo. In parlatorio, mai la minima ombra di sensibilità femminile. « Era un’anima, e basta », ci diceva il giovane sacerdote entrato a far parte della sua famiglia, al quale ella indirizzò il maggior numero di lettere di questo genere: non più di dodici in tutto. « Fin dall’inizio del colloquio, « Dio solo », e non si discendeva più da questa atmosfera tutta divina ». Suor Elisabetta aveva un’idea alta e pura del sacerdozio! Si possono seguire i minimi moti dell’anima sua nella corrispondenza con questo seminarista che essa accompagnava al sacerdozio e che seguirà poi nel suo apostolato. Il primo incontro fu tutto soprannaturale. Lo scriveva a sua sorella: «… Ho avuto un colloquio tutto divino col reverendo Don Ch… Credo che l’anima del sacerdote e quella della Carmelitana si sono fuse ». Un’intimità di anime si iniziava, che continuerà sino alla morte. – «… Prima di entrare nel silenzio rigoroso della Quaresima, voglio rispondere alla vostra buona lettera; la mia anima ha bisogno di dirvi che è in comunione con la vostra, per lasciarvi prendere, rapire, invadere da Colui che ci avvolge nella Sua carità e vuole consumarci nell’Uno, con Lui. Pensavo a voi leggendo queste parole del Padre Vallée sulla contemplazione: « Il contemplativo è un essere che vive sotto l’irradiamento del volto di Cristo; che penetra nel mistero di Dio, seguendo non il raggio luminoso che sale dal pensiero umano, ma la luce che emana dalla parola del Verbo Incarnato ». Non la sentite in voi la passione di ascoltarla, questa divina parola? Talvolta, il bisogno di tacere è così forte, che si vorrebbe non saper più fare altro che rimanere, come Maddalena, ai piedi del Maestro, avidi di ascoltare, di penetrare sempre più addentro in quel mistero di amore che Egli è venuto a rivelarci. Non pare anche a voi che, se l’anima non si discosta mai da questa sorgente, può come Maddalena, nella sua contemplazione, anche allora che, in apparenza, compie l’ufficio l’ufficio di Marta? In questo modo io intendo l’apostolato. sia per la carmelitana che per il sacerdote: l’uno e l’altra possono irradiare Dio, possono darlo alle anime, se non si allontanano dalla sorgente divina. Mi sembra che dovremmo avvicinarci molto al Maestro, metterci in comunione con l’anima Sua, fare nostri tutti i suoi affetti; poi andare, come Lui, nella volontà del Padre » (Lettera al sac. Don Ch. 24 feb. 1903). – Tutte le sue lettere sono animate dallo stesso accento soprannaturale. Nessuna formula di banali complimenti; dalla prima frase, le anime si stabiliscono in Dio, e non ne ridiscendono più: « Avendo amato i suoi che erano nel mondo, Egli li amò sino alla fine » S. Giov. XIII, 1). Mi pare che nulla, meglio della Eucaristia,  ci possa dire l’amore di Dio. L’Eucaristia è l’unione, la consumazione, è Lui in noi e noi in Lui; è dunque il cielo sulla terra? Il cielo nella fede, in attesa della visione, del « faccia a faccia », tanto sospirato.  « Saremo saziati quando ci apparirà la Sua gloria, quando Lo vedremo nella Sua luce » (Ps. XVI, 15). Che dolce riposo per l’anima, non è vero? Il pensiero di questo incontro con Colui che unicamente amiamo! Tutto il resto scompare, e ci sembra di entrare già nel mistero di Dio… È talmente « nostro » tutto questo mistero, come voi mi dite nella vostra lettera. – Pregate perché io viva pienamente la mia prerogativa di sposa. Pregate, perché sia sempre pronta a tutto, con la lampada della fede sempre viva, affinché il Maestro possa disporre di me come vorrà. Io bramo di restarmene continuamente vicina a Colui che sa tutto il mistero, per imparare tutto da Lui. «Il linguaggio del Verbo è infusione del dono ». È proprio vero; Egli parla all’anima nel silenzio. Oh, questo. caro silenzio!… per me, è la beatitudine. Dall’Ascensione alla Pentecoste, siamo state in ritiro nel Cenacolo, nell’attesa dello Spirito Santo; ed era così bello! Durante tutta questa ottava, abbiamo la esposizione del santissimo Sacramento, nella nostra cappella, e passiamo ore divine in questo piccolo angolo di paradiso, dove possediamo la visione sostanziale sotto le umili specie dell’Ostia. Si, Colui che i beati contemplano nella chiara visione, è il medesimo che noi adoriamo nella fede. Vi trascrivo un pensiero tanto bello che mi è stato inviato: «La fede è il « facie ad faciem » (1 Cor. XIII, 12) nelle tenebre. Perché non sarebbe così anche per noi, dal momento che portiamo in noi Iddio, e che Egli altro non chiede che di possederci, come ha posseduto i santi? Ma i santi erano vigilanti sempre; « Essi tacciono — come dice il Padre Vallée — vivono raccolti, e non hanno altra attività che di rendersi sempre più capaci di ricevere ». Uniamoci, per essere la gioia di « Colui che ci ha troppo amati » (Ephes. II, 4), come dice san Paolo; facciamogli nell’anima nostra una dimora in cui tutto sia in pace, in cui risuoni sempre il cantico dell’amore, del ringraziamento. E poi, silenzio!… il grande silenzio, eco di quello che è in Dio… Avviciniamoci, come mi dite, alla Vergine tutta pura, tutta luminosa, affinché ci introduca in Colui nel quale Ella penetrò così profondamente. Sia, la nostra vita, una comunione continua, un movimento semplicissimo verso il Signore. Pregate per me la Regina del Carmelo, ché io pure prego molto per voi, e vi assicuro che rimango a voi unita, nell’adorazione e nell’amore » (a Don. Ch. – 14 giu.1903). Nessuna traccia di sentimentalità o di esagerazione queste righe di una purezza che non ha più nulla della terra. – L’ora del diaconato si avvicina per il seminarista; in nome del Carmelo di Digione, suor Elisabetta gli assicura che non sarà dimenticato: « Misericordias Domini in æternum cantabo (Ps, LXXXIII, 2). La nostra reverenda Madre, non potendo scrivere lei stessa questa sera, mi incarica di venire a voi, affinché possiate ricevere una parola dal Carmelo, che vi dica quanto vi siamo unite in questo grande giorno. Quanto a me, io mi raccolgo e mi ritiro fino in fondo all’anima mia, dove abita lo Spirito Santo; e chiedo a questo Spirito d’Amore « che scruta, anche le profondità di Dio » (1 Cor. II, 10) di donarsi sovrabbondantemente e di irradiare l’anima vostra sotto la Sua grande luce, riceva « l’Unzione del Santo » di cui parla il discepolo dell’amore. Con voi, io canto l’inno del ringraziamento; ma con voi pure io taccio per adorare il mistero che vi avvolge. Il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo, la Trinità tutta si china su di Voi, per far risplendere la « gloria della sua grazia » (A Don Ch… in occasione del suo diaconato – Aprile 1905). – San Paolo, nella sua epistola ai Romani, dice che « quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo » (Rom. VIII, 29). Mi sembra che parli proprio di voi. Non siete voi, infatti, questo predestinato che Dio ha eletto perché sia suo sacerdote? Penso che, nella sua attività di amore, il Padre si china sull’anima vostra e la lavora con il suo tocco delicato, perché la somiglianza con l’ideale divino sia sempre più perfetta, fino al giorno in cui la Chiesa vi dirà: «Tu es sacerdos in æternum » (Ps. CIX, 4). Allora, tutto in voi sarà per così dire una copia di Gesù Cristo, il Pontefice supremo; e voi potrete incessantemente riprodurlo dinanzi al Padre suo e dinanzi alle anime. Quale grandezza! La virtù « sovraeminente » di Dio fluisce nel vostro essere per trasformarlo e divinizzarlo. È opera sublime che richiede grande raccoglimento, grande amorosa applicazione & Dio » (Lettera a Don Ch… – Primavera del 1905. Prima della Sacra Ordinazione). – Giunta alfine l’ora dell’Ordinazione sacerdotale, l’anima di suor Elisabetta, impotente ad esprimere ì suoi sentimenti per l’imminenza del grande mistero, non trova rifugio che in una più intensa preghiera: « Avevo chiesto alla nostra reverenda Madre il permesso di scrivervi, per dirvi che l’anima mia è tutta con la vostra anima in questi ultimi giorni che precedono la sacra ordinazione; ma ecco che, avvicinandomi a voi, dinanzi al grande mistero che si prepara, non so più fare altro che tacere… e adorare l’eccesso d’amore del nostro Dio. Insieme alla Vergine, voi potete cantare il vostro « Magnificat », e trasalire in Dio, nostro Salvatore, perché l’Onnipotente ha compiuto in voi grandi cose e la Sua misericordia è eterna. Poi. come Maria, conservate tutto ciò nel vostro cuore, mettetelo vicino al Suo, perché questa vergine sacerdotale è anche « Madre della divina grazia » e, nel suo grande amore, vuole prepararvi a divenire « quel sacerdote fedele, secondo il Cuore di Dio », di cui parla la sacra Scrittura. Come questo « sacerdote del Dio altissimo, che non ha né padre, né madre, né genealogia, né principio di giorni, né termine di vita » (Heb. VII, 3), immagine del Figlio di Dio, così voi pure, mediante la sacra unzione, divenite quell’essere che non appartiene più alla terra, quel mediatore fra Dio e le anime, chiamato a far risplendere « la gloria della Sua Grazia », con la partecipazione alla sovraeminente sua virtù ». Gesù, il Sacerdote eterno, diceva al Padre, entrando nel mondo: « Eccomi per fare la tua volontà » (Hebr. X,9). Mi pare che questa debba essere anche la preghiera vostra, nell’ora solenne in cui vi inoltrate nel sacerdozio; e mi è caro ripeterla con voi. Venerdì, all’altare, quando fra le vostre mani consacrate verrà ad incarnarsi nell’umile ostia, per la prima volta, Gesù, il Santo di Dio, non dimenticate colei che Egli ha condotta sul Carmelo perché sia la lode della Sua gloria. Chiedetegli di seppellirla nella profondità del Suo mistero e di consumarla nelle fiamme del Suo amore. Poi, offritela al Padre insieme al divino Agnello. A Dio! se sapeste quanto prego per voi! La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con voi » (2 Cor. XIII, 3). – Suor Elisabetta amava il sacerdote soprattutto all’altare, nel momento in cui il Verbo Incarnato si immola fra le sue mani, per la Chiesa. Sentiva, per il profondo intuito del mistero di Cristo scolpito nella sua anima dal Battesimo, che in quell’ora specialmente il sacerdote compie nel mondo il suo grande ufficio di mediatore. Essa non baciava, come santa Caterina da Siena, le orme dei passi del sacerdote che le aveva dato il Cristo nella santa Comunione; ma supplicava, con un’insistenza che commuove, di essere ricordata durante il santo Sacrificio dai sacerdoti che la conoscevano; supplicava che immergessero l’anima sua « nel sangue dell’Agnello ». « Lo so che ogni giorno, durante la santa Messa, voi pregate per me. Mettetemi nel calice, affinché l’anima mia sia tutta impregnata del sangue del mio Cristo; ho sete di questo sangue, che mi renda tutta pura, tutta trasparente, in modo che la Trinità possa riflettersi in me come in un cristallo » (Lett. al Can. … – Agos. 1902). Ancora la medesima preghiera, quando entrava nei suoi ritiri particolari: « Parto, questa sera, per un grande viaggio. Per dieci giorni, solitudine assoluta, molte ore di orazione supplementare, velo abbassato quando devo circolare nel monastero. La mia vita sarà più che mai quella di un eremita nel deserto. Ma, prima di internarmi nella mia Tebaide, ho proprio bisogno di venire ad implorare il soccorso delle vostre preghiere, soprattutto una larga intenzione durante il santo Sacrificio. Nel momento in cui Gesù, il solo Santo, sì incarna nell’ostia che voi consacrate, vogliate, vi prego, consacrarmi con Lui come ostia di lode alla sua gloria, affinché tutti i movimenti, tutti gli atti miei siano un omaggio reso alla sua santità. « Siate santi, perché io sono santo » (Lev. XI, 44). Sotto questa parola mi raccolgo; camminerò, durante il mio viaggio divino, ai raggi di questa luce. San Paolo me la commenta, quando dice: « Dio ci ha eletti in Lui prima della creazione, affinché siamo immacolati e santi al suo cospetto, nell’amore » (Ephes. I, 4). Ecco, dunque, il segreto di una tale purezza verginale: rimanere nell’amore, cioè in Dio. « Dio è amore » (1 S. Giov. IV, 16). Durante questi dieci giorni, pregate dunque molto per me; ci faccio grande assegnamento. Anzi, vi dirò che mi pare una cosa semplicissima e naturale; il Signore non ha unito infatti le nostre anime affinché si aiutino a vicenda? e non ha Egli detto: « Il fratello aiutato dal fratello è come una città unita »? (Prov. XVIII, 19). Ecco, dunque, la missione che vi confido. E vi chiedo di voler ripetere per me la preghiera che saliva a Dio dal grande cuore di Paolo per i suoi cari figli di Efeso: « Vi conceda, il Padre, secondo la ricchezza della Sua gloria, di essere corroborati in virtù, mediante il suo Spirito, nell’anima vostra, così che Cristo prenda dimora nei vostri cuori per mezzo della fede; e voi, radicati e fondati in amore, possiate comprendere l’altezza e la profondità di questo mistero, e possiate conoscere l’amore di Cristo, che sorpassa ogni scienza, così che siate riempiti secondo la pienezza di Dio (Ephes. III, 14-19). Santifichiamo Cristo nei nostri cuori, affine di realizzare ciò che cantava Davide, sotto la mozione dello Spirito Santo: « Su di lui fiorirà, splendida, la mia santità » (Ps. CXXXI, 18 – A Don Ch…8 ott. 1905). E quando, nell’ultima fase della sua vita, suor Elisabetta ha trovato nella sacra Scrittura il suo nome nuovo, si rivolge ancora al sacerdote della Messa: « Aiutatemi, vi prego, ne ho tanto bisogno! quanto più cresce la luce, tanto più sento la mia impotenza. L’8 dicembre, durante la Messa solenne, fatemi il dono di offrirmi all’Amore onnipotente, perché io sia veramente « Laudem gloriæ ». L’ho trovato in san Paolo, ed ho compreso che questa è la mia vocazione fin dall’esilio, in attesa del Sanctus eterno » (A Don Ch… Dic. 1905).

3) C’è, nello svolgersi del mistero della Messa, un duplice gesto del celebrante, gesto che rivela molto bene la missione del sacerdozio e contiene tutto il senso della sua mediazione ascendente e discendente: l’elevazione dell’Ostia santa verso la Trinità alla Consacrazione, e la distribuzione del Pane di vita ai fedeli, al momento della Comunione. Offrire Cristo alla Trinità, donare Cristo al mondo: ecco la duplice missione del sacerdote sulla terra. Missione divina; per compierla degnamente, ci vorrebbe l’anima di Cristo, ed ecco perché la Chiesa tutta quanta, ma particolarmente le vergini contemplative sono impegnate alla conquista di tali anime; ed innumerevoli sono le vite che si immolano silenziosamente a questo scopo; sono le vite più pure, le più crocifisse che passano nei chiostri. Suor Elisabetta della Trinità. intuiva profondamente i bisogni spirituali del sacerdozio, e sentiva quanto è necessario pregare, perché i ministri di Dio siano santi. È chiaro che non bisogna chiedere ad una Carmelitana tutta una teologia del sacerdozio; suor Elisabetta non si addentra in una analisi particolareggiata delle virtù sacerdotali: pietà, castità, distacco dalle ricchezze, scienza, obbedienza, zelo per la salvezza delle anime e per la gloria di Dio; non è questo il suo compito, né sarebbe consono al suo temperamento spirituale. Fedele al suo metodo prende le virtù alla sorgente da cui scaturiscono: l’unione con Dio. Secondo un processo psicologico normale, per trasposizione, il suo sogno tutto personale di vita interiore viene proiettato nell’anima del sacerdote, ed una formula di sublime concisione ne definisce l’ideale santo: il sacerdote è « un altro Cristo che lavora per la gloria del Padre ». Quanto avrebbe compreso ed amato la parola così bella di Pio XI che nella sua Enciclica magistrale sul sacerdozio, dice: « il sacerdote viva come un altro Cristo. Vivat ut alter Christus » (Ad catholici sacerdotii – 20 dicembre 1935). Inoltre, secondo la sua grazia particolare, con atto delicatissimo e totale nascondimento di sé, senza neppure sfiorare il tono cattedratico, ma lasciando che con tutta semplicità l’anima sua di Carmelitana si effonda in una anima di sacerdote, suor Elisabetta sa ammonire che la vita interiore è il segreto di ogni apostolato, e che, senza vita interiore, anche il sacerdote, pur sollevando forse molto rumore, fa poco, pochissimo bene; quando non faccia invece del male, e un male irreparabile. Conosceva bene il testo del suo Padre spirituale, san Giovanni della Croce, nel Cantico: « Il minimo atto di amore puro ha più valore agli occhi di Dio ed è più benefico per la Chiesa e per l’anima stessa, che non tutte le altre opere unite insieme » (Cantico spirituale, str. XXIX). Tanto è vero che la più piccola scintilla di puro amore ha, per la Chiesa, la massima importanza. Essere apostolo significa comunicare Gesù Cristo al mondo; ma non si può donarlo che nella misura in cui lo si possiede. E lui stesso, il Maestro, ci ha insegnato le vere leggi dell’apostolato, nell’ultimo discorso ai discepoli, vigilia della sua morte. « Io sono la vite e voi i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porterà abbondanti frutti. Come il tralcio non può portare frutto da se medesimo, se non rimane unito alla vite, così neppure voi, se non rimanete in me. Senza di me, non potete far nulla. Ma se rimarrete in me (e nella misura in cui mi resterete uniti), porterete frutto, molto frutto. Tutto ciò che vorrete, chiedetelo e lo otterrete. Il Padre mio sarà glorificato, se produrrete frutti copiosi. Come il Padre ha amato me, così ho amati. Perseverate nel mio amore » (S. Giov. XV, 1). Questo discorso di Gesù dopo l’ultima cena è il codice dell’apostolato cristiano. – Seguendo il suo Maestro, suor Elisabetta della Trinità, cultrice squisita della vita interiore, non avrebbe potuto tacere questa particolare e assoluta necessità di intima unione con Gesù, per il sacerdote che vuole a sua volta comunicare Cristo alle anime. Nel pensiero di suor Elisabetta, l’apostolo è innanzi tutto un essere di preghiera e di immolazione silenziosa, ad imitazione del Crocifisso che ha salvato il mondo non con l’azione smagliante o con il fascino dei bei discorsi, ma col dolore e la morte. Ed essa, associando il suo apostolato all’azione del sacerdote, vuole restare nella linea di questa immolazione redentrice e nella imitazione di questa morte. Eccola, quindi, tutta intenta a « dare compimento nella sua carne a ciò che manca alle sofferenze di Gesù per il suo Corpo che è la Chiesa » ed a colmare così quelle misteriose lacune della passione di Cristo, lasciate da Dio perché possiamo apportare noi stessi la nostra goccia di sangue all’opera grandiosa della redenzione del mondo. « Chiediamogli di renderci coerenti nel nostro amore, cioè di fare di noi degli esseri di sacrificio; mi sembra che il sacrificio non sia che l’attuazione dell’amore:.« Mi ha amato e si è dato per me ». Mi piace tanto questo pensiero: «La vita del sacerdote — e della Carmelitana — è un Avvento che prepara l’Incarnazione delle anime ». Davide canta in un salmo: « Il fuoco dinanzi a Lui precede » (Ps. XCVI, 3). Il fuoco non è forse l’amore? E la nostra missione non è quella di preparare le vie del Signore mediante l’unione nostra a Colui che l’Apostolo chiama « un fuoco consumante »? (Hebr. XII, 29). Al suo contatto, l’anima nostra diventerà fiamma di amore diffusa per tutte le membra del Corpo di Cristo, che è la Chiesa; e consoleremo allora il Cuore del nostro Maestro che potrà dire, mostrandoci al Padre: « In essi, io sono già glorificato » (S. Giov. XVII, 10). L’anima apostolica di suor Elisabetta ha penetrato il senso profondo del dogma della Comunione dei santi, che associa ogni membro al bene spirituale della Chiesa tutta quanta. Cosciente di questa verità, essa, nel giudicare la parte sua personale di contemplativa nell’insieme del corpo mistico, sapeva elevarsi senza falsa umiltà a quell’altissima luce dell’unità che unisce tutti i membri della Chiesa militante e trionfante al « Cristo totale » in cammino verso la Trinità. La sua grande anima di contemplativa, lontana da vedute meschine e da piccole sensibilità, si muoveva a suo agio nei più ampi orizzonti del piano divino. « Non lo sentite anche voi che per le anime non esistono distanze, né separazioni, ma la realizzazione della preghiera del Cristo: « Padre, che essi siano consumati nella unità »? Mi pare che le anime pellegrine sulla terra e i beati nella luce della visione siano così vicini gli uni agli altri! poiché sono tutti in comunione con uno stesso Dio, con un medesimo Padre che si dona agli uni nella fede e nel mistero, e che sazia gli altri nella sua luce divina. Ma è il medesimo, sempre; e lo portiamo dentro di noi. Egli sta chino sulle anime nostre con tutto il suo amore, sempre, giorno e notte, bramando di comunicarci, di infonderci la sua vita divina per trasformarci in esseri deificati che lo irradino ovunque. Quale potenza esercita sulle anime l’apostolo che non si distacca mai dalla sorgente delle acque vive! Lasci pure che l’onda trabocchi e si sparga all’intorno; non c’è pericolo che la sua anima venga a trovarsi vuota, perché è in comunicazione con l’infinito. Io prego tanto per voi! prego che Dio invada tutte le potenze dell’anima vostra, che vi faccia partecipare a tutto il mistero, che tutto in voi sia divino e porti il suo suggello affinché siate un altro Cristo che lavora per la Sua gloria. – Voi, pure, nevvero, pregate me? Anch’io voglio lavorare tanto per la gloria di Dio; ma bisogna che sia tutta piena di Lui; sarò onnipotente allora, perché anche un solo sguardo, un desiderio, diverranno una preghiera irresistibile, che può tutto ottenere dato che, per così dire,  si offre Dio a Dio. Le nostre anime non siano che una sola, in Lui. Mentre voi lo porterete alle anime, io resterò come Maddalena, silenziosa e adorante, vicino al Maestro , chiedendogli di render fecondi nei cuori la vostra parola. Apostolo, Carmelitana, è tutt’uno. Doniamoci interamente a Lui, lasciamoci pervadere dalla Sua linfa divina; sia la vita della nostra vita, l’anima della nostra anima, e rimaniamo, vigili sempre, coscienti sempre, sotto la sua azione divina » (Lett. a Don B… 22 giugno senza data dell’anno). Tutto è equilibrato in questa dottrina dell’apostolato del sacerdote nella Chiesa, associato a quello della Carmelitana.  Mentre il sacerdote porta il Cristo nelle anime con la parola, coi Sacramenti e con le altre svariate forme del suo ministero, la Carmelitana se ne sta silenziosa come Maddalena ai piedi di Cristo, o meglio come la Vergine corredentrice ai piedi della Croce, immedesimata nell’intimo con tutte le vibrazioni dell’anima del Crocifisso e morendo con Lui per gli stessi fini di redenzione.

4) Il posto che occupa il Sacerdote nella vita cristiana è veramente della massima autorità ed importanza. Associato a Dio nella cura delle anime, egli è costituito, secondo la parola di san Paolo « collaboratore di Dio » (1Cor. III, 9). E suor Elisabetta della Trinità scriveva: «Voi siete il dispensatore dei doni di Dio; e l’Onnipotente, la cui immensità compenetra l’universo, sembra aver bisogno di voi per donarsi alle anime » (al Sac. Don B….). Verità, questa, a cui si riflette troppo poco. Il mondo riceve il Cristo dalle mani del Sacerdote. Al bimbo appena nato alla vita, egli dà, col Battesimo, un’altra vita: quella di Cristo; e in essa lo fa crescere, lo fortifica col sacramento della confermazione; lo nutre di Dio ogni mattina con le sue stesse mani; caduto, lo risolleva e lo risuscita alla vita divina; quando giunge poi l’ora in cui, divenuto uomo, sceglie e fissa la propria vita, è ancora il Sacerdote che viene a portare Cristo nel nuovo focolare; e finalmente, giunta la sera della vita, quando tutto è ormai compiuto, un gesto supremo di benedizione discende sul vegliardo che muore: « Parti, anima cristiana, ritorna a Cristo del tuo Battesimo », e il Sacerdote gli apre le porte del cielo. Dalla culla alla tomba, il sacerdote gli è vicino, sempre. Ma questa influenza del Sacerdote che accompagna l’uomo lungo tutta la sua esistenza, non si limita agli individui; si estende anche alle nazioni. Soltanto il Sacerdote ha ricevuto da Cristo la missione di « istruire tutti i popoli fino alle estremità della terra» (S. Matt. XXVIIIU, 19); ed egli, con la dottrina e col ministero della parola, rende docili le intelligenze al « giogo soave di Cristo ». Se si considerano le verità insegnate dal Sacerdote — osserva il Sommo Pontefice Pio XI nella sua enciclica Ad catholici sacerdotii » (20 dic. 1935) — se si vuol misurarne l’intima forza, si comprende facilmente a qual punto la di lui influenza sia benefica per l’elevazione morale e la tranquillità dei popoli. È il Sacerdote — e spesso soltanto lui — che ammonisce i grandi e i piccoli, ricordando loro la brevità fulminea di questa vita, la fugacità dei beni terreni, i veri valori spirituali ed eterni, la tremenda verità dei giudizi di Dio, l’incorruttibile santità di quello sguardo divino che scruta i cuori e dà a ciascuno secondo le opere sue. Veramente, il Sacerdote è il mediatore posto fra Dio e gli uomini per far discendere sopra di essi i beni che da Lui derivano, ed a Lui fare ascendere la preghiera che placa il Signore adirato ». Che dire poi dell’influenza esercitata dal Sacerdote sulle anime che, nella Chiesa, vivono una vita più intensamente spirituale? Queste soprattutto hanno bisogno di una guida sapiente per non smarrirsi nel « sentiero stretto » e fiancheggiato da precipizi, che conduce all’unione divina. San Giovanni della Croce ha pagine severe e avvertimenti gravi per i direttori spirituali insufficienti che mancano di scienza e di virtù. È dono sì raro e di così immenso valore, un saggio direttore! e san Francesco di Sales ammoniva di « cercarlo fra mille ». Santa Teresa, che ebbe un poco da soffrire a questo riguardo, serbò sempre un ricordo pieno di riconoscenza per quei Sacerdoti pii e dotti nei quali il Signore le aveva misericordiosamente fatto trovare un appoggio di cui non avrebbe potuto fare a meno, nelle ore difficili dell’anima sua e delle sue fondazioni; anzi, poiché, in tali circostanze, aveva ricevuto benefizi singolari dai grandi teologi dell’Ordine di san Domenico, la santa amava chiamarsi « domenicana di cuore ». Questo gusto della sana dottrina e della sapiente direzione è rimasto tradizionale, al Carmelo; e su questo punto, come su tutti gli altri, suor Elisabetta si mostrò vera figlia di santa Teresa. Bambina e giovinetta, andava regolarmente a confessarsi dal suo parroco che era insieme il suo direttore; ma lo trovava fin « troppo buono », e pensò di chiedere a un padre Gesuita una direzione più ferma. Scriveva nel suo diario, il 6 febbraio 1899: « Venerdì, sabato, domenica, avremo l’esposizione del santissimo Sacramento nella nostra parrocchia; e il mio antico confessore verrà a predicare l’adorazione perpetua. Sarò felice di rivederlo, di parlargli della mia vocazione; quante volte ho rimpianto la sua direzione ferma e severa! Il signor curato è tanto buono, anzi troppo buono; mi guida troppo dolcemente, non sa essere severo, mai. L’altro giorno ho parlato alla mamma del mio desiderio di lasciarlo e di andare invece dal Padre Chesnay, il predicatore degli esercizi spirituali, che sarei tanto contenta di poter avere come direttore; ma la mamma non ne è stata soddisfatta e d’ora innanzi non ne parlerò più. – Venerdì 10 febbraio: Sono andata a confessarmi, oggi, e sono rimasta veramente contenta; ho parlato al mio direttore del ritiro, gli ho confidato le mie risoluzioni e tutte le grazie di cui Dio mi ha colmato in questi giorni; ed egli mi ha consigliato di accusarmi, in ogni confessione, delle mancanze a questi miei propositi, assicurandomi che, in tal modo, farò un grande progresso ». A Digione, seguiva volentieri le conferenze spirituali i ritiri tenuti dai Padri Gesuiti e talvolta li consultava per il bene dell’anima sua, fedele poi a metterne in pratica i consigli. E quanto ammirava ed apprezzava la dottrina del Padre Vallée « così profondo, così luminoso! » (alla Signora A… – 29 settembre 1902.). La influenza di questo religioso eminente è manifesta in qualcuno dei caratteri più essenziali della fisonomia spirituale di suor Elisabetta: per esempio: tacere, credere all’amore, vivere nel profondo dell’anima in società con Colui che è presente e vuole, ad ogni istante, purificarci e salvarci. Tre mesi prima di morire, essa chiedeva ancora al Padre di darle i suoi consigli, e lo pregava a volerle tracciare un programma pratico di conformità al Crocifisso, idea gominante degli ultimi suoi giorni: «… Credo che l’anno venturo vi festeggerò con san Domenico nell’eredità dei santi, nella luce; ma, per quest’anno, mi raccolgo ancora nel cielo dell’anima mia per prepararvi una festa tutta intima; ed ho bisogno di dirvelo; ho bisogno anche, Padre mio, di chiedervi la vostra preghiera perché mi aiuti ad essere molto fedele, molto vigilante, e a salire il mio Calvario da vera sposa del Crocifisso: « Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi alla immagine del suo Figlio divino ». Questa parola del grande san Paolo riposa l’anima, ed io l’amo tanto. Penso che « nel suo eccessivo amore », Egli mi ha conosciuta, chiamata, giustificata; ed ora, nell’attesa di essere da Lui glorificata, voglio essere la lode incessante della sua gloria. Padre, chiedeteglielo per la vostra figliolina. Ricordate? proprio come oggi, cinque anni or sono, bussavo alla porta del Carmelo, e voi eravate lì presente, per benedire i miei primi passi nella santa solitudine. Ora, busso alle porte dell’eternità, e vi chiedo di volervi chinare ancora una volta sull’anima mia per benedirla sulla soglia della « casa del Padre ». Quando sarò inabissata nel fuoco immenso dell’Amore, in seno ai « Tre » verso i quali avete orientata l’anima mia, oh! non dimenticherò tutto quello che siete stato per me; e a mia volta, vorrei poter dare tanto al Padre da cui tanto ho ricevuto. Posso esprimervi un desiderio? Sarei felice di ricevere da ,voi due righe che mi indicassero come realizzare il piano divino: essere conforme all’immagine del Crocifisso. A Dio, mio reverendo Padre! Vi prego di benedirmi in nome dei « Tre » e di consacrarmi ad Essi come una piccola ostia di lode ». Non si vedeva suor Elisabetta, come tante anime inquiete, correre da un direttore all’altro; con semplicità e docilità, si accontentava dei confessori che la Provvidenza le inviava al Carmelo; tuttavia, in una necessità, non esitava a ricorrere ad un ministero straordinario. Così la vigilia della professione, l’anima sua smarrita e sgomenta non poté ritrovare la pienezza della pace che con la parola autorevole di un religioso prudente e sapiente, venuto apposta per lei. Per tutta la vita, serbò un affetto filiale e riconoscente al buon Canonico, amico di famiglia, che aveva ricevuto le sue prime confidenze. « Se la santa Regola del Carmelo — gli scriveva — impone silenzio alla mia penna, però la mia anima e il mio cuore non rinunciano, ve l’assicuro, a venire da voi; e valicano spesso la clausura; ma sono certa che il Signore me le perdona queste fughe, perché sono compiute con Lui e in Lui. Pregate tanto per la vostra piccola Carmelitana, perché sia più fedele, più amante, in questo nuovo anno; vorrei consolare davvero il mio Maestro, restando unita a Lui, sempre. Voglio farvi una confidenza tutta intima, dirvi che sogno di essere « la lode della Sua gloria ». L’ho letto in san Paolo; e il mio Sposo divino mi ha fatto sentire che questa è la mia vocazione fin dall’esilio, nell’attesa di cantare il Sanctus eterno nella città dei beati; ma questa vocazione di « lode di gloria » suppone una grande fedeltà: bisogna morire a tutto ciò che non è Lui, per non vibrare più che al suo tocco divino. E invece la povera Elisabetta fa ancora dei torti al suo Signore; ma, come un tenero Padre, Egli la perdona sempre, la purifica sempre col suo divino sguardo; ed essa, come san Paolo, cerca di dimenticare ciò che lascia indietro. Per slanciarsi sempre innanzi. Come si sente bisogno di santificarsi, di dimenticarsi, per essere interamente dedicata agl’interessi della Chiesa! Povera Francia! Io invoco per lei misericordia e la copro col sangue del Giusto, di Colui che è vivo sempre per intercedere in nostro favore (Hebr. VII, 25). E sento che la missione della Carmelitana è sublime: la Carmelitana deve essere mediatrice insieme a Gesù Cristo, deve essere per Lui quasi un prolungamento di umanità in cui Egli possa continuare la sua vita di riparazione, di sacrificio, di lode e di adorazione. Chiedetegli che io possa essere all’altezza della mia vocazione, e non abusi mai delle grazie innumerevoli che Egli mi prodiga; perché se sapeste come un tale pensiero mi fa paura qualche volta! Ma allora mi rifugio in Colui che san Giovanni chiama «il Fedele, il Verace » e lo supplico di essere Lui stesso la mia fedeltà… – La domenica dell’Epifania si compie il terzo anniversario delle mie nozze con l’Agnello; durante il santo Sacrificio, consacrando l’Ostia in cui Gesù si incarna, vi prego, consacrate anche la vostra figliolina all’Amore onnipotente perché Egli la trasformi in Lode di gloria» (Al Can… – Genn. 1906). Ecco come la Carmelitana, fedele alla volontà del Maestro e alla sapienza della Chiesa, si rivolgeva al Sacerdote per chiedergli di aiutarla nelle diverse fasi della sua vita spirituale, e di condurla fino all’unione divina. È tutto il senso del Sacerdozio: con la parola, con la preghiera e con i Sacramenti, con la Messa soprattutto, « formare Cristo » nel mondo delle anime e « per Lui, con Lui, in Lui », consumarle « nell’unità » con Dio. Ma poi — cosa che suor Elisabetta della Trinità non supponeva neppure — essa traeva seco in un’atmosfera divina le anime sacerdotali che ebbero la fortuna di avvicinarla e che, tutte indistintamente, serbarono di lei il ricordo di una ben alta santità (Testimonianza ricevuta. Il suo confessore ha per lei un vero culto.). Caso non raro, nell’esercizio del sacro ministero: per un ammirabile compenso della Sapienza divina, il Sacerdote che si china sulle anime è santificato da esse. Chi ha molta esperienza, lo sa: se il Sacerdote è messo da Dio presso le anime per dirigerle e salvarle, vi sono pure, nel piano della Provvidenza, delle anime poste vicine al Sacerdote per rivelargli o per ricordargli il cammino delle eccelse vette. Il Padre Maestro Bafiez, celebre professore dell’università di Salamanca e fido appoggio di santa Teresa, era debitore alla grande riformatrice di alcuni fra i lumi più sublimi che fecero di lui un sì alto teologo contemplativo. E san Gioanni della Croce aggiungeva al suo « Cantico » una strofa stupenda sulla divina bellezza, dopo aver ricevuto le confidenze spirituali di una Carmelitana di Beas. Ma chi potrebbe dire le innumerevoli iniziative soprannaturali, nella vita della Chiesa attraverso i secoli, e le ere di apostolato che trovarono in questo stesso modo la loro ispirazione? Quante anime sacerdotali hanno attinto dagli scritti di suor Elisabetta della Trinità quello sguardo definitivo verso le alte cime, che tutto trasforma e rinnova! Per la umile Carmelitana di Digione è una sua maniera delicata e riconoscente di rendere al sacerdozio un po’ di tutto quello che ne ha ricevuto. Lassù, dal cielo, essa continua la sua missione di Carmelitana associata all’apostolato del Sacerdote per affrettare «il giorno di Cristo » (Eph. I, 10) in cui « Dio tutto in tutti » (1 Cor. XV, 28), per la « lode della sua gloria » (Eph.,, I, 12).

LA GRAZIA E LA GLORIA (12)

LA GRAZIA E LA GLORIA (12)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO III

I PRINCIPI DI ATTIVITÀ CHE RISPONDONO ALLA GRAZIA – LE VIRTÙ INFUSE E I DONI DELLO SPIRITO SANTO.

CAPITOLO PRIMO

L’esistenza e la natura delle virtù infuse

1. – Abbiamo constatato l’esistenza della grazia santificante, principio inerente e permanente nell’anima, che ci conferisce un essere divino, una vita deiforme, l’essere e la vita dei figli di Dio. Ma tutto l’essere è per agire. Da qui proviene che la natura che ci rende uomini non va senza le potenze dell’operare, intelligenza, volontà, facoltà sensibili, organismo, in modo che l’azione possa corrispondere all’essere, il movimento vitale alla vita sostanziale. – Se quindi noi abbiamo in virtù della nostra trasformazione soprannaturale un essere superiore, un primo principio di vita che la natura non poteva dare, dobbiamo aspettarci di trovare in noi delle forze e quasi delle nuove facoltà che ci fanno vivere con una vita superiore e compiere atti in relazione all’essere di grazia che noi abbiamo ricevuto. Perché tutto è armonia nelle opere di Dio. Non sto ancora esaminando se queste facoltà dell’uomo rigenerato siano veramente distinte dalla grazia santificante. Quello che constato è che, se c’è in noi un dono di Dio che ci dà l’essere spirituale, Dio doveva infonderci dei principi di azione proporzionati a questo dono di bontà misericordiosa. Senza questo, la nuova opera rimarrebbe incompiuta; l’uomo soprannaturale, che dovrebbe prevalere così meravigliosamente sull’uomo naturale, sarebbe per questo motivo inferiore ad esso. – Questa prova, tratta dalla grazia e dal suo effetto proprio, cioè dall’essere divino dato a noi in essa e attraverso di essa, diventa ancora più convincente, quando consideriamo il fine che dobbiamo un giorno perseguire e possedere, nella nostra qualità di figli di Dio. Se dovessimo solo lottare per un fine naturale; in altre parole, se la nostra beatitudine fosse proporzionata alla nostra natura, i principi di azione che troviamo in essa sarebbero sufficienti per questo compimento. Ma, come abbiamo già visto e vedremo ancora, il nostro destino di figli di Dio è incomparabilmente più grande di quello che sarebbe convenuto a noi se Dio ci avesse lasciato nella bassezza della nostra condizione nativa. La nostra felicità e la nostra gloria è che siamo chiamati a partecipare all’eredità dell’unigenito Figlio del Padre, a vedere Dio faccia a faccia; e noi sappiamo che nessuna facoltà puramente naturale, per quanto elevata, perfetta e potente possa essere, può raggiungere queste altezze sublimi. Perciò, dove Dio ha provveduto con più liberalità e più saggiamente ai figli adottivi che ai servi, o meglio, che agli esseri senza ragione, il dono della grazia, il dono della grazia ha in proporzione a quelli della natura, dei principi superiori, che ci ordinano al fine del nostro nuovo essere e della nostra nuova vita (S. Thom., 1, 2, q. 62, a. 1). Questi principi li chiamiamo virtù soprannaturali o virtù infuse; virtù, perché ci sono date per agire secondo le regole della perfezione; virtù soprannaturali perché superano sia i limiti che le esigenze della natura razionale; virtù infuse perché la natura non può essere la loro fonte, e perché hanno Dio non solo come causa prima, ma anche come causa principale. – Notiamo, di passaggio, come queste virtù differiscano dalle virtù naturali o acquisite, dal doppio punto di vista della loro origine e della loro essenza. Virtù naturale è un prodotto della nostra attività, la scienza per esempio, o la prudenza; la virtù soprannaturale viene solo da Dio, come la grazia santificante di cui è il complemento. La virtù naturale non dà il potere di agire: perfeziona l’attività nativa, la rende più flessibile e determinata, senza elevarla al di sopra di se stessa; la virtù soprannaturale non dà solo la facilità di agire, ma una nuova e più alta energia, l’agire da se sessa stessa. Togliete le virtù acquisite, non avete tolto il potere di attività proprio della natura; togliete le virtù infuse, è l’impotenza assoluta nell’ordine delle operazioni divine, a meno che Dio, con un atto molto particolare della sua infinita potenza, non supplisca a ciò che manca, come spiegheremo presto. – Il nome di virtù, quindi, è appropriato alle abitudini infuse in un senso incomparabilmente più elevato. Perché, ancora una volta, non è un germe già preesistente nell’uomo che esse sviluppano; ma è un’attività di ordine superiore che realizzano. In altre parole, non solo stimolano le forze innate della natura, esse le trasformano, come la natura stessa è trasformata dalla grazia, e le innalzano ad altezze dove non avrebbero potuto elevarsi da sole. Ecce nova facio omnia (Apoc., XXI, 5). – « Ci sono delle abitudini che hanno la loro origine nella potenza naturale, come quella che si acquisisce con la ripetizione degli atti; e di queste abitudini è giusto dire che non diano il potere, ma che perfezionino (abilitando) quello che già si ha. Ci sono altre abitudini che discendono dall’alto, e dipendono meno dal soggetto che le possiede che dall’agente che le dà (infonde). E questa abitudine nobilita la potenza, e può elevare il soggetto in cui viene ricevuta, al di sopra di se stesso, a causa del principio da cui procede. E questa abitudine è la grazia» (S. Bonav. Bonav., II, D. 28, dub. 1). – Ho detto che queste abitudini sono state chiamate virtù infuse per distinguerle dalle virtù acquisite dal movimento libero e naturale delle nostre facoltà. Va notato con la teologia che ogni virtù infusa non è necessariamente una virtù soprannaturale del tipo che attribuiamo ai figli di Dio. Nulla impedisce a Dio, la cui potenza non conosce limiti, di produrre in un momento, nell’anima più ignorante, una conoscenza pari a quella di un uomo sapiente. Questa scienza sarebbe infusa, è vero; ma non sarebbe infusa da se stessa sola, a causa della sua natura, poiché avrebbe potuto essere, e lo sarebbe stato davvero in altri, il risultato di studio e di lavoro personale. Le virtù di cui parliamo sono infuse dalla loro natura, cioè, si possono avere solo in virtù dell’infusione divina; perché superano e sorpassano ogni attività ed ogni energia puramente naturale. Come abbiamo dimostrato, la grazia è qualcosa di permanente nell’anima rigenerata: infatti, è necessario che la vita soprannaturale, frutto e prodotto della nuova nascita in Dio, debba essere duratura come la vita naturale, termine risultato della venerazione comune. Ma questo richiede anche che le virtù infuse non siano nell’anima in uno stato transitorio e come degli ausiliari di passaggio. È, infatti, la caratteristica della natura, in qualsiasi ordine essa sia, l’avere proprietà stabili e capacità permanenti come se stessa. Pertanto, tutte le prove che dimostrano questa permanenza della grazia considerata come principio dell’essere soprannaturale e divino, provano con la stessa forza la conservazione permanente delle virtù che la seguono e la accompagnano. – Mi si potrebbe rimproverare di non usare, in una materia essenzialmente teologica, altri argomenti che prove prese in prestito dalla ragione naturale, come se l’intera questione delle virtù infuse non rientrasse nell’insegnamento della Chiesa e della rivelazione. Io oso dire che questa accusa è infondata. – Qual è il nostro punto di partenza? L’esistenza della grazia santificante nell’anima dei giusti, cioè di una forma permanente che gli dà un essere divino; poi la destinazione di ogni figlio di Dio alla visione intuitiva, cioè alla beatitudine perfetta che supera universalmente ogni merito e ogni energia nativa di una sostanza creata. Queste due verità fondamentali le ho dimostrate entrambe con prove strettamente teologiche. Quando, quindi, me ne servo come di principi primari, dai quali deduco logicamente l’esistenza e la necessità delle Virtù Infuse, non mi baso su dati filosofici e puramente razionali, ma su delle verità dogmatiche. La filosofia non è la maestra che mi insegna; ma è la serva amica che penetra nel dominio della rivelazione, al seguito e sotto la guida della fede, per chiarire la sua espressione e svilupparne il contenuto.  – Prendiamo un esempio, al di fuori della presente questione: il dogma più misterioso di tutti, quello della Trinità. Alla sua stessa luce la ragione, lungi dal poter dimostrare un mistero così grande, probabilmente non ne sospetterebbe nemmeno l’esistenza. È dunque solo per fede che ci viene conosciuto con questa conoscenza imperfetta alla quale ci è dato di aspirare, mentre siamo ancora in esilio.  Quando però sappiamo dalla rivelazione divina che esistono nel seno di Dio, per mezzo dell’intelligenza e della volontà, processi analoghi a quelli che la coscienza scopre nella mente creata, diventa possibile, se non facile, per noi concludere logicamente da questo fatto di fede tutto ciò che la dottrina cattolica ci insegna sulle Persone divine, cosa le costituisca, cosa le distingua, e quale debba essere il loro numero, l’ordine e la nozione propria. – I nostri Dottori, e S. Tommaso d’Aquino più e meglio di tutti gli altri, hanno fatto felicemente questo lavoro, che è la ſides quærens intellectum di S. Agostino e S. Anselmo. E in questo tipo di deduzione la ragione, partendo dalla fede, supera i limiti della fede stricta, tanto è fruttuoso il metodo in mani abili. È così che siamo arrivati finora alla conoscenza delle virtù soprannaturali, quel corollario obbligatorio della grazia che ci dà il nostro essere divino.

2. – Del resto, ciò che abbiamo dedotto dai principi dottrinali possiamo confermarlo direttamente con l’autorità della Tradizione. Infatti, i Concili di Trento e di Vienne non sono meno espliciti sulle virtù infuse che sulla grazia che ci giustifica. Come quest’ultima è infusa in noi nella nostra nascita spirituale, così lo sono queste ugualmente. « Nella giustificazione, dice il primo Concilio, l’uomo riceve infuse (con la remissione dei peccati), per mezzo di Gesù Cristo sul quale è innestato, la fede, la speranza e la carità  » (Conc. Trid. Sess. VI, c. 7). Queste ultime espressioni devono essere intese come significanti non solo gli atti di queste virtù, ma le virtù stesse, come è evidente sia dai termini usati dal Concilio, sia dalla generalità della dottrina. Dai termini impiegati dal Concilio: in effetti, infondere non si dice delle operazioni che sono nostre e di Dio, ma dei principi di azione che sono di Dio solo. Dalla generalità della dottrina: poiché la giustificazione, descritta in questo capitolo, è la giustificazione comune, dei bambini come degli adulti, quella che rigenera e fa passare dallo stato di decadenza in cui nascono i figli di Adamo, allo stato di grazia e di adozione. Se, dunque, i bambini rigenerati sono incapaci di produrre qualsiasi atto di queste virtù, è necessario che queste virtù, debbano riceverle come principi superiori di azione. « È impossibile piacere a Dio senza la fede », dice l’Apostolo (Ebr. XI, 6; Lc. XVI, 16) al seguito di Nostro Signore. Quale fede può avere un neonato quando viene battezzato, oltre alla fede abituale, cioè la virtù stessa del credere? Ecco perché Lutero si è attirato il giusto ridicolo quando, in difesa della sua giustificazione per mezzo della fede, ha osato sostenere che i bambini al battesimo sono entrati in possesso della giustizia di Cristo con un atto esplicito di fede soprannaturale! – Ricordiamo ancora la decisione del Concilio di Vienne e la soluzione della grande questione che allora divideva la Scuola. Ciò che abbiamo detto sulla grazia ci dispensa dal dare qui nuovi sviluppi che sembrerebbero giustamente superflui. – Se vogliamo risalire il fiume della tradizione, troveremo le affermazioni molto formali di Sant’Agostino sull’esistenza delle virtù infuse. Può avere in vista altra cosa che questi principi prossimi di attività soprannaturale, nel testo già citato: « Al Battesimo i bambini ricevono allo stato latente questo principio di vita che, nell’adulto, si manifestano con gli atti. » (S. Aug. De Peccat. Merit. Et rem., L. I, c. 2). Si potrebbero, al bisogno, accumulare testimonianze; i corsi di teologia dogmatica ne sono pieni. Qui, per esempio, il Papa santo Gregorio Magno ci mostra lo Spirito Santo che abita nel cuore dell’uomo giusto con la fede, la speranza, la carità, l’umiltà, la castità, la misericordia e tutta il glorioso corteggio delle altre virtù (S. Greg. M., Hom. 5 in Ezech). S. Prospero deplora « il naufragio universale causato dalla colpa originale, in cui si oscurano la luce e la bellezza delle virtù, mentre la sostanza e la volontà rimangono salve ». (S. Prospero, c. Collat., c. 9 al. 19).

3. – Ho voluto trattare l’intera questione prima di affrontare una difficoltà la cui soluzione potrà, se non mi inganno, chiarire e confermare ulteriormente la dottrina che precede. Consideriamo l’uomo che non sia ancora uscito dal peccato: egli è, come il giusto, destinato a possedere Dio nella beatitudine, poiché il fine ultimo di ogni creatura ragionevole è la visione di Dio. Da qui l’obbligo per lui di tendere alla giustizia; e poiché questa tendenza non va senza opere proporzionate alla grazia che la corona, è necessario che egli produca atti soprannaturali. Quindi – ed è in questo punto speciale che sorge la difficoltà – le virtù infuse, non più della stessa grazia santificante, sono necessarie per produrre le operazioni superiori alle forze naturali. Che non siano assolutamente necessarie, lo concedo volentieri; ma la tesi e le prove che le dimostrano non sono meno solide né meno vere. Una prima osservazione da fare è che gli atti che dispongono alla giustificazione, motus ad justitium, come li chiama il Concilio di Trento, non sono meritori né della stessa grazia giustificante né della gloria futura (Conc. Trid. Sess. VI, cap. 8). – Il merito propriamente detto appartiene solo ai figli di Dio; quindi, dove non è presente il principio formale dell’adozione, cioè la grazia santificante con le virtù che la accompagnano, non ci sono e non possono esserci azioni meritorie. Non possiamo negare, è vero, che gli atti con cui un peccatore si prepara allo stato di grazia siano intrinsecamente soprannaturali, cioè superino in sostanza ogni attività della natura. La dottrina della Chiesa sembra così formale che, dopo il Concilio di Trento, non c’è più alcuna seria controversia su questo punto tra i teologi cattolici. Ma, osserviamo bene, questi stessi atti preparatori alla giustificazione, atti di fede, di speranza, di pentimento ed altri, se non presuppongono la partecipazione permanente della natura e della virtù divina, alla quale esse dispongono, richiedono tuttavia un’elevazione transitoria delle facoltà dell’anima; e questo è ciò che il Santo Concilio ci insegna espressamente in molte occasioni (Concilio Tridentino, sess. VI, cap. 5 e 6; can. 3). – A cosa si debba attribuire questa elevazione temporanea e come spiegarcela? Questa è una questione secondaria, la cui risposta sarà liberamente discussa dai nostri Dottori, finché la Chiesa non avrà detto la parola che ponga fine a tutte le controversie tra noi. Il Concilio di Trento ci insegna in generale che è un impulso, un tocco dello Spirito Santo che risveglia l’anima, la illumina, la eccita e « la muove, ma non l’abita ancora » (Consiglio, Triden., Sess. XIV, c. 4, col. Sess. 6, l. cit.); nella presente questione questo insegnamento ci è sufficiente. Ma non è evidente che la condizione dei bambini sia tutt’altra che la condizione di coloro che non siano ancora battezzati, dal punto di vista dell’attività soprannaturale? – Che Dio si rifiuti di concedere loro le virtù infuse; che si accontenti di concedere loro l’assistenza temporanea che chiamiamo grazia attuale, lo posso capire; è nell’ordine. – Non avendo ancora la natura dei figli di Dio, come potrebbero averne le facoltà? – Ma che, dopo aver dato loro misericordiosamente la partecipazione della sua natura e della sua stessa vita, rifiuti a coloro che la possiedono come forma stabile e permanente, la partecipazione della sua intelligenza e della sua stessa volontà, cioè le virtù infuse, i principi prossimi e permanenti di operazione, io non posso intenderlo. Sarebbe sconvolgere tutto l’ordine della sua provvidenza e mettere da parte le regole della sua infinita saggezza. Che cos’è questo? Quelle forze soprannaturali che non sono nell’anima perché la grazia, il suo sostegno naturale, ne è ancora assente, non vi verrebbero, quando questa grazia già vi regna? Vedrei allora i figli di Dio senza le proprietà che corrispondono alla loro natura, quando anche nei gradi più bassi della scala degli esseri, ogni sostanza e ogni vita possiede, da Dio, le potenze proporzionate alla sua essenza? È questo credibile; è degno di un Dio Sovranamente saggio e Sovranamente buono? (S. Thom. de Virtut. in communi, a 10 cum paral. – Da 1à il Santo Dottore trae una grave conseguenza. Se l’uomo in virtù della grazia santificante è un dio; se per le virtù infuse possiede principi di azione proporzionati a questa grandezza soprannaturale « oportet quod regula (agendi) sit divinitas ab homine participata suo modo, ut jam non humanitus, sed quasi deus factus participative operetur ». In III, D. 34, q. 1, a. 3).

LA GRAZIA E LA GLORIA (13)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (13)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (13)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO QUINTO

LA CONFORMITA’ A CRISTO (I)

Che io gli sia quasi un prolungamento di umanità

.1) La nostra predestinazione in Cristo — 2) La presenza intima di Gesù. – Devozione all’anima di Cristo — 4) Identificare i movimenti dell’anima propria a quelli dell’anima di Cristo — 5) Esprimere Cristo allo sguardo del Padre — 6) Essere per Lui quasi un prolungamento di umanità — 7) La conformità alla Sua morte

Una nota comune a tutti, ricongiunge i santi delle più varie scuole: la loro conformità a Cristo: « I predestinati — ci dice san Paolo — devono essere conformi all’immagine del Figlio » (Romani, VIII-29). Secondo l’assioma tradizionale, il Cristiano è un altro Cristo: Christianus alter Christus. Ma questa grazia della conformità a Cristo è essenzialmente multiforme; alcuni riproducono con particolare evidenza qualche aspetto della vita di Gesù: il suo silenzio di Nazareth, il fascino potente della sua parola sulle folle e il suo ascendente sulle anime; oppure, i lineamenti del Messia sofferente, come Geremia, le ignominie della passione e l’abbandono dei « suoi », come Giobbe; la sua umiltà, la sua pazienza, il suo disprezzo delle ricchezze, la sua vita adorante e riparatrice, il suo amore per il Padre; oppure, i suoi lumi sapienti di Dottore, la sua prudenza di capo supremo della Chiesa, la forza del suo martirio sulla Croce. I prediletti imitano il Maestro nel distacco assoluto: « Sono i vergini, e seguono l’Agnello ovunque Egli vada » (Apocalisse, XIV-4.). La santità di Cristo è, in qualche modo, infinita; Gesù offre in se stesso un modello di tutte le virtù, e Dio potrebbe moltiplicare senza limite i santi, sulla terra, senza esaurire le ricchezze incomprensibili della grazia capitale di Cristo, esemplare della nostra. Non deve quindi farci meraviglia il ritrovare in suor Elisabetta questa viva rassomiglianza col suo Maestro. « Vivo enim, jam non ego; vivit vero in me Christus »  (Lettera al sacerdote Don Ch. – 23 novembre 1904.): eccol’ideale della mia anima di Carmelitana ».Questa trasformazione in Cristo, iniziatasi al Battesimo,continua senza interruzione attraverso tutte le fasi dellasua vita. Scriveva nel suo diario di fanciulla: « Vorreifarlo amare da tutta la terra… ». « L’amo, fino a morirne» (Diario: 30 gennaio – 1° marzo 1899). E le feste, anche le più mondane, non potevano strapparla all’invisibile presenza del suo Cristo. Divenuta Carmelitana, con quale appassionato ardore premeva sul cuore il bel Cristo della sua professione che recava il motto: « Jam non ego, vivit vero in me Christus! ». Cristo è al centro della sua preghiera sublime alla Trinità, nella quale esprime in uno slancio d’amore tutto respiro della sua vita interiore: « O mio Cristo adorato, vorrei essere una sposa per il tuo cuore… Vorrei amarti, fino a morirne ». Nel suo letto di dolore, non sogna che « morire trasformata in Gesù Crocifisso ». La devozione al Cristo occupa un posto centrico nella sua dottrina come nella sua vita. A quale sorgente l’ha attinta? Durante il ritiro conventuale predicato nell’ottobre 1902, il Padre Vallée aveva esposto energicamente e in un’altissima luce contemplativa i grandi principî della cristologia tomista; aveva particolarmente insistito sulla natura del Verbo Incarnato e sul suo carattere essenziale di Salvatore, sulla grazia capitale, la scienza, l’amore, la preghiera di Cristo… ecc… Questo ritiro, privo di consolazioni interiori, aprì a suor Elisabetta orizzonti sconfinati sul mistero di Cristo e queste luci nuove entrarono immediatamente nella sua vita. « Abbiamo avuto un ritiro così bello, così profondo, così divino! Il Padre Vallée ci ha spiegato sempre Gesù Cristo, e vi avrei voluta vicina a me, perché l’anima vostra esultasse insieme alla mia. Noi siamo in comunione continua col Verbo Incarnato, con Gesù che dimora in noi e vuole dirci tutto il suo mistero. La vigilia della sua Passione, parlando dei « suoi », diceva al Padre: « Io ho fatto conoscere ad essi le parole che mi hai comunicato; ho dato loro la luce che ho avuto in Te, prima che il mondo fosse» (San Giovanni, XVII, 8-22.). Egli è sempre vivo, sempre operante nell’anima nostra: lasciamoci formare da Lui, e che Egli sia l’anima della nostra anima, la vita della nostra vita, affinché possiamo dire con san Paolo: « Per me, vivere è Cristo ». Egli non vuole che ci rattristiamo, considerando ciò che non abbiamo fatto interamente per Lui. È il Salvatore; la sua missione è perdonare. E il reverendo Padre, durante il ritiro, ci diceva: « Non vi è che un desiderio nel cuore di Cristo: cancellare il peccato e portare l’anima a Dio» (Lettera alla signora A… – 9 novembre 1902). Soprattutto le Epistole di san Paolo furono sorgente di luce per l’anima sua: in esse, suor Elisabetta se ne andava a « bere Cristo », secondo l’espressione di sant’Ambrogio. E non avrebbe potuto porsi ad una scuola migliore. Il Dottore delle genti aveva ricevuto da Dio la missione di manifestare al mondo le ricchezze di grazia, i tesori di scienza e di sapienza divina nascosti in Cristo. « Cor Pauli, cor Christi »: Paolo aveva il cuore di Cristo. Le formule di fede che egli scriveva ai primi Cristiani contengono in compendio tutto l’insegnamento della Chiesa sul mistero di Cristo. – Suor Elisabetta della Trinità, temperamento d’artista, così libera nell’ispirazione, così nemica di ogni metodo troppo rigido, pure aveva organizzato tutto uno schedario per lo studio del suo caro san Paolo. Queste note, bene analizzate, con riferimenti precisi, rimandano, per la massima parte, ad uno degli aspetti del mistero di Cristo. Ricorreva sovente ai testi dell’Apostolo per appoggiarvi i movimenti della sua anima contemplativa; e più di una volta, nelle sue lettere o nei suoi due ritiri, le capita di citarne dei lunghi passi per intiero, a tale punto il suo pensiero si era identificato con quello del santo. La nostra predestinazione in Cristo, e la restaurazione di tutte le cose in Lui, la nostra incorporazione al Figlio di Dio, capo del Corpo mistico costituito da tutti i redenti, la necessità che abbiamo di immedesimarci con tutti i sentimenti della sua anima divina, di esprimerlo agli sguardi del Padre, di essere per Lui, in certo modo, un prolungamento di umanità in cui Egli possa rinnovare tutto il suo mistero di Cristo adoratore e Salvatore… — tutti questi grandi orizzonti della teologia della redenzione divengono familiari, nel contatto con san Paolo, al pensiero contemplativo di suor Elisabetta della Trinità e le danno quelle ampiezze dottrinali che sono la ricchezza e la forza dei suoi scritti spirituali. Enumerare quasi tutti i testi da lei utilizzati, imporrebbe  delle citazioni innumerevoli. Noi rileveremo soltanto le grandi linee della dottrina mistica che quei testi le hanno ispirata.

1) Il contatto con san Paolo conferisce alla dottrina di suor Elisabetta un carattere cristocentrico molto accentuato. Essa studia con speciale cura il testo fondamentale dell’Epistola ai Romani, in cui san Paolo sviluppa tutto il senso della nostra predestinazione in Cristo: « Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo; e quelli che ha predestinati, li ha pure chiamati; quelli che ha chiamati li ha giustificati; e quelli che ha giustificati li ha anche glorificati » (Romani, VIII, 29-30.). Tale si presenta, allo sguardo dell’Apostolo, il mistero della predestinazione della elezione divina. « Quelli che Egli ha conosciuti ». Non siamo noi pure di questo numero? Non può forse, Iddio, dire a ciascuna delle anime nostre ciò che disse un giorno con la voce del Profeta? : « Ti son passato accanto, e ti ho guardata; e sopra di te ho spiegato il mio manto; ti ho giurato fede, ho stretto con te un patto, e tu sei divenuta mia » (Ezechiele, XVI-8.). Sì, noi siamo divenute sue col Battesimo; questo appunto vuol dire san Paolo con le parole: « Li ha chiamati », chiamati a ricevere il sigillo della Trinità santa; mentre ci dice san Pietro che « siamo stati fatti partecipi della natura divina » (II san Pietro, I-4.), che abbiamo ricevuto quasi un « inizio del suo Essere ». – Poi, ci ha giustificati coi suoi Sacramenti, coi suoi tocchi. diretti nelle intime profondità dell’anima raccolta; ci ha giustificati anche « mediante la fede » e secondo la misura della nostra fede nella redenzione acquistataci da Gesù Cristo. Finalmente, vuole glorificarci; e perciò, dice san Paolo. « ci ha resi degni di aver parte alla eredità dei santi, nella luce » (Colossesi, I-12.); ma noi saremo glorificati nella misura in cui saremo trovati « conformi alla immagine del suo divin Figlio ». Contempliamo dunque questa immagine adorata; restiamo sempre nella luce che da essa irradia, e facciamo che si imprima in noi; poi accostiamoci alle persone, alle cose, con le stesse disposizioni d’animo con cui vi si recava il nostro Maestro santo; allora realizzeremo la grande « volontà per la quale Dio ha in sé prestabilito di instaurare tutte le cose in Cristo » (Efesini, I, 9-10 — « Il paradiso sulla terra » – 9a orazione.). Invece di soffermarsi, come farebbe un teologo speculativo, sull’economia provvidenziale della nostra redenzione in Cristo, suor Elisabetta della Trinità, tralasciando ogni esposizione puramente teorica, ne fa immediatamente l’applicazione all’anima sua, cercandovi una « regola di vita ». « Instaurare omnia in Christo ». È ancora san Paolo che mi istruisce; san Paolo che si è or ora inabissato nel grande consiglio di Dio, e mi dice che « Egli ha stabilito di instaurare tutte le cose in Cristo ». E l’Apostolo viene ancora in mio aiuto; perché io possa realizzare personalmente questo piano divino, mi traccia egli stesso un regolamento di vita: « Camminate in Gesù Cristo, radicati in Lui, corroborati nella fede… e crescendo sempre più in Lui con rendimento di grazie » (Colossesi, II, 6-7 – Ultimo ritiro, XIII). Ogni punto di questo programma le suggerirà una parafrasi mistica di ordine pratico. Non chiedetele un’esegesi obiettiva secondo le rigorose leggi del metodo storico; suor Elisabetta lesse san Paolo da contemplativa, cercando nella  sacra Scrittura « la luce di vita » per l’anima sua. È intanto, in questo apparente commento delle formule paoline, essa ci svela il suo pensiero spirituale più intimo. Da vera Carmelitana, insiste prima di tutto — e con molta forza — sul totale spogliamento, condizione preliminare dell’unione divina. « Camminare in Gesù Cristo » è uscire da se stessi, è perdersi di vista, abbandonarsi, per entrare più profondamente in Lui, ad ogni istante; tanto profondamente, da radicarvisi e da poter lanciare ad ogni avvenimento, ad ogni creatura, questa bellissima sfida: «Chi mi separerà dalla carità di Cristo? » (Romani, VIII, 35.). Quando l’anima è stabilita in Lui a tale profondità che le sue radici vi affondano, la linfa divina fluisce, si riversa in lei abbondante; e tutto ciò che è imperfetto, banale, naturale, viene distrutto. « Ciò che è mortale viene assorbito dalla vita » (Ai Corinti, XV, 54). Allora, così spogliata di se stessa e rivestita di Gesù Cristo, l’anima non ha più da temere né i contatti esterni, né le interne difficoltà, perché queste cose, anziché esserle di ostacolo, non fanno che radicarla più profondamente nell’amore del suo Maestro. Qualunque cosa avvenga, favorevole o contraria, anzi servendosi di tutto ciò « sempre lo adora per Lui stesso », perché è libera, affrancata da sé e da ogni cosa, e può cantare col Salmista: « Mi assedi un esercito, non teme il mio cuore; insorga contro di me la battaglia, io spero ugualmente, perché Jahveh mi nasconde nel segreto della sua tenda » (Salmo XXVI, 3, 5), e questa tenda è Lui. Tutto questo mi sembra che voglia dire san Paolo quando ci esorta ad essere « radicati » in Gesù Cristo. E che cosa significa essere « edificati in Lui? ». Il Profeta canta: « Mi ha innalzato sopra una rupe, ed ora la mia testa sovrasta i nemici che mi circondano » (Salmo XXVI, 6.). Non è forse questa la figura dell’anima « edificata da Gesù Cristo? ». È Lui la rupe sulla quale ella è stata elevata al di sopra di se stessa, dei sensi, della natura, al di sopra delle consolazioni e dei dolori, al di sopra di tutto ciò che non è unicamente Lui. E lì, nel pieno possesso di sé, è dominatrice del suo « io »; e, superando se stessa supera anche tutte le cose. – Ma san Paolo mi raccomanda ancora di essere « corroborata nella fede », in quella fede che non permette mai all’anima di sonnecchiare, ma che la tiene tutta vigilante sotto lo sguardo del Maestro, tutta raccolta sotto la sua parola creatrice; in quella fede « nell’eccessivo amore » (Ephes. II, 4), che permette a Dio, mi dice san Paolo, di colmare l’anima « secondo la sua pienezza » (Ephes. III, 19). Infine, vuole che io « cresca in Gesù Cristo con l’azione di grazie », perché tutto deve compiersi nel ringraziamento. « Padre, io ti rendo grazie » (San Giovanni, XI, 41.), cantava l’anima del mio Maestro; ed Egli vuol sentirne l’eco nell’anima mia » (Ultimo ritiro, XII).

2) Mentre, per la maggior parte dei Cristiani, Cristo è un personaggio storico scomparso da ormai venti secoli dalla scena del mondo, oppure è un’entità astratta involatasi nelle profondità del cielo in un’eternità inaccessibile, per suor Elisabetta della Trinità, come per tutti i santi, Gesù è una realtà concreta, quotidiana, unita ai minimi particolari alla loro esistenza; in una parola è la realtà suprema. La sua presenza, invisibile, ma così prossima, li segue ovunque; ad ogni istante, essi sentono lì, accanto a loro, Gesù, questo Figlio di Dio e della Vergine, che li arricchisce con la sua grazia, li illumina, li sostiene, li rimprovera se è necessario, li salva, comunica loro l’eterna vita. Per comprendere questa dottrina della presenza intima di Gesù nella vita dei santi, bisogna ricordare che Cristo, come Verbo, è presente dovunque, insieme al Padre ed allo Spirito Santo. La Trinità rimane indivisibile. Col Padre e con lo Spirito Santo, il Verbo riempie il tempo e lo spazio; né vi è un atomo solo, nell’universo, che non sia compenetrato della sua divina presenza; se Egli si ritraesse, tutta la creazione ricadrebbe nel nulla. Come Verbo Incarnato, Egli è presente in cielo dove, splendente di gloria, sazia i beati e li inebria con la bellezza del suo volto; ed è presente nell’Ostia santa, con la sua Umanità velata. « Ma è sempre il medesimo che gli eletti contemplano nella visione e che le anime della terra possiedono nella fede » (Lettera alla zia R…  1903). Degli uni e degli altri, Egli è la vita, comunicando alle schiere dei predestinati la luce di gloria che li fa beati, e donandosi alla Chiesa militante per mezzo della fede e dei sacramenti. Da Lui, giorno e notte, « emana una virtù segreta » (San Luca, VI-19) che li santifica; e il suo contatto, ad ogni istante, divinizza l’anima dei santi. Tutto ci viene dall’Umanità di Cristo, « organo del Verbo » e strumento universale di tutte le grazie che discendono dalla Trinità sulle anime; da Cristo, grazia, luce, forza e carismi di ogni genere di cui la Chiesa ha bisogno per compiere la sua missione sulla terra; in Cristo, noi abbiamo l’essere, il movimento, la vita nell’ordine soprannaturale e, senza di Lui, non possiamo nulla: « Sine Me, nihil » (San Giovanni, XV, 5). La teologia cattolica ha dato un forte rilievo a questo punto di vista, in una dottrina di massima importanza nell’economia della nostra vita spirituale: la grazia capitale di Cristo. La vita trinitaria del nostro Battesimo non si sviluppa in noi che « in Cristo Gesù: in Cristo Jesu » (Efesini, I, 3 e spessissimo in san Paolo.). Questa dottrina era il punto centrico, il fulcro di tutti i moti dell’anima di suor Elisabetta della Trinità. Le era tanto caro rifugiarsi ad ogni istante sotto la grazia di questo dolce Cristo vivente in lei, nell’intimo dell’anima sua! « Sento che Egli mi comunica la vita eterna » (Alla Madre priora). Aveva preso l’abitudine di andare a Lui per ogni cosa. supplicandolo di rivestirla della sua divina purezza, di custodirla vergine, di elevare l’anima sua al di sopra delle terrene agitazioni, di mantenerla calma e serena, come se già fosse nell’eternità. « Stiamocene raccolte vicino a « Colui che È », vicino all’Immutabile il cui amore ci avvolge sempre. Noi, ciascuna di noi, siamo colei che non è; andiamo a Lui che ci vuole tutte sue e talmente ci possiede, che non viviamo più, noi, ma Egli vive in noi» (Lettera a M. G… 1901). « È così ineffabile e soave la divina presenza del Maestro, e dà all’anima tanta forza! Credere che Dio ci ama al punto di abitare in noi, di farsi il compagno del nostro esilio, il confidente, l’amico di tutti gli istanti, è l’intimità dolcissima del bimbo con la mamma, della sposa con lo sposo. Ecco la vita della Carmelitana: l’unione è il suo splendido sole, ed orizzonti sconfinati si spiegano dinanzi al suo sguardo» (Lettera a G. de G… 1903). Questa intima unione con Cristo presente nell’anima sua era divenuta il punto di convergenza della sua fede, della sua carità, della sua vita di preghiera e di adorazione. « Rimanete in me» (San Giovanni, XV-4). È il Verbo di Dio che ci dà questo comando, che esprime questa volontà. « Rimanete con me », non per qualche minuto, per qualche ora che passa, ma rimanete in modo permanente, abituale. Rimanete in me, pregate in me, adorate in me, amate in me, soffrite in me, lavorate, agite in me. Rimanete in me quando vi incontrate in qualsiasi persona o cosa » («Il paradiso sulla terra » – Orazione 2°). Uno dei suoi atteggiamenti preferiti consisteva nel raccogliersi in contemplazione dell’« eccessivo amore » di Cristo, e lasciarsi tutta invadere e possedere da Lui. « San Paolo dice che « non siamo più pellegrini o stranieri, ma concittadini dei santi e della famiglia di Dio » (Efesini, II, 19). Là, in quel mondo soprannaturale e divino, già noi abitiamo mediante la fede. La mia visione, qui sulla terra, è il Suo amore, « il suo eccessivo amore », come si esprime il grande Apostolo. Mi pare che sia proprio questa la scienza dei santi. San Paolo, nelle sue magnifiche epistole, non predica che questo mistero della carità di Cristo. « Il Padre del Signore nostro Gesù Cristo vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere fortemente corroborati nell’uomo interiore per mezzo del suo Spirito e faccia sì che Cristo abiti nei vostri cuori con la fede e voi, radicati e fortificati in amore, siate resi capaci di comprendere, con tutti i santi, quale sia la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità, e di intendere l’amore di Cristo che sorpassa ogni scienza, affinché siate ripieni di tutta la pienezza di Dio» (Efesini, III, 14-19). Poiché Cristo abita nelle anime nostre, la sua preghiera ci appartiene, ed io vorrei esserne partecipe sempre, stando presso la fontana della vita come un piccolo vaso alla sorgente delle acque, e poterla quindi comunicare alle anime, lasciandone straripare le onde di carità infinita » (Lettera al sacerdote Don Ch… – 25 dicembre 1904). Le espressioni di suor Elisabetta sulla presenza di Gesù in noi sono di una tale vivezza che, prese troppo alla lettera, potrebbero indurre alla conclusione di una vera e propria abitazione di Gesù in noi. Ma lei stessa mette in guardia la mamma contro una simile esagerazione: « Non puoi possedere di continuo l’Umanità santa di Gesù, come allorché ricevi la santa Comunione; ma la Divinità, quell’Essenza che i beati adorano in cielo, è nell’anima tua » (Lettera alla mamma – Giugno 1906). Fatta questa riserva, si abbandona liberamente agli slanci dell’anima sua che la riconducono sempre nell’intimo, per vivervi nell’unione più stretta col Maestro divino e lasciarsi salvare e santificare da Lui. « Egli è in noi per santificarci; chiediamogli dunque che sia Lui stesso la nostra santità. Quando Gesù era sulla terra, « una virtù segreta, dice il Vangelo, emanava da Lui » (San Luca, -VI-19); e al suo contatto, i malati guarivano, i morti risuscitavano alla vita. Egli è vivo sempre; vivo nel suo Sacramento adorabile, vivo nelle anime nostre; l’ha detto Lui stesso: « Se alcuno mi ama, custodirà la mia parola, e il Padre mio l’amerà; e noi verremo a lui, porremo in lui la nostra dimora » (San Giovanni, XIV-23). Poiché Egli è qui, teniamogli compagnia, come l’amico all’amico diletto. Questa unione divina e tutta intima è, si può dire, l’essenza della vita al Carmelo. « L’anima possiede, nel suo intimo centro, un Salvatore che la purifica ad ogni istante » (Lettera alla signora A… – 24 novembre 1904 e novembre 1905). « Il divino Adorante è in noi, quindi la sua preghiera ci appartiene. Offriamola; partecipiamovi; preghiamo con la sua stessa anima » (Lettera a G. de G… – Fine settembre 1903.).

3) La nota veramente caratteristica di suor Elisabetta è la sua devozione così personale all’anima di Cristo. Altre anime si sentono portate ad onorarlo in questo o quell’altro dei suoi misteri, a venerare una od un’altra parte del suo Corpo santissimo; la devozione di suor Elisabetta va diritta all’anima di Cristo, capolavoro della Trinità. Per ragione della sua personale unione al Verbo di Dio, tutto quanto il Cristo è adorabile: in se stesso e in ciascuno dei suoi misteri; ma l’anima di Gesù è quanto vi è di più nobile nel Verbo Incarnato, dopo la sua unione ipostatica. Tutta la sublime attività degli spiriti e dei santi non vale il minimo atto di virtù dell’anima di Cristo, rivestita di una pienezza di grazia in qualche modo infinita, che la rende degna della Persona increata del Verbo Incarnato; l’anima di Cristo, nella quale la Trinità santa trova infinite compiacenze, nella quale vi sono abissi di luce, di amore, di divine bellezze, la cui contemplazione intuitiva sarà, dopo la visione di Dio, la gioia più grande dell’eternità. Gesù non diceva infatti al Padre suo, presenti i discepoli: « Contemplare svelatamente Te e il tuo Cristo: ecco la vita eterna? » (San Giovanni, XVII-3).

4) Suor Elisabetta della Trinità seppe comprendere fino a che punto il Cristo è nostro: « Sento che tutti i tesori dell’anima di Cristo mi appartengono » (Lettera al Canonico A… – 11 settembre 1901.). E nel formulario riempito otto giorni dopo la sua entrata al Carmelo, scriveva che « l’anima di Cristo era il suo libro preferito ». Fin dalla prima sera, la Madre Germana la trovò tutta silenziosa e raccolta presso il grande Cristo che domina il giardino. — Che cosa fai costì figliola, — le chiese. — Sono passata nell’anima del mio Cristo (Questo particolare mi è stato comunicato direttamente dalla Madre Germana) — fu la risposta di suor Elisabetta. E prende come parola d’ordine della sua vita religiosa: « Rendere i movimenti della propria anima sempre più uguali a quelli dell’anima di Cristo »; risoluzione che diviene una commovente realtà, a mano a mano che la sua vita spirituale si svolge e progredisce; tutto lo studio della sua vita interiore tende a « penetrare nel movimento dell’anima divina di Gesù» (Lettera alla signora A… – 29 settembre 1902) ed a lasciarsi portare con Lui nel seno del Padre. – Nella sua preghiera, alla quale bisogna ritornare sempre per sorprendere il ritmo più segreto della sua vita spirituale, le note più essenziali di questa divozione alla anima di Cristo si manifestano con evidenza, e tutta riassumono la sua dottrina su questo punto: « O mio Cristo adorato, crocifisso per amore… ti chiedo di rivestirmi di Te, di identificare i movimenti della mia anima a quelli della Tua anima, di sommergermi, di pervadermi, di sostituirti a me, così che la mia vita sia una riflesso della Tua vita ».

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (23)

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (23)

GIOVANNI G. OLIER Mediolani 27-11 – 1935

Nihil obstat quominus imprimetur. – Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XV

Del modo di fare le proprie azioni per il principio della vita cristiana

Rinunciare a noi stessi e al nostro amor proprio. Adorare lo Spirito di Gesù Cristo nell’anima sua santissima.- Abbandonarci allo Spirito Santo perché diffonda in noi le intenzioni medesime di Gesù. — Non è necessario sentire l’azione divina; basta la fede e la volontà. – Nostro Signore sentiva lui pure la ripugnanza nella parte interiore dell’anima. — Lo spirito della religione è spirito di rinuncia.

L’uomo vecchio, in noi, è sempre attivo e quindi sempre ricerca sé stesso, perché in noi la carne, nello stato in cui si trova, non può che cercare i propri interessi. Poiché essa non vuole punto elevarsi a Dio, né portarsi a Lui, ma unicamente e senza posa ricerca sé medesima, bisogna al principio di ogni opera, riprovarne tutte le tendenze e tutte le intenzioni. Perciò la prima disposizione che dobbiamo avere nelle nostre azioni è di rinunziare a noi medesimi e al nostro amor proprio. La seconda cosa che dobbiamo fare è di adorare lo Spirito di Gesù Cristo che ne eleva l’anima a Dio in tutta la purezza, la santità e la giustizia possibile. Lo Spirito di Dio nell’anima di Gesù infondeva tutte le intenzioni più sante e tutte le più pure disposizioni possibili, perciò vi rendeva a Dio Padre tutta la somma di onore, di lode e di gloria che il Padre poteva riceverne. – La terza cosa è di domandare a questo divino Spirito che diffonda in noi le disposizioni dalle quali Egli vuole animarci per la gloria di Dio. Infine, bisogna abbandonarci allo Spirito Santo affinché si degni elevare l’anima nostra a tutte quelle intenzioni che saranno di suo compiacimento durante tutta l’opera che incominciamo, conservandoci uniti a Lui in tutto ciò che dovremo fare. – L’interiore di Gesù Cristo consisteva nel suo divino Spirito, che ne riempiva l’anima di tutte le intenzioni e disposizioni con le quali Dio poteva essere onorato da Lui e da tutta la sua Chiesa; orbene, questo divino interiore deve starci sempre davanti agli occhi come la sorgente e il modello di tutte le interne disposizioni delle anime nostre. Anzi bisogna offrire sovente a Dio quel divino interiore di Gesù, come supplemento al nostro che è così deficiente, perché davanti a Dio serva di riparazione per le nostre colpe. Nostro Signore medesimo si è degnato di offrire spesso a Dio, a questa intenzione, i suoi interni sentimenti.

***

Bisogna notare inoltre che, per essere uniti con lo Spirito di Nostro Signore onde vivere nella vita cristiana e operare santamente, non è necessario che sentiamo in noi questo Spirito, né che gustiamo sensibilmente in noi i sentimenti e le disposizioni di Gesù Cristo; basta vi ci uniamo per la fede, ossia con la volontà e con un vero e reale desiderio. Ed è ciò appunto che lo Spirito Santo ci dà, perché operiamo conforme al desiderio di Nostro Signore medesimo e così siamo adoratori in ispirito e verità. Gesù Cristo, infatti, il vero ed unico Religioso e Adoratore del Padre, diceva che il Padre suo domandava Adoratori in ispirito e verità (Joan. IV, 23), vale a dire, veri Religiosi e Adoratori che siano veramente distaccati da sé stessi, senza ricerca del proprio interesse, e realmente siano intimamente uniti al suo Spirito: ed in ciò consiste la vera religione interiore e cristiana. – Quando abbiamo in noi lo Spirito Santo mediante la grazia e viviamo distaccati dal peccato, per operare nella vita e nella santità di questo divino Spirito, basta che l’anima nostra si tenga unita a Lui per la parte più elevata e più sottile che chiamasi col nome di spirito. Inoltre, dobbiamo dire, a consolazione delle anime pure e sante, che Nostro Signore medesimo, soprattutto nel tempo della sua Passione, serviva il Padre suo per lo spirito, ossia per la parte superiore dell’anima sua, senza nulla. sentire nella parte inferiore e sensibile. – La parte superiore, in Gesù Cristo Nostro Signore, era nella gloria, e nella pienezza della sua luce vedeva tutte, assolutamente tutte le intenzioni adorabili con cui sì poteva rendere omaggio al Padre. Egli si investiva di queste intenzioni, aderendo allo Spirito che gliele suggeriva e le operava in Lui; ma essendo l’anima sua immersa in un oceano di disgusti, di aridità e di amarezze. Egli provava ripugnanza per quelle cose cui l’anima sua nella parte superiore abbracciava con una volontà infinitamente perfetta, per la gloria del Padre suo. Così, non dobbiamo inquietarci per le aridità e le ripugnanze della carne purché facciamo il nostro dovere e che la parte superiore dell’anima nostra, ossia la nostra mente e la nostra volontà, aderisca allo Spirito Santo, che sta in noi per operare secondo le sue intenzioni e i suoi desideri. Dobbiamo tenerci uniti allo Spirito Santo con un puro spirito di sacrificio, e nella fede, vale a dire, per una conoscenza oscura e insensibile ma tuttavia certa, che Dio sta in noi col suo santo e divino Spirito onde aiutarci nella nostra debolezza per la quale da noi stessi non siamo capaci di elevarci a Dio. Quando il Signore vede che accogliamo quei buoni desideri che Egli forma in noi: quando vede che abbiamo la volontà di operare unicamente per la sua gloria, che ci diamo interamente a Lui e cerchiamo il soccorso della sua grazia, allora ci abbraccia, ci eleva, ci santifica e fa che operiamo in ispirito e verità: ma non permetterà che l’anima lo senta, e ciò per divezzarla dalla carne e conservarla in una più grande santità e in un maggior distacco da sé stessa. È questo lo spirito di tutta le religione cristiana, spirito che a tutti i fedeli dà la vita con la virtù di operare nella santità e nella giustizia. In questo spirito, adunque dobbiamo incessantemente immergerci, distaccandoci da noi stessi, giusta il precetto di Nostro Signore: Colui che vuole seguirmi, rinunci a sé  stesso, prenda la sua croce e venga dietro a me (Matth. XVI, 24). Il vero discepolo di Gesù Cristo che vuole vivere come Lui, deve rinnegare sé medesimo in tutta verità come ha fatto Gesù Cristo; deve evitare di compiacersi in sé medesimo; Cristo non ebbe riguardi a sé stesso, Christus non sibi placuit (Rom. XV, 3) ma stare interamente unito con quel divino Spirito che esso possiede in sé medesimo e seguirlo, imitando la condotta  di Gesù Cristo, che non ha mai fatto la sua volontà. Gesù Cristo viveva in una perfetta aderenza allo Spirito di Dio suo Padre, e teneva l’anima sua sempre unita a Lui nella parte superiore e principale mentre permetteva che nella sua carne e nella parte inferiore dell’anima sua sorgessero ripugnanze e contraddizioni: Tale era la contraddizione che Egli subiva in sé stesso contro sé stesso. Così, se vogliamo seguire Nostro Signore. dobbiamo aderire continuamente allo Spirito per una decisa volontà che ci mantenga sempre fermi in ogni nostro dovere in mezzo alle croci ed alle contraddizioni, e ci elevi a Dio, senza che ci prendiamo compiacenza in noi medesimi, mentre la nostra carne, la quale vuole tutto al contrario di ciò che deve volere e perciò non può star soggetta, è sempre in contraddizione con quello Spirito divino. La carne desidera il contrario di ciò che lo spirito desidera: orbene, in tale contraddizione, bisogna che quella parte di noi che è lo spirito aderisca allo Spirito Santo, con cui deve essere perfettamente unita nei desideri e nella volontà, partecipando alle qualità di Lui che sono infinitamente lontane e al disopra della carne, benché nella parte inferiore, l’anima sia ancora aderente alla carne. In tal modo dobbiamo costantemente odiare l’anima nostra in quanto essa anima la carne e deve subire in sé stessa questa contraddizione come una croce continua e perpetua. Se alcuno vuol venire con me. rinneghi sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua. Si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam et sequatur me (Luc. IX, 23).

FINE

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 22

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (22)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XIV

Della carità verso il prossimo

II.

Segni della vera e perfetta carità verso il prossimo.

La vera carità è universale, senza sensibilità, instancabile e senza egoismo. – Si rallegra dei beni altrui come se fossero suoi. – esempio di Gesù Cristo, — di santa Elisabetta. – di di Maria SS.; dei Beati; — della Chiesa della terra.

La vera e perfetta carità si fa conoscere dal grande amore che si ha per tutti gli uomini. Essa vorrebbe tutto infiammare, a segno di trasformarsi in fuoco, ardore e zelo per portar dappertutto la conoscenza e l’amore di Dio. Questa carità universale non deve essere una chimera, come si vede in molti che si mostrano infiammati di zelo generoso, ma per ispirito di superbia; il loro amor proprio si compiace nelle cose grandi e vuole occuparsi in opere appariscenti e straordinarie. La vera carità deve mostrarsi verso qualunque prossimo in particolare, a tutti si deve voler bene e far del bene per quanto si può, prestando a ciascuno, nelle sue necessità, l’assistenza dei nostri beni e dei nostri conforti, e procurando di accontentare, con dolcezza e con cordialità cristiana, tutti  coloro che ci domandano qualche sollievo. – La pura carità è scevra di tenerezza esteriore e sensibile, di estrema espansività. Essa attira i cuori a sé con tale purezza che, mentre li conquista tutti, e per una segreta azione di Dio, se li tiene intimamente vincolati e uniti, pure esternamente non li tiene legati: è questo un effetto della libertà dell’amor santo e puro che tiene liberi da legami sensibili ed esteriori coloro che sono legati ed uniti in Dio. Questa divina carità non si esaurisce né si stanca mai; essa dà modo al prossimo di ricorrere a noi in qualunque luogo e in qualunque occorrenza, senza timore di ripulsa. – Un altro effetto meraviglioso che sempre l’accompagna e ne è un segno infallibile, è questo ch’essa mantiene tutto nella unione, senza mai attrarre nessuno a sé stessa in modo da separarlo dagli altri, né distratto dai propri doveri né dai propri obblighi. Essa nel suo amore mantiene tutte le cose in una vicendevole unione, è come un centro dove tutte le linee convergono e vengono a riunirsi. Mentre la falsa carità divide le persone unite onde attirarle esclusivamente a sé medesima, la vera carità tiene unite le persone più distanti per le loro inclinazioni; e per opera delle sue cure le persone più divise sono mantenute in società.

***

La perfetta carità verso il prossimo ci fa godere, con Lui, per i suoi beni come se fossero nostri. In quella guisa che Dio si compiace nei beni del Figlio suo, e il Figlio suo si compiace pure dei beni dello Spirito Santo come di beni suoi propri: così dobbiamo rallegrarci del bene di Dio nel prossimo, considerandolo come bene nostro. Donde avviene che, se abbiamo in noi la carità perfetta veramente operata da Dio nel nostro cuore. Dio gioirà e si dilaterà in noi in presenza dei beni del prossimo.

***

Così Nostro Signore, per l’operazione dello Spirito Santo (In Ipsa hora exultavit Spiritu Sancto. Ecc. X, 21) provava una grande gioia interiore alla presenza dei suoi Apostoli che gli riferivano gli effetti ammirabili che il Padre suo operava sopra le loro persone; godeva di vederli rivestiti dei doni e delle ricchezze del suo Spirito, godeva inoltre Gesù Cristo in anticipazione, per tutte le operazioni di cui, per i meriti della sua morte, la sua Sposa sarebbe un giorno da quel divino Spirito ornata ed arricchita. Era questo un mistero nascosto agli occhi dei sapienti e dei prudenti; esso non sarebbe conosciuto che dai piccoli, perché questi, essendo sottomessi alla direzione della Chiesa e dei suoi Capi, vedrebbero che la cosa più debole nella natura, vale a dire, il Figlio di un operaio, povero, meschino e miserabile agli occhi del mondo, muoverebbe tutto il mondo e rovescerebbe tutti gli Stati, le monarchie e gl’Imperi, per la virtù e l’efficacia del suo dito, che è lo Spirito Santo nei- suoi. doni; questi doni, riguardo allo Spirito Santo considerato nella sua sostanza, non sono che come il dito dell’uomo in confronto di tutto il corpo.

***

Così in San Giovanni Battista (Luc. I) e in Sant’Elisabetta, lo Spirito di Dio godeva per la gloria della Vergine Santissima. Stupenda grandezza di Maria innalzata alla dignità di Madre di Dio e di Sposa nell’Eterno Padre! Principio insieme col Padre della generazione temporale del Verbo, essa operò con Lui nell’Incarnazione ciò che Egli fa da solo nell’eternità. L’eterno Padre l’ha associata alla propria fecondità nella generazione reale del Figlio suo, ed è questa l’operazione più ammirabile, la grandezza più divina di cui una creatura possa essere onorata. La più alta, più sublime e più perfetta virtù dell’Altissimo è la sua fecondità. Ed è questa ch’Egli comunicava alla Vergine, come alla sua Sposa, per operare in essa la generazione temporale del Verbo Eterno. In pari tempo Maria era costituita Tempio dello Spirito Santo, nella pienezza più pura e più abbondante che fosse possibile. Siccome era destinata ad essere Madre di Gesù Cristo, essa aveva ricevuto la pienezza della grazia, come l’Angelo dichiarava con queste parole: Ave gratia plena, Vi saluto piena di grazia (Luc. I, 28). Perciò Maria è la creatura più pura, più divina e più perfetta che possa esservi. Da tale pienezza e perfezione procede appunto la sua fecondità materna, come la fecondità di Dio nasce dall’esuberanza della sua perfettissima sostanza e del suo Essere divino. In tal modo, le piante non producono il frutto che dalla sovrabbondanza e dal sovrappiù della linfa che possiedono. – Ma questa Madre ammirabile, benché fosse già ripiena della perfezione necessaria alla fecondità divina, riceveva ancora grazie e doni in una sovrabbondanza oltremodo prodigiosa. Per questo l’Angelo le diceva: Spiritus Sanctus superveniet in te, Lo Spirito Santoscenderà sopra di voi (Luc. I, 35), per operare invoi cose grandi, che sorpassano tutta lapienezza dei beni che Egli vi ha già comunicati.Era questo l’oggetto della gioiadi Sant’Elisabetta che si rallegrava dellagloria e della esaltazione della sua cugina,come se fosse sua fortuna propria. Parimenti,la Vergine SS.. contemplando nelsuo seno Gesù Cristo presente con la pienezzadella divinità del Padre, esultavapure in ispirito; si rallegrava dei beni conferitia Gesù Cristo in virtù della pienezzadi Dio che stava in Lui e lo aveva rivestitodei tesori della sua sapienza e della suascienza. Era questo il grande oggetto dellagioia di Maria: Esulta il mio Spirito inDio mio Salvatore! (Luc. I, 27).La Vergine si rallegrava e godeva, inoltre, perché il Figlio suo rivestirebbe poie riempirebbe la Chiesa della sua pienezza(Joan. I, 16), poiché, col suo divino Spirito, renderebbetutti i fedeli partecipi della suagloria e dei suoi doni.

***

Così ancora i Santi tutti del cielo si rallegrano dei doni che possiedono e se ne rallegrano gli ini per gli altri; ciascuno di essi prende parte alla felicità di tutti come se fosse la sua propria. Infatti, quei doni sono tutti comuni in virtù della comunicazione vicendevole, reale e perfetta che se ne fanno gli uni agli altri; avendo essi una dimora comune gli uni negli altri, si comunicano a vicenda tra loro i doni di Dio. Per un’ammirabile somiglianza con la SS. Trinità, i Santi fruiscono di una specie di circuminsessione, dimorando gli uni negli altri, come le Persone divine ed eterne dimorano l’una nell’altra per la loro circuminsessione. Nostro Signore c’insegnava appunto questo mistero con queste parole « Come io sono nel Padre mio e mio Padre è in me (Joan. XVII, 23) per la comunicazione della sua sostanza e della sua vita, e che nondimeno il Padre rimane tutto ciò che è ed io pure rimango tutto ciò che sono: così pure di voi. Io sono similmente in voi e voi siete tutti consumati in me, come mio Padre ed io siamo identificati nella semplicità ed unità di una medesima essenza. – E come mio Padre ed io siamo distinti per il nostro carattere personale, benché i nostri beni siano comuni e che dei tesori e delle ricchezze della sostanza divina che ci è comune, nulla sia da noi posseduto in proprio: così di voi, benché siate tutti consumati in me, ciascuno però rimane ciò che è, ciascuno conserva il suo essere particolare, ciascuno conserva la distinzione dei suoi doni, delle sue grazie e del suo carattere proprio ». Tale è lo stato dei Santi; essi possiedono tutto Gesù Cristo, il quale è la loro sostanza comune; ciascuno possiede tutto lo Spirito e tutta la vita di Gesù Cristo, purtuttavia uno non è l’altro, ma ciascuno conserva il suo carattere proprio e il suo dono proprio.

***

Così, nella S. Chiesa della terra non meno che in quella del Cielo, tutti i fedeli in particolare possiedono Gesù Cristo nella sua pienezza, tutti sono partecipi dei suoi doni, tutti ricevono comunicazione delle sue intime disposizioni, tutti hanno parte al suo Spirito, il quale è uno Spirito di gioia che si dilata nel darsi e nel diffondersi nel cuore dei fedeli; perciò tutti devono rallegrarsi dei beni di tutti, come se fossero propri. Così vediamo che quando questo Spirito viene dato a qualche anima in particolare, tutte le anime pure ne risentono e ne provano gioia. S. Antonio al suo tempo era appunto una di quelle anime in cui lo Spirito di Dio si prendeva le sue maggiori compiacenze; perciò la sua morte riempì la Chiesa di dolore, perché quel medesimo Spirito cessò di comunicarsi a lui, su la terra, in quella gioia e in quella effusione di cui le anime della Chiesa militante erano rese partecipi, quando egli lo riceveva. – Dio in tutto sia benedetto, per i beni che fa alla Chiesa nel Cielo, come di quelli che comunica alla Chiesa della terra, e dei quali ciascuno in particolare viene reso partecipe!

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 21

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (21)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XIV

Della carità verso il prossimo

Essendo noi creati a somiglianza di Dio, dobbiamo amarlo come Egli ama sé medesimo. — L’amore vicendevole delle divine Persone, motivo, tipo e modello della carità verso il prossimo. – Amare il prossimo come Gesù Cristo è amato dal Padre e ama noi.

Dio. nel creare l’uomo a sua immagine e somiglianza non gli ha comunicato soltanto il proprio essere, la propria vita e le proprie divine perfezioni; ma ha voluto ancora che esso fosse simile a Lui nelle operazioni. Perciò Dio, come ama se medesimo in tutto quanto è, e in tutta l’ampiezza del suo Essere e del suo potere, non potrebbe avere per sé medesimo, un amore maggiore: così ha fatto all’uomo il comando espresso di amarlo con tutto il cuore, con tuta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze. Dio vuole che l’uomo, tutto quanto, sia interamente impegnato ad amarlo, e in questo amore si perda e si consumi. E siccome Egli, per sè stesso, è tutto Amore, e fuori di sé tutto ha fatto per amore di sé medesimo, così vuole pure che l’uomo unicamente per amore di Dio usi delle sue proprie forze ed eserciti la sua propria attività. Orbene, Dio non solamente ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, ma ha pure formata la società umana sul modello della società delle persone della SS. Trinità. Perciò. nell’istesso modo che, in questa adorabile società, il Padre ama il Figlio suo come sé stesso e ama sé stesso nel Figlio suo, e lo stesso è da dirsi dell’amore del Figlio verso il Padre e verso lo Spirito Santo, come dell’amore dello Spirito Santo verso il Padre e il Figlio: così Dio vuole che l’uomo ami il prossimo suo come sé medesimo. Donde avviene che ci ha dato questo comandamento: amerete il vostro prossimo come voi stessi (Deuter. VI, 6), comandamento che Gesù chiama simile al primo (Matth., XXII. 36) perché è conforme alla vita divina ed eterna delle persone della SS. Trinità. In tal modo appunto, Nostre Signore ci ha amati; parlando dell’amore che porta agli uomini, dice che è simile all’amore che il Padre porta a Lui: Come mio Padre mi ama, così vi ho amati (Giov. XV, 9), ossia il medesimo amore che il Padre ha per me, io l’ho per voi; ciò che ci dimostra che l’amore che Egli ha per noi è sul modello di quell’amore che il Padre porta a Lui medesimo, ed è un’imitazione di quell’amore che ciascuna Persona divina porta all’altra, amandola come un’altra sé medesima. Nostro Signore vuole pure che gli uomini si amino tra loro allo stesso modo. Perciò diceva ai discepoli: Amatevi l’un l’altro come vi ho amati, Sicut dilexi vos (Giov. XV, 12). Come l’amore che il Padre ha per me è la forma dell’amore che ho avuto per voi, così voglio che voi pure vi amiate l’un l’altro sul modello dell’amore che io stesso ho per voi, affinché il vostro amore sia tutto conforme e simile a quello di mio Padre.

I.

Condizioni della carità verso il prossimo.

Amare il prossimo come Dio ama se stesso in Lui. — Amare Dio nel prossimo come lo amiamo in noi. La carità non deve aver limiti, ad imitazione dell’amore con cui Dio ama se stesso nel suo Verbo. — Come ci ha amati Gesù Cristo.

Le qualità e condizioni dell’amore verso il prossimo, devono essere simili a quelle dell’amore con cui Dio ama se stesso nel Figlio suo e con cui il Figlio ama gli uomini: dobbiamo amare gli uomini come Dio ama il Figlio suo e come il Figlio ama gli uomini. – Perciò, gli esempi esterni dell’amore di Gesù Cristo verso gli uomini devono essere il modello di ciò che la carità ci obbliga di fare esternamente per il prossimo; e il suo Spirito interiore ch’Egli ci ha dato deve reggerci ed animarci interiormente di quella medesima carità. Perché non si può né praticare né adempiere perfettamente quel santo precetto, senza l’opera di quello Spirito che è Dio medesimo. Dio abita in noi,  ma abita anche nel prossimo, e nel prossimo, mediante il suo Spirito, ama pure sé stesso; perciò, ci fa amare il prossimo come Egli ama sé medesimo. Egli si trova tutto nel prossimo, e siccome dappertutto ama sé medesimo secondo il suo proprio merito, perciò nel prossimo Egli ama sé stesso infinitamente. Epperò, siccome Egli anima il nostro cuore e lo riempie del medesimo suo amore, quindi ci stabilisce nella sua vita, nei suoi movimenti e nelle sue medesime inclinazioni; perciò l’anima cristiana, assecondando i sentimenti e le disposizioni del divino Spirito, ama il suo Dio, nel prossimo, del medesimo amore e con lo stesso ardore con cui ama Dio in sé medesimo. L’anima deve amare sé stessa unicamente in Dio, vale a dire, in quanto Dio l’anima e la riempie: deve amare sé stessa in Dio, come Dio ama sé stesso, perché è resa partecipe della vita di Dio. Così essa deve amare col medesimo amore il suo Dio e sé medesima; e siccome Dio trovasi pure nel prossimo, amare con l’amore medesimo con cui ama Dio in sé medesima.

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Dio, amando sé stesso nel suo Verbo, si dà infinitamente a Lui, in tutta pienezza, senza nulla riservare né dei suoi beni né della sua gloria; Egli è tutto nel Verbo, in Lui stabilisce la sua dimora, in Lui trova la propria beatitudine come in sé medesimo; e benché ciò faccia per necessità, non lascia però di farlo per amore, tantoché lo fa per amore necessario: la necessità in Dio non può essere un impedimento all’amore, perché Dio è Amore in tutto sé stesso. Così dobbiamo fare, noi pure, riguardo al prossimo: dobbiamo amarlo con tutta la nostra persona, comunicarci a Lui di cuore e d’anima, con l’aiuto e con l’assistenza; in una parola, non dobbiamo avere nulla che non siamo disposti a dargli, senza nessuna riserva. – I primi Cristiani, perché vivevano della vita di Dio, secondo la regola dell’amore che Dio prescriveva loro e che lo Spirito Santo faceva lor seguire, avevano tutto in comune come Gesù Cristo ha tutto in comune col Padre suo: Tutte le cose mie sono tue, e tutte le cose tue sono mie (Joann. XVII, 10). E come in Dio non v’è che un solo Spirito, una sola volontà vivente in tre Persone con perfetta unità di sentimenti, di pensieri e di desideri, così i primi Cristiani, come sta scritto, non avevano che un’anima, un cuore e una stessa volontà (Act, IV, 32). In tal modo i Santi in Cielo vivono in una perfetta unità: tale deve essere pure quella di tutti i fedeli sulla terra.

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Nostro Signore, in questo, ha mostrato che Egli per il primo praticava quanto prescriveva agli uomini, e che adempiva la legge del Padre suo. Essendo il primogenito tra i suoi fratelli, Egli doveva per il primo ubbidire perfettamente al Padre e servire a noi di modello e di forma per la condotta perfetta della nostra vita. Egli imitava il Padre suo nell’amore eterno che il Padre gli porta; quindi, nella sua vita, manifestava che ci ama come suo Padre l’ba amato da tutta l’eternità (Joan. XV, 9). Vi ho amato come il Padre mio mi ha amato. Mio Padre mi dà tutta la sua sostanza, ed Io vi comunico la mia nel mio santo Sacramento e nella Comunione. – Mio Padre mi comunica e mi dà la sua vita: ed Io vi dò la mia vita, non solo l’ho sacrificata sulla Croce, non solo vi ho dato il mio sangue sino all’ultima goccia, ma pure vi comunico anche il mio Spirito che è la mia vita. – Mio Padre mi comunica le sue ricchezze e i suoi tesori, ed io vi comunico i doni del mio Spirito. – Mio Padre mi dà la sua fecondità, cosicché dò origine ad una persona divina, e Io vi dò la mia stessa fecondità per produrre e generare dei figliuoli a Dio ed alla vita eterna. – Mio Padre mi ha dato ogni potere in Cielo e sulla terra, mi ha dato potere sopra la natura per farne ciò che voglio e cambiarne l’ordine quando e come mi piace; ed Io. con la presenza del mio Spirito, vi ho dato la forza e la virtù di compiere gli stessi prodigi ed altri più grandi ancora. quando ne sia bisogno per la gloria del Padre mio e per il bene della sua Chiesa. Non ho nulla ch’Io non vi doni; tutto quanto è in me, tutto desidero vi sia comune con me, nello stesso modo che tutto quanto il Padre mio possiede, tutto mi è comune in Lui. – Infine, come il Padre mio mette in me tutto quanto ha e tutto quanto è in sé medesimo, così Io metto in voi tutto quanto ho e tutto quanto sono. Ecco la legge della vera e perfetta carità verso il prossimo.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 20

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (20)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935 Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XIII.

Dell’ obbedienza

Suppone il distacco dalle creature e soprattutto dal proprio spirito.

L’obbedienza è quella virtù che ci inclina a seguire in tutto la volontà di Dio. Il grande ostacolo a questa virtù è l’attacco alle creature, e soprattutto a noi medesimi, perché tali attacchi ci fermano e ci impediscono di correre nella via dei comandamenti di Dio. Per questo motivo, nell’ordine dei voti di religione, si incomincia dalla povertà e dalla castità e si finisce all’obbedienza, perché è necessario essere sciolti e liberi dai beni esteriori del mondo e dai piaceri della carne, per poter camminare liberamente nelle vie di Gesù Cristo Nostro Signore. Per questo ancora, S. Paolo ci avverte di offrire prima i nostri corpi come vittima e poi di prestare una ubbidienza ragionevole (Rom. XII, 1), così egli suppone che la morte al corpo e a tutti i piaceri del corpo, come cosa indispensabile, per la perfetta obbedienza. Oltre questo grande ostacolo all’ubbidienza che è l’attacco ai beni del mondo e ai piaceri della carne, ve n’è un altro ancora più funesto, ed è l’attacco allo spirito proprio, attacco che impedisce la volontà di sottomettersi agli ordini superiori. È questo ciò che Nostro Signore chiama la prudenza della carne, di cui parla per bocca dell’Apostolo, come della nemica giurata di Dio: La prudenza della carne è morte; essa è nemica di Dio; non è né può essere sottomessa alla legge di Dio (rom. VII, 6-7).

Motivi dell’obbedienza.

..perché creature; perché  figliuoli di Dio; — esempio di Gesù Cristo, che vivendo in noi vuole continuare in noi per mezzo nostro l’obbedienza al Padre suo; – perché schiavi redenti da Gesù Cristo cui apparteniamo; — perché vittime, essendo noi incorporati a Gesù Cristo; — perché templi dello Spirito Santo; — perché come Cristiani siamo in stato di morte.

Il primo motivo dell’ubbidienza è la nostra qualità di creature; perché in questa qualità, dobbiamo stare in un’intera dipendenza dalla volontà di Dio, che dà ad ogni cosa vita, movimento e esistenza (Act. XVII, 28). Dio, essendo /l’Essere universale e sovrano, governa tutto il mondo: tutto ubbidisce al suo Impero e alla sua voce. Bisogna dunque che ogni creatura sia sottomessa a Lui come all’Essere supremo. Quando noi si ubbidisce a qualche superiore, dobbiamo sempre tenere davanti agli occhi della fede l’Essere divino, rappresentato dalla creatura che ci parla e ci governa. Quando sentiamo qualche comando che ci viene fatto o troviamo qualche regola da osservarsi non dobbiamo sentite altre che la voce di Dio.

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Il secondo motivo è la nostra qualità di figliuoli di Dio; è proprio d’un figlio ubbidire al padre suo, perciò Nostro Signore, come Figlio perfetto dell’Eterno Padre, gli ubbidì dal primo istante di sua vita sino alla sua morte (Fil. II, 8). Egli visse trent’anni nell’ubbidienza a S. Giuseppe ed alla sua santissima Madre, considerando l’uno e l’altra come immagini di Dio suo Padre. Il Vangelo non fa cenno per tutto quel tempo di nessun’altra virtù, in Gesù Cristo, che della sua sottomissione e della sua ubbidienza; Egli uscì dal mondo nel modo con cui vi era entrato: era entrato nel mondo e vi era vissuto per ubbidienza: per ubbidienza ancora ne uscì con la morte. Nostro Signore, nel rigenerarci, ci riempie del suo spirito e della sua vita; viene a vivere ed operare in noi alla gloria del Padre suo in quella stessa maniera che operava in sé medesimo; Egli viene a vivere in noi per muoverci secondo la direzione degli ordini del Padre suo e secondo il desiderio che vede nel Padre in riguardo a ciascuno di noî (Joan. V. 19). Nella sua vita mortale Egli teneva sempre l’occhio fisso in Dio suo Padre, e con la massima precisione aspettava i momenti della di Lui divina volontà. Orbene, il suo disegno è di continuare in noi la stessa esattezza, eseguendo con la medesima puntualità gli ordini del Padre suo. Egli vuole quindi tenerci soggetti al suo divino Spirito, onde operiamo sotto di Lui nella medesima dipendenza; perciò ci dà quello Spirito divino che ci fa operare, sotto la sua mozione, come veri figli di Dio.

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Il terzo motivo è la nostra qualità di schiavi riscattati, per effetto della redenzione, dal giogo del peccato e dalla dominazione, del demonio. Nostro Signore nel redimerci, liberandoci da tale funesta e maledetta schiavitù, ci ha assoggettati al Padre suo e ci ha ristabiliti sotto il suo benefico dominio. Apparteniamo dunque a Gesù Cristo come a Colui che ci ha redenti. Non appartenete più a voi stessi, ha detto l’Apostolo, Jam non estis vestri (1 Cor. VI, 26). Siete, infatti, proprietà di Gesù Cristo che vi ha riscattati col prezzo del suo sangue, perciò non potete più pretendere di vivere indipendenti, perché non avete più diritti propri; da un dominio siete passati in un altro; dalla tirannia del demonio siete passati nel dominio di Gesù Cristo, essendo diventati familiari della sua casa e sudditi del suo Regno. Il Cristiano adunque, per l’inclinazione dello Spirito e della grazia di Gesù Cristo, deve star sottoposto alle leggi di Lui, che è il suo Re, e deve gloriarsi di esserne vassallo; perciò deve vivere per Lui e non per sé. Non sapremo, infatti, vivere per noi stessi, senza infedeltà, senza ingiustizia, senza fellonia, senza che Gesù Cristo abbia il diritto di muoverci severissimi rimproveri.

Il quarto motivo è la nostra qualità di vittime. Nel medesimo tempo, infatti, che Gesù Cristo Nostro Signore ci conquista a sé stesso, ci offre pure a Dio, ci dà al Padre suo e ci consuma con sé medesimo come vittime di Lui. Dimodoché in quella guisa che una vittima consacrata a Dio e destinata al sacrificio, perde ogni diritto sopra di sé medesima, noi pure non abbiamo più nessun diritto sopra di noi. Dal momento infatti che Nostro Signore ci ha legati a sé, ci ha incorporati in sé medesimo mediante il battesimo, noi siamo consacrati, in Lui, agli altari del Padre suo, siamo come morti a noi stessi e viventi a Dio in Gesù Cristo. – Consideratevi, dice Paolo, come morti al peccato, ma vivi a Dio in Gesù Cristo Signor nostro (Rom. VI, 11). Non apparteniamo dunque più a noi, ma solo a Dio, in attesa della immolazione e del sacrificio, in quella maniera che le vittime aspettavano dal sommo sacerdote il momento della loro morte e del loro sacrificio. Non abbiamo più nessun diritto su la nostra vita, né sul nostro essere; le nostre facoltà non sono più nostre né possiamo più usarne a nostro piacimento, ma devono essere come morte in noi; abbiamo anche perduto il diritto di usare dei nostri sensi. – Dio solo ha diritto a tutto quanto vi è in noi. Dio solo ha potere di usarne come vuole per il suo servizio, perché a Lui apparteniamo in virtù di una consacrazione particolare: Egli solo ha diritto di disporre di noi, come il sommo Sacerdote aveva diritto di disporre delle vittime.

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Il quinto motivo è la nostra qualità di templi dello Spirito Santo. Solo lo Spirito Santo deve essere l’anima nostra e la nostra vita; solo deve muoverci e dirigerci (Rom. VIII, 14). Dobbiamo dunque rinunciare completamente alla nostra volontà propria e annientarla per lasciarne il posto allo Spirito Santo, affinché, nel suo potere supremo, Egli solo ci vivifichi e ci diriga come membri di Gesù Cristo. – Nostro Signore avendo scacciato lo spirito maligno del demonio dal suo tempio che siamo noi, ci ha riempiti dello Spirito Santo, perché la sua casa sia da Lui occupata e quel divino Spirito sia il governatore fedele di tale fortezza. Per mezzo dello Spirito Santo, il Cristiano diventa una nuova creatura; perciò quel medesimo Spirito distrugge e consuma la volontà per prenderne ed occuparne stabilmente il posto. Dimodoché, come Egli è la volontà personale di Dio, vuole pure riempire la volontà umana della sua presenza onde renderla divina, ed annientarvi così quella maledetta facoltà che è la micidiale rovina del Cristiano. La volontà propria è nemica giurata della salvezza; essa si mette al posto di Dio. Dio solo ha diritto di reggerci e la volontà invece vuole essa disporre di noi; così essa prende ed occupa davvero il posto di Dio.

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Il sesto motivo è il titolo di morti che noi portiamo come Cristiani. Voi siete morti, dice S. Paolo; dobbiamo dunque essere morti a tutto il nostro essere proprio e soprattutto alla nostra volontà propria, la quale è la sorgente e la radice della vita di Adamo in noi. Questo ci fa intendere il grande obbligo che sopra tutto ci incombe di annientare la nostra volontà, perché dalla sua morte dipende la morte di tutte le nostre operazioni proprie. Con questa morte, tutto è vivente; senza di essa, nulla può vivere. Perciò dobbiamo esaminare senza posa i nostri desiderii propri onde annientarli, impedire che diventino attacchi. Il desiderio non costituisce l’attacco; ma se lo assecondiamo e volontariamente ci lasciamo andare a quelle cose esso ci porta, allora si trasforma in attacco. Se poi siamo indulgenti per l’attacco e lo rinforziamo con frequenti compiacenze, allora si forma l’abitudine; dimodoché la volontà si concentra e si perde in sé stessa come in un abisso, né potrà, senza grandi difficoltà, rialzarsi e trarsi fuori dal precipizio. – Bisogna dunque aver gran cura di soffocare i desideri che sono i primi attacchi della vita della volontà propria; appena nati, i desideri sono ancora deboli e senza vigore, e si possono facilmente distruggere perché non sono ancora cambiati in abitudini precise e forti. Le abitudini e gli attacchi trascinano la volontà e se ne impadroniscono a tal segno che essa non sa come difendersene; i desideri invece sono come bambini che essa soffoca a suo piacimento.

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Il settimo motivo è la mostra qualità di peccatori, che ci obbliga ad essere senza volontà propria; perché, come penitenti, dobbiamo, con zelo di giustizia, distruggere quel posto dove venne commesso il  delitto di lesa Maestà. Nella giustizia umana, ai briganti si taglia la mano o la testa, si rasano le loro fortezze e i loro castelli. Così bisogna distruggere la volontà propria che è il luogo di rifugio per tutti i rivoltosi e i delinquenti, vale a dire per tutti i nostri desideri e tutte le nostre passioni. Essa è la potenza che ha commesso il delitto, che lo ha deciso, combinato e ordinato; quindi deve avere la testa tagliata. Essa è la madre che ha concepito tutti questi maledetti mostri, che sono i nostri desideri maligni; e questi, li dobbiamo ad ogni ora soffocare appena compaiono, e ciò sino alla terza ed alla quarta generazione. Chi non odia l’anima sua, vale a dire, la volontà propria, non può essere discepolo di Gesù Cristo (Luc. XIV, 26). Non v’ha nulla che dobbiamo temere e fuggire come la nostra volontà propria; essa tutto deruba a Dio perché in ciò che fa non può mai guardare a Lui. Sempre è rivolta a sé stessa e occupata di sé stessa; non produce nulla che per sé medesima. Lo Spirito Santo, il quale è quella volontà personale in Dio che incessantemente e inflessibilmente considera e cerca Dio, con la sua presenza in noi raddrizzerà la nostra volontà; Egli solo nella sua virtù la innalzerà sino a Dio. Dobbiamo dunque aver gran cura di lasciarci possedere e reggere da questo divino Spirito di rettitudine e di santità; dobbiamo lasciare che la nostra volontà si riempia della volontà di Gesù Cristo che abita in noi e dà vita all’anima nostra. Così noi adempiamo quanto dice l’Apostolo: Riformatevi col rinnovamento della vostra mente per ravvisare quale sia la volontà di Dio, buona, gradevole e perfetta (Rom. XII, 2). In Gesù Cristo noi adempiamo tutti i voleri di Dio, sia quelli che Dio ci manifesta coi suoi precetti, sia quelli che esprime coi suoi consigli, sia quelli che opera Egli medesimo nel suo proprio volere e nella sua propria volontà vivente in noi, la quale è la volontà perfetta.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 21

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 19

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (19)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XII

La castità

Somiglianza con gli angeli, con Gesù Cristo risorto, con Dio medesimo. -— Male dell’amor sensuale.

La castità è una partecipazione della sostanza di Dio, che è spirituale e semplice, ma risplendente di bellezza. L’anima casta è un Angelo, perciò Nostro Signore dice che in Cielo saremo come gli Angeli: Sicut Angeli Dei (Matth- XXII. 30). L’anima casta è un’anima che è risorta in ispirito ed è della stessa natura di Gesù risorto, il quale, dopo la sua risurrezione, non ha più nulla della materialità e della viltà della carne, ma è spirituale come l’Angelo, divino come Dio suo Padre (Æquales angelis sunt et filii sunt Dei, cum sint filii resurrectionis. Luc., XX, 86). L’anima casta partecipa alla perfetta santità di Gesù e a tutte le qualità divine di Lui, che la trasformano nel più intimo del suo essere e le dànno quelle stesse inclinazioni e quei medesimi sentimenti di cui era ripieno il Figlio di Dio nello stato della sua risurrezione. È cosa meravigliosa che una creatura materiale come l’uomo, possa fin da questa vita, possedere la grazia di essere in tal modo simile all’Angelo, più ancora, di entrare in una simile partecipazione di Dio. Ma è tale sublimità cui non si giunge, se non dopo di aver combattuto a lungo, nello Spirito di Nostro Signore, con fortezza e fedeltà. – L’amore sensuale è una delle peggiori malattie dell’anima. L’anima che si lascia trascinare da tale amore bestiale, non è più un’anima, ma un cadavere fetente non più capace d’agire, ma solo di corrompere e di infettare tutto quanto gli si avvicina. Un’anima così corrotta diffonde una tale infezione che non v’è nessun rimedio sicuro per esserne preservati, fuorché la fuga. È un veleno che uccide non solamente colui che l’ha in corpo, ma talvolta anche chi tenta di portarvi rimedio.

Rimedi contro le tentazioni d’impurità.

Buona volontà. — Direzione di un buon confessore che sappia adattare i rimedi alla causa delle tentazioni. –  Durante la tentazione; pregare, umiliarsi, rifugiarsi interamente in Gesù Cristo, fare atti di abominio, distrarre la mente, confidare unicamente nella grazia, evitare le occasioni, ritirarsi in Gesù Cristo presente nell’anima.

È necessario dapprima che l’anima oppressa da queste sorta di tentazioni, abbia buona volontà di convertirsi e di uscire da un tale stato pericoloso. Orbene, essa dimostra questa buona volontà quando abbraccia volentieri le mortificazioni che le vengono proposte; in tal caso, chi deve curarla deve procedere con fiducia, e ordinarle tutto quanto si conviene per aiutarla a conseguire la guarigione. – In secondo luogo è necessaria la direzione di un buon confessore, che esamini in Dio la causa del male. Dico in Dio, perché chi volesse portar rimedio alle anime nel suo proprio spirito e con la sua propria forza, non riuscirebbe che ad aggravare il loro male, perché le priverebbe di quel giovamento che potrebbe procurar loro se si lasciassero condurre dallo Spirito Santo; né da Dio egli riceverebbe i lumi necessari per confortarle. Non bisogna presumere di portar soccorso alle anime, fuorché nello spirito di proprio annientamento e di rinuncia al proprio sentimento, ed invocando lo Spirito Santo onde operare nella sua santa luce e sotto la mozione della sua verace direzione. Con tali disposizioni, il confessore dovrà considerare l’origine del male, e esaminare se viene dalla natura o dal demonio, oppure da una particolare disposizione di Dio. – Se la tentazione proviene soltanto dalla carne per la violenza del sangue o la pienezza degli umori, si potrà procurare un sollievo per mezzo di rimedi esterni e corporali. Se le tentazioni vengono dal demonio, ai rimedi esterni bisogna unire i rimedi spirituali. Questa sorta di demonii, ha detto Gesù, non si scaccia se non coll’orazione e col digiuno (Matth. XVII, 30). La parola orazione comprende qui qualsiasi esercizio spirituale di elevazione a Dio: il digiuno comprende tutto quanto serve ad abbattere il corpo, perché questo effetto si ottiene in modo particolare col digiuno. Perciò Nostro Signore, nel Vangelo dice che bisogna adorar Dio in ispirito e verità, perché bisogna unire lo spirito con la mortificazione e col sacrificio vero e reale della carne. Ché se le tentazioni vengono da una particolare disposizione di Dio, che le permette per castigo di qualche vizio o infedeltà, si dovrà esercitare l’anima a sradicare i suoi vizi che sono causa delle tentazioni. Un’anima, per esempio sarà infetta di superbia, ed avrà stima di sé stessa per la sua scienza, per la sua pietà ed altri doni di Dio; talora potrà trovarsi animata da confidenza in sé medesima. In modo da credere di poter da sé preservarsi dal peccato, e particolarmente da quello della carne. In tal caso, Dio che non può soffrire la superbia, umilierà quest’anima sino al fondo; geloso di farle riconoscere che da sé stessa nella sua propria debolezza, non ha nessuna sua forza, tanto per resistere al male come per perseverare nel bene, e che ogni virtù ed ogni forza viene unicamente dalla grazia. Egli permetterà che sia molestata da tali orribili tentazioni, e talvolta persino che vi soccomba, perché sono le più vergognose e causano la maggior confusione. S. Paolo, nell’abbondanza dei doni che aveva ricevuti, venne con queste tentazioni preservato dalla vana gloria, per cui diceva « Che lo stimolo della carne gli era stato dato, onde schiaffeggiarlo, affinché la grandezza delle rivelazioni non lo innalzasse nella vanità » (II Cor., XII). Con questa parola schiaffi, l’Apostolo esprimeva la sua afflizione, indicando così quanto siano vergognosi ed ignominiosi tali assalti, e quanto, nei disegni di Dio, sia umiliante questa via. Quando, adunque, il Confessore trova un’anima così infetta di superbia, deve lavorare ad umiliarla ed annientarla in Gesù Cristo Nostro Signore; deve esercitarla a riconoscere il proprio nulla e la propria debolezza, e basterà questo esercizio interiore per procurare a poco a poco la guarigione.

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Orbene, mi sembra che l’applicazione di questo rimedio interiore dipenda particolarmente da due o tre atti che l’anima dovrebbe compiere in ispirito e che le si potrebbero proporre nel modo che segue: appena l’anima si sente tentata contro la santa virtù di purità deve in qualunque tempo gettarsi subito in ginocchio e alzar le mani al Cielo per implorare l’aiuto di Dio. Dico che, bisogna alzar le mani al cielo. non solo perché questa positura da sé stessa è già una preghiera davanti a Dio, soprattutto quando vi si aggiunga la buona disposizione dello spirito; ma ancora perché bisogna dare all’anima tentata questa espressa penitenza di non toccarsi mai durante il tempo della tentazione e di soffrir piuttosto tutti i martiri interni, tutte le molestie della carne ed anche del demonio, piuttosto che toccar se stesso. Questo male ha le sue molestie e i suoi martirii specie quando c’entra il demonio. Orbene, il primo atto che, in tale stato, l’anima deve compiere è un atto di umiltà, gridando al Signore: « Dio mio, io non sono niente, non sono che polvere e cenere: Pulvis et cinis. Non sono che un verme della terra: Vermis et non homo (Ps. XXI, 7). Non posso difendermi senza il vostro soccorso, o mio Dio! Con tutta giustizia soffro questa violenza; Domine vim patior; è il giusto castigo dei miei peccati: Iuste pro peccatis nostris patimur.Il secondo atto è di rifugiarsi interiormente in Gesù Cristo, per trovare in Lui la forza di resistere e per accrescere in noi la bella virtù contro la quale siamo tentati, virtù che Egli ben sa quanto sia fragile innoi. Egli vuole che siamo tentati perché. conosciamo così la nostra debolezza e il bisogno che abbiano del suo soccorso e quindi ci rifugiamo in Lui per attingervi la forza che ci manca.Il terzo atto che l’anima deve produrre è un atto di rinuncia e di riprovazione di tutto quanto avviene in essa contro la sua volontà. Dopo aver impiegato tutti questi mezzi per resistere, essa può senza turbamento starsene sottomessa alla giustizia Di Dio per sopportare una tal pena e una tale afflizione in castigo dei suoi peccati.In tal modo l’anima si perfeziona e si fortifica nella virtù, in pari tempo che soffre maggiori infermità e risente maggior debolezza; perché essendo obbligata dalla propria impotenza a ricorrere a Gesù Cristo,essa in Lui trova tutta la sua forza e tutta la sua vita.

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Un altro rimedio eccellente contro le tentazioni d’impurità è l’esercizio dello spirito, non solamente per cercare in Dio la forza necessaria, ma ancora per occupare la mente e togliere quel vuoto di cui abusa il maligno allo scopo di insinuarsi nel cuore. Ora, per occupare utilmente il nostro spirito, bisogna esercitarlo ad annientarsi davanti a Dio, e a riflettere quanto sia scarso il nostro potere di resistenza contro il peccato; riconoscendo che solo lo Spirito di Dio può preservarcene e che solo in Lui troveremo la sicurezza e la vita. La carne da sé stessa è tutta portata al male e particolarmente all’impurità; solo lo Spirito di Dio, regnando in noi, può trattenerci dall’acconsentire ai sentimenti che da essa provengono. –  Dobbiamo perciò riconoscere che la castità è un dono di Dio, una grazia che unicamente possiamo aspettare dalla sua bontà; a Lui quindi dobbiamo lasciare la cura di tenerci alieni dal peccato e di allontanarcene, mantenendo vivo in noi l’orrore a questo mostro. Bisogna in questo abbandonarci completamente a Dio senza nulla presumere di noi medesimi, altrimenti tutto è perduto.

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Bisogna inoltre fuggire con gran cura le occasioni di inasprire in noi il male; altrimenti dimostriamo di aver confidenza in noi medesimi; c’inganniamo miseramente, mentre ci persuadiamo che ci rimane ancora il potere di resistere. Se ci esponiamo al pericolo delle occasioni, noi meritiamo che Dio ci abbandoni a noi stessi, e così ci faccia sperimentare la nostra debolezza. È certo e sicuro che appena saremo abbandonati a noi stessi, noi cadremo; non possiamo stare in piedi, a meno che Dio non ci sorregga per una bontà affatto particolare. Questa bontà ci farà riconoscere che da Lui soltanto siamo stati preservati, ma Dio non ci continuerà questo favore se non eviteremo l’occasione del peccato. Ché se, dopo aver evitato le occasioni, la tentazione non cessa, il vero modo di combatterla e di esserne vittoriosi, sarà come abbiamo detto, di rifugiarci interiormente in Gesù Cristo presente nell’anima nostra, il quale si compiace di rivestirci delle sue virtù quando noi ci ritiriamo in Lui. Questa maniera di combattere gli piace estremamente perché manifesta la nostra infermità e in pari tempo la fiducia che abbiamo unicamente in Lui. Egli permette queste tentazioni affinché lo cerchiamo, ed Egli possa accoglierci nella nostra pena e nella nostra afflizione. In tal modo, noi ci mettiamo al sicuro delle violenze del demonio; perché questo maligno spirito è costretto a smettere di tormentarci e a lasciarci in pace, vedendo che dalle sue tentazioni noi ricaviamo frutto e vantaggio più che pregiudizio. L’anima riconoscerà, per propria esperienza, quante Dio approvi questo modo di combattere: e vedrà, per la gran pace e per l’istruzione meravigliosa che ne ricaverà, quanto sia utile, in quella sorta di tentazioni, resistere con la fuga, rifugiandosi in Gesù Cristo. Riconoscerà che in tali occasioni essa abbisogna di grandi forze che solo può trovare in Gesù Cristo; perché in sé medesima e nella sua carne essa non è altro che debolezza, né può pretendere col solo proprio sforzo di dissipare le fantasie disoneste, né di soffocare i sentimenti impuri; i suoi sforzi sarebbero inutili e non servirebbero che a rovinarle la testa e riscaldarle il sangue. Questo modo di operare con la violenza dello sforzo rende la tentazione più forte e più sensibile. Perciò è necessario che l’anima si risolva di ritirarsi interiormente in Gesù Cristo, abbandonandosi alla giustizia di Dio per subire tutte le pene e tutte le afflizioni che a Lui piacerà di mandarle.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 20

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 18

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (18)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XI

Della povertà

VII

Altri motivi della povertà.

Dio è tutto il nostro bene. — Chi ha vera fede non può attaccare il cuore alle cose visibili. — I Cristiani non sono di questo mondo, ma seguaci di un Capo povero; — missione di Gesù Cristo.

– Dio è l’unico nostro vero bene; Egli in sé stesso è il bene universale che soddisfa e compie pienamente tutti i desideri di coloro che lo possiedono. Le adorabili persone della S. Trinità sono infinitamente ricche e beate nel possesso dell’Essenza divina. Gli Angeli e Santi del cielo, nel possesso di Dio sono perfettamente soddisfatti nei loro desideri che sono di una capacità immensa. Così avviene pure dei giusti sulla terra, i quali essendo riempiti della sovrabbondanza di Dio, sono pienamente contenti e saziati da un tale godimento. Dio è talmente il nostro bene che è tutto il nostro bene; posseduto in grado anche minimo, ci accontenta e ci sazia più di tutti i beni del mondo. Questi non hanno nessuna consistenza, e l’uomo non vi può trovare nulla che riempia e soddisfi pienamente il suo cuore. Il nostro cuore, infatti, è creato per Dio che è il suo vero bene, quindi fuori di Dio non trova che vacuità, vanità e inganno: Dio solo può perfettamente saziarlo. Dio è così perfetto e contiene con tale eminenza e pienezza tutti i pregi delle sue creature, che nel minimo possesso e godimento di Lui noi gustiamo ogni sorta di beni, dimodoché coloro che lo possiedono, sia sulla terra sia in cielo, trovano in Lui ogni gioia, ogni soddisfazione, ogni riposo e ogni felicità. –  Era questa la verità che Nostro Signore voleva farci intendere, quando diceva che se saremo poveri di spirito, vale a dire distaccati da tutto, il Regno dei Cieli sarà nostro; ora, il regno dei Cieli è Dio medesimo che include in sé la pienezza di tutti i beni. Il Figlio di Dio è disceso dal cielo e venuto sulla terra, non soltanto per distaccarci dai beni del mondo, ma pure al fin di procurarci i beni veraci, mediante la privazione di quei beni che sono tali solo in apparenza. – Perciò i figli della fede non possono più attaccarsi alle cose visibili di questo mondo e neppure considerarle con amore; perché  la fede, che è il principio della loro condotta e della loro vita, li porta alle cose invisibili e fa che unicamente amino queste. I figli della fede sono morti ai sensi e alla generazione del loro primo padre; non possono più attaccarsi alla terra né perdersi nelle creature, non possono più amare questo mondo che venne fatto per Adamo e i suoi figli. – La fede ci fa considerare Dio come il bene unico e sovrano che trovasi nascosto in tutto ciò che si vede; ci fa considerare tutte le cose nella verità, in Dio di cui sono effetti e immagini e in cui sussistono; quindi ci obbliga a dire a tutte le creature: « Voi non siete che menzogna »; e a Dio invece: « Voi siete tutta la mia verità e verrà giorno in cui distruggerete tutte queste figure, per comparire Voi solo, come il vero ed unico mondo dei fedeli ». Dio non è soltanto l’unico vero bene che possa arricchire gli uomini, ma vuole ancora dare sé medesimo ai Cristiani che sono distaccati da tutto. Ad Adamo si era dato, ma nascosto sotto le creature tutte; vedendo poi che queste creature erano un pericolo per l’uomo perché lo distraevano e lo trascinavano alla rovina, Dio si è compiaciuto di sciogliersi e spogliarsi di tutto, per darsi tutto solo, nel Cristianesimo, in possesso alle anime. – Egli vuole perciò che i Cristiani sì contentino di possederlo spoglio di tutto, che si portino a Lui come si dà Lui medesimo, in perfetta nudità spirituale, senza altro mezzo per abbracciarlo e possederlo che la sola fede. È questo lo stato più santo che può esservi, cioè possedere Dio in sé stesso, tal quale Egli è, senza nessun ostacolo, senza nulla tra Lui e noi che ci trattenga e possa essere di impedimento o di inganno. Quando ci troviamo in tal stato, Dio ci riempie pienamente e ci sazia senza che in noi rimanga né vuoto né nausea. Nel Cielo Dio si dà in possesso ai santi, senza nulla di mezzo e senza figura; così vuole che l’anima del Cristiano sia vuota di tutto e libera da ogni cosa creata, disposta così a riceverlo in nudità spirituale e povertà di spirito. Beata quell’anima che in tale distacco da ogni cosa conosce è gusta il suo Dio! Felice lo stato dei Cristiani, poiché tutti sono chiamati a questa grazia.

***

I Cristiani non sono di questa mondo.  De mundo non estis (Joann., XV, 19). Il battesimo, essendo una nuova nascita, li trapianta pure in un altro mondo, li fa diventar cittadini di un’altra città e membri di un altro regno. Questo regno è il regno di Dio, nel quale veniamo introdotti dalla Fede, che ci mostra altre ricchezze da possedere e un altro Re da servire ed onorare, altri piaceri da godere, altra terra da abitare, altra aria da respirare, altra luce per dirigerci. Ora, il primo articolo dello statuto di questo regno, la prima condizione» richiesta per entrarvi, è la povertà: Qui non renuntiat omnibus quæ possidet, non potest meus esse discipulus. Chi non rinunzia atutto ciò che possiede, non può essere mio discepolo (Luc. XIV, 83). Beati i poveri di spirito perché ad essi appartiene il Regno dei cieli! Il gran Re di questo nuovo mondo è Gesù Cristo, ma Gesù Cristo è povero. I Principi della sua corte, i Santi Apostoli, sono poveri; la Signora e Regina di questo regno, la Madonna, è povera. Tutti i cortigiani e tutti i nobili, vi sono poveri; anche gli Angeli, vi sono privi di tutto. Come si potrebbe vedere un ricco in mezzo a tanti poveri? – Se alla corte in cui tutti sono ricchi, si presentasse un povero, vi sarebbe odioso e sarebbe subito scacciato. Parimenti nel Regno di Gesù, dove i cortigiani sono poveri, un riccone non può entrare e neppur presentarsi alla porta, senza esserne scacciato e vergognosamente respinto (Questo va inteso dell’attacco alle ricchezze e non del possesso). Nostro Signore scaccerà dal suo banchetto colui che non è rivestito della veste nuziale e ordinerà di gettarlo, mani e piedi legati, nell’inferno. La veste nunziale è la santa povertà; è questa la santa livrea dello Sposo. Egli stesso dichiara che i ricchi non possono venire accolti e ammessi al suo banchetto e nel suo regno: Oh! quanto è difficile che i ricchi entrino nel regno dei cieli! L’Epulone non vi entra, ma i poveri vi sono ben accolti con Lazzaro perché a loro appartiene il regno dei Cieli. Il regno dei Cieli non è di questo mondo. Qui si stimano felici i ricchi (Beatum dixerunt populum cui hac sunt, Ps. CXLII), ma nel regno di Gesù Cristo, la cosa è ben diversa: Beati pauperes: Beati i poveri! Il regno del mondo è un regno da teatro; il regno di Gesù Cristo è regno verace, e vi si regna eternamente.

VIII.

Il male dello spirito di proprietà.

Effetti micidiali dell’amor proprio.

Non v’è nulla di più contrario al Cristianesimo che lo spirito di proprietà Il Cristianesimo, infatti ha la sua origine in Gesù Cristo; ma Gesù Cristo forma i suoi membri sul modello di sé medesimo; orbene, Gesù Cristo, mentre è uomo, non ha personalità umana, ma sussiste nel Verbo. Perciò lo spirito del Cristianesimo vuole che i Cristiani dal tronco di Adamo siano trapiantati e trasformati sul Verbo incarnato, e siano da Lui vivificati e come innestati in Lui, e così non siano più in sé medesimi, né più vivano della propria vita, ma operino soltanto in Lui. (Rom., XI, 24; Joann., XV, 6-7). Di nulla dunque dobbiamo avere orrore come dell’amor proprio; questo ci priva della pienezza del Verbo, della sua vita e della sua azione in noi, e ci rende membra inutili nell’ammirabile Corpo mistico di Gesù, membra che non sono adatte a nessun bene vero e solido. Con l’abnegazione di noi stessi invece, saremo stabiliti in Gesù Cristo, nel suo corpo saremo tutto e in Dio saremo capaci di tutto; Perciò Nostro Signore, nel Vangelo, ha posto l’abnegazione come il primo passo che bisogna fare nella vita cristiana: Se qualcuno vuol venire dietro a me rinunci a sé stesso; perché lo spirito proprio, l’attaccamento a sé stesso, chiude la porta a Gesù Cristo. Egli, infatti, non può entrare nell’anima ripiena di sé medesima, né riempirla della sua vita divina; quindi lo spirito proprio è sorgente inesauribile di ogni sorta di mali e di peccati. Adamo, nello stato di innocenza, non era attaccato a sé medesimo, ma era tutto rivolto a Dio; col suo peccato si è reso proprietario, ossia tutto dedito a sé stesso e quindi padre di ogni peccato; e i suoi discendenti, avendo ricevuto da lui col peccato lo spirito di proprietà, in questo trovano la sorgente di tutti i vizi e di tutte le impurità. – L’amor proprio è un mostro spaventoso, mare orrendo di ogni peccato, come l’abnegazione è il compendio della perfezione e il principio della vita e delle virtù cristiane. Colui che vive nell’abnegazione, nella rinuncia a sé medesimo, non è più attaccato a nulla; non ha più né prudenza umana, né falsa sapienza, non ha più né  desideri propri, né volontà propulsoreria; perfettamente docile alle leggi dello Spirito, si abbandona senza la minima resistenza alla santa direzione ed alla divina mozione dello Spirito medesimo; in una parola egli entra nel regno e nel dominio di Dio.

IX.

Effetti contrari dell’amor proprio e dell’abnegazione.

Il Cristiano mosso dall’amor proprio:

Il Cristiano che pratica l’abnegazione:

1. Non pensa che a sé: è egoista.

1. Esce fuori di sé medesimo e pensa agli altri.

2. È pieno di sé medesimo.

2. È vuoto di sé medesimo.

3. Confida in se stesso e si appoggia su se stesso.

3. Diffida di se stesso e confida in Gesù Cristo.

4. Si occupa sempre di sé.

4. Dimentica sempre se stesso,

5. Ha stima soltanto di sé.

5. Disprezza se stesso.

6. Vuole comparire ed emergere.

6. Si nasconde e sta ritirato.

7. Cerca le lodi e ne è invaghito.

7. Si confonde nelle lodi e le fugge.

8. Parla di sé.

8. Non parla mai di sé.

9. Sopporta a stento che si lodino gli altri,  non parla delle buone qualità del prossimo, o se ne parla, le diminuisce.

9. Gode delle lodi che si danno al prossimo e ne pubblica con piacere le buone qualità

10. Non può soffrire di essere contraddetto; non cede a nessuno.

10. Non è mai ostinato, ma si sottomette a tutti.

11. È fisso nel proprio sentimento; disprezza ogni consiglio, non ha deferenza che per il proprio parere.

11. Diffida sempre del proprio giudizio; apprezza e onora il sentimento altrui e vi accondiscende

12. Nelle opere, conta sulla propria virtù, senza curarsi della propria debolezza.

12. Opera sempre col pensiero del proprio nulla, unendosi alla virtù di Gesù Cristo.

13. Segue sempre la propria volontà e vuole essere indipendente da tutti.

13. Si mantiene sempre nella giusta dipendenza; nella volontà dei Superiori, considera, quella di Gesù Cristo.

14. Tutto riferisce a sé stesso, vuole tutto per sé, attira tutto a sé, non desidera alcun bene che a sé medesimo.

14. Non vuole nulla per sé e non desidera del bene che al prossimo.

15. In ogni cosa si appoggia alla propria virtù.

15. In ogni cosa opera nella virtù di Dio.

16. In ogni cosa ama e cerca la propria soddisfazione.

16. In ogni cosa ama e cerca il distacco da sé stesso.

17. È attaccato ad ogni cosa.

17. È libero e sciolto da ogni attacco.

18. Si singolarizza in tutto

18. Segue la via comune, interiormente ed esteriormente.

19. Sta male con tutti.

19. Sta bene con tutti.

20. Avendo stima di sè più di tutti gli altri, si ritira da tutti, si compiace di stare con sé medesimo e con quelli che lo stimano e l’approvano.

20. Stimando sé stesso meno degli altri, sta volentieri con tutti, come il più piccolo di tutti, senza curarsi di essere veduto, né stimato, né amato.

21. Attira il mondo a sé e lo attacca a sé; estende la sua personalità, unendo tutti gli altri a stesso, distaccandoli dagli altri per amor di se stesso.

21. È distaccato da tutto il mondo e cerca portare tutti a Gesù Cristo secondo l’ordine della società.

22. Vorrebbe riempire di se stesso il cuore e la mente di ogni creatura.

22. Vorrebbe riempire tutto il mondo dell’amore e della conoscenza di Gesù Cristo.

23. Ama la pietà quando prova consolazioni, quando si trova nell’abbondanza ed è stimato; lascia tutto quando si trova nell’aridità o nella desolazione, o è disprezzato.

23. È sempre uguale a se stesso nell’aridità e nell’abbondanza, che sia stimato o disprezzato; in qualsiasi stato non pensa né si occupa che di  servire Gesù Cristo.

24. Sempre vuole comandare, parla con alterigia e ordinariamente ad alta voce.

24. Sempre si compiace di obbedire; a tutti parla con rispetto e dolcezza, e tutti considera come suoi superiori.

25. Vuole per sé ciò che vi è di migliore, sia negli abiti, come nel cibo o nell’alloggio ecc.

25. Si contenta in ogni cosa di ciò che vi è più semplice e più modesto.

26. Vuole comparire come l’autore di ogni cosa e brama che tutta la gloria ne sia unicamente resa a lui.

26. Non vuole comparire come l’autore, neppure del bene che fa e ne rinvia tutta la gloria agli altri.

27. Vuole essere considerato come indispensabile in tutto; e fa ogni sforzo perché il mondo ne sia persuaso e così abbia stima di lui.

27. Si sforza di aprir gli occhi al mondo perché riconosca che Dio è l’autore di ogni bene e quindi procura di annientarsi dappertutto al cospetto di Dio.

28. Sempre agitato, turbato, irrequieto; sempre affettato e impigliato, sempre timido, leggero e incostante.

28. Sempre tranquillo e uguale a se stesso, sempre pacifico, coraggioso e contento, sempre disinvolto e pronto a tutto.

29. Ordinariamente triste, cupo e preoccupato.

29. Sempre lieto, colviso aperto e la mentelibera da fantasie.

30. Diventa di cattivo umore per una minima parola, si offende di tutto e sospetta che tutto quanto si dice o si fa, si riferisca alla sua persona.

30. Non si offende di nulla; tutto sopporta senza che il suo cuore si agiti, non pensa mai che si sia occupati di lui né che si abbia intenzione di offenderlo.

31. Nei buoni successi del suo amor proprio e della sua superbia, si abbandona ad eccessiva gioia; è volubile e passa dalla gioia al malumore a seconda degli incidenti, cosicché talora è irriconoscibile.

31. Non considera le cose in riguardo a se stesso ma unicamente a Dio, in ogni evento sta sempre unito a Dio, quindi è sempre del medesimo umore.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 19