NOVENA DELL’ANNUNCIAZIONE

NOVENA PER L’ANNUNCIAZIONE

(inizia il 16 marzo, festa 25 marzo )

(G. Riva: Manuale di Filotea – XXX ed. Milano, 1988)

Questa festa in cui si commemora la incarnazione del Verbo nel seno verginal di Maria, fu celebrata fino dai tempi apostolici, ond’è che si hanno su di essa due Omelie di San Gregorio il Taumaturgo, il quale nell’anno 246 fu fatto Vescovo di Neocesarea.

1. Immacolata Maria, che specialmente per la vostra umiltà e verginità meritaste di essere, a preferenza di tutte le donne più famose, eletta a Madre del vostro Creatore, ottenete a noi tutti la grazia di sempre amare, e di sempre praticare come Voi queste due sì belle virtù, onde meritarci a Vostra somiglianza, l’aggradimento del nostro Signore. Ave.

II. Immacolata Maria, che vi turbaste nel sentire celebrate da un Angelo le vostre lodi, ottenete a noi tutti la grazia di avere anche noi, a somiglianza di Voi, un sentimento così basso di noi medesimi, che, disprezzando le lodi della terra, attendiamo solo a meritarci l’approvazione del Cielo. Ave.

III. Immacolata Maria, che preferiste il pregio di Vergine alla gloria di Madre di Dio, quando questa non si fosse potuto conciliare coi vostri angelici proponimenti, ottenete a noi tutti la grazia di essere, a costo di qualunque sacrifizio, sempre fedeli nell’osservanza della Legge santa di Dio e delle nostre buone risoluzioni. Ave.

IV. Immacolata Maria, che con umiltà non più udita, Vi chiamaste ancella di Dio quando l’Arcangelo Gabriele vi preconizzava per di Lui Madre, ottenete a noi tutti la grazia che non c’insuperbiamo giammai per qualunque dono più singolare ci venga fatto da Dio, ma che anzi ci serviamo di tutto per più avanzarci nella via della virtù, ed unirci più strettamente al vero Fonte di felicità. Ave.

V. Immacolata Maria, che per la salute degli uomini non ricusaste l’incarico di divenir Madre del Redentore, quantunque conosceste con chiarezza il dolorosissimo sacrifizio che ne avreste dovuto fare un giorno sopra la croce, quindi la passione amarissima che avreste dovuto Voi medesima sostenere con Lui,  ottenete a noi tutti la grazia che non ci rifiutiamo giammai a qualunque sacrificio che da noi richieda il Signore per la gloria del suo Nome, e la salute dei nostri fratelli. Ave.

VI. Immacolata Maria, che col fiat da Voi proferito nell’accettare l’incarico di divenir Madre del Verbo, rallegraste il cielo, consolaste la terra, e spaventaste l’inferno, ottenete a noi tutti la grazia d’aver sempre una gran confidenza nel vostro santo patrocinio, affinché per Voi veniamo noi pure a godere il frutto di quella Redenzione così copiosa di cui foste, o gran Vergine, la sospirata cooperatrice. Ave.

VII. Immacolata Maria, che con un miracolo tutto nuovo diveniste Madre del Verbo, senza macchiare menomamente la Vostra illibatissima purità, ottenete a noi tutti la grazia di essere sempre così riservati e modesti negli sguardi, nelle parole e nel tratto, che non veniamo mai a macchiare la  castità conveniente al nostro stato. Ave.

VIII. Immacolata Maria, che contraeste una relazione così intima con tutta la SS. Trinità da diventar nel tempo stesso Figlia del Divin Padre, Madre del Divin Figlio, e Sposa dello Spirito Santo, ottenete a noi tutti la grazia di tener sempre l’anima nostra così monda, che meritiamo di essere con verità il tempio vivo del Padre che ci ha creati, del Figliuolo che ci ha redenti, e dello Spirito Santo che ci ha santificati. Ave.

IX. Immacolata Maria, che aveste la gloria singolarissima di portare nel Vostro verginal seno Colui che i cieli e la terra non sono capaci di contenere, ottenete a noi tutti la grazia di esercitarci continuamente, a somiglianza di Voi, nell’umiltà, nella penitenza, nella carità e nell’orazione, onde ricevere degnamente e con frutto lo stesso vostro divin Figliuolo, quando sotto le specie sacramentali si degna di venire dentro di noi; e fate ancora che siamo graziati di questa visita al punto della nostra morte, onde potere svelatamente contemplarlo, amarlo e possederlo con Voi in compagnia degli Angeli e dei Santi in Paradiso. Ave, Gloria.

QUARESIMALE (XX)

QUARESIMALE (XX)

DI FULVIO FONTANA
Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA
DI GESÙ

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMA
Nella Feria quinta della Domenica terza.


Il peccato mortale, traditore in Cielo, traditore in terra,
traditore sotterra.

Socrus autem Simonis tenebatur magnis febribus.
San Luca cap. 25


Ecco che questa mattina voglio scoprirvi a vostro gran vantaggio chi sia quello che vi tenga oppressi da febbri maligne, da febbri pestilenziali. Guardate gli tolgo la maschera d’in sul volto, eccolo: egli è il peccato mortale. Olà, uditemi; poche parole: Non è il peccato mortale qual molti se lo figurano un fiore con cui deliziarsi, ma una febbre pestifera che uccide. Apprendetelo, per sempre evitarlo, per quello che è ed è appunto qual io ve lo farò vedere traditore in Cielo, traditore in terra, traditore sotterra .. – O vive senza fede, o campa senza cervello chi non riconosce il peccato mortale per il maggior traditore del mondo. Al Cielo, al Cielo, per vederne i primi tradimenti. E voi portinai celesti contentatevi d’aprirci un sol piccolo cancello, per cui miriamo non la Gloria che vi fa beati; non siamo degni, che neppur uno de’ vostri splendori scintilli sulle nostre fronti; non pretendiamo con una tal veduta restar colmi di gloria, ma di spavento. Su, dunque, affacciatevi, il cancello celeste è spalancato; vedete voi colà quelle immense sedie d’oro tempestate tutte di zaffiri e diamanti? Queste furono preparate per gli Angeli, ed in quella sì risplendente a mano dritta doveva star lucifero, ed in quella a questi più prossima, Belzebud; ed ora quegli Spiriti celesti, che cavati dal seno del niente, furono collocati nel Cielo Empireo, dotati di sommo ingegno, di somma bellezza, immortali, capaci di vedere Dio, ora dico, stanno sopra sedie di fuoco giù nell’inferno. E d’onde mai, voi mi direte, mutazione sì strana? Non per altro, io vi rispondo, gemono, e gemeranno nell’inferno creature sì nobili, se non perché si collegarono col peccato mortale, s’opposero superbi al mistero loro proposto dell’Incarnazione, e ricusarono d’adorare il Figlio d’una Vergine. Voi ben sapete esser proprio di quei traditori che vogliono fare strani tradimenti, insinuarsi per via d’amicizia. Così appunto fece la scaltrita Semiramide, la quale domandò in grazia e con finta di scherzo amoroso a Nino suo marito, di concederle che lei un giorno solo sedesse nel trono come regina, e padrona assoluta. Si contentò l’incauto re. Si diede l’ordine d’obbedienza alle guardie. Ed ecco che la regina con apparenza d’affettuoso giuoco fece toglier di capo al marito il diadema, di poi la spada dal fianco, poscia il manto reale d’indosso, e finalmente ordinò che spietatamente gli si troncasse la testa. Cosi fa con voi il peccato mortale, s’insinua come se voglia scherzare, ma vuole uccidere. Così appunto fece con gli Angeli, se gli mostrò l’amico più caro che potessero avere, mentre gli disse che ribellandosi a Dio, sarebbero stati simili a Lui, similis ero Altissimo, e poi tradendoli, gli fece tutti piombar negli abissi. Ora io dico, se il peccato mortale, accolto una sola volta in un solo pensiero nel seno di quegli Spiriti che stavano per stabilirsi Principi del Soglio eterno, sì enormemente li tradì; come non tradirà voi, che l’ammettete nel cuore con pensieri, con parole, e con opere? Ah peccato, maledetto peccato ed è pur vero, quantunque ognuno ti conosca per traditore, non tutti però come tale ti sfuggono. E se fu traditore nel Paradiso Celeste, non lasciò d’esserlo ancor nel terrestre. Date d’occhio a quel bel recinto di mura sì ben disposto; quelle colonne di marmo finissimo che sostengono la gran machina, quei simulacri d’alabastro formati così al vivo, son lavoro di Dio. Questo è il Paradiso terrestre, miratelo pure al di fuori, perché l’entrarvi non è possibile. Sta sull’atrio un Cherubino del Cielo, il quale con una fiamma di fuoco nella destra, minaccia incendio a chi ardisce sol d’accostarsi. Non ha però questo Cherubino Celeste potuto tener lontano il peccato mortale; egli v’è entrato da traditore, poiché sotto specie d’amicizia si è insinuato con Adamo, ed Eva con le finte parole: Eritis sicut Dii … Voi sarete come Dei, se trascurando il precetto divino, gusterete del pomo vietato. Volete altro? Li ha traditi, ed oltre ad averli scacciati da un delizioso possesso, ha partorito a noi posteri quel gran fascio di mali che assedia la nostra vita: povertà, malattie, ignoranze, nemicizie, carestie, pestilenze, tempeste, liti, guerre e stragi. – Ora io replico, se il peccato mortale tradì Adamo, che pur era sì savio, per la trasgressione d’un sol precetto, come non tradirà voi tanto trascurati e che trasgredite e conculcate, quasi dissi, ogni precetto, senza rispetto né alla Chiesa né a Dio? Ah peccato, maledetto peccato, conviene esclamare, quantunque conosciuto per traditore, ad ogni modo vi è chi t’ama, t’accarezza. Sovvengavi che il mondo fece già lega ed amicizia col peccato, e fu allorquando … omnis caro corruperat viam suam, onde non fu meraviglia che soggiacesse a tradimenti. Fabbrica pure, poteva dire a Noè, l’arca; devi però sapere che le tue fatiche serviranno più per animali che per uomini, giacché il peccato della disonestà ha chiamate al tradimento le acque. Ecco che si aprirono le cataratte del Cielo, si ruppe ogni argine a’ fiumi, ogni lido al mare, il mondo si sommerse, e naufragarono alla rinfusa uomini e donne, nobili e plebei, poveri e ricchi, e tutti vi restarono miseramente sepolti. Salite pure, poteva dire, nella parte più alta delle case, portatevi sulla cima dell’Alpi; più fabbricate, se avete tempo, torri che superino d’altezza i monti più sublimi dell’Armenia, tanto le acque vi giungeranno; avete fatto lega col peccato, il peccato v’ha tradito, tanto basta, perché restiate sommersi. Immaginatevi pure tutto il mondo sepolto sotto le acque del diluvio e poi col vostro pensiero formate un monte di tutte le ossa di questo mondo sepolto sotto le acque del diluvio alzando gli occhi, attoniti sopra le alte rovine, esclamate, l’iniquo traditore che ha fatto macello di tanti uomini è stato il peccato mortale, e pur vi è al mondo chi l’accarezza. – Così è, l’accarezza quel giovane che non fa altro che sfogare gli appetiti, e contentare il senso; l’accarezza quel coniugato che, scordato della fede giurata alla consorte, alla Chiesa, a Dio, contamina l’altrui letto; l’accarezza quella femmina vana che sbracciata, scollata e spettorata si fa vedere per le strade, per le piazze, e nelle Chiese  con tal portamento di vita, che par cerchi far copia di sé; l’accarezza quell’ecclesiastico che non si vergogna lordare un abito sì sacrosanto con le sozzure, di strapazzare la M D. ne’ pubblici ridotti, tra giuochi, tra balli, tra le crapule; non è così? Così non fosse! Dunque, rientrate in voi stessi, e perché più sollecitamente dobbiate farlo, ve lo pongo sotto gli occhi in altri tradimenti. – Vedete colà quella statua di sale; sappiate che qui furono cinque Città nobili, popolate ed amene, ed è pur vero che ora neppur v’apparisce vestigio, anzi il fetore che esala quel terreno ricoperto da un lago bituminoso, non può tollerarsi. Anche queste città, ed è pur vero, si lasciarono tradire dal peccato mortale, il quale sorto specie d’amicizia gli promise ogni piacer di senso, e poi gli diede un diluvio di fuoco. Avreste veduto scendere dalla sua sfera quell’elemento ed a guisa di spaventosa pioggia, piombar sopra delle case, non accadeva, che i miseri fuggissero all’aperto, perché ivi giungeva il fuoco, se si ritiravano ne’ gabinetti, vi penetrava; se rintanavansi nelle cantine, anche colaggiù correva il fuoco portatovi per mano del peccato. Quel che a me spiace, è che a queste fiamme delle città incenerite per tradimento del peccato, molti e molti si riscaldano senza temer d’essere bruciati, come se fosse fuoco di paglia. E quali strumenti non ha mai adoprato il peccato per tradire il peccatore? Non fu contento di prender l’acque dalle nuvole nel diluvio, il fuoco dal cielo, che anche il mare volle ministro de’ suoi tradimenti. Giungete meco col pensiero fino al Mar Rosso, e quivi vedrete un orribile tradimento in persona di Faraone, perché fece lega col peccato, perseguitando il Popolo eletto: vide Faraone una strada in mezzo all’acque, per cui passava il popolo di Dio, si crede anch’egli poter passare con egual felicità, ma il peccato traditore … Equum , et Ascensorem dejecit in Mare, sommerse Faraone con tutto l’esercito, giacché quella strada sicura agl’Israeliti tornò a rimaner coperta dall’onde, sicché vedeanli divorare dall’acque soldati, armi e cavalli, e galleggiar piume, e bandiere di quella barbara gente. Peccato, intendetela, tradì Faraone ostinato; tradirà voi peccatori ostinati, voi, che volete morto l’inimico, non vi succederà, il peccato tradirà voi, e resterete sommersi nel Mar Rosso del vostro sangue. Voi siete ostinati come Faraone, non volete palesar quel peccato, potreste risanare passando per il Mar Rosso del Sangue di Gesù nella Confessione. Bene, non volete, resterete sommersi in un mare di fuoco. Quando voi non foste abbastanza persuasi da questi sì enormi tradimenti per fuggire il peccato, voglio mostrarvene de’ maggiori. Uscite dal nostro mondo, e dopo averlo conosciuto traditore in Cielo ed in terra, osservatelo traditore spietato sotterra. Quivi in quei cupi abissi lo conoscerete per tale in quelle profonde caverne che furono stanze d’esilio doloroso ai Santi Patriarchi ed a tanti giusti che non ebbero ingresso al Cielo, finché Cristo non l’apri loro col suo Sangue preziosissimo. Che sono abitazione di tanti morti senza Battesimo e d’innumerabili anime purganti. Sebbene, a che trattenermi in queste carceri, per conoscere come spietato carnefice il Peccato mortale? Basta che diate d’occhio a quella carcere la più orribile, la più spaventosa, la più spietata, che possa mai immaginarsi: Aprite, dunque, quella voragine profondissima, mirate che caligini, che fuoco, che fetore di cloaca pestifera, udite che strida di disperati. Vedete là tante anime immerse in stagni di fuoco e zolfo, che si dibattono rabbiosamente, che disperatamente bestemmiano; immaginatevi che sono di quelli, i quali simili a qualcheduno di voi, fecero lega ed amicizia col peccato mortale, ed il peccato li tradì da carnefice spietato, contentarono anch’essi, come voi, gli appetiti della carne con piaceri infami, sfogarono i rancori del cuore con crudi risentimenti, Fornicatoribus et Omicidis pars eorum in stagno ardentis ignis, sulfuris. Osservate quelle che stanno con la bocca arsa, con la lingua nera, con gli occhi spaventati e che fan forza per rompere quelle catene di fuoco, con le quali sono strettamente legate. Sapete chi furono? furono certe anime timide, che non si vergognarono di commettere il peccato, ma bensì di confessarlo, e furono sì sfacciate, che ardirono di comunicarsi in peccato mortale ed ora il peccato che le tradì si porta con esso loro da vero carnefice. Volgete lo sguardo a quelle truppe d’anime, che sono colà legate insieme e che sono circondate da tanti neri demoni, i quali soffiano in quei carboni, perché più penetranti facciano sentire i loro ardori … colligata est iniquitas in fascicules ad comburendum. Quei sono tutti Cristiani che di quando in quando ancor’essi andavano alla predica e tornando a casa, qualche volta dicevano: veramente il predicatore ha ragione, ma frattanto seguivano a tenersela con il peccato mortale che ora da lui sono stati traditi. – O Dio! E perché mi stanco nel narrarvi i passati tradimenti, o nel riflettere a’ futuri, mentre ogni peccatore lo può riconoscere traditore di se medesimo? E non è forse stato il peccato, che vi ha tradito nella reputazione, nella roba, nella sanità, nella vita? Certo che sì, crediatelo Tertulliano, il quale asserisce, che il peccare è appunto fondare un censo, nel quale, oltre al capitale della pena eterna, a cui soggiace il peccatore rimane anche sottoposto agl’annuali frutti, a’ quali và soddisfacendo con le calamità e perdite temporali; sopra di che scrisse a meraviglia. Idelberto attende miserias hominum intuere cineres, vectigalia peccati sunt; e che altro sono le perdite della riputazione, della fama, se non che peccati census, et vectigalia, interessi e frutti che da noi esige il peccato traditore. Non voglio che crediate a Tertulliano, ma a voi o peccatori. Se io domandassi a quella fanciulla: perché tanto amaramente piangete? … o Padre che volete dire? Ben v’intendo voi siete pianta giovine, ed il frutto è già maturo; Padre sì, non ho faccia da comparire; ma sorella, vi risponderò: quando vi fu detto, non trattate così alla domestica con quel vostro padrone, non andate in quella casa, non scherzate con quel servitore, non amoreggiate con chi non è vostro pari … se voi aveste obbedito, non sareste in questi cimenti; avete voluto accarezzare il peccato, ed egli v’ha tradito. – Il Peccato tradisce anche nella riputazione e non vuole intendere, così l’avesse inteso quella donna, la quale, perché volle anticipar le nozze, scoperta prima da’ domestici e svergognata nel pubblico, fu costretta a pianger prima vedova, che maritata. Così l’avesse inteso quella maritata, che mancando di fede al marito, a Dio, mancò di credito nella Patria. Così l’avesse inteso quell’avaro, che credendo di poter sempre celare i suoi traffici illeciti, le sue usure, finalmente scoperto, ne riportò l’infamia dovuta. Quell’uomo peraltro savio ed accreditato, ha perduta da reputazione, perché non sa staccarsi da quella rea femmina. Così pure quel Sacerdote, quel religioso, perché non si ritirano da quella casa, in cui si manca di fede a Dio, contaminando la castità promessa. Né solo è traditore, perché toglie la riputazione, ma perché invola anche la roba, quando pertanto le liti vi tolgono le ricchezze, i tribunali vi levano i danari, quando la vostra casa vi par divenuta casa di miserie, non date la colpa a’ vicini perché v’odiano, ai parenti perché v’invidiano, non mi state a dar la colpa alla fortuna che questa mai non fu né mai farà che nel cervello de’ pazzi: dite pure, ed allora direte la verità: la vera cagione della sterilità ne’ miei campi, della mortalità ne’ miei armenti, dello scapito ne’ miei traffici, della perdita delle liti, di tutte le mie disavventure, non è altro che quel traditore del peccato mortale, miseros facit populos peccatum; dite pure, le mie ingiustizie, le mie usure, quelle bestemmie, tante mormorazioni, tanti odii che ho covato in cuore, questi sì, questi sono i traditori della mia casa, della mia famiglia, della mia persona. Ed è pur vero che, quantunque questo maledetto peccato sia a suon di tromba dal lume della ragione dichiarato per un acquedotto avvelenato, e per una sorgente di tutti i mali, tuttavia sempre si trova chi va alle sue sponde, chi assedia le sue rive e beve come nettare il velenoso fondaccio de’ suoi stomachevoli umori. –  Racconta Niceforo, che Foca imperatore vedendosi altamente odiato da’ suoi, e dubitando di tradimenti, per assicurarsi la vita, fece ridurre il suo palazzo a modo di Cittadella inespugnabile ad ogni assalto, ma mentre s’alzavano le mura, nel più buio della notte dalla parte del mare s’udì una voce spaventosa che gridò: ferma, ferma imperatore! Che pretendi? Alza pur le mura fino al cielo che tanto saranno basse se non ne scacci il peccato. Si vel ad cœlum muros educas, intus cum sit malum, urbs captu facilis est. Così per appunto seguì, già che nello stesso giorno che fu compita la fabbrica, l’imperatore fu tradito … urbs captu facilis est ed io dirò: Domus vestra captu facilis est. Vi sono nemicizie nella vostra casa, vi sono trame di vendette, dunque io la vedo in rovina … Domus vestra captu facilis est. Se nella vostra famiglia vi sono disonestà, mormorazioni, bestemmie, la vostra casa sta per cadere; se siete profanatori delle Chiese, disturbatori della pace, la vostra casa non può durare, vi è dentro chi presto la tradirà. – Vedete là 8nel vostro paese quell’uomo? egli era comodo, ora è miserabile, perché? Perché il peccato l’ha tradito; prese una nemicizia, e v’ha logorato tutto il suo; ebbe poi una amicizia, e gli ha succhiato quanto avea; si diede al giuoco, alle crapule, e si rovinò; e pure voi altri stolti, benché abbiate sugli occhi questi esempi, tanto volete l’amicizia di questo traditore. Ah, peccato maledetto, com’è possibile che ognun non ti fugga, mentre sì bruttamente tradisci ancor nella sanità? Volete vedere se sia vero che tradisca anche nella sanità? Mirate quei giovani senza colore in viso, senza fiato sulle labbra, senza forze nella vita, pieni di quel male, che dicono venir di là da’ monti, il peccato li ha traditi. Venite col vostro pensiero agli ospedali per vedere i tradimenti del peccato. Osservate quel ferito, or sappiate ch’egli andò per dare, e ricevette: il peccato dell’odio l’ha posto in letto; mirate là quell’altro con la testa spaccata, ne fu causa il peccato dell’amore indegno, un suo rivale lo percosse; su, passate ora alle carceri, e dite: chi vi tiene miseri quelle catene al piede, chi quei ceppi? Il peccato del furto! Chi vi stende sugli eculei? Le false testimonianze, le accuse a torto. Dove va colui, condotto con tanta comitiva? Al patibolo, alla forca, chi ve lo conduce? La Giustizia, ma il tradimento l’ha avuto dal peccato; dite pure: Ah peccato, maledetto peccato, vero traditore, mentre non sazio di tradire nella reputazione, nella roba, nella sanità, tradisci ancor nella vita, e dopo aver lasciato il corpo estinto sopra la terra, seppellisci l’anima nell’inferno. Volete vedere che sia vero? Udite: s’amavano con indegno amore in una città della Sicilia un indegno giovane ed una sfacciata donzella; quando un dì si abbatté a passare dalla casa dell’amica il giovane, e fu appunto quello in cui a causa di purga s’era cavato sangue, invitato dunque dalla rea compagna a salire le scale, le salì l’infelice, ma per traboccare da più alto nell’inferno. Si cenò allegramente, ed allegramente pieni di vino e di disonestà, si diedero in preda al sonno, che questa volta non fu immagine di morte, ma vera morte: dormiva il giovine quando, scioltasi la fascia del salasso, s’allargò di nuovo la ferita, ed apertasi la vena, il sangue agitato e commosso da’ passati disordini, uscì in sì gran copia, che l’infelice morì prima di risvegliarsi; destatasi frattanto la rea femmina, trovando il letto allagato di sangue, tenta destar l’amante, che già vegliava tra’ tormenti d’inferno; indi, acceso il lume, mirò e vide con orrore il funesto tradimento del suo peccato; pianse, e con egual dolore deplorava la morte dell’amante ed il pericolo della propria vita, se dalla Corte se gli si fosse trovato in casa il cadavere; onde consigliatasi con la madre, anch’ella vituperosamente intrigata in questa tresca diabolica, deliberarono di strascinarlo ambedue avanti della porta d’una vicina Chiesa; seguì tutto prosperamente, ed apertasi sul far del dì la Chiesa, fu collocato quel morto nella bara a vista d’ogn’uno. Era riuscito alla madre ed alla figlia celar con felicità la loro ignominia, cavandosi di casa il cadavere, ma non era soddisfatta la Divina Giustizia, che voleva vittima della propria disonestà anche la femmina. Impazzita dunque questa e d’amore e di dolore, non sapea trovar luogo, non poteva raffrenare né pianti né sospiri; sicché la madre pensando di poterla alquanto quietare, con condurla, come una del vicinato alla Chiesa, per vedere lo spettacolo, la condusse, ma con esito assai più funesto, poiché la giovane a vista dell’amante steso su quella bara, diede in sì alta disperazione, che tratto prestamente un coltello di tasca, e gridando in pubblica Chiesa: io son quella che ho dato morte a costui; son io, son io, io merito di morire; ed accompagnando a queste voci il colpo che si vibrò nel cuore, si diede la morte, volando ad abitar nell’inferno con chi visse nel mondo lasciva. Intendetela, così tradì quest’indegni il peccato; così tradirà voi, se non mutate vita, lasciando il vostro corpo ai vituperi del mondo, e l’anima al fuoco eterno.

LIMOSINA
I campi innaffiati dall’Indo sono sì fertili, che in un anno medesimo danno due raccolte ed i pascoli de’ prati vicini al Nilo sono sì ubertosi, che gl’armenti ivi partoriscono due volte. Per noi, RR. AA., fecondissime terre sono le mani de’ poveri, nelle quali ci consiglia sì spesso la Divina Scrittura a seminare le nostre sostanze, assicurandoci del centuplo in questa vita, e della salute eterna: Promissionem vitæ, quæ nunc est, futuræ.


SECONDA PARTE

Il Profeta Reale, voglio per ultimo vi confermi di propria bocca se veramente sia traditore il peccato; voi ben sapete, che quando si sollevò nel popolo quell’orribile pestilenza, che in poche ore fece uno scempio di sessanta mila persone, se se ne fosse domandata la cagione agli astrologi, avrebbero subito ritrovato nel cielo qualche capo di medusa ed addottolo per autore di tante stragi; ed i naturali avrebbero risposto, che un alito contagioso, uscito all’improvviso da qualche apertura insolita della terra, avesse con tanto danno infettato quel popolo; e tra’ politici non farebbe mancato chi avesse dubitato di peste fatta a mano con polveri e porcheria, sparse a bello studio da’ popoli confinanti, loro nemici, per rovinar quel Reame allora si florido d’Israele. David però senza tanti discorsi ed interpretazioni ne assegna la vera cagione, attribuendo scempio sì grande al suo peccato. Questo riconobbe per stella maligna, per alito pestilente, per nemico persecutore: Ego, ego sum qui peccavi, ego qui malum feci. Egli è purtroppo vero, il peccato è la vera cagione di tutti i mali; il peccato si è quel ribaldo in Cielo, quel traditore in terra, nel mondo, quel Carnefice spietato sotto terra. Egli è quello che toglie reputazione, roba, sanità e vita. Voi, lo so, v’opponete al mio discorso, e dite: Padre, io non so tante cose, io ho il peccato in me, lo sopporto nei figli e talor lo voglio nella moglie, o almeno chiudo gli occhi, e non vedo che questo peccato mi tradisca, anzi la mia casa è in buona stima, sto bene di facoltà, di sanità e se ho da dire il vero, il peccato me le accresce, perché tengo corte le misure, e scarsi i pesi; ho fatto instrumenti falsi, ho gabbato vedove, ho ingannato pupilli, e pur le cose vanno di bene in meglio; ho anche qualche omicidio sulle spalle, non mantengo la fede alla consorte e non vedo questi tradimenti. Non v’ha dunque tradito il peccato mortale? No? Dunque non vi tradirà? O questo non lo potete dire. È ben vero che sommamente mi condolgo con voi, giacché non siete stati traditi dal peccato finora, con cui avete fatto lega, perché vuol dire, che per voi macchina un tradimento molto maggiore, vi vuol tradir di là con pena eterna. Datemi mente. È vero che la pena è l’ombra della colpa, in questo però non imita la natura dell’ombra, perché d’ordinario ella va distante dal corpo che la produce. Che voglio dire, per parlar più chiaro, che Dio non paga né in contanti, né ogni sabato, ma scrive al libro i peccati l’un sopra l’altro e quando sono arrivati ad un certo segno, allora vibra fulmini per incenerire e roba e case e persone. Voi che avete fatto lega col peccato mortale, perché non vi vedete castigati subito, vi date ad intendere che Dio dorma, e perché lo vedete tardare, stimate che non sia più per venire; v’ingannate, verrà, e verrà di certo, e se tarda, sarà più risentita la sua venuta.  L’arciere, quanto più tien teso l’arco, tanto più scocca risoluta la sua saetta: Dio vi liberi, che Dio non vi castighi, che il peccato non vi tradisca in questo mondo, perché potreste stimar certa la dannazione. O di qua, o di là bisogna infallibilmente pagarla. Orsù dunque, si lasci l’amicizia di questo peccato mortale che, se alletta, domani vi tradisce. Sentite questo caso. Dormiva una smisurata serpe in una selva, stesa per lungo in terra quando abbattutosi un infelice viandante a passarvi vicino, la crede un albero di quel bosco buttato a terra, e vi sipose su a sedere per riposarsi: ma ché, la serpe premuta, si risentì, ed accesa di sdegno, cinse con la lunga sua corporatura l’infelice passeggero, e tiratolo nella sua tana, a membro a membro, lo divorò. Voi tutto dì volete porre i vostri riposi, le vostre consolazioni, i vostri sollievi nel peccato mortale. Volete amicizia con lui, orsù non dubitate, sarete traditi, praticherà con voi le sue benevolenze, i suoi amori ed i suoi abbracciamenti saranno indirizzati a condurvi in una caverna, dove in eterno abbiate da penare tra gl’incendi. Pensate, e risolvete se vi torna conto d’avere quest’amicizia col peccato mortale, che fu ribaldo in Cielo, traditore nel mondo e carnefice spietato sotto terra.

QUARESIMALE (XXI)

QUARESIMALE (XIX)

QUARESIMALE (XIX)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile, 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMANONA
Nella Feria quarta della Domenica terza.


Gli spasimi del peccatore moribondo; per il mondo che lascia; per la severità del Giudizio che gli sovrasta; per l’eternità delle pene che aspetta.


Morte moriatur. San Matteo cap. 15

Preparatevi pure, o peccatori, a provare i giusti sdegni dell’ira divina. Si protesta Cristo in San Matteo con quelle parole … morte moriatur, che non solo vi vuole morti, ma morti di morte; che vale a dire di quella morte già preveduta dal Profeta Reale allorché disse: mors peccatorum pessima: sarete dunque percossi da Dio, se non vi emendate, da questo fulmine di pessima morte. Santi, che foste interpreti delle Sacre Carte, diteci in che consisterà questa pessima morte de’ peccatori. Ecco che dall’Eremo di Chiaravalle mi risponde San Bernardo, dicendomi: sarà pessima, in amissione Mundi, in severitate judicii, in horrore inferni, che vale a dire, sarà pessima la morte de’ peccatori per la perdita che sanno del mondo, allorché muoiono; per la severità del Giudizio che incontrano dopo morte; per la sentenza, che li condanna alle pene eterne dell’inferno. Cominciamo dal primo. Come non volete che sia pessima la morte del peccatore, mentre dovendo morire, non solo deve lasciare, ma deve rubarsi tutto dalla morte, che nell’Ecclesiastico vien chiamata: dies finitionis; perché la morte non è altro che un finire del mondo per chi muore. Se la morte, dunque, è un finire del mondo per chi vive, datemi attenzione, e poi rispondetemi mentre io con voi così discorro. Se voi sapeste di certo che tra cinque o sei anni dovessero rovinare tutte queste case, sprofondare tutte queste campagne, il mondo tutto ridursi in cenere, ditemi, che conto dovreste voi fare della vostra roba, de’ vostri passatempi, delle vostre amicizie? credete voi che tanto facilmente offendereste Dio, per condiscendere ad un amico, per soddisfare ad un piacere, ad un capriccio? Certo che no, mentre sapeste che in breve tempo tutto il mondo dovesse ritornare al suo niente. Or io vi dico: e non è forse tuttuno, o che il mondo finisca e voi restiate; o che resti il mondo, e voi finiate di vivere? Non ve ne ha dubbio: morto che sarete voi, il mondo è finito per voi, e pure vi state attaccati come se mai dovesse finire; e pur talora manca nel più bello. – La sanguisuga, allorché dal cerusico vien attaccata ad una vena, vi si attacca con una avidità grandissima. Qui vi succhia, gode, si gonfia, e si satolla di quel sangue che tanto avidamente brama. E si crede d’aver sempre a seguitare in quel contento; ma che? Nel più bello viene il cerusico, la stacca dalla vena, la pone in un tondo, la taglia per il mezzo, e gli fa rendere tutto quel sangue, che ha bevuto, e col sangue gli toglie la vita. Questo stesso interviene a’ peccatori. Si crede colui di aver sempre il sangue de’ poverelli con defatigarli nelle liti, con succhiar loro il sangue: si crede doversi sempre ingrassare con la roba altrui, con portare a’ mercanti la roba cattiva e venderla per buona; gli armenti, i bestiami infetti ed esitarli per sani; con promettere a chi lavora il danaro, e poi volergli dar la roba, di più della peggiore, ed a gran prezzo; ma che ne segue nel più bello de’ suoi acquisti sì ingiusti? Viene la morte, lo taglia per il mezzo  e lo fa vomitare quanto ha radunato in questo mondo, senza lasciargli più che uno straccio da rinvoltare il suo cadavere: Divitias quas devoraverit, evomet. Così pur quel superbo si crede d’aver sempre a sopraffare i minori, a vendicarsi d’ogni piccolo oltraggio, anche con vendette trasversali, ed ecco nel meglio de’ suoi disegni, delle sue vendette, viene la morte; lo taglia per il mezzo; e buttandolo in una sepoltura, lo fa pascolo de’ vermi, e si verifica quello d’Abdia al quarto: Si inter sydera posueris nidum tuum, inde detrabam te. Si credevano di dover sempre tendere insidie, ora all’onestà di quella donzella, ora all’onore di quella maritata, al decoro di quella vedova, senza perdonarla neppure al proprio sangue: ed ecco che nel più bello vien la morte, tagliandoli per il mezzo gli strappa a forza da tutte le più care conversazioni. Non occorre altro: la morte si chiama: dies finitionis, presto ha da finire tutto il mondo per te, e de’ tuoi piaceri non ti ha da rimaner altro che il travaglio di averli goduti. Ed ecco la morte pessima in ammissione mundi. –  Tutto è vero: sento chi mi replica… ho da morire, ha da finir tutto; ma intanto io mi scapriccio, vivo a mio modo, e godo. Oh stolto, che sei! Mentre così discorri, tu godi mentre vivi in peccato? Il tuo godere è come i frutti di Sodoma, belli al di fuori, ma cenere dentro. Tu ridi, tu burli, tu scherzi, l’apparenza è bella, ma se ti miro il cuore, non trovo che il mondo ne’ suoi diletti t’abbia mai dato altro che amarezze. Ecco, che ve lo mostro. Volete sapere come tratta il mondo co’ peccatori? Come il cacciatore con suoi cani. Se ne esce di casa il cacciatore con il suo cane al cusso e, veduta la fiera gli lascia il cane che con ogni sforzo fra balze e fra spine la segue; e finalmente animato dalle voci del padrone, che grida: piglia, piglia … gli riesce tutto ansante e mezzo morto l’afferrarla. Ma che? Ecco che il padrone crudele gli è alla vita e gli dice: lascia, lascia; onde il cane è costretto a lasciare quella preda, che credeva dovesse satollarlo ed altro non resta al meschino che la fame; e per lui è uno stesso il conseguire quel che cerca ed il perderlo. Così appunto ha da intervenire a te, misero peccatore. Ora il mondo, che è il tuo padrone crudele, ti dice: Piglia , piglia, piglia quella roba che non è tua, non pagar mercedi; non soddisfare a’ legati pii; dilata i confini del podere, tieni corte le misure, scarsi i pesi: piglia, piglia; pigliati quel piacere che non è lecito, quella vendetta; e tu insensato, come se avessi da godere di un gran bene, t’affatichi, ti sfianchi, ti sfiati per conseguirlo; ed ecco che nel più bello ti senti intimare dalla morte: lascia, lascia, lascia ricchezze a chi non si ricorderà mai di te; lascia il tuo corpo a chi lo porrà fotto terra dentro il sepolcro; lascia i tuoi amori a chi li andrà raccontando per suo passatempo e per tua grandissima infamia. Lascia, lascia. Son vere sì o no queste cose che ti dico? Certo, che non le puoi negare, ma te le immagini, te le figuri oh quanto lontane, e questa è la maggior pazzia; perché non t’accorgi, che la morte ti viene incontro a gran passi: Memor esto, quoniam Mors non tardat, ti dice lo Spirito Santo, tu la credi lontana molte miglia, e forse ella sta per battere all’uscio della tua camera. Chissà, che forse ora non ti lavori nelle tue vene quel veleno che tra pochi giorni ti metta nel sepolcro? Forse ora si distilla quel catarro che ti ha da soffocare; forse la morte ha teso l’arco e tu vivi del tutto spensierato? – Nella nobilissima città di Siena vi fu un cavaliere di prima nascita, il quale trattenendosi un dì tutto sano in quel luogo che chiamasi Banchi, per certi suoi domestici affari; vide alla lontana venire una compagnia di Confrati col cataletto, e voltatosi a chi seco tratteneva, disse loro: dove va, per chi serve questa bara? Varie furono le risposte, che gli furon date; la verità però è che colto da accidente inaspettato quel cavaliere, se ne morì subito, e quella bara servì per lui. Credete voi che questo cavaliere si aspettasse allora la morte? Memor esto quoniam mors non tardat … intendetela: la morte non tarda, è vicina ed oh quanto vicina se la vide quell’indegno giovane che, stato lontano per qualche tempo dall’amica, volle ripassar per quella strada, e dare il solito cenno; sicché fattasi alla finestra la rea femmina gli disse: so che m’avete abbandonato. Non sarà mai vero, rispose il giovane; appunto, replicò la donna; voi più non mi amate. V’amo tanto, riprese l’uomo, che per voi darei tutta la parte del Paradiso che mi tocca; e di fatto la diede, poiché soffocato da una piena di catarro, appena proferita l’esecranda bestemmia, restò ivi morto, spettacolo infelice della Divina Giustizia. Su, dunque, staccatevi; altrimenti la vostra morte sarà altresì terribile in severitate Judicii. – Tu fai bene, o peccatore, o peccatrice, che appena spirata, appena uscita l’anima dal tuo corpo, subito in quella medesima stanza ove Dio t’ha tante volte tollerato nelle tue disonestà, in quella medesima s’alza il Divino Tribunale; sicché subito morto devi comparire avanti Cristo Giudice per esser giudicato, secondo le tue opere, o buone o ree. Or dimmi: e non è vero, che tu tutto attonito e spaventato dirai col Santo Giob: quid faciam, cum surrexerit ad judicandum Deus? A qual partito ti appiglierai? ad uno di questi due converrà che t’appigli da fuggire dagli occhi del Giudice; o ad ingannarlo… ma che dissi? come potrai fuggire dagli occhi di Dio? questo è impossibile; mentre Egli è quel Dio di grandezza eguale alla sua forza: Deus Judex fortis; basterà solo che tu miserabile lo veda per rimanere in un stesso tempo atterrito ed inorridito. L’allodola, allorché vede lo Sparviero ne concepisce tal timore, che si è veduta volare a piombo dentro le fiamme d’un acceso forno. Sarà tale il tuo terrore alla presenza di Cristo Giudice, che per fuggirne volentieri t’andresti a seppellire nelle fiamme dell’inferno? Quis mihi det, ut in inferno protegas me, et abscondas me, donec pertranseat furor tuus? Fuggire dunque non potrai essendo più facile fuggire dal mondo e da se stesso, che da Cristo Giudice. Quid facies, dunque, che farai? Ricorri alla frode: procura d’ingannarlo. Ingannare il tuo Dio; Cum surrexerit ad
judicandum Deus
. Appunto Egli è quel Dio che tutto vede: intuetur cor, agli
uomini si può dare ad intendere quello che si vuole, ma non a Dio scrutatore de
cuori! – Non so, se camminando di notte tempo, vi siate mai abbattuti in certi legni
putridi; se allora v’avrete fissati gli occhi, vi saran parsi luminosi; ma se poi li avrete rimirati di giorno chiaro, gli avrete scorti per mezzo fracidi, per legni sol buoni ad esser gettati nel fuoco. Che voglio dire? Voglio dire che in questo mondo siamo tra
le tenebre, e ci può riuscire talora il far comparire per luce quel che è tenebre; poco penerà colui che nega quella pace a dire, che lo fa per zelo della giustizia; oh che bella luce a chi non vede il fondo putrido di quel cuore! Ma in faccia a Dio non potrà dir così; si vedrà allora, che non era zelo, ma rabbia. Riuscirà facile a quel marito l’ingannare la sua moglie, con riprenderla di gelosa, con assicurarla che l’amicizia con colei non è mala, che vi tratta innocentemente; ma quando si farà giorno alla venuta del Giudice, chiaramente si vedrà che l’amicizia era un continuo peccare. Ancor tu donna, potrai con i tuoi inganni, con le tue finzioni farti tenere per donna da bene, onorata; che vai alla Chiesa per mera devozione, quando vi vai non con altro fine che per concludere con gli occhi e con i gesti quei trattati d’amore indegno. Ma quando si farà giorno, alla presenza del sommo Giudice, si scopriranno le tue laidezze: Hæccine est urbs perfecti decoris? Questa è quella donna, si dirà, che quando più spacciavasi per onesta, allora più nefande commetteva in segreto le laidezze; e con le laidezze andava mescolando i Sacramenti! Questa è quella Giovane che diceva che i suoi amori erano tanto innocenti, ed erano tanto infami? Questa è quella donna, che protestavasi senza errore; e cambia confessore per non essere ripresa, e talora taceva i peccati, vergognandoli di confessarli chi non ebbe rossore di commetterli: Hæccine est urbs perfecti decoris? Adesso puoi negar quei furti, quelle scritture, quel debito, quelle lettere, quei memoriali, quelle mormorazioni; ma nel tremendo Giudizio tutto scoprirà. Che farai dunque? quid facies cum surrexerit ad judicandum Deus?
non si può far altro, per non aver la morte pessima ancora in severitate Judicii che mutar vita. – Appigliatevi ancor voi a questo partito: lasciate l’amicizia, fate la pace; restituite l’altrui. Non vi sapete risolvere? Perciò la vostra morte sarà pessima in severitate Judicii. Oh Dio! Volete sapere perché i peccatori non si risolvono? perché si figurano Iddio sempre amorevole, e Gesù sempre loro Avvocato; senza riflettere che, quanto è maggiore ora la sua misericordia, tanto poscia sarà più severa la giustizia: tacui, patiens fui sicut parturiens loquar. Avete mai fatto riflessione all’orologio, che se ne va per molto tempo cheto cheto: ma come giunge l’ora si mette tutto sossopra; si sconvolge, si fa sentire per tutto … tacui, patiens fui, dice Dio, pareva che io non vedessi le tue iniquità; e perché? Perché non era giunta l’ora del giudizio; ma giunta quell’ora, mi farò sentire a tutto il Paradiso, come appunto si fa sentire la donna a tutta la casa, allorché è oppressa da’ dolori di parto: sicut parturiens loquar, e così parlando vi farà provare la morte pessima nelle fiamme dell’inferno: in horrore inferni.

LIMOSINA

 Volete esser ricchi? Non vi stancate più ne’ mercati, per le fiere, ne’ traffici. Honora Dominum de tua fubstantia, dice Iddio, et implebuntur horrea tua, saturitate vino torcularia tua redundabunt. Fate limosine. e poi vedrete, che vi si empiranno i magazzini di grano, d’ottimo vino le cantine. Eccovi ricchi: Che dite? Negate che siano parole di Dio? Se sono di Dio, credete non possa adempirle? Questo sarebbe un trattar Dio da fallito? Se credete che Egli non voglia mantenerci la parola: questo è trattarlo da falso. Provatelo; probate me super hoc, e vedrete!

SECONDA PARTE

Sarà dunque pessima la morte del peccatore per l’orrore dell’inferno. Vedrà il misero spalancato sotto de’ suoi piedi l’inferno, cioè una prigione, le di cui mura siano di fuoco, di fuoco la volta, di fuoco il pavimento, i ferri di fuoco, l’aria di fuoco, Or io ti dico: ti daria l’animo per tutti i beni del mondo d’entrarvi dentro, e trattenerviti per una mezza giornata? Ah stolto! Ed è pur vero che sei sì privo di senno, che per cose molto minori, per un sozzo piacere, per 9un piccolo interesse, per un sfogo d’odio, accetti di buona voglia di stare in una somigliante prigione, non solo col corpo, ma con l’anima per tutti i secoli senza fine. Senti quel che ti dice Isaia al cap. 33. Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante? Aut quis habitabit ex vobis cum ardoribus sempiternis? Rispondi tu a questa interrogazione del Profeta: come potrai stare tra le fiamme per tutta un’eternità? Hai mai provato ciò che sia fuoco? Certo, perché tu sei quello che hai paura infin d’una favilla che ti schizzi in mano e non puoi soffrirla: come dunque ti eleggi di stare in una fornace, che distruggerebbe i monti? Montes a facie ejus diffluerent, a guisa di cera, non per breve tempo, ma finché Dio sarà Dio. Domanda parere se sia bene per lo sfogo delle passioni guadagnarsi un inferno; a quella moglie scellerata di santo marito  come si riferisce nelle Vite de’ Santi Padri: … vivevano insieme marito e moglie; e quanto uguali di nascita, tanto erano diversi di costumi: santo il marito, perversa la consorte. Venne al suo fine il marito; ed alla vita santamente menata corrispose una morte all’apparenza funesta, poiché piena di pene di tormenti e di agonie tremende. Morto il marito restata libera di sé la rea consorte, si diede con maggior libertà allo sfogo delle passioni, conducendo la sua vedovanza tra suoni, canti, balli e bagordi. Finalmente venuta a morte questa rea femmina, passò all’altra vita con una tal quiete che parve piuttosto la sua morte un placido sonno. La figlia, che era stata spettatrice e della vita santamente menata dal padre, ma sempre tra disgusti ed amarezze, e della vita della madre sempre condotta tra piaceri peccaminosi, e della morte dolorosa del padre, e della morte quieta della madre, andava fra se stessa pensando a qual delle due vite dovesse appigliarsi. Allorché dunque più che mai trovavasi perplessa, ecco che si vide comparir davanti un uomo di aspetto venerando, il quale le disse: che pensieri sono i tuoi, o donzella? Io già li so; teme la fanciulla; la rincorò il vecchio venerando e gli soggiunge: io non son qui per nuocerti, non temere; so che tu vivi irresoluta, né sai determinarti se devi prendere la strada penosa di tuo padre o la lieta di tua madre. Vieni e non temere; e la condusse sulla cima d’un monte, ove introdotta in una gran città, la vide tutta lastricata d’oro e ricoperta di gemme: s’inoltrò, e dentro un palazzo alla reale vide suo padre risplendentissimo e lo riconobbe per beato: gli parlò, si rallegrò, si consolò; voleva trattenersi, ma non glielo permise il vecchio venerando, e condottola giù del monte, la guidò dentro un’oscurissima grotta, ove la giovane intimorita sentendo urli, e strida spietate, non aveva cuore da inoltrarsi; pure rincorata dal condottiere s’inoltrò e vide da lungi una ardentissima fornace, ed in mezzo ad essa la misera madre che ardeva, ed arrabbiata altro non faceva che bestemmiare. Quanto fosse il dolore, ed il terror della figlia, immaginatevelo. Fu tale che, partita da quello spettacolo ritirossi dal mondo a vivere vita santa a similitudine del padre. Muta vita peccatore, perché se tu balzi colaggiù in quella fornace, alzerai il capo da quell’incendio doppo mille, e mille anni, e perché …  griderai, mi tengono in questo zolfo ardente? Ecco la risposta, perché non desti quella pace; perché non ti riconciliasti col prossimo tuo; su dunque, replicherai, mi mandino al mondo e mi farò calpestare da’ miei nemici; mi lascerò fare in pezzi e poi bacerò loro i piedi: odi la risposta: non v’è più tempo; Juravit per viventem in sæcula sæculorum. quia tempus non erit amplius, ardi, brucia. Alzerai la testa e dirai: perché mi tengono in questi incendj? Perché non volete restituire il mal tolto: … lasciate, replicherai, che torni a vivere e dispenserò tutto per limosina sino a morir di fame; ma la risposta sarà: non v’è più tempo, Juravit, etc … Alzerai la testa da quelle tenebre e dirai attonito perché tra tanti tormenti che ancora non hanno fine? Perché vivesti tra gli amori, perché non portaste rispetto neppure alle maritate; neppur la perdonaste al proprio sangue; perché vestiste scandalosamente, e tiraste più d’uno alle disonestà. Lasciate, dirai, che io torni in vita e non solo non prenderò diletti illeciti, ma punirò le mie carni con ogni più rigorosa asprezza; vestirò con tutta modestia senza ombra di vanità: … non è più il tempo, Juravit …. Bisognava pensarvi prima, onde allora non potrai far altro che fremere, arrabbiarti e maledir sopra ogni altro te stesso: … peccator videbit et irascetur, dentibus suis fremet et tabescet, e tutto ciò senza rimedio, perché … desiderium peccatorum peribit ….

QUARESIMALE (XX)

QUARESIMALE (XVIII)

QUARESIMALE (XVIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMAOTTAVA
Nella Feria terza della Domenica terza.


Chi pecca sul fondamento della Divina Misericordia; non sa
ciò che sia la Divina Misericordia; non ne sa il fine; neppure il numero de’ suoi effetti
.

Tunc accedens Petrus ad Jesum dixit, quoties peccabit in me Frater
et dimittam ei? dicit illi Jesus: non dico tibi septies, sed
usque septuagies septies. San Matteo al cap. 28.

Una buona nuova vi reco questa mattina o peccatori. Riceve Pietro da Cristo la potestà di prosciogliere da’ peccati: quodcunque solveris super terram, erit solutum, et in cœlis … Né questa la riceve limitata a poche colpe, ma per quante ne commetterete: non dico tibi septies, sed usque septuagies septies. – Voi, o Padre, pretendete di manifestarci una cosa da noi non saputa con palesarci la Divina Misericordia nel perdono de’ nostri peccati. Eh che ben sappiamo, che misericordia Domini plena est terra; e che Dio est Deus misericordiarum. Fra gli Attributi Divini, siccome ci confessiamo ciechi nella cognizione di quella onnipotenza, che può quanto vuole; di quella sapienza, che conosce tutte le virtù possibili; di quella bontà che accoglie nell’immensità del suo seno ogni bene; così ci dichiariamo di perfettamente conoscere la Divina Misericordia. Che dite miseri? Voi siete pur ciechi. Voi altro non avete in bocca che Misericordia Divina; e pure niente la conoscete. Non me lo credete? Uditemi, che vi farò toccare con mano, non sapersi da voi, che cosa sia Divina Misericordia; non sapersi il fine, non sapersi il numero de’ suo effetti. Taci, o peccatore, taci; né più magnificare la Misericordia Divina, giacché non sai, che cosa ella sia. Se tu sapessi ciò che sia Misericordia Divina, non giungeresti a segno di servirtene per oltraggiarla co’ peccati. Per Misericordia Divina, tu non apprendi altro, che una non curanza del peccato, sicché nulla importi a Dio il tuo mal vivere, nulla le tue sozzure, nulla le ingiustizie, nulla le bestemmie; e par che tu dica le parole degli empii di Giob: eh che Dio trattenendosi con i suoi Angeli in Cielo non bada a ciò che facciano gli uomini in terra, non mira alcun vizio per punirlo, né virtù per premiarla, circa cardines cœli ambulat, nostra non considerat. Ma stolto, che tu sei; come può mai essere, che Egli non curi il tuo pessimo vivere, mentre a sopportarti peccatore sopra la terra e non ti profondar subito nell’inferno, Egli fa uno sforzo della Divina sua clemenza? Quæ te vicit clementia, esclama Santa Chiesa, ut nostra serres crimina? La ragione poi di questo sforzo che Iddio fa alla sua Divina Clemenza, sopportandoti peccatore sopra la terra, è doppia; perché una riguarda lo stesso Dio, l’altra riguarda il peccato; la ragione, che riguarda Iddio è, perché avendo Iddio un odio infinito contro l’iniquità, che vale a dire eguale a quell’amore immenso che porta à sé, ed alle sue divine perfezioni, dovrebbe, subito che tu pecchi punire la tua temerità, e non facendolo fa un sforzo si grande alla sua Divina Clemenza, che Egli stesso per Malachia se ne stupisce, dicendo : Ego Deus, et non  mutor vos et vos non estis consumpti. Come è possibile, dice Iddio, che essendo Io un Signore sì grande e sì potente, voi che tanto m’avete offeso siate ancor vivi, e non siate stati annichilati dalla mia suprema Giustizia? … et vos non estis consumpti. Senti, o peccatore: di buona ragione, dovrebbe sempre succedere a te ciò che accadde a quel Re di Scozia, il quale  nel prendere dalla mano d’una statua un pomo d’oro, che teneva nella destra in  atto di porgerlo, nello stesso tempo fu ferito da uno strale che teneva nella sinistra ed ucciso, pagando con la vita il prezzo di quella avidità: tanto, dico dovrebbe accadere a te, ogni qual volta tu stendi la mano al pomo vietato dalla legge divina, levando  o ritenendo la roba altrui, procurando vendette, cercando sozzure; dovrebbe Iddio scagliare un fulmine sì potente, che ti facesse pagare con la morte temporale ed eterna la disubbidienza; e se non l’ha fatto finora, ciò è derivato dallo sforzo grande, che Egli ha fatto alla sua Divina Clemenza – Come è dunque possibile, che Egli non curi il tuo mal vivere mentre Egli fa sforzo a sé stesso per non punirti nel tuo peccato, che tanto odia? – Né solo fa sforzo per quel che riguarda l’odio, che Egli necessariamente porta al peccato; ma altresì sforza la Divina Clemenza a tollerare il peccato per il peso immenso dello stesso peccato. O quanto è mai smisurato il peso del peccato mortale! È tale, che per sua propria natura dovrebbe in un punto piombare negli abissi chi lo commise: in puncto ad Inferna descendunt. Così seguì negli angeli ribelli, appena si posò sopra le loro spalle questo peso, che non potendo sostenerlo piombarono ad un tratto giù nell’inferno: Videbam satanam tanquam fulgur de cælo cadentem. Il fulmine, voi ben sapete, che subito, che si accende cade a precipizio; né basta, che il fuoco, che di natura sua vola alla sua sfera, voglia sollevarlo; perché il peso di quella esalazione terrestre, di quella pietra, lo sforza a precipitarsi al basso, Tanto per appunto avvenne a lucifero, ed a’ suoi compagni, allorché insuperbendosi, peccarono, poiché il peso del loro peccato gli aggravò tanto, che non bastarono le forze della natura angelica per trattenerli dal precipizio. Sentimi però, tu peccatore, tu peccatrice: quando acconsentiste a quell’invito malvagio, prima anche di venire all’opera dovevi come gli angeli ribelli esser precipitato nelle fiamme, e teco pure doveva esser precipitato quella femmina scellerata che ti portava, quel che ti sollecitava al mal fare; anche le ambasciate; che ti prestava la casa; e se ciò non è seguito, è stato per un sforzo immenso, che ha fatto la Divina Clemenza, e poi ardirai di dire che la Misericordia di Dio sia una non curanza, che Iddio non si curi del tuo mal vivere; mentre Egli fa un sforzo sì grande a non castigarti per il peso immenso del peccato, che di sua natura, come a suo centro ti porta all’Inferno? E se meglio vuoi conoscere di qual peso sia il peccato; rifletti, che l’ombra stessa della iniquità posta sulle spalle del Figlio di Dio umanato, lo fece cadere colà nell’orto di Getsemani; allorché vi comparve in mentre in sembianza di peccatore, per pagare, come mallevadore, quei delitti che non aveva contratto: quæ non rapui, tunc exolvebam. Or se l’apparenza, l’ombra sola del peccato posta sulle spalle del Redentore lo fece cadere a terra, procidit in faciem suam, di che peso deve mai essere questo peccato di cui tu, scellerato, non porti l’ombra ma la sostanza? Se le spalle d’un Dio non ressero al solo sembiante del peccato: sicché ebbe a dire laboravi sustinens; non posso più come vuoi dunque che Egli non faccia sforzo a sostenere te pieno di tanti vizi? Sì, sì, grida l’Apostolo: sustinuit in multa patientia vasa iræ, non vi vuol meno della sua infinita pazienza, per trattenersi dal fracassare questi vasi pieni d’iniquità tanto a lui odiosi? – Passo ora avanti e dico che se Iddio fa tanto di sforzo a sopportare il peccato, qual non farà mai a perdonarlo? O che sforzo immenso! Il peccato si commette con somma facilità, mentre basta uno sguardo a compirlo: basta una parola, un pensiero; ma commesso è di sua natura difficilissimo a disfarsi; ed è sì difficile che tra tutte le creature sì passate, come presenti, sì possibili, come future, non vi è forza che basti a tanto. Attenti. Cada sopra di voi (Dio non lo voglia) scossa da fiero terremoto la vostra casa certo da per voi non potreste liberarvi dal peso: non così, se tutti gli uomini si accordassero; e molto, più se un Angelo vi soccorresse: e pure quanti vivono buoni in terra, quanti regnano beati in Cielo, neppure la Madre di Dio sarebbero sufficienti a distruggere un peccato mortale. Chi è caduto nel peccato vi farebbe infallibilmente eternamente sotto, se il Signore non v’impiegasse la sua destra; dicendo Egli per bocca d’Isaia: Ego ego sum, qui deleo iniquitates tuas. O peccato mortale quanto mai sei terribile! mentre per scancellarti vi vuole l’Onnipotenza Divina. Allor che voi UU. miei nell’andarvi a confessare dite: Io mi confesso a Dio Onnipotente: Confiteor Deo omnipotenti … voi intendere di dire, secondo l’intenzione di Santa Chiesa, che vi vuole l’Onnipotenza Divina a perdonarvi i vostri peccati. E che ciò sia vero, sappiate che l’Onnipotenza Divina nel perdonarvi i vostri peccati fa uno sforzo maggiore, che non ha fatto precipitando all’inferno tutti i demonii, e con essi tante, quante sono le anime de’ dannati; in quella guisa appunto che prodigio molto maggiore sarebbe respingere un fiume solo all’indietro verso la sorgente, che lasciarli correre tutti a scaricarsi nel mare. Se così è, pongansi dunque, dirò io, sopra le porte dell’inferno le parole che a suo malgrado confessò Faraone colà percosso nell’Egitto: Digitus Dei est bic, qui Iddio nel castigare i ribelli impiega un dito della sua destra, e sopra i tribunali della sacra Confessione incidasi a caratteri indelebili, questa verità: Dextera Domini fecit virtutem, qui la destra di Dio impiega tutta la sua virtù, per perdonare i peccati; giacché vi vuole lo sforzo della sua Onnipotenza. – Uditemi, e stupite: più fa Iddio di sforzo a perdonare un peccato solo, che non fa a dare il Paradiso a tutti i suoi eletti. Serafini del Paradiso, affacciatevi ad uno di quei balconi celesti, è ordine di Dio, che apriate una di quelle porte eternali, acciò possiamo dare un’occhiata a quei tanti Beati, che colassù regnano. Miei UU. quei che colassù vedete fra quelli splendori, sono quei cento quaranta mila predestinati veduti da San Giovanni, e quelli che con egual pompa vestiti portano in mano l’Aureola di Martiri, sono quei dieci mila Crocifissi già sul Monte Árat. E quel Coro di Vergini immenso, che tanto tira a sé l’ammirazione, sappiate che sono quelle undici mila donzelle, che sotto le bandiere di Sant’Orsola conservarono perpetua la Verginità. Or figuratevi , che questi tre gran Cori di Confessori, Vergini e Martiri tutti insieme, e tutti in un dì avessero fatto il loro ingresso trionfale nella Città de’ Beati: dissi poco, voglio, che a questi stuoli sì numerosi aggiungiate quanti furono Confessori e Vergini, ed a loro uniate quegli undici milioni di Martiri, che vanta Santa Chiesa, e tutti, tutti in un dì facciano il loro ingresso nel Paradiso. O che trionfo, o che pompa sarebbe mai questa. Qui sì, che potrebbe esclamare con San Paolo: nec oculus vidit, nec auris audivit. Io non credo, che possiate immaginarvi liberalità maggiore del nostro Dio: e pure Iddio fa più di sforzo con perdonare un peccato solo a quella donna impudica, a quel giovane svergognato, che non fà con dar la corona a tutti gli Eletti del Paradiso; e la ragione è chiara, perché una tal Corona è loro dovuta per giustizia dopo la promessa fattane alle opere buone; là dove ad un peccatore altro non si deve che fuoco e tenebre, disperazione e morte eterna e però il rimettergli quella pena, il distruggere la loro colpa, il donargli la grazia, è come uno sforzo della Divina Misericordia, corroboravit misericordiam suam. Bisogna dunque confessare a primo ad ultimum, che la Misericordia Divina non è una noncuranza di Dio del vostro mal vivere, mentre Dio fa uno sforzo sì grande a perdonare il peccato. Confessa dunque, o peccatore, che quando tu magnifichi l’attributo sì bello della Divina Misericordia, tu non sai, che cosa dici; mentre per te vivendo in peccato mortale non vuoi dir altro se non che Dio non guarda alle tue laidezze, a’ tuoi furti, alle tue vendette; non è così no! È bensì vero che quanto sei peccatore ignorante in ciò che sia Misericordia Divina, altrettanto sei ignorante in non sapere il fine che ha la misericordia di Dio nel sopportar le tue colpe e nel perdonartele. Perché credi tu che Iddio non ti abbia ancora castigato di quelle insidie che tramasti; di quei voti segreti che consegnaste più alla passione, che al giusto; di quelle irriverenze alle Chiese; di quella disubbidienza a’ tuoi maggiori; di quella negligenza sì mostruosa nell’allevare i figli, lasciando che i maschi girino male accompagnati per ogni strada, e le femmine discorrano con chi che sia dalle finestre e su le porte. Perché, dico, credi tu, che Dio non ti abbia ancora castigato? Credi tu che Iddio abbia avuto per fine per che tu seguiti una tal vita, e v’aggiunga di più l’andare casa per casa seducendo or questa ed or quella; sicché il fine d’una amicizia malvagia sia il principio d’un’altra e non rimanga al fine prato, ove la tua disonestà non lasci stampate le orme de’ tuoi eccessi? O quanto t’inganni! Non è questo il fine, perché la Divina misericordia tarda ed aspetta a castigarti; ma è quello che ti pone avanti gli occhi l’Apostolo, allorché dice: benignitas Dei ad pænitentiam te adducit. Il fine che ha Iddio in non castigarti subito dopo il peccato, è per darti tempo di riconoscersi, e perché tu distrugga per mezzo d’una santa Confessione il peccato che annidi nel cuore, prima che venga l’ora di distruggere te nella tua ostinazione: ad pænitentiam te adducit. Se Egli non ti castiga per le tue scelleraggini, e perciò ti si fa conoscere per buono; è segno che vuole che tu impari a temerlo, giacché non sarebbe buono, se non fosse nemico degli scellerati. Vuoi, che tu intenda, che quanto più Egli è buono, tanto più farà grave la tua colpa; ricompensando tu co’ tuoi tradimenti i Divini suoi benefizi; vuole, perché Egli è buono, che tu ti sforzi d’imitarlo nella bontà e nell’odio che Egli porta al peccato: respicere ad iniquitatem non potest. Intendila, o peccatore, fine perché Iddio ha di te misericordia, e non ti castiga, è perché tu ti emenda; ma tu a guisa di Napello velenoso, quanto sei più bagnato dalle rugiade della Divina pietà, tanto diventi più reo. Perché Dio ti aspetta, perché Dio ti chiama, perché Dio ti colma d’ogni bene; vai dicendo, se non con le parole, certo co’ fatti, dunque si può vivere a capriccio. Taci, taci, e confessa pure, che senza sapere ciò che sia Divina misericordia, né pur capisci, che il fine delle sue Divine operazioni è perché tu ti ravveda: Ignoras quod benignitas Dei ad pænitentiam te adducit. Né pur l’intese a suo gran costo un certo giovane, che vivendo una vita più da bestia, che da uomo, allorché ne era corretto, rispondeva: Iddio è buono: con tre parole mi salvo: Domine, miserere mei. Avvenne però, che un giorno dopo molti stravizi, montato per diporto sopra un cavallo, nel passar che faceva per un ponte, gli si inalberò di tal maniera che gettato di sella il suo cattivo padrone, lo precipitò in un profondo d’acqua. Privo all’ora l’indegno e d’aiuto e di consiglio, invece di ricorrere a Dio con le sue tre premeditate parole, Domine miserere mei: Signore abbiate pietà di me, ne proferì arrabbiato tre altre del tutto opposte, e disse disperato rapiat omnia demon, il diavolo si pigli ogni cosa; e con questa raccomandazione d’anima, si annegò. Or mirate un poco, amatissimi peccatori, quanto siano ben fondate le speranze di quelli che, sulla speranza della Divina Misericordia, offendono Dio più temerariamente. Eh scuotetevi una volta, ed aprite gli occhi per conoscere la vostra ignoranza: intendendo, che se Dio non ci castiga, è perché ci vuole emendati; e se non volete errare appigliatevi al consiglio del Savio, che vi dice: Ne dixeris misericordia Domini magna est, misericordia enim et ira illius cito proximant. Non ti lasciar mai uscir di bocca questa parola con fine di peccare più francamente. Ma, e perché? Non è forse grande, e grandissima? Ma bisogna che tu sappia, che a lato di questa grandissima Misericordia, vi sta la Giustizia: misericordia enim, ira illius cito proximant. Sappi pertanto, che Iddio, se tu non ti risolvi di lasciar quella pratica, di levarti dal cuore quell’odio; di restituire quella roba male acquistata, metterà mano alla spada dell’ira: e con un colpo solo te le farà pagare tutte, troncherà la tua vita in mezzo a’ tuoi giorni: farà che tu non trovi un confessore che ti ammonisca. Darà su l’estremo tuo, licenza più ampia al diavolo di tentarti, ti assisterà con un aiuto meno speciale, e tu perduto ingannatore di te stesso, andrai ad imparare nelle fiamme dell’inferno il fine che aveva la Misericordia Divina nel sopportarti. – Poveri peccatori, che non siete meno ignoranti nel sapere il numero de’ suoi effetti. Aprite gli occhi. Talpe infelici d’inferno, per conoscere che se la misericordia di Dio è infinita, non sono però infinite le sue miserazioni; cioè a dire, non sono infinite le volte che vuole aspettare, che vuole perdonare, anzi sono determinate dal consiglio della sua Providenza. Tutte le opere di Dio non sarebbero di Dio, se non fossero fatte in numero, pondere et mensura. Sappi, dunque, o peccatore, che tutte quelle grazie che ha stabilito Iddio di darti, tutte quelle inspirazioni e lumi con cui vuol sollecitare il tuo cuore a pentirsi, sono tutte parimenti in numero, peso e misura. Or se tu consumi invano questa misura, che sarà di te? Avrai, non lo nego, sempre la grazia sufficiente a resistere alle tentazioni; ma non l’avrai sempre a risorgere, e quando l’avrai, non te ne saprai prevalere. – L’Evangelista San Matteo vi confermi questa verità. Vi fu un certo padrone di vigna, il quale tra le sue viti aveva piantato un albero di fico; ma cresciuto al debito segno, invece di far frutti faceva sol pompa di foglie. Tre anni tollerò il padrone la sterilità di questa pianta, per chiarirsi se il mancamento veniva dalla stagione; ma in capo a questi vedendo sempre più sterile l’albero: olà, disse al lavoratore, taglia questa pianta inutile, e gettala al fuoco, perché non è dovere che occupi sì lungamente il terreno senza dar frutto. Ecce tres anni sunt ex quo venio, quærens fructum et, non invenio; succide ergo illam ut quid terram occupat. A tali risoluzioni del padrone resistette il lavoratore ed intercede tanto di tempo da potere adottare intorno alla pianta infruttuosa qualche coltura più singolare, con protestarsi che se quella diligenza non fosse stata bastevole, si venisse, pure allora, al taglio senza rimedio: sine illam, et hoc anno usque dum sodiam circa illam, mittam stercora, fin autem non fecerit fructum in futurum succides eam. Peccatori miei dilettissimi, intendete voi questo linguaggio di Cristo, per il quale io mi riempio d’orrore da capo a piedi? In questo fico sterile vien figurata l’anima vostra. Quanti anni sono che il Signore aspetta da voi veri frutti di penitenza? Non sono tre, ma forse dieci, venti, trenta, e voi gli porgete foglie. Avete tante volte promesso al confessore l’emendazione, ma non se n’è fatto nulla; vi siete protestati di lasciar quei compagni amici di corpo e nemici crudeli dell’anima, e pur con quelli ancora si continua la pratica ed il peccato. Quante volte avete detto: restituirò, restituirò? E la roba è ancora in casa, e che altro potete aspettarvi che rovine? Eh che Iddio annoiato per tante ricadute, e per vedere che non solo non si danno frutti buoni, ma bensì pessimi d’iniquità e di scandalo; avrà di già spedito l’ordine del taglio irrevocabile per più d’uno di voi. E se così è, che sarà di voi? Io non credo che per anche sia data questa terribile sentenza, perché mi figuro che l’Angelo vostro custode, i vostri Santi Avvocati, la Vergine vostra Madre si saranno portati al Trono di Dio con supplicare che si sospenda il comando; perché sperano che nell’udir voi la Divina Parola. E nel vedere esempi di compunzione vi convertirete, ma se taluno poi dopo aver sentita questa intenzione, rimanendo ostinato con continuare nella sua vita scellerata altro non si aspetti che esser miseramente reciso da colpo di morte spietata per esser gettato in quel fuoco che merita … Sin autem non fecerit fructum in futurum, succides eam. – Peccatore, peccatrice, non vi andate più lusingando con dire dentro di voi: Iddio è buono m’ha aspettato finora m’aspetterà in avvenire: falso, falso. Se quella pianta sterile avesse così discorso, il padrone m’ha tollerato quattro anni senza frutto, dunque mi tollererà in futuro… certo non avrebbe discorso che pazzamente. Tu altresì discorri da pazzo, e tanto più che non solo sei inutile ma ancora nocivo, mentre non solo lasci di fare il bene, ma commetti anche tanto di male. Deh lasciati una volta condurre da questa guida amorevole a penitenza; e non voler più resistere alle divine chiamate; perché, se è infinita la Divina Misericordia, sono però limitate le miserazioni. Da che viene questa grande ignoranza intorno alla Divina Misericordia, ed i suoi effetti? Non da altro per verità, se non perché si considerano solamente i peccati presenti, quelli soli, che per anche non si sono confessati, senza prendersi alcun travaglio di quelli che già furono manifestati al confessore; quasi di partite già saldate abbastanza. È vero miei UU. che se avete fatta una buona confessione con vero dolore e fermo proposito, i vostri peccati son rimessi, ma è altresì vero ciò che il Santo Giob ci significa in quelle parole: signasti quasi in sacculo peccata mea, che vale a dire la Divina Giustizia poste tutte le nostre colpe una sopra l’altra quasi dentro un sacco, perché quando il sacco sia poi pieno, il fulmine dell’Ira Divina piomba sopra degli Empi senza riparo. Voi non sapete, o peccatori, di quanti peccati sia capace il vostro sacco, e però state avvertiti, perché  può essere che il primo che commetterete lo riempia, e se così è, siete perduti. Confesso il vero, che alle proteste dei maggiori Dottori della Chiesa, sì Greca come Latina, San Basilio e Sant’Agostino, io m’inorridisco: ci fanno questi sapere, avere Iddio determinato una certa misura de peccati che vuole sopportare da ciascheduno, la quale se si oltrepassa da chicchessia, o il Signore mette subito mano al castigo, o almeno lascia di assistere con quelli aiuti straordinari, senza de’ quali, sebbene il peccatore potrebbe salvarsi, pure de facto, non si salverà per sua colpa; ma se m’inorridisco a queste proteste de Santi, che farò alla voce di Dio, che nelle Sagre Scritture ci insinua questa stessa misura di colpe, protestandosi, che per aver i peccatori passato quel segno, che Egli aveva stabilito ad usar loro pietà, non l’avrebbero ottenuta, super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam; super tribus sceleribus Gaze, et super quatuor non convertam eum. Ecco le proteste terribili di Dio per bocca d’Amos Profeta: Si dichiara assolutamente che quella misericordia, che averebbe presso di lui trovato il primo, il secondo, il terzo eccesso, non era per ritrovarla il quarto, … super quatuor non convertam eum. E tu, peccatore, discorrendo da quell’ignorante che sei, vai teco stesso divisando di dover trovare la stessa facilità in Dio nel perdonarti due, tre, e quattro peccati, come nelle centinaia, che finora hai commesso? Bene, seguita pure, che presto verrà la morte, e ti accorgerai del tuo errore allorché l’anima tua a viva forza sarà portata dai diavoli nel mezzo delle fiamme per ardervi eternamente. Tanto appunto intervenne ad un uomo che non contento della compagnia datagli da Dio d’una buona donna, si teneva con scandalo una concubina. La moglie, a cui più dispiaceva l’offesa di Dio che il suo torto, di continuo pregava per lui: s’ammalò l’indegno marito, e per scampare da quella pericolosa malattia fece molte promesse di mutar vita; le credette la donna, e però per impetrarli più facilmente la sanità ricorse ad un Servo di Dio, Frate Innocenzo de Cusa, uno de primi Compagni di San Pietro d’Alcanrara, per mezzo di cui l’infermo risanò: ma che? siccome i voti fatti in mare si rompono in terra, così le promesse fatte da costui in letto si ruppero in sanità, gli era stata impetrata con condizione di servirsene in bene; tornato al peccato, tornò altresì la malattia; tornarono ancora le promesse a Dio ed alla moglie di conversione: sicché la buona donna tornò la seconda volta da Fra Innocenzo, e nuovamente impetrò la sanità. Era pur vero, che neppure questo secondo avviso bastò, perché lasciasse il peccato; tornò la terza volta ad abusarsi della sanità ricevuta, ed a ripigliare le sue disonestà, persuadendosi di trovar sempre aperta ad un modo la porta della Divina Misericordia, ma s’ingannò! Imperocché mentre Fra Innocenzo stava in orazione sentì uno strepito di cavalli ed un mormorio di voci nella strada, e fattosi a vedere che cosa era: vide una quantità di diavoli sopra cavalli d’inferno, che conducendo un cavallo vuoto per la briglia, e … chi siete? Disse, ed a chi serve quella bestia scarica? Noi siamo ministri della Divina Giustizia, ed andiamo a prender quel mal uomo, che sì lungamente si è abusato della Divina Misericordia. Si fermò il sant’uomo, ed ecco che indi a poco vide tornar la cavalcata con quel meschino in mezzo tutto piangente e con le mani alzate, chiedendo aiuto, ma troppo tardi ripigliò Fra Innocenzo: Iddio ti maledice ed io con Lui, e ciò detto con un fracasso orribile apertasi la terra, sprofondò il tutto. E perché non ho io una lingua di bronzo, una voce di tuono, per rivoltarmi a’ peccatori e dir loro: … ah ingratissimi più spietati delle fiere, più sordi degli scogli, più barbari delle furie, che a sì benefizi rispondete con offese: interverrà a voi invisibilmente ciò che visibilmente intervenne a costui. Non dite più, Iddio mi ha sopportato, dunque mi sopporterà; mi ha perdonato, dunque mi perdonerà; v’è sempre tempo a convertirsi. L’argomento non cammina, cammina bensì così: Iddio m’ha perdonato per l’addietro, dunque non mi perdonerà per l’avvenire, già che mi sono abusato delle sue grazie finora, dunque non le merito più, non mi avrà più pietà. E se fosse così, che al primo peccato che commetterai Iddio ti voltasse le spalle, che sarebbe mai di te? Lascia dunque di peccare e non ti abusare di vantaggio della Divina Misericordia, se non vuoi esperimentare severamente la Divina Giustizia.

LIMOSINA
L’Inghilterra sollevata depose il re Alfredo dal suo trono, e voleva privarlo anche di vita per dar principio a quella tragedia che fu poi compita in un altro re del nostro secolo. La fuga salvò la regia persona che, scampata in fretta dalle mani nemiche nulla più portò seco di vettovaglia, che un pane, e questo chiestoli da un povero per limosina, tutto il diede. Piacque tanto a Dio questo atto, che per mezzo di San Gutberto, apparsogli di notte gli fece dire che tornasse indietro perché sarebbe da’ vassalli ubbidienti ricevuto nella città, introdotto nella regia, e riposto in trono. O che bel cambio: per un pane un Regno!

SECONDA PARTE

Non tornate a peccare, miei UU. sulla speranza di quella misericordia che non intendete, perché io v’assicuro che resterete delusi, come appunto rimasero gli antichi Israeliti colà nel deserto. Essi così dicevano: Iddio è buono, ci ha perdonato altre volte; ha promesso d’introdurci nella Palestina, adunque ci perdonerà nuovamente, e non lascerà d’esserci sempre propizio, ma non l’indovinarono: tentaverunt me per deces vices, dice Dio, nectamen non videbunt terram pro qua juravi Patribus eorum, m’hanno irritato dieci volte, li ho sopportati, ora la mia pazienza non ne vuol più: rimangano tutti estinti nel deserto, vedano con gli occhi propri la Terra promessa, ma non per possederla. Ditemi quanto sarebbe tornato conto a quei meschini non arrivare a quel decimo peccato, che fu l’ultimo a compire la misura? Se non vi fossero giunti avrebbero trovata propizia la Divina Misericordia, avrebbero goduto il frutto delle Divine promesse; ma perché vi giunsero, restarono privi d’un tanto bene … chissà che non debba intervenire lo stesso a quel giovane, a quella giovane? Chissà   che la prima volta che tornate in quella casa maledetta, che tratterete disonestamente con quell’uomo, che commetterete quel peccato, non sia quello che dia il crollo alla bilancia? Chissà che il primo peccato, che farai non sia quell’ultimo che Dio non vuol sopportare? Forse non sarà così, potrai dirmi, ma se fosse? Sebbene che dico in forse posso con molto fondamento asserire che sarà? Perché tu non contento di dieci peccati, ne hai commessi cento, e più con le opere, più di duecento con le parole ed a migliaia con i pensieri indegni, o di vendette, di lascivie. Non è più dovere che Dio ti tolleri tanto scellerato: è dovere che la sua Giustizia ti piombi nell’inferno. Confida pure, spera pure, ed intanto non ti convertire, ed assicurati che ti troverà ove non credi. – Si era ribellato a Filippo Secondo in Fiandra il Conte d’Egmont, e ne sperava il perdono su la fidanza della clemenza del suo signore, onde diceva ad un suo confidente, salvabit me clementia regis, la clemenza del mio re mi renderà salvo, ma l’altro l’indovinò meglio, ripigliando, perdet te clementia regis, la clemenza che tu ti prometti con sì poco fondamento, ti manderà in rovina, e così avvenne, perché il conte lasciò la testa sopra d’un palco per mano di carnefice. – Io non ho genio di fare a’ miei UU. cattivi pronostici; ma mi dice il cuore che quell’ostinato che qui si trova tra voi, quel temerario che vuol per l’avvenire seguitare ad essere cattivo, perché Dio è stato buono con lui, abbia da piangere il suo errore con lacrime che non si asciugheranno in eterno. Deh apri gli occhi infelice. Ha forse Dio bisogno di te per esser servito? Forse si ha da vestire a bruno il Paradiso se tu non vi entri? Forse si ha da cambiare in deserto se tu vi manchi? Chi non vuol la pace abbia la guerra; chi non vuole la benedizione abbia la maledizione; chi non vuol salvarsi si danni! Ma che dico? Oh mio Dio: neppur uno si ha da perdere di questi che m’ascoltano. È troppo gran perdita la perdita di un’anima sola, che costa il vostro preziosissimo Sangue, e perciò non sia mai vero che perisca. Ah mio caro Signore purtroppo conosco la mia poca abilità per convertire questi cuori, e se io guardassi a questa sola, non mi sarei posto all’impresa che ho per le mani di convertire quei peccatori che ancora sono ostinati. E che posso fare io miserabilissimo? Io posso parlare, posso pregare, posso minacciare; … docebo iniquos vias tuas… posso dire col Profeta, ma non posso egualmente soggiungere … et impios hos ad te convertam, perché il convertire tocca a Voi, et impii ad te convertentur, la vostra grazia è quella che può far tutto, e questa è quella che imploro! M’avete comandato che io venga a questo popolo, son venuto. M’avete comandato che io l’inviti a penitenza; l’ho invitato. M’avete comandato che io l’ammonisca; l’ho ammonito … fecit quod jussisti; ma il muoverlo, il convertirlo, il ridurlo a Voi, non è impresa delle mie forze, ella è tutta riservata all’onnipotenza del vostro aiuto, secondo la promessa fatta, la spero … fecit quod jussisti, imple quod promissisti!

QUARESIMALE XIX

QUARESIMALE (XVII)

QUARESIMALE (XVII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA DECIMASET


Si mostra la sciocchezza di chi importunamente giura, l’enormità di chi spergiura, l’indegnità di chi bestemmia.
In veritate dico vobis. San Luca, cap. 4



Se la medicina delle anime si deve valere a proporzione di quelli stessi aforismi de’ quali si serve la medicina de’ corpi, male per chi importunamente giura, peggio per chi spergiura, pessimamente per chi bestemmia. Guai a voi, che con giuramenti senza proposito vilipendete il nome di Dio, con spergiuri ne strapazzate l’autorità, e con bestemmie ne disprezzate la Maestà; voi che così fate, siete a mio credito, con un piede nell’Inferno. È legge stabilita dai medici, che nei mali singolarmente acuti, i più certi segni si colgano dalla lingua, stimata allora sì fedele nel darli, che vince il polso. Quando vedasi per tanto in bocca d’un febbricitante una lingua che nel medesimo tempo comparisca o nera come uno spento carbone, o ardente come un acceso, sappiate che in tal caso, quantunque il polso, sto per dire, ottimamente regolato, asserisce perfezione di sanità, non gli si deve credere, ma dovendosi prestare tutta la fede alla lingua, può apparecchiarsi il funerale ed aprirsi il sepolcro, perché l’infermo è spedito. Lingua nigra e virulenta calamitosissima, scrisse da suo pari, Ippocrate. Lo stesso dirò io nella cura delle anime vostre. Se io tocco il polso ad alcuni, non lo trovo cattivo; vengono molti alla Chiesa, altri digiunano, dispensano altri larghe limosine, non tralasciano le quotidiane orazioni, assistono ogni dì al Sacrificio della Messa, tutto è vero. Ma a che servirà se la lingua loro è tutta infiammata per i continui giuramenti e spergiuri, e quel che è peggio annerita ed avvelenata per le bestemmie? Avvertite voi che avete lingue sì perfide, e che senza riguardo alle anime vostre, senza rispetto a Dio giurate, spergiurate e bestemmiate, perché avete dentro di voi un’occulta malignità, la quale vi darà morte eterna. Con voi dunque me la prendo, mostrandovi la sciocchezza di chi giura importunamente e l’enormità di chi spergiura, e l’indegnità di chi bestemmia; l’argomento merita attenzione. – Non vi crediate già miei UU., che io intenda vietarvi il giuramento lecito, o questo no! Pertanto, se la necessitá di purgare voi stessi falsamente accusati, o per motivo di liberare il prossimo a torto oppresso, siete costretti a giurare, giurate. Tanto v’approva ancor Socrate, vel ut teipsum turpi suspicione liberes, vel ut amicum ex magnis periculis eripias. Lo stesso Dio per Geremia al Cap. 4. v’assicura di giuramento ben fatto e senza colpa, ogni qual volta vi concorrano tre circostanze: et jurabis vivit Dominus, in Veritate, in Judicio, in Justitia; Io dunque torno a dirvi, non intendo del giuramento ben fatto, ma bensì me la prendo contro l’intollerabile costume di non pochi Cristiani, i quali non fanno aprir bocca senza giurare, ed è sì frequente un tal abito in loro, che Sant’Agostino potrebbe tornare, anche ai dì nostri ed esclamare, non essere ormai tante le parole che si proferiscono, quanti i giuramenti che si fanno. Entrate per le botteghe e sentirete che le bocche di quei lavoranti non sanno parlare senza giurare; portatevi a quei fondachi, a quei banchi, non sentirete altro linguaggio che per Dio, alla fede di Dio. Penetrate le case, non solo della plebe più infima, ma della nobiltà, e quivi pure sentirete lo stesso; così per le strade, così per le piazze, sicché l’aria è ammorbata di giuramenti; anche le Chiese son costrette a sentire questi giuramenti, e talora da Sacerdoti, nelle di cui bocche, se le bagattelle, al dir d’Agostino, sono quasi bestemmie, che sarà sentir continui giuramenti? È vero Padre, si giura; ma non per questo si commette peccato grave. Basta, io non voglio qui decidere se siano peccato mortale! Dico bene che questo è un disprezzare il Nome di Dio, e che Iddio, così maltrattato da voi con tanti giuramenti senza necessità, si dichiara volersi vendicare. Sentite come parla nel Deuteronomio al 5. Non erit impunitus, qui super re vana nomen meum assumpserit: sarà castigato, chi mi maltratta, servendosi invano del mio Nome. Ma se Iddio si dichiara di voler severamente punito chi giura per cose indifferenti, quali castighi non adoprerà per punire quelli indegni che ardiscono chiamare in testimonio Iddio per un’azione proibita dallo stesso Dio? Mi spiego: quali castighi non adoprerà per punire quel giovane che chiama in testimonio Iddio per sedurre quella giovane, con giurarle l’amore che le porta, che la sposerà, e la fedeltà che le userà nel tradimento, che sarà per farle togliendole l’onore. Sarebbe, quasi dissi, poco male, se il giurar senza proposito che vale a dire vilipendere il Nome di Dio, partorisse solo gli accennati mali. Il peggio è, che dal giuro si passa facilmente allo spergiuro, impossibile est jurantem non perjurare; dal giuro allo spergiuro v’è un breve passo, che è quanto dire che dal vilipendere il Nome di Dio con giuramenti, si passa a strapazzare l’autorità con gli spergiuri. Mento forse a dire che gli spergiuri strapazzino l’autorità di Dio? Appunto, ecco che ve’l fo toccar con mano, e vi fo vedere che strapazzate in modo l’autorità di Dio, chiamandola in testimonio delle vostre falsità, che vi vergognereste di strapazzare in tal forma quella d’un uomo vostro pari. Vien qua tu che nelle piazze, nelle botteghe, ne’ tribunali giuri il falso, dimmi: quando tu sei risoluto di fare quel giuramento falso, ardireste di chiamare quell’amico, quel cavaliere, e di dirgli: signore, venite di grazia meco e con me fate falso testimonio che questa roba val tanto; dite che il tale ha rubato, ha ucciso, quantunque non sia vero, oppure venite a dire, che ho pagato, benché non sia vero. Dì su, ardireste di richiedere ad un cavaliere queste cose? No per certo. Come dunque le chiedi a Dio? Esclama Filone: quod ab amico non audes postulare, ad id Deum vocas? O cosa orribile, chiamare in testimonio Iddio per opprimere il prossimo. Ma che meraviglia che costoro spergiurando disprezzino l’Autorità Divina, mentre con i loro spergiuri giungono a far di peggio. Sapete quello che voi fate con giurare il falso? Voi con lo spergiurare in un certo modo rinegate Dio, rinunciate a Cristo, abiurate il Vangelo, negate la Chiesa, i Sacramenti con tutti gli articoli di nostra Fede e divenite ateisti. Ecco le parole di Damiano: Quisquis jusjurandum violat, a Christi se corpore separat, a Redemptionis humanæ misteriis alienat; chi viola il giuramento si separa, quale scomunicato, dal Corpo Mistico di Cristo, che è la Chiesa, ed aliena da sé tutti i Misteri dell’umana Redenzione. Quando ti viene offerto il libro de’ Vangeli, acciò che tu giuri sopra di quelli, tu dici così: è tanto vero ciò che io giuro, quanto è vero questo santo Vangelo; dunque, se è vero ciò, che tu giuri, vieni a dire, che è vero ciò che dice il Vangelo, e se giuri il falso, vieni a dire che è falso il sacrosanto Vangelo, ed è come se tu dicessi: non è vero che Cristo sia Figlio di Dio; non è vero che si sia incarnato per opera dello Spirito Santo; non è vero che sia nato di Maria Vergine; non è vero, che per noi abbia patito, e sia morto; non è vero che sia risorto, né salito al Cielo; nego che sia per venire a giudicare il mondo, nego il suo eternamente regnare in Cielo, nego Purgatorio, nego inferno, nego Paradiso, e dico in somma esser falso quanto contiene questo libro dei Vangeli. O Dio, si può sentir cose più indegne dalla bocca d’un ateo, e pure tutto ciò dice uno che giuri il falso sopra del Vangelo. Che farà dunque di questi spergiuri? Ve lo dicano le sacre carte .. – Venite meco al terzo de’ Re, ove vedrete per un spergiuro, castigata la persona, puniti i figli, sterminata la famiglia, rovinata la casa e perduto quanto mai nel mondo possedeva. Nabuccodonosor tolse la corona di Giudea a Giochimo, che con le sue scelleraggini se ne era reso indegno, e la pose in capo di Sedecia, ed il dichiarò re, constituit Regem Judae, e dichiaratolo suo tributario volle prestasse il giuramento di fedeltà. Giurò, ma spergiurò, perché con pensiero di non osservare il vassallaggio che giurava; onde soggiunge il sacro testo, che partito di li spergiurò, si riempì di scelleraggini … discessit, fecit omne malum in conspectu Domini, apostatò da Dio, si diede all’idolatria. Qui fo io una riflessione, e dico: gran cosa, di tante scelleraggini che colui commise, non parla il sacro testo che per queste fosse castigato, ma lo dichiara bensì castigato per lo spergiuro. Così è, così è, tutta la collera e lo sdegno Divino va a cadere sopra del giuramento falso, perché Dio abborrisce tanto chi spergiura, che quasi si scorda d’ogn’altra scelleraggine per castigar questa, e contro di questa si mostra implacabilmente sdegnato; permise dunque Dio che fosse catturato e condotto in Babilonia, ove processato sotto i comandi di Nabucco, fu condannato a morte; né qui finì lo sdegno, poiché, presi i figli, su gli occhi del padre furono fatti scannare. Di più. Ecco la città tutta a fuoco, a sangue; i Tempii, i Palazzi, le mura s’abbruciano, s’inceneriscono. Che dite UU. miei? Iddio è implacabile contro chi spergiura. Di tanto v’assicura Crisostomo, oracolo della Chiesa, segretario di Paolo Apostolo. Intendetela, Dio è implacabile contro chi spergiura, e se tale si mostrò nel vecchio Testamento, tale ancora si è mostrato nel nuovo. Servavi un caso solo spaventoso per tanti che potrei narrarvi, E voi figli infelici, che nascete da padri spergiuri, preparatevi alle vostre rovine, perché Iddio vuole spiantata da’ fondamenti quella casa ove sono spergiuri. In Corsica presso San Bonifacio rimase vedova una donna dabbene a cui il marito, morendo, lasciò trecento ducati per accasare, a suo tempo, una figlia, unico frutto delle loro onorate nozze. Or la bontà di quella semplice donna che dubitava, temendo il danaro le fosse rubato, consigliatasi, lo consegnò ad un suo vicino, totalmente lontana dal sospettare quella frode in altri, che non ammetteva in sé. Cresciuta la figlia in età da maritarsi, domandò il danaro al conoscente, il quale, accecato dall’interesse, negò sfacciatamente d’aver avuto nulla, e se nulla vuoi, disse, va’, chiamami alla giustizia. Afflitta la meschina portò a piangerci amaramente al giudice, adducendo solamente per testimonio la rea moglie del perfido marito. Chiamato in corte l’uomo malvagio con la consorte, si diede loro il solito giuramento, e l’una e l’altro giurarono sopra la propria vita e de’ poveri figli, che nulla sapevano intorno a’ danari. Ma, o Divina Giustizia quanto siete terribile! Tre figli avevano questi due spergiuri, uno di due mesi, di cinque anni l’altro, di venticinque il terzo. Tornata a casa la madre trovò sotto la culla estinto il suo piccolo figliolino, e conoscendo il divino castigo che già arriva, invece di chieder perdono, disperata, uccide l’altro putto con un coltello, né qui termina la tragedia. Giunge il marito, ed attonito per lo spettacolo de’ due figli uccisi, agitato da fieri rimorsi di coscienza, montato in rabbia, con una spada passò petto alla moglie, ed empiendo di grida il vicinato, come la casa era piena di sangue, scoprì da sé gli eccessi. Ecco la Corte che, preso quell’empio col ferro ancor grondante di vivo sangue, lo condanna a morte. Parerà a voi miei UU., che tanto bastasse per punire un giuramento falso, ma non bastò a Dio. Udite e non inorridite, se potete. Mancava in quel paese il carnefice per eseguire la sentenza di morte, quando ecco che ad effettuarla si offre il di lui figlio stesso primogenito, che si fece avanti per vendicare la morte della madre a lui sì cara, vinse col furore la vergogna, montò le scale ed eseguì la sentenza, strozzando su la forca il proprio padre spergiuro, e di poi fattolo in quarti si palesò ingiusto con un atto di somma giustizia. Né qui si quietò la vendetta divina, poiché, passato il furor della rabbia nel giovane, e riflettendo alla ignominia ritratta per essersi fatto carnefice del proprio padre, uccise con quella mano parricida anche se stesso. Intendete o iniqui la protesta che fece Iddio allorché disse, che la maledizione sarebbe discesa sopra gli spergiuri, né mai si farebbe partita, finché non avesse finito di sterminarli da’ fondamenti: maledictio veniet ad Domum jurantis in nomine meo mendaciter; ma non basta che vi venga, vi abiterà, e commorabitur in medio Domus ejus; e di più la consumerà fino a ridurre in polvere quanto vi è dentro, et consumet eam, ligna, et lapides ejus. Criftiani, il giurare il falso è un mettere in rovina totale le vostre case, in evidente pericolo di dannarsi l’anima. Povere case, che avete i vostri capi che spergiurano. Poveri figli che nascete da padri spergiuri. Povere figlie, che per vostra disgrazia siete figlie di spergiure, vi compatisco, perché temo alle vostre persone, alle vostre case rovine irreparabili, non recedet a domo illius plaga, sempre saranno sotto il flagello di Dio! Quando vedete che una casa comincia a dare indietro, gli mancano l’entrate, non può più vivere col primiero splendore, troverassi d’ordinario che o vi fu, o v’è un spergiuro. Assicuratevi che al Mondo non v’è peccatore più iniquo e perverso dello spergiuro. Ogni peccatore ricusa, dice il Santo David, d’aver Iddio presente alle sue iniquità; dixit insipiens in corde suo non est Deus, solo lo spergiuro lo vuol presente, e lo chiama per testimonio delle sue scelleraggini. Poveri loro, che non avranno chi l’aiuti, essendo in dispetto anche ai Santi. San Gregorio fa questa osservazione, che a suo tempo venivano ai sepolcri de’ Santi Martiri, gl’infermi e guarivano, gl’indemoniati e si liberavano; ma se venivano gli spergiuri, questi più che mai erano travagliati da’ loro mali; ad Martyrum sepulchra veniunt ægri, et sanantur, veniunt dæmoniaci curantur, veniunt perjuri, a demonio vexantur; se la sono presa con Dio, e però par che non trovino, neppur pietà ne’ tempii, e par che loro intervenga, come suole avvenire nelle cause contrarie al Principe, per le quali non si trova né avvocato che scriva, né procuratore che voglia agitare la lite, né giudice che sentenzi; hanno troppo vilipesa l’autorità di Dio con i loro spergiuri. – Ah lingue indegne raffrenatevi, e giacché v’ho mostrato quanto indegna cosa sia, ed a quali castighi vi porti non solo il vilipendio del Nome di Dio negli inutili giuramenti, ma molto più il disprezzo dell’Autorità divina negli spergiuri, sappiate che questi, come gradino alle bestemmie, vi condurranno a disprezzarne la Maestà, e di conseguenza alla, quasi dissi, sicura perdita dell’anima vostra. Intendetela, quanto e difficile non mentire a chi giura, altrettanto è difficile non bestemmiare a chi spergiura, non essendovi dallo spergiuro alla bestemmia, che un breve traghetto. Accade in quest’affare ad un’anima, ciò che avviene ad una piazza assediata, finché si difendono le fortificazioni esteriori non vi è paura; ma come l’inimico arriva a sbucar nel fosso è agevolissimo che dal fosso arrivi a piantare vittoriosa bandiera sopra le muraglie. Appigliatevi dunque, miei UU., al consiglio di Cristo in San Matteo al quinto: nolite jurare omninò; non giurate senza cagione molto grave, altrimenti il giuramento vano, in breve aprirà la strada allo spergiuro, e questo alle bestemmie, come s’avviene per ordinario che pochi soldati lasciati incautamente salire sul muro aprono poi le porte al grosso dell’esercito che è di fuori; temete questo gran pericolo di passare dal giuramento agli spergiuri, e dallo spergiuro alle bestemmie. – Sapete voi quello vuol dire bestemmiare: vuol dire che, siccome con lo spergiuro si strapazza l’autorità divina, così con le bestemmie si strapazza la Maestà. Questo è quello che voi fate con quelle vostre bestemmie, non solo semplici, ma talora ereticali. Sapete a che segno arrivate con le vostre sacrileghe bocche (perdonatemi Angeli Santi del Paradiso, se io mi servo degli scellerati termini di questi indegni, altro fine non ho che emendare il peccatore, e pur temo che non mi si ascriva a colpa) arrivate a dire, lo dirò con parola meno indegna; ma no, perché tuttavia, me l’impedisce il rossore. Cieli, e perché tenete oziosi i fulmini? Mare, e perché non allaghi la terra che contiene questi empi? Terra, e perché non li subissi? Quello però che più aggrava il vostro esecrabile delitto è quel non capirsi a qual fine, per qual pretesto, con che speranza d’utile, voi v’induciate a bestemmiare. Certo che voi non bestemmiate per gusto, perché i bestemmiatori si cibano di veleno amarissimo, né pur di reputazione, perché, se è infame chi bestemmia il suo Principe,
conforme la legge, quanto sarà più infame chi bestemmia il Principe de’ Principi: Rex Regum; né tampoco d’interesse, perché dopo aver bestemmiato non hanno accresciute le loro facoltà, né soddisfatto a’ loro creditori. O che pazzi, o che stolti sono mai i bestemmiatori, perché senza un’ombra d’utile assassinano l’anima loro con colpe gravi. Dio immortale, (perdonate al mio parlare) che i vendicativi vi oltraggino con le vendette hanno pure qualche diletto in quello sfogo di vendetta; che i sensuali v’offendano con le loro sensualità è un gran male, ma pure hanno il piacere nelle loro sfrenatezze; che tanti s’ingrassino con la roba altrui, è deplorabile, ma finalmente ne provano qualche utilità. Ma questi bestemmiatori indegni, che ne ritraggono dal loro sputare in faccia de’ Santi, della Vergine, di Dio, le loro bestemmie? Nulla, nulla, tutta è malizia d’inferno. Il bestemmiatore supera la malizia del diavolo, perché, se il diavolo bestemmia Iddio, lo bestemmia, perché è tormentato con pena di fuoco, e fuoco eterno, ma esso bestemmia quando è favorito con benefizi. Arrossitevi al racconto d’un fatto degno. Quel Santo Vescovo di Smirne, Policarpo, fu in età cadente citato al tribunale del proconsole come adoratore di Cristo. Era però di tal fama presso ognuno, che anche i nemici ne avevano venerazione; onde è, che quello stesso tiranno, che prima lo citò per ucciderlo come reo, dopo bramò salvarlo come innocente; ma non potendo ottener da lui, né con preghi, né con promesse, né con terrori, che ritrattasse la Religione Cristiana, gli fece per ultimo queto partito, che egli, se non col cuore, almeno con la lingua bestemmiasse una sol volta il Nome di Dio, e se ciò faceva gli prometteva di mandarlo subito alla sua Chiesa, non solamente libero d’ogni insulto, ma carico di doni. A questa diabolica proposta si riempì d’un Santo orrore il venerabile vecchio; indi, alzati gli occhi al Cielo: sono, disse, ottantasei anni che io servo questo Signore dal quale, non solo non ho ricevuto disgusti, ma sommi benefici, e come posso indurmi à betemmiare un tanto padrone? Sono venti anni, sono trenta, sono cinquanta, o peccatore, che questo padrone ti benefica con roba, con figliolanza, e tu in ricompensa, altro non fai che bestemmiarlo. Ma non dubitare, che Dio ti castigherà, quando meno te l’aspetti. –  Si racconta come si trovava in un circolo un bestemmiatore, il quale fu sì preso, e gli fu detto, che Dio l’avrebbe castigato, ed egli rispose sfacciatamente: che vuol farmi Iddio? Sì è? Lo vedrai adesso; non ti vuol mandare fulmini dal Cielo che t’inceneriscano, né terremoti che ti subissino. Ecco, come vuole castigarti. Ecco, che per aria si fa vedere un piccolo moscerino, il quale girando e ronzandosi posò sul naso di quel bestemmiatore. Egli lo scaccia, torna il moscerino e lo manda via; ritorna e gli entra nel naso; procura di levarlo, ma non fi può; sale il moscerino alla testa, s’aiuta quel bestemmiatore. (Or vedi cosa può farti Iddio! ). Ed in un tratto alla vista di quelli amici dà il meschino tre girate tondo tondo, e cadde morto. Ecco il fine di questi superbi, così son trattati da Dio. Che farà di te, se non t’emendi? – O Padre, è vero, che bestemmio, ma solo quando sono in collera, ed io vi rispondo è possibile che per le vostre rabbie, e per i dardi della vostra lingua non abbiate bersaglio più vile di quello del Nome della Vergine, di Dio? Mancano forse altre parole per sfogar la vostra collera; e poi per questo siete rei, perché nominate Dio in collera! Giacché nominarlo con riverenza non è male. Padre, io non bestemmio in collera, ma per una mala consuetudine, per una maledetta usanza; neppur questo vi scusa, ma v’aggrava, perché è segno, che avete bestemmiato più lungamente. “UU., se tra voi v’è chi abbia sì brutto vizio, lo lasci presto, perché ogni indugio gli costerà assai, e forse la morte eterna. Non vi è segno peggiore per un infermo, che mandar fuori una respirazione del tutto fredda, frigida respiratio lætalis, dice Ippocrate. È cattivo segno, non v’ha dubbio, aver fredde le mani, freddi i piedi; ma, se sia freddo il fiato, aprite la sepoltura, perché l’infermo già muore. Così dico io de’ mali dell’anima; se sarete freddi nelle mani fino a non fare un’opera buona d’una limosina, se sarete freddi ne’ piedi fino a non aspirare né pur di farla, male; ma pure potrete sperare di salvarvi; ma quando in voi si scorga anche freddo il fiato, l’alito, ch’è quanto dire, quando non solo non onoriate Dio con le opere, ma di più lo strapazziate con spergiuri e bestemmie, questo respiro così freddo e mortale, frigida respiratio lætalis, l’inferno può dirsi aperto per voi. Nelle nostre lettere annue si legge che uno de’ nostri Padri nella Città del Messico, andò a confessare i prigionieri, e fu da essi avvertito che vi era fra di loro un gran bestemmiatore, affinché venendo ai suoi piedi lo correggesse di buona maniera. Ma se lo scellerato lasciò di confessarsi, non lasciò però il Padre di fargli un’amorevole correzione dicendogli, che non strapazzasse Iddio con quelle orride bestemmie, e, se non vi emenderete, dissegli, aspettatevi pure l’inferno. Che inferno? soggiunse quell’iniquo. Io voglio bestemmiare più che mai per farvi dispetto. Vedendosi dal Sacerdote tanta protervia, lo lasciò stare, e solo nel partire soggiunse: presto v’accorgerete a chi avrete fatto dispetto. Venne la sera, e l’indegno bestemmiatore si pose quietamente a dormire nella sua prigione, come se nulla avesse di debito con Dio. Ma nel meglio del sonno comparvero due demoni, uno con lanterna in mano, e l’altro con le mani del tutto libere; lo svegliarono di fretta, e gli dissero: tu sei quell’infame, che vuoi bestemmiare per far dispetto al confessore? Or bene, la pagherai, ed in così dire, quel diavolo che nulla aveva nelle mani, l’afferrò e lo cominciò a gettare in alto come un pallone ed ogni volta che cadeva giù, gli dava un gran colpo nella bocca. Così, doppo averlo ben ben pestato, lo pose in terra, e pigliatagli a forza la lingua, gliela cucì al palato, e si partirono. La mattina seguente, nell’entrar che fece il soprastante delle carceri a rivedere le prigioni, vide questo spettacolo, e vide, che l’indegno non poteva più parlare se non con i cenni. Si chiamò il cerusico, il quale, vedutolo, disse non esser male per la sua cura. Si chiamò il confeffore, ma neppur questo poté far nulla; onde il sacrilego bestemmiatore morì con la lingua attaccata al palato. Voi dite che questo fu un gran castigo; ma io dico: piacesse a Dio, che se molti di quelli che son rei di simile peccato fossero castigati in simil modo, così almeno perderebbero quell’istrumento della loro dannazione, che è quella lingua iniqua, con la quale bestemmiano. Ecco che, per ultimo rimedio voglio usar con voi quell’arte appunto, che si usa con i basilischi per ucciderli; gli si mette avanti gli occhi uno specchio, sicché alla orribilissima vista del loro sembiante muoiono. Così io pure vi pongo avanti gli occhi l’esecrabile malizia delle vostre bestemmie, chiamate da Cristo medesimo peccato irremissibile, perché quantunque assolutamente parlando non vi sia piaga che col balsamo della penitenza non sia sanabile, con tutto ciò, questa è tra tutte si putrida, che rare volte si sana. Voi con questo vostro linguaggio ben mostrate a qual patria apparteniate: la vostra patria, o bestemmiatori, è l’inferno; siete concittadini de’ diavoli, e de’ dannati, tra le vostre bestemmie e quelle de’ diavoli vi passa una straordinaria corrispondenza, e si formano due cori di musica, uno sotto terra, l’altro sopra terra, sicché simili a loro nel bestemmiare di qua, gli farete simili eternamente bestemmiando di là.

LIMOSINA
Il dare a’ poveri, Cristiani miei, non è perdere il suo, ma è cambiarlo in meglio, è un darlo ad usura nelle mani di Dio, dove ogni granellino sparso moltiplica a mille e mille. Da Altissimo, septies tantum reddet tibi. Da’ pure a Dio, a proporzione di quello egli ha dato a te, e vedrai quanto ti frutterà; avrete da fare con un Signore che non si lascia vincere di cortesia, e che senza paragone vi darà più di quello voi deste a lui ne’ suoi poverelli. Così appunto tratta il Cielo con la terra, toglie da lei alcuni vapori inutili, e glieli rimanda poi sopra in rugiada, allattando le Piante.

SECONDA PARTE.

Questa predica par fatta solamente per gl’uomini; molte però di queste donne s’accusano d’aver bestemmiato anche loro, ma per verità le loro bestemmie d’ordinario non sono che imprecazioni e verso de’ loro figliuoli, o del prossimo, o di loro, e talora alle creature irragionevoli, pregandoli qualche male, dicendo: che tu arrabbi, che ti rompi il collo, e simile. Queste non son bestemmie, ma imprecazioni, dalle quali bisogna guardarsi, prima perché son di disgusto a Dio, poi perché fanno male all’anima vostra, poi perché molte volte il Signore permette che accadano, benché voi non le diciate di cuore; sopra tutto avvertite di non mandarle a’ vostri figli. Udite ciò che si racconta nella vita di San Zenone Martire. Una povera madre aveva un figlio solo, e tornata la sera a casa, trova che al ragazzo è venuta una gran febbre, lo pone a letto, ove anche ella voleva riposare, ma non fu possibile, perché il figliuolo bruciando di sete, ad ogni tratto la svegliava con dire: mamma, da bere; e la madre per l’amor che gli portava si levava, e lo consolava; si levò la poverina per tanto da trenta volte senza adirarsi, e l’ultima volta si lasciò vincere talmente dalla passione che, dandoli da bere, gli disse: va’, che possa bere un diavolo, e così avvenne, poiché entrò subito il diavolo addosso al figliuolo. Immaginatevi il dolore della povera madre, pianse amaramente, lo condusse al Sepolcro di San Zenone, e fu liberato. Un’altra madre diceva ben spesso ad una sua figlia … che ti mangino i lupi, ed una mattina, tornando dalla Messa, trovò che il lupo l’aveva portata via, e solamente gli lasciò in testimonio la testa. Un padre sempre diceva al suo figlio: che tu possa abbruciare; volete altro, si dié fuoco alla Chiesa de’ PP. Francescani in una città di Toscana, ed il figlio vi restò arso. Né solamente il Signore permette che vengano addosso quelle imprecazioni che mandiamo ad altri, ma quelle ancora che fulminiamo contro di noi. Sentite, caso spaventoso riferito da Martino del Rio .. In Sassonia, una fanciulla aveva data parola ferma ad un giovane di sposarsi con esso lui, con l’aggiunta di questa imprecazione: se non vi piglio, il demonio mi porti via. Si raffreddò l’amore e la giovane si cambiò talmente, che si accasò con un altro. Seguirono le nozze, e finito il convito, cominciossi un ballo di festa, il quale per l’infelice sposa, fu un ballo di funerale; imperocché comparvero due diavoli in abito di giovani forestieri, ed introdottisi a ballare, presero in mezzo la sposa per più onorarla; ma dopo alcuni giri, levarono seco in alto, a guisa di due sparvieri la preda fatta, e se la portarono via. Immaginatevi pure che i suoni si cambiarono in pianto, e le allegrezze in terrore, tanto più che il di seguente, sulla stessa ora, comparvero gl’istessi giovani con gl’abiti, con gli anelli, col vezzo, con tutti gli ornamenti della sposa da loro rapita, e gettatili avanti la dolente madre, gli dissero: prendi pur queste robe, che a noi basta l’anima della tua figlia. – Inoltre, con queste imprecazioni che dite nelle vostre case, date un pessimo esempio alla famiglia, sicché i vostri figli le imparano e questo poi e il linguaggio col quale parlava. In Liegi si smarrì un piccolo figliolino, e preso con carità da alcuni per ricondurlo alla propria casa, gli dissero: chi è tuo padre? Rispose, il diavolo. Chi tua madre? il diavolo. Qual è la tua casa? La casa del diavolo. Queste erano le riposte, e perché? Perché in casa non si sentiva altro che dire, salvo che il diavolo ti porti; questa è la casa del diavolo; il marito alla moglie, sei un diavolo; così la moglie al marito. Signori confessori, quando le madri, ed i padri si lamentano de’ figli scorretti, invece di compatirli, dite loro: ben vi stà, voi li allevate malamente. Contentatevi, che io per ultimo me la prenda anche con certe donne, e certi uomini, i quali fanno lega col demonio, ricorrendo a lui con indegne superstizioni, perché li aiuti a vincere nel gioco, a sortire uno sposalizio, a sapere un segreto, a liberarsi da’ colpi delle armi nemiche, a torsi qualche male d’occhio, di stomaco, di sciatica, e che so io. O poveri voi, se praticate quest’arte diabolica! Ne mi state a dire: Padre, le pollize che fo, le parole che dico per guarire il male, per sapere il segreto, per far che le palle non feriscano, son buone; Che importa che le parole siano buone, se poi ve ne mescolate delle cattive; per viziare una cosa buona, basta mescolarvene delle cattive. La vipera non è tutta velenosa, e pure quel tossico, che ella ha, è sufficiente a dar la morte. Questi che praticano le superstizioni hanno commercio col diavolo, mentre con patti se non espressi, almeno taciti se l’intendono con esso, e perciò sono nemici giurati di Dio: Inimicus meus, qui versatur cum inimicis meis, così parla la legge. O Padre, queste superstizioni ei giovano per liberarci da vari mali, per liberar le nostre bestie, per farci trovar danari. O pazzi che siete, io vorrei prima morir mille volte che vincere col demonio. Avvertite bene, che se il demonio vi risana, vi risana per darvi la morte; se or vi libera la bestia, di qui a poco ve la farà precipitare; se or vi libera il figlio, di qui a poco ve lo farà cader nelle braci; vi promette molto e poi vi toglie tutto. Così appunto intervenne a quel misero giovane in Roma, il quale, dopo aver dato fondo ad un ottimo patrimonio, ricorse al diavolo per via di superstizioni per cavarne un tesoro; ebbe ad intendere che il demonio da lui chiamato con la superstizione, non conosceva altro tesoro, che quello, che il misero gli voleva dare dell’anima sua. Ecco dunque, che una notte sentì bussare alla sua camera, e chiedendo chi fosse, udì rispondersi: sono il diavolo da te chiamato con le superstizioni: eccomi, aprimi; gli aprì con qualche terrore, e presa una spada in mano, e con l’altra appesasi un’immagine della Madonna al collo (per averla, come vorrebbero la maggior parte degl’uomini: Avvocata non de’ peccatori, ma del peccato) S’incamminò al luogo del tesoro, ove trovò un monte d’oro, d’argento e di gioie; ma credete voi, che gioisse a questa vista? che stendesse le mani? Appunto, fu subito preso da un grande orrore; gli scorse per le vene gelo di morte, e con poco fiato ricondottosi nel suo letto in capo a tre dì, morì. Questo è il fine di chi se la tiene col diavolo con le superstizioni: domandate a Dio, ai Santi, ciò che volete, e non al diavolo vostro nemico: Qui porrigit Pomum, surripit Paradisum; vi mostra un pomo, e vi toglie il Paradiso…

QUARESIMALE (XVIII)

QUARESIMALE (XVI)

QUARESIMALE (XVI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMASESTA
Nella Domenica terza di Quaresima

Confessione, vuol dire conversione. Convertirsi a Dio con la lingua, dicendo tutti i peccati mortali. Convertirsi a Dio col cuore, avendo vero dolore. Convertirsi a Dio con le opere, avendo un fermo proposito di non peccare e di lasciare l’occasione prossima.


Erat Jesus ejiciens dæmonium, et illud erat mutum. San Luca cap. 11.

Nei tribunali del mondo la confessione del delitto tira seco la morte; nel sacro
tribunale della Penitenza, la confessione del peccato porta seco salute d’anima, e vita di grazia. Eppure un effetto sì prodigioso più d’uno non l’esperimentano. Sapete perché? Non si fa come si deve, non si fa sincera, schietta, reale, severa; e per questo molti che si confessano, non ricevano né perdono di colpa, né vita di Grazia. – La Confessione non è qual molti se la figurano, non è un negozio di sole parole nate sulle labbra, ma altresì di sensi usciti dal cuore; non risiede solamente nella punta della lingua, ma principalmente nel profondo della volontà. Confessarsi vuol dire convertir a Dio: Convertere ad Dominum relinque peccata, et minue offendicula. In queste brevi parole detteci dallo Spirito Santo sta racchiusa la norma d’una vera, perfetta, e santa Confessione, perché contiene in sé: convertirsi a Dio con la lingua, convertirsi col cuore, convertirsi con l’opere. Convertirsi a Dio con la lingua, dicendo tutti i peccati. Convertir a Dio col cuore, avendo un vero dolore. Convertir a Dio con le opere, avendo ferma risoluzione, non solo di non peccare, ma altresì di fuggire ogni occasione prossima di peccato. Cominciamo dal primo. – È da piangersi a lacrime di sangue la miseria infelicissima di tanti e tanti, che dopo avere anche diligentemente esaminata la loro coscienza, tanto si perdano e si dannano tacendo qualche peccato non perché non se ne ricordano, giacché in tal caso non sarebbe peccato, salva la negligenza nell’esame, ma perché hanno timore a manifestarlo, si vergognano di palesarlo. Mi meraviglio di voi. E da quando in qua deve stimarsi vergogna palesare il suo peccato? Vergogna fu il farlo. No, no, vi dico non deve stimarsi vergogna palesar quel peccato, né dalla parte vostra, né dalla parte della Confessione, né dalla parte del confessore. Non è dalla parte vostra perché mai è stato, né mai sarà vergogna alcuna mostrare al cerusico una ferita mortale acciò la guarisca; mai è stato, né mai sarà vergogna palesare al medico una febbre acuta perché ci risani; mai sarà vergogna vomitare alla presenza del medico, che vi dà l’antidoto a quel veleno che racchiudete nelle viscere. Or non è vergogna scoprir la piaga al cerusico, palesar la febbre al medico, ed alla presenza sua render quel veleno che ci toglieva la vita temporale. Come ha da stimarsi vergogna scoprire quelle piaghe incancherite al cerusico spirituale di quei peccatacci, palesare al medico spirituale quelle febbri ardenti di tante laidezze, rendere alla presenza sua quel veleno che dava morte all’anima vostra? mentre così operando si ricuperava la salute dell’anima? Eh mi meraviglio di voi! Non deve stimarsi vergogna dalla vostra parte, ma neppure dalla parte della Confessione. Voi, quando siete in peccato, siete mostri orribili; non siete punto dissimili al diavolo nella deformità mostruosa. Or, qual è il modo di ritornare allo stato primiero? Ecco, dice Sant’Agostino, la Confessione: Fœdus eras confitere, ut fis pulcher; e se non vi basta l’autorità d’Agostino, sentitelo dalla bocca stessa del Profeta Reale, che apertamente si protesta: Confessionem, et decorem induisti; Iddio ha posto vicino alla Confessione la bellezza, per il peccatore allor che s’umilia d’avanti a lui e davanti a’ suoi ministri ricopre le sue colpe di tal maniera che par che sopra loro ponga un prezioso ricamo, in virtù del quale, rimane nascosta ogni laidezza passata. Confessionem, et decorem induisti. Confessio, pulchritudo in conspectu ejus; al cospetto di Dio tanto è dire confessarsi bene con dire tutti i peccati, quanto è vestir d’una bellezza celeste. Sarà dunque vergogna manifestar chiaramente le sue colpe, se manifestandole vi rendete belli agli occhi di Dio. – Un certo scolaro di Socrate in Atene, entrato in una casa di cattivo nome, vedendo passar di là il suo maestro, corse per vergogna a nascondersi, ma Socrate fatto sulla porta, tutto piacevole e grave, vien fuori, e dice: o figlio, poiché l’uscir da questa casa non  è  vergogna, vergogna fu l’entrarvi. Lo stesso dico io a quelli che tacciono i peccati per vergogna: non è vergogna uscir dal peccato per mezzo della Confessione, vergogna fu peccare. Mi meraviglio di voi, dirò con Sant’Agostino che pazzia è la vostra non vergognarsi di peccare, e vergognarsi di far penitenza? Questo è un vergognarsi della fascia, e non arrossirsi della ferita. O crudelis insania de vulnere non erubescit, et de ligatura vulneris erubescit. Neppure deve stimarsi vergogna dalla parte del confessore. O che pazzia! Vergognarsi di palesare un brutto peccato per temenza che il confessore si scandalizzi? E da quando in qua avete trovato medico, il quale si turbi per avere alle mani una persona gravemente inferma mentre sa, che può risanarla s’ella l’obbedirà? E da quando in qua avete trovato un cerusico che si rammarichi per aver alla sua cura una piaga pestifera; mentre sa, che può guarirla, purché l’infermo voglia? Ah, che il medico, ah, che il cerusico godono in simili cure, perché devono ridondare in loro utile, in loro gloria. – Era solito di dire un confessore gran Servo di Dio, che mai più tanto si rallegrava, quanto che, quando aveva a’ suoi piedi a guisa d’un San Michele Arcangelo, un dragone d’inferno, e voleva dire, che allor godeva, quando aveva un gran peccatore a’ suoi piedi. Come dunque volete che sia vergogna dalla parte del confessore? Non dovete vergognarvi per la parte del confessore, perché egli, quanto siete maggior peccatore, tanto più gode. Confessavasi un dì da San Luigi Beltrando un dissolutissimo giovane, il quale ad ogni peccato che diceva, dava un’occhiata al santo confessore, ed osservò, che stava con volto tutto ridente. Finita la Confessione: Padre, disse, ho un altro peccato da accusarmi, ed è un giudizio fatto adesso, che anche voi siate un tristo come me, perché ridendo nell’assolvermi, mi sono immaginato che vi consoliate nel vostro cuore con dire: manco male che al mondo vi sono degl’altri ribaldi al pari di me. Allora il Santo rispose: fratello, son peccatore anch’io, benché non sappia d’aver mai fatti peccati simili a’ vostri, ma gioisco nell’udire la vostra confessione, considerandovi non più peccatore, ma penitente glorioso, che fuggendo dalle mani del diavolo, si butta in quelle di Dio. Cari Uditori, non temete mai che il confessore si scandalizzi, anzi assicuratevi che, quanto più gravi saranno i peccati, tanto più godrà, giacché egli allor gode, quando acquista anime a Dio. Non dovete dunque stimar vergogna manifestare il peccato né per vostra parte, né della confessione, né del confessore. Su, dunque, ditelo e non lo covate più in cuore a tanto danno dell’anima vostra. Eh Padre, dite bene, ma è troppo grande il rossor che provo a sol pensarvi di doverlo dire; ma se poi volete, che ci sta questa vergogna, sarò con voi e dirò ancor io, che è vergogna; ma vergogna, o non vergogna, bisogna confessarlo. È vergogna sù, sì, è vergogna, ma qual è più vergogna, dirlo ad un uomo, come voi soggetto a miserie, oppure farlo sapere a tanti uomini da bene? Certo che è minor vergogna dirlo ad un uomo impastato di carne come voi così, vi dice Sant’Agostino: O homo vir confiteri erubescis peccata tua? Peccator sum sicut es tu; altrimenti, se non li dite ad un uomo solo, nel confessore, l’hanno poi da sapere i vostri peccati tutti gl’uomini del mondo nel giorno estremo. Su via, è vergogna dirlo ad un uomo impastato di miserie come voi? Su via, son con voi, e giacché il diavolo vi ha restituita per confessarvi quella vergogna che vi tolse perché peccaste; su, voglio che fa vergogna; ma quale è più vergogna? Che ora lo sappia un uomo solo, oppure, che poi quel vostro brutto peccato sia manifestato per bocca de’ diavoli a suono di tromba per tutto il mondo? Se voi non lo confessate adesso per la vergogna ad un uomo in segreto, con sì alto segreto, che maggiore non può essere, s’avrà poi da manifestare con tanto maggior vituperio al marito, alla moglie, al padre, ai figli, alla madre; quel vostro peccataccio ha da essere manifestato a quanti furono uomini nel mondo, quanti regnano Beati in Cielo, ed a quanti penano tra’ diavoli, e dannati nell’inferno. E tu peccatore, e tu peccatrice non vorrai ora soggiacere a questa piccola vergogna per esser poi svergognato presso il mondo tutto per tutta l’eternità? Sappiate, Uditori, che il confessore ha tal segreto di quanto gli dite, che v’andasse la salute del genere umano, non può palesar le vostre colpe. Sogliono i principi farsi servire volentieri da mutoli affinché le loro azioni non si risappiano. Dieci di questi ne aveva Solimano re dei Turchi, eppure, se questi non parlavano con la lingua, potevano certamente parlare con i cenni; ma il nostro Iddio ci fa servire nelle Confessioni da Sacerdoti talmente mutoli, che nemmeno con un gesto, benché minimo, possono scoprire i nostri peccati. E voi ad ogni modo con tanta certezza che nulla si saprà, con tanta sicurezza del vostro eterno vituperio, se ora non dite il peccato, ad ogni modo, per un piccolo rossore presente vorrete tacerlo? Orsù, se così è, io non posso far altro, salvo, che intimarvi con Agostino la dannazione. Elige quod vis, si non confessus lates, inconfessus damnaberis, o confessarsi, o dannarsi; o confessione, o dannazione. Una tal verità provò a suo gran costo quella infelice giovine riferita da autor moderno. Fu questa allevata con gran cura da’ suoi maggiori, i quali affine di levarla affatto dai pericoli che corre la gioventù, la collocarono per educazione in un monastero, consegnandola ad una zia vergine di gran pietà; e pure, in questo giardino sì chiuso trovò l’antico serpente la sua entrata: imperocché un giovinastro, sotto pretesto di volerla chiedere a’ parenti per sua consorte, le inviò una lettera piena di sensi affettuosi, per cui si mostrava tutto appassionato per lei, e tutto preso dalle sue belle maniere. Or queste lodi, e questa grande affezione, sebbene potevano parere non più che poche scintille, bastarono per un gran fuoco, poiché la giovane incauta si accese tutta di desiderio di corrispondenza; e perché chiusa in quel luogo aveva comodità di parlare, fomentava l’ardore concepito con lo scrivere, manteneva per via di lettere una continua corrispondenza, non d’altro al principio, che d’una semplice benevolenza col fine di maritarsi, se non che quella febbre che da principio pareva effimera, crebbe a segno di divenire affatto putrida; dietro all’amore cominciarono i cattivi pensieri e le suggestioni impure, e sotto pretesto di matrimonio l’inimico s’inoltrò tanto nel suo cuore, che la meschina diede il consenso. È vero che questo consentimento non passò a niuna opera cattiva, ristagnando nel cuore; ma che importa, fu peccato mortale; quello però, che compì l’infelicità della giovane, fu che ella per vergogna non manifestò mai al confessore né la tresca col giovane, né l’assenso al peccato, né  pure i continui sacrilegi che faceva nell’accostarsi a’ divini Sacramenti. Perseverò lungamente in questo stato, e così sacrilega fu colta da fiera malattia, per cui se ne morì senza essersi confessata di quel peccato. Volle Iddio servirsi della disgrazia di costei per ammaestramento di tante che si danno in preda agli amori, e di quelle che non vogliono dire i lor peccati, e perciò permise, che la morta giovine comparisse alla zia cinta di fiamme, in atto di metter compassione fino alle pietre. Ed ecco, disse, quella che voi avete allevato con tanto studio, eccola dannata per aver taciuto un peccato mortale di solo pensiero; così detto, disparve, e lasciò più morta che viva la sconsolata zia. O quanto pagherebbe questa giovane infelice non aver mai fatto l’amore! Quanto bramerebbe d’aver detto quel peccato che ora la tiene nell’inferno. Intendetela cari Uditori, o confessarsi, o dannarsi. Annibale doppo aver passato il mare fece dar fuoco alle navi, e poi, rivolto a’ soldati, disse loro ad alta voce: soldati miei, qui non v’è più speranza di ritornare indietro; convien vincere, o morire: Aut vincendum, aut moriendum milites est. Lo stesso dico ancor’io, o convien vincere quella maledetta vergogna, che vi leva la lingua, o convien morire eternamente; o confessione, o dannazione; non occorre altro. – O Padre, già che questa vergogna m’ha preso si altamente, non vi farebbe altro modo per ritornare in grazia di Dio? Digiuni, pellegrinaggi, stenti, limosine? No, Quot ignorat, medicina non curat. V’entri una spina in un piede; finché la spina non è cavata, non è possibile saldar la piaga, ponetevi pure unguenti, e balsami; cavate la spina, e guarirete. – Racconta Sant’Antonino Arcivescovo di Firenze, come un santo confessore, mentre se ne stava al confessionario, vide venire una sua penitente al solito tutta modesta, tutta devozione; ma vide che intorno a lei v’era un brutto demonio che con grande allegrezza gli saltava d’intorno. Restò stupito il Santo, e chiamato a sé, con comando di Dio, quel demonio, gli disse: e perché  con tanta allegrezza intorno ad una donna sì pia, che digiuna, che fa limosine, che frequenta i Sacramenti? Per questo, disse il diavolo, sto allegramente. Quomodo non rideam, si hæc jejunans et plorans descendit ad inferos? E non volete che rida, mentre costei con tutte le sue penitenze e devozioni viene all’inferno? Ve  lo dirò, rispose il diavolo: questa donna commise già un peccato di pensiero, v’acconsentì.  È vero che stagnò nel cuore, ma vi diede perfetto l’assenso e non se ne è mai confessata; onde faccia quante penitenze vuole, che mai mai, si salverà. Intendetela, finché la spina non è cavata, non v’è rimedio. Portatevi dunque a piedi d’un buon confessore e dite ciò che avete celato. – Se bene a che tanto stancarmi, mentre la maggior parte non fa le confessioni male per lasciare i peccati e li dicono tutti? Pensate, se quella donna si vergogna di dire i peccati, mentre ne discorre con le compagne? Pensate se ne vergogna quel giovane che se ne vanta. Peggio, pensate, se si vergognerà di dire i peccati che ha fatto quell’uomo che si gloria di quelli, che non ha fatti, con perdita della riputazione di quella povera donna. Appunto la maggior parte fa un diligente esame, e dice tutti i peccati, anzi per non se ne scordare li scrivono e pure, come dice Santa Teresa, la maggior parte si danna per non far bene la Confessione. Da che deriva? Deriva, perché confessarsi, non vuol dire pagare una gabella; gl’ho fatti, gl’ho detti, dunque sono assolto, … È necessità dirgli, ma non basta; bisogna aver dolore, e se non avete questo dolore, la confessione non vale. – Quando si dice che avete d’aver dolore, non s’intende del dolore sensibile, il quale, quantunque fosse buono, non è però necessario per una buona Confessione; è il dolore della volontà, cioè quel dolore, con cui si detesta il peccato, come il maggior di tutti i mali, e si abbomina sopra ogn’altra cosa, che meriti odio; Qui diligitis Dominum, odite malum, dice il Profeta Reale. Or io sento taluno, che mi dice: come ho da fare per aver questo dolore, che mi faccia odiare il peccato da me commesso. Io mi pento, dice quella donna, del mio peccato, perché mi trovo tradita dall’amante e svergognata. Io mi pento, dice colui, perché quel fallo da me commesso m’ha portato tante disgrazie. Questo è dolore naturale, il quale non giova nel Sacramento della Confessione, e queste lacrime sono per appunto come le lacrime d’una pianta potata, la quale non per altro geme, se non perché ha perduta la pompa de’ suoi rami. Il dolor naturale, non basta, vi vuole il soprannaturale! E qual è questo dolore soprannaturale? Eccolo, dolersi d’aver offeso Dio o per timore d’inferno o per perdita di Paradiso, o per bruttezza di peccato; meglio però sarebbe, se voi vi doleste de’ vostri peccati con dolore perfetto, che vuol dire, non con altro motivo, che per avere offeso Dio sommo Bene, che merita d’essere infinitamente amato. E se volete conoscere la differenza di questi due dolori, d’Attrizione, e di Contrizione, immaginatevi una Figlia così maledetta la quale, in collera dato un pugno a sua madre si fosse fatta male nel percuoterla. Questa si potrebbe dolere e per il male fatto a se, e per il disgusto dato alla madre. Così voi, se vi pentite e vi dolete per timore d’inferno, bruttezza di peccato, perdita di Paradiso, vi pentite per il male che fate a voi, e questa è Attrizione. Se voi vi pentite solo per il disgusto dato a Dio Sommo Bene, questa è Contrizione e dolor perfetto , ed uno di questi due dolori sono necessarii per Confessarsi bene, altrimenti la Confessione non val nulla. – Intendetela bene questa verità. Confessate pur tutti i vostri peccati, non ne lasciate niuno. Comunicatevi, prendete l’Olio Santo, tutti i Sacramenti, se non avrete uno di questi due dolori, siete dannati: Nisi pœnitentiam egeritis omnes simul peribitis. Ma sento chi mi dice: come potrò fare ad avere questo dolore soprannaturale? Prima raccomandarsi a Dio, da cui ha da venire questo dolore. Mettetevi dunque in ginocchioni avanti d’entrare al confessionario e dite: Signore, giacché volete che mi penta di cuore, datemi voi questo dolore, che è dono vostro. In secondo luogo, considerate tutta la vostra vita iniqua, e non vi fermate in quei soli peccati, de’ quali volete allora confessarvi, e vedrete, che a quella moltitudine concepirete dolore. Considerate chi siete voi, chi è Dio, e queste considerazioni v’ecciteranno a pentimento. Basta dire tutti i peccati? Basta il dolore per ben confessarsi? No, convien salire un gradino più sù, vi vuole un proposito risoluto di mutar vita. Qui sta il punto, Uditori miei, non basta odiare il peccato passato, vi vuole anche una vera risoluzione di non peccar mai più per l’avvenire, altrimenti la Confessione non è buona. Sovvengavi di quello, che San Remigio disse a Clodoveo Re di Francia prima di battezzarlo: signore, se volete godere i frutti del Battesimo, bisogna che di cuore adoriate ciò che abbruciaste, cioè le Croci; e che abbruciate ciò, che adoraste, cioè gl’idoli . Tanto io dico a voi: se volete far buona Confessione, bisogna fuggire quel peccato che amaste; bisogna seguir quel Dio a cui voltaste le spalle. E se io avrò questo proposito di mai più peccare, sarò poi ben confessato? tornerò in grazia di Dio? No, no, non siete ancora in cima alla scala. Non basta per molti, se voglian fare la pace con Dio, che propongano di non voler più peccare, ma bisogna che propongano di voler levare l’occasione prossima di peccare; e la ragione è chiara, perché chi vuole una cosa che moralmente è connessa con la colpa, è convinto di voler ancora la medesima colpa. Bisogna dunque proporre di voler levare l’occasione prossima, che è quel pericolo di peccare, nel quale, quando uno si pone frequentemente, cade. Non basta dunque che quel giovane, il quale, quando discorre con quella donzella frequentemente offende Dio con pensieri, con discorsi, dica al confessore: Padre, prometto di non consentire un’altra volta; ma bisogna dire: Padre, prometto di lasciar questa conversazione, che m’è occasione di tante colpe. Quella donna, che nel servire, o nell’andare in quella casa a lavorare frequentemente cade in peccato, deve dire: non andrò più a lavorare in quella casa; ed il padrone della casa deve dire non chiamerò più quella donna a fare i fatti di casa, ne chiamerò un’altra, che non mi serva d’inciampo. Così chi giocando frequentemente bestemmia Dio, o inganna il compagno, deve promettere di non maneggiar più le carte. Chi passa il tempo con un compagno scandaloso per l’anima sua, deve promettere di cambiar compagni, o di non trattarvi a solo a solo. Chi frequentemente s’ubriaca, deve promettere di non andare alla bettola, o almeno di non trattarvi, andarvi in compagnia d’altri, ma da sé solo, per evitar quel prossimo pericolo d’ubriachezza. Se non fate questi propositi, la Confessione non vale. Ditemi, se voi foste cascato quattro, o cinque volte giù per una scala, e vi foste rotto quando una gamba, quando una spalla, quando la testa, che proposito fareste, di non salire, o di non ricadere? Il vostro proposito farebbe di non salire mai più. Perché dunque si ha da stimar sì poco l’anima? Che sapendo d’averla uccisa tante volte in quei luoghi con quei compagni, vogliate di nuovo tornarvi? Dio immortale, se un cavallo sia caduto in qualche malpasso, dategli quanto volete, non vuol passarvi. E voi caduti tante volte, vi ritornate e poi credete di far buona Confessione, senza proposito di levar l’occasione prossima? Un padrone tiene una serva in casa con la quale di tanto in tanto cade, la può mandar via e non la manda, non può essere assolto, e dir il contrario è una delle Proposizioni condannate dalla Santità d’Innocenzo Undecimo. O’ fà per la mia casa. Se la trovate a rubare alla cassa, subito la caccereste, vi ruba l’anima e si tiene? Chi dicesse che costui si confessa bene, è scomunicato. Una serva si trattiene in una casa e spesso pecca, può lasciar quel pericolo ed andare altrove, chi dicesse, che questa donna in tale stato si confessa bene, sarebbe scomunicato. E se si trovassero de’ confessori che assolvessero chi sta nell’occasione prossima si dannerebbero col penitente. Udite a questo proposito un avvenimento referito da gravi autori. Un certo cavaliere dato in preda alle disonestà aveva per sua disgrazia trovato un confessore che, senza riprenderlo, e senza costringerlo a lasciare l’occasione prossima, l’assolveva ogni volta con grande amorevolezza; e benché la moglie di questo cavaliere, signora di gran pietà, riprendesse frequentemente il marito e gli dicesse spesso: chi v’assolve? Mentre i predicatori replicano tante volte nel pulpito che chi non lascia l’occasione prossima non può assolversi da niuno. Il cavaliere rispondeva ridendo: voi, signora, volete fare del teologo, se il confessore non mi potesse assolvere, non mi assolverebbe, badate all’anima vostra, ed io baderò alla mia. Seguitò dunque a viver nella pratica ed a confessarsi. Venne la morte, la quale fu somigliante alla vita. Poco doppo la morte essendo la signora rimasta vedova, standosene ritirata a fare orazione, vide in mezzo ad un gran fuoco un uomo spaventoso, che portava su le spalle un altro uomo tormentato dalle medesime fiamme. S’intimorì grandemente la signora, e tanto più crebbe l’affanno, quanto che udì dirsi da quello che stava sulle spalle dell’altro: io son l’anima del tuo marito, non accade pregar per me, son dannato; questo che mi porta sulle spalle è il mio confessore; io perché malamente mi son confessato, ed egli perché malamente m’ha assolto, siamo condannati, e ciò detto disparve. Capitela dunque: se voi senza proposito di lasciare non solo il peccato, ma l’occasione prossima del peccato andrete a confessarvi, e troverete chi v’assolva, non andrete a casa del diavolo con i vostri piedi, ma con quelli di chi vi assolve. Il confessore dice io t’assolvo, ed Iddio, che vede che non avete vero dolore e vero proposito, dice, ed io ti condanno. Fate dunque buon proposito di lasciar l’occasione prossima del peccato, e così vi confesserete bene; ma levatela, se no, la confessione è invalida, anzi sacrilega. – Un certo giovane allacciato malamente dall’amore d’una femmina se n’andò per sua buona sorte a confessarsi da un Sacerdote, il quale gli mise sì bene avanti gl’occhi la gravezza del suo peccato, e la necessità di fuggire l’occasione, che il giovane compunto gli promise non solamente di non tornar più in quella casa, ma di partirsi anche da quella città ed andarsene tanto lontano che la donna non sapesse più nuova di lui, perché diceva: ella è tanto scellerata, che se io mi rimanessi in queto luogo, mi tirerebbe di nuovo a mal fare. Il Confessore vedendolo sì ben risoluto, l’assolse, ed il giovine ritornato a casa dette ordine alle cose sue e se ne partì. In tanto la mala donna, aspetta la prima sera, aspetta la feconda, la terza, e l’amante non tornava. Ah traditore, disse, m’ha abbandonato; Che fece? Così donna com’era cominciò a girare d’intorno intorno a paesi vicini, e tanto fece, che lo vide in una piazza, e tutta allegra gli s’accostò di nascosto, come per gioco, e presolo per il mantello glielo tirò. Voltossi allora il giovane e, benché riconoscesse subito quella malvagia, non gli corrispose. Onde la donna soggiunse: non mi conosci? Son quella; se tu sei quella, rispose il giovane, non son quello io, e guardandola con occhio bieco le voltò le spalle. Or confessatevi così, miei Uditori, e non dubitate, che le vostre confessioni non siano buone, saranno ottime, perché piene di vero dolore, e di fermo proposito. – Deh miseri voi aprite gl’occhi, e non v’accorgete dell’inganno che vi tesse il demonio, affinché non facciate una buona confessione? Ite sacrificate Domino, oves tantum vestræ remaneant. Così disse Faraone al Popolo d’Israele, dopo esser costretto, a forza di castighi e di prodigi, lasciarli partire; giacché volete andare nel deserto a sacrificare al vostro Dio, mi contento, purché rimangano qui nell’Egitto tutte le vostre bestie; ma che rispose Mosè a questa richiesta così ingannevole? Non remanebit ex eis ungula. Questo fa a proposito per voi o peccatori; non solo non avete a lasciare, dice Mosè, nell’Egitto le vostre mandrie, ma nemmeno un’ugna d’esse, non remanebit ex eis ungula. Ecco l’astuzie del Faraone d’inferno, il demonio: quando s’accorge , che avete detto tutti i peccati, e che ne avete concepito buon dolore, si rivolta agl’inganni con procurare che non abbiate un vero proposito e dice, confessatevi, purché non lasciate, né quella amicizia, né quel passatempo, né quella casa, ove frequentemente avete perduta l’anima, fate proposito d’andarvi, ma di non peccarvi mai più: Oves tantum vestræ remaneant! No dilettissimi, non acconsentite a questo partito, è troppo ingiusto; rispondete francamente con Mosè: Non remanebit ex eis ungula; non solo non tornerò in quella casa, non solo non manterrò più quella amicizia sì dannosa, ma brucerò tutti i doni che ne ricevei, m’asterrò di mirarla, non manderò più imbasciate, ne toglierò dalla mente ogni memoria, come se mai non l’avessi conosciuta, non remanebit ex eis ungula. Fate così miei Uditori, e le vostre confessioni, come ottimamente fatte, vi torranno dall’inferno, e vi porteranno in Paradiso.

LIMOSINA
Siccome la Confessione dà la salute all’anima, così la limosina la dà al corpo. Eleemosina est ars, dice San Giovanni Grisostomo, omnium quæstuosissima;
è un’arte, che con i beni di fortuna, porta anche la sanità. Ben s’accorge di questa verità il poverello di cui si racconta nelle vite dei santi Padri che quanto guadagnava tutto dava per limosina e così si manteneva sano; ma volendo poi adunare per i bisogni delle malattie, e resecando la limosina ai poveri, subito s’ammalò con una piaga, in cui logorò tutti i danari, ma senza utile, e già si pensava di venire al taglio della gamba. Quando una Notte lagnandosi, si vide comparire fra la luce un Angelo che gli disse, che il modo di mantenersi sano era la limosina; poi lo guarì, dicendogli, che seguitasse. Che cosa bella è esser sani, questo è il maggior tesoro; sta nelle vostre mani: fate limosina!

SECONDA PARTE

Eccovi mostrato il modo di fare un’ottima, e santa Confessione; convertirsi a Dio con la lingua, dicendo tutti i peccati; convertirsi a Dio col cuore, concependo un vero dolore e pentimento d’aver offeso Dio; convertirsi a Dio con le opere, facendo un fermo proposito di lasciare non solo il peccato, ma l’occasione prossima del peccato. Ma o che miseria del Cristianesimo, mentre una gran parte de’ fedeli si serve male del Sacramento della Penitenza cavando veleno dall’antidoto. Così fate voi, quando andate alla Confessione senza le dovute preparazioni, v’andate per usanza, v’andate per rispetto umano, v’andate senza volontà risoluta di lasciare il peccato. Se un buon confessore non v’ha voluto assolvere, ne andate a cercare uno che sia ignorante, o almeno non curante né della sua, né della vostra anima, e così v’assolva, benché l’occasione sia prossima, e si possa rimediare. Talora vi sono di quelli che vanno cercando confessori che non sentano. Se così fate, voi uscite peggiori dalla Confessione di quello v’andaste. Poveri voi. Un inganno grande per i penitenti è che, quantunque vadano indisposti a questo Sacramento, ad ogni modo non hanno altra mira che ad avere l’assoluzione, quando con finzioni l’hanno strappata dalle mani del confessore, senza riflettere che se veramente non hanno la disposizione necessaria, ricevono dal Sacerdote quella materiale assoluzione, e da Dio l’eterna condannazione. – Poveri penitenti, mentre non vi servite bene d’un tanto rimedio alla vostra salute. Più poveri però, quando andate da medici che, invece di risanarvi, vi rovinano. Ma se sono infelici i penitenti, infelicissimi sono i confessori, che male amministrano il Sacramento della Penitenza. Ricordatevi o Sacri Ministri della penitenza, che siete padri del penitente, che non merita nome di padre, quello che, vedendo il figlio o piagato, o sull’orlo del precipizio, non gli porge rimedio, non l’avvisa con maniere da padre. Fate però conoscere la gravezza del peccato, riprendete ma con dolcezza; di grazia, nel sentire le colpe, quantunque enormissime, fatela da padre amoroso, che mira le piaghe del figlio per curarle; e però non date segno né con gesti, né con parole, d’impazienza, perché il penitente non scoprirà il suo male, e così non avrà rimedio. Finita la Confessione, con dolcezza di padre direte quanto v’occorre. Uno degli avvertimenti che danno i sapienti medici nella cura degli infermi si è, che quando l’ammalato fa crisi non si muova punto, non si sbatta, né si alteri; ma che scopertolo, non ad altro si badi, che a tenerlo caldo. Questo avvertimento danno i Dottori ai confessori, che quando il penitente butta fuori le sue colpe, non s’interrompa, non si alteri. Né solo siete padre, ma medico. Or che direte d’un medico che arrivato dall’ammalato sentisse il suo male, e poi non interrogasse, non ordinasse? Voi lo stimereste indegno della vostra cura. Come medici, se volete risanar l’infermo, convien che interroghiate quanto tempo è che quell’odio si cova, che quell’amicizia si frequenta, e poi diate i rimedi di penitenze salutari. Siete padri, siete medici, e siete cerusici. Che direste di quel cerusico, il quale medicasse la piaga, e poi non la fasciasse? Così siete voi, se veduta la piaga del peccato, in cambio di medicarla con attenzione e con applicamento di consigli, di riprensioni, vi mettete un impiastro: se così farete, ecco che il penitente affolto in tal forma s’alza dal confessionario, gli cade l’impiastro dalla ferita e torna subito a versar sangue, come se mai fosse stato medicato; appena finita la confessione si ripiglia l’amicizia. Poveri confessori, io vi vedo in un gran pericolo, se non amministrate bene il Sangue di Cristo. Quando vi viene a’ piedi uno di questi avaroni, ricco, potente, e sentite ch’egli è pieno di roba altrui, buscata per via di donazioni sforzate, di testamenti falsi, di mercedi ritenute, ditegli liberamente: pretium Sanguinis est, non licet mittere in corbonam. Non ammettete le scuse che non può, che vedrà, etc. Se vi capita a’ piedi un lascivo attaccato a una carogna che tiene in casa, oppur la va a trovare, ditegli francamente con Giovanni: Non licet tibi babere uxorem fratris tui, proximi tui; lasciate la rea femmina, altrimenti non v’è assoluzione. Quel figlio di famiglia, quel giovinastro ha il comodo di peccare in casa, parlategli chiaro: Eice ancilla de domo tua, esca la donna di casa; non crediate subito al non si può, non tocca a me. Se viene per confessarsi quel cuore che cova odii e nemicizie, ed è molto tempo, che non parla col prossimo, non vi lasciate ingannare con vari pretesti di politica del mondo, ma ditegli: Vade prius reconciliari, fate pace, riconciliatevi, parlatevi, e poi vi confesserò.

QUARESIMALE (XVIII)

QUARESIMALE (XV)

QUARESIMALE (XV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMAQUINTA
Nella Feria sesta della Domenica seconda.

Si mostra che chi mal vive mal muore.


Malos male perdet . San Matteo al 21.


E dove mai cadrà fulmine sì spietato dell’ira divina, malos male perdet? Se vivranno male si perderanno eternamente? Io non credo già mio Signore, che minaccia sì terribile sia inviata a questa città tanto cattolica. S’intimi a Ninive ogni sterminio, come scellerata; ma non già a N.N. perché dedita alla pietà porge incenso a Santi, ed adorazioni al vero Dio; ma piaccia pure al Cielo che l’iniquità ancor tra voi non abbia innalzato trono sacrilego, e perciò meriti l’espressa denunzia di Cristo, malos male perdet. Se voi al pari de’ vangelici vignaioli avete talmente strapazzato il vostro Padre di famiglia Iddio, che a guisa di nemici più fieri, non contenti d’oltraggiarlo nel suoi servi, e vostri prossimi, percuotendoli con mormorazioni, lapidandoli con ingiurie, ed uccidendoli con strapazzi, avete per ultimo ardito di mettere le mani addosso all’erede suo Figlio, ammazzandolo, apprehensum occiderunt, che altro potrete aspettarvi, che l’esecuzione della sentenza, malos male perdet; giacché, e sarà l’assunto del mio discorso, così sentono i Santi, così parla Dio, tanto richiede ogni ragione, ogni giustizia, tanto comprova l’esperienza. Un gran punto s’agita questa mattina UU. miei cari; si tratta di sapere qual speranza possa avere di morir bene chi vive male. Voi peccatori non siete buoni giudici per decidere questo punto perché siete in causa propria. Che si ha dunque da fare? Ecco, per accertar la verità negli interessi temporali, si ricorre a’ periti e saviamente si pratica. Per indagar dunque la verità in negozio di tanto momento ricorriamo ai periti; e quali sono i periti in simile materia? E chi non lo sa? I Santi Padri e Dottori della Chiesa; diteci dunque o Santi il vostro parere; qual speranza date voi di morir bene a chi mal vive? Ecco che risponde il Dottor massimo di Santa Chiesa, hoc timeo, hoc verum puto, quod ei bonus non est finis, cui semper mala vita fuit. Io per me, dice il Santo, non sono sì fuori di me, che possa dar speranza di morir bene a chi visse male; anzi hoc verum puto, stimo di certo che morirà male. Odo il Santo Vescovo d’Ippona Agostino, che risolutamente afferisce, vix potest bene mori, qui male vixerit, è un gran miracolo, che ad una vita cattiva succeda una morte buona. E Bernardo Santo, Abbate di Chiaravalle, così dall’eremo suo si protesta: Mors peccatorum pessima, quorum nativitas mala, vita pejor, fu mala la vita de’ peccatori, pessima sarà la morte. Quanto dicono questi, crediatemi miei UU. che tanto afferiscono quanti furono Santi Padri. Leggeteli ad uno ad uno e tutti a chiare note vi risponderanno, che la speranza di morir bene in chi mal vive, è sì tenue, che può dire ridursi al nulla. È pur familiare tra voi quel proverbio così celebre: dicami la vita che fai, e ti dirò la morte che farai. E pure così non fosse, vi sarà taluno tra miei UU.. che pretenderà dare una mentita a tutti i Santi Padri, mostrando di tenere tutto il contrario; e, se ciò non farà con le parole, lo praticherà con i fatti, menando una vita scellerata! Deh sciocchi non vi lasciate lusingare dal peccato, date retta ai Santi Padri che afferiscono esser cosa quasi infallibile, che chi mal vive, mal muore. Chi è più in pericolo di sbagliare in un tanto negozio, essi o voi? Voi che non sapete nulla delle cose dell’anima, che già vi siete messa sotto de’ piedi per sfogar quella vendetta, per ritener quella roba non vostra, per continuare in quella disonestà, o pur essi che l’hanno posta in sicuro e regnano in Cielo? Eglino sono gli intendenti, ed a loro bisogna credere. Io vedo che nelle cose di mondo non credete a voi se non siete pratici, ma bensì ai periti. Vi fu una dama di gran conto, la quale per più anni portò al dito un anello in cui credeva che fosse legato un ricco diamante, ma s’ingannò, e fu miracolo, che in materia di vanità s’ingannasse una femmina, ed in sentirsi dire da un’orefice perito in simili gioie: questo non è diamante, ma brillo; tanto bastò, perché ella deponesse come vile ciò che prima pregiava come prezioso. Così si pratica nelle cose di mondo, si crede a’ periti; ma non già negli interessi dell’anima; poiché, quantunque tutti i periti asseriscano esser questa la legge universale, che chi mal vive, mal muoia, e che la speranza di morir bene e viver male, non è diamante, ma brillo, ad ogni modo si segue nella pessima vita. Sarebbe stata una sciocca, una stolta quella dama, se contro l’asserzione di quell’orefice perito avesse voluto tener per diamante quello che era brillo. E non sarete voi iniqui, peccatori, se invece di credere ai Santi, che sono i periti, vorrete credere a voi nulla intendenti dell’anima. Quando non vi bastasse l’autorità de’ Santi per arrendervi a credere esser tenuissima la speranza di salute in chi mał vive, ed esser quali indubitata una mala morte, vi convincano le parole di Dio. Attenti, è Dio che parla. Si secundum carnem vixeritis, moriemini … se vivrete secondo i dettami del senso, morirete di mala morte e vuol dire: avrete una pessima morte, se non lascerete quegli amori peccaminosi, quelle laide amicizie, quelle pessime corrispondenze; avrete pessima morte, se non fuggirete le occasioni di peccare, che è quanto dire veglie, balli, feste, giuochi, ove per esperienza sapete che per lo più l’anima vostra resta uccisa dal peccato mortale. Così parla Iddio; ed in un altro luogo soggiunge: Impii in puncto ad inferna descendunt, gli empi fanno una pessima morte, che è quanto dire, quelli che covano odi in cuore, che scrivono lettere cieche, che formano memoriali indegni che fanno quanto possono per atterrare l’inimico; che è quanto dire, morirete male voi tutti che ritenete mercedi, che falsificate pesi, che v’ingrassate con la roba altrui. Così parla Iddio; ed in un altro luogo si fa sentire: Iniqui Regnum Dei non possidebunt, morirete male o voi, che siete irriverenti nelle Chiese, o voi sfacciati ne’ templi; intendetela, quæ seminaverit bene, hæc et metet, se vivrete bene, morirete bene; se male, male. E chi non spaccerebbe per stolto quel villano che avendo seminato orzo, pretendesse di raccogliere grano; che, avendo piantato querce, aspettasse che producessero limoni. Se seminerete iniquità, alla morte raccoglierete iniquità. È pazzia, questo è un pretendere di dare un pugno in Cielo, questo è un pretendere tirare con un carbone nero una linea bianca. Padre di famiglia; che tu pretenda di vivere con nemicizie, con pratiche, con tanti mali esempi a’ figli, e poi morir bene? me la rido! Ecclesiastico: che tu pretenda di strapazzare o lasciare l’Offizio, di dir la Messa con tanto poco decoro, di farti vedere nelle botteghe, nelle feste etc., e poi morir bene è pazzia; parroco, che tu pretenda di non far niente del tuo offizio, e poi morir bene? È pazzia, padrone che tu pretenda di non aver cura de’ servitori, delle donzelle e sai, e vedi e dissimuli, e poi morir bene? È pazzia. Piano, volete toccar con mano, che morirete male? Qua, ditemi, dove morirete? E chi lo sa! E non lo sapete? Padre no; pure, dove credete? In questa mia patria; ma perché non a Venezia, a Bologna? Non ci andate voi? Padre sì, ma per lo più sto in Patria, onde è quasi indubitato, che morrò in Patria … Male, voi morirete in Patria, perché per lo più state in Patria. Voi morirete in peccato, morirete male, perché per lo più state in peccato, a mala pena state in grazia di Dio quel giorno della Comunione: chi mal vive, mal muore. Prendete pure tutta la Sacra Scrittura, leggetela e rileggetela, e da per tutto troverete minacce che chi mal vive, male altresì muore. Che dite, che rispondete? E non tremate a proteste sì orribili della Divinità? Sto a vedere, che voi dopo aver data una mentita ai Santi, abbiate altresì ardire di darla a Dio. Chi mal vive, mal muore, questa è legge assai universale, e vi vuol di molto per dispensarla. Or pensa, peccatore qual merito abbia tu presso la Divinità, perché a favor tuo dispensi a questa legge; anzi rifletti, che la tua vita quasi necessita Dio a confermarla sopra di te a tua rovina. Temono i Santi di morir male, e non temono i perversi. Tanto appunto successe nel vascello del disubbidiente Profeta Giona. Si sollevò, come sapete, quella gran tempesta di mare, e da tutti si temeva lo scompaginamento del legno e la perdita delle robe e delle vite. Tutti per tanto quanti erano marinai, quanti passeggeri altamente temevano, e tutti si affaticavano ammainando le vele, vuotando la sentina, alleggerendo il Vascello, chi dava ordini, chi consiglio, chi aiuto, tutti piangevano, tutti gridavano, tutti sospiravano, e Giona? E Giona, che era il delinquente, quello per cui si era sollevata la tempesta, profondamente dormiva senza punto risentirsi al grande strepito, Jonas dormiebat sopore gravi, né mai si svegliò, finché il pilota non lo scosse e gli disse: surge, invoca Dominum Deum tuum. O quanto spesso succede: chi è innocente teme, chi è colpevole nulla paventa. I Santi temono di morir male, e son Santi; e voi colpevoli vi credete dover morir bene? Eh pazzi che siete … Quid tu sopore gravi deprimeris. Surge, surge, invoca Dominum, sorgi dalle tue disonestà, altrimenti morirai male; Surge da quelle bestemmie, altrimenti andrai in un luogo ove bestemmierai per tutta l’eternità; surge … torno a dire, temono i Santi e tu non vuoi temere? Se io leggo gli scritti di San Bernardo, io vedo che egli spesso si protesta con i suoi monaci d’aver gran paura di perdersi; e pure, se si scorre la sua vita, si trova che quella purità che trasse dal ventre materno, quella conservò illibata fino all’ultimo fiato; che per avere incautamente mirato una femmina, ne fece tal penitenza, che si ridusse in fin di vita; troverete che egli abbandonando le ricche facoltà, si rinchiuse in un chiostro a menar vi vita austerissima; che fu sì mortificato negli occhi, che sempre li tenne bassi, sì mortificato nel gusto, che sol si cibava di foglie cotte, ed il suo pane era o di orzo o di miglio; e pure egli torna a protestarsi d’avere gran paura d’una mala morte. Né solo Bernardo con una vita da santo temeva, ma temeva altresì quel gran lume delle Spagna Giovanni d’Avila, che dopo aver consumata tutta la vita in servizio di Dio arrivò a temere di morir male; e perciò richiedeva un anno di vita per piangere le sue colpe; temeva altresì quella serafina d’amore Maria Maddalena de Pazzi, che in tutta la sua vita conobbe solo Cristo per amarlo, e se stessa per strapazzarsi, e pure prima di morire richiede al suo confessore, se morirà bene o male. Dio immortale, teme di morir male un Bernardo, che con quella purità che nacque, con quella morì, e spera di morir bene quello che superò l’età con la malizia, e che fino dalla puerizia principiò ad imbrattarsi nelle lascivie, e pur finora segue? Teme morir male chi sempre procurò salvar anime, e spera di morir bene chi sempre le condusse al precipizio? Fin ne’ postriboli? Teme di morir male chi amò sempre Gesù, e strapazzò se stessa, e spera di morir bene chi sempre vilipese Dio, conculcando i suoi Divini precetti, mettendosi sotto de’ piedi quelli della Chiesa, e spera di morir bene chi sempre visse tra le crapule, tra feste, tra conviti, tra veglie, tra gli amori indegni? Eh toglietevi di capo questa pazzia, ed intendetela una volta esser questa la legge assai universale che: chi mal vive mal muore. –  Se per farvi risolvere a credere questa verità non vi basta né l’autorità de’ Santi, né le parole di Dio, né pure il timore di quelli che, quantunque fossero vissuti bene, temevano di morir male, vi convinca la ragione, ed è, che non merita d’avere una buona morte chi non se ne cura, e nulla opera per averla chi la disprezza posponendola a tutte le cose del mondo, e chi fa quanto può per non averla buona. Non parlo in aria, no! Cominciamo e cominciamo. Non è dovere, che Dio dia una buona morte a chi non se ne cura; e perciò nulla opera per averla. Cosa fate voi per avere una buona morte? Nulla! Dunque non ve ne curate. Attenti, ve lo dimostro. Pensieri, parole ed opere devono trafficarci una buona morte . I pensieri vostri sono di Paradiso o d’inferno? D’inferno, d’inferno, così non fosse. Li vostri pensieri sono tutti intenti alla vendetta, alle crapule, alle disonestà, e piaccia a Dio che neppure per un’Ave Maria si pensi al Cielo. Le vostre parole son di Paradiso, o pur d’inferno? Imprecazioni, bestemmie, spergiuri, toglimenti di fama, ragionamenti sporchi, sono il pascolo delle vostre lingue, e Dio sa, se un quarto d’ora s’impieghi in dir la corona. Le opere sono di Paradiso o di dannazione? Traffici illeciti, laide disonestà, furti e rapine occupano tutto il giorno, sicché a mala pena si ode la Messa ne’ di festivi. Questo è il vivere di non pochi Cristiani, pensare, parlare ed operar da demoni, e poi pretendere una buona morte. O che pazzia, voi non operate nulla per averla, onde mostrate non curarvene punto e poi la sperate? Eh via, ogni ragion vuole che non si dia una buona morte a chi non se ne cura. – Qua fronte, grida Sant’Agostino , postulas quod promisit Deus, et non facis, quod jussit Deus? E come speri d’avere una buona morte se altro non fai che procurarla pessima con i peccati? Non è dovere, no, che si dia buona morte a chi non se ne cura, nulla operando per averla; e molto meno è giusto, che si dia a chi la disprezza, posponendola, a tutte le cose del Mondo. Non è vero eh? Rispondimi iniquo, che vuoi tu, una buona morte, o la vendetta? La vendetta. Vuoi una buona morte o quella vanità scandalosa? La vanità. Una buona morte, oppur seguitare tra gli amori, tra le laide amicizie? Seguitar tra’ piaceri. Dunque, se tu la disprezzi, posponendola a tutte le cose del mondo, non è dovere che tu l’abbia. E se non è dovere che si dia una morte buona a chi la disprezza, posponendola a tutte le sue passioni, molto meno è dovere che si dia a chi fa quanto può per non averla. Voi sì con i vostri peccati fate quanto potete per non avere una buona morte, e stimolate Dio a permettervene una pessima. Voi sapete che quei contratti usurari, quantunque comincino col nome di Dio, si finiscono però con la dannazione de’ contraenti, e pur li volete fare. Voi sapete che salendo quelle scale dell’amica scendete quelle dell’inferno, e tanto volete tornarvi. Voi sapete che tanto è trattar con quel compagno, quanto imbrattarsi di lascivie, e pur non lo lasciate. Se andate a quei ridotti, a quelle bettole, a quei giuochi, voi sapete che mai ne uscite senza aver macchiata l’anima, e pur ritornate. Questo è fare quanto si può per avere una mala morte, e poi la sperate buona? O stolti; non l’avrete, no, troppo vi raccomandate per averla pessima. O questo no, Padre, che dite? O questo sì, vi rispondo io. Sentite bene. Voi peccatori iniqui per avere una pessima morte ne porgete tutto di quasi memoriali a Dio; Come è possibile? Eccolo. Sappiate, che ogni qual volta voi commettete un peccato mortale, voi porgere quasi un memoriale al diavolo, acciò che egli lo presenti a Dio ed in esso stanno scritte queste parole espressevi dalle vostre pessime operazioni. Signore, nelle di cui mani sta il salvarmi o dannarmi, vi supplico che mi neghiate il Cielo, e mi diate inferno, che è quanto dire una pessima morte. Quanti, o quanti ne avete finora inviati al tribunale di Dio di questi memoriali per mano de’ diavoli e poi siete sì sciocchi, che vi stringete in pugno una buona morte. Chi mal vive mal muore, questa è la legge assai universale. Se volete una buona morte, bisogna morire al peccato e vivere a Dio. Bona mors est, dice San Bernardo, si peccato moriaris, et justitiæ vivas. Quando finora non siate restati convinti a capire questa verità, vi strozzi almeno la ragione d’una certa equità, che porta seco non dover fare una buona morte a chi visse male. Non v’è chi dubiti che Dio vuole, che differentemente sia trattato il reo dall’innocente, l’iniquo dal giusto. Alzate dunque le pupille vostre al Cielo, e rimirate colassù nel Paradiso Luigi Gonzaga della Minima mia Compagnia, e rimiratelo con quelli occhi che ve lo vide la Serafina di Firenze Maria Maddalena de Pazzi, allorché tutta estatica esclamò o che gloria è mai quella di Luigi figlio d’Ignazio. Or sappiate, che questa gran gloria gli fu guadagnata con una santissima vita, che vale a dire, per mezzo d’una purità angelica, la quale non gli permetteva di rimirare in volto neppure la propria madre, per mezzo d’un staccamento totale da tutte le creature del mondo; e questa vita gli partorì una morte giocondissima tra le braccia di Gesù e di Maria. Or ditemi: qual ragion mai vuole che quel giovinotto simile à Luigi nell’ età, ma dissimilissimo ne’ costumi, perché tutto disonesto e tanto attaccato alle creature, dovesse poi sortire una simil morte? Appunto, chi mal vive mal muore, così ogni ragione d’equità richiede che abbia morte buona chi visse bene, mala chi visse male. Ecco lassù la Vergine e Martire Santa Lucia, ella gode la Gloria del Paradiso, ella tripudia tra quello stuolo di vergini; ella vive e vivrà sempre beata; ma perché? Perché mentre visse, visse innocente, visse illibata, visse tra patimenti e morì tra’ martiri, e questa vita innocente, condotta tra tante pene, gli meritò una giocondissima morte. Or qual ragion vuole che quella donzella d’età poco o nulla dissimile a Lucia, ma dissimile ne’ costumi, perché dedita ai balli, alle veglie, agli amori, debba poi avere una buona morte? Appunto, appunto, ragion vuole, che muoia bene chi visse bene, e male chi male. Vedete Santa Monica, ella è in Cielo, ma come visse, quante lacrime sparse perché il suo figliuolo si convertisse a Dio. Parmi di vedere tra quegli splendori di beatitudine quella gran regina di Francia per nome Bianca, la quale altra preghiera non mandava a Dio, salvo che gli facesse morire il suo figlio, quando dovesse offenderlo, ed un tal vivere partorì a questa, quella felice morte che fece. Or come pare a voi, che sarebbe giustizia che una simile morte sortissero quelle madri le quali non solo non allevano bene i figli, ma li lasciano tra gli amori, e molte volte chiudono gli occhi ai peccati? No, no, non è dovere che abbiano queste scellerate madri quella morte gioconda, che si concede alle Sante. Del pari dunque ha da essere trattato da Dio chi, simile a Francesco d’Assisi, rinunziò quanto aveva e tutto diede per limosina, con chi succhia il sangue de’ poveri, e tutto dì li spoglia? Una egual morte gioconda ha da sortire chi simile a Giovanni Gualberto perdonò all’inimico, e chi si porta da Caino fratricida? E sarà dovere che un Sacerdote, che visse scorretto, immodesto nel parlare, sfacciato nel guardare, che interveniva a balli, che mentiva gli abiti sacri, che fomentava amori, faccia una morte simile a quella di chi con mani pure e con cuore angelico sempre offriva l’Ostia adorata? No, che non sarà, no; levatevi di testa questa presunzione di morir bene se vivrete male, perché balzerete nell’inferno. Sì, sì, morirete male o giovani che, divenuti avvoltoi, andate in preda anche delle colombe di Dio. Voi, che singolarmente ne’ dì festivi andate in Chiesa con tanta baldanza, che pare che per i Santi sia, non il giorno della festa, ma della berlina. Voi o padri e madri di famiglia, che usurpate la roba altrui per lasciar ricchi i vostri figli. Sappiate tutti voi, che per voi, se non muterete vita, non vi è buona morte. Dunque o peccatore mio amatissimo, e vorrai perderti? Non  sia mai vero; vivi bene per morire bene, ma se vivrai male, male altresì morirai. –  Se bene pensate, se i peccatori ciechi per la passione, hanno mente da conoscere esser questa ragion d’equità, che chi mal vive mal muoia. Se così è, già che i peccatori sono grossolani, né restano convinti, salvo o da quel che vedono con gli occhi corporali, o dalla esperienza di casi seguiti. Questa dunque sia l’ultima batteria che vi convinca, mettendovi avanti gli occhi un funestissimo caso di chi, se visse male, male altresì morì. Vergine Santissima assistere al funesto racconto, e voi UU. non vi distraete. Viveva in una Terra della Marca non ha molti anni, un giovine con una rea compagna. Quando, una sera, allorché cenavano, cadde giù nella stanza un piccolo sassolino; credette il giovine ingelosito, che fosse segno di qualche corrispondenza con altro; poi finita la cena cadde un altro sassolino, sicché il giovine allora più che mai ingelosito, dié su le furie, e principiò non solo a sgridare, ma a percuotere la scellerata compagna, volendo che ella confessasse quali altre corrispondenze tenesse. Asseriva la donna non aver altra amicizia che la sua, lo giurava, l’attestava con mandarsi orride imprecazioni, e tutto ciò si udiva da una vicina, che a muro a muro le stava a lato. Quando (o caso orrendo) cadde loro addosso tutta la casa e li uccise vivi e li seppellì morti. Corsero i vicini al fracasso, si pose il popolo a levar via i materiali per ritrovar quei due corpi che, in quanto alle anime, certo non poteva ritrovarle, perché eran perdute, e fu cosa veramente di stupore, veder che sotto i sassi eran rimasti interi, non che i piatti anche i vetri, acciò si sapesse che diede la morte a quegli empi, non la disgrazia, ma Dio. Chi mal vive mal muore. La volete intendere sì o no? Rispondetemi, volete morire da buoni Cristiani? Padre sì. Padre no, perché avete un sì nella bocca, e cento no nelle mani. No, che non vuoi morir bene o giovane, perché hai un parlar sì laido che se la tua lingua non fosse di carne, lo diverrebbe. No o mormoratore, che laceri la fama altrui, che non porti rispetto né ad età, né a sesso, né a condizione. No, o potente, che t’ingrassi col sudore de’poverelli, e fai sacrificio alla tua ambizione ed al lusso con le loro lacrime. No, o avaro, che per la roba male acquistata lasci in testamento a i figli la dannazione. No o pittor sacrilego, che con i tuoi sozzi pennelli fai lance a Cristo e stiletti alle anime. No, no, che non vi volete salvare o peccatori qualunque vi fiate se non mutate vivere, perché chi mal vive mal muore. Deh per amor di Dio, vi dirò con Salviano: miserere animæ tuæ, cujus vides miseratione me frangi … abbiate compassione della vostra povera anima, di cui vedete quanta ne ho io, che non perdono a fatica per salvarvela, e credo che darei anche il sangue, quando tanto bisognasse. O quanto desidero che vi salviate; ma son costretto a dire col mio Saverio: ego id quod valde cupio, tam parum spero, quanto più lo desidero tanto meno lo spero. Deh per l’amor che portare a Maria non vi fidate, mutate vita se volete fare una buona morte. Miseri voi, che quando sarete laggiù dannati, ahi, ahi, direte, che non abbiamo voluto credere né ai Santi, né a Dio, né cedere alla ragione, né ad ogni dover di giustizia, né pure alla stessa esperienza, che chi mal vive mal muore. Ed ora conviene, che non solo lo crediamo, ma lo proviamo.

LIMOSINA
Qui in Nomine Christi, dice il Damasceno, pauperibis subvenit, centuplum recipiet, chi dà ai poveri per amor di Dio, riceverà il centuplo. Non poteva tollerare l’Imperatrice Sofia, che Tiberio suo consorte fosse tanto liberale verso de’ poveri, e lo rimproverava, dicendogli che per sovvenire i mendici avrebbe impoverito il regno. Non così la discorreva Iddio, che un giorno nel levarsi da un pavimento una croce, gli fece trovare tant’oro che formava un tesoro, ed indi a poco fece pervenire nelle sue mani un tesoro molto maggiore nascosto già da Narseste in una cisterna, in cui erano tanti milioni d’oro, che per trasportarli al palazzo vi fu necessaria la fatica di più uomini e di più giorni.

SECONDA PARTE.

Miei UU. il mio discorso non ha mostrato altro se non che chi male vive, mal muore; ora faccio un passo più avanti e dico … e chi mal muore sarà finito per sempre, non potrà sperar mai di mutare stato, no, mai, mai. Si ceciderit lignum ad Austrum aut ad Aquilonem, in quocunque loco ceciderit, ibi erit. O che protesta da far raccapricciare ancora un animo di macigno. Da quella parte, dice l’Ecclesiastico, dalla quale cadrà l’albero quando verrà tagliato, da quella dovrà rimanersene immobile. Se cadrà all’austro, rimarrà all’austro. Se cadrà all’aquilone, rimarrà all’aquilone: Si ceciderit lignum ad Austrum, aut ad Aquilonem, in quocunque loco ceciderit, ibI erit. Per austro s’intende la parte de’ predestinati; per aquilone s’intende la parte de’ presciti; da quella dunque dalla quale cadrà l’uomo, quando a guisa di albero sarà reciso dalla mano implacabile della morte, da quella dovrà restar per tutti i secoli, o eterno pianto, o eterno riso, o eterna povertà, o eterna ricchezza o eterna miseria, o eterna felicità. Chi però saprà dire a ciascuno di noi qual sorte finalmente ci toccherà? eh non è difficile indovinarla. Quando si sega un albero, da qual parte viene a cadere? Da quella dalla quale pende: se pende a destra, cade a destra, se pende a sinistra, cade a sinistra. Orsú, non accade più cercar altro: peccatore, peccatrice, da qual parte pendi tu ora? pendi sempre a sinistra? Sempre compiacere il diavolo. Tu sempre pendi a sinistra, e poi pretendi, morendo, cadere a destra? Pretendi morir come un Santo fra le braccia d’un Crocifisso? Oh quanto t’inganni. Se vuoi cadere a destra, pendi a destra, che vuol dire, muta vita! Ahimè, che cotesta tua vita non è da chi brama fare una buona morte, e perché? Chi mal vive, mal muore, tale è la legge, e legge assai universale. Può avvenire qualche volta il contrario, non lo nego, ma questo è per accidente, e però che prova? Chi dai casi accidentali vuol prendere a regolarsi in opere di momento, è uno scimunito. Ma la misericordia di Dio non è grandissima? Certo, certissimo. Ti basti di sapere che ella ha tollerato ancor te fino al giorno d’oggi, guarda se è grandissima! Ma che? Questa misericordia, benché grandissima, non lascia andare all’inferno tanti Gentili, tanti Turchi, tanti Tartari, tanti Ebrei? Che meraviglia però, se lasci anche andarvi un Cristiano par tuo, abusandosi sempre de’ suoi favori. Anzi mira quanto io discorra diversamente da te. Tu dici che Dio ti donerà dopo una cattiva vita una morte buona, perché è misericordioso, ed io ti dico, che per questo medesimo che Egli è misericordioso, non vorrà donartela. Se Dio è misericordioso, a chi deve, come tale, aver più riguardo? Alla salute particolare d’un solo, come sei tu, o alla salute universale di molti? Alla universale di molti, non ve ne ha dubbio; ma quanti prenderebbero cotesto cattivo esempio, se essi vedessero che tu, dopo una vita menata contro ogni regola di ragione, sortissi fortunatamente una morte, qual fanno i giusti. Quanto però rimarrebbero nel loro cuore scandalizzati i pusilli, quanto tituberebbero i buoni quanto trionferebbero gli empi, e quante anime conseguentemente verrebbero a perdere il Cielo per una che l’acquistasse; adunque spetta alla misericordia divina, siccome ancora, alla divina Giustizia, disporre in modo le cose, e permettere, che per lo più, chi visse male muoia male, altrimenti qual dubbio, che tutto il mondo verrebbesi a popolare d’iniquità, che si diserterebbero i chiostri , che si desolerebbero i cleri e che appresso il volgo ignorante rimarrebbero in derisione tutti quei Macari, quegli Arsenj, quegli Ilarioni, quei che vollero comprare a così gran costo ciò che da’ Cristiani, anche perfidi, anche protervi si soleva ottenere a sì vil prezzo. È grande dunque la misericordia di Dio, è grande, grandissima, ma per chi la vuole usare, non per chi la vuole abusare, altro è ricorrere alla misericordia di Dio dopo il peccato, altro è peccare perché rimane il ricorso alla misericordia; il primo è volere che la misericordia perdoni il peccato, il secondo è volere che lo protegga, e questo non sarà mai. Adunque, che si ha da fare? Mutar vita.

QUARESIMALE (XIV)

QUARESIMALE (XIV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMAQUARTA

Nella Feria quinta della Domenica seconda.

Si procura d’esporre agli occhi del peccatore, un’ombra dell’apparato funesto de’ tormenti infernali e si detesta la pazzia di chi pecca, quantunque creda inferno e lo creda eterno.

Mortuus est dives, et sepultus est in inferno. San Luca al cap. 16.

L’Organa, pittor bravissimo si mostrò lo Zeusi de’ suoi tempi, con dipingere, non il volto d’un’Elena ricavato da tutte le bellezze della Grecia, il ceffo di Medusa copiato al vivo dalle bruttezze d’ogni più mostruoso animale. De’ più deformi e de’ più spaventosi ne adunò in gran numero, e di ciascuno ne fece anatomia con l’occhio, distinguendo parte a parte ogni più sconcia mostruosità, poscia con la mano trasportò su la tela quei vivi terrori, acciocché da tante sparse bruttezze, raccolte in uno, una ne riuscisse fior di bruttezza la faccia di Medusa. Che l’opera felicemente riuscisse, testimoni ne furono gli occhi degli amici, poiché al rimuoversi improvvisamente il velo, quasi che si scoprisse, non la dipinta nel quadro, ma la vera Medusa nel celebre Scudo, presi da un freddo orrore, rimasero come di pietra. Piacesse al Cielo, che a me fosse concessa una simile arte con cui potessi mettervi in vista al vivo l’orribil volto dell’inferno! Spererei, con l’aiuto divino, strane sì, ma sante mutazioni. M’ingegnerò dunque quanto più posso d’esporvi un’ombra dell’apparato funesto de’ tormenti infernali, provati ora da chiunque in compagnia dell’odierno Epulone, sepultus est in inferno. La terribilità dell’argomento non tollera superfluità d’esordio, ma richiede straordinaria attenzione; datemela a pro delle anime vostre, e do principio. Passeggiando un dì quel gran padre de’ Monaci San Macario per le vaste solitudini d’Egitto, piantò inavvedutamente il suo bastone sopra d’un teschio di morto, da cui sentendone uscire voci di lamento, si fermò interrogando s’era anima salva, o pur dannata. Son di un’anima dannata, rispose il teschio. Se così è, soggiunse il Santo, dammi qualche notizia del tuo inferno. Non altra ti posso dare, replicò il teschio che questa: l’anima sopporta l’inferno, ma non sa comprendere cosa sia inferno. Che farò dunque R. A. se dovendo parlare d’inferno, non può questo comprendersi! – Grande Iddio, che avete in vostra mano quella chiave che apre e serra la porta eternale, concedetemela, vi supplico, voglio spalancare quell’orrenda prigione di dannati: né vi crediate che io pretenda di restituire ad alcuno di loro la libertà, né recare acqua al loro fuoco, balsamo alle loro piaghe; o questo no, stiano pure ivi i miseri a pagar giustamente gli oltraggi a voi fatti: non son degni, né di soccorso, né di pietà! S’arrabbino pure, si disperino … loro danno. Quel che io pretendo altro non è se non questo far vedere a’ miei UU. quell’orribile luogo, acciocché niuno di loro a me sì cari cada colaggiù à popolarlo. Ecco, ecco, è già calata la gran chiave, o che strepito di catene! o che, strascinamento di catenacci! Già stride la gran porta si apre o che fumo, o che caligini, o che puzza, o che strilla, o che confusione! convien stare alla larga; e se nostro pensiero fu di vedere, contentarci d’udire. O là ascoltatemi voi, anime tormentate, e datemi qualche certezza del vostro inferno. Ditemi, vi contentereste voi, che il vostro inferno fosse quel toro di Bronzo, dove Falar Tiranno d’Agrigento racchiuso il paziente col fuoco acceso sotto il ventre del toro, godeva sentirlo muggire, mentre il misero nell’interno della bestia infocata si abbruciava? Vi contentereste della fierezza de’ Sciti? Questi spaccando per mezzo cavalli, seppellivano nelle loro viscere uomini vivi, sostentandoli con cibo, acciocché quivi da’ vermi che nascevano dalle carni putrefatte del cavallo morto, a poco a poco fossero vivi mangiati? Vi contentereste della bestialità del tiranno Mezenzio, che congiunti a’ corpi vivi corpi morti, così li lasciava, affinché dal fetore del cadavere ne venisse ucciso il vivo? Che rispondete? Vi contentereste di queste atrocità de’ carnefici tiranni più crudeli? Taci, sento che mi dice il Crisostomo; taci, perché questi son tormenti da burla, rispetto a quelli dell’inferno. Dunque rispetto all’inferno sarà una burla quella crudele invenzione praticata nell’Inghilterra, ove s’applica sul nudo ventre del misero condannato un esercito di rospi, vipere ed altri simili animali, sopra i quali, coperti con una gran conca di rame, si accende fuoco sì cocente, che quelle bestie inferocite tracciano il corpo del reo per fuggire dal fuoco; e tutto questo sarà una burla, se si paragoni con l’inferno? hæc ludrica sunt, et risus ad illa supplicia. Sarà una burla quel supplizio dato in Francia all’uccisore d’Enrico quarto, supplizio tanto inaudito; poiché il reo fu posto sopra d’un palco nella gran piazza, ed ivi lentamente con forbici roventi attanagliato nelle gambe, cosce, braccia e petto: indi nelle piaghe fatte dalle tenaglie si fuse olio, piombo, e zolfo bollentissimo; la mano poi infame, tenendo il coltello proditorio sopra un fuoco sulfureo, fu fatta lambiccare fino a rimanerne le ossa sole ignude; il corpo poi da quattro cavalli squarciato fu consumato nelle fiamme: e questo pure sarà una burla o Crisostomo? Si una burla se con l’inferno si paragoni: hæc ludrica sunt, risus ad illa supplicia. Burla dunque altresì sarà quel macello che nell’Olanda fu fatto di chi ferì con archibugiata Guglielmo Principe d’Oranges? Vedeasi sospeso il reo da’ nodi de’ pollici delle mani con cento libre di piombo appese a’ pollici de’ piedi, e con orrore rimiravasi da’ manigoldi spietatamente flagellato piover sangue. Indi deposto dal doloso eculeo, sottentrò ad esser martirizzato con acute cannette sotto le unghie; legato poi ad un palo dié la mano tra due lamine di ferro infocate ad arrostire con le ossa medesime, sicché il fetore ammorbava tutta la piazza, e per ultimo squarciatasi a pezzetti la carne con tenaglie acute, apertogli con un coltello il petto, cavate col cuore le viscere, fu quell’avanzo di cadavere in quattro parti spaccato. Burla sì, mi risponde il Boccadoro, se si ponga a confronto con i tormenti d’inferno: hæc ludrica sunt, risus ad illa supplicia. Ma che devo io aggiungere per fare un vero ritratto delle pene infernali? Forse gli strazi più stravaganti de’ Santi Martiri? tutto quello che vuoi, replica il Santo, perché tutto non è neppure un’ombra d’inferno: pone ferrum, ignem, et bestias, et si quid his difficilius, attamen nec umbra quidem sunt ad illa tormenta. Poi insomma, quanto vide Roma ed il mondo tutto di barbaro, sotto i Neroni, Diocleziani, e Valeriani, da’ quali la barbarie stessa fu superata; e se ti fai sognare altre più orrende invenzioni di Martiri tormentati, e sappi che neppur sarai un’ombra de’ tormenti d’inferno. E la ragione è manifesta; perché, se Iddio in questa vita ha permesso tormenti sì fieri, di Martirii spietati a gente santa e degna di premio, certo che non devono trattarli del pari nelle pene i cattivi ed i buoni; e perciò avrà nell’inferno apparecchiati assai più atroci tormenti per la canaglia degli schiavi suoi ribelli, e degni d’ogni più estremo castigo. O inferno, inferno, quanto mai sei terribile! Deh tu, o buon soldato Drittelmo, che, secondo la narrazione di Beda, avesti fortuna di dare un’occhiata all’inferno, allorché in Inghilterra, essendo tu morto, dopo un giorno risuscitasti, ed a guisa di sbalordito ti rintanasti per sempre in un romitaggio a scarnificarti con orrende penitenze; rispondendo a chi si stupiva di sì aspro trattamento: acerbiora vidi: ho veduto, ed ho sfuggito tormenti molto maggiori. Spiegaci di grazia ciò che volevi esprimere con quel continuo replicare, acerbiora vidi. Dimmi, volevi tu significare che tra quelle tenebre d’abisso, nelle quali dimorano acciecati da perpetue notti i dannati, altro non ne ritraggono che fumo, che orrore; che colaggiù si vedono i diavoli in forma sì spaventosa, che Caterina da Siena, avendone veduto un solo, e sol di passaggio; asserì che più tosto di vederlo un’altra volta si sarebbe eletta di camminare a piedi nudi sopra le braci ardenti fino al dì del Giudizio. Dimmi dunque, o Drittelmo, volevi tu significare questa pena, quando dicesti, acerbiora vidi? Sì, ma non basta: ho veduto di peggio. Vedesti forse quei miseri dannati, che colaggiù se ne stanno l’uno sull’altro ammassati, e l’uno l’altro premendo, come uve nel torchio. Sicché con la bocca applicata al cadavere marcio, che avranno sotto, saran costretti a sorbire quello stomacoso umore: essendo ben dovere che si faccia di feccia, chi beve, come acqua l’iniquità. Miei UU. gran pene sono queste, vedute da Drittelmo. Se vi basta l’animo tollerarle, quasi dissi, peccate; ma se no, desistete dalle offese di Dio, e date mente ad Agostino: vel mortem time, sinon times peccatum. Non times peccatum? time quo perducit peccatum. Acerbiora vidi; Drittelmo non si quieta; e dice aver veduto di peggio. Ma che vedeste mai di peggio? Forse quei storcimenti de’ dannati per le puzze intollerabili, o de’ corpi fetentissima scaturigine de’ vermi, o della carcere. Cloaca delle più stomacose sporcizie; pena sì grande, che San Martino all’intollerabile puzza lasciata nella sua camera da un demonio comparsogli, poco meno che tramortito, disse: o inferno, che fetore sarà il tuo con tanti e tanti milioni di dannati e di demoni; se un diavolo solo col fuo fetore ha cangiata la mia camera in un inferno? Dimmi, o Drittelmo, è questo quel supplizio più duro che vedesti nell’inferno? Sì, questo ancora io vidi; ma non basta: ho veduto di peggio. Ben t’intendo; hai veduto che i miseri dannati sono di continuo maltrattati, lacerati e sbranati da quei demoni, nei quali non è punto di compassione. Acerbiora vidi; ma se vedesti ancor di peggio, tu non vuoi intendere d’altro, che del fuoco chiamato da Curzio l’ultimo de’ supplizi, ignis suppliciorum ultimus est; e vuoi dire che hai veduti i dannati avviluppati tra fiamme sì furiose che questo fuoco nostrale al parere di Sant’Anselmo è come fuoco dipinto: sic istum naturalem ignem vincit, ut iste pictum ignem; non lo credete? Ditemi. Ricordano le Storie, che Giorgio Castriotta avendo mandato a Maometto Secondo, signore de’ Turchi, quella celebre spada, con cui tagliava di netto il collo ad un bue, all’udir poi, che niuno di quanti si erano a ciò provati avevano mai potuto conseguire gloria sì bella, saviamente rispose: punto non meravigliarsi di ciò avendo egli mandata la spada, ma non il braccio. Tanto io pure dirò a voi: se mai per forte vi paresse incredibile la forza del fuoco infernale, misurandolo alla vista del nostro. Il fuoco in mano della natura è come una spada in mano d’una donna, ma il fuoco dell’inferno è come una spada in mano di Dio: e perciò non è meraviglia, se maneggiata colaggiù dalla Onnipotenza, faccia prove tanto eccedenti il nostro intendere. Per questo Iddio non fu contento di dire, si acuero ut fulgur gladium meum, ma v’aggiunse, et arripuerit Judicium manus mea, perché si sappia che questa spada di fuoco non tanto opera per la propria virtù, quanto perché è guidata dalla mano divina. – Si trovano oggi de’ fuochi artificiali, i quali arrivano ad ardere fino nelle acque; ed i Chimici fanno accendere nell’Antimonio un fuoco sì poderoso, si penetrante, che in paragone d’esso le fiamme delle fucine più ardenti paion fiamme di paglia. Quanto farà dunque furioso il fuoco infernale, fuoco artificiato bensì, ma dalla mano Divina? E per farvi intendere, esser questo fuoco d’inferno tanto spietato, riflettete, che il nostro fuoco fu creato da Dio per beneficio nostro; per scaldarci, per ricrearci; ma il fuoco infernale è creato, non per servo, ma per carnefice; è acceso in uno zolfo formato a posta per tormentare i peccatori e però se tanto tormenta i rei quella vampa, ch’è un dono della Divina beneficenza e liberalità; quanto più dovrà tormentare quello che è uno sfogo della Divina Giustizia? Io mi do a credere che se in questo fuoco vi cadesse una montagna di macigni e marmi durissimi, vi si disfarebbe tutta come cera, a facie tua registrò Isaia, montes defluerent. Certo è che un fuoco tanto minore, quanto è quello del Vesuvio e Mongibello liquefà i sassi, e riduce in cenere i macigni più duri spargendoli su’ Campi a guisa di nembi; acciocché gli uomini abbiano avanti gli occhi on leggiero abbozzo di quel fuoco molto maggiore che la fede ci addita a distruggimento degli scellerati. Son sì terribili quelle fiamme, R. A. che solo un infelice scolaro dall’Inferno comparso al suo maestro vivente, giusta la promessa gli stilò una goccia di sudore di quel gran fuoco sopra la mano ed in un istante da parte a parte lo traforò con spasimo da morirne. Or se il sudore cagionato da quelle fiamme che bruciano i dannati è più cocente ed ha forza tanto maggiore del nostro fuoco, chi negherà che il nostro fuoco non debba chiamarsi dipinto a paragone di quello dell’inferno? Avari, per voi sono preparate quelle fornaci, per voi ardono quelle fiamme, o irriverenti alle Chiese; per voi, o mormoratori; per voi bestemmiatori, per voi, o donne se foste vane con detrimento della vostra e dell’altrui onestà, per voi o padri, se male educaste i figli, se non soddisfaceste a’ legati pii, se non pagaste le mercedi, se v’ingrassaste con la roba altrui. Per voi o peccatori è preparato quest’inferno sì tormentoso di fuoco sì terribile. E pure ecco là colui, ecco là colei che, come se non gli bastasse per portarsi all’inferno quella sfrenata lascivia in cui vivono, hanno preso per cavalli di rilasso a covare in cuore un odio diabolico ed una cieca avarizia. – Il leone (Dio immortale) atterrito dalla vista del fuoco; ferma la zampa ed abbassa l’orgoglio, e tu peccatore e tu peccatrice alla vista dell’inferno non saprai fermare il passo al corso delle tue tante scelleraggini? Segui pure ed aspettati di peggio; poiché Drittelmo continua ad esclamare: acerbiora vidi. Dunque v’è nell’inferno tormento più fiero del fuoco? Sì! Pensieri miei disperati, e che cosa posso immaginarmi di più crudele? Finiscila una volta, Drittelmo, e palesa espressamente ciò che vedeste di più spietato. Non lo posso dire, pare risponda con Geremia, perché anche esso avendo veduto in spirito l’infernal macello esclamò secretum meum mihi; cioè, come spiega San Girolamo, non possum narrare. Non è possibile l’accennare, non che esprimere ciò che attonito vidi di terribile nell’inferno. E pure io vorrei fare apprendere qualche poco l’atrocità delle infernali pene, a chi mi ascolta. Ecco, che fò tutto lo sforzo per abbozzarvele UU. prendendo le parole di Dio nel Deuteronomio al ventesimoterzo. Udite: è Dio che parla, Congregabo super eos mala, rovescerò, dice Egli, sopra de’ dannati nell’inferno quanti castighi saprò mai inventare; non voglio che manchi loro neppure un tormento. Li voglio afflitti, flagellati, scarnificati, come appunto afferma l’Angelico: Nihil erit in damnatis, quod non fit eis materia, causa tristitiæ. Non consentono i medici che il corpo umano possa in un tempo stesso venire afflitto da tutti i mali di cui per altro è capace, perché essendo molti di questi l’uno all’altro contrari di qualità, non sono compatibili ad un tempo stesso in uno stesso soggetto; ma tale opinione, dice Drittelmo non corre colaggiù, nell’inferno, dove le pene, benché diverse, non saranno tra sé contrarie, ma si daranno la mano e due veleni non comporranno un antidoto, ma un tossico più mortale. In somma si verificheranno le parole divine: congregabo super eos mala. Tutti, ma tutti i mali piomberanno ad un tempo sopra de’ dannati. Or sì, che penso e Drittelmo d’aver trovato l’ultimo de’ supplizi, mentre di tutti i supplizi ne ho composto un supplicio solo: congregabo super eos mala: appunto quasi sdegnato mi risponde soggiungendo acerbiora vidit. Si si, taci, t’intendo. Ascoltatemi, o peccatori; e, se questo ultimo tormento de’ dannati non vi mette in capo l’orrore all’iniquità, sicché lasciate gli odi, abbandoniate le amicizie indegne, restituiate l’altrui, io per me, quasi dissi, dispero della vostra salute. Drittelmo si fa intendere, e dice che l’ultimo de’ supplizi tra’ dannati, è che colaggiù in quell’abisso sempre si morirà senza mai morire; sarà la morte immortale, e non avrà il bene del fine di tutti i mali: et dixi pertit finis meus. O eternità, eternità! voi miseri dannati, cercherete la morte per ristoro a’ vostri mali e mai la troverete: quærent mortem, et non invenient. Lo scorpione cinto d’ogni intorno da carboni accesi, disperato, si morde al fine tanto da sé medesimo e si uccide; ma quei meschini, non solo circondati, ma penetrati interiormente dal fuoco, non avranno tanta forza da terminare in simile modo i loro guai; bisognerà che sempre vivano in un continuo e disperato morire; domanderanno, come quel miserabile chiedeva a Tiberio imperatore la morte, a fine di terminare le molestie della prigione; e ne avranno per rispota quella che diede a questo infelice il monarca: nondum mecum in gratiam rediisit. La morte sarebbe un sogno d’essere ritornati in grazia, perché li leverebbe da quel continuo ed acerbissimo morire. – Santo Profeta Reale, che parlavi dell’eternità de’ dannati allorché dicesti: erit tempus eorum in sæcula, che volevi mai esprimere con quella parola in sæcula? Volevi forse dire, che quei miseri peneranno fino a tanto, che un piccolo cardellino tornato a bere una sola goccia per Anno, potesse giungere a seccar tutti i mari? Più … in sæcula. Volevi forse dire, che peneranno fino a tanto che un minuto vermetto tornato a dare un sol morso per anno, potesse giungere a divorar tutti i boschi? Più … , in sæcula. Volete dire, che peneranno fino a tanto che una leggera formica tornata a muovere un sol passo per anno, potesse giungere a girar tutta la terra? più … in sæcula. Velete voi dire, che se tutto il Mondo fosse pieno di minutissima arena, ed ogni secolo ne fosse tolto un sol grano, allora lasceranno i dannati di penare, quando tutto l’universo sarà vuotato? Più … in sæcula. Ma che volete voi dire? Forse volete dire che se questo mondo fosse tutto fatto di bronzo, e ad ogni secolo gli fosse dato un colpo allor lasceranno di penare quei miseri, quando l’universo sia tutto infranto? Più, più, in sæcula. Ma, Dio immortale! Io non intendo; facciamo dunque così per capire in qualche modo questa eternità. Fingiamo che un dannato, dopo ogni milione di secoli sparga due lacrime sole. Or ditemi Santo David, resterà egli di penare, quando abbia pianto tanto che le sue lacrime fossero bastanti a formare un Diluvio maggior di quello nel quale naufragò un mondo intero? Appunto, appunto, risponde il santo Profeta: tacete, che queste son similitudini da fanciullo: in sæcula, in sæcula, che è quanto dire secoli senza numero, senza termine, senza tassa. O eternità! O eternità! Rupi, grotte, spelonche, ove siete, perché venga attonito a rintanarmi dentro di voi, finché io giunga a capire… inferno, ed inferno eterno! – Ben capì questa verità la famosa peccatrice, quantunque idolatra, Eudocia colà nella città di Eliopoli in Fenicia. Era Eudocia dotata d’una bellezza sì rara, e d’una grazia sì manierosa, che non aveva pari. Nel più bel fiore della sua età si arrende ad un impudico amante; e perché nel convito de’ piaceri un sol cibo non sazia ma stuzzica l’appetito d’un altro, passò tant’oltre, che vende’ il suo corpo a chiunque lo voleva pagar ben caro. Onde non solo persone private, ma eziandio principi, rapiti dalla di lei beltà, andavano a trovarla, sicché in breve tempo ammassò un tesoro di ricchezze, ed una suppellettile da regina; albergava in un gran palazzo vicino alla porta della città, forse per esser più pronta a ricevere i forestieri che anche di lontano venivano attratti da lei calamita d’inferno. Iddio però, che la voleva à sé, usò un tratto della sua Providenza per guadagnarla. Dispose pertanto, che Germano santissimo monaco, ritornando dal pellegrinaggio di Palestina, passasse per Eliopoli, e da un buon Cristiano fosse alloggiato in una casa vicino al palazzo della rea femmina. Dopo una breve refezione fu condotto Germano in una camera a riposare contiguo al gabinetto ove stava l’infame letto d’Eudocia. Il monaco, secondo il suo costume, sulla mezza notte cominciò con alta voce a cantare i Salmi: indi preso in mano un sacro libro, che sempre portava seco, si diede a leggere con voce parimente sonora, quello, che lo Spirito Santo gli presentò innanzi ed era appunto delle pene eterne de’ peccatori nell’inferno. Or la divina Provvidenza, che voleva la conversione d’Eudocia, dispose ch’ella non solo fosse sola in quella notte, ma tutto udisse e tutta commossa si sentisse agitare da pensieri spaventosi; per tanto giunto il giorno chiama a sé un paggio, l’invia a ricercare di chi quella notte vicino a lei avesse salmeggiato, e lo pregasse portarsi da lei. Venne subito Germano, così inspirato da Dio, e sentendosi interrogare chi fosse, e d’onde venisse, a tutto rispose: e con tale occasione si mise a darle contezza delle verità evangeliche e particolarmente de’ castighi preparati per i lascivi, superbi ed avari. Adunque per me, replicò ella, che sono un’impudica, vana e superba, sono preparate pene sì grandi? Certo che sì, replicò il monaco, ma non vi sarebbe rimedio per liberarmene? Sì, soggiunse Germano, perché rinunciati i piaceri del senso, distribuiate le ricchezze mal acquistate a’ poveri e riceviate il santo Battesimo. Accettò la contrita donna il consiglio e, risoluta di prepararsi con penitenza al Sacramento, chiamata a sé la cameriera, ordinolle, che non introducesse a sé persona alcuna, e che a tutti dicesse, esser la signora fuori di casa. Se ne stava dunque ritirata la penitente Eudocia, quando apparitole un Angelo dal Cielo, le mostrò le pene dell’inferno alle quali era destinata se non si ravvedeva, e l’animò alla penitenza. Allora Eudocia vestita di ruvida tonaca si portò da Teodoro, Vescovo di Eliopoli ed a lui consegnò le ampie sue ricchezze che servirono per sostentamento de’ poveri, e per fondar monasteri. Indi ritiratasi in un claustro di sacre donne, cominciò vita santa e con tal lustro che di lì a poco fu fatta superiora di quella religiosa adunanza. Il diavolo che non poteva sopportar tanta perdita, sollecitò un certo Filostrato, che era uno de’ più cari amanti d’Eudocia, il quale adoprata ogn’arte per giungere a parlare ad Eudocia per distoglierla, giunse a fingersi monaco. Gli riuscì, ed a solo a solo in parlatorio così le disse: Eudocia, io vi vedo pallida e macilenta e con intorno una ruvida tunica, perché quel velo di canape in capo? Perché quella corda attorno al collo? Povera Eudocia quanto siete cambiata da quella che eravate! I vostri amanti v’aspettano; se temete l’inferno, vi sarà tempo da far penitenza. Su, risolvete, tornate, lasciate, Eudocia, allorché più voleva dire, con gli occhi bassi e voce adirata chiamò Dio che lo punisse; fu castigato, perché cadde mezzo morto, fu ravvivato per le preghiere di Eudocia, e per le medesime si convertì. Or io dico: mirate quanto poté in una idolatra il pensiero dell’inferno; la mutò del tutto, né solo questo pensiero convertì lei, ma la fece convertitrice degli altri. E voi Cristiani al pensiero di quelle pene non risorgerete da’ vizi? Su, su, dite ancor voi: inferno o penitenza!

LIMOSINA

S. Giovanni Crisostomo dice, che quello infelice ricco, non è sepolto nell’inferno perché fosse ricco, ma perché non fece elemosina a Lazaro mendico … non enim quoniam dives erat puniebatur, sed quia misericordiam non exibuit. Le ricchezze non mandano a casa del diavolo, ma bensì la crudeltà verso de’ poveri. E Sant’Agostino dice che ante fores gehennæ stat misericordia, avanti le porte dell’inferno vi sta la misericordia divina, ma voi piuttosto direte che vi sta la giustizia, perché nell’inferno, dove nulla est redemptio, non vi ha da fare la misericordia. V’ingannate, replica Sant’Agostino; v’ha da fare assai ed eccone la ragione, ante fores gehennæ stat misericordia, ut nullum misericordem in illum mitti carcerem permittat … la misericordia sta sulla porta dell’inferno, per non lasciare che laggiù v’entri alcuna persona misericordiosa; siate dunque liberali verso de’ poveri.

SECONDA PARTE.

Passeggiando un dì per una Galleria, Margherita d’Austria moglie di Filippo Terzo, teneva fisso lo sguardo in certa parte, e sospirando piangeva. Interrogata da una dama della cagione del suo pianto, additolle una pittura in cui vedevasi un capo di due strade, una delle quali conduceva ad un monte rappresentante il Paradiso; l’altra ad una caverna simbolo dell’inferno, e ponendo il dito sul principio del bivio, disse in hoc bivio adhuc sum, et non vis, ut plorem? Ah, che per verità chi ha un poco di stima dell’anima e senno in capo, dovrebbe disfarsi in lacrime per il solo pericolo di potersi dannare. Se fu Spirito di Dio quello che mosse la lingua del Crisostomo allorché predicando agli Antiocheni, disse: Quot esse putatis in hac Civitate, qui salus fiant e soggiunse: non possunt in tot millibus inveniri centum, qui salventur; quin et de illis dubito; e pure Antiochia era città grandissima, dove fioriva la fede, e trionfava la pietà. Se il Santo lo disse mosso da Spirito Divino: Città mia cara, a rivederci. Se di soli cento si prometteva, anzi neppur di tanti si assicurava della salute il Boccadoro, in una Antiochia; quanti dunque de’ tuoi cittadini, anche di questi che ora mi odono, ne andranno all’inferno? Che Iddio non lo voglia: neppur d’uno! Ditemi, UU. Questa sola paura non vi fa battere il cuore? Ma che orrore sarebbe il vostro, se sapeste di certo che alcuni di questi qui presenti si dovessero dannare? Ahime! Con che compassione li mirereste! E pare, se ora, prima d’uscir di Chiesa non vi risolvete a mutar vita, io quasi dissi, dispero della vostra salute. – Porilio Ambasciatore Romano disegnò, come sapete, un cerchio attorno ad Antioco, e gli predisse il tempo della ritirata dicendogli: hic stans delibera: non uscir di qui prima d’aver deliberato ciò che vuoi fare. Altrettanto io voglio praticar con voi. Fratelli miei, peccatori: io disegno intorno a voi la voragine d’inferno col circolo dell’eternità, e vi dico hic stans delibera, quì non vi è strada di mezzo: o inferno o lasciare la mala pratica: o inferno o restituire e la fama e la roba; o inferno o pacificarsi col prossimo: o inferno, o mutazione di costumi, peccatori miei cari. Risolvete una volta da vero di abbandonare il peccato e di non ingannar più, tradire voi stessi, perché i piaceri sono brevi, il penare è eterno. Lutero, quell’iniquo, quell’indegno che con lacrime di sangue fa tuttavia piangere alla Chiesa la perdita del settentrione, scordato della coscienza, della legge di Dio, pur qualche volta andava seco stesso dicendo: Luter nunc bene quid autem postea? Lutero, le cose ora vanno bene, spassi non mancano, crapule abbondano; piaceri di senso quanti ne vuoi, nunc bene, quid autem postea?… ma morto, che sarà di te, che sarà? Così vorrei io, che alcuni seguaci di Lutero, in quanto al vizio di senso, e crapula a se stesso dicessero, nunc bene, quid autem postea? Ah, che, se io vivo così licenziosamente: se non so staccarmi da quella pratica, se seguiterò a vivere in questi vizi: le cose andranno bene finché si vive: ma dopo all’inferno, alle pene  a’ tormenti, all’eternità de mali … – Dio immortale! io esco fuori di me, mentre rifletto che quantunque si sappiano queste verità, ad ogni modo si elegge di compiacere a’ sensi in vita; né si cura l’inferno. Così in fatti non mostrò curarsene quell’infelice cavaliere, di cui per degni rispetti taccio e nome e patria. Gran caso: uditemi. Aveva questi amicizia da lungo tempo con una dama quanto nobile per il sangue, altrettanto indegna per la professione. Accortisi i parenti della vergognosa tresca, risolsero toglier la macchia al parentado col sangue dell’adultero. Fingesi pertanto, che la Signora mandi a chiamare secondo il solito in ora stabilita l’amante, egli si allestisce all’andare; e già s’incammina, quando un buono amico accostatoglisi all’orecchio gli dice: avvertite, non andate … e perché? Rispose il cavaliere. Perché, replicò l’altro, son preparate insidie alla vostra vita; e invece di diletti incontrerete la morte; appunto ripigliò il cavaliere innamorato, chi mi chiama macchinerebbe la morte a chi m’insidiasse alla vita. No, so di certo, soggiunse l’amico esservi gente che sta per farvela: e se morirete andrete all’inferno. Dio eterno inorridite AA. a ciò, che segue. Nell’udir che fece il cavaliere: morirete ed andrete all’inferno, rispose con bocca esecranda, accecato dal disordinato affetto: per donna Maria si può andare all’inferno! Così disse e così seguì. Andò al posto, e restò sul tiro. Anima miserabile, anima dannata, vien qua, e dimmi ora, se tu sia del medesimo parere; già che ora provi ciò, che sia inferno, adesso che tu peni, cruci ed ardi nell’eternità delle pene, che dici? Si può andare per donna Maria all’inferno? – Ahime! Eccolo, eccolo; oh come brutto, come fetente, come va buttando fiamme dagli occhi, dalla bocca, dalle narici, ed orecchie! oh come è d’ogn’intorno circondato, anzi imbevuto tutto di fuoco, più che il ferro nella fornace! Piange, si contorce, smania, si dispera … Su o disgraziato: ebbene per una dama tale si può andare all’Inferno? Ti trovi contento dell’elezione? Ah me sfortunato, ah bestiale che to fui! Maledetta quella femmina scellerata, e quel pazzo mio capriccio. No, no, che non si può per una carogna in breve tempo goduta, venire in questi tormenti per tutta una eternità. O se potessi tornar fuori dell’inferno! Ma che faresti? vivrei, risponde, da buon Cristiano, e farei acerbissima penitenza de’ peccati commessi. Taci, taci, non vi è più tempo: conveniva pensarvi prima. Voi sì, cari UU. siete a tempo. Che risolvete pertanto? O inferno, o penitenza, o penitenza, o inferno eterno. Intendetela, e considerate, che è pazzia da chi non crede né Paradiso, né Dio, voler per breve piacere perdere il Cielo, ed acquistare l’inferno.

QUARESIMALE (XV)

QUARESIMALE (XIII)

QUARESIMALE (XIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI Gesù.

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMATERZA
Nella Feria quarta della Domenica seconda.


Si mostra la cecità di coloro che non tengono conto dell’anima così preziosa, perché eterna, perché irrecuperabile, e perciò nulla fanno per salvarla, tutto operano per dannarla.

Sicut Filius hominis non venit ministrari, sed ministrare; et dare
animam suam Redemptionem pro multis
S. Matt. cap. 20.

Questa volta sì, che ha ragione d’esclamare Isaia: obstupescite Cœli, obstupescite: e voi Cherubini d’amore copritevi pure, in segno d’estremo cordoglio, con le vostre ali, la faccia beata. Angeli Santi Custodi, se altre volte vi mostrate mesti per qualche errore commesso da’ vostri fedeli, ora deploratene l’eccesso. E voi Santi Avvocati ritirate il vostro patrocinio: ritirate la vostra protezione, o Maria. – Non è più tempo di compatir quei Cristiani che vilipendono quel gran tesoro, l’anima loro, per cui il Figlio di Dio venit dare animam suam. Mio Dio, armatevi pure la destra di fulmini e scaricate i più severi contro di quelli che, non solo non tengono conto dell’anima loro sì preziosa, perché eterna, e irrecuperabile; ma nulla operano per salvarla tutto  perano per dannarla. Fra, i tanti errori degli eretici Manichei, certo non deve porsi in ultimo luogo quel credere, quello stimare che essi facevano d’aver due anime; quasi, che perdutane una, ne potessero riacquistare la perdita con l’assicuramento della seconda. Piacesse al Cielo, che tra i miei UU. non vi fosse taluno che avesse una sì storta e sì eretica opinione in testa; già che talmente conculcano, talmente strapazzano quella unica e sola anima che hanno; che par quasi vengano a dire, se non con le parole, certo co’ fatti, d’aver due anime; onde, perduta quella unica che veramente hanno, ne possano ristorare la perdita con l’acquisto della seconda. Ah miei UU. non fareste così, se consideraste il bel tesoro che dentro di voi avete dell’anima vostra. È vero, ella è cittadina terrena, ma d’origine celeste. Sapete quanto vale? Val tanto, quanto vale, quanto costa il Sangue e la Vita d’un Dio fatto Uomo; magna res est Anima, quæ Christi Sanguine redemptæst. Qua, qua, miei UU. che voglio farvi vedere quanto gran male fate a non procurare con ogni studio e fatica la salute dell’anima vostra così preziosa. Ditemi, che non dovreste voi fare per salute d’un’anima, quando anche questa fosse non vostra, ma d’altri? Figuratevi d’esser, quanti qui siete, salvi, tutti predestinati, conforme io bramo; sappiate però, che si turba questa nostra comune allegrezza con la riflessione che l’anima di quel povero disgraziato, che voi vedete colà, sta in pericolo di perdersi, quando voi non l’aiutate. Poverino miratelo come si trova; voi tutti sicuri di salute, egli solo in pericolo; e come non vorrete assicurar la salute sua ad ogni gran costo? Tanto più, che si tratta dell’anima non d’un amico, non d’un parente, ma di vostro padre. Vostro padre è quello che sta in pericolo di perdersi eternamente. Or se così veramente fosse, e che non dovreste voi fare per mettere in sicuro la di lui anima? Certo, che voi, quando tanto bisognasse, dovreste vendere le suppellettili più preziose di vostra casa, le gioie più pregiate de’ vostri scrigni. Certo, che voi vi dovreste, quando tanto si richiedesse, intraprendere i viaggi più lunghi a’ Santuari i più remoti, affliggervi con penitenze, estenuarvi con digiuni. Quando per salvar quest’anima fosse necessario ritirarsi dal mondo e seppellirsi in un eremo, abitator de’ boschi, e compagno di fiere, voi lo dovreste fare e dire: addio patria, addio roba, addio veglie, balli, feste, piaceri addio; addio sanità e vita, purché si salvi quell’anima. Certo, che il prezzo d’ogni anima è tanto grande, che tutto questo dovreste farlo. Or, se tanto voi dovreste fare per salvar l’anima altrui, quanto più dovete farlo per salvar l’anima vostra, la qual deve importarvi più che non importa la salute del mondo tutto! Quid prodest homini si universum mundum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? O pazzia intollerabile degli uomini stolti del mondo, i quali dovrebbero esser pronti ad abbracciare ogni patimento, abbandonare ogni piacere, pur che salvassero un’anima, e per l’anima loro non vogliono muover neppure un passo? Figlio, per salvar l’anima tua bisogna ritirarsi da quel compagno; e si fa del sordo. Giovane, per salvarvi bisogna lasciare gli amori; non più in quella casa! Non si ode; quell’odio, quella roba; non si risponde? O che pazzia, torno a dirе mentre si dovrebbe far tutto per salvare altri, non si fa nulla per salvar se’. Cari miei UU. voi solete dire, che delle cose sue bisogna tenerne gran conto; avete ragione dite bene. Ma rispondetemi, avete voi veramente niuna cosa che sia tanto vostra, quanto vostra e l’anima? Appunto, appunto … anima sua dice il Profeta, non per certo. Non son vostre le ricchezze; non son vostri i piaceri; non son vostre le bellezze, le vanità: perché queste cose al più v’accompagnano al sepolcro. Non così l’anima: l’anima è veramente vostra: l’anima sola è propriamente vostra, e perché dunque non ne tenete conto? Quando voi non voleste tener conto dell’anima, perché vostra, almeno tenetene conto, perché ella è immortale ed eterna. Se la vita dell’anima vostra si stendesse a soli pochi secoli, anzi ad un secolo solo, quanto la dovreste stimare per esser vita d’un’anima? Quanto, dunque, la dovrete stimare mentre è vita non di secoli, ma d’eternità? Sentite: tra pochi anni questo corpo si ridurrà in polvere e cenere, e sarà chiuso entro un sepolcro, ma l’anima, dopo che saranno passati tanti milioni d’anni, quante sono tutte le arene del mare, quante sono tutte le gocce dell’acqua, che accoglie in seno, non sarà diminuito pure un momento dalla sua vita sempiterna e voi non la volete stimare, non volete tenerne conto, ma volete seguitare in quella amicizia, in quell’odio, in quell’interesse? Deh, se non volete prezzar l’anima, perché vostra, perché eterna, prezzatela almeno perché ella è irrecuperabile… che vale a dire: se si perde una volta, è  perduta per sempre, non vi è più modo di riacquistarla. E non è questo un gran motivo per tener conto dell’anima tua? Interrogato, come sapete, quello spartano a qual fine i giudici della sua città indugiassero tanto a dar la morte a’ malfattori, rispose accortamente: perché non ci è luogo da poterla emendare con richiamare in vita chi a sorte non fosse stato ben condannato: non est correctio errori. Ah dilettissimi, se si perde quest’anima, qual rimedio v’è mai per recuperarla? Chi può mai dar vanto d’aver ripescato un’anima da quelle fiamme? E molto meno, chi si può dar vanto d’essere per sua propria forza ritornato da quel profondo mai più a galla? Niuno, niuno. Se Geremia, gettato in quella fangosa cisterna, trovò un Abimelecco caritativo, che porgendogli molli funi poté attaccarvisi, e risalire all’alto, tu però peccatore, se cadi in quell’abisso non troverai in eterno chi ti ritragga da quella fossa non di fango, ma di zolfo inestinguibile. Fu sepellito Daniele nel lago de’ leoni: trovò però un re potente, che mosso a pietà ne lo fece uscire: Ma tu peccatore, se sarai posto in quel lago non di leoni, ma di diavoli, non ti aspettar già che il Re del Cielo, per compassione de’ tuoi tormenti, ti faccia aprir la porta; Egli è adirato con te in sempiterno: Populus cui iratus est Dominus in æternum e le Chiavi di quella porta fatale sono queste due, un sempre, un mai: un sempre penare, un non mai trovar requie. Le fiamme stesse furon cortesi a quei tre giovani in Babilonia dentro la loro fornace; ma se tu peccatore piomberai in quella fornace infernale, non sperar già un somigliante favore, il tuo fuoco non si smorzerà mai, il tuo dolore non avrà mai tregua, ut urant, et sentiant in sempiternum: in una parola, chi scende giù non torna più su … qui descenderit non ascendit. In inferno nulla est redemptio. Quanto dunque, miei uditori, converrebbe pensar bene à collocare in buono stato l’anima sua; quanto affaticarsi, quanto sudare, mentre l’errore non ha rimedio alcuno? – E o disgrazia da deplorarsi a lacrime di sangue! Avere un’anima eterna, irrecuperabile, e pur non la prezzare! Si tratta un affare di tanta importanza quanto è salvarsi, e si trascura? Dite, e si trascura? Ditemi, cosa avete patito finora per l’anima per salvarla? La pazienza, voi ben sapete essere un vero contrassegno d’amore; così Giacobbe, perché amava Rachele, stentò quattordici anni per averla; e pur gli parvero pochi a sì ampia mercede: videbantur illi pauci per amoris magnitudine. Or tu peccatore, che tempi hai tollerati per porre in sicuro l’anima? Mostratemi un poco le lividire delle discipline; gli smagrimenti per i digiuni; i calli delle ginocchia per le continue orazioni; hai tu fatto nulla di questo per riacquistare l’anima che perdesti per il peccato? Padre, non ho fatto nulla di ciò, perché son debole, non ho complessione che possa tanto. Mi meraviglio di voi, non è vero; mentre potete applicar la testa per i conti, per gli interessi, per gli affari domestici; come dunque non potete per l’anima? Deh contentatevi, che io riflettendo con Teodoreto, a Pietro che dorme nell’orto, allorché doveva orare a pro dell’anima, e che veglia per totam noctem a pro del corpo, compianga il peccatore che dorme agl’interessi della salute eterna, e sta desto ad utile di questa vita mortale, per totam noctem vigilat corpori, qui animæ perboram vigilare non potest. Si veglia le notti intere per giocare, per ballare, per star sotto quella finestra, per vincere quella lite, si suda giorno e notte girando per tribunali per totam noctem; si stenta con invenzioni, con macchine, con imbasciate, con biglietti, con presenti, agli ardori del sole, a ghiacci del verno, per giungere a quella preda tante volte insidiata e non ancor conseguita, per totam noctem laborantes. Voi avrete veduto che taluna di quelle donne che m’ascoltano, per ornare quel palmo di viso che ella ha, si leverà dal letto prima del sole, né partirà dallo specchio prima del mezzo dì, tormenterà la sua vita per farla venire più all’usanza, con penosissime strette di busti. Così pure quel misero mercadante intraprenderà lunghissimi viaggi per mare e per terra, con stenti, con sudori, con pericolo di morte, per totam noctem, tutto si fa senza utile, anzi con danno, e poi questi medesimi a pro dell’anima non hanno testa che regga, braccio che possano ed afferiscono di non patire, perché non possono. O stolti, o ciechi, che tutto potete patir per il corpo, nulla per l’anima. Ma, quasi dissi, starei contento, se non avessero patito niente per l’anima per porla in sicuro; quando almeno avessero a tale effetto operato qualche cosa. Se mi rivolto ai claustri de’ religiosi, li trovo, ora salmeggianti in coro, or penitenti nelle celle, or astinenti ne’ refettori, or con la mente in Dio per le meditazioni, operano per l’anima. Ne vedo gran parte di loro vestiti di ruvido sacco, scalzi nel piede, cinti di ruvida corda, tutto è operar per l’anima. Se poi volo col pensiero a’ recinti di sacre vergini, le vedo segregate dal mondo, viver soggette all’altrui volere, per piacere solamente a Dio, e salvar l’anima. Ma se io mi rivolto a voi peccatori per interrogarvi, che cosa operate per l’anima vostra? Voi mi rispondete: che fate limosine; ed io vi replico ma non pagate debiti, non soddisfate mercedi:… che recitare corone e visitare chiese; ma le vostre corone sono con più distrazioni che le Ave Maria; e le vostre visite a’ templi sono più per mirare le creature che per venerare le sacre immagini; se voi vi confessate e comunicate, ditemi: con qual preparazione? Piaccia à Dio che non vi andiate con affetti al peccato. Onde è, che io posso dire, che non avete operato nulla per l’anima vostra. O che miseria o che confusione per un’anima sola, eterna, irrecuperabile, non solo non aver patito, ma neppure operato nulla per porla in salvo. Ad ogni modo, ed è pur vero; non dispererei della salute di costoro tanto trascurati quando quantunque non avessero mai né patito, né operato per l’anima, almeno qualche volta vi pensassero. O Dio! Ed è pur vero. O neppur vi pensano: vada l’anima nelle mani di chi si sia, nelle mani d’un compagno, con cui si discorrerà di tutto; nelle mani d’un sgherro, con cui si viva nelle nimicizie; nelle mani d’un confessore, che sia di quei medici che sol toccano il polso, senza provveder di rimedi; di quei cerulici che sol mirano la piaga ma non vi pongono impiastri, non la fasciano: ben si vede, se così sarete, che non vi pensate. Non così fece la povera madre del pellegrinetto Tobia. Lo aveva, come voi sapete, consegnato ad un Angelo, benché da lei non conosciuto per tale, ma bensì per uomo di segnalata bontà; ma perché ad ogni modo temeva di qualche incontro, dice il sacro Testo, che flebat irremediabilibus lacrymis: non trovava pace, si querelava, usciva quasi frenetica fuor di casa, girava tutte le strade, visitava tutte le porte per veder se veniva, e talora, sperando di scoprirlo di lontano saliva su qualche colle più rilevato: e non vedendolo, piena di lacrime se ne tornava a casa col cuore tutto in amarezza. Questa è la gelosia, che dovreste avere dell’anima vostra; ma voi non ci pensate, anzi siete di quelli che dant Dilectam in manu inimicorum suorum, fate quanto potete per dannarla. Sì, per dannarla, ed a guisa di disperati andate adocchiando lo scoglio più alto per precipitarvi con morte più sicura. Rispondetemi, e poi negatemelo. Se v’è tra voi una giovane, la quale abbia nome d’esser la più ardita delle altre, più petulante e sfacciata, questa è quella con la quale voi bramate consumare il tempo in vari discorsi, in motteggiare, in prenderla per la mano. Se v’è un compagno che sappia più degli altri far la parte del diavolo con burlarsi delle devozioni, con vantarsi de’ peccati commessi, con sedurre or questa, or quella, questo compagno, questo seduttore, questo demonio incarnato, questo è il vostro amico più caro, a questo scoprite tutti i disegni, con questo comunicate i vostri pensieri. Se v’è un confessore, che trinci assoluzioni, senza mai né rispondere, né interrogare, e talora ne sentite, questo si cerca: se v’è un ridotto di giuoco, ove si mormori e si bestemmi; questo è quello, che si frequenta. E non è questo un procurare a tutto potere la rovina dell’anima sua? Povera anima! quanto sei odiata da tanti Cristiani, i quali studiano giorno e notte la maniera di rovinarti senza rimedio, ed entrano nel numero di coloro che moliuntur fræudes contra Animas suas: cercano le vie di condurre l’anima propria in perdizione; e si servono sino delle frodi, e de’ stratagemmi per giungere con le insidie, dove non credono poter arrivare con faccia scoperta, moliuntur fraudes contra animas suas. Non così fece un certo giovane, figlio di nobile capitano, il quale pensando un dì seco stesso al pericolo manifesto di dannarsi, in cui si trova chi corre la via larga del mondo, risolve di racchiudersi tra le strettezze di vita religiosa. Portossi, dunque, risoluto di compire il suo desiderio, in una di quelle antiche solitudini de’ Santi Padri dell’eremo, e ritrovato uno de Monasteri più accreditati, si gettò ai piedi dell’Abbate, e con grande umiltà gli chiese l’abito monacale; ma l’Abbate, vedendolo sì delicato, non lo credette abile a reggere tanto peso; e, per escluderlo soavemente: andate, gli disse, figliuolo, perché questo luogo non è per voi. Voi siete avvezzo ad esser servito, e qui bisogna servire; voi siete avvezzo a comandare, a bravare, e qui bisogna soffrire e tacere; voi siete avvezzo a prendervi tutti gli spassi, e qui non si ragiona che di piangere, mortificarsi, ed orare. A tutto quello non rispose altro il giovane, se non con dire: Padre mi voglio salvare, volo salvari; Dite bene, ripigliò l’Abbate; ma come farete a dormire su la nuda terra, voi, che finora avete dormito sì mollemente? Ed il giovane: Padre mi voglio salvare, volo salvari. Mi piace il desiderio di vostra salute, seguitò a dire l’Abbate, ma bisogna misurare le sue forze; come farete a vegliare le notti intere salmeggiando; a digiunare tutti i giorni, ad osservare un continuo silenzio, parlando solo con Dio? Ed il giovane illuminato: volo salvari, e così, quanto oppose l’Abbate, tanto ributtò il giovane con questo scudo impenetrabile dell’amore della salute: volo salvari; che però, conosciuta
come vera la vocazione, fu ammesso al Paradiso di quel monastero, ove visse, e morì da Angelo. Ecco quali vorrei fossero i vostri sentimenti, miei UU., questi vorrei stampati nel vostro cuore, questi frequenti nella lingua, volo salvari, mi voglio salvare. Ma ahi ahi, che sento? Sento voci terribili che mi risuonano alle orecchie di non pochi de miei UU. che mi dicono, non già volo salvari, ma volo damnari, mi voglio dannare; voglio andare all’inferno; voglio balzare nelle braccia de’ diavoli. Certo è che molti di voi niuna cosa più apertamente protestano, quanto volersi eternamente dannare, e se non lo protestano espressamente con le parole, certo lo manifestano con i fatti. Ecco, che io mi volto a quel giovane e gli dico: non amoreggiate tanto sfacciatamente: non state a solo a solo con quella femmina, non gli parlate su la porta, molto meno di notte, perché  questi abusi sono rete del diavolo per far preda d’anime. Che mi risponde? Che è giovane, che la gioventù vuol fare il suo corso, che è quanto dire in buon linguaggio, se io mi rovino, e perdo l’anima, non importa, volo damnari. Se mi rivolto a correggere quella fanciulla, e dico: sorella finiamola; voi sapete, che in quelle veglie, tra le tenebre della notte si è perduta la pudicizia. Si lasci quella corrispondenza, non più questi amori, ed è pur vero che anche ella, benché di sesso più timido e più devoto, ad ogni modo non dà retta ai miei detti: e dopo avere sperimentato che quell’amante è un ladro della sua salute, della sua onestà, pur se ne fida; finché tradita, abbandonata, ne cerca un altro che rinnovi con lui i medesimi tradimenti. E non è questo un protestarsi altamente io non mi curo d’anima, voglio perdermi, voglio dannarmi? Volo damnari. Se io dico a colei non più biglietti, non più imbasciate, non fate la guardia al vostro padrone, non tenete di mano alle disonestà di quella giovinastra… che mi si risponde? Così guadagno; così mi fo amare. M’avete da dire volo damnari; mi voglio dannare. Quella roba non è vostra restituitela. Quell’odio ti tiene in disgrazia di Dio; fate la pace, trattate, parlate col vostro prossimo. Non più bestemmie, non più mormorazioni; quali sono le risposte? vi sarà tempo; non torna alla reputazione: m’avete da dire: io non mi curo d’andare a casa del diavolo. Or, se volete dannarvi, io non ho che dire, tutto il male sará vostro. E che? Forse non si trovano di quelli che fanno quanto possono per dannarsi? Certo che sì! E tra questa udienza non vi mancherà chi l’imiti nel volersi aviva forza dannare. Uno di questi fu quel cavaliere padovano, quanto chiaro di sangue, altrettanto sordido di costumi. Si lasciò questi prendere dall’amore d’una donzella di cui fortemente invaghito, non poteva stare, quasi dissi, momento senza vederla. La cosa non poté stare tanto segreta che non venisse a notizia d’alcuni buoni amici, che con motivi umani e divini l’ammonirono a desistere da quella pratica; ma furono canzoni cantate a sordi. Persisté nel vizio, finché Iddio con amorevole rigore lo distese in letto con febbre. Crebbe il male, e gli amici più che mai alla vita, perché si confessasse; ed egli prendeva tempo a risolversi. Fu dichiarato spedito da medici. Quando gli amici ed un religioso in particolare portatosi al letto con santa libertà gli disse: signore la vostra salute è disperata; convien morire: aggiustate l’anima, al corpo non giova più pensarvi; poche ore vi restano di vita, diceva il religioso, ma il moribondo taceva. Replicava il Sacerdote: ma signore, voi tacete, e la morte v’uccide: presto, date segno di penitenza, altrimenti l’anima vostra si perderà. Mirate Gesù: eccolo che vi aspetta. A quanto diceva si mostrava come sopito da letargo il moribondo, ed invece di mirare il Crocifisso, si voltò dall’altra parte della camera, ove stava appesa dalla parete una vaghissima immagine, e in quella fissò gli occhi stranamente aperti; in quella li tenne lungamente immobili; anzi cominciò verso della medesima ad articolar parole da’ circostanti non intese. A questa vista, il Sacerdote rivolto ad un servitore di casa, l’interrogò se sapesse per qual cagione mostrasse tanto d’affetto verso quella effigie. Non lo so, rispose; mi accorgo bene che egli mostra ogni suo sollievo nel rimirarla … sarà forse qualche immagine da cui egli spera salute. Allora il confessore, credutosi che il ritratto fosse di Santa Maria Maddalena, lo staccò, glielo presentò; e tanto bastò; perché, di stupido ed insensato, divenisse vivace. Si fé forza per alzarsi dal letto, stese le braccia per accarezzarla; la prese: la baciò, finché per la violenza del moto e veemenza del male ricaduto con la testa sul guanciale, esalò repentinamente lo spirito. Attoniti i circostanti per questa morte, indagarono, più distintamente, che pittura fosse quella, e sentito che era della rea femmina, partirono come disperati per il fatto che ave a portato quell’infelice all’inferno. Or negate, se potete, che non vi siano di quelli che fanno quanto possono per dannare l’anima, non bastò a costui per dannar l’anima sua, andarvi, starvi, trattenervisi, la volle sempre sugli occhi, per esser sempre ne’ peccati sino all’estremo respiro. Quanti saranno qui di quelli che fanno quanto possono per dannarsi, vogliono andare a veglie, a balli, cercano tutte le strade per commetter peccati е dannarsi? Sebbene, che dico? Ah, che questo mio parlare è troppo spietato. No mio Dio, no, che non si ha da dannare niuno di quanti mi ascoltano, e però tu Deus meus illumina tenebras meas, Voi, mio Dio, rischiarate le nostre pupille, acciò conoscano la preziosità dell’anima e la stimino: Tuus ego sum, Domine, salvum me fac. E di chi è quest’anima? È pur vostra, Signore; Voi l’avete creata; voi avete impresso in lei la vostra immagine; Voi, per riscuoterla, avete sparso tutto il vostro Sangue, tuus sum ego, siamo vostri, e pure siamo vissuti come se fossimo padroni di noi stessi; ci siamo slontanati da Voi; ci siamo donati al demonio; abbiamo calpestato il vostro Sangue: o che temerità o che ingratitudine io lo confesso per tutti e lo detesto; meritiamo d’essere abbandonati, e che Voi non vogliate tener più conto d’un’anima che tanto abbiamo strapazzata; ma pure ricordatevi che siamo vostri. Salvum me fac. Fateci salvi, fateci efficacemente rompere quelle catene che ci tengono tenacemente avvinti al peccato; cacciate quei nemici che ce le stringono: dic animæ meæ, salus tua ego sum; basta una sola parola vostra. Cristo lo vuol fare, vi vuol salvare. Ma v’e forse chi ricusi d’esser salvato? V’è chi voglia continuare in quel fango, in quell’odio, in quell’interesse? Se n’è, si perda, che Cristo non lo riconosce più per suo, anzi gli volta fin d’ora le spalle, per annoverarlo tra i reprobi. No, mio Dio, che non vi è, tutti vogliano salvarsi e per ciò potete dire a ciascuno: Salus tua ego sum.

LIMOSINA
Vi sono alcuni ignoranti, quali di fatti tutti ricchi ad un modo: questo è un chiedere, perché un’organista non abbia fatto tutte le canne dell’organo ad un modo, eguali. Egli non le ha fatte tutte uniformi, perché così richiede l’arte, la quale vuole una tale inegualità, acciò risulti quel suono, quell’armonia, che non vi farebbe, se le canne fossero uniformi; poiché in tal caso sarebbero unisone. Allo stesso modo Iddio ha voluto che nel mondo, altri siano ricchi ed altri poveri, perché ne risulti un’armonia veramente meravigliosa, qual è quella che si mantiene quando il povero serve al ricco, ed il ricco sostenta il povero, e così l’uno con l’esercizio della pazienza, l’altro con quello della misericordia, danno ounitamente gloria a Dio: Dives, pauper obviaverunt sibi: utriusque operator est Dominus: il Signore ha fatto il povero ed il ricco, acciocché con uno scambievole commercio s’uniscano  i cuori. Voi dunque mantenere quest’armonia sostenendo i mendichi con abbondante limosina.

SECONDA PARTE

Or che vo’ fatto vedere quanto poco si prezzi l’anima, voglio altresì che sappiate tutto derivare, perché troppo si prezza il corpo. Ciò supposto, stimo bene non vi lasciar tornare a casa senza darvi un contrassegno, con cui possiate conoscere, se presso di voi sia in più conto l’anima o il corpo. Quando Giona navigava, si sollevò di tal maniera il mare, che i marinari intimoriti, cedettero alla for za dell’onde ed alla furia del vento, e pensando a modi più propri di salvarsi, risolverono di gettar nel mare quanto era di peso nel legno agitato. Eccо che s’intima dal padrone del vascello: via sù, quelle balle di mercanzia si buttino in mare: quegli argenti, quelle casse, quei forzieri si sommergano, non si tardi, perché in un rischio sì grande, in cui pericola la vita, il gettito di tutte queste cose entra nella partita de’ guadagni: se vi fosse anche un mezzo mondo d’oro, tutto vada, perché più preziosa è la vita: e questa è dovere che si mantenga ad ogni potere, … et miserunt, dice il sacro testo: vasa, quæ erant in navi, in mare. Così si pratica tutto dì, cari UU., da chi corre il mare, e niuno vi discorre sopra per salvare il corpo, vada in malora la roba, ogni grande avere si pospone alla vita. Volete ora conoscere, se presso di voi è più in stima l’anima, o il corpo? Eccovene il contrassegno. Si ha da fare un contratto così così: basta chiudere gli occhi, senza tanto scrupolizzare. Se voi rispondete, no, che non voglio accrescimento di roba, né di reputazione con pericolo dell’anima, sarà segno che stimate più l’anima; si ha da guarire quell’infermo: basta leggervi sopra certe parole e farvi certi segni; se voi direte: no, v’è qualche cosa di diabolico: bramo la sanità mia e del prossimo, ma non a costo dell’anima. Questo vuol dire anteporre l’anima al corpo: questo vuol dire essere uomini savi: esporre la mano per riparare il capo: ma quando poi si trovasse chi per scapricciarsi, s’immergesse negli amori, nelle vendette nelle usure: volesse sfogare la lingua nelle mormorazioni, maldicenze, e bestemmie, e per dar gusto al corpo non si curasse dell’anima, sarebbe segno che prezza il corpo, non l’anima. Tommaso Moro gran cancelliere d’Inghilterra v’insegni ad anteporre l’anima al corpo: udite, e fate di meno se potete di non spargere lacrime al tenero racconto. Racchiuso Tommaso in angusta prigione, perché non voleva consentire le incestuose nozze d’Arrigo Re d’Inghilterra, più che col tiranno, ebbe da contrastare con i parenti, e più con le tenerezze del sangue, che con le minacce del suo persecutore. Ecco che un giorno vide inaspettatamente entrar nella prigione una dama scapigliata, tutta vestita di lutto, circondata da teneri bambini. Erano i figli e la consorte del Moro. Questa, doppo aver parlato molto con le lacrime, asciugatasi al meglio che poté, così disse: consorte mio adorato e fino a quando soffrirete le vostre e nostre calamità? Già i palazzi son circondati da’ sbirri; i mobili inventariati da’ ministri; i feudi sequestrati dal fisco; e tutta la vostra famiglia va gemendo per vostra cagione fra gli strazi. Tommaso, e non v’intenerisce? Sappiate, che il re comprerebbe il vostro assenso con raddoppiamento d’onori e di ricchezze. Se voi volete, la vostra casa è la più gloriosa del Regno. Se poi non acconsentite a’ voleri regi, saremo costretti, spogliati de’ beni e della patria, strascinare questo avanzo di vita per provincie straniere. Indi rivolta l’addolorata madre ai figli: figli sventurati, disse, ottenete voi almeno ciò che io non merito. Gettatevi ai piedi del vostro buon padre, abbracciate quelle ginocchia che sono l’unico altare di vostra salute. Da una sola parola dipende la vostra felicità o la vostra rovina; piangete a’ suoi piedi, che movendolo col pianto, vi farete strada alle allegrezze; quando no, imparate quell’arte di lacrimare, che dovrete fare per tutta la vita. – Qual cuore impietrito non si sarebbe spezzato a tante lacrime, a voci sì tenere di teneri figli, d’amata consorte? Pianse, è vero, Tommaso; ma nulla più. Allora insperanzita la consorte, ripeteva quasi efficace argomento, che potevano ancor vivere insieme agli onori, alle grandezze per molto tempo. A ciò replicando il Moro: signora, gli disse, avete ragione: ma per quanto ancora potremo noi godere? per quanto? Almeno, almeno per venti anni, replicò la dolente consorte. E per venti anni, subito tutto rasserenato nel volto il marito, e per venti anni volete che io butti l’anima sì preziosa, eterna, irrecuperabile? Voi fate male i conti; la fate da mercante poco avveduto: stulta mercatrix es o Aloysia. L’anima si deve anteporre a quanto è nel mondo, alla vita stessa: pur che questa si salvi, tutto si perda. Così egli vinse le lacrime e la tenerezza, ed antepose, morendo, l’anima al corpo. Prendete esempio da sì gran cavaliere. Quando si ponga a confronto se si debba perdere o l’onore, o l’anima; o la roba, o l’anima; o la vita, o l’anima; a tutto si anteponga questa, perché questa anteposta a quanto può bramare il corpo, renderà glorioso anche il corpo; e quando no, e anima e corpo si perderanno in una eternità di pene.

QUARESIMALE (XIV)

QUARESIMALE (XII)

QUARESIMALE (XI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA
DUODECIMA
Nella Feria terza della Domenica feconda.

Si deplora la cecità de’ genitori mentre non solo sono trascurati in obbedire al comando di Dio nella educazione de’ propri figli; ma taluno di loro procurane la rovina dell’anima, peggio: la vuole.


Patrem nolite vocare super terram. San Matteo al cap. 23.

Perdonatemi, o padri di famiglia, v’è una mala nuova per voi: non deve più uscire dalla bocca de’ vostri figliuoli, e risuonare alle vostre orecchie quel dolce nome di padre: Patrem nolite, etc. Ma che? Pare che voi non me lo crediate, e non sentite che è comando di Dio: già sappiamo esser comando di Dio, ma non universale il comando; ferisce solamente quei padri che, intenti ai loro comodi niente s’applicano al bene de’ figliuoli e perciò non meritano nome di padre. Noi sudiamo dì e notte pensando ed operando per stabilire in buon stato i nostri figliuoli: fate altro che questo? E vi par poco, se non abbiamo respiro di tempo neppure, quasi dissi, per applicare all’anima nostra. Dunque, se così è, molto meno applicherete all’anima de’ figli. Ed ecco il vostro gravissimo delitto, per cui non meritate nome di padre, anzi di tigri spietate, mentre (e sarà l’assunto del mio discorso) non solo non applicate con la buona educazione alla salute eterna de’ vostri figli, ma col male esempio ne procurate la dannazione; v’è di peggio, volete la loro dannazione. È certissimo che chi diede l’essere ai figli, è anche obbligato a dargli il buon essere, acciò per colpa loro non periscano, né v’essere obbligo maggiore ne’ padri, di quello della buona educazione. Questa è verità che non ha bisogno di prova, ma è altresì verità troppo deplorabile non v’essere cosa in questo mondo a cui meno pensino per ordinario i padri e le madri, che al buono allievo de’ loro figli. Non farebbero però così se seriamente pensassero allo stretto conto che ne debbano rendere. Udite l’Apostolo San Paolo, il quale così discorre per mostrarvi il grande obbligo che avete di bene educare i vostri figli. È obbligato, dice egli, il principe, il maestro, a render conto della educazione della gioventù. Or se son tenuti questi per obbligazione introdotta dalla politica, quanto più siete obbligati voi padri per l’obbligazione inferita dalla natura: si nos itaque vigilare jubemur, quanto magis pater qui genuit. Questo parlar ha gran forza, ma udite quest’altro pure dello Spirito Santo, che dice ai padri e madri; Custodi virum, qui si lapsus fuerit erit anima tua pro anima illius. Pur ad ogni modo vi sono padri e madri di tal sorte, che non vogliono obbedire a questo stretto comando di bene educare i figli, e quanto sono renitenti in questo, tanto sono pronti in obbedire a quelli della natura corrotta, che insegua far tutto per gl’interessi temporali. Di chi sono i figli: del mondo, o di Dio che ve li diede? Perché dunque ogni vostra occupazione per bene educarli per il mondo, e non per renderli a Dio? Voi pensate più ad allevarli nelle buone creanze che nelle devozioni: appena nati l’istruite nelle cerimonie, ne’ saluti, ma non fate così per fargli imparare le orazioni; …Padre è piccinino; ma io vi rispondo: che vuole dire che è piccolino per imparare le orazioni, e non è piccolino per imparare le cerimonie? Fate che il figlio mangi alla mancina, eccolo percosso da un fiero ceffone, vada fuori di casa sporco nel volto, imbrattato nell’abito, faccia una mala creanza, ne riceve fiera la riprensione; ma se dirà parole poco oneste, risponderà arditamente, e fin d’allora mostrerà poco rispetto a Dio, si tacerà, né meno si dirà, figlio, che fai? Signora, dice quel padre alla consorte, bisogna pensare ad educare bene i nostri figli, ne abbiamo già de’ grandicelli, bisogna mettergli in qualche Università, in qualche collegio o seminario, perché imparino le lettere, le quali portino ricchezze e gloria alla famiglia. Sì, signore avete ragione, ma le rendite sono scarse non importa impegnarsi quanto bisogni per il buon allievo. Ma se mi pongo framezzo a voi signora madre e signor padre e vi dico: i vostri discorsi sono belli e buoni; voglio che l’instradiate nelle lettere, ma nella pietà tacete, perché temo non mi diate la risposta che altro padre di famiglia simile a voi, diede ad un nostro maestro di scuola. Parlando un giorno il padre di certo suo figliuolo col maestro e questi si lamentava dello scolaro, perché era troppo insolente; rispose allora il padre: quello, che a me preme è che studi; studia il figliuolo, studia, ripigliò il maestro, ma non vive bene. O Padre, se così è, non si prenda fastidio, perché la gioventù ha da fare il suo corso, sono stato giovine anche io, quello che a me importa è che studi, giacché il mio pensiero è di addottarlo per utile e lustro della mia casa. O empio padre, iniquo, degno di mille morti, mentre non ti curi del mal vivere del figlio: piacesse a Dio che un tal padre non avesse avuto ai suoi tempi, e non avesse a’ dì nostri, simili. Datemi mente, io v’interrogo; signori, il vostro figlio degenera dalla nascita, pratica con gente di mal nome, parla indecentemente! Padre sono bizzarrie di ragazzi, so per altro che è molto applicato alla scuola, e di questo mi consolo! Ecco in che consiste l’educazione che simili padri danno a’ loro figli, pensano solo ad instradarli nelle creanze, nelle lettere, ed a lasciarli ricchi di roba, ma ricchi nell’anima di virtù non ci pensano. Che non si fa per lasciar ricchi i figli, che non fate per tirare avanti la casa, e tanto avanti, dirò io, che per le ricchezze male acquistate si arrivi fino a casa del diavolo; vedo che ogni momento tenete l’astrolabio in mano, cavando il sortile dal sottile, acciò gl’accumuliate con i beni paterni i mali futuri. O padri sciocchi, che non morite contenti se non lasciate a’ vostri figli della roba – con ragione esclama quivi San Gregorio; corpus natorum suorum amant, animam ver contemnunt: amano il corpo e non si curano dell’anima, si viderint filios pauperes, segue il Santo: tristantur; si viderint illos peccantes, non tristantur; se li vedono in povertà amaramente piangono, ma non già quando sono in peccato, ut ostendant, quod corporum sunt parentes, non animarum … acciò si sappia, che se sono genitori de’ corpi, sono altresì assassini delle anime. Se andrete da quel padre e gli direte: vostro figlio ha giocato ed ha perduto, eccolo su le furie, ah figlio indegno, lo castigherò, ma se poi gli direte, vostro figlio ha perduta la modestia, non si risponde, si tace. Signora, la madre figlia è troppo libera negl’andamenti. Padre ora è il tempo suo; ma se vi dirò: Signora, vostra figlia ha spezzato per disgrazia quel superbissimo vostro cristallo, che tenevi sopra lo scrigno, gli è caduto di mano quel nobile specchio e si è spezzato, eccola su le furie, ecco la casa in rovina, la figlia in guai. Ah sciocchi padri, stolte madri, che pensate più a lasciar ricchi, che buoni i figli. Ah che se io credessi potere inserire il vero amore nel cuore de’ padri verso de’ loro figli, che è il bene educarli, vorrei con quell’antico filosofo Plutarco portarmi su la cima della più alta torre della città, ed a gran voci di lassù esclamare: quo tenditis homines, quo tenditis; dove siete inviati padri, madri, io vi vedo intenti a provvedere d’ogni più nobile suppellettili le vostre case, tutte applicate ad accumular roba per i vostri figli, non ho che dire; ma ditemi ove sono frattanto i vostri figli, le vostre figlie, se ne’ collegi, se alle scuole, se a lavori in educazione ne’ monasteri, io non parlo; ma se alle veglie, ai balli, a’ giuochi, a’ ragionamenti e conversazioni troppo libere, tornate, tornate indietro, vorrei dirvi, a rimediare, e se non tornerete, trascurando la buona educazione, invece di padri amanti, sarete crudi carnefici de’ vostri figli e pure, quasi dissi, mi darei pace, se i padri e le madri dopo tanti peccati mortali commessi nell’educazione trascurata de’ suoi figli non facessero peggio, peggio sì, perché procurano la loro dannazione; sì la procurano, voi inorridite, sentite… la procurano col cattivo esempio! Esclami pure, e con ragione Osea, Efraim educet ad interfectionem filios fuos. O ciechi, o miseri padri, dice lo Spirito Santo, voi stessi con le vostre mani conducete sotto il filo della mannaia i vostri propri figli. Si racconta trovarsi in un certo paese due fonti, in un de ‘ quali bevendo gl’armenti vestono candide le loro lane, e dissetandosi nell’altro si ricoprono di nere, e se a sorte assaporano le acque d’ambedue, di vari colori si rimirano vestite; è però certissimo, che tali appunto sono i costumi di quei figli, o candidi e puri, o neri ed immondi, quali sono i fonti d’onde ne succhiarono il latte dell’educazione nel paterno esemplare. L’esempio ha tal forza, che Plutarco poté asserire, essere regola del vivere, o buono, o reo. – Era il Santo Vecchio Éleazzaro in età di novanta anni, allorché non solo sostenne acerbissimi dolori, ma la morte stessa, e a tanto si espose per non mangiare i cibi vietati dalla legge, e per dare esempio di singolar costanza a’ suoi figliuoli, si prompto, parole del Sacro Testo nel secondo de’ Maccabei, si prompto animo ac fortiter pro gravissimis, sanctissimis legibus honesta morte perfungar adolescentibus exemplum grande relinquam; né  vi crediate UU. che punto s’ingannasse, poiché appena soffertosi da lui il martirio che al suo esempio per non trasgredire la legge, diedero la vita insieme con la madre sette suoi figliolini di tenerissima età. Quivi tutto estatico San Gregorio Nazianzeno introduce quei sette figliolini a parlare con Antioco, Re Tiranno: Re: Eleazari discipuli sumus cujus tu fortitudinem perspe et tam, inexploratam babes. Sappi, o Tiranno, che noi siamo discepoli e figli di Eleazzaro, la di cui fortezza e generosità sì che abbastanza ti è nota: tanto ti basti per sapere che intrepidi ne seguiremo le gloriose pedate: Pater prior decertavit, decertabunt postea, et filii: tollerò nostro padre la morte, tollereremo ancor noi guidati da un sì bell’esempio la perdita di questa fragile vita; præcessit sacerdos, sequantur victimæ. Egli ci ha preceduto come sacerdote, noi lo seguiremo come vittime. Miei UU., alla generosità del parlare corrispose un’eroica pazienza ne’ tormenti, poiché animati dall’esempio paterno, i figli si portarono con magnanimo cuore ad incontrare la morte. Or io dico, se l’esempio in cose tanto contrarie alla natura, quanto è morire, ha sì gran forza, qual non avrà ne’ vizi, a’ quali la natura inclina. Avvertite bene, o padri quel che voi fate, che esempi gli date, perché voi col vostro mal vivere gli procurate la dannazione; li vostri figli, mentre sono piccoli per l’imperfezione del loro discorso vivono d’imitazione, e a guisa di principianti nella pittura, non sanno fare altro che copiare, però non gli procurate la dannazione col vostro mal esempio. Se dico bugie, smentitemi: sì, o no, chi ha insegnato a maledire, a giurare, a bestemmiare il Nome di Dio, anche prima di conoscerlo a quel figlio? Il perfido padre, che ad ogni aperta di bocca vomita maldicenze, giuramenti e bestemmie. Chi ha avviato all’osterie e bettole quel giovinetto? L’iniquo padre che sì spesso vi và co’ suoi piedi e ne è riportato con le braccia altrui. L’esempio del padre, che tratta con libertà licenziosa, ha insegnato i mali costumi al figlio. Chi ha insegnato a quel figlio a strapazzar la povera madre con parole talora sì brutte che neppure si direbbero ad una donna di mala vita? L’empio Padre che, venuto a casa non solamente grida, ma minaccia, ma percuote la povera madre, riempiendola di tali improperi, che neppure si proferirebbero contro la più scellerata donna del mondo: Chi ha insegnato a quel figlio lo strapazzo verso di suo padre; lo stesso padre, che all’or che era figlio strapazzò il proprio padre. Sentitene un fatto spaventoso. Vennero un dì a parole un padre ed un figlio, dalle parole passarono ai fatti, e il figlio indegno preso per i capelli il padre, lo strascinò giù per la scala; giunto che fu al fondo essa, figlio, disse, lasciami, perché tu sai, che fin qui strascinai mio padre! – Chi ha insegnato a quella figlia le vanità? La  madre, la madre, che anche essa era donna vana. Or negate, se potete, di non procurare con un tal esempio la dannazione de’ vostri figli. Eppure non finisce qui il male che fanno simili genitori a’ loro figli, poiché non solo procurano la loro dannazione col cattivo esempio, ma la vogliono! Inorridite o Cieli! la vogliono. Fuggite figli da quei padri che vi vogliono perduti. Voi inorridite ad una tale proposizione, e pure ne toccherete con mano la verità. Il ve lo fo toccar con mano. La legge Evangelica tuona minacce orribili contro de ricchi… veæ divitibus, e voi che fate? Altro non fate, salvo che insinuare nel cuore de’ vostri figli, fino da’ primi anni, che bisogna serbar tenacemente la roba e che tutta la felicità dell’uom consiste in aver piene le casse, colmi i granari, ridondanti le grotte e talora, parlandogli da solo a solo: mira, gli dite, il tal mercante, il tal cavaliere, perché seppero accumulare molto, per questo molto son giunti ad ottenere, a stabilire ne’ parentadi, nelle ville, ne’ benefici. E tu, che farai, sarai buono a tanto? Ed in così parlargli gli fate fare un concetto tale del denaro che fin d’allora principia ad adorarlo come Dio: e non è questo volere la dannazione del figlio? L’Evangelio dice, recumbe in novissimo loco; e voi che fate, altro non persuadete a vostri figli salvo che il contrario, suggerendogli, che non bisogna mai contentarsi dello stato suo, ma che a guisa de’ fiumi bisogna sempre acquistar paese, ingrandirsi, avvantaggiarsi, non ceder la mano a chi che sia, voler esser riconosciuto tra’ primi. Cristo nel Sacrosanto Vangelo grida, che si perdonino le offese ricevute, che si parli, che si salutis il prossimo che ci oltraggiò; diligite inimicos vestros, e voi, che fate, insinuate l’opposto, dicendo loro, che non bisogna dimenticarsi mai dell’affronto, ma che ad ogni imitazione de’ molossi, bisogna mostrare i denti, rispondere, vendicarsi: Piaccia a Dio, che tra’ miei UU. non ci sia qualche padre, o capo di casa, che abbia detto: figlio la nostra casa è stata sempre riverita e temuta al par d’ogn’altra. Ella ha avuto uomini di conto in lettere, in armi, in dignità. Tu non sarai degno del casato che porti, se non saprai farti stimare e cavarti, come si suol dire, le mosche dal naso. Però oggi, piaccia a Dio che tal padre non abbia detto al figlio: ecco la chi ci offese, questo è il luogo ove ci offese, di tal sorte eran l’armi, tocca a te farne i dovuti risentimenti da par tuo. E voi o madri, con quali dettami allevate le vostre figlie, non già con quelli del Vangelo, che insegna schivare i lussi superflui, e le pompe vane, poiché tal madre dirà alla figlia: va’ figlia, va’ da tuo padre e digli che tu vuoi vestire da tua pari, che così ti vergogni comparire, che tu vuoi quei vezzi, quelle maniglia, altrimenti non ti voglio con me neppure a Messa. Ah che Evangelio dice, ne solliciti sitis corpori vestro quid induamini; e non è questo volere la dannazione delle figlie, la vogliono sì, perché arrivano a darli vestiti all’usanza, lascia cantare i predicatori, parla, conversa, è il tempo tuo. O Dio, negate se potete, che non vi sian padri e madri che vogliono la dannazione de’ figli, che sarà di voi, che sarà? Udite. – Voi ben sapete che Eli gran Sacerdote, come abbiamo ne’ Libri de’ Re al primo, venne in tanta disgrazia di Dio che fu in perpetuo privato del Sacerdozio del Tempio, delle facoltà, della vita, della prosapia, e giudicato con tanta severità, che molti lo tengono per dannato … e perché un giudizio sì severo? Non  per altro se non perché non aveva corretto i figli viziosi: eo quod non corripuerit eos. Si eh? Or se Eli fu sì severamente castigato solo per non aver ripreso i figli, che non dovrete temere voi padri, i quali non solo non li riprendete, ma l’incitate, peggio li lodate de’ peccati; peggio, persuadete; peggio, li volete; sapete che farà, erit anima tua pro anima illius. Dannati, dannati, – Quando, che voi, miei UU. vedrete mai figli vissuti sotto padre di tal sorte, che non solo non cercano di bene educarli, ma ne procurano con l’esempio la dannazione, anzi la vogliono, e vedeste, che tali figli dissimili da’ loro genitori vivessero bene, attribuitelo ad uno de’ maggiori miracoli che possa darsi: Contentatevi, che questa verità ve la confermi con le Sacre Carte. Esce fiero l’Editto di Faraone, che quanti vivano maschi di tenera età nell’ampiezza de suoi Stati, tutti si sommergano nelle acque del Nilo; povere madri, accrescano pure le vostre lacrime l’onde del fiume, acciocché più gonfio, e più rapido vi tolga più presto dagli occhi la funesta tragedia. Si eseguisce l’ordine barbaro di regio comando, quando una madre non avendo cuore che desse forza al braccio per gettare il tenero bambinello in mezzo all’acque, fatto di giunchi un piccolo cestello, qui collocato il pargoletto, lo consegnò alla superficie dell’acque, lasciando che l’onda impietosita, lo rendesse salvo a qualche riva. Non andò la brama vuota d’effetto. Era la regia Infanta figlia di Faraone a diporto tra le delizie del bagno, la quale nel vedere a fior d’acqua galleggiare quel piccolo cestello carico d’un tenero fanciullo, mossa a compassione, chiamata a se una delle damigelle, ordinò si traesse a riva. Eseguì la donna, e prefentò alla padrona il bambino; tanto bastò, per essere di fattezze amabilissimo, perché la regia fanciulla mossa a pietà il desse segretamente ad allevare, disponendo l’Onnipotenza Divina, che alla propria madre si consegnasse il tenero figlio Mosè. Considera un tal fatto S. Agostino, e quasi estatico per lo stupore esclama, miraculum, miraculum! Voi al certo però, miei UU. al pari del Santo Vescovo vi farete meraviglia, sentendo che egli dia nome di miracolo ad un atto di compassione praticato da cuor di donna verso il piccolo figlio che, portato dalle onde stava di momento in momento per sommergersi. Non fu miracolo dirò io, che una principessa sovvenisse l’altrui miserie, miracolo farebbe stato, se la regia donzella vedendo quel pargoletto già vicino a sommergersi non ne avesse procurato lo scampo; sant’Agostino non cessa, ed estatico replica: miraculum, miraculum; si, intendetela, dice il Santo, fu miracolo, che la figlia d’un re sanguinario, allevata in corte con esempi di stragi non seguisse le orme paterne: miraculum, misericordiam fecit filia parricide. Miraculum, entro ancor io nelle vostre case o padri, o madri, e dico sarà miracolo e miracolo di non ordinario stupore, veder casto quel figlio che ebbe esempi di dissolutezze dal padre; vedere onesta quella figlia e senza vanità, che sortì per madre una donna che sempre gli fu esempio di vanità negli abiti e di libertà nel guardo: miraculum, miraculum, siano senza vizio i figli , ove i capi di famiglia sono dissoluti. Che da un genitor cattivo, grida Ambrogio, è pazzia sperarne figli innocenti vissuti all’esempio de’ padri, al par de’ padri saranno perfidi: Quid de adultera matre, nisi damnum pudoris: al conoscimento di tal verità arrivò fino la corta intelligenza d’un Domizio. Questi non sentì all’orecchio sussurro di colomba profetica e pure tanto aggiustatamente colpì sul segno, quando avvisò le future ribalderie di Nerone suo figlio. Attenti. Narra Xefilino, che Domizio prima di dire che Nerone doveva essere quell’indegno che fu, calcolò fra se stesso i suoi conti così: lo so qual vivo tutto applicato a’ giuochi, tutto dedito agli amori, mi piace la crapula, detesto la virtù, abbomino il giusto, amo il vizio; mia moglie se non mi passa nel vivere viziosamente, certo m’eguaglia. Ella ha ciarle per un comune, frascherie per un mercato, gode di conversare in passatempi e balli al pari d’ogni donna vana, e poi conclude da se stesso, non è possibile che da un tal Domizio e da una tale Agrippina possa formarsi un figlio buono e ben costumato: non enim ullo modo esse potest, quod ex me, et illa vir bonus formetur. Padre, madre di famiglia l’argomento di Domizio è concludente , nè vi è risposta; pertanto se avete figli, avvertite di non operare alla presenza loro cosa che non sia da farsi, poiché quando così non facciate, voi vedrete che i vostri figli impareranno dal vostro esempio a vivere senza modestia, ed operar senza riguardo, e si verificherà, che voi col vostro male esempio gli procurerete la dannazione. – Era pur bello il costume praticato nella Spagna e ricordato da Sallustio: registravano in un fedelissimo giornale tutti i fatti che ogni privato economo raccoglieva dal vivere quotidiano di ogni capo di famiglia, e questo registro una volta l’anno ad alta voce si leggeva alla presenza de’ figli, acciocché si animassero ad essere simili nelle eroiche azioni ai loro padri. Un grande impegno per verità era questo, ed una gran sicurezza della bontà de’ padri di quei tempi: Dio però ci liberi che da’ capi di famiglia s’introducesse oggidì simile usanza, poiché in vece di morigerare i costumi de’ figli, li depraverebbe, e gli distruggerebbe le città invece d’edificarle, poiché m’arrossisco a dirlo, non si potrebbero pubblicare se non di rari le virtù, di moltissimi vizi. – Sappiate, o figlio, direbbe taluno, vostro padre è un bravissimo giocatore, che invece d’accumular roba per voi, ve la dilapida con i dadi, e ve la scarta su le veglie a grosse partite per sera. Vostro padre è un valentissimo bestemmiatore, che per mostrare quanto poco speri salvarsi, ha già imparato il linguaggio de’ dannati. Vostro padre è un ingegnosissimo usurario, e tutto dissoluto nel rimanente de’ suoi costumi. E voi figlie, volere imparare le eroiche azioni di vostra madre: ella col frequentar le feste, non delle Chiese, ma delle sale, vi farà apprendere la libertà del vivere. Ecco gli esempi che danno oggidì molti de’ padri e madri ai loro figli, e non è questo un procurargli la dannazione? Sì, la procurano padri di tal sorte, farebbero meno male a lasciare in abbandono i loro figli, meno male farebbero se appena nati anche essi li ponessero in un cestello simile a quello in cui fu posto, come già dissi il bambinello Mosè, abbandonandoli all’instabilità delle acque. Madri di tal sorte farebbero meno male se a similitudine dello struzzo, partorito che hanno le loro figlie le lasciassero in abbandono, poiché tenendo presso se i loro figli, le loro figlie, non solo non gli danno la buona educazione, ma ne procurano e ne vogliono la dannazione, ma si aspettino anche la propria. – Nelle Vite de’ Santi Padri si parra come un padre per frutto delle sue nozze ebbe due figli, ai quali pose tanto d’amore, che altro non fece in tutta la vita, salvo che accumularli della roba, istruirli nelle lettere, ammaestrarli nelle creanze, allevandoli tutti per il mondo, niente per Dio, e perciò gli lasciava la briglia sul collo, acciò potessero a lor piacere scorrere ogni prato nello sfogo delle loro passioni. Aprì gli occhi Iddio ad uno di questi figli, e fattogli conoscere il pessimo stato in cui si trovava l’anima sua, lo fe’ risolvere di dar di calcio al mondo, e ritirarsi in un chiostro a far vita penitente: così fece, quando non molto dopo vennero a morte, e il padre sì trascurato nella educazione del figlio, e il figlio sì malamente educato. Morti che furono, si pose un dì il fratello religioso a fare orazione per quelle anime, quando in un tratto si vide aperta sotto de’ piedi un’altissima voragine entro a cui vi era un vaso smisurato pieno d’acqua, la quale a forza di quel fuoco che sotto vi somministravano i diavoli, orribilmente bolliva, e poi che vide? Vide che tra quelle onde di bollori or veniva su il padre, allorché s’immergeva il fratello, or veniva a galla il fratello, allorché s’affondava il padre, ed udì che il Padre tutto rabbia col figlio, ed il figlio tutto rabbia col Padre, non facevano altro, che arrabbiatamente strapazzarsi: maledetta quell’ora, diceva il Padre, in cui ti generai, per averti voluto arricchire or mi trovo in questi tormenti; maledetta quell’ora che t’ebbi per padre, diceva il figlio, merceché avendomi tu data ogni libertà mi trovo dannato; per te peno, diceva il padre, per te crucio, diceva il figlio. Quanto concepisse di spavento a questa vista il religioso, immaginatevelo voi. Quanto ne dobbiate concepir voi padri e madri, che male educate i figli, che gli date cattivo esempio, non accade che ve lo dica, sol vi dirò, che simili castighi v’aspettano nell’inferno, se non avrete maggiore sollecitudine dell’anima de’ vostri figliuoli.

LIMOSINA.
Si ritirano alcuni dal far limosine, perché, dicono, lascerò di meno ai miei figli, o quanto s’ingannano . Il Padre di San Carlo distribuiva larghe limosine a’ poveri di Gesù, ed avvisato da un amico che con tante limosine lascerebbe meno facoltosi i figli, rispose da vero cavaliere cristiano: io avrò cura de’ figli di Dio, e Dio avrà cura de’ miei, e così fu. Non troverete mai, ma mai, che le limosine abbiano impoverito casa alcuna, anzi questo è il vero modo d’arricchirle, honora Dominum de tua substantia, et implebuntur borea tua saturitate, et vino torcularia tua redundabunt.

SECONDA PARTE

Quanti qui siete padri di famiglia? Poco men che tutti, sento rispondermi; ma pure quanti siete, replico io, che meritate il nome, e praticate l’offizio di padri e madri? Se voi foste veri padri e vere madri, dareste retta agli argomenti di Paolo, obbedireste a’ comandi di Dio, avreste più cura dell’anima che della roba de’ vostri figli, non gli procurereste la dannazione col cattivo esempio, né tampoco la vorreste con istillare ne’ loro teneri cuori diabolici sentimenti, ma voi, come v’ho mostrato, non siete veri padri, perché non li allevate bene, procurate, e volete la loro dannazione. Se volete meritare il nome di Padre, operate da tali. Vi sono però alcuni padri e madri di famiglia, che non credono d’aver mai errato nell’educazione de’ figli, perché non gl’hanno dati cattivi esempi; or sappiate, che si può errare nella buona educazione, usando parzialità e togliendo la libertà. Oh quanto sono dannose le parzialità ne’ padri e nelle madri, sono la rovina delle case e delle anime. L’aquila, dice San Basilio partorisce tre uova ne cova due, e poi de figli nati ne alleva un solo: lo stesso fanno molti padri e madri, se avranno delle figlie femmine e de’ maschi, braveranno sempre alle femmine, ed al maschio rideranno in bocca; poi per fare il patrimonio al maschio, non guarderanno ad affogar le femmine con poca dote, ed anche a ritenerle in casa come serve senza marito; questo è un gravissimo errore, perché tutti i figli devono essere egualmente trattati, e pure un tale operare si stima il buon governo delle famiglie, e si passa avanti perché si arriva a togliere la libertà ai figli datagli da Dio, mentre i padri e le madri stabiliscono per lo più quello stato di vita ne’ loro figli, che a loro più piace e torna più conto alla casa. Discorrono fra se marito e moglie, e senza un’oncia di cervello determinano il tale lo faremo prete, quella monaca, l’altra femmina in casa; il secondo tra i maschi prenderà moglie. Chi vi ha data l’autorità di stabilire la vocazione a’ vostri figli? E se quello che volete far Prete volle moglie, e se quella, che destinate per monaca volle marito, ditemi se vi riuscirà di legarli per il timore che v’avranno con voto di castità, non gli esporrete a perder l’anima, a vituperar la casa con mille disonestà? Se quelle anime de’ vostri figli per forza religiosi si perderanno, voi, voi padri ne renderete conto a Dio. – O se io potessi avere tale udito che arrivasse a sentire le voci de’ poveri figli e figlie dannate per tal causa, credo che sentiremmo esclamare maledetto quel seno che mi concepì, maledetto quel petto che mi allattò, maledetta quella madre che mi partorì, meglio per me farebbe stato se io fosse nato d’un orso ed allevato da una tigre, mentre da questi non farei stato sforzato ad eleggere stato contrario alla mia natura. Tali saranno i rimproveri de’ figli; non vi mettete per tanto a simili cimenti o padri, o madri, lasciate che i figli si eleggano lo stato da per loro, voi educateli bene. Il Sacro Concilio Tridentino fulmina la scomunica sopra di quei padri che sforzano a monacarsi le figlie. Ah che avesse pronunziata ancor contro quei padri che a forza vogliono congiunte per interessi privati una figlia ad un marito, con cui ella non ha punto di genio, ed in sostanza lo piglia per forza. Voi per certo o padri e madri non fareste queste violenze, se poteste prevedere le rabbie, gli adulteri, gli omicidi, i veleni, che seguiranno da quelle nozze, da quel matrimonio violento. Intendetela, il buon essere della vostra famiglia, il vantaggio della medesima, la buona educazione de ‘ vostri figli non consiste in togliergli la libertà che Dio gli ha data, ma bensì in allevarli col santo timor di Dio, nell’insinuarli nel cuore l’orrore al peccato mortale, la fuga delle occasioni; se così farete, vedrete progressi non ordinari, stabilimenti lucrosi nelle vostre case, altrimenti dannazione per loro, morte eterna per voi. – Parliamo ora con i figli. Se i vostri  padri meritano castighi sì fieri per la trascuraggine nella educazione, che castighi non meriteranno quei figli che tanto strapazzano i loro genitori? Ecco là quel figlio che non dà mai una buona parola alla povera madre; se gli comanda, gli volta le spalle, e talora la schernisce come rimbambita, e gli cava amare lagrime dagli occhi, e poi neppur si confessa d’averla sì altamente amareggiata. Ecco là quel figlio che già ha tolto al povero padre il maneggio, gli dice: attendete a campare, e gli pare un’ora mille che muoia. Poveri padri, povere madri, son costretti talora a sentirsi vomitare addosso imprecazioni tali per bocca de’ figli che certo da niuna lingua l’avranno mai sentite sì acerbe. Iddio però li sa castigare. Vi sovvenga di quel celebre miracolo operato dalla Vergine Santissima di Loreto in persona di quel disgraziato figlio che avendo scritta una lettera con improperi ai suoi genitori, perché gli mandassero denari, restò del subito, messa la lettera alla posta, sordo del tutto, né  mai poté guarire, finché la Vergine Santissima coll’assenso de’ genitori non lo risanò. Poveri padri, povere madri alle loro tante fatiche al loro amore ricevano talora ingratitudini barbare; un tale appunto ne riceve un povero padre nella Normandia, il quale dopo avere fatta la donazione di tutto al figlio per avvantaggiarli fortuna d’un matrimonio, non solo arrivò l’ingrato figlio ad istigazione ancora della perfida moglie, a metter fuori di casa il padre, e collocarlo in una misera stanza, ma a farlo patire del necessario al sostentamento; non andò però molto, che il Signore lo castigò. Aveva cucinato la consorte un pollo, ed allorché stava per porsi a tavola col marito, giunse il vecchio padre all’uscio, ma non poté sì presto salire, che non avessero tempo per riporre il pollo nella credenza; lo riposero, e poi rivolti al padre: padre, gli dissero, andate, non avete pane? Vi basti quello. Licenziato così bruttamente il padre, torna alla credenza il marito, e invece del pollo vi vede un rospo, che saltatogli al viso, gli si attacca come polpo allo scoglio, né fu mai possibile staccarlo, finché d’ordine del Vescovo non ebbe girato varie città per insegnamento a’ figli di rispetto a’ padri. Volete vedere quanto prema al Signore che si rispettino il padre e la madre? Arguitelo dal vedere che ben spesso il Signore fa che cadano sopra de figli quelle maledizioni che gli sono mandate dai padri e dalle madri. Strapazzava un figlio indegno la madre, e le diceva parole d’ingiuria, quando la madre tutta in collera, va’ maledetto, che ti possa vedere impiccato. Il figlio invece d’intimorirsi a questo fulmine, se la rise, e così ridendo a schernir come vecchia e fuori di sé la povera madre, che così burlata mandava dagli occhi calde lacrime. Si affrontò a sentire tutto questo vilipendio un savio Sacerdote, il quale si stimò obbligato a riprender quel giovine ed a fargli capire che quel fulmine poteva verificarsi. uscito dalla bocca della madre di vederlo impiccato. Quel giovane insolente senza rispetto al Sacerdote, gli rispose arrogantemente: quando sarò impiccato verrete voi a raccomandarmi l’anima. Volete altro? Udite caso funesto. Montò un giorno a cavallo questo figlio, si pose a spasseggiar con esso per la città, passò per i macelli, ove sono quegli uncini di ferro a’ quali si attaccano le carni; s’inalberò il cavallo, s’infuriò talmente che, sbalzatolo di sella lo lasciò attaccato per la gola ad un di quegli uncini; già così impiccato spirava l’anima, quando cercandosi da tutti un Sacerdote, perché l’assistesse, non si trovò, salvo che quello che l’aveva ripreso. – Di questi casi ve ne potrei contare a centinaia: rispettate i vostri genitori, perché se gli escano dalla bocca di queste maledizioni, guai a voi. Sebbene questi son castighi temporali, aspettatevi gl’eterni. Fate a mio modo, portate ogni rispetto a’ vostri genitori, rispetto di parole, rispetto di fatti. Io ho conosciuto un cavaliere d’età di cinquanta anni ammogliato, il quale mai usciva di casa, che non dicesse: signora madre vo’ fuori, mai tornava, che non dicesse, signora madre sono in casa; mai andava a letto, che non gli chiedesse la benedizione. Questo è il modo per meritare la benedizione da Dio in questa vita e nell’altra…

QUARESIMALE (XIII)