CHI APPARTIENE AL CORPO MISTICO DI CRISTO … E CHI NO!

Alla CHIESA CATTOLICA appartiene colui che, lasciata qualsiasi setta eretica e scismatica, sia battezzato ed abbia esplicito desiderio di appartenervi, pur non potendolo materialmente.

Lettera del Santo-Officio all’arcivescovo di Boston, 8 agosto 1949.

[Ed: AmER 127 (1952, Oct.) 308ss.]

De necessitate Ecclesiæ ad salutem

[La necessità della Chiesa per le salvezza.]

3866 …. Inter ea autem, quæ semper Ecclesia prædicavit et prædicare numquam desinet illud quoque infallibile effatum continetur, quo edocemur « extra Ecclesiam nullam esse salutem ». Est tamen hoc dogma intelligendum eo sensu, quo id intelligit Ecclesia ipsa. Non enim privatis iudiciis explicanda dedit Salvator noster ea, quæ in fidei deposito continentur, sed ecclesiastico magisterio.

3867 – Et primum quidem Ecclesia docet, hac in re agi de severissimo præcepto Iesu Christi. Ipse enim expressis verbis Apostolis suis imposuit, ut docerent omnes gentes, servare omnia quæ ipse mandaverat. Inter mandata autem Christi non minimum locum illud occupat, quo baptismo iubemur incorporari in Corpus mysticum Christi, quod est Ecclesia, et adhærere Christo eiusque vicario, per quem ipse in terra modo visibili gubernat Ecclesiam. Quare nemo salvabitur, qui sciens Ecclesiam a Christo divinitus fuisse institutam, tamen Ecclesiæ sese subiicere renuit vel Romano Pontifici, Christi in terris vicario denegat obœdientiam.

3868 Neque enim in præcepto tantummodo dedit Salvator, ut omnes  gentes intrarent Ecclesiam, sed statuit quoque Ecclesiam medium esse salutis, sine quo nemo intrare valeat regnum gloriæ caelestis.

3869Infinita sua misericordia Deus voluit, ut illorum auxiliorum salutis,  quæ divina sola institutione, non vero intrinseca necessitate, ad finem ultimum ordinantur, tunc quoque certis in adiunctis effectus ad salutem necessarii obtineri valeant, ubi voto solummodo vel desiderio adhibeantur. Quod in sacrosancto Tridentino Concilio claris verbis enuntiatum videmus tum de sacramento regenerationis tum de sacramento pænitentiæ [*1524 1543].

3870 Idem autem suo modo dici debet de Ecclesia, quatenus generale ipsa  auxilium salutis est. Quandoquidem ut quis æternam obtineat salutem, non semper exigitur, ut reapse Ecclesiæ tamquam membrum incorporetur, sed id saltem requiritur, ut eidem voto et desiderio adhæreat. Hoc tamen votum non semper explicitum sit oportet, prout accidit in catechumenis, sed ubi homo invincibili ignorantia laborat, Deus quoque implicitum votum acceptat, tali nomine nuncupatum, quia illud in eà bona animae dispositione continetur, qua homo voluntatem suam Dei voluntati conformem velit.

3871 Quæ dare docentur in [Pii XII Litt. encycl.] . . . De mystico Iesu Christi Corpore. In iisdem enim Summus Pontifex nitide distinguit inter eos, qui re Ecclesiæ tamquam membra incorporantur, atque eos, qui voto tantum modo Ecclesiæ adhærent …. « In Ecclesiæ autem membris reapse ii soli adnumerandi sunt, qui regenerationis lavacrum receperunt veramque fidem profitentur neque a Corporis compage semet ipsos misere separaverunt vel, ob gravissima admissa, a legitima auctoritate seiuncti sunt » [*3802]. Circa finem autem earundem Litterarum encyclicarum, amantissimo animo eos ad unitatem invitans, qui ad Ecclesiæ catholicæ compagem non pertinent, illos commemorat, « qui inscio quodam desiderio ac voto ad Mysticum Redemptoris Corpus ordinentur », quos minime a salute æterna excludit, ex altera tamen parte in tali statu versari asserit, « in quo de sempiterna cuiusque propria salute securi esse non possunt… quandoquidem tot tantisque cælestibus muneribus adiumentis carent, quibus in catholica solummodo Ecclesia fruì licet » [*3821].

3872 – Quibus verbis providentibus tam eos reprobat, qui omnes solo voto  implicito Ecclesiæ adhærentes a salute æterna excludunt, quam eos, qui falso asserunt, homines in omni religione aequaliter salvari posse [cf. *2806 2865]. Neque etiam putandum est, quodcumque votum ecclesiæ ingrediendæ sufficere, ut homo salvetur. Requiritur enim, ut votum, quo quis ad Ecclesiam ordinetur, perfecta caritate informetur; nec votum implicitum effectum habere potest, nisi homo fidem habeat supernaturalem [Alìegatur Hebr XI, 6 et Conc. Trid., sess. VI c. 8: *I532].

——

3866 – …. Or tra le cose che la Chiesa ha sempre predicato e non cesserà mai di predicare, si trova ugualmente questa affermazione infallibile che ci insegna che « Fuor dalla Chiesa, non c’è salvezza ». Questo dogma deve tuttavia essere compreso nel senso in cui la Chiesa stesso lo comprende. In effetti non è al giudizio privato che il Signore ha affidato la spiegazione delle cose contenute nel deposito della fede, ma al Magistero della Chiesa.

3867 – In primo luogo, la Chiesa insegna che in tal questione non si tratta di un comandamento in senso stretto di Gesù Cristo. Egli ha, in effetti, imposto espressamente ai suoi Apostoli di insegnare a tutte le Nazioni ad osservare tutto quel che aveva ordinato. Tra i comandamenti del Cristo, ed esso non è il minore, c’è quello che ci ordina di essere incorporati con il Battesimo nel Corpo mistico del Cristo, che è la Chiesa, e di restar uniti al Cristo ed al suo Vicario attraverso il quale governa Egli stesso in modo visibile la sua Chiesa sulla terra. Ecco perché, nessuno sarà salvato se, sapendo che la Chiesa sia stata divinamente istituita dal Cristo, non accetti tuttavia di sottomettersi alla Chiesa, o rifiuti l’obbedienza al Pontefice Romano, vicario di Cristo sulla terra.

3868 – Ora il Salvatore non ha solamente ordinato che tutti i popoli entrino nella Chiesa, ma ha deciso anche che la Chiesa fosse il mezzo di salvezza, senza il quale nessuno possa entrare nel Regno della gloria celeste.

3869 – Nella sua infinita Misericordia, Dio ha voluto che gli effetti necessari per essere salvati, di questi mezzi di salvezza che sono ordinati al fine ultimo dell’uomo, non per necessità intrinseca ma unicamente per istituzione divina, possano essere ottenuti in certe circostanze, quando questi mezzi non siano messi in opera che per desiderio o voto. Noi vediamo questo chiaramente enunciato nel Sacrosanto Concilio di Trento rispetto sia al Sacramento della Rigenerazione, sia al Sacramento della Penitenza. (D. 1524, 1543)

3870 – Lo stesso va detto, a suo modo, della Chiesa come mezzo generale di salvezza. Infatti perché qualcuno ottenga la salvezza eterna, non sempre è necessario che uno sia effettivamente incorporato nella Chiesa come membro, ma è almeno necessario che sia unito a lei con il voto e il desiderio. Tuttavia, non è sempre necessario che questo voto sia esplicito, come avviene tra i catecumeni, ma quando l’uomo è vittima di un’invincibile ignoranza, Dio accetta anche un voto implicito, così chiamato perché è incluso nella buona disposizione d’animo con cui l’uomo vuole conformare la sua volontà alla volontà di Dio.

3871 – Questo è il chiaro insegnamento dell’enciclica di Pio XII (Mystici corporis) sul Corpo Mistico di Gesù Cristo. In essa il Sommo Pontefice distingue chiaramente tra coloro che sono veramente incorporati nella Chiesa come suoi membri e coloro che sono uniti alla Chiesa solo dal voto… « … Ma solo coloro che hanno ricevuto il battesimo della rigenerazione e professino la vera fede, e che, d’altra parte, non si siano miseramente auto-separati dall’insieme del Corpo, o non ne siano stati tagliati fuori per gravissime colpe dalla legittima autorità, (per eresia, scisma, apostasia) sono veramente membri della Chiesa » (D. S. 3802). Verso la fine della stessa Enciclica, però, invitando molto affettuosamente all’unità coloro che non appartengono al Corpo della Chiesa cattolica, egli menziona « coloro che, per un certo inconscio desiderio e voto, si trovano ordinati al Corpo mistico del Redentore », che non esclude in alcun modo dalla salvezza eterna, ma di cui, d’altra parte, dice di essere in uno stato « in cui nessuno può essere sicuro della sua salvezza eterna…. poiché sono privati di così tanti e di così grandi e celesti aiuti e favori, di cui si può godere solo nella Chiesa cattolica » (D. S. 3821).

3872 – Con queste sagge parole egli condanna sia coloro che escludono dalla salvezza eterna tutti gli uomini che sono uniti alla Chiesa dal solo voto implicito, sia coloro che affermano falsamente che gli uomini possono essere salvati anche in una qualsiasi religione (2865).

Né si deve pensare che qualsiasi tipo di desiderio di entrare nella Chiesa sia sufficiente per essere salvati. Perché è necessario che il voto che ordina qualcuno alla Chiesa sia animato da una perfetta carità. Il voto implicito può avere effetto solo se l’uomo ha una fede soprannaturale. (Ebrei XI: 6; Concilio di Trento, VI\VIII ss. Cap. 8).

Questo documento Ecclesiastico irreformabile ed infallibile (come tutto il Magistero Ordinario ed Universale della Chiesa, al quale siamo obbligati a dare il nostro assenso, pena scomunica, secondo la lettera Enciclica « Satis Cognitum » di S. S. Leone XIII), giunge a conferma della dottrina tomistica di San Tommaso d’Aquino sulla grazia fornita dallo Spirito Santo a coloro che, pur non avendo la possibilità di accedere a veri Sacramenti, o al Santo Sacrificio validamente celebrato da Sacerdoti canonicamente consacrati, siano battezzati osservanti la Dottrina Cattolica, in unità con il “vero” Sommo Pontefice, unica condizione – una volta lasciata la setta di appartenenza – per ottenere l’eterna salvezza.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/02/14/una-cum-famulo-tuo-papa-nostro/


 Fuori dalla Chiesa Cattolica, cioè fuori dalla salvezza eterna, vi sono quindi:

1- Tutte le sette protestanti: luterane, anglicane, calviniste, ortodosse sec. Fozio, monotelite, monofisite, etc. …

2- La setta degli eretici e scismatici modernisti del Novus Ordo dell’attuale colle Vaticano – la “sinagoga di satana” inneggiante al signore dell’universo, il baphomet-lucifero delle logge massoniche – conformi alle eresie del conciliabolo c. d. Vaticano II (Concilio scomunicato con largo anticipo dalla bolla Execrabilis di Papa Pio II, Piccolomini);  sono qui compresi i secolari e tutti i religiosi degli ordini un tempo Cattolici, oggi “novusordisti”.

3 – I sedicenti tradizionalisti, supporter eretici del papa eretico – a loro dire -, la setta paramassonica-kadosh dei falsi chierici invalidi e sacrileghi, i c. d. lienart-lefebvriani di Ecône-Sion;

4- Tutte le sette pseudo-tradizionaliste degli eretici e scismatici sedevacantisti di Occidente e d’Oriente, parto distocico dell’ultima ora di satana che cominciava a capire che qualcosa non aveva funzionato nei suoi piani vacillanti e scricchiolanti, ed ha cercato di metterci una “pezza a colore”. .. ma si sa che il diavolo fa le pentole ma dimentica – per fortuna dei “veri” Cattolici – i coperchi … Questo documento sia dunque per loro, monito onde abbandonare senza indugi la setta infernale di appartenenza e confluire in massa, almeno con desiderio o voto esplicito, nella Chiesa Cattolica guidata dal suo Sommo Pontefice Romano, ovunque si trovi, prigioniero o nascosto! (Il Cristo ce lo ha promesso – solennemente – con noi fino all’ultimo giorno! … e pure la Pastor Aeternus).

SALMI BIBLICI: “DOMINE EXAUDI ORATIONEM MEAM, ET CLAMOR MEUS” – (CI)

SALMO 101: “DOMINE, EXAUDI ORATIÓNEM MEAM, ET CLAMOR MEUS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS

LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 101

Oratio pauperis, cum anxius fuerit, et in conspectu Domini effuderit precem suam.

[1] Domine, exaudi orationem meam, et clamor meus ad te veniat.

[2] Non avertas faciem tuam a me; in quacumque die tribulor, inclina ad me aurem tuam; in quacumque die invocavero te, velociter exaudi me. Quia defecerunt sicut fumus dies mei, et ossa mea sicut cremium aruerunt.

[3] Percussus sum ut fœnum, et aruit cor meum, quia oblitus sum comedere panem meum.

[4] A voce gemitus mei adhæsit os meum carni meæ.

[5] Similis factus sum pellicano solitudinis; factus sum sicut nycticorax in domicilio.

[6] Vigilavi, et factus sum sicut passer solitarius in tecto.

[7] Tota die exprobrabant mihi inimici mei, et qui laudabant me adversum me jurabant:

[8] quia cinerem tamquam panem manducabam, et potum meum cum fletu miscebam;

[9] a facie iræ et indignationis tuæ, quia elevans allisisti me.

[10] Dies mei sicut umbra declinaverunt, et ego sicut fœnum arui.

[11] Tu autem, Domine, in æternum permanes, et memoriale tuum in generationem et generationem.

[12] Tu exsurgens misereberis Sion, quia tempus miserendi ejus, quia venit tempus;

[13] quoniam placuerunt servis tuis lapides ejus, et terræ ejus miserebuntur.

[14] Et timebunt gentes nomen tuum, Domine, et omnes reges terræ gloriam tuam;

[15] quia ædificavit Dominus Sion, et videbitur in gloria sua.

[16] Respexit in orationem humilium et non sprevit precem eorum.

[17] Scribantur hæc in generatione altera, et populus qui creabitur laudabit Dominum.

[18] Quia prospexit de excelso sancto suo, Dominus de caelo in terram aspexit;

[19] ut audiret gemitus compeditorum, ut solveret filios interemptorum;

[20] ut annuntient in Sion nomen Domini, et laudem ejus in Jerusalem,

[21] in conveniendo populos in unum, et reges ut serviant Domino.

[22] Respondit ei in via virtutis suae: Paucitatem dierum meorum nuntia mihi:

[23] ne revoces me in dimidio dierum meorum, in generationem et generationem anni tui.

[24] Initio tu, Domine, terram fundasti, et opera manuum tuarum sunt cœli.

[25] Ipsi peribunt, tu autem permanes; et omnes sicut vestimentum veterascent.

[26]Et sicut opertorium mutabis eos, et mutabuntur;

[27] tu autem idem ipse es, et anni tui non deficient.

[28] Filii servorum tuorum habitabunt; et semen eorum in sæculum dirigetur.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CI

Orazione che deve usare il povero angosciato, principalmente pei commessi peccati, che formano la maggior miseria, e che debbe effondersi al cospetto di Dio, supremo giudice e padre di tutti. É salmo penitenziale.

Orazione del povero che è in tribolazione, e spande la sua tribolazione dinanzi al Signore.

1. Signore, esaudisci la mia orazione, e a te giungano le mie grida.

2. Non rivolger da me la tua faccia: in ogni giorno di mia tribolazione dà udienza alle mie parole. In qualunque giorno io t’invochi, tu esaudiscimi prontamente.

3. Imperocché i giorni miei quasi fumo sono svaniti; e le ossa mie si sono inaridite come legno combustibile.

4. Sono appassito com’erba, e il mio cuore si è inaridito: perché mi sono scordato di mangiare il mio pane. (1)

5. Pel gridare e pel sospirare mi è rimasta attaccata alle ossa la mia carne.

6. Son divenuto simile al pellicano del deserto; son divenuto simile al corvo notturno nel suo tristo albergo.

7. Passai senza sonno le notti, e fui simile all’uccello, che solo si sta sopra i tetti.

8. Tutto dì mi facevan rimproveri i miei nemici; e quei che già mi lodavano, congiuravano contro di me.

9. Perché in luogo di pane da mangiare, io ebbi la cenere, e la mia bevanda mescolai colle lacrime, (2)

10. Al veder l’ira tua e la tua indignazione; perocché tu, innalzandomi, mi gettasti per terra. (3)

11. I miei giorni son passati com’ombra, e io come erba seccai.

12. Ma tu, o Signore, duri in eterno, e di generazione in generazione va la ricordanza di te.

13. Tu svegliato avrai pietà di Sionne. Perché il tempo di averne pietà, il tempo è venuto.

14. Imperocché le rovine di lei sono care ai tuoi servi e la polvere di lei ameranno. (4)

15. E le genti temeranno il nome tuo, o Signore, la tua gloria tutti i re della terra. (5)

16. Imperocché il Signore edificherà Sionne, ed ivi sarà veduto nella sua gloria.

17. Egli ha avuto riguardo all’orazione degli umili, e non ha disprezzata la loro preghiera.

18. Scrivansi queste cose per la generazione futura; e il popolo, che sarà creato, darà lode al Signore;

19. Perché egli ha mirato dal suo santo cielo: il Signore dal cielo ha mirato sopra la terra,

20. Per udire i gemiti di quo’ che sono nei ceppi, per dar libertà a’ figliuoli degli uccisi.

21. Affinché predichino il nome del Signore in Sionne e le lodi di lui in Gerusalemme,

22. Quando i popoli si riuniranno insieme, e i re, per servire al Signore.

23. Disse a lui l’uomo nel corso di sua vegeta età: Fammi inteso del piccol numero de’ miei giorni.

24. Non non mi richiamare alla metà de’ miei giorni. Gli anni tuoi sono eterni.

25. Tu da principio, o Signore, fondasti la terra, e opera delle mani tue sono i cieli.

26. Eglino periranno, ma tu sei immutabile; ed essi invecchieranno tutti come un vestito.

27. E come un mantello li cangerai, e saranno cangiati; ma tu sei quell’istesso, e gli anni tuoi non verran meno.

28. I figliuoli de’ servi tuoi avran ferma sede, e la loro posterità sarà stabilita pei secoli.

(1) In ebraico, la parola tradotta con cremium, significa « luogo in cui brilla qualcosa », il focolare, o la pietra del focolare. – Noi preferiamo, con San Girolamo e Columella, intendere rami secchi o facili da bruciare, di cui ci si serve per accendere il forno.

(2) La particella “quia” non ha rapporto con ciò che precede e la si può prendere per idea. – Cahen pensa che si tratti qui della cenere che dalla testa del Profeta cadeva sul pane. Ma si può dire con verosimiglianza che la cenere è intesa qui per “lutto”, perché nel lutto, si dimorava seduti sulla cenere.

(3) Voi mi avete elevato per precipitarmi dall’alto con una caduta più crudele.

(4) I vostri servi amino finanche le rovine, le pietre, la polvere nelle quali è ridotta una città a loro sì cara.

(5) Per la comprensione di questo versetto e dei seguenti bisogna ricordare che il ritorno dalla cattività è considerato come precursore della venuta del Messia, e la conversione di tutti i popoli al culto del vero Dio.

Sommario analitico

Questo salmo può essere considerato come una preghiera che Davide penitente indirizza al Cristo a nome del popolo giudaico, o che questo popolo, prigioniero a Babilonia, indirizza al Verbo, conduttore particolare del popolo di Dio, per ottenere il ristabilirsi di Gerusalemme (1)

 [(1) Secondo qualche esegeta moderno questo salmo potrebbe essere stato composto alla fine della cattività di Babilonia, perché l’autore suppone che Gerusalemme sia distrutta (vv. 15, 18, 21, 22), ed il tempo fissato dal ritorno dalla cattività secondo Geremia, prossimo ad arrivare (v. 14). Tuttavia lo stile risente della decadenza della lingua; esso è poco elevato, il parallelismo ricade sulle parole (vv. 18-20) (Le Hir.). Nulla c’è di più malinconico di questo salmo, tutte le immagini e le metafore traspirano tristezza e lutto. In effetti si tratta delle rovine di Sion, delle pietre disperse di Gerusalemme, dei dolori e dell’esilio del popolo prigioniero, del sangue dei martiri non vendicato, dei loro figli proscritti, dell’asservimento della patria, della gloria di Dio eclissata tra le nazioni, di questa gloria eclissata tra le nazioni, di questa gloria che i re stranieri devono adorare, che i barbari devono temere, di questa gloria i cui amati sono eterni. –  Questi pianti sublimi, questi slanci di speranza, queste suppliche piene di pentimento ed amore, hanno fatto annoverare questo salmo tra i salmi penitenziali].

I. – Il salmista chiede a Dio:

1° che sia esaudito e che la sua preghiera abbia accesso fino a Lui nei cieli (1).

2° Che Dio getti su di lui uno sguardo favorevole (2) .

3° Che sia prontamente esaudito in qualunque giorno preghi.

II.- Come motivo gli espone il triste stato in cui è ridotto:

1° la brevità della sua vita;

2° la mancanza assoluta di forza e di grazie (3, 4);

3° l’abbandono e la solitudine in cui si trova (6, 7);

4° l’odio degli uomini, sia dei nemici che degli amici (8, 9);

5° la giusta ira di Dio contro di lui (8, 10);

6° la sua morte vicina (11).

III. – Coltiva la speranza che Dio verrà in suo soccorso, perché Egli è eterno e fedele alle sue promesse (12), e vede in estasi il compiersi di questa promessa con l’incarnazione in cui Dio fa apparire:

1° della sua misericordia, discendendo dal suo trono sulla terra, ai tempi annunciati dai Profeti (13, 14);

2° della sua gloria che brilla negli omaggi che hanno reso a Gesù-Cristo i re ed i popoli (15);

3° della sua potenza nell’edificazione della Chiesa, lo splendore dei miracoli e la conversione dei popoli (10);

4° della sua bontà, nell’accoglienza favorevole fatta alla preghiera degli umili (17).

IV. – Mostra la gratitudine del popolo cristiano verso Gesù-Cristo, e la gloria di cui ricolma i suoi eletti nel cielo:

1° Davide desidera che l’Incarnazione di Gesù-Cristo e le meraviglie di cui è la sorgente, siano scritte dai Profeti e dagli Evangelisti; – a) egli fa vedere il frutto di questa predizione scritta, la gloria di Dio e di Gesù-Cristo per mezzo dei Cristiani (18); – b) la materia di questa lode, è la bontà di Dio, che getta una sguardo favorevole sugli infelici figli di Adamo (19), – presta orecchio ai loro lamenti, – li libera dai loro lacci (20), – li eccita a lodare il nome del Signore (21), – li riunisce in un santo concerto per servire Dio (22). 

2° Il profeta introduce il popolo, parlando egli stesso a Dio: – a) chiede a Dio di conoscere il termine così breve della vita umana (23); – b) chiede il tempo sufficiente per fare penitenza dei propri peccati (24).

3° Egli loda Dio a motivo della sua immutabilità e della sua eternità, che fa risaltare in opposizione con la mutabilità e la mortalità delle creature:  – a) Dio le ha tratti dal nulla per dare loro l’essere (25); – b) esse sono sottomesse all’alterazione, al cambiamento (20); – c) Dio, al contrario, resta eternamente lo stesso (27); – d) Dio rende i suoi servi partecipi della sua immutabilità e della sua felicità (28). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. —1, 2.

ff. 1, 2. – Tutte le qualità della preghiera sono racchiuse in questi due versetti: 1° la necessità: l’uomo senza il soccorso di Dio, non può uscire dalla schiavitù del peccato e per le vie ordinarie della Provvidenza, il soccorso celeste non è accordato che alla preghiera; 2° l’umiltà, l’uomo peccatore sente la sua miseria e si presenta così davanti a Dio come un povero spoglio di ogni risorsa se Dio non lo rimira con occhio favorevole: 3° il fervore: le istanze che fa il profeta o coloro in nome dei quali parla, sono vive, reiterate più volte, e messe sotto tutti i giorni più propri a toccare il cuore di Dio; 4° la costanza: egli si impegna a pregare durante tutto il corso delle tribolazioni, e, in questa vita, la morte solo è il termine delle nostre miserie; 5° la confidenza: egli osa chiedere a Dio di rendersi attento, di non voltare il suo sguardo, di accelerare il momento della sua visita (Berthier). –  Queste istanze così pressanti sono naturali nella bocca di un uomo infelice, che vede il tempo sfuggitigli e che teme di cadere per sempre nell’abisso, se non viene prontamente soccorso (Bellarm.). – Le preghiere sono più toccanti ancora quando si elevano dal seno di una nazione che si sente deperire. – I ritardi sono funesti per noi: tutti i momenti costano la vita a diversi tra noi, e tutti coloro che periscono, periscono senza risorse. La maledizione che abbiamo preferito alla salvezza che ci veniva offerta, consuma e divora tutto il nostro popolo. Aspettate che non vi lasci né germe né speranza per farla cessare? Odiatela o vedrete dopo la nostra perdita. (Duguet).

II. — 3-11.

ff. 3. – Che significa: « In qualunque giorno sono nella tribolazione? » Non è presentemente nella tribolazione? Egli parla così come rappresentante dell’unità del corpo della Chiesa; se un solo membro soffre, tutti i membri sono partecipi delle sue sofferenze (I Cor. XII, 26). Voi soffrite oggi, io soffro come voi; un altro è afflitto domani, io sono afflitto con lui domani; dopo questa generazione, i discendenti dei discendenti sono nella tribolazione; io la condivido con essi, fino alla fine dei secoli; qual siano coloro che soffrono nel mio corpo, io sono con essi nella tribolazione (S. Agost.). 

ff. 4, 5. – « I miei giorni sono dissipati come il fumo. » Quali giorni? Se si possono chiamare dei giorni; perché parlando di giorni, si intende parlare di luce, mentre i miei giorni sono dissipati come il fumo. “I miei giorni”, la successione dei tempi. Perché “come il fumo”, « se non rappresentare gli slanci dell’orgoglio. » Vedete il fumo, immagine del fumo, immagine dell’orgoglio: esso sale, si gonfia e svanisce, si dissipa dunque e non dura. (S. Agost.). –  Questi giorni che rendevo i miei giorni, quelli delle mie passioni, passandoli nel peccato, sottraendoli alla volontà di Dio, sono svaniti come il fumo; sono trascorsi neri e tenebrosi come esso, senza lasciare traccia se non in un crudele e pungente rimorso. (Bellarm.) – Le potenze dell’anima che lo sostengono, come le ossa sostengono il corpo, perdono il loro vigore e l’unzione di grazia, bruciate come sono dall’ardore della concupiscenza. (Dug.). – « Io sono battuto come il fieno. » Gesù-Cristo ci ha detto che il fieno dei prati brilla al mattino e la sera non è buono se non per essere gettato nella fornace. » Ma se la tempesta dal mattino si è abbattuta sul prato, se la grandine ha distrutto lo stelo che sosteneva il fiore, se il fieno è stato colpito, non durerà neanche dal mattino fino a sera. – Diverse sono le cause di questa siccità che il profeta compara al fieno esposto agli ardori del sole: 1° i falsi piaceri, che gettano nel languore e nella siccità delle cose divine e degli esercizi di pietà; 2° la privazione del cuore delle acque celesti della grazia, che provengono dalla preghiera e dalla parola divina; 3° l’allontanamento dalla divina Eucaristia, che è ancor più particolarmente il pane dell’anima che si dimentica di ricevere, e alla quale ci si avvicina senza le disposizioni dovute (Dug.). – « Perché ho dimenticato di mangiare il mio pane. » Un tale oblio si incontra ben raramente nel mondo fisico;  è invece ordinario nel mondo morale. Il vero pane dell’anima, è la verità, la verità che viene dal cielo e che tende al cielo. Ove sono coloro che cercano questo pane con un vero desiderio di trovarlo? Colui che l’avversità prova, che è obbligato a dedicarsi ai suoi penosi e continui lavori per sopperire ai bisogni propri e della famiglia, troppo spesso, in luogo di portare la propria croce con coraggio, fa della sua situazione un argomento contro la Religione (Rendu). – Dio, la sostanza per eccellenza, è il solo vero nutrimento della creatura ragionevole; così il peccatore che si allontana da Lui con la sua disobbedienza, cade nell’infermità, e non potendo prendere più questo nutrimento che doveva fare la sua gioia, lo si ascolta gridare: il mio cuore è stato come l’erba dei campi che si taglia: esso si è disseccato, perché io ho dimenticato di mangiare il mio nutrimento. (S. Agost.  De natur. et grat., c. XII). – E perfino nella prosperità, bisogna che il cuore umano sia ben al riparo sotto l’ombra delle ali di Dio, e ben umettato dalla rugiada divina della grazia, per non disseccare come l’erba dei campi e respingere come insipido il pane del cielo (Bellarm.). – Quante anime vediamo tutti i giorni indebolirsi per strada, lasciarsi andare alla disperazione ed a tutte le sue conseguenze più orribili, perché esse non hanno conosciuto questo principio di forza soprannaturale di cui il Cristiano dispone tutti i giorni nella divina Eucaristia! Quante anime deboli si trascinano nelle vuote ombre di un languore morale, perché avendo conosciuto il dono di Dio, se ne sono allontanate; esse hanno dimenticato di mangiare il loro pane, come dice il Profeta, e la loro anima è cadente, come il corpo dell’uomo che da molto tempo dimentica di assumere il proprio nutrimento (Mgr. Landriot- Euch., 3a Conf.). O uomo! Nutriti nuovamente del pane che avevi obliato! Dio stesso, che è il pane vivente, è disceso dal cielo. Mangia questo pane e vivrai (S. Aug.). – Divina Eucarestia, io medito ai vostri piedi queste belle parole del Santo Dottore; non è infatti che quando ho dimenticato di nutrirmi di Voi, che io sono stato colpito come il fieno ed il mio cuore si è disseccato? Io ho avuto la sventura di affidarmi alla vita presente come ad una gloria e ad una bellezza durevole, ed ho follemente pensato  che i piani o i sogni dell’orgoglio impedissero al fiore di svanire. Riconosco di essermi ingannato: solo la carne del Salvatore può ravvivare la mia, che si consuma ogni giorno, perché essa solo ha il segreto della resurrezione della vita. – O santa Eucarestia, io torno a voi con felicità, non dimenticherò più questo celeste alimento. Esso riparerà le mie forze, e farà circolare nel mio cuore una linfa immortale, ed il fieno disseccato dalla mia vita rifiorirà per l’eternità. (Mgr DE LA BOUILLERIE, Symbolisme, 459). – Alla voce dei miei gemiti, « le mie ossa si sono attaccate alla mia carne. » Alla voce che io comprendo, alla voce che io conosco, « alla voce dei miei gemiti e non alla voce dei gemiti di coloro verso i quali ho compassione; perché molti gemono, ed anche io gemo di ciò che essi gemono per una cattiva causa. Un uomo ha perso dei soldi ed egli geme; un altro ha perso la fede e non si lamenta. Ma io discerno tra essi il denaro e la fede, e gemo su colui che malamente geme a proposito. » Un uomo commette una frode e se ne rallegra. Dov’è il suo guadagno? Ove la sua perdita? Egli ha guadagnato del danaro, ed ha perso la giustizia. Ecco ciò che fa gemere colui che geme giustamente; ecco ciò che fa gemere colui che si avvicina al Cristo, nostro Capo, e che si attacca con rettitudine al Corpo di Cristo. Ma questo non è ciò che fa gemere gli uomini carnali, ed anche se non gemono, essi fanno sì che noi gemiamo su di essi; perché noi tutti non possiamo che disprezzarli, sia che non si lamentino, sia che si lamentino per una cattiva causa. (S. Agost.).

ff. 6-10. « Io sono divenuto simile al pellicano che abita in solitudine, come il gufo che si rifugia nei tuguri. Io ho vegliato ed ero come il passero solitario sui tetti. » Questi tre uccelli raffigurano le tre grandi categorie di penitenti: alcuni cercano la solitudine assoluta, come Santa Maddalena, Santa Maria Egiziaca, San Paolo primo eremita, Sant’Antonio, S. Ilarione, ed essi possono dire con il salmista: « Io mi sono allontanato, sono fuggito ed ho dimorato in solitudine. » (Ps. LIV). Là, in questi luoghi solitari, simili al pellicano che distrugge gli animali pericolosi e soprattutto i serpenti del deserto, si nutrono delle loro continue vittorie sul demonio. – Altri restano nel seno delle città, ma si rinchiudono in strette celle, come il gufo nel suo muro in rovina; essi riempiono la solitudine delle notte con il grido della loro penitenza, di questo grido che li sottrae al timore dei giudizi di Dio, ed essi ne santificano la durata con la successione dei loro cantici e dei loro inni spirituali. – Altri, forzati dai loro beni a restare in seno alla loro famiglia, o ai loro impieghi pubblici, abitano sui tetti come l’uccello solitario; vale a dire che oltrepassano il livello nel quale essi vivono, le folle e gli abitanti delle città. Essi sono nel mondo senza essere del mondo; essi si sottomettono agli affari, agli onori, alle ricchezze, ma non sono loro sottomessi, li dominano, ne dispongono, li distribuiscono, non permettono loro di prendere su di essi il minimo potere, conservando il cuore solitario e libero per il cielo. La missione di questi ultimi, è di vegliare e predicare sui tetti. Di vegliare sui pericoli loro e di chi li circonda, e nello stesso tempo di edificarli e parlare loro con le parole e con gli esempi. (Bellarm.). – Il passero vegliante e solitario sulla sommità dei tetti, è immagine dell’anima che si allontana fuggendo per stabilirsi nella solitudine. Esso ha fissato la sua dimora sul tetto, « al di sopra della dimora degli uomini », cioè al di sopra delle loro passioni e delle criminali cupidigie, ed avendo scelto questo rifugio, non lo lascia più, fedele all’avviso del Signore: « … colui che è sui tetti non scenda a prendere ciò che è nella casa. » Là, l’anima in alto e solitaria, aspira a Voi, o mio Dio! Di notte, essa vi desidera, ed al mattino veglia ancora attendendo l’ora della quale è scritto: (Matth. XXIV, 17) « Beato il servo che veglia, pronto a ricevere il suo padrone al momento del suo arrivo. » (Mgr DE LA BOUILL. Symb. II, 158). – Non vi meravigliate dunque se ho detto che il primo istinto che avverte un uomo toccato da Dio, sia quello di ritirarsi dal mondo. La stessa voce che ci chiama alla penitenza, ci chiama anche al deserto, cioè al silenzio, alla solitudine, al ritiro. Ascoltate questo santo penitente: « io sono – egli dice – simile al pellicano dei deserti, o un gufo dei luoghi solitari e rovinosi, io ho trascorso la notte vegliando, e mi trovo come un passero tutto solo sul tetto di una casa. » In luogo di questa aria sempre compiacente che il mondo ci ispira, lo spirito di penitenza ci mette nel cuore un non so che di rozzo e di selvaggio. Non è più quest’uomo dolce e galante che legava tutte le parti; non è più questa donna accomodante e compiacente, troppo abile mediatrice ed amica troppo affettuosa, che facilitava le sue segrete corrispondenze; non sono più questi espedienti, queste aperture, queste facilitazioni; si apprende un altro linguaggio, si apprende a dire no; a dire io non posso più; a ripagare il mondo con risposte negative, asciutte e vigorose! Non si può vivere più come gli altri, né con gli altri; non ci si vuole più avvicinare, non si vuol piacere, compiacere se stesso. Un peccatore che comincia ad avvertire il suo male, è disgustato contemporaneamente e dal mondo che lo ha deluso e da se stessi che si è lasciato prendere da un’esca sì grossolana.  Egli si ricorda ahimè dei tanti crimini commessi con malvagia compiacenza; egli non cerca più che di sottrarsi da questo sottile contagio che si respira con l’aria del mondo, nelle sue conversazioni, nei suoi costumi. Lontano dal mondo, lontano dalle compagnie, non ha più che Dio davanti ai suoi occhi per affliggersi in sua presenza, per dirgli dal fondo del cuore: « … io ho peccato contro di Voi, e nei vostri confronti soltanto », e voglio affliggermi alla vostra sola presenza; solo ed invisibile testimone dei miei singhiozzi e dei miei rimpianti, ascoltate la voce delle mie lacrime (BOSSUET, pour le 4me D. de l’Avent). – Il gufo nascosto nei recessi oscuri degli edifici è pure una delle immagini di cui si serve la filosofia di San Tommaso per aiutarci a concepire lo spirito umano nei suoi rapporti con la verità: esso è, rispetto alla verità, come l’uccello di notte davanti ad una luce molto viva. Questo è vero soprattutto dello spirito piombato nell’ombra della morte che avvolge i peccatori e, a questo titolo, questa spiegazione si riporta al nostro soggetto. Il vero Cristiano, illuminato dalla doppia luce della fede e della grazia, è il solo uomo della luce, il solo che, camminando nella grande luce della verità rivelata, giudica sanamente il valore delle cose, avanza senza mai deviare dal suo scopo, e profitta pienamente dei benefici del sole che lo illumina. E il peccatore, al contrario, ci sembra piuttosto simile alla civetta che « aprendo i suoi grandi occhi glauchi – ci dice Sant’Ambrogio – non avverte l’orrore delle tenebre e sembra non cominciare a vivere che nella notte più oscura. Appena si fa giorno, i suoi occhi abbagliati si offuscano e non vedono più nulla. » (Mgr DE LA BOUILL., Symb. II, 184). «… ah, continua lo stesso Padre, io parlo soprattutto degli occhi del cuore, che i sapienti del mondo aprono per non vedere, essi che fuggono lontano dalla luce, e brancolano nel buio, brancolano nella notte dei demoni, ed immaginano di aver contemplato tutte le altezza quando, con la loro bussola, hanno descritto dei cerchi del pianeta o misurato l’estensione dell’orizzonte. Ma ahimè! Privi della fede e colpiti da una cecità che ignorano, passano nella loro vita in un giorno splendente di Vangelo sotto i raggi luminosi della Chiesa, e non vedono nulla. Essi dilatano la loro bocca come se sapessero tutto; ma il loro occhio non è aperto se non per la vanità e si offusca davanti all’eternità. Le loro interminabili dispute non fanno, il più sovente, che tradire la loro ignoranza, e se cercano di prendere il loro volo in discorsi sottili, come il gufo, cadono e spariscono alla luce del giorno. »    (S . AMB., Hex. v., 24. de noct. avib., n° 86). –  « I miei nemici mi fanno ogni giorno continui rimproveri, e coloro che mi facevano delle lodi imprecavano contro di me. » È l’opposizione, il sollevamento del mondo sensuale ed egoista contro la vita di rinuncia, di abnegazione, di penitenza. – Mai questa legge di rinunzie, di mortificazione, di penitenza fu più misconosciuta che ai giorni nostri; mai si videro tanti uomini, tanti Cristiani che S. Paolo chiamava ai suoi tempi gemendo, « i nemici della croce di Gesù-Cristo », tanti uomini – aggiungeva – il cui ventre è loro dio, e per ventre non bisogna solamente intendere, dice un eloquente Vescovo dei nostri tempi (Mgr. Pie), il vizio odioso della golosità, agli eccessi del quale molti sanno sottrarsi, né tutti quegli appetiti grossolanamente bestiali che alcuni sanno moderare fino ad un certo punto, ma in generale, la vita molle e sensuale. L’attaccamento a tutto ciò che è piacevole alla carne, a tutto ciò che la Scrittura chiama “le delizie di questa vita” e, di conseguenza, la ricerca famelica di tutti i vantaggi temporali che procurano queste delizie. – Seguite questo torrente del secolo, datevi alla gioia ed ai piaceri, camminate nella via larga, passerete nel mondo per un uomo onesto, sarete lodato, stimato, applaudito; ma se cambiate vita, per tenere una condotta più regolare, per abbracciare la santa austerità della vita cristiana, sarete fatto oggetto di continui rimproveri, e coloro che vi davano lodi un tempo, saranno i primi a sommergervi con i loro insulti ed invettive, ad accusarvi – come diceva S. Agostino – di corrompere tutte le regole e pervertire i costumi del genere umano. – La preghiera, il digiuno, la vita austera, sono tre cose che il mondo non può soffrire, perché condannano il loro oblio di Dio, la loro sensualità, la loro mollezza. (Duguet). – Si pratica questa austerità per lenire la collera e l’indignazione di Dio. –  Dio aveva cominciato con l’elevare l’uomo ad una meravigliosa altezza, facendolo a sua immagine. L’uomo si è rivoltato contro il suo Creatore ed ha meritato di essere cacciato. Dio si è degnato di riparare a questa grande rovina; ha stabilito l’uomo in una condizione ancora più alta della precedente, rendendolo partecipe della natura divina. – Se dopo tali testimonianze di bontà, torniamo ad essere nuovamente ingrati, è la nostra stessa elevazione che ci abbaglia, e dimenticando la mano divina che ci sostiene, cadiamo da questa altezza e ci infrangiamo. « … Voi non mi avete elevato che per precipitarmi ed infrangermi. » Voi dunque, benché la vostra dignità sia elevata, non lasciatevi gonfiare dall’orgoglio, ma tremate ed umiliatevi sotto la mano potente che distrugge, quando gli piace, la testa dei grandi e dei suoi servi. Temete di gettare troppo tardi questo grido lamentevole: « … La vostra collera e la vostra indignazione mi hanno elevato per distruggermi. » È il posto più elevato che vi è toccato, ed esso non è il più sicuro; è il più glorioso ma non è il meno esposto.  (S. BERN. Epist. 238, ad Eug. n° 4). – Quanto grande è la sventura di un’anima che si separa da Dio! Quando si lascia rompere un vaso facendolo cadere, esso perde tutto, talmente che non gli resta nulla, né forma, né valore alcuno. Così è per colui che ha perso la grazia di Dio.

ff. 7-11. – « I miei giorni sono declinati come l’ombra. » I miei giorni, comparati all’ombra, non gli somiglino se non perché diventano più deboli, più languidi, fino a che non spariscono affatto. Le ombre crescono a misura che il sole discende all’orizzonte; ma esse si indeboliscono sempre più, di modo tale che quando quest’astro tramonta, non si riesce più a distinguerle. Ecco l’immagine del declino dei nostri giorni. La loro ombra decresce come l’ombra diminuisce di forza e di apparenza, e si spengono interamente al momento della morte. (Berthier). – Non attendete la morte per dire, con il movimento forzato da un inutile pentimento: « I miei giorni sono svaniti come l’ombra, » ma già da ora dite spesso a voi stesso: tutte le cose passeranno e svaniranno come l’ombra. Che cos’è dunque questa vita per la quale si ha tanto amore, per la quale solo si lavora? (Duguet). – I vostri giorni sembreranno non aver declino, se voi stessi non vi siete allontanato dal giorno vero; se voi ve ne siete allontanato, allora i vostri giorni sono declinati. Cosa c’è da meravigliarsi se i vostri giorni sono divenuti simili a voi? I vostri giorni son declinati, perché avete deviato dalla retta via, siete divenuti simili al fumo perché vi siete gonfiato d’orgoglio. In effetti, il profeta aveva detto più in alto: « I miei giorni sono svaniti come il fumo; » ed ora dice: « … i miei giorni sono declinati come l’ombra. » Da mezzo a quest’ombra, bisogna riconoscere il giorno; dal centro di quest’ombra bisogna percepire la luce, per non dire poi nei rimpianti tardivi di una infruttuosa penitenza: « A cosa è servito il nostro orgoglio? Ci ha portato queste ricchezze che sono per noi sì vane? Tutte queste cose son passate come un’ombra. » (Sap. X, 8, 9). Dite oggi: tutte queste cose passeranno come un’ombra affinché voi stessi non passiate come un’ombra. « I miei giorni son passati come un’ombra, ed io mi son seccato come il fieno. » Già il profeta aveva detto: « il mio cuore è stato colpito come il fieno, esso si è disseccato. » Ma il fieno rinverdirà, arrossato dal sangue del Signore. « Io mi sono disseccato come il fieno, » io, uomo, per aver violato la vostra legge, e per un giusto giudizio da parte vostra.  (S. Agost.)

III. – 12 – 17

ff. 12-15. – Ma di Voi, Signore, che dire? « I miei giorni hanno declinato come l’ombra, ma Voi, Signore, dimorate in eterno . » Che l’eterno si degni di salvare colui che non deve durare che un tempo! Perché se sono decaduto, Voi non mi avete svegliato; Voi avete tutta la vostra forza per liberarmi, come l’avete avuta per umiliarmi. Ma Voi, Signore, dimorate in eterno, e la vostra memoria passerà da generazione in generazione. » La vostra memoria, perché Voi non dimenticate; dalla generazione, non in una sola generazione, ma « da generazione in generazione; » perché noi abbiamo ricevuta la promessa della vita presente e quella della vita futura. (S. Agost.). – Ogni grandezza umana si cancella, il mondo passa, la vita svanisce. Dio solo è eterno ed immutabile, ed il solo la cui memoria passerà a tutte le età. A chi dunque attaccarsi, ad una grandezza che sparisce in un momento? Ad un mondo che passa come un lampo, ad una vita che svanisce come l’ombra? No, a Colui che solo sussiste eternamente e le cui ricompense, non più della memoria, non passeranno mai (Duguet). – Indubbiamente noi non conosciamo i momenti fissati nei disegni di Dio, e per non avere pure misura certa da applicare ai tempi che Dio si è riservato, è inutile lavoro ed una curiosità condannevole gettarci nelle supposizioni di cui Egli ci nasconde i principi. Ma, qualunque sia l’intervallo tra la promessa ed il tempo in cui Dio la realizzerà, per quanto sconosciuto, non siamo meno certi che questo tempo sia demarcato nei suoi decreti in maniera fissa e precisa; questo tempo gli è sempre presente e niente potrà ritardarlo. – Questo tempo che Dio rende presente allo spirito del Profeta è quello dell’Apostolo che ha detto: « … Quando è giunta la pienezza dei tempi, Dio ha inviato suo Figlio. » ora è il tempo della pazienza di Dio, dell’orgoglio, dell’ingiustizia dei malvagi, delle sofferenze e delle umiliazioni dei giusti.  Ci sarà un altro tempo che Dio solo ha fissato, nel quale l’ingiustizia sarà distrutta ed i giusti sottratti all’oppressione. (Dug.). – In altri salmi, il Profeta, a nome del suo popolo, provato dai suoi nemici, aveva eccitato Dio a levarsi, a dissipare i suoi nemici, a metterli in fuga davanti al suo volto. Egli era andato anche più lontano: lo aveva interpellato e, in qualche modo rimproverato di non levarsi, che sembrasse dormire abbandonando il suo popolo fino alla fine (Ps. XLIII, 23). Ora, questo non è più l’accento del rimprovero, e neanche quello dell’apprensione e del dolore: è il tono dell’assicurazione, ed il linguaggio dell’affermazione: « Voi state per levarvi, Signore, abbiate pietà di Sion, perché è il tempo di averne pietà, sì, questo tempo è venuto. » Tutte le fasi dell’antico popolo di Dio figuravano, profetizzandoli, i destini del popolo cristiano. Nel camminare attraverso i secoli, c’è un giorno, un’ora in cui la Chiesa di Gesù-Cristo si ritrova posta in condizioni analoghe a tutte quelle attraversate dall’antico Israele. Ed è questa analogia, questa identità di situazioni che chiama oggi sulle nostre labbra il versetto quattordicesimo del salmo CI. Si, il tempo è arrivato, Signore, di aver pietà di Sion; questo tempo è giunto perché la crisi subirà dalla società cristiana sembra arrivata nel suo periodo più elevato; questo tempo è giunto, perché il rimedio proposto dagli empirici del quarto d’ora avrebbe per risultare di annientare le ultime risorse e le ultime possibilità di guarigione. (Mgr. Pie, t. VIII, p. 9). – « Perché le sue pietre sono state gradite ai vostri servi. » Quale pietre, le pietre di Sion!  Ma non c’è in Sion chi non sia una pietra. A chi appartengono coloro che non sono pietre? Che risponde il Profeta? « … Essi avranno pietà della sua polvere. » Riconosciamo dunque in Sion delle pietre, e riconosciamo in Sion della polvere. Il profeta non dice: essi avranno pietà delle sue pietre, ma: « i vostri servi si sono compiaciuti delle pietre, ed avranno pietà della sua polvere. » Le pietre di Sion sono i Profeti, sono gli Apostoli che dopo aver abbandonato le cure del secolo, si sono interamente dedicati a fondare la Chiesa. Ma i prevaricatori che si sono allontanati dal Signore e che hanno offeso il loro Creatore con azioni malvagie, sono tornati nella terra donde erano stati tratti; essi sono divenuti polvere, sono divenuti degli empi. Ma attendete, Signore, sopportateli, Signore, abbiate pazienza: che il vento non si alzi più e non spazzi questa polvere dalla faccia della terra. Che vengano i vostri servi, che vengano, che riconoscano le vostre parole nelle pietre di Sion; che abbiano pietà della sua polvere e che l’uomo sia formato a vostra immagine (S. Agost.). – I grande edificio della Chiesa cristiana, opera della mano di Dio, non può mai essere rovinato, ma più pietre possono separarsene. Coloro che restano sempre attaccati come pietre viventi di questo edificio, devono amare con una carità compiacente queste rovine e queste pietre morte, gemere per esse, ed avere una vera compassione per molti altri che, pur restando esteriormente uniti alla Chiesa con il carattere di Cristiano, ne sono separati dalla corruzione dei loro costumi. (Dug.). – Non è vero che se, per caso impossibile, gli uomini giungano a dimenticare, vengano a perdere il Vangelo portato da Gesù-Cristo sulla terra, le pietre che restano sul nostro suolo ce ne renderanno ancora tutta la sostanza? « Se questi tacciono, le pietre stesse grideranno (Luc. XIX, 40). È a questo titolo che lo studio dei monumenti o anche delle loro rovine cessa d’essere una passione di entusiasmo, una fantasia da uomo disoccupato, e diviene uno studio serio, pratico e religioso. Il salmista ci dice che se il tempio rovina, i servitori di Dio ne amino ameno le pietre: « Le sue pietre e le sue rovine sono state gradite ai vostri servi. » Si, c’è un odore di vita, un profumo di fede e di virtù, che esala da questi detriti. (Mgr PIE, Discours, etc., p. 167).

ff. 16, 17. – « E le nazioni temeranno il vostro Nome, Signore, e tutti i re della terra la vostra Gloria. » Il Compimento perfetto di queste parole era riservato alla venuta del Cristo; allora, nel momento in cui si è elevata la nuova Sion, i popoli della terra sono stati colpiti da un timore salutare, ed hanno onorato il Nome del Signore; nello stesso tempo, tutti i re hanno riconosciuto il Re dei re ed adorato la sua maestà. (Bellarm.). La costruzione della santa Sion è l’opera di tutti i secoli che sono trascorsi dopo Gesù-Cristo, e che trascorreranno fino alla fine del mondo. Questo edificio non sarà terminato che nell’ultimo giorno. Nell’attesa ciascuno di noi deve contribuirvi a porre la sua pietra come diceva Sant’Agostino. Non sarà più tempo di lavorare quando Gesù-Cristo verrà a fare la separazione delle pietre vive dalle pietre di scarto, e verrà in tutta la sua gloria per dare l’ultima mano a questo tempio eterno (Berthier). « Egli ha posto uno sguardo favorevole sulla preghiera degli umili. » È quanto si compie ora nella costruzione di Sion: coloro che la costruiscono pregano e gemono … se c’è qualcuno che abbia ancora altri sentimenti, se qualcuno avesse ancora fino al presente, altri pensieri, mangi cenere come pane. E mescoli la sua  bevanda con le proprie lacrime. Egli ancora è in tempo, finché Sion si elevi, finché ora le pietre si raccolgono nella sua costruzione. Quando l’edificio sarà definitivamente completato, quando la casa sarà dedicata, a cosa servirà accorrere, cercare un posto troppo tardi, pregare invano, battere inutilmente alla porta? (S. Agost.).  

IV. — 18-28.

ff. 18-22. – « Che questo sia scritto per le generazioni future, il popolo che sarà creato, celebrerà il Signore. » Affinché i Giudei non possano più rivendicare unicamente per essi il diritto di queste promesse, ed applicarle esclusivamente alla fine della cattività ed alla ricostruzione di Gerusalemme, lo Spirito Santo scriveva in termini eloquenti ciò che San Pietro, più tardi interpreterà in questi termini: « I Profeti hanno predetto la grazia che dovete ricevere. Fu loro rivelato che ciò non era per essi stessi, ma per voi, essi erano dispensatori di misteri che i predicatori del Vangelo vi hanno annunciato » (I Pietr. I) – Possa questa profezia compiersi per la generazione futura della nostra patria, di questa Francia sì crudelmente provata. Ah! Senza dubbio agli occhi dell’osservatore attento si manifestano segni certi di dissoluzione e di rovina prossima; ma anche segni più consolanti, presagi di resurrezione nelle opere sante che dopo più di mezzo secolo elevano sul suolo della Francia il loro florido stelo. Quali benedizioni non attireranno sulla Francia queste istituzioni di carità che qui è impossibile enumerare, come si è detto, e che hanno messo il dito sulle ombre stesse del bisogno, moltiplicato le mani per curare le cicatrici e le piaghe. Si, chiediamo che la generazione che cresce sia questo popolo nuovo creato per lodare il Signore, una nuova generazione di veri Cristiani e di veri francesi che riporterà la nostra nazione al primo posto tra tutti i popoli della terra. – Questo popolo che sarà creato, loderà il Signore che ha guardato la nostra valle di lacrime dall’alto del suo trono, non con sguardo inutile, ma discendendo tra noi, facendosi piccolo, conversando in mezzo a noi. Perché si è umiliato scendendo tra noi? Per ascoltare  da vicino le grida di coloro che il principe di questo mondo teneva prigionieri, e liberarli. Voi sapete quali sono coloro che sono stati uccisi e sapete quali sono i loro figli. La Chiesa è stata dapprima oppressa. Quando si tenevano prigionieri i Cristiani e li si mettevano a morte, ma, dopo questa persecuzione, il Nome del Signore è stato annunziato con una grande libertà in Sion, cioè nella Chiesa. (S. Agost.). – Quando Dio guarda dall’alto della sua santa dimora, i suoi occhi si abbassano con una compiacenza particolare sui figli di coloro che sono stati incatenati o massacrati per causa sua – e quando spiega la lunghezza del suo braccio – è per benedire e proteggere i figli di coloro che sono uccisi. I tempi giungeranno in cui coloro che la grazia avrà liberato, cominceranno a servire il Signore, e sarà allora che tutti i popoli, fino ad allora divisi, si fonderanno in un unico corpo, non avranno più che un solo Dio, un solo spirito, una sola fede, un solo Battesimo, un solo cuore ed una sola anima, e che gli stessi re si uniranno a questo coro unico della Chiesa, per farne parte. (Bellarm.). – « I popoli ed i re si assembleranno e si uniranno per servire l’Eterno. » Beato il popolo in cui il re e la nazione hanno uno stesso simbolo, una stessa dottrina, una stessa fede! Il Monarca e la Nazione si uniscono allora in un sublime concerto al servizio del Signore. In questo religioso abbraccio della potenza reale e della potenza popolare, la guerra civile è soffocata, i litigi domestici spenti, la questione del potere non è più una questione. Uniti davanti a Dio, il capo ed i soggetti restano strettamente abbracciati tra loro, e fanno regnare le felicità e la pace al seguito della Religione. (Mgr PIE, Discours, etc., I, 65). – Lo scopo per il quale Dio salva i prigionieri ed i figli di coloro che sono stati messi a morte, è alfine che essi annuncino il nome del Signore (Bellarm.). – Ed in effetti l’uso più santo della libertà si acquista con l’affrancamento dalla servitù del peccato e dalla dominazione del principe delle tenebre, è annunciare e far conoscere il Nome e la potenza di Dio nella vera Sion, che è la Chiesa, e rendere pubbliche le sue lodi in questa nuova Gerusalemme (Duguet).

ff. 23, 24. – « Fatemi conoscere il piccolo numero dei miei giorni. » È la Chiesa che risponde qui al Signore nella via della sua forza. Ha trovato risposta in se stessa? Ma cosa poteva esservi in essa, o quale voce essa aveva e per essa, se non la sola voce del peccato, la sola voce dell’iniquità? Ma quando è stata giustificata « … Essa gli ha risposto, » non per i suoi meriti, ma per la potenza di Dio. Ed in qual modo ha risposto: « Nella via della sua forza. » Questa via è il Cristo stesso … Cosa domanda essa a Dio? « Fatemi conoscere il piccolo numero dei miei giorni. » Che significano queste parole che mormorano contro me ed io non so quali uomini si sono separati da me? Essi osano dire che io sono stato e non sono più: « Annunciatemi il piccolo numero dei miei giorni. » Io non parlo di giorni eterni, che sono senza fine ed io vi sarò; no! io parlo dei giorni temporali; annunciatemi i miei giorni temporali e non l’eternità dei miei giorni; annunciatemi il tempo in cui sarò in questo mondo a causa di coloro che dicono: essa è stata, essa non è più. Il Signore glielo ha in effetti annunziato, e questa parola non è rimasta senza risposta. E chi me lo ha annunziato, se non la mia Via stessa? E come me lo ha annunziato? « … Ecco Io sono con voi fino alla consumazione dei secoli. » (Matth. XXVIII, 20), (S. Agost.). – È anche la via del profeta; rispondendo a Dio che gli aveva ordinato di vivere per la generazione futura gli diceva nel fiore e nella pienezza dell’età: Fatemi conoscere il piccolo numero dei miei giorni; fate che io sia ben persuaso della rapidità dei miei giorni, affinché, non essendo deviato dalla mia giovinezza e sorpreso dalla morte, io non sia più estromesso da questo popolo che sarà creato e vi loderà eternamente in Gerusalemme (Bellarm.). Grande grazia di Dio, è il ben considerare la brevità di questa vita, composta da un piccolissimo numero di giorni alfine di utilizzare tutti i momenti per l’eternità. – Non c’è nessuna disgrazia più funesta, pur tuttavia comune, che quella di essere tolto dal mondo a metà dei giorni che ci si riprometteva, in mezzo ad una vita leggera, dissipata, indifferente, criminosa, e senza aver fatto nessuna penitenza. – Cadere in questo stato nelle mani di Dio, qual cosa orribile, e chi potrebbe comprenderlo! Noi siamo perduti se Egli non ci richiami prima di essersi riconciliato con noi; non abbiamo alcuna speranza se pone termine ai nostri giorni prima che i giorni cattivi della vita passata siano espiati e riparati (Dug.). – Domandiamo a Dio di perdonarci il passato; domandiamogli soprattutto di proteggere l’avvenire, di moltiplicare nei nostri giorni l’occasione di opere buone, di non toglierci nel mezzo della nostra corsa, di essere immagine vivente di questo Dio eterno nella sua durata, di farci vivere per cancellare il male, per amarlo, per servirlo, per essere suo figlio sottomesso e fedele, per rendere ai nostri fratelli il bene che Egli ci ha fatto. – « I vostri anni si estendano in tutte le generazioni. »

ff. 25-28. – « In principio avete fondato la terra e i cieli sono l’opera delle vostre mani. » Ciò che conosciamo di più durevole in questo mondo è il cielo e la terra. Fin dalla creazione perseverano nello stesso stato; non cessano di spandere su di noi i beni che la Provvidenza ha messo nel loro seno. Tuttavia, questi grandi corpi, sì fedeli alle leggi che Dio ha loro imposto, invecchieranno, come dice il Profeta, cesseranno di essere ciò che sono, e la gloria di essere immutabile ed inalterabile, resterà in Dio solo, perché Lui solo è eterno. (Berthier). Tutto invecchia, uomini e cose; tutto anche cambia, si deforma, si rinnova, come aggiunge il Profeta, « mutabuntur,» il tempo dispone così per la sua opera la distruzione di una doppia potenza: cambia, poi ricostruisce sulle rovine cancellando fino all’ultima vestigia delle cose che sono state … Il tempo distrugge con la mano sinistra e costruisce con la mano destra, egualmente nemici nei due casi, poiché l’edificio che eleva non fa che spingere più avanti l’edificio che rovescia, e se fonda, è per distruggere ancora. (Lacordaire). «Tutti invecchieranno come un vestito, o Dio, Voi lo cambierete come ci si cambia di abito, e saranno cambiati; ma Voi resterete sempre lo stesso, I vostri anni non finiranno. » – Quand’anche l’uomo vivesse un gran numero di anni, non resterebbe mai un solo giorno nello stesso stato, perché ha la sua condizione mortale di essere continuamente soggetto alla legge del cambiamento, triste mutevolezza di cui Giobbe diceva: «  come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e non resta mai nel medesimo stato. » (Giob. XIV, 2). Dio al contrario, che è il solo veramente eterno, veramente immortale, resta eternamente ciò che è, perché non c’è nulla in Lui di transitorio, niente che sia soggetto al cambiamento, niente che sia opposto alla sua eterna divinità (S. GRÉG., in hunc psalm.). « Ma Voi resterete sempre lo stesso. » Voi siete il solo sul quale il tempo non possa nulla, perché solo Voi siete l’eterno. E cosa fate per disfarvi dei vostri potenti avversari? Una sola cosa, il tempo. « … essi periranno, Voi resterete sempre lo stesso. » La tomba è il segno più vero, il più infallibile marchio per discernere ciò che è umano da ciò che è divino. – « La figura di questo mondo passa (I Cor. VII). Le cose che passano sono temporali, quelle che non passano sono eterne. » Noi vediamo la terra coperta di alberi, popolata di animali, abbellita da edifici; noi vediamo le acque scorrere e spesso diventare turbinose nel loro corso; vediamo l’atmosfera a volta brillante, a volte oscura; vediamo gli astri in continuo movimento: tutto questo passa ed avrà fine. « Noi aspettiamo nuovi cieli ed una terra nuova, secondo la promessa, dice S. Pietro (2 Ep. III). I cieli saranno cambiati quanto alla forma esteriore, Voi toglierete la loro immagine attuale per darne loro una nuova, così come l’uomo lascia un vecchio mantello per prenderne uno nuovo. Ma Voi, non cambierete mai, qualunque sia la durate del tempo. » (Bellarm.). –  Voi sentite parlare di vestiti, di mantello, e pensate che sia diverso per i corpi? Speriamo dunque che i nostri corpi siano cambiati, ma per Colui che era prima di noi e che sussiste dopo di noi, di cui riteniamo ciò che siamo e che saremo quando saremo cambiati: Egli stesso ci cambia e non è cambiato, ci fa e non è fatto, ci conduce e rimane. E come la carne ed il sangue comprenderanno questa parola: « Io sono colui che sono »? – « Ma Voi siete sempre lo stesso, ed i vostri anni non finiranno. » Ma noi, nei confronti di questi anni di Dio, cosa siamo, con i nostri anni strapazzati? Che sono questi brandelli di anni? Noi tuttavia non dobbiamo disperare, perché nella sua Maestà e nell’eccellenza della sua saggezza, Dio aveva detto: « Io sono colui che sono », e tuttavia per consolarci ci ha pure detto: « Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe. » (Es. III, 15). E noi siamo razza di Abramo (Gal. II, 29); e malgrado la nostra bassezza, benché siamo terra e cenere, noi speriamo in Dio. Noi siamo schiavi, ma nostro Signore si è degnato di prendere per noi la forma di uno schiavo (Filip., XVII, 7); noi mortali, Egli immortale, ha voluto morire e ci ha mostrato l’esempio della Resurrezione. Speriamo dunque di pervenire a questi anni stabili, nei quali non c’è il corso del sole che forma il giorno, ma nei quali tutto resta com’è, perché solo questo sarà veramente. (S. Agost.). – « I figli dei vostri servi vi abiteranno. » E dove? Se non negli anni che non finiranno mai. « E la loro razza sarà stabile per i secoli dei secoli, per il secolo eterno, per il secolo che sarà per sempre. » Il Profeta dice: « I figli dei vostri servi. » Non dobbiamo noi temere di non essere i servi di Dio e che i nostri figli non abitino il cielo, senza che noi stessi vi abitiamo? Ma se siamo al contrario i figli dei servi di Dio, i figli degli Apostoli, che diremo? Figli degli Apostoli, nati dopo di loro e gloriosi per essere loro successi, avremo la colpevole audacia di dire: Noi vi abiteremo e gli Apostoli non vi abiteranno? Lungi dalla nostra pietà filiale un tale pensiero! Lungi dalla fede dei figli! Lungi dall’intelligenza degli uomini fatti! (S. Agost.) – I servi di Dio, gli Apostoli, i loro figli, cioè i semplici fedeli e tutti coloro che saranno nati alla fede e che avranno perseverato nella grazia, perverranno alla felice immortalità della vita futura.

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (7)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (7)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°)

P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

TERZA PARTE

L’INABITAZIONE DIVINA PER MEZZO DELLA GRAZIA NON È LA PROPRIETÀ PERSONALE DELLO SPIRITO-SANTO, MA IL PATRIMONIO COMUNE DI TUTTA LA SANTA TRINITÀ. — ESSA È APPANNAGGIO DI TUTTI I GIUSTI, TANTO DELL’ANTICO CHE DEL NUOVO TESTAMENTO.

CAPITOLO PRIMO

Benché attribuita ordinariamente allo Spirito Santo, l’inabitazione divina per mezzo della grazia non gli è esclusivamente propria, ma comune alle tre Persone.

Finora abbiamo parlato indistintamente della dimora dello Spirito Santo o della Santissima Trinità nelle anime in stato di grazia, conformandoci così al linguaggio stesso della Scrittura, che attribuisce all’una o all’altra Persona divina il soggiorno che Dio si degna di fare nei giusti. Così, lo stesso Apostolo che aveva scritto ai fedeli di Corinto: « Non sapete di essere il tempio di Dio e l’abitacolo dello Spirito Santo? » (1 Cor. III, 16), insegnò agli Efesini « … che Cristo abita in noi per fede » (Efes., III, 17). E lo stesso Nostro Signore disse ai suoi discepoli: « Se qualcuno mi ama, egli osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui, e stabiliremo in lui la nostra dimora. » (Giov. XIV, 23). Tuttavia, non si può ignorare che è lo Spirito Santo che viene più spesso designato come l’ospite delle nostre anime. Mentre, solo una volta appena, il testo sacro menziona la presenza in noi del Padre e del Figlio, parla spesso della venuta e della dimora dello Spirito Santo nei nostri cuori. La Scrittura lo rappresenta come il dono di Dio per eccellenza, donum Dei (Act. VIII, 20), il dono principe di tutti i doni, la fonte della vita soprannaturale, l’Autore della nostra santificazione, il pegno della beatitudine celeste (2 Cor. I, 21-22). È Lui che riversa la grazia e la carità nei nostri cuori (Rom. V, 5), che ci rende figli di Dio (Rom. VIII, 15) e che distribuisce i doni divini a suo piacimento (1 Cor. XII, 11). Come maestro interiore, illumina le intelligenze, insegnando loro tutta la verità (Giov. XIV, 13); Egli tocca e ammorbidisce i cuori, inclinandoli dolcemente e fortemente alla fedele osservanza dei comandamenti divini (Ezech. XXXV I, 27). È Lui che ci consola nei nostri dolori, ci consiglia nelle nostre incertezze, ci insegna a pregare, a chiedere ciò che è opportuno per la salvezza, formulando le nostre richieste Egli stesso con inenarrabili gemiti (Rom. VIII, 26); è Colui che ci risveglia dalla nostra sonnolenza, ci spinge al bene (Rom.VIII, 14), ci guida per le nostre vie e infine ci introduce nella vera terra promessa, dove regna la perfetta rettitudine (Ps. CXLII, 10). I Santi Padri non parlano con altro linguaggio. Anche per loro lo Spirito Santo è il grande dono di Dio, l’ostia interiore che, donando se stesso, ci comunica allo stesso modo una partecipazione della natura divina, e ci rende figli di Dio, esseri divini, (S. Basil, Contr. Eunom., 1. V) uomini spirituali e santi. (S. Basil., de Spir. Sanct.,c. IX). A loro piace quindi designarlo come lo Spirito santificatore, principio della vita celeste e divina (S. Basil., Contr. Eunom., l.V). Alcuni addirittura lo chiamano la forma della nostra santità (S. Basil, de Spir. Sanct., c. XXVI), l’anima della nostra anima, il legame che ci unisce al Padre e al Figlio, Colui attraverso il quale queste Persone divine dimorano in noi. Tale insistenza nell’attribuire l’inabitazione per mezzo della grazia e l’opera della nostra santificazione e della figliolanza adottiva alla terza Persona dell’augusta Trinità non sarebbe un indizio, un segno, una prova che lo Spirito Santo abbia rapporti speciali con le nostre anime, un modo di unione che è unico e proprio a Lui e che non condivide con altre Persone? Perché, infine, se risiede in noi come il Padre e il Figlio, perché rappresentarlo incessantemente, di preferenza rispetto alle altre Persone, come ospite delle nostre anime, e attribuirgli costantemente una presenza e un’azione che, in realtà, sarebbe comune a tutta la Trinità? Da qui è nato il sistema dell’inabitazione propria dello Spirito Santo. Secondo alcuni teologi, lo stato di grazia porterebbe all’unione diretta e immediata delle nostre anime con questo Spirito divino e, attraverso di Lui, con il Padre e il Figlio, in virtù dell’inseparabilità delle Persone divine. Questa è la famosa teoria che aveva, se non come autore, ma come principale mecenate e difensore, un uomo di grande erudizione, uno dei più illustri rappresentanti della teologia positiva del XVII secolo, Denis Petau, della Compagnia di Gesù. Ma la stragrande maggioranza dei dottori, qualunque sia la loro scuola di appartenenza, sono sempre stati resistenti e ostili a questo insegnamento; e convinti, a buon diritto, che la “legge di appropriazione” è pienamente sufficiente a spiegare i testi della Scrittura e dei Padri che sembrano fare della speciale presenza di Dio nel giusto la prerogativa dello Spirito Santo, ed hanno costantemente sostenuto che la Trinità tutta intera abiti in noi per mezzo della grazia, e che non c’è una unione più reale e immediata con la terza Persona rispetto al Padre e il Figlio; tuttavia, sebbene comune a tutte e tre le Persone, l’inabitazione divina per grazia è appropriata allo Spirito Santo per il suo carattere personale e per la natura stessa dell’unione tra Dio e l’uomo, che è frutto della santa carità. La questione sembrava quindi risolta, quando nuovi tentativi fatti all’epoca nostra, con l’obiettivo di far risorgere un’opinione che sembrava definitivamente giudicata e condannata, sono venute a rimettere tutto in discussione e a risvegliare una disputa che si poteva credere oramai risolta. Di fronte a questa levata di scudi, ci è sembrato che gli interessi della santa dottrina richiedano che la questione non fosse passata completamente sotto silenzio ma trattata almeno sommariamente; è ciò che stiamo per fare con l’aiuto di Dio.

I.

Il problema da risolvere è questo: quando la Scrittura e i Padri ci parlano dell’inabitazione dello Spirito Santo nei nostri cuori, senza menzionare le altre Persone, dovremmo prendere alla lettera questa formula e credere che lo Spirito Santo si unisca con le nostre anime in un’unione che gli è propria e gli appartiene in una particolare veste? O, al contrario, dovremmo considerare questa unione come comune alle tre Persone dell’adorabile Trinità e semplicemente appropriata ad una di loro? Petau, Ramière, Scheeben, altri ancora tengono per la prima interpretazione; i teologi scolastici, San Tommaso, San Bonaventura, Alberto Magno, Suarez, i teologi di Salamanca, ed attualmente anche gli eminenti cardinali Franzelin e Mazzella, i Rev. Pp.- Kleutgen, Pesch, Tepe, S. J., ecc. ecc. adottano il secondo. Qualunque sia l’opinione che si abbracci sulla maniera con cui lo Spirito Santo è unito all’anima giusta, il dogma cattolico richiede che in esso sia ammessa anche una vera presenza del Padre e del Figlio. Le Persone divine, in effetti, avendo una sola e medesima natura individuale, sono necessariamente inseparabili. « Lo Spirito Santo – dice San Giovanni Crisostomo – non può essere presente da nessuna parte senza la presenza di Cristo, perché dove c’è una Persona divina, la Trinità è presente nella sua interezza (S. Joan. Chrys., in Epist. ad Rom.., VIII, 9).  Sant’Agostino si esprime allo stesso modo: « Chi oserebbe pensare, se non ignorando completamente l’inseparabilità delle Persone divine, che il Padre e il Figlio possano abitare dove lo Spirito Santo non abiti, e che lo Spirito Santo abiti da qualche parte senza il Padre e il Figlio » (S. Aug., 1. de Præsentia Dei, cap. V, n. 16.). – Pertanto, i teologi concordano con san Tommaso che le due Persone divine, in ragione della loro eterna processione, possono essere inviate e date alla creatura ragionevole per santificarla, e non lo sono mai l’una senza l’altra; mai il Figlio viene ad illuminare l’intelligenza senza che lo Spirito Santo venga ad accendere la volontà; le loro missioni invisibili, anche se distinte, considerando gli effetti particolari secondo i quali vengono compiute e il modo di origine delle Persone, sono tuttavia unite da una radice comune, la grazia santificante, che non permette che l’una abbia luogo senza l’altra. (S. Th., Samm. Theol., I, q. XLIII» a. 5, ad 3.) Quanto al Padre, anch’Egli è presente in virtù della circumincessio; e se non è inviato, perché non procede da nessuno, viene tuttavia da se stesso, si dona all’anima giusta e vi abita con il Figlio e lo Spirito Santo, per santificarla di concerto con loro. Pur ammettendo questa presenza vera e sostanziale delle tre Persone divine, che non avrebbe potuto, peraltro, contestarsi senza opporsi manifestamente all’insegnamento unanime dei Padri e dei Dottori, e senza distruggere l’economia del mistero della Trinità, Petau sostiene che lo Spirito Santo abiti in modo speciale nell’anima giusta, che possiede con essa una modalità di unione che gli è personale e che non condivide con il Padre e il Figlio. Secondo lui, la terza Persona risiederebbe in noi da solo, direttamente e immediatamente; le altre due Persone risiederebbero in noi solo indirettamente, simultaneamente, in virtù della comunità di natura che li rende inseparabili.  – E, per spiegare il suo pensiero, dà un esempio di ciò che accade nel mistero dell’incarnazione. “Il Padre e lo Spirito Santo – egli dice – dimorano in Cristo non meno dello stesso Verbo; ma il modo di unione è diverso. Infatti, oltre all’unione che gli è comune con le altre Persone, il Verbo ne possiede una speciale, che gli appartiene a pieno titolo, poiché Egli è come la forma che fa di Cristo un uomo divino, o meglio un Dio, e il Figlio di Dio. È così che abitano le tre Persone, è vero, tutte nel giusto; ma lo Spirito Santo è solo come la forma che lo santifica e lo rende figlio adottivo di Dio comunicando la propria sostanza. « Riprendiamo a leggere – aggiunge – tutte le testimonianze degli antichi Padri che abbiamo descritto sopra, o, meglio ancora, leggiamo i passi della Scrittura che parlano o semplicemente dell’unione di Dio con i giusti, o in particolare della dimora del Figlio in essi, e troverete che la maggior parte di essi attesta che è per mezzo dello Spirito Santo che ciò avviene, come per sua causa successiva e, per così dire, formale. »  (PETAV.. de Trin., l. VIII, c. VI, n. 8.). Lo Spirito Santo è dunque, secondo Petau, unito ai giusti da una propria unione, che, senza essere ipostatica, è tuttavia analoga a quella del Verbo con la natura umana, in Gesù Cristo. Nel Verbo fatto carne, la natura umana è unita direttamente alla Persona del Figlio, e attraverso di Lui alla divinità e alle altre due Persone della intera Trinità. La Persona del Verbo è dunque il punto di congiunzione delle due nature, divina e umana, così come è il legame che unisce l’umanità di Cristo alle Persone del Padre e dello Spirito Santo. Allo stesso modo, Lo Spirito Santo è dunque, secondo Petau, unito ai giusti in una propria unione, che, senza essere ipostatica, è tuttavia analoga a quella del Verbo con la natura umana, e Gesù Cristo. Nel Verbo fatto carne, la natura umana è unita direttamente alla persona del Figlio, e attraverso di lui alla divinità e alle altre due persone della Principale Trinità. La persona del Verbo è dunque il punto di congiunzione delle due nature, divina e umana, così come è il legame che unisce l’umanità di Cristo alle Persone del Padre e dello Spirito Santo. Allo stesso modo, nell’opera della nostra divinizzazione per mezzo della grazia, è la Persona dello Spirito Santo che è il termine diretto ed immediato della nostra unione con Dio, è Ella che ci mette in contatto con il Padre e il Figlio e serve come una sorta di legame tra loro e noi. Il celebre gesuita sostiene che questo sia il sentimento dell’antichità, e chiede anche ai Libri Santi di stabilire e corroborare la sua opinione. Cosa bisogna pensare di queste affermazioni?

II.

Se ci rapportiamo ad un giudice competente, lungi dall’essere l’espressione fedele della verità rivelata, la dottrina dell’inabitazione personale dello Spirito Santo nel giusto è, al contrario, in palese opposizione all’insegnamento tradizionale, e si basa solo su un’errata interpretazione della Scrittura e dei Padri. Questo giudice, la cui imparzialità non può essere sospettata e la cui sentenza non può essere contestata, è l’immenso esercito di dottori che, nonostante la diversità delle loro tendenze e il loro antagonismo scolastico, si sono comunque trovati d’accordo su questo punto. I più eminenti teologi della Compagnia di Gesù, antichi e moderni, si incontrano qui con i fratelli ed i discepoli del Dottore Angelico; e sebbene fosse coinvolto uno dei loro, essi – siamo felici di rendere loro questa testimonianza – non sono stati né gli ultimi né i meno ardenti a combatterla. Ed effettivamente la lotta era davvero necessaria. Infatti, attribuire alla Persona dello Spirito Santo nell’opera della nostra santificazione, il ruolo del Verbo nell’incarnazione, era porsi in contraddizione con i principi teologici più incontestabili, di introdurre una novità, ed affermare, volenti o nolenti, tra lo Spirito Santo e ciascuna delle anime giuste, una sorta di unione ipostatica contraria a tutti i dati della fede. Per convincersi di questo, basti ricordare che in Dio, tutto è comune alle tre Persone, la natura, gli attributi, le operazioni esterne, le relazioni che ne derivano, tutto, tranne le relazioni d’origine opposte che costituiscono e distinguono le Persone e ciò che, dall’esterno, può essere qualificato come funzione ipostatica. (Ex. Conc. Florent. Decretum pro Jacobitis.). Invano, per sostenere la sua opinione, Petau fa appello all’antichità e cerca di stabilire che, se lo Spirito Santo non viene da solo nei nostri cuori, almeno Egli solo è il termine diretto ed immediato dell’unione (Petav., de Trin.,1. VIII. c. VI, n. 6.); L’antichità gli risponde, attraverso l’organo di San Tommaso, che, contrariamente a quanto accade nel mistero dell’Incarnazione, dove l’incontro delle due nature, la divina e l’umana, sebbene realizzato da tutta la Trinità, si realizza nell’unica Persona del Verbo, l’unione stabilita dalla grazia tra Dio e l’uomo è comune alle tre Persone, non solo nel suo principio effettivo, ma anche nel suo termine (S. Th., III, q. III, a. 4, ad 3.); e tutta la Scuola aggiunge, per bocca dei suoi più eminenti Dottori, che nessuna vera unione della Divinità con le creature può appartenere in sé ad una sola Persona divina senza essere di  fatto un’unione ipostatica. Perché di due cose l’una: o l’unione si fa direttamente con l’Essenza comune, e in questo caso appartiene ugualmente alle tre Persone; oppure si fa in ciò che è proprio di una di esse, nella sua ipostasi, ed allora essa è ipostatica. Tuttavia, la dottrina cattolica non conosce, nei fatti, altra unione ipostatica tra Dio e la creatura che quella del Verbo con l’umanità nella Persona di Gesù Cristo. Indubbiamente, lo Spirito Santo avrebbe potuto incarnarsi, anche Egli, avrebbe potuto unirsi personalmente a tutte le anime adornate di grazia, ma allora i giusti non solo sarebbero stati spiritualizzati e divinizzati, sarebbero stati essi stessi Dio, sarebbero stati cioè lo Spirito Santo. Concludiamo dunque con san Tommaso che la venuta o l’inabitatzione di Dio nella nostra anima, invece che essere prerogativa esclusiva, proprietà della terza Persona, è, al contrario, patrimonio comune della Trinità tutta intera. Et ideo adventus vel inhabitatio convenit toti Trinitati (S. Th., Sent., 1. I, dist. XV, q. II, a. 1, ad 4). – Se è così, perché la Scrittura e i Padri attribuiscono quasi costantemente la presenza di Dio in noi allo Spirito Santo? Perché si riferiscono a questo Spirito divino, di preferenza alle altre Persone, come l’ospite delle nostre anime? Questo è in virtù della “legge di appropriazione”.

III.

Che cos’è l’appropriazione? È l’attribuzione fatta ad una Persona divina di una perfezione o di un’operazione comune alle tre Persone. Ne abbiamo un esempio nelle seguenti parole del Simbolo: « Credo in Dio, Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra », dove attribuiamo alla prima Persona della Santissima Trinità l’onnipotenza e la creazione, che appartengono tuttavia a tutti e tre. È anche per appropriazione che attribuiamo allo Spirito Santo la concezione di Gesù Cristo nel seno della Beata Vergine Maria dicendo: « Credo in Gesù Cristo, Figlio unico di Dio, nostro Signore, che è stato concepito dallo Spirito Santo. » Perché questo tipo di attribuzione, che si incontra frequentemente nella Scrittura, nei Padri, nei Simboli, nella liturgia? Per la manifestazione della fede: Ad manifestationem fidei risponde San Tommaso. (S. Th., I, q. XXXIX, A. 7). È, infatti, opportuno – aggiunge il Santo Dottore – appropriare alle Persone divine degli attributi essenziali per istruire i fedeli e portarli, per mezzo di queste verità naturalmente accessibili alla ragione, alla conoscenza di ciò che l’Apostolo chiama la profondità di Dio, profunda Dei (1 Cor. II, 10), cioè del mistero della sua vita intima e dei caratteri distintivi delle Persone. Indubbiamente, la Trinità è una verità così lontana dalla nostra portata, che è impossibile raggiungerla e dimostrarla solo con le forze del nostro spirito; e anche dopo che Dio si sia degnato di rivelarla a noi, essa rimane coperta da un velo impenetrabile e avvolta nell’oscurità, finché camminiamo lontani dal Signore.  Tuttavia, utilizzando le verità già acquisite, possiamo proiettare sui dati della fede come un fascio di luce che, illuminandoli di più, ci permetta di ottenere una maggiore comprensione e un’intelligenza molto fruttuosa. Per raggiungere questo risultato, non c’è niente di meglio che ricorrere o alle lontane somiglianze della Santissima Trinità che il Creatore ha impresso nelle sue opere sotto forma di vestigia o immagini, o all’analogia che esiste tra le proprietà particolari di questa o quella Persona e gli attributi essenziali che gli sono propri. (Conc. Vatic, Const. Dei Filius, c. IV.). Così, per far conoscere il Padre, gli attribuiamo la potenza, l’eternità, l’unità (S. Th., I, q. XXXIX, a. 8), perché queste perfezioni, sebbene comuni alle tre Persone, offrono una certa somiglianza con le proprietà personali del Padre. La potenza, infatti, essendo un principio, una fonte di operazione, si addice alla prima Persona della Trinità, che è essa stessa il principio, l’origine, la fonte dell’Essere divino. Essa gli si addice ancora di più sotto un altro aspetto, cioè per farci capire che, a differenza di quanto sta accadendo qui sulla terra, dove i nostri padri della terra perdono le forze man mano che invecchiano, il Padre celeste rimane eternamente onnipotente. L’eternità è anche giustamente appropriata al Padre, perché è come Lui senza principio. Quanto all’unità, che si riferisce ad un’entità assoluta e che non presuppone nulla, essa conviene parimenti a quella delle Persone divine, che non presuppongono nulla a loro volta, perché non procedono da null’altro. La saggezza, la bellezza, l’eguaglianza, sono proprie del Figlio (S. Th., I, q. XXXIX, a. 8): la sapienza, perché, procedendo per intelligenza come termine della conoscenza paterna, Egli stesso è la sapienza generata; la bellezza perché con la sua processione è l’immagine perfetta del Padre e lo splendore della sua sostanza; l’uguaglianza, infine, perché, come Verbo, Egli è consustanziale al Padre, essendo l’espressione adeguata della sua scienza. – Allo Spirito Santo attribuiamo l’amore, la bontà, la gioia (Ibid.): l’amore, perché lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio per mezzo dell’amore, come termine sussistente della loro reciproca dilezione; la bontà, perché questa perfezione, essendo la ragione e l’oggetto dell’amore, offre una sorprendente analogia con il carattere proprio della terza Persona; la gioia, perché, essendo, in virtù della sua stessa processione, frutto dell’amore unico ed infinito che il Padre e il Figlio si scambiano l’un l’altro come Bene  sovrano, Egli è loro gioia e loro felicità. – Quanto appena detto circa gli attributi essenziali vale anche per le opere esterne di Dio – operibus ad extra, come dice la Scuola – che, pur appartenendo allo stesso titolo alle tre Persone, in quanto provenienti da una potenza comune a loro per natura, sono tuttavia attribuite a volte all’una, a volte all’altra di loro, con lo scopo di farla conoscere meglio, grazie alla somiglianza che esiste tra tale operazione e il carattere distintivo di tale Persona. Così noi appropriamo al Padre la creazione e tutto ciò che porta l’impronta della potenza o le vestigia del Principio primo, al Figlio l’illuminazione delle intelligenze e tutto ciò che è primizia della sapienza; allo Spirito Santo le opere della bontà e dell’amore, le ispirazioni, i buoni sentimenti, la vita della grazia, i buoni movimenti spirituali, la vita della grazia, i doni spirituali, la remissione dei peccati, la santificazione delle anime, la filiazione adottiva, l’unabitazione di Dio in noi.  – « È molto a proposito – nota Leone XIII – che la Chiesa è accostumata ad attribuire al Padre le opere divine in cui risplende la potenza, al Figlio quelle in cui risplende la sapienza, allo Spirito Santo quelle in cui domina l’amore. Non che tutte i perfezionamenti e tutte le opere esterne non siano comuni alle tre Persone, perché le opere della Trinità sono indivisibili come l’essenza stessa della Trinità, essendo l’azione delle Persone divine inseparabili come la loro essenza (S. Aug„ de Trin., 1. I, c. IV e V); ma perché, in virtù di un certo confronto, e per così dire di un’affinità che si nota tra le opere e le proprietà delle persone, tale opera è attribuita o, come si dice, appropriata a tale Persona piuttosto che a tal’altra ». (Encicl. Divunum illud munus, Papa Leone XIII).

IV.

Sarebbe quindi sbagliato affermare che una perfezione, una funzione, un’operazione sia specifica dell’una o dell’altra Persona divina, con il pretesto specioso che gli venga costantemente attribuita nelle Lettere sante o negli scritti dei Padri. Spetta ai teologi discernere ciò che sia veramente proprio e personale, e ciò che sia semplicemente appropriato, sulla base degli insegnamenti della fede e dei principi teologici relativi all’unità dell’Essenza divina e alla distinzione delle Persone. Ora, con poche eccezioni, tutti i dottori concordano sul fatto che l’abitazione per mezzo della grazia e l’unione speciale di Dio con i giusti come oggetto della loro conoscenza e del loro amore, non sia una proprietà dello Spirito Santo, ma un’opera comune alle tre Persone e appropriata per giusti motivi ad una di esse (S. Th., qq. disp., De verit, q. XXVII, a. 2, ad 3.) Perché appartenga alla terza Persona, dovrebbe essere, ad esclusione delle altre due, o la causa efficiente della grazia e della carità, o almeno il termine diretto e immediato della conoscenza sperimentale e dell’amore di godimento da cui i Santi sono gratificati, in modo perfetto in cielo, e incoativamente quaggiù. Questo è cosa facile da stabilire.  Poiché la presenza di Dio negli esseri creati si basa, come abbiamo dimostrato in precedenza (cap. I), sulla sua operazione, è concepibile che se lo Spirito Santo esercitasse da qualche parte un’azione indipendente e personale; se, ad esempio, gli atti di carità prodotti dai giusti fossero la sua particolare opera, Esso esisterebbe in essi, come agente, in un modo che gli apparterrebbe in proprio. Lo stesso varrebbe se la grazia e la carità, sebbene prodotte da tutta la Trinità, ci unissero in modo speciale alla Persona dello Spirito Santo, come nostro fine, all’oggetto particolare della nostra conoscenza e del nostro amore. – Ma nessuna di queste ipotesi può essere sostenuta: la prima, perché va direttamente contro un principio universalmente accettato in teologia e più volte citato dai Concili, cioè che le opere esterne sono comuni a tutte e tre le Persone: Opera ad extra sunt tribes personis communia (Ex. Symb. fidei Conc. Tolet., XI.); il secondo, perché lo stato di grazia quaggiù, non più della gloria del cielo, non ha l’effetto di unirci particolarmente con l’una o l’altra delle Persone divine, ma con Dio considerato nell’unità della tua essenza e della Trinità delle sue Persone. Non è lo Spirito Santo come Persona distinta, bensì è l’Essenza divina che è il nostro ultimo fine, l’oggetto il cui vero, ma oscuro possesso, costituisce in questa vita l’anticipazione della nostra felicità, e la cui chiara visione deve un giorno renderci perfettamente beati e realizzati. Sia che si consideri nella sua causa efficiente, o si consideri nei suoi effetti, cioè nei rapporti di intima unione che stabilisce, come perfetta amicizia, tra Dio e l’anima, la grazia o la carità non trova un rapporto speciale tra lo Spirito Santo e noi; e l’unione di cui è il principio, appartiene ugualmente alle tre Persone. Tuttavia, sebbene comune a tutta la Trinità, l’inabitazione divina, essendo opera d’amore, conseguenza e frutto d’amore, è naturalmente attribuita a quella delle Persone che è in Dio l’Amore sussistente, come ben spiega il Catechismo del Concilio di Trento, « Anche se tutte le opere esterne – esso dice – siano comuni alle tre Persone, molte di esse sono attribuite come proprie dello Spirito Santo, per farci comprendere che esse provengono dall’immensa carità di Dio verso di noi. Infatti, poiché lo Spirito Santo procede dalla volontà divina infiammata d’amore, possiamo così riconoscere che gli effetti a Lui appropriati abbiano la loro fonte nell’amore sovrano di Dio verso di noi. » (Ex Catech. Rom., p. I, a. VIII, n. 8.) – Quando, dunque, la Scrittura o i Padri ci rappresentano lo Spirito Santo come l’Autore della grazia e della carità, e ospite delle nostre anime, invece di voler trovare in queste espressioni il segno manifesto di una causalità propria di questo Spirito divino, o l’indicazione di un’unione diretta e immediata con le nostre anime, che sarebbe personale con Lui, dovremmo vedere solo un’appropriazione basata sul rapporto di analogia che esiste tra i doni della grazia e la caratteristica dello Spirito Santo. È, infatti, del tutto naturale attribuire gli effetti dell’amore, come la grazia, la carità, l’inabitazione divina, a quella delle Persone divine che procede nella capacità di amare. Indubbiamente, è da tutta la Trinità che la virtù della carità proviene, come causa efficiente; senza dubbio, l’esemplare primordiale a cui ci assimila è, soprattutto, l’amore essenziale comune alle tre Persone; in altre parole, è Dio come carità assoluta; tuttavia, se consideriamo il carattere proprio di ciascuna delle Persone divine, è indiscutibile che la carità offre una maggiore analogia, una somiglianza più evidente con lo Spirito Santo che con il Padre e il Figlio. Che cos’è, infatti, la carità, se non un legame dolce e forte che ci unisce a Dio, un’inclinazione abituale che ci conduce a Lui, e quindi un’imitazione espressiva di quella tra le Persone divine che è, in virtù della sua stessa processione, l’amore del Padre e del Figlio, il nodo che li allaccia? Questo è ciò che l’Apostolo san Paolo ha voluto chiarire quando ha detto che « la carità è riversata nei nostri cuori dallo Spirito Santo, che ci è stato dato: Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum sanctum, qui datas est nobis. » (ROM. V, 5). – Tutta questa dottrina è stata mirabilmente riassunta da san Tommaso in poche e sostanziali frasi che meritano di essere menzionate: « È necessario sapere – egli dice – che i beni che ci vengono da Dio si riferiscono a Lui come causa efficiente ed esemplare: come causa efficiente, in quanto effetti della potenza divina; come causa esemplare, in quanto imitano, in una certa misura, le perfezioni che sono in Dio. Poiché il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno una sola potenza e una sola essenza, ne consegue che tutto ciò che Dio opera in noi proviene in realtà dalle tre Persone come sua causa efficiente; tuttavia, la consapevolezza che Dio ci dà di Sé anche attraverso il dono della sapienza è una giusta rappresentazione del Figlio; allo stesso modo, l’amore con cui amiamo Dio rappresenta lo Spirito Santo in particolare. Così, anche se la carità che è in noi, sia l’opera del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, si dice tuttavia che essa sia stata riversata in modo particolare nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo. (Rom. V, 5) » (S. Th., Contr. Gent., 1. IV, c. XXI.) – Questo è l’insegnamento di tutti gli scolastici, tale l’interpretazione che hanno costantemente dato ai testi i sostenitori dell’inabitazione propria dello Spirito Santo. Tutti dichiarano formalmente che non ci sia unione reale e immediata con la terza Persona della Santissima Trinità più che con il Padre e il Figlio. E, unendo la propria voce a quella dei rappresentanti più autorevoli della scienza teologica, il Sommo Pontefice Leone XIII canonizzava in un qualche modo, adottandolo, l’insegnamento comune della Scuola. Ecco, in effetti, come ha spiegato il punto controverso nella sua Enciclica Divinum illud munus: « Questa mirabile unione, chiamata col suo vero nome inabitazione, sebbene prodotta veramente da tutta la Trinità presente nell’anima, è tuttavia attribuita allo Spirito Santo, come se gli appartenesse in modo particolare, de Spiritu Sancto tamquam peculiaris prædicatur. Non è quindi specifico o personale, ma solo appropriato: tanquam peculiaris prædicatur è il termine consacrato per semplice appropriazione. Sarebbe quindi temerarietà in questo momento sostenere ulteriormente che l’inabitazione divina, di cui i Libri Santi parlano così spesso, sia proprietà della terza Persona, e non sia patrimonio comune di tutta la Santissima Trinità.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/02/20/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-8/

SALMI BIBLICI: “MISERICORDIAM ET JUDICIUM CANTABO TIBI” – (C)

SALMO 100: “MISERICORDIAMO ET JUDICIUM cantabo tibi”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR; 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 100

Psalmus ipsi David.

[1]  Misericordiam et judicium cantabo tibi, Domine; psallam,

[2] et intelligam in via immaculata: quando venies ad me? Perambulabam in innocentia cordis mei, in medio domus meæ.

[3] Non proponebam ante oculos meos rem injustam; facientes prævaricationes odivi, non adhaesit mihi

[4] cor pravum; declinantem a me malignum non cognoscebam.

[5] Detrahentem secreto proximo suo, hunc persequebar, superbo oculo, et insatiabili corde, cum hoc non edebam.

[6] Oculi mei ad fideles terræ, ut sedeant mecum; ambulans in via immaculata, hic mihi ministrabat.

[7] Non habitabit in medio domus meæ qui facit superbiam; qui loquitur iniqua non direxit in conspectu oculorum meorum.

[8] In matutino interficiebam omnes peccatores terræ, ut disperderem de civitate Domini omnes operantes iniquitatem.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO C.

Narra Davide le sue buone opere (che confessa doni di Dio), ad ammaestramento dei successori, e in prima del figlio. Col suo esempio egli spiega quale debba essere il principe verso i famigliari, verso la casa privata e verso lo Stato.

Salmo dello stesso Davide

1. Della misericordia e della giustizia, a te canterò laude, o Signore.

2. Le canterò, e studierò la via dell’innocenza; quando fìa che tu venga a me?

Io camminava nell’innocenza del cuor mio, in mezzo della mia casa. (1)

3. Io non mi proponeva mai cosa ingiusta; odiai quei che prevaricavano.

4. Non ebbi dimestichezza con uomo di cuor depravato; non conobbi il maligno, che si allontanava dalla mia strada.

5. Il detrattore segreto del suo prossimo, questo io lo perseguitava.

Con uomo di occhio superbo e di cuor insaziabile, con questo io non mi poneva a mensa.

6. Gli occhi miei son rivolti agli uomini fedeli del paese per farli sedere presso di me; miei ministri eran quelli che camminavano nell’innocenza.

7. Non abiterà nella mia casa colui che ha il tratto superbo; colui che parlava iniquamente, non trovò grazia dinanzi a me.

8. Al mattino io toglieva dalla terra i peccatori, affine di sterminare dalla città di Dio tutti quelli che operano l’iniquità.

(1) Si sa che nell’ebraico il futuro equivale spesso all’imperfetto; ma qui quest’ultimo tempo turberebbe l’armonia del salmo e sarebbe dunque meglio conservare il futuro con San Gerolamo e gli ebraizzanti, senza i versetti 2, 3, 5.

Sommario analitico

In questo salmo che si riconduce comunemente al tempo in cui Davide fu riconosciuto re da tutte le tribù (Questo sentimento si appoggia sul versetto 8, in cui Davide dichiara che sterminerà dalla città, che non essere che quella di Gerusalemme, tutti gli scellerati), e può essere considerato come il modello riassuntivo dei doveri di un re verso il suo popolo, di un pastore verso il suo gregge, di un superiore, di un capo o un padre di famiglia, Davide espone ciò che è stato (2):

I. In rapporto a Dio:

1° Cercando la sua gloria con l’esercizio della misericordia e della giustizia (1).

2° Implorando il suo soccorso e cioè: – a) Cantando le sue lodi nei sentimenti tutti interiori; – b) comprendendo on la prudenza ciò che deve fare (2).

II. – In rapporto al prossimo:

1° Nella condotta generale della vita, a) conservando l’innocenza del cuore, b) dando l’esempio delle virtù alle persone della sua casa (2);

2° Nei consigli, – a) non proponendosi mai delle cose ingiuste; – b) abbassando i prevaricatori; – c) non prendendo mai cattivi consiglieri (3); – d) abbandonando quelli tra i suoi amici che fanno il male (4);

3° Nei rapporti familiari: – a) perseguendo i calunniatori, soprattutto i calunniatori occulti (5);

4° Alla mensa, – a) allontanando dalla sua tavola i superbi e le persone dominate dalla cupidigia (6);

III. – E più particolarmente in rapporto a coloro che egli associa alla sua amministrazione:

1° Scegliendo uomini fedeli per farli sedere a lui vicino;

2° prendendo come servitori coloro che sono senza macchia (7);

3° Allontanando dalla sua corte tutti gli orgogliosi e coloro la cui bocca proferisce l’iniquità (7);

4° Punendo i malvagi in tutto il suo regno e bandendoli da tutte le città del popolo. 

Spiegazioni e Considerazioni

I. – 1, 2.

ff. 1. – Questo salmo è propriamente il salmo dei re e di tutti coloro che governano sotto di essi, in proporzione dell’estensione del loro potere; è per essi un regolamento della condotta, un ordine di coscienza privato. Conviene ancora più particolarmente ai Vescovi ed a tutti i Superiori ecclesiastici, che Gesù-Cristo associa alla sua regalità spirituale, così come al suo Sacerdozio. È l’arte di governare in tutti i sensi, che il salmista intende cantare. – I semplici fedeli vi ritrovano abbondanti istruzioni per se stessi. Essi vi vedono quali cure adottare per sottrarsi ai danni delle conversazioni e degli esempi del mondo, per non legarsi che con gli amici di Dio, per camminare con sicurezza nella notte di questo secolo, e meritare di presentarsi pieni di giusta fiducia nel gran giorno dell’eternità (Berthier). –  Ciò che contiene il primo versetto di questo salmo, dobbiamo ricercarlo nel salmo intero: « Signore, io celebrerò nei miei canti la vostra misericordia ed il vostro giudizio, » che nessuno presuma l’impunità a causa della misericordia di Dio, perché il Signore esercita anche la giustizia; ma d’altro canto, nessuno di coloro che si sono cambiati e migliorati abbia terrore del giudizio di Dio, perché la misericordia precede questo giudizio. In effetti gli uomini nei loro giudizi, si lasciano talvolta vincere dalla misericordia, ed agiscono contro giustizia, e si ritrova in essi la misericordia, ma non la giustizia; e talvolta, volendo rendere un giudizio rigoroso, essi perdono la misericordia. Ma Dio, pur usando le bontà della sua misericordia, non perde la severità del suo giudizio, ed anche nella severità del suo giudizio, Egli non perde la bontà della sua misericordia. Che se noi vogliamo distinguere nell’ordine dei tempi la misericordia ed il giudizio, forse troveremo che il Profeta non li abbia posti senza motivo nell’ordine che ha seguito, non dicendo: il giudizio e la misericordia, ma: « la misericordia ed il giudizio ». Se noi dunque distinguiamo queste due cose nei tempi che sono loro propri, forse troveremo che il tempo presente è quello della misericordia, e che il tempo avvenire è quello del giudizio. Quando vedete i giusti e gli ingiusti guardare lo stesso sole, gioire della stessa luce, bere le acque della stessa sorgente, essere nutriti dalla stessa pioggia, essere ricolmi degli stessi frutti della terra, respirare la stessa aria, possedere ugualmente i beni di questo mondo, astenetevi dal credere che Dio sia ingiusto dando tutte le cose egualmente ai giusti ed agli ingiusti. È il tempo della misericordia: non è ancora quello della giustizia! In effetti se Dio non si risparmiasse dapprima con la misericordia, non troverebbe nessuno da coronare con il giudizio. È dunque il tempo della misericordia, cosicché la pazienza di Dio conduca i peccatori alla penitenza (S. Agost.). – Dove sono coloro che vogliono che ciò sia derogare alla perfezione della contemplazione, il legarsi agli attributi divini, ai quali, essi dicono, bisogna preferire la contemplazione della sua essenza? E non sanno essi più che Gesù Cristo, nella più alta orazione, che si sia degnato di manifestarci, dice: « Padre mio Santo, Padre mio giusto? » Chi sa cosa sia l’essenza di Dio? Ma chi non sa o non debba sapere ciò che è la sua essenza che si adora sotto il nome di santità e di giustizia? Celebriamo dunque senza fine questi due attributi. Diciamo con Davide: « O Signore io canterò a voi misericordia e giustizia, » perché è come dire, con Gesù-Cristo ed in Gesù-Cristo : « Padre mio santo, Padre mio giusto. » (Bossuet, Méd. s. l’Ev., 2 S. LXVII, j.). – Dal momento che mi affiderete il ministero della vostra santa parola, o mio Dio, io predicherò queste due verità senza mai separarle; la prima, che Voi siete un Dio terribile nei vostri giudizi; ed la seconda che Voi siete il Padre delle misericordie ed il Dio di ogni consolazione. Io non sarò mai così temerario da predicare la vostra misericordia senza predicare la vostra giustizia, perché io conosco le conseguenze pericolose che deriverebbero dall’empietà; Ma mi farò pure un crimine il predicare i rigori della vostra giustizia senza parlare nello stesso tempo delle dolcezze della vostra misericordia, perché la fede mi insegna – e Voi stesso me lo avete rivelato – che la vostra misericordia salva i peccatori, o meglio che la vostra sola giustizia non possa che dannarli e riprovarli. – Io coniugherò dunque l’una e l’altra insieme per poter dire sempre, come Davide: « Signore, io canterò la vostra bontà ed i vostri giudizi. » (Boud.,  Sévér. de la Pénitence). – Il Profeta sembra avvertirci che dobbiamo cantare le lodi di Dio con intelligenza ed applicarci a conoscere il senso dei salmi che cantiamo, affinché il nostro spirito non si smarrisca e non resti senza frutto, allorché non sia la sola bocca a soddisfare il dovere di lodare Dio (S. Ger.). – Quando la nostra voce salmodia i canti che non possiamo comprendere, associamo almeno l’intenzione della Chiesa, nostra madre: noi sappiamo bene che preghiamo, e Dio prende la nostra preghiera come prende la preghiera di un bambino. – « Io camminavo nell’innocenza del mio cuore, etc. » Davide comincia col dirci ciò che era ai suoi occhi ed gli occhi di Dio; egli ci dirà in seguito ciò che era agli occhi degli altri e del popolo. Io camminavo in questa via, portando l’innocenza nel mio cuore; il mio cuore, il mio pensiero, la mia azione, appartenevano al bene; io difendevo il mio cuore dai cattivi pensieri e dai desideri perversi; io sapevo che la vita e la morte escono dal cuore. « … dal centro della mia casa. » Non basta contentarsi di questa testimonianza interiore del proprio cuore; molti sono irreprensibili esteriormente, sulla pubblica piazza; ma nella loro casa, nel loro interno, si macchiano di tutte le iniquità (Bellarm.).

ff. 2. – Colui che ama l’iniquità non cammina più, perché non ha più da camminare. In effetti, ogni malizia è un ceppo, la sola innocenza dà il via; solo essa offre una via libera da percorrere. « Io camminavo nell’innocenza del mio cuore, al centro della mia casa. » Ciò che il Profeta chiama il centro della casa, è: o la Chiesa nella quale cammina il Cristo, o il suo cuore, perché il nostro cuore è la nostra casa interiore. In questo senso, il Profeta non farebbe che spiegare ciò che sta per dire: « nell’innocenza del mio cuore. » Che cos’è l’innocenza del suo cuore? Il centro della sua casa. Chiunque ha nel suo cuore una casa cattiva, ne è costantemente rigettato fuori; perché colui che è oppresso nel suo cuore da una cattiva coscienza, è come un uomo che dovrebbe fuggire dalla casa in cui l’acqua vi penetrasse, o il fumo la rendesse inabitabile; egli non vi potrebbe restare; così l’uomo il cui cuore non è in pace, non può abitare volentieri nel suo cuore. Tali uomini escono da se medesimi con tutti gli sforzi del loro spirito, si riversano all’esterno, si compiacciono delle cose esteriori che riguardano il corpo; essi cercano il riposo nelle frivolezze, negli spettacoli, nelle dissolutezze, in tutti i disordini. Perché cercano la felicità al di fuori di se stessi? Perché non c’è il bene dentro di essi, essi non hanno di cosa rallegrarsi nella loro coscienza (S. Agost.).

II. — 3-6.

ff. 3. – Dopo aver considerato come l’atrio del palazzo ove abbiamo visto la misericordia, la giustizia, una gioia santa, una prudenza consumata, Dio stesso, presiedendo a tutto, ci ha fatto penetrare all’interno del palazzo. Ci resta ora da considerare Davide e tutto ciò che rappresenta, nell’esercizio delle loro funzioni pubbliche. Dall’innocenza del cuore, il Re-Profeta passa a quella degli occhi e delle mani. Egli ha allontanato i suoi occhi da ogni ingiustizia, sia nell’esercizio delle sue funzioni di giudice sovrano riguardo ai suoi soggetti, sia nella distribuzione degli impieghi e degli onori.

ff. 4. – Vegliare sui propri occhi, sul proprio cuore, sui propri passi, sono tre doveri essenziali nell’affare della salvezza. Il Profeta prende questi tre obblighi in un senso molto esteso. Non solo bada ai suoi occhi per allontanarli da oggetti criminosi, ma non soffre in sua presenza di nulla che possa compromettere la purezza della propria anima; egli evita allo stesso modo i discorsi o le azioni che possano essere sorgente di peccato; egli detesta tutti coloro che commettono l’ingiustizia (Berthier). – «Io non mi proponevo davanti agli occhi cose cattive o ingiuste. » Cosa significano queste parole? Io non lo amavo? In effetti, è costume il dire parlando di un uomo che ne ama un altro: non ho che lui davanti agli occhi; e di colui che si disprezza ci si lamenta ordinariamente in questi termini: egli non getta gli occhi su di me. Cos’è dunque aver davanti agli occhi? È amare. Cos’è non amare? È non essere là con il cuore. Di conseguenza, dicendo: « … io non avevo dinanzi agli occhi cose cattive, » il profeta ha detto: io non amavo cose cattive. Egli espone in seguito qual sia questa cosa cattiva ed ingiusta, dicendo: io ho odiato i prevaricatori. » Se camminate con il Cristo al centro della casa, cioè: se riposate nel vostro cuore, o se camminate nella Chiesa nella via pura e senza macchia, voi non dovete solo odiare i prevaricatori esterni, ma anche i prevaricatori che trovate al di dentro. Quali sono i prevaricatori? Coloro che odiano la legge di Dio, coloro che non la intendono e non la praticano son chiamati prevaricatori. Odiate coloro che sono colpevoli di prevaricazione; cacciateli lontano da voi. Ma voi dovete odiare i prevaricatori e non gli uomini. Voi vedete che un uomo prevaricatore ha due nomi: quello dell’uomo e quello del prevaricatore. Dio ha fatto l’uomo, e l’uomo si è fatto da se stesso prevaricatore; amate in lui ciò che Dio ha fatto, perseguite in lui ciò che egli stesso ha fatto, e ciò che Dio ha fatto viene fuori. (S. Agost.). –  Il più grande elogio che si possa fare di un uomo virtuoso, è dire che i malvagi non osano comparire in sua presenza. – Non ammettere alla nostra amicizia coloro il cui cuore è corrotto; non permettere loro di attaccarsi a voi. – Bisogna allontanarsi dalla loro compagnia quanto essi si allontanano da noi per i loro costumi, e trattarli come persone da non conoscere (Duguet). –  « Io non conoscevo colui la cui condotta maligna allontanava da me. » Che significa: « Io non lo conoscevo? » … Io non lo approvo, non lo lodavo, non mi piaceva … è in questo senso che Dio – che tutto conosce – dirà tuttavia a certi uomini alla fine dei secoli: « Io non vi conosco; » (Matt. VII, 23); io non vi riconoscono come conformi alla mia regola. Io conosco in effetti la regola della mia giustizia; voi non siete conformi a questa regola, voi avete deviano da essa, non siete retti. È in questo senso che il profeta dice qui: « … io non lo conoscevo. » – Il profeta parla così perché il malvagio, quando per caso incontra il giusto in un sentiero stretto, dice ciò che è scritto nel libro della Sapienza: « la sola sua vista ci è insopportabile, » (Sap. II, 15); e cambia il suo cammino per non vederlo. Ma quando non ci sono malvagi che vediamo e che ci vedono, che non solo non si allontanano da noi, ma corrono verso di noi, e talvolta vogliono farci essere asserviti al compimento delle loro iniquità, come si allontanano da voi? Costui si allontana da voi e non si unisce a voi. Che vuol dire: si allontana da voi? Non vi segue, e che vuol dire: egli non vi segue? Egli non vi imita. Di conseguenza queste parole: « … quando il malvagio si allontana da me, » significano; quando il malvagio non mi assomiglia, quando rifiuta di seguire le mie vie, quando rifiuta di vivere come me, egli che mi proponeva la sua imitazione, « … io non lo conosco, », non che quest’uomo mi era sconosciuto, ma che io non lo approvavo. (S. Agost.). – Ogni maldicenza è un gran male, ancor più la maldicenza fatta in segreto, che toglie a colui che ne è l’oggetto, il mezzo di giustificarsi. – Non solo noi non dobbiamo dare il nostro consenso, la nostra approvazione alla maldicenza, ma noi dobbiamo perseguire il suo autore, proponendoci un doppio fine, di non ascoltarlo volentieri e non permettergli una colpevole maldicenza. (S. Gerol.). – Lo Spirito Santo compara coloro che maledicono in segreto a dei serpenti che mordono senza fare rumore (Eccl. X). Essi chiedono il segreto a tutti, e non vedono – dice S. Crisostomo – che è proprio questo che li rende disprezzabili; perché domandare a colui al quale ho fatto confidenza della mia maldicenza che mantenga il segreto, è propriamente confessargli la mia ingiustizia; è come dirgli: siate più saggio e più caritatevole di me; io sono un maldicente, non lo siate anche voi; parlandovi di questa persona, io offendo la carità; non seguite il mio esempio! Così Davide, che fu un principe così illuminato, non aveva tanto orrore della maldicenza quanto del segreto della maldicenza. Io avevo pietà – egli diceva – di coloro che per il calore e la passione erompono in maldicenze, anche se oltraggiose ed atroci; ma se vedo qualcuno che ispira segretamente il veleno della sua malignità, mi sento animato dallo zelo dell’indignazione, e mi sembra che sia mio dovere il perseguitarlo e confonderlo. (Bourd.,  sur la Médis.). –  Perché dunque il Signore ha mangiato con gli orgogliosi? Io non dico con i pubblicani ed i peccatori, perché costoro erano umili, essi conoscevano la loro malattia e cercavano il medico; ma noi vediamo che il Signore ha mangiato con i farisei e gli orgogliosi. Perché dunque per bocca del profeta ci dice: « Io non prendevo i miei pasti con l’uomo dall’occhio superbo? » Perché dunque proporci ciò che Egli non fa, mentre ci esorta ad imitarlo? Noi ci asteniamo da questi tipi di rapporto con i nostri fratelli, quando invece è il caso di riprenderli, e noi non partecipiamo ai loro pasti perché si correggano. Noi mangiamo con degli estranei, con dei pagani, piuttosto che con coloro che sono dei nostri, se vediamo che essi vivono nel disordine, affinché arrossiscano e si correggano. È quanto noi facciamo spesso per la guarigione di altri; ma quanto agli estranei e agli empi, essi sono spesso seduti alla stessa nostra tavola (S. Agost.).

ff. 5. – Che vuol dire ancora questa parola del Profeta: « io non prendevo i miei pasti con l’uomo dall’occhio orgoglioso e dal cuore insaziabile? » Il cuore pio ha i suoi festini, il cuore superbo ha pure i suoi; perché facendo allusione alla maniera di cui si nutre il cuore orgoglioso come il Profeta ha detto: « il loro cuore insaziabile. » Di cosa si nutre il cuore insaziabile? Se è orgoglioso è invidioso; non può essere altrimenti. L’orgoglio è il padre dell’invidia; non può non generarla e sempre ne è accompagnata. Ogni orgoglioso è dunque invidioso; se è invidioso si nutre del male altrui. È ciò che fa dire all’Apostolo: « Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! (Galat. V, 15) » Voi vedete degli orgogliosi a tavola, astenetevi dal porvi accanto a loro; fuggite questo tipo di festini. Essi non possono provare che gioia per il male altrui, perché il loro cuore è insaziabile. Badate di non farvi coinvolgere nei loro festini, nei lacci del demonio (S. Agost.).

III. — 6-8

ff. 6. – Dovere indispensabile dei principi e di tutti i superiori, a qualunque ordine essi appartengano, è servirsi dei propri occhi per vedere le cose da se medesimi, perché ne renderanno conto a Dio. – Non potendo tutti vedere da se medesimi, essi pongono gli occhi su uomini di una probità ed una fedeltà riconosciuta (Dug.). Spesso non ci si preoccupa che della loro abilità, della loro fedeltà e non si vede che questi uomini, ai quali si affida una parte così importante dell’autorità sovrana, perdono gli altri e perdono se stessi con l’esempio di una vita depravata. – « Colui che marciava nella via pura e senza macchia mi ha servito. » Egli mi ha servito – egli dice – e non si è servito egli stesso. In effetti molti sono i ministri del Vangelo; ma essi lo sono per se stessi, perché cercano il proprio interesse e non quello del Cristo (Filipp. II, 24). Che cos’è dunque il servire il Cristo? È cercare gli interessi del Cristo! Tuttavia, quando dei malvagi annunziano il Vangelo, gli altri sono salvati, ma essi sono puniti. In effetti Egli, Gesù, ha detto: « Fate ciò che essi dicono e non fate ciò che essi fanno. » (Matt. XXIII, 3). Non temete dunque nulla anche quando ascoltate predicare il Vangelo da un malvagio. Guai a chi serve il Cristo per se stesso, ma accettate ciò che viene dal Cristo. (S. Agost.). – Davide considera come uno dei più grandi vantaggi del suo regno, vedere seduti anche presso di lui degli uomini giusti e fedeli; tra tutti i favori che aveva ricevuto dal Dio dei suoi padri, non erano le sue vittorie e le sue prosperità le cose da cui era più ammirato: era la virtù e la giustizia dei soggetti che presiedevano ai suoi consigli e che circondavano il suo trono, e la pietà dei Nathan e dei Cusai gli parve la caratteristica più sensibile della protezione del Signore su di lui, che non la conquista di Gerusalemme o le spoglie delle nazioni nemiche osannanti alla sua gloria. Un uomo giusto è un dono del cielo, ed i grandi soprattutto non saprebbero onorare troppo la virtù, perché la potenza non può dare loro che dei soggetti, ma la virtù sola dà loro degli amici fedeli e sinceri (Massill., Mélange des bons, etc.).

ff. 7, 8. – La casa di coloro che sono depositari dell’autorità non deve essere mai aperta a questi superbi, a questi insolenti che opprimono i deboli con le loro calunnie e le loro imposture. – Noi possiamo così riportare al cuore, ciò che è detto della casa. Colui che pratica l’orgoglio non ha abitato nel suo cuore; nessuno di coloro che gli somigliano non ha abitato nel mio cuore; l’orgoglioso non vi ha abitato, perché l’ingiusto non abita nel cuore di un giusto. Il giusto, anche quando sarà separato da voi da grandi distanze, abita con voi, se voi non avete che un cuor solo. (S. Agost.). –   

La preoccupazione di un re saggio, e di ogni uomo che Dio ha posto alla testa dei suoi simili, è quella di proteggere la vita dei buoni dagli attacchi, ed i loro costumi  dagli scandali dei malvagi. « Fin dal mattino – egli dice – prima che il male abbia gettato radici profonde, io facevo sparire dalla terra tutti coloro la cui vita era dannosa per i loro fratelli. – Fin dal mattino, mettevo a morte tutti i peccatori della terra. » Queste parole richiudono evidentemente un senso misterioso; perché il Profeta non vuole dire che egli lavava le sue mani ad ogni levarsi dell’aurora spargendo il sangue umano; questa interpretazione sarebbe tanto assurda quanto poco credibile. La città del Signore, è l’edificio spirituale che ogni uomo costruisce in se stesso; i peccatori della terra sono coloro dei quali il Salvatore ha detto: « … è dal cuore che escono i cattivi pensieri, le invidie, gli adulteri, le rapine, le false testimonianze ed altri vizi simili. » Colui che purifica il suo cuore scaccia con il pensiero di Dio, dall’edificio spirituale che egli costruisce, questi peccatori della terra che escono dalla carne terrestre e corrotta. I primi fuochi dell’aurora nascono in un’anima nello stesso tempo in cui una verità salutare comincia ad illuminare quest’anima ove occorre distruggere e sterminare tutti i pensieri colpevoli; perché se non si prende cura  di sopprimere questi primi movimenti che portano al male, il pensiero sarà ben presto seguito dall’atto cattivo. Così ad esempio, un pensiero di adulterio è uno di questi peccatori della terra; se non tagliate e non sterminate questo pensiero dalla vostra anima come con una spada, e non lo tranciate fin dal mattino, cioè appena si produce, esso vi condurrà lontano, e dal semplice pensiero del crimine, sarete condotto a consumare il crimine stesso (S. Basil., in Isai. V). – Questo ultimo versetto ci trasporta anche a questo grande e terribile giorno in cui Gesù-Cristo farà brillare sul mondo intero la sua misericordia e la sua giustizia. Il tempo di questa vita è come il tempo della notte rispetto all’altro mondo, ove tutte le cose apparirebbero come in pieno giorno. In questo tempo, Dio usa misericordia e risparmia i peccatori per invitarli a convertirsi; ma verrà il mattino, l’inizio dell’eternità in cui Egli ucciderà con il soffio della sua bocca e con l’arresto di una maledizione irrevocabile, tutti i peccatori della terra, ed impedirà che la sua città santa sia macchiata da nessuno di coloro che si troveranno colpevoli di iniquità. (S. Agost.)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: GREGORIO XVI – “INTER EA”

Eccoci qui a leggere l’ennesima Lettera Enciclica scritta da un Sommo Pontefice per protestare contro l’indebita appropriazione di beni ecclesiastici sottratti vilmente ad enti monastici e strutture cattoliche senza nessun valido motivo, se non quello della distruzione del culto divino che tanto fastidio provocava presso i settari dell’epoca, ed i loro burattini, i politici opportunamente pilotati e manovrati da empi burattinai servi del demonio. È la solita storia degli attacchi e delle persecuzioni, oggi ancor più in piena attuazione, che l’antico serpente, spodestato dalla venuta di Cristo e dalla istituzione della sua santa Chiesa, muove verso i seguaci fedeli Cristiani, ed in particolare nei confronti dei legittimi rappresentanti dell’Autorità apostolica e, quando possibile, direttamente verso il suo Capo, il Vicario di Cristo in terra. Attualmente il problema non si pone neanche più, perché i “grembiulini” hanno infiltrato e demolito dall’interno quasi tutto ciò che era possibile – e dalla base – per cui non c’è bisogno di farsi notare con azioni clamorose come all’epoca; il lavoro “perfetto” è stato già portato a termine il 26 ottobre del 1958, – con l’insediamento di un massone 33° al posto del Santo Padre canonicamente eletto (Simon Mago al posto di Simon Pietro!) – e da qui in poi il “serpentone maledetto”, tramite i suoi accoliti servi in talare o glergymen che si voglia,  sta vomitando un torrente di eresie e di abomini antidottrinali, antiliturgici, anticanonici, tutti miranti alla distruzione delle società e delle nazioni cattoliche, ed alla dannazione eterna delle singole anime. Leggiamo dunque questo breve documento anche per avere un’idea sull’inizio della “ruspa” diabolica che vorrebbe, si fieri potest, distruggere, eliminandola, la Chiesa di Gesù Cristo, il Figlio di Dio incarnato. Peccato per loro, che non abbiano messo in conto …

l’Ipsa conteret caput tuum!

Gregorio XVI

Inter ea

Tra i motivi che da tempo Ci rendono ansiosi e solleciti (mentre incombono i doveri del supremo apostolato) non occupano certamente l’ultimo posto i decreti promulgati da diversi governi di codeste regioni a danno dei conventi, di cui alcuni sono stati addirittura aboliti, dopo aver aggiudicato alla Repubblica i beni ad essi appartenenti o averli svenduti all’asta o averli temerariamente destinati ad altri usi. E accadde un fatto ancor più penoso per il nostro cuore: nel compiere, o piuttosto nel perpetrare, tali abusi, ebbero parte anche uomini cattolici, senza tenere in alcun conto i diritti dell’autorità ecclesiastica e di questa Santa Sede e disdegnando le pene e le censure che le Costituzioni Apostoliche e i Concili Ecumenici, soprattutto il Concilio Tridentino infliggono ipso facto a coloro che non si peritano di compiere tali azioni. Inoltre non è necessario spiegare a molti quanto gravemente si sia peccato contro la Religione e contro lo stesso interesse temporale dei popoli procedendo in tal modo. Nessuno infatti ignora quanto ovunque, e quanto soprattutto in Svizzera, siano grandi i meriti monastici, fondati sia sulla promozione del culto divino, sia sulla cura delle anime, sia sulla educazione della gioventù alla pietà e alle buone opere, sia infine sull’instancabile soccorso dei poveri con ogni genere di aiuto. Invero, Noi, non appena conoscemmo il fatto con grande sofferenza dell’animo, non indugiammo affatto nel protestare, attraverso il Nunzio Nostro e di questa Sede Apostolica, sostenendo l’inviolabilità dei monasteri, dei diritti e dei beni dei quali essi godono: inviolabilità peraltro sancita con pubblico patto. Tuttavia non poco sollievo al Nostro dolore recò il comportamento adottato da numerose amministrazioni di codesti villaggi che, ottimamente disposti verso la Religione, la Chiesa e le istituzioni monastiche, non solo si opposero tosto ad ogni funesta decisione, ma per di più, collegandosi nello zelo, non mancarono di resistere apertamente alla vendita dei beni spettanti a quelle istituzioni. Perciò non tralasciamo di compensare con meritate lodi la loro virtù, esortandole contemporaneamente a che, nel nome dell’avita devozione e fedeltà alla Chiesa e a questa Apostolica Sede, siano tenacemente coerenti col santo proposito e insistano con il più ardente zelo a favorire e a patrocinare la sacra causa. -Per la verità le richieste avanzate a Nostro nome non conseguirono lo stesso risultato presso le amministrazioni di altri villaggi, assiduamente impegnate (come è stato riferito) a condurre a termine l’intrapresa, scellerata azione contro le dimore religiose, i loro diritti e le loro proprietà. – Questa è stata la causa, Venerabili Fratelli, per la quale vorremmo rivolgerci a Voi con questa lettera. Pur non dubitando affatto, e anzi avendo appurato che Voi, in tale affare, non siete mai venuti meno ai doveri del vostro ministero, tuttavia, memori del compito che per ispirazione divina Ci induce a dirigere e ad infiammare i fratelli, perché siano tutelati i beni che sono di Dio e della Chiesa, manifestiamo più apertamente a Voi il Nostro pensiero circa la stessa gravissima questione. Pertanto, di nuovo riprovando e vivamente deplorando i predetti decreti promulgati dal potere laico per sopprimere costà non pochi monasteri e relative comunità religiose, richiamiamo alla memoria di ciascuno che le alienazioni di beni e di diritti ad essi pertinenti (sia avvenute finora, sia che avverranno in futuro) senza il consenso della Nostra autorità e della Santa Sede, sono da considerare nulle e vane al cospetto della Chiesa in base alle sanzioni canoniche; pertanto decretiamo che tali debbano essere tassativamente considerate. Di conseguenza sarà vostro compito rifiutare ad essi ogni aiuto o condiscendenza e insieme, con quella singolare prudenza per la quale siete tanto accreditati, avvertire sollecitamente coloro ai quali, in forza delle illegittime alienazioni suddette, siano pervenuti o stiano per pervenire quegli stessi beni, che nessuno di essi può con tranquilla coscienza conservare la proprietà ricevuta, né riceverla in seguito. D’altra parte viviamo nella ferma speranza che soprattutto i Cattolici che hanno cooperato a proporre e ad applicare i decreti più volte ricordati, esaminata attentamente la questione al cospetto di Dio, tosto recedano (come giova crederlo) dalla via temeraria che hanno imboccato. E più e più Ci affidiamo al Signore affinché voi, Venerabili Fratelli, vi dedichiate per parte vostra a questo scopo con tutto l’impegno di pazienza e di carità pastorale. – Infine, invocando dal Signore gran copia di aiuto celeste per voi tutti, e che Egli sia auspice del desiderato evento e testimone della Nostra paterna benevolenza, impartiamo amorosamente l’Apostolica Benedizione a ciascuno di voi, da trasmettere al gregge affidatovi.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 1 aprile 1842, anno dodicesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA DI SESSAGESIMA (2020)

DOMENICA DI SESSAGESIMA 2020

Stazione a S. Paolo fuori le mura.

Semidoppio Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

Come l’ultima Domenica, e come le Domeniche seguenti, fino a quella della Passione, la Chiesa « ci insegna a celebrare il mistero pasquale, a traverso le pagine dell’uno e dell’altro Testamento ». Durante tutta questa settimana, il Breviario parla di Noè. Vedendo Iddio che la malizia degli uomini sulla terra era grande, gli disse: « Sterminerò l’uomo che ho creato… Costruisciti un’arca di legno resinoso. Farò alleanza con te e tu entrerai nell’arca ». E le acque si scatenarono allora sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. L’arca galleggiava sulle onde che si elevarono sopra le montagne, coprendole. Tutti gli uomini furono trasportati come festuche nel turbine dell’acqua » (Grad.). Non rimase che Noè e quelli che erano con lui nell’arca. Dio si ricordò di Noè e la pioggia cessò. Dopo qualche tempo Noè apri la finestra dell’arca e ne fece uscire una colomba che ritornò con un ramoscello freschissimo di ulivo. Noè comprese che le acque non coprivano più la terra. Dio gli disse: « Esci dall’arca e moltiplicati sulla terra ». Noè innalzò un altare e offri un sacrificio. E l’odore di questo sacrificio fu grato a Dio (Com.). L’arcobaleno apparve come un segno di riconciliazione fra Dio e gli uomini. – Questo racconto si riferisce al mistero pasquale poiché la Chiesa ne fa la lettura il Sabato Santo. Ecco come Essa l’applica, nella liturgia, a nostro Signore e alla sua Chiesa. « La giusta collera del Creatore sommerse il mondo colpevole nelle acque vendicatrici del diluvio, Noè solo fu salvo nell’arca; di poi l’ammirevole potenza dell’amore lavò l’universo nel sangue [Inno della festa del prezioso Sangue]. È il legno dell’arca che salvò il genere umano, e quello della croce, a sua volta, salvò il mondo. « Sola, dice la Chiesa, parlando della croce, sei stata trovata degna di essere l’arca che conduce al porto il mondo naufrago » [Inno della Passione]. La porta aperta nel fianco dell’arca, per la quale sarebbero entrati quelli che dovevano sfuggire al diluvio e che rappresentavano la Chiesa, è, come spiega la liturgia, una figura del mistero della redenzione, perché sulla croce Gesù ebbe il costato aperto e da questa porta di vita, uscirono i Sacramenti che donano la vera vita alle anime. Il sangue e l’acqua che ne uscirono sono i simboli dell’Eucaristia e del Battesimo » [7a lettura nella festa del prezioso Sangue].  « O Dio, che, lavando con le acque i delitti del mondo colpevole, facesti vedere nelle onde del diluvio una immagine della rigenerazione, affinché il mistero di un solo elemento fosse e fine ai vizi e sorgente di virtù, volgi lo sguardo sulla tua Chiesa e moltiplica in essa i tuoi figli, aprendo su tutta la terra il fonte battesimale per rigenerarvi le nazioni » [Benedizione del fonte battesimale nel Sabato Santo]. Ai tempi di Noè dice S. Pietro, otto persone furono salvate dalle acque; a questa figura corrisponde il Battesimo che ci salva al presente » [Epistola del Venerdì di Pasqua]. — Quando il Vescovo benedice, nel Giovedì Santo, l’olio che si estrae dall’ulivo e che servirà per i Sacramenti, dice: « Allorché i delitti del mondo furono espiati mediante il diluvio, una colomba annunziò la pace alla terra per mezzo di un ramo di Ulivo che essa portava, simbolo dei favori che ci riservava l’avvenire. Questa figura si realizza oggi, quando, le acque del Battesimo avendo cancellati tutti i nostri peccati, l’unzione dell’olio dona alle nostre opere bellezza e serenità ». Il sangue di Gesù è « il sangue della nuova alleanza » che Dio concluse per mezzo del suo Figlio con gli uomini. «Tu hai voluto, dice la Chiesa, che una colomba annunziasse con un ramoscello di ulivo la pace alla terra ». Spesso nella Messa, che è il memoriale della Passione, si parla della pace: « Pax Domini sit semper vobiscum ». « Il sacramento pasquale, dirà l’orazione del Venerdì di Pasqua, suggella la riconciliazione degli uomini con Dio». Noè è in modo speciale il simbolo del Cristo a causa della missione affidatagli da Dio di essere « il padre di tutta la posterità » (Dom. di settuag., 6a lettura). Di fatti Noè fu il secondo padre del genere umano ed è il simbolo della vita rinascente. « I rami d’ulivo, dice la liturgia, figurano, per le loro fronde, la singolare fecondità da Dio accordata a Noè uscite dall’arca » (Benediz. Delle Palme). Per questo l’arca è stata chiamata da S. Ambrogio, nell’ufficio di questo giorno, « seminario » cioè il luogo che contiene il seme della vita che deve riempire il mondo. Ora, ancora più di Noè, Cristo fu il secondo Adamo che popolò il mondo di una generazione numerosa di anime credenti e fedeli a Dio. Ed è per questo che l’orazione dopo la 2a profezia, consacrata a Noè il Sabato Santo, domanda al Signore ch’Egli compia, nella pace, l’opera della salute dell’uomo decretata fin dall’eternità, in modo che il mondo intero esperimenti e veda rialzato tutto ciò che era stato abbattuto, rinnovato tutto ciò che era divenuto vecchio, e tutte le cose ristabilite nella loro primiera integrità per opera di colui dal quale prese principio ogni cosa, Gesù Cristo Signor nostro » Per i neofiti della Chiesa — dice la liturgia pasquale — (poiché è a Pasqua che si battezzava) la terra è rinnovellata e questa terra così rinnovellata germinat resurgentes, produce uomini risorti » (Lunedi di Pasqua. Mattutino monastico). In principio, è per mezzo del Verbo, cioè della sua parola, che Dio creò il mondo (ultimo Vangelo). Ed è con la predicazione del suo Vangelo che Gesù viene a rigenerare gli uomini. « Noi siamo stati rigenerati, dice S. Pietro, con un seme incorruttibile, con la parola di Dio che vive e rimane eternamente. E questa parola è quella per la quale ci è stata annunziata la buona novella (cioè il Vangelo) » (S. Pietro, I, 23). Questo ci spiega perché il Vangelo di questo giorno sia quello del Seminatore, (« la semenza è la parola di Dio »). » Se ai tempi di Noè gli uomini perirono, ciò fu a causa della loro incredulità, dice S. Paolo, mentre mediante là sua fede Noè si fabbricò l’Arca, condannò il mondo e diventò erede della giustizia, che viene dalla fede» (Ebr. XI, 7). Così quelli che crederanno alla parola di Gesù saranno salvi. S. Paolo dimostra, nell’Epistola di questo giorno, tutto quello che ha fatto per predicare la fede alle nazioni. L’Apostolo delle genti è infatti il predicatore per eccellenza. Egli è il « ministro del Cristo » cioè colui che Dio scelse per annunziare a tutti i popoli la buona novella del Verbo Incarnato. « Chi mi concederà – dice S. Giovanni Crisostomo, – di andare presso la tomba di Paolo per baciare la polvere delle sue membra nelle quali l’Apostolo compì, con le sue sofferenze, la passione di Cristo, portò le stimmate del Salvatore, sparse dappertutto, come una semenza, la predicazione del Vangelo? » (Ottava dei SS. Apostoli Pietro e Paolo – 4 luglio). La Chiesa di Roma realizza questo desiderio per i suoi figli, celebrando, in questo giorno, la stazione nella Basilica di S. Paolo fuori le mura.

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLIII: 23-26

Exsúrge, quare obdórmis, Dómine? exsúrge, et ne repéllas in finem: quare fáciem tuam avértis, oblivísceris tribulatiónem nostram? adhaesit in terra venter noster: exsúrge, Dómine, ádjuva nos, et líbera nos. [Risvégliati, perché dormi, o Signore? Déstati, e non rigettarci per sempre. Perché nascondi il tuo volto diméntico della nostra tribolazione? Giace a terra il nostro corpo: sorgi in nostro aiuto, o Signore, e líberaci.]

Ps XLIII: 2 – Deus, áuribus nostris audívimus: patres nostri annuntiavérunt nobis. [O Dio, lo udimmo coi nostri orecchi: ce lo hanno raccontato i nostri padri.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui cónspicis, quia ex nulla nostra actióne confídimus: concéde propítius; ut, contra advérsa ómnia, Doctóris géntium protectióne muniámur. – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

[O Dio, che vedi come noi non confidiamo in alcuna òpera nostra, concédici propizio d’esser difesi da ogni avversità, per intercessione del Dottore delle genti. – Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. – Amen.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

2 Cor XI: 19-33; XII: 1-9.

“Fratres: Libénter suffértis insipiéntens: cum sitis ipsi sapiéntes. Sustinétis enim, si quis vos in servitútem rédigit, si quis dévorat, si quis áccipit, si quis extóllitur, si quis in fáciem vos cædit. Secúndum ignobilitátem dico, quasi nos infírmi fuérimus in hac parte. In quo quis audet, – in insipiéntia dico – áudeo et ego: Hebraei sunt, et ego: Israelítæ sunt, et ego: Semen Abrahæ sunt, et ego: Minístri Christi sunt, – ut minus sápiens dico – plus ego: in labóribus plúrimis, in carcéribus abundántius, in plagis supra modum, in mórtibus frequénter. A Judaeis quínquies quadragénas, una minus, accépi. Ter virgis cæsus sum, semel lapidátus sum, ter naufrágium feci, nocte et die in profúndo maris fui: in itinéribus sæpe, perículis fluminum, perículis latrónum, perículis ex génere, perículis ex géntibus, perículis in civitáte, perículis in solitúdine, perículis in mari, perículis in falsis frátribus: in labóre et ærúmna, in vigíliis multis, in fame et siti, in jejúniis multis, in frigóre et nuditáte: præter illa, quæ extrínsecus sunt, instántia mea cotidiána, sollicitúdo ómnium Ecclesiárum. Quis infirmátur, et ego non infírmor? quis scandalizátur, et ego non uror? Si gloriári opórtet: quæ infirmitátis meæ sunt, gloriábor. Deus et Pater Dómini nostri Jesu Christi, qui est benedíctus in saecula, scit quod non méntior. Damásci præpósitus gentis Arétæ regis, custodiébat civitátem Damascenórum, ut me comprehénderet: et per fenéstram in sporta dimíssus sum per murum, et sic effúgi manus ejus. Si gloriári opórtet – non éxpedit quidem, – véniam autem ad visiónes et revelatiónes Dómini. Scio hóminem in Christo ante annos quatuórdecim, – sive in córpore néscio, sive extra corpus néscio, Deus scit – raptum hujúsmodi usque ad tértium coelum. Et scio hujúsmodi hóminem, – sive in córpore, sive extra corpus néscio, Deus scit:- quóniam raptus est in paradisum: et audivit arcána verba, quæ non licet homini loqui. Pro hujúsmodi gloriábor: pro me autem nihil gloriábor nisi in infirmitátibus meis. Nam, et si volúero gloriári, non ero insípiens: veritátem enim dicam: parco autem, ne quis me exístimet supra id, quod videt in me, aut áliquid audit ex me. Et ne magnitúdo revelatiónem extóllat me, datus est mihi stímulus carnis meæ ángelus sátanæ, qui me colaphízet. Propter quod ter Dóminum rogávi, ut discéderet a me: et dixit mihi: Súfficit tibi grátia mea: nam virtus in infirmitáte perfícitur. Libénter ígitur gloriábor in infirmitátibus meis, ut inhábitet in me virtus Christi.”

Omelia I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

 “Fratelli: Saggi come siete, tollerate volentieri gli stolti. Sopportate, infatti, che vi si renda schiavi, che vi si spolpi, che vi si raggiri, che vi si tratti con arroganza, che vi si percuota in viso. Lo dico per mia vergogna: davvero che siamo stati deboli su questo punto. Eppure di qualunque cosa altri imbaldanzisce (parlo da stolto) posso imbaldanzire anch’io. Sono Ebrei? anch’io; sono Israeliti? anch’io; discendenti d’Abramo? anch’io. Sono ministri di Cristo? (parlo da stolto) ancor più io. Di più nelle fatiche; di più nelle prigionie: molto di più nelle battiture; spesso in pericoli di morte. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno. Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta lapidato. Tre volte ho fatto naufragio, ho passato un giorno e una notte nel profondo del mare. In viaggi continui tra pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli da parte dei mei connazionali, pericoli da parte dei gentili, pericoli nelle città, pericoli del deserto, pericoli sul mare, pericoli tra i falsi fratelli; nella fatica e nella pena; nelle veglie assidue; nella fame e nella sete; nei digiuni frequenta nel freddo e nella nudità. E oltre le sofferenze che vengono dal di fuori, la pressione che mi si fa ogni giorno, la sollecitudine di tutte le Chiese. Chi è debole, senza che io ancora non sia debole? Chi è scandalizzato, senza che io non arda? Se bisogna gloriarsi, mi glorierò della mia debolezza. E Dio e Padre del nostro Signor Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco il governatore del re Areta, faceva custodire la città dei Damascesi per impadronirsi di me. E da una finestra fui calato in una cesta lungo il muro, e così gli sfuggii di mano. Se bisogna gloriarsi (certo non è utile) verrò, dunque, alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo, il quale, or son quattordici anni, (se col corpo non so; se senza corpo non so; lo sa Dio) fu rapito in paradiso, e udì parole arcane, che a un uomo non è permesso di profferire. Rispetto a quest’uomo mi glorierò; quanto a me non mi glorierò che delle mie debolezze. Se volessi gloriarmi non sarei stolto, perché direi la verità; ma me ne astengo, affinché nessuno mi stimi più di quello che vede in me o che ode da me. E affinché l’eccellenza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, m’è stata messa una spina nella carne, un angelo di satana, che mi schiaffeggi. A questo proposito pregai tre volte il Signore che lo allontanasse da me. Ma egli mi disse: «Ti basta la mia grazia; poiché la mia potenza si dimostra intera nella debolezza». Mi glorierò, dunque, volentieri delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo” (2 Cor. XI, 19-33 e XII, 1-9).

S. Paolo aveva sentito dal discepolo Tito, come la sua prima lettera a quei di Corinto aveva prodotto buoni effetti, e come quei Cristiani gli erano affezionati e fedeli. Alcuni, però, erano rimasti ostili a Paolo, a cui muovevano parecchie accuse. Dalla Macedonia, ove s’era incontrato con Tito, l’Apostolo s’affretta a scrivere ai Corinti una seconda lettera, in cui risponde ai suoi detrattori, e difende il proprio operato. Da questa lettera è tolta l’Epistola di quest’oggi, nella quale, descrivendo il proprio ministero apostolico, in opposizione al ministero dei suoi detrattori, S. Paolo scrive una insuperabile pagina biografica, che ci porge occasione di dire due parole sul grande Dottore delle genti. In lui possiamo considerare:

1. Il Giudeo,

2. L’Apostolo,

3. Il Martire.

1.

Gli oppositori di S. Paolo lo dipingono come un nemico dei figli d’Israele, ed egli risponde di non essere meno Ebreo dei suoi accusatori. Sono Ebrei? anch’io: sono Israeliti? anch’io, discendenti d’Abramo? anch’io. Paolo nasce a Tarso, nella Cilicia, da padre ebreo, e precisamente della tribù di Beniamino. Dopo la prima istruzione in patria, va a Gerusalemme dal celebre dottor della legge Gamaliele, il quale, sotto l’atrio del tempio, teneva scuola a numerosi giovani, istruendoli nella legge di Mosè. Paolo primeggia nello studio della legge e nello zelo per la sua osservanza. Zelo che arriva al punto di volere la prigionia, la morte per i seguaci del Nazareno. Quando Stefano cade sotto la furia dei sassi, egli è lì sul posto ad assistere, «approvando l’assassinio di lui» (Act. VII, 60). E quando si scatena la prima persecuzione contro i seguaci di Gesù Cristo, non rimane inerte. Leggiamo che egli « devastava la Chiesa entrando per le case, e, trascinando uomini e donne, li faceva mettere in prigione » (Act. VIII, 3). Nel suo zelo ardente per la tradizione dei padri non si contenta della persecuzione di Gerusalemme. Vuol perseguitare i discepoli del Signore dove li trova, e riesce a ottenere dal principe dei sacerdoti lettere alle Sinagoghe di Damasco « per menar legati a Gerusalemme quanti avesse trovato di quella dottrina, uomini e donne » (Act. IX, 2). Ma qui lo attendeva quel Gesù che egli perseguitava nei suoi discepoli. Mentre egli, ancor spirante minacele e strage, s’avvicina a Damasco, sul mezzo giorno, è investito all’improvviso da una luce del cielo, e, cadendo a terra, sentì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo perché mi perseguiti? ». Egli disse: «Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: « Io sono Gesù che tu perseguiti. È dura cosa per te ricalcitrare contro il pungolo». Ed egli tremante e pieno di stupore domandò: « Signore che vuol che io faccia? » E il Signore a lui: «Alzati, ed entra in città, e lì ti sarà detto quel che dovrai fare» (Att. IX, 3-6). Saulo, divenuto cieco, è guidato dai suoi compagni alla casa di Giuda. Quivi è visitato dal discepolo Anania, miracolosamente avvertito, che gli ridona la vista con l’imposizione delle mani e lo battezza. Ora Paolo non è più quello di prima. La grazia ha trasformato il lupo in agnello, il persecutore in difensore, il nemico in soldato fedele. La grazia di Dio ha compiuto uno strepitoso miracolo per nostro ammaestramento. Infatti «per indurci alla nostra emendazione quale impulso maggiore avrebbe potuto darci, che quello della conversione d’un persecutore per darcelo dottore?» (S. Ambrogio, De Pœn. L. 2, 5). « Qualsiasi peccatore — esorta S. Agostino — guardi all’Apostolo Paolo a cui da Dio fu perdonata tanta malizia e tanta crudeltà e non disperi, ma si converta a Dio » (En. 1 in Ps. 70, 1).

2.

Se c’erano di quelli che potevano vantarsi di lavorare per il Vangelo, non potevano vantarsi di lavorare come Paolo, che era più di loro nelle fatiche. Paolo era stato chiamato da Dio a portare il suo Nome soprattutto fra le genti. Ad Anania, che è preoccupato per l’ordine ricevuto di recarsi da Saulo in casa di Giuda, «Va pure — dice il Signore — perché costui è uno strumento da me eletto a portare il mio Nome ai gentili e ai re e ai figliuoli d’Israele» (Att. IX, 15). Era una missione mondiale, che S. Paolo abbracciò con grande ardore e condusse sino alla fine. Nessun confine può arrestare i suoi passi. Lo troviamo nella Siria, nella Gabazia, nella Panfilia, nella Pisidia, nella Licaonia, nella Cilicia, nella Frigia, nella Macedonia, nella Grecia, nell’Illiria. in Italia, a Roma, da dove si propone di andare in Spagna sino ai confini del mondo romano. Viaggiava, ora da solo, ora con compagni. Sempre era un viaggio faticoso. Se viaggiava per terra c’erano varchi pericolosi da superare, o pianure mai sicure da attraversare. Se viaggiava per mare doveva servirsi di navi o barche non sempre ben solide, sballottate spesso qua e là dalla furia delle onde. Eppure non dice mai: basta! Partito o scacciato da un luogo, ne evangelizza un altro. Il cattivo successo non raffredda il suo zelo, anzi lo rafforza. – Noi ammiriamo il coraggioso che, rotta la cerchia dei nemici, va a piantar la bandiera nel loro campo, e vi raduna attorno i forti che la difendano, e la facciano sventolare. Che dovremmo dire di S. Paolo, che sormonta qualunque ostacolo per portar la luce del Vangelo nei luoghi ove le tenebre sono più fitte; che innalza l’emblema della croce, ove satana maggiormente domina mediante il culto degli dei falsi e bugiardi? «Da Gerusalemme, per le regioni intorno fino all’Illirico — scrive egli ai Romani — ho pienamente compiuto la predicazione del Vangelo di Cristo: studiandomi, così di predicare questo Vangelo là, dove Cristo non è ancor stato conosciuto» (Rom. XV, 19-20). Quando, poi, il tempo e le circostanze lo permettevano egli ritornava in quei luoghi a compiere la sua visita apostolica, a correggere ove si errava, a incoraggiare dove era subentrato il raffreddamento, a infervorare tutti nell’amore a Gesù Cristo. E quando non poteva recarsi in persona mandava i suoi discepoli; mandava le sue lettere che illuminarono e infiammarono i cuori dei fedeli d’allora, e che hanno continuato e continueranno a illuminare e a infiammare i cuori dei fedeli di tutti i secoli. Lo zelo di S. Paolo non si limita alla sollecitudine di tutte le Chiese: si occupa anche dei singoli Cristiani. Ogni giorno è un concorso, una ressa di neofiti, che fa pressione attorno all’Apostolo, e non gli lascia un momento di respiro. Chi ha un dubbio da dilucidare, chi ha un caso da esporre, chi ha una pena da manifestare, chi ha un pericolo che gli sovrasta, ricorre all’Apostolo. Ed egli si fa tutto a tutti. Per tutti ha una risposta, a tutti porta un sollievo, con tutti condivide una lagrima. Chi è debole, senza che io ancora non sia debole! — dichiara egli stesso — Chi è scandalizzato, senza ch’io non arda? – Dove attingeva S. Paolo l’energia per una attività così sorprendente nell’adempimento del suo apostolato? Il velivolo che s’innalza, sorpassa le vette dei monti, sorvola gli oceani che dividono i continenti, ha una forza che lo spinge, il motore. L’amor di Dio è la gran forza che, a traverso i monti e a traverso i mari, spinge Paolo a portar la conoscenza di Gesù Cristo là, dove non è conosciuto. «L’amor di Cristo ci spinge» (2 Cor. V, 14), dice egli stesso. – Se la grandezza dell’amore si conosce dalla grandezza dei patimenti, bisogna dire che l’amor di Dio ardeva senza misura nel petto di San Paolo, perché senza misura furono i patimenti, che accompagnarono e coronarono il suo apostolato.

3.

S. Paolo non solo poteva dire d’essere di più dei suoi oppositori nelle fatiche: poteva anche aggiungere: di più nelle prigionie; molto di più nelle battiture mi trovai spesso in pericoli di morte. Il Signore aveva detto ad Anania, parlando di Paolo : «Io poi gli mostrerò quanto dovrà patire per il mio nome» (Att, IX, 16). E i patimenti accompagnarono costantemente l’apostolato di lui. Ed egli, anziché procurare di schivarli, se ne compiaceva. «Io mi compiaccio — scrive — nelle debolezze, negli obbrobri, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angustie per il Cristo» (2 Cor. XII, 10). «Egli — come dice il Crisostomo — immolava se stesso ogni giorno» (De Laud. S. Pauli Ap. Hom. 1). La sua vita fu certamente un martirio continuo, se si considerano le penitenze e le mortificazioni volontarie, che sosteneva per essere più somigliante al suo Signore nella passione; se si considerano tutte le prove che Dio gli ha mandato, sia rispetto all’anima, sia rispetto al corpo; se si considerano tutte le insidie e le persecuzioni con cui lo combattevano ebrei e gentili Nel suo apostolato ha da lottare con le onde, con le fiere, contro gli agguati degli assassini. Egli non aspetterà a versare il suo sangue nel giorno bramato, che lo congiungerà con Cristo in cielo. I suoi piedi hanno certamente lasciato impronte di sangue, durante i suoi viaggi, per le vie lunghe e sassose. Sul suo corpo più d’una volta si sono insanguinati i flagelli e le verghe. E quando il suo sangue sta per esser sparso «come libazione», e si approssima la dipartita, può scrivere dal carcere romano al fedele Timoteo, con tutta confidenza: «Ho combattuto la buona battaglia, sono giunto al termine della corsa; ho serbato la fede» (2 Tim. IV, 6-7). – Solamente lo scioglimento dell’anima dal corpo potrà troncare la sua vita di martirio, dopo che avrà compiuto con la più grande fedeltà la missione affidatagli. Il 29 Giugno dell’anno 67 dal carcere vien condotto fuor di Roma sulla via ostiense, nel luogo chiamato Acque Salvie, oggi Tre Fontane, e là è decapitato nello stesso giorno che Pietro è crocifisso. Così, ha termine la vita di quest’uomo che «incarcerato sette volte, inseguito, lapidato, fu banditore della fede in oriente e in occidente» (Ep. 1 Clementis ad Cor. 5, 6). S. Gerolamo suggerisce a Eustachio di leggere il brano della seconda lettera ai Corinti, che forma l’epistola di quest’oggi, quando gli sembra grave la tribolazione che debba sopportare (Ep. 22, 40 ad Eust.). Questo brano ricordiamolo spesso anche noi. È un richiamo di tutta la vita di S. Paolo. La vita di quest’uomo, simile al quale né sorse, né sorgerà il secondo nella conquista delle anime, è di grande insegnamento a tutti. Essa insegna ad amar Dio di amore vivissimo: insegna che l’amore non sente peso né fatica. Le tribolazioni, le angustie, le persecuzioni, la fame, i pericoli, la spada, non valgono a spegnerlo e separar l’uomo dal suo Dio. La vita di S. Paolo ci insegna a non respingere l’aiuto del Signore. Quando Dio c’invita, con le sue ispirazioni, ad abbandonare la via nella quale ci siamo messi; a progredire più generosamente nel suo servizio, non induriamo il cuore, ma rispondiamo pronti come S. Paolo: «Signore, che vuoi tu che io faccia? ».

Graduale

Ps LXXXII: 19; LXXXII: 14

Sciant gentes, quóniam nomen tibi Deus: tu solus Altíssimus super omnem terram, [Riconòscano le genti, o Dio, che tu solo sei l’Altissimo, sovrano di tutta la terra.]

Deus meus, pone illos ut rotam, et sicut stípulam ante fáciem venti.

[V. Dio mio, ridúcili come grumolo rotante e paglia travolta dal vento.]

 Ps LIX: 4; LIX: 6

Commovísti, Dómine, terram, et conturbásti eam. Sana contritiónes ejus, quia mota est. Ut fúgiant a fácie arcus: ut liberéntur elécti tui.

[Hai scosso la terra, o Signore, l’hai sconquassata. Risana le sue ferite, perché minaccia rovina. Affinché sfuggano al tiro dell’arco e siano liberati i tuoi eletti.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam

S. Luc VIII: 4-15

“In illo témpore: Cum turba plúrima convenírent, et de civitátibus properárent ad Jesum, dixit per similitúdinem: Exiit, qui séminat, semináre semen suum: et dum séminat, áliud cécidit secus viam, et conculcátum est, et vólucres coeli comedérunt illud. Et áliud cécidit supra petram: et natum áruit, quia non habébat humórem. Et áliud cécidit inter spinas, et simul exórtæ spinæ suffocavérunt illud. Et áliud cécidit in terram bonam: et ortum fecit fructum céntuplum. Hæc dicens, clamábat: Qui habet aures audiéndi, audiat. Interrogábant autem eum discípuli ejus, quæ esset hæc parábola. Quibus ipse dixit: Vobis datum est nosse mystérium regni Dei, céteris autem in parábolis: ut vidéntes non videant, et audientes non intéllegant. Est autem hæc parábola: Semen est verbum Dei. Qui autem secus viam, hi sunt qui áudiunt: déinde venit diábolus, et tollit verbum de corde eórum, ne credéntes salvi fiant. Nam qui supra petram: qui cum audierint, cum gáudio suscipiunt verbum: et hi radíces non habent: qui ad tempus credunt, et in témpore tentatiónis recédunt. Quod autem in spinas cécidit: hi sunt, qui audiérunt, et a sollicitudínibus et divítiis et voluptátibus vitæ eúntes, suffocántur, et non réferunt fructum. Quod autem in bonam terram: hi sunt, qui in corde bono et óptimo audiéntes verbum rétinent, et fructum áfferunt in patiéntia.”

OMELIA II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la parola di Dio.

“Semen est verbum Dei”. S. Luc. VIII.

Tale è, fratelli miei, la spiegazione che Gesù Cristo dà Egli stesso alla parabola che ci propone nell’odierno Vangelo, in cui ci fa vedere con una maniera molto sensibile i diversi effetti che la sua parola produce nelle anime, secondo le diverse disposizioni di coloro che l’ascoltano. Non è bisogno di cercar altronde che nel Vangelo, né d’imparare da altra bocca che da quella di Gesù Cristo, la spiegazione di questa parabola, poiché Egli stesso volle darcela. Si paragona Egli ad un uomo che se ne andò a seminar del grano; e nel seminarlo una parte di questo grano cadde su la strada, e fu pestata con i piedi e mangiata dagli uccelli. Un’altra parte cadde sopra un luogo sassoso, ed il grano appena nato, seccò, perché mancava d’umore. Un’altra cadde in mezzo delle spine, e venendo queste a crescere nello stesso tempo lo soffocarono. Finalmente la quarta parte del grano cadde in buona terra, ed essendo cresciuto, rese un frutto centuplicato. – Avendo gli Apostoli domandato al Salvatore la spiegazione di questa parabola, Egli, per far ad essi sentire l’importanza del soggetto, che aveva a trattare, disse loro: Chi ha orecchie per intendere, intenda. Ecco dunque, soggiunse, qual è il senso di questa parabola. Il seme è la parola di Dio: semen est verbum Dei. Quelli significati dal grano che cade sulla strada sono coloro che ascoltano la parola di Dio, ma viene di poi il demonio, che toglie dal loro cuore questa parola, per tema che credendo non si salvino. Quelli raffigurati nel grano che cade sulle pietre sono coloro che, avendo udito la parola di Dio, la ricevono con piacere; ma siccome non hanno un cuor ben disposto, ove ella possa radicarsi, credono per alcun tempo e soccombono allorché sono tentati. Quel che cade nelle spine sono coloro che hanno inteso la parola di Dio, ma in cui essa rimane soffocata dalle sollecitudini e dall’attacco alle ricchezze e ai piaceri della vita. Finalmente quel che cade in buon terreno denota coloro che avendo ascoltata la parola con cuor retto e ben disposto, la conservano e con la pazienza producono del frutto. – Egli è facile il vedere, fratelli miei, dalla spiegazione di questa parabola che il più gran numero di quelli che ascoltano la parola di Dio, ben lungi dal profittarne, ne abusano. Non già che questa divina semente non abbia tutta la virtù necessaria per produrre del frutto; mentre, se il grano di cui si parla nella parabola non fu ugualmente fertile in tutti i luoghi in cui fu sparso, ciò non fu per difetto di sua qualità, ma piuttosto di quella dei diversi terreni: allo stesso modo, se la parola di Dio non produce il suo effetto nel cuore di tutti coloro che l’ascoltano, ciò non proviene che dalle loro cattive disposizioni nell’ascoltarla e dagli ostacoli che essi oppongono alla sua fertilità. Ah! possa io in quest’oggi, fratelli miei, distruggere questi ostacoli ed indurvi ad apportare alla divina parola le disposizioni che da noi esige! Per questo fine bisogna conoscerli. Quali sono dunque questi ostacoli al frutto della divina parola? Ciò sarà il soggetto del mio primo punto. Quali sono le disposizioni che convien apportare alla parola di Dio? Ciò sarà il soggetto del secondo punto. A voi solo appartiene, o Signore, di render fecondo il prezioso seme della vostra parola nel cuore de’ miei uditori; mentre non a chi pianta né a chi irriga, ma a Voi tocca di dare l’accrescimento.

I. Punto. Dio ha fatto intendere agli uomini la sua divina parola, in diversi tempi ed in diverse maniere. Egli ha parlato loro altre fiate, dice l’Apostolo, per mezzo de’ suoi profeti, ed in questi ultimi tempi per mezzo del suo proprio Figliuolo, che ha inviato sulla terra per manifestar loro i suoi voleri. Ed è perciò che questo Figliuolo adorabile si è rivestito della nostra natura per comunicarci con una maniera più intima e più sensibile la dottrina celeste ch’Egli ha succhiata sin dall’eternità nel seno di suo Padre, a questo fine ha conversato cogli uomini, loro ha spiegate le virtù del regno di Dio, gliene ha segnate le strade nel suo santo Vangelo. Questo Verbo incarnato, dopo avere sparso Egli stesso il seme della divina parola, ne ha voluto perpetuare la fecondità sino alla consumazione de’ secoli. E perciò elesse gli Apostoli, li incaricò della cura d’insegnare a tutte le nazioni della terra, e di loro apprendere ciò che essi avevano da Lui stesso appreso: Eantes docete omnes gentes (S. Matth. XXVIII). Si videro questi gloriosi Apostoli, inviati dal loro divino Maestro, spargere la semente di questa santa parola ch’Egli aveva loro confidata, ed è con la forza di questa parola che hanno essi sottomesso il mondo intero all’impero di Gesù Cristo. Si sono vedute le statue delle false divinità cadere al suono della loro voce, come altre volte si videro le mura di Gerico cadere al suono delle trombe, e la Religione del vero Dio prender il posto dell’idolatria che regnava quasi per tutta la terra. Ella è dunque la parola di Dio che ha stabilita la santa Religione che noi professiamo, egli è per mezzo di essa che questa Religione si è conservata sino a noi e si conserverà sino al fine dei secoli. Donde viene dunque, fratelli miei che questa santa parola, la quale fu già potente a convertire il mondo intero, fa al giorno d’oggi sì poca impressione sulla maggior parte di coloro che l’ascoltano? Forse per difetto di essere annunziata agli uomini? Ma questa preziosa semente fu ella mai sparsa con maggior abbondanza che al giorno d’oggi? Mai non vi furono tante prediche, tante istruzioni. Le chiese e le cattedre cristiane rimbombano da ogni parte della voce dei ministri evangelici che annunziano la parola di Dio. Donde vien dunque, ripeto, il poco frutto ch’ella produce sulle menti e sui cuori? Ha forse perduto qualche cosa di quella forza tutta divina che aveva nella bocca degli Apostoli? No, fratelli miei: la lunghezza del tempo, che è scorso da essi sino a noi, non ha punto sminuita la virtù e la purezza del santo Vangelo; noi predichiamo quel medesimo Vangelo che Gesù Cristo e gli Apostoli hanno predicato. Solo dunque per colpa di quelli che ascoltano la parola di Dio, essa diventa loro inutile. Ciò che impedisce a questo buon grano di germogliare nei loro cuori sono gli ostacoli che si oppongono alla sua fecondità. Quali sono questi ostacoli? Noi non possiamo meglio conoscerli che facendo dopo Gesù Cristo l’applicazione della parabola del Vangelo ai diversi caratteri di coloro che ascoltano la parola di Dio. Chi ha orecchie ascolti dunque quest’applicazione che noi siamo per farne a fin di riconoscere s’egli è colpevole e correggersi: Qui habet aures audiendi, audìat (S. Luc. VIII). Ripigliamo, fratelli miei, le circostanze della nostra parabola che ci rappresentano nei diversi terreni in cui fu sparsa la semente le diverse disposizioni di coloro che ascoltano la parola di Dio. Le grandi strade in cui cadde il seme che fu rapito dagli uccelli, ci rappresentano coloro che ascoltano la parola di Dio con uno spirito tutto dissipato. I luoghi sassosi, ove il seme non poté crescere, sono figura della durezza ed incostanza degli altri che nulla profittano della parola di Dio. Finalmente le spine, che impedirono il buon grano di crescere nei luoghi dove fu seminato, sono un’immagine sensibile di quelli in cui l’affetto alle ricchezze e ai piaceri del secolo soffoca il prezioso seme della divina parola. Dissipazione di spirito, durezza ed incostanza di cuore, affetto ai beni e ai piaceri della terra, tali sono gli ostacoli ordinari che impediscono la virtù e l’efficacia della parola di Dio: Qui habet aures audiendi, audiat. Non parlerò io qui di coloro che non vogliono ascoltare la santa parola, che non si degnano neppure di entrare nelle chiese per udirla o ne escono per non profittarne; che trascurano d’istruirsi dei propri doveri, dispregiano gli avvisi che loro si danno, fuggono la compagnia di quelli che si sforzano di rimetterli nella strada della salute. Egli è evidente che costoro portano già seco un carattere di riprovazione: mentre se è un segno di predestinazione l’ascoltare con amore la parola di Dio, Qui ex Deo est , verba Dei audit (S. Jo. VIII), è pur un segno di riprovazione il non volerla ascoltare, come Gesù Cristo rimproverava già ai Giudei: Propterea vos non auditis, quìa ex Deo non estis (ibid). Né meno io parlo di coloro che vengano ad ascoltare la parola di Dio, ma che l’ascoltano sempre con noia, che trovano sempre lungo il tempo delle istruzioni: questi sono, dice l’Apostolo, terre di maledizione su cui cade la rugiada del cielo, ma che producano sol triboli e spine: altrettanto colpevoli, come gli Israeliti, che s’annoiarono della manna data loro da Dio nel deserto: Anima nostra nauseat super cibo isto lenissimo (Num. XXI); amano meglio le cipolle d’Egitto, cioè la vanità del secolo, che il buon nutrimento. Sono essi in uno stato egualmente pericoloso, dice s. Gregorio, che un infermo, il quale nulla trova di buono in ciò che mangia o non può ritenere alcun alimento; segno è questo di morte vicina. Sì, fratelli miei, la noia della parola di Dio sarà sempre, secondo il parere dei santi, una malattia pericolosissima per la salute; temetene le conseguenze e cessate di allontanarvi dalle istruzioni o di ascoltarle con noia. Checché ne sia di coloro che trascurano la parola di Dio, noi qui non ne faremo motto; soltanto parleremo di quelli che Gesù Cristo ci ha più particolarmente designati nella spiegazione della sua parabola. I primi rappresentati da quelle grandi strade in cui cadde la semente sono coloro che per verità ascoltano la parola di Dio, ma il fanno con uno spirito tutto dissipato, tutto ripieno d’idee profane e terrene; che assistono alle istruzioni, ma per tutt’altro motivo che di profittarne. Gli uni vi vengono per vedere o per esser veduti, gli altri per passarvi il tempo; attirati dalla riputazione del predicatore o dalla curiosità dì udirlo, o dalla compagnia che ve li conduce, pensano a spassarsi e non già ad edificarsi. Siccome le grandi strade sono aperte e frequentate da ogni sorta di persone, così il loro spirito è aperto al primo oggetto che si presenta, e non evvi pensiero alcuno straniero cui egli non si applichi. Tale è il primo ostacolo alla parola di Dio, ostacolo che s’incontra nella maggior parte di coloro che l’ascoltano, unicamente occupati delle bagattelle e dei divertimenti del secolo, sono sempre fuori di sé. Riconosceranno essi gli altri al ritratto che si sarà fatto di un vizio, gliene faranno anche l’applicazione nell’uscire da un discorso, spargendo su questo e su quello la malignità della loro censura: ma non vi riconoscono giammai sé medesimi; non è già per essi che il predicatore ha parlato. Così un avaro, un usuraio, che ode parlar del vizio di cui è infetto, lo condanna negli altri; ma il suo sordido attacco per i beni del mondo non passa nel suo spirito che per prudente economia. Le sue orecchie, ripiene del suono dell’oro, sono inaccessibili a quello della divina parola, dice S. Ambrogio. Tale è l’effetto della passione: essa acceca talmente gli uomini che non la ravvisano nel tempo stesso che vien loro dipinta coi più vivi colori; e se la coscienza si fa loro qualche volta sentire, ah! sanno benissimo disfarsi di questi pensieri importuni che li inquietano, per occuparsi di altri oggetti che li dissipano e che rintuzzano le punte che gli han feriti. E perciò escono ordinariamente da un discorso quali vi sono entrati. Marciscono sempre nel vizio e non vogliono punto correggersi. La divina semente, non essendo penetrata nel loro cuore, il demonio la rapisce ben tosto per sostituirvi i semi fatali del peccato; o se non può egli stesso rapire questa semente, si serve de’ suoi ministri, di quei nemici della verità che soffrire non possono ch’ella si predichi; di quei peccatori arditi e risoluti che coi loro perniciosi discorsi si sforzano di distruggere nei cuori le salutevoli impressioni della divina parola; che elevano cattedre di pestilenza dove hanno l’ardire di opporre alla verità le massime di un mondo corrotto e seduttore. Empi oracoli di satanasso, che non sono che troppo comuni nel secolo! Crudeli uccelli di rapina, che ammazzano e perdono più anime che tutti i predicatori non ne possono salvare! Possiate voi, fratelli miei, preservarvi dai loro colpi mortali! Non solamente non bisogna ascoltarli, ma bisogna fuggirli come tanti anticristi. – Veniamo ora a quelli che Gesù Cristo ci ha dipinti sotto la figura di quei luoghi sassosi ove cadde la semente e dove non poté crescere, perché non eravi umore. Questi non sono solamente quei cuori duri ed insensibili come le pietre, che da nulla sono commossi, che non sono né allettati dalle promesse né spaventati dalle minacce: che le esortazioni le più forti non possono indurre a lasciare il peccato e restituire la roba male acquistata, a perdonare a un nemico; mettiamoli nel numero di quelli di cui abbiamo di già parlato, che sono segnati col sigillo della riprovazione. Sono dunque coloro che ricevono da principio con piacere, come dice il Salvatore, il seme della divina parola, che formano qualche buona risoluzione di cangiar vita, di praticar il bene, ma che non perseverano nei loro buoni desideri, perché converrebbe farsi violenza per renderli efficaci. Sono terre che producono fiori e non frutti; rassomigliano a quell’erbe che, essendo radicate in luoghi sassosi, sono subito inaridite dagli ardori del sole, perché non eravi terra ed umor sufficiente per nutrirle e difenderle dal caldo; o che sono gettate a terra dai venti, perché non hanno radici bastantemente profonde; costoro, dice Gesù Cristo, credono per qualche tempo, ma poi soccombono nella tentazione. I buoni desideri che avevano formati si dileguano alla presenza degli oggetti che risvegliano le passioni. Il fuoco profano, che non hanno avuto cura di smorzare nel lor cuore brucia e dissecca la divina semente sino nel suo germe; un rispetto umano che bisognerebbe dispregiare, una difficoltà che convien superare, distrugge ben tosto i migliori progetti. Quell’uomo che avrà udito parlare sulla fragilità dei beni del mondo, sentirà al momento rompersi i suoi legami, condannerà la sua avarizia e si determinerà a dare il superfluo ai poveri; ma, in preda all’incostanza, dimenticherà fra poco i buoni sentimenti; e si lascerà abbagliare dallo splendore de’ suoi beni, perché trova onde contentare le sue passioni; di modo che alcuni momenti dopo vi sarà egli tanto affezionato come dapprima. Quest’altro udendo parlare dei vantaggi dell’umiltà, della pazienza e della mansuetudine, prenderà la risoluzione di praticare nelle occasioni queste virtù: ma un insulto, una parola incivile riaccendono ben tosto il fuoco della collera; ei si lascia da essa trasportare, perché non bada richiamar i motivi che tener lo debbono in dovere; egli è mansueto e paziente quanto nulla ha da sopportare; ma la minima disgrazia getta nell’impazienza la maggior parte di coloro la cui virtù vuole Dio mettere alla prova. Dopo una pratica sulla disgrazia di una cattiva morte, altri è spaventato e pieno di ardore per la sua salute; pare che rinunci per sempre al peccato, ne lascia anche per qualche tempo l’occasione, ma fra breve ritorna a quei commerci peccaminosi; tutto il male viene da difetto di fermezza nelle buone risoluzioni che la parola di Dio aveva fatto nascere. Così per mancanza di radice e di umore, la divina semente diventa sterile nei cuori di pietra che la ricevono. – Finalmente, fratelli miei, il terzo ostacolo che rende inutile la parola di Dio in quelli che l’ascoltano è l’affetto alle ricchezze e ai piaceri della terra. Questo è ciò che Gesù Cristo ci ha rappresentato per quelle spine che soffocarono il buon grano gettatovi. Questo grano erasi radicato in quel luogo molto più che nel precedente, che era ripieno di pietre; ma le spine da cui era attorniato gl’impedirono di venir a maturità: esse lo soffocarono interamente. Tale è l’effetto funesto che producono le ricchezze e i piaceri della vita. Sono spine che tormentano ed inquietano l’animo nostro con le loro punte mortali; cioè con le noie e gli affanni che ci cagionano, sia per ammassarle quando non ne abbiamo, sia per conservarle quando ne possediamo. Da ciò ne viene, fratelli miei, che il seme della parola di Dio, benché molto radicato sia nel cuore dei ricchi, non può venire a maturità: egli cresce sino ad un certo segno e dà qualche speranza di raccolto; ma le sollecitudini dalla vita lo soffocano. Infatti, si vedono ancora persone del secolo, che si fanno pregio d’amar la virtù, che con la pratica di alcune buone opere dimostrano aver qualche desiderio per la loro salute; ma sovente distratte dal loro dovere, a cagione delle cure che si danno per far fortuna secondo il mondo, quelle prime impressioni di grazia sono ben tosto indebolite e non producono quasi mai una vita veramente cristiana. Ora sono viaggi che li distolgono dal servizio di Dio nei giorni a questo destinati; ora sono liti che convien sostenere e in cui la carità fraterna è ordinariamente ferita; e mille altri imbarazzi inseparabili dalla condizione dei ricchi, che loro non lasciano quasi nemmen tempo di pensare alla propria salute: se v’impiegano qualche tempo, questo non è che assai breve: se adempiono alcuni doveri di Religione, è per usanza e per convenienza; e nel tempo che sembrano esser occupati di Dio, hanno essi lo spirito tutto ripieno dei loro affari temporali. E come mai, fratelli miei, il seme della parola divina non sarà soffocato in queste terre tutte ingombre di triboli e di spine? Aggiungete a questo che le ricchezze, somministrando di che contentar le passioni, sono, per la maggior parte di coloro che le posseggono, sorgente funesta di un’infinità di peccati. Non solamente esse opprimono lo spirito col peso delle inquietudini che producono, ma ancora rendono il cuore effeminato con le lusinghe dei piaceri che ci fanno gustare: mentre quando uno è ricco vuol avere i suoi agi e i suoi comodi; e siccome ha donde procurarseli, nulla ricusa ad una natura sempre nemica, di ciò che può molestarla. Or come, torno io a domandare, come mai quel buon grano del Vangelo, che non parla che di croce e di mortificazione, potrà egli crescere in cuori schiavi della mollezza e della sensualità? Non vi veggo che un mezzo per fargli portar frutto, cioè distruggere tutti gli ostacoli che impediscono la sua fecondità, cioè staccarsi da quelle spine che cagionano piaghe mortali a coloro che troppo se ne avvicinano; cioè rinunziare per lo meno di cuore a quelle ricchezze per farne un santo uso. Ecco a che, o ricchi della terra, dovete determinarvi, se volete ascoltare con frutto la parola di Dio: il che sono ora per additarvi più diffusamente, parlandovi delle disposizioni che convien ad essa apportare.

II. Punto. La quarta parte della semente di cui si fa menzione nella parabola cadde in buon terreno e produsse frutto centuplicato. Qual è questo buon terreno? Sono coloro – dice Gesù Cristo – che ricevono la divina parola con cuore retto e ben disposto, e che con la pazienza ne producono frutti salutevoli: Qui verbum retinent, et fructum afferunt in patientia. Non basta dunque ascoltare la parola di Dio, bisogna ascoltarla con rispetto ed attenzione, meditarla con assiduità, praticarla con costanza. Rispetto ed attenzione per la divina parola, opposti al disprezzo che se ne fa e alla dissipazione con cui si ascolta. Meditazione assidua della divina parola, la qual fìssi l’incostanza, che fa dimenticarla. Fedeltà costante a praticar la parola di Dio, che allontani da noi tutti ciò che può impedirne l’efficacia. Bisogna ascoltare la parola di Dio con rispetto ed attenzione. È parola di Dio; che di più rispettabile? Verbum Dei. É parola di salute; che di più degno della nostra attenzione? Verbum salutis. Sapete, fratelli miei, qual è il nostro ministero presso di voi allorché vi annunziamo la divina parola? Noi facciamo, dice l’Apostolo, l’uffizio di ambasciatori di Gesù Cristo; e quando vi parliamo, quando vi esortiamo, gli è come se Dio stesso vi parlasse, vi esortasse: prò Christo legatione fungimur, tanquam Deo exhortante per nos (2. Cor. V). Augusto ministero, che onora infinitamente coloro che ne sono rivestiti, e di cui devono riconoscersi molto indegni! Ministero infinitamente rispettabile da quelli cui siamo inviati, mentre non è già, fratelli miei, la parola dell’uomo né il grado di chi vi parla che dovete riguardare; ma è la parola di Dio, tanto basta; dappoiché viene da Dio, merita ogni rispetto. Ascoltare i ministri di questa santa parola si è ascoltare Gesù Cristo medesimo; dispregiarli, si è dispregiar Gesù Cristo: Qui vos audit, me audit; qui vos spernit, me spernit (S. Luc. X). Qual rispetto non si ha per la parola dei re della terra da qualunque parte ella ci sia annunziata e di qualunque grado siano coloro che c’intimano gli ordini del sovrano? Basta il sapere che ci parlano da parte sua, perché li ascoltiamo con rispetto. Il disprezzo che se ne farebbe, ricadrebbe sul sovrano medesimo. Con quanto più forte ragione rispettare dovete la parola del vostro Dio, del Signore di tutti i sovrani? Con qual sommissione non dovete voi ricevere i suoi ordini e i suoi giudizi, che vi sono intimati dalla voce de’ suoi ministri? Quali ch’essi siano, sono rivestiti dell’autorità di Dio; ciò basta per meritare una rispettosa docilità alle verità che vi annunciano da parte sua. Sebben questa parola, come un’acqua salutare, scorra per canali imbrattati, ella ha sempre la stessa dignità e la medesima virtù: ella merita per conseguenza tutto il vostro rispetto. S. Agostino la mette in confronto col corpo di Gesù Cristo; perciocché, siccome, dice questo santo Padre un uomo si renderebbe colpevole di sacrilegio se lasciasse cadere la divina Eucaristia; cosi reo egualmente si fa chi dispregia la parola di Dio, chi la lascia cader a terra indarno. Da ciò, fratelli miei, quali funeste conseguenze dedurre si possono non solo contro quelli che non vogliono ascoltare la sua santa parola, che la trascurano; ma contro coloro ancora che l’ascoltarono senza rispetto, per pura curiosità, che non vengono a udire i predicatori se non per criticarli, gli uni su lo stile, gli altri sulla pronunzia? poiché, che cercano al giorno d’oggi i più di coloro che assistono alla predica? Non sì vuole più quella semplicità evangelica per cui distinguonsi gli Apostoli, ma si vuole la sublimità nei pensieri, l’eleganza nelle parole, stile ingegnoso e delicato, descrizioni brillanti, figure elevate; si vuole tutto ciò che diletta lo spirito, senza toccare il cuore, e se non trovano tutto questo in un predicatore, se ne disgustano, ne dispregiano il discorso egualmente che la persona; se gli esce di bocca qualche difetto leggiero soltanto contro l’elocuzione, diventa l’oggetto della censura d’un gran numero di uditori. Tanto è vero che non bisogna nel santo ministero cercar di piacere agli uomini; tutta la ricompensa che se ne può sperare nella miglior riuscita va a finire in una sterile approvazione, che passa come ombra e fumo. – A Dio non piaccia, fratelli miei che noi restringiamo le nostre mire ad una ricompensa sì poco degna della nostra ambizione. Voi dovete proporvi tutt’altro fine che il cercare ciò che può piacervi nei sacri discorsi. Quel che dovete ricercarvi si è la vostra conversione, la vostra edificazione, la vostra salute, mentre questo è il fine per cui vi si annunzia la parola di Dio, ed è altresì quel che la rende degna di tutta la vostra attenzione: verbum salutis. Che convien fare per esser salvo? Convien credere le verità che Dio ha rivelate ed osservar i Comandamenti che ci ha dati. Or chi è che ci apprende queste verità che bisogna credere, questi comandamenti che bisogna osservare? La parola di Dio! Il mondo non ha potuto credere in Gesù Cristo senza aver inteso parlar di Lui, or come avrebbe egli inteso parlar di Lui, dice l’Apostolo, se non gli fosse stato predicato  – Quomodo audient sine predicante? Per mezzo dunque della parola di Dio si è stabilita la fede, per essa anche si sostiene: senza di essa, ben presto si perderebbe, il mondo sarebbe immerso nelle tenebre dell’errore e della menzogna. Essa è che istruisce gl’ignoranti, che corregge i peccatori e che forma, come dice l’Apostolo le anime alla pietà, alla giustizia: utìlis ad docendum, ad arguendum, ad erudiendum in iustitia (2 Tim. V). Dove è che voi imparate, fratelli miei, i doveri della vostra Religione, ciò che voi dovete a Dio, al prossimo, e a voi medesimi? Non è forse ascoltando la parola di Dio? Chi è che appresi vi ha i grandi e profondi misteri della ss. Trinità, dell’Incarnazione del Verbo, della Passione e morte d’un Dio fatto uomo per vostra salute e tutte le altre verità necessarie a sapersi per esser salvi? Non è forse la parola di Dio? Donde avete voi saputo che avete un paradiso da guadagnare, un inferno da evitare, ciò che bisogna fare per meritar l’uno ed evitar l’altro? Non è forse la parola di Dio? Da essi ancora voi imparate i vostri doveri riguardo al prossimo: sì, ascoltando la parola di Dio voi vi istruite, padri e madri, dei vostri doveri riguardo ai vostri figliuoli; qui è, dove apprendete, padroni e padrone, i vostri doveri riguardo ai servi. E finalmente la parola di Dio che v’istruisce dei doveri riguardo a voi medesimi, che v’insegna l’umiltà, la sobrietà, la pazienza, la mansuetudine e tutte le altre virtù che deve un Cristiano praticare: utìlis ad docendum. Non solamente questa santa parola v’ispira, ma vi riduce ancora dai vostri traviamenti: utìlis ad arguendum. Essa v’insegna i mezzi di correggervi dei vizi, di ritornare a Dio con ferventi preghiere, con sincera penitenza, con sante disposizioni a ricever i Sacramenti. In una parola, ad essa voi sarete debitori d’una vita santa e d’una morte preziosa, che deciderà della vostra felicità eterna. Quali ragioni non avete voi dunque di ascoltarla con tutta l’attenzione di cui siete capaci? Imperciocché come produrrà ella in voi questi meravigliosi effetti, se non raccogliete questa divina semente con spirito attento e cuor docile? Come v’istruirà ella dei vostri doveri, vi correggerà dei vostri difetti, se attentamente non l’ascoltate? Questa tromba evangelica avrà bel farsi udire se voi rimanete sempre in un letargo, non saprete giammai il sentiero che convien seguire per giungere al porto della salute. Ma qual attenzione, fratelli miei, bisogna prestare alla parola di Dio? Lo spirito ed il cuore devono qui operar di concerto. Lo spirito per applicarsi la verità che ascolta, il cuore per lasciarsene muovere e penetrare. Quest’attenzione non consiste dunque a seguire precisamente un predicatore in tutto ciò che vi dice, senza lasciarvi distrarre da alcun oggetto straniero: si trovano ancora assai uditori di questo carattere. Ascoltano con molta attenzione le sante verità che vengono pubblicate dai ministri del Vangelo, ma non ne fanno l’applicazione a sé; non possono neppur farsela, principalmente quando le passioni non vi trovano il loro conto. Amano d’udire verità che piacciono, e non già quelle che riprendono: loquimini nobis placentia (Isai. V). Farà il predicatore severi rimproveri contro i vizi de’ suoi uditori? Ciò basta per meritare la loro indignazione: questo è toccar montagne che con le loro nere esalazioni formano tuoni che rumoreggiano e scoppiano sui censori dei vizi: tange montes, et fumigabunt (Psal. CXLIII). Non vogliono esser ripresi; e qualunque attenzione si porga da quei medesimi che ascoltano con piacere, il cuore ha sempre cura di mettersi al coperto dai colpi che possono ferirlo. Cercano ancora d’istruirsi, ma non si vogliono convertire. Si è dunque la docilità del cuore che bisogna particolarmente apportare per ascoltar con frutto la divina parola. Non basta ancora che questo cuore sia commosso; lo sono talvolta anche i più grandi peccatori al racconto dei terribili giudizi di Dio, ma bisogna che questo cuore si converta, rinunzi al peccato e formi la sincera risoluzione di cangiar vita, di camminare costantemente nelle vie della salute. Tali sono, fratelli miei, le disposizioni con cui dovete ascoltare la mia parola di salute; voi dovete prestarvi tutta l’attenzione della mente per applicarvene la verità, e tutta la docilità del cuore per risolvervi a fare tutto ciò ch’essa v’insegna. Ma siccome le migliori risoluzioni sono soggette a cambiamenti, non basta ancora l’attenzione della mente e la docilità del cuore alla parola di Dio per rendere i vostri proponimenti efficaci e costanti: convien meditarla e conservare questa divina semente nel vostro cuore con serie riflessioni che le facciano prendere profonde radici e produrre frutti abbondanti. Donde viene, fratelli miei, che la maggior parte di coloro che hanno ascoltati con attenzione discorsi che li hanno commossi sino alle lagrime, sino a far loro prendere le migliori risoluzioni, decade sì facilmente dai suoi progetti, soccombe al primo assalto dei nemici della sua salute? Questo male proviene dal difetto di riflessione sulle sante verità che essi hanno udito: sono canali che ricevono le acque che loro sono comunicate e niente ne conservano: o, per servirmi del paragone di s. Giacomo, rassomigliano a certe persone che si rimirano in un specchio e dimenticano subito dopo il loro volto. Queste persone hanno conosciuto i loro difetti nel ritratto fattone, hanno formata la risoluzione di cangiar vita, ma siccome non hanno avuta attenzione di serbare il modo di vivere che operare doveva la loro guarigione, il loro proponimento è stato senza effetto. Il nutrimento celeste che han preso, non essendo ben digerito, a nulla serve: il prezioso seme, non essendo ben radicato, è divenuto sterile e non ha portato alcun frutto. Non bisogna dunque contentarsi, fratelli miei, d’ascoltare con attenzione ed anche con docilità la parola di Dio: bisogna, sull’esempio del profeta, nasconderla nel cuore, come in un serbatoio, per meditarla seriamente e farne profitto nell’occasione: In corde meo abscondi eloquia tua (Psal. CXVIII). – Così la conservava anche Maria Madre di Dio: Conservabat omnia verba hæc in corde suo (Luc. II). Ed è cosi, che dovete voi serbarla. Giacché la parola di Dio è un pane, voi far dovete la vostra provvisione di questo pane quando vi si distribuisce, imitando in ciò quelli che domandano il loro pane e se ne riserbano quel che è loro necessario per vivere più giorni. Se voi portate questo pane nelle vostre case, se tutti i vostri giorni voi ne nutrite la vostra anima, se ogni mattina voi fate serie riflessioni sulle verità che vi saranno state annunziate la domenica, questo pane vi sosterrà, vi fortificherà nelle occasioni pericolose cui sarete esposti. Se avrete la cura di richiamare di tempo in tempo alla vostra memoria le sante verità che avete intese, che maggiormente vi hanno commossi, esse saranno vostra difesa contro le tentazioni, vostra consolazione nelle disgrazie, vi serviranno di preservativo contro il veleno dei piaceri che il mondo vi presenterà. Imperciocché, fratelli miei, siatene sicuri non si cade nel peccato se non perché si perdono di vista le sante verità: noi saremmo impeccabili, se meditando giorno e notte la legge di Dio, non ci dimenticassimo i castighi riserbati al peccatore, le ricompense promesse al giusto; come si potrebbe vivere a genio delle passioni e diventar partigiano del mondo, se lo spirito fosse pieno di questo pensiero, che l’inferno sarà il soggiorno eterno dei libertini e dei mondani? Siate dunque assidui a meditare la parola di Dio. – Bisogna finalmente metter in pratica la parola di Dio: a questo fine rapportare si debbono le disposizioni tutte con cui s’ascolta. Invano si ascolterebbe con tutto il rispetto, l’attenzione e la docilità che richiede, invano mediterebbe, se non s’adempie tutto ciò ch’ella prescrive, non si può sperare la beatitudine, che Gesù Cristo ha promesso a coloro che l’ascolterebbero come si conviene. Perciocché, notate, fratelli miei, ch’Egli non dice solamente: beati quelli che ascoltano la parola di Dio, ma aggiunge immediatamente, che la mettono in pratica: Beati qui audiunt verbum Dei et custodiunt illud (S. Luc. XIV). Questa fu la risposta che diede ad una donna che essendosi alzata dal mezzo della turba cui predicava il suo Vangelo, gli disse con ammirazione: Beate sono la viscere che vi hanno portato e le mammelle che vi hanno allattato: Beatus venter qui te portavit, et ubera quæ suxisti (ibid.). Dite piuttosto, rispose il Salvatore, beati sono coloro che ascoltano la parola di Dio e l’osservano nella pratica: Beati qui audiunt, etc.! – Sembra perciò, fratelli miei, che questa pratica della santa parola superi in qualche modo il privilegio di Maria, che portò il divin Verbo nel suo sacro utero. Questa Regina delle vergini fu più fortunata, dice s. Agostino a questo proposito, d’averlo concepito nel suo spirito e nel suo cuore con la osservanza della sua santa legge, che d’averlo concepito secondo la carne: perché l’uno faceva il suo merito, e l’altro era un favore procedente dalla pura liberalità del suo Dio. A questo merito dunque ed a questa felice sorte potete e dovete anche voi aspirare con la vostra fedeltà a far operare in voi la divina parola, evitando ciò ch’ella vi proibisce e facendo ciò che vi comanda, mentre a questi due punti si riduce tutta la vostra pratica. – Voi udite declamare contro i vizi, contro la superbia, l’avarizia, l’impurità, l’ira, la vendetta, l’ingiustizia: se ne siete colpevoli, bisogna correggervi bene e prendere tutte le precauzioni necessarie per non più cadervi. Voi ascoltate con piacere ed ammirazione gli elogi che si danno alla virtù, all’umiltà, alla carità, alla temperanza, alla mansuetudine, alla pazienza ed alle altre virtù cristiane: voi non dovete rimanere nei limiti d’una sterile speculazione, ma dovete in tutte le occasioni che si presentano produrre atti di queste virtù. – Al racconto che vi si fa delle ricompense magnifiche che il Signore promette a coloro che osservano la sua santa legge, voi sentite il vostro cuore acceso dal desiderio di possedere un giorno quella eterna felicità; ma convien risolvervi a prendere le strade che la sua santa parola v’addita per arrivarvi, che sono il distacco dai beni e dai piaceri del mondo, la mortificazione delle passioni, la pazienza nelle avversità e gli altri punti di morale di cui il Vangelo è ripieno. Voi l’udite sì spesso predicare questo santo Vangelo, voi non potete ignorarne le massime; ma questo è, fratelli miei, ciò che vi renderà molto più degni di condanna al giudizio di Dio, se non le praticate. Oimè! un’infinità di popoli barbari si sarebbero convertiti e sarebbero divenuti santi, se avessero udito, non dico già tutte le istruzioni, ma una parte sol di quelle che vi sono state fatte; e voi siete sempre gli stessi, sempre viziosi, così superbi, avari, impudichi, vendicativi, collerici, maldicenti, come se non aveste giammai udita la santa parola che doveva santificarvi! Or sappiate che se questa preziosa semente non è per voi un germe di salute, ella diverrà il soggetto della vostra riprovazione. Ella avrà il suo effetto in una maniera o in un’altra; mentre non ritornerà al suo principio senz’aver qualche cosa prodotto: non revertetur vacuum ( Isai. LV). Se essa non ha servito alla vostra santificazione, servirà a farvi condannare con più rigore al terribile giudizio di Dio. Prevenite questa disgrazia, fratelli miei; e per questo non vi contentate d’ascoltare la divina parola con rispetto, attenzione, docilità, per non rassomigliare a quelle grandi strade, da cui la semente fu rapita; non vi contentate neppure di meditarla, per non essere come quei luoghi sassosi in cui la semente non potò radicarsi: ma strappate dal vostro spirito e dal vostro cuore quelle spine che v’imbarazzano e che impediscono alla santa semente di crescervi. Staccatevi da quei beni fragili e caduchi che portano seco tutte le vostre cure. Terminate al più presto quegli affari che consumano tutto il vostro tempo e non vi permettono di pensare a voi; rinunziare a quelle occasioni, a quegli impegni iniqui che v’impediscono di gustare la manna celeste che è nascosta nella divina parola. Andate ancora più lungi: siate fedeli ad osservare tutto ciò che questa divina parola v’insegna sulla legge del vostro Dio, sulla strada che convien tenere, sulla violenza che far si deve per arrivare al cielo; questa divina parola sia la regola dei vostri costumi; in ogni tempo, in ogni luogo conformate ad essa i vostri pensieri, i vostri desideri, le vostre azioni, tutta la vostra condotta; mettete la vostra gloria, la vostra consolazione in una fedeltà costante a praticarla, e ciò durante tutto il corso della vostra vita, nella gioventù, in una età più avanzata, nella vecchiezza, in campagna come in casa, in privato come in pubblico: Estote factores verbis et non auditores tantum (Jac. 1). E per disporvi a ben profittare di questo divino alimento:

Pratiche. Imitate la condotta degli agricoltori, che preparano i loro campi prima di seminarvi il grano, ne svelgono la cattiva erba, i triboli e le spine. Preparate nella stessa guisa i vostri spiriti e i vostri cuori a ricevere la divina parola, allontanando da voi tutti i pensieri profani, tutti gli oggetti capaci di distrarvi e tutti gli ostacoli che potrebbero opporsi alla fertilità della divina parola. – Abbiate cura d’attirare su di voi la rugiada celeste con qualche preghiera che indirizzerete a Dio per chiedergli la grazia di ben profittare della parola che andate ad ascoltare. Durante le istruzioni cui assistete, rianimate la vostra fede e riguardate colui che vi parla come l’ambasciatore di Gesù Cristo, che vi è inviato da parte sua per intimarvi i suoi ordini ed apprendervi la sua volontà. Applicatevi le verità che intendete. Io sono, dovete dirvi, quello di cui si parla, a me tocca correggermi: Tu es ille vir. Procurate di ben imprimere nella vostra memoria alcune di quelle verità che vi avranno maggiormente commossi, per servirvene nella occasione. Dopo aver intesa la santa parola, benedite il Signore d’avervi istruiti dei vostri doveri, meditate qualche tempo su ciò che avete udito, non vi dissipate nell’uscire dall’istruzione, e durante la settimana richiamate di tempo in tempo nella vostra memoria ciò che avete imparato, ciò che vi ha commossi, principalmente quando sarete esposti all’occasione d’offender Dio o quando si presenterà qualche tribolazione capace d’abbattervi e di scoraggiarvi. Allorché sarete tentati, questa divina parola v’insegnerà ad umiliarvi, a ricorrere spesso a Dio, ad esempio dell’Apostolo, a fine di dissipare la tentazione: per Dominum rogavi. Allorché sarete nell’infermità e nei patimenti, essa v’insegnerà non solamente a sopportarli, ma ancora a rallegrarvene: hi infìrmatibus meis gloriabor (2 Cor. XI). Finalmente, non vi contentate d’intendere la divina parola, in chiesa, meditatela nelle vostre case con la lettura di qualche buon libro di cui dovete far uso, principalmente quando non potete assistere alle istruzioni. Un buon libro è un predicatore, tanto più capace di fare buone impressioni nelle anime, quanto che non cerca egli di piacere, e altri non s’offende di ciò che dice. È bene che ogni famiglia ne sia provveduta e che il capo abbia attenzione di farlo leggere ai suoi figliuoli e ai suoi servi, principalmente nei giorni di festa. Quando si vuole efficacemente la sua salute, si usano tutti i mezzi per riuscirvi, l’attenzione e la fedeltà ad osservare la parola di Dio ne è uno molto sicuro. Faccia il cielo, fratelli miei, che voi lo mettiate in pratica. La divina semente produrrà in voi frutti degni dell’immortalità beata. Così sia.

Credo

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus Ps XVI:5; XVI:6-7

Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine. [Rendi fermi i miei passi nei tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino. Inclina l’orecchio verso di me, e ascolta le mie parole. Fa risplendere la tua misericordia, tu che salvi chi spera in Te, o Signore.]

Secreta

Oblátum tibi, Dómine, sacrifícium, vivíficet nos semper et múniat.

[Il sacrificio a Te offerto, o Signore, sempre ci vivifichi e custodisca.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps XLII: 4

Introíbo ad altáre Dei, ad Deum, qui lætíficat juventútem meam. [Mi accosterò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut, quos tuis réficis sacraméntis, tibi étiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas. [Ti supplichiamo, o Dio onnipotente, affinché quelli che nutri coi tuoi sacramenti, Ti servano degnamente con una condotta a Te gradita.]

Ultimo Evang. e Preghiere leonine:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

Ordinario della Messa:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/


LO SCUDO DELLA FEDE (98)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (9)

Si risponde a chi abusa il nome di naturaa negare Iddio.

I .

I . Plinio, istorico grande, ma tracotante, che quanto seppe dell’opere naturali, tanto ne ignorò dell’Artefice; dopo molto dibattere la sua penna per iscancellarsi dal cuore ciò che vi aveva da sé scritto chi lo formò, giunse finalmente a conchiudere che altro Dio non doveva conoscersi al mondo, che la natura: Per quæ declaratur haud dubie naturae potentia: idque esse, quod Deum vocamus (Pl.l.2.c. 7).(1) Queste parole di Plinio contengono la definizione del naturalismo metafisico, dottrina, che pone la natura al posto di Dio). Sembra però, che gli ateisti abbiano appreso dalla scuola caliginosa di un tale autore a non volere altro nume, che questo nume di natura, per altro venerandissimo, tanta è la sua antichità. Ma se è così, calino dunque pure giù la cortina, e ci lascin vedere ciò che si asconde sotto sì degno vocabolo. Intendono forse eglino per natura quella radice di proprietà singolare di ciascuno individuo? Ma ciò sarebbe, come se per levare la gloria a Fidia, si asserisse per autore delle sue statue il marmo, gli scarpelli, le seste, e non la mente di quell’artefice sommo. Conciossiachè, siccome quantunque il marmo sia capacissimo di ricevere la figura d’uomo, e gli scarpelli e le seste sian capacissimi di esser istrumenti a donargliela; contuttociò né quello né questi avrebbero da sé soli mai fatto nulla senza la mano maestra: così forza è che succeda nel nostro caso, anzi molto più; perchè se senz’arte non può mai formarsi verun lavoro dall’arte, molto meno senz’arte può mai formarsene alcuno dalla natura, la quale è quella che dà le regole all’arte.

II.

II. Pigliate in mano una rosa, e domandate a costoro, se sanno dirvi chi le lavorò sì gentilmente quel manto cui cede lo scarlatto ancora reale, e chi segue già, da tanti anni che il mondo dura, a lavorargliene ogni primavera un novello? La terra è cieca e non s’intende di colori, di vistosità, di vaghezza, di proporzioni; cieche sono le spine onde pullula sì bel fiore, cieche le radiche, ciechi i rami: cieche son le rugiade che ella ha per latte; e cieco il sole che le apre sul mattino la boccia su cui pompeggia, e che l’aduggia alla sera, per figurare a quanti vogliono attendervi de’ mortali, la vanità delle loro ambite bellezze: Magna admonitione hominum, quæ spectatissime florent, ertissime arescere. (Pl. . 21, c. 1). Conviene pur dunque trovare a parto sì vago una madre più bella che non è la terra, le spine, le radiche, i rami, l’umore, il sole, e gli influssi che piovono dalle stelle. Convien trovare chi mai fu che vi seppe dispor sì bene il vermiglio di quella porpora, diminuendolo a poco dalle foglie più intrinseche alle più estrinseche, senza svario. Convien trovare chi vi innestò sì profondamente l’odore che esse diffondono con pari soavità da qualunque lato. Convien trovare chi dispose quelle venette che vi scorrono dentro, e insieme vi ripartiscono l’alimento per tante vie, quante l’anatomia loro propria ne ha già scoperte. Convien trovare chi collocò tutte quelle foglie a suo luogo, chi le torse con tanto garbo, chi le agguagliò con tanta misura, chi le attondò con tanta maestria, chi vestì ciascuna di un velo finissimo più che il bisso, chi le coperse di una lanugine delicata, quasi a testificarne la giovinezza, e chi finalmente vi compilò tanto di stupori in un guardo, che la vita di un uomo sarebbe corta, se li dovesse trascorrere ad uno ad uno (S. Th. 1. 2. q. 21. art. 2. in e). Tutto questo doveva di necessità essere artifizio di una cagione sapientissima, la quale si valesse della materia variamente disposta della terra, delle spine, delle radici, de’ rami, delle rugiade, del calor solare, e degli altri influssi, come lo scultore si vale del marmo, degli scalpelli, delle seste, e d’ogni suo ferro, a perfezionare il disegno di quella statua che egli divisò nella mente: onde vano è per questo vocabolo di natura, nel caso nostro, intendere altro che Dio, primo Autore delle opere naturali.

III.

III. Oltre a che non veggiamo noi, come in tutte le parti, benché insensate, dell’universo, spicca una inclinazione, la quale sarebbe mirabile ancor tra quei che professano regole di onestà: ed è, d’intendere al bene del loro tutto, più che al loro proprio? qual dubbio adunque che non può questa in veruna di tali parti venire impressa da altri, che da una cagione universalissima, a cui appartenga la cura del prò comune? Eccovi per figura l’argento vivo. Se egli non fosse predominato da altra propension che da quella del proprio comodo, come volete voi che egli s’inducesse a salire in alto, quasi agile e non gravoso? Eppure egli sale, e sale a questo sol fine di empiere il vacuo, pregiudiziale alla pubblica utilità. Che però questa e più altre simili osservazioni che possono farsi sull’operare delle sostanze in bene non proprio, ci fanno scorgere ad evidenza, che oltre alle nature particolari, le quali a guisa di un padre di famiglia provvedono allo loro case private, v’è al mondo una natura universale, che a guisa di principe supremo invigila tutt’ora al servigio pubblico, valendosi a tal fine delle parti subordinate,, con accorgimento mirabile in prò del tutto. Senza questo supremo intelletto, nessuna delle nature inferiori potrebbe andare sì diretta al suo fine, qual nave al porto. Tolto questo intelletto, ciascuna natura mirerebbe a sé sola, nessuna al bene delle altre (Queste giuste considerazioni ci ricordano i versi di Dante: « … Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma, che l’universo a Dio fa somigliante – Par. c. 1. » ). Tolto questo intelletto, 1’uomo non potrebbe essere uomo, cioè non potrebbe essere ragionevole (S. Th. 1. p. q. 90. art. 1. ad 1.). Conciossiachè non v’essendo tra le cagioni visibili verun’altra, la quale possegga la perfezione d’intendere come lui, non si potrebbe rinvenir mai chi gli desse l’intendimento Che se pure vogliamo dire, che tolto questo intelletto supremo, l’uomo fosse quell’uomo che egli è al presente; l’uomo sarebbe altresì, come ragionevole, la cagione più nobile di quanto noi ne miriamo nel nostro mondo. E chi vi è di maggiore dal cielo ingiù, che la mente umana? Nihil est maius mente humana, nisi Deus; tanto è costretto a confessare ciascuno con Agostino (L. 14. de Trinit. c. 8): onde le invenzioni dell’ uomo, le industrie dell’uomo, i lavori dell’uomo dovrebbero superare tutte lo opere delle cagioni inanimate e prive di senno, e superarle di modo, che a tutte le fatture della natura dovrebbero preferirsi di lunga mano tutte le manifatture dell’arte, come provenienti dall’unico intenditore che in tutto l’universo sensibile rimarrebbe se si verificasse che non v’è Dio.

IV.

IV. Ecco però Dio nascosto insieme e svelato sotto questo nome sì celebre di natura,

che (a metterlo ancor più chiaro) ha due sensi: quello di natura, che chiamano naturata (seppure voi pigliate a sdegno i vocaboli delle cattedre), e quello di natura che chiamano naturante (Natura naturans … est Deus. Natura naturata est rerum omnium creatarum insita vis (Lexicon Peripat.). Con questa metafisica distinzione il naturalismo cade da sé.). La natura naturata è quella inclinazione che spinge qualunque cosa al conseguimento del fine a cui fu prodotta. La natura naturante è l’autore che dà tal inclinazione. Perché, come il volo della saetta, la quale è cieca a conoscere il suo bersaglio, dimostra apertamente, mentre vi va sì risoluta, sì retta, che ella è mandata da qualche direttore di buona vista; così il corso delle cose naturali, che sono cieche a conoscere il loro fine, dimostra più chiaramente (mentre vi tendono) che v’è chi il vede per esse e chi le inclina, o piuttosto ve le necessita; ma con questa diversità, che quella necessità la quale è impressa nelle cose dall’uomo è detta violenza; quella necessità la quale fu impressa nelle cose di Dio vien detta natura (S. Th. 1. p. q. 103. art. 1° ad 3.). Onde, se il veder la saetta necessitata a seguir con aggiustatezza il cinghial fuggente, ci obbliga a dire, evvi arciere che la scoccò: molto più il vedere la terra, l’acqua, l’aria, e tutte le sfere, necessitate a procedere con giudizio tanto più stabile e tanto più sollevato ne’ lor corsi, ci obbliga a dire, evvi nume che le indirizza. Mirate dunque, che come non può fuggirsi dal mondo senza incontrare quel mondo da cui si fugge, così non può negarsi Dio senza confessarlo. Il chiamare natura quella potenza invisibile che dà l’ordine a cose sì belle in sé, sì concatenate, sì comode, sì durevoli, e non volerla chiamare Dio, è un chiamare il sole principe de’ pianeti e non voler per dispetto chiamarlo sole. Può bene la lingua umana cambiargli titoli, ma non può gettarlo dal trono: Nòli intelligis te mutare nomen Deo? Disse già Seneca. Quia est aliud natura, quam Deus, et divino, ratio, toti mundo, et partibus eius inserta (Sen. De ben. 1. 4°. c. 7.). E però torna da capo il mio primo assunto, ed è, che più dovete penare senza paragone a persuadervi che non v’è Dio, che a persuadervi che v’è: tanto gli effetti cospirano unitamente a notificarvi il loro fattore.

V. Finora abbiamo veduto ciò. stando più sulle generali, per abbattere chi non crede. Orail vedremo discendendo maggiormente allocose particolari, per confortare tanto più chicomincia a credere. E perché questo fattoredell’universo è chiamato in ristretto Creatordel cielo e creatore della terra, stimerò difare il pregio dell’opera, se vi mostri, comei l cielo testifica a favor d’ esso, e come laterra.

“UNA CUM FAMULO TUO, PAPA NOSTRO …”

UNA CUM PAPA NOSTRO …”  GARANZIA DI GRAZIA SOPRANNATURALE  ED UNICA VIA DI SALVEZZA

L’UNIONE CON IL SOMMO PONTEFICE (quello canonicamente eletto in un vero e valido Conclave con Cardinali nominati dalla “vera” ed unica Autorità Apostolica, cioè il vero Papa!), è “condicio sine qua non” per

l’ETERNA SALVEZZA DELL’ANIMA.

“Chi aderisce ad un falso [o finto usurpante] Papa, diceva già S. Cipriano, è assolutamente fuori dalla Chiesa Cattolica – quindi sulla via della dannazione – come pure gli scismatici senza giurisdizione o missione con i loro settari, che sacrilegamente amministrano falsi sacramenti e false messe senza “una cum Papa nostro …” , l’unico garante della fede, dei Sacramenti e delle azioni liturgiche, e senza il quale, tutto il resto risulta inutile, anzi sacrilegio degno di riprovazione e condanna eterna. Ma sentiamo come si esprime la Dottrina immutabile e perenne della Chiesa Cattolica, per bocca del suo massimo teologo, l’Angelo della scuola, San Tommaso d’Aquino:

T. Pégues, O. P.:

LA SOMMA TEOLOGICA di S. Tommaso D’Aquino In forma di Catechismo per tutti i fedeli; (trad. aut. A. Romani) – ROMA, Marietti, 1922 p. 452, Impr ., (interamente pubblicato sul blog):

Sull’importanza vitale dell’essere in unione con la Giurisdizione papale onde  ricevere la grazia soprannaturale:

D. Perché questo potere supremo nell’ordine della Giurisdizione appartiene al Sovrano Pontefice?

R. Perché la perfetta unità della 9Chiesa esige che questo potere supremo appartenga a lui solo. Per questo motivo Gesù Cristo ha incaricato Simon Pietro di nutrire il suo gregge; e il Romano Pontefice è l’unico e solo legittimo successore di San Pietro fino alla fine dei tempi (XL. 6).

D. È quindi dal Sovrano Pontefice che dipende l’unione di ogni uomo con Gesù Cristo attraverso i Sacramenti, e di conseguenza la sua vita soprannaturale e la sua salvezza eterna?

R. ; poiché sebbene sia vero che la grazia di Gesù Cristo non dipende in modo assoluto dalla ricezione dei Sacramenti stessi quando è impossibile riceverli, almeno nel caso degli adulti e che l’azione dello Spirito Santo possa integrare questo difetto purché la persona non sia in malafede; è, d’altra parte, assolutamente certo che nessuno che si separi consapevolmente dalla comunione con il Sovrano Pontefice, possa partecipare alla grazia di Gesù Cristo, e che di conseguenza …

se muore in quello stato si perde irrimediabilmente “.

SALMI BIBLICI: “JUBILATE DEO, OMNIS TERRA; SERVITE DOMINO”(XCIX)

SALMO 99: “JUBILATE DEO, omnis terra; servite Domino

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 99

Psalmus in confessione.

[1] Jubilate Deo, omnis terra; servite Domino

in lætitia. Introite in conspectu ejus in exsultatione.

[2] Scitote quoniam Dominus ipse est Deus; ipse fecit nos, et non ipsi nos; populus ejus, et oves pascuæ ejus.

[3] Introite portas ejus in confessione, atria ejus in hymnis; confitemini illi. Laudate nomen ejus,

[4] quoniam suavis est Dominus; in æternum misericordia ejus, et usque in generationem et generationem veritas ejus.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XCIX.

Invito al popolo di frequentemente lodar Dio che ci creò, che ci pasce, che è soave, che è misericordioso e verace.

Salmo di laude.

1. Canti con giubilo le Iodi quanta la terra, servite il Signore in allegrezza. Presentatevi al cospetto di lui con esultazione.

2. Sappiate che il Signore egli è Dio; egli ci ha fatti, e noi stessi non ci siam fatti da noi,

3. Voi suo popolo e pecorelle de’ suoi paschi, entrate nelle sue porte con canti di laude nella sua casa con inni, e rendete a lui grazie.

4. Lodate il suo nome, perché dolce è il Signore; eterna ch’è la sua misericordia, e la sua verità si mantiene per tutte le generazioni.

Sommario analitico

In questo salmo, che è una esortazione al culto del vero Dio,

I. – Il salmista invita tutta la terra ad adorare il vero Dio:

1° Con gli accenti della sua voce (1);

2° con le opere, servendolo con gioia (1) e ad aprendosi dinanzi a Lui nel trasporto dell’allegrezza (1);

3° Con i pensieri, riconoscendolo – a) come Dio e come Creatore (2); – b) come Re e come Pastore (8).

II. – A lodarlo come un Dio pieno di bontà:

1° Che ha aperto ai suoi eletti le porte del cielo (3);

2° Che ha elargito ad essi i tesori della sua bontà e della sua misericordia<,

3° Che mostra loro la sua verità nel mantenere le sue promesse di generazione in generazione (4). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1, 2

ff. 1, 2. – Tre gradi, o se si vuole, tre azioni sono in questo preambolo del salmo: « Cantare le lodi del Signore con gioia; servire il Signore in allegria; comparire alla presenza del Signore, o nel suo tempio santo, con i sentimenti di una soddisfazione perfetta. » Alcuna noia in questi santi cantici; nessun mormorio in questa servitù; nessun turbamento in questo commercio con Dio. Colui che vuole accordare l’amore del mondo con i doveri della Religione non comprenderà nulla degli inviti del Profeta; egli dirà, se è in buona fede, che la preghiera lo disgusta, che la fedeltà alle leggi i Dio lo preoccupa, che l’assiduità nel tempio santo lo affatica. Si, è così quando il cuore è vuoto di Dio e quando l’amore del mondo vi regna imperiosamente (Berthier). – Già tutta la terra loda Dio nel giubilo, e tutta la parte della terra che non ancora lo loda, lo loderà un giorno; perché la benedizione divina, spandendosi nell’universo, ribalta dappertutto l’empietà e dappertutto stabilisce la pietà; ma i buoni sono frammisti ai malvagi, vi sono malvagi su tutta la terra, come su tutta la terra vi sono degli uomini buoni; i malvagi gridano su tutta la terra mormorii, ed i buoni un grido di giubilo. –  Colui che è nel giubilo non pronunzia parole, ma esprime la sua gioia con suoni inarticolati. Ciò che fa intendere è l’accento di un’anima tutta penetrata di gioia, che esprime i suoi sentimenti quel tanto che può, incapace di contenersi essa stessa. L’uomo che è nella gioia, dopo essersi dapprima espresso, nel trasporto della sua allegrezza, con parole che non possono né dirsi né comprendersi, si lascia andare ben preso ad una sorta di crisi di benessere, senza frammiste parole. – Quando dunque, dobbiamo essere in questo giubilo al quale ci esorta il Salmista? Quando noi lodiamo ciò che non possono esprimere le parole umane. Noi consideriamo, ad esempio, la creazione intera, la terra, il mare ed il cielo e tutto ciò che essi contengono; noi sottolineiamo che ogni cosa ha la sua origine e le sue cause; noi osserviamo le meravigliose proprietà delle sementi, l’ordine delle nascite, la maniera di sussistere dei differenti esseri, il deperimento che le conduce alla morte, il corso dei secoli che si succedono senza turbamenti, le rivoluzioni delle stelle che sembrano andare da Oriente verso Occidente, il corso degli anni che si compie, la lunghezza regolare dei mesi e la durata delle ore, e in mezzo a tutte queste meraviglie, noi sentiamo che c’è un non so che di invisibile che si chiama spirito o anima, che in tutti gli esseri animati fa loro cercare il piacere, fuggire il dolore e conservare tra esse un certo legame di unità per la cura che prendono della loro conservazione; noi constatiamo infine che l’uomo porta in sé qualcosa di comune con gli Angeli di Dio, operazione che appartiene esclusivamente ad uno spirito e che non condivide con gli animali, come invece condivide con essi la vita, l’udito, la vista ed altre facoltà, ma che consiste nell’avere l’idea di Dio, operazione che appartiene esclusivamente al suo spirito, ed a discernere il bene dal male, come l’occhio distingue il bianco dal nero. In questa veduta d’insieme della creazione, l’anima si domanda: chi ha fatto tutte queste cose? Chi le ha create? Chi ha creato te stesso in mezzo a tutte queste cose? Cosa sono queste creature che tu esamini? Cosa sei tu che ti esamini? Chi è colui che ha fatto, e queste core che tu consideri e tu che esamini? Chi è? Di’, chi è? Ma per dirlo è necessario che il tuo pensiero lo concepisca; perché tu puoi concepire determinati pensieri e non poterli esprimere, ma tu non potrai mai esprimere ciò che il tuo pensiero non avrà potuto concepire. Il tuo pensiero si porti dunque verso di Lui, prima di dire chi è, e per concepirlo avvicinati a Lui; perché quando tu vuoi vedere un oggetto, per essere in grado di parlarne, tu ti avvicini per esaminarlo per timore di un errore se l’oggetto non è visto che da lontano. Ma dal momento che si vede con gli occhi corporali, e Dio non è percepito che dallo spirito, non è considerato e visto che dal cuore. E dov’è questo cuore per mezzo del quale lo si vede? « Beati, dice il Signore, coloro il cui cuore è piro, perché essi vedranno Dio. » (Matt. V, 8). Io ho esaminato, come ho potuto, tutta la creazione, ho osservato la natura corporea nel cielo e sulla terra, e la natura spirituale in se stessa … e tuttavia cosa posso comprendere da me stesso? Come potrei concepire ciò che è al di sopra di me? Tuttavia la vista di Dio è promessa al cuore dell’uomo, e perché io l’ottenga, Dio impone l’obbligo di operare per purificare il proprio cuore, perché la Scrittura dice: Preparatevi in modo da vedere ciò che voi amate, ancor prima di vederlo (S. Agost.). – « Servite il Signore nella gioia. » La gioia, l’allegria, la vera contentezza, sono la conseguenza naturale di una fede viva nell’esistenza, nella protezione, nell’onnipotente bontà di Dio. Ogni servizio è pieno di amarezza: tutti coloro che la loro condizione obbliga a servire, non lo fanno se non mormorando. Non temete il servizio di questo Padrone, egli non provocherà nessuna lamentela, nessuna irritazione; là nessuno chiede di essere venduto ad un altro padrone, tanto è dolce l’essere riscattati da Lui (S. Agost.). – Il Profeta si indirizza a voi che sopportate tutte le cose nella carità, e che gioite nella speranza: servite il Signore non nell’amarezza con spirito di mormorio, ma « nella gioia dell’amore; presentatevi davanti al suo volto con allegria. » È facile essere trasportati dalla gioia per qualche causa esteriore, ma è davanti a Dio che bisogna librarsi alla gioia. Questi trasporti siano meno quelli della vostra lingua piuttosto che quelli della vostra coscienza. (S. Agost.). – « Sappiate che il Signore è Dio. » La scienza di Dio è necessaria: 1° prima di determinarci a presentarci davanti a Dio, noi dobbiamo sapere ciò che Egli è; 2° la conoscenza di Dio è l’inizio della virtù; 3° essa è la gloria dell’anima fedele: « Il saggio non si glorifichi nella sua saggezza, il forte non si glorifichi che nella sua forza, il ricco non si glorifichi nella sua ricchezza; ma colui che si glorifica, dice il Signore, si glorifichi di conoscermi e di sapere che Io sono il Signore; » (Gerem. IV, 23, 24); 4° Essa è la luce che ci conduce al cielo: « La vita eterna consiste nel conoscervi, Voi, il solo e vero Dio, e Colui che avete inviato, Gesù-Cristo. » (Giov. XVII, 3). – Nessun Cristiano c’è che non sappia che il Signore è il vero Dio, il Creatore di tutte le cose, ed la maggior parte però agisce come se non ne fosse convinto. – « Egli ci ha fatti e non siamo noi che abbiamo fatto noi stessi. » – Cosa avete per gioire tanto? Qual motivo di inorgoglirvi? Un altro vi ha fatti, e voi vi vantate, vi glorificate vi elevate come se vi foste fatti da voi stessi. È vantaggioso che Colui che vi ha fatto vi renda perfetti. « … è Lui che ci ha fatti. » Noi non dobbiamo inorgoglirci, tutto il bene che è in noi, lo otteniamo dal nostro Creatore. Tutto ciò che abbiamo fatto in noi, è per noi materia di condanna, tutto ciò che Egli ha fatto in noi e per noi, è oggetto della corona celeste. (S. Agost.). – « Noi non ci siamo fatti da noi stessi; » dunque noi riteniamo da Dio tutto ciò che abbiamo da essere, e in ogni momento della nostra esistenza. Noi siamo l’opera di Dio, e non abbiamo in noi stessi alcun mezzo per conservare quest’opera; Colui che solo può conservarla è Colui che ha dato la prima esistenza. Conseguenza di questa verità, è vedersi incessantemente nell’essere di Dio e pensare a Lui unicamente come a Colui che ci ha fatti per Lui e al Quale dobbiamo tornare. – Noi siamo chiamati popolo di Dio, perché Dio è il nostro Re; noi siamo chiamati sue pecore, perché Egli è il nostro Pastore. Noi siamo sue pecore e ciascuno di noi è una pecora, e le sue pecore non fanno che una pecora. E quale non è per noi l’infinita tenerezza del nostro Pastore? Egli ha lasciato le novantanove sue pecore ed è sceso a cercarne la sola perduta; Egli la riporta sulle sue spalle (Luc. XV, 4, 5), riscattata dal suo sangue. Il pastore è morto come assicurazione per la sua pecora, ed è risuscitato e possiede la sua pecora: « Noi siamo il suo popolo e pecore del suo pascolo » (S. Agost.). 

II. — 3, 4

ff. 3, 4. – « Entrate nelle porte per la confessione. » Le porte sono l’inizio della casa, cominciate con la Confessione. Confessate che non siete voi che avete fatto voi medesimi, lodate Colui che dal Quale siete stati fatti; il vostro bene viene da Colui il cui allontanamento ha causato il vostro male. Che il gregge entri dentro le porte; che non resti al di fuori, esposto ai lupi. – E come entrerà: Con la Confessione. Confessatevi passando per le porte della casa, e quando sarete entrati nei suoi sagrati, confessate il Nome del Signore con i vostri canti di lode (S. Agost.). « Lodate il suo Nome perché il Signore è pieno di dolcezza, etc. » Tre sono gli attributi che il Profeta ci richiama incessantemente nei suoi cantici, e che si incatenano l’uno nell’altro; la dolcezza, la misericordia, la verità di Dio. Poiché Dio è pieno di dolcezza e di bontà, Egli è sempre portato a perdonare; perché Egli è misericordioso, promette il perdono dei peccatori; perché Egli è fedele e verace nelle sue promesse, rende in effetti le sue buone grazie al peccatore (Berthier). – « Lodate il suo Nome, perché il Signore è soave. » Non temete che vi manchi la forza nel lodarlo. Le lodi che voi Gli darete saranno come un nutrimento che mangerete: più lo loderete, più forza acquisterete, e più Colui che voi loderete diverrà un alimento soave. « La sua misericordia è eterna; » perché dopo avervi liberato, non cesserà di essere misericordioso, e l’effetto della sua misericordia sarà quello di proteggervi senza fine per la vita eterna (S. Agost.). – La misericordia e la verità di Dio sono eterne, perché Egli le esercita in questa vita e nel secolo futuro. I Santi non gioiscono della gloria che in virtù della misericordia che Dio ha avuto per la loro miseria, ed essi non sono coronati se non perché Egli aveva promesso loro questa corona. (Idem). « Verità di Dio che si intende in tutto il susseguirsi delle generazioni, » perché essa non cambia, è sempre la stessa, e sempre così sarà durante tutto il corso dei secoli, come una regola inflessibile per raddrizzare tutti coloro che si allontanano dalla sua divina rettitudine.  

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (6)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (6)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’Ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°)

P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

SECONDA PARTE

DELLA SPECIALE PRESENZA DI DIO, O DELLA ABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI

CAPITOLO IV

Spiegazione della modalità specifica di presenza con la quale Dio onora i giusti della terra e i Santi in cielo

§  I. –  Come Dio sia presente con la sua sostanza all’intelligenza e alla volontà dei beati, in qualità di verità primaria e  sovrano Bene.

I.

Nell’elencare i diversi modi della presenza sostanziale che Dio può avere negli esseri creati, San Tommaso, come abbiamo notato, ne conta solo tre: come agente, come oggetto di conoscenza e di amore, e mediante l’unione ipostatica. Non ne ha forse omesso o dimenticato un quarto: quello che conviene agli eletti in cielo? (Trid., sess. XIII, c. III.).  – Infatti, se Dio deve essere unito in modo efficace ed intimo a certe creature, lo è certamente agli spiriti benedetti che possono contemplarlo faccia a faccia e trovare nel suo possesso la loro felicità suprema. Ebbene, no! Il santo Dottore non ha dimenticato od omesso nulla, e la numerazione che ci dà è completa, poiché l’unione della Divinità con i giusti della terra non è di natura assolutamente diversa da quella che è prerogativa dei Santi che godono della beatitudine. – Secondo l’esplicita e formale dichiarazione del Sommo Pontefice Leone XIII, « questa mirabile unione, chiamata col suo vero nome di inabitazione, differisce solo nella condizione o stato da quella che fa la felicità degli abitanti del cielo: Hæc autem mira conjunctio, qaæ suo nomine inhabitatio dicitur, conditione tantum seu statu ab ea discrepat qua cælites Deus beando complectitur (Encycl. Divinum illud munus).  Si differenzia da essa come l’inizio di un’opera si distingue dal suo coronamento, come il seme si distingue dal frutto che ha raggiunto la maturità. La grazia, infatti, è il seme della gloria; inaugura qui sulla terra, anche se in modo imperfetto, la vita che ci è riservata in cielo. – Ora la vita eterna consiste nella conoscenza dell’unico vero Dio e del suo inviato Gesù Cristo: Hæc est vita æterna, ut cognoscant te solum Deum verum, et quem misisti, Jesum Christum (Giov. XVII, 3); non di questa conoscenza mediata, astratta, oscura, che è la nostra partecipazione a questa vita, e che attinge alle opere di Dio e alla verità rivelata; ma nella visione diretta e immediata, nella contemplazione “chiara” di faccia, intuitiva dell’essenza divina; nel possesso e nel godimento del Bene sovrano; in altre parole, consiste nella presenza reale e sostanziale di Dio nella mente e nel cuore dei beati come oggetto diretto della loro conoscenza e del loro amore: ut cognitum in cognoscente et amatum in amante. – Se vogliamo quindi avere un’idea chiara e precisa di questo tipo di presenza, dobbiamo considerarla non come offertaci nella persona dei giusti della terra, dove è ancora in uno stato rudimentale, sotto forma di un germe; ma come esiste nei Santi del Paradiso, nei quali è giunta al suo pieno sviluppo; così come, per apprezzare pienamente ciò che è l’uomo, la sua natura, le sue facoltà, le sue operazioni, egli debba essere studiato non nello stato di embrione o di feto, durante i primi mesi della sua esistenza nel grembo materno, ma nello stato di essere perfetto, durante il periodo della vita in cui ha raggiunto il suo pieno sviluppo, la sua regolare e normale perfezione. Cerchiamo dunque di capire come Dio sia unito ai beati che sono già giunti alla fine del loro pellegrinaggio. È una verità della nostra fede che l’eletto in cielo veda Dio faccia a faccia, apertamente, chiaramente, intuitivamente, senza intermediari, così come è, nell’unità della sua essenza e nella Trinità delle sue Persone. (Ex Const. Benedictus Deus, Bened. XII, an. 1336). È in questa visione chiara e nel godimento che l’accompagna, che consiste la promessa corona di giustizia, come ricompensa, alle nostre opere meritorie. (« In reliquo reposita est mihi corona justitiae, quam reddet mihi Dominus in illa die jus tus judex : non solum autem mihi, sed et iis qui diligunt adventum ejus. » – II Tim., IV, 8). Ma come diventa possibile per la creatura una tale visione, che naturalmente appartiene e può solo naturalmente appartenere a Dio? Come si realizzerà questo effettivamente nei fatti?  – Secondo l’insegnamento dei filosofi scolastici, la nostra intelligenza, o meglio qualsiasi intelligenza creata, qualunque essa sia, non è e non può essere la causa totale ed esclusiva ed efficace del suo atto di conoscere. Facoltà passiva oltre che attiva, incapace di ricevere tanto quanto è capace di produrre, atta a conoscere ogni cosa, ma indeterminata per se stessa ed indifferente a cogliere questo o quello, l’intelligenza creata rimane inerte, finché non sia completata, azionata, mossa, fecondata da una qualità accidentale, una forma che gli venga dall’esterno, che si unisca ad essa in una strettissima unione, la perfezioni, la determini, la renda capace di produrre il suo atto, e diventi con essa co-principio del verbo mentale in chi e da chi conosce. Questa forma, questa determinazione, questa attuazione dell’intelligenza, non è altro che l’immagine o la rappresentazione intellettuale dell’oggetto che si tratta di conoscere, poiché è quasi sempre fuori dallo stato di potersi unire direttamente e da se stesso alla facoltà cognitiva. Da qui questo assioma mutuato da Sant’Agostino, che la conoscenza è il prodotto di un doppio fattore, l’oggetto e la facoltà.  – Nell’Angelo, una natura perfetta che non conosce infanzia, questo necessario complemento all’intelligenza gli arriva direttamente da Dio, dal quale, nel momento della sua creazione, riceve con l’essere le idee infuse di ogni cosa. Per l’uomo, invece, che arriva solo lentamente e per gradi, passando attraverso le diverse fasi dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza, in quell’età perfetta in cui ha il suo pieno sviluppo fisico ed intellettuale, questo complemento indispensabile gli viene in origine dai sensi. È la specie impressa, la forma intelligibile degli scolastici. E notiamo di passaggio che, nonostante l’origine estrinseca di questo elemento, il nostro atto di conoscenza intellettuale, il nostro intelligere, non cessa per questo di essere chiamato e di essere effettivamente un atto vitale, un movimento immanente, un motus ab intrinseco; perché la specie o l’immagine intelligibile dell’oggetto si unisce alla nostra facoltà per modalità di forma per effettuarla, perfezionarla e specificarla, determinandola a conoscere un oggetto piuttosto che un altro. – Con questi principi in mente, chiediamoci quale sarà, nella visione beatifica, la forma intelligibile che, unendosi al nostro spirito, gli permetterà di vedere Dio come è in se stesso.

II.

Ogni volta che San Tommaso affronta questa questione, e lo fa in una moltitudine di passaggi, insegna che nessuna immagine, nessuna forma intelligibile creata sia in grado di rappresentare adeguatamente l’essenza divina, dal momento che questa essenza è infinita, mentre ogni essere creato, qualunque esso sia, sostanza o accidente, non riceve mai dall’atto creativo che una natura determinata e finita, limitata ad un genere e ad una specie, e quindi si trova radicalmente incapace di rappresentare quidditativamente Colui che è la pienezza dell’essere. È quindi assolutamente necessario che l’essenza divina stessa si unisca all’intelligenza dei beati e svolga il ruolo di forma intelligibile. (S. Th., Comp. Theol., Opusc. III, cap. CV.). – Inoltre, secondo l’angelico Dottore, affermare che Dio è visto per mezzo di un’immagine, di una specie intelligibile, di una rappresentazione creata, è negare in modo equivalente la visione intuitiva: Unde dicere Deum per similitudine nem videri, est dicere divinam essentiam non videri; quod est erroneum (Summa Theol.. I, q. XII, a. 2). Ma questa unione dell’essenza divina con l’intelligenza creata è possibile? Sì, perché Dio è la verità vivente, come è l’Essere stesso, e la verità è la perfezione dell’intelligenza. Ipse enim sicut est suum esse, ita est sua veritas, quæ est forma intellectus (S. Th., Comp. Theol., cap. CV). – C’è tuttavia, una condizione preliminare, ed è che l’intelletto creato sia preparato e disposto a questa unità da una forza, una perfezione soprannaturale, che lo elevi al di sopra della sua condizione originaria; è lo stesso di quando, prima di insegnare a qualcuno una scienza superiore, ad esempio la teologia, o il calcolo infinitesimale, sia necessario, mediante una preparazione adeguata, che si renda il soggetto capace di ricevere questo insegnamento. Questa forza, questa qualità soprannaturale, che eleva, conferma e prepara la nostra anima a questa beata unione, non è altro che la luce di gloria (Ibid.). – Così, secondo San Tommaso, per vedere Dio intuitivamente, sono necessarie due cose: l’una che sta dal lato della facoltà creata e che ha lo scopo di rafforzare, ampliare, elevare il suo potere, ed è il ruolo della luce della gloria; l’altra che sta dalla parte dell’oggetto, è l’unione diretta e immediata dell’Essenza divina con l’intelligenza creata chiamata a contemplarla. Inutile cercare se questa essenza divina adempia rigorosamente le funzioni di specie impressa rispetto alla nostra intelligenza, o se non lo faccia che in maniera impropria, e in senso puramente analogico; in effetti, tutti sanno che, se la natura divina è la forma esemplare, il prototipo di tutte le cose, non può essere il principio formale intrinseco di qualsiasi creatura, (S. Th., Summa TheoL, I, q. III, a. 8), e che, se certe perfezioni sono comuni al Creatore e alla creatura, esiste, nel modo di possederle, una tale disparità che nulla possa essere attribuito ad ognuna di esse in senso identico (Id., ibid., I, q. XIII, a. 5). Del resto per evitare ogni malinteso, san Tommaso dichiara esplicitamente che, nella visione beatifica, l’Essenza divina svolge il ruolo di specie intelligibile, senza essere, in senso stretto, la forma dell’intelligenza creata (S. Th., Qq. disp., de verit., q. VIII, a. I). – Possiamo quindi considerare come una cosa inequivocabile che l’essenza divina è direttamente unita all’intelligenza dei beati in cielo, per essere, con essa, co-principio della visione beatifica; e poiché è questa stessa Essenza che deve essere vista, è allo stesso tempo  il termine e l’oggetto di questa visione; così che questa Essenza divina è sia l’alfa che l’omega, il principio ed il termine di questa operazione vitale che costituisce la beatitudine formale dei Santi. – Come non riconoscere allora, tra la Divinità e gli eletti in cielo, una vera e propria unione, poiché Dio può essere visto e posseduto solo se è presente al loro spirito di per Se stesso, e non con la sua immagine, per suam essentiam, et non per speciem essentiæ repræsentativam; un’unione speciale e formalmente distinta da quella che può avere ed ha effettivamente con le altre creature, poiché non è più solo come agente che Egli è nel beato, ma anche e soprattutto come oggetto di conoscenza e di amore, di conoscenza intuitiva, di amore beatifico; un’unione che, senza condurre all’unità di sostanza e, nel rispetto della doppia personalità di Dio e dell’essere creato, li mette in relazioni così intime che l’uno diventa la beatitudine e la perfezione suprema dell’altro. Quale sarà questa visione di Dio, questa contemplazione della bellezza infinita, ciò che essa porterà in gioia, dolcezza, delizia, nessuno lo sa, tranne Colui che la dà e colui che ne gode, nemo scit, nisi qui æcipit. (Apoc. II, 17). – Gli autori ispirati, ai quali lo Spirito Santo si è degnato di rivelarne qualcosa, ci dicono che sarà piena di tutti i nostri desideri « Qui replet in bonis desiderium tuum. » (Ps. CII, 5.) — « Satiabor cum apparuerit gloria tua. » (Ps. XVI, 15), un vero torrente di delizie capace non solo di riempire il nostro cuore, ma di inondarlo veramente; sarà sicuramente una conoscenza non arida e fredda, come un pallido raggio invernale, ma ardente, gustosa, sovranamente deliziosa, che genererà nella volontà un amore immenso, irresistibile, ininterrotto, ed una gioia tanto grande, quanto il nostro cuore ne potrà contenere.

III.

Presente con la sua sostanza all’intelligenza dei beati, potrebbe Dio essere mai assente dalla loro volontà? Quello che succede nella prima di queste facoltà non avrebbe conseguenze sulla seconda? Ciò che accade nell’ordine della conoscenza non avrebbe le sue necessarie ripercussioni nell’ordine dell’amore? Non è forse una verità universalmente accettata dai filosofi che tutte le forme sono seguite da un’inclinazione proporzionata? (S. Th., Summa Theol.,1, q. LXXX, a. I). L’amore, in effetti, segue naturalmente la conoscenza, e l’unione è il fine regolare dell’amore. Vedendo Dio faccia a faccia, i Santi del cielo sono nel felice bisogno di amarlo. E infatti, come potrebbe la loro volontà non essere portata, con impulso irresistibile, verso Colui che la loro intelligenza chiaramente conosce e propone loro apertamente come il Bene sovrano? E poiché lo possiedono, senza timore di perderlo, come non trovare in Lui la dilettazione suprema? Ma il godimento non si ha senza l’effettiva presenza dell’oggetto amato. Se allora Dio è veramente unito alla loro intelligenza come oggetto di conoscenza, Egli deve anche, diciamo meglio, deve essere il più forte motivo per cui deve essere realmente ed efficacemente unito alla loro volontà come oggetto di amore, perché « l’amore è più unificante della conoscenza: Amor est magis unitivus quam cognitio. » (S. Th., Ia.-IIæ, q. XXVIII, a. 1, ad 3). – Inoltre, una semplice unione d’affezione sarebbe assolutamente insufficiente per il perfetto e completo godimento che la beatitudine implica. L’unione d’affezione esiste certamente, poiché i beati amano Dio e sono da Lui amati, e l’amore consiste formalmente in questo legame morale che avvicina e incatena i cuori; ma l’amore tende e aspira all’unione reale, e la produce per quanto possibile: e a seconda che l’unione sia reale o solo affettiva, ci sono due modi di amare, uno di godimento, l’altro di desiderio. Ora, è l’unione del godimento che regna in cielo, poiché ogni legittimo desiderio vi è soddisfatto. Vedremo ciò che abbiamo creduto, possederemo ciò che abbiamo sperato e cercato nel modo, finalmente godremo pienamente, sicuramente, eternamente, il Bene supremo. È allora che l’opera della nostra divinizzazione sarà completa e compiuta, e noi saremo perfettamente simili a Dio, tutti permeati, tutti impregnati di Dio, tutti divini. Di già senza dubbio, noi gli somigliamo, avendo in noi un dono creato sovranamento prezioso, che è una partecipazione formale della sua natura; (« Maxima et pretiosa nobis promisse donavit, ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ. » II Petr., I, 4); già siamo suoi figli per adozione, con diritto all’eredità paterna; ma non si dice l’ultima parola del nostro destino; quello che un giorno saremo non appare ancora: « Charissimi, nunc filii Dei sumus, e nondum apparuit quid erimus » (I Giov. III, 2). È quando si mostrerà a noi senza ombre e veli, quando lo vedremo faccia a faccia e allo scoperto, quando ci apparirà così com’è, che saremo pienamente simili a Lui. « Scimus quoniam, cum apparuerit, similes ei erimus, quoniam videbimus eum sicut est » (Ibid.). Allora vivremo la sua vita, conoscendolo e amandolo, anche se in modo finito e limitato, come Egli stesso si conosce e si ama: « Tunc cognoscam sicut et cognitus sum » (I Cor. XIII, 12); perché la vita intima di Dio consiste nella conoscenza e nell’amore che ha del suo Essere e delle sue divine perfezioni. Ottenuto questo fine, il nostro desiderio di conoscenza sarà pienamente soddisfatto, la nostra sete di felicità completamente appagata, perché l’essenza divina, unita alla nostra intelligenza, sarà un principio sufficiente a farci conoscere tutta la verità: e, d’altra parte, possedendo la fonte di ogni bene e di ogni bontà, cos’altro potremmo mai ancora desiderare? (S. Th., Comp. TheoL, cap. CVI). Allora si compirà definitivamente la preghiera che il Salvatore ha formulato il giorno prima della sua morte per i suoi discepoli e per coloro che avrebbero creduto in Lui nei secoli successivi: « Padre Santo, custodite nel vostro nome quelli che mi avete dato, perché siano uno come noi….. » – « Che tutti siano uno solo, o Padre, come Voi siete in me e Io in Voi. Che siano anch’essi una cosa sola in noi, affinché il mondo veda che Voi mi avete mandato. E ho dato loro la gloria che Voi mi avete dato, affinché siano uno come noi. Io in loro, Voi in me; che possano essere consumati nell’unità. Et ego claritatem quam dedisti mihi, dedi eis, ut sint unum, sicut et nos unum sumus. Ego in eis, et tu in me, ut sint consummati in unum. » (Giov. XVII, 11-23). Così l’unione, l’unione di tutti con Dio, l’unione di tutti in Dio, l’unione consumata, tale è il voto supremo del cuore di Gesù, pienamente realizzato nella gloria, e di cui un primo adempimento, si riceve già fin da questa vita, per grazia e carità. Ci si domanderà ora, ancora una volta, se l’inesistenza di Dio nei Santi, come oggetto di conoscenza e di amore, sia una presenza veramente sostanziale? Coloro che non riusciranno a capire che questo tipo di presenza potrebbe essere efficace e reale, e non limitarsi solo ad una semplice unione oggettiva e morale, saranno più felici ora? Noi osiamo credere che le difficoltà così spesso proposte su questo punto saranno scomparse come per incanto, e che i lettori che sono stati così benevoli nel seguirci fino ad ora, comprenderanno facilmente il significato e la portata delle seguenti parole di san Tommaso: « Con la sua operazione, cioè con la conoscenza e l’amore, la creatura ragionevole raggiunge la sostanza stessa di Dio; ecco perché, invece di dire che, secondo questo particolare modo di presenza, Dio è nell’anima giusta, si dice che abita in essa come nel suo tempio. Et quia cognoscendo et amando creatura rationalis sua operatione attingit ad ipsum Deum, secundum istum specialem modum Deus non solum dicitur esse in creatura rationali, sed etiam habitare in ea sicut in templo suo. » (S. Th., I, q. XLIII, a. 3). Essi capiranno anche la ragione dell’insistenza del santo Dottore nel ripetere che la sola grazia santificante possa solo procurare questo particolare modo di presenza. Sola gratia facit singularem modum essendi Deum in rebus. (Id., q. VIII, a. 3, ad 4). – Questo perché la conoscenza che abbiamo di Dio nell’ordine naturale, essendo una conoscenza indiretta e astratta, non la rende veramente presente alla nostra anima; è nella nostra intelligenza solo attraverso il concetto che la rappresenta, e quindi in modo puramente ideale e oggettivo, e non efficace e reale. La fede ce lo fa conoscere, è vero, più perfettamente della ragione, perché essa ci inizia, anche se in modo oscuro ed enigmatico, ai segreti della sua vita intima; ma la fede da sola, separata dalla carità, non basta a rendere Dio veramente presente nella comprensione del fedele, per farlo abitare in lui; ciò che ha il peccatore che ha la fede, non è Dio stesso, ma l’idea di Dio, cioè un concetto soprannaturale che lo rappresenta. Solo la grazia santificante, almeno quando ha raggiunto il suo apogeo e il suo pieno sviluppo, come nei Santi del cielo, esige, richiede, conduce alla vera, reale, sostanziale presenza di Dio nell’anima beata come oggetto di conoscenza e di amore: la presenza dell’essenza divina nella sua intelligenza per consentirle di vedere Dio così com’è; la presenza del sovrano Bene nella sua volontà perché possa goderne e dilettarsi del suo possesso.

CAPITOLO V

Spiegazione del particolare modo della presenza con la quale Dio onora i giusti della terra e i Santi del cielo.

(seguito)

§ II – Come la grazia produca nei giusti della terra una presenza di Dio simile a quella dei Santi in cielo.

I.

Ma possiamo dire lo stesso dei santi di questo mondo? Possiamo legittimamente applicare ai giusti, ancora lungo la strada, ciò che è appropriato per gli eletti che sono già arrivati al termine, ed affermare che la grazia produca in loro una presenza, reale e nello stesso tempo speciale, di Dio come oggetto di conoscenza e di amore? Non c’è una differenza capitale tra questi due stati? Non è forse ovvio, innanzitutto, che l’essenza divina non sia direttamente e immediatamente unita all’intelligenza dei viaggiatori, come abbiamo detto per i comprensori (che godono già della visione di Dio), per essere il principio e il termine di una conoscenza intuitiva? – Senza dubbio, altrimenti vedremmo Dio faccia a faccia, e la fede avrebbe lasciato il posto alla luce piena della visione. Ma, pur confessando con l’Apostolo che la nostra attuale conoscenza della Divinità sia essenzialmente oscura ed enigmatica, imperfetta e speculare, (I Cor., XIII, 12), non arriviamo tuttavia al punto di concludere che Dio non ci onori veramente, fin da questa vita, con questa presenza sostanziale e speciale che la Scrittura e la Tradizione danno come prerogativa di chiunque si trovi in stato di grazia: questo sarebbe disconoscere le ricchezze della nostra vocazione e i tesori inestimabili che Dio si degna di conferire ai suoi figli adottivi inviando loro il suo Spirito Santo. Ma allora, in cosa consiste questa unione di Dio con le nostre anime? È appunto quello che dobbiamo spiegare.  – Secondo una dottrina mutuata dalle Sante Lettere dell’angelico Dottore, la grazia non è altro che l’inizio in noi della gloria futura: « Gratia nihil aliud is quam inchoatio gloriæ in nobis. » (S. Th., IIa-II”, q. XXIV, a. 3, ad 2). – Come risultato, possediamo già, in germe e in modo iniziale, ciò che un giorno costituirà la nostra beatitudine. E poiché la beatitudine formale consiste nell’atto con cui la creatura ragionevole prende possesso del Bene sovrano e ne gode, è necessario che, fin da questa vita, il giusto raggiunga – anche egli – con la sua operazione, la sostanza divina, che entri in contatto con essa attraverso la conoscenza e l’amore, e cominci a godere di Dio. Questo è ciò che avviene in realtà attraverso la conoscenza sperimentale e saporosa che è frutto del dono della Sapienza, e soprattutto attraverso l’amore di carità: conoscenza ed amore che presuppongono, non la vista, non il pieno possesso ed il godimento, ma la presenza reale e sentita dell’oggetto conosciuto ed amato. È ancora, è vero, solo un punto luminoso, molto debole e appena percettibile ai comuni Cristiani; ma – chiedo – se il lavoratore che semina una ghianda non avesse saputo che questo frutto proviene da un grande albero e che contiene un principio di riproduzione, come, dovendolo considerare con gli occhi della carne, avrebbe potuto congettare ciò che un giorno ne uscirà? Ora, la grazia è, secondo l’espressione del Principe degli Apostoli, un seme: « Renati non ex semine corruptibili sed incorruptibili per verbum Dei » (1 Petr. I, 23), un seme prezioso ed incorruttibile, destinato a fiorire al sole dell’eternità, ma che possiede, anche se solo in modo rudimentale, il ricco fogliame che offrirà in seguito. L’abitazione dello Spirito Santo in noi, che ne è la conseguenza e l’accompagnamento necessario, non è pur essa che soltanto un seme: « nondum apparve quid erimus » (I Giov. III, 2); per questo l’Apostolo, parlando della gloria futura, usa quasi sempre la parola rivelazione: ad futuram gloriam quæ revelabitur in nobis (Rom. VIII, 18). Un giorno le tenebre che ci circondano si dissiperanno, il velo che copre i misteri della vita soprannaturale sarà rimosso, e allora conosceremo, con un sentimento di profonda ammirazione e di ineffabile gratitudine, il tesoro che attualmente portiamo nascosto nel profondo del nostro cuore. – Nel frattempo, per guidarci nella notte piena del tempo presente, abbiamo la fiaccola della fede e la luce della verità rivelata, che è importante non perdere di vista, come raccomanda San Pietro: « Habemus firmiorem profeticum sermonem, cui bene facitis attendentes quasi lucernæ lucenti in caliginoso loco, donec dies elucescat, et lucifer oriatur in cordibus vestris » (II Petr. I, 19). Ora, è proprio la parola di Dio che ci insegna e ci certifica che, per grazia e con la grazia, lo Spirito Santo ci è inviato, ci è dato, che abita in noi, con la ferma volontà di rimanervi sempre; in modo che possiamo cominciare subito a godere della sua Persona divina (S. Th., I, q. XIII, a. 3, ad 1). Ma il godimento presuppone la presenza effettiva dell’oggetto amato, secondo la giusta osservazione di san Bonaventura: « Per godere di una cosa, è necessaria, oltre alla presenza di quell’oggetto, la disposizione adeguata del soggetto chiamato a goderne; di conseguenza, per godere dello Spirito Santo, è necessaria la sua presenza, così come il dono creato, o l’amore che ci unisce a Lui. « Ad fruendum eo profluendum est, requiritur præsentia fruibilis et etiam dispositio débita fruentis; unde requiritur præsentia Spiritus Sancti et ejus donum, scilicet amor quo inhoereatur ei » (S. Bonav., Comp. Theol. verit., 1. I, c. IX). – Con questo vediamo che, al momento della nostra giustificazione, riceviamo una doppia carità, l’une creata, l’altra increata; l’una con cui amiamo Dio, l’altra con cui siamo amati da Lui (S. Bonav., loc. cit.); l’una che è una delle tre virtù teologali, l’altra che è la Persona stessa dello Spirito Santo. Dio è dunque realmente, fisicamente, sostanzialmente presente nel Cristiano che ha la grazia; e non è una semplice presenza materiale, bensì è un vero possesso accompagnato da un inizio di godimento (S. Th., I, q. XLIII, a. 3, ad 2. – I, q. XXXVIII, a. I); è questa un’unione incomparabilmente superiore a quella che collega gli altri esseri al loro Creatore, e che viene superata solo dall’unione delle due nature, divina e umana, nella Persona del Verbo incarnato; un’unione che, raggiunta una certa misura, è veramente un pregustare le gioie celesti, una sorta di inchoazione e di preludio alla beatitudine. San Tommaso non ha quindi paura di affermare che da questa vita, nei santi, c’è già un inizio imperfetto di felicità futura, che egli paragona alle gemme, speranza e primizia della raccolta prossima (« cum jam primordia fructuum incipiunt apparere » (S. Th., Ia-IIæ q. LXIX, a. 2.). Parlando in questo modo, indubbiamente egli esprimeva ciò che lui stesso aveva sperimentato, e i grandi servi di Dio non usano altro linguaggio. Si passino in rassegna le opere di Santa Teresa, soprattutto il Castello interiore, e ci si convincerà facilmente che questa illustre maestra della scienza mistica condivideva pienamente il sentimento del nostro angelico Dottore. Questo è il mistero della vita che ogni credente giustificato porta in sé e che è il fondamento dello stato cristiano. Cerchiamo di penetrare ulteriormente nell’intelligenza di questa verità consolante.

II.

A giudizio di san Tommaso, seguito in questo dalla maggior parte dei dottori, appartenenti a diverse scuole, la grazia santificante stabilisce tra Dio e l’anima giusta, attraverso la carità, una vera e perfetta amicizia. Tre cose sono necessarie perché ci sia amicizia tra due esseri; prima di tutto, l’affetto che li unisce deve essere una vera fecondità, cioè un amore di benevolenza che li porti entrambi a volere, desiderare, fare del bene, cercare non la propria utilità o il vantaggio personale, ma il vantaggio della persona che si ama; in secondo luogo, il loro amore deve essere reciproco; e, infine, deve basarsi su una certa comunità di beni, per esempio, su una somiglianza di carattere o su una somiglianza di condizione e di vita; poiché solo ciò che è simile è unito, la somiglianza che gioca nell’Ordine morale lo sottrae all’affinità nel mondo dei corpi (S. Th., IIa-IIæ, q. XXIII, a. I.). Da qui l’adagio che l’amicizia implica o produce una certa parità tra coloro che unisce: Amicitia aut pares aut pares invenit aut facit. E secondo la natura dei diversi beni comuni a noi e agli altri, nascono i diversi tipi di amore: l’amore fraterno basato sulla comunità di sangue, l’amore coniugale basato sulla comunità di vita ed i diritti, l’amore tra cittadini basato sulla comunità della patria. Ora, chi possiede con la grazia, la carità, che ne è l’inseparabile compagna, ama Dio per se stesso con un amore sovrano ed è a sua volta da Lui amato. Ego diligentes me diligo. (Prov. VIII, 17). È una cosa molto sorprendente questa dilezione reciproca del Creatore e della creatura. Che noi amiamo Dio, la bellezza infinita, la bontà inesauribile, l’oceano di tutte le perfezioni, cosa potrebbe esserci di più naturale, di più conforme sia alla legge divina che alle inclinazioni del nostro cuore? Ma che l’Essere Infinito dia valore al nostro amore, che non solo ci permetta di amarlo, ma ci inviti a farlo nei termini di una tenerezza molto toccante, come quando ci dice: « Figlio mio, dammi il tuo cuore: Præbe, fili mi, cor tuum mihi (Prov. XXIII, 26), mia delizia è di stare con i figli degli uomini: Deliciæ meæ esse cum filiis hominum (Prov. VIII, 31); che possa addirittura farne un comandamento, il primo di tutti e quello che riassume tutti gli altri (Matth. XXIII, 37-38) impegnandosi a rimborsarci; questo è ciò che ci conduce allo stupore. Giobbe non può crederci e grida: « Dio mio, cos’è l’uomo, perché il vostro cuore debba riposare su di lui così? » (Giob. VII, 17). E il grande Vescovo di Ippona diceva dal canto suo: « Signore, che cosa sono io ai tuoi occhi, perché Voi mi ordiniate di amarvi, perché la vostra ira si accenda contro di me, e mi minacciate con terribili mali se io rifiuto il mio amore, come se non fosse già una miseria abbastanza grande il non amarvi? » (Conf. l. 1, cap. V). – È facile capire che Dio esiga le nostre adorazioni ed i nostri omaggi; questo è di norma, poiché Egli è l’Essere sovranamente perfetto. Che si degni poi anche di ammetterci all’onore di servirlo, è qualcosa che si spiega abbastanza da un lato con la sua infinita condiscendenza, e dall’altro, con la qualità di servitori che ci appartiene in quanto creature. Ma credere di poter stabilire tra Lui e noi dei rapporti di familiarità, legami di stretta unione, insomma, una vera amicizia, non è forse un’ambizione smisurata, un sogno, una chimera? Se, tra gli uomini, l’amicizia non è all’ordine del giorno tra un servo e il suo padrone, come potrebbe essere possibile tra il Padrone dei padroni e i suoi infimi servitori? Non è forse una verità, passata a mo’ di proverbio, che la maestà e l’amore non vanno insieme e non possono sedere sullo stesso trono? Infatti, mentre la maestà allontana e tiene a distanza, l’amore ci avvicina e ci unisce; la maestà ispira rispetto e paura, l’amore scaccia la paura e provoca familiarità e abbandono. Come possiamo conciliare cose così dissimili da sembrare incompatibili? E poi, cosa può trovare in noi Dio che attragga il suo amore e gli faccia desiderare il nostro? A cosa gli serviamo? Che interesse ha ad amarci? La creatura sarebbe, per caso, necessaria per soddisfare questo bisogno del cuore, per assaporare questa gioia intima, così dolce e ambita, per amare e sentirsi amati? A chi lo pretendeva, il Salmista rispose: « Ho detto al Signore: Voi siete il mio Dio, e non avete bisogno dei miei beni…. ». (Ps. XV, 2) Dio è pienamente autosufficiente; in Lui si trova tutto il bene, tutta la bellezza, tutta la gioia, tutta la felicità. Il Padre ama il Figlio che genera con infinito amore; il Figlio ama il Padre con uguale amore; e il termine di questa reciproca dilezione è la Persona stessa dello Spirito Santo, l’Amore sussistente. Prima che il mondo fosse, prima che gli Angeli, questi primogeniti della creazione, ebbero cantato, in onore dell’Altissimo, il loro inno di lode (Giob. XXXVIII, 7), allorché Dio solo era, si vedeva, si contemplava, diceva a se stesso nel suo Verbo, che generava in sé, comunicandogli la sua natura; e, rapito  dall’ineffabile bellezza che era loro comune, si riposava in questo Verbo con infinita indulgenza, abbracciandolo in un abbraccio piacevole, ardente, vivo, che si chiama lo Spirito Santo; Egli era in sé stesso, e per sé stesso, sovranamente, ineffabilmente, infinitamente felice. [« In se et ex se beatissimus. » – Conc. Vatic, Const. Dei Filius, c. 1.]. Non è dunque per indigenza che Dio esiga dalla creatura il tributo del suo cuore; non è per aumentare, né tanto meno per acquisire la propria felicità, che Dio ci ama e rivendica il nostro amore; è solo per bontà, per manifestare le sue perfezioni comunicandole, per trovare la sua gloria nella felicità delle creature (Conc. Vatic. , Const. Dei Filius, c. I). Come il sole diffonde la sua luce e il fiore il suo profumo, senza ricevere alcun profitto da chi li riceve a proprio vantaggio e ne gode; così Dio, la cui natura è eminentemente liberale e comunicativa, chiede solo di diffondere i suoi doni e rendere felici gli uomini (S. Hilar., in Ps II, n. 5) . Se Egli esige il nostro amore, non è che ne riceva alcun frutto per se stesso; ma, realizzando ciò che l’ordine e la natura delle cose richiedono, dobbiamo trovarvi un immenso profitto. Ciò che Egli vuole, quindi, è che servendolo ed amandolo, ci arricchiamo di meriti preziosi e ci rendiamo degni di partecipare un giorno alla sua beatitudine. (S. Th., I, q. XLIV, a. 4 ad 1.). – Ma se Dio ci ama e vuole che lo amiamo; se la dilezione reciproca non solo è possibile, ma realmente esistente tra l’anima che ha la grazia e la Divinità, dove possiamo trovare il terzo elemento di amicizia, questa comunità di beni, questa somiglianza di condizione e di vita, che questo tipo di parità suppone ed esige? Non c’è nulla in comune tra il Creatore e la creatura? Non sono infinitamente distanti l’uno dall’altro, separati da un abisso invalicabile, e che nulla può riempire? Indubbiamente, perché Dio è grande, immenso, infinito, e l’essere creato è così piccolo, così poca cosa, così vicino al nulla! Eppure, o meraviglia, la sapienza divina ha trovato il segreto per avvicinare termini così lontani l’uno dall’altro; e ciò che la sapienza ha concepito, l’amore lo ha realizzato. Per farci suoi amici, Dio si è umiliato, dice l’Apostolo: annientato, scendendo a noi per elevarci fino a Lui; è diventato, per così dire, nostro pari prendendo la nostra natura (II Cor. VIII, 9); ha preso in prestito la nostra indigenza e le nostre miserie per arricchirci con il suo spogliarsi (Fil. II, 6-7; Egli ci ha distribuito amorevolmente i beni immensi e sovranamente preziosi comunicandoci la sua natura (II Petr. I, 4), dandoci il titolo e la qualità di figli adottivi (I Giov. III, 1), dandoci  il diritto ad un’eredità paterna. (Rom. VIII, 17). Pertanto, la Chiesa, incapace di contenere i suoi sentimenti di ammirazione in presenza di una bontà così meravigliosamente condiscendente, esclama con gli accenti di un santo entusiasmo: « O ammirevole scambio! Il Creatore del genere umano si è degnato di prendere un corpo e un’anima, di nascere da una Vergine, e diventare uomo senza l’aiuto dell’uomo, per condividere con noi la sua divinità: « O admirabile commercium! Creator generis humani animatum corpus sumens, de Virgine nasci dignatus est; e procedens homo sine semine, largitus est nobis suam deitatem. » (In Officium Circoncisionis). – Seguendo l’esempio del re Alessandro, che, volendo una volta onorare con la sua amicizia il figlio di Mathatia, iniziò elevandolo alla dignità di sommo sacerdote, gli inviò la porpora ed una corona d’oro con queste parole: « Sei adatto a diventare nostro amico: Aptus es ut sis amicus noster » (I Machab. X., 9); Dio, senza derogare alla propria dignità, può unirsi a noi attraverso i legami di amicizia, poiché, per un miracolo di condiscendenza assolutamente inaspettato, si è degnato di ammetterci a far parte della sua casa (Ephes. II, 9), e ci introduce autenticamente nella sua razza: Ipsius enim et genus sumus. (Act. XVII, 28).

III.

La carità soddisfa quindi tutte le condizioni di una vera e perfetta amicizia tra Dio e l’uomo: essa è un amore di benevolenza, un amore reciproco, un amore basato su una comunità di natura, in attesa della comunità della felicità di cui è pegno. Essendo una vera amicizia, deve averne le prerogative e soddisfarne le esigenze. Ma cosa richiede l’amicizia? Che tipo di unione essa reclama tra coloro che avvicina? È soddisfatta da un semplice accordo di pensieri e di desideri, di una comunità di beni esterni e di un vincolo affettivo? È questo il fine ultimo di tutti i suoi obiettivi, la fine delle sue aspirazioni? No; quello che vuole, quello che desidera, quello che reclama, quello che esige, quello che cerca con tutte le sue forze, quello che fa per quanto possibile è l’unione reale e intima, è la vita in comune, è il godimento reciproco dei due esseri che si amano. Infatti, come osserva giudiziosamente San Tommaso, essendo l’amore, secondo l’espressione di San Dionigi, una forza unitiva, amor quilibet est vis unitiva, è l’essenza dell’amore tendere all’unione; e più l’amore è perfetto, più perfetta anche è l’unione che brama. Tuttavia, possono esistere due tipi di unione tra amici: una puramente emotiva e morale, consistente in un’inclinazione abituale, un’attrazione, una tendenza che ci conduce all’amato, ci ricorda la sua memoria, ci fa trovare gioia e piacere nel pensare a lui; l’altra efficace e reale, quando coloro che si amano sono presenti l’uno all’altro, possono vivere e conversare insieme. Di questi due tipi di unione, l’uno costituisce l’amore stesso, l’altro è l’effetto dell’amore. (S. Th., Summa Theol., Ia-IIæ, q. XXVIII, a. I.) Nelle amicizie umane, la vera unione, la convivenza può essere desiderata, ambita, perseguita, non sempre è possibile realizzarla; i doveri dello Stato, le esigenze di lavoro o di salute, le mille necessità della vita impongono spesso una dolorosa e più o meno lunga separazione a chi ha i cuori più uniti e si considerano felici di potersi ritrovare di tanto in tanto. Ma a Dio nulla è impossibile; per Lui né il tempo né la distanza sono degli ostacoli. Allora, poiché il suo amore sovrano ed efficace può facilmente realizzare ciò che desidera, non possiamo legittimamente concludere che la dilezione che porta all’anima giusta gli impone una sorta di necessità di entrarvi personalmente, di rimanervi, e di non  privarla della consolazione della sua presenza? Non è questo che l’amato apostolo voleva trasmettere con le seguenti parole: « Chi dimora nell’amore dimora in Dio e Dio in lui. Qui manet in charitate in Deo manet, et Deus in eo »? (I Giov. IV, 16). Non è questo che il Salvatore stesso ha promesso quando ha detto: « Se qualcuno mi ama, osserverà i miei comandamenti, e il Padre mio lo amerà, e Noi verremo a lui, e faremo in lui il nostro soggiorno » (Giov. XIV, 23)? Forse diremo: questa presenza effettiva dell’Amato non appartiene all’esilio, essa è riservata alla Patria; nel frattempo, una semplice presenza morale, un’unione di cuore e fedeltà, durante lo stato del cammino, soddisfa sufficientemente le esigenze dell’amicizia.  – Come una madre molto amorevole e teneramente amata, che, fisicamente separata dal figlio, è tuttavia sempre presente a lui come oggetto di conoscenza e di amore…. presente nella sua memoria con la sua carissima immagine, presente al suo cuore per non so quale dolce compiacimento che lo delizia, e quale invincibile attrazione che lo porta verso di lei; così Dio non si separa da chi ha la carità, è l’oggetto costante dei suoi pensieri, il centro dei suoi affetti. L’anima santa non ha altro piacere che amarlo, raccontargli il suo amore, parlargli in modo familiare (Nostra conversatio in cælis est –  Philip., III, 20); poiché “lungi dall’essere doloroso o causare noia, la sua conversazione è fonte di gioia e di piacere: Non enim habet amaritudinem conversatio illius, nec tædium convictus illius, sed lætitiam et gaudium (Sap. VIII, 16).  Non potendo dare nulla a colui che ama, perché Egli è la pienezza dell’essere e la perfezione, l’anima compensa la sua impotenza indulgendo nella sua beatitudine, rallegrandosi del pensiero che possiede tutte le cose, che Egli è il sovrano Bene, … che è Dio. E identificandosi in qualche modo con il suo Amato, essa sposa i suoi interessi più ardentemente che se si trattasse di se stessa, lavora con tutte le sue forze per estendere e promuovere il suo regno, per realizzare la sua santissima volontà, per procurare la sua gloria: essa è felice quando lo vede onorato, servito, amato; triste allo spettacolo delle offese commesse contro la sua divina Maestà; sensibile, in una parola, a tutto ciò che lo tocca. Da parte sua, con quale zelo, prontezza e delicatezza Dio compie per lui l’ufficio di un vero amico (vedere nella Summa contra Gentiles, i due magnifici capitoli XXI e XXII del IV libro, ove san Tommaso espone gli effetti prodotti dallo Spirito-Santo nelle anime in cui abita): illuminandola nelle sue tenebre e nei suoi dubbi, sostenendola nei suoi momenti di debolezza, incoraggiandola nei suoi sforzi, difendendola dai nemici, confortandola nei suoi dolori e talvolta introducendola in quelle misteriose cantine dove si beve il generoso vino della santa carità! Anche l’anima rapita esclama con la sposa dei Cantici: « Ho trovato colui che il mio cuore ama, lo possiedo e non lo lascerò mai più: Inveni quem diligit anima mea; tenui eum, nec dimittam. » (Cant. III, 4). Cosa possiamo volere di più in questo mondo? Pertanto, l’Apostolo san Paolo ci invita a rallegrarci, non per il possesso effettivo del Bene supremo, ma nella speranza di ottenerlo un giorno, spe gaudentes (Rom. XII, 12). Certamente, questa vita di unione morale con Dio, attraverso la contemplazione e l’amore, è una cosa infinitamente preziosa, e non avremmo mai osato innalzare i nostri desideri così in alto. Eppure, non si è fermata qui la liberalità divina, e le leggi dell’amore richiedono di più.

IV.

Se questo fosse per la carità, come per la fede e la speranza, che presuppongono, in virtù della loro stessa natura, l’assenza e la distanza dal loro oggetto – poiché la fede ha come oggetto ciò che non vediamo, e speriamo ciò che non possediamo, – saremmo obbligati a rassegnarci e ad aspettare, fino all’ingresso in cielo, il vero possesso di Dio. Ma lungi dal supporre la distanza dal suo oggetto principale, la carità implica, al contrario, la sua presenza e il suo possesso; poiché « si riferisce a ciò che si possiede già: Amor caritatis est de eo quod jam habetur. » (S. Th:, Summa Theol.,1a, IIæ, q. LXVI, a. 6). Essa è anche la più grande delle virtù teologali (1 Cor. XIII, 13), non perché abbia un oggetto più dignitoso ed elevato delle altre, poiché tutte e tre riguardano immediatamente Dio, ma perché si avvicina di più a Lui. (S. Th., Ia IIæ; q. LXVI, a. 6). Senza dubbio, rispetto al pieno possesso di Dio che ci attende in patria, e al frutto consumato che deve essere la nostra condivisione, la nostra ricchezza spirituale qui sulla terra può essere vista come povertà, e la nostra unione con Dio, per quanto crediamo sia vicina, può sembrare un allontanamento ed un esilio. Questo è ciò che ha strappato all’Apostolo tali gemiti: « Finché siamo in questo corpo, ci troviamo come in esilio lontano dal Signore: Dum sumus in corpore, peregrinamur a Domino » (II Cor. V, 6); questo è ciò che gli ha fatto desiderare la dissoluzione del suo essere, per vedersi piuttosto unito al suo Dio: Desiderium habens dissolvi, et esse cum Christo (Fil. I, 23 – 2 Cor. V, 8). È vero, tuttavia, che anche durante il tempo della prova, la carità ci unisce direttamente e immediatamente a Dio, perché, da questa vita, Dio « è veramente presente a coloro che lo amano con l’inabitazione della grazia: Est præsens se amantibus etiam in hac vita per gratiæ inhabitationem (S. Th., Summa Theol., IIa II”, q. XXVIII, a. 1, ad 1). E cosa c’è di sorprendente? La carità lungo il cammino non è forse uguale a quella della patria? La fede deve scomparire un giorno davanti alla chiarezza della visione, come le tenebre fuggono all’avvicinarsi della luce; la speranza deve lasciare il posto al possesso del fine ultimo, perché non speriamo più ciò che possediamo e godiamo; la scienza stessa rimarrà distrutta, scientia destruetur (1 Cor. XIII, 8); intendiamo la scienza di Dio, come la possiamo acquisire in questo mondo: la scienza essenzialmente imperfetta, perché non raggiunge direttamente il suo oggetto, ma solo per riflesso, per mezzo delle creature (Rom. I, 19-20), e gli esseri creati non sono in grado di farci conoscere il loro Autore così come è in se stesso. Tutto ciò che sappiamo di Dio nell’ora presente, tutto ciò che possiamo conoscerne, è immensamente al di sotto della realtà; « ciò che possediamo attualmente di scienza e di profezia è molto imperfetto, dice l’Apostolo: Ex parte cognoscimus et ex parte prophetamus » Anche quando arriverà il momento della grande rivelazione, quando sarà tolto il velo che cela la Divinità ai nostri occhi, quando lo stato perfetto sarà arrivato, tutta questa scienza parziale e incompleta scomparirà improvvisamente, come scompariranno  le debolezze e le imperfezioni dell’infanzia, mentre ci avviciniamo alla virilità: Cum autem venerit quod perfectum est, evacuabitur quod ex parte est (1 Cor. XIII, 9). Ma “la carità non passa: Charitas numquam excidit (Ibid. 8). La sua fiamma si riaccenderà alla presenza del Sommo Bene, il suo ardore aumenterà di intensità, la sua natura non cambierà. Ora, nel cielo, la carità esige una unione reale, un’unione perfetta, l’unione consumata della volontà creata con il Bene sovrano. Non sembra naturale che essa richieda, già da questa vita, la presenza vera e sostanziale dello Spirito Santo, affinché possiamo cominciare a godere di Lui, poiché è a questo scopo che ci viene donato? (S. Th., Sent., I, dist. XIV, q. II, a. 2, ad 2.) Questa conclusione si impone a chiunque pensi che, se la conoscenza lungo la via differisca essenzialmente da quella della patria, c’è, invece, solo una semplice differenza di gradi, di più o di meno, tra la carità del cielo e quella della terra; anche se attualmente non siamo in grado di conoscere Dio per essenza, di vederlo così com’è, possiamo comunque amarlo in se stesso, direttamente e immediatamente (Cf. S. Th., Sent., III, dist. XXVII, q. III, a. 1, ad 3). Non è impossibile trovare sulla terra, in mezzo alle ombre e alle tenebre della fede, anime che abbiano una carità abituale superiore a quella di molti Angeli del cielo; questo è necessario, poiché, dopo la loro partenza da questo mondo, queste anime sante sono elevate al di sopra di un gran numero di cori angelici; alcune meritano addirittura di prendere il loro posto tra i serafini. Tuttavia, per quanto perfetta sia la loro carità abituale, essa ha meno ardore di quella dell’ultimo beato ammesso a vedere Dio faccia a faccia (S. Th., I, q. XVII, a. 2, ad 3.). Stando così le cose, chi sarà sorpreso di sentire san Tommaso affermare « che c’è già in questa vita, nei santi, un inizio imperfetto di felicità futura: Quamdam inchoationem imperfectam futures beatitudinis in viris sanctis etiam in hac vita? (S. Th., Ia IIæ q. LXIX, a. 2) » Ma perché questo avvenga, lo Spirito Santo deve essere unito a loro come un ospite, un amico, un marito pieno di tenerezza, che abiti veramente nei loro cuori come in un tempio vivente, dove riceve la loro adorazione e i loro omaggi, e li porti ad essere, d’ora in poi, almeno in una certa misura, l’oggetto del loro godimento. Si verifica così parzialmente l’esattezza della formula usata dal Dottore Angelico, quando, per caratterizzare correttamente la speciale presenza di Dio nei giusti, dice che in essi abita lo Spirito Santo « come oggetto del loro amore » (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 2).

V.

Ma è vera anche l’altra parte della formula? Dio è veramente e sostanzialmente presente ai giusti della terra « come oggetto della loro conoscenza, sicut cognitum in cognoscente » ? In altre parole, se l’amore di carità richiede l’effettiva presenza dello Spirito Santo in coloro che hanno la grazia, si può dire lo stesso della loro conoscenza?  La risposta di San Tommaso è affermativa. Ma per evitare qualsiasi malinteso, il santo Dottore ha cura di avvertire che qualsiasi conoscenza, anche soprannaturale, non ha questo effetto; così, la conoscenza di Dio che la fede ci dà, non è sufficiente a farla abitare nella nostra anima. Perché ci sia una missione, un dono e, di conseguenza, una dimora di Persone divine in un’anima, non basta avere tutte le conoscenze teoriche, è necessario avere la conoscenza che proviene da un dono appropriato alla Persona che ci è inviata, che ci unisce e ci rende simili a Lei; una conoscenza in qualche modo sperimentale, che si acquisisce solo attraverso un’intima unione con Dio, e che è frutto del dono della Sapienza (S. Th., Sent., I, dist. XIV, q. IIa. 2, ad 3.). Infatti, così come si può conoscere teoricamente o per sentito dire il sapore di un frutto senza averlo mai portato alle labbra, senza averlo mai avuto nemmeno davanti agli occhi o a disposizione, ma non è possibile conoscerlo sperimentalmente finché non lo si è assaggiato o mangiato: Così, finché si tratta di conoscere Dio da una scienza speculativa, la sua presenza reale e fisica non è necessaria, essendo la sua immagine sufficiente; ma quando si tratta di conoscerlo sperimentalmente, di gustarlo, di sentire, di assaporare la sua dolcezza divina, la presenza puramente ideale di questo oggetto divino non è più sufficiente, e la sua presenza vera, reale e sostanziale diventa una necessità che si impone. – Ora, è proprio per poter godere delle loro Persone divine che il Figlio e lo Spirito Santo ci sono inviati e donati e che il Padre li accompagna. « Non possiamo avere in noi le Persone divine – dice San Tommaso – se non per goderne: o in modo perfetto, come si ottiene nella gloria, o in modo imperfetto, e questo è il frutto della grazia santificante: Persona divina non potest haberi a nobis, nisi vel ad fructum perfectum, et sic habetur per donum gloriæ, aut secundum fructum imperfectum, et sic hàbetur per donum gratiæ gratum facientis » (S. Th., Sent., I, dist. XIV, q. II, a. 2, ad 2). Dandoci se stessi, imprimendosi nelle nostre anime, le Persone divine lasciano alcuni doni che sono i princìpi formali di questo godimento; abbiamo nominato la carità e il dono della sapienza: la carità, che ci assimila allo Spirito Santo, l’amore increato; il dono della Sapienza, con cui diventiamo come il Verbo divino, conoscendo Dio con una conoscenza analoga a quella con la quale Dio conosce se stesso, cioè di una conoscenza che fiorisce nell’amore; perché il Verbo divino, questo termine della conoscenza paterna, non è un verbo qualsiasi, ma un Verbo che spira e produce l’amore. (S. Th., I, q. XLIII, a. 5, ad 2.). Un’analogia mutuata dal modo in cui la nostra anima si conosce, ci aiuterà a capire che cosa sia questa conoscenza sperimentale di Dio, frutto e conseguenza della grazia. Nello stato attuale di unione con il corpo, la nostra anima non si conosce direttamente e con l’intuizione non vede la propria sostanza; ma infonde l’esistenza degli atti di cui è principio e fonte. C’è, tuttavia, una differenza significativa tra la maniera in cui essa conosce se stessa e il modo in cui giunge a conoscere le altre anime. Se si tratta di conoscere l’anima del prossimo: ragioniamo sugli atti esterni di cui siamo testimoni, i movimenti di vita, gli atti di intelligenza e di volontà, e concludiamo che c’è un principio sostanziale, vivo, intellettuale e libero, che è la radice e la fonte di queste operazioni. Se si tratta di conoscere l’esistenza della propria anima: poiché non possiamo raggiungerla direttamente, siamo ancora obbligati a ricorrere al processo deduttivo; ma invece di prendere come unica base di ragionamento le manifestazioni esterne della vita, possiamo contare sui dati della coscienza e dei fatti dell’ordine interno; perché qui non vediamo semplicemente la vita, ma la sentiamo in noi, siamo consapevoli dei nostri pensieri, dei nostri desideri e di tutti questi movimenti di cui siamo testimoni e attori. Si ottiene così una sorta di conoscenza sperimentale del principio di questi atti, conoscenza indiretta e oscura, conoscenza deduttiva,  per quanto si voglia, ma significativamente diversa da questa stessa scienza teorica che possiamo acquisire dall’esistenza dell’anima degli altri. Da qui le parole di san Tommaso: “che la nostra anima si conosce con la sua presenza: Et ideo dicitur se cognoscere per suam præsentiam »  (S. Th., Summa TheoL, I, q. LXXXVII, a. 1). Questo è il caso, fatte le debite proporzioni, del modo in cui possiamo conoscere la presenza di Dio nel profondo dei nostri cuori. Non solo noi sappiamo teoricamente che Dio abiti nei giusti, ma attraverso il dono della Sapienza ne gustiamo la sua presenza divina. E benché nessuno possa, senza una speciale rivelazione, avere la certezza assoluta che lo Spirito Santo è in lui, « non sapendo nessuno con certezza di fede, incompatibile con qualsiasi errore, se sia in stato di grazia, come ha dichiarato il Concilio di Trento: Cum nullus scire valeat certitudine fidei, cui non potest subesse falsum, se gratiam Dei esse consecutum » (Trident. Sess. VI, c. IX); ma su questo punto non siamo ridotti alla totale ignoranza; perché, secondo la parola dell’Apostolo, « lo Spirito Santo stesso dà alla nostra anima la testimonianza che siamo figli di Dio: Ipse enim Spiritus testimonium reddit spiritui nostro quod sumus filii Dei » (Rom. VIII, 16): non indubbiamente con una voce esterna rivolta all’orecchio del corpo, ma, come spiega san Tommaso, « per effetto dell’amore filiale che produce in noi: per effectum  amoris filialis, quem in nobis facit ». (S. Th., in Epist. ad Rom. VIII, lect. 3). Noi non vediamo questo ospite interiore, un velo impenetrabile ci toglie lo splendore della sua presenza, il muro della carne ci separa dall’Amato; se « gemiamo nell’attesa della nostra piena adozione. Et ipsi intra nos gemimus, adoptionem filiorum expectantes » (Rom. VIII, 23). Ma, cosa dico? Non è nemmeno una parete, ma un semplice reticolo attraverso il quale l’Amato ci contempla. En ipse stat post parietem nostrum, respiciens per fenestras prospiciens per cancellos (Cant. V, 9); e quando, nella sua  bontà, si degna di passare la mano e far sentire di più la sua presenza, il nostro cuore ne è mosso. Per far capire questa verità, santa Teresa usa un confronto ingegnoso. Ella dice che « … è in un certo senso come una persona che, trovandosi con gli altri in un appartamento molto luminoso, smettesse improvvisamente di vederli se le finestre fossero chiuse senza però cessare di essere certa della loro presenza ….. A condizione che quest’anima sia fedele a Dio, a mio avviso, Dio non mancherà mai di darle questa visione intima e manifesta della sua presenza »  (Santa Teresa: Il Castello interiore, 7e dimora, ch. I. — Trad. P. Marcel Bouix, S. J.). Se chiedete da quali segni possiamo riconoscere la presenza dello Spirito Santo in un’anima, san Bernardo, parlando di se stesso, risponde che egli lo conosceva attraverso il movimento del suo cuore: Ex motu cordis intellexi præsentiam ejus; cioè attraverso la fuga dai vizi e dagli affetti carnali, dai rimproveri interiori rivolti a lui sui suoi peccati più segreti, dalla emendazione della sua vita e dal rinnovamento dell’uomo interiore. « Mi chiedete – egli dice – come posso conoscere la presenza di Colui le cui vie sono impenetrabili. Appena presente, risveglia la mia anima addormentata: si muove, si ammorbidisce, colpisce il mio cuore duro come la pietra e malato; comincia a strappare e distruggere, a costruire e piantare, ad innaffiare ciò che è secco e arido, ad illuminare ciò che è nell’oscurità, ad aprire ciò che è chiuso, a riscaldare ciò che è freddo, a raddrizzare ciò che è tortuoso, a spianare ciò che è ruvido. E così, quando lo sposo entra nella mia anima, riconosco la sua presenza, come ho detto, dal movimento del mio cuore. » (S. Bern., serm. 74 in Cant.). – San Tommaso dichiara dal canto suo che, al di fuori di una particolare rivelazione, concessa solo per un privilegio completamente gratuito, tutti possono avere dalla presenza di Dio nel profondo del cuore un triplice segno congetturale: In primo luogo, la testimonianza della propria coscienza, quando, ad esempio, si è consapevoli di amare Dio e di essere pronti, attraverso la sua santa grazia, a soffrire e sacrificare tutto piuttosto che offenderlo; in secondo luogo, la disponibilità ad ascoltare, e soprattutto a mettere in pratica la parola di Dio, secondo questa osservazione del divino. Maestro: « Chi è di Dio ascolta volentieri la parola di Dio: qui ex Deo est, verba Dei audit »; infine questa degustazione interiore della Sapienza divina, che è come un anticipo della felicità futura.  (S. Th., Opusc. LX, de Humanitate Christi, c. XXIV). Aveva ben gustato le soavità divine, colui che gridava: « Oh, come è buono, come è dolce il vostro spirito, o Signore! O come bonus e suavis est, Domine, spiritus tuus! » (Sap. XII, 1). Sant’Agostino, che sapeva apprezzare queste dolcezze spirituali, lasciava uscire dalle sue labbra questa esclamazione ardente: « Chi mi darà – o mio Dio – questa grazia, perché vi degniate di venire nel mio cuore, inebriarlo di delizie, e perché io dimentichi i miei mali per abbracciarvi, Voi che siete il mio unico bene! Quis mihi dabit ut venias in cor meum, et inebries illud, ut obliviscar mata, et unum bonum amplecter te ».

VI.

Dio è dunque veramente e sostanzialmente presente come ospite, amico, sposo, bene sovrano, ad ogni anima che ha la grazia e la carità: Egli è unito in un modo molto speciale che è privilegio esclusivo dei giusti, perché solo la grazia santificante permette loro di raggiungere Dio, attraverso la loro operazione, come ultimo fine e oggetto di beatitudine (S. Th., Opusc. LX, de Humanit. Christi, c. XXIV). Ma c’è unione ed unione. Sempre attuale nei beati che non cessano e non devono mai cessare di vedere e amare Dio, vivono in un continuo e ininterrotto atto di contemplazione e di godimento, che costituisce la loro beatitudine; puramente abituale nei bambini, che hanno ricevuto la grazia del santo Battesimo, ma la cui intelligenza non è ancora risvegliata, l’unione con Dio, che si opera negli adulti ancora in cammino, si trova nel mezzo tra la perfezione della prima e l’imperfezione della seconda; abituale solo durante il sonno e le mille occupazioni del giorno che assorbono l’attività della nostra mente, si realizza quando ci rivolgiamo a Dio in modo riflessivo, impegnandoci a conoscerlo e amarlo, camminando alla sua presenza, vivendo nella sua intimità.  Solo in cielo possiamo essere pienamente, perfettamente, totalmente ed inseparabilmente uniti a Dio, come al nostro ultimo fine; ma nel frattempo, dobbiamo lottare qui sulla terra per questa unione felice, desiderarla, chiederla, lavorare con tutte le nostre forze per renderla per quanto possibile attuale, rimuovere tutti gli ostacoli: in primo luogo, il peccato, che potrebbe o distruggerla in noi, facendoci perdere l’amicizia di Dio, o indebolirla riducendo il fervore della santa carità; in secondo luogo, l’attaccamento alle creature, ai beni e ai piaceri della terra, vere catene che tengono prigioniera la nostra anima e le impediscono di prendere il suo slancio verso il Bene sovrano; e, infine, la dissipazione dello spirito che allontana i nostri pensieri e gli affetti da Colui che deve esserne il centro. E poiché la beatitudine – intendiamo la beatitudine formale – è un’operazione (S. Th., Summa TheoL, Ia IIæ, q. II, a. 2), l’atto delle nostre facoltà intellettuali che unisce attraverso la contemplazione e l’amore alla prima Verità e al Bene sovrano, cioè all’unico oggetto capace di farci felici, è chiaro che se comprendiamo bene i nostri veri interessi, se vogliamo compiere seri progressi nella perfezione ed avere, da questa vita, come anticipazione della felicità futura, dobbiamo lavorare per rafforzare sempre più i legami che ci uniscono a Dio, andare allo studio delle perfezioni e dei benefici divini, e soprattutto moltiplicare gli atti di carità, perché « è privilegio dell’amore unirci immediatamente a Dio: Charitas est quæ diligendo animam immédiate Deo conjungit spiritualis vinculo unionis ». (S. Th., IIa- IIae, q. XXVII, a. 4. ad 3). Elevandosi al di sopra della scienza, entra con fiducia, mentre la scienza resta fuori. Così c’è una massima data dai maestri, che insegna che la perfezione della vita cristiana consiste nell’amore di Dio, e che il nostro progresso nella santità deve essere misurato non dall’accrescimento della scienza, ma dall’aumento della carità. Questo è ciò che fece dire all’Apostolo san Paolo ai fedeli di Colossi: « Soprattutto, abbiate la carità, che è il vincolo della perfezione: Super omnia autem hoec, charitatem habete, quod est vinculum perfectionis. (Col. III, 14) » Del resto, per amare molto, non è necessario sapere molto, perché, se la conoscenza è il principio dell’amore, non ne è la sua misura. « Noi vediamo – dice San Tommaso – delle persone semplici che sono ferventi nell’amore di Dio e che hanno una mente piuttosto aperta quando si tratta di conoscerlo » (S. Th., Sent., I, dist XV, q. IV, a 2, obj. 4.). Possiamo dunque amare Dio con grande ardore, senza avere una conoscenza approfondita della sua natura e dei suoi attributi, così come possiamo aver approfondito tutti i segreti della teologia e non provare che freddezza per le cose divine. Tuttavia, quando la scienza è ispirata e perfezionata dalla carità, dà un nuovo alimento alla sua fiamma. Esaminiamo dunque, seguendo l’esempio della sposa del Cantico dei Cantici, con una sagacia raffinata dall’amore tutte le bellezze, tutte le amabilità, tutte le perfezioni dell’Amato (Cant. IX, 17). Aggrappiamoci a Lui con tutte le nostre forze, diciamo come il Salmista: « Per me, la mia felicità è di essere unito a Dio: Mihi autem àdhærere Deo bonum est » (Ps. XXVII, 28); viviamo nel suo amore, viviamo del suo amore, godiamo della sua divina presenza e della sua intimità, ed il nostro colloquio, come quello dell’Apostolo, sia in cielo (Fil. III, 20). Così facendo, adempiremo sia la parola del discepolo amato ed il voto di amicizia: « Dio sarà in noi, e noi in Lui: Qui manet in charitate, in Deo manet, e Deus in eo. (1 Giov. IV, 16) » – L’unione con Dio, l’unione attuale, deve essere questo l’oggetto dei nostri più ardenti desideri, lo scopo dei nostri sforzi, il termine a cui dobbiamo indirizzare tutta la nostra vita spirituale: perché è in questa beata unione che consiste la perfezione del cammino, così come un giorno costituirà la perfezione e la felicità della patria.

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