LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-1A-)

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (1A)

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

RICERCA DELLA FELICITÁ

Non vuoi tu essere felice e subito, oggi? Ogni uomo vive con questo miraggio. Vi dirige ogni sua energia, ogni agilità d’intelletto, vigore di cuore e di membra, se occorra. Osserva il facchino del porto, che solleva e trasporta pesi; osserva l’uomo di studio, che vigila le ore piccole della notte. E anche il malato, disteso e immobile sul suo letto d’ospedale, mentre il medico lo studia con nello sguardo la certezza della sua prossima fine, ha nell’ansia dell’occhio errante, nell’occhio affogato nelle lagrime di una affranta debolezza, la speranza della guarigione e alfine del benessere. È una dolorosa passione, che invade tutti i cuori e che può essere sanata soltanto dalla fede. Con questa impariamo ad aver fiducia in Dio e ci abbandoniamo a Lui, provvido Padre, che ci ama tanto. Allora lo stimolo della felicità, benché non abbia raggiunto la meta, si sente in parte appagato, poiché in Dio sappiamo essere ogni bene e che un giorno, non mai molto remoto, ci verrà dato in libero possesso. « Beatus vir cuius est nomen Domini spes ipsius— beato l’uomo che pone la sua speranza nel nome del Signore » (Sal. XLIX, 5). Ogni altra cosa fa fallimento. Tutto è illusione, apparenza, inganno. Ogni giorno incontriamo cuori delusi, anime sconsolate, che avevano riposto le loro speranze in oggetti incapaci di servire al fine. Eppure l’esperienza della ricerca in una nuova direzione vuol essere ogni dì ripresa. Tanto è il fascino, che, sopra noi miseri, esercita il mondo. – Ho ascoltato una giovinetta, la quale pareva abbattuta dal fulmine. Il ritratto della desolazione. Aveva amato con molta ingenuità, chi non era degno di essa. S’era lasciata godere. Un caldo sogno l’aveva accompagnata per mesi. La coscienza non la rimproverava di nulla, perché le pareva, che l’amore giustificasse tutto. Ma lui si annoiò della sua totale condiscendenza e l’abbandonò. Come avrebbe potuto medicare una così lacerante ferita? La povera giovane smaniava e diceva di non poter credere alla realtà. Così, allorché uno corre perdutamente verso la vanità. Si carica di gingilli. Ostenta ricchezze d’abiti; la pelliccia rappresenta il cielo raggiunto e la dolcezza più ambita dello spirito vano. Ma poi s’avvede come molti altri s’abbiglino con raffinatezza; e la singolarità, su cui soprattutto puntava, sfuma. Tutto diventa banale, comune, senza interesse. La figura esterna stanca, anche se graziosa. Ve n’ha molte di persone graziose e a volerle osservare tutte, si smarrisce il sapore della stessa grazia. L’insipido che cosa vale poi? Le frasi, che tu cogli sulle labbra dei gaudenti di tutte le età e d’ogni condizione, sono atte a sfiduciare uno spirito appena sensato. È scetticismo, e tu invece agogni il bene reale. La sazietà li ha delusi. Ogni esperienza ha tolto dal loro animo qualcosa e li ha abbandonati come esausti e disseccati: Che se non hanno raggiunto ancora la misura; se nutrono tuttavia qualche capacità di piacere e possibilità di godimento, tu in essi avverti la incertezza e lo sforzo per sostenersi, mentre sotto sentono il vuoto. « Et mundus transiit et concupiscentia ejus— e il mondo passa e la sua concupiscenza » (1 Joan. II, 17). Non si trovano che animi irritati, sorpresi, disperati fra coloro che hanno riposto la loro fiducia in esso. E questo veleno contamina tutta la loro esistenza; quella della famiglia, che è tradita; quella del lavoro, che non produce; quella del cuore, che ha smarrito la capacità d’amare. Lo sconforto li fascia e li soffoca. Gesù al contrario, non ci illude con attraimenti inconsulti; ci dice chiaro il nostro dovere e la nostra sorte. Non patteggia con le teorie correnti. Neppure con le nostre passioni. Ci tratta con lealtà: né freddezza o indifferenza, ma neppure illusioni o accarezzamenti. Per questo bisogna credergli; dargli affidamento; far conto delle sue parole come di quelle di uno che ci ama con totale amore. Se lo ascolti così, presto ti sarà dato di penetrare la bellezza della sua amicizia. È tal cosa che descriverla non è possibile; farne l’esperimento e gustarla, sì. Quanti intorno a noi credono in Dio, hanno fiducia nel suo Figlio Gesù e si trovano bene! La fame di conforto tanto viva nella nostra natura, in essi viene bene soddisfatta dai frutti dell’intimità con Cristo. Per citare un esempio, ecco le parole di una giovine trappista, che languì per diversi anni e poi morì, offrendo la vita fresca e olezzante per l’unità nella Chiesa di tutti i suoi figli separati: « Mi affido a lui, e basta. Il Signore sa quello che fa… Non è mai troppo quello che si fa per il Signore … Non chiedo consolazioni; non sono necessarie. Si può vivere senza consolazioni; la grazia di Dio supplisce a tutto». (Suor Maria Gabriella della Trappa di Grottaferrata).

ANELITO BENEDETTO

Ma anche fuori per il mondo, per nostra buona sorte, vi sono anime anelanti a glorificare il Signore e che in questo trovano tutta la loro felicità. Sono le colonne del Regno di Dio. Come esse si affidano a Dio, così Dio, per tutti i suoi piani di benedizione, si affida a loro e le fa suoi intermediatari, suoi messaggeri, suoi pazienti, talvolta anche suoi crocifissi. Poiché coloro che sono di Dio, imitano nella propria vocazione la missione del suo divin Figlio. Per essi è questa la maggiore beatitudine. Se non in tale grado, la nostra dedizione al Signore deve essere nondimeno piena. « Chi non ha rinunciato a se stesso, scrive il ven. Padre Antonio Chevrier, è sempre in agitazione per lagnarsi e cercare consolazioni e soddisfazioni essendo sempre nella noia, nel turbamento, nell’irrequietezza. Questi turbamenti, queste irrequietezze non sono in fondo che delle inezie presto dissipate da un solo pensiero di fede e d’amor di Dio, d’umiltà; ma poiché in quelle anime non v’è né fede, né umiltà, né amor di Dio, né forza di azione, allora esse non possono sopportar nulla, e quelle inezie sono montagne per loro; onde trovano insopportabili cose di cui altri non farebbe caso; tutto ciò deriva dall’amor di sé. Come sono infelici quelle anime, che si ricercano continuamente, che non si occupano che di se stesse! Che vita intollerabile per sé e per gli altri e per chi le dirige e governa! ». – Basterebbe prendere in considerazione con serietà quanto sino fallaci le parole degli uomini, per aderire con tutta l’anima a quelle del Signore e comporre la propria vita in serenità piena e felice. Quanto è deplorevole la condizione di chi si affida al mondo, altrettanto sicura e consolante è quella di chi si abbandona a Dio. La nostra felicità non può trovarsi che nella linea della volontà di Lui. Occorre pertanto che ci gettiamo ai suoi piedi e che gli facciamo una accorata e decisa dichiarazione di fedeltà. Sia essa come un impegno solenne nei riguardi della nostra vita avvenire, per renderla feconda e utile alla casa alla famiglia, al gruppo sociale del quale facciamo parte. « Salvaci, o Signore! L’avidità della beatitudine mondana mi ha vuotato il cuore. Voglio la tua, quella dei tuoi santi, che abbandonarono le strade dell’errore per seguirti. Da qui dove sono, dalla mia condizione comune, intendo vivere con te, per te. Le mie beatitudini siano d’ora innanzi le tue. Le mediterò con l’intento di farne il nutrimento della mia vita, per conformarvi tutto il mio giudizio, il mio pensiero, la mia attività ». – Quando un’anima è interiore, sa vivere raccolta in sé e mantenere il dominio delle sue passioni, diventa l’ammirazione degli Angeli. In tale condizione, unendo le nostre azioni a quelle di N. S. Gesù, noi le facciamo partecipi del valore loro proprio, sicché divengono come divinizzate. Non ti pare, che così valga la pena di vivere? Capovolto il giudizio del mondo circa la vita nostra, le beatitudini diventano davvero il nostro Vangelo. Non temiamo più le tribolazioni; ordiniamo le nostre aspirazioni nel senso loro; miriamo a possedere il tesoro più prezioso che mente possa mai concepire; e tutto diventa lieve e facile, tollerabile e consolante. «.Beati qui ad cænam Agni vocati sunt — beati quelli che sono invitati alla cena dell’Agnello » (Mt. XXII,3).

Beati pauperes spiritu: quoniam ipsorum est regnum cælorum.

 Beati mites: quoniam ipsi possidebunt terram.

 Beati qui lugent: quoniam ipsi consolabuntur.

 Beati qui esuriunt et sitiunt justitiam: quoniam ipsi saturabuntur.

Beati misericordes: quoniam ipsi misericordiam consequentur.

 Beati mundo corde: quoniam ipsi Deum videbunt.

Beati pacifici: quoniam filii Dei vocabuntur.

Beati qui persecutionem patiuntur propter justitiam: quoniam ipsorum est regnum cælorum.

[Matt. V, 3-11]

CAPO PRIMO

Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum cœlorum

I.

LA SCHIAVITÙ DEL RICCO

Quando parliamo di ricco nel senso evangelico, si pensa a colui il quale ha lasciato penetrare nell’intimo suo l’attacco alle cose terrene di qualunque sorta: averi, ambizioni, desideri, passioni e amori illeciti. Chi guarda la terra con l’occhio avido e insistente è il ricco di cui parla il Signore. Per vero il possesso di qualunque bene legittimo, con un animo sereno e libero, così che non tema d’esserne spogliato, con quel timore che accascia e abbatte, non è ricco nel senso riprovato; è semplicemente uno al quale la Provvidenza ha affidato dei beni, di cui egli cerca di fare l’uso giusto e doveroso. Non fu rimproverato Nicodemo per la sua posizione elevata nel Sinedrio, vale a dire nel consesso sociale più alto che il popolo d’Israele avesse. Né il Centurione romano, che a Gesù ricorreva per il figlio malato, fu fatta colpa della distinzione in cui trovavasi dal lato sociale. Neppure il ricco Epulone della parabola fu redarguito perché possedeva ricchezze, ma invece per il malo uso che ne faceva, banchettando senza fine e trascurando la miseria dei bisognosi di cui aveva un esemplare tanto interessante alla porta della sua casa. Dobbiamo riconoscere piuttosto, che le ricchezze sono un dono di Dio, che consente ai ricchi di sentimento cristiano di compiere un bene notevole in questa vita e di conquistarsi dell’altro bene per sé in quella definitiva ed eterna. – Il ricco è pertanto lo spirito, che, avendo lasciato aderire la volontà ai comodi e alle avidità delle cose terrene, si trova in una vera condizione di indigenza. Difetta di ogni elevatezza morale. Eccolo: il ricco è affetto dalla miopia dell’avarizia. Non vede che il suo oro e con gli occhi e con l’animo. Le sue sollecitudini sono per l’aumento di quel possesso, che lo tiene schiavo. Crescere la quantità d’oro o di godimento o di soddisfazione è l’unico suo sogno. Aderisce alla terra con tutte le sue facoltà. Si chiude nell’angusto mondo che gli sta davanti, con le sue spregevoli preoccupazioni. Misconosce ogni funzione nobile alla propria vita. Le sue giornate vengono spese miseramente. Le stesse attitudini naturali in tal modo sono prostituite nel loro oggetto e sviate nelle loro finalità naturali. Così che l’animo dell’avaro diviene via via più chiuso e mortificato in quel suo tenebroso mondo di desideri e di appetiti, che lo fanno termine di pietà per ognuno. Pietà non scompagnata da condanna e da riprovazione.

LO SCHIAVO

Il ricco apparisce altresì schiavo dei suoi bassi istinti. È la sua una schiavitù vergognosa e infamante. Avrebbe l’ali delle naturali tendenze verso le cose elevate e sante; avrebbe, oltre a ciò, le capacità materiali per dedicarsi ad opere di bene per sé e per i suoi prossimi, forse in vaste proporzioni; avrebbe tanti doni di Dio da mettere a profitto per la società, che gli sta intorno nella esposizione dei propri bisogni, sempre grandi, delle frodi e degli inganni, ed eccolo inetto, non appena a fare, ma altresì a sentire un palpito di carità, un fremito di fraternità, che lo determini a quei gesti generosi che sono atti ad aureolare un uomo ed una intera vita. Sicché tutta la sua esistenza si rivela come un documento di povertà e di miseria. Non dunque vita deve dirsi, ma esistenza appena. E come sarà giudicato da Dio, chi, anziché vivere e produrre, si lascia condurre per le strade di questo mondo avvinto al guinzaglio dell’avarizia? Come può uno spirito siffattamente immiserito, privo di slanci, assente da ogni forma di attività produttiva e generosa, sana e efficace in favore del prossimo, sprecare le sue energie e i suoi talenti a dispetto dei forti richiami della coscienza? Indubbiamente, nel periodo di tentazione e in quello successivo di adattamento a codesto scemo disordine di esistenza morale, deve avere subito i violenti e provvidi attacchi del rimorso; avrà forse anche alquanto reagito e resistito. Ma in seguito, deposte le armi e iniziato definitivamente il suo mortifero stato di coscienza, un silenzio, appena turbato da fitte di protesta, e una sorta di sonno lo avvolse e lo tenne. Eppure fuori di lui la vita si svolge attiva e rapida, costruttiva e feconda; ma la sua sensibilità è attutita dalla consuetudine, addormentata dal sopore che viene dalla passione accontentata.

AVIDITÀ COLPEVOLE

Questa schiavitù spirituale non di rado induce anche ad appropriarsi i beni altrui. Il furto è conseguenza naturale dell’amore disordinato. La intelligenza dell’avaro, essendo tesa di continuo verso il possesso, vela come per istinto il diritto altrui per scorgere soltanto il proprio e con facilità e desidera e si appropria quanto suo non è. Se si ascolta la lezione del demonio, non sarà difficile seguirlo sulla china dell’indebito possesso, giacché egli « fur est et ladro — è essenzialmente ladro » (Joan., XI). Fra i derubati, ecco che sono in primo posto i poveri, gli operai, i dipendenti, coloro i quali meno hanno mezzi di difesa e che, perciò, diventano la preda degli avidi, la cui coscienza s’è sfibrata e fatta insensibile. Colpe sempre maggiori si accumulano sulla coscienza dell’avaro. Brutture non sospettate ed impensate entrano nell’ambito d’un’anima, che conobbe le delicatezze della carità del Signore e dei Santi. E tutto quasi nella insensibilità. La durezza di cuore si rassoda e affronta qualsiasi delitto contro il prossimo e contro se stesso. L’avaro è un cieco, un illuso, un maniaco, un folle. Giustifica le decisioni più illecite con una tranquillità che stupisce. E sa talvolta conciliare il disordine morale con le pratiche di pietà religiosa, senza grandi rimorsi. – Come è possibile vivere così col cuore in contrasto con la legge di amore? L’uomo si adatta agevolmente a tutte le condizioni. Ma non manca per buona sorte mai la voce divina della coscienza, che tien desto, sia pure in tono fievole, il senso vigile del comandamento di Dio. – Quando il Signore Gesù affermò « beati i poveri in spirito », dichiarò insieme la penosa miseria dei « ricchi »; ricchi anche se privi d’ogni bene terreno. Ma a questi prigionieri della mala tendenza affermata e secondata, che tormenta come uno stimolo acuto, che non lascia requie e sospinge alla disperazione e alla rovina morale, non va la pietà del Signore, bensì il biasimo e la condanna. Vedi la famiglia dell’avaro? I suoi beni sono come sotto sequestro. La moglie non ne può disporre che in una misura ridotta; e i figli sovente da piccoli sono educati in modo insufficiente e sproporzionato alla condizione e ai mezzi; da grandi, sono tenuti volutamente legati alla catena, senza poter disporre di quanto avrebbero diritto di avere a fine di formarsi una condizione sociale dignitosa e crescono con il rancore nell’animo; né è raro vedere delle figliole, che non sono in grado di andare a marito, perché il padre per non aprire la borsa, non lascia libero il passo. Famiglie disgraziate; ma meritevole di riprovazione senza misura colui il quale, venduta l’anima al demonio dell’avarizia, semina intorno a sé la desolazione e tante ragioni di dolore.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.