DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi

Durante la festa di Pentecoste la Chiesa ha ricevuto la manifestazione dello Spirito Santo e la liturgia di questo giorno ce ne mostra le felici conseguenze. Questo Spirito ci rende figli di Dio, tanto che possiamo dire in tutta verità: Padre nostro; siamo quindi assicurati dell’eredità del cielo (Ep.): ma per questo bisogna che, vivendo per opera di Dio, noi viviamo secondo Dio (Oraz.), lasciandoci indurre in tutto dallo Spirito di Dio (Ep.), cosi Egli ci accoglierà un giorno nei tabernacoli eterni (Vang.). Sta qui la vera sapienza di cui ci parla la storia di Salomone, della quale in questa settimana si continua la lettura nel Breviario; qui sta la grande opera alla quale il re dedicò tutta la sua vita. – Salomone costruì il Tempio del Signore nella città di Gerusalemme, secondo la volontà di David suo padre, che non aveva potuto edificarlo egli stesso per le continue guerre che i nemici gli avevano mosso contro. Salomone impiegò tre anni a preparare il materiale, cioè le pietre che ottantamila uomini estraevano dalle cave di Gerusalemme e il legno di cedri e cipressi che trentamila uomini abbattevano sul Libano nel regno dell’Iram (V. Domenica prec.). – Quando tutto fu pronto si cominciò, nel 480° anno dopo l’uscita dall’Egitto, la costruzione che durò sette anni. Pietre da taglio, legno e fregi ornamentali erano stati così esattamente misurati prima, che i lavori si compivano nel più grande silenzio. Nella casa di Dio non si sentiva colpo di martello, né ascia, né altro strumento di ferro durante il tempo che si edificava. Salomone prese come piano quello del tabernacolo di Mosè; ma gli diede proporzioni più vaste e vi accumulò tutte le ricchezze che poté. I soffitti e i pavimenti di legni preziosi erano rivestiti da placche di oro, gli altari e le tavole erano ricoperti di oro, i candelabri e i vasi erano di oro massiccio. Tutte le mura del tempio erano ornate da cherubini e da palmizi coperti di oro. A lavori terminati, Salomone consacrò con grande solennità questo Tempio al Signore. In presenza di tutti gli Anziani di Israele e di un popolo immenso appartenente alle dodici tribù, i sacerdoti trasportavano l’Arca dell’alleanza nella quale si trovavano le tavole della legge di Mosè, sotto le ali spiegate di due cherubini, ricoperte di oro e alte dieci cubiti, che si innalzavano nel santuario. Si immolarono anche migliaia di pecore e di buoi e, quando i sacerdoti uscirono dal Sancta Sanctorum, una nube riempì la casa del Signore. Allora Salomone levando gli occhi verso il cielo, domandò a Dio di ascoltare le suppliche di tutti quelli, Israeliti o estranei, che sarebbero venuti in differenti circostanze, felici o infelici, nella loro vita, a pregarlo in questo luogo che era stato a Lui consacrato. Gli domandò anche di esaudire tutti quelli che, con la faccia rivolta verso Gerusalemme e verso il Tempio, gli avrebbero indirizzato le loro suppliche, per mostrare che Egli aveva scelta questa casa per sua residenza e che non vi era in nessun luogo altro Dio, che quello d’Israele. – Le feste della Consacrazione del Tempio durarono quattordici giorni in mezzo a sacrifici e banchetti sacri. E il popolo se ne tornò benedicendo il re e sentendo riconoscenza per tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele dal giorno dell’alleanza sul Sinai. Il Signore apparve allora una seconda volta a Salomone e gli disse: « Ho esaudita la tua preghiera, ho scelto e benedetto il tempio che mi hai innalzato; là saranno sempre i miei occhi e il mio cuore per vegliare sul mio popolo fedele ». Nella Messa di questo giorno la Chiesa canta alcuni versetti di sei Salmi differenti che riassumono tutti i pensieri espressi da Salomone nella sua preghiera: « Il Signore è grande e degno di lode nella città del nostro Dio, sulla sua montagna santa » (l’Intr., Alt.). « Chi è dunque Dio se non il Signore?» (Off.). È nel suo tempio che si riceve la manifestazione della sua misericordia » (Intr.) e che « si prova e si sente quanto il Signore sia dolce » (Com.), poiché Egli è « per tutti quelli che sperano in Lui, un Dio protettore e un luogo di rifugio » (Grad.), — Come il regno di Salomone fu una specie di abbozzo e di figura del regno di Cristo (2° Nott.), cosi il tempio che egli innalzò a Gerusalemme non fu che una figura del cielo nel quale Dio risiede ed esaudisce le preghiere degli uomini. È sulla montagna santa e nella città di Dio (All.) che noi andremo un giorno a lodarlo per sempre. L’Epistola ci dice che se noi vivremo di Spirito Santo, facendo morire in noi le opere della carne saremo figli di Dio, e che da quel momento, eredi di Dio e coeredi di Cristo, entreremo nel cielo che è il luogo della nostra eredità. Ed il Vangelo completa questo pensiero dicendoci, sotto forma di una parabola, quale sia l’uso che dobbiamo fare delle ricchezze d’iniquità per assicurarci l’entrata nei tabernacoli eterni. Un fattore infedele, accusato di aver dissipato i beni del padrone, si procura degli amici con i beni che questi gli aveva affidato, per avere, dopo essere stato cacciato, « persone pronte ad accoglierlo nelle proprie case ». I figli della luce, dice Gesù, contendano per zelo coi figli del secolo, e, imitando la previdenza di questo fattore, utilizzino i beni, che Dio ha messi a disposizione loro per venire in. aiuto dei bisognosi e si faccianoamici nel cielo, perché quelli che avranno sopportato cristianamente le privazioni sulla terra entreranno lassù e renderanno testimonianza ai loro benefattori nel momento in cui tutti dovranno rendere conto al divino Giudice della loro amministrazione (Vang.)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis tuis, perdúcat te ad vitam ætérnam.
S. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

Introitus

Ps XLVII: 10-11.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Ps XLVII: 2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus.

[Grande è il Signore, e degnissimo di lode nella sua città e nel suo santo monte.]

Ps XLVII: 10-11 Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Largíre nobis, quǽsumus, Dómine, semper spíritum cogitándi quæ recta sunt, propítius et agéndi: ut, qui sine te esse non póssumus, secúndum te vívere valeámus.

[Concedici propizio, Te ne preghiamo, o Signore, di pensare ed agire sempre rettamente; così che noi, che senza di Te non possiamo esistere, secondo Te possiamo vivere.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII: 12-17

Fratres: Debitóres sumus non carni, ut secúndum carnem vivámus. Si enim secúndum carnem vixéritis, moriémini: si autem spíritu facta carnis mortificavéritis, vivétis. Quicúmque enim spíritu Dei aguntur, ii sunt fílii Dei. Non enim accepístis spíritum servitútis íterum in timóre, sed accepístis spíritum adoptiónis filiórum, in quo clamámus: Abba – Pater. – Ipse enim Spíritus testimónium reddit spirítui nostro, quod sumus fíli Dei. Si autem fílii, et herédes: herédes quidem Dei, coherédes autem Christi.

(“Fratelli: Non abbiam alcun debito versa la carne per vivere secondo la carne. Se, pertanto, vivrete secondo la carne, morrete; se, al contrario, con lo spirito farete morire le opere della carne, vivrete. Poiché, quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Invero, non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, ma avete ricevuto lo spirito di adozione in figliuoli, per il quale gridiamo «Abba! (o Padre)». E lo Spirito Santo stesso attesta al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. Ora, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo”).

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.]

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Che grande parola ha detto il Cristianesimo agli uomini quando ha detto loro: voi siete figli di Dio! Fuori del Cristianesimo, osservate, l’uomo o è avvilito o è adulato. Gli spregiatori dicono all’uomo: sei una scimmia, appena un poco più perfezionato. Gli adulatori dicono: sei un Dio, sei Dio… E gli uni e gli altri dicono parole che hanno sapore di falsità e riescono moralmente funeste; perché è funesta l’abbiezione del bruto, come è funesto l’orgoglio di un falso iddio, di un idolo. Il Cristianesimo appaga e non solletica i nostri istinti, le nostre aspirazioni di grandezza, quando ci dice: voi siete figli di Dio. Purtroppo noi abbiamo fatto l’abitudine a questa parola, ed essa, che dovrebbe riempirci di gioia e di legittimo orgoglio, per poco non ci lascia indifferenti. – Ma non fu così per le prime generazioni cristiane. San Paolo si esalta, si entusiasma analizzando e quasi assaporando la frase. Per meglio gustarla e illuminarla, Paolo contrappone la sorte nostra, di noi Cristiani, a quella dei Giudei, che furono pure per tutto il mondo antico, e prima che venisse Gesù, i depositari della religione vera. Ma quella loro religione era pervasa da un suo spirito, perché dominata da una sua idea. Lo spirito onde l’anima giudaica era pervasa nel suo momento religioso, ben s’intende, era spirito di timore, anzi di timore servile, perché per il fedele giudeo cresciuto alla scuola di Mosè e della sua Legge, Dio era il Padrone, il grande, il vero padrone, il Re, il Sovrano, alla guisa orientale. L’anima, davanti a quel padrone, temeva e tremava. Era la forza specifica della sua adorazione. San Paolo ne aveva fatta l’esperienza: aveva tremato anche lui e sofferto insieme e goduto di quel timore. Più sofferto che goduto, perché la sua anima avrebbe voluto aprirsi a sensi più nobili, come sono i sensi dell’affetto. Ma la vecchia legge non glielo consentiva. Ed ecco sopraggiungere Gesù, non più semplice profeta, e servo, ma Figlio di Dio veracemente, propriamente. Ed ecco annunziare agli uomini, coll’autorità sua di Figlio, che Dio è per noi e vuole essere Padre « Pater noster; » Padre già per diritto e fatto di creazione, ma assai più e meglio per diritto e fatto di redenzione; Padre dacchè ci ha dato per fratello vero il vero e unico suo Figlio. – Chiamarsi così per noi non è più una usurpazione — come non fu usurpazione per Gesù il dirsi eguale al Padre — non è una metafora: è un diritto. Guardate — dirà un altro Apostolo agli stessi primi Cristiani, — quale carità ci ha usato il Signore, dandoci nome e realtà di suoi figlioli: « ut filì Dei nominemur et simus ». Il Cristianesimo ha fatto e fa lievitare in noi, in noi esalta tutti quegli elementi che già costituiscono un fondo di sbiadita rassomiglianza con Dio. Esalta col lume della fede il lume dell’intelletto, orma di Dio nella nostra anima; ci solleva a quelle verità che sono il segreto di Dio, che nessuno dei principi di questo mondo sarebbe arrivato a scoprire. Esalta la nostra coscienza e la spinge a desiderare e volere forme nuove e più atte al bene. È qui anzi, nella fornace dell’amore al bene, della carità, che si compie questa meravigliosa trasformazione del Cristiano in figlio di Dio, simile — non uguale, privilegio questo di Gesù Cristo — simile al Padre. Trasformazione dovuta alla grazia, ma alla cui completa realizzazione noi dobbiamo collaborare, operando da figli di Dio. I filosofi dicono che l’opera segue l’essere e lo dimostrano. « Operari seguitur esse ». Siamo figli di Dio! E operiamo allora da figli di Dio, non da estranei, non da nemici. Siano divine le nostre opere, sia divina la nostra condotta. Per fortuna, quale sia la divina condotta di un uomo noi lo sappiamo, guardando a N. S. Gesù Cristo, l’Uomo-Dio. Verrebbe voglia di riepilogare con parola evangelica questa condotta divina, superiore sovrannaturale in un binomio: spirito e verità. Seguiamo le ispirazioni dello spirito e non le suggestioni della carne; queste fanno l’uomo animale, bruto, inferiore, degenere; lo spirito, al contrario, ci dà l’uomo superiore, spirituale. E della verità siamo solleciti ed entusiasti: Dio in ciascuno di noi… Se procederemo così secondo spirito e verità, avremo la soddisfazione arcana e profonda di sentirci davvero figli di Dio: quello che pareva sogno superbo, sarà diventato per noi realtà consolante.

Graduale

Ps LXX: 1

V. Deus, in te sperávi: Dómine, non confúndar in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[V. O Dio, in Te ho sperato: ch’io non sia confuso in eterno, o Signore. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XLVII:2

Alleluja, Alleluja.

Magnus Dóminus, et laudábilis valde, in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. Allelúja.

[Grande è il Signore, degnissimo di lode nella sua città e sul suo santo monte. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. (Luc XVI: 1-9)

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: jam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii hujus saeculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula

 (“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Eravì un ricco, che aveva un fattore, il quale fu accusato dinanzi a lui, come so dissipato avesse i suoi beni. E chiamatolo a sé, gli disse: Che è quello che io sento dire di te? Rendi conto del tuo maneggio; imperocché non potrai più esser fattore. E disse il fattore dentro di sé: Che farò, mentre il padrone mi leva la fattoria? non sono buono a zappare; mi vergogno a chiedere la limosina. So ben io quel che farò, affinché, quando mi sarà levata la fattoria, vi sia chi mi ricetti in casa sua. Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, disse al primo: Di quanto vai tu debitore al mio padrone? E quegli disse: Di cento barili d’olio. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo; mettiti a sedere, e scrivi tosto cinquanta. Di poi disse a un altro: E tu di quanto sei debitore? E quegli rispose: Di cento staia di grano. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo, e scrivi ottanta. E il padrone lodò il fattore infedele, perché prudentemente aveva operato: imperocché i figliuoli di questo secolo sono nel loro genere più prudenti dei figliuoli della luce. E io dico a voi: Fatevi degli amici per mezzo delle inique ricchezze; affinché, quando venghiate a mancare, vi dian ricetto ne’ tabernacoli eterni”).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – 1957, Milano)

ABILITÀ NEGLI AFFARI

La più strana parabola del Vangelo è quella dell’astuto fattore. Doveva essere uno di quegli uomini incantatori, svelti a parlare e più svelti a fare: rubava senza scrupoli, e scialava senza rincrescimenti. Il padrone, quasi ipnotizzato da tanta e tale scaltrezza, gli aveva affidato la gestione di tutti i suoi beni, ciecamente. E ci vollero accuse, denunzie, prove prima di fargli aprire gli occhi. Finalmente si risvegliò come da un sonno, e chiamato il fattore, gli disse a bruciapelo: « Belle cose ascolto di te! Portami i conti, e vattene che sei licenziato ». La folgore si scaricò tanto inaspettata che lo scaltrissimo fattore si trovò smarrito. « E adesso che cosa farò io, che il padrone mi leva la fattoria? A zappare non son buono, a limosinare mi vergogno ». Fu un attimo di stordimento, poi ritrovò la sua tremenda presenza di spirito: e approfittò delle ultime ore di potere per farsi degli amici che lo aiutassero nell’imminente disavventura. E Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, con la disinvolture dell’uomo abituato a falsare le ricevute, disse al primo: « Quanto devi al padrone? » E quello rispose: « Cento barili d’olio ». « Prendi la tua fattura presto, siedi e scrivi cinquanta ». Poi disse ad un altro: «E tu quanto devi? ». E quello: « Cento staie di grano ». « Prendi la tua fattura e scrivi ottanta ». Il padrone, che ormai stava all’erta, scoprì tosto ogni cosa. Ma non potè trattenersi un’espressione di sbigottita ammirazione: « Che scaltrezza in quest’uomo, Che abilità negli affari! ». – A questo punto Gesù fece l’applicazione morale della parabola. « Perché i figli della luce non mettono nel bene quell’avvedutezza e quell’abilità che i figli delle tenebre mettono nel male? Perché mentre sanno che nella fattoria di questo mondo possono restare per poco tempo e poi saranno dalla morte scacciati fuori, non procurano di farsi degli amici che diano a loro ricetto nei tabernacoli eterni? ». Non è difficile, Cristiani, rispondere a queste domande. Ci sono degli uomini che negli affari e raggiri terreni hanno un occhio da lince, un coraggio da leone; ma negli affari celesti sono ciechi come talpe, timidi come conigli. Guardate quanto e qual progresso ha fatto il nostro secolo nell’arte distruggitrice della guerra, nella maniere corrompitrice del piacere e del godimento; e dov’è il progresso nell’arte di amare il Signore, di salvare l’anima? C’è dunque un’abilità sviata e un’abilita giusta negli affari. La prima è quella dei figli di questo secolo che, simili all’astuto fattore, nell’ingranaggio degli affari del mondo stritolano la coscienza e la giustizia e l’anima intera. L’altra è quella dei figli della luce, che soprattutto e prima di tutto, mettono la loro abilità negli affari eterni del regno di Dio e della salvezza dell’anima. – 1. L’ABILITÀ DEI FIGLI DI QUESTO SECOLO. Nessuno può negare audacia e abilità ai fratelli di Giuseppe. S’erano accorti che il loro fratello minore con l’ubbidienza aveva conquistato la preferenza del padre; inoltre, dei presagi misteriosi nel sonno predicevano loro che un dì avrebbero dovuto riconoscerlo come principe e dipendere da un suo cenno. Perciò, spogliatolo della tunica, dapprima lo nascosero in una cisterna: poi portarono la tunica al padre, non senza prima averla intrisa nel sangue d’una pecora svenata, e gli fecero credere che una belva avesse divorato il fanciullo; in realtà il fanciullo era stato da loro venduto a dei mercanti che lo portarono lontano lontano, in Egitto. Tutto era riuscito bene, e rimasero così dominatori della situazione familiare. Se non che una forza maggiore di loro, la carestia, li costrinse a recarsi in Egitto a prendere il grano per non morire di fame. Dovettero inginocchiarsi davanti al viceré, supplicarlo di un po’ di pane, giurare di mettersi a suo servizio. Quel viceré, lo riconobbero poscia, era il loro fratello Giuseppe. Lo avevano venduto per non sottomettersi a lui, e appunto per averlo venduto sono costretti a sottomettersi. L’abilità dei figli di questo secolo si squaglia alla fine e le frodi ordite si risolvono in loro danno. – Ricordiamo un altro esempio della Storia Sacra. Nabot possedeva una vigna non lontana dal palazzo del re di Samaria, e gli era molto cara perché era stata bagnata dal sudore dei suoi padri, i quali l’avevano lasciata a lui in eredità. Ma il re la voleva per farsene un giardino; e insieme alla regina Gezabele ordì questo astuto tranello. Furono subornati due perfidi uomini che accusarono Nabot in tribunale di aver bestemmiato contro Dio e contro il re; così l’infelice fu condannato alla lapidazione, ed il re guadagnò la vigna e se la godette. Non passò molto tempo e i cani leccavano il sangue del re ucciso in guerra, della regina gettata sulla strada da un balcone. Non si deve però credere che tutti quelli che con ingiustizia e scaltrezza si procurano una fortuna materiale abbiano sempre un castigo sensibile in questo mondo. Agli occhi di Dio i beni materiali hanno così poco valore, che sono sparsi sulle case dei buoni come su quelle dei peccatori. Ma il peccatore s’illude d’essere astuto; perché, mentre con frodi e abilità si fabbrica una prosperità materiale, perde i valori spirituali ed eterni, e va incontro all’inferno. Reca meraviglia pensare che anche tra quelli che si dicono Cristiani l’abilità iniqua dei figli del secolo trova dei seguaci. Alcuni raggiungono un posto desiderato sparlando, mormorando, calunniando quelli che prima l’occupavano o che erano rivali. Altri pensano di aumentare le rendite con maneggi illeciti, con l’infedele amministrazione dei beni altrui, con smoderati guadagni. Altri infine ricorrono all’adulazione, alla menzogna, all’inganno, alla corruzione di impiegati e amministratori con promesse di denaro. Gli uomini come sono ancora poco Cristiani! si credono astuti se, a scapito dei beni eterni, riescono ad ammassare beni materiali e caduchi. Chiamano sciocchi quelli che osservano i comandamenti di Dio con loro svantaggio, e non immaginano che da un momento all’altro può risuonare al loro orecchio l’annuncio spaventoso: Lo stolto sei tu! poiché stanotte morrai, e le sostanze che con tanta abilità hai radunate di chi saranno? a che ti gioveranno? » (Lc., XII, 20). – 2. L’ABILITÀ DEI FIGLI DELLA LUCE. I figli della luce, a base d’ogni loro abilità, pongono questa parola del Signore: Che giova all’uomo guadagnare anche il mondo intero, se poi la sua anima subisce una perdita? » (Mt., XVI, 26). I figli della luce fissano lo sguardo e il cuore nei beni immortali: l’amore di Dio, il Paradiso, la grazia, la pace dell’innocenza, il tesoro della virtù. E quando li abbassano a considerare le cose del mondo, gli onori umani e i piaceri della carne e le allegrie terrene, a loro sembrano vili come una spazzatura. Pertanto, sono convinti che il più grasso guadagno materiale non potrà mai compensare la più piccola perdita spirituale. – Uno splendido avvenire brillava davanti al giovane Saulo di Tarso. Possedeva tutte le invidiabili qualità per fare carriera ed in breve avrebbe raggiunto uno dei primi posti nella sua nazione e nella sua religione. Israelita puro sangue della tribù di Beniamino, apparteneva al movimento d’avanguardia come Fariseo, dirigeva le più audaci spedizioni punitive contro la nascente Chiesa. Quando gli sembrava dovesse raccogliere i primi frutti della sua ardimentosa vita, improvvisamente si ritirò nel deserto, e di là uscì mutato completamente. Fu deriso, compianto, calunniato, scacciato, perseguitato a sangue dagli stessi che prima l’ammiravano: ma niente lo poté smuovere. « Quelli che erano per me guadagni, io li stimai perdite, in confronto a Cristo. Credo proprio che tutte le cose siano una perdita di fronte all’eccellenza della cognizione di Cristo Gesù, mio Signore; per amor del quale mi sono privato di tutto, e tutto tengo in conto di spazzatura allo scopo di guadagnarmi Cristo » (Filipp., III, 7-8). Certo che agli occhi dei figli di questo secolo la prudenza e l’abilità dei figli della luce è giudicata una grulleria. Quella povera madre di famiglia che lavora tutto il giorno, perché balza dal letto per tempissimo e va in chiesa ogni mattina? È una sciocchezza inspiegabile sprecare le ore del riposo migliore. E quel giovane che passa la domenica in chiesa con la messa e con la dottrina, invece di recarsi alle passeggiate e ai divertimenti, non è forse un incapace di godere la vita? Quando i fratelli di S. Tommaso d’Aquino seppero ch’egli aveva deciso di farsi domenicano, lo credettero fuori di senno. Ricco, sano, bello, intelligente, abbandonare il castello natio e chiudersi nell’ombra melanconica di un chiostro?!… Pensarono di rinsavirlo imprigionandolo, e mandandogli un’impudica lusingatrice. Sappiamo con quale forza ed abilità vinse la tentazione della donna e dei fratelli. Prese un  tizzone acceso e sì scagliò contro la sciagurata, poi seppe fuggire dalla domestica reclusione. – Quando S. Filippo Neri umilmente nascondeva le sue virtù e la sua grande santità facendo il giullare davanti a uomini illustri che dall’estero arrivavano apposta a consultarlo, non venne forse giudicato uno sciocco? E quando S. Giovanni Bosco cominciò a manifestare il suo zelo per le anime, a creare tutto quel mirabile movimento di bene che ancora ammiriamo, non fu forse giudicato pazzo e come tale non si tentò di rinchiuderlo in un manicomio? – Ci fu un uomo che vendette quello che aveva, casa, roba, vestiti, tutto, per comprare un campicello spinoso e sassoso che molti non avrebbero preso neppur per regalo. Tutti lo consideravano come uno stolto. Ma poi si seppe che nascosto in quel campicello, sotto quei sassi e quei rovi, c’era un tesoro favoloso. Allora compresero che quell’uomo era stato il più furbo di tutti. Ebbene, i figli della luce sanno che sotto i rovi e i sassi della umiliazione e della mortificazione sta nascosto il tesoro della vita eterna. Essi, più furbi di tutti, rinunciano alle misere cose di quaggiù, per la conquista di quell’immenso bene. I figli delle tenebre son come gli Egiziani felici e superbi che a cavallo e in cocchio dorato corrono ad affogare nel mar Rosso; i figli della luce, nel nome del Signore, con la pazienza, con la carità, con le buone opere, vanno verso la terra promessa. Hi in curribus et hi in equis, nos autem în nomine Domini (Ps. XIX, 8). – Quando Gesù ebbe terminato di contare questa parabola, alzò la voce come per farsi udire non solo dai presenti, ma anche da quelli che sarebbero nati dopo, negli anni venturi, e conchiuse: « I figli di questo secolo sono, nel loro genere, molto più scaltriti dei figli della luce. Anche voi con le cose di quaggiù in terra fatevi degli amici lassù in cielo: così quando la morte vi scaccerà da questo mondo, essi vi faranno accoglienza nelle tende eterne ». Filii huius sæculi prudentiores! Questa parabola del divin Maestro per alcuni istanti noi mediteremo: essa contiene un rimprovero ed un lamento. Noi pure, Cristiani, siamo fattori, ma non forse astuti come quello della parabola. – 1. ANCHE NOI SIAMO FATTORI. È una verità tanto chiara, eppure troppo dimenticata. Ecco un uomo che vive lontano dalla Chiesa, senza preghiera, senza sacramenti, senza istruzione cristiana. La voce della coscienza in certe pause si leva e grida: « La tua anima è fuor di strada! ». Ma quegli scrolla le spalle e mormora: « Della mia anima faccio come voglio io ». Eh, no! tu sbagli di grosso: tu sei il fattore della tua anima, e devi fare come ti prescrive il padrone. Ecco una fanciulla di nessuna serietà che veste, senza modestia, le mode più provocanti al male. Qualche amica assennata l’avverte: « Guarda che dai scandalo ». Ma quella inviperita, stride: « Mi vesto come mi piace ». Eh no! qui c’è un equivoco: t’illudi di essere la padrona del tuo corpo, ma invece non sei che la custode e come tale sei tenuta alle prescrizioni del vero padrone. Ecco ancora un padre di famiglia. Io lo prendo in disparte e gli ragiono così: « Sentite. Voi mandate il vostro figliuolo a servire in quell’albergo, in quel ritrovo: perderà senza dubbio la fede e il buon costume. Voi mandate la vostra figliuola in quell’officina, in quella famiglia; la costringete, ogni giorno, a passare delle ore sui treni pigiati, lei quattordicenne appena. Voi, da due anni, fate soffrire la vostra maggiore negandole il permesso di ritirarsi in convento dove il Signore la vuole… « Quante storie! — mi risponde. — I figliuoli sono miei e ho diritto di sfruttarli meglio che posso ». Eh no, benedetto uomo! voi avete preso un qui pro quo: voi siete soltanto il responsabile dei vostri figli, il padrone è un altro! A chiarire quest’idea quanto opportuna non è mai la parabola del fattore: quella che or ora avete sentito! Il gran ricco è Dio, mentre ciascuno di noi è raffigurato nel fattore che deve custodire, fertilizzare, amministrare una fattoria più o meno vasta, più o meno preziosa. La fattoria della nostra anima: essa è prediletta dal gran Padrone, perché vi ha impresso la sua immagine, perché l’ha comperata col prezzo di un Suo Figliuolo, perché bagnata dal sangue divino di questo suo Figlio Unigenito morto in croce. Noi dobbiamo difenderla dal demonio che, come un porco, cerca di sforzare le siepi e gettarsi dentro ad insozzarla. Noi dobbiamo liberarla da ogni vizio che vi spunti come erba cattiva. Noi dobbiamo farla fruttificare con frutti di virtù e di buone opere. La fattoria del nostro corpo: ecco è il tempio dello Spirito Santo. Ricordate S. Paolo che nelle sue lettere frequentemente scrive: « Voi siete la casa in cui Dio abita. Il vostro corpo è come una chiesa ». Dobbiamo quindi avere un gran rispetto della nostra carne, circondarla di modestia, di temperanza. Soprattutto dobbiamo conservarla pura da ogni disonestà. – La fattoria della famiglia: chi ha un padre e una madre dovrà ubbidirli e aiutarli. Chi ha una moglie dovrà amarla come Cristo comanda. Chi ha figliuoli dovrà educarli secondo i comandamenti della Religione. Se prima di questa sera il gran Padrone ci chiamasse a palazzo e ci dicesse: « Qua i conti di tua famiglia » cosa potrebbe rispondere ciascuno di noi? « Che cosa ne hai fatto della tua consorte? Perché ne hai conculcato la virtù spingendola ai peccati nefandi e ai delitti? ». « Che cosa ne hai fatto dei tuoi figliuoli? Io non li vedo all’oratorio, non li vedo alla dottrina, non li sento chiamarmi né mattino né sera. E quella tua figliuola: tu la sopporti vestita così, leggera così? ». « Qua i conti, che per te è finita! Redde rationem villicationis tuœ ». – La fattoria del tempo. Chi tiene un prestito per due anni non avrà da rendere solo l’interesse di un anno. E chi abita una casa per dieci anni, non darà appena l’affitto di cinque. E perché allora, o Cristiani, non meditiamo che ogni anno che passa aumenta la nostra responsabilità di fattori? Perché tramandiamo indifferentemente, di giorno in giorno, di anno in anno, un’opera buona o anche la nostra stessa conversione? – Udite come fu ingenuo un contadino. Arrivato alla sponda di un fiumiciattolo, dovendo traghettare al di là, cominciò a sedersi sull’erba fresca. E come si ricordava che sarebbe  che sarebbe stato necessario oltrepassarlo, diceva: « Aspetterò che l’acqua sia trapassata tutta via, passerò sull’asciutto ». E aspetta e aspetta, venne la morte ed egli era ancora là. Proprio come quel contadino goffo siete ancora voi se, dimenticando che il tempo non è vostro e che l’avete in prestito, rimandate sempre l’ora delle buone azioni (HORATIUS, I Ep., II, 42: … vivendi qui recte prorogat horam. — Rusticus expectat dum defluit annis). – 2. MA NON FORSE ASTUTI . Come sa d’amara tristezza il lamento di Gesù: « Sì! sono più scaltri nei loro affari i figli del mondo ». Il mondo promette cose vili e fugaci e tutti gli corrono dietro con affannosa brama; Iddio promette cose eterne e sublimi e una torpida noia circonda i cuori degli uomini » (De Imit., lib., III, cap. 2). Confrontate gli avari con voi. L’avaro prima di spendere un soldo ci pensa una notte, e lo guarda e lo soppesa sulla mano, e lo accarezza, e nel cederlo gli par di cedere anche una fibra del cuore. Il Cristiano invece, non di un soldo appena, ma fa gettito di un immenso tesoro, — quale è la grazia di Dio, — in un momento, senza esitare, senza rimorsi pur di godere un piacere proibito. L’avaro come traffica! non perde tempo, non s’acquieta, sta in vedetta di ogni buona occasione e vende quello che vale di meno per quello che vale di più. Il Cristiano invece non s’interessa delle ricchezze spirituali e se gli capita la tentazione vende il Cielo per comprare la terra, vende il Paradiso per comprare l’inferno. L’avaro se talvolta è implicato in un fallimento, se talvolta un affare gli riesce in perdita, gli manca il fiato, gli manca l’appetito, gli manca il sonno: il Cristiano, se il demonio gli ha rapito l’innocenza, la grazia, ogni virtù, vive indifferentemente la vita di prima come se nulla di triste gli fosse capitato. L’avaro, e con lui ogni uomo previdente, si assicura sulla vita, sulla roba, sul lavoro, contro la grandine o contro l’incendio o contro il furto: il Cristiano non è previdente, non vuole esserlo. Non si assicura con le indulgenze dal fuoco del purgatorio, non si assicura dai furti del demonio con la mortificazione dei sensi. Et ego vobis dico: facite vobis amicos de mammona iniquitatis! (Lc., XVI, 9). Nessuno trascuri l’avviso del Signore: con le cose di questo mondo conquistiamo l’altro mondo. E giacché le parole del Vangelo mirano direttamente ad inculcarci l’elemosina, udite una leggenda dei libri ebraici. « Due uomini andavano un giorno nel vicino bosco a tagliar legna. Un astrologo, che non la sbagliava mai, vedendoli esclamò: « Questi due escono, ma non ritorneranno vivi ». Uscendo dalla città, i due incontrarono. un vecchio che diceva: « Fatemi la carità: da tre giorni patisco la fame ». Essi presero l’unica pagnotta che avevano portato con sé, e ne diedero metà al vecchio, che mangiandola fece questa preghiera: « Dio vi conservi oggi in vita, come oggi voi avete conservato me ». « Alla sera, prima che le stelle tornassero in cielo, i due uomini, con la legna in spalla, rientrarono in città. « Come! — dissero alcuni all’astrologo — non avevi assicurato che costoro sarebbero morti? ». « Rispose l’astrologo: « Strano davvero! ci voglio veder chiaro ». Esaminato il fascio della legna che riportavano, trovò nel carico dell’uno la metà di un serpente, l’altra metà nel carico dell’altro. Sorpreso domandò allora: « Che buona azione avete mai compiuta oggi? ». E quelli si fecero a raccontare la storia del vecchio. « Che cosa posso farci io — esclamò l’astrologo — se il Signore si lascia commuovere da una mezza pagnotta? » (Talmud, Ieruscialmì, Sciabbath 6). Quanti che avrebbero dovuto perire nell’inferno morsicati dal serpente antico e maligno, noi un giorno vedremo placidamente entrare nella città del paradiso! Come mai! — esclameremo. — Che buona azione hanno compiuto? ». E allora comprenderemo che la generosità verso il prossimo, verso le missioni, verso la parrocchia ha meritato loro la grazia di convertirsi prima di morire. — L’ASTUZIA DEI FIGLI DEL SECOLO. Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — E questo lamento che sta nella parabola di Gesù, è vero anche per noi. Quanto interesse per le cose mondane e quanto disinteresse per le cose del cielo! Quanta astuzia nel fare il male e quanta trascuratezza nel fare il bene! Impariamo dai figli del secolo. – 1. FIGLI DEL SECOLO E I MISTERI DELLA NATURA. Quando Michele Montgolfier, con un pallone di carta gonfiato d’aria calda dimostrò a Parigi che l’uomo poteva volare nei cieli, un poeta esclamava: « O uomo! che più ti resta? tu hai saputo scoprire le origini del tuono; hai saputo imprigionare il lampo e disperderlo nelle voragini della terra; hai saputo descrivere l’orbita alle stelle e misurare la loro distanza; tutto hai saputo scoprire e domare: la terra, il fuoco, il mare, il cielo, le fiere ». E veramente l’uomo, « con brando e con fiaccola » ascende arditamente alla conquista del mondo anche sacrificando la propria vita. Plinio, soffocato dalle ceneri e dai lapilli ardenti, muore a Stabia per scrutare l’eruzione del Vesuvio. Colombo con tre caravelle si slancia nel mistero tenebroso dell’oceano. Galileo consuma la vista e la vita a scrutare le macchie del sole. Clemente Adler, uno dei primi aviatori, cade in un mattino umido, con le gambe sfracellate sotto l’apparecchio, ma con lo sguardo nei cieli che aveva tentato di violare. È una sete d’ignoto e di conquista che sospinge i figli del secolo. Si può dir così anche dei figli della luce? Anche per essi c’è un mondo da conoscere e da conquistare: il mondo dello spirito. S’incontrano talvolta dei Cristiani che confondono le tre Persone della Sacra Famiglia con le tre Persone della SS. Trinità; che confondono l’Immacolata Concezione con il virginale concepimento di Maria; che non sanno bene che cosa ricevono nella santa Comunione. Eppure, ogni festa, queste sublimi verità si spiegano nella Chiesa. Ma i figli della luce non vengono ad istruirsi, e non hanno vergogna della loro supina ignoranza, mentre arrossirebbero di non sapere certe nozioni d’elettricità. Quanta ammirazione nel mondo per l’uomo che slancia il suo veicolo ad una folle velocità, che in poche ore attraversa l’oceano, che con una forza bestiale di pugno atterra un suo simile. E per l’uomo che sa vincere l’astutissimo demonio, conservarsi nell’equilibrio del bene anche in mezzo a tanto male, volare nei cieli della santità, per l’uomo che in pochi anni, come S. Luigi, S. Stanislao, S. Teresa del Bambin Gesù, sa raggiungere la cima della perfezione cristiana, nulla o fors’anche un sorriso di compatimento. – 2 I FIGLI DEL SECOLO E GLI INTERESSI MATERIALI. È triste la partenza degli emigranti. Con gli occhi lacrimosi, col cuore martoriato da mille sentimenti, ascendono la nave e dalla tolda si rivoltano a salutare. Povera gente che varca i mari verso un destino ignoto! Lasciati i loro cari, la loro casa, il loro campicello, il paese dei loro giuochi e dei loro sogni, la patria, tutto; ma perché? Perché sperano di tornare un giorno ricchi, riabbracciare i loro vecchi e i loro figli cresciuti e passare con loro beatamente gli ultimi giorni. Anche i figli della luce devono pensare al loro avvenire: quando questo mondo finirà, ed entreranno nei regni eterni. Eppure, sono pochi quelli che sanno distaccarsi dai luoghi, dalle persone, dalle cose terrene per accumulare meriti per il cielo. Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — Napoleone per conquistare un regno patì freddo e fame, stanchezza e sonno, e si espose più volte alla guerra. Eppure, il suo regno non fu che una meteora ed egli moriva, lacrimando, sulla scogliera brulla in mezzo al mare. Cesare, sospirando l’impero di Roma, combatté le difficili guerre coi Galli, e le più difficili con i suoi rivali; eppure egli raggiunse appena le soglie del sognato impero, che cadde, pugnalato, ai piedi della statua di Pompeo. Alessandro combatté con una forza di volontà non mai vista sopra la terra e quando ottenne la signoria del mondo lo raggiunse la morte, e con lui si sfasciò il suo impero. Ma se i figli del secolo sanno patire ineffabili tormenti, superare terribili difficoltà  per raggiungere il regno d’un giorno, perché i figli della luce non sapranno sopportare piccoli patimenti, combattere le passioni, respingere la lusinga del mondo per conquistarsi un regno eterno di felicità inimmaginabile? Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — LE RICCHEZZE E IL LORO USO. Il Signore è paziente e grande nella sua fortezza. Quegli che fa tremare i monti e disseccare gli oceani, un giorno disse a Nahum, suo profeta: «Va a Ninive ed annuncia i castighi di Javé ». Il messo di Dio accorse e predicò sulla piazza ad un popolo numeroso come l’arena del mare. « Voi avete fatto più gran numero d’affari che non sono le stelle del cielo. Ma ecco che il nemico famelico vi tiene d’occhio: e quando vi avrà visto ben pasciuti si getterà sopra di voi come una nube di cavallette sui campi biondi di spighe. Prenderanno l’argento, prenderanno l’oro e non vedranno la fine delle ricchezze nascoste nei vostri vasi. Le case saranno rovinate e le sostanze disperse: dissipata, et scissa et dilacerata » (Nah., II, 10). Quello che disse il Signore al suo profeta, lo dice Gesù a noi oggi nel Vangelo. Il padrone dové ammirare tanta scaltrezza. « Che canaglia, ma che furberia! »: furberia però dei figli delle tenebre, dei cattivi immersi negli affari materiali e nelle ricchezze del secolo. Ma c’è un’altra furberia, la vera che devono imparare i figli della luce, quelli che guardano in alto, nella regione del sole. Che debbono fare i figli della luce? I beni acquistati in eredità, accumulati col guadagno, ottenuti con mezzi forse non del tutto onesti, sono chiamati « mammona di iniquità »: occasione, frutto, mezzo di ingiustizia. Quelli che li hanno a disposizione sono semplici amministratori, come l’economo della parabola: bisogna ch’essi stiano attenti a non defraudare il Padrone che sta nei cieli, ma ad amministrarli bene, a prelevare qualche cosa per i poveri, per essere ricevuti in cielo assieme a loro, che sono gli amici di Dio. Altrimenti la loro furberia sarà quella dei figli del secolo, e se la scamperanno in vita, non la scamperanno in morte: e le sostanze loro saranno et dissipata et scissa et dilacerata. « Ed io vi dico: fatevi degli amici per mezzo delle ricchezze materiali e dei beni di fortuna, affinché, quando veniate a morire, vi diano ricetto nelle tende eterne ». – 1. L’USO CATTIVO. Seneca, che fu un filosofo pagano, andava torturandosi un dì il cervello per sapere dov’è la vera sapienza. Gli accadde d’incontrarsi con un uomo che mangiava in un piatto d’argilla, ma s’accorse che aveva in cuore tanta brama d’aver vasellame d’oro: concluse che quello non era un uomo saggio. Gli venne poi d’incontrarsi con un uomo che mangiava in un piatto d’argento beveva in una coppa d’oro; lo interrogò e seppe che mangiava e viveva con tanta semplicità come se il vasellame fosse d’argilla; e concluse: questi è l’uomo saggio. Anche il Signore Gesù aveva detto chi erano i ricchi saggi ed i ricchi stolti, quando distinse due specie di poveri, quelli di spirito e quelli di mezzi. I poveri di spirito sono anche i ricchi, quando non sono attaccati ai beni della terra e non dimenticano quelli del cielo, e vivono in semplicità, con l’animo medesimo con cui vive anche il povero. Quando è così, buone sono le ricchezze, dice S. Agostino, perché sono usate come vuole Dio, per operare il bene. E la Scrittura chiama beato quel ricco « che si è elevato sino alla comprensione del povero e dell’indigente ». Ma quanto è difficile essere savi fra le ricchezze! Sentite ancora Gesù: «In verità vi dico: un ricco entrerà difficilmente nel regno dei cieli. E aggiunge: è più facile per un cammello passar per la cruna d’un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli »: e nel Vangelo di quest’oggi le ricchezze sono da lui chiamate mammona iniiquitatis, perché spesso sono frutto, occasione, mezzo di iniquità. La S. Scrittura chiama la cupidigia simulacrorum servitus; ah! quanto è vera l’espressione, quando l’idolo di cui s’è schiavi è la ricchezza! Per l’avidità di possedere, quanti mali acquisti fa l’uomo! speculatore, gioca sul danaro altrui con false notizie; capitalista, sfrutta il bisogno con un interesse da usuraio; industriale, non ripaga equamente l’operaio; commerciante, altera il peso, la misura, la merce; operaio, inganna il padrone. Così le ricchezze sono frutto di iniquità. Quando le ricchezze si hanno, divengono spesso mezzo di peccato: e si pongono nello scrigno avaramente o si spendono all’osteria, nelle sale, nei teatri, per i piaceri, per il fango; così come il ricco Epulone e come il Figliuol Prodigo. Ah, è troppo inumano che il denaro grondi sudore altrui o sprema sangue, ah! è troppo vergognoso che divenga mezzo di peccato. Domandate alle famiglie in dissidio la causa perché son divise, e vi risponderanno: il denaro; domandate alla società la causa dell’odio, delle inimicizie, delle lotte fra il ricco ed il povero, e vi risponderà: il denaro; domandate a quell’uomo perché ha perso la fede, l’onore e vi risponderà: per il denaro; domandate a quell’altro perchè ha dimenticato il suo dovere e vi risponderà: per il denaro. Denaro, sempre denaro; ah! è una ben triste occasione di peccato, il denaro! E se poteste domandare a tanti e a tanti perché sono nell’inferno, ancora con un gesto disperato e con un singulto orribile vi risponderebbero: per il denaro. Morì il ricco e fu sepolto nell’inferno ». La furberia dei figli del secolo non chiude quelle porte di fuoco. – 2. L’USO BUONO. Nell’Antico Testamento e vi erano due specie di sacrificio: un sacrificio che uccide la vita e un sacrificio che dona la vita. Noi conosciamo bene il primo: la giustizia divina, che fulmina e scuote e strappa i cedri del Libano, esigeva sacrifici di sangue che spruzzava di rosso l’altare, sacrifici di fuoco che consumava la vittima. Ma vi era l’altro sacrificio di cui parla l’Ecclesiastico: Qui facit misericordiam offert sacrificium. (Eccl., XXXV, 4). Se con sacrificio di sangue si onora la giustizia divina offesa, col sacrificio dell’elemosina si onora la bontà divina, dolce e amabile che vuole la vita del peccatore, che non ha pensieri di afflizione, ma pensieri di pace. « Beati questi misericordiosi, perché otterranno misericordia » disse Gesù nel Nuovo Testamento, e la otterranno più splendida nel dì finale. Nel dì finale il Re dirà a coloro che sono a destra: « Venite benedetti, perché  ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; sete e mi avete dato da bere; ero pellegrino e mi avete ricoverato; nudo e mi avete vestito; malato e mi avete curato, prigioniero e mi avete visitato ». « Quando, o Signore, abbiamo fatto questo? ». – «Ve lo dico in verità, tutto quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me medesimo ». Ora le capite le parole del Vangelo: « Colle ricchezze fatevi amici che vi riceveranno in cielo »; quanti, dopo averle udite e dopo averle meditate, hanno distribuito ai poveri i loro averi, hanno riparato alla ingiustizia, hanno reso la merce defraudata: e si sono fatti amici in cielo. Ora le capite le parole della Sacra Scrittura: « La elemosina copre non solamente i peccati, ma la moltitudine dei peccati »; « come l’acqua estingue il fuoco, così l’elemosina estingue la colpa ». Ora capite che il buon uso delle ricchezze è di colui che non si considera un padrone assoluto, ma nel tempo e secondo i limiti che il Padrone Assoluto Eterno ha stabilito: ora capite che il buon uso delle ricchezze è di colui che, quando ha soddisfatto alla propria necessità, alla convenienza della sua posizione, alla esigenza della sua famiglia, il resto lo dà ai poveri. Ora capite che l’elemosina diviene frutto, mezzo, occasione di giustizia. Chi ha rubato e non trova l’antico padrone, chi ha danneggiato e non può riparare il danno, chi ha ereditato male e non può far più nulla; tutti costoro con l’elemosina convertono mammona iniquitatis in frutti di giustizia che raccoglieranno in cielo. Colui che penetra nel cuore e nell’anima del tapino per diffondere un po’ di luce fra tanto odio, per portare la pace e la grazia del Signore fra tanta miseria e fra tanta colpa, costui conquista anime e fa veramente amici in cielo: l’elemosina è occasione di tanto bene. « Chiudi la limosina nel seno del povero, e questa pregherà per te contro ogni male: essa è come sigillo dinanzi a Dio che segnerà il libro di vita, essa è come pupilla dell’occhio di Dio e irraggerà di luce in cielo » (Eccli., XXIX, 15). – V’è nella vita del B. de la Colombière questo piccolo episodio autentico. Un ricco gentiluomo di Francia era morto dopo aver vissuto la vita galante di società. Il primo marzo del 1680 un’umile e santa suora della Visitazione lo vede mentre prega in coro e ascolta le sue parole: « Ah! quanto è grande Iddio, e giusto e santo! Nulla è piccolo ai suoi occhi, tutto è pesato, punito, ricompensato ». « Avete ottenuto misericordia? » domanda la suora. « Sì, per le elemosine ai poveri ». E sparve. Costui ha trovato in cielo i poveri suoi amici: e fu salvo. Li troveremo anche noi, che ci spaventiamo, guardando ai nostri peccati e al giudizio di Dio?

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XVII: 28; XVII: 32

Pópulum húmilem salvum fácies, Dómine, et óculos superbórum humiliábis: quóniam quis Deus præter te, Dómine?

[Tu, o Signore, salverai l’umile popolo e umilierai gli occhi dei superbi, poiché chi è Dio all’infuori di Te, o Signore?]

Secreta

Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera, quæ tibi de tua largitáte deférimus: ut hæc sacrosáncta mystéria, grátiæ tuæ operánte virtúte, et præséntis vitæ nos conversatióne sanctíficent, et ad gáudia sempitérna perdúcant.

[Gradisci, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che noi, partecipi dell’abbondanza dei tuoi beni, Ti offriamo, affinché questi sacrosanti misteri, per opera della tua grazia, ci santífichino nella pratica della vita presente e ci conducano ai gaudii sempiterni.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXXIII: 9 Gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus: beátus vir, qui sperat in eo.

[Gustate e vedete quanto soave è il Signore: beato l’uomo che spera in Lui.]

Postcommunio

Orémus.

Sit nobis, Dómine, reparátio mentis et córporis cæléste mystérium: ut, cujus exséquimur cultum, sentiámus efféctum.

[O Signore, che questo celeste mistero giovi al rinnovamento dello spirito e del corpo, affinché di ciò che celebriamo sentiamo l’effetto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (213)

LO SCUDO DELLA FEDE (213)

MEDITAZIONI AI POPOLI (I)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE I.

Una cosa sola importa, salvare l’anima nostra

Quale conforto per un ministro di Gesù Cristo! Egli, ogni volta che si presenta ad un popolo nelle chiese, trova sempre una famiglia di figliuoli tutti adunati nel bacio santo di carità intorno alla mensa del comun Padre, l’altare, e sopra l’altare il Crocifisso cogli occhi sopra noi, colle braccia levate al cielo, per dirci: « O figliuoli del Sangue mio, sto io qui con voi in Sacramento per menarvi al Padre nostro che vi aspetta in paradiso: » e appiè della croce trova pur sempre Maria Santissima da Gesù lasciataci per madre, la quale vuole noi suoi figli avere tutti beati in seno alla bontà di Dio! Ora mandato che io sono da Gesù Cristo a trattare con voi del più importante interesse vostro, di mettere in salvo le vostre anime e scamparvi dalla più orrenda disgrazia, la dannazione, io con tutta l’anima abbracciandomi a voi dico la prima parola che mi vien dal cuore: cari fratelli, non andiamoci a perdere in questa povera vita che ci vien meno tutti i momenti. Vedete, dice s. Basilio, noi siamo come un albero piantato sulla riva di un fiume, a cui la corrente mangia il terreno sotto. Viene un’ondata, e scava la voragine; e la pianta scherza colle radici nell’acqua: un’altra ondata, e il ciglione della riva si abbassa e la pianta si siede abbandonata sull’onda, che soavemente le lambisce le frondi. Intanto fiorisce a pompa, e si promette abbondanza di frutti: quando ecco la travolge un fiotto di piena…. Dov’ è l’albero allora? È scomparso per sempre. No; guardate alcuni passi lontano, e lo vedete rigettato alla riva tra i ributti delle acque nella melma, colle radici squallide come l’ossa di uno scheletro. Signori! anche noi su questo suolo mal fido del mondo, mentre il tempo ci porta via di sotto ai piedi la terra, siamo qui fiorenti in lieta vita: noi colle sempre di speranze ci promettiamo abbondanza di beni fino all’ultimo istante che ci trabocca nell’eternità. Ahi! intanto vediamo scomparire molti dei nostri: e che sarà di loro travolti non preparati in quell’orrido abisso?…. Io mi rivolgo a voi, per supplicarvi di provvedere in tempo per le anime vostre, affinché non vi troviate disperatamente perduti, e farò con voi quello che vorreste voi fare ad altri. Dite, ditelo voi: vedeste il vostro fratello costruire con tutto dispendio la casa colà, dove scoscende a falde il pendio del suolo, ben vorreste gridargli: fratello, non fare; perché a momenti l’edificio tuo rovina, e tu ti perdi con esso! Anche noi, vedendovi con tanto affanno edificare qui la vostra fortuna, vogliamo di qui avvisarvi che, dandovi a tutto uomo in affari di terra, fabbricate nel mondo sopra un’arena fluente, che vi scorre via di sotto: vogliamo gridarvi: ahi! che a momenti vi sprofondate nella tremenda eternità, in cui vi troverete o paradiso o inferno, che duran sempre! Noi qui di sotto alla croce, caldi del Sangue di Gesù che versò per salvare le anime nostre, vi stendiamo le braccia, per mettervi in sicuro in seno a Lui: anzi ci gettiamo ai piedi vostri pregandovi tremanti di spavento… Deh mettiamoci col cuore sul Cuore del Salvatore di tutti a ben meditare questo: che una cosa più di tutte l’importa, salvar cioè l’anima nostra, e che tutt’altri interessi paragonati a questo non sono che misere vanità: porro unum est necessarium (Luc. 10); perché scompare a nulla tutta la vita nostra presente quando si pensa, che va a finire in paradiso o nell’inferno per sempre. Grande verità che ben meditata, sì, ci farà risolvere di salvarci. – A questo fine noi ci presentiamo a voi in questa missione, questo solo veniamo a domandarvi, di questo vi scongiuriamo: salvate l’anima vostra! E se mai ci udirete a gridar alto, e tutta ardenza, anzi come fuor di noi nel fremito di un angoscioso terrore, ci perdoni la vostra pietà; e dite fra voi medesimi: povero padre! e’ vorrebbe salvare tutti: oh come stride per ispavento al sol pensare che di noi si possa perdere un solo. — Se noi non abbiamo meriti, che ci raccomandino, guardateci al cuore che non può amarvi di più, perché vi ama dell’amor di Gesù Cristo; e sian meriti nostri la vostra bontà. – Salvatore nostro benedetto, purgate prima di tutto queste nostre labbra di fango: e dateci quella parola che, se mortifica, vivifica; se spaventa, poi consola: ed essa saprà svellere, saprà piantare: saprà distruggere, ma meglio edificare; e mandateci dalle fiamme. del vostro Cuor di bontà tutta divina un raggio di quella luce, che fa vedere il nulla della vita del mondo del tempo presente dirimpetto al paradiso e all’inferno, che durano eternamente. O Maria santissima, benedetta Madre, che tutta aspersa del Sangue di Gesù Figliuol vostro divino, ci avete ricevuti per figli, Voi vi siete accordata con Lui del modo di salvare queste anime nostre, che tanto Sangue costarono al nostro Gesù, e costarono tanti dolori al vostro Cuore. A Voi consacriamo questa predicazion nostra: Voi otteneteci la grazia e il frutto di vita eterna colla vostra materna benedizione. Angeli e Santi, intercedeteci misericordia. ( Ave Maria. — Omnes Sancti et Sanctæ Dei, intercedite pro nobis). In questo solenne momento, nella presente quiete della chiesa, fuori delle agitazioni del mondo che passa, cerchiamo di ravvisarci davanti a Dio. Dove ci troviamo noi ora? Facciamo come quel beato san Francesco d’Assisi là sul monte d’Alvernia; con una mano sul cuore diciamo a noi stessi: anima mia, dove siamo in questo istante!… Santa fede! qui sollevato tra il cielo e la terra, sopra del capo mi sta aperto il paradiso, sotto i miei piedi mi è spalancato l’inferno: spinto senza posa verso l’uno e l’altro di questi termini, pendo attaccato ad una vita sottile come un filo di ragnatela: e dove cadrò a momenti? Non lusinghiamoci, noi corriamo rapidamente alla morte. Se guardiamo indietro, che spavento! una gran porzione della nostra vita è già passata; se guardiamo innanzi,… questo pensiero cupo ci piomba sul cuore: forse da qui a dieci anni, forse da qui a un anno, ahi! forse in questo mese la mia carriera è compiuta, io cado morto…. la mia sorte è gettata! e sono nel paradiso o nell’inferno per sempre. Signori! non conviene punto fare l’intrepido, ostentando di non avere paura!… Ci Sconvolge le idee questo pensiero: la mia Religione sicura a tutte prove, la Religione, che mai non ingannò nessuno, mi dà per certo, che ancor un poco, e poi o sarò beato in paradiso, o sarò nell’inferno dannato per Sempre. Saremo in paradiso?… Apriti, o cielo !… Là in paradiso vi è quel gran popolo di tribolati, che in miseria di ogni cosa di mondo strascinando le loro croci appresso al Salvatore Gesù, arrivarono all’eterno regno: là tante povere donnicciole, ricche di virtù solamente note a Dio: esse nascosero qui le loro lacrime disprezzate in seno al grande Amico degli afflitti; ora eccole là nella beata gloria di Dio. Ve? in paradiso quei Cattolici coraggiosi, i quali, mentre l’accozzaglia dei vili per rispetto umano era strascinata a far guerra alla Chiesa, frequentarono i Sacramenti in vita devota ed ora tutti i malnati in disperazione eterna; ed essi per sempre felici in paradiso. Là vi sono ricchi in carità, là servi fedeli entrati tutti a sommergersi nell’eterno gaudio del loro Signore. Là le schiere di quei Martiri, che resistettero a tanti tormenti. E che tormenti, mio Dio, e che tormenti!… Strascinati negli anfiteatri (lo accennammo nelle Conferenze), si aizzavano contro a quei santi cristiani i leoni, le iene, le tigri. E il lione dava dentro nel petto nudo al giovanetto che l’aspettava fermo; quindi versando le viscere per terra veniva divorato col grido sulle labbra: viva Gesù!… oh paradiso!… e saliva allora in paradiso. E la madre cristiana colla figliuola esposta alle fiere, quando la iena le si slanciava alla gola, la trascinava con tremendo ruggito pel Circo col collo tra le zanne gridando: coraggio o figliuola, viva Gesù!… al paradiso!.. moriva strozzata: e da quel punto ell’è beata in paradiso! E quando la, tigre fremente acceffava nel petto la verginella (e lungo il circo mandavano un urlo fino quei crudi !), di là quell’angelo divorato in terra volava cogli Angioli in paradiso! Racconterovvi tra mille un sol fatto. Santa Potamiena verginetta, fior di bellezza nei sedici anni fu dal sozzo padrone, che la solleticava a vitupero, accusata come ella era cristiana. Il giudice, perché restava pura e a Dio fedele, la condannò ad essere calata viva in una caldaia di pece bollente. Attaccano la caldaia gli sgherri, e soffiano sotto nei carboni ardenti quelle faccie di fuoco. Gorgoglia la pece, e si travolge nei vortici spumanti. I crudeli depongono coi piedi nudi nella caldaia ardente la verginella, che si serra le vesticine alla vita. Ahi!.. stride la pece, si copre di fumo e salta via spruzzando, quasi inorridita di cuocere tanta innocenza; e Potamiena in quella atrocità esclama: oh Gesù!.. ancor un momento! Viene calata giù sino alla vita; e Potamiena vedesi intorno le carni ricotte e il sangue grommato galleggiar tra le bolle della pece avvampante. Oh Gesù mio… ancor un momento!.. e vien calcata giù fino alla gola. Potamiena non ne potendo più, lascia cadere la bionda testolina dentro la pece, con l’ultimo gemito: Gesù, Gesù mio… O paradiso!… Miei fratelli, sono mille e cinquecento anni ormai che quell’angioletto in quel gaudio eterno… esclama beato: che brevi momenti son questi secoli di paradiso! Intanto il gentame degli spensierati del mondo di quei tempi, come nel povero mondo nostro presente, sdraiati su per gli scaglioni del Circo gridavano agl’imperatori: dateci pane e giuochi; e vadano pur a morte i Cristiani matti dietro alla vana speranza di una sognata vita futura!… Signori, dove sono ora quei godenti?… Verità di Dio!… Spalancati, o inferno… e in quel truce fuoco, che la fede rivela, vedeteli arrovellati in quel mare di disperati dolori. Cercano la morte, ma trovano una vita che la tremenda parola di Dio chiama la morte eterna! Ancor vi domando, se quei beati godano un paradiso migliore di quello che siete destinati a godere voi, o fratelli, e se quell’inferno è più orrendo di quello, in cui precipiteremo noi (ce lo minaccia l’immancabile parola di Dio) ove non pensiamo a salvare l’anima nostra?… Ah che sopra la terra, tra il cielo e l’inferno, tuona tremendamente vera la gran parola del Salvator nostro: quid prodest homini si universum mundum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? Che giova all’uomo, guadagnasse pur tutto il mondo, se va dell’anima dannato per tutta l’eternità? Da questo tuono balena un lampo di luce dell’eterno vero, che spalanca la terribile eternità davanti a noi, e manda a nulla codesto mondo che dura un’ora! A noi adesso qui confinati in basso pare certo la gran cosa la vita, cui c’immaginiamo bella dell’incanto della fantasia in un avvenire a mille colori storiato, e senza confini. Eh posso vivere, diciamo nei nostri calcoli, ancora vent’anni; poi anche trenta. Si, bene immaginatevi anche gli ottanta! Più in là no, ché a ottant’anni anche i bambini qui che non hanno messo ancor vita, saranno già tutti morti: e godiamo pure coll’inganno della speranza di tutti quegli anni, senza pensare mai di doverci trovare già in faccia alla morte. Quasi la morte debbaci fuggire sempre dinanzi, come fa l’arco dell’orizzonte, il quale, più cammini, più ti sfugge lungi egualmente. Così avviene a noi, come a chi misura, figuratevi, una gran torre, collo sguardarla dai piedi alla vetta. Essa pare di un’altezza che spaventa. Ma fate, ch’egli s’innalzi sulla vicina montagna, e di là guardi. Dov’è la torre tant’alta! Oh!.. la vede in fondo alla valle che spunta appena tra le chiome degli alberi. Signori! innalzatevi da questi pochi anni di vita col pensiero alla eternità. Se da qui a mille e mill’anni ci troveremo in Paradiso, ovvero (deh! che la misericordia di Dio ci scampi) ci trovassimo mai nell’inferno… ah tutti gli anni della vita nostra ci appariranno come un breve momento, come un lampo di visione confusa! Sì veramente da quest’altezza dell’eternità è da vedere il nulla della vita umana! Di là, osserva s. Giovanni Grisostomo, questi grandi faccendieri che si disputano un palmo di terra, che si fan ricchi sulle altrui miserie, questi grandi politici, che scavalcano gli emuli nella presente palestra del mondo; sì, di là appaiono come quei fanciulletti, i quali nei giocarelli incoronano un compagno con una corona di carta dorata, e battono le manine a lui d’intorno; finché un altro più arditello strappagli via la corona di carta. Di loro chi ride e chi piange; ebbene ei fanno il giuoco di noi: chi ride e chi piange, chi in fortuna e chi nella sventura; e ridenti e piangenti, e fortunati e disgraziati roviniamo tutti confusamente nel sepolcro: e il sepolcro è la porta della tremenda eternità. Di qui intendete che, se pei mondani la vita è una festa, la è una festa che dura un’ora; che l’ambizione è vapore che stordisce, gli onori sono nebbia che passa, i piaceri frutti, che san di lazzo; e le ricchezze polvere, che si scuote via correndo nell’eternità: e che in verità poi il tempo del viver nostro non è che un passaggio al paradiso o all’inferno che duran sempre. Noi, nel vedervi andare tanto sicuri in questo bivio tremendo, faremo con voi come racconta san Leonardo da Porto Maurizio aver fatto un buon uomo. State attenti. Un giovane signore camminava un di entro una gola di monti, quasi grande affare l’urgesse. Era d’inverno » l’aere nebbioso, ghiacciato il sentiero dopo caduto il nevaio; ed egli non conoscendo bene il suo viaggio, tirava avanti alteramente a casaccio. Quando un buon uomo gli grida dall’alto di un monticello: indietro, signore! indietro da quel sentiero. Ma quegli, come indegnato di quell’audacia, tirava avanti con un fare impettito. Il buon uomo sì gli stride appresso più forte: indietro vi dico! Ma colui in dispetto: e che v’importa, se io vado per dove mi piace? — Che m’importa? risponde l’altro gridando più forte, m’importa salvarvi! Voi camminate sopra una crosta di ghiaccio: un tetro lago vi si sprofonda sotto… ancora un passo, si rompe il ghiaccio e… Ma date indietro per carità! L’ardito giovane ristà….; e si rivolge indietro, e guata quel pericolo, in cui alcuni animali andavano sbandati. Oh!… Si ruppe il ghiaccio! e sprofondarono nel lago. Anche noi qui sollevati dai piedi del Crocifisso nel vedere gittarsi a perdere i nostri cari gridiamo col cuore che fa sangue: indietro da quella via di peccato! Che? Continuate ancora?…. Guardate innanzi. Quegli era pure un giovane più baldo di voi: calpestava ogni fior di virtù, e voi sentite ancor il rumore de’ suoi scandali. Veniva questa notte dall’osteria ubriaco, veniva dalla tana di… Abbiamo sentito un colpo! cadde morto!.. Si è rotto il ghiaccio: oh!… è sprofondato nell’eternità! … Finalmente, diceva ieri una giovine sposa, sono giunta al sospirato matrimonio: ed ebbe un bel gridare il prete contro il mio continuare all’amore: io intanto in questa casa sono fortunata per sempre. Che è? sentite le strida in quella famiglia?… La poverina ha cessato di vivere !… Si è rotto il ghiaccio oh!… è sprofondata nell’eternità! A me poi, dice quel ricco, va tutto bene: quest’anno la raccolta mi si promette abbondante, farò allargare i granai…. — Stolto! questa notte è chiamato al giudizio di Dio! Stulte, hac nocte animam tuam repetent a te. Si è rotto il ghiaccio: oh… meschino! era là che faceva i suoi conti e cadde morto colla faccia sulle carte dei conti! Morirono questi in mezzo ai disordini di una povera vita. E noi, al vedere tante splendide scene del mondo terminare nel buio della tremenda eternità spaventati tratteremo con voi, come s. Paolo trattò in Atene coì più gran dotti dell’universo. Corsa voce ch’era venuto fra loro questo Giudeo portatore di una nuova sapienza, si avevano essi dato il convegno nell’Areopago, e stavano con quel loro gran fare sui loro stalli per dar giudizio della nuova dottrina, disprezzando con sogghigno velato, già prima di averlo udito, quell’omiciattolo da nulla, che appariva s. Paolo. Ma egli: Signori filosofi, voi aspettate ciò che io vi abbia a dire di più importante. Ebbene! v’è un Dio sommo che voi poi non ignorate del tutto, il quale vi aspetta al suo giudizio. Si muore, signori, e dopo la morte si risorge a vita pel paradiso o per l’inferno per sempre! Quei dotti restarono come da tuono percossi all’intronar di quella parola piena d’eternità. Ma riavutisi tosto, e sforzatisi d’ostentar dello Spirito, ammiccaron tra loro cogli occhi: e Straniero, gli dissero, non hai tu nient’altro che dirci? E s. Paolo: Niente altro per ora: ma a nome di Dio per cui siete vivi quì vi avverto che si muore, e che dopo la morte, vi è la risurrezione all’eternità!… Allora queglino a lui: Venditore di ciance! va: che ti ascolteremo un’altra volta! Restarono superbamente increduli molti; alcuni però vi pensarono ben bene sopra, corsero appresso a s. Paolo, e trovata vera la sua dottrina, si convertirono. Questi morirono santi: morirono anche quei peccatori. Ma sono già mille ottocento anni che quei convertiti stanno in paradiso e che quei morti in peccato sono nell’inferno. . Sì veramente! dice Platone, il filosofo antico più dotto, la morte mostra da qual parte stanno i prudenti, e da qual parte stanno gli stolti. Ora anche noi colla potenza dell’eterna verità veniamo a mettervi dinanzi il nulla del mondo in faccia al paradiso e all’inferno, in cui saremo forse a momenti. Perocché, dice lo Spirito Santo, voi siete come gli alberi, che il padrone getta a terra quando gli piace. Se tu meni la scure a piè di un albero, da qual parte egli cadrà? a destra o a sinistra? Certo dalla parte verso cui pende, e quivi starà. Ora mano alla coscienza: se il colpo del taglio m’incoglie in questo istante, da qual parte io pendo?… Ho più meriti pel paradiso, o più peccati per lo inferno!… Gran Dio!… credere che abbiamo l’inferno spalancato sotto i piedi; sentire il peso dei peccati che ci trabocca già dentro, e restare sopra il baratro nella più stupida indifferenza. Eh! la ragione umana non può fare così. « Parleremo noi col linguaggio della nostra madre la Chiesa, e bisogna, pur confessarlo (dice, e non un santo padre, ma il filosofo Pascal), che qui vi è la mano di un essere fuor di natura che ci chiude gli occhi: è la mano del nemico delle anime che tiene saldi i peccatori colla costanza di demonio, perché non tremino sopra l’abisso d’inferno! » Intanto come quegli sciagurati (l’avete udito voi l’altro d’) che nelle delizie dei dintorni di Napoli, allorquando si sentiva il cupo rombare del tuono nelle viscere della terra, e dal suolo in sussulto già sbuffavano le fiamme, e già il furente Vesuvio eruttava una fiumana di fuoco, e il buon popolo era in processioni di penitenza!.. essi pigliando tutto a divertimento, pur tra le ceneri ed i lapilli che tempestavano, correvano incontro a goder dello spettacolo… Ahi, pur troppo! ducento e più venivano travolti in quel fuoco furente, immagine d’inferno. Così anche i poveri nostri fratelli in peccato, nelle delizie della vita presente, tra i gemiti di tanti che ci muoiono d’intorno, corrono a gettarsi in perdizione in gola alla morte. Su, su salviamoci noi dall’inferno che minaccia d’ingoiarci! O fratelli, immaginatevi che accada qui uno spaventoso cataclisma (come avvenne già tante volte, può avvenire ancora nei nostri paesi) in quest’ora. Oh se voi vedeste!.. che è mai? Ahi si abbassa la terra sotto dei nostri piedi! Ve’! ve’! che si sprofonda il suolo, gorgogliano fuori le acque dappertutto, diventano laghi i cortili, i giardini, sono già un mare le campagne. Ahi si sommergono le case: fuggiamo, fuggiamo sulle alture. Ma s’inabissano fin le montagne. Tutto sparisce… Oh Dio! i nostri annegano tutti! le acque raggiungono la vetta! Ci sono già alla vita… poveri noi che affoghiamo! mettiamo orride strida!… Ma si vede un naviglio che voga verso noi per tentare salvamento…. Salviamoci, salviamoci!… Anche i più timidi si slanciano a combattere coi fiotti, per giungere a bordo del naviglio salvatore. Ah fratelli miei, che noi siamo proprio nel pauroso frangente! Sentite che ci manca sotto la vita! noi caliamo senza posa giù; abbiamo l’eternità alla gola; già c’ingoia l’inferno!… Spingetevi fuori da quell’occasione, o questa notte forse vi restate sommersi!… fuggite via da quella casa, in cui ormai restate sepolti in peccato!… Gettate quel peso dalla coscienza, che vi tira giù nell’inferno!… scappate fuori da quel mal abito, che vi affoga nel baratro della disperazione. Ecco, ecco Gesù Salvatore sulla nave: gridiamogli incontro con le braccia stese: Signore, salvateci, che noi andiamo a dannarci: « Domine, salva nos, perimus! » – Scuotiamoci; risolviamo! E perché restate ancor incantati alla vista del mondo? Via, imparate da questo fatto come dovete trattarlo. Tommaso Moro, gran cancelliere, dal sozzo eretico re d’Inghilterra Enrico, egualmente tiranno che assassino dell’anime, perché restava fedele al Papa, veniva condannato a morire. Imprigionato in sotterranea secreta, vestito a sacco, sopra un po’ di paglia in ginocchio e’ si preparava alla morte, fermo, come chi sa di combattere per Dio. Quando sente sbarrarsi la porta del carcere. Tommaso crede venga il carnefice, fa il segno di croce, e si volta imperterrito ad aspettare il colpo. Ah vede, chi?…. la sua giovine sposa, sparsi i capelli, squarciata sul seno la veste a lutto, colle braccia a lui stese si getta abbasso in quell’antro gridando: o mio Tommaso!… Tommaso balza in piedi; e la sposa.. si slancia sul petto a lui in uno scoppio di pianto. O consorte mio, cedete al re; vi porto la sua grazia: rinunziate al Papa!… Ma la pena del duolo le strozza la voce in gola… In quest’affanno sollevati colla mano i capelli… con due occhi in volto pieni di dolore infinito, singhiozza: salvatevi, Tommaso mio, salvatevi! In quella corron giù stridenti i suoi bambini; e stringergli le ginocchia, e baciargli le mani: Padre! gridando, no, padre non muori! Scappa via con noi! Tommaso trema tutto fremendo un istante. Poi: sposa mia!.. dimmi, se io cedo all’eretico re, quanto tempo potrò godere insieme con te de’ suoi favori? La sposa: Ah, principe mio, voi siete in buona età, sincero di complessione, robusto di forze: voi potete vivere ancora vent’anni… Lasciatelo dire all’amore della vostra sposa, anche trent’anni. Vent’anni!…. dice Tommaso, trent’anni… che tu non mi puoi assicurare!… Eh vuoi che io li cambi coll’eternità del paradiso, che mi assicura l’immancabile parola di Dio?.. Brutto cambio che mi proponi?… Va, va, che sei una mercantessa ben stolta! recede a me, stulta mercatrix! Così dicendo si slega dalle braccia della sposa, colla mano sul petto la respinge indietro, e muore martire. Signori, ci tradisce il mondo, il quale, nulla curandosi di noi, se andiamo dannati, ci promette beni; e non ce li assicura un sol dì; mentre la parola di Dio ci assicura il paradiso per sempre. Deh! coll’inferno aperto sotto dei piedi, col paradiso innanzi da conquistare, tutti gli altri affari del mondo non sono che misere vanità. Tutto adunque è vanità, dice la Sapienza divina, fuorché amare e servir Dio, e così salvare le anime nostre. Porro unum est necessarium: questo, questo solo è necessario, dice il Salvatore nostro, che vuole non si perda nessuno. O figliuoli degli uomini, e fino a quando amerete le vanità, e spenderete tutta la vita in un lavorio che dura un istante? Grandi faccendieri in questi affari da niente, voi siete simili, dice s. Giovanni Grisostomo, a quell’insettuccio, che ragno è detto comunemente. A vederlo girare tra le cortine ed i festoni della sala, sembra che mulini anch’esso un gran disegno, e specoli il campo, dove poterlo eseguire. Allunga una zampetta, assaggia il terreno; non è da ciò: stende l’altra, e la ritira; poi si slancia ardito dall’alto in mezzo al vano della finestra e pende dal filo che gli esce di bocca, e gli consuma la vita; e là in aria in quel vano già si dà vanto il superbetto del suo grand’ardimento. Aspetta un buon alito di vento, e si getta con esso ad attaccare il filo in una imposta; e dice in se stesso: va bene la mia fortuna. Ad un nuovo soffio di vento di buona ventura attacca il filo dall’altra, poi torna a bomba in mezzo: gira e rigira, e fa quei cerchietti concentrici, ognora più stendendo le fila del suo dominio. Li ferma a nodi, a mo’ di raggi, e pone nel centro la sua casetta, o il suo gran palagio, ché tale debbe sembrare alla sua testolina… Di là adocchia, se un moscherino s’impigli nella sua ragna, e gli salta alla vita, gli succhia il sangue, e porta gli avanzi nella sua casa. Allora egli come un piccolo re si mette in mezzo al suo possesso, pendente sui fili in aria col ventre al sole in goderie, e par che dica, sono il padrone del mondo. Ma entra il padrone nella sala: vede quella schifezza, chiama stizzito la fante, e, buttala via, dice, quella bruttura. La donna alza la scopa, dà un colpo… e di tutto quel grande lavorio del gran re, e del suo bel mondo che mai vi resta? Una macchia schifosa, dove rimane l’insettuzzo schiacciato sotto del piede. Signori! fanno così gli uomini del mondo, massime nel nostro tempo. Si slanciano arditi ad ogni cimento, attraversano i mari, legan le fila dei grandi commerci, portan l’oro d’America, specolano alle borse, tiran partito delle altrui disgrazie; comprano, comprano: poi in mezzo ai grandi acquisti fatti, ricchi già tanto, da non curarsi più della Chiesa e ridere dei Sacramenti, adoratori pur solamente dell’idolo borsa, lasciano alla povera gente di essere buoni Cristiani e di salvare le loro animette. Essi sono grandi!….. E chi è mai Dio per costoro?… Chi è Dio?!… È il gran padrone dell’universo, il quale guarda quel ributto orgoglioso della creazione, fa un cenno alla sua serva, e la morte dà un colpo!… Dove è il superbo del mondo?.. Non vi resta di lui che una lurida macchia dove rimane schiacciato sotto il piede della morte nel fango del cimitero. Ah che questi affari della terra, quando ci disputano tutta la vita, se sono più che vanità, sono tremendi inganni! Dice sant’Eucherio che e’ sono come tanti anelli di una gran catena, la quale pende dall’alto, in cui uno va dentro e si lega nell’altro: e chi colle mani s’abbandona lungh’essi, dall’ultimo anello é lasciato cadere in rovina. Gli affari sono come i fiotti del mare, che passan l’un sopra l’altro; e la vita è la navicella che volge ad ostro od a ponente a seconda delle soffiate di vento di buona o cattiva fortuna; finché viene l’ultimo colpo del maroso che la sprofonda a naufragio. Ma intanto noi corriamo alla morte!… La vita umana adunque, dice s. Basilio, è somigliante ad un cammino, che va a terminare in un gran precipizio. Ben noi siamo avvertiti, che la legge è pubblicata, che bisogna spingerci innanzi sempre; eppure ci lusinghiam di fermarci. Ma una voce tuona continuo: avanti, avanti! Entriamo nella gioventù, e noi come in mezzo a prati fiorenti, noi vogliam folleggiare; ma una voce ci grida avanti, avanti! ed una mano ci tira innanzi… Passiamo nell’età virile, ivi a noi pare di trovarci tra campi pieni di biade e di frutta; e qui affannarci a fare raccolta, e vogliam fermarci a goderne; ma una voce ci grida: avanti, avanti! e una mano ci tira innanzi… Andiamo innanzi: oh i prati sono più pallidi, i fiori meno ridenti, meno chiare le acque, la campagna diventa più squallida: cioè sono già bianchi i capelli, s’incurva il dorso, le bellezze sì fanno sparute, monotona diventa la vita, proviamo un tristo sentore del precipizio che non può essere lontano! Vorremmo restarci; ma una voce ci grida: avanti, avanti! ed una mano ci tira innanzi… Ahi che squallore d’intorno! dirupato il sentiero, tentenniamo nei passi. Abbiamo varcato i sessant’anni, presto i settanta….. E i compagni di viaggio con cui scherzavamo fanciulli? Scomparvero tutti; tutti caduti nei precipizi lungo la via!…. Buon Dio, ci vien meno la vita! Vorremmo fare posata un istante; ma una voce tuona più forte avanti, avanti! ed una mano ci strascina innanzi… Ve?!… siam giunti soll’orlo dell’abisso; ci gettiamo per terra, gridiamo atterriti: deh un po’ di tempo ancora! ma rintuona la voce: avanti, avanti! ed una mano ci urta innanzi… Ahimè! l’orrore ci turba i sensi, ci gira il capo, si offuscano gli occhi; freddo sudor alla vita, e noi nelle ansie dell’agonia diam l’ultimo passo…. precipitiamo nell’eternità, sepolti nell’abisso del sempre, ch’è o paradiso o inferno! … Dietro di noi orrendo fragore: è il tempo che con tutte le cose rovina nel nulla; e l’eternità sempre rintuona: Porro unum est necessarium: questo solo importa, salvare l’anima nostra in paradiso…. – Deh! prima che io discenda, sì io ancora col Crocifisso innalzato qui tra il paradiso e l’inferno!… Guardate Egli Dio!… Ei venne di cielo, e lasciossi coronare la testa di spine per salvare le anime vostre…. E voi non volete darvi un pensiero? Ve? ve’ che lasciossi squarciare le mani per portarvi via d’inferno!… E voi non vorrete muover una mano per mettervi in salvo? Ah ah! come lasciossi lacerare questi piedi, per menarvi seco in paradiso!… e voi non vorreste far un passo neppur per confessarvi e da Lui lasciarvi menar in cielo? Dio, dirovvi colla eloquente parola di san Giovanni Grisostomo, Dio stesso ha paura… perché Egli sa ciò che vuol dire paradiso ed inferno: sì Dio ha paura…. che noi andiamo dannati!… E noi cì ridiamo della sua paura?…. Miserabili, miserabili troppo!… Oh nostro buon Gesù! Voi qui con noi col Cuor che fa Sangue aperto; nel Sacramento … là là…. noi vi giuriamo sul vostro Cuore che ci vogliamo salvare.

LA GRAZIA E LA GLORIA (3)

LA GRAZIA E LA GLORIA (3)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO PRIMO

IL FATTO E LA REALTÀ DELL’ADOZIONE DIVINA

CAPITOLO II

L’adozione dei figli di Dio, che poggia su una generazione spirituale, è un rinnovamento interiore del nostro essere e come un’altra creazione.

1. – Quando parliamo dell’adozione divina, guardiamoci dal concepirla alla maniera delle adozioni umane, perché essa è di un tipo incomparabilmente superiore. In assenza di qualsiasi altro motivo, i soli termini che le nostre Sacre Lettere usano per rivelarcelo, basterebbero a renderlo chiaro. Nessun uomo, quando parla di un figlio adottivo, per quanto esprima il suo amore, oserebbe dire che questo figlio debba la sua nascita a lui e che lui stesso lo abbia generato. Ora nulla è più ordinario nella bocca di Dio di questo linguaggio nei confronti dei suoi figli adottivi. Citiamo alcuni passaggi a sostegno di tale dottrina consolante. « In verità, in verità – disse Gesù a Nicodemo – Io ti dico che se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio. » (Joan, III, 3). A queste parole del Salvatore Nicodemo è stupito: « Come – egli chiede – può rinascere un uomo che è già vecchio? »  E Gesù gli risponde con più enfasi: « In verità, in verità ti dico che se uno non nasce da acqua e da Spirito Santo, non può entrare nel regno di Dio. Quello che nasce dalla carne è carne; e ciò che è nato dallo spirito è spirito. Non vi meravigliate se vi ho detto: Dovete nascere di nuovo » (Gv. III, 4-7). Queste ultime parole non ritrattano nulla: è veramente di una nuova nascita che Egli ha parlato, ma di una nascita secondo lo spirito e non secondo la carne; di una nascita che non dà la vita del tempo, ma la vita dell’eternità. – La nascita presuppone la generazione. Nascere di nuovo è quindi essere rigenerati. Spetta agli Apostoli insegnarci e spiegarci fedelmente il pensiero del Maestro su questo punto. Ascoltiamoli dirci, per bocca di San Paolo, ciò che noi siamo senza la grazia dell’adozione e cosa diventiamo grazie ad essa. « In passato eravamo stolti, increduli, ingannati, schiavi di ogni tipo di desiderio e di piacere, vivendo nella malizia e nell’invidia, odiosi ed odiandoci gli uni gli altri.  Ma quando apparve la bontà e l’umanità del nostro Dio salvatore, non fu per le opere della nostra giustizia che ci salvò, ma nella sua misericordia attraverso il Battesimo di rigenerazione e il rinnovamento dello Spirito Santo » (Tito III,3-5). Questo, dice, è ciò che eravamo; e questo è ciò che siamo o dovremmo essere, « …affinché giustificati dalla sua grazia, siamo eredi della vita eterna secondo la nostra speranza » (Ibid. III, 6). – Sembrerebbe che San Giovanni non sappia più pensare che a questa nuova nascita, tanto spesso riappare nelle sue pagine ispirate. « Chiunque è nato da Dio non pecca, perché il Seme di Dio (questo Seme incorruttibile – I Petr. I, 23 -, principio della nostra rigenerazione), dimora in Lui; egli non può peccare, perché è nato da Dio » (1 Joan. III, 9). Al che si deve osservare che, finché siamo nella prova, l’impeccabilità di cui l’Apostolo parla qui è solo un’impeccabilità relativa. La qualità di figlio di Dio è incompatibile con il peccato mortale; e se abbiamo la sventura di commetterlo, questo avviene, dice Sant’Agostino, come figli della carne, e col diventare figli del diavolo). – E ancora: « Chi crede che Gesù è il Cristo è nato da Dio; e chi ama il Padre che lo ha generato, ama anche chi è nato dal Padre » (I Joan. V, 1). E qualche riga più avanti, nello stesso capitolo: « Noi sappiamo che chi è nato da Dio non pecca; ma la generazione di Dio (l’essere nato da Dio) lo preserva, ed il maligno non lo tocca » (I Joan. I, 1, 18). È necessario fermarsi: perché diverremmo infiniti se volessimo mettere davanti agli occhi del lettore tutta la dottrina delle nostre Sante Lettere. Per concludere, aggiungiamo questo testo di san Giacomo che esprime così bene la profondità del rinnovamento operato in questa rinascita: « È volontariamente che Egli (il Padre delle luci) ci ha generati per mezzo della parola di verità, così che siamo un inizio della sua creatura » (Giac. I, 18).

2. Volgiamo ora l’orecchio ai Santi Padri; essi ci aiuteranno a penetrare più profondamente in queste magnificenze della filiazione dei figli di Dio, rigenerati dal Battesimo. Prima di tutto, ecco un discepolo di Sant’Agostino, San Fulgenzio, che, in un testo eccellente, contrappone le due nascite di Cristo alla doppia nascita dei fedeli. La prima nascita di Cristo è da Dio, la seconda dall’uomo; per noi, la nostra prima nascita è dall’uomo e la seconda da Dio. E poiché Dio per nascere ha preso la nostra carne in un grembo verginale, a noi che siamo rinati nel Battesimo ha dato lo Spirito di adozione. Ciò che Dio non era per natura in virtù della sua prima nascita, lo divenne per grazia in virtù della seconda, affinché noi, per la grazia della nostra seconda nascita, fossimo ciò che non eravamo naturalmente per la prima. Quando Dio è nato dall’uomo, questa è una grazia data a noi; ed è ancora una grazia puramente gratuita che riceviamo, quando per la munificenza di Dio nato dalla carne, diventiamo partecipi della natura divina. « È perché il Figlio di Dio si è fatto Figlio dell’uomo, che a tutti coloro che lo hanno ricevuto, ha dato il potere di essere fatti figli di Dio… Sì, se il Figlio di Dio che è nel seno del Padre, Figlio eterno da un Padre eterno attraverso una nascita eterna, se –  dico – questo Figlio diletto non si fosse degnato di accettare una nuova nascita per santificare gli uomini, l’uomo concepito nell’iniquità sarebbe rimasto per sempre impigliato nei vincoli della sua nascita terrena » (S. Fulg. ep. 17, p. 14-15. P. Lat., t. 65). E per esaltare ancora di più il beneficio della nostra nuova nascita, ci mostra in un’altra opera, da quali mali essa ci libera, opponendola alla prima: « Quello che ci basta sapere è che la prima nascita ci contamina e la seconda ci purifica; che la prima nascita ci rende prigionieri e la seconda ci rende uomini liberi; che con la prima nascita siamo terreni e carnali e con la seconda nascita siamo celesti e spirituali; e infine, che alla prima nascita dobbiamo l’essere figli dell’ira e figli del mondo e alla seconda nascita dobbiamo l’essere figli della grazia e figli di Dio » (Id. de verit. prædest. et grat. – Fu combattendo per la gratuità della grazia e l’esistenza del peccato originale contro i pelagiani, che negavano entrambi i dogmi, che il Santo dottore, scrisse questi passaggi). Dopo il discepolo viene il maestro, cioè il grande dottore di Ippona. Egli ci farà meditare su quello che abbiamo riportato in precedenza sulla misteriosa conversazione del Signore Gesù con Nicodemo. « Questo spirito e questa vita (di cui nostro Signore parlò alla Samaritana al pozzo di Giacobbe) non erano ancora stati gustati dal capo dei Giudei, Nicodemo, che venne da Gesù di notte. Gesù gli disse: « Chi non è nato di nuovo non vedrà il regno di Dio ». E Nicodemo, che ancora intendeva solo la carne, Nicodemo, la cui bocca non aveva ancora gustato la carne di Cristo, disse: « Come può nascere di nuovo un uomo che è già vecchio? È possibile per lui tornare nel grembo di sua madre e rinascere? » Quest’uomo non conosceva che una nascita: quella che possono dare Adamo ed Eva; quanto a quella che è di Dio e della Chiesa, non la conosceva ancora. Non conosceva altri genitori che quelli che generano per la morte; non conosceva i genitori che generano per la vita. Non conosceva i genitori che danno alla luce coloro che presto prenderanno il loro posto; ma non conosceva coloro che generano per vivere per sempre con dei figli immortali come loro. – Ci sono due nascite, e Nicodemo ne conosceva solo una. Una è della terra e l’altra del cielo; una è della carne e l’altra dello spirito; una è della mortalità e l’altra dell’eternità; una è dell’uomo e della donna e l’altra di Dio e della Chiesa. E queste due nascite sono singolari: perché né questa né l’altra possono essere ripetute. – Della nascita carnale Nicodemo era convinto. Quello che pensava della nascita secondo la carne, intendetelo della nascita spirituale. Che intendeva Nicodemo? Può un uomo tornare nel grembo di sua madre e nascere una seconda volta? E anche voi, quando vi si chiede di nascere di nuovo spiritualmente, rispondete con Nicodemo: Può un uomo tornare al seno di sua madre e nascere di nuovo; io sono già nato da Cristo; Cristo non può generarmi di nuovo. Né il grembo di mia madre, né le acque del Battesimo possono accogliermi una seconda volta. (S. August. In Joan. Tract. XI, p. 6.). – Chiunque sia a conoscenza delle controversie che allora erano in corso nella Chiesa, capirà che Sant’Agostino voglia proteggere i fedeli contro l’errore dei ribattezzatori. Egli non dice che non si possa recuperare la vita spirituale una volta che sia stata persa; quello che dice è che non può essere recuperata da una nuova nascita. Ci sono guarigioni, ritorni dalla morte alla vita attraverso la penitenza; non c’è una nuova generazione né nell’ordine della natura né in quello della grazia; ed è per questo che il sacramento della Penitenza può essere ripetuto, il sacramento del Battesimo, mai. – Seguiamo di nuovo il grande dottore nella sua esposizione del nostro Vangelo. Il Signore disse a Nicodemo: « In verità, in verità ti dico che se uno non nasce di nuovo da acqua e da Spirito Santo, non può entrare nel regno di Dio. Ecco come il Signore spiega il suo pensiero. Avevi in mente solo una nascita carnale quando hai detto: Può un uomo entrare nel grembo di sua madre? Ed è dall’acqua e dallo Spirito Santo che egli deve rinascere per il regno di Dio. Se egli nasce per ereditare temporalmente da un padre mortale, che sia formato nelle viscere della carne; ma se nasce per l’eredità senza fine del Padre che è Dio, che nasca dalle viscere della Chiesa. È da una donna che il padre mortale genera il figlio che prenderà il suo posto; è dalla Chiesa che Dio genera i figli che rimarranno con Lui per sempre. Ascoltate ciò che segue: ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito. C’è dunque per noi una nascita spirituale, e questa nascita nello Spirito viene dalla parola e dal Sacramento. Lo Spirito è lì per dare la nascita: è lì, invisibile, nella fonte da cui tu nasci; perché anche tu sei nato invisibilmente. E il Vangelo continua: non stupirti se ti dico: devi nascere di nuovo! Lo Spirito soffia dove vuole; tu senti la sua voce e non sai dove va, né donde venga. Nessuno vede lo Spirito. Come possiamo sentire la voce dello Spirito? Il salmo canta: è la voce dello Spirito; il Vangelo parla: è la voce dello Spirito; la parola di Dio risuona nelle nostre orecchie, ed è sempre la voce dello Spirito. Si sente la sua voce e non si sa da dove venga o dove sia. E anche tu, se sei nato dallo Spirito, sarai tale che chi non è ancora nato dallo Spirito non saprà da dove vieni e dove vai. Questo è il significato delle seguenti parole: Così è per chiunque sia nato dallo Spirito » (S. Agos. Tr. XII in Joan., n. 5).

3. – La Santa Chiesa ci conferma nella fede della nostra filiazione adottiva e della nostra rinascita: lo testimonia il Concilio di Trento nei suoi capitoli dottrinali sulla giustificazione. « Il Padre celeste, il Padre delle misericordie, Dio di ogni consolazione, quando venne la beata pienezza del tempo, mandò il suo Figlio, annunciato e promesso ai Santi Padri, sia prima della Legge che al tempo della Legge. » E perché ha mandato questo Figlio del suo amore? « Per riscattare i Giudei dalla schiavitù della Legge, per portare alla giustizia le nazioni che non hanno seguito la giustizia, e perché tutti ricevessero l’adozione a figli » (Conc. Trid. Sess. VI, c. 2). Riconoscete l’adozione come il frutto proprio e finale del grande mistero del Verbo Incarnato. Ecco come questa adozione divina, a differenza delle adozioni umane, poggi su una generazione misteriosa: « Così come – ci dice il Concilio – gli uomini devono nascere da Adamo peccatore per nascere nel peccato… così essi devono rinascere in Gesù Cristo per essere giustificati: perché in questa rinascita la grazia che li giustifica è data loro dal merito di Gesù Cristo. » (Ibid. c. 3). Quindi la giustificazione dell’empio deve essere intesa « come un passaggio dallo stato in cui l’uomo è nato figlio del primo Adamo, allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio da parte del Secondo Adamo: Gesù Cristo, nostro Salvatore. E questo passaggio, il Vangelo una volta promulgato, non può essere fatto senza il sacro bagno della rigenerazione o il voto di questo stesso bagno, secondo quanto è scritto: “Chi non è nato di nuovo da acqua e da Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio” » (Conc. Trid. Sess., c. 4): – Ma questa mistica sposa di Gesù Cristo, la Madre secondo lo spirito dei figli di Dio, non ha aspettato questi ultimi tempi per spiegare loro il mistero della loro origine. Niente è così istruttivo e spesso così delizioso come le formule o i Simboli che, fin dai primi giorni della sua esistenza, Essa era solita  impiegare per questo scopo. Il Battesimo l’ha chiamato rigenerazione; i battezzati, qualunque fosse la loro età, erano per Essa dei bambini, neonati, infantes, modo geniti infantes (1 Piet. II, 2): una qualifica che vediamo applicata anche a uomini di trenta-quarant’anni nelle iscrizioni cristiane (Mabillon, de Re diplom. Suppl. 15. Martigny. Antiq. chrét. Baptème III). In alcuni luoghi, si dà loro da mangiare, dopo il Battesimo, miele misto a latte, cioè un nutrimento adatto ai bambini. Essi prendono un nome nuovo, perché hanno appena ricevuto una nuova nascita, e talvolta questo nome esprime anche la rinascita spirituale che lo motiva. Da qui, per citare alcuni esempi, i nomi di Regenerato, Renato, Theosgonio, Vitale, Vivente, Zoe, e altri frequentemente ricordati dalle iscrizioni funerarie e dai nostri Martirologi. (Martigny. Ibid. Nomi di Cristiani, 2a classe.). Le istruzioni speciali date loro dal Vescovo sono i sermoni per i bambini “Ad Infantes” – Si sa che il pesce, nelle antiche rappresentazioni, simboleggiava Nostro Signore. I cimiteri cristiani della vecchia Roma, chiamati comunemente Catacombe, ci forniscono mille esempi. Cosa saranno i battezzati? Piccoli pesci, nati nelle acque del Battesimo per la virtù del Pesce divino (Ἱχθύς = iktus), Gesù Cristo Nostro Signore. « Noi – scrive Tertulliano – piccoli pesci, ad immagine del Pesce per eccellenza, Gesù Cristo, siamo nati nell’acqua. Nos piscicuculi, secundum ἲχθυν [=iktun] nostrum Jesum Christum, in aqua nascimur. » (Tert. De Baptismo, c. 1). Da qui i dipinti in cui vediamo il ministro del Battesimo gettare la sua lenza in mezzo all’acqua per tirare fuori un piccolo pesce; da qui le immagini di pesci, dipinte o scolpite, che decoravano gli antichi battisteri. Un dipinto recentemente scoperto nel cimitero di San Callisto offre una rappresentazione del Battesimo, dove troviamo la stessa idea. È un Sacerdote che versa acqua sulla testa di un bambino nudo i cui piedi sono bagnati dalla corrente di un fiume; un bambino non a causa della sua età, ma per il Sacramento della rigenerazione che sta ricevendo: perché nessuno ignora quanto fossero frequenti i Battesimi di adulti in questi primi giorni della nostra era. Devo ricordare di nuovo la fenice rappresentata sulle piscine? Per i nostri padri era l’emblema della resurrezione; ma in questo uso particolare simboleggiava la rinascita spirituale (Vedere per questo simbolo e i seguenti: Martigny, Dictionnaire des antiquités chrétiennes, alle parole: Battesimo, battistero, pesce, fenice, ecc.. Sappiamo che secondo la favola la fenice risorge dalle sue ceneri. Sappiamo anche perché il pesce sia diventato il simbolo di Gesù Cristo e per estensione del Cristiano. Il mistero dell’Eucaristia doveva rimanere nascosto agli occhi profani anche quando veniva riprodotto nei dipinti cristiani. Fin dall’inizio, i fedeli hanno fatto ricorso al simbolismo per esprimerlo velandolo. Il cibo eucaristico era rappresentato sotto la figura del pesce. Questo perché prendendo la prima lettera delle cinque parole greche che compongono la formula dogmatica: Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore,  Ἱησοῦς, Χριστός, Ξεοῦ, Υἰὸς Σωτήρ [= Iesoùs Kristos Tèoù Uios Soter], da cui si ottiene l’anagramma Ἱχθύς [= iktus], pesce. Se Cristo è il Pesce, cosa sarà il Cristiano, se non un piccolo pesce, pisciculus: tanto più che N.-S. aveva detto ai suoi Apostoli: Vi farò peccatori di uomini? – Cf. S. Agost. de Civit, L. XVIII, c. 25). Infine, ricorderò questi nomi di seno, di matrice, di “madre di adozione” (Dionys. Areop. de Eccl. Hierar, c. 2, § 7, P. Gr. 3, p. 396. Unda genitalis nelle inscrizioni), dati o all’acqua, o alle vasche battesimali, e lo Spirito Santo che aleggia su queste vasche e queste acque per renderle feconde, come rese feconde le onde nei primi giorni della terra, e, nella pienezza dei tempi, il grembo verginale di Maria, la Madre del Figlio di Dio per natura, Gesù Cristo nostro Signore? – Sarebbe impossibile ignorare le nostre ammirevoli preghiere liturgiche. Ascoltando le preghiere che la Santa Chiesa recita oggi, sentiremo la voce di tutti i secoli cristiani, di cui sono l’eco perpetua. Parlerò solo per la cronaca del Canone della Messa in cui i fedeli sono chiamati « la famiglia di Dio ». È l’Ufficio del Sabato Santo, giorno anticamente dedicato specialmente al Battesimo dei catecumeni, che ce ne offre la più bella testimonianza. « O Dio, Padre Supremo … che moltiplicate in tutto l’universo i figli della vostra promessa con l’infusione della grazia dell’adozione … donate ai vostri popoli la grazia di entrare degnamente nella vostra santa vocazione » (Missale Rom. Sab. sancto. Orat. Post 3° Profeta.) – « O Dio onnipotente ed eterno, riempite della vostra presenza i misteri della vostra grande pietà, e per ricreare i nuovi popoli che la fonte del Battesimo genera in voi, mandate il vostro Spirito di adozione » (ibid. Orat. ad benedict. Fontis). – « O  Dio, il cui Spirito fu portato sulle acque fin dai primi giorni del mondo, per inocularle in anticipo di una virtù santificante, gettate gli sguardi sulla vostra Chiesa e moltiplicate in essa le rinascite. Voi che la inondate dei torrenti della vostra grazia, e che per il rinnovo dei popoli aprite per tutto l’universo le fonti battesimali; vi preghiamo che, per ordine della vostra maestà, riceva dallo Spirito Santo la grazia del vostro unico Figlio. Che questo stesso Spirito fecondi per una segreta mescolanza della sua divinità, queste acque preparate per la rigenerazione degli uomini, in modo che una linea celeste concepita nella santità possa uscire dal seno immacolato della divina Fonte, come una creatura rinata e rinnovata; e che la grazia, loro madre, possa generare per una nuova infanzia coloro che distingue o il sesso nel corpo, o l’età nella durata » (Ibid. ad benedict. Fontis. Queste orazioni si trovano nel più antico Sacramentario. C’è in esso la fede di tutti i secoli). E più avanti nello stesso testo: « Che la virtù dello Spirito Santo scenda sulla pienezza di questa fonte, e riempia la sostanza intera di queste acque con una virtù che rigenera ….. Che ogni uomo che entra in questo misterioso Sacramento della rigenerazione rinasca bambino con la perfezione dell’innocenza. » – Queste magnifiche preghiere trovano una meravigliosa risposta in un’iscrizione incisa per ordine di Papa Sisto III nel Battistero di San Giovanni in Laterano, dove si conserva ancora oggi. « Qui la razza da consacrare per il cielo nasce da un Seme augusto; e lo Spirito Santo la genera dalle acque fecondate dalla sua virtù. In questa fonte la Chiesa, nostra madre, partorisce dal suo grembo verginale i figli che ha concepito sotto il Soffio di Dio. Sperate il regno dei cieli, o voi che siete rinati da quest’onda; perché la vita beata è per coloro che essa ha rigenerato. È una fonte di vita che, sgorgando dal fianco di Cristo, inonda tutto l’universo. Immergiti, quindi, o peccatore, in questo sacro torrente, per lasciare le tue sozzure; scendendo con la tua vitalità nativa, ne uscirai rinnovato. Tu che vuoi essere innocente, purificati in questo bagno, che sia il crimine del tuo primo padre o il tuo che pesa su di te. Non c’è più distanza tra i rigenerati: essi sono uno, per l’unità della Sorgente, l’unità dello sìSpirito, l’unità della fede. Che nessuno si disperi per il numero e la grandezza dei suoi crimini; sarà santo chiunque sia nato da quest’acqua. – Queste considerazioni bastano, se non erro, a mostrare quanto la nostra filiazione soprannaturale superi in verità quella che l’adozione comune può dare tra gli uomini: perché è una rigenerazione spirituale: una vera rinascita in Dio (Il grande pubblicista cristiano, L. Veuillot, racconta in una delle sue opere – Les Nattes, 1 ed, p. 201 e segg,. Quella che segue è una versione abbreviata di questo fatto. Un povero uomo aveva adottato per amore di Dio due orfani, un ragazzo affetto da idiozia, ed una ragazza afflitta da un gozzo che la rendeva impotente. Successe che il marito si ammalò gravemente. Anche l’idiota era disteso sul suo letto e si pensava che sarebbe morto. Improvvisamente si alzò e andò al letto del suo padre adottivo. « Padre mio – disse al suo benefattore – ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me. » – « Che cosa dici, Mattia », esclamò la sorella col gozzo, che, come tutti i presenti, fu colta da un profondo stupore nel sentire una parola umana provenire da una bocca che fino ad allora aveva emesso solo suoni inarticolati. « Oh – disse l’idiota, tornando al suo letto, dopo aver baciato la fronte di suo padre – io me ne torno, torno a casa mia. » Mentre diceva questo, salì di nuovo sul letto, mise le braccia sul petto, guardò il cielo e fece un sospiro … l’ultimo. Mattia era morto, o meglio era tornato alla casa del Padre che è nei cieli).

4. Ci sono altre espressioni, spesso ripetute nei nostri libri sacri, che ci dimostrano in modo ancora più eloquente quanto sia reale questa filiazione, quanto sia sublime la rinascita. È prima di tutto la parola creazione che usano per esprimere l’origine dei figli adottivi di Dio. In seguito, sarà facile per noi capire a quale punto preciso l’adozione divina si avvicini ad un’azione creativa. Ci basti, in questo momento, dimostrare con alcuni passi quanto enfaticamente gli Apostoli abbiano usato questa parola per caratterizzare l’opera della nostra adozione spirituale. Paolo dice: « Ritornate all’uomo nuovo, che è stato creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità » (Efesini II, 8-10). E ancora: « Siamo opera sua, creati in Cristo Gesù per opere buone…. (ibid. IV, 24). Questo è ciò che disse ai Cristiani di Efeso. Lo stesso linguaggio è stato usato in Galati: « In Cristo Gesù non ha alcun valore né la circoncisione né l’incirconcisione, ma una nuova creazione » (Gal. VI, 15). « Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; ciò che era vecchio è passato; ora tutto è nuovo » (2 Cor. V, 17). Nello stesso senso, San Giacomo scrive a sua volta: «Ci ha generato volontariamente, affinché fossimo qualche inizio del suo essere » (Giac. I, 18). – Un testo doppiamente notevole, poiché, mentre ci ricorda la nostra generazione dalla grazia, la collega all’idea della creazione. – Inoltre, anche se gli altri testi non menzionano la filiazione adottiva, ci rimandano ad essa mettendoci davanti agli occhi l’idea di rinnovamento: perché l’uomo rinnovato è l’uomo che è diventato di nuovo figlio di Dio, da figlio dell’ira che era dopo la caduta originale. Così, il Battesimo in cui nascono i figli di Dio, è chiamato il Sacramento del rinnovamento. – È ancora S. Paolo che ce lo insegna in un luogo dell’epistola agli Ebrei, troppo spesso usata per sostenere dottrine senza speranza. « È impossibile che coloro che siano stati una volta illuminati – cioè i battezzati – (Il battesimo è chiamato illuminazione nei monumenti più antichi, perché fa passare coloro che lo ricevono dalle tenebre alla luce di Cristo, e dà loro, come nuovo organo per conoscere le cose di Dio, la virtù della fede. Martigny, dizionario, alla parola Battesimo.), hanno gustato il dono perfetto, e sono stati resi partecipi dello Spirito Santo… e che essendo caduti, sono rinnovati dalla penitenza, crocifiggendo di nuovo in se stessi il Figlio di Dio rinnovando i propri obbrobri. » (Ebr. VI. 4-6); cioè, è impossibile ricevere dalla ripetizione del Battesimo quel perfetto rinnovamento di vita che esso produce nelle anime. – Perché? Perché siamo battezzati nella morte di Cristo; perché il Battesimo è per noi la rappresentazione vivente della morte e della sepoltura dell’Uomo-Dio, in virtù della quale moriamo al peccato e siamo come sepolti spiritualmente con Cristo per rinascere a una vita nuova. Ora c’è stata una sola morte e una sola sepoltura per Cristo. Così anche il rinnovamento battesimale è unico. Questo è il modo in cui è stato esposto il nostro testo da S. Agostino (August. Expos. in. Ep. ad Rom. n. 19), Sant’Ambrogio (de Pænit., L. II, c. 2, n. 10 e 12), San Giovanni Damasceno, San Giovanni Crisostomo, Sant’Epifanio e molti altri, e San Tommaso dopo di loro (S. Theol. III p. q. 66, a 9, ecc.).  – Lo stesso apostolo aveva espresso più brevemente questa idea di rinnovamento per mezzo del Battesimo, quando lo chiamò « il lavacro di rigenerazione e di rinnovamento dello Spirito Santo » (Tit. III, 5). Nei Padri, come nella Sacra Scrittura, queste stesse idee di rinnovamento e rigenerazione spirituale sono frequentemente combinate o con quella della creazione, o con altre idee equivalenti. Facciamo alcuni esempi! S. Agostino, nella sua esposizione del Salmo 103, arriva a questo versetto: “O Signore, quale magnificenza nelle tue opere, e qual saggezza in tutto ciò che hai fatto: la terra è piena della vostra creatura. Repléta est terra creatura tua. Così portava la versione allora in uso, invece dell’espressione “possessione tua” che si legge nel testo attuale. « O Cristo – esclama – la terra è piena della tua creatura. E come, cosa noi vediamo? Cosa c’è che il Padre non abbia creato attraverso il Figlio? Tutto ciò che cammina o striscia sulla terra, tutto ciò che nuota nelle acque, tutto ciò che vola nell’aria, tutto ciò che rotola nel cielo, in una parola, il mondo intero è la creatura di Dio. Ma voi mi chiedete cosa intenda qui il salmista con questa nuova creatura di cui l’Apostolo dice: Se uno è in Cristo, è una nuova creatura: ciò che era vecchio è passato; ecco, tutto è nuovo. Ora tutte le cose sono di Dio (II Cor. V, 17-18). La nuova creatura che è stata fatta sono tutti coloro che, credendo in Cristo, si sono spogliati dell’uomo vecchio e si sono rivestiti del nuovo (Efesini 22, 24). – Una pagina dopo il santo Dottore ritorna al suo testo: « La terra era piena della tua creatura. Con quale creatura, Signore, l’hai riempito? Gli alberi, gli animali, tutto il genere umano, è la creatura di Dio che riempie la terra. Lo vediamo, lo conosciamo, e in questa conoscenza e vista lodiamo e glorifichiamo la maestà divina; e né la nostra lode né la nostra ammirazione eguagliano quella che sale nei nostri cuori alle opere del nostro Dio. Ma c’è un’altra creatura che è ancora più degna della nostra attenzione: quella di cui l’Apostolo ha detto: “Se in Cristo c’è una nuova creatura, allora le cose vecchie sono passate e tutto è diventato nuovo”. Quali vecchie cose sono passate? Tra i popoli, l’idolatria; tra i Giudei, la servitù della Legge con i Sacrifici che profetizzavano il nuovo Sacrificio. Allora era la vetustà dell’uomo; è venuto Colui che doveva rinnovare la sua opera, che doveva fondere di nuovo il suo oro e coniare una moneta a sua immagine. E vediamo la terra piena di Cristiani che credono in Dio, Cristiani che, rifiutando sia le loro precedenti impurità che le loro pratiche idolatriche, si volgono dalle vane speranze del passato alla speranza della Nuova Era. Se questo non è ancora la piena realtà, è un possesso anticipato nella speranza, e con la speranza già cantiamo e diciamo: La terra è stata riempita dalla tua creatura » (S. Agost. Serm. 3 in Ps. 103, n. 26; serm. 4, n. 3). Vorremmo estendere questi estratti dei Padri. Ma è sufficiente per il momento riportare brevemente alcune espressioni comuni che prendiamo in prestito dall’Oriente. Per Gregorio di Nazianzo la rigenerazione è una nuova formazione dell’immagine cancellata dalla colpa originale, opera e come creazione tutta divina (S. Greg. Naz. Orat. 40 de Baptis, n, 3, n. 4. P. Gr. T. 46, p. 584); per Gregorio di Nissa, un ritocco che va fino alla profondità dell’essere, una metamorfosi della nostra condizione di creatura umana in uno stato divino, un rinnovamento di tutto l’uomo interiore (S. Greg. Nys. Orat. de Bapt. Christi. Pat. Gr., t. 46, p. 584); per San Cirillo, un rifacimento che trasforma la creatura e la innalza gloriosamente al di sopra della sua natura (San Cirillo, Aless. In Joan III, 6. P G. t, 73, p. 245). Le parole non riescono a rendere in tutta la loro energia i termini impiegati dai nostri dottori. Possiamo dire, senza volerne esagerare la portata, che questi termini non sono talvolta né meno espressivi né meno forti di quelli con cui esprimono o la formazione naturale dell’uomo, o anche il cambiamento operato nell’augusto Sacramento dell’Eucaristia, tanto profondo e reale appare il loro il rinnovamento. Bisognerebbe ascoltare S. Zenone di Verona, nelle sue Invitationes ad Fontem – Invit. 3° ad neophitos post baptisma 3. P. L. t. 11, p. 478).

LA GRAZIA E LA GLORIA (4)

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (8)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (8)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO TERZO

L’INABITAZIONE DELLA TRINITÀ

(II)

2) Cosa vana sarebbe voler chiedere a suor Elisabetta della Trinità una dottrina rigorosamente sistematica, da lei stessa compilata ordinandone gli elementi. Essa ha vissuto da contemplativa i più alti misteri della fede, e specialmente il dogma della inabitazione divina, senza mai pretendere di fare l’ufficio di dottore o di teologo, anzi, senza nemmeno supporre il valore e la missione universale da Dio riservata ai suoi scritti. Nelle sue note intime, essa stessa rimanda ad alcuni passi di san Giovanni della Croce che l’hanno particolarmente colpita, in cui il santo Dottore, nel suo Cantico spirituale, tratta della natura e degli effetti di questa misteriosa presenza divina. Vi si ritrova la classica dottrina della teologia cattolica vista in un’altissima luce contemplativa: Dio è sostanzialmente presente in tutti gli esseri con la sua potenza creatrice; a questa presenza comune, si aggiunge una presenza speciale, nelle anime dei giusti c negli spiriti beati, come oggetto di conoscenza e di amore nell’ordine soprannaturale. Suor Elisabetta della Trinità aveva meditato a lungo questi testi ed aveva attinto da san Giovanni della Croce gli elementi di una dottrina mistica su questa intima presenza di Dio nell’anima dei giusti, dottrina che costituisce una delle più tradizionali e più consolanti verità del Cristianesimo. La Chiesa ne ha sempre riconosciuto la sorgente nell’insegnamento così chiaro di Gesù: « Se alcuno mi ama e custodisce la mia parola, il Padre mio lo amerà; e noi verremo a lui e stabiliremo in lui la nostra dimora» (S. Giovanni, XIV-23). Il testo è chiaro. Il Figlio e il Padre, come pure lo Spirito Santo, che è Uno con Essi, abitano nell’anima fedele. Tutto il mistero della generazione del Verbo e della spirazione dell’Amore si compie silenziosamente nelle più intime profondità dell’anima. La nostra vita spirituale diviene una partecipazione continua alla vita della Trinità in noi. L’anima, divinizzata dalla grazia di adozione, viene elevata alla divina amicizia e introdotta nella famiglia della Trinità per vivervi come il Padre, come il Verbo, come l’Amore e insieme con Essi, della medesima luce e del medesimo amore, « consumata in Essi, nell’Unità » (S. Giovanni, XVTI-23.). – Gesù, nella sua preghiera sacerdotale, ci ha lasciato la descrizione di questa vita deiforme delle anime perfette, ammesse al consortium della vita trinitaria: « Padre santo, custodisci nel nome tuo quelli che Tu mi hai dati, affinché siano Uno con noi… Che tutti siano una cosa sola, e come Tu, o Padre, sei in Me ed Io in Te, così anch’essi siano in noi… Siano Uno, come noi lo siamo: Io in loro e Tu in Me, affinché siano consumati nella unità… e l’amore col quale mi hai amato sia in essi, ed Io in loro» (S. Giovanni, XVII… 26). Dopo un discorso così esplicito del Maestro, che cosa vogliamo di più? Fra la Trinità santa e noi, non vi è, no, unità di natura — sarebbe panteismo —, ma unità per grazia, che ci associa, a titolo di figli adottivi, alla vita stessa del nostro Padre dei Cieli ad immagine del Figlio, in un medesimo Spirito d’amore. Senza la Trinità, l’anima è deserta; ma non lo è più quando, possedendo in sé le Persone divine, essa viene ad entrare « in società » (Epistola Giovanni, 3.) intima col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo mediante la fede e la carità. Le tre divine Persone sono lì, sostanzialmente presenti nell’anima del piccolo battezzato che, secondo l’espressione di san Paolo, è divenuto « tempio dello Spirito Santo ». Tutta la nostra vita spirituale, dal battesimo alla visione beatifica, si svolge come un’ascesa progressiva e sempre più rapida verso la Trinità; ma la visione beatifica e, più ancora, tutti gli stati mistici intermedi, anche quelli più elevati dell’unione trasformante, sono in germe nel Battesimo. – Non si riflette abbastanza sull’importanza primordiale di questa grazia del santo Battesimo alla quale siamo debitori di potere entrare, come figli adottivi, nella famiglia della Trinità. – Questa bella teologia dell’inabitazione divina è il substrato della dottrina spirituale e della vita mistica di suor Elisabetta, e ci permette di seguirla nelle più recondite pieghe dell’anima sua. Essa non ha bisogno, per comprenderla, di lunghe dissertazioni sul come sia possibile il mistero; per la via della sapienza infusa, in tutta semplicità ma con rara profondità di pensiero, suor Elisabetta aveva penetrato il senso della sua vocazione battesimale, aveva compreso che, fin da questa vita, era chiamata a vivere secondo la parola di san Giovanni a lei sì cara « in società » con la Trinità santa. Aveva anche composto per sua sorella, quasi come testamento, un intero ritiro per spiegarle come si può « trovare il paradiso sulla terra ». Quelle pagine, da lei scritte nelle ultime settimane di vita e consegnate a Margherita dopo la sua morte, costituiscono insieme all’intimo ritiro di Laudem gloriæ, quasi una piccola « Somma » della sua dottrina spirituale nella fase più evoluta. Ora, fin dalla sua prima orazione, suor Elisabetta, elevandosi all’altissima luce contemplativa della Preghiera sacerdotale di Cristo, considera il nostro soprannaturale destino secondo le parole stesse del suo Maestro che chiama le anime alla loro « consumazione nell’Unità » (S. Giovanni, XVII-23) della Trinità mediante la grazia. « Padre, io voglio che, dove sono io, anch’essi, quelli che Tu mi hai dati, siano meco, affinché contemplino la gloria che mi hai data, perché mi hai amato prima della creazione del mondo » (S. Giovanni, XVII-24). –  Questa è l’ultima volontà di Cristo, la sua preghiera suprema, prima di ritornare al Padre. Egli vuole che là dov’è Lui, ci siamo noi pure, non solo nell’eternità, ma già nel tempo che è l’eternità incominciata e in continuo progresso. È importante quindi sapere dove noi dobbiamo vivere con Lui, per realizzare il suo dono divino. Il luogo in cui si cela il Figlio di Dio è il seno del Padre, ossia l’Essenza divina, invisibile ad ogni sguardo mortale, inaccessibile ad ogni intelligenza umana, il che fa dire ad Isaia: « Tu sei veramente un Dio ascoso » (Isaia, XLV-15). E tuttavia, la sua volontà è che siamo fissati in Lui, che dimoriamo dove Egli dimora, in unità d’amore; che siamo, per così dire, la sua stessa ombra. « Col battesimo — dice san Paolo — noi siamo stati innestati in Gesù Cristo » (Romani, VI-5). E ancora: « Dio ci fece sedere nei cieli in Cristo Gesù, per mostrare ai secoli futuri le magnifiche ricchezze della sua grazia ». Poi soggiunse: « Voi non siete più pellegrini o stranieri; ma siete concittadini dei santi; siete della famiglia di Dio» (Efesini, II, 6, 7). « La Trinità! ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa paterna da cui non dobbiamo uscire mai » (« Il paradiso sulla terra »).

3) Il luogo di questo incontro dell’anima col suo Dio è nell’anima stessa, nel centro più profondo del suo essere. I mistici chiamano mens o vertice dell’anima questo luogo recondito e segreto delle divine operazioni, dove Dio solo penetra e può agire; invece suor Elisabetta della Trinità, accostandosi di preferenza alla terminologia di santa Teresa e di san Giovanni della Croce, lo designa come « il centro dell’anima », il suo centro più profondo. « Questo cielo, questa casa del nostro Padre, è nel centro dell’anima nostra; quando ci troviamo nel centro più profondo di noi stessi, allora siamo in Dio » (Alla sorella -, Agosto 1905). « Per trovarlo, non abbiamo bisogno di uscirne, perché il regno di Dio è « dentro di noi» (S. Luca, XVII-21). San Giovanni della Croce dice che proprio nella sostanza dell’anima, inaccessibile al demonio e al mondo, Dio le si dona; allora, tutti i moti dell’anima diventano divini, e quantunque siano di Dio, sono però anche suoi, perché in lei e con lei il Signore li produce. San Giovanni dice ancora che « Dio è il centro dell’anima »; dunque, quando essa conoscerà Dio perfettamente, secondo tutta la sua capacità, quando Lo amerà, e ne gioirà pienamente, allora sarà arrivata nel centro più profondo che possa raggiungere in Lui. È vero che l’anima, anche prima di essere giunta a questo punto già si trova in Dio che è suo centro; ma non è ancora nel suo centro« più intimo » potendosi inoltrare di più. Poiché l’amore unisce l’anima a Dio, quanto più intenso è questo amore, tanto più profondamente essa penetra in Dio e in Lui si concentra. Possedendo anche un sol grado di amore, l’anima è già nel suo centro; ma quando questo amore avrà raggiunto la sua perfezione, essa sarà penetrata nel suo centro « più profondo »; e lì, sarà trasformata a tal punto, da divenire molto simile a Dio. A quest’anima che vive « interiormente » si possono rivolgere le parole del Padre Lacordaire a santa Maria Maddalena: « Non chiedere più il Maestro a nessuno, sulla terra, a nessuno nel cielo; perché Egli è l’anima tua, e l’anima tua è Lui» (« Il paradiso sulla terra » – 3a orazione.).

4) Questa divina presenza, misteriosa e reale, resta inaccessibile ai sensi: « Dio è spirito » e chi si avvicina a Lui, deve farlo « in ispirito e in verità » (S. Giovanni, IV-24). Con cura particolare, suor Elisabetta insiste nel rilevare che la sensibilità, in tutto questo, non ha nulla a che fare. La brama di sentire Dio è proprio lo scoglio dei principianti, nella vita spirituale; ma anche le anime più progredite nella perfezione provano talvolta molta e penosa difficoltà a liberarsi da tale desiderio che persiste, celandosi sotto i pretesti più sottili. Suor Elisabetta della Trinità aveva imparato, con la propria esperienza, a diffidare della sensibilità, e il ricordo delle dure purificazioni che, per tutto l’anno del noviziato, erano state quasi il suo pane quotidiano, serbava l’anima sua attenta a non cercare che la pace di Dio, la quale « supera ogni sentimento » (Filippesi, IV-7.). Dopo le prime inebrianti gioie sensibili della presenza divina di cui il Padre Vallée le aveva dato piena certezza, Elisabetta dovette ben presto aggrapparsi alla sua fede per trovare Dio presente dentro di sé. « Non più un velo soltanto, ma un grosso muro me Lo nasconde. È cosa dura, non ti pare, dopo averlo sentito così vicino? Ma sono pronta a rimanere in questo stato per tutto il tempo che piacerà al mio Diletto lasciarmici, perché la fede mi dice che Egli è qui lo stesso; e allora, che cosa importano le dolcezze, le consolazioni? Esse non sono Lui; mentre Lui solo noi cerchiamo. Andiamo dunque a Lui nella fede pura» (Lettera a M. G… – 1901).

5) Per progredire sicuramente in « questa via magnifica della presenza di Dio» (Ultimo ritiro – 9° giorno), la fede è l’atto essenziale, il solo che ci consenta di accedere al Dio vivo, ma ascoso. « Per avvicinarsi a Dio, bisogna credere » Hebr., XI-6), ci dice san Paolo; e soggiunge: «la fede è sostanza delle cose che dobbiamo sperare e convinzione di quelle che non vediamo » (Hebr., XI-1). Cioè, la fede ci rende talmente certi e presenti i beni futuri che, per essa, prendono quasi essenza nell’anima nostra e vi sussistono prima che ci sia dato fruirne. San Giovanni della Croce dice che la fede « è per noi il piede che ci porta a Dio », che è « il possesso allo stato di oscurità ». – Soltanto la fede può darci lumi sicuri su Colui che amiamo, può versare a fiotti nel nostro cuore tutti i beni spirituali; e noi dobbiamo eleggerla come il mezzo per raggiungere l’unione beatifica. È la fede quella « sorgente d’acqua viva, zampillante fino alla vita eterna » che Gesù, parlando alla Samaritana, prometteva a tutti quelli che crederebbero in Lui. La fede, dunque, ci dona Iddio fino da questa vita; ce lo dona, è vero, celato nel velo di cui l’avvolge, ma pur sempre Lui, Lui realmente. « Quando verrà ciò che è perfetto » (ossia la chiara visione) « ciò che è imperfetto » (o, in altre parole, la conoscenza dataci dalla fede) « avrà fine » (I Corinti, XIII-10). « Sì, abbiamo conosciuto l’amore di Dio per noi, e vi abbiamo creduto » (I S. Giovanni, IV-16.). Questo è il grande atto della nostra fede, il modo di rendere al nostro Dio amore per amore; è il segreto di cui parla san Paolo, ascoso nel cuore del Padre, e che riusciamo finalmente a penetrare; e tutto l’essere nostro esulta. Quando l’anima sa credere a questo « eccessivo amore » che su lei si posa, si può dire di lei, come già di Mosè, che « è incrollabile nella sua fede, come se avesse visto l’Invisibile » (Hebr. Ebrei, XI-27). Non si arresta più al gusto, al sentimento; poco le importa sentire Dio o non sentirlo, avere da Lui la gioia o la sofferenza; essa crede al suo amore e basta. Quanto più è provata, altrettanto cresce la sua fede, perché, forte di tutti gli ostacoli superati, va a riposarsi nel seno dell’Amore infinito, il quale non può compiere che opera d’amore. A quest’anima, tutta desta nella sua fede, la voce del Maestro può dire nell’intimo la parola che rivolgeva un giorno a Maria Maddalena: « Va’ in pace; la tua fede ti ha salvata » (« Il paradiso sulla terra »). – Suor Elisabetta fu fedele sino alla fine nell’andare a Dio con la fede pura. « Una Carmelitana — diceva — è un’anima di fede ». E, anche dopo la grazia. Straordinaria ricevuta nell’ultima festa dell’Ascensione che passò sulla terra, quando le tre divine Persone le si manifestarono, con irresistibile evidenza, presenti nell’anima sua ove tenevano notte e giorno « il loro onnipotente Consiglio » (Formula con la quale esprimeva alla sua priora la grazia dell’Ascensione del 1906), anche allora suor Elisabetta, reclusa nella solitudine dell’infermeria, dovrà cercare il suo Dio mediante la fede. È la condizione assoluta di ogni vita divina sulla terra. « Io sono la piccola reclusa del buon Dio; e quando rientro nella mia cara celletta per continuarvi il colloquio già iniziato, mi sento invasa da una gioia divina. Amo tanto la solitudine con Lui solo, e conduco una piccola vita di eremita, veramente deliziosa; eppure è ben lungi dall’essere esente da dolorose impotenze; ho tanto bisogno anch’’io di cercare il mio Signore che sa nascondersi così bene! Ma allora, risveglio la mia fede, e sono più contenta di non gioire, io, della Sua presenza, perché gioisca Lui, invece, del mio amore» (Alla sorella – 15 luglio 1906). La sua vita religiosa fu la realizzazione delle parole sentite nell’intimo, mentre pregava in coro, la notte che precedette la sua professione: «…il cielo nella fede, con la sofferenza e l’immolazione per Colui che amo » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1903).

LA GRAZIA E LA GLORIA (2)

LA GRAZIA E LA GLORIA (2)

Del R. P. J-B. TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO PRIMO

IL FATTO E LA REALTÀ DELL’ADOZIONE DIVINA

CAPITOLO PRIMO

Il fatto dell’adozione divina; il suo rapporto con l’Incarnazione e con la filiazione naturale del Figlio unico di Dio.

1. – Non è solo un dogma di fede, ma una verità della ragione che la nostra condizione di creature ragionevoli ci obbliga con un dovere essenziale ad essere servi di Dio. Non è sovranamente giusto che l’opera appartenga al suo unico autore, e che la volontà limitata sia soggetta alla Volontà onnipotente che sola esiste? La fede va oltre: perché ci insegna che, in virtù della nostra discendenza e come membri della famiglia umana, siamo una razza degradata, figli dell’ira, natura filii iræ (Ephes. II, 31). Questa è la doppia condizione che la nostra natura e la nostra origine ci hanno dato. Cosa possiamo diventare per mezzo della misericordia divina ed il sangue di Gesù Cristo versato per noi? Figli di Dio per adozione! Chi ci assicura di questo? Dio stesso! E, certamente, non c’era bisogno di una testimonianza minore per convincerci di una verità così consolante, ma così incredibile per le piccole e miserabili creature che noi siamo. E così è: Dio ha voluto moltiplicare nelle Scritture le rassicurazioni esplicite che ci dà di tale gloriosa filiazione. Egli non ignorava che ci sarebbero stati uomini ciechi o ingrati che avrebbero detto di questa dottrina ciò che dissero i Cafarnaiti quando Gesù predicò loro la divina Eucaristia: « Questa parola è dura, e chi la può ascoltare … » (Joan., VI, 61). Tale è, infatti, la sfortunata condizione dell’uomo che si aggrappa alla bassezza, e il più delle volte ha aspirazioni solo per una falsa grandezza. Da qui sono venute queste ripetute negazioni di tutto l’ordine soprannaturale che si trovano in ogni pagina della storia del dogma cattolico, e di cui l’angelo ribelle ha dato il primo esempio. Questo è il motivo per cui noi dobbiamo, prima di ogni altra cosa, leggere e meditare quei passi dei nostri Libri santi in cui lo Spirito Santo, lo Spirito di Verità, ci ha rivelato nei termini più formali questi alti destini della nostra natura. Potremmo chiederci per quali ragioni il Figlio eterno del Padre porti il titolo di Primogenito, e vedremmo che una delle ragioni principali, a giudizio di San Paolo e dei Dottori (Rom. VIII, 29), è che Dio ha altri figli, e che questo frutto della fecondità del Padre ha dei fratelli. Non mi si dica che Gesù, sebbene sia l’unico della Vergine, sia anche chiamato il primogenito, perché questa unicità non mi impedisce di guardare la purissima Vergine Maria come vostra e mia Madre. Ma dobbiamo arrivare ad una testimonianza più decisiva. Vedete – scrive l’apostolo S. Giovanni (1 Gv. III, 2), – vedete quale amore il Padre ha avuto per noi per volerci chiamare figli di Dio, e lo siamo veramente. e che siamo davvero figli di Dio. Sì, miei cari, noi siamo già fin da ora figli di Dio. Ma quello che saremo un giorno non appare ancora. Sappiamo che quando verrà nella Sua gloria, saremo simili a Lui perché Lo vedremo come Egli è. E chi ha questa speranza in sé diventa santo, come Dio stesso è Santo. Noi l’abbiamo sentito: la nostra figliolanza divina è un nome, ma un nome che porta con sé la sua realtà. Questa grandezza è oggi coperta ai nostri occhi, ma un giorno, nello splendore del Figlio unigenito, apparirà come realmente è: la rappresentazione viva e fedele della sua stessa figliolanza. – San Paolo parla non meno chiaramente del discepolo prediletto: « Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, formato da una donna, soggetta alla legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione di figli. E poiché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori, gridando: “Abba, Padre“. Nessuno di voi è più schiavo, ma figlio; e se siete figli, siete eredi di Dio (Gal. IV, 4-7). » Ora quello che scriveva ai fedeli della Galazia, lo stesso Apostolo aveva scritto a quelli di Roma: « Quanti sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. Voi non avete ricevuto di nuovo (come i Giudei) lo spirito di schiavitù e di timore, ma avete ricevuto lo Spirito di adozione dei figli in cui si grida: “Padre, Padre”. Perché lo Spirito stesso testimonia al nostro spirito che siamo figli di Dio. Se dunque figli, anche eredi; eredi di Dio, coeredi con Gesù Cristo. Se tuttavia soffriamo con Lui, è per essere glorificati con Lui (Rom. VIII, 14-17; col. Ephes- I, 12, 44) » E questa filiazione, più autenticamente e splendidamente rivelata nella nuova legge, i profeti dell’Antico Testamento l’avevano intravista e salutata come una speranza in epoche lontane: testimonianza ne è questo oracolo di Osea: « E verrà il tempo in cui gli uomini sentiranno questa parola: voi non siete il mio popolo; essi saranno chiamati figli del Dio vivente (Os. I, 20). » Ma che bisogno c’è di interrogare ancora gli scrittori ispirati, quando abbiamo la parola del Figlio unico di Dio stesso? Ascoltiamolo: ci insegnerà a pregare come figli: “Padre nostro, che sei nei cieli” (Mt. VI, 11). Più tardi, apparendo a Maddalena, la incarica di annunciare la Sua resurrezione. Va’ – le ordina – va’ a dire ai miei fratelli: “Salgo al Padre mio e Padre vostro” (Gv. XX, 17). Avere Dio per padre e Gesù Cristo per fratello, non è questo essere figlio di Dio? Tuttavia, le ultime parole del Salvatore ci fanno già capire che la nostra filiazione, pur essendo simile alla Sua, non è uguale ad essa. « Io salgo – dice – al Padre mio e Padre vostro ». Non dice: al Padre nostro. È perché la filiazione nostra è filiazione al di sotto della filiazione del Verbo di Dio. – Questa è la dottrina delle nostre Sacre Lettere. Dio ha un solo Figlio secondo natura; ed è perciò che questo Figlio è chiamato il Figlio unico di Dio, il Figlio proprio di Dio, il vero Figlio nella pienezza del termine; Dio da Dio, luce da luce, splendore infinito della gloria paterna; generato da tutta l’eternità, perché da tutta l’eternità il Padre gli comunica con un atto ineffabile la sua propria e semplicissima essenza, senza divisione o moltiplicazione. – Ed ecco perché il Figlio può dire al Padre: «Tutto ciò che è mio è tuo; e tutto ciò che è tuo è mio » (Gv. XVI, 15; Col. VII, 16). Tutto è comune, tutto è identico, sostanza, natura, perfezione, operazione; tutto, tranne la distinzione delle Persone. – Quale creatura, per quanto perfetta, potrebbe senza follia tenere un tale linguaggio? Lungi da noi quell’empietà sacrilega che condivideva l’essenza divina e forgiava gli dei dagli dei con una comunicazione di natura analoga a quella che avviene nelle generazioni umane. Lungi da noi anche quel sogno dei falsi mistici per i quali la produzione di figli di Dio consisteva in non so quale flusso della sostanza del giusto nella sostanza di Dio per essere trasformato in essa, come il pane è cambiato nel corpo di Gesù Cristo (“Nos transformamur totaliter in Deum et convertimur in simil modo sicut panis convertitur in corpus Christi, sic ego convertor in eum…” è la n. 10 tra le proposizioni di Ekard condannate da Giovanni XXII -1329 -. Vedi anche gli articoli seguenti). La nostra filiazione non è dunque una filiazione naturale. Trovo nelle Sacre Scritture una filiazione molto diversa. « Chi è il padre della pioggia e chi ha generato le gocce di rugiada? » chiede il Signore al santo patriarca Giobbe (Giobbe XXXVIII, 8). E altrove, Mosè, rivolgendo i suoi rimproveri al popolo d’Israele: « Non è – egli dice – vostro Padre che vi ha posseduto, che vi ha fatto, che vi ha creato (Deuter. XXXII, 6)? » Filiazione basata sulla somiglianza naturale delle creature a Dio, il loro primo principio: tanto più elevato, tanto più perfetto, quanto maggiore è la somiglianza, e quanto più brillantemente le perfezioni dell’Operatore divino risplendono nelle perfezioni della sua opera (S. Thom. 1 p., q. 33, a. 1). – Né è questa la figliolanza che ci è promessa e che ci è data. Perché per quanto alte e sublimi possano essere le perfezioni ricevute da Dio, l’Autore della natura spirituale, la creatura che le possiede può ancora sentirsi dire, a sua eterna disgrazia: «Voi non siete nel numero dei miei figli; ritiratevi, non vi conosco. » – Cos’è dunque questa filiazione che è adatta solo alle creature ragionevoli e, tra gli esseri intelligenti, solo ai giusti, gli amici di Dio? Ancora una volta, è una filiazione basata non sull’atto della generazione naturale, non sull’operazione creativa degli esseri, ma su un’adozione di grazia: questa è la figliolanza che San Paolo ci ha già nominato con il suo stesso nome e che ricorda costantemente ai fedeli: « Sia benedetto Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetto con ogni benedizione spirituale per i cieli in Cristo. Come Egli ci ha scelti in Lui prima della costituzione del mondo, affinché fossimo santi e immacolati al suo cospetto nell’amore; Egli ci ha predestinati ad essere figli adottivi per mezzo di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà (Ef. I, 3-5). » – Figli di Dio per grazia e per adozione, questo è il nostro titolo e la nostra gloria, se rimaniamo fedeli al Dio che ci ha scelti.

2. – Il testo appena riportato ci invita a risalire alla Fonte da cui ci è giunto questo incomparabile beneficio della nostra adozione. È dall’Incarnazione dell’unico Figlio di Dio e, per innalzarci ancora più in alto, dal libero e beneplacito volere del Padre. Meditiamo su queste due verità alla luce dei nostri Libri Santi e degli scritti dei Padri. Se c’è una cosa chiaramente stabilita nei sacri monumenti della nostra fede, è che l’Incarnazione fu fatta in vista della nostra filiazione adottiva. S. Giovanni lo afferma all’inizio del suo Vangelo. Dopo aver magnificamente descritto gli eterni splendori del Verbo: « Venne tra i suoi – dice – e i suoi non lo ricevettero. Ma a tutti quelli che l’hanno accolto, ha dato il potere di essere fatti figli di Dio, a quelli che credono nel suo Nome; i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio (Gv. I, 11-13). » L’insegnamento di San Paolo risponde a quello del discepolo amato. Abbiamo già sentito da Lui: « Dio, nella pienezza del tempo, mandò il suo Figlio, progenie di donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione di figli (Gal. IV, 4-5) ». Questo è dunque il motivo per cui il Verbo si è fatto carne, e il grande bene che è venuto dal cielo a portare alla razza umana decaduta: l’adozione dei figli. Ecco perché è nato, perché ha sofferto, perché è morto su una croce. – I Padri non si stancano di ritornare su questo pensiero apostolico e divino. Sarebbe impossibile trascrivere qui tutto quello che essi dicono. Accontentiamoci di qualche testimonianza tra mille altre. « Perché – chiede San Bernardo – il Figlio di Dio si è fatto uomo, se non per fare degli uomini tanti figli di Dio (Serm. 1, De Nativ., 15)? » S. Agostino aveva già detto quasi negli stessi termini: « Il Figlio di Dio, il suo Unico generato secondo natura, per una meravigliosa condiscendenza si è fatto Figlio dell’uomo, affinché noi, che siamo figli dell’uomo per natura, potessimo diventare figli di Dio per grazia sua » (S. Agostino de Civit. Dei. 1. XXI, c.15). E ancora: « Vediamo un gran numero di uomini avere figli per adozione: ma ciò che li spinge a farlo è la necessità di supplire per libera scelta al difetto di natura che ha negato loro i figli. Se hanno un figlio unico, si guardano bene dal cercargli compagni che dividano con lui l’eredità e lo impoveriscano di conseguenza. Così fanno gli uomini; ma non così il nostro grande Dio. Colui attraverso il quale ha prodotto ogni creatura, l’ha mandato in questo mondo, volendo che non rimanesse solo, ma che avesse dei fratelli per adozione (S. Aug. Tr. II in Joan. I) ». – I Padri greci fanno eco a quelli della Chiesa latina, come attesta Ireneo, il grande dottore venuto dall’Oriente per illuminare i Galli: « Se il Verbo si fece carne, e il Figlio eterno del Dio vivente si fece Figlio dell’uomo, fu perché l’uomo, entrando in società con il Verbo e ricevendo l’adozione, diventasse figlio di Dio  (S. Iren. c. Hæres. L. III, c. 49, n. 1. Patrol. Græc. – ed. Migne) ». Mi appello di nuovo a San Giovanni Crisostomo. Egli spiegava al suo popolo il capitolo di San Matteo che riporta la genealogia di Nostro Signore. Improvvisamente esclama con eloquente trasporto: « Non è cosa che dovrebbe gettarci nello stupore il vedere il Dio ineffabile, impronunciabile, incomprensibile, uguale in tutto e per tutto a suo Padre, nato nel grembo di una vergine e che conta Abramo e Davide tra i suoi antenati? Che dico, Abramo e Davide? Anche le donne colpevoli di cui ho parlato prima. Al contrario, sii pieno di ammirazione senza limiti quando vedi il vero Figlio dell’eterno Dio degnarsi di chiamarsi Figlio di Davide, per renderti figlio di Dio; riconoscere come padre un servo, uno schiavo, in modo che tu stesso, schiavo e servo, possa veramente chiamare Dio tuo Padre. Vedete ora cosa sono i Vangeli? Avete qualche dubbio sull’incomparabile onore che vi promettono? Bene allora! Lasciate che gli abbassamenti del Figlio di Dio vi insegnino a credere nella vostra elevazione. – In effetti, agli occhi della mente umana è più difficile fare di un Dio un uomo che di un uomo un figlio di Dio. Quando, dunque, sentirete dire che il Figlio di Dio è il figlio di Davide e di Abramo, non dubitare che voi, figli di Adamo, possiate diventare figli di Dio. Perché se Dio si è umiliato fino a questo eccesso, non è stato per un nulla, ma per elevarci alle più sublimi altezze. Egli è nato secondo la carne, perché tu rinasca secondo lo spirito; è nato da una donna, perché tu non sia più figlio della donna. – Ecco quindi due generazioni, una che assomiglia alla nostra, l’altra che la supera infinitamente. Nascere da donna è ciò che ci è proprio; nascere non da sangue, non dalla volontà dell’uomo e della carne, ma da Dio, è la generazione suprema che ci aspettiamo dallo Spirito (S. J. Chrysost. in Matt., hom. 2, n. 2 Pat. G. t. 57, p. 26) ». – San Cirillo di Alessandria sviluppa la stessa dottrina con una varietà sorprendente, specialmente nei suoi commenti sul Vangelo di San Giovanni. Citiamo per esempio quello che ha scritto su questo testo dell’Apostolo: « Egli ha dato loro il potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo Nome (Gv. I, 12) ». – « Il Figlio di Dio è venuto per dare loro il potere di essere per grazia ciò che Egli è per natura, e per rendere comune ciò che è suo: tanto è grande la sua bontà verso gli uomini, tanto è grande la sua carità verso il mondo. Era impossibile per noi, che portiamo l’immagine dell’uomo terreno, sfuggire alla corruzione, se non potessimo ricevere impressa nelle nostre anime la bellezza dell’immagine celeste; cioè, se non fossimo chiamati all’adozione dei figli di Dio. Essendo diventati partecipi del Figlio unigenito per mezzo dello Spirito Santo, abbiamo ricevuto il sigillo della sua somiglianza, conformandoci così a quell’immagine divina in cui, come attestano le Scritture, siamo stati fatti. È così che, recuperando l’antica bellezza della nostra natura, e riformati sulla natura stessa di Dio, sfuggiremo ai mali causati dalla prevaricazione originale. Così, dunque, ci innalziamo alla dignità soprannaturale – « Eppure non è stata rimossa ogni differenza tra noi e Lui. Perché se diventiamo figli di Dio, è a sua somiglianza, in virtù della grazia che ci rende a sua immagine. Egli è il vero Figlio che procede eternamente dal Padre, e noi siamo solo figli di adozione, ammessi per privilegio e senza merito a questo onore incomparabile. Io l’ho detto: Voi siete dei e figli dell’Altissimo (Sal. LXXXI, 6). Perché la natura creata, e di conseguenza lo schiavo, è chiamato ai beni soprannaturali solo dal beneplacito e dalla volontà del Padre. Il Figlio, al contrario, Dio e Signore, non è né Dio né Signore per questo beneplacito e questo libero volere; Splendore scaturente dalla sostanza del Padre, ne possiede tutta la perfezione in virtù della sua stessa natura. È confrontandolo con noi che lo conosciamo come il vero Figlio. Perché altro è ciò che si basa sulla natura, altro ciò che viene dall’adozione; altro limite, altra verità. Siamo figli di Dio per adozione e per imitazione; Egli lo è per natura e secondo la pienezza della verità. Così rimane l’opposizione: da una parte la dignità naturale, dall’altra il favore e la grazia. » – Il santo dottore, continuando il suo commento, passa al tredicesimo versetto dello stesso capitolo, dove si legge: « Che non sono nati dal sangue, né dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio », e su queste parole Continua: « Quelli – dice l’Evangelista – che per mezzo della fede in Gesù Cristo sono stati chiamati all’adozione dei figli di Dio, mettono da parte l’umiltà della propria natura e, rivestiti pienamente della grazia di Dio come di una veste di luce ineffabile, si elevano ad una dignità soprannaturale. Perché non saranno più considerati come figli della carne, ma piuttosto come la stirpe adottata da Dio. Osservate, tuttavia, la prudenza dell’Evangelista. Stava per dire che i fedeli erano nati da Dio: temendo che il lettore fraintendesse queste parole e giungesse a credere o che essi fossero della sostanza di Dio Padre, come l’Unico, o che questo Unico fosse egli stesso impropriamente generato dal Padre, e quindi creato come loro, prende precauzioni contro un’interpretazione così pericolosa. E come, vi chiederete? In due modi: essi hanno ricevuto – dice – il potere di diventare figli di Dio, e l’hanno ricevuto dal Figlio: per cui è evidente che essi sono nati da Dio per adozione e per grazia, e che Egli è il Figlio per natura » (S. Cirillo Alex., L. I in Joan. P. Gr, vol. 73, p. 153 ss).

3. – Avevo intenzione di fermarmi a quest’ultimo testo: ma è impossibile per me non tornare ancora a Sant’Agostino per sentire da lui come siamo adottati e perché la nostra filiazione sia un’opera della grazia. Volendo far luce sulla nostra rinascita spirituale, la grazia del Nuovo Testamento, come la chiama lui, il grande Dottore ci rimanda al testo di San Giovanni: « A tutti quelli che lo hanno ricevuto, ha dato il potere di diventare figli di Dio. » (Gv. I, 12-13). « Questa – dice – è la grazia della nuova Alleanza, che era latente nella vecchia Alleanza, senza che Dio cessasse di annunciarla in profezie e figure, affinché sotto il velo l’anima possa conoscere Dio e rinascere a Lui per mezzo della sua grazia. È una nascita spirituale: quindi non è del sangue, né della volontà dell’uomo, né della volontà della carne, ma da Dio. Si chiama anche adozione, perché prima di essere figli di Dio eravamo già qualcosa, ed è per un grande beneficio che siamo diventati ciò che non eravamo. Così il figlio adottivo non era ancora, prima dell’adozione, un figlio del padre che lo avrebbe adottato; ma esisteva già come soggetto dell’adozione. – A questa generazione secondo la grazia non appartiene Colui che, essendo il Figlio di Dio per natura, è venuto a farsi Figlio dell’uomo e a dare a coloro che sono figli degli uomini per natura, di essere figli di Dio. È diventato ciò che non era, ma prima di diventarlo, era qualcosa; che cosa allora? il Verbo di Dio per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte, la vera luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, Dio da Dio e Dio in Dio. E anche noi, per la sua grazia, siamo diventati ciò che non eravamo, cioè figli di Dio; eppure eravamo qualcosa di infinitamente più umile, voglio dire: figli degli uomini. La sua discesa, dunque, è la nostra ascesa: rimanendo nella sua natura, Egli si è fatto partecipe della nostra, affinché, rimanendo nella nostra natura, partecipassimo alla sua. Ma le condizioni non sono uguali: perché la partecipazione della nostra natura non l’ha degradato, mentre partecipando alla sua natura siamo ottimamente nobilitati… – « E perché non osassimo aspirare a questo eccesso di onore, l’Apostolo, dopo averci parlato di questa meravigliosa rinascita, aggiunge: E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; come se dicesse: Uomini, non temete di non poter diventare figli di Dio, perché il Figlio stesso di Dio, il Verbo di Dio, si è fatto carne per essere come uno di voi. Quindi fate lo stesso per Lui. Diventate a vostra volta spirituali in Colui che, divenuto carne, è disposto ad abitare in voi. No, l’uomo non deve disperare di non essere giammai figlio di Dio attraverso la partecipazione del Verbo, quando il Figlio di Dio stesso è diventato figlio dell’uomo attraverso la partecipazione della nostra carne » (S. August., ep. ad Honorat., 140, n. 9-11).  Questo, dunque, è il fine immediato dell’unione del Figlio eterno con la nostra natura: fare dell’uomo un figlio adottivo di Dio. Non si obietti che la Sacra Scrittura e la Tradizione cattolica assegnino spesso a questa unione tre scopi: lo scopo della riparazione, lo scopo della liberazione, lo scopo della riconciliazione per l’uomo colpevole e decaduto: perché tutte queste cose si riferiscono naturalmente alla filiazione che ci viene restituita da Cristo Redentore. Non dimentichiamo il mistero della nostra prima origine, né la disgrazia della nostra caduta. In quella caduta siamo usciti dalle mani di Dio, splendenti della gloria dei figli di Dio; in quella caduta siamo stati spogliati delle nostre prerogative e ridotti alla miserabile condizione di figli dell’ira. Per elevarci, per ristabilire la nostra dignità così tristemente e totalmente perduta, dovevamo soddisfare alla giustizia divina, riscattare il colpevole e guadagnare l’amicizia di Dio. Solo a questa condizione Dio ci ha ricevuto in grazia e ci ha riaperto il suo seno paterno. Né si obietti che il fine ultimo del grande mistero del Verbo incarnato è la manifestazione della gloria di Dio attraverso il prodigio della sapienza, della giustizia, della potenza e della bontà che Egli offre all’ammirazione degli Angeli e degli uomini. È vero che queste perfezioni divine brillano di un bagliore incomparabile – cieco chi non lo veda; stolto che lo neghi – ma è piaciuto al nostro grande Dio di collegare questa manifestazione della sua gloria indissolubilmente con la salvezza della nostra natura; e la salvezza di questa natura non sarà più la natura di uno schiavo e di un essere degradato, ma quella di un figlio di Dio. Infine, non si neghi che il frutto supremo dell’incarnazione per gli uomini redenti debba essere il pieno possesso di Dio nella beatitudine eterna, poiché questa pienezza di gloria e di gioia non è che l’ultima perfezione ed il compimento completo dei figli di adozione. – Quanto grande, dunque, quanto ammirevole è questa grazia della filiazione divina, poiché il Figlio eterno del Padre non ha creduto di poter pagare un prezzo troppo alto per essa con il suo annientamento e lo spargimento del suo sangue immacolato!

(Ecco due testi del Papa S. Leone Magno che riportano felicemente alle idee espresse in questo primo capitolo: « Dum Salvatoris nostri adoramus ortum invenimur nos nostrum celebrare principium. Generatio enim Christi origo est populi christiani. Habeant licet singuli quique vocatorum ordinem suum, et omnes Ecclesiae filii temporum sint successione distincti, universa tamen summa fidelium, fonte orta baptismatis, sicut cum Christo in passione crucifixi, in resurrectione resuscitati, in ascensione ad dexteram Patris collocati, ita cum ipso sunt in nativitate congeniti. Quisquis enim hominum in quacumque mundi parte credentium regeneratus in Christo, interciso originalis tramite vetustatis, transit in novum hominem renascendo, nec jam, in propagine habetur carnalis partis, sed in germine Salvatoris, qui ideo Filius hominis est factus, ut nos filii Dei esse possimus ». Serm. in Nat. Dom. 6. P. L. t. 54, p. 243. Ed ancora:

« Quamvis enim ex una eademqu  e pietate sit quidquid creaturae Creator impendit, minus tamen mirum est homines ad divina proficere, quam Deum ad humana descendere », Serm. in Nat. D. 4, c. 2, Ibid., p. 204).

LA GRAZIA E LA GLORIA (3)

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (7)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (7)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed.Brescia, 1957.

CAPITOLO TERZO

L’INABITAZIONE DELLA TRINITÀ

(I)

« La mia occupazione continua è rientrare “nell’intimo”e perdermi in Coloro che sono qui ».

1) La santa della divina inabitazione — 2 La sua dottrina dell’inabitazione divina — 3) Il luogo di questa presenza: il centro più profondo dell’anima — 4) Suoi atti essenziali: l’attività della fede; l’esercizio dell’amore. – 5) Nella fede pura — 6) Primato dell’amore. — 7) La Pratica: fare atti di raccoglimento – 8) Piccolo catechismo della Presenza di Dio — 9) Progresso nella presenza di Dio —10) I due principali effetti di questa presenza: l’oblìo di sé e l’unione trasformante — 11) Ah! se potessi dire a tutte le anime!

Il silenzio non è che una condizione della vita vera. Col mistero del l’inabitazione della Trinità, ci troviamo al punto centrico della dottrina e della vita di suor Elisabetta, che è veramente la santa dell’inabitazione divina. Ed anche in questo, ella fu carmelitana. Se c’è una Verità cara alla dottrina mistica del Carmelo, è proprio questo mistero e questa certezza; che Dio è presente in noi e che, per trovarlo, bisogna rientrare « nell’intimo », in questo nostro regno interiore, Tutta la vita spirituale sì riassume qui. – Nel suo « Cammino di perfezione », commentando il Pater, santa Teresa nota, con profonda osservazione, che Dio non è soltanto in cielo, « ma nell’intimo dell’anima nostra» e lì bisogna sapersi raccogliere per cercarlo e scoprirvelo. Nel « Castello interiore », questa presenza della Trinità santa segna il punto culminante della sua mistica; le anime giunte all’unione trasformante vivono abitualmente in unione alle Persone divine, e trovano, in questa « Società Trinitaria », le gioie più beatificanti della terra. Anche san Giovanni della Croce ne fa il punto di convergenza di tutta la sua teologia mistica, specialmente degli stati spirituali più elevati. Egli diceva spesso per devozione la Messa votiva della santissima Trinità; e, durante la celebrazione del santo Sacrificio, l’anima sua, irresistibilmente rapita da questo mistero, con difficoltà si sottraeva all’estasi. La tradizione del Carmelo è rimasta fedele all’insegnamento di questi due grandi Maestri spirituali; e non è raro incontrare nei chiostri teresiani delle anime la cui vita di silenzio è tutta orientata verso il mistero trinitario. La stessa santa Teresa di Gesù Bambino non si offrì vittima all’Amore proprio il giorno della festa della Trinità? E la sua offerta all’Amore misericordioso fa parte di una preghiera essenzialmente trinitaria: « O mio Dio, Trinità beata, al fine di vivere in un atto di amore perfetto, mi offro al tuo Amore misericordioso come vittima di olocausto » (Storia di un’anima.). – Bisogna però riconoscere che suor Elisabetta della Trinità ricevette una grazia tutta speciale per vivere di questo mistero. Dio, che la predestinava alla missione di ricondurre le anime nel profondo di se stesse per prendervi coscienza delle divine ricchezze del loro Battesimo, fece di lei, veramente, la santa dell’inabitazione della Trinità.

1) Nella prima pagina del suo taccuino di fanciulla, aveva trascritto in carattere diverso questo pensiero di santa Teresa: « Bisogna che tu mi cerchi in te » (Santa Teresa a Monsignor Alvaro di Mendoz). Verso l’età di 19 anni, ella si sentiva « inabitata ». E spesso ripeteva ad un’amica: « Mi sembra che Egli sia qui », e faceva il gesto di stringerlo fra le braccia, di premerlo sul suo cuore. « Quando vedrò il mio Confessore domanderò che cos’è mai quello che accade in me ». Da allora, rassicurata sulla verità di questo mistero di fede, si seppellì senza timore nelle profondità di se stessa, per cercarvi i suoi « Tre ». – Le testimonianze di questo periodo non ci lasciano alcun dubbio che Elisabetta, prima ancora della sua entrata in chiostro, non fosse già « presa » dal mistero della divina inabitazione, e in un grado non comune. Era il tema delle sue confidenze intime: «La Trinità era il suo Tutto » (Testimonianza di un’amica). All’inizio di questa rivelazione subitanea che illuminò tutta la sua vita, ella non poteva tacerne. Qualche mese più tardi, non ne parlava quasi più; ma piuttosto si sentiva che era « presa » dalla Trinità. Questa espressione di un testimonio dice molto bene la passività dell’anima sua sotto l’azione dello Spirito Santo, dopo le prime grazie mistiche del ritiro del 1899. « Perdiamoci in questa Trinità santa, in questo Dio tutto amore. Lasciamoci trasportare in quelle regioni superne in cui non c’è più che Lui, Lui solo! » (Lettera a M. G… . 1901). « Dio in me, io in Lui, sia il nostro motto. Come è bella questa presenza di Dio in noi, nell’intimo santuario delle anime nostre! Qui noi Lo troviamo sempre, anche quando il sentimento non avverte più la sua presenza. Ma Egli è qui lo stesso; è qui, mi piace tanto cercarlo. Oh, non lasciamolo mai solo! Sia, la nostra vita un’orazione continua. Chi mai potrebbe rapircelo? Chi potrebbe anche solo distrarci da Colui che ci ha prese interamente, che ci fa tutte sue? » (Lettera a M. G. 1901). – Suor Elisabetta, dunque, ha già trovato la formula della sua vita; e otto giorni dopo la sua entrata in Convento, non farà che trascriverla, nel formulario che le si chiederà di riempire. — Qual è il vostro motto? — Dio in me; io in Lui. Al Carmelo, questa vita alla presenza di Dio è considerata come un’eredità sacra che si fa risalire al Patriarca Elia: « Io sto sempre alla presenza di Jahveh, il Dio vivo » (III Re, XVII, 1). È l’essenza stessa del Carmelo. Tutti gli spogliamenti, tutti i silenzi, tutte le purificazioni non hanno che uno scopo: serbare l’anima libera di applicare tutte le sue potenze a questa continua presenza di Dio. Suor Elisabetta, dunque, trovò su questo punto tutta una dottrina spirituale divenuta familiarissima nell’ambiente in cui doveva vivere. E fu, per la sua vita interiore, l’inizio di una fioritura stupenda. Fin allora, Elisabetta era stata una fanciulla tutta pura, molto pia, alla quale il Signore, in premio della sua fedeltà eroica, aveva elargito qualche tocco mistico; ma le mancava ancora una dottrina ed una formazione spirituale. L’incontro col Padre Vallée aveva stabilito con tutta certezza l’anima sua nella luce intravista; la lettura assidua di san Giovanni della Croce le dette una dottrina; l’ambiente religioso fece il resto. – Ella stessa, studiando il suo nuovo maestro spirituale, ne segnava con cura i punti che trattano della natura e degli effetti di questa misteriosa ma reale e sostanziale presenza della Trinità santa nell’anima. E, per una grazia tutta singolare, seppe trovare, in questa presenza delle tre divine Persone nel profondo dell’anima sua, « il suo cielo in terra », il segreto della sua santità eroica. – E, anzitutto, il suo nome trinitario la rapiva. « Non vi ho detto ancora il mio nome al Carmelo? Maria Elisabetta della Trinità. Sento che questo nome racchiude una vocazione particolare. Non è vero che è molto bello? Io amo tanto questo mistero della santissima Trinità; è un abisso nel quale mi perdo » (Lettera al Canonico A… – 14 giugno 1901.). – « Io sono Elisabetta della Trinità, cioè Elisabetta che scompare, che si perde, che si lascia invadere dai Tre” » (Lettera:-a-G. de G. 20 agosto 1903). Fu la parola d’ordine della sua vita di Carmelitana. « La mia occupazione continua è rientrare nell’intimo e perdermi in Coloro che vi abitano… Lo sento così vivo nell’anima mia, che basta io mi raccolga per trovarlo qui, dentro di me. Ed è tutta la mia felicità » (Lettera al Canonico A… – 15 luglio 1903). « Viviamo con Dio come con un amico. Rendiamo tutta viva la nostra fede, per unirci a Lui attraverso tutte le cose. È ciò che fa i santi. Noi portiamo il nostro cielo in noi; poiché Colui che sazia i beati nella luce dell’eterna visione, a noi si dona nella fede e nel mistero. Ma è sempre Lui. Io ho trovato sulla terra il mio cielo; perché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia. Il giorno in cui l’ho compreso, tutto per me si è illuminato; vorrei svelare questo segreto a tutti quelli che amo, perché anch’essi aderiscano sempre a Dio, e si realizzi, così, la preghiera di Cristo: « Padre, che essi siano consumati nella unità » (Lettera alla signora De S… – 1902). Per quel fenomeno di accentramento familiare a tutte le anime dominate da una grande idea, suor Elisabetta riconduce tutto al pensiero che regna in lei, sovrano. Le feste liturgiche apparentemente meno collegate al mistero trinitario di cui essa vive nel profondo dell’anima, vi si riallacciano per una trasposizione che le viene naturalissima. Il Natale ce ne dà un esempio caratteristico. « Il Natale al Carmelo!… È veramente singolare. La sera, mi sono messa in coro, e là ho trascorso la mia veglia, insieme alla Vergine santa, nell’attesa del piccolo Dio che questa volta sarebbe nato, non più nel presepio, ma nell’anima mia, nelle nostre anime, perché Egli è Emmanuele, il « Dio con noi» (Lettera alla zia R… – 30 dicembre 1903.). La sua ispirazione poetica trova in questa abitazione divina nel profondo dell’anima il suo motivo fondamentale: O Beata Trinitas La grazia di Dio ti inondi e ti invada spandendosi in te come un fiume di pace; nell’ampie sue onde tranquille ti immerga! Che nulla d’estraneo ti sfiori mai più. Nell’intima pace di questo mistero sarai visitata da Lui, dal tuo Dio; e là ti festeggio in silenzio o mia Madre, la Trinità Santa adorando con te. Laudem Gloriæ – Giugno 1906 (A una Madre del Carmelo di Digione.). – Nella ricorrenza del 29 luglo, festa delle suore converse, scrive: « Il giorno di santa Marta, abbiamo festeggiato le nostre buone sorelle dal velo bianco. In onore della loro santa Patrona, vengono dispensate per quel giorno dal loro ufficio, per potersi dedicare con Maddalena ai dolci riposi della contemplazione. E tocca alle novizie sostituirle nei lavori della cucina. Io mi trovo ancora in noviziato, perché vi restiamo per tre anni dopo la professione; ho passato quindi una bella giornata presso il fornello. Avendo — come si dice — il mestolo in mano, io non sono andata in estasi come la mia Madre santa Teresa, ma ho creduto alla divina presenza del Maestro che era in mezzo a noi, e l’anima mia adorava nel centro di se stessa Colui che Maddalena aveva saputo riconoscere sotto il velo della umanità » (Lettera alla zia R… – Estate 1905). Le sue lettere sono piene di consigli sulla presenza di Dio: « L’anima vostra sia il suo santuario, il suo riposo su questa terra, in cui Egli è tanto offeso » (Lettera alla signora De B… – 17 agosto 1905). « Che Egli faccia dell’anima vostra un piccolo paradiso ove possa riposarsi deliziosamente; toglietene tutto quello che potrebbe ferire il suo sguardo divino. Vivete lì, insieme a Lui. Ovunque voi siate, qualsiasi cosa facciate, Egli non vi lascia mai; dunque rimanete voi pure con Lui, sempre. Entrate nell’intimo dell’anima vostra: sempre ve Lo troverete, impaziente di farvi del bene. Io rivolgo a Dio, per voi, la preghiera che san Paolo faceva per i suoi quando chiedeva « che Gesù abitasse, con la fede, nei loro cuori, affinché fossero radicati nell’amore » (Efesini, III-17). Queste parole sono così profonde, così misteriose! Oh, sì! quel Dio che è tutto Amore sia la vostra perpetua dimora, la vostra cella e il vostro chiostro in mezzo al mondo. Ricordatevi sempre che Egli è lì, nel centro più intimo dell’anima vostra, come in un santuario dove vuole essere amato fino alla adorazione » (Lettera alla signora De B… – Estate 1905). Sebbene adattato alle varie persone e circostanze, è però lo stesso pensiero fondamentale che ritorna sempre: la vera vita è nel profondo dell’anima, con Dio. Qui, essa ritrova coloro che ama, e qui sta il segreto della gioia che ha fatto della sua vita un paradiso anticipato. Suor Elisabetta della Trinità fu veramente l’anima di un’idea. Quando, ogni domenica, nell’Ufficio di « Prima », la Chiesa poneva sulle sue labbra il « Quicumque », essa, come già la Madre sua santa Teresa, si sentiva rapita verso questo mistero dei misteri dove l’anima sua viveva sempre. E ogni domenica era da lei consacrata all’onore della santissima Trinità. All’avvicinarsi poi della festa della Trinità santa, si sentiva pervasa da una grazia irresistibile; e, per molti giorni, la terra non esisteva più per lei. « Questa festa dei « Tre » è proprio la mia festa; per me, non ve n’è un’altra che le somigli; né io avevo mai capito così bene il mistero e tutta la vocazione che racchiude il mio nome. E in questo grande mistero ti do convegno, perché esso sia il nostro centro, la nostra dimora. Ti lascio con questo pensiero del Padre Vallée che formerà il soggetto della tua orazione: — Che lo Spirito Santo ti porti al Verbo, il Verbo ti conduca al Padre, e possa tu essere consumata nell’Unità, come il Cristo e i nostri santi » (Lettera alla sorella – Giugno 1902). In tal modo, gli anni e le grazie della sua vita religiosa la seppellivano ogni giorno più nel profondo di se stessa con Colui che. ad ogni istante, col suo contatto, le comunicava la vita eterna. I minimi avvenimenti tradivano la presa di possesso, piena, di quest’anima da parte della Trinità. Le viene comunicata la nascita di una nipotina, e subito esulta in uno slancio verso la Trinità: « Abbiamo fatto una vera ovazione alla piccola Bettina. Questa mattina, in ricreazione, la nostra reverenda Madre così buona, era tutta lieta di mostrarci la sua fotografia, e tu puoi pensare come batteva il cuore della zia Elisabetta. Margherita mia. come l’amo, questo piccolo angelo! L’amo, io credo, quanto la sua mammina. E non è dir poco. E poi, sai: mi sento tutta penetrata di rispetto dinanzi a questo piccolo tempio della Trinità santa. La sua anima mi appare come un cristallo che irradia la Divinità; se le fossi vicina, mi metterei in ginocchio per adorare Colui che dimora in lei. Vuoi abbracciarla per la sua zia Carmelitana e poi prendere la mia anima con la tua, per raccoglierti presso la tua creaturina? Se fossi ancora tra voi, come vorrei cullarla, vezzeggiarla! Ma il Signore mi ha chiamata sul monte santo perché io sia il suo angelo e la circondi di preghiera. Di tutto il resto, ne faccio serenamente il sacrificio, per Lei »; (Lettera alla sorella – Marzo 1904.). Nelle sue conversazioni in parlatorio, nelle sue lettere, con la mamma, con la sorella, con le amiche, con tutti quelli che la avvicinano, ella si fa apostola di questa presenza divina nell’anima, con discreta ma instancabile perseveranza. « Pensa che tu sei in Lui, che Egli si fa tua dimora quaggiù. E poi, che Egli è in te, che Lo possiedi nell’intimo del tuo essere, che in ogni ora del giorno e della notte, in ogni gioia, in ogni prova, tu puoi trovarlo lì, così vicino, così intimo! È il segreto della gioia; il segreto dei santi. Essi sapevano tanto bene di essere il tempio di Dio e che, unendosi a questo Dio, si diviene «uno stesso spirito con Lui », come dice san Paolo. Quindi si muovevano sempre sotto la Sua irradiazione (Lettera. a M. L. M… – 24 agosto 1903). – Bisognerebbe moltiplicare le citazioni. A chi studia da vicino l’evolversi di quest’anima, appare chiaro come il mistero della Trinità divenga sempre più intensamente la verità dominatrice della sua vita, mentre tutto il resto dilegua e scompare. – Il 21 novembre, festa della Presentazione di Maria santissima al Tempio, tutte le Carmelitane rinnovavano i voti della loro santa professione. Mentre suor Elisabetta pronunciava di nuovo, con le compagne, la formula dei suoi santi voti, si sentì trasportata da un movimento irresistibile della grazia verso la Trinità santa. Rientrata in cella, prese la penna e, sopra un semplice foglio di quaderno, senza esitazione, senza la minima correzione, tutta di getto, scrisse la sua celebre « Preghiera », come un grido che erompe dal cuore.

« O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente, per fissarmi in Te, immobile e quieta come se la mia anima già fosse nell’eternità. Nulla possa turbare la mia pace, né farmi uscire da Te, o mio Immutabile, ma che ad ogni istante, io mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero. Pacifica l’anima mia; rendila tuo cielo, tua prediletta dimora e luogo del tuo riposo. Che, qui, io non ti lasci mai solo; ma tutta io vi sia, vigile e attiva nella mia fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice. O amato mio Cristo, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti… fino a morirne! … Ma sento tutta la mia impotenza; Ti prego di rivestirmi di Te, di identificare tutti i movimenti della mia anima a quelli dell’anima tua, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che un riflesso della Tua vita. Vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la mia vita ad ascoltarti, voglio rendermi docilissima ad ogni tuo insegnamento, per imparare tutto da Te; e poi, nelle notti dello spirito, nel vuoto, nell’impotenza, voglio fissarti sempre e starmene sotto il tuo grande splendore. – O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione. O Fuoco consumante, Spirito d’amore, discendi in me, perché si faccia nell’anima mia quasi una incarnazione del Verbo! Che io Gli sia un prolungamento di umanità, in cui Egli possa rinnovare tutto il Suo mistero. E Tu, o Padre, chinati verso la tua povera piccola, coprila della tua ombra, non vedere in essa che il Diletto nel quale hai posto tutte le tue compiacenze. O miei « Tre », mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a Voi come una preda. Seppellitevi in me, perché io mi seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella Vostra Luce l’abisso delle Vostre grandezze ».

21 novembre 1904.

C’è voluta tutta una vita di santità per comporre una tale preghiera, una delle più belle del Cristianesimo, e un carisma speciale per farla sgorgare dal cuore. Quante anime religiose ne vivono, da mesi ed anni, senza provarne mai stanchezza! Mentre, nel silenzio, mormorano questa preghiera, suor Elisabetta, fedele alla sua missione, induce queste anime nel raccoglimento, le aiuta ad uscire da se stesse con un movimento semplicissimo e pieno di amore e, così pacificate, le porta e le abbandona alla Trinità.

Dopo il 1904, data in cui compose la sua « Elevazione alla santa Trinità » Dio la visitò col dolore; e ancora e sempre in questa presenza divina, ella attinse la forza del suo eroismo sorridente. E, nell’ora suprema, si rivolge alle sue amiche, ai suoi cari, con una tenerezza ancora più intensa, per lasciare loro in testamento la sua cara devozione ai « Tre ». – «…Vi lascio la mia fede nella presenza di Dio, del Dio tutto Amore che abita nelle anime nostre. Mi è caro confidarvi che questa intimità con Lui «dentro di me» è stato il bel sole che ha illuminato la mia vita, facendo di essa quasi un paradiso anticipato. Ed è la forza che mi sostiene oggi, nel dolore. Io non ho paura della mia debolezza, perché il Forte è in me, e la sua virtù è onnipotente. E opera, dice l’Apostolo, più di quanto possiamo sperare » (Lettera alla signora De B… – 1906.). Uguale testamento, e più commovente ancora, alla sorella: « Sorellina mia, sono felice di andare lassù, per essere il tuo angelo. Come sarò gelosa della bellezza dell’anima tua, che ho già tanto amata, qui, sulla terra! Ti lascio la mia devozione ai « Tre ». Vivi con Essi nell’intimo, nel cielo dell’anima tua. Il Padre ti coprirà della sua ombra, ponendo come una nube fra te e le cose della terra, per custodirti tutta sua; e ti comunicherà la sua potenza perché tu l’ami di un amore forte come la morte. Il Verbo imprimerà nell’anima tua, come in un cristallo, l’immagine della sua stessa bellezza, affinché tu sia pura della sua purezza, luminosa della sua luce. Lo Spirito Santo ti trasformerà in un’arpa mistica dalla quale, al tocco divino, si sprigionerà un magnifico cantico dell’Amore. Allora, sarai tu la « lode di gloria » che io sognavo di essere sulla terra. Tu mi sostituirai. Io sarò « Laudem gloriæ » dinanzi al trono dell’Agnello, e tu « Laudem gloriæ » nel centro dell’anima tua » (Lettera alla sorella – 1906). – La dimora di Dio nel centro più profondo della sua anima fu, per suor Elisabetta, il segreto della sua rapida santità. Si può ben credere alla testimonianza che ce ne ha lasciata lei stessa, solo pochi giorni prima della sua morte: « Lassù, in seno all’Amore, penserò attivamente a voi: per voi chiederò — e sarà il segno della mia entrata in cielo — una grazia di unione intima col Maestro divino. È il segreto che ha trasformato la mia vita, ve lo confido, in un paradiso anticipato: credere, cioè, che un essere che si chiama l’Amore, abita in noi ad ogni istante del giorno e della notte e che Egli ci chiede di vivere «in società » con Lui» (Lettera alla signora G. De B… – 1906).

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (8)

LA GRAZIA E LA GLORIA (1)

LA GRAZIA E LA GLORIA (1)

O

La filiazione adottiva dei figli di Dio studiata nella sua realtà, nei suoi principi, il suo perfezionamento e il suo finale coronamento.

Del R. P. J-B. TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. , Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

Opera depositata conformemente alle leggi, nel maggio, 1901

Nuove edizione riveduta e corretta

TOMO PRIMO

PARIS – P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 10

INTRODUZIONE

Non c’è discendente di una stirpe nobile che non legga con compiacimento i titoli e le gesta dei suoi antenati. Se ha un cuore grande, il legittimo orgoglio che concepirà delle sue origini, lo stimolerà più energicamente di qualsiasi altro motivo a vivere una vita che corrisponda al lustro della sua nascita. Come erede degradato di un grande nome, non dimenticherà ciò che furono i suoi padri, e si lusingherà di trovare nel loro merito un brillante velo per coprire la propria nullità. Perché, per uno strano contrasto, noi Cristiani che siamo, in virtù del nostro Battesimo, della razza di Dio, i suoi figli adottivi, i fratelli di Gesù Cristo il Verbo Incarnato suo unico Figlio, ignoriamo, o almeno conosciamo così poco la grandezza e la gloria contenute in questi titoli? Dove sono quelli che li meditano, quelli che sanno apprezzarsi e glorificarsi, come dovrebbero? Si scires donum Dei. Se tu conoscessi il dono di Dio, disse Nostro Signore a quella donna di Samaria (Gv. IV, 10)! Ahimè, non ci sono forse molti, non nelle tenebre in cui questa donna era nata, ma nella piena luce del Vangelo, che meritano sia questo rimprovero che questa lamentela? Chiedete non a quegli uomini che non hanno nulla di cristiano se non il carattere del loro Battesimo e il loro nome, ma a quelli che si vantano di mantenere la loro fede, e persino di praticarla, come intendano la loro filiazione divina e questo stato di grazia, il più stimabile dei doni dopo quello della gloria celeste. Alla loro risposta, Gesù Cristo non potrebbe ancora ripetere: « Se tu conoscessi il dono di Dio! »? Quello che di solito pensano è che si sia in pace con Dio, che i peccati siano perdonati e che un giorno, se nuove gravi colpe non lo impediranno, si godrà della felicità eterna. Ma per quanto riguarda questo rinnovamento, così meraviglioso e così divino che avviene nei cuori, questa rigenerazione che trasforma la natura e le facoltà dei figli adottivi nel loro intimo, questa deificazione che fa dell’uomo un dio, tutti questi doni che sono prerogativa della creatura giustificata, della creatura glorificata, quanti pochi fedeli li conoscono, e quanti pochi li meditano ancora! La conseguenza che ne segue naturalmente è che stimiamo poco ciò che conosciamo troppo poco; e che non abbiamo né energia né vigore per acquisire, conservare e aumentare questo tesoro misconosciuto. Un figlio di re che non conosca né i suoi natali, né i pensieri elevati che essi esigono da lui è l’immagine di troppi Cristiani. Ecco perché il grande Papa San Leone fece questa forte esortazione ai fedeli del suo tempo: « Riconosci, o Cristiano, la tua dignità e, divenuto partecipe della natura divina, non tornare alla tua antica bassezza con una condotta sregolata. Ricorda di quale corpo tu sia membro e qual sia la tua testa. Ricordati come sei stato tratto dal potere delle tenebre al regno della luce, e come il santo Battesimo ti abbia consacrato come tempio dello Spirito Santo » (S. Leone, Serm. 21, par. 20, in nativit. Dom. 1, c. 4). Figlio di Dio, renditi degno con la tua vita di un tale Padre e di un’origine così regale! – Devo proprio dirlo? Mi sembra che se il popolo fedele sia troppo ignorante di questi tesori soprannaturali, di cui il Padre delle misericordie lo ha così liberalmente riempito, potremmo senza ingiustizia darne la colpa, almeno in parte, a coloro che per vocazione sono responsabili della loro istruzione: essi parlano troppo poco di questi misteri della grazia e della gloria; e, quando ne parlano, lo fanno in termini così generali, così vaghi, così imprecisi, a volte così torbidi, che l’ascoltatore è spesso più affascinato dalla bellezza del loro linguaggio, che penetrato dai pensieri che dovrebbe esprimere. – Non si dica, come a volte accade, che questi argomenti siano troppo sublimi per essere messi alla portata dei semplici fedeli: … essi non hanno né il tipo di cultura intellettuale né le abitudini di riflessione necessarie per afferrare le idee che si cercherebbe di comunicare loro. Questa è una scusa che non regge all’esempio degli Apostoli e alla loro esplicita dottrina. – Le epistole di Paolo, per non parlare delle altre, cosa sono se non una costante predicazione dei misteri ineffabili della grazia e della filiazione divina? Ed è per tutti i Cristiani che il grande Apostolo ha scritto le sue lettere ispirate. Io so bene che, secondo l’istituzione del Maestro, Egli ha affidato ai pastori la missione di interpretarli ai comuni credenti. Ma questo dimostra chiaramente quale dovrebbe essere, oggi come allora, il ruolo di coloro che sono incaricati dell’ufficio di promulgare e spiegare il contenuto dei nostri Libri sacri. – Indicare la mancanza di cultura della maggior parte dei Cristiani come motivo per non entrare in queste profondità, è ignorare la parentela che queste verità hanno in qualche modo con la loro fede; è dimenticare che tutti noi “non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo, ma lo Spirito che è di Dio, affinché conosciamo i doni che Dio ci ha dato” (1 Cor: XI,-42); è infine trascurare l’azione dello Spirito divino, che apre interiormente l’intelligenza dei fedeli per far loro ascoltare le sante verità che vengono loro annunciate. So bene che la scienza della fede non è un privilegio di molti. Ma quello che so anche è che, se non spetta a tutti entrare ugualmente nella comprensione dei misteri della grazia e della gloria; se gli stessi più dotti non possono, senza avventata presunzione, sperare di penetrare tutti i segreti quaggiù, c’è certamente un grado di conoscenza a cui tutti i Cristiani possano arrivare, purché siano istruiti con il tipo e la chiarezza di linguaggio che si adatti alla loro debolezza. Questo è quello che pensavano i Padri, e tra tutti l’immortale dottore S. Agostino, che non aveva paura di mostrare gli splendori del Verbo e le profondità di Dio davanti agli occhi dei suoi pescatori di Ippona. Era anche lo stesso pensiero che ispirava San Paolo quando pregava « … il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di Lui. Possa Egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi abbia chiamati, quale tesoro di gloria racchiuda la sua eredità fra i santi e quale sia la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza » (Efesini I, 17-19). – Se è sempre stato necessario pregare affinché lo Spirito Santo desse ai Cristiani questa luce divina e insegnasse loro con cura diligente le verità che essa deve incidere nei loro cuori, forse mai questa necessità è apparsa più urgente di quanto lo sia al momento attuale, perché mai i doni soprannaturali della grazia e della gloria sono stati più universalmente attaccati, distorti o fraintesi come ai nostri giorni. Per non parlare dell’eresia razionalista che li considera come un beneficio di Dio che si è liberi di ricevere o rifiutare, quand’anche non distorca la loro natura o neghi del tutto la loro esistenza, per cui c’è stata nel nostro secolo, anche all’interno del Cattolicesimo, una scuola di pensiero che vede nell’ordine della grazia poco più di un aiuto dato da Dio per l’adempimento dei suoi precetti, e non so quale stato di perfezione morale, privo di qualsiasi dono soprannaturale insito nel profondo delle anime (Hermes e la sua scuola Cf. P. Kleutgen, Theol. der Vorzeit, II Band, 1). Anche se questo errore, combattuto vittoriosamente dai sostenitori della pura dottrina, non ha più un posto al sole, Dio voglia che non se ne trovi mai traccia nelle opere destinate a dare ai fedeli i precetti della vita cristiana. Essi errori conservano ancora tutta la loro attualità. Le gravi parole che uno dei più notevoli interpreti dei nostri libri sacri, Cornelio della Pietra, scrisse nel XVII secolo nel suo commentario al profeta Osea « pochi uomini apprezzano il dono della grazia per il suo valore. I predicatori e gli insegnanti di scienza sacra dovrebbero spiegarla, come abbiamo fatto noi, e inculcare una profonda conoscenza di essa nel popolo. In questo modo i fedeli e i santi imparerebbero che essi sono i templi viventi dello Spirito Santo, e che portano Dio stesso nei loro cuori; che essi debbano, quindi, camminare divinamente alla sua presenza, e vivere una vita degna di un tale Ospite che li accompagna tutti e li guarda ovunque » (Cornel. a Lap., in Osee, 1, 10). Si dirà che in un’epoca in cui il genio dell’uomo si sforza di sollevare i veli che ci nascondono i misteriosi segreti della terra e del cielo, in cui persino i bambini, a torto o a ragione, vengono iniziati a tante conoscenze profane, la scienza delle grandi opere che Dio fa o prepara nel cuore dell’umanità rigenerata, cioè la più bella, la più alta delle scienze, oltre che la più feconda, una scienza infine che racchiude l’intera economia della Religione fondata da Dio fatto uomo, sia fra tutte la più negletta? – Io non ignoro che siano state scritte opere eccellenti su questo argomento. Credo, tuttavia, che quello che propongo al lettore sarà di qualche utilità, non fosse altro che per il merito di abbracciare in tutta la sua ampiezza un soggetto così fecondo. – È ai miei fratelli nel Sacerdozio che mi rivolgo più in particolare. La conoscenza che essi hanno della scienza sacra non mi permetterebbe di offrire loro un’esposizione semplice e rudimentale, tale da essere appropriata per il fedele comune. Per questo mi sforzerò di approfondire le verità della nostra fede, di trarne le conseguenze e di spiegarle, nella misura compatibile con la loro profondità e la mia debolezza. È anche per questo che mi appellerò così spesso ai nostri Libri santi, ai decreti dogmatici della Chiesa, agli scritti dei Padri, ai principali dottori della scienza teologica, e specialmente al maestro per eccellenza, San Tommaso d’Aquino. Se a volte ci sono questioni che siano così astratte da richiedere teologi professionisti per capirle correttamente, saranno o totalmente scartate o più spesso rigettate in appendice. Non so se mi stia lusingando, ma mi sembra che, grazie a questa precauzione, la presente opera non rimarrà inavvicinabile per coloro che non hanno frequentato le nostre scuole teologiche. Spero che essi vi troveranno cibo per la loro intelligenza e considerazioni per i loro cuori che alimenteranno in loro i sentimenti di una solida pietà. Papa S. Leone Magno ha riassunto in due parole tutto il mistero della nostra elevazione soprannaturale per la grazia e la gloria: « Il dono che supera tutti i doni è che Dio chiami l’uomo suo figlio, e che l’uomo chiami Dio suo Padre » (S. Leo, Serm. VI de Nativit. Domini). Queste due parole riassumeranno anche tutto il soggetto di questo lavoro: perché è alla nostra filiazione divina che intendo collegare ciò che Dio ha fatto e farà per noi in questo ordine della grazia, il capolavoro della sua sapienza, della sua potenza e della sua bontà. – Per non superare i limiti di questa introduzione, indicherò brevemente i punti fondamentali che dobbiamo affrontare. Prima di tutto, stabiliremo il fatto della nostra filiazione soprannaturale e mostreremo l’altezza incomparabile a cui la grazia ci innalza. Diremo poi qual sia la natura di questa stessa filiazione, e su quali principi, sia creati che increati, essa poggi. Poi studieremo la perfezione che essa può ricevere nelle anime giuste, e i mezzi con cui la crescita spirituale avvenga in noi; infine considereremo la perfezione finale dei figli di adozione, cioè il completo compimento della grazia del tempo nella gloria dell’eternità. – Un esame su tutto l’insieme delle materie, ci permetterà di stabilire chiaramente le nozioni tanto necessarie ai tempi d’oggi, della natura e della grazia, del gratuito e del soprannaturale. – Indubbiamente, tutto ciò che avremo da dire nella continuazione delle nostre spiegazioni, non sarà dogma cattolico. La fede che cerca la comprensione di ciò che crede “fides quærens intellectum“, senza mai smettere di avere gli occhi invariabilmente fissi sulla verità rivelata, non teme di fare appello ai lumi della ragione scientifica e di proiettare i suoi raggi sull’oggetto della sua fede, per illuminarne il senso e la portata. Ma, a Dio piacendo, non trarremo alcuna conclusione, né daremo alcuna teoria che sia in contrasto con gli insegnamenti dello Spirito Santo, tanto avremo in cuore di affidarci costantemente, in tutto ed ovunque, alla dottrina dei Padri e Dottori più autorevoli della Chiesa di Dio. Permettetemi di concludere prendendo in prestito alcune delle parole che Sant’Agostino rivolgeva ai suoi lettori all’inizio della sua grande opera sulla Trinità: « Che ognuno di coloro che leggono queste pagine vada avanti con me, se condivide la mia certezza; se esita dove io esito, cerchi con me; se riconoscerà di essersi smarrito, torni da me, e mi richiami alla verità se mi vede in errore. Entriamo dunque insieme e, per così dire, mano nella mano, nella via della carità, raggiungendo Colui del quale è scritto: “Cercate sempre il suo volto: Quærite faciem ejus semper” (Salmo, CIV, 4). Perciò, nel nome del Signore, iniziamo l’opera intrapresa per la sua gloria » (S. August, de Trinit.: L. I, n. 5-6).

LA GRAZIA E LA GLORIA (2)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. PIO IX – “GRAVIBUS ECCLESIÆ”

In questa lettera di S. S. Pio IX, viene bandito un anno giubilare, anno di grazie e di indulgenze da lucrare per i fedeli vivi, che possono ottenere perdono per i propri peccati, e per i defunti, che possono vedersi ridotto da chi per essi acquista le indulgenze, il tempo della loro espiazione prima di accedere alla eterna beatitudine. Erano tempi difficili per la Chiesa, ma c’era la consolazione di avere un Santo Padre che si affannava per la salute dell’anima dei fedeli di tutto il mondo. Oggi che abbiamo dei burattini massonici ad occupare fraudolentemente la santa Sede e la Cattedra di S. Pietro, mentre la vera Chiesa è eclissata ed il Papa, Vicario di Cristo, impedito e costretto all’ “inerzia” domiciliare, questa consolazione non l’abbiamo più, canonicamente parlando (i falsi papi-marionetta proclamano falsi anni santi per i settari della falsa chiesa-sinagoga dell’uomo). Ma anche questa è volontà di Dio che all’occorrenza si serve degli angelos malos (Ps LXXVII, 49) per punire il suo popolo ed i suoi ministri infedeli, sordi alla voce di Dio e lungi dall’osservare un fervente culto divino, e riportarli così sulla retta via della salvezza … Ma la grazia può esserci data dallo Spirito Santo – se impediti – anche in altro modo, come dice espressamente l’Angelico Dottore, se siamo fermamente adesi alla fede apostolica ed in comunione – anche solo di desiderio – col vero Santo Padre, condicio sine qua non per giungere alla beata vita eterna. Oggi non abbiamo anni giubilari validamente banditi dal Santo Padre impedito, ma la nostra pazienza, la nostra caparbia resistenza agli errori-orrori propinati da falsi chierici e ai perversi costumi del secolo pagano e corrotto, può farci guadagnare una serie infinita di grazie e di meriti spirituali. Godiamoci questa bella e santa lettera Enciclica, ma conserviamo la nostra piena fiducia ed osservanza nella parola del Verbo incarnato e del Magistero infallibile ed irreformabile della vera Chiesa Cattolica, aspettando con gioia il martirio, a Dio piacendo, anche se questa è una grazia veramente speciale e non concessa a tutti.


Pio IX
Gravibus Ecclesiæ

Mossi dalle gravi calamità della Chiesa e di questo secolo, nonché dalla necessità d’implorare l’aiuto divino, giammai omettemmo nel tempo del Nostro Pontificato di eccitare il popolo cristiano, affinché si sforzasse di placare la Maestà di Dio e di meritare la clemenza celeste con i santi costumi della vita, con le opere della penitenza e con le pie e doverose suppliche della preghiera. A questo scopo aprimmo più volte ai fedeli, con apostolica liberalità, i tesori spirituali delle indulgenze, affinché, stimolati alla vera penitenza e purgati, per il Sacramento della riconciliazione, dalle macchie dei peccati, potessero più fiduciosi appressarsi al trono della grazia, ed essere fatti degni che le loro preghiere venissero benignamente ricevute da Dio. Questo poi, come altre volte, così specialmente pensammo doversi compiere da Noi in occasione del Concilio Ecumenico Vaticano, affinché l’opera importantissima intrapresa per l’utilità della Chiesa universale, con le preghiere parimenti di tutta la Chiesa venisse accolta favorevolmente presso l’Altissimo; e quantunque rimanga sospesa, per la calamità dei tempi, la celebrazione dello stesso Concilio, tuttavia facemmo noto e dichiarammo, a beneficio del popolo fedele, che l’indulgenza da conseguirsi in forma di Giubileo, promulgata in quella occasione, rimaneva, come rimane tuttora, in tutta la sua forza, fermezza e vigore. Senonché, proseguendo ancora il corso di tristissimi tempi, incomincia già l’anno 1875 dell’era cristiana, l’anno cioè che segna quel sacro spazio di tempo, che la santa consuetudine dei Nostri Maggiori e le disposizioni dei Pontefici Nostri Predecessori consacrarono a celebrare la solennità del Giubileo universale. Con quanto rispetto e religione sia stato praticato l’anno del Giubileo, quando i tranquilli tempi della Chiesa permisero di celebrarlo con ogni solennità, lo attestano gli antichi ed i recenti monumenti della storia. Esso, infatti, fu sempre considerato come l’anno della salutare espiazione di tutto il popolo cristiano, come l’anno della redenzione e della grazia, della remissione e dell’indulgenza, nel quale si concorreva da tutto il mondo in quest’alma Nostra Città e Sede di Pietro, e a tutti i fedeli, eccitati ad opere di pietà, si offrivano abbondantissimi aiuti di riconciliazione e di grazia per la salute delle anime. Quale pia e santa solennità fu vista nello stesso nostro secolo, quando cioè, essendo stato indetto da Leone XII, Predecessore Nostro di felice memoria, il Giubileo nell’anno 1825, questo beneficio, fu ricevuto con tanto fervore dal popolo cristiano al punto che lo stesso Pontefice poté rallegrarsi di aver visto per tutto il corso dell’anno un ininterrotto concorso di pellegrini in questa Città, nella quale si era meravigliosamente manifestato lo splendore della religione, della pietà, della fede, dell’amore e di tutte le virtù. Oh, fosse pur tale oggi la Nostra condizione, e la condizione delle cose civili e sacre Ci permettesse di poter felicemente celebrare, secondo l’antico rito e costume, che solevano osservare i Nostri Maggiori, quella solennità del massimo Giubileo che, ricorrendo nell’anno 1850 di questo secolo, Ci fu necessario omettere per le luttuose circostanze dei tempi! Ma quelle gravi cause che allora C’impedirono d’indire il Giubileo, anziché essere oggi cessate, si sono invece, così permettendo Iddio, giornalmente accresciute. – Tuttavia, vedendo Noi i tanti mali che affliggono la Chiesa, i tanti sforzi dei suoi nemici diretti a svellere dagli animi la fede in Cristo, a corrompere la sana dottrina, e a propagare il veleno dell’empietà, i tanti scandali che si offrono ovunque ai veri credenti, la corruzione dei costumi che spaziosamente si propaga, e la turpe manomissione dei diritti divini ed umani tanto ampiamente diffusa, tanto feconda di rovine, e che tende a distruggere nell’animo degli uomini lo stesso senso del retto; considerando che in tanta colluvie di mali maggiormente Noi dobbiamo procurare, secondo il Nostro Apostolico dovere, che la fede, la religione e la pietà siano premunite e si ravvivino, che lo spirito della preghiera sia sostenuto e si accresca, che i traviati siano eccitati alla penitenza del cuore e alla emendazione dei costumi, che i peccati, i quali meritarono l’ira di Dio, siano redenti con sante operazioni, frutti tutti, al conseguimento dei quali è principalmente diretta la celebrazione del massimo Giubileo: pensammo di non dovere Noi permettere che in questa occasione il popolo cristiano fosse privato di questo salutare beneficio, secondo quella forma che è permessa dalla condizione dei tempi, affinché così confortato nello spirito cammini più alacremente nelle vie della giustizia, e purgato dalle colpe consegua più facilmente e più ubertosamente la divina propiziazione ed il perdono. Riceva dunque la Chiesa di Cristo universale e militante le Nostre voci, con le quali indiciamo, annunciamo e promulghiamo per tutto il prossimo anno 1875 l’universale e massimo Giubileo. In funzione ed in considerazione di esso sospendiamo e dichiariamo sospesa, a beneplacito Nostro e di questa Sede Apostolica, la indulgenza sopra ricordata, concessa in forma di Giubileo in occasione del Concilio Vaticano, e apriamo in tutta la sua ampiezza quel celeste tesoro che, formato dai meriti, dalle passioni e dalla virtù di Cristo Signore, e della di Lui Vergine Madre, e di tutti i Santi, venne dall’Autore dell’umana salvezza affidato alla Nostra dispensazione. – Pertanto, confidando nella misericordia di Dio e nella autorità dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, in forza di quella suprema potestà di legare e di sciogliere che Iddio volle conferita a Noi, quantunque immeritevoli, concediamo e misericordiosamente impartiamo nel Signore, a tutti e singoli i fedeli di Cristo tanto dimoranti in questa Nostra alma Città, o che saranno per venire in essa, quanto a tutti quelli esistenti fuori della detta Città, in qualunque parte del mondo, e che si trovano nella grazia e nell’obbedienza della Sede Apostolica, i quali (veramente pentiti, confessati e comunicati, una volta al giorno per quindici giorni continui, o interpolati, naturali o ecclesiastici, da computarsi cioè dai primi vespri di un giorno fino all’intero vespertino crepuscolo del giorno seguente) visiteranno i primi le Basiliche dei Santi Pietro e Paolo, di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore in Roma, e i secondi la loro Chiesa Cattedrale, o maggiore, e altre tre Chiese della stessa città o luogo, ovvero dei suburbi del medesimo, da designarsi dagli Ordinari dei luoghi, o dai loro Vicari, o da altri per disposizione dei medesimi, dopo che sarà venuta loro a notizia questa Nostra lettera, ed ivi innalzeranno umili preghiere al Signore per la prosperità e l’esaltazione della Chiesa Cattolica e di questa Sede Apostolica, per l’estirpazione delle eresie, per la conversione di tutti gli erranti, per la pace e l’unità di tutto il Popolo Cristiano, secondo la Nostra mente, [concediamo] che una volta nell’annuo spazio di tempo sopra detto possano conseguire la pienissima indulgenza dell’anno del Giubileo, e la piena remissione e il perdono di tutti i loro peccati. Concediamo che tale indulgenza possa anche essere applicata come suffragio e valga per quelle anime che congiunte a Dio per carità partirono da questa vita. – In virtù poi della presente Nostra lettera concediamo che i naviganti ed i viaggiatori, quando avranno fatto ritorno ai loro domicilii, o saranno giunti ad una certa dimora, compiute le opere sopra prescritte, e visitata altrettante volte la Chiesa Cattedrale, o maggiore, o Parrocchiale del luogo del loro domicilio o dimora, possano e siano abili a conseguire la stessa indulgenza. Parimenti concediamo ai sopraddetti Ordinari dei luoghi che possano, secondo il prudente loro consiglio, dispensare, solamente per quanto si riferisce alle visite, le monache oblate, le fanciulle e le donne viventi nella clausura dei monasteri, o in altre case religiose o pie, e comunità, nonché gli anacoreti e gli eremiti, ed altre persone qualunque esse siano, tanto laiche che ecclesiastiche, o regolari, esistenti in carcere, o in cattività, o affette da qualche infermità del corpo, o trattenute da qualunque altro impedimento, purché siano assolutamente impossibilitate a compiere le dette visite; concediamo che i fanciulli non ancora ammessi alla prima Comunione siano dispensati dalla predetta Comunione, prescrivendo ad essi tutti e singoli, sia da loro stessi sia per mezzo dei rispettivi superiori o prelati regolari, o per mezzo di prudenti confessori, altre opere di pietà, carità e religione in luogo delle visite, o della sacramentale Comunione che dovrebbe compiersi dai medesimi. Inoltre, ai Capitoli e alle Congregazioni tanto di secolari che di regolari, ai Sodalizi, alle Confraternite, alle Università che visiteranno processionalmente le nominate Chiese, concediamo che possano ridurre le prescritte visite ad un numero minore. – Inoltre, alle stesse monache e alle loro novizie concediamo che possano a questo effetto scegliersi qualunque confessore fra quelli approvati dall’attuale Ordinario del luogo ove si trovano i loro monasteri per ascoltare le confessioni delle monache; e a tutti e singoli gli altri fedeli di ambedue i sessi sia laici sia ecclesiastici, e ai regolari di qualunque Ordine, Congregazione e Istituto da doversi ancora specialmente nominare, concediamo licenza e facoltà di potersi al medesimo effetto scegliere qualunque Sacerdote confessore tanto secolare, quanto regolare, di qualunque diverso Ordine e Istituto, e parimenti approvato per ascoltare le confessioni delle persone secolari dagli attuali Ordinari nelle città, diocesi e territori nei quali si dovranno ricevere le dette confessioni. Tali confessori, entro lo spazio dell’anno sopra nominato, potranno assolvere coloro che sinceramente e seriamente avranno deciso di lucrare il presente Giubileo e con questo intento compiranno le opere necessarie e si confesseranno; potranno assolverli dalla scomunica, dalla sospensione e da altre sentenze ecclesiastiche e censure comminate ed inflitte a jure vel ab homine per qualunque causa, anche se riservata agli Ordinari dei luoghi, a Noi o alla Santa Sede Apostolica, compresi i casi in modo speciale riservati a chiunque, al Sommo Pontefice, alla Sede Apostolica, e che altrimenti in qualunque concessione, quantunque ampia, non s’intenderebbero concessi; parimenti potranno i detti confessori assolvere i nominati penitenti da tutti i peccati ed eccessi, per quanto gravi ed enormi anche, come si dice, riservati agli stessi Ordinari e a Noi e alla Sede Apostolica, ancorché siano ingiunte ad essi una penitenza salutare, ed altre cose da comminarsi per diritto. Inoltre, potranno commutare in altre opere pie e salutari qualunque voto, anche giurato e riservato alla Sede Apostolica (eccettuati però sempre i voti di castità, di religione e di obbligazione che sia stata accettata da un terzo, o nei quali si tratti del pregiudizio di un terzo, nonché i voti penali che chiamansi preservativi dal peccato, seppure la commutazione non si giudichi tale che non meno della prima materia del voto allontani dal commettere il peccato). Inoltre, con la stessa autorità ed ampiezza della benignità apostolica concediamo e permettiamo che possano dispensare quei penitenti, anche regolari costituiti negli Ordini sacri, dall’occulta irregolarità per l’esercizio dei medesimi Ordini, e per ascendere agli altri superiori, contratta solamente per la violazione delle censure. – Non intendiamo poi, in forza della presente, dispensare da qualunque altra irregolarità, pubblica od occulta, o difetto, o nota, o da qualunque altra incapacità o inabilità in qualunque maniera contratta, o concedere una qualche facoltà di dispensare dalle medesime, o riabilitare, e restituire nello stato primiero, anche nel foro della coscienza; né ancora intendiamo derogare alla Costituzione, con le opportune dichiarazioni, emanata da Benedetto XIV, Nostro Predecessore di felice memoria, che incomincia Sacramentum Poenitentiæ, dell’1 giugno 1741, anno primo del suo Pontificato. Né infine intendiamo che questa stessa Nostra lettera possa o debba giovare a quelli che da Noi e dalla Sede Apostolica, o da qualunque altro Prelato o Giudice ecclesiastico fossero stati nominativamente scomunicati, sospesi, interdetti, o dichiarati caduti in altre sentenze e censure, o pubblicamente denunziati, se entro il termine del predetto anno non avranno soddisfatto e concordato, ove occorra, con le parti. – Del resto, se alcuni con il proposito di conseguire questo Giubileo dopo aver incominciato l’adempimento delle opere prescritte, colpiti dalla morte, non potranno compiere il prestabilito numero di visite, Noi, desiderando giovare alla loro pia e pronta volontà, vogliamo che i medesimi veramente pentiti, confessati e comunicati siano partecipi della predetta indulgenza e remissione come se avessero nei prescritti giorni realmente visitato le predette Chiese. – Se alcuni poi dopo avere ottenuto, in forza della presente, le assoluzioni dalle censure o le commutazioni dei voti, o le dispense predette, muteranno quel serio e sincero proposito di lucrare questo Giubileo e perciò di compiere le opere necessarie per lucrarlo, quantunque per questo stesso possano reputarsi immuni dal reato di colpa, tuttavia decretiamo e dichiariamo persistere nel loro vigore le assoluzioni, commutazioni e dispense ottenute con la predetta disposizione. – Vogliamo ancora e decretiamo che la presente lettera sia valida ed efficace in tutto ed abbia ed ottenga i suoi pieni effetti dovunque sarà stata dagli Ordinari dei luoghi pubblicata e mandata in esecuzione, e che giovi a tutti i fedeli di Cristo persistenti nella grazia ed obbedienza della Sede Apostolica che dimorano in detti luoghi, o che ivi si porteranno dopo la navigazione ed il viaggio: nonostante le Costituzioni delle indulgenze da non concedersi ad instar e le altre Costituzioni Apostoliche, e le Costituzioni, Ordinazioni e le generali o speciali riserve di assoluzioni, concessioni e dispense edite nei Concili generali, provinciali e sinodali, nonché gli statuti, le leggi, gli usi e le consuetudini di qualunque Ordine di Mendicanti, e Militari, Congregazione e Istituto, corroborati anche da giuramento, apostolica conferma, e da qualunque altro sostegno, come ancora i privilegi, gl’indulti e le lettere apostoliche ai medesimi concesse, e quelle specialmente nelle quali è espressamente proibito che i professi di qualche Ordine, Congregazione e Istituto confessino i loro peccati fuori della propria religione. Alle quali cose tutte e singole, quantunque per la loro sufficiente derogazione, di esse e di tutto il loro tenore si dovesse fare speciale, specifica, espressa e individua menzione, e a ciò si dovesse riservare qualche speciale forma, avendo tal tenore per inserito, e tali forme per esattissimamente osservate, per questa volta e soltanto per l’effetto sopraccennato, pienamente deroghiamo come anche deroghiamo a qualunque altra cosa in contrario. – Mentre poi, per l’ufficio Apostolico che esercitiamo e per la sollecitudine con la quale dobbiamo abbracciare tutto il gregge di Cristo, proponiamo questa salutare opportunità di conseguire la remissione e la grazia, non possiamo astenerci dal pregare e scongiurare per il nome del Signor Nostro e Principe di tutti i Pastori Gesù Cristo, tutti i Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi e gli altri Ordinari dei luoghi, i Prelati, e coloro che legittimamente esercitano locale ordinaria giurisdizione in mancanza dei Vescovi e Prelati sopraddetti, aventi grazia e comunione con la Sede Apostolica, affinché annuncino un tanto bene ai popoli affidati alla loro fede, e con ogni studio s’impegnino affinché i fedeli tutti, riconciliati per la penitenza con Dio, convertano in lucro ed utilità delle loro anime la grazia del Giubileo. Pertanto sarà vostra prima cura, Venerabili Fratelli, dopo avere implorato con pubbliche preghiere la Divina Clemenza allo scopo che riempia della sua luce e della sua grazia le menti e i cuori di tutti, dirigere con opportune istruzioni e ammonizioni il popolo cristiano onde percepisca il frutto del Giubileo, e perché accuratamente intenda quali siano la forza e la natura del Giubileo cristiano per l’utilità e il vantaggio delle anime; in esso con una spirituale ragione si compiono abbondantissimamente, per la virtù di Cristo Signore, quei beni che una vecchia legge aveva introdotto presso il popolo giudaico, annunciatrice delle cose future ogni cinquant’anni. Ciò, affinché il popolo sia anche sufficientemente istruito intorno alla forza delle Indulgenze e su tutte quelle cose che deve compiere per la fruttuosa confessione dei peccati, e per ricevere santamente il Sacramento dell’Eucaristia. Poiché, poi, non solo l’esempio, ma è assolutamente necessaria l’opera del ministero ecclesiastico onde si abbiano nel popolo i frutti della desiderata santificazione, non omettete, Venerabili Fratelli, di eccitare lo zelo dei vostri sacerdoti perché specialmente in questo tempo di salute vogliano alacremente esercitare il loro ministero: al che, e per il bene comune, conferirà certo molto, ove questo possa farsi, se essi precedendo il popolo cristiano con l’esempio della pietà e della religione vorranno per mezzo degli esercizi spirituali rinnovare lo spirito della loro santa vocazione, affinché poi s’impieghino più utilmente e più salutevolmente nel disimpegno dei propri uffici e nelle sacre Missioni da espletare presso i popoli secondo l’ordine ed il metodo da voi prescritto. – Siccome poi tanti sono in questo secolo i mali che hanno bisogno di essere riparati, e i beni che abbisognano d’essere promossi, brandendo la spada dello spirito, che è la parola di Dio, ponete ogni cura perché il vostro popolo venga indotto a detestare l’immane delitto della bestemmia, secondo il quale in questo tempo nulla è così sacro da meritare rispetto, e perché conosca ed adempia i suoi doveri nell’osservare santamente i giorni festivi, nel rispettare le leggi del digiuno e dell’astinenza da osservarsi secondo il prescritto della Chiesa di Dio, e così evitare quelle pene che il disprezzo di tali cose ha chiamato sulla terra. – Parimenti il vostro studio e il vostro zelo veglino costantemente nel mantenere la disciplina del clero, e nel procurare la retta formazione dei chierici; con ogni maniera possibile recate aiuto alla assediata gioventù, la quale si trova esposta a tanti pericoli e a tante gravi rovine quali voi certamente non ignorate. Questo genere di male fu così acerbo al cuore dello stesso Redentore Divino da fargli proferire contro gli autori del medesimo quelle parole: “Chiunque avrà scandalizzato uno di questi fanciulli che hanno fede in me, meglio sarebbe per lui che gli fosse circondato il collo con una mole asinaria, e fosse gettato nel mare” (Mc IX,41). – Niente poi è più degno del tempo del sacro Giubileo quanto esercitarsi indefessamente in ogni opera di carità; sarà perciò anche ufficio del vostro zelo, Venerabili Fratelli, aggiungere stimoli, perché siano aiutati i poveri, i peccati siano redenti con le elemosine, alle quali nelle Sante Scritture si attribuiscono tanti benefici: e perché più ampiamente rimanga il frutto della carità, e riesca più stabile, sarà molto opportuno che i sussidi della carità siano diretti a fomentare o eccitare quei pii Istituti che sono stimati in questo tempo più idonei alla utilità delle anime e dei corpi. Se per conseguire questi beni, si uniranno le vostre menti ed i vostri sforzi, non potrà mancare che il regno di Cristo e la sua giustizia ricevano grandi incrementi, e che in questo tempo favorevole e in questi giorni di salute la celeste clemenza non diffonda sopra i figli dell’amore grande quantità di doni superni. – A voi infine, Figli tutti della Chiesa cattolica, rivolgiamo il Nostro discorso; e voi tutti e singoli esortiamo con paterno affetto perché così vi serviate di questa occasione di Giubileo per conseguire il perdono, come da voi richiede il severo studio della vostra salvezza. Se lo è sempre, ora poi è necessarissimo, Figli dilettissimi, mondare la coscienza dalle opere morte, offrire i sacrifici di giustizia, fare frutti degni della penitenza, e seminare nelle lacrime per mietere nell’esultanza. La divina Maestà a sufficienza ci fa noto cosa ricerchi da noi, mentre già da gran tempo per la nostra pravità ci affatichiamo sotto le sue minacce e sotto l’ispirazione dello spirito dell’ira sua. In verità “gli uomini sono soliti ogni volta in cui patiscono una troppo ardua necessità, mandare dei legati alle genti vicine per riportarne un soccorso. Noi, ciò che è meglio, destiniamo una delegazione allo stesso Dio“; da Lui imploriamo gli aiuti, a Lui rivolgiamoci col cuore, con le orazioni, con i digiuni e con le elemosine. Infatti, “quanto più saremo vicini a Dio, tanto più lontani da noi saranno respinti i nostri avversari“. Ma poiché siamo Noi i legati di Cristo, voi ascoltate principalmente la voce apostolica: voi che siete travagliati e preoccupati; allontanandovi dalla strada della salvezza rimanete oppressi dal giogo delle prave cupidigie e della diabolica servitù. Non vogliate disprezzare le ricchezze della bontà, della pazienza e della longanimità di Dio; e mentre vi si apre davanti una via così facile ed ampia per conseguire il perdono, non vogliate per la vostra contumacia rendervi inescusabili presso il Divino Giudice, e accumulare su di voi l’ira nel giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio. Ritornate pertanto, o peccatori, al cuore; riconciliatevi con Dio; il mondo passa, e con esso la sua concupiscenza; rigettate le opere delle tenebre, indossate le armi della luce, cessate di essere nemici delle anime vostre, onde meritare finalmente la pace in questo secolo, e nell’altro i premi eterni dei giusti. Questi sono i Nostri voti; queste cose non cesseremo di chiedere al clementissimo Signore, e questi stessi beni, congiunti a Noi tutti i figli della Chiesa Cattolica in una società di preghiere, confidiamo potere abbondantemente conseguire dal Padre delle Misericordie. – Frattanto per il fausto e salutare frutto di questa santa opera sia auspice di ogni grazia, e di ogni celeste dono, l’Apostolica Benedizione che a voi tutti, Venerabili Fratelli, e a voi, diletti Figli, quanti siete annoverati nella Chiesa Cattolica, dall’intimo del Nostro cuore affettuosamente concediamo nel Signore.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 24 dicembre 1874, anno ventinovesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA VII DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA VII dopo PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

In questa settimana non si poteva scegliere una lettura migliore nel Breviario, del doppio racconto degli ultimi giorni di David — poiché, dice S. Girolamo, « tutte le energie del corpo si indeboliscono nei vecchi, mentre solo la sapienza aumenta in essi » (2° nott.) — e della storia di suo figlio Salomone, che fu celebre fra tutti i re per la sapienza. – David, sentendo avvicinarsi il momento della morte, designò come suo successore, fra i suoi figli, Salomone, il diletto da Dio. E Natan profeta, condusse Salomone a Gihon, ove il sacerdote Sadoc prese dal tabernacolo l’ampolla d’olio e unse Salomone; si suonò la tromba e tutto il popolo disse: « Viva il Re Salomone! ». David disse a suo figlio: « Sarai tu a innalzare il tempio del Signore. Mostrati forte e sii uomo! Osserva fedelmente i comandamenti del Signore, affinché si compia la parola che pronunciò su me: « Il tuo nome si è affermato e i tuoi discendenti regneranno per sempre! Tu agirai secondo la tua sapienza, poiché sei un uomo saggio ». E David s’addormentò coi suoi padri e fu sepolto nella città che porta il suo nome dopo aver regnato sette anni a Ebron e trentatré anni a Gerusalemme, la fortezza inespugnabile che egli aveva preso ai Filistei. E Salomone si assise sul trono di suo padre, ed il suo regno fu ben sicuro. Era un giovane di diciassette anni, amava il Signore e gli offriva olocausti. – Iddio apparve in sogno a Salomone e gli disse. « Chiedi tutto quello che vuoi e io te lo darò ». Salomone gli rispose: « Signore, io non sono che un fanciullo per regnare al posto di David, mio padre; accordami la sapienza affinché io possa discernere il bene dal male e conduca il tuo popolo sulle tue vie ». E Dio aggiunse: « Ecco io ti dono un cuore saggio e intelligente, tale che tu supererai tutti i sapienti che furono e quelli che verranno, e ciò che tu non mi hai chiesto (lunga vita, ricchezza, trionfi) te lo darò in più ». Secondo la promessa del Signore, Salomone non solo fu il più sapiente, ma il più splendido e possente re d’Israele. Tutti i re gli apportavano i loro doni e tutte le nazioni che fino allora avevano disprezzato Israele, ne ricercavano l’alleanza. La regina di Saba venne a consultarlo e rimase piena di ammirazione per tutto quello che vide e intese da lui. Il Faraone, re d’Egitto, gli dette la figlia in isposa; Hiram, re di Tiro, fece con lui alleanza e un trattato, pel quale, in compenso del grano, dell’orzo, del vino, dell’olio, che le campagne della Palestina producevano abbondantemente, gli forniva legni preziosi delle foreste del Libano, e operai per la costruzione del tempio. Salomone insegnò al popolo il timor di Dio e questi lo protesse in tutte le imprese e lo aiutò quando il suo fratello maggiore avrebbe voluto regnare in sua vece. Così si realizzarono le parole che Salomone medesimo pronunciò e che S. Girolamo ci ricorda nell’ufficio di oggi: « Non disprezzare la sapienza e questa ti difenderà. Mettiti in possesso della sapienza e acquista la prudenza; impadronisciti di essa ed essa ti esalterà, tu sarai glorificato da essa e, quando l’avrai abbracciata, ti metterà sul capo splendori di grazia e ti coprirà di una gloriosa corona ». « Infatti colui che giorno e notte, commenta S. Girolamo, medita la legge del Signore, diventa più docile con gli anni, più gentile, più saggio col progresso del tempo e negli ultimi giorni raccoglie i più dolci frutti dei suoi lavori d’altri tempi » (2° Nott.). – Laddove, « Quale frutto, chiede l’Apostolo, avete tratto dal peccato, se non la vergogna e la morte eterna? », mentre « ricevendo Dio voi producete frutti di santità e guadagnate la vita eterna » (Ep.). E nostro Signore dice nel Vangelo: « Si riconosce l’albero dai suoi frutti. Ogni albero buono porta frutti buoni e ogni albero cattivo porta frutti cattivi ». E aggiunge: « Non sono già quelli che mi dicono: Signore, Signore, che entreranno nel regno dei cieli, ma quelli che fan la volontà del Padre mio che è nei cieli • Cosi, commentando l’Introito di questo giorno, S. Agostino dice « È necessario che le mani e la lingua siano d’accordo: che l’una glorifichi Dio e che le altre agiscano ». La vera sapienza non consiste solamente nell’intendere le parole di Dio, ma nel realizzarle; né pregare Dio, ma anche nel mostrargli con le opere che lo amiamo ». « Il Vangelo – dice S. Ilario – ci avverte che le parole dolci e gli atteggiamenti mansueti debbono essere valutati dai frutti delle opere e che bisogna apprezzare qualcuno non secondo quello egli si mostra a parole, ma secondo quello che si mostra ai fatti, perché spesso la veste dell’agnello serve a nascondere la ferocità dei lupi. Dunque, attraverso la nostra maniera di vivere noi dobbiamo meritare la beatitudine eterna, di modo che noi dobbiamo volere il bene, evitare il male e obbedire di tutto cuore ai precetti divini per essere gli amici di Dio mediante il compimento di questi propositi » (3° Nott.). – Salomone, il re pacifico, non è che una figura del Cristo: il suo segno che tutti acclamano (Intr., Alt.) annuncia quello del Messia che è il vero Re della pace; Salomone, il più saggio dei re, presagisce il Figlio di Dio del quale il Padre disse sul Tabor: « Ascoltatelo » (Grad.). Egli presagisce la Sapienza incarnata che ci insegnerà il timor di Dio (id.) e il modo per distinguere il bene dal male (Vang.). Gli olocausti, fatti al tempo della consacrazione del Tempio di Salomone (Off.) sono, come quello di Abele (Secr.), ombra dell’unico Sacrificio cruento, che Cristo offrì sul Calvario; che coronò in cielo, ove entrò dopo aver ottenuta la vittoria su tutti i suoi nemici. Questo dichiara il Salmo XLVI (Intr.), nel quale i Padri hanno visto, sotto il simbolo dell’Arca dell’alleanza che il popolo di Dio fa passare, in mezzo alle acclamazioni, dai campi di battaglia sulla montagna di Sion, una figura dell’Ascensione di Gesù nel regno celeste.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLVI:2.  Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis.

[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Ps XLVI: 3 Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis: Rex magnus super omnem terram.

[Poiché il Signore è l’Altissimo, il Terribile, il sommo Re, potente su tutta la terra.]

Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis.

[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Oratio

Orémus.

Deus, cujus providéntia in sui dispositióne non fállitur: te súpplices exorámus; ut nóxia cuncta submóveas, et ómnia nobis profutúra concédas.

[O Dio, la cui provvidenza non fallisce mai nelle sue disposizioni, Ti supplichiamo di allontanare da noi quanto ci nuoce, e di concederci quanto ci giova.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom VI: 19-23

“Fratres: Humánum dico, propter infirmitátem carnis vestræ: sicut enim exhibuístis membra vestra servíre immundítiæ et iniquitáti ad iniquitátem, ita nunc exhibéte membra vestra servíre justítiæ in sanctificatiónem. Cum enim servi essétis peccáti, líberi fuístis justítiæ. Quem ergo fructum habuístis tunc in illis, in quibus nunc erubéscitis? Nam finis illórum mors est. Nunc vero liberáti a peccáto, servi autem facti Deo, habétis fructum vestrum in sanctificatiónem, finem vero vitam ætérnam. Stipéndia enim peccáti mors. Grátia autem Dei vita ætérna, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

“Fratelli: Parlo in modo umano, a motivo della debolezza della vostra carne. Come deste le vostre membra al servizio dell’immondezza e dell’iniquità per commettere l’iniquità; così ora date le vostre membra al servizio della giustizia per la santificazione. Perché quando eravate servi del peccato, eravate liberi rispetto alla giustizia. Ma qual frutto aveste allora da quelle cose, delle quali adesso arrossite? Giacché il loro termine è la morte. Ma adesso, affrancati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per vostro frutto la santificazione e per termine la vita eterna. Perché la paga del peccato è la morte, ma il dono grazioso di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore…” (Rom. VI, 19-23).

DUE LIBERTA’.

C’è un giudice nel vocabolario. Il vocabolario nostro dispone di una sola parola, per la realtà vera e per il suo surrogato: così ad esempio, ci si chiama caffè tanto il moca o il portorico, caffè vero e proprio, come il caffè maltus miserabile surrogato. Monete si chiamano le vere e le false. E libertà si chiama la falsa e la vera, la libertà liberale e la libertà cristiana. San Paolo con una genialità stupenda definisce nel brano della lettera sua ai Romani che oggi si legge alla S. Messa, la libertà falsa, la pagana d’allora, la liberale d’adesso, che è poi la libertà pagana rediviva. Una volta dice ai Cristiani, alludendo ai giorni ormai passati e superati del loro paganesimo, una volta (quando non eravate ancora Cristiani, ma pagani), voi eravate « liberi dalla giustizia e servi del peccato ». Parole testuali d’un sapore evidentemente ironico nella prima parte ai Romani: « Eravate liberi dalla giustizia ». Bella libertà! La libertà di uno spiantato che dicesse: eccomi qua, mi sono liberato dai danari: la libertà di un malato che dicesse anche lui con una falsa soddisfazione: mi sono liberato dalla salute. Liberazione da equivoca, o, piuttosto, uso equivoco della parola « liberazione », la quale suona uno svincolarsi da un peso, da una disgrazia, non da una fortuna o di una grazia. – Ebbene, è proprio sullo stesso equivoco che giuocano i liberali vecchi e nuovi, quando parlano di libertà, e intendono con tal parola il liberarsi, l’affrancarsi dalla legge, l’esserne emancipati. Si gloriano i liberali della loro libertà, come di una cosa bella, buona, onorifica, gloriosa; ma la loro libertà non è altro che emancipazione dalla legge. I pagani antichi, quelli di cui San Paolo parla direttamente, erano fuori dalla legge, liberi da essa, perché non la conoscevano o la conoscevano poco; i moderni liberali, perché l’hanno calpestata e dimenticata. Paolo però nota subito molto bene l’equivoco di quella libertà, osservando che i fautori, i glorificatori di essa, erano perciò stesso schiavi del peccato: del male! Ed è proprio così. Automaticamente chi si sottrae alla luce, entra nel regno delle tenebre. Automaticamente chi si sottrae alla legge del bene, cade sotto il giogo della legge del male. E qui è proprio il caso di parlare di giogo. Giogo pesante, obbrobrioso quello del male, del peccato. Catena del peccatore il peccato, vischio in cui rimane impigliato chi una volta ci casca dentro. « Qui facit peccatum servus est peccati: » servo del vino l’ubriacone, servo della donna, schiavo di essa l’uomo, corrotto. – A questa pseudo libertà di quando erano ancora pagani, S. Paolo contrappone il quadro della libertà di cui veramente godono ora che sono Cristiani. – I termini sono letteralmente invertiti. Allora liberi (per modo di dire; anzi per antifrasi liberi) dall’onestà, dal bene e schiavi del male, oggi liberi dal peccato, dal male e schiavi della giustizia. Ah, questa è libertà vera! La libertà dal male, da malvagi istinti, dalle ree consuetudini, è questa è servitù nobile e degna; la servitù del bene, della giustizia, della legge. Sì, perché — e lo dice equivalentemente S. Paolo — servire alla giustizia; alla verità, alla bontà, significa ed importa servire a Dio. S. Paolo, l’Apostolo, sente la grandezza, la poesia di tale servizio divino. Un servizio, nel quale c’è un segreto di vita e di gioia e di gloria, mentre nel servizio del male c’è un segreto opposto d’ignominia e di morte. Il male uccide. « Stipendium peccati mors: » uccide in tutti i sensi, perché  uccide in senso pieno. E potremmo dire che: « Stipendium legis vita » vita del tempo, vita nell’eternità.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XXXIII: 12; XXXIII: 6

Veníte, fílii, audíte me: timórem Dómini docébo vos. –

V. Accédite ad eum, et illuminámini: et fácies vestræ non confundéntur.

[Venite, o figli, e ascoltatemi: vi insegnerò il timore di Dio.

V. Accostatevi a Lui e sarete illuminati: e le vostre facce non saranno confuse.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps XLVI: 2 Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis. Allelúja.

[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt VII: 15-21

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Atténdite a falsis prophétis, qui véniunt ad vos in vestiméntis óvium, intrínsecus autem sunt lupi rapáces: a frúctibus eórum cognoscétis eos. Numquid cólligunt de spinis uvas, aut de tríbulis ficus? Sic omnis arbor bona fructus bonos facit: mala autem arbor malos fructus facit. Non potest arbor bona malos fructus fácere: neque arbor mala bonos fructus fácere. Omnis arbor, quæ non facit fructum bonum, excidétur et in ignem mittétur. Igitur ex frúctibus eórum cognoscétis eos. Non omnis, qui dicit mihi, Dómine, Dómine, intrábit in regnum coelórum: sed qui facit voluntátem Patris mei, qui in cœlis est, ipse intrábit in regnum cœlórum.”

[“In quel tempo disse Gesù a’ suoi discepoli: Guardatevi dai falsi profeti, che vengono da voi vestiti da pecore, ma al di dentro son lupi rapaci: li riconoscerete dai loro frutti. Si coglie forse uva dalle spine, o fichi dai triboli? Così ogni buon albero porta buoni frutti; e ogni albero cattivo fa frutti cattivi. Non può un buon albero far frutti cattivi; né un albero cattivo far dei frutti buoni. Qualunque pianta che non porti buon frutto, si taglia, e si getta nel fuoco. Voi li riconoscerete adunque dai frutti loro. Non tutti quelli che a me dicono: Signore, Signore, entreranno nel regno de’ cieli; ma colui che fa la volontà del Padre mio che è ne’ cieli, questi entrerà nel regno de’ cieli”]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

GUARDATEVI DAI FALSI PROFETI

Gli uomini hanno una grande tendenza al falso: e mentre, rare volte, si lasciano vincere dalla verità che appare con numerose prove, troppo spesso, invece, cedono cecamente all’errore tosto che si presenta. Viene Gesù in mezzo ai Giudei e dice: « Io sono il Figlio di Dio ». E lo prova sotto ai loro occhi, guarendo gli ammalati, moltiplicando i pani, comandando al mare e al cielo, risuscitando i morti, e risuscitando perfino se stesso, morto già da tre giorni. Eppure i Giudei non gli credettero. Cent’anni dopo, viene un fanatico e dice: «Io sono il Figlio della Stella: Barcochba ». E non guarisce, e non moltiplica il pane, e non risuscita i morti. Anzi, conduce i Giudei alla rivolta e li lascia poi massacrare dai Romani tra le rovine di Gerusalemme, ed egli stesso perisce con loro: sui loro petti squarciati fu costruita una città, sacra al divo sole del Campidoglio. Eppure tutti erano corsi dietro a Barcochba, in un delirio d’entusiasmo. Attendite a falsis prophetis! ci grida Gesù dal suo Vangelo, perché essi verranno sotto lana d’agnelli. Se quest’allarme del divin Maestro fu opportuno in tutti i tempi, forse non lo fu mai come ai nostri. In verità: la mala razza dei falsi profeti non ha mai ripullulato così, non ha mai saputo così bene imitare la lana d’agnello, come al tempo d’oggi. Guardiamoli in faccia questi mistificatori della verità, per conoscerli bene. V’hanno i falsi profeti della cattedra. V’hanno i falsi profeti della penna. V’hanno i falsi profeti della vita. – 1. I FALSI PROFETI DELLA CATTEDRA. Appena i dodici Apostoli diffusero il Vangelo nel mondo, quel Vangelo che a loro aveva insegnato il Figlio di Dio e aveva spiegato lo Spirito Santo, subito si levarono i dottoroni a falsificarlo. E furono dapprima gli Gnostici che si vantavano d’aver trovato la sublime dottrina di Cristo, mentre invece i dodici rozzi pescatori non avevano saputo capire che la scorza esterna della verità. E poi si levò falsamente a profetare Ario che negava la divinità vera di Cristo. E poi si levò Nestorio a dire che in Cristo v’erano due persone distinte. E dopo di lui Eutiche a dir che il Cristo non era un uomo vero. E poi Fozio, e poi Lutero… tutti falsi profeti. Ma in quei tempi apparivano ad uno ad uno ed era facile scoprirli, da ogni parte si gridava al lupo, sicché gli incauti soltanto si lasciavano mangiare. – Ai nostri tempi invece i falsi profeti sono così numerosi che quasi ci si è avvezzati un poco a vederli e a sentirli. E in ogni scuola, dalla cattedra spesso vomitano nelle giovanette anime dei nostri figliuoli i loro errori. Se io vi dicessi che questa chiesa, ove pregate Dio, con i suoi marmi, con le sue colonne, con le sue pitture, è sorta senza mano d’uomo né mente d’architetto, ma per uno spontaneo sovrapporsi di pietra su pietra, per un automatico distendersi di travi e di volte, che direste voi? Eppure questo hanno insegnato senza vergogna falsi profeti della cattedra: hanno detto che tutto il mondo s’è fatto da solo perché non c’è un Dio che poteva crearlo. Se io vi dicessi che non è vero che noi nei confronti degli altri animali non abbiamo sostanziale diversità e che finiremo come le bestie, che direste voi? Eppure, questo l’hanno insegnato i falsi profeti della cattedra: volevano persuadersi d’essere bestia per vivere da bestia. Se io vi dicessi che non è vero che voi siete in chiesa, che non è vero che voi esistete così come credete: ma che tutto quello che vedete, toccate, compite, non è che un sogno; un sogno è pure Dio, i sacramenti, il paradiso e l’inferno, che direste voi? E questo l’hanno insegnato i falsi profeti della cattedra. E lo insegnano ancora. Attendite a falsis prophetis! (Mt., VII, 15) che vogliono assidersi a maestri e con parole schioppettanti come fuochi artificiali in diverse salse ammanniscono sempre il medesimo errore: negare Dio. Uno solo è il Maestro! c’è scritto nel Vangelo: È Gesù Cristo parlante nel Papa. Ascoltate lui solo. Una sola è la cattedra; è quella del Papa di Roma. E finalmente, grazie a Dio, anche in Italia è sorta una scuola dove si diffonde(va) la parola vera del Papa e di Cristo: l’Università Cattolica. Sosteniamola con la preghiera, con l’amore, col danaro. – 2. I FALSI PROFETI DELLA PENNA. I falsi profeti della penna. Racconta una leggenda indiana, che, presso le cime dell’Himalaya, s’apre un’orrida caverna dove si nasconde una fiera malefica, avida di sangue. E quando il sole scende dietro la giogaia del Pamir, esce la mala bestia e ascende la vetta. Ascendendo, per diabolica virtù, nasconde le sue membra deformi e fetenti sotto ai petali dei fiori, trasforma il suo ululato in un canto d’uccello, e brilla nell’umido raggio della luna. Ma se qualcuno, lusingato dagli astuti richiami, arriva lassù, ecco che ogni lume si spegne, da sotto ai petali riappare l’artiglio, e il canto d’uccello ritorna ruggito di belva che d’un salto è sopra l’incauto, e gli sugge il sangue del cuore. Ecco il simbolo del falso profeta della penna. Con tutti gli artifizi dell’arte retorica, col fascino della curiosità, coll’abilità dei disegni, con la gaiezza dei colori attira a leggere il libro, la rivista, il giornale; ma poi, mentre il lettore si pasce dietro alle immaginazioni cattive, riappare il lupo che divora l’innocenza e la fede. E il lupo è nascosto davvero in certi giornali ove le notizie più recenti si frammischiano alle oscenità e alle bestemmie e alle eresie. C’è un lupo nascosto in moltissimi romanzi dove per pagine e pagine cola una broda schifosa, si descrivono brutalità e sogni demoniaci. C’è un lupo nascosto anche in molte stampe dove si finge una tinta soave di Cristianesimo, ma per sorridere cinicamente, e far sottintesi ad ogni riga. So che ci sono molto scuse: Cosa c’è dentro leggere quel libro: è tanto interessante; a certe frasi, alla mia età non ci sì bada… Cosa c’è dentro leggere quel giornale: è l’unico che mi piace, l’ho sempre letto e non mi ha mai fatto male. Cosa c’è dentro… C’è dentro il diavolo ruggente che assalta le anime per divorarle: leo rugiens circuit quærens quem devoret. – 3. I FALSI PROFETI DELLA VITA. Sua madre gli aveva detto: « Bisogna partire… tra qualche anno ritornerai tra le braccia della tua vecchia mamma che t’aspetterà solitaria al focolare della tua infanzia: trascorreremo allora i giorni più felici, insieme. Ti vorrei accompagnare, perché è duro e faticoso all’uomo viaggiare solo. Ma non posso: cerca dunque un amico che t’accompagni per la via. La tua bellezza è attraente e molti ti si presenteranno per ingannarti: scegli un compagno che ti  sia l’Angelo che custodì Tobia nel suo cammino. « Mamma » disse il figlio « qual è il nome dell’amico che vuoi per me? ». E la madre, abbracciandolo un’ultima volta, gli mormorò un nome e, mentre il fanciullo s’allontanava, gli gridava dietro:  « Lui solo! Lui solo! ». Egli partì mesto e solo per la via polverosa del mondo. E mentre camminava passò davanti al suo sguardo come un’ombra luminosa, e una voce risuonò: « Mi vuoi compagno per il tuo cammino? ».— Dimmi il tuo nome. «Io sono la Gloria ».— Prosegui per la tua via che non è questo il nome che la madre mi disse. E quando fu più lontano un dolce fremito cominciò a salirgli per le vene, e gli giungeva una voce fluttuante come un canto che venisse dai prati di trifoglio fioriti: « Mi vuoi compagno per il tuo cammino? ». — Dimmi il tuo nome. « Io sono il Piacere ». — Prosegui per la tua via che non è questo il nome che la madre mi disse. E quando fu ancora più lontano udì come il fruscio di ruote di gomme frenate sul liscio della strada, e gli parve d’udire una voce tra il tintinnio di collane e monete: « Mi vuoi compagno per il tuo cammino? ». — Dimmi il tuo nome. « Io sono la ricchezza ». — Prosegui per la tua via che non è questo il nome che la madre mi disse. E fu sera. Il pellegrino stanco si sentiva spaventato di quella solitudine vasta ma poi provò tutto a un tratto un sentimento di forza, ed una voce cara ma energica gli disse: « Mi vuoi compagno per il tuo cammino? ». — Dimmi il tuo nome. « Io sono il Dovere ».— Oh, vieni, vieni! ecco il nome che la madre mi disse. La vita dell’uomo è un viaggio. « Voi dovete fare questo viaggio sulla terra, – ci dice Dio creandoci — ed alla fine del viaggio Io v’aspetterò per abbracciarvi. Guardatevi dai falsi compagni ». Saranno adulatori che, presentandovi il miraggio della gloria, vi trascinano per vie illeciti.  Saranno compagni che vi lusingheranno col piacere, tentando forse di coprire con belle parole l’azione cattiva. Saranno compagni che ci lusingheranno col loro danaro, tentando forse di comprare la falsa giustizia. Attendite a falsis prophetis! — E li conoscete dalle loro opere, perché la pianta cattiva da frutti cattivi.  Ma se troverete qualcuno che dà frutti buoni, che ama il suo dovere, ed osserva i precetti ed i comandamenti, quello è un vero profeta, è un santo; andategli dietro. – Come sono provvidi alcuni avvisi, a caratteri cubitali, davanti ai pericoli: « Attenti alla svolta! Attenti al passaggio a livello! Attenti al burrone! Attenti al cane! ». E Gesù Cristo, al punto più pericoloso per l’anima nostra, lancia il suo grido: « Attenti ai falsi profeti! ». – – I FALSI PROFETI – Iddio, che fin dal principio del mondo ha separato la luce dalle tenebre, il giorno dalla notte, l’acqua dalla terra, solo alla fine del mondo separerà i buoni dai cattivi, i veri profeti dai falsi. Intanto noi siamo costretti a vivere in una promiscuità insidiosa e a trovarci, talvolta, con compagni, maestri, superiori, che ci attirano a perdizione. All’erta! « Guardatevi dai falsi profeti, — raccomandò Gesù — che vengono vicino con lane d’agnelli, con belati di pecore: ma invece sono lupi rapaci ». Quando il Maestro disse queste parole la prima volta era sulla montagna, e i discepoli tutti come se il lupo travestito dovesse sopraggiungere allora, si strinsero alla sua persona persuasi che solo da Lui potesse l’insidia venire sventata. « Come faremo noi, poveri ingenui, a riconoscerli? » — sembravano dire. « Come fate — li rincuorò Gesù — a distinguere le piante buone e le cattive? Dai frutti: pianta buona dà frutto buono, pianta cattiva dà frutto cattivo. Certo voi non coglierete mai un grappolo d’uva dallo spineto, né un fico dal roveto. Così è degli uomini: non guardate alle loro parole, perché non quelli che diranno « Signore! Signore! » entreranno in paradiso; ma guardate alle loro azioni. « Uomo buono fa buone azioni, uomo cattivo fa cattive azioni ». L’immagine di Gesù che si strinse d’attorno i suoi Apostoli per salvaguardarli dai falsi profeti deve aver molto impressionato i Cristiani dei primi tempi, se dall’inizio del secolo III essa è ricordata nelle pitture delle catacombe. Su di una volta del cimitero di Pretestato è dipinto il Pastore buono che stende la mano destra a proteggere sette agnelli. Ma questi alzano il muso e gli occhi pieni di spavento come se un pericolo grave li minacciasse. Difatti dalla parte sinistra s’avanzano due animali per far nocumento: l’asino e il porco. Ma già il Pastore buono ha levato contro di essi il suo lungo vincastro e li tiene lontani (WILPERT, Le pitture delle catacombe, vol. I, tav. 51). Questa ingenua rappresentazione che ha rallegrato gli occhi di molti martiri non simboleggia forse la storia perenne della Chiesa lungo tutti i secoli? Sempre il gregge del Signore è minacciato da due sorta di falsi profeti: gli uni, rappresentati dall’asino, sono quelli che tentano con errori di corrompere il sacro deposito della fede: gli altri, rappresentati bene dal porco, sono quelli che tentano di corrompere i buoni costumi e la purezza della vita cristiana. Intanto la interessante pittura delle catacombe, senza ch’io me ne fossi accorto, ha diviso due punti: I falsi profeti della fede; I falsi profeti dei costumi. – 1. I FALSI PROFETI DELLA FEDE. Ritornava da Betel, dove Dio l’aveva mandato per un’importante ambasciata un uomo giusto. Quand’ecco, sulla strada, incontra un falso profeta che gli dice « Vieni con me, a casa mia, e prenderemo insieme un po’ di cibo ». L’uomo giusto gli rispose: « Non posso venire con te, né mangiare, né bere, con chiunque sia: me l’ha proibito il Signore ». E l’altro con lusinghevole voce cominciò a scalzare il suo proposito: « Anch’io sono profeta simile a te; e se a te il Signore ha fatto questa proibizione, a me è comparso un Angelo e mi ha ingiunto: — conducilo a casa tua e confortalo con una cenetta ». L’ingenuo credette alle parole dell’astuto e gli andò dietro e mangiò il pane e bevve l’acqua del falso profeta. Ma alla sera, alcuni uomini che transitavano per un sentiero solitario, videro disteso un cadavere e accanto un leone: era il cadavere dell’infelice ingannato. Esterrefatti ritornarono in città e divulgarono la cosa (III Re, XIII). Questo fatto della Storia Sacra c’insegna assai chiaramente la fine che faranno le anime che, dimentiche degli avvisi di Gesù e de’ suoi ordini, si avvicineranno ai falsi profeti della fede: finiranno preda del leone infernale. E mi è piaciuto ricordare lo spaventoso episodio perché specialmente in questi tempi i Protestanti in ogni città e in ogni paese d’Italia hanno organizzato una lotta accanita per strappare molti dalla vera fede cattolica. Per essi s’addice bene la figura del falso profeta, descritto dal Vangelo, che s’avvicina in veste di pecora, ma che nell’intrinseco è belva rapace. Infatti, essi hanno sulle labbra parole pie, si dicono evangelici e anche cattolici, predicano del Signore e della salvezza dell’anima, danno elemosine, diffondono libri e bibbie a pochissimo prezzo. Ma strappate a loro queste lane d’agnelli e sentirete che essi non vogliono né la Madonna Madre di Dio, né il Papa capo infallibile della Chiesa. A nome di Cristo, dal suo altare, io alzo il grido d’allarme. Attendite a falsis prophetis. Ma non è solo dai Protestanti e dagli altri eretici definiti che vi dovete guardare. Guardatevi specialmente da tutti quelli che non amano il Papa. « Sono Cristiano anch’io — vi diranno forse — sono Cattolico anch’io al pari di te, ma non sento bisogno di ubbidire ad ogni comando del Papa, di rispettare ogni sua parola, di pregare per il suo trionfo… ». Chi non è col Pontefice, non è con la Chiesa di Cristo e quindi è un profeta dell’errore. E se anche un Angelo vi annunciasse una dottrina diversa da quella che la Chiesa e il Papa insegnano, non credetegli perché  quell’angelo è un demonio trasfigurato. Se poi desiderate una norma pratica che vi salvi da ogni astuzia dei falsi profeti della fede, seguite questi due consigli: 1) Istruitevi nella Dottrina Cristiana. Gesù è venuto dal Cielo sulla terra per insegnarci queste sublimi verità, e voi le trascurate? Come oserete sperare salvezza? Dottrina cristiana! Dottrina cristiana! 2) Fuggite la compagnia di chi non ama il Papa o la Madonna e disprezza la santa Eucaristia: tutte le eresie si riducono a questi tre punti. Ricordate quello che di S. Giovanni Apostolo narra S. Ireneo. Era, una volta, entrato in un casa, ma come s’accorse che v’era dentro l’eretico Cerinto, non un minuto volle indugiarvi e fuggì gridando: « Indietro, indietro! Temo che il tetto di questa casa mi rovini addosso per la presenza di un simile uomo ». E di S. Policarpo si racconta che in Roma, dov’era appena venuto, s’incontrò con Marcione che era un eresiarca. « Policarpo! — gli disse; — non mi conosci? io sono Marcione ». « Oh se ti conosco! — gli rispose il santo. — Tu sei il primogenito del demonio ». Agnosco diaboli primogenitum. – 2. I FALSI PROFETI DEI COSTUMI. Fra tutti i vizi che contaminano il mondo moderno, non ve n’ha uno più diffuso del vizio impuro. Sembra quasi che in questo secolo il porco sferri l’assalto più furioso al gregge di Cristo. Ha invaso tutte le età, tutte le condizioni, tutti i luoghi. Nolite proiicere margaritas vestras ante porcos. (Mt., VII, 6). E i profeti falsi che sorgono a difenderlo non sono pochi. « Non è un peccato, dicono, — è un bisogno della natura. L’uomo può fare quello che vuole, purché né uccida, né rubi. Quelli che dicono di essere puri, sono impostori più corrotti degli altri ». Le letture, le amicizie, i divertimenti sono le armi più terribili e più infiorate che i falsi profeti dei costumi maneggiano a distruzione delle anime. Le letture. — Ancor oggi, come all’inizio dei tempi, l’uomo è collocato alla presenza di due alberi che producono frutti diversi: l’albero della stampa del bene, l’albero della stampa del male. Il primo dà illustrazioni pudiche e belle, giornali utili e seri, libri buoni e di sincero godimento; l’altro dà frutti di peste e di morte. Ed ancora si ripete la scena del paradiso terrestre. Dall’albero delle stampe cattive ci parla il falso profeta, con la voce carezzevole del serpente antico: « Perché i preti vi proibiscono queste illustrazioni, questi romanzi? Hanno paura che diventiate più bravi di loro e non restiate più sottomessi alla loro parola. Non dovete forse sapere quello di cui parla tutto il mondo? Voi solo non guarderete né leggerete quello che si vede e si legge ora da per tutto? Ah! che nel giorno in cui li leggerete, diverrete altrettanti dei ». Ed ecco tanti giovani e tante fanciulle anche, ecco tanti uomini di ogni età e condizione, cedere al falso profeta, accoglierlo in casa magari segretamente e poi… e poi… lasciare la propria innocenza a brano a brano nella bocca delle bestia feroce « Galeotto fu il libro e chi lo scrisse! », ci grida Dante dalla sua « Commedia ». Le amicizie. — Talvolta il falso profeta sì presenta sotto i sembianti d’un amico, specialmente di sesso diverso. Non vi getterà, no, tutto d’un colpo al fondo dell’abisso: ma vi spingerà lentamente ed un po’ alla volta. Comincerà ad adescarvi con la sua bella figura, coi modi gentili, con il carattere gioviale, con qualche biglietto: in principio si ascolta volentieri, poi si sorride, poi si risponde, poi si cede. Certo è che una volta che vi siete dati in mano a un tal falso profeta, non siete più liberi, divenite cosa sua, la sua preda. « Coraggio, che facciamo di male? », vi dirà. Intanto divorerà la vostra anima e vi trasformerà in un essere abbietto come lui. Questa trasformazione mi pare che bene la raffigura Dante nell’« Inferno ». Nell’ottavo girone, egli vide arrivare di furia un serpente di sei piedi, e avventarsi addosso a un’anima dannata e stringersela membro a membro come un’edera s’abbarbica a un tronco, fino a formare con esso un sol corpo mostruoso che si allontanò lentamente. Alcuni che pure assistevano alla paurosa scena, esclamavano: « Ohimè Agnel, come ti muti! » (Inf., XXV, 67). Quante volte si potrebbe ripetere accanto ad anime rovinate dalle cattive amicizie il grido straziante « O Agnel, tu che ti dai in braccio a quell’amico perverso, come cambi! Già incomincia la metamorfosi e presto striscerai con lui nella melma. Ohimè, Agnel! ». I divertimenti. — Di certe sale, di certi divertimenti, non voglio dire che una parola, una sola: ed è quella che S. Agostino dice del suo amico Alipio che s’era recato a teatro con tutti i più feroci propositi di non peccare. « Levatesi per certa avventura d’un gladiatore alte grida, aprì gli occhi e guardò. Guardò: da quel momento non fu più Alipio » (Conf. libr. VI, cap. 8). – Se S. Paolo fosse vivo ancora, udite, Cristiani, che così vi scriverebbe in questa mattina: « Io vi prego, o fratelli, che abbiate gli occhi addosso a quelli che pongono inciampi e errori contro la dottrina che voi avete imparato, e ritiratevi da loro. Perché questi tali non servono il Cristo Signore nostro, ma il loro ventre… » (Rom. XVI, 17 s.). « Vi sono ancora molti chiacchieroni e seduttori, che mettono a soqquadro tutte le famiglie, insegnando cose che non convengono. Ma la mente e la coscienza dì essi è immonda… » (Tit., I, 10 S.). Se alle mie parole non volete ubbidire, ubbidite almeno a queste, che sono di S. Paolo. – LE OPERE BUONE – Dante descrivendo nel suo poema immortale il paradiso, dice d’avere sentito parole come queste: senza la fede in Cristo crocifisso, nessuno può salvarsi. Ma la fede non basta, occorrono le opere. Perciò nel giorno del giudizio, molti pur avendo avuto la fede e sentito molte prediche e Messe, si vedranno dalla parte dei dannati perché non fecero le opere della loro fede; mentre certi poveri e ignoranti Etiopi saranno dalla parte degli eletti e tenderanno le mani a condannare quelli che vissero nel centro della cristianità. … molti gridan: « Cristo Cristo!» / che saranno in giudizio assai men prope a Lui, che tal che non conosce Cristo. (XIX, 106-108). Questa persuasione Dante se l’è fatta meditando sul Vangelo di questa domenica. Dice infatti il Maestro divino: « Non tutti coloro che dicono: Signore, Signore, entreranno nel Regno dei Cieli, ma quelli che avranno fatto la volontà del Padre mio, ubbidendo ai suoi comandamenti ». Non tutti coloro che dicono Signore, Signore, entreranno nel Regno de’ Cieli! non tutti coloro che pronunciano qualche preghiera e rendono qualche omaggio a Dio, otterranno la vita eterna. Non omnis qui dicit mihi: Domine, Domine intrabit in regnum cœlorum; sed qui facit voluntatem Patris mei qui in coelis est, ipse intrabit in regnum cœlorum (Mt., VII, 21). Tutta la vita nostra quaggiù dev’essere spesa a meritarci il Regno de’ Cieli. Per giungere ad esso non c’è altro mezzo che fare la volontà del Padre, compiere opere buone. Vediamo la necessità delle opere e quali opere noi dobbiamo fare. – 1. NECESSITÀ DELLE OPERE BUONE. Un uomo aveva nella sua vigna un albero di fico che coltivava con ogni cura. D’inverno lo rivestiva di paglia e ne copriva le radici perché fossero difese dai rigori del freddo. Quando il tiepido aprile svegliava le prime gemme, lo bagnava mattino e sera, ed a suo tempo lo tagliava opportunamente per dargli maggior vigoria. A tempo opportuno venne per cercarvi dei frutti, ma non trovò che foglie verdi, abbondanti. Allora disse al vignaiuolo: « Ecco sono tre anni che vengo a cercare frutto da questo fico e non ne trovo. Troncalo dunque e fanne legna da ardere. Perché deve occupare inutilmente il terreno? » Ma quegli rispose: « Signore, lascialo stare ancora per quest’anno, finché io gli abbia scavato tutto intorno una fossa e vi metta del letame: e se darà frutto, bene; se no, lo taglierai » (Lc. XIII, 6-9). Noi siamo gli alberi che Dio ha piantato nella sua vigna, circondandoci di mille premure. È Lui che ci ha chiamato alla vita, a preferenza di tanti esseri rimasti nel numero delle cose soltanto possibili. Se i nostri occhi possono contemplare le bellezze del creato, lo dobbiamo soltanto a Dio. Se le nostre labbra pronunciano il dolce nome del padre e della mamma, se possono esprimere i pensieri ed i sentimenti più cari, è tutto per la bontà del Signore. Ma Egli ci ha dato un dono ancora più grande, che supera i doni materiali quanto il Cielo è superiore alla terra, quanto Dio sta sopra l’uomo: il dono della grazia che ci divinizza. L’albero dell’umanità, in principio, era puro e bello; ma, per la disobbedienza dei progenitori, da albero di vita divenne albero di morte. Allora Dio in un eccesso d’amore per l’uomo mandò il suo Figlio Unigenito perché bagnasse col sangue divino l’albero inselvatichito dell’umanità, e quel sangue prezioso rinnovasse le sue linfe e le rendesse feconde di frutti preziosi e degni del Cielo. Ha forse l’agricoltore trascurato qualche cosa perché possa la pianta scusare di essere sterile? Nulla; non ha proprio trascurato nulla. Dopo ciò, se appressandosi ad essa troverà foglie e nient’altro che foglie, il Padrone sarà costretto a dire: « Perché mai ingombra il terreno? Sia sradicata e gettata nel fuoco ». Cristiani, se la nostra vita non è ripiena di opere buone, se l’amore che diciamo di avere per Iddio non è fattivo, noi ingombriamo il terreno. Nella Chiesa di Dio siamo degli esseri inutili che sciupano il tempo e sprecano una linfa fertilissima che per nostra colpa diventa sterile. Ed allora nessuna meraviglia se ci incombe una sentenza terribile. Excidatur et in ignem mittatur. Ma io — dirà qualcuno — non faccio nulla di male! Non importa; non sei un dannoso ma sei inutile, perché non fai nulla di bene. Excidatur. Venga tagliato come un albero secco, non ostante che sia ancor verde gli sia tolta qualunque comunicazione col sangue di Cristo, sia cioè staccato per sempre da Cristo che per lui si è incarnato ed è morto inutilmente. Rendere Cristo inutile! È la massima sventura che possa toccare ad un Cristiano. In ignem mittatur. Sia gettato nell’inferno colui che era fatto per il paradiso. Arda per sempre nelle fiamme divoratrici colui che avrebbe dovuto essere abbeverato dal torrente delle grazie di Dio. Il Signore però ci vuol bene, e quantunque forse da più di tre anni siam piante sterili, vuol lasciarci ancora un anno — altro tempo di prova. Continuerà le sue cure amorose, anzi… farà di più, ci darà maggiori grazie, ma poi non ci sarà misericordia. Per le piante ostinatamente sterili non c’è altra sorte che il taglio ed il fuoco. – 2. QUALI OPERE NOI DOBBIAMO FARE. A 43 anni S. Filippo svolgeva in Roma il suo ministero sacerdotale. I giovani, i ragazzi lo conoscevano tutti e dovunque lo trovassero gli facevano festa, gli si stringevano attorno affascinati dal suo celestiale sorriso. Quante anime rubava al demonio e conduceva nelle vie del Signore! Gli afflitti avevano da lui parole dolci che scendevano fino al cuore; i dubbiosi trovavano in S. Filippo la guida esperta e sicura, i tentati la forza ed il coraggio per le lotte più aspre. Le personalità più distinte per virtù e sapere, perfino principi e prelati ricorrevano a lui per lumi e consigli. Ma un giorno la visione di un apostolato più vasto, in terre lontane, cominciò a rapirlo ed acceso di giovanile entusiasmo sognava le Indie. Venti dei suoi sacerdoti eran già pronti a seguirlo per salpare dal porto, quand’ecco incontra un santo religioso dell’ordine Cistercense. Ispirato da Dio: « No! — esclama— No! Padre Filippo, ritorni indietro, le sue Indie sono là, a Roma ». E Padre Filippo ubbidiente, allegro ritorna a Roma a far amare il Signore nella letizia del cuore. – Molte volte noi… sogniamo ad occhi aperti ed andiamo dicendo: se mi trovassi in altre condizioni, tra persone migliori, con meno faccende, se fossi in luogo più adatto, quanto bene farei, come lo amerei il Signore, che bella vita sarebbe la mia. Questa è un’illusione. A ciascuno di noi il Signore ha segnato una strada da battere e tutti, nessuno escluso, dobbiamo guadagnarci il Cielo nello stato e nella condizioni in cui ci ha posti. – Due sposi Cristiani servono Iddio nel vicendevole affetto che han giurato dinanzi all’altare. Se poi il Signore dà ad essi dei figli, non li devono, no, rifiutare quasi fossero insopportabili pesi, ma li accolgano come pegni preziosi da educare alla vita cristiana. Una mamma che pensasse, pentita, al convento, cui non era chiamata, perché strillano i bimbi di giorno e di notte bisogna continuamente curarli, sbaglierebbe certamente. « Le tue Indie sono là vicino alla cuna della tua creatura! » Un padre che rimpiangesse una vocazione … che non ha mai avuto, solo perché i figliuoli devono mangiare ed è il suo sudore che li dovrà mantenere, perderebbe ogni merito. « Le tue Indie sono lì, in quel campo che devi dissodare, vicino  all’incudine su cui devi battere, in quell’officina che ogni giorno vi accoglie ». « Sia che mangiate, sia che beviate o facciate qualunque altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio »? Non è dunque necessario stare tutto il giorno in ginocchio! Anche nelle officine, nei campi, nelle banche, per le vie, noi possiam fare tante opere sante. L’osservanza della legge di Dio, i doveri del nostro stato: ecco le opere che il Signore vuole da noi. In paradiso, accanto ai Pontefici, ai Dottori, ai Sacerdoti, ai martiri, ci saranno, risplendenti di gloria, anche gli umili figli del popolo che forse conoscevano appena le preghiere essenziali, ma sapevano molto bene fare ogni giorno la volontà di Dio. – Una leggenda narra così.  Uscì dal suo corpo un’anima umile umile, tanto che tutti l’avevano trascurata: l’Angelo suo custode la guidò nel cammino dell’altra vita. Quando fu sopra le stelle e il sole fulgente e la luna argentea, ella cominciò a tremare sbigottita di tanta altezza e luce. « Non temere, — disse l’Angelo a lei, — tu stai per entrare nel Regno dei Cieli ». Ma i Santi, quando la videro, bisbigliarono: « Com’è piccina! Non ha la stola bianca delle Vergini, non ha la tunica rossa dei Martiri, non la divisa degli Ordini religiosi… Chi sarà? Giunta davanti al trono di Dio, l’Angelo aprì il libro della sua vita. Disse poi: « Qui son notate due cose: nell’anima sua sorrise sempre la grazia, nel suo cuore ci fu sempre una giaculatoria: sia fatta la volontà di Dio. Nient’altro. Qual è il suo posto in cielo? ». « Basta, rispose il buon Dio, basta così, per avere il primo posto in cielo ». Non vuole di più da noi il Signore, non opere straordinarie, non grandi digiuni o lunghe penitenze, non miracoli: no; ma la vita semplice, con le sue croci quotidiane, con l’adempimento esatto del proprio dovere; e in tutto vuole si faccia la sua volontà. Così si può arrivare fino ai primi posti del paradiso!

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Dan III: 40

“Sicut in holocáustis aríetum et taurórum, et sicut in mílibus agnórum pínguium: sic fiat sacrifícium nostrum in conspéctu tuo hódie, ut pláceat tibi: quia non est confúsio confidéntibus in te, Dómine”.

[Il nostro sacrificio, o Signore, Ti torni oggi gradito come l’olocausto di arieti, di tori e di migliaia di pingui agnelli; perché non vi è confusione per quelli che confidano in Te.]

Secreta

Deus, qui legálium differéntiam hostiárum unius sacrifícii perfectione sanxísti: accipe sacrifícium a devótis tibi fámulis, et pari benedictióne, sicut múnera Abel, sanctífica; ut, quod sínguli obtulérunt ad majestátis tuæ honórem, cunctis profíciat ad salútem.

[O Dio, che hai perfezionato i molti sacrifici dell’antica legge con l’istituzione del solo sacrificio, gradisci l’offerta dei tuoi servi devoti e benedicila non meno che i doni di Abele; affinché, ciò che i singoli offrono in tuo onore, a tutti giovi a salvezza.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXX: 3. Inclína aurem tuam, accélera, ut erípias me.

[Porgi a me il tuo orecchio, e affrettati a liberarmi.]

Postcommunio

Orémus. Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et ad ea, quæ sunt recta, perdúcat.

[O Signore, l’opera medicinale (del tuo sacramento), ci liberi misericordiosamente dalle nostre perversità e ci conduca a tutto ciò che è retto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (212)

LO SCUDO DELLA FEDE (212)

LA VERITÀ CATTOLICA (X)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. E libr. Sales. 1878

ISTRUZIONE X.

LA CREAZIONE

(Conferenza 1°)

La dottrina cattolica – e l’incredulità.

Io mi rallegro con voi, i quali, benché istruiti e, in ogni maniera di buona coltura educati, venite alla Dottrina Cristiana. Certamente la Madre Chiesa, ha cose da dirci che fan bene anche ai figliuoli più colti e dottissimi: e poi la benignità con cui voi le ascoltate è una edificazione a tutto il buon popolo della nostra grande famiglia. Del resto però, quando gli uomini di genio corrono in seno a questa santa Madre, si direbbe che la Chiesa li sollevi tra le sue braccia in un’atmosfera più sublime, in cui il gran Padre di tutti i lumi riveli ammirande cognizioni anche nella scienza umana. Difatti, ella Si può onorare dei più celebri dotti, che sono stati da Lei educati. Mentre al contrario anche uomini di svegliate menti, abbandonata la dottrina della Chiesa, e abbandonato Iddio, che è benedetto in eterno, cadono nel reprobo senso, e diventano capaci di ogni più trista ribalderia: ché certo la peggiore delle ribalderie è tentare di cacciar Dio dall’universo da Lui Creato, lasciare gli uomini senza il pensiero di Dio a buttarsi a rotta in tutti i delitti. Lo vedrete nelle seguenti istruzioni, o conferenze sopra argomenti, che trattai già insieme con tutto il popolo nostro. Però, se con esso adoperai certi riguardi, ed accennai solo gli errori in modo, che non li intendesse chi li ignorava affatto; rispettando così la loro ingenua semplicità della fede; con voi mostrerò chiaramente di riscontro alla verità cattolica i mostruosi errori della incredulità, colle parole istesse degl’increduli: e potrete vedere chiaramente come gl’increduli fanno contro alla ragione ed al buon senso; e come la vera scienza li confuta così sodamente, da dovere restare confusi. Essi attaccano la verità sotto la maschera della scienza; e noi a visiera alzata respingeremo gli attacchi colle armi, che ci porgono in mano ì più grandi e veri scienziati. Userò più che il linguaggio scientifico, i modi della lingua parlata, per avere in pronto poi all’occasione risposte chiare da dar subito la rimbeccata a chi si crede di essere dotto per ciò solo, che si vanta incredulo. – Questo vuole s. Paolo e raccomanda lo Spirito Santo di dar risposta allo stolto, perché non appaia di essere sapiente: responde stulto iuxta stultitiam eius ne sapiens sibi videatur. Voi intanto nell’aridezza dell’argomento consolatevi il cuor con Gesù, il Quale si degna di porre le sue delizie nel trattare Cuore a cuore con noi; e la tenerezza del suo amore vi farà gustare soavemente più, che non possa la nostra parola, la cattolica verità. In questi argomenti io poi ho ancor più bisogno della vostra tolleranza: e quando mi udirete studiar modi i più naturali, per esprimere le difficoltà più grandi col candor della semplicità popolare, se non corrispondo al merito vostro e alla vostra scienza, compatitemi col dirmi almeno « povero padre vorrebbe farsi tutto per tutti! »

Dio ha creato in principio il cielo e la terra. Questa è la prima verità, il dogma fondamentale rivelato da Dio che va d’accordo colla ragione nostra, la quale ne è così convinta, che debbe dire « è certamente vero! »: e il senso comune di tutti gli uomini se ne mostra così persuaso, che la traduce in pratica in ogni parte del mondo: la scienza poi la dimostra in modo, che gli increduli col negarla, si mostrano di parlar contro ogni ragione, e di rinnegare il buon senso comune: così l’incredulità resta dalla vera scienza confusa. Nel conferire con voi in queste istruzioni fermo subito la vostra attenzione sopra tre punti di questa verità fondamentale: cioè sopra la creazione in generale: sopra l’ordine della creazione dei varii generi delle cose create: e sopra la creazione particolare dell’uomo. Anche la Parola del Signore porge occasione a distinguere questi tre punti, e a trattarne separatamente; perché la dice: che Dio in principio creò il cielo e la terra; poi che ordinò la creazione, e creò le piante e gli animali; e che finalmente creò l’uomo. In questa istruzione tratterò del primo punto, della creazione; in cui pare che Dio, per adattarsi al nostro modo d’intendere, voglia dire, che prima ebbe preparato il materiale, per formarne poi i vari generi delle creature, e quindi mettervi l’uomo a dominare sopra esse. Dio così pertanto fa conoscere che ogni cosa creata esiste per Lui, coll’annunciarci che tutto l’universo in principio fu da Lui creato. Ora vedrete come questa verità va pienamente d’accordo colla nostra ragione. Uno dei primi lumi della ragione, con cui noi acquistiamo le nostre cognizioni, è questo lume, il quale fa conoscere alla nostra mente in sul principio, quando appena comincia a ragionare: che, se vi è una cosa fatta, certo qualcun la fece: quindi è verità che tutti intendono, (e che la scienza annuncia come un assioma): che l’effetto suppone sempre la causa. Ecco perciò che, appena noi cominciamo ad usar la ragione, nel contemplarci d’intorno questo spettacolo del mondo creato, la prima cosa che dobbiam dire, e che diciam naturalmente, senza quasi accorgerci, per essere ragionevoli, è che vi debb’essere il Creatore. Poi nell’osservare per poco la grandezza del mondo creato, dobbiamo comprendere che debb’essere ben grande questo Creatore Iddio. Quando poi sentiamo a dirci dalla Parola di Dio, che Egli il Signore creò dal principio il cielo e la terra « oh sì veramente, deve dire la ragione umana, sì che lo credo! Ben me n’era subito accorto anch’io, e già lo intendeva da me con quel lume di cognizione che trovo in me e che il Signore mi diede; e vedendo dappertutto l’impronta della grandezza e dell’onnipotenza e di una bontà infinita che fa tante cose buone e le conserva, io m’immaginava già, che Dio Creatore doveva essere Onnipotente e buono senza fine. – Sia benedetto il Signore che mi ha detto colla più chiara parola: che fu Egli che dal principio tutto creò! » Siccome poi la ragione è in tutti gli uomini, e forma quel fondo di cognizioni e di sentimenti che dànno il buon senso comune al genere umano; così gli uomini di tutte le nazioni mostrano in pratica di credere naturalmente la gran verità, che vi è Dio, il Creatore del cielo e della terra: e la traducono in atto nella vita umana colla pratica delle religioni in tutte le parti del mondo. Ché si ha un bel girare il mondo universo, egli è un fatto, da per tutto si trova sempre, che tutti gli uomini e bianchi e neri e di colori svariati credono in qualche modo in Dio. Eh sel considerano presente; gl’innalzano tempii e altari per adorarlo, gli fan sacrifizii, affinchè perdoni loro le colpe, di che li accusa la coscienza; l’invocano nei loro bisogni, lo chiamano alla testa dei loro eserciti nei cimenti delle battaglie, gli attribuiscono la parte della gloria delle loro vittorie, insomma lo pregano che gli accompagni in tutta la vita. Invocano Dio pei bambini che nascono, invocano Dio nei lor matrimoni, invocano Dio, massime, in quell’ora, in cui l’uomo sente il nulla della sua impotenza, in quell’ora, in cui si vede spalancato dinanzi l’abisso dell’eternità. Dio alla morte sta davanti immenso, come l’eternità istessa: e tranne quei pochi, che il demonio tien già seco incatenati per lo inferno, perché ostinati fino al ridicolo, sopra morte anche i nemici di Dio più arrabbiati a combatterlo in vita, per lo più, se hanno tempo, si gettano ai piè di Lui, per implorare la sua Misericordia. Si può dire che la gran famiglia degli uomini, in mezzo alle umane ingiustizie, riposa alquanto al pensare che tutto il bene viene da Dio. È Dio adunque la ricchezza dell’umanità. Per questo il genere umano lascia cinguettare gl’increduli; ma continua sempre ad adorar Dio Creatore di tutto. Così la ragione, il buon senso vanno d’accordo col credere questa grande verità rivelata da Dio: che tutto viene da Lui, che creò il cielo e la terra. Dimostrerovvi adesso come la scienza prova questa grande verità, fondamento di tutte le cognizioni dello scibile umano. Attendete: io qui chiamo scienza l’osservazione, lo studio e la chiara cognizione acquistata delle cose e dei fatti, ed insieme anche la ricerca delle cause che li hanno prodotti. Ebbene qui appunto comincerò a notarvi che la scienza in prima osserva che la materia è per sé immobile ed indifferente alla quiete, e al moto, cioè che questi oggetti materiali che cadono sotto i sensi, e che chiama tutti insieme col nome di materia, sono per sé senza movimento, e che allora solo si muovono, quando una forza li scuote dalla loro inerzia, e li fa muovere. Osserva, per esempio, che i ciottoli stan li per terra immobili, che i mattoni collocati nel muro stanno da secoli fissi là dentro, vede il monte stabilmente là fermo sempre; ma però, quando una forza potente getta il ciottolo, egli va in quella direzione, per cui è gettato, e il mattone salta fuori del muro, quando un colpo di martello fa balzare; e se la mano dell’uomo stacca dalla costa del monte un pezzo di rocca e ne forma una ruota, quella ruota di sasso gira gira, finché una forza la fa girare, e gira sempre, finché la resistenza dell’aria, una forza maggiore vince la prima forza, e la trattiene. Quindi la scienza conchiude (lo afferma Laplace, tutt’altro che buon credente; ma pur scienziato): che la materia non può darsi movimento, perché non ha in sé la ragione di muoversi in questo o in quell’altro senso. Si muove quando è spinta dalla forza, e si muove nella direzione della forza. Lo stato della materia adunque per sé è l’inerzia e sta immobile (Sisteme du mond. 1 Tom. III, cap. XI). Udite un altro scienziato: (Roberto Ardigò. La Psicologia come scienza positiva) la materia, per sé, il moto non l’ha, prima di averlo ricevuto. Avendolo lo mantiene, finché non urta; non avendolo, non lo genera; e non può averlo, se non è, per così dire, versato in essa dal di fuori. Una palla non si muove sul bigliardo se prima non riceve la spinta dalla stecca. Il modo onde la palla è per tal modo investita, è dovuto interamente alla spinta ricevuta. E fatta astrazione dall’attrito del piano su cui scorre, vi dura inalterato; finché non s’imbatte nell’altra e la colpisce e quindi le comunica il suo movimento. E tanto glie ne comunica quanto ne perde. Se lo comunicasse tutto, se ne priverebbe affatto, e si fermerebbe. La scienza adunque osservando, che la materia si lascia muovere sempre da una forza che sia potente ad eccitarla al moto, con ragione pronuncia: che la materia è immobile, ed è indifferente a star quieta, od a muoversi in una, o in altra maniera. Venitemi appresso nelle osservazioni della scienza, la quale considera in secondo luogo: che la materia non solo è inerte ed indifferente al moto; ma che anche da sé sola è incapace a pigliarsi una figura più che un’altra. Difatti, la morta materia si lascia maneggiare da chi vuole, e lasciatemi usare la istessa espressione, dirò ancora, è indifferente a prendere una forma, una figura qualunque da chi è capace da dargliela. Voi vedete la creta che avete sotto dei piedi, è terra informe. Essa si lascia impastare dal vasaio, e resta vaso di brutta o bella figura, finché non lo rompa un’altra forza. Mentre quel po’ di creta istessa, in mano di un bravo artista, diventa un bel modellino di statua, e resterà forse nel museo per secoli tanto più ammirata, quanto è più grande il genio dell’artista che l’ha plasticata. Così il marmo bianco a Carrara è un’informe montagna; ma, se quella montagna si lascia cavar le viscere d’informe sasso, nei laboratori di quegli ingegnosi riceve la forma d’un grazioso augellino in atto di spiccare il volo, o di un orrido serpe attortigliato, o di un fiore che par che tremi leggero. Ma se poi quel blocco di sasso cade sotto le mani di Michelangelo, diventa il Mosè la più gran bella statua del mondo, e nella Chiesa di S. Pietro in Vincoli sta. Ora vedendo che questa morta materia pigliò così belle forme svariate, ed è sole, luna, pianeti e terra che tutti van roteando sempre in moto; che questa morta materia si muove nelle piante e negli animali e che tutto è moto nell’universo, la scienza esclama con Aristotile « oh quanto è grande il Motore che fa muovere tutto! » Platone, il più gran genio dell’antica filosofia, contempla estatico questo ordinamento dell’universo divinamente architettato: e adora rapito il grande Architetto che « geometrizza sempre, così bellamente….. » Galileo studiando nello spazio del cielo, dei pianeti la rapidità che spaventa il pensiero cerca il gran punto d’appoggio, da cui partono quei movimenti, e adora la Mano di Dio. Newton scopre le leggi che fan roteare la terra (questa è eresia antibiblica, come già più volte sottolineato e parto informe di quella pseudoscienza basata sull’ipse dixit senza una prova a favore ma mille contrarie), i pianeti intorno al sole e quei milioni di mondi nel firmamento, intorno a quelle miriadi di soli, e cercando il centro da cui vanno mossi tutti quei soli coi loro mondi intorno a loro china la gran testa e adora annichilito 1’Onnipotenza di Dio: e fino Arago il grande astronomo moderno (meschino vissuto in questi poveri tempi, in cui fin dai fanciulli sì dimentica Iddio, e ridotto a confessare alla morte di non avere avuto mai tempo a pensare a Lui!) pure dalla scienza era costretto ad ammettere « che il movimento di rotazione primitivo della nebulosità non trovasi dipendente da sole attrazioni: questo movimento sembra supporre l’azione di una forza impulsiva primordiale. (Elogio del Laplace) ». La scienza adunque proclama: che la materia è formata, plasticata, e messa in movimento; vi è dunque chi la formò, chi le fece pigliar forma e figura, chi la fece e la fa muovere, la scienza insomma solennemente proclama; che Dio in principio creò il cielo e la terra. Così la scienza, d’accordo col buon senso universale del genere umano, a tutto rigore di ragione, conferma questa, la prima verità, dogma fondamentale rivelato da Dio stesso: la Creazione viene da Dio. –  Ma contro la parola di Dio, contro la ragion nostra e contro il sentimento universale di tutto il genere umano, si levano su audacemente alcuni increduli, e dicono « non è vero che Dio creò il cielo e la terra in principio; ma la materia, di cui tutto è composto, è sempre stata, la materia è eterna: ed essa da sé sola colle sue forze e colle sue leggi forma il mondo universo. » Ebbene or vi debbo, come ho detto, mostrare che la vera scienza dimostra che gl’increduli parlano contro ragione e par che abbiano perduto il buon senso. Noi vogliamo dimostrarci con loro tolleranti al possibile: e per dar prova di non voler per poco aggravar le accuse contro di loro, ripeteremo le loro stesse parole nel mostrare i loro errori. E subito qui per avvicinarci a trattare con loro alla buona, supponiamo per ora, com’essi pretendono, di tenere per certo solamente quello che non sorpassa la forza e la sfera del senso, e che noi possiamo provare colla sola ragione, come vuole (Buchner nell’Opera Materia e forza, che citeremo a pagine in queste conferenze). Essi mettendoci innanzi come verità certissima: che eterna è la materia, eterne le forze e eterne le leggi, pare che essi, secondo la loro massima stabilità, dovrebbero provare questa supposta verità coi sensi e colla ragione. Essi no; Ci propongono subito in sul principio da credere articoli di un certo lor credo diverso dal credo, ehe ci propone Iddio. Però anche noi, benché non siamo filosofi, no; ma sol poveri cristianelli col nostro po” di ragione e di buon senso abbiamo il diritto di domandar: perché dobbiamo credere a loro? e perciò vorremmo porre innanzi un po’ di questione, come dicono, pregiudiciale, e sarebbe questa. Abbiamo da credere al credo di Dio, o al credo degl’increduli? Noi diremo subito la nostra ragione, per cui crediamo alla Parola di Dio. Noi ci troviam qui creati in mezzo di tutte queste cose del mondo; e abbiam subito con buona ragione creduto che vi debb’essere un Creatore, e vedendo come questo Creatore benedetto provvede ai bisogni di tutte le creature, abbiam pensato che avrà provveduto anche a noi uomini al bisogno che abbiamo di essere istruiti, come dobbiam vivere, pel fine per cui siamo creati. Trovandoci poi appena nati, per grazia di Dio, tra le braccia della Madre Chiesa; con tanto bisogno di saper qualche cosa, abbiamo creduto a Lei, che c’ insegnò le belle cose, che ci fan tanto bene, per ben regolarci. Poi conoscendo che, quello che Ella insegna da credere, va tanto d’accordo colla ragione e col buon senso, e vedendo come i grandi uomini e dottissimi, anzi i migliori degli uomini, lo provano colla scienza, noi confessiamo candidamente che abbiamo creduto com’ella insegna: che in principio Iddio creò il cielo e la terra. Ma per farci credere a voi, come volete, che crediamo, voi dovete provarlo colla prova dei sensi e colla ragione, e poi darci una guarentigia, per assicurarci che (in questa, certamente la più importante delle questioni) sia il più sicuro per noi, credere a voi che lo negate. Del resto tra il credo di Dio, che tante ragioni provan per vero; e il credo vostro senza ragione; noi siam persuasi che sia più ragionevole credere a Dio. Mentre poi la scienza dimostra chiaramente: che non è vero quello che voi volete farci credere. Ve ne daremo le prove pigliando ad esaminare gli articoli del vostro credo, che sono tre:

Articolo 1° La materia è eterna.

Articolo 2° Le forze che muovono la materia sono eterne.

Articolo 3° Le leggi che le governano sono eterne.

Cominciamo adunque dal più solenne enorme errore che gl’increduli fingon di credere, anzi pongon per fondamento di tutti i loro errori: la materia è eterna. Ebbene la scienza ci dice che non è vero che la materia sia eterna, e lo prova. In vero: eterno è ciò che non ha principio, che non ha fine, che dura sempre, e che non si muta mai. Quindi, se la materia fosse eterna, dovrebbe essere sempre stata quale è, e non mutarsi mai. Ma, dice uno scienziato « tutto nell’interiore della terra, tutto nella superficie attesta che ebbe cominciamento e che ha un fine » (Nero Beoubée). Egli è certo dice il gran dotto Cuvier (Rivol. del globo) che fu un tempo che non erano né le piante, né gli animali nella terra; ma apparvero ad una certa epoca. Ma che? anche noi ci riconosciamo che non siamo sempre stati, no. Al men queste anime nostre, fossero pur materiali, come voglion a dispetto d’ogni ragione, però sentiamo che esistono ed hanno forze, e che prima non erano: dunque vi sono cose che prima non erano, che cominciarono ad essere e si van sempre mutando. Perciò, quando anche tutto fosse materia, questa materia però non sarebbe sempre stata qual è: quindi non è eterna. Bene dice qui un gran dotto e buon professor alla nostra università di Torino il Sig. Caucy. La scienza si riduce a ciò che insegna la fede: la materia non é eterna; e se le divine scritture non ci avessero chiaramente rivelata questa verità nel primo, più antico, e noi diremo: nel più grande Libro del mondo, noi saremmo costretti ad ammetterlo come filosofi fisici (Sept: Lecon de phis. gen. Iournal le Mond. pag. 25). – Ma vi è un’altra ragione. Quel che è eterno, ed è sempre stato così e sarà sempre l’istesso, non ha confini che lo misurino, né limiti che lo circondino, e quindi non deve avere né una forma, né una figura. Poiché, e chi avrà fatto pigliar una forma, una figura alla materia che sarebbe sempre stata; com’è? Ma ora la terra, il sole, le stelle, e tutte le cose che noi vediamo hanno limiti, una forma, una figura; vi è dunque chi li limitò, chi fece loro pigliare la forma e la figura che hanno. Dunque, la materia di cui esse sono composte non è sempre l’istessa, dunque non è eterna. Eh sì! vorrebbero essi gl’increduli contro ogni ragione, darci d’intendere che la materia non ha limiti ed è infinita. E da vedere come si sforza quel Signor tale (Buchner) e coi microscopi i più potenti, per farci vedere i più minuti insettucci che formicolano nell’aria; e poi coi più forti telescopi farci vedere su pel firmamento, stelle Sopra stelle, e passare oltre alle stelle, per slanciarci là su fin tra una materia nebulosa e confusa; come è confusa la fantasia degl’increduli. Ma noi osserveremo che si ha un bell’aggiungere a fantasia minuti esseri e di lor altri più minuti ancora, e mondi sopra mondi; ma saran sempre cose materiali, che han sempre figure limitate, e quindi hanno un confine, e non sono infiniti. E come se ai numeri uno, due e tre, si aggiungessero milioni sopra milioni di numeri, si troverebbe sempre una somma di tanti milioni di numeri, e non mai una somma senza numeri ed infinita; così, se oltre le cose materiali che conosciamo, si venissero a conoscere altri milioni di cose materiali e finite anch’esse, non si troverà mai una materia infinita. Vogliamo aggiungere ancora che se la materia fosse infinita, occuperebbe, tutto lo spazio; e allora niuna cosa materiale mai si potrebbe muovere. Perché muoversi vuol dire passare da un luogo in un altro dentro lo spazio. Ecco, io muovo la mia mano, e da qui in basso la metto in alto. Vi è dunque un vuoto nello spazio da potere e spingere l’aria all’una e altra parte, per mettervi in mezzo la mano là. Che, se voi riempite un vaso di liquido ben compresso, per agitar che si faccia, il liquido resta sempre immobile dentro. Ma gli oggetti materiali si muovono fra loro: dunque vi è uno spazio, dunque non vi è la materia che occupi tutto lo spazio: ma ogni cosa di materia occupa lo spazio entro i limiti, che sono i fini suoi. Perciò la materia come non è infinita, così la materia non è eterna. A dir vero che certi increduli (Buchner p. 70) vorrebbero con una certa lor scienza che chiamano trascendentale portarci fuori della ragione. E ci dicono chiaro: che noi non dobbiamo cercare l estensione della materia nelle massime e nelle minime sue parti: giacché (sono proprio tutte parole di Buchner,) in nessuna parte della materia potete conoscere il fine e l’ultima espressione. È impossibile formarci un’idea esatta: (egli dice dell’atomo, cioè della materia): Avvegnaché noi non sappiam nulla né della sua grossezza, né della sua forma, né della sua posizione. (Materia e forza). Ma deh; se voi sapete nulla, né della posizione, né della forma, né della grossezza, nè dell’estensione, né del fine, né dell’ultima espressione della materia: eh che cosa saprete di una materia che, dite: non è né lunga, né larga, né grossa, e di essa non si conoscono per ciò né le parti, né l’espressione, né il fine? Non conoscendo niente di tutto questo nella materia, che cosa sapete della materia che dite eterna? Voi sapete niente. Dunque il primo Articolo del credo degl’increduli è fondato sul saper niente!… ce lo dice la scienza, o Signori, – Il secondo articolo del credo degl’increduli è: che le forze che muovono la materia sono così unite con essa che non si può concepire un atomo di materia senza che abbia la sua forza. (Moleschott.) Ma noi stando alla loro massima o legge di non ammettere per vero e certo quello che sorpassa la forza e la sfera dei sensi e che non si può dimostrare colla ragione, li pregheremo di farci conoscere coi sensi e colla ragione, in primo luogo che cosa sia la forza? In secondo luogo, se la forza sia una sol cosa colla materia, o se sia diversa della materia. In terzo luogo se la forza sia sempre stata unita alla materia e se in quella loro eternità vi sia stato un momento, in cui non erano insieme? e come operano le forze nella materia? – Diteci adunque in prima che cosa è la forza? Noi confessiamo di non saperlo. Io sento e vedo che muovo le mie membra, mi accorgo, che il sole si muove sopra la terra; ma non conosco la forza di questi movimenti. Cercai nei libri dei dotti, ma da quel che ho potuto conoscere la forza da lor si confonde coi movimenti. Ma i movimenti sono effetti prodotti dalla forza; non son essi la forza. Che cosa è dunque mai questa forza? Egli (Moleschott) che dice che non è la forza di Dio che dà l’impulso, né un essere separato dalle materiali sostanze delle cose « ma la proprietà inseparabile immanente da tutta l’eternità » egli ben conoscerà che cosa sia questa forza, per potere assicurare francamente non essere cosa di Dio; ma della materia! Ebbene si dica che cosa è dunque questa forza?….. Ma se è inutile, (gli scrittori della rivista dei due mondi 1 gennaio 1869 uomini del suo partito. a quel che pare; e che pretendono di saperla ben lunga), è inutile, dicono essi; cercare che cosa sia la forza. La ricerca delle forze ha offuscato l’origine della matematica. Noi non vediam che fenomeni; quanto alle cause son fenomeni anch’esse. — Oh che dite mai?….. fenomeni anche le forze?. Ma fenomeni vuol dire fatti; dunque le forze, che sono cause dei movimenti, non son che fatti, e i movimenti sono fatti; così non avremo che fatti e fatti. Ma e chi cominciò a produrre questi fatti? Quando i fatti sono prodotti uno dall’altro, non sono che come gli anelli d’una catena; ma la ragione ed il buon senso fanno intendere che da un anello all’altro si deve salire al primo anello. E gl’increduli così dotti non vogliono accorgersi che da un fatto all’altro, dai movimenti alle forze si deve salire al primo fatto, alla prima forza, come al primo anello della catena!… Ah che il buon senso e la ragione sono già saliti al primo anello, e lo trovarono in mano di Dio! Deh che gl’increduli non rinneghino se stessi: e quando domandano che cosa è la forza? Diano la risposta che vuol la ragione e che il cuore sospira. « La forza prima di tutte le forze è Dio » Io mi spiegherò con un fatto. Ho veduto nella esposizione universale di Parigi un grande orologio, in cui si vedevano ben più di trenta quadranti, in ciascuno dei quali un indice segnava le varie fasi ed i modi in cui si può misurare il tempo. Negli ordigni di ciascun quadrante, una piccola molla particolare faceva muovere quegl’indici. Ma tutte quelle molle, perché davano quei movimenti? perché vi era una gran molla che dava movimento a tutto. Così di tutti i movimenti dell’universo vi è una causa prima, un gran principio. Dice opportunamente il buono e dottissimo Bonnet (nel suo gran libro: La contemplazione della natura:) l’universo dipende essenzialmente da questa Causa, invano cercheremo noi altrove la ragione di ciò che è…….. Fare l’universo eterno è ammettere una successione infinita di esseri infiniti. Ricorrere all’eternità del moto è mettere un effetto eterno, (cioè per dirlo noi più popolarmente; è un voler darci d’intendere che vi sian fatti e fatti e sempre fatti, senza che nessun li abbia fatti!…). Conchiudiamo adunque con questo bravo scrittore, che, poiché esiste l’universo, vi ha di fuori dell’universo una Ragione Eterna della sua esistenza. Così parla la vera scienza, o Signori. – Ma noi domandiamo in secondo luogo agl’increduli che assicurano di conoscere essi che eterna è la materia, eterne sono le forze; almeno ci dicano se esse sono una sola cosa, o se siano due cose diverse? Se sono una sol cosa, allora non avrem che materia; perché adunque due nomi diversi? Ma poi anche noi osserveremo: che la forza è troppo diversa dalla materia: perché la materia è inerte, la forza si muove; la materia è passiva, la forza è attiva; la materia è pesante e sta, ma le forze senza peso volano e fan volare anche la materia. Dunque sono diverse al tutto. Ma se sono diverse, ci dicano almeno gli increduli: se le forze da lor credute eterne, sono sempre state unite alla materia? Ma noi risponderemo loro: che noi conosciamo evidentemente che vi sono forze che prima non erano. Si conosce proprio nella terra sotto gli strati sovrapposti, che vi fu un tempo in cui essa non aveva la forza di far vivere gli animali. É certo, che prima non era nella terra un’altra forza; vogliam dire la forza di creature ragionevoli che facessero variare il corso dell’acqua per innaffiare campi, coltivare la terra con istrumenti inventati, né la forza di assoggettare gli animali a prestare il loro servigio. Così possiamo conchiudere che in questo mondo di materiali cose in prima non v’eran forze le quali si svilupparono poi in certe epoche. Signori, così dimostrano le osservazioni della scienza, che queste forze non erano eterne. –  Quindi, finalmente domanderemo agli increduli, ad essi che pretendono di conoscere le forze unite alla materia, di spiegarci in qual modo le forze operino sulla materia. Per noi esporremo loro tre ipotesi: La prima: se quelle forze movevano la materia di conserva andando parallele fra loro? In questo caso non si sarebbero incontrate mai, e non avrebbero mai unito un atomo coll’altro per formare i corpi. La seconda: se andavano divergenti o convergenti? Noi osserveremo che, se andavano coi loro movimenti divergenti e senza unione fra loro, lasceremo agl’increduli di correre appresso al movimento eterno nello spazio infinito. Se erano divergente ed unite dimodoché una per esempio attirava la materia ad un centro, l’altra forza la spingeva in altra direzione come sono le due forze centripeta e centrifuga: allora la materia doveva pigliare una via di mezzo e segnar, come dicono, la risultante: e avremmo tutti gli atomi sempre in rotazione. La terza: se queste forze andavano forse libere e senza ordine? Allora avremmo miriadi e miriadi di forze, le quali con processo meccanico e fortuito (Buchner) spingendo sempre ogni atomo di materia come proprietà indivisibili sempre unite necessariamente alla materia inesorabilmente in moto (Moleschott) e in questo caso ciascuna forza spingendo il proprio atomo avrebbe prodotto la confusione eterna e non mai formato il mondo ordinato nel tempo. Sarebbe dunque l’eterno caos, come è un vero caos di confusione la mente di chi non vuol riconoscere Dio Creatore Onnipotente e Sapientissimo di tutto l’universo. In tanto noi vogliamo conchiudere: che cosa sanno gl’increduli intorno alla forza?…. sanno essi che cosa sia la forza? No. Sanno essi come le forze esercitan la loro azione sulla materia? No. — Ma che cosa sanno infine della forza? — Niente. Ma adunque il secondo articolo del loro credo è fondato sul saper niente! — Tanto può rinfacciare la scienza a quei signori increduli…..

Il terzo loro articolo è che vi son leggi eterne. Bene s’accorgono anch’essi che la materia e le forze sole produrrebbero l’eterna confusione e voglion farci credere che vi sian eterne leggi. E noi domandiamo prima di creder loro che ci faccian conoscere che cosa sono le leggi. Le leggi, dicono essi, sono una ferrea inesorabile necessità immutabile che domina l’attività della materia, regolano il movimento (Buchner p. 83), producono la formazione organica e il mondo non è che il risultato di tentativi, che vanno con processi fortuiti. (sempre nell’opera Materia e Forza). Ma la buona logica prima di tutto osserva; che, se vi son leggi vi debba essere un legislatore da cui emanano; e se queste leggi sono immutabili ed inesorabili, e vanno con ferrea necessità, bisogna dire appunto per questo, che obbediscono al Creatore legislatore che le ha date, e le mantien stabili, per conservar l’ordine dell’universo. Perché chi ha buon senso intende che le leggi sono ordini e norme, che sono date, da chi mira a conseguire un fine. Poi osserveremo in secondo luogo; che se queste leggi andassero con processi sempre in tentavi infiniti, non arriverebbero mai a formar qualche cosa di finito, perché chi va e non si ferma mai non arriva mai al fine del suo viaggio. Ma noi vediamo che le leggi che muovono la materia e dirigono le forze, sono ordinate a conseguire tanti fini particolari e li conseguono. Leggi fan muovere la materia nelle piante per farle vegetare e mantenere la specie: e le piante vegetan, mettono fuori i semi, li lasciano cader giù consegnandoli alla terra perché si sviluppino in piante novelle. Le piante così disseccano, perché hanno ottenuto il loro fine. Leggi dirigono l’istinto degli animali, e gli animali vivono, sentono, generano i loro simili e conseguiscono tutto il lor fine. Vi è un genere solo di creature le quali sono regolate da tante leggi; e non conseguiscono tutto il lor fine in terra. Siamo noi uomini che non otteniamo tutto il nostro fine in terra, diciamolo consolati, perché il nostro fine è conoscere, amare, adorare il Creatore che ci vuol con Lui beati per sempre in cielo; noi lo sentiamo che questo è il nostro fine…. Oh! ma voi ridete forse della nostra fede: e parlate fieri in nome della scienza? Ebbene noi vi risponderemo colla scienza di uomini dei più dotti. Sì, dice il gran Bacone da Verulamio (Novum organum) quando la mente umana considera separatamente le cause seconde, può talora fermarvisi e non uscire dall’ateismo; ma se progredisce oltre per riconoscere il lor legame e la loro concatenazione, si vede costretta di ricorrere ad una Divinità e ad una provvidenza divina. Perché, dice Marsilio Ficino (Teologia Platonica) gli elementi animati da forze contrarie non potrebbero formare un tutto saviamente armonizzato se non dipendessero da un principio: i limiti e i confini hanno bisogno di essere indirizzati ad un oggetto determinato per virtù di un regolatore sovrano: se fossero abbandonati a se stessi, per la necessità della lor natura opererebbero in senso opposto di, quell’intento……. L’intento non è conosciuto da quelle attività, ma vi dev’essere una Sapienza che ve lo conduca, come il sagittario indirizza la freccia. V’è un grande disegno, adunque dice Agassy tanto dotto (Fisiol. comp.) in tutta la creazione perfettamente maturato da principio invariabilmente proseguito. E questa opera di Dio infinitamente savio, il Quale governa la natura secondo le leggi immutabili. Noi osserveremo col sig. Bonnet dottissimo per tutto dell’ordine e dei fini; ma questi ordini e questi fini sono un effetto, quale n’è il principio?…….. Diciamo che se esiste l’universo, vi è fuori dell’universo una Ragione Eterna della sua esistenza. Così le forze intorno a cui noi studiamo, conchiude il professore Franceschi (Scienza e filosofia) in fisica in chimica e via discorrendo, son tutte forze subordinate, partono da principii, vale a dire da leggi, per servire a determinati fini; ma il principio dei principii, il fine dei fini riconducono ad uno Spirito ad una Mente Prima. È vero adunque, dice Ermanno Urlicci, che i risultamenti a cui vanno gli odierni studi della natura, anzi che riescire al panteismo, al materialismo, all’ateismo, provano il contrario, cioè che Dio è il creator della natura. Noi vogliamo conchiudere col Sig. Chamminy (Cristianesimo liberale) che la ragione ci fu data, perché Dio ne fosse il grande oggetto. Poiché il dire che vi siano leggi senza che vi sia mai stato legislatore è un ammettere effetti senza la loro causa, è un ammettere fatti senza che nessuno li abbia fatti a dispetto della ragione. Adunque il dire che vi siano leggi le quali sono ordinate a conseguir un gran fine, e, che conseguiscano il più gran fine, qual è l’ordine dell’universo, senza che vi sia mai stato un Ordinatore e Sommo Ordinatore, è un rinnegare la ragione … Increduli,…. il terzo articolo del vostro Credo non solo è fondato sul saper niente; ma è fondato sul negar la ragione del genere umano !… Per essere increduli bisogna rinnegar la ragione! – Ma lasciamo, lasciamo, che un grand’empio (Rousseau) perché ha talento di cui abusò tanto; non volle però rinnegare la propria ragione del tutto. Io mi umilio, e dico: Essere degli esseri io sono perché tu sei: egli è un innalzarmi alla mia sorgente il meditarti continuamente. L’uso della mia ragione più degno sì è quello d’annichilarmi dinanzi a Te. Assorgiamo adunque che tutto c’invita al primo, al sovrano legislatore, che modera, regola le creature a conseguir il fine colle sue leggi. Assorgiamo a Dio. Udite il gran Newton (lib. III Ottica) l’origine dice egli, di tutte le cose non può attribuirsi che all’intelligenza e alla sapienza di un Ente potentissimo, esistente sempre, presente ovunque, il quale ordinò a suo piacimento tutte le parti dell’universo, molto meglio che l’anima nostra il proprio Corpo che le è congenito. — L’armonia, dice ancora, è il prodigio di un tanto ordine, nelle terre, nei mari e nei cieli non da cagioni meccaniche e non da anime mondane, ma dalla potenza, dal consiglio, dall’arbitrio e dalla dominazione deriva del sommo imperatore Iddio, il quale non è già egli il mondo, lo spazio e la durazione; ma è necessario, eterno, immenso, infinito, presente dovunque per virtù e per sostanza, tutto uniforme e simile a Sé solo, tutto intelletto, tutto forza e tutto azione; e non a guisa di uomo, ma in sublimità divina, vietata a sguardo mortale, e manifestata solo negli effetti e nelle beneficenze per eccitamento dell’adorazione nostra e della virtù… Increduli, la scienza, la vera scienza grande vi confonde!…. Convertitevi!…. Dio benedetto! quale consolazione per un buon Cattolico sentire espressioni di Newton, un dei più grandi scienziati del mondo, che van tanto d’accordo colle espressioni di un gran Santo (le più filosofiche benché egli non si crede d’esser filosofo), san Bernardo che chiama Dio un Lume eterno, una Virtù Onnipotente, Una Volontà benevolentissima, Iddio insomma che creò il mondo per manifestare che Egli è il sommo Bene. Tanto è vero che la più grande e vera scienza conduce gli uomini a Dio, e confonde la stoltezza degli increduli cheli vorrebbero d’accordo col demonio da Lui allontanare. Qui anche vogliamo aggiungere che sì veramente questa credenza in Dio illumina la scienza. Difatti, con una gran mente, con un gran cuore e con la fede in Dio a quali sublimi vedute, a quali scoperte può essere elevato il genio umano, e quali grand’opere egli può fare. Galileo….. scopriva le leggi del moto; del pendolo; ma, quando vide la lampada oscillare la quale gli dié la spinta alla sublime scoperta, egli era in ginocchio in quel momento nella Cattedrale di Pisa a pregare Iddio! Newton…. scoprì le leggi della rotazione dei mondi del firmamento; ma studiava con rispetto la parola di Dio e faceva modo di provar coi calcoli la verità della Profezia di Daniele della morte del Figliuol di Dio fatto uomo! Keplero… scriveva la grand’opera sulla astronomia; ma la terminava con un inno al Creatore ringraziandolo « di aver rivelato con tutta la forza che Dio gli aveva dato, la sua gloria nella creazione (l’unica cosa buona di quest’opera è appunto l’inno al Creatore – ndr, -); colla speranza e santa gioia di goder un giorno nella gloria della luce eterna, dopo d’aver contemplato tanta luce nel tempo. » Volta, il più gran fisico che dava in mano al progresso il principio di tutto il gran movimento moderno; l’elettricità: ma dall’Università di Pavia andava alla parrocchia a insegnar la dottrina ai fanciulli. Comprendeva il progresso dell’umanità cominciare dal conoscere Iddio! E Linneo… il più dotto naturalista del mondo (Introitus) rapito in santo entusiasmo esclamava:

Oh Jehova Quam magnifica sunt opera tua!

Vir insipiens non cognoscit ea.

Stultus non animadvertit ea.

Avete capito? è uno stolto chi non conosce che l’universo è creato per la gloria di Dio. (Sistem. imp. nat): perchè fînis creationis telluris est gloria Dei. –

Deh oda il Sig. Moleschott quegli uomini grandi e dottissimi, che seppero spingere al più alto termine la ragione umana nello studio della scienza: e noi vorremmo che si temperasse nel suo ardimento, con cui proclama in nome della scienza: che il processo meccanico e fortuito abbia bandito l’idea di Dio e dell’intervento sopra naturale (Moleschott)! O tutti, che negate Dio in nome della scienza, ecco ciò che dice la scienza per mezzo di uomini che sono degni di esserne i rappresentanti, ai quali voi dovete degnarvi a far di cappello: se pur l’orgoglio, che vi fece sorgere contro l’Altissimo, non vi fa credere d’essere voi la scienza incarnata!.. Ricordatevi che quei grandi avevan nome (Newton, Keplero, Linneo, Volta. Essi fecero le grandi scoperte e scrissero le grandi opere, e voi……. E non fa sdegno leggere in tanti articoli di giornali e discorsi da cattedra vilipendere col nome di superstiziosa ignoranza la fede in Dio Creatore di tanti, di quasi tutti, e certo dei più grandi dotti del mondo universo, e del genere umano ?… Però può un fanciullaccio salire su di un mucchio di paglia, anche tutto in marciume e gridare « guardate, come son grande! » Ma non vogliamo noi essere i bimbi di ammirarli, benché si sono innalzati su di un mucchio di vecchi errori già confutati: anche che ascendano in una nube di confusione trascendentale in faccia a quei sommi. A quelli potremmo aggiungere tanti grandi luminari in altre scienze; aggiungere poi con tanta consolazione i migliori uomini del mondo, i Santi, e poi tutti gli onesti, lasciandovi della loro parte la ribaldaglia dei commetti-male, che non credono a Dio. Essi con tutta la loro boria di scienza, per noi sono meschini meschini! Noi si, ci prostreremo con quei bravi nel subisso del nostro nulla ad adorar Dio; e avremo compassione di voi, Sig. Moleschott, che avvilite l’anima vostra, che non è volgare, ad adorare la materia; sì avrem compassione sentendovi dire con tanta edificazione, le vostre orazioni colle mani giunte »  o metamorfosi della materia sacra parola! Al sol pronunciarla sentiam destarci nel petto un senso di profonda venerazione!…… (La circolazione della vita, lettera III). Noi tutti sentiamo nascerci nel petto un senso di venerazione verso Dio! Ma Dio non è materia morta, ma è una Virtù Onnipotente; Dio non è forza cieca, ma è un Lume Eterno; Dio non è legge eterna, ferrea necessità senza scopo, ma è una Volontà e Provvidenza benevolentissima, è il Sommo Bene che crea gli esseri per communicar del ben suo. Che se voi poi dite la materia eterna, onnipotente e sapientissima, e l’adorate per tale, vi risponderemo che voi, per la smania di combattere Iddio, Gli cambiate il nome; ma a vostro dispetto adorate Iddio Medesimo. Non vi accorgete, dice Seneca (che pur era un filosofo che viveva alla corte dell’imperatore Nerone, ma pur non ostante di quella mefitica atmosfera ancor conservavasi il buon senso), non intendete che mutate il nome di Dio? Che cosa è mai questa materia, natura eterna, intelligente, che ha forza onnipotente, che regge con leggi l’universo, fuorchè Iddio? Non intelligis mutare nomen Dei? Quid est aliud natura (materia) quam Deus? Ma se poi siete ostinati a voler dire: che materia, che forze, che leggi hanno creato l’universo; la scienza si ritira e lascia al buon senso di dare la sentenza su questa, che proponiamo per ischerzo, questione: — se sia più ragionevole il dire : che Dio Eterno, Onnipotente, Sapientissimo, Provvidentissimo e Sommo Bene abbia creato il mondo, o dire che il mondo sia stato creato da tre orbi, che dall’eternità giuocano le bastonate, la materia, le forze e le leggi. Ma almen fossero tre orbi, che avessero un lumicino di ragione, ché saprebbero forse misurarsi tra di loro certi colpi per benino! Signori no: tre orbi muti, irragionevoli, che vanno con tentativi infiniti senza saper dove vanno, hanno formato e cieli e terra, e piante e animali, e tante anime buone che hanno ancor buon senso! E il buon senso conchiude, quel che prova la ragione e la scienza: che in principio Iddio ha creato il cielo e la terra: e il genere umano non si curando di chi lo nega, adorerà sempre il Creatore Iddio.

Esame.

Nell’accompagnare la scienza che rende omaggio all’Eterno Creator del tutto, noi ci trovammo sempre dinnanzi e ci siam reso famigliare il pensiero dell’eternità, e adorammo la grande idea di Dio. Ora ogni verità meditata esige da noi un dovere; è il dovere che esigono queste due grandi verità, Dio e l’eternità, è di dar gloria a Dio Creatore e di mettere noi, giacché Egli ci destina, in salvo nella sua beatitudine eterna. Come adempimmo noi a questo dovere universale della vita? Forse i nonnulla del tempo ci rubarono i pensieri dovuti a Dio e all’eternità?… Poveri noi! che non siamo sorpresi dall’eternità, senza aver avuto tempo a pensarvi! Che non accada a noi come al dotto Archimede! Egli era tutto nei suoi studi e sprofondato nelle difficoltà del calcolo, non si era accorto che la sua città di Siracusa era già presa dai nemici, non udiva il fragor dei palazzi che cadevano incendiati a rovina, non sentiva i gemiti dei cittadini che gli morivano tutti d’intorno, non s’accorgeva che entrava furente il soldato per ammazzarlo! Sol quando quegli alzò la mazza per colporlo, alzò la faccia…. ahi! vide solo il colpo di morte e cadde colpito da quello. – E forse non avviene a tanti e tanti, che occupati negli studi e nel far roba, non s’accorgono che già li sorprende la morte? Non han tempo neppur di dire: « Gesù e Maria!…» ah sono già nell’eternità senza il pensiero di Dio! …

Grande avviso per la Pratica.

Dio, Dio è il Creator di tutto che ci vuole seco beati. Facciamo tutto a gloria di Dio per mettere per mettere in Lui in salvo l’anima nostra nella eternità di Dio.